Stato moderno e diritto delle genti: Vattel tra politica e guerra [2 rivista e aumentata ed.] 9788895931241

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Stato moderno e diritto delle genti: Vattel tra politica e guerra [2 rivista e aumentata ed.]
 9788895931241

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Politics Collana di Studi Politici diretta da Gianfranco Borrelli

La collana prevede, per ogni testo, la valutazione di almeno due referee anonimi, esperti o studiosi dello specifico tema. Uno dei referee può essere scelto fra esperti stranieri. Poiché la collana ha carattere monografico, può, volta a volta, essere demandato ai due referee prescelti, oltre alla supervisione dei saggi, la supervisione dell’intero volume. I giudizi verranno trasmessi agli autori anche in caso di rifiuto alla pubblicazione.

Titolo: Stato moderno e diritto delle genti: Vattel tra politica e guerra. Seconda edizione rivista e aumentata Autore: Diego Lazzarich Collana: Politics © Prima edizione: 2012 © Seconda edizione rivista e aumentata: 2016 ISBN: 978-88-95931-24-1

Edizioni Labrys Via R. Ruffilli, 36 - 82100 Benevento Tel: +39 0824 040190 Email: [email protected] Web: www.edizionilabrys.it

STATO MODERNO E DIRITTO DELLE GENTI VATTEL TRA POLITICA E GUERRA Seconda edizione rivista e aumentata

Diego Lazzarich

Indice Introduzione ........................................................................... 9 Cap. I: La comparsa di Le Droit des Gens Le prime edizioni ....................................................... 25 Il successo di un testo ‘moderno’ ............................... 29 Le influenze inglesi .................................................... 36 Vattel e i Padri fondatori degli Stati Uniti .................. 45 Sulla ricezione di Vattel in Europa ............................. 55 Cap. II: L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti Origini del diritto delle genti ...................................... 59 L’interpretazione groziana ......................................... 64 Il contributo di Hobbes e Pufendorf ........................... 68 Le osservazioni di Barbeyrac ..................................... 73 Diritto delle genti e Civitas Maxima in Wolff ............ 74 Vattel tra giusnaturalismo e giuspositivismo .............. 82 Per una legge dei Sovrani ........................................... 90 Cap. III: Pensare lo Stato Lo Stato come Nazione .............................................. 95 La nazione tra cultura e politica ............................... 104 Il sentimento della patria .......................................... 109 La persona morale tra volontà e intelletto................. 117 Perfezione, libertà e indipendenza: la persona morale di Vattel ....................................................................... 124

Cap. IV: La guerra La guerra pubblica ................................................... 135 La nascita della guerre en forme .............................. 142 La giusta causa di guerra nel pensiero di Vattel ....... 153 Il ruolo politico della giusta causa ........................... 158 La politica oltre la forma .......................................... 166 Bibliografia ........................................................................ 171

Indice dei nomi .................................................................. 192

Introduzione

I Poche opere hanno la capacità di restituire con pari chiarezza lo spaccato storico-politico di un’epoca così come è in grado di fare Le Droit des Gens di Emer de Vattel1. Pubblicato nel 1758, questo testo si poneva l’obiettivo di sistematizzare il dibattito sul diritto delle genti e di avanzare una proposta politico-giuridica destinata a riscuotere un enorme successo non solo nell’Europa ormai dominata dagli Stati, quali nuovi soggetti politici, ma anche oltre oceano, divenendo un’importante fonte d’ispirazione per la Dichiarazione d’Indipendenza e per la fondazione degli Stati Uniti d’America. Emer de Vattel nacque il 25 aprile del 1714 a Couvet2, un piccolo e antico comune nel cantone svizzero-francofono di

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Emer de Vattel, Le Droit des gens, ou Principes de la loi naturelle appliqués à la conduite & aux affaires des Nations & des Souverains, 2 voll., Londres-Neuchâtel, A. Droz, 1758. 2 Vattel fu battezzato col nome di “Emer” e non, come talvolta erroneamente riportato, col nome di “Emerich”. Per le notizie biografiche su Vattel la fonte più attendibile ed esaustiva resta ad oggi E. BÉGUELIN, En souvenir de Vattel, in «Recueil de travaux offert par la Faculté de Droit de l’Université de Neuchâtel à la Société Suisse des Juristes à l’occasion de sa réunion à Neuchâtel», 15-17 settembre 1929, pp. 35-176. Cfr. anche A. DE LAPRADELLE, Introduction, in E. DE VATTEL, The Law of Nations or the Principles of Natural Law, Washington, D.C., Carnegie Institute of Washington, 1916, pp. iii-lix; S. BEAULAC, Emer de Vattel and the Externalization of Sovereignty, «Journal of the History of International Law», 5, 2003, pp. 237–292.

Introduzione

Neuchâtel3, ultimo figlio di David de Vattel, pastore protestante a capo della locale congregazione e insignito nel 1727 con un titolo nobiliare dal Re di Prussia Federico Guglielmo I di Hohenzollern, e di Marie de Montmollin, figlia di un ambasciatore del principato svizzero presso la corte prussiana. In una prima fase della sua formazione, tra il 1728 e il 1730, il giovane Vattel fu avviato agli studi umanistici presso l’Università di Basilea. Qui frequentò i corsi del pastore ugonotto Pierre Roques4, durante i quali ebbe l’occasione di essere introdotto al pensiero di Samuel Pufendorf. Nel 1733 diede inizio ai suoi studi di teologia e metafisica, trasferendosi a Ginevra, dove grazie alla guida di uno dei suoi docenti, JeanJacques Burlamaqui5, ebbe modo di apprendere e approfondire

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Il principato di Neuchâtel vide riconosciuta la sua sovranità nel 1648, per poi essere acquistato nel 1707 da Federico I di Prussia. I sovrani prussiani si susseguirono al governo di esso fino all’occupazione francese del 1789. Nel 1806, Napoleone Bonaparte ricostituì il principato dandone la guida al suo maresciallo Berthier. In seguito alla restaurazione del 1815, Neuchâtel divenne nuovamente un principato prussiano, aderendo alla confederazione elvetica e mantenendo, unico tra i cantoni, un ordinamento non repubblicano, che si uniformò agli altri nel 1848. Cfr. L. MÜHLEMANN, Armoires et drapeaux de la Suisse, Bühler-Verlag, Lengnau, 1991. 4

Per un inquadramento della figura di Roques (La Caune, 1685 – Basilea, 1748) nel contesto politico e religioso della Francia e della Svizzera dell’epoca, cfr. J. R. FREY, Lettre à Mr. l’Abbé Guillaume Thomas Raynal sur la vie de feu Mr. Pierre de Roques, Bâle-Leipzig, 1784 e C. HERMANIN, Riflessioni su società e leggi di un esule ugonotto: Pierre Roques (1685-1748), «Cromohs», 10, 2005, pp. 1-11. 5 Jean-Jacques Burlamaqui (1694-1748, Ginevra) sviluppò le sue riflessioni teoriche in continuità con il pensiero di Richard Cumberland e Ugo Grozio. Le sue opere principali sono Principes du droit naturel (1747) e Principes du droit politique (1751).



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Introduzione

il tema del diritto naturale e del diritto delle genti, divenendo esperto di Leibnitz e Wolff. Nel 1740, sul giornale letterario Journal Helvétique, incominciarono ad apparire i primi articoli firmati da Vattel: Apologie de la médisance, Essai sur l’utilité du jeu e Relation d’un jugement rendu sur le Mont Olympe6. Nonostante l’eterogeneità dei temi trattati in questi articoli, è possibile scorgere alcuni dei nodi teorici che saranno sviluppati successivamente. In particolare, nel reiterato interesse qui mostrato per il rapporto tra amor proprio e amicizia, possono individuarsi i primi passi della riflessione vatteliana sul fondamento dell’obbligazione; ed è qui che, seguendo linee teoriche tracciate da Leibnitz e Wolff, Vattel individua per la prima volta nell’amor proprio e nell’utilità i principi alla base del diritto naturale. Il primo scritto destinato a far comprendere lo spessore intellettuale del pensatore svizzero fu pubblicato l’anno successivo, sempre nella stessa rivista. Con un lungo articolo, Vattel s’impegnava nella difesa della filosofia di Leibniz, accusata di ateismo da parte di Jean-Pierre de Crousaz, professore di matematica e filosofia presso l’Università di Losanna7. Sul frontespizio, la pubblicazione riportava una dedica al nuovo re di

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Journal Helvétique, ottobre e dicembre 1740. L’anno successivo apparvero anche Lettre à Mademoiselle de M ... sur les sentimens délicats, généreux et désintéressés, Lettre sur la nature de l’amour e Sur la différence de l’amour et de l’amitié. 7 E. DE VATTEL, Défense du système leibnitzien contre les objections et les imputations de Mr. de Crousaz, contenues dans l’Examen de l’Essai sur l’homme de Mr. Pope. Ou l’on a joint la Réponse aux objections de Mr. Roques, contenues dans le Journal Helvétique, par Mr. Emer de Vattel, Jean Luzac, Leyde, 1741.



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Introduzione

Prussia, Federico “il Grande”, il quale rispose invitando lo scrittore svizzero a corte8, senza concedergli, tuttavia, un incarico diplomatico – da Vattel tanto sperato, non solo per il prestigio che esso avrebbe comportato, ma anche per le difficili condizioni finanziarie in cui egli versava. Vattel vide risollevata la sua condizione economica nel 1743, quando andò a Dresda per ricevere un incarico di lavoro da parte del primo ministro dell’Elettore Federico Augusto II di Sassonia, il Conte Brühl. Nei tre anni successivi Vattel si dedicò allo studio di Wolff e alla scrittura di numerosi saggi, inclusi i più celebri Dissertation sur cette question: si la loi naturelle peut porter la société à sa perfection, sans le secours des loix politiques (1746) e Essai sur le fondement du droit naturel, et sur le premier principe de l’obligation où se trouvent tous les hommes, d’en observer les loix (1746)9. Il 1747, oltre a vedere la pubblicazione di Le loisir philosophique ou Pièces diverses de philosophie, de morale, et d’amusement10, fu anche l’anno in cui Vattel raggiunse una maggiore stabilità finanziaria, iniziando a percepire una modesta pensione di 500 écu da Brühl e ricevendo un incarico diplomatico che lo portò a Berna per alcune settimane11.

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Per ricostruire il modo in cui questo testo abbia favorito gli scambi tra Vattel, la corte prussiana e gli ambienti intellettuali berlinesi, cfr. E. BÉGUELIN, En souvenir de Vattel, cit., pp. 45-47. 9 Entrambi i testi sono in E. DE VATTEL, Le loisir philosophique ou Pièces diverses de philosophie, de morale, et d’amusement, Walther, Dresden, 1747. 10 Ibidem. 11 Le motivazioni dell’incarico non sono chiare, ma secondo le indiscrezioni di alcuni suoi compatrioti, Vattel era stato incaricato di avviare una trattativa per l’acquisto di Neuchâtel da parte dell’elettore di Sassonia. Cfr. E. BÉGUELIN, En souvenir de Vattel, cit., p. 47.



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Introduzione

Nonostante un successivo peggioramento delle condizioni finanziarie, dovuto anche alle precarie condizioni di salute in cui versava Vattel, gli anni successivi saranno quelli più prolifici per la produzione scientifica dello scrittore svizzero, che nel 1757 pubblicò Le Droit des Gens12, l’opera che avrebbe non solo consolidato il nome di Vattel nell’ambito delle teorie internazionalistiche di stampo giusnaturalistico, ma che avrebbe anche riportato il suo autore a Dresda. Qui Vattel fu infatti nominato Consigliere della Corona, divenendo primo consigliere per gli affari esteri del governo. Del 1760 è anche la pubblicazione di Mélanges de littérature, de morale, et de politique13. L’ultima opera di Vattel fu pubblicata del 1762, con il titolo Questions de Droit Naturel, et Observations sur le Traite du Droit de la Nature de M. le Baron de Wolf14. Si tratta di un volume che raccoglie materiale scritto in precedenza durante la stesura del Droit de Gens, e che fornisce una dettagliata critica allo Ius gentium methodo scientifica pertractatum di Wolff15.

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Già nel 1757 Vattel menzionò l’opera in una lettera al Conte di Brühl, cfr. E. BÉGUELIN, En souvenir de Vattel, cit., p. 131. Per un approfondimento sulla diffusione del libro si veda il capitolo La comparsa di Le Droit des Gens, in ivi. 13 E. DE Vattel, Mélanges de littérature, de morale, et de politique, Editeurs du Journal Helvétique, Neuchâtel, 1760 (riedito nel 1765 col titolo Amusemens de littérature, de morale, et de politique, La Haye). 14 ID., Questions de droit naturel et observations sur le traité du droit de la nature de Mr. le Baron de Wolf, Société typografique, Berne, 1762. 15 A Vattel sono attribuiti altri scritti pubblicati a Francoforte e Lipsia nel 1757 e 1758. Si tratta in primo luogo della raccolta di saggi Mémoires pour servir à l’Histoire de notre tems, par l’Observateur Hollandois, Rédigez et Augmentez par M. D. V., del 1757. Nel catalogo della Lord Acton Library dell’Università di Cambridge si trova un’annotazione che identificherebbe “M. D. V.” con “Monsieur de Vattel”. Di quest’ultimo sarebbero le note e la



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Introduzione

Vattel si sposò nel 1764 con Marie de Chêne, di nobili origini francesi. Dopo la morte prematura di un figlio, e l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, il giurista fece ritorno a Dresda, dove morì il 28 dicembre 176716.

II Delle sue pubblicazioni, l’opera che destinerà Vattel alla storia è quasi esclusivamente Le Droit des Gens. Dalla sua pubblicazione, infatti, il testo dell’autore svizzero è diventato un punto di riferimento teorico fondamentale per il diritto internazionale classico tra il XIX e il XX secolo, influenzando profondamente i discorsi e le pratiche delle relazioni internazionali che a cavallo di due secoli hanno orientato le scelte degli Stati occidentali17. È stato osservato che il successo dell’opera di

prefazione, nella quale l’autore sostiene la necessità della creazione degli “Stati Uniti d’Europa”, in cui a nessuno stato sia consentito avere il predominio sugli altri. Nella biblioteca di Lord Acton, allegato a questo primo volume, si trova ancora Mémoires pour servir à l’Histoire de notre tems, par rapport à la Guerre Anglo-Gallicane, par l’Observateur Hollandois, Rédigez et Augmentez par M. D. V. (1757); mentre il terzo volume, conservato separatamente nella stessa collezione, è Mémoires pour servir à l’Histoire de notre tems, où l’on deduit historiquement le Droit et le Fait de la Guerre Sanglante qui trouble actuellement toute l’Europe, par l’Observateur Hollandois, Rédigez et Augmentez par M. D. V. (1758). 16 Da Marie de Chêne Vattel ebbe anche Charles Adolphe Maurice, che avrebbe realizzato i desideri del padre diventando consigliere di Stato di Neuchâtel e scrivendo alcune opere letterarie. Per ulteriori cenni biografici sull’autore cfr. W. RECH, Enemies of Mankind. Vattel’s Theory of Collective Security, Martinus Nijhoff, Leiden-Boston, 2013, pp. 19-24. 17 Cfr. P. GUGGENHEIM, Emer de Vattel et l’étude des relations internationales en Suisse, Librairie de l’Université, Genève, 1956.



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Introduzione

Vattel è da attribuirsi alla scelta di usare la lingua della diplomazia, il francese, piuttosto che il latino accademico dei trattatisti precedenti. Ciò, insieme alla capacità di formulare, senza eccessive astrazioni e dimostrazioni, argomenti e casi concreti pronti per essere usati nella pratica delle relazioni internazionali, ha permesso a Vattel di scrivere un testo che fosse apprezzato non solo nella “repubblica delle lettere” settecentesca, ma anche nella società diplomatica dei sovrani18. Allo stesso tempo, però, l’opera ha anche il merito di sussumere i principali nodi problematici che i più influenti pensatori moderni avevano lanciato nel dibattito politico dell’epoca, in primis chi fosse il reale detentore del potere sovrano all’interno dello Stato. Vattel, quindi, riesce a compiere una imponente operazione teorica, trasformando le categorie politiche moderne in pilastri saldi sui quali costruire le norme di condotta che avrebbero dovuto regolare la vita degli Stati. Così facendo, il testo del pensatore svizzero segna la nascita del diritto delle genti moderno, dando avvio a ciò che è stato definito il «modello vatteliano» del 1758, il quale perfeziona e dà forma teorica al «modello westfaliano» del 164819.

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W. RECH, op. cit., pp. 23-24. Si veda l’intervento introduttivo di Peter HAGGENMACHER al Convegno “Le droit de Vattel vu du XXIéme siècle”, svoltosi il 28 e il 29 febbraio del 2008 all’Institut de Haute Études Internationales et du Développement di Ginevra, poi pubblicato in V. CHETAIL e P. HAGGENMACHER (a cura di), Vattel’s International Law in a XXIst Century Perspective - Le droit international de Vattel vu du XXIe Siècle, Martinus Nijhoff, Leiden-Boston, 2011. Vattel è presentato quale teorico del diritto interstatale classico anche nella voce a lui dedicata da C. SANTULLI nel Dictionnaire des grandes oeuvres juridiques, a cura di O. CAYLA, Dalloz, Paris, 2008, pp. 591-593. 19



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Introduzione

Le paci di Westfalia furono principalmente paci di natura religiosa siglate tra l’Imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando III, la Francia, gli Stati tedeschi, la Svezia e i Prìncipi ad essa alleati. Con questi trattati si stabilì una pax christiana, in cui, prendendo atto della scissione religiosa avvenuta in Europa in seguito alla Riforma protestante, si sancivano i principi per la coesistenza tra i sudditi all’interno di uno Stato e tra Stati di confessioni diverse, a prescindere dal fatto che fossero di credo cattolico, luterano o calvinista. Il dato politico più significativo risiedeva nella possibilità, da parte dei Prìncipi tedeschi, di conservare il proprio culto all’interno dei propri confini territoriali – confermando quanto già stabilito nel 1555 con la Pace di Augusta. I Prìncipi dovevano, inoltre, rispettare tutte le minoranze religiose cristiane, inclusi i calvinisti, ponendo fine alla persecuzione religiosa che tanti morti aveva mietuto negli anni precedenti20. Per quanto riguardava l’aspetto territoriale, i trattati intervenivano concretamente all’interno dell’ordinamento del Sacro Romano Impero, riconoscendo ai Prìncipi la piena sovranità sui loro territori. In questo modo, benché, i trattati si preoccupassero di tutelare l’Impero stabilendo che il diritto dei Prìncipi di stringere alleanze non dovesse essere esercitato con intenti offensivi nei confronti dell’Imperatore, di fatto la loro stipula sanciva l’avvio di un lento processo di declino dei due soggetti

20

Cfr. G. PAGES, La Guerra dei Trent’Anni, ECIG, Genova, 1993; G. PARKER, La Guerra dei Trent’anni, Vita e Pensiero, Milano, 1994; ID., La rivoluzione militare, Il Mulino, Bologna, 2005; J. V. POLISENSKY, La Guerra dei Trent’Anni: da un conflitto locale a una guerra europea nella prima metà del Seicento, Einaudi, Torino, 1982; C. V. WEDGWOOD, La Guerra dei Trent’Anni, Mondadori, Milano, 1998.



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a vocazione universalistica che avevano dominato l’Europa nei secoli precedenti. Così come l’Impero, anche la Chiesa usciva dai trattati con un potere drasticamente ridimensionato, segnando la fine dell’egemonia papale sulla scena politica europea. Questo contesto storico sarà lo spazio in cui s’insinuerà con successo la teoria di Vattel delineata nel Diritto delle Genti. Con la fine della Guerra dei Trent’anni, infatti, prende forma in Europa il «primo ordinamento internazionale veramente “moderno”, basato cioè su una pluralità di Stati nazionali, territoriali e sovrani, che non riconoscevano alcuna superiore autorità alla Chiesa o all’Impero»21. Il modello di Westfalia afferma sul campo della storia gli Stati quali nuovi ed esclusivi soggetti politici (quindi anche soggetti di diritto internazionale) dotati di eguaglianza giuridica e piena sovranità22. Questa lettura in qualche misura eccessivamente trionfalistica e definitiva delle paci di Westfalia è ridimensionata da Benno Teschke, il quale sostiene che il gioco dinastico delle relazioni interpersonali tra i vari sovrani era, di fatto, la realtà nascosta che perdurava al di là degli accordi di Westfalia. Questa resistenza dell’antico sistema di relazioni tra sovrani avrebbe impedito una reale applicazione del sistema internazionale ba-

21

D. ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano, 2004 (prima ed. 1995), p. 23. 22 Cfr. R. A. FALK, The Interplay of Westphalia and Charter Conceptions of International Legal Order, in C. A. BLACH, R. A. FALK (a cura di), The Future of International Legal Order, Princeton University Press, Princeton, 1969; A. CASSESE, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, il Mulino, Bologna, 1984; L. GROSS, The Peace of Westphalia 1648-1948, «American Journal of International Law», 42, 1, 1948.



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Introduzione

sato esclusivamente sul riconoscimento degli Stati sovrani23. Se è vero che il modello vestfaliano trova consacrazione formale nella teoria di Vattel, è un anacronismo, o un mito storiografico, voler riconoscere i principi dell’uguaglianza sovrana e del non-intervento nel testo dei trattati di Westfalia e nella prassi immediatamente successiva. Brendan Simms ha rilevato, ad esempio, che questi trattati, lungi dall’escluderlo, ponevano ampie basi per l’intervento negli affari interni di uno Stato in difesa delle minoranze religiose24. Di fatto, a prescindere dalle diverse letture che se ne danno, che le paci di Westfalia del 1648-49 segnano sicuramente la nascita di un modello, di una nuova modalità di intendere i rapporti internazionali che, in realtà, non determina necessariamente la fine del precedente modello. Vale a dire che nei decenni successivi ai trattati il quadro storico-politico determina una lenta desostanziazione dello jus gentium degli antichi, segnando la fine progressiva di una cornice di regole attraverso cui i diversi soggetti politici si relazionavano l’un l’altro.

23

B. TESCHKE, The Myth of 1648. Class, Geopolitics and the Making of Modern International Relations, Verso, London, 2003, p. 215 e sg. 24 B. SIMMS, ‘A false Principle in the Law of Nations’: State Sovereignty, [German Liberty], and Intervention in the Age of Westphalia and Burke, in B. SIMMS and D. J. B. TRIM (a cura di), Humanitarian Intervention – a History, Cambridge University Press, Cambridge, 2011, p. 2. Oltre al già citato Teschke si vedano, per una lettura revisionistica della pace di Vestfalia, anche A. OSIANDER, Sovereignty, International Relations, and the Westphalian Myth, «International Organization», 55, 2, 2001, pp. 251-87; S. BEAULAC, The Power of Language in the Making of International Law, Martinus Nijhoff, Leiden, 2004; S. KRASNER, Sovereignty: Organized Hypocrisy, Princeton University Press, Princeton, 1999; ID., Power, States, and Sovereignty Revisited, Routledge, New York, 2009.



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Introduzione

È in questo sostanziale degradamento del sistema precedente, e nel tentativo di far nascere un sistema nuovo, che s’inserisce la calorosa accoglienza tributata al testo di Vattel. Quando, a poco più di cent’anni dalla pace di Westfalia, esso compare, il Droit des Gens sembra fornire la combinazione perfetta per far incastrare i mutamenti politici avvenuti sul piano storico e le componenti teoriche che nel frattempo erano state elaborate. Da un punto di vista strettamente teorico, in fatti, lo scrittore svizzero non lanciò una proposta veramente innovativa. Il suo intento, infatti, fu di sistematizzare la dottrina del diritto delle genti. Eppure – come sostiene l’attenta studiosa di Vattel Emmanuelle Jouannet – con Le Droit des Gens, per la prima volta, il diritto delle genti è progettato e concepito come un ordine giuridico e non più come semplice fonte di un diritto comune agli uomini; è applicato come un diritto di Stati sovrani, divenuti soggetti esclusivi di tale diritto; si costituisce, dunque, come una disciplina autonoma25. È questo il senso del grande contributo che Vattel offre al diritto delle genti: operarne una sistematizzazione e proporlo come disciplina autonoma, in grado di ordinare i rapporti tra gli Stati. Si può dire che lo scrittore svizzero esprima col suo testo esattamente quello che si potrebbe chiamare lo spirito del tempo. Egli propone un nuovo modo di concepire i rapporti internazionali usando il diritto delle genti quale principio ordinativo. Le Droit des Gens è senza dubbio l’opera in cui Vattel raccoglie, affina e sviluppa i temi e le ricerche da lui condotte

25

E. JOUANNET, Préface, in Y. SANDOZ (a cura di), Réflexions sur l’impact, le rayonnement et l’actualité du «Droit des Gens» d’Emer de Vattel, Bruylant, Bruxelles, 2010, p. 6.



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Introduzione

negli anni precedenti, riuscendo a far emergere, con innegabile chiarezza, le esigenze giuridico-politiche del contesto storicopolitico a lui contemporaneo – contesto in cui egli non viveva da semplice teorico, ma da uomo politicamente impegnato, in particolare negli anni in cui fu diplomatico al servizio dell’Elettore di Sassonia26. L’autore elabora la sua teoria internazionalistica attorno a tre nodi fondamentali: primo, la definizione di tre tipi diversi di diritto internazionale; secondo, l’analisi delle relazioni pacifiche che intercorrono tra le nazioni e il tentativo di individuare le norme con cui organizzare lo spazio giuridificato degli Stati; terzo, l’analisi delle relazioni conflittuali tra gli Stati e la ricerca di norme con cui mitigare gli effetti della guerra27. La volontà di compiere un lavoro in grado di formalizzare e razionalizzare la dottrina del diritto delle genti è espressa con grande sicurezza nella Prefazione a Il Diritto delle Genti, dove Vattel afferma: Il Diritto delle Genti, una materia sì nobile ed importante, non è stato sinora trattato con tanta diligenza che richiedeva. Però la maggior parte degli uomini non

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Una lettura della dottrina di Vattel attenta ai condizionamenti e agli obiettivi concreti che l’autore ebbe come diplomatico, in particolare durante la guerra dei Sette anni (1756-1763), è stata offerta da Tetsuya Toyoda in Theory and politics of the law of nations: political bias in international law discourse of seven German court councilors in the Seventeenth and Eighteenth centuries, Martinus Nijhoff, Leiden-Boston, 2011, pp. 161-190. 27 F. MANCUSO, Diritto, stato, sovranità. Il pensiero politico-giuridico di Emer de Vattel tra assolutismo e rivoluzione, ESI, Napoli, 2002, p. 248.



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hanno del medesimo che una Nozione vaga, al sommo incompleta e spesso ancora falsa.28

Con queste parole Vattel rende subito chiaro che il suo intento è quello di gettare luce su una materia tanto importante quanto trascurata. Proprio la scarsa chiarezza associata a questo tema ha fatto sì – osserva l’autore – che del diritto delle genti si sia formata una nozione vaga, molto incompleta e spesso falsa, composta, in gran parte, da alcune massime e dai trattati adottati tra le Nazioni, e ciò nonostante l’impegno profuso da autori anche importanti. Questo modo di approcciare il diritto delle genti ha sortito l’effetto di limitare e degradare una «Legge» così intimamente iscritta nel genere umano29. Esiste, invece, sicuramente un diritto delle genti naturale che pone in una condizione di obbligo sia gli Stati, sia gli uomini uniti in una società politica, sebbene con norme diverse per gli uni e per gli altri. Per conoscere esattamente il diritto delle genti naturale occorre ricondurre questo a una scienza particolare, che si occupi di comprendere come applicare in modo giusto e razionale la legge di natura alle questioni delle nazioni e dei sovrani.30 L’idea che in materia di diritto delle genti occorra considerare il diritto di natura delle nazioni come una scienza particolare, consistente nella giusta e razionale applicazione del diritto di

28

E. DE VATTEL, Il diritto delle genti, ovvero principii della legge naturale, applicati alla condotta e agli affari delle Nazioni e de’ Sovrani. Opera scritta nell’idioma francese dal sig. di Vattel e recata nell’italiano da Lodovico Antonio Loschi, Tipografia Fratelli Masi e Comp., Bologna, 3 voll., 18041808 (d’ora in poi DG), p. i. 29 Ibidem. 30 Ibidem.



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natura agli affari e alla condotta delle nazioni e dei sovrani, è l’assunto fondamentale da cui parte il diplomatico svizzero. Questa considerazione segna, di fatto, lo scarto che più profondamente distingue Vattel – e Wolff – da Grozio, Hobbes, Pufendorf e Barbeyrac.

III Il presente libro si propone di indagare il pensiero di Emer de Vattel – autore oggetto di una riscoperta negli ultimi anni nella letteratura internazionale, ma ancora relativamente poco studiato in Italia31 – soprattutto attraverso l’analisi dei temi trattati nel Diritto delle Genti, ma anche tramite una ricostruzione della diffu-

31

Fanno eccezione la monografia di F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit., e ancora, sul tema della guerra e della figura del nemico, ID., ‘Le Droit des gens’ come apice dello jus publicum europaeum? Nemico, guerra, legittimità nel pensiero di Emer de Vattel, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 38, 2009, pp. 1277-1310, e G. Silvestrini, Giustizia della guerra e disuguaglianza: Vattel, l’aggressore ingiusto e il nemico del genere umano, «Filosofia politica», XII, 3, 2008, pp. 381-400. Si segnala inoltre E. FIOCCHI MALASPINA, Le Droit des gens di Emer de Vattel. La genesi di un successo secolare, «Nuova rivista storica», 98, 2, 2014, pp. 733-754, che a sua volta attesta il recente interesse per Vattel negli studi sulla traduzione: cfr. A. TRAMPUS, Il ruolo del traduttore nel tardo illuminismo: Ludovico Antonio Loschi e la versione italiana del Droit de gens di Emer de Vattel, in ID. (a cura di), Il linguaggio del tardo illuminismo. Politica, diritto e società civile, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2011, pp. 81-108; ID., La traduzione toscana del Droit des gens di Emer de Vattel (circa 1780): contesti politici, transferts culturali e scelte traduttive, in Traduzione e Transfert nel XVIII secolo tra Francia, Italia e Germania, in G. CANTARUTTI-S. FERRARI (a cura di), Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 153174.



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Introduzione

sione di questo testo. Su quest’ultimo aspetto si concentrerà il primo capitolo, in cui saranno ripercorsi i passaggi che, dalla comparsa dell’opera alla fine del 1757 a Neuchâtel, hanno portato il suo autore, nel giro di pochi decenni, a diventare lo studioso di diritto delle genti moderno più tradotto e più citato, sia nella dottrina giuridica sia nella giurisprudenza internazionale. L’indagine sulla circolazione del Diritto delle Genti nell’originale francese e nella prima traduzione inglese aiuterà a comprendere i motivi di tale successo, in Europa ma ancor più negli Stati Uniti d’America, dove il pensiero di Vattel ricoprì un ruolo di primo piano nel dibattito tra i padri fondatori. In questa sede sarà anche mostrato come la profonda stima che Vattel nutriva nei confronti del modello politico e sociale inglese influenzò significativamente la mappa concettuale del suo capolavoro. Nel secondo capitolo sarà ricostruito il dibattito sul diritto delle genti così come delineato da Vattel nella sua Prefazione e si vedrà come il suo intento dichiarato fosse quello di mettere ordine e chiarezza su una materia tanto importante, eppure trascurata. Dalle definizioni di Giustiniano e dalla descrizione del diritto feciale degli antichi Romani, alle prime interpretazioni moderne del diritto delle genti operate da Grozio e alle proposte teoriche di un maestro quale Hobbes e del suo estimatore Pufendorf, fino alle osservazioni di Barbeyrac e alle influentissime proposte teoriche di Christian Wolff, saranno ripercorse tutte le tappe che hanno contribuito alla formulazione del diritto delle genti di Vattel, mostrandone differenze e somiglianze rispetto ai suoi predecessori. Il terzo capitolo, poi, si sposterà dallo spazio esterno degli Stati a quello interno, indagando tre categorie politiche centrali nel



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Introduzione

pensiero vatteliano: nazione, patria e persona morale. Attraverso la ricostruzione del dibattito sulla categoria di nazione si vedrà come Vattel contribuì a rafforzare l’idea che lo Stato e la Nazione fossero la stessa cosa, dando della seconda un’interpretazione sostanzialmente politica, quindi non assimilabile al concetto di nazione come entità etnico-culturale. Si vedrà, tuttavia, anche come Vattel inserisca nel Diritto delle Genti brani volti a promuovere l’idea di Nazione come patria, anticipando, per certi versi, alcuni temi rousseauiani. Inoltre, si indagherà la natura contrattuale della società civile pensata da Vattel come intimamente finalizzata al perfezionamento dei membri dello Stato, attraverso il concetto di persona morale. Grazie alle analisi che di quest’ultima categoria forniscono Pufendorf e Wolff, si vedrà come il pensatore svizzero giunga a pensare la volontà, l’intelletto e la libertà quali elementi costitutivi della persona morale dello Stato. Il quarto e ultimo capitolo si concentrerà su uno dei contributi più celebri della riflessione internazionalistica vatteliana: la guerre en forme. Attraverso un ripensamento dell’influente analisi storico-concettuale avanzata da Carl Schmitt nel secolo scorso, si vedrà come la concezione vatteliana della guerra sia uno dei dati distintivi del passaggio dall’ordine internazionale medievale a quello moderno. E, tuttavia, proprio soffermandosi sull’uso fatto da Vattel del concetto di giusta causa, si vedrà come l’autore non eradichi questa categoria dal suo sistema ordinativo, ma se ne serva come contraltare alla guerra en forme per fissare un reale bilanciamento delle forze politiche presenti sulla scena europea del diciottesimo secolo.



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I La comparsa di Le Droit des Gens

Le prime edizioni Verso la fine del 1757 nelle vetrine di alcune librerie di Neuchâtel apparve un voluminoso testo intitolato Le droit des gens, ou Principes de la loi naturelle, appliqués à la conduite & aux affaires des Nations & des Souverains, diviso in due tomi: il primo di 541 pagine e il secondo di 3751. Sulla copertina si poteva leggere a chiare lettere il nome di uno dei membri della comunità, il signor Emer de Vattel. Proprio per questo motivo, nonostante il frontespizio riportasse come data il 1758 e come luogo di pubblicazione Londres (Londra), l’opera iniziò a circolare già alla fine del 1757 nei salotti della città svizzera. L’autore aveva riposto nel testo grosse aspettative e confidava nel fatto che l’enorme lavoro compiuto per scriverlo sarebbe stato ripagato da un discreto successo. Tali aspettative sono espresse dall’autore in una lettera a un amico: «Peut-être mon livre aura-t-il plus d’une édition. Cette espérance n’est pas trop présomptueuse, puisque je ne fais tirer que douze cents

1

L’opera era strutturata in due volumi, il primo comprendente due libri (I, De la Nation considérée en elle-même; II, De la Nation considérée dans ses relations avec les autres) e il secondo altrettanti (III, De la guerre; IV, Du rétablissement de la paix, et des Ambassades).

Capitolo I

exemplaires»2. Il Droit des gens era atteso anche nella società colta di Neuchâtel, e il Journal Helvétique – che aveva pubblicato i primi scritti di Vattel – annunciò la nuova uscita lodandone lo stile, chiaro e diretto «come si conviene alla lingua della verità, quando essa si rivolge ai Re e ai loro ministri»3. Effettivamente, le speranze di Vattel sarebbero state ben presto confermate da un successo immediato, tanto che nello stesso anno della pubblicazione londinese, un’ulteriore edizione fu stampata, sempre in lingua francese, nella florida cittadina olandese di Leiden4. Esattamente dieci anni dopo la comparsa della prima edizione del suo capolavoro nelle librerie di Neuchâtel, Vattel morì, e non ebbe modo di vedere il continuo successo che Le Droit des Gens avrebbe avuto non solo nei Paesi francofoni, ma an-

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Lettera inedita di Vattel a un anonimo, 26 maggio 1757, Bibliothèque de la Ville de Neuchâtel, citata in A. DE LAPRADELLE, Introduction, in E. DE VATTEL, Le droit des gens, ou Principes de la loi naturelle, appliqués à la conduite des nations et des souverains, Carnegie Institution, Washington, 1916, p. XXVII (ristampa: Oceana, New York, 1964). 3

Così scriveva la rivista, collocando Vattel nella tradizione illuministica degli scritti miranti a edificare il sovrano assoluto, e a moderarne l’arbitrio: «Le style est clair, net et coulant, d’une noble et élégante simplicité, tel que doit être le langage de la vérité, surtout quand elle parle aux Rois et aux Ministres des Rois. Il est d’ailleurs vif et animé dans l’occasion, tel que le langage d’un homme qui veut des vérités importantes, et qui les voit bien dans ce qu’elles ont d’intéressant pour le bonheur et la gloire des Nations et de leurs conducteurs». Cfr. E. FIOCCHI MALASPINA, Le Droit des gens di Emer de Vattel, cit., pp. 733-754, qui a p. 741. 4 Questa edizione, che contribuì alla diffusione dell’opera, apparve però senza il permesso dell’autore, il quale a lungo ed erroneamente la considerò “contraffatta”. Cfr. la ricostruzione della vicenda in FIOCCHI MALASPINA, op. cit., p. 747 e sg.



