Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra 9788842096375

Popolani e borghesi, nobili e artigiani, analfabeti e letterati, spretati, donne, spiriti liberi e politici navigati: il

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Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra
 9788842096375

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Economica Laterza 568

Eva Cecchinato

Camicie rosse I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2011 Edizioni precedenti: «Quadrante Laterza» 2007 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9637-5

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L’uomo di partito (cioè l’uomo d’azione) deve avere tanta fede in sé, nella bontà delle sue idee, nella forza potenziale del movimento al quale partecipa, nel programma che intende realizzare, da ritenere possibile di influire potentemente sull’ambiente sul quale vuole operare Carlo Rosselli Volontarismo, «Il Quarto Stato», 12 giugno 1926

Prologo

«Da Marsala al Volturno notammo fatti creduti fuor dell’ordine naturale delle cose»1, scriveva Emilio Zasio, bresciano dei Mille, ricordando, molti anni dopo, gli avvenimenti del 1860. In pochi mesi, tra maggio e ottobre, l’assetto politico della penisola era stato drasticamente trasformato dall’impresa garibaldina, che sconvolse gli accordi diplomatici e propiziò il raggiungimento di obiettivi ritenuti fino ad allora irrealizzabili. Nel luglio del 1859 la pace di Villafranca, seguita alla seconda guerra d’indipendenza, aveva sancito l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna, conservando il dominio austriaco sul Trentino, il Veneto e il Friuli. Nell’Italia centrale, dove erano sorti governi provvisori di orientamento liberale e nazionale, il tentativo di ristabilire il quadro istituzionale precedente al conflitto era presto fallito, per l’opposizione crescente dell’opinione pubblica alla restaurazione dei vecchi sovrani. Con i plebisciti del marzo 1860 anche la Toscana, l’Emilia e la Romagna erano dunque entrate a far parte del Regno di Vittorio Emanuele II. Della mappa politica disegnata dal Congresso di Vienna sopravvivevano, perciò, solo lo Stato pontificio e il Regno borbonico delle Due Sicilie. Tuttavia rimaneva frustrata l’aspirazione ad un processo di unificazione nazionale che avesse come protagonisti i settori democratici e il modello della «guerra di popolo». Nonostante la rilevanza degli obiettivi raggiunti, le forze patriottiche di più lunga tradizione – in gran parte orientate in senso repubblicano – si vedevano infatti scavalcate dall’iniziativa monarchiVII

ca di Cavour e casa Savoia, che avevano saputo raccogliere i risultati dell’azione della Sinistra risorgimentale. Il ruolo politico e militare svolto da Giuseppe Garibaldi durante la guerra del 1859 era emblematico di quella stagione: posto dal governo sardo alla guida del corpo volontario dei Cacciatori delle Alpi2, l’Eroe dei Due Mondi incarnava certo la prospettiva della legittimazione istituzionale dell’iniziativa rivoluzionaria, ma al tempo stesso simboleggiava le attese verso soluzioni politiche di matrice democratica. Il doppio binario dell’azione diplomatica e della forzatura extralegale dei tempi della politica tradizionale costituì il tratto distintivo di quei mesi, durante i quali – fossero ministri piemontesi o cospiratori di vecchia data – i diversi attori politici dello schieramento liberale furono indotti dalle circostanze e dalla propria scelta nazionale ad agire oggettivamente da rivoluzionari, dichiarando guerra – sul piano militare e ideologico – ai legittimi titolari del potere dei vari Stati della penisola. La spedizione garibaldina del maggio 1860 si realizzò sul filo delle ambiguità e dei miraggi. I precedenti delle imprese patriottiche tragicamente naufragate al Sud, negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento – i fratelli Bandiera nel 1844 e Carlo Pisacane nel 1857 – agivano nella memoria democratica come pesanti dissuasori, ma non avevano estinto la fiducia nelle potenzialità insurrezionali del Meridione. Entrambi questi livelli stavano alla base delle esitazioni di Garibaldi, nel quale l’intraprendenza e l’audacia politica non si traducevano in azione avventata e noncuranza degli aspetti concreti dell’agire militare. Non è un caso se la chiave di volta della partenza delle camicie rosse per il Mezzogiorno fu l’interpretazione controversa di un messaggio cifrato inviato dall’esilio maltese da Nicola Fabrizi, mazziniano di lungo corso. Sollecitato dagli uomini più vicini a Garibaldi a far pervenire informazioni attendibili sulle reali prospettive della sollevazione antiborbonica esplosa in Sicilia, la sua risposta era stata dapprima interpretata come perentoria dissuasione da ogni impresa, mentre una successiva corrispondenza sembrava esprimere previsioni assai meno catastrofiche. Ma la responsabilità dell’azzardo risolutivo fu assunta da Francesco Crispi, che, alla fine di aprile, sottopose con ogni probabilità a Garibaldi ragguagli incoraggianti, enfatizzandone ad arte gli aspetti positivi. Il 4 maggio, quando giunse a Genova la seconda comunicazione di Fabrizi, la decisione della partenza per il Sud era quindi già stata VIII

presa, nonostante il persistente rifiuto di Cavour di avallare l’iniziativa e il suo tentativo di dissuaderne indirettamente l’attuazione. Ai garibaldini fu infatti impossibile recuperare alcune migliaia di armi di buona qualità acquistate con pubblica sottoscrizione e depositate a Milano, che furono messe sotto sequestro da Massimo d’Azeglio, governatore della città. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio partirono dunque da Quarto poco più di mille uomini, con fucili sostanzialmente inservibili e senza munizioni. Anche per questo fu necessario fare scalo nel porto toscano di Talamone, dove ci si rifornì di armi e di cartucce. Scesero a terra, inoltre, una sessantina di uomini, allo scopo di realizzare una diversione verso lo Stato pontificio che facesse apparire più incerta la destinazione finale dell’impresa. Ripartiti il 9 maggio, i volontari sarebbero approdati due giorni dopo a Marsala, accolti dal fuoco tardivo delle navi borboniche. Le settimane tra lo sbarco e l’arrivo a Palermo, a fine maggio, furono le più difficili della campagna di Sicilia, poiché i Mille vennero raggiunti solo in seguito da spedizioni di rinforzo: dovettero dunque fronteggiare le truppe borboniche contando esclusivamente sulle proprie qualità militari, sulle forti motivazioni ideali e sul contributo delle squadre insurrezionali locali. A Calatafimi, il 15 maggio, si svolse il primo scontro decisivo, durante il quale le camicie rosse riuscirono ad annullare l’inferiorità tecnica impegnandosi in combattimenti corpo a corpo. L’andamento positivo della battaglia rafforzò la convinzione dei garibaldini nei propri mezzi ed iniziò a seminare il disordine e la sfiducia nei reparti borbonici, fino ad allora convinti di avere a che fare con bande raccogliticce di uomini incapaci di confrontarsi militarmente. A quel punto l’obiettivo principale diventava il controllo di Palermo: la sua liberazione costò tre giorni di aspra battaglia, con la popolazione insorta sottoposta al bombardamento da parte dell’esercito di Francesco II. Con l’intervallo di un armistizio, il 6 giugno fu sancita la fine del controllo borbonico sulla città. Furono necessari quasi altri due mesi perché i garibaldini, dopo la battaglia di Milazzo, raggiungessero Messina, dove entrarono il 27 luglio. In Sicilia Garibaldi aveva dichiarato di assumere il potere in nome di Vittorio Emanuele, a cui dichiarava la propria fedeltà come re d’Italia in pectore, non come sovrano piemontese, mettendo la monarchia nella posizione di dover rincorrere le scelte dell’avanguardia politica e militare in camicia rossa. Il compimento del processo unitario era IX

quindi parte imprescindibile ed intento esplicito dell’impresa, che assumeva perciò pieno significato solo in quest’ottica. S’imponeva dunque il passaggio dello Stretto, che si riuscì a mettere in atto tra il 18 e il 19 agosto, dando così inizio alla veloce risalita del Meridione continentale. Ai circa 5000 garibaldini sbarcati a Melito, si unirono in Calabria altri 10.000 uomini, a cui si aggiunsero presto alcune migliaia di volontari lucani. Da questo momento si sarebbero aperte falle sempre più profonde nella compattezza dell’esercito borbonico, all’interno del quale, specie tra i comandi, serpeggiava una crescente sfiducia3. Oltretutto ai primi di settembre Francesco II decise di lasciare Napoli e di ritirarsi a Gaeta, mentre gran parte delle forze armate della capitale e delle zone limitrofe ripiegavano su Capua. Il 7 settembre Garibaldi entrava a Napoli, mentre le truppe rimaste in città assistevano all’entusiasmo della popolazione. Il fronte si assestava quindi sul Volturno, dove il 1° ottobre si sarebbe svolta la più difficile battaglia sostenuta e vinta, al Sud, dal Generale. La rappresentazione diffusa tende ad associare in modo esclusivo la campagna garibaldina del 1860 alla spedizione dei Mille; ma l’esercito in camicia rossa – ufficialmente denominato «Esercito meridionale garibaldino» – arrivò a raccogliere circa 50.000 uomini, tra ex sudditi borbonici e volontari provenienti da altre zone della penisola. Non solo una significativa forza militare, dunque, ma anche una base d’azione politica non sottovalutabile. I moderati alla guida del Regno di Sardegna, scavalcati dal corso degli eventi, non potevano che osservare con inquietudine l’evolversi della situazione. Parallelo allo scontro tra camicie rosse e borbonici corse infatti in quei mesi il conflitto politico tra Garibaldi e Cavour4. Lo statista piemontese, convinto sulle prime dell’inattuabilità della spedizione, poi del suo fatale fallimento, si trovò ben presto a dover fronteggiare prospettive inattese, che rappresentavano al contempo un’occasione epocale per casa Savoia e i settori moderati del movimento nazionale. Verificati l’atteggiamento simpatetico dell’Inghilterra verso l’impresa garibaldina e la conseguente indisponibilità della Francia ad ostacolare il processo unitario in corso, s’imponevano a Cavour nuovi imperativi: anticipare da quel momento in poi l’iniziativa democratica, svuotando di significato il controllo politico esercitato dai garibaldini sul Meridione. Se Garibaldi passa sul continente – aveva scritto a Costantino Nigra il 1° agosto 1860 – e s’impadronisce del Regno di Napoli e della sua capitale come ha fatto della Sicilia e di Palermo, diventa padrone assoluto della siX

tuazione. Il Re Vittorio Emanuele perde poco a poco tutto il suo prestigio; non è più agli occhi della grande maggioranza degli italiani che l’amico di Garibaldi. Conserverà probabilmente la corona, ma questa corona non brillerà più che per il riflesso che un avventuriero eroico giudicherà opportuno gettare su di essa5.

Tuttavia, il tentativo di far scoppiare a Napoli una sollevazione di matrice moderata prima dell’arrivo delle camicie rosse era fallito. Era necessario a quel punto impedire che Garibaldi mettesse in atto la dichiarata volontà di proseguire verso Roma, l’unica eventualità che avrebbe provocato con certezza la reazione di Napoleone III, tutore, dal 1849, del potere temporale del papa. Nell’estate del 1860 erano pronti per irrompere nello Stato pontificio 9000 volontari raccolti da Bertani a Genova, in Romagna e in Toscana a nome di Garibaldi. Cavour riuscì tuttavia a dirottare queste forze verso il Sud, dove ormai l’iniziativa delle camicie rosse era avviata. Il passo veramente decisivo venne però compiuto a settembre, quando furono le stesse truppe regolari del nascente esercito italiano – guidate da Fanti, Cialdini e Della Rocca – a varcare da nord i confini dello Stato pontificio. Di fronte alle potenze europee, Cavour ebbe buon gioco nell’utilizzare gli avvenimenti del Sud per sottolineare la fatalità del processo unitario in atto e per legittimare un intervento che prevenisse il dilagare dell’iniziativa rivoluzionaria, riconducendola su binari legalitari. Il 18 settembre le forze pontificie di Lamoricière furono sconfitte a Castelfidardo, il 29 fu espugnata Ancona. A quel punto l’esercito di Francesco II si trovava stretto tra i garibaldini e l’avanzata delle truppe regie in veloce discesa attraverso l’Umbria, le Marche, l’Abruzzo e il Molise. Presto la resistenza dell’armata borbonica si sarebbe concentrata a Gaeta, che avrebbe ceduto all’assedio solo nel febbraio del 1861. Allo stesso tempo, però, era politicamente segnata anche la sorte dei governi garibaldini del Sud, in cui ricoprivano ruoli di vertice Crispi, Bertani e Mordini, succeduto al cavouriano Depretis nella prodittatura della Sicilia. Essi oramai non avevano modo di competere con le forze che facevano capo al Regno di Vittorio Emanuele II, una realtà statuale che poteva autorappresentarsi, allo stesso tempo, come liberale, unitaria e garante dell’ordine. Quando il re incontrò Garibaldi a Teano il 26 ottobre del 1860, la linea moderata aveva già prevalso sulla prospettiva democratica di una Costituente che determinasse gli assetti istituzionali dell’Italia unita. L’esercito in camicia rossa era già stato messo in coda rispetXI

to all’iniziativa delle truppe regie. Tuttavia i vertici politici garibaldini avevano ottenuto che i plebisciti svoltisi il 21 ottobre nel Meridione continentale e in Sicilia si configurassero come superamento decisivo del meccanismo annessionistico con cui la Lombardia, l’Emilia e la Romagna erano state unite al Regno di Sardegna. «Volete l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?»: così si presentava il quesito a cui le popolazioni del Sud, a suffragio universale maschile, diedero il proprio assenso. Un patto che aveva dunque come premessa e come condizione la nascita di uno Stato unitario proclamato ufficialmente cinque mesi dopo. Gli avvenimenti del 1860 ebbero un valore periodizzante nella storia d’Italia, andando a costituire un precedente che interferì profondamente con gli sviluppi politici degli anni successivi. La frustrazione degli ambienti democratici, l’aura mitica che si consolidò attorno a Garibaldi – condottiero imbattibile6 e simbolo di un’altra Italia possibile –, la persistente tendenza di Vittorio Emanuele a coltivare relazioni e linee politiche personali, l’esempio della connivenza tacita o postuma del governo rispetto alle iniziative rivoluzionarie del ’60, furono altrettanti fattori capaci di alimentare attese ed equivoci. Gli stessi plebisciti dell’autunno 1860 erano passibili di interpretazioni divergenti: per taluni baluardo legalitario e sanzione dell’egemonia moderata; per altri patto imprescindibile che, anche in prospettiva, subordinava la fedeltà degli italiani verso la monarchia alle scelte nazionali, liberali e unitarie di casa Savoia. Questi gli antefatti immediati e oramai il quadro simultaneo delle vicende che analizzeremo nelle pagine che seguono. Dai teatri di battaglia attorno al Volturno e al Garigliano, dagli assedi di Capua e di Gaeta, dalle campagne e dalle città del Sud affollate di truppe vinte e di eserciti vittoriosi, di briganti e di garibaldini paradossalmente già indotti a pensarsi come reduci, i contrasti e le passioni dell’Italia nascente rimbalzarono nell’aula parlamentare di Palazzo Carignano. Uomini come Crispi, Bertani e Mordini, che avevano avuto più o meno a lungo nelle proprie mani le chiavi dei governi rivoluzionari del Meridione, si trovarono a dover riversare idealità e ambizioni di protagonismo politico nella corrispondenza privata e nell’autorappresentazione pubblica come classe dirigente di riserva. Questo libro intende innanzitutto ricostruire il quadro conflittuale al cui interno, a cavallo della nascita del Regno d’Italia, si diXII

scusse e si realizzò l’emarginazione delle forze politiche e militari che avevano propiziato la caduta del regime borbonico. È questo il punto di partenza da cui esploreremo le contraddittorie dinamiche che caratterizzarono, nei decenni successivi, i rapporti tra le istituzioni dell’Italia liberale e la memoria e i recuperi del garibaldinismo come tradizione politica e modello d’azione in armi. Il mito della camicia rossa attraversò diverse generazioni, che a vario titolo aspirarono ad indossarla, rinverdendone i fasti all’interno o al di fuori dei confini della penisola7. Posta in palio o simbolo ingombrante per vecchie e nuove culture politiche, materializzazione delle irrisolte ambiguità originarie dell’Italia unita, l’emblema garibaldino, ancora tra l’estate del 1914 e il maggio 1915, avrebbe avvolto le illusorie speranze di una guerra combattuta per la propria e l’altrui libertà, contro gli egoismi dinastici e i formalismi diplomatici.

Camicie rosse I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra

Parte prima

Dall’Unità d’Italia alla presa di Roma

Capitolo primo

I garibaldini all’indomani dell’Unità

1. «L’entusiasmo non si organizza» Nel novembre del 1860 Vittorio Emanuele sottoscrisse il decreto che determinava in sostanza lo scioglimento dell’Esercito meridionale1. Il provvedimento si inseriva coerentemente nella linea che i moderati al potere stavano seguendo rispetto all’Italia del Sud, appena liberata – ma l’assedio di Gaeta durava ancora – dal dominio borbonico. La politica della sostituzione delle forze garibaldine con elementi legati all’esercito regolare, con rappresentanti del governo di Torino o comunque con uomini di indubitate tendenze moderate si fondava sull’idea del passaggio del testimone, simbolicamente rappresentata dall’incontro di Teano: quest’ultimo veniva quindi letto non tanto come reciproco riconoscimento tra Garibaldi e il re, bensì come delega definitiva e pressoché incondizionata del primo al secondo, come ammissione ed accettazione dell’esaurimento di un ruolo. Fermo restando che la presa di potere di Vittorio Emanuele anche sui territori del Mezzogiorno doveva essere – nelle dichiarazioni programmatiche e nelle formule adottate dallo stesso Garibaldi, fin dalla partenza della prima spedizione – il punto d’arrivo degli avvenimenti, ciò che rimaneva da definirsi erano i tempi e i modi della fase di transizione e lo spazio concesso ai protagonisti della rivoluzione meridionale non solo in questa fase di «interregno», ma anche in quella successiva di consolidamento del nuovo corso politico. Il decreto reale dell’11 novembre 1860, che scioglieva l’Esercito meridionale2 nella vaga e imprecisata prospettiva di trasformarlo in 5

qualcosa d’altro, fu preceduto da un confronto parlamentare che preparava il terreno alla sua emanazione e la faceva apparire tutt’altro che inattesa3. Anche se la realtà politica del Regno d’Italia non si era ancora formalizzata, lo scontro si giocava già tra una classe dirigente moderata ormai di fatto alla guida di una nuova realtà statuale ed una delle componenti politico-militari più importanti del processo rivoluzionario che aveva condotto alla nascita dell’Italia unita. Nonostante i rapporti di forza fossero quindi tutto sommato già definiti, le discussioni tradivano la consapevolezza del carattere decisivo del conflitto in atto. Allora come in seguito, la denuncia dello stato d’anarchia e di disarticolazione civile ed amministrativa in cui avrebbero versato le regioni del Sud conquistate e poi «governate» dai garibaldini fu una delle principali giustificazioni politiche dell’accelerazione del processo di annessione. Il termine e il concetto di «rivoluzione» dominò lo scontro, ma a fronteggiarsi furono interpretazioni e modelli differenti della categoria politica in questione. Agostino Depretis, che solo con molti distinguo e cautele potremmo inserire nelle fila politiche dei garibaldini, fu tra i primi ad esporre con chiarezza il proprio punto di vista. Le sue argomentazioni avevano un tono conciliatorio e tendevano ad indicare la strada per una valorizzazione del patrimonio politico e militare del garibaldinismo all’interno di un quadro istituzionale stabile. Pur auspicando, assieme allo schieramento moderato, una veloce annessione del Meridione, Depretis si preoccupava di chiarire come i due concetti di rivoluzione e di ordine non dovessero considerarsi in questo caso coppia oppositiva, bensì fasi distinte di un unico processo, che ora reclamava il ritorno alla normalità e all’ordine. La rivoluzione ha dominato in Sicilia, non giova tacerlo, ed è appunto quello che spesso fu dimenticato. In Sicilia vi fu una rivoluzione violenta e sanguinosa contro la tristissima signoria dei Borboni. Il generale Garibaldi attraversava il paese accompagnato dalla rivoluzione e portava in trionfo la bandiera dell’unità: Italia e Vittorio Emanuele. Ma questa bandiera era piantata in un paese in rivoluzione. [...] quando si ottengono dei risultati così luminosi, quando con sì piccoli mezzi si libera tanta e sì nobile parte d’Italia, si può essere meno severi nel portar giudizio sui diversi atti di una difficile amministrazione4.

Opportunamente interpretate, le parole di Depretis suonavano soprattutto come una presa d’atto delle potenzialità di mobilitazio6

ne popolare legate alla figura di Garibaldi, indicato quale «grande educatore della nostra gioventù»5. [...] quando un uomo riunisce attorno a sé tutte queste forze, che non sono solamente italiane, ma che vengono da tutti i paesi d’Europa, dove si reputa un obbligo di sostenere una causa giusta, quest’uomo, o signori, rappresenta una grandissima potenza. [...] io non posso credere che il Governo abbia detto seriamente doversi chiudere l’era delle rivoluzioni, nel senso che le forze, che chiamerò, perché così si vuole, rivoluzionarie, possano diventare inutili. Io credo che questo sarebbe un errore, poiché con questo si toglierebbero delle forze importanti alla causa nazionale [...]. Io amo credere adunque che questa parola sia scritta per la diplomazia, la quale qualche volta vuole delle parole impossibili6.

Indubbiamente lucido, il ragionamento di Depretis teneva assieme due punti di vista: da un lato la necessità di un maggiore coinvolgimento delle forze garibaldine nel processo di costruzione e consolidamento dello Stato, dall’altro l’opportunità di disinnescare le componenti di illegalismo presenti nel garibaldinismo attraverso l’integrazione di uomini e gruppi sociali ad esso legati in una linea politica più moderata. Nei mesi a cavallo della proclamazione del Regno d’Italia il vero oggetto del contendere fu che cosa si dovesse intendere per fase rivoluzionaria e quanto essa potesse ancora durare. Le dichiarazioni più chiare, autorevoli ed efficaci al riguardo vennero, tra i moderati, da Massari e Minghetti e, sul fronte opposto, da Giuseppe Ferrari e Francesco Crispi. Particolarmente significativa fu la presa di posizione di Massari: energicamente favorevole ad una piena unificazione tra il Mezzogiorno e l’Italia centro-settentrionale, egli sembrava quasi farsi interprete di una tradizione patriottica ed antiborbonica meridionale alternativa al fenomeno garibaldino e più adatta di quest’ultimo a traghettare il Sud verso la piena integrazione nel Regno d’Italia sotto casa Savoia. [...] È opinione [...] universalmente diffusa che la rivoluzione sia stata, nelle provincie meridionali d’Italia, quello che [...] si direbbe frutto d’importazione. Signori, questo è un errore. Aggiungerò di più: non è soltanto un errore, è anche un’ingiustizia, poiché la rivoluzione covava latente in queste provincie, e non aspettava che l’impulso per scoppiare; l’impulso venne e la rivoluzione divampò come un baleno [...]. [...] credo di avere rinvenuta anche la cagione pratica dell’ardente desi-

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derio che le popolazioni napoletane hanno di conseguire l’unità che hanno decretata. Questa ragione pratica, dico, è il desiderio istintivo, naturale, prepotente, che esse hanno di buon governo7. [...] dovete voi governare sempre colla rivoluzione? in istato di rivoluzione? [...] Le rivoluzioni distruggono, non riedificano, non governano; la rivoluzione in Sicilia distrusse la tirannide, distrusse l’amministrazione, distrusse l’aborrita polizia, distrusse molti abusi; ma la rivoluzione non ebbe campo di ordinare un regime di governo, essa fece i suoi sforzi sciupando di mano in mano uomini pieni di buon volere8.

Nella visione proposta da Massari, nelle sue denunce degli effetti nefasti della rivoluzione, si trasformava in accuse, in giudizi di valore, ciò che qualche mese prima, nelle parole di Depretis, era semplice presa d’atto di dinamiche connaturate ad ogni fenomeno rivoluzionario. Alle valutazioni dei moderati si contrappose in modo radicale Giuseppe Ferrari. A suo parere non solo il Sud era governabile esclusivamente dalla rivoluzione, ma anche l’Unità italiana si poteva conservare e consolidare solo dispiegando fino in fondo, specie nel Meridione, il processo rivoluzionario da cui era nata. [...] o signori, noi siamo riuniti da ieri; noi ci conosciamo appena; noi siamo ancora frementi del giubilo inaspettato per moltissimi d’incontrarci in questo recinto; noi sappiamo che da quattro secoli simile riunione non fu mai data all’Italia, e che conviene risalire ai tempi di Cola da Rienzo, tempi tumultuosissimi, per ritrovare un’Assemblea che a questa si rassomigli. Noi non siamo sicuri del luogo dove ci riuniremo domani, e noi siamo giunti qui rappresentanti di che? D’una rivoluzione, svariata, piena d’incidenti; d’una rivoluzione a cui l’amministrazione del Piemonte ha dato un aspetto regolare ed una specie di calma italiana; ma che in fondo ribolle quanto quelle di Parigi9.

Per Ferrari non era dunque questione di opportunità e di generosità integrare i protagonisti della rivoluzione meridionale, ma la stessa sopravvivenza del regime liberale imponeva di affidare loro un ruolo centrale. La fase definitiva per i destini delle camicie rosse si collocò nella primavera del 1861: il dibattito si accese dopo l’emanazione del decreto dell’11 aprile 1861, che, se sanciva ufficialmente la nascita del Corpo volontari italiani come teorico collettore – separato dall’esercito – dei garibaldini, nella sostanza ne determinava la neutralizza8

zione e lo smantellamento, chiudendo le prospettive di un reale inserimento di un numero consistente di ufficiali nell’esercito regolare10. Tuttavia questo momento decisivo dello scontro11 fu introdotto, nel marzo, da una prima apertura della discussione – sollecitata da un’interpellanza di La Marmora – sulla riorganizzazione dell’esercito unitario e sulla gestione delle forze volontarie garibaldine12. L’opposizione contestò aspramente le scelte del governo – e del ministro della Guerra Manfredo Fanti in particolare – in materia di armamenti, mescolando polemica politica e argomentazioni di tipo «tecnico»: se dal Paese – ed in special modo dalle province dell’impresa garibaldina – si faticava a ricavare forze sufficienti a formare un esercito adeguato ad uno Stato di moltiplicate proporzioni, perché rinunciare all’Esercito meridionale? Quest’ultimo incarnava inoltre la forza d’attrazione di una militanza patriottica e di una forma di integrazione sociale tradotta nell’esercizio delle armi, in territori non sottoposti alla leva, garantendo oltretutto requisiti di affidabilità politica e sincera adesione alla causa liberale e nazionale. Questi erano nella sostanza gli argomenti avanzati dalla Sinistra. La replica di Manfredo Fanti, personalmente chiamato in causa, utilizzò, in chiave conservatrice, gli argomenti tipici dell’assioma secondo il quale «l’entusiasmo non si organizza». Il volontariato ha una maniera propria di essere. Con tutto l’impegno di cui sono stato capace, con tutta la buona volontà del mondo, nulla ho potuto fare a questo riguardo. [...] Non si può obbligare un cittadino a star sotto le armi, se la legge non ve lo chiama. Bisognava adunque che i volontarii prendessero una ferma. Bisognava armarli e vestirli, né si poteva far tale gravissima spesa per vederli poi dileguarsi dopo alcuni giorni. Quindi si è detto: chi vuole andare, vada13.

La superficialità del ragionamento di Fanti si manifestava innanzi tutto nell’assenza di un vero sforzo di analisi, che sapesse contestualizzare la sua rappresentazione astorica del volontario nella realtà specifica del fenomeno garibaldino del ’60: ciò fra l’altro impediva al ministro di operare dei distinguo all’interno dei vari settori del volontariato in camicia rossa, individuando se non altro diversi gradi di identificazione nel nuovo Stato e differenti potenzialità di inserimento nell’esercito. In ogni caso Fanti non faceva che riproporre convinzioni già espresse nell’autunno precedente, quando la linea da lui perorata era 9

stata sostanzialmente sancita dall’emanazione del decreto dell’11 novembre 186014. Prima della promulgazione del provvedimento egli aveva inviato a Vittorio Emanuele una lettera in cui esponeva il suo punto di vista e ne caldeggiava l’attuazione: Maestà, L’Armata è l’ancora di salvezza della Patria contro lo straniero, ed è il braccio della società pel mantenimento dell’ordine e l’esecuzione della legge. D’altra parte l’Ufficiale [...] deve dare l’esempio del sacrificio in pace, e del valore in guerra, deve condurre una vita specchiata, ed essere educato, colto e robusto. Dall’insieme di queste doti si formarono e si mantengono gli Eserciti, né basta una o più di esse per eminenti che siano per aver diritto di entrare nella gran famiglia militare, meno ancora di passare in cima di ogni legge a scapito di chi venne lentamente e con molte campagne progredendo nella carriera. In altre Nazioni succede pure, che allo scoppio di una guerra o di una rivoluzione si formino Corpi di volontarj sotto diverse denominazioni, ma questi militari per grandi che siano i servizj resi da loro, allo sparire della causa che consigliò la loro organizzazione, sono rimandati alle case loro [...]. Credo quindi che la questione delle truppe del Generale Garibaldi, dove si profusero senza norma alcuna i gradi i più eminenti in una scala favolosa15, deve essere profondamente studiata e decisa in Consiglio dei Ministri, i quali sono i custodi delle Leggi e dei diritti dei sudditi di V.M., e che avranno a renderne conto alla Rappresentanza Nazionale. [...] Devo dunque [...] manifestare a V.M. che mi sento impotente ad emettere un consiglio sull’avvenire delle truppe del Generale Garibaldi, e che non potrei assumere la responsabilità di un atto da cui può dipendere l’avvenire d’Italia. Oserei frattanto proporre a V.M. un Decreto formato sulle basi, che ho gettate in fretta sul qui unito foglio, e che a me pare potrebbe emanarsi tanto da me a nome di V.M. come da S.E. Farini, come Log.te gle dell’ex Regno delle due Sicilie16.

Nello scontro alla Camera della primavera del ’61, due dei parlamentari di maggior spicco dell’opposizione garibaldina, Giuseppe Sirtori17 e Francesco Crispi, si impegnarono a ricondurre di forza la polemica di Fanti alle sue chiare implicazioni politiche. A questo scopo, rituffandosi nel vivo dell’impresa garibaldina, Sirtori tracciava uno scenario da guerra civile: [...] Come poteva essere ordinato esattamente, quanto un esercito regolare,

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un esercito che partiva con mille uomini da Genova il 5 maggio, e che si trovava nei primi giorni di settembre di già al Volturno, dopo avere vinta una monarchia che disponeva di 100000 uomini? E certo un esercito che da 1000 uomini perviene a 40000, non può fare il conto ogni giorno [...]. E se il numero degli ufficiali fu assai maggiore di quello che avrebbe dovuto essere, anche di questo [...] fu cagione la situazione. Il ministro sa benissimo che quando noi abbiamo cominciato la guerra non sapevamo se l’esercito sardo verrebbe in nostro aiuto, ovvero se saremmo abbandonati e rinnegati, e se, mentre eravamo combattuti dall’esercito napolitano, non avessimo forse a combattere anche l’esercito che ottenne il permesso d’entrare nelle Marche e nelle Umbrie; poiché, lo dico, esso ottenne il permesso d’entrare nelle provincie napolitane per combattere noi, che eravamo l’Italia! [...] Sì! per combattere noi! [...] E noi avremmo combattuto contro questo esercito. [...] Noi che volevamo l’Italia, che non guardavamo a provincia, avremmo deplorato il combattimento, ma ci saremmo battuti contro tutti, perché noi eravamo l’Italia. [...] È chiaro che l’esercito che sarebbe intervenuto contro di noi non poteva essere italiano. [...] Io con dolore debbo dirlo; noi fummo trattati non da amici, non da patrioti, ma da nemici...18.

Il ragionamento che Manfredo Fanti, parlando anche a nome dello schieramento moderato, esprimeva in merito ai garibaldini combattenti rispecchiava l’assimilazione più o meno esplicita della rivoluzione all’anarchia, ad una malattia passeggera, ad un trauma da superare e dimenticare in fretta. In effetti dal punto di vista militare i volontari in camicia rossa venivano rappresentati come validi solo per alcune fasi di emergenza, poiché nutriti esclusivamente di uno spontaneo entusiasmo patriottico, che poteva durare anche quanto una fiammata. Allo stesso modo, sul versante politico, si poteva riconoscere ai garibaldini il merito provvidenziale e strategico di aver distrutto un regime, ma non si riteneva plausibile attribuire loro la capacità di costruire su quelle macerie e di governare. Era questa una visione radicalmente opposta a quella a cui si richiamava Francesco Crispi, che del concetto di rivoluzione privilegiava e sottolineava soprattutto gli aspetti costruttivi, cioè il processo di edificazione e di consolidamento di uno Stato nazionale liberale. Di quest’ultimo sarebbero state poste le premesse imprescindibili e le basi essenziali, ma lo svolgimento aveva bisogno di procedere per garantirsi dal pericolo di salti all’indietro. 11

[...] la riscossa e la liberazione non potevano aver luogo senza una rivoluzione propriamente detta, senza una rivoluzione che scuotesse quasi dalle fondamenta la società [...]. Colà la rivoluzione si ingrandì e divenne gigante; colà ella prese forme regolari, e si organizzò in guisa che i governi [...] non poterono esser altro che governo rivoluzionario [...]. Cotale era l’origine e la natura di quei governi, e, insieme con essi, dell’esercito dei volontari [...]; dell’esercito come piacque chiamarlo, meridionale. L’era la rivoluzione organizzata in esercito, che prese allora quelle forme militari. Così, o signori, parmi di avervi dimostrato che l’esercito meridionale non è altro che la rivoluzione. E da questa situazione appunto io credo che nascano le apprensioni del Ministero, da ciò le difficoltà a riconoscere e ricomporre quell’esercito, da ciò la facilità e la prontezza a discioglierlo [...]. Quell’esercito rappresentava un principio che alla politica seguita in sino ad ora dall’attuale Gabinetto nell’amministrazione del paese era contrario. Perocché, a mio avviso, cotesta politica, [...] è certamente antirivoluzionaria e conservatrice19.

L’intervento di Crispi era per molti versi quanto di meglio potesse esprimere la Sinistra in una condizione, come quella descritta, priva di realistiche prospettive di successo in ambito istituzionale. Interessante e convincente era la descrizione di una rivoluzione capace di farsi governo e di un entusiasmo volontaristico che sapeva anche conformarsi a modelli in parte mutuati dagli eserciti tradizionali, prefigurando una potenzialità di gestione autosufficiente della realtà postrivoluzionaria. Il governo garibaldino del Sud veniva così sottratto all’esclusività delle categorie descrittive ed interpretative dell’eccezionalità e dell’emergenza e assumeva la fisionomia di una, se non realistica, almeno dignitosa e non assurda alternativa alla via moderata e «piemontese». Il grande scontro dell’aprile 1861 si sviluppò all’indomani dell’emanazione del decreto dell’11 aprile e trasse origine da un’interpellanza di Bettino Ricasoli. Le sue preoccupazioni erano rivolte agli umori serpeggianti negli ambienti garibaldini, ed egli si proponeva appunto di denunciare «come da quelle medesime forze che operarono tanta virtù, oggi [...] abbia preso origine un dissenso, un antagonismo, un dualismo minaccioso, che tiene in grave apprensione tutta la nazione»20. La realtà dipinta da Ricasoli chiamava ovviamente in causa l’operato e i progetti del ministro della Guerra Manfredo Fanti, pronto 12

ad offrire un’ampia giustificazione dei provvedimenti adottati verso l’Esercito meridionale e quelli preunitari: Per la bassa forza ognuno sa quanto il volontario avversi ogni regola che lo assoggetti al quartiere, alla piazza d’armi, alla disciplina e ad ogni cosa che possa contrariare i suoi desideri. I suoi operati sono mossi dalla passione di un fine che, quando non sia subito raggiunto, lo rende insofferente d’ogni indugio e d’ogni privazione. Egli guarda come schiavitù l’ordine, come pedanteria l’autorità, obbedisce all’uomo e non al grado. È voglioso infine di novità. Se questo, o signori, può essere un elemento prezioso in date circostanze e condizioni, egli diventa molesto e sommamente dispendioso laddove non tuoni il cannone21.

Se per la massa dei combattenti Fanti aveva buon gioco nell’utilizzare in maniera semplicistica categorie che pur avevano un loro fondamento nella realtà, rispetto agli ufficiali garibaldini il discorso si faceva invece più trasparente e in esso si rispecchiava chiaramente il suo ruolo di portavoce degli interessi tradizionali delle gerarchie dell’esercito: Rispetto agli ufficiali [...] il loro numero ed i favolosi avanzamenti che aveano ricevuto erano talmente fuori misura d’ogni paragone fuori del dì d’oggi in Europa, che, lo ammetterli senz’altro nella gran famiglia militare, sarebbe stato, lasciate che lo dica, o signori, siccome voler pronunciare la dissoluzione dell’esercito nazionale. [...]. [...] se fosse ammissibile che un ufficiale qualunque, abbandonando l’armata a cui è ascritto [...], potesse accorrere [...] laddove, pur combattendo, si raccolgono i gradi a dismisura; se fosse ammissibile [...] che quest’ufficiale potesse ritornare tranquillamente coi gradi ottenuti nell’armata che abbandonò, in quell’armata dove i suoi compagni, combattendo più di lui, non hanno ottenuto un solo avanzamento, sarebbe, o signori, tale disprezzo di ogni principio di giustizia e di moralità, che ciò basterebbe per isciogliere quei vincoli potenti che costituiscono gli eserciti nazionali sui quali poggia oggi più che mai la vita e l’onore delle nazioni22.

Se erano esagerate e discutibili le affermazioni di Fanti in merito alla disinvoltura nell’attribuzione dei gradi e alla scarsa esperienza militare di molti ufficiali garibaldini, quanto egli sosteneva sull’assenza di avanzamenti nell’esercito regolare costituiva un’aperta falsificazione dei fatti, una forzatura della realtà talmente palese da costituire verosimilmente per la controparte una vera e propria provocazione. La forza di Fanti gli proveniva dalla collocazione politica e dal ruolo isti13

tuzionale, ma la sua visione si rivelava inadeguata alla gestione di una fase politicamente anomala, che imponeva una disponibilità almeno parziale alla ridefinizione di alcuni parametri: le osservazioni in merito ai contraccolpi dell’inserimento dei garibaldini nell’esercito non erano certo assurde, ma esprimevano una scala di priorità in cui non trovavano adeguata considerazione le esigenze di rinnovamento della classe dirigente e degli apparati dello Stato. Il dibattito parlamentare dell’aprile 1861 visse indubbiamente il momento di maggior tensione con l’apparizione alla Camera di Giuseppe Garibaldi. Le sue obiezioni all’operato del governo costituirono il modello per tutte le critiche che partirono, in quei giorni, dai seggi della Sinistra. Riconducendo con forza il dibattito alle forme e ai contenuti della nascita del Regno d’Italia, Garibaldi affermava: Se un decreto uscisse oggi per l’esercito che offrisse sei mesi di soldo ai soldati e niente a coloro che restassero nelle file, io credo che la Camera, fuor di dubbio, concorrerà nella mia opinione, che l’esercito rimarrebbe senza soldati, e non resterebbero sotto le bandiere che gli ufficiali. Così successe nell’esercito meridionale. Ma anche di questi ufficiali un gran numero, vedendosi senza soldati ed umiliato in tanti modi, diede le demissioni, dimodoché appena la metà ne rimane. [...] La dittatura era governo legittimo, governo istituito dalla nazione; la dittatura promosse il plebiscito, quindi la riunione delle provincie meridionali alla grande famiglia italiana. E perché, quando si accettavano quelle provincie, non si accettava pure l’esercito che tanto aveva contribuito ad emanciparle? Questa era ragione di giustizia23.

È chiaro che l’attribuzione di legittimità al governo dittatoriale era in senso proprio una forzatura; è altrettanto vero, però, che metterne in discussione la legittimità, non tanto nella forma, ma nella sostanza, avrebbe condotto direttamente a delegittimare lo Stato italiano e la sede stessa in cui il dibattito si stava svolgendo. Dopo quella dichiarazione di critica radicale all’impostazione moderata, l’intervento di Garibaldi si soffermava su aspetti più pragmatici. L’imperativo «armare, armare ed armare» veniva così proposto come soluzione – per ragioni sociali e di ordine pubblico – sia della difficile realtà meridionale, sia in vista di uno scontro con l’Austria, ritenuto imminente se non altro in senso difensivo. Alle obiezioni di Garibaldi i moderati contrapposero l’autorevolezza di Cavour, fedele all’inamovibile visione della non organizzabilità dei volontari24: anche il suo ragionamento assumeva come dato acquisito l’appartenenza definitiva di ogni volontario alla realtà 14

dell’irregolarismo e prescindeva dalla considerazione che tra gli arruolamenti per l’Italia meridionale e la discussione in corso in Parlamento stava la nascita di un nuovo Stato, originato anche dalla rivoluzione. A prescindere dai risultati concreti, la presenza di Garibaldi alla Camera fu di per sé significativa e sollecitò prese di posizione non sempre benevole anche all’interno del mondo garibaldino. Del resto, al di là delle valutazioni sull’opportunità politica del gesto, la partecipazione al dibattito sull’Esercito meridionale rappresentava un’assunzione di responsabilità: egli non solo aveva comandato, diretto, incitato all’arruolamento e alla militanza patriottica migliaia di uomini, ma era ben consapevole di essere oggetto di investimenti psicologici, emotivi ed ideali che andavano ben al di là di quelli normalmente alimentati da un leader politico o da un capo militare. Con l’aprile del 1861 la sorte delle camicie rosse era di fatto segnata. L’ultimo vero tentativo di promuovere un modello di esercito alternativo a quello voluto dai moderati sarebbe venuto direttamente da Garibaldi, di cui si discusse nel giugno un progetto di legge per l’armamento nazionale. Si trattava di una proposta fondata sulla valorizzazione e l’enfatizzazione del ruolo della Guardia nazionale25, che avrebbe dovuto materializzare l’idea della nazione in armi, contrapposta alla soluzione di un esercito regolare che monopolizzasse tutte le forze organizzate di difesa. A muovere i sostenitori della proposta vi era evidentemente anche il tentativo di conquistare spazi di educazione del popolo alle armi che non fossero totalmente monopolizzati dai moderati e dalle gerarchie militari: in una realtà che ancora non conosceva la leva di massa, l’obiettivo di armare giovani al di sotto dei 21 anni, senza distinzioni di censo, poteva sottintendere la speranza di garantirsi una sorta di «esercito di riserva» potenzialmente orientabile in senso democratico. Più concretamente ciò avrebbe potuto aprire nuove prospettive di collocazione agli ufficiali provenienti dall’esercito garibaldino, per la maggior parte dei quali oramai si erano chiuse le porte dell’esercito regolare. La discussione sul progetto di legge – che venne nella sostanza respinto, o meglio, approvato nella forma presentata dalla Commissione incaricata di studiare l’applicabilità della proposta originaria26 – aprì la strada ad una polemica nei confronti degli irrigidimenti sociali e politici della Destra. In risposta, da parte moderata 15

si sottolineava che ogni soluzione che si allontanasse dagli eserciti regolari appariva agli occhi dell’Europa come sintomo di debolezza e di instabilità del Paese. Ma il panorama era più complesso di quanto potesse apparire: basterà segnalare che il primo a schierarsi contro il progetto di Garibaldi non fu certo un moderato, ma il democratico Petruccelli della Gattina, a cui si deve la dichiarazione – «l’entusiasmo non si organizza» – con cui si è scelto di esordire. Egli considerava inadeguata e «ingenua» la proposta garibaldina, perché in essa intravedeva la promessa illusoria di far rivivere i miracoli delle insurrezioni popolari risorgimentali, attraverso la sistematica organizzazione delle masse nei ranghi della Guardia nazionale mobile. Questi miracoli, o signori, sono miracoli del popolo [...]. Questo lirismo dell’entusiasmo sboccia dalla fede del diritto, dalla grandezza dei pericoli, dal santissimo sentimento della patria, dall’imperio della salute pubblica, dal soffio creatore della rivoluzione. No, signori, l’entusiasmo non si organizza. E se nei giorni della calamità voi fate appello a codesta vostra guardia nazionale sì bene disciplinata, voi la trovate dalla disciplina consunta, spossata27.

Senza voler giudicare questa diagnosi priva di contatti con la realtà, essa dimostra in ogni caso come uomini interni alla tradizione democratica e rivoluzionaria rimanessero legati ad una visione di maniera del potenziale bacino del volontariato patriottico, e non sapessero leggere e valutare in tutta la loro complessità fenomeni storici e sociali cui pure dedicavano una simpatetica attenzione. 2. La smobilitazione dell’Esercito meridionale garibaldino Se i dibattiti parlamentari sono fonti imprescindibili per indagare le visioni politiche che si fronteggiavano, la realtà concreta del garibaldinismo nella fase a cavallo della nascita del Regno d’Italia può essere meglio illuminata dai carteggi di alcuni personaggi che in quei mesi ricoprivano posizioni strategiche. Un uomo come il modenese Nicola Fabrizi rientrava indubbiamente in questa categoria, per la sua fisionomia di pluridecennale cospiratore e rivoluzionario, per le sue convinzioni mazziniane, per il ruolo di naturale referente – nella doppia qualità di comandante militare e ministro della Guerra del governo garibaldino – di moltissime camicie rosse «anonime», per i rapporti che intratteneva stabilmente con esponenti di spicco del mondo antimoderato e mode16

rato. Fabrizi – che scelse nell’immediato la via del vecchio esilio maltese, lasciando spazio a seri interrogativi sulla sua adesione al nuovo Stato – si trovava al centro di una rete epistolare che, da un lato, lo manteneva in contatto con la realtà parlamentare torinese, dall’altro gli restituiva gli umori dell’ufficialità garibaldina, in cui era inserito anche il fratello Luigi. Più in generale, anche dopo il passaggio delle consegne, Fabrizi continuò a rappresentare il reale punto di riferimento di molti ufficiali e soldati in camicia rossa che dovevano oramai confrontarsi con Manfredo Fanti come referente formale del loro destino. «Non siamo organizzati, né organizzabili» tu dicevi. E dove mai più lucida verità di questa? [...] Sulla da te compianta organizzazione non sai quanto si è fatto in quest’ultimi giorni ed invano al solito; assassini di noi stessi, ci accorgiamo della indispensabilità quando il bisogno si rende palpabile, e quando poi l’urgenza del bisogno stesso ci strangola. Indi al domane [...] torniamo scelleratamente [...] alla stessa noncuranza, agli stessi errori, alle stesse vergognose gare personali, e a tutto ciò insomma che ha fin’ora concorso a contrastarci la assoluta vittoria. Il tuo «non siamo organizzati, né organizzabili» sarà d’ora in poi l’epigrafe di tutte le mie lettere, e ciò per destare più ubbidienza e abnegazione in me, non che rimprovero agli altri28.

