La cultura delle riforme tra Otto e Novecento 8888546812

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La cultura delle riforme tra Otto e Novecento
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Piero Lacaita Editore

È un’ampia e diversificata ricostruzione della cultura delle riforme tra ‘800 e “900, in una fase decisiva della storia italiana (decollo industriale, sviluppo della cultura tecnico-scientifica e delle competenze professionali, nascita dei partiti moderni, avvio del Welfare State, radicamento dell’organizzazione degli interessi, incipiente società di massa). In modo storiograficamente innovativo la spinta al cambiamento e il processo riformatore sono qui esaminati nella direzione alto-basso e basso-alto nel loro reciproco condizionarsi, nel rapporto mai semplice tra obiettivo e esperienza, tra finalità e pragmatismo. Interventi di Carlo G. Lacaita, Maurizio De-

gl'Innocenti, Roberto Chiarini, Carlo Fumian, Maurizio Punzo, Ivano Granata, Fabio Bertini,

Zeffiro Ciuffoletti, Antonio Cardini, Stefano Caretti, Dino Mengozzi, Michela Minesso, Ada Gigli Marchetti, Luigi Cavazzoli, Simone Neri Serneri, Stefano Maggi. Per i tipi di Lacaita il curatore, professore ordinario di Storia Contemporanea all'Università degli Studi di Pisa, ha pubblicato Filippo Turati e la nobiltà della politica (1995), La società unificata. Associazione, sindacato, partito sotto il Fascismo (1995) e L'epoca giovane. Generazioni, fascismo e antifascismo (2002).

Società e Cultura Collana promossa dalla Fondazione di studi storici “Filippo Turati” diretta da Maurizio Degl'Innocenti

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La cultura delle riforme tra Otto e Novecento A cura di Maurizio Degl’Innocenti

© Piero Lacaita Editore - Manduria-Bari-Roma - 2003

Sede legale: Manduria - Vico degli Albanesi, 4 - Tel.-Fax 099/9711124 [email protected] 4

PREMESSA

I saggi qui raccolti traggono origine dal convegno di studi promosso dalla Fondazione di studi storici “Filippo Turati” a Firenze nei giorni 24-25 ottobre 2002 su La cultura delle riforme tra Otto e Novecento, tematica alla quale aveva già dedicato un precedente seminario di studio a Mantova il 12-13 ottobre del 2000 (Riforme e istituzioni fra Otto e Novecento a cura di Luigi Cavazzoli e Carlo G. Lacaita). Di questo costituiscono quasi una sorta di ideale prosecuzione. Î saggi presentati appaiono, com'è consueto in analoghe occasioni, di diverso spessore. Alcuni palesano un'impostazione che non manca di cimentarsi con la dimensione metodologica, ma i più assumono a indagine il caso esemplare di un singolo progetto, o l’attività di una personalità politica. Altri si preoccupano di delineare il terreno, sociale e culturale, di incuba-

zione del progetto riformatore; o ne indicano l’input politico, attraverso la classica chiave di lettura della rivista. Infine, ac-

canto alla presentazione di ricerche innovative, sono le proposte di approfondimento di temi già noti o di sintesi di indagini precedenti. Ne esce un quadro molto diversificato, per il quale si è evitato di rincorrere un modello astratto, rifuggendo altresì da pregiudiziali di tipo ideologico. Un quadro che talvolta può dare l'impressione della giustapposizione degli interventi intorno ad una centralità che non risulta immediatamente percepibile; ma che certamente appare molto vivo e stimolante. In realtà, si è voluto qui presentare, nella sua complessità, la vasta gamma problematica riconducibile al processo innovativo, esaminato nei decenni a cavallo del secolo scorso, nella

direzione alto-basso e basso-alto nel loro reciproco condizionarsi, nel rapporto mai semplice tra obiettivo e esperienza, ira finalità e pragmatismo, e in rapporto all'emergere delle competenze tecniche e dei saperi scientifici. In quanto alla centralità d

del processo riformatore di quei decenni, essa è qui colta nella matrice socialista e democratica intorno alla grande personalità di Filippo Turati. Il convegno di Firenze, che si avvalse della collaborazione dell’Associazione nazionale “Sandro Pertini” e del Centro Interuniversitario per la storia del cambiamento sociale e l’innovazione (CISCAM) dell'Ateneo di Siena, fu patrocinato dal-

la Regione Toscana, dalle Amministrazioni provinciale e comunale di Firenze, e dal Ministero per i beni e le attività culturali, il cui contributo è stato utilizzato anche ai fini della

presente pubblicazione, insieme a quello relativo al progetto di ricerca Murst ex-40% su “Politica, riforme e competenze in

Italia tra ‘800 e ‘900”. MaurizIo DEGL'INNOCENTI

CARLO G. LACAITA

FILIPPO TURATI E LA CULTURA DELLE RIFORME

Che la trasformazione in senso socialista dell'ordine esistente dovesse consistere in un processo di cambiamenti graduali ai vari livelli della vita sociale e dello Stato, fu convinzione che

non tardò ad essere espressa da Turati. Segni eloquenti di questa sua idea di fondo si trovano espressi sin dal periodo della formazione, quando andò definendosi la sua visione del mondo e della storia, nel solco della cultura “positiva” lombarda dell'Ottocento, erede della tradizione del riformismo illumi-

nista. Aveva vent'anni quando nel marzo del 1878, scrivendo

del proprio socialismo ad Achille Loria, lo definiva come “essenzialmente pratico, storico e graduale”!. E tre anni dopo, discutendo con il cattaneano Ghisleri, del progetto di un nuovo giornale di orientamento socialista, sottolineava l'esigenza di coniugare “l’aspirazione alle riforme avvenire... collo studio positivo, col progressivismo graduale, non piazzaiolo, non nubivago, non pedandesco”?. Un'esigenza che non lo abbandonò più nel corso della vita. Negli anni di costruzione della nuova forza politica socialista organizzata nella forma di un moderno partito nazionale, divenne preminente il tema dell'autonomia ideologica, programmatica e organizzativa della nascente compagine. Un’autonomia tanto più necessaria per Turati in quanto si trattava di uscire dai limiti della situazione italiana fatta “di mezze tinte, di mezze classi, di mezze idee e di mezze persone”?. Furono gli anni —- come avrebbe detto più tardi — spesi consa-

pevolmente per “affermare la nostra esistenza, render conscia ! Turati a Loria, 12 marzo 1878, in Filippo Turati e i corrispondenti italiani, vol. I, a cura di M. Punzo, Manduria-Bari-Roma P. Lacaita 2002, p. 104.

2 Turati a Ghisleri, 29 marzo 1881, in I carteggi Turati-Ghisleri (1876-1926), a cura di M. Punzo, Manduria-Bari-Roma P. Lacaita 2000, pp. 381-384.

° E Turati, Saprofiti politici, in “Critica Sociale”, 1° luglio 1895, p. 195.

la lotta di classe, vincere il pregiudizio anarchico e il pregiudizio corporativista, dimostrare la necessità dell’azione politica, resistere alle persecuzioni”*. Anni di proselitismo, di differenziazione da ogni altro soggetto politico e di dure battaglie per il diritto ad esistere, durante i quali il leader milanese continuò nondimeno ad essere convinto che, per dare al socialismo italiano una “funzione” “efficace e feconda”, oc-

corresse “tutto un lavoro paziente e assiduo”, aderente ai concreti bisogni delle masse popolari e collettivamente sviluppato “ogni giorno dell'anno” e ovunque, nella società e nelle istituzioni?. Fissati i “cardini della dottrina” nel collettivismo, come

perno di un nuovo ordine governato secondo un principio di giustizia, e nella lotta di classe, come “forza propulsiva della storia e della civiltà”°, restava pur sempre per Turati la convinzione che il cambiamento non poteva “farsi né per decreti dall'alto, né per impeti subitanei dal basso”, consistendo invece in “tutta una lenta e graduale trasformazione””, legata all'azione delle forze reali in funzione di obiettivi progressivi storicamente possibili. Dell’armamentario

concettuale

di derivazione

marxista,

largamente presente nei partiti della seconda Internazionale, Turati non cessò mai di servirsi nel corso della sua attività politica, ma lo fece introducendo una distinzione fra gli elementi considerati deboli e caduchi, e quelli ritenuti validi e durevoli.

Tra i primi includeva chiaramente la previsione della miseria crescente, della proletarizzazione generalizzata e della concentrazione della ricchezza, su cui insistevano i massimalisti che

giudicavano le riforme “inutili e corruttrici”, buone in fondo solo a favorire la subordinazione delle classi popolari di fronte ‘E Turati, Alle soglie del congresso, in “Critica Sociale”, 16 settembre 1897. Le vie maestre del socialismo, a cura di R. Mondolfo e G. Arfé, Manduria-BariRoma, P. Lacaita, 1992, p. 65.

° Ibidem. ° E. Turati, Uomini della politica e della cultura, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1949, p. 86. 7 E. Turati, I/ partito socialista e l'attuale momento politico, “Critica Sociale”,

16 luglio 1901. 8

all’egemonia borghese. Tra i secondi invece poneva la critica della proprietà privata dei mezzi di produzione, la necessità dell'unione proletaria ai fini del riscatto; la concezione dialettica della società e del divenire storico, e la convinzione

storicistica (legata al “materialismo economico” e al ruolo assegnato ai processi socio-tecnico-produttivi) che “nessuna clas-

se dominante tramonta che non abbia esaurito il suo compito; nessuna le sottentra, che non abbia le capacità tecniche, politi-

che, morali per compierne l’ufficio”8. E’ impossibile non vedere il rapporto stretto fra il riformismo e il richiamo ai processi storici di lunga durata e alla complessità dei mutamenti epocali, su cui Turati insistette continuamente, non, come si è pure sostenuto, per affidare il

cambiamento sociale a un determinismo evolutivo meccanicisticamente inteso (con la prassi riformista — scriveva nel 1903 — “la rivoluzione cessò di essere un metodo, per diventare un risultato: il risultato esattamente proporzionale dell’azione riformatrice”), ma per sollecitare un'azione capace di rapportarsi alla realtà e ai suoi processi profondi, senza pretese di trasformazioni demiurgico-salvifiche, volta a volta coltivate dai

rivoluzio-narismi di varia ispirazione e natura. Solo passando dal “miraggio dei fini ultimi” ai “travagli del divenire quotidiano”; dall’“ideale dell’empireo” al “reale vissuto” in cui l’ideale deve calarsi per divenire concreto, il movimento operaio e

socialista per Turati sarebbe diventato fattore primario della “rivoluzione in cammino”, favorendo il miglioramento “della

realtà sociale” italiana e l'emancipazione dei proletari, il “moderno processo” storico e le condizioni per l'ulteriore avanza-

mento di quella che chiamava “la rivoluzione senza il bluff?"°. In una società come quella italiana, ancora ampiamente segnata da uno sviluppo capitalistico lento e squilibrato, da una classe dirigente largamente illiberale e da grandi masse anal-

8 Cit. in R. Mondolfo, F. Turati, in Le vie maestre del socialismo, cit., p. 37. ® La Critica Sociale, in La nostra via, 16 dicembre 1903, p. 369.

‘0 E. Turati, L'azione politica del Partito Socialista. Relazione al Congresso di

Milano, Ottobre 1910, in Id., Le vie maestre del socialismo, p. 165.

fabete e disgregate, ciò che doveva connotare l’azione dei socialisti era il perseguimento di tre obiettivi essenziali: a) l'espansione di un'economia avanzata, e quindi di un’‘’ossatura industriale” robusta, condizione e volano di un ordine sociale

più progredito e dinamico; b) l'avvento di una democrazia autentica e matura, con la connessa trasformazione dello Stato

da organo al servizio dei ceti dominanti e privilegiati in organo di garanzia di libertà civili e politiche per tutti; c) l'elevazione della classe operaia a forza organizzata e cosciente, capace di conquistare più elevati livelli di vita materiale e morale attraverso la moderna lotta di classe, come era possibile 0sservare nei paesi economicamente e socialmente più evoluti. Un’'elevazione — aggiungeva — che “non avviene per rivelazione mistica o per trasfusione precettuale; bensì coll’esercizio, che crea le forze, e colle riforme, che rendono l'esercizio possibile,

ne fissano i risultati e le conquiste in istituti legali”! . Tanto l’idea delle riforme come via maestra dell’evoluzione e dello sviluppo, quanto il richiamo alla realtà del paese come ancoraggio di un socialismo “positivo, concreto e attivo” stanno alla base del programma minimo socialista (che era minimo “solo nel nome infelice” come annotò Carlo Rosselli! ), approvato a Roma dal sesto congresso del Partito socialista (8-10 settembre 1900) e presentato nei seguenti termini da Turati insieme a Treves e a Sambucco, firmatari con

lui della relazione introduttiva: “Formulato in Italia in quest'anno di grazia 1900, non pretende essere il programma minimo di tutti i socialisti del mondo e neppure quello, in ogni sua parte, dei socialisti dei paesi più inoltrati nella civiltà, per i quali molte delle nostre richieste sono già superate; esso tien conto della condizione arretrata del paese, la quale ci è necessario punto di partenza”! . Presa per sé — continuava - ognuna " Ibid.

!° C. Rosselli, Filippo Turati e il socialismo italiano, in Id., Scritti politici, a cura di Z. Ciuffoletti e P. Bagnoli, Napoli Guida editori 1988. p. 246. E. Turati, C. Treves, C. Sanbucco, Il programma minimo socialista, in “Critica Sociale”, a. X, n. 17, 1° settembre 1900, ora F. Turati, Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, Introduzione e cura di F. Livorsi, Milano Feltrinelli 1979, p. 105.

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delle riforme enunciate poteva anche non essere considerata “peculiarmente socialista”, rientrando nei programmi di altre correnti e formazioni politiche; ma ciascuna di quelle riforme acquistava nondimeno “spirito” e “valore socialista” nella connessione di ognuna con le altre, e di “tutte con lo scopo generale comune”, a cui dovevano ispirarsi le scelte da compiere nella determinata realtà storica per migliorare le condizioni delle classi popolari italiane. Il tema delle convergenze, evidenziato dal documento del 1900, fu un leitmotiv del riformismo turatiano. Dall'esperienza di fine Ottocento aveva ricavato la definitiva convinzione che,

per ottenere risultati tangibili, occorreva cercare le opportune alleanze con le forze sociali e politiche interessate alla trasformazione in senso moderno della realtà nazionale. Tanto gli obiettivi generali della crescita democratica, dello sviluppo economico e dell’elevazione del proletariato, quanto quelli più determinati della tutela del lavoro, della protezione delle donne e dei fanciulli, della lotta all’analfabetismo, della riforma

tributaria e del decentramento politico-amministrativo, dell'abolizione del dazio consumo e delle altre riforme destinate a rimanere al centro delle lotte socialiste per lunghissimi anni, erano per Turati condivisibili dalle altre forze dinamiche, con le quali si poteva percorrere un ampio tratto di strada comune. Di qui sia il richiamo ai “problemi concreti”, alla realtà del paese e alle condizioni delle popolazioni, che si trova conti-

nuamente nel suo discorso, sia il carattere di palestra di idee e di discussione aperta dato alla “Critica Sociale”, l'impegno a dibattere i nodi della trasformazione italiana e le riforme con cui si sarebbero dovuti affrontare e sciogliere, il lavoro di or-

ganizzazione culturale sviluppato da Turati con l’aiuto della Kuliscioff e dei suoi più stretti collaboratori, in funzione del

più largo coinvolgimento partecipativo e della costruzione di una solida cultura delle riforme. Strategia delle riforme e cultura delle riforme erano strettamente connessi per Turati. Ogni intervento politico per essere

“positivo, concreto e attivo” doveva fondarsi sull’approfondimento dei problemi collettivi e sulla conoscenza degli strumenti concettuali e operativi in grado di risolverli. Sotto queLa

sto aspetto la “Critica Sociale”, “rivista quindicinale di studî sociali, politici, filosofici e letterari” come indicava il sottotito-

lo, è una testimonianza eloquente tanto del progetto riformatore perseguito, quanto del rapporto che per Turati doveva stabilirsi continuamente fra l’azione politica, “la scienza della realtà sociale” e “l’arte delle quotidiane conquiste”. Un rapporto che non poteva non nutrirsi del confronto costante con le altre culture riformiste sia nazionali che estere, Non a caso,

infatti, la rivista turatiana riservò sempre larga parte del suo spazio all'esposizione delle esperienze e delle iniziative degli altri paesi (in particolare a quelle di ispirazione operaia e socialista d'oltralpe e d’oltre Oceano), e cercò in continuazione

di coinvolgere, in un confronto serrato su un ampio ventaglio di questioni cruciali, intellettuali di diverso orientamento e di diverse competenze: Alessandro Schiavi e Luigi Einaudi, Giuseppe Ricchieri e Ivanoe Bonomi, i due Mondolfo e Luigi Montemartini, Gaetano Salvemini e Attilio Cabiati, Fausto Pagliari e Meuccio Ruini, Angelo Omodeo e Benvenuto Griziotti, per fare solo alcuni nomi fra i tanti che collaboraro-

no. Alla base del dibattito che “Critica Sociale” ospitava e alimentava c'era sempre l’idea che per comprendere la realtà in cui agire era essenziale il più aperto confronto critico fra le molte scienze dell’uomo e della società e fra le diverse anime del riformismo italiano sui problemi del mondo contemporaneo. Eppure, del longevo periodico turatiano sono stati considerati molto più gli aspetti ideologici che il progetto riformatore perseguito, più i discorsi sulla dottrina socialista (per rilevarne la “debolezza” teorica), che il tenace lavoro di organizzazione culturale e politica, che incise non poco nel modo di

fare cultura e insieme di fare politica in un paese di grandi iati tra élite e masse, tra paese legale e paese reale, tra cultura e società, come l’Italia, trascurando che per Turati la rivista aveva

una funzione centrale nel ruolo assunto di capofila del riformismo, e che quindi va sempre considerata di anno in anno in rapporto al lavoro di deputato, di organizzatore e leader di un partito di massa, di proponente e relatore di tanti progetti di leggi sociali, di membro attivissimo del Consiglio Nazionale del Lavoro e di molte altre assemblee o comitati, di fervido 12

apostolo della cultura popolare, il cui sviluppo costituiva sotto tanti aspetti “la pregiudiziale di tutte le pregiudiziali”.

Nel processo riformatore non erano solo le avanguardie intellettuali e politiche che dovevano intervenire, né si trattava di influenzare soltanto gli orientamenti e le decisioni delle forze parlamentari e di governo, i cui provvedimenti sarebbero arrivati dall'alto a favorire o meno il movimento evolutivo della società italiana. Per il socialista Turati cruciale era il riformismo dal basso, l'impegno attivo dei cittadini, delle com-

ponenti della società civile e delle classi popolari più coinvolte nei processi di trasformazione in atto e perciò anche pronte a intervenire e a farsi carico, attraverso i comuni

(sempre più

conquistati dalle forze popolari), gli organismi associativi diffusi, gli enti locali di varia natura, dei nuovi bisogni collettivi

suscitati dal cambiamento. La diffusione della cultura nelle masse popolari costituiva quindi per lui un momento essenziale dell’azione trasformatrice, che per essere profondamente democratica e progressiva doveva procedere con la partecipazione attiva delle stesse masse alla vita politica del paese e alla “conquista” delle riforme. Più che in piccole e grandi, per Turati, queste andavano distinte in riforme elargite e riforme conquistate. “Come organizzazione e come classe cosciente e indipendente”, scriveva,

il proletariato “si può dire nato appena ieri” in Italia. Esso “ha conquistato” gli strumenti di lotta più necessari, la gestione di numerosi comuni, una significativa rappresentanza in parlamento, una serie di “avanzamenti civili e sociali”, ma “comin-

cia appena” adesso ad addestrarsi al suo nuovo ruolo di soggetto attivo della vita nazionale, Ed era proprio la sempre più piena assunzione di tale ruolo che poteva incidere nella dire14 Riferendosi al suo personale impegno in questo campo aggiungeva: “E' perciò che io dedicai e dedico buona parte delle mie forze modeste all'organizzazione delle Biblioteche popolari circolanti; se la gente non sa, non

legge, non fa lavorare il cervello, potremo avere il socialismo sulla carta, ma non nella realtà” (Il socialismo come coscienza del movimento operaio e la sua azione concreta, Discorso tenuto il 22 settembre 1908 al Congresso di Firenze, in F.

Turati, Le vie maestre del socialismo, cit. p. 161).

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zione della società e segnare il passaggio a forme di organizzazione di tipo socialistico. A conferire del resto urgenza e centralità al tema dell’istruzione e della cultura popolare erano gli stessi processi in atto ai quali l’azione politica doveva sempre rapportarsi. “L'incremento delle industrie, — scriveva nel 1907 - il bisogno di operai sempre più qualificati, l'accesso al lavoro disciplinato delle

[fabbriche] e degli uffici di sempre nuovi strati di popolazione che una volta assorbiva il lavoro domestico o la piccola azienda rusticana, l'irruzione delle donne nell'economia capitalistica e il fenomeno dell’urbanesimo, il progresso della divisione del lavoro che, se non trova qualche antidoto al di fuori delle

occupazioni alimentari, ipertrofizza ed atrofizza a vicenda le facoltà umane e spezza l’unità dell’uomo e del cittadino, la necessità frequente di mutare mestiere o di adattarsi, nello stesso mestiere, a innovazioni che incalzano, l'emigrazione che si

chiude ai meno istruiti o riserva loro i maggiori rischi e le condizioni più misere, l'evoluzione della democrazia che, da puramente formale e giuridica, diventa [...] ogni giorno di più sostanziale ed economica e, non trovando elementi adatti nei

quali incarnarsi, [rischia] il fallimento più vergognoso; tutti questi ed altri cento coefficienti sceverano il problema della coltura popolare dal novero delle questioni accademiche o letterarie, per piantarlo in piena luce fra i problemi nella cui soluzione consiste l'essere o non essere della civiltà del paese”. E riferendosi al Mezzogiorno e alla sua estesa arretratezza economica, affermava in un'intervista che, per favorire il “libero

svolgimento delle energie” e la “feconda operosità del lavoro produttivo e utile”, occorrevano anche competenze tecniche diffuse e nuovi saperi adeguati ai problemi dello sviluppo e del cambiamento, quindi “scuole agrarie, scuole industriali,

scuole nautiche, scuole commerciali, scuole d’arti e mestieri”15,

vale a dire uno spostamento deciso dell'asse formativo dalle !5 F. Turati, Crescite ed multiplicamini, in “Bollettino delle Biblioteche Popolari”, novembre-dicembre 1907, Paz:

° La questione meridionale. Discorrendo con Filippo Turati, in “La leva nuo-

va”, Lecce, 20 dicembre 1902. Cit. in G. Donno, Questione meridionale e “que-

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vecchie scuole alle nuove già da tempo operanti nelle aree più evolute del continente. La formazione ideologica (fatta di “formulette leggere che vi danno la magica chiave di tutti gli eventi”), su cui nell’ambito del Partito si continuava ad insistere, non bastava più per

Turati, come per Treves e gli altri esponenti del riformismo di inizio secolo. Ciò che occorreva ormai ai rappresentanti dei lavoratori nei diversi organismi in cui si trovavano ad operare in un quadro socio-economico in trasformazione, era soprat-

tutto la conoscenza delle leggi e dei rapporti giuridici tra i poteri dello Stato, una “cultura specifica” sulle tante questioni che erano chiamati a dibattere nei luoghi di rappresentanza, una preparazione in grado di abilitare il proletario alla “libera efficace espressione politica de’ suoi interessi”, e quindi anche di ridurre, all’interno dello stesso PSI, l'egemonia di quella minoranza colta che tendeva a diventare una “sorta di oligarchia”. Quanto agli intellettuali, il superamento della tradizionale frattura tra cultura e società, non doveva portarli, come sovente avveniva anche in campo socialista, ad assumere il ruolo di dogmatici custodi di dottrine e di rivoluzionarismi verbali, bensì piuttosto a svolgere quello di costruttori e propagatori di conoscenze scientificamente fondate e utili, di indirizzi

pratici capaci di contribuire a risolvere i problemi, che erano i problemi di una società da seconda rivoluzione industriale,

nella quale i processi innovativi erano sempre più legati al ruolo

propulsivo della scienza e della tecnica. L'attenzione che il marxismo aveva sempre rivolto ai nessi esistenti fra i cambia-

menti tecnologico-produttivi e icambiamenti sociali, costituiva per Turati uno dei maggiori contributi alla lettura profonda della modernità che andava accolto e sviluppato. L'apertura della rivista oltre che agli economisti come Einaudi, agli agronomi come Cammareri Scurti, ai geografi come Ricchieri, agli ingegneri come Omodeo, era da questo punto di vista l’espressione del desiderio e del bisogno da Turati indicati in stione scolastica” nel socialismo italiano, in AA.VV., Cultura, istruzione e sociali smo nell'età giolittiana, a cura di L. Rossi, Milano Angeli 1991, p. 525-6.

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questi termini: “che la “Critica” si occupi specialmente di quei problemi scientifici concreti che si connettono più intimamente (sebbene il nostro partito, marxista per burla, non sospetti) colle ragioni profonde della possibilità della evoluzione socia-

lista. Egli [Omodeo], come ingegnere vede specialmente quelle delle “bonifiche”, della elettrificazione, dei progressi chimi-

ci en train di trasformare il mondo ecc. Ma una cosa non esclude l’altra. Egli stesso è disposto, direttamente o a mezzo di amici competenti in altri rami, a fornirci i dati tecnici, ben ela-

borati e controllati, da tradurre in trattazione di spirito socialista. Sarà un contributo preziosissimo, che potrà ampliare e trasformare la “Critica”, svecchiarla, procurarle nuova clientela,

preparare piattaforme serie al partito, precipitare la crisi interna che ci logora, straniarci un poco dalle stupide beghe interne ecc. ecc. Si tratta di trovare persone che sappiano penetrarsi di quei problemi e tradurli, ripeto, in stile nostro”!. In realtà l'approccio ai problemi sostenuto da intellettuali come Angelo Omodeo

era fortemente innovativo, come aveva mostrato

sin dal 1901 la pubblicazione su “Critica Sociale” del denso saggio sulla questione meridionale dello stesso Omedeo. Anziché procedere con “provvedimenti votati a spizzico” e pensati “per l'una o l’altra regione dell’Italia meridionale ed insulare”, occorreva per l'ingegnere lombardo passare decisamente a interventi organici, fondati su “una conoscenza precisa dei bisogni, delle forze latenti dell’Italia meridionale”, onde

soddisfare i primi e redimere e potenziare le seconde. Era un punto di vista che nasceva dai progressi compiuti in campo tecnico e scientifico e che mostrava come i temi dello sviluppo industriale e della modernizzazione dei servizi si potessero saldare attraverso il governo delle acque a scopo elettro-irriguo con quelli della trasformazione agricola e della bonifica dal flagello della malaria. “Ma quale legislatore ne ha tratto profitto?”, si chiedeva Omodeo. In materia di utilizzazione delle acque si stava infatti ancora fermi alla legge del 10 agosto 1884, 6 F. Turati a U.G. Mondolfo, 9 febbraio 1920, Fondazione G. Feltrinelli,

Archivio della “Critica Sociale”, cit. in M. Degl'Innocenti, Filippo Turati e la nobiltà della politica, Manduria-Bari-Roma P. Lacaita 1995, p. 185-6.

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elaborata prima dei grandi progressi dell’elettrotecnica da un Parlamento che si proponeva soprattutto di “regolare la derivazione d’acqua per le macine modeste dei molini paesani” o tutt'al più pensava a piccoli impianti idraulici, non già certamente alle possibilità, emerse a cavallo dei due secoli, di rea-

lizzare dighe e impianti idroelettrici di grande dimensione, con ricadute molteplici ad ampio raggio. Se è vero che Turati, com’ebbe a osservare Rosselli!8, per le

“infinite riunioni di commissioni, consigli, parlamenti, assemblee, comitati”, attraverso cui fu costretto a passare come leader di un partito di massa, non poté dedicarsi a intense letture

e “completare la sua cultura con seri studi economici” o di altro genere, è anche vero che pochi più di lui furono aperti agli apporti costruttivi di una moderna cultura delle riforme, nonché più solleciti a rompere inveterati steccati e a favorire l'impegno civile degli intellettuali in un rapporto costruttivo con il mondo del lavoro organizzato. A chi gli rimproverava la convergenza con forze di altro orientamento o ispirazione ideale, e lo sollecitava a organizzare piuttosto le scuole di partito, Turati ribadiva la necessità di evitare arroccamenti tanto velleitari quanto sterili e affermava

che la formazione della coscienza socialista non doveva essere vista in termini rigidamente classisti e ideologici! .“Non im-

porta se questa disposizione dell'animo si colori in alcuno della sua fede socialista, in altri di una elevata e generica idealità umanitaria, o sia, in altri ancora, soprattutto, il portato di un

concetto intelligente delle esperienze dello sviluppo delle industrie — quando, nel campo speciale del lavoro propostosi, questi diversi moventi, nonché intralciarsi, convergano all'ottenimento dell’unico fine”?. In un grande movimento a !# C. Rosselli, Filippo Turati e il socialismo italiano, cit., p. 245-6. !9 Le cosiddette scuole neutre e agnostiche non solo erano preliminari e preparatorie alle altre, ma erano anche indispensabili in ogni caso “perché la coltura — scriveva — può essere anche socialista e operaia, ma non è tutta e

soltanto socialista e operaia, né il proletariato è la sola classe che ha bisogno di rinforzare la propria coltura” (Per la coltura socialista, in “Critica Sociale”,

n 16 maggio-1° giugno 1912, p. 149. So“Critica in popolare, coltura la e proletarie organizzazioni 2% E, Turati, Le ciale”, 1° agosto 1912, p. 233.

RT:

favore della cultura popolare l'identità socialista si sarebbe ugualmente affermata attraverso le necessarie battaglie contro gli ostacoli di ordine economico e sociale che la diffusione dell'istruzione incontrava, e attraverso la rivendicazione di una

formazione integrale dell'uomo e del cittadino, contro le “artificiali” differenze di classe. Le opere di cultura “contrassegnate da una bandiera di classe e di partito”, affermava, “non solo suscitano le più accanite ostilità, allontanano a priori tutto l’elemento non ancora conquistato a quelle determinate idee, crea-

no divisioni, antagonismi, rivalità, sminuzzano le poche forze esistenti in opere che si paralizzano [...]: ma, quando [...] nascono in ambienti [...] veramente deserti di ogni coltura elementare diffusa, si prestano, se anche riescono a vivere, a cre-

are una mezza coltura affatto unilaterale e dogmatica, che è la negazione dello spirito critico, e che lascia i suoi adepti affatto sguerniti di quella, che è la condizione prima di ogni vera e vittoriosa lotta di idee, la conoscenza cioè dei punti di vista e delle ragioni avversarie, attinta alle schiette e legittime sue fontesi

Quando si considera la lunga azione svolta da Turati in questo come in tanti altri campi della vita pubblica (un'azione per lo più poco vistosa, e perciò spesso trascurata dalla storiografia) non si può non riconoscere che si trattò di un'azione di alto valore etico-politico e sempre comunque orientata da lucida visione strategica mirante a inserire le masse popolari nella vita nazionale come vettore di cambiamento civile. La sua azione costituì per molti un esempio di impegno operoso, un modello di coerenza e di dedizione fatta anche di tan-

ti atti minuti, intesi a dare impulso e sostegno a iniziative come il Consorzio milanese delle biblioteche popolari (da lui personalmente diretto), l'unione Italiana dell'educazione popolare, la Società Umanitaria, ma anche a orientare e sospingere i mi-

litanti più lontani, impegnati nelle sezioni e nei circoli socialisti, nelle società operaie e nelle camere del lavoro, nelle università popolari, nelle amministrazioni comunali, negli organismi della cooperazione e in quelli di assistenza agli alunni e 2! E. Turati, Per la coltura socialista, cit., p. 149.

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alle famiglie di condizioni disagiate nati insieme alle riforme scolastiche del primo Novecento. Tanto impiego di energie (che sembrò e fu a volte dispersione? )nasceva dall'idea già richiamata di riformismo attivo (e non “passivo” per usare la parole di Cuoco), di riformismo dal basso e partecipativo, volto a coinvolgere il massimo di forze sociali e a propagarsi ad ampio raggio contro le arretratezze esistenti nel paese. Accanto alle nuove leggi di competenza del Parlamento, ai più ampi e lungimiranti interventi governativi, ai più solleciti ed efficaci atti dell'apparato statale, occorreva per Turati un vasto movimento di cittadini e

di organismi associativi impegnato nel processo riformatore. Un movimento collettivo che in effetti prese slancio ai primi del ‘900, e che, come emerge sempre meglio anche in sede storiografica, contribuì in misura rilevante allo sviluppo delle opere per l'istruzione e la cultura popolare come delle altre di assistenza, di previdenza o di tutela del lavoro. E’ difficile non riconoscere che se i primi quindici anni del Novecento registrarono una sensibile crescita della scolarizzazione di massa e un aumento dei corsi professionali e della divulgazione, come della partecipazione alla vita degli enti locali, delle camere del 2 Se, parlando dell'enorme lavoro compiuto personalmente da Turati per svolgere le molte funzioni connesse al ruolo che aveva assunto, provve-

dendo a “tutte le più minute operazioni materiali, dal dattilografare all’impostare, Rosselli lo diceva “incapace di far lavorare gli altri” (cit., p. 246),

Angelo Omodeo gli rimproverava di non saper “organizzare ed utilizzare tutte le forze di cui dispone[va], amici compresi, per cui le forze stesse non coordinate, e non dirette opportunamente, vengono a costituire un poligono chiuso, un sistema staticamente magari mirabile, ma dinamicamente

poco

efficace”. E aggiungeva: “Quando ti vedo perdere la maggior parte del tempo in una serie di pratiche piccole, minute, noiose, spesso estenuanti ed inutili o quasi, mentre l’Italia attende di essere rifatta, mi cadono [...] le braccia. [...] L'altra sera, dopo una giornata del genere, mi hai confidato di essere sul pun-

to di piangere per la stanchezza. Che ciò possa avvenire in momenti come questi e ad un uomo come te, per eccesso di condiscendenza, per bontà d'animo, per abitudine ormai inveterata [...] è estremamente doloroso”. Tanto più

che Filippo Turati a suo giudizio era “l'uomo del momento” “per preparazione, per senso politico, per intuito mirabile, per dirittura morale, per larga simpatia e consenso quasi unanime” (A. Omodeo a F. Turati, 7 giugno 1921, Archi-

vio Omodeo, presso l'ing. Aldo Marcello che qui ringrazio per avermi messo

a disposizione le carte dell’avo).

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lavoro e delle cooperative, fu anche per quel fenomeno di riformismo attivo e dal basso, voluto e in tutti imodi sospinto da Turati e dai riformisti di inizio secolo. Nel suo saggio del 1932 Carlo Rosselli diede adeguato risalto a ciò che avvenne dopo la svolta liberale, parlando di “grande fatto nuovo” della vita italiana, costituito dal “pullulare di organizzazioni, di agitazioni, di scioperi”, dal “moltiplicarsi di iniziative”, dallo

“sforzo tumultuoso di ascensione di plebi sino allora assenti e sfruttate”, i cui dati — aggiungeva - vanno ricercati più che nella storia del partito “nella vita delle leghe, delle cooperative, dei circoli rurali, delle società mutualistiche e di cultura”. Al di là quindi di certe tendenze settoriali e corporative, che pure non mancarono, suscitando la denuncia salveminiana cui Turati non fu affatto insensibile, il fondatore di Giustizia e Liber-

tà riconosceva che “questo sforzo di ascensione [fu] uno sforzo sano, di crescenza, di avviamento alla maturità, di educa-

zione del proletariato”, il quale poté così disporre di un insieme di dirigenti e di quadri di notevole qualità, reclutandoli per lo più da quel ceto operaio di tipo nuovo, i cui rappresentanti, per dirla con un esponente di spicco del mondo industriale del tempo, L. Bonnefon-Craponne, “non solo sapevano difendere con tenacia e vigore instancabili gli interessi dei compagni, ma erano in grado di discutere le argomentazioni più ardue che ad essi venivano contrapposte dagli industriali”. Quanto ai risultati di quella stagione che lo assorbì pienamente, Turati non mancò di evidenziare, con l'onestà che gli era propria, tanto i meriti quanto i limiti. Come non riconosce-

re che con le riforme erano migliorate le condizioni di vita e di lavoro per larghi strati popolari, grazie alle leggi sociali e assi© C. Rosselli, Turati e il socialismo italiano (1932), in Id., Scritti politici, a

cura di Z. Ciuffoletti e P. Bagnoli, Napoli Guida editori 1988. p. 243-4. SALO Bonnefon-Craponne, L'Italie au travail, Paris, 1916, trad. it., Grugliasco,

Emblema, 1991, p. 13. Parlando di Bruno Buozzi, Ferdinando Santi tratteggiò in questi termini la figura dell’operaio di tipo nuovo emersa all’inizio del Novecento: “intelligente, umano, orgoglioso della sua dignità professionale; che Sta a testa alta davanti al padrone, rispettato e rispettoso, che legge L'origine della specie e frequenta l'Università Popolare e i loggioni della stagione lirica; che ammira la tecnica tedesca e odia il Kaiser; che ama i nichilisti russi e vota

per Turati” (cit. in V. Castronovo, Torino, Roma-Bari Laterza 1987, p. 182).

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curative,

allo sviluppo

del sistema

formativo,

alla

modernizzazione dell'apparato dello Stato, alla crescita della

ricchezza nazionale favorita da specifici interventi riformato-

ri? e che per merito del riformismo era stata messa a frutto “la libertà conquistata” dal movimento operaio e socialista fra Otto e Novecento? Certamente si sarebbe potuto fare e ottenere di più, se la tensione ideale e l'impegno del primo periodo non si fossero attenuati; se la “pressione” dal basso, sempre necessaria alla “conquista” delle riforme, non si fosse allentata, lascian-

do spazio alle tendenze settoriali e allo scollamento fra il centro e la periferia, fra il gruppo parlamentare e “l’esercito” dei militanti, che finì per non “seguire” e non “intendere” quanto avveniva

in Parlamento”;

se il riformismo giolittiano, suo

maggiore interlocutore in campo liberale, non si fosse tradotto in un eccesso di pragmatismo empirico. Ma per Turati non c'erano ragioni di fondo per un cambiamento di rotta: non certo nella direzione massimalistica, che

considerava sterile e paralizzante, e tanto meno in quella comunista del dopoguerra, che giudicava antitetica al socialismo democratico perseguito, ma nemmeno nelle direzioni indicate

in campo riformistico sia da Salvemini sia da Bissolati. Non in quella di Salvemini, che esprimeva idee condivisibili ma in una forma da moralista che lo staccava da un moto di massa, né in

quella “minimalista” di Bissolati che tendeva a una compagine di “democrazia sociale”, utile sì a un rafforzamento del-

l’area democratica, ma inidonea a svolgere il compito proprio di una forza socialista, impegnata a rappresentare i “milioni di analfabeti, disorganizzati ed assenti dalla vita politica””, nel corso della difficile e contrastata transizione a una democrazia matura e a un'economia industriale moderna.

25 F. Turati, Primo maggio di rinnovamento, in “Critica Sociale”, a. DOO

maggio 1910, p. 129-130. 26 E, Turati, Contro i due estremi per l’azione socialista. Discorso tenuto il 17 ottobre 1911 al Congresso di Modena, in Id., Le vie maestre del Socialismo, cit., +290. Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 24 marzo 1911, in B. Vigezzi, Giolitti e i Turati. Un incontro mancato, T. I, Milano Napoli Ricciardi 1976, p. 249.

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Un riformismo autenticamente socialista, per Turati, non

poteva prescindere dai bisogni delle classi popolari di cui si doveva promuovere l'elevazione operando concretamente nel processo di sviluppo in atto. Tanto degli uni quanto dell'altro esso doveva farsi carico evitando sia l’inconcludenza del massimalismo “verboso” che la rinuncia ad agire come vettore del mutamento sociale. Di qui l'insistenza, nella situazione del primo dopoguerra, sulla necessità di una rinnovata visione delle cose e di un riformismo organico capace di affrontare la grave crisi con un progetto a tutto tondo e di dare risposte adeguate ai problemi economici, sociali e politici del momento, coniugando il tema della “produzione” con quello delle relazioni fra “capitale e lavoro” e più in generale dei rapporti fra “Stato e cittadini”, a cui è dedicato il Rifare l’Italia del 1920. “Non si possono creare veri miglioramenti economici — affermava - senza certe riforme politiche”, come “non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche [...] senza certi coefficienti economici”. Non più quindi

interventi spiccioli, slegati o settoriali, ma finalmente un “programma” di ampio respiro, o come diceva un “piano regolatore” nazionale, in grado di coordinare i provvedimenti e di ottenere, sulla più ampia convergenza di forze disponibili, tutte le sinergie possibili in una prospettiva di sviluppo eco-

nomico e di crescita democratica”. Una prova ulteriore dell'impegno e della capacità di aderire alla complessità delle situazioni nelle diverse stagioni che gli toccò di vivere.

®* Sin dal 1901 aveva affermato che la graduale conquista dei pubblici poteri “non si opera col personale insediarsi di alcuni socialisti in cariche determinate, ma colla crescente pressione degli interessi proletari sulla politica generale dello Stato” (Il partito socialista e l’attuale momento politico, “Critica Sociale”, 16 luglio 1901).

© F. Turati, Rifare l’Italia!, introduzione e cura di C.G. Lacaita, ManduriaBari-Roma P. Lacaita 2002.

da

MAURIZIO DEGL’'INNOCENTI

SCIENZA, AMMINISTRAZIONE E POLITICA NEL GOVERNO DELLA CITTÀ. L'ESPERIENZA FIORENTINA 1. Il problema storiografico. Negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 la storia d'Italia fu caratterizzata da grandi trasformazioni sociali, economiche e politiche, in linea con i processi di mobilità conosciuti dai paesi europei più avanzati che le consentirono, sia pure tra notevoli difficoltà e squilibri regionali non pienamente risolti, di inserirsi in un percorso che l'avrebbe portata “dalla periferia al centro”. E mentre il ruolo delle istituzioni pubbliche si potenziava e si dilatava in campo amministrativo e nella gestione dei servizi, e l'ente locale acquistava un ruolo attivo e si faceva imprenditore, anche la rappresentanza politica si evolveva decisamente dallo schema del notabilato liberale e elitario alla dimensione partitica. Sottostante a tale mobilità era una più diffusa cultura tecnico-scientifica, della qua-

le erano tramite istituzioni pubbliche o meno (scuole e politecnici, cattedre ambulanti e società di miglioramento, etc.), rivi-

ste specializzate, esposizioni industriali, università popolari; nonché la “nuova professionalità” dei tecnici nelle amministrazioni (ingegneri, medici, igienisti, geografi e statistici). A cavallo del secolo, e in particolare nell'età giolittiana, emergevano così “un comune sentimento di modernità” e “una passione di incivilimento diffuso”, che erano la premessa e il contesto di un riformismo convergente, anche se animato da istan-

ze diversamente motivate: più politicizzate (socialiste, democratiche e liberali), prevalentemente umanitarie, scientiste e tecnocratiche, o anche solo produttivistiche. Ora, sull’esisten-

za di un riformismo modernizzatore dall'alto agli inizi del Novecento non credo possano essere avanzati dubbi motivati: allora risalivano la spinta alla legislazione sociale, la creazione di una legislazione straordinaria a favore del Mezzogiorno che ! Filippo Turati, Le organizzazioni proletarie e la cultura popolare, “Critica sociale”, 1 agosto 1912.