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La comparsa di Le Droit des Gens

che, e soprattutto, altrove. Nel 1773 apparve in francese una nuova edizione stampata di nuovo a Neuchâtel, arricchita dalle note a matita che l’autore aveva accuratamente segnato sulla prima edizione, senza, tuttavia, riscuotere la risonanza attesa dagli amici di Vattel e dall’editore. Un’altra edizione, che invece fu destinata ad avere grosse ripercussioni per la diffusione del pensiero vatteliano negli Stati Uniti, fu quella stampata ad Amsterdam nel 1775 dall’editore svizzero Charles W. F. Dumas. Ancora nel 1777 furono pubblicate due nuove edizioni, una a Basilea, con alcune osservazioni redatte a partire dai manoscritti in possesso della casa editrice, e l’altra a Neuchâtel, senza queste osservazioni, ma finalmente con una biografia dell’autore che contribuiva a gettare un po’ di luce su un personaggio fino a quel momento ancora poco conosciuto5. Sta di fatto che in seguito il lavoro di Vattel iniziò a diffondersi in molti paesi occidentali, iniziando quel percorso che lo avrebbe condotto a essere, nel giro di pochi anni, uno dei punti di riferimento fondamentali in tema di diritto delle genti. Per dare un’idea della diffusione dell’opera, si può dire che tra il 1758 e il 1863 c’erano state venti edizioni francesi di Le Droit des Gens. Per quanto riguarda le traduzioni, si può affermare che tra il 1759 e il 1834 si contarono dieci traduzioni in Inghilterra e, dal 1796 fino al 1872, diciotto traduzioni, o ri-

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In realtà, a differenza di quanto riporta Anton de Lapradelle, anche l’edizione stampata a Neuchâtel nel 1773 conteneva alcune note biografiche sulla vita dell’autore. Cfr. E. DE VATTEL, Le Droit des Gens, Nouvelle édition augmentée, revue et corrigée, Imprimerie de la Société Typographique, Neuchâtel, 1773, pp. i-v.



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stampe delle traduzioni, negli Stati Uniti6. Tra il 1820 e il 1836 ci furono sei traduzioni di Vattel in spagnolo7, una in tedesco nel 17608 e una in cinese nel 18399. Una versione italiana dell’opera di Vattel fu stampata per la prima volta a Lione nel 1781, e poi nel 1804-05 a Bologna10. In Italia, tuttavia, l’opera di Vattel non riscuoterà un grosso successo, come testimonia il fatto che questa sarebbe rimasta l’ultima edizione italiana. I dati sulla diffusione di Le Droit des Gens assumono ancora più rilievo se si considera che un autore importante come Grozio, che era stato ripubblicato o tradotto 50 volte tra il 1625 e il 1758, avrebbe visto una sola ulteriore edizione (1773) e traduzione (1853) durante i cento anni successivi alla pubblica-

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La prima traduzione inglese, a cura di un anonimo, comparve a Londra nel 1759 col titolo The Law Of Nations, or Principles of the Law Of Nature Applied to the Conduct and Affairs of Nations and Sovereigns. Cfr. la nota dei curatori sulle edizioni di Vattel in inglese in E. De VATTEL, The Law of Nations, a cura di B. KAPOSSY e R. WHATMORE, Liberty Fund, Indianapolis, 2008, pp. xxi-xxii. 7 Per un’analisi della diffusione di Le Droit des Gens in Spagna si veda: P. GUTIERREZ VEGA, Vattel, larva retracta (reception in Spain), in Y. Sandoz (a cura di), Réflexions sur l’impact, le royonnement et l’actualité du «Droit des Gens» d’Emer de Vattel, Bruylant, Bruxelles, 2010, pp. 119-125. 8 Des Herrn von Vattels Völkerrecht, oder Gründliche Anweisungen wie die Grundsätze des natürlichen Rechts auf das Betragen und auf die Angelegenheiten der Nationen und Souveräne angewendet werden müssen, traduzione e cura di J. P. SCHULIN, 2 voll., Frankfurt a.M.-Leipzig, 1760. 9 Cfr. WEIFANG HE, Vattel’s China, in Y. Sandoz (a cura di), Réflexions sur l’impact, cit., pp. 75-78. 10 L’opera fu tradotta col titolo Il diritto delle genti, ovvero Principii della legge naturale, applicati alla condotta e agli affari delle Nazioni e de’ Sovrani. Traduttore fu Lodovico Antonio LOSCHI, editrice la Tipografia de’ fratelli Masi, Bologna 1804-1808.



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La comparsa di Le Droit des Gens

zione dell’opera di Vattel – il che suggerisce che il secondo finì per sostituire il primo11.

Il successo di un testo ‘moderno’ Nonostante l’evidente successo dell’opera, non hanno mancato di levarsi voci critiche, soprattutto nei secoli successivi, all’indirizzo di Vattel. Per alcuni studiosi la fama dell’autore svizzero è in qualche modo incomprensibile, perché a parere di questi detrattori né l’uomo, né l’opera sembrerebbero degni di tale fortuna12. Le Droit des Gens, infatti, più che formulare una proposta teorico-politico-giuridica veramente nuova, si sarebbe limitato a sistematizzare le riflessioni che pensatori precedenti a Vattel avevano svolto intorno al diritto delle genti. In pratica, per alcuni studiosi Vattel sarebbe solo un epigono di Wolff e Leibniz e in nessun modo avrebbe eguagliato i livelli teorici dei suoi predecessori. In Europa, presso diversi commentatori Vattel raccoglierà giudizi tiepidi, quando non negativi, che gli imputano una certa superficialità, ambiguità o inconsistenza13. In-

11

Il confronto è tratto da A. DE LAPRADELLE, Introduction, cit., pp. lvi-lix. Per indicazioni più dettagliate si veda inoltre la lista delle traduzioni di Le Droit des Gens riportata in bibliografia. 12 F. S. RUDDY, The Acceptance of Vattel, in C. H. Alexandrowicz (a cura di), Grotian Society Papers. 1972. Studies in the history of the law of nations, Martinus Nijhoff, The Hague, 1972, p. 177. 13 Una rassegna di questi giudizi, da quelli dei giuristi Ompteda e Ward a quelli dei filosofi Kant e Bentham, si trova nell’introduzione di Peter Haggenmacher a V. CHETAIL, P. HAGGENMACHER (a cura di), Vattel’s international law in a XXIst century perspective – Le droit international de Vattel vu du XXIe siècle, Martinus Nijhoff, Leiden-Boston, 2011, pp. 4-7. In tempi odierni la critica a Vattel è stata ripresa da P. ALLOTT in The Health of



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somma, il valore intrinseco del lavoro di Vattel non sarebbe affatto proporzionato al successo ottenuto. Così si esprimeva lo studioso di diritto Van Vollenhoven: il fatto più sconfortante di tutti è che Vattel ebbe un enorme successo. L’uomo, che come pensatore non poteva reggere il confronto con Grozio, è stato così favorito dalla fortuna che la seconda fase del diritto delle genti (circa 1770-1914) può essere fatta sicuramente risalire a lui.14

Nonostante il giudizio negativo che viene formulato sull’uomo e sulla sua capacità teorica, lo stesso Van Vollenhoven – il critico più radicale, che a Vattel imputava di essere di ostacolo all’evoluzione stessa del diritto internazionale – non poteva esimersi dal constatare che, dal momento della comparsa di Le Droit des Gens fino a quello in cui lui scriveva, di fatto, la fase ‘moderna’ del diritto delle genti poteva senza dubbio passare sotto il nome di Vattel. Sembra chiaro, pertanto, che nonostante i critici di Vattel, si può tranquillamente affermare che Le Droit des Gens è un’opera la cui influenza nel mondo è stata altissima, e comunque non inferiore a quella di altre celebri opere sul diritto delle genti scritte da autori precedenti. E la prospettiva muta radicalmente se dall’Europa continentale si passa al di là dell’Atlantico. Nel 1914, l’americano Fenwick – che due anni Nations: Society and Law beyond the State, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 2002. 14 C. VAN VOLLENHOVEN, The Three Stages in the Evolution of the Law of Nations, Martinus Nijhoff, The Hague, 1919, p. 32 (mia la traduzione).



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dopo avrebbe curato un’importante edizione del Droit des Gens stampata a Washington15 – osservava: Un secolo fa nemmeno il nome di Grozio era più influente di Vattel sulle questioni relative al diritto internazionale. Il trattato di Vattel sul diritto delle genti è stato citato dai tribunali giudiziari, in discorsi davanti ad assemblee legislative, nei decreti e nella corrispondenza dei funzionari esecutivi. È stato il manuale dello studente, l’opera di riferimento dello statista e il testo da cui ha tratto ispirazione il filosofo politico. I pubblicisti ritenevano sufficiente citare l’autorità di Vattel per giustificare e asseverare in modo definitivo le loro tesi circa la condotta corretta di uno Stato nelle relazioni internazionali. 16

Le parole di Fenwick, di poco anteriori allo scoppio della Grande Guerra, testimoniano l’ampiezza dell’influenza esercitata da Vattel. È interessante notare come venga sottolineato che Il Diritto delle genti era stato in grado di ispirare sia le riflessioni filosofico-politiche – gli spazi di riflessione in cui si formano i concetti politici destinati a influenzare poi gli ambiti giuridici –, sia le sedi istituzionali e giudiziarie in cui occorre decidere sui comportamenti concreti della politica. Di fatto, l’opera dell’autore svizzero, per quasi un secolo e mezzo – rispetto a quando Fenwick scriveva – era stata considerata davve-

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E. DE VATTEL, Le Droit des Gens, a cura di C. G. Fenwick, Carnegie Institution, Washington, 1916. 16 C. G. FENWICK, The Authority of Vattel, «American Political Science Review», Vol. VII, 1914, p. 395 (mia la traduzione).



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ro un testo di riferimento per tutti i settori della società che si occupano, a più livelli, delle relazioni internazionali17. Un giudizio simile era stato già formulato a metà Ottocento dal giurista tedesco Robert Von Mohl, che ebbe modo di osservare che Vattel era considerato «come una sorta di oracolo dai diplomatici e soprattutto dai consoli»18. Ma in realtà, ancora poco prima della Seconda guerra mondiale, il celebre giurista statunitense – nonché primo giudice americano a presiedere la Corte Permanente di Giustizia Internazionale della Società delle Nazioni – John Bassett Moore affermava che Vattel era «più letto e citato di ogni altro scrittore del diritto delle genti»19. E quando si parlava di diritto delle genti prima della formazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, si intendeva, di fatto, ancora un vero e proprio diritto internazionale destinato a regolare i rapporti tra gli Stati. Nella sua celebre introduzione all’edizione del 1916 di Le Droit des Gens, Lapradelle cerca di ricostruire i motivi del successo che l’opera riscosse alla sua comparsa20. Egli sostiene

17

Uno studio approfondito e dettagliato della ricezione del Droit des Gens negli Stati Uniti, dove esso divenne manuale di riferimento per gli studi giuridici, per il potere giudiziario e per la diplomazia ufficiale, è svolto in V. CHETAIL, Vattel and the American Dream: an Inquiry into the Reception of the Law of Nations in the United States, in V. Chetail, P. Dupuy, The roots of international law – Les fondements du droit international. Liber amicorum Peter Haggenmacher, Martinus Nijhoff, Leiden, 2013, pp. 251-300, in part. 253-279. 18 Riportato in A. NUSSBAUM, A Concise History of the Law of Nations, MacMillan, New York, 1962, p. 161 (mia la traduzione). 19 J. BASSETT MOORE, The Collected Papers of John Bassett Moore, Yale University Press, New Haven, Vol. 1, 1944, p. 150 (mia la traduzione). 20 A. DE LAPRADELLE, Introduction, cit., pp. xxvii-xxxiii.



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che, quando apparve, il testo di Vattel fu collegato immediatamente alla filosofia leibniziana, molto in voga all’epoca – e l’accostamento fu verosimilmente proficuo per la fama del testo, perché Leibniz era considerato un filosofo di grandissimo valore. Inoltre, nel suo testo, Vattel era ricorso ad alcune categorie già elaborate di recente da Christian Wolff, ma a differenza di quest’ultimo egli era riuscito ad esprimere in modo chiaro quanto il filosofo tedesco aveva già teorizzato in modo complesso e spesso oscuro in testi composti da un’enorme quantità di pagine. Vattel, insomma, era riuscito a fare ciò che a molti riusciva difficile: porsi con pazienza di fronte ai testi wolffiani, ricavandone le linee teoriche principali e rendendole più chiare e accessibili. Ancora, Vattel non aveva scritto un testo in latino destinato esclusivamente ad altri studiosi, ma aveva deciso di rivolgersi direttamente a un pubblico più ampio mediante una scrittura elegante in grado di parlare con chiarezza alla gente del suo tempo e, soprattutto, a sovrani, ministri e diplomatici21. Certo – scrive Lapradelle – lo stile di Vattel non ha la forza di Montesquieu, né la nitidezza abbagliante di Rousseau, ma nondimeno egli è riuscito a tradurre in francese e in modo

21

Una tale opinione può essere ricostruita da quanto scrive nel 1768 il barone di Bielfeld: «Je voulais écrire pour un grand nombre de lecteurs, pour les princes, et pour tous ceux que leur naissance peut appeler à concourir au Gouvernement des États. Il est presque certain que l'appareil effrayant d'un système démontré par la méthode des mathématiciens les eût épouvantés et qu'ils ne m'eussent point lu. Il en seroit arrivé ce qui arrive à divers ouvrages de l'illustre Wolff, qui, malgré tout leur mérite, servent plus à orner les bibliothèques, à être consultés quelquefois au besoin en guise de dictionnaire (ju'à être lus parles gens du monde et qu'à former des philosophes)». B. BIELFELD, Supplément aux Institutions politiques, Leyde e Leipzig, 1768, Vol. 2, p. 564.



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chiaro le astrazioni tipiche del tedesco22. Vattel scrive all’epoca dell’Encyclopédie e tende inevitabilmente, a differenza di quanto poteva fare uno studioso come Grozio, a una prosa scorrevole in cui si evita di fare costante richiamo a casi tratti dal mondo classico. Certo egli non si esime dal ricorrere all’esempio di autori come Senofonte, Plutarco, Cicerone, Tito Livio e Tacito, o anche dal richiamare storici francesi come Mézeray. Ciò appare, tuttavia, quasi come un espediente stilistico che egli utilizza più per rientrare in una certa tradizione di studio che per reali esigenze di ricostruzione storica. Per esempio, Vattel segue senza dubbio lo stile di Grozio quando discute se Roma avrebbe dovuto o meno osservare l’umiliante accordo della Forche Caudine23, ma sembra analizzare più volentieri se Francesco I di Francia fosse tenuto oppure no a rispettare il trattato di Madrid24. D’altronde lo stesso Vattel scrive: «Ho preso mag-

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A. DE LAPRADELLE, Introduction, cit., pp. XXVII-XVIII. Vattel parla di questo caso in riferimento a un accordo denominato “sponsio”. «Chiamasi in latino sponsio un accordo intorno gli affari dello Stato, fatto da una persona pubblica fuor de’ termini della sua commissione e senza ordine o comandamento del Sovrano. […] La Storia Romana ci porge esempi di questa specie di accordo. Fermiamoci al più famoso, a quello delle Forche Caudine, che è stato discusso dai più illustri Autori. I Consoli Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio, veggendosi impegnati coll’esercizio Romano nelle gole delle Forche Caudine, senza speranza di salvarsi, fecero coi Sanniti un accordo ignominioso, avvertendoli nondimeno che non potevano fare un vero Trattato pubblico senza ordine del Popolo Romano, senza i feciali e le cerimonie consacrate dall’uso. […] Tentiamo, profittando de’ loro lumi, di mettere la materia nella maggiore evidenza». DG, II, § 209. 24 Sul Diritto di quelli che si vogliono smembrare. «Ma questa Provincia, o questa Città, così abbandonata e smembrata dallo Stato, non è obbligata a ricevere il nuovo perdono che si vorrebbe darle. Separata dalla società, di cui era membro, ella rientra in tutti i suoi diritti, e se le è possibile difendere la 23



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gior parte de’ miei esempi nella Storia moderna siccome i più interessanti»25. Ciò non toglie che talvolta ricorra ad autori classici servendosi della voce di autori moderni, come quando fa riferimento a Virgilio e a Tacito citando Grozio26. Essendo Vattel e Grozio i due studiosi che maggiormente hanno contribuito alla formazione di un diritto delle genti moderno, il raffronto tra i due appare quasi inevitabile. Eppure i poco più di cento anni che li separano traspaiono tutti: in Grozio si percepisce sullo sfondo il peso dell’assolutismo, mentre si nota che Vattel si muove in una sfera del potere in cui ha fatto breccia l’influenza della dottrina liberale27. Ai rigori del diritto preesistente – «feroce e crudele» lo chiama Lapradelle – Vattel oppone una concezione del diritto, anche di quello di guerra, più dolce e più «generosa»28. Lo stile adoperato dai due rispecchia fedelmente i profondi mutamenti politici che l’Europa stava attraversando nel secolo che separa i due autori. Così, mentre Grozio ancora si rivolge ai sovrani per adularli, Vattel invece rivendica per sé il principio della libertà quale sua libertà contro chi volesse sottometterla ella gli resiste legittimamente. Essendosi Francesco I Re di Francia obbligato col Trattato di Madrid a cedere il Ducato di Borgogna all’Imperatore Carlo V, gli Stati di quella Provincia dichiararono “che non essendo mai stati sudditi che della Corona di Francia, sarebbero morti sotto questa ubbidienza; e che se il Re li abbandonasse, prenderebbero le armi e si sforzerebbero di rendersi liberi piuttosto che passare sotto un’altra soggezione”». DG, I, § 264. 25 DG, Prefazione, p. xv. 26 «La guerra diverrebbe troppo crudele e troppo funesta, se ogni commercio fosse assolutamente interrotto tra le Nazioni. Rimangono ancora, secondo le osservazioni di Grozio, commercii di guerra, siccome da Virgilio e da Tacito sono chiamati». DG, III, §233. 27 A. DE LAPRADELLE, Introduction, cit., p. xxviii. 28 Ibidem.



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termine di riferimento del suo pensiero, come si coglie anche leggendo queste parole al termine della sua Prefazione: Mi appiglierei al partito del silenzio, se non potessi ne' miei scritti i lumi seguitare della mia coscienza. Ma non vi ha cosa che ritenga la mia penna, ne io sono capace di prostituirla all' adulazione. Nato io sono in un paese, di cui la libertà è l'anima, il tesoro, e la Legge fondamentale; possa essere ancora per la mia nascita l' amico di tutte le Nazioni. Queste propizie circostanze hannomi animato a tentare di rendermi utile agli uomini con quest'Opera.29

Il successo delle edizioni di Vattel rispetto a quelle di Grozio, quindi, è legato principalmente al fatto che l’autore svizzero esprime lo spirito del suo tempo attraverso uno stile ‘moderno’, in cui il richiamo alla libertà entra in risonanza con le istanze politiche che in sempre più Paesi europei molti pensatori andavano professando, contribuendo alla trasformazione del quadro storico-politico.

Le influenze inglesi Non era stato casuale, per tanto, che Vattel avesse fatto pubblicare la prima edizione di Le Droit des Gens proprio a Londra, così come non sarebbe stato un caso che proprio in quel Paese il testo avrebbe riscosso tanta fortuna – la prima tra-

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DG, Prefazione, p. xvi.



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duzione inglese, come già ricordato, apparve nella capitale britannica nel 1759 col titolo di Law of Nations30. L’Inghilterra è per lui una Nazione illustre che riesce con sorprendente abilità a promuovere tutte le attività necessarie per rendere lo Stato più forte, ricco e potente. Dalla sfera economica alla sfera politica, tutto dell’Inghilterra, per Vattel, è fonte di ammirazione: Questa illustre Nazione si distingue in una maniera luminosa colla sua applicazione a tutto ciò che può rendere florido lo Stato. Una mirabile Costituzione vi pone ogni Cittadino in istato di concorrenza a questo gran fine, e diffonde per ogni dove quello spirito di patriottismo che si occupa con zelo del pubblico bene. […] I Grandi e i Rappresentanti del Popolo formano un vincolo di confidenza tra il Monarca e la Nazione e cooperano con lui a tutto ciò che conviene al ben pubblico. […] Ogni buon Cittadino vede che la forza dello Stato è veramente il bene di tutti e non quello di uno solo. Beata Costituzione!31

E ancora, in un altro capitolo, egli si compiace nel vedere l’atteggiamento del Re nei confronti dei diversi organi politici:

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Il frontespizio riportava: The law of nations; or, Principles of the law of nature applied to the conduct and affairs of nations and sovereigns. By M. de Vattel, con un sottotitolo originale: A work tending to display the true interest of powers, Printed for John Coote, London, 1759. Il sottotitolo aggiuntivo suggerisce l’idea che anche le nazioni, come gli individui, potessero arrivare alla felicità attraverso una concezione illuminata dell’interesse particolare, che tenesse in debito conto l’interesse delle altre nazioni (cfr. l’introduzione dei curatori a E. de VATTEL, The Law of Nations, cit., p. xvi). 31 DG, I, § 24.



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Quanto è bello il vedere un Re d’Inghilterra render conto al suo Parlamento delle sue principali operazioni, assicurare questo Corpo rappresentativo della Nazione ch’egli altro scopo non si propone che la gloria de lo Stato e la felicità del suo Popolo, e ringraziare affettuosamente tutti quelli che seco lui concorrono a mire sì salutari! 32

È ancora dagli esempi inglesi del 1688 e del 1701 – anni cui fu cambiato l’ordine della successione al trono – che Vattel deduce il principio per cui è possibile per ogni altra Nazione comportarsi allo stesso modo33. Non mancano, chiaramente, divergenze di opinione nei confronti di alcuni orientamenti politici tenuti dalla Gran Bretagna, come quando egli considera la dichiarazione pubblica di guerra come una condizione necessaria per ritenere una guerra legittima34. Ma per il resto, le posizioni di Vattel sono quasi sempre perfettamente aderenti ai comportamenti inglesi, come quando, in riferimento a un caso di controversia tra il Re di Prussia il sovrano inglese, non esita a dare ragione a quest’ultimo:

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DG, I, § 39. La Nazione può cambiare l’ordine di successione: «Rimane però costante che in tutti i casi la successione non è stabilita o ricevuta che in vista del bene pubblico e della comune salute. Se accadesse dunque che l’ordine stabilito a tal uopo diventasse distruttivo dello Stato, la Nazione avrebbe certamente il diritto di cangiarlo con una nuova legge. Salus popoli suprema lex, la salute del Popolo è la legge suprema; e questa Legge è della più esatta giustizia, non essendosi il Popolo legato co’ vincoli della Società se non in vista della sua salute e del suo maggiore vantaggio». DG, I, § 61. 34 DG, III, § 56. 33



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L’impero unito al Dominio stabilisce la giurisdizione della Nazione nel paese che le appartiene nel suo territorio. […] Le altre Nazioni rispettare debbono un tal Diritto. […] Il Principe non dee dunque intervenire nelle cause dei sudditi suoi in paese straniero e loro accordare la protezione, che nei casi di negata giustizia, o di una ingiustizia evidente e palpabile, o di una violazione manifesta delle regole e delle forme, o finalmente di una dichiarazione odiosa fatta in pregiudizio de’ sudditi suoi o degli stranieri in generale. La Corte d’Inghilterra ha stabilito questa massima con molta evidenza in occasione de’ vascelli Prussiani presi e dichiarati di buona preda nell’ultima guerra. 35

Ancora, Vattel approva la decisione dell’Inghilterra di aver fatto guerra per due volte a Luigi XIV di Francia: la prima, «perché sosteneva gli interessi di Giacomo II» al trono, il quale era stato invece «deposto in modo formale dalla Nazione»; la seconda, perché egli appoggiava le aspirazioni al trono di Giacomo III, figlio del re deposto durante la Gloriosa rivoluzione. Argomenta Vattel: Ma chi giudicherà se un Re sia legittimamente spogliato o per violenza? Alcun giudice non si riconosce da una Nazione indipendente. Se il corpo della Nazione dichiara il Re scaduto del suo diritto per l’abuso, che ha voluto farne, e lo depone, può farlo con giustizia, quando sono fondate le sue querele, e non appartiene ad alcun’altra Potenza il giudicarne.36

35 36

DG, II, § 84. DG, II, § 196.



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Insomma, si può dire che Vattel seguisse la tendenza molto diffusa in quegli anni di vedere l’Inghilterra come un modello politico-istituzionale a cui fare riferimento nello sviluppo delle teorie politiche continentali. Una tale prospettiva politica, però, non poteva che includere anche una riflessione sulla sfera economica, sul modello di politica commerciale che l’Inghilterra così chiaramente professava e che in modo tanto stretto si legava alla sfera politica tout court. Come ha osservato Mastellone: «Con la fine della preponderanza politica francese, e con la crisi del sistema mercantile olandese, l’Inghilterra assunse in Europa nel Settecento un ruolo dominante, a causa del predominio marittimo e dell’espansione coloniale; ormai le grandi correnti commerciali avevano il loro centro in Inghilterra, e da qui i prodotti d’oltreoceano venivano inviati nei diversi porti europei, dal Baltico al Mediterraneo.»37 Di fatto, l’Inghilterra nel Settecento era diventata un vero modello per molti intellettuali di orientamento liberale e non solo. Sembrava che l’Inghilterra riuscisse a raggiungere i massimi livelli in tutti i campi della società. La ricerca scientifica, per esempio, era sicuramente uno degli aspetti più lampanti di questo successo. La Royal Society di Londra era divenuta una vera fonte d’ispirazione per molti studiosi europei, riuscendo a dettare l’agenda scientifica dell’epoca grazie agli elevati risultati raggiunti dai suoi scienziati. Basti ricordare che, nel 1703, Isaac Newton fu nominato presidente della Royal Society, contribuendo a dotare di ancora maggior prestigio un’istituzione già di per sé solidissima. Ancora, i giornali erano ormai diven-

37

S. MASTELLONE, Storia del pensiero politico europeo: dal XV al XVIII secolo, UTET, Torino, 2007, p. 163.



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tati gli strumenti attraverso i quali discutere dei problemi del Paese. Lo Spectator aveva avviato una nuova fase nello sviluppo della sfera pubblica facendo incontrare le opinioni che nobili di campagna, rappresentanti dei ceti mercantili, ufficiali dell’esercito e uomini alla modo avrebbero potuto scambiarsi nelle coffee-houses1. La «anglomania del secolo XVIII»38 era un fenomeno diffuso in tutta Europa anche perché l’Inghilterra era vista come un esempio di intesa sociale. Ma ciò che più colpiva dell’Inghilterra era, forse, il cambio di mentalità che in quel Paese si era verificato. Esemplare, da questo punto di vista è una delle Lettere inglesi scritta da Voltaire nel 1733: Il commercio, che ha arricchito i cittadini inglesi, ha contribuito a renderli liberi, e questa libertà ha sviluppato a sua volta il commercio; così si e formata la grandezza dello Stato. [...] Tutto ciò ispira a un mercante inglese un giusto orgoglio, e fa sì ch’egli osi paragonarsi, non senza qualche ragione, a un cittadino romano. Perciò il secondogenito di un Pari del regno non disdegna il commercio. [...] In Francia è marchese chiunque lo voglia; e chiunque giunga a Parigi dal fondo d’una provincia con denaro da spendere e un nome in “ac” o in “ille”, può dire “un uomo come me, un uomo della mia qualità”, e disprezzare sovranamente un commerciante; questi a sua volta sente parlare così spesso della sua professione con disprezzo, ch’è tanto sciocco da arrossirne. Eppure io non so chi sia più utile a uno Stato, se un signore bene incipriato che

38

Cfr. in riferimento all’influenza inglese nel campo letterario A. GRAF, L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII, Loescher, Torino, 1911.



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sa con precisione a che ora il re si alza e a che ora si corica, e che si dà arie di grandezza facendo la parte dello schiavo nell’anticamera d’un ministro, oppure un commerciante che arricchisce il proprio paese, impartisce dal proprio banco ordini a Surat e al Cairo, e contribuisce al benessere del mondo.39

È chiaro che, seguendo le orme di illustri intellettuali come Voltaire, Vattel si inseriva in una tradizione di pensiero critico nei confronti dell’Ancient Régime e di tutta quella dimensione sociale e politica di cui quel mondo si faceva portatore40. Anche Montesquieu con il suo Esprit des lois aveva con-

39

VOLTAIRE, Dixième Lettre: Sur le commerce, in ID., Lettres philosophiques, Blackmask Online, 2001 (mia la traduzione in italiano ; per l’edizione italiana si veda VOLTAIRE, Lettere filosofiche, a cura di Giancarlo Pavanello, SE, Milano, 1987). 40 Per dare il senso del clima intellettuale dell’epoca in riferimento all’influenza inglese, molto sommariamente si può ricordare che in Francia nel 1734 Jean François Melon scrisse gli Essai politiques sur le commerce, in cui delineava una politica economica di tipo inglese sostenendo la necessità di una separazione tra economia ed etica per favorire lo sviluppo economico, poiché è l’interesse a reggere la società. Inoltre egli sosteneva che era il commercio che consentiva a una nazione di diventare potente, non trascurando di promuovere anche una politica colonialista di stampo britannico per ampliare la potenza dello Stato. In Prussia, Justus Christoph Dithmar, professore di cameralistica a Francoforte, nel 1729 contribuì a far nascere il primo giornale economico tedesco, «Ökonomische Fama», e ancora pubblicò nel 1731 un testo intitolato Einleitung in die Oekonomische Policey und Cameral-Wissenschaften, in cui collegava l’autorità dello Stato alla solidità del sistema economico (Cfr. P. SCHIERA, Il cameralismo e l’assolutismo tedesco, Giuffrè, Milano, 1968). Antonio Genovesi, poi, portò nel Regno di Napoli di Carlo di Borbone una ventata di novità con le sue idee sulle politiche economiche in riferimento ai problemi mercantili. Fece inoltre pubblicare nel 1757 la Storia del commercio in Gran Bretagna di John Cary.



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tribuito nel 1748 a celebrare l’Inghilterra e il suo ordinamento politico basato sugli equilibri delle forze degli organi istituzionali e sulla vitalità dei corpi intermedi. Vattel, tuttavia, sviluppa ancora oltre la lettura positiva del modello e del ruolo dell’Inghilterra in Europa: l’isola, ai suoi occhi, non era solo una comunità politica ben bilanciata al suo interno, ma anche un fattore importante per l’equilibrio complessivo europeo. La dottrina inglese del libero commercio spingeva Londra a farsi garante della sopravvivenza dei piccoli e medi Stati, e quindi a contrastare i tentativi egemonici della Francia sul continente: è anche per l’indipendenza della sua Svizzera e dei principati tedeschi che Vattel, nella guerra dei Sette anni e dopo, fa affidamento sull’Inghilterra41. Forse è anche grazie alla chiara porosità di Vattel nei confronti del mondo anglosassone che quest’ultimo ripagherà l’autore svizzero conferendogli chiara fama e riconoscendolo come uno dei pensatori che meglio era riuscito a delineare le regole di condotta che avrebbero dovuto seguire gli Stati europei – ovvero quelli appartenenti alla «società delle nazioni»42. L’influenza di Vattel in Inghilterra è facilmente intuibile da quanto scritto dal giudice e giurista britannico Sir William Scott:

41

Cfr. per la lettura vatteliana delle relazioni internazionali del Settecento, con particolare riferimento all’Inghilterra, R. WHATMORE, Vattel, Britain and Peace in Europe, in «Grotiana», 31, 2010, pp. 85-107, e ancora, sull’idea del commercio e dell’equilibrio di potenza come mutualmente rafforzantesi, I. NAKHIMOVSKY, Vattel’s Theory of the International Order: Commerce and the Balance of Power in the Law of Nations, «History of European Ideas», 33, 2007, pp. 157-173. 42 DG, Preliminari, § 12.



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Per questa prova [il diritto di condannare navi neutrali che resistono alla perquisizione], mi è sufficiente fare riferimento solo a Vattel, uno dei più corretti e certamente non il meno indulgente dei professori moderni di diritto pubblico internazionale […]. Vattel va qui considerato non in qualità di avvocato chiamato a fornire un parere, ma come testimone di un fatto – il fatto che questa è la prassi esistente dell’Europa moderna… Vattel [è] il miglior scrittore recente su tali questioni [di contrabbando].43

Ben presto anche in Inghilterra il testo di Vattel diviene il riferimento teorico a cui rivolgersi per chiarire dubbi e incertezze in casi controversi relativi al diritto internazionale. È attestato che il Droit des gens, già nella prima metà dell’Ottocento, era diventato un manuale assai consultato dai diplomatici del Foreign Office, e che i politici britannici lo citavano nei loro scritti e discorsi davanti al parlamento con uno spirito di ammirazione non inferiore a quello dei loro omologhi americani44. Una testimonianza autorevole è quella del giurista e comparatista inglese John Westlake (1828-1913), secondo cui la dottrina di Vattel aveva il merito di aderire realisticamente alla prassi degli Stati, e costituiva un ponte tra la filosofia e la pratica, tra i dettami della ragione e quelli della consuetudine:

43

Citazione riportata in C. G. FENWICK, The Authority of Vattel, cit., pp. 406407 (mia la traduzione). 44 Secondo quanto riferisce F. H. HINSLEY, Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, pp. 200-201, cit. in Fiocchi Malaspina, cit., p. 746 n. 53.



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I suoi principi filosofici sono quelli di Wolff, di cui Vattel fu un grande, ma non servile, ammiratore, ma il suo merito principale risiede nel versante pratico. La sua opera espone il diritto delle genti quale esso era in vigore, con una esaustività della quale non c’erano precedenti, compresi quei problemi che si erano accresciuti dopo Grozio o sui quali Grozio non si era intrattenuto, e sui quali Wolff aveva poco o nulla da dire; e lo fa dal punto di vista dell’uomo versato negli affari pratici, esperto delle consuetudini che avevano preso forma a partire dalla Pace di Vestfalia, delle quali egli riconosceva tutto il valore. La sua reputazione fu dunque tanto ben meritata quanto immediata, e la sua opera avrà duratura importanza nello studio del diritto internazionale, quale il punto focale in cui la scuola della ragione e la scuola della consuetudine furono per la prima volta combinate insieme, e a partire dal quale si può anche tracciare la loro successiva divergenza. 45

Vattel e i Padri fondatori degli Stati Uniti Un discorso a parte merita la diffusione di Le Droit des Gens negli Stati Uniti d’America, dove Vattel in breve tempo

45

Cfr. JOHN WESTLAKE, The collected papers of John Westlake on public international law, a cura di L. Oppenheim, 1914 (ristampa per Cambridge University Press, Cambridge, 2014), pp. 76-77 (mia la traduzione). Oltremanica, nel secondo dopoguerra Vattel sarebbe stato anche riscoperto dalla “English school of international relations”, indirizzo di teoria politica attento ai classici del diritto e delle dottrine politiche. Si veda per un’introduzione A. HURRELL , Vattel: Pluralism and its Limits, in I. CLARK e I. B. NEUMANN (a cura di), Classical theories of international relations, St. Martin’s Press, New York, 1996, pp. 233-255.



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divenne uno degli autori europei più letti e consultati46. Una copia dell’edizione francese pubblicata a Leiden nel 1758 arrivò nella biblioteca di Harvard già nel 1763, seguita, sempre nella stessa biblioteca, nel 1773, dalla traduzione inglese pubblicata a Londra nel 175947. Ma, in realtà, l’edizione che maggiormente inciderà sulla storia degli Stati Uniti sarà quella in francese fatta stampare a Amsterdam da Charles Guillaume Frédéric Dumas, «pubblicista svizzero ardente repubblicano, strettamente legato agli insorti d’America»48. Proprio il fervore repubblicano dell’editore svizzero fece sì che egli stringesse un’amicizia epistolare con Benjamin Franklin durante la Rivoluzione Americana, in nome della quale il politico statunitense, attraverso il Committee of Correspondence da lui presieduto, fece riconoscere a Dumas lo status di agente segreto a tutela degli interessi delle tredici colonie. Sta di fatto che, in uno degli scambi epistolari tra i due, Dumas fece pervenire a Franklin tre copie di Le Droit des Gens, una delle quali fu data dal destinatario alla Library Company of Philadelphia49 e, a suo dire, fu

46

Per studi recenti sulla ricezione di Vattel in Nord America si vada, oltre al saggio di V. CHETAIL, Vattel and the American Dream, cit.; W. OSSIPOW e D. GERBER, La réception du Droit des gens (1758) d’Emer de Vattel aux EtatsUnits: résultats d’une recherche et quelques expériences méthodologiques avec le concept d’autorité textuelle, in Y. SANDOZ (a cura di), Réflexions sur l’impact, le rayonnement et l’actualité du «Droit des gens» d’Emer de Vattel, Bruxelles, Bruylant, 2010, pp. 79-118. 47 COLONIAL SOCIETY OF MASSACHUSETTS, Publications of the Colonial Society of Massachusetts, Transactions 1917-1919, Vol. XXI, 1920, p. 5. 48 F. WHARTON, The Revolutionary Diplomatic Correspondence, Government Printing Office, Washington, 1889, II, p. 64 [mia la traduzione]. 49 Una prova della donazione è riscontrabile già in un catalogo dei libri appartenenti alla biblioteca redatto per la prima volta nel 1789, in cui si legge: «Vattel, De, 202, Q. Le Droit des Gens par M. De Vattel. Amsterdam,



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molto consultata dai delegati durante il Primo Congresso Continentale tenutosi nella Carpenters’ Hall di Philadelphia – dove i delegati si erano riuniti per discutere quali azioni intraprendere in seguito agli Intolerable Acts deliberati dal Parlamento britannico50. In una lettera del 9 dicembre 1775, riferendosi al regalo che Dumas gli aveva fatto, Franklin scrisse: «Ci è giunto al momento giusto, quando le circostanze legate alla nascita di un nuovo Stato rendono necessario consultare spesso The Law of Nations. [...] È stato sempre nelle mani dei membri del nostro Congresso ora riunito»51. Ed è proprio riflettendo sul regalo di Dumas che la Colonial Society of Massachusetts osservava: In merito a quei tre libri, che sono arrivati qui nelle prime fasi della lotta fra le colonie e la madrepatria, 1775. Gift of Mr. Dumas», cfr. LIBRARY COMPANY OF PHILADELPHIA, A Catalogue of the Books Belonging to the Library Company of Philadelphia, Bartram & Reynolds, Philadelphia, 1807, p. 275. 50 In merito a questo episodio c’è un irrisolvibile caso di incompatibilità cronologica. La circostanza della consultazione dell’opera di Vattel è riportata in COLONIAL SOCIETY OF MASSACHUSETTS, Publications of the Colonial Society of Massachusetts, Transactions 1917-1919, cit., p. 6 e ripresa anche da E. BRIMMER, Le Droit de Gens and the Independence of the United States, cit. Sappiamo, inoltre, che effettivamente la Library Company of Philadelphia registrò l’avvenuta donazione da parte di Dumas di una copia di Le Droit des Gens pubblicato ad Amsterdam nel 1775 (cfr. supra nota precedente). L’incongruenza sta nel fatto che il Primo congresso continentale si tenne a Philadelphia il 5 settembre 1774! Tra questo evento e la pubblicazione dell’edizione di Amsterdam c’è qualche mese di differenza. È ipotizzabile che l’edizione di Amsterdam, pertanto, sia stata stampata, in realtà, già nel 1774, riportando invece sul frontespizio la data del 1775. 51 Riportato in F. WHARTON, The Revolutionary Diplomatic Correspondence, cit., p. 64 (mia la traduzione).



