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Italian Pages 1118 Year 2013
Table of contents :
Indice del volume......Page 10
Frontespizio......Page 3
Colophon......Page 4
Introduzione......Page 11
Nota biografica......Page 39
Nota bibliografica......Page 56
Nota al testo......Page 76
Osservazioni Preliminari......Page 93
L’etica protestante e lo spirito dell capitalismo......Page 109
I. II problema......Page 110
II. L’etica professionale del protestantesimo ascetico......Page 170
Introduzione......Page 277
Confucianesimo E Taoismo......Page 312
Osservazioni Intermedie......Page 490
Teoria degli stadi e delle direzioni del rifiuto religioso del mondo......Page 491
Induismo E Buddhismo......Page 526
Parte I - La Confederazione israelitica di Jahvè......Page 661
Parte II - La nascita del popolo-paria ebraico......Page 900
Appendice - I Farisei......Page 1005
Indice dei nomi......Page 1077
CLASSICI DELLA SOCIOLOGIA COLLEZIONE DIRETTA DA
FRANCO FERRAROTTI
Max Weber SOCIOLOGIA DELLE RELIGIONI A cura di CHIARA SEBASTIANI Introduzioni di FRANCO FERRAROTTI UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE
© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostini.it ISBN: 9788841895238 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1988 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.
PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE Sono probabilmente due le ragioni che stanno alla base della per-durante validità del pensiero weberiano e che ne conservano presso-ché intatta, a circa novantanni dalla morte, la carica stimolatrice. In primo luogo, è da menzionare la nozione di «sistema aperto», che pone Marx Weber al di là, in una posizione assai più avanzata, della maggior parte dei suoi alacri commentatori odierni, da Talcott Parsons a Reinhard Bendix e a Samuel Eisenstadt. Avendo, piuttosto grossolanamente, frainteso questa nozione critica fondamentale, Talcott Parsons e Edward A. Shils hanno potuto, introducendo Weber presso gli scienziati sociali americani negli anni ’50, presentarlo come un «sistematico timido», vale a dire come un teorico sistematico delle scienze sociali, dotato di una lodevole informazione storica, economica e giuridica, il quale mostrava però l’inconveniente di non saper pensare i suoi pensieri fino alla fine, arrestandosi a mezza strada invece di costruire il «sistema sociale» onnicomprensivo e totale, capace di inglobare in sé tutta l’esperienza umana possibile e di elaborare pertanto gli «universali» definitivi, destinati a caratterizzare tutte le società industrializzate del mondo moderno. La seconda ragione, connessa con questa prima, è data dal con-cetto weberiano di «razionalità» - concetto eminentemente problematico e storico, alieno da ogni tentazione di apriorica intemporalità. Da questo punto di vista, è stato un serio errore l’enfasi su Economia e società, come se si trattasse dell’ultima opera di Weber solo perché uscita postuma. E piuttosto la Wirtschaftsethik ad avere il merito di ultimo, genuino statement weberiano; come tale, resta forse anche come il più significativo, secondo quanto è stato a suo tempo bene rilevato dal Tenbruck. Di altri più o meno gravi fraintendimenti non mette conto qui dilungarsi. Una ventina d’anni fa, introducendo La struttura delibazione sociale parsoniana1 Gianfranco Poggi proponeva, alquanto meccanicisticamente, la sintesi fra il sistema «dinamico» di Marx e quello, «statico», di Parsons. Colgo l’eco di siffatte confusioni nei tentativi odierni di Jurgen Kocka di «usare pensieri marxistici in modo weberiano». A imprese del genere occorre in primo luogo un chiarimento concettuale ancora da farsi. Dopo i vari tentativi di cooptazione e di rigetto, dal punto di vista scientifico e ideologico, messi in atto nei riguardi dell’opera weberiana, restano dunque in piedi alcune acquisizioni di perdurante vali-dità: la
concezione di un sistema sociale aperto e la necessità di un’analisi comparativa, quali risultano in modo perspicuo dai saggi di Weber sulla Sociologia delle religioni. Risulta inoltre evidente il ruolo della religione, vista essenzialmente come variabile indipendente, il che non equivale a dire determinante, cioè matrice unica di particolari fenomenologie sociali descritte in chiave idealtipica, come nel caso del capitalismo. A ragione Benjamin Nelson mette in guardia contro posizioni preconcette e fuorviami che mirerebbero a ritenere l’etica protestante la condizione assolutamente sufficiente, peculiare dello sviluppo capitalistico2. In effetti nel «sommergibile» della razionalizzazione, straordinariamente attiva sia nel capitalismo che nel socialismo, la morale della Riforma è appena «una piccola [tiny] parte»3, magari una sorta di propulsore supplementare, ma non certo il motore principale. Di ciò è data prova anche nell’ultimo capitolo («L’evoluzione dello spirito capitalistico») dell’opera postuma di Weber sulla Storia economica generale nonché nelle «Osservazioni preliminari» che introducono i saggi di Sociologia delle religioni. D’altro canto, proprio a partire dalla sua posizione di sostanziale «indifferenza» al fatto religioso, senza l’ostilità marxiana e al di là del funzionalismo durkheimiano, Weber è in grado - con la sua avalutatività metodologica - di ribattere al riduttivismo del marxismo ortodosso, indicando precise potenzialità di mutamento negli stessi movimenti religiosi e nelle loro forme organizzativo-istituzionali presenti in Occidente come in Oriente. È con queste cautele che l’approccio weberiano può applicarsi, per esempio, anche al puritanesimo nord-americano, come ha suggerito Edward Tiryakian4. L’impegno nel lavoro e il raggiungimento di ottimi risultati possono pertanto essere letti in termini etico-religiosi, per quanto non disgiunti da altre implicazioni5. Indagini più recenti testimoniano dell’interesse e della fertilità cui dà luogo - ottant’anni dopo - il modello weberiano: è il caso di una ricerca condotta da Jere Cohen, che ha verificato gli effetti dell’etica protestante sulle scelte occupazionali di un campione di studenti6. La tuttora viva attenzione ai testi weberiani a carattere socio-religioso non è casuale. Si tratta di quadri teorici ed empirici insieme da non leggere con l’ottica esclusiva della sociologia applicata ai fenomeni religiosi. Essi si collocano in effetti in un più ampio contesto, se è vero - come ricorda anche Gianfranco Poggi7 - che lo scritto su La città avrebbe dovuto accompagnare, nelle intenzioni dell’autore, appunto i saggi comparativi sulla Sociologia delle
religioni, mentre è stato poi inserito dagli editors come capitolo della parte postuma di Economia e società. Viene così giustificato il tentativo operato dallo stesso Poggi, nel volume citato sopra, di rileggere L’etica protestante e lo spirito del capitalismo alla luce di un’ottica storica di sviluppo della borghesia in contesti urbani, a partire dal Medioevo (economia della città feudale) per passare poi ai secoli successivi (economia del sistema familiare a carattere artigianale) e concludere quindi con la terza fase connotata dal capitalismo sempre più industrializzato. In definitiva, il saggio sull’etica protestante altro non sarebbe che un capitolo di una più vasta storia sociale della borghesia. E tuttavia occorre precisare che la trattazione contenuta ne La città non esaurisce un tale supposto, ambizioso progetto, giacché resta appena a livello di schema, dettagliato quanto si vuole ma senza il respiro e Vallure del poderoso affresco sulle religioni. Né va dimenticato che l’attenzione e la curiosità scientifica di Weber per il fenomeno religioso hanno dei prodromi significativi, per cui non è certo il «risveglio» dalla malattia mentale fra il 1898 ed il 1902, parzialmente ricordata da sua moglie Marianne nel famoso Lebensbild, a stimolare improvvisamente l’estro socio-religioso. Max Weber dalla sua posizione di non credente - «indifferente», religiosamente unmusikalisch, aveva in realtà già affrontato criticamente e dibattuto a più riprese alcune tematiche religiose: con il cugino Otto Baumgarten, con il fratello Alfred, con Friedrich Naumann detto il «pastore del proletariato», con i membri del Congresso evangelico-sociale8. È indubbio comunque che la fortuna toccata a L’etica protestante e lo spirito del capitalismo abbia lasciato alquanto in ombra gli altri contributi sulle religioni. I motivi sono molteplici: gli specialisti nel settore non abbondano; quelli, poi, in grado di padroneggiare le intricate «nomenclature» del giudaismo antico e del taoismo insieme sono ben pochi; l’etnocentrismo occidentale è ovviamente più allettato dai problemi di casa propria che non dagli altri; il tema della morale calvinista riesce più facilmente a far convergere gli interessi di due contesti - quello europeo e nordamericano - in cui il protestantesimo è ancor oggi largamente diffuso; la centralità della questione capitalismo-individualismo è tale da asciugare, vanificare o quanto meno fare impallidire altri percorsi problematici. In verità, qualche recupero avviene a proposito dell’emergenza dei nuovi movimenti religiosi, ma il riferimento alle forme religiose non occidentali resta vago e disarticolato9.
Appare invece più calibrato e di grande utilità il saggio di Tony Fahey su II giudaismo antico10. E uno dei rari interventi in proposito, dopo le prime osservazioni di Julius Guttman che risalgono al 192511. In effetti, Fahey ha ragione di argomentare che «Il giudaismo antico di Max Weber è un’opera interessante, ma molto dimenticata nella sociologia classica»12. Miglior sorte, del resto, non è toccata agli altri saggi di sociologia delle religioni, nonostante gli evi-denti legami che essi mostrano in riferimento a tutto il resto della produzione weberiana. Eppure molte monografie su Weber prescindono quasi del tutto da una lettura puntuale di questi scritti. Ciò risulta tanto più dannoso per la storia del pensiero sociologico in quanto di fatto «si è finito per scambiare Weber con il pensiero di alcuni suoi studiosi, che di lui tentano una sintesi unilaterale»13. Giu-stamente Dal Ferro insiste sulla «metodologia aperta» di Weber, che può persino apparire una deliberata assenza di metodo, ostile ad un «sistema chiuso di concetti». Meno chiaramente si evoca e si invoca un embrassons-nous fra teologia e sociologia in una interdisciplinarità fittizia in quanto non sufficientemente definita14. Occorre infine mettere nel conto l’ostacolo rappresentato dalla barriera linguistica. La difficoltà della lingua tedesca per decenni ha impedito la conoscenza diretta di Weber da parte di intere generazioni di studenti e studiosi. L’edizione inglese de L’etica risale al 1930, quella italiana al 1928, ad opera di Pietro Burresi, ripubblicata poi nel 1945. E noto che negli Stati Uniti per superare gli esami di teoria sociologica si ricorreva allo studio delle pagine parsonsiane su Weber contenute ne La struttura dell’azione sociale. E neppure lo scritto su Chiese e sette in Nordamerica trovò immediata eco e traduzione. A ciò va aggiunto che il quantofrenismo statunitense non poteva essere, per sua natura, molto recettivo nei confronti dell’approccio qualitativo weberiano, come ha mostrato con ampia e dettagliata documentazione Jennifer Platt15. Per molto tempo la sola lettura di Weber restò quella mediata da Parsons. Soprattutto è mancata, negli Stati Uniti come in Italia, un’adeguata conoscenza della produzione socio-religiosa weberiana al di là del testo su L’etica. Nessuna meraviglia, pertanto, che il pensiero di Weber sociologo della religione sia stato sottoposto a letture riduttive e fuorviami. E da ritenere che solo un esame completo della sua Sociologia delle religioni potrà controbilanciarle almeno in parte, dopo tanti anni di «censure» e reticenze. FRANCO FERRAROTTI 1. TALCOTT PARSONS, La struttura detrazione sodale, traci, it., Bologna, 1964.
2. Cfr. in proposito il saggio di Nelson nel volume a cura di CH. Y. GLOCK e PH. E. HAMMOND, Beyond thè Classics? Essays in thè Scientific Study of Religion, Harper Row, New York, 1973, in particolare p.III. 3. Ibid., p. 112. 4. Cfr. «Neither Marx nor Durkheim… Perhaps Weber», American Journal of Sociology, 81, 1975, pp. 1–33. 5. Cfr. Ph. Hammond, K. Williams, The Protestant Ethic Thesis: A Social-Psychological Assessment, «Social Forces», 54, 1976, pp. 579–589; cfr. pure H. C. Kim, Protestant Ethic and Achievement, «Journal for thè Scientific Study of Religion», 16, 1977, pp. 255–262. 6. Cfr. J. COHEN, Protestant Ethic and Status-Attainment, «Sociological Analysis», I, 1985, pp. 49–58. 7. Cfr. Calvinism and thè Capitalist Spirit. Max Weber’s Protestant Ethic, Macmillan, London, 1983, p. 92; ora anche in edizione italiana, il Mulino, Bologna, 1964. 8. Per una più articolata discussione sulla sociologia weberiana della religione cfr. JOSé A. PRADèS, La sociologie de la religión chez Max Weber, Nauwelaerts, Louvainparis, 1966, 19692. 9. Cfr. FREDERICK B. BIRD, FRANCéS WESTLEY, The Economie Strategies of New Religious Movements, «Sociological Analysis», 2, 1985, pp. 157–170. 10. Cfr. Max Weber s Ancient Judaism, «American Journal of Sociology», 1, 1982, pp. 62–87. 11. Cfr. Max Weber’s Soziologie des antiken ]udentums, «Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums», 69, 1925, pp. 195–223. 12. lbid., p. 62. 13. GIUSEPPE DAL FERRO, Max Weber sociologo della religione, «Studi di sociologia», 1, 1982, pp. 27– 40, in particolare p. 27. 14. Ibid., p. 33. 15. Cfr. Weber’s verstehen and the history of qualitative research: the missing link, «The British Journal of Sociology», 3, 1985, pp. 448–466.
INDICE DEL VOLUME Introduzione Nota biografica Nota bibliografica Nota al testo OSSERVAZIONI PRELIMINARI L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO I. Il problema II. L’etica professionale del protestantesimo ascetico L’ETICA ECONOMICA DELLE GRANDI RELIGIONI - STUDI COMPARATI DI SOCIOLOGIA DELLE RELIGIONI Introduzione CONFUCIANESIMO E TAOISMO OSSERVAZIONI INTERMEDIE Teoria degli stadi e delle direzioni del rifiuto religioso del mondo INDUISMOE BUDDHISMO IL GIUDAISMO ANTICO Parte I - La Confederazione israelitica di Jahvè Parte II - La nascita del popolo-paria ebraico Appendice - I Farisei Indice dei nomi
INTRODUZIONE
I Gli studi comparati di sociologia delle religioni di Max Weber, che qui di seguito si pubblicano in traduzione italiana con la sola omissione, per ragioni essenzialmente editoriali, di qualche sezione minore, sono giustamente famosi e sufficientemente noti anche al non specialista. La traduzione da tempo tuttavia si raccomandava, in primo luogo, per ragioni strettamente metodologiche. Non si può certo dire che la tesi di Max Weber intorno al nesso fra etica vissuta e forme della vita economica sia sconosciuta. Fin dalla sua prima pubblicazione nell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» (voll. XX e XXI, 1904–1905), il saggio Die Protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus era in breve divenuto una sorta di best-seller ed anche in Italia era noto al lettore medio fin dal 1928 nell’adeguata traduzione di Pietro Burresi, corredata di una lunga e dotta, se pure per qualche aspetto fuorviante, introduzione di Ernesto Sestan. Ma appunto questa diffusa notorietà sembra nascere da fonte sospetta o tradisce quanto meno un’interpretazione volgare della tesi weberiana così semplificata da sfiorare l’arbitrarietà. Nessun dubbio che l’eccezionale fortuna dello scritto di Max Weber su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo nel primo decennio di questo secolo fosse dovuta per gran parte al «rovesciamento», che molti credettero di individuare in esso, della tesi marxistica relativa alla genesi e al funzionamento del sistema di produzione capitalistico nonché, in una prospettiva più ampia, dell’interpretazione materialistica della storia. Se si tiene conto della violenta reazione idealistica e spiritualistica che precisamente in quegli anni si andava profilando in Europa contro l’evoluzionismo e il positivismo in primo luogo, ma poi, per logica estensione, contro ogni impostazione coerentemente mate rialistica dell’indagine scientifica e contro la stessa idea di scienza, intesa come conoscenza intersoggettiva ed empiricamente verificata, la fortuna e il retentissement della posizione di Weber non hanno bisogno di commento. Erano gli anni cui andavano emergendo e si affermavano, sul piano teorico, rapporto dell’«evoluzione creatrice» di Henri Bergson in Francia, che fin letteralmente «correggeva» l’evoluzione della specie darwiniana e spenceriana. Il neo-idealismo in Italia nelle versioni di Giovanni Gentile e specialmente di Benedetto Croce, il quale, appena compiuta la riduzione del marxismo a
puro canone d’indagine storiografica con Materialismo storico ed economia marxistica, rotti i ponti con il maestro Antonio Labriola, s’apprestava a dar corso alla pubblicazione de ha Critica. Il neo-kantismo, l’impostazione della «nuova scuola storica» e la contrapposizione sempre più netta fra Kultur e Civilisation in Germania, che dovevano a poco a poco preparare e infine condurre alla prevalenza della spiegazione culturologica dei fenomeni sociali e ad una equivoca critica della scienza in nome d’una conoscenza non stipulata e non intersoggettiva, di natura para-mistica e religiosa, in Max Scheler e nella fenomenologia di Edmund Husserl, premessa al decisionismo tragico delPesistenzialismo e alla vuota, assurda angoscia dell’irrazionalismo nelle due simmetriche accezioni di misticismo extra-mondano e di vitalismo privo di protezioni logiche. Parallelamente, sul piano pratico politico, il revisionismo marxista preparava e giustificava gli accomodamenti e le rinunce riformistiche della Seconda Internazionale mentre il sistema di potere europeo, con la violenta riscossa dei nazionalismi e la crisi e quindi il crollo dell’internazionalismo operaio e della solidarietà internazionale, faceva presagire lo scoppio della prima guerra mondiale e si poneva come sinistro preludio al fascismo e al nazismo. Dal punto di vista dell’itinerario intellettuale individuale con riguardo al trapasso dal positivismo scientistico allo spiritualismo e quindi al «ritorno all’ovile» nel seno materno della Chiesa cattolica, resta esemplare, per gli anni a cavallo del secolo, il caso di Charles Péguy, ma anche più drammatica, se pure non scevra di toni e di sostanza d’un opportunismo buffonesco, risulta pochi anni dopo in Italia la «conversione» di Giovanni Papini, l’«uomo finito» che dal «don giovannismo cerebrale» approda all’esperienza religiosa vissuta come irrazionalità programmatica e alla nozione di patria come unica fonte di valori autentici secondo i vieti clichés nazional-fascistici all’epoca avallati anche dai rappresentanti di chiese che si presumono universali. Sembra chiaro che Max Weber, con la sua categoria di «spirito» del capitalismo, e quindi con l’importanza riconosciuta agli elementi non economici ed extra-economici nella spiegazione della sua genesi, si inserisca in questa tumultuosa e rumorosa corrente di pensiero. Ma con una dignità e con una solidità di informazione e con un’ampiezza di visione che vanno recuperate e riaffermate. Unire ed eventualmente affogare la voce di Weber fra quelle della «canea nazionalista», come pure è stato fatto, finisce per essere, prima ancora che una conclusione scientificamente insostenibile, un
affronto morale. Il nazionalismo di Weber non aveva nulla di gretto né di meschino. Non era per alcun aspetto assimilabile alla xenofobia dell’idiota abitante del villaggio né poteva venire legittimamente presentato come l’«ultimo rifugio d’un furfante». Il suo concetto di «spirito del capitalismo» non si poneva, d’altro canto, come postulato unilaterale e fuori discussione. Era invece essenzialmente uno strumento euristico, la formulazione dell’elemento importante, ma non di per sé esauriente, d’una grande ipotesi storico-evolutiva al livello macro-sociologico. In realtà, Max Weber non era, a mio giudizio, interessato a polemiche che reputava contingenti, sibbene tutto il suo sforzo teorico e di ricerca era volto a verificare la stessa ipotesi marxistica, allargandone però i termini, considerandola cioè come una costruzione «ideal-tipica» e quindi, in una certa misura, arbitraria e unilaterale. L’accezione popolare della posizione di Weber nel senso delPantimarxismo di maniera, pur responsabile com’è della sua rapida fama presso il gran pubblico, fa torto alla serietà weberiana. L’intento di Weber era diverso e più profondo. Vi era in primo luogo il bisogno, acutissimo in lui per tutta la vita, di venire in chiaro con se stesso intorno all’essenza di ciò che è «moderno» e intorno al significato, all’apparenza prontamente individuabile, in realtà sfuggente e ambiguo, del razionalismo, come costruzione teorica e come razionalizzazione pratica della vita sociale in termini burocratico-organizzativi, e della sua genesi storica. Si può dunque di re che, lungi dal voler semplicisticamente rovesciare e quindi dismettere l’insieme dei problemi teorici e pratico-politici posti dal marxismo, per tutta la vita Weber abbia duramente, in maniera aperta o allusiva, dialogato con Marx, cercando disperatamente di salvare l’autonomia, per quanto ridotta e relativa, del «regno delle idee». In altre parole, Weber è perfettamente consapevole dell’esistenza di un marxismo volgare, derivato da un’interpretazione frettolosa e meccanicistica del pensiero di Marx e di Engels. Si tratta sostanzialmente della stessa interpretazione contro cui polemizzava con vigoria eccezionale in Italia Antonio Labriola, stimandola responsabile di costruzioni teoriche ibride, intellettualmente irresponsabili, in senso proprio «loriane», come dirà più tardi Antonio Gramsci, e sul piano politico fonte di confusioni e di pressappochismi dagli effetti, per la classe operaia, mortali. Questo marxismo filosoficamente impoverito e de-dialettizzato, ridotto a formula dogmatica poco più che catechistica, e già denunciato nell’introduzione a L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. «Parleremo più avanti in dettaglio della concezione del
materialismo storico ingenuo - scrive Weber - che tali idee (cioè quelle che costituiscono l’Ethos, o lo spirito, del capitalismo) vengano alla luce come «riflessi» o “sovrastrutture” di situazioni economiche» (p. 130; virgolette nell’originale). Così come non è legittimo contrapporre scolasticamente la tesi di Weber agli assunti di Marx criticamente intesi, vale a dire correttamente intesi nel loro senso dialettico e dinamico, così è necessario a mio giudizio riconoscere che la ricerca di Weber può a ragione venir fatta rientrare nell’ambito di una sociologia del fenomeno capitalistico globalmente concepito come un insieme di aspetti - economici, politici, giuridici, culturali e sociali - dialetticamente legati e inter-reagenti l’uno sull’altro senza che fra l’uno e l’altro possa postularsi aprioristicamente un carattere di decisività o di mono-causalità se non in senso relativo e con riguardo ad uno specifico contesto storico. Non a caso la grandiosa ricerca di Weber comincia con un interrogativo che riguarda l’affermarsi della scienza moderna nell’Occidente e dei fenomeni economici e culturali ad essa collegati. «Per quale concatenazione di circostanze - si domanda - proprio qui, in terra d’Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali… si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali?» (p. 89; il corsivo corrisponde allo spaziato deiroriginale). è straordinario che Weber, lo studioso ancora di recente e autorevolmente rimproverato da G. Lukacs per aver rescisso il legame fra l’economia e le altre forme delle attività umane, colleghi esplicitamente raffermarsi della scienza in Occidente alla possibilità che essa offre di applicazioni pratiche lucrose e quindi al sorgere di un’attività economica continuativa nel tempo, generatrice di congrui profitti, tenuta insieme e sviluppata in base al calcolo razionale sia con riguardo al rapporto fra costi e ricavi sia rispetto alla previsione metodica degli sviluppi futuri, legata quindi non tanto all’ exploit occasionale d’un capitalismo piratesco e predatorio quanto invece al concetto e alla pratica quotidiana del Beruj, inteso nel duplice senso di «vocazione» religiosa e di «professione» secolare, cui il guadagno non appare come lo scopo supremo, ma semmai come il puro e semplice sintomo esterno, quasi una conferma non strettamente necessaria, che gli individui e interi gruppi umani stanno vivendo la «retta vita», secondo l’insegnamento delle scritture. Max Weber è in proposito quanto mai esplicito: «”L’istinto del profitto ”, la “sete di guadagno”, di guadagno monetario, anzi del massimo guadagno monetario possibile: tutto ciò non ha niente a che vedere con il capitalismo.
Tale aspirazione è presente, e lo è sempre stata, presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, prostitute, impiegati venali, soldati, banditi, crociati, giocatori d’azzardo, mendicanti - è presente, si può dire, presso all sorts and condi- tions of men… Questa ingenua definizione del concetto di capitalismo dovrebbe venire abbandonata una volta per tutte allo stadio primitivo della storia della cultura. La sconfinata sete di profitto non s’identifica minimamente con il capitalismo né tanto meno con il suo “spirito”. Il capitalismo, anzi, può coincidere con il temperamento o perlomeno con il controllo razionale di questi impulsi irrazionali» (p. 92). Un ordinamento capitalistico in senso proprio presuppone, secondo Weber, la moderna impresa razionale a carattere stabile, capace di un calcolo di capitale in termini monetari e tesa al profitto come condizione fondamentale di sopravvivenza, fondata sull’organizzazione del lavoro formalmente libero (caratteristica, questa, unica ed esclusiva dell’Occidente), sulla separazione netta tra amministrazione domestica e impresa (ed in questo senso il lavoro a domicilio resta come caratteristica tipicamente preo paleocapitalistica) e infine sulla contabilità razionale. Ma il sorgere di questa struttura sociale non sarebbe stato possibile, in particolare non sarebbe stato possibile raffermarsi di un capitalismo industriale borghese, scoperte scientifiche e innovazioni tecniche a parte, senza quella che, a giudizio di Weber, è la sua caratteristica essenziale, vale a dire senza l’organizzazione razionale del lavoro libero. D’altro canto, questa caratteristica, rimasta altrove allo stato potenziale, si è pienamente sviluppata nell’Occidente grazie alla «struttura razionale del diritto e deU’amministrazione». «Il moderno capitalismo imprenditoriale razionale spiega Weber - ha infatti bisogno, oltre che di strumenti tecnici di produzione che permettono un calcolo di previsione, anche di un sistema giuridico fondato sulla certezza del diritto e di un’amministrazione fondata su regole formali» (p. 101). Un’amministrazione e un diritto siffatti sono stati messi al servizio dell’attività economica solo in Occidente. Perché? La domanda di Weber è precisa: donde proviene questo diritto? La risposta del materialismo storico ingenuo o del marxismo meccanicistico è intuibile: questo diritto è il riflesso degli interessi economici dominanti. Risposta troppo facile e chiaramente inadeguata. La risposta di Weber mostra ben altra consistenza: «In altre circostanze… anche gli interessi capitalistici, da parte loro, hanno spianato la via - seppure certamente non da soli e nemmeno come elemento principale - al dominio, nel campo della giustizia e dell’amministrazione, di
una classe di giuristi specializzati nel diritto razionale. Ma questi interessi non hanno creato tale diritto. Ben altre forze invece hanno avuto un ruolo attivo in tale sviluppo. E perché gli interessi capitalistici non hanno avuto lo stesso ruolo in Cina o in India? Per quale motivo laggiù né lo sviluppo scientifico, né quello artistico, né quello politico, né quello economico hanno imboccato la via della razionalizzazione che è propria dell’Occidente?» (p. 101; il corsivo corrisponde allo spaziato dell’originale). È implicito in questo interrogativo l’intento profondo di Weber, il quale cercherà, in questi studi comparativi e dopo aver tentato di provare il nesso fra l’etica protestantica in quanto comportamento quotidiano e il formarsi dello «spirito», o ethos o mentalità prevalente, del capitalismo, di dimostrare l’esistenza di una correlazione significativa fra i precetti di un sistema eticoreligioso così come sono percepiti e vissuti e lo specifico svolgersi del comportamento economico, in particolare cercherà, «con una visione generale dei rapporti che intercorrono fra le più importanti religioni, la vita economica e la stratificazione sociale del loro ambiente, di esaminare ambedue le relazioni causali nella misura necessaria per scoprire i punti di somiglianza con lo sviluppo occidentale» (p. 102). Non si tratta dunque mai, per Weber, di porre aprioristicamente l’etica economica a matrice causale univoca del comportamento economico e dello «spirito» che lo muove ed eventualmente lo spiega, bensì di considerare la interazione, ossia il rapporto bi-direzionale, che è a un tempo causa ed effetto e che lega nell’esperienza storica effettiva etica ed economia, struttura e personalità, religione e interessi pratici. La grandezza e la perdurante validità di Max Weber come sociologo risiedono fondamentalmente in questa qualità del suo lavoro di ricerca, una qualità che non appare semplicemente riducibile a un tour de force erudito, quale ci è dato abbastanza spesso di incontrare nella storia del pensiero sociologico anche recente, e i nomi di Vilfredo Pareto e di Pitirim A. Sorokin vengono subito alla mente, bensì sottende lo sforzo sistematico di descrivere e fissare le componenti costitutive del sociale come globalità, e della quale non sfuggiranno certamente al lettore attento testimonianze eloquenti nelle pagine che seguono. è chiaro che le correlazioni ricercate da Weber nel groviglio dell’esperienza storica effettiva non possono qui contare su strumenti d’indagine diretta, come il questionario, l’osservazione partecipante, le storie di vita, che pure Weber aveva dimostrato di saper usare con rara perizia nell’inchiesta sulle condizioni di vita dei contadini ad est dell’Elba, ma intanto il ricorso alla autobiografia di Benjamin Franklin come tipo emblematico del
nuovo spirito di tutta un’epoca immette una ventata potente di rinnovamento metodologico e sostanziale nella storiografia tradizionale, ancora ferma alla storia come intuizione artistica e narrazione delle gesta dei grandi uomini e incapace o riluttante ad usare quelle categorie sociologiche, descrittive ed esplicative, che ad essa avrebbero aperto gli occhi sugli aspetti sociali, economici e culturali che stanno alla base e che formano il tessuto connettivo dei grandi avvenimenti. A chi abbia sempre presente questo intento profondo di Weber non giungerà inattesa la sua affermazione che «nessuna etica economica è mai stata determinata unicamente da fattori religiosi. Ognu na possiede, naturalmente, un grado di autonomia pura determinato per lo più da dati geografico-economici e storici, che si contrappone a tutti gli atteggiamenti dell’uomo verso il mondo che siano determinati da fattori religiosi o da altri fattori (in questo senso) interiori. Comunque, tra i fattori che determinano l’etica economica c’è anche - nota bene: si tratta di uno dei fattori - la determinazione religiosa del modo di vita. Questo però, evidentemente, entro date frontiere geografiche e politiche, sociali e nazionali, è a sua volta fortemente influenzato da fattori economici e politici» (p. 328; il corsivo corrisponde allo spaziato dell’originale). E che questo non resti come un astratto programma, ma che al contrario funzioni come fondamentale criterio direttivo metodologico della ricerca è provato da una molteplicità di passi. Per esempio, trattando dell’ebraismo antico e in particolare dell’importanza del concetto di «patto» per Israele, importanza che per Weber si lega all’antico sistema sociale di Israele, fondato su un rapporto contrattualmente definito fra le schiatte guerriere proprietarie della terra e le tribù-ospiti con status di meteci giuridicamente protetti, Weber osserva che «la fattispecie di questo processo non corrisponde alla concezione secondo la quale le condizioni di vita dei beduini e dei semi-nomadi avrebbero “prodotto” la fondazione di ordini, come “esponente ideologico” delle loro condizioni d’esistenza. Questo tipo di costruzione storica materialistica è altrettanto inadeguata qui che altrove. è invece corretto dire che se questo tipo di fondazione si fosse realizzato esso avrebbe anche avuto, date le condizioni di vita di questi strati, probabilità di gran lunga maggiori di sopravvivere, nel corso della lotta selettiva, alle altre formazioni politiche più fragili. Ma la sua nascita stessa dipendeva da circostanze storico-religiose ben concrete e spesso da vicende estremamente personali» (p. 891; virgolette nell’originale; il corsivo corrisponde allo spaziato dell’originale).
È qui abbozzata la famosa reazione reciproca, la umwälzende Praxis, di cui parla Engels, degli elementi ideologici ed extra-economici e insieme delle qualità personali e delle vicende biografiche sulla base socio-economica. Questa «base» non va mai mitizzata come una specie di deus ex machina e il suo rapporto con la cosiddetta «sovrastruttura» è da concepirsi prioritario solo in senso molto relativo tanto più che non solo la «sovrastruttura» è capace di reazione reciproca, o «dialettica», sulla «struttura», ma è inol tre in grado di sviluppare nessi dialettici nei suoi propri termini. Se infatti, prosegue Weber, in seguito alle circostanze religiose e alle vicende personali, «l’efficienza dell’affratellamento religioso come mezzo di potere politico ed economico veniva sperimentato e riconosciuto, allora naturalmente ne conseguiva una forte espansione di questo stesso mezzo. La predicazione di Maometto come quella di Gionadav ben Recab non vanno “spiegate” come il prodotto di condizioni demografiche ed economiche, per quanto il loro contenuto possa essere stato codeterminato anche da queste. Erano invece l’espressione di esperienze e di scopi personali. Ma i mezzi spirituali e sociali di cui si servivano, oltre al fatto del grande successo riscosso proprio da questo tipo di elaborazione, questi sì che sono gli elementi spiegabili alla luce delle condizioni di vita in questione» (pp. 891–892; virgolette nel testo; il corsivo corrisponde allo spaziato dell’originale). Se l’avvedutezza metodologica si arrestasse a questo punto, la cosa sarebbe già di per sé notevole. Ci troveremo in presenza del tentativo geniale e nella sostanza vittorioso di andare oltre sia alla concezione ingenua del marxismo, che lo blocca al limite del materialismo volgare, sia alla concezione dialettica astratta, che predica il rapporto dialettico ma non dà corso alle ricerche storiche circoscritte che consentano di riempire la forma vuota e quindi mistificante, di quel rapporto con dei contenuti storici specifici. Ma Weber compie un passo innanzi anche più decisivo: si pone con estrema consapevolezza il problema della globalità dell’analisi. Se l’etica economica è importante per lo sviluppo o per il blocco di determinati comportamenti economici, Weber avverte correttamente come tale importanza investa anche altre sfere, apparentemente lontane o meno immediatamente raggiungibili nei termini del problematico rapporto fra religione ed economia. «Se l’etica di fratellanza religiosa - scrive Weber nelle mirabili “Osservazioni intermedie” - vive in uno stato di tensione con l’autonomia dell’agire mondano razionale rispetto allo scopo, lo stesso avviene, in misura non inferiore, per i suoi rapporti con quelle forze mondane
della vita, la cui essenza è fondamentalmente di carattere arazionale o antirazionale; in particolare per quanto riguarda la sfera estetica e quella erotica» (p. 604). È in questa capacità di scoprire legami e di cogliere la sostanza e il senso della più remota interconnessione fra fenomeni che appaio no al senso comune differenti e lontani che consiste propriamente il lavoro sociologico. Ed è appunto in grazia della interconnessione che la spiegazione sociologica è una spiegazione condizionale più che causale. In altre parole, è una spiegazione che ricostruisce il significato del sociale ricollegandone e totalizzandone gli aspetti che si presentano empiricamente frammentari, causali e slegati. Si veda, per un esempio luminoso, la spiegazione che Weber offre delle «caste e tradizionalismo» in India. Perché l’India non conosce, se non per l’intervento inglese e sempre stentatamente, lo sviluppo del capitalismo razionale moderno? «Karl Marx - osserva Weber, ed è una delle poche volte in cui Marx viene direttamente citato - ha individuato nella posizione peculiare dell’artigiano del villaggio indiano, che lavora per un compenso fisso in natura invece che per la vendita sul mercato - il motivo della speciale “stabilità dei popoli asiatici”. E in questo ha ragione… (però) va presa in considerazione non solo la posizione dell’artigiano del villaggio, ma anche l’ordinamento di caste nel suo insieme come puntel lo di questa stabilità. Qui l’effetto non va concepito in maniera troppo diretta. Si potrebbe pensare, per esempio, che gli antagonismi ritualistici delle caste abbiano reso impossibile il sorgere della “grande impresa” con la divisione del lavoro in uno stesso stabilimento, e che questo sia stato il fattore decisivo. Ma non è così. La legge delle caste si è mostrata altrettanto flessibile di fronte alle necessità della concentrazione del lavoro nelle fabbriche quanto lo è stata di fronte al bisogno di concentrare il lavoro ed il servizio nelle caste di famiglie nobili… Nello stesso modo anche il laboratorio (ergastérion) era considerato puro. Di conseguenza l’impiego congiunto di diverse caste nella stessa sala di lavoro non avrebbe incontrato ostacoli rituali, proprio come il divieto dell’interesse, come tale, nel Medioevo, non ostacolò lo sviluppo del capitale industriale… Il nocciolo del problema non stava in queste difficoltà particolari… Il vero ostacolo era nello “spirito” di tutto il sistema… Dovrebbe apparire come il colmo dell’inverosimile che sulla base del sistema di caste potesse mai nascere originariamente la moderna forma organizzativa del capitalismo industriale. Una legge rituale in base alla quale ogni cambiamento di professione e ogni cambiamento nella tecnica lavorativa poteva portare alla degradazione rituale non era certo adatta a
promuovere delle rivoluzioni economiche e tecniche nella sua sfera né a rendere possibile anche solo il primo germogliare di tali mutamenti. Il tradizionalismo dell’artigiano, già di per sé molto forte, veniva esasperato da questo sistema… I mercanti stessi, nella loro segregazione rituale, rimanevano nelle pastoie della tipica classe mercantile orientale che non ha mai creato da sé una moderna organizzazione capitalistica del lavoro» (pp. 761–762; virgolette nell’originale; il corsivo corrisponde allo spaziato nell’originaie). Nessun dubbio che le interconnessioni messe in luce da Weber ed invocate a spiegazione di fenomeni storici specifici siano ancora troppo late, vale a dire si servano di categorie come «stabilità», «tradizionalismo», «razionalità», e così via, ancora troppo ampie per non destare almeno il sospetto che possano adattarsi e coprire situazioni storiche e sociali effettivamente non corrispondenti o addirittura neppure simili. Weber è consapevole di questo pericolo e lo denuncia apertamente: «Una grande quantità di possibili rapporti emergono dinanzi a noi confusamente presentiti… Il nostro compito dunque dovrà essere quello di formulare quel che adesso confusamente ondeggia dinanzi a noi con tanta chiarezza quanta ne consente l’inesauribile varietà, che è riposta in ogni fenomeno storico. Ma per poterlo fare si deve necessariamente abbandonare il terreno delle vaghe concezioni generali… e si deve tentare di penetrare nei caratteri particolari e nelle differenze di quei vasti mondi del pensiero religioso…» (pp. 121–122). Non solo: Weber si rende conto del pericolo di approssimazioni parascientifiche e di eclettiche confusioni allorché si tratta di abbracciare in un solo quadro teorico e di organizzare ai fini della prova di verifica i dati relativi ad interi contesti storici e ad archi evolutivi che comprendono intere epoche, la cui sola descrizione comporta di per sé un impegno filologico eccezionale.
II Queste osservazioni non dovrebbero far pensare che con Weber ci troviamo davanti ad un metodologo formalista del tipo oggi assai comune. Weber sa che il problema del metodo è fondamentale, e ha del resto dedicato ad esso lunghi periodi di meditazione e saggi ancora oggi, per alcuni aspetti, decisivi. Ma sa anche che metodo e oggetto di indagine non si possono scindere, che la funzione del metodo non la si può chiarire nel vuoto problematico, che l’idea di potere indifferentemente applicare a qualsiasi oggetto di indagine un metodo elaborato e definito dal punto di vista tecnico è per la sociologia un’illusione mortale in quanto comporta l’indifferenza rispetto ai temi di ricerca e quindi la caduta nel metodologismo gratuito (si
vedano in proposito i rilievi nel mio volume Max Weber e il destino della ragione, Bari, Laterza, 1965). Più volte Weber torna sulla caratteristica bi-razionalità della sua ricerca: «La questione che si pone in primo luogo è… di riconoscere i caratteri distintivi del razionalismo occidentale e, all’interno di questo, i tratti della sua forma moderna e di spiegarne poi l’origine. Ogni ricerca esplicativa di questo tipo, tenendo conto dell’importanza fondamentale del fattore economico, dovrà prendere in considerazione innanzi tutto le condizioni economiche. Ma anche la correlazione inversa non dovrà essere lasciata in disparte» (p. 102, corsivo mio). Addentrandosi nella trattazione del problema, Weber teme di cadere vittima del solito travisamento che confonde la consapevolezza problematica e la definizione precisa dell’oggetto di ricerca con la valutazione normativa che trasforma qualsiasi catalogo tipologico in una scala di priorità dal punto di vista del valore. «Lo schema costruito - scrive - ha naturalmente il solo scopo di essere uno strumento ideal-tipico di orientamento, non di insegnare una propria filosofìa» (p. 585; corsivo mio). La cosa deve premere molto a Weber poiché si sofferma puntigliosamente su questo punto particolare offrendo al lettore gli elementi meccanici, per così dire, ossia la tecnica di costruzione ideal-tipica in vista della elaborazione d’una tipologia capace di guidare la ricerca fra la selva dei dati empirici e nello stesso tempo di garantire la possibilità di stabilire tutta una serie di interconnessioni plausibili, se non assolutamente provate dal punto di vista delle pezze d’appoggio empiriche. «I tipi teoricamente costruiti di “ordini di vita” in conflitto - spiega Weber - indicano semplicemente che in questi luoghi (Cina, India, ecc.) tali conflitti sono possibili e “adeguati” - ma non si esclude l’esistenza di punti di vista dai quali questi conflitti possano considerarsi “superati”. Si può facilmente vedere come le singole sfere di valori siano elaborate in una struttura organica e razionale quali raramente si attuano nella realtà, anche se possono attuarsi e di fatto si sono attuate storicamente in forme importanti. Questa costruzione, in presenza di un fenomeno storico che per certi aspetti e per il suo carattere globale si avvicina ad una di queste fattispecie, permette di individuarne la posizione tipologica tramite Vaccertamento del grado di vicinanza o di distanza dal tipo teoricamente costruito (pp. 585–586; virgolette nelPoriginale; corsivo mio). Ma già si avverte nelle osservazioni metodologiche di Weber un moto di impazienza. Egli è pronto ad immergersi e a fare i conti con le situazioni
storiche, culturali e sociali specifiche, cioè a spiegare il suo metodo praticandolo nel vivo della ricerca, e a far capire che in fondo per lui le questioni metodologiche sono semplicemente riflessioni sul lavoro durante il lavoro stesso, il pensare ad alta voce d’un infaticabile artigiano intellettuale. Il puro concentrarsi sul metodo indipendentemente dai contenuti o, più precisamente, trascurando, come dimensione secondaria della ricerca, la consapevolezza problematica specifica, è uno dei segni più certi di decadenza del pensiero sociologico, la riprova dell’avvenuta separazione fra concetti e tecniche di ricerca e quindi dell’inevitabile impoverimento di entrambi. Evidentemente, ciò non significa misconoscere l’importanza del metodo. Significa solo riconoscere il carattere dialettico, storico dei concetti sociologici, che vanno pertanto costruiti e tarati sul metro dei problemi storicamente maturi ed emergenti in relazione a definiti contesti storici, e nello stesso tempo non dimenticare che l’oggetto della sociologia non è la sociologia, bensì i problemi sociali, vale a dire quelle situazioni umane problematiche che vengono indicate non dal mercato né da più o meno lungimiranti committenti, bensì dalla logica interna della ricerca stessa, che per tal via si pone come la suprema garanzia delPautonomia del giudizio sociologico. Questa autonomia non è un assoluto. Al contrario, essa è direttamente correlativa alVauto-collocazione storica del ricercatore. In questa delicata operazione di auto-collocazione, ossia nella consapevole scelta di un esplicito punto di vista, che implica la rinuncia all’oggettività di tipo naturalistico e nello stesso tempo il franco riconoscimento che ogni tentativo, da parte del ricercatore, di mettersi al di sopra delle parti storicamente in causa, sorvolandone liberamente gli interessi materiali e le prese di posizione ideali, significa in realtà e comporta una condanna all’irrilevanza, consiste propriamente la «coscienza storica». Ciò implica inoltre, e necessariamente, il riconoscimento della relatività di ogni punto di vista, non nel senso d’un relativismo assoluto che coinciderebbe con l’istanza scettica universale e l’indifferentismo morale, ma piuttosto nel senso che ogni punto di vista, anche il più plausibilmente verificato, non può rifiutare di aprirsi all’istanza problematica senza congelarsi in dogma, e quindi senza negarsi precisamente come punto di vista legato ad una «coscienza storica» datata e vissuta, non contraddittoriamente ipostatizzata come forma eterna, meta-storica. Non si può dire che Weber abbia risolto questo insieme di problemi, eccezionalmente arduo, specialmente con riguardo al rapporto fra conoscere e valutare e a quello, altrettanto controverso, fra lucidità intellettuale e
decisione pratico-politica, che nella letteratura marxistica tradizionale viene sbrigativamente indicato come il problema del rapporto fra la teoria e la prassi. Quello che si può con una buona dose di sicurezza affermare è che il metodo è per Weber secondario: come per Marx, come per Thorstein Veblen, come per tutti i grandi sociologi dell’età classica della sociologia. Per costoro il compito della ricerca non consisteva nel contemplare il proprio ombelico e nel concentrarsi su se stessi in una intimistica attività di auto-auscultazione. La sociologia era in primo luogo ed essenzialmente uno strumento per rendersi conto della situazione storica in cui si trovavano a vivere, delle sue caratteristiche fondamentali e dei probabili sviluppi che, in base a tali caratteristiche, si potevano correttamente ipotizzare. La sociologia era dunque per essi la scienza del movimento storico sociale e della direzione e del significato di questo movimento. Teoria sociologica e società non si fronteggiavano quindi come realtà esterne e contrapposte. La teoria era nella società; la interrogava costantemente e ne era continuamente chiamata in causa; la seguiva e l’anticipava come la sua inseparabile ombra. In questo senso, un pericolo di fraintendimento si nasconde nella formulazione ormai consueta della tesi weberiana, che la riduce all’esame critico dei rapporti fra religione e società. Lo stesso fraintendimento del pensiero di Weber nel senso delPanti-marxismo volgare è in questa prospettiva un chiaro avviso di pericolo. Religione e società non sono infatti mondi a parte, né vanno grossolanamente concepite come stanze separate. La religione, come l’economia, la cultura, la politica, e così via, è un fatto sociale. Religione e società hanno in comune questo fatto fondamentale, il fatto di essere due realtà sociali, di indicare due realtà non solo analoghe o omologhe o assimilabili o a vario titolo inter-reagenti, bensì di essere entrambe esperienze sociali, istanze storiche della socialità del sociale. Occorre dunque evitare contrapposizioni dovute, più che ad uno sforzo di genuina concettualizzazione, vale a dire al tentativo di organizzare concettualmente una serie di dati empirici, agli scherzi ottici di schematismi intellettualistici che girano a vuoto su se stessi e pagano la loro eventuale eleganza formale con un incolmabile distacco rispetto alla realtà. Beninteso, Weber si rende conto e descrive le tensioni intercorrenti fra un’etica religiosa di fratellanza e i requisiti funzionali di un’economia capitalistica razionale moderna e la struttura di uno stato politico moderno. «Un’economia razionale - scrive - è un’attività funzionale. è orientata ai prezzi monetari che originano dalla lotta di interessi degli uomini sul mercato. Senza stime in prezzi
monetari e quindi senza questa lotta di interessi non è possibile calcolo di sorta. Il denaro è la cosa più astratta e “impersonale” che esista nella vita dell’uomo. Di conseguenza, quanto più il mondo della moderna razionale economia capitalistica seguiva le sue leggi immanenti, tanto più diventava inaccessibile a qualsiasi rapporto con un etica religiosa di fratellanza. E questo distacco cresceva con il crescere della razionalità e dell’impersonalità. Infatti, un regolamento etico integrale del rapporto personale tra padrone e schiavo era possibile proprio perché si trattava di un rapporto personale. Non era possibile invece… regolare i rapporti tra i detentori sempre diversi di titoli ipotecari ed 1 debitori della banca delle ipoteche, a loro sconosciuti e anch’essi intercambiabili, tra i quali non sussisteva nessun tipo di legame personale» (pp. 593–594; virgolette nell’originale; corsivo mio). Un ragionamento analogo viene svolto da Weber a proposito delle moderne strutture politiche. «L’idea di fratellanza delle religioni redentrici osserva - se coerente, doveva anche trovarsi in uno stato di tensione particolarmente acuto nei confronti degli ordinamenti politici del mondo. Per la religiosità magica come per quella degli dèi funzionali il problema non esisteva… (ma) Elemento costitutivo di ogni società politica è l’appello alla nuda violenza come mezzo di coercizione non solo verso l’esterno ma anche verso l’interno. Anzi, la violenza è ciò che nella nostra terminologia definisce in primo luogo la società politica: lo “stato” è quella associazione che rivendica il monopolio dell’uso legittimo della violenza - altre definizioni non ne esistono… Ogni politica sarà quindi tanto più estranea alla fratellanza quanto più sarà “oggettiva” e calcolatrice, libera da sentimenti appassionati, senza ira e senza amore. L’estraneità reciproca delle due sfere, quella politica e quella etica, quando ambedue sono completamente razionalizzate, si manifesta con particolare asprezza su punti decisivi, in quanto la politica, contrariamente aireconomia, e in grado di presentarsi come una diretta concorrente delVetica religiosa» (pp. 595–597; virgolette nell’originale; corsivo mio). Si tratta dunque, nelle parole di Weber, della tensione fra due sfere, l’una religiosa, l’altra economico-politica, ma non di una contrapposizione, con la conseguente mutua esclusione, fra religione e società. Piuttosto, e con maggior precisione, siamo di fronte all’interazione di due situazioni che sono, l’una, religiosa e l’altra extra-religiosa, o mondana, o profana, ma che nello stesso tempo sono ambedue situazioni sociali. Per questa ragione, l’impostazione globale dell’indagine e la ricerca delle interconnessioni non prontamente
visibili all’occhio del senso comune divengono momenti importanti della ricerca sociologica fino a costituirne l’essenza e il modo di procedere tipico. Qui Marx e Weber mostrano la chiara tendenza a coincidere. Né si tratta solo di convergenze esistenziali determinate dalla comune matrice culturale tedesca, dal fatto che si tratta di due personaggi dalla morale personale e dalle reazioni umorali tipicamente vittoriane e perbenistiche, tutto sommato molto consci del loro essere Herr Professor in una situazione in cui il professore è ancora un semi-dio non degradato a funzionario. Separati da un paio di generazioni cruciali, hanno però ambedue studiato a Berlino; credono ambedue nella «etica del lavoro» e la praticano, Marx al British Museum e Weber in casa sua per via dell’esaurimento nervoso, con un accanimento sovrumano; e quanto al puritanesimo vittoriano e perbenistico, basti pensare alle angosce di Marx a causa del figlio naturale e ai tormentati rapporti di Weber con la madre, forse non senza influsso sulla tragica, misteriosa scomparsa del padre. Non si tratta solo di questo, che ha naturalmente la sua importanza. Si tratta di una convergenza di metodo e di sostanza che porta a risultati analitici impressionanti. Si veda il passo in cui Weber, analizzando il confucianesimo e il taoismo, è colpito dal loro fondamentale anti-individualismo e osserva come «né qui né in Egitto o in Mesopotamia la tecnica militare cavalleresca abbia mai portato ad una compagine sociale così individualistica come nelPEllade “omerica” e nel “Medioevo” (p. 400; virgolette nell’originale). Il fattore esplicativo di questo antiindividualismo, o mancato individualismo, non è ricercato né nell’etica né nella psicologia né nel sistema socio-politico. Scatta invece la interconnessione con un dato di natura geografica e tecnologica insieme: la inevitabile dipendenza di tutta la popolazione dalla regolazione dei corsi d’acqua e quindi la subordinazione totale al governo personale burocratico del principe «hanno agito da contrappeso». Vi è qui in nuce tutta la «teoria idraulica del dispotismo orientale» di Karl Wittfogel, ma le osservazioni weberiane richiamano anche l’articolo pubblicato da Marx nella Herald Tribune di New York a proposito degli effetti razionalizzanti e anti-tradizionalistici che la ferrovia costruita in India dagli Inglesi avrebbe avuto su un sistema sociale statico e tecnicamente arcaico. Vi è di più: la struttura del ragionamento weberiano non è dissimile da quella del ragionamento di Marx là dove, nel libro primo del Capitale, in quei mirabili capitoli dedicati all’avvento della grande industria meccanizzata e alla
giornata lavorativa, così ricchi di particolari tecnici e così accurati nella descrizione del processo produttivo da far sospettare il contributo diretto da Friedrich Engels e le risorse della sua esperienza personale di direttore generale della produzione nello stabilimento tessile paterno a Manchester, Marx ricostruisce magistralmente la matrice contestuale e le condizioni della disgregazione della famiglia operaia attraverso una serie di interconnessioni che partono da una innocente innovazione tecnica, dalla incorporazione dell’utensile nella macchina: questa innovazione tecnica, all’apparenza neutra, ha in realtà un duplice ordine di conseguenze. Da un lato, specializza la macchina mentre dequalifica l’operaio. Il vecchio artigiano d’un tempo, divenuto operaio avendo perso la proprietà, cioè il controllo legale, dei suoi mezzi di produzione, ora perde anche il controllo della erogazione della sua forza nervosa e muscolare e il suo senso di responsabilità diretta sul lavoro, in quanto non dipende più da lui decidere l’inclinazione dell’utensile nell’incisione della materia prima, e quindi la velocità di taglio della macchina, e quindi i tempi di produzione. Dall’altro lato, l’incorporazione dell’utensile nella macchina rende possibile l’assunzione in pianta stabile di manodopera femminile, meno qualificata - ma la qualifica non è più un requisito essenziale ora che la macchina è stata «promossa» - e più docile; le donne abbandonano dunque casa e figli e sostituiscono i loro uomini nel posto di lavoro; questi si trovano a spasso e si danno alPalcoolismo. Con una caratteristica assenza di sentimentalismo proletario, Marx osserva che gli operai, in concomitanza con quell’innovazione tecnica, si vedono la famiglia disgregata, cominciano a darsi al bere, vendono sul mercato del lavoro capitalistico, formalmente libero, moglie e figli; divengono, conclude Marx, i «neo-mercanti di schiavi». Non dovrebbe eccessivamente meravigliare che questa straordinaria capacità di cogliere le interconnessioni significative consenta a Marx, ma anche a Weber, previsioni fulminee che hanno per noi, retrospettivamente, un valore pressoché profetico. Non penso al cosiddetto «messianesimo» di Marx, che soprattutto allorquando viene collegato con il retaggio culturale israelitico o più precisamente biblico di Marx non so considerare se non con invincibile fastidio. Penso invece alla previsione scientifica di Marx relativa al gigantismo industriale, al crescere del proletariato industriale, appena agli inizi all’epoca di Marx, alla visione della società industrializzata come società di classe, dicotomicamente spezzata e divisa fra chi possiede i mezzi di produzione e chi ne è posseduto, cioè fra proprietari ed espropriati. Anche se a breve termine
questa visione dicotomica della società appare smentita dai dati di fatto, tanta è la proliferazione di ceti e di quasi-classi «intermedie», non sembra dubbio che, nel lungo periodo, si vada profilando una bipolarità tendenziale in termini di potere destinata a contrassegnare in maniera essenziale la struttura di classe delle società tecnicamente progredite. Ma grate sorprese di questo genere, forse più circoscritte e meno civettanti, dal punto di vista del linguaggio, con l’impianto del discorso hegeliano, si trovano numerose anche in Weber. Per esempio, sulla base di una somiglianza delPorganizzazione proprietaria agricola fra Cina e Russia, cogliamo in Weber una straordinaria intuizione profetica: «I contadini per così dire “effettivi”… erano quindi, molto tipicamente, in balìa dell’arbitrio dei Kung kun, i kulaki (“pugni”) come si direbbe nella terminologia contadina russa… i contadini avevano a che fare con i nullatenenti organizzati da ogni kung kun, cioè con la bédnata (“povertà del villaggio”) nel senso proprio della terminologia del bolscevismo, che potrebbe trovare proprio in questo la base della sua forza dfattrazione sulla Cina» (pp. 497–498; corsivo mio). Forse solo in Thorstein Veblen, nel libro Imperial Germany and thè Industriai Revolution, dove sulla base d’una descrizione ferocemente distaccata delle «propensità sportive delle masse» odierne, ivi compresa la classe operaia, si teorizza la possibilità della cattura della «lealtà» di queste masse da parte di un qualsiasi Führer sufficientemente abile nell’arte della mistificazione, abbiamo un analogo esempio di intuizione predittiva. Tenuto a dar fondo alla propria informazione enciclopedica, Weber non disdegna tuttavia, accanto alla ripresa dei Veda o alla lettura dei testi biblici o dell’ Istituzione di Calvino, di ricorrere talvolta alla citazione dell’articolo di giornale, e anche in ciò la somiglianza con Marx colpisce. Come Marx cita dal Morning Star del 23 giugno 1863 nel Capitale (Cap. VIII, «La giornata lavorativa») la notizia circa la «morte da lavoro» della giovane sartina Mary Anne Walkley, così Weber non esita, a conforto della sua tesi sull’importanza delle schiatte in Cina, a citare la Peking Gazette del 14 aprile 1895 a proposito della «liberazione, da parte di due associazioni di schiatte, di una persona arrestata da un percettore di imposte» (p. 499; nota). Una tradizione, questa dell’uso sociologico della citazione giornalistica, tutt’altro che indegnamente continuata da Vilfredo Pareto e giunta senza gravi scosse fino allo Herbert Marcuse di One-dimensional Man.
III Da Weber, dunque, come da Marx, giunge a noi un forte impulso verso la elaborazione di una scienza unitaria dell’uomo in società: un’impostazione globale della ricerca che va oltre alla concezione scolastica e puramente strumentale dell’approccio inter-disciplinare, che si riduce pertanto ad un semplice artificio per garantire la divisione del lavoro accademico, spezzando il carattere tendenzialmente unitario della ricerca sociologica intorno ai problemi specifici. Ma è chiaro, ed è appena necessario avvertirlo nel caso di Max Weber, che le esigenze correlative delPunitarietà e della globalità non vanno intese come una specie di inconfessata indulgenza verso la vaghezza generalizzante e l’indistinto teorico. è specialmente ne Uetica protestante e lo spirito del capitalismo che Weber ha deliberatamente tentato di stringere, per così dire, il suo discorso, che doveva lui per primo stimare un discorso fatto a maglie eccessivamente larghe, con rimandi e confronti dà una civiltà all’altra, anche solo a causa dell’ampiezza e poli-dimensionalità del disegno della sua ricerca. Non v’è dubbio che a proposito del cristianesimo, e dei rapporti fra cattolicesimo e protestantesimo e quindi, all’interno di quest’ultimo, a proposito delle sette protestantiche, dal calvinismo al pietismo, al metodismo e al movimento battista, Weber intende scendere nel dettaglio, si rende conto della necessità di una determinazione logico-linguistica più rigorosa dei termini impiegati, anticipa sostanzialmente le osservazioni del suo critico più temibile, Kurt Samuelsson: «l’ipotesi di Weber di una correlazione diretta fra Puritanesimo e progresso economico rappresenta una generalizzazione la quale, a parte il problema della sua fondatezza di fatto, è metodologicamente inammissibile. I due fenomeni sono così vaghi e universali da non riuscire suscettibili di valutazione mediante la tecnica della correlazione» (cfr K. Samuelsson, Religion and Economie Action, Stoccolma, 1957; trad. ingl., New York, 1961, p. 148). Abbiamo già più sopra accennato a queste difficoltà metodologiche in senso stretto, difficoltà che sono vere ma che non sono tuttavia tali a mio giudizio da infirmare le basi concettuali e il generale disegno della ricerca weberiana, tanto più che l’analisi delle religioni mondiali condotta da Weber è importante nel suo progetto solo come verifica indiretta dell’analisi che intende condurre delle forme dell’etica cristiana, intesa non come «teoria teologica» ma come «spinta all’azione», in rapporto allo sviluppo del capitalismo razionale moderno e segnatamente del suo «spirito» (concordo in
proposito sostanzialmente con le osservazioni di Benjamin Nelson e di S. N. Eisenstadt per cui cfr. Ch. Y. Glock e Ph. E. Hammond (a cura di), Beyond the Classies: Essays in the Scientifie Study of Religion, New York, 1973). Con un modo di procedere che ritroviamo ne Le suicide di Emile Durkheim, Weber si pone davanti alla mappa d’Europa, concentra la sua attenzione sulla Germania, «paese di confessioni miste», e constata un fatto (non da tutti accettato pacificamente): «il carattere prevalentemente protestante della proprietà e dell’impresa capitalistica e delle élites operaie più colte, e specialmente del più alto personale tecnico o commerciale delle imprese moderne» (p. 109). Come Durkheim, di fronte alla stessa carta geografica dell’Europa, notava un più alto tasso di suicidi nei paesi nordeuropei, fra i protestanti e in genere fra gli individui appartenenti a civiltà ad alto grado di individualismo e di responsabilità personale, mentre i casi di suicidio diminuivano nell’Europa mediterranea fin quasi a sparire del tutto, e in base a ciò legava un fatto generalmente reputato come la conseguenza d’una decisione eminentemente individuale al tipo e al grado della coesione sociale, così Weber, in modo del tutto analogo, distingueva fra paesi a struttura religiosa protestantica, più proclivi a creare le condizioni, ideali e pratiche, per l’affermarsi dello «spirito» del capitalismo, e paesi cattolici, più tradizionalistici e meno pronti ad accettare con coerenza le conseguenze del razionalismo economico. Ma Durkheim aveva a che fare con un problema più circoscritto e tutto sommato più «maneggevole». Di più, poteva contare sulle statistiche di Enrico Morselli e di altri ricercatori, che gli avevano fornito una base statistica e matematica, almeno a prima vista, ineccepibile. Per Weber il problema si presentava più complesso. Era sufficiente il caso di Benjamin Franklin ad illustrare il nuovo «spirito» ? E del resto, proprio nel caso di Franklin, si trattava del «prodotto» di un’etica religiosa o non piuttosto degli effetti, per eccellenza «laici», dell’Illuminismo francese, che il solerte americano aveva abbondantemente assorbito durante il soggiorno parigino? E la stessa concezione di Beruf, ricavato con indubbia genialità da Lutero come «eroe della Riforma», poteva dirsi caratteristica esclusivamente protestantica o andava invece riconosciuta anche al mondo cattolico? E lo stesso Calvinismo, visto come la fonte propulsiva del capitalismo razionale e imprenditoriale, nella misura in cui invece di godere edonisticamente (o artisticamente, come alla corte papale o medicea) dei profitti, impone di reinvestirli
produttivamente e quindi, avendo in mente la «retta vita», l’insegnamento delle Scritture, e la conseguente certezza di redenzione, porta intanto nei fatti alla costruzione delle gigantesche imprese bancarie, come si concilia con la secolarizzazione razionale della vita sociale? Non è forse esso stesso un movimento religioso e una struttura dogmatica anche più dura, ortodossa e rigorosa della Chiesa cattolica cui si oppone? E allora, non è forse giusto, storicamente fondato e logicamente necessario ritenere, come suggerisce Herbert Lùthy, l’ultimo e il più raffinato critico della tesi weberiana, che non la Riforma ha stimolato e a vario titolo determinato l’avvento del capitalismo razionale moderno, ma al contrario la Controriforma, come reazione alla Riforma stessa, ha dapprima ostacolato, e quindi bloccato e soffocato tutti quei germi e quelle prime esperienze di capitalismo moderno che in Italia, e in generale nei paesi cattolici, già andavano fermentando e sviluppandosi assai prima che nei paesi protestantici? Ma intanto, che cos’è lo «spirito» del capitalismo ? (Alla parola Geist, spirito, Schopenhauer usava domandare: Wer ist der Bursche? E chi è questo giovanotto?) Weber mette le mani avanti: «La perfetta definizione concettuale non può… stare al principio ma deve essere posta alla fine delPindagine; si paleserà perciò, nel corso della trattazione, e ne costituirà l’importante risultato, come debba formularsi nel miglior modo, più adeguato ai punti di vista che qui ci interessano, ciò che noi comprendiamo come “spirito del capitalismo”» (p. 122; virgolette nell’originale). A poco a poco emergono nelle pagine di Weber le caratteristiche costitutive di questo concetto-chiave: l’utilitarismo ragionevole; la sete di guadagno temperata dalla razionalità e soprattutto dall’onestà, strumentalmente vista non tanto come valore in sé quanto come il mezzo per ottenere crediti finanziari; Tanti-tradizionalismo; infine, il concetto di «professione» nel suo duplice significato di «attività lavorativa» e di «vocazione religiosa», che sarebbe «pura stoltezza» (p. 155) voler considerare come il semplice riflesso di condizioni materiali. Secondo Weber è questo concetto di Beruf il concetto che fa da perno a qualsiasi spiegazione scientifica della genesi del capitalismo moderno. Contrariamente alla concezione di Werner Sombart, che scorge le origini del capitalismo moderno semplicisticamente nella «soddisfazione dei bisogni» e nel «guadagno», Weber trova che nell’etica vissuta delle sette protestantiche «assolutamente nuova era una cosa: il valutare l’adempimento del proprio dovere, nelle professioni mondane, come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica» (pp.
163–164). A Weber non sfuggono le conseguenze pratiche di questa «assoluta novità»: «Trova dunque espressione nel concetto di Beruf quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti, che rigetta la distinzione cattolica dei comandamenti etici del Cristianesimo in praecepta e consilia, e che riconosce come solo mezzo per vivere in maniera grata a Dio, non il superamento tramite l’ascesi monacale della morale di chi vive nel mondo, ma esclusivamente l’adempimento dei propri doveri mondani, quali essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita» (pp. 165–166). Contrapposti per molti aspetti, ideali e pratico-politici, Luteranesimo e Cattolicesimo si ritrovano uniti nella comune opposizione al Calvinismo, il «rappresentante storico del Protestantesimo ascetico», cui Weber riconosce una funzione determinante nella creazione dello spirito capitalistico moderno. Naturalmente le ragioni di attrito fra luterani e cattolici, da una parte, e calvinisti, dall’altra, sono numerose. «Ma il fondamento dell’avversione contro il Calvinismo, comune a cattolici e a luterani - osserva Weber - si trova anche nel carattere etico del Calvinismo. Anche l’osservazione più superficiale ci insegna che esso ha istituito un rapporto fra vita religiosa e azione profana di natura del tutto diversa da quello che troviamo nel Cattolicesimo quanto da quello del Luteranesimo» (p. 178). è infatti dal Calvinismo che Weber vede dipendere la doppia accezione, ossia la portata religiosa e profana a un tempo, del concetto di Beruf. Ed è, d’altro canto, e comprensibilmente, su questo concetto che si concentra il fuoco delle critiche anti-weberiane. Il lungo elenco dei critici è aperto da H. M. Robertson, che accomuna nella stessa polemica Weber e Richard H. Tawney, alleandosi invece con Lujo Brentano, l’insigne collega di Weber, membro di un’antica famiglia di banchieri di origine italiana e cattolica, che del resto non esita a chiamare in causa quale materiale di prova contro la tesi di Weber (per le posizioni di Tawney, che solo in parte coincidono con quelle di Weber, mi si consenta di rinviare alla mia «introduzione» a R. H. Tawney, Opere, Utet, Torino, 1975). Lungi dal riconoscere una funzione importante al concetto e alla pratica di Beruf con riguardo all’avvento del capitalismo razionale moderno, Robertson inclina piuttosto ad attribuire tale funzione alle «scoperte geografiche», prime responsabili per il dirottamento verso i paesi protestantici dell’attività economica e commerciale a scapito dei paesi mediterranei e cattolici (cfr. H. M. Robertson, Aspects of thè Rise of Economie Individualism a Criticism of Max Weber and his School, Londra, 1933).
Nello stesso torno di tempo, Amintore Fanfani e una pleiade di altri critici minori cercavano di dimostrare l’insufficienza della tesi weberiana semplicemente affermando che lo «spirito» del capitalismo e l’etica vissuta o lo spirito religioso, non importa di quale denominazione, non avevano nulla in comune e non avevano quin di nulla da spartire. Singolare risoluzione, questa, del problema, che in definitiva approdava alla sua pura e semplice soppressione (cfr. A. Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione del capitalismo moderno, Milano, 1933). L’unica attenuante, forse, era data dalle ricerche, anteriori di qualche anno a quelle di Weber, di W. Cunningham, il quale non menzionava neppure il Calvinismo e vedeva nel processo di secolarizzazione, invece che in un’etica religiosa purchessia, il fattore fondamentale che aveva preparato la via per lo sviluppo del capitalismo individualistico e razionale dell’epoca moderna (cfr. W. Cunningham, An Essay on Western Civilization in its Economie Aspects, Londra, 1904). Ma il concetto di Beruf, che si presenta difficile da scalzare sul piano propriamente teoretico, offre invece il fianco a critiche che mi paiono fondate allorquando, come vien fatto esplicitamente da Weber, è incarnato nella figura di Benjamin Franklin. è certamente difficile provare il carattere anche solo remotamente religioso di questa figura. In realtà, non so immaginare un tipo umano e sociale più lontano dalPattivismo e dalla preoccupazione tutta calvinistica di procurarsi quante più possibili garanzie della certitudo saiutis alla luce della teologia della predestinazione di questo gentiluomo di Philadelphia naturalmente aristocratico, diplomatico, viaggiatore e perdutamente innamorato di buone letture classiche e di signore mature («sono così grate» !), che sogna solo di risparmiare tanto da potersi al più presto ritirare a far passeggiate e a studiare in una casa piena di libri e in un giardino pieno di fiori. Temo davvero che, dal punto di vista di Weber, Benjamin Franklin, uno dei Founding Fathers e ambasciatore a Parigi dei neonati Stati Uniti, inventore del parafulmine e coccolato dalle donne, sia l’eroe sbagliato. Vien da pensare che Weber proietti qui le sue ansie religiose, represse nel fondo della coscienza, su un personaggio calmo che non ha nulla del suo pathos, agnostico, tranquillo come solo un deista può esserlo (gli atei sono i soli a preoccuparsi seriamente di Dio). Meno convincenti mi sembrano le critiche mosse a Weber sulla base del fatto che, almeno cento anni prima di Benjamin Franklin, un francese, e
cattolico per di più, Jacques Savary, aveva pubblicato un libro in cui si possono gustare idee e consigli non dissimili da quelli propinati da Franklin (si veda J. Savary, he parfait nègo- ciant ou Instruction générale pour ce qui regarde le commerce detoute sorte de marchandise, tant de France que des pays étrangers, 1675). Del Savary, proto-utilitarista e proto-rappresentante dello «spirito del capitalismo» fanno gran caso Samuelsson e Liithy (cfr. spec. H. Liithy, Le passé présent: combats d’idées de Calvin a Rousseau:, 1965). Dal canto suo, Werner Sombart trova un anticipatore di Franklin in Leon Battista Alberti e in Der Bourgeois cita ampiamente da I libri della famiglia. Lo stesso Sombart nella sua opera maggiore, Der Moderne Kapitalismus, indica, come autentico rappresentante dello «spirito capitalistico», in ogni caso più genuino dell’eroe scelto da Weber, il grande finanziere Jakob Fugger, dotato di un gusto sportivo per ammassare denaro e naturalmente mai pronto per la pensione. Weber prende le osservazioni di Sombart molto sul serio e dedica alla questione del rapporto fra Leon Battista Alberti e Franklin una lunghissima nota a pie di pagina. In realtà, per il ragionamento di Weber, non era tanto importante stabilire i precedenti filologici d’una certa posizione filosofico-pratica quanto invece determinare il carattere di rappresentatività del tipo esemplare o emblematico trascelto come personificazione della nuova mentalità emergente. è probabile, da questo punto di vista e nonostante gli errori interpretativi di Weber, che Franklin abbia un più alto valore di rappresentatività degli altri precursori menzionati dai critici (si vede in proposito Ernst Troeltsch, specialmente con riguardo alla nozione di «individualismo» e «modernità», Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der Modernen Welt, München, 1911). In altre parole, voglio dire che la tesi di Weber non può venire confutata soltanto sulla base di qualche inesattezza di dettaglio oppure in termini di qualche svista filologica. Possibilità, quest’ultima, data la natura enciclopedica dell’opera, tutt’altro che irrealistica. Occorre tener presente l’intento di Weber e il livello di generalizzazione medio sul quale si colloca il suo discorso. Anche se Savary ha preceduto di cento anni Franklin, e forse proprio per questo, è probabile che Franklin abbia un valore rappresentativo, rispetto alla mentalità prevalente o media, decisamente più alto di quello di Savary o di Leon Battista Alberti o ancora di Jakob Fugger. (Per gli effetti negativi, in termini di psicoterapia, della concezione dualistica del calvinismo che divide gli uomini in «eletti» e «dannati», cfr. M. Rotenberg, «The Protestant Ethic against thè
Spirit of Psychiatry: thè other side of Weber’s Thesis», in The British Journal of Sociology, XXVI, i, marzo 1975). Un ragionamento analogo va fatto con riguardo alle critiche di scarsa accuratezza concettuale di cui darebbe prova Weber nell’esposizione delle dottrine teologiche dei rappresentanti del protestantesimo ascetico. Una critica di questo tipo è stata, fra gli altri, mossa a Weber da Carlo Antoni nel profilo, molto istruttivo, che gli dedica nel libro Dallo storicismo alla sociologia (Firenze, 1940). è una critica che rivela in chi la formula un fraintendimento grave. L’intento di Weber non consiste nel disquisire la teologia ad alto livello di astrazione. Non gli interessa una discussione filosofica di etica pura. A lui interessa, ai fini della sua ricerca, non tanto il pensiero etico dei teologi protestanti quanto il sentire morale medio, vale a dire l’etica vissuta, cioè l’etica che diviene comportamento quotidiano, rapporto inter-personale, attività economica, transazione commerciale. Per questa ragione, più che le Istituzioni di Calvino, lo interessano il Christian Directory di Richard Baxter, cioè la teoria teologica ma solo in quanto diventa spinta all’azione, pratica di vita, regola di condotta. (Si vedano in proposito le osservazioni di R. K. Merton, Science, Technology and Society in Seventeenth Century England, nuova ed., New York, 1970, spec. cap. IV). Posso capire al riguardo il disappunto di un compito storico della filosofia o le frustrazioni di un filologo, ma non debbo dimenticare che l’intento di Weber è un altro.
IV I limiti veri della costruzione interpretativa di Max Weber sono da ricercarsi altrove. La ormai imponente letteratura nei suoi riguardi costituisce per gran parte uno sforzo, anche notevole per erudizione e in qualche caso per genialità, ma fuori strada. Si tratta di colpi sparati-contro il bersaglio sbagliato. I limiti autentici di Weber non riguardano i particolari della sua opera incredibilmente vasta e quindi segnata dalle inevitabili sviste e anche da un certo grado di ripetitività. Chiamano invece in causa la struttura stessa del suo pensiero e alcuni suoi presupposti fondamentali. In primo luogo, il cosiddetto «individualismo metodologico». Weber non si stanca di analizzare complessi istituzionali, intere epoche storiche, contesti dottrinali e organizzativi a un livello estremamente vario di formalizzazione. Eppure, l’esplicito presupposto della sua ricerca è nettamente individualistico. L’azione sociale, per Weber, è l’azione di un individuo. è vero che egli preferisce parlare di «agire sociale», usando il verbo in luogo del sostantivo ad
evitare o a ridurre il rischio della reificazione, ed è anche vero che nell’agire sociale (s oziale Handelti) Weber non fa rientrare ciò che essenzialmente appartiene alla sfera personale di chi agisce; per esempio, l’estasi religiosa, salvo che venga usata per influire sul comportamento di una massa umana; così come viene escluso dall’agire sociale l’agire d’un individuo orientato puramente verso cose (per esempio, scalare una montagna, a meno che lo scalatore si dedichi all’impresa avendo di mira il prestigio per sé, per il proprio paese o per il proprio club, o ancora in vista d’una ricompensa monetaria o d’altro genere). In altri termini, poiché per Weber la sociologia è la scienza che si propone «di comprendere (verstehen) in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale» (Economia e società, trad. it., Milano, 1961, vol. I, p. 4), l’oggetto proprio della sociologia non può essere né la società, come qualche cosa di diverso dagli individui che la compongono, né lo stesso individuo in quanto tale, bensì l’«agire in società». Con questa formula Weber vuol intendere ogni comportamento, necessariamente individuale, che sia «dotato di senso» (Sinvoli), cioè che sia orientato nei confronti di certi valori diffusi all’interno della collettività cui l’individuo appartiene. Questa impostazione dell’analisi sociologica è a mio giudizio tutt’altro che fondata sia dal punto di vista epistemologico che sostanziale. In altra sede ho approfondito questo tema (si veda in particolare il mio Trattato di sociologia, Utet, 1968) e su di esso converrà tornare in altra occasione, ma è intanto fin da ora importante osservare che per l’analisi sociologica l’atomo, cioè il nucleo elementare non più divisibile, da cui essa deve partire, non è l’individuo, bensì il ruolo, quindi il gruppo, quindi la classe e la struttura di classe, dialetticamente concepita quale componente e insieme caratteristica fondamentale di una data società. Porre alla base della ricerca l’individuo, e sia pure concepito nel suo esprimersi attraverso l’agire sociale, che non sarebbe altro se non l’agire individuale che sconta le reazioni degli altri e si orienta verso gli scopi e le realtà extra-individuali e che per questa via in qualche modo «si socializza», rende piuttosto difficile evitare in ultima analisi il pericolo dell’irrazionalismo. Senza notare che manca totalmente in Weber, come del resto in Marx, una teoria pienamente esplicitata della personalità. Ma la cosa è meno seria per Marx, dato il suo presupposto materialistico e tenuto conto che Marx pensa in termini di «formazione sociale» e di «soggetto storico». Ben più gravi sono le difficoltà per Weber. Queste si rendono manifeste nella stessa incertezza e nelle ambiguità che circondano la
definizione del concetto di «spirito del capitalismo», definizione che Weber rimanda alla fine della sua ricerca, come risultanza conclusiva del suo lavoro, ma che poi dimentica di darci. In secondo luogo, mentre abbiamo più sopra sottolineato i meriti di Weber come sociologo che non rinuncia ad una considerazione globale delle situazioni storiche e socio-economiche determinate, tanto da contribuire grandemente a criticare quelle impostazioni parcellari della ricerca le quali finivano, e tuttora finiscono, per tradurre una giusta esigenza euristica in uno specialismo tecnicistico incapace di visione sinottica e comparativa, occorre riconoscere che la globalità weberiana è una globalità statica: le componenti del sociale sono tutte contestualmente e coordinatamente indagate, ma si rinuncia a dare ad esse una valenza differenziata con l’inevitabile risultato di una stasi che implica la inesplicabilità del processo storico come processo dinamico in sviluppo (si veda in proposito l’ultimo capitolo del mio libro Weber, Accademia, Milano, 1972, e le osservazioni nella mia «introduzione» a La sociologia del potere., Laterza, Bari, 1973). Le conseguenze di ordine politico di questa paralisi sono eccezionalmente gravi ed è qui che vanno ricercate, a parte il blocco determinato dalla sua origine sociale, le ragioni della straordinaria cecità di Weber dinanzi all’incombente pericolo del nazismo. Sfiora l’incredibile pensare che l’uomo che aveva correttamente previsto la tendenza mondiale verso la razionalizzazione della vita e che aveva inoltre intuito come il processo di burocratizzazione sarebbe passato, sostanzialmente indenne, come un sommergibile, sotto le impalcature ideologiche del capitalismo e del socialismo tanto da poter scrivere che «come il mondo, all’infuori del moderno Occidente, non ha conosciuto un’organizzazione razionale del lavoro, così, per questo stesso motivo, esso non ha conosciuto nemmeno un socialismo razionale» (p. 98), è lo stesso uomo che nella redazione della Costituzione della Repubblica di Weimar ha suggerito l’approvazione dell’articolo 48, ossia del famoso Diktatur Paragraph, quello che in caso di emergenza nazionale riconosceva i pieni poteri al presidente del Reich e in base al quale il nazismo potè arrivare legalmente al governo in Germania nel 1933. Restano tuttavia in piedi due meriti fondamentali, cui sarà necessario da parte degli studiosi di scienze sociali dedicare anche per l’avvenire attenta riflessione. In primo luogo, bisogna riflettere sul modo stesso di lavorare di Weber, un modo singolarmente alieno da preoccupazioni definitorie estrinseche delle discipline accademicamente intese, in cui saltando
allegramente gli steccati formali e le paratie stagne fra materia e materia si mescolano e si arricchiscono a vicenda storia, economia, filosofia, diritto, antropologia e linguistica, tutte sorrette da un apparato teorico-concettuale costantemente rinnovato e mai separato dal vivo svolgimento della ricerca. In questo senso il lavoro di Weber costituisce un passo avanti verso la costruzione di una scienza sociale unitaria e come tale va ritenuto un’acquisizione definitiva. In secondo luogo, e con riferimento particolare agli studi comparati di sociologia delle religioni, la lezione di Weber è di straordinaria importanza. Le ricerche odierne di sociologia della religione hanno ancora molto da imparare, a mio giudizio, dal lavoro di Weber. Troppo spesso queste ricerche sembrano accettare un ruolo subalterno, se non propriamente ancillare, rispetto ai sistemi dottrinali e alle strutture ierocratiche e organizzative delle religioni esistenti. Per questa via, le ricerche sociologiche in questo campo rinunciano alla loro funzione critica per ridursi, più o meno consapevolmente, ad un non sempre brillante capitolo della teologia morale e della pratica pastorale. Anche per ovviare a questi lamentevoli esiti la rilettura dell’opera di Max Weber ci sembra oggi importante. FRANCO FERRAROTTI
NOTA BIOGRAFICA 1864 Max Weber nasce a Erfurt, il 21 aprile, da famiglia appartenente alla borghesia liberale. Il padre, il giurista Max Weber senior, partecipa attivamente alla vita politica come membro del Partito costituzionale, frazione dell’ala destra liberale, a Berlino, prima di ottenere un posto di magistrato nella cittadina di Erfurt dove nasce il primogenito Max. 1869 Max Weber senior viene chiamato a ricoprire un ufficio al consiglio comunale di Berlino e inizia di lì a poco la sua carriera parlamentare di deputato nazional-liberale; andrà a ricoprire un seggio presso il Landtag ed il Reichstag. La famiglia si trasferisce a Berlino e la casa di Weber diventa un centro di riunione di deputati e uomini politici. In questo modo la villa di Charlottenburg, fuori città, dove risiede la famiglia, diventa sempre più ricca di stimoli ed interessi politici che il giovane Weber assorbe. Frequentano la casa, oltre ai dirigenti del partito nazional-liberale e varie importanti personalità politiche, anche personalità di primo piano del mondo della cultura come Dilthey, Treitschke e Mommsen. 1882 Termina gli studi liceali, nel corso dei quali ha dimostrato un vivo interesse per i classici greci e romani (Omero, Virgilio, Cicerone) e per la storiografia antica, e sostiene l’esame di maturità classica. Si iscrive a Giurisprudenza presso l’Università di Heidelberg, dove segue anche corsi di storia, economia politica e filosofia. 1883 Si trasferisce a Strasburgo per prestare il servizio militare. Vi risiede la famiglia Baumgarten con suo cugino ed amico intimo, Otto Baumgarten, il futuro celebre professore di teologia, che esercita su di lui, specie durante il primo anno di università, una notevole influenza. Frequenta intensamente lo storico Hermann Baumgarten, padre di Otto, e il geologo E. W. Benecke (marito, come H. Baumgarten, di una sorella della madre di Weber). Manifesta vivo interesse per gli scritti del teologo Channing che avranno su di lui una duratura influenza, in particolare per quanto riguarda la dottrina della libertà e della responsabilità della persona; ne rigetta tuttavia la concezione dello Stato e il pacifismo. 1884 Finito il servizio militare, torna a Berlino e riprende lì i suoi studi. Si concentra sullo studio della giurisprudenza; segue inoltre le lezioni di storia di Treitschke e Mommsen. Trascorre un periodo di lunghe disquisizioni col fratello Alfred sul cristianesimo e il rapporto tra fede e scienza.
1885 Va a passare un semestre a Gottinga per preparare il suo esame di referendario. 1886 Supera il suo esame di referendario e torna a vivere presso la famiglia, a Berlino, dove prosegue gli studi per la laurea in scienze giuridiche. 1889 Scrive la sua tesi di laurea, Zur Geschichte der Handelsgesellschaften im Mittelalter, opera che comprende elementi sia di storia giuridica che di storia economica, e dei cui dati Weber si servirà anche nelle sue posteriori opere sociologiche. Per questo lavoro ha dovuto studiare in modo approfondito l’italiano e lo spagnuolo. Supera l’esame di laurea sostenendo una brillante disputa con Theodor Mommsen, che lo indica come il suo più promettente allievo, anche se portatore di idee diverse. 1891 In vivaci dibattiti e polemiche con Mommsen sviluppa il suo scritto per la libera docenza sulla storia agraria romana dell’epoca imperiale, sotto gli auspici del suo maestro Meitzen, noto studioso di storia agraria. 1892 Con Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staatsund Privatrecht consegue all’inizio dell’anno, a Berlino, la libera docenza in diritto romano, diritto germanico e diritto commerciale e inizia a tenere le sue lezioni all’università. Nello stesso anno intraprende per conto del Verein für Sozialpolitik una ricerca sulla condizione dei contadini d’oltre Elba (Die Verhätenisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland). Agli studi giuridici si affiancano ora anche quelli di economia politica. In quegli stessi anni (1884–92) si sviluppano in modo più preciso gli interessi politici di Weber. Egli non condivide in pieno l’orientamento liberale in quanto ritiene necessario lo sviluppo di una grande potenza statale nazionale, ma è anche contrario al dominio assoluto del concetto di Stato che va a scapito della libertà di pensiero e dei diritti della persona. In questo senso si pronuncia sulla legge antisocialista in vigore da alcuni anni e protesta contro le «leggi eccezionali». Ammira Bismarck ma non è esente da critiche nei suoi confronti, in particolare per quanto riguarda l’annientamento di altre personalità politiche intorno a sé e l’abitudine indotta nel paese stesso a «mettersi sotto tutela» in qualche modo, e a rinunciare al pensiero politico autonomo.
Sul problema dell’educazione della nazione all’autonomia del giudizio politico e alla libertà dello spirito, Weber si pone anche in polemica con Treitschke ed il suo modo di svolgere la sua funzione docente, concependo la storia contemporanea come un mezzo di politicizzazione degli studenti, al di là dell’oggettività scientifica. Da questo problema prende spunto la sua polemica verso i «socialisti della cattedra», di cui pure è allievo, e che svilupperà più avanti in celebri saggi e conferenze, sostenendo la necessità di lasciare la politica fuori dalle aule, sulla «piazza», laddove spira l’aria del libero contraddittorio. In nome della libertà di pensiero Weber critica la Kulturkampj, la germanizzazione dei Polacchi e la stessa politica verso i cattolici. Tuttavia non condivide nemmeno la politica della sinistra liberale, di cui critica la spaccatura, e considera sterile e nociva allo stesso liberalismo la sua sistematica opposizione a Bismarck, soprattutto in materia di politica finanziaria. A ciò si aggiunge il fatto che alla sinistra mancano autentici leaders. Gli eventi del 1888, l’avvento di Guglielmo II e la svolta politica di quel periodo, che si conclude con il licenziamento di Bismarck, gli appaiono pure carichi di minacce. Insieme agli interessi politici, in quello stesso periodo, il giovane Weber sviluppa anche nuovi interessi sociali, frequentando economisti, funzionari con interessi socio-politici, allievi dei «socialisti della cattedra». Tali interessi lo allontanano sempre più dalla politica nazional-liberale del padre. Sono gli anni in cui si sviluppa la «questione sociale» ed una serie di economisti come Adolf Wagner, Schmoller, Brentano, Knapp, e anche giuristi come Kneipp riconoscono la validità della critica socialista della società. Vengono chiamati per scherno, dagli avversari, i «socialisti della cattedra», ed esercitano una notevole influenza sulla gioventù accademica. Un gruppo di questi fonda nel 1873 il Verein fr Sozialpoli- tik, che all’inizio agisce come gruppo di propaganda e di pressione sugli organi legislativi, ma che ai princìpi degli anni ‘80, con la svolta bismarckiana sulla politica sociale, perde questa sua funzione agitatoria per acquistarne un’altra a carattere più accademico. è in questo periodo che Weber entra a farne parte e ne rimarrà membro in permanenza. è particolarmente acuta in quel momento la questione agraria; Weber si occupa dell’inchiesta sui contadini e la sua opera conosce una rapida diffusione e gli acquista la fama di specialista in questioni di politica agraria.
Nello stesso periodo la «questione sociale» penetra anche nei circoli religiosi con cui pure Weber è in contatto e viene ripresa da un gruppo di teologi protestanti. Weber partecipa ai congressi del movimento evangelico-sociale (il primo è convocato dal teologo Stü cker nel 1890). Incontra Friedrich Naumann, già noto come «pastore del proletariato», di tendenze socialdemocratiche ma insieme profondamente religioso, con cui stringe una solida amicizia e dei duraturi rapporti politici. Al terzo Congresso, nel 1892, Weber presenta tre comunicazioni sulla condizione dei lavoratori agricoli (Privatenqueten ber die Lage der Landarbeiter). 1893 II suo professore di diritto economico, Goldschmidt, si ammala e affida a Weber l’incarico di sostituirlo. Il potente accademico, consigliere Althoff, si interessa a lui; sembra aprirglisi la possibilità di una rapida carriera. Tuttavia sugli interessi giuridici di Weber hanno già incominciato a prevalere quelli economici. Sposa Marianne Schnitzer, una sua lontana cugina, e conduce a Berlino una intensa attività lavorativa divisa tra l’insegnamento, lo studio e le attività del movimento evangelico-sociale, che organizza corsi politico-economici per pastori. Weber tiene in questo ambito delle conferenze di politica agraria, l’argomento che in quel momento lo interessa maggiormente. 1894 In concomitanza con la riforma della Borsa programmata dal Reichstag, inizia a pubblicare una serie di saggi sulla questione, per la rivista di diritto commerciale di Goldschmidt, che vedranno la luce nel corso dei due anni successivi (Ergebnisse der deutscheti B ö rsenenquete). Scrive anche, su richiesta di Naumann, per la «G ö ttingen Arbeiterbibliothek», un manualetto sulla Borsa (Die Bö rse) che ha lo scopo di spiegare anche ai profani come funziona l’organo centrale della politica economica. Weber si pronuncia in particolare contro l’ipotesi di una legislazione «moralizzatrice» delle attività speculative, in quanto la Borsa è uno strumento di potere nella lotta economica internazionale, e nella misura in cui le stesse attività sepculative esercitano una funzione utile al suo rafforzamento, considerazioni etiche non possono che passare in secondo piano e solo finché sono compatibili col rafforzamento economico della nazione. Due anni più tardi, Weber verrà chiamato a partecipare come consulente ai lavori del Comitato per la nuova legislazione della Borsa.
Lo stesso anno viene chiamato a ricoprire una cattedra di economia politica presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Friburgo. Egli accetta, anche per sottrarsi al dispotismo, per quanto illuminato, del consigliere Althofi, che vuole tenerlo a Berlino, ma di cui non condivide i metodi di gestione accademica. Approfondisce lo studio dell’economia politica e elabora i dati dell’inchiesta sui lavoratori agricoli promossa dal Congresso evangelico-sociale. Al V Congresso evangelico-sociale viene infatti posto come tema centrale la questione agraria, su richiesta di Weber e di P. Göhre che nel frattempo hanno stretto una salda amicizia. è stata programmata una grande inchiesta sulle condizioni del lavoro agricolo e stavolta i questionari, invece che ai lavoratori (come nell’inchiesta del Verein) vengono mandati ai parroci. Al Congresso, che si tiene a Francoforte, Weber e Göhre tengono la relazione sui risultati dell’inchiesta (Die deutschen Landarbeiter). Alla cerchia di amici che Weber frequenta allora appartengono il giovane filosofo H. Rickert, il collega G. von Schulze-Gävernitz, lo psicologo e filosofo Hugo Münsterberg, il filologo Gottfried Baist. 1895 Si concede un lungo viaggio di riposo in Scozia e in Irlanda. Al suo ritorno a Friburgo pronuncia, secondo l’usanza, di fronte ad un vasto uditorio, la sua prolusione accademica ufficiale, dedicata al tema dello Stato nazionale e la politica economica (Der Nationalstaat und die Volswirtschaftpolitif(). In essa Weber si definisce come «nazionalista economico» e indica la politica economica come al servizio dello Stato nazionale. Alla domanda circa i valori a cui si devono conformare le forme della vita economica, risponde che l’economia politica non è in grado di prendere come parametri la soddisfazione e la felicità umane e che i valori ultimi al cui servizio si pone la politica economica di una nazione sono gli interessi legati alla potenza della nazione stessa. Nessuno stato o classe è però attualmente in grado di dirigere la vita economica della nazione, di porre gli interessi politici ed economici della nazione al di sopra dei propri, e ne consegue, se la Germania vuole porsi come potenza nazionale, la necessità di un grosso lavoro di educazione politica in tutti gli ambienti. Simultaneamente, Weber partecipa alla polemica e al dibattito politico portato avanti da Naumann e dai pastori sociali e scrive una serie di articoli contro gli agrari e contro il grande industriale von Stumm, in occasione delle leggi che reprimono la lotta salariale.
Partecipa nuovamente al Congresso evangelico-sociale, a Erfurt, centrato questa volta sulla questione femminile. La prolusione di Friburgo ha avuto un profondo effetto su Naumann e il suo seguito; si fa strada la convinzione che al socialismo cristiano deve subentrare un socialismo nazionale, o meglio nazionalista, nazionaltedesco, vale a dire ciò che mancherebbe ai socialdemocratici, la capacità di difendere la patria e i suoi confini, di incrementare la potenza della nazione, come premessa indispensabile per una politica sociale interna. Weber tuttavia scoraggia sin dall’inizio i progetti di un partito nazional-sociale, che gli appare votato al fallimento. L’Unione nazional-sociale verrà fondata un anno dopo, a Erfurt, presente lo stesso Weber che non ha rifiutato i suoi consigli e che troverà conferma ai suoi dubbi. Il programma di Naumann sarà da lui apertamente criticato. In seguito al fallimento dell’Unione nazional-sociale, il movimento si fonderà con l’ala sinistra democratica della borghesia costituendo un cartello elettorale liberale secondo quanto auspicato da Weber. 1896 Viene chiamato all’Università di Heidelberg a succedere a Karl Knies. Stringe nuove amicizie: Georg Jellinek, Paul Hensel, Karl Neumann e soprattutto il teologo Ernst Troeltsch. 1897 Sente sempre il bisogno di dedicarsi alla politica attiva, poiché il mero successo nella carriera accademica non gli appare come uno scopo soddisfacente. Il Circolo politico liberale di Saarbrücken gli offre una candidatura al Reichstag che però egli rifiuta per via dei suoi nuovi impegni accademici. Trova inoltre difficoltà ad inserirsi in uno dei partiti esistenti. Infatti condivide da un lato gli ideali democratici del liberalismo di sinistra, dall’altro il senso individualistico dei nazional-liberali; nello stesso tempo però è anche legato ai circoli conservatori e pangermanisti dal pathos nazionalistico. Da questi si staccherà nel 1899 perché in disaccordo con il sostegno dato alla politica degli agrari, e richiamando la qualifica che gli è stata data di «nemico dei Junker». 1898 Si ammala; quello che si rivelerà un forte esaurimento nervoso lo costringe prima a soggiorni di riposo in varie località e poi all’inattività. 1899 Rinuncia alle lezioni, che non si sente più in grado di fare, e tiene solo un seminario. 1900 Ottiene un lungo periodo di congedo. Viene istituita, secondo quanto egli aveva ripetutamente richiesto, una seconda cattedra di
economia politica: respinta la chiamata di Werner Sombart - che Weber aveva già proposto come suo successore a Friburgo - questa viene assegnata a Karl Rathgen. Le sue condizioni peggiorano; è costretto a passare un periodo in casa di cura, poi viaggia per due anni all’estero, soggiornando in Svizzera e in Italia. 1902 Le sue condizioni sono sensibilmente migliorate: fa ritorno in patria. Non è ancora in condizioni di riprendere in pieno l’insegnamento, deve limitarsi al seminario e agli esami d laurea. Il primo segno di ripresa della sua capacità produttiva è la recensione del libri di Philipp Lotmar, Der Arbeitsvertrag. 1903 Inizia la nuova fase della sua produzione, di carattere sostanzialmente diverso dalla prima. Il primo scritto importante di questo periodo è il saggio Roscher und Knies und die logischen Probleme der historischen Nationalökonomie. Tuttavia la sua salute è ancora vacillante ed egli si decide al passo - da lungo tempo meditato, ma da cui tutti avevano tentato di dissuaderlo - e rassegna le dimissioni dall’insegnamento universitario. Nel frattempo continua i suoi viaggi. Friedrich Naumann subisce la sua seconda sconfitta elettorale e liquida il partito nazional-sociale; offre a Weber di fondare un nuovo giornale politico, ma questi rifiuta. Non si sente pronto all’impegno politico attivo. Accetta invece la proposta del suo amico e collega Edgar JafTé il quale si propone di acquistare 1 ‘Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik (l’ex «Archiv für Soziale Gesetzgebung und Statistik» di Heinrich Braun) e ha chiesto a Weber e Sombart di partecipare come co-editori. Riallaccia così i rapporti con una vasta cerchia di studiosi ed esperti in questioni politico-sociali, assegna alla rivista un più vasto campo d’indagine intorno alla tematica generale dello sviluppo capitalistico, e le imprime un più marcato carattere interdisciplinare, chiedendo contributi alla filosofia come alla psicologia sociale, alla dottrina dello Stato e alla sociologia. 1904 Pubblica per il primo quaderno della nuova serie della rivista il saggio Die Ob ektivität sozìalwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, uno dei suoi primi importanti contributi metodologici. Poco dopo inizia per il secondo quaderno un altro saggio, che si ricollega ai suoi precedenti interessi di politica agraria e a concreti problemi
giuridico-legislativi: Agrarstatistisch e und sozialpolitische Betrachtungen zur Pideikommissfrage in Preussen. Durante l’estate parte per gli Stati Uniti, dove il suo amico ed ex collega di Friburgo, Hugo Münsterberg, da molti anni professore a Harvard, lo ha invitato a tenere una conferenza al Congresso mondiale delle arti e delle scienze di St. Louis. Il viaggio negli Stati Uniti, la visita alle grandi metropoli di New York, Chicago, Washington, alle piccole città industriali, alle università americane, alle nuove città nelle zone di recente insediamento, ai centri culturali della costa orientale si rivela estremamente stimolante. Questione negra, immigrazione, inserimento della cultura ebraica nel «crogiuolo» americano sono alcuni dei fenomeni che Weber osserva e a cui si trovano riferimenti nei suoi saggi posteriori. In particolare, il suo interesse si concentra su di un fenomeno che riscontra nei Colleges americani: le tracce evidenti dell’impulso organizzativo dato dallo spirito religioso. La maggior parte dei Colleges, opera di sette puritane, conservano visibili elementi della tradizione dei «padri pellegrini» nell’educazione dei giovani. Al college quacchero di Haverford, a Filadelfia, Weber scandaglia la biblioteca in vista del suo lavoro, già in preparazione, sullo «spirito» del capitalismo. Ha anche l’occasione di osservare l’influenza delle sette sull’articolazione della vita sociale nella democrazia americana, e la loro crescente sostituzione con ogni sorta di club e associazioni. Alla fine dello stesso anno uscirà per XArchiv la prima parte del saggio Die protestantische Ethik und der «Geist» des Kapitalismus. è da rilevare come in esso sono presenti, oltre ad una serie di dati generali reperiti nelle biblioteche, numerosi episodi, aneddoti e osservazioni che risalgono proprio al viaggio «americano» di Weber. Questo lavoro, uno dei più importanti, paradigmatico anche sul piano metodologico, si propone lo scopo più vasto, che perseguirà sempre Weber, di un «superamento positivo» della concezione materialistica della storia. è il primo di un’ampia serie di ricerche a carattere storico-universale, che indagano sui rapporti tra il fenomeno religioso da un lato e le strutture della vita sociale, le forme della vita economica quotidiana, dall’altro. Una serie di saggi su questi argomenti appariranno negli anni successivi suìY Archiv.
1906 I suoi interessi politici, dopo un periodo di produzione che affronta problemi logici, filosofici e metodologici, sono nuovamente risvegliati dagli avvenimenti della rivoluzione russa del 1905. Essi vengono analizzati in due saggi pubblicati dalY Archiv: Zur läge der bürgerlichen Demokratie in Russland e Russlands Uebergang zum Scheinkonstitutionalismus. Per approfondire questa problematica Weber studia anche il russo. Ciò che lo interessa di più è l’influenza degli avvenimenti russi sul futuro sviluppo della Germania. Compie un viaggio in Italia, in Sicilia, e si reca a visitare il sociologo Robert Michels a Torino. 1907 Ha una ricaduta della sua malattia, seguita da un altro viaggio in Italia. 1908 Scrive per il «Piccolo vocabolario delle scienze politiche» la grossa voce storico-sociologica Agrarverhältnisse im Altertum (pubblicato nel 1909), che rappresenta una vera e propria sociologia deir antichità, cioè un’analisi storica di tutte le principali forme strutturali della vita sociale nell’antichità (e non solo dei rapporti agrari). Nello stesso periodo si dedica ad una serie di ricerche specifiche a carattere storico-sociologico. L’occasione è data da un’indagine programmata dal Verein für Sozialpolitik su suggerimento del fratello e collega Alfred Weber, sulla «selezione e “ l’adattamento ” della manodopera nella grande industria». Si tratta di ricerche a cui si può far risalire la primissima sociologia industriale e che vedono Weber in veste di scrupoloso direttore e organizzatore di una ricerca empirica di vasta portata, come appare dal suo ampio promemoria metodologico (il suo Denkschrift poi pubblicato come Methodologische Einleitung) per i lavori del Verein. I risultati vengono pubblicati in una serie di saggi sull’Archiv raggruppati sotto il titolo generale Zur Fsychophysik der industriellen Arbeit. Non si sente ancora in grado, malgrado le sollecitazioni che riceve nel frattempo da studiosi come Schmoller o Brentano, di riprendere l’insegnamento universitario. Continua però a mantenere stretti rapporti con l’ambiente accademico, di cui considera criticamente una serie di aspetti: dalla vanità professorale, all’antisemitismo che impedisce a W. Windelband di ottenere una chiamata a Berlino, alla pavidità politica nei confronti di studiosi socialdemocratici, che chiude le università tedesche ad un giovane e
promettente studioso come il sociologo Michels. A questo proposito pubblica sul Frankfurter Zeitung un articolo su «La cosiddetta “ libertà d’insegnamento ” nelle università tedesche» (Die sogennante «Lehr freiheit» an den deutschen Universitäten). La casa di Weber a partire da questo periodo e negli anni successivi diventa un importantissimo e vivace centro intellettuale dove si ritrovano numerosi studiosi e artisti: tra questi, innanzitutto, Troeltsch, Jellinek, Gothein, Vossler. Vi sono poi i Jafìé, Edgar e la moglie Else, quest’ultima un’antica allieva di Weber. Alla più giovane generazione appartiene il filosofo Emil Lask, allievo di Rickert. è lui che porta in casa Weber la musicista Mina Tobler. Vi è poi la coppia A. F. Schmid-Noer e Kläre Schmidromberg, lui poeta-filosofo e sensibile conoscitore d’arte, lei ex-attrice di teatro. Esperto d’arte è anche lo psichiatra H. Gruhle. Più tardi si aggiungono alla cerchia H. Gundolf, Arthur Salz, e soprattutto Karl e Gertrud Jaspers. Passano anche gli amici di fuori: Werner Sombart, Robert Michels, Paul Hensel, e soprattutto Georg Simmel. Tra le donne più importanti, ancora, Marie Baum e Gertrud Bäumer. Tra i più giovani - studiosi alle prime armi - cercano stimoli da Weber K. Löwenstein e P. Honigsheim. Nuove correnti penetrano la vita culturale di Heidelberg. Si fanno strada le teorie di Freud, a cui Weber si interessa, ma che contesta, rifiutando anche con una lunga motivazione un saggio basato sulle teorie freudiane per YArchiv. Contesta in particolare certe divulgazioni di discepoli freudiani. Fortemente critico e diffidente, non può tuttavia evitare il confronto con queste nuove teorie che penetrano soprattutto tra i membri più giovani della cerchia intellettuale di Heidelberg. Sempre in quell’anno il Congresso internazionale dei filosofi porta a Heidelberg il sociologo F. Tönnies, ospite di Weber. 1909 II Verein für Sozialpolitik tiene una sessione a Vienna. Con Weber vi partecipano Knapp, Brentano, v. Schulze-Gävernitz, Sombart, Alfred Weber, Eulenburg, v. Gotti, e anche Naumann. Sono riuniti i vecchi maestri del «socialismo della cattedra» come Schmoller e Brentano, i loro ex-allievi tra cui lo stesso Max Weber, e la «terza generazione» che emerge. Weber interviene nei dibattiti sul rapporto tra potere statale e impresa capitalistica, sull’influsso della burocratizzazione; e sull’altro tema, che riguarda la «produttività dell’economia politica».
Nello stesso anno incomincia a curare per Paul Siebeck, editore delYArchiv, la grossa raccolta dei Grundriss der Sozialökonomik. Diventa membro dell’Accademia delle Scienze di Heidelberg. 1910 Prima seduta, a Francoforte, della Deutsche Gesellschaft für Soziologie fondata da Weber nel corso dell’anno precedente insieme ad un gruppo di sociologi tra cui Sombart, Simmel ed altri, che sentono il bisogno di affrontare i problemi sociali non più esclusivamente nell’ambito dell’economia politica. Partecipano, tra gli altri, Troeltsch, Tönnies, Michels. Conosce a Heidelberg il poeta Stephan George e si dedica alla lettura di Rilke. 1911 Riprendendo i suoi studi di sociologia delle religioni, incomincia le ricerche sull’«Etica economica delle religioni mondiali» (.Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen), scostandosi questa volta dall’Europa, su cui sta lavorando Troeltsch, per affrontare il mondo orientale; incomincia dalla Cina per proseguire, nei suoi progetti, con il Giappone, l’India, il mondo ebraico e l’Islam. La sua intenzione è di esplorare - nei due sensi - i rapporti delle cinque grandi religioni del mondo con l’etica economica. Le parti principali di questa nuova serie di saggi saranno terminate nel 1913 ma la pubblicazione inizierà nel 1915 soltanto, dopo che la guerra ha impedito a Weber di rivedere alcune parti (che rimaneggerà nella seconda edizione del saggio sulla Cina nel 1919). Pubblica una serie di articoli critici sull’insegnamento superiore, in relazione agli istituti superiori del commercio, e sul rapporto che intercorre tra le università tedesche e la burocrazia statale (Das «System Alt hoff»). 1912 Al circolo intellettuale che frequenta la casa di Weber si aggiungono alcuni giovani filosofi dei paesi dell’est, tra cui in primo luogo György Lukacs. 1913 Appare il suo importante saggio metodologico über einige Kategorien der verstehende Soziologie. 1914 Allo scoppio della prima guerra mondiale, Weber presta servizio come direttore di un ospedale militare a Heidelberg. Il giudizio di Weber sul conflitto, malgrado tutti i pericoli che vede nella situazione della Germania, è sintetizzato nell’espressione che torna più volte in quel periodo nei suoi scritti e discorsi: «Questa guerra - malgrado tutto -
qualunque ne sia l’esito, è grande e meravigliosa». Ringrazia il destino che gli fa vivere questo momento di esaltante unità di un popolo, pronto a «combattere, soffrire, sacrificarsi». Tuttavia, malgrado i successi tedeschi, non è ottimista, e vorrebbe una rapida conclusione della guerra. 1915 Lascia il suo servizio, che non rientra più nelle norme della riattivata macchina militare. Gli viene offerto un incarico socio-politico in Belgio, che però sfuma. Non avendo più possibilità di prestare servizio in maniera diretta, come ancora desidera, Weber si immerge nuovamente nei suoi manoscritti abbandonati con lo scoppio della guerra. Riprende innanzitutto i suoi lavori di sociologia delle religioni. Nel quaderno di settembre àtkVArchiv inizia la pubblicazione della serie di saggi su «L’etica economica delle religioni mondiali» con la «Introduzione» storico-filosofica ed i primi capitoli sul confucianesimo. La stesura di questi saggi risale a due anni prima e allora, nell’intento di Weber, dovevano apparire insieme alla trattazione sistematica della sociologia delle religioni, programmata per «Economia e Società» (Wirtschaft und Gesell- schaft), a scopo d’illustrazione e integrazione reciproca. Ora però egli rinuncia a questo progetto. Nel quaderno di novembre appare la fine dello studio cinese e l’importante Zwischenbetrachtung. Anche questi saggi risalgono a prima della guerra. Weber incomincia ora a lavorare sulle altre religioni asiatiche, in primo luogo l’induismo e il buddhismo. Si reca a Berlino per proseguire le sue ricerche e anche per immergersi nuovamente nel centro della vita e dell’atmosfera politica. Scrive un pro-memoria sulla questione della conclusione della pace, che però verrà pubblicato postumo. Ritiene in quel periodo che ogni prolungamento della guerra sia disastroso per la Germania e che va colta ogni occasione per una pace senza perdite né annessioni. Contrario alla politicar di annessioni, ritiene possibile per la Germania una politica coloniale a livello mondiale solo sulla base di una politica delle alleanze, e non di un espansionismo europeo che coalizzi le altre potenze contro la Germania. Sulla questione polacca, auspica la creazione di uno Stato-cuscinetto alleato, che protegga il fianco orientale verso la Russia; e quindi una revisione di tutta la politica prussiana nei confronti dei territori annessi (Polonia e Belgio). Teme che la direzione militare porti ad ulteriori errori politici. Su questi temi pubblica un artico lo sul Frankfurter Zeitung: Bismarcks Aussenfolitik
und die Gegenwart. In altri termini auspica: niente annessioni all’est, ma stati autonomi militarmente alleati; occupazione militare nell’ambito del «necessario» all’ovest. Tenta di portare avanti queste idee attraverso vari circoli politici e attraverso il suo amico Naumann in particolare. 1916 Preoccupato per l’estensione della guerra sottomarina, che rischia di portare al conflitto con gli Stati Uniti, cosa che secondo Weber va evitata a tutti i costi, deplora la politica poco lungimirante dei militari, in particolare le richieste dell’ammiraglio von Tirpitz. Scrive un secondo pro-memoria, sull’inasprimento della guerra sottomarina, da far circolare tra dirigenti dei partiti e allo scopo di appoggiare il Cancelliere contro von Tirpitz (Der verschärfte U-Boot-Krieg). Pronuncia per la prima volta da vent’anni un discorso da una tribuna politica - a Monaco, per il Partito popolare progressista - sulle responsabilità della Germania di fronte alla storia e al futuro della «cultura» mondiale. 1917 Non avendo la possibilità di svolgere un’attività politica diretta, interviene con numerosi contributi su questioni di politica estera sul Frankfurter Zeitung. Incomincia anche a trattare in una serie di articoli la questione costituzionale (per lui di secondaria importanza in quel momento, ma che s’impone man mano che la guerra si prolunga). Per l’ordinamento interno propugna l’eliminazione del dominio burocratico nella sfera politica, l’eliminazione del sistema elettorale prussiano per classi, la parlamentarizzazione del governo e la democratizzazione delle istituzioni statali. La serie di articoli verrà raccolta un anno più tardi col titolo Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, e incontrerà anche un tentativo di censura. Weber propende per il mantenimento dell’istituto monarchico, e pone in particolare il problema della corretta selezione delle élites politiche che devono dirigere il paese, poiché parlamentarismo e democrazia non significano in nessun caso, per lui, «dominio delle masse». Non contento di saggi, articoli e lettere, Weber manda lo stesso anno, ad un membro della commissione parlamentare per la costituzione, Konrad Haussmann, due dettagliati progetti di riforma costituzionale. Queste proposte vengono anche riprese in modo programmatico dai partiti di sinistra. Nel frattempo pubblica Hinduismus und Buddhismus ed incomincia
a lavorare su Das antike Judentum, saggio per il quale, grazie alle sue conoscenze dell’ebraico, può riprendere a lavorare sulle fonti originali. Lavora inoltre su singoli scritti destinati a confluire in «Economia e società». L’opera sul giudaismo resterà incompiuta, poiché nell’intento di Weber doveva anche analizzare i Salmi, il Libro di Giobbe, e poi il giudaismo talmudico. In quest’ultima opera si trovano concetti anche legati alla sua attuale esperienza della guerra e dell’azione politica. Partecipa durante l’estate ad un convegno politico-culturale nel castello di Lauenstein, che vede presenti tra gli altri Meinecke, Jaffé, Sombart, Tönnies, oltre ad artisti come Paul Ernst, scrittori politici, membri della giovane generazione come Ernst Toller. Si scontra con quest’ultimo e col gruppo dei giovani socialisti pacifisti che hanno incominciato a frequentare la sua «cerchia» domenicale a Heidelberg. 1918 Accetta l’offerta che gli viene fatta di una cattedra di economia politica a Vienna. Dedica il suo corso alla «critica positiva della concezione materialistica della storia», in cui porta avanti le sue indagini sulla sociologia delle religioni, e la sua sociologia dello Stato. Tiene per gli ufficiali austriaci una conferenza su «Il socialismo». I suoi corsi hanno un grosso successo ma lo affaticano. Partecipa alla «Unione nazionale per la libertà e la patria» che chiede la pace negoziata e l’immediata democratizzazione delle istituzioni statali e ha già pubblicato un appello sottoscritto da Weber insieme a Brentano, Oncken, Troeltsch, Naumann, H. Delbrück. In seguito agli ultimi eventi (armistizio richiesto da Ludendorff) si pronuncia con insistenza, presso i suoi amici politici G. von Schulze-Gävernitz, H. Delbrück, Naumann - per l’abdicazione immediata dell’imperatore. Il 4 novembre, il giorno dopo lo scoppio della rivolta dei marinai di Kiel, Weber tiene per il Partito popolare progressista un discorso politico a Monaco sul «Nuovo ordinamento politico della Germania». In esso attacca le condizioni di pace poste da Wilson, la «pace ad ogni costo» e le spinte rivoluzionarie in corso. Vi è un’aspra reazione di una parte dei suoi ascoltatori. Weber rifiuta la rivoluzione, che chiama «un carnevale sanguinoso». Viene al pettine il nodo delle sue simpatie socialiste: la sua concezione «cristiana» del socialismo, il suo individualismo, la sua concezione dello Stato si sono sempre opposti ad una sua adesioni partitica al socialismo. Non trova peraltro rispondenza al suo nazionalismo né tra i giovani pacifisti e comunisti, né tra gli
studenti conservatori a cui pure si rivolge. Su richiesta dei socialisti moderati partecipa per un periodo al Consiglio degli operai e dei soldati di Heidelberg. Nutre fiducia nel popolo e nei lavoratori tedeschi, sempre «disciplinati», e auspica il rapido abbattimento della «banda pazza di Liebknecht». Si reca a Francoforte per dare la sua consulenza politica al Frankfurter Zeitung e scrive i suoi articoli sulla nuova forma dello Stato tedesco. In una serie di lettere esprime il suo forte sentimento nazionalistico, i suoi timori nei confronti della rivoluzione spartachista che avrebbe come conseguenza in caso di successo l’invasione straniera, e soprattutto un leit-motiv: l’ormai inevitabile «dominio mondiale anglo-sassone». Merito della Germania sarebbe però di aver scongiurato un pericolo peggiore: quello russo. Ma non per sempre; e auspica che l’America non debba un giorno dividere il suo dominio con la Russia. Con la sua collaborazione al Frankfurter Zeitung sul problema della nuova forma di Stato e della costituzione tedesca, Weber si propone di collaborare anche direttamente alla ricostruzione politica della Germania. è favorevole ora alla repubblica, anche per richiamare la borghesia alle proprie responsabilità. Propende per una forma di repubblica di tipo presidenziale. Il nuovo segretario di Stato lo chiama come consulente di una commissione per l’elaborazione di un progetto di costituzione. Questo risponderà in buona parte alle sue proposte e recepisce anche suoi contributi originali (diritto d’inchiesta delle minoranze). Partecipa alle attività del Partito democratico tedesco, fondato in quel periodo, di cui il fratello Alfred è uno dei principali ispiratori. Il partito riunisce la borghesia nazional-liberale e progressista e si pone come membro intermedio interclassista tra i partiti borghesi ed i socialdemocratici, riprendendo gli intenti del vecchio partito nazional-sociale di Naumann. Weber si decide per l’impegno attivo in questa organizzazione; tiene una serie di comizi in varie città. Rivolge ora più aspramente i suoi attacchi contro la sinistra, che considera troppo debole e irrisoluta nei confronti degli spartachisti, e a cui rimprovera la «pessima amministrazione» dei consigli degli operai e dei soldati a Berlino e a Monaco. Si pronuncia contro la socializzazione in nome deH’irrinunciabilità, nella crisi economica del momento, all’impresa privata. Prevede l’ondata di sciovinismo che si abbatterà sulla Germania se le condizioni di pace saranno negative come si profilano. Gli viene
offerta una candidatura per l’assemblea nazionale. L’accetta e viene messo in lista, ma all’ultimo momento il suo nome viene tolto in una seduta a porte chiuse del comitato elettorale. 1919 Avendo rinunciato all’impegno politico diretto, Weber riceve numerose offerte da varie università. Alla fine opta per Monaco, dove Brentano e Lotz lo hanno chiamato insistentemente, anche perché gli si offre la possibilità di tenere un corso a carattere sociologico, ed egli sente di avere superato la fase dell’economia politica e della scienza delle finanze. Pubblica alcuni articoli sulla questione della «responsabilità della guerra». Conosce l’ex-cancelliere Max del Baden con cui stringe amicizia. Per iniziativa del principe Max viene fondata all’inizio dell’anno, in casa di Weber, la «Associazione di Heidelberg per una politica del diritto», cui partecipano tra gli altri Brentano, A. Weber. A. Mendelssohn-Bartholdy, il generale von Holzing, il conte Montgelas, ecc. I due problemi che affronta in primo luogo sono la lotta al «dogma della colpa» (della guerra) e la ricostruzione di un esercito su nuove basi. Sempre su iniziativa del principe Max, Weber viene chiamato a far parte della «Commissione per le trattative di pace» e accompagna la delegazione tedesca a Versailles. Da lì si reca a Berlino per convincere Ludendorff a consegnarsi spontaneamente agli Alleati per essere giudicato per la sua condotta di guerra. è contrario fino all’ultimo all’accettazione delle condizioni di pace. Tornato a Monaco, vive i giorni della repubblica consiliare edella susseguente repressione, cercando di intervenire in qualche modo a favore di Otto Neurath e Ernst Toller in sede di processo. Riprende l’insegnamento. Pubblica le sue due ultime conferenze, Wissenschajt als Beruf e Politials Beruf, tenute agli studenti di Monaco, l’ultima durante l’inverno della rivoluzione. 1920 Prende posizione in una manifestazione di studenti per la grazia concessa all’assassino di Kurt Eisner (per il cui movente simpa tizza mentre disapprova la grazia) e viene contestato da studenti di destra. Frequenta Paul Ernst, Otto Neurath, Oswald Spengler, s’incontra con la gioventù comunista senza però trovare punti d’accordo. Corregge il primo volume dei suoi scritti di sociologia delle religioni (nel ‘i7-’i8 è uscito Das antike ]udenturrì) e lavora ai suoi scritti per «Economia e società» che sarà pubblicata postuma. All’inizio del
semestre estivo tiene le sue ultime lezioni, rispettivamente sulla «dottrina dello Stato» e sul «socialismo». Dopo una breve e improvvisa malattia che lo costringe a interrompere le sue lezioni, muore il 14 giugno.