In questa lettera non firmata indirizzata al modenese all’inizio del 1861 si sentiva l’eco degli scontri parlamentari sull’Esercito meridionale, ma al centro della riflessione stava un’autoaccusa, un’ammissione di colpa. L’assioma – «l’entusiasmo non si organizza» – con cui Petruccelli della Gattina aveva rivendicato orgogliosamente alla Camera un’identità irriducibile a forme istituzionalizzate rivelava qui tutta la sua fragilità di fronte ai concreti imperativi dell’attualità. Nella missiva inviata a Fabrizi emergeva infatti la consapevolezza di un deficit politico e culturale, che poneva il mondo rappresentato dal volontariato patriottico sempre in ritardo e in posizione esclusivamente difensiva rispetto alle strategie della controparte moderata. L’amara diagnosi suonava come disilluso bilancio di una mancanza di concretezza e lungimiranza dei settori democratici, di cui si era verificato per decenni il riproporsi. A complicare il quadro stava una lettera che Luigi Fabrizi, ufficiale garibaldino, indirizzava al fratello nell’autunno del 1861. Sembra – scriveva – che si voglia fondere l’Armata Meridionale colla regolare, e secondo me sarà un gran sproposito, perché l’Italia non potrà mai avere abbastanza armata re-

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golare per poter combattere contro l’Austria, e quindi avrà bisogno dell’elemento popolare, e chi gli darà i volontari [...]? Certamente nessuno meglio di noi, che li guidammo fino ad ora, ne conosciamo il buono ed il cattivo [...]. D’altra parte per quanto io creda che i nostri Ufficiali in gran parte abbiano maggiore ingegno degli Ufficiali d’armata a canto a questi ultimi faranno sempre una figura meschina, perché mancanti di abitudine, e quindi di forma. Tengo dunque come un vero sproposito questa fusione. Non così però la pensano molti de’ nostri, ma io ci veggo in essi più il desiderio del vantaggio personale, che la convinzione dell’utilità del Paese. Vedremo29.

In un clima in cui appariva oramai evidente che il Corpo volontari italiani, in cui erano confluiti nell’aprile precedente i resti dell’Esercito meridionale, era poco più che una scatola vuota, l’idea di un’integrazione dei garibaldini nell’esercito regolare sembrava a Luigi Fabrizi un controsenso giustificabile solo con interessi personali o «corporativi». Ciò aiuta a ricordare come tra le stesse camicie rosse si coltivasse un orgoglio di corpo e si rivendicasse un’identità non riducibile a forme tradizionali di organizzazione militare. Luigi Fabrizi si esprimeva con l’autorevolezza di chi aveva a lungo comandato volontari e vissuto a contatto con loro, e già un anno prima si sentiva in dovere di mettere in guardia il fratello dai pericoli di una «abdicazione» dei leader della democrazia e di ricordargli le sue responsabilità politiche. Dopo aver chiarito di non voler «gittare per la finestra il grado che mi sono guadagnato, e che ora spero, se non mi si vuol fare ingiustizia, sarà cementato da una decorazione», commentava in questo modo la notizia che Nicola volesse ritirarsi: Per dio siamo sempre alla stessa sacrifizî sprecati; fatiche gettate per la finestra, e pericoli corsi inutilmente. [...] Tu specialmente in Sicilia ti trovi in famiglia, ed ognuno ti riconosce per un vero padre, quindi come diavolo puoi pensare a rinunciare a quei diritti che ti sei acquistato, fra gente che ti ama e ti stima; ma tutti ti dan torto: tu puoi servire di anello fra il paese e il nuovo Governo30.

Così scriveva Luigi pochi giorni prima della promulgazione del decreto dell’11 novembre ’60, che dava l’avvio allo smantellamento dell’Esercito meridionale. Nella lettera egli individuava le condizioni necessarie per dare un’organizzazione ai volontari, additando il fratello non solo come protagonista designato di questo processo, ma anche come uomo chiave per consolidare il regime nazionale e liberale al Sud, riscuotendo il consenso della popolazione. Luigi Fa18

brizi ragionava come chi non prevede l’eventualità di perdere di lì a poco il controllo diretto degli uomini che ha comandato fino a quel momento e di vederli indotti a rassegnare le proprie dimissioni. La pubblicazione del decreto disorientò indubbiamente ufficiali e soldati in camicia rossa, aprendo la strada a preoccupanti manifestazioni di malumore31. Il vero dissolvimento dell’Esercito meridionale iniziò allora, anche se le premesse della crisi risalivano già alla fase precedente, e ad esso contribuirono molti fattori. Il venir meno della presenza di Garibaldi – che non a caso chiederà di tenere segreto nell’immediato ai soldati il suo allontanamento32 – non solo esporrà le camicie rosse ad una maggiore vulnerabilità, ma segnerà – specie per la truppa – l’inizio della perdita di punti di riferimento, di figure capaci di dare un senso alla propria militanza, in una fase ancora così confusa e ambigua. In ogni caso, fu il decreto del novembre ’60 – in gran parte inatteso nei suoi contenuti – a promuovere le dimissioni di massa dei soldati e – nonostante le raccomandazioni in senso contrario di Garibaldi – di un buon numero di ufficiali garibaldini, sdegnati dall’istituzione della Commissione mista di scrutinio a cui avrebbero dovuto sottoporre i propri titoli. Del resto, dall’ufficialità in camicia rossa proveniva nell’autunno del ’60 un progetto alternativo di organizzazione dei volontari e di loro inserimento negli apparati militari del Regno d’Italia. La proposta garibaldina prevedeva l’istituzione del corpo d’armata dei Cacciatori delle Alpi, composto dai volontari dell’Esercito meridionale desiderosi di rimanere sotto le armi, dai volontari stranieri, dagli idonei al servizio militare appartenenti alle terre «irredente», e da tutti gli altri elementi volontari non sottoposti agli obblighi di leva per l’esercito regolare. L’idea di una commissione di scrutinio non veniva respinta, ma si lasciava intendere che i più idonei a comporla erano gli stessi garibaldini; il riconoscimento della validità dei gradi avrebbe dovuto comportare la piena equiparazione giuridica agli ufficiali regolari. I militari di truppa avrebbero dovuto accettare una ferma di 18 mesi, impegnandosi a prestare servizio, nell’eventualità di una guerra, fino ad un mese dopo la conclusione del conflitto. In caso di scioglimento del corpo, ad ufficiali e soldati sarebbe stata offerta la possibilità di entrare nell’esercito regolare. Il corpo d’armata avrebbe dovuto essere stanziato in varie parti d’Italia, in modo da fungere da centro di raccolta immediata per i volontari nella prospettiva di una guerra all’Austria, ritenuta imminente. In questo modo l’Esercito meridionale sarebbe stato trasferito nelle strutture 19

dell’esercito regolare, conservando però la propria integrità e una certa autonomia, legata soprattutto alla particolare natura del reclutamento33. La sorpresa e lo sconcerto con cui fu accolto il decreto dell’11 novembre nascevano quindi anche dalla convinzione di essersi fatti portavoce di un progetto concreto non irragionevole. Il senso del provvedimento governativo, la cui applicazione sarebbe risultata ancora più «punitiva» del dettato legislativo, era inequivocabile: l’impossibilità per la maggior parte dei volontari di entrare a far parte dell’esercito del Regno d’Italia, il tentativo di indurli alle dimissioni come esito dell’esaurimento di un compito e, in linea generale, una volontà politica di emarginazione e di smantellamento dell’esercito garibaldino. Il processo di delegittimazione colpiva in modo particolare gli ufficiali che, con la nascita della Commissione di scrutinio, vedevano subordinati ad un giudizio esterno, presumibilmente non benevolo, le basi dell’autorità che essi avrebbero dovuto esercitare presso le truppe. Ciò segnava fatalmente la fine di un’illusione e di un equivoco, e casomai induceva a cercare la continuità di un’esperienza su altre vie. Questo clima di diffidenza e di reciproco sospetto tendeva ad innescare meccanismi che chiamavano in causa – per gli ufficiali forse molto più che per la truppa – l’onore e la dignità militare. Tanto più che i garibaldini potevano denunciare nelle manifestazioni di scarso rispetto di cui erano oggetto un mancato riconoscimento delle basi del nascente Regno d’Italia. Interessanti ed emblematici a questo proposito sono alcuni resoconti di scontri e tensioni tra garibaldini ed esercito regolare. Nel dicembre del 1860, per esempio, il maggiore garibaldino Ferdinando Festacini denunciava a Sirtori, comandante in capo dell’Esercito meridionale dopo la partenza di Garibaldi, le prepotenze di un maggiore piemontese – di quello che egli definiva «Esercito italiano settentrionale» – contro alcuni ufficiali in camicia rossa, a cui avrebbe arbitrariamente negato il diritto di salire su un treno occupato da borghesi e truppe regolari. Il garibaldino sottolineava che l’atto sarebbe censurabile sempre: maggiormente in adesso che ogni argomento di scissura dev’essere con ogni studio rimosso. [...] Non si autorizzi il sospetto che si voglia rendere intollerabile la condizione eccezionale della Ufficialità di Garibaldi, che pure è [...] l’Ufficialità di Vittorio Emanuele, e si voglia costringerla, con modi indiretti, e per cosiffatte vie, a chiedere la dimissione34.

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La scelta deliberata di una via che tendeva a rendere insostenibile o assurda la permanenza nelle file dell’Esercito meridionale, mentre formalmente si lasciava libertà di scelta, era del resto fin troppo palese. «Se fossi tale da poter accettare la missione di demoralizzare per disperdere un Esercito, fosse il più bello e organizzato del mondo, ti assicuro che non mi troverei imbrogliato»35, scriveva Nicola Fabrizi nel marzo del 1861 ad Antonio Mordini, commentando le scelte del governo. Fabrizi era peraltro nella condizione di tentare di far valere il proprio rapporto personale con Fanti, in nome dei diritti dei garibaldini e di una più equilibrata linea politica. A questo scopo egli si rivolgeva al conterraneo ministro della Guerra nel febbraio del 1861, quando ormai, dal punto di vista politico, i giochi erano fatti, e il processo di attuazione dei decreti suggeriva di soffermarsi casomai su aspetti specifici, per tentare di aggiustarne il tiro. Di particolari tecnici e di dettagli militari era infatti ricca la lettera, ma non mancavano riflessioni di interesse più generale. [...] l’urto diretto ad amor proprii meritevoli di riguardo non può essere se non dannevole d’influenza e armonia nel nuovo ordine. Parlo della parte meritevole per patriotismo [sic] e servizii. D’altronde se vuolsi educare il Paese al sentimento militare, [...] io penso che gli elementi che dall’azione si trasmettono alla vita civile non siano a trascurarsi profittandoli a beneficio della G. Nazionale; e quei reduci dall’azione così scelti e rispettati nel loro decoro siano per apportarvi un ottimo germe. [...] io parto da viste diverse dalle tue; ma non debbo negare che la scuola da cui ne formai il concetto ci fu comune36.

A quell’epoca l’obiettivo su cui concentrarsi era soprattutto il destino degli ufficiali, poiché la truppa in camicia rossa si era oramai sfaldata. Franco Molfese, descrivendo la reazione dei garibaldini all’emanazione del decreto dell’11 novembre 1860, ha individuato nella «spontanea disintegrazione [...] alcune varianti aventi caratteristiche di massa»37. Egli ha messo innanzitutto in luce il diverso comportamento degli ufficiali e della bassa forza, dal momento che, a fronte della rapida emorragia di quest’ultima, i primi si trattennero più a lungo in una posizione d’attesa, nutrendo qualche fiducia nei risultati della Commissione di scrutinio. Gli altri fattori discriminanti sarebbero stati legati ad aspetti politici, sociali e «regionali»: alcuni battaglioni costituiti in prevalenza da emiliani e romagnoli, in cui le tendenze repubblicane erano ben 21

rappresentate, opposero maggiore resistenza a deporre le armi e si resero protagonisti di scontri con le truppe regolari. Ma la contrapposizione più significativa Molfese ha creduto di individuarla tra i garibaldini settentrionali e quelli meridionali, che avevano combattuto nelle loro terre e in ogni caso contro un regime sotto il quale avevano vissuto. Una buona parte delle camicie rosse del Settentrione considerava plausibilmente il ritorno nel Nord Italia come la naturale chiusura – o sospensione – di un’esperienza tutto sommato soddisfacente, che aveva portato alla caduta del potere borbonico e determinato in modo decisivo il processo di unificazione. Certo la forzata interruzione di un impegno in armi che si immaginava proiettato verso la liberazione di Roma e di Venezia, e il mancato riconoscimento di una centralità politica e militare che essi non senza ragione si attribuivano, erano fattori di frustrazione che, in chi già non le nutrisse, potevano suscitare forti riserve verso l’Italia monarchica e moderata. Non si trattava però del crollo delle attese che poteva colpire i loro compagni meridionali: i garibaldini del Sud avevano infatti assistito e contribuito allo sfaldarsi della cornice istituzionale e politica che avevano conosciuto fino a quel momento, e un certo protagonismo nei nuovi equilibri rappresentava ai loro occhi lo sviluppo più logico dei fatti. Se le camicie rosse del Nord, facendo ritorno ai loro luoghi d’origine, non avrebbero trovato una realtà così diversa da quella che avevano lasciato alla loro partenza, altre erano – sul piano collettivo e individuale – le aspettative politiche e materiali delle camicie rosse del Mezzogiorno, dove peraltro le condizioni sociali generali rendevano più difficile il reinserimento dei volontari. In ogni caso non si può che condividere ciò che Molfese ha sostenuto a proposito di queste attese, poiché «un qualsiasi movimento, anche genericamente rivoluzionario, i cui fautori non aspirassero alla materiale partecipazione del potere conquistato, in tutti i suoi livelli, sarebbe un ben singolare movimento»38. Lo studioso ha segnalato oltretutto che, nella particolare realtà del Sud, l’impossibilità di entrare nell’esercito del nuovo Regno determinò per molte camicie rosse meridionali un’emarginazione sociale che nutrì vaste aree di malcontento e avvicinò alcuni ex combattenti al brigantaggio39. Di questi pericoli erano del resto ben consapevoli alcuni contemporanei, che individuavano una radice di disordine sociale nella frustrazione di uomini non più disponibili o capaci di reintegrarsi nel contesto che avevano abbandonato per farsi volontariamente soldati. 22

Studiando sempre i mezzi di togliere dall’ozio una gioventù, che col suo continuo agitarsi potrebbe riuscire dannosa alla Sicurezza del paese, io veggo che unico espediente sarebbe quello di aprirsi una coscrizione di volontarî in Sicilia, onde richiamare sotto le armi quei volontarî che servirono nell’armata nazionale, e che volontariamente, o per un premio volessero arruolarsi. Così sarebbe facile dare a questa gioventù che non è poca, e che ora non è più disposta ai lavori rurali, un modo di vivere, e si allontanerebbe dalla mala via del disordine40.

Se questo era il panorama che, in alcuni contesti sociali, poteva aprirsi dinanzi a chi aveva ritenuto logico sottrarsi ad un impegno militare snaturato e privo di prospettive, su un piano più generale rimanevano contrastanti le sollecitazioni cui erano sottoposti truppa e ufficiali nei mesi della smobilitazione dell’Esercito meridionale e del loro trasferimento nei «depositi» piemontesi. Molteplici fattori potevano indurre la massa dei garibaldini a rassegnare le immediate dimissioni dopo la pubblicazione del decreto dell’11 novembre: la scelta era, infatti, tra una ferma di due anni in un corpo dall’identità e dagli scopi non chiaramente definiti e il congedo con la gratificazione di sei mesi di paga. In un clima di crescente contrasto tra le prospettive democratiche e la linea del governo, di fronte all’allontanamento volontario o indotto di alcuni dei capi militari garibaldini, quando già Garibaldi per primo aveva fatto ritorno a Caprera, la scelta delle dimissioni si presentava indubbiamente come la più naturale. Nelle lettere indirizzate a Fabrizi, la prospettiva descritta con maggior sconcerto era quella di rimanere attardati in una ferma militare priva di speranze d’azione, sotto comandanti di cui non si aveva stima e che non nascondevano spesso il loro disprezzo per le ex camicie rosse, mentre attorno ai capi nei quali si continuava a riconoscersi si organizzavano arruolamenti e progetti insurrezionali per il compimento dell’Unità. Due percorsi potevano aprirsi: tentare di rimanere all’interno degli apparati militari del Regno d’Italia nell’attesa che i vertici politici dichiarassero finalmente la ripresa dell’azione – sperando di imprimere allo scontro un carattere più «democratico» –, oppure, al contrario, liberarsi al più presto del vincolo militare per poter partecipare ad eventuali iniziative con cui, di nuovo, gli elementi irregolari e volontaristici avrebbero forzato le scelte ufficiali. In un caso come nell’altro era importante poter disporre di notizie attendibili sui progetti in corso, per non rischiare di trovarsi ridotti all’inazione nel momento decisivo. 23

Del resto le lungaggini, la frustrante inattività, le pesanti condizioni materiali, il clima d’ostilità e l’inerzia degli organi preposti a ridefinire la posizione di migliaia di ex garibaldini erano funzionali a promuovere dimissioni di massa, che avrebbero attuato da sole l’auspicato obiettivo dello smantellamento; ma questi stessi tempi lunghi favorivano ipotesi, speculazioni, illusioni di ritrovarsi presto in una ricostituita armata volontaria capeggiata nuovamente da Garibaldi e dai suoi generali. In questo panorama, la scelta di dimettersi o di rimanere poteva dipendere anche dal fatto di trovarsi, nella fase postrivoluzionaria, in un luogo o in un altro, in contatto con alcuni personaggi piuttosto che altri. [...] non [...] ancora persuaso – scriveva dalla Sicilia Francesco Savona a Nicola Fabrizi alla fine del ’60 – di tenere la carica dopo quanto voi praticaste, ed a vista di quanto qui si opera, se si trattasse di servire in un esercito Italiano anco voi dovreste farne parte se poi l’attuale trasformazione collo accrescimento delle file dello esercito Sardo il nostro decoro non è mai saldo. Qui i Corpi volontari si sciolgono tutti, jeri è venuta una disposizione di accordare i congedi a chi li domanda dello stesso modo come fu praticato in Napoli, fra quattro giorni non avremmo più un sol soldato tale è lo spasimo di volersi sciogliere, appena resteranno gli ufficiali, [...] quindi cosa faremo ufficiali ed amministratori senza soldati, ed amministrati? Il procedere dell’attuale governo si rende ogni giorno più eterogeneo, il male umore è indescrivibile, tutte le amministrazioni Civili si vanno riformando con elementi mal visti, il prestiggio [sic] del nostro Garibaldi si è ingigantito al grado della frenesia, se egli comparisse solo per fare un viaggio di diporto tutto il materiale posticcio dopo il plebiscito andrebbe in fumo in un solo istante, parlo non di qui solo, ma delle altre Città, e più di Palermo da dove ho ricevuto lettere di nostri intimi amici41.

Un mese dopo lo stesso Savona annunciava in questo modo le proprie intenzioni: Fui costretto da ordini superiori per dichiarare se voglio dimissione, o continuare la carica subbendo [sic] esame, risposi in modo da prender tempo, ma fra qualche settimana domanderò dimissione, attesa questa mia risoluzione potrete disporre di me nelle nuove imprese di primavera, che credo avranno effetto non ostanti le vostre considerazioni sulla poca consistenza e demenzioni [sic] dello esercito Italiano42.

Nell’aprile del ’61 l’ex garibaldino giustificava così la propria scelta, rispondendo a quanto pare alle critiche di Fabrizi, che aveva giudicato un errore dimettersi: 24

Mi dite essere male trovarmi dimesso, e più colla gratificazione. Ma io non prevedeva il futuro, e se anche lo avessi preveduto, giudicai sempre che era mio dovere ritirarmi perché si erano ritirati i miei amici, maestri [...], e perché il Governo disprezzò l’opera nostra, e mi lusingai che quest’atto dovesse essere approvato, gradito, e riguardato se si riprende attività [...]43.

Questi elementi di incertezza e di speranza si ritrovano in molte altre lettere, dominate dal timore di operare scelte che potessero escludere da nuovi arruolamenti. Se in alcuni casi si esibiva la capacità di trascinare con sé, nell’eventualità di una spedizione, la «più scelta e animosa gioventù»44, era comunque la dichiarazione della propria disponibilità a qualunque impresa, purché sotto la guida di Garibaldi e dei suoi uomini, a rappresentare la ragion d’essere fondamentale degli scritti dei garibaldini «anonimi» agli uomini di vertice, con i quali premeva innanzitutto mantenersi in corrispondenza e ricordare la propria esistenza. Spesso le dichiarazioni di fervore ideale e di fedeltà ai propri «maestri» di patriottismo avevano come contraltare il rifiuto dei nuovi comandanti e il disgusto per il trattamento riservato. Del resto, di fronte ad una situazione di stallo priva di reali prospettive, nei primi mesi del 1861, anche tra i garibaldini più illustri le dimissioni erano percepite come una liberazione da vincoli privi di senso, pur nella consapevolezza che l’azione dei moderati mirava proprio ad indurre quella scelta. In questo clima di incertezza e ambiguità, dove spesso le decisioni erano in realtà scelte di ripiego o risoluzioni obbligate, entravano a complicare la situazione anche i dubbi e le notizie più o meno attendibili – talvolta strumentalizzazioni, talaltra quasi proiezioni di desideri – sulle intenzioni politiche e i progetti militari di Garibaldi. [...] Un telegramma annunzia Garibaldi in Erzegovina! Egli, saprete, aveva indicato anteriormente un movimento da quella parte. Potrebbe quindi essere vero. In tal caso io guarderò per pochi giorni la posizione per determinarmi d’andare subito colà o mettere qui in pronto d’azione gli elementi dei quali dispongo. Cosa farete voi? Mi piacerebbe molto saperlo. Se posso esservi utile ditemelo. Io posso far qui un discreto arruolamento, se mi si daranno i mezzi necessari. Il pubblico è qui scontento, scontentissimo del Governo. [...] Vi scriverò in altra mia [...] del modo stupidamente selvaggio col quale si trattano i garibaldini [...]45.

Dalle lettere traspariva spesso un senso di lontananza e di ab25

bandono, specie in un Sud postrivoluzionario ancora in ebollizione, ma già privato di alcuni fondamentali punti di riferimento. Figure come quella di Fabrizi venivano quindi individuate come elementi di mediazione e di collegamento riguardo ai progetti di Garibaldi, rispetto a cui moltissime ex camicie rosse brancolavano nel buio. [...] sono lontano – si scriveva da Palermo – da coloro i cui principi erano i miei, è [sic] trovandomi generalmente parlando con esseri cambiati totalmente o che sono sempre stati cauriani [sic] o napoleonici questa e [sic] dura cosa a soffrire. Fù [sic] il dubbio appunto che non risorga di nuovo la guerra che mi deliberai a rimanermi, ma non era il mio desiderio. Se il solitario di Caprera desse qualche segnale sarei ancora nella circostanza di liberarmi [...], ma tutto è mistero non si fa niente. [...] Ella potrebbe darne contezza del come mi devo comportare. Se Ella crede che io possa essergli utile a qualche cosa mi chiamasero [sic], che questo e [sic] il mio desiderio46.

Il decreto dell’11 aprile 1861 – che istituiva il Corpo volontari italiani, mai realmente costituito e formalmente sciolto poco meno di un anno dopo – sulle prime parve aprire nuove prospettive e invertire, o per lo meno correggere, la tendenza allo smantellamento dell’Esercito meridionale e alla liquidazione dei suoi quadri. Per chi non si era ancora dimesso, la prima speranza che il provvedimento poteva suggerire era quella di combattere di nuovo sotto la guida dei generali garibaldini; ma in chi aveva chiesto il congedo risvegliava il rimpianto per l’esclusione da una militanza che sembrava riacquistare significato. Furono anche entusiasmi e rovelli interiori di questa natura a sollecitare l’attività epistolare – e le illusioni – di molte ex camicie rosse. I più avvertiti, tuttavia, si resero presto conto che, al di là delle sue apparenze, il dettato del provvedimento implicava un ulteriore peggioramento delle loro condizioni. Dopo aver sottolineato come la Commissione di scrutinio adoperasse parametri di giudizio mai chiariti – mettendo i volontari nell’impossibilità di valutare le proprie speranze di ammissione – il garibaldino Giovanni Cadolini descriveva alla Camera la realtà dei depositi meridionali a cavallo tra il ’60 e il ’61. Si tennero gli ufficiali nei depositi di Caserta, di Aversa, di Santa Maria, di Maddaloni, in attesa del giudizio della Commissione, la quale non fu mai riunita; si sciolse improvvisamente ed intempestivamente il comando in capo dell’esercito meridionale, che poi si dovette riconoscere necessario, poiché quello era un intermediario indispensabile tra l’esercito ed il Governo.

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Gli ufficiali riuniti nei depositi si lasciarono un mese e mezzo senza paga [...]. Ai depositi si fecero due riviste degli ufficiali, nell’istesso modo in che si usa passare in rassegna le nuove reclute di leva! Altro non si fece, nella prima di queste, che interrogare gli ufficiali se intendevano domandare le loro dimissioni. [...] E si noti che queste domande erano già state ripetutamente loro rivolte dai comandanti di corpo, ed io stesso le feci, per ordine superiore, agli ufficiali di reggimento che io comandava. Poi, nella seconda rivista, si tornava a domandare a ciascuno di questi uffiziali se intendevano di dare le dimissioni. La Camera, credo, non mi negherà che questa insistenza nel chiedere agli uffiziali se volevano la dimissione pare dica chiaramente che il Ministero non li voleva. [...] [il] decreto dell’11 aprile [...] è un decreto [...] ingiusto ed intempestivo. Ingiusto perché, se questi ufficiali dovevano essere posti in disponibilità ed aspettativa, dovevano saperlo prima [...], allorquando i rispettivi corpi erano stati effettivamente disciolti, perché nel fatto lo furono l’11 novembre, non ora; dovevano saperlo allora, allorquando cioè erano chiamati a fare una scelta fra la carriera civile e la carriera militare. [...] Ora, dopo cinque mesi, dopo che tutti questi [...] non possono più tornare alla posizione civile, ora si dice loro: siete messi in aspettativa, in disponibilità47.

Anche per chi aveva accolto con ottimismo la formazione del Corpo volontari italiani, talvolta la speranza di riagganciarsi all’esperienza originaria della propria militanza patriottica si traduceva in pochi mesi nell’urgenza materiale di individuare una collocazione alternativa a quella attraverso cui, fino ad allora, aveva trovato conferma anche un ruolo sociale. E non erano pochi a scrivere a Nicola Fabrizi, testimoniando questi repentini e dolorosi cambi di prospettiva. Ma il modenese – figura indubbiamente strategica – non era certo l’unico referente delle frustrazioni e della ricerca di punti di riferimento per molti ex garibaldini. Tra gli altri personaggi che ricoprivano questo ruolo, e che avrebbero accresciuto anche in tal senso la loro importanza, spiccava Francesco Crispi, capace di presentarsi e farsi riconoscere non solo come interprete di una visione politica alternativa a quella governativa e fiero propugnatore delle radici rivoluzionarie dell’Italia unita, ma anche come portavoce di interessi e rivendicazioni particolari, legati soprattutto ai settori garibaldini meridionali. Egli era in grado, del resto, di capitalizzare da un lato un brillante protagonismo parlamentare e dall’altro un ostentato rapporto privilegiato con Garibaldi. 27

Con la potenza che ti da la tua opinione – gli scriveva nell’estate del 1861 Luigi La Porta, già ministro nel governo garibaldino in Sicilia –, con la decisiva influenza ch’eserciti nell’animo del nostro Generale, con quell’attività ch’in te è elemento di esistenza, abitudine, religione, ogni ostacolo si vince, ogni risultato si ottiene. Io sono noiato di questa vita d’inerzia alla quale ci àn condannato, e penso domandare l’aspettativa per riduzione di corpo, e così far ritorno. Nel servizio militare io allora vidi l’adempimento di un dovere, non già una carriera. Che dirne ora, che nemmeno è una carriera, ma segno di continui insulti, stentata, forzata, transitoria posizione che subiscono i governati, e fanno subire a noi? Che te ne pare?48

Questo snervante stato di attesa degli sviluppi concreti di una scelta e questi interrogativi sulla bontà della stessa sarebbero stati bruscamente interrotti dalla pubblicazione del decreto del 27 marzo 1862. Con esso veniva sciolto il Corpo volontari italiani creato nell’aprile precedente, i suoi ufficiali confermati erano trasferiti col loro grado nell’esercito regolare, ma «prendendo ivi anzianità dalla data del presente Decreto»49. La bassa forza e gli ufficiali in servizio effettivo con grado inferiore a luogotenente sarebbero stati provvisoriamente aggregati in soprannumero all’esercito regolare, in attesa di un eventuale ampliamento dei quadri; gli ufficiali di grado superiore a quello di maggiore erano collocati a disposizione del Ministero della Guerra, nel numero necessario per i quadri di quattro divisioni di fanteria50. Pochi reali inserimenti nell’esercito, dunque, poche immissioni in servizio; venivano inoltre rinnovati gli incentivi economici per chi rassegnava le dimissioni. Una fusione tra volontari e armata regolare giunta un anno e mezzo dopo le richieste dei garibaldini in tal senso era non solo paradossale, ma perdeva il significato sostanziale che avrebbe avuto nell’autunno del 1860, al momento della creazione del Regno d’Italia e dell’esercito unitario. Inserire formalmente ciò che rimaneva dell’Esercito meridionale – vale a dire in pratica solo i circa 1700 ufficiali riconosciuti dalla Commissione di scrutinio nel frattempo non dimissionati – in un esercito regolare che aveva dimostrato tutto il suo conservatorismo, le sue diffidenze e la sua sufficienza verso le ex camicie rosse, era per molti il crollo delle aspettative e l’ennesima conferma della cattiva volontà dei moderati. A ciò si aggiungevano, per gli uomini interessati dal decreto, aspetti concreti – assieme materiali e psicologici – di drammatizza28

zione del quadro: se molti di essi non si erano congedati sulla base di illusorie prospettive politiche ed occupazionali aperte dalla nascita del Corpo volontari, tantissimi ora si trovavano a non poter disporre né di un’entrata economica sufficiente, né di un reale servizio da svolgere. Tutti comunque – col decorrere dell’anzianità solo da quel momento – vedevano vanificati e disconosciuti anche solo gli sforzi materiali sostenuti per mantenere faticosamente il decoro confacente ad un ufficiale. Finiva in questo modo la lunga fase delle scelte tenute in sospeso e quasi in ostaggio da provvedimenti legislativi attesi, ma indecifrabili e imprevedibili per molti. Fu questa una delle occasioni in cui Francesco Crispi si mise in luce attraverso i dibattiti parlamentari come difensore dei diritti dei garibaldini e dell’eredità della rivoluzione meridionale. Nei giorni tra la promulgazione del decreto e lo svolgimento dell’interpellanza contro di esso, al siciliano era riconosciuto questo ruolo dalle ex camicie rosse, e gli venivano fornite notizie e riflessioni in vista della sua azione parlamentare. L’annunzio delle interpellanze che Ella [...] intende muovere al Ministero della Guerra intorno al Decreto 27 marzo [...] ha fatto rivivere anche nei pochi individui componenti la Bassa Forza del suddetto corpo la speranza di veder mitigata [...] la propria sorte; e però si sono fatti arditi di indirizzarle questo foglio [...]. I pochissimi di Bassa Forza dell’Armata Meridionale rimasti a custodire le gloriose bandiere stavano ansiosamente aspettando l’organizzazione del decretato Corpo dei Volontari Italiani desiderosi di perigliare nuovamente la loro vita per l’unità della patria, ma fiduciosi nello stesso tempo di vedersi aperta la via a cogliere quei frutti che inaffiati dal sangue maturano sui Campi di battaglia quando sorse il Decreto 27 Marzo a distruggere tutte le loro speranze ed affezioni [...]51.

Lo stesso Luigi La Porta, che nell’estate del ’61 aveva scritto a Crispi da un deposito piemontese per esprimergli le sue perplessità, ora, dopo la promulgazione del decreto, gli si rivolgeva in questo modo: [...] qui vi è grande aspettazione della tua interpellanza, e ancorché essa non avesse immediata influenza sulle decisioni ministeriali, l’avrà immensa nella opinione pubblica, in quella dell’armata regolare. È necessità, che il Corpo dei volontarî venisse rappresentato nel Parlamento da un Oratore. Tu ti offristi per esserlo, tu darai un’importanza storica alla tua interpellanza. La gratitudine e la benevolenza di tutti i volon-

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tarî passati, presenti, futuri, morti, monchi, e vivi ti eleverà nell’opinione di tutta Italia un onorato Monumento52.

3. Garibaldi e i garibaldini Il dibattito parlamentare dell’autunno 1860 – che verteva formalmente sui tempi e i modi dell’annessione del Sud – aveva avuto come nodo del contendere tutta la linea politica di Cavour, che intervenne direttamente nelle discussioni. Egli usò toni apparentemente concilianti e tentò casomai di togliere sostanza al contrasto in corso tra il governo e Garibaldi, separando la sua figura – oramai troppo ingombrante per essere attaccata direttamente – da quegli uomini, assai influenti e attivi nel campo garibaldino, «che versavano l’aceto e il fiele nel cuore ferito dell’illustre generale»53. In effetti questa strategia di astrazione della persona di Garibaldi dal tessuto politico e sociale delle camicie rosse – prospettando per lui, nel futuro, il ruolo di guida, organizzatore e motivatore di qualunque esercito di «entusiasti» che il Regno volesse assegnarli e concedergli – aveva vaste implicazioni, che si ripercuotevano direttamente sulle gerarchie e le dinamiche interne al mondo garibaldino. Esse avevano a che fare con la capacità dei protagonisti della rivoluzione meridionale di inserirsi nella nuova realtà politica e di ritagliarsi al suo interno un ruolo significativo, in quegli anni soprattutto su posizioni antigovernative; tutto ciò si ripercuoteva anche nella rete relazionale che aveva al centro Garibaldi e che registrava non solo diversi gradi di vicinanza e confidenza, ma anche posizioni privilegiate, talvolta instabili, in quanto ad ascendente personale. Nel gennaio del 1861 Agostino Bertani si rivolgeva in questo modo a Crispi: [...] il partito militare garibaldino (che è tutto Cavouriano, Bixio compreso) [...] mi è tutto avverso [...] Garibaldi da Caprera mostra di contare su altri uomini. È meglio ad ogni modo che mi ritiri, ed ho già fatto circolare la mia dimissione. [...] Io sono quasi sicuro che si isolerà Garibaldi completamente dagli uomini avversi a Cavour, che lo si circuirà, sorveglierà ed impedirà d’ogni azione per questa primavera. Se mai Garibaldi sentisse di avere in mano le sorti della Democrazia Europea potrebbe [...] scuotersi un bel giorno e mettere tutto in fiamma. Ma se il Re lo prega di star tranquillo credi tu che egli disobbedirà? Per me credo che l’Italia, giovandosi dell’uomo e del no-

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me, dovrebbe anche comprendere il proprio dovere e compierlo senza idolatrie54.

La lettera si inseriva nell’assiduo dialogo tra i due esponenti di spicco della Sinistra e nella discussione sul ruolo politico di Garibaldi che si sviluppò tra di loro almeno a partire dall’autunno del ’60. Essa costituisce inoltre un esempio di quel dibattito sulle scelte e gli atteggiamenti del «capo» che può quasi considerarsi un «genere» all’interno della corrispondenza degli ex garibaldini di più alto profilo; segnala infine come il giudizio politico fosse irrimediabilmente legato ad aspetti più personali: lo stesso Bertani, nel suo ostentare un certo distacco critico da Garibaldi e nel rivendicare la propria autonomia, mescolava sensazioni di abbandono, di isolamento e di emarginazione con la proposta di un atteggiamento più laico verso quella che era diventata una leggenda vivente. Ma chiunque auspicasse una radicalizzazione rivoluzionaria della lotta politica ed il compimento dell’Unità nazionale per via alternativa a quella diplomatica era consapevole che nessun tentativo fondato sull’appello alla «guerra di popolo» e al volontarismo avrebbe avuto speranze di successo senza il coinvolgimento diretto di Garibaldi; chi, tra gli ex rivoluzionari accompagnava la condanna della politica moderata con lo scetticismo verso i mezzi extralegali, sapeva che un autonomo pronunciamento di Garibaldi in favore della ripresa della lotta non sarebbe rimasto privo di ascolto; infine moderati e conservatori univano alla diffidenza politica e culturale verso il garibaldinismo la consapevolezza che quest’ultimo rappresentava un potenziale veicolo di consenso all’Italia unita presso settori su cui le forze al governo non potevano esercitare una diretta influenza. In quest’ottica, la principale eventualità da scongiurare era quella di una convergenza d’azione e di prospettiva tra Garibaldi e Mazzini, ma chi guidava il Paese era anche diviso tra l’imperativo pressante di accreditare sul piano internazionale l’affidabilità del nuovo Regno e la tentazione di intrecciare ambizioni e strategie di politica estera con le proiezioni rivoluzionarie internazionali del garibaldinismo. Questi erano alcuni degli aspetti che si riproponevano nel dialogo tra i garibaldini su Garibaldi. Si rifletteva innanzitutto sull’importanza di far sì che il Generale fosse attorniato e consigliato da un gruppo piuttosto che da un altro, si giudicava quindi l’utilità delle spedizioni vagheggiate, minacciate e realizzate, si confrontavano le sue attitudini militari con quelle politiche, ci si rammaricava per le 31

sue ingenuità. Le fasi che precedevano e seguivano le sue apparizioni in Parlamento, così come le contingenze in cui sembravano delinearsi convergenze tra Garibaldi e le istituzioni sollecitavano in modo particolare dubbi, perplessità, interrogativi. Il dibattito parlamentare dell’ottobre del 1860, da cui siamo partiti, sollecitò e mise in luce molte delle dinamiche che stiamo analizzando. All’indomani delle discussioni Giuseppe Ferrari indirizzava a Crispi una lettera a commento del proprio intervento, nel quale si era opposto alla linea moderata e alla strategia di Cavour: Il solo punto di cui sono contento è d’aver dichiarato che si disonorava il Generale Garibaldi separandolo dai suoi; e quando dissi si nasce, si vive, si muore cogli amici gli applausi furono unanimi. [...] Voi sarete prossimamente soverchiato dal governo piemontese; mi pare impossibile che colle attuali disposizioni del mezzodì possiate reggervi; ma state sicurissimo, che giunti i piemontesi, dispersi e malcontentati i Garibaldini, composto un governo [...] lontano alla gran metropoli del mezzodì, la forza stessa delle cose non vi dia innumerevoli partigiani55.

Ferrari offriva una diagnosi della realtà italiana che avrebbe riproposto anche in sede parlamentare: del resto lo stesso Crispi era convinto che le inadeguatezze costitutive dei moderati e la miopia delle loro scelte rappresentassero la forza principale della Sinistra. Anche rispetto a questi problemi il siciliano si trovava in quei mesi al centro di una variegata e talvolta contraddittoria rete di sollecitazioni. Le sue carte restituiscono l’immagine di una significativa porzione dei vertici politici dell’impresa garibaldina materialmente e idealmente divisa tra la realtà istituzionale torinese e il Sud postrivoluzionario, tra un serio impegno riformistico nell’edificazione del nuovo Stato e la prospettiva di snodi insurrezionali. Anche in questo senso è molto ricca la corrispondenza con Agostino Bertani, per la centralità che vi riveste il dialogo sul ruolo politico di Garibaldi e sul significato, le implicazioni e la consistenza dei suoi intenti rivoluzionari. Alla fine di ottobre del 1860 il milanese scriveva a Crispi commentando le notizie che quest’ultimo gli aveva fornito da Napoli e ritornando sul recente dibattito parlamentare nel quale Bertani si era violentemente opposto a Cavour. Le informazioni dal Sud, osservava, come tutta la storia politica dei pochi giorni che io fui in Napoli, mi confermarono in due convinzioni: l’una che noi eravamo in una spaventosa minoranza rivoluzionaria; l’altra che Garibaldi non voleva saperne di rivolu-

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zioni che a parole, che aveva per noi delle personali defferenze [sic], ma per contro delle grandi diffidenze ed ora forse ha dei risentimenti. [...] Non m’ingannavo nelle mie previsioni circa Garibaldi. Il 13 egli imprecava a Cavour la mattina, e la sera piegava innanzi i suoi mandatarii. Chi mai può contar su colui?56

Il rammarico per le ingenuità e la presunta inaffidabilità di Garibaldi andavano di pari passo con la denuncia delle ambiguità dei moderati e dei cavouriani in particolare, delle loro strategie di «accerchiamento» mirate all’emarginazione degli uomini meno disposti ad allinearsi alle formule della Società nazionale. Si trattava di una lettura della realtà ben presente anche negli scambi epistolari tra Crispi e Antonio Mordini, che prima da Napoli e poi da Torino vestiva i panni del rivoluzionario assai compreso del suo ruolo istituzionale. Anche agli occhi del toscano, nel gennaio del 1861, era palese l’azione di Cavour e di chi agiva per lui: Adesso con arte da non sdegnarsi fa a guisa di tacchino la ruota intorno a Garibaldi e manda paroline confettate di stima, di rispetto, di simpatia, e accenna con modi lusinghieri a desiderio di cordiali intelligenze e fa dell’isolotto di Caprera segno costante a diplomatici pellegrinaggi adoperando uomini che invece di destar sospetto, riescano graditi. Dicesi che l’industre Conte abbia cominciato lo stesso lavoro, sebbene in proporzioni d’assai minori, per tirare alle sue reti alcuni Generali Garibaldini. Per lo più il programma è questo: onorare apparentemente Garibaldi: guadagnare i suoi Generali, vituperare e trattare come marmaglia gli altri. [...] Ieri fu passata dal Generale Savoiroux la rassegna dei Corpi Garibaldini stanziati qui a Napoli. La parola Corpi non corrisponde alla realtà delle cose d’altronde, perché bassa forza non ce n’è più e restano solo gli ufficiali. Mi assicurano che due buoni terzi d’uffiziali hanno dato la loro dimissione57.

Sia chiaro, immaginare questi esponenti dell’opposizione impegnati esclusivamente a scongiurare l’eventualità che Garibaldi cedesse alle lusinghe di Vittorio Emanuele e di Cavour significherebbe tradire la realtà, semplificandone decisamente il quadro. La divisione era infatti interna al mondo del garibaldinismo e l’irritazione tutta umana di dover registrare la vicinanza al Generale di personaggi sgraditi accresceva il disappunto politico con cui si presagiva l’affermazione di scelte e strategie contrarie agli interessi del Paese e incompatibili con la realizzazione dei propri ideali. In quest’ottica, Caprera diventava un luogo fisico e simbolico in 33

cui si ambiva a svolgere un ruolo di primo piano, poiché la posta in palio era non solo un’implicita investitura come interpreti di spicco di una democrazia che aveva in Garibaldi il suo punto di riferimento, ma anche la possibilità di orientarne in qualche modo le prese di posizione. Quest’intreccio di vanità personali e passioni politiche risaliva ai mesi dello Stato nascente e si traduceva nella ricerca di un contatto diretto con Garibaldi. Così, nell’imminenza dello scontro parlamentare dell’aprile 1861 in cui quest’ultimo intervenne, Bertani tornava a riflettere sul ruolo del Generale e si rivolgeva in questo modo a Crispi: Siccome tu hai facile accesso presso il Generale, così pensa e procura ch’egli non si mostri sempre spiato e sorvegliato dai cagnotti che ha d’intorno in modo che non è libero a chicchessia il dire due parole riservate a lui solo58.

Bertani riproponeva anche la questione degli ufficiali garibaldini: nonostante si fosse esposto in Parlamento contro la smobilitazione dell’Esercito meridionale, osservava con amarezza che spingere Garibaldi ad intervenire alla Camera poteva significare farlo agire in un contesto a lui estraneo, ma soprattutto che spendere la sua figura ad esclusivo beneficio dei diritti degli ufficiali in camicia rossa implicava un fatale ridimensionamento delle potenzialità politiche antagonistiche della sua azione. Bertani vedeva infatti nella valorizzazione dell’Esercito meridionale molto di più, la base imprescindibile di futuri sviluppi rivoluzionari; si trattava per lui, oltretutto, della premessa per l’affermazione di un modello alternativo d’armamento. Egli riteneva che si stesse invece perdendo l’occasione per dare alla battaglia una valenza politica di ampie prospettive, ingabbiando per di più Garibaldi nella difesa di interessi quasi corporativi. Nelle settimane precedenti all’apparizione di quest’ultimo in Parlamento, Bertani aveva ripetutamente confidato a Crispi, che sembrava condividerle59, tutte le sue perplessità: Non trascinate per carità Garibaldi in parlamento. Egli vi troverà le amarezze, il compatimento, l’abbandono che vi trovò l’anno scorso di questi dì. Oh, volesse mettersi francamente colla rivoluzione! Ed allora ogni scandalo menerebbe alla meta. Ma per far transazioni adesso o per ottenere sanzione a suoi progetti, fiato e decoro perduto. Gli ufficiali suoi ve lo spingeranno, lieti e contenti di avere colla sua umi-

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liazione facilitato le concessioni che otterrebbero per glorificazione della temperanza e generosità dei moderati. Caro Crispi tu che hai ascendente meritato sul Generale non spingerlo al Parlamento. [...] Egli ha mille motivi per non accettare la citazione di Ricasoli. Se il Re amasse Garibaldi come questi l’idolatrò, ed avessero ambidue fede nella rivoluzione temprata da Garibaldi stesso, quanti mali eviterebbero da oggi alla Patria e quanto bene farebbero all’Italia ed alla democrazia Europea!60

Bertani non era certo l’unico a vaticinare pessime conseguenze politiche per l’intervento di Garibaldi alla Camera, e, peraltro, anche a Crispi e a Fabrizi giungevano in quelle settimane lettere di tenore affine. Le divisioni interne agli ambienti garibaldini, le gelosie e le rivalità, così come tutte le implicazioni e le possibili conseguenze della presenza di Garibaldi in Parlamento sfuggivano con buona probabilità a gran parte delle camicie rosse «anonime», molte delle quali stazionavano nei depositi piemontesi in attesa di una definizione concreta della propria posizione. Nell’arrivo del Generale a Torino questi uomini vedevano una sorta di ricongiungimento dopo l’«abbandono» indotto dell’esilio volontario a Caprera; vi leggevano un’ovvia assunzione di responsabilità verso la loro sorte e dalla sua comparsa in Parlamento si attendevano poco realisticamente esiti immediati. Anche Abele Damiani – futuro collaboratore di Crispi nelle sue esperienze di governo –, che pur non desiderava l’intervento di Garibaldi alla Camera, riteneva che la sua presenza a Torino sarebbe stata risolutiva e avrebbe strappato ai moderati il riconoscimento di tutti gli ufficiali dell’Esercito meridionale. In questo modo informava Fabrizi del clima della capitale: [...] anche la fredda Torino si è scossa all’annunzio dell’arrivo di Garibaldi. Pare egli sarebbe venuto per interesse de’ suoi Ufficiali, e in mia presenza si lamentò moltissimo del modo con che vennero trattati. I nostri Garibaldini respirano, e pare abbiano ripreso il loro coraggio, e la loro dignità calpestata dalla trascuranza del Governo61.

Com’è noto, nella seduta del 18 aprile 1861 Garibaldi – rispondendo alla denuncia di Ricasoli di un crescente dualismo tra volontari ed esercito regolare – lanciò ai moderati l’accusa di aver posto le premesse di una «guerra fratricida», evitata solo dal suo desiderio di concordia. Nel seguito della discussione Garibaldi disse anche mol35

to altro e, pur esprimendo un punto di vista irrimediabilmente incompatibile con la linea moderata vincente, si espresse con un certo equilibrio e si dimostrò lucido nella lettura della realtà. Tuttavia quel che rimase della discussione fu quell’espressione icastica – «guerra fratricida» –, che suonava quasi come la rottura di un tabù, dal momento che l’uso esplicito della categoria di guerra civile aveva rappresentato in un certo senso la violazione di un patto di «reticenza» che fino ad allora non si era messo in discussione nell’aula parlamentare. A quest’apparizione dirompente, propria di chi non si trovava nel contesto a sé più confacente, seguì anche la celebre polemica con il generale Cialdini, che aveva giudicato irriguardose verso l’esercito le dichiarazioni e l’azione di Garibaldi. In quest’esplosione di tensioni latenti, molti democratici trovarono la conferma di ciò che già pensavano, e nell’epistolario di Fabrizi così come in quello di Crispi si raccolgono vari commenti agli avvenimenti. [...] siamo rimasti afflitti perché [...] abbiamo testimoniato quello che attendevamo, una sconfitta parlamentare tanto più funesta quanto provocata [...]. Garibaldi era stato accolto da ovazioni estraordinarie, e quasi tutti i ranghi della Camera ne parteggiarono la replicata prolungazione. Però avvenne poco dopo il contrario per le accuse con le quali colpì direttamente il Ministero. [...] Frattanto l’Uomo della sconfitta in un’arena che non era la propria, e dove tutti gli sforzi forse miravan a prepararla, appena sortito dall’aula Parlamentare e già innanzi al Popolo affollato spingeva a tali entusiastiche grida che eran l’eco di quelle di Napoli e di Palermo [...]62.