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essi non solo hanno influenzato gli uomini che sedevano al Congresso Continentale dando forma alla nostra politica verso la Gran Bretagna, ma senza dubbio hanno anche influenzato i Padri della Costituzione Federale nella scrittura di alcune parti del testo.52

Di fatto, il libro di Vattel circolava ampiamente presso tutti gli ambienti intellettuali delle Colonie. Qui, al momento della rivoluzione, la sua autorità poteva dirsi consolidata, e già nel 1764 James Otis, nel suo celebre pamphlet anti-britannico, aveva citato Vattel contro il potere coloniale della madrepatria53. Non faceva neanche grossa differenza il fatto che il testo fosse in francese o in inglese, dato il poliglottismo di molti degli uomini politici dell’epoca. Thomas Jefferson, per esempio, possedeva sicuramente una copia in francese del testo di Vattel: copia che dopo intense consultazioni donò alla Library of Congress54. È indubbio che Le Droit des Gents lo avesse ispirato. Quando, in veste di Segretario di Stato, Jefferson scrisse al Ministro francese Edmond-Charles Gênet per spiegare le motivazioni che spingevano gli Stati Uniti d’America a non interveni-

52

COLONIAL SOCIETY OF MASSACHUSETTS, Publications of the Colonial Society of Massachusetts, Transactions 1917-1919, cit., p. 9 (mia la traduzione). 53 J. OTIS, The Rights of the British Colonies Asserted and Proved (1764), in B. Bailyn (a cura di), Pamphlets of the American Revolution: 1750-1776, Cambridge, Belknap, 1965, p. 408, cit. in V. CHETAIL, Vattel and the American Dream, cit., p. 254. 54 E. BRIMMER, Le Droit de Gens and the Independence of the United States, cit., p. 38.



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re nella guerra tra Francia e Inghilterra, egli attinse proprio alla nozione vatteliana di neutralità degli Stati55. È stato osservato che nessuna élite politica, nella storia degli Stati Uniti, sarebbe stata più avvertita dell’importanza del diritto internazionale di quanto lo furono i Padri fondatori56. Si è già visto come, secondo Franklin, il trattato di Vattel fosse arrivato al momento giusto nella lotta della nuova repubblica per l’indipendenza: i rivoluzionari americani videro in Vattel l’autore adatto per giustificare un nuovo ordine giuridico internazionale, in cui i rapporti di sudditanza fossero sostituiti da altri di uguaglianza, e da obblighi fondati sul consenso mediante trattati57. Vincent Chetail ha cercato di riassumere i motivi della fortuna di Vattel osservando che il trattato dello svizzero

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C. G. FENWICK, International Law, Appleton-Century-Crofts, New York, 1965, p. 743. È possibile trovare una copia della corrispondenza di Thomas Jefferson alla seguente pagina web della Library of Congress: http://memory.loc.gov/ammem/collections/jefferson_papers/mtjtime3b.html. Vattel dedicò al tema della neutralità tutto il VII capitolo del III libro, intitolato Della neutralità e delle truppe in paese neutrale. Sull’argomento cfr. anche S. OETER, Neutrality and alliances, in V. Chetail - P. Haggenmacher (a cura di), Vattel’s International Law in a XXIst Century Perspective, Martinus Nijhoff, Leiden, 2011, pp. 335-352. 56 Così M. W. JANIS, America and the law of nations 1776-1939, Oxford-New York, Oxford University Press, 2010, pp. 24-25. 57 Cfr. quanto hanno detto Peter e Nicholas ONUF sulla fiducia riposta dagli Americani nei trattati di diritto internazionale: «the Americans, given their frustrating experience in the empire, naturally predicated the vindication of their rights on just such conspicuous public confirmations. As enthusiastic Vattelians, they believed that a lawful world order was grounded in the voluntary acts of sovereign equals» (Federal Union, Modern World: The Law of Nations in an Age of Revolution 1776-1814, Madison, Madison House, 1993, p. 113, cit. in M. W. JANIS, America and the law of nations, cit., p. 33).



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sembrava essere concepito proprio per aiutare i governanti di una nazione giovane e inesperta, e che i Padri fondatori, «come in uno specchio seducente», vi videro riflesse e avvalorate le loro stesse idee sul diritto naturale e sui principi fondamentali del governo, di politica sia interna sia estera, quali furono espressi nella Dichiarazione d’Indipendenza58. Le corrispondenze tra Vattel e il pensiero politico nordamericano non sono infatti poche. Secondo Forest McDonald, la stessa idea di felicità usata da Jefferson nella Dichiarazione di Indipendenza, nonostante le sue assonanze aristoteliche59, non proveniva tanto dalla riscoperta dei classici avvenuta nel corso del Diciottesimo secolo, quanto dall’idea di diritto naturale promossa da Burlamaqui e, appunto, da Vattel60. E proprio sul tema della felicità può essere interessante mettere a confronto un brano del Diritto delle Genti con la Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776. Scrive infatti Vattel: Un savio conduttore dello Stato troverà ne’ fini della Civile Società la regola e la indicazione generale de’ suoi doveri. La società è stabilita colla mira di procurare a quelli, che ne sono membri, le necessità, le co-

58

V. CHETAIL, op. cit., in part. p. 259. Cfr. ARISTOTELE, Etica nicomachea, trad. di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano, 1993, I, 7, 1097a7 - 1098b8. 60 F. MCDONALD, Novus Ordo Seclorum: The Intellectual Origins of the Constitution, University Press of Kansas, Kansas, 1985, p. x. Secondo un’altra ricostruzione, l’idea della ricerca della felicità individuale, mediata da Vattel, proverrebbe da Leibniz: cfr. R. TROUT, Life, liberty and the pursuit of happiness: How the natural law concept of Leibniz inspired America’s founding fathers, in «Fidelio Magazine», VI, 1997, http://www.schillerinstitute.org/fid_97-01/971_vattel.html. 59



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modità ed anche i piaceri della vita, ed in generale tutto ciò che necessario è alla loro felicità; di far per modo che ciascuno possa godere tranquillamente del suo ed ottenere giustizia con sicurezza; finalmente di schernirsi insieme contro ogni esterna violenza. La Nazione, ovvero il suo conduttore, si applicherà dunque primariamente a provvedere ai bisogni del Popolo, a far regnare nello Stato una felice abbondanza di tutte le cose necessarie alla vita, ancora de’ comodi de’ piaceri innocenti e lodevoli.61

Leggiamo ora questo brano iniziale della Dichiarazione di Indipendenza: Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità [pursuit of Happiness]; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità.62

61

DG, I, § 72. Dalla trascrizione dall’originale ricavata dal sito web governativo “The Charters of Freedom”, http://www.archives.gov/exhibits/charters/declaration_transcript.html (mia la traduzione). 62



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Sebbene si possano chiaramente sentire gli echi della concezione lockiana di felicità63, il collegamento tra legittimità del potere politico e capacità di rendere il popolo felice è un dato tipico dell’articolazione vatteliana. Anche Alexander Hamilton, un altro dei Padri fondatori degli Stati Uniti che lesse e fu influenzato da Emer de Vattel, fu ispirato dalla concezione vatteliana secondo cui il fine ultimo dell’essere umano è la felicità, e secondo cui di conseguenza le leggi devono essere fatte per condurre l’uomo a questo fine64. È noto, infine, che anche George Washington possedeva una copia di The Law of Nations, e che ne fu ampiamente ispirato65. C’è un altro piano, tuttavia, oltre a quello del pensiero politico, sul quale Vattel assume immediatamente grande autorevolezza negli Stati Uniti, ed è quello giuridico. Jesse Reeves, analizzando l’influenza di Vattel negli Stati Uniti, ha osservato che, se prima della Rivoluzione Americana Grozio, Pufendorf e

63

Il riferimento è all’espressione «pursuit of happiness», usata da Locke e ripresa nella Dichiarazione di Indipendenza. Cfr. J. LOCKE, Essay Concerning Human Understanding (1690), Tegg and Son, London, 1836, Libro 2, pp. 166 e sg. 64 P. R. DE HART, Uncovering the Constitution’s Moral Design, University of Missouri Press, Columbia, 2007, p. 21, nota 59. 65 Sulla questione della copia di The Law of Nations posseduta da George Washington c’è stata una simpatica querelle di natura bibliotecaria. Sembra che l’8 ottobre 1789 il Presidente degli Stati Uniti, pochi mesi dopo l’inizio del suo mandato, prese in prestito una copia dell’opera di Vattel presso la New York Society Library. Questa fu restituita alla biblioteca solo il 20 maggio 2010, ovvero 221 anni dopo. Il caso è stato riportato da alcuni giornali statunitensi. Si veda: George Washington’s 221-year overdue library book: A timeline, «The Week», May 21 2010 (reperibile online: http://theweek.com/article/index/203282/george-washingtons-221-yearoverdue-library-book-a-timeline).



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Vattel erano citati in maniera pressoché uguale dai giuristi statunitensi, dopo la Rivoluzione Vattel divenne di gran lunga l’autore più citato, rivelando che il pensatore svizzero era divenuto, all’epoca, l’autore del Vecchio continente più popolare nonché uno dei più autorevoli66. Come si evince dallo studio di Nussbaum, negli Stati Uniti Vattel è spesso citato in ambito giuridico quale fonte d’indirizzo della giurisprudenza nazionale e internazionale, mentre lo è meno dagli studiosi di teoria politica in senso stretto67. Sin dal primo momento, dunque, l’opera di Vattel, per la sua caratteristica di ricostruire minuziosamente i vari casi di studio e di suggerire il modo in cui ci si dovrebbe comportare secondo i principi del diritto delle genti moderno, diviene un testo da consultare da parte degli organi giudiziari in cerca di indirizzo per formulare una sentenza o un parere. E l’autorità di Vattel non si limitava al solo campo degli affari internazionali, ma si estendeva alle questioni interne: ad esempio, nel 1857, il giurista svizzero fu richiamato nell’importante sentenza sul caso Dred Scott vs. Sandford, relativo alla schiavitù.

66

J. REEVES, The Influence of the Law of Nature upon International Law in the United States, «American Journal of International Law», Washington, 1909, Vol. III, p. 549. 67

Citati in Citati dal Citazioni dal Suppliche Tribunale Tribunale Grozio 16 11 2 Pufendorf 9 4 8 Bynkershoek 25 16 2 Vattel 92 38 22 Numero di citazioni dedicate ai quattro pensatori nel contesto statunitense tra il 1789 e il 1820 (riportate da A. NUSSBAUM, A Concise History of the Law of Nations, MacMillan, New York, 1962, p. 162).



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Qui uno dei giudici della maggioranza, Peter Daniel, si servì della nozione di persona giuridica contraente del patto sociale, rinvenuta in Vattel, per negare agli afro-americani pari diritti politici; e ciò nonostante che Vattel, e gli altri maestri di diritto internazionale, nel dibattito dell’epoca fossero generalmente interpretati come contrari all’istituto della schiavitù68. Questa prassi contribuisce significativamente a spostare Vattel nel novero degli autori in grado di ispirare non solo la teoria politica ma anche la teoria giuridica, divenendo col tempo, anzi, sempre più influente in quest’ultimo campo. Quando, nel 1779, fu chiamato a dar vita al corso di «Law of Nature and of Nations» al William and Mary College, Thomas Jefferson adottò Vattel come manuale: scelta che fu rispettata fino al 1841. A Vattel ricorse anche un altro dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, James Wilson, nel 1790, per le sue lezioni di giurisprudenza, che fornirono «la prima presentazione americana dei principi del diritto di natura e delle genti»69. In conclusione, l’associazione di Vattel con l’ascesa degli Stati Uniti come nuova nazione indipendente ha contribuito a che l’autore venisse talvolta interpretato come un precursore dell’età delle rivoluzioni, e come un repubblicano radicale70.

68

Cfr. la discussione della schiavitù di M. W. JANIS in America and the law of nations, cit., cap. 5, e qui in particolare sul caso Dred Scott vs. Sanford le pp. 105-106. 69 J. REEVES, op. cit., pp. 552-553, nota 9. 70 In questa linea interpretativa si segnala lo studio di Nicholas ONUF, Civitas maxima: Wolff, Vattel and the Fate of Republicanism, in «The American Journal of International Law», 88 (1994), n. 2, pp. 280-303, poi in ID., International legal theory: essays and engagements, Routledge, New York, 2008.



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Per quanto il testo di Vattel, con le sue idee sul contratto sociale, sulla sovranità nazionale e sul diritto di resistenza si sia prestato a una pratica politica rivoluzionaria, Vincent Chetail indica ragioni convincenti per usare cautela verso questa tesi. Vattel era uno scrittore moderato e pieno di sfumature, che riteneva egualmente legittime tanto le democrazie, quanto le repubbliche aristocratiche, quanto le monarchie del suo tempo; e fonte di ambiguità è stata la sua confusione dei concetti di Nazione e di Stato, per la quale Vattel sembra talvolta conferire nuovi diritti politici alla prima, quando invece continua a muoversi in una concezione più tradizionale del secondo71.

Sulla ricezione di Vattel in Europa Gli Stati Uniti sono dunque il Paese che sicuramente di più ha contribuito a rendere Vattel un pensatore di fama internazionale. Come ha osservato Lapradelle, in Europa la ricezione di Vattel fu decisamente più contenuta, a partire proprio dalla Francia, dove esso finì con l’essere associato a orientamenti conservatori e superati del diritto internazionale72. Anche in Germania Vattel, dopo essere stato immediatamente tradotto (nel 1760), fu criticato come superficiale e giudicato un mero volgarizzatore di Wolff da Ompteda, e successivamente messo

71

Seguo qui V. CHETAIL, Vattel and the American Dream, cit., pp. 283-286. Sul rapporto tra nazione e stato in Vattel cfr. infra, cap. III. 72 Cfr. A. DE LAPRADELLE, Introduction, cit., p. xxxviii, e il giudizio influente del giurista George SCELLE nel suo Manuel de droit international public, Paris, Montchrestien, 1948, p. 44, in cui Vattel è definito “il principe dei positivisti”, e associato a un diritto statocentrico (cit. da CHETAIL, op. cit., p. 299).



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in ombra dalle opere di altri giuristi come Martens, Heffter, Bluntschli, Gagern e Kaltenborn73. Tra i filosofi pesò il giudizio negativo di Kant, che parla di Vattel, insieme a Grozio e Pufendorf, come dei “tristi consolatori” che si rassegnavano all’inevitabilità della guerra, nel suo scritto Per la pace perpetua74. In Spagna, Vattel non godette di particolare considerazione . La stessa osservazione sicuramente vale anche per l’Italia, dove Vattel sarà sostanzialmente trascurato, tanto da non ricevere più alcuna traduzione dopo il 1805. Emblematico il giudizio con cui inizia la voce a lui dedicata in un dizionario di scrittori illustri dell’epoca: «pubblicista più celebre che stimato»76. E, tuttavia, nel Settecento Riformatore di Franco Venturi in alcuni punti emerge il nome del pensatore svizzero. In una parte del libro dove Venturi ricostruisce il dibattito settecentesco circa il modo in cui bisognerebbe intervenire in materia di politiche dell’educazione nelle campagne, è riportata 75

73

Vattel avrebbe però conosciuto una riscoperta in Germania tra le due guerre, quando il Reich nazionalsocialista si interessò alle sue tesi sulla parità tra gli Stati e il non-intervento, e la sua opera fu riedita nel 1959 a cura di Walter Schätzel nella collana «Die Klassiker des Völkerrechts», Tubinga. Cfr. per queste informazioni C. GOOD, Emer de Vattel (1714-1767) Naturrechtliche Ansätze einer Menschenrechtsidee und des humanitären Völkerrechts im Zeitalter der Aufklarung, Baden-Baden, Nomos Verlag, 2011, pp. 4-7. 74 I. KANT, Per la pace perpetua (1795), in Antologia degli scritti politici, a cura di G. Sasso, il Mulino, Bologna, 1977. 75 A. DE LAPRADELLE, op. cit., p. xlii. 76 Dizionario biografico universale, a cura di Fr. Predari, Tipografia Guigoni, Milano, 1867, vol. 2, p. 797. Per non parlare delle aspre critiche di un giurista borbonico, Terenzio SACCHI, in Il diritto delle genti di E. de Vattel applicato allo stato attuale delle nazioni, Stab. tip. di Pasquale Androsio, Napoli, 1854.



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La comparsa di Le Droit des Gens

l’opinione di Pietro Caronelli, che scrive: «saggiamente pensavano il signor di Vattel, il barone di Bielfeld e il sig. de la Chalotais ed altri celebri autori che le persone di campagna dovessero essere educate con particolar cura alla loro condizione»77. Da questi passaggi possiamo dedurre che, poco dopo la pubblicazione di Il Diritto delle genti, anche in Italia il nome di Vattel iniziò a circolare come un maître à penser, come uno degli autori a cui rivolgersi per ispirazione. In materia di educazione, tra l’altro, Vattel aveva scritto parole illuminanti: Le prime impressioni sono di una estrema conseguenza per tutta la vita. Ne’ teneri anni della puerizia e della gioventù, lo spirito e il cuor dell’uomo ricevono con felicità il seme del bene o quello del male. La educazione della gioventù è una delle materie più importanti che meritano l’attenzione del Governo.78

Ben si comprende dalle parole di Vattel come il suo pensiero potesse essere da riferimento per il contesto italiano. Infine, in un altro punto della sua ampia ricostruzione dei vari dibattiti settecenteschi, Venturi ritrova nuovamente il nome di Vattel associato a quello di Montesquieu, quando si tratta della loro concezione liberale del rapporto che deve esserci tra Stato e società civile79. Queste citazioni, sebbene eterogenee,

77

P. CARONELLI, Dissertazione, in ID., Raccolta di memorie delle Pubbliche Accademie di agricoltura, 1795, citato in F. VENTURI, Settecento riformatore, V: “L’Italia dei lumi”, Einaudi, Torino, 1997, p. 104. 78 DG, I, § 112. 79 F. VENTURI, Settecento riformatore, cit., p. 552.



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Capitolo I

hanno il merito di far cogliere come, sebbene l’assenza di edizioni italiane successive al 1805 di Il Diritto delle Genti potrebbe far pensare che Vattel fosse ben poco conosciuto in Italia, l’autorità morale del pensatore svizzero circolava già in qualche misura nella penisola, facendo di Vattel uno dei nomi citati, a fianco di altri importanti pensatori, per dare peso alle proprie argomentazioni.



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II L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti Dopo aver posto le fondamenta dei veri principi del diritto politico e tentato di edificare lo Stato sulla loro base, resterebbe da consolidarlo tramite le sue relazioni esterne, ambito che comprenderebbe il diritto delle genti. […] Ma tutto questo forma un nuovo oggetto di studio, troppo vasto per la mia corta vista.1

Origini del diritto delle genti L’intento dichiarato di Vattel è mettere ordine, con la sua opera più importante, in una materia tanto importante quanto trascurata e sistematizzare un dibattito sì presente nel corso dei secoli, ma caratterizzato da uno scarso approfondimento. Per tale mancato approfondimento il diritto delle genti si era trasformato in un insieme di «massime» e «usi ricevuti fra le Nazioni» divenuti poi obbligatori per mezzo della consuetudine. Questo tipo di lettura del diritto delle genti aveva significato, per Vattel, un rifiuto di riconoscere le origini e l’importanza di una legge pure tanto influente per il genere umano: un degradare e un restringere in un angusto perimetro una legge dalla por-

1

J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale (1762), Einaudi, Torino, 1994, p. 201.

Capitolo II

tata tanto ampia2. Ciò aveva fatto sì che del diritto delle genti si fosse formata una nozione vaga, incompleta e spesso falsa, nonostante l’impegno profuso da autori anche importanti. Vattel parte dall’assunto che esiste certamente un diritto delle genti naturale, poiché la Legge della Natura obbliga gli Stati, gli uomini uniti in Società politica, niente meno di quel che obbliga i privati. Ma per conoscere esattamente questo Diritto non basta di sapere che cosa la Legge di Natura prescrive per gli uomini individui. L’applicazione di una regola a soggetti diversi non può farsi che in un tal modo conveniente alla natura di ciascun soggetto; donde procede che il diritto delle Genti Naturale è una scienza particolare, la quale consiste in una giusta e ragionata applicazione della Legge naturale agli affari e alla condotta delle Nazioni o dei Sovrani.3

Per conoscere esattamente il diritto delle genti naturale occorre, pertanto, ricondurre questo a una scienza particolare che si occupi di comprendere come applicare la legge di natura ai problemi specifici delle nazioni e dei sovrani4. L’idea che in materia di diritto delle nazioni occorra considerare il diritto di natura delle nazioni come una scienza particolare, che non si riduca a una semplice applicazione analogica del diritto che vale per gli individui, ma consiste nella giusta e razionale elaborazione del diritto di natura specifico per gli affari e la condotta delle nazioni e dei sovrani, è l’assunto fon-

2

DG, Prefazione, p. i. Ivi. 4 Ibidem. 3



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

damentale da cui parte Vattel. Questa la considerazione che, di fatto, segna lo scarto che più profondamente distingue il diplomatico svizzero – e Wolff – dai predecessori Grozio, Hobbes, Pufendorf e Barbeyrac. Per rintracciare le origini del diritto delle genti, Vattel compie un percorso lungo che attraversa tutta la storia che lo ha preceduto individuando i pensatori politici che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo di questo tema. La scarsa chiarezza relativa al diritto delle genti è fatta risalire da Vattel già ai romani, colpevoli di aver spesso confuso il «Diritto delle Genti col Diritto di Natura, chiamando Diritto delle Genti (jus gentium) il Diritto Naturale»5. Su questo tema si impegnò anche l’Imperatore Giustiniano, il quale fornì una definizione del diritto naturale, del diritto delle genti e del diritto civile. Il diritto naturale è, innanzitutto quello che la natura insegna a tutti gli animali6. Con questa definizione, l’Imperatore offriva una definizione molto estensiva del «Diritto della Natura», che non coinvolgeva l’uomo in modo particolare e che non arrivava a lui tramite la sua «ragionevole natura, come pure dalla sua natura animale»7. Il diritto civile, invece, «è quello che ciascun popolo a sé medesimo costituisce e che proprio è di ciascun Stato, ovvero

5

DG, Prefazione, pp. i-ii. In riferimento allo ius gentium, Vattel si rifà all’espressione di Cicerone: «Neque vero hoc solum natura, id est, jure gentium», in M. T. CICERONE, De Officiis (44 a.C.), libro III, c. 5. Per un’analisi della nozione di ius gentium si veda: G. LOMBARDI, Sul concetto di “ius gentium”, Istituto di diritto romano, Roma, 1947. 6 «Jus naturale est, quod natura omnia animalia docuit». GIUSTINIANO, Institutiones (533), Libro II, Titolo 2. 7 DG, Prefazione, p. ii.



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Capitolo II

società civile», mentre il terzo tipo di «diritto, che la ragione naturale ha stabilito fra tutti gli uomini, egualmente osservato da tutti i popoli, chiamasi Diritto delle Genti, essendo come un diritto seguito da tutte le Nazioni»8. Il diritto delle genti, dunque, è un diritto comune a tutto il genere umano, e l’Imperatore aggiunge: Gli affari degli uomini e i loro bisogni hanno indotto le Nazioni a farsi certe regole di diritto. Sono insorte le guerre e hanno partorito le cattività e le servitù, le quali sono contrarie al naturale diritto, poiché originalmente e in forza del diritto naturale tutti gli uomini nascono liberi 9.

Con questa affermazione, osserva Vattel, Giustiniano si sarebbe avvicinato maggiormente alla concezione moderna del diritto delle genti, gettando le basi per il suo sviluppo futuro. Giustiniano aggiunge, ancora, che quasi tutti i contratti di compravendita, di locazione, di società, di deposito e altri, traggono la loro origine dal diritto delle genti. Secondo l’Imperatore – prosegue Vattel –, gli uomini sono stati indiriz-

8

«Quod quisque populus ipse sibi jus constituit, id ipsius proprium civitatis, est, vocaturque jus civile, quasi jus proprium ipsius civitatis: quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes perœque custoditur, vocaturque jus gentium, quasi quo jure omnes gentes utantur.» GIUSTINIANO, Institutiones, Libro II, Titolo 2, § 1. Riportato in DG, Prefazione, p. ii. 9 «Jus autem gentium omni humano generi commune est; nam usu exigente et humanis necessitatibus, gentes humanœ jura quædam sibi constituerunt. Bella etenim orta sunt, et captivitates secutæ et servitutes, quæ sunt naturali juri contrariæ. Jure enim naturali omnes homines ab initio liberi nascebantur.» GIUSTINIANO, loc. cit., riportato in DG, Prefazione, p. ii.



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

zati da una retta ragione a formulare, nelle diverse circostanze di vita in cui si sono trovati, massime di diritto talmente fondate sulla natura delle cose, da esser poi riconosciute ed ammesse in molti altri luoghi. L’eterogeneità di materie fatte rientrare dall’Imperatore all’interno del diritto delle genti svela, tuttavia, che quello da lui fornito «non è ancora che il Diritto Naturale che conviene a tutti gli uomini» 10, e non uno specifico per le entità statuali. Il vero antenato del diritto delle genti moderno Vattel lo ritroverà piuttosto in un’altra legge, alla quale i romani riconoscevano la capacità di creare obblighi tra le Nazioni e a cui facevano riferimento le ambasciate. Questa era il «Diritto feciale, che altro non era che il Diritto delle Genti rispetto a’ pubblici Trattati e particolarmente alla guerra». I feciali (feciales) erano gli interpreti, i custodi e in un certo qual modo i sacerdoti della fede pubblica11. È da quest’ultimo tipo di diritto che, più concretamente, prende forma l’idea di un diritto che regoli i rapporti tra gli Stati. Da quel momento in poi la nozione di diritto delle genti e quella di diritto feciale si sono sovrapposte, contribuendo a creare grossa confusione presso gli studiosi del diritto internazionale. Solamente con la Modernità le nebbie hanno incominciato a dissiparsi e l’espressione diritto delle genti ha acquistato

10

DG, Prefazione, p. iii. «Feciales, quod fidei publicae inter populos praeerant; nam per hos fiebat, ut justum conciperetur bellum, et inde desitum, et ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebant, antequam conciperetur, qui res repeterunt; et per hos etiam nunc fit foedus». M. T. VARRONE , De lingua latina, Libro IV, cit. in DG, Prefazione, p. iii. 11



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Capitolo II

il significato principale di sistema di leggi che regna tra le Nazioni o Stati sovrani12.

L’interpretazione groziana Nella sua opera di ricostruzione dei passaggi fondamentali che hanno contribuito a formare la nozione di diritto delle genti, Vattel giunge in epoca moderna approdando immediatamente presso le rive di uno dei più grandi autori nella storia del pensiero politico e giuridico: Ugo Grozio13. Nel De jure belli ac pacis14, il pensatore olandese riconduce l’origine di ogni associazione politica ad un’unione volontaria di individui naturalmente razionali e socievoli – in linea con quanto sostenuto dalla tradizione aristotelico-tomistica – i quali, spinti dalla ricerca della pace, istituiscono, mediante un contratto, il diritto comune. «Madre del diritto naturale – egli scrive – è la stessa natura umana, la quale, anche se non avessimo bisogno di nulla, ci porterebbe a desiderare i mutui rapporti di società».15 Sebbene questo diritto sia presente in natura,

12

Ibidem. Per un’analisi più ampia del pensiero groziano rispetto a quella tracciata qui seguendo l’interpretazione offerta da Vattel, si veda: F. DE MICHELIS, Le origini storiche e culturali del pensiero di Ugo Grozio, La Nuova Italia, Firenze, 1967; N. BOBBIO, Prefazione, in A. DROETTO, Studi groziani, Giappichelli, Torino, 1968; S. MASTELLONE, Studi groziani e una presunta edizione vichiana del De Jure, Olschki, Firenze, 1971; F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico, Giuffrè, Milano, 1983. 14 U. GROZIO, Il Diritto della guerra e della pace. Prolegomeni e libro primo (1625), a cura di F. Arici e F. Todescan, CEDAM, Padova, 2010. 15 Riportata in G. M. BRAVO e C. MALANDRINO, Profilo di storia del pensiero politico, Carocci, Roma, 2001, p. 106. 13



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

e rifletta la volontà di Dio, l’esistenza del diritto naturale non garantisce di per sé che le norme che esso esprime siano rispettate16. Per ovviare a tale possibilità, gli uomini istituiscono un sovrano, il quale dà vita ad un altro diritto, che proprio in quanto manifestazione della volontà del sovrano assume il nome di diritto volontario. Quest’ultimo si articola nel diritto civile, che regola i comportamenti all’interno dello Stato, e nel diritto delle genti, che regola i rapporti tra gli Stati17. Nella teoria groziana, quindi, il diritto delle genti si trova in una posizione di continuità rispetto al diritto volontario, e si distingue rispetto al diritto naturale – con il che l’autore percorre una via teorica originale rispetto a quella sviluppata dalle scuole giusnaturalistiche dell’epoca. Sebbene questa discontinuità tra diritto naturale e diritto delle genti sia ripresa da Vattel, il punto cruciale su cui si articola lo scarto rispetto alla teoria groziana è un altro. Egli affer-

16

Nello stesso paragrafo 11 dei già citati Prolegomeni, Grozio ipotizza l’esistenza del diritto naturale anche nella malaugurata ipotesi dell’assenza o indifferenza di Dio, dando il via a una nutrita tradizione giusnaturalistica. C’è chi osserva che l’argomentazione dell’autore olandese fosse solo ipotetica, e che essa è rintracciabile già in Gregorio da Rimini (P. HAGGENMACHER, Grotius et la doctrine de la guerre juste, Presses Universitaires de France, Paris, 1983, p. 482); c’è chi osserva invece che Grozio volesse desacralizzare il diritto naturale, inserendosi in un filone teorico riconducibile a Francisco Suarez, o prima ancora a Gabriel Biel e Gregorio da Rimini (M. VILLEY, La formazione del pensiero giuridico moderno, Jaca Book, Milano, 1986, p. 522). 17 Osserva Mancuso che, oltre al diritto civile e al diritto delle genti, il diritto volontario per Grozio si esprime anche nelle norme emanate dall’autorità particolare nell’ambito della famiglia. Cfr. F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità. Il pensiero politico-giuridico di Emer de Vattel tra assolutismo e rivoluzione, ESI, Napoli, 2002, p. 251.



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Capitolo II

ma che, nonostante la grandezza dell’uomo, Grozio riesce solo a intravedere la verità sul diritto delle genti – forse a causa della grossa quantità di temi trattati, che hanno fatto sì che non riuscisse a formulare in maniera distinta le sue idee, come avrebbe richiesto un approccio scientifico; o forse anche perché egli si trovava ad affrontare «una materia importante trasandata prima di lui»18. Nella sua «eccellente» opera, Grozio intende per diritto delle genti un diritto stabilitosi per il comune consenso dei popoli e distinto, inoltre, dal diritto naturale19. Egli riconosce sì l’esistenza di un diritto delle genti, ma crede che questo sia la mera trasposizione sul piano delle nazioni di ciò che la legge naturale detta sul piano degli uomini. Vattel, viceversa, fa della specifica differenza tra le due leggi naturali un punto qualificante della sua teoria, e accusa Grozio di non essersene accorto, perché non ha sufficientemente considerato che le società politiche, o nazioni, vivono in reciproca indipendenza in uno stato di natura in cui sono sottoposte, nella loro qualità di corpi politici, alla legge naturale20. Questa specifica qualità delle nazioni rende impossibile un’esatta trasposizione del diritto di natura dal piano degli individui a quello delle nazioni.

18

DG, Prefazione, p. iii. Ibidem. Vattel cita il seguente brano di Grozio: «Quando molte persone in diversi tempi e in diversi luoghi, sostengono una cosa stessa come certa, vuolesi ciò riferire ad una causa generale. Ora nelle quistioni, di cui si tratta, una simile causa essere non può che l’una o l’altra delle due, o una giusta conseguenza dedotta dai principii della Natura; ovvero un consenso universale. La prima ci scopre il Diritto Naturale, e l’altra il Diritto delle Genti.» Qui Vattel cita la traduzione francese di Barbeyrac di U. GROZIO, De Jure Belli ac Pacis (1625), , Pierre de Coup, Amsterdam, 1724, Discorso preliminare, § 41. 20 DG, Prefazione, p. vi. 19



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

Secondo Vattel, se Grozio avesse colto questo dato, avrebbe compreso che: la legge si esercita sui nuovi soggetti politici in base alle loro specificità (quindi avrebbe compreso che il diritto delle genti è una scienza particolare); che il diritto delle genti produce un’obbligazione sia all’interno delle nazioni (di tipo morale), sia al loro esterno (a prescindere che esse lo vogliano); che il consenso dei popoli, per Grozio la base di tutto il diritto delle genti, è in realtà l’elemento fondante di uno specifico tipo di diritto delle genti, definito arbitrario21. In questi passaggi critici Vattel mette in luce un peculiare modo di sviluppare il suo pensiero, consistente in un continuo parziale consolidamento delle teorie precedenti e in un successivo avanzamento rispetto agli autori da lui trattati. Al di là delle singole corrispondenze o divergenze, da Grozio Vattel recepisce l’idea fondamentale che il diritto delle genti deriva dalla socievolezza innata negli uomini, la quale li spinge a estendere i legami tra di loro in giri sempre più larghi, fino a dare vita a una società internazionale22. Tuttavia, secondo

21

Ibidem. Cfr. anche F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit., p. 251. Il diritto volontario umano ha per Grozio tre forme: le norme emanate dall’autorità particolare nell’ambito della famiglia, il diritto civile e il diritto delle genti. Il fatto invece che per Grozio il diritto delle genti fosse volontario, a differenza del diritto naturale, fa sì che la sua concezione, «che contrappone il diritto delle genti al diritto naturale avvicinandolo al diritto civile» sia «stata avversata da tutti i giuristi della scuola del diritto naturale». R. DERATHÉ, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, il Mulino, Bologna, 1993, p. 480. Per un approfondimento sul pensiero internazionalistico di Grozio si veda ancora M. PANEBIANCO, Ugo Grozio e la tradizione storica del Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 1975. 22 Cfr. DG, Preliminari, § 10-12. VATTEL fa anche riferimento all’idea di naturale socievolezza sostenuta da Grozio in opposizione alla tendenza



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Capitolo II

un’interpretazione diffusa in particolare tra gli studiosi di diritto del secolo scorso, mentre da Grozio sarebbe derivata una teoria aperta a giustificare istanze sovranazionali e una protezione internazionale dei diritti umani, Vattel avrebbe declinato l’idea di società delle nazioni come società degli Stati, basata sull’eguaglianza tra i suoi membri e sulla loro piena sovranità interna23. E all’origine di questa divergenza ci sarebbe proprio una diversa interpretazione del diritto naturale tra i due: aristotelico-tomistica, e quindi gerarchica, quella di Grozio, epicureamaterialistica, e quindi egualitaria, quella di Vattel, in questo vicino a Hobbes24.