NOTA BIBLIOGRAFICA I. Le opere a) Scritti pubblicati in vita. Zur Geschichte der Handelsgesellschaften in Mittelalter, Stuttgart, 1889 (tesi di laurea). Die römische Agrargeschichte in ihrer Badeutung für das Staatsund Privatrecht, Stuttgart, 1891 (scritto di libera docenza). Die Verhältnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland, in «Schriften des Vereins für Sozialpolitik», vol. 55, Leipzig, 1892. Privatenqueten über die Lage der Landarbeiter, tre articofi nei numeri di aprile, giugno e luglio delle comunicazioni del Congresso evangelicosociale, 1892. Die ländliche Arbeitsverfassung, in «Schriften des Vereins für Sozialpolitik», vol. 58, Leipzig, 1893. Entwicklungstendenzen in der Lage der ostelbischen Landarbeiter, in «Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik», vol. 7, 1894.Entwicklungstendenzen in der Lage der ostelbischen Landarbeiter (sintesi del saggio precedente), in «Preussische Jahrbücher», vol. 77, 1894. Die deutschen Landarbeiter (relazione al V Congresso evangelicosociale), 1894. Die Börse, in «Göttinger Arbeiterbibliothek», 2 fase., 1894–96 (I. Zweck und äussere Organisation; II. Der Börsenverkehr). Ergebnisse der deutschen Börsenenquete, in «Zeitschrift für das gesamte Handelsrecht» di Goldschmidt, voll. 43–44–45, 1895–96. Der Nationalstaat und die Wolkswirtschaftpolitik (prolusione accademica), Friburgo, 1895. Börsengesetz, Börsenwesen, Wertpapiere, in «Handwörterbuch der Staatswissenschaften», I e II vol. suppl., 1895 e 1897. Die Soziale Gründe des Untergangs der antiken Kultur, in «Die Wahrheit», vol. 6, Stuttgart, 1896. Diskussionrede zur Gründung einer national-sozialen Partei (protocollo della relazione al Congresso di Erfurt del 23–25 novembre 1896), 1896.
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Sozialwiss. u. Sozialpolit.», suppl. al n. 22, 1906. Russlands Uebergang zum Scheinkonstitutionalismus, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», suppl. al n. 23, 1906. Stammlers «Ueberwindung» der materialistischen Geschichtsauffassung, in «Archiv. £. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 24, 1907. Kritische Bemerkungen zu H. K. Fischers Aufsatz: «Kritische Beiträge zu Max Webers Abhandlung “Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus *», in «Archiv, f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 25, 1908. Bemerkungen zu der «Replik» (von H. K. Fischer zur protestantische Ethik), in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 26, 1908. Kredit und Agrarpolitik der preussischen Landschaften, in «Bankarchiv», a. VIII, 1908. Die Grenznutzlehre und das psychophysische Grundgesetz, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 2, 1908. Denkschrift betr. Erhebungen über Anpassung und Auslese (Berufswahl und Berufsschicksal) der Arbeiterschaft der geschlossenen Gros sind ustrie, pubblicato come manoscritto dal «Verein für Sozialpolitik», 1908. Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», voll. 27–28–29, 1908–1909. Agrarverhältnisse im Altertum, in «Handwörterbuch der Staatswissenschaften», 3a ed., 1909. Energetische Kulturtheorien, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 29, 1909. Zur Methodik sozialpsychologischer Enqueten und ihrer Bearbeitung, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 29, 1909. Antikritisches zum «Geist» des Kapitalismus, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 30, 1910. Antikritisches Schlusswort zum «Geist» des Kapitalismus, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 31, 1910. Geschäftsbericht (dei dibattiti della «Deutsche Gesellschaft für Soziologie»), in «Schriften der Deutsche Gesellschaft für Soziologie»,
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«Die Hilfe»). Deutschlands künftige Staatsform, serie di articoli sul «Frankfurter Zeitung» del novembre 1918, raccolti in opuscolo edito dal giornale nel 1919. Wissenschaft als Beruf, Politik als Beruf, in «Geistige Arbeit als Beruf. Vier Vorträge vor dem Freistudentischen Bund», Duncker u. Humboldt, München, 1919 (trad. ital. Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1948). (b) Pubblicazioni postume e inediti. Denkschrift an die Handelshochschulen, novembre 1911, inedito. Zwei Gesetzentwürfe zur Abänderung der Reichsverfassung: a) Aufhebung des letzten Satzes von Art. 9, b) die Einführung des Rechts des Reichtags auf Einsetzung von Enquetekommissionen betr., datato 1– 7 maggio 1917, inedito. Denkschrift zur Frage des Friedensschliessens, datato 4 febbraio 1918, inedito. Der verschärfte U-Boot-Krieg (promemoria del marzo 1916), pubblicato postumo nei «Gesammelte politische Schriften», München, 1921. Die Pharisäer, pubblicato postumo nei «Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie», Tübingen, 1921. Die rationalen und soziologischen Grundlagen der Musik, Drei Maskenverlag, München, 1921, con un’Introduzione di Theodor Kroyer. Die Stadt. Eine soziologische Untersuchung, in «Archiv f. Sozialwiss. u. Sozialpolit.», vol. 47, 1921 (poi ripreso in «Wirtschaft und Gesellschaft»). Zur Frage des Friedenschliessens, pubblicato postumo nei «Gesammelte politische Schriften», München, 1921. Die drei Reinentypen der legitimen Herrschaft, in «Preussische Jahrbücher», CLXXVII, 1922. Nachträge a R. Stammlers «Ueberwindung» der materiali Stichen Geschichtsauffassung, pubblicato postumo in «Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre», 1922.
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Besprechung von Theod. v. d. Goltz, «Die ländliche Arbeiterklasse und der preussische Staat», in «Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik», XLI, 1893. Zwei neue Schriften zur Landfrage im Osten, in «Das Land», I, 1893. Argentinische Kolonisten wirtschaften, in «Deutsches Wochenblatt», VII, 1894, nn. 2 e 5. Was hiesst Christlich-Sozial? Zu Friedrich Naumanns «Gesammelte Aufsätzen», in «Christliche Welt», VIII, 1894. Zum Fressenstreit über den evangelisch-sozialen Kongress, in «Christliche Welt», VIII, 1894. Besprechung von (drei) «Monographien von Land geistlichen über die Lage der Landarbeiter», in «Sozialpolitische Zentralblatt», III, 1894. Das Anerbenrecht auf der preussischen Agrarkonferenz, in «Sozialpolitische Zentralblatt», III, 1894. Besprechung von Angelo Sraffa, «Studi di diritto commerciale» e «La liquidazione delle società commerciali», in «Zeitschrift für ges. Handelsrecht», XLII, 1894. Die Kampfweise des Freiherrn von Stumm (zum Streit zwischen Ad. Wagner-Stumm), in «Preussische Kreuzzeitung», 26 febbraio 1895. Sullo stesso argomento, «Lettera al giornale» il 12 marzo 1895, ibid. «Römisches» und «deutsches» Recht, in «Christliche Welt», IX, 1895. Die preussische Gesetzentwurf über das Anerbenrecht bei Rentgütern, in «Soziale Praxis», IV, 1895. Die technische Funktion des Termihandels, in «Deutsche Juristenzeitung», 1896. Stellungnahme zur Flottenumfrage, in «Münchener Allgemeine Zeitung», 13 gennaio 1898. Herr von Miquel und die Landarheiter-Enquete des Vereins für Sozialpolitik, in «Soziale Praxis», VIII, 1899. Vorbemerkung a Walter Abelsdorff, «Beiträge zur Sozialstatistik der Deutsche Buchdrucker», in «Volkswirtschaftliche Abhandlungen der Badischen Hochschulen», IV, 1900, n. 4. Besprechung von Philipp Lotmar, «Der Arbeitsvertrag», in «Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik», XVII, 1902.
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febbraio 1918. Die nächste innerpolitische Aufgabe, in «Frankfurter Zeitung», 17 ottobre 1918. Waffenstillstand und Frieden, in «Frankfurter Zeitung», 27 ottobre 1918. Das neue Deutschland, in «Frankfurter Zeitung», 1° dicembre 1918. Zum Thema der a Kriegsschuld», in «Frankfurter Zeitung», 17 gennaio 1919. Der Reichspräsident, in «Berliner Borsenzeitung», 25 febbraio 1919. Die wirtschaftliche Zugehörigkeit des Saargebiets zu Deutschlands (discorso tenuto all’università di Heidelberg), 1919. Die Untersuchung der Schuldfrage, in «Frankfurter Zeitung», 22 marzo 1919. Bemerkungen zum Bericht der Komission der alliierten und assoziierten Regierungen über die Verantwortlichkeit der Urheber des Krieges. Segue una Vorbemerkung allo scritto, 20 maggio 1919. Das deutsche Weissbuch über die Schuld am Kriege, München, 1919 (Weber è autore dell’Introduzione). d) Diario e corrispondenza. Jungendbriefe. 1876–1893, hrg. von Marianne Weber, Tübingen, 1936. e) Opere complete. Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 voll., Tübingen, 1920–21; II ed. 1922–23; vol. I, III ed. 1922; IV ed. 1947. Gesammelte politische Schriften, hrg. von Marianne Weber, München, 1921. Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, hrg. von Marianne Weber, Tübingen, 1922. Gesammelte Aufsätze zur Sozialund Wirtschaftsgeschichte, hrg. von Marianne Weber, Tübingen, 1924. Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, hrg. von Marianne Weber, Tübingen, 1924. Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, II ed. rivista a cura di Johannes Winckelmann, Tübingen, 1951 (trad. ital. Il metodo delle
scienze storico-sociali, Torino, 1958). Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, IV ed. a cura di Johannes Winckelmann, Tübingen, 1956 (trad. ital. Economia e società, Milano, 1961). Staatssoziologie. Soziologie der rationalen Staates und der modernen politischen Parteien und Parlamente, hrg. von Johannes Winckelmann, Tübingen, 1956. Gesammelte politische Schriften, II ed. ampliata. Con un’introduzione di Theodor Heuss, riveduta a cura di Johannes Winckelmann, Tübingen, 1958. Rechtssoziologie, hrg. von Johannes Winckelmann, Tübingen, 1960.
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NOTA AL TESTO I saggi di sociologia religiosa di Max Weber sono raccolti nei Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 voll., ). C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1920–21, IV ed. 1947. Di essi sono qui tradotti i seguenti: - Vorbemerkungk - Die protestantische Ethik und der «Geist» des Kapitalismus, pubblicato per la prima volta in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», XXXXI, 1904–1905; - Die Wirtschaf tsethik der Weltreligionen. Einleitung, pubblicato per la prima volta in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», XLI, 1916; - Konfuzianismus und Taoismus, id., limitatamente ai capp. I-IV (pp. 276– 458); - Zwischenbetrachtung, id., tutti e cinque questi saggi sono raccolti nel vol. I; - Hinduismus und Buddhismus (vol. II), pubblicato per la prima volta in «Archiv für Sozial Wissenschaft und Sozialpolitik», XLI-XLII, 1916- 17, limitatamente alla parte I (pp. 1–133); - Das antike Judentum (vol. Ili), pubblicato per la prima volta in «Archiv für Sozial Wissenschaft und Sozialpolitik», XLIV-XLVI, 1917- 19; - Die Pharisäer (vol. Ili), pubblicato postumo nel 1921. Non viene riportato qui il breve saggio su «Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo» (Die protestantischen Seiten und der Geist des Kapitalismus, vol. I, pp. 207–236), che fu pubblicato per la prima volta con il titolo «Kirchen» und «Seiten» nel «Frankfurter Zeitung», 13–15 aprile 1906 e in seguito, un po’ ampliato, con il titolo «Kirchen» und «Seiten» in Nordamerika, in «Christlichen Welt», n. 20, 1906. Nella raccolta dei Gesammelte Aufzätze, questo scritto, con qualche ulteriore apporto, segue quello sull’Etica protestante, con una nota dell’autore intorno alle sue origini. Il saggio è un complemento del precedente, e vi si fa più volte riferimento. In particolare, annota Weber, il concetto di «setta», in contrapposizione a quello di «chiesa», veniva già esplicitato in maniera esauriente appunto nel saggio sull’etica protestante, ed era poi stato ripreso, nel frattempo, da Troeltsch nel suo Soziallehren der christlichen Kirchen (1905); sicché in questo breve scritto vengono solo riportati i principali dati che possono completare il resto.
Per quanto riguarda il saggio Confucianesimo e taoismo, sono stati qui tradotti i capitoli principali relativi alla struttura generale economica, sociale e culturale della Cina, al ceto dei letterati e al confucianesimo. Sono stati omessi i due ultimi capitoli che trattano più particolarmente delle eterodossie, del taoismo e del buddhismo. Del saggio Induismo e buddhismo si è tradotta solo la prima parte, relativa al sistema sociale indù. Si è tralasciato invece la seconda e la terza parte, dedicate rispettivamente alle dottrine di salvezza ortodosse ed eterodosse (jainismo e buddhismo, le due grandi eterodossie) degli intellettuali dell’India, e alle sette religiose asiatiche con il relativo culto del salvatore (il buddhismo Mahàyana come religione di missione esteso in particolare in Ceylon e in Indocina, in contrapposizione al buddhismo monastico, da «setta», Hìnayanak lo scarso successo del buddhismo stesso in Cina e in Corea e i suoi sviluppi in Giappone - sette zen, shin, ecc. - e nell’Asia interiore col lamaismo; la restaurazione ortodossa in India, lo sivaismo, il visnuismo e il ruolo dei guru). Tutti gli altri saggi compresi nella raccolta completa degli scritti di sociologia delle religioni di Weber sono stati tradotti integralmente. In questo contesto risulta quindi privilegiato, in qualche misura, oltre ai saggi teorici, il grosso lavoro sul giudaismo antico, a cui Weber si è dedicato negli ultimi anni della sua vita e che, pur nella sua notevole mole, è rimasto, così com’è, incompiuto. Al momento in cui è iniziato questo lavoro erano già stati tradotti in italiano la Vorbemerkung e il saggio Die protestantische Ethik und der «Geist» des Kapitalismus da Piero Burresi (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Roma, Edizioni Leonardo, 1945; II ed. Firenze, Sansoni, 1965). Era inoltre stata tradotta la Einleitung a Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen (L’etica economica delle religioni nel mondo, pubblicato in appendice a F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, II ed., Bari, Laterza, 1968). Qui sono state tradotte ex novo, integralmente, sia la Vorbemerkung («Osservazioni preliminari») che la Einleitung a Die W irtschaftsethik («Introduzione» a «L’etica economica delle religioni mondiali»). Si è anche proceduto ad un’accurata revisione della traduzione di Burresi de L’Etica, il cui testo viene qui presentato riveduto e aggiornato secondo quei criteri che sono stati tenuti presenti nell’insieme della traduzione e a cui si è cercato di rendere omogenei tutti i singoli saggi.
È ora uscita, a lavoro compiuto, una traduzione italiana di Induismo e buddhismo (Roma, Newton Compton, 1975), che non ho avuto modo di consultare ai fini della presente traduzione. La traduzione è stata condotta integralmente sull’edizione tedesca dei Gesammelte Aufsätze; ad essa ci si è strettamente attenuti per quanto riguarda la divisione in parti o sezioni, capitoli e paragrafi, i relativi titoli e le note. Per motivi di maggiore chiarezza e scorrevolezza abbiamo comunque ritenuto opportuno inserire i sottotitoli dei paragrafi, raggruppati all’inizio delle diverse sezioni o capitoli con l’indicazione della pagina corrispondente, direttamente nei luoghi indicati nel testo, anche dove non vengono richiamati esplicitamente, onde rendere meno pesante la lettura di certe parti, in particolare i veri e propri blocchi monolitici di scrittura ininterrotta relativi all’induismo e al giudaismo, senza per questo alterare in alcun modo la struttura del testo weberiano, ma rendendola semplicemente più evidente secondo le indicazioni dell’autore stesso. Ci sembra utile dare qui di seguito alcune indicazioni per quanto riguarda la genesi di questi saggi e il loro inquadramento storico-cronologico, in particolare il periodo della produzione weberiana in cui si collocano, nonché le vicende piuttosto tormentate delle varie stesure e pubblicazioni (che si collocano in buona parte nel periodo che vede lo scoppio della prima guerra mondiale e proseguono fino ed oltre la morte dell’autore). I saggi weberiani dedicati alla sociologia delle religioni si dividono in due periodi: quello degli studi sul protestantesimo e quello delle indagini sulle religioni orientali, con un intervallo di quasi una decina d’anni che separa il primo periodo dal secondo. Al primo periodo appartengono il saggio dedicato all’Etica protestante pubblicato nel 1904 e quello complementare sulle Sette protestanti apparso nel 1906. Il saggio sull’etica protestante si colloca in un periodo che si può definire come una «nuova fase» della produzione weberiana, dopo che una grave malattia nervosa aveva costretto l’autore alla rinuncia all’insegnamento e ad un lungo periodo di inattività, e man mano che i suoi interessi andavano orientandosi al di là dei suoi originari studi giuridico-economici verso quelli che potremmo definire più propriamente sociologici. Tra la preparazione e la pubblicazione del saggio sull’etica protestante si colloca il viaggio di Weber in America, da cui egli trasse tutta una serie di spunti che trovano riflessi nell’opera e che non sono solo il frutto delle sue ricerche nelle biblioteche dei
Colleges fondati dalle sette protestanti, ma anche delle sue osservazioni del sistema sociale e del «modo di vita» americano, in cui egli vede i riflessi del puritanesimo e dell’etica dei «Padri pellegrini». Queste ultime si traducono in una serie di fatti, episodi, aneddoti, costumi e usanze osservati che vengono riportati qua e là in nota nel saggio. In linea generale poi, il saggio, così come appare nei Gesammelte Aufsätze, è stato ampliato con l’introduzione di numerose e poderose note di chiarificazione e di risposta ai critici. A questo riguardo però Weber tiene anche a sottolineare che nel corso della revisione non ha soppresso, cambiato, indebolito nessuna parte o affermazione, né aggiunto alcunché di diverso intorno a tutto quanto riguarda i punti essenziali del suo saggio. Va anche aggiunto che le note riflettono soltanto una parte della polemica che si è andata sviluppando da quando il saggio fece la sua prima comparsa e che è continuata fino ai giorni nostri (per ulteriori indicazioni in merito si rinvia alla nota bibliografica). Nel saggio Weber, che pur riconosce «l’importanza fondamentale del fattore economico» aggiungendo che però non va dimenticata la correlazione inversa, si propone di studiare «l’influenza di certe idee religiose sullo sviluppo di uno spirito economico, e Yethos di un sistema economico», basandosi quindi sostanzialmente sul secondo tipo di correlazione. Chi vi ha visto un rovesciamento totale della teoria marxista, o comunque la critica più radicale che sia mai stata fatta alle teorie di Marx; chi ha accusato Weber di una visione troppo unilaterale, per cui egli avrebbe semplicemente sostituito ad un fattore dominante (l’economia) un altro (l’etica religiosa). Anche tra i marxisti la polemica ha avuto vari aspetti, dal rifiuto totale all’accettazione di una parte delle teorie di Weber come conglobagli in quelle marxiste (dove l’errore di Weber sarebbe stato di dare eccessiva importanza alle sovrastrutture che semplicemente reagiscono «di ritorno» sulle strutture economiche). Accanto alla nota polemica di Lukàcs, è interessante in proposito quanto dice Tawney nel suo F ore word alla traduzione inglese d eli’Etica protestante di Talcott Parsons (The Protestant Ethic and thè Spirit of Capitalism, London, Unwin, 1930). Se infatti il saggio di Weber, afferma Tawney, si limita a studiare il ruolo dei movimenti religiosi nel creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di un nuovo tipo di civiltà economica, e se Weber si tutela accuratamente dalla critica di sottovalutare il parallelo sviluppo di altri fattori nella sfera economico-industriale, tuttavia egli sembra porre «un’enfasi troppo esclusiva sulle forze intellettuali ed etiche» in questo saggio, che in particolare «appare
talvolta troppo sottile nel suo ascrivere ad influenze intellettuali e morali degli sviluppi che erano il risultato di forze più prosaiche e mondane e che si manifestavano, indifferenti al carattere dei credi religiosi, ovunque le condizioni esterne offrivano loro un ambiente congeniale». In definitiva gli studi weberiani di sociologia religiosa di questo periodo, cioè quelli dedicati al protestantesimo, se pure in termini puramente quantitativi, rispetto all’insieme dell’opera, e cioè in confronto al secondo periodo dedicato alle religioni non cristiane, rappresentano una parte molto più ristretta, hanno tuttavia un carattere fondamentale, che va sottolineato, un carattere «paradigmatico» anche sul piano metodologico come afferma Marianne Weber nella sua biografia del coniuge, aggiungendo che con il saggio sull’etica protestante Weber si proponeva lo scopo più vasto, che perseguirà sempre, di un «superamento positivo» della concezione materialistica della storia. Tale contributo, in merito alla polemica suaccennata, può apparire come notevole indice di una preoccupazione costante e insieme latente di Weber, se si riflette al fatto che in tutti questi saggi orientali su un cruciale problema interpretativo, il nome di Marx non appare praticamente mai. Non solo il saggio sull’etica protestante ha quindi un valore fondamentale, ma si potrebbe aggiungere, con Eisenstadt, che tutte le opere posteriori di sociologia religiosa di Weber «sembrano essere innanzitutto - se non esclusivamente - un derivato del suo interesse per la tesi dell’etica protestante» (cfr. Religione e mutamento sociale in Max Weber in «La Critica sociologica», nn. 25–28, primavera 1973-inverno 1973’74)* Quando Weber riprende i suoi studi di sociologia delle religioni, intorno al 1911 presumibilmente, secondo la testimonianza di Marianne Weber, si scosta dall’Europa e dal cristianesimo, su cui nel frattempo ha lavorato Troeltsch di cui è uscito il contributo fondamentale sulle dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, ed affronta invece le religioni non cristiane del mondo orientale. Incomincia con la Cina, con l’intento di proseguire con l’India, il giudaismo, l’Islam e il cristianesimo primitivo. Le prime parti di questa nuova serie di saggi, nel loro insieme, quelle che poi costituiranno il primo volume dei Gesammelte Aufsätze, vengono portate a termine, in linea di massima, nel 1913; com’è noto però la pubblicazione, sull’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik la rivista di Jaffé di cui Weber era coeditore insieme a Sombart, iniziò soltanto due anni dopo, nel 1915. In quel periodo Weber iniziò gli studi sull’induismo e il buddhismo e due anni dopo intraprese quelli sul giudaismo.
Lo scoppio della guerra e il servizio prestato come direttore dell’ospedale militare di Heidelberg impedirono allora a Weber di procedere alla revisione di alcune parti, come era nelle sue intenzioni. In seguito gli altri saggi vennero pubblicati man mano, in singole parti, sull’Archiv, nel periodo 1916–19. Vennero poi raccolti sotto il titolo di Gesammelte Aufsätze zur ReligionsSoziologie per i tipi dell’editore Mohr di Tübingen. Il primo volume della raccolta uscì nel 1920, pochi giorni prima della morte di Weber. L’autore poté perciò prepararlo personalmente per la stampa, curarne l’impostazione complessiva e anche rivedere, correggere e in certi casi rielaborare i singoli saggi, cosa che fece in misura notevole, come abbiamo visto, per il saggio sull’etica protestante, e che fece anche in parte per il saggio sulla Cina, apportando alcune correzioni e proponendosi di chiarire e completare le parti dedicate alla descrizione delle condizioni cinesi. Questo primo volume contiene, oltre ai due saggi sukYEtica protestante e le Sette protestanti, la Introduzione alla serie di saggi su L’etica economica delle religioni mondiali, il saggio su Confucianesimo e taoismo., e la Zwischenbetrachtung., il saggio teorico «intermedio». Alla raccolta di scritti venne inoltre premessa una Vorbemerkung, ossia le «osservazioni preliminari» che rappresentano l’introduzione generale all’insieme complessivo degli scritti di sociologia delle religioni. Tale introduzione presumibilmente venne scritta per ultima, nel 1920, come risulta anche dal suo carattere complessivo mirante a chiarire lo scopo ed i problemi di fondo di tutta la serie di saggi. Essa mette anche in luce il filo conduttore che lega i saggi del primo periodo a quelli del secondo. Gli altri volumi della raccolta, invece, contenenti rispettivamente i saggi Hinduismus und Buddhismus e Das antike fudentum, sono stati pubblicati ambedue postumi, nel 1921, a cura di Marianne Weber. I saggi sono quindi rimasti praticamente invariati rispetto alla prima stesura, senza che Weber abbia potuto procedere alla revisione approfondita che si era ripromessa. L’opera sul giudaismo, inoltre, negli intenti di Weber doveva essere completata con l’analisi dei Salmi e del Libro di Giobbe, a cui doveva seguire uno studio sul giudaismo talmudico. Nulla di ciò è stato fatto. Fu trovato invece un capitolo postumo, sui Farisei, che doveva rappresentare il passaggio agli studi successivi e che, compiuto in sé, è stato pubblicato in appendice al terzo volume della raccolta. Il ciclo dell’analisi delle cinque grandi religioni mondiali, così com’era negli intenti ambiziosi di Weber, è rimasto dunque incompiuto, mancando totalmente anche le parti relative all’Islam e al
cristianesimo antico. Weber forse, secondo la frase riportata da Marianne Weber nella prefazione al terzo volume, «nella sua sovrana e disinteressata pacatezza nei confronti del proprio destino personale», avrebbe detto come altre volte nel corso della sua vita: «Quello che non ho fatto, altri lo faranno». Malgrado il carattere talvolta frammentario e incompiuto nella stesura dei singoli saggi, la loro pubblicazione spezzettata e la mancata revisione generale dell’autore, specialmente per quanto riguarda i saggi sulle religioni orientali, tuttavia la fondamentale unitarietà dell’opera e della problematica di fondo che muoveva Weber nelle sue indagini appare estremamente chiara nella Vorbemerkung. In essa l’autore pone il problema generale dello sviluppo della civiltà occidentale: perché si sono avuti in Occidente, e solo in Occidente, dei fenomeni culturali che appaiono «in una linea di sviluppo, significato e valore universali» ? II nodo del problema è dato dal particolare razionalismo occidentale: razionalismo che ha permeato tutte le sfere dell’esistenza portando a sviluppi sconosciuti altrove. Il capitalismo, «la forza più decisiva della nostra vita moderna», viene introdotto qui come uno degli aspetti di questo sviluppo. Il problema è questo: perché queste «vie di razionalizzazione» non sono state imboccate altrove, quali sono gli ostacoli, e principalmente gli ostacoli «spirituali», le forze magiche e religiose e le idee etiche basate su di esse, che hanno ostacolato questo processo, questo tipo particolare di razionalismo (perché, spiega Weber, vi possono essere vari tipi di razionalizzazione, per esempio quella della contemplazione mistica). Come si spiega geneticamente il particolare razionalismo occidentale e, in maniera più specifica, la sua forma moderna? Weber, come abbiamo visto, pur riconoscendo l’importanza fondamentale del fattore economico, aggiunge che non va dimenticata la correlazione inversa. La quale poi è in realtà quella che costituisce la base del primo saggio, quello sull’etica protestante. Bisogna però notare che l’intento di Weber non è quello di proporre un solo fattore esplicativo per spiegare certi sviluppi (qui, in particolare, il capitalismo moderno) e giustamente è stato sottolineato da Cavalli (Max Weber. Religione e società, Bologna, Il Mulino, 1968), il «plurifattorialismo» di Weber. Il quale del resto, nella Vorbemerkungy dichiara esplicitamente di trattare, nei due saggi sull’etica e le sette protestanti, «solo un aspetto della concatenazione causale». Aggiunge poi che studi successivi, quelli dedicati all’etica economica delle religioni mondiali, si
propongono «sotto forma di un esame delle relazioni tra le religioni più importanti e la vita economica e la stratificazione sociale del loro mondo circostante, di seguire ambedue i nessi causali, nella misura necessaria al fine di trovare dei punti di confronto con lo sviluppo occidentale». Nelle grandi ricerche comparate viene in luce la cultura enciclopedica di Weber che gli permette di compiere un’analisi approfondita ed una comparazione sistematica di tutti gli aspetti storici, economici e sociali delle culture studiate. Forse anche per l’ampia portata di queste ricerche che investono campi spesso aperti solo allo specialista, è idea comune che esse abbiano un carattere meno unilaterale di quello sull’etica protestante. Oltre all’inquadramento storico-culturale generale che ne facilita la lettura a chi è estraneo alla materia, maggior rilievo sembra anche dato all’influenza di fattori economici. Tuttavia i pregi dell’opera dovuti alla vastità delle conoscenze di Weber hanno anche un loro risvolto negativo, in quanto l’autore talvolta indulge in descrizioni troppo dettagliate e particolareggiate, che finiscono per deviare alla linea della ricerca, cui fa ritorno spesso dopo lunghe divagazioni attorno al punto di partenza: appare così una certa mancanza di organizzazione nella presentazione della materia. Va aggiunto poi che Weber possedeva, sì, una vastissima cultura, ma non era un orientalista e gli mancavano quindi gli strumenti culturali necessari per questo tipo di indagine, a cominciare dalla lingua: le sue ricerche sono quindi basate su traduzioni, su fonti indirette ed in definitiva su di un materiale decisamente più ristretto di quello esistente alla sua epoca. Weber stesso si rende conto di questi limiti e li premette esplicitamente ai suoi saggi; tuttavia rimane il fatto che non solo accumula una quantità confusa di dettagli slegati, ma che molto spesso i particolari sono inesatti o errati ed influiscono anche sulle generalizzazioni che egli ne trae. Naturalmente Weber, che non era né un sinologo né un indologo, non poteva andare esente da tali rilievi, né va dimenticato che gli si dà atto in generale di aver fornito un notevole contributo alla conoscenza delle civiltà orientali. I suoi studi sulle basi sociologiche della Cina, in particolare sullo stato burocratico-patrimoniale, sul sistema delle prebende e sul ceto dei letterati - da cui poi si passa a interessanti paragoni con la casta dei brahmani nell’ambito del sistema sociale indù - sono ricchi di informazioni preziose oltre a contenere alcuni degli spunti più interessanti della teoria weberiana per i rapporti messi in luce tra religione e classe dominante. Anche le sue dettagliate relazioni sulle forme di organizzazione economica si prestano a
sviluppi, in rapporto allo studio delle religioni, che Weber stesso non sempre mette pienamente in luce - anche per quella certa disorganizzazione di cui si è parlato - ma che possono fornire materiale per analisi di vasto interesse. Ciò che conta qui è l’uso che Weber fa del materiale a sua disposizione e questo viene messo in luce dai due saggi teorici in cui Weber, basandosi sulle sue conoscenze approfondite e sul vasto materiale di cui dispone, ci dà un sunto dei concetti fondamentali su cui si basa la sua sociologia delle religioni, nella Einleitung, ed elabora, nella Zwischenbe- trachtung, una teoria del «rifiuto religioso del mondo» nei suoi diversi gradi e orientamenti. In ambedue questi saggi Weber, basandosi su una comparazione sistematica dei tipi di religiosità che si riscontrano nelle grandi religioni mondiali, è in grado di compiere delle generalizzazioni da cui emergono i suoi concetti-chiave, che non investono solamente la sociologia religiosa. Così, per esempio, nella Einleitung, accanto ai concetti della teodicea, della religiosità di redenzione, dei «beni di salvezza», della religiosità dei «virtuosi» contrapposta a quella di «massa», tratta anche il concetto fondamentale del razionalismo con i suoi diversi significati, chiarendo quali sono i tipi di razionalizzazione che interessano ai fini di questi saggi; sviluppa il discorso generale sui tipi di autorità; elabora la distinzione tra «ceto» e «classe». Ricordiamo infine che il concetto basilare di «etica economica» di una religione, secondo l’intento di Weber, deve svilupparsi in modo progressivo nel corso dell’intera esposizione. Tuttavia egli premette subito che la formazione di un’etica economica è condizionata da fattori molteplici: non è «semplice funzione di forme economiche di organizzazione» come «non è mai stata condizionata solo religiosamente». Una religiosità, poi, non è semplice funzione della posizione sociale di un dato strato che è apparso «come suo caratteristico portatore» e soprattutto non rappresenta mai solo l’«ideologia» di tale strato, il «riflesso» dei suoi interessi materiali o ideali. Il «vincolamento completo e generale dell’etica religiosa alle classi» viene quindi rifiutato, in contrapposizione a due teorie distinte: il materialismo storico di Marx e, sul piano psicologico, la teoria del ressentiment di Nietzsche di cui Weber fa un’acuta analisi. Altrettanto felice dal punto di vista dell’organizzazione del vasto materiale emerso dall’indagine comparata sulle religioni mondiali appare la Zwischenbetrachtung che si situa dopo il saggio sulla Cina ma è anche scritta in vista degli altri saggi, in particolare quello sull’India. Qui Weber, muovendo dalle religioni di rifiuto del mondo (di cui l’India è stata la culla) elabora una tipologia dell’ascetismo e del misticismo e indaga sugli orientamenti del
rifiuto del mondo nelle diverse sfere dell’esistenza: economica, politica, estetica, erotica e intellettuale. Conclude tornando alle forme di teodicea già trattate nell’introduzione. Bisogna notare ancora una volta come le tipologie qui elaborate si basino sull’ampio materiale estensivamente esposto nei saggi sulle varie religioni che trova in questa sintesi i suoi migliori sviluppi. Un particolare accenno merita il saggio sul giudaismo che da solo costituisce un buon terzo dell’opera complessiva di sociologia religiosa di Weber. è questa l’opera che Weber ha affrontato negli ultimi anni della sua vita, dopo aver analizzato le altre grandi religioni; non sfugge l’interesse particolare che egli dedicò a questa religione, a cui riconosce un valore e un’autonomia che non sfociano nella pura e semplice derivazione da essa delle altre due grandi religioni, il cristianesimo e l’Islam. Non a caso questo saggio si presenta come il più voluminoso della raccolta e tuttavia incompiuto, poiché intere parti importanti non sono state affrontate e il frammento sui Farisei rappresenta soltanto il preludio a tutto lo studio che doveva essere dedicato al giudaismo post-diaspora. Weber si muove qui in una tematica che gli è più familiare di quella delle altre religioni non cristiane, anche per quanto riguarda le fonti storiche e critiche e tutto il dibattito in materia, e ciò si riflette nell’abbondanza e nella precisione del materiale fornito. Ma il valore di questo saggio sta anche nella sua attualità, e nella modernità di certe analisi weberiane per quanto riguarda lo specifico del problema ebraico, dove è in grado di dire qualcosa di nuovo anche in merito all’interpretazione specifica del giudaismo, al di là dell’uso che egli fa delPindagine ai fini dello sviluppo dell’apparato concettuale e delle tesi sui rapporti tra etica economica e sviluppo capitalistico. In questo senso il saggio si differenzia da quelli sulla Cina e l’India, nei quali Weber riconosce di non poter dire nulla di nuovo per 10 «specialista», l’indologo o il sinologo, e di doversi limitare a usare 11 materiale a più generali fini interpretativi. Questa sostanziale differenza trova conferma in un altro fatto, se è vero, come scrive Marianne Weber, che in quest’ultimo saggio si trovano anche concetti legati all’esperienza che Weber stava vivendo negli anni in cui lo scrisse, quella dell’azione politica legata ai grandi eventi storici della prima guerra mondiale e dei mutamenti politici avvenuti in Germania. Si veda a questo proposito l’analisi della figura carismatica del profeta. L’interpretazione tutta «politica» della sua azione acquista in questo senso un rilievo particolare. La scelta di dare ampio spazio a questo saggio traducendolo integralmente,
in questa raccolta, ci sembra giustificata da queste considerazioni. Ciò anche tenuto conto del fatto che esso risulta tra i meno conosciuti della produzione weberiana, proprio in relazione alla tematica che sviluppa (molto più noti, ad esempio, sono i contenuti del saggio sulla Cina, in particolare per quanto riguarda il concetto-chiave di burocrazia, fondamentale nell’opera weberiana). Tale tematica andrebbe forse ricollegata in maniera più approfondita proprio alla sociologia politica di Weber, almeno per alcuni aspetti. Riteniamo che la posizione che questo scritto occupa nella presente raccolta possa anche servire in tal senso. Infine, per quanto riguarda una serie di criteri tecnici e filologici, per la presente traduzione, si è cercato di attenersi il più possibile a quella che è andata ormai affermandosi come la terminologia ufficiale weberiana. In particolare si è tenuta presente VAvvertenza premessa a: Max Weber, Economia e società, a cura di Pietro Rossi, Milano, Comunità, 1961, che presenta un’ampia serie di criteri terminologici ormai adottati a livello generale. Da questa ci si è discostati soltanto quando lo esigeva il senso particolare del testo, oltre ad adottare alcuni terminichiave che differiscono da quelli usati nel testo citato, per motivi di chiarezza e di scorrevolezza oltre che di precisione. Inoltre si è fatto riferimento, per un confronto a carattere generale e terminologico ai fini della traduzione, ai saggi critici già citati: F. Ferrarotti, Max Weber e il destino della ragione, op. cit., e L. Cavalli, Max Weber, Religione e società, op. cit. Si è anche tenuto conto, per un raffronto, della traduzione inglese dei saggi sulle religioni orientali, rispettivamente: The Religión of China, a cura di H. H. Gerth, New York, The Free Press, 1951; The Religión of India, a cura di H. H. Gerth e D. Martindale, New York, The Free Press, 1958; AncientJudaism, a cura di H. H. Gerth e D. Martindale, New York, The Free Press, 1952. La traduzione inglese degli altri saggi compresi in questa raccolta (oltre a quella, già citata, di T. Parsons, dtlYEtica protestante) si trova nell’antologia From Max Weber, a cura di H. H. Gerth e C. Wright Mills, New York, Oxford Press, 1946, che comprende anche lo scritto sulle sette protestanti. Indichiamo qui di seguito una serie di criteri adottati per la traduzione di termini-chiave, elencando i termini la cui traduzione si scosta dalla terminologia di base sopra citata. Così il termine Chance oltre che con «possibilità» o «chance», viene
tradotto con «occasione», «opportunità», che sembra più preciso, soprattutto in certi contesti, del termine generico di «possibilità», in particolare quando si tratta di un’«occasione» saltuaria od unica. L’aggettivo idealtypisch viene tradotto con «idealtipico» essendo ormai tale termine, di nuovo conio, entrato nel linguaggio sociologico generale (cfr. F. Ferrarotti, op. cit.) in sostituzione a quella letterale di «tipicoideale». Beziehung, più spesso che con «relazione» viene tradotto con «rapporto» in senso del tutto analogo. Gebilde solitamente viene tradotto con «struttura» e soziale Gebildung con «struttura sociale»; anche in questo caso si è scelto un termine che ci è parso più preciso e adeguato nell’ambito del linguaggio moderno delle scienze sociali. Genossenschaft è tradotto con «associazione», Genosse con «membro del gruppo» (in questione: Dorf genösse = membro del villaggio). Da notare che anche Verband viene reso con «associazione» in determinati contesti. Così ad esempio, quando Nachbarschaftverband non sta a indicare il «gruppo di vicinato» (seguendo la terminologia di Economia e società) ma bensì la «associazione tra vicini», cioè in senso più ampio, come formazione volontaria retta da leggi particolari. Verfassung, oltre che con «costituzione» viene tradotto anche con «organizzazione», «sistema» in alcuni casi particolari; per esempio Agrarverfassung con «sistema agrario». Anspruch è reso spesso con «rivendicazione». Per quanto riguarda la terminologia economica, i criteri sono generalmente analoghi a quelli del testo citato; tuttavia Unternehmung viene tradotto con «impresa» (e non «intrapresa»), Einkommen in genere viene tradotto con «reddito» e Einkünfte con «introiti». Criteri un po’ diversi sono stati adottati invece nell’ambito della terminologia del potere. Herrschaft, oltre che con «potere», viene tradotto con «dominio» in casi specifici (Mandschu-Herrschaft - dominio Manciù). Macht invece viene tradotto ora con «potere» (politische Macht = potere politico) ora con «forza» (plebeische Machte = forze plebee); così Machtstellung con «posizione di potere». Per le due forme di feudalesimo, Lehen è stato tradotto anche qui con «feudo» mentre Pfründe è reso con «prebenda», e lo stesso si è fatto per i suoi composti e derivati; anche questa volta si è preferito un termine tecnico dal significato preciso ed univoco e largamente adottato negli studi weberiani (cfr. F. Ferrarotti, op. cit.; L. Cavalli, Max Weber. Religione e società, op. cit., 1968). Per altri termini ho poi tenuto conto del fatto che essi o sono stati coniati
ex novo dal Weber o «rivendicati» da lui, e cioè impiegati in senso del tutto nuovo e particolare (questo può dirsi, in primo luogo, per il concetto-chiave di Weber Idealtypus, reso con l’espressione «tipo ideale» e che nel linguaggio sociologico non viene quasi mai impiegato in senso diverso da quello weberiano). Alcuni di questi termini sono intraducibili e devono essere resi o con un sinonimo più generico o con lunghe perifrasi se ci si vuole attenere ad un linguaggio tradizionale: il testo ne risulta appesantito e perde della sua forza. Ho quindi optato per termini nuovi a carattere specifico ogni volta che ho potuto rifarmi a testi autorevoli per il loro contributo alla sociologia di Max Weber. Così ad esempio ausseralltàglich è stato tradotto con «extraquotidiano», Veralltdglichung (des Charisma) con «routinizzazione» (del carisma) (cfr. F. Ferrarotti, op. cit.; Cavalli, op. cit.), termini che rendono indubbiamente meglio il senso particolare dei concetti weberiani qui espressi. Al Cavalli faccio ancora riferimento quelle volte in cui, per esigenze particolari del contesto, Stand viene tradotto invece che con «ceto» (che è il termine generalmente preferito) con «gruppo di status» o, in certi composti o derivati particolari, semplicemente con status. Un termine che in questa raccolta specifica di saggi ha un’importanza particolare è Sippe, che in Economìa e società viene reso con «gruppo parentale» mentre il Cavalli lo traduce con l’espressione «grande famiglia». Ho preferito adottare un terzo termine, «schiatta». Tale scelta, entro certi limiti, è puramente convenzionale. Sippe in senso tecnico, preciso, è intraducibile. Le espressioni che altrove si sono usate per sostituirla avrebbero appesantito in maniera eccessiva un testo in cui tale termine è forse quello che ricorre con maggiore frequenza. Ho quindi scelto il termine «schiatta» rifacendomi al linguaggio antropologico ove indica per l’appunto la famiglia «allargata» anche ai membri più lontani: in tutto il testo il termine viene usato unicamente in questo senso. Sippengenosse, per esempio, rifacendosi ad un altro termine già citato, sarà tradotto con «membro della schiatta». La scelta del termine poi appare ancora più adeguata se esaminiamo i rapporti che intercorrono tra Sippe da un lato, Stamm e Geschlecht dall’altro. Stamm in questo contesto va reso evidentemente con «tribù» (e non con «stirpe»). Tale significato appare univoco se si esamina, in Hindui- smus und Buddhismus il capitolo intitolato «Essenza della casta rispetto alla “tribù”, alla “corporazione” e al “ceto”», rispettivamente: Stamm, Zunft e Stand. Vi si legge: «Una tribù
(Stamm) è o era perlomeno in origine legata dal dovere della vendetta del sangue, direttamente o indirettamente con la mediazione della schiatta (Sippe)». La tribù è quindi un gruppo sociale più ampio della schiatta e la comprende. Il significato appare chiaro anche quando Weber parla delle Gaststàmme, «tribù ospiti» (e Gastvolk = popolo ospite). Inoltre il termine Stamm viene usato in maniera inequivocabile per designare gruppi sociali primitivi. Questa versione è analoga anche alla traduzione inglese (cfr. in proposito la nota introduttiva di H. H. Gerth a The religion of China, op. cit.) dove Stamm è tradotto con tribe e Sippe con sib (quest’ultimo termine, intraducibile in italiano, corrisponde con la massima precisione a quello tedesco). Da notare che Stand a sua volta è tradotto con status group, gruppo di status. Geschlecht viene distinto da ambedue i termini precedenti e tradotto con «stirpe» o «casata» (in riferimento a famiglie nobili) dove l’accento cade sulla discendenza, sulla particolare estrazione, più che sulla struttura familiare o tribale esistente come forme di organizzazione. In rarissimi casi, per i composti e derivati di Sippe, si è impiegato semplicemente l’aggettivo «familiare». Leiturgie tradotto anche qui con «liturgia» e leiturgisch con «liturgico», ed i loro derivati, hanno sempre qui il significato definito da Pietro Rossi: «copertura del fabbisogno mediante prestazioni di lavoro imposte ai sudditi». Lo stesso vale per oikos lasciato nella sua forma originale e definito «comunità orientata in vista della copertura del fabbisogno del signore». Frondienst è il «lavoro servile obbligatorio». Tuttavia quando si parla genericamente di Fron (il termine ricorre molto spesso) si è preferito tradurre con il termine tecnico di corvée. Nella terminologia religiosa Zauberei è stato tradotto con «magia» o «incantesimo», Zauberer con «stregone» e Magier con «mago», secondo il contesto. Infine per una serie particolare di termini-chiave, non citati da Pietro Rossi, che ricorrono con frequenza particolare in questi testi, si è anche stabilita una terminologia univoca in relazione al loro senso particolare. Il più importante è Beamte, in particolare nel testo sulla Cina. è stato tradotto con «funzionario» quasi dappertutto, mentre il termine «burocrate» adottato dal Cavalli viene usato solo quando si parla genericamente dei «burocrati» come ceto. Gilde e Zunft sono tradotti rispettivamente con «gilda» e «corporazione».
Famiìienkommunion ha qui generalmente il senso di «patrimonio familiare comune». Infine per le suddivisioni amministrative si segue un criterio convenzionale volto a rendere i diversi termini in maniera univoca (poiché tali suddivisioni non corrispondono necessariamente a quelle tedesche cui Weber fa riferimento). Così Bezirk è stato tradotto con «circoscrizione» in gene re e Verwaltungsbezirk con «distretto amministrativo)); Sprengel con «distretto» e Kreis con «circondario». Una particolare attenzione viene prestata ad alcuni termini che ricorrono frequentemente in particolare nel saggio sull’etica protestante, di cui si è curata la revisione, ma che vengono poi ripresi nei saggi successivi. Innanzitutto i derivati di weltlich, «mondano», e soprattutto la coppia innerweltlich («intramondano») e ausser weltlich («ultramondano»); così innerweltliche Ascese è tradotto con «ascesi intramondana». Gli altri due concetti-chiave accoppiati sono Gesinnungsethik, reso con «etica dell’intenzione» e, in contrapposizione, Verantwortungsethik, «etica della responsabilità». Entzauberung è tradotto con «disincantamento». Il concetto di Bewährung è reso con «comprova» o «conferma» (della vocazione). Infine Erwerb, tradotto con «guadagno» o «profitto» è reso anche con «acquisizione» (soprattutto nei derivati «acquisitivo»). Erlösung è tradotto con «redenzione», così Erlöser è «redentore»; mentre per Heil e i suoi derivati si traduce con «salvezza» (Heilsgüter, «beni di salvezza», Heilsmethodi«metodica della salvezza»), anche se in determinati casi Heil acquista il significato più generale di «fortuna» (benessere, prosperità); Heiland è il «salvatore». Alcuni composti del termine Charisma hanno un’importanza particolare: Erbcharisma è il «carisma ereditario» (e erb charismatisch è reso con «carismatico-ereditario»); Gentilcharisma è tradotto con «carisma familiare». Un termine ricorrente molto di frequente nel saggio sulla Cina è fürstlicher Mann, «uomo nobile», alla lettera «figlio di principe», con le sue varianti vornehmer o höhere Mann, cioè l’«uomo superiore» della dottrina confuciana. Lo si è reso anche, secondo la dizione tedesca che deriva direttamente da quella cinese, con «uomo principesco». Infine, nel saggio sul giudaismo, un termine fondamentale è Bund, con cui Weber traduce la parola ebraica berith, e che viene tradotto con «patto»,
ancora una volta il termine più vicino a quello originario. Talvolta tuttavia esso assume il significato di «lega». Il berith è il patto di Jahvè con Israele; ma Bund designa anche la lega israelitica: così Bundeskriesgott è il «dio guerriero della lega» o «dio della confederazione in armi», come traduce Cavalli - noi qui riserviamo il termine «confederazione» per tradurre Eidgenossenschaft mentre Bundesbuch è il «Libro del Patto». Il termine talvolta è anche sinonimo di «alleanza»: così nella parola Bundeslade che nella terminologia corrente è l’«Arca del Patto» o «Arca dell’Alleanza». Tuttavia per motivi di omogeneità e chiarezza il termine «alleanza» viene preferito come traduzione di Bündnis. Ancora nel saggio sul giudaismo acquista rilievo la distinzione dei vari tipi di profeta e della relativa profezia. Heilsprophet è il «profeta di salvezza» e Heilsprophetie la «profezia di salvezza» (o di buona fortuna); di contro Unheilsprophet è il «profeta di sventura». Schriftpropheten è tradotto con «profeti scrittori». Per altri termini particolari che ricorrono solo occasionalmente le necessarie chiarificazioni vengono date in nota. Ricordiamo infine che Weber non era un orientalista; come egli stesso sottolinea, per le ricerche sulla Cina e l’India ha dovuto fare riferimento esclusivamente a fonti tradotte. Potè riprendere a lavorare sulle fonti originali solo nella ricerca sul giudaismo, grazie alla sua conoscenza dell’ebraico di cui aveva intrapreso lo studio anni prima, in relazione a suoi interessi di allora intorno a certe controversie religiose. Tuttavia egli stesso afferma che anche le sue conoscenze dell’ebraico sono del tutto insufficienti. Di conseguenza i numerosi termini cinesi, sanscriti, ebraici ecc. che ricorrono nell’opera non seguono un criterio di trascrizione rigorosamente omogeneo, né tantomeno, ovviamente, si rifanno alle norme scientifiche internazionali attualmente in uso, ma sono perlopiù trascritti secondo la grafia tedesca, a cui si mescolano però traslitterazioni francesi, inglesi o altre, a seconda delle fonti utilizzate. Ciò presenta talvolta notevoli difficoltà d’interpretazione per alcuni riferimenti, sicché nell’edizione italiana si è ritenuto opportuno rifarsi per quanto possibile ai criteri scientifici di trascrizione attualmente in uso, salvo per alcuni nomi o termini di uso corrente o comunque molto noti, per i quali si è adottato la forma più comune o comunque una più semplice di quella ufficiale. In particolare, per la traslitterazione italiana dei termini cinesi si segue qui Wade-Giles che è adottato a livello internazionale, mentre per i nomi
geografici ci si rifà prevalentemente al sistema delle poste cinesi. Ringrazio vivamente il prof. Lionello Lanciotti che ha gentilmente rivisto tutta la terminologia cinese del saggio Confucianesimo e taoi- smo. Sono inoltre molto grata al prof. Laxman Mishra per la revisione delle parole sanscrite e dei termini relativi alle lingue indiane di Induismo e buddhismo; e al dott. Augusto Segre per quella dei numerosissimi termini ebraici contenuti nel lungo saggio sul Giudaismo antico. S’intende che essi non sono responsabili di qualunque svista in cui si possa essere incorsi in fase di redazione finale dell’opera.
OSSERVAZIONI PRELIMINARI
Nel trattare i problemi della storia universale, il figlio della moderna cultura europea formulerà inevitabilmente e a ragione la seguente domanda: per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra d’Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali - almeno come ci piace raffigurarceli - si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali? Soltanto in Occidente esiste una «scienza» a quello stadio di sviluppo che noi oggi riconosciamo come valido. Conoscenze empiriche, riflessioni sui problemi del mondo e della vita, saggezza filosofica e anche teologica della massima profondità (limitata, questa, a forme embrionali nell’Islam e in alcune sette indiane, mentre lo sviluppo completo di una teologia sistematica è proprio solo del cristianesimo influenzato dall’ellenismo), insomma sapere e osservazione di grandissima finezza si sono riscontrati anche altrove, soprattutto in India, in Cina, a Babilonia, in Egitto. Ma all’astronomia babilonese, come a tutte le altre, mancavano quelle basi matematiche che i Greci furono i primi a darle, e ciò rende ancora più sorprendente lo sviluppo stesso della scienza degli astri babilonese. Alla geometria indiana mancava la «dimostrazione» razionale: un altro prodotto dello spirito ellenico come pure la meccanica e la fisica. Alle scienze naturali indiane, molto sviluppate dal punto di vista deirosservazione, mancava la sperimentazione razionale che, a prescindere dai tentativi dell’antichità, è essenzialmente un prodotto del Rinascimento, e così pure il laboratorio moderno; per cui alla scienza medica che in India era particolarmente sviluppata sul piano tecnico-empirico mancavano le basi biologiche e soprattutto quelle biochimiche. Una chimica razionale manca in tutte le civiltà eccetto quella occidentale. Alla storiografia cinese altamente sviluppata manca il pragma di Tucidide. Machiavelli ha dei predecessori in India. Ma a tutte le dottrine asiatiche dello Stato manca un sistema di tipo aristotelico e mancano i concetti razionali in genere. D’altra parte, per una dottrina giuridica razionale, malgrado tutti i tentativi presenti in India (Scuola di Mimansa1), malgrado le ampie codificazioni specialmente nell’Asia anteriore e malgrado tutti i libri di diritto, indiani e altri, manca la rigorosa schematizzazione giuridica e la forma di pensiero del diritto romano e del diritto occidentale da esso derivato. Inoltre, un prodotto come il diritto canonico è conosciuto solo in Occidente. Parimenti nel campo dell’arte. L’orecchio musicale ha avuto probabilmente presso altri popoli uno sviluppo più precoce e raffinato che da noi; comunque non meno raffinato. Diversi tipi di polifonia erano largamente
diffusi ovunque; sono stati riscontrati in diversi luoghi anche il concerto di una pluralità di strumenti e il discanto. Tutti i nostri intervalli razionali di suoni erano conosciuti e computati. Ma la razionale musica armonica - sia il contrappunto che l’armonia vera e propria - la struttura del materiale tonale sulla base delle tre triadi con la terza armonica; il nostro cromatismo e la nostra enarmonia, non rapportati a un sistema di distanze, dal Rinascimento in poi, ma interpretati in forma razionale armonica; la nostra orchestra con il suo quartetto d’archi come nucleo centrale e l’organizzazione dell’insieme degli strumenti a fiato; il basso continuo; la nostra scrittura musicale (la prima che ha reso possibile la composizione e l’esecuzione delle moderne opere musicali e soprattutto la loro durevole esistenza); le nostre sonate, sinfonie, opere - sebbene la musica programmata, la modulazione e l’alterazione dei suoni, oltre al cromatismo, siano esistiti come mezzi espressivi nelle più diverse tradizioni musicali - e i nostri strumenti di base, l’organo, il pianoforte, il violino, come mezzi per la loro esecuzione: tutto questo si è avuto solo in Occidente. L’arco a sesto acuto come mezzo di decorazione è esistito anche altrove, nel mondo antico e in Asia; presumibilmente nemmeno la volta a crociera era sconosciuta in Oriente. Ma l’impiego razionale della volta gotica come mezzo per distribuire le spinte e per colmare spazi di ogni forma e soprattutto come principio costruttivo per l’erezione di edifici monumentali e come base di uno stile che si estende alla scultura e alla pittura, come quello creato dal Medioevo, non esiste altrove. E non esiste nemmeno, seppure le basi tecniche siano state importate dall’Oriente, quella soluzione del problema della cupola e quel tipo di razionalizzazione «classica» dell’insieme dell’arte nella pittura tramite l’uso razionale della prospettiva lineare ed aerea - che il Rinascimento ha creato da noi. In Cina esistevano i prodotti della stampa. Ma una particolare letteratura concepita solo per la stampa e possibile solo tramite essa - la «stampa» periodica, insomma, e soprattutto i giornali - è nata solo in Occidente. Istituti superiori di ogni sorta, anche superficialmente simili alle nostre Università e perfino alle nostre Accademie sono esistiti in vari luoghi (Cina, Islam). Ma so lo in Occidente sono sorte delle razionali e sistematiche industrie specializzate della scienza e il corpo di specialisti da esse formato con la sua odierna posizione dominante nella cultura. Ed è apparso, in particolare, il funzionario specializzato, la pietra angolare dello stato moderno e della moderna economia in Occidente. Di questa figura si trovano soltanto dei precursori che non hanno avuto in nessun luogo e in nessun senso
quell’importanza costitutiva per l’ordinamento sociale che essa ha avuto in Occidente. Naturalmente il «funzionario», anche quello specializzato in qualche ramo particolare, è una figura molto antica nelle più diverse civiltà. Ma l’assoluta e inevitabile dipendenza della nostra intera esistenza, delle condizioni fondamentali politiche, tecniche ed economiche della nostra vita da un’organizzazione di funzionari specializzati sotto il profilo tecnico, commerciale, ma soprattutto giuridico, come esecutori delle più importanti funzioni quotidiane della vita sociale, sono fenomeni che nessun paese e nessuna epoca ha conosciuto come il moderno Occidente. L’organizzazione per ceti dei gruppi politici e sociali è stata largamente diffusa. Ma già lo stato dei ceti «rex et regnum» in senso occidentale è stato conosciuto solo da noi. Ciò vale ancora di più per i parlamenti di «rappresentanti del popolo» eletti periodicamente, con i demagoghi e il governo dei capi di partito come «ministri» responsabili di fronte al parlamento, che sono prodotti esclusivi dell’Occidente, benché naturalmente in tutto il mondo siano esistiti «partiti» nel senso di organizzazioni volte a conquistare e influenzare il potere politico. E soprattutto lo «stato», nel senso di un’istituzione politica con una «costituzione» posta razionalmente, un diritto razionalmente stabilito e un’amministrazione retta da funzionari specializzati secondo delle regole enunciate razionalmente, le «leggi», è conosciuto soltanto in Occidente in questa essenziale combinazione di caratteri determinanti, nonostante tutti gli altri tentativi in questo senso. Lo stesso accade oggi anche per il potere più decisivo della nostra vita moderna: il capitalismo. L’«istinto del profitto», la «sete di guadagno», di guadagno monetario, anzi del massimo guadagno monetario possibile: tutto ciò non ha niente a che vedere con il capitalismo. Tale aspirazione è presente, e lo è sempre stata, presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, prostitute, impiegati venali, soldati, banditi, crociati, giocatori d’azzardo, mendicanti; è presente, si può dire, presso all sorts and conditions of men, in tutte le epoche e in tutti i paesi del mondo dove vi sia stata o vi sia in qualche modo la possibilità obiettiva di raggiungere tale scopo. Questa ingenua definizione del concetto di capitalismo dovrebbe venire abbandonata una volta per tutte allo stadio primitivo della storia della cultura. La sconfinata sete di profitto non s’identifica minimamente con il capitalismo né tantomeno con il suo «spirito». Il capitalismo, anzi, può coincidere con il temperamento o perlomeno con il controllo razionale di questi impulsi irrazionali. Di fatto il capitalismo
coincide - nella razionale impresa capitalistica a carattere stabile - con la ricerca del profitto; anzi, del profitto sempre rinnovato, della «redditività». Perché così deve essere. AH’interno della vita economica a ordinamento capitalistico un’impresa che non orientasse la propria attività al raggiungimento della massima redditività sarebbe condannata a scomparire. Tentiamo di definire questo concetto in modo un po’ più preciso di quanto non si faccia di solito. Un atto economico capitalistico è per noi innanzitutto un atto fondato sull’aspettativa di un guadagno da ottenersi sfruttando delle possibilità di scambio: sfruttando, cioè, delle occasioni di lucro (formalmente) pacifiche. Il profitto ottenuto con mezzi violenti (che siano tali formalmente e realmente) segue le sue leggi proprie e non è opportuno (anche se non lo si può proibire) collocarlo nella stessa categoria dell’attività orientata, in ultima analisi, alla possibilità di profitto mediante lo scambioaa. Laddove il profitto capitalistico viene perseguito in maniera razionale, anche l’attività corrispondente è orientata secondo il calcolo del capitale. Ciò significa che l’attività è diretta all’impiego sistematico delle prestazioni utili di cose o persone come mezzo di profitto, in maniera tale che, alla fine di un periodo di attività, il ricavo finale dell’impresa, misurato in termini monetari (o l’attivo monetario valutato periodicamente nel caso di un’impresa a carattere permanente) superi, nel bilancio, il «capitale», ossia il valore stimato dei mezzi materiali di produzione impiegati nello scambio per conseguire il profitto. Poco importa che si tratti di un complesso di merce in natura affidata in commenda a un commerciante itinerante, il cui lucro finale può consistere nell’acquisizione di altra merce in natura; o invece di una fabbrica, il cui attivo è rappresentato da edifici, macchine, denaro liquido, materie prime, prodotti semilavorati e finiti, il tutto controbilanciato dagli impegni assunti. In tutti questi casi, un fattore è sempre decisivo: viene compiuto, cioè, un calcolo di capitale in termini monetari; poco importa che si conformi alle moderne regole della contabilitào che venga condotto nel modo più primitivo e rudimentale possibile. Tutto avviene sempre in termini di bilanci: all’inizio dell’impresa c’è il bilancio di apertura; prima di ogni singola azione, i calcoli che ne studiano e controllano l’opportunità; alla fine, il bilancio di chiusura, per valutare il risultato in termini di «profitto». Così, per esempio, il bilancio iniziale di una commenda2 consisterà nella determinazione del valore monetario - che dovrà essere riconosciuto tale da ambedue le parti - dei beni consegnati, a meno che questi non siano già sotto forma di denaro; il bilancio finale dovrà fornire la valutazione in base alla quale ripartire i profitti e le
perdite. Le operazioni saranno razionali in quanto il calcolo sta alla base di ogni singola azione dei contraenti. Che poi un calcolo e una valutazione veramente precisi spesso non avvengano; che si proceda in modo puramente approssimativo o semplicemente secondo metodi tradizionali e convenzionali, sono fatti che fino al giorno d’oggi avvengono in ogni tipo d’impresa capitalistica, ogni volta che le circostanze non costringono ad un calcolo preciso. Ma questi sono punti che riguardano soltanto il grado di razionalità del profitto capitalistico. L’importanza del nostro concetto, ciò che caratterizza in maniera decisiva l’atto economico, sta nella tendenza di fatto a stabilire un confronto tra il valore monetario guadagnato e il valore monetario investito - per quanto primitiva possa essere la forma di tale confronto. Ora in questo senso il «capitalismo» e le imprese «capitalistiche» sono esistiti presso tutte le civiltà fin dove i documenti economici ci permettono di risalire - raggiungendo anche un discreto livello di razionalizzazione del calcolo capitalistico. Sono esistiti in Cina, in India, a Babilonia, in Egitto, nell’antica civiltà mediterranea, nel Medioevo come nell’era moderna. E non si trattava solo di singole imprese isolate ma anche di imprese economiche che riposavano interamente sul continuo rinnovarsi di operazioni capitalistiche isolate e anche di operazioni permanenti. Tuttavia, il commercio in particolare per lungo tempo non rivestì un carattere stabile come quello nostro odierno ma consistette in una serie di attività individuali. Solo gradualmente il commercio all’ingrosso perlomeno ha acquistato una coerenza interna (in particolare con l’apertura di filiali). In ogni caso, l’impresa capitalistica e anche l’imprenditore capitalista, non solo quello occasionale ma anche quello professionale sono figure antichissime e ampiamente diffuse. Ma è in Occidente che il capitalismo ha avuto un’estensione eccezionale, basata inoltre su metodi, forme e direttrici che non sono mai esistiti altrove. Sono esistiti commercianti in tutto il mondo: grossisti e dettaglianti, dediti alle attività locali e internazionali. Vi sono stati prestiti di ogni tipo, banche dalle funzioni più diverse ma sostanzialmente analoghe perlomeno a quelle delle nostre banche del xvi secolo. Crediti marittimi, commende, operazioni e associazioni sul modello della società in accomandita sono stati largamente diffusi, anche a livello d’impresa permanente. Dovunque sia sorta l’esigenza di finanziare le istituzioni pubbliche sono apparsi i banchieri: a Babilonia, in Grecia, in India, in Cina, a Roma. Hanno finanziato innanzitutto la guerra e la pirateria, e forniture e costruzioni di ogni sorta. Nella politica d’oltremare
hanno svolto il ruolo d’imprenditori coloniali, come proprietari di piantagioni con schiavi e sfruttatori del lavoro direttamente o indirettamente forzato; hanno preso in appalto beni demaniali, uffici pubblici e soprattutto imposte. Hanno finanziato i capi di partito nelle elezioni e i condottieri nelle guerre civili. E infine sono stati degli «speculatori» in ogni sorta di occasioni che promettessero un profitto pecuniario. Questa figura d’imprenditore l’avventuriero capitalista - è esistita in tutto il mondo. All’infuori del commercio e delle operazioni bancarie e di credito le attività di tali imprenditori gravitavano intorno ad imprese di carattere puramente irrazionale e speculativo, oppure erano orientate al profitto ottenuto con la violenza, al bottino soprattutto: sia il bottino ottenuto direttamente in guerra, sia il bottino fiscale permanente ottenuto tramite lo sfruttamento dei sudditi. Il capitalismo degli avventurieri della finanza, dei grossi speculatori, dei cacciatori di concessioni coloniali e anche il moderno capitalismo finanziario possiede spesso questa impronta anche al giorno d’oggi nei paesi occidentali, perfino in tempo di pace; essa è caratteristica tuttavia del capitalismo specificamente diretto allo sfruttamento della guerra, e alcune parti - ma solo alcune parti - del grosso commercio internazionale gli sono strettamente collegate, oggi come sempre. Ma il moderno Occidente conosce accanto a queste una forma di capitalismo totalmente diversa e che non si è sviluppata da nessun’altra parte: l’organizzazione razionale capitalistica del lavoro (formalmente) libero. Di questo fenomeno si trovano altrove soltanto dei rudimenti. Perfino l’organizzazione del lavoro forzato ha raggiunto un certo grado di razionalizzazione solo nelle piantagioni e, in misura molto limitata, negli ergasteria dell’antichità. Ancora più limitata era la razionalizzazione all’inizio dell’era moderna nelle fattorie soggette a servitù e nelle fabbriche o industrie domestiche dei proprietari terrieri che adoperavano il lavoro servile. è stato provato come, all’infuori dell’Occidente, delle vere e proprie «industrie domestiche» che impiegassero il lavoro libero sono esistite solo in pochi casi isolati. L’impiego, pur molto diffuso, di lavoratori salariati, ha portato solo in casi eccezionali alla creazione di manifatture - come i monopoli di Stato, la cui organizzazione era co munque molto diversa da quella delle imprese moderne - e mai, in ogni caso, ad un’organizzazione razionale delle corporazioni di mestieri come quella del nostro Medioevo. L’organizzazione razionale dell’impresa, orientata sulle possibilità offerte dal mercato dei beni e non dalla forza politica o dalle speculazioni irrazionali
non è tuttavia l’unica struttura particolare del capitalismo occidentale. La moderna organizzazione razionale dell’impresa capitalistica non sarebbe stata possibile in assenza di altri due importanti fattori di sviluppo: la separazione tra amministrazione domestica e impresa, che domina totalmente l’odierna vita economica e, strettamente collegata a questo fattore, la contabilità razionale. Si trova anche altrove (nel bazar orientale e negli ergasterìa3 di altre civiltà) la separazione materiale tra luogo di lavoro o di vendita e luogo d’abitazione. E si sono sviluppate associazioni capitalistiche con una contabilità indipendente per l’impresa anche nel Medio ed Estremo Oriente, e nell’antichità. Ma di fronte alla moderna posizione di autonomia dell’impresa, questi sono soltanto dei primi passi. E ciò è dovuto in primo luogo al fatto che le condizioni indispensabili di tale autonomia - tanto la nostra contabilità razionale dell’impresa quanto la nostra separazione legale tra patrimonio dell’impresa e patrimonio personale - mancano totalmente o sono solo agli inizi del loro sviluppoa.bQuasi dappertutto le imprese di profitto hanno avuto la tendenza a nascere come parte di una grande economia domestica principesca o latifondista (1 ‘oikos) uno sviluppo che, come ha già riconosciuto Rodbertus4, accanto ad alcune superficiali parentele con l’economia moderna, è fondamentalmente divergente e addirittura opposto. Tuttavia, tutte queste particolarità del capitalismo occidentale hanno trovato in ultima analisi il loro significato moderno soltanto nella loro associazione con l’organizzazione capitalistica del lavoro. Anche ciò che si suole chiamare la «commercializzazione», cioè lo sviluppo dei titoli negoziabili, e la Borsa, che è la razionalizzazione della speculazione, gli sono strettamente collegati. Infatti senza l’organizzazione razionale capitalistica del lavoro, tutto ciò, anche lo sviluppo della commercializzazione - ammettendo pure che fosse stato possibile - non avrebbe avuto neanche lontanamente lo stesso significato, soprattutto per quanto riguarda la struttura sociale del moderno Occidente e tutti i problemi specifici ad essa connessi. Il calcolo esatto - la base di tutto il resto - è possibile soltanto se fondato sul lavoro libero. E proprio come il mondo, all’infuori del moderno Occidente, non ha conosciuto un’organizzazione razionale del lavoro, così, per questo stesso motivo, esso non ha conosciuto nemmeno un socialismo razionale. Sono esistiti senza dubbio fatti come l’economia cittadina, la politica del rifornimento alimentare della città, il mercantilismo e la politica del benessere condotta dai prìncipi, i razionamenti, l’economia regolata, il protezionismo e
le teorie del laissez-faire (in Cina). Nello stesso modo il mondo ha conosciuto anche delle economie comunistiche e socialistiche di diverso tipo: comuniSmo familiare, religioso o militare, socialismo di stato (in Egitto), cartelli monopolistici e perfino organizzazioni di consumatori. Ma benché siano esistiti dappertutto dei privilegi di mercato per le città, delle corporazioni, delle gilde, e ogni sorta di differenziazioni legali tra città e campagna nelle forme più diverse, ciononostante il concetto di borghese non è esistito all’infuori dell’Occidente né quello di borghesia all’infuori dell’Occidente moderno. Così pure non è esistito altrove il «proletariato» come classe, né poteva esistere, mancando l’organizzazione razionale del lavoro libero nell’impresa. Le «lotte di classe» tra strati di creditori e debitori; tra proprietari fondiari e contadini senza terra, servi o fittavoli; tra commercianti e consumatori o proprietari fondiari, sono esistite dappertutto in diverse forme. Ma già le lotte medievali in Occidente tra committenti e lavoratori5 a domicilio sono presenti altrove soltanto in forma embrionale. Manca totalmente il conflitto moderno tra grossi imprenditori industriali e liberi lavoratori salariati. E di conseguenza non poteva esistere nemmeno una problematica come quella sviluppata dal moderno socialismo. In una storia universale della cultura, quindi, il problema centrale, per noi, anche da un punto di vista puramente economico, non è, in ultima analisi, lo sviluppo dell’attività capitalistica in quanto tale, che si differenzia solo nelle forme assunte presso le diverse civiltà: capitalismo d’avventurieri, o mercantile, oppure orientato a cercare le occasioni di lucro nella guerra, nella politica, nelPamministrazione. Il problema sta piuttosto nell’origine di questo capitalismo imprenditoriale borghese con la sua organizzazione razionale del lavoro libero. O, per espri merlo in termini di storia della civiltà, nell’origine della borghesia occidentale e dei suoi caratteri: un problema senza dubbio strettamente connesso con quello dell’origine dell’organizzazione capitalistica del lavoro ma, beninteso, non semplicemente identico a quest’ultimo. Infatti, a borghesi», in riferimento a un ceto esistevano già prima dello sviluppo della forma specificamente moderna del capitalismo, seppure, è vero, solo in Occidente. La forma particolare del moderno capitalismo occidentale è stata determinata, com’è noto, in grande misura, a prima vista, dallo sviluppo delle possibilità tecniche. Oggi la sua razionalità dipende essenzialmente dalla calcolabilità dei più importanti fattori tecnici: la base di ogni calcolo preciso. Ma ciò significa soprattutto che essa dipende dai caratteri peculiari della
scienza occidentale, in particolare le scienze naturali basate sulla matematica e sulla sperimentazione esatta e razionale. D’altra parte, lo sviluppo di queste scienze e della tecnica basata su di esse ha ricevuto e riceve anche al giorno d’oggi un impulso decisivo dalle occasioni di profitto capitalistiche che si pongono come incentivo alle sue applicazioni pratiche economiche. è vero che l’origine della scienza occidentale non può essere attribuita a tali occasioni. Il calcolo, anche quello basato sul valore posizionale delle cifre, e l’algebra, sono stati impiegati anche in India, dove il sistema dei numeri posizionali è stato inventato. Solo in Occidente però esso venne impiegato per i propri scopi dal capitalismo in via di sviluppo, mentre in India non ha creato né un’aritmetica né una contabilità moderna. Nemmeno l’origine della matematica e della meccanica può essere attribuita agli interessi capitalistici. Ma l’utilizzazione tecnica delle conoscenze scientifiche, così importante per le condizioni di vita delle masse, è stata sicuramente incoraggiata dagli incentivi economici che in Occidente venivano posti su di essa. Ma questi incentivi derivavano dai caratteri particolari della struttura sociale deU’Occidente. Dobbiamo quindi chiederci quali elementi particolari di questa struttura hanno fornito tali incentivi, poiché senza dubbio non tutti hanno avuto la stessa importanza. Tra le componenti d’importanza indiscutibile si colloca la struttura razionale del diritto e dell’amministrazione. Il moderno capitalismo imprenditoriale razionale ha infatti bisogno, oltre che di strumenti tecnici di produzione che permettono un calco lo di previsione, anche di un sistema giuridico fondato sulla certezza del diritto e di un’amministrazione fondata su regole formali. Senza questi elementi possono sussistere senz’altro il capitalismo avventuristico e il commercio speculativo nonché tutte le forme possibili di capitalismo politicamente determinato, ma non è possibile l’esistenza della razionale impresa economica privata con capitale fisso e calcolo sicuro. Ora, un diritto e un’amministrazione siffatti sono stati messi a disposizione dell’attività economica, con un tale grado di perfezione tecnicogiuridica e formale, solo in Occidente. Dovremo quindi chiederci: donde proviene questo diritto? In altre circostanze, come dimostra la ricerca, anche gli interessi capitalistici, da parte loro, hanno spianato la via - seppure certamente non da so li e nemmeno come elemento principale - al dominio, nel campo della giustizia e dell’amministrazione, di una classe di giuristi specializzati nel diritto razionale. Ma questi interessi non hanno creato tale diritto. Ben altre forze invece hanno avuto un ruolo attivo in tale sviluppo. E
perché gli interessi capitalistici non hanno avuto lo stesso ruolo in Cina o in India ? Per quale motivo laggiù né lo sviluppo scientifico, né quel lo artistico, né quello politico, né quello economico hanno imboccato la via della razionalizzazione che è propria dell’Occidente ? è evidente infatti che in tutti questi casi ci troviamo di fronte ad una forma specifica di razionalizzazione che è propria della cultura occidentale. Con questo termine si possono indicare molte cose diverse come verrà chiarito ripetutamente dall’ulteriore esposizione. Esistono, per esempio, delle «razionalizzazioni» della contemplazione mistica, di una condotta, cioè, che, considerata da altri punti di vista, è specificamente «irrazionale», esattamente come vi sono razionalizzazioni dell’economia, della tecnica, della ricerca scientifica, dell’educazione, dell’arte militare, della giustizia e dell’amministrazione. Si può inoltre «razionalizzare» ciascuno di questi campi nei modi più diversi a seconda dei punti di vista e dei fini ultimi, e ciò che è «razionale» sotto un certo aspetto potrà apparire «irrazionale» sotto un altro. Per questo motivo le razionalizzazioni dei più diversi campi della vita sono esistite sotto le forme più varie in tutte le zone di civiltà. Per caratterizzare le loro differenze dal punto di vista della storia delle civiltà è necessario chiedersi innanzitutto in quali settori e in quali direzioni si sono avute queste razionalizzazioni. La questione che si pone in primo luogo è quindi di riconoscere i caratteri distintivi del razionalismo occidentale e, all’interno di questo, i tratti della sua forma moderna e di spiegarne poi l’origine. Ogni ricerca esplicativa di questo tipo, tenendo conto dell’importanza fondamentale del fattore economico, dovrà prendere in considerazione innanzitutto le condizioni economiche. Ma anche la correlazione inversa non dovrà essere lasciata in disparte. Poiché come il razionalismo economico, alla sua origine, dipende, in generale, dalla tecnica e dal diritto razionale, così esso dipende pure dalla capacità e dalle disposizioni degli uomini di adottare certi tipi di condotta pratica e razionale. Laddove questa condotta si è trovata ostacolata da inibizioni di carattere spirituale anche lo sviluppo di una razionale condotta economica si è urtato a gravi resistenze interne. Ora tra i più importanti elementi formativi della condotta vi erano ovunque, nel passato, le forze magiche e religiose ed i precetti etici collegati a tali credenze. Di ciò si parlerà negli studi qui raccolti. All’inizio di questa raccolta abbiamo posto due saggi meno recenti che cercano di avvicinare un lato importante del problema che in genere è il più difficile da afferrare: l’influenza di determinate credenze religiose sullo
sviluppo dello «spirito economico», dell ‘ethos di un determinato sistema economico. In questo caso portiamo ad esempio la correlazione tra lo spirito della moderna vita economica e l’etica razionale del protestantesimo ascetico. Qui verrà quindi trattato solo un lato del rapporto causale. I saggi seguenti su L’etica economica delle religioni mondiali tentano, con una visione generale dei rapporti che intercorrono tra le più importanti religioni, la vita economica e la stratificazione sociale del loro ambiente, di esaminare ambedue le relazioni causali nella misura necessaria per scoprire i punti di somiglianza con lo sviluppo occidentale che verrà analizzato in seguito. Solo in questo modo, infatti, si può intraprendere una valutazione causale di quegli elementi deiretica economica della religione occidentale che le sono peculiari in opposizione alle altre, con la speranza di raggiungere un grado tollerabile di approssimazione. Questi studi, quindi, non pretendono di essere delle analisi complete di determinate culture, per quanto succinte. Al contrario, per ogni cultura essi sottolineano deliberatamente ciò che la oppone allo sviluppo di quella occidentale. Sono quindi decisamente orientati verso i problemi che ci sembrano importanti per la comprensione della cultura occidentale da questo punto di vista. Per lo scopo che ci proponiamo nessun altro procedimento sembrava possibile. Ma onde evitare malintesi occorre sottolineare fortemente qui di seguito i limiti della nostra ricerca. Il profano perlomeno va messo in guardia contro il rischio di sopravvalutare l’importanza di queste indagini. Il sinologo, l’indologo, il semitista e l’egittologo non vi troveranno naturalmente nulla di sostanzialmente nuovo per loro. C’è solo da sperare che non trovino nulla di falso nei punti essenziali. L’autore non può sapere fino a che punto egli si è avvicinato a questo suo obiettivo, perlomeno nella misura possibile ad un non specialista. è evidente che chiunque sia costretto a ricorrere a traduzioni e inoltre, per l’impiego e la valutazione di fonti archeologiche, documentarie e letterarie debba rifarsi ad una letteratura specializzata spesso molto controversa e di cui egli stesso non può ovviamente giudicare personalmente il valore, ha tutti i motivi per avere un’opinione molto modesta del proprio lavoro. Tanto più che la quantità disponibile di traduzioni di «fonti» autentiche (cioè iscrizioni e documenti) è ancora molto limitata, specialmente per la Cina, in confronto a ciò che esiste ed è importante. Da tutto ciò deriva il carattere del tutto provvisorio di questi studi, in particolare per la parte che riguarda l’Asiac. Solo allo specialista spetta un giudizio definitivo. E,
logicamente, questi studi sono stati scritti soltanto perché finora non esiste un’indagine di specialisti che si ponga questo scopo specifico e sia condotta sotto questi specifici punti di vista. Essi sono destinati ad essere presto superati, più ancora di quanto non avvenga in generale per tutti i lavori scientifici. D’altra parte nei lavori di tipo comparativo un simile sconfinamento nel campo di altri specialisti, per quanto criticabile, non si può evitare. Occorre quindi accettarne le conseguenze e rassegnarsi a nutrire forti dubbi sulla misura della propria riuscita. I letterati, per moda o per zelo, credono al giorno d’oggi di poter fare facilmente a meno dello specialista o di poterlo degradare a lavoratore subalterno al servizio del «veggente». Quasi tutte le scienze debbono qualcosa ai dilettanti: spesso dei punti di vista preziosi. Ma il dilettantismo eretto a principio della scienza ne marcherebbe in realtà la fine. Chi vuole «vedere» vada al cinema, benché oggi gli vengano offerte nozioni in abbondanza, anche in forma letteraria, in questo stesso campo d’indagined. Nulla è più lontano di un tale atteggiamento dalle intenzioni di questi studi oltremodo spassionati e rigorosamente empirici. E, potrei aggiungere, chi vuole una predica vada pure in convento. I rapporti di valore che intercorrono tra le diverse civiltà di cui ci occupiamo in senso comparativo non verranno assolutamente discussi in questa sede. è vero che il percorso del destino dell’umanità atterrisce chi ne contempla un tratto. Ma sarà bene che egli tenga per sé i suoi piccoli commenti personali, come fa alla vista del mare o dell’alta montagna, a meno che non si sappia chiamato e dotato per dare ad essi un’espressione artistica e profetica. Nella maggior parte degli altri casi, tutte le chiacchiere sull’«intuizione» non mascherano altro che l’incapacità di distanziarsi in rapporto aH’oggetto, che va giudicata alla stessa stregua di un analogo atteggiamento nei confronti degli uomini. Occorre poi giustificare lo scarso impiego del materiale etnografico., molto lontano da quello che lo stato odierno di tale scienza rende ovviamente indispensabile per un’indagine realmente approfondita, in particolare nel campo delle religioni dell’Asia. Ciò non è dovuto soltanto al fatto che le capacità di lavoro di un uomo sono limitate. Questa omissione ci è parsa invece consentita considerando che questi studi debbono occuparsi necessariamente dell’etica religiosa di strati che sono stati «portatori di cultura» nei rispettivi paesi. Si tratta qui dell’influenza che la loro condotta ha esercitato. è esatto però che anche quest’ultima non può essere debitamente compresa nella sua particolarità se non viene raffrontata ai fatti etnografici e
folcloristici. Occorre quindi ammettere apertamente, e sottolineare, che vi è qui una lacuna alla quale l’etnografo obietterà con ragione. Spero di contribuire in parte a colmarla con uno studio sistematico della sociologia della religione, ma tale impresa andrebbe oltre gli obiettivi limitati di questo studio. è stato necessario accontentarci del tentativo di porre in luce il più possibile i punti di confronto con le nostre religioni occidentali. Va infine menzionato anche l’aspetto antropologico del problema. Quando vediamo ripetutamente come, anche in settori dell’esistenza (apparentemente) indipendenti l’uno dall’altro, certe forme di razionalizzazione si sono sviluppate in Occidente e solo lì, sorge naturale l’ipotesi che la causa decisiva di tutto ciò consiste nei fattori ereditari. L’autore ammette di essere propenso in maniera del tutto personale e soggettiva - a dare grande importanza all’eredità biologica. Ma, malgrado le importanti realizzazioni della ricerca antropologica, io non vedo ancora al giorno d’oggi nessun modo di determinare con qualche esattezza, o anche in maniera soltanto approssimativa, la misura e soprattutto la forma di tale influenza sullo sviluppo qui esaminato. Dovrà essere quindi uno dei compiti della ricerca sociologica e storica il mettere in luce in primo luogo tutte le influenze e le relazioni causali che possono essere spiegate in maniera soddisfacente in termini di reazioni agli eventi e all’ambiente circostante. Soltanto allora, e quando inoltre le ricerche comparate di neurologia e psicologia razziale avranno superato il loro attuale stadio iniziale, e in molti sensi promettente, si potrà forse sperare di ottenere dei risultati soddisfacenti anche per questo problemae. Per il momento mi sembra che manchino tali condizioni e il richiamo all’«ereditarietà» sarebbe una rinuncia prematura alle conoscenze forse raggiungibili oggi e una deviazione del problema verso fattori (oggi) ancora sconosciuti.
a. Qui, come in alcuni altri punti, le mie posizioni si scindono anche da quelle del nostro illustre maestro Lujo Brentano6 (nella sua opera che verrà citata in seguito). Se tale divergenza è soprattutto a
carattere terminologico essa è tuttavia anche concreta. Non mi sembra infatti opportuno includere nella stessa categoria degli elementi così eterogenei come il profitto mediante bottino e il guadagno mediante la direzione di una fabbrica. Ancora meno opportuno appare il definire come «spirito» del capitalismo in opposizione ad altre forme di profitto - ogni aspirazione al guadagno di denaro. Nel secondo caso si perde tutta la precisione dei concetti, nel primo invece si perde soprattutto la possibilità di chiarire i caratteri specifici del capitalismo occidentale rispetto ad altre forme economiche. Anche nella Philosophie des Geldes di G. Simmel7 «economia monetaria» e «capitalismo» vengono eccessivamente equiparati a scapito deiranalisi concreta. Negli scritti di W. Sombart8, soprattutto nella più recente edizione della sua opera principale sul capitalismo, il tratto specifico del capitalismo occidentale almeno dal punto di vista della problematica che mi interessa - cioè l’organizzazione razionale del
lavoro, passa in secondo piano rispetto ad altri fattori di sviluppo che hanno operato in tutto il mondo. b. Naturalmente questa differenza non può essere concepita in termini assoluti. Dal capitalismo a carattere politico (innanzitutto sotto forma di appalto delle imposte), nell’antichità mediterranea e orientale, e persino in Cina e in India, erano già scaturite delle imprese razionali e permanenti la cui contabilità - che ci è nota solo attraverso miseri frammenti - ha avuto probabilmente un carattere «razionale». Inoltre il capitalismo «avventuristico» orientato politicamente si trova in stretto contatto con il capitalismo d’impresa alle origini delle banche moderne (ivi compresa la Banca d’Inghilterra) che sono sorte per la maggior parte da transazioni di natura politica, spesso bellica. Ne è tratto caratteristico l’opposizione tra il carattere di Paterson9, per esempio - un tipico promoter - e quello dei membri del comitato direttivo della Banca che ne decidevano la politica permanente e che presto vennero conosciuti come The Puritan Usurers of GrocersJ Hall. Si veda ugualmente lo sbandamento della politica bancaria della «banca più solida» in occasione della fondazione della South Sea10. La differenza è quindi fluttuante, ciononostante esiste. L’organizzazione razionale del lavoro non è stata creata dai grandi promoters e finanzieri come non lo è stata - sempre in linea generale e con eccezioni individuali - da quei tipici rappresentanti del capitalismo politico e finanziario che sono gli Ebrei. La si deve invece a tutt’altra categoria di persone. c. Anche i resti delle mie conoscenze dell’ebraico sono del tutto inadeguate. d. Non occorre precisare che questo non si riferisce a tentativi come quelli di K. Jaspers11 (nella sua
opera Psychologie der W eltanschauungen, 1919) o alla Charakterologie di Klages12 e studi simili che si differenziano dal nostro nell’impostazione stessa. D’altra parte manca qui lo spazio per un esame critico. e. Anni fa un eminente psichiatra mi ha espresso la stessa opinione. 1. Purva Mìmàmsa («speculazione anteriore», cioè pratica), una delle sei scuole di pensiero a cui i filosofi indiani aderirono nei secoli successivi al periodo epico, il cui oggetto specifico era l’accertamento del dharma (dovere). 2. Lujo Brentano, 1844–1931, economista tedesco, autore in particolare di un importante studio sulle Trade Unions inglesi (Die Arbeitergilden der Gegenwart). 3. Georg Simmel, 1858–1918, filosofo e sociologo tedesco, noto per i suoi saggi di metodologia sociologica e i suoi studi analitici delle forme di interazione sociale. Nell’op. cit. egli tenta di applicare i suoi princìpi astratti all’interpretazione del comportamento sociale nel campo specifico dell’economia, sottolineando il ruolo dell’economia fondata sul denaro nella specializzazione delle attività sociali e la spersonalizzazione delle relazioni individuali e sociali. Il tema è stato ripreso e ampliato dal Sombart. 4. Werner Sombart, 1863–1941, economista e sociologo tedesco. L’opera a cui allude Weber è Der moderne Kapitalismus (1902–1908), in cui la sua analisi presenta delle notevoli divergenze con quella di Weber. Su tali divergenze Weber torna spesso polemicamente, richiamandosi anche a altri scritti del Sombart, in particolare Der Bourgeois (1908) e Die ]uden und das Wirtschaftsleben (1911). 5. Commenda, tipo di contratto commerciale in uso nel Medioevo. 6. Ergasterion, termine greco, propriamente «casa di lavoro». Diventato presso i Romani l’ergastolo, tipico dell’economia di latifondo (lavoro agricolo sorvegliato di schiavi o condannati), che era propriamente l’abitazione comune, spesso sotterranea, degli addetti al lavoro. 7. William Paterson, 1658–1719, autore inglese di saggi su argomenti monetari, commerciali, finanziari e politico-sociali. Fondatore della Banca d’Inghilterra e promotore dello sfortunato tentativo di colonizzazione a Darién (istmo di Panama), è stato coinvolto durante tutta la sua vita in una lunga serie di progetti politico-economici. 8. Johann Karl Rodbertus, 1805–1875, economista tedesco, esponente di una concezione conservatrice della riforma sociale e dell’intervento dello Stato nella legislazione sociale; fautore del nazionalismo economico. 9. South Sea bubble è il nome dato a una mania speculativa che rovinò molti investitori inglesi nel
1720. Prende il nome dalla South Sea Company fondata nel 1711 per il commercio con l’America Latina. Il disastro finanziario che seguì le vaste speculazioni assunse le dimensioni di uno scandalo nazionale in cui furono coinvolti anche membri del governo. 10. Committenti e lavoratori, rispettivamente, in tedesco, Verleger e Verlegte. I due termini, con questo particolare significato, sono intraducibili in italiano. Il Verleger era un tipo particolare d’imprenditore che s’incaricava di piazzare e di vendere la merce per lui prodotta dai lavoranti deH’industria a domicilio (Verlegte). Di questa figura parla anche Marx nel Capitale. A questo tipo di organizzazione si contrappone, in altri saggi di Weber, la cosiddetta industria «chiusa» (geschlossene Industrie), cioè il lavoro di fabbrica. 11. Karl Jaspers, 1883–1969, importante filosofo esistenzialista tedesco. La sua opera è stata in parte influenzata dalla sua prima formazione a carattere psicopatologico (è stato libero docente in psichiatria prima di passare all’insegnamento della filosofia nel 1920). Nel periodo in cui scrive Weber il suo orientamento era ancora prevalentemente psicologico. 12. Ludwig Klages, 1872–1956, psicologo e filosofo tedesco, si dedicò alla caratterologia e alla grafologia, inquadrando i dati positivi in una dottrina filosofica (conflitto tra «anima» e «spirito»). Lo scritto cui accenna Weber è Prinzipien der Charakterologie (1910).
L’ETICA PROTESTANTE E LO SPIRITO DEL CAPITALISMOa
a. Pubblicato dapprima nell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» dello Jaffé (J. C. B. Mohr, Tübingen), voll. XX-XXI (1904- 1905). Dalla copiosa letteratura estraggo soltanto le critiche più particolareggiate. F. RACHFAHL,Kalvinismus und Kapitalismus, Internationale Wochenschrift für Wissenschaft, Kunst und Techni, 1909, n. 39–43. II mio articolo in risposta Antikritisches zum «Geist» des Kapitalismus nel cit. «Archiv», vol. XXX, 1910. E di nuovo RACHFAHL,Nochmals Kalvinismus und Kapitalismus, 1910, n. 22–25 e ‘m risposta il mio Antibritisches Schlusswort, nel cit. «Archiv», vol. XXXI. Brentano, nella critica che verrà qui sotto citata, probabilmente non conosceva queste ultime discussioni, poiché non ne fa menzione. In questa edizione non ho messo nulla della mia polemica, che fu, come doveva essere, assai inconcludente col Rachfahl, un erudito anche da me stimato ma che si era portato su di un terreno che non gli era completamente noto; ma ho riportato dalle mie risposte anticritiche quelle citazioni (molto poche) che completavano la mia esposizione, e con aggiunte e con note ho cercato di evitare per il futuro tutti i possibili equivoci. Oltre i già citati v. W. SOMBARTnel suo libro Der Bourgeois (Monaco e Lipsia, 1914) sul quale io tornerò più sotto nelle note e finalmente Lujo Brentano new Excursus II in appendice al discorso tenuto in occasione delle onoranze resegli a Monaco di Baviera (Accademia delle Scienze, 1913) sul tema Die Anfänge des modernen Kapitalismus, pubblicato a parte a Monaco nel 1916, allargato con degli excursus. Anche su questa critica tornerò con note, quando se ne presenterà l’occasione. Io invito chi, contro ogni mia aspettativa, prenda interesse a ciò a convincersi con un controllo diretto che io non ho né cancellato, né mutato, né attenuato neppure con aggiunte che per il loro contenuto se ne allontanassero, alcun periodo del mio scritto che contenesse una qualsiasi affermazione obiettivamente importante. Non ve n’era alcuna necessità ed il seguito di questa esposizione costringerà a convincersene coloro che ancora ne dubitassero. Gli ultimi due studiosi sono tra di loro in un contrasto ancor più vivace che con me. Ritengo in molti punti fondata la critica del Brentano all’opera del Sombart, Die Juden und das Wirtschaftsleben, ma in molti punti anche ingiusta; senza tener conto del fatto che anche il Brentano non riconosce il punto decisivo del problema ebraico che per la prima volta qui si tratta esaurientemente. Da parte di teologi furono da segnalarsi moltissime e pregevoli menzioni singole in occasioni di questo mio lavoro, e l’accoglienza fu nel complesso favorevole e, anche quando le opinioni su di un particolare divergevano, molto obiettiva, il che fu per me tanto più lusinghiero in quanto non mi sarei meravigliato d’incontrare una certa antipatia verso il modo con cui inevitabilmente qui vengono trattati certi problemi. Ciò che per un teologo attaccato alla sua religione appare in essa di più prezioso, naturalmente qui può non tornarle a vantaggio. Noi abbiamo da fare con aspetti delle religioni che, valutati da un punto di vista religioso, appaiono molto grossolani ed esteriori, ma che pure esistono e spesso, appunto perché grossolani ed esteriori, ebbero la maggiore efficacia esterna. Rimandiamo qui in breve, - invece di citare più spesso in singoli punti - come ad un completamento e ad una conferma graditissima per i nostri problemi, oltre che come ad opera ricchissima di contenuto, al libro poderoso di E. TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (Tübingen 1912) che tratta da punti di vista originali e di ampia portata la storia dell’etica del Cristianesimo occidentale. All’autore interessano più le dottrine, a me gli effetti pratici della religione.
I. IL PROBLEMA CAPITOLO I CONFESSIONI E STRATIFICAZIONE SOCIALE Una sguardo alle statistiche professionali di un paese di confessioni miste ci mostra con sorprendente frequenzaa un fenomeno che fu discusso più volte e vivacemente nella stampa, nella letteraturab e nei congressi cattolici della Germania: il carattere prevalentemente protestante della proprietà e dell’impresa capitalistica e delle élites operaie più colte, e specialmente del più alto personale tecnico o commerciale delle imprese modernec. Non soltanto là dove la differente confessione coincide con una diversa nazionalità e quindi con un grado diverso di sviluppo, come avviene nella Germania orientale fra tedeschi e polacchi, ma quasi dappertutto dove lo sviluppo capitalistico, in sul suo fiorire, ebbe libera possibilità di trasformare i ceti sociali secondo i propri bisogni e di aggregarli secondo le professioni,–e in tali condizioni, il caso è tanto più notevole–noi troviamo quel fenomeno espresso nei numeri delle statistiche confessionali. Certamente la partecipazione dei Protestanti– relativamente più forte, nel senso che supera la percentuale sulla popolazione totale–al possesso di capitalid, alla direzione ed ai gradi più alti del lavoro nelle grandi intraprese industriali e commercialie, va in parte ricondotta a ragioni storichef, che rimontano lontano nel passato, e nelle quali l’appartenenza all’una o all’altra confessione non pare esser causa di fenomeni economici, ma, fino ad un certo grado, conseguenza di questi. La partecipazione a quelle funzioni economiche presuppone in parte possesso di capitali, in parte un’educazione costosa, in parte l’uno e l’altra, ed è oggi legata al possesso di ricchezze ereditarie o per lo meno ad una certa agiatezza. Proprio moltissimi dei territori più ricchi del Reich, più favoriti dalla natura o dalla posizione commerciale e più sviluppati economicamente, ma in particolar modo la più gran parte delle città ricche, si erano fino dal xvi secolo convertiti al Protestantesimo, e gli effetti di questo fatto vanno ancor oggi a vantaggio del Protestantesimo nella lotta economica per la vita. Ma sorge allora la questione storica: quale motivo ebbe questa predisposizione, in particolare modo forte, per una rivoluzione religiosa delle regioni economicamente più sviluppate? E la risposta non è così semplice come si potrebbe a tutta prima credere. Certamente l’abolizione del tradizionalismo economico appare come un momento che dovrebbe favorire grandemente la
tendenza al dubbio anche rispetto alla tradizione religiosa ed all’insurrezione contro le autorità tradizionali in generale. Ma bisogna aver riguardo ad un fatto, che oggi troppo spesso si dimentica: che la Riforma significò non l’abolizione senz’altro del predominio religioso sulla vita, ma invece la sostituzione di una forma, fino allora dominante, con una nuova. E precisamente la sostituzione di un dominio comodissimo, praticamente allora poco sensibile, per lo più appena formale, con una regolamentazione della vita, pesante e presa molto sul serio, che penetrava, nella misura più ampia che si possa pensare, in tutte le sfere della vita pubblica e privata. Popoli di fisionomia economica perfettamente moderna, sono sottoposti ancor oggi al dominio della Chiesa cattolica, che punisce gli eretici, ma è clemente verso i peccatori, come vi furono sottoposti i paesi più ricchi, economicamente più sviluppati che la terra conobbe in sullo scorcio del secolo xv. Il dominio del Calvinismo, quale ebbe vigore nel secolo xvi a Ginevra ed in Iscozia, tra il secolo xvi e xvn in gran parte dei Paesi Bassi, nel xvn nella Nuova Inghilterra, e per qualche tempo nell’Inghilterra stessa, sarebbe per noi la forma più insopportabile che mai possa esistere, di controllo religioso della vita deH’individuo. E proprio come tale fu sentito allora da larghi strati del vecchio patriziato, così a Ginevra come in Olanda e come in Inghilterra. Non un eccesso, ma un difetto di dominio religioso sulla vita fu quel che trovarono vituperevole i riformatori che sorsero nei paesi allora economicamente più sviluppati. Ma come avvenne che proprio questi paesi economicamente più sviluppati, ed in essi, come vedremo, proprio le classi medie «borghesi» che allora si elevavano economicamente, non solo lasciarono che si stendesse sopra di loro quella tirannide puritana, fino allora sconosciuta, ma dimostrarono nel difenderla un eroismo che le classi borghesi in quanto tali hanno conosciuto raramente prima di allora e mai più dopo: «thè last of our heroisms», come dice, non senza ragione, il Carlyle1 ? Ma procediamo nella nostra trattazione: se la più forte partecipazione dei Protestanti al possesso di capitali e a posti direttivi nell’economia moderna si può oggi in parte comprendere come una conseguenza delle loro migliori condizioni economiche, dovute allo svolgimento storico; d’altra parte si vedono fenomeni, nei quali il rapporto causale senza dubbio è diverso. Vi appartengono, per citarne alcuni, i seguenti: prima di tutto la differenza–riscontrabile ovunque–nel Baden, come in Baviera ed in Ungheria, nel genere di insegnamento superiore, che i genitori cattolici, a differenza di
quelli protestanti, fanno impartire ai loro figli. Il fatto che la percentuale dei Cattolici tra gli scolari e i licenziati delle scuole superiori rimanga considerevolmente inferioreg a quella dei Cattolici nella popolazione, si potrà attribuire in gran parte alle differenze economiche su citate. Ma che, anche tra i licenziati cattolici la percentuale di quelli che escono da istituti specialmente destinati e adatti alla preparazione per studi tecnici ed occupazioni industriali e commerciali, soprattutto per una vita dedicata agli affari borghesi in modo considerevole ancora più bassah di quella dei protestanti; mentre viene da essi preferita quella preparazione culturale che offrono i Ginnasi umanistici; è un fenomeno che non si spiega con quelle condizioni economiche, di cui si è parlato, ma che viceversa deve essere addotto a spiegazione della scarsa partecipazione dei Cattolici all’industria capitalistica. Ancor più ci colpisce una osservazione, che aiuta a comprendere la scarsa parte dei Cattolici nella manodopera specializzata della moderna industria. Il noto fenomeno che la fabbrica toglie i suoi operai specializzati da ciò che rimane dell’artigianato, che lascia a questo, dunque, la preparazione dei propri operai, e glieli sottrae dopoché questa preparazione è compiuta, si nota in misura notevolmente superiore fra i garzoni dell’artigianato protestante che non fra quelli cattolici. Degli artigiani cattolicii più dimostrano la tendenza a rimanere nell’artigianato e diventano perciò relativamente più spesso padroni mentre i Protestanti passano nelle fabbriche in una misura relativamente più forte per occuparvi i posti più alti delle maestranze specializzate e del ceto impiegatizio industrialei. In questi casi il rapporto causale è senza dubbio tale, che l’orientamento spirituale dovuto all’educazione, e cioè l’indirizzo educativo condizionato dall’atmosfera religiosa del luogo natio e della casa paterna ha determinato la scelta e l’ulteriore svolgimento della professione. La minor partecipazione dei Cattolici in Germania alla moderna vita economica colpisce tanto più, in quanto contraddice all’esperienza fatta finoraj e riscontrabile anche nel presente: che minoranze nazionali e religiose, che stanno, come dominate, di fronte a un altro gruppo «dominante», a causa della loro esclusione, volontaria od involontaria, da influenti posizioni politiche, sogliono esser spinte in forte misura sulla via dell’industria, e che i loro membri meglio dotati cercano di appagare qui l’ambizione che non può esser messa in valore nel servizio statale. Così avviene indiscutibilmente dei Polacchi della Russia e della Prussia orientale, senza dubbio assai progrediti economicamente, al contrario di quel che avviene nella Galizia da loro dominata. Così avvenne nel passato degli Ugonotti in Francia sotto Luigi XIV,
dei Nonconformisti e dei Quaccheri in Inghilterra e–last not least–avviene degli Ebrei da due millenni. Tra i Cattolici in Germania non scorgiamo nulla di un simile effetto, o per lo meno nulla tale da colpirci; ed anche nel passato i Cattolici, contrariamente ai Protestanti, non hanno mai manifestato, né in Olanda né in Inghilterra–nei tempi in cui furono perseguitati o soltanto tollerati–alcuno sviluppo economico in particolar modo eminente. Sta, anzi, di fatto che i Protestanti (e fra di loro in particolar modo alcune tendenze di cui ci occuperemo più oltre) tanto come classe dominata quanto come classe dominante, tanto come maggioranza quanto come minoranza, hanno dimostrato una speciale tendenza al razionalismo economico, che nei Cattolici non si può osservare né nell’una né nell’altra situazionek. La causa di questa diversa condotta deve esser ricercata dun que nelle qualità spirituali permanenti e non nella situazione contingente delle rispettive confessionil. Si giungerebbe perciò ad indagare quali elementi, di quelli che costituiscono la particolare essenza delle singole confessioni, hanno agito ed in parte ancora agiscono, nel senso su descritto. Ora si potrebbe esser tentati, con un’osservazione superficiale e dietro talune impressioni moderne, di formulare così il contrasto: il maggiore «distacco dal mondo» del Cattolicesimo, i tratti ascetici, che si trovano nei suoi più alti ideali, debbono educare chi lo confessa a una maggiore indifferenza di fronte ai beni di questo mondo. Questa motivazione corrisponde al solito schema popolare che si usa nel giudicare le due confessioni. Da parte dei Protestanti si sfrutta questa concezione per criticare quegli ideali ascetici (veri o presunti) della condotta cattolica nella vita; da parte cattolica si risponde col rimproverare «il materialismo» che sarebbe la conseguenza della secolarizzazione da parte del Protestantesimo di tutti i fini della vita. Anche uno scrittore moderno credette di formulare il contrasto che si manifesta nella condotta delle due confessioni di fronte alla vita economica, nella seguente maniera: «Il cattolico è più tranquillo; dotato di un minore impulso per l’attività industriale; egli apprezza più una carriera che sia il più possibile sicura, anche se con minor rendita, che una vita rischiosa, intensa, ma che sia apportatrice di ricchezze e onori. Il dettato popolare dice scherzosamente “ o mangiar bene o dormire tranquilli ”. Nel nostro caso il Protestante preferisce mangiar bene, mentre il Cattolico vuol dormire tranquillom». Nella realtà col «voler mangiar bene» si può ben caratterizzare la ragione dell’atteggiamento della parte religiosamente più indifferente dei Protestanti
in Germania e nel presente, in maniera incompleta ma in parte esatta. Non soltanto nel passato le cose andarono alquanto diversamente; per i Puritani inglesi, olandesi ed americani, fu tratto caratteristico, e precisamente, come vedremo, uno dei loro tratti caratteristici per noi più importanti, proprio il contrario della mondanità; ed anche il Protestantesimo francese ha conservato a lungo ed in una certa misura fino ad oggi il carattere che durante le lotte di religione fu impresso in generale alle Chiese calvinistiche e in particolare a quelle che furono «sotto la Croce». Esso è stato tuttavia–oppure, così fra breve ci dovremo domandare, proprio per questo–uno dei principali fattori dello sviluppo industriale e capitalistico della Francia, e lo è rimasto nella piccola misura, a cui lo hanno ridotto le persecuzioni. Se questa serietà e il forte predominio degli interessi religiosi si vogliono chiamare «distacco dal mondo», allora i Calvinisti francesi furono e sono per lo meno tanto distaccati dal mondo quanto, per es., i Cattolici tedeschi del Nord, per cui il Cattolicesimo è una questione di sentimento, come per nessun altro popolo della terra. E gli uni e gli altri differiscono nel medesimo senso dalla parte religiosamente preminente; dai Cattolici di Francia, nei loro ceti più bassi, amanti della vita, nei ceti più alti addirittura avversi alla religione, dai Protestanti di Germania tutti occupati nella vita economica, e nei ceti più alti indifferenti in materia di religionen. Nessun altro esempio all’infuori di que sto mostra così chiaramente, che su concetti così vaghi come quello del presunto distacco dal mondo dei Cattolici e della presunta mondanità dei Protestanti, non c’è da fondare nulla, poiché sotto tale generalizzazione essi non sono appropriati, in parte neppur oggi; e certamente non lo sono per il passato. Se si volesse lavorare con essi, allora alle osservazioni già fatte dovremmo aggiungere altre che si presentano subito; anzi, il dubbio che essi ci inspirano è che tutto il contrasto tra distacco dal mondo, ascetismo, religiosità da una parte, partecipazione alla vita industriale capitalistica dall’altra, sia invece da convertirsi in una intima affinità. Nella realtà ci colpisce–per cominciare con alcuni punti esteriori–quanto grande sia stato il numero dei rappresentanti delle forme più spirituali della pietà cristiana, che ebbero origine da ceti mercantili. Si potrebbe pensare ad un effetto del contrasto del «Mammonismo» su nature mistiche ed inadatte alla professione del commerciante; e certamente il processo della conversione, come nel caso di Francesco d’Assisi, così anche in quello di molti pietisti, spesso si è presentato soggettivamente in questo modo al convertito. E
similmente si potrebbe cercare di spiegare come una reazione contro una educazione giovanile ascetica il fenomeno, che ci colpisce con eguale frequenza, fino giù a Ceeil Rhodes4, che da case di pastori escono imprenditori capitalistici di grande stile. Ma questa spiegazione viene meno là dove un abilissimo senso capitalistico degli affari coincide, nelle medesime persone e nei medesimi gruppi, colle più intense forme di una religiosità che penetra e regola la vita intera. E questi casi non sono isolati ma costituiscono anzi il tratto caratteristico di interi gruppi tra le Chiese e le sette più importanti nella storia del Protestantesimo. Specialmente il Calvinismo mostra, dovunque è apparsoo, tale combinazione. Per quanto all’epoca in cui si diffuse la Riforma esso non fosse legato, in nessun paese, ad una determinata classe, come in generale nessuna delle confessioni protestanti, tuttavia è caratteristico e in un certo senso «tipico» il fatto che tra i proseliti delle Chiese ugonotte francesi erano particolarmente numerosi monaci ed industriali (mercanti, artigiani) e lo rimasero, specialmente nel tempo delle persecuzionip. Già gli Spagnoli sapevano che «l’eresia» (cioè il Calvinismo degli Olandesi) «promoveva lo spirito commerciale» e questo corrisponde perfettamente ai concetti, che Sir W. Petty espone nella sua trattazione sulle cause dello sviluppo capitalistico dei Paesi Bassi. Il Gotheinq definisce a ragione la diaspora calvinistica «il semenzaio dell’economia capitalistica»r. Si po trebbe qui considerare come decisiva la superiorità della civiltà economica francese ed olandese, da cui trasse principalmente origine questa diaspora, oppure la forte influenza deiresilio e del violento strappo da tutte le condizioni di vita tradizionalis. Ma anche in Francia le cose stavano così, nel secolo xvn, come è noto per le lotte di Colbert5 Perfino l’Austria–per tacere di altri paesi–ha direttamente importato, richiedendolo l’occasione, industriali protestanti. Ma non tutte le denominazioni protestanti sembrano agire nel medesimo senso. Il Calvinismo ebbe un’azione simile anche in Germania; la confessione riformatat nel Wuppertal ed altrove, sembra–in confronto con altre confessioni–esser stata in particolar modo favorevole allo sviluppo dello spirito capitalistico. Più favorevole, per esem pio, del Luteranesimo, come insegna il confronto, in generale ed in casi particolari, specialmente nel Wuppertalu. Per la Scozia Buckle6 e tra i poeti inglesi in particolar modo Keats7 hanno notato questi rapportiv.
Ancor più appariscente è il nesso, che non ha quasi bisogno di esser ricordato, di una regolamentazione religiosa della vita con uno sviluppo intenso del senso degli affari presso un gran numero di quelle sette, il cui distacco dal mondo è divenuto proverbiale al pari della loro ricchezza; specialmente i Quaccheri e i Mennoniti. La parte che i primi hanno avuto in Inghilterra e nelTAmerica settentrionale è analoga a quella dei Mennoniti nei Paesi Bassi e in Germania. Che nella Prussia orientale persino Federico Guglielmo I lasciasse indisturbati, come fattori indispensabili deH’industria, i Mennoniti, nonostante il loro assoluto rifiuto di prestar servizio militare, è uno solo dei tanti fatti ben noti, ma in ogni modo, a causa del carattere di questo re, uno dei più forti, che illustrino la cosa. Ed infine è abbastanza noto che anche presso i Pietisti esisteva la combinazione di una religiosità intensa con un senso ed un successo negli affari altamente sviluppatiw; basta ricordarsi di cose e fatti renani e di Calw; in questa esposizione del tutto provvisoria gli esempi non possono venire più oltre accumulati. Ma questi pochi dimostrano tutti una cosa sola: che lo «spirito del lavoro», o, come viene anche chiamato, del progresso, il cui risveglio si è inclini ad attribuire al Protestantesimo, non deve essere inteso, come oggi spesso avviene, nel senso di mondanità, o con qualsiasi altro significato illuministico. Il vecchio protestantesimo di un Lutero, di un Calvino, di un Knox10, di un Voet11, aveva ben poco da spartire con tutto ciò che oggi si chiama progresso. Se si deve dunque trovare una intima affinità di certe espressioni dell’antico spirito protestante e della moderna civiltà capitalistica, noi dobbiamo, piaccia o non piaccia, cercarla non nella sua presunta mondanità materialistica o per lo meno antiascetica, ma piuttosto nei suoi tratti religiosi. Montesquieu dice degli Inglesi (Esprit des Lois, Libro XX, cap. 7) che essi in tre cose importantissime hanno prodotto di più di tutti gli altri popoli del mondo: nella religiosità, nel commercio e nella libertà. La loro superiorità nel campo economico, e, quel che appartiene ad un’altra connessione di cause, la loro capacità alle libere istituzioni politiche, forse si connetterebbe con quel record nella religiosità che Montesquieu riconosce loro? Una grande quantità di possibili rapporti emergono dinanzi a noi confusamente presentiti, quando poniamo così la questione. Il nostro compito dunque dovrà essere quello di formulare quel che adesso confusamente ondeggia dinanzi a noi, con tanta chiarezza quanta ne consente l’inesauribile varietà, che è riposta in ogni fenomeno storico. Ma per poterlo fare si deve necessariamente abbandonare il terreno delle vaghe concezioni generali, sul
quale abbiamo finora operato, e si deve tentare di penetrare nei caratteri particolari e nelle differenze di quei vasti mondi del pensiero religioso, che ci sono dati storicamente nelle diverse espressioni della religione cristiana. Ma prima si richiedono ancora alcune osservazioni; innanzitutto sul particolare carattere dell’oggetto, della cui spiegazione storica qui si tratta; e poi sul senso, in cui è possibile, nel quadro di queste indagini, una tale spiegazione.
a. I casi di deviazione – non sempre ma spesso – si spiegano col fatto che naturalmente la confessione delle maestranze di un’industria dipende in prima linea dalla confessione del luogo della sua sede, o da quella dei distretti di reclutamento dei suoi operai. Questa circostanza altera spesso di primo acchito il quadro che presentano alcune statistiche professionali, soprattutto nelle province renane. Oltre a ciò i numeri sono conclusivi solo se si specifichino e si calcolino esattamente le singole professioni. Se no, grandi imprenditori vengono confusi, nella categoria di «capi azienda», con maestri artigiani che lavorano da soli. Ma soprattutto l’odierno grande capitalismo è divenuto, di fatto, indipendente da quelle influenze che la confessione poteva avere nel passato, specialmente rispetto ai larghi strati inferiori delle sue maestranze. Ma su ciò, più oltre. b. Cfr. per es. SCHELL, Der Katholizismus als Prinzip des Fortschrittes, Wurzburg 1897, P. 3*5 oN Hertling, Das Prinzip des Katholizismus und die Wissenschajt, Freiburg 1899, P. 58 c. Uno dei miei scolari ha elaborato il materiale statistico più preciso che noi possediamo sull’argomento: la statistica delle confessioni nel Baden. Cfr. MARTIN OFFENBACHER, Konfession und soziale Schichtung, Eine Studie über die wirtschaftlische Lage der Katholiken und Protestanten in Baden, Tübingen und Leipzig, 1901, vol. IV, fascicolo 5 delle «Volkswirtschaftliche Abhandlungen der badischen Hochschulen». I fatti e le cifre che vengono addotti più oltre per documentazione provengono tutti da questo lavoro. d. Nell’anno 1895 Per es. nel Baden vi era: su ogni 1000 Evangelici un capitale imponibile agli effetti dell’imposta sul reddito di 954.000 Marchi. Su ogni 1000 Cattolici un capitale imponibile agli effetti dell’imposta sul reddito di 589.000 Marchi. Gli Israeliti con oltre 4 milioni su mille sono di gran lunga in cima a tutti (le cifre secondo Offenbacher, op. cit.). e. V., su ciò, il complesso dei risultati del lavoro dell’Offenbacher. f. Anche per questo un’esposizione più dettagliata per il Baden si trova nei due primi capitoli del lavoro dell’Offenbacher. g. Nella popolazione del Baden la percentuale delle confessioni nel 1895 era seguente: 37,0 Protestanti, 61,3 Cattolici, 1,5 Israeliti. Ma la confessionalità degli scolari nelle scuole di grado superiore alle elementari non obbligatorie, dal 1885 al 1891 si presentava alla maniera seguente (OFFENBACHER, op. cit., p. 16):
Gli stessi fenomeni si hanno in Prussia, Baviera, Württemberg, nell’Alsazia-Lorena e in Ungheria. (V.
le cifre presso OFFENBACHER, op. cit., p. 188 e segg.)2. h. Cfr. le cifre nella nota precedente, dove la frequenza dei Cattolici nelle scuole medie, di un terzo inferiore alla percentuale cattolica nella popolazione, risale un poco solo nei Ginnasi (evidentemente per la preparazione agli studi teologici). Si rilevi come cosa caratteristica, riguardo anche a quanto diremo in seguito, che in Ungheria i Riformati presentano fenomeni tipici analoghi a quelli protestanti nella frequenza delle scuole medie, in una misura ancora maggiore. i. V. la riprova in OFFENBACHER, op. cit., p. 54 e le tabelle alla fine del lavoro. j. V. in particolare gli scritti di Sir W. Petty3, che citeremo più volte nei singoli punti.
k. L’esemplificazione di Petty per l’Irlanda si spiega semplicemente con il fatto che il ceto protestante colà era rappresentato solo da proprietari terrieri (landlords) assenteistici. Se essa volesse affermare qualche cosa di più sarebbe manifestamente errata, come dimostra la posizione degli «Scotch Irish». Il rapporto tipico fra Protestantesimo e capitalismo esiste in Irlanda come altrove. (Sugli «Scotch Irish» in Irlanda, vedi C. A. ANNA, The Scotch Irish, 2 vol., New York, Putnam). l. Naturalmente ciò non esclude che anche questa abbia avuto conseguenze importantissime e non contraddice a ciò che diremo più oltre; all’esser stato, cioè, di grande importanza per tutta l’atmosfera morale in cui vissero alcune sette protestanti ed all’avere avuto influenza anche sulla loro partecipazione alla vita economica il fatto che esse rappresentassero minoranze piccole e perciò omogenee, quale fu il caso dei Calvinisti più rigorosi, anche là dove dominarono politicamente, all’infuori di Ginevra e della Nuova Inghilterra. Che emigranti di tutte le confessioni del mondo: indiani, arabi, siriaci, fenici, greci, lombardi, quali rappresentanti della pratica mercantile di paesi altamente progrediti, emigrassero in altri, fu fenomeno universale e non ha niente a che vedere col nostro problema. (BRENTANO nel saggio che più volte citeremo Die Anfänge des modernen Kapitalismus, accenna alla propria famiglia. Ma banchieri di provenienza straniera, quali specifici rappresentanti di esperienze e di relazioni commerciali, ve ne sono stati in tutti i paesi e in tutti i tempi. Non sono una specialità del capitalismo moderno e furono considerati dai Protestanti con diffidenza, nei riguardi morali. Diverso fu il caso delle famiglie protestanti locarnesi emigrate a Zurigo, i Muralt, i Pestalozzi, ecc., che ben presto divennero colà rappresentanti di uno sviluppo capitalistico industriale specificamente moderno). m. Dr. OFFENBACHER, op. cit., p. 68. n. Osservazioni straordinariamente fini sul carattere peculiare delle confessioni in Francia e in Germania, e l’incrocio di questi contrasti cogli altri elementi culturali nella lotta delle nazionalità in Alsazia si trovano nell’ottimo libro di W. WITTICH, Deutsche und französische Kultur im Elsass (nella «Illustrierte Elsàssische Rundschau», 1900, pubblicato anche separatamente). o. Ciò, naturalmente, vuol dire «dà dove c’era la possibilità di uno sviluppo capitalistico». p. Cfr. su ciò p. es. Dupin de St. Andre, U ancienne église réformée de Tours. Les membres de Véglise (nel «Bull, de la Soc. pour l’hist. du Protest.», IV s., t. io). Anche qui–e questo pensiero potrebbe correre facilmente alla mente soprattutto di cattolici–si potrebbe considerare come motivo determinante la brama di emanciparsi dal controllo monastico o, in genere, ecclesiastico. Ma a ciò si oppone il giudizio di avversari contemporanei (ivi compreso Rabelais); non solo; ma anche, per es., gli scrupoli di coscienza delle prime sinodi nazionali ugonotte (per es. l° Sinodo, C. partic., qu. io in AYMON, Synod-Nat. p. io) sulla questione se un banchiere possa diventare anziano di una chiesa e la discussione–sempre ricorrente nelle sinodi nazionali, nonostante la inequivocabile posizione di Calvino–sulla ammissibilità del dare ad interesse, sulla quale chiedevano il parere membri della comunità dubitosi, dimostrano, da un lato, la forte partecipazione delle categorie di persone che vi erano interessate; ma dimostrano anche, da un altro lato, che il desiderio di poter esercitare la usuraria pravitas senza il controllo della confessione, non può essere stato decisivo. Lo stesso vale per l’Olanda (v. oltre). Il divieto canonico dell’interesse non ha, in queste ricerche–sia detto espressamente–parte alcuna. q. W. G. des Schwarzwalds, I, 67.
r. Connesse con questo le brevi osservazioni del SOMBART, Der moderne Kapitalismus, ia ed., p. 380. Purtroppo più tardi il Sombart ha propugnato una tesi del tutto errata, su cui dovremo ritornare presentandosene l’occasione, in quella delle sue opere più vaste (Der Bourgeois, Monaco 1913) che in questi argomenti è di gran lunga più debole delle altre e che è sotto l’influenza di uno scritto di F. KELLER (Unternehmung und Mehrwert, «Schriften der Gòrres-Sesellschaft», fase. 12), il quale del pari, nonostante molte osservazioni buone, ma non nuove sotto questo rispetto, resta molto al disotto di altri moderni lavori cattolici apologetici. s. Poiché è ormai assodato che l’emigrazione pura e semplice è uno dei mezzi più efficaci per intensificare il lavoro. Quella stessa ragazza polacca che in patria non poteva essere strappata alla sua pigrizia tradizionale da nessuna opportunità di guadagno, per quanto favorevole fosse, sembra cambiare interamente la sua natura, ed è capace di un lavoro enorme, quando all’estero lavora come bracciante rurale occasionale. Negli operai italiani emigrati si riscontrò lo stesso fenomeno. Che in tal caso non sia fattore decisivo l’ingresso in un ambiente dal tenor di vita più elevato–per quando anche esso naturalmente vi influisca–lo dimostra l’apparire del medesimo fenomeno anche là dove–come nell’agricoltura–la specie di lavoro è la stessa che in patria, e l’alloggio in caserme per emigranti ecc., implica lo scendere temporaneo del tenore di vita ad un livello tale, che non sarebbe mai tollerato in patria. Il solo fatto del lavorare in regioni diverse delle solite rompe il tradizionalismo e costituisce l’elemento educati- vo. Non c’è quasi bisogno di rilevare quanta parte dello sviluppo economico americano riposi su tali effetti dell’espatrio. Nell’antichità l’importanza, del tutto simile, dell’esilio babilonese per gli Ebrei si può, per così dire, cogliere colle mani nelle iscrizioni e la stessa cosa vale per i Parsi. Ma per i Protestanti l’influenza dei loro particolari caratteri religiosi ha una sua parte come fattore autonomo–come avviene nell’India per i Jaina–e lo dimostra l’evidente differenza delle colonie puritane della Nuova Inghilterra di fronte al cattolico Maryland, al Sud episcopalistico, ed all’interconfessionale Rhode Island. t. Essa è, come è noto, nella maggior parte delle sue forme, un Calvinismo o uno Zwinglianismo più o meno temperato. u. Nella quasi interamente luterana Amburgo l’unico patrimonio che risale fino al XVII secolo è quello di una nota famiglia di confessione riformata. (Notizia favoritami cortesemente dal prof. A. Wahl). v. Non è cosa nuova dunque che qui venga affermato questo nesso, sul quale hanno già scritto, fra gli altri, Laveleye8, Matthew Arnold9 e altri; ma si tratta di un’opinione per niente motivata. è necessario spiegarla. w. Ciò naturalmente non esclude che il Pietismo ufficiale, come altri indirizzi religiosi, si sia, in seguito, opposto per concezioni patriarcalistiche, a certi «progressi» della costituzione economica capitalistica, come per es. al passaggio dalla industria familiare al sistema industriale della fabbrica. è necessario distinguere nettamente, come spesso vedremo, l’ideale a cui aspira un indirizzo religioso dalla sua influenza elettiva sui propri seguaci. (Sulla capacità di lavoro caratteristica delle maestranze pietiste si trovano esempi da me constatati in una fabbrica della Westfalia nel saggio Zur Psychophiysik der gewerblichen Arbeit, in «Archiv. £. Soz.», vol. XXVIII, p. 263 ed oltre). 1. Thomas Carlyle, 1795–1881, saggista e storico scozzese, autore di numerose opere in cui affronta di volta in volta temi storici, politici, economici, biografici e religiosi. Vi spiccano in particolare le influenze calviniste in lui fortemente presenti e sentite, sia pure in forma secolarizzata. 2. Dei cinque tipi di scuole qui citati, il primo corrisponde al nostro Ginnasio Liceo; gli altri, grosso modo, rispettivamente, al Liceo scientifico, all’Istituto tecnico superiore e inferiore e alle Scuole d’avviamento. 3. Sir William Petty, 1623–1687, economista politico e statistico inglese, uno dei fondatori del pensiero economico e della statistica economica e demografica. 4. Cedi Rhodes, 1853–1902, statista e finanziere inglese, uno dei grandi costruttori dell’impero britannico, ha dato il suo nome ai territori della Rhodesia ed è stato quello che più ha contribuito a
portare la vasta zona sudafricana sotto il dominio britannico. 5. Jean-Baptiste Colbert, 1619–1683, statista francese e ministro delle finanze sotto Luigi XIV. I suoi sforzi per il progresso economico del paese lo facevano ostile alle misure contro i Protestanti (impegnati nell’industria e nel commercio) e diffidente invece nei confronti dei monaci e anche del clero secolare. 6. Henry Thomas Buckle, 1821–1862, storico inglese, autore di una Hìstory of Civilisation in England che suscitò molte critiche. 7. John Keats, 1795–1821, uno dei tre grandi poeti inglesi, con Shelley e Byron, della seconda generazione del Romanticismo inglese. 8. Emile-Louis-Victor barone di Laveleye, 1822–1892, professore di economia politica all’università di Liegi, autore di saggi di economia, politica, storia, uno dei cosiddetti «socialisti della cattedra» avvicinatosi con gli anni all’economia liberale. 9. Matthew Arnold, 1822–1888, poeta e critico inglese, uno dei principali dell’epoca vittoriana. 10. John Knox, 1514–1572, capo e storico della riforma protestante in Scozia, uno dei fondatori del presbiterianesimo. 11. Gijsbert Voet, 1589–1676, rettore dell’università di Utrecht, acerrimo nemico di Cartesio contro il quale lanciò il sospetto di ateismo ottenendone la condanna dai magistrati olandesi.