Se, prima che si realizzasse, l’intervento di Garibaldi alla Camera veniva considerato come un rischio da scongiurare, ora era una ferita da sanare, il frutto inevitabile di una «imboscata» tesa dai moderati al Generale per esporlo alle loro provocazioni. Nella messe di commenti suscitati dalla vicenda si può distinguere un’interessante lettera che Mordini scrisse a Fabrizi da Torino a qualche giorno dai fatti. [...] fu errore quello d’incitarlo a lasciar Caprera per presentarsi alla Camera. Egli non è uomo da Camera e alla Camera sarà sempre battuto da Cavour. [...] Torna superfluo il dirti che con Garibaldi l’opera mia è stata diretta a ottenere, o, a dir meglio, ad ispirare sentimenti di vera moderazione. In questo verso hanno pure agito Medici, Bixio, Sirtori e Cosenz. Questa no-

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stra condotta è stata criticata dai più esaltati, ma io per la parte mia non me ne pento. Il Generale [...] con me è stato come al solito e mi ha nuovamente lodato [...]. Mi parlò di te con molto riguardo e con molta soddisfazione pel tuo operato. [...] Le cose dell’Italia meridionale lo addolorano oltre ogni dire, e, se io non ho letto male nel suo intimo pensiero credo che di tanto in tanto gli traversi la mente l’idea di corrervi... Non voglio addentrarmi nelle considerazioni che derivano da una siffatta ipotesi. Del resto è proprio triste la condizione delle cose nella Italia Meridionale, e guarda che il Governo riescirà difficilissimamente a condurla ad uno stato normale. Fu sbagliata da principio la strada. Mutare gli uomini non è rimedio sufficiente63.

Anche in Mordini, dunque, le perplessità nei confronti della condotta e della discutibile lucidità del Generale, l’auspicio che egli si preservasse per le future battaglie patriottiche, avanzavano in parallelo alla valorizzazione di se stesso come mente politica. Non era certo un caso isolato: questo atteggiamento accomunava in particolare alcuni degli uomini che, usciti dalla rivoluzione, scelsero il contesto istituzionale come arena fondamentale in cui agire e mettersi in luce e, pur nell’opposizione anche radicale alle scelte governative, dimostrarono una sostanziale fiducia negli strumenti di lotta politica garantiti dal sistema parlamentare. Ciò era riscontrabile anche in personaggi come Bertani, che, viceversa, rimproverava a Garibaldi proprio l’incapacità di svincolarsi dagli uomini che detenevano il potere e di intraprendere una via autonoma, prescindendo dalle legittimazioni istituzionali. Il modo in cui molti garibaldini reagirono all’intervento parlamentare del Generale e al suo scontro con Cialdini mostra anche come essi finissero per abbracciare il luogo comune di un Garibaldi abile solo in guerra, capace di guidare gli uomini in battaglia ma non di interpretare una linea politica, alimentando così un cliché assai diffuso anche in settori moderati non pregiudizialmente avversi al Generale. Ma la vicenda dell’aprile 1861 poteva suscitare – soprattutto al di fuori degli ambienti politici garibaldini – reazioni più semplici, figlie di una lettura dei fatti che presupponeva divisioni di campo assai nette o prospettive di conciliazione tra Garibaldi e i moderati più concrete di quanto non fosse. In quei giorni giungeva per esempio alla redazione del filogaribaldino «Il Diritto», alla cui guida stava Angelo Bargoni, un’energica lettera anonima a commento degli av37

venimenti. Essa individuava una contrapposizione tra Garibaldi e i suoi uomini (e il re) da un lato, e l’ambizione, l’ingratitudine e il personalismo dei vertici politici e militari dall’altro. Abbasso cento volte Cialdini/Abbasso una volta Fanti/Viva mille volte Garibaldi/ [...] Garibaldi ama la patria: Cavour ama la gloria, Cialdini e Fanti amano se stessi. Garibaldi ama i suoi generali: Bixio, Sirtori e Medici ed altri mostrano di amare Garibaldi di cuore: i volontari amano Garibaldi molto [...]. Garibaldi buono per l’Italia; Cialdini buono pei suoi nemici; Fanti buono per chi combatte contro di essa. [...] Il Re onesto e sincero; Garibaldi umano e schietto; Cavour capace e dispotico; Fanti stupido e servo; Cialdini stolto e pazzo. [...] Il popolo per Garibaldi; La feccia per Cialdini; Nessuno per Fanti64.

In questo quadro a contorni netti non rientravano né le divisioni interne al mondo garibaldino né le nuove gerarchie in via di definizione, che non erano più – o non più soltanto – quelle del campo di battaglia o dei tempi della cospirazione. Queste dinamiche di assestamento e di ricollocazione erano invece ben evidenti ad alcuni garibaldini che si venivano a trovare in una posizione defilata, da cui registravano gli atteggiamenti di sufficienza o le sorprendenti manifestazioni di mitezza dei loro vecchi compagni di lotta. [...] anche tra i nostri amici – scriveva Abele Damiani a Fabrizi – vi sono gl’importantissimi, quelli che offendono la mia suscettibilità, e fanno scaturire antipatie ch’Ella non mi vorrebe approvare. Un importantissimo credo che sia Crispi [...]. Un altro sarebbe Bixio [...]. Quest’ultimo mi sembra lieto del suo debutto nell’arena parlamentare. Terribile coi soldati, terribile anche cogli amici, diventa prudente e appassionato davanti Cavour. L’aria del primo Ministro lo disarma, e lo fa finire per essere de’ primi Ministeriali65.

Quella in un’azione veramente comune di Sirtori, Bixio e Medici, in nome dei recentissimi trascorsi rivoluzionari che li avevano uniti, non era, a quanto pare, un’illusoria speranza che si conservava solo in ingenue lettere anonime come quella citata. Molto – a quanto pensava e diceva chi continuava comunque a confidare nella sua azione – sfuggiva anche a Garibaldi; ma proprio di questa sua scarsa percezione delle incompatibilità e delle veloci trasformazioni sollecitate dal mutato contesto, ci si poteva e dove38

va valere per non abbandonare il Generale alla sola influenza dei più moderati, affiancando ad essi uomini di convinzioni più radicali. In sostanza, se non si potevano allontanare da Garibaldi personaggi sgraditi, si doveva almeno tentare una sorta di azione di bilanciamento. Era quanto sosteneva Agostino Bertani rivolgendosi a Crispi, uno dei suoi confidenti privilegiati per le riflessioni sulla «corte» di Caprera. Sacchi è ritornato da Caprera, come ti scrissi, convinto che Garibaldi andrà dovunque si ricominci la lotta. Anche a Napoli, ma dopo il fiasco di Cialdini e nel pericolo di quelle provincie. – Ma è sempre gelosissimo di Pippo, degli uomini di testa e toga, cieco per il Cosenz, che propone ancora come suo prototipo a Napoli, coi Medici ecc. ecc. – Pure chiamò Mario qui con noi. – Vedi che testa ha mai quell’uomo! crede Mario un socio di Cosenz e Ci.a. Meglio per noi66.

I carteggi di Francesco Crispi dimostrano come egli fosse anche destinatario di sollecitazioni diverse, molte delle quali vertevano proprio sulla direzione che avrebbe dovuto prendere la sua azione politica. Un interlocutore assiduo come Bertani manifestava per esempio la consapevolezza del ruolo fondamentale svolto da Crispi in Parlamento, ma non mancava di richiamarlo ad un impegno anche in ambiti alternativi, più legati alle prospettive rivoluzionarie. Su questi aspetti insisteva spesso anche Giorgio Asproni che, assai dubbioso sulla capacità della Camera di rappresentare la nazione, incitava il siciliano a proseguire nelle sue battaglie cercandone altrove il riscontro. La Nazione non è nella Camera, e persuaditi che l’opera penosa che in pochi sostenete darà il suo frutto. La Nazione è con noi dell’opposizione, e tu sei il più fedele e largo interprete dei diritti e dei bisogni di questa fiera e nobilissima isola. Prosegui imperturbato. Noi siamo uomini di lotta e di sacrifizio, e l’intima soddisfazione che proviamo e il bene che ne deriva vale tesori inestimabili67.

In effetti, nella grande massa di documenti in cui si materializza il fitto dialogo tra i garibaldini, la figura che si erge più statuaria è sicuramente quella di Francesco Crispi: statuaria non per la sua monoliticità ma per la capacità di far emergere un profilo dotato di forza, fascino e coerenza interna. Egli appare proiettato verso l’autocandidatura e l’investitura a simbolo ed interprete della Sinistra, im39

pegnato a riflettere, progettare ed agire, ma anche intento, già a cavallo tra 1860 e 1861, a edificare il monumento di se stesso. Il ruolo centrale rivestito all’interno dell’opposizione e una certa rivendicata autonomia lo esponevano del resto a dubbi e a osservazioni non sempre benevole. Alle insinuazioni su un suo cambio di rotta o alle preoccupazioni degli amici per eventuali coinvolgimenti nella politica governativa, Crispi era capace di rispondere anche in modo indiretto e non solo con la smentita palese dei fatti. È significativa al riguardo la sua insistenza a rappresentarsi, sin dall’autunno del ’60, quale bersaglio degli attacchi dei moderati, quasi che la cosa potesse valere da garanzia di sostanziale fedeltà ad una linea politica, ma anche da conferma – ai suoi compagni di «partito» e a se stesso – della persistente possibilità di un reciproco riconoscimento identitario. Mantenersi nella legalità, credere nelle istituzioni liberali, servirsi di tutti gli strumenti garantiti da esse per portare avanti la propria lotta antimoderata, non compromettere il prestigio di Garibaldi inducendolo ad esporsi politicamente, confidare in un futuro non lontano in cui le inadeguatezze della Destra avrebbero aperto la strada alla Sinistra, l’unica capace di governare: questo il modello d’azione che Crispi rivendicava per sé e caldeggiava con i suoi corrispondenti. Ponendosi nel ruolo di chi sa vedere più avanti ed estendere lo sguardo su un panorama più vasto, egli riusciva a conciliare la coscienza della fatale incompletezza del processo rivoluzionario che aveva condotto all’Unità d’Italia, e la sfiducia negli uomini che guidavano il Paese, con una profonda convinzione nell’utilità della propria opera. Così scriveva all’amico Rosario Bagnasco nel maggio del 1861, a commento delle vicende che avevano opposto Garibaldi a Cialdini e Cavour: [...] qualunque possa essere la condotta del capo del gabinetto sardo, è bene prevenire ogni disordine, impedirlo anche in mezzo al popolo nostro. Cavour, costretto dalla sua politica a non conquistar Venezia, e a non farsi restituire Roma, è condannato a cadere. È questione di tempo. Quindi è necessità per noi tenerci nella legalità, non uscirne a qualunque patto, vietare al popolo qualunque tumulto, ogni dimostrazione. [...] Noi abbiamo i mezzi legali per combattere il governo: la tribuna, la stampa, le petizioni; con questi mezzi potremo fare grandi cose. Ogni disordine non può che esserci fatale. Potrebbe mettere in pericolo le nostre libertà, e quel che è peggio l’unità del nuovo Stato Italiano68.

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Era in particolare attraverso la sua azione parlamentare che Crispi veniva riconosciuto come la più promettente incarnazione dell’eredità della rivoluzione, ed era proprio negli interventi alla Camera che egli presentava la sua militanza nelle file della Sinistra come fedeltà alla tradizione garibaldina e difesa degli interessi del Sud liberale e patriottico. L’efficacia della sua oratoria e l’incisività dei contenuti gli valevano il riconoscimento dello stesso Garibaldi e, talvolta, anche di chi si sentiva almeno momentaneamente rincuorato rispetto ai dubbi di un suo avvicinamento ai moderati. Egli stesso considerava l’attività parlamentare come un impegno imprescindibile per l’opposizione, e riteneva inopportuno e insensato disertare quel campo di lotta, non solo per ragioni contingenti ma anche sulla base di un rispetto delle istituzioni e dello Stato da costruire, che la Sinistra avrebbe dovuto contrapporre all’ossequio solo formale della legalità da parte della Destra. Se vogliamo esser liberi, bisogna non invadere l’altrui autorità, ma lasciare ai grandi poteri della Nazione tutta l’indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni. Violando cotesti principii, noi daremmo un cattivo esempio ed anche l’impulso ai colpi di stato, dei quali il nostro secolo è abbastanza ghiotto. No, la sinistra non può commettere un fallo così enorme. Essa dev’essere la vigile sentinella della Costituzione, la severa custode delle leggi, il pubblico Ministero della rappresentanza nazionale. [...] Tutti sanno che nelle Camere i partiti si adottano dalla maggioranza. Stanno a guarentigia della minoranza i discorsi pronunciati alla tribuna e i voti dati alle leggi, nei quali il popolo può benissimo discernere i suoi amici ed i suoi nemici. [...] Io [...] son convinto esser le idee della sinistra parlamentare l’eco fedele di quelle della nazione. No, amici; stiamo fermi negli eterni principii del diritto. Le difficoltà non ci abbattano! Il buon soldato non lascia il campo, finché c’è da combattere69.

Quest’ostentata fierezza del proprio impegno istituzionale conviveva con uno sguardo capace di misurare tutte le inadeguatezze della politica moderata e la distanza che separava il presente dalle promesse rivoluzionarie lasciate intravedere dal processo unitario. Dal suo punto di vista, era proprio lo scarto tra ciò che si era realizzato e ciò che era necessario si realizzasse per costruire uno Stato nazionale liberale ad imporre in un futuro prossimo la salita al potere della Sinistra. Ma ciò avrebbe dovuto avvenire attraverso il naturale dispiegarsi dei fatti e senza nuove sollecitazioni insurrezionali. 41

Non è l’unità italiana una forma viziosa. Il vizio sta negli uomini, non unitarii, incaricati a comporla. [...] Io, non posso dissimularvelo, prevedo una crisi; ma questa non sarà una ruina per noi, semmai è necessario che segua. Come volete che si compia una grande rivoluzione senza disordini, senza dissesto d’interessi, senza malcontento? Quella cui noi assistiamo è una rivoluzione senza sangue, ma che deve rompere il passato, e rifare una grande nazione. Or queste cose non avvengono senza scosse e senza dolori70.

Da questa lettura della realtà conseguiva anche un atteggiamento di fedeltà per così dire condizionata a casa Savoia, che suggeriva di tenere le forze democratiche strette al re per vincolare Vittorio Emanuele al rispetto sostanziale dei plebisciti e dello Statuto, ma che considerava le forze emerse dalla rivoluzione come i rappresentanti autentici e definitivi del «popolo», nell’accezione nazionale e ottocentesca del termine. Noi, per amore dell’unità italiana – scriveva Crispi nel marzo del ’62 – e per evitare un dualismo che avrebbe nuociuto all’unità, abbiamo accettato la monarchia. Noi quindi dobbiamo essere monarchici, finché il re non avrà abbandonato la causa nazionale, e tenerci fermi allo Statuto, sola base sicura di operazione. Questo Statuto, violato spesso dagli antichi realisti, è la nostra tavola di salute71.

Questa riflessione sulle dinamiche interne agli ambienti garibaldini e sulle attese, le disillusioni e gli umori che si proiettavano verso Caprera può essere conclusa servendosi per ampie citazioni di una lettera indirizzata da Alberto Mario a Garibaldi all’inizio del 1862. In questa missiva accorata, fiera e rabbiosa si riassumono moltissime delle questioni di cui si è parlato. Essa aiuta del resto a ribadire come, almeno per gli uomini di più alto profilo, le ragioni di orgoglio personale fossero indissolubilmente legate alla passione politica e a contrasti ideali di indubbio spessore. Carissimo Generale, [...] Non so dirle quanto mi rattristi l’insensata distinzione di partito garibaldino e di partito mazziniano inventata e fomentata dai Moderati e ricantata dai pappagalli, perché radice di guai all’Italia. Chi all’infuori di qualche idiota o di qualche servitore, come tale pronto a mutar padrone, può dichiararsi garibaldino o mazziniano sostituendo un uomo ai principj? Sovranità del popolo, Unità d’Italia, Libertà, ecco i principj. Andare a riverire in Mazzini l’apostolo e in Garibaldi l’eroe di quei principj è ciò che fa ogni patriota che pensa colla propria testa e agisce secondo la propria volontà.

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[...] Gli avversarj di Lei, Generale, sono i Moderati che con Lamarmora le affidano il comando di quattromila fra gobbi e guerci, con Rattazzi le vietano il passo della Cattolica, con Cavour le osteggiano la spedizione di Sicilia e lo sbarco in Calabria, [...] con Farini le impediscono nuovi ajuti di Volontari, con Fanti marciano a darle battaglia sul territorio napolitano, [...] con Minghetti volgono in derisione la sua proposta di armamento, con tutti insieme [...] cuoprono d’umiliazione i suoi soldati [...]. Sono i Moderati, i quali cospirano infaticabili ad impedirle ch’Ella ritorni in campo condottiero del Popolo, e mediante faccendieri slavi e ungheresi, pare sieno riusciti a condurla nella disastrosa deliberazione d’uscire d’Italia col fiore della gioventù per promuovere altrove la lotta delle nazionalità. Il popolo nostro fu mantenuto in puerizia dai Moderati; senza idee concrete del suo dovere e del suo diritto purtroppo non è ancora in grado di provvedere da sé al fatto proprio; ha bisogno di Lei, dell’uomo che agli occhi suoi è il rappresentante e il depositario di quelle idee. [...] Gli avversarj di Lei, Generale, sono quei volgari adulatori, mediocri d’anima e d’intelletto, ambiziosi ma impotenti a diventare qualche cosa per se stessi, che le stillano all’orecchio artificiose calunnie, e sospetti e diffidenza e rancori per distaccarla dai più egregi patrioti d’Italia dei quali sono gelosi [...]. [...] Può esser vero che Ella preferisca i valletti e i lacchè agli uomini liberi? [...] Io ricordo due date. Il 27 ottobre combattevasi sul Garigliano; noi eravamo a Calvi. Ella con un accento che mi ha rotto il cuore mestamente mi disse: «ci hanno messo alla coda!». Il 7 novembre a notte avanzata Ella entrava in una barchetta sul golfo di Napoli: io e parecchi amici l’accompagnavamo alla nave apparecchiata per l’esilio perché Ella s’era lasciato mettere alla coda. No, Generale! il suo posto è l’avanguardia a molte giornate dall’esercito; e all’avanguardia non si va che colla democrazia72.

4. «Mandate Garibaldi a Napoli» I problemi del Mezzogiorno discussi alla Camera nell’autunno del ’60 e nella primavera del ’61 – in stretta connessione con il destino delle truppe garibaldine – sarebbero tornati in primo piano nel dicembre73. Le polemiche, in precedenza sollecitate dal malcontento serpeggiante nel Sud e dalla non domata reazione borbonica, si sollevavano ora di fronte a ciò che in gran parte del Meridione continentale aveva ormai assunto le forme del brigantaggio. L’inasprirsi della crisi determinava anche un irrigidimento delle rispettive posi43

zioni e, nei gruppi antimoderati, la ribadita critica alla linea governativa si rafforzava con la denuncia del suo fallimento politico. Giuseppe Ferrari, applicando le sue abituali categorie interpretative ad un panorama fattosi ben più drammatico, era ancora una volta protagonista del confronto: [...] è necessità prima, necessità assoluta di distruggere i briganti, e conveniva distruggerli, signori, nell’uno o nell’altro dei due modi seguenti. Il primo modo che io desiderava consisteva nel dotare quel paese delle leggi nuove da lui desiderate e nel seguire il corso della rivoluzione, lasciandola sotto i suoi naturali capi, e specialmente sotto Garibaldi. [...] Io desiderava dunque che la rivoluzione stessa distruggesse il brigantaggio, tanto più che ogni Stato, e voglio dire ogni provincia di sette milioni d’uomini non ha bisogno di guardie di polizia spedite da un’altra provincia [...]. [...] Spettava adunque alle provincie recentemente annesse il riformarsi da sé stesse, col nostro soccorso, coi nostri principii, col nostro dominio, se volete [...]. Eravi in secondo luogo, lo confesso, un altro modo di governo, quello della forza [...]74.

La via repressiva seguita dal governo ispirava a Ferrari pesanti accuse verso la natura e le forme dell’impegno a cui era sottoposta la «nostra giovane armata [...] lanciata in numero scarso, insufficiente, esposta a rovesci in faccia a insidiosi nemici, [...] nella situazione tragica di sorpassare ogni forza umana, supplendo all’insufficienza col terrore [...]»75. Le sue riflessioni non presupponevano, tuttavia, una condanna radicale dell’uso deciso della forza, ormai resosi necessario e in ogni caso investito della legittimazione «del diritto di Robespierre, del diritto di rivoluzione»76. Ferrari però ribadiva la consequenzialità storica e politica che aveva condotto a quello stato d’emergenza. Chi non intendeva invece polemizzare contro la politica del governo, come Giuseppe Massari, poteva appellarsi alle dinamiche perverse generate a suo parere nel Sud dall’intreccio tra i recenti fenomeni rivoluzionari e la specifica natura delle popolazioni meridionali. Esse, immaginose come sono e vivacissime, hanno creduto (e di ciò non va certo fatto loro addebito) che bastasse il cangiamento di Governo, perché ad un tratto gl’infiniti mali che contristavano ed affliggevano quelle provincie cessassero. Ciò non è avvenuto, o signori; non poteva avvenire. Ma dal fatto non avvenuto è originato un disinganno, il quale alla sua volta ha prodotto

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e continua a produrre del malcontento. [...] Nelle provincie meridionali l’ordine nuovo di cose non è stato instaurato, come in Lombardia, in seguito ad una guerra combattuta da eserciti regolari; non come in Toscana, nell’Emilia, e nelle provincie del centro dell’Italia in seguito a deliberazioni, a votazioni spontanee: in quelle provincie il cangiamento è succeduto in virtù di una rivoluzione lungamente preparata, la quale ebbe la sua spinta dal di fuori. [...] Ora il Governo del Re, quando ha dovuto assumere direttamente il governo di quelle provincie, si è trovato in faccia a due ordini di difficoltà gravissime. La prima difficoltà proveniva dalle rovine accumulate dal Governo borbonico, e le altre difficoltà provenivano dalle rovine necessariamente accumulate dalla rivoluzione77.

La polemica di Ferrari contro la miopia dei moderati, che con l’estromissione dei protagonisti della vicenda garibaldina si erano privati degli strumenti più efficaci per la sconfitta del brigantaggio, assumeva toni particolarmente radicali nelle parole di Agostino Bertani, che continuava a distinguersi nel campo dei deputati garibaldini per il suo acceso antimoderatismo. La denuncia del dualismo tra le componenti rivoluzionarie patriottiche e le forze governative e del rifiuto di affidarsi, al Sud, a uomini di comprovata fede liberale anche nell’amministrazione civile78, erano oramai luoghi comuni dell’opposizione. Ciò che è degno d’attenzione è l’indicazione di una via, l’esplicitazione di ciò che altrove rimaneva alluso. È un anno e più che il sistema del Governo dà battaglia alla rivoluzione e la rivoluzione reclama insistentemente e il malcontento la ispira e può farla trascendere. [...] Ed ora perché la pace ritorni in quelle contrade, e non sia l’opra della forza, [...] perché ritornino i bei giorni della fede nei destini d’Italia, io non veggo che un mezzo, che le speranze della patria salvezza tutte comprende e con l’amore di un popolo feconda: Mandate Garibaldi a Napoli. Egli, invocato da un popolo intero, [...] vi porterà l’obbedienza, l’entusiasmo, l’amore. Garibaldi farà presto di quelle popolazioni una sola volontà, un solo braccio per la difesa dei nazionali diritti, dei vantaggi per la nuova Corona d’Italia e il brigantaggio si dissolverà innanzi il popolo entusiasta ed in armi; e senza lo stato d’assedio che i liberali italiani, sicuri nel loro diritto e nella loro forza, non proclameranno mai. [...] La rivoluzione [...] fu per noi, ed è tuttavia, checché se ne pensi, la sola forza che può fare la nostra unità e la nostra libertà; se essa s’arresta, perisce, né il popolo italiano è rassegnato al proprio suicidio79.

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Bertani indulgeva ad una rappresentazione di maniera dei «miracoli» del garibaldinismo. In effetti, in questo caso, ogni risorsa argomentativa doveva piegarsi all’esigenza prioritaria, per la Sinistra, di tentare di riguadagnare una posizione di centralità, proponendosi come portatrice di un patrimonio di risorse politiche e militari fondamentali ed insostituibili in una situazione di emergenza. Chiaramente quest’identificazione del garibaldinismo come tradizione privilegiata cui attingere per la soluzione dei problemi del neonato Regno non poteva che attirarsi l’energica disapprovazione della controparte politica, ben rappresentata dalla posizione di Silvio Spaventa. Al governo garibaldino si attribuiva la responsabilità di essersi di fatto associato – nell’intento di contrapporsi alle forze allineate alla politica di Cavour – «con tutti gli elementi municipali e borbonici del paese»80; gli si rimproverava di aver nella sostanza incentivato il brigantaggio, nel momento stesso in cui si intendeva combatterlo con forze irregolari, che «seminavano involontariamente il germe della sedizione e dello sconvolgimento»81. Nelle parole di Spaventa contavano soprattutto l’interpretazione del brigantaggio come retaggio politico e culturale del fenomeno rivoluzionario e la condanna storica delle posizioni di Bertani: L’elemento rivoluzionario italiano, prima del 1859, era un elemento astratto, un elemento spontaneo e generoso; ma che non teneva conto della realtà del presente e del passato d’Italia. Esso tentò di rinnovare più volte il nostro paese, facendo di esso come una tavola rasa, e non riuscì. Nel 1859 fortunatamente questo elemento parve trasformarsi. Esso riconobbe che per essere [...] un fattore fruttuoso del movimento italiano, aveva bisogno di associarsi e subordinarsi [...] all’elemento fecondo e positivo dell’autorità. E Garibaldi [...] esprime appunto nel suo ardente patriottismo, e nella leale e profonda devozione ch’egli ha pel nostro Vittorio Emanuele, questa felice trasformazione. Il sistema del signor Bertani tende a ricondurre l’elemento rivoluzionario italiano nelle sue antiche vie. L’associazione dell’elemento rivoluzionario coll’elemento dell’autorità ha fatto l’Italia; il sistema del signor Bertani tende a scindere quest’alleanza. Fra i due sistemi l’Italia ha scelto82.

In questo gioco di reciproche accuse, in cui tutta la discussione si sviluppava attorno al concetto di rivoluzione, alternativamente associato all’idea del disordine o del suo contrario, sono particolarmente significative le dichiarazioni di Francesco Crispi, a conclusione del dibattito che si sta ricostruendo: 46

Signori, io ebbi una dolorosa impressione quando il ministro della guerra, parlando dei partiti militanti in Sicilia, pose gli antiborbonici tra gli agitatori. Gli antiborbonici che anche vengono chiamati garibaldini, sono coloro che hanno la mia fede politica. Ebbene questa confusione tra noi ed i nostri nemici è una indegnità! Signori, noi, io il primo, siamo condannati ad essere conservatori in Sicilia, non per amore agli uomini che siedono sul banco dei ministri, ma perché l’agitazione nell’isola, un tumulto qualunque non so dove potrebbe condurre. [...] Il borbonismo in Sicilia non prevarrà, siatene sicuri; ma la sicurezza pubblica non so se possa sempre essere mantenuta, e se noi avremo sempre il potere di calmare le agitazioni. Il borbonismo non prevarrà; e infatti, o signori, credete che i reazionari, cospirando, parlino del Borbone? Niente affatto. [...] Un frate questuante, uno di quei furbi le cui turpitudini non potrebbero essere ignote alla polizia, pochi giorni addietro, per dare autorità alle sue parole sediziose sui contadini dell’agro palermitano, faceva vedere sotto la sua tunica la camicia rossa! Voi capite, o signori, quanto quel segno sia potente sull’immaginazione di quelle popolazioni. [...] vi prego signori, quando emetterete il vostro voto, di volervi ricordare della Sicilia, di volervi ricordare della sua città capitale, che in due epoche vicine è stata la culla della rivoluzione. Voi, con un pensiero a quei luoghi che han fatto tanto per la causa della libertà, provvederete non solo all’interesse degli stessi, ma all’interesse di tutta la nazione, giacché là, in fondo del Mediterraneo, sta anche riposto il mistero delle sorti italiane83.

In quest’intervento – nel quale le allusioni e il non detto contavano forse più di quanto veniva esplicitamente dichiarato – si manifestava innanzitutto l’ennesimo tentativo della Sinistra meno disposta ad integrarsi nella linea moderata di candidarsi ad interprete privilegiata degli umori e delle inquietudini del Paese, rivendicando un fondamentale ruolo di mediazione. Moniti come quelli di Crispi sconfinavano facilmente nella minaccia e nell’implicito ricatto e presupponevano, tra le righe, una sorta di retrodatazione degli eventi, quasi che in Sicilia, di fatto, governassero ancora le camicie rosse. La posizione della Sinistra capitalizzava da un lato il fallimento dei moderati nel Mezzogiorno, dall’altro le tesi sulle specificità del Sud: ma dalla polemica e dal rimpianto per il modo in cui si era agito nel passato si tentava di passare ad una proposta per il futuro, sintetizzata nella parola d’ordine lanciata da Bertani: «Mandate Garibaldi a Napoli». Le argomentazioni dell’opposizione ruotavano saldamente attor47

no ad un presupposto: la smobilitazione dell’esercito garibaldino come fattore decisivo della degenerazione della realtà meridionale e della perdita di consenso di cui stava soffrendo il processo unitario realizzatosi sotto casa Savoia. Il venir meno della presenza garibaldina, determinato dai provvedimenti del governo di Torino, avrebbe innanzitutto contribuito a delegittimare la causa nazionale, associata com’era, nel Sud, alla camicia rossa. Inoltre, ciò avrebbe comportato la perdita di un elemento fondamentale di mediazione e d’integrazione, quasi di «traduzione» di valori e progetti, che aveva incarnato la «formula» capace di conquistare Napoli e la Sicilia alla causa nazionale e liberale. Una visione del genere presupponeva l’identificazione tra camicie rosse e patriottismo meridionale: ciò significava sostenere che gli italiani del Sud avevano manifestato il loro sentimento nazionale essenzialmente attraverso il garibaldinismo. Solo Garibaldi, inoltre, che agli occhi del Mezzogiorno rappresentava l’Italia, sarebbe stato capace di risvegliare un autentico entusiasmo di massa verso il Regno di Vittorio Emanuele. La proposta lanciata da Agostino Bertani alla Camera non nasceva quindi dal nulla, ma aveva dietro di sé questi presupposti logici e politici, resi ora più che mai attuali dalla prospettiva di veder accresciuti i propri spazi politici dalle stesse inadeguatezze della Destra. Tuttavia l’idea di un ritorno di Garibaldi al Sud aveva implicazioni complesse, ben testimoniate dalla stampa d’opposizione e dagli scambi epistolari. Come nel caso dei dibattiti parlamentari, anche sulla carta stampata le fondamentali chiavi interpretative della realtà vennero elaborate già dall’autunno del ’60, per essere poi articolate e ribadite nei mesi successivi. La linea del filogaribaldino «Il Diritto» fu, per esempio, quella di mettere in discussione la capacità dei moderati di rappresentare il Paese, portando avanti un confronto più o meno esplicito tra gli entusiasmi patriottici risvegliati nel Mezzogiorno dalle camicie rosse e il malcontento che vi si diffuse successivamente, tra le entrate trionfali di Garibaldi nelle città del Sud e la reciproca diffidenza che caratterizzava i rapporti tra le popolazioni e i rappresentanti del governo. Anche sulle pagine del quotidiano torinese andava progressivamente componendosi – sul rimpianto di ciò che era stato – una fitta trama di allusioni all’opportunità di imporre al Sud una scossa, che prescindesse dalle soluzioni e dalle iniziative dei moderati. Gli anniversari della recente vicenda garibaldina ben si prestavano a rivelare questi atteggiamenti: 48

[...] qual differenza fra il 27 maggio 1860 e questo d’oggi! – Allora Garibaldi, preceduto dall’entusiasmo delle popolazioni e seguito dai voti di tutti, volava di vittoria in vittoria [...]; ora Garibaldi, dopo aver chiesto in vano armi ed armati per compiere l’opera del nazionale riscatto, sta, come incatenato leone, sullo scoglio di Caprera. Allora il popolo italiano nutriva speranza di liberar l’Italia colle forze proprie. Oggi per la politica dei suoi rettori, ligi allo straniero, è ridotto a dubitar quasi della propria virtù, della propria potenza. [...] Ma che per questo? Diffideremo noi dell’avvenire? No! Ora, come allora, egli saprà, se occorra, ravvivare nei fiacchi, lo intiepidito amore della libertà e della unità84.

Umori di questa natura erano assai più significativi quando provenivano dalla stampa del Sud; non tanto perché la vicinanza fisica alle situazioni descritte fosse di per sé garanzia di maggior aderenza alla realtà, ma soprattutto come testimonianza dei percorsi attraverso i quali l’opposizione meridionale intrecciava la dimensione locale a questioni e conflitti di respiro più vasto. «Il Precursore», quotidiano palermitano attraverso cui si esprimeva la linea politica promossa da Crispi, nell’autunno del ’60 era impegnato a celebrare il potere maieutico di Garibaldi, capace di sollecitare la crescita morale e civile in un popolo siciliano mortificato da una lunga schiavitù politica85. [...] in Sicilia siam tutti garibaldini, questo nome mal appropriandosi ad un partito e dovendosi a tutto un popolo, il quale vede nell’eroe di Caprera il distruttore della tirannide. Le imputazioni di volersi la guerra civile ed aspirarsi al potere [...], sono vuote di senso ed affatto risibili. Il potere ci peserebbe e non sapremmo che farne a questi tempi. La guerra civile siete voi che l’avete pronunziata, e che la provocavate per reagire e rassodarvi nel mal fermo impero. Noi non siam ricorsi alle armi e non vi ricorreremo che per la libertà e l’indipendenza d’Italia. Maledetto chi ne usi per intingerle nel sangue dei suoi fratelli!86

Quest’uso estensivo dell’aggettivo «garibaldino» per indicare il sentimento unitario di alcune popolazioni della penisola era assai diffuso, e si ritrovava per esempio in un altro giornale della Sinistra siciliana, «La Campana della Gancia», che denunciava innanzitutto le conseguenze funeste della mancata integrazione dell’esercito garibaldino87. L’identificazione della politica moderata con il «piemontesismo»88, degenerazione espansiva ed annessionista dell’idea unitaria, costituiva uno dei pilastri di un’immagine del processo risorgimentale che si fondava sull’idea delle «due correnti»: 49

[...] due opposte correnti si partono dal nord e dal sud, si urtano e si combattono [...]. Dal nord si parte la corrente Cavourriana, dal sud la corrente Garibaldina. [...] Vittorio Emmanuele è colui, che, unico tra i sovrani d’Italia, tenne fede al giuramento, che conservò ne’ suoi Stati, il sacro deposito della bandiera italiana, a fronte di una reazione trionfante e superba. [...] Per 12 anni il Piemonte fu l’asilo di tutti i martiri politici delle altre parti della penisola [...]. In queste condizioni salì al potere Cavour, e diresse [...] con rara abilità la nave dello Stato [...]. Il più gran servizio ch’egli rese all’Italia fu di mostrare alle potenze straniere, che gl’italiani son capaci di reggersi da sé e con ordini liberi. [...] Qual meraviglia dunque se Cavour ha l’amore e l’ammirazione dei piemontesi? [...] Garibaldi in Piemonte è un personaggio secondario, ivi non si è avuto bisogno di lui per essere redenti [...]. [...] A Garibaldi noi dobbiamo tutto, l’aura che respiriamo, la vita che viviamo, i beni di cui godiamo; senza di lui le nostre prigioni, le nostre isole sarebbero tuttora popolate di migliaia di vittime, gli sgherri di Maniscalco c’insulterebbero per le vie, e cento e cento famiglie piangerebbero i loro cari morti sul patibolo o tra i tormenti! [...] Il nostro amore per Garibaldi è frenetico; e tale dev’essere, sì per l’immensità del beneficio ricevuto, che pel carattere ardente di noi popoli meridionali e vulcanici. Per noi Garibaldi è un’idolo – guai a chi lo tocca. [...] Se tra Garibaldi e Cavour non si fosse manifestato un funesto antagonismo, presto ci saremmo intesi: ma la precipitanza niente commendevole del Conte a voler togliere dalle mani di Garibaldi la Sicilia fu il pomo della discordia89.

I meridionali, i siciliani primi fra tutti, avevano dimostrato di desiderare la soluzione unitaria, innanzitutto ribellandosi al dominio borbonico, poi aderendo al Regno di Vittorio Emanuele attraverso il plebiscito: questa la premessa essenziale e il nodo da cui si sviluppavano le argomentazioni della stampa d’opposizione. Rivendicando la scelta volontaria dei siciliani di diventare formalmente italiani, si sottolineava soprattutto come la fedeltà al re si fondasse su di un patto strettamente connesso al compimento dell’Unità. In quest’ottica, la forza e la grandezza di Vittorio Emanuele venivano fatte risiedere su basi in nulla paragonabili a quelle degli antichi sovrani. Come al 1713 Vittorio Amedeo, oggi Vittorio Emmanuele succede ai

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Borboni, questa fiata espulsi dalla nazione, allora dai sovrani di Europa. Diritti e doveri diversi ai due monarchi, fortuna diversa nelle due epoche. Vittorio Amedeo, re di Sicilia, imposto ai sudditi e non richiesto, è forzato dagli stessi donatori a cedere 5 anni dopo all’imperatore austriaco la regalatagli corona. Vittorio Emmanuele, chiamato dal popolo, avrà sostegno dal popolo, e non è principe che abbia autorità di farlo discender dal trono. I diritti di Vittorio Amedeo venivano da un trattato, che con altro trattato non era difficile lacerare. I diritti di Vittorio Emmanuele vengono dalla nazione, sorgente di ogni diritto, e quindi non è forza straniera che possa annientarli. [...] I doveri di Vittorio Emmanuele si estendono da Palermo al Cenisio, dal mar tirreno all’adriatico. Son essi di far l’Italia una e indivisibile, quale la proclamò il plebiscito del 21 ottobre. Acclamiamo dunque il re eletto, il simbolo dell’unità nazionale. [...] Noi siamo parte di un popolo di 22 milioni, che non ha più motivo di esser debole, e pel quale è chiuso il tempo delle conquiste. [...] Non è cortigianeria, ma atto patriottico, acclamare un principe che abbiamo elevato a tanta grandezza90.

In questo patto con il monarca, che implicava una sorta di fedeltà condizionata, veniva fatta emergere tutta la centralità del ruolo di mediazione e di garanzia di Garibaldi, come ben illustra un intervento come questo: Garibaldi venne per sciogliere il popolo dalle ferree catene di un re tiranno e riannodarlo con catene di amore ad un re Galantuomo. La grande figura di Garibaldi si presenta mediatrice tra popolo e re, e che mette la mano dell’uno in quella dell’altro, in segno della nuova alleanza. Così l’Italia, la virtù di Vittorio Emmanuele e Garibaldi legavano con nodo fortissimo gl’Italiani alla Monarchia91.

In sostanza l’unione al Regno di Vittorio Emanuele non era un bene in sé: erano i termini del plebiscito a fornirle un senso ed un contenuto. Andava di pari passo con queste fiere puntualizzazioni l’impegno a farsi «propugnatori della legalità» e a denunciare «gli abusi e gli arbitrî da qualunque parte provengano»92. Il quotidiano – così come «Il Precursore», per molti versi assimilabile alle sue posizioni – sosteneva in effetti la necessità, imposta dall’instaurarsi di un regime costituzionale, di abbandonare i mezzi illegali e di servirsi di tutti gli strumenti politici garantiti dal nuovo contesto93. Questi inviti all’opposizione meridionale e alle sue basi sociali si facevano più decisi in corrispondenza delle scadenze elettorali, quando si chiariva che 51

Vale più avere un deputato del proprio colore in parlamento che dieci dimostrazioni di seguito, o un anno di evviva all’Italia e a Garibaldi. Noi abbiamo un sistema, che crediamo buono per l’Italia e per la libertà, ci tocca dunque trovare gli uomini che vogliano e sappiano attuarlo; trovatili bisogna mandarli là, ove possono farlo trionfare94.

Era d’altronde il punto di vista ripetutamente espresso da Crispi ai suoi corrispondenti: la bontà del sistema, l’inadeguatezza degli uomini della Destra ad incarnarlo, l’opportunità di mantenersi all’interno della legalità, pretendendo tuttavia la stessa condotta da parte dei propri avversari politici, infine il valore vincolante del plebiscito, che imponeva di esser rispettato e portato a compimento. Ma questo sforzo di alfabetizzazione politica non si esercitava solo nei confronti del malcontento meridionale, che doveva essere incanalato politicamente, bensì anche verso gli stessi uomini al governo, colpevoli di sistematiche violazioni dello Statuto, in aperto contrasto con i presupposti essenziali del patto nazionale recentemente stretto95: [...] non per essere governati colla bajonetta abbiamo rovesciato un trono, che ci governava colla bajonetta; noi non chiediamo nulla che sia oltre i nostri diritti; noi non vogliamo rovesciare la Monarchia costituzionale, non vogliamo separarci dall’Italia; noi non chiediamo che la esecuzione del Plebiscito96.

La questione dei pericolosi alibi che l’emergenza della lotta al brigantaggio poteva concedere alla politica della Destra si legava in profondità a questi aspetti, chiamando prepotentemente in causa il ruolo dell’esercito, i suoi rapporti con la popolazione civile, i confini tra prevenzione e repressione, tra la difesa dell’ordine e la delegittimazione dell’avversario. La stampa fin qui utilizzata portava avanti parallelamente una sistematica campagna contro l’evasione meridionale dell’obbligo della leva – esaltata come strumento di emancipazione e protagonismo delle masse – e una polemica politica contro l’opera di strutturazione dell’esercito unitario condotta dai moderati. Entrambe le questioni si intrecciavano evidentemente con la repressione e l’isolamento del brigantaggio, in merito al quale dal Sud provenivano dunque proposte e prese d’atto assimilabili a ciò che in Parlamento sosteneva una certa Sinistra. Collante di queste due correnti antimoderate – che talvolta facevano capo agli stessi referenti politici – era 52

innanzitutto la valutazione del ruolo strategico e irrinunciabile dei garibaldini. Republicani, maziniani [sic], atei, anarchici, comunisti, ecco le parole onde i giornali del ministero hanno accompagnato ogni elemento che sappia di Garibaldi: [...] ma i republicani, gli atei, contro le allettative di sei mesi di paga si contentavano d’andare ai depositi di Fenestrelle accanto ai prigionieri borbonici, ed ai reazionarii, in mezzo ad ogni corrotto elemento, si contentavano d’andare a perdere la pelle nella malaria di Asti, per non sottrarre al governo l’appoggio della loro spada in queste circostanze critiche. [...] Pare adunque che i republicani, gli atei, siano stati i primi sostenitori del regime monarchico, che ha sposato la causa dell’unità italiana; perché se eglino si fossero gettati a difendere in un mar di discordie, il loro nome vilipeso, la corona di Vittorio Emanuele avrebbe potuto tremare sul suo capo. [...] Ecco oggi Cialdini l’autore della lettera a Garibaldi, confessa finalmente d’avere bisogno nella sua opera degli elementi vivi del Paese, e ben sette mila giovani dell’esercito di Garibaldi vanno ad iscriversi per dare la caccia ai briganti. Nicotera, [...] Fabrizii, che vivevano in uggia al governo, appena chiamati offrono il loro appoggio, e partono per le provincie a sedare con la loro presenza ogni torbido, a predicare concordia ed appoggio al governo monarchico. Che ne dicono i servidorelli del ministero [...]? [...] Ma ci riesce poi di sommo dispiacere il leggere in una corrispondenza di Torino alla Perseveranza, che in Piazza Castello si mormora dell’operato di Cialdini il quale ha il torto di dare a faticare ai Garibaldini, e di farli ammazzare per estirpare i Borbonici, e si spera che presto il Governo scartando l’elemento rivoluzionario possa ritornare alla Vita Normale. [...] Tornino pure alla vita Normale i signori di Piazza Castello, che ingrassano a spese dell’Italia Una, ma sappiamo che la vita normale di Torino, sarà morte normale a Napoli, e il brigantaggio seguirà normalmente la sua opera devastatrice. [...] Noi di tutti questi abbagli vogliamo che il Governo prenda nota, e pensi che ha troppi nemici per non poterli sfidare tutti. – Si tenga stretto all’elemento Garibaldino, ma siano però i frutti di chi sono i sudori – Se no... saremo da capo97.

La degenerazione delle condizioni del Sud era la cornice di queste polemiche. Le lettere che Crispi inviava soprattutto a Bertani nell’autunno del 1860 restituivano un contesto rivoluzionario meridionale in cui si confrontavano allo stesso tempo differenti linee politiche e diverse generazioni patriottiche. Un anno dopo, dalla sua corrispondenza emergeva uno scenario siciliano che egli dipingeva 53

alla vigilia della guerra civile, dove la lotta politica tra gli uomini del Partito d’Azione e i moderati si mescolava agli atti di violenza e all’azione di criminali comuni, strumentalizzando le inquietudini e i sospetti di uno stato allarmante dell’ordine pubblico e della sicurezza personale98. [...] Qui siamo alla vigilia d’una guerra civile. La società nazionale, non potendo vincerci colla calunnia, ci vuol vincere coll’assassinio. [...] Oggi con un corpo di carabinieri reali, con 6000 uomini di truppa ordinaria, con un governo che dicesi regolare, i nostri avversari, che ne sono protetti, cospirano per ucciderci. Poiché siamo tornati allo stato di natura, riprenderemo le armi per difenderci. Se puoi parlare al Minghetti, fallo anche a nome mio. Se egli non provvede, provvederemo noi99.

La tentazione di rappresentarsi quali governanti legittimi se non legali, era sempre in agguato. Il termine di paragone esplicito od implicito erano ovviamente i governi rivoluzionari del ’60, e dalle prove fornite in essi i gruppi d’opposizione intendevano trarre legittimità ed esibire credenziali. Tutto, per forza di cose, finiva col confluire nelle recenti memorie garibaldine, nella più o meno lucida consapevolezza che di nuovo, come allora, ad essere determinanti sarebbero stati gli uomini che avrebbero accompagnato Garibaldi e gli obiettivi di cui i moderati avrebbero tentato di farlo strumento. Del resto, la variabile indipendente era rappresentata dalle reazioni spontanee suscitate dal leader delle camicie rosse, la cui figura, nel Sud, si stava fatalmente trasformando in un simbolo antigovernativo. Mio Carissimo Ciccio, – scriveva a Crispi Luigi Pellegrino – [...] [sembra] che vorrà venire qui il Generale. Mi sembra così importante questa notizia ch’io non la credo affatto. E penso così poiché, se verrà, sarà per consentimento di cotesto Gabinetto, e per abbonazzargli il paese. Mentre se viene qui il Generale vedrà gli effetti assai diversi di questo proponimento suo. Il nome di lui, la certezza che sia già qui farà saltar su tutti gli spiriti del popolo stufo a josa di questo Governo, e non potrà prevedersi la portata intiera di siffatta esaltazione. Vedremo che ne sarà. Io ti prego pel bene del paese, ch’è quello di tutti noi ancora, a mettere sulle tracce degli uomini puri il Generale, se vuoi si avveri ch’ei venga. E di lasciare di lato ogni riguardo, che non ti è riescito a bene, ma a danno dell’idea, del paese, e degli amici tuoi, che nulla ostante la dimenticanza loro, e lo sprezzo nel quale furono tenuti, si sono conservati e si terranno sal-

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di e incrollabili per tutta la vita. Che una seconda volta il Generale non venga fiancheggiato da speculatori, ed usufruttatori del suo Eroismo e della sua generosità. [...] esci una volta dalla tua atmosfera, essendoché i momenti sono supremi100.