Il contributo di Hobbes e Pufendorf È proprio a Hobbes che Vattel attribuisce un importante contributo alla comprensione del diritto delle genti. Il filosofo inglese avrebbe avuto il merito di precisare con maggior chiarezza il ruolo giocato dalla specifica peculiarità delle entità statuali. Hobbes, nel cui lavoro Vattel riconosce l’opera di un

naturale alla solitudine predicata da Rousseau nelle sue Réflections sur le Discours de M. J.-J. Rousseau, apparso in «Journal Hélvetique», agosto 1755, pp. 220-228, poi ripubblicato in ID., Amusements de littérature, de morale et de politique, La Haye, 1765, e reperibile anche in appendice a F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit. 23 Cfr. B. KAPOSSY e il suo riferimento ai commentatori novecenteschi di Vattel Peter Pavel Remec, Hersch Lauterpacht , George Scelle, Quincy Wright in Introduction. Rival Histories of Emer de Vattel’s Law of Nations, in «Grotiana», 31, 2010, pp. 5-21, qui in part. 19-20. 24 P. P. REMEC, The position of the individual in international law according to Grotius and Vattel, Martinus Nijhoff, The Hague, 1960, p. 53, cit. in KAPOSSY, Introduction, cit., p. 20.



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

maestro – nonostante le «detestabili massime» che egli utilizza –, è il primo moderno a tracciare con nettezza i confini del diritto delle genti25. Nel De cive, Hobbes afferma che la legge naturale si divide in legge naturale degli uomini e legge naturale degli Stati, dove quest’ultima assume più comunemente il nome di diritto delle genti. E aggiunge: I loro precetti sono gli stessi; ma poiché gli Stati, una volta istituiti, rivestono le proprietà della persona umana, la legge che parlando del dovere dei singoli uomini, viene detta naturale, si chiama diritto delle genti, se è riferita ad interi Stati, nazioni, o genti. 26

Osserva Vattel che Hobbes è il primo pensatore che operato una formulazione chiara del diritto delle genti; ma la sua è ancora «imperfetta». Infatti, distinguendo una legge naturale degli uomini e una legge naturale degli Stati, egli nota correttamente che il diritto delle genti è il diritto naturale applicato agli Stati o alle nazioni. Tuttavia – aggiunge Vattel – egli si sbaglia quando ritiene che il diritto naturale non subisca alcun mutamento nella sua applicazione, ed è per questo motivo che il

25

DG, Prefazione, vi. TH. HOBBES, De cive. Elementi filosofici sul cittadino (1625), a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma, 2005, XIV, § 4, p. 154. È nota l’importanza che, secondo Bobbio, ricopre Hobbes sulla scena del giusnaturalismo moderno. Egli scrive: “Hobbes inventa, elabora, perfeziona i più raffinati strumenti giusnaturalistici – lo stato di natura, i diritti individuali, il contratto sociale –, ma li adopera ingegnosamente per costruire una gigantesca macchina dell’obbedienza.” Cfr. N. BOBBIO, Hobbes e il giusnaturalismo, in ID., Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 1989, p. 168. 26



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filosofo inglese arriva ad asserire che le massime del diritto naturale e quelle del diritto delle genti sono esattamente le stesse27. Una critica analoga è rivolta anche a Samuel Pufendorf per la sua vicinanza alle opinioni di Hobbes28. Il giurista e pensatore politico prussiano, come è noto, ha un ruolo importante nell’affermazione in Europa del pensiero giusnaturalistico. Egli fu chiamato nel 1661 dall’Elettore Palatino a ricoprire la prima cattedra universitaria di «Diritto naturale e delle genti» presso l’Università di Heidelberg, acquisendo grossa notorietà sia con le sue seguitissime lezioni, sia con l’opera De statu Imperii Germanici29 – in cui descriveva l’Impero come un corpo irregolare e mostruoso, e rivolgeva aspre critiche alla politica dei

27

DG, Prefazione, p. vi. L’unico ulteriore riferimento esplicito a Hobbes nel trattato è nel Libro IV, cap. 1, § 1, dove Vattel respinge l’asserto hobbesiano che «lo stato di guerra» sia lo stato «naturale» per l’uomo. Theodore CHRISTOV si è occupato del rapporto tra Vattel e Hobbes nel suo Before Anarchy. Hobbes and His Critics in Modern International Thought, Cambridge University Press, New York, 2015, pp. 234-265, in cui propone una lettura “revisionistica” del concetto di anarchia internazionale attribuito a Hobbes. Il filosofo inglese, e aderendo a lui Vattel, concepiscono piuttosto il sistema internazionale come uno spazio in cui, nonostante l’assenza di un sovrano, gli attori operano secondo un concetto «illuminato» e utilitaristico del proprio interesse: un’arena, dunque, in cui la competizione non è di necessità aspra, ma è mitigata e anzi avviata a un miglioramento dalle forze inerenti al sistema. 28 S. von PUFENDORF, Le Droit de la Nature et des Gens, Amsterdam, 1706, II, III, §§ VII-IX. 29 ID., De statu Imperii Germanici, Petrum Columesium, Geneve, 1667. Il volume fu pubblicato all’inizio con lo pseudonimo di Severino Monzambano da Verona.



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principi tedeschi30. Le polemiche suscitate dall’opera fecero sì che Pufendorf accettasse l’invito di Carlo XII di Svezia a trasferirsi all’Università di Lund per insegnare qui la sua disciplina. Ed è qui, dopo due anni dal suo trasferimento, che l’autore pubblica le sue opere principali, il De iure naturae et gentium31 e il De officio hominis et civis iuxta legem naturalem 32 – in cui riassumeva i temi trattati nell’estesa opera precedente –, contribuendo ad ampliare ulteriormente i nodi problematici del giusnaturalismo. Il nome di Pufendorf, insomma, era strettamente legato al dibattito politico e giuridico sul diritto di natura, ancora in questa fase costantemente associato a quello delle genti. Per Vattel, dunque, era inevitabile confrontarsi con Pufendorf, il quale era considerato un continuatore di Hobbes nel diritto internazionale. Nella teoria pufendorfiana, il diritto naturale e il diritto delle genti sono inseriti «all’interno di una teoria dell’azione morale, concepita come un comportamento imputabile e sanzionabile», in cui ogni legge può valere effettivamente solo se accompagnata dalla capacità di un comando superiore di infliggere la pena prevista dalla trasgressione33. In questa prospettiva,

30

Per un approfondimento del pensiero politico-giuridico di Pufendorf si vedano: V. FIORILLO (a cura di), Samuel Pufendorf, filosofo del diritto e della politica, La Città del Sole, Napoli, 1996; A. L. SCHINO, Il pensiero politico di Pufendorf, Laterza, Roma, 1995. 31 S. von PUFENDORF, De jure naturae et gentium, Londini Scanorum, Junghans, 1672. L’opera fu pubblicata in otto libri e fu presto tradotta in inglese, italiano e francese proprio da Barbeyrac che tanto influenzò Vattel. 32 S. VON PUFENDORF, De officio hominis et civis iuxta legem naturalem, Sumtibus Adami Junghans, Londini, 1673. 33 M. SCATTOLA, Pufendorf, voce in R. ESPOSITO - C. GALLI (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Laterza, Roma-Bari, 2000.



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la legge morale è intimamente legata al comando di Dio, il quale dispensa premi o castighi a seconda che si rispettino o si trasgrediscano le sue leggi. Sulla terra, tuttavia, l’entità delle punizioni divine resta «indeterminata» e solo «la sanzione di un superiore terreno munito di facoltà coattive – il sovrano – può rendere efficaci i comandi della legge naturale»34. Pufendorf pensa che il diritto delle genti non possa essere considerato obbligatorio là dove manchi una autorità superiore, rifiutando la tesi secondo cui il diritto naturale trova il suo fondamento nel consenso, anche parziale, dei popoli, intravedendo in questi ultimi un’eccessiva volubilità e, a volte, immoralità35. Secondo Vattel, il punto dolente della teoria pufendorfiana del diritto delle genti sta nel fatto che, nel celebre De jure naturae et gentium, egli non ha «trattato a parte del Diritto delle Genti, confondendolo dappertutto col Diritto Naturale propriamente detto»36. D’altra parte, secondo una lettura che tende ad avvicinarli, Vattel e Pufendor, concepiscono entrambi la «società» tra gli uomini e – per analogia – tra le nazioni come uno stato intermedio, ancora imperfetto rispetto allo stato politico, ma già migliore e accettabile rispetto allo stato di natura, in quanto tra i

34

Ibidem. S. VON PUFENDORF, Le Droit de la Nature et des Gens, cit., II, III, §§ VIIIX. 36 DG, Prefazione, p. v. Per un’analisi del pensiero internazionalistico di Pufendorf, cfr. D. BOUCHER, Political Theories of International Relations, Oxford University Press, Oxford, 1998, pp. 223-250. Osserva ancora Mancuso che, nonostante le critiche vatteliane, «con la delineazione degli obblighi perfetti e imperfetti, essenziale per la teoria vatteliana, Pufendorf produce un’impronta di maggiore rilevanza di quanto il diplomatico svizzero volesse ammettere». In F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit., p. 253 n. 35



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suoi membri è possibile stabilire diritti e doveri reciproci, basati sull’utile, anche in assenza di un potere superiore comune.37

Le osservazioni di Barbeyrac L’autore che maggiormente si è avvicinato all’idea corretta del diritto delle genti è, per Vattel, Jean de Barbeyrac. Nella sua traduzione del De jure belli ac pacis di Grozio in francese, a un certo punto questi aveva inserito la seguente nota: Ammetto che ci sono leggi comuni a tutti i popoli, o cose che tutti devono rispettare gli uni verso gli altri: è appropriato chiamare queste leggi col termine Diritto delle Genti. Tuttavia, al di fuori del fatto che il consenso dei popoli non è il fondamento del dovere in base al quale noi osserviamo queste leggi, e che ciò non è possibile in alcun caso, i principi e le leggi di tale Diritto sono sostanzialmente gli stessi di quelli di Diritto di Natura, propriamente detta: la differenza è nell’applicazione, che può variare a seconda dei differenti modi in cui le nazioni affrontano le questioni tra di loro.38

Osserva Vattel che Barbeyrac dimostra di aver ben inteso che le regole e le decisioni di diritto naturale non possono esse-

37

Questa lettura è citata da B. KAPOSSY in Introduction, cit., p. 15, dove si rimanda a I. HONT, Jealousy of Trade: International Competition and the Nation-State in Historical Perspective, Cambridge, MA, Belknap, 2005. 38

U. GROZIO, Le droit de la guerre et de la paix, Amsterdam, 1724, nota di Barbeyrac in I, I, § XIV, n. 3, p. 56 (mia la traduzione).



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re semplicemente e meramente applicate agli Stati sovrani, poiché devono necessariamente subire qualche modifica conforme alla diversa natura dei soggetti a cui sono destinate39. Emmanuelle Jouannet afferma che è proprio questa visione di un diritto delle genti come diritto di natura applicato agli Stati quella di cui Vattel si appropria40. Nonostante ciò, per il giurista svizzero Barbeyrac non si era lasciato guidare fino in fondo dalle sue osservazioni, come si deduce dal suo rifiuto di approvare l’idea di un diritto delle genti separato dal diritto naturale degli individui. Eppure, dice Vattel, occorre proprio considerare che come il diritto naturale propriamente detto è la legge naturale degli individui, così il diritto naturale delle genti è la legge naturale delle Società politiche, che trova un suo fondamento nella natura stessa – qualitativamente diversa – di queste società41.

Diritto delle genti e Civitas Maxima in Wolff Il pensatore nei confronti del quale Vattel mostra maggiore aderenza, oltre che debito intellettuale, è senza dubbio Christian Wolff, il quale sarebbe stato il primo a cogliere realmente l’applicazione del diritto naturale agli Stati. Vattel dimostra grande stima per il filosofo tedesco e a lui, d’altronde, dedica ampio spazio, anche perché è dalla sua opera che ricava i principi generali del suo trattato sul diritto delle genti. Ciò nondimeno, egli si impegna in un corpo a corpo teorico che lo porta ad alternare convinte adesioni a fermi distinguo critici, il tutto,

39

DG, Prefazione, p. vi. E. JOUANNET, Emer de Vattel et l’émergence doctrinale du droit International classique, Pedone, Paris, 1998, p. 39 e sg. 41 DG, Prefazione, p. vi. 40



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però, all’interno del perimetro concettuale tracciato dal filosofo di Halle. Come ha scritto Gian Domenico Romagnosi, il celebre Vattel di Neuchâtel, contemporaneo al Wolff, ridusse in una forma più accessibile il diritto naturale pubblico del Wolff, per leggere ed intendere il quale bisogna, dice il Vattel, avere studiato sedici o diciassette volumi in quarto che lo precedono, ed affrontare il metodo e la forma delle opere di geometria oltre l’aridità e la dispersione delle materie. Ognuno poi sa dall’altra parte che all’opera del Vattel ricorrevano gli stessi diplomatici i quali la citavano in appoggio delle loro dispute. 42

L’intento di Vattel, come leggiamo nella sua Prefazione , era stato di dare alla scienza di Wolff una forma adeguata a diffonderne gli insegnamenti nella società di corte. Ma qual è la prospettiva teorica di Wolff accolta da Vattel? Il filosofo tedesco si muove all’interno del percorso teorico già tracciato da Grozio e da Leibniz, e proprio da quest’ultimo ricava l’idea dell’esistenza di un diritto delle genti positivo: 43

Oltre all’esterno diritto della natura razionale, fluente dalla fonte divina, c’è pure un diritto volontario, sorgente dalla consuetudine e dal comando di un superiore. E in verità, nello Stato, il diritto civile trae vigore da colui che detiene il supremo potere; al di fuori dello

42

G. D. ROMAGNOSI, Assunto primo della scienza del diritto naturale, Tipografia Guasti, Prato, 18385, p. 20. 43 DG, Prefazione, pp. 10-12.



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Stato, o tra coloro che partecipano del sommo potere […] ha luogo il diritto volontario delle genti, originantesi dal tacito consenso dei popoli.44

Secondo Wolff, il diritto delle genti positivo altro non è che uno «Jus naturae ad Gentes applicatum»45 che, a seconda del tipo di volontà del popolo da cui deriva, assume tre forme diverse: diritto volontario, con norme dedotte dal diritto naturale, così come avviene per le norme di diritto civile sul piano interno-statuale46; diritto delle genti pattizio (Jus Gentium pactitium)47; diritto delle genti consuetudinario (Jus Gentium con-

44

G. W. VON LEIBNIZ, Prefazione al Codice diplomatico di diritto delle genti (1693), in ID., Scritti politici e di diritto naturale, UTET, Torino, 1965, p. 165. 45 C. WOLFF, Institutiones Juris Naturae et Gentium (1754), Venetiis, 1761, IV, I, § 1088, p. 449. 46 ID., Jus gentium methodo scientifica pertractatum, in quo jus gentium naturale ab eo, quod voluntarii pactitii et consuetudinarii est, accurate distinguitur, Halae Magdeburigicae, 1749, Praefatio. Su questo specifico aspetto Jouannet osserva che da parte di Wolff l’operare un parallelismo tra queste due dimensioni del diritto naturale sia una spia del mutamento di senso che il diritto naturale acquista una volta applicato agli Stati. Sebbene il filosofo tedesco non sia il primo nella Modernità a collegare le norme di diritto civile con quelle di diritto naturale, è il primo a operare una deduzione delle prime dalle seconde. Cfr. E. JOUANNET, Emer de Vattel, cit., p. 98, citato in F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit., p. 257 n; così come l’osservazione per cui sull’importanza del metodo deduttivo di Wolff: operazione teorica condizionata dall’obiettivo di «assumere come dato incontrovertibile il diritto vigente» predisponendo gli «schemi per un suo sviluppo logico-deduttivo», una volta venute meno le «presenti ipoteche metafisiche» (cfr. G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, il Mulino, Bologna, 1976, p. 488). 47 C. WOLFF, Jus gentium methodo scientifica pertractatum, cit., § 23, p. 16.



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suetudinarium)48. Il primo si basa su un consenso presunto; il secondo, su uno palese; il terzo, su uno tacito49. La cornice teorica wolffiana è la stessa dentro cui si muove Vattel, ma con alcune differenze. A parte alcuni distinguo minori in materia di teoria patrimonialistica, e in riferimento all’uso in guerra delle armi avvelenate – entrambi non ammissibili per Vattel –, la differenza più sostanziale si riscontra nell’idea di Wolff di società volontaria come derivante da una grande Repubblica fondata dalla natura stessa: una società universale di cui tutte le nazioni del mondo sono membri. Assumendo la naturale eguaglianza delle nazioni quale dato di base, il filosofo tedesco pensa che tra gli Stati si instauri un tessuto di diritti e obblighi in grado di legare le nazioni tra di loro e di sospingerle verso un comune perfezionamento. Questa è l’idea wolffiana della Civitas Maxima, un Corpo politico composto da nazioni consenzienti, le quali riconoscono a un’autorità comune il potere di adottare decisioni tese ad una recta ratio50. Così come la legge di natura obbliga gli uomini ad unirsi, per mezzo di un contratto, in società particolari, con l’obiettivo di sviluppare i dettami delle leggi di natura e tendere alla perfezione individuale, analogamente la legge naturale obbliga anche le società politiche ad unirsi in una Civitas Maxima per combinare le forze e raggiungere il bene comune51. È da questa piega teorica che si articola la distinzione tra diritto delle genti necessario e diritto delle genti volontario: «il

48

Ivi, Prolegomena, § 24, p. 17. Su questa tripartizione cfr. anche DG, Preliminari, § 27. 50 C. WOLFF, Jus gentium methodo scientifica pertractatum, Prolegomena, § 20, p. 15. 51 Ivi, §§ 7-8. 49



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cit.,

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diritto delle genti necessario è immutabile e sempre obbligatorio in coscienza e si deduce applicando alle nazioni il diritto naturale valido per gli individui; il diritto delle genti volontario deriva dal consenso presunto delle nazioni riunite nella civitas maxima, e consiste nella promulgazione e nella determinazione del diritto delle genti necessario»52. Legge civile e diritto delle genti volontario rispondono alla stessa tensione. La prima applica ed esprime la legge di natura, il secondo promulga il diritto delle genti necessario, ed entrambi possono essere modificati per meglio raggiungere il bene comune, ma senza che si annulli l’obbligazione interna, ovvero quella base certa e immutabile su cui si fonda la Civitas Maxima. Va osservato che Wolff ricorre all’idea della Civitas Maxima sebbene questa sia dallo stesso autore definita come una finzione. Tale espediente gli serve per elaborare un sistema di norme cogenti per gli Stati. All’interno della Civitas Maxima deve vigere il diritto delle genti volontario, che assieme al diritto delle genti pattizio e al diritto delle genti consuetudinario forma quello che Wolff chiama diritto delle genti positivo. Vattel accoglie la fondazione giusnaturalistica del diritto delle genti volontario e «l’idea della vigenza di forme di relazioni giuridiche o giuridificabili tra le nazioni»53, ma rifiuta l’idea di Civitas Maxima, poiché tale finzione non è per lui abbastanza solida «per dedurne le regole di un Diritto delle Genti

52

G. SILVESTRINI, Giustizia della guerra e disuguaglianza: Vattel, l’aggressore ingiusto e il nemico del genere umano, «Filosofia Politica», XII, 3, dicembre 2008, 381-400, p. 386. 53 F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit., p. 260.



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universale e necessariamente ammesso fra gli Stati Sovrani»54. Secondo Vattel, non può esservi corrispondenza tra Stato e individuo, in quanto il primo è soggetto di diritto qualitativamente differente dal secondo: È della essenza di ogni Società civile (civitas) che ciascun membro abbia ceduto una parte de’ suoi Diritti al Corpo della Società; e che siavi un autorità capace di comandare a tutti i membri, di promulgar loro Leggi, di costringer quelli, che ricuseranno di ubbidire. Non si può nulla concepire, né supporre nulla di somigliante fra le Nazioni. Ciascuno Stato Sovrano si pretende ed è in effetto da tutti gli altri indipendente. 55

Le nazioni sono persone morali dotate di una perfetta indipendenza, al contrario degli individui, soggetti manchevoli, quindi inevitabilmente costretti, per uscire dallo stato di natura, a rinunciare a parte della propria libertà e dei propri diritti in favore della società politica56. È per questo che l’ipotesi di una

54

DG, Prefazione, p. x. Anche i curatori di una recente raccolta in lingua inglese dei classici del pensiero internazionalistico sottolineano il fatto che Vattel – da loro incluso nella raccolta – si libera della metafisica wolffiana della civitas maxima ma al tempo stesso è l’ultimo autore, prima del positivismo giuridico, a mantere il legame del diritto internazionale con il diritto naturale, e quindi con imperativi morali universali. Cfr. C. BROWN - T. NARDIN - N. RENGGER, International Relations in Political Thought. Texts from the Ancient Greeks to the First World War, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2002, pp. 322-323. 55 Ibidem. 56 DG, Preliminari, § 4. Inoltre scrive Vattel poco prima: «Le Nazioni ovvero Stati sono corpi politici, Società d’uomini uniti insieme affin di procurare con forze riunite la loro salvezza e il loro vantaggio.» (DG, Preliminari, § 1).



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nazione, di fatto subordinata alla finzione della Civitas Maxima, è inaccettabile per Vattel: ogni intervento per regolare le relazioni tra le nazioni va effettuato rispettando la loro libertà naturale, che è l’unico reale dovere a cui le nazioni, in quanto persone morali indipendenti, rispondono. D’altra parte, da questo punto di vista Vattel è in continuità con il giusnaturalismo moderno, il quale non pretende, quando non esplicitamente esclude, di estendere l’ordinamento giuridico positivo dal piano interindividuale a quello internazionale, mostrando una certa «fiducia nell’ordine naturale», ovvero nelle naturali capacità ordinative di ragione e socievolezza come caratteristiche del sistema politico tra le nazioni57. L’argomentazione con cui Vattel spiega la sua idea è molto chiara ed esposta in modo decisamente logico. Egli afferma che sebbene la natura abbia fatto sì che gli uomini abbiano bisogno dell’assistenza dei loro pari per vivere in maniera accettabile, essa non ha tuttavia imposto loro alcun particolare obbligo di unirsi in una società civile, poiché, se tutti seguissero le «Leggi di questa buona madre», la stessa società politica non servirebbe58. Giacché così non è, tuttavia, gli uomini hanno dovuto ricorrere all’associazione politica: unico rimedio per assicurare il benessere dei buoni e reprimere i cattivi. Questa stessa logica di necessità non si ripete invece, dice Vattel, al livello delle nazioni, le quali, essendo insiemi di individui già in grado di soddisfare i loro bisogni principali, non hanno stretta necessità di ricorrere le une alle altre.

57

Seguo qui M. MORI, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali: diritto, politica e storia, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 130 e sg. 58 DG, Prefazione, p. x.



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Ma agevol cosa è il comprendere che una Società civile tra le Nazioni non è di gran lunga sì necessaria siccome fu tra i privati. Non può dunque dirsi che la Natura la raccomandi egualmente molto meno poi che la prescriva. 59

In pratica, ogni nazione basta a se stessa. Pertanto, sussistono sì i motivi per i quali queste entità statuali comunichino e commercino tra loro, ma per fare ciò è sufficiente il diritto di natura, anche considerando – sottolinea qui Vattel – che i rapporti tra gli Stati sono condotti in modo più cauto di quanto non accada tra gli uomini, e per mezzo di accordi nei casi più difficili60. Con quest’ultima osservazione, Vattel allude al ceto professionale dei diplomatici, e al fatto che questo rappresenti, un’aristocrazia caratterizzata da prudenza e da moderazione. Parlando del rapporto tra Wolff e Vattel, Martti Koskenniemi ha proprio sottolineato la centralità della diplomazia nel passaggio dalla civitas maxima al «sistema politico» degli Stati. Lo studioso finlandese osserva che Vattel rigetta, perché irrealistica, la finzione di un’unità politica e giuridica superiore, per so-

59

DG, Prefazione, p. xi. La citazione intera recita così: «Gli Stati si conducono d' altra guisa che i privati. Non il capriccio per l' ordinario o il cieco impeto di un solo ne forma le risoluzioni o determina le pubbliche direzioni, nelle quali si arreca più consiglio, più lentezza e cautela; e negli' incontri spinosi ed importanti si accomodano gli affari e si compongono le controversie mediante i Trattati. Aggiugnete che la independenza è pur necessaria a ciascuno per adempiere esattamente a ciò che dee a se medesimo, ciò che dee a' Cittadini, e per governarsi nella maniera a lui più confacente. Basta dunque, ripetiamolo una volta ancora, che le Nazioni si conformino a quanto esige da esse la Società Naturale e generale fra tutti gli uomini stabilita.» DG, Prefazione, p. xii. 60



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stituirla con un’idea alternativa di unità, aderente alla realtà del suo tempo, quella del «système politique»61 dei diplomatici, ministri, consiglieri, e sovrani europei, legati da rapporti dinastici, scambi culturali, ideologici, commerciali, a conoscenza gli uni degli interessi degli altri, e tesi a conservare e a perfezionare il benessere e l’indipendenza della propria nazione. Il successo di Vattel risiedette allora nell’aver accantonato l’idea metafisica di unità – che peraltro si poteva prestare a disegni di potere assolutistici in Europa, come quelli di Carlo V e Luigi XIV – e di aver fornito, invece, ai professionisti della politica internazionale del suo tempo un vocabolario politico in cui articolare le proprie rivendicazioni: un vocabolario, nel caso di concetti come nazione, libertà, benessere e perfezionamento, che andava anche oltre la teoria politica dell’ancien régime62.

Vattel tra giusnaturalismo e giuspositivismo L’assetto bipolare della dottrina di Vattel, retto sull’affermazione del diritto di natura e sulla piena autonomia della sovranità statuale, è il segno più distintivo del suo pensiero, ciò che lo pone inevitabilmente all’interno di un contesto storico-politico che ha portato a maturazione il dispositivo di sovranità, impendendone ogni depotenziamento pratico e con-

61

Questa classica definizione dell’Europa come sistema politico si trova in DG, Libro III, § 47. 62 Cfr. M. KOSKENNIEMI, ‘International Community’ from Dante to Vattel, in V. Chetail, P. Haggenmacher, Vattel’s International Law in the XXIst Century, cit., pp. 51-75, in part. 70-75.



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cettuale, come avviene con la Civitas Maxima63. Vattel rappresenta, in questo senso, un crinale, svelando le aporie del diritto di natura in un’epoca di entità sovrane. Anzi, il suo pensiero opera in modo paradossale, perché sebbene rispetti i canoni formali della dottrina giusnaturalistica, la struttura di quest’ultima è perforata dall’affermazione dell’assoluta libertà dello Stato sovrano 64. Vi è un altro aspetto per il quale Vattel può essere considerato come un pensatore a cavallo tra due concezioni politico-giuridiche: la sua distinzione tra diritto interno ed esterno, e diritto imperfetto e perfetto. La Nazione non può essere soggetta ad altra legge che non a quella di natura. Ed è per rispettare questa irriducibile libertà degli Stati che Vattel pensa – con Wolff – che occorra attenuare le durezze del diritto naturale in vista di più facili rapporti commerciali e politici. Il punto su cui Vattel, tuttavia, articola il principio di libertà naturale delle nazioni si collega a un’originale distin-

63

Secondo Beitz la Civitas Maxima non tocca l’autonomia della nazione, tanto che, secondo lui, non solo Vattel ma già Wolff pensa l’assoluto rispetto della sovranità degli Stati e la non-influenza nei loro affari interni. Cfr. C. BEITZ, Political Theory and International Relations, Princeton University Press, Princeton, 1979, pp. 74 sgg. 64 Cfr. E. B. F. MIDGLEY, The Natural Law Tradition and the Theory of International Relations, Elek, London, 1975, pp. 191-192. Anche secondo Le Fur l’affermazione vatteliana di una autonomia quasi assoluta dello Stato e il forte richiamo al ruolo della volontà del diritto portano Vattel ad essere molto vicino alla scuola positivistica nonostante la sua dichiarata vicinanza a quella del diritto naturale. Cfr., L. LE FUR, La théorie du droit naturel depuis le XVIIe siècle et la doctrine moderne, «Recueil des Cours de l’Académie de droit internationale de la Haye», III, 1927.



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zione tra diritto interno ed esterno e diritto imperfetto e perfetto65. Su questa specifica distinzione si è aperto un ampio dibattito tra studiosi che leggono Vattel come colui che opererebbe una rottura con la tradizione del diritto naturale in favore di una svolta positivistica. Il diplomatico svizzero più volte ribadisce la distinzione tra diritto delle genti naturale, o necessario – un diritto interno e obbligatorio in coscienza – e il diritto delle genti volontario – un diritto che obbliga esternamente. Nel libro III, dedicato alla guerra, Vattel usa queste parole per spiegare la differenza: Ma le massime del Diritto delle Genti necessario sono fondate immediatamente sopra la natura delle cose, in particolare su quella dell’uomo e della politica società. Il Diritto delle Genti volontario suppone un principio di più, la natura della grande società delle Nazioni e del commercio, ch’ellano hanno insieme. Il primo prescrive alle Nazioni ciò ch’è assolutamente necessario, e ciò che tende naturalmente alla loro perfezione e alla comune felicità; il secondo tollera ciò ch’è impossibile a schivarsi senza introdurre mali più gravi.66

Secondo Peter Pavel Remec, questa rigida dicotomia si basa sulla particolare concezione vatteliana del diritto naturale, inteso come un sistema di obblighi e di diritti imperfetti che trovano nell’atto di volontà del singolo il momento qualificante che tramuta un diritto imperfetto in perfetto, ovvero esigibile e

65 66

DG, Prefazione, p. xii. DG, III, § 192.



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coattivo67. Tale atto di volontà opera prima tra gli individui, attraverso le leggi civili che rendono perfetti quegli obblighi e diritti che nello stato di natura erano imperfetti; successivamente tra gli Stati, dove gli obblighi e i diritti imperfetti del diritto delle genti necessario vengono «resi perfetti o mediante un quasi-contratto, ossia con il consenso presunto delle nazioni, posto a fondamento appunto del diritto delle genti volontario, oppure da un atto esplicito di volontà, con i trattati che costituiscono il diritto delle genti convenzionale, o ancora da un atto implicito di volontà, che la nazione esprime attraverso la consuetudine, dando vita al diritto delle genti consuetudinario»68.

67

Cfr. P. P. REMEC, The Position of the Individual Law according to Grotius and Vattel, Martinus Nijhoff, Nihoff, The Hague, 1960, pp. 129-157. Roberto Mordacci così spiega la distinzione tra doveri perfetti e imperfetti: «i primi autorizzano l’uso della coercizione per ottenere il loro rispetto, in quanto sono necessari all’esistenza stessa della società, mentre i secondi riguardano l’ordine della carità, quindi gli aspetti motivazionali e del carattere, e non possono essere imposti». R. MORDACCI, Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 174. 68 G. SILVESTRINI, Giustizia delle guerra e disuguaglianza, cit., p. 384. Secondo Remec – riporta Silvestrini – Vattel legge in questo modo il diritto delle genti a causa del suo «non-juristic concept of rights and obligations» (cfr. in part. REMEC, op. cit., pp. 133-139). Da ciò egli fa derivare che nemmeno il diritto di autoconservazione, nella prospettiva del diritto naturale, sia un diritto perfetto, tanto per l’individuo, quanto per le nazioni. Sarebbe solo col diritto volontario che il diritto di autoconservazione diventerebbe perfetto, grazie al consenso presunto delle nazioni. Seguendo la lettura fornita da Remec, quindi, per Vattel il diritto naturale finirebbe per coincidere con la morale, mentre il diritto volontario sarebbe l’unico diritto perfetto, ovvero in grado di costringere. Questa interpretazione è ripresa anche da F. S. RUDDY, International Law in the Enlightenment. The Background of Emerich de Vattel’s Le Droit des Gens, Oceana Publications, New York, 1975; D. BOUCHER, Political Theories of International Relations, cit.,



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Va precisato che la separazione tra diritto delle genti necessario e diritto delle genti volontario viene posta nel testo di Vattel in modo meno netto rispetto a quanto viene proposto da Remec. Nella Prefazione, infatti, Vattel asserisce che entrambi i diritti delle genti sono stabiliti per natura, ma ciascuno a sua maniera: mentre il necessario è come una «legge sacra», che le nazioni e i sovrani devono rispettare e seguire in tutte le loro azioni, quello volontario è come una regola che nazioni e sovrani devono seguire nelle loro interazioni col fine di preservare il bene comune e la sicurezza. Il diritto delle genti necessario, quindi, procede direttamente dalla natura, mentre il diritto delle genti volontario viene fatto osservare dalla «madre comune degli uomini […] in considerazione dello stato in cui le Nazioni si trovano le une verso le altre e pel bene dei loro affari»69. È stato osservato, a proposito dell’ambigua nozione di «diritto volontario» in Vattel, che essa è la norma alla quale possiamo presumere che ognuno consentirebbe se possedesse una piena avvertenza del proprio interesse e della propria posizione relativa nei confronti degli altri attori del sistema internazionale: in questo senso Vattel dice che essa è fondata su un consenso presunto, e che è ancorata a un’idea razionale di utile e di bene; è posta quindi da una volontà rettamente formata secondo ragione70. D’altra parte, però, in questo modo Vattel si p. 262; S. BEAULAC, The Power of Language in the Making of International Law. The Word Sovereignty in Bodin and Vattel and the Myth of Westphalia, Martinus Nijhoff, Leiden-Boston, 2004, pp. 162-165. 69 DG, Prefazione, pp. xii-xiii. Aggiunge qui inoltre Vattel: «Questo doppio Diritto, fondato su principi certi e costanti, è suscettibile del metodo dimostrativo e formerà esso il principale argomento della mia Opera». 70 È ancora Martti Koskenniemi a suggerire questa chiarificazione, osservando che in essa trovava una soluzione il dilemma tra volontarismo e



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avvia a superare l’idea che la legge di natura esprima un ordine oggettivo e cogente, e apre alla concezione realistica che nelle relazioni internazionali si contrappongono volontà diverse e interpretazioni diverse del diritto di natura: come ha osservato Massimo Mori, «il diritto internazionale volontario di Vattel, legato alla legge di natura solo in foro interiori, è affidato alla buona coscienza di stati liberi e indipendenti che, come primo dovere, hanno quello di badare alla propria conservazione e al proprio rafforzamento»71. Ciò detto, resta pertanto sicuramente in Vattel la consapevolezza del limite del diritto delle genti naturale/necessario, la sua ineffettività. Ed è ciò che spingerebbe Vattel verso un impianto teorico più centrato su un sistema di norme a base volontaria, con cui Stati liberi e indipendenti danno garanzie del rispetto degli impegni. Per Vattel, quindi, la distinzione fra diritto naturale e diritto positivo va cercata nella natura o nella volontà ovvero nelle fonti stesse del diritto, e non nella «assenza o presenza della facoltà di costringere». Così facendo – sostiene Silvestrini – egli recupera l’«accezione tomistica del termine “positivum”, accolta anche da Grozio, ossia un diritto “posto” da una volontà»72. Una tale posizione è ricavabile anche dal fatto che lo stesso Vattel precisa che esiste ancora un’altra specie di diritto delle genti, quello arbitrario, il quale «vien esso dalla volontà razionalismo tipico della dottrina giusnaturalista, e che, di nuovo, questa idea di «diritto volontario» coincide con la ragione illuminata dei diplomatici europei, cioè di coloro che hanno una retta conoscenza di ciò che gli interessi e la situazione comandano in ogni momento: cfr. M. KOSKENNIEMI, ‘International Community’ from Dante to Vattel, cit., pp. 73-74. 71 Cfr. M. MORI, La pace e la ragione, cit., p. 85. 72 G. SILVESTRINI, Giustizia delle guerra e disuguaglianza, cit., p. 388.



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ovvero dal consenso delle Nazioni». Questo particolare diritto delle genti comprende in realtà due tipi di diritto delle genti: quello convenzionale (oggi diremmo «pattizio»: quello in cui gli Stati acquistano diritti e contraggono obblighi mediante accordi espliciti o trattati); e quello consuetudinario (in cui le nazioni possono obbligarsi per tacito consenso). «L’uno e l’altro derivano tutta la loro forza dal Diritto Naturale, che prescrive alle Nazioni l’osservanza dei loro impegni espliciti ovvero taciti»73. Ancora, quindi, Vattel sembra riporre tutta la forza prescrittiva del diritto delle genti convenzionale e consuetudinario nel diritto di natura. Poco dopo, tuttavia, nei Preliminari egli ripone nuovamente la forza di questi diritti sulla volontà scrivendo: Le divisate tre specie di Diritto delle Genti, volontario, convenzionale e consuetudinario, insieme compongono il Diritto delle Genti positivo; stante che tutti procedono dalla volontà delle Nazioni, il Diritto volontario dal loro consenso presunto; il Diritto convenzionale da un consenso espresso; e il Diritto consuetudinario da un consenso tacito.74

Poiché questi tre modi sono gli unici dai quali è possibile ricavare un diritto proveniente dalla volontà delle nazioni, non ci possono pertanto che essere «tre sorti di Diritto delle Genti positivo»75. La posizione intermedia di Vattel, tra giusnaturalismo e giuspositivismo, è stata colta anche da alcuni studi di sto-

73

DG, Prefazione, p. xiii. Ivi. 75 DG, Preliminari, § 27. 74



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ria e teoria del diritto, dove si è sottolineato che, a differenza di Pufendorf e Hobbes – i quali negano giuridicità al diritto delle genti positivo, ritenendo che il diritto delle genti sia coestensivo al diritto naturale – Wolff e Pufendorf ritengono vero diritto, cioè obbligante, anche il diritto posto in essere tra i sovrani, e valorizzano l’elemento del consenso e la pratica – peraltro già invalsa – degli Stati di giuridificare i loro rapporti mediante i trattati76. Questo sistema di norme a base volontaria deve avere lo scopo – ciò che conferma l’intento vatteliano di tenere insieme le esigenze della teoria e quelle della politica – di fissare un ordine minimo nei rapporti tra gli Stati, tracciando ciò che Pier Paolo Portinaro ha chiamato una «dietetica del potere»77, vale a dire un impianto teorico che tenga insieme l’inevitabile ingiustizia del potere – che con realismo Vattel considera – e l’ineliminabilità della violenza, come strumento sempre possibile a cui possono ricorrere gli Stati. Tale prospettiva si accompagna ad una tensione universalistica nei confronti dell’umanità, la quale include tutta una serie di doveri ai quali

76

Seguo qui A. ORAKHELASHVILI, The origins of consensual positivism. Pufendorf, Wolff and Vattel, in Id. (a cura di), Research handbook on the theory and history of international law, Cheltenham, UK – Northampton, MA, Edward Elgar, 2011, pp. 93-110. In Vattel, la svolta verso un positivismo basato sul consenso non rappresenterebbe poi un rifiuto del diritto naturale, o una netta alternativa a questo, ma il tentativo di dargli un complemento. Il diritto naturale continua ad avere un ruolo nella giustificazione e nell’interpretazione di un diritto ormai sempre più fondato sul consenso e sulla libertà contrattuale degli Stati: secondo Orakhelashvili, in particolare, il criterio decisivo continuerebbe a essere per Vattel la conformità della condotta particolare a un’astratta norma di diritto naturale. 77 P. P. PORTINARO, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 92.