CAPITOLO II LO SPIRITO DEL CAPITALISMO Nel titolo di questo studio appare il concetto, che suona un po’ pretenzioso, di «spirito del capitalismo». Che cosa si deve intendere sotto questa espressione? Nel tentativo di darne una definizione, si palesano subito talune difficoltà che sono inerenti allo scopo stesso della nostra indagine. Se si può trovare un oggetto, per cui l’impiego di quella espressione abbia un senso qualsiasi, esso può essere soltanto un’individualità storica; cioè un complesso di relazioni nella realtà storica, che noi dal punto di vista della sua importanza per la storia e per la civiltà, riuniamo in un unico concetto. Ma un tale concetto storico, poiché per il suo contenuto si riferisce ad un fenomeno importantissimo nel suo carattere individuale, non può essere definito e limitato secondo lo schema, genus proximum, differentia specifica, ma deve essere costruito a poco a poco dalle parti che lo compongono e che vanno tolte dalla realtà storica. La perfetta definizione concettuale non può perciò stare al principio ma deve esser posta alla fine dell’indagine; si paleserà perciò nel corso della trattazione e ne costituirà l’importante risultato, come debba formularsi nel miglior modo, più adeguato ai punti di vista che qui ci interessano, ciò che noi comprendiamo come «spirito del capitalismo». Tali punti di vista–di cui dovremo parlare ancora–non sono gli unici dai quali possano essere analizzati quei fenomeni storici che qui consideriamo. Altri punti di vista darebbero come risultato, in questo come in ogni fenomeno storico, aspetti diversi da quelli per noi essenziali; dal che senz’altro segue, che per «spirito del capitalismo» non si può né si deve necessariamente comprendere soltanto quel che apparirà essenziale per la nostra concezione. Ciò è inerente all’essenza stessa della formazione dei concetti storici la quale, ai fini del suo metodo, non cerca di incasellare la realtà in astratti concetti di genere, ma bensì di inserirla in concreti nessi generici di colore specificamente individuale. Se si deve dunque determinare l’oggetto, che si vuole analizzare e spiegare storicamente, non si potrà avere una definizione concettuale; ma dapprima soltanto un’illustrazione provvisoria di quel che si intende per spirito del capitalismo. Un tale sguardo d’insieme è infatti indispensabile per intenderci circa la materia della nostra indagine, e per raggiungere questo scopo ci atteniamo a un documento di quello «spirito» che contiene, in una purezza
quasi classica, quel che per ora ci interessa, ed offre al tempo stesso il vantaggio di esser libero da ogni rapporto diretto con argomenti religiosi, di esser dunque, per il nostro tema, libero da preconcetti: «Ricordati che il tempo è denaro. Chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci scellini al giorno, e va a passeggio mezza giornata, o fa il poltrone nella sua stanza, se anche spende solo sei pence per i suoi piaceri, non deve contare solo questi; oltre a questi egli ha speso, anzi buttato via, anche cinque scellini. Ricordati che il credito e denaro. Se uno lascia presso di me il suo denaro esigibile, mi regala gli interessi, o quanto io in questo tempo posso prenderne. Ciò ammonta ad una somma considerevole se un uomo ha molto e buon credito, e ne fa buon uso. Ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo. Il denaro può produrre denaro, ed i frutti possono ancora produrne e così via. Cinque scellini impiegati diventano sei, e di nuovo impiegati sette scellini e tre pence e così via finché diventano cento lire sterline. Quanto più denaro è disponibile, tanto più se ne produce nell’impiego, così che l’utile sale sempre più alto. Chi uccide una scrofa, uccide tutta la sua discen denza fino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo da cinque scellini, uccide (!) tutto quel che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire sterline. Ricordati che–come dice il proverbio–chi paga puntualmente è il padrone della borsa di ciascuno. Colui di cui si sa che paga puntualmente alla data promessa, può in ogni tempo prendere a prestito tutto il denaro, di cui i suoi amici non hanno bisogno. Ciò è di grande utilità. Insieme colla diligenza e colla sobrietà, niente aiuta un giovane a farsi la sua strada nel mondo, quanto la puntualità e l’esattezza in tutti i suoi affari. Perciò non tener mai il denaro preso a prestito un’ora di più di quel che tu hai promesso, acciocché il risentimento del tuo amico per il ritardo, non ti chiuda per sempre la sua borsa. Le azioni più insignificanti, che hanno influenza sul credito di un uomo, debbono esser da lui tenute in considerazione. Il colpo del tuo martello, che il tuo creditore sente alle cinque del mattino od alle otto di sera, lo rende tranquillo per sei mesi; se ti vede al bigliardo o ode la tua voce all’osteria, quando dovresti essere al lavoro, la mattina seguente ti cita per il pagamento ed esige il suo denaro prima che tu l’abbia disponibile. Inoltre ciò mostra che tu hai memoria per i tuoi debiti; ti fa figurare come uomo non solo preciso, ma anche d’onore, e ciò aumenta il tuo credito.
Guardati dal ritenere per tua proprietà tutto quel che possiedi e dal vivere secondo tale idea. Su tale illusione cadono molte persone, che hanno credito. Per evitar ciò, tieni calcolo esatto delle tue spese e della tua rendita. Se ti prendi una volta la pena di osservare i piccoli dettagli, ciò darà il seguente buon risultato: scoprirai quali piccolissime spese salgano a poco a poco a grandi somme e noterai quel che si sarebbe potuto risparmiare e quel che si potrà risparmiare in avvenire. Per sei sterline all’anno puoi aver l’uso di 100 sterline, ammesso che tu sia un uomo di nota avvedutezza ed onestà. Chi spende inutilmente un grosso al giorno, spende inutilmente sei sterline all’anno, e questa somma è il prezzo per l’uso di 100 sterline. Chi perde ogni giorno una parte del proprio tempo per il valore di un grosso, e possono essere solo due minuti, perde, un giorno dietro l’altro, il privilegio di usare di 100 sterline per un anno. Chi spreca tempo per il valore di 5 scellini, perde cinque scellini, e potrebbe del pari gettare cinque scellini in mare. Chi perde cinque scellini, non perde soltanto questa somma, ma tutto quello che si sarebbe potuto guadagnare con essa impiegandola nell’industria, il che, se si tratti di un giovane che raggiunga poi un’età avanzata, ammonta ad una somma assai considerevole». è Benjamin Franklina colui che ci predica questi aforismi, gli stessi che Ferdinand Kurnberger1 prende in giro come professione di fede degli Yankees nei suoi Quadri della civiltà americanab, sprizzanti spirito e veleno. Nessuno vorrà porre in dubbio che da essi parli lo spirito del capitalismo, anche se non si debba ritenere che vi sia contenuto tutto quello che si può intendere con tale espressione. Se noi indugiamo su questo passo, la cui filosofia lo «Stanco d’America» di Kurnberger riassume così: dei manzi si fa sego, e degli uomini denaro, ci colpisce come caratteristico di questa «filosofia dell’avarizia» l’ideale dell’uomo d’onore degno di credito, e soprattutto il pensiero del dovere del singolo di fronte all’interesse–posto come fine a se stesso– dell’aumento del suo capitale. In realtà è essenziale alla nostra materia il fatto che qui venga predicata, non una tecnica di vita, ma una particolare etica, la cui violazione vien trattata non come pazzia, ma come una specie di negligenza dei propri doveri. Questo è il punto della questione. Non è soltanto abilità negli affari quel che si insegna consigli del genere si trovano molto spesso anche altrove,–è un ethos che vi si manifesta, ed appunto in questa sua qualità presenta interesse per noi. Quando Jakob Fugger di fronte ad un compagno di affari, che si è ritirato
per riposare e lo consiglia a fare lo stesso, poiché ormai ha guadagnato abbastanza e può lasciar guadagnare un poco anche gli altri, rifiuta il consiglio come «pusillanime» e risponde «che egli ha tutt’altra intenzione, vuol guadagnare fin tanto che può»c, lo «spirito» di una tale espressione differisce evidentemente da quello di Franklin; quel che là viene espresso come un’esuberanza di ardimento commerciale, e di una tendenza personale, moralmente indifferented, qui prende il carattere di una massima, di colore etico, per la condotta della vita. In questo senso specifico viene qui impiegato il concetto di «spirito del capitalismo», naturalmente del capitalismo moderno ye. Che qui si tratta soltanto del capitalismo europeo occiden tale ed americano si comprende dall’impostazione stessa del problema. Un capitalismo è esistito in Cina, in India, a Babilonia, nell’antichità e nel Medioevo. Ma, come vedremo, gli mancava quel particolare ethos. In ogni caso tutti i precetti di Franklin hanno un senso utilitario: l’onestà è utile perché dà credito, e la puntualità, la diligenza, la regolatezza del pari, e perciò esse sono virtù: dal che parrebbe seguire, che ove l’apparenza dell’onestà renda lo stesso servizio, questa dovrebbe bastare, ed un eccesso non necessario di tal virtù dovrebbe apparire agli occhi di Franklin riprovevole quale spreco improduttivo. Ed in realtà chi nella sua autobiografia legge il racconto della sua «conversione» a quelle virtùf, le considerazioni sull’utilità, che reca per la conquista della stima universaleg il mantenere l’apparenza della modestia, il cosciente deprezzamento dei propri meriti, deve necessariamente giungere alla conclusione che quelle virtù sono tali per Franklin solo in quanto in concreto sono utili all’individuo e che il surrogarle colla semplice apparenza è sufficiente, là dove rende lo stesso servigio; conseguenza che, alla stregua dell’utilitarismo puro, è inevitabile. Sembra di cogliere qui in flagrante ciò che i Tedeschi sentono come ipocrisia nelle virtù dell’americanismo. Ma la cosa in realtà non è così semplice. Non soltanto il carattere di Benjamin Franklin, quale viene in luce nella rara onestà della sua autobiografia, ed il fatto che egli consideri l’esserglisi manifestata l’utilità della virtù come rivelazione di Dio, che voleva con ciò chiamarlo alla pratica di essa, dimostrano che qui noi abbiamo qualche cosa di diverso da un posticcio esornativo di massime puramente egoistiche. Ma soprattutto il summum bonum di quest’etica, il guadagno di denaro e di sempre più denaro,
che si accompagna al rigoroso scansamento di tutti i piaceri spensierati, è così spoglio di ogni fine eudemonistico o semplicemente edonistico, è pensato in tanta purezza come scopo a se stesso, che di fronte alla felicità ed all’utilità del singolo individuo appare come qualche cosa di interamente trascendente e perfino di irrazionaleh. Il guadagno è considerato come scopo della vita dell’uomo, e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. Questa inversione del rapporto che noi chiameremmo naturale, che è addirittura priva di senso per il modo di sentire comune, è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo così come è estranea all’uomo non tocco dal suo soffio. Ma essa contiene al tempo stesso una serie di sentimenti, che sono in stretta connessione con talune concezioni religiose. Se infatti si domanda perché gli uomini devono far denaro, Benjamin Franklin nella sua autobiografia risponde, benché egli fosse un deista aconfessionale, con un versetto della Bibbia, e ricorda che il padre suo, severamente calvinista, da giovane gli aveva sempre impresso: «Se vedi un uomo prestante nella sua professione, è segno che egli può apparire dinanzi ai re»i. Il guadagno di denaro, nel moderno ordinamento economico, costituisce–in quanto avvenga in modo lecito–il risultato e l’espressione della abilità nella professione, e tale abilità costituisce, così ora ci è dato facilmente di riconoscere, l’alpha e l’omega della morale di Franklin come appare nel passo citato ed in tutti gli altri suoi scritti senza eccezionej. Il concetto infatti del dovere professionale, a noi oggi così ovvio ed in realtà di per se stesso così poco comprensibile; il concetto di un’obbligazione morale, che il singolo deve sentire e sente di fronte all’oggetto della sua attività professionale, qualunque essa sia, ed indipendentemente dal fatto che al modo di sentire comune essa appaia una semplice valorizzazione della propria capacità di lavoro o del proprio capitale, questo concetto è caratteristico dell ‘etica sociale della civiltà capitalistica, anzi in un certo senso è per essa di un’importanza fondamentale. Non che esso si sia sviluppato solo sul terreno del capitalismo; noi cercheremo anzi più oltre di rintracciarlo nel passato. E tanto meno si deve ritenere che sia condizione perché continui ad esistere il capitalismo odierno che i singoli suoi fattori, quali gli imprenditori o gli operai delle industrie capitalistiche moderne, facciano proprie tali massime etiche. L’odierno ordinamento capitalistico è un enorme cosmo, in cui il singolo viene immesso nascendo, e che è a lui dato, per lo meno in quanto
singolo, come un ambiente praticamente non mutabile, nel quale è costretto a vivere. Esso impone a ciascuno, in quanto è costretto dalla connessione del mercato, le norme della sua azione economica. Il fabbricante, che costantemente contravviene a queste norme, viene senza fallo eliminato economicamente così come l’operaio, che non può o non vuole ad esse adattarsi, viene gettato in istrada come disoccupato. Il capitalismo odierno, giunto all’egemonia nella vita economica, si crea e educa, per via della selezione economica, i soggetti economici, imprenditori ed operai, di cui abbisogna. Ma qui si possono proprio toccar con mano i limiti del concetto di «selezione» quale mezzo per spiegare i fenomeni storici. Perché potesse esser preferita attraverso la selezione, cioè potesse riportare vittoria su di altre quella condotta nella vita e nella professione, che si adattava ai caratteri del capitalismo, essa dovette prima sorgere e non in alcuni individui isolati, ma come una concezione, che venisse condivisa da interi gruppi di uomini. Questo suo sorgere è dunque quel che va spiegato. Parleremo più avanti in dettaglio della concezione del materialismo storico ingenuo che tali idee vengano alla luce come «riflessi» o «sovrastrutture» di situazioni economiche. A questo punto basta per il nostro scopo di accennare che nel paese natale di Benjamin Franklin (nel Massachusetts) lo spirito capitalistico (nel senso da noi qui accettato) esisteva prima dello sviluppo capitalistico (già nel 1632 si hanno lamentele per fenomeni specifici di spirito di calcolo e di brama di profitto nella Nuova Inghilterra, in contrapposto ad altri territori deH’America), e che per es. nelle colonie vicine, gli odierni Stati Meridionali dell’Unione, questo spirito era di gran lunga meno sviluppato, e ciò nonostante che queste ultime colonie avessero avuto vita ad opera di grandi capitalisti con fini di sfruttamento economico, e quelle della Nuova Inghilterra per opera di predicatori e graduates3 in unione a piccoli borghesi, artigiani e yeomen4, per motivi religiosi. In tal caso dunque il nesso causale è inverso a quello che si postulerebbe da un punto di vista materialistico. Ma la giovinezza di tali idee è ben più ricca di spine di quel che non ritengano i teorici delle «sovrastrutture», ed il loro crescere non si svolge come quello di un fiore. Lo spirito capitalistico, nel significato che noi sin qui siamo venuti acquistando a tale concetto, ha dovuto affermarsi in una dura lotta contro un mondo intero di forze nemiche. Un sentimento cosciente come quello che trovò espressione nelle citate considerazioni del Franklin, e che riscosse l’approvazione di un popolo intero, sarebbe stato, tanto nell’antichità quanto nel Medioevok proscritto come espressione della più sordida avarizia e di una
coscienza senza dignità, come ancor oggi regolarmente avviene da parte di quei gruppi sociali, che meno si sono inseriti nella moderna economia capitalistica, o che ad essa sono meno adatti. Non perché l’impulso al guadagno nelle epoche precapitalistiche fosse qualche cosa di sconosciuto o di poco svilup pato–come pure spesso si è detto–o perché la aurì sacra fames, la bramosia di denaro, allora come oggi, fosse minore al di fuori del capitalismo borghese, di quel che non sia dentro alla sfera specifica del capitalismo, come l’illusione di romantici moderni ama immaginare. Non in questo consiste la differen za di spirito capitalistico e «precapitalistico»: l’avidità del mandarino cinese, dell’aristocratico dell’antica Roma, dell’agrario moderno regge ad ogni confronto. E la auri sacra fames del cocchiere o del barcaiolo napoletano o dell’asiatico esercente analoghi mestieri, come anche dell’artigianato di paesi sud-europei od asiatici si manifesta, come ciascuno può esperimentare, straordinariamente più penetrante, e in particolare più esente da scrupoli di quella di un inglese nello stesso casol. L’assoluta mancanza di scrupoli nel far valere il proprio interesse nel guadagnar denaro era una caratteristica specifica di quei paesi, il cui sviluppo borghese-capitalistico, valutato sul metro dell’evoluzione occidentale, era rimasto «arretrato». Come sa ogni fab bricante, la deficiente «coscienziosità» dei lavoranti di tali paesi, per esempio dell’Italiam in contrapposto alla Germania, è stato, e in certa misura è ognora, uno dei principali ostacoli al loro sviluppo capitalistico Il capitalismo non può utilizzare come operaio l’indisciplinato rappresentante del «libero arbitrio», così come non può servirsi–come già apprendemmo dal Franklin–dell’uomo d’afiari privo di scrupoli nella sua condotta esteriore. La differenza non consiste dunque nel diverso grado di sviluppo della brama di denaro. La auri sacra fames è antica come la storia dell’umanità a noi conosciuta; ma noi vedremo che coloro che si abbandonarono senza ritegno al suo impulsocome quel capitano olandese, che per il guadagno avrebbe navigato attraverso l’inferno, anche se avesse dovuto abbruciacchiare la vela–non furono affatto i rappresentanti di quella coscienza, da cui uscì il moderno spirito capitalistico come fenomeno di masse, ché questo è il punto. Guadagno senza scrupoli, non frenato da alcuna norma interiore, ce n’è stato in tutti i tempi dove e quando ce ne fu la possibilità. Come la guerra e la pirateria, così anche il commercio, non legato da norme, nelle relazioni cogli stranieri era libero da ogni vincolo; la morale esterna permetteva ciò che tra fratelli era proibito. E come, esteriormente considerato, fu abituale il guadagno capitalistico in
quanto «avventura» in tutte le costituzioni economiche, che conoscevano oggetti patrimoniali a carattere monetario ed offrivano opportunità di impiegarli traendone un profitto–tramite la commenda, l’appalto di imposte, i prestiti di Stato, il finanziamento di guerre, di corti principesche, di impieghi– così si ebbe dappertutto quella coscienza da av venturieri, che irride ai limiti dell’etica. L’assoluta e cosciente mancanza di scrupoli nella bramosia di guadagno coesistette spesso col più stretto e rigoroso attaccamento alla tradizione. E col rompersi della tradizione, e colla penetrazione più o meno forte del commercio libero anche nell’interno delle organizzazioni sociali, tal novità non venne eticamente affermata ed espressa, ma solo di fatto tollerata, e trattata o come eticamente indifferente, od anche come spiacevole, ma purtroppo inevitabile. Questa non soltanto fu la posizione di tutte le dottrine etiche, ma anche–ciò che per ora maggiormente ci interessa–quella della condotta pratica dell’uomo medio dell’epoca precapitalistica; ed intendiamo qui per precapitalistica quella in cui la valorizzazione razionale del capitale nell’industria e la razionale organizzazione del lavoro non erano ancora divenute forze prevalenti neH’orientamento dell’economia. Ma questa condotta appunto fu uno degli ostacoli interiori più forti, contro i quali urtò dappertutto l’adattamento degli uomini ai presupposti di una economia borghese-capitalistica bene ordinata. L’avversario, col quale ebbe a lottare in prima linea lo «spirito» del capitalismo nel senso di un determinato stile di vita, legato a certe norme, che si presenti col carattere di un’«etica», fu quel modo di sentire e di condursi, che si può indicare colla parola «tradizionalismo». Anche qui ogni tentativo di una definizione «conclusiva» deve esser sospeso; ma chiariremo con un caso specifico–ed anche ciò provvisoriamente–quel che si intende con quella parola; e cominciando dal basso, cioè dagli operai. Uno dei mezzi tecnici che l’imprenditore moderno cerca di impiegare per ottenere dai suoi operai un massimo di produzione, e per aumentare l’intensità del lavoro, è il cottimo. Nell’agricoltura per es. un caso che suole richiedere il massimo dell’intensità di lavoro è la raccolta, poiché se il tempo è incerto, dalla maggiore o minore celerità con cui essa viene eseguita dipendono grandissime opportunità di guadagno o di perdita. Perciò si suole qui impiegare il sistema del cottimo. E poiché coll’aumento dei profitti e dell’intensità del commercio l’interesse dell’imprenditore ad affrettare la raccolta si fa generalmente più grande, così si è sempre di nuovo tentato di cointeressare i lavoratori ad una maggiore celerità ed intensità di lavoro
aumentando le percentuali dei loro cottimi, e porgendo loro così la possibilità di ottenere in breve tempo un guadagno per essi straordinariamente alto. Ma qui si manifestarono difficoltà caratteristiche: l’aumento dei cottimi ebbe per risultato che nello stesso spazio di tempo si raggiungesse non una maggiore, ma sibbene una minore produzione, poiché i lavoratori risposero all’aumento dei cottimi non con un aumento, ma con una diminuzione del loro lavoro giornaliero. Il mietitore, uomo che per es. per un marco per jugero aveva fino allora mietuto due jugeri e mezzo al giorno, dopo l’aumento del cottimo di 25 pfennig allo auguro, non mietè, come si sperava, data la possibilità di un alto guadagno circa 3 jugeri al giorno per guadagnare così M. 3,75, come pur sarebbe stato possibile; ma due jugeri soltanto, poiché guadagnava del pari M. 21/2 come fino allora, e, secondo la parola della Bibbia, si contentava del poco. Il maggior guadagno lo attirava meno del minor lavoro, non si chiedeva «quanto posso io guadagnare se do un massimo di lavoro», ma sibbene «quanto debbo lavorare per guadagnare quel salario–M. 2,50–che io ho percepito finora e che copre i miei bisogni tradizionali». Questo è un esempio di quella condotta che deve essere definita «tradizionalismo»: l’uomo «per natura» non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto che è a ciò necessario. Dappertutto là dove il capitalismo moderno iniziò la sua opera di aumento della produttività del lavoro umano mercé l’aumento della sua intensità, urtò nella resistenza indicibilmente ostinata di questo motivo fondamentale del lavoro economico precapitalistico, e vi urta ancor oggi tanto più, quanto più «arretrata» (da un punto di vista capitalistico) è la classe lavoratrice a cui si rivolge. Era dunque ovvio–per tornare al nostro esempio–poiché era fallito l’appello al desiderio di guadagno per mezzo di percentuali più alte, che lo si tentasse per la via inversa; costringendo cioè gli operai, mercé l’abbassamento delle tariffe dei cottimi, a produrre di più per mantenere intatto il loro guadagno. Appare senz’altro ed appare ancor oggi all’osservatore spregiudicato che un basso salario ed un alto profitto stiano in correlazione e che tutto ciò che si paga di più per salari debba significare una corrispondente diminuzione del profitto. Il capitalismo ha percorso più e più volte fin dal suo inizio tale strada e per secoli ebbe valore di articolo di fede la proposizione che i bassi salari fossero produttivi, cioè che aumentassero la produttività del lavoro; e già Pieter de la Cour6 aveva detto–pensando in questo, come vedremo, secondo lo spirito del vecchio Calvinismo–che il popolo lavora
soltanto perché è povero e fino a tanto che è povero. Ma l’efficacia di questo mezzo apparentemente così provato ha i suoi limitin. Certamente il capitalismo esige per il suo svolgimento la presenza di un eccesso di popolazione, che esso possa assoldare sul mercato del lavoro a basso prezzo. Ma un «esercito di riserva» eccessivo favorisce bensì in certe circostanze il suo estendersi quantitativo, ma impedisce il suo sviluppo qualitativo, e soprattutto il passaggio a forme industriali, che sfruttano l’intensità del lavoro. Il basso salario non è affatto identico col lavoro a buon mercato. Anche considerandola solo quantitativamente la prestazione di lavoro decresce con un salario fisiologicamente insufficiente, il quale, alla lunga, porta con sé una selezione dei «meno adatti». L’odierno Slesiano medio miete con sforzo poco più di due terzi di quel che mietono nello stesso tempo i lavoratori meglio pagati e nutriti della Pomerania e del Meclemburgo; il Polacco dà una prestazione materiale tanto minore di quella del Tedesco quanto più si vada verso l’Oriente. Ed anche sul piano puramente affaristico il basso salario, come puntello per lo sviluppo capitalistico, fallisce al suo scopo sempre là dove si tratti di preparare prodotti, che richiedono lavoro qualificato o il servizio di macchine costose e facilmente danneggiabili o, in misura assai notevole, forte attenzione ed iniziativa. Il basso salario in tal caso non rende e riesce all’effetto contrario di quello voluto. Poiché qui non soltanto è indispensabile un senso di responsabilità assai sviluppato; ma anche una coscienza, che per lo meno durante il lavoro si liberi dal continuo problema di come si possa guadagnare il salario abituale con un massimo di comodità ed un minimo di lavoro, e che consideri il lavoro come «assoluto scopo a se stesso» e cioè come «professione» (Beruf). Ma una tale coscienza non è qualche cosa che si trovi in natura. E non può essere il prodotto immediato di alti o bassi salari, ma sibbene il risultato di un lungo processo educativo. Oggi al capitalismo trionfante il reclutamento dei suoi operai in tutti gli stati industriali e neH’interno delle zone industriali dei singoli stati, riesce relativamente facile. Nel passato esso fu, in singoli casi, un problema straordinariamente difficileo. Ed anche oggi non sempre raggiunge il suo scopo, senza l’aiuto di un potente alleato che, come vedremo più avanti, già gli fu vicino nel periodo del suo divenire. Anche qui un altro esempio renderà chiaro il nostro pensiero. Molto spesso le operaie, in ispecie quelle nubili, ci danno un esempio di una forma di lavoro arretrata, tradizionalistica. In ispecie la loro mancanza di capacità e di volontà di abbandonare modi di lavoro tradizionalmente appresi per altri più pratici, di adattarsi a nuove forme di
lavoro, di im parare e di concentrare l’intelligenza o soltanto di adoperarla, forma oggetto di lamenti quasi generali da parte di imprenditori che danno lavoro a delle ragazze, in particolare a delle ragazze tedesche. Spiegazioni sulla possibilità di rendersi il lavoro più facile e soprattutto più redditizio, si imbattono in esse, generalmente, in una completa incomprensione; l’aumento dei cottimi urta contro il muro dell’abitudine. Le cose sogliono andare diversamente, ed è questo un punto assai importante per le nostre considerazioni, solo con ragazze che abbiano ricevuto una speciale educazione religiosa, soprattutto con quelle di provenienza pietistica. Si sente dire frequentemente–e lo confermano occasionali controlli statisticip–che in tale categoria si presentano le probabilità di gran lunga più favorevoli di ottenere un’educazione economica. La capacità di concentrazione del pensiero, come l’atteggiamento assolutamente essenziale di chi si sente obbligato di fronte al proprio lavoro, si trovano qui in particolar modo di frequente unite con una stretta economicità, che calcola il guadagno ed il suo grado, e con un severo dominio di sé ed una morigeratezza, che aumentano straordinariamente la capacità di lavoro. è questo il terreno più propizio per quella concezione del lavoro come scopo a se stesso, come vocazione, quale la richiede il capitalismo; qui si ha la massima probabilità di vincere, mercé l’educazione religiosa, il tran tran tradizionalistico. Già questa osservazione sul capitalismo attualeq ci mostra che in ogni caso vale la pena di porci la domanda come tali nessi della capacità di adattamento al capitalismo con motivi religiosi si siano potuti formare nel tempo del primo sviluppo capita listico. Poiché si può concludere da molti fenomeni singoli che questi nessi esistettero anche allora in simil modo. L’avversione e la persecuzione che, per es., gli operai metodisti ebbero a subire da parte dei loro compagni di lavoro nel xvm secolo, non ebbe alcuna relazione, od almeno non ebbe prevalentemente relazione colle loro eccentricità religiose–l’Inghilterra ne aveva viste ben altre–ma colla laboriosità che era loro specifica, come dimostra l’accenno, che spesso ritorna nelle notizie pervenuteci, alla distruzione dei loro strumenti di lavoro. Ma ritorniamo al presente, ed in particolare agli imprenditori, per renderci conto anche qui dell’importanza del tradizionalismo. Il Sombart nelle sue dissertazioni sulla genesi del capitalismor ha distinto la «soddisfazione dei bisogni» e il «guadagno» come i due grandi motivi fondamentali, sui quali si è intessuta la storia dell’economia, secondo l’importanza che assumono nel determinare il genere e l’indirizzo della
attività economica, la misura del bisogno individuale, o, indipendentemente dai limiti di quello, la tendenza al guadagno e la possibilità del suo conseguimento. Ciò che egli designa come «sistema economico di copertura del fabbisogno» sembra a prima vista coincidere con ciò che abbiamo qui definito «tradizionalismo economico». E tale è il caso in realtà quando si ponga l’identità del concetto di bisogno con quello di «bisogno tradizionale». Ma se non si intende questo, numerosissimi sistemi economici, che secondo la forma della loro organizzazione vanno considerati capitalistici, anche nel senso di una definizione del capitale che il Sombart dà in un altro passo della sua operas, vanno esclusi dall’ambito dei sistemi economici «acquisitivi» e passano in quello dei «sistemi economici di copertura del fabbisogno». Anche imprese che vengono condotte da imprenditori privati sotto la forma di una trasformazione di capitale (denaro o beni valutabili a denaro) per scopi di lucro mercé l’acquisto di mezzi di produzione e la vendita dei prodotti, che sono pertanto senza alcun dubbio «imprese capitalistiche» possono tuttavia avere un carattere tradizionalistico. Così sono andate le cose non eccezio nalmente, ma regolarmente–pur con sempre rinnovate interruzioni e con sempre più nuove e più violente apparizioni dello spirito capitalistico–anche nella più recente storia dell’economia. La forma «capitalistica» di una impresa e lo spirito con cui essa viene condotta, generalmente si adeguano reciprocamente; ma non dipendono luna dall’altra secondo una legge fissa. E se, nonostante ciò, noi adopriamo qui provvisoriamente l’espressione «spirito del capitalismo moderno»t, per quella coscienza, che tende professionalmente ad un guadagno sistematico e razionalmente legittimo in quella maniera, che venne spiegata colPesempio di Benjamin Franklin, lo facciamo per la ragione storica che quella tendenza ha trovato nell’impresa capitalistica moderna la sua forma più adatta, e dall’altra parte l’impresa capitalistica ha avuto in essa l’impulso spirituale più adeguato. Ma per se stesse le due cose possono andar benissimo disgiunte. Benjamin Franklin era pieno di spirito capitalistico in un tempo in cui la sua azienda tipografica per la forma non si distingueva in nulla da una azienda artigiana tradizionale. E noi vedremo che proprio al principio dell’epoca moderna gli imprenditori capitalistici del patriziato commerciale non furono da soli e neppure prevalentemente i rappresentanti di quello spirito che noi abbiamo definito come spirito del capitalismo, ma lo furono molto più gli elementi attivi del medio ceto industrialeu.Anche nel xix secolo non sono suoi rappresentanti classici i distinti gentiluomini di Liverpool o di Amburgo, con i
loro capitali commerciali da lungo tempo ereditati, ma i parve- nus di Manchester, del Reno e della Vestfalia, spesso usciti da modestissime condizioni. E qualche cosa di simile accadeva nel secolo xvi; il centro di gravità delle industrie che allora sorgevano era per lo più nelle mani di par venusv. L’attività di una banca, o del gran commercio di esportazione, o di una grande vendita al dettaglio, o infine di una grande impresa di distribuzione di merci date a produrre all’industria domestica sono certamente possibili solo nella forma dell’impresa capitalistica. Ciononostante possono esser tutte condotte con spirito strettamente tradizionalista; gli affari delle grandi banche d’emissione non possono esser condotti diversamente; il commercio marittimo di intere epoche si è basato su monopoli e regolamenti di carattere strettamente tradizionale; nel commercio al dettaglio -e non si tratta qui dei piccoli perdigiorno privi di capitale che oggi gridano per ottenere aiuti statali– la rivoluzione che pone fine al vecchio tradizionalismo, è ancor oggi in pieno sviluppo e rappresenta lo stesso mutamento che ha mandato all’aria i vecchi sistemi di impresa, coi quali il moderno lavoro domestico ha solo affinità di forma. Come proceda questa rivoluzione e ciò che essa significhi, per quanto tali cose siano note, si può mettere in luce anche qui soltanto attraverso un caso specifico. Fin verso la metà del secolo scorso la vita di un imprenditore7 per lo meno in alcuni rami dell’industria tessile continentale, era assai comoda, almeno per il nostro modo di vedere di oggiw. Ci si può immaginare il suo corso presso a poco così. I contadini venivano coi loro tessuti, la cui materia prima (se si trattava di lino) era prevalentemente od interamente di loro produzione, alla città in cui abitavano gli imprenditori, e, dopo un esame accurato e spesso ufficiale della qualità della merce, ne riscuotevano il prezzo corrente. Clienti degli imprenditori per lo smercio nei paesi più lontani, erano per lo più degli intermediari, che venivano pure in viaggio d’affari, e per lo più non compravano secondo i campionari, ma secondo le qualità tradizionali, dal magazzino, oppure facevano ordinazioni, in tal caso con grande anticipo, e queste venivano eventualmente trasmesse ai contadini. Viaggi degli imprenditori presso la clientela, se realmente avvenivano, avevano luogo raramente in lunghi periodi di tempo; del resto bastava la corrispondenza e l’invio di campionari che prendeva piede a poco a poco. La durata deH’orario di ufficio era moderata: di forse cinque o sei ore al giorno, talvolta
considerevolmente minore, maggiore nell’eventuale stagione degli affari più intensi; discreto il guadagno e sufficiente per un tenor di vita decoroso e, nei tempi buoni, per metter da parte un piccolo capitale; nel complesso una relativa tolleranza dei concorrenti fra di loro, mercé un grande accordo nei princìpi fondamentali degli affari, visita giornaliera e redditizia al circolo, e poi, secondo i casi, un buon boccale la sera, il circolo familiare e soprattutto un calmo ritmo di vita. Era una forma di organizzazione sotto ogni rispetto capitalistica8 tanto se si consideri il carattere puramente commerciale ed affaristico che avevano gli imprenditori, quanto se si abbia riguardo al fatto dell’intervento indispensabile di capitali, che venivano investiti nell’impresa, come se, infine, si guardi il lato obiettivo del processo economico o della tenuta dei libri. Ma era economia «tradizionalistica» se si guardi allo spirito che animava gli imprenditori; la condotta tradizionale della vita, l’altezza tradizionale del profitto, la misura tradizionale di lavoro, gli usi tradizionali nella condotta degli affari e nelle relazioni sia cogli operai sia colla tradizionale cerchia di clienti, nella maniera di procurarsi clienti e sbocchi, dominavano l’esercizio dell’azienda, ed erano a fondamento–si può dire–dcWethos di questa cerchia di imprenditori. Ma ad un certo momento questo benessere venne improvvisamente disturbato e proprio senza che fosse intervenuto un mutamento fondamentale nella forma deirorganizzazione, passaggio aH’impianto industriale chiuso o al telaio meccanico o simili. Accadde piuttosto unicamente quanto segue: che un giovane di una delle famiglie di imprenditori si recò dalla città in campagna, scelse accuratamente i tessitori per il suo bisogno, aumentò a poco a poco la loro dipendenza ed il controllo su di essi, li trasformò così da contadini in operai, e d’altra parte si incaricò personalmente dello smercio avvicinando, per quanto gli era possibile, direttamente fin l’ultimo acquirente; si occupò egli stesso degli affari al minuto, acquistò con contatti personali i clienti, facendo ogni anno un viaggio d’affari, ma soprattutto seppe adeguare la qualità dei prodotti ai loro bisogni e ai loro desideri, seppe renderla «di moda» e al tempo stesso cominciò ad attuare il principio fondamentale del prezzo basso e del grande smercio. Si ripete subito il fenomeno, che in tutti i paesi e in tutti i tempi è la conseguenza di un tal processo di «razionalizzazione»: chi non salì dovette scendere. L’idillio svanì nell’aspra lotta di concorrenza iniziata, si guadagnarono considerevoli patrimoni e non si misero a frutto, ma si tornò via via ad investirli nell’industria; all’antica esistenza comoda e calma
succedette una dura moderatezza, sia in quelli che si mettevano in pari ed avevano successo, perché non volevano consumare, ma guadagnare; sia in quelli, che rimanevano fedeli alle antiche tradizioni, perché si dovevano limitarex. E, quel che più importa, non fu di regola in tali casi un afflusso di denaro che provocò tale rivoluzione–in certi casi a me noti fu messo in moto tutto il processo di rivoluzione con poche migliaia di marchi di capitale, prestati da parenti–ma la provocò il nuovo spirito appunto del a capitalismo moderno» che si era introdotto. La ricerca delle forze che dettero impulso alFespansione del capitalismo moderno non è, principalmente almeno, la ricerca della provenienza delle riserve di denaro da valorizzarsi come capitali, ma soprattutto la ricerca dello sviluppo dello spirito capitalistico. Dove questo si sveglia e cerca di realizzarsi, si procura i capitali come mezzi per la sua azione; ma non viceversay. Ma la sua apparizione non fu di solito pacifica. Un’ondata di diffidenza, talvolta di odio, ma soprattutto di indignazione morale si opponeva generalmente al primo innovatore; spesso–e a me sono noti diversi casi del genere–si formava una leggenda su ombre misteriose nella sua vita precedente. Non è facile che taluno sia così imparziale e scevro di pregiudizi da osservare che solo un carattere straordinariamente saldo poteva salvare un tale imprenditore «di nuovo stile» dalla perdita del dominio su se stesso e dal naufragio morale ed economico; che, insieme colla chiarezza di visione e coll’energia, furono soprattutto qualità etiche specialissime e molto forti quelle che gli acquistarono la fiducia, indispensabile in tali innovazioni, dei clienti e degli operai, e gli conservarono l’energia necessaria per superare le resistenze non calcolate, ma soprattutto gli resero possibile quel lavoro infinitamente più intenso che allora si esigeva dall’imprenditore e che non si concilia col pacifico godimento della vita; ma furono appunto qualità etiche di tutt’altro genere di quelle inerenti al tradizionalismo del passato. E del pari non furono, di regola, speculatori temerari e senza scrupoli, nature di avventurieri economici, quali se ne incontrano in tutte le epoche della storia dell’economia, o semplicemente gente molto danarosa, coloro che crearono questa trasformazione esternamente invisibile, ma decisiva per raffermarsi del nuovo spirito nella vita economica; ma sibbene uomini formati nella dura scuola della vita, calcolatori e audaci al tempo stesso, ma soprattutto riservati e costanti, completamente dedicati al l’oggetto della loro attività, con opinioni e princìpi severamente borghesi.
Si sarà inclini a pensare che queste qualità etiche personali non abbiano di per sé niente in comune con qualsiasi massima etica o con concetti religiosi, e che qualche cosa di negativo, la capacità di sottrarsi alle tradizioni ricevute, e per ciò tutt’al più un «illuminismo» liberale, sia il fondamento adeguato di una tal condotta. Ed in realtà le cose oggi procedono generalmente così. Non solo manca di regola un rapporto della condotta di vita con determinati punti di partenza religiosi, ma quando un rapporto c’è, esso suole essere per lo meno in Germania, di carattere negativo. Tali nature piene di spirito capitalistico sogliono essere, se non proprio ostili alla religione, per lo meno indifferenti. Il pensiero della pia noia del Paradiso ha scarse attrattive per la loro natura che si rallegra nell’azione, la religione appare loro come un mezzo per distrarre gli uomini dal lavorare quaggiù su questa terra. Se si domandasse loro il senso del loro affaticarsi senza posa, che non si accontenta mai di quel che già possiede, e che perciò proprio in un orientamento della vita in puro senso terreno deve apparire più che mai insensato, essi risponderebbero talvolta, qualora sapessero dare una risposta qualsiasi: «il pensiero per i figli e per i nipoti», ma più spesso e con maggiore esattezza, poiché il detto motivo non è loro particolare, ma agì anche sull’uomo «tradizionalistico», risponderebbero che gli affari col continuo lavoro che comportano sono diventati indispensabili alla loro vita. Questa è infatti l’unica motivazione esatta, che esprime ciò che, dal punto di vista della felicità personale, appare irrazionale in tale condotta di vita, nella quale l’uomo è fatto per la sua azienda e non viceversa. Naturalmente il sentimento della potenza e della considerazione che procura il semplice fatto del possedere, ha in tutto ciò la sua parte; là dove la fantasia di un intero popolo è indirizzata solo verso le grandezze puramente quantitative, come negli Stati Uniti, questo «romanticismo delle cifre» agisce con un fascino irresistibile su quei commercianti che sono, a modo loro, poeti. Ma del resto non si lasciano prendere da esso gli imprenditori che siano alla testa del movimento economico e che alla lunga abbiano un successo duraturo. Ed infine–sorte comune delle famiglie dei parvenus del capitalismo tedesco l’approdare nel porto del possesso fidecommissario e della nobiltà delle patenti sovrane attraverso i figli, la cui educazione nelle università o nelle scuole militari cercava di far dimenticare l’origine, rappresenta un prodotto di epigoni decadenti. Il «tipo ideale»z dell’imprenditore capitalistico quale era rappresentato anche presso di noi da alcuni esempi preminenti, non ha nulla in comune con tali vanità più o meno fini o più o meno grossolane. Egli rifugge dall’ostentazione inutile come dal godimento cosciente della sua
potenza, e il ricevere i segni esteriori della considerazione sociale di cui gode, gli è assai penoso. La sua condotta di vita ha spesso un carattere ascetico, quale si manifesta chiaramente nella «predica» già citata di Benjamin Franklin; e noi dovremo approfondire il significato storico di questo fenomeno per noi così importante. Non di rado infatti si può trovare in lui una fredda modestia, che è sostanzialmente più sincera di quella riservatezza, che Benjamin Franklin raccomanda con tanta accortezza. Dalla sua ricchezza non ricava nulla per se stesso; tranne l’irrazionale sentimento del compimento del suo dovere professionale. Ma questo è appunto quel che all’uomo precapitalistico appare così incomprensibile ed enigmatico, così sordido e spregevole. Che uno possa proporsi a scopo del lavoro di tutta la sua vita unicamente il pensiero di scendere nella tomba carico del massimo peso possibile di denaro e di beni, gli appare spiegabile solo come un prodotto di impulsi perversi, della aurì sacra fames. Nel presente, colle nostre istituzioni politiche, di diritto privato e di scambio, colle forme d’impresa e colla struttura, che è propria della nostra economia, questo «spirito» del capitalismo si potrebbe comprendere come un puro fenomeno di adattamento. L’ordinamento economico capitalistico abbisogna di questo sacrificio alla «vocazione» del guadagno; esso non è che un modo di comportarsi coi beni esteriori, così congiunto alle condizioni della vittoria nella lotta economica per la vita, che non si può parlare oggi nei fatti, di un nesso necessario di quella condotta di vita «crematistica» con una qualsiasi concezione unitaria del mondo. Non le è infatti più necessario di farsi sorreggere dall’approvazione di una forza religiosa, e sente come un ostacolo l’influsso di norme ecclesiastiche sulla vita economica, in quanto si faccia ancor oggi sentire, al pari della regolamentazione statale. Il punto di vista degli interessi politico-commerciali e politico-sociali suole invece determinare la W eltanschauung. Chi non si adatta nella condotta della sua vita alle condizioni del successo capitalistico, decade o per lo meno non riesce. Ma sono, questi, fenomeni di un’epoca in cui il capitalismo moderno, raggiunta la vittoria, si è liberato dagli antichi sostegni. Come esso una volta, solo mercé l’alleanza colla forza del lo stato moderno in formazione, spezzò le vecchie forme della regolamentazione medioevale della vita economica, così potrebbe essere accaduto–diciamo qui in via provvisoria–nelle sue relazioni colle forze religiose. Noi dobbiamo qui appunto indagare se ed in quale senso ciò sia accaduto. Non ha bisogno di esser dimostrata l’affermazione che il
concetto del guadagno come scopo a se stesso, come dovere per l’uomo, come «vocazione» infine, fu in contraddizione col sentimento morale di intere epoche. Nella sentenza «Deo piacere vix potest», passata nel diritto canonico e allora ritenuta autentica (al pari del passo del Vangelo sull’interesse)a1, che veniva applicata all’atti vita del mercante, nonché nella definizione di S. Tommaso dell’aspirazione al guadagno come turpitudo (che comprendeva perfino il guadagno inevitabile e quindi eticamente ammesso), vi era già– rispetto alle vedute radicalmente anticrematistiche di circoli abbastanza estesi–un alto grado di concessione, da parte della dottrina cattolica, agli interessi del potere finanziario delle città italiane, così strettamente legato, sul piano politi co, alla Chiesab1. Ed anche là dove la dottrina era ancor più accomodante, come per es. in S. Antonino da Firenze9 non spariva tuttavia del tutto la sensazione che l’attività diretta al guadagno come fine a se stesso era in sé qualche cosa di vergognoso, che si era costretti a tollerare soltanto dalle circostanze attua li della vita. Alcuni moralisti di quei tempi, soprattutto della scuola nominalistica, accettarono le forme capitalistiche allora incipienti come dati di fatto e cercarono non senza contraddizione di legittimarle come tali, e soprattutto il commercio come necessario, e di ammettere come fonte lecita di guadagno e come moralmente indifferente l’«industria», l’attività in esso esercitata; ma la dottrina dominante ripudiò lo «spirito» del guadagno capitalistico come turpitudo o per lo meno non potè eticamente valorizzarlo. Una concezione morale come quella di Benjamin Franklin sarebbe stata assolutamente impensabile. Tale era soprattutto la concezione dei ceti capitalistici stessi; il lavoro della loro vita, se essi rimanevano sul terreno della tradizione ecclesiastica, era, nel caso più favorevole, una cosa moralmente indifferente, tollerata, ed a causa del costante rischio di urtare nel divieto religioso dell’usura, pericolosa per la salute deiranima; somme assai considerevoli, come ci mostrano i documenti, in occasione della morte di gente ricca passavano ad istituzioni religiose come «legati di coscienza» ed in talune circostanze ritornavano agli antichi debitori come «usure» ingiustamente loro estorte. Diversa era, astrazion fatta dagli indirizzi eretici o comunque sospetti, la sola posizione dei ceti patrizi internamente già liberatisi dalla tradizione. Ma anche uomini di indole scettica ed irreligiosa solevano conciliarsi la Chiesa per ogni caso con offerte a forfaitc1, poiché così era meglio, per assicurarsi contro l’incertezza dell’oltretomba, e perché–per lo meno secondo la concezione meno rigida
assai diffusa–la sommissione esterna ai precetti della Chiesa bastava alla salvezza. Proprio qui appare manifestamente l’amoralità o addirittura l’immoralità che, secondo la concezione degli stessi interessati, era inerente alla loro attività. Da questo che era, nel caso più favorevole, un affare moralmente tollerato, come è sorta una «vocazione» nel senso di Benjamin Franklin ? Come si può spiegare storicamente che nel centro dello sviluppo capitalistico del mondo d’allora, nella Firenze dei secoli xiv e xv, mercato dei denaro e dei capitali di tutte le grandi potenze politiche, fosse considerata cosa moralmente sospetta o tutt’al più tollerabile, ciò che nelle condizioni di economia forestale e piccoloborghese della Pennsylvania del secolo xvm, dove l’economia minacciava di cadere nello scambio naturale per pura mancanza di denaro, dove non si trovava traccia di grandi imprese industriali e le banche erano appena ai primi inizi, potè valere come contenuto di una condotta moralmente lodevole, anzi imposta? Il voler parlare qui di un riflesso delle condizioni materiali nella sovrastruttura ideale sarebbe pura stoltezza. Da quale indirizzo di pensiero ebbe dunque origine la classificazione di un’attività, che esternamente è indirizzata soltanto al guadagno, sotto la categoria della «vocazione» a cui il singolo si sentiva obbligato? Poiché tale pensiero fu quello che assicurò all’imprenditore di «nuovo stile» la base e la sicurezza etica. Il razionalismo economico è stato designato, specialmente dal Sombart, in trattazioni spesso felici ed efficaci, quale motivo fondamentale della economia moderna. E ciò con diritto non dubbio, se si intende indicare con esso quell’aumento della produttività del lavoro, mercé l’organizzazione del processo di produzione da un punto di vista scientifico, che ha abolito il legame di tal processo coi limiti fisiologici, dati dalla natura, della persona umana. Questo processo di razionalizzazione sul terreno della tecnica e dell’economia, condiziona senza dubbio anche una parte importante degli «ideali di vita» della moderna società borghese; il lavoro a servizio di un ordinamento razionale deH’approvvigionamento dei beni materiali necessari all’umanità è indubbiamente sempre apparso ai rappresentanti dello «spirito capitalistico» come uno degli scopi che imprimevano un indirizzo al lavoro della loro vita. E basta leggere, per esempio, la descrizione che fa Benjamin Franklin dei suoi sforzi al servizio di miglioramenti comunali a Filadelfia per toccare con mano questa verità ben comprensibile. E la gioia e l’orgoglio per aver dato lavoro a molti uomini, per aver cooperato alla prosperità economica della città, nel senso che a tale parola dà il capitalismo, di un aumento
misurato statisticamente della popolazione e dei commercianti, tutto ciò appartiene naturalmente alla gioia di vivere specifica e senza dubbio idealisticamente sentita degli imprenditori moderni. Ed è del pari una delle finalità fondamentali dell’economia privata capitalistica il fatto che essa è razionalizzata sulla base di un calcolo strettamene aritmetico ed indirizzata secondo un prudente disegno all’ambito successo economico, in contrasto colla vita alla giornata del contadino, col tran tran tradizionale e privilegiato dell’artigianato corporativo, e col «capitalismo d’avventura» che era orientato secondo opportunità politiche e verso una speculazione irrazionale. Sembrerebbe così, che lo sviluppo dello «spirito capitalistico» si possa più semplicemente comprendere come fenomeno particolare nello sviluppo totale del razionalismo, e che si possa dedurre dalla posizione teorica di questo di fronte ai più alti problemi della vita. Allora il Protestantesimo dovrebbe venir preso in considerazione dallo storico, solo in quanto avrebbe avuto la sua parte come avant-goût di concezioni della vita puramente razionalistiche. Ma quando si fa seriamente tale tentativo, si palesa che una impostazione così semplice del problema non è possibile, già per il fatto che la storia del razionalismo non ci mostra affatto uno sviluppo parallelo nei diversi campi della vita. La razionalizzazione del diritto privato, per esempio, che, se si concepisce come semplificazione concettuale ed organizzazione della materia giuridica, raggiunse la sua forma più avanzata, fino ad oggi, nel diritto romano della tarda antichità; ma è rimasta più arretrata che altrove in alcuni dei paesi, in cui la razionalizzazione economica ha raggiunto un più alto grado, cioè in Inghilterra, dove il rinascimento del diritto romano fallì per la resistenza delle grandi corporazioni dei giuristi, mentre il suo predominio è continuato nei paesi cattolici dell’Europa meridionale. La filosofia puramente terrena del secolo xvm non ha trovato il suo posto soltanto e neppure principalmente nei paesi capitalisticamente più sviluppati. Il volterianesimo è ancor oggi patrimonio comune di larghi strati superiori e–ciò che praticamente più importa–medi, proprio nei paesi romano-cattolici. Se infine si comprende sotto il concetto di «razionalismo pratico» quella specie di condotta di vita, che pone coscientemente il mondo in relazione soltanto cogli interessi materiali del singolo io, e giudica da questo punto di vista; questo stile di vita era ed è ancor oggi la tipica caratteristica dei popoli del «libero arbitrio», e sono i Francesi e gli Italiani che la portano nel sangue; ma noi ci potemmo or ora convincere che questo non è affatto il terreno su cui si è sviluppato più facilmente quel rapporto deiruomo di fronte alla propria
vocazione professionale come di fronte a un dovere, di cui il capitalismo ha bisogno. Si può infatti render razionale la vita sotto punti di vista diversissimi e con indirizzi molto diversi; e questa semplice proposizione, che troppo spesso si dimentica, dovrebbe esser posta sulla testata di ogni studio, che si occupi di «razionalismo». Il razionalismo è un concetto storico che racchiude in sé un mondo di contraddizioni, e noi dovremo appunto indagare di quale spirito fosse figlio quel modo concreto di pensare e di vivere razionalmente, da cui si è svolta quell’idea di «vocazione professionale» e quella dedizione al lavoro professionale, che fu ed è tuttora uno degli elementi più caratteristici della nostra civiltà capitalistica, e che, come dicemmo, appare così irrazionale dal punto di vista degli interessi puramente eudemonistici. A noi interessa qui appunto l’origine di quell’elemento irrazionale, che è contenuto in questo come in ogni altro concetto di «vocazione».
a. Il passo finale da Necessary hints to those that would be rich scritto nel 1736), il resto da: Advice to a young tradesman (1748), in Works ed. SPARKS, vol. II, p. 87. b. Der Amerikamüde (Francoforte 1855), notoriamente una parafrasi poetica delle impressioni americane di Lenau. Diffìcilmente si potrebbe gustare oggi il libro come opera d’arte; ma rimane tuttavia insuperato come documento dei contrasti (oggi da tempo attenuati) tra il modo di sentire americano e quello tedesco; si potrebbe anche dire di quella vita interiore, che dalla mistica medioevale tedesca in poi, è rimasta comune, nonostante tutto, ai Cattolici e ai Protestanti tedeschi, di fronte all’energia puritanacapitalistica. c. SOMBART ha messo come motto questa citazione alla parte sulla Genesi del Capitalismo (Der moderne Kapitalismus, ia ed., vol. I, p. 193; e anche p. 390). d. Ciò naturalmente, non significa che Jakob Fugger2 sia stato un uomo indifferente in materia di
morale o di religione, né che l’etica di Benjamin Franklin si esaurisca tutta in quegli aforismi. Non ci sarebbe stato bisogno delle citazioni di BRENTANO (Die Anfänge des modernen Kapitalismus, Monaco 1916, p. 156 sg.) per proteggere questo ben noto filantropo dal pericolo di un tal disconoscimento, quale egli sembra attribuirmi. Il problema invece si inverte proprio così: come potè un tal filantropo esporre tali aforismi–che Brentano ha omesso di riprodurre nella loro caratteristica formulazione–in uno stile da moralista? e. Su ciò si basa la differenza nella impostazione del problema nel libro del Sombart e in questo mio studio. La rilevantissima importanza pratica di questa differenza verrà in luce più tardi. Si noti fin da ora che il Sombart non ha affatto tralasciato di osservare questo aspetto morale dell’imprenditore capitalista. Ma nel suo pensiero esso appare causato dal capitalismo stesso; mentre per i nostri fini dobbiamo considerare l’ipotesi inversa. Solo alla conclusione dell’indagine si potrà prendere una posizione definitiva. Per la concezione del Sombart cfr. op. cit., pp. 357, 380, ecc. Il processo del suo pensiero si ricollega ai brillanti quadri della Philosophie dcs Gcldes di Simmel (ultimo capitolo). f. [Nella traduzione italiana di G. Fornelli (Sansoni, Firenze 1925, p. 79)]: «Mi convinsi che la verità, la sincerità e l’integrità nei rapporti tra individuo e individuo siano di enorme importanza nella felicità umana; ed io per iscritto presi delle risoluzioni che sono ancor lì, nel mio diario, con il proposito di attuarle sinché vivessi. Della Rivelazione non mi curava molto: ma ero d’opinione, che quantunque certe azioni non siano cattive perché proibite, o buone perché comandate, tuttavia esse sono forse proibite appunto perché cattive, comandate perché di beneficio per noi, considerando tutte le circostanze». g. «Mi tirai indietro quando potei e detti la cosa–cioè la istituzione da lui promossa, di una
biblioteca–come un’iniziativa di un “ certo numero di amici ” i quali mi avrebbero incaricato di andare in giro a proporla a quelle persone che essi stimavano amici della lettura. «In questo modo l’affare procedette più facilmente, e dopo di ciò in simili occasioni mi servii sempre di tale procedimento, che per i successi frequentemente raggiunti posso sinceramente raccomandare. Il piccolo sacrificio momentaneo d’amor proprio che esso esige viene poi largamente compensato. Se per un certo tempo si continua ad ignorare a chi spetti il merito, taluno che sia più vanitoso del vero autore sarà tentato di rivendicare tale merito a se stesso, ed allora l’invidia stessa sarà portata a render giustizia al primo, in quanto che strapperà al vanitoso le penne non sue e le restituirà al loro legittimo proprietario». h. Il Brentano (op. cit., p. 125, n. 1) coglie questa osservazione per criticare le mie ulteriori considerazioni sulla razionalizzazione e disciplinamento che Tascesi intramondana ha imposto agli uomini: si tratterebbe cioè della razionalizzazione di una condotta di vita irrazionale. Ma in realtà si tratta proprio di questo. Una cosa non è irrazionale in se stessa, ma da un dato punto di vista razionale.Per l’irreligioso è irrazionale ogni condotta religiosa della vita, per l’edonista lo è ogni condotta ascetica, anche se, misurate secondo il loro fine ultimo, costituiscano una razionalizzazione. Questo studio vorrebbe, se non altro, contribuire a scoprire la molteplice varietà che si cela nel concetto solo apparentemente univoco di «razionalità». i. Proverbi di Salomone, c. 22, v. 29. Lutero traduce «in seinem Geschäft», le più antiche traduzioni inglesi della Bibbia: «business». V. su ciò p. 138, n. 2. j. Di fronte alla lunga, ma alquanto imprecisa apologia che il BRENTANO (op. cit., p. 150 e seg.) fa di Benjamin Franklin, le cui qualità morali io avrei disconosciuto, rimando a questa osservazione, che–a mio parere–avrebbe dovuto bastare a rendere inutile quella apologia. k. Approfitto di questa occasione per inserire qui fin da ora alcune osservazioni «anticritiche». è afiermazione insostenibile che fa occasionalmente il Sombart (Der Bourgeois, Monaco e Lipsia 1913): che questa etica di Franklin non sia che la ripetizione, parola per parola, di considerazioni di un genio universale del Rinascimento: di Leon Battista Alberti5, il quale oltre a scritti teorici di matematica,
di plastica, di pittura e principalmente di architettura, scrisse anche sulPamore (personalmente era misogino) e compose quattro libri sull’amministrazione domestica (Della famiglia). Di essi, mentre scrivo, non ho purtroppo dinanzi a me l’edizione del Mancini, ma quella più vecchia del Bonucci. Il passo del Franklin è riprodotto testualmente più sopra; dove mai si trovano passi analoghi nelle opere dell’Alberti e in specie la massima che è posta in cima a quello, «Il tempo è denaro», cogli ammonimenti relativi? L’unico passo che abbia–a mio parere–una lontanissima analogia con quello del Franklin è quello, verso la fine del libro I (ed. Bonucci, vol. II, p. 353) dove, molto in generale, si parla del denaro, come del nervus rerum dell’economia domestica, e che perciò deve essere amministrato particolarmente bene,– proprio come nel De re rustica di Catone. è fondamentalmente errato il considerare l’Alberti, che sottolinea frequentemente la sua discendenza da una delle più nobili famiglie di cavalieri di Firenze («nobilissimi cavalieri»), Della famiglia, pp. 213, 228, 247, ed. Bonucci, come un uomo dal sangue «misto» e pieno di risentimento contro le famiglie gentilizie, perché borghese escluso da esse, a causa della sua nascita illegittima (che in realtà non abbassava affatto socialmente). Per l’Alberti sono certamente caratteristici la raccomandazione che fa dei grandi affari, che soli sarebbero degni di una «nobile e onesta famiglia» e di un «libero e nobile animo» e che costano minor lavoro (cfr. Del governo della famiglia, IV, p. 55, e parimenti, nell’edizione per i Pandolfini, p. 116; per questo motivo è meglio di tutto il commercio della seta e della lana), e poi il consiglio di una amministrazione domestica ordinata e severa; di misurare cioè le spese sulle entrate. l. Purtroppo anche il Brentano, nell’opera citata, ha fuso insieme ogni specie di tendenza al guadagno di denaro (senza riguardo al fatto che fosse bellicosa o pacifica), e poi, ha posto come carattere specifico
della tendenza capitalistica (in contrapposto a quella feudale) solo l’essere indirizzata al denaro (invece che alla terra), e non solo ha rifiutato ogni ulteriore distinzione–che soltanto poteva condurre a concetti chiari–ma anche ha manifestato l’opinione (p. 131), per me incomprensibile, che il concetto di spirito del capitalismo moderno, qui formato per gli scopi di questa indagine, dia per presupposto ciò che si dovrebbe dimostrare. m. Cfr. a questo riguardo le precise osservazioni del SOMBART, Die deutsche Volkswirtschaft im neunzehnten ]ahrhundert (p. 123). Non ho bisogno di richiamare in particolar modo su quanto questi studi, che pure derivano i loro punti di vista più importanti da lavori più antichi, debbano nella loro formulazione al semplice fatto di esser stati preceduti dalle grandi opere del Sombart, colle loro acute esposizioni, anche quando, anzi precisamente quando battono cammini diversi. Anche chi si senta spinto a contraddire sempre più recisamente le opinioni del Sombart, e ne rifiuti energicamente alcune tesi, ha il dovere di riconoscere tal debito. n. Noi non tocchiamo il problema dove siano questi limiti, come non prendiamo posizione contro la nota teoria, da prima affermata dal Brassey, formulata teoricamente dal Brentano, storicamente e costruttivamente dallo Schulze-Gävernitz della relazione tra gli alti salari e l’alto reddito del lavoro. La discussione fu riaperta dai penetranti studi dello Hasbach («Schmollers Jahrbuch», 1903, pp. 385–91 e 417 e segg.) e non è definitivamente conclusa. Per noi basta il fatto non controverso che bassi salari ed alti profitti, bassi salari e possibilità favorevoli di sviluppo industriale non coincidono semplicemente, che meccaniche operazioni sul denaro non producono affatto l’educazione necessaria per la civiltà capitalistica e con ciò la possibilità di un’economia capitalistica. Tutti gli esempi arrecati hanno un valore puramente illustrativo. o. Pertanto lo stabilirsi in un paese di industrie capitalistiche non è stato possibile senza larghi movimenti di immigrazione da territori di più antica civiltà. Per quanto le osservazioni del Sombart sul contrasto tra le capacità ed i segreti professionali legati alla persona deirartigiano e la moderna tecnica, scientificamente obiettiva, siano giuste; tuttavia tale differenza non esisteva in sul sorgere del capitalismo; poiché ie qualità, per così dire, etiche del lavoratore di un’impresa capitalistica (ed in un certo grado anche dell’imprenditore) avevano un «valore di rarità» spesso più alto delle capacità dell’artigiano irrigidite nel tradizionalismo. Ed anche l’odierna industria non è del tutto indipendente nella scelta delle sue sedi da tali qualità acquistate dalla popolazione attraverso una lunga tradizione ed educazione. Secondo le idee oggi prevalenti nelle scienze sociali, quando si osservi una tale dipendenza, si suole ricondurla a qualità ereditarie della razza, con una derivazione a mio avviso assai dubbia. p. V. il lavoro citato alla nota c di p. 34. q. Le osservazioni precedenti possono essere fraintese. La tendenza di un certo tipo di uomini d’affari ad appropriarsi il detto «che bisogna lasciare la religione al popolo» e l’indirizzo, nel passato non raro, di larghi strati del clero in ispecie luterano, per simpatia verso l’autorità, di porsi alle sue dipendenze come polizia nera e alPoccasione di bollare lo sciopero come peccato, le associazioni operaie come promotrici di «avidità» ecc.; sono fatti che non hanno nulla a che fare coi fenomeni dei quali parliamo. Nei motivi di cui si parla nel testo non si tratta di fenomeni isolati, ma di fatti molto frequenti, e, come vedremo, che ritornano in maniera tipica. r. Der moderne Kapitalismus, vol. I, ia ed., p. 62. s. Op. cit., p. 195. t. Si tratta naturalmente dell’attività industriale moderna che è specifica deirOccidente, non del capitalismo degli strozzini, fornitori di guerra, appaltatori di uffici e di imposte, grandi imprenditori di commercio e magnati della finanza, che da tre millenni a. C. si è diffuso nel mondo, in Cina, in India, a Babilonia, nelFEllade, a Roma, a Firenze, fino ai tempi nostri. V. l’Osservazione preliminare. u. Non va accettata affatto a priori l’opinione–e questo soltanto va qui rilevato–che tanto la tecnica dell’impresa capitalistica quanto la coscienza del lavoro professionale, che dà al capitalismo la sua energia espansiva, abbiano trovato il loro terreno originario nei medesimi ceti sociali. Lo stesso vale per i rapporti sociali tra diverse credenze religiose. Il Calvinismo fu uno dei fattori storici della educazione allo spirito capitalistico. Ma proprio i grandi finanzieri, in Olanda per es.? per motivi che tratteremo più
oltre, non furono prevalentemente seguaci dello stretto Calvinismo, ma Arminiani. I piccoli e i medi borghesi che si innalzavano a imprenditori furono qui ed altrove rappresentanti tipici dell’etica capitalistica e della religione calvinista. Ma appunto questo concorda con quel che abbiamo detto: di grossi finanzieri e commercianti ve ne furono in ogni tempo. Una organizzazione razionale capitalistica del lavoro industriale borghese è cominciata soltanto coll’evoluzione dal Medioevo all’età moderna. v. V. su di ciò la buona dissertazione zurighese di J. Maliniak (1913). w. Il quadro che si dà qui è stato compilato su un tipo ideale tratto dalle condizioni di diversi singoli rami dell’industria in località diverse; per lo scopo illustrativo a cui esso serve è naturalmente indifierente, che in nessuno degli esempi le cose siano procedute proprio nella maniera qui descritta. x. E non è un caso che questo periodo di incipiente razionalismo economico, come per es. nei primi passi deirindustria tedesca, si accompagna colla generale decadenza dello stile degli oggetti d’uso della vita quotidiana. y. Con ciò non si deve considerare come economicamente indifferente il movimento delle quantità dei metalli preziosi. z. Ciò significa soltanto: quel tipo di imprenditore, che noi qui facciamo oggetto delle nostre osservazioni, non una qualsiasi media empirica. (Sul concetto di tipo ideale, v. il mio studio in «Archiv fùr Sozialwissenschaft», XIX, fase. i). a1. è forse il luogo appropriato di discutere brevemente, per quanto ci concernono, le osservazioni contenute nel già citato scritto di F. Keller (fase. 12 delle «Schriften der Gòrres-Gesellschaft») e quelle che ad esse si collegano, del Sombart nel suo Bourgeois. Che uno scrittore critichi una trattazione in cui il divieto canonico dell’usura non viene ricordato tranne che in una osservazione occasionale e senza alcuna relazione colla dimostrazione principale, partendo dal presupposto che proprio tal divieto–che pure trova paralleli in quasi tutte le etiche religiose della terra–venga preso come il segno che differenzia la morale cattolica da quella protestante, è veramente grossa; si debbono criticare solo i lavori, che si siano realmente letti, o dei quali non si siano dimenticate le affermazioni, qualora si siano letti. La lotta contro la usuraria pravitas si estende per tutta la storia religiosa del secolo xvi, tanto nella Chiesa ugonotta che in quella dei Paesi Bassi. I «Lombardi», cioè banchieri, furono spesso, in tale loro qualità, esclusi dal banchetto eucaristico. La concezione più libera di Calvino (la quale del resto non impedì che nel primo progetto delle «Ordinanze» fossero ancora previste disposizioni contro l’usura) arrivò a vincere solo attraverso Salmasio. Insomma il contrasto non sta qui; tutt’altro. Ma ancor peggio cadono le altre argomentazioni dell’autore, le quali colpiscono penosamente per la loro superficialità, se si mettono a confronto con gli scritti, che per lo più, dopo essersene servito, egli si astiene dal citare, del Funck e di altri scrittori cattolici e con le indagini dell’Endemann, in alcuni punti oggi antiquate, ma sempre fondamentali. Certamente il Keller si è tenuto lontano dagli eccessi cui è giunto il Sombart, nelle sue osservazioni, quando attribuisce a quei «pii uomini», intendendo con questa espressione S. Bernardino da Siena e S. Antonino di Firenze, l’intenzione «di stimolare in ogni modo lo spirito di intrapresa» poiché essi interpretavano il divieto dell’usura–a somiglianza di quel che è sempre accaduto della proibizione degli interessi–in modo da lasciare intatto quel che nella nostra terminologia si chiama investimento produttivo del capitale. Sia notato qui di passaggio, come un sintomo del fatto che abbiamo in quest’opera del Sombart un libro a tesi nel peggior senso della parola, che per l’autore da una parte i Romani appartengono ai «popoli eroici» e dall’altra, con una contraddizione per lui insolubile, il razionalismo economico già in Catone sarebbe stato sviluppato «fino alle ultime conseguenze». Ma egli ha compietamente trasformato il significato e l’importanza del divieto degli interessi, che noi non possiamo qui esporre nei suoi particolari, e che fu da prima sopravalutato, poi eccessivamente svalutato, ed oggi infine, in un’epoca in cui non mancano multimilionari anche cattolici, è stato capovolto per scopi apologistici. (Esso divieto infatti fu abolito, nonostante il suo fondamento biblico, nel secolo scorso mediante un’istruzione della Congregazione del S. Uffizio e solo temporum ratione habita ed indirettamente, cioè mercé la proibizione di angustiare i penitenti con indagini ulteriori sulla usuraria pravitas, qualora ci si potesse
assicurare la loro obbedienza anche per il caso di un ritorno in vigore di detto divieto). Chi infatti abbia fatto studi assai profondi sulla storia molto intricata delle dottrine della Chiesa sull’usura, tenendo conto delle interminabili controversie sulla liceità dell’acquisto di rendita, dello sconto cambiario, e di altri contratti diversissimi, e soprattutto tenendo conto del fatto che la su citata disposizione della Congregazione del S. Uffizio fu presa in occasione di un prestito cittadino, non può ritenere che il divieto di interessi usurari riguardasse soltanto il credito d’urgenza, e che si proponesse come scopo la conservazione dei patrimoni, e che sia stato favorevole all’impresa capitalistica. La verità è che la Chiesa solo assai tardi mutò parere circa il divieto degli interessi e, quando ciò accadde, le usuali forme, puramente commerciali, di investimento di capitale non erano prestiti ad interesse fisso; ma, come il foenus nauticum, la «commenda», la societas maris e il dare ad prò ficuum de mari erano prestiti che, secondo tariffa proporzionata al rischio, partecipavano al profitto od alla perdita, col carattere di prestiti all’imprenditore, e non erano colpiti dal divieto, o lo erano tutt’al più secondo alcuni canonisti rigorosi; ma quando si fecero possibili ed usuali, tanto impieghi di capitale produttivi di interesse fisso, quanto sconti, allora sorsero per questi notevoli difficoltà a causa del divieto di interessi, difficoltà che condussero a misure severissime (liste nere) da parte delle gilde di mercanti. Ed è vero altresì che la trattazione del divieto di usura da parte dei canonisti fu fatta di regola da un punto di vista meramente giuridico-formale; e in ogni caso senza quella tendenza a proteggere il capitale che il Keller le suppone; ed infine nel prender posizione da parte della Chiesa di fronte al capitalismo, agirono da un lato un’avversione tradizionalistica, per lo più oscuramente sentita, contro la potenza del capitale, invadente ed impersonale, e per ciò stesso difficilmente assoggettabile ad un processo di moralizzazione (avversione che ha un riflesso anche nelle affermazioni di Lutero sui Fugger e sul commercio del denaro) e dall’altro la necessità di un compromesso. Ma tutto ciò non ha pertinenza colla nostra trattazione, poiché, come abbiamo detto, il divieto di usura e la sua storia hanno per noi tutt’al più un’importanza sintomatica, ed anche questa solo entro certi limiti. L’etica economica dei teologi scotistici ed in particolar modo di taluni mendicanti quattrocentisti, ma sopra a tutto di S. Bernardino da Siena e di S. Antonino da Firenze, cioè di scrittori con indirizzo specificamente ascetico-razionale, merita senza dubbio una speciale trattazione e non può essere esaurita a lato del nostro argomento. Ma io dovevo d’altra parte prevenire la critica esponendo ciò che io ho da dire circa l’etica economica cattolica nei suoi rapporti positivi col capitalismo. Questi scrittori cercano–e sono in questo precursori di alcuni gesuiti–di giustificare il guadagno del commerciante, in quanto imprenditore, come lecito compenso per la sua industria. Il concetto e la valutazione della «industria» vengono presi naturalmente dall’ascesi monastica, al pari del concetto di masserizia, che secondo una indicazione dello stesso Alberti, posta in bocca a Giannozzo, era stato trasportato dalla terminologia ecclesiastica in quella dell’autore. Dell’etica monacale come di precorritrice delPascesi intramondana di certe denominazioni del Protestantesimo, noi dovremo parlare più oltre con maggiori particolari. NelPantichità si trovano indizi di analoghe concezioni presso i Cinici, in iscrizioni del tardo Ellenismo, e, partendo da tutt’altri presupposti, anche nell’Egitto. Ma tanto nei teologi nominati quanto nell’Alberti manca la concezione per noi fondamentale: quella della conservazione della salute spirituale, la certitudo salutis nella vocazione professionale, caratteristica del protestantesimo ascetico; la ricompensa psicologica cioè, che questa religiosità riponeva nella industria e che necessariamente doveva mancare al Cattolicesimo, poiché i suoi mezzi di salvezza erano diversi. Dal punto di vista degli effetti si tratta in tali scrittori di una dottrina etica, non di impulsi pratici individuali, condizionati dalPinteresse alla salvazione, ed oltre a ciò, come si può facilmente vedere, di un accomodamento, e non come nell’ascesi intramondana, di argomentazioni dedotte da determinate posizioni religiose. (Le dottrine di S. Antonino e di S. Bernardino hanno avuto da un pezzo rielaborazioni molto migliori di quella del Keller). Ed anche questi accomodamenti furono fino al presente combattuti. Tuttavia l’importanza di queste concezioni etiche monacali, come sintomo, deve essere stimata considerevole. Ma i reali inizi di un’etica religiosa che andasse a sfociare nel concetto moderno di vocazione professionale, si trovano nelle sette e
nell’eterodossia, soprattutto in Wyclif, la cui importanza è stata però di gran lunga sopravalutata dal Brodnitz (Englische Wirtschaftsgeschichte), il quale opina che la sua influenza abbia agito così fortemente che il Puritanesimo non abbia trovato più nulla da fare. Ma tutto questo non può né deve essere qui esaminato. Poiché qui non si può fare, a lato della nostra trattazione, l’indagine su quanto l’etica cristiana del Medioevo abbia effettivamente cooperato alle condizioni che hanno preparato l’avvento dello spirito capitalistico. b1. Le parole jrqSèv à7teX7u’£ovTe; (Luca, 6, 35) e la traduzione della Vulgata «nihil inde sperantes » sono probabilmente (secondo A. Merx) un’alterazione di piYjSéva á7re>jr££ovT£; (neminem desperantes), e contenevano dunque il comando di prestare ad ogni fratello, anche se povero, senza far parola degli interessi. Alla sentenza Deo piacere vix potest viene oggi attribuita origine ariana (ciò che in sostanza per noi è indifferente). c1. Come si trovava un compromesso col divieto d’usura lo mostra per es. il Libro I, cap. 65, dello Statuto dell’Arte di Calimala (Emiliani-Giudici, Storia dei Comuni Italiani, III, p. 246): «Procurino i consoli con quelli frati, che parrà loro, che perdono si faccia o come fare si possa il meglio per l’amore di ciascuno, del dono, merito, o guiderdone ovvero interesse per l’anno presente e secondo che altra volta fatto fue». La Corporazione si incaricava dunque di procurare, d’ufficio e in via d’aggiudicazione, l’indulgenza ai suoi membri. Il carattere immorale, secondo l’etica di allora, del profitto capitalistico emerge anche dalle altre istruzioni, quale per esempio l’ordine che immediatamente precede quello citato, di registrare tutti gli interessi e profitti come «regali». Alle odierne liste nere della Borsa contro coloro che sollevano il pretesto di differenza, corrispondeva la frequente proscrizione contro coloro che adivano tribunali ecclesiastici colla exceptio usurariae pravitatis. 1. Ferdinand Kiirnberger, 1821–1879, scrittore austriaco, si dedicò alla pubblicistica politica criticando la situazione dell’Austria. Autore di saggi politici e letterari, drammi, novelle, romanzi (tra questi Der Amerikamudè). 2. Jakob II Fugger, 1459–1525, nipote del fondatore e uno dei principali artefici della ricchezza e dell’espansione dei Fugger, famiglia tedesca di mercanti e banchieri preminente in tutta Europa nel corso del xv e xvi secolo. Era anche noto come uomo profondamente religioso e interessato ai problemi sociali; lasciò numerose fondazioni e istituzioni benefiche. Parlerò più oltre della sua polemica contro di me che si trova nel suo Bourgeois. A questo punto del mio studio mi è necessario rinviare a più tardi ogni discussione particolareggiata. 3. Graduates, laureati delle università inglesi. 4. Yeomen, piccoli proprietari terrieri che possedendo una rendita annua di 40 scellini godevano di determinati diritti quali la partecipazione alle giurie, l’elezione del rappresentante della contea, ecc. 5. Leon Battista Alberti, 1404–1472, umanista italiano, architetto, fu uno dei principali fondatori della teoria artistica del Rinascimento. I suoi vasti interessi (arte, politica, etica ed economia domestica, matematica, diritto…) e la sua raffinata cultura ne fanno un prototipo dell’uomo rinascimentale. Le cose stanno dunque in questi termini: la «santa masserizia» come rappresentante della quale parla Giannozzo è, in prima linea, un principio della amministrazione della casa, non un principio del guadagno (come appunto il Sombart avrebbe potuto ben riconoscere), precisamente come nella discussione sull’essenza del denaro si tratta principalmente di un investimento patrimoniale (denaro o «possessioni») non di una valorizzazione del capitale. Viene raccomandato altresì, come difesa contro la instabilità della «fortuna», l’abituarsi fin da giovani ad un’attività continua «in cose magnifiche e ampie» (p. 192), la quale soltanto, mantiene sani (Della famiglia, pp. 73–74), e l’evitare di andare oziosamente in giro, il che è pericoloso per il mantenimento della propria dignità e posizione, ed inoltre l’apprendere con preveggenza una professione conveniente al proprio stato, per il caso di un rovescio di fortuna. Ma ogni «opera mercenaria» è
sconveniente (Della famiglia, lib. I, p. 209). Il suo ideale della «tranquillità dell’animo», e la sua forte tendenza all’epicureo Xa 3iox7a; (vivere a se stesso. Op. cit., p. 262), in ispecie l’avversione ad ogni ufficio come a fonte di agitazione, di inimicizie, di implicazione in afTari poco puliti, l’ideale della vita nella villa campestre, il pensiero degli antenati, di cui egli nutre il suo amor proprio, e il considerare l’onore della famiglia (la quale perciò deve, secondo la tradizione fiorentina, conservare e non dividere il suo patrimonio) come criterio e scopo decisivo, tutto questo sarebbe parso agli occhi di ogni puritano quale una peccaminosa divinizzazione della creatura, e a quelli di Benjamin Franklin come un pathos aristocratico a lui ignoto. Si osservi ancora l’alta stima della letteratura e dei letterati; poiché l’industria è indirizzata soprattutto al lavoro letterario e scientifico, essa è l’unica cosa degna di un uomo ed è importante che solo l’illetterato Giannozzo è messo a parlare della «masserizia»–nel senso di razionale economia domestica quale un mezzo cioè di vivere indipendenti e di non cadere in miseria–come di una cosa di ugual valore, ed in tale occasione attribuisce tal concetto, che ha origine dall’etica monacale (v. oltre), ad un vecchio prete (p. 249). Si confronti tutto questo coll’etica e la condotta pratica di Benjamin Franklin e dei suoi antenati puritani: si confrontino gli scritti dei letterati del Rinascimento, che si rivolgevano al patriziato umanistico con quelli di Franklin indirizzati alle masse delle media borghesia–secondo la sua espressione, dei commis–e con essi i trattati e le prediche dei Puritani, per misurare la profondità della differenza. Il razionalismo economico dell’Alberti, che si appoggia sempre a citazioni di antichi scrittori è, nella sua sostanza, somigliantissimo alla trattazione di materie economiche negli scritti di Senofonte (che non conosceva), di Catone, di Varrone e di Columella (che egli cita); ma solo che in Catone ed in Varrone in particolar modo, è in primo piano il guadagno in quanto tale, ben diversamente da quel che avviene nell’Alberti. Inoltre le osservazioni puramente occasionali delPAlberti sull’impiego dei fattori di campagna, sulla divisione del loro lavoro e sulla loro disciplina, sulla poca fidatezza dei contadini, ecc., fanno in realtà l’effetto della saggezza pratica di un Catone trasportata dal terreno dell’economia rurale della schiavitù su quello dell’industria domestica e dell’agricoltura parziaria. Quando il Sombart (il cui riferimento all’etica della Stoa è compietamente errato) trova che il razionalismo economico è già sviluppato in Catone fino all’estrema conseguenza, egli non ha del tutto torto. Si potrebbe infatti porre sotto la stessa categoria il diligens pater familias dei Romani e l’ideale del massaio dell’Alberti. Ed è soprattutto caratteristico in Catone che la proprietà agraria viene giudicata ed apprezzata come oggetto di investimento patrimoniale. Ma il concetto di «industria», nell’Alberti, è colorato diversamente in seguito ad influenze cristiane. E qui si palesa la differenza. Nella concezione della «industria» che trae origine dalla ascesi monastica, e che fu svolta da monaci scrittori, è racchiuso il germe di un ethos che si sviluppò completamente nell’ascesi, esclusivamente intramondana, del Protestantesimo. (V. oltre). Di qui, come noteremo spesso ancora più oltre, l’affinità di queste concezioni, che è maggiore con quella dei moralisti degli Ordini mendicanti senesi e fiorentini che colla dottrina ufficiale tomistica della Chiesa. In Catone e nell’esposizione dell’Alberti manca questo ethosk si tratta nell’uno e nell’altro di saggezza pratica, non di etica. Anche nel Franklin si tratta di utilitarismo; ma il pathos etico della predica ai giovani commercianti è riconoscibile di lontano e ne costituisce–qui è il punto–il lato caratteristico. La negligenza del denaro significa per lui che, per così dire, si uccidono embrioni di capitale ed è perciò anche un difetto etico. Un’affinità dei due (dell’Alberti e del Franklin) si riscontra unicamente nel fatto che il Franklin non mette più in relazione concezioni religiose coi consigli dell’economicità, mentre non ancora istituisce tale relazione l’Alberti–che il Sombart chiama «pio» e che in realtà, come tanti altri umanisti, ebbe bensì gli ordini ed una prebenda romana, ma non adoprò affatto, se si astragga da due passi del tutto incolori, motivi religiosi come punti di orientamento nella condotta di vita da lui raccomandata. L’utilitarismo–e, nella raccomandazione di Alberti per l’impresa di smercio della lana e della seta, anche l’utilitarismo sociale mercantilista (che «si dia lavoro a molte persone», op. cit., p. 292)–è in questo campo, almeno
formalmente, l’unico ispiratore. Le considerazioni dell’Alberti qui riprodotte sono un paradigma molto appropriato per quella specie di razionalismo economico per così dire immanente, quale si è manifestato come «riflesso» di condizioni economiche in scrittori che si interessavano esclusivamente all’argomento per se stesso, in tutti i paesi e in tutti i tempi, nel classicismo cinese e in quello greco-romano, non meno che nel Rinascimento e neirilluminismo. Certamente come nell’antichità in Catone, Varrone e Columella, così qui nell’Alberti e nei suoi contemporanei viene svolto, specialmente nella dottrina della «industria», un razionalismo economico. Ma come si può credere che una tale dottrina da letterati potesse sviluppare una forza capace di rivolgere il mondo al pari di una credenza religiosa, che attribuisce ricompense di salvezza ad una determinata (in questo caso metodico-razionale) condotta di vita? Quale appaia nel confronto una «razionalizzazione» della vita (e con essa eventualmente anche della produzione economica) orientata secondo fini religiosi, si può riconoscere, oltre che nei Puritani di tutte le denominazioni, in sensi tra loro molto diversi, negli esempi dei Jaina, degli Ebrei, di certe sette ascetiche del Medioevo, di Wyclif, dei Fratelli Boemi (una ripercussione del movimento Ussita), degli Scopzi e degli Stundisti in Russia e di numerosi ordini monastici. Il punto decisivo di tale differenza (per anticipare un po’ le nostre conclusioni) è che un’etica fondata su motivi religiosi promette per la condotta che essa richiede, ricompense psicologiche (cioè non di carattere economico) ben determinate, e finché la credenza religiosa rimane in vita, efficacissime, quali non ha a sua disposizione una semplice dottrina pratica della vita, come quella dell’Alberti. Quell’etica raggiunge una propria influenza sulla condotta di vita e quindi sulPeconomia solo in quanto tali ricompense agiscono psicologicamente e soprattutto–questo è il punto decisivo–nel senso in cui esse agiscono, e che spesso si allontana di molto dalla dottrina dei teologi, che è, anch’essa, soltanto una «dottrina». Tale è, per dirlo chiaramente, il punto culminante di tutto questo saggio, e non mi sarei atteso che esso non venisse affatto rilevato. Verrò a parlare in altro luogo degli etici teologici del tardo Medioevo (S. Antonino da Firenze e S. Bernardino da Siena), relativamente favorevoli al capitale e che il Sombart non ha del pari capito. In ogni caso L. B. Alberti non appartenne affatto a tal cerchia. Solo il concetto della «indù stria» egli aveva tolto–sebbene di seconda o terza mano–dal pensiero monastico. L’Alberti, il Pandolfini, ed altri, sono rappresentanti di quel pensiero già ulteriormente emancipato, nonostante l’ossequio esteriore, dalle tradizioni della Chiesa, ed orientato in senso classico e pagano, nonostante i legami coiretica cristiana prevalente; quel pensiero la cui importanza per lo sviluppo della dottrina e della politica economica moderna, secondo quanto pensa il Brentano, io avrei completamente ignorato. è verissimo il fatto che io non contempli tal serie di cause; esse infatti non entrano in una trattazione sull’«Etica protestante e lo spirito del capitalismo)). Ben lungi dal negare–come si vedrà in altra occasione–la loro importanza, io ero e sono deH’opinione, che si fonda su buoni motivi, che la sfera e la direzione della loro azione furono ben diverse da quelle dell’etica protestante, i cui precursori pratici, tutt’altro che trascurabili, furono le sette e l’etica dello Wyclif e dello Huss. Il pensiero degli umanisti non ha influenzato la condotta della borghesia nascente, ma la politica degli uomini di Stato e dei prìncipi, e queste due serie causali, che in parte, ma non sempre convergono, devono esser tenute per ora ben distinte. Per quel che riguarda Benjamin Franklin, i suoi trattati di economia privata, impiegati in America come libri di lettura nelle scuole, appartengono a questa categoria importantissima per la vita pratica, al contrario della ampia opera dell’Alberti, quasi sconosciuta all’infuori della cerchia degli studiosi. Ma il Franklin è stato espressamente da me citato, come un uomo che aveva superato la regolamentazione puritana della vita nel frattempo attenuatasi, proprio come l’Illuminismo inglese, i cui rapporti col Puritanesimo vennero esposti più volte. 6. Pieter der la Court, 1618–1685, mercante ed economista olandese. Sostenne l’utilità di lasciar sviluppare liberamente industrie e commerci. 7. «Imprenditore», Verleger nel testo. Quello che si descrive qui è appunto il tipo d’imprenditore nel senso chiarito a p. 99 n. 1. 8. Per Marx, nel Capitale, il Verleger è un tipo di imprenditore precapitalista in quanto acquista solo
il prodotto, non il lavoro dei lavoranti. Per Weber invece la differenza sta nello «spirito» dell’imprenditore. 9. Antonio Pierozzi o de’ Porciglioni, 1389–1459, arcivescovo di Firenze, teologo ed economista, considerato uno dei fondatori della moderna teologia morale e dell’etica sociale cristiana. Weber lo cita ripetutamente insieme a S. Bernardino da Siena, 1380–1444, teologo e predicatore francescano, strenuo sostenitore del prestigio del papato e della legittimità dei governanti e fautore di una devozione personalizzata al nome di Gesù.
CAPITOLO III LA CONCEZIONE LUTERANA DELLA VOCAZIONE COMPITO DELL’INDAGINE Non si può disconoscere che già la parola tedesca Beruf come, e forse in modo ancor più chiaro, quella inglese calling, per lo meno riecheggia un concetto religioso–quello di un compito imposto da Dio–e che esso diventa tanto più percepibile, quanto più, nel caso concreto, noi accentuiamo con energia tale parola. E se noi seguiamo storicamente la parola anche attraverso gli idiomi dei popoli civili, ci appare dapprima che i popoli cattolici non conoscono un’espressione di sfumatura simile, per ciò che noi chiamiamo Beruf1 (nel senso di posizione nella vita, di limitato campo di lavoro), come non la conosce l’antichità classicaa, mentre essa esiste presso i popoli prevalentemente protestanti. Ed appare inoltre che in tale espressione non ha parte una caratteristica etnicamente determinata delle relative lingue, che essa sia, ad esempio, l’espressione di uno spirito nazionale germanico, ma bensì che la parola nel suo senso odierno trae origine dalle traduzioni della Bibbia, e precisamente dallo spirito del traduttore, non da quello dell’originaleb. Sembra che nella traduzione luterana della Bibbia essa sia stata adoperata dapprima in un passo del Gesù Siracide2 (II,20 e 21) esattamente nel senso odiernoc. Essa ha preso poi molto presto nella lingua profana di tutti i popoli protestanti il suo significato odierno, mentre per l’innanzi nella lingua profana di nessuno di questi si poteva notare alcun accenno ad assumere un senso analogo, neppure nella letteratura omiletica, con una sola eccezione a noi conosciuta, in uno dei mistici tedeschi, la cui influenza su Lutero è nota. Sul passo del Siracide rimandiamo al noto libro dello Smend su Gesù di Sirach, riguardo tali versi, e al di lui Index zur Weisheit des Jesus Sirach, Berlino, 1907, alle parole διαθήχη, έργον, πόνος. Come è noto, il testo ebrai co del libro del Siracide era andato perduto; ma fu riscoperto da Schechter e completato con citazioni talmudiche. Lutero non lo conosceva e i due concetti ebraici non hanno avuto influenza sulla sua lingua: vedi Prov. Salom. 29. Nel greco manca affatto un’espressione corrispondente, nel colorito etico, alla parola tedesca. Là dove Lutero traduce già, in corrispondenza al nostro uso odierno della parola, bleibe in deinem Beruf, «resta nel tuo mestiere o professione» (Gesù Siracide, 20, 21), i Settanta hanno una volta ίργον, un’altra volta la parola πόνος (in un passo, a quel che pare, completamente corrotto,
poiché nell’originale ebraico si parla della luminosa apparizione dell’aiuto divino). Nell’antichità s’impiegava di solito τα προσήκοντα, nel senso generale di «doveri». Nel linguaggio della Stoa appare talvolta la parola κάματος su cui Alb. Dieterich richiamò la mia attenzione, con un analogo colorito concettuale pur con una origine incolore nel linguaggio comune. Tutte le altre espressioni (come τάξις ecc.) non avevano un colorito morale. In latino si esprime ciò che in tedesco si traduce con ϰ;λ ησις, la duratura attività lavorativa di un uomo, che normalmente è per lui anche fonte perenne di guadagno, e con ciò base della sua esistenza economica, insieme coll’incolore parola opus, con una sfumatura per lo meno affine al contenuto della parola tedesca, o con officium (da opificium, nell’origine dunque incolore, più tardi, specialmente in Seneca, De Beneficiis, IV, 18 = Beruf; professione) o con munus, derivato dalle prestazioni personali dell’antica comunità cittadina, od infine con professio, la quale ultima parola in questo significato doveva derivare in modo caratteristico da doveri di diritto pubblico, e particolarmente dalle antiche dichiarazioni dei cittadini di fronte al fisco, e più tardi viene adoperata specialmente per le «professioni liberali» in senso moderno (così professio bene dicendi) ed in questo campo più ristretto prende un significato abbastanza simile, sotto ogni riguardo, alla parola tedesca Beruf (anche nel senso più profondo della parola, come quando Cicerone dice di alcuno non intelligit quid profiteatur nel senso che non comprende la propria vocazione), solo che, naturalmente, va inteso in senso puramente terreno, senza alcun colorito religioso. E così avviene della parola ars, che al tempo dell’impero viene adoperata per mestiere. E al pari del significato della parola, anche il concetto–e ciò dovrebbe esser noto nel suo complesso–è nuovo ed è un prodotto della Riforma. Non che già nel Medioevo, e persino nell’antichità (nel tardo Ellenismo) non siano esistiti alcuni accenni di quella valutazione del lavoro quotidiano, che si rispecchia nel concetto di Beruf; di ciò parleremo più tardi. Asso lutamente nuova era tuttavia una cosa: il valutare l’adempimento del proprio dovere, nelle professioni mondane, come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica. Tutto questo, per conseguenza inevitabile, contribuì a dare un signifi cato religioso al lavoro quotidiano e creò, in questo senso, il concetto di professione. Trova dunque espressione nel concetto di Beruf quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti, che rigetta la distinzione
cattolica dei comandamen ti etici del Cristianesimo in praecepta e consilia, e che riconosce come solo mezzo per vivere in maniera grata a Dio, non il superamento tramite l’ascesi monacale della morale di chi vive nel mondo, ma esclusivamente l’adempimento dei propri doveri mondani, quali essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, funzione che con ciò appunto diventa la sua «vocazione» (Beruf). In Luterod questo pensiero si sviluppa nel corso del primo decennio della sua attività riformatrice. Da principio per lui il lavoro profano, per quanto voluto da Dio, rientra fra le cose indispensabili alle creature umane, esattamente nel senso della tradizione medioevale prevalente, quale la rappresenta S. Tommaso d’Aquinoe; esso è il fondamento naturale necessario della stessa vita religiosa, per se stesso moralmente indifferente come il mangiare ed il beref. Ma l’importanza della vocazione cui si è chiamati, cresce via via che meglio si chiarisce, sistematicamente, il concetto della «sola fide», in tutte le sue conseguenze, e via via che si rafforza il contrasto, ih ciò già contenuto ed affermato con sempre maggiore energia, coi «consigli evangelici» cattolici del monacheSimo «dettati dal diavolo». La condotta di vita dei monaci non solo è, evidentemente, senza alcun valore per la giustificazione davanti a Dio, ma appare a Lutero come il prodotto di una egoistica mancanza di amore, che voglia sottrarsi ai doveri di questo mondo. In contrasto a questa il lavoro professionale nel mondo appare espressione massima delPamor del prossimo, e ciò vien motivato in un modo che, tuttavia, dalla vita del mondo reale sembra molto estraneo, e che forma un contrasto quasi grottesco con le note proposizioni di Adam Smithg; motivato, cioè, con lo speciale accenno che la divisione del lavoro costringe ogni singolo a lavorare per gli altri. Ma questa motivazione, che, come si vede, è, nella sua essenza, scolastica, scompare presto e rimane, sempre più fortemente accentuata, l’affermazione che l’adempimento dei doveri nel mondo, in tutte le circostanze, è l’unica maniera di essere accetti al Signore, che esso ed esso soltanto corrisponde al volere di Dio, e che perciò ogni professione lecita ha il medesimo valore dinanzi a Luih. Che questo apprezzamento morale della vita professionale mondana sia stata una delle opere più ricche di conseguenze della Riforma e, in particolare, di Lutero è in realtà cosa indubbia, e può esser considerata addirittura un luogo comunei. Distanze, per così dire, cosmiche, separano questa concezione dall’odio profondo con cui l’animo contemplativo di Pascal4 ripudiò l’apprezzamento dell’azione nel mondo, che secondo la sua più profonda
convinzione, si spiegava soltanto colla vanità e colla furberiaj, ma ancor più lontana essa è dall’indulgente adattamento utilitaristico al mondo, che fu compiuto dal probabilismo gesuitico. Ma come sia da rappresentarsi nei dettagli l’importanza pratica di quest’opera del Protestantesimo, viene in generale piuttosto oscuramente sentito che non chiaramente riconosciuto. Prima di tutto, è appena necessario il rilevare che a Lutero non deve essere attribuita alcuna affinità interiore collo «spirito capitalistico» nel senso che noi abbiamo finora annesso a questa parola, né in un altro senso qualsiasi. Quegli stessi am bienti ecclesiastici che sogliono esaltare con maggior zelo quest’«azione» della Riforma, non sono, oggi, nel loro complesso amici del capitalismo in alcun senso. E Lutero stesso avrebbe rudemente respinto ogni legame con un pensiero del genere di quello che appare negli scritti di Franklin. Naturalmente non si devono prendere come sintomi le sue lagnanze contro i grandi commercianti, i Fugger e similik. Poiché la lotta contro la posizione privilegiata, di diritto o di fatto, di singole grandi compagnie commerciali nei secoli xvi e xvn, può esser paragonata più facilmente alle campagne moderne contro i trust, e come queste, non è affatto di per se stessa l’espressione di un sentimento tradizionalistico. Contro di queste, contro i Lombardi5 i Trapeziti6, contro i monopolisti, grossi speculatori, banchieri favoriti dall’Anglicanesimo, dai sovrani e dai parlamenti in Inghilterra ed in Francia, tanto i Puritani, quanto gli Ugonotti condussero un’aspra lottal. Cromwell scrisse al Lungo Parlamento dopo la battaglia di Dunbar (settembre 1650): «Togliete di mezzo gli abusi in tutte le professioni; se ve ne ha una che impoverisce molti, per arricchire soltanto pochi, ciò non giova a una comunità». Ma d’altra parte si troverà Cromwell possedere in alto grado una mentalità capitalisticam. Appare invece in modo non equivoco in numerose manifestazioni di Lutero contro l’usura ed il percepire interessi, la sua concezione del guadagno capitalistico che, da un punto di vista capitalistico, è assai arretrata, rispetto alla tarda scolastican. In particolar modo rientra naturalmente in tal concezione l’argomento, già superato in S. Antonino da Firenze, della improduttività del denaro. Ma non abbiamo bisogno di entrar qui in particolari; e ciò soprattutto perché il concetto della Beruf (nel suo senso religioso) era suscettibile di assumere connotazioni molto diverse, nelle sue conseguenze per la vita laica. La funzione della Riforma, come tale, fu dapprima soltanto quella di accrescere enormemente, nel contrasto colla concezione cattolica, l’accento
morale e la ricompensa religiosa per il lavoro laico, regolato in una professione. Dipese dalla più precisa forma che la religiosità ricevette nelle singole Chiese della Riforma, il modo con cui si sviluppò più tardi quel concetto di Beruf, che dette un’espressione a quel mutamento. L’autorità della Bibbia, da cui Lutero credette di poter togliere il concetto di Beruf era piuttosto, nel suo complesso, più favorevole ad una versione tradizionalistica. Specialmente l’Antico Testamento, che nella profezia genuina non conobbe affatto, o tutt’al più conobbe soltanto in rudimenti ed accenni isolati, un superamento della moralità intramondana, ha dato ad un concetto religioso del tutto simile, una forma rigorosa nel senso seguente: ciascuno rimanga nell’occupazione che gli dà sostentamento; e lasci che gli empi aspirino al guadagno: questo è il senso di tutti i passi, che trattano il lavoro profano. Solo il Talmud poggia in questo argomento su altro terreno, ma solo in parte e non nei princìpi fondamentali. La posizione personale di Gesù è segnata nettamente dalla preghiera, tipica dell’Oriente antico: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», e l’impronta di una radicale rinuncia al mondo, che riceve espressione nel «[¿alcova? 1 xBixixt;» escludeva che il concetto moderno di professione, potesse riattaccarsi a lui personalmenteo. L’era apostolica del Cristianesimo, che trova espressione nel Nuovo Testamento, e particolarmente in S. Paolo, in conseguenza delle aspettative escatologiche che riempivano di sé quelle prime generazioni di Cristiani, ha, di fronte alla vita professionale mondana, un atteggiamento indifferente, o in ogni caso tradizionalistico nella sua essenza; poiché tutto aspetta la venuta del Signore, ciascuno rimanga nello stato e nell’occupazione, in cui l’ha trovato la «chiamata» del Signore, e continui a lavorare come per il passato: così non è, se povero, di peso ai fratelli; si tratta infine solo di breve tempo ancora. Lutero lesse la Bibbia colla lente di quello che era, secondo il momento, il suo generale stato d’animo, e questo, nel corso del suo svi luppo tra il 1518 e il 1530 circa, non solo rimase, ma si fece sempre più tradizionalisticop. Nei primi anni della sua attività riformatrice dominava in lui, nei riguardi delle forme della attività mondana, una concezione essenzialmente affine alPindifierenza escatologica di S. Paolo, quale viene ad esprimersi nella I epistola ai Corinzi, 7q, e che era una conseguenza del fatto che egli stimava la professione come un fatto sostanzialmente proprio alla carne: si può raggiungere la felicità eterna in ogni condizione; non ha alcun senso, nel breve pellegrinaggio della vita, il dare un peso alla forma della propria occupazione.
E l’affannarsi dietro al guadagno materiale, che superi il proprio bisogno, deve per ciò stesso considerarsi come sintomo dell’assenza dello stato di grazia, e poiché appare possibile solo a spese degli altri, deve esser riguardato addirittura come cosa riprovevoler. Coll’immischiarsi sempre più nelle faccende del mondo, cresce di pari passo la sua stima dell’importanza del lavoro professionale. E con ciò al tempo stesso la concreta professione del singolo diviene per lui sempre più uno speciale comandamento di Dio rivolto all’individuo, di adempiere i doveri di questa posizione concreta, che la provvidenza divina gli ha assegnato. E quando, dopo le lotte cogli utopisti fanatici, e la sommossa dei contadini, l’ordinamento storico oggettivo, in cui l’individuo viene immesso da Dio, diventa per Lutero sempre più una diretta emanazione del volere divinos, l’accentuazione ormai sempre più forte dell’elemento provvidenziale anche nei singoli eventi della vita lo avvicina sempre più ad un tono tradizionalistico conforme al concetto di «decreto divino»: l’individuo deve per principio rimanere nella professione e nello stato, in cui Dio lo ha posto, e mantenere la sua attività terrena nei limiti di questa posizione che gli è data. Così, se il suo tradizionalismo economico era da principio il frutto dell’indifferenza, derivata da S. Paolo, più tardi è emanazione della fede nella Provvidenza fattasi sempre più intensate che identifica l’obbedienza incondizionata a Diou coirincondizionato adattamento alla situazione avuta in sorte. Lutero per tal via non è giunto affatto ad una connessione del lavoro professionale con princìpi religiosi, che poggi su di una base fondamentalmente nuova o in qualche modo teoricav. La purezza della dottrina come solo infallibile criterio della Chiesa, che si affermò in lui sempre più irremovibile, dopo le lotte negli anni intorno al 1520, impediva già di per se stessa lo sviluppo di nuovi punti di vista sul terreno etico. Così in Lutero il concetto di Beruf rimase legato alla tradizionew. La professione o vocazione è ciò che l’uomo deve accettare come volontà divina, cui egli deve adattarsi a seguire: questa sfumatura dà il tono anche all’altro concetto che in esso si trova, che cioè il lavoro professionale sia un compito, o meglio, sia il compito imposto da Diox. E lo sviluppo del Luteranesimo ortodosso sottolineò ancor maggiormente questo tratto. Il solo frutto del Luteranesimo nel campo etico fu dunque da principio qualche cosa di negativo; cadde cioè la sopravvalutazione dei doveri ascetici in confronto a quelli profani, ma ad un tempo fu predicata l’obbedienza verso l’autorità, e l’adattamento alla posizione avuta nella vitay.