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tra l’altro produsse l'acquedotto pugliese e la legge sul porto di Napoli, la creazione degli organi consultivi dello Stato e del Consiglio superiore del lavoro, l'allargamento della cittadinanza politica fino al suffragio universale maschile. Il quesito: se protagoniste delle dinamiche riformatrici furono le istituzioni pubbliche (Parlamento, Governo, corpi consultivi, aziende) e la leadership politica nazionale mantenne un ruolo propulsivo, secondo una linea ben nota che partiva dall'Unità d’Italia e che agli inizi del ‘900 conosceva con Francesco Nitti e Giovanni Giolitti una rinnovata e significativa espressione, quale ruolo vi ebbero le istanze nate nella società, di cui si facevano interpreti e tramiti gli interessi organizzati o che si stavano organizzando su basi categoriali e soprattutto territoriali (camere di commercio, camere del lavoro

e sindacati di categoria, imprese cooperative, associazioni di varia natura, collegi professionali, etc.), le rappresentanze politiche e amministrative periferiche, gli enti locali? Furono

destinatarie di scelte altrove maturate, o addirittura pedine di disegni uniformanti rispetto ad un centro lontano, partecipando così sì al processo di modernizzazione, ma in quanto emancipandosi da una propria identità territoriale e culturale; oppure ebbero in tale processo un ruolo attivo, traendo dal collegamento con il centro un impulso all'innovazione, non a scapito della propria identità ma piuttosto dando a questa nuova linfa, consentendole di superare l’area della marginalità e di rinnovarsi nel confronto con altre realtà? E qualora fosse valida questa seconda ipotesi, non si potrebbe allora parlare di tendenze all'innovazione e alla modernità provenienti dalla società, cioè di una cultura riformista per giunta con tratti specifici e comunque diversi da quel riformismo dall'alto sopra dichiarato? E, tornando infine all’assunto centrale del tema del

convegno, non si dovrebbe parlare di “culture”, piuttosto che di “cultura” riformista? 2. Lo stato dell'arte. Disponiamo di una letteratura ormai ampia sulla base industriale formatasi a cavallo del secolo, corredata oltre che da sintesi generali o di settore anche da studi sulle imprese e sugli imprenditori, su singoli istituti di 24

credito, sul sistema dei trasporti, e in ultimo sulle relazioni

industriali. Una committenza sempre più attenta ha dato un

notevole impulso all'intero settore. Di recente tale letteratura

si è arricchita degli studi sulla correlazione tra sviluppo industriale e cultura tecnico-scientifica e promozione dell’istruzione professionale, non ultimo da parte di alcuni dei partecipanti a questo convegno. Disponiamo di alcune sintesi sulla formazione del personale pubblico e sul ruolo dei tecnici nelle amministrazioni

tra Otto e Novecento, sull’amministrazione

centrale dello Stato, o di studi sulle professioni e su figure esemplari dell'intervento pubblico. Per quanto attiene alla mobilità politica e al disegno riformatore in relazione ai nuovi bisogni sociali nello spazio regionale e locale, i titoli disponibili vanno accumulandosi, insieme a riviste storiche e a collane editoriali

specifiche. Nell'insieme tale letteratura fornisce una solida base di orientamento storiografico e metodologico, e tuttavia pare soffrire di alcuni limiti. Innanzitutto, si evidenzia una accentuata

settorialità tra i diversi approcci, cosicché i pur cospicui contributi vengono spesso confinati in aree specialistiche, e di fatto resi marginali nelle grandi opere di sintesi. E’ un fatto assai clamoroso che nelle grandi sintesi storiografiche e nelle storie generali dell’Italia la cultura sia intesa e presentata sotto la specie letterario-artistica (Asor Rosa nella Storia d’Italia, peri tipi Einaudi; Luisa Mangoni in Storia d'Italia, per i tipi Laterza, etc.), per lo più riassunta nella vicenda delle riviste letterarie fiorentine, e che ancor più ciò si rifletta nella manualistica sco-

lastica; mentre assai più ridotta o addirittura assente risulta l’attenzione alle competenze tecniche e ai saperi scientifici, e al loro ruolo sui processi di innovazione e di modernizzazione nella società. A latere, si sconta ancora la riduzione della cultura positiva ai suoi aspetti filosofici e sistemici, trascurando-

ne invece quelli sperimentali, pragmatici, come pure il culto dell'indagine e della documentazione sociale e statistica, dell'applicazione dell'innovazione tecnologica alla società, della divulgazione dei saperi scientifici. In secondo luogo, la letteratura suddetta non si pone in modo complessivo, con l'ausilio di discipline diverse, la ricostruzione del disegno innovativo,

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che per lo più è proposto ad un livello prevalentemente descrittivo. Di fatto, non ne coglie il processo compiuto, dall’imput iniziale alla traduzione in fatto conoscitivo e razionale, alla decisione politica, alla realizzazione pratica.

Infine, per i motivi suddetti, anche negli studi più attenti risulta evidente uno sbilanciamento a favore dell’interventismo dall'alto, secondo una lunga e radicata tradizione dall’Uni-

tà d’Italia, di cui il giolittismo niente altro sarebbe che la interpretazione o l’accentuazione paternalistica e compromissoria, quando non si parli di un Giolitti conservatore e grande corruttore (e con esso addirittura di un movimento socialista

riformista anch'esso conservatore). Tutte le correnti antigiolittiane e antiriformiste (si potrebbe dire anche: le più lontane dalla prospettiva democratica e politico-rappresentativa) a cavallo del conflitto mondiale se ne alimentarono, innervando

successivamente correnti storiografiche importanti nel nostro paese e non meno la manualistica universitaria e scolastica. Ora, se si confermasse una spinta alla modernizzazione dal basso, dalla società, allora la valutazione complessiva dell’Ita-

lia liberale, specialmente in età giolittiana, si farebbe assai più complessa, così come quella delle forze politiche operanti. Le implicazioni storiografiche a ciò connesse sarebbero molteplici, a cascata.

3. Un approccio significativo e fertile è quello che postula la stretta interrelazione tra modernizzazione, innovazione, cam-

biamento sociale, industrializzazione e protagonismo urbano, e governo del territorio. Richiamo l’attenzione solo su tre punti: la scommessa dell'innovazione sul sapere; la conoscenza del territorio e della società a premessa della operosità politicosociale; l'interazione con i nuovi soggetti sociali. In uno scenario di cambiamenti sociali e di avvio all’industrializzazione, l'istruzione è percepita come via necessaria per l’accesso alle risorse. Mai, in precedenza, l'istruzione era diventata un pro-

blema di massa. Con la scuola ordinaria, cioè con la istruzione pubblica standardizzata (grande conquista dello Stato moderno, nazionale e territoriale), ma anche al di là di essa. In un

paese di radicato analfabetismo, nel quale perfino l’uso della 26

lingua nazionale è scarso, si pone così un problema di ordine generale, che è al tempo stesso di cittadinanza sociale e politica, per l'immediato e per le generazioni future. Poche analogie si hanno nella storia d’Italia di una tensione, fino all’apostolato, e di una capacità inventiva a favore dell'educazione

come quelle ai primi del Novecento. Si potrebbe dire che non vi fu campo di indagine o di intervento pratico che non facesse trapelare un intento pedagogico. Perfino nell’organizzazione degli interessi, nelle nuove forme di rappresentanza politica e partitica, nella promozione di istanze economiche e sociali collettive, come le cooperative o le società di mutuo soccor-

so, tale prospettiva era evidente.

In un’epoca di industrializzazione, di sviluppo dei trasporti e di diffusione dei servizi in ambito urbano tra i diversi saperi quello tecnico e scientifico rappresentava un mezzo privilegiato di ascesa sociale, competendo ora conle tradizionali professioni liberali. In ciò era la sinergica volontà di imprenditori, tecnici e organizzazioni operaie: un blocco di forze in espansione, in linea con il progresso economico, in grado -insieme allo Stato nazionale laico- di frantumare definitivamente i centri, chiusi e elitari, della cultura, di ambito religioso e non. I

canali lungo i quali correvano i flussi conoscitivi erano molteplici: dall'espansione dell'istruzione tecnica e professionale, e si pensi in proposito al ruolo dell’Umanitaria di Milano, dove si apriva anche una scuola pratica di legislazione sociale nell'ambito dell'Ufficio del lavoro, alla promozione di istituti per

la formazione degli ingegneri, come la Scuola di applicazione di Bologna, o delle Scuole superiori (elettrotecnica a Torino), e

politecniche (politecnici, scuole superiori di agricoltura, scuole di commercio, stazioni sperimentali, etc.) o delle cattedre

ambulanti, o delle scuole di incoraggiamento di Arti e Mestieri (a Milano). Si articolavano in una sempre più vasta editoria e pubblicistica tecnico-scientifica (ad esempio la Ulrico Hoepli, a Milano), ma anche nelle esposizioni industriali (a Torino) e

universali (a Milano). Vi era insomma la partecipazione della cultura e della società italiana ad un moto che si sviluppava in tutti i paesi più avanzati, e per questa via, l’Italia, l'Italia delle migliaia di comuni e province, l’Italia dei dialetti, si faceva più ZA,

moderna e internazionale. Fra, beninteso, un fenomeno che si

dipanava lungo tutto l’Ottocento, e in particolare con e dopo l'Unità, ma che negli anni a cavallo del secolo conosceva una

decisiva accelerazione. Significativo del dinamismo della società (specialmente urbana) nel processo educativo era anche l’esperienza dell’Università popolare: “il pane dell'anima”. Tra il modello anglosassone della “estensione universitaria” e quello francese della “cooperazione di idee”, in Italia più frequentemente si perseguiva la diffusione della istruzione elementare e della divulgazione del sapere scientifico. Non pare giustificato il giudizio liquidatorio di Gramsci, che parlava di prevalente dilettantismo nozionistico. Era un fenomeno sociale di indubbio rilievo, che incideva sul senso comune. Era il programma della “istruzione morale e scientifica delle masse”, di cui parlava Francesco Pullé, orientalista di fama e convertitosi al socialismo, nel 1906. Era il tentativo, teorizzato ancora da Giovanni

Bordiga nel febbraio 1901 inaugurando l’Università popolare di Venezia, di diffondere la “integrazione intellettuale”, con

un insegnamento accademico e scientifico che integrasse la media cultura scolastica, e motivato con l'emergere prepotente di “nuove sovranità”, vale a dire di nuovi soggetti sociali. In ultimo, era una anticipazione di quella educazione degli adulti, o educazione permanente, sulla quale, con risultati alterni,

si sarebbe riflettuto quasi un secolo dopo. In conclusione, la scommessa sull'istruzione elementare diffusa, sulla scuola professionale, sulla volgarizzazione del sapere scientifico, sull’edu-

cazione di massa, sull'educazione permanente e degli adulti, sulla ricerca di laboratorio, sul sapere positivo che si volgeva attento e operoso verso la società, era da ritenersi vincente. E’ difficile immaginare qualsiasi processo di modernizzazione e riformatore, allora come in futuro, che ne possa fare a meno.

La società, la società di massa in particolare, rappresentava un soggetto che in quanto tale veniva sezionato e analizzato:

attraverso l'indagine e la statistica costituiva la premessa e lo ? M. Degl'Innocenti, “Il pane dell'anima”: alle origini dell'Università popolare, “Studi senesi”, a. 1994, f. 2, p. 201-18.

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strumento essenziale del processo innovativo. Gli orientamenti

dei gruppi, i bisogni e la domanda di servizi, l'insieme dei dati forniti dall'esperienza pubblica o privata, i flussi del mercato del lavoro venivano esaminati attraverso appositi uffici o in commissioni ad hoc costituite, e infine tradotti in imput per atti normativi, politici o amministrativi. Alla conoscenza del territorio dava un contributo rilevante la cartografia militare, ma era la politica infrastrutturale, e in particolare la costruzione delle ferrovie e della rete stradale, a innervare mercati e

insediamenti produttivi, centri di scambio e residenziali, suscitando o consolidando un vero e proprio processo di appropriamento conoscitivo del territorio. I segni tangibili furono molteplici: il rilancio del treno con la costituzione dell'Azienda autonoma

ferroviaria nel 1905, la fondazione del-

l’Istituto geografico De Agostini, l’attenzione verso il Touring Club, alla quale contribuiva il nascente fenomeno del turismo,

sia pure ancora prevalentemente di élite. Un ultimo aspetto intendiamo qui richiamare a riferimento essenziale all’imput dalla società e dal basso. Ci riferiamo all'organizzazione degli interessi che caratterizzavano vistosamente la fase storica che qui ci interessa. Fu un fatto che essi si organizzarono su basi territoriali: erano le Camere di commercio, le società cooperative, le camere del lavoro, le università

popolari, le associazioni culturali o del tempo libero. E si svilupparono come punto di raccordo tra bisogno sociale e produttivo, livello di conoscenza, decisione politica e intervento economico. Come si è detto erano tutti simboli della maggiore articolazione e complessità della società, espressione del protagonismo dei nuovi soggetti, che si radicavano sul territorio (e dunque nella società) con sedi stabili, alla ricerca di una

continuità organizzativa e nella promozione della propria immagine all’interno e presso l'opinione pubblica. E così tali sedi si contrapponevano o almeno si ponevano accanto e rivaleggiavano con quelle del potere tradizionale: la chiesa, la caserma, il municipio, la Prefettura, il palazzo signorile.

Caratteristica peculiare del comune popolare era appunto e in molti casi di trovare con essi un dialogo. Il ricercare, di ruolo dell'ente locale diventava pertanto più complesso, e 29

permeabile alle istanze, organizzate o meno, emergenti dalla società. Ulteriori sintomi di tale permeabilità, ma anche della

maggiore articolazione della macchina burocratica, erano nella emergente questione dello stato giuridico e della

sindacalizzazione dell’impiegato locale. Verso la metà dell'età giolittiana si registravano addirittura le prime agitazioni degli addetti daziari per la cointeressenza; dei medici condotti per la trasformazione della condotta piena in condotta residenziale; infine dei maestri e del personale delle aziende municipalizzate. Insomma, il controllo e la politica del territorio, il go-

verno dei bisogni personali e dei gruppi implicavano, per l'appunto, le competenze dell'Amministrazione locale. Il versante riformista socialista

e democratico non era l’unico, ma era

quello con una referenzialità sociale più spiccata, rappresen-

tando interessi e gruppi ai margini dello Stato liberale, nonché ceti produttivi ed intermedi emergenti. 4. La città come rete. Tra ‘800 e ‘900, molteplici indizi, nella

riflessione culturale e nel comune sentazione

sentire, nella rappre-

artistica o nella produzione

materiale, eviden-

ziavano un salto di qualità nel rapporto spazio-tempo, proprio intorno alla funzione della città. Il mondo “avanzato”,

percepito come partecipe del, o almeno proiettato verso il futuro, appariva sempre più come

un universo in via di

urbanizzazione. L'immagine della città si accompagnava al dato dell'innovazione, e questo al dinamismo sociale e alla mobilità. Già l'economia classica aveva evidenziato gli effetti di moltiplicazione e di dilatazione sul dinamismo sociale prodotti dall'agglomerazione di popolazione, per la presenza di un mercato stabile, di un luogo di culto, di un insediamento industriale. Tale immagine si consolidava ora con i processi di integrazione in una società tendenzialmente di massa. Sono indubbie rilevanza, concentrazione e accelerazione di quel fe-

nomeno che altrove ho chiamato “protagonismo urbano”, per sottolinearne il ruolo straordinario nel cambiamento sociale e nella modernizzazione. Non voglio aggiungere altro, se non ribadire due dati. Il primo è che la politica per o della città diventava sempre più sinonimo di governo del territorio e di 30

pianificazione regionale. Insomma in quanto rappresentazione dello spazio, la:città era anche progetto politico per eccel-

lenza. Un fatto importante fu che le periferie si dilatavano assai più intensamente rispetto al centro storico. La possibilità di trasporti a buon mercato incentivava del resto lo sviluppo di sobborghi residenziali per la classe media in espansione, come pure di aree, per lo più sovraffollate, destinate ai lavoratori manuali

(e ai ceti più poveri). Tale tendenza poneva anche problemi nuovi: “il piano cittadino”, la questione degli alloggi, il risanamento delle città, la distribuzione dei servizi. Nella riscrittura del tes-

suto urbano aveva pertanto un ruolo notevole il nuovo sistema di comunicazioni, strade e ferrovie. Al pari e più dell’edificio scolastico, dell'ufficio delle poste, della biblioteca pubblica, del-

la “fabbrica” dell’acqua, del nuovo cimitero fuori le mura e financo dell’opificio, la stazione con gli spazi annessi contribuiva a delineare il nuovo scenario urbano. In secondo luogo, il ruolo nuovo, aperto e dinamico del governo urbano appariva come una manifestazione, al tempo stesso causa ed effetto, della espansione del mercato: le città erano insomma come i nodi di un reticolo lungo il quale si muovevano merci e persone, capitali e informazioni, prodotti materiali e idee, L'amministrazione comunale stessa costituiva sempre una delle maggiori “aziende” sul territorio; e spesso era la prima per numero di dipendenti e per bilancio. Nella fase iniziale, la grande città ottocentesca conosceva un peg-

gioramento delle condizioni di vita, per l'eccessivo sovraffollamento e per la precarietà dell'igiene specialmente nei quartieri popolari: i focolai di infezione, specialmente di enterite

(di gran lunga la più perniciosa), di tubercolosi, di malattie veneree e di tifo, vi si diffondevano con notevoli picchi di mortalità. Ma proprio alla fine del secolo e agli inizi del nuovo, l'inversione di tendenza era chiaramente percepibile: le politiche di risanamento del suolo e dell'abitato, la produzione e la distribuzione dell’acqua potabile (con le tipiche grandi “fabbriche”, ben presto familiari), la costruzione della rete fognaria, i progressi nello spegnimento degli incendi contribuirono al crollo della mortalità. Per la prima volta, si vedeva-

no nelle grandi città europee “macchine” per scopare le stra31

de, e rimuovere e caricare sopra i carri le immondizie. E fecero

la comparsa i primi forni di incenerimento (forni Horsfall). Il discorso del Prof. Giovanni Montemartini, assessore so-

cialista a Roma, in occasione della cerimonia per la posa della prima pietra della Centrale termoelettrica municipale, sulla Via Ostiense, il 26 gennaio 1911 delineava molto bene il nuovo scenario urbano. Proclamava infatti: “Mentre oggi mette la prima pietra alla Centrale Elettrica, a giorni farà correre le sue prime carrozze tranviarie verso Santa Croce in Gerusalemme; a gior-

ni ancora inizierà la costruzione del suo grande frigorifero al Mattatoio, cellula prima ed indispensabile a sviluppare qualunque azione positiva e qualunque organizzazione in materia annonaria; e dentro il mese di febbraio, con le casette popolari e con le case per i salariati municipali, sarà buttata la prima pietra di quel demanio municipale delle case che segna l'intervento diretto del Comune nel problema delle abitazioni”. E ancora con enfasi: “E contemporaneamente ai lavori della Centrale, irraggeranno da questa futura sorgente di energia, fasci di canapi sotterranei, e si svilupperà la posa delle reti di distribuzione ad alta e bassa tensione, il cui impianto importerà una spesa totale di circa 4600000 lire con un totale sviluppo di oltre 500 Km. di canapi”.° A premessa di tale posizione era un'impostazione decisamente aziendalistica e imprenditoriale, apertamente rivolta alla logica di mercato, contro le posizioni di rendita e di inefficienza. “Noi abbiamo trovato i più grandi servizi pubblici -—continuava Montemartini- in istato di esercizio tipicamente monopolistico; per cui le tariffe elevate, il servizio tecnico difettoso, gli impianti non erano sufficienti, non rispondenti allo sviluppo odierno della città. Ci siamo proposti, adottando coraggiosamente il metodo dell'intervento diretto della pubblica impresa, di trasformare gli impianti monopolistici in impianti industriali, quali funzionano in un

sistema di libera concorrenza. Alcuni buoni effetti li abbiamo già ottenuti, ma soltanto da oggi comincia l’azione decisiva, 3 La centrale termo-elettrica municipale, “Il Comune moderno”, a. I, n. 2, febbraio 1911, p. 108-12. La scadenza per la fine dei lavori, compresi quelli

per la costruzione della prima delle centrali idroelettriche sull’Aniene, era molto ravvicinata, alla fine del 1912.

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che forza di concorrenza portata nel sistema economico dallo stesso Municipio industriale”. Conviene ribadire qui la sottolineatura costante del principio della concorrenza per contenere le alte tariffe ai fini della democratizzazione dei consumi. Rivolgendosi alla privata Società Anglo-Romana, Montemartini asseriva: “Di fronte a noi sorge l'impianto mo-

derno imponente della Società concorrente. Ma data l'entità e la modalità del nostro impianto noi siamo in grado, pur non desiderando la guerra, di non temere la concorrenza. Non temiamo la concorrenza, perché diamo vita ad un organismo che si può sviluppare gradualmente a seconda del graduale sviluppo della clientela. Il primo cliente della nostra centrale è il Comune stesso col suo enorme fabbisogno di illuminazione pubblica e col grande fabbisogno di energia per i suoi impianti industriali, e certamente saranno nostri clienti tutti gli esercenti pubblici, i quali potranno ottenere notevoli risparmi da notevoli ribassi di tariffa. (...) Le alte tariffe impediscono la democratizzazione

dei consumi

necessari; la questione, per

esempio, delle basse tariffe dei trams è legata al problema delle case; il basso prezzo della luce, dell'energia, del calore è le-

gato ai più elementari bisogni della famiglia e dell'industria; le tariffe monopolistiche sono imposte e riscosse da capitalisti privati; l'esercizio monopolistico crea disservizi, fatali quando si tratta di servizi pubblici”. Proprio il criterio aziendalistico

tuttavia imponeva a Montemartini di ammonire contro la facile rincorsa o almeno la tentazione dei Comuni all'esercizio diretto delle imprese senza una seria indagine della domanda e fuori da ogni logica di mercato, così come era assai distante dalla visione palingenetica e tutta ideologica della municipalizzazione, cara pure a molti suoi compagni di partito, in quanto anticamera o integrazione o sostituzione della statiz-

zazione allo scopo di combattere e eliminare la proprietà privata. Egli faceva valere piuttosto l'opportunità di considerare l'economia di scala (era, ad esempio, del tutto contrario ad espe-

rimenti di municipalizzazione nei comuni di piccole dimensioni), e, non meno, l'orientamento dell'opinione pubblica e più in generale il contesto culturale: la municipalizzazione, ricordava, “si può tentare solo quando l’ambiente sia politica33

mente educato, quando l'opinione pubblica sia vigile, quando il controllo sulle aziende autonome sia effettivo”. Erano concetti che Montemartini ribadì nella relazione al congresso nazionale delle aziende municipalizzate, dove tracciò in materia le linee direttive per l'amministratore pubblico: nessuna legge “protettiva”, perché “un'impresa artificiale che lotta e vince sul mercato solo perché è favorita dallo Stato, è impresa nata morta”, e perché “se l'impresa municipale non riesce più utile al consumatore e alla collettività della libera impresa privata, non deve ingombrare il mercato e deve lasciare libero il cittadino di provvedersi sul mercato dal produttore più economico che venda a prezzi minori”.* Un altro aspetto importante da sottolineare è la formazione di un vero e proprio manager pubblico, che con il rinnovato ruolo del Comune si andò formando. Lo stesso Montemartini ne fu 4 Il nostro punto di vista difronte alle Municipalizzazioni, ivi, a. I, n. 6, giugno 1911, p.317-20. Nello statuto della Federazione delle aziende municipalizzate fu prevista la partecipazione dei rappresentanti delle aziende e dei Comuni, purché capoluoghi di provincia, per evitare qualsiasi potenziale antagonismo (“l'autonomia deve essere intesa come libera manifestazione di attività

industriale da parte dell'ente autonomo nei limiti stabiliti dalla rappresentanza comunale. Questi limiti sono limiti di valore -sono fissazione di prezzi di determinati pubblici servizi- e sono essi che determinano la portata finanziaria e sociale dell'istituzione”). Tra le finalità rivendicate non era quella di

“facilitare e promuovere l'intervento del Comune nel campo della produzione”, ma piuttosto di “fare del Comune una forza nuova nel complesso delle forze produttive, una forza non diretta a creare monopoli, ma a stabilire confronti fra i diversi sistemi produttivi, che solo interviene quando il sistema

diretto di produzione è più economico del sistema privato e permette la creazione di larghe correnti di consumi democratici: questa è la funzione del comune moderno” (XXX, Il Congresso delle Aziende municipalizzate, ivi, p.3203). La stessa diffidenza per eventuali interventi difformi dalla logica di mercato Montemartini manifestava anche nei confronti delle imprese e degli appaltatori privati, ammonendo che “la libertà è una bella cosa quando si estrinseca liberamente sul mercato, ma è istituto pericolosissimo quando viene a offrire i suoi servigi allo Stato o alle pubbliche amministrazioni”. Per un profilo storico complessivo sono sempre utili gli atti del seminario di studi tenuto a Brescia il 2 dicembre 1988 (L'esperienza delle aziende municipalizzate tra economia e società, Sintesi editrice Brescia 1990).

° Al riguardo, per citare un solo esempio, si può considerare la composizione del Consiglio direttivo della Federazione delle aziende municipalizzate nel 1911: oltre al prof. Montemartini, presidente, ne facevano parte gli inge-

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autorevole teorizzatore. Nel corso del Novecento, com'è noto,

tale figura avrebbe avuto largo sviluppo. La presenza del manager pubblico, così come del burocrate che agiva nel governo politico del territorio imponeva un rapporto nuovo tra amministrazione, rappresentanza politica, imprenditoria”, e, non meno, tra centro e periferia. Questo tema richiama quello del rapporto tra ente locale e Stato, sul quale intendiamo in questa sede osservare solo che per comprendere la crescente importanza dello scenario urbano nella storia contemporanea, in particolare a partire dall’800, occorre considerare anche la formazione e poi il consolidarsi dello Stato moderno. Ad un primo, sommario esame, potreb-

be apparire che, rispetto all’epoca precedente, lo Stato moderno soppresse autonomie e prerogative dell’organizzazione municipale, o, al più, che le restringesse in recinti ben definiti. Cosicché pur indebolita dalla perdita degli antichi privilegi, la città contemporanea, quale risultava modellata nel XVIII secolo, mantenne sì propri istituti e funzioni ma se e in quanto suscettibili di adattarsi al costituzionalismo liberale. In effetti, lo Stato moderno, nazionale e territoriale, si affermò anche nella

lotta e infine nel superamento del particolarismo e del chiuso localismo. E in Italia tale vicenda si intrecciò con il carattere sostanzialmente elitario del Risorgimento e con il sistema politico liberale dei notabili. A tutela della sua sovranità, unità e

continuità, lo Stato disseminò il territorio di uffici pubblici, coinvolgendo le classi sociali, attraverso le loro rappresentanze e sulla base del criterio di capacità, nella gestione degli interessi comuni. Era un percorso ben descritto da Vittorio Emanuele Orlando in Principi di diritto amministrativo, vantandone l’efficace applicazione nella realtà italiana. Sul punto, la considerazione del Comune come circoscrizione territoriale e gogneri Giuseppe Orefici, Federico Giordano (assessore comunale di Milano),

Ferdinando Lori (presidente officina a gas di Padova), Peyron (presidente azienda elettrica di Torino) e Vittorio Cini, insieme al cavaliere Gaetano

Giovannini, al ragioniere Carlo Ruini, ai dottori Luigi Federico Tretti e Giulio Terzi, e all'avv. Galliani (assessore del Comune di Genova). ° Si pensi al riguardo alla politica della concessione, sia per l’uso del suo-

lo pubblico, sia per servizi e criteri tariffari.

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verno dei rapporti interpersonali, più che puro centro di erogazione di servizi amministrativi, consente di rifuggire più agevolmente dagli schematismi derivanti dal presunto peccato d'origine centralistico. Riteniamo insomma improponibile uno schema di pura, permanente e irriducibile contrapposizione tra centro e periferia, mentre più corretto ci pare riconsiderare l’intera vicenda del liberalismo europeo dell’800 all’insegna della ricerca di un equilibrio fondato su contrappesi e reciproci riconoscimenti tra Stato e governo della città, tra politica nazionale e società riassunta nella autorevole e consape-

vole rappresentanza urbana. Del resto l’organizzazione del potere municipale non fu mai agevole, richiese al contrario molteplici interventi e aggiustamenti, e si configurò come cen-

tro nevralgico per il funzionamento complessivo dei sistemi politici. Per comprendere meglio tale ruolo si potrà efficacemente ricorrere all'immagine della rete. La città fu infatti un vero e proprio “sistema”, animato da un'imprenditoria locale i cui soggetti operavano in sinergia,

in presenza di istituzioni multiple e private, su basi per lo più spontanee e volontaristiche, da cui partiva una pluralità di ordini “lontano dal centro”, dove si coglieva la spinta verso innovazioni istituzionali, ma senza pregiudiziali chiusure, e al

contrario ricercando relazioni con altri soggetti. Laddove il governo locale operava con più forza, esercitava una governabilità che attutiva i contrasti sociali, interagendo. Nel territorio si sviluppava così un vero e proprio arcipelago di

poteri e interessi organizzati.” Al di là del cambiamento politico, l’attenzione dello studioso può allora indirizzarsi su un “discorso lungo”, su realtà storicamente radicate nel territorio e operanti nelle relazioni interpersonali, non immobili all’interno e nel contesto regionale, ma anche nei rapporti con il centro. Nel “discorso lungo” egli potrà meglio vagliare alcuni dati significativi, qui in breve riassunti: la durata culturale, le forme sociali strutturanti (come la famiglia), la mentalità e i

comportamenti industriali, il radicamento di élites, la culla in 7 Si vedano le considerazioni di Paolo Perulli, La città delle reti. Forme di

governo nel postfordismo, Bollati Boringhieri Torino 2000.

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quanto insieme di relazioni e condizioni significative e strutturanti nel lavoro, nel commercio e nella produzione, vale a

dire quei requisiti nel possesso dei quali gli economisti parlano di “distretto” per definire la parte più vivace dell'economia del nostro paese. A ben vedere, si trattava di relazioni interpersonali e di territorio: i due ambiti specifici del governo lo-

cale, del governo della città. L'immagine della rete tornava ancora come insieme di centri decisionali e organizzativi, in

relazione agli interessi e ai bisogni, fuori da una logica rigidamente gerarchica e verticale. Ma la città-rete si sviluppava anche verso l'esterno, superando ogni tradizionale chiusura e cercando e coltivando sinergie: non fu un caso che anche in Italia si costituissero l'Associazione dei comuni d’Italia e l’Unione statistica delle città italiane, e si promuovessero regolari congressi dell'una e dell'altra, ma anche solo dei sindaci e dei segretari comunali dei Comuni-capoluogo, o delle municipalizzate, ad indicare campi di elaborazione tecnico-politica e di

intervento specifici. Da un punto di vista tecnico, si potrebbe ben dire che la città moderna si affermava con la sovrapposizione della città visibile ad una sotterranea ed invisibile, con le condotte di ac-

qua e le fognature. La città moderna quella parallela, sotterranea. Quasi uno specchio, ma invisibile. Torna volta, l’immagine della rete, anche

nasceva quando nasceva l’immagine rovesciata su qui calzante, ancora una in senso materiale: della

città moderna erano testimonianza le linee della tranvie, le condutture, le fognature, ma anche le loro interconnessioni in

nodi sui quali convergevano competenze tecniche e amministrative. 5. Le riforme che salgono dalla vita. Nel “programma” de “Il Comune

moderno”

diretto da Giulio Casalini dal 1911, ci si

riprometteva di “difendere quella larga e giusta autonomia del Comune che, senza farne un membro avulso dal gran corpo dello Stato, gli assicura libertà di movenze; lottare per la trasformazione dell’attuale tutela, che è insieme macchinosa, in-

gombrante e cieca; interpretare i bisogni dei grandi e, particolarmente, dei piccoli Comuni nel campo della legislazione; racdh

cogliere e illustrare i risultati degli esperimenti più significativi, non per una preconcetta apologia, ma per un'opera di revisione critica; mostrare i pericoli di una applicazione farraginosa di principi astratti; invitare a riflettere sulla necessità che le riforme salgano dalla vita e non la deformino e comprimano per un desiderio di plagio; offrire, in poche parole, ai lettori ciò che di notizie e di sana esperienza è sparso in cento relazioni e in cento riviste ignorate, nell'Italia e all'estero, dare una

palestra per le discussioni, i dubbi, i consigli di quanti si cimentano coll’opera quotidiana: ecco quanto vorremmo che facesse o potesse fare il “Comune Moderno”.ò Insomma era l'esaltazione della cultura riformista, delle “riforme che salgono dalla vita”! Quali erano dunque i caratteri distintivi di tale impianto riformistico? Innanzitutto il culto della persona, dell’uomo. Presentando nel dicembre 1918 la rivista “L'igiene e la vita”,

subito dopo la fine del conflitto mondiale, ancora Casalini scriveva: “Dopo il trionfo della morte, l’anelito indomabile verso la vita”, tanto più che “l’uomo moderno non ha ancora imparato a vivere”.° Era cioè una cultura che si occupava dei pro-

blemi essenziali e quotidiani, a cominciare da quello dell’alimentazione. Per l'italiano medio del tempo l'alimentazione era spesso povera e insufficiente, e in ogni caso costituiva la voce più importante nei consumi famigliari. Dopo il problema dell'alimentazione, quello più importante era quello della casa “perché in esso si compenetrano i problemi della salute e della moralità, che sono, in definitiva, l’anima della questione so-

ciale.” Del resto un indice delle condizioni igienico-sanitarie nelle quali la popolazione media italiana viveva era nell’elevato indice di mortalità per tubercolosi e malattie infettive. In testa risultavano le morti per enterite, poi per tubercolosi polmonare e disseminata, quindi per tifo.!° Nella cultura della * Il nostro programma, “Il Comune moderno”, a. I, n. 2, febbraio 1911,

p. 65. ° La Direzione, Presentazione, “Igiene e vita”, a. I, n.1, dicembre 1918, pil;

e Ricostruire, bisogna, a. II, n. 1, gennaio 1919, p- 1-2, dove si sosteneva che la ricostruzione dovesse riguardare non solo i beni materiali, ma anche l’uomo”.

"Nel triennio 1910-2 (in parentesi 1887-9), per milione di abitanti la cau-

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vita, dell’uomo (più che dei beni materiali), l'elemento sani-

tario” aveva parte cospicua, così come lo aveva la “volgarizzazione” dell'igiene e della medicina, perché fosse preparato al medico “quell’ambiente di fiducia e di consapevolezza in cui la sua opera, che deve essere ormai più orientata verso la

prevenzione che verso la cura, possa con maggiore facilità svolgersi”. In tale opera di educazione e di divulgazione sanitarioigienica, di iniziative pratiche e sperimentazioni, in un fervore diffuso si segnalavano clinici insigni, ma anche amministratori e politici: spesso erano gli uni e gli altri, non disgiungendo l’attività professionale di patologo e di igienista dall'impegno sociale.” Il campo di intervento riguardava l'individuo nella sua corporalità tanto che l'on. Giovanni Zibordi non tralasciava di elogiare il sapone!° e il professore Ernesto Bertarelli l’acqua (“acqua buona e acqua molta”)! o il “bagno d’aria”, e ci si occupava di dieta e di igiene sessuale, della moda del vestire!!, ma anche di abitudini e di divertimento come la danza o se di decesso risultarono: enterite: 2349 (3123); tubercolosi polmonare e disseminata: 1156 (1377); tifo: 866 (252); altre forme di tubercolosi: 451 (712);

morbillo: 655 (248); malaria: 595 (107); vaiolo: 534 (82); difterite: 525 (129); ipertosse: 347 (182); pellagra: 123 (30); sifilide: 51 (69). Di fatto, l’Italia aveva

in Europa il triste primato per la febbre tifoidea e per l'enterite. Per un commento, Prof. Francesco Abba, Statistica e medicina. Mortalità per tubercolosi e

per malattie infettive in genere, ivi, a. III, n. 3, marzo 1920, p. 73-4. Secondo il Bollettino dell'ufficio internazionale d’igiene di Parigi nell’epidemia di colera del 1910-1 l’Italia aveva registrato 9200 decessi, assai più che nell’epidemia del 1892-4 (3060) e addirittura del 1887 (8150), condividendo con la Rus-

sia e la Turchia la partecipazione all'Europa più arretrata e infetta. Da segnalare infine che la prima legislazione antitubercolare fu con il ddl dell'8 marzo 1919. ! Trai tanti, vogliamo citare il caso esemplare di Pio Foà (nato nel 1848),

studioso di anatomia patologica all’Università di Torino (dal 1884) nonché dei problemi igienici e sociali. Garibaldino, fece la campagna del 1866, e di-

venne poi attivissimo nella propaganda antitubercolare, per l'educazione igienica e sessuale dei giovani. Si occupò dei bagni popolari, delle colonie estive, della questione ospedaliera. Fondò la locale Università popolare. Fu consigliere comunale a Torino e senatore del Regno. !? Un Dio ignoto: il sapone, ivi, a. Il, n.3, marzo 1919, p.4-6. 13 E. Bertarelli, Elogio dell'acqua, ivi, a. II, n. 2, febbraio 1919, p. 8-9. 14 G. Zibordi, La moda e l'igiene, ivi, a. UL, n. 1, gennaio 1920 p. 3-5; Paolo Picca, La moda contro l'igiene, ivi, a. III, n. 11, novembre 1920, p. 331-2. Recensendo il libro di Stratz, La Beauté de la femme, Costanzo Einaudi trattava del-

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la ginnastica.! Si guardava con rinnovato scrupolo e impegno ai locali abitativi e alla disposizione delle stanze e delle case!?,

agli arredi e perfino alle piante ornamentali negli alloggi, al-

l'estetica della città!” all'edificio pubblico e scolastico in parti-

colare. Infine si seguiva l’uomo nell'ambiente di lavoro, fino a

discutere di malattie professionali, dell’organizzazione di fabbrica e dell'utilità o meno della pausa resa attuale dopo l’introduzione dell'orario continuato con le otto ore.!* Si invocava anche il deconcentramento insediativo delle città!”, in un l'igiene della bellezza femminile” censurando il busto, vera e propria “morsa di ferro”, i “piedini di fata”, “le gonne che spazzano tutto il luridume delle strade”, il “vitino di vespa” (ivi, Un libro sull'igiene della bellezza femminile, a. 1. , n. 1, dicembre 1918, p. 14-5; ma anche Il piede e la calzatura, ivi, a. II, n. 5,

maggio 1920, p. 139-41). !* Costanzo Einaudi, I nuovi balli e l'igiene della danza, ivi, a. II, n. 9, set-

tembre 1920, p. 276-7. ‘© c. e., I tre cardini della casa sana. Einaudi sosteneva che per una casa “sana”

occorressero

una buona

ventilazione,

un'adeguata

illuminazione,

un'ampiezza sufficiente alla circolazione dell’aria e del sole, ed una collocazione urbana sulle posizioni intermedie: sud-est/ nord-ovest (ivi, a. II, n. 2,

febbraio 1919).

Come modello estetico di palazzo pubblico si citava quello della posta a Trieste (Bellezza e igiene dei pubblici edifici, ivi, a. II, n.1, gennaio 1919). Sulla

“sporcizia di Stato”, ovvero sulle cattive condizioni igieniche del patrimonio immobiliare pubblico, scriveva l'on. Zibordi (Meditazioni vagabonde sulla sporcizia di Stato, a. II, n. 5, maggio 1919, p. 132-4; Peregrinando in cerca di pulizia: da Montecitorio ai treni, ivi, a. Il, n. 7, luglio 1919). Sull’“estetica della città”, vedi C. a. II, n. 10, ottobre 1919. Nella cura dell'immagine della città un ruolo

importante aveva l'illuminazione pubblica, a lungo dettata unicamente da motivi di pubblica sicurezza, ritenendosi

il buio incentivo e occasione per

l'attività criminale. !* Sull'affaticamento del lavoro muscolare si segnalavano gli studi di Angelo Mosso e di Zaccaria Treves. Dal punto di vista sanitario, la problematica della riduzione dell’affaticamento fisico-muscolare era finalizzata alla resistenza alla malattia e alla epidemia; dal punto di vista sociale atteneva alla lotta agli infortuni. In merito all'orario unico, con una sosta di mezz'ora, o spezzato, con un intervallo di due ore, si veda G. Casalini, Un problema di igiene sociale: orario continuativo od orario diviso nelle officine? (ivi, a.

II, n. 10, ottobre 1919, p. 289-91).

!” Ancora Zibordi, ad esempio, scriveva contro l’inurbamento “senza regola o disciplina” e perché fosse resa attraente la campagna, portandovi le case moderne, gli acquedotti, le strade selciate e “liberando il contadino

dalle fatiche bestiali”. Altrimenti egli paventava nelle città la crisi della pletora, l'eccessivo traffico di merci e di denaro “nel commercio interme-

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nuovo rapporto con la campagna.Tutto ciò implicava, ovviamente, una politica infrastrutturale, nei trasporti e nei servizi,

in altre parole una politica del territorio, che investiva anche il tema centrale della rendita fondiaria e della politica fiscale. Per certi versi, era un capovolgimento culturale, che portava a porre attenzione, un'attenzione nuova, sulla persona e sulle sue specificità (la donna, la madre, l’infante e il fanciullo, l’an-

ziano) e soprattutto sull'ambiente. Si può dire senza incertezza che nasceva così una cultura ambientale. Le problematiche igienico-sanitarie implicavano un’attenzione rinnovata sul problema annoso e grave della produzione e distribuzione di acqua potabile. Ancora prima della guerra mondiale, oltre la metà dei comuni italiani erano sprovvisti

di acqua potabile, ma il numero era sensibilmente più alto qualora si tenesse conto di quei comuni che pur avendo l’acqua potabile nella zona centrale, non riuscivano ad erogarla nelle periferie e nelle frazioni. “La parte fondamentale delle nuove leggi sanitarie riguarda appunto questo fenomeno: l’impianto di un buon servizio idrico nei piccoli Comuni”, osservava

Bertarelli, professore d’igiene all’Università di Parma,

aggiungendo che oltre ad essere lo strumento per debellare i focolai del tifo e del colera, esso avrebbe gettato “le basi per tutte le trasformazioni civili ed estetiche dei Comuni rurali”.?° Per la prima volta nel 1911 fu varata una legge -la 586- per favorire la produzione e distribuzione dell’acqua potabile, prevedendo (art. 6) l'obbligatorietà dell'esecuzione delle opere nonché la costituzione del consorzio, autorizzando il Prefetto

ad adottarei provvedimenti necessari in caso di rifiuto da parte del Comune.”

Da un lato, lo Stato si proponeva come

diario della Borsa” (Dalle campagne alle città e viceversa, a. II, n. 3, marzo 1919, p. 102-4). 2 L'acqua potabile nei piccoli Comuni, p. 127-32. 2! Fu approvato tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo alla Camera il ddl Agevolezze ai Comuni del regno per la provvista di acque potabili, per la esecuzione di opere d'igiene e per la costruzione e sistemazione di ospedali comunali e consorziati. Il Governo era partito dalla constatazione di “un numero spaventoso di Comuni” sprovvisti di acqua potabile, assaliti dal tifo e dal colera. L’opera di prevenzione era già dettata dalla legge sanitaria del 1888, ma fu abbandonata per mancanza di mezzi finanziari. Per raggiungere lo scopo la

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soggetto attivo per sopperire alla eventuale passività dell'ente locale, dall'altro proprio le carenze del codice sanitario del 1887 in tema di vigilanza igienica e assistenza sanitaria esponevano i Comuni sul primo fronte nella lotta alle malattie epidemiche, ponendo l'esigenza di una normativa e di una politica finanziaria più adeguata. Un esempio in proposito può essere considerato l'intervento alla Camera dell'on. A. Celli in merito all'epidemia del colera.” Analoga testimonianza dell’imput alto /basso e basso /alto si ebbe con la questione della casa, e in particolare della casa

popolare: una questione fattasi pressante con l’urbanesimo, la crescita dei servizi e l’industrializzazione, tanto che nell’età

giolittiana si registrarono ben tre interventi legislativi, ma, non meno, anche iniziative di varia natura da parte di numerosi Comuni ed infine di Società cooperative, che così inaugurano un fenomeno —quello della cooperazione edilizia- che avrebbe avuto largo sviluppo, fino ai nostri giorni. Anche in questo

caso, insieme all'aspetto sociale ed economico, emergeva quello igienico-sanitario. Nella relazione al ddl presentato dal Governo alla Camera il 28 aprile 1910 di modifica al Testo unico a favore delle abitazioni in genere e delle case popolari in particolare, Casalini sostenne che fornire alle classi operaie non più

Cassa depositi e prestiti fu autorizzata a concedere ai Comuni prestiti per una somma complessiva di 250 milioni, in 12 anni, di cui 15 milioni annui dal 1912 al 1913, 20 annui dal 1914 al 1919, e 25 dal 1920 al 1923. I mutui assunti

dai Comuni avrebbero dovuto essere estinti per ammortamento in 35-50 anni. Ai Comuni erano concessi vantaggi in relazione alla loro importanza: da 50 a 100 abitanti avrebbero pagato il 2% sulle somme mutuate, e il resto sarebbe stato a carico dello Stato; per tutti gli altri Comuni, lo Stato avrebbe pagato gli interessi rimanendo a carico dei Comuni le sole quote di ammortamento. Le costruzioni e i fabbricati per le condotte dell’acqua non sarebbero state soggette alla tassa fabbricati. Il Senato, poi, apportò una piccola modifica (26 maggio), cosicché, recepitala, la Camera approvò definitivamente il provvedimento (E. Bertarelli, L'acqua potabile nei piccoli Comuni, ivi, a. I, n. 3, marzo 1911, p.127-32; Legislazione comunale. La legge per l’acqua potabile, ivi, a. I, n.9, settembre 1911, p. 555-9). A favore dell'ipotesi consortile nell'Italia meridionale vedi Gaspare Nicotri, I consorzi comunali per l'acqua potabile e il Mezzogiorno d'Italia, ivi, a. I, n. 4, aprile 1911, p. 213-5.

2] problemi comunali alla Camera. La questione sanitaria, “Il Comune moderno”, a. II, n.3, marzo 1912, p. 148-55.