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le nazioni devono attenersi nell’obiettivo di raggiungere una pace profonda che consenta alle società di svilupparsi e progredire, evitando il triste evento della guerra78.

Per una legge dei Sovrani Al termine del nostro percorso all’interno della complessa architettura del diritto vatteliano, possiamo porci una domanda: chi è il destinatario reale a cui Vattel dedica idealmente l’opera? Il pensatore che rivendica per sé l’appartenenza a una terra libera, per chi scrive il suo testo? Per il pubblico di una sempre più solida sfera pubblica oppure per coloro i quali ricoprono incarichi di governo? Nel corso delle nostre osservazioni una risposta è in parte già emersa. Ma torniamo alle parole dell’autore stesso: verso la fine della sua Prefazione, infatti, Vattel decide di essere estremamente chiaro su questo punto, precisando il senso e l’obiettivo del suo lavoro. Il Diritto delle Genti consister dee principalmente […] in una ragionata a giudiziosa applicazione de’ principii della Legge Naturale agli affari e alla condotta delle Nazioni e dei Sovrani79.

Ed è per questo motivo che egli specifica che per ben comprendere il «Diritto delle genti» sia indispensabile una co-

78 79

DG, III, § 51. DG, Prefazione, p. xiii.



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

noscenza preliminare del «Diritto Naturale ordinario», poiché l’intento di Vattel è di «stabilire in poche parole i più importanti principii del Diritto Naturale» da applicare alle Nazioni80; principi che egli cerca di indagare talvolta rintracciandone i fondamenti, talaltra ricorrendo a «verità comuni riconosciute da ogni Lettore di buona fede»81. Il Diritto delle Genti è la Legge de’ Sovrani, per loro principalmente dee scriversi e pei loro Ministri. Interessa il medesimo veramente tutti gli uomini, e lo studio delle sue massime conviene, in un paese libero, a tutti i Cittadini; ma poco importerebbe di ammaestrarne soltanto uomini privati che non sono chiamati ai Consigli delle Nazioni, e che di quelle non determinano le risoluzioni.82

In questo passaggio Vattel rende chiarissimo tutto il senso politico del suo saggio: delineare i principi e le massime che serviranno ai Sovrani per informare le loro condotte, le loro scelte, i loro comportamenti reciproci. Certo, è cosa buona che i cittadini di un Paese libero conoscano le leggi che compongono il diritto delle genti, ma cosa infinitamente più importante è che i «condottieri de’ popoli» e tutti coloro «impegnati ne’ pubblici negozii» facciano un «serio studio di una scienza che esser dovrebbe la loro Legge e la loro bussola». Se è importante un buon «Corpo di leggi» che regoli la «civile Società», il «Diritto delle Genti» è ancor più importante del «Diritto civile», perché

80

Ibidem, pp. xiii-xiv. Ivi. 82 Ibidem, p. xiv. 81



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Capitolo II

le sue conseguenze si ripercuotono sulle singole persone in modo decisamente più significativo83. E in questa concezione degli affari degli Stati, Vattel sembra rivolgersi indirettamente contro la tradizione della ragion di stato, e comunque sicuramente contro coloro che conducono gli affari degli Stati per trovare il proprio vantaggio, o che perseguono una politica «falsa» perché non «fondata sopra la virtù»84. A questa visione della politica Vattel ne contrappone un’altra, che trova il suo fondamento in un principio senza dubbio più dichiaratamente universale. Infatti, spiegando che nel fare ricorso a esempi egli spera di non aver fatto torno a nessuna e di aver rispettato tutte le nazioni, Vattel aggiunge: «sonomi fatta una Legge più inviolabile di rispettare la verità e l’interesse del genere umano»85. Appare chiaro come tutto il portato filosofico illuministico si concentri nel proposito vatteliano. Egli ha già a portata di mano – poco meno di qua-

83

Ivi. Ivi. Per un’analisi delle teorie della ragion di stato e per un’accurata ricognizione bibliografica sull’argomento si segnala: G. BORRELLI, Ragion di stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, il Mulino, Bologna, 1993. Anche Christoph Good ha di recente osservato che, nonostante la sua situazione personale di servitore dei potenti e la conseguente moderazione nello scrivere, i contemporanei capirono che Vattel scriveva contro l’assolutismo continentale, come dimostra la sua recezione presso i rivoluzionari americani e poi nel pensiero prerivoluzionario e anti-monarchico francese. C. GOOD, Emer de Vattel (17141767) – Naturrechtliche Ansätze einer Menschenrechtsidee und des humanitären Völkerrechts im Zeitalter der Aufklarung, Baden-Baden, Nomos Verlag, 2011, p. 185. 85 DG, Prefazione, p. xv. 84



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L’interpretazione vatteliana del diritto delle genti

rant’anni prima di Per la pace perpetua di Kant86 – il senso di un progetto politico-giuridico da realizzare per proteggere l’interesse universale del genere umano dall’egoismo particolaristico degli Stati.

86

I. KANT, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico (1795), Feltrinelli, Milano, 2006. Mi permetto di riportare qui quanto già citato nel testo del primo capitolo, ovvero questa frase quasi conclusiva scritta da Vattel nella Prefazione in cui sembra preannunciare l’idea di una visione cosmopolitica dell’accoglienza degli stranieri: «Nato io sono in un paese, di cui la libertà è l’anima, il tesoro e la Legge fondamentale: posso essere ancora per la mia nascita l’amico di tutte le Nazioni.» DG, Prefazione, p. xv. E’ possibile anche fornire un’interpretazione alternativa del passo citato, ovvero quella di una posizione di neutralità – confacente alla Svizzera – interpretata come imparzialità e benevola aequalitas amicitiae verso tutti gli Stati (nozione che troviamo in Bynkershoek, De Rebus Bellicis, 1737, cit. da Carl Schmitt, Il

nomos della terra. Nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», Adelphi, Milano, 2006, p. 197).



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III Pensare lo Stato

Lo Stato come Nazione Il contributo fondamentale che Vattel ha offerto alla formazione di un diritto delle genti moderno e a un nuovo sistema di ordine internazionale europeo non sarebbe pienamente comprensibile senza cogliere appieno il modo in cui egli pensa il soggetto politico attore della sua teoria: lo Stato. La necessità di fornire un’esatta definizione di questa entità politica è manifesta fin dalle prime pagine del Diritto delle Genti, quando nel primo brevissimo paragrafo dei Preliminari – intitolato «Cosa sia una Nazione, ovvero uno Stato» – si legge: Le Nazioni ovvero Stati sono corpi politici, Società d’uomini uniti insieme, affin di procurare con forze riunite la loro salvezza e il loro vantaggio.1

Della definizione vatteliana ciò che colpisce, e ciò su cui è doveroso soffermarsi, è che egli usi il termine «Nazione» e quello di «Stato» come se fossero sinonimi. La scelta di sovrapporre queste due categorie non è affatto scontata, anzi, nella storia del pensiero politico essa segna un passaggio che anticipa tutto il dibattito che successivamente avrà luogo sul tema

1

DG, Preliminari, § 1.

Capitolo III

della nazione, raggiungendo la sua piena maturità con la Rivoluzione francese. Come ha osservato Hans Kohn, nel corso della prima metà del Settecento l’Europa viveva ancora ampiamente in una fase prenazionalistica. Il nazionalismo avrebbe iniziato la sua ascesa solo con la crescita degli Stati centralizzati, con la secolarizzazione della vita politica, con l’avanzare dell’individualismo, e della sua fede nella libertà, e con l’accelerazione dei processi economici, sempre più inclini a modificare gli assetti tradizionali dell’organizzazione politica e sociale2. E a tutte le condizioni descritte da Kohn se ne deve aggiungere necessariamente una, la più importante, ovvero che fino a quel momento non si era ancora affermato il concetto stesso di nazione. Nel mondo francofono della prima metà del Settecento, l’espressione “nazione” non si era ancora affermata con forza. Basti pensare che tra il 1728 e il 1731 Voltaire scrive alcune lettere di osservazioni sull’Inghilterra, pubblicate poi nel 1733 col titolo Letters concerning the English Nations3, e che quando queste saranno tradotte l’anno successivo in francese4, il titolo perderà quel riferimento alla “nazione”. Ciò rivelava l’incapacità della lingua francese di raccogliere pienamente il significato di una categoria politica che nel mondo anglosassone già si stava affermando, sebbene non ancora con tutta la forza che acquisirà successivamente.

2

H. KOHN, The Idea of Nationalism. A study in its origins and background, Transaction Publishers, New Brunswick - London, 2008, p. 204. 3 VOLTAIRE, Letters Concerning the English Nations, C. Davis, London, 1733. 4 ID., Lettres écrites de Londres sur les Anglois et autres sujets, Basle, 1734.



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Pensare lo Stato

Com’è stato osservato, alla fine del Seicento il termine “nazione” ancora non ha acquisito né in Inghilterra né in Francia una significativa valenza politica. O, più precisamente, si può dire che fino a quel momento un po’ in tutta Europa esso aveva ancora un significato ‘premoderno’5. È solo agli inizi del Settecento che in Francia il termine “nazione” inizia ad assumere più propriamente una valenza politica, ma con riferimento all’identificazione tra la persona del Re e la Nazione6, come testimonia un testo del 1741, il Des Antiquiteés de la nation et de la Monarchie Françoise del marchese Gilbert Charles le Gendre: qui il concetto di nazione ha già tutta una dignità politica, ma resta collegato ancora alla monarchia, ritenuta artefice, grazie alle «dolcezza delle sue leggi», alla religione e al contributo delle armi, della nascita della nazione francese stessa7. Questo testo ci offre una prova esemplare di come a un certo punto della storia politica francese si ricorra alla categoria di “nazione” per operare una legittimazione della monarchia attraverso un espediente retorico che, in realtà, punta a rovesciare i termini: non è la nazione francese a rendere la monarchia tale, ma è la

5

Cfr. R. ROMEO, Idea e coscienza di nazione fino alla prima guerra mondiale, in ID., Italia mille anni, Le Monnier, Firenze, 1981, pp. 135-168. Ancora in questa fase in Germania il termine era utilizzato per indicare le nazioni nobiliari legate all’antico regime o al Sacro romano impero o al patriottismo imperiale. In Italia si usava il termine “nazione” sia per definire le comunità locali cittadine, sia per identificare l’Italia in quanto comunità di una lingua letteraria. Cfr. Ibidem e, sul significato del termine “nazione” nella lingua e nella letteratura italiane, A. DI BENEDETTO, I libri che hanno fatto (e disfatto) gli italiani, Aragno, Torino, 2012. 6 Cfr. G. RUTTO e F. TRANIELLO, Nazione, in A. D'Orsi (a cura di), Alla ricerca della politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 7 G. C. LE GENDRE, Des Antiquités de la nation et de la Monarchie Françoise, Briasson, Paris, 1741, p. 2 (mia la traduzione).



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monarchia a fare la nazione francese. È chiaro, tuttavia, che la nazione ha cominciato a diventare uno strumento concettuale in grado di donare senso all’ordine politico. Non è un caso allora che, in Francia, i successivi tentativi di scalzare la monarchia dalla sua posizione di potere saranno legati proprio al tentativo dei nuovi soggetti politici di identificarsi con la «Nazione». Fénélon, Saint-Simon e Boulanville cercano di accreditare l’idea che solo l’aristocrazia possa rappresentare legittimamente gli interessi della Nazione. Mably, invece, intorno alla metà del XVIII secolo rielabora «questi concetti in una compiuta teoria della sovranità nazionale, identificando la nazione con la ‘nazione dei cittadini’»8. La concezione vatteliana si inscrive sicuramente in quest’ultima dimensione, ampliata e ‘democratizzante’, del discorso sulla nazione, che poggia sulla convinzione – da Vattel condivisa – che «gli uomini sono naturalmente eguali», e pertanto hanno uguali diritti e obblighi9. L’assunto dell’eguaglianza degli uomini è un dato talmente imprescindibile nel pensiero del nostro autore da determinare profondamente la sua concezione delle nazioni. Essendo queste ultime l’insieme di uomini tra loro uguali, a loro volta le Nazioni sono da considerarsi entità tra loro uguali, e per effetto di questa eguaglianza, «ciò che lecito è ad una Nazione, lo è parimenti a

8

F. TUCCARI, Nazione, idea di, voce in «Enciclopedia delle Scienze Sociali», Treccani, Roma, 1996. 9 DG, Preliminari, § 18. Al paragrafo 18 troviamo anche la celebre similitudine, importante per la teoria internazionale di Vattel, secondo cui come un nano è altrettanto uomo che un gigante, così una piccola repubblica non è meno sovrana del regno più potente.



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qualunque altra; e ciò che non è lecito all’una, non lo è né pur all’altra»10. Osserva Remec che i termini di «Stato» e «Nazione» non sono sempre usati nel Diritto delle Genti come sinonimi. Sfogliando il testo, talvolta Vattel intende con «Nazione» il corpo politico, l’insieme delle persone unite attraverso il «patto di società»; mentre col termine «Stato» si riferisce talvolta più precisamente all’organizzazione politica del corpo sociale, al sistema, ovvero al tipo di costituzione, o regime, che la Nazione decide di utilizzare per raggiungere i propri fini11. Questa osservazione apre un’interessante pista interpretativa circa la disomogeneità con cui talvolta – ma in realtà molto raramente – vengono usati i due termini. Le distrazioni, in cui può essere incappato Vattel, ci dicono che egli era sicuramente avvertito della natura stessa dello Stato quale entità politicoamministrativa formatasi nel corso di un lungo processo storico. Nella distrazione si svela forse il segno di uno sforzo teorico, ma anche quello della volontà con cui l’autore tenta di unire indissolubilmente i concetti di Stato e di nazione. Il senso di questo sforzo non può che risiedere nell’intenzione di spostare l’enorme potere dello Stato nelle mani della Nazione, ovvero degli uomini, uguali e liberi, che sono la base da cui acquista legittimità tutta l’entità politica statale-nazionale. Ancora Remec rileva infatti come, nella triade di Stato, nazione e sovrano

10

DG, Preliminari, § 19. P. P. REMEC, The Position of the Individual Law According to Grotius and Vattel, cit., pp. 171-172. Da questo punto di vista, sottolinea Remec, la teoria di Vattel si attagliava a tutti i regimi politici esistenti, ed fu grazie a questa sua duttilità che essa si impose nella dottrina dei soggetti di diritto internazionale. 11



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che Vattel propone, l’ultimo appaia relativamente subordinato alle prime due, come colui che è scelto per rappresentare e per governare secondo una costituzione già data; tuttavia, nel testo di Vattel il sovrano appare ancora con i tratti noti dell’assolutismo12. Il seguente passo dal primo libro dell’opera mostra bene la tensione interna alla teoria di Vattel: La Società politica è una persona morale (prelim. §2) in quanto ha essa un intelletto e una volontà , di cui fa uso per la condotta dè suoi affari, ed è capace di obbligazioni e di Diritti. Allorchè dunque la medesima conferisce ad alcuno la Sovranità, in lui ripone il suo intelletto e la sua volontà, in lui trasporta le sue obbligazioni e i suoi diritti, in quanto si riferiscono all’ amministrazione dello Stato, all’ esercizio della pubblica autorità; e il conduttore dello Stato, il Sovrano, diventando così il soggetto, in cui risiedono le obbligazioni e i diritti relativi al Governo, in lui ritrovasi la morale persona, che senza cessare assolutamente di esistere nella Nazione, non opera quindi innanzi che in lui o per mezzo di lui. Tale si è la origine del carattere rappresentativo, che si attribuisce al Sovrano. Egli rappresenta la sua Nazione in tutti gli affari, che può avere siccome Sovrano. Non è un avvilire la dignità del maggior Monarca l’attribuirgli questo carattere rappresentativo: nulla per l’ opposito la rialza con più splendore: con ciò il Monarca riunisce nella sua persona tutta la maestà , che appartiene al corpo intero della Nazione.13

12 13

Ivi, pp. 172-173. DG, I, § 40.



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Al tempo stesso, però, il corpo della nazione riceve l’ultima sanzione di una dignità politica quando Vattel gli riconosce il diritto di deporre un sovrano tirannico14. In considerazione della stretta connessione posta da Vattel tra la nazione e lo Stato, è possibile ancora rilevare un aspetto della sua teoria che contribuisce a collocare l’opera e il suo autore nella storia dello sviluppo dell’entità statuale stessa in Europa. Abbiamo visto come Vattel fosse avvertito della natura dello Stato quale entità politica e, in particolare, amministrativa formatasi nel corso di un lungo processo storico. Il libro I del Droit des Gens, dedicato alle questioni politiche interne, restituisce complessivamente l’immagine di uno Stato che si occupa di sostenere il benessere e l’utile dei propri sudditi in molteplici ambiti della vita sociale ed economica, facendovi penetrare la propria logica ordinativa, ma anche richiedendo dai sudditi stessi il rispetto delle regole e l’impegno per l’interesse pubblico. Valga come esempio, tra gli altri, quanto Vattel scrive a proposito della rete di strade e canali di pubblica utilità – che nella Francia del suo tempo trovano l’esempio più «magnificente»: Una delle principali sollecitudini , che dee il Governo al ben pubblico, al Commercio in particolare riguarderà dunque le strade maestre, i canali, ec . Esso non dee trascurare nulla, onde renderli egualmente comodi e sicuri. La Francia è uno degli Stati del mondo, ove si adempia questo pubblico dovere con più attenzione e magnificenza. In ogni luogo numerose Compagnie a cavallo vegliano alla sicurezza de’ viaggiatori; magnifici argini, ponti, canali, facilitano la comunicazione

14

Cfr. DG, I, § 51.



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d’una ad altra provincia. [Luigi] XIV, ha unito i due mari con un’opera degna dei Romani. La Nazione intera dee certamente contribuire a cose, che le sono di tanta utilità. Allorchè dunque la costruzione e la riparazione delle Strade maestre, de’ ponti, de’ canali, fosse di troppo aggravio alle rendite ordinarie dello Stato, il Governo può obbligare i Popoli a lavorarvi, o a concorrere alle spese. Sonosi veduti paesani di alcune Provincie della Francia mormorare a cagion dei lavori che loro imponevansi per per la costruzione degli argini; ma non hanno eglino tardato a benedire gli autori dell’ impresa, tosto che la esperienza gli ha illuminati intorno a loro veri interessi.15

Tipico in questo passaggio è il porre in parallelo sia i doveri nei confronti della nazione, sia i diritti che esso ha di esigere dai sudditi di partecipare alla costruzione del del benessere generale. Per dare vita a una società ben amministrata e prospera – in fondo il fine per cui il governo stesso è costituito tra gli uomini16 –, è anzi necessario che il sovrano favorisca lo sviluppo dei talenti del suo popolo, e gli infonda disciplina e senso dell’interesse collettivo. Leggiamo ancora nel libro I che il sovrano: Egli dee innoltre dirigere, per quanto gli è possibile, a questo gran fine tutte le facoltà , i lumi e le virtù dei Cittadini: dimodochè non sieno utili soltanto ai privati, che le posseggono , ma ancora allo Stato. E’ questo uno dei più gran segreti dell’arte di regnare. Lo Stato sarà potente e felice, se le buone qualità de’ sudditi

15 16

DG, I, §§ 101-102. Cfr. la definizione di «costituzione» in DG, I, 27.



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passando l’augusta sfera delle virtù dei privati, divengono virtù di Cittadini. Questa ben nota disposizione sollevò la Romana Repubblica all’apice della potenza e della gloria. 17

Non sembra inappropriato riconoscere allora, nella teoria vatteliana dello Stato, quella che Francesco Di Donato ha recentemente concettualizzato come «civilizzazione statuale» (o, avendo questa trovato il suo esempio storico più tipico nello Stato nazionale francese, civilisation étatique)18. Vattel assiste, teorizzandolo, a un processo in realtà di lunga durata, costituito dalla interazione «virtuosa» tra i pubblici poteri, portatori della mentalità statuale, e la società civile, che sostiene e interiorizza le regole di questa mentalità, dando vita a uno Stato amministrativo che assicura un benessere crescente. «L’affermazione di questo Stato di diritto», ha spiegato Di Donato con parole che hanno una decisa corrispondenza in Vattel, «potenziò la socialitas statuale, liquidando i micropoteri feudali… e affermando nel contempo un individualismo virtuoso», cioè benefico per l’interesse generale; e la civilizzazione statuale, in una logica di «scambio» tra cittadini e apparato statale, «per un verso fece crescere nel corpo sociale la piena coscienza etico-politica della

17

DG, I, § 108. F. DI DONATO, Sulla civilizzazione statuale, «Ragion pratica», numero 42, giugno 2014, pp. 69-86; cfr. anche ID., La civilizzazione statuale: neologismo specialistico e strumento concettuale per la comprensione del pensiero moderno, in M. T. ZANOLA - C. DIGLIO - C. GRIMALDI, Terminologie specialistiche e diffusione dei saperi, Milano, EDUCatt, 2016, pp. 41-74; ID., La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea, il Mulino, Bologna, 2010, pp. 103-152. 18



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propria importanza, e per un altro responsabilizzò i poteri politici e gli attori della vita istituzionale»19.

La nazione tra cultura e politica Appare chiaro che la concezione vatteliana della nazione è, pertanto, intimamente politica. Questa affermazione ci introduce nei termini di un più ampio dibattito teorico sulle possibili linee interpretative del concetto di nazione e di nazionalismo. Nel suo studio dedicato a questo tema, Kohn identifica due tradizioni distinte di nazionalismo: una interpreta la nazione come un concetto etnico-culturale, l’altra come uno civile-politico. Osservando le diverse interpretazioni che nel corso della Modernità sono state formulate del concetto di nazione, si nota che tale distinzione trova pieno spazio nella storia del pensiero politico. Si prenda in considerazione l’esempio di Johann Gottfried Herder. Quando si parla di nazione in età moderna, uno degli autori che maggiormente ha contribuito alla diffusione di questa categoria è stato senza dubbio il filosofo prussiano, il quale con una serie di saggi concorre in maniera decisiva a dare forma a una nuova lettura del concetto di nazione20. Quella

19

F. DI DONATO, Sulla civilizzazione statuale, cit., pp. 73-74. Per il concetto di «scambio» Di Donato fa riferimento a G. BORRELLI, Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, il Mulino, Bologna, 1993. 20 Cfr. Trattato sull’origine della lingua (1772), Estratto da una corrispondenza su Ossian e i canti popolari antichi (1773), l’Introduzione alla raccolta Canti popolari (1778) e Idee per la filosofia della storia



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di Herder è sicuramente una visione etnico-culturale della nazione, i cui elementi costitutivi, più che le istituzioni politiche, sono quelli afferenti alla cultura, come i canti popolari, che secondo il filosofo contengono una sorta di archivio della memoria, o la lingua, interpretata come un dono di Dio, un bene immortale che si trasmette dai genitori ai figli. Nella prospettiva herderiana, il popolo assume primariamente un significato metapolitico, acquisendo le sembianze di un organismo che si sviluppa e si evolve nel corso della storia21. Ogni nazione è unica e ha, quindi, una sua individualità che è «un dato naturale, originario e costitutivo della storia umana»22. Questa visione della nazione è stata studiata anche da importanti autori come Friedrich Meinecke, il quale scrive che le nazioni «sono grandi e possenti comunità di vita sorte attraverso un lungo processo storico e sottoposte a movimenti e mutamenti ininterrotti; e perciò appunto c’è nella natura della Nazione qualche cosa di fluido»23. dell’umanità (1784). Riportati in H. FENSKE, Il pensiero politico contemporaneo, il Mulino, Bologna, 2006, p. 134. 21 Secondo Chabod, con Herder ha inizio una tradizione naturalisticooggettivistica del concetto di nazione che è tipica del mondo tedesco e che passando per Fichte proseguirà sostanzialmente intatta fino a Hitler. Cfr. F. CHABOD, L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 68-69. 22 F. TUCCARI, La nazione, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 102. 23 Meinecke prosegue scrivendo: «Sedi comuni, comune discendenza o, più esattamente – dato che non ci sono nazioni di razza pura nel significato antropologico della parola – uguale o simile mescolanza di sangue, lingua comune, vita spirituale comune, lega o federazione di parecchi Stati d’uguale natura: tutte queste possono essere caratteristiche importanti, essenziali, d’una nazione; ma con ciò non è detto che una nazione, per essere tale, debba possederle tutte insieme. Quel che essa deve possedere incondizionatamente è un intimo nocciolo naturale, nato dalla consanguineità. Su di esso possono



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Un passaggio del già citato The Idea of Nationalism ci aiuta a comprendere in quale modo la coppia stato-nazione sia diventata oggetto di letture diverse nelle due tradizioni interpretative. È col Romanticismo, sostiene Kohn, che inizia a stabilirsi una distinzione tra Stato e nazione: i romantici vedono lo Stato come una macchina e una costruzione giuridica, un puro accidente della storia, mentre credono che la nazione sia il risultato di un processo naturale e perciò qualcosa di sacro, eterno e organico, fondato su radici più profonde rispetto a quelle dell’opera degli uomini24. Le parole di Kohn ci aiutano a comprendere quanto sulla diversa interpretazione del rapporto statonazione si giochi un punto centrale delle due tradizioni di pensiero: quella civile, che interpreta lo Stato come parte integrante della Nazione, e quella etnico-culturale, che lo interpreta invece come un corpo artificiale sostanzialmente estraneo a essa. A muoversi sempre lungo questo doppio binario interpretativo del principio di nazionalità c’è anche Chabod. Secondo quest’ultimo, ciò che Kohn chiama principio civile è, in sostanza, quel fondamento «volontaristico e soggettivistico» del principio di nazionalità che troverà in Rousseau uno dei primi e più importanti esponenti, in particolar modo nel Contratto sociale (1762)25. Qui il filosofo ginevrino identifica la nazione sostanfondarsi e crescere quella peculiare, profonda comunanza spirituale, quella più o meno chiara coscienza di essa. […] Prima premessa per lo sviluppo di una nazione è ch’essa abbia un saldo fondamento territoriale, una ‘patria’. […] Lingua, letteratura, religione comuni sono i più importanti ed efficaci possessi culturali, dai quali una nazione culturale possa sorgere e venir cementata.» F. MEINECKE, Cosmopolitismo e Stato nazionale, La Nuova Italia, Roma, 1975, pp. 87-88. 24 H. KOHN, The Idea of Nationalism, cit., p. 249. 25 F. CHABOD, L’idea di nazione, cit., pp. 70 ss.



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zialmente con il corpo collettivo che grazie alla volontà generale diviene corpo politico titolare di sovranità26. Uno dei passi dell’opera di Rousseau in cui il termine “nazione” è più chiaramente associato a questa concezione politica recita: Così, per la natura del patto, ogni atto di sovranità, vale a dire ogni atto della volontà generale, obbliga o favorisce allo stesso modo tutti i Cittadini, in maniera tale che il Sovrano conosce solo il corpo della nazione e non fa distinzione tra alcuno dei suoi singoli che la compongono.27

Appare chiaro come in questo caso patto, sovranità e volontà generale aprano la strada a un concetto di nazione in cui il popolo emerge quale soggetto politico centrale di un ordinamento statuale essenzialmente democratico. Rousseau riprende l’idea di Mably della «nazione dei cittadini» che, come abbiamo visto sopra, già contribuì ad ampliare in senso democratico il significato di nazione.

26

Rousseau sembra stabilire, in ogni caso, una differenziazione tra il termine “nazione” e quello di “stato” quando, alla fine della spiegazione del processo costitutivo del patto sociale, scrive: «Istantaneamente, al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica che si crea così dall’unione di tutte le altre si chiamava una volta Città e ora si chiama Repubblica o corpo politico; quest’ultimo viene detto dai suoi membri Stato quando è passivo, Sovrano quando è attivo.» J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., pp. 67-68. 27 Ivi, p. 84.



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Una lettura decisamente più problematica del contributo di Rousseau è invece offerta da Kohn, per il quale il filosofo ginevrino sarebbe invece colui il quale contribuisce al pieno sviluppo sia della tradizione politico-civile, sia di quella etnicoculturale: da una parte perché una nazione che si esprime attraverso la volontà generale non poteva essere un prodotto della natura28; dall’altra perché, teorizzando che la libertà consiste non nell’obbedire ai propri appetiti ma alle leggi che noi stessi ci imponiamo, Rousseau sottoporrebbe il mero interesse di potenza individuale a una più alta ed etica nozione di comunità nazionale29. La tesi di Kohn trova qualche fondamento soprattutto se si allarga lo sguardo oltre Il Contratto sociale. Già nel 1758, con Lettera sugli spettacoli (1758)30, e dopo nel Progetto di Costituzione per la Corsica (1765), ma soprattutto nelle Considerazioni sul governo di Polonia (1771)31, infatti, «emerge un concetto tipicamente romantico e anti-illuministico di nazione, molto vicino a quello elaborato dall’elvetismo settecentesco nella sua lotta contro l'egemonia francese»32. Rousseau, quindi, oltre ad incarnare ad esprimere i temi di una concezione politica della nazione, in questi caso ne traccia un’idea in cui essa è descritta come un’entità storico-culturale che ha il dovere di difendersi dai pericoli esterni che ne minacciano l’identità, per

28

H. KOHN, The Idea of Nationalism, cit., p. 249. Ibidem, p. 246. 30 J.-J. ROUSSEAU, Lettera sugli spettacoli (1758), a cura di F. W. Lupi, Aesthetica, Palermo, 2003. 31 ID., Scritti politici Vol. 3. Lettere dalla montagna, Progetto di costituzione per la Corsica, Considerazioni sul governo di Polonia, Laterza, Roma, 1994. 32 F. TUCCARI, Nazione, idea di, cit. 29



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mantenersi fedele a se stessa, attraverso la promozione dell’amor di patria. Questa immagine della nazione è sicuramente molto diversa rispetto a quella veicolata dal dibattito politico e si avvicina senza dubbio a una concezione più propriamente etnico-culturale. Questa interpretazione del pensiero di Rousseau è stata da più parti criticata33. Secondo Maurizio Viroli, tale specifica nozione rousseauiana del concetto di nazione è comunque di gran lunga secondaria rispetto all’idea della nazione democratica e della sovranità popolare, in cui si fissa con nettezza che la libertà di un popolo è raggiungibile esclusivamente seguendo le vie della volontà generale, che è realmente perseguibile, tuttavia, se prima un popolo conosce se stesso34. Sebbene sia vero quanto Viroli asserisce, è altrettanto innegabile che Rousseau apra, seppur timidamente, a un’altra interpretazione del concetto di nazione.

Il sentimento della patria Leggendo Il Diritto delle Genti, si può notare che a un analogo discorso si presta anche quest’opera. Quando Vattel scrive, nel 1758, egli elabora un’idea di nazione sicuramente

33

Cfr. G. CALHOUN, Introduction to the transaction edition, in H. Kohn, The Idea of Nationalism, cit., p. XXVIII; R. ROMEO, Idea e coscienza di nazione fino alla prima guerra mondiale, cit., p. 33. 34 M. VIROLI, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 90. Viroli suggerisce che è proprio la raccomandazione di conoscere se stessi quella che Rousseau fa al popolo polacco.



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civile-politica in cui nazione e Stato divengono termini congiunti in linea con una tradizione politica che si stava consolidando all’epoca. Prima di Rousseau, già alla base della concezione vatteliana della nazione c’è una tensione volontaristica per la quale «uomini naturalmente liberi e indipendenti» decidono con un patto di società di dare vita a una «Società civile»35, con la quale prende forma la nazione. Nello stato di natura, quindi, ci sono gli uomini e non ci sono le nazioni: le seconde vengono in essere solo mediante un atto di volontà da parte dei primi. Così Vattel coglie questo momento genetico: Nell’atto di associazione, in virtù del quale una moltitudine di uomini formano insieme uno Stato, una Nazione, ciascun particolare si è obbligato verso tutti a procurare il bene comune, e tutti sonosi obbligati verso

35

DG, Preliminari, § 4. Il rapporto tra Rousseau e Vattel è un tema meritevole di essere approfondito. Vattel, a quanto è dato di vedere, ingaggia il dibattito con il suo contemporaneo solo nella sua replica al discorso russoviano sull’ineguaglianza, Reflexions sur le Discours de M.J.J. Rousseau, comparso nel «Journal Helvétique» dell’agosto 1755, pp. 220-228 (ripubblicato in appendice a F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit.), in cui Vattel non si occupa del contratto sociale o della nazione, ma confuta l’idea di Rousseau di una naturale insocievolezza dell’uomo. Nella Confederazione svizzera dell’epoca, Vattel rappresentava un orientamento di politica estera favorevole al commercio e alle alleanze con gli altri Stati europei che era diametralmente opposto all’ideale isolazionista e spartano di Rousseau e altri (cfr. B. KAPOSSY - R. WHATMORE, Introduction, in E. de Vattel, The Law of Nations, cit., pp. xii-xiii, xviii). Per un confronto tra la teoria dell’anarchia internazionale di Vattel e di Rousseau si veda T. CHRISTOV, Vattel’s Rousseau: ius gentium and the natural liberty of states, in Q. Skinner - M. Van Gelderen, Freedom and the Construction of Europe, vol. 2: Free persons and free states, Cambridge University Press, 2013, pp. 167-187.



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ciascuno ad agevolargli i mezzi di provvedere a’ suoi bisogni, a proteggerlo e a difenderlo.36

La «moltitudine di uomini» si associa e forma così uno Stato – che è anche una nazione. C’è, tuttavia, un’altra traccia teorica che carsicamente si manifesta nel testo e che ci aiuta ad ampliare lo spettro della geografia concettuale vatteliana. In un altro passaggio di Le Droit des Gens questa «moltitudine» diventa «popolo», e l’orizzonte di senso della frase sembra cambiare, lasciando intravedere dietro la variazione linguistica un ponderato riferimento valoriale. Scrive Vattel: Ma un popolo, passato sotto il Dominio di un altro, non fa più uno Stato, e non può più valersi direttamente del Diritto delle Genti.37

In tale ipotesi, che cosa succede al popolo? Resta sempre tale o ‘regredisce’ a moltitudine? Soprattutto: se non c’è più lo Stato, ciò significa che non c’è più neanche la nazione? Tali interrogativi sono sollecitati dal fatto che in questi passaggi del suo testo, Vattel usa la parola «Stato» separandola da quella di «Nazione». Ciò potrebbe essere sì casuale, ma anche frutto di una precisa valenza semantica attribuita al termine

36

DG, I, § 16. Per un’analisi della concezione contrattualistica di Vattel si veda J. W. GOUGH, Il contratto sociale. Storia critica di una teoria, il Mulino, Bologna, 1986, pp. 216 sg. e F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit., pp. 103-146. 37 DG, I, § 11. Appena dopo Vattel ricorre a un esempio storico significativo: questa era la sorte dei regni e dei popoli finiti sotto il dominio imperiale di Roma nell’antichità.