Nei mistici tedeschi–e avremo modo di parlarne ancora, a proposito dell’etica religiosa medioevale–si era già esaurientemente elaborato il concetto di vocazione in questa sua forma luterana, in particolar modo attraverso l’eguaglianza di principio delle vocazioni ecclesiastiche e mondane in Tauler, e la più scarsa valorizzazione delle forme tradizionali di esercitazione asceticaz, ch’era una conseguenza dell’importanza decisiva, attribuita unicamente alla ricezione, da parte dell’anima, dello Spirito divino nell’estasi della contemplazione. Il Luteranesimo rappresenta anzi in un certo senso, di fronte ai mistici, un passo indietro, in quanto che in Lutero–e più nella sua Chiesa - i fondamenti psicologici di un’etica professionale a base razionale sono diventati abbastanza mal sicuri di fronte a quelli dei mistici (le cui concezioni su questo punto ricordano in parte la psicologia della fede dei Pietisti, in parte quella dei Quaccheri)a1, e ciò avvenne appunto perché, come dovremo ancora dimostrare, la tendenza diretta a disciplinarsi asceticamente era a lui sospetta come santificazione attraverso le opere, e perciò dovette sempre più scomparire nella sua Chiesa. Di per sé dunque, il concetto di «professione» nel senso inteso da Lutero– questo soltanto doveva esser qui stabilitob1 - era, per quanto abbiamo visto sin qui, tutt’al più di un’importanza solo problematica per ciò che noi cerchiamo. Con ciò non si intende dire affatto che anche la forma luterana del nuovo ordinamento della vita religiosa non abbia avuto un’importanza pratica per l’oggetto delle nostre considerazioni. Anzi è vero il contrario; ma soltanto è chiaro che essa non si può direttamente dedurre dalla posizione di Lutero e della sua chiesa di fronte alla professione laica, e non è affatto così facilmente afferrabile, come potrebbe esserlo con altre espressioni del Protestantesimo. Ci conviene perciò esaminare dapprima quelle forme di questo, in cui è più facile che non nel Luteranesimo trovare un nesso della vita pratica col punto di partenza religioso. Già venne menzionata la parte saliente avuta dal Calvinismo e dalle sette protestanti nella storia dello sviluppo capitalistico. Come Lutero in Zuinglio, così i seguaci spirituali di Lutero trovarono, specialmente nel Calvinismo, uno spirito diverso che in se stessi. Ed a ragione il Cattolicesimo da allora in poi, fino al presente, ha considerato il Calvinismo come il suo vero avversario. E ciò dapprima–è vero–per motivi politici: se è vero che la Riforma non sarebbe immaginabile senza l’elaborazione religiosa, del tutto personale, di Lutero, e che essa è stata determinata in modo duraturo dalla sua personalità, non è men vero che senza il Calvinismo la sua opera non sarebbe durata a lungo
nella sua efficacia esterna. Ma il fondamento dell’avversione contro il Calvinismo, comune a Cattolici e a Luterani, si trova anche nel carattere etico del Calvinismo. Anche l’osservazione più superficiale ci insegna che esso ha istituito un rapporto tra vita religiosa ed azione profana di natura del tutto diversa tanto da quello che troviamo nel Cattolicesimo quanto da quello del Luteranesimo. Ciò appare anche nella letteratura che si vale soltanto di motivi specificamente religiosi. Si prenda la chiusa della Divina Commedia dove al Poeta, nella contemplazione pura di ogni desiderio, dei misteri divini vien meno la parola, e si confronti colla fine di quel poema, che si suole chiamare «la Divina Commedia del Puritanesimo». Il Milton7, dopo aver descritto la cacciata dal Paradiso, conclude come segue l’ultimo canto del Paradise lost: …….. Si guatàro addietro Gl’infelici, e miràro il vasto lato Che fronteggia l’aurora (ed oh! pur dianzi Fortunata lor sede!) ondeggiar tutto All’orrendo fulgor di quella spada, E da fiere sembianze ed armi ignite La gran porta ingombrata. Adamo ed Eva Versarono a tal vista alcune stille Che espresse a lor natura: ma le ciglia N’asciugaron tosto. Il mondo intero Loro innanzi s’offria per farvi eletta D’un soggiorno tranquillo, e li guidava La provvidenza: ed essi incerti e lenti Tenendosi per man lungo il deserto Eden drizzâr la solitaria via8. E poco prima aveva detto l’arcangelo ad Adamo: Aggiungere al saper le non discordi Opre or t’è d’uopo. Aggiungervi la Fede, La Virtù, l’Umiltà, la Temperanza E l’Amor, che ne’ secoli avvenire Carità sarà detto, alma di tutto. Meno allor ti dorrai del tuo perduto Paradiso, ché un altro assai più bello Più felice di questo in te medesimo
Ne sorgerà. Ciascuno sente subito che questa potentissima espressione del profondo indirizzo puritano nelle cose di questo mondo, cioè la valorizzazione della vita nel mondo come compito, sarebbe stata impossibile in bocca a uno scrittore medioevale. Ma è del pari poco rispondente al genio del Luteranesimo, quale si manifesta per es. nei corali di Lutero e di Paul Gerhardt9. Ci è necessario adesso di sostituire questa sensazione indeterminata con una formulazione concettuale più precisa e di indagare i motivi più profondi di tali diversità. L’appellarsi al «carattere nazionale» non è soltanto equivalente, in genere, ad una confessione d’ignoranza; ma, nel caso nostro, per giunta non regge affatto. L’attribuire agli Inglesi del secolo xvn un carattere nazionale unitario sarebbe addirittura storicamente falso. I «Cavalieri» e i «Roundheads» si sentivano non solo come due partiti, ma come due razze umane radicalmente diverse, e chi bene li osservi, deve in questo dar loro ragionec1. E d’altra parte un contrasto tra i caratteri dei merchant adventurers inglesi e quelli dei vecchi Anseati è altrettanto difficile a riscontrarsi, quanto una qualsiasi profonda differenza del carattere inglese da quello tedesco alla fine del Medioevo, che non si spieghi direttamente colle diverse sorti politiched1. La forza dei movimenti religiosi–non da sola, ma per prima–ha creato quelle differenze, che noi oggi rileviamoe1. Se, conformemente a questa osservazione, nelFesame dei rapporti tra l’etica del primo Protestantesimo e lo sviluppo del lo spirito capitalistico, noi prendiamo come punto di partenza le nuove creazioni di Calvino, del Calvinismo, e delle altre sette puritane, ciò non deve essere inteso nel senso che noi ci attendiamo di trovare in taluno dei fondatori o dei rappresentanti di tali comunità religiose la creazione di ciò che noi chiamiamo «spirito capitalistico» quale scopo dell’opera sua. Noi non potremmo credere che l’aspirazione e l’attività, rivolte ai beni mondani, pensate come fine a se stesse, abbiano rappresentato per alcuno di essi un valore etico. E questo occorre affermare una volta per sempre: programmi di riforma eticosociale non sono mai stati la preoccupazione centrale di nessuno dei riformatori: tra i quali per la nostra trattazione dobbiamo annoverare anche uomini come Menno10, George Fox11, Wesley12. Essi non furono fondatori di società per la «cultura etica» né rappresentanti di tentativi di riforme umanitarie e sociali, o di ideali culturali. La salute delle anime era il solo cardine della loro vita e della loro opera. Le loro finalità etiche e gli effetti pratici della loro dottrina furono tutte
imperniate intorno ad essa, e furono soltanto conseguenze di motivi puramente religiosi. E dovremmo pertanto convincerci che gli effetti della Riforma sulla civiltà furono in gran parte–anzi per il nostro speciale punto di vista, per la maggior parte–conseguenze impreviste e addirittura non volute dell’opera dei riformatori, spesso divergenti o addirittura opposte a tutto ciò che essi sognavano nei loro ideali. Così lo studio seguente, sia pure in parte modesta, potrebbe rappresentare anche un concorso alla osservazione sul modo, con cui le «idee» operano nella storia. Affinché non sorgano fin dal principio equivoci sul senso, in cui qui viene intesa una tale efficacia di motivi puramente ideali ci si permettano anco ra taluni accenni come conclusione di queste discussioni introduttive. Non si tratta in tali studi–come deve essere innanzi tutto espressamente osservato–di un tentativo di valutare in alcun senso, sia politico-sociale, sia religioso, il contenuto concettuale della Riforma. Noi trattiamo, per i fini che ci siamo proposti, di aspetti della Riforma, che alla coscienza religiosa debbono apparire periferici o addirittura estranei. Poiché si tenterà unicamente di rendere un po’ più chiaro il filo, che motivi religiosi hanno introdotto nel tessuto della nostra civiltà moderna sorta da innumerevoli singoli motivi storici, e rivolta a fini specificamente terreni. Noi ci chiediamo soltanto quali di taluni contenuti caratteristici di questa civiltà possano essere attribuiti, come a loro causa storica, alla Riforma. In questa indagine noi dobbiamo certamente liberarci dall’opinione che si possa dedurre la necessità della Riforma nell’evoluzione storica da spostamenti delle basi economiche. Fu necessaria la cooperazione di innumerevoli gruppi di fatti storici, che non rientrano non soltanto in nessuna legge economica, ma addirittura in nessun punto di vista economico, soprattutto di eventi puramente politici, perché le Chiese recentemente create potessero continuare ad esistere. Ma d’altra parte non si deve combattere per una tesi così pazzamente dottrinariaa come sarebbe la seguente: che lo «spirito capitalistico» (sempre preso nel senso da noi provvisoriamente dato finora a questa parola) sia potuto sorgere solo come emanazione di determinate influenze della Riforma o che addirittura il capitalismo come sistema economico sia un prodotto della Riforma. Già il fatto che alcune importanti forme di aziende capitalistiche sono notoriamente assai più antiche della Riforma si oppone una volta per sempre ad una tale opinione. Ma si deve porre in chiaro soltanto se ed in quanto influenze religiose abbiano avuto parte nella formazione qualitativa e nella espansione quantitativa di quello
«spirito» nel mondo e quali lati concreti della civiltà che posa su basi capitalistiche derivino da tali influenze. Su questa indagine, tenuto conto dell’immensa confusione di reciproci influssi tra le basi materiali, le forme d’organizzazione sociale e politica, e il contenuto spirituale dei periodi storici della Riforma, si può procedere solo così; indagare per prima se ed in quali tratti siano riconoscibili determinate affinità elettive tra alcune forme di fede religiosa e di etica professionale. Con ciò stesso si illumina, per quanto è possibile, il modo e l’indirizzo generale, secondo i quali il movimento religioso, in forza di tali affinità, influenzò lo sviluppo della cultura materiale. Solo dopo che ciò sia stato posto in chiaro si potrà tentare di valutare in qual misura a motivi religiosi o ad altri debba essere attribuita l’origine storica dei vari elementi che formano il contenuto della nostra moderna civiltà. a. Delle lingue antiche solo l’ebraico ha espressioni dì analoga connotazione, prima di tutto nella parola mela’kah. Essa viene adoprata per funzioni ecclesiastiche (.Es., 35, 21; Neem., 11, 22; 1 Cr., 9, 13; 23, 4; 26, 30), per affari in servizio del re (in particolare 1 Satn., 8, 16; 1 Cr., 4, 23; 29, 6), per il servizio di un regio funzionario (Est., 3, 9; 9, 3), di quello di un sorvegliante ai lavori (2 Re, 12, 12), di uno schiavo (Ger., 39, 11), del lavoro dei campi (Cr., 27, 26), di quello di artigiani (Es., 31, 5; 35, 21; Re, 7, 14), di commercianti (Salmo 107, 23) e per ogni lavoro professionale nel passo di Gesù Sir. 11, 20, che discuteremo. La parola è derivata dalla radice l’k cioè inviare; e significava dunque, in traslato: compito. La provenienza dal mondo concettuale dello stato burocratico e liturgico egiziano, basato su prestazioni personali di lavoro (corvées), e di quello salomonico ordinato secondo l’esempio egiziano, appare evidente. Il concetto contenuto in questa radicale, secondo le informazioni fornitemi da A. Merx, era andato completamente perduto già nell’antichità; la parola veniva adoperata per designare ogni sorta di lavoro, ed era in realtà divenuta così incolore come la tedesca Beruf colla quale aveva in comune anche il fatto di esser stata dapprima adoperata per funzioni ecclesiastiche. L’espressione hoq, ciò che è assegnato, il pensum, il compito, che appare pure nel Siracide 11, 20 e che viene tradotta dai Settanta con διαθήχη ha del pari origine nella lingua della suddetta burocrazia, come debar-jom (Es., 5, 13; cfr. Es., 5, 14 dove i Settanta traducono di nuovo con διαθήχη). Siracide 43, 10 viene tradotto dai Settanta con ϰρίμα. Ed in certa affinità dunque col tedesco Beruf. b. La Confessione di Augusta invece contiene il concetto sviluppato solo in parte ed implicite. L’art. XVI insegna (v. l’ed. del Kolde, p. 43): «Poiché il Vangelo non repugna all’ordinamento mondano, all’ordine e al matrimonio, ma vuole che tutto ciò valga come ordinamento divino, e che in tali ordinamenti ciascuno secondo la propria vocazione dimostri amor cristiano e compia buone azioni» (in latino dice soltanto: et in talibus ordinationibus exercere cantatem: ibìd., p. 42): ne deriva per conseguenza che bisogna obbedire alla autorità, e che qui, per lo meno in primo luogo, si pensa alla «vocazione professionale» come ad ordinamento obiettivo nel senso del passo dell’epistola paolina, 1 Cor., 7, 20. E l’art. XXVII parla (ed. Kolde, p. 83 in fondo) di professione (in latino: in vocatione sud) solo in correlazione con gli stati ordinati da Dio: parroci, autorità, ceti principeschi e signorili e simili ed anche questo in tedesco solo nella redazione del Konkordienbuch, mentre nella «Editio princeps» tedesca manca la proposizione corrispondente.
c. Prima delle traduzioni luterane della Bibbia, la parola tedesca Beruf, olandese beroep, inglese calling, danese kald, svedese kallelse, come dànno i lessici e si compiacquero di confermarmi i colleghi Braune e Hoops, in alcuna delle lingue che ancor oggi la conservano non appare nel suo odierno significato profano. Le espressioni medioaltotedesche, mediobassotedesche, e medioolandesi, che hanno suono analogo a Beruf significano tutte chiamata (Ruf), nel suo odierno significato tedesco, compresa anche, in particolar modo nella lingua del tardo Medioevo, la chiamata (= vocatio, Vokation) di un candidato ad una prebenda ecclesiastica da parte di chi era autorizzato ad ammettervelo; caso speciale che suole esser rilevato anche nei vocabolari delle lingue scandinave. Anche Lutero adopera talvolta il vocabolo con questo ultimo senso. Ma, anche se questo impiego speciale della parola possa avere aiutato a cambiare il significato, tuttavia l’origine del moderno concetto di Beruf = professione risale anche filologicamente alle traduzioni della Bibbia, ed in particolar modo a quelle protestanti, e solo in Tauler (m. 1361) se ne trovano i primi accenni, di cui faremo menzione più oltre. Hanno coniato questo vocabolo tutte le lingue che sono state profondamente influenzate dalle traduzioni protestanti della Bibbia; mentre non l’hanno coniato, o non nel significato odierno, tutte quelle (come le lingue romaniche), nelle quali il caso non si è verificato. Lutero traduce due concetti ben diversi con Beruf. Una volta la paolina in senso dell’appello di Dio alla salute eterna: 1 Cor., 1, 26; Ef., I, 18; 4, 14; 2 Tess., 1, 11; Ebrei, 3, 1; 2 S. Pietro, 1, 10. In tutti questi casi si tratta del concetto puramente religioso di quella vocazione, che promana da Dio, mercé FEvangelo annunciato dagli Apostoli, ed il concetto di ϰλ ησις non ha assolutamente a che fare con vocazioni professionali nel senso odierno della parola. Le Bibbie tedesche prima di Lutero (così per es. tutti gli incunaboli della Biblioteca di Heidelberg) scrivono in questo caso ruffunge, ma adoprano anche invece di von Goti geruffet (chiamato) von Gott gefordet (richiesto). Ma in secondo luogo egli traduce–come già fu da noi menzionato–le parole di Gesù Siracide da noi riprodotte nella nota precedente e che nella traduzione dei Settanta vengono rese con έν τώ Ιργω σου παλαιώ θητι ϰ;αΐ Ιμμενε τω πόνω σου «beharre in deinem Beruf, persevera nella tua professione» e «bleibe in deinem Beruf, rimani nella tua professione», invece che «bleibe bei deiner Arbeit, resta al tuo lavoro»; e le più tarde traduzioni cattoliche della Bibbia autorizzate (per es.: quella di Fleischiitz, Fulda, 1781) si sono ad essa uniformate e qui e nei passi corrispondenti del Nuovo Testamento. La traduzione di Lutero di questo passo del Siracide è, per quanto a me è dato conoscere, il primo caso, in cui la parola tedesca Beruf viene adoprata nel suo senso interamente mondano. La esortazione precedente - v. 20 — στήθι εν διαθήκη σου traduce egli con «bleibe in Gottes Wort, rimani nella parola di Dio», sebbene i passi del Siracide, 14, 1 e 43, 10 mostrino che διαθήκτ — corrispondentemente alla espressione ebraica hoq usata dal Siracide sulla traccia di citazioni del Talmud–doveva significare in realtà qualche cosa di simile al tedesco Beruf, cioè il destino, o il lavoro assegnato. Nel senso che ebbe più tardi e ha tuttora, la parola Beruf non esisteva dunque nella lingua tedesca, neppure–per quanto io sappia - in bocca dei più antichi traduttori della Bibbia o dei Predicatori. Le Bibbie tedesche prima di Lutero traducono nel passo del Siracide Werk (opera). Bertoldo di Ratisbona nelle sue prediche là dove noi parleremmo di professione (Beruf), adopra la parola Arbeit (lavoro). I vocaboli usati sono qui dunque gli stessi dell’antichità. Il primo passo a me finora noto, in cui si applica a lavoro puramente mondano, invero non Beruf (vocazione) bensì Ruf (semplicemente chiamata), come traduzione di ϰλῆσις, si trova nella bella predica di Tauler sull’Epistola agli Efesini, 4 (Edizione di Basilea, f. 117 v.): a proposito di contadini che vanno a concimare; essi vanno sul carro spesso meglio «so sie folgen ein- feltiglich irem Ruff denn die geistlichen Menschen, die auf ihren Ruf nicht Acht haben–seguono così semplicemente la loro professione (spesso meglio) che gli ecclesiastici, che non badano alla loro professione».Questa parola Ruf non è penetrata in questo senso nella lingua profana. E nonostante che l’uso di Lutero oscilli in origine tra Ruf e Beruf (cfr. Werfe, Ed. Erl., 51, p. 51),
non è affatto accertato un diretto influsso di Tauler, benché tuttavia si ritrovino alcune risonanze proprio di questa predica del Tauler per es. nella Freiheit eines Christenmenschen. Lutero infatti non ha adoperato la parola nel senso meramente profano in cui l’adoperò il Tauler nel passo citato (all’opposto invece il Denifle, Luther, p. 163). Ma–ed è evidente–il consiglio nel Siracide, astrazion fatta dall’esortazione generica alla confidenza in Dio, non contiene, nella versione dei Settanta, alcuna relazione con una valorizzazione specificamente religiosa del lavoro profano cui si è chiamati; anzi l’espressione 7rdvoc, fatica, nel secondo passo corrotto sarebbe piuttosto il contrario di una tale valorizzazione, se appunto il passo non fosse corrotto. Ciò che Gesù Siracide dice, corrisponde semplicemente alla esortazione del salmista (Salmo 37, 3): «resta nel tuo paese e nutriti onestamente», come mostra anche, nella maniera più evidente, l’averla messa insieme col monito (v. 21) di non lasciarsi accecare dalle opere degli empi; poiché a Dio è facile di far ricco un povero. Solo l’avvertimento iniziale di rimanere nella hoq (v. 21), ha una certa affinità colla evangelica; ma proprio qui Lutero non impiegò al posto della parola greca $iy]$iqx7) la parola Beruf. Il passo della prima lettera ai Corinti e la sua traduzione gettano un ponte tra quei due usi, in apparenza così eterogenei, della parola Beruf. In Lutero (nelle solite edizioni moderne) il passo, nella sua intera connessione, suona come segue: (1 Cor., 7, v. 17) ein jeglicher, wie ihn der Herr berufen hat, also wandle er… (18) Ist jemand beschnitten berufen, der zeuge keine Vorhaut. Ist jemand berufen in der Vorhaut, der lasse sich nicht beschneiden. (19) Die Beschneidung ist nichts und die Vorhaut ist nichts; sondern Gottes Gebot halten. (20) Ein jeglicher bleibe in dem Beruf, in dem er berufen ist (έν τῆ ϰλῆσει ἧ ἐϰλήθη) che è, come mi dice A. Merx, senza dubbio un ebraismo; la Vulgata: in qua vocatione vocatus est. (21) Bist du ein Knecht berufenf sorge des nicht, doch kannst du frei werden, so brauche des viel lieber. (22) Denn wer ein Knecht berufen ist, der ist ein Gefreiter des Herrn; desgleichen wer ein Freier berufen ist, der ist ein Knecht Christi. (23) Ihr seid teuer erkauft; werdet nicht der Menschen Knechte. (24) Ein jeglicher, lieben Brüder, worinnen er gerufen ist, darinnen bleibe er bei Gott. Segue (v. 29) l’accenno che il tempo è breve; cui tengono dietro i noti avvertimenti, motivati da aspettazioni escatologiche, di tener le donne, come se non si avessero, di comprare, come se non si dovesse possedere la cosa comprata, ecc. Ancor nel 1523, nella sua esegesi di questo capitolo (v. 20). Lutero aveva tradotto, collegandosi alle più antiche traduzioni tedesche, ϰλῆσις mediante Ruf, chiamata e l’aveva interpretata come Stand, stato, ceto. (Ed. Eri., 51, p. 51). Nel fatto è manifesto che la parola ϰλῆσις, in questo passo è solo in questo, corrisponde abbastanza al latino status e al tedesco Stand (Ehestand = stato matrimoniale, Stand des Knechtes = stato servile, ecc.). (Ma non certamente, come il Brentano opina, p. 137, nel senso odierno di Beruf. Mi pare poco probabile che il Brentano abbia letto con attenzione il passo stesso e quello che io ne dico). Questa parola, affine per la radice ad «riunione convocata», con un significato, che per lo meno ricorda questo, ricorre nella letteratura greca, per quanto se ne può dedurre dal materiale raccolto nei lessici, solo una volta in un passo di Dionigi d’Alicarnasso, dove al latino classis, parola tolta a prestito dal greco, essa corrisponde a significare quel reparto, quella divisione dei cittadini «convocata» e imposta d’autorità. Teofilatto (xi-xii secolo) interpreta 1 Cor., 7, 20: ἐν οἴω βίῳ ϰαὶ ὲν οἵω τάγματά ϰαὶ πολιτεύματι ών έπίστευσεν.. (Sul passo richiamò la mia attenzione il collega Deissmann). In ogni caso anche nel passo qui discusso ϰλῆσις non corrisponde all’odierno Beruf. Ma Lutero che aveva tradotto ϰλῆσις Beruf nell’esortazione, motivata con speranze escatologiche, a rimanere ciascuno nel proprio stato, quando più tardi tradusse i vangeli apocrifi, nel consiglio dettato da motivi tradizionalistici ed anticrematistici di Gesù Siracide, che ognuno dovesse rimanere nella propria occupazione, ha tradotto, precisamente a causa della analogia obiettiva del consiglio, del pari πόνος con Beruf. E questo è il punto decisivo e caratteristico. Il passo 7, 17 della ia lettera ai Corinti, non adopra
affatto, come si è detto, ϰλῆσις nel senso di Beruf, di campo limitato di attività. Frattanto, o quasi nello stesso tempo, nel 1530, nella Confessione di Augusta fu affermato il dogma protestante sulla inutilità del superamento cattolico della moralità nella vita terrena; e qui fu adoprata la frase «ei- nem jeglichen nach seinem Beruf, ciascuno secondo la propria vocazione». (V. nota precedente). Nella traduzione di Lutero emerge questo fatto insieme con la valutazione sensibilmente in aumento negli anni attorno al 1530, dell’ordinamento in cui il singolo vien posto; valutazione che emanava dalla sua credenza, sempre più precisa, nella speciale provvidenza divina che si manifesta anche nelle particolarità della vita; ed al tempo stesso ne emerge la sua tendenza sempre più forte ad accettare gli ordinamenti mondani come voluti immutabilmente da Dio. Vocatio era adoperato nel latino tradizionale come chiamata divina alla vita religiosa, specialmente nel chiostro o come sacerdote, e, sotto la pressione di quel dogma, anche il lavoro professionale dei laici prese in Lutero quel colorito. Poiché mentre in questo tempo traduce 7róvo ed epyov in Gesù Siracide con Beruf, con cui già esisteva una analogia che traeva origine solo dalla traduzione latina monacale; alcuni anni prima nel Proverbi di Salomone, 22, 29, e in altri passi (Gen., 39, 11) aveva reso con Geschäft «affare» l’ebraico mela’kah che stava a fondamento della £pyov del testo greco di Gesù Siracide e che–proprio come la parola tedesca Beruf e quelle scandinave kald, kallelse–proviene precisamente dalla vocazione ecclesiastica (i Settanta gpyov Vulg. opus; bibbie inglesi: business; espressioni corrispondenti si trovano anche nelle bibbie nordiche e in tutte le traduzioni che ho avuto a mia disposizione). La creazione da lui compiuta della parola Beruf nel suo senso odierno fu dapprincipio propria del solo Luteranesimo. I Calvinisti consideravano gli Evangeli apocrifi come non canonici. Solo più tardi nel loro svolgimento che mise in primo piano l’interesse per la Bewährung3 accettarono e misero in forte rilievo il concetto luterano di vocazione; nelle prime traduzioni della Bibbia in lingue romanze essi non avevano a disposizione una parola corrispondente, né avevano la forza di introdurne una da loro creata nelle lingue già stereotipate. Già nel xvi secolo il concetto e la parola Beruf hanno preso cittadinanza nella letteratura profana, col loro odierno significato. I traduttori della Bibbia prima di Lutero avevano adoprato per la parola Beru fung = vocazione (così per es. negli incunaboli di Heidelberg del 1462–66 e 1485). La trad. di Ingolstadt delFEck, del 1537, dice: in dem Ruf, worin er berufen ist. Le traduzioni cattoliche più tarde seguono per lo più direttamente Lutero. In Inghilterra la traduzione della Bibbia di Wyclif (1382) ha usato prima di tutte, in questo passo, la parola cleping (antica parola inglese che più tardi fu sostituita da calling) il che è certamente caratteristico per l’etica dei Lollardi; parola già corrispondente a quelle usate dai Riformatori più tardi. La traduzione di Tindal del 1534 dà invece al pensiero un senso di classe o condizione sociale in thè same state, wherein he was called, come quella di Ginevra del 1557. La traduzione ufficiale di Cranmer del 1539 sostituì state con calling, mentre la Bibbia cattolica di Rheims del 1582, al pari delle bibbie auliche anglicane dell’èra elisabettiana, ritorna in modo caratteristico a vocation appoggiandosi alla Vulgata. Il Murray ha già riconosciuto trattandone s. v. calling, che la traduzione della Bibbia di Cranmer è la fonte del concetto puritano di calling in senso di professione = trade. Già alla metà del xvi secolo calling si trova usata in quel senso, già nel 1588 si parlava di unlawful callings, nel 1603 di greater callings nel senso di professioni elevate ecc. (v. MURRAY, op. cit.). Fa stupire l’opinione del Brentano secondo il quale nel Medioevo non si è tradotta vocatio con Beruf e non si è conosciuto tal concetto, perché so lo uomini liberi avrebbero potuto seguire la vocazione per una professione e a quei tempi sarebbero mancati uomini liberi nelle professioni borghesi. Poiché tutto l’ordinamento sociale della industria medioevale si fondava, in contrasto con quello dell’antichità, sul lavoro libero, ed i commercianti sopra a tutto quasi tutti uomini liberi, io non comprendo tale affermazione. d. Vedi su quanto appresso l’istruttiva esposizione di K. EGER, Die Anschauung Luthers vom Beruf, Giessen 1900, la cui unica lacuna potrebbe consistere nell’analisi, in lui, come in quasi tutti gli altri
scrittori teologi, non ancor chiara del concetto della lex naturae. (V. sull’argomento E. Troeltsch nella recensione della Dogmengetschichte del Seeberg nelle «Gòtt. Gel. Anz.», 1902, ed anche sopra a tutto nelle parti a ciò relative del suo libro Die Soziallehren der christlichen Kirchen). e. Quando S. Tommaso d’Aquino pone la distribuzione sociale e professionale degli uomini, come opera della Provvidenza Divina, egli intende con ciò il cosmo obiettivo della società. Il fatto che il singolo si volga a questa o a quella professione (ministerium o officium), trova la sua ragione nelle causae naturales. Cfr. Quaest. quodlibetal. VII, art. 17 c.: Haec autem diversificatio hominum in diversis officiis contigit primo ex divina providentia, quae ita hominum status distribuit… secundo etiam ex causis naturalibus, ex quibus contingit, quod in diversis hominibus sunt diversae inclinationes ad diversa officia… Parimenti l’apprezzamento che Pascal fa della professione, risulta dal-la proposizione che il caso decide sulla scelta della professione. (Cfr. su Pascal A. KöSTER, Die Ethik Pascals, 1907). Delle etiche religiose «organiche», solo la più chiusa fra di esse, l’indiana, si atteggia diversamente a questo riguardo. Il contrasto del concetto di professione tomistico con quello protestante (anche con quello tardo luterano ad esso affine, specialmente nell’accentuazione del lato provvidenziale), appare così manifesto, che provvisoriamente ci si può limitare alla citazione precedente, tanto più che dovremo tornare più tardi sulla concezione cattolica. (V. su S. Tommaso, MAURENBRECHER, Th. V. Aquinos Stellung zum Wirtschaftsleben seiner Zeit, 1898). Là dove Lutero sembra accordarsi con S. Tommaso, ciò è dovuto più all’influenza della dottrina generale della Scolastica che non a quella particolare di S. Tommaso. Infatti, secondo quando afferma il Denifle, sembra che egli abbia conosciuto insufficientemente S. Tommaso. (V. eNIFLE, Luther und Luthertum, 1903, p. 501 e KöHLER, Ein Wort zu Denifles Luther, 1904, p. 25 e seg.). f. Nel Von der Freiheit eines Christenmenschen, si impiega dapprima: 1°) la zweierlei Natur (la duplice natura) dell’uomo, per la costruzione dei doveri sociali nel senso della lex naturae (qui nel senso di ordinamento naturale del mondo), la quale trae origine dal fatto che l’uomo è legato di fatto al suo corpo ed alla comunità sociale. (Ed. Erl., 27, p. 188). 20) In questa situazione, se egli è un Cristiano credente–e qui abbiamo una seconda motivazione che si connette alla prima–prenderà la decisione di compensare con l’amor del prossimo la grazia che Dio ha deciso di elargire all’uomo per puro amore (p. 196). Con questa congiunzione non troppo rigorosa di «Fede» e di «Amore» si incrocia: 30) la vecchia motivazione ascetica del lavoro come di un mezzo, per procurare all’uomo «interno» il dominio sul corpo (p. 190). 40) Ed in connesssione con tutto ciò, e assumendo ancora una volta, ma in un altro senso, il concetto di lex naturae (che qui equivale a moralità naturale), si afferma essere il lavoro un impulso già proprio ad Adamo (prima della caduta), a lui ispirato da Dio, e che egli seguiva solo «per essere accetto al Signore». Infine 50) (pp. 161 e 199) appoggiandosi a S. Matteo 7, 18 e seguenti appare il pensiero che il lavoro diligente nella propria professione sia e debba essere conseguenza della nuova vita creata dalla Fede, senza che tuttavia venga sviluppato il caratteristico motivo calvinista della Bewährung (conferma della salvezza). Il fervore potente che anima questo scritto di Lutero, spiega come vi siano utilizzati elementi concettuali eterogenei. g. «Non dal beneplacito del macellaio, del fornaio o del contadino noi ci aspettiamo la colazione, bensì dalla considerazione del loro proprio tornaconto; non facciamo appello al loro amore del prossimo, bensì al loro egoismo, e diciamo loro non dei nostri bisogni, ma del loro interesse» (AD. SMITH, Wealth of Nations, I, 2). h. Omnia enim per te operabitur (Deus), mulgebit per te vaccam et servilissima quaeque opera faciet, ac maxima pariter et minima ipsi grata erunt. (Esegesi della Genesi, Op. lat. exegetica, ed. Elsperger, VII, 213). Il concetto si trova prima che in Lutero in Tauler, che pone l’uguaglianza di principio, in quanto a valore, della «vocazione» (Ruf) ecclesiastica e laica. Il contrasto col Tomismo è comune alla mistica tedesca e a Lutero. Nelle formulazioni questo contrasto appare in quanto S. Tommaso–soprattutto per poter mantenere il valore morale della
contemplazione, ma anche dal punto di vista del monaco mendicante–si trovò costretto a dare all’affermazione di S. Paolo: «Chi non lavora, non mangia» il seguente significato: che il lavoro è stato imposto al genere umano in quanto tale, poiché è indispensabile lege naturae, ma non a ciascun individuo singolarmente. La gradazione nell’apprezzamento del lavoro, dalle opera servilia dei contadini in su, è qualche cosa di connesso al carattere specifico degli ordini mendicanti, legati per motivi materiali alla città, come a loro domicilio, e che rimase ugualmente estraneo tanto ai mistici tede-schi, quanto a Lutero, figlio di contadini, che, stimando le professioni tutte uguali fra loro, affermarono che l’ordinamento sociale era voluto da Dio. V. a proposito i passi più importanti di S. Tommaso, riportati in MAURENBRECHER, Th. v. Aquinos Stellung zum Wirtschafsleben seiner Zeit, Lipsia 1898, p. 65 segg. i. Tanto più stupefacente è il fatto che taluni eruditi credano che una tale innovazione potesse passare senza lasciar traccia nel modo di agire degli uomini. Confesso di non poter comprendere una tale opinione. j. «La vanità è così profondamente radicata nel cuore umano, che perfino un mozzo di stalla, uno sguattero, un facchino monta in boria e pretende di avere chi lo ammiri». Ed. Faugères, I, 208. Cfr. KÖSTER, op. cit., pp. 17, 136 e segg. Sulla posizione di principio di Port Royal e del Giansenismo di fronte alla «professione», su cui torneremo brevemente anche più tardi, cfr. l’eccellente scritto del Dr. PAUL HONIGSHEIM: Die Staatsund Sozialleheren der franzÖsischen Jansenisten im ij. Jahrhundert. (Tesi di laurea in istoria, discussa all’Università di Heidelberg, 1914. Pubblicazione parziale da un’opera più ampia sulla Vorgeschichte der franzÖsischen Aufklärung; cfr. specialmente p. 138 e segg. della pubblicazione parziale). k. Rispetto ai Fugger egli opina che «non possa riuscire né bene né grato a Dio, che nella vita di un uomo solo si accumuli un possesso così grande e regale». Questa è dunque, nella sua essenza, diffidenza di contadino contro il capitale. E del pari (cfr. il grande sermone sull’usura, ed. Erl., 20, p. 109) per lui l’acquisto di rendita è moralmente sospetto, perché «è un ritrovato nuovo e svelto» cioè per lui economicamente non chiaro, come per l’ecclesiastico moderno il commercio a termine. l. Tale contrasto è sviluppato con acutezza da H. LEVY, nel suo scritto Die Grundlagen des Ökonomischen Liberalismus in der Geschichte der englischen Volkswirtschaft (Jena 1912). Cfr. anche la petizione contro i monopoli e le compagnie, presentata dal partito dei Levellers dell’esercito di Cromwell nel 1653, in GARDINER, Commonwealth, II, p. 179. Il regime dell’arcivescovo Laud tendeva invece ad un’organizzazione economica «cristiano-sociale», diretta dal sovrano e dalla Chiesa, dalla quale organizzazione il re si attendeva vantaggi politici e monopolistico-fiscali. Proprio contro questa si rivolse la lotta dei Puritani. m. Ciò che si intende qui con tale affermazione può essere spiegato coll’esempio del manifesto agli Irlandesi con cui Cromwell, nel gennaio 1650, aprì la sua lotta di distruzione contro di essi, e che era la replica ai manifesti del clero irlandese (cattolico) di Clonmacnoise del 4 e del 13 dicembre 1649. Le frasi sostanziali suonano come segue: Englishmen had good inheritances (in Irlanda), which many of them purchased with their money… they had good leases from Irishmen for long time to come, great stocks thereupon, houses and plantations erected at their cost and charge… You broke the union… at a time when Ireland was in perfect peace and when through the exemple of English industryt through commerce and traffic, that which was in the nations hands was better to them than if all Ireland had been in their possession… Is God, will God be with you? I am confident he will not. Questo manifesto, che ricorda articoli di fondo di giornali inglesi del tempo della guerra contro i Boeri non è caratteristico per il fatto che l’interesse capitalistico degli Inglesi viene posto come fondamento giuridico della guerra. Questo argomento avrebbe naturalmente potuto essere adoperato in una trattativa per es. tra Venezia e Genova sull’estensione delle loro zone di interessi in Oriente (il BRENTANO me lo oppone, assai stranamente, dal momento che io già lo avevo qui rilevato; op. cit., p. 142). Ma il lato speciale di questo scritto consiste nel fatto che Cromwell–e per chiunque conosca il suo carattere, colla più profonda convinzione intima–
di fronte agli Irlandesi stessi fonda la giustificazione morale della loro soggezione agli Inglesi, chiamandone Dio a testimone, sulla circostanza che il capitale inglese ha educato gli Irlandesi al lavoro. (Il Manifesto si può trovare, oltre che in CARLYLE, stampato in estratto ed analizzato nella History of the Commonwealth del GARDINER, I, p. 163 e segg., e tradotto in tedesco nel Cromwell del HòNIG). n. Non è questo il luogo di trattare più estesamente tale argomento. o. V. le osservazioni nel bel libro dello JULICHER sulle Gleichnisreden Jesu, II, p. 636, p. 108 seg. p. Per quanto segue cfr. di nuovo la trattazione delPEger (op. cit.). Fin da ora si può rinviare alla bella opera, ancor oggi non invecchiata, dello Schneckenburger, Vergleichende Darstellung des lutherischen und reformierten Lehr begriff es, edito da Güder, Stuttgart 1855. La Luthers Ethik del Luthardt, p. 84 della Ia ediz. che sola ebbi a mia disposizione, non dà una reale esposizione dello svolgimento. Cfr. inoltre la Dogmen- geschichte del Seeberg, II, p. 262, in fondo. Privo di valore è l’articolo Beruf della Realenzyklopädie f. prot. Theol. und Kirche, che contiene, invece di un’analisi scientifica del concetto e della sua genesi, osservazioni di ogni genere e molto superficiali sulle cose più disparate, sulla questione femminile, ecc. Della letteratura economica su Lutero citiamo qui soltanto i lavori dello Schmoller, Geschichte der national’òkonomisehen Ansichten in Deutschland während der Reformationszeit nella «Z. f. Staatswissenschaft», XVI, 1860; la Preisschrift di Wiskemann (1861) e il lavoro di Frank G. Ward, Darstellung und Würdigung von Luthers Ansichten vom Staat und seinen wirtschaftlichen Aufgaben nelle «Abh.» del Conrad, XXI, Jena 1898. La letteratura, in parte veramente notevole, su Lutero, in occasione del centenario della Riforma, non ha, per quanto a me è noto, prodotto nulla di spiccatamente nuovo su questo punto speciale. Sull’etica sociale di Lutero e luterana vanno naturalmente confrontate prima di ogni altro scritto, le parti a ciò relative delle Soziallehren del Troeltsch. q. La spiegazione (1523) del vii capitolo della prima Epistola ai Corinzi è nell’Ed. Erl., 51, p. 1 e segg. Qui Lutero interpreta il concetto della «libertà» di ogni professione dinanzi a Dio, ancora nella maniera seguente: 1) che con ciò si sia voluto ripudiare ogni precetto escogitato dall’uomo: voti monacali, divieto di matrimoni misti, ecc.; 2) e che sia con ciò rafforzato il valore dell’adempimento (in sé indifferente dinanzi a Dio), dei doveri sociali tradizionali verso il prossimo, rendendoli così precetti dell’amor del prossimo. In realtà nelle caratteristiche deduzioni, per es. di pp. 55–56, si tratta del dualismo della lex naturae di fronte alla giustizia divina. r. Cfr. il passo che il Sombart a ragione premise come motto alla sua trattazione dello «spirito dell’artigianato» (tradizionalismo) estratto dal Von Kaujhandlung und Wucher (1524): «Tu devi a ciò provvedere, di non cercare in un tal commercio che ciò che è sufficiente alla tua nutrizione, non di calcolare, inoltre, e pesare il tuo vitto, la tua fatica, il lavoro ed il rischio, e poi di porre la merce ad un prezzo più o meno alto in modo da avere un compenso di tal lavoro e fatica». La massima è formulata in senso assolutamente tomistico. s. Già nella lettera a H. v. Sternberg, colla quale, nel 1530, gli dedica l’esegesi del Salmo 117, il ceto nobiliare (basso), nonostante la sua decadenza morale, ha il valore di un’istituzione divina (Edizione di Eri., 40, p. 282 in basso). Dalla lettera stessa si rileva chiaramente l’importanza decisiva, che le sommosse del Miinzer hanno avuto per lo sviluppo di questa concezione (p. 282 in alto). Cfr. anche EGER, op. cit., p. 150. t. Anche nel commento al Salmo 3, 5 e 6 (Ed. Eri., 40, p. 215 e 216) si parte dalla polemica (1530) contro la contravvenzione agli ordinamenti del mondo, perpetrata dai monasteri, ecc. Ma adesso la lex naturae (in contrasto col diritto positivo, quale lo fabbricano gli imperatori ed i giuristi) è addirittura identica colla giustizia divina: essa è istituzione divina e comprende in particolar modo la stratificazione sociale della popolazione (p. 215, cap. 2), mentre si accentua soltanto l’ugual valore dei ceti sociali dinanzi a Dio. u. Come in particolar modo egli insegna negli scritti Von Konzilien und Kirchen (1539), e Kurzes
Bekenntnis vom heiligen Sacrament (1545). v. Il seguente passo in Von Konzilien und Kirchen (1539), Ed. Erl., 25, p. 376 in basso, ci mostra come il concetto, per noi così importante, e che nel Calvinismo è fondamentale, della Bewährung (prova e conferma) del Cristiano attraverso il suo lavoro professionale e la sua condotta nella vita, in Lutero invece rimanga nel secondo piano: «Oltre a questi sette punti principali (in cui si riconosce la vera Chiesa) vi sono anche alcuni segni, e questi esteriori, da cui si riconosce la santa Chiesa cristiana; se noi non siamo impudichi, beoni, superbi, cortigiani, dispendiosi; ma casti, temperanti, riservati…». Questi segni non sono certamente, secondo Lutero, così certi come die droben (quelli precedenti: purità della dottrina, preghiera, ecc.) «poiché anche alcuni pagani hanno praticato tali opere e talvolta appaiono persino più santi dei Cristiani». La posizione personale di Calvino, di cui tratteremo più oltre, era poco diversa; non così quella del Puritanesimo. In ogni caso il Cristiano serve Dio solo in vocatione non per vocationem (Eger, p. 117 e segg.). Nei mistici tedeschi (v. per es. il passo citato di Suso in Seeberg, Dogmengeschichte, p. 195, e le espressioni sopracitate di Tauler) si trovano per lo meno alcuni accenni, sia pure in senso psicologico, del concetto di Bewährung,) ed in ogni caso piuttosto nella sua interpretazione pietistica che in quella calvinistica. w. Ma il suo punto di vista definitivo è esposto in alcune considerazioni dell’Esegesi della Genesi (Op. lat. exeg., edizione Elsperger). Vol. IV, p. 109: Neque haec juit levis tentatio, intentum esse suae vocationi et de alììs non esse curiosum… Paucissimi sunt, qui sua sorte vivant contenti… (p. in eod.) Nostrum autem est, ut vocanti Deo pareamus… (p. 112) Régula igìtur haec servanda est, ut unusqutsque maneat in sua vocatione et suo dono contentus vivat, de aliis autem non sit curiosus. Ciò corrisponde, nel suo risultato, alla formulazione del tradizionalismo in S. Tommaso d’Aquino (Th. V, 2 gen. 113 art. I c.): Unde necesse est quod bonum hominis circa ea consistât in quadam mensura, dum scilicet homo… quaerit habere exteriores divitias, prout sunt necessariae ad vitam ejus secundum suam conditionem. Et ideo in excessu huius mensurae consistit peccatum, dum scilicet aliquis supra debitum modum vult eas acquirere vel retinere, quod pertinet ad avaritiam. San Tommaso deriva il motivo del peccato nell’oltrepassare la misura del guadagno data dal bisogno conforme al proprio stato, della lex naturae, quale essa appare nello scopo (ratio) cui sono destinati i beni esteriori, Lutero invece lo deriva dalla volontà divina. Sul rapporto di fede e di vocazione in Lutero vedi anche il vol. VII, p. 225:… quando es fidelis, tum placent Deo etiam physica, carnalia, ammalia, officia, sive edas, sive bibas, sive vigiles, sive dormias quae mere corporalia et ammalia sunt. Tanta res est fides… Verum est quidem, piacere Deo etiam in impiis sedulitatem et industriam in officio. (Questa attività nella vita professionale è una virtù lege naturae). Sed obstat incredulitas et vana gloria, ne possint opera sua referre ad gloriam Dei (il che ricorda interpretazioni calvinistiche). Merentur igìtur etiam impiorum bona opera in hac quidem vita praemia sua (in contrasto contro i «vitia specie virtutum palliata» di S. Agostino) sed non numerantur, non colliguntur in altero. x. Nella Kirchenpostille (Ed. Eri., 10, pp. 233, 235–236) è detto: «Ciascuno è chiamato ad una qualche vocazione». Questa vocazione (a p. 235 dice addirittura «ordine, Befehl») egli deve aspettare ed in essa servire a Dio. Dio si rallegra non della prestazione ma dello spirito di obbedienza che in essa si eseguisce. y. A ciò corrisponde il fatto che–in contrasto con ciò che fu detto sopra dell’efficacia del pietismo sulla funzione economica delle operaie–industriali moderni talvolta affermano che per es. in taluni imprenditori dell’industria domestica, rigidamente luterani, si riscontra non di rado ancor oggi, per es. in Vestfalia, un atteggiamento di pensiero straordinariamente tradizionalistico: onde questi sono avversi a trasformazioni nei sistemi di lavoro–anche se non si tratti di passare al sistema della fabbrica–e nonostante l’attrattiva del sopraprofitto, motivano tale loro avversione con accenni all’aldilà, dove tutto sarà uguale. Si manifesta così che il solo fatto di appartenere ad una Chiesa o di professare una fede non è, di per se stesso, di una importanza essenziale; sono contenuti religiosi più concreti quelli che hanno avuto la loro efficacia nel divenire del capitalismo e che, in misura assai ridotta, l’hanno ancor oggi.
z. Cfr. TAULER, ed. di Basilea, f. 161 e segg. a1. Cfr. la predica di Tauler, in modo così caratteristico ricca di sentimento (op. cit., ff. 17. 18-v, 20). b1. Poiché questo è, in questo passo, l’unico scopo delle nostre osservazioni su Lutero, esse si debbono limitare ad uno schizzo provvisorio e così esiguo che naturalmente non può soddisfare in alcun modo chi si ponga dal punto di vista di una valutazione integrale di Lutero. c1. Chi condividesse la costruzione storica dei «Levellers» si troverebbe nella felice condizione di poter ridurre a sua volta tutto ad un contrasto di razza; essi, infatti, credevano di combattere per il loro birthrìght come rappresentanti degli Anglosassoni, contro i discendenti di Guglielmo il Conquistatore e dei Normanni. C’è veramente da stupirsi che nessuno finora abbia dato alle plebee roundheads13 il senso strettamente antropometrico di teste rotonde! d1. In particolar modo l’orgoglio nazionale inglese, conseguenza della Magna Charta e delle grandi guerre. Si ha notizia fin dal secolo xv dell’odierna espressione così tipica: she looks like an English girl, usata per accennare alla bellezza di una fanciulla straniera. e1. Queste differenze, naturalmente, sono rimaste vive anche in Inghilterra. In particolar modo la «Squirearchia» rimase rappresentante della «merry old England» fino ai tempi nostri, e tutta l’epoca dalla Riforma in poi può esser considerata come una lotta fra i due tipi britannici. In questo punto do ragione alle osservazioni di M. ). Bonn (nella «Frankfurter Zeitung») sul bel lavoro di Schulze-Gàvernitz sull’imperialismo britannico. Cfr. H. LEVY nell’«Arch. f. Soz. Wiss.», 46, 3. 1. Va notato che in italiano la parola «vocazione» è passata però dall’uso ecclesiastico ad indicare la professione o l’arte cui un giovane si sente portato, e si parla di una vocazione artistica, scientifica, politica, militare. Certo non si designa con essa l’attività professionale in quanto tale. Né è priva di un certo contenuto religioso la parola «professione». La Vulgata traduce i passi succitati di Gesù Siracide una volta colla parola opus, un’altra volta colla parola locus, che in questo caso significherebbe presso a poco posizione sociale. Da un asceta come S. Gerolamo ha origine l’aggiunta mandaturam tuorum, come il Brentano giustamente rileva, ma però senza osservare qui, ed altrove, che proprio questo è un segno caratteristico dell’origine del concetto dell’ascesi, ultramondana prima della Riforma, intramondana dopo la Riforma. Del resto non è certo da qual testo fu fatta la traduzione di S. Gerolamo; sembra che non si debba escludere un’influenza del vecchio nome liturgico di mela’kah. Nelle lingue romanze solo la parola spagnola vocación, derivata dalla vocazione ecclesiastica, nel senso della intima «vocazione» a qualche cosa, ha un colorito in parte rispondente al senso tedesco della parola, ma non viene mai adoperato nel senso esteriore della parola professione. Nelle traduzioni della Bibbia in lingue neolatine, la parola spagnola vocación e la italiana vocazione o chiamamento, con un significato in parte rispondente a quello luterano o calvinistico, vengono adoperate solo per tradurre la del Nuovo Testamento, l’appello, attraverso la Buona Novella, alla salute eterna, là dove la Vulgata ha vocatio. è strano che il Brentano ritenga che tale circostanza da me stesso menzionata indichi che esistesse già prima il concetto di «vocazione professionale» nel significato che ebbe dopo la Riforma. Ma non si tratta affatto di questo: ϰ;λ ησις doveva esser tradotto con vocatio; ma dove e quando sarebbe stato adoprato nel senso odierno? Il fatto è che è stato tradotto così e che manca il significato laico di tal parola: questo è decisivo. «Chiamamento» è adoperato in tal senso per es. dalla traduzione italiana della Bibbia del seco lo xv, che è stata stampata nella «Collezione di opere inedite e rare», Bologna, 1887, in confronto a «vocazione» di cui si servono le traduzioni italiane moderne della Bibbia. Le parole delle lingue neo-latine corrispondenti a Beruf nel senso esteriore laico, non portano affatto in sé, come appare dal materiale dei lessici e da una precisa esposizione del mio egregio amico Prof. Baist di Friburgo, un’impronta religiosa, sia che, come quelle derivate da ministerium ed offìcium, abbiano avuto in origine un certo colorito etico, sia che, come quelle derivate da ars, professio od im- plicare (impiego) manchino completamente fin dall’origine anche di questo.
I passi di Gesù Siracide, citati all’inizio, dove Lutero ha Beruf, vengono tradotti in francese v. 20 office, v. 21 labeur (trad. calvinista), in spagnolo v. 20 obra, v. 21 lugar (secondo la Vulgata); nuove traduzioni: c posto» (protestante). Ai protestanti dei paesi latini non è riuscito (poiché erano minoranza), e non hanno nemmeno cercato, di esercitare un’influenza sul linguaggio come Lutero potè esercitare sulla lingua cancelleresca germanica meno formata accademicamente. 2. Il Siracide, altro nome per V Ecclesiastico, uno dei libri sapienziali dell’Antico Testamento, scritto da Gesù ben Sirach. Solo nell’art. XXVI (Kolde, p. 81) la parola viene adoperata in un senso che per lo meno in sé comprende il nostro concetto: «…che la mortificazione non debba servire a meritarsi in questo modo la grazia ma a mantenere il corpo abile affinché non ostacoli ciò che gli è comandato fare secondo la sua vocazione (in latino juxta vocationem suam)». 3. Nel senso di un «esperimento subiettivo a conferma del proprio stato di grazia», che sarà spiegato più estesamente in seguito. 4. Blaise Pascal, 1623–1662, scienziato, filosofo e scrittore francese. «Convertito» al giansenismo per una improvvisa illuminazione, si ritirò a Port-Royal dove scrisse le Provinciales contro i gesuiti. Le concezioni cui si accenna qui si ritrovano in particolare nei frammenti delle Pensées. 5. Lombardi è il nome dato dal xn secolo ai mercanti italiani in genere, fuori dall’Italia (vedi la famosa Lombard Street di Londra), i quali alla metà del xiv secolo avevano raggiunto il culmine della loro potenza come banchieri, finanziatori di sovrani, nobili e prelati e depositari della Chiesa. 6. Trapezziti erano i banchieri dell’antica Grecia: privati che con capitale proprio ma soprattutto con denaro loro affidato eseguivano operazioni di cambio, prestito, deposito. 7. John Milton, 1608–1674, uno dei maggiori poeti inglesi, strenuo partigiano di Cromwell, compose il Paradise lost quando, dopo la morte di Cromwell e la Restaurazione, perseguitato e in miseria, avviato alla cecità, si ritirò a vita privata per scrivere i suoi capolavori. 8. J. MILTON, Il paradiso perduto, trad. ital. di Andrea Maffei. 9. Paul Gerhardt, 1606–1676, uno dei maggiori compostori tedeschi di inni sacri. Nei suoi corali, che hanno conservato un posto importante nella devozione protestante, si esprime il carattere gioioso della dottrina luterana di giustificazione attraverso la fede. 10. Simons Menno, 1496–1561, capo degli Anabattisti in Olanda nei loro anni più difficili, Da lui prende il nome il movimento dei Mennoniti, estesosi largamente in seguito anche fuori, in particolare negli Stati Uniti. 11. George Fox, 1624–1691, nato nel Leicestershire, fondatore della Society of Friends (Quaccheri) che passò la vita a diffondere in Inghilterra e negli Stati Uniti con notevole successo. Tra i suoi adepti figurano William Penn e Robert Barclay. 12. John Wesley, 1703–1791, teologo e pastore protestante inglese, ha fondato in Inghilterra intorno al ‘70, insieme al Whitefield, sotto l’influsso pietistico, la libera Chiesa Metodista basata sul principio del rinnovamento interiore, della santificazione, della missione popolare e dell’assistenza ai poveri. Il movimento ebbe grande successo anche negli Stati Uniti. 13. «Cavalieri» e «Roundheads»: durante la Guerra civile in Inghilterra il termine Cavaliers venne fatto proprio, per designarsi, dai sostenitori di Carlo I, i quali diedero ai loro avversari, seguaci di Cromwell, l’appellativo dispregiativo1 di Roundheads («teste rotonde»: alludeva al taglio dei capelli).
II L’ETICA PROFESSIONALE DEL PROTESTANTESIMO ASCETICO CAPITOLO I I FONDAMENTI RELIGIOSI DELL’ASCESI INTRAMONDANA I rappresentanti storici del Protestantesimo ascetico (nel senso con cui qui si adopra tale espressione) sono principalmente di quattro specie: 1. Il Calvinismo nella forma che esso prese nei principali territori dell’Europa occidentale, in cui dominò, specialmente nel corso del secolo xvii; 2. Il Pietismo; 3. Il Metodismo; 4. Le sette sorte dal movimento battistaa. Nessuno di questi movimenti era nettamente separato dagli altri, ed anche la linea di divisione dalle Chiese Riformate non ascetiche non era tracciata rigorosamente. Il Metodismo è sorto soltanto verso la metà del xvm secolo in seno alla Chiesa di stato inglese, e secondo l’intenzione dei suoi fondatori voleva essere non tanto una nuova Chiesa, quanto un risveglio dello spirito ascetico nel seno della vecchia, e solo nel corso del suo sviluppo, in particolar modo col passare in America, si separò dalla Chiesa anglicana. Il Pietismo è sorto sul terreno del Calvinismo in Inghilterra ed in particolar modo in Olanda; rimase legato all’ortodossia per fili quasi invisibili e verso la fine del secolo xvn, mercé l’opera dello Spener1 fece il suo ingresso nel Luteranesimo, senza avere, in parte almeno, un fondamento dogmatico. Rimase un movimento in seno alla Chiesa e solo la tendenza collegata a Zinzendorf2 (i cosiddetti Herrnhuter) e determinata, insieme, da echi di influenze ussite e calviniste persistenti nella comunità dei Fratelli Moravi, fu contro il suo volere, al pari del Calvinismo, spinta a dar vita a forme caratteristiche di setta. Calvinismo e Battismo stettero al principio del loro sviluppo l’uno di fronte all’altro, rigidamente separati, ma nel Battismo della fine del secolo xvn i punti comuni si toccavano da vicino, e già nelle sette indipendenti dell’Inghilterra e dell’Olanda al principio del medesimo secolo, il passaggio dell’uno all’altro era graduale. Come mostra il Pietismo, anche il passaggio al Luteranesimo fu insensibile, e lo stesso accadde nei rapporti tra il Calvinismo e la Chiesa anglicana, quella chiesa, cioè, che nel carattere esteriore e nello spirito dei suoi fedeli più conseguenti, è affine alla Chiesa Cattolica. Quel movimento ascetico, che venne designato come Puritanesimo, nel significato più largo di questa parola polisensabattaccò–è vero–colla massa dei suoi
seguaci, ed in particolar modo coi suoi campioni più conseguenti, i fondamenti dell’Anglicanesimo; ma anche qui i contrasti solo a poco a poco si acuirono, nella lotta. Anche se noi lasciamo qui, per ora, completamente da parte le questioni che per il momento non ci interessano, della costituzione e dell’organizzazione–anzi tanto più proprio per questo–la sostanza rimane la stessa. Le differenze dogmatiche, anche le più gravi, come quelle sulla dottrina della predestinazione e della giustificazione, si mescolarono tra di loro nelle più svariate combinazioni ed impedirono di regola–ma non senza eccezioni– fin dal principio del secolo xvn il mantenimento della comunità delle varie chiese. Ma i fenomeni per noi soprattutto importanti della condotta morale si trovano in ugual modo negli aderenti delle denominazioni più diverse, che provengono da una delle quattro fonti sopra indicate o dalla combinazione di diverse fra quelle. Noi vedremo che massime etiche fra loro simili possono esser collegate con fondamenti dogmatici diversi. Anche i mezzi ausiliari letterari destinati alla cura delle anime, soprattutto i compendi casistici delle diverse confessioni, si influenzarono reciprocamente coll’andar degli anni e si riscontrano in essi grandi somiglianze, nonostante la notoriamente diversa condotta nella vita pratica. Potrebbe dunque quasi apparire miglior consiglio che noi ignorassimo completamente i fondamenti dogmatici al pari della teoria etica, e che ci attenessimo semplicemente alla prassi morale, in quanto essa si possa determinare. Tuttavia non è così. Le radici dogmatiche, tra loro diverse, della moralità ascetica perirono bensì dopo terribili lotte; ma non soltanto l’attaccamento originario a quei dogmi ha lasciato orme potenti nella etica più tarda «non dogmatica», bensì soltanto la conoscenza del contenuto concettuale primitivo ci insegna a comprendere come quella moralità fosse connessa col pensiero dell’aldilà che dominava assolutamente gli uomini più intesi alla vita interiore; senza la forza del quale pensiero, padrone assoluto, non si sarebbe operato quel rinnovamento morale, che seriamente influenzò la vita pratica. Poiché, naturalmente, non ci riguardano i precetti teorici ed ufficiali dei compendi etici dell’epoca–benché certamente anche quelli avessero la loro importanza pratica mercé l’influsso della disciplina ecclesiastica, della cura delle anime e della predicc –ma bensì una cosa del tutto diversa: la ricerca, cioè, di quegli impulsi psicologici creati dalla fede e dalla pratica religiosa, che davano l’indirizzo alla condotta della vita e che in tale indirizzo mantenevano l’individuo. E questi impulsi avevano origine in gran parte dal carattere delle
concezioni religiose. L’uomo d’allora s’arrovellava a meditare su dogmi apparentemente astratti in una misura, che a sua volta si comprende soltanto se consideriamo il loro nesso con interessi pratico-religiosi. è inevitabile una scorsa attraverso talune considerazioni dogmatiched, che tanto apparirà faticosa al lettore non teo logo, quanto affrettata e superficiale a quello erudito in teologia. In tale scorsa noi potremo procedere soltanto esponendo i concetti religiosi in una serie consequenziale riprodotta secondo un tipo ideale quale si poté raramente riscontrare nella realtà storica. A causa appunto della impossibilità di tracciare confini precisi nella realtà storica, solo indagando le forme più consequenti di essi potremo sperare di imbatterci nei loro effetti specifici. La fede religiosae per la quale si condussero le grandi lotte politiche e culturali nei secoli xvi e xvn nei paesi civili più svi luppati in senso capitalistico, nei Paesi Bassi, in Inghilterra ed in Francia, fu il Calvinismo, al quale pertanto noi dedicheremo dapprima il nostro studiof Fu considerato in passato, ed in generale vien considerato ancor oggi come dogma suo più caratteristico la dottrina della elezione mediante la grazia. Si è discusso, è vero, se essa sia il dogma più essenziale della Chiesa riformata oppure un’appendice. Ma i giudizi sulla essenzialità o sono giudizi di valore e di fede, e cioè quando si intenda con tale espressione l’elemento che solo interessa o che solo abbia un valore duraturo. Oppure si intende l’elemento che ebbe un’importanza di causa, in vista della sua influenza su altri avvenimenti storici; ed allora si tratta di giudizi storici di attribuzione. Se si parte, come si deve fare qui, da questo ultimo punto di vista e ci si domanda quale importanza si deve assegnare a quel dogma secondo i suoi effetti nella storia della civiltà, certamente si deve stimarla altissimag. Quel «Kulturkampf»3 condotto dall’Oldenbarneveldt4 si infranse contro questo dogma, la divisione nella Chiesa inglese divenne sotto Giacomo I insuperabile, proprio dal momento in cui fra la Corona ed il Puritanesimo sorsero anche differenze dogmatiche, appunto su tale dottrina, e soprattutto essa venne considerata come il vero lato pericoloso per lo Stato nel Calvinismo e come tale combattuta dall’autoritàh. I grandi sinodi del secolo xvn, soprattutto di Dordrecht e di Westminster5, e con essi altri numerosi minori, posero al centro dei loro lavori l’elevazione a dogma di tale dottrina; essa servì come saldo punto d’appoggio a infiniti eroi della «ecclesia militans» e tanto nel xvm quanto nel xix secolo essa provocò scismi nelle Chiese e nei grandi risvegli
(revivals) servì come grido di battaglia. Noi non possiamo sorvolarla; ne impareremo, invece, dapprima, in modo autentico, il contenuto–che oggi non si può più dare per noto ad ogni persona colta–dagli articoli della «Westminster Confession» del 1647, che in questo punto è stata semplicemente riprodotta nelle confessioni di fede tanto delle Chiese indipendenti, che in quelle dei Battisti1i. Cap. 9 (Del libero arbitrio), n. 3: L’uomo, a causa della sua caduta in istato di peccato, ha completamente perduto ogni capacità di volere qualsiasi cosa che sia spiritualmente buona o apportatrice di salute, così che un uomo naturale, completamente deviato dal bene e spiritualmente morto nel peccato, non è capace di convertirsi e neppure semplicemente di prepararsi alla conversione. Cap. 3 (Dell’eterno decreto divino), n. 3: Dio per manifestare la sua maestà ha predestinato (ipredestinateci)… alcuni uomini alla vita eterna ed altri ne ha preordinati (foreordained) alla morte eterna. N. 5: Coloro fra il genere umano che sono chiamati alla vita, Dio li elesse, in Cristo, agli splendori eterni, prima che fosse posto il fondamento del mondo, secondo il suo eterno ed immutabile disegno, secondo il suo segreto consiglio e l’arbitrio del suo volere, e ciò soltanto per libera grazia ed amore, e non perché l’abbia mosso a ciò, come condizione o causa, la previsione della fede o delle buone opere, o della costanza nell’una o nell’altra di queste od infine qualche cosa d’altro nelle creature; ma sibbene tutto a maggior gloria della sua grazia divina. N. 7: Piacque a Dio, secondo l’imperscrutabile consiglio del suo volere, secondo il quale impartisce o ritira la grazia secondo quanto gli piace, di trascurare il resto del genere umano, a magnificazione della sua potenza illimitata sulle sue creature e di condannarlo al disonore e all’ira per il suo peccato, a magnificazione della sua divina giustizia. Cap. 10 (Della chiamata efficace), n. 1: Piace a Dio di chiamare efficacemente colla sua parola e col suo spirito all’ora da lui stabilita e tempestiva, coloro che egli ha predestinato alla vita e quelli soltanto; togliendo loro il loro cuore di pietra e dandogliene uno di carne, rinnovando la loro volontà e facendoli risolvere per il bene, colla sua forza onnipotente. Cap. 5 (Della provvidenza), n. 6: Per quel che riguarda gli uomini malvagi ed empi, Dio, come un giudice giusto, li accieca ed indurisce in causa di colpe precedenti; e non soltanto toglie loro la sua grazia, da cui la loro intelligenza avrebbe potuto essere illuminata ed i loro cuori conquistati, ma talvolta toglie loro anche i doni che già avevano, e li mette in relazione con tali oggetti, che
la loro corruzione converte in occasioni di colpa, e li abbandona inoltre ai loro capricci, alle tentazioni del mondo ed alla potenza di Satana e così avviene che essi induriscono il loro cuore e proprio cogli stessi mezzi di cui Dio si serve per toccare quello di altrij. «Possa io andare all’inferno, ma un tal Dio non otterrà mai il mio rispetto» fu il noto giudizio del Milton su tal dottrinak. Ma per noi non si tratta della valutazione, ma sibbene della posizione storica del dogma. Solo per poco poi potremo indugiare sulla questione del come sorse tale dottrina e con quali nessi concettuali essa si inserì nella teologia calvinistica. Due vie potevano portare ad essa. Il sentimento religioso della redenzione, nei più attivi ed appassionati tra i grandi oranti, quali la storia del Cristianesimo, a sua volta, ci mostra da S. Agostino in poi, si collega colla sensazione precisa di esser debitori di tutto alla sola efficacia di una forza reale, e di nulla al proprio valore: il potente sentimento di lieta sicurezza, in cui si distende in essi l’enorme tensione del senso del peccato, li invade con assoluta immediatezza e rende impossibile il pensiero che questo straordinario dono della grazia potrebbe esser dovuto ad una qualsiasi cooperazione dell’individuo o collegato con atti o doti della sua fede e della sua volontà. Nei tempi della sua più alta genialità religiosa, quando Lutero fu capace di scrivere la sua Freiheìt eines Christenmenschen anche per lui il segreto decreto di Dio ebbe incrollabile valore di fonte unica ed originaria del suo religioso stato di grazial. Egli non abbandonò mai formalmente tal concezione; ma questa non solo non acquistò mai per lui una posizione centrale, ma si ritirò sempre più nello sfondo quanto più egli fu costretto dal senso di responsabilità derivante dalla sua posizione politico-ecclesiastica ad assumere un atteggiamento realistico. Melantone rifiutò espressamente di accogliere nella confessione di Augusta la «pericolosa ed oscura» dottrina, e per i Padri della Chiesa Luterana fu fermo dogma che la grazia si può perdere (est amìssibìlis) e si può riacquistare colPumiltà disposta alle penitenze, colla fiducia nella parola divina ed i sacramenti. Precisamente inverso fu lo svolgimento del pensiero di Calvinom, con una sensibile progressione della importanza di questa dottrina nel corso della sua discussione polemica con avversari dogmatici. Essa è completamente svolta solo nella terza edizione della sua Institutio ed acquista la sua posizione centrale solo dopo la sua morte, nelle grandi lotte culturali, che le Sinodi di Dordrecht e di Westminster cercarono di concludere. In Calvino il decretum
horribile non è vissuto come in Lutero, ma escogitato e perciò la sua importanza cresce col crescere della rigorosa consequenzialità concettuale nel senso che è a lui indicato dal suo interesse religioso, rivolto esclusivamente a Dio e non all’uomon. Non Dio è per l’uomo; ma l’uomo per Dio; e tutto ciò che accade–perciò anche il fatto, per Calvino indubbio, che solo una piccola parte degli uomini è chiamata alla beatitudine eterna–può aver un senso solo come mezzo che la maestà divina attua per glorificare se stessa; l’applicare misure di «giustizia» terrena alle sue disposizioni sovrane non ha alcun significato ed è un’offesa della sua maestào poiché egli ed egli soltanto è libero, cioè non sottoposto ad alcuna legge, ed i suoi decreti in tanto sono per noi intelligibili o solo conosciuti in quanto egli trovò giusto di rivelarceli. Noi dobbiamo esser paghi di questi frammenti della verità eterna; tutto il resto: il senso nel nostro destino individuale, è circondato da oscuri arcani, che è vana presunzione indagare. Se i dannati volessero lamentarsi della sorte, come di cosa immeritata, sarebbe lo stesso che le bestie si dolessero di non esser nate uomini. Poiché ogni creatura è separata da Dio da un abisso insuperabile e merita dinanzi a Lui solo la morte eterna, tranne che Egli non abbia decretato diversamente a maggior gloria della propria Maestà. Ciò che noi sappiamo è soltanto questo: che una parte dell’umanità sarà salva e un’altra rimarrà dannata. L’ammettere che merito o colpa umana concorra a determinare tale destino equivale a considerare mutevoli per influenza d’uomo, le decisioni assolutamente libere di Dio che sono fisse ab aeterno; pensiero di per sé assurdo. Il Padre «che sta nei cieli» umanamente intelligibile, del Nuovo Testamento, che si rallegra del ritorno del peccatore, come la donnetta della moneta ritrovata, si è trasformato in un Ente Trascendente, sottratto ad ogni misura di intendimento umano, che dall’eternità ha assegnato secondo decreti imprescrutabili ad ogni singolo il suo destino ed ha disposto di ogni più piccola cosa nel Cosmop. Poiché i decreti divini sono fissi e immutabili, né la grazia divina si può perdere da coloro a cui è assegnata, né si può acquistare da quelli, cui è negata. Nel suo pathos inumano tale dottrina dovette avere come principale conseguenza nello stato d’animo di una generazione, che si abbandonò alla sua rigorosa coerenza, il sentimento di una straordinaria solitudine interiore dell’individuo singoloq. Nella cura, che per gli uomini del tempo della Riforma era la più importante: quella della salute eterna, l’uomo era avviato a seguire
in solitudine la sua strada incontro a un destino fisso dall’eternità in poi. Nessuno lo poteva aiutare. Non un predicatore; poiché solo l’eletto poteva comprendere spiritualiter la parola di Dio; non i sacramenti, poiché i sacramenti sono bensì ordinati da Dio a sua maggior gloria, e vanno perciò conservati come inviolabili, ma non sono mezzi per ottenere la grazia, sì bene soltanto soggettivamente externa subsidia della fede. Non la Chiesa; poiché la sentenza extra ecclesiam nulla salus ha valore in quanto chi si tien lontano dalla vera Chiesa non potrà mai appartenere agli Eletti da Dior; ma alla Chiesa (esterna) appartengono anche i reprobi, essi debbono anzi appartenervi ed andar soggetti alla sua disciplina; non per raggiungere la salute eterna, il che è impossibile, ma perché anch’essi, per la gloria di Dio, debbono esser costretti all’osservanza dei suoi comandamenti. Ed infine neppure Dio stesso poteva aiutarlo; poiché anche Cristo è morto solo per gli Elettis ai quali Dio fin dalPEternità aveva decretato di dedicare il Suo sacrificio. La definitiva scomparsa dei sacramenti come mezzi di salvezza amministrati dalla Chiesa, che nel Luteranesimo non si è del tutto compiuta, è la differenza decisiva nei confronti col Cattolicesimo. Quel gran processo storico-religioso di disincantamento del mondot che si iniziò colle antiche profezie giudaiche, e che, in unione col pensiero scientifico greco rigettò tutti i mezzi magici nella ricerca della salvezza considerandoli come superstizione delittuosa, trovò qui la sua conclusione. Il Puritano genuino ripudiò perfino ogni traccia di cerimonie religiose sulla tomba e seppellì i suoi cari senza canti né suoni, per non far sorgere superstizione di alcun genere, né fiducia in influenze salutifere magico-sacramentaliu. E non c’era alcun mezzo non solo magico, ma di nessun’altra natura per far discendere la grazia divina su colui al quale Dio aveva decretato di negarla. Collegata coll’aspra dottrina dell’assoluta lontananza da Dio e della mancanza di valore di ciò che è puramente umano, questo interno isolamento dell’uomo racchiude in sé il presupposto della posizione assolutamente negativa del Puritanesimo di fronte a tutti gli elementi indulgenti ai sensi ed ai sentimenti nella cultura e nella religiosità soggettiva - poiché essi sono inutili per la salvezza e son fomento di illusioni sentimentali e di superstizioni che divinizzano le creature - e per ciò stesso il ripudio assoluto di ogni cultura che riconosca le esigenze dei sensiv. Ma d’altra parte esso costituisce una delle radici di quell’individualismo scevro di illusioni e di tono pessimisticow quale si manifesta ancor oggi nel «carattere nazionale» e nelle istituzioni dei popoli,
che hanno un passato puritano; con un contrasto così stridente rispetto alle lenti ben diverse, attraverso le quali più tardi l’Illuminismo guardò gli uominix. Nell’epoca della quale ci occupiamo, noi ritroviamo chiare tracce della dottrina dell’elezione mediante la grazia in fenomeni elementari della condotta e della concezione della vita, persino là dove la sua efficienza di dogma era già scossa: essa rappresentava ormai soltanto la forma estrema di quella esclusività della fiducia in Dio, che noi dobbiamo qui analizzare. Ad esempio, essa compare nella diffida, che con sorpresa si vede ricorrere così spesso specialmente nella letteratura puritana inglese, ad aver fiducia nell’aiuto e nell’amicizia degli uominiy. Anche il mite Baxter6 consiglia una profonda diffidenza fin verso l’amico più intimo, e Bayley7 consiglia addirittura di non confidarsi con nessuno, e di non far sapere a nessuno qualche cosa di compromettentez. Dio deve essere Punico confidente.In spiccatissimo contrasto col Luteranesimo ed in connessione con questo sentimento della vita, la confessione privata, che lo stesso Calvino aveva in sospetto solo a causa deirequivoco sacramentale, sparì in silenzio, nelle regioni dove il Calvinismo si sviluppò completamente; avvenimento questo di grandissima importanza, prima di tutto come segno della speciale influenza che questa religiosità esercitava, e poi anche come stimolante psicologico per lo sviluppo del suo atteggiamento etico. Fu così tolto alla coscienza un mezzo per liberarsi periodicamente dal sentimento della colpaa1. Avremo da parlare più oltre delle conseguenze che ciò ebbe sulla prassi etica quotidiana. Ma le conseguenze su tutto l’atteggiamento religioso del singolo sono evidenti. La comunione del Calvinista con il suo Dio si compì in profondo isolamento interiore, nonostante la necessità, per la salvezza spirituale, dell’appartenenza alla vera Chiesab1. Chi vuol sentire gli effetti specificic1 di questa particolare atmosfera, legga nel libro di gran lunga più diffuso di tutta la letteratura puritana, il Pilgrim’s progress8 di Bunyand1, la descrizione della condotta di «Christian», dopo che si è destata in lui la consapevolezza di vivere nella «città della perdizione» ed è giunta sino a lui la voce imperiosa di iniziare senza indugio il pellegrinaggio verso la città celeste. La moglie e i bambini si aggrappano a lui, ma senza frapporre indugio, egli si precipita via, tappandosi le orecchie colle mani, al grido Life! eternai life!, e nessuna raffinatezza letteraria potrebbe rendere meglio lo stato d’animo del credente puritano, che in fondo si preoccupa solo di se stesso e della propria salvezza, di quanto non
lo faccia l’ingenuo sentimento di quell’aggiustatore di pentole che poetava nella sua prigione, ottenendo l’approvazione di un intero mondo di credenti, coi suoi dialoghi untuosi, che egli tiene per via a coloro che tendono alla stessa meta, e che ricordano un poco i Gerechte Kammacher di Gottfried Keller9. Solo quando egli è al sicuro gli viene in mente che sarebbe bello di avere con sé anche la famiglia. è la stessa paura angosciosa di fronte alla morte e all’aldilà che noi sentiamo così acuta in ogni passo in Alfonso de’ Liguori, quale ce lo ha descritto il Döllinger10, ben lontana da quello spirito orgogliosamente volto all’al di qua, a cui il Machiavelli dà espressione nel vanto di quei cittadini fiorentini, a cui - nella lotta contro il Papa e l’interdetto - «l’amore per la città natale era più caro, che la cura della salute delle anime loro», e ancor più lontano dai sentimenti, che Riccardo Wagner fa esprimere a Siegmund prima del duello mortale: «Salutami Wotan, salutami il Walhalla, ma delle aspre gioie del Walhalla, tu in vero a me non parlare». Ma gli effetti di questo timore sono, in Bunyan ed in Alfonso de’ Liguori11, caratteristicamente diversi: la stessa paura che spinge questi alla più profonda umiliazione di se stesso, sprona quello ad una lotta sistematica e senza tregua colla vita. Da dove viene questa differenza ? Sembra dapprima un enigma, il fatto che con quella tendenza dell’individuo alla liberazione interiore dai più stretti legami, con cui il mondo lo tiene avvinto, potesse congiungersi l’indiscutibile superiorità del Calvinismo nella organizzazione socialee1. Ma essa proviene appunto - per strano che sembri a tutta prima - dalla speciale sfumatura che il cristiano «amore del prossimo» dovette prendere sotto la pressione dell’isolamento interiore deirindividuo prodotto dalla fede calvinistica. Essa ha conseguenze, dunque, dapprima nel campo dogmaticof1. Il mondo è destinato al solo scopo di servire alla glorificazione di Dio, ed il Cristiano eletto esiste solo per aumentare, per la sua parte, la gloria di Dio nel mondo, mediante l’esecuzione dei suoi comandamenti. Ma Dio vuole che il Cristiano operi nella società, poiché vuole che la forma sociale della vita sia ordinata secondo i suoi comandamenti ed in modo tale da corrispondere a quello scopo. Il lavoro socialeg1 del calvinista nel mondo è esclusivamente lavoro «in majorem gloriam Dei». Questo carattere ha pertanto anche il lavoro professionale che è a servizio della vita terrena della comunità. Già in Lutero noi abbiamo trovato che la divisione professionale del lavoro è fatta derivare dall’«amor del
prossimo». Ma quello che in lui rimase un concetto incerto puramente dottrinale, nei Calvinisti diventò parte caratteristica del loro sistema etico. L’amore del prossimo, poiché deve esser solo in servizio della gloria di h1 Dio e non delle creaturei1, si manifesta in prima linea nell’adempimento dei doveri professionali imposti dalla lex naturae e prende così il carattere obiettivo ed impersonale di servizio reso all’ordinamento razionale del mondo sociale che ci circonda. Poiché la forma e l’ordinamento, meravigliosamente disposti ad un fine, di questo mondo, che già secondo la rivelazione biblica, ed anche secondo la naturale intelligenza, è manifestamente destinato a servire all’utilità della razza umana, fanno riconoscere che il lavoro in servizio di questa impersonale utilità sociale torna ad incremento della gloria di Dio e perciò è da Dio stesso voluto. I Puritani - e per tutt’altre ragioni12, gli Ebrei trovavano cosa di per sé comprensibilissima il mettere da parte il problema della teodicea e tutte le questioni sul «senso» del mondo e della vita, in cui altri si logoravano. E in un certo senso, del resto, così avvenne generalmente nella religiosità cristiana non mistica. A questa economia di forze nel Calvinismo si aggiunse un altro tratto caratteristico che agiva nella stessa direzione. Nel Calvinismo non esisteva dualismo tra l’«individuo» e l’«etica» (nel senso di Soren Kierkegaard), sebbene nelle questioni religiose ponesse l’individuo come completamente autonomo. Non è questo il luogo di analizzare le ragioni di questo fatto e l’importanza di questi punti di vista per il razionalismo politico ed economico del Calvinismo. In essi si trova la fonte del carattere utilitario dell’etica calvinista e ne provennero del pari importanti caratteri della concezione calvinista della professionej1. Ma qui noi torniamo ancora una volta alla particolare considerazione della dottrina della predestinazione. Poiché per noi il problema decisivo è anzitutto questo: come venne sopportatak1 una tale dottrina in un tempo, per il quale l’aldilà non solo era più importante, ma sotto molti rispetti, anche più sicuro di tutti gli interessi della vita terrena?l1. Una domanda doveva sorgere per ogni credente e spingere in un secondo piano tutti gli altri interessi: sono io dunque fra gli eletti? e come posso acquistar la certezza di questa elezione ?m1 Per Calvino stesso questo problema non esisteva. Egli si sentiva come uno strumento ed era sicuro del suo stato di grazia. Perciò alla domanda come possa il singolo acquistar la certezza della propria salute egli dà, in fondo, una sola risposta: che noi dobbiamo contentarci della conoscenza della decisione di Dio e della
costante fiducia in Cristo che è un effetto della vera fede. Egli rigetta per principio, come un tentativo temerario di penetrare negli arcani di Dio, l’ipotesi che si possa riconoscere negli altri, dalla loro condotta, se siano eletti o reprobi. Gli eletti in questa vita non si distinguono esteriormente in nulla dai reprobin1 ed anche tutte le esperienze soggettive degli eletti sono possibili, come ludibria spiritus sancii, anche nei reprobi, colla sola eccezione di quella religiosa fiducia finaliter costante. Così gli Eletti sono e rimangono l’invisibile Chiesa di Dio. Naturalmente diversa fu la posizione degli epigoni, e già quella di Beza13, e soprattutto del largo stuolo degli uomini comuni. Per essi la certitudo salutis nel senso della riconoscibilità dello stato di grazia, dovette salire ad una importanza assolutamente prevalenteo1 e dappertutto dove si affermò la dottrina della predestinazione, comparve il problema se vi fossero segni certi, per cui si potesse riconoscere l’appartenenza agli electi. Non soltanto tale questione ha avuto per lungo tempo una importanza centrale nello sviluppo del Pietismo, cresciuto dapprima sul terreno della Chiesa Riformata, ed in un certo senso per qualche tempo è stata con esso costitutiva; ma, quando considereremo l’importanza, di così larga portata, della dottrina e della pratica riformata circa l’Eucaristia, dovremo dire ancora qual parte abbia avuto, durante tutto il secolo xvn, anche fuori del Pietismo, la possibilità di provare lo stato di grazia dell’individuo, per es., per la sua ammissione aH’Eucaristia; cioè per l’atto del culto centrale e decisivamente influente sulla posizione sociale di chi vi partecipava. Per lo meno era impossibile, nella misura in cui si affacciava per l’individuo il problema del proprio stato di grazia, di limitarsi alla testimonianza personale della fede costante, prodotta dalla grazia nell’uomo, a cui rinviava Calvino, e che, in linea di principio almenop1, la dottrina ortodossa non aveva mai formalmente rinnegatoq1. Soprattutto non lo poteva la prassi della cura delle anime, che a passo a passo doveva contendere con le preoccupazioni suscitate dalla dottrina. Essa si accomodò con queste difficoltà in diverse manierer1. Fintantoché il dogma dell’elezione mediante la grazia non venne interpretato diversamente, attenuato, e, nella sostanza, abbandonatos1, si presentano come caratteristici, due tipi di consigli per la salvezza delle anime, tra loro connessi. Da una parte viene addirittura fatto un dovere di ritenersi eletti e di respingere ogni dubbio come un assalto del demoniot1, poiché la scarsa sicurezza di se stesso è conseguenza di fede
insufficiente, cioè di insufficiente efficacia della grazia. L’ammonimento dell’Apostolo di consolidare la propria vocatio vien qui dunque interpretato come il dovere di conquistare nella lotta quotidiana la certezza soggettiva della propria elezione e giustificazione. Invece dei peccatori umili, cui Lutero promette la grazia, se si affidino a Dio con fede e contrizione, vengono educati quei «Santi» consci di se stessiu1, che noi ritroviamo negli adamantini commercianti puritani di quell’epoca eroica del capitalismo ed in taluni esemplari anche dei nostri tempi. E d’altra parte, come mezzo migliore per raggiungere quella sicurezza di sé, fu raccomandato un indefesso lavoro professionale*1. Esso ed esso solo dissipa il dubbio religioso e dà la sicurezza dello stato di grazia. Il fatto che il lavoro professionale mondano fosse ritenuto valido a tale scopo, che esso fosse considerato, per così dire, come il mezzo adatto per reagire contro i timori religiosi14, trova tuttavia la sua ragione in caratteri profondi della sensibilità religiosa coltivata dalla Chiesa Riformata, i quali vengono poi chiaramente alla luce, col loro contrasto col Luteranesimo, nella dottrina della giustificazione mediante la fede. Nel bel ciclo di lezioni dello Schneckenburger queste differenze sono analizzate così finemente e così obiettivamente, con riserva di ogni giudizio di valorev1 che le seguenti brevi osservazioni possono, nella sostanza, riallacciarsi senz’altro alla sua esposizione. La più alta esperienza religiosa, cui tende la religiosità luterana, quale si sviluppò soprattutto nel corso del xvii secolo, è la Unio mystìca colla Divinitàw1. Come indica la parola stessa, che in tal forma è sconosciuta alla Chiesa Riformata, si tratta di un sentimento della divinità come sostanza; l’impressione di un reale penetrare del divino nell’anima credente; il che è qualitativamente uguale agli effetti della contemplazione nei mistici tedeschi, e che si distingue per il suo carattere passivo, tendente alla soddisfazione del desiderio di pace in Dio, e per la disposizione tutta interiore dell’animo. Ma una religiosità che di per sé abbia un indirizzo mistico, non soltanto è molto ben conciliabile con un senso eminentemente realistico dei dati empirici come è noto dalla storia della filosofia - anzi può essere addirittura il punto d’appoggio di quel senso realistico, a causa del ripudio di dottrine dialettiche; ma del pari, anche indirettamente, la mistica può tornare a vantaggio di una condotta razionale della vita. Tuttavia al suo rapporto col mondo manca naturalmente la valutazione positiva dell’attività esteriore. Ed oltre a ciò nel
Luteranesimo la unto mystica era combinata con quel profondo sentimento di indegnità dovuta al peccato originale, sentimento che doveva assicurare con cura la poenitentia quotidiana del credente luterano, rivolta alla conservazione della umiltà e della semplicità indispensabili per il perdono dei peccati. La religiosità specificamente riformata, invece, ripudiò nettamente, fin da principio, tanto la quietistica fuga dal mondo di Pascal quanto questo stato d’animo luterano rivolto ad una religiosità puramente interiore. Per l’assoluta trascendenza di Dio di fronte a tutte le creature, era esclusa la reale penetrazione del Divino neiranima umana: finitum non est capax infiniti. La comunione di Dio con i favoriti dalla sua grazia poteva avvenire e divenir cosciente solo in questo modo; che Dio agiva (operatur) in essi e che essi ne erano consapevoli; cioè che la loro azione scaturiva dalla fede causata dalla grazia divina, e che a sua volta questa fede si legittimava come causata da Dio nella qualità di quell’azione. Appaiono qui quelle profonde differenze - valide in generale per la classificazione di ogni religiosità pratica - delle condizioni decisive per la salvezzax1: il virtuoso della religione può acquistar sicurezza del suo stato di grazia o in quanto si sente un recipiente o in quanto si sente uno strumento della potenza divina. Nel primo caso la sua vita religiosa inclina alla mistica del sentimento, nel secondo all’azione ascetica. Al primo tipo si avvicina maggiormente Lutero, al secondo appartiene il Calvinismo. Anche il Riformato voleva salvarsi sola fide. Ma poiché già secondo l’opinione di Calvino tutti i sentimenti e gli stati d’animo, per sublimi che appaiano, sono fallaciy1, la fede deve esperimentarsi nei suoi effetti oggettivi per poter servire come sulla base della 2fl Epist. ai Corinzi, 13, 5z1. Quanto inadatte sono le buone opere come mezzo per raggiungere la salvezza - poiché anche l’Eletto rimane creatura, e tutto quel che egli fa rimane ad infinita distanza addietro rispetto alle esigenze di Dio - tanto sono indispensabili come segno dell’elezionea2. Esse sono il mezzo tecnico, non per ottenere la salvezza, ma per liberarsi dall’ansia per la salvezza. In questo senso esse vengono a volte indicate come indispensabili alla salvezzab2 o viene ad esse collegata la possessio salutisc2. Ma questo in sostanza significa praticamente che «chi s’aiuta Iddio l’aiuta»d2, che dunque il Calvinista come vien detto incidentalmente, crea da sée2 la propria salvezza - correttamente si dovrebbe dire la certezza di essa - ma che questo suo creare non consiste, come nel Cattolicesimo, in un graduale accumulare di singole azioni meritorie, ma in un
controllo sistematico di se stesso che ad ogni momento si trova dinanzi all’alternativa: sono io eletto o dannato? Con ciò noi arriviamo da un punto molto importante delle nostre osservazioni. è noto che da parte luterana fu mosso sempre nuovamente il rimprovero di «santificazione delle opere» a questo processo di pensiero che con crescente chiarezzaf2 si elaborava nelle chie se e nelle sette riformateg2, e certamente a ragione, se con ciò si intendevano le conseguenze pratiche per la vita quotidiana della media dei Cristiani Riformatih2; per quanto giustificata fosse la ribellione dei criticati contro l’identificazione della loro posizione dogmatica colla dottrina cattolica. Poiché non vi è stata mai una forma più alta di valutazione religiosa delPagir moralmente di quella che il Calvinismo creò nei suoi seguaci. Ma decisiva per l’importanza pratica di questa specie di «santità delle opere» è più di tutto la conoscenza delle qualità, che caratterizzavano la relativa condotta della vita e che la differenziavano dalla vita quotidiana della media dei Cristiani nel Medioevo. Si può cercare di formularla presso a poco così: il laico cattolico normale del Medioevoi2, sotto il rispetto etico, viveva, in un certo senso, alla giornata. Per prima cosa egli adempiva coscienziosamente i doveri tradizionali. Le sue «opere buone» che oltrepassavano quelli, erano una serie di singole azioni, che egli compiva secondo l’occasione, o per espiare colpe concrete, o sotto l’influsso della cura d’anime o verso la fine della vita, si potrebbe quasi dire come premio di assicurazione, senza che fossero necessariamente coerenti, o per lo meno senza che necessariamente fossero organizzate in un sistema razionale di vita. Naturalmente l’etica cattolica era un’etica dell’intenzione. Ma la concreta intentio dell’azione singola decideva del valore di questa; la singola azione, buona o cattiva, veniva computata a chi agiva, ed influenzava il suo destino temporale ed eterno. In maniera del tutto realistica la Chiesa faceva i conti col fatto che l’uomo non è un’unità assolutamente determinata ed univocamente valutabile, ma che la sua vita morale è normalmente influenzata da motivi in lotta fra di loro e spesso è molto contraddittoria. Certamente anch’essa richiedeva, in via ideale, un indirizzo della vita secondo un principio. Ma per l’uomo medio attenuava questa esigenza proprio con uno dei suoi più importanti strumenti di potere e di educazione, col sacramento della penitenza, la cui funzione era strettamente connessa colle qualità più profonde della religiosità cattolica. Il «disincantamento» del mondo, l’abolizione della magia come mezzo di salvezzaj2 nella religiosità cattolica non eran condotte alle conseguenze
estreme15, come in quella puritana, e come lo erano state prima nella giudaica. Per il Cattolicok2 la grazia sacramentale della Chiesa stava a sua disposizione come un compenso alla propria insufficienza; il prete era un mago, che compiva il miracolo della transustanziazione e nelle cui mani era riposta la potestà delle chiavi. Ci si poteva rivolgere a lui nel rimorso e con spirito di penitenza, ed egli offriva possibilità di espiazione, speranza di grazia, certezza del perdono e liberava così dal peso di queirindicibile ansia, nella quale doveva vivere il Calvinista per un destino ineluttabile e che niente poteva mitigare. Per costui non esistevano quelle gioiose ed umane consolazioni, e neppure poteva sperare, a differenza del Cattolico ed anche del Luterano, di recuperare le ore di debolezza e di leggerezza con maggior buona volontà in altri momenti. Il Dio del Calvinismo non esigeva, dai suoi, singole «opere buone» ma una santità di opere elevata a sistemal2. Non v’era traccia del cattolico e perfettamente umano oscillare tra colpa, rimorso, espiazione, liberazione e nuova colpa, o di un «saldo» di tutta la vita da scontarsi con pene temporali e da liquidarsi col mezzo della grazia dispensata dalla Chiesa. La prassi etica dell’uomo medio fu privata così del suo carattere non pianificato e asistematico e fu trasformata in una condotta di vita metodica e conseguente. Non è un caso che il nome di «metodisti» è rimasto ai rappresentanti dell’ultimo grande risveglio delle idee puritane nel secolo xvm, mentre l’indicazio ne di «Precisisti», equivalente nel significato, era stata applicata ai loro precursori spirituali del secolo XVIIm2. Poiché solo in una trasformazione fondamentale del senso della vita, in ogni singola ora ed in ogni singola azionen2, si poteva provare l’efficienza della grazia, considerata come un’elevazione dell’uomo dallo status naturae allo status gratiae. La vita del «santo» era esclusivamente indirizzata ad un fine trascendente: «la beatitudine ultraterrena»; ma appunto per questo nel suo svolgimento terreno era in tutto e per tutto razionalizzata e dominata dall’esclusivo punto di vista di accrescere sulla terra la gloria di Dio; e mai si è preso così terribilmente sul serio questo punto di vista: omnia in majorem Dei gloriamo2. E solo una vita guidata da una costante riflessione poteva valere come superamente dello status naturalis. Il cogito ergo sum di Cartesio fu assunto con questo significato morale dai suoi contemporanei puritanip2. Questa razionalizzazione conferì alla religiosità riformata il suo specifico carattere ascetico e diede motivo tanto alla sua intima affinitàq2 quanto al suo particolare contra sto col Cattolicesimo. Poiché naturalmente qualche cosa di simile non era estraneo al
Cattolicesimo. L’ascesi cristiana conteneva senza dubbio sia nell’apparenza esterna quanto nel suo significato elementi molto eterogenei. Ma in Occidente, nelle sue forme più alte, ebbe carattere razionale fin dal Medioevo, ed in taluni aspetti già fino dall’antichità. Ed in ciò consiste l’importanza per la storia universale della condotta di vita del monacheSimo in Occidente in contrasto col monacheSimo orientale, non in ogni singolo caso, ma nel tipo generale di questo. Già nella regola di S. Benedetto, più ancora nei Cluniacensi, ancor maggiormente nei Cistercensi, e nel più alto grado infine nei Gesuiti, essa si era emancipata dalla tendenza alla fuga dal mondo, priva di ogni direttiva, e dal virtuosismo del martirio di se stesso. Essa era divenuta un metodo, sviluppato sistematicamente, di condotta razionale della vita collo scopo di superare lo status naturae, di strappar l’uomo alla forza degli impulsi irrazionali ed alla schiavitù del mondo e della natura, di sottoporlo alla supremazia della volontà indirizzata secondo un finer2, di sottoporre le proprie azioni al controllo costante di se stesso ed alla considerazione della loro importanza etica e così - in senso obiettivo - di fare del monaco un lavoratore a servizio del regno di Dio, e d’altra parte - in senso soggettivo - di assicurarlo della salute della sua anima. Questo dominio attivo di se stesso era tanto il fine cui tendevano gli exercitìa di S. Ignazio16 ed in genere le forme più alte delle razionali virtù monacalis2 quanto il più importante ideale di vita pratico del Puritanesimot2. Già nel profondo disprezzo con cui, da parte riformata, nelle relazioni degli interrogatori subiti dai martiri, viene opposto allo strepito senza ritegno dei nobili prelati e funzionari la fredda e riservata calma dei suoi confessoriu2, appare quella stima per il controllo di se stesso, che vien rappresentata dai migliori tipi dell’odierno gentleman inglese ed angloamericanov2. E per dirla nella nostra lingua correntew2: l’ascesi puritana, come ogni ascesi «razionale» agiva nel senso di render capace l’uomo di mantenere e di far valere di contro agli «affetti» i suoi «motivi costanti», in ispecie quelli che essa stessa gli inculcava, in modo da formarne una «personalità» nel senso formale e psicologico della parola. Scopo deirascesi era, in contrasto con talune idee popolari, il poter condurre una vita cosciente, chiara e limpida; il suo compito più urgente la distruzione dello spregiudicato ed impulsivo godimento della vita, il mezzo principale il portar ordine nella condotta di vita dei suoi seguaci. Tutti questi punti decisivi si trovano espressi nelle regole del monacheSimo cattolicox2 al pari che nei princìpi fondamentali per la condotta
di vita dei Calvinistiy2. Su questa conquista metodica di tutto l’uomo si fonda nell’uno e nell’altro la loro enorme forza che vince il mondo, e in particolare nel Calvinismo di fronte al Luteranesimo la sua capacità di assicurare come ecclesia militatis la durata del Protestantesimo. D’altra parte è evidente in che consistesse il contrasto deirascesi calvinistica con quella medioevale; era la scomparsa dei consilia evangelica e con ciò la trasformazione di essa in un’ascesi puramente intramondana. Non che nel Cattolicesimo la vita metodica fosse rimasta esclusivamente dentro alle celle dei chiostri. Ciò non era né teoricamente e neppure praticamente. è stato invece rilevato che, nonostante la maggiore contentabilità del Cattolicesimo in fatto di morale, una vita priva di un sistema etico anche per il cattolico non raggiunge i più alti ideali, proposti dal Cattolicesimo anche per la vita intramondanaz2. Il terzo ordine di S. Francesco fu, per es., un potente tentativo di penetrazione ascetica nella vita quotidiana, e non fu l’unico in tal senso. è vero che opere quali l’Imitazione di Cristo mostrano proprio nella loro efficacia, che il modo di vita in esse predicato veniva sentito come qualche cosa di più alto rispetto al minimum rappresentato dalla moralità ordinaria, e che quest’ultima non veniva misurata con misure prefisse, come le aveva il Puritanesimo. E la prassi di talune istituzioni ecclesiastiche, soprattutto quella dell’indulgenza - che appunto anche per ciò, al tempo della Riforma, non fu considerata come un abuso occasionale, ma come il malanno fondamentale doveva essere permanentemente di ostacolo agli inizi di una sistematica ascesi intramondana. Il punto decisivo però era questo: che l’uomo che per eccellenza viveva metodicamente, in senso religioso, era e restava il monaco soltanto, e che perciò quanto più il singolo si dava all’ascesi, tanto più ne era spinto fuori della vita mondana, perché nel superamento appunto della moralità intramondanaa3 consisteva la vita specificamente religiosa. Lutero aveva abolito tutto questo e non per obbedire ad una qualsiasi tendenza evoluzionistica, ma in seguito ad esperienze puramente personali; da principio ancora esitante sulle conseguenze pratiche, e poi spinto sempre più avanti dalla situazione politica; e l’abolizione era passata nel Calvinismob3. Di fatto già Sebastian Franck17 centrava l’essenza stessa della sua religiosità quando riscontrava l’importanza della Riforma nel fatto che ora ogni Cristiano doveva essere un monaco durante tutta la sua vita. Era costruita una diga contro la fuga ascetica dalla vita quotidiana, e quelle nature serie, appassionate, profonde, che finora avevano fornito al monacheSimo i suoi
migliori rappresentanti, erano adesso indirizzate a seguire ideali ascetici nella vita professionale laica. Ma il Calvinismo nel corso del suo sviluppo vi aggiunse qualche cosa di positivo: il concetto della necessità della comprova della fede nella vita professionale laicac3. Esso dette così a più largo numero di indoli orientate religiosamente l’impulso positivo dell’ascesi; e collegando strettamente la sua etica con la dottrina della predestinazione, fece sì che all’aristocrazia ecclesiastica dei monaci, che era al di sopra e al di fuori del mondo, subentrasse l’aristocrazia ecclesiastica dei santi nel mondod3 predestinati da Dio fin dall’eternità, una aristocrazia che col suo character indelebilis era separata dalla rimanente umanità dannata ab aeterno, da un abisso più invalicabile e nella sua imperscrutabilità più sinistroe3, che non le fosse il monaco medioevale nella sua separazione esteriore dal mondo; una divisione che incideva con gran rigore tutti i rapporti e sentimenti sociali. Poiché a questi privilegiati della grazia di Dio quali eletti e perciò santi, rispetto alla colpa del prossimo, non si conveniva (come, al contrario, sarebbe convenuto nella consapevolezza della debolezza propria) un’indulgente disposizione ad aiutare, ma l’odio e il disprezzo contro di esso come contro un nemico di Dio, che porta in sé il segno della dannazione eternaf3. Questa maniera di sentire era capace di un tal «crescendo» che in certe circostanze potè sfociare nella creazione di sette. Questo avvenne, quando, come nelle tendenze degli Indipendenti del secolo xvu, la genuina fede calvinista, secondo la quale la gloria di Dio richiede di piegare i dannati sotto la legge per mezzo della Chiesa, fu sommersa dall’opinione, che sia per Dio un’onta, se nel suo gregge si trovi uno che non è stato rigenerato dalla grazia, e prenda parte ai Sacramenti, o addirittura lo diriga come predicatoreg3, quando dunque, come conseguenza del concetto di Bewahrung (comprova per mezzo della grazia), apparve, per dirla con una parola sola, quello donatistico della Chiesa, come accadde nei Battisti Calvinisti. Ed anche là dove non si tirò l’estrema conseguenza dell’esigenza di una Chiesa «pura» come comunità di coloro la cui rigenerazione è comprovata — e cioè non si formarono delle sette — tuttavia numerose trasformazioni della costituzione ecclesiastica provennero dal tentativo di distinguere i Cristiani rigenerati da quelli non rigenerati, indegni ancora del Sacramento, e di riservare ai primi il governo della Chiesa, o in ogni modo una posizione prevalente, e di ammettere essi soli a predicareh3. Questa condotta ascetica della vita ricevette naturalmente dalla Bibbia la
salda norma, a cui poteva costantemente orientarsi, e di cui aveva evidentemente bisogno. E nella spesso descritta «bibliocrazia» del Calvinismo l’importante per noi è questo: che l’Antico Testamentoi3, poiché ispirato da Dio al pari del Nuovo, era pari a questo nella validità delle sue prescrizioni morali, in quanto queste non fossero manifestamente destinate alle condizioni storiche del Giudaismo o non fossero state espressamente abrogate da Cristo. Appunto per il credente, la Legge (mosaica) era data come la norma ideale non mai raggiungibile del tutto, ma pur validaj3. L’influenza della saggezza ebraica tutta pervasa dello spirito del divino e pur completamente disincantata, quale è espressa nei libri più letti dai Puritani, i Proverbi di Salomone e taluni Salmi, si sente in tutto il sentimento e il tono della loro vita. Specialmente il carattere razionale; l’aver dominato la parte mistica e sentimentale della religiosità è stato con ragione già dal Sanfordk3 attribuito all’influenza dell’Antico Testamento. Tuttavia questo razionalismo ispirato dall’Antico Testamento era di per se stesso di carattere piccolo-borghese e tradizionalistico, e non vi era soltanto il pathos potente dei Profeti e di molti Salmi, ma anche elementi che già nel Medioevo avevano dato i punti di collegamento per lo sviluppo di una religiosità sentimentalel3. Infine fu il carattere fondamentale proprio del Calvinismo stesso cioè quello ascetico, che scelse e si assimilò gli elementi a lui congeniali della religiosità del Vecchio Testamento. Quell’ordinamento sistematico della condotta morale, che l’ascesi del Protestantesimo calvinistico ha in comune colle forme razionali della vita monastica cattolica, si manifesta qua, in modo del tutto esteriore, nelle forme con cui il Puritano preciso controllava continuamente il suo stato di graziam3. Il diario religioso, nel quale le colpe, le tentazioni ed i progressi fatti nella grazia venivano riportati continuamente od anche sotto forma di tabella, era comune tanto alla religiosità moder na cattolica, ed in particolare della Francia, opera soprattutto dei Gesuiti, quanto a quella dei circoli riformati più zelantin3. Ma mentre nel Cattolicesimo serviva alla compiutezza della confessione o forniva al directeur de Vàme la base per la sua autoritaria direzione del Cristiano o, per lo più, della Cristiana, mediante il suo aiuto il Cristiano riformato si tastava da se stesso il polso. Esso viene citato da tutti i teologi moralisti notevoli; e quella specie di contabilità, in forma di tabelle e di statistiche, che anche Benjamin Franklin faceva, sui suoi progressi nelle singole virtù, ce ne dà un esempio classicoo3. E d’altra parte la vecchia immagine medioevale, ed anche dell’evo
antico, della tenuta dei libri da parte di Dio nel Bunyan arrivò fino al cattivo gusto, così caratteristico, di paragonare il rapporto del peccatore con Dio a quello di un cliente col padrone della bottega; chi una volta ha fatto debito potrà tutt’al più pagare coll’importo di tutti i suoi guadagni gli interessi decorrenti; ma mai la somma principale dovutap3. Il Puritano dell’epoca più tarda controllava, al pari della sua condotta, anche quella di Dio e ne vedeva il dito in ogni singola circostanza della vita, e, in contrasto colla genuina dottrina calvinista, sapeva perché Iddio prendeva questa o quella decisione. La santificazione della vita potè prender così quasi il carattere di un’azienda commercialeq3. Una penetrazione dello spirito cristiano in tutto l’uomo fu la conseguenza di questo metodo di condotta morale della vita, cui obbligava il Calvinismo in contrasto col Luteranesimo. Occorre sempre tener presente, per la retta comprensione dell’azione del Calvinismo, che questo metodo era l’elemento che influiva in maniera decisiva sulla vita. Ne deriva da una parte che solo questa caratteristica poteva esercitare una tale azione, ma dall’altra che anche altre confessioni, se i loro impulsi etici erano identici in questo punto decisivo, cioè il concetto della comprova, dovevano agire nella stessa direzione. Siamo rimasti finora sul terreno della religiosità calvinista ed in conseguenza abbiamo presupposto la dottrina della predestinazione come base dogmatica della moralità puritana, nel senso di una condotta etica della vita, metodicamente razionalizzata. Ed abbiamo fatto ciò perché in realtà quel dogma fu conservato come pietra angolare della dottrina riformata anche al di là di quel partito religioso che si è mantenuto strettamente sul terreno di Calvino, cioè i Presbiteriani. Lo conteneva non soltanto la Dichiarazione Indipendente del Savoy del 1658, ma anche la «Hanserd Knollys Confession»18 battista, del 1689; ed anche in seno al Metodismo, se è vero che John Wesley, il grande talento organizzatore del movimento, era un sostenitore deH’universalità della grazia, il grosso agitatore della prima generazione metodista ed il suo pensatore più conseguente, lo Whitefield19, al pari del circolo che si riuniva intorno a Lady Huntingdon20, e che talvolta ebbe molta influenza, erano seguaci della «particolarità della grazia». Nella sua grandiosa esclusività questa dottrina, nelle epoche più fortunose del secolo xvn, mantenne vivo nei combattenti per la «vita santa» il pensiero che erano strumento di Dio ed esecutori delle sue disposizioni provvidenzialir3 ed impedì la caduta prematura in una santificazione puramente utilitaria delle opere, con un indirizzo esclusivamente terreno, il quale, del resto, non sarebbe
mai stato capace di ispirare sacrifici così inauditi per scopi irrazionali ed ideali. E l’aver legato la fede a norme incondizionatamente valide, con un determinismo assoluto e con una completa trascendenza del soprasensibile, come aveva fatto quella dottrina in una forma a suo modo geniale, era al tempo stesso, cosa in principio molto «più moderna», che non l’insegnamento più mite e che più si confà al sentimento, il quale sottoponeva anche Dio alla legge morale. Ma soprattutto — come sempre di nuovo vedremo — il concetto della comprova, fondamentale per le nostre osservazioni, come punto di partenza psicologico dell’etica metodica, poteva esser studiato nella sua massima genuinità proprio nella dottrina dell’elezione mediante la grazia e nell’importanza di questa per la vita quotidiana; e poiché questo concetto ritorna uniformemente come schema del collegamento tra fede e moralità nelle denominazioni ancora da studiarsi, noi dovremo sempre partire da quella dottrina come dalla sua forma più conseguente. In seno al Protestantesimo le conseguenze, che essa dovette avere nei suoi primi seguaci per la condotta ascetica della vita, formarono la più netta antitesi di principio colla relativa impotenza morale del Luteranesimo. La luterana gratta amìssibilis, che poteva esser sempre riconquistata mediante il pentimento e il desiderio di espiare, non conteneva in sé manifestamente al cun impulso verso quell’efíetto del Protestantesimo ascetico che per noi è importante: una trasformazione sistematica e razionale della vita etica collettivas3. La religiosità luterana lasciò perciò qui intatta la vitalità spontanea delazione impulsiva e dei sentimenti naturali; mancò quell’impulso al controllo costante di se stesso e con ciò al regolamento sistematico della propria, vita, quale era contenuto nella cupa dottrina del Calvinismo. Il genio religioso, come Lutero, viveva libero in questa atmosfera aperta nel mondo e, fin dove giungeva la forza del suo slancio, non temeva di cadere nello status naturalis. E quella forma di religiosità, semplice, fine, e così singolarmente ricca di sentimento, che ha adornato alcune delle figure più alte del Luterà nesimo, e quella sua moralità non vincolata da leggi trovano raramente un riscontro sul terreno dello stretto Puritanesimo; se mai piuttosto nel mite Anglicanesimo degli Hooker \ Chilling worth2, ecc. Ma per il Luterano comune e forse pure virtuoso, niente era più certo di questo: che egli veniva sollevato dallo stato naturale solo temporaneamente, finchè durava l’influenza di una predica o di una confessione. È nota la differenza, che colpiva già i contemporanei, tra il livello morale delle corti principesche riformate e quello delle corti luterane, così spesso degradatesi nel bere e nella volgaritàs3a al pari
dell’impotenza del clero luterano con la sua predicazione centrata unicamente sulla fede, di fronte al movimento ascetico dei Battisti. Il contrasto tra tutto quel che nei Tedeschi ci dà l’impressione di accomodante espansività (Gemùtlichkeit) e di «naturalezza» e quell’atmosfera della vita anglo-americana che ancor oggi risente della radicale distruzione della spontaneità dello status naturalìs e che trova espressione fin dalla fisionomia umana, e che di solito allontana i Tedeschi come apparendo loro ristrettezza, mancanza di libertà, ed intimo impaccio, è un contrasto che ha origine nella minore penetrazione dell’ascesi nella vita del Luteranesimo in confronto al Calvinismo. In quelle impressioni parla l’antipatia dello spassionato «figlio di questo mondo» contro l’ascetismo. Al Luteranesimo mancò appunto, e precisamente a causa della sua dottrina sulla grazia, l’impulso psicologico ad una condotta sistematica della vita, che obbliga ad una razionalizzazione di questa. Questo impulso che condiziona il carattere ascetico della religiosità, poteva di per se stesso esser prodotto da motivi religiosi di vario genere, come presto vedremo; la dottrina della predestinazione del Calvinismo era solo una di queste diverse possibilità. Ma tuttavia noi ci siamo convinti che essa nel suo genere non soltanto era di una consequenzialità singolare, ma anche di una notevolissima efficacia psicologicat3. Perciò i movimenti ascetici non calvinisti appaiono, osservati esclusivamente dal punto di vista della motivazione religiosa della loro ascesi, come indebolimenti delle intime conseguenze del Calvinismo. Ma anche nella reale evoluzione storica avvenne che per lo più la forma dell’ascesi riformata fu dagli altri movimenti ascetici o imitata o presa come termine di paragone e di integrazione nello sviluppo dei propri princìpi fondamentali, sia che questi ne divergessero o la oltrepassassero. Dove nonostante il diverso fondamento dogmatico, apparve come conseguenza la stessa ascesi, ciò fu in generale un effetto della costituzione ecclesiastica, della quale avremo a parlare trattando di altri argomentiu3. Storicamente il concetto dell’elezione mediante la grazia è stato anche il punto di partenza per quell’indirizzo ascetico comunemente chiamato «Pietismo». Fino a che questo movimento si mantiene in seno alla Chiesa riformata, è quasi impossibile stabilire un confine sicuro tra Calvinisti pietisti e non pietistiv3. Quasi tutti i principali rappresentanti del Puritanesi mo sono stati all’occasione annoverati fra i Pietisti, ed è una opinione perfettamente ammissibile quella che considera come una rielaborazione pietistica della pura dottrina di Calvino tutti quei nessi, quali vennero sopra descritti, tra
predestinazione e concetto della riprova o conferma (Bewährung) coll’interesse, che è alla loro base, di conquistare la soggettiva certitudo salutis. L’origine di revivals ascetici in seno alle comunità riformate, è stato, specialmente in Olanda, regolarmente collegato col riaccendersi della dottrina della elezione mediante la grazia, che temporaneamente era caduta in oblio o si era attenuata. Per questo non si usa generalmente per l’Inghilterra il termine «Pietismo))w3. Ma anche il Pietismo continentale riformato (olandesebasso renano), per lo meno per il centro intorno a cui gravitava, fu dapprima, proprio come la religiosità di Bayley, una semplice intensificazione dell’ascesi riformata. Si accentuò l’importanza decisiva della praxis pietatis così fortemente che pertanto l’ortodossia dogmatica passò in seconda linea, talvolta apparve addirittura indifferente. I predestinati potevano all’occasione cadere in errori dogmatici come in altre colpe, e l’esperienza insegnava che Cristiani completamente ignari della teologia delle scuole facevano maturare i frutti della fede più manifesti, mentre d’altre parte si palesava che la pura scienza teologica non portava con sé affatto la certezza della comprova della fede nella condotta moralex3. L’elezione non poteva dunque venir saggiata mediante la scienza teologicay3. Perciò il Pietismo, con profonda diffidenza verso la Chiesa dei teologiz3 alla quale tuttavia ufficialmente continuò ad appartenere (ed è questo uno dei suoi segni distintivi), cominciò a riunire, in conventicole separate dal mondo, i seguaci della praxis pìetatisa4. Esso voleva rendere visibile in terra la Chiesa invisibile dei Santi, senza però giungere alla conseguenza della formazione di sette, e nascosto in questa comunanza condurre una vita morta alle influenze del mondo, orientata in tutti i particolari secondo il volere di Dio, e conservare così la sicurezza della propria rigenerazione nei segni esteriori della condotta della propria vita quotidiana. La «ecclesiola» dei sinceramente convertiti poteva così in una crescente ascesi già nella vita terrena pregustare la comunione con Dio nella sua beatitudine; ed era questo un tratto comune ad ogni vero Pietismo. Questa ultima aspirazione era in qualche cosa intimamente affine alla luterana unìo mystica e conduceva molto spesso ad una cura più sollecita del lato sentimentale della religione, di quella che era propria del normale Cristianesimo riformato. E sul terreno della Chiesa Riformata questo si potrebbe definire come il segno peculiare del Pietismo, per quel che riguarda il nostro punto di vista. Poiché quel momento sentimentale, originariamente del tutto estraneo alla religiosità calvinista, ed
al contrario intimamente affine a certe forme di quella medioevale, diresse la pratica religiosa sulla via del godimento temporale della beatitudine invece che su quella della lotta ascetica per assicurare la beatitudine stessa nell’avvenire celeste. Ed il sentimento poteva giungere a tali altezze che la religiosità prendeva addirittura un carattere di isterismo e poi, con quell’alternarsi noto attraverso innumerevoli esempi e dovuto a cause neuropatiche, di estasi religiose quasi sensuali, con periodi di apatia nervosa, che veniva sentita come «lontananza da Dio», si giungeva in realtà ad un risultato precisamente opposto alla riservata e severa disciplina in cui il sistema di vita religiosa dei Puritani costringeva l’uomo, ad un indebolimento di quei freni che proteggevano la razionale personalità del Calvinista contro gli affettib4. Analogamente il pensiero calvinista della perversità delle creature, preso sentimentalmente, per es. nella forma del cosiddetto «sentirsi un verme», poteva condurre all’uccidere l’energia nella vita professionalec4. Ed anche il pensiero della predestinazione poteva diventar fatalismo quando — in contrasto colle tendenze genuine della religiosità calvinista razionale — veniva fatto proprio sotto for ma di sentimento e di disposizione d’animod4. E finalmente l’impulso alla separazione dei santi dal mondo poteva condurre, rafforzandosi sentimentalmente, ad una specie d’organizzazione claustrale di carattere quasi comunistico, quale il Pietismo ha sempre prodotto anche nella Chiesa riformatae4. Ma fino a che non fu raggiunto questo effetto estremo, causato appunto dalla cura data al lato sentimentale, finché dunque il Pietismo riformato cercò di assicurarsi la beatitudine attraverso la vita professionale laica, l’effetto pratico dei princìpi pietisti fu esclusivamente un controllo ancor più stretto della condotta della vita nella professione, ed un fondamento religioso ancor più saldo della moralità professionale, che non quella che poteva sviluppare la semplice onorabilità mondana dei Cristiani riformati normali, che dai Pietisti più eletti veniva riguardata come un Cristianesimo di second’ordine. L’aristocrazia religiosa dei Santi, che tanto più sicuramente si manifestava nello sviluppo di ogni ascesi riformata, quanto più veniva presa sul serio, fu allora organizzata su base volontaristica — come avvenne in Olanda — nella forma di conventicole nel seno della Chiesa stessa, mentre che nel Puritanesimo inglese in parte spinse alla distinzione formale di Cristiani attivi e di Cristiani passivi nella costituzione della Chiesa, in parte, conformemente a quanto già abbiamo detto, alla formazione di sette. Lo sviluppo del Pietismo tedesco, rimasto sul terreno del Luteranesimo, collegato coi nomi di Spener, Francke, Zinzendorf, ci conduce fuori del campo
della dottrina della predestinazione. Ma non con ciò necessariamente fuori del dominio di quei processi di pensiero, di cui tale dottrina rappresentava il conseguente coronamento, come si manifestò specialmente nell’influenza esercitata sullo Spener, e da lui stesso attestata, dal Pietismo anglo-olandese e nella lettura delle opere di Bayley nelle prime conventicolef4. Per i nostri speciali punti di vista il Pietismo in ogni caso rappresenta esclusivamente la penetrazione di una condotta di vita metodica e controllata, cioè ascetica, anche nel campo della religiosità non calvinistag4. Ma il Luteranesimo dovette sentire quest’ascesi razionale come cosa a sé estranea, e la mancanza di consequenzialità della dottrina pietistica tedesca fu effetto delle difficoltà che ne derivarono. Nello Spener per il fondamento dogmatico della condotta religiosa della vita, processi di pensiero luterani sono combinati con la caratteristica, specifica della religione riformata, delle buone opere — come quelle intraprese coll’intenzione rivolta all’onore di Dioh4 — e colla fede, che contiene del pari un’eco delle credenze riformate nella possibilità per il rigenerato di avvicinarsi in misura relativa alla perfezione cristianai4. Mancava soltanto la consequenzialità della teoria; il carattere sistematico della condotta cristiana della vita, che è essenziale anche per il suo pietismo, lo Spener, influenzato fortemente dai Misticij4 cercò piuttosto di descriverlo in maniera incerta, ma essenzialmente luterana, che non di motivarlo; la certitudo scdutis, non la derivò dalla santificazione, ma scelse invece per essa in luogo del concetto di comprova, il più attraente nesso colla fede, conforme all’insegnamento luteranok4. Ma fino a tanto che l’elemento ascetico-razionale conservò nel Pietismo la prevalenza su quello sentimentale, si fecero valere le concezioni decisamente influenti per il nostro punto di vista, che cioè: i) lo sviluppo metodico della propria pietà fino a raggiungere un consolidamento ed un perfezionamento controllabili secondo i comandamenti sia un segno dello stato di grazial4; 2) che la provvidenza divina agisca in coloro che così si sono perfeziona ti; poiché nella paziente perseveranza e nella riflessione metodica, Dio dà loro i suoi lumim4. Il lavoro professionale era anche per A. H. Francken4; che il successo nel lavoro sia una benedizione che Dio medesimo dà ai suoi eletti era per lui cosa altrettanto sicura, quanto lo era, come vedremo, per i puritani. E come surrogato del «doppio decreto» il Pietismo si creò concezioni, che in modo essenzialmente simile, sebbene attenuato, a quello della dottrina della predestinazione, stabilivano una aristocrazia di rigeneratio4
che poggiava sulla particolare grazia di Dio, con tutte le conseguen ze psicologiche sopra descritte a proposito del Calvinismo. A queste appartiene, per es., il cosiddetto Terminismo che generalmente, dagli avversari del Pietismo, veniva a questo, ma a torto, imputatop4, l’ipotesi cioè che la grazia sia offerta universalmente a tutti, ma una sola volta in ben determinato momento della vita, oppure, non importa quando, per un’ultima volta definitivamenteq4. A chi aveva lasciato passare questo momento, non giovava più l’universalismo della grazia; era nella posizione del negletto da Dio della dottrina calvinista. In realtà si avvicinava assai a questa teoria la concezione dedotta dal Francke da sue esperienze personali che era molto diffusa — si può dire addirittura predominante — nel Pietismo; che cioè la grazia poteva riuscire a vincere, solo dopo fenomeni unici nel tempo e nel genere, e soprattutto dopo «l’interna lotta per l’espiazione» (il Busskampf)r4. Poiché, secondo la concezione propria dei Pietisti, non tutti erano ben disposti a quella esperienza, colui che nonostante l’indicazione pietista non esperimentava su se stesso il metodo da impiegarsi per conseguirla, rimaneva agli occhi dei rigenerati una specie di Cristiano passivo. D’altra parte, creandosi un metodo per raggiungere lo stato della «lotta espiatoria», anche il conseguimento della grazia divina diveniva oggetto di una razionale disposizione umana. Anche i sospetti contro la confessione privata, elevati non da tutti — per es. non da Francke — ma da molti Pietisti ed in particolar modo dai curatori d’anime, come lo dimostrano le molte questioni nello Spener e che contribuirono a sradicarla anche dal Luteranesimo, provenivano da questa aristocrazia della grazia; la efficacia della grazia ottenuta colla penitenza e visibile in una vita santa, doveva decidere della possibilità di concedere l’assoluzione; ed era pertanto impossibile di contentarsi, nell’impartirla, della sola contritìos4. Lo Zinzendorf, che insegnava essere il singolo il giudice di se stesso in fatto di religione, sfociava sempre di nuovo, sebbene con qualche esitazione di fronte agli attacchi della ortodossia, nella concezione di «strumento» (della volontà divina). Per il resto tuttavia il punto di vista concettuale di questo ragguardevole «dilettante religioso», come lo chiama il Ritschlt4. Egli stesso si è ripetutamente dichiarato rappresentante del «tropo paolinoluterano» contro quello «pietista jacobico» che rimaneva attaccato alla Legge. La comunità dei fratelli però, che egli ammise e promosse nonostante il suo sempre riaffermato Luteranesimou4, rappresentava già nell’atto notarile del 12 agosto 1729 un punto di vista, che corrispondeva sotto molti aspetti alla aristocrazia dei santi
del Calvinismo. La molto discussa assegnazione a Cristo stesso dell’ufficio del più anziano, il 12 novembre 1741, dette una espressione anche esteriore a qualche cosa di similev4. Dei tre «tropi» della comunità dei fratelli, quello calvinista e quello moravo erano fin dal principio sostanzialmente orientati secondo l’etica professionale dei Riformati. Anche lo Zinzendorf espresse in maniera del tutto puritana, di fronte a John Wesley, l’opinione che se non sempre il giustificato stesso, almeno altri potevano tuttavia riconoscere nella sua condotta, la sua giustificazionew4. Ma d’altra parte, nella religiosità propria di Herrnhut, il momento sentimentale appare con molta evidenza sul primo piano, e in ispecie lo Zinzendorf cercò personalmente nella sua comunità di ostacolar sempre la tendenza alla santificazione ascetica nel senso puritanox4 e di indirizzare in senso luterano la santificazione delle operey4. Si sviluppò anche, sotto l’influenza del ripudio delle conventicole e della conservazione della confessione, un attaccamento essenzialmente luterano ai sacramenti quali mezzo di salvezza. V’è poi anche il principio fondamenta le proprio dello Zinzendorf: che la puerilità del modo di sentir religioso sia segno della sua sincerità come ne è segno, per es., l’impiego della sorte come rivelazione della volontà di Dio. Tale principio agì così fortemente in senso contrario ad un razionalismo nella condotta della vita, che nel complesso, fin dove giunse l’influenza del contez4, gli elementi antirazionali, sentimentali, ebbero la prevalenza nella comunità di Herrnhut, più che in qualsiasi altra comunità pietistaa5. Il collegamento della moralità e del perdono delle colpe nella Idea fidei fra- trum dello Spangenbergb5 quanto nel Luteranesimo stesso. Anche il rifiuto da parte dello Zinzendorf dello sforzo di perfezionamento metodistico corrisponde qui, come in ogni altro punto, al suo ideale fondamentalmente eudemonistico di lasciare che gli uomini sentano già nel presentec5 la beatitudine (egli dice la Gluckseligkeii) invece di guidarli a con quistarne la sicurezza per la vita ultraterrena con l’operare razionalmented5. Ma d’altra parte è rimasto vivo anche qui il pensiero che il valore distintivo della comunità dei fratelli, in contrasto con altre Chiese, consisteva nell’attività della vita cristiana, nella missione e, a questa collegato, nel lavoro professionalee5. Oltre a ciò la razionalizzazione pratica della vita dal punto di vista dell’utilità era un elemento importantissimo della visione della vita dello Zinzendorff5. Essa ebbe origine per lui — come per altri rappresentanti del Pietismo — da una parte, dalla recisa avversione alle speculazioni filosofiche,
pericolose per la fede, e dalla preferenza per le singole scienze empiriche, correlativa a quella avversioneg5, e dall’altro dall’acuto senso pratico del missionario di professione. La comunità dei fratelli, come centro di missione, era al tempo stesso il centro di un’impresa che conduceva così i suoi membri sulla via dell’ascesi intramondana, la quale sempre cerca dei compiti, anche nella vita, e avendo riguardo a questi prudentemente la ordina secondo un piano. Ma nei discepoli eletti da Dio mercé la graziah5 si para come ostacolo la glorificazione del carisma della povertà apostolica dedotta dall’esempio della vita missionaria degli apostoli, che in realtà importava un parziale ripristino dei consilia evangelica. La creazione di un’etica professionale, sul genere di quella calvinista, fu di conseguenza trascurata, sebbene non fosse del tutto esclusa — come mostra l’esempio della trasformazione del movimento dei Battisti — e ricevesse una forte preparazione interiore nel pensiero del lavoro eseguito esclusivamente in forza della vocazione. Insomma, se noi consideriamo il Pietismo tedesco dai punti di vista per noi rilevanti, dovremo constatare nel fondamento religioso della sua ascesi un ondeggiamento ed una mancanza di sicurezza, che deviano notevolmente dalla ferrea consequenzialità del Calvinismo, e che sono condizionati in parte da influenze luterane, in parte dal carattere sentimentale della sua religiosità. Poiché è una grave parzialità il porre questo elemento sentimentale, come se fosse specifico del Pietismo in confronto al Luteranesimoi5. E tuttavia in confronto al Calvinismo la intensità della razionalizzazione della vita dovette esser necessariamente minore, poiché l’impulso interiore del pensiero rivolto allo stato di grazia, che continuamente doveva essere rinnovato e che garantiva l’avvenire eterno, veniva distratto, per mezzo del sentimento, verso il presente, ed alla sicurezza di se stesso, che il predestinato cercava sempre nuovamente di acquistare con un lavoro professionale senza tregua e coronato dal successo, veniva sostituita quella umiltà e quella discontinuitàj5 del modo di essere, che era conseguenza in parte dell’eccitazione del sentimento, esclusivamente indirizzato ad esperienze interiori, in parte dell’istituto luterano della confessione, che invero fu più volte considerato dal Pietismo con grave sospetto, ma venne per lo più tolleratok5. In tutto ciò infatti si manifesta quel modo specificamente luterano di cercar la salvezza, per il quale è elemento decisivo «il perdono delle colpe» non la «santificazione» pratica. Al posto dello sforzo razionale per raggiungere e conservare la sicura consapevolezza della futura beatitudine ultraterrena, sta qui il bisogno di sentire in questa vita la conciliazione e la comunione con Dio. Ma come nella
vita economica l’inclinazione a godersi il presente lotta contro l’ordinamento razionale dell’economia, il quale è legato anche alla preoccupazione per l’avvenire, così avviene, in un certo senso, anche sul terreno della vita religiosa. Manifestamente dunque l’aver indirizzato il bisogno religioso ad una interiore affettività sentimentale rappresentava un minore impulso a render razionale l’azione del laico nel mondo, di fronte al bisogno di comprova dei «Santi» della Chiesa Riformata; mentre, rispetto alla fede del Luterano ortodosso, tradizionalmente attaccato alla parola divina e ai sacramenti, era tuttavia più appropriato a sviluppare una maggior penetrazione metodica della religione nella condotta della vita. Nel complesso il Pietismo si sviluppò, dal Francke e dallo Spener fino allo Zinzendorf, accentuando sempre di più il proprio carattere sentimentale. Ma non si manifestava con ciò una tendenza evolutiva a lui immanente. Quelle differenze derivarono invece dai contrasti degli ambienti religioso e sociale, da cui trassero le origini i suoi elementi direttivi. In questo luogo non si può entrare in particolari sull’argomento, e neppure parlare del modo con cui il particolare carattere del Pietismo tedesco si manifesta nella sua diffusione sociale e geografical5. Noi dobbia mo ancora qui una volta ricordare che il passaggio da questo pietismo sentimentale alla condotta religiosa dei puritani, si compie naturalmente attraverso graduali sfumature. Se vogliamo caratterizzare, per lo meno in modo provvisorio, una conseguenza pratica di questa differenza, si possono indicare le virtù che il Pietismo educava piuttosto come quelle che si convengano all’impiegato fedele, all’addetto ad un servizio, all’operaio e all’industriale con produzione domestica e ai datori di lavoro di sentimenti patriarcalim5, che volentieri si rimettono a Dio, secondo il modo insegnato dallo Zinzendorf. All’opposto il Calvinismo appare più affine al duro senso giuridico e attivo dell’imprenditore capitalista borghesen5. Il pietismo puramente sentimentale infine è, come ha già rilevato il Ritschlo5, un trastullo religioso per leisure classes. Per quanto questa distinzione non sia affatto esauriente, tuttavia le corrispondono ancor oggi talune differenze anche nel carattere economico dei popoli che hanno subito l’influenza dell’uno o dell’altro di questi due indirizzi ascetici. Il collegamento della religiosità sentimentale, e pur ascetica, con una sempre crescente indifferenza od avversione verso i fondamenti dogmatici dell’ascesi calvinista caratterizza anche il movimento anglo-americano parallelo al pietismo continentale: il Metodismop5. Già il suo nome indica ciò che colpì i contemporanei come carattere peculiare dei suoi seguaci: il sistema
metodico della condotta della vita al fine di raggiungere la certitudo salutisi perché di questa si trattò qui fin dall’origine, ed essa rimase il fuoco centrale dell’attività religiosa. L’affinità indubitabile, nonostante ogni differenza, con taluni indirizzi del Pietismo tedescoq5 appare soprattutto in ciò che questo metodo fu trasferito anche alla preparazione dell’atto sentimentale della «conversione». E la tendenza sentimentale suscitata in John Wesley da influenze morave e luterane, prese un carattere fortemente emotivo, specialmente in terreno americano, dato che il Metodismo mirò fin da principio ad esercitare la sua missione fra le masse. La interiore lotta espiatoria, che in America si faceva di preferenza sulla «panca del timore» e che in certe circostanze era spinta fino alle estasi più terribili, conduceva alla fede nella immediata grazia di Dio, ed immediatamente, con ciò stesso, alla coscienza della giustificazione e della conciliazione. Tale religiosità emotiva si prestò tuttavia, tra non pic cole difficoltà interiori, ad una caratteristica congiunzione coll’etica ascetica, che dal Puritanesimo aveva ricevuto una volta per sempre un’impronta razionale. Dapprima, in contrapposizione al Calvinismo, che riteneva sospetto ogni fatto puramente sentimentale, a causa della possibile illusione, fu riguardata, in linea di principio, come l’unico fondamento indubitabile della certitudo salutis, la sicurezza assoluta dell’illuminato dalla grazia puramente sentita, che derivava immediatamente dall’attestazione dello spirito e della cui origine dovevano normalmente esser noti il giorno e l’ora. Secondo l’insegnamento del Wesley, che rappresenta una accentuazione coerente della dottrina della santificazione, ma anche una deviazione netta dalla concezione ortodossa della stessa, chiunque così sia stato rigenerato può in questa vita giungere alla coscienza della perfezione, nel senso della purezza da colpa, ricevendo l’azione in lui operata dalla grazia, per mezzo di un secondo avvenimento interiore che generalmente appare isolato e del pari spesso improvviso: la santificazione. Per quanto difficilmente questa mèta venga raggiunta e per lo più verso la fine della vita, tuttavia è necessario assolutamente tendervi perché essa garantisce definitivamente la certitudo salutis e pone una lieta sicurezza al posto della preoccupazione sorniona dei Calvinistir5; ed in ogni modo il vero convertito deve dimostrarsi tale dinanzi agli altri per lo meno col fatto che il peccato non ha più su di lui alcun potere. Perciò, nonostante l’importanza decisiva dell’autoattestazione data dal sentimento, si tenne fermo alla condotta santa ed orientata secondo la legge. Quando Wesley combatteva contro la giustificazione mediante le opere, come era intesa ai suoi tempi, egli
non faceva che ridar vita al vecchio pensiero puritano, che le opere non hanno la loro ragione in un merito reale, ma nell’esser mezzo di riconoscimento dello stato di grazia; ed anche questo soltanto, quando siano compiute esclusivamente a gloria di Dio. La sola condotta corretta non bastava, e questo l’aveva potuto esperimentare in se stesso; doveva aggiungersi anche il senti mento dello stato di grazia. Egli stesso chiamò talvolta le opere «condizione» della grazia, ed anche nella Dichiarazione del 9 agosto 1771s5, affermò che chi non compia buone opere, non è un vero credente, e sempre dai Metodisti si è riaffermato, che essi si distinguono dalla chiesa ufficiale non nella dottrina, ma nel modo della loro religiosità. All’importanza del «frutto» della fede fu trovato per lo più un fondamento nella it5 Ep. di Giovanni, 3, 9, e la condotta fu considerata come un chiaro segno della rigenerazione. Ma nonostante tutto questo apparvero delle difficoltàu5. Per quei Metodisti, che erano seguaci della dottrina della predestinazione, il trasferire la certezza della salute neH’immediato sentimento della grazia e della perfezionev5 invece che nella coscienza della grazia derivante di per se stessa dalla vita asceticamente vissuta attraverso la comprova della grazia (poiché allora alla lotta espiatoria che avveniva una volta sola si collegava la sicurezza di perseverare) significava questa alternativa: o, nelle nature deboli, un’interpretazione antinomistica della libertà cristiana e conseguente collasso della condotta metodica della vita, o quando questa conseguenza veniva respinta, era nel «santo» una sicurezza di se stessow5, che saliva ad altezze vertiginose; cioè un rafforzamento ed una trasformazione in senso sentimentale del tipo puritano. In vista degli attacchi degli avversari, da una parte si cercò di ovviare a queste conseguenze, forzando l’affermazione del valore normativo della Bibbia e della indispensabilità della comprova (Bew’àh- rung)x5, ma dall’altra esse condussero, nel fatto, ad un raffor zamento, in seno al movimento, della tendenza anticalvinista di Wesley, che insegnava che la grazia era amissibilis. Le forti influenze luterane, a cui, attraverso la comunità dei fratelli, il Wesley era stato espostoy5, accentuarono questa evoluzione ed aumentarono l’indeterminatezza dell’orientamento religioso della moralità metodistaz5. Quale risultato definitivo fu conservato rigorosamente, come fondamento indispensabile, soltanto il concetto della rigenerazione, cioè di una sicurezza sentimentale della salvezza che si manifestava direttamente quale frutto della fede; e il concetto della santificazione colla sua conseguenza — per lo meno virtuale — della liberazione dalla potenza del peccato, come prova, da quella
derivante, dello stato di grazia. Ne fu corrispondentemente svalutata l’importanza dei mezzi di grazia esterni, in ispecie dei sacramenti. E in ogni caso il generai awakening in conseguenza del metodismo segna dappertutto, anche per es. in Inghilterra, un rafforzamento della dottrina della grazia e dell’elezionea6. II Metodismo ci appare pertanto, dal punto di vista da cui lo consideriamo, una formazione che, analogamente al Pietismo, ha un fondamento etico incerto. Ma anche ad esso lo sforzo verso la higher life, verso la «seconda benedizione», servì come una specie di surrogato della dottrina della predestinazione e, sviluppatasi su terreno inglese, la prassi della sua etica si orientò perfettamente secondo quella del Cristianesimo riformato di questo paese, del quale esso voleva esser un revival. Veniva provocato metodicamente l’atto emotivo della «conver sione». E dopoché era stato raggiunto, non si aveva un pio godimento della comunione con Dio, alla maniera del Pietismo sentimentale dello Zinzendorf, ma subito il sentimento che si era destato veniva condotto sulla via di uno sforzo razionale verso la perfezione. Il carattere emotivo della religiosità non conduceva perciò ad un Cristianesimo interiore e sentimentale sul genere del Pietismo tedesco. Già lo Schneckenburger ha dimostrato che ciò era connesso col minore sviluppo del sentimento della colpa (in parte in conseguenza del processo emotivo della conversione) e questo concetto è rimasto un punto fermo nella critica del Metodismo. Qui rimane decisivo il fondamentale carattere riformato del sentimento religioso. L’eccitazione dei sentimenti prese il carattere di un entusiasmo che si accendeva solo talvolta, ma allora addirittura coribantico, e che nel resto non portava affatto pregiudizio alla razionalità della condotta della vitab6. La re generation del Metodismo creò così esclusivamente un perfezionamento della pura santità delle opere; un fondamento religioso della condotta ascetica della vita; poiché si era abbandonata la dottrina della predestinazione. I segni di riconoscimento nella condotta, indispensabili come controllo della vera conversione, come loro «condizione» come dice il Wesley, erano in realtà gli stessi del Calvinismo. In quanto seguirà, discutendosi della idea di vocazione professionale, noi potremo di massima lasciar da parte, come un prodotto tardivoc6, il Metodismo, che allo svolgimento di quella idea non portò alcun nuovo contributod6. Il Pietismo del continente europeo e il Metodismo dei popoli anglo-sassoni, sono fenomeni di un secondo momento, sia che si considerino nel loro
contenuto di pensiero, sia nella loro evoluzione storicae6. Al contrario, come un secondo fattore autonomo, accanto al Calvinismo, della ascesi protestante, appare il movimento battista colle sette che ne derivarono nel corso del xvi e xvii secolo, sia direttamente sia accettando le forme del suo pensiero religiosof6, dei Battisti veri e propri, dei Mennoni ti e soprattutto dei Quaccherig6. Con esse noi arriviamo a comunità religiose, la cui etica riposa su di un fondamento teorico eterogeneo rispetto alla dottrina riformata. Lo schizzo seguente, che rileva soltanto ciò che per noi è importante, non può dare un’idea dei molti aspetti di questo movimento. Natu ralmente noi poniamo la maggior importanza sullo sviluppo nei paesi del vecchio capitalismo. Il concetto storicamente e teoricamente più importante di tutte queste comunità, la influenza del quale sullo sviluppo della cultura può esser chiarita completamente soltanto in un’altra relazione di fatti, ci si è presentato già in qualche accenno: è la «Believers’ Church»h6. Ciò vuol dire che la comunità religiosa, la «Chiesa visibile», secondo la terminologia in uso nelle Chiese della Riformai6, non venne più concepita come una specie di istituzione fideicommissaria per scopi ultraterreni, come un istituto che necessariamente abbraccia giusti ed ingiusti, sia a maggior gloria di Dio (Calvinismo), sia per dispensare beni salutiferi airumanità (Cattolicesimo e Luteranesimo); ma esclusivamente come una comunità dei personalmente credenti e rigenerati e solo di questi: in altre parole, non come una Chiesa, ma come una settaj6. Anche di questo doveva esser simbolo il principio, di per sé puramente esteriore, di battezzare esclusivamente gli adulti, che abbiano acquistato e conosciuto personalmente ed interiormente la fedek6 La «giustificazione» attraverso questa fede era per i Battisti, come essi hanno ostinatamente ripetuto in tutti i loro discorsi religiosi, ben diversa dal concetto di una attribuzione, di stile «forense», del merito di Cristo, che dominava la dogmatica ortodossa del vecchio Protestantesimol6. Essa consisteva invece nel far propria interiormente la sua opera di liberazione. Ma questa avveniva attraverso una rivelazione individuale; attraverso l’opera dello spirito divino nel singolo, ed attraverso questa soltanto. Essa veniva offerta a tutti e bastava aspettare intensamente lo Spirito e non ostacolarlo con un peccaminoso attaccamento al mondo. Di fronte a ciò sparì del tutto l’importanza della fede, nel senso di conoscere la dottrina della Chiesa, ed anche di accettare in penitenza la grazia di Dio, ed ebbe luogo una
rinascita, — che naturalmente portava con sé forti trasformazioni — dei concetti religiosi cristiani primitivi del pneuma. Per es. la setta, a cui Menno Simons nel suo F’ondamentboek (1539) dette per primo una dottrina abbastanza omogenea, voleva, come le altre sette battiste, esser la vera, irreprensibile Chiesa di Cristo; composta come la primitiva comunità apostolica esclusivamente di risvegliati e di chiamati da Dio. I rigenerati ed essi soltanto sono fratelli di Cristo, perché, come lui, direttamente creati, in senso spirituale, da Diom6. Ne derivò come conseguenza per le prime comunità di Battisti, la cura di evitare rigorosamente il mondo, cioè ogni rapporto non assolutamente necessario colla gente mondana, congiunto colla più stretta bibliocrazia, nel senso del tener dinanzi a sé come modello la vita dei primi Cristiani; e questo principio dell’evitare il mondo non scomparve mai del tutto fino a tanto che rimase vivo l’antico spiriton6. Da questo motivo che dominò i loro inizi, le sette battiste ebbero in retaggio duraturo quel principio, che con fondamenti un po’ diversi noi imparammo a conoscere già nel Calvinismo, e la cui fondamentale importanza apparirà sempre più: l’assoluto ripudio di ogni «divinizzazione delle creature» come di una svalutazione del rispetto dovuto a Dioo6. La condotta della vita secondo la Bibbia nella prima generazione di Battisti della Svizzera e della Germania meridionale era concepita tanto radicalmente quanto, in origine, da S. Francesco; come un allontanamento brusco da ogni gioia mondana e come una vita che seguisse rigorosamente il modello degli Apostoli. E realmente, la vita di molti dei suoi primi seguaci ricorda quella di frate Egidio. Ma questa strettissima osservanza della Bibbiap6 di fronte al carattere pneumonico della religiosità non aveva basi del tutto solide. Ciò che Dio aveva rivelato agli Apostoli ed ai Profeti non era tutto quello che Egli poteva e voleva rivelare. Al contrario; era unico segno di riconoscimento della vera Chiesa, secondo quanto attesta la comunità primitiva, e come già aveva insegnato la Schwenckfeld 1 contro Lutero e più tardi il Fox contro i Presbiteriani, la durata della parola, non come documento scritto, ma come forza operante nella vita quotidiana dei credenti, e proveniente dallo Spirito Santo, che parla direttamente a chi lo vuole ascoltare. Da questo concetto della rivelazione che continua, è derivata la nota dottrina, più tardi svolta conseguentemente dai Quaccheri, dell’importanza decisiva, in ultima istanza, dell’attestato interno dello spirito in ragione ed in coscienza. Con ciò non fu abolita la validità della Bibbia, ma sibbene il suo esclusivo dominio, e fu in pari tempo preparata un’evoluzione, che alla fine, tra i Quaccheri, spazzò via radicalmente tutti i resti della dottrina
ecclesiastica della salvezza, anche il Battesimo e l’Eucaristiaq6. Le denominazioni battiste compirono, insieme ai seguaci della predestinazione, ma soprattutto insieme ai Calvinisti rigorosi, la più radicale svalutazione di tutti i sacramenti, come mezzo di salvezza, e condussero così il «disincantamento» religioso del mondo alle sue ultime conseguenze. Soltanto la luce interiore della continua rivelazione rendeva capaci di comprendere veramente anche le rivelazioni bibliche di Dior6. D’altra parte, almeno secondo la dottrina dei Quaccheri, qui portata all’estrema conseguenza, la sua efficacia si poteva estendere ad uomini, che non avevano mai conosciuto la forma biblica della Rivelazione. La proposizione: extra ecclesìam nulla salus valeva solo per questa chiesa invisibile di questi illuminati da Dio. Senza la luce interna l’uomo naturale, anche se guidato dalla ragione naturales6, rimaneva una pura e semplice creatura, la cui lontananza da Dio, i Battisti ed anche i Quaccheri sentivano quasi ancor più fortemente dei Calvinisti. D’altra parte la rigenerazione, che produce in noi lo Spirito, quando lo attendiamo e ci abbandoniamo interiormente a lui, essendo opera di Dio, può condurre ad uno stato di così completo superamento della potenza del peccato a, che le ricadute e tanto meno la perdita della grazia divengono di fatto impossibili, sebbene, come più tardi nel Metodismo, il conseguimento di quello stato non avesse valore di regola, ed il grado della perfezione del singolo fosse ritenuto passibile di evoluzione. Ma tutte le comunità battiste volevano essere comunità «pure» per la condotta irreprensibile dei loro membri. Il distacco interiore dal mondo e dai suoi interessi e la assoluta sottomissione al comando di Dio, che ci parla nella coscienza, erano anche l’unico segno non fallace di una reale rigenerazione, e la condotta che ad essi rispondeva era così un requisito per la felicità eterna. Essa non poteva guadagnarsi, ma era un regalo della grazia di Dio, e solo chi viveva secondo la propria coscienza poteva considerarsi rigenerato. Le a buone opere» erano, in questo senso, una causa sine qua non. Si vede bene che questa ultima serie di pensieri di Barclay, al quale noi ci siamo attenuti, era praticamente equivalente alla dottrina della Chiesa Riformata, e sicuramente si era sviluppata sotto l’influenza dell’ascesi calvinista, che le sette battiste trovarono preesistere a loro in Inghilterra e nei Paesi Bassi; ed il compito di predicare un’assimilazione seria ed intima di quell’ascesi riempì tutto il primo periodo dell’attività missionaria di G. Fox. Ma il fondamento psicologico del carattere metodico della moralità
battista — poiché era stata ripudiata la predestinazio ne — consisteva nel pensiero dell’attesa dell’efficacia dello spirito, il quale dà ancor oggi al meeting quacchero il suo carattere e che è stato analizzato già dal Barclay; scopo di questa silenziosa attesa è il superamento degli istinti e delle irrazionalità, delle passioni e delle soggettività dell’uomo cosiddetto «naturale»; egli deve tacere per creare così neiranima quel profondo silenzio, in cui soltanto Dio può parlare. Certamente l’effetto di questa attesa poteva sfociare in stati d’isterismo, nella profezia, e, fintantoché avevano consistenza speranze escatologiche, anche, sotto certe condizioni, in uno scoppio di chiliasmo entusiastico, quale è possibile in tutte quelle specie di religiosità che hanno un simile fondamento, e quale realmente si manifestò nel movimento che fu distrutto a Miinster. Ma col confluire del Battismo nella normale vita professionale mondana, il concetto che Dio parla solo quando tace la creatura, manifestamente comporta un metodo di educazione diretta a ponderare tranquillamente le proprie azioni, e ad orientarle secondo un esame accurato della coscienzat6. Anche la pratica della vita delle comunità battiste più tarde, ed in particolare misura quella dei Quaccheri, si è appropriata questo carattere tranquillo, riservato, soprattutto coscienzioso. Il radicale disincantamento del mondo non permetteva interiormente altro cammino che l’ascesi intramondana. Per comunità, che non volevano aver niente a che fare coi poteri politici e colla loro azione, ne venne anche, come conseguenza esterna, il confluire di queste virtù ascetiche nel lavoro professionale. Mentre che i capi del movimento battista più antico erano stati risolutamente intransigenti nel loro distacco dal mondo, tuttavia anche nella prima generazione, la vita rigorosamente apostolica non era stata, naturalmente, mantenuta per tutti come esigenza necessaria ad attestare la rigenerazione. Già a questa generazione appartennero elementi borghesi agia ti, e già prima di Mennou6 che si tenne perfettamente sul terreno delle virtù professionali intramondane e della proprietà privata, il severo rigore morale dei Battisti si era praticamente adattato a questo alveo scavato dall’etica riformata. Infatti, lo sviluppo di una forma intramondana monacale delPascesi era escluso da Lutero in poi, —; e i Battisti lo seguirono anche su questo punto —; come non conforme alla Bibbia e come santificazione delle opere. Tuttavia, astraendo dalle comunità quasi comuniste dei primi tempi, non soltanto una setta battista, quella dei cosiddetti Tunker (dompelaers, dunckards) si è attenuta al ripudio dell’istruzione e di ogni possesso non strettamente indispensabile per
mantenersi in vita, ma, per es., in Barclay l’attaccamento alla professione è concepito, non alla maniera calvinista od anche soltanto luterana, ma piuttosto in modo simile a quello tomista, come una conseguenza, naturali ratione, inevitabile, del fatto che il credente si trova in mezzo al mondov6. Mentre in questo modo di vedere c’era un’attenuazione del concetto calvinista di professione simile a quella che si manifesta in molte espressioni dello Spener e dei Pietisti tedeschi, d’altra parte l’intensità dell’interesse economico professio naie fu sostanzialmente accentuata, nelle sette battiste, da taluni motivi. Anzitutto dal rifiuto di accettare uffici statali, originariamente concepito come un dovere religioso derivante dal distacco dal mondo, e che, anche dopo essere stato abbandonato in linea di principio, continuò ad esistere nella pratica, per lo meno tra i Mennoniti e i Quaccheri, a causa degli altri rifiuti di portar armi e di prestar giuramento, dai quali risultava la squalifica per gli uffici pubblici. Con tal rifiuto andava strettamente congiunta in tutte le denominazioni battiste un’avversione insuperabile contro ogni stile aristocratico della vita, conseguenza in parte, come presso i Calvinisti, del divieto di glorificare le creature, in parte di quei princìpi apolitici o addirittura antipolitici menzionati. Tutta la metodica condotta battista, severa e coscienziosa, fu con ciò spinta nella via della vita professionale apolitica. Ed inoltre la straordinaria importanza, che la dottrina battista della salvezza riponeva nel controllo della coscienza, come rivelazione divina nell’individuo, impresse alla condotta nella vita professionale un carattere, il cui grande valore per lo sviluppo di aspetti importanti dello spirito capitalistico noi conosceremo più oltre, ed anche allora solo per quanto sarà possibile il farlo, senza trattare di tutta l’etica sociale e politica dell’ascesi protestante. Noi vedremo allora, per anticipare per lo meno questo, che la forma specifica che quell’ascesi intramondana prese tra i Battisti, in particolare fra i Quaccheriw6, a giudizio già del xvii secolo, si manifestava nell’osservare praticamente queirimportante principio dell’etica capitalista che si usa esprimere col detto honesty is thè best policyx6 e che ha trovato il suo documento classico anche nel trattato già citato di Franklin. Al contrario noi presumeremo che il Calvinismo abbia agito piuttosto nel senso di scatenare l’energia economica rivolta all’acquisizione; poiché, nonostante tutta la legalità formale del «Santo», era spesso vera anche per i Calvinisti la sentenza di Goethe: «Colui che agisce è sempre senza coscienza; non ha
coscienza se non chi contempla»y6. Del pari un altro elemento importante, che favorì l’intensità dell’ascesi intramondana delle denominazioni battiste, può esser studiato soltanto in un altro contesto. Siano tuttavia anche qui premesse alcune osservazioni, anche per giustificare il procedimento che si è scelto nell’esposizione. Di proposito non si è qui trattato, per il momento, delle istituzioni sociali oggettive delle antiche Chiese Protestanti e delle loro influenze etiche, in particolare della importantissima disciplina ecclesiastica, ma degli effetti, che il soggettivo appropriarsi della religiosità ascetica da parte dei singoli era adatto a produrre sulla condotta della vita. E ciò non soltanto per il fatto che questo era stato finora l’aspetto di gran lunga meno osservato del problema; ma anche perché l’effetto della disciplina ecclesiastica non era affatto rivolto sempre nella stessa direzione. Il controllo della polizia ecclesiastica sulla vita, che nei territori delle chiese di stato calviniste fu spinto quasi ai confini dell’Inquisizione, poteva piuttosto contrastare quello sviluppo delle forze individuali, che era causato dallo sforzo ascetico di acquistare metodicamente la salvezza, e, in certe circostanze, lo ha fatto realmente. Come la regolamentazione mercantilistica statale poteva educare, sviluppare le industrie, ma non, o perlomeno non da sola, lo spirito capitalista, che al contrario, quando questa prese un carattere poliziesco ed autoritario, più volte addirittura si afflosciò —; così lo stesso effetto poteva procedere anche dalla regolamentazione ecclesiastica dell’ascesi, quando si sviluppò in senso prevalentemente poliziesco: essa costringeva ad una certa condotta esterna; ma in certe circostanze, mortificava gli impulsi soggettivi ad una condotta metodica della vita. Ogni discussione su questo punto deve fare attenzione alla grande differenza che c’era tra l’effetto della autoritaria polizia dei costumi delle chiese di stato, e la polizia dei costumi delle sette, ch’era basata sull’assoggettamento volontario. Il fatto che il movimento battista, in tutte le sue denominazioni, creò sette e non chiese, fu in ogni caso di vantaggio all’intensità della sua ascesi, come avvenne, in misura meno forte, anche in quelle comunità calviniste, pietiste, metodiste, che di fatto furono spinte a formare comunità su base volontariaz6. Dovremo ora seguire l’idea puritana di professione nella sua influenza sulla vita professionale, dopo che lo studio precedente ha cercato di spiegare il suo fondamento religioso. Nonostante tutte le deviazioni in particolare, ed ogni differenza nell’importanza che nelle diverse comunità ascetiche viene annessa ai punti di vista per noi decisivi, questi ultimi sono presenti ed efficaci
in tuttea7. Ma, per ricapitolare, fu decisiva per l’oggetto della nostra considerazione, la concezione, sempre ritornante in tutte le denominazioni, dello «stato di grazia», come di uno stato (status) che separab7 l’uomo dalla corruzione delle creature, dal «mondo», ma il cui possesso, qualunque fosse il modo di ottenerlo secondo la dogmatica delle diverse denominazioni, non poteva esser garantito da qualche mezzo magico-sacramentale o col sollievo della Confessione, o con singole azioni pie, ma con la conferma insita in una condotta di uno speciale carattere, e diversa, in modo non equivoco, dal genere di vita dell’uomo «secondo natura». Da ciò derivò per il singolo l’impulso al controllo metodico nella condotta della vita del suo stato di grazia, e per ciò stesso alla penetrazione dell’ascesi in essa. Ma questo stile di vita «ascetico» significava del pari, come vedemmo, una trasformazione razionale di tutta l’esistenza, orientata secondo il volere di Dio. E questa ascesi non era più un opus supererò gationis, ma un’opera che veniva richiesta da ognuno che volesse essere sicuro della sua beatitudine eterna. Questa vita speciale dei santi, promossa dalla religionec7, diversa dalla vita «naturale», si svolgeva —; questo è il punto decisivo —; non più fuori del mondo in comunità di monaci, ma in mezzo al mondo nei suoi ordinamenti. Questa «razionalizzazione» della condotta della vita, nel mondo, collo sguardo rivolto alla vita ultraterrena, era l’effetto della concezione che della professione aveva il Protestantesimo ascetico. L’ascesi cristiana, da principio fuggendo dal mondo nella solitudine, mentre rinunciava al mondo, aveva già dominato ecclesiasticamente il mondo stesso dal chiostro. Ma, nel complesso, essa aveva lasciato alla vita quotidiana profana il suo carattere naturalmente spregiudicato. Ora essa veniva sul mercato della vita, chiudeva dietro a sé le porte dei chiostri, ed incominciava ad impregnare della sua metodicità la vita quotidiana profana, ed a trasformarla in una vita razionale nel mondo, e tuttavia nond7 questo o per questo mondo. Con quale successoe7, noi cercheremo di mostrarlo nelle nostre considerazioni ulteriori.