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solo un ricovero, bensì una casa degna per l'igiene, il decoro e moralità, cioè “seguire le classi lavoratrici su questo terreno,

non è da parte dello Stato segno di debolezza, ma visione chiara degli interessi generali, che consigliano l'elevazione materiale e morale del maggior numero dei cittadini”. Ribadiva l’esistenza di un problema delle aree, perché con l’urbanesimo estensioni enormi di terreno, di basso valore agricolo, aveva-

no acquistato prezzi fantastici, creando la fortuna di pochi monopolizzatori: “Nessun arricchimento è meno giustificato di questo perché è determinato non dal fatto proprio, ma da un elemento estraneo, dovuto alla società intera e, sovente, al

sacrificio della collettività che moltiplica vie, fognature, reti di illuminazione e di trasporti per mettere in valore terreni altrui”. Degna di considerazione è la ricostruzione che Casalini faceva della normativa in materia, del tutto carente a livello

parlamentare e governativo, ma anche da parte degli enti locali. A suo avviso, con la legge dell’8 luglio 1904 si erano autorizzati i Comuni a imporre una nuova tassa sulle aree fabbricabili dell’1% sul valore denunciato, aliquota poi elevata fino al massimo del 3%. La nuova aliquota era nata da un obiettivo sociale e poi fiscale: ma solo il secondo era stato raggiunto. Perché l'imposta sulle aree fabbricabili potesse servire allo stimolo alla fabbricazione (vendendo le aree libere), avreb-

be dovuto assorbire più dell'incremento annuo del valore delle aree (il che non era stato), tanto più che i valori dichiarati o

attributi ai terreni erano spesso inferiori alla realtà. Invece l’importo “finì di essere una compartecipazione non insopporta-

bile del Comune all'incremento di valore, ma sperequata e sovente ingiusta”. Sconfitti su questo terreno, i Comuni si erano

volti ad altra forma, ricorrendo anche in Italia alla politica fondiaria pratica dai Comuni tedeschi. I Comuni di Milano, Torino, Venezia, Roma, Bologna avevano conseguito così un

demanio comunale pagato a relativo buon prezzo, ma ricor23 La relazione di Casalini al ddl del 28 aprile 1910 è edita anche da “Il Comune moderno” (Il presente momento edilizio e la nuova legge sulle case popolari, p. 142-63). Casalini data dal 1903 la costituzione di un vero e proprio “movimento per la casa”.

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rendo al credito in quantità non insignificante. Tutto ciò non poteva non aggravare ulteriormente l'esposizione crescente del bilancio dell'ente locale, coincidendo con i grandi investimenti patrimoniali comunali di altro genere o con le municipalizzazioni e, aggiungiamo noi, con l'emergere in termini nuovi e

assai più rilevanti del problema dei vitalizi dei dipendenti. Casalini sosteneva che iComuni, pur creando la maggior parte del valore edilizio, di fatto ne godevano solo una parte minima, cosicché tale proporzione avrebbe dovuto essere rovesciata. In ogni caso al rincaro dell’area iComuni potevano ovviare con una politica propria delle aree o con una politica dei trasporti. Concludendo: a suo avviso si doveva incoraggiare la politica comunale delle aree modificando la legge sulle espropriazioni per pubblica utilità per l’esproprio dei terreni a buon mercato per le case popolari, e si doveva riesaminare la imposta sull’incremento del valore dei terreni, anche se questa imposta avrebbe giovato alle finanze locali, e solo in modo indiretto avrebbe inciso sulla soluzione del problema delle case popolari. Per quest’ultimo, il suo auspicio andava verso un deciso intervento creditizio pubblico per mettere a disposizione risorse sufficienti a buon mercato.” Non è ovviamente questa la sede per esaminare compiutamente la questione delle ‘Casalini giudicava interessante l’esperienza tedesca che partiva da una condizione simile a quella italiana: l'imposta tedesca gravava sull’incremento di valore del terreno (unverdienten Wertsteigerung von Grundstucken), e cioè sui terreni vuoti o costruiti, e sul trapasso di proprietà (e non anno per anno).

Casalini riproponeva su “Il Comune moderno” un testo del 1900 del dottor Pietro Caviglia, per una diecina d'anni consigliere comunale a Torino, sull'incremento del valore del suolo urbano e sull'ipotesi della tassazione del medesimo, e lo presentava come “il primo documento, in ordine di tempo,

che abbiano pubblicato i socialisti italiani sulle finanze comunali e rimane tuttora uno degli studi più importanti che siano stati pubblicati finora dalle forze popolari, affermatesi in Italia per il rinnovamento della vita locale”. Casalini proponeva anche la creazione di un grande istituto di credito, aperto ai bisogni dell'edilizia popolare che concedesse il denaro al prezzo di costo con un incremento leggero per le spese generali, e ne coglieva le premesse già nel progetto di legge sulla Banca della cooperazione e del lavoro. A suo dire lo Stato che assorbiva ogni anno una copiosa messe di risparmio popolare con un interesse poco elevato, “ha il dovere di convogliare una parte di questo vero fiume d’oro verso la casa delle classi più umili”.

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aree e dell'intervento edilizio, problema -com'è noto- di lungo periodo e dalle alterne vicende, ma il solo esempio citato sia sufficiente ad evidenziare la complessità della politica insediativa, la molteplicità dei soggetti e delle competenze in essa coinvolti, l'interdipendenza degli aspetti igienico-sanitari?, finanziari, sociali e politici, la rilevanza degli interessi in gioco, l'incidenza sulla società. Al centro di tutto ciò, non solo ma comunque terminale di così vari imput, era il Comune, con la popolazione e il territorio ad esso referenti. 6. Il caso toscano e fiorentino in particolare può essere assunto a indagine esemplare rispetto al nostro assunto iniziale. E' noto che l’immagine tradizionale di Firenze agli inizi del ‘900 è legata alla vicenda delle riviste letterarie, da “Il Marzocco” a “Il Regno”, “Il Leonardo”, “Hermes”, “La Voce”, e quasi riassunta sotto il binomio Papini-Prezzolini, mentre, come molto

opportunamente rileva Giorgio Spini, “raramente si ricorda il lavoro che nelle cliniche, negli ospedali, nei laboratori, nei gabinetti scientifici, medici, chimici, naturalisti, spesso di leva-

tura europea continuarono silenziosamente e proficuamente a svolgere”. In effetti, l'universo scientifico fiorentino vantava

grande tradizione, nella chimica (Ugo Schiff), nella geologia (Antonio Stoppani, Carlo De Stefani), nella geografia (per tutti Giovanni Marinelli). Nell'ottobre 1872 non a caso si costituì

a Firenze l’Istituto topografico militare (nel 1882 si chiamerà Istituto geografico militare). Il “culto del positivo e dell’indagine severa” si riversò anche nella vita amministrativa e nella politica del territorio. Agli inizi del secolo l'ingegnere Antonio Raddi era protagonista a livello nazionale nel dibattito sulla

25 Basti in proposito considerare che anche l’esperienza europea ritenuta a lungo la più innovativa in materia abitativa sia pure limitatamente “ai bisogni della popolazione operaia”, e cioè quella inglese regolata dalla legge del 18 agosto 1890 (Housing of the Working classes act), aveva prevalenti finaliwi tà di risanamento. mente, Spini 26G. Spini-A. Casali, Firenze, Laterza Bari 1986. Complessiva caratterizza la vicenda storica di Firenze sul piano della cultura, fino a pre-

sentarne l'immagine, ancora in età contemporanea, di centro vivissimo, a livello internazionale.

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canalizzazione e potabilizzazione dell’acqua (galleria filtrante per la potabilizzazione dell’acqua dell'Arno). E Ugo Giusti applicava alla dimensione locale quella indagine statistica che fin dagli anni ‘80 aveva ispirato le indagini ministeriali, ampliando l'originario ambito demografico ed economico, per interessare anche quello politico-elettorale, fino a farne uno strumento di direzione e progettazione del sistema urbano. Non può sorprendere che tale esperienza assunse un rilievo nazionale, e dette l’avvio all’ Annuario

statistico delle città ita-

liane”. Ma fu nella medicina e nella fisiologia che si ottennero i risultati più rilevanti, con alcune proiezioni nell'impegno sociale e politico, nella tradizione che risaliva a Maurizio Schiff

e a Alessandro Herzen. Alla fine dell’800 operavano il chirurgo Giuseppe Corradi (1830-1907), i fisiologi Luigi Lucani (18401919) e Giulio Fano (1856-1930), il clinico Cesare Federici; il

farmacologo Francesco Coppola (1862-90). Guido Banti (18521925), assistente di Giorgio Pellizzari, nel 1883 era primario

all'ospedale di Santa Maria Nuova, nel 1887 incaricato di Patologia generale, e nel 1890 di Anatomia patologica. In un discorso -L'evoluzione nella materia e nella vita- letto il 4 novembre

del 1902 all'Istituto di studi superiori ribadiva la sua fede materialistica ed evoluzionistica, e assunse grande autorità scien-

tifica con il volume sulla Patologia del polmone e con il trattato di Anatomia patologica, nonché con gli studi sulle afasie, ? Per comprendere la rilevanza dell'“Annuario” occorre considerare che nelle statistiche pubbliche, e in particolare della Direzione generale della Statistica e del Lavoro, l'attenzione agli enti locali era scarsa (a parte gli aspetti strettamente demografici). Il rilancio del settore fu messo in atto da Montemartini, sotto il cui impulso uscì l’Annuario statistico italiano peril 1911. Ma proprio con riferimento a questo, Casalini lamentò che, nonostante i pro-

gressi, “disgraziatamente la parte riservata alle Finanze comunali e provinciali è misuratamente scheletrica. Non si trovano che le cifre sommarie dei bilanci comunali di previsione, divise per compartimenti e per grandi categorie di entrate e di spese”. E commentò: “La colpa non è della Direzione presente, è dell'abbandono in cui fu lasciata questa parte della statistica finanziaria. Onde formuliamo l'augurio che in breve tempo, la lacuna sia colmata e sia offerto al cittadino ed allo studioso, che si occupano con serietà dei problemi locali, il modo di avere sott'occhio gli elementi di fatto essenziali” (Una grave lacuna della statistica italiana, “Il Comune moderno”, a. II, n. 4, aprile

1912, p. 198). Su Ugo Giusti, vedi ora F. Casini, Una statistica per la città. L'opera di Ugo Giusti (1873-1953), Ediz. Polistampa, Firenze, 2002.

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sull’ittero emolitico, sull’anemia cronica, sulla leucemia, sul

germe patogeno della polmonite, sulla meningite, sulla cirrosi epatica, palesando una cultura davvero enciclopedica. Giulio Chiarugi (1859-1944) nel 1890 successe a Alessandro Tafani sulla cattedra di Anatomia umana dell'Istituto di studi supe-

riori, fu il fondatore del “Monitore zoologico italiano” e l’autore nel 1894 di Contribuzioni allo studio dello sviluppo dei nervi encefalici nei mammiferi in confronto con altri vertebrati. Fondò nel 1902 l'Archivio italiano di anatomia e embriologia”, e di-

ventato professore di Anatomia pittorica all'Accademia delle belle arti, pubblicò le Istituzioni di anatomia dell’uomo e il Trattato di embriologia. Prima preside della facoltà di Medicina e Chirurgia, sarà anche Rettore dell’Università di Firenze, carica da

cui si dimise nel 1925 per divergenze politiche con il fascismo. Nel 1892 furono a Firenze anche Pietro Grocco (1856-1916) e

Eugenio Tanzi (1856-1934), psichiatra, sovrintendente al manicomio di San Salvi, già redattore della “Rivista di filosofia scientifica” di Enrico Morselli, e fondatore a Firenze nel 1906

della “Rivista di patologia nervosa e mentale”. Ebbene, agli inizi del secolo una vasta schiera di scienziati e medici di grande autorità scientifica diventarono anche operatori sociali operando a stretto contatto con le istituzioni pubbliche e gli enti locali o addirittura facendosi amministratori 0 entrando in Parlamento. Particolarmente significativa al riguardo fu la figura di Achille Sclavo, oltre che insigne scienziato, anche un vero e proprio apostolo per il rinnovamento della politica per l'igiene con il potenziamento capillare degli uffici

pubblici a presidio del territorio. Trasferitosi a Siena nel 1898 come incaricato della cattedra di Igiene all’Università, si dedicò alla ricerca microbiologica, scoprì il siero contro il carbonchio

ematico, ben presto richiesto anche all’estero. Fondò nel 1904 l’Istituto siero e vaccino produttore. Poi fu all'Università di Firenze, dove fu ordinario di Igiene. Indefesso quanto autorevole sostenitore dell'educazione igienica-ambientale, innanzitutto nelle scuole e specialmente nelle normali (“la scuola all'aperto”, in spazi adeguati, con impianti di doccia), giun-

se a prefigurare l'obbligo di esame d'Igiene perfino per gli studenti di Ingegneria e delle Facoltà Giuridiche. Anche per suo

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impulso Firenze diventò in materia un centro di educazione popolare, di elaborazione e sperimenta-zione di notevole rilievo. Qui egli si fece promotore di un Istituto di propaganda

igienica, in particolare per combattere la tubercolosi, dotato di un laboratorio, locali di lavoro, “magazzino con letti e per le apparecchiature”,

e che comunque erogasse prestazioni gra-

tuite a favore dei poveri.” Fatto interessante è che si proponeva di interagire con “privati ed enti pubblici su qualunque questione igienica”. In quanto all'opera di educazione e di volgarizzazione delle norme igieniche, egli pensava a pagine sui giornali e alla stampa di opuscolame da finanziare con la pubblicità. E ancora Sclavo sostenne l'iniziativa sperimentale in dieci scuole toscane di propaganda igienica, dopo l’apposito accordo tra Ministero della Istruzione pubblica e quello dell’Interno.?? L'autorevolezza di Sclavo era riconosciuta universalmente, tanto che il Governo lo inviò nel 1911 in Puglie, per

esaminare le condizioni sanitarie e sociali di quella regione a fronte delle epidemie di tifo e colera ;e, non meno, nel dopo-

guerra fu relatore sul tema presso la Sezione sociale della speciale Commissione. Ugualmente impegnato, ma con un livello maggiore di politicizzazione, fu Chiarugi, laico e democratico. Alla testa di un'alleanza tra socialisti repubblicani e radicali, cioè di un blocco popolare, venne eletto nel 1900 nel collegio di Siena e Arezzo, sconfiggendo un vecchio notabile, il generale Stanislao Mocenni, deputato dal 1874. Fu tra i collabo-

°* Un Istituto di propaganda igienica a Firenze, “Igiene e Vita”, a. II, n. 3, marzo 1919, p. 10-1.

Cultura igienica e scuola, ivi, a. II, n. 10, ottobre 1919, piz9l

* Dopo l'epidemia colerica del 1910 e i fatti di Verbicaro del 1911 il Governo inviò in Puglia — recitavano le cronache — “un uomo di altissimo intelletto, il prof. Achille Sclavo, dell’Università di Siena, perché lavorasse, lottas-

se per combattere il morbo, impedire la diffusione e rialzare il tono morale della popolazione”. Sclavo tenne una serie di lezioni agli addetti, ma non solo. Tentò un primo esperimento di cattedra popolare di igiene, e propose “un organo di vigilanza e di azione per quelli che intendono la necessità di formare una coscienza igienica tra le masse e di coadiuvare l'autorità per l'applicazione delle leggi”, e cioè un Comitato provinciale, con la diramazio-

ne in ogni Comune (gi. ci., Una feconda iniziativa per l'igiene del popolo, “Il Comune moderno”, a. I., n. 9, settembre 1911, p. 527-30).

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ratori più assidui dell’Università popolare, i cui corsi inaugurò nel 1901 con una-prolusione sulla Scienza nell'educazione del popolo: Diventò sindaco di Firenze nel 1910, in una giunta popolare. Socialista militante fu il veterinario Carlo Pucci. Fu anche direttore de “La Difesa”, organo dei socialisti fiorentini. Fu interprete di un socialismo riformista che poneva la

centralità della “vita municipale” (La Municipalizzazione del pane) in un'Italia rinnovata, più moderna e più vicina ai bisogni popolari; lo sviluppo delle legislazione sociale e la tutela della salute e dell'igiene; la valoriz-zazione, economica e so-

ciale, del lavoro (estendendo il pro-bivirato e la legislazione sociale nelle campagne, e riformando il patto colonico). Fu amministratore locale a Firenze dal 1904 e deputato per il collegio di Campi Bisenzio nel 1913. La sua candidatura rivestì non solo un carattere politico, ma anche categoriale, cioè na-

zionale per conto della “classe dei veterinari”. Fece parte della commissione comunale sulla convenienza di impianti municipali per la panificazione. Nella attività di amministratore locale, specialmente in campo igienico-sanitario e dell’annona, come pure sulla questione dell’acqua potabile a Firenze e per la costruzione delle case popolari, portò sempre un’accentuata concretezza, assai apprezzata dai compagni e temuta dagli avversari politici, come testimoniarono le cronache de “La Nazione” o de “La Difesa” in merito ad alcuni accesi dibattiti in consiglio comunale. Sostenitore di un presidio sanitario sul territorio con la condotta medica e veterinaria, avanzò la lun-

gimirante prospettiva di un'assistenza sanitaria decentrata, a domicilio, intesa non come alternativa ma integrativa di quel-

la - pur ritenuta fondamentale — fornita dall'ospedale. Il maggiore impegno politico-amministrativo di Pucci restò comunque nella promozione di lavori pubblici e di opere infrastrutturali, per migliorare le condizioni di vita delle periferie togliendole dall’isolamento e risanandole, favorendo lo sviluppo economico e commerciale, creando occupazione (sistemazione del Bisenzio; linee navigabili di seconda classe, tronchi ferroviari e strade). Alla Camera fu protagonista di numerosi interventi sull'agricoltura e in particolare sul patrimonio zootecnico e per la classe dei veterinari, tematiche sulle quali 49

fu anche autore di studi assai apprezzati. L'illustre clinico Banti, con il collega Alessandro Lustig, entrò a far parte della giunta popolare Sangiorgi (1907-09). Tale amministrazione, la prima popolare, fu sostenuta da numerosi docenti universita-

ri, ma anche da ingegneri, avvocati e professionisti, molti dei quali uniti dall'appartenenza alla massoneria. Non a caso evidenziò una netta fisionomia radicale e demosociale: oltre al sindaco Francesco Sangiorgi* , i demosociali erano presenti con il ragioniere Aditeo Tarchiani (Finanze), Luciano Conti (Lavori pubblici); Banti (Igiene); Chiarugi (Beneficenza); Lustig (Polizia municipale), mentre ai socialisti andarono gli assessorati

alla Pubblica Istruzione (insegnante Francesco Ferrari) e ai Beni patri-moniali (A. Alessandrini), e ai repubblicani al Personale (Masini). Nell'agosto 1909, dopo una fase di incertezze, Sangiorgi passò la carica di sindaco a Chiarugi, che presiedette una giunta nella quale Gaetano Pieraccini sostituì Banti all’Assessorato all’Igiene, Arturo Bianchi andò alla Pubblica Istruzione e Carlo Corsi agli Affari Legali. Anche Lustig (che poi diverrà fascista) lasciò l’Amministrazione, non prima di avere " Carlo Pucci. Un veterinario socialista, Lacaita Manduria 1997.

® Nelle elezioni amministrative del giugno 1907, i “popolari” presentarono una lista con 8 socialisti (Agostino De Antonis, chimico, Aldo Semplicioni,

avvocato, Ettore Fattori, tipografo, Adolfo Capaccioli, commerciante, Augusto Fanfani, impiegato, Arturo Ciapini, scultore, Guido Berti-Calura, meccanico,

Pompeo Ciotti, pubblicista), 4 repubblicani (Ettore Consigli, ingegnere, Ugo Ciapini, scultore, Otello Masini, ferroviere, Ernesto Riccioli, medico)

e 4

demosociali (Decio Bocci, ingegnere, Giulio Chiarugi, medico, Virgilio Pisa, industriale, Francesco Sangiorgi, avvocato). Nella lista successiva, del luglio 1907, per i demo-sociali furono inseriti

i docenti universitari Guido Banti,

Giuseppe Mya, Alessandro Lustig, Eugenio Tanzi, Arturo Bianchi, e gli ingegneri Luciano Conti e Felice Biglia. La presenza in città di solidi ambienti laici e massonici fu testimoniata dal successo della manifestazione anticlericale per l'anniversario della morte di Giordano Bruno nel febbraio 1910. Per una esaustiva ricostruzione di questo passaggio della vita politica fiorentina vedi Lorenzo Piccioli, I “popolari” a Palazzo Vecchio. Amministrazione, politica e lotte sociali a Firenze dal 1907 al 1910, Olschki Firenze 1989.

* L'avvocato Sangiorgi era nato a Poggibonsi nel 1860, da famiglia agiata (il padre era medico e possidente). Fu consigliere comunale a Poggibonsi dal 1899 al 1895; poi, dal luglio 1899, consigliere comunale a Castelbolognese (Ravennate), dove fu sindaco dal 1901 al 1904, mentre dal 1902 al 1906 fu consigliere provinciale di Ravenna. Morì a Firenze nel 1922.

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contribuito con Gaetano Pieraccini alla promozione a Firenze

nell'ottobre 1909 del Congresso nazionale per la lotta sociale contro la tubercolosi. Non meno nota è la figura di Gaetano Pieraccini. Laureatosi nel 1888 a Firenze presso l’Istituto superiore di Scienze sociali, si perfezionò all’estero con soggiorni a Vienna, a Parigi,

in Belgio, maturando, in analogia con altri illustri clinici fiorentini, una cultura di effettiva levatura internazionale. Ben

presto si segnalò tra i più convinti assertori della medicina sociale e della patologia del lavoro, prima come assistente presso la clinica medica di Cesare Federici, poi nel 1901 come libe-

ro docente in patologia speciale presso l’Istituto di studi superiori, e nel 1902 come primario all’Arcispedale di Santa Maria

Nuova, ed infine nel 1908 come libero docente in Patologia del lavoro. Già autore nel 1894 del saggio La difesa della Società dalle malattie trasmissibili, e poi collaboratore della rivista “Il Ramazzini”, Pieraccini acquisì notorietà con la pubblicazione nel 1906 del trattato Patologia del lavoro e terapia sociale. Si batté perché la legge sulla protezione degli operai dagli infortuni fosse integrata dalla tutela contro le malattie professionali. Di fatto, alla codificazione della sicurezza del lavoro e della tute-

la della integrità della vita, Pieraccini dedicò tutto il suo impegno politico e professionale. In questo ambito rientravano i voluminosi studi sulla trasmissione ereditaria, concretizzatisi

nella imponente opera sulla Stirpe dei Medici di Cafaggiolo (1925), e poi nelle ricerche sui rapporti parentali tra professori universitari, letterati e artisti dal secolo XII al secolo XIX, poi con-

fluite nel saggio Eredità dell'ingegno e dei particolari talenti; sulla patologia del lavoro, per la quale deve essere ricordato, insieme al già citato trattato del 1906, almeno il volume Anatomia e

fisiologia dell'uomo che lavora (1939). E ancora in questo contesto si occupò, in veste di precursore, di difesa dell'ambiente, come evidenziavano i capitoli dedicati ai “grandi veleni industriali” e ai “piccoli veleni industriali” nell'importante volume Le assicurazioni sociali. Le malattie, le invalidità e la vecchiaia, pubblicati nel 1911 nel Trattato di medicina sociale, parte I, diretto da Angelo Celli. Militante nel Partito socialista fin dal 1892, fu consigliere provinciale dal 1902 al 1905, e dal 1907 al 1920;



fu consigliere comunale a più riprese, ed infine deputato dal 1909 al 1913, e dal 1921 al 1924. Sarà il sindaco della Liberazione. Certo, non si comprenderebbe il ruolo della intellettualità

fiorentina legata alle professioni (medici, ingegneri, avvocati), e dunque non solo umanistico-letteraria, cioè di un ceto medio colto, abbastanza autonomo o addirittura alternativo rispetto al patriziato, senza considerare allo stesso tempo la presenza di “una media e piccola borghesia più varia e colorita che in altre città italiane”, a cui si aggiungevano -in un rappor-

to complesso con la prima- ampi strati della popolazione che vivevano di varie forme di lavoro indipendente, con un grado diverso di autonomia (artigiani, ma anche ambulanti e lavoratori a domicilio).* E con quest’ultima anche la crescita di una Firenze operaia, specialmente nelle periferie,

e popolare, che

costituiva il terreno di incubazione di un solido movimento mutualistico e cooperativo, e poneva le premesse per una for-

te affermazione politica ed elettorale delle liste socialiste nel 1913 e ‘19, innestando di fatto la crisi del tradizionale potere

del patriziato.® In generale, se l'immagine della moderna città borghese era databile già dopo lo sventramento e demolizione del vecchio mercato centrale e del ghetto, a cavallo degli

anni ‘80 e ‘90°, quando se ne delineava la funzione di centro * Spini, Firenze... cit. p. 196 s. Nel sottolineare l'importanza degli impiegati Spini tiene a rimarcarne l'assoluta incomunicabilità con gli operai, soprattutto per le attese sociali delle rispettive mogli. Inoltre mette in evidenza la “Firenze della miseria”, specialmente nei quartieri sovraffollati di Santo

Spirito e Santa Croce, in case malsane e piccole viuzze. E in relazione a ciò parla anche di una Firenze “rabbiosa” (ivi, p. 199 s.). In effetti a Firenze nel primo Novecento si registrava un'alta percentuale di morti per tubercolosi (34,1 per 10000 abitanti, con Santa Croce che arrivava al 48,1), di tracoma per i bambini nelle elementari, di mortalità infantile. Sull'’ammodernamento di

Firenze in età giolittiana, sia nei servizi sia nello sviluppo industriale, pone invece l'accento l’altro autore del volume, Antonio Casali (ivi, pii25).

° Per alcuni dati di fondo vedi M. Degl'Innocenti, Documenti e immagini sul socialismo fiorentino, “Città e Regione”, n. 6, dicembre 1982, p. 231-41. Per un quadro d'insieme dell'universo socialista, è ancora utile Il Socialismo in

Firenze e Provincia, 1871-1961, a cura di S. Caretti e M. Degl'Innocenti, Nistri Lischi Pisa 1987.

% S. Fei, Nascita e sviluppo di Firenze città borghese, Arti Grafiche Firenze 1971.

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direzionale delle ferrovie, di attività assicurative e finanziarie

di importanza nazionale, e burocratico, fu nell'età giolittiana che si registrarono i fenomeni di mobilità maggiore. E ciò anche sul piano demografico, tanto che la popolazione passò tra il 1901 e il 1911 da 205589 a 232860 abitanti. Tutto ciò accentuò il problema della casa e dei servizi, dei trasporti, dell'igiene. Insieme ai bisogni nuovi, quelli vecchi, e rimasti insoluti, ap-

parirono ancor più onerosi, a cominciare dalla permanenza di vaste aree di indigenza, dalle pessime condizioni igienico-sanitarie e di vera e propria miseria nei quartieri d’Oltrarno e di Santa Croce, dove si registravano alti indici di mortalità infantile, di tubercolosi e di tracoma tra i bambini. Non c'era da

stupirsi, pertanto, se tra gli atti più significativi della Giunta popolare fosse proprio l'intervento sul mercato edilizio e sulla casa popolare. Non è qui il caso di ripercorrerne tutte le fasi. Basti ricordarne le modalità, che evidenziavano un tipo di intervento amministrativo e politico assai diverso rispetto a quello tradizionale paternalistico o filantropico.”” Per prima cosa, infatti, Amministrazione comunale avviò un'analisi del mer-

cato della casa, individuandovi caratteri speciali e diversi da altri prodotti: un mercato territorialmente “ristretto e dipendente dalle condizioni locali”, la mancanza di “omogeneità”, e quindi di “unità di misura”; determinato non solo dalla domanda attuale, ma anche dalla attesa della domanda futura; l'assenza di rilievi statistici attendibili che non fosse “la voce pubblica”; la determinazione oltre che dal numero anche dalla

% Nel 1885 era sorto il Comitato per le case agli indigenti che intendeva favorire l'espulsione delle classi inferiori dal centro storico, destinato alla funzione di centro direzionale, decentrando il flusso migratorio in luoghi

diversi dalla città e decongestionando i quartieri operai e popolari (una dimora il più lontano dal centro storico, con case dormitorio a prezzi modici stabiliti: “a 1,6 km. dal centro”), prospettando altresì il vantaggio di abitare

fuori dalla cinta daziaria in base a facilitazioni fiscali. Accanto alle istituzioni filantropiche, esisteva un forte movimento associativo e cooperativo, incen-

tivato dalla legge Luzzatti del 1903: a Firenze nel 1907 esistevano anche 25 società cooperative edilizie (molte tra impiegati: postelegrafonici, commessi e impiegati di commercio, ferrovieri, maestri, etc.). Per un esaustivo quadro delle iniziative dell'amministrazione popolare in campo edilizio vedi Lorenzo Piccioli, I “popolari” a Palazzo Vecchio... cit., p.52-134.

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“qualità” del movimento della popolazione.* Furono raccolti 5266 questionari, a cui se ne aggiunsero altri 2499 elaborati dall'Ufficio di statistica del Comune di Firenze: in totale 6976 schede utili, per circa 40000 individui censiti. Ed accettando il

criterio del sovraffollamento sulla base dell'occupazione in numero superiore al doppio di una singola stanza risultava che in tale casistica cadevano il 17% delle abitazioni, e il 26%

degli abitanti.

E mentre l'affitto medio annuo per abitazione

era di lire 212,38 (per stanza lire 55,90, per abitante lire 38,58,

per famiglia lire 154,17) risultava particolarmente carente la condizione igienico-sanitaria: il 38% delle famiglie degli intervistati condividevano la latrina con un’altra o più. Dall’indagine sui flussi della popolazione e sulla dinamica della domanda, che segnalava pertanto una netta carenza di appartamenti

di 2 0 3 stanze e costruiti con criteri economici, partì l’intervento amministrativo. Un secondo aspetto rilevante di esso fu nella compartecipazione, innanzitutto dei cittadini, e in particolare degli operai, ai quali furono distribuiti i questionari, e poi delle associazioni e delle organizzazioni degli interessi, dalla Camera del lavoro, al segretario della quale, Sebastiano Del Buono, venne assegnata la presidenza dell'inchiesta stessa, alle società di mutuo soccorso e di affratellamento, alla Fra-

tellanza artigiana, alle cooperative, all'Associazione degli impiegati civili, e financo a molti industriali. Dopo un lungo * L'inchiesta raggruppava sotto la voce “classi operaie”, talvolta confuse

con “popolari”, anche ferrovieri e tranvieri, persone di servizio e di fatica, i senza professione, cosicché si calcolava che per il triennio 1905-7 esse rappresentassero circa il 70% delle famiglie immigrate in città. Inchieste sul problema della casa furono promosse nel primo decennio del ‘900 anche dai Comuni di Milano, Venezia, Ferrara, Verona, Faenza, Ravenna

Vicenza, Udine,

Treviso (P. Somma, Le inchieste municipali sulle abitazioni nel primo decennio del ‘900, in “Storia urbana”, a. 1982 (VI), n. 2). * In un manifesto alla cittadinanza del 13 settembre 1907, il sindaco

Sangiorgi fece appello al “concorso spontaneo dei cittadini” e soprattutto all’“aiuto concorde delle Associazioni che, per il loro contatto continuo colle

classi maggiormente interessate, possono dare utile contributo di indagini e

di consigli” (Piccioli, I “popolari”...cit., p. 61). Sul ruolo propositivo e aggregante della Camera del lavoro, e sui suoi rapporti con l'ente locale, vedi il

convegno indetto in Palazzo Vecchio il 12 maggio 1912 sul caro-viveri tra i rappresentanti dei Comuni, delle Opere pie, organizzazioni sindacali e coo-

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e tormentato iter finalmente nel marzo 1909 ci fu la nuova e definitiva proposta della Giunta per un “Istituto per le case popolari in Firenze costituito ad iniziativa del Comune”, che venne riconosciuto il 16 agosto 1909. L'Istituto edificò a Rifredi, Campo di Marte, in Via del Bronzino, in Via Erbosa, in Via Circondaria, a San Jacopino.

L'esperienza delle giunte popolari Sangiorgi e Chiarugi fu abbastanza breve, e condivise la fortuna delle analoghe inizia-

tive a livello nazionale. Nel 1909-10 entrarono in crisi, per dissensi interni, per il ricompattamento degli avversari, per difficoltà finanziarie che rendevano più ardua l'attuazione di un progetto riformatore. A Firenze restarono i frutti di un'azione amministrativa fortemente caratterizzata sui temi cari alla intellettualità popolare, laica, democratica e positiva, e all’universo sindacale e associativo. Innanzitutto un impegno conoscitivo sui bisogni della città e della sua popolazione, testimoniato non solo dall'Indagine sulla casa e sui flussi demografici, ma anche dalle inchieste sulle condizioni di lavoro delle donne e dei fanciulli promosse da Banti, che non poco contribuirono alla riorganizzazione dell'Istituto di igiene del Comune, nonché all'abolizione del lavoro notturno dei fornai. In secondo luogo, il risanamento igienico e la riorganizzazione dei servizi sanitari furono posti in primo piano, ad elemento caratterizzante del programma amministrativo: a parte l'ambizioso e perative della provincia di Firenze (Problemi di attualità. Il Convegno di Fi-

renze in difesa dei consumatori, “Il Comune moderno”, a. II, n. 4, aprile 1912, p. 193-8). ‘ A seguito dell’Inchiesta, la giunta Sangiorgi varò di seguito tre progetti per la costruzione e la gestione di case popolari, dopo che la Giunta provinciale amministrativa aveva bocciato il progetto iniziale di un ente autonomo sul modello dell'esperienza milanese. Il nuovo progetto, “Case popolari municipali. Proposte per la costruzione di case popolari municipali con 3000 stanze di abitazione con una spesa di 3 milioni di lire”, si disse finalizzato a “ricondurre l’affollamento attuale ad un limite normale di 2 persone per stanza”, e cioè a “spostare” circa 6000 persone mediante la sollecita costruzione di circa 3000 vani. La Commissione reale giudicò tuttavia non del tutto affidabile l'inchiesta di partenza, e il conseguente impegno del Comune sproporzionato. Infine anche imoderati assunsero polemicamente l'iniziativa per la costituzione dell'Istituto autonomo per le case popolari (Piccioli, I “popolaHit,

pe4Z4)i

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controverso progetto della costruzione immediata di 3000 vani a favore dei ceti operai e popolari, e i propositi di risanamento dei quartieri malsani d’Oltrarno, non può trascurarsi con l’au-

mento di spesa per assistenza e beneficenza anche il tentativo di rendere più pulita la città con la costruzione di un nuovo impianto per il servizio di nettezza urbana. In terzo luogo, con ciò si entrava direttamente in una nuova progettualità urbana, che dal risanamento passava alla programmazione dell'uso del territorio: l'esempio più significativo in materia potrebbe essere considerato il progetto del nuovo ospedale a Careggi (su iniziativa del consigliere Tanzi), ma ugualmente la Giunta popolare si adoperò, anche se con scarso successo, per il riscatto dei due ponti di ferro sull'Arno, dei quali era concessionaria la Società Anonima dei ponti di ferro in Firenze (risaliva al 1835), fino a caldeggiare in alternativa la costruzione di un nuovo ponte a valle del Ponte alla Carraia. In quarto luogo, fu il tentativo di una politica culturale, che andasse dalla salvaguardia/valorizzazione del patrimonio storico-artistico con

l'istituzione dell'Ufficio di Belle Arti e Antichità del Comune di Firenze, presieduto dal Sindaco, agli interventi a favore del-

l’Università popolare, fino alla costruzione di nuovi edifici scolastici e alla introduzione della refezione scolastica. Infine, re-

stava l'eredità di una prassi amministrativa non estranea alla società, ma che si rapportava costantemente

con essa e ne so-

steneva le organizzazioni più significative, come testimoniava ancora il sussidio erogato alla Camera del lavoro o all’Università popolare. Una prassi di coinvolgimento e di partecipazio-

ne democratica, assai diversa da quella di tipo paternalistico (con concessioni ai privati di lungo periodo) delle amministrazioni rette dal patriziato. Non sarebbe difficile riscontrare in ciò il precedente di un'ambizione storicamente radicata della “sinistra di governo” nella nostra regione.

7. Conclusioni. Si può pertanto affermare che nei processi di mobilità sociale economica e politica tra e ‘800 e ‘900, accanto ad un riformismo dall'alto, svolse un ruolo essenziale anche una spinta dal basso, dalla società, nel governo del territorio e

delle relazioni interpersonali. Fu un protagonismo che ebbe il 56

punto di forza nell'ampia base sociale, nella partecipazione democratica, e non meno nel coinvolgimento dei saperi tecnici e delle competenze, e nello sforzo di un'educazione di massa, senza preclusioni, ma interagente verso l'esterno e con il centro, in una rete di relazioni diffuse. Un momento alto della

storia politica e sociale dell’Italia unita.

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ADA GIGLI MARCHETTI

EDITORIA, STAMPA PERIODICA E DIVULGAZIONE SCIENTIFICA TRA OTTO E NOVECENTO

La divulgazione scientifica Qualunque storia della cultura italiana si voglia prendere in considerazione, anche la più prestigiosa! , non si può fare a meno di notare il persistere di una curiosa zona d'ombra, o meglio il perdurare di una grave mancanza, forse eredità tardiva del pensiero crociano e del neoidealismo gentiliano: sorta di cenerentola della cultura, è infatti pressocché assente — salvo qualche rapido accenno qua e là — la scienza. Eppure, quanto la costruzione di un'Italia moderna e progredita debba alla cultura scientifica e alla sua divulgazione (molto di più di quanto non debba alla cultura umanistica) è cosa che non si può negare. Se scarsa è stata la considerazione degli studiosi per la cultura scientifica, non meno

scarsa è stata l’attenzione prestata

per l'editoria scientifica ovvero per quell’editoria il cui prodotto — il libro o la rivista — tanta parte ha avuto nella diffusione e nella divulgazione del pensiero scientifico. Trascuratezza

assai grave sol che si pensi che sia nella circolazione delle idee in Italia, sia nella partecipazione del paese al più largo dibattito internazionale, il libro o la rivista scientifica sono elementi

fondamentali?. AI di là della scarsa attenzione che gli studiosi hanno prestato alla cultura e all'editoria scientifica (va peraltro precisato ! Tra le numerose opere che si sono cimentate intorno alla storia della cultura e che si sono occupate in particolare del periodo compreso tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del Novecento basti citare, a mo’ di esempio, itesti di Eugenio Garin, La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Bari 1862, di Alberto Asor

Rosa, La cultura, in Storia d'Italia dall'unità a oggi, Torino 1975 e di Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Torino 2001.

2Gianfranco Tortorelli, Editoria e sviluppo scientifico in Italia: una questione aperta, in “Ricerche storiche”, maggio-agosto 1999.

29%

che la storiografia contemporanea dimostra decisamente una tendenza di segno opposto), non di poco conto è stata sin dal

XVIII secolo la produzione editoriale di questo settore ancor prima che in termini quantitativi, in termini qualitativi. Come

ben documenta Paola Govoni nel suo recentissimo lavoro, Un

pubblico per la scienza. La divulgazione scientifica nell'Italia in formazione? ,il difficile rapporto che gli italiani hanno avuto con la scienza contemporanea, dovuto ad una molteplicità di fattori quali l’arretratezza della scienza e della tecnologia italiana e soprattutto la ristrettezza del pubblico di lettori (è inutile qui ricordare il permanere a lungo di un alto tasso di analfabetismo nella storia del nostro paese), non impedì tuttavia il sorgere “di un diffuso bisogno degli scienziati di comunicare tra loro e con la società” e, soprattutto, non impedì che personalità quali Algarotti, Squario, Cagnoli e Compagnoni, prima, e Cattaneo, poi, potessero diffondere i frutti del loro sapere presso un pubblico ancora elitario anche se in crescita e sempre più affamato di sapere. In questo periodo la produzione dei singoli autori, cui si aggiunse via via quella di “gruppi di ricerca, di congressi, accademie, università, circoli politici, ricreativi e di

lettura, veniva affidata a singoli tipografi, alcuni dei quali legarono poi il loro nome proprio alla divulgazione dei lavori di università e accademie”, divenendo nella seconda metà del-

l’Ottocento gli editori che avrebbero scandito la storia dell’editoria italiana: si pensi a Pomba, a Barbera, a Zanichelli, a Le Monnier, a Vallardi, a Treves. Successivamente, nella seconda metà dell'Ottocento, nell'età cioè del positivismo, dell’evoluzionismo, delle ferrovie e

della luce elettrica non bastò più la comunicazione inter pares, ma, nella convinzione che “sarebbe stato possibile portare in tempi ragionevoli l’Italia... [ad essere] competitiva con i paesi europei in cui la scienza aveva conquistato da tempo un pubblico di cultori non specialisti”°, alcuni scienziati si vollero far * Paola Govoni, Un pubblico per la scienza. La divulgazione scientifica in Italia in formazione, Roma 2002. | ‘Paola Govoni, cit., p. 26.

°Gianfranco Tortorelli, cit., p. 227. © Paola Govoni, cit., p.24.

298

divulgatori lottando contro gli enormi ostacoli dell’arretratezza economica e culturale del paese, lottando in particolare contro l’analfabetismo. Assunto il ruolo di intellettuali e di professionisti con un proprio riconosciuto peso sociale e politico, essi — si pensi ad esempio ai Lessona o al Mantegazza —

fecero sì che un pubblico più vasto (per intenderci quello dei ceti emergenti della borghesia) si accostasse alla cultura scien-

tifica acquisendo così strumenti adatti ad una istruzione pratica e utile al processo di sviluppo del paese e al miglioramento della vita degli individui. E fecero anche sì che “le conquiste economiche, sociali e sanitarie del tempo,... [fossero riconosciute]in larga misura [come] la ricaduta concreta del... [loro] lavoro”.

Da questo momento in avanti gli stampatori dei libri scientifici cominciarono ad assumere il ruolo di moderni editori. Cominciarono cioè non solo a pubblicare “i lavori della comunità scientifica in un dibattito interno alla categoria”, ma a farsi essi stessi “promotori di più solide iniziative in cui le ricerche trovarono una più ampia collocazione in collane. La produzione scientifica trovava così una sua legittimazione edito-

riale più forte, ma soprattutto trovava un alleato potente e per l’Ottocento come per buona parte del Novecento praticamente insostituibile. Furono poi questi editori a farsi mediatori con

un pubblico più sensibile verso questi temi e furono loro a lanciare quella divulgazione scientifica che passando attraverso processi di adattamento dei testi e adeguamento della produzione libraria, dai costi alla riconsiderazione della stessa for-

ma libro, resero possibile quell’ampliamento della lettura da

più parti invocato”. Insomma, il nuovo slancio della rivoluzione industriale, lo

sviluppo della scienza e della tecnica e quindi l'incremento della domanda di nuovi saperi dell'ultimo ventennio del XIX secolo non colsero impreparati i produttori italiani della carta stampata. Le sempre più differenziate discipline scientifiche — dalla matematica alla fisica, dalla biologia alla medicina, alla

"Paola Govoni, cit., p. 37. #Gianfranco Tortorelli, cit., p. 228.

299.

chimica e così via — le sempre più diversificate tecnologie, ma anche le teorie filosofiche, ora in fase di profondo cambiamento, nonché le materie geografiche, economiche

e giuridiche,

strumenti tutti indispensabili per la costruzione di uno stato civile

e moderno, erano via via venuti ad occupare nei catalo-

ghi degli editori italiani, un posto sempre più significativo. Basti pensare che la produzione dei libri scientifici da 327 unità, quanti erano nel 1880, era salita, seguendo peraltro il trend

positivo della produzione libraria in generale e pur con qualche momentanea flessione, a 795 unità nel 1914?.

La diversificazione delle discipline scientifiche, ovviamente, si rifletté anche sulla produzione della stampa periodica che tese sempre più alla specializzazione aumentando nel numero delle testate con una progressione quasi geometrica. Tale incremento è per molti aspetti un indice più significativo di quello relativo all'aumento della produzione libraria. Esso infatti è testimonianza più immediata della vivacità e del definitivamente risvegliato interesse per la cultura e la divulgazione scientifica. Fu proprio attorno alle riviste che si cimentarono i maggiori scienziati dell’epoca, fu proprio attorno alle riviste, e attraverso le riviste, che gruppi di scienziati, soprattutto tra Otto e Novecento, quando andava diffondendosi la cultura delle riforme, poterono, al di là delle differenziazioni

ideologiche, portare il loro contributo al dibattito per la costruzione di uno Stato italiano moderno e progredito anche in campo sociale. Si pensi che delle 1622 riviste scientifiche e tecniche censite nel 1927 dal Consiglio nazionale delle ricerche a cura di Giovanni Magrini quasi 200 erano sorte tra l’Otto e il Novecento e molte di queste, soprattutto quelle nate nel primo decennio del XX secolo — dalle mediche alle giuridiche — denunciavano preoccupazioni d'ordine sociale e presentavano, in modo più o meno esplicito, istanze di tipo riformistico!0. Ancor più significativo dell'incremento quantitativo della produzione libraria e della stampa periodica, appare il salto ° Istituto centrale di statistica, Sommario di statistiche storiche italiane 1861-

1955, p. 80. “Consiglio nazionale delle ricerche, Periodici italiani che si occupano delle scienze e delle loro applicazioni, a cura di Giovanni Magrini, Bologna 1929.