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di “nazione”. In realtà, è come se Vattel suggerisse che la moltitudine unendosi in nazione diventasse popolo38 - il quale continua a sopravvivere come tale anche se conquistato da un altro popolo. Il fatto che egli sostenga che in caso di conquista scompaia (solo) lo Stato – senza associare la parola a quella di “nazione” – apre la strada all’ipotesi che i termini assumano due significati per una volta diversi, e soprattutto che la nazione si sposti più verso l’identificazione con il popolo che con lo Stato. Assumendo questa ulteriore linea teorica vatteliana possiamo trarre due conclusioni. La prima è che Vattel si inserisce in una tradizione di pensiero che, veicolando il concetto di sovranità popolare, contribuisce a legare in modo indissolubile il concetto di Nazione al concetto di popolo, quale fondamento di legittimità del potere politico. Se si considera che Chabot e Winkler concordano nel ritenere che una tale identificazione assuma un peso decisivo nel tardo Settecento, quando i processi di secolarizzazione

38

Vattel non pone in contrapposizione moltitudine e popolo. Del termine “moltitudine” non offre una definizione, né fa di esso oggetto di elaborazione teorica; a ogni modo si può dire che non ne dia un significato negativo – come faceva Hobbes, che usa il termine “moltitudine” come contraltare negativo per illustrare il concetto di “popolo” (cfr. P. VIRNO, A Grammar of the Multitude: For an Analysis of Contemporary Forms of Life, Semiotext, New York, 2004) –, né uno positivo – come fa Machiavelli quando scrive che «la moltitudine è più savia e costante di un principe» (Discorsi, I, 58). La concezione vatteliana di moltitudine non è neanche assimilabile a quella che Spinoza delinea quando scrive: «il diritto di sovranità o dei sommi poteri non è altro che il medesimo diritto naturale determinato dalla potenza, non già dei singoli, ma della massa, che viene guidata come da una mente sola» (Trattato politico, III, 2).



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penetrano pienamente la sfera politica europea39, allora si capisce quanto l’opera di Vattel, tanto diffusa e celebre, possa aver contribuito ad alimentare un tale percorso storico. Solitamente, la storiografia fa risalire a Rousseau l’inizio di una dottrina politica che concettualizza il popolo di uno Stato – la nazione – quale elemento centrale per uno sviluppo della teoria democratica, che poi prenderà pieno vigore con Sieyès e con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 178940. Vattel va inevitabilmente aggiunto a questa tradizione, quantomeno per l’ostinazione con cui veicola il concetto di nazione nel lessico politico moderno. La seconda è che quanto scritto da Vattel lo porta verso una tradizione politica non pienamente pensabile senza un concetto di nazione che contempli anche uno spirito di appartenenza alla patria, identificata con il popolo. Ernest Renan, nella sua celebre conferenza del 1882 Che cosa è una nazione?, disse: La nazione è dunque una grande solidarietà, costruita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. […] L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni, come l’esistenza dell’individuo è una affermazione perpetua di vita.41

Quella proposta da Renan è una concezione della nazione attraversata da un forte principio etico e pienamente interna a

39

Cfr. J.-L. CHABOT, Il nazionalismo, Mondadori, Milano 1995 e H. A. WINKLER, (a cura di), Nationalismus, Taunus, Königstein, 1985. 40 Di cui si ricorda qui l’art. 3: Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. 41 E. RENAN, Che cosa è una nazione?, Donzelli, Roma, 1993, pp. 19-20.



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una tradizione nazionalistica. Ebbene, un paragrafo del Diritto delle Genti – intitolato Se abbandonar si possa la sua patria – Vattel lo dedica proprio a discutere se e quando un cittadino possa venire meno ai doveri verso la sua nazione. In riferimento al concetto di «patria» è particolarmente importante quanto scrive Vattel nel terzo e ultimo punto che compone il paragrafo: Quanto a coloro che l’abbandonano vilmente nel pericolo, cercando di mettersi in salvo, invece di difenderla, violano manifestamente il patto di società, col quale si obbligano a difendersi tutti insieme d’intelligenza; sono però infami disertori che lo Stato ha Diritto di Punire severamente. 42

L’impossibilità di abbandonare la propria patria senza essere identificato come un vile meritevole di esser punito conduce definitivamente Vattel a una doppia interpretazione del principio di nazionalità: da una parte quella politica, secondo cui la Nazione è il risultato della volontà dei singoli; dall’altro, quella culturale, in cui essa diventa un principio etico in grado di legare anche oltre il consenso individuale, e al quale si deve rispetto e fedeltà. Culturale, sì, ma di una cultura ‘politica’, formatasi grazie alla nazione e non all’etnia. Che la patria, poi, sia chiaramente declinata in senso patriottica è esplicitato in un altro passo ancora del Diritto delle Genti, quando Vattel spiega che una Nazione deve pensare alla propria conservazione e avere il diritto a perseguire tutto ciò

42

DG, I, § 220. Nel paragrafo successivo, n. 221, Vattel torna a considerare lo stato normale di pace e di tranquillità pubbliche, in cui certamente un cittadino ha piena libertà di allontanarsi dal paese per condurre i propri affari.



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che le serve a perfezionarsi43. In questo caso, viene addotta l’Inghilterra come esempio degno di attenzione perché in grado di perseguire tutto ciò che serve a renderla florida: Una mirabile Costituzione vi pone ogni Cittadino in istato di concorrere a questo gran fine, e diffonde per ogni dove quello spirito di patriottismo, che si occupa con zelo del pubblico bene. 44

«Beata costituzione!», dice Vattel, perché essa è in grado di trasmettere quello spirito patriottico in grado di inculcare il sentimento del pubblico bene nel popolo. La declinazione vatteliana del patriottismo completa il senso delle sue affermazioni in merito al senso di gratitudine e alla lealtà che un cittadino deve avere nei confronti della nazione. Il concetto di nazione non può essere più considerato, quindi, esclusivamente come il frutto di un’interpretazione politica, ma contiene al suo interno i semi di un patriottismo in qualche modo ‘risorgimentale’, in cui una nazione, un popolo, deve prima di tutto preoccuparsi del proprio bene e della propria prosperità. Questa valorizzazione dei doveri del cittadino verso la patria, inoltre, sembra confermare la collocazione di Vattel, nell’ambito del Settecento, in una tradizione di pensiero alternativa al cosmopolitismo e al pacifismo, e ancora saldamente legata alle lealtà territoriali. Come ha osservato Luca Scuccimarra, Vattel non mette al centro della sua teoria l’individuo, ma perfeziona quel processo attraverso il quale le gentes dello jus gentium si sono configurate come distinti Stati sovrani, e come i soggetti della politica in-

43 44

DG, I, § 23. DG, I, § 24.



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ternazionale. In lui è visibile l’ambivalenza costitutiva di un «impianto categoriale sospeso tra universalismo giusnaturalistico e particolarismo territoriale»: è vero che Vattel pone dei mutui doveri di assistenza tra le nazioni, derivanti dal diritto naturale, ma tiene ben ferma la priorità dei doveri della nazione verso se stessa (fino alla necessità di combattere contro altre nazioni), accettando come fisiologica la conflittualità del sistema europeo, vista come unico mezzo per garantire la libertà tra gli Stati45. Se la «Nazione», comunque, non è una semplice trasposizione linguistica del termine e del concetto di “Stato”, ecco allora che all’improvviso tutta la cornice tecnico-giuridica del sistema del diritto delle genti acquista un nuovo significato, una più ampia profondità. L’esaltazione dello Stato sovrano non è più solo l’esaltazione di un dispositivo tecnico di sovranità, bensì l’esaltazione di un’entità che è sempre «Nazione», al cui interno si delinea chiaramente un popolo, già pensato nella sua dimensione nazionale e potenzialmente patriottica. E, a garanzia esterna di questa libertà nazionale, Vattel non a caso è il teorico dell’equilibrio e dell’indipendenza sovrana degli Stati all’interno del «sistema politico» dell’Europa 46 – sistema plura-

45

Cfr. L. SCUCCIMARRA, I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall’Antichità al Settecento, il Mulino, Bologna, 2006, pp. 293-296. Del resto, per lo spirito cosmopolitico dell’epoca, la disponibilità di alcuni a «consacrarsi all’eroismo», e quindi – massima manifestazione del patriottismo – ad andare alla guerra su ordine del sovrano, era una sventura per tutto il genere umano: si veda la voce «Guerre» nel Dictionnaire philosophique (1764) di Voltaire, trad. it. «Guerra», in Dizionario filosofico, in ID., Scritti filosofici, Bari, Laterza, 1972, vol. II, pp. 304 s., cit. da Scuccimarra a p. 287. 46

DG, III, § 47.



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le e privo di autorità sovraordinate, sicuramente imperfetto, ma che il pensatore svizzero non avrebbe cambiato per i progetti di federazione europea e di «pace perpetua» che alcuni suoi contemporanei iniziavano a teorizzare 47.

La persona morale tra volontà e intelletto Nel delineare le caratteristiche della Nazione, Vattel fissa un altro dei concetti chiave sui quali è edificata la sua teoria del diritto delle genti. Precisando preliminarmente – come abbiamo visto – che le nazioni, o gli Stati, sono «Società d’uomini uniti insieme» col fine di procurarsi sicurezza e vantaggio grazie all’unione delle loro forze48, Vattel aggiunge: Una simile Società ha i suoi affari e i suoi interessi; delibera e prende risoluzioni in comune, e divien quindi una persona morale, che ha il suo intelletto e la sua volontà propria, e che è capace di obbligazioni e di diritti. 49

47

La concezione classica della sovranità statuale, che come abbiamo visto viene fatta risalire a Vattel, sarà del resto a partire dall’Ottocento l’obiettivo principale della critica dei pensatori federalisti. Per un’inquadramento di quest’ultima tradizione cfr. C. MALANDRINO, Sovranità nazionale e pensiero critico federalista. Dall’Europa degli Stati all’Unione federale possibile, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», Vol. 32: L’ordine giuridico europeo. Radici e prospettive, 2002, pp. 169-244. 48 DG, I, § 1. 49 DG, I, § 2. È interessante qui riportare anche il testo di Rousseau del Contratto sociale, in cui utilizza l’espressione “corpo morale”. «Istantaneamente, al posto della persona singola di ciascun contraente,



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Vattel formula la nozione di persona morale mettendo insieme due diverse tracce filosofiche: la nozione di persona morale dello Stato di Pufendorf e la prospettiva wolffiana della perfettibilità dell’essere umano. Questo accostamento, tuttavia, determina una formula non priva di tensioni, perché il pensiero dei due autori è influenzato da due distinte concezioni della libertà umana: il volontarismo e l’intellettualismo50. Nel corso del Medioevo, questi due approcci furono al centro di un acceso dibattito dottrinale. Se si dava per acquisito che l’intelletto e la volontà fossero le due facoltà spirituali della mente che consentivano azioni libere e morali, il vero nodo della disputa consisteva nello stabilire quali delle due facoltà assicurasse in ultima istanza la libertà51. Per gli intellettualisti, la vera libertà derivava dall’agire secondo i dettami della ragione, perché una persona non poteva considerarsi libera se agiva irrazionalmente. Quindi, secondo questo orientamento, era l’intelletto che garantiva la libertà, poiché era questa la facoltà

quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà.» J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., p. 67. 50 B. HOLLAND, The moral person of the state: Emer de Vattel and the foundations of international legal order, «History of European Ideas», 37, 4, 2011, p. 439. Holland opera per la prima volta una lettura esaustiva del concetto di persona morale in Vattel. Questo paragrafo e il successivo seguono in parte il percorso tracciato nel citato articolo. 51 Sulla messa a confronto tra volontà e intelletto si veda l’intensa lettura offerta nella prima parte di H. ARENDT, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987.



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che apprendeva ed elaborava i dettami della ragione52. Per i volontaristi, invece, la libertà poggiava sulla scelta, poiché non si poteva sostenere di essere realmente liberi se non si poteva scegliere di agire anche in modo irrazionale. Siccome la scelta era un predicato della volontà, la vera libertà era quindi garantita da quest’ultima53. Il dibattito tra le due scuole perse decisamente intensità durante il Rinascimento e in seguito alla Riforma protestante, quando il tema centrale divenne se gli esseri umani potessero dirsi liberi o meno, piuttosto che la questione della priorità dell’intelletto o della volontà nell’autonomia del soggetto. La disputa riemerse alla fine del Sedicesimo secolo in Spagna, grazie alla Seconda scolastica, nella quale si assistette al tentativo di conciliare intellettualismo e volontarismo, piuttosto che

52

Massimo esponente dell’intellettualismo era Tommaso d’Aquino, che influenzò profondamente tutto il dibattito medievale. Egli sosteneva che la volontà era una facoltà appetitiva che cessa la sua tensione nell’istante in cui raggiunge l’oggetto ambito. L’intelletto, invece, non mette fine a se stesso, quindi è più nobile della volontà. Su questo tema si veda: P. ROUSSELOT, L’intellettualismo di San Tommaso, Vita e Pensiero, Milano, 2000. 53 I due più importanti sostenitori del volontarismo furono Duns Scotus e Guglielmo di Ockham. Per Scotus, la volontà può affermare o ripudiare tutto ciò che affronta, può «trascendere tutto», ed è in virtù di questo che ci sembra essere stati creati a immagine di Dio. Senza la volontà, saremmo «bestie intellettuali», certamente non somiglianti a Dio (G. DUNS SCOTUS, Philosophical Writings, a cura di A. Wolter, Hackett, Indianapolis, 1988, pp. 54-55). Anche per Guglielmo di Ockham è la volontà che consente agli esseri umani di vivere nella sfera di ciò che la legge di Dio ci ha lasciato il permesso di fare (A. BRETT, Liberty, Right and Nature: Individual Rights in Later Scholastic Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, pp. 50-68).



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stabilire la priorità di una facoltà sull’altra54. Ciò, di fatto, contribuì a rilanciare il dibattito tra le due tradizioni, che finirono, in età moderna, per influenzare due degli autori che maggiormente contribuirono a formare il pensiero di Vattel: Pufendorf e Wolff 55. Nel De jure naturae et gentium, Pufendorf aveva analizzato il ruolo giocato dall’intelletto (o comprensione) e dalla volontà nell’intraprendere l’azione morale, concludendo che l’iniziativa di qualsiasi azione volontaria, senza eccezione, derivasse dalla comprensione dell’uomo; vale a dire che il miglior modo di agire presuppone che l’intelletto abbia prima compreso gli oggetti e la loro natura56. Tuttavia, dopo l’intervento dell’intelletto, che ha esaminato che cosa sia meglio fare, è la volontà che liberamente seleziona uno o più obiettivi da perseguire, scartando il resto57. La volontà, quindi, determina costantemente le scelte dell’uomo, rendendolo libero di optare per una cosa o per l’altra, e, pertanto, facendolo diventare moralmente responsabile delle proprie azioni58. Pufendorf, quindi, sposa un volontarismo mitigato, in base al quale è la volontà in ultima istanza a assicura la libertà umana.

54

Questo contributo avvenne principalmente grazie a Francisco Suárez. Su questo tema si veda C. LARRAINZAR, Una introducción a Francisco Suárez, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona, 1977. 55

B. HOLLAND, The moral person of the state, cit., p. 439. S. VON PUFENDORF, De jure naturae et gentium, 2 voll., a cura di C. H. Oldfather e W. A. Oldfather, Clarendon Press, Oxford, 1934, II, p. 38. 57 Ibidem, II, p. 53. 58 Ibidem, II, p. 54. 56



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La sua concezione delle facoltà umane finisce inevitabilmente per influenzare il modo in cui Pufendorf concepisce i poteri di uno Stato teorizzato sul modello della persona morale – il soggetto cui si applicano le leggi morali. Pufendorf sostiene che la scienza giuridica può occuparsi delle entità che la riguardano – le persone morali – analogamente a come le scienze naturali si occupano delle sostanze naturali. Al pari di queste ultime, le persone morali possono essere semplici – una moglie, o un sovrano, ad esempio, o composite – quale è lo Stato59. Come ogni persona biologica, la persona morale composita dello Stato può entrare in azione perché possiede una volontà e un intelletto. La prima è incarnata dal sovrano, alla cui volontà le volontà degli individui sono sottomesse. La seconda, da un consiglio del popolo o da un consiglio aristocratico, che affianca il sovrano e lo aiuta a comprendere tutto ciò che concerne gli affari dello Stato. Uno Stato può dunque realizzare il buon governo solo se ciò che il sovrano vuole ed effettua in suo nome è stato prima giudicato ragionevole da parte del consiglio. Sebbene la componente della volontà (il sovrano) e quella dell’intelletto (il consiglio) concorrano a costruire uno Stato ordinato, pacifico e ben governato, resta evidente che, delle due, la facoltà che riveste maggiore importanza è la volontà, perché comunque libera di agire come crede, anche contro i limiti posti da una ragione esterna. Pufendorf, in questo caso, ripercorre lo schema secondo cui è indispensabile che la volontà sia indipendente dall’intelletto per la determinazione dell’azione umana.

59

Ivi, II, 11.



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Wolff invece, seguendo le tracce di Leibniz, giunge a conclusioni decisamente opposte. Seguendo la tradizione dell’innatismo, la dottrina della conoscenza di Leibniz poggia sulla convinzione che esistano innate potenzialità e attitudini alla conoscenza, le quali grazie agli stimoli dei sensi sviluppano le idee60. Egli ritiene che la ragione sia innata, e che essa dia accesso alla verità61. La tensione teologica del sistema metafisico leibniziano lo porta a credere che un essere umano che percepisce la verità tenderà ad essa, muovendosi verso la propria perfezione. Tutte le sostanze sono attratte da Dio, e pertanto una costante spinta alla perfezione le coinvolge tutte62. Per l’uomo ciò si traduce in una tensione della creatura all’unione con Dio, in una progressione «al nostro maestro, e alla causa finale, che deve essere l’obiettivo intero della nostra volontà»63.

60

Nel suo commento critico alla teoria della conoscenza di Locke, Leibniz scrive la celebre frase: «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu nisi intellectus ipse». G. W. LEIBNIZ, New Essays on Human Understanding (1765), Cambridge University Press, 1996, I, 1, § 21. 61 Per Leibniz la ragione dà accesso alle verità di ragione, universali e necessarie, mentre mediante la conoscenza si accede alle verità di fatto, basate sul principio di ragion sufficiente. 62 «[…] poiché la felicità divina è la confluenza di tutte le perfezioni, e il piacere è la sensazione di perfezione, ne consegue che la vera felicità di una mente creata è nel suo senso della felicità divina». G. W. LEIBNIZ, Philosophical Papers and Letters, a cura di L. E. Loemker, Reidel, Dordrecht, 1970, p. 676 (mia la traduzione). 63 ID., Philosophical Texts, a cura di R. S. Woolhourse e R. Francks, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 482 (mia la traduzione). Come è stato accennato anche supra, Capitolo II, nota 71, secondo Martti Koskenniemi è nella nozione di «diritto di natura volontario» che Vattel consegue una conciliazione tra volontarismo e intellettualismo. Il diritto di natura volontario indica la norma di condotta a cui nessuno potrebbe fare a meno di consentire se



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Wolff riprende l’idea leibniziana della volontà che tende alla perfezione, ma limitandosi a sostenere che la sostanza tende «solo all’auto-perfezionamento, invece di modellare le sue caratteristiche individuali nella direzione della riunione con il divino»64. Il ridimensionamento del piano teologico su cui si muoveva Leibniz non smorza comunque nella teoria di Wolff l’importanza della tensione al miglioramento, attribuita sia ai singoli uomini sia alle entità politiche. Alla base della filosofia pratica wolffiana c’è l’idea di una «perfettibilità continua, secondo cui ogni uomo cerca di realizzare quanto più è possibile la propria essenza razionale» 65. Essendo questo principio inscritto nella natura umana, ogni individuo ha l’obbligo di assecondarlo, così come sempre dalla natura discende l’obbligo per l’uomo di ricercare la sicurezza, la libertà e l’uguaglianza. La natura, attraverso la ragione, spinge l’uomo a perfezionarsi, e a sua volta questa tensione lo porta a voler uscire dallo stato di natura attraverso un contratto col quale realizzare uno «Stato civile» retto da un sovrano. «Il concetto di benessere, che costituisce il fine in vista del quale viene creato lo Stato, rappresenta quindi il principio primo del diritto pubblico e della politica»66.

fosse pienamente avvertito del suo interesse e della sua posizione relativa rispetto all’obiettivo in un dato momento. Qui la volontà che vuole un fine non può che aderire a ciò che la retta ragione comanda per conseguirlo. Cfr. M. KOSKENNIEMI, ‘International community’ from Dante to Vattel, cit., pp. 73-74. 64 T. J. HOCHSTRASSER, Natural Law Theories in the Early Enlightenment, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, p. 161. 65 M. SCATTOLA, Wolff, voce in R. Esposito - C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, cit. 66 Ibidem.



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La legge di natura spinge l’uomo a ricercare il proprio bene e lo convince a istituire il un potere sovrano67. Con Wolff fa dunque la sua comparsa una concezione ‘welfarista’ della politica, la quale si tramanda anche in Vattel. Christoph Good, infatti, accanto alla dimensione orizzontale della politica tra gli Stati ha messo in luce, nel Diritto delle genti, la dimensione verticale del rapporto tra sovrano e sudditi, in cui il primo deve farsi garante dei diritti naturali dei secondi. Se nella dimensione internazionale il potere dello Stato si manifesta con maggiore libertà, in quella interna esso è subordinato ai fini per i quali esso è istituito (il che fa di Vattel un teorico contrattualista): esso deve non solo garantire alcuni beni pubblici come la pace sociale, l’ordine giuridico e un relativo benessere, ma anche favorire le condizioni per il perseguimento individuale della felicità68.

Perfezione, libertà e indipendenza: la persona morale di Vattel Un brano di Wolff, in cui sono raccolti tutti i temi legati allo Stato come persona morale, è ripreso da Vattel: Ma le Nazioni ovvero gli Stati Sovrani essendo persone morali e i soggetti delle obbligazioni e dei Diritti ri-

67

C. WOLFF, Discourse on the Practical Philosophy of the Chinese, in J. Ching e W. G. Oxtoby (a cura di), Moral Enlightenment: Leibniz and Wolff on China, Steyler Verlag, Nettetal, 1992, p. 178. 68 Cfr. C. GOOD, Emer de Vattel (1714-1767) – Naturrechtliche Ansätze einer Menschenrechtsidee und des humanitären Völkerrechts im Zeitalter der Aufklarung, Baden-Baden, Nomos Verlag, 2011, pp. 182-184.



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sultanti, in virtù del Diritto Naturale, dall’atto di associazione che ha formato il Corpo politico, la natura e la essenza di queste persone morali differiscono necessariamente, e per molti conti, dalla natura e dalla essenza degl’individui fisici, cioè degli uomini che le compongono.69

La citazione di Wolff mostra chiaramente il grosso debito teorico che Vattel ha verso di lui. Il pensatore svizzero ha mutuato da questo non solo il parallelismo tra «Nazioni» e «Stati», ma anche l’immagine degli Stati sovrani come persone morali, e al tempo stesso l’idea di un’analogia – e di una rilevante differenza al suo interno – con gli individui. Oltre a ricavare da Wolff parti del suo lessico politico, Vattel segue il filosofo tedesco anche quando sostiene il dovere perfetto di tutti gli individui di perfezionarsi. Questa specifica influenza è rintracciabile già in un saggio del 1746, Essai sur le fondement du droit naturel, et sur le premier principe de l’obligation où se trouvent tous les hommes, d’en observer les loix70, in cui il nostro autore sostiene che gli uomini, in quanto esseri senzienti, siano portati ad adempiere ai loro obblighi morali da motivazioni fisiche e psichiche: «non vi è alcuna volontà nell’anima senza motivazione, quindi per realizzare la necessità

69

DG, Prefazione, p. viii. Incluso in E. DE VATTEL, Pièces diverses, avec quelques lettres de morale et d'amusemens, Briasson, Paris, 1746, e riportato anch’esso nell’appendice di F. MANCUSO, Diritto, Stato, Sovranità, cit. Qui è seguita l’edizione inglese Essay on the Foundation of Natural Law and on the First Principle of the Obligation Men Find Themselves Under to Observe Laws inclusa in VATTEL, The Law of Nations, a cura di B. Kapossy, R. Whatmore, Liberty Fund, Indianapolis, 2008. 70



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morale di intraprendere una determinata azione, una qualche motivazione deve essere collegata a questa azione, che non si può separare da essa»71. Nessuna «inclinazione, desiderio, o affetto» è più essenziale dell’amore per sé stessi, e le motivazioni inerenti all’amore per sé stessi «sono di sicuro il nostro benessere, la nostra opportunità, il nostro vantaggio»72. Sembra pertanto che «questo bene, questa opportunità, è il primo principio di ogni obbligo, e in particolare l’obbligo di osservare la legge naturale». Sarebbe «assurdo» sostenere che un individuo non sia mai obbligato ad agire contro il suo «interesse»73, ma l’amore di sé «ci fa desiderare o cercare la nostra felicità o la perfezione della nostra condizione», quindi sembra che il nostro primo dovere in base al diritto naturale, e il primo principio dell’obbligo, siano quelli di cercare la nostra propria perfezione74. Vattel prosegue spiegando che, se questa è la volontà di Dio – come sicuramente deve essere, seguendo il ragionamento logico che deriva dalla considerazione della nostra natura ed essenza di esseri che Dio ha creato proprio così – allora non c’è nulla di disonorevole nell’essere interessati a sé stessi: Quando abbiamo una corretta comprensione del proprio interesse, quando lo abbiamo costituito principalmente nella perfezione dell’anima, una perfezione che già definisce la nostra felicità in se stessa, e che ci riconcilia con la buona volontà del Creatore, quale peri-

71

Ibidem, p. 751 (mie tutte le traduzioni citate da questo testo). Ivi, p. 753. 73 Ivi, p. 754. 74 Ivi, p. 753. 72



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colo c’è di confondere il significato di integrità con quello di convenienza? 75

Convinto di ciò, Vattel riporta anche nel Diritto delle Genti l’assunto che il bene individuale sia strettamente legato al bene dello Stato: La Natura obbliga ogni uomo ad attendere alla sua propria perfezione, e con ciò già attende a quella della Società Civile, che non potrebbe a meno di essere floridissima, se non fosse composta che di buoni cittadini.76

L’obbligo della natura che spinge gli uomini a ricercare la propria perfezione dà luogo a una tensione verso la perfezione per l’intero Stato. E quando l’uomo si trova in una società ben regolata, che lo aiuta ad assecondare l’obbligo naturale di «diventare migliore ed in conseguenza più felice», egli è a maggior ragione «obbligato a contribuire con tutte le sue forze a render perfetta questa Società»77. Prende così forma, concretamente, il legame di obbligazione che lega il singolo alla società politica. È come se Vattel suggerisse che gli uomini non sono all’interno di una rete di obblighi attivati solo dal sistema contrattualistico, ma anche all’interno di un altro ordine di obblighi che può essere definito, in senso stretto, morale, tra i

75

Ivi, p. 762. DG, I, § 21. 77 Ivi. Altrove Vattel scrive: «Lo scopo della Società Naturale stabilita fra tutti gli uomini essendo ch’eglino si prestino una scambievole assistenza per la propria loro perfezione, e per quella dello Stato loro […]» DG, Preliminari, § 12. 76



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Capitolo III

membri della nazione e la nazione stessa che consente loro di diventare migliori. S’ingenera, pertanto, un vicendevole scambio che dona profondità al discorso vatteliano sulla patria, aiutandoci a comprendere meglio la morfologia del sentimento patriottico su cui Vattel si sofferma in altre parti del testo 78. Secondo il diritto delle genti necessario, uno Stato, in quando persona morale, deve tendere sempre alla sua perfezione e, come osservato da Whelan, ciò implica che lo Stato dovrebbe promuovere la ricerca del perfezionamento dai suoi singoli membri79. Secondo Holland, la concezione vatteliana di «perfezionamento» inclunde anche un senso più collettivo di perfezione civile, ma a ben vedere, anche il brano da lui citato80 suggerisce che per Vattel uno Stato è perfetto quando è – come suggerisce l’etimologia del termine – compiuto, quando non gli manca nulla. Ed è solo raggiungendo la compiutezza che lo Stato può essere veramente una persona morale che favorisce lo sviluppo delle proprie facoltà. Questo, secondo Holland, è il nocciolo della questione: la «tradizione intellettualistica in cui Vattel scrive proprio non poteva ospitare i presupposti che avevano permesso a Pufendorf di inquadrare la sovranità, e i limiti della sovranità, in termini

78

Cfr. supra il paragrafo Il sentimento della patria. F. G. WHELAN, Vattel’s Doctrine of the State, «History of Political Thought», 9, 1988, pp. 83-84. 80 «La perfezione di una Nazione ritrovasi in ciò che la rende capace di ottenere il fine della Società Civile; e lo stato di una Nazione è perfetto, allorché nulla ci manca di tutto ciò, che ad essa è necessario per arrivare a un tal fine.» DG, I, §14. Holland fa riferimento a questo brano in B. HOLLAND, The moral person of the state, cit., p. 443. 79



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di psicologia delle facoltà»81. Quando Pufendorf aveva scritto della persona morale composita dello Stato, era stato attento ad assegnare alla sovranità la facoltà della volontà, e non quella dell’intelletto, poiché il ruolo di quest’ultimo era di garantire che gli atti della volontà sovrana non oltrepassassero i limiti della legge naturale82. Tuttavia, nella tradizione intellettualistica nessuna autosufficienza era stata riconosciuta alla volontà, i cui atti seguivano sempre i dettami della ragione sufficiente. Così è per Leibniz, per Wolff e anche per Vattel83. Non ci poteva essere differenziazione funzionale tra ragione e volontà, e quindi era impossibile trasferire la loro divisione nello Stato, come nel modello di Pufendorf. Pertanto, la definizione vatteliana della «Società politica» è in parte pufendorfiana, riconoscendo alla persona morale le facoltà dell’intelletto e della volontà, ma ne articola diversamente i termini: La Società Politica è una persona morale, in quanto ha essa un intelletto e una volontà di cui fa uso per la

81

Ivi. «Uno stato è una persona morale composita, la cui volontà, intrecciata e unita da patti di un certo numero di uomini, è considerata la volontà di tutti, in modo che sia in grado di sfruttare la forza e facoltà dei singoli membri per la pace comune e la sicurezza» S. VON PUFENDORF, De Jure Naturae, cit., II, p. 984. 83 Holland riporta a tal proposito uno dei primi scritti di Vattel, in cui questi, riprendendo Leibniz, sostiene che niente esiste senza che ci sia una ragione sufficiente per la sua esistenza, o perché le cose accadano in una certa maniera. B. HOLLAND, The moral person of the state, cit., p. 443. Cfr. E. DE VATTEL, Défense du système leibnitzien contre les objections et imputations de Mr de Crousaz, contenues dans l’Examen de l’Essai sur l’homme de Mr Pope. Ou l’on a joint la Réponse aux objections de Mr Roques, contenues dans le Journal Helvétique, par Mr Emer de Vattel, Jean Luzac, Leyde, 1741. 82



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condotta dei suoi affari, ed è capace di obbligazioni e diritti. Allorché dunque la medesima conferisce la Sovranità, in lui ripone il suo intelletto e la sua volontà, in lui trasporta le sue obbligazioni e i suoi diritti, in quanto si riferiscono all’amministrazione dello Stato, all’esercizio della pubblica autorità; e il conduttore dello Stato, il Sovrano, diventando così il soggetto in cui risiedono le obbligazioni e i diritti relativi al Governo, in lui ritrovasi la morale persona, che senza cessare assolutamente di esistere nella Nazione, non opera quindi innanzi che in lui e per mezzo di lui.84

Ecco che, se Vattel segue Pufendorf nell’attribuire intelletto e volontà alla persona morale dello Stato, egli supera il sistema di bilanciamento interno proposto dal suo predecessore, spostando entrambe le facoltà nelle mani di un unico soggetto. Il sovrano si trova così a ricoprire sia la volontà, sia l’intelletto, ricevendo dal popolo un potere enorme ed assoluto. Anzi, la persona morale stessa risiede in coloro che sono investiti della pubblica autorità85. Qual è uno degli attributi principali della persona morale della nazione? Su questo punto Vattel mostra grande fermezza e intransigenza: essere «Stati liberi e indipendenti»86. Essendo le Nazioni libere e indipendenti le une dalle altre, poiché gli uomini sono naturalmente liberi e indipendenti, la seconda Legge generale della loro Società è, che ciascuna Nazione esser dee lasciata nel pa-

84

DG, I, § 40. DG, I, § 117. 86 DG, I, § 12. 85



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Pensare lo Stato

cifico godimento di questa libertà ch’essa tiene dalla natura.87

Sebbene apparentemente pacifico (e pacificante), l’assioma vatteliano contiente al proprio interno un’insidia tutt’altro che trascurabile. La piena libertà e indipendenza degli Stati è declinata nel senso che spetta solo allo Stato giudicare su ciò che esso possa o non possa fare88. E poiché, data l’assoluta sovranità che Vattel riconosce allo Stato, questo non è pronto a riconoscere a nessun altro soggetto esterno il ruolo di giudice in caso di interessi contrastanti con un altro Stato, si capisce come tale impostazione celi un’aporia pronta ad aprire uno spazio di possibile conflitto tra le nazioni. Tale pericolo è stato sottolineato da numerosi autori nel corso degli anni. In un articolo del 1946, Hersch Lauterpacht ha rilevato negli scritti di Vattel «una caratteristica di ciò che è considerato l’approccio realista, ovvero l’insistenza sulla minore moralità degli Stati rispetto a quella degli individui»89. Con Vattel avremmo dunque la mera «apparenza del riconoscimento di un ordine giuridico tra le nazioni», mentre in realtà egli investe gli Stati di una tale sovranità inviolabile che i principi e gli strumenti necessari per edificare quest’ordine sono, di fatto, impotenti90. Allo stesso modo, Andrew Linklater ha accusato Vattel di teorizzare una «radicale libertà» e «un ordine interna-

87

DG, Preliminari, § 15. DG, Preliminari, § 16. 89 H. LAUTERPACHT, The Grotian Tradition in International Law, «British Year Book of International Law», 28, 1946, p. 3 (mia la traduzione). 90 H. LAUTERPACHT, The Function of Law in the International Community, Oxford University Press, Oxford, 1933, p. 7. 88



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zionale volontaristico»91, mentre Philip Allott rintraccia in Vattel una visione del mondo «spiritualmente e psicologicamente dissociata» che richiede a «ognuno di noi di essere due persone – una che ha un certo set di giudizi morali e di aspirazioni sociali all’interno della nostra società nazionale, e un’altra con diversi set di valori per tutto ciò che accade al di là dei confini della nostra società nazionale»92. Vattel sembra avere pensato due concezioni abbastanza diverse dell’ordinamento giuridico internazionale, e alcuni studi hanno cercato di spiegare il carattere bifronte della sua dottrina93. Per Richard Tuck, Vattel appartiene completamente a una tradizione liberale che sottolinea sì l’autonomia di tutti i soggetti politici, inclusi gli Stati, ma prendendo come paradigma della propria concezione di soggetto politico «lo Stato belligerante post-rinascimentale», finendo col teorizzare un sistema apertamente conflittuale94. Dan Edelstein, ancora, sostiene che

91

A. LINKLATER, Men and Citizens in the Theory of International Relations, Macmillan, Basingstoke, 19902, pp. 87 e 90. 92 P. ALLOTT, The Health of Nations: Society and Law Beyond the State, Cambridge University Press, Cambridge, 2002, p. 418. Allott ha ribadito di recente il suo giudizio, affermando che, in virtù del suo lessico equivoco, in Vattel il potere degli Stati trovò l’alleato ideale per giustificare ogni sua azione. Cfr. P. ALLOTT, The Light that Failed: the Future of Human History, in P. Dupuy-V. Chetail, The roots of international law / Le fondements du droit international. Liber amicorum Peter Haggenmacher, Martinus Nijhoff, Leiden, 2013, pp. 405-436, qui p. 428. 93 Cfr. tra gli altri E. JOUANNET, Les dualismes du droit des gens, in V. Chetail-P. Haggenmacher, Vattel’s International Law in a XXIst Century Perspective, Martinus Nijhoff, Leiden, 2011. 94 R. TUCK, The Right of War and Peace: Political Thought and the International Order from Grotius to Kant, Oxford University Press, Oxford, 1996.



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Vattel, avendo stabilito un sistema internamente coerente e vincolante di norme volte a descrivere una moralità internazionale, ha dovuto sostenere che nei casi in cui non si applicavano tali norme, la condotta internazionale fosse libera dalle considerazioni morali, dando spazio ad azioni di guerra senza freno95. Enfatizzando ulteriormente il “lato oscuro” della libertà sovrana teorizzata da Vattel, Anthony Carty ha collegato le prescrizioni da Realpolitik che egli dà nella sua opera a una ben precisa concezione antropologica del soggetto stesso del potere. Lo Stato sovrano teorizzato da Vattel costruisce, secondo Carty, un discorso sulla politica estera incentrato sulla minaccia esterna (culminante nel concetto di «nemico del genere umano») ed è condizionato dalle percezioni delle intenzioni ostili degli altri Stati. Pertanto, al fondamento del comportamento degli Stati c’è una radicale insicurezza epistemologica, per cui gli Stati non possono essere conoscere esattamente i motivi e le intenzioni degli altri, e Vattel appartiene alla tradizione «umanista» di Machiavelli e di Gentili, che logicamente arrivano a giustificare la guerra preventiva96. Certo, all’origine del concetto vatteliano di sovranità c’è anche, è stato osservato, una certa idea protestante di «libertà». Più equilibrata e meno cupa è l’interpretazione di Ian Hunter, ancora incentrata sul soggetto politico, secondo cui Vattel offre una dottrina «casuistica». Nel suo trattato, una fonte centrale sono, infatti, la storia diplomatica e le raccolte dei trattati, ma-

95

D. EDELSTEIN, War and Terror: The Law of Nations from Grotius to the French Revolution, «French Historical Studies», 31, 2008, p. 238. 96 A. CARTY, Vattel’s Natural Liberty of Conscience of Nations in a New Age of Belief and Faith, in V. Chetail-P. Haggenmacher, Vattel’s International Law in a XXIst Century Perspective, cit., pp. 189-210.