a. Nonostante questa ed altre avvertenze abbastanza chiare rimaste sempre invariate, una tale tesi mi è stata–è strano–ripetutamente attribuita. b. Non trattiamo in modo distinto lo Zuinglianesimo, poiché dopo avere assunto per breve tempo una posizione potente, rapidamente perdette la sua importanza. L’«Arminianismo», il cui insegnamento dogmatico ebbe per carattere principale il rigetto del dogma della predestinazione, nella sua cruda formulazione, e che rifiutava «l’ascesi intramondana», fu costituito come setta solo in Olanda (e negli Stati Uniti), ed è per noi, in questo capitolo, senza interesse o tutt’al più di un interesse negativo, relativo al fatto che esso era la setta del patriziato commerciale in Olanda (v. oltre). I suoi dogmi ebbero valore nella chiesa anglicana e nella maggior parte delle denominazioni metodistiche. Il suo contegno (c
erastiano» (cioè tendente a far valere la sovranità dello Stato anche in cose di Chiesa) fu quello di tutte le autorità che avevano un interesse esclusivamente politico, del Lungo Parlamento al pari della regina Elisabetta e degli Stati Generali Olandesi e sopra a tutti delPOldenbarneveldt. c. Sullo sviluppo del concetto di «Puritanesimo» vedi, per tutti, SAN-FORD negli Studies and Reflections of thè Greal Rebellion, p. 65 e segg. Noi adopriamo qui l’espressione, là dove la usiamo, sempre nel significato che ha preso nella lingua popolare del secolo xvn: i movimenti religiosi, cioè, con indirizzo ascetico in Olanda e in Inghilterra, senza distinzione di costituzioni ecclesiastiche, di programmi e di dogmi, comprendendovi dunque gli Indipendenti, i Congregazionalisti, i Battisti, i Mennoniti e i Quaccheri. d. Ciò è stato molto mal compreso nelle discussioni su tali questioni. Il Brentano, ma più particolarmente il Sombart, citano continuamente i moralisti (per lo più quelli che essi hanno imparato a conoscere nelle mie opere) come codificazioni di regole per la vita, senza indagare a quali tra queste corrispondessero i premi salutiferi, che soli potevano avere presa sugli animi. e. Non credo necessario di fare uno speciale accenno al fatto che questo schizzo, in quanto si muove su di un terreno strettamente dogmatico, si appoggia in tutto ai risultati degli studi sulla storia delle Chiese e dei dogmi; è dunque, come suol dirsi, di «seconda mano», ed in questo punto non ha affatto pretese di originalità. Naturalmente io ho cercato, per quanto ho potuto, di approfondirmi nelle fonti della storia della Riforma. Ma il volere ignorare il lavoro teologico, intenso ed acuto, di molti decenni, invece di prenderlo a guida–come è assolutamente inevitabile–per la comprensione delle fonti, sarebbe stata una pretesa troppo ardita. Debbo sperare che la necessaria brevità di questo saggio non mi abbia condotto ad enunciazioni erronee e che per lo meno io abbia evitato grossi equivoci nei dati di fatto. Tale esposizione contiene qualche cosa di «nuovo» per chi abbia pratica della più importante letteratura teologica solo in quanto che tutto vien posto in relazione coi punti di vista che a noi importano; dei quali taluni che appunto per noi hanno un’importanza decisiva, come per es., il carattere razionale dell’ascesi e la sua importanza per lo stile della vita moderna, sono naturalmente i più estranei a studiosi di teologia. Dopo la pubblicazione di questo saggio, questi punti ed in generale l’aspetto sociologico dell’argomento, furono approfonditi sistematicamente, nell’opera già citata di E. TROELTSCH, il cui Gerhard und Melanchthon e le numerose recensioni nelle «Gòtt. Gel. Anz.» contenevano già alcuni segni precursori di quella che sarebbe stata la sua grande opera. Per ragioni di spazio non si sono citati tutti i lavori di cui ci si è serviti, ma solo di tanto in tanto quelli ai quali si collegava o seguiva la relativa parte del testo. Sono non di rado autori già un po’ antiquati; ma, in tal caso, vuol dire che ad essi più premevano i punti di vista che qui ci interessano. L’organizzazione delle biblioteche tedesche, manchevole per pochezza di mezzi pecuniari, porta a questo che in provincia si possono avere in prestito, solo per qualche settimana, da Berlino o dalle altre maggiori biblioteche, le fonti ed i lavori più importanti. Così per Voet, per Baxter, per il Wesley di Tyerman, per tutti gli scrittori metodisti, battisti e quaccheri, e per molti altri scrittori, soprattutto dei primi tempi, non contenuti nel Corpus Reformatorum. Sotto molti aspetti sarebbe necessario poter frequentare biblioteche inglesi, ed in particolar modo americane, per uno studio profondo. Per il riassunto seguente dovette e in generale poté anche bastare il materiale disponibile in Germania. In America, da qualche tempo, il rinnegamento del proprio passato «settario» da parte delle Università fa sì che le biblioteche acquistano poco o addirittura nulla di nuovo della letteratura in tal genere, ed è questo un tratto caratteristico di quella generale tendenza alla «secolarizzazione» della vita americana, che fra non molto tempo avrà dissolto lo storico carattere tradizionale del popolo americano, ed avrà cambiato completamente e definitivamente il significato di talune istituzioni fondamentali del paese. Per tali ricerche occorre andare dunque nei piccoli Colleges delle sette in provincia. f. In quanto segue, noi non ci interessiamo affatto deirorigine, degli antecedenti e della storia dell’evoluzione delle tendenze ascetiche, ma prendiamo il loro contenuto concettuale, quale fu dopo il suo completo sviluppo, come una determinata entità.
g. Su Calvino e il Calvinismo dà le migliori informazioni generali, assieme col lavoro fondamentale del Kampschulte, l’esposizione di Erich Marcks, nel suo Coligny. Non sempre critico e spregiudicato è il Campbell, The Puritans in Holland, England and America (2 voll.). Scritti di parte fortemente anticalvinistici sono gli Studien over Johan Calvijn del Pierson. Per l’evoluzione in Olanda vanno confrontati, dopo il Motley, i classici olandesi, specialmente Groen van Prinsterer, Geschied v. h. Va-derland; La Hollande et Vinfluence de Calvin (1864); Le parti antirévolutionnaire et confessionnel dans Véglise des P. B. (i860, per l’Olanda moderna); e inoltre i Tien jaren uit den tachtigjarigen oorlog del Fruin e soprattutto Calvinist of Libertinsch del Naber; e F. Nueyens, Gesch. dererel. an pol. geschillen in de Rep. de Ver. Prov. (Amsterdam 1886); A. KÖhler, Die niederl. ref. Kirche (Erlangen 1856) per il xix secolo. Per la Francia, oltre al Polenz, ora il Baiard, Rise of the Huguenots. Per l’Inghilterra insieme col Carlyle, col Macaulay, col Masson e–last not least–il Ranke, e soprattutto i diversi lavori che citeremo più oltre, del Gardiner e del Firth, ed inoltre, per es., il Taylor, A retrospect of the religious life in England (1854), l’eccellente libro di Weingarten, Die englischen Revolutions-Kirchen, il saggio di E. Troeltsch sui «moralisti» inglesi nella «Realenzyklopädie für protestantische Theologie und Kirche», 3a ed., oltre naturalmente alle sue Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, e l’eccellente saggio di Ed. Bernstein nella Geschichte des Sozialismus (Stoccarda, 1895, vol. I, p. 506 e segg) La migliore bibliografia (oltre 7000 numeri) in Dexter, Congregationalism of the last 300 years, contiene, in prevalenza, ma non esclusivamente, questioni sulla costituzione delle Chiese. Il libro vale molto di più di quelli del Price, History of Nonconformism, dello Skeats e di altre trattazioni del genere. Per la Scozia vedi, per es., Sack, Kirche von Schottland, e le opere su John Knox. Per le colonie americane emerge dalle numerose opere speciali il libro del Doyle, The English in America. Oltre a questo, Daniel Wait Howe, The Puritan Republic (Indianapolis, The Bowen-Merrill-Cy. publishers); G. Brown, The pilgrim fathers of New England and their Puritan successors (3a ed. Revell). Faremo a suo luogo altre citazioni. Per quanto concerne le differenze dottrinali sono in particolar modo debitore, nell’esposizione che segue, al già citato ciclo di lezioni dello Schneckenburger. L’opera fondamentale del Ritschl, Die christliche Lehre von der Rechtfertigung und VersÖhnung (voll. 3, cit.), mostra, nella forte mescolanza di esposizione storica e di giudizi di valore, il peculiare carattere dell’Autore, il quale, pur colla grandiosità e l’acutezza del suo pensiero, non dà sempre a chi utilizza il suo libro la completa sicurezza della obiettività. Quando egli, per es., non accetta lo Schneckenburger, sono rimasto spesso dubbioso da qual parte fosse la ragione, per quanto non pretenda di formulare un mio giudizio sul resto. Quel che, nella grande varietà dei concetti e dei sentimenti religiosi, già in Lutero stesso, vale per lui come dottrina luterana, mi pare spesso affermato con puri giudizi di valore; per il Ritschl vale quello che ha un valore duraturo nel Luteranesimo. è il Luteranesimo come doveva essere, secondo il Ritschl, non sempre quale fu in realtà. Non c’è bisogno di menzionare in particolare che sono state utilizzate continuamente le opere di Karl Miiller, del Seeberg, ecc. Fui spinto, in quello che segue, ad imporre al lettore e a me stesso, la penitenza di un orribile groviglio di note a fin di pagina dalla necessità di render possibile, soprattutto ai lettori non versati in teologia, il controllo, almeno provvisorio, dei concetti contenuti in questo abbozzo, anche mercé l’accenno a punti di vista, che più oltre vi si connetteranno. h. Occorre rilevare preventivamente, con energia, che noi nel riassunto seguente non consideriamo le vedute personali di Calvino, ma il Calvinismo ed anche questo in quella forma che raggiunse alla fine del secolo xvi e nel secolo xvn e nei grandi paesi ove esercitò la sua influenza predominante e che erano al tempo stesso i paesi in cui la civiltà capitalistica si era maggiormente sviluppata. Da principio la Germania resta completamente da parte, perché il Calvinismo puro non vi ha mai avuto un considerevole sviluppo territoriale. «Riformato» naturalmente non è affatto identico con «calvinista». i. Già la dichiarazione concordata dalla Università di Cambridge colPArcivescovo di Canterbury e
contenuta nel 170 Articolo della confessione anglicana, il cosiddetto Articolo Lambeth del 1595, che–in contrasto colla redazione ufficiale–insegnava espressamente anche la predestinazione alla morte eterna, non venne ratificato dalla regina. I più rigorosi (come per esempio la Confessione di Hanserd Knolly) annettevano appunto un’importanza decisiva alla espressa predestinazione alla morte eterna (non soltanto alla «ammissione» della dannazione, come volevano i moderati). j. V. il testo dei simboli calvinisti citati qui e più oltre, in K. Muller, Die Bekenntnisschrijten der reformierten Kirche, Lipsia 1903. Altre citazioni quando se ne presenta Poccasione. k. Cfr. la dichiarazione Savoy e quella (americana) di Hanserd Knolly. Sulla dottrina della predestinazione negli Ugonotti v., fra gli altri, POLENZ, I, p. 545 e segg. l. Sulla teologia di Milton v. il saggio di Eibach, in Theol. Studien und Kritiken, del 1879. L’Essay di Macaulay in occasione della traduzione del Sumner della Doctrina Christiana ritrovata nel 1823 è, su questo punto, superficiale. Per notizie più precise naturalmente l’opera capitale inglese del Masson (in 6 volumi), per quanto coordinata un po’ schematicamente, e la biografia tedesca di Milton dello Stern che si basa su quella del Masson. Il pensiero di Milton cominciò presto a svolgersi oltre la dottrina della predestinazione nella forma del doppio decreto, fino a giungere al Cristianesimo completamente libero della sua vecchiaia. Nel liberarsi da ogni legame col proprio tempo egli può esser paragonato in un certo senso a Sebastian Franck. Solo che Milton era essenzialmente una natura pratica e positiva; e Franck invece una natura critica. Milton è «Puritano» solo in quel più largo senso di orientamento razionale della vita secondo il volere divino in mezzo al mondo, che rappresenta la perenne eredità del Calvinismo per i posteri. In senso del tutto simile si potrebbe chiamare anche Franck un Puritano. Tutti e due come isolati, non possono esser analizzati minuziosamente da noi. m. Hic est fidei summus gradus: credere Deum esse clementem, qui tam paucos salvat; justum, qui sua voluntate nos damnabìles jacit. Così suona il passo famoso dello scritto De servo arbitrio. n. Tutti e due, Lutero e Calvino, conoscevano, in fondo (v. le osservazioni del RITSCHL nella Storia del Pietismo e del KòSTLIN, s. v. Goti nella «Realenz. für Protestantische Theologie und Kirche») un duplice Dio; il Padre rivelato grazioso e benigno del Nuovo Testamento, il quale infatti prevale nei primi libri della Institutio Christiana e dietro a questo il Deus absconditus che, come un despota, regola il corso del mondo arbitrariamente. In Lutero prevale completamente il Dio del Nuovo Testamento, poiché egli sempre più evitò, come inutili e pericolose, le riflessioni metafisiche; in Calvino il pensiero della Divinità trascendente prevalse sulla vita. Nello sviluppo popolare del Calvinismo un tale concetto della Divinità trascendentale non poté conservarsi; ma al suo posto venne non il Padre celeste del Nuovo Testamento, ma Jehova del Vecchio. o. Cfr., per quanto segue, SCHEIBE, Calvins Pràdestinationslehre, Halle 1897. Per Ia teologia calvinistica soprattutto: HEPPE, Dogmatik der evan- gelisch-reformierten Kirche, Elberfeld, 1861. p. Corpus Rejormatorum, vol. 77, p. 186 e segg. q. Si può trovare la esposizione surriferita del concetto dottrinale calvinistico, presso a poco in tal forma, in Hoornbeebck, Theologia Practìca, Utrecht, 1663, I, II, c. 1.: De Praedestinatione. Il capitolo è posto, in modo caratteristico, immediatamente dopo il titolo De Deo. Il fondamento biblico principale è per il H. principalmente il primo capitolo della lettera agli Efesini. Non è qui nostro compito di analizzare i diversi ed inconseguenti tentativi di combinare la responsabilità individuale colla predestinazione e la preveggenza divina e di salvare la «libertà» empirica della volontà, i quali incominciarono già in S. Agostino colla prima costruzione della dottrina. r. The deepest community (con Dio) is found not in institutions or corporations or churches, but in thè secret of a solitary heart, così formula il Dowden nel suo bel libro Puritan and Anglican, p. 234, il punto decisivo. Questa profonda solitudine interna del singolo si manifestò anche nei Giansenisti di Port Royal, che erano del pari seguaci della predestinazione. s. Contra qui huiusmodi coetum (cioè una Chiesa, in cui si trovino purità di dottrina, sacramenti e
disciplina ecclesiastica) contemnunt… salutis suae certi esse non possunt; et qui in ilio contemtu perseverai, electus non est. Olevian, De subst. foedp. 222. t. Si dice invero che Iddio ha inviato suo Figlio, per salvare l’umanità, ma questo non era il suo scopo; voleva solo aiutare alcuni dalle conseguenze della caduta originaria… ed io vi dico che Iddio è morto solo per gli Eletti… (Predica tenuta a Broek presso Rogge, Wtenbogaert, II, p. 9. Cfr. Nueyens, op. cit., p. 232). Complicata è anche la motivazione della mediazione di Cristo nella confessione di Hanserd Knolly. Dappertutto si presuppone che Dio non avrebbe avuto bisogno di tal mezzo. u. Su tal processo vedi i saggi sulla Wirtschajtsethik der Weltreligionen. Anche la particolare posizione dell’etica israelitica antica di fronte a quelle egiziana e babilonese che nel contenuto le sono affini, e la sua evoluzione dalFepoca dei Profeti in poi, poggiavano, esclusivamente, come si dirà in quei saggi, su questo fatto fondamentale: il ripudio della magia sacramentale come mezzo di salvezza. v. Parimenti, secondo il modo di vedere più conseguente, il battesimo era obbligatorio solo in forza della prescrizione positiva, ma non era affatto necessario per la salvezza. Perciò gli Indipendenti scozzesi ed inglesi, strettamente puritani, solevano mettere in pratica il seguente principio: che i figli di gente manifestamente reproba (per es. i figli degli ubriaconi) non dovevano esser battezzati. Il Sinodo di Edam del 1586 (Art. 32, 1) raccomandava di battezzare un adulto, che desiderasse il battesimo, ma che non fosse ancora maturo per l’eucarestia, solo quando la sua condotta fosse incensurata ed il suo desiderio fosse sonder superstitie. w. Questo rapporto negativo con la «cultura dei sensi» è, come ha già dimostrato il Dowden nelPopera citata, uno degli elementi costitutivi del Puritanesimo. x. L’espressione «individualismo» comprende ciò che di più eterogeneo si possa immaginare. Spero di render chiaro colle osservazioni seguenti ciò che con essa qui si intenda. Si è chiamato individualistico - in un altro senso - il Luteranesimo, perché non conosce una regolamentazione ascetica della vita. In un senso del tutto diverso ancora la parola è adoperata per es. da DIETRICH SCHAFER, quando nel suo scritto Zur Beurteilung des Wormser Konkordats («Abh. der Beri. Akad.», 1905) chiama il Medioevo epoca di forte individualità, poiché momenti irrazionali hanno avuto, in quello che per lo storico di quell’epoca è rilevante, un’importanza, che non hanno più per i tempi moderni. Egli ha ragione; ma forse l’hanno anche quelli, cui egli oppone le sue osservazioni; poiché intendono due cose del tutto diverse quando parlano di «individualità» e di «individualismo». Le geniali formulazioni di Jakob Burckhardt sono in parte superate e sarebbe di grande utilità scientifica un’analisi concettuale profonda, fatta con intendimento storico. Ma si ha proprio il contrario di tutto ciò, quando il vezzo del gioco spinge alcuni storici a definire con stile da reclame un concetto, solo per appiccicarlo come etichetta ad una determinata epoca storica. y. E del pari in un contrasto - naturalmente meno accentuato - colla tarda dottrina cattolica. Il profondo pessimismo di Pascal, che si fonda parimenti sulla dottrina dell’elezione mediante la grazia, è invece di provenienza giansenistica, ed il suo individualismo solitario ed evadente dal mondo non si accorda affatto colla posizione cattolica. Cfr. la nota b a p. 169 del citato scritto del Honigsheim sui Giansenisti francesi. z. Lo stesso si trova nei Giansenisti. a1. Bayley, Praxis pietatis (ed. ted., Lipsia, 1724), p. 187. Anche Ph. J. Spener, nei suoi Theologische Bedenken, che noi qui citiamo secondo la 3a edizione, Halle, 1712, parte da un punto di vista simile: l’amico dà di rado il suo consiglio avendo riguardo all’onore di Dio, ma per lo più con intenzioni puramente umane, anche se non necessariamente egoistiche. He - thè «knowing man» - is blind in no man s cause, but best sighted in his own. He confines himself to thè circle of his own affairs and thrusts not his fingers in needless fires… He sees thè falseness of it (del mondo) and therefore learns to trust himelf ever, others so far, as not to be demaged by their disappointment. (Così filosofeggia Th. Adams, Works of thè Puritan Divines, p. LI). Bayley (Praxis pietatis, ed. cit., p. 176) raccomanda inoltre che ogni
mattina prima di uscire fra la gente ci si renda conto che si va in una selva selvaggia piena di pericoli e che si preghi Iddio di concederci «l’usbergo della prudenza e della giustizia». Questo sentimento si ritrova in tutte le confessioni ascetiche, e presso alcuni Pietisti condusse addirittura ad una specie di vita da eremiti in mezzo al mondo. Anche Spangenberg a p. 382 della sua Idea fidei fra- trum (idea che rientra nel gruppo degli Herrnhuter) ricorda esplicitamente Geremia 17, 5: «Maledetto è l’uomo, che si affida agli uomini». Per misurare la caratteristica misantropia di questa concezione della vita, si osservino le spiegazioni di Hoornbeek, Theologia Practica, I, p. 882, intorno al dovere deH’amore dei propri nemici: Denique hoc magis nos ulciscimur, quo proximum, inultum nobis, tradimus ultori Deo… Quo quis plus se ulciscitur, eo minus prò ipso agii Deus; qui si ha lo stesso «rinvio della vendetta» che si trova nelle parti dell’Antico Testamento posteriori all’esilio; un raffinato «crescendo» e al tempo stesso, un approfondimento del sentimento della vendetta, in confronto all’antico «occhio per occhio». Sull’amor del prossimo v. anche oltre. b1. Certamente la confessione non ha avuto, da sola, tale effetto; le enunciazioni per es. del Muthmann in «Zeitschrift fur Relig. Psychol.», I, fase. 2, p. 65, sono troppo semplicistiche in confronto al complicatissimo problema psicologico della confessione. c1. Proprio questa combinazione è di grande importanza per giudicare i fondamenti psicologici delle organizzazioni sociali calvinistiche. Esse si fondano tutte su motivi interiormente «individualistici» e razionali rispetto allo scopo o il valore che vogliono conseguire. L’individuo non vi è condotto mai per via di sentimento. La gloria di Dio e la propria salvezza rimangono sempre al di qua della soglia della coscienza. Questo fatto imprime ancor oggi speciali tratti caratteristici alle organizzazioni sociali dei popoli che hanno un passato puritano. d1. La caratteristica nota fondamentalmente antiautoritaria della dottrina, che svalutava come priva di scopo ogni provvidenza ecclesiastica e statale per la morale e per la salute delle anime, condusse ripetutamente alla sua proibizione, in particolare da parte degli Stati Generali Olandesi. Se ne ebbe sempre la stessa conseguenza: la formazione di conventicole (così dopo il 1614). e1. Sul Bunyan v. la biografia del Froude nella collezione di Morley (English Men of Letters), ed inoltre lo schizzo (superficiale) del MaCAULAY, Misceli. Works, II, p. 227. Il Bunyan è indifferente di fronte alle divergenze delle varie denominazioni in seno al Calvinismo, ma per suo conto è tuttavia uno stretto Battista calvinista. f1. Non è difficile ritrovare la importanza, indubbiamente grande, del pensiero calvinista per il carattere sociale del Cristianesimo riformato nella necessità di essere accolti, per essere salvati, in una comunità rispondente alle prescrizioni divine, necessità che deriva dalPesigenza di far parte del corpo di Cristo (Calvino, Inst., III, II, Io). Ma per il nostro particolare punto di vista il punto centrale del problema è piuttosto diverso. Quel pensiero dogmatico avrebbe potuto formarsi anche con un carattere puramente istituzionale della Chiesa, e, com’è noto, in altri casi ciò si è anche avverato. Esso non ha in se stesso la forza psicologica di risvegliare iniziative sociali, di formare comunità e di dare a queste quella forza, che il Calvinismo dimostrò di possedere. Anche fuori delle comunità ecclesiastiche, di prescrizione divina, nel «mondo» si estrinsecò questa sua tendenza associativa. Qui appunto è decisiva la credenza che il Cristiano comprovi il suo stato di grazia mercé la sua azione in maiorem Dei gloriam; e la forte avversione contro ogni deificazione delle creature ed ogni attaccamento alle relazioni personali tra uomini, dovette gradualmente ed insensibilmente incanalare quest’energia nella via dell’azione oggettiva ed impersonale. Il Cristiano, cui sta a cuore la comprova di questo stato di grazia, agisce secondo i fini di Dio, e questi possono esser soltanto impersonali. Ogni relazione puramente sentimentale - cioè non condizionata razionalmente - tra uomo e uomo, nell’etica puritana, come in ogni etica ascetica, cade facilmente in sospetto di essere una deificazione della creatura. Per l’amicizia, oltre a quel che abbiam detto, lo dimostra assai chiaramente il seguente ammonimento: It is an irrational act and not fit for a rational creature to love any one farther than reason will àllow us… It very often taketh up mens minds so as to hinder their love of God. (BAXTER,
Christian Directory, IV, p. 253). Noi incontreremo sempre di nuovo tali argomenti. Il Calvinista si entusiasma al pensiero che Dio debba volere nella organizzazione del mondo, e quindi anche nell’ordinamento sociale, ciò che oggettivamente è più rispondente allo scopo della sua maggior gloria, non la creatura come fine a se stessa, ma l’ordinamento delle creature subordinato al volere di Lui. L’impeto d’azione dei Santi suscitato dalla dottrina dell’elezione mediante la grazia, si dirige perciò tutto verso un tentativo di razionalizzazione del mondo. Ed in particolare anche il pensiero, che l’utilità pubblica, o anche «thè good of thè many» come lo formula il Baxter (Christian Directory, IV, p. 262, colla citazione un po’ forzata della Epist. ai Romani 9, 3), proprio nello stesso senso del più tardo razionalismo liberale, sia da preporsi al bene personale o privato dei singoli, nel Cristianesimo era conseguenza - per quanto poco, in ciò, ci fosse di nuovo - della ripulsione alla deificazione delle creature. La tradizionale avversione americana contro i servizi personali, dipende, seppure sempre in via indiretta oltreché da altri motivi che derivano da sentimenti democratici, anche da quella tradizione religiosa. E vi derivano del pari l’immunità, relativamente grande, dei popoli che furono puritani, dal cesarismo, e l’atteggiamento degli Inglesi verso i loro uomini di stato interiormente più libero, da una parte più incline a «lasciar fare» i potenti, ma dall’altra ripugnante ad ogni innamoramento isterico verso di essi, ed all’ingenuo pensiero che si possa essere obbligati «per riconoscenza» all’obbedienza politica. Si confronti questa posizione con quello che ci è accaduto di vedere in Germania - in senso positivo e negativo - dal 1878 in poi. Sulla peccaminosità della fede nell’autorità - che è ammissibile solo come impersonale e fondata sul contenuto della Scrittura - e perciò della stima esagerata degli uomini anche più santi e più eminenti, poiché con essa vien posta in pericolo eventualmente l’obbedienza verso Dio, v. BAXTER, Christian Directory (2a ed., 1678), I, p. 56. Non appartiene al nostro oggetto l’indagare l’importanza politica della ripulsione alla deificazione delle creature e del principio che innanzi tutto nella Chiesa, e poi nella vita stessa, deve regnare Dio solo. g1. Dovremo parlare spesso del rapporto tra «conseguenze» dogmatiche e psicologico-pratiche. Non c’è bisogno di osservare che le due cose non sono identiche. h1. La parola «sociale» naturalmente qui non ha alcun riferimento al suo significato moderno, ma vien presa solamente nel senso di un’attività esercitata in mezzo alle organizzazioni politiche, ecclesiastiche, ecc., della comunità. i1. Le opere buone, che vengono compiute per qualsiasi altro scopo, diverso dall’onore di Dio, sono peccaminose. Cfr. la Confessione di Hanserd Knolly, cap. XVI. j1. Ciò che una tale «impersonalità» dell’amore del prossimo, condizionata dal fatto che la vita vien riferita esclusivamente a Dio, importi nello stretto campo della vita religiosa, si può illustrare mercé la condotta della China Inland Mission e della International Missionaries’ Alliance (v. Warneck, Geschichte der protestantischen Mission, 5a ed., pp. 99, 111). Con enorme spesa furono preparate schiere numerosissime di missionari, per es. circa mille per la sola Cina, per offrire, in senso strettamente letterale, il Vangelo a tutti i pagani, perché Cristo ha comandato questo e ne fa dipendere il suo ritorno. Se coloro a cui si predica in siffatto modo vengano conquistati al Cristianesimo e divengano pertanto partecipi della salvezza, perfino se capiscano o no la lingua dei missionari è, secondo le loro dottrine, cosa secondaria e che riguarda solo Iddio, che solo può decidere in proposito. La Cina avrebbe, secondo Hudson Taylor (v. Warneck, op. cit.) circa 50 milioni di famiglie; 100 missionari potrebbero recarsi ogni giorno da 50 famiglie (!) eccosì il Vangelo potrebbe essere offerto a tutti i Cinesi in mille giorni, cioè in meno di tre anni. è lo stesso preciso schema, secondo il quale il Calvinismo esercitava la sua disciplina ecclesiastica; lo scopo era non la salute delle anime invigilate, che riguardava esclusivamente Iddio (e, in pratica, era loro affare privato) e che non poteva essere influenzata in alcun modo con mezzi disciplinari ecclesiastici, ma sibbene la maggior gloria di Dio. Certamente il Calvinismo in quanto tale non porta la responsabilità di quelle moderne opere missionarie, che hanno la loro origine in iniziative di diverse denominazioni religiose. Calvino personalmente rigetta il dovere delle missioni tra i pagani poiché la diffusione della religione è unius Dei opus. Ma tuttavia esse traggono manifestamente la loro origine da quel modo di pensare influenzato dall’etica puritana, secondo il quale si fa abbastanza per l’amore del
prossimo, quando si adempiono i comandamenti di Dio per la sua gloria. Con ciò si dà anche al prossimo ciò che gli appartiene e il di più è cosa che riguarda il Signore. «L’umanità» dei rapporti verso il prossimo è, per così dire, morta. E ciò si manifesta nelle circostanze più diverse. Ecco un esempio - per dare un piccolo saggio di quell’atmosfera - sul terreno della carità dei riformati, che sotto certi aspetti viene a ragione celebrata: gli orfani di Amsterdam portavano, ancora nel secolo xx, le giacche e i pantaloni, dall’alto in basso, per metà rossi e neri, oppure rossi e verdi, quasi un vestito da pazzi, e così erano condotti in parata in chiesa. Per la sensibilità del passato essi erano certamente uno spettacolo altamente edificante, e servivano alla gloria di Dio appunto per ciò che ogni sensibilità «umana» avrebbe dovuto sentirsene offesa. E similmente, come vedremo, perfino in ogni dettaglio dell’attività privata professionale. Naturalmente tutto ciò indica solo una tendenza e noi stessi dovremo fare, più oltre, determinate restrizioni. Ma essa doveva esser messa in chiaro come una tendenza di questa religiosità ascetica. k1. Del tutto diversa è la posizione, in tutti questi problemi, dell’etica di Port Royal determinata dalla predestinazione, ma orientata in senso mistico e ultramondano; cioè, cattolico (v. Honigsheim, op. cit.). l1. Lo Hundeshagen (Beiträge zur Kirchenverfassungsgeschichte und Kirchenpolitik, 1864, I, p. 37) esprime l’opinione - di poi frequentemente ripetuta - che il dogma della predestinazione sia stata dottrina di teologi, e non dottrina popolare. Ciò è vero soltanto se si identifica il concetto di «popolo» colla massa dei ceti inferiori privi di istruzione. Ed anche in tal caso ciò si verifica con molte limitazioni. Il Köhler (op. cit.) trovò in Olanda, verso il 1840, nelle masse appunto (s’intende con ciò la piccola borghesia) una severa coscienza del dogma della predestinazione: chi negava il doppio decreto era per essi un eretico e un reprobo. Egli stesso fu interrogato intorno al momento della sua rinascita (secondo il concetto della predestinazione). Da Costa e la «separazione» del de Cock, ne erano a loro volta condizionati. Non soltanto Cromwell - che già lo Zeller (Das theologische System Zwinglis, p. 17) aveva tolto ad esempio per dimostrare, come con un paradigma, l’efficacia del dogma - ma anche i suoi «Santi» sapevano tutti molto bene di quel che si trattava ed i Canoni delle Sinodi di Dordrecht e di Westminster si presentavano in primo piano come problemi nazionali. I «tryers» e gli «ejectors» di Cromwell ammettevano solo i seguaci della predestinazione e BAXTER (Life, I, p. 72), sebbene avversario della dottrina, ne giudica notevole l’influenza sulla qualità del clero. è assolutamente escluso che i pietisti riformati, che i seguaci delle conventicole inglesi ed olandesi non fossero in una posizione sicura di fronte alla dottrina; fu proprio questa che li spinse a riunirsi per cercare la certitudo salutis. Ciò che importasse ed inversamente ciò che non importasse la dottrina della predestinazione, dove essa era soltanto dottrina di teologi, può mostrarlo il Cattolicesimo ortodosso, al quale essa non è rimasta affatto estranea come dottrina esoterica ed in forma incerta. Il punto decisivo consisteva nel ripudio dell’opinione che l’individuo singolo dovesse considerarsi e conservarsi eletto. Cfr. la dottrina cattolica, per es. presso Ad. Von Wych, Tractatus de Praedestinatione, Colonia, 1708. Non si può indagare in questo luogo fino a qual punto la credenza di Pascal nella predestinazione fosse ortodossa. Lo Hundeshagen, a cui tale dottrina è antipatica, trae manifestamente le sue impressioni in prevalenza da situazioni tedesche. Questa sua antipatia ha la sua ragione nellopinione, cui è giunto per via puramente deduttiva, che essa debba condurre al fatalismo morale ed all’antinomismo. Questa opinione è stata ribattuta dallo Zeller nell’op. cit. Non si può d’altra parte negare che un tal processo fosse possibile; Melantone e Wesley ne parlano; ma è cosa caratteristica che in tutti e due i casi si trattava di una combinazione con una fede religiosa a fondo sentimentale. Tale conseguenza era nell’essenza stessa di questa religiosità cui mancava il concetto razionale della conferma della grazia. Nell’Islam sono apparse queste conseguenze fatalistiche; ma perché? Perché la predestinazione islamica agiva come predeterminazione sui destini della vita terrena, e non come una predestinazione sulla salvezza ultraterrena, e perché, in conseguenza di ciò, l’elemento eticamente decisivo, la Bewährung del predestinato non aveva alcuna azione nell’Islam; e ne poteva perciò scaturire come conseguenza solo l’intrepidezza in guerra come nella moira, ma non metodi di vita, per i quali mancava appunto la
ricompensa religiosa. (V. la dissertazione teologica di F. Ullrich, Die VorherbeStimmung im Islam und Christentum, Heidelberg, 1912). Le attenuazioni della dottrina apportate dalla pratica - per es. in Baxter non intaccarono la sua essenza fino a tanto che non fu toccato il concetto del decreto divino di elezione che riguardava l’individuo concreto, e della sua prova. Soprattutto infine tutte le grandi figure del Puritanesimo (nel più largo senso della parola) sono uscite da questa dottrina, la cui cupa severità influenzò il loro sviluppo giovanile: Milton come - sia pure con una attenuazione sempre maggiore Baxter, e perfino il più tardo Franklin, che pur pensava assai liberamente. La loro emancipazione negli anni più maturi corrisponde, in particolare, allo sviluppo che ebbe il movimento religioso nel suo insieme. Ma tutti i grandi revivals ecclesiastici per lo meno in Olanda e nelle maggior parti dei casi anche in Inghilterra si ricollegarono sempre nuovamente a questa dottrina. m1. è lo stato d’animo imperiosamente dominante che forma la nota fondamentale del ‘Pilgrim s progress di Bunyan. n1. Questo problema per il Luterano dell’epoca degli epigoni - anche astrazion fatta dal dogma della predestinazione - era più estraneo che per il Calvinista, non perché il primo avesse minor interesse per la salute della sua anima, ma perché nello sviluppo della Chiesa Luterana emerse sempre più in questa il carattere di istituto salutifero, così che il singolo si sentiva oggetto della sua attività, e come da essa protetto. Solo il Pietismo risvegliò - in maniera caratteristica - il problema anche nel Luteranesimo. Ma la questione della certitudo salutis fu di per se stessa addirittura centrale per ogni religione di redenzione non sacramentale; fosse essa Buddismo, Giainismo o qualsivoglia altra; e questo non va dimenticato. Da essa avevano origine tutti gli impulsi psicologici di carattere religioso. o1. Così, espressamente, nella lettera al Bucer, Corpus Reformatorum, 29, p. 883 e segg. Cfr. tuttavia su ciò SCHEIBE, op. cit., p. 30. p1. La Confessione di Westminster promette pure agli eletti (XVIII, 2) la certezza infallibile della grazia, sebbene noi, con tutto il nostro agire, rimaniamo «inutili schiavi» (XVI, 2) e la lotta contro il Maligno duri quanto la vita (XVIII, 3). Ma anche l’eletto deve lottare a lungo per raggiungere la certitudo, che gli viene dalla coscienza dell’adempimento del proprio dovere e di cui il credente non sarà mai completamente privato. q1. V. per es. Olevian, De substantia foederis gratuiti inter Deum et electos (1585), p. 257; Heidegger, Corpus Theologiae, XXIV, p. 87 e segg. ed altri passi in Heppe, Dogmatik der evangelischen reformierten Kirche (1861), p. 425. r1. La genuina dottrina calvinistica rinviava alla fede ed alla coscienza della comunione con Dio nei Sacramenti ed accennava solo subordinatamente agli «altri frutti dello spirito». V. i passi in Heppe, Dogmatik der evang. rejormierten Kirche, p. 425. Con grande insistenza Calvino ha rifiutato le opere, quali segni del proprio valore dinanzi a Dio, sebbene esse fossero per lui, come per i Luterani, frutti della fede (Insti tIli, 2, 37, 38). L’indirizzo pratico della riprova della grazia attraverso le opere, che è caratteristica dell’ascesi, procede parallelamente alla trasformazione subita dalla dottrina di Calvino, per la quale, come per quella luterana, la purezza della dottrina ed i sacramenti distinguono, innanzitutto, la vera Chiesa; ma poi, si giunge alla parificazione della «disciplina» agli altri due segni distintivi. Questa evoluzione si può seguire nei passi dell’opera cit. dello Heppe, pp. 194–195, e anche attraverso il modo con cui, già alla fine del secolo xvi, nei Paesi Bassi si veniva ammessi nella comunità: sommissione espressa e quasi contrattuale alla disciplina come condizione principale. s1. Su ciò vedi fra gli altri le osservazioni di Schneckenburger, op. cit., p. 48. t1. Così in Baxter riappare la differenza tra mortai e venial sin proprio come nella dottrina cattolica. Il primo è segno di stato di grazia mancante, cioè non attuale, e solo una conversion di tutto l’uomo può dare la garanzia del suo possesso. Il secondo non è inconciliabile collo stato di grazia. u1. Così, con sfumature diverse, Baxter, Bayley, Sedgwick, Hoornbeek. V. inoltre gli esempi ntìVop. cit. di Schneckenburger, p. 262.
v1. La concezione dello «stato di grazia» come della qualità di un determinato ceto sociale (come quello degli asceti nella Chiesa antica) si ritrova spesso, fra gli altri ancora in Schortinghuis (Het innige Chris tendoni, 1740, opera proibita dagli Stati Generali). w1. Così è, come vedremo più oltre, in infiniti passi del Christian Directory di Baxter e nella sua chiusa. Questa raccomandazione del lavoro professionale per scacciare la paura della propria miseria morale ricorda l’interpretazione psicologica di Pascal della bramosia di denaro e dell’ascesi professionale come di un mezzo ritrovato per nascondersi con disinvoltura la propria nullità morale. In lui appunto la credenza nella predestinazione, insieme colla convinzione della originaria miseria di ogni creatura, è posta interamente a servizio della rinuncia al mondo e della contemplazione, che vien raccomandata come l’unico mezzo per liberarsi dal peso del peccato e per raggiungere la certezza della salute. Il dott. Paul Honigsheim nella già citata Dissertazione (parte di un lavoro più ampio, che spero sarà continuato), ha fatto acute osservazioni sulFenunciazione cattolica ortodossa del concetto di professione e su quella giansenistica. Nei Giansenisti manca ogni accenno alla certezza della salute con un’attività profana. La loro concezione della «vocazione» ha molto più fortemente di quella luterana ed anche di quella cattolica ortodossa, il senso di un adattamento alla posizione che ci è data nella vita, adattamento che vien imposto non solo dalPordine sociale, come nel Cattolicesimo, ma anche dalla voce della propria coscienza (HONIGSHEIM, op. cit., p. 139 e segg.). x1. Ai suoi punti di vista si connette anche lo schizzo, molto acuto, del Lobstein nella Festgabe in onore di H. Holtzmann, che va del pari confrontato per quanto diremo. Gli si è rimproverata la accentuazione troppo forte del Leitmotiv della certitudo salutis. Ma proprio qui vanno distinti la teologia di Calvino dal Calvinismo e il sistema teologico dai bisogni della cura delle anime. Dal problema «come posso io esser sicuro della mia salvezza?» uscirono tutti i movimenti religiosi, che abbracciarono strati più larghi. Quel problema - già lo abbiamo detto - ha una parte centrale non soltanto in questo caso, ma in tutta la storia delle religioni, in generale, fra le altre, per es. in quella indiana. E come potrebbe essere altrimenti? y1. Non si può d’altra parte negare che il pieno sviluppo di questo concetto ha avuto luogo solo nel tardo Luteranesimo (Praetorius, Nicolai, Meisner). Ma lo si può trovare anche in Johannes Gerhard e precisamente nel senso qui accennato. Il RITSCHL nel quarto libro della sua Geschichte des Pietismus (vol. II, p. 3 e segg.) considera l’introduzione di questo concetto nella religiosità luterana come la rinascita o l’accettazione di una forma di religiosità cattolica. Egli non contesta (p. 10) che il problema della certezza individuale della salute sia stato lo stesso in Lutero e nei mistici cattolici, ma crede che la soluzione, nei due campi, fosse precisamente opposta. Io non mi posso certamente permettere un giudizio in questo argomento. Naturalmente ciascuno si accorge che l’aria che si respira nella Freiheit eines Christenmenschen è diversa tanto dallo zuccheroso gingillarsi col «caro piccolo Gesù» della tarda letteratura da una parte quanto, dall’altra, dal sentimento religioso di Tauler. E parimenti la conservazione dell’elemento mistico-magico nella dottrina luterana dell’Eucaristia ha certamente motivi religiosi diversi da quella religiosità «bernardina» - sentita col sentimento del Cantico dei Cantici - alla quale sempre di nuovo si appiglia il Ritschl come a fonte, a cui si nutrì il sentimento eucaristico di un rapporto «coniugale» con Cristo. Ma quella dottrina dell’Eucaristia non potrebbe tuttavia aver contribuito al risveglio di una religiosità mistica? Inoltre non è per nulla esatto - per far da ora questa osservazione - che la libertà del mistico consistesse solo nel ritirarsi dal mondo (RITSCHL, op. cit., p. n). Specialmente il Tauler in trattazioni molto interessanti per la psicologia religiosa ha presentato come effetto pratico di quelle contemplazioni notturne, che raccomanda nell’insonnia, l’ordine che mediante esse si porta anche fra i pensieri rivolti al lavoro professionale mondano: «Solo con questo mezzo (cioè col mistico congiungimento con Dio nella notte prima del sonno) viene rischiarata la ragione e vien rafforzato il cervello e l’uomo durante tutto il giorno viene preso tanto più facilmente e divinamente dall’interna convinzione, che si è veramente unito con Dio; allora tutte le sue opere sono ordinate. E però, se l’uomo a questo modo si è preparato, alle sue opere, se a questo modo ha messo il suo
fondamento sulla virtù, le sue opere - quando egli passi alle cose reali - saranno virtuose e divine» (Predi’ che, f. 318). In ogni caso si vede che la contemplazione mistica e la concezione razionale della professione di per se stesse non si escludono. Il contrario avviene là dove la religiosità prende un carattere addirittura isterico, caso che non si verifica né presso tutti i mistici né presso tutti i Pietisti. z1. Su ciò v. i Saggi sulla Wirtschaftsethik der Weltreligionen, Introduzione. a2. In questo presupposto il Calvinismo è vicino al Cattolicesimo ufficiale. Ma per i Cattolici ne veniva come conseguenza la necessità del sacramento della confessione; per i Riformati la necessità della riprova attraverso l’azione pratica nel mondo. b2. Così per es. in Charnock, Self-Examination, p. 183, per ribattere la dottrina cattolica della dubitano. c2. Questa argomentazione ritorna sempre per es. nella Theologia practica di Joh. Hoornbeck, per es., II, pp. 70, 72, 182; I, p. 160. d2. Per es. dice la Conj. Helvet., 16: et improprie his (alle opere) salus ad tribui tur. e2. V., per tutto quel che precede, Schneckenburger, p. 80 e segg. f2. Si non es praedestinatus jac ut praedestineris, sembra che dicesse già S. Agostino. g2. Si ricorderà il detto del Goethe, che nella sostanza esprime la stessa cosa: «Come ci si può conoscere? Non osservandosi, ma agendo. Cerca di fare il tuo dovere e saprai ciò che è in te. Ma quale è il tuo dovere? L’esigenza del giorno». h2. Poiché anche per Calvino riman fermo che la santità deve mostrarsi anche nell’apparenza (InstitIV, 1, §§ 2, 7, 9) ma il limite tra i santi e non santi rimane irriconoscibile per la sapienza umana. Noi dobbiamo credere che là dove la parola di Dio viene annunciata pura in una Chiesa organizzata ed amministrata secondo la sua legge, debbano trovarsi anche degli Eletti, anche se irriconoscibili per noi. i2. La religiosità calvinista è uno dei molti esempi che si trovano nella storia delle religioni, del rapporto tra conseguenze (per la condotta pratica religiosa) derivanti logicamente e psicologicamente da determinati pensieri religiosi. Logicamente si dovrebbe dedurre il fatalismo come conseguenza della predestinazione. Ma l’effetto psicologico, in seguito all’inserimento del concetto di riprova della grazia, fu precisamente l’opposto. (Per un motivo che in principio è simile, i seguaci di Nietzsche rivendicano un significato etico positivo per il pensiero dell’eterno ritorno. Ma qui si tratta di una vita futura, verso la quale chi agisce non è affatto tenuto responsabile da continuità di coscienza, mentre presso i Puritani il motto era: tua res agitur). Lo Hoornbeck (Tteologia practica, vol. I, p. 159) discute già in modo elegante, nella lingua del tempo, il rapporto tra elezione mediante la grazia e l’azione: gli eletti sono, appunto mercé la loro elezione, inaccessibili al fatalismo, e precisamente nel respingere le conseguenze fatalistiche si esperimentano coloro quos ipsa electio sollicitos reddit et diligentes officiorum. L’interferenza di interessi pratici rompe le conseguenze fatalistiche che logicamente si potrebbero dedurre (e che nonostante tutto sono talora apparse anche di fatto). Ma d’altra parte il contenuto concettuale di una religione - come mostra appunto il Calvinismo - ha un’importanza di gran lunga maggiore di quel che, per es., non sia disposto ad ammettere William James (The varieties of religious experience, 1902, p. 444 e segg.). Per l’appunto l’importanza dell’elemento razionale nella metafisica religiosa si manifesta in modo classico nei grandiosi effetti, che specialmente la struttura del concetto calvinistico di Dio ha esercitato sulla vita. Se il Dio dei Puritani ha operato nella storia come nessun altro prima o dopo di lui, lo hanno reso di ciò capace soprattutto quegli attributi, dei quali la forza del pensiero lo ha rivestito. (La valutazione «pragmatica» che il James fa dell’importanza delle idee religiose secondo la misura del loro affermarsi e convalidarsi nella vita, è del resto di per se stessa un genuino prodotto del mondo concettuale della patria puritana di questo eminente pensatore). L’esperienza religiosa in se stessa è naturalmente irrazionale, come ogni esperienza vissuta. Nella sua forma più alta, quella mistica, essa è addirittura l’esperienza xai* èoxv e come il James ha descritto molto bene, si distingue per la sua assoluta incomunicabilità; essa ha un carattere specifico, ed appare come «conoscenza», ma non si può riprodurre adeguatamente col mezzo dei nostri strumenti linguistici e
concettuali. Ed è anche esatto che ogni esperienza religiosa nel tentativo di una formulazione razionale perde tanto più in contenuto quanto più procede la formulazione concettuale stessa. Qui è riposto il motivo dei tragici conflitti di ogni teologia razionale, come seppero appunto nel secolo xvn le sette battiste. Ma quella irrazionalità - che del resto non è esclusivamente particolare dell’esperienza religiosa, ma in senso e in misura diversa, di ogni esperienza, non impedisce che sia appunto della più alta importanza pratica, sapere di qual natura sia il sistema concettuale che, per così dire, confisca a suo vantaggio l’immediata esperienza religiosa e la dirige nelle sue vie; poiché in tempi di forte influenza della Chiesa sulla vita e di intenso sviluppo di interessi dogmatici, da ciò si sviluppa la maggior parte di quelle differenze, praticamente così importanti nelle loro conseguenze etiche, che esistono fra le varie religioni del mondo. Tutti coloro che conoscono le fonti storiche sanno quanto forte, misurato con metro odierno, fosse l’interesse per i dogmi anche da parte dei laici al tempo delle lotte di religione. Si può fare un parallelo solo colla idea, in fondo anch’essa superstiziosa, che il moderno proletariato si fa di quel che la scienza possa fare e dimostrare. j2. Il BAXTER, The Saìnts’ everlasting rest, I, 6, risponde alla domanda Whether to make salvation our end be not mercenary or legai? - It is properly mercenary when we expect it as wages for work done… Otherwise it is only such a mercenarism as Christ commandeth… and if seeking Chris t be mercenary, I de sire to be so mercenary… Del resto anche qualche Calvinista che passa per ortodosso scivola qualche volta in una grossolana santificazione delle opere. Secondo il BAYLEY, Praxis pietatis, p. 262, le elemosine sono un mezzo per evitare punizioni temporali. Altri teologi raccomandavano ai reprobi le buone opere colla motivazione, che la dannazione sarebbe diventata forse più sopportabile: ed agli Eletti, con quella che Dio non li avrebbe amati più senza ragione, ma ob causam, cosa che avrebbe in una maniera o nell’altra portato il suo vantaggio. Alcune leggere concessioni all’influenza delle buone opere per il grado di beatitudine le aveva fatte pur anche l’apologià (SCHNECKENBURGER, Op. dt., p. IOl). k2. Anche qui, per rilevare le differenze caratteristiche, necessariamente si deve parlare di tipi ideali con un linguaggio concettuale, che in un certo senso fa violenza alla realtà storica; ma senza di ciò, a furia di restrizioni, sarebbe esclusa addirittura una chiara formulazione. Bisognerebbe discutere a parte fino a qual punto siano soltanto relativi i contrasti che qui sono resi più acuti che sia possibile. Va da sé che la dottrina ufficiale cattolica già nel Medioevo proponeva anche da parte sua l’idea della santificazione di tutta la vita quotidiana. Ma è del pari indubitabile: i) che la prassi quotidiana della Chiesa proprio col suo mezzo di educazione più efficace: la confessione, facilitava la condotta «asistematica» della vita che esemplifichiamo nel testo; 2) che dovettero sempre mancare al cattolicesimo medioevale dei laici lo stato d’animo fondamentale freddamente rigoristico ed il completo isolamento in se stessi dei Calvinisti. l2. L’importanza, assolutamente capitale di questo momento, apparirà soltanto, come già si è detto, nei saggi sulla Wirtschaftsethik der Weltreligìonen. m2. E, in un certo senso, anche per il Luterano. Lutero non volle estirpare quest’ultimo resto di magia sacramentale. n2. Cfr. per es. Sedgwick, BUSSund Gnadenlehre (trad. di Ròscher, 1869). Il penitente ha «una regola fissa», a cui si attiene strettamente e secondo la quale organizza ed indirizza tutta la sua vita (p. 591). Egli vive, accorto, vigile e prudente secondo la legge (p. 516). Solo un mutamento duraturo di tutto l’uomo può effettuare ciò come conseguenza dell’elezione mediante la grazia (p. 852). La vera penitenza trova la sua espressione nella condotta (p. 361). La differenza tra le opere buone soltanto «moralmente» e le opera spiritualia consiste, come per es. spiega lo HOORNBECK, op. cit., 1. IX, c. 2, appunto in ciò che queste sono la conseguenza di una nuova vita (op. cit., vol. I, p. 160) e che vi si può riscontrare un progresso costante, quale può essere raggiunto soltanto per l’efficacia soprannaturale della grazia di Dio (op. cit., p. 150). La santità è trasformazione di tutto l’uomo mercé la grazia di Dio (ibid., p. 190 e segg.). Pensieri che sono comuni a tutto il Protestantesimo, e che naturalmente si trovano anche fra i più elevati ideali del Cattolicesimo; ma che appunto negli indirizzi puritani tracciati dall’ascesi intramondana
poterono mostrare per la prima volta le loro conseguenze pratiche, e, soprattutto, solo in essi ebbero sufficienti ricompense psicologiche. o2. L’ultimo nome è derivato soprattutto in Olanda dalla vita dei «Feinen» condotta secondo le precise prescrizioni della Bibbia (così per Voet). Del resto anche per i Puritani, nel xvii secolo, compare, di tanto in tanto, il nome di «Metodisti». p2. Poiché - come mettono in rilievo i predicatori puritani (v. per es. in Bunyan, The Pharisee and thè Publican, nei W. of. Pur. Div., p. 126) - ogni singola colpa distrugge tutto «il merito» che in un’intera vita si possa aver accumulato mediante le «opere buone», se, per assurdo, l’uomo fosse di per sé capace di fare qualche cosa che Dio dovrebbe computargli a merito, o se potesse vivere a lungo nella perfezione. Non ha luogo, come nel Cattolicesimo, una specie di conto corrente con saldo finale - un quadro che già era comune nell’antichità - ma per tutta la vita vale la rigida alternativa: o stato di grazia o perdizione. q2. In questo sta la differenza rispetto alla pura Legality e Civility, che, secondo il Bunyan, vivono compagne di Mr. Wordly-Wiseman, nella City detta Morality. r2. Charnock, Self-examination (Works of thè Puritan Div., p. 172): Reflection and knowledge of self is a prerogative of a rational nature. Ed a questo punto, in nota a pié di pagina: Cogito ergo sum is thè first princìple of thè new philosophy. s2. Non è qui il luogo di discutere l’affinità della teologia di Duns Scoto - che non giunse mai a prevalere e che di solito fu soltanto tollerata, e talvolta tacciata d’eresia - con certi processi di idee del Prote stantesimo ascetico. Anche Calvino, in cosciente contrasto col Cattolicesimo, come, in senso alquanto diverso, Lutero, aveva contro la filosofia di Aristotele la stessa particolare avversione che ebbe più tardi il Pietismo (cfr. Inst. Christ., II, c. 2, p. 4, IV, c. 17, p. 24). Il «primato della volontà» come lo ha chiamato il Kahl - è comune a tutti questi indirizzi. t2. Proprio così, nell’articolo Ascesi del «Katholisches Kirchenlexikon» vien definito il senso di questa, in complesso accordo con le sue più alte manifestazioni storiche. Parimenti il SEEBERG nella «Realenc. f. Prot. Theol. u. Kirche». Deve essere ammesso, per lo scopo di questa trattazione, di adoprare il concetto in tal senso. Mi è ben noto che lo si può prendere - e per lo più si usa prenderlo - con un significato diverso, sia più esteso che più stretto. u2. Nel Hudibras di Samuel Butler (canto i, 18, 19) i Puritani vengono paragonati agli «Scalzi». Un rapporto dell’inviato genovese Fieschi chiama l’esercito di Cromwell un’adunata di «frati». v2. Data questa mia espressa affermazione della intima continuità fra l’ascesi monacale ultramondana e l’ascesi professionale intramondana, sono sorpreso di vedere che il Brentano (op. cit., p. 134 e altrove) impugna come argomento contro di me il lavoro ascetico dei monaci. E in questo punto, culmina tutto il suo Excursus contro di me. Ma quella continuità appunto è, come ognuno può vedere, un presupposto fondamentale di tutta la mia esposizione; la Riforma portò la ascesi cristiana razionale e la vita metodica fuori dai chiostri nella vita professionale laica. Cfr. le considerazioni seguenti, che sono rimaste inalterate. w2. Così nelle molte relazioni, sugli interrogatori degli eretici puritani riprodotte nella History of thè Puritans del Neal e negli English Baptists del Crosby. x2. Già il Sanford nell ’op. cit., e prima e dopo di lui molti altri, hanno dedotto dal Puritanesimo l’origine dell’ideale della «reserve». Cfr. su quest’ideale le osservazioni di James Bryce sul College americano nel secondo vol. del suo American Commonwealth. Il principio ascetico del «dominio di se stesso» contribuì a fare del Puritanesimo uno dei creatori della moderna disciplina militare. (Su Maurizio d’Orange come creatore di moderne istituzioni militari, v. Roloff nei «Preussische Jahrbücher», 1903, vol. III, p. 255). Gli Ironsides condotti contro il nemico a passo di trotto colla pistola spianata in mano, ma senza uno sparo, non per una passione degna di dervisci, ma per il loro superiore dominio di se stessi, che li faceva restare nella mano del loro condottiero, erano superiori ai «Cavalieri» le cui ondate d’assalto alla maniera cavalleresca disperdevano ogni volta in atomi le loro proprie truppe. Notizie su ciò
in Firth, Cromwells Army. y2. Su ciò vedi in special modo il Windelband, Ueber Willensfreiheit, p. 77 e segg. z2. Ma non così puri di altri elementi. Contemplazioni, talvolta collegate con tendenze sentimentali, si incrociano più volte con questi elementi razionali. Ma la contemplazione è a sua volta metodicamente regolata. a3. Secondo Richard Baxter è colpevole tutto ciò che è contro la recisoti che Dio ci dette come norma; non soltanto passioni colpevoli per il loro oggetto, ma anche qualsivoglia affetto insensato o esagerato in quanto tale, perché distruggono la countenance e come cosa puramente di creatura ci distraggono dalla razionale relazione con Dio di ogni azione e di ogni sentimento e lo offendono. Cfr. per es. quel che vien detto sulla peccaminosità dell’ira (Christian Directory, 2a ed., 1678, p. 285. Inoltre a p. 287 vien citato Tauler). Sulla peccaminosità della paura vedi ibid., p. 287, col. 2. Che il nostro appetito sia atto di idolatria quando diventa thè rule or measure of eating viene spiegato con insistenza ivi stesso, I, pp. 310, 316, col. I ed altrove. Nell’occasione di tali trattazioni vengono spesso citati, insieme coi proverbi di Salomone che stanno sempre in prima linea, il De tranqmilitate animi di Plutarco, e non di rado anche gli scritti ascetici del Medioevo, S. Bernardo, S. Bonaventura ed altri. Il contrasto col Chi non ama vino, donna e canto... non potrebbe essere espresso più fortemente che coll’estensione del concetto di idolatry a tutte le gioie dei sensi, in quanto che non siano giustificate da motivi igienici, nel qual caso sono ammissibili come, entro questi limiti, lo sport ed altre recreations. (A questo proposito v. oltre). Si osservi che le fonti citate non sono opere dogmatiche né di edificazione, ma sviluppate nella prassi della cura d’anime e costituiscono pertanto un buon quadro del senso in cui questa agiva. b3. Mi rincrescerebbe - sia detto fra parentesi -, se nella mia esposizione si leggesse una qualsivoglia valutazione, sia dell’una che dell’altra forma di religiosità. Essa ne è ben lontana. Si tratta solo dell’efficacia di determinati caratteri, che forse sono relativamente secondari per la valutazione puramente religiosa, ma certo importanti per la condotta pratica. c3. V. su ciò in particolar modo l’articolo Moralisten (englische) di TROELTSCH nella «Realenc. f. Prot. Theol. und Kirche», 3a ed. d3. Quanta influenza abbiano avuto taluni stati religiosi della coscien-za ben concretizzati, che appaiono come «casualità storica» fortuita, si mostra in particolar modo chiaro nel fatto che nei circoli del Pietismo, sorto sulla base della Chiesa Riformata, talvolta si rimpianse addirittura la mancanza dei chiostri e che fra l’altro gli esperimenti comunisti di Labadie e di altri furono esclusivamente un surrogato della vita di chiostro. e3. Già in alcune confessioni dell’epoca stessa della Riforma. Anche il Ritschl (Pietismus, I, p. 258 e segg.), benché consideri il più tardo sviluppo come una degenerazione del pensiero della Riforma, tuttavia non contesta per es. nella Confess. Gali., 25, 26, nella Conf. Belg., 20, nella Conj. Helv. post., 17, che «la particolare chiesa riformata era limitata con segni del tutto empirici e che i credenti non potevano essere ammessi a questa vera Chiesa senza il segno distintivo di un’attività morale». f3. Bless God that we are not of thè many (Th. Adams, W. of thè Purit. Div., p. 138). g3. Il concetto, storicamente così importante del birthrìght ricevette da tutto ciò in Inghilterra un notevole rinforzo: The first born whieh are written in heaven… As thè first born is not to be defeated in his inheri-tance and the enrolled names are never to be oblitterated, so certainly shall they inherit eternal life. Th. Adams, W. of the Pur. Div., p. XIV. h3. Il sentimento luterano del rimorso, pronto all’espiazione, è estraneo, nella sua sostanza, non alla teoria, ma alla pratica del Calvinismo sviluppatosi asceticamente. è per esso senza valore etico, e non giova al dannato; mentre per colui che è sicuro della propria elezione, la colpa, che egli eventualmente debba confessare a se stesso, è un sintomo di attardato sviluppo e di imperfetta santità, che, invece di pentirsene, egli odia e cerca di superare coll’azione a maggior gloria di Dio. Cfr. le considerazioni di Howe (che fu cappellano di Cromwell 1656–58) in Of mens s enemity against God and of reconciliation
between God and Man, nei Worlds of the English Puritan Divines, p. 237: The carnal mind is enemity against God. It is the mind, therefore, not as speculative merely, but as praticai and active, that must be renewed. Ibid., p. 246. Reconciliation… must begin in: 1) a deep convinction… of your former enemity… I have been alienated from God... 2) (p. 251) a clear and lively apprehension… of the monstrous inquity and wickedness thereof. Qui si parla soltanto di odio contro il peccato, non contro il peccatore. Ma già la famosa lettera della Duchessa Renata d’Este (la madre di «Eleonora»)1 a Calvino, in cui essa, fra l’altro, parla dell’odio che essa proverebbe contro il padre e lo sposo, nel caso che dovesse persuadersi che essi fossero tra i dannati, mostra lo spostamento di questo sentimento dal peccato alla persona del peccatore, ed è al tempo stesso un esempio di quel che dicemmo più sopra deirinterno dissolvimento operato nell’individuo dalla dottrina dell’elezione mediante la grazia, dai vincoli delle società formate dal sentimento «naturale». i3. None but those who give evidence of beìng regenerated or holy persons, ought to be received or counted fit members of visible churches. Where this is wanting, thè very esserne of a church is lost. Così formula il principio fondamentale Owen, il vice-cancelliere indipendente-calvinista di Oxford sotto Cromwell (Inv. into thè origin of Ev. Ch.). V., inoltre, l’articolo seguente21. j3. V. l’articolo seguente22. k3. Cat. Genev., 149. Bayley, Praxis pietatis, p. 125: «Nella vita noi dobbiamo agire come se nessun altro all’infuori di Mosè avesse da comandare sopra di noi». l3. «La Legge sta dinanzi agli occhi dei Riformati come una norma ideale; mentre abbatte i Luterani come una norma irraggiungibile». Nel catechismo luterano essa sta generalmente prima deH’Evangelo per suscitare l’umiltà necessaria; in quelli Riformati sta dopo l’Evangelo. I Riformati rimproverano ai Luterani di avere un vero terrore dì diventar santi (Möhler), e i Luterani ai Riformati schiavitù della Legge non degna di liberi ed orgoglio. m3. Studies and reflections of thè Great Rebellion, p. 79 e segg. n3. Fra questi va ricordato in particolar modo il Cantico dei Cantici, per lo più semplicemente ignorato dai Puritani, e la cui erotica orientale ha contribuito a determinare la speciale religiosità di S. Bernardo. o3. Sulla necessità di questi auto-controlli vedi per es. la già citata predica di Charnock sulla 2 Ep. Cor., 13, 5, nei Works of thè Pur. Div.) p. 161 e segg. p3. Lo consigliano la maggior parte dei teologi moralisti. Anche BAXTER, Christian Directory, II, p. 77 e segg., il quale tuttavia non ne dissimula i pericoli. q3. La contabilità, «tenuta di libri» morale, naturalmente fu largamente diffusa anche altrove; ma vi mancava l’intenzione di farne un mezzo per riconoscere l’elezione o la dannazione fin dall’eternità, e con ciò mancava la decisiva ricompensa psicologica per la cura riposta nell’osservanza di questo «calcolo». r3. Questa era la differenza decisiva rispetto ad altri modi di condotta esteriormente simili. s3. Anche il BAXTER (Saints everlasting rest, c. XII) spiega Pinvisibilità di Dio con l’osservazione che, come a mezzo della corrispondenza si può avere commercio vantaggioso con un estraneo non mai veduto, così con un santo commercio coll’invisibile Dio si può acquistare «la perla che sola è preziosa». Queste immagini commerciali, al posto di quelle forensi in uso presso i moralisti più antichi e nel Luteranesimo, sono caratteristiche del Puritanesimo, che in realtà lascia che Puomo acquisti da sé la sua salvezza. Cfr. inoltre il seguente passo di una predica: We reckon the value of a thing by that which a wise man will give for it, who is not ignorant of it or under necessity. Christ, the Wisdom of God. gave himself, his own precious blood, to redeem souls and he knew what they were and had no need of them (MATTHEW HENRY, The worth of the soul, nei Works of the Pur. Div., p. 313). t3. Lutero al contrario diceva: «Il pianto vai più delPagire e la sofferenza supera ogni opera».