300

qualitativo. Le proposte editoriali, infatti, assecondando le aspirazioni del mondo scientifico ed accademico, alzarono il livello culturale. Ovvero, come ha sottolineato Emanuele Vinassa

de Regny, si passò dalle Biblioteche popolari, collane di libretti (inizialmente, soprattutto, traduzioni di libri stranieri) che in

poche pagine spiegavano al “popolo” il sapere scientifico, a collane di libri più impegnati, di autori importanti!! . Si passò, insomma, dall'editoria della divulgazione all'editoria di stu-

dio e di applicazione. Forse, sarebbe meglio dire che anche l’editoria di divulgazione scientifica elevò il suo livello rivolgendosi ora ad un pubblico non solo più ampio ma più acculturato, che comprendeva non solo il ceto medio, ma parte della classe operaia, dell’aristocrazia operaia. Efficace esempio della nuova divulgazione popolare fu la Biblioteca di cultura popolare, conosciuta come Collana rossa dal colore delle copertine. Varata nel 1913 dalla Federazione delle Biblioteche popolari e dall'Università popolare milanese, pubblicò, sotto la guida di Eugenio Rignano, tutta una serie di

volumetti la cui compilazione venne affidata a esperti nei vari rami del sapere (dall’astronomia alla geologia, dalla fisica alla chimica, dalle scienze biologiche alle nozioni di igiene, dalle scienze economiche alle nozioni di diritto, di scienza e di tec-

nologia) al fine di dimostrare “la reale possibilità di assolvere a una funzione di volgarizzazione della conoscenza in modo rigoroso e raggiungendo spesso ottimi livelli qualitativi”. E in fondo la Collana rossa fu “in quegli anni, in Italia, l'unica biblioteca di cultura popolare che... [si pubblicasse] sulla traccia di un programma chiaro ed organico, in cui tutte le discipline venivano rappresentate”!?. L'incremento della produzione editoriale, sia libraria sia della stampa periodica fu il prodotto non solo della particola!! Emanuele Vinassa de Regny, Divulgazione, un bilancio, in “Sapere”, giugno 1998. 1? Paola Mosetti e Donatella Tacchinardi, Società Umanitaria e Università popolare milanese: i protagonisti, in Aa.Vv., La cultura milanese e l'Università popolare negli anni 1901-1927, Milano 1983, p. 243-4. Cfr. anche, Associazione

italiana biblioteche e Società Umanitaria, Ettore Fabietti e le biblioteche popolari (a cura di Paolo M. Galimberti e Walter Manfredini), Milano 1994.

301

re sensibilità che alcuni editori dimostrarono per i problemi della scienza e della tecnica, sensibilità spesso sollecitata da chi — sovente scienziati di alto profilo — ebbe a collaborare con loro, ma fu anche il prodotto della necessità degli editori di

sopravvivere come imprenditori. Infatti in una situazione (qual era quella italiana di quel periodo) in cui, nonostante la presenza di alcune zone altamente progredite, il mercato dei consumatori della carta stampata continuava ad essere difficile e asfittico, è naturale che l'industria editoriale tentasse di occu-

pare ogni spazio possibile, rivolgendosi a un pubblico di lettori sempre più differenziato rispetto a quello tradizionale delle persone colte (dalla gente di chiesa agli intellettuali ai professionisti) per avvicinarsi ai nuovi settori che alla cultura andavano ora accostandosi: tra questi, i tecnici. Fu così che molti editori alla ricerca di nuovi spazi imboccarono la strada della “specializzazione” ovvero tentarono di scavarsi una nicchia di mercato. E alcuni, in particolare, si dedicarono quasi esclu-

sivamente alla stampa scientifica, a quella tecnica, a quella economica e a quella giuridica.

I centri della produzione editoriale scientifica

Ruolo centrale nel campo della produzione editoriale tecnico-scientifica ebbe Milano. Né poteva essere diversamente. Milano era al centro dello sviluppo industriale, Milano era il centro della produzione editoriale, Milano, si era, e da tempo,

dotata di un “ampio sistema formativo-culturale”, funzionale al processo di industrializzazione “il cui livello superiore era

costituito da un ventaglio di istituzioni dedite allo sviluppo dell'alta cultura”! : l’Istituto di scienze, lettere ed arti, l’Osser-

vatorio di Brera, l'Accademia di belle arti, l’Istituto veterinario e la Società di incoraggiamento d'arti e mestieri dedita all'insegnamento tecnico-scientifico cui si aggiunsero l’Istituto tecnico superiore per la formazione dei nuovi ingegneri, da Carlo G. Lacaita, Milano e la cultura tecnico-scientifica fra 1800 e ‘900, in Scientia. L'immagine e il mondo, Milano 1988, Puos:

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subito denominato Politecnico, la Scuola superiore di agricoltura per la preparazione di moderni operatori agricoli, l’Università commerciale Bocconi per lo sviluppo della cultura economica superiore e gli Istituti tecnici di perfezionamento per medici laureati.

E Milano era, tra la fine del XIX e l’inizio del

XX secolo, il centro in cui la cultura del riformismo in generale, e socialista in particolare, aveva trovato un terreno partico-

larmente fertile. Il capoluogo lombardo, insomma, per gli editori costituiva un mercato, un ottimo mercato. In esso infatti i

produttori della carta stampata potevano facilmente reperire non solo gli autori dei loro volumi — spesso scienziati e insegnanti delle varie istituzioni scolastiche milanesi — o consulenti in grado di proporre loro le traduzioni della migliore produzione scientifica straniera, ma potevano anche facilmente raggiungere i fruitori delle loro opere: uomini di scienza, tecnici, studenti.

Le potenzialità del mercato librario scientifico di Milano, e dell’Italia in generale, che in qualche misura erano già state saggiate seppure ancora nella linea della divulgazione dai grandi editori dei primi anni dell’unificazione — basti citare per tutti la produzione di Emilio Treves con le collane de La Scienza del popolo e della Biblioteca utile — costituirono un fortissimo polo di attrazione per molti operatori stranieri attivi nel settore!!. Non fu certo un caso che i due maggiori editori di libri scientifici attivi a Milano nella seconda metà dell'Ottocento fossero per l'appunto un francese, Pompeo Dumolard, e uno svizzero, Ulrico Hoepli. Giunti entrambi in una terra di conquista, a questa terra essi seppero dare molto. Molto infatti essi contribuirono a sprovincializzare la cultura scientifica ita-

liana diffondendovi con le loro pubblicazioni i nuovi saperi nati oltre i confini nazionali e molto essi contribuirono a diffondere nel mondo le conoscenze e i saperi italiani. Opera di vera sprovincializzazione fece innanzitutto il Dumolard con la collana, Biblioteca scientifica internazionale. Con questa collana infatti “gli editori milanesi si inserivano in un !4Marino Raicich, Editori d’oltralpe nell'Italia unita, in Id., Di grammatica in retorica, Roma 1996.

303

prestigioso circuito internazionale di editoria scientifica, che

avrebbe dovuto garantire della qualità delle opere tradotte, ma anche offrire risonanza internazionale alla scienza italiana”. Collegata ad analoghe collane, da quella angloamericana a quella tedesca, francese e russa — la Biblioteca scientifica internazionale iniziò nel 1875, assai significativamente, con un'opera italiana: La teoria del suono nei suoi rapporti colla musica di Pietro Blaserna cui si deve, tra l’altro, la costruzione

del servizio

geodinamico italiano. All'opera del Blaserna seguirono una cinquantina di altri titoli, in prevalenza di autori stranieri, COSÌ

come si conveniva ad una collana programmaticamente internazionale: Mandsley, Berthelot, Thindall, Quatrepages, Bernstein, Wurtz, Spencer, Huxley, Mantegazza, Secchi, Sergi,

Lombroso, Vignoli, Morselli e così via. Alcune opere di autori italiani — non molte per la verità — vennero tradotte: quella dello stesso Blaserna, in inglese, tedesco, e francese, quella di Secchi

in tedesco e francese, quella di Morselli e una di Vignoli in inglese e tedesco. E opera di vera sprovincializzazione (il suo catalogo era fitto di traduzioni di opere straniere) fece Ulrico Hoepli!°. L'idea più feconda di Hoepli, oltre alla collana della Biblioteca tecnica, - come

è noto, ma come

non è possibile almeno

non accennare — fu la realizzazione, sull'esempio di quanto avveniva già in Inghilterra, della collana dei Manuali. Con i sobri libretti di questa collezione, frutto anche dei suoi legami con i docenti e gli allievi del Politecnico, l'editore diede il via a una delle più fortunate e importanti operazioni culturali del tempo: la collana assecondava, al momento

giusto, la forte

domanda di una società, specialmente quella lombarda, in rapido decollo economico e quindi bisognosa di “quadri” tecnici preparati e qualificati. IManuali Hoepli costituirono gli strumenti capaci di fornire un aiuto completo nell’espletamento di un mestiere o di una professione. Non si è dunque più nella !5 Michele Nani, Editori e culture scientifiche: le edizioni Dumolard, in “Ri-

cerche storiche”, maggio-agosto 1999, p. 268. ‘°All’attività di Ulrico Hoepli sono stati dedicati molti ed importanti studi. Cfr., per tutti, Aa. Vv., Ulrico Hoepli 1847-1935, Buckàndler Verlegen Antiquar Mazen Zurigo 1997 e Aa. Vv., Ulrico Hoepli 1847-1935, Milano 2001.

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divulgazione, ma neppure nel testo d’élite scientifico. Inaugurata nel 1875 con il Manuale del tintore di Lepetit e consolidatasi nel 1877 con il fortunatissimo Manuale dell'ingegnere di Giuseppe Colombo, la collana assunse il carattere di un’enciclopedia in più volumi con intenti dichiaratamente divulgativi, ma sempre di altissimo profilo. Pur continuando a prediligere argomenti di carattere tecnico e scientifico — larga fu in questo settore la loro utilizzazione come veri e propri testi scolastici — ben presto i manuali investirono tutti i settori dello scibile umano: dall’agraria alla fisica e alla chimica, dalla storia naturale alla medicina e alla chirurgia, dall’elettricità all’ingegneria, dalle matematiche al diritto, dall’archeologia alla storia e

alla geografia, dalla filosofia e dalla pedagogia all’arte militare, dalla letteratura alla linguistica e alla musica. Se è innegabile la centralità di Milano nell'editoria tecnicoscientifica, è altrettanto innegabile che almeno altri due furono i centri che, pur non raggiungendo l'alto “livello di progettualità e organizzazione”!” e la grande forza produttiva del capoluogo lombardo e pur rimanendo sostanzialmente legati ad un unico marchio editoriale, tuttavia possono essere ad esso affiancati: Bologna, conla casa editrice Zanichelli, Torino, con la Utet.

Già nei primi anni della sua attività, Zanichelli poté contare su alcuni titoli scientifici di rilievo, e valga per tutti la tradu-

zione Sull'origine delle specie per selezione naturale di Charles Darwin, pubblicata nel 1864. Ma fu solo dopo gli anni Ottanta

che questo tipo di pubblicazioni rientrò in una vera e programmata linea editoriale che vide il prevalere, nel catalogo, delle

materie mediche e delle scienze matematiche. Ciò fu possibile grazie ai rapporti che l'editore seppe stringere col mondo scolastico e universitario locale: modenese prima, bolognese poi. Fu nell'ambiente modenese che Zanichelli iniziò la sua colla-

borazione con varie personalità del mondo scientifico: tra gli altri il fisiologo Geminiano

Grimelli, il naturalista Giovanni

Canestrini, traduttore appunto dell’opera di Darwin, il matematico Cesare Razzaboni, l’astronomo Domenico Ragona Scinà 17 Maria Jolanda Palazzolo, I tre occhi dell'editore, Roma 1990, p. 193.

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e il fisico Stefano Marianini. E fu nell'ambiente bolognese che egli arricchì le sue frequentazioni col mondo scientifico. Tra loro medici, fisiologi e igienisti (Francesco Roncati, Cesare Taruffi, Giovanni Battista Ercolani, Raffaello Zampa, Giuseppe Veratti, Luigi Monti, Francesco Fantini), naturalisti (Giovanni Giuseppe Bianconi, Orazio Silvestri, Girolamo Cocconi, Luigi Bombicci), chimici (Adolfo Casali, Guido Pellagri e Francesco Selmi), agronomi (Giuseppe Giusti e Pietro Zanfrognini), matematici (Ferdinando Paolo Ruffini, Camillo Rambaldi, Carlo Masi, Carlo Morseletto, Lorenzo Garbieri), geografi (Matteo Fiorini, Francesco Cavani, Luigi Pennazzi, Primo Macchiati e

Abdon Altobelli), ingegneri (Giovanni Battista Talotti, Aristide Faccioli, Paolo Liverani ed Edoardo Cuboni).

Tra la metà degli anni Ottanta dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento, il catalogo, riducendo la presenza delle

discipline biomediche e rafforzando la presenza e l'importanza della matematica, della fisica e della chimica, andò vieppiù arricchendosi: il livello culturale ed accademico degli autori crebbe e l'orizzonte si allargò al di là dell'ateneo bolognese. Autori Zanichelli divennero via via i medici Giuseppe Ruggi, Vincenzo Gotti, Antonio Nardelli e Bartolo Nigrisoli, i matematici Cesare Burali Forti, Dionisio Gambioli, Cesare Arzelà, Salvatore Picherle, Francesco Severi, Ugo Amaldi e Federigo Enriques, i fisici Francesco Masi, Luigi Donati, Giovanni Giorgi

e Augusto Righi, i chimici Dioscoride Vitali e Giacomo Ciamician, i naturalisti Carlo Emery e Paolo Vinassa de Regny, il geografo Domenico Giannitrapani, l’agronomo Ghino Valenti, lo storico della scienza Antonio Favaro. Vennero inoltre

pubblicate le importanti traduzioni dei Principi di chimica teorica di Ira Remsen (1892) e del Breve compendio di storia delle matematiche di Walter W. Rouse Ball (1903).

Con l'ingresso, nel 1897, di Federigo Enriques (cui si aggiungerà l'ingegnere Eugenio Rignano), il direttore della famosa e già citata Collana rossa, la Zanichelli si confermò nel ruolo di produttrice di libri scientifici di primaria importanza. Scienziato di alto livello, Enriques fu anche un grande divulgatore ed autore di successo con grande soddisfazione economica sua e del suo editore. Tra le sue opere gli Elementi di geo306

metria ad uso delle scuole secondarie superiori furono “uno dei maggiori successi del secolo nel campo dell'editoria scolastica, almeno per la matematica: basti dire che essi ... [erano] an-

cora in commercio all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, e che nelle varie versioni e numerose edizioni supera[ro]no largamente il milione di copie”!8. Radicata nella tradizione della casa era anche la produzione scientifica della torinese Utet. Per i tipi di questa casa editrice uscirono infatti un'importante Enciclopedia di chimica in 14 volumi, un Annuario di chimica e un’Enciclopedia agraria che

andò ad affiancarsi alle Istituzioni scientifiche e tecniche di agricoltura di Berti-Pichat. Alla produzione di libri scientifici “in senso stretto” la casa editrice unì la produzione di libri scientifici “in senso lato”, ovvero la pubblicazione di libri di economia e di diritto. Sull'onda del progresso delle scienze “tradizionali” infatti anche nel settore economico e giuridico si assisté allo sforzo di sollevarsi dall’empirismo e dal carattere di discipline applicate per farle assurgere a sistemi dotati di dignità scientifica nei metodi di ricerca e nella divulgazione. E furono proprio le nuove “scienze” — le giuridiche e le economiche — a dimostrare una maggiore e più rapida sensibilità ai problemi della modernizzazione del paese e quindi del riformismo. Tre furono le grandi iniziative Utet nel campo economico-giuridico: la Biblioteca dell'economista, il Digesto italiano e Il codice di commercio. La prima, la Biblioteca dell’economista, fondata nel 1850, e diretta fino al 1874, da Francesco Ferrara, uscì fino al 1922 costituendo uno

dei contributi più rilevanti della scienza economica italiana. La seconda, il Digesto italiano, enciclopedia metodica e alfabetica

della legislazione, della dottrina e della giurisprudenza italiana, uscita per la prima volta, dal 1884 al 1921 in 24 volumi, è

tuttora ripubblicato in edizione aggiornata. La terza iniziativa, Il codice di commercio, fu un'importante opera sistematica

!#Giovanni Paoloni, Zanichelli, in Storia dell'editoria europea, Firenze 1995,

p. 850. Per uno studio più approfondito della casa editrice Zanichelli, cfr. anche Gianfranco Tortorelli, Tra le pagine. Autori, editori, tipografi nell'Ottocento e nel Novecento, Bologna 2002.

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di commento al codice del 1882, edito dal 1888 al 1889 in undi-

ci volumi con la collaborazione di Leone Bolaffio!?. La produzione editoriale tecnico-scientifica funzionale al processo di modernizzazione del paese non si fermò solo ai grandi editori delle grandi città, ma, a testimonianza della sua importanza e della sua “urgenza”, essa fu anche tentata, spesso con successo, da piccoli e nuovi editori. Questo fu il caso,

ad esempio, della Cedam che, sorta a Padova nel 1902 per iniziativa di Antonio Milani, dapprima si limitò a stampare le dispense dei professori di materie giuridico-scientifiche attivi nell’Ateneo Patavino (da Carazzi a Carnelutti) e poi si specia-

lizzò nella stampa di volumi di materie giuridiche?°. E questo fu anche il caso dei Fratelli Bocca che, in particolare negli ultimi decenni del XIX secolo, dedicarono largo spazio nei loro cataloghi a collezioni e riviste che contribuirono alla diffusione della cultura positivista in Italia. Va ricordata, in particolare, la Biblioteca di scienze sociali (1883), la Grande e la Piccola bi-

blioteca di scienze moderne (1897), dove “furono pubblicati due

testi del famoso chimico W. Ostwald che sono ancor oggi straordinari esempi di divulgazione vera”?!. E questo fu infine il caso di un’altra piccola casa, la Società editrice milanese che, sorta nel 1906, poteva vantare, a pochi anni dalla sua nascita,

su un catalogo prestigioso e ricco di titoli che abbracciavano i campi della medicina, dell'ingegneria e soprattutto della giurisprudenza. È sufficiente pensare ad alcune collane quali la Collezione legislativa Portafoglio, la Biblioteca del Politecnico, la Piccola biblioteca del Monitore dei Tribunali, la Piccola biblioteca

scientifica e la Biblioteca di scienze applicate al commercio. L'importanza e l'urgere del sapere tecnico scientifico per la

costruzione del nuovo Stato italiano fu percepita anche dalle “periferie” editoriali, le quali spesso seppero dar vita a filoni di produzione libraria di grande spessore. A Bergamo, ad esempio, l’Istituto italiano di arti grafiche, sorto nel 1893, si dedicò, grazie anche alla preziosa collabora! Cfr. Luisa Bonolis, Utet, in Storia dell'editoria europea, cit. Nicola Tranfaglia, Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani, RomaBari 2000, p. 212-3.

°! Emanuele Vinassa de Regny, Divulgazione, un bilancio, cit.

308

zione di un eminente studioso di ispirazione positivista, Arcangelo Ghisleri, alla produzione di testi e di carte geografiche per il consumo scolastico”?. A Novara, un altro imprenditore del libro specializzatosi in cartografia in Germania, Giovanni De Agostini, si impegnò nello stesso settore produttivo dell'Istituto italiano di arti grafiche fondando, nel 1901, una casa editrice, l’omonimo Istituto

geografico, le cui carte, dettagliate ed aggiornate, furono strumento insostituibile per il paese nel corso della prima guerra mondiale” . A Lodi, un imprenditore locale, Costantino

Dell’Avo, di-

venne lo stampatore ufficiale della Stazione sperimentale di caseificio. E con ciò egli divenne il tramite più importante attraverso il quale le sperimentazioni e le conseguenti nuove tecnologie elaborate da quella istituzione potevano essere capillarmente diffuse. Tra le sue pubblicazioni, opere tutte dei direttori e dei ricercatori della Stazione, si annoverarono, tra

gli altri, L'acido salicilico nell'economia della latteria (1875) e Ricerche sulla composizione dei caci di grana (1876) di Luigi Manetti e numerose opere di Giuseppe Sartori: Determinazione rapida del burro nel latte. Nota (1886), L’assaggio del latte fatto col lattodensimetro e col cremometro ad uso dei casari (1887), Contribu-

to alla chimica del caseificio pecorino. Memoria (1890), L'allevamento razionale dei vitelli. Notizie e suggerimenti pratici di L.M. (1990). A Sondrio, infine, per non fare che un ultimo esempio, l’edi-

tore Emilio Quadrio diede voce con la stampa di numerose opere alle ricerche dei migliori studiosi locali — naturalisti, medici, agronomi, veterinari — uniti tutti dalla convinzione, di chiara matrice positivista, che la scienza, intesa come forza

produttrice “avrebbe consentito all'uomo di uscire da secolari problemi di miseria e avrebbe avviato la società sulla via del progresso”. Tra le opere del catalogo del Quadrio vale la pena 2 Giorgio Mangini, L'Istituto italiano d'arti grafiche. 1873-1915, in “Emporium” e l’Istituto d'arti grafiche, a cura di G. Mirandola, Bergamo 1985.

23 Pier Francesco Borgia, De Agostini, in Storia dell'editoria europea, cit. 2 Franco Monteforte, Giornalismo politico, cultura positivista e analisi sociale in Valtellina nell'età di Depretis e di Crispi (1876-1900), in Editoria, cultura e società. Quattro secoli di stampa in Valtellina (1550-1980), Sondrio 1985, p. 303.

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di ricordare due opere uscite tra il 1885 e il 1890: la Bibliografia ragionata, zoologica, botanica e geomineralogica della provincia di Sondrio di Mario Cermenati e le Considerazioni sullo stato economico agrario della Valtellina di Paolo Botterini. Mentre la prima è illuminante per la conoscenza della regione, la seconda appare di vivo interesse per l'aspetto propositivo che contiene. In essa infatti l’autore, esprimendo una convinzione diffusa nella classe dirigente locale, sosteneva che le “misere condi-

zioni in cui versava l'agricoltura valtellinese potevano essere

mutate soltanto dai proprietari più facoltosi e più illuminati radunati attorno al Comizio Agrario, e dalle istituzioni amministrative, cioè dall’élite politica e proprietaria””. Anche l'editoria meridionale non mancò di dare il suo contributo alla diffusione non tanto del sapere tecnologico, peculiarità dell'editoria settentrionale, quanto piuttosto del sapere scientifico in generale. E questo anche se si trattò di un contributo, come si è già osservato, dalla forza produttiva alquanto più modesta di quella dell'editoria del centro-nord d’Italia e non sempre inquadrabile in precise e programmate linee editoriali. A Napoli, centro di grandi tradizioni giuridiche?’ ,non difettavano, per esempio, buoni editori di opere originali, di te-

sti e di manuali di diritto. Fra questi si distinse Giuseppe Marghieri, editore trasmigrato dalla Toscana, che diede l’avvio ad una importante e prestigiosa Biblioteca delle scienze giuridiche e sociali, collana ricca di titoli di grande rilievo che sostituivano e rinnovavano la tradizionale produzione di classiche opere straniere (prevalentemente francesi) tradotte”. Non difettavano neppure iniziative scientifiche e didattiche in genere legate alle varie facoltà di un Ateneo “che era ancora in quel trapasso da un secolo all’altro fra i più insigni d’Italia”. In questo settore si distinsero l’attività del Pierro che, ad esempio, diede alle stampe, nel 1903, i notissimi Principi di scienza

© Ibid., p. 306. °°I primi cinquant'anni della casa editrice Ricciardi, Milano Napoli 1952, p. 8. ? “Giornale della libreria”, 1896, p.- 530.

I primi quarantacinque anni della casa editrice Ricciardi, cit., p. 8.

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delle finanze di Francesco Saverio Nitti e la produzione editoriale del Morano che nel catalogo delle sue opere scolastiche (circa seicento negli anni Novanta), e soprattuto di quelle scientifiche, annoverò non pochi successi editoriali. Basti pensare al Corso elementare di mineralogia di Del Gaizo, alla Geometria di

Blanchet, alla Geografia di De Luca e alla Trigonometria di Dino” . La Sicilia, ancor più di Napoli, vide il fiorire di numerose iniziative editoriali. In essa infatti le aziende — Pedone Lauriel,

Giannotta e Sandron - legandosi soprattutto agli ambienti universitari locali, si dimostrarono “capaci di elaborare progetti e di stringere rapporti fecondi e non occasionali con vecchie e nuove istituzioni di cultura” In particolare Luigi Pedone Lauriel, a Palermo, fu l'editore privilegiato degli intellettuali positivisti nel ventennio di fine Ottocento che costituirono l’asse portante della sua casa editrice. Tra questi, il demopsicologo Giuseppe Pitré, l'antropologo Giuseppe Sergi e i filosofi del diritto Giuseppe Salvioli e Raffaele Schiattarella di cui l'editore pubblicò un importante e fortunato volume, I presupposti del diritto scientifico e questioni affini. Giannotta, a Catania, fu l'editore di quel positivismo giuridico che negli anni Ottanta e Novanta dell'Ottocento ebbe nella facoltà di giurisprudenza uno dei suoi punti di forza pubblicando, ad esempio, testi sul Capitale di Marx o di Di Gennaro, Sociologia e statistica .Sandron, infine, ancora a Palermo, il più fecondo dei tre editori siciliani, accanto ad una ricca produzione di li-

bri e di sussidi scolastici, soprattutto mappe e carte geografiche, pubblicò opere aperte alle nuove tendenze del pensiero scientifico contemporaneo facendosi promotore “di iniziative

tendenti alla conoscenza e alla diffusione in Italia di discipline e approcci metodologici ancora per larga parte poco noti, come

la sociologia ed ancor più l'antropologia”. Pubblicò, infatti e ad esempio, una collana, la Biblioteca di scienze sociali e politiche che ospitò i classici di queste discipline dalle Istituzioni dome% Luigi Mascilli Migliorini, Una famiglia di editori. I Morano e la cultura napoletana tra Otto e Novecento, Milano 1999. % Maria Iolanda Palazzolo, I tre occhi dell'editore, cit., p. 194.

3 Ibid., p. 204. ®Ibid., p. 234.

Sii

stiche e le Istituzioni cerimoniali di Spencer alla Funzione sociale del delitto di Lombroso. La qualità dei titoli e delle collane che tra il XIX e il XX secolo tutti gli editori italiani — dai più grandi ai più piccoli — andavano proponendo sembrava innegabilmente dimostrare che la fase “pionieristica” della divulgazione scientifica era stata definitivamente superata. Stava pure a testimoniare, da un lato, che essi non erano più meri stampatori, ma moderni imprenditori capaci di farsi promotori di solide ed avanzate imprese editoriali, dall'altro che anche il livello dei lettori era decisa-

mente cresciuto. Il pubblico, soprattutto quello tecnico-professionale, aveva ormai acquisito uno spessore di tutto rilievo e la formazione tecnico-professionale di base — quella che oggi definiremmo l'educazione permanente — si era decisamente avviata a diventare una componente di una certa robustezza nella domanda libraria.

Le riviste scientifiche

Punto di incontro dei maggiori scienziati dell’epoca — come si è già accennato — e veri e propri centri di dibattito culturale furono le numerosissime riviste pubblicate un po’ dovunque nella penisola tra Otto e Novecento, per iniziativa sia di singole personalità del mondo scientifico sia anche di associazioni private e di istituzioni pubbliche. Cinghie di trasmissione dei nuovi saperi, i periodici — “vecchi” o nuovi che fossero — appa-

rivano quasi tutti di alto profilo rivolgendosi ad un pubblico decisamente acculturato sia che abbracciassero il campo delle scienze speculative sia che abbracciassero il campo della scienza tecnologica e delle materie economiche e giuridiche. E al di là delle differenziazioni disciplinari e delle loro specificità, avevano tutti un obiettivo comune che veniva in parte a coincidere con quello del riformismo: la divulgazione, la sprovincializzazione, la promozione della modernità e del progresso anche sociale. Terminata, col declinare della fortuna del positivismo, “la

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stagione fortunata della scienza per tutti” e nonostante non mancassero alcuni tentativi di tenerla in vita — dalla meno diffusa “La scienza popolare. Rivista illustrata popolare di cognizioni utili e pratiche” uscita, come

una meteora, nel 1898 al

più fortunato e longevo “Giornale popolare illustrato” di Sonzogno, pubblicato dal 1879 al 1928 - le riviste scientifiche puramente speculative diminuirono forse di numero, ma certo si elevarono di tono mantenendo però immutato il loro primario obiettivo fondamentale: contribuire alla crescita culturale di un pubblico sempre più ampio. Nella ferma convinzione che “nessuno... [avesse] a rimanere estraneo al complesso progredire della conoscenza umana”, la “Natura. Rivista mensile di scienze naturali” edita dalla Società italiana di scienze naturali dal 1909 al 1949, si proponeva infatti “rendere agevole a chi principalmente... [desiderasse] arricchire, senza eccessiva fatica, la sua cultura, e ai naturalisti tutti, scienziati, professionisti, dilettanti, il conoscere i più recenti ed importanti

progressi che si... [fossero compiuti] nei vari rami delle complesse discipline, per modo che ognuno... [potesse] aver un'idea chiara e scientificamente esatta delle scoperte che.., [si facevano] e delle teorie ed ipotesi che... [si discutevano] nei vari cam-

i

‘1134

3 Finalità consimili dichiaravano anche le riviste di geografia che in questo periodo sembravano recuperare il ritardo con cui si erano affacciate nel panorama editoriale. Ad esempio, scopo e ragione d'essere della “Geografia per tutti”, rivista quindicinale per la diffusione delle cognizioni geografiche,

diretta da Angelo Ghisleri ed uscita dal 1891 al 1895 per poi diventare “L'Universo: Rivista quindicinale illustrata per la diffusione delle cognizioni geografiche”, era quella di “accostare al gran pubblico leggente, ad ogni professione, ad ogni ceto, il frutto ultimo delle scienze geografiche nei diversi rami delle loro dottrine, nei molteplici aspetti delle loro applicazioni. Innamorare della geografia anche coloro i quali, a torto, per 8 Paola Govoni, Un pubblico per la scienza, cit., p. 329. 4 “Natura”. Rivista mensile di scienze naturali edita dalla Società italiana di scienze naturali, Milano, novembre 1909.

olo

una indissimulabile reminiscenza di sbadigli scolastici, anco-

ra oggi ne... [rifuggivano], reputandola materia tediosa o superflua alla cultura di ogni persona perbene”®. Decisamente controcorrente, in antitesi cioè con il prolife-

rare delle riviste specialistiche, quali andavano affermandosi in questo periodo, nel 1907 uscì dai torchi della casa editrice

Zanichelli, il periodico scientifico forse più prestigioso del tempo: la “Rivista di scienze” che nel 1910 cambiò la denominazione in “Scientia. Organo internazionale di sintesi scientifica”. Fondata e diretta da Rignano, proprietario della testata, che associò alla direzione nel 1910 l’Enriques, la rivista si propose di “promuovere la coordinazione del lavoro, la critica dei

metodi e delle teorie, e ... [di] affermare un apprezzamento più largo della scienza”, ovvero tese al “superamento dei particolarismi delle singole discipline e a una visione d’insieme dei problemi”, con ciò seguendo “un orientamento largamente presente nel mondo scientifico italiano, rappresenta-

to da personalità che [reagivano] alla crisi del positivismo, muovendosi lungo linee divergenti rispetto all’idealismo di Croce e di Gentile, per difendere la rilevanza culturale della

scienza contro chi... [voleva] invece affermarne la marginalità

nella cultura italiana”*.. Particolarmente sensibili ai problemi della modernità furono, per la loro specificità, le riviste tecnico-scientifiche, vale a dire i periodici di taglio più “applicato”, allora davvero assai numerose dal momento che “ognuna delle branche principali della cultura tecnologica e dell'industria ebbe la propria rivista interamente impegnata a dibattere i problemi del settore e ad aggiornare i lettori sulle più recenti innovazioni”* . In quan-

to conto poi questo tipo di stampa fosse da tenere se ne rendeva ben conto Turati — e il riformismo socialista in generale — © “Geografia per tutti”. Rivista quindicinale per la diffusione delle cognizioni geografiche. Bergamo, 15 maggio 1891. * “Rivista di scienza”, a. I (1907), n. 1, più

‘Enrico Decleva, Un panorama in evoluzione, in Storia dell'editoria nell’Italia contemporanea, a cura di Gabriele Turi, Firenze 1997, p. 253-4.

“Giovanni Paoloni, Zanichelli, cit., p. 851. * Carlo G. Lacaita, Milano e la cultura tecnico-scientifica, cit., p. 70.

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secondo il quale “l'utilizzazione del sapere tecnico e lo sviluppo della ricerca” erano “fattori imprescindibili e strategici di un'economia moderna”. ‘“’L'elettricità”, rivista settimanale illustrata, edita a Milano

dal 1881 al 1908 per poi diventare la “Rivista tecnica di elettricità”, ad esempio, affermava nel numero del 3 gennaio 1886 di “essere esclusivamente consociata ai numerosi interessi pubblici e privati” ai quali si estendeva “il vasto dominio dell’elettricità” e di avere come scopo “il volgarizzamento dei principi scientifici, sui quali si basa[va]no tutte le applicazioni dell’elettricità”, “lo studio e l'applicazione dei progressi della telegrafia, della telefonia, della luce elettrica, della elettro-metallur-

gia” e “la cronaca internazionale e la rivista della stampa su tutto ciò che concerne[va] gli svolgimenti delle applicazioni industriali e domestiche sull’elettricità”. La “Rivista delle strade ferrate. Bollettino del Collegio nazionale degli ingegneri ferroviari italiani”, mensile, dichiarava nel primo numero del

gennaio 1901 (il periodico uscirà fino al 1904), di voler far co-

noscere ai... colleghi d'Italia ed a quelli esteri i risultati dei loro studi e delle loro osservazioni”. Poiché la tecnica ferroviaria era “ormai assurta ad alto grado di progresso, diventa[va] utile, e più che utile, necessario, il poter conoscere con sollecitu-

dine tutte le migliorie che si... [andavano] introducendo nei

dettagli dei vari servizi”**. E ancora. La “Rivista tecnica per gli ingegneri civili, industriali ed architetti”, settimanale pubbli-

cato da Leonardo Vallardi dal 1892 al 1894 per diventare poi la “Rivista tecnica dell'industria e dell'ingegneria” asseriva, nell'editoriale programmatico, di voler “offrire agli... ingegneri, nell'esercizio della loro professione e per tutte le branche principali in cui essi si dividevano una guida... [al fine di tenerli] al corrente dei progressi giornalmente compiuti dalle scienze tecniche, tanto in Italia che all’estero”5. ‘Filippo Turati, Rifare l’Italia!, Introduzione e cura di Carlo G. Lacaita, Manduria Bari-Roma 2002. 1 “L'Elettricità”,3 gennaio 1886.

44] a rivista delle strade ferrate. Bollettino del collegio nazionale degli ingegneri ferroviari italiani”, gennaio 1901. 4 “Rivista tecnica per gli ingegneri civili, industriali, ed architetti”, 22

dicembre 1892.

315

Non meno sensibili ai problemi applicativi del sapere scientifico, dell'innovazione e dello sviluppo, ma anche ai problemi attinenti al contesto istituzionale e sociale necessario per favorire l’estendersi delle nuove tecnologie, furono le riviste di agricoltura. La “Rivista d’avicoltura. Giornale d'allevamento ed acclimatazione”, uscita a Milano nel 1910 per volere del suo direttore, Giulio Bertoni, ne è un significativo esempio. Secon-

do Bertoni, il mancato sviluppo della pollicoltura nelle campagne lombarde di quegli anni non era tanto dovuto alle capacità e alle conoscenze degli allevatori che essi da sempre possedevano quanto piuttosto ad un contesto socio-economico in difficoltà, contesto che poteva essere corretto incidendo solo sull’organizzazione socio-produttiva. Secondo il Bertoni insomma, la crisi dell’avicoltura era dovuta alla “modificazione dei

patti colonici, verso la continua tendenza all'affitto a denaro e a grano e conseguente abolizione delle cosiddette pendizie, per le quali il proprietario del fondo obbligava il contadino ad allevare il pollame per cederne una parte in pagamento dell'affitto” e dalla “continua emigrazione dei coloni dalle campagne verso le industrie, ed oltre gli oceani”. A questa fase di sottosviluppo ci si poteva, anzi ci si doveva, opporre dal momento che la pollicultura se correttamente diretta sarebbe stata un “potente calmiere ai prezzi della polleria che è[ra] quasi proibita alle borse non ricche”. Il “risorgimento nell'arte dell'allevamento” sarebbe stato possibile solo organizzando gli allevatori in cooperative, così come era già avvenuto in altri

paesi d'Europa, quali la Danimarca e la Francia. “Sotto la forma di cooperativa” — sosteneva sempre il Bertoni — ci sarà dato di organizzare e migliorare l’avicoltura del campagnolo”. “Nessuno si illuda” — continuava con certa enfasi il direttore della rivista —, “sull'aiuto del governo nelle nostre questioni, esso è ben altro affaccendato; ma specialmente i produttori, gli interessati stessi devono riunirsi in piccole cooperative anche cir-

condariali, per la vendita dei propri prodotti, usufruendo se possibile per l’inizio, di cooperative o circoli già esistenti”. “Il grande pericolo” — sono ancora e infine le parole del Bertoni — “in questo lavoro sta nelle armi nemiche dell’incettatore, e per poter costituire simili circoli, non occorre che la buona volontà

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di una o due persone che presto troveranno seguito. Agli agricoltori maggiorenti, alle brave massaie, alle Cattedre ambulanti d’agricoltura questo mandato, a noi il sostenerle ed aiutarle del nostro meglio”. Le riviste mediche che potevano già contare su una lunghissima tradizione, aumentarono vistosamente di numero accrescendo la vocazione internazionale e la sensibilità sociale. Particolarmente attente al problema della diffusione dei progressi sia per quanto concerneva la creazione di nuovi farmaci, sia per quanto riguardava l'ideazione di nuove tecniche terapeutiche e l'introduzione di nuovi macchinari, esse sentirono, molto più di altre, la necessità di far circolare le informazioni al precipuo fine di concorrere, in modo concreto, al mi-

glioramento della salute e del benessere della società. Già la “Rivista di medicina, di chirurgia e di terapeutica” del dottor Soresina, ispettore sanitario di Milano, nel 1869 (la rivista uscirà

fino al 1881 quando verrà assorbita dagli “Annali universali di medicina e di chirurgia”) dichiarava di voler tenere ‘“d’oc-

chio i progressi delle scienze mediche nelle loro applicazioni alla patologia e alla terapia” affinché ogni scoperta d’istochimica, d’istofisica, di fisiologia giungesse capillarmente sino ai medici di base — come diremmo oggi — ovvero ai “medici pratici” come si diceva allora*. Così, la “Rivista d’aero e climatoterapia. Bollettino dell'Istituto medico-pneumatico di Milano”, eretto a Milano sul modello di quello francese sorto già nel 1838, dal dottor Carlo Forlanini (colui il quale intro-

dusse nel 1882 nella terapia della tubercolosi polmonare il pneumotorace artificiale) sosteneva nell’editoriale del 1877 la

necessità improrogabile “di tenere i medici italiani informati dei progressi che l’aeroterapia fa[ceva] incessantemente nel resto d'Europa”. Dal canto suo, l’ “Archivio di psichiatria,

scienze penali ed antropologia criminale per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente” di Cesare Lombroso 44“Rivista d’avicoltura. Giornale d'allevamento ed acclimatazione”, feb-

braio 1910. 45 “Rivista di medicina, di chirurgia e di terapeutica”, vol. I, Milano 1869.

4 “Rivista d’aero e climatoterapia. Bollettino dell'Istituto medico-pneumatico di Milano”, 15 maggio 1877.

SIX

nell'articolo programmatico del primo numero, uscito nel 1889, dichiarava non solo di voler “scrutare la biologia dell'uomo

alienato e cavarne corollari per lo studio della psicologia e della clinica, specialmente per quella serie di morbi, che, infesta[vano] l’Italia, in forma endemica, come la pellagra, il

cretinismo”, ma di voler anche “rinvenire i mezzi più efficaci per ... [migliorare] le sue condizioni, ma ancor più quelle della società da lui, conscio o no, funestata”*. Il benessere della società era, infine, l’obiettivo primario e centrale, della “Rivista

di medicina legale e di giurisprudenza medica”, diretta dal Severi, professore di medicina legale e antropologia criminale e pubblicata da Francesco Vallardi dal 1897 al 1920. Aperta a frequenti contributi stranieri, il periodico, espressione di “un ramo cospicuo della medicina pubblica”, si proponeva di segnalare ai medici legali “le prodigiose conquiste, che segna[vano] ogni giorno le scienze biologiche e le discipline mediche” al fine di permettere loro l'esercizio della professione al meglio delle possibilità. “L'uomo e le sue azioni” — si affermava nell’editoriale del 15 febbraio 1897 — “porgono al medico legale argomento di studio e sono fonte inesauribile di problemi che reclamano da lui la soluzione. Questi esercita nella società una missione delicata quant’altra mai: chiamato dalla giustizia a illuminarla, sono affidate nelle sue mani la sicurezza, gli averi, la libertà, la riputazione e l'onore di non pochi

cittadini”*.. Costruire lo Stato e superare l’arretratezza economica promuovendone il progresso anche in campo sociale costituiva l’obiettivo primario della scienza economica, che allora si esprimeva non solo attraverso l'importante produzione libraria di cui si è detto, ma anche, e forse con maggiore tempestività ed incisività, attraverso la stampa periodica. Basti pensare al ruolo e all'importanza acquisita proprio in quegli anni dal “Gior-

nale degli economisti” che, a partire dal luglio del 1890, inaugurava la sua seconda serie potendo contare sulla collabora“Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale per servire allo studio dell'uomo alienato e delinquente”, vol. I, Torino 1889. 4 “Rivista di medicina legale e di giurisprudenza febbraio 1897,

318

medica”, Milano, 15

zione e sugli articoli dei maggiori economisti italiani dell’epoca, da Vilfredo Pareto, a Luigi Einaudi, Antonio de Viti De Marco, Luigi Bodio, Giovanni Montemartini, Alberto Beneduce, Giovanni Mortara per non citarne che alcuni”.

Agli inizi del secolo, forte ed articolato ed ispirato ad un fermo proposito riformista, anche se non sempre nitidi apparivano i riferimenti politici ed ideologici, fu, infine, il movi-

mento diretto ad offrire al mondo dei pratici e dei teorici del diritto strumenti di ricerca e di lavoro basati su più solide e razionali sistemazioni scientifiche. Nacquero con singolare unità di ispirazione, nel 1903, la “Rivista di diritto commerciale” ad opera di Angelo Sraffa e Cesare Vivante, nel 1909, la

“Rivista di diritto pubblico” per iniziativa di Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Luzzatti e, nel 1910, la “Rivista di diritto e

procedura penale” ad opera di Eugenio Florian e di Adolfo Zerbaglio, destinate a dominare a lungo il campo degli studi giuridici. Il motivo ricorrente in queste riviste (ma il discorso potrebbe valere per molte altre ad esse coeve) era il rinnovamento nel rigore scientifico, rinnovamento funzionale ad of-

frire risposte ai “bisogni mediati ed immediati della società e dello Stato”, alle esigenze di “una più completa ricostituzione organica della costituzione e dell’amministrazione” che ampliasse le “garanzie giuridiche del cittadino contro l’azione

dello Stato", alla necessità di porre il paese in continua comunicazione colle fresche correnti di vita” in una “collaborazione di leggi e di dottrine, aperte alle esigenze sociali”. Seppure con contraddizioni e senza un chiaro filo conduttore politico,

emergeva una tendenza che, attraverso un’ampia divulgazione delle problematiche tecniche condotta con metodo scienti-

fico, rivendicava una moderna legislazione sociale e riformista. 49Cfr. Antonio Cardini, La cultura economica e le riforme, in Riforme e istituzioni tra Otto e Novecento, a cura di Luigi Cavazzoli e Carlo G. Lacaita, Manduria 2002. 8 “Rivista di diritto e procedura penale”, Milano 1910, p. 2. 5! Aa. Vv,, Il nostro compito, in “Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia”, Milano 1909, p. 1 s.

Cesare Vivante-Angelo Sraffa, Il nostro programma, in “Rivista di diritto commerciale industriale e marittimo”, Milano,1903, p. 1 s.