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teriale dal quale Vattel ricavava una grande varietà di «casi», cioè di condotte adeguate alle «circostanze» e alle «opportunità» – termini ricorrenti nel suo testo – e a cui corrispondevano molte norme speciali ed eccezioni. Hunter sottolinea come al centro di questo discorso ci fosse ancora una volta, quale soggetto agente, il diplomatico europeo del Settecento, signore dell’interpretazione del diritto, e come questa «casuistica» non fosse tanto un modo per fare impunemente del male, quanto per difendere i propri interessi nella forte competizione internazionale, e adottare la condotta più efficace e prudente nelle condizioni date97. A ogni modo, è proprio alla condotta degli Stati nei momenti critici in cui i loro interessi collidono che Vattel dedica ampio spazio, riservando alcune delle sue più significative riflessioni al tema della guerra, che sarà oggetto del prossimo capitolo.

97

I. HUNTER, Vattel’s Law of Nations: Diplomatic Casuistry for the Protestant Nation, «Grotiana», 31, 2010, pp. 108-140.



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IV La guerra

La guerra pubblica L’intero impianto teorico su cui è costruito Il Diritto delle Genti trova, in realtà, il suo più significativo fondamento sulla guerra: evento-limite potenzialmente in grado di distruggere l’ordine giuridico e politico edificato con tanti sforzi. Per questo motivo, uno degli intenti principali del pensatore svizzero è quello di inserire anche la guerra nello schema ordinativo complessivo, in modo da trasformarla da momento esterno a momento interno alle regole di condotta tra Stati. L’importanza del tema è confermata dal fatto che Vattel dedica alla guerra (e alla pace) l’intero secondo tomo dell’opera1, articolato in un Libro III: Della guerra e in un Libro IV: Del ristabilimento della pace, e delle ambasciate. All’inizio del primo capitolo (Della guerra e delle sue varie specie e del diritto di far la guerra) Vattel definisce la guerra come «quello stato nel quale si sollecita il proprio diritto colla forza»2. La pace, invece, «è opposta alla guerra, ed è lo stato desiderabile, nel quale ciascun gode tranquillamente de’ suoi diritti, o li discuta all’amichevole e colla ragione, se sono controversi».3

1

Nell’edizione originale del 1758 – divisa in due tomi – ciò è effettivamente così. In quella italiana qui adoperata, il tomo corrisponde al terzo. 2 DG, III, § 1. 3 DG, IV, § 1.

Capitolo IV

La domanda presupposta dall’affermazione di Vattel è: chi è legittimato a sollecitare il proprio diritto con la forza? Per rispondere occorre ricostruire la concezione vatteliana del diritto di sicurezza. Il pensatore svizzero sostiene che la «natura dà agli uomini il diritto di usare la forza» quando ciò è necessario per la «loro difesa e per la conservazione dei loro diritti». Tale principio – continua l’autore – è «generalmente riconosciuto» e la «natura stessa l’ha scolpito nel cuor dell’uomo» 4. Questa impostazione, fondata sul diritto che la natura riconosce a ciascuno di usare la forza per tutelare la propria sicurezza, segue – pur senza specificarlo – la concezione hobbesiana del diritto di natura, quando il filosofo inglese scrive che esso «è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita»5. Se è vero che per Vattel la «natura» conferisce agli uomini il «diritto di usar la forza» quando questa è necessaria per la difesa e per la conservazione dei loro diritti, è tuttavia agevole il concludere che dopo lo stabilimento delle società politiche un diritto sì pericoloso nel suo esercizio non appartiene più ai privati, se non se negl’incontri in cui non può proteggerli o soccorrerli la società. Nel seno della società, l’autorità pubblica termina tutte le quistioni de’ cittadini, reprime la violenza e le vie di fatto.6

4

DG, IV, § 3. TH. HOBBES, Leviatano (1651), Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 105. 6 DG, III, § 4. 5



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La guerra

Con l’istituzione della società politica, pertanto, il singolo perde il diritto di usare la forza se non nei casi in cui non può essere difeso dalla società politica. Quest’ultima, pertanto, deve avere come scopo e fine quello di procurare ai Cittadini tutte le cose, di cui hanno eglino mestieri per le necessità, la comodità e le giocondità della vita, e in generale per la loro felicità; far per modo che ciascuno possa godere tranquillamente del suo e ottenere giustizia con sicurezza, per ultimo difendersi insieme contro ogni esterna violenza.7

Sebbene manchi esplicitamente il passaggio contrattualistico, è chiaro che la concezione vatteliana segue ancora in tale percorso logico – pur senza citarlo – l’impianto teorico hobbesiano, secondo cui il «compito» del «Leviatano» è la «sicurezza del popolo»8, da difendere «dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci»9, e che pone l’impossibilità per il singolo, una volta rinunciato col contratto a esercitare il proprio diritto di natura e istituito il Leviatano, di ricorrere nuovamente alla forza privata. Sia all’interno della società politica che nelle relazioni con l’esterno, il monopolio della violenza legittima è riconosciuto da Vattel nello Stato. La «podestà Sovrana sola ha dunque la facoltà di far la guerra»10 – così Vattel fissa il primo importante passaggio della sua concezione della guerra. Questo

7

DG, I, § 15. TH. HOBBES, Leviatano, cit., p. 5. 9 Ivi, p. 142. 10 DG, III, § 4. 8



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Capitolo IV

assunto, tuttavia, non è sufficiente, perché l’autore, avvertito del dibattito moderno sui poteri sovrani, sa che questi possono essere affidati a istituzioni diverse. Vattel precisa allora che la podestà Sovrana «risiede originalmente nel corpo della Nazione», la quale, secondo il tipo di costituzione che essa si dà, può decidere di assegnarla a uno o più dei diversi organi istituzionali. E non sempre esso rimane prerogativa del sovrano: «i Re d’Inghilterra, il cui potere è d’altronde sì limitato, hanno il diritto di fare la guerra e la pace; quelli di Svezia l’hanno perduto» – ovvero era stato loro sottratto, aggiunge Vattel, dopo che Carlo XII di Svezia ne aveva fatto un uso sconsiderato11. L’indifferenza di Vattel per le prerogative dei re di intraprendere la guerra segnala che essa, nel suo pensiero, comincia a separarsi dalla sfera della volontà personale del sovrano, per diventare una manifestazione del potere della nazione. Vattel infatti sottolinea con forza che la guerra è tale quando questa è «pubblica» ovvero quando «ha luogo tra le Nazioni o i Sovrani» e quando «si fa a nome della pubblica podestà e per il suo comando»12. L’unica cosa che conta per avere una guerra pubblica è che essa sia mossa nell’interesse della Nazione, perché è in essa che risiede la podestà Sovrana. Secondo la prospettiva vatteliana, quindi, gli Stati sono gli unici soggetti detentori del diritto di fare guerra13, ed egli si interessa della guerra esclusi-

11

Ibidem. DG, III, § 2. 13 Una convinzione, questa, che sarebbe stata dopo poco rilanciata con forza da Rousseau quando scrive: «La guerra non è dunque una relazione tra uomo e uomo, ma una relazione tra Stato e Stato, nella quale i singoli sono nemici solo accidentalmente, non come uomini e neanche come cittadini, ma come soldati, non come membri della patria, ma come suoi difensori». In J.-J. 12



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La guerra

vamente in termini di guerra pubblica, trascurando la guerra privata14, considerata evento estraneo al diritto delle genti, in quanto affare interno allo Stato, e pertanto appartenente «al diritto di natura propriamente detto»15. La definizione vatteliana di guerra come evento essenzialmente pubblico non è un contributo propriamente originale. In questi termini, già Alberico Gentili aveva scritto nel De Jure belli libri tres che la «guerra è una contesa giusta e pubblica, attraverso le armi», specificando: È inoltre necessario che la contesa sia pubblica: infatti la guerra non è una rissa, una lotta, una inimicizia fra privati. E le armi debbono essere pubbliche da entrambe le parti: bellum prende il nome dalle due parti che contendono fra di loro la vittoria, e perciò veniva anticamente chiamato duellum. […] Nemico è così colui

ROUSSEAU, Il contratto sociale (1762), Einaudi, Torino, 1994, I, IV, pp. 1718. 14 A una delle forme più problematiche, per il dibattito politico, di «guerra privata», ovvero alla guerra civile, Vattel dedica l’intero capitolo XVIII del terzo libro. E, tuttavia, la sua posizione non appare essere sempre molto chiara in merito alla questione della legittimità tra le fazioni in lotta per il potere. È comunque interessante qui notare che per Vattel la legittimità delle istanze è ravvisabile in riferimento alla lealtà di queste rispetto al patto sociale con il quale si è fondata la società politica. I “ribelli”, pertanto, non sono definibili in base al fatto che vogliano rovesciare il potere, ma in base al fatto che violano il contratto politico fondante. Sul tema della guerra civile, si veda anche DG, II, § 56, nonché l’importante lavoro di R. SCHNUR, Idea della pace mondiale e guerra civile mondiale 1791/92, in ID., Rivoluzione e guerra civile, a cura di P. P. PORTINARO, Giuffrè, Milano, 1986. 15 DG, III, § 2.



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Capitolo IV

contro il quale si fa la guerra; ed è uguale al suo avversario.16

Sebbene Gentili avesse definito la guerra una contesa pubblica, Vattel non ne fa menzione suo testo17. D’altronde, è più probabile che Vattel si ispiri alla nozione groziana di guerra pubblica fornita dal De Jure belli ac Pacis. Grozio aveva già specificato che una guerra è pubblica quando è solenne, ovvero quando è condotta nelle debite forme da chi all’interno dello Stato detiene la sovranità18.

16

A. GENTILI, De Jure belli libri tres (1598), libro I, cap. 2, in C. GALLI (a cura di), Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 53 (traduzione di Carlo Galli). 17 Interessante l’osservazione di Paolo Carta sul De Jure belli quando scrive che in quest’opera “si assiste alla trasposizione in ambito giuri-dico del metodo politico adottato da Machiavelli”. In P. CARTA, “Gentili, Alberico”, in Gennaro Sasso (a cura di), Enciclopedia Machiavelliana, Treccani, Roma, 2014, p. 601. 18 Grozio distingue tra guerre pubbliche, private e miste. In riferimento alle prime scrive: «La guerra pubblica è o solenne, secondo il diritto delle genti, o non solenne. La guerra che io qui chiamo solenne, di solito è detta giusta il più delle volte nel medesimo senso in cui si contrappongono il testamento giusto ai codicilli o le giuste nozze al concubinato degli schiavi. Non perché non sia permesso fare codicilli, a chi lo vuole, o allo schiavo di avere una concubina; ma poiché il testamento e le nozze solenni hanno particolari effetti derivanti dal diritto civile. È utile che questo aspetto sia notato: infatti molti – mal comprendendo il termine giusto – ritengono che tutte le guerre, alle quali mal si adatta questa qualificazione, siano condotte come inique o illecite. Affinché una guerra sia solenne, secondo il diritto delle genti, sono richieste due condizioni: in primo luogo, che sia condotta – da una parte all’altra – da colui che nello Stato detiene la sovranità; in secondo luogo, che siano osservate certe formalità, delle quali parleremo specificamente.» U. GROZIO, Il diritto della guerra e della pace. Prolegomeni e libro primo, cit., pp. 128-129. Vattel richiama la «guerra solenne» di Grozio in DG, III, § 66.



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La guerra

Peraltro, ancor prima di Grozio e Gentili, pur senza parlare esplicitamente di guerra pubblica, già Francisco de Vitoria si era posto la questione di «chi abbia l’autorità di condurre e di dichiarare la guerra», operando una distinzione tra «persona privata» e «comunità politica», e riconoscendo a quest’ultima «l’autorità di dichiarare e condurre la guerra», a prescindere se sia un regno o una repubblica oppure se sia soggetta a un «principe superiore», perché anche i «re, che sono soggetti all’imperatore, possono farsi guerra tra di loro, senza attendere l’autorizzazione dell’imperatore»19. Appare chiaro che la concezione vatteliana della guerra pubblica poggia su una tradizione già sviluppata dalle diverse scuole giuridiche nel corso dei duecento anni precedenti. La sua prospettiva, tuttavia, inserita all’interno di un sistema di diritto delle genti che ambisce a teorizzare una nuova fase della storia europea, riesce a trasformare questo particolare aspetto della guerra pubblica in un tassello centrale del nuovo assetto politico-giuridico dell’Europa moderna. In sintesi, due sono gli aspetti che caratterizzano il concetto vatteliano di guerra. In primo luogo, il fondamento nel diritto naturale: lo jus ad bellum è in ultima analisi riconducibile

19

«Ma tutta la difficoltà sta nell’interrogativo: che cosa è “comunità politica” e chi ne è propriamente “principe”? A ciò in breve si risponde che “comunità politica” è una comunità perfetta. E a tal fine si noti che perfetto è ciò che costituisce una totalità […] Quindi è una comunità politica, o una comunità perfetta, quella che è in se stessa una totalità, ossia che non è parte di un’altra comunità ma ha invece proprie leggi, un proprio consiglio e proprie magistrature». F. DE VITORIA, De Indis, sive de jure belli Hispanorum in barbaros, relactio posterior (1539), Carnegie Institution, Washington, 1917. Riportato e tradotto in italiano da Carlo Galli in ID., Guerra, cit., pp. 42-43.



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al «diritto di sicurezza», in forza del quale una nazione ha il diritto «perfetto» di impiegare la forza contro chi attenta alla sua conservazione o al suo perfezionamento, ovvero le ha inflitto un danno, o minaccia di farlo – presupposto che conduce Vattel a considerare, come si vedrà, anche la guerra preventiva20. In secondo luogo, la giuridicità: la guerra, come si vede dall’insistenza di Vattel sul suo carattere pubblico e sull’atto formale della «dichiarazione»21 di guerra come soglia che fa entrare in una nuova modalità di rapporti giuridici, è l’ultimo rimedio per affermare il proprio diritto, al quale è possibile ricorrere dopo aver esaurito gli altri mezzi diplomatici senza ricevere soddisfazione22.

La nascita della guerre en forme La lettura di Vattel quale autore spartiacque tra una dimensione medievale della guerra e una strettamente moderna è stata elaborata con convinzione da Carl Schmitt in Il nomos della terra23. Nel celebre trattato del 1950, il giurista tedesco svolge una lucida ricostruzione storica del diritto internazionale, individuandone due fasi: una preglobale, indifferente allo spazio marittimo e caratterizzata dall’assetto ordinativo della

20

DG, II, § 49 e 50. DG, III, § 66. 22 DG, III, § 36 e 37. Per una rassegna dei principali passi relativi alla guerra nel Droit des gens si veda W. BALLIS, The legal position of war. Changes in its practice and theory from Plato to Vattel, Martinus Nijhoff, The Hague, 1937, pp. 150-158. 23 C. SCHMITT, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», Adelphi, Milano, 2006. 21



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respublica christiana edificata sulla diarchia Papato-Impero; e una globale, che è segnata dalla conquista dello spazio marittimo e che trova un nuovo assetto ordinativo con l’ascesa degli Stati: nuovi soggetti della scena politica e veri promotori dello jus publicum europaeum24. Come è noto, nel Nomos della terra grossa importanza è attribuita alla guerra, secondo Schmitt evento di fondamentale importanza per comprendere le dinamiche ordinative attorno alle quali prendono forma gli assetti spaziali. Nel ricostruire la storia dell’ordinamento medievale, il giurista tedesco spiega che il «diritto internazionale europeo»25 medievale fu una diretta conseguenza delle occupazioni territoriali avvenute con le migrazioni di popolazioni ‘barbare’, poiché esso dipese dal «fatto che la terra veniva spartita tra il conquistatore germanico e il possessore romano del suolo», secondo un istituto giuridico riconosciuto, quindi nel «quadro di un ordinamento vigente e di un diritto internazionale interimperiale». Così facendo, prese forma e sostanza un «sistema di convivenza delle tribù e dei popoli» destinato a far gemmare «nuove nazioni e nuove unità politiche», le quali convissero secondo le regole del diritto internazionale, ancora inteso classicamente come jus gentium: «L’unità complessiva di diritto internazionale del Medioevo europeo fu detta respublica christiana e populus christianus.»26

24

Ivi, pp. 19-178. Per un approfondimento sul rapporto tra spazio e politica in età moderna, cfr. C. GALLI, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna, 2001, pp. 54-58. 25 Ivi, p. 40. 26 Ivi, p. 41.



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Sebbene attraversata da realtà politiche tanto diverse27, la respublica christiana fu in grado di mantenere la sua unità, e di non frammentarsi, grazie ad un preciso assetto ordinativo retto dalla diarchia Papato-Impero, che trovava nella distinzione tra territori cristiani e territori non cristiani il cuore di una chiara spazializzazione politica. Scrive Schmitt: «È essenziale il fatto che all’interno del territorio cristiano le guerre tra principi cristiani fossero guerre limitate, diverse cioè da quelle rivolte contro principi e popoli non cristiani. Le guerre interne, limitate, non distruggevano l’unità della respublica christiana, ma erano “faide”, nel senso di affermazione del diritto, realizzazione concreta di esso»28. Il risvolto pratico di questa concezione della guerra fece sì che si sviluppasse l’idea che ogni guerra condotta contro un nemico della cristianità fosse “giusta” a prescindere da che essa fosse di difesa o di offesa, o addirittura “santa”, se dichiarata dal Papa. «In generale – è stato osservato da Carlo Galli –, benché sia il potere religioso a bandire la guerra santa, o la crociata, l’esecuzione è lasciata ai poteri secolari cristiani; i quali, a loro volta, sono tenuti alla pace reciproca, e legittimati a farsi guerra – che è una guerra interna, intercristiana – solo in caso di guerra giusta (bellum justum). Questa è una costruzione dottrinale che da Agostino (Contra Faustum), attraverso Tommaso (Summa, IIa IIae, q. 40), fino a Francisco de Vitoria (De iure belli, 1539) regola la guerra fra le nationes [cristiane]»29.

27

Per avere un’idea di questa eterogeneità, si veda P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 1995. 28 C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 42. 29 C. GALLI, Sulla guerra e sul nemico, «Griselda online», http://www.griseldaonline.it. I riferimenti bibliografici alla dottrina della



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A parte le differenze sviluppate dai diversi teologi, la prima condizione necessaria per parlare di guerra giusta si basava sul fatto che un intervento militare fosse condotto ex justa causa, ovvero per autodifesa, per ripristinare la giustizia offesa

guerra giusta sono estremamente numerosi. In riferimento ai classici menzionati – ai quali si può aggiungere di Agostino anche il libro XIX della Città di Dio – è possibile indicare due importanti antologie: J. B. ELSHTAIN, Just War Theory, New York University Press, New York, 1991; D. LACKEY, The Ethics of War and Peace, Prentice-Hall, 1988. Sul tema della guerra giusta vanno segnalati anche i seguenti saggi: P. RAMSEY, The Just War: Force and Political Responsibility, Scribner’s, New York, 1968; J. E. CHILDRESS, Just-War Theories, «Theological Studies», 1978, pp. 427-445; K. W. KEMP, Just-War Theory: A Reconceptualization, «Public Affairs Quarterly», Vol. 2, No. 2, April 1988, pp. 57-74; J. TURNER JOHNSON, Ideology, Reason and the Limitation of War, Princeton University Press, Princeton, 1975. Un particolare riferimento va poi fatto a M. WALZER, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990. Uscito in edizione originale nel 1977, il libro del politologo statunitense ha avuto il merito di riabilitare una teoria della guerra che per molti studiosi era, allora, solo una dottrina medievale. Walzer se ne è servito per analizzare alcune guerre contemporanee, contribuendo a far nascere un fiorente dibattito. Un’accurata ricostruzione di questo dibattito è in B. OREND, Michael Walzer on War and Justice, McGill-Queen’s University Press, Montreal & Kingston & London & Ithaca, 2000. Per quanto concerne gli sviluppi contemporanei della teoria della guerra giusta cfr. J. TURNER JOHNSON, Can Modern War be Just?, Yale University Press, New Haven, 1984; R. L. HOLMES, On War and Morality, Princeton University Press, Princeton, 1989; J. B. ELSTHAIN (a cura di), Just War Theory, Basil Blackwell, Oxford, 1992; ID., Just War Against Terror: The Burden of American Power in a Violent World, Basic Books, New York, 2003; M. P. EQUINO e D. MIETH (a cura di), Ritorno della guerra giusta?, «Concilium», 2, 2001. Per una critica delle argomentazioni di Walzer cfr. D. ZOLO, Cosmopolis, cit., pp. 85-109; D. LAZZARICH, Guerra e pensiero politico. Percorsi novecenteschi, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2009, pp. 162-173.



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o per punire i colpevoli. Gli altri due pilastri portanti della dottrina della guerra giusta erano lo jus ad bellum e lo jus in bello. Il primo concerneva le cause e le ragioni che conducevano alla guerra; il secondo prescriveva la condotta da tenere durante le ostilità, quindi anche l’uso delle armi impiegabili. La dottrina della guerra giusta, poi, stabiliva la pace nella giustizia, e non lo sterminio del nemico, quale fine ultimo della guerra – preoccupazione per l’ordine che è manifesta anche in Vattel, come si vede dal tema del libro IV della sua opera, intitolato Del ristabilimento della pace e delle ambasciate. Questi tre principi servivano per distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste, all’interno del quadro politico-religioso della Cristianità. Fuori da questo, le guerre autorizzate dalla Chiesa erano tutte giuste a prescindere dalla loro natura difensiva o offensiva, così come, specularmene, erano tutte ingiuste le guerre condotte contro la Cristianità30.

30

La divisione spaziale tra la cristianità e il resto del mondo, sottolineata da Schmitt, la quale sopravvive, con conseguenze in ordine al tipo di guerra (limitata o illimitata) che è condotta nei due ambiti, anche nella Modernità come divisione tra lo spazio dei popoli civilizzati e quello esterno, noncivilizzato, sopravviverebbe anche, secondo alcuni autori, nella teoria di Vattel. Richard TUCK (The rights of war and peace, Ofxord University Press, 1996) afferma che, nello Stato vatteliano, a un quadro interno liberale sono correlati «avventurismo e imperialismo» all’estero, e lungo questa tesi si sono mossi anche alcuni lavori nell’ambito dei post-colonial studies, critici della diminuzione dei diritti dei popoli nativi e nomadici fatta da Vattel sull’assunto che essi disattendono il dovere di coltivare la terra: cfr. J. FISCH, Die europische Expansion und das VöIkerrecht: Die Auseinandersetzungen um den Status der überseeischen Gebiete vom 15. Jahundert bis zur Gegenwart (Stuttgart: Steiner, 1984); A. ANGHIE, Imperialism, Sovereignty and the Making of International Law (Cambridge: Cambridge University Press, 2005); S. J. ANAYA, Indigenous Peoples in International Law (Oxford:



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Uno dei tratti più delicati della dottrina cristianomedievale della guerra giusta è il collegamento indissolubile che questa ha nei confronti dell’autorità deputata a stabilire la giustizia di una causa di guerra. Se nell’assetto storico-politico della respublica christiana, il Papa era la più alta figura destinata a discernere quali fossero le guerre giuste rispetto a quelle ingiuste, con la moltiplicazione delle verità cristiane quello che era un perfetto dispositivo ordinativo dello spazio europeo, oltre che di moralizzazione dell’azione politica in armi, si trasforma in un dispositivo lacerante, destinato a moltiplicare le guerre giuste. Si accendono, in questo modo, «le guerre civili di religione che hanno insanguinato l’Europa per più di un secolo (in pratica, dal consolidarsi della Riforma fino alle paci di Westfalia del 1648-49)», le quali, in sostanza, «nascono dall’affermazione unilaterale di una verità in nome della quale ciascun contendente si reputa legittimato a disobbedire al potere politico e a condurre una guerra interna contro il nemico, che

Oxford University Press, 2004); G. CAVALLAR, Vitoria, Grotius, Pufendorf, Wolff and Vattel: Accomplices of European Colonialism and Exploitation or True Cosmopolitans?, «Journal of the History of International Law», 10 (2008), 181-209 (prendo questi riferimenti da I. HUNTER, Vattel’s Law of Nations: Diplomatic Casuistry for the Protestant Nation, cit., p. 109 n. 4). Ma si veda il giudizio di Gabriella SILVESTRINI (Giustizia della guerra e disuguaglianza, cit., pp. 399-400), secondo cui, se è vero che Vattel mantiene un dispositivo discriminatorio tra le due parti della guerra, le figure dell’aggressore ingiusto e del «nemico dell’umanità» non sono localizzate spazialmente e limitate ad esempio ai pirati, agli Stati barbareschi, ai selvaggi, ma anche all’interno dell’Europa i sovrani e i popoli possono uscire fuori dal perimetro della «forma» richiesta dal modo «civilizzato» di conduzione della politica e della guerra, così diventando anch’essi «nemici dell’umanità».



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è anche eretico (i riformatori per i cattolici) o tirannico (i cattolici per i riformatori)»31. La gravità e la crudezza dei conflitti generati dalle aporie politiche in cui versa il Vecchio continente sono ciò con cui si confronta il pensiero politico dell’epoca della prima modernità, che non a caso, con Bodin32 prima e con Hobbes33 poi, traccia il progetto di un’architettura teorica sulla quale si consoliderà il dispositivo di sovranità34. Il pensiero politico contribuisce così a spostare non solo la politica, ma anche la guerra nelle sole mani della neonata entità statuale, rafforzando il quadro storicopolitico venutosi a creare con le paci di Westfalia. Con la fine della Guerra dei Trent’anni, infatti, prende forma il «primo ordinamento internazionale veramente “moderno”, basato cioè su una pluralità di Stati nazionali, territoriali e sovrani, che non riconoscevano alcuna superiore autorità alla Chiesa o all’Impero»35. Il “modello di Westfalia” – della cui sfumata corrispondenza alla realtà storica si è già fatto cenno36 – afferma in Europa gli Stati quali i nuovi ed esclusivi soggetti politici (quindi anche soggetti di diritto internazionale) dotati di eguaglianza giuridica37.

31

C. GALLI (a cura di), Guerra, cit., p. XIII. J. BODIN, I sei libri dello Stato (1576), UTET, 1997. 33 TH. HOBBES, Leviatano (1651), Laterza, Roma-Bari, 2008. 34 Per un’analisi del dispositivo hobbesiano di sovranità, cfr., G. BORRELLI, Il lato oscuro del Leviathan. Hobbes contro Machiavelli, Cronopio, Napoli, 2009. 35 D. ZOLO, Cosmopolis, cit., p. 23. 36 Cfr. supra, Introduzione, II. 37 Cfr. R. A. FALK, The Interplay of Westphalia and Charter Conceptions of International Legal Order, cit.; A. CASSESE, Il diritto internazionale nel 32



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Le guerre civili di religione, che per circa un secolo avevano insanguinato l’Europa, trovano – come ha rilevato già Reinhart Koselleck38 – nell’affermazione dello Stato a sovranità statuale il meccanismo in grado di disinnescare la loro carica distruttiva, traghettando la legittimazione della guerra dalla justa causa allo justus hostis ovvero dalla giusta causa, in nome della quale è possibile muovere una guerra giusta universalistica, al nemico giusto, ovvero alla forma statuale quale unica precondizione per essere titolari del diritto di fare la guerra39. Come argomenta Carl Schmitt, tale passaggio è al centro di una riflessione giuridica che tenta di codificare il nuovo sistema delle relazioni internazionali attraverso l'affermazione dello jus publicum Europaeum: è la trasformazione della guerra come fatto meramente naturale in una guerra in forma. La guerra condotta tra gli Stati appartenenti alla “famiglia” euromondo contemporaneo, cit.; L. GROSS, The Peace of Westphalia 1648-1948, cit.. 38 «Attraverso l’ordinamento politico che esso istituì dopo aver pacificato il territorio devastato delle guerre civili religiose, lo Stato creò la premessa per il dispiegarsi del mondo morale. Ma nella misura in cui gli individui politicamente impotenti sfuggono al vincolo religioso, entrano in contraddizione con lo Stato, che li libera sul piano morale, ma nello stesso tempo li priva della responsabilità, riducendoli ad uno spazio privato. Inevitabilmente quindi i borghesi erano in contrasto con uno Stato che, subordinando la morale alla politica, comprende il fatto politico in senso formale e così fa i conti senza la peculiare tendenza dei suoi sudditi all’emancipazione.» In R. KOSELLECK, Critica illuministica e crisi della società borghese, in ID., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova, 1986, p. 14. 39 Lo justus hostis esprime solo una perfectio formale, come teorizzato già da Ayala e Gentili. Cfr. B. AYALA, De jure et officiis bellicis et disciplina militari libri III (1582), Oceana, New York, 1964; A. GENTILI, De jure belli libri tres (1612), Clarendon Press, Oxford, 1933.



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pea diviene, così, un confronto «analogo a un duello, uno scontro armato tra personae morales», sancendo un passaggio di grande efficacia sul piano della limitazione della distruttività dell'evento. A differenza delle brutalità delle guerre di religione e di colonizzazione, in cui è sempre attivo un principio di annientamento del nemico, la guerre en forme40 segna una profonda razionalizzazione e umanizzazione del conflitto, in grado di rivestire il nemico di una forma giuridica chiara che riconosce ad esso la legittimità d’esistere in quanto justus hostis ovvero esponente della stessa famiglia a cui appartengono tutti gli Stati europei, autorità pubblica che dichiara e conduce la guerra nelle dovute forme41. Sentenzia Schmitt: Solo mediante la completa eliminazione della questione della justa causa è divenuto possibile il diritto internazionale interstatale dell’ordinamento spaziale europeo, costruito sul concetto non discriminante di

40

Vattel usa questo lemma, destinato ad avere fortuna, in DG, III, § 51, 66, 190, 191. 41 C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit, pp. 165-166. Prosegue Schmitt: «Diviene così anche possibile stipulare un trattato di pace con il vinto. In questo modo il diritto internazionale europeo riesce nell'impresa di limitare la guerra con l’ausilio del concetto di Stato.» È chiaro che nella prospettiva schmittiana ciò è legato al fatto che gli Stati avevano trovato una struttura stabile, basata su un ordinamento territorialmente delimitato dai confini, oltre i quali si aprivano spazi illimitati e non soggetti al diritto. Come già accennato supra, nota n. 29, proprio in questi spazi la guerra appare tutt’altro che limitata, sul presupposto che ogni fazzoletto di terra non ‘statualizzato’ sia ‘statualizzabile’ da parte di soggetti politici (gli Stati) che si considerano ontologicamente superiori a qualsiasi altra entità prepolitica.



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guerra, e solo così si è riusciti nella limitazione della guerra europea. 42

L’eliminazione della justa causa è stato sostiene il giurista tedesco, un processo difficile, che ha impegnato, senza successo, autori del calibro di Grozio e che si è perfezionato attraverso Zouch, Pufendorf e Bynkershoek, ma che arriva a compimento soltanto con Vattel, col quale «si riesce infine a cogliere la classica trasparenza illuministica del XVIII secolo», dove l’«intera problematica è chiarita grazie al passaggio dalla questione di una giustizia contenutistica e normativa alla semplice “forma”, ovvero alla pura statualità della guerra»43. Vattel, quindi, è l’architrave di una nuova fase ordinativa del sistema europeo. Secondo Schmitt il pensatore svizzero porta a compimento un processo lungo, riuscendo a emanciparsi definitivamente dalla questione della giusta causa che la dottrina della guerra giusta aveva lasciato come difficile eredità ai razionalizzanti processi giuridici interstatali. Sebbene il diplomatico svizzero si serva ancora di alcuni «luoghi comuni riguardo alla guerra giusta», nel senso di «justa causa», questi non sono altro che «un vuoto topos», «semplici espedienti retorici»44. Certo questa, al seguito della ricezione di Schmitt, è stata una lettura di Vattel molto influente nella storia delle dottrine politiche; essa ne coglie un importante aspetto, e pone il suo autore in una tradizione e in una «strategia di normalizzazione del conflitto bellico, nella duplice accezione di accettazione e limi-

42

Ivi, p. 197. Ibidem. 44 Ivi, p. 198. 43



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tazione della guerra come ordinaria modalità di relazione tra Stati», opposta ai coevi progetti di «pace perpetua» del cosmopolitismo45. Anche al di fuori della storia delle dottrine politiche continentale e nel mondo anglosassone, in cui Vattel è spesso preso a esempio classico del superamento dell’idea medievale che i diritti di guerra spettino solo al belligerante giusto, e dell’introduzione di una war in due form, o guerra «regolare», che contemporaneamente viene sottratta alle dispute teologiche e morali e attratta nella sfera degli esclusivi e ingiudicabili affari di Stato46. Occorre, tuttavia, domandarsi se le osservazioni di Schmitt sull’uso retorico da parte di Vattel del lessico medievale della giusta causa rispecchino fedelmente il pensiero vatteliano, o se esse non siano invece in qualche misura frutto di una lettura forzata dalla polemica schmittiana contro gli universalismi e il contesto politico-internazionale del suo tempo47. Una lettura

45

L. SCUCCIMARRA, I confini del mondo, cit., p. 296. Si veda per questi giudizi l’introduzione editoriale ai passi di Vattel selezionati per l’antologia a cura di G. M. REICHBERG et al., The ethics of war: classic and contemporary readings, Malden, MA - Oxford, Blackwell, 2006. L’insistenza di Vattel sul carattere «pubblico» della guerra e sul monopolio statale di essa si constata anche dal suo corrispondente e categorico rifiuto delle altre forme di guerra, più o meno private e più o meno irregolari, al tempo praticate (ad esempio la guerra di corsa o i costumi di guerra dei popoli extra-europei) che la dottrina precedente tollerava: dal suo rifiuto, insomma, di quello che Walter Rech chiama il “pluralismo dei diritti di guerra” di Bodin, Grozio e Bynkershoek. Cfr. W. Rech, Enemies of Mankind. Vattel’s Theory of Collective Security, Martinus Nijhoff, LeidenBoston, 2013, p. 105 e sg. 47 Per una considerazione critica del pensiero schmittiano e per un’analisi del carico polemico e ideologico della sua opera, cfr. C. GALLI, Schmitt e l’età 46



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attenta del terzo libro del Diritto delle Genti rivela, come argomenteremo, una stratificazione concettuale che rende la prospettiva schmittiana quanto meno problematica.

La giusta causa di guerra nel pensiero di Vattel La lettura schmittiana della guerre en forme come elaborazione teorica in grado di ripulire completamente la guerra dai residui medievali appare, a un’analisi più approfondita del testo di Vattel, quantomeno problematica, se non proprio forzata. Secondo Gabriella Silvestrini Vattel, più che operare una vera neutralizzazione della guerra giusta, fa in modo che questa venga incorporata, almeno parzialmente, nella guerre en forme48. Processo che sarebbe reso evidente da un’analisi

globale, in ID., Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 129-172. 48 G. SILVESTRINI, Giustizia della guerra e disuguaglianza, cit., p. 392. Allo stesso modo, afferma l’autrice, la guerra en forme non opera una «completa neutralizzazione del diritto naturale», ma piuttosto opera un intreccio tra diritto volontario e diritto naturale (si segnala che il saggio dell’autrice è anche stato anche tradotto come Justice, War and Inequality. The Unjust Aggressor and the Enemy of the Human Race in Vattel’s Theory of the Law of Nations nel numero monografico dedicato a Vattel di «Grotiana», 31, 2010, pp. 44-68. Anche S. ZURBUCHEN, in Vattel’s law of nations and just war theory, «History of European Ideas», 35, 2009, pp. 408-417, ripercorre i passi della dottrina di Vattel sulla guerra secondo l’ipotesi che questo non rompa con la tradizione del diritto naturale e della guerra giusta, ma senza prendere come termine dialettico Schmitt, bensì la successiva interpretazione di Vattel come positivista e volontarista giuridico. Le tesi di Schmitt e di Zurbuchen non sono facilmente confrontabili perché il secondo, in modo inverso rispetto al primo, parte dall’assunto che il positivismo significi «avventurismo» politico e che invece dal diritto naturale si traggano massime «prudenziali».