Le prospettive erano evidentemente molteplici e al nome di Garibaldi si poteva anche associare l’idea di soluzioni energiche, con buona pace degli appelli di Crispi alle garanzie costituzionali. Così, per esempio, un ex garibaldino si rivolgeva a Nicola Fabrizi, suo vecchio comandante, speranzoso di poter «essere un’altra volta agli ordini suoi»: I fogli avvisano che il Generale Garibaldi trovasi in Torino ove fu accolto con la solita gioja Popolare. Oh se venisse in Sicilia, quanti mali umori non togliesse? Il Ministero in continuo saliscendi, i Governatori delle Provincie destituiti, i furti che si fanno sentire, i satelliti Borbonici che se la passeggiano, ben pagati, nelle cariche, e seminando scissure tra i Cittadini, e i veri Liberali oppressi e forse costretti ad emigrare per non soffrire la non curanza del Governo, ed io trovo nella dura necessità di essere uno di essi. In Sicilia vi abbisogna un Governo Militare, e non già Codici e toghe101.

Capitolo secondo

Aspromonte

1. Prove generali con comparse Quando Garibaldi salpò da Caprera il 27 giugno del 1862, anche tra gli uomini che lo accompagnavano c’era chi apprese solo nel momento della partenza che il luogo di approdo sarebbe stato la Sicilia. Il ritorno del generale al Sud era stato invocato nei mesi precedenti dalla Sinistra come gesto capace di rinvigorire il sentimento unitario di popolazioni inquiete e deluse, e già in passato indotte ad associare il patriottismo al garibaldinismo. Quello che si auspicava era quasi il recupero di quello schema diarchico messo in azione due anni prima, e in virtù del quale Garibaldi di nuovo sarebbe sceso nel Mezzogiorno in nome di Vittorio Emanuele e gli avrebbe riconsegnato un’Italia meridionale pienamente restituita nella fiducia nel plebiscito. Ciò che la politica moderata aveva rischiato di compromettere e ciò che nemmeno la figura del re da sola poteva recuperare, avrebbe dovuto essere quindi delegato al generale delle camicie rosse: una delega certo politicamente assai pesante e compromettente, ma formalmente compatibile con gli equilibri istituzionali. La nascita del governo Rattazzi, sostenuto in Parlamento da una maggioranza fragile e disomogenea, ma soprattutto forte e debole, allo stesso tempo, di una sorta di tacita legittimazione extraistituzionale di Garibaldi, aveva indotto la Sinistra a nutrire speranze di un rinnovato protagonismo, in parte alimentate dall’esecutivo. Il presidente del Consiglio ed il re erano inoltre promotori di una politica estera parallela e alternativa a quella ufficiale, specialmente rivolta 56

verso il contesto balcanico, percorso da agitazioni di matrice sociale e nazionale, sul quale si proiettavano ad un tempo le ambizioni dinastiche di casa Savoia e le attese dell’opinione democratica. Pratiche certo universalmente diffuse e correntemente complementari all’azione diplomatica scoperta, ma tanto più equivoche e equivocabili, pronte a sfuggire di mano in contesti quali l’Italia dell’epoca. In un Paese reduce da processi rivoluzionari e mobilitazioni in forme irregolari, con questioni interne ancora aperte per stessa ammissione dei vertici istituzionali ed un aspro conflitto politico in corso, la circolazione di armi al di fuori dei circuiti regolari e regolati e le iniziative di arruolamento più o meno copertamente promosse o tollerate dal governo per trarne profitto non erano fenomeni facilmente controllabili. A fornire peso e forza di coagulo a queste realtà in movimento, che non facevano di quello italiano un contesto qualunque, stava la grande «anomalia» della figura di Garibaldi, a cui inesorabilmente doveva ricondursi qualunque iniziativa legata al volontariato, sul fronte interno o internazionale. Circostanze del genere incoraggiavano tra l’altro le autorità periferiche a dubitare che quello che il governo ufficialmente ordinava fosse ciò che il governo realmente voleva. L’episodio di Sarnico del 14-15 maggio 1862 si inserì a pieno titolo in questo clima e rappresentò in un certo senso l’anticipazione di quanto si sarebbe verificato più tardi in Sicilia e in Calabria; non condizionò però in modo determinante lo sviluppo degli eventi, poiché parve generalmente sfuggirne il valore rivelatore. Com’è noto, nelle settimane precedenti, la lunga permanenza di Garibaldi nel Bresciano aveva coinciso con una crescente mobilitazione di alcuni suoi ex ufficiali in vista di un tentativo armato in territorio trentino. Questi movimenti non furono affatto ignorati dal governo, che intervenne però solo in extremis. L’iniziativa abortì dunque con gli arresti, operati tra il 14 e il 15 maggio a Sarnico, Palazzolo e Alzano, di varie decine di uomini raccoltisi nella prospettiva dello sconfinamento, ma soprattutto con il fermo di Francesco Nullo, il personaggio più rilevante direttamente coinvolto nel progetto. Ne seguirono i fatti di Brescia, dove il 15 maggio la truppa sparò sulla folla raccoltasi attorno alle carceri e inneggiante alla liberazione del garibaldino bergamasco: il bilancio fu di tre morti e diversi feriti. Nella temperie di quei mesi l’episodio fece da miccia all’esplosione di una campagna d’opinione contro l’istituzione dell’esercito e 57

le finalità repressive verso cui la gioventù italiana in armi sarebbe stata indirizzata. Fu lo stesso Garibaldi – che si era assunto la responsabilità politica degli arruolamenti – ad esserne protagonista. Attorno alla sua presa di posizione sugli scontri di Brescia facevano quadrato le varie anime della stampa d’opposizione filogaribaldina, che pur con differenza di accenti, si univano alla denuncia. Così si esprimeva, per esempio, «La Campana della Gancia»: [...] Noi non intendiamo affatto far dividere la responsabilità di quel fatto doloroso a tutta l’armata, furono pochi soldati, che trassero contro un popolo inerme, consigliati più da paura che da coraggio [...]. Ma il fatto di Brescia sarà per noi lezione severa, a ciò apprendessimo a che uso sieno destinati i nostri figli quando ci si chieggono col pretesto del servizio militare. Non devono far guerra allo straniero, no, devono fare i boja a’ loro fratelli!... Dorma pure in pace l’Austria, e si assicuri che niuno la toccherà, vi è il governo italiano che la guarda1.

In quelle stesse settimane, il Ministero della Guerra assumeva ufficialmente un ruolo di mediazione rispetto all’indignazione di alcuni ufficiali, sdegnati per le affermazioni di Garibaldi, che aveva definito «sgherri mascherati» i soldati chiamati a mantenere l’ordine a Brescia e «boja» chi aveva ordinato di aprire il fuoco sui manifestanti; ad un comandante di reggimento di stanza proprio in quella città, che pretendeva la ritrattatazione e le scuse pubbliche, a nome di ogni militare «ferito in ciò che ha di più sacro – l’onore»2, il ministro faceva notare che il leader delle camicie rosse era in parte tornato sui suoi passi, ma innanzitutto ricordava un presupposto d’ordine generale: Certamente [...] a sì grave offesa dovevasi più ampia riparazione, ma è bene che l’Esercito sappia mostrare che sull’altare della patria è pronto a sacrificare ogni personale rancore. [...] a noi [...] non spetta entrare in discussione, i militari sanno che il loro posto è là dove li chiama il servizio del Re e della patria; essi obbediscono senza discutere3.

Che questa risposta non presupponesse un’obiezione di fondo rispetto alle insofferenze antigaribaldine è palese, e ben lo confermano altri documenti, dai quali emerge come ciò avesse piuttosto a che fare con l’amara accettazione di un dato di fatto, a cui era necessario tuttavia porre almeno dei confini. Illuminante e inequivocabile a questo proposito è quanto scriveva privatamente il 20 maggio pro58

prio il ministro Petitti al generale Giovanni Durando, comandante del II dipartimento militare: Di ritorno da Napoli non ho ancora avuto il tempo di scriverle per esprimerle la mia soddisfazione per le disposizioni date per impedire il passaggio alla frontiera dei malintenzionati i quali hanno di mira di compromettere il paese. [...] Debbo pure dirle che avrei preferito ch’Ella non fosse entrato in comunicazione con Garibaldi [...]. Pur troppo che Garibaldi è una potenza con cui si deve contare. Che le Autorità politiche debbano tener conto di questa sua posizione ed usar con lui riguardi che non hanno pel comune dei cittadini, pazienza! Ma noi militari non dobbiamo riconoscere questa potenza, od almeno far di tutto per evitare rapporti con lei. Stia dunque, caro Generale, all’erta per combatterla se occorre, cerchi di essere padrone degli animi de’ suoi dipendenti onde non siano un dì soggiogati da quell’uomo straordinario, ma si tenga all’infuori di tutto quanto è politica [...]4.

Le settimane dall’inizio di maggio alla fine di agosto furono dunque caratterizzate dall’esasperarsi della tensione tra le istituzioni militari del giovane Regno e vasti settori del mondo garibaldino e degli ambienti democratici in genere. Si potrebbe anche sostenere che il 29 agosto 1862, sull’Aspromonte, arrivarono a sciogliersi ambiguità rimaste a lungo latenti e rispetto alle quali i vertici dell’esercito regolare segnalavano la necessità e l’urgenza di una definitiva chiarificazione dei ruoli. A complicare il quadro di quei mesi si aggiungevano altri elementi: mentre Rattazzi scommetteva sulla possibilità di conseguire risultati ambiziosi e di accelerare acquisizioni di politica estera capitalizzando le irrequietezze dei democratici, lo stesso Ministero e la diplomazia ufficiale erano impegnati a perseguire i propri obiettivi facendo fronte ad altre sollecitazioni. Era la fase in cui il nuovo Regno si accingeva a raccogliere finalmente i frutti delle lunghe trattative avviate per ottenere il riconoscimento da parte di Russia e Prussia, con la Francia imperiale a recitare il ruolo del giudice simpatetico. La contropartita politica era rappresentata ovviamente dalle garanzie che si sarebbe riusciti ad offrire rispetto all’attività del Partito d’Azione. Ma nella primavera del 1862 le questioni in gioco non erano solo queste: anche in virtù delle sue componenti rivoluzionarie, il processo unitario italiano rappresentava un esempio per l’Europa orientale, e ad esso le popolazioni di quelle terre avevano dato il loro contribu59

to di volontari. Dall’Italia – e dal garibaldinismo in particolare – ci si attendeva del resto un fattivo apporto nel mondo balcanico e tra gli ungheresi e i polacchi, che nella penisola avevano trovato anche occasioni di accoglienza e di legittimazione formale della propria presenza. Erano evidenti le aporie di questa posizione di «tutela» rispetto alle istanze nazionali degli altri popoli: essa poteva diventare anche funzionale alle mire dinastiche dei Savoia nell’Europa orientale più che all’assunzione di una leadership rivoluzionaria. La stessa figura di Garibaldi avrebbe potuto tornare utile in tal senso, liberando nel contempo il Paese dalla minaccia di iniziative destabilizzanti sul fronte interno. Era quanto prospettava Vittorio Emanuele al principe Napoleone nell’aprile del ’62, assicurando che la missione italiana del comandante delle camicie rosse era conclusa e presto egli avrebbe spostato la sua azione in Oriente5. Tuttavia, se la scelta di favorire il formarsi di un’aura rivoluzionaria attorno all’Italia poteva risultare produttiva nell’ottica delle ambizioni di dominio e del consolidamento di zone d’influenza, il fatto di accreditare quest’immagine con una concreta politica di apertura verso l’emigrazione politica rischiava invece di attirare censure e malumori o di costituire il pretesto di un braccio di ferro diplomatico: nel giugno del ’62 Nigra ribadiva infatti a Giacomo Durando che la Russia poneva la chiusura della scuola polacca di Cuneo come condizione del riconoscimento del Regno d’Italia6. 2. Attese siciliane A fine giugno, quando si stava sopendo il clamore suscitato dagli avvenimenti bresciani e bergamaschi, Garibaldi era in Sicilia e assieme ai prìncipi promuoveva le società di tiro a segno. Anche il suo viaggio in Lombardia – che ebbe come epilogo indiretto l’episodio di Sarnico – aveva avuto la stessa motivazione ufficiale, ma in questo caso fu chiara fin da subito la valenza politica della sua presenza sull’isola. Ciò non significa che fossero scontati e inequivocabili la direzione e gli obiettivi della sua azione, nemmeno per chi era salpato con lui da Caprera. Era il caso di Giacinto Bruzzesi, che così annotava nel suo diario il 22 giugno: Missori dice che andiamo a Palermo: Guerzoni crede che si tratti di una spedizione d’intelligenza col governo e che a Messina dovremo prendere le armi. (Questo si legherebbe a certi lavori del Generale Türr per una spedizione in Oriente: egli mi disse [...] che il fatto di Sarnico aveva tutto sventato, perché a quella notizia il governo gli ha tolto l’ordine di prendere 50

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mila franchi per fare gli ultimi preparativi per la partenza di una spedizione in Oriente col Generale Garibaldi, che egli aveva già tutto ordinato ed in Albania, in Grecia, sulle coste della Dalmazia, ovunque esistevano magazzini di viveri e munizioni, che le armi si dovevano provvedere a Messina). Vedremo! Ciò che è certo si è che nessuno conosce il pensiero del Generale. E forse egli stesso non ne ha uno ben deciso o determinato7.

Ancora nel 1883 Ergisto Bezzi, riferendo ad un corrispondente la sua interpretazione degli avvenimenti di vent’anni prima, li ricostruiva in questo modo: erano state avviate trattative per una spedizione in Grecia tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che avrebbe chiesto al sovrano i mezzi per mandare degli inviati a verificare la fattibilità dell’impresa, 10.000 fucili, altrettante camicie rosse e una fregata a sua disposizione a Catania. Secondo Bezzi nessuno aveva mai saputo quale fosse stata la risposta del re, ma pochi giorni dopo Garibaldi partiva con alcuni uomini da Caprera. Giunto in Sicilia, sarebbe stato suggestionato e trascinato dall’entusiasmo suscitato dall’ipotesi di una spedizione verso il continente. «Io e con me molti altri – continuava Bezzi – opiniamo che il re deve aver mancato alle promesse, secondo il solito, e che il Garibaldi si sia gettato allora in quell’impresa. E bisogna credere che sia così», poiché non era pensabile, se avesse già avuto intenzione di andare a Roma, che decidesse di partire dalla Sicilia, mettendosi così in un sacco, ed alla mercé del Governo, quando invece se si fosse presentato nelle Romagne, avrebbe potuto riuscire; e come piano militare, e per elementi migliori, e per la facilità di avere avuto ajuti dall’alta Italia, nucleo dei volontarj8.

Si navigava dunque nel mare delle ipotesi, sulla base di notizie e deduzioni che circolavano all’interno di settori particolari del garibaldinismo – talvolta non in comunicazione gli uni con gli altri –, affidate alla trasmissione privata e spesso, si può supporre, orale. Chi invece sembrava essere a conoscenza fin dall’inizio dell’intento di Garibaldi di dirigersi verso Roma era lo scettico Francesco Crispi, che già nel maggio, prima degli avvenimenti lombardi, aveva raccomandato a Garibaldi di non gettarsi in tentativi ai confini con l’Austria. D’altronde, agli occhi del siciliano, non c’era molto da confidare in Rattazzi, che a Napoli lavorava «a conciliarsi i Borboni e pensa a farne senatori e cavalieri»9. Crispi garantiva comunque a Ga61

ribaldi che avrebbe sempre potuto contare su di lui, qualunque fosse stata la sua decisione: promessa alla quale poi, dal punto di vista politico, avrebbe tenuto fede. Del resto le sue riserve e la vera e propria disapprovazione verso l’impresa di Aspromonte non ne facevano un isolato, anche se forse egli si distingueva per una posizione più lucida e meno ondivaga. Molti altri garibaldini vedevano tutti i rischi del tentativo e si confidavano le loro perplessità. Sono interessanti a questo proposito le riflessioni che, nel luglio, Nicola Fabrizi indirizzava ad Abele Damiani, opponendo resistenza alla richiesta di recarsi in Sicilia. [...] ritengo che per ora il posto migliore mio, e di vari altri, sia alla Camera; il qual terreno potrebbe assai pregiudicarsi abbandonato alla maggiorità; e molto più che le nostre singole individualità, abbandonando la Camera per condursi in Sicilia, ove esercitammo il potere, potrebbe imprimere alla posizione un carattere troppo diverso da quello che abbisogna, e che certo è troppo lontano da ogni mira del Generale. [...] Salutate il Generale per me, e fategli apprezzare in caso opportuno i motivi di delicatezza di posizione e di cose, tanto per dover tenere fermo alla Camera, quanto di non far concorrere individualità, che potessero imprimere per precedenti amministrativi nella Dittatura il sospetto, o dar presa alla calunnia, di uno scopo diverso dal retto, che è quello per certo di rilevare la posizione politica nell’unità, non di alterarla [...]10.

Fabrizi, che in agosto, assieme a Calvino e Mordini, sarebbe stato uno dei tre deputati messi agli arresti a Napoli, sollevava questioni fondamentali e voleva rimanere legato all’idea di una presenza garibaldina in Sicilia in chiave di rinsaldamento del sentimento unitario e di fedeltà ai plebisciti. Come era avvenuto anche nei mesi precedenti, Francesco Crispi – ritenuto molto vicino a Garibaldi – era in questa fase il destinatario di numerose richieste di chiarimenti e di consigli sul da farsi da parte di molti aspiranti volontari, che talvolta lo sollecitavano ad assumere un ruolo più attivo rispetto agli avvenimenti. Ma come Fabrizi, anche Crispi rivendicava la centralità e la priorità del suo ruolo di deputato: irremovibile nel sostenere la rottura definitiva, perlomeno dopo Sarnico, tra Rattazzi e Garibaldi, conscio delle intenzioni di quest’ultimo, di cui non gli sembrava ch’egli facesse mistero, non vedeva l’utilità della propria presenza in Sicilia se non per evitare disordini. A Crispi continuavano a giungere anche le lettere degli ex gari62

baldini rimasti a lungo nei depositi piemontesi nella speranza di un’autentica carriera militare, interna o autonoma rispetto all’armata regolare. È particolarmente emblematica del clima esarcebato e convulso di quelle settimane la missiva che gli indirizzava ai primi di agosto Francesco Sprovieri, ufficiale del Regio Esercito e futuro deputato, indotto a rassegnare le proprie dimissioni dopo la pubblicazione del proclama con il quale re e Ministero delegittimavano l’iniziativa garibaldina: Forse vi meraviglierete che vi scriva, circostanze imperiose mi costringono a rivolgere a voi, per chiedere quei consigli che non me li negherete. [...] Da Torino ho cercato la mia dimissione, mi hanno obbligato d’andare al corpo per darla, appena giunto nel corpo diedi la mia dimissione [...]. [Ma addussero questioni formali per respingerla]. [...] ora loro vogliono umiliarci, avvilirci in tutto. La fusione è stata ed è tutta fittizia e chi ha sangue nelle vene non vi può rimanere, è impossibile gli uomini della Vandea affratellarsi con i figli della rivoluzione, questa gente non ha altro che maniere Loiolesche per avvilirci a me nò per Dio, non rimango neppure se mi fanno Generale d’Armata, o mi danno subito la mia dimissione o bruscerò le cervella a qualche d’uno o pure mi bruscerò le cervella. Io non conosco altro capo che il mio Generale. Come possono pretendere che io rimango dietro quel ordine del giorno del ministro. Andare contro i miei amici e bagnarmi le mani di sangue mai. Immaginate voi in che stato mi trovo, per carità datemi consiglio, aiutatemi acciò io posso ritornare libero come il mio pensiero. Credete a me la fusione non vi regna e chi dei Volontari rimane, ci rimane per il pane e mi fanno schifo si per Dio. Perdonate questa mia lettera sconnessa la mia povera testa non mi regge11.

La lettera era l’espressione di uno stato individuale, ma può assumere un valore emblematico più vasto: ci segnala ancora una volta come il mondo militare fosse uno dei settori maggiormente coinvolti nei sommovimenti indotti dal tentativo di Aspromonte, un termometro fondamentale con il quale misurare la tenuta delle istituzioni del Regno e le contraddizioni interne del nuovo Stato. Oltre agli aspetti politici e agli interrogativi individuali, nel carteggio Crispi emerge a più riprese anche la peculiarità del contesto siciliano: è una consapevolezza per gli isolani, è spesso una stupita constatazione, simile alla fascinazione, in altri. Ed era proprio in nome del genius loci che si poteva invitare il parlamentare a far repentinamente ritorno, in quelle contingenze, nella sua terra. La specificità siciliana consisteva soprattutto nel legame d’eccezione con il garibaldinismo, a cui sarebbero spettate le chiavi della fedeltà dell’isola al go63

verno. Questa convinzione diventava oggetto di riflessioni sospese tra il compiacimento e l’inquietudine, di previsioni apocalittiche sulla tenuta della monarchia sabauda, ma anche di trionfali profezie: Voi, che conoscete l’ascendente magnetico che esercita Garibaldi in Palermo e sulle popolazioni dell’isola comprenderete benissimo che il Governo del Re è sotto il veto ed il placet del Generale: E vi parlo del governo morale, e dell’indirizzo politico dell’isola. Or a me mancano del tutto gli elementi di fatto per decidermi, se il Generale è d’accordo o in disaccordo col Ministero, però inclino per il secondo avviso, da molti indizi. Però temo di più: ho timore che il partito della maggioranza alla quale egli si è buttato in braccio, contento di cogliere Garibaldi in flagranza di insurrezione, di poterlo combattere settecento leghe lontano dai portici di Torino non lo spinga a combatterlo a fronte scoperta, e voi sapete come Rattazzi incominci sempre col barcamenarsi tra i partiti, e finisca poi col buttarsi ai piedi di uno tra i due. Dippiù temo che la Francia irritata non lo induca a tal passo. In tal caso avremo la guerra civile, ricordatevi che Palermo non è Brescia, né l’amore per Garibaldi è uguale a quello dei Bresciani per Nullo12.

Alla fine di luglio, Giuseppe Guerzoni confidava a Mordini da Palermo la sua preoccupazione: giudicava premature alcune dichiarazioni di Garibaldi, riteneva sbagliati i tempi e la base di operazione. «Il partito militare è pronto a tutto», ammoniva, ma registrava nel contempo le trionfali dimostrazioni filogaribaldine di Palermo13. Anche il tiepido Mordini, che avrebbe avuto un non lontano futuro politico moderato, in origine non entusiasta dell’impresa, si faceva presto coinvolgere dalla temperie politica del Sud e si rivolgeva a Crispi con toni sovraeccitati: Caro amico, Vieni via subito. Il movimento dell’Isola è dei più serii per la sua spontaneità e per la sua generalità. Garibaldi ha già 10000 volontarî. È diretto a Catania. La popolazione di Palermo è decisa di dare addosso alla truppa se questa fa movimenti ostili contro Garibaldi. Bisogna che il Ministero dia la sua demissione. Le provincie nap. sono disposte ad accogliere trionfalm. Garibaldi. [...] L’agitazione s’ha da far su larga scala in tutta Italia. Colle diversioni solo possiamo ajutare Garibaldi e rendere possibile una soluzione soddisfacente. Oggi parto per Palermo14.

Lo stesso giorno Mordini scriveva anche a Bargoni e gli comunicava come ovunque, in Italia, si considerasse ciò che stava accaden64

do «una commedia», a dimostrazione di come fosse implausibile l’idea di un contrasto tra Garibaldi e il re15. Giunto in Sicilia, Mordini faceva partecipe il direttore del «Diritto» delle sue ottimistiche previsioni sul comportamento delle truppe, che non solo conoscevano significativi fenomeni di diserzione a favore dei garibaldini, ma, al pari delle camicie rosse, dimostravano una complessiva indisponibilità alla guerra civile16. Giuseppe Civinini, all’epoca assai più acceso di Mordini, in luglio, a Palermo, era ancora molto scettico e inquieto: i siciliani, a suo parere, difficilmente sarebbero stati capaci di tradurre in lotta i loro entusiasmi; avrebbe del resto danneggiato l’Unità un qualunque sommovimento politico nell’isola, mantenuta legata al resto d’Italia dal rispetto e venerazione per Garibaldi; ma se un bel giorno Garibaldi perdesse presso loro della sua autorità, è affar finito. [...] vorrei che fossimo già lontani di qua centomila miglia. Questi sono come i Pindei increduli di che parla il Vangelo: vogliono il miracolo. E se il miracolo non potrà loro farsi, c’è gran pericolo che lapidino il Redentore. [...] la mia vecchia idea prevale ancora: si rovesci violentemente il nord sul mezzogiorno e faccia violenza a questa gente che ha bisogno di essere signoreggiata. Così potrà farsi l’unità; se no, no. Così io penso17.

Ma soltanto due settimane dopo l’ebbrezza lo vinceva e il giudizio sul Meridione quasi si capovolgeva: se alle truppe fosse stato ordinato di attaccare i garibaldini, noi siamo abbastanza forti da poter già resistere; poi la maggior parte dei soldati italiani correrebbero sotto le nostre insegne (già molti e ufficiali e bassi ufficiali lo fecero), e la Sicilia intera per non parlare del resto si leverebbe in rivolta. Dovunque ci avanziamo, i paesi ci accolgono con indescrivibile entusiasmo, e il nostro piccolo esercito è salutato con fraterne acclamazioni. Abbiamo armi munizioni, e già un ordinamento discreto. [...] Abbiamo una compagnia composta della più bella gioventù di Palermo. Il partito moderato stesso appoggia il moto. [...] Le nostre forze si accrescono ad ogni momento. Siamo pieni di fiducia nei sentimenti patriottici dell’esercito, tanto più che ci giungono continuamente disertori, ed annunci, anche da ufficiali, che appena si troveranno a fronte con noi, ci abbracceranno come fratelli18.

La corrispondenza dei garibaldini che scrivevano dalla Sicilia tradiva dunque una profonda suggestione del contesto isolano, di natura ambientale e politica. Chi scendeva al Sud al seguito di Gari65

baldi accresceva politicamente la propria forza per gli investimenti simbolici di cui diventava oggetto, ma allo stesso tempo ne veniva condizionato forse anche a scapito della lucidità. Emblematica è la lettera che Giacinto Bruzzesi, partito da Caprera intuendo appena quale sarebbe stata la sua destinazione, indirizzava il 18 luglio da Trapani all’amico Guastalla: Partiti da Palermo il 16 [...] siamo giunti al Pioppo sul fare del giorno, sortendo dal qual piccolo villaggio principia la salita che finisce al piano di Renna. Il Generale fece quel tratto di strada a piedi: giunto al piano si fermò a ricordare quei giorni che vi passammo nel Maggio del 1860. Quante rimembranze stanno in quel luogo!... [...] Alle 6 circa traversavamo il Borghetto: – sei gendarmi in gran tenuta, erano già ad attendere il Generale: ci furono mandati dal sindaco di Partinico: l’accoglienza in questo piccolo paese fu sensibilissima. [...] il convoglio che si formò al Borghetto era così composto. In testa i militi a cavallo col comandante: un picchetto di soldati in linea avanti i cavalli [...]: ai lati della vettura i sei gendarmi, il popolo in massa da per tutto: – così fino a due miglia da Partinico ove si aggiunse la guardia nazionale con la banda che vestiva la stessa camicia rossa di Palermo, allorché faceva sentire, ai bombardatori del borbone [sic], il nostro disprezzo19.

Se i carteggi non fossero sufficienti a dimostrarlo, la lettura della stampa filogaribaldina può ben illustrare la centralità che proprio la dimensione simbolica assunse nella fase di preparazione e di realizzazione del tentativo concluso sull’Aspromonte. A partire da maggio, dai fatti di Sarnico e di Brescia, «La Campana della Gancia» impostava la propria polemica sull’attualità sul confronto esplicito con gli avvenimenti luminosi del 1860, rispetto ai quali «la benda è caduta, le illusioni svanirono»20. Ancora una volta alla dimensione politica si voleva affiancare un’identificazione geografica del dissenso e una caratterizzazione «regionale» della differenza: Gli uomini che seggono su seggi dorati a Torino, e che non conoscono le altre popolazioni d’Italia, sognano battaglie e vittorie, e come in Torino s’illudono che nelle altre città la loro forza sia preponderante [...]. Ma s’ingannano. [...] Qui in queste meridionali provincie non vi è liberale non vi è italiano che non sia rivoluzionario, chi non volle la rivoluzione era borbonico, chi volle l’Italia fu per la rivoluzione; chi fu una volta per la rivoluzione non può senza mentire a se stesso volerla spenta. Qui sono le memorie de’ fratelli Bandiera, di Garzilli, di Agesilao Milano, di Bentivegna, del 4 aprile,

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del 27 maggio, del 7 settembre, dello sbarco di Marsala, delle battaglie di Calatafimi, di Palermo, di Milazzo, di Reggio, di Capua [...]. Qui insomma la rivoluzione è la sola, la vera sovrana, [...] essa costituisce [...] la forza vera dell’ordine novello, che essa creò, che essa sostiene che essa trascinerebbe con se [sic] nella sua caduta. Il Plebiscito, il gran patto politico delle genti italiane, è parto della rivoluzione, ed essa lo difenderà. [...] A far guerra a noi c’è tutto a perdere e nulla a guadagnare. Noi non saremo i primi ad intimarla, se ci si offre l’accetteremo... e avanti con Garibaldi21.

Si trattava certo, in gran parte, di un quadro di maniera, di un’ostentazione di forza, una provocazione, non del tutto priva, però, di fondamento, se è vero che in Sicilia, nel corso dell’estate, si unirono a Garibaldi anche uomini di fama moderata e vari rappresentanti dello Stato si dimostrarono perlomeno compiacenti nei suoi riguardi. Indubbiamente pesava la convinzione – dura a smentirsi – di una sostanziale connivenza del governo o almeno del sovrano nel tentativo, figlia anch’essa, in qualche modo, del precedente del ’60. Sulle pagine dei giornali, lo scontro si giocava tutto sulle previsioni minacciose, sulla demolizione delle certezze della controparte e sui parallelismi rispetto a ciò che era stato. Per esempio – sosteneva la stampa d’opposizione – i moderati non avrebbero dovuto fare troppo affidamento sul fatto che i soldati, nell’eventualità di uno scontro, tirassero su Garibaldi: tra di loro c’erano molti che lo amavano e che lo avevano seguito nelle sue imprese, numerosi meridionali che avevano appreso da lui il patriottismo22. In quei giorni «La Campana della Gancia», che proseguiva a stento le sue pubblicazioni sotto la crescente pressione censoria, tentava di trarre un significato storico d’ordine generale dalla parabola della politica rattazziana: i tentativi di dirottare Garibaldi verso la Grecia, poi di comprometterlo a Sarnico, gli attacchi alla libertà di stampa e al diritto d’associazione erano tutti sinonimi di tradimento delle proprie radici. Napoleone in premio de’ buoni servizii [...] procura il riconoscimento della Russia e della Prussia, le quali già vedono nel governo italiano sufficiente garanzia per mantener l’ordine in Italia. L’Italia sorta dalla rivoluzione rinnegava la sua origine, sconfessava i suoi amici, tradiva la sua missione, e si collegava al dispotismo. Lo scioglimento della scuola polacca di Cuneo, ove si ospitavano gli sventurati figli

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degli esuli polacchi, bastò solo per dimostrare a quali patti quel riconoscimento ottenevasi.

La colpa di Rattazzi era quella di aver tagliato «in due il programma di Marsala», dissociando monarchia e rivoluzione e ponendo le basi di uno scontro tra le due. [...] la legge di tutti è il plebiscito, dentro la cerchia del plebiscito è lecita l’azione; se lo statuto si volge in carcere dello spirito italiano esso stesso è una violazione del patto nazionale. Il popolo italiano si commise nelle mani della Monarchia, dicendole fate o facciamo; sinora i ministri della monarchia han tutto disfatto, il popolo è rientrato nel diritto di fare23.

Gli assunti dell’articolo suonavano come altrettante parole d’ordine e legittimazioni politiche di azioni extralegali. Vi si rilevava una sostanziale consonanza ideologica con la lettera che Bertani aveva inviato a Garibaldi il 30 giugno, plaudendo alla scelta di far ritorno in Sicilia: la sua visita avrebbe portato sicuri benefici alla causa italiana sia che confortiate codeste dolenti provincie a perdurare nel proposito dei sacrifizii per l’unità e la libertà d’Italia, sia che mostriate loro che i nostri destini già risoluti dal volere della nazione sono troppo superiori alle miserie di infidi ministri ed agli intrighi di estranei faccendieri [...], sia infine che a codeste popolazioni grate ed ossequiose al loro liberatore, voi diciate, come i casi nostri urgentemente reclamano, che oramai spetta principalmente alla volontà popolare il dar compimento al plebiscito [...]. Generale [...] voi sbarcando adesso a Palermo siete nuovamente entrato nella via da tutti noi per lungo tempo ed invano disiata24.

«Equivoco»: questo è il termine e il concetto che dominò la riflessione sugli eventi, mentre ancora si stavano dispiegando. Se i dubbi rispetto alle intenzioni di Garibaldi si sciolsero dopo che il Generale fece proprio il grido «Roma o morte!» lanciato, a quanto pare, da un ignoto a Marsala, a metà luglio, durante una manifestazione, le ambiguità politiche continuarono a dominare lo sviluppo degli avvenimenti. L’equivoco fu anzi l’elemento che innescò e legittimò una concatenazione di azioni miranti a scioglierlo, prima fra tutte la pubblicazione – il 3 agosto – del proclama sottoscritto da re e ministri, che sanciva la dissociazione delle istituzioni dal tentativo garibaldino e configurava una serie di reati. Provvedimento inopportuno agli occhi di molti, gesto impotente; per quasi tutti, comunque, tardivo. Anche «La Perseveranza» – giornale moderato ma fortemente 68

critico verso Rattazzi – pur giudicando il proclama necessario e utile soprattutto nel suo valore simbolico25, ne lamentava la scarsa tempestività26, figlia della complessiva indolenza del governo. Il quotidiano milanese non perdeva occasione per sottolineare l’inadeguatezza del Ministero, penalizzato e paralizzato dal «vizio d’origine» dell’alleanza extraparlamentare con Garibaldi, ma soprattutto richiamava lucidamente l’attenzione su un’ambiguità di fondo che, negli equivoci di quei giorni, aveva soltanto una delle ricadute più vistose. Italia e Vittorio Emanuele. Ecco la formola di tutti i nostri trionfi, dei nostri plebisciti, delle nostre rivoluzioni, la formola accettata da tutti i partiti, il principio del nostro diritto e della nostra costituzione politica. [...] gli Italiani hanno voluto unirsi sotto la monarchia di Vittorio Emanuele, con lo Statuto e con le istituzioni liberali che la circondano. Ne duole grandemente doverlo riconoscere, ma non pare che il generale Garibaldi la intendesse così; pare che egli accettasse l’uomo non il monarca, la persona, non l’instituzione. Questo fatale equivoco pesa sull’Italia, e minaccia nuovamente dividerla [...]. L’unità dello Stato è l’unità del comando. Sia monarchia, sia repubblica, l’idea di due sovrani, di due Imperi, è la negazione dello Stato, è l’anarchia, è il pericolo della guerra civile27. Oggi vuolsi sapere quale dei due abbia sovranità in Italia, se il Re, o Garibaldi, se la monarchia o la rivoluzione. [...] Finché questa suprema quistione non si risolva, trattarne ogni altra diventa impossibile28.

Per «La Perseveranza» si imponeva dunque una chiarificazione definitiva e, soprattutto, la verifica che tutte le parti in causa fossero veramente disposte a confluire in una comune interpretazione della natura dello Stato unitario. Coerentemente con la posizione che abbiamo illustrato, alla fine di luglio lo stesso quotidiano criticava la condotta del marchese Pallavicino – prefetto di Palermo ormai prossimo alle dimissioni – per le sue posizioni eccessivamente concilianti verso Garibaldi e, in special modo, per non aver impedito al Generale di attaccare violentemente, il 6 luglio, Napoleone III e il suo ruolo di baluardo politico e militare del potere temporale di Pio IX29. L’attacco della «Perseveranza» al prefetto chiamava in causa la sovranità e la fedeltà ad un ruolo, ma lo stesso Pallavicino due settimane prima giustificava di fronte a Rattazzi la sua condotta in Sicilia con questa perentorietà: 69

Se Torino conoscesse meglio Palermo, forse l’E.V. non disapproverebbe la condotta da me tenuta. [...] Ella non comprende come io assistessi senza nulla osservare ad un filippica contro il capo di una nazione alleata. Ma poteva io fare osservazioni trattandosi di un discorso accompagnato dagli applausi di 50000 mila spettatori ebbri di entusiasmo ed infiammabili come il loro vulcano? [...] Se l’Oratore avesse ingiuriato il Re, o fallito ai principii proclamati dal Plebiscito, io avrei certamente protestato [...]; ma l’alleanza francese non è un principio, non è un fatto nazionale, è un fatto unicamente ministeriale che può essere diversamente giudicato. Il Generale Garibaldi poteva dunque condannare questo fatto senza offendere le nostre leggi. L’E.V. non s’illuda. Qui esistono tutti gli elementi di una rivoluzione, che scoppierebbe infallibilmente se il Governo si scostasse da Garibaldi. [...] Ecco il pericolo supremo che Torino non conosce e non vuol conoscere30.

Ancora una volta si sottolineava l’irriducibilità del contesto siciliano a qualunque chiave di lettura generale; ma si aggiungeva la rivendicazione delle prerogative della libertà di espressione e il rifiuto di assimilare a un atto eversivo gli attacchi a Napoleone e alla politica del governo31. Una settimana dopo un acceso dibattito alla Camera, il ministro degli Esteri Durando, in uno scambio epistolare con Nigra, concludeva che solo l’azione militare avrebbe potuto disingannare la popolazione siciliana, agli occhi della quale Garibaldi continuava ad apparire sotto il vessillo di Vittorio Emanuele32. In quegli stessi giorni, «Il Diritto» decretava la propria vittoria politica registrando proprio il permanere dell’equivoco, l’incapacità dell’opinione pubblica italiana di concepire una rottura tra il re e Garibaldi33. Per tutto il mese di agosto il quotidiano – così come altre testate democratiche – aveva accompagnato le notizie sulle diserzioni e sugli spiriti malfermi di soldati e ufficiali a ragionamenti sulle caratteristiche di un esercito degno di un regime liberale, figlio della nazione e non solo servitore del sovrano34, traendone favorevoli auspici sulla condotta delle truppe dinanzi ad un eventuale ordine di attacco alle camicie rosse. Dal canto suo, il governo di Parigi, direttamente o per interposta persona, istigava nelle stesse settimane il ministero Rattazzi all’azione repressiva, facendo giungere l’eco della propria sfiducia negli strumenti di controllo del Regno di Vittorio Emanuele, che si sarebbe accinto a subire ad opera di Garibaldi ciò che due anni prima aveva sofferto il Borbone35. Il fronte moderato appariva a tratti disorientato, spaventato dal70

la possibilità che la situazione sfuggisse di mano, frastornato dalle notizie che giungevano dalla Sicilia o da ciò a cui direttamente aveva la possibilità di assistere. Non a caso, nel dibattito parlamentare del 3 agosto, Giuseppe Ferrari aveva ricordato che nei giorni di Sarnico, a Milano, il prefetto e i vertici della Guardia nazionale non avevano saputo come comportarsi, nell’impossibilità di verificare se Garibaldi fosse d’accordo o no col Ministero36: ora in Sicilia e poi in Calabria stava accadendo qualcosa di simile. L’8 agosto il generale Cugia – nuovo prefetto di Palermo – informava Rattazzi che quasi tutti gli impiegati civili tradivano il governo, «molti credendo secondarlo»37, e che ovunque si registrava entusiasmo per Garibaldi e indubitabile disponibilità della popolazione e della Guardia nazionale a schierarsi dalla parte delle camicie rosse. Una settimana dopo il presidente del Consiglio richiamava all’ordine il prefetto di Reggio Calabria e gli intimava di procedere con maggiore determinazione, rendendo noto senza ambiguità che i garibaldini si erano messi fuori legge. Si ha quasi la sensazione che la priorità fosse, comunque, quella di far allontanare Garibaldi dalla Sicilia, dove si temevano le conseguenze di un’azione repressiva diretta sui garibaldini. Era lo stesso Cugia ad aderire a questa visione, anche dopo la promulgazione dello stato d’assedio, paradossalmente decretato quando l’avanguardia dei volontari stava lasciando l’isola38. Egli infatti faceva proprie le convinzioni espresse più di un mese prima dal suo predecessore Pallavicino sul pericolo di sollevazioni insurrezionali a catena39. Le suscettibilità maggiormente ferite da questo stato di cose sembravano essere comunque quelle delle istituzioni militari, la cui immagine era messa in discussione tanto dalla debolezza del governo quanto dagli atteggiamenti degli stessi apparati periferici. Emblematico è il tenore della lettera che il 20 agosto Bottero, direttore e proprietario della «Gazzetta del Popolo», inviava al segretario generale del Ministero dell’Interno Vincenzo Capriolo: L’indignazione a Torino è al colmo. La lettera da Caltanissetta stampata nel Diritto, e che rivela l’incredibile e inqualificabile politica di chi governa in Sicilia ha aggiunto esca al fuoco suscitato dalla notizia dell’entrata di Garibaldi a Catania. Date un esempio: destituite generali ed altri (dico: destituite); altrimenti la posizione è perduta anche nelle antiche province; il proclama del Re, colla politica usata in Sicilia, è caduto nel fango. I militari sono indignati delle figura che s’è fatta fare all’esercito. Insomma, non ho mai veduto un tale fermento dopo il ’4940.

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I fatti di Caltanissetta, dove la Guardia nazionale in armi aveva assistito alle acclamazioni della popolazione verso Garibaldi e i garibaldini, erano diventati il paradigma negativo. Lo stesso ministro della Guerra aveva scritto a Cugia per metterlo in guardia dal ripetersi di simili manifestazioni, poiché i «militari non devono presenziare tanto scandalo. Se non sono in forze per opporsi devono ritirarsi»41. A riprova di quanto fosse fragile la fiducia delle gerarchie nella fedeltà delle truppe, qualche ora prima lo stesso Petitti aveva già telegrafato al prefetto di Palermo, per verificare che avesse dato istruzioni nella previsione che alcune truppe si trovino a fronte od in prossimità di Garibaldi, onde evitare che quegli possa arringarle e col suo ascendente farle mancare al loro dovere. Nessuno dei militari deve trovarsi in contatto con Garibaldi, salvoché i capi sicuri42.

Pochi giorni dopo, il ministro concludeva che qualunque sviluppo sarebbe stato preferibile allo «stato attuale in cui tutti si assuefano [sic] veder Garibaldi ribelle festeggiato ed onorato perfino da autorità Governative e Carabinieri Reali»43. Che «non si rinnovino le scene di Sicilia»: questa la priorità. A tale scopo, Petitti raccomandava ad Alfonso La Marmora – prefetto e poi commissario delle province napoletane durante lo stato d’assedio – di «inculcare a tutte le autorità che Garibaldi è un ribelle, che va trattato come tale»44. Se i vertici dell’esercito erano certamente i più coerenti e risoluti nel sostenere la necessità di un’inequivocabile dissociazione tra l’autorità regia e la componente rivoluzionaria, anche sul fronte democratico non mancava chi si augurava l’esasperazione dello scontro. Tra di essi si inseriva a pieno titolo Giorgio Asproni, che nel suo diario, proprio in data 29 agosto, annotava questi auspici: I mali che deplora Garibaldi [...] hanno origine dal programma di Talamone [...]. Oggi ancora la rivoluzione è paralizzata in virtù di quel programma. Perché la rivoluzione spieghi le sue forze è necessario che la bandiera, sporcata dallo stemma di Casa Savoja, sia lacerata o crivellata dalle palle dei birri della monarchia45.

Dal punto di vista fattuale, se non da quello degli esiti politici, il repubblicano sardo sarebbe stato subito accontentato, anche perché la sua posizione, pur radicalmente divergente, convergeva nei risultati pratici con quella dei vertici militari: 72

Diserzioni e domande dimissioni verificatesi provano necessità finirne. Prolungandosi questo stato – ammoniva il ministro della Guerra – tali fatti si moltiplicheranno e saremmo perduti con ignominia. Solo mezzo uscirne è attaccare bande con energia e risoluzione. Combattimento comprometterà truppe e le manterrà fedeli al Re46.

3. Dopo Aspromonte. Repressione, bilanci, disincanti Da oggi solamente le provincie meridionali cessano di appartenere moralmente a Garibaldi per appartenere all’Italia47.