u3. Ciò si manifesta nella maniera più evidente anche nello svolgimento della teoria etica del Luteranesimo. Su ciò v. HOENNICKE, Studien zur altprotestantischen Ethik, Berlin, 1902, ed inoltre la dotta recensione di TROELTSCH in «Göttinger Gel. Anz.», 1902, n. 8. Tuttavia nella forma la dottrina luterana e la più antica calvinista ortodossa erano molto vicine; ma un diverso orientamento religioso si fece sempre più strada. Attraverso Melantone, allo scopo di avere un appiglio per congiungere la moralità alla fede, fu posto sul primo piano il concetto di penitenza. La penitenza deve precedere la fede, ma le buone opere devono seguirla, altrimenti essa può essere - secondo una formula che par quasi puritana - non la vera fede che giustifica. Una certa misura di relativa perfezione era per lui raggiungibile anche sulla terra; anzi Melantone ha originariamente insegnato addirittura che la giustificazione ha luogo per render l’uomo capace di buone opere, e che nel crescente perfezionamento si trova per lo meno quel tanto di beatitudine terrena, che la fede può assicurare. Ed anche nei dogmatici luterani posteriori si trovò un’elaborazione esteriormente analoga a quella dei Puritani, il concetto che le opere buone sono frutti necessari della fede, e che questa dà origine ad una nuova vita. Già Melantone rispondeva alla domanda «che cosa fossero le opere buone», ed ancor più i tardi Luterani, rinviando sempre maggiormente ai comandamenti. Come reminiscenza delle prime idee di Lutero rimase solo la minore serietà nel trattare dell’impero dell’antica Legge, specialmente riguardo alle singole norme dell’Antico Testamento. Nella sua essenza il Decalogo rimase norma dell’agire umano come codificazione dei più importanti principi della legge morale naturale. Ma non c’era nessuna concatenazione logica sicura tra il valore statutario che gli era attribuito e l’importanza sempre più forte ed esclusiva della fede per la giustificazione, anche perché questa fede aveva appunto un carattere psicologico del tutto diverso da quella calvinista. Il genuino punto di vista luterano dei primi tempi era stato abbandonato, e dovette esserlo, da una Chiesa che si considerava un istituto dispensatore di salvezza; ma non fu sostituito da un altro. Ed in particolare anche il timore di perdere il fondamento dogmatico (sola fide) poteva impedire di giungere alla razionalizzazione sistematica della vita, considerata come dovere morale. Poiché mancava la spinta a far salire il pensiero della conferma della propria salvezza ad una tale importanza, quale ebbe nel Calvinismo dalla dottrina dell’elezione mediante la grazia. Anche il significato magico dei sacramenti, che si accordava colla mancanza di quella dottrina, ed in particolar modo l’aver fatto coincidere la rigenerazione, o per lo meno il suo inizio, col Battesimo, accentuandosi al tempo stesso la universalità della grazia, doveva opporsi allo sviluppo di una moralità metodica, poiché rendeva meno sensibile, aiutata dalla forte accentuazione luterana del peccato originale, la distanza tra lo status naturalis e lo stato di grazia. E non meno doveva opporvisi il significato puramente forense dell’atto di giustificazione, perché presupponeva la mutabilità dei decreti divini mediante l’atto concreto di penitenza del peccatore convertito. Ma esso appunto venne sempre più accentuato da Melantone. Tutta quell’evoluzione della sua dottrina, che si manifesta nell’importanza sempre maggiore della penitenza, era intimamente connessa colla sua fede nella libertà del volere. Tutte queste circostanze determinarono la mancanza di un metodo nella condotta dei Luterani. Atti concreti apportatori di grazia, a riparazione di peccati concreti, nel concetto del Luterano medio dovevano — già per il fatto di aver conservata la confessione — costituire l’equivalente al contenuto della salvezza, non lo sviluppo di un’aristocrazia di santi che si creasse da se stessa la certezza della propria salute. Così non si poté giungere né ad una moralità libera dai comandamenti, né ad una ascesi razionale orientata secondo i comandamenti, ma questi rimasero in maniera inorganica, come statuto ed esigenza ideale accanto alla fede, ed oltre a ciò, in maniera malsicura ed imprecisa, e soprattutto non sistematica nel suo contenuto più preciso, dal momento che si aveva orrore della «bibliocrazia» come di santificazione delle opere. E la vita rimase, come ha detto il Troeltsch della teoria etica (op. cit.), una somma di slanci che non arrivavano mai completamente alla mèta, e che si ostinavano nello sminuzzamento di incerti precetti, anziché esser rivolti ad operare in coerente unità di vita. Così che nella sostanza, conformemente alla evoluzione che già Lutero stesso aveva iniziato, rappresentarono nelle cose grandi e nelle piccole un adattamento alla situazione data. Il tanto lamentato «adattarsi» dei
Tedeschi a civiltà straniere, il loro rapido cambiare di nazionalità, è da mettersi in conto — oltre che a determinate sorti politiche della nazione — anche, e per gran parte, a questa evoluzione che ancor oggi pesa in tutti i rapporti della nostra vita. Debole fu l’assimilazione della cultura da parte dell’individuo, perché avvenne mediante l’accettazione passiva di ciò che veniva imposto dall’autorità. v3. V. su questi argomenti il libro piuttosto frivolo e leggero del THOLUCK, Vorgeschichte des Rationalismus. w3. Sull’influenza del tutto diversa della dottrina islamica della predestinazione, per dire più esattamente della predeterminazione, e sulle sue basi v. la tesi di laurea teologica, già citata, di ULLRICH, Die V orherbestimmungslehre im Islam und Christentum, Heidelberg 1912. Sulla dottrina della predestinazione nei Giansenisti v. P. HONIGSHEIM, op. cit. x3. V. su questo argomento lo studio compreso nello stesso volume delle Gesammelte Aufsätze zur ReligionsSoziologie, Il. y3. Il RITSCHL, Geschichte des Pietismus, I, p. 152, cerca questo confine, per il tempo prima di Labadie (e d’altra parte solo su esempi olandesi), nei seguenti fatti: 1) che tra i Pietisti venivano formate conventicole; 2) che il concetto della nullità della creatura vi veniva coltivato in modo contraddicente all’interesse evangelico per la salvezza; 3) che la certezza della grazia vi veniva cercata nell’affettuosa dimestichezza con N. S. Gesù Cristo, in uno spirito tutt’altro che da cc Riformati». L’ultimo segno distintivo è valido in questa prima epoca, solo per uno dei rappresentanti da lui studiati del Pietismo, il concetto della «nullità della creatura» era in se stesso un vero figlio dello spirito calvinista, e solo quando conduceva nella pratica a fuggire il mondo, usciva dalla strada del Protestantesimo normale. Le conventicole infine erano state ordinate in determinata estensione (specialmente per scopi catechistici) dal Sinodo stesso di Dordrecht. Dei segni distintivi analizzati nella citata trattazione del Ritschl sarebbero piuttosto da considerarsi: i) il «precisismo» nel senso di un attaccamento rigoroso, in tutte le esteriorità della vita, alla lettera della Bibbia23, che è rappresentato da Gisbert Voet; 2) il considerare la giustificazione e la riconciliazione con Dio non come fine a se stesse, ma come semplice mezzo per la vita ascetica, come sembra di dover riscontrare in Lodensteyn, ma è accennato anche, per es., in Melantone (p. 139, nota 1); 3) la grande valutazione della lotta interna del pentimento come segno di una vera rigenerazione quale la insegnò per primo W. Teellinck; 4) l’astensione dall’Eucaristia qualora vi prendessero parte persone «non rigenerate» (della qual cosa parleremo in altra occasione) e, connessa con questa, la formazione di conventicole, non contenuta entro i limiti fissati dai canoni di Dordrecht, con risveglio della profezia cioè della interpretazione della scrittura da parte di persone che non fossero teologi, perfino di donne (Anna Maria Schiirmann). Tutti questi sono fatti che rappresentano deviazioni, in parte notevoli, dalla dottrina e dalla prassi dei riformatori. Ma di fronte agli indirizzi non considerati dal Ritschl nella sua trattazione, specialmente di fronte ai Puritani inglesi, esse rappresentano, esclusa la terza, soltanto una accentuazione di tendenze, che si trovavano in tutto lo sviluppo di questa religiosità. z3. L’articolo veramente dotto del MIRBT sul «Pietismo», nella 3a ed. della «Realenz. f. Prot. Theol. und Kirche», trascurando completamente gli antecedenti della Chiesa Riformata, considera l’origine del Pietismo esclusivamente come una personale esperienza religiosa dello Spener, il che fa in chi legge un effetto alquanto strano. Come introduzione allo studio del Pietismo è degna di esser letta ancora la descrizione di GUSTAV FREYTAG nei Bilder aus der deutschen Vergatigenheit. Per gli inizi del Pietismo inglese nella letteratura del tempo cfr. W. WHITAKER, Prima institutio disciplinaque pietatis (1570). a4. Come è noto, questa concezione ha reso capace il Pietismo di essere uno dei principali rappresentanti del concetto di tolleranza. A questo proposito mi sia permesso di intercalare qualche cosa su questo concetto. Esso sorse in Occidente dalle seguenti principali fonti storiche, se lasciamo da parte l’indifferentismo umanistico-illuministico, che da solo non ha mai esercitato grande influenza pratica: 1) Ragion di stato puramente politica (tipo principale: Guglielmo d’Orange);
2) Il mercantilismo (in modo particolarmente manifesto ad Amsterdam e nelle altre numerose città, fra i proprietari terrieri e potentati che accolsero i seguaci delle sette come fattori preziosi del progresso economico); 3) L’indirizzo radicale della religiosità calvinista. La predestinazione in fondo veniva ad escludere che lo Stato promuovesse realmente la religione mediante l’intolleranza. Esso non poteva con ciò salvare le anime; solo il pensiero della gloria di Dio dava motivo alla Chiesa di pretendere il suo aiuto nella repressione dell’eresia. mento dei Santi Praisegod Barebone, tirò le più recise conseguenze da questa serie di concetti. L’esercito di Cromwell si schierò per la libertà di coscienza e il Parlamento dei Santi addirittura per la separazione di Stato e Chiesa, perché i suoi aderenti erano ferventi Pietisti, cioè per motivi religiosi positivi. Ma quanto maggiore importanza veniva annessa al fatto che il predicatore e tutti gli ammessi alla mensa eucaristica, appartenessero agli Eletti, tanto più insopportabile si fece ogni intervento statale nell’assegnazione del ministero del predicatore e nella distribuzione delle parrocchie, come fossero prebende, ad allievi delle Università, forse non rigenerati, solo perché avevano una cultura teologica e soprattutto ogni intervento negli affari della comunità religiosa da parte degli uomini al potere, spesso censurabili nella loro condotta privata. Il Pietismo riformato rafforzò questo punto di vista svalutando la correttezza dogmatica e corrodendo a poco a poco la forza del principio Extra ecclesiam nulla salus. Calvino aveva considerato la sottomissione dei reprobi aH’istituzione divina della Chiesa come l’unica soluzione conciliabile colla gloria di Dio; nella Nuova Inghilterra si cercò di costituire la Chiesa come aristocrazia dei santi, che erano tali in quanto si sentivano tali per mezzo della riprova (Bewàhrung); ma già gli Indipendenti estremi respinsero ogni intervento dei poteri civili e di ogni potere gerarchico in genere nell’esame della riprova, che era possibile solo in seno alla singola comunità. Il concetto che la gloria di Dio esiga che anche i reprobi siano posti sotto il freno della Chiesa, fu a poco a poco scacciato da quello secondo il quale si offende la gloria di Dio, partecipando all’Eucaristia insieme con un reprobo, concetto che si riscontrava fin da principio, ma che fu sempre più appassionatamente accentuato. Ciò doveva condurre al volontarismo, e condusse infatti alla «Believers’ Church», alla Comunità che comprendeva soltanto i rigenerati. Il Battismo calvinista, a cui per es. apparteneva il leader del Parla4) Le sette battiste, delle quali tratteremo più oltre, e che, di gran lunga le più rigorosamente ed intimamente conseguenti, si sono mantenute fedeli, fin dalla loro origine, al principio fondamentale che soltanto i rigenerati potevano essere ammessi nella comunità ecclesiastica, ed hanno perciò avuto in orrore ogni carattere «istituzionale» della Chiesa ed ogni intervento del potere laico. Anche qui dunque fu una causa religiosa positiva che produsse l’esigenza della tolleranza assoluta. Ma il primo che, una generazione prima dei Battisti, quasi due generazioni prima di Roger Williams, per motivi di questo genere, si dichiarò per la tolleranza assoluta e per la separazione della Chiesa dallo Stato fu in realtà John Browne. La prima dichiarazione di una comunità ecclesiastica in questo senso sembra essere la risoluzione dei Battisti inglesi in Amsterdam del 1612 o 1613: The magistrate is not to middle with religìon or matters of conscience… because Christ is thè King and lawgiver of thè Church and conscience. Ma il primo documento ufficiale di una comunità ecclesiastica che esiga come un diritto la protezione attiva da parte dello Stato della libertà di coscienza fu l’art. 44 della Confessione dei Particular Baptists del 1644. Si osservi espressamente ancora una volta che l’opinione talvolta affacciata che la tolleranza sia di per se stessa stata di vantaggio al capitalismo è completamente errata. La tolleranza religiosa non è niente di specificamente moderno o di occidentale. In Cina, in India, nei grandi imperi dell’Asia occidentale nell’età dell’Ellenismo, nell’impero romano, nei regni islamici essa ha dominato con un’ampiezza, limitata soltanto dalla ragion di stato (che ancor oggi del resto ne segna i confini), quale non ebbe in alcun paese durante i secoli xvi e xvII e meno che mai nei paesi in cui dominava il Puritanesimo, come per esempio nei Paesi Bassi al tempo della loro espansione politico-economica, o nella Vecchia e nella Nuova Inghilterra puritane. Fu invece caratteristica dell’Occidente, prima e dopo la Riforma come anche, per es., del regno dei Sasanidi, l’intolleranza confessionale, la quale ha dominato anche in Cina, nel Giappone, in India durante singole epoche, ma per lo più per motivi politici. La
tolleranza in se stessa non ha nulla a che fare col capitalismo. Dipendeva da colui al quale giovava. Sulle conseguenze che risultarono dalla richiesta tolleranza della «Believers’ Church» si parlerà nello studio seguente. b4. Questo pensiero appare nella sua applicazione pratica, nei tryers di Cromwell, gli esaminatori dei candidati all’ufficio di predicatori. Essi non cercarono tanto di accertarsi della speciale cultura teologica, quanto dello stato di grazia del candidato. c4. La caratteristica diffidenza del Pietismo verso Aristotele e la filosofia classica in generale trova un esempio già in Calvino (cfr. Instit., II, c. 2, p. 4; III, c. 23, p. 5; IV, c. 17, p. 24). In Lutero non era minore al principio, ma più tardi è rientrata per le influenze umanistiche (soprattutto di Melantone) e per gli urgenti bisogni delPinsegnamento e dell’apologetica. Naturalmente anche la Professione di fede di Westminster (c. I, 7), d’accordo colle tradizioni protestanti, insegnava che ciò che è necessario per la salvezza è contenuto nella Scrittura in modo abbastanza chiaro anche per gli indotti. d4. Contro di ciò si rivolse la protesta delle Chiese ufficiali. Per es., in un breve Catechismo della Chiesa Scozzese Presbiteriana del 1648, p. VII, viene proibita la partecipazione alle devozioni domestiche di persone che non fanno parte della stessa famiglia, come inframmettenza nelle mansioni ecclesiastiche. Anche il Pietismo, come ogni comunità ascetica, sciolse l’individuo dai vincoli del patriarcalismo familiare, che era congiunto da uno stesso interesse al prestigio dell’ufficio ecclesiastico. e4. Per buona ragione, a bella posta, qui si trascura di analizzare i rapporti psicologici nel senso tecnico della parola, di questi stati di coscienza religiosi, e per quanto è possibile si cerca anche di evitare la terminologia corrispondente. L’apparato concettuale della psicologia, ed anche della psichiatria, veramente sicuro, non è ancora sufficiente per poter essere adoperato direttamente ai fini dell’indagine storica nel campo dei nostri problemi, senza che ne sia turbata la serenità del giudizio storico. L’impiego della terminologia di queste scienze porterebbe al tentativo di ravvolgere condizioni di fatto, comprensibilissime e spesso addirittura banali, del velo di un dotto vocabolario da dilettanti e di produrre così la falsa apparenza di una maggiore esattezza concettuale, di cui, purtroppo, il Lamprecht è stato un caso tipico. Tentativi più seri di adoprare concetti psico-patologici per spiegare il significato di determinati fenomeni di massa si trovano in W. HELLPACH, Grundlinien zu einer Psychologie der Hysterie, cap. 12 e nella Nervosität und Kultur dello stesso. Io non posso tentare qui di spiegare come, a mio avviso, l’influenza di talune teorie del Lamprecht abbia nociuto anche a questo versatile scrittore. Ognuno che conosca anche la sola letteratura accessibile a tutti, sa come siano assolutamente prive di valore le osservazioni schematiche del Lamprecht sul Pietismo (nel VII volume della Deutsche Geschichte). f4. Così per es. nei seguaci dell ’Innige Christendom dello Schortinghuis. Dal punto di vista della storia della religione ciò risale alla pericope del Servo di Dio nel Deuteroisaia e al Salmo 22. g4. Ciò apparve, nei Pietisti olandesi, dapprima isolatamente e più tardi per influenze spinoziane. h4. Labadie, Tersteegen, ed altri. i4. Questa dottrina si manifesta nel modo più chiaro quando proprio lo SPENER combatte la competenza dell’autorità nel controllo della conventicola, tranne che in caso di disordini e di abusi, perché si tratta di un diritto fondamentale dei Cristiani garantito dalPordinamento apostolico (‘Theologische Bedenken, II, p. 81 e segg.). Questo è - in linea di principio - proprio il punto di vista puritano riguardo alla validità dei diritti dell’individuo, che traggono origine ex jure divino, e pertanto sono inalienabili. Al RITSCHL non è sfuggita né questa né la seguente eresia che più oltre è menzionata nel testo (Pietismus, II, pp. 115 e 157). Per quanto antistorica è la critica positivista - per non dire filistea - che egli fa del concetto di diritto fondamentale, al quale infine noi andiamo debitori di tutto ciò che oggi appare anche al più reazionario come un minimo della sua sfera di libertà individuale, è tuttavia necessario consentire con lui che in un caso e nell’altro manca un senso organico col punto di vista luterano dello Spener. Le conventicole stesse (collegio, pietatis), cui i celebri pia desideria dello Spener dettero un
fondamento teorico, e alle quali egli stesso dette vita nella pratica, nella sostanza corrispondevano perfettamente alle inglesi prò- phesyings quali si ebbero24 dapprima nelle londinesi Ore della Bibbia di JOH. DI LASCO (1547) e che da allora in poi appartennero all’inventario costante delle forme di religiosità puritana perseguitate come insurrezione contro l’autorità ecclesiastica. Il rifiuto di accettare la disciplina ecclesiastica di Ginevra in definitiva viene da lui motivato25, come è noto, col fatto che il ceto che era chiamato ad attuare tale disciplina, il terzo stato (status oeconomicus i laici cristiani) non è ammesso nella organizzazione della Chiesa Luterana. D’altra parte è poco luterano il riconoscere, come egli fa, discutendo della scomunica, nel membro laico del concistoro deputato dal sovrano territoriale il rappresentante del «terzo stato». j4. Già il nome di «Pietismo», che nacque e fu adottato nei paesi luterani, ci dice che, secondo la concezione dei contemporanei, il tratto caratteristico era che la pietas veniva trasformata in un esercizio metodico. k4. Certamente va ammesso che questa motivazione è propria specialmente, ma non esclusivamente del Calvinismo. Proprio nei più antichi ordinamenti luterani essa si trova con particolare frequenza. l4. Nel senso àtìYEp. agli Ebrei, 5, 13, 14. Cfr. SPENER, Theol. Be- denken, I, 306. m4. Oltre al Bayley e al Baxter (v. Consilia theologica, III, 6, I, dist. 1, 47; dist. 3, 6) lo Spener stimava specialmente Tommaso da Kempis e soprattutto Tauler (che non comprendeva perfettamente: Consilia theologica, III, 6, I, dist. 1). Parla diffusamente del secondo in particolare, in Cons. Theol., I, 1, 1, n. 7. Lutero è per lui derivato da Tauler. n4. V. in RITSCHL, op. cit., II, p. 113. Egli rifiutava come unico segno sicuro di una vera conversione la lotta interna per l’espiazione dei pietisti di epoca posteriore (e di Lutero) (Theolog. Bedenken, III, p. 476). Sulla santificazione come frutto della gratitudine derivante dalla credenza nella riconciliazione, formula caratteristicamente luterana, vedi i passi riportati nelYop. cit. del RITSCHL, p. 115, nota 2. Sulla certitudo salutis è detto in un punto delle Theologische Bedenen, I, 324, che la vera fede non tanto si sente come stato d’animo, quanto si riconosce pei suoi frutti (amore ed obbedienza a Dio), ma in altro punto, I, p. 335 e segg.: «Riguardo alla preoccupazione del modo con cui accertarsi del proprio stato di grazia e di salvezza, si può trarre più sicurezza dai nostri libri (luterani) che dagli scrittori inglesi». Ma sull’essenza della santificazione egli condivideva l’opinione degli inglesi. o4. I diari religiosi, che A. H. Francke raccomandava, erano anche segni esteriori di ciò. L’esercizio metodico e la consuetudine della santificazione dovevano produrre l’incremento della medesima e la distinzione dei buoni dai malvagi; questo è presso a poco il tema fondamentale del libro di FRANCKE, Von des Christen Vollommenheit. p4. La derivazione di questa fede pietista razionale nella Provvidenza dal suo significato ortodosso, apparve in modo caratteristico nella nota polemica tra i Pietisti di Halle ed il rappresentante della ortodossia luterana Loscher nel suo Timotheus Verinus. Questi si spinge tant’oltre da contrapporre nettamente ai voleri della divina provvidenza tutto quel che avviene mediante azione umana. Il punto di vista cui si attenne sempre il Francke fu26, al contrario, di riguardare come «cenno di Dio», quel lampo di chiarezza su ciò che deve accadere, che è il risultato della attesa tranquilla di una decisione; il che è affine alla psicologia dei Quaccheri e corrisponde alla concezione generale deirascetismo, che la metodica razionale sia la via per giungere più vicino a Dio. Ma lo Zinzendorf, che in una delle risoluzioni più decisive, rimetteva alla sorte il destino della sua comunità, era lontano dalla forma di fede nella Provvidenza che aveva il Francke. Lo SPENER, Theologische Bedenen, I, p. 314, si era riferito al Tauler27, per caratterizzare la rassegnazione cristiana, secondo la quale ci si deve rimettere alle decisioni divine, che non si debbono attraversare con un’azione affrettata ed arbitraria; e questo è, nella sostanza, anche il punto di vista del Francke. Si manifesta chiaramente in tutto ciò l’attività religiosa pietistica, essenzialmente attenuata
rispetto al Puritanesimo, e tesa a cercare la pace in questo mondo. First righteousness) than peace, così, ancora nel 1904, un Battista influente, G. WHITE, in un suo Indirizzo, che dovremo ancora citare, formulava in contrasto a quanto sopra, il programma etico della sua denominazione (Baptist Handbook, 1904, p. 107). q4. Lect. paraenet., IV, p. 271. r4. Contro questa concezione, che ritorna sempre, si rivolge in particolar modo la critica del Ritschl. — V. l’opera del FRANCKE, Von des Christen Vollkpmmenheit, che contiene questa dottrina. s4. Si ritrova anche nei Pietisti inglesi non seguaci della predestinazione, per es., in Goodwin. Cfr. su questo ed altri, HEPPE, Geschichte des Pietismus in der reformierten Kirche, Leiden, 1879, libro che anche dopo lo «standard work» del Ritschl, è sempre indispensabile per l’Inghilterra e talvolta anche per i Paesi Bassi. Ancora nel xix secolo il Kòhler, secondo quanto egli scrive nel libro citato nell’articolo seguente, fu spesso interrogato in Olanda sul tempo della sua rigenerazione. t4. Si cercava di combattere con questo mezzo le conseguenze lassiste della dottrina luterana sulla possibilità di riconquistare la grazia (specialmente la usuale «conversione» in extremis). u4. Contro la necessità, a ciò collegata, di sapere il giorno e l’ora della «conversione» come segno incondizionato della sua sincerità, v. SPENER, Theol. Bedenfen, II, 6, I, p. 197. A questo la lotta per l’espiazione era altrettanto ignota quanto a Melantone i terrores conscientiae di Lutero. v4. Insieme con ciò agiva anche il significato antiautoritario, proprio di ogni ascesi, attribuito al «sacerdozio universale». All’occasione si raccomandava al parroco di riservare l’assoluzione finché il vero penitente si fosse esperimentato; ciò che il Ritschl considera giustamente come un principio calvinista. w4. Gli elementi per noi essenziali si trovano nel modo più facile in Plitt, Zinzerdorjs Theologie (3 voli., Gotha, 1869 e segg.), vol. I, pp. 325, 345; 381, 412, 429, 433 e segg., 444, 448; vol. II, pp. 372, 381, 409 e segg.; vol. III, pp. 131, 167, 176. Cfr. anche Bernh. Becker, Zinzerdorf und sein Christentum (Lipsia 1900), libro 3, cap. III. x4. Egli considerava invero la Confessione di Augusta qual documento appropriato di fede cristianoluterana, solo dopo che vi si fosse versata sopra una brodaglia bollente, come egli si esprime nella sua repugnante terminologia. Il leggerlo è una penitenza, poiché la sua lingua nella informe fluidità dei concetti fa un effetto ancora peggiore di quella essenza di terpentina di Cristo, che era così terribile per F. Th. Vischer, nella sua polemica colla Christoterpe di Monaco. y4. «In nessuna religione non riconosciamo alcuno per fratello, il quale continua nella santificazione dello spirito senza esser lavato dall’effusione del sangue di Cristo e completamente mutato. Noi non riconosciamo alcuna visibile comunità di Cristo, se non là dove la parola di Dio viene insegnata pura e semplice, e dove anche secondo di essa si viva santamente come figli di Dio!». L’ultima frase è tolta dal piccolo Catechismo di Lutero, ma, come già nota il Ritschl, là serve a rispondere alla domanda come si debba santificare il nome di Dio, qui a porre i limiti della Chiesa dei santi. z4. V. PLITT, I, p. 346. La risposta, citata nel PLITT, I, p. 381, alla domanda se le opere buone siano necessarie per la salvezza, suona ancor più esplicita. «Non necessarie, anzi dannose per conquistar la salvezza; ma raggiunta questa, così necessarie, che chi non le compie non è salvo». Anche qui dunque le buone opere non trovano la loro ragione nel loro merito reale, ma soltanto come segno di riconoscimento dello stato di grazia. a5. Come fece, per es., con quelle caricature della «libertà cristiana» che il RITSCHL gli rimprovera aspramente neWop. cit., Ili, p. 321. b5. Soprattutto accentuando fortemente, nella dottrina della salvezza, il concetto della punizione espiatoria che egli, dopo che le sette americane ebbero respinto i suoi tentativi di avvicinarle a scopo missionario, pose a fondamento del suo metodo di santificazione. Da questo momento la conservazione della ingenuità infantile e delle virtù della umiltà e della rassegnazione vien da lui posta in primo piano come scopo dell’ascesi della comunità di Herrnhut, in forte contrasto colle tendenze della comunità
stessa che erano del tutto affini alla ascesi puritana. c5. Ma questa influenza aveva i suoi limiti. Anche per questa ragione è errato il voler classificare la religiosità dello Zinzendorf in un processo di sviluppo «psichico-sociale», come fa il Lamprecht. Oltre a ciò tutta la sua religiosità da nessuna circostanza fu più fortemente influenzata che dall’essere egli un conte, con un fondo di istinti feudali. Il lato sentimentale di quella religiosità, dal punto «psichicosociale», potrebbe convenire tanto al tempo della decadenza sentimentale della cavalleria quanto a quello della «sensibilità». Tutto al più, ammettendo il punto di vista «psichico-sociale», essa si può spiegare, nel suo contrasto col razionalismo dell’Europa Occidentale, con i vincoli patriarcali dell’est germanico. d5. Questo fatto è dimostrato dalle controversie dello Zinzerdorf col Dippel e, dopo la morte dello Z., dalle manifestazioni del Sinodo del 1764, che mettono in chiaro rilievo il carattere di istituto dispensatore di salvezza della comunità di Herrnhut. V. la critica del Ritschl, op. cit., ili, p. 443 e segg. e5. Cfr. per es. §§ 151, 153, 160. Che sia possibile che la santificazione non avvenga nonostante il vero pentimento ed il perdono dei peccati, emerge specialmente dalle osservazioni a p. 311 e corrisponde alla dottrina luterana della salvezza, proprio come contraddice a quella calvinistica e metodistica. f5. Cfr. le espressioni dello Zinzerdorf citate in Plitt, II, p. 345. Ed anche lo SPANGENBERG nella Idea fidei fra trum, p. 325. g5. Cfr. per es. l’espressione dello Zinzerdorf, citata in PLITT, III, p. 131, a commento del passo di Matteo 20, 28: «Se vedo un uomo, al quale Iddio ha dato un bel dono, mi rallegro e mi servo con piacere del dono. Ma se io noto, che egli non è contento del suo, ma che vuol trarne ancora di meglio, ritengo ciò il principio della rovina di una tal persona». Lo Zinzerdorf negò appunto — in ispecie nel suo colloquio con John Wesley del 1743 — il progresso nella santificazione, perché egli la identificava con la giustificazione e la trovava soltanto nella relazione con Cristo, conquistata attraverso il sentimento. PLITT, I, p. 413. Al posto del sentirsi uno (strumento» della divinità, sottentra il sentimento di «possedere» il divino: mistica, dunque, non ascesi (nel senso in cui ne parleremo nella introduzione agli altri saggi). Naturalmente, come appunto diremo colà, anche il Puritano tendeva in realtà a Vihabitus, attuale, terreno. Ma questo habitus che si esprime come certitudo salutis è in lui il sentirsi uno strumento. h5. Ma a causa di questa derivazione il lavoro professionale non ebbe un fondamento etico logicamente conseguente. Lo Zinzendorf respinge l’idea luterana del servizio di Dio nella professione, come punto decisivo per la fedeltà nella professione. Questa sarebbe piuttosto un equivalente in cambio della fedeltà del Salvatore nella sua opera (PLITT, II, p. 411). i5. è nota la sentenza: un uomo ragionevole non deve essere incredulo, ed un credente non deve essere irragionevole, nel suo Sokrate ossia Aufrichtige Anzeige verschiedener nicht sowohl unbekannter als vielmehr in Abfall geratener Hauptwahrheiten (1725), ed è noto altresì il suo amore per scrittori come il Bayle. j5 . è nota la preferenza marcata della ascesi protestante per l’empirismo reso razionale mercé il fondamento matematico, preferenza che non può essere ancor qui discussa con maggior larghezza" id="fn-j5 è nota la preferenza marcata della ascesi protestante per l’empirismo reso razionale mercé il fondamento matematico, preferenza che non può essere ancor qui discussa con maggior larghezza">j5 è nota la preferenza marcata della ascesi protestante per l’empirismo reso razionale mercé il fondamento matematico, preferenza che non può essere ancor qui discussa con maggior larghezza. Per i motivi filosofici nell’evoluzione delle scienze verso l’indagine esatta del fondamento matematico razionale, in contrasto coi punti di vista di Bacone, v. WINDELBAND, Gesch. der Phil., pp. 305–307, e specialmente le osservazioni a p. 305 in fondo, che con acutezza respingono il concetto che le moderne scienze della natura vadan intese come un prodotto di interessi materiali e tecnici. Certamente vi sono reciproci rapporti importantissimi, ma di gran lunga più complicati. V. inoltre WINDELBAND, Neuere Philosophie, I, p. 40 e segg. Il punto di vista decisivo per la posizione presa dalla ascesi protestante, quale
appare nel modo più manifesto nei Theolog. Bedenken dello SPENER, I, p. 232; III, p. 260, era: come il Cristiano si riconosce dai frutti della sua fede, così anche la conoscenza di Dio e delle sue intenzioni può procedere soltanto dalla conoscenza delle sue opere. Conformemente a ciò, la disciplina preferita del Cristianesimo puritano, battista e pietista fu la fisica, e dopo di questa, altre discipline matematiconaturalistiche, che procedono con metodo analogo. Si credeva precisamente di poter salire dalla comprensione empirica delle leggi di Dio nella natura, alla conoscenza del significato del mondo, il quale, altrimenti, non si sarebbe mai potuto comprendere, dato il carattere frammentario della rivelazione divina — pensiero calvinistico questo — come mezzo delle speculazioni concettuali. L’empirismo del secolo xvn fu per l’ascesi il mezzo di cercare Dio nella natura. Sembrava che esso conducesse a Dio, mentre la speculazione filosofica ne allontanava. Specialmente la filosofia aristotelica è stata, secondo lo Spener, il più grave malanno pel Cristianesimo. Ogni altra filosofia è migliore, in ispecie quella platonica: Cons. Theol., III, 6, I, dist. 2, n. 13. Cfr. inoltre questo passo caratteristico: Unde prò Cartesio quid dicam non habeo (non lo ha letto), semper tamen optavi et opto ut Deus viros excitet, qui veram philosophiam vel tandem oculis sisterent, in qua nullius hominis attenderetur auctoritas, sed sana tantum magistri nescia ratio. SPENER, Consilia Theologica, II, 5, II. 2. è noto quale importanza abbiano avuto queste concezioni del Protestantesimo ascetico nell’educazione, specialmente nell’insegnamento tecnico. Combinate colla posizione presa rispetto alla fides implicita ne dettero il programma pedagogico. k5. «è questa una razza di uomini che si pongono la loro felicità, presso a poco, in quattro punti. 1. Esser tenuti poco in conto, disprezzati e derisi… 2. Trascurare tutti i sensi, che non adoperano al servizio del Signore… 3. Non aver nulla, oppure dar via quel che ricevono… 4. Lavorare come operai a giornata, non per il guadagno ma per vocazione o a vantaggio del Signore e del loro prossimo…» (Rei. Reden, II, p. 180, PLITT, I, p. 445). Non tutti possono e debbono diventare discepoli, ma soltanto coloro che il Signore chiama. Tuttavia, secondo l’ammissione stessa dello Zinzendorf (PLITT, I, p. 449) rimangono alcune difficoltà, poiché il sermone della montagna formalmente è rivolto a tutti. Salta agli occhi l’affinità di questo «libero acosmismo dell’amore» cogli antichi ideali battisti. l5. Infatti il trasformarsi della religiosità in un sentimento del tutto interiore non è affatto estraneo al Luteranesimo anche dell’epoca degli epigoni. La differenza costituzionale era piuttosto nell’elemento ascetico, cioè la regolamentazione della vita, che ai Luterani sapeva di una santificazione delle opere. m5. Un «timore del cuore» è un miglior segno della grazia che la «sicurezza», così opina lo Spener in Theol. Bedenken, I, 324. Anche in scrittori puritani troviamo naturalmente ammonimenti espliciti contro la «falsa sicurezza»; ma la dottrina della predestinazione, per lo meno in quanto la sua influenza determinò la preoccupazione per la propria anima, agì sempre nel senso opposto. n5. Infatti l’effetto psicologico della confessione fu dappertutto un alleggerimento della responsabilità del soggetto per la sua condotta — e perciò veniva appunto ricercata — ed al tempo stesso della consequenzialità rigoristica delle esigenze ascetiche. o5. Già il Ritschl ha accennato, trattando del Pietismo del Wùrttemberg (vol. III dell’opera più volte cit.), quanto forte influenza avessero motivi puramente politici, anche sulla nascita della religiosità pietista. p5. Cfr. la dichiarazione di Zinzendorf già citata (p. 252, nota a). q5. Naturalmente anche il Calvinismo, per lo meno quello genuino, è patriarcale. E, per es., il nesso del successo dell’attività del Baxter col carattere di industria domestica dell’impresa di Kidderminster si manifesta chiaramente nella sua autobiografia. Vedi il passo citato a p. XXXVIII dei Works of Puritan Divines: The town liveth upon thè weaving of Kidderminster stuffs, and as they stand in their loom, they can set a book before them) or edify each other. Tuttavia il patriarcalismo è conformato diversamente sul terreno dell’etica riformata e ancor più di quella battista, che nel campo del Pietismo. Questo problema può esser discusso in altra occasione. r5. Lehre von der Rechtfertigung und Versóhnung, 3a ed., I, p. 598. Se Federico Guglielmo I definiva il
Pietismo soprattutto come una cosa adatta per rentiers, questo è un fatto più significativo per questo re che per il Pietismo degli Spener e dei Francke, ed anche il re sapeva bene per quale ragione egli apriva i suoi Stati coll’editto di tolleranza. s5. Per un primo orientamento sulla conoscenza del Metodismo è in particolar modo adatto l’eccellente articolo del Loofs, Methodismus, nella Reai Encyfylop. fiir Protestantische Theologie und Kirche, 3a ed. Possono essere utili anche i lavori del Jacoby (specialmente il Handbuch des Methodismus), del Kolde, del Jùngst, del Southey. Su Wesley: Tyermann, Life and times of John Wesley, London, 1870 e segg. Il libro di Watson (Life of Wesley) è popolare. Una delle migliori biblioteche per la storia del Metodismo si trova nella Northwestern University in Evanston vicino a Chicago. Una specie di anello di congiunzione tra il Puritanesimo classico e il Metodismo è rappresentato dal poeta religioso Isacco Watts, amico di Howe, il cappellano di Oliver Cromwell, e poi di Richard Cromwell, il cui consiglio sarebbe stato ricercato da Whitefield (cfr. Skeats, p. 254 e segg.). t5. Tale affinità è storicamente condizionata — se si astrae dalle influenze personali subite dal Wesley — da una parte dalla decadenza del dogma della predestinazione, dall’altra dal potente risveglio del pensiero della sola fide; ma è causata soprattutto dal suo specifico carattere missionario, che condusse seco una ripristinazione e trasformazione della predica medioevale suscitatrice della fede e combinò questa con forme pietistiche. Tale fenomeno non rientra certamente in una linea generale di evoluzione verso il soggettivismo, poiché, sotto tale aspetto, rimase addietro non solo rispetto al Pietismo, ma anche rispetto alla religiosità bernardina del Medioevo. u5. Così Wesley stesso ha contrassegnato l’effetto della fede metodistica. è chiara come la luce l’affinità colla Glückseligkeit (beatitudine) dello Zinzendorf. v5. La si trova nella vita di Wesley del WATSON (ed. tedesca), p. 331. w5. J. SCHNECKENBURGER, Vorlesungen uber die Lehrbegriffe der kleinen protestantischen Kirchenparteìen, ed. da Hundeshagen, Francoforte, 1863, PI47* x5. Whitefield, il capo del gruppo dei seguaci della predestinazione, gruppo che dopo la sua morte si sciolse a causa della sua disorganizzazione, rifiutava la dottrina di Wesley sulla perfezione nei punti essenziali. y5. SCHNECKENBURGER, op. cit., p. 145. Un po’ diversamente il Loofs nell’opera cit. Tutte e due queste conseguenze sono tipiche di ogni religiosità dello stesso genere. z5. Così la conferenza del 1770. Già la prima conferenza del 1744 aveva riconosciuto che le parole della Bibbia sfioravano «a capello», da una parte il Calvinismo, dall’altra l’Antinomismo. Data la loro oscurità, si concluse non dovercisi dividere per differenza dottrinale, fintantoché veniva mantenuta la validità della Bibbia nelle norme pratiche. a6. Separava i Metodisti dai Fratelli Moravi la loro dottrina della possibile perfezione esente da colpa, che fu in particolare respinta dallo Zinzendorf, mentre d’altra parte Wesley sentiva la tendenza sentimentale della religiosità morava come «mistica» e trattava come blasfeme le vedute di Lutero sui «comandamenti». Qui si palesa il limite che esisteva insuperabile tra ogni modo razionale di condotta religiosa della vita e il Luteranesimo. b6. John Wesley rileva, occasionalmente, che ovunque, tra i Quaccheri, i Presbiteriani e i membri dell’Alta Chiesa si doveva credere a dogmi, ma non tra i Metodisti. Cfr. anche la assai sommaria descrizione in SKEATS, Hìstory of thè free churches of England, 1688–1851. c6. Cfr., per es., DEXTER, Congregationalism, p. 455 e segg. d6. Ma vi può naturalmente portare pregiudizio, come succede oggi fra i negri americani. Del resto il carattere, spesso accentuatamente patologico, della emozione metodista in contrasto alla relativamente mite tendenza sentimentale del Pietismo, è connesso — oltreché con ragioni storiche e con la pubblicità dell’avvenimento — fors’anche con una più forte penetrazione delPascesi nella vita in quei territori dove è diffuso il Metodismo. Ma una decisione in argomento spetterebbe ai neurologi. e6. LOOFS, op. cit., p. 750 rileva espressamente che il Metodismo si distingue dagli altri movimenti
ascetici pel fatto che esso ha luogo dopo il periodo deirilluminismo inglese, e lo mette a parallelo col rinascimento del Pietismo in Germania, in realtà molto più debole nel primo terzo di questo secolo. Ma rimarrà tuttavia lecito, seguendo il RITSCHL, Lehre voti der Reehtjertigung und Versòhnung (vol. I, p. 568 e segg.), anche il parallelo col genere di Pietismo proprio allo Zinzendorf, che, al contrario di quello dello Spener e del Francke, è già una reazione contro l’Illuminismo. Tuttavia questa reazione nel Metodismo prende, come vedemmo, un ben diverso indirizzo che nella comunità di Herrnhut, per lo meno in quanto questa fu influenzato dallo Zinzendorf. f6. Ma che sviluppò, come mostra il passo di John Wesley cit. più oltre, ugualmente e con uguale effetto come le altre denominazioni ascetiche. g6. E son anche — come si vide — attenuazioni della consequenziale etica ascetica del Puritanesimo; mentre qualora, secondo il modo usato, si volessero interpretare queste concezioni come esponenti, o riflessi dello sviluppo capitalistico, dovrebbe manifestarsi precisamente il contrario. h6. Tra i Battisti solo i così detti «General Baptists» risalgono agli antichi Battisti. «Particular Baptists» erano, come già si è detto, Calvinisti che in teoria limitavano l’appartenenza alla Chiesa ai soli rigenerati, oppure a quelli che individualmente aderivano a questa confessione, e perciò rimasero, in linea di principio, Volontaristi ed avversari di ogni Chiesa di Stato; ma nella pratica sotto Cromwell non furono sempre conseguenti. Ma essi, ed anche i General Baptists, per importanti che siano storicamente come rappresentanti della tradizione battista, non ci offrono alcuna occasione ad una particolare analisi dogmatica. è fuori di dubbio che i Quaccheri, mentre formalmente erano una nuova istituzione di George Fox e dei suoi compagni, nei loro concetti fondamentali fossero esclusivamente continuatori della tradizione battista. La migliore introduzione alla storia di essi insieme con una considerazione dei loro rapporti coi Battisti e coi Mennoniti, è data da Robert Barclay, The inner life of the religious societies of the Commonwealth, 1876. Per la storia dei Battisti cfr. fra gli altri H. M. Dexter, The true story of Smyth, the Sebaptist, as told by himself and his contemporaries, Boston, 1881 (su ciò v. J. C. Lang in «Bapt. Quart. Review», 1883, p. 1 e segg.); ). Murch, A history of the Presbyterian and General Baptist Church in the West of England, Londra, 1835; A. H. Newman, History of the Baptist Church in the U. S., New York, 1894 «American Church History Series», vol. 2); Vedder, A short history of the Baptists, Londra, 1897; E. B. Bax, Rise and fall of the Anabaptists, New York, 1902; G. Lorimer, Baptists in History, 1902; J. A. SEISS, Baptist systern examined («Luth. Pubi. S.», 1902); altro materiale nel Baptist Handbook, Londra, 1896 ed anni seguenti; nei Baptist Manuals, Parigi, 1891–93; nella «Baptist Quaterly Review», nella Bibliotheca sacra (Oberlin, 1900). La miglior biblioteca dei Battisti credo si trovi nel Colgate College nello Stato di New York. Per la storia dei Quaccheri passa per la miglior collezione quella del Devonshirehouse a Londra (da me non utilizzata). L’organo ufficiale moderno dell’ortodossia è FAmerican friend edito dal Prof. Jones, la migliore storia dei Quaccheri quella di Rowntree. Inoltre: RUFUS B. JONES, George Fox, an autobiography, Filadelfia, 1903; ALTON C. THOMAS, A history of thè S. of Friends in America, Filadelfia, 1895; EDUARD GRABB, Social aspects of Quaker Faith, Londra, 1899. Inoltre la grande ed eccellente letteratura biografica. i6. è uno dei molti meriti della Kirchengeschichte di KARL MüLLER, di avervi fatto posto nella sua esposizione al grandioso, sebbene esteriormente non apparente, movimento dei Battisti. Come nessun altro esso ha sofferto una persecuzione senza pietà da parte di tutte le chiese, poiché appunto voleva essere una setta nel senso specifico della parola. In seguito alla catastrofe in Miinster della tendenza escatologica derivata dal Battismo, ancora dopo cinque generazioni esso era screditato in tutto il mondo (in Inghilterra per es.). E, sempre oppresso e costretto a nascondersi, esso è giunto soltanto dopo gran tempo dal suo sorgere ad una formulazione coerente del suo contenuto di pensiero religioso. Esso ha prodotto ancor meno «teologia» di quel che si sarebbe potuto conciliare coi suoi princìpi contrari al trattare le cose divine come una scienza specializzata. Ciò destava poca simpatia nei teologi professionali già dei suoi primi tempi e non lo imponeva alla
loro considerazione. Ma anche presso alcuni moderni le cose non vanno diversamente. Nel RITSCHL, per es., Pietismus, I, p. 22 e segg., gli Anabattisti sono trattati poco serenamente; anzi in un modo addirittura sprezzante; si sente che Fautore è tratto a parlare da un punto di vista teologico «borghese». Eppure esisteva da decenni la bella opera del CORNELIUS (Geschichte des Milnsterschen Aufruhrs). Il Ritschl costruisce arbitrariamente anche qui una ricaduta — dal suo punto di vista — nel Cattolicesimo e subodora la traccia di dirette influenze degli Spirituali e degli Osservanti francescani. Se si potessent dimostrare l’esistenza isolata di qualcheduna di queste, tuttavia tali fili sarebbero molto sottili. E soprattutto la realtà storica è questa: che la Chiesa cattolica trattò sempre con estrema diffidenza Fascesi intramondana dei laici, quando conduceva alla formazione di conventicole, e cercò di indirizzarla sulla via della formazione di ordini, cioè fuori del mondo, o a bello studio la collegò, come ascesi di secondo grado, agli ordini primari e la assoggettò al suo controllo. Quando questo non le riuscì, essa fiutò il pericolo che l’esercizio della moralità ascetica subiettiva conducesse alla negazione delPautorità ed alla eresia. Una stessa linea di condotta tenne, con ugual diritto, la Chiesa Elisabettiana rispetto ai prophesyings, alle conventicole bibliche semi-pietiste, anche quando queste erano correttissime nei riguardi del Conformismo, e ad essa dettero espressione gli Stuart nel loro Book of sports di cui parleremo più oltre. Ne sono documenti la storia di numerosi movimenti ereticali, come, per es., degli Umiliati e delle Beghine, e anche il destino di S. Francesco. Le prediche dei monaci mendicanti, particolarmente dei Francescani, hanno più volte preparato il terreno alla moralità ascetica laica del Protestantesimo riformato battista. Ma i numerosissimi tratti di affinità tra l’ascesi nel MonacheSimo d’Occidente e la condotta ascetica della vita nel Protestantesimo — che nella nostra trattazione dovremo sempre rilevare, essendo altamente istruttivi — hanno la loro ragione fondamentale in questo fatto: che naturalmente tutte le ascesi che stanno sul terreno del Cristianesimo biblico debbono avere necessariamente alcuni importanti tratti comuni, ed inoltre in questo fatto: che in generale ogni ascesi di qualsivoglia confessione rende necessari alcuni mezzi provati per mortificare la carne. Per lo studio che segue sul Battismo occorre notare che la sua brevità va attribuita alla circostanza che l’etica battista ha una importanza molto limitata per il problema che va specialmente discusso in questa trattazione: lo sviluppo cioè dei fondamenti religiosi dell’idea «borghese» di professione. Non vi ha aggiunto, infatti, alcunché di assolutamente nuovo. Si trascura qui per ora il lato sociale del movimento, di gran lunga più importante. Data l’impostazione del nostro problema, del contenuto storico del più antico movimento battista può esporsi qui soltanto quella parte, che ha esercitato un’influenza sul carattere delle sette, che per noi stanno in primo piano: Battisti, Quaccheri e (un po’ in disparte) i Mennoniti. j6. Cfr. p. 240 nota a, paragr. 4. k6. Sulle origini ed i mutamenti di questa terminologia, v. A. RITSCHL, nei suoi Gesammelte Aufsätze, p. 69 e segg. l6. Naturalmente i Battisti hanno sempre respinto la denominazione di setta. Essi sarebbero la Chiesa nel senso della Lettera agli Efesini (5, 27). Ma per la nostra terminologia essi sono setta, e non per il solo fatto che fanno a meno di ogni rapporto con lo stato. Il rapporto tra Chiesa e stato nei primi tempi del Cristianesimo era, in realtà, per essi, e ancor per i Quaccheri (Barclay), l’ideale, perché per essi, come per certi Pietisti (Tersteegen), soltanto sotto i martirii la purezza delle Chiese era insospettabile. Ma sotto uno stato ateo, o perfino sotto le persecuzioni, anche i Calvinisti, faute de mieux, dovettero essere, come in tal caso la Chiesa cattolica stessa, per la separazione della Chiesa dallo stato. E neppur vanno considerati setta, solo perché l’accettazione nella comunità religiosa avveniva de facto mediante un patto tra i catecumeni e la comunità stessa. Perché ciò si verificava formalmente anche, per es., secondo 1*antica costituzione ecclesiastica, nelle comunità riformate olandesi (in conseguenza della originaria situazione politica). (V. su ciò von Hoffmann, Kirchenverfassungsrecht der niederländischen Reformierten, Lipsia, 1902). Ma erano una setta perché la comunità religiosa doveva essere organizzata solo su base volontaristica come una setta, e non istituzionale, come una Chiesa, né doveva racchiudere
non rigenerati; deviava pertanto dal modello cristiano antico. Nelle comunità battiste era inerente al concetto stesso di Chiesa ciò che in quelle riformate si verificava come stato di fatto. Fu già accennato al fatto che, in realtà, anche in queste determinati motivi religiosi spingevano alla «Believers’ Church». Su Chiesa e setta v. particolari più precisi nel saggio seguente28 Il concetto qui usato di setta è stato
adoperato, contemporaneamente e, lo ammetto, indipendentemente da me, anche dal Kattenbusch nella «Realenc. für prot. Theol. und Kirche» (aH’articolo Se fee). Il Troeltsch nel suo libro Soziallehren der christlichen Kirchen, lo accetta e ne parla diffusamente. Cfr. anche l’introduzione ai saggi su YEtica economica delle religioni mondiali. m6. Quanto fu importante questo simbolo per la conservazione della comunità delle Chiese — poiché creava un segno distintivo non equivoco e ben riconoscibile di questa — lo ha dimostrato chiaramente il Cornelius nell’opera citata. n6. Alcuni punti che a questa si avvicinano nella dottrina della giustificazione dei Mennoniti possono qui rimaner fuori dalla nostra considerazione. o6. Su questo concetto riposa forse l’interesse religioso per le discussioni del problema su quel che si debba pensare della Incarnazione di Cristo e del suo rapporto colla Vergine Maria, che, spesso, come unica parte puramente dogmatica, si stacca dal resto in una maniera così strana già nei più antichi documenti dei Battisti (per es. nelle «Confessioni» pubblicate in appendice al vol. II, op. cit. del CORNELIUS. Su ciò vedi anche K. MÜLLER, Kirchengcsch., II, 1, p. 330). A fondamento delle differenze nella cristologia dei Riformati e dei Luterani (nella dottrina cosiddetta communicatio idiomatunì) si trovavano interessi religiosi simili. p6. Questo principio trovò espressione particolarmente nella separazione originariamente rigorosa degli scomunicati anche nei rapporti civili, un punto questo, su cui gli stessi Calvinisti fecero forti concessioni al concetto che i rapporti civili non dovessero essere toccati dalle censure ecclesiastiche. q6. è noto come questo principio si manifestasse presso i Quaccheri nelle più piccole esteriorità (abolizione del togliersi il cappello, delFinginocchiarsi, delPinchinarsi, e dell’uso del plurale verso l’interlocutore). - Ma il concetto fondamentale è di per se stesso proprio di ogni ascesi, che perciò, nella sua forma genuina, è ostile all’autorità. - Nel Calvinismo esso si manifestò nel principio che nella Chiesa deve comandare soltanto Cristo. Per quel che concerne il Pietismo, si pensi alla fatica dello Spener, per giustificare biblicamente i titoli. L’ascesi cattolica ha tolto di mezzo questo carattere nei riguardi deH’autorità ecclesiastica, mediante il voto di obbedienza, in quanto che interpretava l’obbedienza stessa in senso ascetico. Il rovesciamento di questo principio nell’ascesi protestante è ancora il fondamento storico del carattere della democrazia dei popoli che hanno subito un’influenza puritana e delle sue differenze da quella di «spirito latino». Ed esso è anche alla base di quella «mancanza di rispetto» degli Americani, che a seconda dei casi, turba gli uni e dà agli altri un’impressione di freschezza. r6. Questa osservanza valeva presso i Battisti principalmente per il Nuovo Testamento, ma non in ugual modo per l’Antico. Specialmente il sermone della montagna godeva presso tutte le denominazioni di una particolare considerazione come programma di etica sociale. s6. Già lo Schwenckfeld aveva ritenuto la funzione esterna dei sacramenti un àStàcpopov, mentre i General Baptists e i Mennoniti rimasero strettamente attaccati al Battesimo ed alla Eucaristia, ed i secondi anche alla lavanda dei piedi. Ma fortissima era la svalutazione, si può anzi dire la diffidenza contro tutti i sacramenti ad eccezione della Eucaristia, come tra i seguaci della predestinazione. t6. Per questo concetto le denominazioni battiste, specialmente i Quaccheri (BARCLAY, Apology for thè true Christian Divinity, 4* ed., Londra, 1701; volume che potei avere a mia disposizione grazie alla cortesia di Ed. Bernstein), si appellavano alla espressione di CALVINO nella Institutio Christianae Theologiae, III, 2, nella quale in realtà si trovano chiaramente punti di contatto colla dottrina battista. Anche la più antica distinzione della dignità della parola di Dio, cioè di quel che Dio ha direttamente rivelato ai Patriarchi, ai Profeti e agli Apostoli, e della sacra scrittura cioè di quel che essi vi hanno annotato, si avvicinava moltissimo, senza che tuttavia vi fosse un nesso storico, alla concezione battista
dell’essenza della Rivelazione. u6. Questo fu energicamente affermato contro certe tendenze dei Sociniani. La ragione «naturale» non sa assolutamente nulla di Dio (BARCLAY, op. cit., p. 102). Con ciò era stata nuovamente spostata la posizione che in generale viene a prendere nel Protestantesimo la lex naturae. In principio non ci potevano essere alcune generai rules, alcun codice morale, poiché la «vocazione» che ciascuno ha, e che è per ciascuno individuale, era indicata da Dio nella coscienza. Noi non dobbiamo fare il bene, nel concetto generalizzante della ragione naturale, ma la volontà di Dio, quale è scritta nei cuori col nuovo Patto, e si manifesta alla coscienza (BARCLAY, pp. 73–76). Questa irrazionalità della moralità — che deriva dalla accentuata contrapposizione di Dio e delle Creature — si esprime nelle proposizioni fondamentali dell’etica dei Quaccheri: what a man does contrary to his faith, though his jaith may be wrong, is no ways acceptable to God… though thè thing might have been lawful to another (BARCLAY, p. 487). Nella pratica naturalmente ciò non potè essere mantenuto. I mordi and perpetuai statutes acknow- ledged by all Christians sono anche per il Barclay il limite della tolleranza. Nella pratica i contemporanei hanno sentito la loro etica come simile, pur con alcune particolarità, a quella dei Pietisti riformati. «Tutto ciò che vi è di bene nella Chiesa vien sospettato come Quaccherismo», rileva ripetutamente lo Spener. Egli quasi vorrebbe invidiare ai Quaccheri questa fama. Cas. Theol., III, 6, 1, dist. 2 (n. 64). Il rifiuto di giurare a causa di una parola della Bibbia mostra quanto poco lontano andasse in realtà remancipazione dalla lettera della scrittura. L’importanza eticosociale della sentenza, riguardata da taluni Quaccheri come concetto sostanziale di tutta la morale cristiana «Fate agli altri solo quel che vorreste che fosse fatto a voi» qui non ci riguarda. v6. Il Barclay motiva la necessità di ammettere questa possibilità, colle seguenti ragioni: there should never be a place known by thè Saints, wherein they might be free of doubting and despair, which… is most ab- surd. Come si vede, da tale possibilità di perfezione dipende la certitudo salutis. Così il BARCLAY, op. cit., p. 20. w6. Rimane dunque una differenza di tono tra la razionalizzazione della vita calvinista e quella quacchera. Ma se il BAXTER esprimeva questa differenza nel fatto che lo spirito nei Quaccheri deve agire sull’anima come su di un cadavere, mentre il principio calvinista* caratteristico per il modo come è formulato, è: reason and spirit are conjunct principies (Christian Directory, II, p. 76), tale contrasto non aveva più valore pratico. x6. V. gli articoli accuratissimi, Menno e Mennoniten del CRAMER nella Realencyklopadie für prote stanti sche Theologie und Kirche, specialmente a p. 604. Quanto buoni sono questi articoli, altrettanto superficiale e talvolta addirittura impreciso è l’articolo Baptisten nella stessa Enciclopedia. Il suo autore non conosce per es. le Publications of thè Hanserd Knolly Society che sono indispensabili per la storia del Battismo. y6. Così il BARCLAY, op. cit., p. 404 spiega che il mangiare, bere, ed acquistare sono atti naturali, non spirituali che possono essere compiuti anche senza una speciale chiamata di Dio. La spiegazione è la risposta alla caratteristica obiezione, che se, come insegnano i Quaccheri, non si dovrebbe pregare senza speciale motion of thè spirit, senza un tale speciale impulso divino non si dovrebbe neppure arare. Che anche in moderne risoluzioni di sinodi quaccheri si trovi il consiglio di ritirarsi dalla vita degli affari, dopo aver guadagnato un patrimonio sufficiente, per potere vivere liberi dagli ingranaggi del mondo, per consacrare interamente il proprio riposo al Regno di Dio, è naturalmente cosa assai significativa, sebbene simili pensieri si ritrovino certamente anche in altre denominazioni, anche in quella Calvinista. Anche in ciò trova espressione il fatto che l’accettazione dell’etica professionale borghese da parte dei rappresentanti di quelle denominazioni fu la trasformazione in senso intramondano di un’ascesi originariamente avversa al mondo. z6. Si rimanda qui espressamente ancora una volta alle eccellenti argomentazioni di E. BERNSTEIN nelYop. cit. In altra occasione si tratterà dettagliatamente di come, in modo straordinariamente
schematico, Kautsky espone il movimento anabattista e la sua teoria del «Comunismo eretico». a7. Il VEBLEN (Chicago) nel suo libro suggestivo Theory of business enterprise, è dell’opinione che questo motto sia esclusivamente dei primi tempi del capitalismo. Ma vi sono stati sempre «superuomini» economici, che, come gli odierni capitani d’industria, stavano al di là del bene e del male, e nel largo strato di fermento capitalistico che sta sotto di essi quel principio ha valore ancor oggi. b7. In civili actions it is good to be as thè many, in religious, to be as thè best, opina per es. Th. ADAMS (Works of thè Puritan Divines, p. 138). Ciò in realtà sembra avere una portata più vasta di quel che egli non intendesse. Significa invece che Ponestà puritana è una legalità formalistica, come quella sincerità o uprightness, che spesso viene vantata come una virtù nazionale dai popoli che furono puritani, è qualche cosa di essenzialmente diverso, configurata come è in modo formalistico e riflessivo, rispetto alla tedesca Ehrlichkeit [ed alla «onestà» italiana]. Buone osservazioni su questo punto da parte di un pedagogista si trovano nei «Preussische Jahrbücher», vol. 112 (1903), p. 226. Il formalismo delPetica puritana è a sua volta la forma, perfettamente adeguata, deir attaccamento alla Legge. c7. Qui è il motivo dell’efficace penetrazione economica delle minoranze protestanti ascetiche che non hanno quelle cattoliche. d7. Che la differenza del fondamento dogmatico fosse conciliabile coll’interesse, decisivo, della comprova (Bewährung), ha la sua cagione ultima, che qui non possiamo discutere, nel carattere storico del Cristianesimo in genere. e7. Since God hath gathered us to be a people..., dice, per es., anche il BARCLAY nélYop. cit., p. 357 ed io stesso udii una predica di Quaccheri nel Haverford College che insisteva sulPinterpretazione di saint nel senso di «separati». 1. Philipp Jakob Spener, 1635–1705, teologo tedesco, una delle principali figure del Pietismo in Germania. 2. Nikolaus Ludwig conte di Zinzendorf, 1700–1760, capo religioso tedesco, fondatore della «Comunità dei fratelli» di Herrnhut (da cui il nome di Herrnhuter dato ai suol membri), costituita sulle sue tenute da un gruppo dì membri esuli della Unitas Fratrum della Moravia, che egli rinnovò come Chiesa Morava. 3. Kulturkampf, «Lotta per la cultura», allude alla guerra condotta da Bismark contro i cattolici tedeschi, in particolare l’alto clero, per impedire l’ingerenza della Chiesa nella politica interna. 4. Johann van Oldenbarneveldt, 1547–1619, statista olandese, Gran Pensionario delle Province Unite, artefice di una tregua di dodici anni tra Paesi Bassi e Spagna. Le lotte partigiane che lo contrapposero a Maurizio di Nassau, legate alla crisi politica di quegli anni e al conflitto tra Arminiani e Gamoristi, terminarono con la sua sconfitta e condanna a morte. 5. Richard Baxter, 1615–1691, uno dei maggiori pastori puritani inglesi, celebre per la sua predicazione, i suoi insegnamenti e i suoi scritti. L’opera pastorale da lui svolta nella città industriale di Kidderminster resta classica nella storia del protestantesimo. I suoi sermoni sono dei modelli di predicazione puritana e il suo Saints’ Everlas- ting Resty qui citato ripetutamente, è un classico della letteratura devota del Puritanesimo. 6. Lewis Bayley, m. 1631, vescovo di Bangor. Uno dei più notevoli puritani inglesi, combattè contro la legislazione antipuritana del governo. Il suo Fradice of Pie- tyy largamente diffuso negli ambienti puritani, ha influenzato anche il Bunyan. 7. John Bunyan, 1628–1688, pastore c predicatore puritano inglese, considerato il maggior genio letterario prodotto dal movimento puritano. Le sue opere, in particolare il Pilgrim’s Progress, hanno avuto una enorme popolarità; non solo presenti in ogni casa come la Bibbia, ma anche ampiamente diffuse fuori dall’Inghilterra, in particolare in America. 8. Gottfried Keller, 1819–1890, scrittore svizzero di lingua tedesca, massimo esponente della letteratura svizzera dell’Ottocento, appartiene per la sua narrativa alla scuola realistica. 9. Johann Joseph Iguaz von Döllinger, 1799–1890, storico, teologo e uomo politico tedesco. Sacerdote
cattolico, avversario del potere temporale e dell ’infallibilità pontificia, fu scomunicato per non aver accettato le decisioni del Concilio Vaticano I. Autore di una celebre storia della Riforma (Die Reformation, ihre Entwicklung und ihre Wirkungen) e dei Beiträge zur Sefyengeschichte. 10. S. Alfonso Maria de’ Liguori, 1696–1787, teologo moralista italiano, dottore della Chiesa, fu anche un gran predicatore e inoltre musicista e poeta. Fondò l’ordine dei Redentoristi e contribuì a plasmare il culto mariano. 11. Teodoro di Beza, 1519–1605, teologo protestante francese, erede di Calvino a Ginevra. 12. S. Ignazio di Loyola, 1491–1556, fondatore della «Compagnia di Gesù» e autore degli. 13. Sebastian Franck (o Frank), 1499–1542, umanista e spiritualista tedesco; prima parroco ad Augusta poi predicatore luterano, si legò in seguito a Strasburgo allo Schwenckefeld e al suo movimento sprituale antidogmatico. Feroce avversario di Lutero e di ogni sorta di dogma, appare oggi come uno dei più moderni pensatori del suo secolo. Exercitia Spiritualia in cui espone la sua dottrina e pratica ascetica. 14. Allusione, per il lettore tedesco, al Tasso di GOETHE. 15. Si tratta del saggio Die protestantische Sekten und der Geist des Kapitalismus, qui non tradotto. 16. Vedi nota precedente. 17. Hanserd Knollys, 1599–1691, pastore battista inglese, perseguitato per le sue idee eterodosse, fu imprigionato più volte e costretto a lunghi periodi d’esilio. Predicò nella Nuova Inghilterra e passò molti anni in Olanda e Germania. 18. George Whitefield, 1714–1770, grande predicatore del revival evangelico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Dapprima metodista seguace del Wesley, se ne distaccò in seguito alle divergenze di quest’ultimo col Calvinismo. Ha avuto una grandissima influenza sul Metodismo nonché sul Presbiterianesimo scozzese. A lui risalgono anche numerosi colleges e università statunitensi. 19. Seiina Hastings contessa di Huntingdon, 1707–1791, figura centrale del revival evangelico nel xvm secolo in Inghilterra. Aderente al Metodismo wesleyano, creatrice di chiese, fondazioni e colleges per pastori evangelici, ha fondato la Connexion che raggruppa numerose chiese locali e a cui fanno capo anche chiese nella Sierra Leone. George Whitefield fu il suo predicatore preferito fino allo scoppio del dissenso tra Wesleyani e Calvinisti di cui egli era diventato nel frattempo il capo. 20. Richard Hooker, 1554–1600, teologo inglese, passato da simpatie puritane a una strenua difesa dell’Anglicanesimo in nome dell’unità tra Chiesa e Stato; la sua teoria è quella dello Stato inglese e della sovranità nel xvi secolo. 21. William Chillingworth, 1602–1644, teologo anglicano, una delle maggiori figure del «latitudinarismo». Autore di un’opera apologetica e autobiografica, The Religion of Protestants, a safe way to salvation. 22. Non tradotto nel presente volume. L’oggettivitàent; di Ritschl soffre per il fatto che quel grande erudito porta con sé i suoi giudizi di valore religiosi o per dir meglio politicoreligiosi, e data la sua antipatia contro ogni religiosità ascetica, dappertutto dove si compia un’evoluzione verso di questa, interpreta ciò come una ricaduta nel Cattolicesimo. Ma come il Cattolicesimo, così anche l’antico Protestantesimo si aggrega all sorts and conditions of men e tuttavia la Chiesa Cattolica ha rifiutato il rigorismo della ascesi intramondana, sotto l’aspetto del Giansenismo, proprio come il Pietismo respinse il Quietismo specificamente cattolico del XVII secolo. Tuttavia per le nostre speciali considerazioni, il Pietismo si muta in qualche cosa che agisce diversamente, non in senso quantitativo, ma qualitativo, solo quando l’accresciuto timore del mondo conduce alla fuga dalla vita professionale nell’ambito dell’economia privata, cioè alla formazione di conventicole su base claustrale e comunistica (Labadie), o, come veniva rimproverato dai contemporanei a taluni Pietisti estremi, a trascurare volontariamente il lavoro professionale per la contemplazione. Questo effetto appariva naturalmente con particolare frequenza là dove la contemplazione incominciò a prendere quel carattere, che Ritschl indica col nome di «Bernardinismo», perché è accennato per la prima volta nell’interpretazione che dà S. Bernardo del Cantico dei Cantici; una religiosità sentimentale
mistica, che tende alla unio mystica con sfumature cripto-sessuali. In confronto alla religiosità riformata, ed anche all’espressione ascetica di questa, in uomini come Voet, essa rappresenta senza dubbio qualche cosa di diverso già sul piano della psicologia religiosa. Ritschl invece cerca ovunque di combinare questo Quietismo coll’ascesi pietistica, per congiungerle nella stessa condanna, e mette il dito su ogni citazione della Mistica od Ascetica cattolica, che trova nella letteratura pietistica. Ma anche «insospettabili» teologi moralisti inglesi e olandesi citano S. Bernardo, S. Bonaventura e Tommaso da Kempis. Il rapporto col passato cattolico in tutte le Chiese della Riforma era molto complesso, e secondo il punto di vista in cui ci si pone, ora appare l’una ora l’altra chiesa (cioè rispettivamente determinati aspetti ora dell’una ora dell’altra) come la più vicina al Cattolicesimo. 23. August Hermann Francke, 1663–1727, pietista e educatore tedesco, ha fatto di Halle, dove insegnava presso l’università, il centro del Pietismo tedesco, fondandovi anche un famoso Orfanotrofio e varie istituzioni sociali. 24. Albrecht Ritschl, 1822–1889, teologo tedesco. Le sue vedute hanno avuto grande influenza su un’intera generazione di storici protestanti. 25. August Gottlieb Spangenberg, 1704–1792, vescovo tedesco della protestante «Comunità dei Fratelli» di Herrnhut, successore del conte Zinzendorf e fondatore della Chiesa Morava in America. 26. Qui non pubblicato. 27. Beato Egidio d’Assisi, m. 1262, compagno di S. Francesco. 28. Kaspar Schwenckfeld von Ossip, 1489–1561, riformatore e predicatore tedesco, dirigente laico della riforma protestante in Slesia e antenato spirituale della Schwenckfeldian Church in America. La dottrina della ispirazione materiale, e con ciò la stretta bibliocrazia dei Calvinisti, era del pari il prodotto di una evoluzione manifestatasi nel corso del secolo xvi in una sola direzione, come la dottrina della «luce interiore» nell’insegnamento dei Quaccheri, poggiante su fondamento battista, era il risultato di una evoluzione nel senso precisamente opposto. La distinzione netta fu qui in parte conseguenza di un costante confronto.
CAPITOLO CAPITOLO II ASCESI E SPIRITO CAPITALISTICO Per veder chiaramente i nessi delle concezioni religiose fondamentali del Protestantesimo ascetico colle massime della vita economica quotidiana è necessario, prima di tutto, trarre al la luce quegli scritti teologici, che si riconoscono nati dalla prassi della cura delle anime. Infatti, in un’epoca, nella quale l’aldilà era tutto, la posizione sociale del cristiano dipendeva dall’essere ammesso aH’Eucaristia e l’influenza degli ecclesiastici nella cura delle anime, nella disciplina ecclesiastica e nella predica era di tale importanza, quale —; come vediamo tutte le volte che diamo uno sguardo alle raccolte di consilia, di casus conscientiae, ecc. —; noi uomini moderni non possiamo farci più alcuna idea. I poteri religiosi che si fanno valere in questa prassi sono i plasmatori decisivi del «carattere nazionale». Per le trattazioni di questa sezione, in contrasto con ulteriori trattazioni, possiamo considerare il Protestantesimo ascetico come un tutto unito. Ma poiché il Puritanesimo inglese sviluppatosi dal Calvinismo offre il fondamento più conseguente dell’idea di professione, noi, secondo il nostro principio, poniamo al centro del nostro studio uno dei suoi rappresentanti. Richard Baxter si distingue da molti altri rappresentanti letterari dell’etica protestante per la sua posizione eminentemente pratica ed irenistica, ed al tempo stesso per il riconoscimento universale di cui godono i suoi scritti sempre nuovamente pubblicati e tradotti. Presbiteriano ed apologeta del sinodo di Westminster, ma ciò nonostante —; come tanti dei migliori spiriti della sua epoca —; sfuggito a poco a poco ai dogmi del Calvinismo antico, interiormente avversario dell’usurpazione di Cromwell, perché contrario ad ogni rivoluzione, alle sette, e più ancora allo zelo fanatico dei «santi», ma pieno di magnanimità di fronte alle differenze esteriori ed obiettivo rispetto all’avversario, cercò il suo campo di lavoro essenzialmente nel senso di promuovere praticamente la vita ecclesiastica e morale e, arrivando ad essere uno degli uomini che nella storia hanno curato con più successo le anime, per questo compito si mise a disposizione tanto del governo parlamentare quanto di Cromwell e della Restaurazionea, finché sotto quest’ultima già prima del «giorno di S. Bartolomeo» si ritirò dall’ufficio. Il suo Christian Directory è il compendio più ampio della teologia morale puritana e, oltre a ciò, ad ogni passo si orienta secondo le esperienze pratiche della cura d’anime fatta dal Baxter. Vengono presi come punti di paragone per il Pietismo tedesco i
Theologische Bedenken dello Spener, per i Quaccheri la Apology del Barclay ed anche altri rappresentanti dell’etica asceticab —; questi ultimi tuttavia, per guadagnare spazio, il più possibile in notac. Se si prende in mano la «Eterna pace dei santi» del Baxter e il suo Christian Directory od anche lavori analoghi di altrid al primo sguardo, nei giudizi sulla ricchezzae ed il suo acquisto ci colpisce proprio l’accentuazione degli elementi ebionitici del Nuovo Testamentof. La ricchezza, in quanto tale, è un grave pericolo, le sue tentazioni sono continue, il tendereg verso di essa è non soltanto privo di senso di fronte all’importanza pre valente del regno divino, ma anche moralmente sospetto. Molto più fortemente che in Calvino, il quale nella ricchezza degli ecclesiastici non vedeva un ostacolo per la loro azione ma al contrario un aumento perfettamente desiderato della loro considerazione, e permetteva loro di investire il loro patrimonio in maniera fruttifera a patto solo di evitare lo scandalo, l’ascesi sembra qui rivolta contro ogni tendenza all’acquisto di beni temporali. Dagli scrittori puritani si può, quanto si vuole, accumular gli esempi della condanna della tendenza al denaro e ai beni, e contrapporli all’etica del tardo Medioevo che in questo è molto più spregiudicata. E questo sospetto è molto serio; ma c’è bisogno di un’analisi più precisa per coglierne il significato etico ed il nesso. Ciò che è veramente riprovevole dal punto di vista morale, è l’adagiarsi nella ricchezzah, il godimento della ricchezza colla sua conseguenza dell’ozio e degli appetiti carnali, soprattutto di sviamento dallo sforzo verso una vita «santa». E la ricchezza è sospetta solo perché porta con sé il pericolo di questo riposo; poiché il «riposo eterno dei Santi» è nell’aldilà; ma sulla terra l’uomo per esser sicuro del suo stato di grazia deve «compiere le opere di Colui che lo ha mandato, fintanto che è giorno». Non l’ozio e il godimento, ma solo l’azione serve, secondo la volontà di Dio manifestamente rivelata, ad accrescimento della sua gloriai. La perdita di tempo è così la prima e, per principio, la più grave di tutte le colpe. Lo spazio della vita è brevissimo ed infinitamente prezioso per affermare la pro pria vocazione. La perdita di tempo nella società, «la conversazione oziosa»j, il lussok, persino di dormirel più di quel che sia necessario alla salute —; dalle 6 ad 8 ore al massimo —; è da un punto di vista morale, assolutamente riprovevolem. Non si dice ancora, come dirà Franklin: «Il tempo è denaro» ma questa sentenza vale, per così dire, in senso spirituale: esso è infinitamente prezioso,
perché ogni ora perduta è tolta al lavoro a servizio della gloria di Dion. Senza valore, talvolta addirittura riprovevole, è anche la contemplazione inattiva, per lo meno se essa avviene a spese del lavoro professionaleo. Poiché essa è meno accetta a Dio dell’adempimento attivo della sua volontà nella professionep. Oltre a ciò vi è per essa la domenica, e secondo il Baxter quelli stessi, che sono pigri nella loro professione non hanno tempo per Dio, quando ne è l’oraq. Conformemente a ciò, nell’opera principale di Baxter si ripete sempre la predica, talvolta quasi appassionata, del lavoro corporale o spirituale, duro, continuor. Due motivi qui agiscono insiemes Il lavoro è prima di tutto quel mezzo ascetico, da antico esperimentato, che, in aperto contrasto non soltanto con l’Oriente, ma anche rispetto a quasi tutte le regole monacali del mondo interot, da gran tempo fu apprezzato come taleu dalla Chiesa d’Occidente. Esso è in particolar modo il preventivo specifico contro tutte quelle tentazioni, che il Puritanesimo raccoglie insieme sotto il concetto di unclean life, e la cui importanza non è piccola. L’ascesi sessuale nel Puritanesimo è diversa da quella monacale nel grado, non nel principio che le sta a base ed è, in conseguenza anche della concezione della vita matrimoniale, di assai più vasta portata di quella. Poiché i rapporti sessuali, anche nel matrimonio, sono ammissibili sol tanto come mezzo voluto da Dio per la sua maggior gloria, corrispondente al comandamento «Crescite et multiplicamini»v. Come contro i dubbi religiosi ed il tormento degli scrupoli, così anche contro tutte le tentazioni sessuali viene prescritto, insieme con una severa dieta, cibo vegetale e bagni freddi: «Lavora fortemente nella tua professione»w. Ma il lavoro è oltre a ciò, soprattutto, lo scopo della vita prescritto da Diox. La sentenza di S. Paolo «Chi non lavora non deve mangiare» vale senza restrizioni per tuttiy. La scarsa voglia di lavorare è sintomo della mancanza dello stato di graziaz. Manifesta si mostra qui la deviazione dall’atteggiamento medioevale. Anche S. Tommaso d’Aquino aveva interpretato quella sentenza. Ma secondo la sua interpretazionea1 il lavoro è necessario solo naturali ratione per mantenere la vita dei singoli e della collettività. Quando viene a mancare questo scopo, cessa anche la validità di quella prescrizione. Essa riguarda la specie, non ogni singolo individuo. Non si riferisce a chi può vivere di quel che possiede e del pari la contemplazione, come una forma dell’azione nel regno di Dio, sta naturalmente al disopra di quel precetto nella sua
interpretazione letterale. Per la teologia popolare infine, la più alta forma di «produttività» monastica consisteva nell’aumentare il tesoro della Chiesa colla preghiera e col servizio del coro. Non soltanto queste infrazioni del dovere di lavorare cadono naturalmente in Baxter, ma colla più grande energia egli insiste sul principio fondamentale che anche la ricchezza non esonera da quella prescrizione assolutab1. Anche il possidente non deve mangiare senza lavorare, perché anche se non vi è costretto per coprire il suo bisogno vi ha tuttavia il precetto di Dio, al quale egli deve obbedire come il poveroc1. Perché la provvidenza di Dio tiene pronto per ciascuno senza eccezioni una vocazione (calling), che egli deve riconoscere e nella quale deve lavorare e questa vocazione non è, co me nel Luteranesimod1, una sorte alla quale ci si deve adattare e rassegnarsi, ma un comando di Dio airindividuo di operare per la sua gloria. Questa sfumatura apparentemente leggera ebbe importanti conseguenze psicologiche ed era connessa con una elaborazione ulteriore di quella interpretazione del mondo economico come voluto dalla provvidenza, che era già nota alla scolastica. Già S. Tommaso d’Aquino, al quale ancora una volta ci ricolleghiamo con maggiore facilità, aveva concepito il fenomeno della divisione del lavoro e dell’articolazione delle professioni nella Società come una emanazione diretta del piano divino del mondo. Ma rinserimento dell’uomo in questo mondo economico avviene ex causis naturalibus ed è casuale («contingente» secondo la terminologia scolastica). Per Lutero, come vedemmo, l’inquadramento degli uomini nei ceti e nelle professioni esistenti, che deriva daH’ordinamento storico obiettivo, divenne una diretta emanazione della volontà divina, e perciò la permanenza dell’individuo nella posizione e nei limiti che Dio gli ha indicato, un dovere religiosoe1. E questo tanto più in quanto che appunto le relazioni della religiosità luterana col mondo furono, fin dagli inizi, malcerte e tali rimasero. Dall’ambito del pensiero luterano, che non si era mai staccato completamente dall’indifferenza paolina per il mondo, non si potevano conquistare princìpi etici per riordinare il mondo, e si doveva pertanto accettarlo com’era, e solo si poteva imprimere un carattere religioso a questa accettazione. Il carattere provvidenziale del gioco reciproco degli interessi economici privati nella concezione puritana presenta una ben diversa sfumatura. Quale sia lo scopo provvidenziale dell’articolazione delle professioni, si riconosce dai suoi frutti, conformemente allo schema puritano di interpretazione
pragmatica. Su questi Baxter si lascia andare a spiegazioni, che in più di un punto ricordano la nota apoteosi della divisione del lavoro di Adam Smithf1. La specializzazione delle professioni conduce, poiché rende possibile la pratica (skill) del lavoratore, ad un aumento qualitativo e quantitativo della prestazione di lavoro, e serve così al bene generale (common best) che è identico col bene del più gran numero possibile. Benché sin qui la motivazione sia puramente utilitaria e del tutto affine a taluni punti di vista già comuni nella letteratura profana del tempog1, tuttavia l’impronta caratteristica puritana si manifesta appena Baxter pone in testa alle sue spiegazioni il seguente motivo: «Fuori di una professione stabile le prestazioni di lavoro di un uomo sono soltanto un lavoro occasionale ed egli passa più tempo nel non far nulla che nel lavoro», e conclude nella seguente maniera: «Ed egli (il lavoratore professionale) compirà in ordine il suo lavoro, mentre un altro è nell’eterna confusione e la sua occupazione non conosce né luogo né tempoh1… perciò una professione stabile (certain calling, in altri passi stated calling) è la miglior cosa per ognuno». Il lavoro malsicuro, a cui è costretto il comune bracciante giornaliero, è uno stato transitorio spesso inevitabile, ma sempre non desiderato. Manca appunto alla vita di chi è privo di professione il carattere sistematicometodico, che, come vedemmo, è richiesto dall’ascesi intramondana. Anche secondo l’etica dei Quaccheri la vita professionale dell’uomo deve essere un conseguente esercizio ascetico della virtù, una preservazione del suo stato di grazia, che si esprime nella curai1 e nel metodo, con cui egli attende alla sua professione. Non il lavoro di per se stesso, ma un razionale lavoro professionale è ciò che Dio richiede. Nel concetto puritano di professione l’accento è posto su questo carattere metodico dell’ascesi professionale, e non, come in Lutero, suH’adattarsi ad una sorte assegnata una volta per tutte da Dioj1. Pertanto si rispondeva affermativamente alla domanda se si potevano combinare insieme diverse callings: se ciò fosse stato utile al bene generale e al proprio personalek1 e non dannoso per nessuno e non avesse indotto ad esser poco coscienziosi (unfaithful) in una delle professioni che si combinavano. Ma anche il mutar di professione non era considerato di per se stesso riprovevole, se avvenga non sconsideratamente, ma per intraprendere una professione più accettal1 a Dio, cioè, secondo il principio generale, più utile. Ma soprattutto l’utilità di una professione ed il suo corrispondente essere
accetta a Dio si misura, certo, in primo luogo secondo criteri morali e subito dopo secondo l’importanza dei beni che con essa si producono per la collettività; segue subito, però, come terzo, e naturalmente, sul piano pratico, più importante punto di vista, la sua «profittabilità» dal punto di vista economico privatom1. Perché se quel Dio, che il Puritano vede operare in tutte le circostanze della vita, indica ad uno dei suoi un’opportunità di guadagno, certamente ha la sua intenzione. E perciò il Cristiano credente deve seguire questa chiamata, approfittandonen1. «Se Iddio vi mostra un cammino, sul quale, senza danno per l’anima vostra o per altri, potete guadagnare in modo legittimo più che in un altro, e voi lo rifiutate e seguite il cammino che può apportare meno guadagno, allora voi vi opponete ad uno degli scopi della vostra vocazione (calling). Voi rifiutate di essere amministratori (stewart) di Dio, e di accettare i suoi doni, per poterli usare per lui, se egli lo dovesse richiedere. In realtà non al fine del godimento della carne e del peccato, ma per Dio voi dovete lavorare ed esser ricchi»o1. La ricchezza è pericolosa solo come tentazione ad adagiarsi nella pigrizia e a godere nel peccato, e pericoloso è lo sforzo verso di essa solo quando avviene per poter vivere più tardi senza preoccupazioni ed allegramente. Ma come esercizio del dovere professionale quello sforzo è non soltanto lecito moralmente, ma addirittura comandatop1. La parabola di quel servo, che fu scacciato perché non aveva messa a frutto la libbra a lui affidata, sembrava esprimere chiaramente questo comandoq1. Volere esser povero significava, come spesso si portava per argomento, lo stesso che volere esser malator1, e sarebbe stato riprovevole come santificazione delle opere e dannoso alla gloria di Dio. Ed infine il chieder l’elemosina da parte di uno che fosse stato capace di lavorare, era cosa non solo colpevole come pigrizia, ma anche, conformemente alla parola dell’apostolo, contraria all’amor del prossimos1. Come il rafforzamento del significato ascetico della professione stabile mette, moralmente, in miglior luce il moderno ceto dei professionisti specializzati, così l’interpretazione in senso provvidenziale delle possibilità di guadagno conferisce un alone morale all’uomo d’affari modernot1. L’aristocratica indifferenza del gran signore e la ostentazione da parvenu del ricco borioso sono ugualmente odiose all’ascesi. Un raggio di approvazione morale investe in pieno l’austero self-made man borgheseu1: God blesseth his trade è una espressione costantemente usata per quegli Elettiv1, che avevano seguito con successo quelle di sposizioni divine, e tutta la forza del Dio del
Vecchio Testamento, che ricompensa appunto in questa vita i Suoi della loro pietà,w1 doveva agire nel medesimo senso anche per il Puritano, che secondo il consiglio di Baxter, controllava bx1 il proprio stato di grazia colla statura spirituale degli eroi biblici, ed interpretava le sentenze della Bibbia «come gli articoli di un codice». Le sentenze del Vecchio Testamento non erano di per se stesse del tutto univoche. Noi vedemmo che Lutero usò nella lingua il concetto di Beruf (nel senso profano) per la prima volta traducendo un passo di Gesù Siracide. Ma il libro di Gesù Siracide, con tutta l’atmosfera che in esso si respira appar tiene, nonostante l’influenza ellenistica, a quelle parti dell’Antico Testamento (ampliato) che agiscono in senso tradizionalistico. è un fatto caratteristico che questo libro sembra godere ancor oggi fra i contadini luterani tedeschi di un particolare favorey1, come il carattere luterano di larghe correnti del Pietismo tedesco soleva mostrarsi nella preferenza per Gesù Siracidez1. I Puritani ripudiarono gli apocrifi come non ispirati, conformemente alla loro rigida alternativa fra il divino e l’umanoa2 E tanto più fortemente agì, tra i libri canonici, il libro di Giobbe, colla sua combinazione di una grandiosa glorificazione della maestà divina da un lato, assolutamente sovrana e sottratta alle misure umane, che era così congeniale alla concezione calvinista, e della certezza, d’altra parte, pur sempre risorgente —; secondaria per Calvino quanto importante per il Puritanesimo —; che Dio benedice i Suoi anche e specificamente in questo mondo —; nel libro di Giobbe solo in questo mondo —; e anche dal lato materiale“;b2. Il Quietismo orientale, che appare in taluno dei versi più suggestivi dei Salmi e dei Proverbi di Salomone, fu eliminato nell’interpretazione, come il Baxter fece anche della sfumatura tradizionalistica del passo della ic2 Epistola ai Corinti, fondamentale per il concetto di professione. Perciò si pose tanto più l’accento su quei passi dell’Antico Testamento che celebrano la rettitudine formale come un segno conoscitivo di una condotta accetta a Dio. La teoria che la legge mosaica sia stata spogliata del suo valore dal Nuovo Patto, solo in quanto contenga prescrizioni cerimoniali o condizionate storicamente, ma nel resto abbia avuto fin da allora e pertanto abbia mantenuto il suo valore di espressione della lex naturaed2, da una parte rendeva possibile di eliminare quelle prescrizioni, che assolutamente non si potevano adattare alla vita moderna, e lasciava tuttavia strada libera per un potente rafforzamento di quello spirito di legalità assoluta e severa, che era proprio deH’ascesi
intramondana di questo Protestantesimo, attraverso i numerosi caratteri affini della moralità del Vecchio Testamentoe2. è pertanto assolutamente esatta, se ben compresa, la definizione di «Ebraismo inglese» data frequentemente già dai contemporanei, e ripetuta da scrittori moderni, della disposizione morale fondamentale del Puritanesimo inglesef2. Non si deve pensare soltanto al giudaismo palestinese dell’epoca delle origini degli scritti del Vecchio Testamento, ma anche a quello che si formò a poco a poco sotto l’influenza dei molti secoli di educazione formalistica-legale e talmudica, ed occorre oltre a ciò andare estremamente prudenti coi paralleli. La disposizione d’animo del Giudaismo antico, nel suo complesso diretta ad apprezzare spassionatamente la vita per se stessa, era lontana dal carattere specifico del Puritanesimo. Altrettanto lontano da questo era —; ed anche questo fatto non deve essere trascurato —; l’etica economica del Giudaismo medioevale e moderno nei caratteri che furono decisivi per la posizione dell’uno e dell’altro nello sviluppo àtWethos capitalistico. Il Giudaismo era dalla parte del capitalismo degli avventurieri, orientato in senso politico e speculativo; la sua etica era, in una parola, quella del capitalismo paria; il Puritanesimo portava Vethos dell’industria nazionale borghese e dell’organizzazione razionale del lavoro. Esso prese dall’etica giudaica solo ciò che si inquadrava in questo contesto. Il mostrare le conseguenze di tipo caratteriologico della penetrazione di norme del Vecchio Testamento nella vita —; un compito attraente che finora non è stato veramente assolto neppure per il Giudaismog2 —; sarebbe impossibile nei limiti di questo studio. Insieme coi rapporti accennati, per l’aspetto generale del Puritanesimo, va considerato anche soprattutto il fatto che in esso rivisse, intima grandiosa rinascita, la credenza di esser il popolo eletto da Dioh2. Come perfino il mite Baxter ringrazia Iddio di averlo fatto venire alla luce in Inghilterra e nella vera Chiesa e non altrove, così questa gratitudine per la propria irreprensibilità, effetto della grazia di Dio, penetrava la disposizione d’animoi2 della borghesia puritana ed era la causa di quel carattere formalmente corretto e duro, che fu proprio dei rappresentanti di quell’epoca eroica del capitalismo. Cercheremo ora di spiegarci in modo speciale quei punti, nei quali la concezione puritana della professione e l’esigenza di una condotta ascetica, dovettero direttamente influire sullo sviluppo di uno stile capitalistico nella vita. Con gran forza l’ascesi si rivolge, come vedemmo, soprattutto contro una
cosa: il godimento spregiudicato della vita e delle gioie che essa può offrire. Questo tratto si manifesta nel modo più caratteristico nella lotta per il Book of sportsj2 che Giacomo I e Carlo I elevarono a legge per lo scopo espresso di combattere il Puritanesimo, e la cui lettura da tutti i pulpiti fu da Carlo I espressamente ordinata. Quando i Puritani combatterono, furibondi, la disposizione del re, secondo la quale la domenica dovevano esser ammessi, fuori delle ore del servizio divino, alcuni divertimenti popolari, ciò che li eccitò non fu soltanto la violazione del riposo festivo, ma anche tutta la deviazione, intenzionalmente voluta, dalla metodica condotta di vita del Santo. E quando il re comminò gravi pene contro ogni attacco alla legalità di quegli sports, suo scopo fu appunto di spezzare quel carattere ascetico, pericoloso per lo stato, perché antiautoritario. La società monarchico-feudale difendeva i desiderosi di divertimenti contro la nascente morale borghese e contro le conventicole ascetiche nemiche dell’autorità, come oggi la socie tà capitalistica suole difendere i volenterosi di lavorare contro la morale di classe degli operai e le associazioni di mestiere nemiche dell’autorità. Di fronte a ciò i Puritani opponevano il loro carattere più deciso: il principio di una vita ascetica. Poiché nel resto l’avversione del Puritanesimo contro lo sport, anche nei Quaccheri, non era fondamentale. Soltanto esso doveva servire ad uno scopo razionale: alla ricreazione necessaria per l’energia fisica. Al contrario era sospetto come mezzo di soddisfazione spontanea di impulsi non domati; ed in quanto diventava puro divertimento, risvegliava istinti brutali, o ambizioni agonali o piaceri irrazionali, naturalmente gli era addirittura riprovevole. L’impulsiva gioia di vivere, che distrae tanto dal lavoro professionale quanto dalla religiosità, era in quanto tale nemica dell’ascesi razionale sia che si presentasse come sport di gran signore, o come frequenza di gente volgare nei locali da ballo e nelle ribottek2. Diffidente e spesso ostile è, conformemente a ciò, l’atteggiamento di fronte ai beni culturali non suscettibili di una diretta valutazione religiosa. Non già che un arido e volgare disprezzo della cultura fosse contenuto nell’ideale di vita del Puritanesimo. Precisamente il contrario è vero per la scienza, ad eccezione dell’aborrita scolastica. Ed i maggiori rappresentanti del movimento puritano sono inoltre profondamente imbevuti della cultura del Rinascimento; le prediche della branca presbiteriana sono piene di classicismil2, ed anche i più radicali, sebbene in generale ne fossero scandalizzati, non disdegnavano
quella erudizione nella polemica teologica. Mai forse un paese è stato così sovrabbondante di graduates, come la Nuova Inghilterra durante la prima generazione della sua esistenza. La satira degli avversari, come per es. di Butlerm2ntWHudibras, si appunta proprio contro l’erudizione e l’abile dialettica dei Puritani: ciò è in parte connesso coll’apprezzamento religioso della scienza, che derivava dalla posizione rispetto alla cattolica fides implicita. Le cose si presentano del tutto diversamente quando si entri nel campo della letteratura non scientifican2, e più ancora in quello delle arti. Qui l’ascesi gravò come una pesante catena sulla vita della lieta vecchia Inghilterra. E non soltanto le feste profane ne furono colpite. L’odio iroso dei Puritani contro tutto quel che aveva odore di superstition, contro tutte le reminiscenze di dispensa magica o ecclesiastica della grazia, perseguitò la cristiana festa di Natale al pari dell’albero della cuccagnao2, e dell’uso franco e sciolto dell’arte nelle chiese. Il fatto che in Olanda rimase la possibilità di sviluppo di una grande artep2 spesso crudamente realistica, dimostra soltanto quanto fosse incompleta in questo senso la regolamentazione dei costumi, che colà era applicata d’autorità, di fronte alla influenza della corte e del ceto dei reggenti (un ceto di reti- tiers), ma anche di fronte alla volontà di vivere dei piccoli borghesi arricchiti, dopoché il breve dominio della teocrazia calvinista si fu dissolto in una chiesa di stato moderata ed il Calvinismo ebbe così notevolmente perduta la sua forza di richiamo asceticaq2. Il teatro era riprovevole per i Puritaniar2; la concezione più radicale non si limitò alla rigorosa eliminazione dell’elemento erotico e delle nudità dal cerchio dell’ammissibile nella letteratura come nell’arte. I concetti àtWidle talk., delle superfluitiess2 della vaiti ostentation —; tutte definizioni di una condotta irrazionale, priva di scopo, e perciò non ascetica, che oltre a ciò non serviva alla gloria di Dio, ma a quella degli uomini —; erano subito disponibili per favorire, contro ogni impiego di motivi artistici, l’austera rispondenza del mezzo al fine. Ciò valeva inoltre là dove si trattava direttamente deH’ornamento della persona, del modo di vestire per es.t2. Quella potente tendenza ad uniformare lo stile della vita, che è oggi rafforzata dall’interesse capitalistico alla standardization della produzioneu2, aveva il suo fondamento ideale nella avversione alla divinizzazione delle creaturev2. Non si deve certamente dimenticare che il Puritanesimo
racchiudeva in sé un mondo di contraddizioni, che il senso istintivo per il grandioso, l’eterno, nell’arte era più forte nei suoi capi che non nei «Cavalieri»w2 e che un genio singolarissimo come Rembrandt, per quanto poca grazia avrebbe trovato la sua condotta agli occhi dei Puritani, fu tuttavia sostanzialmente influenzato, nell’indirizzo della sua creazione, dall’ambiente delle sette in cui vissex2. Ma ciò non muta nulla al quadro di insieme, in quanto la potente spiritualizzazione della personalità, che l’ulteriore sviluppo dell’atmosfera puritana poteva portar con sé —; e di fatto ha in parte determinato —; giovò prevalentemente alla letteratura e inoltre solo per le generazioni successive. Senza entrare con maggiori particolari nella discussione delle influenze del Puritanesimo in tutte queste direzioni, ricordiamoci adesso però, che la liceità del piacere preso nei beni che servono al godimento estetico o sportivo, trova in ogni caso un limite caratteristico: non debbono costar nulla. L’uomo è soltanto amministratore dei beni assegnategli dalla grazia di Dio, egli deve, come il servo della Bibbia, render conto di ogni cen tesimo che gli è stato affidatoy2 ed è per lo meno una cosa pericolosa il darne via una parte per uno scopo, che serva, non alla gloria di Dio, ma al proprio godimentoz2. Quale persona, che abbia gli occhi aperti, non ha incontrato ancor oggi rappresentanti di questa concezionea3? Il concetto del dovere dell’uomo di fronte alla proprietà a lui affidata, alla quale egli si subordina come amministratore o addirittura come macchina intesa al guadagno, grava sulla vita col suo gelido peso. Quanto più grande diventa la proprietà, tanto più grave diventa —; se la disposizione ascetica supera la prova —; il sentimento della responsabilità per mantenerla intatta per la gloria di Dio e di aumentarla con un lavoro senza tregua. Anche la genesi di questo stile della vita risale con talune radici, come tanti elementi del moderno spirito capitalistico, al Medioevob3, ma solo nell’etica del Protestantesimo ascetico trovò il suo conseguente fondamento etico. La sua importanza per lo sviluppo del capitalismo è evidentec3. L’ascesi intramondana protestante —; così noi possiamo riassumere ciò che abbiano detto fin qui —; operò con grande violenza contro il godimento spregiudicato della proprietà, e restrinse il consumo, in ispecie il consumo di lusso. D’altra parte essa liberò, nei suoi effetti psicologici, l’acquisizione di beni dagli ostacoli dell’etica tradizionalistica, ruppe i vincoli della tendenza al guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma addirittura, nel senso che
esponemmo, la riguardò come voluta da Dio. La lotta contro i piaceri della carne e l’attaccamento ai beni esteriori non era, come attesta espressamente, insieme coi Puritani, anche il grande apologeta del Quaccherismo, il Barclayd3una lotta contro il guadagno razionale, ma sibbene contro l’impiego irrazionale della proprietà. E questo consisteva nell’ap prezzamento, da condannarsi come idolatriae3, delle forme ostensibili del lusso, che erano così vicine al modo di sentire feudale, in luogo dell’impiego voluto da Dio, razionale ed utilitario, per i fini della vita del singolo e della collettività. Non si voleva imporre al possidente la macerazionef3, ma l’uso della sua ricchezza per cose necessarie e di pratica utilità. Il concetto di comfort abbraccia in modo caratteristico il cerchio dei fini, moralmente leciti, in cui quella ricchezza si può impiegare e naturalmente non è un caso che si sia osservato appunto fra i seguaci più coerenti di tutta questa concezione, i Quaccheri, uno sviluppo più precoce e più manifesto dello stile di vita, che si riattacca a quel concetto. Di contro alle brillanti apparenze della pompa cavalleresca, che, poggiando su basi economiche poco solide, preferisce una magra eleganza alla semplicità modesta, essi oppongono come ideale la pulita e solida comodità dello home borgheseg3 Nel campo della produzione della ricchezza privata l’ascesi combatteva contro la disonestà e contro l’avidità puramente impulsiva che condannava come covetousness e «mammonismo»; cioè lo sforzo teso alla ricchezza, per il solo scopo finale di esser ricchi. Poiché la proprietà in quanto tale era tentazione. Ma l’ascesi era la forza «che vuole continuamente il bene e crea continuamente il male», cioè crea quel che secondo la sua stessa interpretazione, è male: la ricchezza e le sue tentazioni. Poiché non soltanto essa vedeva, col Vecchio Testamento ed in piena analogia coll’apprezzamento etico delle «opere buone», nello sforzo verso la ricchezza come fine a se stessa, una cosa riprovevole al massimo grado, e nella conquista, invece, della ricchezza, come frutto del lavoro professionale, la benedizione di Dio. Ma, cosa ancor più importante: la valutazione religiosa del lavoro professionale laico, indefesso, continuo, sistematico, come del più alto mezzo ascetico, e al tempo stesso come della più alta sicura e visibile conferma e prova dell’uomo rigenerato e della sincerità della sua fede, doveva esser la leva più potente che si potesse pensare per l’espansione di quella concezione della vita, che noi abbiamo definito come «spirito del capitalismo»h3. E se connettiamo quella limitazione del consumo con questa liberazione dello sforzo teso al guadagno,
il risultato esteriore è evidente: formazione del capitale per mezzo di una costrizione ascetica al risparmioi3. Gli ostacoli che si opponevano al consumo di ciò che si era acquisito dovevano avvantaggiare il suo impiego produttivo come capitale di investimento. Finché durò la forza della concezione puritana della vita, essa aiutò —;e questo è naturalmente molto più importante che non l’aver semplicemente favorito la formazione di capitali —; la tendenza ad una condotta borghese economicamente razionale; essa ne fu il sostegno più importante e soprattutto più conseguente. Essa stette alla culla del moderno homo oeconomìcus. Naturalmente sfugge ad una esatta determinazione in cifre quanto forte sia stato questo effetto. Nella Nuova Inghilterra il nesso appare così evidente, che naturalmente non è sfuggito alPocc’hio di uno storico eccellente come il Doylej3. Ma anche nell’Olanda, che fu dominata dal Calvinismo rigoroso solo per sette anni, la maggior semplicità della vita che dominava nei circoli religiosamente più seri, congiunta colle enormi ricchezze, condusse ad una smania eccessiva di accumular capitalik3. è evidente che inoltre dovette essere sensibilmente impedita dall’antipatia del Puritanesimo per le forme di vita feudale, la tendenza, che è esistita in tutti i tempi, e che agisce ancora oggi da noi, a «nobilitare» i patrimoni borghesi. Gli scrittori mercantilisti inglesi del xvi secolo attribuivano la superiorità della potenza capitalistica olandese rispetto a quella inglese, al fatto che là i patrimoni di recente acquisto non cercavano di nobilitarsi con investimenti terrieri, e —; ciò che è più importante, poiché non si tratta soltanto di acquisti di terre —; col passaggio ad abitudini di vita feudale, né venivano, così, sottratti ad investimenti capitalisticil3. La considerazione, in cui anche tra i Puritani era tenuta l’agricoltura, come un ramo dell’attività acquisitiva particolarmente importante ed anche particolarmente favorevole alla religiosità (per es. in Baxter) non valeva per il Landlord1 ma per il yeoman e il farmer2 e, nel xvm secolo, non per il nobile terriero (Junker) ma per l’agricoltore razio naiem3. Attraverso la società inglese dal xvn secolo in poi si delinea la divisione tra la «squirearchia»3 rappresentante della «vecchia lieta Inghilterra»4 ed i circoli puritani la cui forza socialen3 era molto variabile. I due tratti: quello di una non compressa, spontanea gioia di vivere, e quello di un dominio di se stesso severamente regolato e riservato, e di un convenzionale vincolo etico, sono ancor oggi, l’uno accanto all’altro, nell’immagine del carattere nazionale ingleseo3. E parimenti si delinea attraverso la più antica storia della
colonizzazione nord-americana il forte contrasto degli adventurers5, che iniziano piantagioni colle forze di indentet servants6 e vogliono vivere signorilmente, colla mentalità specificamente borghese dei Puritanip3. Certamente: questi ideali puritani vennero meno alla prova, troppo forte per essi, offerta dalle tentazioni della ricchezza, ben note agli stessi Puritani. Regolarmente noi troviamo i seguaci più genuini dello spirito puritano nelle file degli strati, che sono ancora occupati ad affermarsiq3, dei piccoli borghesi e dei farmers; troviamo che i beati possidentes, anche tra i Quaccheri, sono pronti invece a rinnegare gli antichi idealir3. Era lo stesso destino a cui sempre nuovamente soggiacque l’ascesi claustrale del Medioevo, che aveva preceduto l’ascesi intramondana: quando la razionale condotta economica, col mezzo di una vita severamente regolata e della restrizione del consumo, aveva completamente svolto il suo effetto, allora la ricchezza acquisita o soccombeva direttamente alla «nobilitazione», come prima della Riforma luterana, o la disciplina claustrale minacciava di sfasciarsi e doveva intervenire una delle numerose riforme. E tutta la storia degli ordini religiosi è in un certo senso una lotta sempre rinnovata cogli effetti secolarizzanti della ricchezza. Lo stesso vale in grandiosa misura per l’ascesi intramondana del Puritanesimo. Il potente revival del Metodismo, che precede il fiorire della industria inglese verso la fine del xvm secolo, può essere ben paragonato ad una di queste riforme monacali. Io voglio far posto ad un passos3 dello stesso John Wesley, che potrebbe bene servire da motto a tutto quel che abbiamo detto finora. Poiché esso mostra come i capi dei movimenti ascetici avessero una conoscenza perfettamente chiara dei nessi qui esposti, apparentemente così paradossali, e precisamente nel senso che noi qui abbiamo svoltot3. Egli scrive: «Io temo: tutte le volte che la ricchezza si è accresciuta, il patrimonio religioso è diminuito nella stessa misura. Perciò io non vedo come sia possibile, seconda la natura delle cose, che un risveglio di religiosità possa avere lunga durata. Poiché la religione deve provocare necessariamente tanto laboriosità (in- dustry) quanto parsimonia (frugality) e queste non possono produrre che ricchezza. Ma quando la ricchezza cresce, si accrescono anche l’orgoglio, la passione e l’amore del mondo in tutte le sue forme. Come è dunque possibile che il Metodismo, cioè una religione del cuore, anche se adesso fiorisce come un albero rigoglioso, rimanga in questo stato? I Metodisti si fanno dappertutto diligenti e parsimoniosi; di conseguenza la loro proprietà si accresce. Perciò essi salgono corrispondentemente in superbia, in passione,
in desideri carnali e mondani ed in orgoglio di vita. Così rimane la forma della religione; ma lo spirito a poco a poco scompare. Non c’è una via per impedire questa continua decadenza della pura religione? Noi non dobbiamo impedire alla gente di essere laboriosa ed economa. Noi dobbiamo esortare tutti i Cristiani a guadagnare quel che possono, ed a risparmiare quel che possono, cioè giungere al risultato di diventar ricchi». (Segue l’ammonimento che coloro che guadagnano tutto quel che possono e risparmiano tutto quel che possono, debbono anche dare tutto quel che possono, per salire così nella grazia ed accumulare un tesoro nel Cielo). Si vede, fin nei dettagli, il nesso che qui abbiamo illustratou3. Proprio come qui dice il Wesley, quei potenti movimenti religiosi, la cui importanza per lo sviluppo economico consisteva in prima linea nei loro effetti educativi ascetici, di regola svilupparono la loro piena influenza economica non appena fu superata l’acme dell’entusiasmo puramente religioso, non appena la spasimante ansia della ricerca del regno di Dio cominciò a poco a poco a dissolversi in una austera virtù professionale e la radice religiosa si inaridì lentamente e fece posto ad un indirizzo utilitaristico e terreno; quando, per dirla con Dowden7 nella fantasia popolare il Robinson Crusoe, l’uomo economico isolato, che inoltre fa anche il missionariov3, fu entrato al posto del Pellegrino di Bunyan, che in solitaria attività interiore, tende al regno dei cieli passando attraverso la «fiera della vanità». Quando più tardi divenne dominante il principio to make thè best of boht worlds, allora in definitiva, come Dowden ha pure osservato, la buona coscienza dovette semplicemente essere annoverata fra i mezzi della comoda vita borghese, come esprime graziosamente anche il proverbio tedesco del sanftes Ruhekissen (guanciale morbido). Ciò che l’epoca, religiosamente così viva del xvn secolo, lasciò alla sua utilitaria erede, fu soprattutto una straordinaria buona coscienza —; diciamo pure una buona coscienza farisaica —; riguardo al guadagno di denaro, purché compiuto secondo le vie legali. Ogni residuo della sentenza Deo piacere vix potest era scomparsow3. Era sorto un ethos professionale specificamente borghese. Colla coscienza di essere nella piena grazia del Signore e di essere da lui visibilmente benedetto, l’imprenditore borghese, se si manteneva nei limiti di una correttezza formale, se la sua condotta morale era irreprensibile, e8l’uso che faceva della sua ricchezza non era urtante, poteva accudire ai suoi interessi, lo doveva anzi fare. La potenza dell’ascesi religiosa poneva oltre a
ciò a sua disposizione lavoratori seri, coscienziosi, di straordinaria capacità, ed attaccati al lavoro come allo scopo della vita voluto da Diox3. Essa gli dava anche la tran quilla sicurezza che la disuguale divisione dei beni di questo mondo è un’opera speciale della provvidenza di Dio, il quale con queste differenze, come colla grazia particolare segue i suoi scopi arcani, a noi sconosciutiy3. Già Calvino aveva espresso la sentenza spesso citata che solo se il «popolo» cioè la massa dei lavoratori e degli artigiani vien mantenuta povera, rimane obbediente a Dioz3. Gli olandesi (Pieter de la Court e altri) l’avevano «secolarizzata» nel senso che la moltitudine lavora soltanto quando vi è costretta dal bisogno e questa formulazione di uno dei motivi conduttori dell’economia capitalista sfociò più tardi nella corrente delle teorie sulla «produttività» dei bassi salari. Anche qui l’interpretazione utilitaria si sostituì insensibilmente al concetto religioso, coll’inaridirsi delle radici di questo, proprio secondo lo schema dell’evoluzione, che noi abbiamo sempre nuovamente osservato. L’etica medioevale aveva non soltanto tollerato, ma negli ordini mendicanti, addirittura glorificato la mendicità. Anche i mendicanti laici, poiché davano occasione al ricco di compiere opere buone mediante l’elemosina, furono talvolta definiti e considerati come un «ceto». L’etica sociale anglicana degli Stuart era ancora molto vicina a questo atteggiamento. Era riservato all’ascesi puritana di cooperare a quella dura legislazione inglese sui poveri, che creò in questo campo un mutamento fondamentale. E lo potè fare perché le sette protestanti e soprattutto le comunità strettamente puritane in effetti non conoscevano la mendicità nel loro senoa4 E riguardando dall’altra parte, da quella degli operai: la tendenza dello Zinzendorf nel Pietismo glorificava il lavoratore fedele al suo lavoro, che non guarda al guadagno, poiché vive secondo l’esempio degli apostoli e così è dotato del crisma dell’apostolatob4. Ancor più radicali erano le concezioni simili diffuse in principio tra i Battisti. Ma naturalmente il complesso della letteratura ascetica di quasi tutte le confessioni era compenetrato dall’idea che il lavoro coscienzioso anche con bassi salari da parte di coloro, cui la vita non ha riservato altre possibilità, sia qualche cosa di straordinariamente accetto a Dio.9In ciò l’ascesi protestante non portò di per se stessa alcuna innovazione. Ma non soltanto approfondì questo pensiero nel modo più efficace, ma anche dotò quella norma di ciò che, in definitiva, solo importava alla sua efficacia: l’incentivo psicologico che deriva dalla concezione di questo lavoro come vocazione, cioè come mezzo migliore, anzi unico per assicurarsi dello stato di
graziac4. E d’altra parte essa legalizzò lo sfruttamento di questa speciale disposizione al lavoro, in quanto dette il significato di «vocazione» anche al guadagno delPimprenditorea. è evidente quanto potentemente dovessero promuovere la «produttività», nel senso capitalistico della parola, l’attività rivolta esclusivamente al regno di Dio, mediante l’adempimento del proprio dovere nel lavoro professionale e la severa ascesi, che la disciplina ecclesiastica imponeva appunto alle classi nullatenenti. Il considerare il lavoro come «vocazione» divenne per l’operaio moderno altrettanto caratteristico quanto la corrispondente concezione del profitto per l’imprenditore. Quando un osservatore anglicano così acuto come Sir William Petty attribuì la potenza economica olandese del seco lo al fatto che colà i dissenters (Calvinisti e Battisti), in particolar modo numerosi, erano gente che considerava il lavoro e l’industriosità come il proprio dovere verso Dio, non faceva che rappresentare questa condizione di cose, allora nuova. Alla costituzione sociale organica, in quella forma fiscale monopolistica, che essa prese neirAnglicanesimo sotto gli Stuart, specialmente nelle concezioni di Laud10 a questa alleanza dello Stato e della Chiesa coi «monopolisti» su di un fondamento cristiano-sociale, il Puritanesimo, i cui rappresentanti erano avversari appassionati di questa specie di capitalismo privilegiato dallo stato, di mercanti, di imprenditori, di sfruttatori di colonie, oppose gli impulsi individualistici dell’attività legale e razionale, dovuti alla propria abilità ed iniziativa, impulsi che parteciparono in maniera decisiva alla creazioned4 delle industrie che sorgevano senza l’assistenza dei poteri costituiti, anzi in parte nonostante e contro di essi, mentre che le industrie monopolistiche di stato di Inghilterra rapidamente scomparivano. I Puritani (Prynne11 Parker), nell’orgoglio per la superiorità della loro morale d’affari borghese, respinsero ogni comunione coi «cortigiani e progettisti» che portavano l’impronta del gran capitalismo, considerandoli una classe moralmente sospetta. è questa la vera ragione delle persecuzioni a cui essi furono sottoposti da parte di quei gruppi. Ancora Defoe proponeva di vincere la lotta contro i dissidenti boicottando il cambio delle banche e ritirando i depositi. Il contrasto delle due forme di atteggiamento capitalistico procedeva parallelamente ai contrasti religiosi. Gli avversari dei Nonconformisti hanno sempre deriso questi, anche nel xvm secolo, come rappresentanti dello spirit of shop- keepers e perseguitati come la rovina dei vecchi ideali inglesi. Qui era radicato anche il contrasto dell’etica economica puritana con quella giudaica e già un contemporaneo
come Prynne sapeva che la prima, non la seconda, era l’etica economica borghesee4. Uno degli elementi costitutivi dello spirito capitalistico moderno, e non soltanto di questo, ma di tutta la civiltà moderna: la condotta razionale della vita sul fondamento dell’idea di professione, è nata —; è ciò che questi saggi vorrebbero dimostrare —; dallo spirito dell’ascesi cristiana. Si rilegga ancora una volta il trattato dì Franklin citato all’inizio di questo saggio, per vedere che gli elementi importanti di quel modo di sentire, là definito come «spirito del capitalismo», sono quelli stessi che noi stabilimmof4 essere il contenuto dell’ascesi professionale puritana, ma privi del fondamento religioso che in Franklin era già scomparso. Il pensiero che il lavoro professionale moderno abbia un carattere ascetico non è in realtà nuovo. Anche Goethe, al culmine della sua saggezza ed esperienza della vita, nei Wanderjahre e nella conclusione che dette alla vita di Faust, ci ha voluto insegnareg4 questo motivo ascetico fondamentale dello stile della vita borghese, se questa appunto voglia avere uno stile: che cioè il limitarsi al lavoro professionale colla rinuncia alla universalità faustiana, che questa limitazione comporta, sia nel mondo moderno il presupposto di ogni azione degna di stima, che azione dunque e rinuncia si condizionano inevitabilmente a vicenda. Per lui questo riconoscimento significava rinuncia ed un addio ad un tempo di piena e bella umanità, che non si rinnoverà più, nel corso del nostro sviluppo culturale, come nell’antichità non si rinnovò il fiorire di Atene. Il Puritano volle essere un professionista, noi dobbiamo esserlo. Poiché in quanto l’ascesi fu portata dalle celle dei monaci nella vita professionale e cominciò a dominare la moralità laica, essa cooperò per la sua parte alla costruzione di quel potente ordinamento economico moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile della vita di ogni individuo, che nasce in questo ingranaggio, e non soltanto di chi prende parte all’attività puramente economica. Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via, secondo la concezione di Baxter, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli «eletti»h4. Ma il destino fece del mantello una gabbia di acciaio. Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia. Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre,
da questa gabbia. Il capitalismo vittorioso in ogni caso, da che posa su di un fondamento meccanico, non ha più bisogno del suo aiuto. Sembra impallidire per sempre anche il roseo stato d’animo del suo sorridente erede: l’Illuminismo, e come un fantasma di concetti religiosi che furono, si aggira nella nostra vita il pensiero del dovere professionale. Ove l’adempimento di questo non possa esser posto direttamente in relazione coi più alti beni spirituali della civiltà, o dove inversamente non debba esser sentito anche soggettivamente come semplice costrizione economica, per lo più l’individuo rinuncia ad ogni spiegazione di esso. Nel paese, dove più fortemente si è sviluppato, negli Stati Uniti, l’attività economica, spogliata del suo senso etico-religioso, tende ad associarsi a passioni puramente agonali, che non di rado le imprimono precisamente il carattere di uno sporti4. Nessuno sa ancora chi nell’avvenire vivrà in questa gabbia e se alla fine di questo enorme sviluppo sorgeranno nuovi profeti od una rinascita di antichi pensieri ed ideali o, qualora non avvenga né l’una cosa né l’altra, se avrà luogo una specie di impietrimento nella meccanizzazione, che pretenda di ornarsi di un’importanza che essa stessa nella sua febbrilità si attribuisce. Allora in ogni caso per gli ultimi uomini di questa evoluzione della cultura potrà essere vera la parola: «Specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore: questa nullità si immagina di esser salita ad un grado di umanità, non mai prima raggiunto». Ma con ciò noi giungiamo nel dominio dei giudizi di valore e di fede, dai quali questa esposizione puramente storica non deve esser gravata. Il compito sarebbe piuttosto: di mostrare l’importanza del razionalismo ascetico, che in questo saggio si è solo toccata, anche per il contenuto dell’etica politicosociale, cioè per il modo dell’organizzazione e le funzioni delle comunità sociali dalla conventicola fino allo stato. Dovrebbe poi analizzarsi il suo rapporto col razionalismo umanistico3 e con gli ideali di vita e le influenze culturali di questo, ed inoltre collo sviluppo deH’empirismo filosofico e scientifico, con lo sviluppo tecnico e il patrimonio intellettuale e spirituale. Infine il suo divenire storico dai germi medioevali di una ascesi intramondana in poi, ed il suo dissolversi nel puro utilitarismo andrebbero seguiti con metodo storico e nei singoli paesi, dove si è diffusa la religiosità ascetica. Da questa indagine soltanto potrebbe risultare la misura dell’importanza per la cultura del Protestantesimo ascetico, in relazione ad altri elementi formativi della cultura moderna. Qui si è cercato soltanto
diricondurre ai motivi che le hanno determinate, la realtà e la forma della sua azione, in un sol punto, sia pure importante. Ma dovrebbe anche dimostrarsi in qual modo l’ascesi protestante sia stata influenzata nel suo divenire e nei suoi caratteri dal complesso delle condizioni della societàj4, in particolare da quelle economiche. Poiché per quanto l’uomo moderno in generale non sia in condizione, pur colla migliore volontà possibile, di immaginarsi nella sua reale grandezza l’importanza che i dati della coscienza religiosa hanno avuto per la condotta della vita, la cultura e il carattere dei popoli; tuttavia non può essere nostra intenzione di sostituire ad una interpretazione causale della cultura e della storia unilateralmente materialistica, un’altra spiritualistica, altrettanto unilaterale. Tutte e due sono ugualmente possibilik4, ma con tutte e due si serve ugualmente poco alla verità storica, se pretendano di essere non una preparazione ma una conclusione deirindaginel4. a. V. la bella descrizione del suo carattere nel DOWDEN, op. cit. Sulla teologia di Baxter, dopoché egli si fu allontanato dalla stretta fede nel «doppio decreto» dà un discreto orientamento l’introduzione del JENKIN a suoi diversi lavori riprodotti nei Works of thè Puntan Divines. Il suo tentativo di combinare universal redemption e personal election non ha accontentato nessuno. A noi importa soltanto che egli anche allora era attaccato alla personal election, cioè al punto eticamente decisivo della dottrina della predestinazione. D’altra parte è importante la sua attenuazione della concezione forense della giustificazione come un certo avvicinamento ai Battisti. b. Trattati e prediche di Th. Adams, John Howe, Matthew Henry, J. Janeway, St. Charnock, Baxter, Bunyan sono riuniti nei io volumi dei Works of thè Puritan Divines (Londra, 1845–48) con una scelta spesso alquanto arbitraria. Le edizioni dei lavori di Bayley, Sedwick, Hoornbeck sono state indicate più sopra quando furono citate per la prima volta. c. Avrebbero potuto esser citati del pari Voèt od altri rappresentanti continentali dell’ascesi intramondana. L’opinione del Brentano che questo processo storico sia stato soltanto anglosassone, è completamente errata. La mia scelta è fatta in base al desiderio di lasciar la parola, non esclusivamente, ma prevalentemente, al movimento ascetico della seconda metà del xvii secolo immediatamente prima dell’avvento deirUtilitarismo. Nei limiti di questo studio si è dovuto purtroppo rinunciare al compito attraente di rendere visibile lo stile della vita del Protestantesimo ascetico, anche attraverso la letteratura biografica: e qui si dovrebbe produrre in particolar modo quella quacchera, perché da noi ancora relativamente sconosciuta. d. Poiché si potrebbero prendere del pari gli scritti di Gisbert Voet, e le deliberazioni dei sinodi ugonotti, o la letteratura battista olandese. Molto infelicemente il Sombart e il Brentano hanno tirato fuori proprio quelle parti «ebionitiche» del Baxter che io avevo nettamente rilevato, per contrapporvi lo stadio indubitabilmente arretrato, dal punto di vista capitalistico, della sua dottrina. Sarebbe però necessario: 1) conoscere realmente tutta questa letteratura per sfruttarla; 2) non trascurare ciò che io appunto cerco di provare: come, nonostante la dottrina antimammonistica, tuttavia lo spirito di questa religiosità ascetica, proprio come nelle economie claustrali, ha generato il razionalismo economico, perché essa premiava l’elemento decisivo: gli impulsi razionali, causati dall’ascesi. Si tratta solo di questo e questo è il punto di quanto qui si è esposto. e. Così in Calvino, che non amava affatto la ricchezza borghese (v. i violenti attacchi a Venezia e ad Anversa, Comm. in Ies., Opera, III, 140 a, 308 a). f. Saints everlasting rest, cap. X, XII. Cfr. BAYLEY, Praxis pietatis, p. 182 oppure MATTHEW
HENRY (The worth of thè soul, Works of Puritan Divines, p. 319: Those that are eager in pursuit of wordly wealth despise their soul, not only because thè soul is neglected and thè body preferred before it, but because it is employed in these pursuits, Salmo 127, 2). Sullo stesso piano sta rosservazione da citarsi più oltre sulla peccaminosità di ogni perdita di tempo, e soprattutto di quella nelle recreations. E del pari in tutta la letteratura religiosa del Puritanesimo anglo-olandese. V. per es. la filippica del HOORNBECK contro l’avarizia (op. cit., 1. X, c. 18). In questo scrittore agiscono del resto influenze pietisticosentimentali: vedi la lode della «tranquillità dell’anima che piace a Dio in confronto alla sollecitudine di questo mondo». «Un ricco difficilmente si salva» pensa anche il BAYLEY (op. cit., p. 182) appoggiandosi ad un noto passo della Bibbia. Anche i catechismi metodistici ammoniscono di non cumular tesori; fra i Quaccheri le cose non stanno diversamente. Cfr. BARCLAY, op. cit., p. 517: …and therefore beware of temptation as to use their cab lings and engine to be richer. g. Perché non soltanto la ricchezza, ma anche l’istintiva bramosia di guadagno (o quel che veniva scambiato con essa) fu del pari severamente giudicato. Nei Paesi Bassi, dal Sinodo dell’Olanda meridionale del 1574, in risposta ad una richiesta di spiegazione, fu detto: che i «Lombardi», sebbene i loro afiari fossero legalmente leciti, non dovevano essere ammessi alla Eucaristia; il Sinodo provinciale di Deventer del 1598 (art. 24), estese questa disposizione agli addetti di «Lombardi»; il Sinodo di Gorichem del 1606 stabilì dure ed umilianti condizioni, sotto le quali potevano essere ammesse le mogli di «usurai»; ed ancora nel 1644 e nel 1657 si discuteva se i «Lombardi» potevano essere ammessi all’Eucaristia (dico ciò contro il Brentano che cita i suoi antenati cattolici, sebbene in tutto il mondo europeo ed asiatico da millenni ci siano stati commercianti e banchieri di origine straniera) ed ancora Gisbert Voet vorrebbe escludere dalla comunione i «Trapeziti» (Lombardi, Piemontesi). Non era diversamente nei Sinodi degli Ugonotti. Questi speciali ceti capitalistici non erano i rappresentanti tipici della coscienza e della condotta di vita, di cui qui si tratta. Essi non rappresentavano neanche nulla di nuovo rispetto all’antichità ed al Medioevo. h. Concetto che è sviluppato ed approfondito nel cap. X del Saints everlasting rest. Chi vuol riposare a lungo nella ricchezza, che Dio ci dà come un asilo temporaneo, quegli è colpito da Dio anche in questa vita. Quasi sempre un riposo soddisfatto nella ricchezza acquistata preannuncia la rovina. Se anche avessimo tutto quel che potremmo avere nel mondo, sarebbe questo tutto quel che vorremmo? La mancanza di desideri non si può raggiungere sulla terra; perché essa non deve esistere proprio per volontà di Dio. i. Christian Directory, I, pp. 375–376: It is for action that God main- taineth us and our activities; work is thè moral as well as thè naturai end of power… It is action, that God is most served and honoured by… The public welfare or thè good of many is to be valued above our own. Qui si palesa il punto a cui si riattacca la evoluzione dal volere di Dio verso i punti di vista puramente utilitari della più tarda teoria liberale. j. Il comandamento di tacere, che proviene dalla minaccia biblica di punire ogni parola inutile, è specialmente dai Cluniacensi in poi, un mezzo ascetico osservato per educarsi al controllo di se stesso. Anche Baxter si diffonde a lungo sulla colpa dell’inutile parlare. Già il Sanford nell’opera citata, p. 90 e segg. ha apprezzato l’importanza di esso per il carattere. La melancholy e moroseness dei Puritani era conseguenza dell’aver distrutto la disinvoltura dello stato naturale ed a questo scopo serviva anche il divieto di parlare senza aver pensieri da esprimere. Quando WASHINGTON IRVING (Bracebridge Hall, cap. XXX) ne cerca il motivo, in parte nel calculating spirit del capitalismo, in parte negli effetti della libertà politica che conduce alla responsabilità, bisogna osservare che per i popoli latini non si produsse lo stesso effetto, e che per l’Inghilterra le cose stavano così: 1) Il Puritanesimo rese capaci coloro che lo professavano di creare libere istituzioni e di diventar tuttavia una potenza mondiale; 2) Trasformò quella abitudine al calcolo (che il Sombart chiama il suo «spirito»), che in realtà è elemento costitutivo del capitalismo, da un mezzo economico in un principio di tutta la condotta della vita.
k. Op. cit., I, p. in. l. Op. cit., I, p. 383 e segg. m. In modo simile sul valore prezioso del tempo si esprime Barclay (op. cit., p. 14). n. BAXTER, op. cit., p. 79: Keep up a high esteen of time and be every day more careful that you lose none of your time, then you are that you lose none of your gold and silver. And if vain recreation, dressings, feastings, idle talk, unprofitable companyf or sleep, be any of them temptations to rob you of any of your time) accordingly heighten your watchfulness. - Those that are prodigal of their time despise their own souls, dice MATTHEW HENRY (Worth of the soul, in Works of the Puritan Dtvines, p. 315). Anche qui l’ascesi protestante si muove su vie già solcate. Noi siamo abituati a riguardare come cosa specifica del professionista moderno il «non aver tempo» e come GOETHE nei Wanderjahre misuriamo il grado dello sviluppo capitalistico dal fatto che gli orologi battono i quarti. (Così anche Sombart nel suo Kapitalismus). Ma non vogliamo dimenticare che il primo uomo, che già, nel Medioevo, viveva col tempo misurato, era il monaco, che le campane della chiesa dovevano servire prima di tutto al suo bisogno di dividere il tempo. o. Cfr. le considerazioni di BAXTERsulla professione, op. cit., I, p. 108 e segg., e in particolare il passo che segue: Question: But may I not cast off the world that I may only think of my salvation? - Answer: You may cast off all such excess of wordly cares or business as unnecessarily hinder you in spiritual things… But you may not cast off all bodily employment and mental labour in which you may serve the common good… Every one as a member of Church or Commonwealth must employ their parts to the utmost for the good of the Church and the Commonwealth. To neglect this and say: I will pray and meditate, is as if your servant should refuse your greatest work and tye himself to some lesser easier part. And God hath commandeth you some way or other to labour for your daily bread and not to live as drones of the sweat of others only. Il comandamento di Dio ad Adamo «col sudore della tua fronte» ed il precetto di S. Paolo «Chi non lavora, non deve mangiare» vi vengono citati. Dei Quaccheri era noto da gran tempo che anche le persone dei ceti più agiati obbligavano i figli ad imparare mestieri (per motivi etici, e non - come insegnava l’Alberti - per motivi utilitari). p. Vi sono qui dei punti, dai quali il Pietismo si allontana a causa del suo carattere sentimentale. Per lo SPENER (Theol. Bedenken, III, p. 445) è certo, benché egli lo affermi in senso del tutto luterano - che il lavoro professionale è servizio di Dio, e che tuttavia l’agitazione degli affari professionali distrae da Dio - il che è pure luterano e costituisce un’antitesi molto caratteristica rispetto al Puritanesimo. q. Op. cit., p. 242: It’s they that are lazy in their callings that can find no time for holy duties. E da ciò proveniva l’opinione che le città, sede della borghesia dedicata all’attività razionale, fossero di preferenza il luogo delle virtù ascetiche. Il BAXTER, nella sua autobiografia (v. estratti nei Works of the Puritan Divines, p. XXXVIII), così parla dei suoi tessitori a mano di Kidderminster: And their constant converse and traffic with London doth much to promote civility and piety among tradesmen. Che la vicinanza della capitale rafforzi le virtù stupirà gli ecclesiastici moderni, per lo meno tedeschi. Ma anche il Pietismo mostra simili vedute. Così scrive occasionalmente Spener ad un giovane collega: «Per lo meno si vedrà che nella grande popolazione delle città, dove i più sono completamente pazzi, tuttavia vi si trovano alcune anime buone, dalle quali si può ottenere il bene, mentre nei villaggi è da temere che nonsi possa trovar da fare qualche cosa di bene in un intero comune» (Theologische Bedenken, I, 66, p. 303). Il contadino è poco qualificato per la condotta ascetico-razionale della vita. La sua glorificazione etica è molto moderna. Qui non entriamo a discutere sulla importanza di queste e di simili manifestazioni nella questione del rapporto tra l’ascesi e le classi sociali. r. Si prendano i passi seguenti (op. cit., p. 336 e segg.): Be wholly taken up in diligent business of your lawful callings when you are not exercised in thè more immediate Service of God. —; Labour hard in your
callings —;. See that you have a calling which will find you employment for all thè time which Gods immediate service spareth. s. Che l’apprezzamento specificamente etico del lavoro e della sua «dignità» non fosse un concetto originariamente proprio del Cristianesimo, o di questo addirittura caratteristico, lo ha ancora di recente affermato recisamente lo HARNACK (Mitteilungen des Evang.-Sozial Kongr., 14a serie, 1905, n. 3–4, p. 48). t. Solo uno studio molto più comprensivo può insegnare su che si basi questo contrasto, che è manifesto dalla regola benedettina in poi. u. Così anche nel Pietismo (SPENER, op. cit., Ili, pp. 429, 430). La forma caratteristicamente pietista è che l’attaccamento alla professione, impostaci come pena per il peccato originale, serve a uccidere la propria volontà. Il lavoro professionale, come servigio reso per amore al proprio prossimo, è un dovere di riconoscenza per la grazia di Dio (concezione luterana) e pertanto non è accetto a Dio, se è compiuto contro voglia e con disgusto (op. cit., Ili, p. 272). Il Cristiano deve perciò «mostrarsi diligente nel suo lavoro come un uomo profano» (III, p. 278). Ciò è manifestamente assai meno della concezione puritana. v. A sober procreation of children è lo scopo del matrimonio, secondo il Baxter. Similmente opina lo Spener, benché faccia concessioni al grossolano concetto luterano, secondo il quale vi ha anche lo scopo secondario di evitare l’immoralità, che altrimenti sarebbe incontenibile. La concupiscenza, come fenomeno che accompagna la copula, è peccaminosa anche nel matrimonio, e secondo la concezione dello Spener, per es., è conseguenza del peccato originale, che cambiò così un fatto naturale e voluto da Dio in qualche cosa di inevitabilmente collegato con sensazioni peccaminose, e con ciò in un pudendum. Anche secondo la concezione di talune tendenze pietiste la più alta forma del matrimonio cristiano è quella in cui si conserva la verginità; la seconda quella in cui il coito serve unicamente alla procreazione di figli, e così fino a quei matrimoni che vengono conclusi per motivi puramente erotici od estrinseci, e che, dal punto di vista etico, valgono come concubinati. In questi gradi inferiori il matrimonio concluso per motivi puramente estrinseci, poiché deriva da una considerazione razionale, è tuttavia preferito a quelli che hanno una causa erotica. Si può qui tralasciare di prendere in considerazione la teoria e la prassi della comunità di Herrnhut. La filosofia razionalistica (Chr. Wolff) accolse la teoria ascetica, che ciò che era subordinato come mezzo al fine, cioè la concupiscenza ed il suo appagamento al fine della generazione, non poteva esser fatto fine a se stesso. La trasformazione in un utilitarismo puramente igienico è già compiuta in Franklin, che partecipa quasi del punto di vista dei medici moderni, intende per castità la limitazione dei rapporti sessuali e ciò che è desiderabile per la salute e, come è noto, si è espresso anche teoricamente sul «come» ciò possa farsi. Questa evoluzione è apparsa dappertutto, appena questo argomento è stato fatto oggetto di considerazione puramente razionale. I dottrinari dei rapporti sessuali, puritani ed igienisti, vanno per vie molto diverse, ma «si capiscon lo stesso». Uno zelatore della «prostituzione igienica» (si trattava di regolamentazione delle case di tolleranza) motivava la liceità morale delle relazioni sessuali extramatrimoniali, considerate igienicamente utili, riferendosi alla loro trasfigurazione poetica in Faust e Margherita. Il considerare Margherita come una prostituta e il mettere sullo stesso piano la potenza delle passioni umane ed il congiungimento sessuale per motivi igienici corrisponde perfettamente al punto di vista puritano, al pari della concezione degna di specialisti, rappresentata talvolta da medici molto eminenti, che una questione che è connessa con i più sottili problemi della personalità e della civiltà, come l’importanza dell’astinenza sessuale, sia di competenza esclusivamente del foro del medico, cioè di uno specialista: per i Puritani lo specialista è il teorico morale, per i medici è l’igienista; ma il principio addotto per risolvere la questione è quello, che a noi sembra assai volgare, della competenza, naturalmente con segni opposti. Ma il potente idealismo della concezione puritana con tutte le sue pruderies, anche considerato dal punto di vista di conservazione della razza e della pura igiene, potè presentare successi positivi, mentre che la moderna igiene sessuale, facendo inevitabilmente appello alla spregiudicatezza, corre il pericolo di sfondare il vaso, dal quale attinge. Rimane naturalmente qui fuori di discussione come da quella
interpretazione razionale dei rapporti sessuali nei popoli influenzati dal Puritanesimo siano sorti quell’affinamento e quella penetrazione di elementi spirituali ed etici nelle relazioni matrimoniali e quel fiore di cavalleria coniugale, che contrastano col patriarcalismo che ancor oggi da noi si riscontra molto sensibilmente anche nelle maniere molto arretrate della stessa aristocrazia intellettuale. Influenze battiste hanno parte nella emancipazione della donna: la protezione della libertà di coscienza della donna e l’aver esteso anche ad essa il concetto del sacerdozio universale furono anche qui le prime brecce del patriarcalismo. w. Ritornello frequente nel Baxter. Il fondamento biblico è regolarmente o quello a noi noto per Franklin (Proverbi di Salomone, 22, 29) o la glorificazione del lavoro negli stessi Proverbi di Salomone, 31, 16. Cfr. op. cit., pp. 382, 377, ecc. x. Anche lo Zinzendorf dice occasionalmente: «Non si lavora soltanto per vivere, ma si vive per il lavoro, e se non si ha più da lavorare, si soffre o ci si addormenta» (PLITT, I, p. 428). y. Anche un credo dei Mormoni conclude —; secondo le citazioni —; colle parole: «Ma un pigro o un fannullone non può esser Cristiano né salvarsi; è destinato ad esser colpito a morte e ad esser buttato fuori dall’alveare». Ma fu prevalentemente la grande disciplina, che stava a mezzo tra il convento e la manifattura e che poneva l’individuo di fronte al dilemma: lavorare od essere eliminato, legata certamente all’entusiasmo religioso e resa possibile soltanto da questo, quella che produsse le meravigliose opere economiche di questa setta. z. Essa viene perciò accuratamente analizzata nei suoi sintomi (op. cit., I, 380). Sloth e idleness sono colpe così gravi perché hanno un carattere continuato. Esse vengono riguardate dal BAXTER(op. cit., I, pp.279- 280) addirittura come distruttrici dello stato di grazia. Esse sono infatti l’antitesi della vita metodica. a1. Vedi sopra p.166 nota b. b1. BAXTER, op. cit., I, p. 108 e segg. Colpiscono specialmente l’occhio i seguenti passi. Questioni But will not wealth excuse us? —; Answer: It may excuse you from some sordid sort of work, by making you more serviceable to another, but you are no more excused from Service of work… then thè poorest man... V. inoltre op. cit., I, p. 376, Though they (i ricchi) have no outward want to urge them, they have as great a necessity to obey God. God had strictly commandeth it (il lavoro) to all. c1. Parimenti lo SPENER(op. cit., Ili, 338, 425) che per tal ragione combatte in particolar modo, come moralmente sospetta, la tendenza ad andare in pensione prima del tempo; respingendo l’obiezione mossa contro il prendere degli interessi, perché questi indurrebbero alla pigrizia, afferma che chi può vivere dell’interesse, è tuttavia obbligato al lavoro dal comandamento di Dio. d1. Compreso il Pietismo. Quando si tratta della questione del mutamento di professione, lo Spener torna sempre a sostenere che, quando si è abbracciata una determinata carriera, il rimanervi e l’adattarvisi è un dovere d’obbedienza nella Provvidenza divina. e1. Con qual pathos, dominante tutta la condotta della vita, la dottrina indiana della salvezza congiunga il tradizionalismo nelle professioni colle possibilità di rinascita, è spiegato nei saggi sulla Wirtschajtsethik der Weltreligionen. Appunto qui si può imparare a conoscere la differenza dei concetti puramente dottrinali dalla creazione da parte della religione di impulsi psicologici di una determinata specie. L’indiano religioso poteva acquistare favorevoli possibilità di rinascita solo mediante un adempimento strettamente tradizionale dei doveri della casta in cui era nato; si aveva cioè il più saldo fondamento religioso del tradizionalismo che si possa pensare. L’etica indiana è in realtà in questo punto l’antitesi più conseguente di quella puritana, come, sotto altro aspetto (il tradizionalismo dei gruppi di status) è l’antitesi del Giudaismo. f1. BAXTER, op. cit., I, p. 377. g1. Ma quella motivazione non può esser storicamente dedotta, a causa di tale affinità, da questi punti di vista. Anzi su di essi influisce la concezione puramente calvinista che l’ordine del mondo serva all’onore di Dio, alla sua glorificazione nelle sue stesse opere. La concezione utilitaria che il mondo
economico debba servire allo scopo del mantenimento della vita di tutti (good of thè many, common good, ecc.) era conseguenza del concetto che ogni altra interpretazione conducesse alla glorificazione delle creature in senso aristocratico, e servisse non alla gloria di Dio, ma a fini «culturali» puramente umani. La volontà di Dio, quale si esprime nell’ordinamento finalistico del mondo economico, per quanto vengano presi in considerazione scopi terreni, può esser soltanto il bene della collettività o la utilità impersonale. L’utilitarismo è pertanto, come si è detto, conseguenza della configurazione impersonale dell’amore del prossimo, e del ripudio di ogni glorificazione delle cose mondane a causa dell’esclusivo principio puritano in majorem Dei gloriam. Poiché quanto intensamente dominasse tutto il Protestantesimo ascetico questo pensiero che ogni glorificazione delle creature arrechi una diminuzione dell’onore che si deve a Dio, e sia pertanto assolutamente riprovevole, si manifesta negli scrupoli e nella pena, che provò lo stesso Spener, che pure non era davvero di spiriti democratici, nel mantenere come indifferente (á8tápopov) l’uso dei titoli di centro e numerose interpellanze. Si calmò alla fine per il fatto che anche nella Bibbia il procuratore Festo ricevette dall’Apostolo il titolo di xpocTLcrros. Non appartiene alla nostra trattazione il lato politico di questo argomento. h1. The inconstant man is a stranger in his own house, dice ancheTh. ADAMS (Work of thè Pur. Div., p. 77). i1. V. su ciò specialmente le espressioni di GEORGE FOX in The Friend’s Library (Ed. W. e Th. Evans, Philadelphia, 1873 e seg.), vol. I, p. 130. j1. Naturalmente questo indirizzo dell’etica religiosa non può essere considerato del tutto un riflesso delle condizioni economiche di fatto. La specializzazione professionale nel Medioevo italiano era, certamente, più diffusa che nell’Inghilterra di questo periodo. k1. Poiché, come viene spesso rilevato nella letteratura puritana, Iddio non ha mai comandato che si debba amare il prossimo di più di se stesso ma solo come se stesso. Esiste dunque anche il dovere dell’amore per se stessi. Chi, per esempio, sa che egli impiega il proprio patrimonio più utilmente, e pertanto più conformemente alla maggior gloria di Dio, di quel che potrebbe fare il suo prossimo non è obbligato dall’amor del prossimo a darne via. l1. Anche lo Spener si avvicina a questo punto di vista. Ma anche nel caso in cui si tratti di passare dalla professione di commerciante —; moralmente molto pericolosa —; alla teologia egli rimane alquanto riservato e piuttosto sembra sconsigliarlo (III, pp. 435, 443, I, p. 524). Il frequente ritorno di risposte a questa domanda sulla liceità del mutamento di professione nel giudizio, naturalmente molto ponderato, dello Spener, mostra, sia detto fra parentesi, quanto grande fosse l’importanza pratica della diversa interpretazione del cap. VII della ia Epistola ai Corinti. m1. Un qualche cosa di simile non si trova nel movimento pietista continentale o, almeno, non si trova negli scritti dei capi. La posizione dello Spener rispetto al guadagno oscilla tra il punto di vista luterano della semplice «nutrizione» ed argomentazioni mercantilistiche sulla utilità della «floridezza dei commerci» e simili (op. cit., Ili, pp. 330, 332; cfr. I, p. 418; la coltivazione del tabacco apporta denaro nel paese ed è pertanto utile, e per ciò stesso non è peccaminosa!), ma qua e là (cfr. Ili, pp. 426, 427, 429, 434) non manca di accennare che si può far guadagno e rimanere tuttavia religiosi, come dimostra l’esempio dei Quaccheri e dei Mennoniti, e che anzi un profitto in particolar modo alto —; del che parleremo più tardi - può essere il prodotto della pietà ed onestà (op. cit., P. 435)n1. Queste vedute non sono in Baxter un riflesso dell’ambiente economico, nel quale viveva. Al contrario la sua autobiografia rileva che ai successi della sua missione interna ha contribuito, in maniera decisiva, il fatto che quei commercianti, che si erano stabiliti a Kidderminster, non fossero stati ricchi, e che guadagnassero soltanto food and raiment e che anche i padroni non avessero da aver meglio che gli operai, from hand to mouth. It is the poor that receive the glad tidings of the Gospel. Th. Adams osserva sullo sforzo del guadagnare: He (the knowing man) knows… that money may make a man richer, not better, and thereupon chooseth rather to sleep with a good conscience than a full purse… therefore desires no more wealth than an honest man may bear away, ma tanta ne vuole pur anche lui (Th. ADAMS,
Works of Pur. Div., LI) e ciò significa che ogni guadagno formalmente onesto è anche legittimo. o1. Così BAXTER, op. cit., cap. X, tit. I, Dis. 9 (§ 24), vol. I, p. 378, col. 2. «Non devi lavorare per esser ricco» dei Proverbi di Salomone, 23, 4, significa soltanto riches for our fleshly ends must not ultimately be intended. La cosa odiosa è precisamente la proprietà nella sua forma feudale-aristocratica, l’impiego di essa, non la proprietà per se stessa. (Cfr. l’osservazione nell’0/7. cit., I, 380, sulla debauched part of the gentry). MILTON nella sua prima Defensio pro populo anglicano espone la nota teoria che solo il «ceto medio» possa essere sostegno della virtù, nel che il «ceto medio» è inteso come classe borghese in contrapposizione all’aristocrazia, come mostra la motivazione che tanto il lusso quanto la miseria impediscono l’esercizio della virtù. p1. E questo è il punto decisivo. E qui occorre fare ancora una volta l’osservazione generale: naturalmente non si tratta per noi tanto di quel che svolse concettualmente la teoria teologico-etica, quanto di quel che voleva come morale nella vita pratica dei credenti, cioè come agisse praticamente l’orientamento religioso dell’etica professionale. Si può, per lo meno occasionalmente nella letteratura casuistica del Cattolicesimo, ed in particolare dei Gesuiti, leggere discussioni, che per es. sulla questione della liceità dell’interesse, sulla quale noi qui non entriamo, sono simili a quelle di molti casuisti protestanti; anzi, discussioni, che in materia da considerare «lecita» o «probabile», sembrano andare anche più oltre. Ai Puritani più tardi è stata spesso opposta l’etica dei Gesuiti come fondamentalmente simile alla loro. Come i Calvinisti sogliono citare teologi moralisti cattolici, e non soltanto S. Tommaso d’Aquino, S. Bernardo di Chiaravalle e S. Bonaventura, ma anche contemporanei, così i casuisti cattolici presero regolarmente conoscenza dell’etica eretica; ma di ciò noi qui non possiamo trattare con maggior precisione. Astraendo del tutto dal fattore decisivo della ricompensa religiosa annessa alla vita ascetica del laico, la grande differenza nella teoria è appunto questa: che queste vedute più larghe nel Cattolicesimo erano prodotti, non sanzionati dall’autorità ecclesiastica, di teorie etiche di specifico carattere lasso, mentre al contrario l’idea protestante di professione ebbe per risultato di porre i più severi seguaci della vita ascetica a servizio della vita industriale capitalistica. Quel che là poteva essere condizionatamente permesso, apparve qui come un fatto positivo moralmente buono. Le differenze fondamentali praticamente molto importanti, furono definitivamente fissate anche per i tempi moderni dalla lotta giansenistica e dalla bolla Unigenitus in poi. q1. You may labour in that manner tendeth most to your success and lawful gain. You are bound to improve all your talents... Segue il passo sopra citato. Un parallelo diretto tra lo sforzo di arricchirsi nel regno di Dio e lo sforzo per il successo nella professione terrena si vede nel Heaven upon earth di JANEWAY nelle Works of thè Pur. Div., p. 175 in fondo. r1. Già nella professione di fede luterana del Duca Cristoforo del Wiirttemberg, che fu portata al Concilio di Trento, contro il voto di povertà si affermava: «Chi è povero per sua condizione lo deve sopportare, ma se si vanta di rimanerlo, sarebbe lo stesso che si vantasse di essere malato cronico o di avere una cattiva reputazione». s1. Così in Baxter e per es. nella professione di fede del Duca Cristoforo. Cfr. inoltre passi come il seguente: thè vagrant rogues whose lives are nothing but an exorbitant course: thè main begging. Th. ADAMS, Works of thè Pur. Div., p. 259. Già Calvino aveva proibito severamente il mendicare ed i Sinodi olandesi mostrano il loro zelo contro le lettere di questua e le attestazioni a scopo di questua. Mentre che l’epoca degli Stuarts, in particolare il regime di Laud sotto Carlo I, aveva sviluppato sistematicamente il principio della protezione dei poveri e della distribuzione di lavoro ai disoccupati da parte dell’autorità, il grido di guerra dei Puritani fu Giving alms is no charity (titolo del noto scritto posteriore di Defoe), e verso la fine del xvn secolo cominciò il sistema intimidatorio delle Workhouses per i disoccupati (V. LEONARD, Early History of English poor relief, Cambridge, 1900 e H. LEVY, Die Grundlagen des ökonomischen Liberalismus in der Geschichte der englischen Volkswirtschaft, Jena, 1912, p. 69 e segg.).
t1. Il Presidente della «Baptist Union of Great Britain and Ireland» G. White diceva, richiamando con insistenza l’attenzione degli uditori, nel suo indirizzo inaugurale per l’assemblea di Londra del 1903 (Baptist Handbook 1904, p. 104): The best men on the roll of our Puritan churches were men of affairs, who believed, that religion should permeate the whole of life. u1. In ciò appunto il contrasto caratteristico con ogni concezione feudale. Secondo questa solo i successori del parvenu politico e sociale possono trarre vantaggio dal successo e dalla consacrazione sociale di questo. Ciò è espresso in modo caratteristico nella parola spagnola hidalgo = hijo d’algo; filius de aliquo, in cui Valiquid, il «qualche cosa», è un patrimonio ereditato da avi. Per quanto queste differenze stiano oggi impallidendo nella rapida trasformazione ed «europeizzazione» del carattere nazionale americano, tuttavia è là ancor oggi diffusa l’opposta concezione caratteristicamente borghese, che glorifica il successo ed il guadagno negli affari, come un sintomo dell’attività intellettuale, ed al contrario non porta alcun rispetto alla proprietà puramente ereditaria; mentre che in Europa (come già ha osservato James Bryce) ogni onore sociale si può presso a poco ottenere per denaro, colla sola condizione che il proprietario stesso non sia stato dietro a un banco di bottega, e compia le necessarie trasformazioni della sua proprietà (fedecommessi, ecc.) Contro l’onore reso alla nascita vedi fra gli altri Th. ADAMS (Work of the Pur. Div., p. 216). v1. Così, per es., per il fondatore della setta dei familisti Hendrik Niklaes, che era commerciante (BARCLAY, Inner life of the religious com- munities of the Commonwealth, p. 34). w1. Questo è assolutamente certo, per es., per lo Hoornbeek, poiché anche in S. Matteo, 5, 5, e nella 1 Timoteo, 4, 8, vengon fatte promesse puramente terrene per i Santi (op cit., vol. I, p. 193). Tutto è prodotto della Provvidenza di Dio, ma Dio si cura in special modo dei Suoi (pp. cit., p. 192): Super alios autem summa cura et modis singularissimis versatur Dei Providentia circa fideles. Segue poi la discussione per qual segno si possa riconoscere che un caso fortunato ha origine non communi providentia ma da quella speciale cura. Anche BAYLEY ([op. cit., p. 191) rimanda alla provvidenza divina per il successo del lavoro professionale. Che la prosperità sia spesso la ricompensa della vita religiosa, è una sentenza costantemente ripetuta negli scritti dei Quaccheri. (V., per es., una tale espressione ancora nell’anno 1848 nella Selection from thè Christian Advices issued by thè generai meeting of thè Society of Fr. in London Vl. th Ed., London, 1851, p. 209). Ritorneremo ancora al nesso coiretica dei Quaccheri. x1. Come un esempio di questo orientamento verso i Patriarchi —; che è anche caratteristico per la concezione puritana della vita —; può valere l’analisi che Thomas Adams fa del litigio fra Esaù e Giacobbe (Works of thè Pur. Div., p. 235): His (Esaù) folly may be argued from thè base estimation of thè birthright, that he would so lightly pass from it and on a so easy condition as a pottage. Il passo è importante anche per lo sviluppo del concetto di birthright, del quale parleremo più oltre. Ma era sleale quando volle venir meno al patto, a causa della «lesione enorme». Egli è appunto a cunning hunter, a man of thè fields: la barbarie che vive irrazionalmente, mentre Giacobbe a plain man, dwelling in tents rappresenta il man of grace. Anche KöHLER (op. cit.) trovò largamente diffuso tra i contadini olandesi il sentimento di un’intima affinità col Giudaismo, che si espresse anche nel noto scritto di Roosevelt. Ma d’altra parte il Puritanesimo era ben consapevole del contrasto coll’etica giudaica nella sua dogmatica pratica, come mostra chiaramente lo scritto del Prynne contro gli Ebrei, in occasione dei progetti di tolleranza di Cromwell. y1. Cfr. Zur bäuerlichen Glaubens- und Sittenlehre. Von einem thüringischen Landpfarrer, 2a ed., Gotha, 1890, p. 16. I contadini, che in quest’opera sono descritti, sono prodotti caratteristici della Chiesa luterana. Io ho annotato ripetutamente in margine «religiosità luterana», là dove l’eccellente autore vede una generica religiosità di carattere rurale. z1. Cfr. per es., la citazione in RITSCHL, Pietismus, II, p. 158. Anche lo Spener motiva i suoi sospetti contro il mutamento di professione e il desiderio di guadagno con sentenze di Gesù Siracide. Cfr.