319

E ciò da un lato rifletteva “l’irruzione dei problemi sollevati dal socialismo... nella cultura giuridica italiana”, dall'altro rispondeva alle esigenze di ammodernamento dello Stato e del suo sistema del liberismo sociale”. La produzione editoriale tecnico-scientifica (libraria e non), così ricca e vitale negli anni a cavallo fra Otto e Novecento,

grazie anche alla spinta impressa dalla cultura positivista che puntava all’acculturazione per tutti, con l'approssimarsi e con lo scoppio della prima guerra mondiale e in sintonia con quanto

accadeva nel generale panorama editoriale andò declinando. Dai 795 titoli, quanti ne uscirono nel 1914, si passò infatti ai

181 del 1918. (La produzione libraria globale del 1914 contava 12.100 titoli e, nel 1918, 5.800). Le guerre — è banale dirlo — salvo qualche prima pagina di quotidiano non hanno mai incrementato la produzione della carta stampata.

°“ Paolo Ungari, In memoria del socialismo giuridico. I. Le scuole del diritto privato sociale, in “Politica del diritto”, a. I, 1970, p.- 244. Si rammenti che Vivante, fondatore della “Rivista di diritto commerciale”, un anno prima

(1902) dell'uscita del periodico interveniva sulla “Critica Sociale” con un saggio dal significativo titolo Penetrazione del socialismo nel diritto privato.

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LUIGI CAVAZZOLI

LE STAZIONI SPERIMENTALI E LA MODERNIZZAZIONE IN AGRICOLTURA

Nascita delle Stazioni sperimentali agrarie Le iniziative che, dopo l’unità d’Italia, il Governo nazionale, le varie Associazioni e Società agrarie, le Camere di com-

mercio, i Comizi agrari, le Deputazioni provinciali e iComu-

ni, promossero per diffondere l'istruzione e incoraggiare la sperimentazione in agricoltura, testimoniano eloquentemente che la classe dirigente del tempo aveva maturato la consapevolezza dell’arretratezza in cui versava il comparto economico al quale, invece, intendeva affidare la prospettiva di svilup-

po dell'intero territorio nazionale, e la conseguente esigenza di colmare il pesante ritardo accumulato, anche nei confronti

di altri Stati europei. Giova ricordare, con le efficaci parole di Valerio Castronovo, quanto fosse diffusa la convinzione “che

lo sviluppo economico del paese avrebbe dovuto seguire il suo corso “naturale”, fondato sull'agricoltura”; lo stesso “ambien-

te culturale dell’Italia postunitaria — i giornali, la scuola, la cultura accademica — non era sensibile alla prospettiva di una trasformazione industriale, alla necessità di uscire fuori della

convinzione, così largamente diffusa e rassicurante, della solidità dell'agricoltura come fonte permanente e insostituibile della ricchezza naturale e dell'avvenire del paese”. Non mancò, in verità, la “conversione all’industrialismo” di qualificati esponenti politici e d'eminenti studiosi; tuttavia, “a chi lamentava la mancanza in Italia di validi istituti scientifici”, il mon-

do universitario rispondeva, nel 1880, “che la civiltà straniera rischiava di diventare “meccanica, disarticolata e acefala”,

quando invece compito della scuola italiana era di difendere la sua nobile tradizione umanistica”. ! Le citazioni sono in V. Castronovo, La storia economica, in Storia d'Italia,

4. Dall’Unità a oggi, Einaudi Torino 1975, p. 88-90.

321

Tuttavia,

a meno di un decennio dall'Unità, proprio il ruo-

lo fondamentale assegnato all'agricoltura nell'economia del paese, costituì un indubbio incentivo al superamento, da parte del potere politico, d'ogni residua incertezza sull'urgenza di favorire la costituzione di centri sperimentali di ricerca scientifica e di formazione tecnica degli operatori del settore. In effetti le principali Stazioni sperimentali agrarie italiane furono istituite su iniziativa del Ministero d'Agricoltura nei primi anni settanta dell'Ottocento, utilizzando come riferimento quella fondata nel 1851 a Morcken in Sassonia e il modello di quelle successive realizzate in Germania, per quanto riguarda l’ordinamento e l'indirizzo pratico-scientifico. Questo collegamento con la scienza agronomica, l'istruzione e la formazione agraria della Germania trovava un esplicito riconoscimento nella lingua tedesca insegnata nelle Scuole superiori di agricoltura di Milano e di Portici. Alla gestione delle Stazioni provvedeva un Consiglio, composto dal direttore e da rappresentanti designati dagli Enti (Province, Comuni, Camere

di commercio

e

Comizi agrari) che contribuivano al sostegno delle spese per il funzionamento; invece gli oneri per l'avvio delle Stazioni fu-

rono per la maggior parte a carico dello Stato. Il personale scientifico era costituito dal direttore, nominato dal Ministro del-

l'Agricoltura, che assistenti e allievi zione provvedeva scientifica faceva ma di dualismo

sarà equiparato ai docenti universitari, da praticanti nei laboratori; se all’amministrail Consiglio, la gestione della parte tecnicocapo direttamente al Ministero. Questa forsovente si tradusse in una situazione di

conflittualità, soprattutto per quanto riguardava le attribuzioni del direttore: subordinate al Consiglio di amministrazione, nella visione degli organismi locali; autonome all’interno degli obiettivi e del bilancio, secondo il Ministero. Quest'ultimo corse ai ripari modificando — dove necessario — lo Statuto e il regolamento proprio per evitare che il direttore della Stazione, dovendo ad esempio “provvedere di qualche libro, utensile, reagente ed altro”, fosse tenuto a chiederne l’autorizzazio-

ne al presidente del Consiglio, il quale partendo da un punto di vista diverso da quello del direttore, poteva rifiutarlo “su-

scitando così continui attriti e lagnanze che cagionavano DL

inceppamenti al servizio e danno alla istituzione”, come, ad esempio, accadde sovente nella Stazione di Lodi?.

Rispetto al loro indirizzo scientifico le Stazioni agrarie, sorte in Italia nel periodo in precedenza ricordato, possono essere

suddivise in due principali categorie: una comprendente quelle preposte a studi sperimentali riguardanti l'agricoltura in generale; l’altra costituita da istituzioni finalizzate a favorire il

progresso di specifiche industrie agrarie, quali ad esempio, l’enologia, la bachicoltura, il caseificio. La prima comprendeva le Stazioni sperimentali agrarie di Modena, istituita 1’8 aprile 1870; di Udine, annessa all'Istituto tecnico (30 giugno 1870); di Torino (8 aprile 1871); di Firenze (30 giugno 1871); di Roma (30 dicembre 1871); di Forlì, annessa all'Istituto tecnico (4 gennaio 1872); di Caserta, unita all'Istituto tecnico (25 febbraio 1872) e

di Palermo (28 aprile 1872). Nella seconda categoria figuravano le Stazioni enologiche di Asti in provincia di Alessandria (18 gennaio 1872) e di Gattinara in provincia di Novara (17 maggio 1872); la Stazione di caseificio di Lodi, allora in provincia di Milano (30 aprile 1871); quella bacologia di Padova (8 aprile 1871). Infine, il Laboratorio crittogamico di Pavia, annesso alla Scuola di Botanica dell’Università (26 marzo 1872) e la Stazione di entomologia agraria di Firenze, annessa al Museo di storia naturale. La maggior parte delle Stazioni (9) erano dunque del tutto indipendenti da Istituti d'istruzione, mentre le restanti cinque utilizzavano i laboratori e il personale di Istituti tecnici od universitari. Nel primo decennio di vita l’attività principale delle Stazioni sperimentali agrarie consisteva in esami chimici dei terreni coltivabili

e delle sostanze fertilizzanti, in ricerche sulla

viticoltura ed enologia, nell'esame microscopico dei semi del baco da seta, con alcune varianti legate a fattori locali. Modena, ad esempio, effettuava anche ricerche sull’alimentazione degli animali domestici; Firenze non comprendeva la 2 Le citazioni sono nella lettera del Ministero dell'Interno al presidente della Stazione di caseificio di Lodi, 12 aprile 1978, in Archivio Centrale dello

Stato (ACS), Ministero d’agricoltura industria e commercio (Maic), Direzione generale agricoltura (Dga), IV? v., b. 320, Lodi-Stazione sperimentale di

caseificio.

323

bachicoltura; Torino realizzava accertamenti sulla funzionali-

tà di strumenti e macchine agricole, e studi sulle principali rocce da cui derivavano i terreni coltivabili del Piemonte; Forlì svol-

geva anche ricerche sperimentali sui foraggi, la canapa e il lino; Roma studiava, fra l’altro, la coltura degli olivi e del relativo prodotto; Caserta conduceva ricerche sulla coltivazione della

robbia; Palermo si dedicava anche ad esperienze d’allevamento del bestiame. La Stazione bacologia di Padova concentrava i suoi studi sull’alimentazione dei bachi, le loro malattie, le

condizioni di allevamento e nuove specie di migliore qualità; quella di caseificio di Lodi effettuava ricerche sulle proprietà fisiche e chimiche del latte, sulle adulterazioni e l'influenza

della temperatura nella conservazione e produzione del burro e del formaggio, in merito alle alterazioni dei latticini e all'azione delle materie grasse nella fabbricazione e durata dei formaggi; le stazioni enologiche di Asti e Gattinara concentravano la loro attività in analisi della natura fisica e chimica del suolo destinato alla coltivazione delle viti, analisi chimiche e ricerche sulle malattie della vite, dell'uva, del mosto e del vino,

e in studi sui migliori sistemi di fabbricazione e conservazione del vino!. Il Ministero d’agricoltura chiese alle Stazioni agrarie di concentrare gran parte della loro attività dei primi anni di vita, sull'allevamento del baco da seta e la coltivazione della barbabietola. Nell'intento di favorire lo sviluppo della bachicoltura, su proposta del direttore della Stazione di Padova, suffragata dal parere favorevole espresso dai suoi colleghi, il ministro Stefano Castagnola istituì con decreto 24 febbraio 1872 degli osservatori bacologici aventi il compito di contribuire al perfezionamento di tale settore produttivo mediante suggerimenti ed esperienze pratiche, l'esecuzione di esami microscopici dei semi per conto degli allevatori e la gestione di un allevamento modello. In particolare i dirigenti degli osservatori erano chia* Cfr. Sull'attività delle Stazioni agrarie italiane negli anni 1870-1877, relazione presentata all’ Esposizione di Parigi del 1878, nel corso della quale fu asse-

gnata una medaglia d'oro alla Direzione d'agricoltura per l'iniziativa presa di istituire in Italia le Stazioni agrarie. Il testo è riprodotto in “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane” ,vol. VIII, 1879, p: 133-75.

324

mati a porsi in relazione con tutti gli allevatori, per informarli dei progressi conseguiti nel settore, soprattutto per quanto ri-

guardava l’“applicazione del microscopio nella riproduzione delle razze (sistema cellulare)”, e per “combattere coi loro in-

segnamenti gli eventuali abusi e pregiudizi che per avventura incontrassero, e introdurre in cambio di essi una pratica più

ragionevole di governo”. Ogni osservatorio sarebbe stato dotato dalla Stazione di Padova di mezza oncia di seme da utilizzare per un “allevamento modello” che fosse di “ammaestramento” per gli altri della zona. Da parte sua il Ministero avrebbe messo a disposizione “un microscopio Hartnack per l'esame dei semi e delle farfalle, 100 porta-oggetto e altrettanti coprioggetto, 3 termometri, 50 mortai di vetro, una incubatrice pel

seme e per la sfarfallatura precoce dei bozzoli ed i graticci necessari”; mentre il Comune e il Comizio agrario avrebbero fornito “un conveniente locale, fornito di stufa e di finestre”4.

Al primo nucleo di Stazioni, che perse in poco meno di un decennio quelle di Firenze, Caserta e Palermo, si aggiunsero,

prima della fine dell'Ottocento, i Laboratori di chimica agraria degli Istituti superiori agrari di Pisa (1886), di Milano (1896), seguiti nel secolo successivo da quelli di Portici (1908) e di

Perugia nel 1920, ai quali furono assegnate delle funzioni di vere e proprie Stazioni sperimentali. Quest’ultime fecero registrare un ulteriore incremento nel primo ventennio del Novecento grazie alla costituzione di quella di granicoltura di Rieti (1903), di Acireale per la frutticoltura e l’agrumicoltura (1907), di Vercelli per la risicoltura (1908), di Rovigo per la bieticoltura

(1910), di Crema per la batteriologia agraria (1914). E poi an-

cora, subito dopo la fine della grande guerra, la Stazione agraria sperimentale di Bari (1919), quella di Reggio Calabria per le essenze e i derivati dagli agrumi (1919); gli Istituti di genetica per la cerealicoltura di Roma (1919) e di Bologna (1921); la

Stazione di Bergamo per la maiscoltura (1920) e di Ascoli Piceno per la bachicoltura (1920), quelle di Milano per l'industria del freddo (1919), per la meccanica agraria (1920) e per l’orto4 Istituzione di osservatori bacologici, in “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane”, “vol. I, 1872, p. 75-8.

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frutticoltura (1922); ed infine le stazioni di Rovigo per la pollicoltura (1921), di Firenze per la selvicoltura (1922) e VISsti-

tuto sperimentale agrario a carattere generale di Cremona (1922)

Qualora si presti attenzione alla collocazione geografica delle molteplici stazioni sorte nell'arco di mezzo secolo, emer-

ge in tutta evidenza che la maggior parte di esse, circa il 60 per cento, operavano nel Nord e il 20 per cento sia al Centro che nel Meridione compresa la Sicilia; mentre erano del tutto as-

senti in Sardegna. Il prodotto per ettaro delle pianure settentrionali, di circa 600 lire nel 1910, risultava tre volte tanto il

reddito in agricoltura nel resto della penisola; cosicché si verificava una sostanziale coincidenza nel rapporto fra il numero delle stazioni presenti nelle regioni settentrionali e quello delle regioni dell’Italia centrale e del Sud, con il dato riferito al valore della produttività nelle stesse differenti aree geografiche. L'ammodernamento intervenuto nelle regioni padane venne espresso in misura significativa dall’incremento fatto registrare sia dal patrimonio zootecnico, sia dalle colture foraggiere; queste ultime aumentarono tra il 1891-94 e il 191114 di oltre 1,1 milioni di ettari mentre i bovini salirono tra il

1881 e il 1908 da 4.783.000 a 6.218.000 capi, grazie anche alla diffusione d’impianti più moderni nell'industria lattierocasearia? .

Il conflitto fra le aspettative locali e gli obiettivi ministeriali Nella fase, per così dire, “istruttoria” delle costituende Sta-

zioni, spesso si scontrarono le aspettative degli enti promotori a livello locale, con le intenzioni ministeriali; le prime più le-

gate all'esercizio della pratica, le seconde con un indirizzo più marcatamente scientifico sulla scia della “rivoluzione chimi-

° Cfr. G. Tommasi, La sperimentazione agraria italiana, in “Annali della Stazione chimico-agraria sperimentale di Roma”, s. II, vol. XIV, Tip. Editrice “Italia” Roma 1984, p.8-9. ° Cfr., V. Castronovo, La storia economica, cit., p. 142.

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ca” applicata all'agricoltura di metà Ottocento, avviata con l'individuazione delle sostanze nutritive della vegetazione da

parte di Justus Liebing7. Esempi emblematici di questa dicotomia riconoscibili nelle vicende che portarono alla esempio, delle Stazioni di caseificio di Lodi e Reggio Emilia. Nel 1864 si era svolto a Pavia

sono facilmente costituzione, ad di zootecnica di un convegno di tecnici nel corso del quale era emersa la proposta “che i fisici, i chimici cominciassero con lo studiare la fabbricazione dei formaggi, in modo da raccogliere e poter vagliare, al lume della scienza, le osservazioni ed i risultati della pratica”; mentre

l’idea d’istituire in Italia una Stazione sperimentale di caseificio emerse in occasione del congresso delle Camere di commercio svoltosi a Genova nel 1869? e prese corpo in una proposta che lo stesso anno l'Ente camerale e il Comizio agrario di Lodi inoltrarono congiuntamente al Ministro d’agricoltura. In essa si prefigurava, in particolare, l'istituzione di una scuola con lo scopo di “avvicinare per così dire la scienza a coloro [innanzitutto i casari] che troppo facilmente si trovano alla sua chiamata restii”!°. Il Comizio agrario e con esso la Camera di commercio di Lodi manifestarono dunque apertamente sin nella

fase progettuale, e successivamente confermarono in più occasioni, la loro netta preferenza per una istituzione fortemente caratterizzata dall'attività pratica. “Una istituzione che si restringesse al campo teorico”, si sarebbe inevitabilmente trasformata — ad avviso del Comizio agrario — in uno “studio di chimica applicata al latte” da annettere alla Scuola superiore 7? Contro la dominante convinzione che il nutrimento delle piante fosse tratto dall’umo, frutto della putrefazione delle loro radici, Liebig sostenne che le sostanze nutritive fossero i sali minerali contenuti nei terreni, e pertan-

to che essi fossero integrabili mediante la produzione chimico-industriale (G. Liebig, La chimica applicata all'agricoltura e alla fisiologia, versione di G. Netwold, F. Volke, Vienna 1844).

8 A. Besana, Convegno degli ex allievi dell'istituto sperimentale di caseificio di Lodi, in “La Rivista del latte”, aprile-giugno 1953, p. 15. ® Cfr. Camera di commercio e d'arti di Lodi, Note statistiche economico-

commerciali del distretto camerale di Lodi per glianni 1886-1887-1888, Tip. Wilmant Lodi 1889, p. 22. !° Comizio agrario di Lodi, in “Corriere dell'Adda”, 30 ottobre 1869.

di agricoltura; non a caso tra i sostenitori di questa possibile soluzione vi era il direttore della stessa Scuola Gaetano Cantoni!!. D'altro canto la locale Camera di commercio si fece carico di diffondere la notizia dalla quale risultava che “sullo scorcio del 1876 l’Istituto superiore di Milano “aveva fatto pratiche per avocare a sé la Stazione di Lodi”!?, senza successo grazie anche alla netta posizione di salvaguardia dell'autonomia espressa dal Consiglio di amministrazione di quest’ultima. Il ministro Stefano Castagnola, “sentito anche il parere del Consiglio d’Agricoltura”!, espresse la sua preferenza nei confronti della Stazione sperimentale piuttosto che in direzione di una “scuola teorico-pratica di caseificio”, a cui invece miravano i “Corpi morali” di Lodi, affermando come fosse prioritario per il comparto lattiero-caseario giungere a “definire le norme colle quali trarre il maggior possibile profitto dal latte, a seconda della diversità del luogo e delle condizioni”. Un obiettivo questo non perseguibile mediante “un insegnamento pratico” sia perché di difficile attuazione sia per il localismo che inevitabilmente lo connoterebbe. Infatti - sosteneva il Ministro — un insegnamento pratico porta con sé la necessità di docenti versatissimi non solo nelle scienze chimiche e naturali, ma che conoscono pure praticamente il caseificio e

"! Aniello, Si può utilmente conservare la stazione di caseificio?, in “Corriere dell'Adda”, 24 novembre 1877. Gaetano Cantoni fu tra i principali propagatori in Italia delle nuove acquisizioni della chimica e della moderna

tecnologia, oltre che convinto

assertore della necessità di dare un orientamento specialistico all’insegnamento delle scienze agrarie. Cfr. Giuseppe Giusti, Gaetano Cantoni, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia italiana Roma 1975, p. 319-23. Sulla Scuola di Milano cfr., in particolare, R. Scuola superiore di agricoltura in Milano, Il primo cinquantennio 1871-1921, Milano 1923; Bruno Moreschi,

La scuola superiore di agricoltura in Milano. Ricordi dei primi anni di sua esistenza, in “L'Italia agricola”, n. 3, 1922.

!° Camera di commercio e d'arti di Lodi, Note statistiche economicocommerciali del distretto camerale di Lodi per gli anni 1886-1887-1888, cit., pa22,

* Sul Consiglio superiore d’agricoltura cfr. L'iniziativa del Re d'Italia e l'istituto internazionale d’agricoltura. Studi e documenti, Tip. Nazionale di G. Bertero e C., Roma 1905, p. 181-7.

328

l’agronomia, richiede che sia prestabilita la qualità del formaggio che si vuole insegnare a fabbricare, suppone l'impianto di una industria in larga scala, e quindi una forte spesa. Simili scuole — aggiungeva Castagnola — riuscirebbero d'una troppo ristretta sfera d'azione o troppo locali, inconveniente cui non rimedierebbe la proposta [del Comizio] di renderla ambulante”. Inoltre, non secondaria, era l'esigenza

di accrescere diversificando la produzione in modo da soddisfare più compiutamente la domanda

dei consumatori.

‘Il formaggio grana,

forse non è più quello — sottolineava il Ministro - che paghi il latte”, nel senso di renderlo remunerativo per l'agricoltore, “né quello che abbia aumentato nell’importazione, pure la fabbricazione dei formaggi duri dovrà prendere una maggior estensione per la crescente ricerca del burro. E ciò viene a dimostrare che non è una scuola pratica di una piuttosto che d'un altra qualità di formaggio, ciò che soddisfarebbe ai nostri bisogni, ma bensì l’imparare a manipolare in più modi il latte per ottenere i prodotti più ricercati e più rimuneratori”!4.

La soluzione che consentiva di contemperare sia la posizione del Ministero d’agricoltura, che assegnava alla Stazione soprattutto un ruolo di ricerca, sia quella dei “Corpi morali” di Lodi i quali, come ricordato, sin dal momento della formu-

lazione della proposta originaria avevano decisamente puntato a realizzare un'istituzione caratterizzata da “spirito pratico”, maturò nel corso di una riunione presieduta da Luigi Luzzati, segretario generale del Ministero d’agricoltura, che si

tenne nella sede della Deputazione provinciale di Milano il 14 aprile 1871!. Essa previde che la direzione formale della Stazione fosse affidata per Statuto alla Scuola superiore di agricoltura e che ad integrazione della Stazione fosse istituita una “Società sperimentale che esercitasse l'industria e fornisse così il campo naturale alle osservazioni” che l’attività di ricerca imponeva!°.

4 Nota del Ministero d’agricoltura industria e commercio datata, Firenze 13 giugno 1870 e titolata Caseificio, manoscritto, in Archivio storico del comune

di Lodi, Archivio comunale 1859-1900, b. 18, f. 10. 15 Cfr. il verbale della riunione, manoscritto, ibid. !6 Cfr. Aniello, Cattivi frutti di una buona istituzione. II, in “Corriere

dell'Adda”, 27 ottobre 1877; la I° puntata dell'articolo era comparsa

nell'edizione del 20 ottobre 1877.

329

Questo compromesso consente d’interpretare correttamente

la rinuncia a ricoprire il ruolo di direttore, spettantegli di diritto, che effettuò Guglielmo Kérner!”, docente di Chimica della

Scuola superiore di agricoltura di Milano, in modo che la direzione della Stazione risultasse di fatto affidata al vice, che operava in quest’ultima, e potesse così esplicarsi in forma autono-

ma rispetto alla Scuola, com'era negli auspici dei “Corpi morali” di Lodi!8. L'irriducibilità delle due posizioni in conflitto in effetti permase e si espresse anzitutto nel tentativo esperito dal Comizio agrario di istituire, coinvolgendo i corrispondenti organismi di Cremona, Milano e Pavia, “una Stazione-Scuo-

la pratica di Caseificio al fine di togliersi dalla necessità di seguire per questa istituzione (cioè per la Stazione di Lodi) un indirizzo che non ha dato buon frutto”! .La nuova istituzione, a differen-

za di quella esistente, avrebbe dovuto finalizzare le proprie esperienze alla “fabbricazione dei latticini, perché se ne otten-

ga il massimo profitto” e dedicarsi ad “insegnare in apposita scuola i migliori sistemi che in Italia od all’estero sono introdotti o si introdurranno per la fabbricazione dei più opportuni caci e del burro”?°. Nell'Italia da poco unificata il panorama zootecnico si presentava alquanto multiforme e, per così dire, pittoresco se si tiene presente la varietà delle razze, prevalentemente a più attitudini, che lo componevano. D'altra parte, la pur sentita esigenza di operare una puntuale conoscenza dell'esistente mediante un accurato censimento e di procedere ad una rico‘Sull’attività scientifica di Kòrner si veda G. Ciamician, L'opera scientifica di Guglielmo Kòrner, in Pubblicazioni di Guglielmo Kòrner raccolte e ordinate in occasione del 50 anniversario della sua laurea, Milano, s.d. 1910, p. 1-11.

!* Nella lettera di dimissioni K6rner sottolineava l’inconciliabilità fra l'ampia responsabilità di cui doveva farsi carico e l'assenza di autonomia decisionale. In margine alla lettera il ministro Castagnola annotò: “si lasci morire questa... Stazione nella speranza che possa risorgere dalle sue ceneri meglio e più vitalmente organizzata” (lettera di Kòrner al Maic, 8 luglio 1872, in Acs, Maic, Dga, Il/\v., b. 131, Lodi-Stazione sperimentale di caseificio).

!" Camera di commercio e d'arti di Lodi, Note statistiche economicocommerciali del distretto camerale di Lodi per gli anni 1886-1887-1888, cit., p. 23. °" Progetto di statuto per la Stazione-scuola di caseificio, in ACS, Maic, Dga, IV v., b. 320, Lodi-Stazione sperimentale di caseificio.

330

struzione morfologica, si collocava nel vivace dibattito fra le due posizioni scientifiche che connotavano la zootecnia dell'epoca: quella cosiddetta sansonista?! o francese e l’altra darvinista o evoluzionista. Com'è noto, la prima partiva dal presupposto che le razze fossero il naturale portato del loro ambiente, per cui ogni programma zootecnico doveva prevedere interventi sui caratteri funzionali delle razze esistenti,

peraltro gli unici suscettibili di modificazione, mediante la selezione, l'alimentazione e i metodi d'allevamento; la seconda,

invece, riteneva che il solo modo per esaltare le attitudini richieste dalla congiuntura economica, fosse quello di procedere alla sostituzione dell'esistente mediante opportuni incroci di razze meno perfezionate con altre dalle caratteristiche me-

glio rispondenti alla domanda del mercato”. In Italia la corrente, per così dire francese, faceva capo ad Alessio Lemoigne, docente alla Scuola superiore d’agricoltura di Milano, mentre quella evoluzionista annoverava tra i suoi seguaci Gaetano Cantoni, capostipite della moderna scuola agronomica lombarda?. In effetti, la crescita in atto dei consumi interni ed interna-

zionali di carni e di prodotti lattiero-caseari apriva sbocchi di indubbio interesse per l'economia agricola della Valle Padana,

2! Da Andrea Sanson (1826-1902), autore, fra l’altro, del Traité de Zootechnie

(1877), un testo a cui per molti anni fecero riferimento i tecnici del settore sia essi francesi che italiani. 22 Cfr. F. Cafasi, Saluto e relazione storica, in Il contributo delle scienze agrarie

alla conoscenza e allo sviluppo della economia locale. Atti e memorie (1879-1979), Istituto Tecnico Agrario Statale, Reggio Emilia 1981, p. 24-5. 2 Su Gaetano Cantoni si veda la corrispondente voce curata da Renato Giusti nel Dizionario biografico degli italiani, Istituto della enciclopedia italiana Roma 1975, vol. 18, p. 319-23, il quale gli attribuisce l'articolo Sulle condizioni

economiche e morali della Bassa Lombardia e il progetto di riforma degli studi liceali del Canton Ticino, entrambi invece del fratello Giovanni; notizie sulla

famiglia Cantoni sono in Campagne e contadini in Lombardia durate il risorgimento. Scritti di Giovanni Cantoni, a cura di C.G. Lacaita, Regione Lombardia Milano 1976; una biografia di Gaetano è ricavabile in A. Galbani, La

modernizzazione in agricoltura: scienza e tecnica nella lotta alla pebrina. Il contributo di Emilio Cornalia e di Gaetano Cantoni, in Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, a cura di E. Decleva, C.G. Lacaita, A. Ventura, F. Angeli Milano 1992, p. 56-84, e nella bibliografia ivi contenuta.

Sol

qualora la stessa fosse riuscita a dotarsi in tempi brevi di allevamenti bovini che, su entrambi i versanti della carne e del

latte, fossero stati in grado di conseguire delle produttività prossime a quelle registrate in altri paesi europei. L'urgenza dei risultati giocava indubbiamente a sfavore dell'indirizzo selettivo, che necessita di tempi lunghi, e nei confronti del quale mancava

all'agricoltura italiana una specifica tradizione; la

soluzione più rapida era indubbiamente conseguibile mediante l'incrocio con razze estere, ma essa si scontrava con l'empirismo

degli allevatori e le convinzioni della scienza ufficiale dell’epoca in campo zootecnico. Da parte sua il Ministero d’agricoltura si adoperò “alacremente per promuovere e spingere sopra vie più razionali l'allevamento del bestiame”, concorrendo, ad esempio, alla “diffusione delle stazioni di tori da monta, delle latterie sociali, delle condotte veterinarie”, la cui efficacia era

comunque limitata dal persistere, nella “grande massa degli allevatori”, di convinzioni non “razionali della zootecnia”. Per

rimuovere un simile ostacolo, che pregiudicava ogni tipo di sviluppo del comparto, era convinzione del Ministro che occorresse “procedere osservando ed esperimentando”; compiti questi già assegnati ad istituti per l'agricoltura in generale, ed in particolare per la bacologia, per la enologia e per il caseificio, i quali proprio dalla ricerca scientifica erano chiamati a “dedurre precetti e suggerimenti che po[tessero] servire di norma agli altri nell'esercizio pratico dell'industria”. Si rendeva ora necessario — era il 1874 — aggiungere a quelli

ricordati e istituiti negli anni precedenti, un istituto sperimentale per l'industria della pastorizia sulla falsariga della “ormai storica fattoria di Beckelbronn sino a quelli più recenti delle Accademie agrarie di Eldena e di Proschau” che indubbi vantaggi resero “all'allevamento animale” dei loro Paesi. Il Ministro pose termine alle discussioni sulla scelta del luogo in cui collocare la nuova istituzione, individuando nella provincia di Reggio Emilia quella rispondente a criteri che andavano dalla sua collocazione in “posizione centrale tra l’Italia superiore e “ M. Zucchini, Le cattedre ambulanti di agricoltura, G. Volpe Ed. Roma 1970, il par. Le Stazioni sperimentali e le Regie Scuole agrarie, p.11-7.

332

la media”, alla presenza di un cospicuo numero di allevamenti zootecnici; dall'esistenza nel capoluogo di un Istituto tecnico con annesso un “podere sperimentale” e un “Deposito di animali ovini e suini delle migliori razze inglesi”, fondato dallo stesso Ministero “allo scopo di tentarne l’acclimatazione e di diffondere i riproduttori”, alla constatazione che gli Enti locali reggiani avevano manifestato a più riprese di tenere in “conto altissimo” questo “ramo importantissimo della produzione agraria”” . La Deputazione provinciale di Reggio Emilia accolse la proposta ministeriale nella sessione ordinaria del 1874, e ciò consentì l'emanazione del decreto reale il successi-

vo 7 ottobre con il quale si istituiva, nel podere annesso al R. Istituto tecnico, uno Stabilimento sperimentale di zootecnia che

sarebbe entrato in funzione a partire dal 1° gennaio 1875. I compiti assegnati alla nuova istituzione consistevano nella ricerca dei migliori metodi di riproduzione, di allevamento, di alimen-

tazione, d’ingrasso, di produzione del latte e della lana; la realizzazione di incroci fra razze endogene ed estere; il miglioramento di quelle italiane mediante la selezione; la diffusione di “razze perfezionate estere”; sulle malattie “dipendenti dai pascoli, dai ricoveri e da sistemi di allevamenti e di riproduzione”; infine, la diffusione dei risultati delle ricerche mediante

l'assistenza agli allevatori e l'istituzione di appositi corsi teorici e pratici nello Stabilimento?°.

Le Stazioni agrarie nel mondo alla fine dell'Ottocento In una graduatoria compilata nel 1892 in base al numero delle Stazioni agrarie operanti nei singoli Paesi, l’Italia figurava al sesto

posto con 17, preceduta dalla Svezia con 24, dall'Impero austroungarico con 35, dalla Francia con 53, dagli Stati Uniti con 54 e dalla Germania con 67; quest’ultima ne annoverava ben 35 in

Prussia, 10 in Baviera e 6 in Sassonia (cfr. tab. 1). 25 Le citazioni sono in Nota ministeriale alla Deputazione provinciale, 8 aprile 1874, in R. Stabilimento sperimentale di zootecnia, Atti 1875-1876, vol. I,

Tip. Calderini Reggio Emilia 1876, p.9-11. 2 Cfr. art. 2 del RD 7 ottobre 1874.

393

Tab. 1. Stazioni agrarie nel mondo (1892) Numero

Paese

GERMANIA (Prussia 35, Baviera 10, Sassonia 6, Virtemberg 2, Baden 2, Analt 2, Amburgo 2, Brunsovico 1, Assia 1, Mecklemburg 1, Vimaria 1, Maininga 1, AL-

demburgo 1, Brema 1, Alsazia 1. STATI UNITI D'AMERICA FRANCIA AUSTRIA-UNGHERIA SVEZIA ITALIA RUSSIA SVIZZERA BELGIO DANIMARCA GRAN BRETAGNA NORVEGIA OLANDA GIAVA (Olandese) PORTOGALLO ROMANIA SPAGNA BRASILE GIAPPONE Totale

Do[nari NHH WNW 0 DCO N DE

Fonte: “Die landwirtschaftlichen Versuchs-Stationen”, 3, 1892; ripreso in “Le stazioni sperimentali agrarie”, XXIV, 1893, p. 223.

Dieci anni dopo su “Experiment Stazion Record” apparve una rassegna delle Stazioni sperimentali agrarie e istituzioni

affini operanti nei vari paesi della terra, curata da United States Department of Agriculture, nella quale il loro numero era più che raddoppiato, attestandosi su 780. Ma tale confronto è in parte arbitrario trattandosi di rilevazioni effettuate con criteri non omogenei. All'inizio del Novecento il maggior numero di istituti figurava infatti in Russia (102) ma la maggior parte di essi consistevano in “piccoli campi sperimentali destinati ad istruire i contadini”; altri si dedicavano alla introduzione e alla 334

distribuzione di varietà scelte di semi, e solo in minima parte erano organizzate per fare ricerche scientifiche. Se istituzioni cosiffatte si potessero tutte quante indicare col nome di Stazioni agrarie, gli Stati Uniti verrebbero subito dopo la Russia;

ma eliminando i laboratori che si occupano esclusivamente di analisì, i campi dimostrativi, ecc., per importanza numerica

il secondo

posto spetta alla Germania (80) e il terzo alla Francia (70)... L'Austria

ha 40 Stazioni che dipendono dal Ministero d’Agricoltura, il quale provvede anche ad una pubblicazione ufficiale (‘“Zeitschrift fiir das landwirthschaftliche Versuchswesen in Oesterreich”) contenente le relazioni sui lavori dei vari istituti. Nella Gran Bretagna... si contano 30 istituti, fra i quali solamente 12 possono riguardarsi come vere

Stazioni agrarie. Le istituzioni principali dell'India consistono in 10 aziende e piantagioni sperimentali e 21 giardini botanici municipali.

L'elenco proseguiva con Belgio e Ungheria, entrambi dotati di 16 Stazioni; l'Olanda con 7 e 11 campi sperimentali; la Svezia con 26; la Norvegia 11; la Danimarca 10, il Giappone 15, la Svizzera 10, di cui una dedicata alla fabbricazione della bir-

ra; la Spagna 9 e l'Australia ‘34 istituzioni, 16 delle quali sparse per le campagne e dedicate per la maggior parte a esperienze colturali, al miglioramento del bestiame, senza punto occuparsi di lavori scientifici veri e propri”. Mancavano, invece, il Canada e gli Stati Uniti perché le loro Stazioni non erano assimilabili a quelle europee sia per tipologia che per metodo di lavoro; mentre, ad esempio, negli USA gli specialisti in settori diversi dell'agricoltura operano “l'uno accanto all’altro in una medesima Stazione, gli europei li hanno divisi in Stazioni separate, ciascuna con il proprio direttore. All'unione di un certo numero di sezioni in una medesima Stazione, sembrano

opporsi il sistema e le abitudini dominanti in Europa, dove si attribuisce per molta parte alla divisione suindicata il notevole lavoro fatto a vantaggio del progresso agrario”.

27 F. Todaro, Stazioni agrarie e istituzioni analoghe, in “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane”, XXXV, 1902, p. 390-6.

595

Una illuminante polemica

In un discorso pronunciato alla Camera nel 1893 il deputato Edoardo Ottavi espresse un severo giudizio nei confronti delle stazioni agrarie, responsabili — salvo poche eccezioni — di non svolgere un'azione incisiva a sostegno dell’ammodernamento dell'agricoltura. In particolare l'accusa principale consisté nella modesta produzione di “studi e ricerche originali”, fra l’altro ad opera anzitutto degli assistenti piuttosto che dei direttori; non mancarono pure rilievi nei confronti della Stazione di caseificio di Lodi, per non avere debitamente

concorso al miglioramento della qualità dei formaggi, e dei laboratori di analisi ai quali “le ditte più importanti di concimi chimici e i rappresentanti di case straniere fornitrici di materie prime” preferivano i laboratori d'Oltralpe. A contestare le affermazioni di Ottavi intervenne Gino Cugini, direttore del periodico “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane”, sostenendo che le istituzioni contestate probabilmente non costituivano l'atteso sostegno al miglioramento della pratica agricola, oltreché un luogo di proficue ricerche sia di carattere generale che d'interesse locale, a causa dello scopo ad esse assegnato dai rispettivi statuti. Tuttavia andava riconosciuta la notevole mole di lavoro “pratico” svolta dalle stazioni, non rilevabile dalle pubblicazioni ufficiali perché consistente in consigli formulati direttamente agli agricoltori, conferenze, esperienze colturali nelle singole aziende, prove di macchine ed attrezzature agricole; inoltre da quando furono istituite, cioè nell'arco di soli vent'anni, le stazioni agrarie pubblicarono nei loro “Annuari” o “Bollettini”, circa 800 memorie alle quali andavano sommate le 260 apparse sulla rivista in comune. Nel pur cospicuo numero non figurava la produzione della Stazione entomologica di Firenze e le memorie del Laboratorio crittogamico di Pavia, in quanto non collocabile a pieno titolo fra le Stazioni. Cugini definì poi “eccessiva” la responsabilità attribuita da Ottavi alla Stazione di Lodi del mancato miglioramento dei formaggi italiani, perché non teneva in alcun conto quanto fosse 336

grande in Italia il rispetto alle tradizioni, e quanto riesca difficile il far cambiare abitudini inveterate ai coltivatori ed agli esercenti industrie agrarie ed io che per dura esperienza so quanto sia difficile persuadere i nostri buoni villici della bontà di un attrezzo rurale o di un metodo di coltura, comprendo benissimo come l’amico Befana [direttore della Stazione di caseificio] debba incontrare almeno altret-

tante difficoltà a persuadere i casari, gente rozza nel maggior numero dei casi, che si può fare il formaggio meglio di quello che essi lo facciano. D'onde mi pare si possa concludere che non si deve pretendere che istituti scientifici, quali sono le Stazioni agrarie, possano

esercitare sulla pratica agricola e sulla tecnologia agraria un’influenza più grande di quello che sia ragionevole, né imputare ad essi se l'agricoltura e le industrie agrarie italiane non sono abbastanza progredite, mentre questo è per massima parte imputabile a difetto di chi esercita tali industrie?8.

Carlo Besana, considerato a buon diritto “uno dei principali artefici della scienza casearia””, chiamato nel 1880 da Gaetano Cantoni, alla cui scuola si era formato, a dirigere la ricostituita Stazione di Lodi, sintetizzò con molta efficacia, nel

1883, il tipo di aspettativa che nei confronti della stessa nutriva il mondo delle campagne della bassa Lombardia, e della quale, in larga misura, si facevano interpreti sia il Comizio che la Camera di commercio. In questa plaga — ma la riflessione è

trasferibile anche alle restanti — in cui si fabbricava il formaggio grana vigeva, ad avviso di Besana, “un pregiudizio molto strano” sul ruolo della scienza e degli scienziati nell'industria del caseificio. Siccome i casari attuali nel fabbricare formaggio fanno molti scarti ed alcuni non fanno che scarti, così è nata l'opinione — rilevava

2 G. Cugini, Sulle nostre Stazioni agrarie. Lettera all'on. prof. Edoardo Ottavi, deputato al Parlamento nazionale, Modena, 28 luglio 1893, in “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane”, XXIV, 1893, p. 563-72.

2 Cfr. E. Savini, Carlo Besana, necrologio, in “Annali dell'Istituto sperimentale di caseificio in Lodi”, vol. V, f. 6-7, maggio 1930, Tip. Sociale lodigiana

Lodi 1930, p. 161-4; Savini riporta anche l’Elenco delle pubblicazioni del comm. prof. Carlo Besana, ibid., p. 165-72; si veda anche G. Gaudiano, Besana, Carlo, in

Dizionario biografico degli italiani, vol.9, Istituto della enciclopedia italiana Roma 1967, p. 658-60.

997

Befana — che la scienza debba scoprire qualche cosa, una polvere, un liquido, insomma una specie di pietra filosofale che deve convertire il latte in un formaggio di esito sicuro. E questo pregiudizio è sciaguratamente diviso anche da moltissime persone colte... Anche la Stazione di caseificio di Lodi, che venne istituita dal Ministero di Agricoltura per istudiare e propagandare le cognizioni ed i perfezionamenti dell'industria casearia, è intesa nel concetto della maggior parte del pubblico come destinata a trovare quella tal pietra filosofale che deve rendere infallibile la fabbricazione del formaggio di grana. Ed invero il sistema sarebbe comodo: il caseificio lombardo continuerebbe co‘ suoi locali inadatti e sudici, i casari seguiterebbero ad essere empirici ed ignoranti, ma una buona pietra filosofale messa nel latte rimedierebbe a tutto. Neppure una sorte fallata. Sarebbe una vera cuccagna. La gente che vive in quel pregiudizio crede che non esista alcun metodo per fabbricare formaggio di grana e crede altresì che quando il detto formaggio riesce bene, lo è perché si è indovinato. Nulla di più falso. Il formaggio di grana non si può fabbricare con una ricetta alla mano; questo è bensì vero, ma siccome il latte presenta variazioni sensibili da una cascina all'altra, da una stagione all'altra e persino da un giorno all’altro, così il casaro istruito, allorché in possesso delle

norme pratiche generali e della teoria della fabbricazione, si stabilisce il proprio metodo di trattamento del latte a regola delle proprietà che il latte stesso presenta. E finché non ci saranno questi casari istruiti, che conoscano la teoria e la pratica del caseificio, l’arte rimarrà sem-

pre nell'empirismo, nell’incertezza e nella cabala. Buon latte, locali adatti e casari istruiti; ecco le condizioni fondamentali — sottolineava

Befana — per fare perfetti formaggi d'ogni genere; ecco come la scienza intende la pietra filosofale del caseificio; ecco come rispondo io a quelli che, conoscendomi come cultore di queste discipline, mi domandano se si è trovato il modo di fabbricare una sorte scelta. Del resto pretendere l’infallibilità assoluta nella fabbricazione del formaggio di grana... è come aspettare la scoperta di un rimedio unico per guarire tutte le malattie dell’umanità?°.

A proposito dei laboratori di analisi Cugini fece presente che la sola Stazione di Modena effettuava ogni anno non meno di 1.300 esami di concimi e tra i suoi clienti annoverava numerose case produttrici e commerciali oltre ad un cospicuo nu"°C. Besana, Il caseificio empirico, in “Annuario della R. Stazione sperimentale di Caseificio di Lodi. Anno 1883”, Tip. C. Dell’Avo Lodi 1884, p- 60-1.

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mero di Comizi e Consorzi agrari, compresa la Federazione di quest'ultimi; ciò testimoniava che “la fiducia nelle analisi delle Stazioni italiane non era ancora interamente scossa”. Infine,

Ottavi aveva dichiarato che la rivista “Le Stazioni agrarie italiane” rappresentava “il più severo atto d'accusa contro le Stazioni” stesse in quanto il suo contenuto era formato da pochi resoconti di ricerche originali, effettuati dagli assistenti, e da

numerosi “sunti di memorie pubblicate all’estero”, che occupavano “i quattro quinti del giornale” ed erano stilati dai direttori. In proposito Cugini fece presente che l'opportunità di pubblicare “tali sunti” era stata a lungo dibattuta e decisa nei Congressi dei direttori delle Stazioni svoltisi nel 1887 e nel 1889,

nonostante che il suo parere consistesse nel ritorno alla veste

che alla pubblicazione aveva dato la direzione di Cossa sulla falsariga dei “Landwirtschaftlichen Versuchsstationen” o degli “Annales Agronomiques”. Ciononostante le memorie apparse sulla rivista dal 1888 in poi, cioè da quando fu ripresa la pubblicazione, 65 erano firmate da direttori, 60 da assistenti e

46 da ricercatori esterni alle Stazioni® .