In questo modo, congratulandosi con il governo del re per il successo ottenuto, Costantino Nigra si congedava il 30 agosto 1862 dal ministro degli Esteri Durando. Scrivendo da Parigi, e in virtù del ruolo istituzionale e delle sue posizioni personali, il rappresentante italiano in Francia esprimeva indubbiamente una visione particolare e parziale; egli coglieva tuttavia nel segno quando chiamava in causa il conflitto latente e recentemente esploso tra l’autorità legittima e un’adesione meridionale al Regno d’Italia che non riusciva a svincolarsi dalla mediazione legittimante e condizionata di Garibaldi. Messisi in marcia dal Bosco della Ficuzza – nei pressi di Piana dei Greci – il 5 agosto, il Generale e i volontari, che raggiunsero nel percorso le cinquemila unità, avevano occupato Catania il 20 di quello stesso mese, approdando cinque giorni dopo in Calabria. Nel tentativo di evitare lo scontro con l’esercito regolare, le camicie rosse si diressero verso l’Aspromonte, mentre i disagi materiali favorivano lo sfaldamento delle formazioni. Il 29 agosto la loro avanzata fu arrestata dalle truppe comandate dal colonnello Pallavicini, di fronte alle quali i volontari rinunciarono sostanzialmente a battersi, assistendo al ferimento di Giuseppe Garibaldi. Erano circa duemila gli uomini sbarcati con lui sul continente; le altre colonne rimaste in Sicilia furono anch’esse disperse e catturate, dando luogo, talvolta, ad episodi sanguinosi ed esecuzioni sommarie. La scelta del governo di percorrere la via dello stato d’assedio dalla fine di agosto, di estenderlo a province per nulla coinvolte dagli avvenimenti e di prolungarlo per quasi tre mesi può essere anche ricondotta ad una ferma e rabbiosa rivendicazione d’autorità, ad un imperativo di segnatura del territorio che si accompagnava alle esigenze concrete dello scioglimento della crisi. Non si trattava semplicemente di un esercizio di forza un po’ miope e sproporzionato alle 73

circostanze, ma di un uso – e spesso di un abuso – del potere dalla profonda valenza simbolica, in una sorta di risarcimento postumo della perdita del controllo sofferta o paventata. La doppia ferita – le truppe che avevano disertato o recalcitrato all’ipotesi di battersi contro le camicie rosse, e le autorità periferiche che avevano agito in contrasto con la linea politica governativa – avrebbe avuto bisogno di essere sanata con la nomina a commissari straordinari per la Sicilia e per le province napoletane rispettivamente di Cugia – cui poi sarebbe subentrato Cialdini – e Alfonso La Marmora, due generali già chiamati in extremis a sostituire i prefetti. Mentre si agiva con durezza in senso repressivo sul territorio e la «società civile», sospendendo gran parte delle garanzie costituzionali, si arrivava invece all’amnistia per Garibaldi e i garibaldini non disertori. Anche se il decreto fu firmato solo il 5 ottobre, fin da subito era parso evidente che non si sarebbe agito nei loro confronti seguendo la prassi corrente e secondo paradigmi strettamente legali. Per lo scioglimento materiale della crisi il governo era parso allinearsi alle sollecitazioni della Francia e alle rivendicazioni dell’elemento militare; nell’individuazione della via di uscita politica prevalsero i suggerimenti dell’alleato48. Dalla fine di agosto, in conseguenza delle scelte governative, si configurò per alcuni mesi una sorta di regressione del quadro politico, in ragione della quale l’area dell’illegalità si ampliò in modo inversamente proporzionale a quanto si restringevano i confini della praticabilità del dissenso. Dopo la promulgazione dello stato d’assedio divennero infatti perseguibili, formalmente o di fatto, comportamenti e orientamenti che, con la nascita del Regno d’Italia, erano divenuti legittimi ed accettabili. Nel Meridione – dove la libertà di stampa era sospesa – non si impedì solo l’arrivo dei giornali democratici, ma anche quello dei fogli antigovernativi di orientamento moderato; le attività associative divennero sostanzialmente impraticabili. Quanto poteva giustificarsi con gli imperativi dell’emergenza prima del 29 agosto, prolungandosi nel tempo assumeva ovviamente il valore di una linea politica. Il caso più eclatante e discusso di protratta violazione delle procedure e delle garanzie personali fu rappresentato dall’arresto, a Napoli, dei tre deputati Fabrizi, Mordini e Calvino. La vicenda unì per quaranta giorni – fino all’amnistia del 5 ottobre – il destino di tre uomini molto diversi, che ben presto avrebbero intrapreso percorsi politici 74

divergenti. Questo microcosmo di carcerati illustri – nessuno dei quali era particolarmente responsabile della radicalizzazione dello scontro – ci suggerisce la necessità di articolare il quadro delle motivazioni sulla cui base ci si poteva trovare coinvolti nei fatti di quell’estate. Si scendeva in Sicilia per far valere le proprie opinioni sul da farsi, per tentare di evitare lo scontro, oppure per dar forza all’iniziativa, qualunque direzione essa prendesse. Del resto Bertani – forse il più entusiasta tra i garibaldini di primo piano – non si recò al Sud e cooperò alla realizzazione dell’impresa da Genova. La decisione di aderire a vario titolo all’azione antigovernativa poteva nascere da un’aspirazione radicale di cui finalmente si intravedeva il compimento, o dalla permanente fiducia nella volontà del governo di trarre profitto, come nel ’60, dalle intemperanze del Partito d’Azione. Sotto la stessa bandiera si poterono schierare i democratici che auspicavano una definitiva rottura con le istituzioni, chi confidava invece in un ricompattamento nazionale, specie con il re, e chi semplicemente cercava un’azione che forzasse ed accelerasse la caduta di Rattazzi e la chiusura del suo fallimentare esperimento. D’altronde il grande equivoco, di cui almeno in parte erano stati vittima le popolazioni meridionali, i funzionari pubblici ed alcuni settori dell’esercito, poteva a sua volta riverberarsi anche all’interno del mondo garibaldino, caratterizzato in prima persona da emblematiche miopie. Com’è ovvio, le riserve sull’impresa, i dubbi, le dissociazioni, le adesioni condizionate, che si esprimevano nella corrispondenza privata, non emersero quasi per nulla nel discorso pubblico, prima e soprattutto dopo il 29 agosto, poiché in Parlamento e sulla stampa il consenso sostanziale a Garibaldi apparve assai più netto. Il progressivo compattarsi del mondo garibaldino attorno al suo leader fu un fenomeno indotto sia da uno stato d’assedio al Sud caratterizzato da prevalenti finalità repressive, sia dal clima generale che si diffuse in tutta la penisola. Entrambi i fattori, suggerendo un’assimilazione tra opposizione e illegalità, imposero indebitamente un marchio di radicalismo a molti settori liberali, inducendo talvolta in essi un crescente distacco rispetto alle istituzioni. Questo far quadrato nei «luoghi» dello scontro pubblico sta anche a significare che, nonostante i contrasti e le disomogeneità interne, il mondo garibaldino era capace di far quadrato di fronte all’emergenza e agli attacchi; indica dunque che rispetto a questa fase ha ancora senso parlare di «partito garibaldino» come di una del75

le chiavi descrittive ed interpretative che solo la breccia di Porta Pia renderà per molti versi inattuale49. La Camera si sarebbe riaperta solo a metà novembre e nel frattempo fu la carta stampata a rappresentare la sede privilegiata del conflitto politico. Contrariamente a quanto era accaduto nei grandi dibattiti precedenti, nell’autunno del ’62 Crispi non fu protagonista in Parlamento; ebbe invece occasione di esprimere e ribadire la propria visione politica nel suo carteggio, che divenne una sorta di tribuna da cui rivolgersi ad un uditorio prevalentemente siciliano. Nell’intensa attività epistolare testimoniata dal suo copialettere, ci appare intento a ridefinire il proprio profilo di uomo pubblico. Ne emergono, da un lato, il desiderio di tastare il polso dell’opinione meridionale, dall’altro, la volontà di consolidare legami personali di stima, fiducia e talvolta deferenza, attraverso i quali riverberare una certa immagine di sé. Ciò che è più interessante è però il bilancio storico e politico che Crispi tracciava, ponendosi in continuità con quanto aveva sostenuto in precedenza. Di fronte al governo Rattazzi riteneva opportuno estremizzare l’atteggiamento che non aveva mai smesso di caldeggiare rispetto agli altri governi moderati: dissociazione netta dal Ministero, fedeltà alle istituzioni, rivendicazione della centralità del plebiscito come fondamento dello Stato. In una risposta a Vincenzo Favara, con il quale condivideva le preoccupazioni per le conseguenze dello stato d’assedio, Crispi condensava tutto il suo pensiero: l’auspicio e la raccomandazione che non si assimilasse il malgoverno al regime unitario, la fiducia nei mezzi legali e nella resa imminente della controparte politica, la volontà di marcare il più possibile la distanza dai suoi fallimenti50: A mio avviso l’unità nazionale fu scossa, ma ne è uscita integra. La violenza, gli arbitrii, le incostituzionalità del partito moderato sono stati un elemento di nuova forza per noi. Dopo gli errori della Luogotenenza ci voleva ancor quest’altra prova: il dispotismo provvisorio. Non possono tirarne che disordine e odio. Il nostro compito è d’incoraggiare i nostri ad aver fede nella stella d’Italia, tenendosi forti al plebiscito. Non compromettiamo una magnifica posizione con imprudenze. La reazione è aux abois; non può reggersi e deve lasciare il terreno a noi uomini della libertà e della legge. [...] Evitiamo le occasioni che i ministeriali desidererebbero cogliere contro di noi. Cancelliamoci pel momento, e lasciamoli soli. Stiamo a guardarli, registrando solo le opere loro51.

Nelle lettere ritroviamo costantemente sottolineato lo spartiac76

que rappresentato dalla nascita del Regno d’Italia, che imponeva a tutti gli attori politici l’impegno per mettere a frutto gli spazi di libertà aperti dalla nuova realtà istituzionale. Sono tanti i giudizii dati su di me in Sicilia dal 1860 in poi, che non mi fanno più alcuna impressione. Io non sono, né sarò mai ministeriale. Questo però non significa che io debba essere rivoluzionario ad ogni costo ed anche contro ragione. Coi Borboni la rivoluzione era una necessità, perché non ci era altro mezzo per liberarsene. Oggi perché rischiare con mezzi violenti quello che abbiamo acquistato, mentre la legge ci dà i mezzi per progredire? Coloro che parlano di rivoluzione è bene avvertirli, che farebbero meglio occuparsi a mandare buoni deputati in Torino, e a scegliere migliori consiglieri municipali e provinciali52.

Prima che la situazione in qualche modo si normalizzasse, consentendo un’esplicitazione parlamentare del conflitto, diversi gruppi del mondo garibaldino, almeno fino all’amnistia di ottobre53, dovettero far sentire la loro voce dalle carceri in cui erano stati trasportati. Gioverà ricordare che alla fine di settembre del 1862, solo nei forti piemontesi e liguri erano reclusi circa 2200 prigionieri garibaldini, tra cui un’ottantina di disertori54. Si trattava di presenze variegate, ma spesso unanimemente indotte a rivolgersi ancora una volta a Crispi come proprio referente. Gli accenti con cui ci si indirizzava a lui erano altrettanto difformi, soprattutto in relazione allo status di chi scriveva, alla sua vicinanza personale al siciliano e all’autorevolezza politica che poteva far pesare. Gli si spedivano lettere semplicemente per informarlo della propria esistenza e della condizione che si stava vivendo, per dichiarare l’immutata disponibilità a nuove chiamate e per garantire di non avere «apostatato la nostra bandiera»55; ma soprattutto per denunciare a chi veniva identificato come il proprio portavoce i soprusi subiti. Era il caso di un garibaldino di Calatafimi, membro del Consiglio provinciale di Trapani, che gli scriveva prima a bordo del vapore in cui era stato imbarcato, poi dal forte di Bard: Prigionieri per assecondare la volontà del nostro Eroe vittima delle armi fratricide, ristarci non possiamo di palesare a lei qual nostro rappresentante i barbari trattamenti avuti prima dalla truppa, or da otto giorni dal Comandante il Terribile. [...] Conservi queste memorie nel suo cuore. Io non posso dettagliatamente darle fedele rapporto delle nostre sventure, lo

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farò in appresso. [...] Ella che rappresenta i nostri diritti in Parlamento, ritenghi come fermo ciò che le abbiamo esposto per riparare ai nostri mali56.

Ma c’era chi poteva permettersi di esercitare tutt’altre pressioni su Crispi, sollecitandolo ad un’inequivocabile presa di posizione. Giuseppe Civinini, redattore del «Diritto», che aveva condiviso con lui la militanza mazziniana e poi garibaldina, scrivendo da Monteratti, uno dei peggiori luoghi di reclusione per le condizioni igieniche e le consuetudini disciplinari, si sentiva legittimato ad alzare i toni: [...] credo che Voi possiate facilmente ed onorevolmente mostrare che non vi distaccaste dai vostri amici politici, i quali debbono molto alla vostra eloquenza ed al vostro coraggio, ma ai quali voi pur dovete qualche cosa. Come deputato, come avvocato, come uomo del nostro partito, voi non potere né dovete restar più a lungo indifferente alla sorte nostra. Se voi lasciate, senza pur protestare, che si maltrattino e si ingiurino i prigionieri di Aspromonte, chi potrebbe difenderli?57 Io non so che sia di coloro che sono chiusi in altri forti; posso soltanto parlare di questi, che meco, dopo essere stati caricati [...] in bastimenti insufficienti per un lungo viaggio a tanta gente, dopo essere stati esposti a tutte le intemperie, tanto che si svilupparono fra loro malattie gravissime, sono chiusi da due giorni in questo forte, dove giacciono in dormitorii umidi, non bastevoli, senz’aria, senza riparo dal freddo, senza vesti [...]. Ne avevamo molti ammalati; gridammo per avere un medico, e il medico è finalmente venuto. Ma ha piantato l’infermeria in due stanze malsane umide, sotto la linea dei terrapieni, ove il tanfo e la mancanza di luce indicano chiaramente che chi vi entrerà malato, ne sarà tratto morto. [...] Vi basti che siamo costretti di soffrire anche per dar luogo alle necessità del corpo, dovendo essere accompagnati ad uno ad uno alla latrina da una sentinella armata. Nessuno di noi ha potuto ancora ricevere una lettera dalla famiglia; e così quasi tutti siamo in cattive condizioni. [...] Io vi prego di fare quel che credete più utile per noi, ma fate. Perché sarebbe non senza vostro rimprovero che la vostra voce non si sentisse quando il governo viola contro di noi tutte le leggi dell’umanità58.

Ma quando il Parlamento si riaprirà, sarà già entrata in vigore l’amnistia del 5 ottobre. La sorte dei garibaldini reclusi avrà smesso a quel punto di rappresentare un problema politico per costituire essenzialmente una questione interna all’esercito. Nel dibattito che si svolse a partire dal 20 novembre gli aspetti istituzionali ebbero un peso significativo, tant’è che si esordì discutendo l’arresto dei tre deputati reclusi a Castel dell’Ovo fino all’am78

nistia. Fu lo stesso Mordini a denunciare l’illegalità subita, la violazione delle garanzie dovute ad un rappresentante della nazione e i presupposti illiberali che stavano a monte di quella condotta. Finché in Italia non si governi per la legge e colla legge, non isperate di veder assodate le istituzioni rappresentative: finché a tutti i cittadini, dal più alto al più umile, dal più chiaro al più oscuro, non sia data la sicurezza di godere i diritti individuali, di esercitare tutti i diritti politici, noi avremo gli ordini dello Stato sempre precari59.

Mordini riassumeva dunque la sorte toccata a lui, Fabrizi e Calvino, fermati a Napoli, mentre si accingevano ad imbarcarsi per Genova, il 27 e il 28 agosto. Liberati da Castel dell’Ovo solo dopo l’amnistia, il loro arresto, in quanto deputati, sarebbe stato giustificato solo dalla flagranza di reato. Tuttavia lo stesso La Marmora, commissario straordinario delle province napoletane, lo aveva motivato con la presenza dei parlamentari in Sicilia a fianco di Garibaldi, in sostanza con «un supposto fatto intenzionale»60. Riflettendo più in generale sulla promulgazione dello stato d’assedio, Mordini ammoniva che al Parlamento, scavalcato e ignorato dal governo61, spettava quindi il compito di restaurare la propria autorità. La condanna al Ministero si espresse però anche da destra: le riserve riguardavano innanzitutto la sua nascita, le alleanze atipiche che l’avevano propiziata, la loro fatale innaturalità. Si rimproverava a Rattazzi di aver sopravvalutato le proprie forze, non tenendo nella debita considerazione tutta una serie di anomalie e specificità del contesto in cui si muoveva e perdendo credibilità. Carlo Bon-Compagni, autore anche di una sorta di instant book sul dopo Aspromonte62, esordiva infatti sostenendo che «le sedizioni non s’impediscono se non coll’autorità morale» ed era proprio questa, innanzitutto, ad essere mancata al Ministero. Non so nulla di più che non sappia il pubblico intorno ai fatti di Sarnico; ma [...] si era diffusa nel paese un’opinione per cui si credeva che il Governo tollerasse ed anche approvasse gli armamenti. Ebbene io domando al Ministero se siasi fatto tutto quello che occorreva per distruggere quest’illusione. Io l’ho trovata sparsa dappertutto intorno a me. [...] Anche qui io dichiaro che non mi viene neanco in mente il sospetto che il signor ministro volesse tollerare una spedizione contro Roma; tuttavia non posso tacere come siasi in Italia e in tutta Europa diffuso il concetto che gli armamenti si tollerassero per un altro fine, per un’altra spedizione. Se ciò fosse, io non potrei abbastanza deplorare l’errore commesso dal Governo, il quale la-

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sciando fare degli armamenti doveva pensare che in mezzo alle passioni che ferveano in Italia, in mezzo agli sdegni generosi che bollivano in petto alla nostra gioventù, era quasi impossibile che non si prorompesse in qualche atto il quale compromettesse la sicurezza dello Stato63.

Ma le ricadute più pesanti delle scelte di Rattazzi avrebbero indubbiamente riguardato il Sud: convenendo su questo aspetto, Massari e De Sanctis sottolineavano che lo stato d’assedio aveva creato nuove difficoltà ai liberali, favorendo di riflesso il brigantaggio, senza riuscire a migliorare la situazione dell’ordine pubblico. D’altro canto, si erano posti «undici milioni di Italiani assolutamente fuori della legge»64, anche in zone per nulla coinvolte dall’iniziativa garibaldina. Le violazioni delle garanzie costituzionali erano state recepite al Sud con molto più sconcerto – continuava Massari – e quasi come una riedizione delle pratiche repressive borboniche. [...] bisogna, o signori, che voi vi rendiate un conto esatto della diversità delle condizioni delle provincie meridionali dalle settentrionali! Qui la lunga pratica della libertà, l’indole stessa del paese, rendono facili certi esperimenti; [...] perché è un paese che ha la coscienza dei suoi diritti, della sua dignità e che sa ben fare la differenza tra l’atto del Governo e le intenzioni che lo ispirano65.

Nelle province meridionali era invece necessario confrontarsi con una minore maturità politica e una meno affinata capacità di discernere gli uomini e le contingenze dalle istituzioni. Francesco De Sanctis riprendeva le argomentazioni di Massari e ne ribadiva in particolare alcuni aspetti: la condanna radicale dello stato d’assedio – di fatto una sospensione della Costituzione – e la necessità che gli schieramenti politici riprendessero la propria naturale configurazione. Ai suoi occhi, gli uomini che si riconoscevano in Garibaldi, vissuti in mezzo alle cospirazioni, alle rivoluzioni, alle sofferenze politiche, hanno il merito di avere con un’ardita iniziativa distrutto ogni dubbio che poteva ancora essere intorno all’unità italiana. [...] senza di loro, come si parla ora di riforme col papa, si parlerebbe forse ancora di riforme con Francesco Borbone. [...] qual meraviglia, o signori! Di questi uomini un gran numero sono rimasti gioventù bollente [...] impaziente d’azione, una specie di cavalleria

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errante che in Italia o fuori correrebbe anche nell’Oceania, anche nel Messico, tutrice delle nazionalità oppresse66.

Che i rivoluzionari facessero i rivoluzionari era dunque accettabile, ma non era ammissibile che la naturale controparte politica non seguisse l’esempio di Cavour, capace di sconfiggere il Partito d’Azione non con gli arbitrii, non con lo stato d’assedio, non con mezzi violenti, non con attentare alla libertà della stampa, [...] al diritto di riunione, ma regalando all’Italia le Marche, l’Umbria e le Romagne. [...] havvi uno spettacolo unico che ha dato l’Italia all’Europa, ed è lo spettacolo di un popolo, il quale dopo di aver compiuto una immensa rivoluzione, dopo di aver [...] lanciato via tre o quattro principi, dopo di aver turbati tanti interessi, di avere, con una rapidità che è sembrata miracolosa, unito insieme Stati per tanto tempo divisi; uscito appena da una così grande rivoluzione, ha potuto avere l’orgoglio di presentarsi dinanzi all’Europa costituito in Governo regolare [...]. [...] Noi dobbiamo stimarci e lavorare ognuno, nei termini della legge, secondo le sue vie al bene del paese; ma avvezziamoci a rimanere ciascuno al suo posto e a non confondere, sotto apparenza di conciliazione, uomini e cose67.

Lo stato d’assedio e il suo protrarsi ingiustificato avevano finito di demolire l’autorevolezza del governo, avevano offerto soprattutto un pessimo esempio, «specie per un popolo ancor giovane nella libertà», suggerendo quasi che in un paese senza libertà della stampa, senza sicurezza personale [...] pur si può vivere, [...] che la libertà non sia poi tanto necessaria. [...] io non trovo nulla di più grave che un Governo il quale [...] usi della forza immensa che la nazione ha messa nelle sue mani per violare le legge [...]68.

Nei dibattiti parlamentari le questioni legate più specificamente all’esercito ebbero uno ruolo secondario rispetto ai nodi politici; tuttavia sia Massari che De Sanctis accennarono ad alcuni episodi che rivestivano un valore emblematico ed erano funzionali ai loro ragionamenti. De Sanctis applicava al contesto particolare dello scontro sull’Aspromonte una considerazione di ordine generale, che metteva a confronto le scelte operate in extremis da Garibaldi con quelle di governo e gerarchie militari. 81

Non è, non è Pallavicino [sic, recte Pallavicini], non sono i bersaglieri, non è Rattazzi che ha vinto. Garibaldi è stato vinto in quel momento dall’amore per il proprio paese e dall’orrore della guerra civile. Ebbene, Garibaldi ha avuto torto, doveva farlo più presto, ma egli ha saputo trovare un limite nella sua azione. [...] Il Governo, dovendo far trionfare la legge, ha oltrepassato il limite che la legge gli assegnava. Se ci fu atto di doloroso dovere che si potesse chiamare sacrificio, fu quello imposto ai bersaglieri che dovettero tirare sui loro fratelli. [...] Ora io non credo che il Ministero abbia sentito la convenienza di serbare un limite, quando ha voluto costringere alcuni di questi soldati a portare una medaglia sul petto che ricorda il sangue fraterno...69.

Un governo che aveva bisogno di calcare la mano in questo modo – sembrava suggerire De Sanctis – era un governo sostanzialmente impotente, che cercava risarcimenti simbolici alla propria inadeguatezza. Il fatale disorientamento e le successive intempestive prove di forza che avevano caratterizzato gli apparati civili e militari venivano invece messi in luce da Massari, che citava l’esempio clamoroso della Brigata Piemonte, da cui erano usciti, in Sicilia a metà agosto, 32 ufficiali dimissionari, alcuni dei quali provenienti dall’Esercito meridionale garibaldino. Il loro allontanamento dal corpo era stato indotto da reiterate richieste da parte dei superiori, che a più riprese avevano prospettato ai loro sottoposti la possibilità di scegliere il congedo, se non fossero stati certi di voler combattere contro i garibaldini: dopo essere stati regolarmente dimissionati essi furono però trasportati al Nord e imprigionati, prima di essere sottoposti al Consiglio di disciplina e destituiti70. Ben prima delle discussioni parlamentari, questa vicenda era già stata oggetto di dibattito sulla stampa, con «Il Diritto» ovviamente in prima linea a difendere con legittime argomentazioni la posizione dei dimissionari71. Era comunque significativo che alla Camera questo esempio fosse stato utilizzato da destra, a riprova del fatto che il caso degli ufficiali dimessisi ad Adernò tra il 16 e il 17 agosto si prestava a valutazioni critiche a vari livelli e da diversi punti di vista. Si poteva innanzitutto riflettere su quale sintomo di fragilità fosse una tale dichiarata insicurezza rispetto alla condotta delle truppe. Che la scelta delle dimissioni ferisse comprensibilmente suscettibilità e orgogli, era a quel punto affare interno all’esercito, e non giustificava in ogni caso l’adozione di provvedimenti punitivi. 82

Essi suonavano, casomai, quasi come un segno di rivalsa da parte di un’istituzione messa in discussione dagli avvenimenti e, indirettamente, dalla linea del Ministero. Per osservare i fatti da una prospettiva interna alle alte sfere militari può essere utile recuperare ciò che, a poche ore dallo scontro sull’Aspromonte, il generale Ricotti scriveva al generale Deleuse. Da tre giorni mi trovo in Catania, dove ho instaurato lo stato d’assedio in tutta l’estensione del termine. [...] Mi giunge in questo momento la notizia che la banda dei ribelli fu completamente disfatta ad Aspromonte, e Garibaldi ferito e prigioniero. Son contento e tutto andò quindi per il meglio [...] e spero che gli animi ben presto si tranquillizzeranno in tutta l’Italia, e più non si parlerà di Garibaldi. Sono molto contento che buona parte di questa vittoria sia dovuta al 4° Regg.to (almeno da quanto mi si dice) perché in tal modo la Brigata Piemonte riacquisterà quel posto d’onore che le spetta e che aveva alquanto macchiato con le molte diserzioni successe, mentre trovavasi ad Adernò e Misterbianco72.

Se oggettivamente l’allontanamento dei 32 ufficiali della Brigata Piemonte non poteva essere assimilato ad una diserzione, come tale in qualche modo veniva percepito; al di là degli aspetti formali, nella sostanza ciò era comunque un imbarazzante sintomo di debolezza, di scarsa affidabilità, che non faceva che confermare ed esasperare le già radicate riserve dei vertici rispetto alle truppe. Soprattutto, quanto accaduto, così come le diserzioni vere e proprie, rimetteva al centro dell’attualità politica il problema dell’autorità morale di Garibaldi, cioè della forza di un modello alternativo di identificazione politica e di obbedienza militare, che fatalmente interferiva con le fedeltà formali. Nell’estate del 1862 le diserzioni superarono abbondantemente le 250 unità, se si fa riferimento alle sentenze emesse dai Tribunali militari di guerra attivi a Catanzaro, Messina e Palermo dopo i fatti73. In molti casi l’allontanamento dai corpi era stato preludio all’unione alle formazioni dei volontari, il che costituiva ovviamente un’aggravante a livello processuale. Ciò che è utile segnalare è il ruolo centrale occupato nelle deposizioni dei disertori dal tema dell’equivoco e dell’illusione: la ricerca di un’attenuante poteva ovviamente essere alla base di queste ricostruzioni, ma i presupposti e gli sviluppi politici degli avvenimenti rendevano plausibile e facilmente utilizzabile una rappresentazione del genere. 83

La vicenda conclusasi il 29 agosto sull’Aspromonte, e per molti prolungatasi in una più o meno lunga detenzione, non sollecitò una grande produzione memorialistica, per comprensibili motivi: sul lungo periodo quella specifica esperienza si adattava maggiormente ai meccanismi della rimozione e casomai, quand’era possibile, veniva inglobata all’interno di una sequenza autobiografica in camicia rossa che dal 1860 poteva spingersi fino al 1866 e oltre. Al ’62 mancava inoltre la battaglia vera e propria74, elemento che di per sé si fissa nel ricordo e sollecita la narrazione: per un volontario, del resto, non riuscire a battersi, a tradurre in atto l’atteggiamento volitivo, è, sul piano fattuale, il fallimento della propria scelta, ciò che fa apparire velleitario quello che si credeva necessario. Nell’immediato però – nell’arco di mesi o di pochissimi anni – gli avvenimenti di quell’estate spinsero alcuni protagonisti a forme di scrittura – spesso esercitate dal carcere – più vicine alle polemica politica, ma non per questo, talvolta, meno intense ed ispirate. Forse il frutto migliore di questo filone a metà strada tra la memoria, il diario e la denuncia accorata è rappresentato dai ricordi di Giuseppe Bennici, garibaldino siciliano che vestì a più riprese la camicia rossa dal 1860 al ’67 e che ad Aspromonte arrivò sostanzialmente da disertore75. Le sue pagine consentono sia di ripercorrere i vari passaggi normativi che coinvolsero i volontari provenienti dall’esercito, sia di mettere a fuoco alcune problematiche. L’opera uscì nel 1865 – quando l’autore era appena tornato ad essere un uomo libero –, introdotta da quel Giuseppe Civinini che abbiamo già incontrato tra i corrispondenti di Crispi e di Bargoni, e tra i garibaldini reclusi a Monteratti nel settembre del ’62. I ricordi di Bennici sono densissimi di fatti e di tematiche, ma le scelte e gli avvenimenti narrati discendevano tutti in qualche modo da ciò che egli dichiarava nell’incipit: Era la notte del 26 maggio 1860 [...]. Fatto prigioniero con l’armi alla mano alli 21 maggio, nei monti di Monreale, caposquadra nelle file dell’insurrezione siciliana, l’indomani io dovea sedere sul banco della giustizia come colpevole di fellonia e di ribellione; e la condanna di morte era sicura. [...] Giuseppe Garibaldi, all’alba dei 27 entrava in Palermo, e dopo tre giorni di fuoco, stragi e rovine annientava le bande borboniche; ed io, pochi giorni avanti segno di oltraggi e patimenti, con ogni sorta d’onori dai medesimi sgherri era reso libero cittadino di libera terra76.

Giurati tra sé e sé «eterna fede ed affetto costante al mio liberatore», lo seguiva fino al Volturno. Due anni dopo, ufficiale dell’eser84

cito regolare, si trovava ad Adernò e veniva posto di fronte all’alternativa di battersi contro Garibaldi «che con la medesima bandiera del plebiscito, marciava alla liberazione di Roma» oppure di rassegnare le dimissioni e di lasciare il campo. Io non possedeva che una sciabola; e il mio avvenire era tutto oramai nella illustre carriera militare. Pur tuttavia [...] deposte le spalline, incontrato Garibaldi in Catania [...] mi riunii ai miei antichi commilitoni di Calatafimi e del Volturno77.

Ancora una volta – e su un piano privato oltre che politico – era il 1860 la radice vincolante delle scelte successive e il loro fattore di legittimazione. Ben presto però l’illusione di rinnovare il recente passato si doveva tradurre nel capovolgimento grottesco e inquietante di ciò che era stato: l’ungherese Eberhardt, due anni prima colonnello garibaldino, ora al comando di un reggimento – il 4° fanteria, da cui lo stesso Bennici proveniva – che si oppose ai volontari sull’Aspromonte; le strade calcate da trionfatori ora ripercorse come prigionieri; la camicia rossa fatta nascondere a forza sotto un cappotto, perché in quei giorni era pericoloso esporla al popolo di Messina; Antonio Dalla Palù, uno dei Mille, tra i giudici del Tribunale di guerra chiamato a decidere della sorte di Bennici, nell’ottobre del ’62: Era un piccolo quadro che rammentava in qualcuno di loro la fuga dall’Elba e la disfatta di Waterloo del vincitore delle Alpi e delle Piramidi, quando i suoi fidi erano condannati dai medesimi commilitoni ormai venduti a’ gigli dei Borboni78.

Condannato, in quanto colpevole di tradimento, alla pena di morte previa degradazione, Bennici cominciava la sua peregrinazione tra le fortezze d’Italia, dopo che la pena capitale, il 26 ottobre, era stata commutata nei lavori forzati a vita: il 29 era a Napoli, a Castel Capuano – «Il 29 ottobre 1860, e alla medesima ora forse, io già montava a cavallo negli avamposti di S. Maria di Capua!»79 –, poi sull’isola di S. Stefano, a un braccio di mare da Ventotene, quindi a Nisida. Qui nel marzo del ’63 apprendeva della commutazione della pena in relegazione a vita, ma solo in maggio veniva trasferito in Piemonte, dove, tra Saluzzo e Vinadio, trascorreva due anni, fino al condono della pena. Le condizioni materiali e il trattamento descritti da Bennici, di per sé pesanti, furono sofferti soprattutto in quanto, da un lato, prodotto di un accanimento politico percepito come iniquo, dall’altro 85

come parte integrante di una volontà di degradazione e di equiparazione allo status del criminale comune. Era questo uno dei nodi fondamentali: l’umiliazione inaccettabile di dover condividere il destino con briganti e camorristi, rispetto ai quali il garibaldino rivendicava la propria identità di detenuto «politico» e la fede patriottica. Le carceri in cui veniva recluso si rivelavano inoltre come la zona d’ombra del Regno di Vittorio Emanuele, dove le nuove garanzie costituzionali non erano entrate e spesso la sorte dei detenuti era affidata a vecchi funzionari borbonici. Esperienza diretta e reminiscenze storiche e letterarie si intrecciavano: Transitando ammanettati per Saluzzo, scorgemmo il monumento innalzato a Silvio Pellico da’ suoi concittadini; e d’ineffabile rammarico ci era il pensare che, nella sua terra nativa, avevamo trovato aguzzini pari se non peggiori di quelli dello Spielberg80.

C’erano aspetti che, per un uomo delle convinzioni e del passato di Bennici, rendevano ancora più odiosa e paradossale la sorte dei disertori di Aspromonte. I settori politici in cui egli plausibilmente si riconosceva denunciavano da sempre la mancata valorizzazione di tutte le forze vive del Paese e gli usi degradanti a cui era sottoposto l’esercito, che ne snaturavano il ruolo sociale. La visione di un reduce di Palestro che in carcere piangeva per la fame81 non poteva che risultare scandalosa per il luogotenente siciliano, così come la dimensione collettiva di quella vicenda: Mi addolorava il pensiero di 200 e più robusti soldati delle varie armi e d’ogni provincia d’Italia – molti già bassi ufficiali e di più decorazioni premiati pel loro valore – ora condannati al patibolo, e non graziati che per essere gettati, a morire di strazio, nelle galere82.

Ovviamente il conflitto materiale e ideale con l’esercito dominò la memorialistica su Aspromonte, con accenti diversi, ma con una sostanziale convergenza su alcuni punti: la sottolineatura di come i garibaldini, il 29 agosto, di fronte alle truppe regie, non avessero sparato, o l’avessero fatto solo quale reazione estrema e contro le direttive di Garibaldi; il rifiuto di assumere questo scontro armato come testimonianza di un tradimento dei garibaldini ai danni del re; lo sforzo di rappresentare la contrapposizione con i soldati del Regio Esercito come prodotto delle colpevoli scelte dei vertici83. Quest’ultimo aspetto si accompagnava talvolta a riflessioni amare e dolenti, talvolta ad atteggiamenti ben più aggressivi. 86

A sentirli compivano il loro dovere. E infatti dacché agli eserciti non è concesso aver opinioni, è loro dovere combatterle tutte! La storia però registri a eterno onore degli uomini della rivoluzione che noi rendemmo le armi. [...] L’intimazione di deporre le armi non poteva essere accompagnata da maggiori umiliazioni. [...] Né s’accorgevano che umiliata con noi era la bandiera gloriosa di Roma e di Varese, di Calatafimi e del Volturno: tutta l’Epopea italiana. [...] il fumo della vittoria li aveva tutti ubriacati. – La prospettiva degli onori e delle decorazioni li aveva dissennati. [...] se noi pure posseduti dal demone dell’onor militare avessimo gittato il nostro bastone nella mischia e combattuto! E forse era meglio! Era forse meglio levare un’immensa ara di morti e salvare la patria – se non la fama. – [...] Forse che non siete i figli della stessa famiglia? forse che non è la stessa bandiera, per la quale avete pugnato e avete vinto? Forse che a Calatafimi non c’incorava l’esempio dei vincitori di Palestro, e a Gaeta non vi tornava alla mente il valore degli oppugnatori di Milazzo? [...] Benché soldati come noi – italiani come noi, avete confuso le vostre gesta gloriose colle avvisaglie meschine della compra sbirraglia. Crocesegnati d’Aspromonte, quel pezzo di metallo che portate sul petto vi brucerà il cuore84.

Nelle righe appena citate s’insinuava provocatoriamente e con un certo compiacimento retorico il rammarico per non essere giunti ad un ben più sanguinoso e drammatico scontro. L’auspicio di un’esasperazione del conflitto poteva provenire, d’altronde, anche da voci più autorevoli. Giorgio Asproni, prima di constatare con disappunto che nemmeno Aspromonte aveva fatto «rinsavire Garibaldi dalla sua malattia di devozione al Re»85, annotava il 31 agosto la mancanza di notizie dello stato di Garibaldi. Meglio che fosse morto. Dalle sue ceneri nascerà il vendicatore. Le acque del mare non basterebbero a lavare la Monarchia del sangue versato in Aspromonte. È là che scrisse colle bajonette la sentenza di proscrizione della dinastia sabauda86.

Si trattava ovviamente di posizioni estreme, che non rappresentavano la linea politica dominante seguita dal mondo garibaldino, specie nelle sue espressioni pubbliche e parlamentari in particolar modo. In quella sede gli oppositori di sinistra di Rattazzi si assunsero il ruolo di difensori dell’Unità e dello Stato, contro la minaccia che, per entrambi, avrebbe rappresentato il governo. Se, attaccato anche da de87

stra, il Ministero era obiettivamente indifendibile, il fatto di Aspromonte e i provvedimenti successivi avevano denunciato però tutta una serie di miopie o di autocensure anche da parte dei garibaldini, molti dei quali, innanzitutto, avevano respinto fino alla fine l’ipotesi che l’esercito potesse veramente sparare. Questa convinzione poteva essere stata alimentata da quanto accaduto per lunghe settimane in Sicilia, quando si era rivelato chiaramente l’ascendente che Garibaldi era capace di esercitare sulle truppe e sulla Guardia nazionale, nel disorientamento complessivo delle autorità militari. In secondo luogo, prima e dopo il 29 agosto agì una sorta di rimozione del ruolo del re: non si accettava che Vittorio Emanuele potesse sottoscrivere proclami antigaribaldini assieme ai ministri, si rifiutava l’idea che egli volesse alla fine allinearsi alla politica di Rattazzi e ai suggerimenti di Napoleone III, si gridò quindi al tradimento e alla strumentalizzazione della figura del sovrano. Di certo nel discorso pubblico ciò poteva essere dettato da una scelta politica, che mirava a scavalcare il Governo e a rivendicare e ristabilire un legame diretto con Vittorio Emanuele, uscendo dall’isolamento. Ma le resistenze ad accettare questa realtà non appaiono del tutto prive di autenticità e di consistenza. Dall’estate del 1862 uscirono politicamente più deboli entrambe le parti politiche. I moderati furono capaci di imporre la propria autorità e la legalità solo uscendo dalla stessa, violando le garanzie costituzionali, scavalcando il Parlamento, creando reati per decreto, attraversando fasi provvisorie di regime eccezionale, cioè con un grave sgretolamento della propria autorevolezza. Il Partito d’Azione, che, al di là delle articolazioni interne, si era comunque identificato nel tentativo di Garibaldi, doveva prendere atto – almeno nell’immediato – della propria sostanziale impotenza: in effetti, nonostante mantenesse la capacità di mobilitare energie, non aveva strumenti sufficienti per tradurre l’entusiasmo e il consenso che in certe contingenze riusciva a suscitare in forme stabili e mature di dissenso politico antimoderato. Del resto, con la sconfitta di Aspromonte falliva anche il tentativo di indirizzare politicamente il malcontento del Sud, di prevenirne le derive antistatali e di saldarlo invece a quegli spiriti antigovernativi che percorrevano parte dell’opinione pubblica di tutta la penisola. Attraverso gli avvenimenti dell’estate 1862 passarono sia la conferma e la sanzione fattuale dei limiti della sovranità nazionale ita88

liana, sia l’affermazione del monopolio della violenza legittima da parte dello Stato, spesso connessa, però, a pratiche repressive incostituzionali. Ciò che accadde fu inoltre l’occasione per tornare a discutere scopertamente sul ruolo che si doveva concedere e attribuire alle forze e ai metodi rivoluzionari perché fossero utili allo Stato. I fatti spinsero infine a riflettere sui caratteri della rivoluzione che aveva propiziato la nascita del Regno d’Italia: non costrinsero solo a chiarire che quella fase doveva considerarsi conclusa, ma anche a verificare che cosa fosse veramente stata, con i suoi limiti, i risultati acquisiti, le attese irrealizzate. L’esercito fu uno degli ambiti al cui interno la vicenda assunse maggiori significati periodizzanti e rivelatori: si impose una definitiva chiarificazione dei ruoli, che portò con sé per molti una caduta delle illusioni. Aspromonte infatti fu l’occasione per espellere definitivamente un certo elemento garibaldino, per sancirne l’incompatibilità e l’estraneità: non tanto attraverso le diserzioni e i provvedimenti che colpirono chi ne era stato responsabile, ma soprattutto perché divenne palese che gli equilibri di forza andavano in una direzione opposta rispetto alle prospettive più radicali di rinnovamento del modello e dell’istituzione militare. D’altro canto, anche nel pluridecennale dibattito sul ruolo e la natura dell’esercito i fatti del 1862 sarebbero ben presto diventati «luogo della memoria» e dello scontro politico, costituendo uno dei richiami fondamentali di quel cosiddetto discorso «antimilitarista» che avrebbe poi assunto Lissa e Custoza come simboli dell’inettitudine dei vertici e dell’inefficacia bellica degli apparati militari, e Aspromonte come emblema della loro efficienza repressiva. In ogni caso, tutti gli elementi di rottura, che sollecitarono una messa in discussione di prospettive e progetti, non determinarono certo l’abbandono di ambigue pratiche consolidate. Il 31 ottobre 1862, Costantino Nigra faceva telegrafare da Parigi al ministro degli Esteri Durando questo messaggio cifrato: Imperatore consiglia il re di non compromettersi in Grecia e di mantenere la più grande prudenza. Non vede inconvenienti che il Governo chiuda gli occhi se dei garibaldini vogliono andare in Grecia e che lasci inviare delle armi e dei soccorsi: ma alla condizione che abbia l’aria di non saperlo87.

Capitolo terzo

Verso la terza guerra d’indipendenza. Limiti e contraddizioni del garibaldinismo disciplinato

1. «Internazionalismo» garibaldino e diplomazia parallela Prima dei fatti d’Aspromonte tutti in Oriente avevano l’occhio all’Italia la quale rappresentava loro, a dirla schietta, il principio della rivoluzione. La necessità di combattere Garibaldi e la soggezione grande in cui rimaniamo (in apparenza almeno) della volontà della Francia scemarono di otto decimi la nostra influenza appo gente poco riflessiva e che spera ogni bene dagli sconvolgimenti europei. Voglio credere che la perdita ci è a molti doppi ristaurata per altri versi. Ma s’io non m’inganno gran parte dell’ingegno politico del Cavour consisteva appunto a dare una stretta di mano ai conservatori ed una ai rivoluzionari e con tanto garbo che ognuno se ne stava contento. Ora, mi sembra che a questi popoli converrebbe dar qualche pegno dell’essere sempre l’Italia fautrice ed antesignana dei più larghi principj di libertà e nazionalità. E uno di tali pegni evidenti credo che sarebbe il prevenire gli altri nel riconoscere ufficialmente questo Governo, il quale poi serba con sufficienza la quiete pubblica e non ha addosso macchia di sangue1.