Theologische Bedenken, III, p. 426. a2. Il Bayley invero raccomanda malgrado tutto la loro lettura ed appaiono qua e là citazioni degli apocrifi, ma naturalmente di rado. Non ne ricordo alcuna - forse per caso - da Gesù Siracide. b2. Quando il successo esteriore tocchi in sorte a chi è, manifestamente, un reprobo, il Calvinista (per es. Hoornbeeck) si tranquillizza, conformemente alla teoria dell’indurimento nell’impenitenza, con la certezza che Dio permette che i reprobi si avvantaggino di quel successo, per indurirli e con ciò per perderli con maggior sicurezza. c2. In questa analisi noi non verremo a parlare con più precisione di questo punto. Qui ci interessa soltanto il carattere formalistico della «rettitudine». Sull’importanza dell’etica del Vecchio Testamento per la lex naturae si trova molto nelle Soziallehren del TROELTSCH. d2. L’obbligatorietà delle norme etiche della Scrittura vale, secondo il BAXTER (Christian Directory, III, 173 e segg.), primo, in quanto sono un transcript della Law af nature; secondo, in quanto portano in sé Yexpress character of universality and perpetuity. e2. V. per es., DOWDEN, op. cit., p. 39, con riferimento al Bunyan. f2. Elementi più precisi sull’argomento nei saggi sulla Wirtschajtsethik der Weltreligionen. Non può esser qui analizzata l’enorme influenza che, per esempio, ha avuto specialmente il secondo comandamento («Non avrai idoli», ecc.) sullo sviluppo dei caratteri del Giudaismo, sul suo carattere razionale estraneo alla cultura dei sensi. Tuttavia si può menzionare come un fatto caratteristico che uno dei direttori della Educational Alliance negli Stati Uniti, un’organizzazione che persegue con sorprendente successo e con mezzi grandiosi il fine di americanizzare gli immigrati ebrei, mi indicava «la emancipazione dal secondo comandamento» come il primo scopo inteso a fare dell’immigrato un uomo della moderna civiltà; scopo cui si tende con ogni sorta di insegnamento artistico e di educazione mondana. Nel Puritanesimo corrisponde al divieto israelitico di umanizzare la divinità, l’altro che agiva un po’ diversamente ma in senso affine, di divinizzare le creature. Per quel che riguarda il giudaismo talmudico, certamente gli sono affini anche taluni caratteri fondamentali della moralità puritana. Quando, per es., nel Talmud (in WüNSCHE, Babylon. Talmud, II, p. 34) viene affermato: «è meglio e vien più generosamente ricompensato da Dio chi, per senso del dovere, fa qualche cosa di buono, che non chi compie una buona azione, alla quale non si è obbligati dalla Legge»; vale a dire: l’adempimento, senza amore, del dovere è eticamente più alto della filantropia ispirata dal sentimento —; l’etica puritana potrebbe accettare questa proposizione nella sua essenza così come Kant che era scozzese d’origine, e nella sua educazione subì forti influenze pietiste, si avvicina ad essa, nel risultato, come del resto alcune delle formule del filosofo si riattaccano direttamente a pensieri del Protestantesimo ascetico. Ma su ciò qui non possiamo diffonderci. Ma l’etica del Talmud affonda nel tradizionalismo orientale: «R. Tanchum ben Chanilai ha detto: l’uomo non cambi mai un uso» (Gemara ad. Mischna, VII, 1, fol. 86 b, n. 93, in WüNSCHE, op. cit. Si tratta del nutrimento dei braccianti); solo di fronte agli estranei questo vincolo non è valido. Ma la concezione puritana della «legalità» come prova e controllo (Bewährung) rispetto a quella ebraica di semplice adempimento di precetti, dette manifestamente motivi molto più forti all’azione positiva. Il concetto che il successo riveli la benedizione di Dio, naturalmente non è estraneo al Giudaismo. Ma il significato etico-religioso radicalmente divergente che quel concetto acquista nel Giudaismo, come conseguenza della doppia etica (esteriore ed interiore), escluse un effetto simile precisamente in questo punto decisivo. Di fronte allo «straniero» era permesso quel che era proibito di fronte al «fratello». E già per questo doveva essere impossibile che il successo chiuso nella sfera non del comandato, bensì del lecito, si affermasse come segno distintivo a riprova del proprio stato religioso, come impulso ad una regola metodica di vita nel senso che aveva invece presso i Puritani. Su tutto questo problema, che il SOMBART nel suo libro Die Juden und das Wirtschaftsleben, spesso non ha trattato esattamente, v. i saggi sopra citati. I dettagli non hanno pertinenza col nostro argomento. L’etica giudaica, per quanto strano ciò possa sembrare, rimase fortemente tradizionalista. Parimenti non
si deve qui ancora trattare a fondo del potente mutamento che la posizione dello spirito di fronte al mondo ebbe a subire a causa della formulazione cristiana dei concetti di «grazia» e di «liberazione», che conteneva e contiene in sé, in modo caratteristico, il germe di sempre nuove possibilità di sviluppo. Sulla «legalità» nel Vecchio Testamento, cfr. per es. anche RITSCHL, Rechtfertitung und Versöhnung, II, p. 265. Per i Puritani inglesi, gli Ebrei del loro tempo erano i rappresentanti di quel capitalismo rivolto alla guerra, alle forniture e monopoli di Stato, alle speculazioni su nuovi stabilimenti, ai progetti edilizi e finanziari dei principi, che essi aborrivano. In realtà il contrasto, nel suo complesso, colle inevitabili riserve, si può formulare così: che il capitalismo ebraico era un capitalismo speculativo di paria, quello puritano invece, un’organizzazione borghese del lavoro. g2. La verità della divina Scrittura deriva per Baxter, in ultima istanza, dalla wonderful difference of thè godly and ungodly, dalla diversicà assoluta del renewed man dagli altri e dalla manifesta e specialissima cura di Dio per la salvezza delle anime dei Suoi (che, naturalmente, si può manifestare anche mettendoli alla prova). Christian Dir., I, p. 165, col. 2 marg. h2. Come esempio caratteristico di questa disposizione si deve leggere in qual modo tortuoso, il BUNYAN, nel quale si può tuttavia trovare talvolta un contatto collo stato d’animo della Libertà di un Cristiano di LUTERO (per es. in Of thè Law and a Christian in W. of thè Pur. Div., p. 254 in fondo), cerchi di conciliarsi colla parabola del Fariseo e del Pubblicano (v. la predica The Pharisee and thè Publican, op. cit., p. 100 e segg). Perché viene condannato il Fariseo? Egli non osserva in realtà i comandamenti di Dio, poiché è manifestamente un settario, che pensa solo a piccolezze esteriori e a cerimonie (p. 107); ma soprattutto si attribuisce da sé il merito e ringrazia, tuttavia, come fanno i Quaccheri, Iddio (abusando del suo nome) per la sua virtù, nel cui valore confida ed oppugna così «implicitamente» l’elezione mediante la grazia. La sua preghiera è pertanto una adorazione della creatura e questo ne è l’elemento peccaminoso. Il pubblicano, invece, come dimostra la sincerità della sua confessione, è interiormente rigenerato poiché, come è detto con un’attenuazione caratteristicamente puritana del sentimento luterano della colpa, to a right and sincere conviction of sin there must be a conviction of thè probability of mercy (p. 209). i2. Stampato nei Constitutional Documents del GARDINER. Si può porre a parallelo questa lotta contro l’ascesi nemica dell’autorità colla persecuzione di Luigi XIV contro Port-Royal e i Giansenisti. j2. Il punto di vista di Calvino era essenzialmente più mite, per lo meno riguardo alle più fini forme aristocratiche della gioia di vivere. Solo la Bibbia è limite: chi si attiene ad essa ed ha una buona coscienza non è costretto a guardare con timore e con sospetto ogni impulso a godere la vita. Le spiegazioni a ciò connesse del cap. X della Institutio Christianae Religionis (per es.: nec fugere ea quoque possumus quae videntur oblectationi magis quam necessitati inserviré) avrebbero potuto di per se stesse spalancare la porta ad una pratica molto lassa. Ma qui, insieme coll’ansia crescente per la certitudo salutis, si fece valere tra gli epigoni anche la circostanza —; che esamineremo in altro luogo —; che sul terreno della ecclesia militans i piccoli borghesi furono i rappresentanti dello sviluppo etico del Calvinismo. k2. TH. Adams, per es. (Works of thè Pur. Div., p. 3), inizia una predica sulle three divine sisters («Ma la carità è la più grande fra di esse»), col paragone che anche Paride aveva offerto il pomo ad Afrodite! l2. Romanzi e simili non debbono essere letti come «wastetimes» (BAXTER, Christian Directory, I, p. 51, col. 2). è noto l’inaridirsi della lirica e della canzone popolare —; non soltanto del dramma —; in Inghilterra dopo l’epoca elisabettiana. Nelle arti plastiche il Puritanesimo non ha forse trovato dinanzi a sé troppo da comprimere. Ma colpisce la decadenza da una disposizione musicale probabilmente molto buona (la parte dell’Inghilterra nella storia della musica non fu trascurabile) a quello zero assoluto, che in questo campo noi troviamo fra i popoli anglosassoni più tardi ed ancor oggi. All’infuori delle Chiese di Negri e di quei cantanti professionali, che le Chiese oggi scritturano come attractions (nella Trinity Church di Boston per 8000 dollari all’anno, nel 1904) si sente generalmente
anche in America come «canto in comune» uno strillare acuto insopportabile per orecchi tedeschi. (Si hanno parzialmente dei fatti simili anche in Olanda). m2. Similmente avvenne in Olanda, come mostrano le discussioni nei Sinodi (v. deliberazioni sull’albero di maggio nella collezione di Reitsma, VI, 78, 139 e passim). n2. è evidente che il «rinascimento del Vecchio Testamento» e l’orientamento pietista verso taluni sentimenti cristiani ostili alla bellezza nell’arte, che risalgono in definitiva al Deutero-Isaia e al 220 salmo, debbano aver contribuito a fare del brutto possibilmente un oggetto d’arte, ma è pure evidente che vi abbia avuto parte anche l’avversione puritana per la divinizzazione delle creature. Ma ogni particolare sembra ancora incerto. Nella Chiesa romana motivi del tutto diversi (demagogici) produssero fenomeni esteriormente affini, ma in ogni caso un risultato artistico del tutto diverso. Chi si ferma dinanzi al «Saul e David» di Rembrandt (nel Mauritshuis) crede di scorgere direttamente il potente influsso del modo di sentire puritano. La intelligentissima analisi delle influenze della cultura olandese nel volume su Rembrandt di Cari Neumann, potrebbe indicar la misura di quel che ora si può sapere di influenze positive, feconde per l’arte, che si debbono ascrivere al Protestantesimo ascetico. o2. Per la penetrazione, relativamente minore, dell’etica calvinista nella pratica della vita e l’attenuazione dello spirito ascetico in Olanda già iniziata al principio del XVII secolo (per i congregazionalisti inglesi rifugiati in Olanda nel 1608 l’insufficiente riposo festivo olandese era motivo di scandalo), e compiuta sotto lo Statholder Federico Enrico, e per la minor forza di espansione del Puritanesimo olandese in genere, furono decisive le cause più diverse, che qui non si possono spiegare. Esse erano in parte contenute nella costituzione politica (federazione particolaristica di città e province) e nel molto minore spirito combattivo (la guerra di libertà fu principalmente condotta col denaro di Amsterdam e con soldati di ventura: i predicatori inglesi illustravano la confusione delle lingue di Babilonia coll’esempio dell’esercito olandese). Con ciò la gravità della guerra di religione era per buona parte rigettata su altri, ma al tempo stesso si prendeva alla leggera la partecipazione al potere politico. Al contrario l’esercito di Cromwell, benché fosse in parte coatto, si sentiva come un esercito di cittadini. E tanto più caratteristico è per ciò il fatto che proprio questo esercito accogliesse nel suo programma l’abolizione degli obblighi militari, perché si deve combattere per la gloria di Dio e per una causa riconosciuta buona dalla coscienza, non per i capricci dei principi. La costituzione militare inglese, che secondo i tradizionali concetti tedeschi è immorale, ebbe storicamente, al suo inizio, motivi molto morali, e fu un’esigenza di soldati non mai vinti, che venne posta al servizio degli interessi della Corona solo dopo la restaurazione. Gli schutterijen olandesi, rappresentanti del Calvinismo nell’epoca della grande guerra, si vedono, appena una mezza generazione dopo il Sinodo di Dordrecht, nei quadri di Franz Hals con un contegno molto poco ascetico. Si trovano sempre nuove proteste dei Sinodi contro la loro condotta. Il concetto olandese della Dejtigkeit è un misto di onorabilità borghese razionale e di sentimento di classe patrizio. La graduazione, secondo le classi sociali, dei posti nelle chiese olandesi mostra ancor oggi il carattere aristocratico di queste istituzioni ecclesiastiche. Il perdurare dell’economia cittadina impediva l’industria. Questa prese uno slancio solo grazie ai profughi e perciò solo temporaneamente. Ma anche in Olanda aveva agito, nello stesso senso che altrove, l’ascesi intramondana del Calvinismo e del Pietismo (anche nel senso, che va pur esso rammentato, di costrizione ascetica al risparmio, come attesta GROEN VAN PRINSTERER, in Handb. d. Gesch. v. h. V., 3a ed., § 303, nota, p. 254). La mancanza quasi completa di letteratura amena nell’Olanda calvinista non è naturalmente un mero caso. (V. sull’Olanda, fra gli altri, BUSKEN HUET, Het land van Rembrandt, trad. tedesca di Von der Ropp). L’importanza della religiosità olandese come «costrizione ascetica al risparmio», appare manifesta ancora nel xvm secolo, per es. nelle descrizioni di Alberto Haller. Per le particolarità caratteristiche del giudizio ascetico olandese ed i loro motivi, cfr., per es., le annotazioni autobiografiche di Costantino Huyghens (scritte nel 1629–31) pubblicate in Oud Holland, 1891. Il già citato lavoro di GROEN VAN PRINSTERER, La Hollande et l’infìuence de Calvin (1864), non offre niente di decisivo per i nostri problemi. La Colonia della Nuova
Olanda in America era, socialmente, un dominio mezzo feudale di «patroni» —; commercianti cioè che anticipavano il capitale —; e a differenza di quanto avvenne nella Nuova Inghilterra, fu difficile di indurre la «piccola gente» ad emigrare colà. p2. Si rammenti questo fatto: l’autorità comunale di Stratford-on-Avon fece chiudere il teatro del luogo, negli ultimi anni di vita di Shakespeare, mentre egli ancora vi soggiornava. L’odio e lo sprezzo di Shakespeare contro i Puritani si manifesta ad ogni occasione. Ancora nel 1777 la città di Birmingham negò il permesso di aprire un teatro, perché incentivo all’ozio e perciò dannoso al commercio (Ashley, p. 196, nota 2, op. cit., pp. 7, 8). q2. Anche qui è decisivo il fatto che per il Puritano si presentava il dilemma: aut aut: o volontà divina o vanità umana. Perciò, per lui, non potevano esservi ¿SLdfqjopa. Diversamente si poneva, in questo riguardo, Calvino, come già si è detto: è indifferente ciò che si mangia, ciò che si indossa, ecc., purché non ne sia conseguenza rasservimento dell’anima alla potenza della cupidigia. Come presso i Gesuiti la libertà dal «mondo» si esprime in indifferenza, così in Calvino nell’uso indifferente dei beni della terra, senza annettervi alcun senso di cupidigia (cfr. Institutio Christianae religionis, ed orig., p. 409); punto di vista questo che negli effetti stava visibilmente più vicino a quello luterano che al precisismo degli epigoni. r2. è noto il modo di comportarsi dei Quaccheri in questo rispetto. Ma già al principio del XVII secolo nella comunità degli Esulanti in Amsterdam, durante tutto un decennio, si agitarono le più gravi tempeste a causa dei cappelli e dei vestiti alla moda della moglie di un pastore. (Descritti piacevolmente nel Congregationalism of thè last 300 years, di DEXTER). Già SANFORDntWop. cit. ha accennato al fatto che il taglio dei capelli maschile odierno è quello delle tanto derise Roundheads e il costume maschile dei Puritani, del pari deriso, è essenzialmente simile, per lo meno nel principio fondamentale, a quello odierno. s2. Su ciò vedi il libro già citato di VEBLEN, The theory of business enterprise. t2. Noi insistiamo continuamente su questo punto di vista. Con esso si spiegano sentenze come la seguente: Every penny, which is paid upon yourselves and children and friends must be done as by Gods own appointment and to serve and please him. Watch narrowly, or else that thievish carnai self will leave God nothing (BAXTER, op. cit., I, p. 108 in fondo a destra). Questo è l’essenziale: ciò che si dedica a scopi personali, vien sottratto al fine della gloria di Dio. u2. A ragione si suole rammentare (così, per es., il DOWDENnell’op. cit.) che Cromwell salvò dalla perdita definitiva i cartoni di Raffaello e il «Trionfo di Cesare» di Mantegna. Carlo II invece cercò di venderli. In rapporto alla letteratura nazionale inglese, la società della Restaurazione fu in ugual modo fredda o addirittura avversa. In tutte le corti l’influenza di Versailles era onnipotente. L’analizzare qui l’influenza del distacco dai godimenti irriflessivi della vita quotidiana sui tipi più alti del Puritanesimo, e sugli uomini passati attraverso la sua scuola, è un compito, che in ogni caso non può essere assolto nei limiti di questo studio. WASHINGTON IRVING(Bracebridge Hall, loc. cit.) esprime questo effetto nella terminologia inglese d’uso, dicendo: it (la libertà politica, egli intende, il Puritanesimo, diciamo noi) evinces less play of thè fancy, but more power of imagination. Basta pensare alla posizione degli Scozzesi nella scienza, nella letteratura, nelle invenzioni tecniche, ed anche nella vita economica dell’Inghilterra, per accorgersi che questa osservazione, formulata forse con un po’ troppo rigore, si avvicina al vero. Dell’importanza (del Puritanesimo) per lo sviluppo della tecnica noi non dobbiamo qui parlare. Questa relazione appare anche nella vita quotidiana: per i Quaccheri, per es., sono (secondo il Barclay) recreations ammesse: le visite agli amici, la lettura di opere storiche, gli esperimenti matematici e fisici, il giardinaggio, la discussione dei fatti economici od altri che avvengono nel mondo. Il motivo è quello del quale si è già trattato. v2. Molto bene analizzato nel Rembrandt di CARLO NEUMANN, che si deve confrontare colle osservazioni fatte sopra. w2. Così BAXTER nel passo già cit., I, p. 108, in basso.
x2. Cfr., per es., la nota descrizione del Colonnello’ Hutchinson (spesso citata, per es., in SANFORD, op. cit., p. 57) nella biografia composta dalla vedova. Dopo di aver narrato di tutte le sue virtù cavalleresche e della sua natura incline alla serena gioia di vivere, vi si dice: He was wonderfully neat, cleanly and genteel in his habit, and had a very good fancy in it; but he left off very early thè wearing of anything that was costly. Del tutto simile è l’ideale descritto dal Baxter nel discorso funebre per Mary Hammer, della donna puritana aperta alle idee del mondo e di fine cultura, ma che è economa in due cose; primo nell’uso del tempo, secondo nelle spese per pompe e piaceri (Works of thè Puritan Divines, p. 533). y2. Mi ricordo molto bene —; insieme con molti altri esempi —; di un industriale, straordinariamente favorito dal successo nella sua vita d’affari, e nella vecchiaia molto ben provvisto, il quale fu indotto solo con grandissima difficoltà a seguire il consiglio del medico di prendere, contro la sua ostinata debolezza digestiva, alcune ostriche ogni giorno. Importanti istituzioni per scopi di beneficenza —; che egli aveva fondato ancora vivente —; e la sua larghezza nel dare mostravano d’altra parte che si trattava esclusivamente di un residuo di quel modo di sentire ascetico, che ritiene per riprovevole moralmente il godimento della proprietà, e non di qualche cosa di affine aH’avarizia. z2. La separazione dell’officina e dell’ufficio, dell’azienda in generale dall’abitazione privata —; della ditta dal nome —; del capitale dell’azienda dal patrimonio privato, la tendenza di fare dell’azienda (o, per lo meno, dapprincipio, del capitale sociale) un corpus mysticum, agivano tutte in questa direzione. V. il mio studio Handelsgesellschaften im Mittelalter. a3. Già il SOMBART aveva accennato con esattezza a questo fenomeno caratteristico, nel suo Kapitalismus (iaed.). Vi è solo da osservare che l’accumularsi del capitale ha origine da due cause psicologiche molto diverse. L’efficienza dell’una risale alla più oscura antichità; nelle fondazioni, nelle terre avite, e nei fidecommessi, ecc., si manifesta parimenti, anzi molto più chiara che nella attività analoga, diretta al fine di morire con un gran peso materiale di ricchezze, e soprattutto, al fine di assicurare la consistenza dell’azienda, sia pur ledendo gli interessi personali della maggioranza dei figli coeredi. Si tratta in questi casi, oltreché del desiderio di vivere oltre la morte una vita ideale nella propria creazione, di mantenere lo «splendor familiare», cioè di una ambizione che, per così dire, è attribuita alla allargata personalità del fondatore e che, in ogni modo, serve a scopi fondamentalmente egocentrici. Non così è di quel motivo «borghese» col quale noi qui abbiamo a che fare: in esso il principio dell’ascesi: «tu devi rinunciare», trasformato nella forma positiva e capitalistica: «tu devi guadagnare», sta nella sua irrazionalità puro e semplice dinanzi a noi come una specie di imperativo categorico. Tale motivo era per i Puritani solo la gloria di Dio e il proprio dovere, non la vanità umana, ed oggi lo è il dovere rispetto alla professione. Chi prova diletto nel chiarirsi un concetto fin nelle sue estreme conseguenze, si ricordi di quella teoria di alcuni miliardari americani, che non si debbono lasciare ai figli i miliardi guadagnati, per non privar questi del beneficio morale di dover lavorare e guadagnare da sé: che è tuttora, invero, ridotta ad una bolla di sapone puramente «teorica». b3. Si deve sempre nuovamente rilevare che questo è, in ultima istanza, il motivo religioso decisivo —; insieme con quelli, puramente ascetici, di mortificazione della carne —; che si manifesta con particolare evidenza presso i Quaccheri. c3. Il BAXTER (Saints everlasting rest, 12) la rifiuta coi motivi usati dai Gesuiti: al corpo deve essere assicurato quello di cui abbisogna; altrimenti si diventa suoi schiavi. d3. Questo ideale si trova già chiaro nel Quaccherismo dei primi tempi, come dimostrò già il WEINGARTEN nelle sue Englische Revolutions-Kirchen. Anche le precise dimostrazioni di BARCLAY, op. cit., pp. 519 e segg., e 533, dànno l’idea più precisa di questo fatto. Si debbono evitare: 1) la vanità umana, cioè ogni ostentazione, ogni frivolezza, e l’uso di cose che non hanno uno scopo pratico, o che vengono apprezzate solo a causa della loro rarità (cioè per vanità); 2) l’impiego non coscienzioso della proprietà che consiste in una spesa per i bisogni meno stretti non proporzionata rispetto agli indispensabili bisogni della vita ed alla previdenza per l’avvenire. Il Quacchero era, per così dire, la personificazione della legge
economica dell’utilità marginale. Moderate use of thè creature è assolutamente lecito, ma soprattutto si deve fare attenzione alla qualità e solidità delle stoffe, ecc., in quanto ciò non inducesse alla vanity. Cfr. su tutto questo il Morgenblatt für gebildete Leser, 1846, n. 216 e seg. (in particolare Komfort und Solidität der Stoffe bei den Quäkern, cfr. SCHNECKENBURGER, Vorlesungen, p. 96 e segg.). e3. Si è già detto che noi non entriamo nei nessi dei movimenti religiosi colle singole classi sociali. (Su ciò v. i miei saggi sulla Wirtschafts- ethik der Weltreligioiteti). Ma per accorgerci che, per es., il Baxter, che prevalentemente si è qui utilizzato, non guardava attraverso le lenti della (borghesia» di quei tempi, basta tener presente che anche in lui, nella serie delle professioni accette al Signore, dopo le professioni dotte viene per primo l’agricoltore, poi i marinai, mercanti di panni, librai, sarti, in una grande confusione. Ma i marinai, che vengono citati in modo assai caratteristico, vanno forse intesi tanto come pescatori quanto come naviganti. Diverse sono, sotto questo rispetto, alcune sentenze del Talmud. Cfr., per es., WüNSCHE, Babyl. Talmud, II, i, pp. 20, 21, le sentenze di Rabbi Eleasar (rimaste certamente non senza contraddittori), che hanno tutte il significato che l’attività commerciale è meglio dell’agricoltura. Una via di mezzo si trova, II, 2, p. 68, circa un saggio investimento del capitale: un terzo in possessi terrieri, un terzo in merci, un terzo in denaro liquido. Per coloro, in cui il desiderio di conoscere le cause non si placa senza un’interpretazione economica (materialistica, come purtroppo ancora si dice), si osservi qui: che io ritengo molto rilevante l’influenza dello sviluppo economico sulla formazione dei concetti religiosi, e più tardi cercherò di esporre come si sono conformati nel nostro caso gli adattamenti e le relazioni reciproche. Ma quei contenuti concettuali religiosi non si possono assolutamente dedurre dall’economia; essi sono —; e qui non sipuò cambiar nulla —; da parte loro i più potenti elementi formativi del «carattere nazionale» e portano in se stessi la loro legge e la loro forza coercitiva. Ed inoltre le differenze più importanti —; come quelle tra il Luteranesimo e il Calvinismo —; in quanto vi agiscono motivi extrareligiosi, hanno cause prevalentemente politiche. f3. A questo fatto pensa ED. BERNSTEIN, quando nel saggio già citato (pp. 681 e 625) dice: «L’ascesi è una virtù borghese». Le sue considerazioni nell’opera citata sono certamente le prime che abbiano accennato a queste importanti relazioni. Ma il nesso è molto più vasto di quanto egli non supponga. Poiché elemento decisivo non fu il semplice fatto di accumular capitali, ma la trasformazione razionale ascetica di tutta la vita professionale. g3. er le colonie americane il contrasto fra il Nord puritano, dove la costrizione ascetica al risparmio ebbe per conseguenza una continua disponibilità di capitali che creavano un investimento, e le condizioni del Sud, è già chiaramente messa in rilievo dal Doyle. h3. DOYLE, The English in America, II, cap. I. L’esistenza di società metallurgiche (1643), di tessiture di panni (1659) per il mercato (e del resto anche la grande fioritura dell’artigianato) nella Nuova Inghilterra, durante la prima generazione dopo la fondazione della colonia, sono, dal punto di vista puramente economico, fuori dalla loro epoca e stanno nel più gran contrasto non solo colle condizioni del Sud, ma anche con quelle di Rhode Island che non era calvinista, ma godeva di completa libertà di coscienza; dove, ancora nel 1686, nonostante il porto eccellente, il rapporto del Governor and Council diceva: The great obstruction concerning trade is thè want of merchants and men of considerable estates amongts us (ARNOLD, History of thè State of Rhode Island, I, p. 490). In realtà non si può porre in dubbio che vi influisse anche l’obbligo di investire sempre nuovamente il capitale risparmiato, cui si era costretti dalla limitazione puritana del consumo. Inoltre vi era anche la parte, che qui non va discussa, della disciplina ecclesiastica. i3. Il BUSKEN HUET mostra che questi circoli in Olanda rapidamente decaddero (op. cit., II, cap. Ili e IV). Tuttavia GROEN VAN PRINSTERER(Handb. d. Gesch. v. h. V., 3a ed., § 303, nota, p. 254): De Nederlanders verkoopen veel en verbruiken wenig si riferisce ancora al tempo posteriore alla pace di Westfalia. j3. Per l’Inghilterra una petizione (citata da Ranke, Englische Geschichte, IV, p. 197), presentata da un
nobile realista dopo l’ingresso di Carlo II in Londra raccomandava un divieto legale dell’acquisto di terreni da parte del capitale borghese, che doveva così esser costretto a rivolgersi esclusivamente al commercio. Il ceto dei reggenti olandesi si distinse come «ceto» dal patriziato borghese delle città, mediante l’acquisto di antiche proprietà di cavalieri. (V. il lamento dell’anno 1652, citato in Fruin, Tien jaren uit den tachtjarigen oorlog, che i Reggenti siano rentiers e non più commercianti). Questi circoli in realtà non hanno mai avuto una seria ed interiore convinzione calvinista. Ed il noto desiderio di nobiltà e di titoli in larghi circoli della borghesia olandese nella seconda metà del xvn secolo mostra da solo che almeno per questo periodo si deve accettare con prudenza quella contrapposizione delle condizioni inglesi a quelle olandesi. La strapotenza del denaro ereditato spezzò qui lo spirito ascetico. k3. Ai forti acquisti dei beni terrieri inglesi da parte del capitale borghese tenne dietro la grande epoca dell’agricoltura inglese. l3. Landlords anglicani fino a questo secolo si sono non di rado rifiutati di accettare dei non conformisti come fittavoli. (Adesso i due partiti religiosi sono presso a poco della medesima forza, prima i Nonconformisti erano costantemente in minoranza). m3. Con ragione H. LEVY (nel saggio apparso nell’«Archiv fùr Sozialwissenschaft», 46, p. 605 e segg.) richiama l’attenzione sul fatto che, secondo la disposizione caratteristica, che si può dedurre da numerosi dati, del popolo inglese, questo era piuttosto meno disposto ad accettare un ethos ascetico e virtù borghesi che non altri popoli; una violenta e rude volontà di vivere era ed è, infatti, un tratto fondamentale del suo modo di essere. La potenza della ascesi puritana, al tempo del suo predominio, si mostra appunto nel modo meraviglioso con cui essa temperò nei suoi seguaci questo tratto caratteristico. n3. Questo contrasto ritorna più e più volte nel libro del Doyle. Nella posizione dei Puritani il motivo religioso ebbe sempre un’influenza decisiva (ma naturalmente non esclusiva). La colonia del Massachusetts (sotto la condotta di Winthrop) era disposta ad ammettere l’immigrazione di gentlemen anche di una famiglia con nobiltà ereditaria, a patto solo che i gentlemen volessero entrare a far parte della Chiesa. Per ossequio alla disciplina ecclesiastica ci si attenne alla colonizzazione chiusa. La colonizzazione del New Hampshire e del Maine fu fatta da grandi commercianti anglicani, che vi stabilirono dei grandi allevamenti di bestiame. Qui vi erano scarsissimi vincoli sociali. Già nel 1632 si muovevano lamentele per la forte avidità di guadagno degli abitanti della Nuova Inghilterra. (V., per es.5 WEEDENS, Economie and social history of New En- gland, I, p. 125). o3. Questo afferma già PETTY nelYop. cit. e tutte le fonti contemporanee senza eccezione parlano in particolare delle sette puritane, Battisti, Quaccheri, Mennoniti, come di strati in parte privi di mezzi, in parte di piccoli capitalisti, e li contrappongono tanto airaristocrazia dei grandi commercianti quanto agli avventurieri della finanza. Ma da questo strato di piccoli capitalisti appunto, e non dai grandi finanzieri monopolisti, fornitori di stato, finanziatori, imprenditori coloniali, promoters, ecc., provenne quel che fu caratteristico del capitalismo dell’Occidente: l’organizzazione economica borghese del lavoro industriale. (V. per es. UNWIN, Industriai Organization in thè 16.th and centuries, Londra, 1914, p. 196 e seguenti). Che questo contrasto fosse ben noto ai contemporanei si vede nel Discourse concerning Puritans del PARKER (1641), nel quale si afferma anche il contrasto coi progettisti e coi cortigiani. p3. Sul modo col quale questo fatto si manifestò nella politica della Pennsylvania, e specialmente nella guerra di indipendenza v. SHARPLESS, A Quaker experiment in Government, Philadelphia, 1902. q3. V. questo passo nella Vita di Wesley, del Southey, cap. 29. Devo l’indicazione di questo passo che non conoscevo, a una lettera inviatami dal prof. Ashley (1913). Ernst Troeltsch, al quale la comunicai a questo fine, l’ha già occasionalmente citato. r3. Il passo va raccomandato alla lettura di tutti coloro che oggi vogliono essere su questi argomenti più informati ed intelligenti dei capi e dei contemporanei stessi di quei movimenti, i quali, come si vede, sapevano molto bene quel che facevano e quel che arrischiavano. In realtà non è concepibile che da parte di alcuni miei critici si pongano in dubbio, come purtroppo è successo, condizioni di fatto indubitabili e
che finora non sono state neanche poste in dubbio da alcuno, e delle quali io ho studiato piuttosto le sole forze interiori. Nessuno nel xvii secolo poneva in dubbio questi nessi. (Cfr. ancora MANLEY, Usury of 6 examined [1669], p. 137). Oltre agli scrittori moderni già citati, poeti come Enrico Heine e Keats, rappresentanti della scienza come Macaulay, Cunningham, Rogers o scrittori come Matthew Arnold ne hanno parlato come di cosa ovvia. Nella letteratura più recente v. Birmingham Industry and Commerce (1913), dello ASHLEY, che mi espresse il suo completo accordo anche a mezzo di lettera. (Confronta per tutto il problema il saggio di H. Levy, già citato). s3. Il fatto che precisamente gli stessi rapporti fossero ovvii già per i Puritani dell’epoca classica da nulla vien più chiaramente documentato che dagli argomenti di Mr. Money-Love nel BUNYAN: «Si può diventar religiosi per diventar ricchi, per es. per aumentar la propria clientela», perché è indifferente il motivo per cui si è religiosi (p. 114 dell’edizione Tauchnitz). t3. Defoe era uno zelante Nonconformista. u3. Anche lo SPENER(Theologische Bedenken, p. 426 e segg., 429, 432 e segg.) ritiene la professione del commerciante piena di tentazioni e di insidie; ma ad una domanda, risponde: «Io ho piacere quando vedo che l’amico, per quel che riguarda il commercio, non ha dubbi, ma lo considera, come è in realtà, un modo di vita, nel quale si può arrecare molta utilità al genere umano, e si può dunque, secondo la volontà di Dio, praticare la carità». Ciò viene motivato, in altri passi, con maggior precisione mediante argomenti mercantilistici. Se lo Spener, in modo luterano, conformemente alla Ia epistola a Timoteo ed appellandosi a Gesù Siracide (v. sopra), definisce la bramosia di diventar ricco come l’insidia capitale e dice che deve essere assolutamente vinta ed accetta il «punto di vista del sostentamento» (Theolog. Bedenken, III, p. 435), d’altra parte attenua queste affermazioni accennando ai seguaci delle sette che prosperano e che tuttavia vivono religiosamente. Anche per lui la ricchezza, in quanto prodotto di un diligente lavoro professionale, non è sospetta. Il suo punto di vista, in seguito alla influenza luterana, è meno conseguente di quello del Baxter. v3. BAXTERnelYop. cit., II, p. 16, ammonisce di non impiegare heavy, flegmatik, sluggish, fleshly, slothjul persons come scrvants, e raccomandadi preferire godly servants, non solo perché ungodly servants sarebbero soltanto eye-servants, ma soprattutto perché a truly godly servant will do all your Service in obedience to God, as if God himself had bid him do it. Altri, invece, sono inclini: to make no great matter of conscience of it. Inversamente nei lavoratori è segno di santità non il professare esternamente la religione, ma la conscience to do their duty. Come si vede, l’interesse di Dio e quello del datore di lavoro si confondono insieme in un modo che dà da pensare: anche lo SPENER (Theol. Bed., Ili, p. 272), il quale altrove esorta con premura a riservarsi del tempo per pensare a Dio, presuppone come una cosa naturale che i lavoratori debbono esser paghi del minimo tempo di libertà (anche di domenica). A ragione scrittori inglesi chiamarono gli immigrati protestanti «pionieri del lavoro specializzato». V. anche le prove in H. Levy, Die Grundlagen des ókonomischen Liberalismus, p. 53. w3. L’analogia tra la predestinazione di taluni uomini, che soltanto secondo le misure umane è ingiusta, e la spartizione dei beni, parimenti ingiusta, ma parimenti voluta da Dio, che era evidentissima, si riscontra, fra gli altri, in HOORNBEEK, op. cit., I, p. 153. Inoltre la miseria è molto spesso sintomo di colpevole pigrizia. Così BAXTER, op. cit., p. 380. x3. Secondo Th. ADAMS (Works of thè Pur. Div., p. 158), probabilmente Iddio fa rimanere tante persone povere, perché, secondo la sua scienza, non sarebbero fatte per resistere alle tentazioni che la ricchezza porta con sé. Poiché la ricchezza troppo spesso scaccia la religione dall’uomo. y3. V. H. LEVY, op. cit. La stessa constatazione viene rilevata in ogni descrizione (così Manley per gli Ugonotti). z3. Un che di simile non manca in Inghilterra. Qui rientra anche quel Pietismo, che, riallacciandosi al Serious cali di Law (1728), predicava la povertà, la castità e —; dapprincipio —; anche l’isolamento dal
mondo. a4. L’attività di Baxter nella comunità di Kidderminster, che al suo arrivo era assolutamente caduta nella degradazione, attività che raggiunse un successo quasi senza esempio nella storia della cura delle anime, è al tempo stesso un esempio tipico del modo in cui l’ascesi educava le masse al lavoro, o per dirla marxisticamente, alla produzione di «plusvalore», e rese così addirittura possibile per la prima volta il loro impiego in rapporti di lavoro capitalistici (industria domestica, tessitura). Questo è, in generale, il rapporto causale. Dal punto di vista di Baxter, egli mise a servizio dei suoi interessi etico-religiosi l’adattamento dei suoi figli spirituali all’ingranaggio capitalistico; dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo, questi interessi etico-religiosi entrarono a servizio dello sviluppo dello spirito capitalistico. b4. Ed ancora un’osservazione: certo è legittimo elevare qualche dubbio sulla misura, con la quale abbia agito, come agente psicologico, la gioia dell’artigiano medioevale per la cosa da lui creata, e della quale si fa tanto parlare. Tuttavia c’era, indubitabilmente, qualche cosa. Ma l’ascesi in ogni modo spogliò il lavoro di quest’attrattiva terrena e profana —; oggi per sempre distrutta dal capitalismo —; e lo indirizzò verso l’aldilà. Il lavoro professionale come tale è voluto da Dio. La impersonalità del lavoro moderno, che se si considera dal punto di vista dell’individuo appare desolata e senza senso, è qui spiegata religiosamente. Il capitalismo al tempo delle sue origini aveva bisogno di operai, che per ragioni di coscienza si offrissero allo sfruttamento economico. Oggi esso è in sella e può ottenere la loro laboriosità, senza ricorrere a ricompense ultraterrene. c4. Su questi contrasti e sviluppi, v. H. LEVY nell’opera già citata. La caratteristica e fortissima ostilità dell’opinione pubblica inglese contro i monopoli è sorta storicamente dalla combinazione di una lotta politica contro la Corona —; il Parlamento lungo escluse dal suo seno i monopolisti —;, con motivi etici del Puritanesimo e cogli interessi economici del piccolo e del medio capitalismo in contrasto coi magnati della finanza nel xvn secolo. La Declaration of thè Army, del 2 agosto 1652 ed anche la Petition dei Levellers, del 28 gennaio 1653, oltre all’abolizione delle accise, dazi e imposte indirette, ed all’introduzione di una single tax on estates, richiedono soprattutto free trade, cioè l’abolizione di tutti i limiti monopolistici dell’industria all’interno ed all’esterno come di violazioni dei diritti umani. Similmente anche la «grande rimostranza». d4. Su questo argomento v. H. LEVY, Oekon. Uberalismus, p. 56. e4. Che anche gli elementi che qui non sono stati ricondotti alle loro origini religiose —; in ispecie la sentenza: honesty is the best policy (dissertazioni di Franklin sul credito) —; siano di origine puritana è un fatto che rientra in un contesto un po’ diverso. Qui si riprodurrà soltanto la seguente sentenza di G. A. ROWNTREE(Quakerism, past and present, pp. 95–96), sulla quale richiamò la mia attenzione Ed. Bernstein: Is it merely a coincidence, or is it a consequence, that the lofty profession of spirituality made by the Friends has gone hand in hand with shrewdness and tact in the transaction of mundane affairs? Real piety favours the success of a trader by insuring his integrity, and fostering habits of prudence and forethought: important items in obtaining that standing and credit in the commercial world, which are requisite for the steady accumulation of wealth. «Onesto come un ugonotto», era un’espressione proverbiale nel XVII secolo al pari della onestà degli Olandesi, che Sir W. Tempie ammirava, e, un secolo più tardi, di quella degli Inglesi in confronto ai continentali, che non erano passati per questa scuola morale. f4. Bene analizzato nel Goethe, di BIELSCHOWSKY, cap. 18. Anche il WINDELBAND nella chiusa della sua Blütezeit der deutschen Philosophie (II vol. della Geschichte der neueren Philosophie) ha espresso un pensiero affine anche riguardo allo sviluppo del «cosmos» scientifico. g4. Saints everlasting resi, cap. XII. h4. «Questo vecchio coi suoi 75.000 dollari all’anno non potrebbe riposarsi? No! La facciata del suo negozio deve essere allargata fino a 400 piedi di larghezza. Perché? That beast everything - egli dice. La sera, quando la moglie e le figlie fanno una lettura in comune, egli sospira l’ora di andare a dormire; di
domenica egli guarda tutti i cinque minuti l’orologio, per vedere quando il giorno finirà. Un’esistenza infelice!». Così il genero (immigrato tedesco) del principale, un dry-good-man di una città dell’Ohio, riassumeva il suo giudizio sul suocero. Giudizio che al vecchio a sua volta sarebbe apparso del tutto inconcepibile e sintomo di tedesca mancanza di energia. i4. Già questa osservazione - che è rimasta qui inalterata dalla prima ed. - avrebbe dovuto mostrare a Brentano, che io non ho mai posto in dubbio l’importanza autonoma del razionalismo umanistico. Ma che anche l’umanismo non fosse puro razionalismo lo afferma fortemente di nuovo il BORINSKI nelle «Abhandlungen der Münchener Akademie der Wissenschaften», 1919. j4. Il discorso accademico del v. BELOV(Die Ursachen der Reformation, Friburgo, 1916) non si occupa di questo problema, ma di quello della Riforma in genere, e di Lutero in particolare. Per il tema qui trattato, ed in ispecie per le controversie che si connessero a questo studio, si rinvia allo scritto di HERMELINK, Reformation und Gegenreformation, che tuttavia è dedicato principalmente ad altri problemi. k4. Poiché il presente saggio ha espressamente rilevato soltanto i rapporti, nei quali è realmente indubitabile un’azione del contenuto religioso della coscienza sulla cultura «materiale», sarebbe stata cosa facile procedere da questi rapporti ad una «costruzione» formale, che deducesse tutti gli elementi caratteristici della cultura moderna dal razionalismo protestante. Ma un simile modo di procedere va lasciato piuttosto a quel tipo di dilettanti, che credono all’unità della psiche sociale e alla sua cc riducibilità» ad una formula. Si osservi ancora soltanto che il periodo dello sviluppo capitalistico che precede l’evoluzione da noi considerata fu dappertutto condizionato anche da influenze cristiane, talune delle quali l’ostacolavano, altre invece lo favorivano. Appartiene ad un capitolo che verrà più tardi, l’esaminare di qual genere esse fossero. Per il resto, se taluni dei più ampi problemi delineati più su possono ancora venir discussi nell’ambito di questa rivista12non è sicuro dato che i problemi di cui
questa si occupa. D’altra parte non sono molto incline a scrivere grossi volumi che, come in questo caso, dovrebbero basarsi in grandissima parte su opere (teologiche o storiche) altrui (lascio queste frasi senza cambiarle). Per la tensione tra l’ideale di vita e la realtà nell’epoca «precapitalistica» prima della Riforma, v. STRIDER, Studien zur Geschichte der kapil4. Io trovo che questa frase e le osservazioni e le note immediatamente precedenti avrebbero dovuto esser sufficienti ad escludere ogni incomprensione su quel che voleva rappresentare questa trattazione, e non trovo, perciò, alcun motivo di fare delle aggiunte. Invece della continuazione immediata, che originariamente avevo in animo di fare secondo il programma suesposto, risolvetti a suo tempo di pubblicare i risultati di studi comparati sulle relazioni nella storia universale tra religione e società, e ciò in parte per motivi casuali, in ispecie per la pubblicazione delle Soziallehren der christlichen Kirchen, del TROELTSCH, il quale esaurì alcuni degli argomenti che io avrei dovuto trattare con una competenza, che io, non teologo, non avrei avuto, ma in parte anche per togliere queste dissertazioni dal loro isolamento e collocarle nel complesso dello sviluppo della cultura. Seguono qui questi saggi. Li precede soltanto un breve scritto 13 volto a chiarire il concetto di setta impiegato qui sopra e insieme a mostrare l’importanza del concetto puritano di Chiesa per lo spirito capitalistico dell’era moderna. 1. Samuel Butler, 1612–1680, poeta satirico inglese. Il suo Hudibras, uno dei più celebri poemi burleschi inglesi, narra di un cavaliere presbiteriano che va in guerra con il suo squire, un indipendente. I due disquisiscono continuamente su questioni religiose e sono coinvolti in una serie di avventure grottesche che ne mettono in luce l’ignoranza, la codardia e la disonestà. 2. Robert Barclay, 1648–1690, apologeta scozzese della Society of Friends (Quaccheri), definisce nei suoi scritti il movimento quacchero contrapponendolo tanto al cattolicesimo quanto al protestantesimo classico. Perseguitato per il suo credo, nei suoi ultimi anni ebbe molta influenza presso Giacomo II. 3. Landlord, grande proprietario terriero percettore di rendite. 4. Farmer, fittavolo.
5. Squirearchy, la classe dei proprietari terrieri. 6. Merry old England, espressione inglese tradizionale per designare l’Inghilterra dei buoni vecchi tempi. 7. Adventurers, avventurieri speculatori. 8. Indentet servants, il termine esatto è indentured servants, da indenture, nome di speciali contratti per servizio all’estero. 9. Edward Dowden, 1843–1913, critico, biografo e poeta irlandese. 10. William Laud, 1573–1645, arcivescovo di Canterbury, favorito e primo ministro di Carlo I con StrafTord, la cui politica fu una delle cause principali della rivolta puritana, in seguito alla quale fu condannato a morte. 11. William Prynne, 1600–1669, pamphlettista puritano inglese, violento oppositore dell’arcivescovo Laud. 12. «Archiv. für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» dove questo saggio è stato pubblicato per la prima volta. talistichen Organisationsformen, 1914, libro II (anche contro lo scritto di Keller, già citato, utilizzato dal Sombart). 13. Qui non tradotto.
L’ETICA ECONOMICA DELLE GRANDI RELIGIONI STUDI COMPARATI DI SOCIOLOGIA DELLE RELIGIONIa INTRODUZIONE Per «grandi religioni» s’intendono qui, in maniera del tutto avalutativa, quei cinque sistemi di regolamentazione delPesistenza, a carattere religioso o religiosamente condizionati, che hanno saputo radunare attorno a sé una schiera particolarmente folta di fedeli: sono l’etica religiosa confuciana, induistica, buddhistica, cristiana, islamica. A questi si aggiunge il giudaismo, come sesta religione da trattare nello stesso contesto, sia perché contiene delle premesse storiche essenziali per la comprensione delle due ultime religioni citate, sia per il particolare ruolo storico, in parte effettivo ed in parte presunto, avuto nello sviluppo della moderna etica economica dell’Occidente, che è stato di recente oggetto di numerose discussioni. Altre religioni vengono prese in considerazione solo nella misura indispensabile al contesto storico. Per quanto riguarda il cristianesimo si fa riferimento soprattutto ai saggi apparsi in precedenza e posti all’inizio di questa raccolta, e dei quali si deve presumere la conoscenza. Ciò che s’intende per «etica economica» di una religione apparirà man mano più chiaro, si spera, nel corso dell’esposizione stessa. Oggetto di studio non è la teoria etica dei compendi teologici, che serve soltanto come strumento di conoscenza (anche se comunque importante), ma quelle spinte pratiche all’azione che hanno il loro fondamento nei contesti psicologici e pragmatici delle diverse religioni. Per quanto schematica possa essere l’esposizione che segue, permetterà tuttavia di capire come una concreta etica economica sia una struttura complessa, ed inoltre spesso condizionata da molteplici fattori. Si vedrà ancora che delle forme di organizzazione economica, superficialmente analoghe, sono conciliabili con tipi molto diversi di etica economica, e proprio secondo il loro carattere particolare producono effetti storici molto diversi. Un’etica economica non è affatto una semplice «funzione» delle forme di organizzazione economica, non più di quanto, viceversa, dia loro la propria impronta in materia unilaterale. Nessun’etica economica è mai stata determinata unicamente da fattori religiosi. Ognuna possiede, naturalmente, un grado di autonomia pura determinato perlopiù da dati geografico-economici e storici, che si
contrappone a tutti gli atteggiamenti dell’uomo verso il mondo che siano determinati da fattori religiosi o da altri fattori (in questo senso) interiori. Comunque, tra i fattori che determinano l’etica economica c’è anche — nota bene: si tratta di uno dei fattori — la determinazione religiosa del modo di vita. Questo però evidentemente, entro date frontiere geografiche e politiche, sociali e nazionali, è a sua volta fortemente influenzato da fattori economici e politici. Voler mettere in luce ognuna di queste singole relazioni causali, sarebbe imbarcarsi in un’impresa senza limiti. In questo studio si può solo tentare di estrarre di volta in volta i fatti orientativi del modo di vita di quegli strati sociali che hanno maggiormente influenzato l’etica pratica della religione in questione e ne hanno plasmato i tratti caratteristici. Con ciò si intendono qui quei tratti che la differenziano dalle altre religioni e che nello stesso tempo sono importanti per l’etica economica. Non deve trattarsi sempre necessariamente di un singolo strato sociale. Nel corso della storia gli strati influenti (in ogni senso) possono cambiare. Inoltre l’influenza di un singolo strato sociale non è mai esclusiva. Tuttavia per ognuna delle religioni citate si possono citare quasi sempre degli strati il cui modo di vivere è stato perlomeno prevalentemente determinante. Il confucianesimo, per anticipare qualcuno di questi casi, era l’etica di ceto di una classe di prebendari razionalistica-laica, di formazione letteraria. Chi non apparteneva a questo strato colto non contava. L’etica religiosa (o se si vuole irreligiosa) di questo strato ha influenzato il modo di vita cinese molto al di là di quello stesso. L’induismo più antico, invece, era rappresentato da una casta ereditaria di letterati colti che, liberi da ogni ufficio, avevano una sorta di funzione rituale come curatori delle anime dei singoli individui e della comunità e, come punti fermi di riferimento dell’articolazione per ceti, davano l’impronta all’intero ordinamento sociale. Solo i brahmani di formazione vedica costituivano, come portatori della tradizione, il ceto religioso con pieno valore. Solo più tardi apparve accanto a questi un ceto di asceti non brahmani in concorrenza con questi ultimi, e ancora più tardi, nel corso del Medioevo indiano, comparve sulla scena la fervida religiosità sacramentale del Salvatore, diffusa tra gli strati inferiori e alimentata da mistagoghi di origine plebea. Il buddhismo venne propagato da monaci mendicanti che erravano senza patria rigorosamente contemplativi e ricusatori del mondo. Solo questi erano membri in senso proprio della comunità di fedeli; tutti gli altri rimanevano dei laici di valore inferiore sul piano religioso: oggetti e non soggetti della religiosità. L’Islam del primo periodo era una religione di guerrieri volti alla conquista del
mondo, un ordine cavalleresco di disciplinati combattenti per la fede sul modello del cristianesimo dell’epoca delle crociate, soltanto priva dell’ascesi sessuale di quest’ultimo. Nel Medioevo islamico, tuttavia, il sufismo misticocontemplativo, e la fratellanza della piccola borghesia sviluppatasi da esso sul modello dei terziari cristiani ma con una diffusione generale ben più ampia, ebbe un ruolo perlomeno pari per importanza, sotto la guida dei tecnici plebei dell’orgiastica. Il giudaismo, dall’esilio in poi, è stata la religione di un borghese «popolo-paria» — a suo tempo impareremo a conoscere il significato pregnante di questa espressione — ed affrontò il Medioevo sotto la guida di una classe di intellettuali, sua caratteristica, di formazione letteraria e ritualistica, che rappresentava un’intellighentsia razionalistica piccoloborghese in fase accelerata di proletarizzazione. Il cristianesimo, infine, iniziò il suo corso come una dottrina di apprendisti artigiani erranti. Esso era e rimase in tutto e per tutto una religione specificamente cittadina, e in particolare borghese, in tutte le epoche del suo sviluppo esterno ed interno, nell’antichità come nel Medioevo e all’epoca del puritanesimo. La città occidentale, con il suo carattere particolare che la distingue da ogni altra città, con la sua borghesia, intesa come quella che, in tutto il mondo, è sorta solo in Occidente, è stata il suo teatro principale, sia per l’antica devozione pneumatica della comunità dei fedeli, sia per gli ordini mendicanti dell’alto Medioevo e per le sette del periodo della Riforma fino al pietismo ed al metodismo. Ora questo studio non vuole dimostrare che il carattere particolare di una religione è una semplice funzione della posizione sociale di quel dato strato che ne appare come il rappresentante caratteristico, né che tale religione rappresenta soltanto l’«ideologia» di un certo strato od il «riflesso» dei suoi interessi materiali ed ideali. Al contrario, è difficile concepire un fraintendimento più totale di questa interpretazione riguardo al punto fermo della nostra trattazione. Per quanto profondi siano stati nei singoli casi gli influssi sociali, economicamente e politicamente condizionati, su di un’etica religiosa, questa tuttavia ha ricevuto la sua impronta primaria da fonti religiose. Innanzitutto dal contenuto del suo proclama e della sua promessa. E se questo non di rado ha subito, già nella generazione successiva, una revisione radicale, adattandosi ai bisogni della comunità, tale adattamento riguarda, di regola, proprio i suoi bisogni religiosi. Altre sfere di interessi potevano avere soltanto un’influenza secondaria, anche se spesso molto forte e talvolta determinante. Ci siamo convinti che da un lato è vero che per ogni
religione il cambiamento degli strati socialmente decisivi ha sempre avuto un’importanza preponderante, ma che dall’altro il modello di religione così plasmato soleva poi esercitare la propria influenza in misura assai ampia anche sulla condotta di strati sociali estremamente eterogenei. Si è tentato di interpretare diversamente il rapporto tra etica religiosa e posizioni di interessi, in modo tale da far apparire la prima come una mera «funzione» di quest’ultime. Non soltanto nel senso del cosiddetto materialismo storico — di cui non si discute qui — ma anche in senso puramente psicologico. Un vincolo dell’etica religiosa alle classi sociali, molto generale ed in un certo senso astratto, potrebbe essere dedotto dalla teoria del ressentiment, introdotta dal brillante saggio di F. Nietzsche e da allora trattata con acume anche da vari psicologi. Se la trasfigurazione etica della pietà e della fratellanza fosse stata una «ribellione di schiavi», in senso etico, di coloro che sono in posizione di svantaggio, sia per le loro attitudini naturali che per le opportunità concrete condizionate dalla loro sorte, e se quindi l’etica del «dovere» fosse stata i) prodotto di sentimenti di vendetta «repressi», perché impotenti, da parte di gretti borghesucci condannati al lavoro ed al guadagno, contrapposti ai signori, liberi da ogni dovere, se davvero rosse stato così, allora evidentemente ci sarebbe stata una soluzione molto semplice per i problemi più importanti della tipologia dell’etica religiosa. Ma anche se la scoperta dell’importanza psicologica del ressentiment fu in sé felice e fruttuosa, s’impose tuttavia molta prudenza nell’apprezzamento della sua portata eticosociale. Sui motivi che determinarono direttamente, in quanto tali, le diverse forme di «razionalizzazione» etica del modo di vita, si parlerà a più riprese in seguito. Questa, il più delle volte, non ha nulla a che vedere con il «risentimento». Ma per quanto riguarda il valore della sofferenza nell’etica religiosa, questo ha indubbiamente subito un tipico mutamento che, rettamente inteso, dà ragione, in certa misura, alla teoria sviluppata da Nietzsche per primo. La presa di posizione originaria nei confronti della sofferenza si espresse plasticamente innanzitutto nel trattamento riservato, nel corso delle cerimonie religiose della comunità, a coloro che erano perseguitati dalla malattia o da altre ostinate disgrazie. Il sofferente, l’afflitto, l’infermo permanente, o quello colpito da altre sfortune secondo il tipo della sua disgrazia, o era posseduto da un dèmone, o subiva il peso della collera di un dio che aveva offeso. Tollerar
lo in seno alla comunità che celebrava il culto avrebbe potuto recar danno a quest’ultima. In ogni caso non poteva partecipare ai sacrifici e ai banchetti rituali. Infatti la sua vista non era gradita agli dèi e poteva suscitare la loro collera. I banchetti sacrificali erano convegni dei felici, perfino a Gerusalemme durante l’assedio. Trattando in questo modo la sofferenza come segno della condizione di chi è inviso a Dio e macchiato di qualche colpa segreta, la religione veniva incontro, sul piano psicologico, ad un bisogno di ordine molto diffuso. L’uomo felice raramente si accontenta del semplice fatto di possedere la propria felicità. Egli ha anche bisogno di avere diritto a tale felicità. Vuole essere convinto di «meritarla)), e soprattutto di meritarla in confronto agli altri. E vuole quindi essere anche autorizzato a credere che i meno fortunati, che non possiedono una simile fortuna, ricevono parimenti solo ciò che a loro spetta. La felicità vuole essere «legittima». Quando, con l’espressione generale di «felicità», si abbracciano tutti i beni dell’onore, del potere, del possesso e del piacere, questo costituisce la formula più generale di quel servizio di legittimazione che la religione deve rendere agli interessi esterni ed interni di tutti i dominatori, i possessori, i vincitori, i sani: in breve, di tutti i felici: la teodicea della felicità. Questa ha le sue radici nei più forti («farisaici») bisogni degli uomini ed è quindi facilmente comprensibile, anche se non si tengono abbastanza in considerazione i suoi effetti. Sono invece tortuose le vie che hanno portato al capovolgimento di questa posizione, e cioè alla trasfigurazione religiosa della sofferenza. Un primo effetto lo ebbe la constatazione che il carisma di una di quelle condizioni estatiche, visionarie, isteriche, in breve: fuori dal comune, che vengono considerate «condizioni di santità», e la cui produzione forma quindi l’oggetto dell’ascesi magica, viene suscitato e comunque favorito da numerose forme di mortificazione della carne e di astensione sia dal normale nutrimento e dal sonno che dal rapporto sessuale. Il prestigio di queste mortificazioni era una conseguenza dell’idea che certe forme di sofferenza e certi stati anormali provocati dalla mortificazione fossero dei mezzi per acquisire poteri sovrumani e magici. Le antiche prescrizioni sui tabù e le astensioni in favore della purezza rituale, conseguenza della credenza nei dèmoni, agivano nella stessa direzione. A ciò si aggiunse però in forma nuova e indipendente, lo sviluppo dei culti della «redenzione», che assunsero una posizione essenzialmente nuova rispetto alla sofferenza individuale. Il culto comunitario originario, soprattutto quello delle associazioni politiche, non considerava gli
interessi individuali. Il dio della tribù, il dio locale, il dio della città, il dio dello stato si preoccupava soltanto degli interessi della collettività: la pioggia e il sole, il bottino della caccia, la vittoria sui nemici. A lui si rivolgeva quindi la collettività come tale nel culto comunitario. Per prevenire o rimuovere i mali — soprattutto la malattia — che concernevano il singolo individuo, non ci si rivolgeva al culto della comunità, ma, come individuo, allo stregone, il più antico «curatore di anime» individuale. Il prestigio dei singoli maghi o di quegli spiriti, o dèi, in nome dei quali compivano i loro miracoli, creava loro un’affluenza che prescindeva dall’appartenenza locale o tribale e ciò portava, in circostanze favorevoli, alla formazione di una «comunità» indipendente dai gruppi etnici. Molti «misteri» — non tutti — prendevano questa via. La loro promessa era di salvare i singoli, dalla malattia, dalla povertà, e da ogni sorta di travagli e di pericoli. Il mago si trasformò così in mistagogo; si svilupparono delle dinastie ereditarie di tali «mistagoghi», oppure un’organizzazione di personale addestrato con un capo scelto secondo regole determinate, in cui tale capo era considerato o l’incarnazione stessa di qualche essere sovrumano, o semplicemente un araldo e un esecutore del suo dio, vale a dire un profeta. Nello stesso tempo era nata così un’organizzazione comunitaria religiosa per la «sofferenza» individuale come tale e per la «redenzione» dalla stessa. Il proclama e la promessa si rivolgevano ora naturalmente alle masse di coloro che avevano bisogno di tale redenzione. Queste ed i loro interessi diventarono il centro dell’attività professionale dei «curatori di anime», attività che nacque solo allora nel vero senso della parola. L’accertamento della causa della sofferenza, la confessione dei «peccati» cioè, innanzitutto, della contravvenzione a precetti rituali, il consiglio circa la condotta atta a rimuovere il male: queste diventavano ora le tipiche attività dei maghi e dei sacerdoti. Con ciò i loro interessi materiali e ideali di fatto poterono entrare sempre più al servizio di cause specificamente plebee. Un ulteriore progresso su questa strada si ebbe con lo sviluppo di una religiosità del «Salvatore», sotto la spinta di travagli tipici e sempre ricorrenti. Questa postulava un mito del Redentore, e quindi una visione del mondo razionale (perlomeno relativamente); la sofferenza, ancora una volta, costituì il suo oggetto più importante. Il suo punto di partenza fu offerto molto spesso dalla primitiva mitologia della natura. Gli spiriti che comandavano il ciclo della vegetazione e l’andamento degli astri importanti per le stagioni diventarono i portatori preferiti del mito del dio che soffre, muore e resuscita, e che ora garantiva anche agli uomini angustiati il ritorno della felicità in questo mondo o la
sicurezza di quello dell’aldilà. Oppure una figura della leggenda degli eroi divenuta popolare — come Krishna1 in India — e dotata di miti dell’infanzia, dell’amore e delle battaglie, diventava l’oggetto di un fervido culto del Salvatore. Presso un popolo politicamente oppresso, come quello di Israele, il nome del Salvatore (Moshuah) era innanzitutto legato a quello degli eroi leggendari (Gedeone2, Iefte3) che lo avevano liberato da travagli politici e da qui determinò le promesse «messianiche». Solo presso questo popolo, e con tali conseguenze, la sofferenza collettiva di un popolo, e non quella dei singoli, diventò — in circostanze molto particolari — l’oggetto di una speranza religiosa di liberazione. Di regola il Salvatore aveva carattere nello stesso tempo individuale e universale: era pronto a garantire la salvezza ai singoli, e ad ogni singolo che si rivolgeva a Lui. La figura del Salvatore poteva assumere vari aspetti. Nella tarda forma della religione zoroastriana, con le sue numerose astrazioni, una figura che era frutto di una costruzione pura assunse nell’economia della salvezza il ruolo di mediatore e di Salvatore. O viceversa un personaggio storico legittimato da prodigi e apparizioni visionarie si ergeva a Salvatore. Momenti puramente storici erano determinanti per la realizzazione delle molte possibilità diverse. Quasi sempre però dalle speranze di redenzione nasceva una qualche teodicea della sofferenza. Le promesse delle religioni della redenzione, in realtà, restavano anzitutto legate a promesse non etiche ma rituali, all’incirca come i vantaggi terreni e ultraterreni dei misteri eleusini erano legati alla purezza rituale e all’ascolto della messa eleusina. Ma il ruolo crescente che, con la crescente importanza del diritto, svolgevano quegli speciali dèi che sovrintendevano al procedimento giudiziario, conferì loro il compito di proteggere l’ordinamento tradizionale: cioè la punizione del reprobo e la ricompensa del giusto. E laddove una profezia influenzava in modo determinante lo sviluppo religioso, sempre naturalmente appariva il «peccato» — non più solo come contravvenzione al rituale magico, ma soprattutto sotto forma d’incredulità verso il profeta ed i suoi comandamenti — nel ruolo della causa di ogni sorta di disgrazia. Ora il profeta stesso, invero, non era affatto di regola un figlio o un rappresentante delle classi oppresse. Vedremo come il caso contrario costituisse press’a poco la regola. E anche il contenuto della sua dottrina non derivava affatto in prevalenza dalle concezioni ideali di tali classi. Ma di regola, per l’appunto, non erano i fortunati, i ricchi, i dominatori che avevano bisogno di un redentore e di un profeta, bensì gli oppressi, o perlomeno quelli
minacciati dalla disgrazia. Nella maggior parte dei casi, quindi, una religiosità del Salvatore proclamata dai profeti, trovava di preferenza un durevole insediamento negli strati sociali meno privilegiati, presso i quali o sostituiva completamente la magia o ne forniva il complemento razionale. E laddove le promesse del profeta o del Salvatore stesso non incontravano abbastanza i bisogni dei diseredati, questi sviluppavano con estrema rapidità una forma secondaria di religiosità della salvezza delle masse, come sottospecie delle dottrine ufficiali. Ma proprio per questo la visione razionale del mondo presente in forma embrionale nel mito del Salvatore si vide regolarmente assegnato il compito di elaborare una teodicea razionale dell’infelicità. Nello stesso tempo, però, essa non di rado attribuiva alla sofferenza come tale una connotazione positiva che le era originariamente del tutto estranea. La sofferenza provocata volontariamente, con la mortificazione della carne, aveva già cambiato il suo significato con lo sviluppo delle divinità etiche, che puniscono e ricompensano. Come in origine la costrizione magica esercitata sugli spiriti dalle formule di preghiera veniva accresciuta dall’automortificazione — come fonte di stati carismatici — così tale fenomeno rimase presente nelle mortificazioni propiziatorie e nelle prescrizioni rituali di astinenza anche dopo che la formula magica per la soggezione degli spiriti si era mutata in una preghiera di esaudimento ad un dio. Inoltre le penitenze espiatorie apparivano ora come un mezzo per placare con il pentimento la collera degli dèi e per allontanare, attraverso l’autopunizione, il castigo meritato. Anche quelle numerose astinenze collegate al culto dei morti che in origine (ciò è particolarmente chiaro in Cina) dovevano allontanare l’invidia e la collera del defunto, adesso si trasferirono facilmente ai rapporti con gli dèi in questione e fecero apparire l’automortificazione e in definitiva il semplice fatto stesso di privazioni non desiderate come cose più gradite a Dio del godimento senza scrupoli dei beni terreni che rendevano chi ne godeva inaccessibile all’influenza del profeta e del sacerdote. Tuttavia la forza di questi moventi individuali conobbe eventualmente un notevole incremento quando, con il crescente razionalismo della visione del mondo, crebbe il bisogno di un «senso» etico nella ripartizione dei beni e della felicità tra gli uomini. Sicché la teodicea, con la crescente razionalizzazione della visione etico-religiosa e con la scomparsa delle condizioni magiche primitive, incontrò sempre maggiori difficoltà. Troppo spesso la sofferenza era «immeritata» sul piano individuale. E troppo spesso quelli ai quali le cose riuscivano meglio non erano i migliori, ma i «cattivi», giudicati non in base ad
una «morale di schiavi» ma anche secondo i criteri propri allo strato dei signori. I peccati individuali commessi dai singoli in una vita anteriore (trasmigrazione delle anime), o la colpa degli antenati che si sconta fino alla terza e quarta generazione, o — principalmente — la corruzione di tutto ciò che è mortale come tale venivano dati come spiegazioni della sofferenza e dell’ingiustizia; mentre, come promesse di compensazione, c’erano le speranze di una migliore vita futura, sia nel mondo per i singoli (metempsicosi), o per i discendenti (regno messianico), sia nell’aldilà (paradiso). La concezione metafisica di Dio e del mondo che suscitò il bisogno inestirpabile della teodicea, fu parimenti in grado di produrre soltanto pochi sistemi di pensiero — in tutto, come vedremo, solo tre - che dessero delle risposte soddisfacenti sul piano razionale al problema del fondamento dell’incongruenza tra destino e merito. Si tratta della dottrina indiana del Karma4, del dualismo di Zarathustra5 e del decreto di predestinazione del Deus absconditus. Queste soluzioni, le più rigorose razionalmente, sono apparse però solo in via del tutto eccezionale nella loro forma pura. Il bisogno razionale di una teodicea della sofferenza — e della morte — ha agito in maniera straordinariamente efficace. Ha dato senz’altro la sua impronta a tratti importanti di religioni come l’induismo, lo zoroastrismo, il giudaismo, in certa misura anche il cristianesimo paolino e quello successivo. Ancora nel 1906, alla domanda posta ad un certo numero (piuttosto considerevole) di proletari circa i motivi della loro incredulità religiosa, solo una minoranza rispose con deduzioni tratte dalle moderne teorie scientifiche, mentre la maggioranza rispose con accenni all’«ingiustizia» dell’ordinamento di questo mondo, certo soprattutto perché credevano nel livellamento rivoluzionario da compiere nel mondo stesso. La teodicea della sofferenza poteva essere tinta di tessenti- ment. Ma il bisogno di un compenso all’avversità del destino in questo mondo non solo non prese sempre, ma si può dire che non prese mai l’aspetto del ressentiment come tratto fondamentale. La credenza che l’ingiusto, proprio perché tale, se la passi bene in questo mondo, perché gli è riservato l’inferno, mentre ai devoti è riservata la beatitudine eterna, e che proprio per questo i peccati tuttavia commessi occasionalmente anche da questi debbano essere espiati in questo mondo, era senz’altro molto vicina al bisogno di vendetta. Ma è facile convincersi che perfino tale concezione, emersa talvolta, non era sempre condizionata dal ressentiment e soprattutto non sempre era il prodotto di
strati sociali oppressi. Vedremo che sono esistiti solo pochi esempi, di cui uno solo pienamente rilevante, di una religiosità realmente determinata nei suoi tratti essenziali dal ressentiment. è vero soltanto che il ressentiment, come elemento (accanto ad altri) del razionalismo religiosamente determinato degli strati sociali meno privilegiati, poteva guadagnare importanza ovunque e spesso ì’ha guadagnata. Anche questo, però, secondo la natura delle promesse di ogni singola religione, in misura molto diversa e spesso limitatissima. Sarebbe in ogni caso del tutto inesatto voler dedurre l’«ascesi» in generale da queste fonti. La diffidenza verso la ricchezza ed il potere, presente di regola in tutte le religioni della redenzione vere e proprie, aveva il suo fondamento naturale innanzitutto nel con cetto sperimentato da salvatori, profeti e sacerdoti, secondo cui gli strati privilegiati e «sazi» di questo mondo provavano generalmente soltanto in misura limitata il bisogno di una redenzione - non importa di che tipo - e quindi erano meno «pii» nel senso di quelle religioni. E lo sviluppo di una razionale etica religiosa proprio nell’ambito degli strati sociali inferiori aveva del pari radici positive soprattutto nella loro disposizione interiore. Quegli strati il cui potere e la cui considerazione sociale sono fondati su solide basi, sogliono costruire la loro leggenda di ceto ispirandosi a qualche particolare qualità ad essi intrinseca, il più delle volte una qualità del sangue: la loro essenza (effettiva o presunta) è ciò che alimenta in loro il sentimento della propria dignità. Gli strati oppressi o considerati socialmente inferiori (o semplicemente sprovvisti di una valutazione sociale positiva) trovano invece più facile nutrire il sentimento della propria dignità con la credenza in una speciale «missione» loro affidata: il loro dovere o la loro attività (funzionale) garantisce o costituisce il loro proprio valore, che rimanda così ad un mondo al di là di loro stessi, ad un «compito» stabilito da Dio. Già questa circostanza come tale costituiva una delle fonti della potenza idealistica sviluppata dalle profezie etiche innanzitutto presso gli individui socialmente meno privilegiati, senza che per questo fosse necessaria la leva del ressentìment. L’interesse razionale per una compensazione materiale ed ideale di per sé bastava perfettamente. Che oltre a ciò la propaganda di profeti e dei sacerdoti si servisse anche, intenzionalmente o meno, del ressentìment delle masse, non si può mettere in dubbio, ma ciò non assume per questo valore universale. Innanzitutto questa forza sostanzialmente negativa non è stata in nessun luogo, per quanto si sappia, la fonte di quelle concezioni di essenza metafisica che hanno conferito a ciascuna delle religioni di redenzione il loro carattere particolare. E,
soprattutto, il tipo della promessa religiosa, in termini generali, non era affatto necessariamente né solo prevalentemente l’esclusivo portavoce di un interesse di classe, che fosse di carattere esterno o interno. Di per sé, come vedremo, le masse rimasero ovunque prese dalla primitività grossolana della magia, dove una profezia non le abbia trascinate, con determinate promesse, in un movimento religioso a carattere etico. Del resto, il carattere parti colare dei grandi sistemi etico-religiosi è stato determinato da condizioni sociali di gran lunga più individuali che non dalla mera opposizione tra strati dominanti e dominati. Per risparmiare molte ripetizioni, si possono ancora premettere qui alcune osservazioni su tali condizioni. Il ricercatore empirico non deve assolutamente considerare come premi esclusivamente e nemmeno prevalentemente ultraterreni i beni di salvezza, diversi tra loro, che le varie religioni promettevano ed offrivano. E questo a prescindere totalmente dal fatto che non ogni religione, e nemmeno ogni religione mondiale, conosceva un aldilà come oggetto di determinate promesse. Con la sola eccezione, parziale, del cristianesimo e di poche altre specifiche confessioni religiose ascetiche, i beni di salvezza di tutte le religioni, quelle primitive come quelle evolute, profetiche o no, erano piuttosto grossolanamente terreni: salute, longevità, ricchezza, erano le promesse delle religioni cinese, vedica, zoroastriana, giudaica antica, islamica, in modo talmente analogo a quelle delle religioni fenicia, egiziana, babilonese e antica germanica, e alle promesse per i laici devoti deH’induismo e del buddhismo. Solo i virtuosi della religione — l’asceta, il monaco, il sufi6 il derviscio7 - perseguivano un bene di salvezza «ultramondano», in confronto a quegli altri beni più rozzamente terreni. Anche questo bene di salvezza ultramondano, però, non era rivolto soltanto all’aldilà: neppure là dove s’intendeva tale. Dal punto di vista psicologico, piuttosto, era proprio Y habitus presente, terreno, che interessava soprattutto a chi cercava la salvezza. La certitudo salutis puritana, il possesso stabile dello stato di grazia con il sentimento della «conferma» della salvezza, era l’unico dei beni di salvezza, psicologicamente afferrabile, di questa religiosità ascetica. Il sentimento d’amore acosmico del monaco buddhista sicuro del suo ingresso nel Nirvana, il bhakti(divina passione amorosa) o l’estasi apatica dei devoti indù, l’estasi orgiastica presso i rajeni del Chlysty8 e presso il derviscio danzante, l’invasamento divino e il possesso di Dio, l’amore cavalleresco per Maria e il Salvatore, il culto gesuitico del Sacro Cuore, il raccoglimento quietistico, la tenerezza pietistica per il bambino Gesù e le «sacre piaghe», le
orge sessuali e semisessuali negli amori cavallereschi di Krishna, i raffinati banchetti rituali del Vallabhacharya9, gli atti rituali iniziatori onanistici, le diverse forme dell’amo mystica e la partecipazione contemplativa all’unità cosmica: tutti questi stati erano ricercati una volta dal credente senza dubbio per il valore affettivo immediato che offrivano. Da questo punto di vista erano del tutto equivalenti all’ebbrezza religiosa provocata dall’alcool nei riti dionisiaci o nel culto della soma, alle orge totemistiche a base di carne, ai banchetti cannibaleschi, all’antico uso sacramentale dell’hashish, dell’oppio e della nicotina, e in genere a tutti i tipi di ebbrezza religiosa. Questi, per via del loro anomalo carattere psichico, e per il valore proprio così conferito a tali stati, erano considerati come specificamente sacri e divini. E seppure fu soltanto con le religioni razionalizzate che venne introdotto in quei specifici atti religiosi un significato metafisico, accanto all’appropriazione immediata del bene di salvezza, sublimando così le orge in «sacramento», ciononostante anche le orge più primitive non erano affatto sprovviste di un’interpretazione di senso. Soltanto che questa era di carattere puramente magico-animistico e non conteneva ancora, o conteneva solo in forme latenti ed embrionali, quell’inclusione in un’universale prammatica cosmica della salvezza propria a tutto il razionalismo religioso. Tuttavia, anche dopo che si fu verificato tutto ciò, il bene della salvezza continuò naturalmente ad avere per i devoti un carattere attuale, in primo luogo, e soprattutto psicologico. Ciò significa che esso consisteva soprattutto in quello stato, il puro habitus del sentimento come tale, che era frutto immediato dell’atto specifi camente religioso (o magico) o dell’ascesi o della contemplazione metodica. Secondo il suo senso tale stato poteva essere, così come lo era esteriormente, un habitus fuori del normale a carattere puramente transitorio. In origine, naturalmente, era proprio così. Non esiste nessuna differenza tra situazioni «religiose» e «profane» se non il carattere eccezionale delle prime. Ma uno stato particolare, raggiunto con mezzi religiosi, poteva anche essere raggiunto come uno «stato di salvezza» durevole nelle sue conseguenze e coinvolgente tutto l’uomo e il suo destino. La transizione era fluida. Delle due più alte concezioni della dottrina religiosa sublimata della salvezza, la «rinascita» e la «redenzione», la rinascita era il bene magico più antico. Essa significava l’acquisizione di una nuova anima attraverso l’atto orgiastico o l’ascesi sistematica. Questa poteva ottenersi in via transitoria attraverso l’estasi, oppure si poteva cercare come habitus permanente da ottenere
mediante l’ascesi magica. Al giovane che voleva entrare come eroe nella comunità dei guerrieri, o che voleva partecipare, in qualità di membro della comunità del culto, alle sue danze o orge magiche, o che voleva entrare in comunione con gli dèi nei banchetti rituali, occorreva una nuova anima. Le ascesi eroiche e magiche, la consacrazione degli adolescenti e gli usi sacramentali della rinascita sono quindi antichissimi e costituiscono tanti capitoli della vita privata e comunitaria. Ma all’infuori dei mezzi impiegati, erano soprattutto gli scopi di tali atti che differivano di volta in volta, vale a dire la risposta alla domanda «a che cosa» l’uomo doveva rinascere. Le diverse situazioni cui veniva attribuito un valore religioso (o magico) e che davano ad ogni religione la sua impronta psicologica, possono essere trattate sistematicamente da punti di vista molto diversi tra loro. Una tale ricerca non verrà intrapresa in questo luogo. Qui si tratta solo, in relazione con quanto detto prima, di accennare in termini molto generali a questo fatto: il tipo di beatitudine (terrena) o di rinascita cui in una religione si aspira come al sommo bene, doveva essere necessariamente ed evidentemente diverso secondo il carattere dello strato sociale che rappresentava più direttamente la religiosità in questione. Le classi guerriere dei cavalieri, i contadini, gli artigiani e gli intellettuali di formazioni letteraria avevano naturalmente in ciò tendenze diverse, che se da sole erano molto lontane, come si vedrà, dal determinare in modo univoco il carattere psicologico della religione, lo hanno tuttavia influenzato in maniera durevole. E in realtà la differenza, in particolare tra i due primi e i due ultimi strati sociali citati, era oltremodo importante. Questi due ultimi strati, infatti, fornivano — sempre per quanto riguarda gli intellettuali, e perlomeno potenzialmente per quanto riguarda gli artigiani e i commercianti — i rappresentanti di un razionalismo, più teorico nel primo caso, più pratico nel secondo, che poteva lasciare delle impronte di tipo molto diverso ma che aveva sempre un’influenza importante sull’atteggiamento religioso. Su questo piano soprattutto il carattere degli strati intellettuali era di massima importanza. Ai fini dello sviluppo religioso della nostra epoca, infatti, è del tutto indifferente che i nostri moderni intellettuali provino il bisogno di godere, accanto ad ogni sorta di altre sensazioni, anche di uno stato «religioso» come «esperienza di vita». Essi vogliono in certo qual modo arredarsi interiormente in stile perfetto con pezzi d’antiquariato garantiti autentici, ma da tale fonte non è ancora mai sorto un rinnovamento religioso. Nel passato, invece, la natura particolare degli strati intellettuali era oltremodo importante per le religioni. Il loro compito
principale era la sublimazione del possesso della salvezza religiosa in una fede nella «redenzione». La concezione dell’idea di redenzione era in se stessa antichissima, se si intende come la liberazione dal bisogno, dalla fame, dalla siccità, dalla malattia, e, infine, dalla sofferenza e dalla morte. Ma la redenzione acquistò un significato specifico solo quando fu l’espressione di una «concezione del mondo» razionalizzata e sistematizzata e della presa di posizione nei confronti di questa. Infatti ciò che voleva e poteva significare secondo il suo senso e il suo carattere psicologico dipendeva proprio da quella concezione del mondo e da quella presa di posizione. Sono gli interessi (materiali ed ideali) e non le idee, a dominare immediatamente l’attività dell’uomo. Ma le «concezioni del mondo» create dalle «idee» hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività. In base alla concezione del mon do si determinava il «da che cosa» e «verso quale meta» l’uomo voleva (e, non dimentichiamo, poteva) essere «redento». Poteva trattarsi della liberazione dalla servitù politica e sociale, in un futuro regno messianico di questo mondo. O dalla contaminazione delle cose ritualmente impure o in generale dall’impurità dovuta all’imprigionamento nel corpo, nella purezza di un essere armonioso nel corpo e nell’anima, o puramente spirituale. O dal gioco eterno ed insensato delle passioni e dei desideri umani, nella pace tranquilla della pura contemplazione del divino. O da un male assoluto e dalla schiavitù del peccato, nel bene libero ed eterno nel grembo di un Dio paterno. O dall’asservimento al determinismo astrologico delle costellazioni, nella dignità della libertà e della partecipazione all’essenza della divinità nascosta. O dai limiti della finitezza, che si manifestano con la sofferenza, il bisogno e la morte, e dalla minaccia della punizione dell’inferno, nella beatitudine eterna di un’esistenza futura, terrestre o paradisiaca. O dal ciclo della rinascita con la sua inesorabile retribuzione delle azioni commesse in vite anteriori, neH’eterno riposo. O dall’assurdità degli interrogativi e degli avvenimenti, in un sonno senza sogni. Esistevano ancora moltissime altre possibilità. Dietro a queste si celava sempre una presa di posizione verso qualche cosa del mondo reale che veniva sentito come specificamente «privo di senso», e anche l’esigenza di ribadire che la struttura del mondo nel suo insieme era, o poteva diventare in qualche modo un «cosmo» pieno di significato. Ma tale esigenza, il frutto principale del razionalismo religioso vero e proprio, venne sostenuta soltanto dagli strati intellettuali. A parte ciò, le vie e i dati di questa necessità metafisica, e anche il suo grado di efficacia, erano alquanto diversi tra loro.