Verso la riforma delle Stazioni In una riunione privata, svoltasi a Torino nei giorni 26 e 27 agosto 1898, i direttori di Stazioni e Laboratori agrari discussero ampiamente sul funzionamento delle istituzioni delle quali erano responsabili, utilizzando come falsariga la relazione

introduttiva di Cugini, direttore della Stazione agraria di Modena. L'esigenza di un tale dibattito scaturiva dalla constatazione che le Stazioni funzionavano “in modo imperfetto” e che per porvi rimedio occorreva introdurre riforme sia nella veste giuridica che nei compiti alle stesse assegnati. L'istituzione mediante decreto reale si prestava, ad esempio, “a facili soppressioni e trasformazioni”, come nei casi della Stazione di Caserta e di quella di Firenze, che avevano privato due regio® G. Cugini, Sulle nostre Stazioni agrarie. Lettera all'on. prof. Edoardo Ottavi, deputato al Parlamento nazionale, cit.

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ni dei rispettivi centri sperimentali in agricoltura; la precarietà era pure dovuta al fatto che le Stazioni erano gestite e sostenute finanziariamente da Consorzi in cui, assieme allo Stato, partecipavano Comuni, Province, Camere di

commercio, Comizi agrari, cioè Enti per i quali il contributo che si erano impegnati ad erogare non rientrava fra le spese obbligatorie. Il supe-ramento di tale condizione, che si ripercuoteva negativamente sulla produttività, doveva avvenire mediante la presa in carico delle Stazioni da parte dello Stato il quale, a sua volta, avrebbe potuto chiedere a tutte le Province “un concorso nelle spese per promuovere il progresso agrario” e la presenza dei centri sperimentali in tutte le regioni italiane. Per quanto riguarda l’attività scientifica Cugini ricordò che il Ministero d'Agricoltura al momento dell'istituzione delle Stazioni ebbe il concetto di specializzarne le funzioni, e ciò fece stabilendo un

programma generale di ricerche comune a tutte le Stazioni, e ridotto all'esame chimico dei terreni, dei concimi, ed a ricerche sperimentali

di viticoltura ed enologia, al quale fu aggiunto per talune stazioni l'esame dei semi di bachi da seta e le prove precoci dei medesimi, per altre lo studio delle macchine agrarie, o le ricerche sull’alimentazione degli animali domestici, o ricerche sperimentali sulla canapa, il

lino, i foraggi, l'ulivo, la robbia. Inoltre vennero in seguito istituite le stazioni bacologia, entomologica, e così si continuò ad applicare il concetto della divisione del lavoro. E finalmente, di questa applicazione un ulteriore esperimento fu fatto nel 1879 quando si riordinò la Stazione agraria di Modena, alla quale fu affidato l’incarico di stu-

diare i cereali ed i foraggi coi loro derivati, oltre a quello di eseguire analisi pei privati.

Vi era però — ad avviso di Cugini — un altro tipo di specializzazione, che presupponeva l’esistenza in tutte le Stazioni sia di un laboratorio di chimica, che di un campo sperimentale e

di una rassegna di macchine agricole al fine di consentire lo studio dell'influenza del clima e del terreno sullo sviluppo delle piante, “sia esse erbacee o legnose”; di effettuare esperienze di rotazione agraria, di concimazione e di specifiche coltivazioni, “da ripetersi in vari punti della regione nei poderi delle 340

scuole agrarie, dei Comizi, dei privati”, e per diversi anni in modo da “accrescere l'attendibilità dei risultati”. In conclusione — affermava Cugini — le Stazioni agrarie dovrebbero avere carattere regionale, ed avendo tutte un fine comune, dovreb-

bero specializzarsi a seconda delle colture dominanti nelle singole regioni. Ciò non toglie però che talune Stazioni possano continuare a funzionare coll’attuale indirizzo quando la materia della quale si occupano sia abbastanza vasta e bene delimitata da costituire quasi una scienza speciale: cito ad esempio quelle di patologia vegetale e di entomologia agraria, quella di bacologia e sericoltura al programma della quale si potrebbe aggiungere l'allevamento delle api, quella di enologia e viticoltura e quella di caseificio che vorrei completata affidandole lo studio della coltura specializzata delle piante da foraggio e dell'allevamento degli animali da latte. A queste anzi ne aggiungerei un'altra speciale, una Stazione zootecnica che facilmente si po-

trebbe costituire accanto alla scuola di Zootecnia e caseificio di Reggio Emilia... Applicando le cose fin qui dette, ed accogliendo i principi da me propugnati, secondo i quali dovrebbe esistere una Stazione agraria per ognuna delle dodici regioni agraria in cui è diviso il Regno, converrebbe istituire sei nuove Stazioni nelle regioni che ne mancano,

cioè nella Liguria, nelle Marche ed Umbria, nella Toscana,

nelle due Meridionali adriatica e mediterranea e nella Sardegna, con che si avrebbero in tutto diciotto Stazioni agrarie pel fatto che alcune regioni hanno oggi due Stazioni che non crederei opportuno sopprimere”.

Sull’esigenza di una riforma delle Stazioni agrarie intervenne nel 1908 G.B. De Toni, che dirigeva “in via interinale” la rivista e come incaricato la “Stazione” di Modena, stimolato a

farlo da un articolo, apparso su “Il Messaggero” del 28 settembre dello stesso anno, di Gaspare Ampolla, direttore della Sta-

zione chimico-agraria di Roma, dedicato agli Istituti sperimentali agrari. Ampolla dopo avere ampliamente motivato l'utilità degli studi teorico-pratici effettuati dalle Stazioni agrarie, concludeva il suo scritto sostenendo che “una riforma razionale delle nostre RR. Stazioni agrarie e speciali è una questio® G. Cugini, Organizzazione, ufficio e limiti d'azione delle Stazioni agrarie in Italia, in “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane”, XXXI, 1898, p. 584-601.

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ne che s'impone, dato il risveglio agricolo del Paese che ogni giorno più intensamente si accentua”. In effetti, ribadiva De Toni, diverse Stazioni erano state costrette a ridurre l’attività

scientifica dalla crescente domanda di servizi proveniente dagli agricoltori; nel caso specifico dell'istituzione modenese, nel

periodo 1870-1883 le analisi chimiche per l'esterno oscillarono fra un minimo di 25 e un massimo di 124, per poi diventare 4.700 a fine secolo, 7.796 nel 1905 e salire a 11.928 nel 1907. Alla

stessa Stazione il Ministero dell'Agricoltura affidò nel 1890 il servizio di controllo delle sementi agrarie, che da un minimo di 231 crebbero nel corso degli anni fino a toccare la cifra di 1.698 nel 1907. In sostanza il laboratorio chimico consentiva un introito sufficiente sia a potenziare se stesso, sia ad alimentare una maggiore attività scientifica. Il riordino della Stazioni agrarie, qualora fosse stato mirato, come sostenevano De Toni e prima di lui Cugini, al potenziamento degli organici e alla loro stabilità, unitamente all'incremento della dotazione per

le spese di funzionamento, avrebbe reso queste istituzioni “proficue all'avanzamento degli studi teorico-pratici agrari ed utili al pubblico”. Italo Giglioli aveva correttamente sostenuto nel 1903 che l'agricoltura aveva “bisogno di essere indirizzata da un valido ordinamento della sperimentazione agraria”; per cui, concludeva De Toni, dotare gli istituti sperimentali delle risor-

se umane e finanziarie necessarie a renderli efficienti ed efficaci nella loro azione di studio e di promozione, significava creare le premesse di uno sviluppo quantitativo e qualitativo della produzione agricola®.

Serpieri e il riordino della sperimentazione agraria.

Il primo governo diretto da Mussolini per dimostrare concretamente che intendeva dedicare una particolare attenzione

® G.B. De Toni, Per la riforma delle RR. Stazioni agrarie, in “Le Stazioni

sperimentali agrarie italiane”, XLI, 1908, p. 541-9; I. Giglioli, Sperimentazione agraria e forestale in Italia ed il compito delle Stazioni agrarie sperimentali, Unione cooperative editrice Roma 1903.

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al potenziamento dell'agricoltura, affidò ad Arrigo Serpieri l’incarico di Sottosegretario all'agricoltura nel primo Ministero dell'Economia nazionale. Serpieri considerò parte essenziale del suo programma la riforma dell'istruzione agraria e il riordino della sperimentazione, della ricerca e della propaganda, cui provvide parallelamente al ben più conosciuto impegno legislativo sulle trasformazioni fondiarie”. In tal modo si realizzò un clima favorevole nei confronti della sperimentazione agraria, testimoniato dalla fondazione di nuovi istituti (4 nel

solo 1923 e complessivamente 11 dal 1923 al 1931); inoltre Serpieri fece varare, alla fine del 1923 (decreto 30 dicembre 1923, n.3.203), il provvedimento che prevedeva, la costituzione, con

compiti di finanziamento,

di una Fondazione

per la

sperimentazione e la ricerca agraria, finalizzata al potenziamento degli studi economici, e la costituzione di un Istituto di economia

e statistica agraria, con osservatori locali dotati di

personalità giuridica e finanziati, oltre che dallo Stato, da enti locali, ma affidati alla direzione dei titolari delle cattedre di

economia agraria degli istituti superiori. In tal modo furono gettate le basi del ben più noto Istituto nazionale di economia agraria (Inea), altra creatura di Serpieri, istituito nel 1928 e impostosi per la qualità e la quantità delle indagini economi-

co-sociali monografiche sull'agricoltura italiana. Infine nel luglio del 1925 venne istituito il “Comitato permanente del grano”.Inuovi organismi trassero la loro ragion d'essere da ‘bisogni regionali” o da “esigenze di particolari branche della nostra agricoltura”: ai primi sono riconducibili, ad esempio, quelli di cerealicoltura di Pisa e per la Sicilia; mentre fra i secondi vanno indubbiamente compresi le stazioni di Conegliano per la viticoltura ed enologia e di San Remo per la floricoltura, e l'istituto di frutticoltura e di elettrogenetica di Roma. La “Fondazione” ebbe tra i suoi compiti quelli della “ricognizione chi% A. Serpieri, La politica agraria in Italia e i recenti provvedimenti legislativi, Federazione italiana dei consorzi agrari Piacenza 1925, p. 141-92. Cfr. anche U. Pratolongo, L'istruzione agraria superiore, in Note sull'agricoltura italiana dell’ultimo venticinquennio, L'Universale Tip. Poliglotta Roma 1927 (in occasione del 13° Congresso internazionale di agricoltura, Roma 26 maggio-1° giugno 1927).

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mico-agraria dei terreni” e di avviare ricerche “sulla biologia di specie vegetali coltivate”, “sulla parassitologia, vegetale ed animale” e “sulla conservazione dei prodotti agricoli”, ai quali si dedicò a partire dal 1924 utilizzando le competenze e le attrezzature di ben dieci istituti. Infine, il “Comitato”, fu chia-

mato a “presiedere allo svolgimento della Battaglia del grano” ea fornire agli agricoltori le necessarie direttive funzionali al rapido miglioramento della produzione cerealicola; per assolvere a questi compiti esso si avvalse anzitutto proprio degli istituti sperimentali in agricoltura”. Quando Serpieri, al quale si deve prevalentemente la fondazione della moderna economia agraria?, si occupò di sperimentazione agraria, questa vantava in Italia mezzo secolo di studi e di esperienze, condotte sia in stazioni ed istituti specializzati, sia attraverso l’azione delle Cattedre ambulanti di agricoltura, con risultati scientifici e pratici di indubbio rilievo. Tuttavia, il settore della sperimentazione si segnalava anche per una cronica scarsità di fondi e per un difetto — osservava Serpieri — di “coordinamento fra gli istituti stessi e fra questi e le altre istituzioni agrarie di istruzione e di propaganda”. Con il suo decreto egli si proponeva, pertanto, un ordinamento per il quale ciascuna circoscrizione agraria, avente una sua propria fisionomia, un suo proprio ambiente fisico e colturale, a[vesse] anche il suo Istituto sperimentale, fornito, in varie sezioni,

di personale specializzato nelle singole competenze, atto quindi a studiare e risolvere, sotto i vari aspetti — chimico, fitotecnico, zootecnico, ecc. — i concreti problemi che quel tipo di agricoltura pre-

senta: problemi che sono appunto, quasi sempre, complessi, non scindibili in parti isolate, e richiedono quindi il coordinato contribu-

to dei singoli studiosi specializzati. Le verità così acquisite potrebbero allora, attraverso le Istituzioni di propaganda della circoscrizione,

® G. Tommasi, La sperimentazione agraria italiana, “Annali della R. Stazione chimico-agraria sperimentale di Roma”, Tip. Italia Roma 1934, p. 10-2. Il saggio di Tommasi,

direttore della Stazione, consente anche un approccio,

seppure sintetico, all'attività di ricerca condotta nei singoli istituti (ibid., p. 14-29). * Cfr. C. Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo: Arrigo Serpieri, “Italia contemporanea”, 137, 1979, p-3-34.

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giungere a rapida conoscenza dell’agricoltore pratico e tradursi direttamente in maggior ricchezza del paese”.

Si è tentati di ipotizzare che Serpieri, nello scrivere queste parole, avesse come riferimento il Lodigiano o, al più, il Basso milanese, considerato che nella fattispecie si tratta di zone agrarie dotate, come in precedenza rilevato, di una forte caratterizzazione produttiva. In tal caso, però, se è vero — come affermava Serpieri — che “il citato decreto, in sostanza, autorizza[va] il

Governo a trasferire, riordinare ed eventualmente sopprimere stazioni e istituti sperimentali, ed a riunire in un solo istituto o

almeno coordinare l’azione di quelli esistenti in una data circoscrizione agraria”, la Stazione di praticoltura di Lodi non aveva motivo di sorgere, semmai, l'esistente Istituto sperimentale lattiero-caseario avrebbe potuto eventualmente strutturarsi con una sezione appositamente dedicata alle foraggiere. Buon per la Stazione, è il caso di dire, che nacque dieci mesi prima dell'emanazione del “decreto Serpieri”, il quale rimase, come

spesso succede ancora oggi nel nostro Paese, un semplice “indirizzo, un programma, da attuare progressivamente, a mano a mano che se ne present[asse] l'opportunità”, cioè inapplicato. Gli stessi tecnici della Federconsorzi ritenevano urgente il riordino e il coordinamento dei servizi legati alla sperimentazione agraria, convinti com’erano che solo dai progressi di quest’ultima derivasse l'aumento della produttività in un sistema agrario quale quello italiano”.

Il contributo alla modernizzazione

Nel penultimo decennio dell'Ottocento il Ministero dell'Agricoltura promosse la creazione di una capillare rete di A. Serpieri, La politica agraria in Italia e i recenti provvedimenti legislativi,

Federazione italiana dei Consorzi agrari Piacenza 1925, p. 142. % Per le citazioni, ibid., p. 143. 8 A. Staderini, Agricoltura, “Annali dell'economia italiana‘, 7, 2, 19231929, Istituto Ipsoa Milano 1982, p. DIA

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servizi sotto la spinta del crollo dei prezzi cerealicoli, della guerra doganale con la Francia, del tracollo della viticoltura colpita dalla peronospera, dell'emigrazione in massa verso i paesi transoceanici, delle prime agitazioni bracciantili e contadine organizzate. Il nesso tra la Grande depressione e il manifestarsi di un'importante azione pubblica in agricoltura è stato lucidamente individuato da Manlio Rossi Doria, il quale si è così espresso: Fu proprio la “crisi agraria” di quel quindicennio a determinare una svolta verso una fase della modernizzazione tecnica ed organizzativa dell'intervento pubblico in agricoltura [...]. Tutte le istituzioni scientifiche e di assistenza tecnica più valide sulle quali si è retto e si regge in parte tuttora l’edificio dei servizi tecnici per l’agricoltura — dalle stazioni sperimentali alle cattedre ambulanti, dai consorzi di difesa dalle malattie ai centri sementieri e vivaistici o di selezione animale — hanno avuto se non origine, un fortissimo impulso nell'ultimo decennio del secolo, sotto i colpi durissimi della crisi agraria, allo stesso modo che crebbero e si consolidarono in quegli anni le organizzazioni economiche degli agricoltori — dalle casse rurali alle mutue grandine o bestiame”.

È possibile affermare che attraverso quell’‘’edificio” la cultura agraria ebbe modo di trasformarsi, nel volgere di pochi anni, in “intelligenza pubblica” dei bisogni dell'economia e “le competenze tecnico-scientifiche si tradussero in nuove funzioni”. Quei servizi, finanziati dallo Stato, dagli Enti locali e da altre istituzioni, “nella loro specifica funzione di ricerca

sperimentale, informazione scientifica, assistenza agli agricoltori, erano specializzati in singole produzioni e avevano un marcato carattere locale" . Le Stazioni sperimentali di prova e speciali, autonome o annesse alle scuole superiori di agricoltura, i laboratori chimici, gli osservatori bacologici, furono co-

‘ M. Rossi Doria, La Facoltà di agraria di Portici nello sviluppo dell'agricoltura meridionale, in Le istituzioni agrarie nel decollo industriale, “Quaderni storici”,

36, 1977, p. 840.

4 L.D'Antone, L'intelligenza” dell'agricoltura, in Storia dell'agricoltura ita-

liana in età contemporanea, vol. III, Marsilio Venezia 1991, p. 480.

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stituiti e finanziati dallo Stato, dalle amministrazioni ed enti locali, e fornirono, nella loro specifica funzione di ricerca spe-

rimentale, informazione scientifica e assistenza agli agricoltori e alle aziende di trasformazione dei prodotti agricoli. La possibilità di trasferire agli Istituti superiori i direttori di ruolo delle Stazioni agrarie e speciali, e viceversa, stabilì lo stretto rapporto tra la ricerca scientifica e la sperimentazione, per cui fu possibile potenziare l'originario compito di detti “stabilimenti scientifici ausiliari alla pratica”, nell'intento di riportare l'agricoltura italiana, dopo la Grande depressione, a livelli competitivi sul mercato internazionale. Accanto a tali istituti, i comizi agrari e le cattedre ambulanti di agricoltura assunsero il compito di diffondere le pratiche razionali, propagandando quanto di meglio esistesse in fatto di macchine e strumenti, piante, sementi, concimi, sistemi di lotta contro insetti e parassiti, razze di bestiame, lavorazione del latte e del vino, allevamento del baco da seta, coltivazione della barbabietola, e nel

settore delle pubblicazioni italiane e straniere‘. Già nel 1910 si contavano 94 cattedre ambulanti autonome, con 86 sezioni, più 14 cattedre governative, con 9 sezioni; 12 stazioni di prova

agrarie e speciali, 5 laboratori di chimica agraria, 48 osservatori bacologici. Quantificare l'apporto fornito dalle Stazioni alla modernizzazione dell'agricoltura italiana nel periodo 18701920, lo spessore temporale in cui si colloca questo contributo, non è certo un'operazione facile da compiere; consultando il periodico “Le Stazioni sperimentali agrarie italiane”, organo delle Stazioni agrarie e dei laboratori di chimica agraria del

regno, la cui pubblicazione ebbe inizio nel 1872 per concludersi nel 1926, è emerso che sarebbe possibile apprezzare il con-

corso delle stazioni allo sviluppo e all'ammodernamento dell'agricoltura italiana mediante, ad esempio, un più attento e sistematico esame degli studi e delle sperimentazioni pubblicate nella rivista. Inoltre, poche sono ancora le ricerche dedi-

cate alle singole stazioni e certamente insufficienti per dispor4 Cfr., M. Zucchini, Le cattedre ambulanti di agricoltura, G. Volpe Roma 1970.

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re di una solida base su cui costruire un esaustivo quadro d'’insieme; che si tratti di una lacuna meritevole di essere colmata

lo confermerebbero quelle già effettuate, i cui esiti hanno consentito di rendere esplicito il ruolo da esse svolto a favore del-

lo sviluppo dell'agricoltura o delle industrie ad essa correlate!*. Nel frattempo l’efficacia delle stazioni è possibile rilevarla indirettamente mediante la constatazione che dagli anni novanta dell'Ottocento a quelli immediatamente precedenti la Grande guerra, si assisté, ad esempio, ad una diffusione dei concimi chimici, al miglioramento delle rotazioni colturali, spesso in associazione con l'incremento delle produzioni foraggiere, all’allevamento di bestiame selezionato e all'introduzione della stabulazione libera‘. Nel caso specifico del grano, furono le regioni settentrionali, in cui più diffuse erano le Stazioni agrarie e, quindi, maggiori erano le esperienze nella selezione delle sementi e nell’utilizzazione dei concimi chimici, che fecero registrare i più elevati indici di rendimento arrivando a fornire nel 1913 quasi due terzi della produzione totale; mentre il resto della penisola continuava a produrre senza apprezzabili miglioramenti nelle tecniche e nell’avvicendamento colturali?. # Mi sia consentita in proposito l'autocitazione dei seguenti contributi: Centovent'anni di vita dell'Istituto sperimentale lattiero-caseario di Lodi (1871-1992), in L'Istituto sperimentale Lattiero Caseario di Lodi dal 1871 al 1992, Ministero delle Risorse agricole, alimentari e forestali Portici (NA) 1996, p. 31-151; La

ricerca in agricoltura: gli Istituti sperimentali Lattiero-caseario e per le Colture foraggere, in Bertolini, Cavazzoli, Granata, Ongaro, Pepe, Romano, Terra e lavoro nel Lodigiano, Ediesse Roma 1997, p. 31-117; Ricerca e formazione nella “filiera

del latte” fra Otto e Novecento, in Oro bianco. Il settore lattiero-caseario in Val Padana tra Otto e Novecento, a cura di Patrizia Battilani e Giorgio Bigatti, Giona

Lodi 2002, p. 135-240. 4 Cfr. G. Valenti, L'Italia agricola dal 1861 al 1911, Tip. della R. Accademia

dei Lincei Roma 1911; per la Lombardia P.A. Zaninelli, Innovazioni tecniche,

mutamenti strutturali e accumulazione capitalistica nelle campagne cremonesi (18611914), “Rivista di storia dell'agricoltura”, 2, 1973; M. Romani, Un secolo di vita agricola in Lombardia 1861-1961, Giuffré Milano 1963, p. 82-5; per l'Emilia T.

Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi (1872-1901), La Nuova Italia Firenze 1971.

* Cfr. G. Porisini, Produzione e produttività del frumento in Italia durante l'età giolittiana, in “Quaderni storici”, maggio-agosto 1970; V. Castronovo, La storia economica, cit., p- 140.

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Più in generale l'agricoltura italiana conobbe tra il 1897 e il 1913 uno dei più forti ritmi di espansione di tutta la storia post unitaria, con un saggio annuo di sviluppo del 2 per cento. Il buon andamento della produzione agricola stimolò la doman-

da di nuovi mezzi tecnici e la disponibilità di generi alimentari pur a fronte di un incremento della popolazione del 3,7 per cento. La stessa bilancia commerciale riuscì a chiudersi in pareggio nello stesso periodo, almeno per la parte agricolo-alimentare, grazie allo sviluppo della produzione zootecnica che riuscì ad alimentare una cospicua corrente di esportazioni (da 130 a 220 milioni di lire) costituita soprattutto da latticini, formaggi e prodotti dell'allevamento suinicolo*°. In tale contesto nell'ultimo ventennio dell'Ottocento una Stazione speciale di caseificio come quella di Lodi svolse una positiva influenza proprio nel settore lattiero-caseario. Anzitutto essa dedicò una particolare cura all'istruzione dei casari mediante l'istituzione di appositi corsi teorico-pratici centrati sulla gestione scientificamente aggiornata dell'industria di caseificio; nel contempo, proprio per assicurare all'at-

tività di istruzione quanto gli studi più recenti erano in grado di proporre,

intensa si manifestò

l’attività di ricerca e di

sperimentazione sui problemi connessi con la produzione e la

trasformazione del latte promossa dai tecnici operanti nella Stazione e dal Ministero d’‘agricoltura. L'attrezzatura di cui era dotato il laboratorio consentiva pure di svolgere una notevole attività di analisi dei prodotti impiegati in agricoltura, con il duplice risultato di costituire sia un vantaggioso servizio per i coltivatori derivante dalla “tenue tariffa” applicata e dalla possibilità di operare con un grado di conoscenza dei fattori della produzione favorevole al conseguimento delle maggiori rese, sia una stimolante fonte di introito per la Stazione. L'azione a favore di una riqualificazione degli operatori agricoli si espresse in vari modi: mediante una fitta corrispondenza destinata ad

‘6 Cfr. G. Valenti, G. Briganti, Organizzazione del commercio dei prodotti agricoli e delle industrie agrarie all'interno e all’estero, in Studi promossi dalla Federazione italiana dei consorzi agrari, L'Italia agricola e il suo avvenire, Tip. R. Accademia dei Lincei Roma 1919, f. II.

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evadere richieste “di consigli ed informazioni o schiarimenti sopra una qualunque questione attinente all'industria del latte”; con la pubblicazione dei risultati delle esperienze e delle prove tecniche effettuate sui periodici agrari di maggiore diffusione, a cominciare dal “Giornale di Agricoltura, Industria e

Commercio del Regno d’Italia”, sull’“Annuario della R. Stazione sperimentale di caseificio di Lodi”, sulla rivista “Le Stazioni Sperimentali Agrarie italiane”; promovendo ed organizzando cicli di conferenze in diverse località; istituendo un ser-

vizio di prestito di macchine e di utensili a latterie sociali o a singoli imprenditori per favorire la prova sul “campo” di nuove tecniche e tecnologia 0, addirittura, per agevolare la realizzazione di copie delle apparecchiature in prestito. Non mancarono, infine, le visite “dei conduttori di latterie o dei casari”

al caseificio e alla mostra permanente di macchine — perlopiù di produzione straniera — della Stazione; così come numerosi “esperimenti di caseificio [furono] fatti in campagna, ossia presso le singole latterie”; mentre il direttore trasse un indubbio vantaggio, in termini di conoscenze e di interscambio di esperienze, dai soggiorni all’estero e partecipando “alle Commissioni giudicatrici nelle diverse mostre di caseificio, oppure nei concorsi agrari regionali e nei concorsi speciali per le latterie, banditi dal Ministero di agricoltura”. Pertanto, la Stazione di caseificio di Lodi si apprestava ad affrontare gli impegni dettati dal big spurt che avrebbe fatto registrare in Italia l'industria lattiero-casearia nel corso dell'età giolittiana, a ciò legittimata da un trentennio in cui, tra non poche difficoltà, aveva avviato la sconfitta dei suoi principali nemici (la diffidenza, l’apatia, l'ignoranza, l'egoismo e il pregiudizio) diffusi nel mondo rurale, grazie ad una proficua azione nei campi della sperimentazione scientifica, della promozione tecnologica e tecnica, dell'istruzione professionale. È dunque possibile affermare che l'impegno organizzativo

e finanziario profusi, dopo l’unità d’Italia e sino all'avvento del fascismo, dal Governo nazionale, dalle varie Associazioni 4 C. Besana, Relazione sull'origine e sulle vicende della R. Stazione sperimentale di caseificio di Lodi sino a tutto il 1897, Tip. C. Dell'Avo Lodi 1898, p.- 19-20.

350

e Società agrarie, dalle Camere di commercio, dai Comizi agrari,

dalle Deputazioni provinciali e dai Comuni, per diffondere l'istruzione e incoraggiare la sperimentazione in agricoltura mediante la creazione di un cospicuo numero di stazioni, abbia in larga misura conseguito gli obiettivi desiderati. Ciò è particolarmente significativo perché nel corso dei cinquant'anni in esame, l’attività sviluppata dalle singole stazioni è stata a più riprese ostacolata da molteplici fattori: la carenza di risorse finanziarie, che a sua volta determinava insufficienze negli organici del personale e nelle attrezzature tecniche; un clima

di ricorrente conflittualità fra le istanze nazionali e quelle locali in merito agli indirizzi prevalenti da assegnare a ciascuna istituzione; la difficoltà di costruire un efficace coordinamento

operativo su percorsi di ricerca di comune interesse. A mitigare l’effetto, altrimenti dirompente, di tali limitazioni concorse

in misura rilevante la presenza in numerose stazioni di direttori che, per le loro spiccate attitudini scientifiche ed organizzative, seppero efficacemente trasferire agli operatori del comparto agro-alimentare i risultati conseguiti dalla sperimentazione e conseguire il riconoscimento di effettivi punti di riferimento.

351

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SIMONE NERI SERNERI

LA CITTÀ E IL GOVERNO DELLE ACQUE TRA OTTO E NOVECENTO

Perché tornare a riflettere sul problema delle acque - sul problema del “governo delle acque” — nei decenni a cavallo del 1900? Certamente non mancano gli studi sulla questione igienica, sulle politiche di risanamento, sulla costruzione dei sistemi di rete! . Tuttavia, le nuove modalità d’uso delle risorse

idriche furono un passaggio decisivo nella costruzione della città moderna,

della città “urbano-industriale”.

Per questo,

merita ulteriori ricerche e riflessioni. In particolare, e mi sforzerò di dare alcune indicazioni in questo senso, ritengo che — per stare alla prospettiva di questo volume — la questione della riforma, ovvero delle nuove modalità di “governo delle acque”, vada considerata sotto il profilo della costruzione della ‘città moderna”, intesa come sistema complesso e multifunzionale di organizzazione della vita sociale e produttiva, collocato in un contesto spaziale definito, anche se variamente delimitato, e formatosi nel periodo storico caratterizzato dalla

transizione alla società industriale e di massa?. Ciò significa guardare al governo delle acque non solo sotto il profilo ‘igienico-sanitario’, dominante nella cultura del

tempo, ma nel ben più vasto contesto della costruzione di nuove modalità di incorporazione sociale delle risorse naturali, ovvero di nuove modalità di integrazione di porzioni di ! Tra gli studi più recenti, cfr. i saggi pubblicati in R. Balzani e A. Giuntini (a cura di), Le reti della modernizzazione, “Memoria e ricerca”, 4, 1994, e in “Ricerche storiche”, settembre-dicembre 2000; G. Bigatti, Municipi e reti idriche, in L. Cavazzoli e C.G. Lacaita (a cura di), Riforme e istituzioni fra Otto e Novecento, Manduria Lacaita 2002; Id., La conquista dell'acqua. Urbanizzazione e ap-

provvigionamento idrico, in Aa.Vv., L'acqua e il gas in Italia. La storia dei servizi a rete, delle aziende pubbliche e della Federgasacqua, Milano Angeli 1997. 2 Il testo mantiene in larga misura le caratteristiche delle relazione presentata al convegno, in particolare nel taglio sintetico e problematico e nel ridotto apparato critico e bibliografico.

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ecosistema nei processi produttivi e riproduttivi. In sostanza, non solo va considerato per intero il ciclo delle acque, ma occorre, da un lato, considerare le molte modalità di utilizzo del-

le acque (igieniche e alimentari, produttive, energetiche, trasporto, ecc.) all’interno e all’esterno del tessuto urbano, dal-

l’altro valutare le connessioni tra il loro utilizzo e quello di altre risorse naturali, quali, ad esempio, il suolo. Da questo punto di vista, il governo delle acque rimanda al processo di ricostruzione dei sistemi di rete (energia, trasporti, ecc.), ma, più in generale, alla ridefinizione del limite tra città e natura,

attuata proprio a partire dalla separazione delle acque dal suolo e caratteristica della costruzione della città moderna? . E' evidente, dunque, che la prospettiva adottata è anche quella della storia ambientale. In Italia, come è ben noto, i processi formativi della “città

moderna” conobbero un'accelerazione a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo. In quel decennio fu avviata la dotazione infrastrutturale e l'articolazione funzionale consolidatesi nel corso del secolo successivo. All'origine vi furono due fenomeni ben conosciuti, distinti eppure in discreta misura connessi: l'inurbamento 0, comunque, la crescita demografica e l’indu-

strializzazione e, più in generale, la trasformazione delle modalità produttive. Per effetto di questa duplice spinta, le città cambiarono volto. Inurbamento e industrializzazione misero in crisi gli assetti urbani di antico regime e sollecitarono una politica di ‘riforma’, di ammodernamento, in grado di affrontare due esigenze convergenti: l’addensamento abitativo e

l'adeguamento infrastrutturale, anzitutto dei trasporti e dell’approvvigionamento energetico. Le due trasformazioni che sono alla base della formazione della città urbano-industriale. Proprio l'intreccio tra queste due esigenze, la dimensione dei problemi, la progressiva disponibilità di nuove tecnologie, portarono a risposte non più configurate nei termini di

° Sui rapporti tra i diversi saperi tecnici concorrenti alla costruzione della città moderna, cfr. Guido Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Milano Jacabook 1989; vedi anche C. Bianchetti (a cura di), Citta immaginata e città costruita, Milano Angeli 1992.

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aggiustamenti di bassa portata e intensità, quali finallora erano stati quelli con cui si erano affrontate le emergenze igienico-sanitarie, bensì a trasformazioni quantitativamente e qualitativamente rilevanti, giacchè ne uscirono radicalmente mu-

tate la dotazione infrastrutturale e gli assetti funzionali. Il carattere inedito di quelle trasformazioni risalta anche dal fatto che esse realizzarono una integrazione strutturale mar-

cata tra dimensione igienica e dimensione produttiva: il “progresso dell'igiene” non fu solo frutto della cultura positivista e progressista socialmente impegnata, ma scaturì largamente dalle nuove urgenze dello sviluppo urbano. D'altronde, a conferma si può osservare che il diffondersi della cultura igienista aveva anticipato quelle trasformazioni e il suo declino non le interruppe. Conviene, dunque, guardare a quei processi e leggere quelle trasformazioni ben più sotto il profilo della funzionalità del sistema urbano, piuttosto che nei termini di graduale progresso dalla insalubrità alla salubrità, dall’arretratezza alla modernità. Le questioni da affrontare e le soluzioni, anche tecniche, approntate non furono meramente igieniche, ma rimandavano, più ampiamente, ai nessi tra le diverse fun-

zioni e dimensioni assunte dal sistema urbano. La questione delle acque lo dimostra con evidenza. Anche per questo, essa consente di intravedere, dietro i dibattiti tecnici dell’epoca, le concezioni relative alle modalità di incorporazione sociali delle risorse naturali e le opzioni che delineavano i possibili nessi tra la questione ambientale e lo sviluppo urbano.

1. La crisi dell'equilibrio tradizionale Punto di avvio fu la crisi del circuito idraulico tradizionale,

innescata dalla crescita demografica, dallo sviluppo edilizio, dalle trasformazioni della viabilità e dei trasporti — in particolare la costruzione di strade carrozzabili e, in città, pavimentate — e dallo sviluppo industriale. La crisi si manifestò in maniera eclantante con le epidemie di colera, ma, più largamente, con le endemie di tifo e di altre malattie gastro-intestinali, 355

denunciate con forza dagli igienisti*. Dietro quelle manifestazioni, però, vi era una crisi funzionale, quantitativa e quali-

tativa, delle tradizionali modalità di incorporazione delle acque a fini produttivi e riproduttivi, indotta da una nuova domanda idrica. La situazione era quella descritta dall'Inchiesta sulle condizioni sanitarie del Regno, condotta nel 1886: su un totale di 8.258 Comuni del regno, il 18% (1.495 Comuni, che raccoglievano circa 6 milioni di abitanti, su un totale di 28,4 milioni) dichia-

rava di avere acqua insufficiente, mentre in altri 1.881 Comuni (il 23%) l’acqua era mediocre o cattiva. Inoltre, solo 2.720 Co-

muni (33%) conducevano l’acqua nel centro abitato tramite condotte chiuse e altri 447 lo facevano per canali aperti. Inoltre, più di 6.000 Comuni (il 75%, pari a 14,5 milioni di abitanti) dichiaravano di essere privi di qualsiasi tipo di fognatura, anche solo stradale?. In ambito urbano, ad esempio, nei 69 capo-

luoghi di provincia”, l’acqua potabile solitamente proveniva in parte da fonti private, quali pozzi o cisterne per acqua

piovana, e in parte da fonti pubbliche, per lo più un acquedotto più o meno antico, allacciato ad una sorgente 0, meno sovente, ad un corso d’acqua superficiale o ad un invaso. Questo sistema entrò in una crisi funzionale di carattere

quantitativo e qualitativo. Quantitativo, perché per motivi diversi non era in grado di fronteggiare la domanda crescente: gli antichi acquedotti avevano portata limitata e grande dispersione, le cisterne consentivano di accumulare quantità ri' Un articolato quadro d'insieme ancora valido è offerto dai saggi riuniti in Storta d'Italia. Annali 7. Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino

Einaudi 1984. ? Ministero dell'interno, Direzione generale della statistica, Risultati del-

l'inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del regno. Relazione generale, Roma 1886. Cfr. in proposito anche F. Della Peruta, Sanità pubblica e legislazione sanitaria dall'Unità a Crispi, in 1861-1887. Il processo d'unificazione nella realtà del paese. Atti del 1 congresso di storia del Risorgimento italiano (Bologna, 5-9 novembre 1980), Roma Istituto per la storia del Risorgimento italiano 1982, p. 221-2. ° Ministero dell'interno, Direzione generale della statistica, Risultati dell'inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del regno. Parte prima. Notizie relative ai comuni capoluoghi di provincia, Roma 1886.

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dotte di acqua accettabile e, parimenti, le acque superficiali erano, per le loro condizioni igieniche, di limitato utilizzo. Inoltre, ipozzi erano sovente batteriologicamente inquinati, come

pure accadeva alle condutture degli acquedotti, perché soggette ad infiltrazioni. Problemi ben noti agli igienisti, che si prodigavano nell’indicare le precauzioni da impiegare a seconda delle diverse modalità di approvvigionamento, rimanendo, comunque, cisterne, acque superficiali, pozzi e invasi

tutte fonti irrinunciabili laddove non si potesse ricorrere alle, certo preferibili, acque di sorgente”. All'origine della crisi vi era principalmente l’inquinamento dei pozzi potabili, causato dall’inadeguatezza dei metodi di raccolta ed allontanamento delle acque luride. Tali metodi, come si evince ancora dall’Inchiesta del 18868, consistevano,

nel migliore dei casi, nell’abbinamento di una fogna stradale, più o meno permeabile, destinata ad allontanare le acque pluviali, e di un “pozzo nero”. Peraltro, le fogne stradali esistevano in poche vie centrali e i “pozzi neri” solo nelle poche abitazioni dotate di latrine. In realtà, sovente i pozzi “neri” non erano impermeabili, né svuotati regolarmente come avrebbe-

ro dovuto o, più spesso ancora, erano soltanto dei pozzi assorbenti a dispersione: comunque fosse, inquinavano facilmente il sottosuolo in cui pescava pure il pozzo potabile. Così, in molte situazioni,

il diffondersi

delle latrine, per un verso,

e

l’addensamento abitativo, per l’altro, peggiorarono le condizioni igieniche del suolo e misero in crisi il circuito. Né i primi accorgimenti adottati per evitare quell’inquinamento, come le “fosse mobili” e i pozzi “neri” effettivamente impermeabili erano diffusi e efficienti in misura adeguata alla dimensione urbana.

? Cfr., ad esempio, F. Fichera, Risanamento delle città. Con applicazione a Catania. Principi tecnici di ingegneria sanitaria urbana, Catania Giannotta 1886; A. Cantalupi, L'igiene delle città. Dell'acqua potabile, Milano Brigola 1890; D.

Spataro, Ingegneria sanitaria. Igiene delle abitazioni. III. Provvista, condotta e distribuzione delle acque, Milano Hoepli 1891. 8 Risultati dell'inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del regno. I. Notizie relative ai comuni capoluoghi, cit.

SOR

Non vanno, però, trascurati gli altri fattori di crisi del cir-

cuito idraulico tradizionale. Anzitutto, l’accresciuto impatto delle acque pluviali, che occorreva raccogliere e drenare da superfici coperte sempre più estese, ad evitare che, ristagnando, accentuassero l'inquinamento del suolo. In secondo ordine, ma non per importanza, gli scarichi liquidi e solidi delle sempre più numerose e diffuse attività industriali, finallora allontanati con l'usuale metodo del riversamento nei canali superficiali. Infine, la conseguente alterazione del delicato equilibrio che consentiva il molteplice utilizzo delle acque dei canali: se la navigazione interna soffriva la concorrenza delle ferrovie e dei trasporti stradali e l’uso irriguo era gravemente impedito dagli scarichi industriali e in parte anche dagli impianti di produzione idroelettrica, la funzione di collettore fognario era ormai igienicamente del tutto insostenibile nei tratti urbani dei canali. In definitiva, la crescita demografica ed edilizia nelle città e lo sviluppo dell'apparato industriale concorrevano ad alterare radicalmente le modalità tradizionali di incorporazione delle acque, con esiti che si presentavano come problemi di insalubrità, ma che avevano portata e implicazioni assai più vaste. Nel corso dell'Ottocento, più volte si erano riaccese proteste e proposte contro l'inquinamento dei pozzi potabili o l’insufficiente portata di un qualche antico acquedotto. Negli anni Ottanta, però, quei problemi si riproposero su scala diversa e si incontrarono e cumularono con gli effetti della crescita demografica, dell'espansione urbana e dello sviluppo industriale, nonchè, più in generale, con il mutare dei rapporti tra città e

campagne.

2. La costruzione del circuito idrico moderno

La crisi idraulica si manifestò con maggiore impellenza e tratti più dirompenti laddove più accelerata era la trasformazione urbana. Peraltro, sovente accadde che in quelle stesse sedi fosse avviata prima e con più determinazione la costruzione di un nuovo circuito idraulico, perché più forte era an358

che la domanda

idrica, più consistenti le risorse finanziarie,

migliori le conoscenze tecniche. Non fu, dunque, casuale che Milano facesse da battistrada in un processo di rinnovamento infrastrutturale presto intrapreso da numerose altre città di varia dimensione. Fu un processo complesso, in cui iniziativa centrale e ini-

ziativa locale si intrecciarono, tanto sul piano normativo quanto su quello finanziario. Dal governo l'impulso fu affidato principalmente alla legislazione sulla sanità e l'igiene pubblica, approvata nel 1888, alla legge per “il risanamento di Napoli” varata nel 1885 e poi estesa ad altre realtà, ai finanziamenti per le opere pubbliche e, in special modo, per la costruzione di acquedotti. L'iniziativa locale fu però prevalente, sia perché ad essa rinviava il legislatore, sia perché essa meglio si confaceva alla dimensione

urbana, riflettendo di volta in volta la

progettualità e le strategie di modernizzazione possedute, in misura assai diseguale, dai gruppi dirigenti locali. Anche a questo proposito, vale notare che la dimensione igienica, prevalente nelle istanze centrali, fu ricompresa e stemperata dai gruppi dirigenti ed imprenditoriali locali in un più composito disegno modernizzatore!0. In quel disegno, emersero e si coniugarono — talora dopo discussioni e incertezze progettuali assai prolungate — diverse istanze, riconducibili sostanzialmente a tre obiettivi: recuperare porzioni di suolo utile per edificare abitazioni, per ubicarvi attività produttive, per costruire una rete di trasporti ferroviari e stradali; reperire acqua in quantità adeguata alle esigenze ? Per un quadro d'insieme cfr. G. Vicarelli, Alle origini della politica sanitaria in Italia. società e salute da Crispi al fascismo, Bologna Il Mulino 1997. '° Per alcuni degli ormai molti casi locali indagati dalla storiografia si vedano, ad esempio, E. Di Ciommo, Bari 1806-1940. Evoluzione del territorio e

sviluppo urbanistico, Milano Angeli 1984; R. Rozzi, La Milano del piano Beruto (1884-1889). Società, urbanistica e architettura nella seconda metà dell'Ottocento, Milano Guerini e Associati 1992; R. Balzani, Un comune imprenditore. Pubblici servizi, infrastrutture urbane e società a Forlì (1860-1945), Milano Angeli 1991;

G. Corona, La sostenibilità urbana a Napoli. Caratteri strutturali e dinamiche storiche, e R. Parisi, Verso una città salubre. Lo spazio produttivo a Napoli tra storia e progetto, entrambi in Napoli sostenibile, “Meridiana”, 42, 2001; V. Vidotto (a cura di), Roma capitale, Roma-Bari Laterza 2002.