In questo modo, caldeggiando il riconoscimento del governo greco sorto dopo l’abdicazione di Ottone, Terenzio Mamiani, rappresentante italiano ad Atene, si rivolgeva nell’aprile del 1863 a Emilio Visconti Venosta, giovane ministro degli Esteri. Per la diplomazia italiana, specialmente nelle sue espressioni non ufficiali, il contesto ellenico aveva perso tuttavia, dopo Aspromonte, la centralità rivestita in precedenza, quando progetti e prese di posizione si erano intrecciati alle mire dinastiche d’oltre Adriatico di casa Savoia. Nella lettera di Mamiani emergono due ordini di sollecitazioni, 90

legato l’uno all’imperativo della rispettabilità internazionale, l’altro al recupero di un ruolo d’avanguardia e di riferimento per le istanze liberali e nazionali. Entrambi questi livelli ebbero il loro peso nella concatenazione di eventi che si concluse sull’Aspromonte. Nei mesi precedenti spirito filellenico, ambizioni sabaude, più o meno scoperte trattative diplomatiche mirate a smuovere indirettamente la questione veneta si erano sovrapposti e mescolati nel propiziare una particolare vitalità e una sorta di ipersensibilità dei settori che alimentavano il volontariato in camicia rossa. Se l’azione governativa esercitata nell’estate del ’62 contro i garibaldini era stata dispiegata e salutata come il segnale inequivocabile della volontà e della capacità di controllare le forze rivoluzionarie all’interno dei propri confini, nella primavera del ’63 Mamiani raccomandava un atteggiamento che testimoniasse, a livello europeo, l’immutato spirito simpatetico nei confronti di certe rivendicazioni. Il giovane Regno d’Italia, privo ancora di una politica estera propria e di una posizione diplomatica consolidata, comunicava e operava sul piano internazionale anche e soprattutto attraverso atti e dichiarazioni d’intenti dal valore al contempo concreto e simbolico. Del resto, il riconoscimento sostanziale e formale della stessa esistenza dell’Italia unita da parte di due potenze come la Prussia e la Russia aveva dovuto passare attraverso gesti quali la chiusura della scuola militare polacca di Cuneo, uno degli emblemi delle radici e delle potenzialità rivoluzionarie del Regno, sacrificata sull’altare della normalizzazione. Ma questo stesso stato di isolamento e di marginalità rendeva il contesto più fluido, consentendo all’Italia una libertà di azione, una ricchezza di prospettive, che in parte controbilanciavano la debolezza politica e militare e il deficit di autorevolezza di cui il neonato Stato fatalmente soffriva. In quegli anni, ogni iniziativa o prospettiva armata in camicia rossa si inseriva per lo meno indirettamente in questo contesto, così come ogni progetto di Vittorio Emanuele e/o del Ministero degli Esteri non poteva prescindere dai contatti con i settori garibaldini. Poter contare su Caprera significava, innanzitutto, garantirsi un’impareggiabile capacità di mobilitazione e far tesoro del prestigio e della risonanza del nome di Garibaldi. Si trattava anche d’imbrigliarne l’azione, in sostanza di legargli le mani, come avrebbero detto i mazziniani o comunque la Sinistra più radicale. Oltre che della fama e dei contatti internazionali di Garibaldi, i 91

vertici politici e diplomatici del Regno d’Italia – nel loro agire scoperto e in quello sotterraneo – potevano e volevano farsi forti dell’esempio «cavouriano» di gestione e utilizzo delle forze extralegali, su polacchi, ungheresi, greci irredenti, romeni, slavi del Sud, al contrario e prima dei quali gli italiani vantavano ora uno Stato. Era, al contempo, una rendita di posizione e un’oggettiva condizione di forza, esercitata rispetto a realtà nazionali che alimentavano flussi più o meno ricchi di emigrazione politica. In questo quadro vanno inserite anche le iniziative più direttamente legate alle valutazioni personali del sovrano e ai movimenti di alcuni suoi emissari, talvolta gli stessi di cui si servivano i ministeri. La natura e l’entità degli intrecci tra l’azione diplomatica dispiegata dai settori governativi e la diplomazia parallela facente capo a Vittorio Emanuele sfuggono fatalmente ad una chiara definizione, ma le frequenti discrasie tra questi due livelli dell’agognato protagonismo internazionale dell’Italia non sembrano sempre riconducibili ad un semplice gioco delle parti. Senza voler suggerire con ciò una sostanziale sovrapponibilità tra i progetti garibaldini e le prospettive di re e governo, resta innegabile che, all’interno dei gruppi del Partito d’Azione più vicini a Caprera, tempo, energie e risorse furono di fatto dirottati verso direzioni alternative al perseguimento di una linea autonoma2. Fu uno dei tratti distintivi di un breve arco di anni, in cui anche Mazzini tentò di inserirsi in queste trame. A determinare tali pratiche poteva anche contribuire il retaggio della fase preunitaria, che aveva propiziato la commistione di ruoli e di livelli tra attori istituzionali e componenti rivoluzionarie. Tuttavia, gli accordi preliminari che poterono intercorrere con i garibaldini non erano facilmente in grado di raggiungere un comune terreno politico, anche per le irriducibili differenze di prospettiva con cui ciascuna delle parti si accostava alle iniziative. In effetti di tutto questo consultare, progettare, sondare il terreno non si fece poi nulla, e non solo perché re e governo non andarono mai fino in fondo, ma anche perché lo stesso Garibaldi spesso non ci vide chiaro e non ricevette ragguagli confortanti da parte degli uomini di fiducia inviati a verificare la realizzabilità e la ragionevolezza dei progetti. Oltretutto l’unica iniziativa attuata in quegli anni da gruppi garibaldini al di fuori della penisola non fu affatto concertata con il governo e il re, e si dovette a Francesco Nullo e ad un piccolo gruppo di volontari prevalentemente bergamaschi, partiti nell’aprile del 1863 92

per soccorrere la Polonia insorta. Il loro gesto potrebbe anzi essere interpretato come la reazione alla deriva invalidante della ricerca di una convergenza operativa con i vertici istituzionali, come il segnale politico del rifiuto e dell’incapacità di adattarsi alla perdita di un’autonomia d’azione3. Al di là e al di sotto dei cambiamenti di governo, permanevano linee di tendenza riassumibili in fasi distinte, all’interno delle quali alcune direzioni di interesse prevalevano su altre. Dalla nascita del Regno d’Italia al fatto di Aspromonte si rivolsero progetti e contatti soprattutto verso i Balcani meridionali e la Grecia in particolare4; in seguito la soluzione della questione veneta assunse la priorità, suggerendo di prendere in considerazione per i piani insurrezionali innanzitutto i domini austriaci e le zone adiacenti – dunque l’Ungheria, i principati danubiani, la Dalmazia, tentando del resto di collegare le iniziative all’agitazione polacca del 1863-645. Questa periodizzazione interna presuppone talvolta il permanere, talora l’eclissarsi, di figure dallo status ambiguo, a metà strada tra gli inviati ufficiali e gli emissari segreti sotto mentite spoglie, tra gli idealisti e gli avventurieri. È il caso di Marco Antonio Canini, che avrebbe combattuto tra i garibaldini nel 1866 e che aveva già tentato di trovare terreno propizio per le proprie prospettive politiche di respiro europeo nel Meridione rivoluzionario del 1860, quando per la prima volta era entrato direttamente in contatto con Garibaldi6. Veneziano, attivo nel movimento nazionale almeno dagli anni Quaranta dell’Ottocento, nel ’48-’49 aveva agito a Venezia e a Roma, recandosi poi in Grecia e iniziando le sue peregrinazioni nell’Europa orientale, dove maturò l’idea di un’alleanza tra i popoli soggetti al dominio austriaco e a quello turco, mescolando intenti politici e interessi culturali; rientrato in Italia nel 1859, dopo la liberazione del Veneto si trasferì a Parigi, facendo ritorno in patria solo nel 1873. Il periodo più intenso dei rapporti tra Garibaldi e Canini – che già aveva cercato inutilmente un’intesa con Cavour – si estese dal 1860 al ’62, anni in cui intercorsero stretti contatti anche con Vittorio Emanuele. Per la campagna garibaldina dell’Italia meridionale, il veneziano aveva propiziato l’arrivo di più di 400 romeni – molti dei quali disertori dell’esercito austriaco – che combatterono all’interno della Legione ungherese, ma che, nelle sue speranze, avrebbero dovuto essere l’avanguardia di una successiva spedizione in Transilvania. Nel biennio seguente egli si sarebbe impegnato soprattutto nel 93

tentativo di creare una connessione rivoluzionaria tra l’Italia e il contesto ellenico, che avrebbe dovuto avere come protagonista Giuseppe Garibaldi. Quest’attività si intensificò nel 1862, quando esplose in febbraio la rivolta della guarnigione di Nauplia contro re Ottone e si aprì una sequenza di lotte interne ed insurrezioni che costrinse il sovrano a abbandonare il Paese all’inizio di ottobre7. Risaliva al maggio un significativo incontro a Napoli tra Canini e Vittorio Emanuele, dal quale plausibilmente il primo uscì con l’incarico di verificare la possibilità di collocare Amedeo di Savoia sul trono greco, nell’ambito di un più vasto progetto di convergenza con i popoli dell’Europa orientale in chiave antiaustriaca8. In quella fase, immediatamente precedente alla partenza di Garibaldi per l’Italia meridionale, Canini aspirava quindi ad essere uno dei punti di riferimento per le questioni internazionali sia per il Generale che per il re. Nella sua visione e nelle sue prospettive si incanalavano del resto gli intenti più ambiziosi e incauti del sovrano, a cui altri inviati, le gerarchie militari e il ministro degli Esteri Durando raccomandavano invece una linea più coerentemente conservatrice, rispettosa – almeno nella forma – della solidarietà tra case regnanti. Alla fine di maggio del 1862 – senza che ciascuno dei suoi referenti fosse completamente a conoscenza delle richieste e degli obiettivi degli altri – Canini partiva portando con sé due proclami di Garibaldi alle nazionalità oppresse e una disponibilità di massima a prestare la propria opera militare in quelle terre, il mandato non ufficiale del re e l’incarico – concordato soprattutto con l’emigrazione magiara – di sondare la disponibilità di slavi e romeni ad una soluzione confederale con gli ungheresi. La posizione di Canini, portatore, oltretutto, di un suo preciso punto di vista, non era certo priva di ambiguità, ma trovava una sua coerenza interna nell’illusione che sembrava animarlo: egli, infatti, non vedeva soluzione di continuità tra l’ascesa di un Savoia al trono greco «e l’avvio di un più ambizioso progetto rivoluzionario che doveva portare al crollo dell’Impero turco in Europa con la collaborazione di tutte le popolazioni irredente dei Balcani»9. Fu anche sulla palese impraticabilità di quest’ambiziosa prospettiva che naufragò l’accordo con Vittorio Emanuele e, perso il rapporto privilegiato con il re e con Garibaldi, iniziò il declino del protagonismo di Canini. Se egli riuscì per qualche tempo a farsi contemporaneamente portavoce, nell’Europa orientale, delle prospettive del leader delle camicie rosse e del re, da Caprera si continuava a servirsi autono94

mamente dell’opera di uomini più interni al mondo garibaldino, quali il futuro deputato Francesco Cucchi, uno dei bergamaschi tra i Mille, che prese di nuovo le armi nel 1866 e collaborò l’anno successivo all’organizzazione della spedizione verso Roma. A lungo tra i consiglieri di Garibaldi, fu inviato a Zante e poi nella Grecia continentale già nell’agosto-settembre del 1861 per tastare il polso dell’opinione liberale ellenica e continuò in seguito ad intessere relazioni in tal senso. Quando lo scoppio dell’insurrezione polacca contribuirà – a partire dal gennaio del ’63 – a spostare verso quest’area l’attenzione del mondo democratico e della diplomazia, Garibaldi si varrà dell’azione di altri due uomini di sua fiducia per recuperare notizie attendibili sulla situazione dell’Europa orientale. Si trattava di Giacinto Bruzzesi e Giuseppe Guerzoni, che avevano combattuto in camicia rossa nel ’60 e nel ’62. Entrambi all’epoca di forti sentimenti repubblicani, il primo sarebbe stato di nuovo volontario nel 1866, ritirandosi poi a vita privata; il secondo, segretario di Garibaldi, scrittore, giornalista e futuro deputato, dopo il ’66 l’avrebbe seguito invece anche nel ’67, partecipando poi, nel ’70, alla presa di Roma nello stato maggiore di Bixio. Quando Bruzzesi e Guerzoni fecero ritorno in Italia, alla fine di luglio del ’63, portando notizie sconfortanti sulle reali prospettive di un intervento a supporto di un moto rivoluzionario nell’Europa danubiana, Francesco Nullo – assieme a loro protagonista delle campagne garibaldine in Italia – era già morto in Polonia da quasi tre mesi. Alcuni degli altri volontari italiani, passati indenni attraverso gli scontri con l’esercito russo, raggiunsero il territorio austriaco, ma chi non riuscì a farlo subì la deportazione in Siberia10, ottenendo l’amnistia solo nel dicembre del 1866 e facendo ritorno in patria molti mesi dopo11. Questa sfortunata spedizione non ebbe soltanto una caratterizzazione geografica ben precisa – la maggior parte dei suoi componenti era bergamasca di nascita o d’adozione – ma si realizzò anche attorno ad un gruppo di uomini uniti da comuni esperienze garibaldine e tenuti assieme dal carisma e dall’autorevolezza di Nullo. Dei diciotto volontari che riuscirono a partire dalla città lombarda12, dodici avevano già vestito la camicia rossa nel 1860, dieci dei quali tra i Mille13. Pur non contando, fatta eccezione per Nullo, su relazioni particolarmente strette con Garibaldi, essi avevano partecipato almeno indi95

rettamente del clima di entusiasmo e poi di frustrazione che aveva caratterizzato le settimane di Sarnico e della partenza di Garibaldi per la Sicilia. Del garibaldinismo essi vollero, o comunque finirono col rappresentare il volto alternativo sia all’evoluzione legalitaria di alcuni settori inseriti nella vita parlamentare, sia ai tentativi e alle illusioni di riproporre la connessione tra iniziativa rivoluzionaria e ambiguità regie che aveva propiziato la nascita dell’Italia unita. Innegabilmente velleitaria, l’iniziativa di Nullo ebbe però anche questa valenza emblematica. Egli del resto, dall’inizio del 1863, era stato uno dei protagonisti delle trattative e dei contatti tra Garibaldi e Mazzini, vicino com’era personalmente e politicamente ad entrambi. Fu dopo il chiaro fallimento di questo sforzo di conciliazione che Nullo e i suoi compagni partirono per la Polonia quasi ad incarnare l’insofferenza per lo stato d’impasse in cui versava la democrazia italiana, che non riusciva, dopo Aspromonte, a tradurre in azione le proprie istanze. La sproporzione tra la mobilitazione politica dell’opinione pubblica democratica a favore della causa polacca e il concreto supporto militare che dal mondo garibaldino riuscì ad emergere è una delle testimonianze della crisi e del disorientamento in cui esso versava, specie dopo l’estate del ’62. Eppure la denuncia della sostanziale latitanza del governo italiano di fronte a ciò che stava accadendo nell’Europa orientale fu, nella primavera del 1863, uno dei cavalli di battaglia con cui la Sinistra rivendicò nei dibattiti a Palazzo Carignano un’identità incompatibile con le scelte dei moderati. Ci si potrebbe chiedere come ciò non riuscisse a tradursi in un fattivo protagonismo del mondo democratico rispetto agli avvenimenti polacchi. Una chiave interpretativa può rintracciarsi nella linea sostenuta in aula da Crispi: egli esigeva che fosse lo Stato ad assumersi il ruolo e a far proprie le prerogative e le priorità che erano state del garibaldinismo. Nato dalla rivoluzione il Regno d’Italia, era attraverso le sue istituzioni politiche e militari che doveva ora incanalarsi quell’azione rivoluzionaria, che nei decenni precedenti non aveva potuto che manifestarsi uscendo dalla legalità14. La discussione parlamentare sulla Polonia fu in effetti una nuova occasione per discutere le radici dello Stato unitario e il suo ruolo a livello europeo. Il nostro Governo – aveva denunciato in febbraio Crispi, perorando la necessità di un dibattito parlamentare sul tema – ha smentita la sua origine che è quella della rivoluzione, ha dimenticato che noi ci siamo levati nell’interesse del principio di nazionalità, che noi siamo un popolo rivendicatosi in libertà dopo tanti secoli di schiavitù, e che tutte le nazioni che sono nel-

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la situazione medesima nella quale è l’Italia debbono avere il nostro aiuto, senza di che la nostra stessa causa potrebbe correre pericolo e perire15.

In Parlamento il ruolo più dissacrante spettava ancora una volta a Giuseppe Ferrari, lucido e impietoso nello svelare il contenuto che si nascondeva dietro a formule ormai assurte a parole d’ordine. Io mi servo delle vostre parole; voi avete parlato di concerto europeo, e sta bene. Io conosco l’etimologia di questa frase: [...] questa frase mal dissimula l’altra frase di santa alleanza di coalizione dei re contro i popoli, di lega generale dei sovrani detti legittimi contro la rivoluzione comunque rappresentata. [...] Io so quanto l’Inghilterra possa esserci favorevole, ma non dimentico quale è il senso della parola libertà nella bocca dei ministri inglesi. Per essi vuol dire facoltà di ogni Stato di governarsi da sé [sic] stesso, libero dominio del pontefice in casa sua, dell’Austria entro i suoi confini, della Prussia nel suo territorio, della Russia ne’ suoi deserti. La sua libertà si fonda non sulle idee, ma sui trattati, e solo quando i trattati sono violati, solo allora credesi tutto permesso. [...] essa è legale e noi siamo eslegi, è tradizionale e noi siamo nuovi [...]. [...] Un giorno in un momento di collera e di riscossa la Francia volle modificare i trattati di Vienna, sostituirsi all’Austria e dare, come si dice, un colpo di scopa ai vecchi prìncipi della nostra Penisola: che cosa fece? Accordò al Piemonte una facoltà tale per cui il più piccolo Stato diventerebbe terribile, esiziale al più grande; gli accordò la facoltà di assalire e impedì agli avversari suoi di difendersi e di combatterlo. In altri termini gli disse; tu sarai rivoluzionario, aprirai i tuoi Parlamenti, cospirerai contro tutti i tuoi vicini, sarai centro di tutti i loro emigrati [...]. [...] Io non mi fido di questa politica che mette la ragione di essere dell’Italia fuori dell’Italia. [...] se all’alleanza francese voi non fate corrispondere un moto continuo e correlativo di rivoluzioni interne e di progresso italiano, se non vi rendete potenti con l’arme italiana della libertà, quale sarà l’ultima conseguenza della vostra temerità? Sarà di trovarvi come si trovò già il regno d’Italia del 1813, di trovarvi armati con un esercito temuto, ma col popolo stanco della guerra, esausto dalle imposte, malcontento dappertutto [...]16.

Tra gli oratori d’opposizione, Antonio Mordini era certo il più direttamente inserito nelle trame che si ordivano verso l’Europa orientale e che avevano come protagonisti Garibaldi, il re, la diplomazia e l’emigrazione politica in Italia, specie quella ungherese. Prossimo ormai al deciso ripiegamento politico che l’avrebbe condotto, di lì a qualche anno, ad entrare nei governi moderati, Mordini svolgeva 97

questo ruolo in coerenza con l’obiettivo – proprio di alcuni settori del mondo garibaldino – di scongiurare l’ipotesi di un avvicinamento tra Garibaldi e la più accesa democrazia europea, ancorandone l’azione al beneplacito del re piuttosto che di Mazzini. Tra i vari esuli stanziati più o meno stabilmente nella penisola, la componente magiara era senza dubbio la più significativa ed influente. Molti ungheresi avevano combattuto con Garibaldi nel ’60 e continuavano ad avere rapporti strettissimi con Caprera, senza trascurare i contatti con le più alte sfere istituzionali. Emblematica in questo senso è ovviamente la figura di Türr, aiutante di campo di Vittorio Emanuele e suo inviato nell’Europa orientale in coincidenza con la missione esplorativa garibaldina di Guerzoni e Bruzzesi. Nonostante gli ungheresi – e gli emigrati politici in genere – costituissero un continuo fattore di pressione sulle scelte di politica estera, i governi che si susseguirono dopo l’Unità non vollero rinunciare al rapporto privilegiato con questo gruppo nazionale, coltivato per lo meno dai tempi di Cavour. Non intesero in sostanza privarsi di una risorsa capace anche di garantire all’Italia un punto di riferimento e una base di legittimazione per azioni antiaustriache nell’Europa orientale. Anche per questo si attese fino al 1867 prima di sciogliere definitivamente quella Legione ungherese che, nata ufficialmente nel 1859 e poi rifondata l’anno dopo da Garibaldi, era passata attraverso indiscipline, ammutinamenti e continui trasferimenti17. Tra il ’63 e il ’64 fu proprio Mordini, assieme a Benedetto Cairoli, a curare i rapporti tra Garibaldi e i vertici dell’emigrazione magiara, che a loro volta cercavano un terreno d’intesa con la monarchia18. Erano trattative che ovviamente si intersecavano con altri tentativi di giungere ad un accordo con Mazzini, che tenesse assieme questione veneta e prospettive europee. La necessità – accettata talvolta con insofferenza da alcuni settori mazziniani – di chiamare in causa la leadership di Garibaldi per ottenere adesione a determinati progetti coinvolgeva diversi livelli, dal più alto al più prosaico, dalle manovre della diplomazia parallela all’azione degli arruolatori democratici, impegnati a raccogliere volontari per non meglio precisate spedizioni inducendo anche a disertare dall’esercito. La documentazione del Ministero della Guerra e di quelli di Grazia e Giustizia e dell’Interno testimonia ampiamente tale attività, controllata con particolare inquietudine e talvolta con eccessivo allarmismo. Una di queste vicende ebbe come teatro l’Emilia. Il 17 marzo 1863 il procuratore generale di Bo98

logna informava il Ministero di Grazia e Giustizia dell’opera di alcuni di «mestatori» che eccitavano «i militari alla diserzione, con lasciar credere ad essi la facilità di ottener gradi in Corpi di volontari a formarsi, e largheggiando anche in distribuzioni di piccole, ed anticipate somme di denaro». Essi erano entrati in contatto con alcuni soldati, «onde raccoglierne il numero maggiore che per essi sia possibile, i quali a giorno determinato debbano abbandonare le file dell’Esercito, e seguire gli arruolatori Capi cui essi si fossero affidati». Il luogo deputato a questi contatti sarebbe stato un biliardo, dove affluivano molti militari, «e sembra che ivi con pretestuosa elargizione di bevande e di liquori d’ogni sorta si tenti di acquistare seguaci alla progettata spedizione», la cui meta era ancora ignota. Dapprima si fece credere che fosse per la Grecia; poi si parlò loro della Polonia accennando che fra qualche mese vi si sarebbe recato il Generale Garibaldi; né si lasciò per ultimo di far travedere il progetto di una nuova spedizione nel Napoletano19.

Protagonisti di queste iniziative erano, tra gli altri, alcune ex camicie rosse, Giovan Battista Cattabeni, il romagnolo Eugenio Valzania e un altro uomo dalla vera identità non chiarita. L’azione aveva come terminale Francesco Andreoletti, lanciere di Novara di stanza a Bologna, genovese, anch’egli ex garibaldino. Da più parti si concordava sul fatto che la situazione greca o polacca fosse presa in realtà «a pretesto da simile gente per mantenere e continuare la loro opera di disordine e di anarchia»20, per creare «perturbazioni nello Stato, per abbattere quelle Istituzioni e franchigie costituzionali di cui va gloriosa meritatamente e si compiace la Nazione»21. Al di là dell’allarmismo delle autorità, resta vero che spiriti antagonistici verso l’istituzione dell’esercito permanevano in vasti gruppi garibaldini, specie quelli più vicini a Mazzini. Per esempio, sulle pagine del giornale genovese «Il Dovere» trovavano spazio in quei giorni aspre considerazioni sulle gerarchie militari e sul modello di forze armate che la loro maggioritaria forma mentis presupponeva22. Del resto, se talvolta i fatti potevano denunciare qualche connessione tra mazzinianesimo e garibaldinismo, la strategia politica dominante dei moderati consisteva ovviamente nell’enfatizzare i motivi di separazione tra le due componenti, rappresentando l’una come irriducibilmente eversiva, l’altra apoliticamente nazionale e passibi99

le di evoluzioni legalitarie. Contro questi tentativi di divisione polemizzava anche in quei mesi «Il Dovere», quotidiano di ispirazione repubblicana che ospitava al contempo scritti di Mazzini e di uomini vicini a Garibaldi. Lo spunto polemico poteva essere fornito da una commemorazione mazziniana della spedizione dei Mille svoltasi a Genova, alla quale avevano partecipato tra gli altri Bertani e Guerzoni. [...] devesi cogliere ogni occasione per dimostrare che fra coloro che nel 1860 avevano iniziata e compita la spedizione di Sicilia e coloro che festeggiaronla nel 1863, non corre vincolo alcuno né comunanza, come nulla di comune passa fra i due nomi di Mazzini e di Garibaldi. [...] Voi non potrete separare i principi omogenei né accoppiare i contrari, come non potrete cancellare la storia – Voi non potrete separare chi da trent’anni predicò la iniziativa popolare e combatté la guerra regia in nome della guerra rivoluzionaria, da chi di questa guerra e di siffatta iniziativa è il primo campione e rappresentante vittorioso – Voi non potrete più riaffratellare la monarchia e la rivoluzione dopo Sarnico e Aspromonte, dopo le violazioni dello Statuto, l’abbandono di Roma e di Venezia; non potrete più disgiungere Garibaldi dai suoi volontari, né i volontari dall’educazione rivoluzionaria e dagli istituti democratici, e più sovente repubblicani [...]. Il giorno in cui Garibaldi cessasse d’essere eroe rivoluzionario per divenire soldato regio – lo sappiano bene amici e contraddittori – le trame Bonapartiste in Italia non avrebbero più ritegno23.

Tra la spedizione di Nullo in Polonia e l’inizio della terza guerra d’indipendenza si collocarono il fallimento dei moti nel Veneto e nel Friuli e il viaggio di Garibaldi in Inghilterra, le dimissioni di alcuni deputati della Sinistra – e dello stesso Generale – e la lettera di Crispi a Mazzini. Si tratta di altrettanti punti di snodo all’interno del mondo democratico, di episodi rivelatori di processi di più lungo periodo, di tentativi di porre le basi per un’alternativa al dominio moderato. La lettera di Crispi a Mazzini dell’aprile del ’6524 – in cui il primo articolava e giustificava la posizione già icasticamente espressa in Parlamento nella celebre formula «la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe»25 – ebbe un valore individuale e collettivo. Fu senza dubbio anche l’emblema di una generazione che iniziava ad invecchiare – politicamente e anagraficamente – senza intravedere la possibilità di agire all’interno delle istituzioni, di avere voce in capitolo nella costruzione dello Stato italiano. Ma nell’itinerario personale di Francesco Crispi26 il gesto aveva un sua indubbia e specifica 100

coerenza, e non si può intendere come improvvisa conversione all’idea monarchica. In quello scritto il vero oggetto della riflessione non era il campo delle convinzioni e delle idealità: si discuteva casomai di ruoli, rispetto ai quali le prese di posizione pubbliche non erano che conseguenze necessitate. Crispi riproponeva ancora una volta la centralità del plebiscito, vincolo reciproco tra popolo e sovrano e simbolo della novità della rivoluzione meridionale e del superamento del meccanismo annessionistico. Prescindendo dalle opinioni e dagli assoluti, poneva il problema della fedeltà alle istituzioni come lealtà al patto su cui aveva potuto nascere l’Italia unita e a cui gli stessi democratici avevano chiesto al popolo di affidarsi. Crispi denunciava inoltre che attribuire alla forma monarchica ogni male suonava fatalmente come alibi per l’opposizione e giustificazione per i governi. Una questione di ruoli, appunto, e di priorità teneva separati ormai i due compagni di cospirazione. Crispi, già statista nel modo di pensare se stesso, era definitivamente proiettato verso l’attività istituzionale, che però gli avrebbe fruttato posizioni di rilievo solo molto più tardi; Mazzini ne usciva riconfermato nella sua fisionomia di educatore e simbolo anche di sogni palingenetici, che era tuttavia venuto meno alla sua intransigenza quando aveva voluto partecipare direttamente ai grandi momenti di svolta della storia risorgimentale. Se lo scambio tra Crispi e Mazzini non era esclusivamente un colloquio a due, è anche vero che il primo non parlava solo da una pubblica tribuna: ciò che dichiarava al suo interlocutore sembrava dirlo anche e soprattutto a se stesso, quasi a imporsi una via da intraprendere, bruciandosi il terreno alle spalle. La corrispondenza del siciliano testimonia una ricchezza e complessità di reazioni alla lettera a Mazzini, ma ciò che forse è degno di maggiore attenzione è tutto ciò che segnala, da parte di molti uomini, la percezione di quel gesto come atto liberatorio, che poteva legittimare, attraverso l’autorevolezza di chi l’aveva compiuto, un rapporto meno tormentato con le istituzioni e l’azione diretta al loro interno. Prima di questa pubblica resa dei conti, uno degli avvenimenti di più grande valore simbolico e rivelatore per il mondo democratico era stato il viaggio di Garibaldi a Londra, nella primavera del 186427. Governo, autorità diplomatiche, forze d’opposizione avevano tutti proiettato attese e timori sull’evento. Il trauma per molti versi ancora non decifrato di Aspromonte stava sullo sfondo, imponendo la necessità di risollevare il prestigio politico di Garibaldi, fino all’agosto 101

del ’62 – anche fuori d’Italia – figura luminosa di eroe vittorioso dall’istinto infallibile. Mentre i settori più avanzati del garibaldinismo – Bertani in particolare – intravedevano la possibilità di riannodare l’azione del Generale alle correnti più vitali della democrazia europea – propiziando anche un concreto riavvicinamento a Mazzini – i vertici di governo auspicavano che gli entusiasmi inglesi verso il leader delle camicie rosse si traducessero in un’indistinta solidarietà verso la causa nazionale italiana. Il 29 marzo il presidente del Consiglio Minghetti, turbato in particolare dalla prospettiva dell’incontro tra Garibaldi e Mazzini, dava queste istruzioni al rappresentante italiano a Londra: Garibaldi è un cittadino italiano, che ha reso grandi servigi al paese, che ha commesso una grave colpa della quale è stato amnistiato. È un cittadino italiano né più né meno, e il Ministro d’Italia non ha da fargli visita se non la riceve prima da lui. [...] egli parlerà di politica e dirà sciocchezze, e forse anche improntitudini, alle quali sarebbe doloroso che il Ministro d’Italia si trovasse presente [...]. [...] Per queste ragioni e per tutti gli antecedenti voi non dovete trovarvi a pranzi o a riunioni pubbliche o semipubbliche con lui. [...] Garibaldi ha perduto in Italia molto credito e molto seguito. Egli viene costì per ritrarre dalle accoglienze inglesi quel prestigio che sentiva venir meno. [...] Così sollevato dagli entusiasmi, e assestato dalla pecunia britannica, spera di tornare in Italia colla potenza di far qualche impresa. [...] Mazzini spera di mettersi pienamente d’accordo con lui. Non è facile perché sono entrambi ambiziosi del primato indiviso: pure è possibile, e su questo vi prego di fare indagini e di tenermi informato28.

Pressato da inviati e uomini del suo stesso «partito», latori di raccomandazioni talvolta divergenti, Garibaldi fu indotto da varie sollecitazioni ad una repentina partenza dall’Inghilterra. Pochi mesi dopo si sarebbe trovato di nuovo invischiato in un abortito progetto di spedizione nell’Europa orientale, con la tacita connivenza almeno del re. Mentre la prospettiva stava sfumando, gli stessi gruppi democratici – Bertani in primis – che avevano intravisto luminose sorti dietro al viaggio inglese di Garibaldi si convincevano a far pubblicare sul «Diritto» quest’estremo appello: Avuta certa notizia che alcuni fra’ migliori del partito d’azione sieno chiamati a prender parte ad imprese rivoluzionarie e guerresche fuori Italia, i sottoscritti convinti:

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Che noi stessi versiamo in gravi condizioni politiche; Che nessun popolo e nessun terreno sia più propizio ad una rivoluzione pegl’interessi della libertà che l’italiano; Che le imprese troppo incerte e remote, quali sono le indicate, ordite da prìncipi debbano necessariamente servire più a’ loro interessi che a quello dei popoli; Credono loro dovere, [...] dichiarare: Che l’allontanarsi dei patrioti italiani in questi momenti non può che riuscire funesto agl’interessi della patria29.

Benedetto Cairoli rimproverò a Bertani il gesto come oramai superfluo e comunque improvvido30, poiché esprimeva pubblicamente e quasi ostentava le divisioni del mondo garibaldino, denunciandone l’incapacità di dirimere direttamente al proprio interno le divergenze. La questione rientrò, assieme ai progetti che l’avevano fatta sorgere, ma il suo valore emblematico rimaneva evidente. In quegli anni né il desiderio che l’azione di Garibaldi si connotasse in senso europeo né la preferenza per una linea più schiettamente nazionale avevano significato univoco, ma l’una e l’altra opzione assumevano le più diverse implicazioni. Chi tentava di trattenere l’Eroe dei Due Mondi entro i confini «naturali» della penisola poteva tanto caldeggiare una sua definitiva evoluzione legalitaria, collegandone i movimenti alle scelte del governo, quanto promuovere un’autonoma iniziativa garibaldina e democratica. Allo stesso modo, proiettare la forza mobilitante di Garibaldi in ambito internazionale poteva presupporre la volontà di dare più ampio respiro alla sua azione, ma anche il tentativo di farla coincidere con le manovre del re, della diplomazia parallela, o, più semplicemente, con le strategie palesi di politica estera. Con l’approssimarsi della terza guerra d’indipendenza la situazione cominciava a profilarsi, all’apparenza, molto più chiara, e più nette e obbligate apparivano le scelte di campo. 2. Il 1866 e l’«Obbedisco» Ricostruire sistematicamente il contributo fornito dai volontari comandati da Garibaldi durante la terza guerra d’indipendenza non è l’intento di queste pagine. Esse si propongono piuttosto di mettere a fuoco alcuni nodi del rapporto tra il volontariato patriottico e la cornice istituzionale in cui esso si inserì nella contingenza specifica. Nel 1866 si realizzò la novità di un corpo di volontari garibaldi103

ni affiancati all’esercito regolare e posti nella condizione di agire in collaborazione con esso e alle dipendenze del Ministero della Guerra. Si trattava certo di una soluzione già sperimentata nel ’59, tuttavia il fenomeno ebbe tutt’altre proporzioni e soprattutto si attuò nel contesto dello Stato unitario, che fino ad allora aveva dimostrato di praticare l’emarginazione delle forze volontarie. Tra l’esperienza dei Cacciatori delle Alpi e la primavera del ’66 stavano i precedenti della smobilitazione dell’Esercito meridionale garibaldino e di Aspromonte, che non potevano che alimentare reciproche diffidenze e riserve. Era la prima prova bellica dell’Italia unita, dopo la guerra ingrata e ingloriosa contro il brigantaggio e dopo le reiterate accuse della Sinistra ai moderati di non avere volontà né capacità di mobilitare tutte le energie disposte a battersi. La formula che si scelse per l’impiego dei volontari31 suscitò fin da subito qualche perplessità. Erano ovviamente i giornali della Sinistra ad esprimere le maggiori riserve, accusando in sostanza il Ministero di adoperarsi per «versare manate di ghiaccio in tanto ardore bellicoso»32. Tuttavia «Il Precursore» – giornale palermitano che rappresentava da tempo il punto di vista dell’opposizione costituzionale e di Crispi in particolare –, pur contestando alcuni punti del decreto, si compiaceva di insistere sul suo significato storico, ravvisandovi «un passo che fa il governo verso la nazione e la democrazia, in cui bisogna che metta profonde radici perché viva e sia raffermato e protetto»33. Da sinistra ci si rallegrava di come il Ministero avesse alla fine quasi capitolato, cedendo alle pressioni dell’opinione pubblica e agli imperativi nazionali; da destra si esprimeva invece l’apprezzamento per la scelta di Garibaldi di accettare le condizioni impostegli per guidare i volontari34, mostrandosi finalmente «altrettanto grande nelle civili che nelle militari virtù»35. Durante gli entusiasmi e le fierezze della primavera, «Il Precursore» si profondeva in considerazioni di ampio respiro sullo spirito volontaristico come specificità italiana, come sintomo e simbolo di un itinerario storico e di un profilo civile. Proponendo categorie retoriche che sarebbero state rinverdite prima e durante la Grande Guerra, soprattutto dall’interventismo democratico, il quotidiano illustrava anche i motivi per cui, con tutta evidenza, l’Austria non poteva avere volontari. Il genio dei volontarii italiani, nato fin dal quattrocento, cresciuto colle bande nere, [...] esulato poi e reso grande con Garibaldi nelle lande americane, ritornato col marchio dell’esilio sulla fronte in Italia nel 48 e fatto for-

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midabile nel 49 in Roma [...]; giganteggiando nel 59 e nel 60, oggi nel 66 è destinato a fare quei miracoli che la Nazione e l’Europa si attendono. [...] Il soldato non è l’uomo vestito da una uniforme e fornito da un’arma di precisione. Soldato è il pensiero armato; è il sentimento della nazionalità ridesto ed innalzato all’ultima potenza [...]. Sotto questo riguardo v’è una sproporzione infinita tra l’italiano e l’austriaco. L’austriaco pugna per un idolo dinastico, per orgoglio ed onore disciplinare, per una espressione diplomatica qual è l’impero austriaco. L’italiano combatte non per, ma con un re cittadino, per islancio nazionale e per la integrità ed indipendenza della patria. Ma fra’ combattenti italiani i volontarii figurano, e sono veramente, i giovani di anni e di cuore, d’intelligenza e di braccio che, ad occhi aperti e scientemente, si buttano nelle mischie per morire e sono immortali. [...] Il governo che parte per mire esclusivamente diplomatiche, parte per livore li ha avversati, ora li chiama e li vuole organizzati36. Armi egualmente potenti ha l’esercito dell’Austria; ma non ha l’anima di nessun popolo perché esercito di schiavi che combattono per una decrepita tirannia che agonizza [...]. L’Austria non ha volontarii: non li può avere. Suoi volontarii sarebbero i rinnegati, gli ipocriti, i traditori, i ladri e le spie; ma costoro non si battono. Sono i vermi di un gran cadavere37.

Riassunte le vicende di rivoluzioni e guerre più o meno fortunate – ma sempre politicamente tradite – dal 1820 in avanti, il quotidiano filogaribaldino ammoniva e dettava la strada: Nella terra dei comuni la nazione armata è una necessità, e noi non vorremmo al certo definito in alcuna maniera il numerario dei volontari; quanti hanno braccio che risponda al cuore, tanti pugnino [...]. E tutta questa gente levata per subito e generoso entusiasmo, in armi, sia libera, come le antiche genti germaniche, di proclamare il suo capitano, e correre con esso, come l’amore e l’odio le tira in campo38.

Il 1866, dunque, come quadratura del cerchio, come risanamento e risarcimento di contraddizioni e frustrazioni precedenti: questa era l’ottica che esprimeva la Sinistra non intransigente all’inizio della guerra. Dominava in ogni caso una sorta di strabismo diffuso in virtù del quale non si guardava veramente alla guerra in corso, ma la vista era velata da aspettative, polemiche, speranze, «dover essere» di lungo o breve periodo, da un bagaglio talvolta invalidante – spes105

so fuorviante – di aspettative e discussioni. Si trattava del resto di una guerra attesa, temuta e invocata fin dal 1860. Era anche con queste premesse che si giustificava la nascita di un periodico diretto da Carlo Tivaroni e non a caso denominato «Il Volontario», fondato nel maggio con l’intento dichiarato di denunciare tutti quegli atti che, per cattiva volontà o incapacità di gestione, avessero esposto i garibaldini a soprusi o insensate limitazioni dell’azione39. Ciò che si era proposto, il periodico realmente fece. Commentò gli atti legislativi, sottolineando che le difficoltà organizzative denunciate dal governo di fronte ad un afflusso imprevisto di arruolandi nascondevano in realtà diffidenze politiche; ospitò sulle sue pagine corrispondenze dai luoghi dell’Italia settentrionale e meridionale – la Lombardia e la Puglia – in cui i volontari stazionavano in attesa di essere utilizzati. Si rallegrò per la pubblicazione del decreto con il quale Vittorio Emanuele autorizzava la creazione di 20 nuovi battaglioni di garibaldini, ma attirò nel contempo l’attenzione sulle gravi insufficienze dell’equipaggiamento e sull’inadeguatezza numerica dei quadri40. Nella rappresentazione della vita dei volontari in attesa della guerra coesistevano prosa e ideologia. I resoconti da Bari e dintorni, impietosi nell’illustrare gravi carenze nel vestiario e nelle condizioni igieniche, mettevano però in luce il significato sociale e politico della presenza garibaldina, con la sua mescolanza di elementi colti e popolari, capace indirettamente di indurre l’avvilimento nelle forze reazionarie di quelle terre41. Dalla Lombardia arrivavano invece segnali incoraggianti sullo spirito dei volontari – ancora in gran parte senza uniformi e senz’armi –, ma si coglieva l’occasione per segnalare i rischi di un prolungato stato di inattività. Ma tutto ha un limite; e se non si pensa seriamente ad inviare l’occorrente vestiario e l’armamento, questa ardente gioventù potrebbe aprire l’orecchio alle maligne insinuazioni dei nostri nemici, che non cessano di inculcare la diffidenze e sugerir [sic] loro di atteggiarsi in modo di far oltraggio al governo42.

Il numero del 23 giugno faceva appena in tempo ad annunciare l’inizio della guerra, ma ospitava anche alcune dolorose corrispondenze dalla Puglia. Da Molfetta giungevano le note più dolenti, che possono ben illustrare quella compenetrazione di dura concretezza e di richiami all’ideale che caratterizzava la cronaca dell’attesa. 106

Siamo senza armi, senza vesti, perché? che [...] si abbiano ad obbligare dei poveri giovani a tenersi una camicia sudicia da circa un mese? che si lascino per buona parte scalzi, che si manchi delle gavette pel rancio, dei calzoni, delle coperte, dei fucili [...]? Aggiungi a tutto ciò la fiacchezza delle popolazioni in mezzo a cui siamo; dirò meglio la loro indifferenza; qui non donne lombarde che ci apprestino le tradizionali camicie; qui non liete accoglienze che rispondano al nostro entusiasmo, non generosi che offran carabine, non giovani che vengano a compiere con noi il loro dovere – 2, 5, 10; ecco le cifre dei volontari delle diverse città di questa provincia. [...] desideriamo ardentemente una parola di Garibaldi che ci dica «sarò con voi» desideriamo si cominci presto e non s’incominci senza di noi perché ne abbiamo il dritto. [...] Che gli italiani del settentrione non ci dimentichino; che la rossa camicia non vi manchi; che a noi pure la conceda la generosità dei nostri fratelli di quassù [...]. La salute dei nostri volontari è buona; ma impossibilitati a tenersi puliti è a temersi non si sviluppi qualche affezione cutanea degna compagna dei gentili animaletti che cominciano a visitarci; (non storcano il naso le lettrici) e piuttosto gridino al governo di vestirci. Gli uffiziali sono tuttora scarsissimi; v’han sottotenenti che da soli comandano una compagnia; v’han capitani che comandano un battaglione. Gli elementi principali che compongono il reggimento 8° sono romagnoli, veneti e toscani; il mare che ci si spiega innanzi calma il nostro scontento per essere costì, sperando di varcarlo con Garibaldi43.

Il paradosso di collocare in quei luoghi del Sud uno dei punti di raccolta dei volontari, mentre ben altre sarebbero state le zone d’Italia in grado di offrirne ricchi contingenti; la fiducia di poter essere impiegati sulle coste adriatiche dell’Impero asburgico, unico elemento che giustificasse la scelta di concentrare parte dei garibaldini in Puglia: questi gli aspetti più schiettamente politici che emergono dalle righe appena citate. Mentre distanze immense sembravano dunque separare il Meridione dai territori dove ci si accingeva a combattere, «Il Volontario» salutava l’unanimismo patriottico che avrebbe caratterizzato il Paese di fronte alla guerra, individuandovi un’Italia delle istituzioni e dell’opinione pubblica finalmente conquistata dallo spirito volontaristico della tradizione democratica risorgimentale. [...] i partiti, i programmi sono scomparsi, li ripiglieremo più tardi; per ora l’Italia non ha altro che patrioti e soldati. I più rigidi propugnatori dell’ordine e dei sistemi trovansi accanto ai più fervidi difensori della rivoluzione, del

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socialismo. Il re d’Italia e il capitano del popolo, il generale Cialdini e il colonnello Cairoli, il bersagliere e il volontario, non rappresentano oggi che una sola idea, uno scopo solo: l’indipendenza italiana. [...] [la] Nazione [...] tutta si può oggi chiamare un solo volontario44.

Questo trionfalismo ostentato era profondamente penetrato dagli umori del primo decennio unitario: ruotava attorno all’esaltazione dello spirito volontaristico come risarcimento storico di frustrazioni ancora vive, cercava un immediato riscontro politico, una rendita di posizione da sfruttare nell’attualità e, nel predicare concordia, perseguiva visibilità e protagonismo rispetto alla controparte moderata. Da un lato il re, Cialdini e il bersagliere, dall’altro Garibaldi, Cairoli e il volontario: incarnati in personaggi simbolo e soggetti collettivi, i due fronti contrapposti di Aspromonte, finalmente ricomposti, ma sulla via indicata dalla Sinistra. Una costruzione retorica e un’esibita sospensione dallo scontro politico ben presto messe in discussione dai fatti della guerra reale, che trasformarono ovviamente, anche sulla stampa, gli oggetti della polemica. Le vicende di un conflitto che il governo italiano fu presto indotto a considerare concluso ridussero ad uno spazio temporale ben limitato la fase del protagonismo operativo dei garibaldini e ne ampliarono – in proporzione – le parentesi frustranti dell’inattività in armi prima e dopo gli scontri. Le contraddizioni e i limiti dell’immissione in una guerra «regolare» di volontari non intesi come «professionisti» del mestiere, ma come portatori di attese e investimenti ideali autonomi, trovano vasto riscontro nella documentazione, nelle relazioni che giungevano al presidente del Consiglio Ricasoli sugli umori serpeggianti nelle truppe garibaldine, così come nelle corrispondenze che circolavano tra i vari apparati del Ministero della Guerra e dello stesso Corpo volontari italiani. Era innanzitutto da parte di quest’ultimo che ci si impegnava in un’opera preliminare di selezione e di epurazione tra i volontari:, in cui gli aspetti disciplinari si mescolavano a più banali considerazioni di inadeguatezza fisica degli arruolandi45. La fase che precedette l’inizio del conflitto aveva fornito ai garibaldini molti motivi di malcontento e di irrequietezza. L’inazione forzata e le carenze del trattamento materiale a cui erano sottoposti venivano individuati dalle stesse autorità come fattori di rischio, tali da propiziare, in alcuni casi estremi, l’ammutinamento. Era quanto accaduto il 27 maggio a Como, dove 21 volontari erano stati arrestati per essersi ribellati al loro comandante Clemente Corte. Provenienti nel108

la maggior parte da Genova e Torino, si erano lamentati violentemente della propria condizione, arrivando a scagliare pietre contro il picchetto di volontari che li conduceva a forza all’Ufficio di Pubblica Sicurezza46. Liquidato dagli stessi compagni – a detta dei Carabinieri – come l’atto di una spia austriaca, sempre a Como, a fine maggio, si era verificato un altro piccolo incidente, terminato con l’arresto di un ventottenne torinese, colpevole di aver pubblicamente inneggiato ai tedeschi «perché i nostri ci lasciano morire di fame»47. Commentati con uguale riprovazione dai fogli moderati e progressisti48, i fatti di Como chiamavano in causa il rapporto tra ufficiali e sottoposti, mettevano in luce gli atipici percorsi che talvolta dovevano seguire, all’interno dei corpi volontari, le dinamiche legate al comando e alla subordinazione. La difficoltà – anche per garibaldini gloriosi e indubbiamente autorevoli come Fabrizi, Nicotera o Corte – di far accettare ed eseguire ai volontari ordini non propri ed estranei alla retorica più che alla pratica del garibaldinismo, si traduceva talvolta in rapporti tesi e insofferenze, da parte di uomini formalmente vincolati, nel ’66, da un «contratto» di obbedienza militare, ma rivendicanti, in cuor loro, una certa autonomia di giudizio e di azione. Mentre gli ufficiali avevano tendenzialmente alle spalle una militanza garibaldina o un itinerario patriottico, la grande massa dei volontari – che nonostante gli ostacoli frapposti sfiorò i 40.00049 – era in questo senso più eterogenea, raccogliendo anche una nuova generazione di giovani a vario titolo desiderosi di battersi, ma spesso non legati ai vertici dell’esercito in camicia rossa da esperienze comuni o da frequentazioni politiche. Ciò complicava le cose, poiché metteva a rischio quel tacito patto di fiducia su cui spesso si erano rette le iniziative garibaldine. Era del resto il quadro stesso della guerra regia a determinare un condizionamento insuperabile nei rapporti tra i vari livelli dell’esercito volontario. D’altronde, non per forza disapprovate dai comandanti, le disposizioni e le regole che essi imponevano ai propri uomini ne facevano in ogni caso degli «ambasciatori» di volontà altrui. Pur senza arrivare alla miope conclusione che tra i garibaldini del ’66 le intemperanze e l’indisciplina dovessero rappresentare per forza di cose la regola, è utile tener presente come per un volontario non fosse affatto inconcepibile giudicare i propri superiori e valutarne le scelte e l’attitudine al comando. Plausibilmente consapevole di tutto ciò era lo stesso Giuseppe Garibaldi che, nei proclami e negli ordini del giorno diffusi alle trup109

pe, tentava di consolidare l’idea di una guerra in cui era necessario per i volontari frenare le proprie impazienze, rinunciare a qualcosa di se stessi, mettere tra parentesi parte del patrimonio e dei caratteri di quella tradizione in cui si inserivano, garantendo con la propria persona il senso e l’utilità di quella scelta «disciplinata»50. Ma questa sorta di patto di convivenza subordinata con le istituzioni militari e governative riposava sulla prospettiva della vittoria sul campo o comunque di una prova condotta fino in fondo con coerenza, serietà e nella piena valorizzazione delle forze a disposizione. A fine luglio però era già tempo di bilanci. «Il Dovere» di Genova, pur fedele all’invito di Mazzini ai democratici a cooperare alla guerra regia, fin dall’inizio aveva seguito con attenzione vigile le vicende; ora, in un significativo articolo si decretava la condanna storica della politica estera del Regno e il fallimento di quella che si individuava come «missione italiana in Europa». La nostra guerra [...] al certo non sarà benefica per gli altri popoli [...]: la nostra guerra ha l’impronta dell’egoismo. [...] Siamo in deviazione della missione italiana, perché l’Italia combatte a solo proprio vantaggio. In tal modo non può questa avere quella energia e magica potenza, che si desume dall’anima e dal cuore de’ popoli [...]. [...] Bisogna vincere, e vincere per non perdere i frutti della vittoria mai più, e tanto solo può ottenersi col trionfo di un principio omogeneo alla vita di tutti i popoli; col fare che la vittoria italiana sia vittoria dell’Europa, dell’Umanità. [...] Questa è l’azione benefica per l’Italia e per l’Europa, proclamando la vittoria de’ popoli pel domma riformatore ed umanitario: sovranità della ragione, ricostituzione e fraternità delle nazioni. Non mancano in Italia le forze per uno scopo sì elevato. Abbiamo un esercito giovane e valoroso, con generali di esecuzione generosi ed arditi sui campi di battaglia; abbiamo l’Eroe Garibaldi, che potrebbe quadruplicare con un grido il numero de’ volontari [...]; abbiamo numerosi ed arditi battaglioni di Guardie nazionali; ed in fine abbiamo tutto un popolo, che potrebb’essere ordinato ad una energica difesa interna [...]51.

Non si può certo parlare di semplici echi mazziniani, tanto sono scoperti i richiami al pensiero del genovese. Pur nettamente orientata, qui, in senso democratico, l’idea di un ruolo d’avanguardia dell’Italia sul piano europeo si intrecciava in quegli anni a prospettive meno limpide, che anche alla vigilia della guerra avevano propiziato – per lo meno da parte del re – accordi non formali per un impiego dei garibaldini in Dalmazia. Sempre sulle pagine del «Dove110

re», a fine agosto Aurelio Saffi individuava proprio nella mancata azione italiana oltre Adriatico una delle grandi occasioni perdute del conflitto. Rifiutando di far combattere le camicie rosse in Istria, Croazia e Dalmazia non si erano sfruttate le prospettive aperte dalle simpatie per il nostro Paese, che a suo parere esistevano tra gli slavi. Si sarebbe potuto dare all’Italia indipendenza compiuta, libertà di consigli e di progresso civili e politici in casa propria, autorità morale e prestigio di forza nelle relazioni esterne, esercizio fecondo d’influenze fraterne sulle stirpi illiriche e slave: scala a riprendere la nostra missione storica in Oriente. Un governo nazionale [...] l’avrebbe costituita iniziatrice della emancipazione delle nazionalità, foriera di libertà, d’incivilimento, di progressi pacifici per l’avvenire: le avrebbe assicurato ordine, economia, educazione morale, risorgimento intellettuale, al di dentro; fuori, grandezza ed autorità fondata sulla giustizia, e su naturali alleanze con genti sorelle. Il sistema presente [...] dette [all’Italia] una guerra ignorantemente condotta e ignobilmente perduta, malgrado le nobili prove e il patriottismo de’ combattenti; [...] e le darà: un’indipendenza monca, una pace incerta, e la permanente soggezione all’ingerenza dell’impero francese. [...] Questo ci ha dato il sistema, e forse con premeditato consiglio52.