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dell’utilizzo che Vattel fa della dichiarazione di guerra, con particolare riferimento a Barbeyrac e a Grozio. Per quest’ultimo, la dichiarazione di guerra assume un significato diverso a seconda che la guerra si svolga in un regime di diritto delle genti naturale o di diritto delle genti consuetudinario. Nel primo regime, la dichiarazione di guerra non è necessaria per autodifesa, né per una guerra offensiva condotta per riprendere ciò che ci è stato sottratto o per punire un colpevole. I casi in cui la dichiarazione è necessaria, invece, sono quelli in cui si vuole riscuotere ciò che si pensa ci sia dovuto, in cui ci si vuole impadronire di un bene che risarcisca il danno subito, o in cui si voglia fare una guerra contro un’autorità pubblica a causa di un crimine o di un debito di cui sono responsabili i suoi cittadini. Sebbene la natura prescriva i diversi casi in cui è necessario o meno preannunciare la guerra con una dichiarazione, Grozio ritiene «onesto» far precedere sempre l’avvio delle ostilità da una dichiarazione di guerra, poiché in questo caso potrebbe verificarsi che la controparte decida di cessare il torto o di venire a patti con colui che lo attaccherà49. In un regime di diritto delle genti consensuale, invece, la dichiarazione di guerra è necessaria, non solo per rendere noto a tutti che ciò che avrà inizio non sarà una guerra privata ma una guerra pubblica, intrapresa da un’autorità per mezzo di un processo politico deliberativo, ma anche per segnare ufficialmente il passaggio da un ordinamento giuridico ad un altro. La dichiarazione di guerra marca il momento in cui consensualmente due entità politiche passano dall’ordinamento giuridico

49

U. GROZIO, De iure belli ac pacis, cit., III, III, § VI.



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del diritto naturale a quello del diritto delle genti volontario50. Il punto di rilievo della teoria groziana sta nel fatto che, spostando l’accento sul carattere consensuale della guerra solenne, essa desostanzializza il peso della justa causa, poiché qualunque siano gli esiti, in questo regime ciò che conta è la modalità procedurale con cui si è avviata la guerra. Vattel assumerà una parte delle argomentazioni groziane, ma non senza passare prima per il contributo offerto dal traduttore in francese, e glossatore, del giurista olandese, Barbeyrac51, il quale, sebbene disconosca il fondamento consensuale del diritto delle genti, sembra accogliere, nella sua idea di diritto naturale, «parte del contenuto del diritto delle genti consensuale». Prima di tutto, Barbeyrac respinge l’idea che vi sia una distinzione tra guerra pubblica e guerra privata; per quanto attiene alla questione della dichiarazione di guerra, invece, egli spiega «in base al diritto naturale ciò che secondo Grozio corrispondeva a un uso introdotto dal diritto delle genti».52 Sono le ragioni di umanità e di amore per la pace ad imporre la dichiarazione di guerra, ma non perché questa sia un obbligo nei confronti del nemico ingiusto, ma perché in questo modo si può ancora spe-

50

Ibidem. Sul ruolo di Jean Barberyrac nella divulgazione e nello sviluppo del diritto delle genti cfr. E. FIOCCHI MALASPINA, Le Droit des Gens di Emer de Vattel. La genesi di un successo editoriale secolare, cit., p. 740 sg., e inoltre G. M. LABRIOLA, Barbeyrac interprete di Pufendorf e Grozio. Dalla costruzione della sovranità alla teoria della resistenza, Napoli, Editoriale scientifica, 2003. 52 G. SILVESTRINI, Giustizia della guerra e disuguaglianza, cit., p. 393. 51



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rare di scongiurare la guerra53. La dichiarazione, infatti, offre all’altra parte l’ultima occasione di dare adeguata riparazione, e vale come ultimatum54. La posizione di Vattel sembra sussumere le posizioni di entrambi gli autori, operando, però, una traduzione formale del carattere sostanziale della dichiarazione di guerra. Scrive Vattel: Necessario essendo la dichiarazione di guerra per tentare ancora di comporre la lite senza effusioni di sangue, […] nel tempo stesso che intima la risoluzione presa di muover guerra, dee pur la medesima esporre il motivo per cui s’impugnano le armi. Questa è oggi la costante pratica tra le Potenze Europee. 55

In questo passaggio, il pensatore svizzero riprende sicuramente le argomentazioni di Barbeyrac sopra esposte. Dopo, in un paragrafo successivo, egli aggiunge: Oltre le ragioni da noi allegate è necessario il pubblicare la dichiarazione di guerra per la istruzione e la direzione de’ suoi proprii sudditi, per fissar l’epoca dei diritti, che loro appartengono sin dal momento di questa dichiarazione e relativamente a certi effetti che il Diritto delle Genti attribuisce alla guerra in forma.56

53

Nota di Barbeyrac in U. GROZIO, Le droit de la guerre et de la paix, cit., III, III, § 6, nota 8, p. 757. Cfr. anche S. VON PUFENDORF, Le droit de la nature et des gens, E. et J. R. Thourneisen, Bâle, 1732, VIII, VI, § 9. 54 Cfr. W. BALLIS, The legal position of war, cit., p. 152. 55 DG, III, § 52. 56 DG, III, § 56.



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In questo caso, l’approccio vatteliano si avvicina molto più a quello di Grozio, asserendo che, dal momento in cui si rende pubblica la dichiarazione di guerra questa segna il passaggio a un’altra epoca dei diritti57. La pubblicazione della dichiarazione, però, non serve solo per informare il nemico circa l’inizio delle ostilità58, ma anche per informare il proprio popolo dell’avvio della guerra. La dichiarazione, come si è già avuto modo di sottolineare, conferma l’inserimento della guerra nel quadro giuridico del diritto delle genti: qui essa opera come «soglia» tra due modalità giuridiche delle relazioni tra gli Stati, e, avanzando un’ultima richiesta di soddisfazione, ricorda che l’inizio delle ostilità segue solo al fallito tentativo di praticare altri rimedi giuridici e diplomatici. C’è però un altro motivo, tutt’altro che trascurabile, per cui occorre rendere pubblica la dichiarazione di guerra: rendere nota la giustezza della causa agli altri Stati.

57

Vattel fa esplicito riferimento a Grozio scrivendo: «Grozio dice che due cose richieggonsi perché una guerra sia solenne o nelle forme, secondo il Diritto delle Genti: la prima che faccisi da una parte e dall’altra con autorità sovrana; la seconda che sia accompagnata da certe formalità. Queste formalità consistono nella domanda di giusta soddisfazione e nella dichiarazione di guerra». DG, III, § 66. 58 Sul tempo della dichiarazione di guerra al nemico Vattel scrive: «Il Diritto delle Genti non impone la obbligazione di dichiarare la guerra per lasciar al nemico il tempo di prepararsi ad una ingiusta difesa. È dunque lecito il far la sua dichiarazione soltanto quando l’esercito è giunto sulla frontiera ed anche dopo esser entrato sulle terre del nemico ed avervi occupato un posto vantaggioso, sempre però di commettere alcuna ostilità.» DG, III, § 60.



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Debb’egli parimenti rendere avvertite della sua dichiarazione di guerra le Potenze neutrali per informarle delle ragioni giustificative, che lo assistono, del motivo che l’obbliga ad impegnar le armi e per notificar loro che il tale o il tal altro popolo è suo nemico, affinché possano elleno regolarsi coerentemente. 59

Quel «regolarsi coerentemente» significa per Vattel che gli altri componenti della famiglia delle nazioni europee possono valutare la giustezza della causa e decidere quale posizione assumere rispetto alla guerra che sta per iniziare: se rimanere neutrali, o parteggiare per uno dei belligeranti.

Il ruolo politico della giusta causa Il fatto che le nazioni non belligeranti non siano semplici spettatrici dello scontro che si prospetta, ma possano prenderne parte legittimamente, non significa che sia scomparso il dispositivo della giusta causa, ma solo che si sia parcellizzato il modo in cui questo opera. Se nel Medioevo era il Papa a possedere l’autorità morale per decidere della giustezza o meno di una causa, ora questa è nelle mani di ogni Stato: tutti sono detentori dell’autorità di decidere autonomamente se un altro Stato ha mosso guerra con una giusta causa. D’altronde, proprio uno dei criteri più significativi attribuiti a Vattel, ovvero la capacità della guerre en forme di portare la legittimità o meno di una guerra su un piano puramente formale, su l quale vale solo la “qualità” pubblica dei belligeranti, appare incontrare un momento critico fondamentale nel caso in cui si dia inizio ad

59

DG, III, § 64.



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un’azione militare senza un diritto o un motivo, fosse anche puramente fittizio60. Allorché «si vuol giudicare se una guerra è giusta», scrive infatti Vattel, «bisogna vedere se chi la intraprende ha veramente ricevuto una ingiuria, o se n’è realmente minacciato»61. Il fatto che la guerra sia condotta da un’autorità pubblica potrà comportare che la guerra sia corretta da un punto di vista procedurale, ma ciò non significa che essa sia anche giusta. Tale condizione potrebbe sembrare sostanzialmente (e giuridicamente) irrilevante, ma da un punto di vista politico la questione è tutt’altro che secondaria. Se un componente della famiglia della nazioni europee valuta che la causa della guerra è ingiusta, nulla gli impedisce di intervenire nella disputa a favore di una delle parti. Di fatto, gli effetti politici della giusta causa tornano a essere più significativi e influenti di quelli formali. La giusta causa appare, pertanto, non un vuoto moncone concettuale, ma una nozione viva ed operante. Non a caso, al tema della gusta causa Vattel dedica tutto il capitolo terzo del libro III (dove il richiamo diretto alla guerra giusta ricorre per ben sei volte: due con l’espressione «guerra giusta» e quattro con quella di «guerra ingiusta»). Infatti, dopo aver ammonito il lettore dei nefasti effetti che ogni guerra porta con sé62, Vattel

60

DG, III, § 67. DG, III, § 26. 62 DG, III, § 24. L’argomentazione vatteliana sulla guerra risente di un evidente ascendente morale, che lo porta ad associare la guerra ad un alveo valoriale negativo. «Chiunque abbia un’idea della guerra, chiunque rifletta suoi terribili effetti […] converrà facilmente sul fatto che essa non deve essere mossa senza le più forti ragioni». DG, III, § 24. E ancora: «una 61



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annovera come prima causa di guerra giusta il torto (subito o minacciato)63 e, viceversa, pone tra le guerre ingiuste quelle intraprese senza aver subito nessun torto, né esserne minacciato64. Altre considerazioni ancora mostrano che la guerra, nella teoria di Vattel, è un tema delicato per la scienza della politica, perché qui si giocano l’integrità e l’esistenza stessa dello Stato. Se uno Stato intraprende una guerra solo per ampliare i propri domini e ricchezze – ambizione che non costituisce naturalmente una giusta causa –, esso si esporrà alla ritorsione degli altri Stati65. Se un Principe intraprende una guerra ingiusta, le altre nazioni possono intervenire in favore di chi subisce l’ingiusto attacco – mentre possono intervenire per proporre un accordo, quando la giustizia è dalla parte dell’aggressore66. L’ingiustizia della causa apre in questo caso alla possibilità di un legittimo intervento da parte dei terzi; ma nella teoria vatteliana, essa fonda anche la legittimità di un’ulteriore e più seria risposta: quella di un’alleanza, e persino di un’azione preventiva, di tutti gli Stati contro un sovrano che abbia ambizioni egemoniche. Vattel considera qui quello che può esssere interpretato come un vero e proprio dispositivo di sicurezza collettiva, facendo riferimento agli esempi storici di due monarchi ambiziosi, Carlo V e Luigi XIV, e alla politica degli altri Stati europei nei loro confronti67 – all’interno di una discussione sull’«equilibrio di

Nazione giusta e saggia, un buon Principe», non ricorreranno alla guerra se non in «casi estremi». DG, III, § 25. 63 DG, III, § 26. 64 DG, III, § 27. 65 DG, III, § 30. 66 DG, III, § 49. 67 DG, III, § 44, 45, 49.



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potenza» che peraltro è un aspetto centrale del capitolo terzo del suo libro terzo68. Vattel aveva inoltre affermato che quantunque gli Stati siano uguali e indipendenti, e quindi liberi di valutare se la causa di guerra, propria o altrui, sia giusta, tale libertà non li discolpa nel caso in cui essi intraprendano una guerra ingiusta – il che sottolinea che la giustizia della causa rimane importante non solo nella coscienza del singolo sovrano, ma anche nel mondo esterno delle relazioni tra Stati69. Non solo Vattel non riassorbe tutto il discorso della guerra giusta nel dispositivo formalistico della guerre en forme, ma utilizza la contrapposi-

68

Questo aspetto è stato esplorato in particolare in alcuni contributi recenti, cfr. W. RECH, Enemies of Mankind. Vattel’s Theory of Collective Security, cit., p. 182 e sg., e B. ARCIDIACONO, De la balance politique et de ses rapports avec le droit des gens: Vattel, la ‘guerre pour l’équilibre’ et le systeme européen, in V. Chetail-P. Haggenmacher, Vattel’s International Law in a XXIst Century Perspective, cit., pp. 77-100. Walter Rech sostiene (cfr. op. cit., p. 3 e sg.) che questa teoria dell’equilibrio e della sicurezza collettiva sia adottata da Vattel non in derivazione dal diritto naturale e dalla giusta causa (quindi da considerazioni morali e giuridiche), quanto piuttosto sulla base di assunti pragmatici e utilitaristici: si tratterebbe di un’estensione del dispositivo hobbesiano di sicurezza, pensata per agire da rimedio e da deterrente contro l’ambizione dei sovrani. Bruno Arcidiacono mostra invece che in Vattel le due facce della questione, morale e utilitaristica, giuridica e politica, sono compatibili: la politica di mantenere l’equilibrio è necessaria a preservare il presupposto su cui il diritto internazionale può avere vigore, ovvero l’assenza di un solo potere in grado di dettare legge a tutti (op. cit., 83-84, 94-95). 69 DG, III, § 40. Tuttavia, Vattel non sembra successivamente derivare da questa affermazione conseguenze di tipo penalistico a carico del sovrano ingiusto; e qui aggiunge anche che se il sovrano agisce in base a «invincibile ignoranza» o a «errore» l’ingiustizia non può essergli imputata.



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zione guerra giusta/guerra ingiusta quale strumento vivo e operante di regolazione della guerra. La stessa nozione di ingiusto nemico è utilizzata da Vattel per legittimare, durante la guerra, la sottrazione di beni – o la loro distruzione, nel caso in cui non si riesca a portarli via – col fine di indebolire il nemico che ha avviato una guerra ingiustamente70. È vero che il pensatore svizzero tiene a sottolineare che sarebbe un «errore funesto […] l’immaginarsi che cessi ogni dovere» e «ogni vincolo di umanità fra le due nazioni che fannosi la guerra», poiché anche colui che «ci fa una guerra ingiusta» è tuttavia un «uomo», e come tale merita di essere trattato per non mettere a repentaglio le «leggi di guerra» (lo jus in bello). Ma è altrettanto vero che subito dopo egli precisa: Ma se insorge un conflitto tra i nostri doveri verso noi stessi e quelli, che ci legano agli altri uomini, il diritto di sicurezza ci autorizza a fare contro quell’ingiusto nemico tutto ciò che è necessario a respingerlo e metterlo in dovere.71

Torna, qui, uno degli assunti fondamentali del pensiero vatteliano, il quale pone comunque l’interesse particolare dello Stato come stella polare dell’operato del sovrano. Ciò ha spinto alcuni studiosi a riflettere sulle conseguenze della piena libertà degli Stati sovrani rispetto alla guerra, ovvero se i limiti dei tessuti normativi, sia naturali che volontari, non finiscano per trasformare la guerra in un atto arbitrario realisticamente accettato

70 71

DG, III, § 166. DG, III, § 174.



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da Vattel72. È parere di R. L. Holmes, che proprio la prospettiva di una legalità particolare, in cui il diplomatico svizzero pone lo Stato, sembri attribuire a quest’ultimo la possibilità di prendere ciò che vuole quando vuole73. Questa lettura è stata formulata nel modo più compiuto da Reinhart Koselleck, il quale, amico e allievo di Schmitt, ne ha sviluppato le tesi principali su Vattel nel suo Kritik und Krise del 1959. Per Koselleck, il diritto «volontario» di Vattel serviva proprio a rendere il diritto «naturale» in buona misura inapplicabile tra gli Stati, in modo da eliminare dalla lotta politica quelle argomentazioni morali che inevitabilmente portano a un inasprimento e a un’ampliamento del conflitto. Vattel è per Koselleck, da questo punto di vista, il teorico dell’assolutismo e della ragion di Stato che subordina la morale alla politica, e così riesce a stabilire un ordine meno conflittuale74. D’altra parte, essendo le nazioni delle entità sovrane, esse non riconoscono nessuna autorità al di sopra di loro75. Ciò si-

72

Come nella prospettiva hegeliana, in cui l’unica cosa che può decidere le controversie degli Stati, in quanto «volontà particolari», è la guerra. G. F. W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1996, § 334. 73 R. L. HOLMES, On War and Morality, Princeton University Press, Princeton, 1989, p. 158 74 Seguo qui la sintesi degli argomenti di R. KOSELLECK, Kritik und Krise (1959; trad. it. Critica illuministica e crisi della società borghese, in ID., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova, 1986) fatta in I. NAKHIMOVSKY, Carl Schmitt’s Vattel and the ‘Law of Nations’ between Enlightenment and Revolution, «Grotiana», 31, 2010, pp. 141-164, in particolare qui pp. 146-147. 75 Il riferimento alla sovranità è chiaramente ricavato da Bodin e il nesso tra sovranità e libertà dello stato si staglia incontrovertibilmente in uno spazio di sincera laicità, che porta Vattel a criticare quei fondamentalisti che in nome del Vangelo violano anche i precetti naturali di autodifesa, pensando di non



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gnifica che nel caso in cui due nazioni si trovino, per qualche motivo, in una situazione di conflitto, queste non possono ricorrere a nessun soggetto terzo per valutare chi delle due controparti abbia ragione; non riconoscendo esse a nessuno, se non a loro stesse, il diritto di valutare la giustezza o meno delle loro ragioni. Tale circostanza apre inevitabilmente uno spazio di potenziali conflitti, nel quale Vattel con prudenza e realismo riconosce che, sebbene «la guerra non [possa] essere giusta per entrambe le parti», nessuno può «ergersi a giudice» circa la legittimità di una o di un’altra ragione. Data l’oggettiva difficoltà di valutare in termini morali gli affari degli Stati, «le armi dei due belligeranti devono essere considerate legittime, almeno rispetto agli affari esterni», e, pertanto, «la condizione dei due Nemici è la stessa, finché dura la guerra […] indipendentemente dalla giustezza della causa»76. A ribadire però il residuo ruolo della giusta causa nel Droit des Gens è ancora una volta Koselleck, quando ricorda che Vattel ammette in un caso importante l’intervento dei sovrani negli affari di un altro Stato: Ma se il Principe, attaccando le Leggi fondamentali, dà al suo popolo un motivo legittimo di resistergli, se la tirannia, divenuta intoppottabile, sollevar fa la Nazione, ogni Potenza straniere ha Diritto di soccorrere un popolo oppresso, che gli domanda la sua assistenza. La Nazione Inglese dolevasi con giustizia di Jacepo II. I grandi, i migliori patriotti, risulti di mettere un freno ad usurpazioni, che tendevano manifestamente a rovidover muovere guerra nemmeno in questo che è il caso della giusta causa per eccellenza secondo il pensatore svizzero. Cfr. DG, III, § 3. 76 DG, III, § 68.



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nare la Costituzione, ad opprimere la libertà pubblica e la religione, si procacciarono il soccorso delle Province Unite. L’autorità del Principe d’Orange influì certamente nelle deliberazioni degli Stati generali, ma essa non fece loro commettere una ingiustizia. Quando un popolo prende con ragione le armi contro un oppressore, non è che giusto e generoso il soccorrere valentuomini, che difendono la loro libertà.77

Qui Vattel ammette – in riferimento all’intervento olandese nella successione al trono inglese del 1688 – un’eccezione alla cautela con cui precedentemente aveva trattato dell’intervento78, mosso dalla sua preferenza per il principio della libertà religiosa, e apre alla successiva critica dell’assolutismo, con toni che saranno ripresi dal pensiero prerivoluzionario e cosmopolitico. Koselleck non considera qui il riferimento alla giusta causa un vuoto luogo comune, e si conferma un lettore di Vattel, come ha osservato Francesco Mancuso, sensibile alla compresenza nel pensatore svizzero di neutralizzazione assolutistica e moralizzazione della politica79. Una tensione irriducibile con cui gli studiosi di Vattel devono fare i conti.

77

DG, II, 56. DG, II, 7. Seguo qui ancora il commento di Koselleck al passo di Vattel riportato da I. NAKHIMOVSKY in op. cit., pp. 147-149. 79 Cfr. F. MANCUSO, Le Droit des Gens come apice dello jus publicum europaeum? Nemico, guerra, legittimità nel pensiero di Emer de Vattel, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 38, 2009, pp. 1277-1310, qui p. 1285. 78



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La politica oltre la forma Come si vede, le linee del discorso vatteliano sono numerose e le categorie di guerra en forme e guerra giusta si intrecciano dando vita a un risultato molto meno univoco rispetto a quanto proposto da Schmitt. Occorre pensare a Vattel, quindi, non tanto come interno a una teoria pura dello jus publicum europaeum – inteso quale processo teorico-politico-giuridico tipicamente illuminista e refrattario agli influssi delle tradizioni precedenti – ma piuttosto come un punto di sintesi di tradizioni diverse. E del resto la fecondità e l’attualità delle molte prospettive vatteliane è provata dal grande impegno – di cui non si può adeguatamente rendere conto qui – con cui sono state negli ultimi anni recuperate le sue tesi su questioni stringenti del presente, come la legittimità della guerra preventiva, l’intervento umanitario o il ritorno nelle relazioni internazionali di concetti come l’aggressore ingiusto e, soprattutto, il «nemico del genere umano», declinato oggi come pirata, o come terrorista, o come Stato ‘canaglia’ – e che nel sistema di Vattel, generalmente teso allo sforzo di stabilire delle condizioni di uguaglianza tra le parti, costituisce una «eccezionale, ma prepotente, riemersione in tutta la sua pienezza discriminatoria della giusta causa nei confronti di un nemico assoluto»80.

80

Così F. MANCUSO, op. cit., p. 1284. Oltre al contributo di Mancuso e a quello di G. SILVESTRINI, Giustizia della guerra e disuguaglianza, cit., che hanno messo a fuoco il concetto di nemico in Vattel, si rimanda a W. RECH, Enemies of Mankind, cit., per la più esauriente analisi dei molti tipi di nemici dell’umanità che compaiono nel Droit des Gens, sia nel mondo non civilizzato (pirati, corsari, popoli dediti al saccheggio etc.) che sul suolo europeo (sovrani guerrafondai, disturbatori dell’equilibrio, tiranni). In



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Cionondimeno, tornando al rapporto del nostro autore con la storia del pensiero politico che lo ha preceduto, possiamo osservare che l’orientamento di Vattel diverrà basilare per rispondere agli aspetti fondamentali sull’ammissibilità delle cause legittime di guerra e sulla possibilità e necessità di istituire regole volte a limitare la guerra (nonché la gravità del suo impatto sull’umanità). Questo risultato, tuttavia, Vattel lo otterrà traendo spunti e indicazioni da molti autori e tradizioni, incluso Agostino e Tommaso per mezzo di Grozio. Anche quando Vattel si occupa dei limiti stabiliti dalla natura, si ispira in realtà a opere e pratiche che risalgono a prima dell’Illuminismo81. Geoffrey Parker nota che le leggi della guerra in Europa si sono basate, a partire dal Medioevo, sugli stessi cinque punti fondanti: testi prescrittivi – la Bibbia, il diritto romano, il diritto canonico, gli scritti di Agostino e Tommaso d’Aquino; gli sforzi della chiesa medievale di proteggere i deboli istituendo la Pace Divina e la Tregua Divina; la messa in atto da parte degli riferimento all’intervento umanitario e alla guerra preventiva si vedano i saggi contenuti in S. RECCHIA - J. WELSH (a cura di), Just and unjust military intervention: European thinkers from Vitoria to Mill, Cambridge University Press, 2013, in part. qui i contributi di A. COLONOMOS, War in the face of doubt: early modern classics and the preventive use of force, pp. 48-69 e di J. PITT, Intervention and sovereign equality: legacies of Vattel, pp. 132-153. Se Colonomos ritiene Vattel complessivamente cauto nel conferire un diritto alla guerra preventiva, più duro è il giudizio di A. CARTY, Vattel’s natural liberty of conscience of nations in a new age of belief and faith, in V. Chetail - P. Haggenmacher, Vattel’s International Law in a XXIst Century Perspective, cit., pp. 189-210, secondo cui la logica di Vattel è comparabile a quella odierna con cui si costruiscono i rogue States e si giustificano le guerre preventive occidentali. 81 A. STARKEY, War in the Age of Enlightenment, 1700-1789, Praeger, Westport, 2003.



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eserciti di codici e articoli di diritto della guerra relativi al comportamento dei soldati; i precedenti creati dalla condotta stessa della guerra; l’accettazione, da parte dei belligeranti, dei vantaggi del reciproco ritegno. Parker conclude che questa potente combinazione di legge naturale e legge divina, precetti ecclesiastici, diritto militare e usi comuni abbia impartito una nuova e duratura consistenza sia allo jus ad bellum che allo jus in bello nel periodo tra il 1550 e il 170082. Tutti questi fattori erano dunque già esistenti prima e durante l’Illuminismo, influenzandone le categorie politiche. Vattel può quindi essere visto come colui il quale ha saputo creare forme nuove e adattare le precedenti a un’impalcatura storico-politica segnata dal trionfo degli Stati, senza trascurare la sapienza proveniente da una pratica diplomatica che – come ricorda Bazzoli – è costantemente attenta agli interessi di potenza degli Stati e a quelli dinastici dei sovrani83. Il pensiero di Vattel non può essere, pertanto, facilmente racchiuso in rapide definizioni, perché numerose sono le linee teoriche che lo attraversano, così come numerose sono le prospettive e i registri racchiusi in Il Diritto delle Genti. Certo, la concezione vatteliana della guerre en forme cerca effettivamente di disciplinare la guerra, di inserirla all’interno delle regole del diritto delle genti per limitarne gli effetti tragici. Tuttavia, proprio la particolare concezione di un sistema giuridico incen-

82

G. PARKER, Early Modern Europe, in M. HOWARD, G. ANDREOPULOS e M. SHULMAN (a cura di), The Laws of War: Constraints on War in the Western World, Yale University Press, New Haven, 1994, pp. 41-42. 83 M. BAZZOLI, Il piccolo Stato nell’età moderna. Studi su un concetto della politica internazionale tra XVI e XVIII secolo, Jaca Book, Milano, 1990, pp. 87-88.



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trato prima di tutto su entità statuali sovrane ne limita la portata. Osservando bene l’intreccio tra guerre en forme e guerra giusta si può sostenere che l’architettura morale e giuridica della prima, trasformando la guerra in un evento legittimo in base al criterio dei soggetti belligeranti (è legittima solo la guerra tra Stati), più che mirare a limitare realmente la portata distruttiva dei combattimenti punti a dare consapevolezza alle nazioni del loro nuovo ruolo sulla scena europea. In un passo ancora oggi significativo Vattel scrive: è necessario in un secolo sì colto l’osservare che si dee astenersi in quegli scritti, che si pubblicano all’uopo della guerra, da ogni espressione ingiuriosa, che manifesti sentimenti di odio, di animosità, di furore, e che non sia atta che a suscitarne di somiglianti nel cuor del nemico.84

E ciò, oltre che per rispetto di «se medesimo nella persona de’ suoi pari», un principe lo deve fare anche per non precludersi una futura sincera riconciliazione con il suo nemico – uno sguardo lungo sulle prospettive della pace che, abbiamo visto, non manca a Vattel. Ciò, egli aggiunge, non è quanto facevano gli eroi di Omero, che si trattavano come «cani» facendosi la guerra «fino all’ultimo sangue». E la stessa cosa facevano Federico Barbarossa, «altri Imperatori e i Papi loro nemici», i quali «non usavano maniere niente più cortesi»85. È chiaro che Vattel propone un netto scarto tra la sua epoca e quella degli Imperatori e dei Papi, proponendo ai sovrani di esserne co-

84 85

DG, III, § 65. Ibidem.



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scienti e di regolarsi di conseguenza. Ecco che la guerre en forme diventa una via che gli Stati devono seguire sì per limitare gli effetti distruttivi della guerra, ma anche e soprattutto per preservare un intero sistema fondato su di loro. La consapevolezza dei limiti concreti della dottrina giuridica della guerre en forme porta Vattel a ricorrere alla guerra giusta quale unica procedura in grado di limitare concretamente, cioè politicamente, la condotta della guerra. La giusta causa è lo strumento che Vattel mette in campo per permettere, nei fatti, che la guerra si mantenga entro certi limiti di ragionevolezza. Una guerra legittima non è necessariamente una guerra giusta, ma è nella guerra ingiusta che si annida il pericolo reale per un nazione, perché è con essa che rischia di innescarsi il meccanismo di bilanciamento degli equilibri politici a danno dello Stato che imprudentemente (oltre che ingiustamente) l’ha intrapresa. Nell’architettura teorica vatteliana, la guerra giusta è lo strumento politico che può riuscire là dove lo strumento giuridico non può arrivare, ovvero a limitare la libertà di Stati concepiti come sovrani, indipendenti e uguali.



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Indice dei nomi

A Agostino, 144, 145, 167 Alecandrowicz C. H., 29 Allott P., 29, 132 Anaya S. J., 146 Anchie A., 146 Andreopulos G., 168 Arcidiacono B., 161 Arendt H., 118 Aristotele, 50 Ayala B., 149

B Ballis W., 142, 156 Barbeyrac J., 21, 22, 61, 66, 73, 74, 154, 155, 156 Bassett Moore J., 32 Bazzoli M., 168 Beaulac S., 8, 17, 86

Béguelin E., 8, 11, 12 Beitz C., 83 Bentham J., 29 Berthier L.-A., 9 Bethke Elshtain J., 145 Biel G., 65 Bielfeld, barone di, 33, 57 Blach C. A., 16 Bluntschli J. K., 56 Bobbio N., 64, 69 Bodin J., 148, 152, 163 Borrelli G., 92, 104, 148 Boucher D., 72, 85 Boulanville M. de, 98 Bravo G. M., 64 Brett A., 119 Brimmer E., 47, 48 Brown C., 79 Brühl Conte di, 11, 12 Burlamaqui J.-J., 9, 50

Indice dei nomi

Bynkershoek C. van, 53, 93, 151, 152

Di Donato F., 103, 104 Ditmar J. C., 42 Droetto A., 64 Dumas C. W. F., 27, 46, 47 Duns Scotus G., 119

C Calhoun G., 109 Cantarutti G., 21 Carlo di Borbone, 42 Carlo V, 35, 82, 160 Carlo XII di Svezia, 71, 138 Caronelli P., 57 Carta P., 140 Carty A., 133, 167 Cary J., 42 Cassese A., 16, 148 Cavallar G., 147 Cayla O., 14 Chabod F., 105, 106 Chabot J.-L., 112, 113 Chalotais L.-R. de la, 57 Chêne M. de, 13 Chetail V., 14, 32, 46, 49, 50, 55 Childress J.E., 145 Christov T., 70, 110 Cicerone M. T., 34, 61 Colonomos A., 167 Crousaz J.-P. de, 10 Cumberland R., 9

E Edelstein D., 132, 133 Elsthain J. B., 145 Equino M. P., 145

F Falk R. A., 16, 148 Federico “il Grande”, 11 Federico Augusto II di Sassonia, 11 Federico Barbarossa, 169 Federico Guglielmo I di Hohenzollern, 9 Federico I di Prussia, 9 Fénélon F., 98 Fenske H., 105 Fenwick C. G., 30, 31, 44, 49 Ferdinando III d’Asburgo, 15 Ferrari S., 21 Fichte J. G., 105 Fiocchi Malaspina E., 21, 26, 155 Fiorillo V., 71 Fisch J., 146 Francesco I di Francia, 34, 35 Franklin B., 46, 47 Frey J. R., 9 Fur Le L., 83

D Daniel P., 54 De Hart P. R., 52 De Michelis F., 64 de Vitoria F., 141, 144 Derathé R., 67 Di Benedetto A., 97



193

Indeice dei nomi

G

Hitler A., 105 Hobbes Th., 21, 22, 61, 68, 69, 70, 71, 89, 112, 136, 137, 148 Hochstrasser T. J., 123 Holland B., 118, 120, 128, 129 Holmes R. L., 145, 163 Howard M., 168 Hunter I., 133, 134, 147 Hurrell A., 45

Gagern H. von, 56 Galli C., 140, 141, 143, 144, 148, 152 Gendre C. G. le, 97 Gênet E.-C., 48 Genovesi A., 42 Gentili A., 133, 139, 140, 141, 149 Gerber D., 46 Giacomo II di Inghilterra, 39 Giacomo III di Inghilterra, 39 Giustiniano, 22, 61, 62 Good C., 54, 56, 92, 124 Gough J. W., 111 Graf A., 41 Gregorio da Rimini, 65 Gross L., 16, 149 Grossi P., 144 Grozio U., 9, 21, 22, 28, 30, 31, 34, 35, 36, 45, 52, 53, 56, 61, 64, 65, 66, 67, 68, 73, 75, 87, 140, 141, 151, 152, 154, 155, 156, 157, 167 Guglielmo di Ockham, 119 Gutierrez Vega P., 28

J Janis M. W., 49, 54 Jefferson T., 48, 50 Jouannet E., 18, 74, 76, 132

K Kalternborn H. von, 56 Kant I., 29, 56, 93 Kapossy B., 68, 73, 110 Kemp K. W., 145 Kohn H., 96, 104, 106, 108 Koselleck R., 149, 163, 164, 165 Koskenniemi M., 81, 82, 87, 122 Krasner S., 17

L

H

Labriola G. M., 155 Lackey D, 145 Lapradelle A. de, 8, 26, 27, 29, 32, 33, 34, 35, 55, 56 Larrainzar C., 120 Lauterpacht H., 68, 131 Lazzarich D., 145

Haggenmacher P., 14, 29, 65 Hamilton A., 52 He Weifang, 28 Hegel G. W. F., 163 Herder J. G., 104, 105 Hermanin C., 9 Hinsley F. H., 44



194

Indice dei nomi

Leibnitz G. W., 10 Leibniz G. W. von, 29, 33, 75, 76, 122, 123, 129 Linklater A., 131, 132 Locke J., 52 Lombardi G., 61 Lord Acton, 13 Loschi L. A., 28 Luigi XIV di Francia, 39, 82, 102, 160

Newton I., 40 Nussbaum A., 32, 53

O Oeter S., 49 Omero, 169 Ompteda C. F. W. F. de, 29, 55 Onuf N., 49, 54 Orakhelashvili A., 89 Orend B., 145 Ossipow W., 46 Otis J., 48

M Mably G. B. de, 98, 107 Machiavelli N., 112, 133 Malandrino C., 64, 117 Mancuso F., 19, 21, 65, 67, 72, 76, 78, 111, 125, 165, 166 Martens G. F. von, 56 Martens W., 56 Mastellone S., 40, 64 McDonald F., 50 Meinecke F., 105, 106 Melon J. F., 42 Mézeray F. E. de, 34 Midgley E. B. F., 83 Mieth D., 145 Montesquieu C.-L. de, 33, 42, 57 Montmollin M. de, 9 Mordacci R., 85 Mori M., 80, 87 Mühlemann L., 9

P Pages G., 15 Panebianco M., 67 Parker G., 15, 167, 168 Pitt J., 167 Plutarco, 34 Polisensky J. V., 15 Portinaro P. P., 89, 139 Postumio S., 34 Pufendorf S. von, 9, 21, 22, 23, 52, 53, 56, 61, 70, 71, 72, 89, 118, 120, 121, 128, 129, 130, 151, 156

R Ramsey P., 145 Recchia S., 167 Rech W., 13, 14, 152, 161, 166 Reeves J., 52, 53, 54 Reichberg M., 152 Remec P. P., 68, 84, 85, 86, 99

N Nakhimovsky I., 43, 163, 165 Nardin T., 79



195

Indeice dei nomi

Renan E., 113 Rengger N., 79 Romagnosi G. D., 75 Romeo R., 97, 109 Roques P., 9 Rousseau J.-J., 23, 33, 59, 68, 106, 107, 108, 109, 110, 118, 138, 139 Rousselot P., 119 Ruddy F. S., 29, 85 Rutto G., 97

Suárez F., 120

T Tacito, 34, 35 Tarello G., 76 Teschke B., 16, 17 Tito Livio, 34 Todescan F., 64 Tommaso d’Aquino, 119, 144, 167 Toyoda T., 19 Trampus A., 21 Traniello F., 97 Trim D. J., 17 Trout R., 50 Tuccari F., 98, 105, 108 Tuck R., 132, 146 Turner Johnson J., 145

S Sacchi T., 56 Saint-Simon C. H. de, 98 Sandoz Y., 18 Santulli C., 14 Scattola M., 71, 123 Scelle G., 55, 68 Schiera P., 42 Schino A. L., 71 Schmitt C., 23, 142, 143, 144, 149, 150, 151, 152, 153, 163, 166 Schnur R., 139 Schulin J. P., 28 Scott W., 43 Scuccimarra L., 115, 116, 152 Senofonte, 34 Shulman M., 168 Sieyès E. J., 113 Silvestrini G., 21, 78, 85, 87, 147, 153, 155, 166 Simms B., 17 Starkey A., 167 Suarez F., 65



V Van Vollenhoven C., 30 Varro M. T., 63 Vattel D. de, 9 Vattel M. de Chêne, 13 Venturi F., 56, 57 Venturio Calvino T., 34 Villey M., 65 Virgilio, 35 Virno P., 112 Viroli M., 109 Voltaire, 41, 42, 96, 116 Von Mohl R., 32

196

Indice dei nomi

W

Wolff C., 10, 11, 12, 21, 22, 23, 29, 33, 45, 55, 61, 74, 75, 76, 77, 78, 81, 83, 89, 118, 120, 122, 123, 124, 125, 129 Wright Q., 68

Walzer M., 145 Washington G., 52 Wedgwood C. V., 15 Welsh J., 167 Westlake J., 44, 45 Wharton F., 46, 47 Whatmore R., 28, 43, 110 Whelan F. G., 128 Wilsons J., 54 Winkler H. A., 112, 113



Z Zolo D., 16, 145, 148 Zouch R., 151 Zurbuchen S., 153

197