999

alimentari e igieniche dell'uso domestico; assicurare le risorse idriche necessarie alle attività produttive e agli usi civici (lavaggio delle strade, annaffiatura dei gardini, spegnimento degli incendi, ecc.). Non va trascurata, peraltro, la scansione

temporale con cui si manifestarono questi diversi obiettivi: dapprima crebbero gli usi civici, mentre i ridotti usi domestici potevano

ancora

essere

soddisfatti, almeno

in termini

quantitativi, dai pozzi privati; di lì a poco anche i consumi produttivi conobbero un rapido e continuo incremento; infine anche la crescita dei consumi privati si estese dalle elite più benestanti a strati sempre più vasti della popolazione urbana. Né conseguì che, per motivi demografici e tecnologici, soprattutto il conseguimento del secondo e del terzo obiettivo ebbe come implicita, ma determinante conseguenza, l'aumento del consumo medio pro capite da poche decine a circa 100-200 litri giornalieri. Per perseguire quegli obiettivi ci si mosse in tre principali

direzioni. La prima fu la bonifica dei suoli umidi, operata drenando le acque e deviando e coprendo i canali. Ancora una volta, ci si richiamò alle sollecitazioni degli igienisti, che nelle

acque superficiali, specie se di bassa e lenta portata, o addirittura stagnanti, vedevano, non a torto, un pericoloso fattore di

morbilità!. Ma, nel realizzare quelle opere, si procedette sotto l'impulso diretto e in esplicito riferimento alle esigenze di sviluppo del reticolo viario e dei nuovi insediamenti, come, tra i molti, i casi dei canali milanesi o del Bisagno a Genova facil-

mente confermano. In questo senso, tempi e motivazioni della copertura dei fossi non erano affatto diversi, ad esempio, di

quelli che portarono all'abbattimento delle cerchie murarie. La seconda direzione in cui si procedette fu quella della costruzione di nuove infrastrutture, sostanzialmente opere di captazione e acquedotti, tecnicamente adeguate a reperire al-

l'esterno della città nuove risorse idriche e a distribuirle in modo efficace, igienico e capillare nell'ambito urbano, aggirando gli “ingorghi funzionali” insorti nel circuito idrico tra" Così, tra gli altri, L. Pagliani, Trattato di igiene e sanità pubblica, Vallardi,

1912, vol. I e II; cfr. anche Zucconi, Dagli igienisti agli architetti, cit., p. 35 s.

360

dizionale. La terza fu la realizzazione di un sistema di drenaggio in grado di smaltire le accresciute quantità di acqua addotte, tramite una fognatura che tutelasse la viabilità e l'igiene, allontanando sia le acque pluviali dalle strade e dalle superfici coperte, sia le acque di lavaggio e quelle cloacali. Altri interventi, per così dire, minori, ma non trascurabili, completava-

no la ricostruzione di questo nuovo circuito delle acque: tra questi, ad esempio, vi era il recupero funzionale e l’integrazione nel nuovo sistema di vecchi canali!’ e pozzi, per lo più utilizzati a scopi produttivi, ma, non di rado, anche per completare la rete di adduzione e di drenaggio. In definitiva, per assicurare un'adeguata funzionalità del sistema urbano, occorreva soddisfare una duplice esigenza: addurre più acqua e allontanarne altrettanta. Se il “sistema delle acque” tradizionale era basato sull’integrazione di alcuni macrocircuiti idraulici

e di numerosi

microcircuiti, sovente

gestiti singolarmente, la sua crisi — proprio perché effetto della più stretta connessione stabilitasi tra utilizzo delle acque e le altre funzioni di un sistema urbano sempre più complesso (residenze, impianti produttivi, trasporti, sanità pubblica, spazi collettivi, ecc.) - impose una riconsiderazione della “questione delle acque” in chiave, non causalmente, sistemica. E’ quanto suggerisce, tra l’altro, il diffondersi della metafora della città come organismo, il cui “stato di salute” (la vitalità e la crescita) dipenderebbe dal regolare andamento dei flussi di risorse in entrata e in uscita. Ciò si riteneva potesse essere assicurato

dai progressi della scienza e della tecnica, che avrebbero consentito di conoscere, controllare e governare i meccanismi del-

la “fisiologia” urbana. Si radica qui l’altra metafora, temporalmente di poco successiva, ma destinata a proiettarsi quasi sull'intero Novecento, la metafora del “piano”, ovvero dello

sviluppo urbano come esito auspicato di un progetto e di un'iniziativa pianificata, capace, in ultima istanza, di control*? Cfr. in proposito le osservazioni formulate già a suo tempo, studiando le città venete,

da D. Calabi, I servizi tecnici a rete e la questione delle

municipalizzazioni nelle città italiane (1880-1910), in P. Morachiello e G. Teyssot

(a cura di), Le macchine imperfette: architettura, programma, istituzioni nel XIX

secolo, Roma Officina 1980.

361

lare il rapporto tra città e risorse — tra città e natura — attraverso una implicita distinzione tra i due sistemi, quello urbano e quello “naturale”. Tale distinzione, a sua volta, era la premessa concettuale della loro integrazione controllata, che storica-

mente è stata attuata sviluppando sempre più capaci sistemi meccanizzati di incorporazione delle risorse". La costruzione del circuito idraulico moderno, composto principalmente dall’acquedotto cittadino e dalla fognatura urbana, così denominata per distinguerla dai fossi campestri, fu tra i primi e più rilevanti momenti di quella trasformazione. La costruzione dei due spezzoni del circuito procedette sostanzialmente in parallelo, ma di rado in modo effettivamente integrato. La priorità, temporale e funzionale, fu accordata talora all’acquedotto, talora alla fognatura, a seconda del va-

rio combinarsi di molteplici fattori igienici, tecnici ed economici. L'acquedotto parve di solito più urgente, perché, stando alle aspettative, prometteva di fornire in tempi accettabili acqua di qualità e quantità adeguata: gli effetti della sua costruzione sarebbero stati, dunque, immediatamente fruibili e poli-

ticamente remunerativi. Tuttavia, la realizzazione di un acquedotto, soprattutto se allacciato ad una sorgente posta ad una certa distanza dalla città, era opera onerosa, sia in termini finanziari, dati i limitati sussidi governativi, sia in termini tec-

nici e politici, poiché si trattava di costruire manufatti e condotte, lunghe talora diverse decine di chilometri, attraverso le quali condurre ingenti quantità d’acqua, sottratte — di solito provocando proteste e conflitti — alla disponibilità delle popolazioni locali. Inoltre, la messa in funzione di un acquedotto

moderno richiedeva di procedere celermente all'adeguamento del sistema fognario per smaltire l’accresciuta quantità di acqua condotta in città. La costruzione o l'ammodernamento della rete fognaria era

opera più semplice e meno costosa: tuttavia un efficiente sistema fognario non era quasi mai di per sé risolutivo, perché difficilmente i pozzi eventualmente risanatisi avrebbero fornito ! Ancora, ad esempio, L. Pagliani, Trattato di igiene, cit., vol. 1, p.227-8;G. Zucconi, La città contesa, p. 18-20, 46 s.

362

un'adeguata quantità d’acqua. D'altra parte, la stessa fognatura moderna per mantenersi efficiente richiedeva di essere percorsa regolarmente da flussi di una consistenza tale, che solo la portata di un moderno acquedotto induceva a smaltire. I dati disponibili indicano che la crescita della rete fognaria moderna fu, pressochè ovunque, successiva a quella dell’acquedotto, anche se essa non fu determinata strettamente dalla

costruzione di quest'ultimo, quanto piuttosto dall’estendersi dell’insediamento edilizio e del reticolo viario, da un lato per-

ché era più facile e conveniente abbinarne la costruzione alla pavimentazione delle strade, dall'altro perchè proprio nei quartieri di nuova edificazione l'assenza delle vecchie strutture fognarie rese ancora più impellente lo smaltimento delle acque stradali e di quelle reflue dalle abitazioni nuove e perciò, allacciate all’acquedotto. Di fatto, la costruzione delle due reti progredì, a seconda delle priorità politiche, delle soluzioni tecniche individuate, dei finanziamenti disponibili, ora congiuntamente, ora distintamente, con esiti non sempre coerenti ed

efficaci, ma comunque confermando la stretta relazione esistente tra quelli che erano i due spezzoni del medesimo circuito idraulico, ben più che due diversi, seppur paralleli, sistemi di rete, quali invece talora erano considerati dai tecnici e, ancor

più, appaiono sovente agli storici della tecnica. La costruzione dei nuovi sistemi idraulici urbani si dispiegò per circa un quarantennio, dalla fine degli anni Ottanta ai primi anni Trenta, ma già attorno al primo decennio del secolo era ben manifesto il mutamento avvenuto e in corso, affidato

ad un ventaglio di soluzioni tecniche che, negli anni successivi, si sarebbero rivelate di ben diversa realizzabilità, efficacia e

rispondenza agli obiettivi prima ricordati. Per addurre acque migliori e più abbondanti le fonti disponibili erano, schematicamente, quattro: sorgenti più o meno

distanti da collegare con tubature di corrispondente lunghezza, dalle quali si ricavava acqua igienicamente migliore, ma — come anticipato — con oneri notevoli e, spesso, conflitti con altri utenti locali; pozzi pescanti nel sottosuolo a varia profondità, igienicamente affidabili, ma, all’epoca, di limitata resa quantitativa; gallerie e pozzi filtranti alimentati dal subalveo

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dei fiumi, presto dimostratisi igienicamente insicuri e di portata assai variabile; bacini di raccolta di acque pluviali e superficiali e, perciò, imeno affidabili dal punto di vista igienico come da quello della resa quantitativa. Inizialmente, la prima soluzione fu quella preferita, finchè lo consentivano le possibilità tecniche e economiche e una domanda idrica accresciuta, ma ancora relativamente contenuta. Le ultime due, com-

prensibilmente, erano considerate scelte su cui ripiegare quando le altre erano inpraticabili. Tutte, comunque, erano condi-

zionate dalla situazione geografica e geologica." Nei primi anni del secolo, stando alle informazioni raccolte

dall’inchiesta sanitaria del 1899 e dalle statistiche municipali!°, il 39,9% degli abitanti del regno (12.988.062 su 32.475.253) si approvvigionavano in prevalenza da acquedotti: un progresso dovuto ai 1.396 acquedotti costruiti dopo il 1888, in virtù

dei quali iComuni forniti di acquedotto erano saliti a 3.361 su 8.262 (pari al 40,6%), anche se, nel 1903, di quegli impianti 678 erano considerati insufficienti e 110 adducevano acqua dichiarata non potabile". La situazione delle città — i capoluoghi di provincia — era palesemente in progress. Da un lato, infatti, sovente coesisteva-

no nella stessa città metodi diversi di approvvigionamento, in prevalenza basati sull’integrazione tra l'allacciamento a sorgenti — magari tramite nuovi acquedotti, primo tra tutti quello napoletano del Serino — e l’uso di pozzi privati. Dall'altro, andava prendendo piede un'ampia varietà di metodi “innovativi”, come la filtrazione diretta delle acque superficiali (ad esempio a Cuneo e Rovigo), quella operata tramite gallerie e pozzi “filtranti” (specialmente a Torino, Firenze e Bologna), oppure i pozzi di profondità, cosiddetti “artesiani”, utilizzati tra l’al-

A. Cantalupi, L'igiene delle città, cit., p. 142 s.; D. Spataro, Ingegneria

sanitaria, cit. "C. Giovannini, Risanare le città. L'utopia igienista difine Ottocento, Milano Angeli 1995, p. 105 s.; [U. Giusti], Annuario statistico delle città italiane, I,

Firenze 1906. '° Ministero dell'interno, Direzione generale della sanità pubblica, Inchiesta sulle acque potabili nei comuni del regno al 31 dicembre 1903. Vol. I. Relazione generale. Acquedotti, Roma 1906.

364

tro a Milano, Venezia, Padova. Non poche realtà, tuttavia, ap-

parivano immobili, specialmente nelle regioni meridionali". Nel complesso, il quadro era assai difforme e il giudizio sulle diverse condizioni locali pareva dipendere, più che dall’avviata modernizzazione

del circuito, dalla relazione tra la

funzionalità dei nuovi impianti eventualmente costruiti (non sempre soddisfacente, come accadde, ad esempio, a Torino e a Piacenza) e il tasso di crescita della domanda: cosicchè la si-

tuazione poteva essere considerata soddisfacente anche laddove il semplice riammodernamento degli impianti tradizionali era adeguato ad una domanda in lenta crescita. Non sorprende, perciò, che i nuovi impianti non solo coprissero una quota della domanda ancora valutabile, in termini quantitativi,

come “medio-bassa”, ma che i giudizi sulla qualità delle acque distribuite fossero assai differenziati. Secondo la classificazione adottata dall’inchiesta del 1899, i capoluoghi nei quali l'acquedotto era giudicato efficiente erano 10, contro i 28 impianti giudicati mediocri e i 17 classificati come inefficaci o inesistenti (altre 14 risposte non erano pervenute). Peraltro,

un'altra inchiesta sulle acque, di pochi anni successiva, mostrava come fosse cresciuto ancora il numero delle città dotate di acquedotto!* e che, per quanto la maggioranza della popolazione dovesse ancora approvvigionarsi alle fontane pubbliche, andava comunque diffondendosi l’uso dei contatori o di altre forme di pagamento per l'utenza privata, a dimostrazione della crescita in atto nei consumi domestici. Una quindicina di anni dopo!, le tendenze erano assai

meglio delineate. Concentrando l’attenzione sui capoluoghi di provincia, si poteva notare non solo che era proseguita la costruzione di nuovi acquedotti, ma soprattutto che, rispetto alla precedente varietà di metodi, era andato affermandosi più diffusamente il ricorso ai pozzi di tipo artesiano, ovvero alle acque del sottosuolo, come fonte primaria o integrativa di ap!7 Ministero dell'interno, Direzione generale della sanità pubblica, Inchie-

sta sulle acque potabili, cit., p. XXXI. !8 Ivi, p. XXVII-XIX.

9 Secondo quanto si rileva da C. Capaci, Acquedotti e acque potabili, iviiiano Hoepli 1918, p. 92 s.; cfr. pure le considerazioni convergenti, di pochi anni precedenti, di L. Pagliani, Trattato di igiene, cit.

365

provvigionamento. Una certa diffusione mostrava, inoltre, anche la tecnica del cosiddetto “ravvenamento”, sperimentata

inizialmente a Firenze e basata sul pompaggio di acque superficiali nei sistemi di gallerie o pozzi filtranti, che altrimenti non sarebbero stati in grado di fornire acqua in quantità sufficiente. Tutto ciò, per un verso evidenziava la natura e l'entità degli ostacoli incontrati nel ricorso alle acque superficiali, correnti 0

di sorgente: difficoltà di depurazione, difficile manutenzione degli impianti e delle lunghe condotte, conflitti con altri utenti, ecc. Per l’altro, dimostrava la crescita della domanda d’ac-

qua, attestata pure dall’incremento dei consumi pro capite, alla quale si poteva meglio e più facilmente rispondere utilizzando le acque del sottosuolo, il cui apporto è più elastico rispetto a quelle di superficie, anche se i tempi di ricostituzione e accumulo sono, al contrario, assai più lenti. In sostanza, le soluzioni tecniche prevalenti nella costru-

zione del circuito di approvvigionamento delle acque testimoniavano del fatto che, al di là delle condizioni poste dalla geologia locale, la costruzione di quel circuito era primariamente orientata dalla quantità, e non solo dalla qualità, delle acque da reperire e, questione strettamente connessa, dai nuovi ter-

mini della competizione per l’uso sociale delle risorse idriche. Difatti, via via che i progressi tecnologici lo consentirono”, si procedette con determinazione crescente sulla via del ricorso — ovunque fosse possibile — alle acque sotterranee, proprio perché consentivano di soddisfare una domanda idrica crescente evitando la competizione con altri utenti. Le trasformazioni strutturali sin qui descritte e le esigenze funzionali che le sollecitarono - in particolare la connessione tra quantità e qualità delle acque - dimostrano il carattere sistemico della “questione delle acque” nella città contemporanea. Un ulteriore riscontro di questo carattere lo si ricava, peraltro, dalla tendenza ben nota”! al passaggio da una gestio-

2()

In particolare, per la diffusione delle pompe elettriche e per il perfezio-

narsi dei metodi

di sterilizzazione, che, tuttavia, si dimostravano

ancora

insoddisfacenti nel trattamento delle acque superficiali. 2! A. Berselli, F. Della Peruta, A. Varni (a cura di), La municipalizzazione in

area padana. Storia ed esperienze a confronto, Milano Angeli 1988.

366

ne privatistica ad una gestione municipale dell’approvvigionamento idrico. Tale passaggio fu certamente determinato dalle convenienze politiche ed economico-finanziarie delle amministrazioni locali, ma si basava su un presupposto tecnico costituito dal fatto che quasi sempre le società di gestione private non erano in grado, né avevano particolare interesse, a sostenere il

passaggio dalla gestione di un sistema di distribuzione sostanzialmente lineare, quale quello delle fontane pubbliche, o settoriale, perché limitato ad aree privilegiate della città, ad un sistema distributivo reticolare, che, invece, si andava rivelando

indispensabile per assicurare l'efficacia del nuovo circuito idrico urbano: raggiungere una adeguata dimensione di scala, una effettiva integrazione con gli altri spezzoni del circuito idraulico (quello fognario in primo luogo) e una adeguata capillarità della distribuzione e del drenaggio era indispensabile per mantenere la funzionalità del sistema, ma, al tempo stesso, richiedeva

ingenti spese di investimento che avrebbero notevolmente dilazionato i profitti di gestione. D'altronde, la stretta integrazione tra i diversi sistemi a rete è significativamente suggerita perfino dal fatto che la riunione delle competenze di “acque e strade” in un unico ufficio tecnico municipale, ben lungi dall'essere un

mero accorpamento burocratico, quasi ovunque si rivelò pienamente rispondente al coerente sviluppo strategico di quelle fun-

zioni.

3. La “chiusura” del circuito urbano

Per la costruzione del secondo spezzone del circuito idrico

urbano — quello deputato al drenaggio delle acque pluviali, di quelle domestiche di lavaggio e cloacali e degli scarichi industriali — era disponibile un ventaglio di soluzioni tecniche, che furono oggetto di ampia discussione e di almeno parziale sperimentazione sia in Italia sia all’estero. Schematicamente, i metodi di drenaggio e smaltimento erano riconducibili alla combinazione di alcune opzioni di base. Se vi era largo accordo sul fatto che le acque stradali e pluviali dovessero essero allontanate rapidamente mediante un sistema di canalizza367

zione sotterranea, le opinioni divergevano sull'opportunità o meno di convogliare in queste condotte anche le acque reflue domestiche

o se, invece, occorresse smaltirle distintamente.

Infatti, negli anni ‘80 del XIX secolo era ancora aperta l’alternativa tra i metodi cosiddetti ‘statici’, secondo i quali i liquami domestici, ma soprattutto quelli cloacali e, più spesso, la loro componente solida, erano trattenuti presso le abitazioni — utilizzando i “pozzi neri” o altri simili contenitori — e solo periodicamente erano rimossi, e una seconda opzione, quella delle

cosiddette fognature ‘dinamiche’, che utilizzavano un flusso d’acqua per allontanare immediatamente le acque luride domestiche. Nell'arco di un ventennio questa seconda opzione prevalse, perché si dimostrò infine decisamente più igienica, ma

ciò non deve far dimenticare che, per un certo periodo,

essa sollevò diverse perplessità, in particolare per le difficoltà connesse alla costruzione di un'altra rete di condutture e per le incertezze sulla sua igienicità, che pareva troppo condizionata dalla pendenza degli scarichi e delle tubazioni, dal variare del livello delle acque reflue, dalla presenza di residui solidi, dai sovraccarichi dovuti alle pioggie, dai rigurgiti e dagli intasamenti che per vari motivi si verificavano”. Tali problemi furono gradualmente risolti dal miglioramento delle tecniche costruttive, ma, soprattutto e in misura decisiva, dal cre-

scente consolidarsi di un'interazione “virtuosa” tra adduzione e drenaggio delle acque urbane. Infatti, proprio l’accresciuta quantità di acque immesse nel circuito urbano consentì e, poi, impose la costruzione di un sistema fognario di tipo ‘dinamico’, il cui funzionamento presupponeva, appunto, un flusso di acque reflue costante e consistente.

Così, all'inizio del XX secolo, era possibile constatare come città grandi e piccole avessero avviato la costruzione di un sistema fognario moderno, sia riadattando le vecchie canalizzazioni, sia costruendone di nuove. Nonostante che le reti

°° Cfr. F. Fichera, Risanamento delle città, cit.; D. Spataro, Ingegneria sanitaria. Igiene delle abitazioni. I. Fognatura domestica, Milano Hoepli 1891; F. Poggi,

Le fognature di Milano. Studio generale delle canalizzazioni urbane con speciale applicazione alla rete di Milano, Milano Vallardi 1913.

368

fognarie, nuove o rinnovate che fossero, presentassero molteplici problemi di funzionamento, del tipo di quelli sopra ricordati, e che, quindi, in molte realtà il sistema fognario fosse giu-

dicato insoddisfacente per estensione o per efficacia”, resta il fatto che le principali città andavano impiantando una rete di raccolta delle acque stradali e di parte almeno di quelle domestiche, talora a canalizzazione separata per le une e per le altre, talora, invece, a canalizzazione cosiddetta unitaria o ‘mista’.

Il moderno sistema fognario, immaginato come rispecchiamento del sistema di adduzione, era deputato a raccoglie-

re tutte le acque reflue e ad inviarle ad una destinazione finale, unica o plurima, ma comunque controllata. Anche per suo tramite, dunque, procedette quella separazione tra suolo ed acque, realizzata operando una sorta di canalizzazione integrale delle acque presenti nel contesto urbano, che caratterizzò la costruzione della città moderna. Molte questioni, tuttavia, restavano aperte e almeno due,

decisive, devono essere ricordate. Le acque industriali erano divenute e sarebbero a lungo rimaste una sorta di “zona franca”. Ciò valeva per l’approvvigionamento, poiché gli industriali si procuravano l’acqua attingendola, oltrechè dagli acquedotti pubblici, da acquedotti privati e, soprattutto, derivandola da corsi d’acqua superficiali e pompandola dal sottosuolo, in quantità notevoli, seppur difficilmente determinabili, e talora anche a prescidendere da ogni autorizzazione. In tal modo partecipavano come soggetto autonomo e difficilmente controllabile alla competizione per le risorse idriche. Ciò valeva ancor di più per le acque reflue: mentre il tradizionale riversamento nei canali diveniva sempre meno sostenibile, pur restando oltremisura praticato, non fu individuato alcun altro

metodo socialmente ed ecologicamente adeguato. Di fatto, si ricorse ad autorizzazioni ‘provvisorie’ a scaricare nelle fognature — in deroga alla normativa che intendeva preservare l’utilizzo agricolo delle acque cloacali — e soprattutto a riversamenti nelle acque superficiali e dispersioni nel sottosuolo, talora in 2 Come si evince dai risultati dell’Inchiesta del 1899, in C. Giovannini,

Risanare le città, cit., p. 141-55.

369

conformità e più spesso in spregio alle disposizioni di legge o alle indicazioni delle autorità locali. L'altra questione aperta era quella della scelta tra un sistema fognario dinamico separato (rispettivamente per le acque

stradali e ‘bianche’ e per le acque cloacali) oppure misto, anche se la crescita della quantità d'acqua movimentata spingeva verso il secondo metodo, di più semplice realizzazione e funzionamento. La scelta dell'uno o dell'altro metodo, inoltre,

si ripercuoteva sulla questione della destinazione finale delle acque fognarie. Nel primo caso, quello del sistema separato, le difficoltà derivavano dalla necessità di mantenere ben distinti i due circuiti, fino alla completa depurazione di quello cloacale, e dal fatto che sovente occorreva sottoporre a depurazione anche le acque stradali. Nel caso del sistema misto, invece, gli

ostacoli derivavano dalla necessità di depurare una massa d’acqua crescente e, comunque, eccessiva rispetto alla capacità dei metodi di depurazione disponibili. Né l’uno, né l’altro metodo, inoltre, erano in grado di accogliere e trattare adeguatamente gli scarichi industriali. La depurazione delle acque reflue era il punto di sutura del

nuovo circuito idrico urbano, laddove la rete fognaria — a parte alcune intersecazioni secondarie — tornava a riversare le acque nel più ampio sistema idraulico territoriale. Era un passaggio delicato e determinante, tanto più che la rete fognaria era concepita per convogliare le acque ad una destinazione

unica, proprio al fine di evitare quell’inquinamento diffuso provocato dalla frammentazione e disorganicità del tradizionale sistema di drenaggio delle acque di scarico. In realtà, era evidente il rischio di provocare un inquinamento ancora più massiccio, perché il nuovo circuito idraulico urbano convogliava quantità d’acqua assai più ingenti e raccoglieva in un unico sistema di raccolta tutte le reflue, nella quasi totalità dei casi senza che avessero subito alcun preliminare trattamento depurativo. Né il lungo e intenso dibattito sui possibili metodi per depurare le acque del collettore finale — a valle dell'intera rete fognaria — giunse a individuare soluzioni realmente efficaci ed ecologicamente sostenibili nel medio periodo. Delle 370

molte tecniche sperimentate”, tra le quali la sterilizzazione chimica, il trattamento meccanico, la depurazione biologica artificiale e lo spandimento e l'assorbimento sul terreno, fu la depurazione biologica naturale, ovvero l'utilizzo a scopo irriguo, quello che accese maggiori speranze e apparve a lun-

go — ma erroneamente — foriero di più vaste possibilità di applicazione e di migliori risultati igienici ed economici, suffragati

dal secolare esempio delle “marcite milanesi”, adeguatamente rinnovato nei primi decenni del secolo, e di alcuni impianti moderni, sorti a Parigi e in altre città europee. In realtà, a parte il peculiare caso milanese e pochi altri esperimenti, la depurazione agricola restò un auspicio degli igienisti. Pressochè ovunque, le acque fognarie venivano reimmesse come

tali nel circuito idraulico territoriale, river-

sandole in corsi d’acqua o in mare, o disperdendole nel sottosuolo. In tal modo, le acque incorporate nel sistema urbano-industriale venivano restituite all’ecosistema fortemente inquinate dalla presenza di residui solidi e del carico batterico e chimico. Dietro le indubbie difficoltà tecniche che ostacolavano una depurazione efficace stava la realtà di una circuito idrico urbano caratterizzato dalla mescolanza di acque reflue domestiche e industriali e, ancor più, da una ingente crescita

quantitativa, cosicchè il reimpiego delle reflue in agricoltura era reso pressochè impossibile dalla loro qualità e dall’ampiezza delle superfici eventualmente necessarie, proprio mentre il crescente ricorso alle acque sotterranee a sua volta rendeva meno impellente la depurazione di quelle di scarico. Era questa la chiusura — solo virtuale — del circuito idrico ormai pro-

prio della città moderna. In conclusione, merita rimarcare anzitutto come il “gover-

no delle acque” tra Ottocento e Novecento condusse alla compiuta costruzione di un circuito idraulico rispondente alle esigenze della realtà urbano-industriale. Tale circuito era confor2 Doviziosamente illustrate e dibattute nelle riviste del settore, tra le quali primeggiava, nel primo decennio del secolo, la “Rivista di ingegneria sanitaria”, ove vedi, ad esempio, la discussione della tematica svolta da R. Bianchini,

Considerazioni tecniche sulla eliminazione dei materiali provenienti dalle fognature delle città, 1907, n.1, 2, 4. Cfr. anche i testi citati alla nota 21.

871

mato all’interno in modo unitario e integrato ed era strutturalmente e funzionalmente connesso al più vasto sistema urbano: a questo risultato si era giunti riorganizzando radicalmente i nessi con la rete idraulica territoriale e, più in generale, le relazioni con l'ecosistema, giacchè ne furono investiti, tra l'altro, sia il suolo che, in diverse realtà, il mare. Tuttavia, il mo-

derno circuito idraulico urbano, principalmente per mezzo di una elevata meccanizzazione,

tendeva

a rendersi autonomo,

ad “emanciparsi”, dalla rete idraulica territoriale, al fine di

acquisire una maggiore stabilità e conseguire una più efficace “valorizzazione” delle risorse idriche: nel medio periodo, invece, ne risultò una riduzione e gerarchizzazione delle molteplici modalità d’uso delle acque — con la subordinazione degli

usi agricoli e, per esempio, il sacrificio della navigazione interna — e la tendenziale contrapposizione tra il circuito urbano e il più vasto circuito idraulico territoriale. Difatti, attriti e squi-

libri non tardarono a manifestarsi proprio laddove il sistema delle acque urbane incontrava altri circuiti d'uso delle acque o la rete idraulica territoriale. Inquinamento delle acque superficiali, abbassamento delle falde, inquinamento del suolo, scarsità e spreco delle risorse, inondazioni e altre forme di dissesto

idro-geologico avrebbero testimoniato vistosamente — talora già dagli anni Trenta — questi squilibri e riproposto l'esigenza di un diverso ed ecologicamente più consapevole “governo delle acque”.

372

STEFANO MacgiI

INFRASTRUTTURE E TERRITORIO LA COSTRUZIONE DI FERROVIE SECONDARIE E TRAMVIE

1. Le ferrovie tra riforme e sviluppo tecnico Nella penisola italiana la prima ferrovia fu inaugurata nel 1839 per un breve tratto nei pressi di Napoli, seguito l’anno successivo da un altro breve tratto fra Milano e Monza. Nel periodo seguente le costruzioni continuarono nei singoli Stati, alcuni dei quali, come

il Piemonte, il Lombardo-Veneto

e la

Toscana, si dotarono di una rete interna abbastanza sviluppata. Al momento

dell’unificazione nazionale, nel 1861, esiste-

vano soltanto 2.189 km di strade ferrate e mancavano i collegamenti a lungo percorso tra nord e sud, sui quali vennero concentrate le attenzioni dei primi governi italiani. Dal punto di vista gestionale, il Regno d’Italia ereditò dagli Stati preunitari una situazione confusa, che vedeva ferrovie statali coesistere con linee interamente affidate ai privati, fino

al caso intermedio di proprietà pubblica ed esercizio delegato a società concessionarie. Oltre allo Stato, nel 1864 ben 22 com-

pagnie grandi e piccole avevano la responsabilità di amministrare le poche linee esistenti nella penisola, Il governo italiano dovette quindi dedicarsi a un’opera di razionalizzazione gestionale, che iniziò nel maggio 1865 con il primo riordinamento generale, la cosiddetta “legge dei grandi gruppi”. Il riordinamento del 1865 portò all'abbandono della gestione statale fino allora in vigore su buona parte della rete piemontese, in nome del bisogno di coinvolgere i capitali privati nell'attività di costruzione che non sembrava alla portata delle esangui finanze pubbliche. La costruzione e l'esercizio furoIl riordinamento fu approvato con la legge 14 maggio 1865 n. 2.279, “pel riordinamento ed ampliazione delle strade ferrate del Regno, colla cessione

di quelle governative”.

373

no pertanto affidati in concessione a tre società maggiori a capitale privato: Strade Ferrate Alta Italia, Strade Ferrate Romane e Strade Ferrate Meridionali, che avrebbero gestito una rete di 1.500-2.000 km ciascuna. A queste compagnie veniva assicurata una sovvenzione per ogni linea esercitata: maggiori sov-

venzioni erano in genere garantite alle ferrovie dove il traffico risultava più scarso. Alle compagnie principali si aggiungevano alcune società

più piccole rimaste indipendenti, nonché la Società Vittorio Emanuele e la Compagnia Reale Sarda, le cui concessioni, approvate nel 1863, prevedevano la realizzazione di linee ferroviarie nelle regioni che ancora ne risultavano prive: Calabria,

Sicilia e Sardegna. Il sistema realizzato nel 1865 entrò in crisi quasi subito a causa della terza guerra d'indipendenza e della conseguente svalutazione della lira, che alzò il costo dei prodotti importati e rovinò le compagnie concessionarie, le quali dipendevano dall'estero per la fornitura sia di carbone sia di materiale rotabile?. Si ebbero perciò varie vicissitudini finanziarie, mentre il progetto di legge sulla statizzazione della rete, proposto nel 1876 dalla Destra storica, causava la caduta del governo e l’av-

vento al potere della Sinistra storica. Due anni dopo venne nominata una commissione d'inchiesta sull'esercizio ferroviario e in base alle sue conclusioni si realizzò un nuovo riassetto gestionale, attuato dopo accese dispute nell'aprile 1885 con la “legge sulle convenzioni”? La penisola fu divisa longitudinalmente con l'intento di sviluppare i traffici nord-sud e la rete venne affidata alla Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo nella parte occidentale (Rete Mediterranea) e alla Società per le Strade Meridionali nella parte orientale (Rete Adriatica); infine la Società

per le Strade Ferrate della Sicilia riceveva in concessione le li? Cfr. M. Merger,

L'industrie

italienne de locomotives,

reflet d'une

industrialisation tardive et difficile (1850-1914),in “Histoire, Économie et société”,

vol. VIII, 1989, p. 339-42.

* Il secondo riordinamento fu attuato con la legge 27 aprile 1885 n. 3.048 “per l'esercizio delle reti mediterranea, adriatica e sicula e per l'esercizio del-

le strade ferrate complementari”.

374

nee dell’isola, mentre rimaneva in vigore il vecchio ordinamen-

to per le ferrovie della Sardegna. La novità principale della riforma fu rappresentata dalla divisione tra la proprietà, che rimaneva statale poiché il patrimonio ferroviario era ormai così ingente da non consentire ad alcun gruppo privato di riscattarlo, e la gestione ora affidata alle tre società per un periodo massimo di 60 anni, rinnovabile di 20 in 20.

Lo Stato garantiva alle azioni delle compagnie un dividendo minimo annuo del 3% e venivano istituiti tre fondi speciali: per le calamità naturali, per il rinnovamento del materiale fisso e mobile, per gli aumenti patrimoniali, quest’ultimo finanziato con l'emissione di obbligazioni. Il capitale sarebbe dovuto crescere del 3,5% all'anno, ma il sistema non raggiunse il suo scopo, poiché il traffico non progredì nella misura auspicata durante

il periodo successivo,

caratterizzato

dal ciclo di

recesssione economica. L'epilogo della riforma gestionale fu la statizzazione della rete, con la creazione dell'azienda autonoma

delle Ferrovie

dello Stato, realizzata nell'aprile 1905, dopo un acceso dibattito in Parlamento e sulla stampa'!. Nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, la que-

stione della ferrovia e delle riforme ad essa legate fu fondamentale per diversi aspetti. Oltre ai cambiamenti gestionali prima sintetizzati, che risultano assai noti alla storiografia, si

ebbero sviluppi sociali legati alla tecnologia che risultano invece meno conosciuti. Le costruzioni ferroviarie, per esempio, diedero luogo allo sviluppo della professione dell'ingegnere, che cominciò a separarsi definitivamente da quella dell’architetto, e raccolsero i migliori tecnici dell’epoca, i quali con una passione degna dell'età del positivismo, si dedicarono a tutte le problematiche

legate ai treni, con la consapevolezza di svolgere un ruolo importante strettamente legato al progresso civile. ‘ Le fasi del lungo dibattito sono riportate in A. Papa, Classe politica e intervento pubblico nell'età giolittiana. La nazionalizzazione delle ferrovie, Napoli Guida 1973. La nazionalizzazione fu approvata con la legge 22 aprile 1905 n. 137, portante “provvedimenti per l'esercizio di Stato delle ferrovie non concesse ad imprese private”.

970

Tra gli studi e le realizzazioni tecniche più importanti, occorre ricordare le gallerie del Frejus (1871) e poi del Gottardo (1882) e del Sempione (1906), di gran lunga le più lunghe del mondo. Inoltre le opere eccezionali delle ferrovie ligure e calabrese tirrenica, scavate lungo la costa in terreni rocciosi. E ancora la progettazione italiana di locomotive, sviluppata dalle due maggiori società, la Rete Mediterranea, che stabilî un ufficio studi a Torino, e la Rete Adriatica, che trasferì il suo

Ufficio centrale degli studi del materiale rotabile da Ancona a Firenze. A Torino ci si concentrò sugli aspetti termodinamici, nell'intento di aumentare le prestazioni sulle linee a forte pendenza, mentre a Firenze le ricerche furono rivolte verso la sem-

plicità di esercizio e il risparmio di combustibile, realizzando tra l’altro una macchina a vapore bidirezionale, che suscitò un grande interesse all'esposizione di Parigi del 1900°. L'Ufficio studi della Rete Adriatica di Firenze divenne poi il Servizio Materiale e Trazione delle Ferrovie dello Stato, il quale continuò sempre ad avere sede nel capoluogo toscano a differenza di tutti gli altri servizi in cui era ordinata l'azienda che si trovavano a Roma.

Infine è da ricordare l’elettrificazione. “Il problema della trazione elettrica — scriveva nel 1894 l'ingegner Guido Castagneris — è sì importante, sì pieno di promesse grandiose, da interessare vivamente la scienza, l'industria e l'utile pub-

blico”°. L'uso dell'elettricità iniziò prima sulle tramvie e dal 1899 venne sperimentato anche sulle ferrovie, con i due tipi fondamentali degli accumulatori (poi abbandonati per la scarsa durata delle batterie), e della corrente alternata trifase con sistema di alimentazione a filo aereo, che divenne nota in tutto

il mondo come sistema italiano. Accanto agli aspetti tecnologici, altre questioni di grande rilievo interessarono le ferrovie in questo periodo: a partire dalle questioni economiche, con gli studi sul monopolio naturale ferroviario, e gli studi sulle tariffe. Questi ultimi furono

° P. Muscolino, Per una storia della tecnica ferroviaria, in “Linea Diretta”, a. 3, n.9, settembre 1999, p. 18-9.

° G. Castagneris, Tramvie eferrovie elettriche, Milano Hoepli 1894, p. 5.

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condotti nell'intento di sviluppare i commerci, portando nel 1885 a unificare le tariffe tra le varie compagnie e poi nel 1905 ad adottare la cosiddetta “tariffa differenziale” a base decrescente, cioè una tariffa che costava sempre meno man mano che aumentava la distanza, in modo da incentivare i lunghi viaggi tra nord e sud. Altri cambiamenti riguardarono la nascita delle organizzazioni sindacali dei ferrovieri i quali, lavorando giorno e notte in condizioni proibitive, cominciarono a

minacciare il blocco dei treni, realizzando nel 1905 il primo sciopero nazionale di categoria nella storia italiana. Da ricordare inoltre, in questa rapida carrellata, le questioni urbanistiche, con la stazione che diventò il centro di attrazione delle attività cittadine, determinando una forte crescita di valore dei

terreni attorno, nonché la realizzazione di viali e piazze apposite, e nelle maggiori città di edifici monumentali progettati come terminali per i treni. Anche nei piccoli centri dell’Italia periferica l’arrivo dei binari verso la fine dell'Ottocento fu di eccezionale rilievo per le sue conseguenze economiche e sociali. Al momento della nazionalizzazione, nel 1905, la rete delle Ferrovie dello Stato contava circa 17.000 km. Ma non tutte le linee erano gestite dall'azienda statale: circa 3.000 km di ferrovie e altrettanti di tramvie appartenevano a imprese private 0 municipali, che facevano correre un gran numero di piccoli treni a vapore, e di tram sia a vapore che elettrici. Treni leggeri e tram erano simili tra loro, ma distinti dalla normativa e dalla

specifica infrastruttura.

2. La costruzione della rete secondaria

Il giornalista e deputato Pacifico Valussi, attento osservatore dell'evoluzione nella società italiana, scriveva sulla “Nuo-

va Antologia” nel 1868: “son quasi continui i lagni che si muovono dalle città secondarie un giorno fiorenti sui danni ch’esse risentono dalle strade ferrate, le quali

non fanno che rasentarle, e passando loro dappresso si portano seco

8/7.

una parte della vita locale di cui godevano, per accentrarla tutta alle maggiori città, dove le strade ferrate s‘annodano””.

In una società agricola e priva per il momento di automobili, il treno sembrava l’unico legame con la vita civile, in grado di portare lo sviluppo economico e la modernizzazione politica e sociale: di conseguenza, completate le linee principali, i centri periferici cominciarono a reclamare a gran voce il loro collegamento ferroviario. Essendo l’Italia un paese di antica urbanizzazione dalle numerose

e vivaci cittadine, spesso situate in altura, furono

proprio queste cittadine le protagoniste della realizzazione di una rete di ferrovie secondarie e di tramvie nella penisola. Per quanto riguarda le linee secondarie, è da rilevare che il loro forte sviluppo cominciò nell'ultimo ventennio dell’Ottocento con un vero e proprio movimento generalizzato a livello municipale volto a promuovere la ramificazione ferroviaria. I vari notabili, politici, ingegneri, giornalisti, nobili, realizzaro-

no la stampa di una miriade di opuscoli — oggi conservati in biblioteche e archivi locali — volti a sostenere i progetti di singole lineee periferiche. Tali opuscoli erano in genere uguali nelle premesse, dove si faceva ampio riferimento, talvolta con

eleganti espressioni, alla civiltà portata dal treno. Il diffondersi di questa pubblicistica di matrice chiaramente positivista fece sì che l’immagine del treno come fonte di progresso economico e sociale non rimanesse limitata ai tecnici, agli economisti o comunque ai ceti colti. In generale tutta la popolazione, anche e soprattutto nei centri periferici serviti da ferrovie secondarie, era interessata all'arrivo della sbuffante

locomotiva, come dimostrano le riunioni dei comitati promotori di ferrovie e soprattutto le cerimonie di inaugurazione,

sempre oltremodo piene di cittadini festanti, secondo quanto ci riferiscono puntualmente le cronache. Nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, tra l’altro, lo svilup-

po tecnologico delle linee a scartamento ridotto (in gran parte ” P. Valussi, Le piccole città nel nuovo ordinamento d'Italia, in “Nuova Antologia”, vol. 8, luglio 1868, p.541.

378

950 mm contro i 1.445 mm dello scartamento ordinario), che consentivano curve: più strette e pendenze più elevate, ridu-

cendo la necessità di costose opere d’arte come ponti e gallerie, nonché l'affermazione di particolari sistemi di aderenza come la ruota dentata denominata “cremagliera”, resero possibile collegare con i binari le tante cittadine situate in collina e sulle pendici delle montagne. I Comuni di medie dimensioni accrebbero quindi i propri investimenti nel settore grazie anche alla facoltà di stipulare mutui con la Cassa Depositi e Prestiti. In effetti nel periodo a cavallo dei due secoli si ebbe una costante espansione della spesa degli enti locali, che seguì il dilatarsi della spesa statale: dal 1889 al 1913 raddoppiò la spesa di Province e Comuni, da 798 a 1.422 milioni di lire, ma nel caso degli investimenti in opere pubbliche le cifre si accrebbero di due volte e mezzo®. Come già accennato, buona parte dei tronchi di ferrovie secondarie, realizzati tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del

Novecento, erano dati in concessione a imprese locali e non vennero quindi esercitati dalle compagnie principali e poi dalle Ferrovie dello Stato. Dopo i riordinamenti amministrativi generali del 1865 e del 1885, che avevano affidato la maggior

parte delle linee alle grandi reti, alcune ferrovie minori erano rimaste sotto specifiche società private, che al 31 dicembre 1887 esercitavano 1.326 km di rete sui circa 11.000 km esistenti: 414 km erano assegnati alla Compagnia Reale Sarda, 189 km alla Palermo-Marsala-Trapani; tra le reti più estese vi era inoltre la Società Veneta con i 134 km delle linee Vicenza-Schio, VicenzaTreviso e Padova-Bassano; 63 km erano esercitati dalle Ferrovie Nord Milano, che si sarebbero notevolmente estese nel

nuovo secolo; 134 km dalla Ferrovia dell'Appennino centrale Arezzo-Gubbio-Fossato di Vico. Nel primo Novecento altre linee si aggiunsero alla lista, soprattutto i collegamenti con i centri di montagna nelle Alpi e nell'Appennino, e già nel 1905, all'indomani della statizzazione, l'estensione complessiva era 8 G. Barone, La modernizzazione italiana dalla crisi allo sviluppo, in Storia d'Italia. 3. Liberalismo e democrazia 1887-1914, Roma-Bari Laterza 1995, p. 301.

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salita a 3.419 km, dei quali 2.061 erano a scartamento ordinario e 1.358 a scartamento ridotto?.

Il chilometraggio delle linee montane o collinari aventi pure una valenza turistica era in Italia tutt'altro che modesto. Que-

ste infrastrutture furono realizzate entro il primo trentennio del Novecento, quando il treno raggiunse Campo Tures, Predazzo, Ortisei, Cortina d'Ampezzo e Agordo nelle Dolomiti, Renon, La Mendola, Malè e Riva del Garda fra Trento e Bolzano, Piazza Brembana e Clusone nelle valli bergamasche; Vallombrosa, Gubbio e Norcia nell'Appennino centrale; Castrovillari, San Giovanni in Fiore, Mammola, Cinquefrondi

e Sinopoli nell'interno calabrese; Palazzo Adriano e Piazza Armerina, per ricordare soltanto due località toccate dalla rete

di ferrovie siciliane a scartamento ridotto; Mandas, Sorgono e Arbatax in Sardegna. Citando il caso caratteristico della Toscana, la cui rete principale era già strutturata al momento dell'unità, numerose ferrovie secondarie furono realizzate in questo periodo: oltre alla Sant'Ellero-Saltino-Vallombrosa, si può ricordare la PracchiaSan Marcello Pistoiese-Mammiano, la Avenza-Carrara, la

Arezzo-Pratovecchio Stia e la Arezzo-Sinalunga, la Montepulciano-Fontago, la Siena-Buonconvento-Monte Antico, la Pisa-Tirrenia-Livorno, la Saline-Volterra, la Campiglia-Piombino, la Follonica-Massa Marittima, la Orbetello-Porto Santo

Stefano.