Lo stesso giorno Mazzini suonava il de profundis, abbandonandosi a considerazioni amare non solo sulle colpe dei governi, ma sullo stesso carattere degli italiani. Non so [...] se tre secoli di tirannide austriaca, spagnola, francese e papale abbiano spento o soltanto assopita l’anima dell’Italia [...]: so che una pace per la quale si riceva da noi, come elemosina di seconda mano, Venezia, e s’abbandonino al nemico il Trentino, i passi dell’Alpi friulane e l’Istria, sarebbe disonore eterno e rovina: so che pace siffatta sta per segnarsi: so che abbiamo una popolazione di 22 milioni, 350,000 uomini in armi, oltre a 30,000 giovani volontari sul campo, Garibaldi loro capo, generali d’esercito ch’erano pochi anni addietro, soldati della rivoluzione e giurati combattenti per l’altrui libertà e per la propria – e che ciò non ostante, né da popolo, né da esercito, né da volontari sorge un fremito generoso che, in nome dell’Italia dica: potius mori quam foedari: tutto fuorché il disonore. [...] Se il giorno in cui vi sarà annunziata la pace alla quale accenno, le vostre città non si levano, non a proteste inefficaci e a lagni puerili, ma a manifestazioni solenni [...] – se Esercito e Volontari non sentono che essi sono anzi tutto, depositari dell’onore della patria nascente – voi non siete, o Italiani, meritevoli di libertà e non l’avrete53.

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Mazzini parlava certo da politico, ma anche e soprattutto da educatore, da profeta e da fustigatore della nuova Italia. Ma anche in chi era maggiormente a proprio agio di fronte alla prosa e agli imperativi dell’attualità, l’incredulità lasciava progressivamente spazio all’indignazione. Nessuna considerazione antropologica, ma una luttuosa presa d’atto delle profonde ferite aperte da una politica inadeguata e incoerente persino con se stessa: ecco quello che si ritrova nella fitta corrispondenza che tra la primavera e l’estate del ’66 Crispi intrattenne con Bertani. Dall’inizio di luglio il quadro era già chiaro, evidenti gli sviluppi degli avvenimenti e, di lì a un mese, gli umori non potevano che oscurarsi: Siamo alla pace. È doloroso il tornarci con una morale sconfitta, vero mancipio della Francia. L’atto della cessione del Veneto a Napoleone, conseguenza della politica servile degli ultimi sei anni, è un insulto che avvelena l’origine della nazione e del quale non possiamo lavarci senza un mutamento radicale nella politica internazionale54. [...] noi siamo forzati a far la pace. Ricorrere altra volta alle armi, sarebbe un errore. Con gli attuali capi, avremmo nuove sconfitte, l’intervento francese e tutto quel cumulo di difficoltà che farebbero pericolare l’unità. [...] Non t’illudere, amico mio: allo stato attuale bisogna subire la pace. È il maggiore dei sagrifizii che a noi sia toccato; ma sta in esso la salute del paese. Non avendo l’ausilio della Prussia noi dovevamo fare una guerra rivoluzionaria. Noi dovevamo ridestare le oppresse nazionalità, chiamarle a vita, ricostituirle, e circondar l’Austria con un incendio popolare che dovrebbe soffocarla. Il ministero attuale ha forza ed impegno ad opera così grande?55 Dobbiamo ricostituire e rilevarla potente e degna di sé di fronte allo straniero. Non vi è tempo da perdere, né vi è da illudersi sulle intenzioni degli interni nemici. Essere Italiano un giorno era un potente desiderio; esserlo oggi, nelle condizioni attuali, è una vergogna56.

Un climax di sdegno e di fiera dissociazione dagli uomini che guidavano l’Italia, assieme alla constatazione che lo stato delle cose consentiva ribellioni solo interiori agli eventi. Non si poteva combattere una guerra come si sarebbe dovuto, perciò era necessario accettarne la conclusione. Le stesse idee, Crispi le esprimeva a Palermo attraverso le pagine del «Precursore», che a metà agosto riteneva appunto necessaria la chiusura di un conflitto che i vertici 112

politici e militari solo a malincuore si erano decisi ad iniziare, lasciando – per cattiva volontà o per inettitudine – i garibaldini senz’armi adeguate, senza equipaggiamento, senz’appoggio dell’esercito regolare57. Approntata un’organizzazione sufficiente per non più di 14.000 volontari – come aveva dichiarato il 21 giugno alla Camera lo stesso generale di Pettinengo – il Ministero della Guerra si era trovato a gestirne quasi 40.00058, vedendosi costretto, a fine maggio, a ordinare la sospensione degli arruolamenti: queste erano state le premesse dell’impiego operativo delle camicie rosse, spia allo stesso tempo di difficoltà materiali, scarsa lungimiranza e pregiudiziali politiche. L’impatto dell’«Obbedisco» di Garibaldi del 9 agosto fu quasi attutito dal trauma più vasto e profondo delle battaglie perdute, della prova fallita, delle terre acquisite per interposta persona e delle valli trentine – uniche conquistate sul campo, dalle camicie rosse – abbandonate; a tutto ciò il gesto del Generale era strettamente legato e in quel contesto di sgretolamento degli obiettivi e delle illusioni andava valutato. Del resto quest’epilogo da «rivoluzionario disciplinato» era già implicito nella scelta originaria di combattere alle dipendenze del governo, poiché le basi formali dell’ingaggio dei garibaldini e del loro leader implicavano l’inestricabile connessione tra l’azione e le sorti dei volontari e quelle dell’esercito regio. Così non la pensava Giorgio Asproni, il repubblicano sardo che – fedele alla sua intransigenza antimonarchica – già abbiamo visto infiammarsi e sdegnarsi di fronte ai grandi punti di snodo della nascita e della giovane vita dell’Italia unita. Asproni riapriva ora la vecchia polemica sulla reale portata degli intenti rivoluzionari di Garibaldi e sull’abbraccio fatale con Vittorio Emanuele. Ma la sua era una posizione radicale, che dagli avvenimenti più nefasti sperava l’esplosione di contrasti esacerbati tra elementi inconciliabili: Il giornalismo – annotava il 12 agosto – continua a flagellare Persano e Lamarmora, anzi va più in sù [sic]. Finalmente si accenna al re e cominciano a mettere in ballo la Monarchia. Era tempo. Sì, lì sta il nodo dei danni e delle onte nazionali59.

E tre giorni più tardi: Siamo scarsi di notizie, tranne l’affare dell’armistizio e della pace che diventa ancora più vergogna. La monarchia ha gittato l’Italia nel fango e non potrà rialzarsi che facendo una sanguinosa rivoluzione60.

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Le corrispondenze indirizzate al Ministero dell’Interno e a quelli della Guerra e degli Esteri ci traghettano attraverso le settimane che dalla fine dei combattimenti conducono alla presa di possesso del Veneto. Il mese di agosto fu una delle fasi più tese, con la sospensione delle ostilità con l’Austria e le lunghe settimane di inattività dei volontari, insofferenti alle manovre e ad una permanenza in armi considerata grottesca e fittizia. Erano anche i momenti dei fantasmi rivoluzionari, quando ai ministeri giungevano notizie allarmanti: non solo la conclusione di una pace non gradita ai garibaldini era ritenuta fattore sufficiente per suscitare in alcuni di essi tentazioni sovversive, ma le prove imbarazzanti fornite dai vertici dell’esercito venivano ritenute argomenti utilizzabili dal Partito d’Azione per indurre all’insubordinazione le truppe regolari demoralizzate. Da Milano si telegrafava l’11 agosto al Ministero dell’Interno, riferendo – da fonte ritenuta attendibile – che, all’annuncio dell’armistizio, Garibaldi intendeva occupare Brescia co’ suoi Volontarj, istituirvi specie Governo Nazionale del quale sarà capo Pianciani, volgere manifesto Nazione, Esercito, flotta, invitarli sbarazzarsi loro Capi inetti, ed affidarsi soltanto a quelli che dichiareranno di accettare movimento rivoluzionario per compiere programma Nazionale, un fac simile di quello che stabiliva del 60 in Sicilia e Napoli, a nome di Vittorio Emanuele, per ora. Brescia è sguernita di truppa, Garibaldi conta radunare intorno a se [sic] un venti mila Volontarj61.

Erano alla fin fine degli spettri, ma umori inquieti serpeggiarono effettivamente nell’esercito volontario e da più parti, tra i democratici in contatto con Garibaldi, si valutò almeno la possibilità di prendere in mano la situazione62. Con la fine della guerra, il malcontento dei volontari era tornato ad essere un tema da cavalcare politicamente per la Sinistra. Sulla stampa non si nascondeva la propria comprensione per le impazienze dei garibaldini: si utilizzavano le corrispondenze dai depositi per ricordare che essi si erano arruolati per «combattere, non per far guarnigioni»63. Il quadro però si faceva più complicato quando la frustrazione prorompeva in astio verso gli stessi comandanti in camicia rossa, chiamati a mediare e a mantenere una minima base disciplinare. Il 13 agosto un dispaccio telegrafico del prefetto di Brescia comunicava al Ministero dell’Interno che un reggimento garibaldino, di fronte all’ordine di una manovra sgradita, si era ammu114

tinato. Ai tentativi di Fabrizi di riportare la calma si sarebbe inneggiato alla sua morte, poi persino a quella di Garibaldi64. Il 19 agosto, in un rapporto al comandante del 6° reggimento dei volontari, si riferivano altri episodi di indisciplina. Da qualche giorno si osservava nei volontari di questo Reggimento una rilassatezza nel servizio e una pronunciata tendenza all’indisciplinatezza ed alla insubordinazione [...]. [...] I disordini in discorso cominciarono a presentarsi prima con continue e ripetute mancanze di disciplina e di subordinazione, poi con replicate esplosioni d’armi da fuoco, sebbene reiteratamente proibite, indi con dimostrazioni e con gridi di abbasso ora questo, ora quello e di evviva alla Repubblica ed alla democrazia65.

Chi scriveva dubitava della reale portata politica della protesta, ma l’uso di determinate formule testimoniava comunque la diffusione e la circolarità di alcune parole d’ordine e chiavi di lettura della realtà, recepite e riecheggiate a vari livelli. Ai primi di settembre, un centinaio di uomini del 2° battaglione bersaglieri volontari, di stanza nel Bresciano si recava a Nuvolento a far visita al 1° battaglione. Ivi giunti tosto si univano ai compagni, ed insieme intuonavano [sic] evviva a Garibaldi, a Mazzini ed alla repubblica. Tali evviva furono sospesi durante il tempo in cui quella gioventù era riunita a banchetto, ma questo terminato, essendo i convenuti in massima parte alterati dal vino, divennero ancor più clamorosi, aggiungendo inoltre [...] parole contro la bandiera Nazionale, che dissero coperta di obbrobrio e di vergogna66.

Il primo settembre veniva inviata da Firenze una relazione al Ministero dell’Interno sui movimenti dei settori democratici: una corrispondenza da Desenzano – ritenuta attendibile – riferiva che «la disillusione è completa nei Volontarii e che l’irritazione è al colmo». Per indurli a lasciare il Trentino si fece credere che si dovevano sgombrare quelle terre per organizzarvi il plebiscito. Poi si apprese più tardi che il paese era stato venduto dalla nostra Diplomazia all’Austria per implorare l’armistizio. Se i Volontarii fossero stati compresi di deferenza per alcuno dei loro Capi avrebbero fatta una sollevazione militare e progredito per proprio conto nelle ostilità contro l’Austria, o fatta una rivoluzione all’interno. Ma non hanno all’infuori di Garibaldi nessuna individualità capace di condurre la cosa, e Garibaldi non vuo-

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le prestarsi a questi conati, e poi non ha più la forza e la mente a tale scopo. Corte fu fischiato dai suoi soldati, La Porta egualmente, Nicotera è diventato l’odio di tutti, volendo imitare Bixio senza avere l’abilità soldatesca, Bruzzese [sic, recte Bruzzesi] e Menotti sono i soli tollerabili fra tutti i Comandanti di Reggimento che abbiano i Volontarii. Come Corpo non possono far più nulla; resta ad essi soltanto di ritornare alle loro case, e prepararsi al momento opportuno per atterrare l’attuale edificio politico. Corre fondata voce che fra i Volontarii Menotti faccia un arruolamento segreto per destinazione ignota, che però si crede possa essere la Grecia. Ma Menotti non ha neppur esso oggi tutto l’ascendente che aveva una volta67.

La conduzione e l’epilogo della terza guerra d’indipendenza, oltre a mettere in discussione la credibilità della classe dirigente al governo e dei vertici dell’esercito, costituirono nuovi elementi di frustrazione per la Sinistra. L’unione del Veneto al Regno d’Italia consentiva d’altronde ai moderati di farsi forti di un bilancio attivo, che perdeva di valore e di significato soprattutto agli occhi di una cultura di ascendenza democratica. Nell’assenza di risultati completamente soddisfacenti, il Partito d’Azione e l’opposizione costituzionale non intravedevano del resto né la prospettiva di sviluppi rivoluzionari né quella di un significativo spostamento degli equilibri di potere. In questa prima prova sul campo di battaglia, lo Stato italiano fu chiamato anche a misurare la propria capacità di gestire politicamente e militarmente l’elemento volontario. Il risultato era stato piuttosto paradossale, concretizzandosi sostanzialmente nella neutralizzazione di questo contributo. Le acquisizioni territoriali nel Trentino furono cancellate dai tempi e dai modi dell’armistizio e dalla necessità di supportare le manovre dell’esercito regolare; le truppe volontarie furono inoltre numericamente limitate rispetto alla mobilitazione potenziale, ma pur sempre superiori alle intenzioni originarie di re e governo. I 38.000 garibaldini che riuscirono ad arruolarsi in poche settimane costituirono un soggetto collettivo complesso, eterogeneo, non riconducibile insomma a rappresentazioni univoche. Ad un risultato quantitativamente così consistente poterono contribuire vari fattori: non erano più i tempi dell’Italia preunitaria, in cui combattere per il tricolore significava disertare o espatriare; non erano neanche i giorni dell’estate 1862, quando tutto – partenze, organizzazione militare, legittimazioni di una scelta – si giocava sul filo sottile dell’ambiguità e del non detto. Quella del ’66 era una guerra 116

combattuta ufficialmente, così come espliciti erano l’autorizzazione all’arruolamento e il riconoscimento del ruolo di Garibaldi. Tra i volontari alcuni, forse, avevano accettato di combattere nonostante si trattasse di guerra regia, ma il loro numero testimoniava che vasti settori di opinione pubblica erano disposti ad aderire direttamente a un’iniziativa di matrice nazionale concertata tra il governo e il leader della democrazia. Del resto, il ruolo carismatico di quest’ultimo non è assolutamente da sottovalutarsi, così come la sua capacità di calamitare ancora a lungo spiriti trasgressivi. Tra i volontari della terza guerra d’indipendenza c’erano plausibilmente giovani cresciuti col mito di Garibaldi come eroe vittorioso, nonostante il fatto di Aspromonte, che paradossalmente aveva finito per consolidarne il monumento; non è senza senso supporre che l’esperienza frustrante del ’66 abbia contribuito a condurre alcuni di loro a Mentana. La guerra del ’66 finì infatti con l’inasprire lo scontro tra moderati e democratici. Emersi tutti i limiti e le contraddizioni di un uso disciplinato delle camicie rosse, Garibaldi e i reduci continuarono ad essere percepiti come veicoli e simboli di opposizione, anche negli equilibri delle nuove province italiane. La corrispondenza del presidente del Consiglio Ricasoli può fornire numerosi esempi di quello che i vertici politici pensavano dell’elemento garibaldino nell’autunno del ’66 e nei primi mesi dell’anno successivo. A Venezia i volontari smobilitati venivano individuati come elementi di perturbazione dell’ordine pubblico. La visita dello stesso Garibaldi nella città lagunare, all’inizio del ’67, sollecitò reazioni significative: insensibile ai suggerimenti di inviati e rappresentanti del governo italiano, disponibili a promuovere più ampie basi di consenso attraverso la figura del comandante delle camicie rosse, Ricasoli raccomandava la più rigida distanza e casomai segnali di dissociazione. Niente insomma che potesse contribuire a far apparire anche «rispettabile» una figura già di per sé carismatica ed ingombrante68.

Capitolo quarto

Alle porte di Roma

1. Un altro Aspromonte? Ritratti e vicende dei garibaldini del 1867 Dalla primavera del 1866 all’autunno del ’67 non ci fu soluzione di continuità nella mobilitazione del Partito d’Azione e di vasti settori garibaldini. Prima una sorta di campagna interventista ante litteram, tesa a tradurre in scontro armato il conflitto latente con l’Austria e a mettere alla prova la forza e la tenuta anche militare del giovane Regno d’Italia; poi l’impegno diretto nella costituzione e nella conduzione del Corpo volontari italiani; quindi la partenza di alcuni gruppi – talvolta reduci dalla terza guerra d’indipendenza – e dello stesso Ricciotti Garibaldi verso la Grecia, dopo lo scoppio dell’insurrezione cretese1; infine, tra la primavera e l’autunno del ’67, una sequenza e un crescendo di progetti preparatori e di iniziative armate verso Roma, che videro la partecipazione diretta di Giuseppe Garibaldi solo nella loro fase estrema. I tempi e i modi in cui si svolse la spedizione conclusa a Mentana rendono difficile, anche a posteriori, determinare con precisione la consistenza numerica delle forze; si può comunque sostenere che a fine ottobre, quando ebbero inizio gli scontri decisivi con il Generale finalmente alla testa delle truppe, egli poteva contare complessivamente su circa 9000 uomini armati, rispetto ad un effettivo di quasi 12.0002. A differenza dell’episodio di Aspromonte – fulmineo nel suo tradursi alla fine in azione e nel suo esaurirsi poi forzatamente – quella del ’67 fu una vera e propria campagna militare, sep118

pur di limitate proporzioni. Contrariamente a quanto accadde nel ’62, l’azione garibaldina non seguì una direttrice unica, ma si realizzò convergendo verso Roma attraverso diversi percorsi, che videro coinvolte direttamente vaste zone dell’attuale Lazio e dell’Umbria. Si trattò di una spedizione che, pur realizzata in tempi e modi discutibili e per certi versi precipitosi, fu a lungo preparata e minacciata esplicitamente come atto indirizzato contro lo Stato pontificio, contro il suo dominio su Roma e il suo regime illiberale. L’anticlericalismo ne fu insomma una cifra distintiva: un anticlericalismo che oramai non era più quello su cui era stato indotto a convergere tutto il fronte liberale della fase risorgimentale post ’48, ma che si connotava in senso più acceso e mescolava cultura repubblicana e alcuni caratteri del radicalismo ottocentesco, assumendo l’aspetto di un antagonismo politico. Dopo il fallimento dell’impresa, a fine novembre venne pubblicata sulla stampa la lista dei quasi 1800 garibaldini – un quinto degli effettivi documentati per la fine di ottobre – fatti prigionieri dalle truppe pontificie. Per la stragrande maggioranza si riportavano età, professione e provenienza. L’elemento geografico è il primo dato che colpisce l’attenzione, rivelando una nettissima preponderanza dell’Italia centrale: le Marche da sole davano più di un quarto di questi volontari; con l’Umbria, la Toscana e l’Emilia-Romagna si arrivava a coprirne quasi il 70%. A nord del Po solo la Lombardia forniva un contingente di uomini consistente. I territori ancora sottoposti al dominio temporale di Pio IX davano nel complesso 63 prigionieri, di cui 30 romani. Da questi dati emerge chiara l’immagine di una spedizione che si alimentava essenzialmente di forze espresse dai territori stessi in cui si stava organizzando e che stava percorrendo, radicandosi profondamente negli umori delle terre adiacenti al residuo dominio pontificio, a loro volta sottratte da pochi anni al controllo diretto o indiretto della Roma papale. Era il caso di Ancona, la città più rappresentata con 131 prigionieri, seguita da Firenze, Bologna, Teramo e Terni, tutte con più di 50 garibaldini catturati. Non era per nulla trascurabile la presenza di molti piccoli e medi centri, capaci di fornire, proporzionalmente, numeri significativi: erano ancora l’Umbria, le Marche e la Romagna a distinguersi in questo senso, in particolare con Foligno3, Orvieto, Loreto, Jesi, Fabriano, Macerata, Senigallia, Rimini, Ravenna, Lugo; paesi come Cotignola e Santa Sofia, entrambi romagnoli4, fornivano assieme più di 40 prigionieri. 119

Tra queste camicie rosse la componente artigianale era indubbiamente prevalente e superava nel suo insieme sia quella studentesca che la categoria vaga del possidente: erano numerosissimi i calzolai, i muratori, i falegnami, i sarti e i caffettieri. Un vasto e vario mondo di piccole attività fra il tecnico e il commerciale, settori dotati di una propria professionalità. Tra i prigionieri di cui conosciamo i dati anagrafici, più del 70% aveva un’età compresa tra i 14 e i 25 anni, più del 36% non aveva superato i vent’anni, mentre solo il 14% ne aveva più di trenta5. Ciò significa che, con buona probabilità, molti di questi volontari non avevano alle spalle grandi esperienze militari, nemmeno in camicia rossa, e facevano anzi il proprio apprendistato in armi in quell’occasione. Tra gli altri elementi, anche la prevalente estrazione artigiana dei prigionieri allude ad un mancato rispecchiamento nell’Italia moderata degli anni Sessanta, se non altro per il fatto che queste categorie erano all’epoca escluse dal diritto di voto, pur esprimendo un certo grado di politicizzazione e un’istanza di partecipazione al discorso pubblico. La Lombardia e l’Italia centrale – i due poli geografici maggiormente rappresentati – erano d’altronde due realtà in cui il garibaldinismo si stava intrecciando con nuove culture politiche e dove, più tardi, anche l’associazionismo originato dalla comune partecipazione alle «patrie battaglie» non si sarebbe potuto identificare con uno spirito esclusivamente «reducistico»6. Impressioni in presa diretta o ricordi che riemergono, le settimane che conducono ad Aspromonte si fissano come immagini luminose di un’estate meridionale che nutre e alimenta entusiasmi pur destinati al naufragio; quelle di Mentana sono invece plumbee risonanze autunnali di pioggia e freddo precoce. Le note liete e vivaci si legavano casomai ai giorni trascorsi a Terni, luogo di raccolta geograficamente strategico, ma anche ambiente politicamente e umanamente simpatetico: era innanzitutto la varietà delle improbabili «uniformi» dei volontari a tradursi in un’atmosfera scanzonata, ma sarebbe stata la stessa irriducibilità ad una forma esercito, seppur sui generis, a rappresentare, al momento dell’azione, uno dei limiti principali e dei rammarichi maggiori dei comandanti. Del resto – non ultimo tra i fattori di complicazione – il passaggio dei confini dello Stato pontificio avvenne prima di quanto si era progettato, costringendo a ricalibrare i piani. Che alcune delle spinte verso la soluzione armata della questione romana sfuggissero al controllo dei settori che ne costituivano i punti di riferimento politici è confermato non solo dagli avvenimenti 120

dell’autunno, ma da ciò che accadde già in primavera. Il 18 giugno un centinaio di giovani ternani, raccoltisi attorno a Pietro Faustini – che aveva alle spalle lunghe esperienze di cospirazione – si appropriarono di armi conservate sin dai tempi di Aspromonte e si diressero verso lo Stato pontificio. Altri piccoli gruppi riuscirono a passare i confini, rendendosi conto ben presto dell’equivoco in cui erano incorsi rispetto ad una supposta insurrezione romana. Dell’iniziativa, di cui gli stessi ambienti garibaldini non riuscirono a individuare chiaramente la spinta originaria7, il governo fu immediatamente edotto e, in breve tempo, la maggior parte dei volontari venne arrestata. Dietro a questo episodio stavano i contrasti tra i comitati insurrezionali romani legati a diversi settori politici e, con buona probabilità, i tentativi governativi di condizionare e di compromettere i progetti dei democratici. Fatto sta che l’episodio di Terni rappresentò la prima iniziativa concreta a partire dalla quale i territori dell’Italia centrale, di lì a novembre, non smisero mai di essere teatro di agitazioni. A Firenze, divenuta nel frattempo capitale, si era convinti che esse facessero capo sempre agli stessi uomini e se ne deplorava il ritorno nei luoghi d’origine dopo il periodo di internamento seguito ai fatti di giugno. Il procuratore generale di Perugia prendeva atto del timore del Ministero che «la presenza in Terni di Faustini e compagni, testé svincolati dalla dimora obbligatoria in Rieti, possa influire a suscitare la gioventù a ripetere l’inconsueta impresa», ma si dichiarava certo che essi avessero perso la voglia di agire, così come la popolazione ternana. D’altronde tutta questa popolazione Umbra ora è disillusa, e niun movimento verso il confine potrebbe trovar serio appoggio in essa. Se ne può giudicare anche dalla proporzione del movimento del Giugno. Colla persuasione che il Governo favorisse o tollerasse, non si raccolsero per l’Umbria più di duecento giovani, anzi in gran parte piuttosto ragazzi imberbi ed inetti alle armi e quasi tutti artigiani e pezzenti. [...] Radunata presso Terni la misera colonna, ricevette un rancio di fagiuoli. [...] La gloria di codesta marcia, che destò le generali risa, ha reso, direi, inconcepibile il rinnovamento d’alcun tentativo contro il Pontificio, almeno dalla parte di Terni; e massimamente la prigionia patita, ed il processo aperto, pel quale possiamo quando che sia ripetere la cattura, è di gran freno ed ammaestramento8.

La previsione era ovviamente destinata a rivelarsi inattendibile, visto il contributo che proprio quei territori avrebbero dato all’impresa dell’autunno, quando di nuovo Terni rappresentò il principale 121

punto di raccolta dei garibaldini. Tuttavia è degna di nota la descrizione che lo sguardo sprezzante e palesemente denigratorio del procuratore ci restituisce riguardo alla fisionomia dei volontari del ’67, dipinti come prevalentemente giovani e per la maggior parte «artigiani e pezzenti». Il punto di vista del Ministero dell’Interno era diverso e, in prospettiva, più allarmato: in una lettera riservata al Ministero di Grazia e Giustizia si riferiva il disappunto e la preoccupazione del prefetto di Perugia per il ritorno a Terni dei protagonisti del tentativo di giugno9. Ci si muoveva come sempre sulla linea sottile che separava una condotta non allarmistica e autorevole da comportamenti che potevano indurre la convinzione di una sostanziale legittimità di determinate iniziative, se non per forza di una connivenza del governo. In questo clima trascorse l’estate, mentre non solo tra gli esponenti di livello nazionale del «partito garibaldino», ma anche tra i gruppi periferici permanevano vaste riserve sull’opportunità di un’impresa. A settembre l’agitazione tornava a crescere e l’attenzione dell’opinione pubblica si concentrava di nuovo sulla questione romana, anche attraverso le dichiarazioni di Garibaldi a Ginevra, al Congresso della Pace, che suonavano quale diretta allusione polemica all’esistenza stessa di uno Stato come quello pontificio. Attorno alla metà del mese, mentre Francesco Cucchi era inviato a Roma per agire in vista di un’insurrezione, il piano d’azione militare iniziava a precisarsi. Neppure l’arresto di Garibaldi a Sinalunga, il 23 settembre, pur causa di grave disorientamento, determinò l’interruzione dei progetti. I vertici politici e militari garibaldini restavano divisi tra chi sosteneva l’opportunità che un’insurrezione a Roma dovesse precedere ogni iniziativa, e chi, al contrario, contava sul valore risolutivo dell’entrata dei volontari nello Stato pontificio, con un effetto a catena prima sulle campagne e poi sulla città. La scelta fu imposta dall’iniziativa di un gruppo di circa 200 uomini che, tra fine settembre e inizio ottobre, penetrarono in territorio pontificio occupando Acquapendente. Ciò costrinse a precipitare l’azione, costringendo Menotti Garibaldi, Acerbi e Nicotera a muovere con le loro forze. Ambiguo o tacitamente connivente, il Ministero Rattazzi tentava nel frattempo di accreditare agli occhi della Francia l’idea di un’agitazione nata all’interno dei domini del papa, promuovendo la nascita di una Legione romana, che operò in modo discutibile e ambiguo, talvolta ostacolando le camicie rosse. Giuseppe Garibaldi – prigioniero 122

ad Alessandria dopo l’arresto di Sinalunga e poi condotto sotto sorveglianza a Caprera – riuscì a fuggire a metà ottobre, raggiungendo il teatro delle operazioni solo il 23 di quel mese. In quegli stessi giorni la Francia, con il pretesto dell’evidente inadeguatezza delle autorità politiche e militari italiane a contrastare l’iniziativa garibaldina contro lo Stato pontificio, decideva per l’intervento, cui avrebbe dovuto far seguito l’occupazione congiunta assieme alle truppe regie. L’azione delle camicie rosse avrebbe dovuto seguire da allora una tripla direttiva convergente verso Roma, alla quale Acerbi si sarebbe avvicinato da destra, Menotti e Giuseppe Garibaldi al centro e Nicotera da sinistra. Presa Monterotondo, il Generale avanzò occupando Castel Giubileo e attestandosi ormai alle porte di Roma. A quel punto fu la persistente mancanza di significativi segnali rivoluzionari dalla città a indurlo a retrocedere e ad iniziare una ritirata – disseminata di diserzioni e malumori – che avrebbe dovuto puntare su Tivoli, città collocata in posizione strategica e dimostratasi politicamente favorevole all’impresa. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre vari fattori avevano comunque contribuito al peggioramento delle condizioni: un contesto nazionale reso decisamente avverso dalla nascita del governo Menabrea, l’arrivo delle truppe francesi, nonché le crescenti difficoltà logistiche. Dopo la mancata insurrezione di Roma e il conseguente allontanamento di Garibaldi dalla città, si complicò anche la gestione dei volontari, se non altro perché le manovre di ripiegamento risultavano particolarmente sgradite e incomprensibili a chi si era trovato a pochi chilometri da Roma. Quando, il 3 novembre, si giunse agli scontri decisivi di Mentana, oramai una parte significativa dell’esercito garibaldino era in disfacimento, e i numeri e i mezzi erano decisamente a favore della controparte. Del resto solo dopo Monterotondo si era realizzata una complessiva e sistematica organizzazione delle forze volontarie: il grosso delle operazioni e degli effettivi si era concentrato nel corpo centrale, quello guidato da Menotti e agli ordini diretti di Giuseppe Garibaldi, che aveva con sé lo stato maggiore con Nicola Fabrizi e Alberto Mario come capo e vicecapo. Il corpo si divideva in alcuni battaglioni autonomi e sei colonne guidate rispettivamente da Federico Salomone, dall’ungherese Frigyesi, da Eugenio Valzania, da Achille Cantoni, Paggi ed Elia. Questi uomini avevano alle spalle numerose esperienze in camicia rossa e godevano della fiducia di Garibaldi; accanto ad essi erano presenti moltissimi altri ufficiali di valore come Guerzoni, Mosto, Missori, 123

Adamoli, Bezzi, Tanara. Non si trattava quindi di comandanti improvvisati: alcuni di loro avevano anche militato per qualche tempo nell’esercito regolare. Ciò che li contraddistingueva era la continuità della militanza garibaldina, che per taluni copriva tutta la fase risorgimentale, dal ’48 in avanti. Da questo punto di vista c’erano tutte le premesse di un buon impiego e di una gestione autorevole dei volontari, ma molti fattori resero ciò quasi impossibile. Essi vennero analizzati senza intenti e toni apologetici nella relazione stilata dopo Mentana da Nicola Fabrizi: Le grosse agglomerazioni di personale che [...] arrivavano al deposito principale [...] avevano reso necessario un ordinamento istantaneo che impedisse l’ingombro della città e dei luoghi più soggetti a sorveglianza, e dirigesse la marcia dei volontarii al campo. [...] Le vie a percorrere erano lunghe e laboriose, dovendosi evitare di toccare la frontiera pontificia, e i luoghi di residenza delle autorità politiche del regno, non che incontrare le truppe regolari italiane; e lento riusciva il movimento anco per la sproporzione fra il numero dei volontari, e la quantità della armi mano mano disponibili. [...] Il movimento complessivo dei volontari delle provincie può calcolarsi di 30 mila, compresi quelli che furono impediti e respinti. Quattordicimila circa toccarono il deposito di Terni diretti al corpo d’operazione del centro, comandato dal colonnello Menotti. Ma nel mentre che la marcia dei volontari al campo per le cause accennate succedeva lenta, ed anco più lenti andavano i soccorsi, cominciò col prolungarsi delle privazioni a nascere lo sconforto di poterle ormai vedere prontamente riparate. [...] Così fu che durante gli ultimi tempi della campagna i due movimenti, uno dei volontari che marciavano al campo nei battaglioni improvvisati, animati dal migliore spirito, [...] l’altro dei reduci licenziatisi dal campo, portatori di notizie di disagi e di privazioni, e taluni pure rappresentando realmente in se stessi i sofferti patimenti sendo scalzi, laceri e affranti, s’incontravano; e necessariamente gli ultimi scuotevano la fermezza dei nuovi marcianti prima che fossero sul terreno d’azione. In questo lavoro di Penelope, in questa vicenda d’invio e di ritorno di volontari, la forza maggiore presente al campo nel corpo d’operazione del centro fu quella raggiunta dopo l’arrivo del generale Garibaldi dalla vittoria di Monterotondo in poi, cioè di ottomila uomini, forza che riprese ben tosto decrescenza nonostante il ricambio con nuovi arrivati. Infatti battaglioni sulla linea di marcia si trovavano ancora all’ultimo momento, mentre a Mentana il corpo combattente di poco oltrepassava i 4000 uomini. In mezzo a tanta fluttuazione vi fu un nucleo abbastanza numeroso, assolutamente incrollabile d’animo, di propositi e di forza, il quale al senso

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dell’esperienza fe’ intendere come su tal base sarebbesi potuto assicurare solidamente il tutto, se la mancanza di tempo alla bisogna dell’ordinamento, e se tante altre contrarietà maggiori [...] non si fossero associate [...]. [...] somma è la difficoltà di mantenere la fiducia negli animi del maggior numero, qualunque sia l’attitudine passiva indicante temporeggiamento a cui sia forza talvolta adagiarsi, e qualunque sia la natura dei movimenti diversivi o di contromarcia che sia d’uopo effettuare, ogni qualvolta insomma non si tratti di andare direttamente al nemico10.

Le difficoltà materiali dunque, le carenze nell’armamento, l’impossibilità di operare una preliminare selezione tra i volontari, il tentativo spesso fallimentare di coordinare i tempi propizi per agire con i ritmi di afflusso dei volontari e con l’arrivo dei rifornimenti: ecco gli elementi che secondo Fabrizi avevano contribuito al fallimento dell’iniziativa. Anche i corrispondenti di Francesco Crispi gliene scrivevano, lasciando trasparire un progressivo naufragio degli entusiasmi. Noi questa notte passeremo il confine. Siamo trentacinque tutti giovani che ci conosciamo. Io sono stupefatto dell’agitazione che esiste in Napoli. I volontari a carovane partono giornalmente e tutti radunano mezzi che inviano agli insorti. La Nazione piomberà tutta in Roma, se il governo non pensa di presto presto precederla. [...] Volete che vi parli sincero? Mi pare che a Firenze siete troppo freddi per non saper misurare la terribile agitazione di tutta Italia, e quali conseguenze potrà fruttare senza che né governo né il nostro partito potrà arrestare11.

Al siciliano giungevano nel frattempo da ogni parte d’Italia lettere di uomini desiderosi di arruolarsi o di indirizzare verso il campo di battaglia altri giovani disposti a farlo: si trattava spesso di reduci da altre campagne garibaldine, talvolta di soldati e ufficiali del Regio Esercito decisi a prendere o riprendere il loro posto tra le camicie rosse12. A Crispi si chiedevano suggerimenti pratici, aiuti finanziari, delucidazioni politiche, accreditamenti presso personaggi vicini a Garibaldi, facendo leva sul suo ruolo di punta nel Comitato centrale di soccorso per l’insurrezione romana13. Indirizzatagli da uomini a lui personalmente e politicamente prossimi, è di particolare interesse la corrispondenza proveniente dai luoghi dell’azione, dove la prosa di un esercito privo di armi e di munizioni aveva molto più spazio delle considerazioni politiche. Confermando quanto già gli era stato segnalato dal Comitato ternano di soccorso14, anche Nico125

la Fabrizi denunciava i problemi che si legavano all’esistenza della Legione romana, corpo palesemente governativo, di molto favorito in termini di velocità, quantità ed efficienza dei rifornimenti. A tale proposito il modenese scriveva a Crispi il 13 ottobre, lamentando il dualismo e la concorrenza tra la Legione e i garibaldini, cui si tentavano di sottrarre mezzi ed arruolandi. Fabrizi insisteva soprattutto nella richiesta di munizioni, ma anche di camicie rosse, per garantire un senso di coesione e di azione combinata che fino ad allora era fatalmente mancato15. Doveva essere, quello dell’«uniforme», un aspetto particolarmente sentito, se altri, dal Comitato di Terni, avanzavano la stessa richiesta con le medesime motivazioni. [...] per incarico espresso del Generale ti prego di dare uno sguardo a noi, che siamo nell’Inferno. Urge che il governo prenda una via, o d’ajuto o di reazione. Nel primo caso si ricordi che ci ha nei suoi magazzini 30000 camicie rosse che non furono distribuite [...]. Uno, se non il motivo principale per cui molti volontari si sbandano, è la mancanza di divisa, che fa il soldato, e gli dà compattezza16.

Ciò a cui si alludeva era quello «strano miscuglio di soprabiti e di giacchette, di giubbe e di cacciatore, di pioppini, di papaline e di cappelli alla calabrese»17 che ritorna in moltissime memorie dell’impresa, associandosi positivamente, agli occhi di alcuni, all’informalità e alla «totale assenza d’ogni riguardo, d’ogni privilegio e d’ogni differenza sociale»18. Il diciassettenne a cui si dovevano, nel 1868, questi ricordi, filtrava i fatti attraverso gli occhi dell’adolescenza, specie quando rievocava la rivista delle truppe da parte di Garibaldi, a Passo Corese: Eravamo quel giorno presso a 10.000 uomini ed era spettacolo mirabile il vederci schierati su quattro file nella via in lunghissima linea, in mille assise e costumi diversi, imbrattati di fango, laceri e rattoppati e coi segni delle privazioni nei volti abbronzati dal sole, su cui peraltro leggevasi la spensieratezza e l’allegria del giovane unite al marziale ardore del volontario Garibaldino. Oh se a Mentana fossero state presenti tutte le forze ch’eran ivi riunite quel giorno, quanto più acerbamente sudati o inutili avrebbe il mondo veduti i miracoli dei micidiali Chassepots!19

Nelle settimane dell’assenza forzata di Garibaldi dal campo di battaglia e negli ultimi giorni, l’essere laceri e privi di uniformi doveva plausibilmente connotarsi in senso più cupo e sconfortante, 126

mescolandosi alle difficoltà ambientali determinate dalla pioggia incessante. La marcia di avvicinamento a Roma – momento agognato dai volontari in attesa nei luoghi di raccolta e sulla linea di confine – finiva col segnare anche l’inizio di una quotidianità fatta di asprezze e disagi, simile alla «nomade vita del brigante abbruzzese»20, nella mancanza degli strumenti elementari per proteggersi dal freddo e dalla pioggia, che riempiva d’acqua le armi e riduceva ad una pasta la polvere delle cariche21. Erano condizioni che – anche nell’autorappresentazione dei protagonisti – inducevano una regressione dallo status di militari, per quanto sui generis, all’immagine di bande che s’inoltravano in un contesto ostile, nel tentativo di raggiungere e portare aiuto ad altre bande. Raffaele Tosi, volontario riminese, reduce da tutte le campagne risorgimentali dal ’48 in avanti, oltre ai ricordi della sua lunga militanza, ci ha lasciato un breve diario della spedizione del ’67. Il 20 ottobre, lui e i suoi compagni, erano in marcia per raggiungere Menotti: Andiamo a lui. Piove ancora a dirotto. Andiamo sempre per macchie e per selve, popolate di quando in quando di povere capanne di pastori e di rovine feudali.

Tre giorni dopo scriveva: Abbiamo posto il campo tra Passo Corese e Monterotondo. Il fiume classico, gonfio per le grandi piogge, correva tumultuoso come esercito di barbari. Per tutto, un viscidume di fango, e un’aria bassa greve morta che metteva tristezza. [...] Nel campo garibaldino non la vivacità consueta: miseri i panni contro i rigori precoci di quell’ottobre malinconico, misere le proviande, misere come sempre le armi. Per molti ufficiali, unica difesa un bastone nocchiuto che poteva star meglio in mano di un asinaio22.

A quel punto giungeva finalmente al campo la notizia dell’arrivo di Giuseppe Garibaldi. Ciò determinò senza dubbio un punto di svolta nel morale delle truppe e dei comandi, nell’incisività e nell’organicità dell’azione, ma non poté certo compensare tutte le carenze di fondo dell’anomalo esercito in camicia rossa. La mancata scrematura dei volontari, le modalità degli avanzamenti, il rapporto tra comandanti e sottoposti erano questioni reciprocamente implicate, che attenevano alla sfera morale e disciplinare, rivestendo una rilevanza particolare in un quadro di gravi difficoltà materiali. La fretta di mandare uomini oltre il confine era determinata anche dalla neces127

sità di soccorrere le colonne costrette ad intervenire al seguito dei primi sconfinamenti di fine settembre-inizio ottobre. È quanto spiegava anche Anton Giulio Barrili, cercando di contestualizzare ciò a cui avevano assistito a Terni: La stessa mattina che noi eravamo scesi a Terni, altri drappelli di gente ragunaticcia partivano [...]; male in arnese, senz’armi, senza un segno militare, né berretto, né camicia rossa, e quel che è peggio, senza conoscersi l’un l’altro, ufficiali e soldati. [...] E i soldati giungevano; giungevano a centinaia da tutte le città dell’Umbria, delle Marche, della Toscana; genti d’ogni ceto, nuovi alla vita militare [...]. Costoro, non scelti, non bene assortiti da esperti concittadini, non guidati da uomini di casa loro, che li conoscessero o potessero comandarli utilmente, calavano a Terni, dove anche prima di uscire dalla stazione trovavano il rappresentante del capitano X, del maggior Y, del colonnello Z, che si affrettava a scriverli nel suo taccuino. [...] I comitati locali credevano che al confine ci fossero uomini, i quali sapessero scegliere, ordinare, condurre: i capitani che erano al confine credevano che i comitati avessero spediti i migliori. In tutti era una gran voglia di far presto, di partire, di giungere al fuoco23.

I problemi disciplinari e l’urgenza di una tardiva selezione tra i volontari sono forse il volto più cupo della vicenda, anche prima degli scontri decisivi di Mentana, in cui il soverchiante peso delle forze nemiche riuscì a determinare la «valanga della paura»24. Il 31 ottobre Niccolò Botta scriveva a Francesco Crispi da Poggio Mirteto, informandolo che «a causa della canaglia che si è mischiata fra’ corpi volontari, ieri sera il maggior numero dei Corpi insurrezionali furono fatti rientrare a Monte Rotondo, dov’è lo stesso Generale», intenzionato a «scartare il cattivo elemento, riordinare i battaglioni, e ricominciare le operazioni di guerra»25. Le notizie che riferiva lo stesso mittente dal medesimo luogo, il giorno dopo, erano più crude e inquietanti: Il Generale ha cacciato 500 circa volontari tra bassa forza e ufficiali, parte perché vigliacchi, molti perché canaglia, diversi per le turpi azioni che commisero nella presa di Monte Rotondo, dove agirono come orda di barbari anziché liberatori. È a notarsi che parecchi disertano per paura del disaccordo del governo, e gridano per giustificare la loro viltà: che vengono via perché tormentati dalla fame ed altre privazioni. Ne ho fatti disarmare quanti me ne sono capitati a Corese e qui, ad alcuni ho dato calci nel culo e scudisciati, perché sparlavano del nostro comitato e del Generale26.

Monterotondo, che aveva meritato questa citazione in negativo, rappresentò l’unica parentesi luminosa dell’impresa del ’67 dal pun128

to di vista militare e della vita cameratesca. I garibaldini presero la città il 25 ottobre e vi rimasero qualche giorno. Al di là delle brutalità commesse – a quanto ci dice Botta – da una parte delle truppe poi allontanate da Garibaldi, le giornate di Monterotondo furono ricordate dalle camicie rosse come quelle dei più assidui contatti con la popolazione e della parziale soddisfazione della grande fame arretrata, della vicinanza serena con un Garibaldi quasi ringiovanito. Il ventiquattrenne Luigi Musini, già volontario nel ’66 e poi di nuovo nel ’70 in Francia, futuro deputato socialista, annotava così nel suo diario: L’aspetto che offriva il paese era veramente strano e pittoresco. Tutte le strade, tutte le case piene di garibaldini vestiti nelle foggie più svariate: la maggior parte in borghese, laceri e coperti di fango, altri con camicie rosse, altri con cappelli calabresi, adorni di penne. Chi era armato di lunghi fucili, chi di piccole carabine, chi di schioppi da caccia, chi di daghe, di pistole, di stili. Era un vero esercito rivoluzionario. Le case erano per la maggior parte chiuse, altre piene zeppe di volontari. [...] Sul Palazzo Comunale [...] era stata issata la bandiera tricolore. [...] Un fatto gravissimo, che accresceva in quei giorni la generale confusione, era dato dalla deficienza di pane. Invano Garibaldi aveva dato ordine ai fornai di lavorare giorno e notte; non bastava. I forni erano letteralmente presi d’assalto: quindici o venti uomini erano stati posti di guardia a ciascuno, ma a stento riuscivano a trattenere la folla la quale spesso strappava via il pane ancora allo stato di pasta27.

Era anche il momento, però, in cui giungeva – il 27 ottobre – il tardivo proclama col quale il re e il governo Menabrea dichiaravano illegale e illegittima l’iniziativa, imponendole una matrice antimonarchica mai esplicitamente manifestata. Fuori legge due volte, dunque, rispetto al Regno d’Italia e allo Stato pontificio, in una sorta di terra di nessuno, dove formalmente regnava il papa, ma di cui in realtà Firenze e Parigi si contendevano più o meno velatamente la sostanziale sovranità. L’immagine dei garibaldini era, ora più che mai, sospesa tra quella dei rivoluzionari e quella dei briganti, come la stessa propaganda papalina li aveva dipinti alla popolazione. A Nerola la gente si attendeva l’arrivo di stupratori e «infilzatori di bambini» e si era vista piombare addosso una turba lacera, esausta ed affamata28. Pezzenti e «canaglia»: queste le due etichette contigue attribuite alle camicie rosse. E non si trattò solo di un’identità imposta, perché da un lato lo sguardo esterno ed ostile estendeva all’insieme ciò che gli stessi garibaldini attribuivano ad una parte delle loro schiere, dall’altro chi rievocava, scriveva, annotava finiva con l’ammettere che il loro aspetto 129

si prestava a confermare ed alimentare simili pregiudizi. Caduto prigioniero nel tentativo di Villa Glori, Pio Vittorio Ferrari, ricordava che all’ospedale di S. Spirito un generale pontificio si era stupito scoprendolo non analfabeta, poiché per i prelati e gli ufficiali che li visitavano i garibaldini erano «nulla più che dei ragazzacci ignoranti sedotti dal fanatismo; forse a ciò contribuiva lo stato nostro miserevole di vestiario e di toeletta, dal quale essi non sapevano prescindere nel giudicare della cultura e del grado delle persone»29. Al momento della definitiva partenza Ferrari associava un altro quadro eloquente: Il treno che doveva portarci al confine fu scortato da soldati francesi. A Civitavecchia ci arrestammo a lungo per attendere altri prigionieri provenienti da quel bagno: una torma di infelici, scarni, pallidi, smunti, abbattuti, veri pezzenti. Furono caricati in vettura di terza classe e stipati come bestie. [...] Un ufficiale francese della nostra scorta, avendo riconosciuto a quella stazione un altro ufficiale suo amico della legione d’Antibo, che gli chiese dove andasse, rispose che veniva fino alla frontiera a scortare cette canaille. Un capitano dei nostri l’udì, lo apostrofò come si meritava e credo ne seguisse una sfida. L’aspetto nostro esteriore però non dava tutto il torto al vocabolo30.