Tuttavia si possono fare alcune osservazioni generali in proposito. La forma moderna, teorica e pratica, di razionalizzazione totale, intellettuale e funzionale, della concezione del mondo e del sistema di vita, ha avuto la seguente conseguenza generale. La religione, nella misura in cui progrediva questo tipo particolare di razionalizzazione, si spostò sempre di più, dal canto suo, verso l’irrazionale, dal punto di vista di una costruzione intellettuale della concezione del mondo. Questo per vari motivi. Da un lato non era facile far quadrare il conto del razionali smo logico. Come nella musica il «comma» pitagorico si opponeva alla razionalizzazione integrale della fisica tonale, e di conseguenza i singoli grandi sistemi musicali di tutti i popoli e di tutte le epoche si differenziano soprattutto per i modi in cui seppero coprire e aggirare tale inevitabile irrazionalità o al contrario metterla al servizio della ricchezza delle tonalità, la stessa cosa sembra si sia avverata per la concezione teorica del mondo ma più ancora, e soprattutto, per la razionalizzazione pratica della vita. Anche qui i singoli grandi tipi di sistemi di vita razionali e metodici furono soprattutto caratterizzati da quelle premesse irrazionali, accettate come dati di fatto, che essi avevano recepito. Quali erano queste premesse è proprio ciò che è stato determinato, perlomeno in larghissima misura, da fattori puramente storici e sociali, attraverso il carattere particolare - che qui però significa la situazione degli interessi esterni, socialmente condizionati, ed interni, psicologicamente condizionati di quegli strati che erano i rappresentanti del modo di vita in questione nel periodo decisivo della sua formazione. Gli elementi irrazionali nel processo di razionalizzazione del reale rappresentavano inoltre le posizioni sulle quali l’intellettualismo, con il suo bisogno irrefrenabile di possedere dei valori surreali, fu costretto a ritirarsi a misura che il mondo sembrava spogliarsi di tali valori. L’unità della primitiva immagine del mondo, in cui tutto era magia concreta, mostrò quindi la tendenza a scindersi da un lato in una conoscenza razionale della natura e in un dominio razionale su di essa, dall’altro in esperienze «mistiche» i cui contenuti inesprimibili restavano l’unico aldilà possibile accanto al meccanismo sdivinizzato del mondo: in realtà come un regno inafferrabile, ultramondano, dato dal possesso di una salvezza individuale e divina. Il singo lo può cercare la sua salvezza soltanto come singolo, ove questa conseguenza., venga portata fino in fondo. Questo fenomeno, che sotto una forma o l’altra si accompagnava ai progressi del razionalismo intellettualistico, si manifestò in un modo o nell’altro ovunque gli uomini intrapresero la razionalizzazione
dell’immagine del mondo come cosmo retto da leggi impersonali. Tuttavia si manifestò, com’è ovvio, con particolare forza presso quelle religioni e quelle etiche religiose che erano influenzate in maniera decisiva da strati nobili di intellettuali dediti alla pura comprensione filosofica del mondo e del suo «senso», come le religioni mondiali dell’Asia, soprattutto quella indiana. La contemplazione, con la penetrazione che offriva nel profondo e felice riposo e nell’immobilità dell’Unico, diventò per tutte queste religioni il massimo ed ultimo bene religioso accessibile agli uomini, mentre tutte le altre forme corrispondenti a stati religiosi costituivano tutt’al più dei surrogati relativamente validi di questo bene. Questo fatto ha avuto conseguenze di vasta portata, come vedremo ripetutamente, per i rapporti della religione con la vita pratica, ivi compresa l’economia. Tali conseguenze derivarono dal carattere generale delle esperienze «mistiche» (nel senso chiarito, cioè contemplative) e dalle necessarie premesse psicologiche che ne condizionavano il perseguimento. Le cose andavano in modo completamente diverso laddove quegli strati che erano determinanti per lo sviluppo di una data religione avevano un’attività pratica nella vita, erano eroi guerrieri della classe cavalleresca, o funzionari politici, o classi produttive economiche, o, là dove, infine, la religione era dominata da una ierocrazia organizzata. La ierocrazia, con il suo razionalismo derivante dal suo occuparsi in maniera professionale del culto e del mito o, in misura ancora più ampia, della cura delle anime, cioè della confessione e dei consigli ai peccatori, cercò ovunque di monopolizzare per sé la concessione del bene di salvezza religioso e quindi di dargli la forma ed il temperamento conforme alla «grazia sacramentale» o «grazia istituzionale», da lei solo amministrabile ritualmente e non raggiungibile dal singolo. La ricerca individuale della salvezza da parte del singolo, o da parte di libere comunità attraverso la contemplazione, o con mezzi orgiastici o ascetici, le parevano naturalmente, dal punto di vista dei suoi interessi di potere, altamente sospetti, e dovevano essere regolati ritualmente e soprattutto sottoposti al controllo della ierocrazia. Ogni burocrazia politica, d’altra parte, diffidava di ogni specie di ricerca individuale della salvezza e di ogni formazione di libere comunità, come fonti di emancipazione dall’addomesticamento ottenuto attraverso l’istituzione dello stato; diffidava anche della concorrente istituzione sacerdotale della grazia, ma soprattutto disprezzava, in ultima analisi, la ricerca di questi beni senza fine pratico posti al di là degli scopi utilitaristici di questo mondo. I doveri
religiosi, per ogni burocrazia, furono alla fin fine dei semplici doveri ufficiali o sociali di cittadini dello Stato, o doveri di status: il rituale corrispondeva al regolamento, e ogni religiosità che si trovò ad essere determinata da una burocrazia, assunse di conseguenza un carattere ritualistico. Anche gli strati guerrieri cavallereschi erano soliti avere un orientamento decisamente terreno nei loro interessi, ed essere estranei a qualsiasi «mistica». Ma a loro mancò di regola, come all’eroismo in genere, sia il bisogno sia la capacità di dominare razionalmente la realtà; l’irrazionalità del «destino», eventualmente il concetto di una vaga «fatalità» deterministica (l’omerica «moira»10), stava dietro e al di sopra degli dèi e dei demoni, concepiti come forti e passionali eroi dai quali gli eroi umani ricevevano assistenza, inimicizia, gloria e bottino, o morte. Per i contadini, la cui intera esistenza economica era così specificamente legata alla natura e così dipendente da forze elementari, la magia, sia l’incantesimo coercitivo contro gli spiriti che esercitavano il dominio al di sopra o all’interno delle forze della natura, sia il semplice acquisto della benevolenza divina, era un fatto talmente ovvio che solo dei gravi capovolgimenti nell’orientamento della vita, provenienti da alstri strati o da potenti profeti, legittimati come maghi dalla forza del miracolo, poterono strapparli dalla perseveranza di queste forme, spontanee ovunque, di religiosità. Gli stati di «invasamento» orgiastici ed estatici, prodotti da sostanze inebrianti o dalla danza - estranei al sentimento di ceto dei cavalieri, in quanto non dignitosi - sostituiscono presso di loro la «mistica» degli intellettuali. Infine, gli strati «borghesi» in senso occidentale, con i loro corrispondenti fuori dall’Europa, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, industriali, e i loro derivati moderni nati solo in Occidente furono - e ciò è particolarmente importante per noi - gli strati che presentavano apparentemente il maggior numero di possibilità negli sviluppi della loro presa di posizione religiosa. L’istituzione della grazia sacramentale della Chiesa romana nelle città medioevali, che erano i puntelli del papato, la grazia sacramentale e mistagogica nelle città antiche ed in India, la religiosità orgiastica e contemplativa dei sufi e dei dervisci dell’Asia anteriore, la magia taoistica, la contemplazione buddhistica e l’assimilazione rituale della grazia sotto la direzione spirituale dei mistagoghi in India, tutte le forme dell’amore per il Salvatore e della fede nel Redentore, sparse in tutto il mondo, dal culto di Krishna a quello di Cristo, il ritualismo razionale della Legge e la predica nella sinagoga degli Ebrei, spoglia di ogni magia, le sette pneumatiche dell’antichità e quelle ascetiche del Medioevo, la grazia della predestinazione e la rinascita
etica dei puritani e dei metodisti e tutte le forme di ricerca individuale della salvezza, tutte ebbero radici particolarmente forti, più forti che altrove, proprio in questi strati. Certo anche la religiosità di tutti gli altri strati era naturalmente ben lontana dal possedere soltanto e in modo univoco quel dato carattere che in precedenza è stato presentato come particolarmente affine ad essi. Ma lo strato borghese, a prima vista, sembra prestarsi ancora molto di più, nell’insieme, ad una molteplicità d’interpretazioni sotto questo aspetto. E tuttavia spiccano proprio per questo strato delle affinità elettive con determinati tipi di religiosità. Comune ad esso era la tendenza al razionalismo pratico della vita economica, condizionata dal carattere della loro esistenza, maggiormente svincolata dall’assoggettamento economico alla natura. La sua intera esistenza riposava su calcoli tecnici od economici e sul dominio della natura e degli uomini. Anche presso questo strato la tecnica di vita tramandata poteva congelarsi nel tradizionalismo, come è successo ovunque ripetutamente. Ma proprio in lui sussisteva sempre, sia pure in misura molto diversa, la possibilità, collegata alla tendenza al razionalismo tecnico ed economico, di far sorgere una regolamentazione etica razionale della vita. Questa non fu in grado di imporsi dovunque contro la tradizione stereotipata (perlopiù) a carattere magico. Ma dove le fu dato un fondamento religioso tramite la profezia, questo poteva appartenere all’uno o all’altro dei due tipi fondamentali di profezia sui quali si dovrà tornare ancora spesso: la profezia «esemplare»-una profezia che incarnava la vita da condurre per arrivare alla salvezza, generalmente una vita contemplativa e apatico estatica - o la profezia «di missione», che in nome di un Dio impartiva al mondo delle richieste, naturalmente etiche e spesso a carattere attivamente ascetico. Quest’ultimo tipo di profezia, che esortava alla vita attiva nel mondo trovò, com’è ovvio, proprio qui un terreno tanto più particolarmente favorevole, quanto più gli strati borghesi come tali avevano importanza sociale e quanto più venivano sottratti ad altri vincoli a carattere di tabù e alle divisioni in schiatte e caste. L’ascesi attiva, non il possesso di Dio, cioè, o la dedizione alla contemplazione divina, che appariva come il sommo bene alle religioni influenzate da strati aristocratici di intellettuali, ma l’attività voluta da Dio, con il sentimento di essere lo «strumento» di Dio poté qui diventare Yhabitus religioso dominante, come del resto ebbe sempre il sopravvento in Occidente, contro la mistica contemplativa e l’estasi orgiastica o apatica che pure vi erano ben note. Non che sia stata limitata a questi strati. Anche qui non è esistito in alcun modo un tale univoco determinismo sociale. Anche la profezia
zoroastriana rivolta ai nobili e ai contadini e quella islamica rivolta ai guerrieri possedevano, come le profezie e le prediche israelitiche e protocristiane, questo carattere attivo, al contrario della propaganda buddhistica, taoistica, neopitagorica, gnostica e sufistica. Ma certe conseguenze specifiche della profezia di missione si sono sviluppate, come vedremo, proprio sul terreno «borghese». Ora, la profezia di missione, per la quale i devoti si sentivano non come il recipiente della divinità, ma come lo strumento di Dio, aveva una profonda affinità elettiva con una determinata concezione di Dio: quella del creatore, ultraterreno, personificato, che si adira, che perdona, che ama, che esige, che punisce; il contrario di quella concezione - non sprovvista di eccezioni, ma tuttavia usuale - dell’Essere supremo impersonale perché accessibile solo tramite la contemplazione, come stato, della profezia esemplare. La prima concezione ha dominato la religiosità iranica e dell’Asia anteriore, e quella occidentale derivata da questa; la seconda ha dominato la religiosità indiana e cinese. Queste differenze non rappresentano nulla di primitivo. Al contrario si può riconoscere che sono apparse soltanto con la profonda sublimazione delle primitive concezioni animistiche degli spiriti ed eroistiche degli dèi, che erano molto simili dappertutto. Sicuramente con il forte concorso della connessione già citata con gli stati apprezzati e desiderati come un bene di salvezza. Proprio questi stati ebbero delle interpretazioni che portarono a diverse concezioni di Dio, a seconda di quale stato sacro veniva considerato più apprezzabile: l’esperienza mistica contemplativa, o l’estasi apatica o il possesso orgiastico di Dio o l’ispirazione visionaria e le «voci». Dal punto di vista oggi più diffuso e, naturalmente, anche ampiamente giustificato, secondo il quale il contenuto emotivo sarebbe l’unico fatto primario e le idee ne sarebbero solo i prodotti secondari, si potrebbe ora tendere a vedere il rapporto causale che dà il primato dei contenuti «psicologici» su quelli «razionali» come esclusivamente determinante, e quindi vedere questi solo come interpretazione di quelli. Tuttavia, stando alla prova dei fatti, ciò sarebbe andare troppo oltre. Lo sviluppo, carico di conseguenze, della concezione ultraterrena o immanente di Dio è stato determinato da tutta una serie di motivi anche puramente storici e ha avuto, da parte sua, un’influenza molto persistente sul tipo di formazione dell’esperienza di salvezza. Soprattutto, come vedremo ripetutamente, il Dio ultraterreno. Quando anche in proposito, Meister Eckhart11 poneva esplicitamente «Marta» al di sopra di «Maria», in
definitiva lo faceva perché l’esperienza panteistica di Dio propria del mistico non poteva compiersi senza una completa rinuncia a tutte le componenti decisive della fede occidentale nella creazione e in Dio. Gli elementi razionali di una religione, la sua «dottrina»-come la dottrina indiana del Karma, la fede calvinistica nella predestinazione, la giustificazione luterana attraverso la fede, la dottrina cattolica dei sacramenti - hanno anch’essi la loro autonomia e la razionale prammatica religiosa della salvezza derivante da un certo tipo di concezione di Dio e di «immagine del mondo» ha avuto in certi casi delle conseguenze di vasta portata per l’organizzazione pratica del sistema di vita. Se, come si è presupposto nelle osservazioni fatte fin qui, il tipo dei beni di salvezza auspicati è stato fortemente influenza to dal tipo di situazione estrinseca di interessi degli strati dominanti e dal sistema di vita conforme a tali interessi, oltre che dalla stessa stratificazione sociale, viceversa però anche la direzione di tutto il sistema di vita, dovunque sia stata metodicamente razionalizzata, è stata determinata in maniera estremamente pregnante dai valori ultimi secondo i quali questa razionalizzazione si è orientata. Questi erano, certo non sempre, e ancor meno esclusivamente, ma almeno di regola anche dei valori e delle prese di posizione religiosamente determinate, perlomeno nella misura in cui entrava in gioco una razionalizzazione etica e fin dove arrivava la sua influenza. Per determinare il tipo di queste interdipendenze reciproche tra situazioni di interesse esterne o interne una cosa fu di grande importanza. I «massimi» beni di salvezza promessi da una religione, di cui si è parlato sinora, non erano anche quelli più universali. L’entrata nel Nirvana, l’unione contemplativa conil divino, l’invasamento divino ottenuto con mezzi orgiastici o ascetici non erano affatto accessibili a chiunque. E anche nella loro forma attenuata, in cui il passaggio allo stato religioso di ebbrezza o di sogno poteva diventare oggetto di un culto popolare universale, come minimo non costituivano certo delle componenti della vita quotidiana. Proprio all’inizio dell’intera storia religiosa troviamo un fatto empirico di grande importanza: quello della diversa qualificazione religiosa degli uomini, che la dottrina calvinista della predestinazione ha dogmatizzato nella sua forma razionale più drastica del «particolarismo della grazia». I massimi beni di salvezza religiosi - le facoltà estatiche e visionarie degli sciamani, dei maghi, degli asceti e dei pneumatici di ogni sorta - non erano raggiungibili da chiunque, il loro possesso era un «carisma» che poteva certo essere destato in qualcuno ma non in tutti. Da ciò
derivò la tendenza di tutte le religiosità intensive ad una specie di stratificazione di status conforme alle differenze di qualificazione carismatica. La religiosità «eroistica» o di «virtuosi»b si oppose alla religiosità di «massa», ove qui per «massa» non s’intendono naturalmente quelli situati a un livello sociale inferiore secondo l’ordinamento mondano di status, ma quelli che «non sono musicalmente dotati» dal punto di vista religioso. In questo senso, le leghe degli stregoni e dei danzatori sacri, il ceto religioso degli sramana indiani, gli «asceti» protocristiani esplicitamente riconosciuti in seno alla comunità come un «ceto» speciale, i «pneumatici» paolini e in primo luogo quelli gnostici, l’«ecclesiola» pietistica, tutte le «sette» vere e proprie, cioè, in termini sociologici, quelle associazioni che accoglievano in sé solo membri religiosamente qualificati, infine tutte le comunità monastiche di tutto il mondo, erano classi portatrici di una religiosità di virtuosi. Ora ogni religiosità di virtuosi è combattuta nel suo autonomo svolgimento ovunque esista un’autorità ierocratica appartenente ad una «chiesa», cioè una comunità dispensatrice di grazia con un’organizzazione istituzionale retta da funzionari. Infatti quest’ultima, come portatrice della grazia istituzionale, aspira ad organizzare la religiosità di massa e ad imporre i suoi propri beni di salvezza ufficialmente monopolizzati e mediati al posto dell’autoqualificazione religiosa di status dei virtuosi religiosi. Conformemente alla sua natura, cioè alla situazione degli interessi dei suoi portatori ufficiali, la chiesa deve essere «democratica», nel senso dell’accessibilità a tutti dei beni di salvezza: deve essere, cioè, sostenitrice dell’universalismo della grazia e della qualificazione etica di tutti coloro che si piegano alla sua autorità. Dal punto di vista sociologico questo processo costituisce un perfetto parallelo della lotta in corso, sul terreno della politica, da parte della burocrazia contro i diritti politici particolari del ceto aristocratico. Anche ogni burocrazia politica pienamente sviluppata è necessariamente altrettanto «democratica» quanto la ierocrazia, e in senso molto simile, orientata cioè verso il livellamento e la soppressione dei privilegi di ceto che combatte come concorrenti al potere. I più svariati compromessi sono sorti come risultato di questa lotta non sempre ufficiale ma sempre presente in modo latente (della religiosità degli Ulema12 contro quella dei dervisci, dei vescovi protocristiani contro i membri delle sette pneumatiche ed eroistiche e contro il potere simboleggiato dalle chiavi del carisma ascetico, della predicazione ufficiale luterana e della chiesa sacerdotale anglicana contro l’ascesi in genere, della chiesa di stato russa
contro le sette, del servizio ufficiale del culto confuciano contro tutte le forme di ricerca della salvezza buddhiste, taoiste e settarie). Ora il virtuosismo con le sue esigenze si trova costretto a fare delle concessioni alle possibilità della religiosità quotidiana per guadagnare e conservare, sul piano ideale e su quello materiale, il suo ascendente sulle masse. Proprio la forma di tali concessioni ebbe, come naturale, un’importanza primaria nel determinare il tipo di influenza religiosa sulla vita quotidiana. Dove questa lasciò le masse immerse nella tradizione magica - come in quasi tutte le religioni orientali - la sua influenza fu molto più limitata di dove, sia pure sacrificando molte delle sue esigenze ideali, intraprese una razionalizzazione etica della vita quotidiana e l’attuò a livello generale, o anche particolarmente solo per le masse. Ma accanto a quel rapporto di religiosità di virtuosi e religiosità di massa, che si presentò in definitiva come risultato di questa lotta, anche il carattere particolare della religiosità stessa dei virtuosi ebbe, proprio per questo, un’importanza incisiva anche per lo sviluppo del sistema di vita delle masse e quindi anche per l’etica economica della religione corrispondente. Poiché non si trattava solo della vera e propria religiosità pratica «esemplare» ma, secondo il sistema di vita che questa prescriveva ai virtuosi, le possibilità di creare qualche tipo di etica razionale della vita quotidiana sussistevano in misura molto diversa. Il rapporto della religiosità dei virtuosi con la vita quotidiana, luogo dell’economia, variava molto soprattutto a seconda dello specifico bene di salvezza da questa ricercato. Laddove i beni di salvezza ed i mezzi di redenzione della religiosità dei virtuosi avevano un carattere contemplativo o orgiastico-estatico, non c’era alcun ponte che conducesse da essi all’attività pratica della vita quotidiana nel mondo. In tal caso non solo l’economia, come ogni attività a carattere mondano, era qualcosa di scarso valore religioso; ma non si potevano nemmeno trarre da Vi habitus valutato come sommo bene dei motivi psicologici, anche indiretti, che portassero a tale attività. Anzi la religiosità contemplativa ed estatica, nella sua più intima essenza, era piuttosto specificamente ostile all’economia. L’esperienza mistica, orgiastica, estatica, costituisce un fatto specificamente extraquotidiano, che allontana dalla vita di tutti i giorni e da ogni attività razionalmente proiettata verso un fine, e che proprio per questo viene valutata come «santa». Di conseguenza, nelle religioni orientate in questo senso, un profondo divario separava il sistema di vita dei «laici» da quello della comunità dei virtuosi. Il dominio del ceto
religioso dei virtuosi imboccava allora facilmente i binari di un’antropolatria magica il virtuoso veniva pregato direttamente come santo, o semplicemente le sue benedizioni e le sue forze magiche venivano comperate dai laici come mezzi per ottenere la prosperità terrena o la salvezza religiosa. Come il contadino per il signore, così anche il laico rappresentava in definitiva per il bityhu buddhista e jainista esclusivamente quella fonte di tributi che gli permetteva di dedicarsi totalmente alla ricerca della salvezza, che un lavoro a carattere mondano avrebbe potuto sempre pregiudicare. Tuttavia anche il sistema di vita dei laici poté conoscere in questo contesto una certa regolamentazione etica. Poiché il virtuoso era il curatore ufficiale delle anime: padre confessore e directeur de Vàme del laico, quindi spesso dotato di una forte influenza. Ma la sua influenza, sull’individuo religiosamente «non musicale», o non l’esercitava affatto, o soltanto nei particolari cerimoniali, rituali e convenzionali, nel senso del suo sistema di vita religioso (quello del virtuoso). Poiché l’attività nel mondo restava sempre, per principio, priva di significato sul piano religioso ed era orientata proprio nella direzione opposta alla tendenza verso la meta religiosa. Il carisma del «mistico» puro serviva completamente soltanto a lui stesso e non, come quello dell’autentico mago, agli altri. Le cose sono andate ben diversamente laddove il virtuosismo delle persone religiosamente qualificate ha dato vita a una setta ascetica che si proponeva di foggiare la vita del mondo secondo la volontà di un dio. Affinché ciò potesse avvenire in senso vero e proprio, erano necessarie, in realtà, due condizioni. In primo luogo il sommo bene di salvezza non doveva essere di tipo contemplativo, ossia non doveva consistere nella fusione in un Essere eterno, ultraterreno, in contrapposizione al mondo, oppure in una un ‘io mystica da realizzare in senso orgiastico o apatico-estatico. Poiché questi stati si discostano dalle attività della vita quotidiana, sono al di là del mondo reale, dal quale allontanano. In secondo luogo la religiosità doveva essersi liberata il più possibile del carattere puramente magico o sacramentale dei mezzi di grazia. Poiché anche questi svalutano sempre l’agire nel mondo come un’attività che ha un valore relativo per la religione, e collegano la decisione sulla salvezza al successo di procedimenti non quotidiano-razionali. Ambedue queste condizioni, il disincantamento del mondo e lo spostamento della via della salvezza dalla «fuga dal mondo» contemplativa al «rifacimento del mondo» attivamente ascetico sono state pienamente
realizzate (se si prescinde da alcune piccole sette razionalistiche quali si trovano in tutto il mondo) solo nelle grandi organizzazioni delle chiese e delle sette del protestantesimo ascetico in Occidente. A ciò hanno contribuito alcune vicende ben specifiche della religiosità occidentale condizionate sul piano puramente storico. Si tratta in parte dell’influenza del suo ambiente sociale - e soprattutto dello strato decisivo per il suo sviluppo - e in parte anche, in modo altrettanto significativo, del suo carattere genuino: il dio ultraterreno e la particolarità dei mezzi e delle vie di salvezza storicamente definiti per la prima volta dalla profezia israelitica e dalla dottrina della Torah13. Queste cose sono già state in parte trattate negli argomenti dei saggi precedenti; in parte dovranno ancora essere approfondite più avanti. Dove il virtuoso religioso si trovava posto nel mondo come «strumento» di un dio e nel contempo privato di tutti i mezzi magici di salvezza, con l’esigenza di «provarsi» chiamato alla salvezza davanti a Dio - e ciò significa in realtà davanti a se stesso - attraverso la qualità etica della sua attività nell’ordinamento del mondo, e solo attraverso quella, qui il mondo come tale poteva anche es sere deprezzato e rifiutato come vile creatura e ricettacolo del peccato: ma con ciò si affermava semplicemente con forza maggiore sul piano psicologico come teatro di attività voluta da Dio nella «vocazione». Perché è vero che questo ascetismo intramondano era ricusatore del mondo, nel senso che disprezzava, o bandiva i beni quali gli onori e la bellezza, i piacevoli sogni ed ebbrezze, il potere e l’orgoglio puramente mondani degli eroi, come concorrenti del regno di Dio. Ma proprio per questo non fuggiva il mondo, come la contemplazione, ma seguendo il comando di Dio voleva razionalizzare eticamente il mondo e restava quindi specificamente rivolto al mondo in senso molto più pregnante dell’ingenuo «apprezzamento del mondo» proprio dell’integrale umanità, per esempio deH’antichità e del cattolicesimo laico. Proprio nella vita quotidiana veniva confermato lo stato di grazia e di elezione di coloro che erano religiosamente qualificati. Certo non nella vita quotidiana così com’era, ma nell’attività quotidiana metodicamente razionalizzata al servizio di Dio. L’attività quotidiana elevata razionalmente a vocazione diventò la conferma della salvezza. Le sette dei virtuosi religiosi costituirono in Occidente i fermenti della razionalizzazione metodica del sistema di vita, ivi compresa l’attività economica, ma non, come le comunità degli estatici contemplativi, orgiastici o apatici, le valvole di sfogo per l’anelito a fuggire dall’attività priva di senso di questo mondo. Ora tra questi due poli estremi si sono inserite le più varie forme di
transizione e di combinazioni. Poiché le religioni, quanto gli uomini, non erano libri nati da elucubrazioni. Erano dei prodotti storici, costituiti non senza contraddizioni logiche o anche solo psicologiche. Molto spesso portavano in sé serie di motivi che, seguite ciascuna in modo coerente, spesso avrebbero dovuto opporsi radicalmente ove le loro vie si incrociavano. La «coerenza», qui, era l’eccezione, non la regola. Le vie e i beni della salvezza, però, normalmente non erano univoci nemmeno sul piano psicologico. Anche il monaco protocristiano, o il quacchero, avevano un’importante vena contemplativa nella loro ricerca di Dio: ma il contenuto complessivo della loro religiosità, soprattutto il dio creatore ultramondano e il modo di assicurarsi la certezza della grazia, li indirizzava sempre di nuovo sulla via dell’azione. E d’altra parte anche il mo naco buddhista era attivo; soltanto che tale attività veniva spogliata da ogni razionalizzazione coerente a carattere intramondano dall’orientamento ultimo della ricerca della salvezza nella fuga dalla «ruota» delle rinascite. I settari e le altre confraternite del Medioevo occidentale, portatrici della penetrazione religiosa nella vita quotidiana, trovavano la loro immagine contraria nelle confraternite dell’Islam che si erano sviluppate ancora più universalmente già prima; anche lo strato che ne era il rappresentante tipico, la piccola borghesia, cioè, e in particolare gli artigiani, era lo stesso nei due casi, ma lo spirito delle due religiosità era molto diverso. Osservate superficialmente, molte comunità religiose induistiche appaiono delle sette proprio come quelle occidentali, ma il bene di salvezza e il tipo di mediazione della salvezza si trovano in una direzione radicalmente opposta. Non è opportuno qui accumulare ulteriormente gli esempi, perché vogliamo esaminare ad una ad una le più importanti delle grandi religioni. Queste non si articolano semplicemente tra loro, né da questo punto di vista né da un altro, in una serie di tipi concatenati di cui ciascuno rappresenta un nuovo «gradino» rispetto all’altro. Sono tutte delle individualità storiche di tipo altamente complesso e, tutte insieme, esauriscono solo una piccolissima parte delle combinazioni possibili che si possono concepibilmente costruire con i numerosissimi singoli fattori che entrano in gioco. Non si tratta quindi assolutamente di offrire, nei saggi che seguono, una «tipologia» sistematica delle religioni. D’altra parte non si tratta certo nemmeno di un lavoro puramente storico. Il seguente studio è «tipologico» solo nel senso che prende in considerazione ciò che nella realtà storica delle etiche religiose è d’importanza rilevante per la sua connessione con le divergenze delle mentalità economiche più comuni, e trascura il resto. Non
pretende quindi in nessun luogo di offrire un quadro completo e finito delle religioni studiate. Deve dare invece il massimo rilievo a quei tratti che sono propri di ogni singola religione in contrapposizione ad altre e che nello stesso tempo sono importanti per le nostre connessioni. Uno studio che prescinda da tali particolari accentuazioni di elementi considerati importanti dovrebbe spesso attenuare questi ultimi, in contrasto con il quadro tracciato; quasi sempre però dovrebbe aggiungerne altri e rilevare in proposito, più esplicitamente di quanto non sia possibile qui, che - naturalmente - tutti i contrasti qualitativi della realtà si possono interpretare in ultima analisi come differenze puramente quantitative nella combinazione dei singoli fattori. Per noi, però, sarebbe del tutto inutile voler sottolineare ogni volta questa evidenza. Ma anche quei tratti delle religioni importanti per l’etica economica c’interessano qui essenzialmente sotto un determinato punto di vista: quello del loro rapporto con il razionalismo economico e precisamente - poiché anche questo non è univoco-con quel tipo di razionalismo economico che cominciò a dominare l’Occidente come parte di quel processo borghese di razionalizzazione della vita ivi instauratosi dal xvi e dal xvn secolo. Poiché occorre qui ricordare ancora una volta, anticipatamente, che l’espressione «razionalismo» può avere significati molto diversi; ad esempio, a seconda che con tale termine si indichi quel tipo di razionalizzazione dell’immagine del mondo intrapresa da un filosofo sistematico - un sempre maggiore dominio teorico sulla realtà attraverso sempre più precisi concetti astratti - o piuttosto la razionalizzazione nel senso del raggiungimento metodico di uno scopo pratico ben determinato attraverso un calcolo sempre più preciso del mezzo più adeguato. Sono cose molto diverse malgrado un’omogeneità, in definitiva, inscindibile. Persino all’interno della comprensione logica del reale si distinguono tipi simili: si è tentato di ricondurre ad essi la differenza tra la fisica inglese e quella continentale. Ma la razionalizzazione della condotta di vita di cui ci occupiamo qui può assumere forme straordinariamente svariate. Il confucianesimo è così razionalistico, nel senso dell’assenza di ogni metafisica e di quasi tutti i residui di retaggi religiosi - in misura così estesa da porlo ai limiti estremi di ciò che può chiamarsi ancora tutt’al più genericamente un’etica «religiosa» - e nello stesso tempo così freddo, nel senso della mancanza e del rigetto di tutti i parametri non utilitaristici, come nessun altro dei sistemi etici eccetto forse quello di J. Bentham14. Eppure è completamente diverso da questo come da tutti i tipi occidentali di
razionalismo pratico malgrado le continue analogie reali o apparenti. «Razionale», nel senso della fede in un «canone» valido, era il più alto ideale artistico del Rinascimento; anche la sua visione della vita, malgrado le venature di mistica platonizzante, era razionalistica, nel senso del rifiuto dei vincoli tradizionali e della fede nel potere della naturalis ratio. Ma in tutt’altro senso ancora, quello del «procedimento pianificato», erano «razionali» anche i metodi della mortificazione o dell’ascesi magica o della contemplazione, nelle loro forme più coerenti, come lo yoga o le manipolazioni tardo-buddhiste colle macchine di preghiere. In generale, erano «razionali» - in parte in senso analogo, quello del metodo formale, in parte però nel senso di distinzione tra «fatti validi» sul piano normativo e dati empirici - tutti i tipi di etica pratica che erano orientati sistematicamente ed univocamente a determinati fini di salvezza. Ora, questi ultimi tipi di processi di razionalizzazione sono quelli che ci interesseranno in seguito. Tentare di anticipare la loro casistica non avrebbe senso, poiché questo studio vuole portare appunto un contributo in tale direzione. Ma per poter fare questo, deve prendersi una libertà: quella di essere «nonstorico», nel senso che dovrà presentare sistematicamente l’etica delle singole religioni come essenzialmente unitaria, come non lo è mai stata nel corso del suo sviluppo. Una quantità di contraddizioni, che sono vissute in seno alle singole religioni, oltre che di sviluppi incompiuti e laterali, dovranno essere lasciati in disparte. Inoltre quei tratti che per noi sono importanti dovranno spesso venir presentati con più compattezza logica e minor carattere evolutivo di quanto non si sia verificato nella realtà. Questa semplificazione sarebbe storicamente «falsa» se venisse intrapresa arbitrariamente. Tuttavia questo non è il caso, almeno secondo la nostra intenzione. Si sono piuttosto sempre sottolineati, nel quadro d’insieme di una religione, quei tratti che furono decisivi - nelle loro diversità rispetto alle altre religioni - per la formazione di un sistema pratico di vitac. Infine, prima di arrivare al punto, facciamo ancora alcune osservazioni preliminari per spiegare le particolarità terminologiche che ricorrono frequentemente in questa esposizioned. Le comunità e i raggruppamenti religiosi, nel loro pieno sviluppo, appartengono al tipo delle associazioni di autorità’, rappresentano associazioni «ierocratiche», in quanto la forza del loro dominio si fonda sul monopolio dell’elargizione o del rifiuto dei beni di salvezza. Tutte le forze dominanti, profane, religiose, politiche e non politiche si presentano come variazioni od
approssimazioni di alcuni tipi puri che si determinano chiedendosi a quale fondamento di legittimità si appella il potere. Le nostre associazioni moderne, soprattutto quelle politiche, appartengono al tipo dell’autorità «legale». Ciò significa che la legittimità di comandare si fonda, per chi detiene il potere, su leggi razionalmente statuite, pattuite o imposte, e che la legittimazione alla statuizione di queste leggi riposa a sua volta su una «costituzione» razionalmente posta o interpretata. Si comanda non in nome di un’autorità personale ma in nome della norma impersonale, e l’emanazione stessa del comando è a sua volta obbedienza ad un’altra norma, non libero arbitrio o grazia o privilegio. Il «funzionario» è il detentore del potere di comando e non lo esercita mai per diritto proprio ma lo detiene sempre come feudo dell’«istituzione» impersonale per la convivenza specifica, dominata normalmente da leggi statuite, di uomini determinati o indeterminati ma che si possano indicare con caratteristiche regolari. La «competenza», un ambito materialmente delimitato di possibili soggetti di comando, circoscrive la sfera del suo potere legittimo. Di fronte al «cittadino», o al «membro» dell’associazione sta una gerarchia di «superiori» ai quali egli può appellarsi per reclamo attraverso la «via delle istanze». Lo stesso si ritrova nell’associazione ierocratica odierna: la Chiesa. Il parroco o il prete ha la sua sfera di «competenza» ben determinata e circoscritta che viene stabilita con regole precise. Ciò vale anche per il capo supremo della Chiesa: la moderna «infallibilità» è un concetto di competenza diversa, nel senso intimo, da quello che lo ha preceduto (ancora al tempo di Innocenzo III). La divisione tra «sfera pubblica» (per l’infallibilità: il parlare ex cathedra) e «sfera privata» è ottenuto proprio come presso il funzionario politico (o altri funzionari). Il «distacco» legale del funzionario dai mezzi di amministrazione (in natura o in denaro) viene attuato nella sfera delle associazioni politiche e burocratiche proprio come il «distacco» del lavoratore dai mezzi di produzione nell’economia capitalistica: in esso sta il loro perfetto parallelo. Ma tutto ciò è specificamente moderno, nel suo pieno sviluppo, per quanto se ne trovino già accenni nel più lontano passato. Il passato conosceva altri fondamenti dell’autorità legittima che del resto ad ogni passo si estendono rudimentalmente anche nel presente. Vogliamo brevemente delimitarli, almeno sul piano terminologico. 1. Nelle trattazioni che seguono s’intenderà, con il termine «carisma», una qualità (non importa se reale, presunta o supposta) extraquotidiana di un uomo. Con «autorità carismatica» si dovrà intendere quindi un dominio sugli
uomini (sia esso più esterno o più interno) al quale i dominati si sottomettono in virtù della credenza nel possesso di tale qualità da parte di questa determinata persona. Il mago stregone, il profeta, la guida delle spedizioni di caccia e di razzia, il capo guerriero, il cosiddetto dominatore «cesaristico», in altre circostanze la persona del capo-partito incarnano questo tipo di dominatore di fronte ai loro discepoli, al loro seguito, alla truppa da loro arruolata, al partito, ecc. La legittimità del loro dominio riposa sulla fede e sulla dedizione a ciò che esce dal normale, che trascende le normali qualità umane e per questo è apprezzato (in origine come soprannaturale). Si fonda quindi su una fede magica, o su una fede nella rivelazione e negli eroi, la cui fonte è la «prova» della qualità carismatica attraverso miracoli, vittorie e altri successi, e cioè, attraverso il benessere dei dominati. Perciò, tale dominio viene meno o minaccia di venir meno insieme all’autorità di cui si vale non appena la prova manca e la persona insignita della qualifica carismatica si mostra abbandonata dalla sua forza magica o dal suo dio. Il dominio non viene esercitato seguendo norme generali, che siano tra dizionali o razionali bensì in principio - secondo concrete rivelazioni e ispirazioni. In questo caso è «irrazionale». è «rivoluzionario» nel senso che è svincolato da tutto l’ordine vigente: «sta scritto… ma io vi dico…». 2. In seguito chiameremo «tradizionalismo» l’adattamento spirituale e la fede nella consuetudine quotidiana come norma inviolabile per l’agire, e quindi un rapporto di autorità che riposa su questo fondamento, cioè sul rispetto verso ciò che (realmente o presuntamente o suppostamente) è sempre stato, verrà indicato come «autorità tradizionalistica». La forma di dominio di gran lunga più importante che riposa sull’autorità tradizionalistica e fonda la sua legittimità sulla tradizione è il patriarcalismo: il dominio del padre di famiglia, del marito, degli anziani della casa e degli anziani della schiatta sugli altri membri della casa e della schiatta, quello del signore e padrone sugli schiavi, sui servi della gleba e sui liberti, quello del signore sul servitore, sull’impiegato domestico, quello del principe sull’impiegato di casa e sul funzionario di corte, sui ministeriali, i clienti, i vassalli, quello del signore patrimoniale e del principe («padre della patria») sui «sudditi». è caratteristico dell’autorità patriarcale (e di quella patrimoniale che è una varietà di questa) oltre a un sistema di norme inviolabili, perché considerate assolutamente sacre, sicché la loro infrazione avrebbe per conseguenza un male magico o religioso, il fatto che conosca un regno dell’arbitrio e della grazia del signore che governa liberamente e in linea di principio valuta solo in base a rapporti
«personali» e non oggettivi. In questo senso tale autorità è irrazionale. 3. L’autorità carismatica, che riposa sulla fede nella santità o il valore dello straordinario, e l’autorità tradizionalistica (patriarcale), che si fonda sulla fede nella santità di ciò che è usuale, si dividevano tra loro, nel passato più remoto, le forme più importanti di tutti i rapporti d’autorità. Nell’ambito dei fatti validi in virtù della tradizione, un nuovo «diritto» poteva venir introdotto solo dai portatori di un carisma: oracoli dei profeti o disposizioni del capo guerriero carismatico. La rivelazione e la spada, i due poteri straordinari, erano anche i due tipici innovatori. Ma ambedue incorrevano, appena compiuta la loro opera, in un tipico processo di quotidianizzazione. Con la morte del profeta o del capo guerriero nasceva il problema del successore. Questo poteva essere risolto attraverso una scelta (originariamente non una «elezione» ma una selezione secondo il carisma) o attraverso l’oggettivazione sacramentale del carisma (designazione del successore tramite consacrazione: «successione» ierocratica o apostolica) o la credenza nella qualificazione carismatica della schiatta (carisma ereditario: regno e ierocrazia ereditari): ma con questo ricominciava sempre in qualche modo il dominio delle norme. Il principe o lo ierocrate non governava più in virtù di qualità puramente personali, ma in virtù di qualità acquisite o ereditate o in virtù della legittimazione attraverso un atto di scelta. Il processo di quotidianizzazione - e questo vuol dire di tradizionalizzazione - era incominciato. E, ciò che forse era ancora più importante, con l’organizzazione stabile del dominio veniva sottoposto ad un processo di normalizzazione anche quel gruppo di uomini su cui si appoggiava il capo carismatico: i suoi discepoli, apostoli, seguaci, diventavano preti, vassalli feudali e soprattutto funzionari. La comunità carismatica che in origine era specificamente estranea ad ogni attività economica e viveva comunisticamente di doni, elemosine, bottino di guerra, si trasformò in uno strato di aiutanti del signore che viveva di rendite terriere, diritti d’ufficio, compensi in natura, onorari, in una parola di prebende; questi aiutanti derivavano ormai il loro legittimo potere - in stadi molto diversi dell’appropriazione - da un’investitura, da una concessione, da un ufficio. In ogni caso ciò implicava una patrimonializzazione dei poteri signorili, che poteva anche svilupparsi nel patriarcalismo puro attraverso la decadenza della rigorosa autorità del signore. Il prebendario o il vassallo investito di un ufficio ha di solito, in virtù di tale investitura, un vero e proprio diritto su di essa. Egli possiede i mezzi di amministrazione come l’artigiano possiede i mezzi economici di produzione; deve trarre dai proventi del suo ufficio o da altre
entrate i mezzi per coprire i costi deH’amministrazione, oppure versa al signore solo una parte dei tributi riscossi presso i sudditi mentre il resto rimane per lui. Nel caso estremo può trasmettere in eredità o alienare il suo ufficio, come qualsiasi altro bene di proprietà. è del patrimonialismo di ceto che vogliamo parlare, laddove lo sviluppo, da uno stato iniziale sia cari smatico sia patriarcale, abbia raggiunto questo stadio attraverso un’approvazione di poteri signorili. Ma lo sviluppo si è fermato raramente a questo stadio. Dovunque troviamo la lotta del signore (politico o ierocratico) contro i detentori e gli usurpatori dei diritti signorili di cui si è appropriata un ceto. Egli tenta di espropriare questi ultimi, e viceversa. Quanto più il signore riesce a costituirsi un corpo di funzionari dipendenti solo da lui, legati al suo interesse e coerentemente con ciò - a impossessarsi di mezzi amministrativi suoi propri che detiene solidamente nelle proprie mani (finanze proprie, per i signori politici, o ierocratici come è avvenuto progressivamente in Occidente da Innocenzo III a Giovanni XXII; magazzini e arsenali propri per il sostentamento di eserciti e funzionari per i signori laici), tanto più questa lotta avrà probabilità di decidersi a suo favore e contro i detentori di privilegi di ceto che vengono gradualmente espropriati. Storicamente molto vario era il carattere di questo strato di funzionari, sull’aiuto del quale si appoggiava il signore nella sua lotta per l’espropriazione dei poteri signorili di ceto. Poteva trattarsi di chierici (tipici in Asia e nell’Occidente alto-medioevale), schiavi o clienti (tipici nell’Asia anteriore), liberti (in misura limitata, tipici del principato romano), letterati umanistici (tipici in Cina), e infine giuristi (tipici nell’Occidente dell’era moderna, sia nella chiesa che nelle associazioni politiche). Dappertutto la vittoria del potere del principe e l’espropriazione delle particolari prerogative signorili implicava perlomeno la possibilità, ma spesso anche l’introduzione effettiva di una razionalizzazione ddl’amministrazione. Ma in misura e con significati estremamente diversi, come vedremo. Innanzitutto bisognava distinguere tra la razionalizzazione «materiale» dell’amministrazione e dell’organizzazione giudiziaria da parte di un principe patrimoniale che rende felici i suoi sudditi dal punto di vista utilitaristico e dell’etica sociale, così come un grande padrone di casa rende felici quanti appartengono alla sua casa, e la razionalizzazione formale attraverso l’instaurazione, per opera di esperti giuristi, del dominio di norme giuridiche generalmente vincolanti per tutti i «cittadini dello stato». Per quanto tale differenza sia stata fluida (si veda per esempio Babilonia, Bisanzio,
la Sicilia della casa sveva, l’Inghilterra degli Stuart, la Francia borbonica) essa tuttavia sussisteva in ultima analisi. E la nascita del moderno «Stato» occidentale come delle «Chiese» occidentali è stata, per la parte più essenziale, opera dei giuristi. Non è ancora il momento di discutere da dove questi abbiano tratto la forza e il contenuto di idee, oltre ai mezzi tecnici, necessari per questo lavoro. Con la vittoria del razionalismo giuridico formale è apparso in Occidente, accanto al tipo di autorità tradizionale, il tipo dell’autorità legale la cui varietà, non unica ma più pura, è stata ed è tuttora l’autorità burocratica. La condizione dei moderni funzionari statali o municipali, dei moderni preti e cappellani cattolici, del funzionario e degli impiegati delle banche moderne e della grande impresa capitalistica rappresenta, come si è già affermato, il tipo più importante di questa forma di autorità. Come contrassegno decisivo per la nostra terminologia vale, come già accennato, il fatto seguente: non la sottomissione in virtù della fede e della dedizione a persone dotate di carisma, cioè profeti ed eroi, né in virtù della sacra tradizione e del rispetto verso un signore personale determinato dall’ordinamento tradizionale e, eventualmente, verso i suoi vassalli o prebendari legittimati in diritto proprio attraverso il privilegio e la concessione, bensì il vincolo impersonale all’oggettivo «dovere d’ufficio», genericamente designato, che, come il corrispondente diritto di dominio - cioè la «competenza» - è determinato da norme poste razionalmente (leggi, decreti, regolamenti) in modo così stabile e tale che la legittimità dell’autorità si trasforma in legalità della norma generale, ideata in conformità allo scopo, istituita e proclamata in maniera formalmente corretta. Le differenze dei tipi precedentemente abbozzati arrivano fin dentro tutte le particolarità della loro struttura sociale e del loro significato economico. Solo un’esposizione sistematica potrebbe confermare fino a che punto il tipo di differenziazione e di terminologia scelto fin qui è appropriato. Qui va solo sottolineato che esso non pretende che tutte le strutture di autorità empiriche debbano corrispondere in modo «puro» ad uno di questi tipi. Al contrario, la maggior parte di esse rappresenta una combinazione o uno stato di transizione tra vari tipi. Saremo continuamen te costretti a esprimere, per esempio attraverso espressioni come «burocrazia patrimoniale», il fatto che il fenomeno in questione appartenga per una parte dei suoi tratti caratteristici alla forma dell’autoritá razionale, e per un’altra a quella dell’autorità tradizionale, in questo caso di ceto. A ciò si aggiungono però delle forme
estremamente importanti che - come la struttura feudale dell’autorità — hanno avuto storicamente una diffusione universale ma che per tratti importanti non si possono inserire semplicemente in uno dei tre tipi che abbiamo distinto e si possono interpretare solo combinando questi con altri concetti (in questo caso quello di «ceto» e di «onore di ceto»).O altre forme ancora che, come i funzionari della democrazia fura (da un lato carica onorifica a turno e forme analoghe, dall’altro autorità plebiscitaria) o come certe specie di autorità dei notabili (una forma particolare deirautorità tradizionale) si spiegano in parte con princìpi diversi da quello di «autorità» e in parte con particolari variazioni del concetto di carisma ma che dal canto loro hanno risentito dei più importanti fermenti del parto del razionalismo politico. La terminologia qui proposta non vuole forzare entro schemi l’infinita varietà dei fenomeni storici ma si propone soltanto, per determinati scopi, di creare degli utili punti di orientamento concettuali. Lo stesso vale per un’ultima distinzione terminologica. Come situazione di ceto s’intende l’opportunità di onore sociale positivo o negativo di un determinato gruppo di uomini, primariamente condizionata dalle differenze del sistema di vita (e quindi, il più delle volte, dell’educazione). In secondo luogo - e con questo ci riallacciamo alla precedente terminologia delle forme di autorità - tale opportunità si collega molto spesso in modo tipico ad un monopolio dello strato in questione, legalmente assicurato, o su certi diritti signorili o su certe opportunità di entrate e di guadagno di determinate specie. Nel caso (naturalmente non sempre presente) della piena realizzazione di tutti questi tratti salienti, un ceto è quindi un gruppo di uomini (non sempre organizzato in associazione ma sempre in qualche modo socializzato), caratterizzato dal genere del sistema di vita, dal convenzionale e specifico concetto dell’onore e dalle opportunità economiche legalmente monopolizzate. Commercìum (nel senso di intercorso «sociale») e connubium dei gruppi tra di loro sono i tipici segni del pari valore di ceto; la loro assenza indica una differenza di ceto. Per «situazione di classe» si indicano invece da un lato le opportunità di sostentamento e di guadagno condizionate primariamente da tipiche situazioni economicamente rilevanti, quali il possesso di un determinato genere o abilità nell’esercizio di prestazioni richieste, dall’altro le condizioni di vita generali e tipiche che ne conseguono (per esempio la necessità di sottomettersi alla disciplina di fabbrica di un proprietario capitalista). Una «situazione di ceto» può essere sia causa che conseguenza di una «situazione di classe» ma nessuno dei due è necessario. Le situazioni di
classe dal canto loro possono essere primariamente condizionate dal mercato (del lavoro e dei beni), e oggi effettivamente lo sono, nelle situazioni tipiche del nostro tempo. Ma ciò non avviene in modo assoluto e necessario. I proprietari terrieri e i piccoli contadini non lo sono quasi per niente, nel caso di una limitata interdipendenza con il mercato; le diverse categorie di «proprietari di rendite» (rendite fondiarie, di uomini, di Stato, di valori) sono condizionate in senso e in misura molto diversi. Bisogna quindi distinguere tra «classi possidenti» e «classi acquisitive» (quest’ultime condizionate primariamente dal mercato). La società moderna è prevalentemente articolata in classi e precisamente, in misura specificamente alta, in classi acquisitive. Ma nello specifico prestigio di ceto degli strati «colti» è presente un sensibilissimo elemento di articolazione per ceto (rappresentato esteriormente nel modo più chiaro possibile dai monopoli economici e dalle prerogative sociali dei detentori di diploma). In passato l’importanza dell’articolazione per ceti è stata di gran lunga più decisiva, soprattutto per la struttura economica della società. Poiché da un lato tale articolazione ha la massima influenza su quest’ultima a causa dei lirxiiti o delle regolamentazioni del consumo o per via dell’importanza dei monopoli di ceto - irrazionali dal punto di vista della razionalità economica -; dall’altro per via della portata delle esemplari convenzioni di ceto degli strati dominanti in questione. Queste convenzioni, da parte loro, potevano avere il carattere di una stereotipizzazione rituale, e ciò accadeva in ampia misura nella articolazione dei ceti asiatici di cui ora ci occuperemo. a. Apparvero nell’Archiv für Sozialwissenschaft di Jaffé, voll. 41–46 (1915–19) in singole parti; le prime parti immutate, così com’erano state scritte e lette ad amici due anni prima. Il richiamo alle armi rese allora impossibile l’aggiunta dell’«apparato» scientifico, com’era nelle mie intenzioni; al suo posto furono aggiunte delle brevi indicazioni bibliografiche all’inizio di ogni sezione. A ciò è dovuta anche la trattazione più o meno profonda dei singoli argomenti. Se i saggi, malgrado ciò, furono allora stampati, ciò era dovuto al fatto che sembrava impossibile, dopo la fine della guerra, che significò per ciascuno un’epoca a sé della vita, tornare a serie di pensieri di un’epoca precedente. I saggi inoltre erano anche destinati ad essere pubblicati insieme al trattato contenuto in Grundiss der Sozialökonomik su «Economia e società», per interpretare e completare la sezione di sociologia delle religioni (certamente anche per essere interpretati in più punti attraverso questa). Mi parve che potessero adempiere questo compito anche nella loro versione di allora. Ciò che in valore proprio è mancato a questi saggi, per via del loro forzato carattere schematico e dell’ineguale ampiezza dell’esposizione, verrà senz’altro compensato in futuro da lavori altrui, meglio di quanto non mi sarebbe stato possibile fare. Poiché tali trattati, in cui l’autore è costretto a ricorrere a fonti tradotte, non avrebbero mai potuto pretendere, anche nella loro forma compiuta, di costituire in alcun senso un punto «conclusivo)). Ma anche nella loro forma attuale possono forse essere utili per completare in alcuni punti l’impostazione problematica della sociologia della religione e qui e là anche della sociologia dell’economia. Ho tentato, nella raccolta della presente edizione, oltre ad eliminare alcune sviste minori, di migliorare le gravi imperfezioni dell’esposizione, soprattutto delle condizioni cinesi, per quanto ciò sia possibile ad un non specialista nei
confronti del materiale a lui accessibile, e di completare un poco le citazioni delle fonti. b. Dal concetto di «virtuosismo» in questo contesto va allontanata ogni colorazione valutativa che oggi vi si attacca. Per via di tale inconveniente preferirei l’espressione religiosità «eroistica» se non fosse troppo poco adeguato per molti fenomeni che appartengono a questo contesto. c. La successione dell’esame - per notare anche questo - è solo casualmente geografica, andando da est a ovest. In realtà non è stata questa distribuzione esterna locale, bensì, come forse mostra un esame più attento, dei motivi interni conformi allo scopo dell’esposizione, che sono stati determinanti in questo senso. d. L’esposizione più approfondita si trova nel capitolo «Economia e società» in Grundriss der Sozial’òkonomik (Tübingen, J. C. B. Mohr). 1. Krishna, ottava incarnazione (avatar) di Visnu, è una delle divinità indù più amate e dal culto più diffuso; ha un ruolo preminente nella letteratura e nell’arte. 2. Gedeone, personaggio biblico, uno dei «giudici» d’Israele, liberò il paese dai Madianiti e altri invasori. 3. Iefte, «giudice» d’Israele, richiamato dall’esilio per salvare il paese dagli Ammoniti. 4. Karma, nome sanscrito che significa «azione». Indica la dottrina secondo la quale ogni azione, buona o cattiva, riceve la retribuzione dovuta. 5. Zarathustra, profeta vissuto tra il VII e il vi secolo a. C., riformatore dell’antica religione iranica, visse e insegnò tra le tribù seminomadi dell’attuale Iran nordorientale, dando vita al «zoroastrismo» ancora esistente tra i Parsi in India. 6. Sufi, adepto del Sufismo, nome con cui si è sviluppata la mistica ascetica islamica nell’vin secolo d. C., la quale ha dato vita, oltre che ad una specifica pratica e dottrina, a un gran numero di ordini e confraternite in tutto il mondo islamico. 7. Derviscio, nel Medio Oriente, membro di una confraternita religiosa musulmana, mendicante o no. Queste confraternite, analoghe per qualche verso agli ordini monastici cristiani, sono nate in seno al Sufismo. Il rituale dei dervisci è centrato sull’aspetto emotivo della religione e tende a fenomeni ipnotici e stati di trance estatici. 8. Chlysty, seguaci, detti anche «flagellanti» (da chlyst, russo «frusta, flagello») di una setta mistica russa sorta nel 1645 e diffusasi nel XVIII e xix secolo. Credevano nell’incorporazione dello spirito di Dio, ottenuto per ascesi o nell’estasi. 9. Vallabhacharya, 1479–1530 (da Vallabha, nome proprio, e acharya, maestro). Maestro religioso indiano, fondatore di un’importante setta visnuita, i Vallabhacharis, predicò la devozione (bhukti) a Krishna e l’amore sensuale tra Dio e l’anima. 10. Moira, termine greco, indica il «fato», la sorte assegnata dagli dèi, o dal solo Zeus con cui talvolta s’identifica, all’individuo. 11. Eckhart von Hochheim detto Meister Eckhart, 1260? -1328?, uno dei più grandi filosofi mistici speculativi tedeschi. Le sue teorie mistiche sono state condannate sotto T accusa di panteismo. 12. Ulema, i dotti dell’Islam, i «maestri» - teologi, giuristi, giudici, professori -versati sul piano teorico e pratico nella scienza musulmana, dentro e fuori la professione. Si contrappongono ai mistici cui la conoscenza religiosa viene dalla visione estatica, non dalla tradizione o dalla ragione. 13. Torah, parola ebraica che nella tradizione giudaica indica oggi tanto il Pentateuco quanto l’intero corpo di dottrine giudaiche. 14. Jeremy Bentham, 1748–1832, filosofo inglese, economista e giurista, esponente di una morale utilitaristica fondata sull’aritmetica dei piaceri.
CONFUCIANESIMO E TAOISMOa
CAPITOLO I BASI SOCIOLOGICHE: A) CITTÀ, PRINCIPE, DIO 1. Il sistema monetario. La Cina, diversamente dal Giappone, era già da tempi per noi preistorici il paese delle grandi città circondate da mura. Solo le città avevano un patrono locale canonizzato con culto proprio. Il principe, di solito, era il signore di una città. La denominazione di «città» per indicare lo stato rimase nei docu menti ufficiali, anche nel caso dei grandi stati «combattenti»1si diceva: «la vostra capitale» o rispettivamente «la mia modesta città». Ancora nelPultimo trentennio delPOttocento la definitiva sottomissione dei Miao (1872) venne suggellata con un sinecismo coattivo, un’installazione collettiva nelle città, proprio come avveniva nell’antichità romana fin verso il 111 secolo. In effetti la politica finanziaria dell’amministrazione cinese era innanzitutto il risultato di misure volte in tutti i modi a favorire gli abitanti della città a spese della campagnab. Del pari la Cina è sempre stata il paese del commercio interno, indispensabile per la copertura del fabbisogno di vasti territori. Tuttavia, fino all’era moderna l’economia monetaria raggiungeva a malapena un livello di sviluppo paragonabile a quello dell’Egitto tolemaico, e ciò in conformità all’importanza determinante che aveva la produzione agraria. Il sistema monetario ne costituisce già di per sé una prova sufficiente, anche se in parte va considerato solo come il prodotto di una decadenza: il rapporto di scambio tra la moneta corrente di rame e i lingotti d’argento (la cui punzonatura era nelle mani delle gilde) cambiava continuamente e per di più variava da un posto all’altroc. Il sistema monetario cinesedpresenta dei tratti estremamente arcaici uniti ad elementi apparentemente moderni. L’ideogramma che indica la «ricchezza» conserva ancor oggi il vecchio significato di «conchiglia» (pei). Sembra che ancora nel 1587 esistessero dei tributi monetari in conchiglie nello Yunnan (che è una provincia mineraria!). Per indicare la «moneta» esiste un simbolo che significa «guscio di tartaruga»e, «pu pe». La seta come moneta di scambio deve essere esistita sotto i Chou e le forniture di seta come forma di imposta si trovano nel corso di vari secoli. Le perle, le pietre preziose, lo stagno, figurano anch’essi tra gli antichi mezzi di scambio con funzione monetaria e ancora l’usurpatore Wang Mang2 (a partire dal vii secolo d. C.) tentò - invano - di stabilire una scala monetaria in cui
accanto all’oro, all’argento ed al rame anche i gusci di tartaruga e le conchiglie fungevano da mezzo di pagamento, mentre al contrario l’unificatore del regno, il razionalista Shih Huang-ti3 aveva fatto battere solo moneta «tonda» - anche moneta d’oro, oltre a quella di rame (z e chien), secondo una versione che però non è molto attendibile - e aveva proibito (invano) tutti gli altri mezzi di scambio e di pagamento. L’argento sembra essere apparso molto tardi come metallo da conio in genere (sotto Wu-ti4, alla fine del n secolo a. C.) e come imposta (delle province meridionali) lo troviamo solamente a partire dal 1035. Senza dubbio ciò è dovuto in primo luogo a motivi tecnici. L’oro si trovava setacciando il corso dei fiumi, l’estrazione del rame comportava in origine un procedimento tecnico relativamente facile; l’argento al contrario si poteva estrarre solo attraverso una vera e propria industria mineraria. Ma sia la tecnica mineraria che quella del conio sono rimaste ad uno stadio molto primitivo in Cina. Le monete create a partire dal xn secolo a. C., stando a quanto si dice, ma più probabilmente a partire dal ix secolo a. C., erano ottenute per colata e non per impressione. Erano quindi molto facilmente imitabili e di tito lo molto variabile, ancora più di quanto non lo fosse, fino al xvii secolo, il titolo delle monete europee (scarti quasi del 10 nelle corone inglesi). 18 pezzi della stessa emissione dell’xi seco lo oscillavano, secondo la pesatura di Biot5 tra i 2,70 e i 4,08 grammi di rame; 6 pezzi dell’emissione del 620 d. C. oscillavano addirittura tra i 2,50 e i 4,39 grammi. Già per questo motivo tale moneta non costituiva un metro univoco utile per il commercio. Le scorte d’oro ebbero un brusco incremento dovuto essenzialmente al bottino conquistato dai Tartari per poi calare di nuovo rapidamente. In principio quindi non valeva la pena di estrarre l’oro e l’argento: l’argento perché, malgrado le miniere esistenti, comportava un trattamento tecnico complessof.Il rame rimase la moneta corrente nel commercio di tutti i giorni. Il maggior sviluppo del corso dei metalli preziosi in Occidente era ben noto agli annalisti, in particolare quelli del periodi.do Han6. Le grandi carovane della seta alimentate dai contributi in natura (ogni anno ce n’era un gran numero) portavano infatti l’oro occidentale nel paese (sono state rinvenute monete romane). Ma questo cessò con la fine dell’impero romano e so lo il periodo dell’impero mongolo apportò im miglioramento. La prima svolta fu data dal commercio con l’Occidente nel periodo che seguì l’apertura delle miniere d’argento del Messico e del Perù: buona parte del loro prodotto si riversò in Cina come controvalore in cambio di seta,
porcellana e t è. La svalutazione dell’argento in rapporto all’oro (nel 1368 il rapporto era di 4/1, nel 1574 era di 8/1,1635 = 10/1,1737 = 20/1, 1840 = 18/1, 1850 = 14/1, 1882 = 18/1) non impedì che la stima sempre crescente dell’argento - conseguenza di un bisogno sempre crescente di tale metallo in un’economia monetaria - facesse abbassare il prezzo del rame rispetto all’argento. Come le miniere, così pure la zecca costituiva un privilegio del potere politico: già tra i nove magistrati semi-leggendari del Chou-li7 si trova il maestro della zecca. L’industria mineraria era in parte esercitata in proprio dal governo con lo sfruttamento del lavoro servileg, in parte concessa a privati, ma con il monopolio di acquisto del prodotto riservato al governoh; gli alti costi di trasporto per il rame alla zecca di Pechino - che vendeva le eccedenze rispetto ai bisogni monetari dello stato - rendevano considerevolmente più cara la fabbricazione della moneta. Questa aveva già di per sé dei costi alquanto elevati. Nell’viii secolo (752 secondo Ma Tuan-lin8) le 99 zecche allora esistenti producevano ciascuna presumibilmente 3.300. min (da 1000 pezzi l’uno) di monete di rame all’anno. Per questo occorrevano a ciascuna 30 operai e ciascuna impiegava 21.200 chin (550 g. l’uno) di rame, 3.700 di piombo, 500 di stagno. Le spese su mille pezzi di moneta ammontavano a 750, ossia coprivano il 75. A ciò si aggiunge l’esorbitante guadagno monetario rivendicato dalla zecca (di monopolio)i: il 25 nominale, pretesa già vanificata semplicemente dalla lotta ininterrotta nel corso di tutti i secoli contro l’attività estremamente redditizia della coniazione abusiva. I distretti minerari erano minacciati da invasioni nemiche. Non di rado il governo comperava attesterò (Giappone) il rame necessario a battere moneta e confiscava le scorte private di rame per coprire l’alto fabbisogno del conio. In certi periodi l’esercizio privilegiato governativo veniva esteso a tutte le miniere di metallo. Le miniere d’argento pagavano considerevoli royalties (del 20–331/3 nel Kuangtung alla metà del xix secolo; del 55 se in combinazione col piombo) ai mandarini interessati, le cui principali fonti di reddito erano costituite proprio da questi introiti in cambio di una somma globale concordata ceduta al governo. Le miniere d’oro, presenti soprattutto nella provincia dello Yùnnan, venivano concesse, come tutte le altre, a maestri minatori (artigiani), in piccoli lotti che costituivano piccole imprese e pagavano, a seconda del rendimento, fino al 40 di royalties. Che tutte le miniere fossero tecnicamente mal sfruttate è un fatto che viene ancora riferito nel xvn secolo; il motivo - oltre che nelle difficoltà create
dalla geomanziaj da menzioni. narsi più avanti - risiedeva nel generale tradizionalismo, che discuteremo in seguito, inerente alle strutture politiche, economiche e culturali cinesi, che ha sempre fatto naufragare anche ogni serio tentativo di riforma monetaria. La svalutazione della moneta figura già negli annali più antichi (Chuang Wang e Ch’u9) dove si riferisce anche il fallimento dell’imposizione di moneta deteriorata per il commercio. La prima svalutazione della moneta d’oro - che da allora si è ripetuta molto spesso viene riferita già da Ching Ti10 che narra anche di forti limitazioni del commercio provocate da questo fenomeno. La radice del male, tuttavia, stava evidentemente nelle oscillazioni delle scorte di metallo da coniok; il nord, dove occorreva portare avanti la difesa contro i barbari delle steppe, ne soffriva più del sud, la zona del commercio, da sempre dotata di moneta metallica circolante in misura di gran lunga superiore al nord. Il finanziamento di ogni guerra determinava delle grosse riforme monetarie e l’impiego delle monete di rame per la fabbricazione di armi (come da noi in guerra l’impiego delle monete di nichelio). La restaurazione della pace significava il riversarsi sul paese di ingenti scorte di rame dovute all’utilizzazione arbitraria dei beni dell’esercito da parte dei soldati «smobilitati». Ogni agitazione politica poteva bloccare le miniere; come conseguenza della scarsità e dell’eccedenza di moneta si parla di oscillazioni di prezzi che sono stupefacenti anche con debita deduzione delle probabili esagerazioni. Sorgevano continuamente nuove zecche abusive, perlopiù private, ma senza dubbio tollerate dai pubblici funzionari e anche le singole satrapie continuavano a prendersi gioco del monopolio. Giunti alla disperazione per l’insuccesso di ogni tentativo di portare fino in fondo il monopolio statale della zecca si passò spesso all’estremo opposto (per la prima volta sotto Wen-ti11 175 a. C.): alla libera concessione di battere moneta per ogni privato, secondo determinati modelli. La conseguenza è stata naturalmente un totale scompiglio del sistema monetario. Senza dubbio, dopo il primo di questi esperimenti, Wu-ti riuscì a restaurare abbastanza rapidamente il monopolio della moneta e ad estirpare le zecche private; migliorando la tecnica del conio (monete con bordo fisso) pot è risollevare il prestigio della moneta statale. Ma la necessità di emettere moneta da credito (fatta di pelli di cervo bianco) per finanziare la guerra contro i Hsiung-nu (gli Unni) - il finanziamento di una guerra è sempre in tutti i tempi la causa principale di tutti i disordini monetari - e la facile imitabilità delle sue monete d’argento faceva naufragare alla fine anche questo tentativo. Sotto Yuan-ti12 (circa 40 a. C.) la moneta metallica era più
scarsa che mail, in conseguenza dei disordini politici a seguito dei quali l’usurpatore Wang Mang intraprese il suo vano esperimento di una scala monetaria (con 28 tipi di moneta!). Sembra che da allora non si siano più registrate restaurazioni della moneta d’oro e d’argento da parte del governo; questo emerge solo come fenomeno occasionale. L’emissione intrapresa per la prima volta nell’807 di moneta circolante statalem ad imitazione della moneta circolante bancarian - particolarmente fiorente sotto i Mongoli - viene però seguita solo all’inizio (in seguito sempre di meno) da una copertura bancaria sotto forma di scorte metalliche e la svalutazione degli ordini di pagamento collegata al ricordo del deterioramento delle monete fece sì che dopo di allora la moneta bancaria (lingotti d’argento depositati in unità ta èl a base del servizio di pagamenti del commercio all’ingrosso) venne stabilita in modo definitivo. Al contrario la moneta di rame, malgrado il suo prezzo molto basso, implicava non solo un enorme rincaro del costo della coniazione, ma anche, dati gli alti costi di trasporto del denaro, una forma di moneta molto scomoda sotto tutti i punti di vista per il commercio e lo sviluppo dell’economia monetaria. Un cordone con infilate iooo monete di rame (chien) all’inizio valeva, in base alle tariffe, un’oncia d’argento; più tardi la tariffa fu uguale a 1/2 oncia d’argento. Le oscillazioni delle quantità di rame disponibili rimasero quindi alquanto ampie anche in tempo di pace in seguito al loro impiego industriale e artistico (statue del Buddha); tali oscillazioni erano sensibili nei prezzi e soprattutto nei gravami fiscali. Le fortissime oscillazioni del valore della moneta con le loro conseguenze sui prezzi sono da interpretare anche come i fattori che hanno fatto regolarmente fallire i ripetuti tentativi di elaborare un bilancio unitario sulla base di imposte puramente (o quasi) monetarie; si è dovuto tornare sempre, almeno in parte, all’imposizione in natura, con le sue ovvie conseguenze e la stereotipizzazione dell’economiao. I rapporti del governo centrale con il sistema monetario erano fortemente influenzati, oltre che dagli immediati bisogni militari e da altri motivi puramente fiscali, anche e soprattutto dalla politica dei prezzi. Le tendenze inflazionistiche - libera concessione del diritto di batter moneta per stimolare la produzione di moneta di rame - si alternavano a misure per combattere gli effetti dell’inflazione, come la chiusura di una parte delle zecchep. Soprattutto il divieto ed il controllo del commercio estero, però, erano determinati da considerazioni di politica monetaria: in parte per il timore di un’emorragia di
valuta straniera in seguito alla libera esportazioneq. Anche la persecuzione dei buddhisti e dei taoisti, pur avendo in gran parte carattere politico-religioso, spesso era determinata anche da motivi puramente monetari-fiscali: le statue del Buddha, i vasi, i paramenti e in genere tutta l’utilizzazione artistica, ravvivata dall’arte dei monasteri, della materia prima destinata alla moneta, metteva in continuo pericolo la valuta; le massicce fusioni rendevano ancora più acuti i fenomeni di penuria di denaro, di tesaurizzazione del rame, di cedimento dei prezzi, e come conseguenza riportavano aireconomia naturaler. Si registrarono così saccheggi sistematici dei monasteri da parte del fisco, imposizioni di tariffe agli articoli di rames, ed infinet il tentativo di stabilire un monopolio statale di fabbricazione per gli oggetti di bronzo e di rame, seguito più tardi da un monopolio di fabbricazione per tutti gli oggetti di metallo (per controllare il fenomeno delle falsificazioni private di moneta): due tentativi, questi ultimi, che non furono né l’uno né l’altro di lunga durata. Il divieto di accumulazione di terre, di cui si parlerà più avanti, veniva applicato dai funzionari con rigore variabile e la conseguenza di ciò fu un continuo e considerevole am massarsi di rame nelle mani di questi funzionari; oltre alle altissime imposte sul possesso di denaro liquido, ne derivò il moltiplicarsi dei massimali imposti al possesso di denaro liquidou da motivi fiscali e di politica dei prezzi nei periodi di scarsità di denaro. Il ripetuto tentativo di passaggio alla moneta di ferro, essendo questo esistito per lungo tempo accanto al rame come metallo da conio, non portò nessun miglioramento alla situazione. L’istanza ufficiale presentata sotto Shih-tung (x secolo) che chiedeva la rinuncia al guadagno sulla moneta e la libera utilizzazione del metallo (per evitare i prezzi di monopolio dei prodotti metallici e quindi l’incentivo all’impiego industriale) rimase inattuata. La politica della carta moneta si presentava sotto analoghi punti di vista. Le emissioni delle banche, che evidentemente all’inizio avevano avuto carattere di certificato - il solito mezzo di assicurazione contro i disordini monetari per il commercio all’ingrosso - e che più tardi avevano assunto il carattere di moneta circolante, in particolare ai fini delle rimesse interlocali, avevano costituito un incentivo alla contraffazione. Le premesse tecniche di questo fenomeno erano la nascita dell’industria della carta importata in Cina a partire dal n secolo d. C. e un adeguato procedimento di stampa xilograficav che si basava in particolare sull’intaglio a rilievo invece che sul primitivo procedimento d’intaglio. Solo all’inizio del ix secolo il fisco cominciò a togliere dalle mani dei commercianti le loro occasioni di profitto basate sul
cambio. All’inizio era anche stato adottato il principio dei fondi di rimborso (da 1/4 a 1/3). E anche più tardi si trova più volte l’emissione di banconote basate su un monopolio di depositi bancari del fisco. Ma naturalmene le cose non rimasero così. Le banconote, fabbricate prima mediante l’intaglio di legno, poi l’incisione in rame, si logoravano rapidamente per via della cattiva qualità della carta. Perlomeno diventavano illeggibili, in seguito alla guerra e alla penuria di metallo da conio. Il deprezzamento delle cambiali fino all’infima unità, il rifiuto perlomeno di quei biglietti logorati fino a diventare illeggibili, l’incremento dell’ammontare dei costi di stampa per sostituirli con nuove banconotew, soprattutto però l’eliminazione delle scorte in metallox e le difficoltà poste al rimborso con lo spostamento verso l’interno delle sedi di rimborsoy, o i termini di riscossione dei pagamenti, all’inizio relativamente a breve scadenza, poi dilazionati su periodi sempre più lunghi (22–25 anni)z che però venivano poi effettuati perlopiù in cambio di nuovi biglietti, spesso con una svalutazione dell’ammontare nominale della sommaa1, il ripetuto rifiuto di accettare biglietti, anche solo in parte, come mezzo di pagamento delle imposte, tutto ciò screditava di nuovo ogni volta la carta moneta senza che la situazione venisse minimamente mutata dall’ordinanza spesso ripetuta secondo cui ogni grosso pagamento andava effettuato in determinate proporzioni in moneta di cartab1, o dall’occasionale divieto totale dei pagamenti in moneta metallica. D’altra parte la riscossione completa, ripetuta più volte, di tutti i mezzi di pagamento in carta portava alla penuria di denaro e al cedimento dei prezzi e il tentativo di incrementare sistematicamente la moneta circolante, quale fu fatto più volte, naufragava inevitabilmente contro la tentazione, che subito s’instaurava, di un’inflazione sfrenata, per motivi fiscali. In circostanze normali il rapporto tra moneta di carta e moneta metallica si manteneva più o meno entro gli stessi limiti che in Inghilterra nel xvm secolo (1 a 10 e anche meno). La guerra, la perdita dei distretti minerari conquistati dai barbari e - in misura sostanzialmente inferiore - l’impiego industriale (o più precisamente di arte industriale) del metallo nei periodi di grande accumulazione della proprietà e le donazioni ai monasteri buddhisti portavano all’inflazione; le conseguenze della guerra, poi, portarono ripetutamente al fallimento degli ordini di pagamento. I Mongoli (Qublai Khan13) avevano sperimentato un’emissione di certificati di metallo graduati (?), che notoriamente era stata molto ammirata da Marco Poloc1. Ma seguì un’enorme inflazione di carta moneta. Già nel 1288 ci fu una svalutazione
dell’80. Poi il grande afflusso d’argento rimise in circolazione questo metallo. Si tentò allora di stabilire un rapporto fisso tra oro, argento e rame (rapporto oro-argento 10/1, in pratica 10,25/1; l’oncia d’argento = 2005 chien, quindi svalutazione del 50 del rame). Venne proibito il possesso privato di oro e argento: i metalli preziosi dovevano costituire soltanto i fondi di riserva per coprire i certificati. L’industria dei metalli preziosi e quella del rame furono statalizzate, e in genere non si coniò più denaro metallico. In pratica però tutto questo portò ad una valuta esclusivamente cartacea, che venne ripudiata con la caduta della dinastia. I Ming14, è vero, tornarono alla coniazione graduata di moneta metallica (dove si dimostra l’instabilità del rapporto di prezzo tra i metalli preziosi, poiché il rapporto tra oro e argento doveva essere calcolato in 4 a i); poi però giunsero molto presto a proibire dapprima l’oro e l’argento (1375), poi anche il rame (1450), come moneta, perché la moneta di carta che continuava nel frattempo ad avere corso si svalutava. La valuta esclusivamente cartacea sembrò allora diventare il sistema monetario definitivo. Tuttavia il 1489 è l’ultimo anno in cui gli annali citano la carta moneta e il xvi secolo vide tentativi di un corso forzato del rame, che però fallirono ugualmente. Le prime condizioni favorevoli vennero a crearsi con l’afflusso dell’argento europeo tramite il commercio diretto iniziato nel xvi secolo. Alla fine del secolo divenne d’uso comune la valuta d’argento nominale (argento in lingotti che in realtà è valuta bancaria) per il commercio all’ingrosso, riprese corso la coniazione del rame ed il rapporto tra rame e argento si modificò ancora una volta, in realtà in misura del tutto sfavorevole al ramed1; ma la carta moneta (di ogni sorta), dopo il divieto dei Ming (1620) mantenuta in vigore dai Manciù15, fu soppressa del tutto e le scorte di moneta metallica che da allora avevano conosciuto un incremento lento ma notevole si manifestarono nella struttura del bilancio statale, sempre più improntata ad un’economia monetaria. L’emissione di biglietti di stato durante la seconda ribellione dei T’ai-p’ing16 terminò con una svalutazione analoga a quella degli ordini di pagamento e con un ripudio del sistema. Il corso dell’argento in lingotti ha sempre implicato gravi difficoltà. Esso doveva in ogni caso essere fatto a pezzi ed era considerato legittimo che i banchieri di provincia si rifacessero dei loro costi maggiori usando bilance diverse da quelle usate nelle città portuali. La finezza doveva essere controllata dai fabbri. Il governo centrale esigeva per i pagamenti parzialmente in argento, che andavano aumentando molto, che ogni lingotto
recasse l’indicazione del luogo di provenienza e del luogo di con trollo. L’argento colato in forma di scarpa aveva un titolo diverso in ogni regione. è chiaro che queste condizioni dovevano portare alla valuta bancaria. Le gilde dei banchieri dei grandi centri commerciali, il cui cambio veniva onorato dappertutto, presero in mano l’introduzione di tale valuta e costrinsero all’accettazione del pagamento di tutti i debiti bancari in valuta bancaria. Senza dubbio anche nel xix secolo non sono mancate raccomandazioni nel senso di una reintroduzione della carta moneta statale (memoriale del 1831)e1. E le motivazioni restavano sempre le stesse, come già all’inizio del xvn secolo e nel Medioevo: l’impiego industriale del rame pregiudicava il corso della moneta e con questo la politica dei prezzi; inoltre la valuta bancaria permetteva ai commercianti di disporre del denaro. Ma allora non si arrivò a ciò. Le retribuzioni dei funzionari - gli interessati più potentierano pagabili essenzialmente in argento: larghi strati di funzionari erano solidali con gli interessi del commercio al non-intervento del governo di Pechino sulla valuta perché le loro possibilità di entrate erano legate al commercio. In ogni caso tutti i funzionari provinciali erano unanimemente interessati in senso contrario ad ogni rafforzamento del potere finanziario e soprattutto del controllo finanziario del governo centrale. Ne parleremo ancora. Alla massa della popolazione di piccoli borghesi e piccoli contadini, tuttavia, malgrado il forte calo del potere d’acquisto del rame - che nell’ultimo secolo però si era andato stabilizzando - e in parte proprio a causa di questo fenomeno, un cambiamento dello stato di cose esistente interessava poco o niente. Si possono lasciare da parte qui le particolarità tecnicoburocratiche del sistema di pagamenti e di credito cinesi. Va solo notato che il ta èl, l’unità nominale di calcolo, si presentava in tre forme principali ed alcune forme secondarie e che i lingotti colati in forma di scarpa, e muniti di un bollo bancario, non meritavano nessuna fiducia riguardo al titolo della lega. Già da molto tempo non esistevano più tariffe di sorta imposte alla moneta di rame. AH’interno la moneta di rame era l’unica a corso effettivo. D’altra parte le scorte d’argento e soprattutto il ritmo della sua rivalutazione a partire dal 1516 era di importanza determinante. 2.Citta e gilde. Ci troviamo ora di fronte a due fatti singolari. In primo luogo, il fortissimo incremento del possesso di metalli preziosi, se evidentemente da un lato ha fatto compiere un certo progresso allo sviluppo dell’economia monetaria, in particolare nel campo della finanza pubblica, dall’altro non ha portato ad una
rottura con il tradizionalismo ma anzi ha proceduto di pari passo con un suo rafforzamento; né ha portato, da quanto è possibile constatare, a fenomeni capitalistici in qualche modo tangibili. In secondo luogo, un colossale incremento della popolazione (della cui entità si deve ancora parlare), si è verificato senza che alla sua base vi sia stato lo stimolo di una forma di economia capitalistica, o che viceversa tale forma di economia abbia ricevuto impulso da questo fenomeno. Al contrario quest’ultimo si collega a forme stazionarie (a dir poco) deH’economia. Tutto questo impone una spiegazione. In Occidente le città nell’antichità e nel Medioevo, la curia ed il nascente stato nel Medioevo, erano i portatori della razionalizzazione delle finanze, dell’economia monetaria e del capitalismo politicamente orientato. Abbiamo visto come in Cina i monasteri fossero temuti per gli effetti nocivi del loro ammassare valuta metallica. Non esistevano in Cina delle città come Firenze che avessero creato una moneta standard e indicato la strada alla politica monetaria statale. E lo stato, come abbiamo visto, era fallito non solo nella sua politica monetaria ma anche nel suo tentativo di realizzare un’economia monetaria. È significativo che fino a tempi recentissimi le prebende dei templi e le altre numerose e svariatef1 venissero misurate, in modo tipico, con compensi in natura. Anche la città cinese, malgrado le numerose analogie, era tuttavia per certi aspetti decisi vi qualcosa di diverso da quella occidentale. L’ideogramma cinese che indica la «città» significa «fortezza». Ora ciò vale anche per la città antica e medioevale dell’Occidente. In Cina la città antica era la residenza del principeg1 e rimane fino ai tempi moderni, inanzitutto la residenza dei viceré e di altri grandi funzionari: un luogo nel quale, come nelle città dell’antichità e forse come a Mosca al tempo della servitù della gleba, venivano soprattutto spese delle rendite, in parte rendite fondiarie, in parte prebende d’uffici ed altri introiti di origine direttamente o indirettamente politica. Inoltre le città erano naturalmente come dappertutto, le sedi del commercio e - seppure in misura assai meno esclusiva che nel Medioevo occidentale - dell’industria. Diritti di mercato esistevano anche nei villaggi, sotto la protezione del tempio del villaggio. Non esisteva un monopolio di mercato urbano garantito tramite un privilegio concesso dallo statoh1 Ma il contrasto fondamentale tra la struttura urbana cinese e orientale in genere da un lato, e la città dell’Occidente dall’altro stava nell’assenza di un particolare carattere politico della prima. Tale città non era una polis nel senso antico e non conosceva un diritto cittadino come nel Medioevo occidentale.
Infatti non era un «comune» con delle prerogative politiche proprie. Non aveva una borghesia nel senso di un ceto militare urbano che si equipaggiava da sé, come nell’antichità occidentale. E non sono mai sorte confederazioni militari come la Compagna Communis di Genova o altre coniurationes, ora in lotta contro i signori feudali della città per la loro autonomia, ora scese nuovamente a patti; o forze basate sul potenziale militare autonomo del distretto urbano: consoli, consigli, unio ni di gilde e corporazioni sul tipo della Mercadanzai1. Certamente le ribellioni dei cittadini contro i funzionari, che costringevano questi ultimi alla fuga nella cittadella, sono state in ogni tempo all’ordine del giorno. Sempre però in vista della rimozione di un particolare funzionario o di una particolare disposizione, soprattutto di una qualche nuova imposizione fiscale; mai in vista del conseguimento di un’autonomia politica della città, sia pure relativa, ma solidamente garantita con un documento. Un’autonomia di questo tipo sul modello occidentale era difficile da conseguire innanzitutto perché non erano mai stati rifiutati i vincoli della schiatta. Il cittadino immigrato (soprattutto quello benestante) conservava i rapporti con la sede originaria della sua stirpe, con la terra degli antenati e con il santuario degli antenati della sua schiatta; aveva quindi nel suo villaggio d’origine dei rapporti a carattere personale della massima importanza. La sua posizione era simile a quella del membro del ceto contadino in Russia, il quale, anche quando aveva trovato nella città la sede permanente della sua attività professionale - come operaio, artigiano, commerciante, fabbricante, letterato conservava tanto il suo diritto di appartenenza al mir17 che quello di cittadinanza (con i diritti ed i doveri ad esso collegati in Russia). La Zεὑς ἑρϰεῖος dei cittadini dell’Attica e, dai tempi di clistene18, il suo demos o lo Hantgemal dei Sassoni rappresentavano in Occidente le forme embrionali di una condizione analogaj1. Ma allora la città era una «comunità», nell’antichità era anche un’unione culturale, nel Medioevo una fratellanza giurata. Di queste forme si trovano in Cina solo gli stadi preliminari, non la loro realizzazione. In Cina il dio della città era solo uno spirito protettore locale ma non il dio di un’unione; di regola era piuttosto il mandarino canonizzato di una cittàk1. Mancava totalmente - è questo il punto fondamentale - la confederazione politica dei cittadini in armi. In Cina si trovano a tutt’oggi gilde, anse, corporazioni, in alcuni casi anche una «gilda cittadina», esteriormente simile alla «gilda mercatoria» inglese. Vedremo che i funzionari statali inglesi dovevano tenere seriamente in considerazione le diverse unioni cittadine e che
in pratica queste unioni tenevano in mano l’organizzazione della vita economica della città in misura eccezionale - molto più intensamente dell’amministrazione imperiale e sotto molti aspetti anche molto più solidamente delle unioni occidentali di media importanza. Sotto molti aspetti le condizioni della città cinese ricordavano apparentemente quelle della città inglese tanto del periodo della firma burgi quanto del periodo dei Tudor. Ma tale somiglianza era puramente esterna ed una importante differenziazione consisteva nel fatto che anche allora una città inglese possedeva la Charter che documentava le sue «libertà». Ora un fatto analogo non esisteva in Cinal1. La situazione, assai diversa da quella dell’Occidente, ma simile a quella indiana, era tale che le città, come piazzeforti imperiali, di fatto godevano sostanzialmente di meno «autonomia»m1 dei villaggi. La città era costituita formalmente da dei «distretti di villaggio» ciascuno sotto un ti-pao (consiglio di anziani) particolare; spesso apparteneva a più distretti amministrativi inferiori (ihsien), in qualche caso anche a vari distretti superiori (fu) con un’amministrazione statale del tutto distintan1, il che tornava a tutto vantaggio dei farabutti. Alle città manca, anche da un punto di vista puramente formale, la possibilità di concludere accordi - nel campo del diritto privato come in campo politico - di istruire processi, di comparire sotto qualsiasi forma corporativa: tutte cose che invece erano possibili per i villaggi, con i mezzi che vedremo in seguito. Il fenomeno occasionale (presente anche in India come in tutto il mondo) del governo di fatto di una città da parte di una potente gilda mercantile non era un sostituto valido. Alla base di queste differenze c’era la diversa origine delle città in Oriente e in Occidente. La polis dell’antichità - per quanto solidamente potesse essere fondata sulla base della proprietà terriera - era sorta in primo luogo come città del commercio marittimo; in Cina invece prevaleva l’entroterra. Anche se, da un punto di vista puramente nautico, il raggio d’azione effettivo della giunca cinese era occasionalmente piuttosto vasto, e anche se la tecnica nautica (bussola e compasso)o1 era molto sviluppata, l’importanza relativa del commercio marittimo era tuttavia molto esigua se confrontata alla massa di entroterra che aveva a disposizione. La Cina, inoltre, aveva rinunciato da secoli ad avere una propria potenza marittima - che è la base indispensabile del commercio attivo - ed infine, neU’interesse del mantenimento della tradizione, aveva notoriamente limitato i rapporti con l’estero ad un solo porto (Canton) e ad un piccolo numero (tredici) di ditte concessionarie. Non è per un
caso che il commercio in Cina ha fatto questa fine. Lo stesso «canale imperiale», come risulta da ogni documento ed anche dai rapporti conservati, era stato costruito soltanto per evitare la via del mare, resa insicura dalla pirateria e soprattutto dai tifoni, ai fini della spedizione del riso dal sud verso il nord; dei rapporti ufficiali, ancora nell’epoca moderna, mostravano come la via del mare comportava tali perdite per il fisco che gli enormi costi per la costruzione del canale costituivano un investimento redditizio. D’altra parte la specifica città occidentale dell’interno, nel Medioevo, era senza dubbio, come quella della Cina e del Medio Oriente, fondata da principi e signori feudali per sfruttarne le rendite monetarie e le imposte. Ma la città europea, nello stesso tempo, diventò molto presto un’unione altamente privilegiata con solidi diritti che furono sistematicamente allargati e potevano esserlo perché in quell’epoca il signore feudale non possedeva i mezzi tecnici per amministrare la città, e la città era un’unione militare in grado di chiudere con successo le proprie porte ad un esercito di cavalieri. Al contrario le grandi città dell’Asia anteriore, come Babilonia, vennero presto a dipendere, per tutta la loro esistenza, dalla grazia della regia amministrazione burocratica che gestiva la costruzione dei canali. Ciò valeva anche per la città cinese, malgrado il potere molto limitato dell’amministrazione centrale cinese. Anche nel suo caso la prosperità dipendeva molto strettamente non dall’audacia economica e politica dei suoi cittadini ma dal funzionamento dell’amministrazione imperiale, soprattutto l’amministrazione dei corsi d’acquap1. La burocrazia occidentale è giovane e in parte formata alla scuola dell’esperienza pratica delle città-stato autonome. La classe burocratica imperiale cinese era invece molto antica. La città, qui, era prevalentemente un prodotto razionale deiramministrazione, come già dimostrava la sua struttura. In primo luogo c’era la palizzata o il muro; in secondo luogo la popolazione, spesso insufficiente rispetto all’area recintata, che veniva portata eventualmente in modo coercitivoq1; infine, come in Egitto, la capitale stessa od il suo nome cambiava con il cambiare della dinastia. L’ultima residenza permanente, cio è Pechino, fino all’epoca moderna è stata solo in misura limitatissima una città commerciale e industriale d’esportazione. Come vedremo, la portata alquanto limitata dell’amministrazione imperiale ha fatto sì che, come già accennato, i cinesi nella città come nelle campagne «si amministrassero da sé». Lo stesso ruolo delle schiatte nella campagna - su cui torneremo ancora - era tenuto in città, per coloro che non appartenevano a nessuna schiatta o comunque non ad una schiatta antica e
forte, dalle unioni professionali che dominavano in senso assoluto l’intera esistenza dei loro membri. In nessun luogo (eccetto in India, ma in modo diverso) la subordinazione incondizionata dell’individuo alla gilda e alla corporazione (le due cose non erano terminológicamente distinte) era così sviluppata come in Cinar1. Ad eccezione delle poche gilde monopolistiche che da tempo esistevano senza nessuna forma di riconoscimento ufficiale da parte del governo statale, le altre di fatto avevano spesso avocato a sé la giurisdizione assoluta sui propri membris1. Tutto ciò che aveva importanza economica per i membri sottostava al loro controllo: peso e misure, valuta (stampigliatura dei lingotti d’argento)t1, manutenzione delle stradeu1, control lo sulla gestione del credito dei membri e «cartello delle condizioni» come diremmo noiv1: cio è determinazione delle scadenze per le forniturew1, i depositi ed i pagamenti, delle tariffe di assicurazione e dei tassi di interessex1, repressione delle operazioni fittizie e illegali, cura del componimento regolare delle vertenze con i creditori nei trapassi d’impresay1, regolamento del corso dei vari tipi di monetaz1, concessione di anticipi sulla merce giacente per lunghi periodia2; per quanto riguarda gli artigiani in particolare: regolamento e limitazione del numero di apprendistib2 e, eventualmente, protezione del segreto di fabbricazionec2 Le singole gilde disponevano di patrimoni calcolabili in milioni, spesso investiti in una comune proprietà fondiaria; esse prelevavano imposte dai loro membri, riscuotevano tariffe d’ammissione e cauzioni (di buona condotta) dai nuovi arrivati, allestivano spettacoli teatrali e curavano i funerali dei membri poverid2. Nella maggior parte delle unioni professionali l’ingresso era aperto a chiunque esercitasse il mestiere in questione (normalmente, anzi, tale ingresso nell’unione era obbligatorio). Ma esistevano anche numerosi residui di antichi mestieri familiari o tribalie2, che di fatto venivano esercitati come monopolio ereditario o come un’arte segreta tramandata ereditariamente; non solo, ma accanto a questi c’erano anche dei monopoli di gilda creati dalla politica fiscale o xenofoba dell’amministrazione statalef2. E la copertura liturgica del fabbisogno, che l’amministrazione cinese medioevale ha periodicamente tentato di adottare, giustifica l’ipotesi secondo la quale il passaggio dai mestieri familiari e tribali con suddivisione interetnica e imprese ambulanti all’artigianato sedentario libero e accessibile tramite l’apprendistato per molti mestieri sarebbe avvenuto per fasi intermedie, organizzate coercitivamente dall’alto per sopperire ai bisogni dello stato e si sarebbe realizzato attraverso le
unioni artigianali legate alla professione. Di conseguenza, in gran parte delle attività si conservò il carattere dei mestieri familiari e tribali. Sotto gli Han molti lavori artigianali erano ancora severamente custoditi come segreto di famiglia e l’arte della fabbri cazione della lacca di Fuchow, per esempio, morì completamente durante la ribellione dei T’ai-p’ing perché la schiatta che ne custodiva il segreto fu sterminata. Non esisteva in generale il monopolio dei mestieri della città. è vero che si era sviluppato come dappertutto quel tipo di divisione locale del lavoro tra città e campagna da noi designata come «economia urbana» e si trovano anche alcune disposizioni di politica economica urbana. Ma quel tipo di politica urbana sistematica, esercitata dalle corporazioni che nel Medioevo avevano conquistato una posizione dominante - e che per prime avevano tentato di realizzare un’autentica «politica economica urbana» - non è mai giunto a compimento in Cina malgrado le numerose forme embrionali. In particolare le pubbliche autorità, pur ricorrendo continuamente a vincoli di tipo liturgico, non hanno mai creato un sistema di privilegi corporativi come quelli conosciuti nell’alto Medioevo. Proprio la mancanza di queste garanzie giuridiche indusse le unioni professionali in Cina a farsi sempre giustizia da sé, senza alcun riguardo, in una misura rimasta del tutto sconosciuta in Occidente. Fu anche per l’assenza di tali garanzie che in Cina mancarono totalmente quei principi giuridici fissi, pubblicamente riconosciuti, formali e certi che sono alla base di un libero sistema commerciale e industriale organizzato in modo associativo, quei principi che l’Occidente aveva conosciuto e che nell’industria occidentale medioevale favorirono lo sviluppo del piccolo capitalismo. Se in Cina tali princìpi mancavano, ciò era dovuto alla mancanza di un potere politicomilitare autonomo nelle città e nelle gilde e questa circostanza si spiega a sua volta con il precoce sviluppo dell’organizzazione burocratica e gerarchica di funzionari ed ufficiali neH’esercito e neiramministrazione. 3. L’amministrazione dei principi e la concezione di Dio: confronto con il Medio Oriente. Per far sorgere quel potere centrale — con la sua burocrazia patrimoniale — la cui esistenza risale fino a dove arrivano tutte le nostre conoscenze storiche certe, in Cina come in Egitto il fattore decisivo è stato la necessità di regolare i corsi d’acqua come premessa ad ogni economia razionale. Lo mostra molto chiaramente, per esempio, una disposizione contenuta in ciòche si presume essere un’ordinanza di un consorzio di principi feudali, emanata nel vii secolo a. C. e menzionata da Menciog2. Contrariamente all’Egitto e alla
Mesopotamia, in genere, perlomeno nella Cina settentrionale, il nucleo politico originario dell’impero, la difesa dalle inondazioni mediante dighe e opere di canalizzazione per il traffico fluviale interno (in particolare per il trasporto di foraggio) erano di primaria importanza; erano invece di importanza secondaria le opere di canalizzazione a scopo di irrigazione, mentre in Mesopotamia la possibilità di coltivare i territori del deserto dipendeva proprio da queste. I funzionari incaricati del regolamento del flusso delle acque, e quella «polizia» di cui si parla già in antichissimi documenti - e che allora costituiva una classe situata in ordine di rango dopo i «produttori agricoli» e prima degli «eunuchi» e dei «facchini» - hanno formato il nucleo della burocrazia patrimoniale pura, preletteraria. Ci si chiede in che misura queste condizioni abbiano avuto delle conseguenze non solo politiche - il che è fuori dubbio - ma anche di natura religiosa. Il Dio del Medio Oriente era modellato sull’immagine del sovrano terreno. Per i sudditi dell’Egitto e della Mesopotamia, che conoscevano a malapena la pioggia, tutto il bene e il male, e in particolare il raccolto, dipendevano dall’attività del sovrano e della sua amministrazione. Il re (creava» direttamente il raccolto. Una situazione vagamente analoga, seppure priva di un carattere così coercitivo, si verificava in alcune parti della Cina meridionale dove la regolazione delle acque aveva un’importanza predominante su tutto il resto. Il passaggio diretto dalla coltivazione con la zappa alle culture a giardino fu certo condizionato da questo fattore. Al contrario nella Cina settentrionale, malgrado uno sviluppo anche qui considerevole dell’irrigazione, il problema degli eventi naturali, soprattutto della pioggia, aveva importanza preponderante soprattutto per ciò che riguardava il raccolto. Ora nel Medio Oriente l’amministrazione burocratica centralizzata favorì senza dubbio la possibilità di concepire il Dio supremo come un Dio celeste, che ha «creato» dal nulla il mondo e gli uomini e adesso, nella sua qualità di signore etico ultramondano, esige dalla creatura l’adempimento dei suoi doveri e il pagamento dei suoi debiti: una concezione di Dio che in pratica solo qui ha conservato il predominio con tanta forza. Tuttavia va subito aggiunto che il mantenimento di tale predominio non si può far risalire unicamente a quelle condizioni economiche. Anche nel Medio Oriente il sovrano celeste è stato elevato al rango supremo e infine a una posizione di potenza del tutto ultramondana — per la prima volta nel Deuteroisaia, durante l’esilio — proprio in quei luoghi, cio è in Palestina e non nelle regioni desertiche, dove egli mandava a suo piacimento la pioggia e il
sole come fonti di fertilitàh2. Evidentemente sono entrati in gioco anche altri fattori nella formazione di tali concezioni opposte della divinità. Questi fattori rientrano in gran parte non nella sfera economica, bensì in quella della politica estera. Su questo punto dobbiamo rifarci un po’ più da lontano. Il contrasto tra la concezione della divinità nel Medio Oriente e quella nell’Asia orientale non è esistita sempre con il suo attuale rigore. Nell’antichità cinese c’era da un lato, per ogni società locale, un dio rurale bivalente (Shé-chì) nato dalla fusione dello spirito della terra fertile (Shé) con lo spirito del raccolto (Chi) e che aveva già assunto il carattere di una divinità eticamente primitiva, e d’altra parte il tempio degli spiriti degli antenati (T sung-miaó) come oggetto del culto della schiatta. Questi spiriti riuniti (Sh èchi-tsung-miao) costituivano l’oggetto principale del culto rurale locale, lo spirito protettore del paese natio dapprima concepito ancora in maniera del tutto neutralistica, come una forza ed una sostanza magica semi-m ateriale e la cui posizione corrispondeva all’incirca a quella del dio locale dell’Asia occidentale (anche se questo era stato presto concepito in maniera sostanzialmente personificata). Col crescere del potere dei principi lo spirito del campo arato divenne lo spirito del territorio dei principi. Con lo sviluppo dell’eroismo aristocratico sorse ovviamente anche in Cina, come qua si ovunque, un dio celeste personalizzato, corrispondente in certa misura allo Zeus ellenico, adorato dai fondatori della dinastia dei Chou19 insieme allo spirito locale in un’unione dualistica. Con la nascita del potere imperiale, dapprima come potere feudale sui principi, il sacrificio al cielo, di cui l’imperatore era considerato il «figlio», divenne il monopolio di quest’ultimo;i principi offrivano sacrifici agli spiriti della terra e degli antenati, i capifamiglia agli spiriti degli antenati della stirpe. Il carattere degli spiriti, cangiante in senso animistico-naturalistico, qui come ovunque - soprattutto lo Spirito del Cielo (Shang-tì) che poteva venir rappresentato sia come il cielo stesso che come il re del cielo -, finiva però per orientarsi sempre, in Cina, nel senso dell’impersonalei2, e proprio per i più potenti ed i più universali di questi spiriti; tutto il contrario avveniva nel Medio Oriente dove al di sopra degli spiriti animistici semi-personificati e delle divinità locali si ergeva il creatore personificato ultramondano e reggente sovrano dell’universo. La concezione di Dio dei filosofi cinesi rimase a lungo estremamente contraddittoria. Per Wang Chung20 Dio non andava certo concepito in maniera antropomorfica, tuttavia egli aveva un «corpo)), una specie di fluido, pare. D’altra parte lo
stesso filosofo fonda la sua negazione dell’immortalità ancora una volta sulla totale «assenza di forma)) di Dio a cui lo spirito dell’uomo farebbe ritorno dopo la morte, come il ruach israelitico; si tratta di una concezione che ha trovato espressione anche nelle iscrizioni. Sempre con maggiore insistenza, però, si sottolineava la non-personalità propria delle supreme potenze ultraterrene. Nella filosofia confuciana la concezione di un Dio personalizzato, che trovava degli esponenti ancora nell’xi secolo, scomparve a partire dal XII secolo sotto l’influenza del materialista Chu Fu-tzu21 che veniva ancora trattato come un’autorità dall’imperatore K’ang-hsi22 (emanatore del «Sacro Editto»). Spiegheremo più avanti come tale evoluzione verso l’impersonalismoj2 non si è realizzata senza la permanenza durevole di residui della concezione personalistica. Tuttavia è proprio nel culto ufficiale che il primo ha avuto il sopravvento. Anche nell’Oriente semitico la terra fertile, la terra con l’acqua naturale, era in primo luogo la «terra di Ba‘al», e nello stesso tempo la sua sede, e anche qui il Ba‘al rurale della terra, nel senso del suolo fruttifero, divenne il Dio locale della società politica legata ad una sede fissa, la terra natale. Ma questa terra era considerata semplicemente una «proprietà» del Dio; né sarebbe stato possibile concepire un «cielo» come quello cinese, impersonale e tuttavia dotato di anima, in grado di apparire come il rivale di un signore del cielo. Lo Jahv è israelitico era in primo luogo il Dio delle burrasche e delle catastrofi naturali, residente nelle montagne, che tra nubi e temporali arrivava in soccorso degli eroi in combattimento, il Dio alleato alla confederazione guerriera conquistatrice; la lega del suo popolo era posta sotto la protezione di Jahv è attraverso un patto di cui i suoi sacerdoti erano mediatori. Di conseguenza il suo dominio rimase a lungo la politica estera, a cui erano interessati anche i maggiori dei suoi profeti, questi pubblicisti politici all’epoca della grande paura di fronte al potente stato predatorio mesopotamico. Attraverso questa circostanza Jahv è acquisì la sua configurazione definitiva: la politica estera era il suo teatro d’azione con le peripezie della guerra e del destino dei popoli. Perciò egli fu e rimase innanzitutto il Dio dello straordinario: del destino guerriero del suo popolo. Siccome però questo popolo non poté creare una grande potenza, ma rimase anzi un piccolo stato tra le potenze mondiali e finì per soccombere sotto a queste, ne derivò che Jahv è poteva essere un «Dio universale» soltanto come guida ad un destino ultramondano; ai suoi occhi lo stesso popolo eletto aveva solo un’importanza creaturale e secondo il suo comportamento poteva venire ora benedetto ora
rigettato. Al contrario l’impero cinese, nel corso della sua storia, malgrado tutte le campagne militari rimase sempre una grande potenza pacificata. è vero che gli inizi dello sviluppo culturale cinese erano all’insegna del militarismo puro. Lo Shih, più tardi il funzionario, in origine è l’«eroe». Quello che più tardi fu il «padiglione degli studi» (pi yung kung), in cui, secondo il rituale, l’imperatore spiegava personalmente i classici, sembra essere stato in origine una «casa degli uomini» (àvSpeiov), quale si trovava quasi in tutto il mondo presso popoli specificamente guerrieri e cacciatori, e cio è: il luogo di soggiorno della fratellanza della gioventù investita delle armi attraverso la cerimonia della «vestizione» mantenuta ancora oggi, che seguiva senza dubbio delle prove precedenti e faceva salire l’adolescente di grado d’anzianità nella sua «caserma» staccata dalla famiglia. Con ciò in che misura fosse sviluppato il tipico sistema delle classi d’età rimane incerto. Appare probabile, in seguito a derivazioni etimologiche, che la donna in origine avesse in mano la sola coltivazione dei campi; in ogni caso essa non partecipava ai culti extradomestici. La «casa degli uomini» era evidentemente la casa del capo guerriero (carismatico): qui veni vano negoziate azioni diplomatiche come l’assoggettamento dei nemici, venivano custodite le armi da guerra, venivano portati i trofei (orecchie mozzate); qui la formazione giovanile si esercitava al tiro ritmico, cio è disciplinato: in base ai risultati di tale esercizio il principe si sceglieva il suo seguito ed i suoi funzionari (da cui l’importanza cerimoniale del tiro con l’arco fin dai tempi più remoti). è probabile — seppure non sicuro — che anche gli spiriti degli antenati dispensassero consigli in merito. Se tutto ciò è vero, a questa situazione corrispondono le notizie sull’originaria discendenza matrilinea: infatti, stando all’evidenza attuale, il «diritto matriarcale» appare essere stato dappertutto la conseguenza primaria dell’estraniamento del padre dalla famiglia in seguito all’organizzazione militaristicak2. Storicamente questo fenomeno risale a tempi assai lontani. Il combattimento individuale tra eroi, che anche in Cina, come apparentemente in tutto il mondo (fino in Irlanda), ha avuto il sopravvento con l’utilizzazione del cavallo, all’inizio come animale da tiro per i carri da guerra, ha portato alla decadenza dell’androceo che era orientato alla formazione della fanteria. In primo piano è apparso il singolo eroe altamente addestrato e costosamente equipaggiato. Ma anche questa epoca «omerica» della Cina risale a tempi remoti e sembra che né qui, né in Egitto o in Mesopotamia la tecnica militare cavalleresca abbia mai portato ad una compagine sociale così individualistica
come nell’Ellade «omerica» e nel Medioevo. La subordinazione alla regolazione dei corsi d’acqua e quindi al governo personale burocratico del principe ha agito presumibilmente da contrappeso decisivo. Le forniture di carri da guerra e mezzi corazzati furono poste a carico dei singoli distretti, come in India. Per cui, anche alla base dell’esercito cavalleresco non c’era un contratto personale come nella lega feudale dell’Occidente, bensì una sorta di coscrizione obbligatoria a base catastale. Tuttavia l’«uomo nobile», chün-tzu (il gentleman) di Confucio era in origine il cavaliere addestrato alle armi. Ma il peso della realtà statica della vita economica non permise agli d èi guerrieri di ascendere ad un Olimpo: l’imperatore cinese compiva il rito dell’aratura; era diventato un protettore dell’agricoltore e di conseguenza non era più da molto tempo un principe cavalleresco. In realtà i puri mitologemi ctonil2 non hanno conseguito un’importanza predominante. Ma a partire dal dominio dei letterati l’orientamento prevalentemente pacifista dell’ideologia divenne naturale, e viceversa, come vedremo. Lo spirito del cielo divenne allora nella credenza popolareprincipalmente dopo l’abolizione del feudalesimo - una divinità, come quella egiziana, concepita come una specie di via di ricorso ideale contro i funzionari terreni, dall’imperatore fino all’ultimo funzionario. In Cina, come in Egitto (e in maniera meno marcata in Mesopotamia) questa concezione burocratica generava un particolare timore della maledizione del povero e dell’oppresso (vedremo come ciò ha influito sull’etica del vicino popolo israelitico). Questa concezione soltanto, infatti, offriva ai sudditi una specie di Magna Charta della superstizione, ed un’arma effettivamente molto temuta, contro i funzionari e contro tutti i privilegiati in genere, anche i possidenti: una caratteristica tutta particolare, quindi, di una mentalità burocratica ed insieme pacifista. Tutte le guerre di origine popolare in Cina risalgono a tempi preistorici. Senza dubbio l’avvento dello stato burocratico non mise fine al periodo di guerre. La Cina portò il suo esercito in Indocina e fino nel cuore del Turkestan. Nelle più antiche fonti documentarie della letteratura vengono esaltati più di tutti gli eroi di guerra. è vero che nella storia, almeno secondo la versione ufficiale, soltanto una volta un generale vittorioso è stato per questo proclamato imperatore dall’esercito (Wang Mang, intorno alla nascita di Cristo). In pratica, naturalmente, lo stesso fatto si è ripetuto molto più spesso, ma nelle forme prescritte dal rituale e attraverso una conquista ritualmente riconosciuta o una ribellione contro un imperatore ritualmente scorretto. Nel
periodo compreso tra l’VIII e il III secolo a. C., periodo che diede un’impronta decisiva alla cultura intellettuale, l’impero era un’unione molto labile di varie signorie politiche, che, se riconoscevano tutte insieme formalmente la signoria feudale dell’imperatore diventato politicamente importante, erano però in guerra tra di loro e in particolare si disputavano il posto di maestro di palazzo23. La differenza rispetto al Sacro Romano Impero dell’Occidente stava innanzitutto nel fatto che l’imperatore feudale era simultaneamente e in primo luogo il legittimo gran sacerdote, sul tipo del papa occidentale nella posizione rivendicata da Bonifacio VIII. Tale circostanza fondamentale risale a tempi preistorici. Questa funzione indispensabile determinava il mantenimento dell’imperatore. Tramite questa egli costituiva un elemento essenziale per la coesione culturale degli stati combattenti, sempre mutevoli nella loro estensione e potenza. L’uguaglianza (perlomeno teorica) del rituale costituiva il cemento di tale coesione. Qui come nel Medioevo occidentale questa unità religiosa determinava la libertà di spostamento delle famiglie aristocratiche da uno stato dell’impero all’altro; il nobile statista passava senza ostacoli rituali dal servizio di un principe a quello di un altro. La fondazione dell’impero unitario a partire dal III secolo a. C., che da allora fu interrotta solo per brevi periodi, pacificò l’impero all’interno, perlomeno in principio e in teoria. Da quel momento non erano più possibili delle guerre «legittime» nel suo interno. Anche la difesa dai barbari e la loro sottomissione era un semplice compito di pubblica sicurezza per il governo. Di conseguenza, il «cielo», qui, non poteva assumere la forma di un dio degli eroi, adorato nella guerra, nella vittoria, nella sconfitta, nell’esilio e nella speranza della patria, un dio che si manifesta nell’irrazionalità dei destini di politica estera del suo popolo. A tale fine questi destini - se si prescinde dal periodo degli assalti dei Mongoli - a partire dall’erezione della Grande Muraglia non erano più, in linea di principio, abbastanza importanti e irrazionali; nel periodo caratterizzato proprio dallo sviluppo pacifico della speculazione religiosa non erano abbastanza tangibili come un fato minaccioso e incombente, come problema dominante dell’intera esisten za, sempre davanti agli occhi; soprattutto non erano un affare che riguardasse i cittadini. In caso di usurpazione del trono o di invasioni per i sudditi cambiava solo il signore, e nei due casi ciò significava esclusivamente un cambiamento nella persona del beneficiario delle tassazioni, non un cambiamento dell’ordinamento socialem2. L’ordinamento interno politico e sociale, fermo senza scosse da millenni, divenne perciò il campo affidato alla vigilanza divina
e quello in cui questa si manifestava. Anche il Dio israelitico prendeva nota dei rapporti sociali interni, come motivo di punizione del suo popolo, attraverso l’avversità in guerra, per le deviazioni dall’antico ordine di alleanza da lui stabilito. Queste offese, però, rispetto a quella, ben più grave, dell’idolatria costituivano soltanto una categoria di peccati. Al contrario per il potere celeste cinese gli antichi ordini sociali erano l’uno e il tutto. Il cielo governava come custode della loro stabilità e della loro validità indisturbata e come tutore della quiete garantita dalla vigenza di norme razionali, non come fonte di fatidiche peripezie irrazionali, temute o sperate. Tali peripezie erano sinonimo di disordine e tumulti. Erano quindi di origine nettamente demoniaca. La garanzia della tranquillità e dell’ordine interno veniva fornita nel migliore dei modi da una potenza che nella sua impersonalità e proprio per questa si qualificava come specificamente superiore a tutto ciò che era terreno, e cui la passione, e soprattutto la «collera», il più importante attributo di Jahv è, doveva rimanere estranea. Queste basi politiche della vita cinese favorirono anche la vittoria di quegli elementi della credenza negli spiriti, che erano senza dubbio preesistenti in ogni fede magica sviluppatasi in culto, ma il cui sviluppo, in Occidente, era stato interrotto dalla comparsa del dio degli eroi e, infine, da un dio redentore del mondo, personificato, etico, ad uso degli strati plebei. In realtà gli autentici culti ctoni con il loro tipico orgiasmo sono stati estirpati anche in Cina dall’aristocrazia cavalleresca e piùtardi da quella letterarian2. Non si incontrano né danze - l’antica danza di guerra era scomparsa - né un orgiasmo sessuale, né un orgiasmo musicale, né altre forme di inebriamento, nemmeno sotto forma di residui; un solo atto rituale sembra aver assunto carattere «sacramentale», ma si trattava per l’appunto di un atto a carattere del tutto non-orgiastico. Il dio del cielo trionfava anche qui: i filosofi motivavano ciò, secondo la biografia di Confucio scritta da Ssu-ma Ch’ien24, con il fatto che gli d èi della montagna e dei corsi d’acqua governavano il mondo perché dalle montagne viene la pioggia. Ma trionfava come Dio dell’ordine celeste, non delle legioni (militari) celesti. Lo specifico orientamento della religiosità cinese, che per altri motivi e in altra maniera è rimasto dominante anche in India, basato sull’inviolabilità e la regolarità del rituale con effetti coercitivi sugli spiriti, e del calendario che è fondamentale per un popolo di agricoltori, riuniva insieme le leggi naturali e le leggi rituali e si collegava a questa unità del taoo2 sicchéelevava l’Eterno e l’Immutabile alla più alta potenza religiosa. Allora, al posto di un dio creatore ultramondano, era un Essere ultradivino,
impersonale, sempre uguale a se stesso, eterno nel tempo e insieme valore senza tempo di ordini eterni, che veniva percepito come entità ultima e suprema. Il potere celeste impersonale «non parlava» agli uomini. Esso si manifestava loro attraverso le vicende del governo terreno, cio è nell’ordine stabile della natura e della consuetudine, che era una parte delPordine cosmico e - come dappertutto - attraverso ciò che succedeva all’uomo. Le buone condizioni dei sudditi erano prova della soddisfazione celeste, ossia del retto funzionamento degli ordinamenti. Al contrario tutti gli avvenimenti nefasti erano sintomi di un turbamento della provvidenziale armonia tra cielo e terra per opera di forze magiche. Per la Cina questa concezione fondamentalmente ottimistica della armonia cosmica è cresciuta a poco a poco dalla primitiva credenza negli spiriti. All’originep2, qui come altrove, c’era il dualismo tra spiriti buoni (utili) e cattivi (nocivi), i shen ed i kuei, che riempivano tutto l’universo e si manifestavano negli eventi naturali come nell’agire e nelle sorti degli uomini. Anche l’«animo» dell’uomoconformemente all’accezione diffusa dappertutto di una pluralità di forze animatrici - era considerato come una fusione tra la sostanza shen di origine celeste e la sostanza kuei terrena, che dopo la morte si separavano di nuovo. La dottrina comune a tutte le scuole filosofiche riassumeva quindi i «buoni» spiriti nel prin cipio yang (celeste e maschile), quelli «cattivi» nel principio yin (terreno e femminile), dalla cui unione sarebbe nato il mondo. Ma questo coerente dualismo, qui come quasi ovunque, era ottimisticamente indebolito e rappresentato dall’identificazione del carisma magico dei maghi e degli eroi, carisma portatore di salvezza per gli uomini, con gli spiriti shen redentori che traevano origine dalla forza celeste dispensatrice di benedizioni, lo yang. Poiché solo l’uomo qualificato dal carisma aveva un potere manifesto sui cattivi demoni (i kueì) e restava fermo che il potere celeste era la guida benigna e suprema anche dell’universo sociale, ne conseguiva che gli spiriti shen dovevano essere appoggiati nelle loro funzioni presso gli uomini e nel mondoq2. A questo fine però bastava che i demoniaci spiriti kuei venissero mantenuti tranquilli: allora l’ordinamento protetto dal cielo funzionava rettamente. Infatti i demoni non erano in grado di nuocere senza l’autorizzazione del Cielo. Gli d èi e gli spiriti erano esseri magici. Ma nessun singolo dio come nessun eroe divinizzato o nessuno spirito, per quanto potente, era «onnisciente» od «onnipotente». La sobria saggezza confuciana esperta della vita constatava con imparzialità, quando la sfortuna capitava ad un uomo devoto, che «la volontà di Dio è spesso instabile». Tutti
questi esseri sovrumani erano senz’altro più forti dell’uomo ma erano molto al di sotto della suprema impersonale potenza celeste; ed erano anche al di sotto di un pontefice imperiale che si trovasse nella grazia del cielo. In conseguenza di tale concezione solo questa e analoghe forze imperiali venivano prese in considerazione, come oggetto di culto della comunità che trascende l’individuo; e solo queste forze ne determinavano il destinor2. Al contrario il destino del singolo poteva essere determinato dagli spiriti particolari che andavano influenzati con mezzi magici. Con questi spiriti si trattava in modo del tutto primitivo nei termini del baratto: tante prestazioni rituali per tanti benefici. Se poi appariva che uno spirito protettore non era abbastanza forte per proteggere gli uomini malgrado tutti i sacrifici e le buone azioni, ciò significava che occorreva cambiarlo. Infatti solo lo spirito che si dimostrava realmente potente meritava venerazione. Un tale cambiamento avveniva in pratica spesso e l’imperatore in particolare conferiva agli d èi che avevano fatto buona prova di sé omaggi, titolo e rangos2 che eventualmente poi venivano di nuovo tolti. Solo il carisma provato di uno spirito lo legittimava. Senza dubbio - come vedremo tra poco l’imperatore era responsabile della cattiva sorte. Ma tornava anche a svantaggio del dio aver dato adito ad un’impresa sbagliata attraverso un oracolo od altre indicazioni. Ancora nel 1455 un imperatore tenne ufficialmente un discorso punitivo allo spirito della montagna Tsai. E in altri casi a questi spiriti venivano negati il culto ed i sacrifici. Il «razionalista», uno dei grandi imperatori e unificatore dell’impero, Shih Huang-ti fece tagliare al piede tutti gli alberi di una montagna, per punizione perché uno spirito si era mostrato renitente e gli aveva reso difficile l’accesso; lo menziona Ssu-ma Ch’ien nella biografia dell’imperatore. 4. Posizione carismatica e pontificale del monarca centrale. Per l’imperatore stesso, naturalmente, le cose andavano nel lo stesso modo, conformemente al principio carismatico del dominio. Tutta questa costruzione si basava suH’immedesimazione in tale realtà politica. Anche l’imperatore, attraverso le sue qualità carismatiche, doveva dimostrarsi chiamato dal cielo a regnare. Ciò corrispondeva in pieno ai princìpi fondamentali del dominio carismatico, attenuato in senso carismaticoereditario. Il carisma era dappertutto una forza fuori dal normale (maga, orenda), la cui presenza si manifestava attraverso le virtù magiche ed eroiche, ma che presso i novizi doveva essere accertata tramite prove nell’ascesi magica (o anche, secondo le varianti della concezione, acquisito come «nuova
anima»). Ma la qualità carismatica (in origine) si poteva anche perdere: l’eroe o il mago poteva venire «abbandonato» dal suo spirito o dio. Solo finché continuava a dar prova di sé attraverso miracoli o atti eroici sempre rinnovati, o perlomeno finché l’eroe o il mago non esponeva se stesso ed il suo seguito ad un pubblico insuccesso, il possesso del carisma appariva garantito. In origine la forza eroica era considerata una qualità magica alla stessa stregua delle forze «magiche» in senso stretto: poteri magici sulla pioggia, sulle malattie ed arti tecniche fuori dal normalet2. Una questione, in sostanza, era decisiva ai fini dello sviluppo culturale: sapere, cio è, se il carisma militare del principe guerriero ed il carisma pacifista (di regola meteorologico) dello stregone erano riuniti nella stessa mano o meno. Nel primo caso («cesaro-papismo»), però, si tratta di determinare quale dei due carismi è stato la base primaria dello sviluppo del potere dei principi. Ora in Cina - come si è già ampiamente mostrato prima delle vicende fondamentali, ma per noi preistoriche, condizionate presumibilmente, tra l’altro, dalla grande importanza della regolazione dei corsi d’acquau2, hanno fatto derivare la dignità imperiale dal carisma magico riunendo nella stessa mano l’autorità mondana e quella spirituale, ma con un fortissimo prevalere di quest’ultima. Il carisma magico dell’imperatore doveva senza dubbio manifestarsi anche attraverso successi militari (o perlomeno con l’assenza di insuccessi clamorosi); ma soprattutto doveva manifestarsi attraverso le condizioni atmosferiche favorevoli al raccolto, e lo stato di tranquillità e di ordine interno. Ma le qualità personali che l’imperatore doveva possedere per essere dotato del carisma, furono mutate dai ritualisti e dai filosofi, in qualità rituali, e più tardi etiche: l’imperatore doveva vivere conformemente alle prescrizioni rituali ed etiche degli antichi scritti classici. Il monarca cinese rimaneva quindi innanzitutto un pontefice, l’antico «fabbricante di pioggia» della religiosità magicav2, tradotto in termini etici. Poiché il «cielo» eticamente razionalizzato proteggeva un ordine eterno, era alle virtù etichew2 del monarca che si collegava il suo carisma. Come tutti gli autentici signori carismatici, era un monarca per grazia di Dio, non nel comodo senso dei regnanti moderni che in base a questo attributo, pretendono di dover rispondere «solo a Dio», e cio è in pratica a nessuno, delle follie commesse, ma nell’antico senso genuino del dominio carismatico. Ciò significa, in base a quanto esposto, che egli doveva legittimarsi come «Figlio del Cielo», come signore approvato dal Cielo, attraverso un solo modo: il benessere del popolo. Se non era in grado di realizzarlo, gli mancava il
carisma. Se i fiumi rompevano le dighe, se la pioggia non veniva malgrado tutti i sacrifici, ciò costituiva, secondo l’insegnamento esplicito, una prova del fatto che l’imperatore non possedeva quella qualità carismatica che il Cielo esigeva. Egli faceva allora pubblica penitenza per i suoi peccati, come avveniva ancora negli ultimi decenni. Un simile riconoscimento pubblico dei propri peccati è registrato dagli annali già per i principi dell’epoca feudalex2 e tale usanza si è perpetuata fino all’ultimo: ancora nel 1832 a una simile confessione pubblica dell’imperatore fece tosto seguito la pioggiay2. Se anche ciò non portava rimedio alla situazione, l’imperatore poteva aspettarsi la deposizione, nel passato addirittura l’immolazione. Era esposto al biasimo amministrativo dei censoriz2, come i funzionari. Inoltre un monarca che contravveniva all’antico stabile ordinamento sociale, quella parte del cosmo, che come norma impersonale ed armonia stessa stava al di sopra di tutto il divino - un imperatore che per esempio avesse alterato in qualcosa il diritto naturale, assoluto e divino, sulla venerazione per gli antenatiavrebbe dimostrato con ciò (secondo la teoria che non è tuttavia sempre univoca) di aver perduto il suo carisma e di essere caduto in potere di una forza demoniaca. Poteva venire ucciso, poiché era un semplice privatoa3. Soltanto tale potere non spettava a chiunque, naturalmente, ma ai grandi funzionari (in modo analogo, per Calvino, i ceti avevano il diritto di resistenza)b3. Infatti anche l’elemento portante dell’ordinamento statale, e cio è il corpo dei funzionari, era considerato come partecipe del carismac3; di conseguenza, come il monarca stesso, e nello stesso senso, era un’istituzione di diritto divino, e come il monarca anche il singolo funzionario, personalmente, poteva essere amovibile ad nutum, e questo si è perpetuato fino al tempo presente. Anche l’ideoneità dei funzionari era quindi determinata in senso carismatico: ogni turbamento o disordine di tipo sociale o cosmico-meteorologico nel loro distretto significava che non godevano della grazia degli spiriti. Dovevano quindi ritirarsi dalla carica senza sollevare questioni di merito sulla motivazione del provvedimento. Questa posizione della burocrazia si era già sviluppata in un’epoca per noi preistorica. L’antico ordinamento semi-leggendario della dinastia Chou, come tramandato nel Chou-li, sta già al punto in cui dal patriarcalismo primitivo si comincia a passare al feudalesimo. a. Bibliografia Le grandi opere centrali della letteratura cinese classica, che in seguito non verranno citate per esteso in ogni singolo passo, sono state pubblicate da J. Legge nei Chinese Classics, tradotte e annotate. Alcune
sono anche riprese da Max Müller in Sacred Books of the Bast. Un’introduzione alle idee personali (o considerate tali, che per noi è lo stesso) di Confucio e dei suoi discepoli più influenti è data più comodamente dai tre scritti pubblicati in un piccolo volume da Legge (The Life and Teachings of Confucius, London, 1867) con un’introduzione. Si tratta del Lun Yii (tradotto come Confucian Analects), del Ta Hsüeh (The Great Learning) e del Chung Yung (Doctrine of the Mean). A questi si aggiungono i celebri annali di Lu (Ch’un Chiù «Primavera e autunno»). Traduzioni di Mencio si trovano in Sacred Books of th è East e in Faber, The Mind of Mencius. Il Tao-te-ching attribuito a Laotzu è stato tradotto a più riprese, in tedesco (magistralmente) da von Strauss, 1870, in inglese da Carus, 1913. Nel frattempo presso Diedrichs, Jena, è uscita una buona selezione di mistici e filosofi cinesi (pubblicata da Wilhelm). L’interesse per il taoismo, di recente, era quasi diventato una moda. Sulle condizioni dello stato e della società, accanto alla grandiosa opera di Richthofen che pur essendo prevalentemente geografica si occupa anche di questi aspetti, come opera introduttiva rimane ancora sempre utile il lavoro meno recente, divulgativo, di Williams, The Middle Kingdom. Degli schizzi eccellenti (con bibliografìa) si trovano in Otto Franke, Kultur der Gegenwart (II, II, i). Sulla città, cfr. Plath in «Abh. der bayer. Akademie der Wissenschaft», X. Il miglior lavoro sull’economia di una citta cinese (moderna) è stato finora fornito da un allievo di K. Bücher, il dr. Nyok Ching Tsur (Die gewerblichen Betriebsjormen der Stadt Ningpo, supplemento al quaderno 30 di «Zeitschrift f. d. ges. Staatswissenschaft», Tübingen, 1909). Sull’antica religione cinese (il cosiddetto «sinismo») cfr. E. Chavannes in «Revue de l’histoire des Religions», 34, p. 125 segg. Per la religione e l’etica del confucianesimo e del taoismo si raccomandano le due opere di Dvorak in Darstellungen aus dem Gebiet der nichtchristlichen Rel.Geschichte in quanto si rifanno nella misura del possibile a citazioni testuali. Per il resto cfr. i diversi manuali di storia religiosa (il saggio di Wilhelm Grübe edito da Bertholet, Tübingen, 1908, quello di E. Buckley da Chantepie de la Saussaye). Per quanto riguarda la religione ufficiale le grandi opere di de Groot stanno per ora al primo posto. Opera principale è The Religious System of China (che nei volumi apparsi finora tratta del rituale e in particolare del rituale mortuario). Vi è poi un suo esame generale del sistema religioso esistente in Cina in Kultur der Gegenwart. Sulla tolleranza del confucianesimo cfr. il suo vivace scritto polemico Sectarianism and religious persécution in China («Verh. der Kon. Ak. van Wetensch te Amsterdam» Afd. letterk. N. Reeks IV, 1, 2). Sulla storia dei rapporti religiosi cfr. il suo saggio nel vol. VII dell’«Archiv, für Rel.Wissenschaft» (1904). Cfr. in proposito la recensione di Pelliot in «Bulletin de l’Ecole franaise de l’Extrême Orient», III, 1903, p. 105. Sul taoismo cfr. Pelliot, op. cit., p. 317. Sul sacro editto del fondatore della dinastia dei Ming (predecessore del «Sacro Editto» del 1671) cfr. Chavannes, «Bull, de l’Ec. fr. de L’Extr. Or.», III, 1903, pp. 549 segg. Per un’esposizione della dottrina confuciana dal punto di vista del moderno partito di riforma di Kang Yu-wei, cfr. Chen Huan Chang, The economic principles of Con fucius and his school (tesi della New Yorker Columbia University, New York, 1911). Gli effetti dei diversi sistemi religiosi sulle forme di vita si riflettono con molta chiarezza nel bel saggio di Wilhelm Grube, Zur Pekinger Volkskunde in «Veröffentlichunger aus dem Kgl. Mus. für Völkerkunde», Berlin, VII, 1901). Dello stesso autore, cfr. Religion und Kultur der Chinesen. Sulla filosofia cinese, cfr. W. Grube in Kultur der Gegenwart, I, 5. Dello stesso A., Geschichte der chinesichen Literatur(Leipzig, 1902). Per quanto riguarda la letteratura missionaria, è preziosa l’opera di Jos. Edkins, Religion in China (3 ed., 1884) che riproduce numerosi discorsi. Molte cose buone si trovano anche in Douglas, Society in China. Per un’ulteriore bibliografia sono da consultare le grandi e note riviste inglesi, francesi e tedesche, oltre alla «Zeitschrift für vergl. Rechtwissenschaft» e l’«Archiv für Rel.-Wissenschaft». Per una chiara introduzione alle condizioni della Cina moderna cfr. il diario di F. von Richthofen, e le opere di Lauterer, Lyall, Navarra e altri. Per il taoismo cfr. anche cap. VII. Una moderna storia dello sviluppo della Cina (antica) è riportata da E. Conrady nel vol. Ili della Weltgeschichte (1911) di Pflugk-Harttung. Solo quando il presente volume era già in corso di stampa mi
è giunta la nuova opera di de Groot, «Universismus». Die Grundlagen der Religion und Ethik, des Staatswissenschajt und der Wissenschaft Chinas, Berlin, 1918. Tra i brevi saggi introduttivi va citata in particolare la piccola brossura di uno dei migliori specialisti: Frhr. von Rosthorn, Das soziale heben der Chinesen (1919) e per quanto riguarda le pubblicazioni meno recenti: J. Singer, Ueber soziale Verhältnisse in Ostasien (1888). Istruttiva come la lettura di molti saggi è la raccolta delle disposizioni imperiali indirizzate ai funzionari dell’impero, che in origine era destinata solo all’uso interno e che per decenni è uscita tradotta dagli inglesi ad essa interessati sotto il nome di «Peking Gazette». La letteratura rimanente e le fonti scritte tradotte vengono citate man mano nel corso dell’esposizione. Per il non-specialista costituisce una grave difficoltà il fatto che le fonti documentarie e monumentali siano state tradotte solo in minima parte. Purtroppo non ho avuto al mio fianco uno specialista sinologo per il controllo. è quindi con gravi esitazioni e grosse riserve che questa parte del lavoro viene qui pubblicata. b. In ciò si riassume anche l’opinione di H. B. Morse, The Trade and Administration of the Chinese, New York, 1908, p. 74. In pratica l’assenza dell’imposta sui consumi e di ogni imposta su redditi mobili, i dazi molto limitati fino all’epoca moderna, la politica delle granaglie impostata unicamente dal punto di vista del consumo, sono già deglielementi fondamentali che giustificano il verdetto. Ma soprattutto al mercante agiato era possibile ottenere da quella particolare burocrazia praticamente tutto ciò che era nel suo interesse, in cambio di denaro. c. Il passaggio a questo sistema che corrisponde al nostro sistema di valuta bancaria (e che è stato anche quello adottato dalla Banca d’Amburgo) è stato tuttavia causato dal deterioramento della moneta di conio e dalPemissione di carta moneta da parte dell’imperatore, ed è quindi secondario. Ma lo scompiglio che l’improvvisa penuria di moneta corrente, di rame, poteva suscitare nel luogo dove si verificava, Fincremento dell’emissione di banconote locali che ne seguiva, l’aggiottaggio e la speculazione sui lingotti d’argento che ambedue i fenomeni provocavano - tutto questo ancora in epoca assai recente - e le misure maldestre che il governo adottava in questi casi: tutto ciò è messo in luce, per esempio, dal rapporto pubblicato sulla «Peking Gazette» del 2–6–1896, accanto al decreto imperiale. La migliore esposizione sui rapporti valutari si trova in H. B. Morse, Trade and Administration of th è Chinese Empi- re, New York, 1908, cap. V, pp. 119 segg. Per il resto, cfr. J. Edkins, Banking and prices in China (1905). Nell’ambito della letteratura cinese antica cfr. Ssu-ma Ch’ien, ed. da Chavannes, vol. Ili, cap. XXX. d. Del resto la denominazione del denaro è huo, «mezzo di scambio» (può huo = «mezzo di scambio prezioso»). e. Cfr. in proposito, oltre al capitolo sull’argomento di Morse, Trade and Administration of China, e J. Edkins, Chinese Currency, London, 1913, anche il vecchio lavoro, sempre utile, di Biot in «N. Journ. Asiat.»,3a serie, 3, 1873, che si fonda essenzialmente su Ma Tuan-lin. Solo durante la correzione di questo lavoro mi è giunta in visione la tesi fatta a New York da W. P. Wei, The currency problem in China («Stud. in Hist. Ec.», ecc., 59, New York, 1914), il cui primo capitolo contiene qualcosa in proposito. f. Le superstizioni geomantiche di cui si parlerà più avanti portavano in continuazione (ad ogni terremoto) alla distruzione delle miniere. Tuttavia quando Biot, op. cit., paragona le miniere cinesi a quelle del Potosi, commette un’esagerazione ridicola. Sin da Richthofen i dati in proposito sono definitivamente accertati. Le miniere dello Yünnan, dal 1811 al 1890, avranno fruttato solo circa 13 milioni di taci di utili (malgrado le royaltics relativamente basse, solo del 15). Già nel xvi secolo (1556) succedeva che una miniera d’argento venisse aperta con un costo di 30.000 ta èl e poi fruttava in tutto utili per 28.500 taci. I ripetuti divieti di estrazione del piombo ostacolavano lo sfruttamento dell’argento come prodotto complementare. Solo durante il dominio cinese sull’Indocina (Cambogia, Annam) dove la
Birmania in particolare era un paese ricco d’argento, l’approvvigionamento (regolare) di questo metallo conobbe un forte incremento, a parte quello dovuto al commercio con l’Occidente attraverso Buchara, in particolare nel xm secolo, come valore di scambio con la seta, e in seguito, a partire dal xvi secolo, ottenuto tramite il commercio estero con gli europei. Per concludere, riferendoci agli annalisti, la maggior fonte d’insicurezza stava, oltre che nella tecnica scadente, nel carattere perlopiù scarsamente redditizio delle miniere d’argento, motivo principale della loro insicurezza. g. Il lavoro servile obbligatorio su scala gigantesca per lo sfruttamento delle miniere d’oro figura nella storia dell’imperatore Ch’ien Lung della dinastia Ming (Yu tsiuan tung kian kang mu, trad. da Delamarre, Paris, 1865, p. 362) come ancora esistente nell’anno 1474: vi sarebbero stati costretti 550.000 uomini. h. Il rapporto sfavorevole tra prezzo d’acquisto e costi basta a spiegare il carattere del tutto insufficiente dei proventi. i. Secondo Weil, op. cit., p. 17, il guadagno sulla moneta sarebbe stato sconosciuto dall’antica politica monetaria cinese. Ma ciò non appare credibile perché altrimenti la coniazione abusiva che avveniva notoriamente su scala gigantesca non sarebbe stata redditizia. Anche gli annali del resto riferiscono esplicitamente il contrario (vedi più avanti). j. Su questi effetti del feng shui, cfr. «Varietés Sinologiques», n. 2 (H. Havret, La province de Ngan Hei, 1893), p. 39. k. Secondo una notizia riportata da Biot («N. J. As.», III Serie, 6, 1838, p. 278) dal Wen hian tong kao, le scorte di moneta di tutto il paese sotto Yiian-ti (48–30 a. C.) sarebbero state stimate ammontare a 730.000 wan di 10.000 chien (monete di rame) l’uno, di cui 330.000 in possesso della finanza pubblica, il che secondo Ma Tuan-lin è una scorta bassa. l. Secondo gli annali (Ma Tuan-lin) il rame, a peso, sarebbe valso 1840 volte più dei cereali (altre fonti parlano di 507 volte tanto) mentre sotto gli Han il rame sarebbe stato in rapporto di 1 a 8 rispetto al riso (anche a Roma, nell’ultimo secolo della Repubblica, c’era un rapporto sorprendente con il frumento). m. La carta moneta, pien-shen, del x secolo fu rimborsata dalle casse statali. n. La pesante moneta di ferro nel Szechwan aveva già prodotto, nel l secolo, dei certificati (shao-tzu) della Gilda dei Sedici per il traffico commerciale, ovvero moneta bancaria che più tardi diventava irrimborsabile per insolvenza. o. Così si presentava, secondo gli annali (Ma Tuan-lin) una lista degli introiti dello stato cinese neirantichità: 997 a. C. 1021 d.C. Cereali 21.707.000 shih 22.782.000shih Monete di rame
4.656.000 kuan (da 1000 chieri) 7.364.000kuan
Stoffa di seta pesante 1.625.000 p’i (pezzi) Stoffa di seta fine
273.000 p’i
Filato di seta 410.000 once Garza (seta finissima) 5.170.000 once Tè 490.000 libbre Fieno, fresco e secco 30.000.000 shih
1.615.000p’i 182.000 p’i 905.000 once 3.995.000 once 1.668.000 libbre 28.995.000shih
Legna da ardere
280.000 shou
?
Carbone («lignite»)
530.000 sheng
26.000 sheng
Ferro 300.000 libbre Inoltre nel 997: partite di legno da frecce, penne d’oca (per le frecce) e vegetali;
nel 1021: partite di cuoio (816.000 sheng), di canapa (370.000 libbre), sale (577.000 shih), carta (123.000 sheng); nel 1077 (con la riforma del sistema monetario e dei monopoli commerciali, di cui si parlerà più avanti): Argento 60.137 once Rame 5.586.819 kuan Cereali
18.202.287 shih
Stoffa di seta pesante
2.672.323 p’i
Filato di seta e stoffa leggera 5.847.358 once Fieno 16.714.844 shou Vi sono inoltre indicazioni confuse di partite di tè, sale, formaggio, cera, olio, carta, carbone, zafferano, cuoio, canapa, ecc. che l’annalista riporta assurdamente con il peso complessivo (3.200.253 libbre). Per quanto riguarda la quantità di cereali si calcolava, come si dice altrove, il fabbisogno mensile di una persona nella misura di 1/2 shih (tuttavia l’ammontare dello shih variava considerevolmente). L’entrata d’argento dell’ultimo conto, che manca nei primi due, si spiega o con il monopolio del commercio, o con l’introduzione della conversione della moneta corrente di rame in argento da parte di chi elabora l’imposta, sistema che esiste ancora oggi, o infine col fatto che l’ultimo calcolo rappresenta un bilancio reale, mentre i due primi sono bilanci di previsione (?). Il primo conteggio della dinastia Ming del 1360 presenta d’altra parte solo 3 voci: Cereali 29–433–350 shih Denaro (moneta di rame e di carta) 450.000 once Stoffa di seta 288.546 pezzi Vi è quindi un notevole progresso nelle entrate d’argento e un calo dei numerosi specifici introiti in natura che a quell’epoca comparivano evidentemente solo nei bilanci dei distretti dove venivano adoperati. Tuttavia malgrado ciò non è molto da ricavare dalle cifre perché non si sa con sicurezza cosa è stato detratto precedentemente. Nel periodo tra il 1795 e il 1810 affluirono al governo centrale 4,21 milioni di shih di cereali (da 120 libbre cinesi l’uno), contro un fortissimo incremento, relativo ed assoluto, delle entrate d’argento, reso possibile dalla bilancia dei pagamenti cinese fortemente attiva nel commercio estero con l’Occidente dopo l’afflusso dell’argento americano (lo sviluppo più recente non presenta qui nulla che ci interessi). Secondo gli annali, nell’antichità l’usanza era di far fornire ai distretti vicini alla capitale i prodotti naturali di minor valore e di prendere dai distretti più lontani i beni più preziosi, aumentando il valore del tributo in misura proporzionale alla distanza. Sulle imposte ed i loro effetti vedi più avanti. p. Così nel 689 d. C., secondo Ma Tuan-lin. q. Così nel 683 d. C. la vendita di cereali al Giappone (dove dominava allora la coniazione del rame). r. Così nel 702 secondo gli annali. s. Per la prima volta nel 780 d. C. t. Nell’vni secolo i maestri coniatori sostenevano che 1000 unità di rame trasformato in opere d’arte (vasi) e quindi rivalutate valevano quanto 3600 unità e che quindi l’utilizzazione industriale del rame era più utile di quella monetaria. u. Nell’817, e spesso da allora: non più di 5.000 kuan (da 1.000 chien). Secondo la misura del possesso di denaro di rame venivano fissate scadenze di ampiezza variabile per la sua alienazione. v. Sembra che siano stati utilizzati alPinizio per i sigilli ufficiali dei funzionari; dall’epoca di Shih Huang-ti marcarono esteriormente il passaggio dal feudalesimo allo stato patrimoniale. w. Così nel 1155: 1,5 per il dominatore tartaro della Cina settentrionale. x. Così ancora nel no7. I biglietti si svalutarono come ordini di pagamento (fino a 1/100).
y. Così nel mi, quando venne emessa carta moneta per finanziare la guerra dei confini. z. Questa era la forma regolare, raccomandata anche dagli interessati al commercio. Pertanto queste banconote avevano valore di beni di scambio. a1. Delle emissioni vecchie e logorate venivano talvolta rimborsate con una quantità variabile soltanto da 1/10 a 1/3 del loro valore. b1. Ancora nel 1107, m seguito alla guerra contro i Tartari, ogni pagamento superiore ai 10.000 chien andava effettuato per metà in carta moneta. Lo stesso è avvenuto anche altre volte. c1. La sua descrizione è inaccettabile. Lo sconto del 3 praticato per il rimborso di banconote usate (tramite nuove banconote!), mentre d’altra parte viene concesso su richiesta il cambio della valuta in «oro» e «argento» a chiunque ne abbia bisogno, non è possibile, anche interpretando Marco Polo nel senso che dovesse sussistere uno scopo industriale per tale operazione (il che sarebbe perlomeno possibile in senso testuale). Marco Polo parla anche di vendita forzata di metalli preziosi contro banconote. d1. Presumibilmente da 500 a x fino a 1.100 a 1 alla metà del xix secolo. e1. J. Edkins, Chinese Currency, 1890, p. 4. f1. Le prebende dei funzionari delle dinastie Ch’in e Han (in Chavannes, vol. II, app. I della sua edizione tradotta da Ssu-ma Ch’ien) erano graduate in 16 classi di tributi calcolate in parte in denaro, in parte in riso. Segno di sfavore dell’imperatore - in cui incorse per esempio Confucio secondo la biografia di Ssu-ma Ch’ien - era il rifiuto della quota in natura di carne da sacrificio che gli spettava. Tuttavia si trovano in quello che era allora il Turkestan cinese dei documenti con calcoli puramente in denaro, di cui si parlerà più avanti. g1. Solo nel iv secolo a. C. le costruzioni in legno furono sostituite da quelle in pietra. Fino allora le residenze protette con palizzate cambiavano spesso e facilmente. h1. Non molto ricco per la conoscenza del fen