3. La normativa e ilfinanziamento delle ferrovie secondarie: un difficile compromesso

Di ferrovie secondarie si parlò a più riprese nel corso dell’Ottocento, ma per lungo tempo non fu introdotta una vera e propria classificazione delle stesse. La legge sui lavori pubblici del marzo 1865, testo fondamentale di riferimento per le ° Ministero dei Lavori Pubblici, Relazione sull'esercizio delle strade ferrate per l'anno 1905, Roma 1909, p.X.

380

costruzioni ferroviarie, infatti, distingueva le ferrovie soltanto

tra pubbliche e private!?. Con la già ricordata “legge dei grandi gruppi”, emanata nel maggio dello stesso anno, si stabilì all'articolo 5 che un successivo provvedimento avrebbe dovuto classificare le ferrovie e costituire dei consorzi comunali e provinciali allo scopo di concorrere nella costruzione di linee “complementari”. Nel febbraio 1866 il ministro dei Lavori Pubblici Stefano Jacini

presentò così alla Camera dei deputati un disegno di legge per le ferrovie secondarie, che non fu tuttavia approvato anche per le difficili condizioni del periodo, con la terza guerra d’indipendenza alle porte. Il primo provvedimento in materia fu poi adottato con una legge del giugno 1873, che iniziò di fatto la storia delle ferrovie secondarie concedendo 7 linee in Veneto e regolando la formazione dei consorzi tra Province e Comuni per ottenere la concessione"! . Con tale legge passò il principio secondo il quale, oltre alle ferrovie principali della cui costruzione si faceva carico lo Stato, vi erano altre linee che si potevano costruire se gli enti locali concorrevano nella spesa, limitandosi il governo a concedere una sovvenzione chilometrica maggiore o minore a seconda dell'interesse generale rivestito dalla ferrovia. Il principio trovò applicazione in un provvedimento generale in materia nel luglio 1879, quando venne emanata la cosiddetta “legge Baccarini”, dal nome di Alfredo Baccarini, al-

lora ministro dei Lavori Pubblici!. Tale legge classificò le cosiddette “ferrovie complementari”, necessarie al completamento della rete della penisola, che furono divise in 4 categorie. La quarta e ultima categoria era costituita dalle “ferrovie secondarie”, 1.530 km di linee — le cui caratteristiche tecniche

!° Legge gno d'Italia, "" Legge zione della

20 marzo 1865 n. 2.248 sull’unificazione amministrativa del Reallegato F. 29 giugno 1873 n. 1.475, con la quale venne concessa la costruLegnago-Rovigo-Adria, Verona-Legnago, Mantova-Legnago-

Monselice,

Vicenza-Thiene-Schio,

Vicenza-Treviso,

Padova-Cittadella-

Bassano, Conegliano-Vittorio. 1? Si tratta della legge 29 luglio 1879 n. 5.002, che autorizzava “la costruzione di linee ferroviarie di complemento”.

381

non erano precisate — che potevano essere costruite purché le

Province e iComuni interessati ne provassero l'utilità e si impegnassero nelle spese, dimostrando di possederne i mezzi. La spesa complessiva stanziata dallo Stato fu all’epoca enorme, ben un miliardo e 260 milioni di lire: l'investimento fu reso possibile dall’appena raggiunto pareggio del bilancio. Per la notevole “fame” di ferrovie diffusa in tutta la penisola, le pressioni su questa legge furono così forti che il primo ministro Agostino Depretis, temendo che l'intero progetto andasse perduto se non si accontentavano tutte le richieste locali, escogitò uno stratagemma, quello appunto di prevedere un certo numero di chilometri di ferrovie non precisati a priori (che passarono da 500 a 1.530 nel corso della discussione), in

modo da dare la speranza ai vari deputati di includere in questa quantità le loro linee. Il concorso nelle spese per le ferrovie secondarie a carico degli enti locali era stabilito nel 1879 in 4/10 del costo delle linee fino alle prime 80.000 lire a km, in 3/10 sulle successive 70.000 lire e 1/10 sulla rimanente somma: quindi più la ferrovia era costosa e meno pagava l'ente locale, nell'intento di facilitare le costruzioni ferroviarie nelle regioni montuose che erano anche le più isolate. Con la successiva legge sulle convenzioni ferroviarie del 1885, che riordinò la gestione delle fer-

rovie nel Regno creando la Rete Mediterranea e la Rete Adriatica, la quota di spesa a carico di Comuni e Province venne poi ridotta soltanto a 1/10. In conseguenza di questa agevolazione, furono presentati numerosi progetti per complessivi 6.500

km di nuove linee, che richiesero la nomina di un'apposita commissione con l’incarico di operare una valutazione e deci-

dere quali fosse opportuno realizzare!. Il programma di costruzioni secondarie fu iniziato in grande ma con un rilevante disordine. Qualche anno dopo ci si rese conto che i costi del 1879 erano approssimati per difetto e che si era verificato “un errore colossale degli estimativi, perché la “legge Baccarini” fu fatta da uomini politici frettolosi di A. Crispo, Le ferrovie italiane. Storia politica ed economica, Milano Giuffrè

1940, p. 197-201 e p. 122. 382

soddisfare dei bisogni politici, non da uomini tecnici” —- come riconobbe una commissione parlamentare, notando pure che si era già speso un miliardo e mezzo di lire, ma che per completare l'esecuzione occorreva un altro miliardo e 200 milioni!*. Nel luglio 1888 venne pertanto emanata una nuova legge sulle ferrovie complementari, che prevedeva le linee di cui era necessario ultimare la costruzione, stanziando 675 milioni di

lire e affidando i lavori alle grandi compagnie Mediterranea, Adriatica e Sicula”. Furono poi indispensabili altri interventi legislativi negli anni seguenti, tutti improntati a realizzare effettivamente le linee previste, ma anche a circoscrivere la spesa che sembrava ormai fuori controllo. Peraltro, a partire dal 1883, era ricom-

parso un forte disavanzo nel bilancio statale e occorreva mettere ordine nella materia ferroviaria, che costituiva una conti-

nua fonte di uscite, per le pressioni mai sopite delle comunità locali, tutte interessate a portare i binari presso i propri centri. Si arrivò infine, nel 1897, a cambiare completamente la ratio dei precedenti provvedimenti, annunciando la cessazione delle costruzioni di Stato, per lasciare le ferrovie secondarie all’iniziativa delle Province, dei Comuni, o dell'industria privata.

Vennero così cancellati gli stanziamenti per tutte le linee e i tronchi previsti ma non ancora in corso di costruzione, stabi-

lendo che qualora si fossero voluti iniziare i lavori sarebbe stata necessaria una legge speciale. Dal punto di vista finanziario, lo Stato avrebbe soltanto garantito una sovvenzione chilometrica, il cui importo veniva comunque aumentato fino al massimo di 5.000 lire. Tale cifra venne ulteriormente incrementata negli anni successivi, al fine di agevolare la costruzione mediante concessione all'industria privata delle linee incluse nelle leggi del 1879 e del 1888, rimaste incompiute.

! Cit. da E. Sacchi, Cenno storico della legislazione sulle costruzioni ferroviarie, in “Nuova Antologia”, a. 41°, 16 novembre 1906, p. 293.

!5 Legge 20 luglio 1888 n. 5.550, che approvava “le convenzioni stipulate dallo Stato colle società delle ferrovie Meridionali, Mediterranea e Sicula, per la costruzione e l'esercizio di alcune linee ferroviarie”.

383

Le caratteristiche tecniche delle ferrovie secondarie vennero finalmente previste da una legge del 1906'°, con la quale le ferrovie pubbliche furono classificate in principali e secondarie. Erano principali le linee più importanti per l'estensione attraverso il Regno, per l’entità del traffico, per l’allacciamento delle grandi città, dei porti o delle ferrovie estere, per il carattere militare. Tutte le altre erano da ritenere ferrovie secondarie e potevano trovarsi anche su strade pubbliche a condizione che la sede fosse separata dal carreggio ordinario con appropriati mezzi, come siepi, staccionate, muriccioli. Le ferrovie secondarie potevano essere costruite a scartamento ri-

dotto, con rotaie più leggere e senza case cantoniere. Alle secondarie veniva parificata la categoria delle ferrovie economiche, introdotta con una legge del dicembre 1896". Sintetizzando la questione della ramificazione ferroviaria ormai in corso da circa tre decenni, il deputato Ettore Sacchi, futuro ministro dei Lavori Pubblici, scriveva nel 1906 sulla

“Nuova Antologia”: “Colle complementari non è certo esaurito il compito dello Stato nelle costruzioni ferroviarie; sonvi altre ferrovie pubbliche, che le

popolazioni invocano e che implicano notevoli interessi particolari e sempre anche un interesse generale; per esse si è aumentata sensibilmente la sovvenzione chilometrica che fu portata colla legge del 1905 a lire 7.500, ma si dovranno fare nuove cernite di ferrovie, per le qua-

li lo Stato abbia a prendere speciali provvedimenti, pur non lasciando di eccitare provincie e comuni a giovarsi di tramvie e automobili nei luoghi (e sono molti) dove si può sopperire sufficientemente alla necessità dei trasporti con codesti altri mezzi di più rapida e meno costosa attuazione”.

!* Legge 30 giugno 1906 n. 272, “portante disposizioni sulla costruzione e sull'esercizio delle strade ferrate”. ! Legge 27 dicembre 1896 n. 561 “che regola la concessione delle tramvie a trazione meccanica”, i cui articoli dal 13 al 37 riguardavano appunto le ferrovie economiche, che rappresentavano un misto tra ferrovie ordinarie e

tramvie, e dovevano avere una sede propria, o almeno essere superate dal carreggio ordinario. Non vi erano tuttavia altre indicazioni specifiche. * E. Sacchi, Cenno storico della legislazione sulle costruzioni ferroviarie, cit.,

p. 307. 384

Nel frattempo, infatti, avevano

cominciato a circolare le

automobili, grazie al progresso dei motori a combustione interna e dell'industria della gomma, ma soprattutto si erano diffuse le reti di tram intorno ai maggiori centri urbani.

4. La circolazione dei tram

Mentre le ferrovie secondarie erano state realizzate lontane dai grandi aggiomerati per collegare piccoli centri in quella che potremmo definire l’Italia periferica, attorno alle città e anche nelle campagne urbanizzate della Pianura padana vennero posate rotaie sulle strade ordinarie, realizzando tramvie prima a cavalli, poi a vapore e infine elettriche. A livello europeo sono assai note le tramvie del Belgio e dell'Olanda, ma

anche l’Italia conobbe un’eccezionale diffusione di questo tipo di trasporto e già nel 1885 aveva la rete a vapore più estesa tra

i paesi del continente. Il primo tram a cavalli urbano venne inaugurato nel 1872 a Torino e per i tronchi extraurbani nel 1876 tra Milano e Monza,

mentre la diffusione delle tramvie a vapore fu avviata nel 1878 dalla Milano-Vaprio d'Adda via Gorgonzola e dalla Cuneo-

Borgo San Dalmazzo. Alla fine del 1879 erano in esercizio nella penisola 29 linee lunghe complessivamente 515 km: su 17 linee, dette “pirotramvie”, usava la locomotiva, mentre le al-

tre erano a cavalli?”. L'anno dopo i chilometri erano divenuti 700, metà dei quali si trovavano in provincia di Milano. Al 1° ottobre 1888 le tramvie a vapore misuravano 2.262 km. Le reti maggiori si trovavano in Lombardia (905 km) e in Piemonte (774 km)?!.

!* P, Hertner, Municipalizzazione e capitale straniero nell'età giolittiana, in La municipalizzazione nell'area padana. Storia ed esperienze a confronto, a cura di A. Berselli, F. Della Peruta e A. Varni, Milano Angeli 1988, p. 59. 20 Cfr. La costruzione e l'esercizio delle ferrovie italiane nel 1878, in “Giornale del Genio Civile”, anno 1880, parte non ufficiale, p, 191-9.

21 Le tramvie a vapore in Italia al 1° ottobre 1888, in “Monitore delle Strade Ferrate”, a. 1888, p. 746 e p. 778-80.

385

I tram elettrici iniziarono a circolare nel 1890 a Roma e poi da Firenze a Fiesole. Quest'ultima linea, inaugurata il 12 ottobre 1890, rappresentò la prima tramvia elettrica extraurbana in Italia. Al 31 dicembre 1902 l'estensione delle tramvie era salita a 3.541 km, esercitati da ben 77 società di trasporto, nelle quali lavoravano 12.484 addetti; le linee tramviarie erano 264, in lar-

ga misura a vapore: 3.067 km contro i 705 km elettrificati?. E nel 1909 esistevano 2.950 km di tramvie a vapore, ai quali si aggiungevano 1.077 km di linee elettriche®. Inizialmente non esisteva una distinzione giuridica fra le tramvie e le ferrovie: la differenza emergeva soltanto a livello tecnico, essendo le ferrovie dotate di sede propria, mentre le tramvie si trovavano in gran parte sulle strade ordinarie. La carenza normativa creò diversi problemi per la costruzione e l'esercizio: le prime tramvie si diffusero infatti in assenza di regole che ne prevedessero la realizzazione, avendo come base soltanto la legge sulle opere pubbliche del 1865, che non faceva menzione della loro esistenza. Nel settore tramviario si affermò pienamente il protagonismo municipale, con una vera e propria fioritura di iniziative, che non di rado diedero luogo a contrapposizioni con lo Stato. Tanto che il primo ministro Agostino Depretis affermava nel giugno 1879: “pei tramways tutti siamo d'accordo nel ritenere che sono, in certo modo, fuori dalla legge comune”, e

nel dicembre di due anni dopo il ministro dei Lavori Pubblici Alfredo Baccarini sosteneva:

2 W. Guadagno, Ferrovie ed economia nell'Ottocento postunitario, Roma Cafi 1995, p. 265. Alcune tramvie extraurbane a vapore attorno a Milano, Torino,

Firenze e Napoli, dove il traffico era più intenso, furono successivamente elettrificate. Un incentivo in proposito venne previsto dal regio decreto 23 maggio 1924 n. 998, “concernente provvedimenti per l’elettrificazione delle ferrovie in regime di concessione e delle tramvie extraurbane”, con il quale si

concedeva una sovvenzione di elettrificazione. ® Ministero dei Lavori Pubblici. Ufficio speciale delle ferrovie e tramvie e degli automobili, Relazione sull'esercizio delle tramvie per l'anno 1909, Roma 1914; cit. da A. Giuntini, Nascita, sviluppo e tracollo della rete infrastrutturale, in Storia d'Italia. Annali, vol. XV, L'industria, Torino Einaudi 1999, p. 601.

386

“Ormai l’Amministrazione non sa più come difendersi contro l'improvvisazione di strade che non si sa se siano tramvie o vere ferrovie. Noi vediamo costruire, per iniziativa dei Comuni e delle Province, delle tramvie parallele a brevissima distanza dalle strade fer-

rate esistenti e l'autorità centrale non ha diritto d'impedire al municipio e alla provincia che stenda delle righe di ferro come stende della ghiaia sopra il suo suolo. Da ciò è facile indurre quanto sarebbe opportuno che legislativamente fosse ormai stabilito quali sono le distanze a cui possono costruirsi coteste ferrovie mascherate”?*.

Dopo innumerevoli discussioni, fu deciso con una pronuncia del Consiglio di Stato che la concessione per posare i binari sulle vie pubbliche spettava all’ente proprietario della strada, Comune, Provincia, oppure Ministero dei Lavori Pubblici in caso di strade nazionali; l'autorizzazione ministeriale (approvata con decreto reale) occorreva sempre, però, quando si adottava la trazione meccanica. Questi principi vennero poi recepiti nella prima legge in materia, promulgata nel dicembre 1896 dopo essere rimasta per un decennio in Parlamento? ; tale legge venne a sanare una situazione confusa, in cui si ebbe chiara la percezione che il progresso tecnico viaggiava ormai molto più veloce di quello normativo: la società stava insomma sopravanzando la politica e l’amministrazione, le quali facevano

fatica a stare dietro al suo

incessante

mutamento, e il

comparto dei trasporti era indubbiamente sulla prima linea di questo inedito scenario. Sebbene talvolta sussidiate dallo Stato con una sovvenzione chilometrica introdotta dal 1906°, le costruzioni tramviarie 24 Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, vol. VII, parte I, Milano Società Editrice Libraria 1914, p. 1.057.

25 Questioni ferroviarie. La legge provvisoria, in “Il Monitore Tecnico”, 10 maggio 1905, p. 201. La legge 27 dicembre 1896 n. 561, che regolava “la concessione delle tramvie a trazione meccanica”, stabilì una precisa distinzione tra ferrovie e tramvie, oltre a dettare le norme per la costruzione e l'esercizio.

Un'analisi dettagliata delle lunghe discussioni che la precedettero è riportata in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, cit., p. 990 s. Con il regio decreto 9 maggio 1912 n. 1.447 fu poi approvato il “Testo unico delle disposizioni di legge per le ferrovie concesse all'industria privata, le tramvie a trazione meccanica e gli automobili”.

26 La sovvenzione statale per le tramvie fu introdotta con l'articolo 45

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erano promosse da iniziative comunali in accordo con società

private che provvedevano alla gestione: era stata infatti proibita dalla legge del 1896 la gestione diretta da parte dell'ente pubblico. Dopo la legge sulla municipalizzazione dei servizi pubblici del 1903”, il divieto decadde e alcuni enti locali intrapresero la gestione diretta a mezzo di aziende speciali, ma il numero di queste esperienze rimase abbastanza ridotto?8. Vere e proprie reti di tram vennero realizzate nel nord Italia, mentre nel centro e nel sud furono attivati alcuni tratti, i

più importanti dei quali si trovavano attorno a Roma, Napoli e Messina. La Società per le Tramvie Interprovinciali Padane, che gestiva diverse linee confluenti a Milano, divenne la seconda impresa tramviaria del continente. Si trattava quindi di un settore tutt'altro che trascurabile nella società italiana dell'epoca, ma il fatto che fosse oggetto di una pubblicistica tutto sommato limitata in rapporto a quella ferroviaria, ha indotto spesso a trascurarlo nelle ricostruzioni storiografiche. Per le linee extraurbane i tram rimasero in maggioranza a vapore, mentre nelle città si affermò subito la trazione elettrica perché meno inquinante, salvo alcuni originari esperimenti a vapore ad Ancona, Bergamo e Genova. In Italia si adottò in genere per le tramvie lo scartamento ordinario delle ferrovie (1.445 mm), mentre furono più rari gli scartamenti ridotti di 1.100, 950 e 750 mm. Come era avvenuto per le ferrovie, molte della legge 15 luglio 1906 n. 383, “portante provvedimenti per le province meridionali, per la Sicilia e per la Sardegna”. La sovvenzione stessa venne poi estesa a tutto il territorio nazionale con la legge 16 giugno 1907 n. 540, “portante provvedimenti per agevolare le comunicazioni relative alle ferrovie concesse all'industria privata, alle tramvie ed agli automobili in servizio

pubblico”. Per le tramvie la sovvenzione massima era di 1.500 lire a chilometro, elevabili a 2.000 lire nelle regioni montuose. Riguardava la costruzione di “tramvie destinate a congiungere capoluoghi di circondario ed importanti capoluoghi di distretto a stazioni ferroviarie prossime o di più conveniente accesso”. ? Legge 29 marzo 1903 n. 103 “sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni”, secondo la quale i comuni potevano assumere l’esercizio diretto, tra gli altri servizi, di tramvie a trazione animale 0 meccanica.

® P. Battilani, Limiti e vantaggi della mano pubblica: il trasporto collettivo in Italia in una prospettiva di lungo periodo, in “Rivista di Storia Economica”, a. XIV, aprile 1998, f. 1, p. 8.

388

delle primitive imprese di tram furono finanziate da capitali britannici o belgi, e nelle fonti dell’epoca la parola “tranvai” si alternava come sinonimo con la corrispondente inglese “tramway”. Riguardo ai bilanci delle imprese tramviarie, è da rilevare che i limitati redditi della popolazione italiana spinsero ad adottare basse tariffe, comprimendo quindi gli introiti delle compagnie, soffocate anche dagli eccessivi — almeno in rapporto agli altri Stati europei — standard di sicurezza richiesti dalle norme, che rendevano necessario impiegare un alto numero di addetti: il tram a vapore Milano-Magenta, per esempio, aveva il macchinista, il fuochista, il capotreno e due con-

duttori, cioè più o meno lo stesso personale di un treno a lungo percorso; inoltre era presente un casellante a ogni intersezione stradale”. Del resto i tram extraurbani furono vincolati

a muoversi

lentamente, circolando sulle stesse strade

percorse dai carri ordinari. La velocità massima consentita era di 20 km/h, aumentabili a 30 km/h se il tram era dotato di

freno continuo ad aria compressa azionato dalla locomotiva. In ogni caso le norme di esercizio erano determinate dai prefetti, sentiti i funzionari tecnici governativi, con tutti i problemi che ciò determinava per la difformità di trattamento e per un'eccessiva prudenza”.

% G.E. Baddeley, The continental steam tram, London 1980, p. 178-81. Nei

primi anni del Novecento si cominciò tuttavia ad avvertire la necessità di ridurre le spese e fu previsto un esercizio più snello non solo sulle tramvie ma anche sulle ferrovie secondarie. Vennero quindi emanati alcuni provvedimenti specifici per singole linee e inoltre la legge 9 giugno 1901 n. 220 diede “la facoltà al governo di attuare il servizio economico sulle ferrovie a traffico limitato comprese nelle reti Mediterranea, Adriatica e Sicula”, prevedendo la possibilità di usare il telefono in luogo del telegrafo. Ma occorreva un'autorizzazione da ottenere con decreto reale: i sistemi semplificati non trovarono quindi significativi sviluppi fino al ventennio fascista. Tale legge prevedeva infine la possibilità di abbassare le tariffe dal 30 al 40%. % W. Guadagno, Ferrovie ed economia nell'Ottocento postunitario, cit., p. 264.

389

5. Il ruolo economico-sociale di ferrovie secondarie e tramvie

Il ruolo delle ferrovie secondarie e delle tramvie fu importante in alcune regioni, specialmente nel nord Italia, dove i bi-

nari si erano maggiormente estesi, grazie alle migliori condizioni finanziarie degli enti locali e alla più facile orografia con la prevalenza delle pianure. Nel centro-sud, dove prevalevano colline e montagne, l'estensione risultò inferiore soprattut-

to per le tramvie, mentre le ferrovie a scartamento ridotto furono realizzate in buona quantità anche nel meridione, venendo incontro alle pressanti richieste delle popolazioni locali, che vedevano nel treno il principale veicolo della modernizzazione economica e sociale. Le ferrovie secondarie, finanziate in misura preponderante dallo Stato, si estesero dalle zone più ricche a quelle marginali, fino a creare delle vere e proprie reti a scartamento ridotto in regioni povere come la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sar-

degna. Le tramvie, invece, a lungo affidate a capitali privati con il solo sostegno dei municipi, ebbero la loro fioritura nelle regioni ricche della penisola, quelle più densamente popolate e contrassegnate da un intenso interscambio tra centri vicini, nonché tra i paesi agricoli e le città sulle quali questi gravitavano. A Milano e Torino, dove avevano l'estensione maggiore, le tramvie servirono a trasportare i primi pendolari, giovani della campagna che si recavano giornalmente a lavoro nelle fabbriche delle due metropoli. In altri casi, come per esempio la tramvia del Chianti da Firenze a Greve e soprattutto la Sant'Ellero-Vallombrosa?', i tram portarono pure professionisti e impiegati cittadini con le loro famiglie a conoscere il paesaggio campestre, favorendo lo sviluppo del turismo nella for-

ma più semplice, quella delle “gite fuori porta”. Sempre, comunque, le tramvie e le ferrovie secondarie servirono ad avvicinare il treno alla gente. Nella penisola, infatti,

l'utilizzazione della ferrovia risultò a lungo limitata. Come " Quest'ultima aveva sede propria ed era dotata di cremagliera. Cfr. E. Caglieri, Il trenino per Vallombrosa. Storia di una ferrovia e di un ferroviere a scartamento ridotto, Firenze 1977.

390

notava il direttore della “Nuova Antologia” Maggiorino Ferraris, “la grandè massa della popolazione non si serve affatto delle ferrovie”, visto che “l’Italia ha sventuratamente il

primato per l’elevatezza delle tariffe ferroviarie nell'Europa continentale progredita”*. Nonostante il progresso economico e il decollo industriale del primo Novecento, ogni Italiano viaggiava in media con il treno 1,82 volte all'anno contro le 27,40 volte degli Inglesi, le 20 degli Svizzeri, le 17,18 dei Belgi, le 9,57 dei Francesi, le 5,90 degli Olandesi.

I treni leggeri e i tram, con le loro tariffe più contenute, consentirono invece di estendere l’uso del trasporto meccanico ai ceti popolari che prima si spostavano a piedi o non si spostavano affatto. E significativo un esempio al riguardo: nel 1902, percorrere 50 km in treno costava sui diretti 6,40 lire in 1° classe, 4,50 lire in 2° classe, 2,90 lire in 3° classe; sugli omnibus i prezzi erano ridotti a 5,80 lire in 1° classe, a 4,10 in 2° classe, a

2,65 in 3° classe. Per una distanza analoga, il tram da Iseo a Chiari costava invece appena 1,40 lire in 1° classe e 0,95 in 2° classe: le tramvie extraurbane, a differenza delle ferrovie, ave-

vano due sole classi di viaggio. Molte linee tramviarie extraurbane ebbero poi un buon traffico merci, composto di prodotti rurali spediti nelle città o trasportati in tram fino alle stazioni ferroviarie laddove esisteva un'integrazione tra i due mezzi, nonché di manufatti che af-

fluivano nei centri periferici. Il ruolo economico e sociale dei tram e dei treni delle secondarie si riscontra facilmente nel settore merci, esaminando qualsiasi tipo di statistica relativa al traffico di prodotti per linea o per stazione: dalle cifre è infatti possibile vedere quasi ovunque una sensibile crescita del traffico dopo i primi anni dall'apertura, sintomo di un veloce cambiamento dell’Italia periferica a partire da fine Ottocento; un cambiamento reso talvolta possibile proprio dall'arrivo dei binari. Nel primo testo organico sulle tramvie, scritto dall’ingegner Antonio Viappiani nel 1893, l’autore affermava:

® M. Ferraris, Come si viaggia in Italta e all'estero, in “Nuova Antologia”, a.

40°, f. 793, 1° gennaio 1905, p. 145, 154 e 166.

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“la vicinanza ai paesi che per la maggior parte ne sono attraversati,

la facilità di costruire diramazioni al servizio di opifici, il maggior numero delle fermate e delle corse, la stessa confidenza che gli abi-

tanti prendono ai convogli incontrandoli sulle strade e vedendoli passare davanti alle loro case, l'assenza di formalità ed il conseguente risparmio di tempo nella consegna e nel ritiro delle merci, come

nell'acquisto dei biglietti, tutto contribuisce a che il movimento locale si riversi totalmente sulle tramvie”®.

Va tenuto presente, infine, che diverse ferrovie aventi le caratteristiche di linee secondarie erano inserite nella rete nazionale e che il loro ruolo “secondario” emerse gradualmente a partire da fine Ottocento. In precedenza non esisteva una reale distinzione fra tracciati principali e secondari non solo dal punto di vista normativo — come già detto —- ma neppure a livello tecnico. La differenziazione emerse nella pratica appunto a fine Ottocento, tra linee in cui passava il grande traffico nordsud o est-ovest e linee rimaste solo a servizio locale. Fu in questo periodo che si cominciò a impiegare materiale rotabile diverso e a trascurare i tronchi con scarso movimento di merci e passeggeri, ma il vero stacco si registrò nel ventennio fascista, quando le ferrovie principali vennero raddoppiate, elettrificate e videro l'introduzione di treni veloci, come

i rapidi, au-

mentando così l'attrazione economica e demografica delle città maggiori collocate sui loro itinerari. Nel periodo di massima espansione delle ferrovie locali fu proposto a più riprese di estendere la rete in concessione, affidando a piccole imprese alcune linee delle Ferrovie dello Stato a scarso traffico. Nel 1918, per esempio, Pietro Lanino, presidente del Collegio ingegneri ferroviari italiani, sosteneva che era necessario “sollevare il troppo pesante organismo delle ferrovie alleggerendolo dell'esercizio di alcune ferrovie secondarie locali, che potrebbero invece, passando all'industria pri-

vata, trovare più efficace funzione”. Ma i suggerimenti in

NA. Viappiani, La costruzione e l'esercizio delle tramvie, Torino 1893, p-163.

“ P. Lanino, L'industria privata nella ferrovia, in “Ingegneria ferroviaria”, gennaio 1918, p. 82.

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proposito restarono inattuati e non si mise mano a ulteriori riordinamenti gestionali. Di conseguenza la questione delle ferrovie secondarie non fu mai risolta efficacemente: ‘alcune linee rimasero o furono acquisite nella rete nazionale, mentre altre vennero gestite da imprese private nelle quali il capitale pubblico si estese in parallelo alla crescita dei deficit di bilancio, molto accentuati a partire dagli anni successivi alla prima guerra mondiale. Sebbene esuli dai limiti temporali di questo scritto, è necessario qualche cenno sulle vicende successive dei treni secondari e dei tram. In Italia le tramvie extraurbane iniziavano già negli anni

‘30 la basati zione tenne

parabola discendente, con i tronchi sopravvissuti ormai quasi soltanto sul traffico viaggiatori. La loro eliminaavvenne per ragioni sia economiche che politiche: si riinfatti che i binari posati sulle strade ostacolassero lo

sviluppo automobilistico e che pertanto — come affermò il mi-

nistro delle Comunicazioni Costanzo Ciano — si dovesse prendere coraggio e “strappare le rotaie”. La rete tramviaria extraurbana misurava 4.217 km nel 1930, ridotti nel 1939 a 2.230

km. Nel decennio i viaggiatori trasportati riportarono un lieve aumento da 179 a 192 milioni, mentre le tonnellate di merci scesero da 4.300.000 a 1.900.000 tonnellate, visto che era inizia-

to l’uso del camion su vasta scala®°. Per quanto riguarda le ferrovie secondarie, è da rilevare che la rete italiana nel suo complesso raggiunse la massima estensione del secondo dopoguerra nel 1955, con 21.923 km, ma a

partire da tale anno (che coincise emblematicamente con il lancio commerciale della Fiat 600) venne avviata la soppressione dei cosiddetti “rami secchi” e furono chiusi all'esercizio circa 2.100 km di linee, soprattutto tra le ferrovie concesse, visto che le Ferrovie dello Stato persero complessivamente soltanto 600 km. Il taglio dei “rami secchi” si inserì talvoltain aree di tendenziale spopolamento, come — per citare un caso fra i tanti 3 Cit. da G. Fumi, Vie di comunicazione e trasporti, in Guida all'Italia contemporanea 1861-1897, diretta da M. Firpo, N. Tranfaglia, P.G. Zunino, vol. I, Risorse e strutture economiche, Milano Garzanti 1998, p. 103. % Istat, Annuario statistico italiano, vari anni.

595

- la rete a scartamento ridotto della Sicilia, altre volte in aree

che al contrario stavano crescendo a livello economico e demografico, ma nelle quali era già alto il tasso di motorizzazione privata: ad esempio la Pisa-Tirrenia-Livorno soppressa nel 1961.

Il distacco tra i sistemi di trasporto da una parte, e la scarsa e poco lungimirante pianificazione economico-territoriale dall’altra, causarono tuttavia gravi errori nella gestione infrastrutturale tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70. L'eliminazione di una ferrovia ebbe sempre riflessi economici negativi in un territorio a medio-lungo periodo, che neppure il dilagare degli autoveicoli poté eliminare del tutto. Laddove questi effetti si avvertirono di meno, il treno fu rimpianto per la sicurezza e comodità di trasporto. Basti pensare anche in questo caso a un solo esempio, quello della ferrovia elettrica per Cortina d'Ampezzo, la Calalzo-Dobbiaco, la quale avrebbe potuto garantire un collegamento veloce ed efficiente per i tanti turisti che raggiungono la cittadina d'inverno e d'estate. Tornando al periodo a cavallo dei due secoli, occorre infine

rilevare l’importanza delle ferrovie nella strutturazione del territorio, dato che diverse città e paesi aumentarono la loro importanza per la presenza di impianti e diramazioni ferroviarie, a scapito di altri centri che rimanevano fuori dagli itinerari maggiori toccati dai binari. Questa situazione si riscontrò in particolare in zone che nell'età pre-industriale erano poco popolate.

6. Ferrovie e sviluppo del territorio: il caso della Tirrenica toscana e laziale In Italia le ferrovie litoranee Tirrenica, Adriatica e Jonica,

ebbero un fondamentale ruolo di attrazione verso le coste per gli abitanti delle colline. Nelle zone interne si verificò talvolta un effetto analogo, poiché i tracciati ferroviari lungo le vallate dei fiumi attirarono i residenti dei centri medioevali d'altura, e vennero costruiti nuovi insediamenti attorno alle stazioni. Con l’arrivo delle ferrovie, si ebbe quindi in diversi casi la 394

scissione dei paesi, creando una competizione tra i borghi di collina o di montagna, che si caratterizzavano per la loro lunga storia e mantenevano un primato amministrativo, e i nuovi

villaggi di fondovalle, i cosiddetti “paesi scalo”, che si sviluppavano a livello mercantile e manifatturiero. I paesi scalo erano così peculiari del territorio italiano da sorprendere nel 1901 persino un esperto viaggiatore come lo scrittore tedesco Hermann Hesse, durante una delle sue tante “avventure” alla

scoperta dei paesaggi e delle società straniere: “Quella volta — scriveva — ero sceso a Fossato di Vico, vicino a

Foligno, e avevo pensato che un nodo così importante, dove fermano e sostano tutti i treni, dovesse assolutamente coincidere con una

città di un certo interesse, antica e valevole, che magari non era sul Baedeker ma possedeva un piccolo municipio con reperti etruschi o qualcosa del genere. Ma non c’era ombra né di municipio né di città, e avevo dovuto trascorrere tutto il pomeriggio alla stazione”.

Si registrarono inoltre casi di città assai favorite per la crescita demografica dalla ferrovia, ma in seguito ostacolate nel loro sviluppo urbanistico perché tagliate in due parti dai binari, come Siracusa, Pescara e Bari, per citare gli esempi più evidenti: ma una sitauzione del genere si verificò in gran parte delle cittadine italiane, nelle quali le ferrovie vennero realizzate ai lati del centro storico e determinarono con il tempo l’urbanizzazione e a volte l’industrializzazione del lato opposto. In tale contesto, specialmente quando cominciò la motorizzazione di massa, la strada ferrata divenne una barrie-

ra per l'interscambio.

Una delle dimostrazioni più significative degli effetti portati dalle ferrovie nel territorio è quella della linea Tirrenica nel tratto toscano-laziale, completata nel 1867 con il congiungimento dell'ultimo tronco Nunziatella-Civitavecchia. Le % H. Hesse, Dall'Italia e Racconti italiani, Roma Newton Compton 1994, p. 139. In realtà il paese medioevale di Fossato non era troppo lontano, situato in collina a 580 metri di altezza e a meno di due chilometri di distanza. Ma la stazione appariva ben più importante del centro che rappresentava perché

dal 1886 era divenuta sede di diramazione: vi partiva infatti la ferrovia a scartamento ridotto per Gubbio-Città di Castello-Arezzo.

395

contrade toccate dai binari risultavano tra le meno popolate d’Italia per l’imperversare della malaria. I pochi abitanti era-

no quindi concentrati in centri d'altura, dove si erano rifugiati nei secoli precedenti sia per evitare le febbri, sia per sfuggire alle incursioni dei pirati, che continuarono a sbarcare sulle co-

ste toscane fino al 1815. Le case cantoniere realizzate lungo la ferrovia rappresentarono una novità importante per l’insediamento umano in Maremma: i ferrovieri che le abitavano riscuotevano un'indennità di malaria cospicua, ma certo insuf-

ficiente a compensare le malattie proprie e dei familiari, costretti a vivere lontano da tutte le strutture dell’Italia civile. Tra i 21 Comuni

attraversati, ben 14 avevano una densità

inferiore a 50 abitanti per kmq e 10 di questi non raggiungevano i 25 abitanti per kmq, mentre la media nazionale superava all’epoca i 90 abitanti. In un secolo, tuttavia, si ottenne un in-

cremento demografico doppio rispetto a quello medio della Toscana e del Lazio, con diversi casi di crescita molto elevata: per esempio Piombino, Follonica, Grosseto e Cerveteri, piccoli

paesi divenuti cittadine di medie dimensioni. Si accrebbe inoltre l'industria, soprattutto nei settori chimico e metallurgico, l'agricoltura divenne intensiva e dal secondo dopoguerra l'affermazione del turismo completò il cambiamento. Gli straordinari progressi che fecero della Maremma costiera e interna una meta dei visitatori nazionali e internazionali non furono dovuti soltanto all'esistenza della ferrovia: interagirono molti altri fattori, come lo sfruttamento minerario, la tendenza

al popolamento delle coste, la vacanza balneare come fenomeno di massa, la motorizzazione privata e la funzione della strada statale Aurelia nella localizzazione demografica e industriale, ma la ferrovia costituì il primo di questi fattori e rimase quasi l’unico per un lungo periodo di oltre mezzo secolo, durante il quale i mutamenti economici e sociali iniziarono a posizionarsi attorno agli scali ferroviari, poi nutrendosi degli altri elementi modernizzanti fino ad avere effetti sorprendenti. La strada ferrata, pertanto, arrivò in queste terre prima dello sviluppo economico, condizionandone tutti i successivi progressi. A partire da fine Ottocento, intorno a gran parte delle stazioni nacquero i paesi scalo, alcuni dei quali divennero più 396

importanti dei vecchi centri medioevali almeno per le manifatture: basti pensare a Venturina nei confronti di Campiglia, a Follonica in rapporto a Massa Marittima, a Scarlino Scalo, a Braccagni rispetto a Montepescali, a Orbetello Scalo. In altri casi la stazione fu realizzata in luoghi spopolati e l’urbanizzazione venne avviata proprio intorno allo scalo, come a Cecina, che divenne Comune autonomo 10 anni dopo l’arrivo dei binari, a Donoratico, a Fonteblanda, al Chiarone, a Furbara, a Ponte Galeria, e successivamente a Quercianella e Casti-

glioncello, con l'apertura nel luglio 1910 della linea costiera Livorno-Vada in sostituzione dell'itinerario interno per Collesalvetti. In altri casi ancora il rapporto tra ferrovia e crescita demografica non fu diretto, ma venne mediato dall’insediamento di attività economiche. Nell'area delle colline metallifere la presenza del treno diede un forte impulso all'estrazione della pirite e di altri minerali e le stazioni divennero punti di arrivo delle teleferiche, nonché sedi di magazzini e di impianti di trasformazione: sono emblematici in questo senso gli esempi di San Vincenzo, Scarlino, Gavorrano e Giuncarico. In due casi

ulteriori la stazione faceva da centro di raccolta per i prodotti agricoli su una vasta zona di riforma agraria: Albinia e Maccarese rappresentarono questo tipo di insediamento; e a Maccarese si realizzava pure una prima trasformazione. Un ultimo cenno specifico merita Rosignano, dove venne impiantato un grande stabilimento per la produzione della soda, grazie alla vicinanza del salgemma di Saline di Volterra e del calcare del territorio circostante. Aperta la Livorno-Vada nel 1910, due anni dopo iniziava la costruzione della fabbrica.

La piccola stazione edificata in aperta campagna a servizio del paese di Rosignano Marittimo, situato in collina a 4 km di distanza, divenne in breve tempo la più importante di tutta la linea per il traffico merci e il nucleo iniziale di un nuovo centro urbano*.

3 Per una spiegazione dettagliata cfr. B. Cori, La ferrovia Pisa-Roma. Studio geografico, Pisa 1962, p. 119-40.

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INDICE

Premessa

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Carto G. LACAITA Filippo Turati e la cultura delle riforme

»

A

Maurizio DEGL'INNOCENTI Scienza, amministrazione e politica nel governo della città. L'esperienza fiorentina

»

23

ROBERTO CHIARINI Ambizioni e difficoltà di un progetto riformatore

»

99

CARLO FUMIAN Napoleone Colajanni e il riformismo radicale

»

79

MAURIZIO PUNZO La “Critica Sociale” e le riforme. Il primo decennio

»

95

IVANO GRANATA “Critica Sociale” e i problemi dell'agricoltura (1891-1926)

»

141

FABIO BERTINI Il Consiglio Superiore del Lavoro e la rappresentanza dei produttori

PELSI69

ZEFFIRO CIUFFOLETTI Gaetano Pieraccini e la medicina del lavoro

»

ANTONIO CARDINI Giovanni Montemartini e la scuola marginalista

ea

STEFANO CARETTI Matteotti “finanziere”

»

205

231

399

Dino MENGOZZI Alessandro Schiavi e le indagini sociali

Pas:

247

MICHELA MINESSO Istituzioni, politiche riformatrici e minori nel primo Novecento

»

269

ADA GIGLI MARCHETTI Editoria, stampa periodica e divulgazione scientifica tra Otto e Novecento

»

297

LUIGI CAVAZZOLI Le stazioni sperimentali e la modernizzazione in agricoltura

»

321

»

393

»

373

SIMONE NERI SERNERI

La città e il governo delle acque tra Otto e Novecento STEFANO MacgiI

Infrastrutture e territorio. La costruzione di ferrovie secondarie e tramvie

400

Nella stessa collana:

AA.AA., La costruzione dello Stato in Italia e in Germania a cura di Roberto Chiarini

1993, pp. 240.

AA.AA., L'Emigrazione tra Italia e Germania a cura di Jens Petersen

1993, pp. 240.

AA.AA., Uomini rossi di Romagna “Gli anni della Fondazione del PSI” (1892) a cura di Dino Mengozzi

1994, pp. 344.

Fulvio CONTI, I notabili e la macchina della politica Prefazione di Alessandro Galante Garrone 1994, pp. 266

SerGE NOIRET, La nascita del sistema dei partiti nell'Italia contemporanea La proporzionale del 1919 1994, pp. 316.

Simone NERI SERNERI, Classe, partito, nazione Alle origini della democrazia italiana 1919-1948

1995, pp. 296

MAURIZIO DEGL'INNOCENTI, Filippo Turati e la nobiltà della politica 1995, pp. 240 Filippo Turati e i corrispondenti stranieri a cura di Daniela Rava 1995, pp. 512

Maurizio DEGL'INNOCENTI, La società unificata Associazione, sindacato, partito sotto il fascismo

1995, pp. 240

AA.AA., La Resistenza europea nella scuola a cura di Angelo Ventura 1995, pp. 260

401

Simone NERI SERNERI, Resistenza e democrazia dei partiti I socialisti nell'Italia del 1943-1945

1995, pp. 536.

ANTONIO CARDINI, Il grande centro I liberali in una nazione senza stato: il problema dell’«arretratezza politica»

(1796-1996) 1996, pp. 168.

AA.AA., Una società violenta Morte pubblica e brigantaggio a cura di Daniele Angelini e Dino Mengozzi

1996, pp. 254.

Gaetano Cingari L'uomo, lo storico a cura di Rosario Battaglia, Michela D'Angelo, Santi Fedele 1996, pp. 186.

AA.AA., Sandro Pertini nella storia d'Italia 1997, pp. 120.

Sudditi e cittadini a cura di Umberto Baldocchi e Berto Corbellini Andreotti 1997, pp. 216.

M. CATTARUZZA, Socialismo adriatico 1998, pp. 196.

Z. CIUFFOLETTI, Contro lo statalismo Il “Socialismo federalista liberale” di Carlo Rosselli

1999, pp. 136.

G. Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede 1999, pp. 186. Carlo Rosselli e il socialismo liberale a cura di Maurizio Degl'Innocenti 1999, pp. 188.

G. Sitei, Welfare State e socialdemocrazia Cultura, programmi e realizzazioni in Europa occidentale dal 1945 ad oggi 2000, pp. 516.

D. MencOzzI, La morte e l'immortale Prefazione di Michel Vovelle

2000, pp. 408.

402

A. RAGUSA, L'Antitaliano Dell’azionismo o dell’elite di un’altra Italia

2000, pp. 190.

Riforme e istituzioni fra Otto e Novecento a cura di Luigi Cavazzoli e Carlo G. Lacaita

2002, pp. 440

U. CHIARAMONTE, Arturo Vella e il socialismo massimalista 2002, pp. 424. Maurizio DEGL'INNOCENTI, L'epoca giovane Generazioni, fascismo e antifascismo

2002, pp. 452.

La politica estera italiana negli anni Ottanta a cura di Ennio Di Nolfo

2003, pp. 408.

Maurizio DEGL'INNOCENTI - ANGELO VARNI - RENATO ZANGHERI - ZeFFIRO CIUFFOLETTI - GIANNI SILEI - SILVIA BIANCIARDI Solidarietà e mercato

nella cooperazione italiana tra Otto e Novecento 2003, pp. 164.

ANDREA RAGUSA, I comunisti e la società italiana.

Innovazione e crisi di una cultura politica (1956-1973) 2003, pp. 248.

403

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