L’impresa garibaldina del ’67 corrispose almeno in parte, nei territori pontifici, ad una sospensione della normalità e della legalità, cui pose fine anche la comparsa delle truppe italiane, simbolo al contempo di ordine ristabilito e di trasgressione. L’intervento fu deciso il 31 ottobre, dopo l’entrata a Civitavecchia dei francesi, che già avevano rinfoltito in precedenza le file dell’esercito del papa. Le istruzioni predisposte nella sempre più imminente eventualità di un’azione «diplomatico militare» – come la si definiva – erano molto precise: si sarebbe assunto il controllo delle zone di Acquapendente, Civita Castellana e Frosinone, interpretando tale atto come occupazione «in paese amico» ed evitando di assestarsi su posizioni già fatte proprie da francesi e pontifici, rispetto ai quali andava evitato ogni segnale di ostilità. Si dovrà lasciare piena libertà alle Autorità Pontificie, né si dovrà commettere, né tollerare che si commetta atto alcuno contro la Sovranità del nostro Re. Nell’eventualità che nelle località da occupare si fossero costituiti governi, o giunte provvisorie per assenza delle Autorità Pontificie, si rispetti il fatto compiuto, ma senza che per parte delle nostre truppe si faccia alcun atto di riconoscimento limitandosi a mantener l’ordine.

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I volontari e gli insorti saranno invitati di cessare dai loro movimenti, non si lascerà loro prendere alcuna posizione, e nel caso persistessero saranno disarmati e rimandati sotto scorta alle case loro.

In effetti lungo il cammino percorso dai garibaldini erano nati amministrazioni e governi provvisori, che non esitavano ad inneggiare all’arrivo del Regio Esercito, a cui chiedevano di ratificare la propria scelta di entrare a far parte della «famiglia italiana»31. Legittimare politicamente queste istanze e sancirle formalmente era proprio ciò che all’esercito italiano era stato espressamente vietato, mentre invece poteva accadere che le regie truppe assistessero all’ammainarsi del tricolore e alla ricollocazione degli stemmi pontifici abbattuti dai garibaldini32. Altre zone dello Stato pontificio avevano vissuto in quell’autunno l’accenno di esperienze più radicali: era per esempio il caso di Viterbo, occupata dai volontari il 28 ottobre, dove Acerbi aveva assunto la prodittatura in nome di Garibaldi. Si erano aboliti la pena capitale, i fori ecclesiastici e la tassa sul macinato, si era adeguata l’istruzione pubblica al Regno d’Italia, concessa l’amnistia, istituita la Guardia nazionale; era stata proclamata l’uguaglianza tra tutti i cittadini e si erano abrogate le pene per la non osservanza del culto religioso. Mentre veniva impedito il plebiscito ad Orte ed Acquapendente, dove si erano stanziate le truppe italiane, a Viterbo la votazione si era svolta con successo, ma il governo non ne aveva riconosciuti i risultati33. Nei confronti dei volontari in rotta il ruolo dell’esercito fu quello di indurli al disarmo e di instradarli verso i luoghi d’origine, talvolta provvedendo alle necessità immediate di colonne affamate34: le scene a cui ci si trovò ad assistere furono sconsolanti e talvolta drammatiche. Il 4 novembre si telegrafava al Ministero della Guerra da Frosinone, informando della cattura di 57 garibaldini: [...] gli armati erano pochi avendo massima parte gettate o vendute armi lungo la strada. Volontari affatto demoralizzati furiosi contro Nicotera loro timore essere mantenuti in arresto [...] due disertori esercito al momento scioglimento banda si suicidarono35.

Disarmare le camicie rosse e vegliare sulla restaurazione del regime pontificio respingendo i plebisciti non era certo quanto di più lusingante si potesse immaginare per l’esercito del giovane Regno, il cui prestigio era da poco uscito assai ferito dalla terza guerra d’indipen131

denza. Un ruolo del genere era molto lontano da quanto la stampa di diverso orientamento aveva auspicato in quelle settimane, quando anche i giornali moderati avevano caldeggiato l’intervento esclusivo delle truppe italiane non solo per riportare l’ordine, ma soprattutto per esprimere il protagonismo delle istituzioni nella gestione della crisi. Gli organi della Sinistra costituzionale promuovevano la prospettiva dell’occupazione di Roma con un’azione combinata di forze regolari e volontarie, intravedendo in una funzione attiva dell’esercito il simbolo e la garanzia di una piena sovranità nazionale. Su questi aspetti insisteva in particolare «La Riforma», il nuovo quotidiano nato con un programma politico molto avanzato sottoscritto da Crispi, Bertani e Benedetto Cairoli36: se i moderati dimostravano di preferire il potere temporale del papa alla liberazione di Roma da parte dei garibaldini, la parte politica di cui si faceva portavoce il giornale assicurava invece che avrebbe applaudito alle camicie rosse così come ai bersaglieri37. L’importante era affrontare la sfida di una guerra, necessaria tanto più dopo le prove del ’66, poiché «le nazioni non sorgono grandi e potenti che dai campi di battaglia»38. Ovviamente la chiave di volta nell’atteggiamento del quotidiano fu rappresentata dal proclama reale del 27 ottobre con il quale Vittorio Emanuele e il governo delegittimavano completamente l’iniziativa garibaldina: da quel momento l’attacco ai vertici politici e militari non ebbe più freni, negando innanzitutto agli uomini di Lissa e Custoza il diritto di chiedere di indietreggiare ai garibaldini, «quelli che hanno insegnato a tutti, e come si proceda e come si vinca»39. Le direttive a cui era stato sottoposto l’esercito costituivano poi un grave vulnus per la dignità delle istituzioni e del Paese, e avevano un profondo significato politico che trascendeva la contingenza specifica. A Custoza l’esercito nostro subì l’onta d’un disastro per opera de’ suoi capi supremi; poi, come questo non bastasse, lo insultarono. Riversarono sui soldati che avevano pagato del loro sangue le colpe, e [...] sparsero per il paese la voce che l’esercito nostro non si era battuto. Un solo sentimento sopravvisse nell’esercito: redimere l’umiliazione non meritata di Custoza. [...] L’occasione per la prova e la rivincita venne più presto che alcuno s’aspettasse. [...] Lo straniero [...] ripose il piede sul suolo italiano nel cuore stesso della patria. Chi glielo doveva, chi glielo poteva impedire per primo? L’esercito. I volontari, la rivoluzione l’avrebbero fiancheggiato, sostenuto; ma a lui era dovuto l’alto onore di difendere i diritti e la dignità della nazione.

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[...] Che cosa accadde invece? [...] Arrestare i garibaldini che volevano passare le frontiere; [...] disarmare i dispersi e i fuggiaschi, fare il carabiniere dei reazionari e il guardiano dei preti: ecco la missione a cui fu condannato l’esercito italiano dalla politica d’un governo incancherito dalla servilità allo straniero. [...] Se l’esercito deve essere davvero il propugnacolo della nazione e il palladio delle sue istituzioni, [...] bisogna che sia sottratto dalle mani d’un sinedrio di generali vani, ignoranti e impotenti; bisogna che lo spirito militare [...] s’identifichi con lo spirito nazionale, e che l’onore militare come l’onore civile non facciano che una sola e medesima cosa40.

Catturare volontari sconfitti e affamati non era certo cosa che potesse rinsaldare il prestigio e l’autostima dell’esercito regolare. Non poteva neanche far dimenticare che qualche settimana prima – a fine settembre – il Ministero della Guerra aveva registrato con turbamento le acclamazioni di cui Garibaldi era stato fatto oggetto da parte della truppa, mentre si trovava rinchiuso nella cittadella di Alessandria, dopo l’arresto di Sinalunga41. La capacità del Generale di mobilitare energie e di esercitare una vasta influenza non furono del resto in dubbio né prima né dopo Mentana. In quei mesi oggetto di dibattito e di riflessione fu casomai l’attualità politica e storica di tali dinamiche, osservate criticamente sia da parte di quegli ex rivoluzionari che sempre più si stavano integrando nelle istituzioni, sia di chi se ne andava dissociando definitivamente. Giuseppe Mazzini, che continuava ad incitare Garibaldi ad un’azione repubblicana su Roma, rivolgendosi durante l’estate agli «amici genovesi» e in particolare ad Antonio Mosto, aveva messo in guardia da un legame tra il leader delle camicie rosse e i suoi combattenti che gli sembrava prescindere oramai da ogni discriminante politica. Egli vi ravvisava «il germe di un nuovo militarismo» che trasformava gli uomini da «volontari in soldati»42, dopo aver «gridato contro la obbedienza passiva degli eserciti regolari». Li vedeva «in faccia a Garibaldi deboli come fanciulli», pronti a darsi «senza patti», rendendosi «simili ai condottieri del Medio Evo, non militi della libertà»43. Tra le questioni poste dal genovese c’era anche la perplessità di fronte al pericolo palese – per i volontari del ’67 – di avviarsi più o meno consapevolmente verso un nuovo Aspromonte, eventualità che egli non capiva come si potesse accettare. Il confronto con il ’62 dominò anche il dibattito parlamentare del dicembre 1867: con quel precedente dovette fare i conti chi – come Crispi – dichiarò di aver alla fine collaborato di nuovo con Garibaldi, 133

pur se scettico, non per obbedienza o disciplina di partito, ma in nome di un superiore imperativo nazionale, poiché non poteva certo essere in dubbio, per un uomo delle sue convinzioni, da quale parte collocarsi44. Attraverso il riferimento provocatorio a «i tristi, ma fraterni ricordi di Aspromonte»45, Giuseppe Guerzoni tentò di minare la credibilità della conversione filogovernativa di Giuseppe Civinini, che, nel ’62, aveva condiviso con molti futuri volontari di Mentana la prigionia nei forti piemontesi, riservando a lungo parole di fuoco ai vertici politici e militari. Ora Civinini alla Camera decretava l’inutilità del garibaldinismo nell’Italia del ’6746, mentre Guerzoni ne sosteneva l’attualità come contraltare alle ambiguità dei moderati, come garanzia di un legame sostanziale con le radici rivoluzionarie dello Stato unitario, messe sempre più in discussione47. Lo scontro e quasi la resa dei conti tra garibaldini ed ex garibaldini fu in effetti una delle cifre distintive di quel dibattito alla Camera, in cui Civinini fece della sua esperienza ad Aspromonte la legittimazione originaria della propria evoluzione politica, indotta anche dal desiderio di preservare altri e se stesso da iniziative e fallimenti di quel tipo48. La tendenza a leggere i fatti del ’67 sulla base di quelli del ’62 è emblematica dell’ottica con la quale molti dei protagonisti si accostarono agli avvenimenti e vi si immersero in prima persona, ma può essere fuorviante. Anche a Mazzini, che metteva in evidenza con indubbia lucidità questioni legate alle dinamiche di comando e a meccanismi irrazionali di identificazione, sfuggivano alcuni aspetti che rendevano Mentana qualcosa di più che un’ottusa replica di Aspromonte. In mezzo stava un progressivo allontanamento tra Garibaldi e la monarchia che la guerra del ’66 aveva molto più accentuato che interrotto; rispetto al 1862 c’era anche, tra gli uomini che seguirono il Generale in ruoli di comando, una maggiore consapevolezza della labilità delle connivenze con il governo. Era emersa infine una nuova generazione di volontari, già affacciatasi l’anno precedente, per la quale contava certo la forza carismatica di Garibaldi, ma agivano anche gli investimenti simbolici su una figura che non aveva perduto i suoi connotati politicamente e culturalmente antagonistici. 2. Il 1870. Da Roma a Digione Fu detto che passò il tempo del garibaldinismo; che esso rappresentava, finché gli stranieri erano in Italia, la forza del popolo che prendeva parte spontanea e magnanima alla guerra nazionale; e che oggi il garibaldinismo non

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sarebbe che un pericolo alla quiete interna ed uno dei maggiori inciampi alla libertà. La cosa può essere vera in quanto il garibaldinismo vien considerato quasi bande di venturieri che non conoscono prudenza né opportunità di movimento. [...] Ma il vero garibaldinismo non è questo. Il garibaldinismo è [...] la nostra rivoluzione politica disposata al Governo; è la nazione liberale che tende al compimento de’ suoi destini; è l’idea irrequieta che contraddistingue tutta la fase del nostro politico rinnovamento. Finché il programma nazionale non sia compiuto, vi sarà garibaldinismo, vi sarà agitazione in potenza ed in atto [...]. [...] il garibaldinismo non è solamente azione, è ben anche pensiero; ed è il pensiero che sopravvive ad ogni movimento, è lo spirito che informa le leggi secondo i nuovi tempi, è la tradizione costante della rivoluzione che trapassa in retaggio ai nipoti a meglio cementare e perfezionare il grande edifizio della unità e indipendenza nazionale sollevato colle mani della presente generazione49.

In questo modo l’ungherese Frigyesi, volontario in «camicia rossa» fin dal ’59, rivendicava nel 1868 l’attualità del garibaldinismo, riconoscendogli opportunamente una sostanza politica oltre che militare e la capacità di configurarsi come una tradizione: lo legava però ad una dimensione prettamente nazionale, attribuendogli un senso in stretta relazione con il contesto italiano. Di lì a poco i fatti avrebbero imposto un aggiustamento o per lo meno un’integrazione di questa prospettiva, nel momento stesso in cui uno dei principali nodi mobilitanti del garibaldinismo – la questione di Roma – veniva sciolto dalla pura iniziativa istituzionale con il solo contributo dell’esercito regolare. C’è infatti un filo rosso che unisce l’esperienza di Mentana alla spedizione garibaldina in Francia nel 1870 e a sviluppi politici successivi attraverso itinerari emblematici di uomini e gruppi. Così come nel ’67, anche tre anni dopo l’Italia centrale fu percorsa da movimenti miranti ad un’iniziativa armata verso Roma e da tentativi fortemente connotati in senso repubblicano50. In questo caso l’epicentro dell’agitazione si collocò in Toscana. Nel maggio del ’70 venne fermata la cosiddetta «banda Galliano», attiva in Maremma, mentre tentava di passare nello Stato pontificio. Gli arrestati furono una quarantina, con un’età generalmente compresa tra i 20 e i 30 anni, soprattutto toscani, ma anche romagnoli e romani, nella maggior parte artigiani e commercianti, a cui si aggiungevano dei possidenti, qualche bracciante e contadino, e alcuni impiegati. Li guidava il quarantunenne Giacomo Galliano, negoziante di generi coloniali e caffettiere, nato a Genova e dimorante a Livorno. Dalle indagini emergeva che, nei due anni precedenti, egli aveva intratte135

nuto corrispondenza e relazioni dirette con Garibaldi, in vista di un’iniziativa da indirizzare verso Roma; erano questi i motivi per cui un anno prima era già stato arrestato. Nel 1870 i contatti con altri personaggi del Partito d’Azione – tra cui Menotti Garibaldi, i fratelli Sgarallino di Livorno e l’ex garibaldino di Mentana Carlo Mayer, anch’egli livornese51 – si erano intensificati, ma alla fine il solo Galliano si era compromesso materialmente nell’impresa. Egli veniva dipinto come uomo ignorante, rozzo, fanatico. Una volta cuoco del Generale Garibaldi, diventò Capitano a Mentana. È fregiato della medaglia al valore militare. Successivamente guardia sala nelle Ferrovie, da quanto si dice usciere al Ministero dei Lav. Pubblici, poi espulso, rivenditore di generi di privativa a Orvieto, da dove mandato via ne ottenne un’altra nella provincia di Genova. Venne a stabilirsi a Livorno dopo i fatti di Mentana e vi aprì un Caffè nella via Vittorio Emanuele, convegno di garibaldini e dei repubblicani di bassa lega. Egli idolatra Garibaldi, vorrebbe imitarlo e sfiderebbe qualunque pericolo per averne l’approvazione. Il Galliano [...] fu istromento materiale di disegni altrui52.

Ben diversa sarebbe stata – si sosteneva – la consistenza quantitativa e qualitativa della banda se uomini più autorevoli di Galliano si fossero esposti direttamente e fino in fondo. In effetti, questa come altre iniziative non riuscirono a decollare anche per la mancanza di punti di riferimento di peso, in grado di attivare reti di una certa ampiezza. Sta di fatto, comunque, che in quei mesi si poté parlare di «moti toscani», proprio perché si dovettero registrare diversi episodi reciprocamente legati. Fu questo l’aspetto che destò più inquietudine, segnalando le ramificazioni dei progetti sovversivi e la loro connessione con la locale rete associativa reducistica. Nella prima metà di giugno, dopo l’episodio maremmano, vennero scoperti trame e tentativi repubblicani a Lucca, a Livorno e a Pisa. Il caso lucchese fu il più significativo, anche perché diretto da una figura di prestigio come il giovane avvocato Tito Strocchi, garibaldino del ’66 e di Mentana e presidente della Società dei reduci. L’iniziativa coinvolse circa 60 individui, nessuno dei quali superava i trent’anni, nella maggioranza artigiani53. Al contrario che a Pisa e a Livorno, a Lucca il ritardo nella trasmissione delle notizie non aveva consentito alle autorità di prevenire il moto, realizzatosi nella not136

te tra il 4 e il 5 giugno grazie al furto dei fucili conservati nel locale liceo per gli esercizi militari. Nella relazione dei Carabinieri si poneva l’accento, poi, sulla bandiera rossa – peraltro vessillo della società che presiedeva – fatta spiegare da Strocchi al momento della riunione della banda: in quel gesto si individuava la conferma di un intento insurrezionale teso a mettere in discussione la sicurezza interna dello Stato e la forma monarchica, ponendosi così sul medesimo terreno degli altri movimenti sventati54. Anche a Livorno le bande che si apprestavano ad entrare in azione nello stesso momento sarebbero state guidate da due ex garibaldini e all’iniziativa non sarebbe rimasta estranea la Società dei reduci dalle patrie battaglie55. Nella requisitoria finale sui moti toscani e sui più vasti movimenti insurrezionali repubblicani, pronunciata a Lucca il 14 settembre 1870, venivano individuati circa 200 imputati, per più di 100 dei quali – tra cui lo stesso Mazzini – si chiedeva la messa in stato d’accusa. Dalla requisitoria emergeva che così a Lucca come a Livorno la Società dei reduci aveva avuto un indubbio ruolo di coordinamento e di mobilitazione e che talvolta, come nel caso del lucchese Tito Strocchi, i vertici dell’associazionismo reducistico costituivano i punti di riferimento locali dell’Alleanza repubblicana universale56. La presa di Roma da parte del Regio Esercito, il 20 settembre 1870, segnò una svolta nella vita di alcuni condannati per i fatti toscani: da un lato la breccia di Porta Pia sollecitò la concessione dell’amnistia sovrana, dall’altro dirottò oltre i confini quelle energie politicamente antagoniste. Già all’inizio di settembre, subito dopo la caduta di Napoleone III in seguito alle pesanti sconfitte inflitte dai prussiani, Giuseppe Garibaldi aveva offerto il suo braccio al nuovo governo francese. Nell’autunno del 1870, gli arruolamenti verso le terre d’oltralpe sostituirono dunque quelli verso lo Stato pontificio, nel momento in cui, nell’arco di poche settimane, Roma diventava italiana e la Francia tornava repubblicana57. Gli intrecci tra queste due direttrici di azione, ideali e materiali, si possono verificare anche rilevando come di frequente le iniziative facessero capo agli stessi uomini – spesso ex garibaldini –, arruolatori e leader dei gruppi dei volontari. Da questo punto di vista le province toscane rivelano interessanti continuità. Il 3 novembre la camera di consiglio presso il Tribunale civile e correzionale di Livorno si riuniva per giudicare i procedimenti penali a carico di 105 imputati, fermati mentre, a bordo di un vapore mercantile francese, tentavano di salpare in direzione di Marsiglia58. Si trattava per la maggior parte di giovani e giovanissimi, tanto che 137

la fascia d’età meglio rappresentata era quella tra i 15 e i 20 anni; quasi tutti fiorentini o livornesi, erano ancora una volta in prevalenza artigiani o legati al piccolo commercio. Tra gli arruolatori pronti a partire con gli altri volontari ritroviamo Giacomo Galliano, mentre tra i semplici arruolati ricompare Tito Strocchi, entrambi appena amnistiati. Molti altri di loro avevano già militato con Garibaldi o si erano uniti al caffettiere nei tentativi insurrezionali della primavera. Al contrario di Galliano, su cui pesava l’aggravante di aver arruolato volontari, Strocchi rientrò nel maggioritario gruppo dei rilasciati: tra di essi un altro garibaldino del ’66 e di Mentana, il ventitreenne Ettore Socci, futuro deputato e personaggio di punta della democrazia e del primo internazionalismo. Quello verificato per Livorno era un sistema rodato e attestato anche per altre zone, con gli ex garibaldini come arruolatori prima ancora che nuovi combattenti. Nella stessa città era uno dei fratelli Sgarallino, Pasquale – già camicia rossa nel ’66 e nel ’67 – a fare la spola con Marsiglia per promuovere ed organizzare gli imbarchi59. Anche tra Bologna e Genova – un altro dei fondamentali punti di transito prima del passaggio del confine – il flusso dei volontari era mediato e indirizzato da queste figure; lo stesso accadeva a Parma, da cui partirono – dal capoluogo e dalla provincia – almeno 110 uomini60. Tra di loro c’era anche Faustino Tanara61, che avrebbe comandato la Legione italiana in Francia, già garibaldino nel ’59, nel ’60, nel ’66 e a Mentana, noto alle autorità per le sue opinioni e individuato da subito come il principale responsabile dell’agitazione riscontrata tra i giovani della zona. Un pizzicagnolo e un caffettiere mazziniani – a dispetto di quanto Mazzini continuava a pensare e dichiarare contro la Francia – rappresentavano in quel territorio gli altri due punti di riferimento per la mobilitazione62. Parmense di nascita, seppur da anni a Bologna come studente, era anche il ventisettenne Luigi Musini, uno dei medici dell’Esercito dei Vosgi, futuro deputato socialista e già reduce dalla campagna del ’59 come volontario nell’esercito sardo e da quelle del ’66 e del ’67 come garibaldino. Se non si trattava degli organizzatori degli arruolamenti, gli uomini fermati in quei mesi venivano spesso rilasciati, riuscendo in seguito, talvolta, ad eludere i controlli; così accadde per Tito Strocchi ed Ettore Socci, che, al pari dell’appena citato Musini, mise per iscritto impressioni e ricordi della propria esperienza francese. 138

[...] finalmente si poteva partire, e partire per la repubblica... – scriveva Socci – finalmente era venuto il momento di far vedere ai nostri nemici che non si era buoni soltanto a declamare per i caffè e per le bettole [...]. E dire che i pezzi grossi della democrazia [...] ci avevano sconsigliato. Ma che vogliono dunque – ripeteva fra me – questi vecchi che coi loro scritti, colle loro opere sono stati i primi a farci amare la repubblica? – Lasciare solo là, tra un popolo straniero, Garibaldi, e farci sfuggire una sì bella occasione... [...]. ...Alla fine, soccorrendo la Francia, noi non adempiamo che al nostro dovere; si soccorre la nostra sorella maggiore, la patria delle grandi iniziative, quella che ci ha istruito colle sue opere, che ci ha dato sollazzo coi suoi romanzi [...]; se ci è di mezzo quel maledetto affare di Mentana, che colpa ce ne ha la Francia, che colpa ce ne hanno i discendenti di Voltaire e Danton, i figli di quella Nazione che ha proclamato per prima in faccia all’attonito mondo i diritti dell’uomo? [...] ...Eppoi andare contro un re per la grazia di Dio, noi che non crediamo in Dio e non abbiamo i re nelle nostre simpatie; aiutare un governo che ha i palloni volanti per posta e per soldati chiunque è buono di portare un fucile; utilizzare a prò di causa santissima una vita noiosa e disutile, traversare il Mediterraneo, vedere città e paesi che tante volte abbiamo sentito nominare nei libri, e che tante volte abbiamo desiderato vedere, riabbracciare i vecchi compagni [...]63.

In questa apertura c’è tutto quello che si rileva in molte rievocazioni delle ragioni di una scelta; vi trovano spazio, di riflesso, anche diversi elementi che caratterizzavano, in quei mesi, il discorso pubblico sull’attualità, primo fra tutti la diffidenza di vasti settori democratici nei confronti della Francia, imperiale o repubblicana che fosse, come ha ben ricostruito, a suo tempo, Federico Chabod64. Quello che non troviamo, però, è l’esplicitazione del passaggio dall’avversione per il regime bonapartista, crollato sotto l’urto prussiano, alla solidarietà attiva verso la repubblica. In questo senso è molto più limpida Jessie White, che, al contrario del marito Alberto Mario, correrà in Francia ad esercitare il suo doppio ruolo di corrispondente per la stampa inglese e americana e di infermiera garibaldina, spesso nel vivo degli scontri. Prima di restituire gli avvenimenti d’oltralpe, la White rievocava il suo ritorno a Roma, nell’autunno ’70, dopo l’esperienza di tre anni prima: Sulla via di Roma rividi Casal dei Pazzi e dalle alte sue torri guardai al sole che tramontava sui sette colli come tramontò sulle nostre speranze di conquistarli. Io ritornai in Roma tutta rimescolata e tutta contenta che i prussiani avessero, comecché senza intenzione, vendicati i caduti di San Pancrazio e di Mentana, e non posso tacere la dolorosa sorpresa quando riseppe che

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Garibaldi era sbarcato a Marsiglia per dare alla Francia, secondo il detto suo, ciò che restava di lui65.

Particolarmente sensibilizzata, forse, dalle ricadute del problema nel suo stesso privato, Jessie White si dimostrava molto attenta a cogliere gli elementi di esitazione, di dissidio interiore che, qualunque essa fosse, rendevano tormentata la scelta di tanti garibaldini. A Genova, dove vide un sempre più pessimista Mazzini, aveva anche incontrato «alcuni amici delle antiche campagne, ondeggianti fra il dolore di non partecipare alle sorti del loro capitano e l’invincibile ripugnanza di combattere al fianco dei soldati di Mentana»66. Molti reduci del ’67, alla fine, sarebbero partiti per la Francia, e di alcuni di loro lei stessa, con una certa ammirata incredulità, avrebbe fornito eloquenti ritratti: tra questi il già citato Faustino Tanara e Luigi Castellazzo, veterano delle campagne risorgimentali dal ’48 in avanti, appena uscito dalle prigioni pontificie, in cui era rinchiuso da tre anni67; «i meno – secondo Jessie White – si mossero in omaggio del principio repubblicano, i più per amore di Garibaldi»68. Per chi aveva combattuto nel ’67 intorno a Roma, la breccia di Porta Pia non riuscì ad avere un profondo valore compensativo. I fatti di Mentana continuarono a pesare, a proiettare la loro ombra, a rappresentare una ferita non sanabile, aleggiando come un fantasma nella campagna di Francia. Ciò poteva anche assumere una dimensione tragicamente concreta, fino ad arrivare al fatale scontro armato, nelle strade di Chambéry, tra garibaldini e Chausseurs de Vincennes, «coi quali già esisteva ruggine perché gli stessi di Mentana»69. Per i più giovani, tuttavia, più che il ricordo del ’67, che pure avevano vissuto da protagonisti, contavano forse gli investimenti simbolici sulla Francia rinata a repubblica. Assieme a quello toscano, il contesto padano fu tra i più significativi per gli arruolamenti del ’70: non solo in Emilia e in Romagna, ma anche altrove, era vivo un garibaldinismo che teneva assieme un permanente legame, per lo meno ideale, con Mazzini e la premessa di futuri sviluppi politici in direzione del radicalismo e dell’internazionalismo. L’ambiente milanese e le energie e gli umori che si raccoglievano in particolare attorno al «Gazzettino rosa» ne sono un esempio emblematico: il direttore, Achille Bizzoni, già volontario nel ’59 e, con Garibaldi, nel ’66 e nel ’67, partì con entusiasmo per la Francia. I suoi ricordi si aprono con un quadro carcerario: era in prigione infatti, dove si trovava per l’ennesimo reato di stampa, che Fortunio – com’egli si fir140

mava sul giornale – aveva appreso la notizia della proclamazione della repubblica al di là delle Alpi. Per chi fossero da quel giorno le nostre simpatie, non può essere dubbio... Fra Guglielmo e la nazione francese, fra Guglielmo e la Repubblica non poteva essere dubbia la nostra scelta. Ciò per i nostri nemici, i quali si vantarono d’averci colti in flagrante reato d’incoerenza70.

Anche la partenza di Ettore Socci aveva avuto un preludio affine: fatto sbarcare dal vapore francese cui si è accennato, diretto verso Marsiglia, il 3 novembre, anniversario di Mentana, si trovava in carcere, in attesa dell’imminente proscioglimento. Lì alcuni fiorentini, «avanzi degli Chassepots di De Failly», avevano voluto commemorare i fatti del ’67: improvvisato col pagliericcio un catafalco, sovrapposta una camicia rossa di flanella, lo avevano circondato di 25 candele steariche e vi avevano apposto il cartello (prontamente fatto rimuovere dalle sentinelle): «Ai Martiri di Mentana / i superstiti repubblicani»71. Per Socci, ricongiungersi a Garibaldi – «quello scomunicato» rispetto alle cui «idee piazzaiole»72 il governo ostentava la propria dissociazione – significava raggiungere «nostro padre, ché tale deve considerarsi da un giovane l’eroe leggendario della libertà e del progresso»73. Durante il mese di settembre erano affluite oltralpe alcune centinaia di italiani – identificati come garibaldini – pronti a combattere per la Francia e raccoltisi in particolare a Lione, a Nizza e a Marsiglia. Le nostre autorità diplomatiche ne erano preoccupate e nutrivano la convinzione che la guerra franco-prussiana fosse un puro pretesto per portare prima o poi le armi contro la stessa monarchia sabauda o per costituire Nizza in repubblica indipendente74. Nelle comunicazioni interne tra i vari apparati dello Stato e nei resoconti destinati ad essere inoltrati anche ai rappresentanti prussiani, si derubricava del resto il fenomeno come prodotto dello stato di disoccupazione in cui versavano parte degli italiani presenti a vario titolo nel Sud del Paese75. Queste inquietudini continuarono a serpeggiare nella corrispondenza tra i ministeri e le autorità diplomatiche anche dopo l’arrivo in Francia di Garibaldi, non venendo mai messe in dubbio le implicazioni rivoluzionarie ed eversive della sua azione anche e soprattutto sul fronte interno76. Tra fine settembre ed inizio ottobre i 600-700 italiani vennero trasferiti da Marsiglia a Chambéry: il loro referente era in quel mo141

mento Lodovico Frapolli, già con Garibaldi nel ’60, Gran Maestro della Massoneria e futuro deputato. Gli uomini raccolti a Chambéry erano comandati dal colonnello genovese Luigi Stallo, di convinzioni mazziniane, garibaldino nel ’59, nel ’60 e a Mentana, presto sostituito – già ad inizio novembre – alla testa della Legione italiana da Faustino Tanara, per scelta dello stesso Garibaldi. Quest’ultimo, posto alfine alla testa dell’Armata dei Vosgi, con quartier generale dapprima a Dôle – nei pressi di Digione –, poi ad Autun, si trovò a guidare alcune migliaia di uomini77, un insieme di corpi e formazioni eterogeneo e mal armato, composto da francesi e volontari di altre nazionalità, tra cui non più di 3000 italiani78. L’Armata fu organizzata in quattro brigate79 – comprendenti anche alcune compagnie di franchi tiratori francesi – al cui comando, nell’arco della campagna, furono posti, tra gli altri, Menotti e Ricciotti Garibaldi, Cristiano Lobbia e Stefano Canzio. Poco dopo la vittoriosa battaglia di Digione del 21-23 gennaio 1871, fu concluso l’armistizio, da cui rimaneva esclusa la zona in cui operavano i garibaldini, resi d’improvviso potenziale obiettivo sguarnito delle offensive prussiane. Questi, in grande sintesi, i fatti politico-militari, il cui epilogo lasciò una traccia molto viva nei ricordi di quella campagna, incupendo un quadro già a tinte contrastanti. Le memorie dell’esperienza del ’70 sono dominate da un’interpretazione degli avvenimenti originata in parte da ciò che si era visto e sperimentato, in parte da presupposti ideologici: l’idea della fatalità, per la Francia, di una sorta di espiazione, la denuncia della corruzione indotta dal bonapartismo, che imponeva quasi la necessità di una palingenesi; le ambiguità della Repubblica, esitante e inconseguente, colpevole di aver mantenuto in carica, nell’esercito e nell’amministrazione, uomini legati al vecchio regime. I prussiani alla fine risultavano il nemico più palese, ma forse non il più pericoloso della nuova Francia: una sorta di «straniero interno», più subdolo e invasivo era la vera minaccia, l’elemento disgregante80. Lo stato in cui versava l’esercito francese era l’emblema della degradazione dell’intero Paese. Bizzoni confrontava incredulo quei soldati «fradici» e «intirizziti», dalle uniformi sudice, con il proprio ricordo del ’59, all’epoca della sua prima esperienza militare nelle truppe del Regno di Sardegna. E ripensai alle splendide armate francesi, [...] ripensai alle lunghe righe di tende allineate come filari di pioppi, che imbiancavano i nostri campi lombardi durante la guerra del 59. Ricordai i compatti reggimenti di caval-

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leria, veduti luccicare attraverso le nostre campagne [...]; rividi tutto il passato di quella povera Francia annichilita per due battaglie perdute81.

La stessa presenza dei garibaldini – gli atteggiamenti e le scelte che essa sollecitava – metteva in luce una guerra civile latente e strisciante già prima che essa esplodesse con la Comune e il governo di Versailles. La necessità di fare radicalmente i conti con il passato, per cancellare «il peccato d’origine» di una repubblica troppo conciliante con i propri avversari, avrebbe costretto ad «una rivoluzione nella rivoluzione»82: così la pensavano molti italiani in Francia, ma anche chi assisteva agli avvenimenti con grande coinvolgimento dall’Italia. Il diario del repubblicano Giorgio Asproni è emblematico della visione di quei settori democratici che, pur vicini a Mazzini, non poterono non entusiasmarsi di fronte alla nascita della Repubblica e seguirono con slancio e commozione le vicende della Comune. Convinto a fine agosto che i francesi fossero ormai «putrefatti» e che non avessero «più virtù di rinnovare i portenti del 1792»83, Asproni aveva nutrito l’illusione che la svolta repubblicana della Francia avrebbe avuto contraccolpi politici epocali anche in Italia e in Spagna. Ma nella fredda accoglienza che il governo riservò ai garibaldini, spesso ostacolati e male armati, egli individuava i residui del «caduto bonapartismo», che «corruppe l’esercito» e «avvilì la nazione»84. Solo la nascita della Comune e le drammatiche lotte del ’71 avrebbero fatto in parte cambiare idea ad Asproni, inducendolo ad individuare nella Francia – pur destinata ancora «a subire una lunga, crudele e terribile espiazione»85 – l’antesignana di un’idea che avrebbe trionfato in tutta Europa, nonostante l’accanimento del «bestiame rurale [...] riunito a Versailles»86. Per molti degli italiani che vollero combattere contro i prussiani e che fecero di questa loro esperienza oggetto di memoria e di riflessione, il mito della Francia del 1789 – ma soprattutto della Convenzione – rimaneva fortissimo, anche se faticavano a riconoscerne i tratti nella nazione del ’70. Nuovi radicalismi e memorie della Grande Rivoluzione si intrecciavano nella percezione e nella memoria, come dimostrava, a vari decenni dai fatti, la ricostruzione di Ricciotti Garibaldi, impegnato a rievocare la battaglia di Digione, quando i rumori della guerra si mescolavano – a suo dire – alle parole della Marsigliese. La quinta legione – ricordava il figlio del Generale, parafrasando quanto riferito subito dopo gli avvenimenti da Faustino Tanara – si era svegliata 143

con un mormorio ed un vocìo che, dietro la nebbia fitta ed illuminata dalla luce scialba dell’alba, sembrava la manifestazione di un mondo di fantasmi. Ad un tratto una voce giovanile e chiara cominciò in mezzo a quel mormorio la recitazione di un brano di Danton, che lanciato così nella nebbia con maniera oratoria impetuosa, sembrava l’invito alla rivoluzione, fatto a quel mondo nebbioso da un essere sopravvissuto alla Convenzione. Chi avesse udito [...] avrebbe immaginato che dietro il diafano involucro nebbioso [...] fosse resuscitata una delle tante scene grandiose di quell’epoca in cui il popolo, agitando la fiaccola della civiltà giudicò Capeto, Robespierre e Danton. Ma se un raggio cocente di sole avesse squarciato la nebbia, invece di questa scena, se ne sarebbe presentata un’altra [...], [...] quella di alcune compagnie garibaldine che, sparpagliate qua e là sulla via sporca di nevischio calpestato, erano in attesa di comandi. Tra quelle compagnie, poi, distinguevasi un gruppo di ufficiali, tra cui un giovane che recitava ad alta voce il brano di Danton. Il giovane era Giorgio Imbriani87.

Giorgio Imbriani non tornò vivo dagli scontri di Digione: egli apparteneva all’ala più estrema del mazzinianesimo napoletano, vicina al pensiero di Carlo Pisacane; in quelle battaglie morirono veterani delle guerre del Risorgimento, come il pavese Luigi Bossi – reduce addirittura dalla guerra di Crimea, con Garibaldi già nel ’60, ’66 e ’67 – e giovani speranze della democrazia, come Carlo Rossi, collaboratore della «Plebe» dell’ex camicia rossa Enrico Bignami, o Giuseppe Cavallotti, fratello di Felice, a sua volta, com’è noto, garibaldino nel ’60 e nel ’66. Per molti volontari italiani, l’essere e il rivendicarsi soldati e garibaldini si sostanziava di uno spirito antimilitarista inteso come rifiuto degli eserciti stanziali ed esaltazione della nazione armata, e come ripudio della guerra quale tipico linguaggio politico delle monarchie e degli imperi. I ricordi di Socci e Bizzoni sono intrisi di queste tematiche, e nel primo la denuncia delle efferatezze prussiane si accompagnava all’atto d’accusa contro «il soldato abbrutito nella caserma»88. Il direttore del «Gazzettino rosa», da parte sua, non perdeva occasione per sottolineare più o meno esplicitamente la distanza che teneva separato l’esercito garibaldino da un esercito tout court: la compiaciuta descrizione del boicottaggio, da parte dei vertici dell’Armata dei Vosgi, del provvedimento che imponeva l’uso generalizzato delle corti marziali, rientra, per esempio, in questa autorappresentazione della differenza89. 144

La rievocazione dell’esperienza francese che dobbiamo a Bizzoni è un continuo intreccio di aspetti politici e militari e di dati più prosaici legati alle quotidiane condizioni di vita. Il giornalista amava infatti accostare l’ostentazione provocatoria delle sue «aspirazioni epicuree» alla rievocazione della stanchezza, del freddo, della fame e della miseria degli alloggi: unico elemento di contrappeso in questo quadro di penuria, l’onnipresenza del vino, che gioca un ruolo di tutto rispetto nelle sue Impressioni. Quasi a replicare i colori dominanti di Mentana, Bizzoni rievocava villaggi e campagne che a novembre erano torrenti di fango e poche settimane dopo distese di ghiaccio a diciotto gradi sotto lo zero; riferiva divertito la notte trascorsa in una ricca casa abbandonata, custodita solo da una cameriera «legittimista», che al mattino era inorridita sapendolo reduce della spedizione del ’67. I retaggi del lungo conflitto sul potere temporale del papa e la rappresentazione dei garibaldini come miscredenti erano, del resto, una delle cifre di quell’esperienza, come metteva in luce Jessie White, descrivendo le prese di posizione di alcuni curati contro i volontari «eretici e scomunicati»90. D’altronde i garibaldini avrebbero dovuto verificare non solo l’ostilità politica francese, ma anche l’inutilità delle vittorie conseguite dai volontari sul campo, nel quadro complessivo delle decisioni dei vertici: L’armistizio – scriveva Socci – fu la testa di Medusa dell’entusiasmo nostro; io vidi qualcuno piangere: la maggior parte si sbizzarriva lanciando improperii a Favre e alla Francia [...]. [...] armistizio non poteva significare che pace disonorante: la resa di Parigi lo diceva troppo chiaramente; eppoi da quando in qua i seguaci di Garibaldi potranno ottenere un completo trionfo? [...] Non si è sempre cercato di sfruttare i suoi trionfi, facendolo poi passare quasi per un pazzo o per un avventuriere? [...] ...I repubblicani francesi erano presso a poco gli stessi pagliacci dei consorti italiani91.

Proprio alle fasi dell’armistizio e del successivo scioglimento dei corpi – nel marzo – Achille Bizzoni riservava una delle sue più efficaci prove di scrittura: Il decreto di scioglimento dei franchi tiratori e dei garibaldini era giunto. [...] Gli italiani dovevano essere disarmati a Macon, i franchi tiratori ai loro rispettivi accantonamenti. [...] La condotta di Thiers e dell’Assemblea di Bordeaux avevano indi-

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gnato tutta la Francia repubblicana; nelle conversazioni si parlava piano e forte di rivolta, di guerra civile, di restaurazione degli Orléans, di tradimenti, di colpo di Stato; si sentiva d’essere alla vigilia di terribili avvenimenti, e i franchi tiratori, partiti armati dai loro dipartimenti [...] dichiaravano di voler rientrare armati per difendere la repubblica, nel caso fosse minacciata dalla reazione [...]. La parola d’ordine era corsa veloce come elettrica scintilla da battaglione in battaglione; e i comandanti di corpo avevano già dichiarato di non aver sufficiente autorità per disarmare i loro uomini.

L’intervento di Menotti e Ricciotti Garibaldi sarebbe poi riuscito ad ottenere l’estremo gesto di disciplina, che non si rinunciava però a caricare di inequivocabili significati simbolici. L’unica protesta fatta da alcuni fu quella di percuotere il fucile contro il parapetto del fiume e di consegnarlo spezzato. [...] Ma dolorosamente commovente fu il disarmo dei franchi tiratori della brigata Menotti avvenuto ad Autun [...]. La sera innanzi il generale aveva convitato ad un banchetto tutti gli ufficiali de’ nostri franchi tiratori, e caldamente aveva raccomandato loro d’evitare disordini [...]. La mattina seguente [...] li vedemmo sfilare verso il magazzino militare; le fanfare avevano intonato il mesto e solenne canto della marsigliese, e duemila voci facevano eco; tutti indistintamente i soldati portavano il fucile capovolto in segno di lutto. N’ebbimo il cuore straziato. [...] Alla sera Autun era silenzioso come cimitero; [...] di tutto l’esercito de’ Vosgi ad Autun non restavano che il generale ed i suoi ufficiali. Come ridire la profonda mestizia di quella sera? Autun silenziosa e monotona sempre, ci pareva allora una tomba; la tomba delle vagheggiate e sperate vittorie nell’avvenire, la tomba d’un’infinità di ricordi, di illusioni per sempre sparite92.

Ancor più che nei mesi precedenti, a partire dall’armistizio del 28 gennaio le vicende personali e collettive dei garibaldini e il modo in cui essi uscirono da quell’esperienza si intrecciarono alle urgenze drammatiche della politica interna francese. Gli appunti rivisitati di Musini si spingono fino alle settimane della Comune, descrivendo con compiacimento l’accoglienza calorosa del popolo parigino ai volontari smobilitati e la sagoma di qualche camicia rossa tra gli oratori più accesi93. Anche se Garibaldi – pur vicino in quegli anni all’internazionalismo – non ebbe nessun ruolo attivo nella Comune, va da sé che, nel146

la guerra civile in corso, gli uomini che avevano combattuto al suo fianco fossero identificati dalla controparte reazionaria con i settori repubblicani più radicali. Anche in seguito, a Timoteo Riboli – comandante dell’ambulanza dell’Armata dei Vosgi e più tardi tra i principali animatori del Comitato di soccorso per i reduci bisognosi e le famiglie dei morti – arrivavano notizie sulle persecuzioni che i garibaldini italiani stavano subendo dal governo conservatore francese, dopo essere stati già duramente colpiti dagli uomini di Versailles durante la guerra civile94. Capitava che volontari rimasti in Francia fossero costretti a passare furtivamente in Svizzera per sfuggire a possibili arresti e chiedessero supporti non solo materiali per far fronte all’emergenza95. La maggior parte della corrispondenza giungeva comunque al Comitato di Torino dai reduci tornati in patria o dalle famiglie dei caduti: le difficoltà che si denunciavano erano di ordine economico e politico e coinvolgevano disertori dell’esercito regolare, persone rese inabili al lavoro dalle ferite riportate, uomini che avevano perso l’impiego per essere partiti volontari, padri e madri di giovani che avevano combattuto a più riprese con Garibaldi96. La compilazione degli elenchi dei caduti – tra gli italiani più di cento – negli scontri con i prussiani o in seguito ad essi era funzionale anche a quella successiva opera di soccorso, a quella rete di solidarietà assieme politica ed economica: essa, assieme ad altre fonti, ci è utile oltretutto per mettere in luce come anche tra i caduti, prevalessero i centro-settentrionali, moltissimi dei quali emiliani. L’Emilia aveva conosciuto anche numerosi ritorni dalla Francia, sollevando preoccupazioni – come in qualunque altro luogo di rimpatrio – nelle autorità. A Parma, in particolare, dovevano essere però ben rappresentati anche i gruppi sociali e politici che riservavano alle camicie rosse accoglienze assai più calorose, se il clima generale aveva addirittura scoraggiato i procedimenti nei confronti di arruolati ed arruolatori. Qualunque giudizio – si temeva – avrebbe infatti potuto suscitare «dimostrazioni turbolente e sediziose»97. I dodici mesi intercorsi tra la primavera del ’70 e quella successiva erano iniziati facendo registrare l’attivismo dei settori mazziniani, in collaborazione più o meno stretta con alcuni reduci garibaldini e lo stesso entourage familiare del Generale. Da Pavia alla Calabria alla Toscana era emersa una vasta rete di progetti insurrezionali di matrice repubblicana98, che non avevano risparmiato le forze armate, 147

suscitando profonde inquietudini nelle istituzioni centrali e periferiche. Del resto lo stesso corpo garibaldino in Francia accolse al suo interno figure provenienti dall’esercito regolare, disertori o implicati nelle trame che poco tempo prima erano costate la vita al caporale Pietro Barsanti, giustiziato il 27 agosto 187099. Con la trasformazione dello scenario romano e di quello francese, a Mazzini erano però progressivamente sfuggiti uomini che gli rimanevano idealmente legati, ma che nei fatti si erano dissociati dai suoi giudizi sugli avvenimenti d’oltralpe e sul conflitto in corso. A ciò era corrisposta una confluenza nell’alveo del garibaldinismo di gruppi decisamente antagonistici all’Italia moderata e alla monarchia: l’aveva favorita anche l’allontanamento di Garibaldi dalle istituzioni, che si era sempre più accentuato dall’autunno del ’66 in avanti. Il linguaggio stesso dei proclami della campagna di Francia, le formule e le parole d’ordine utilizzate affondavano le radici in un humus repubblicano su cui si innestavano nuove culture politiche, a cui Mazzini rimaneva estraneo. Del resto anche la stampa moderata sottolineava come attorno alla valutazione degli avvenimenti francesi e sull’atteggiamento da assumere rispetto alla Prussia si stesse consumando una divisione di dimensioni inconsuete all’interno del cosiddetto «partito garibaldino». Mi pare che, a ben guardare, si trattasse invece di una delle conseguenze del venir meno di quello stesso partito, anche in virtù della liberazione di Roma. Tuttavia, pur operando una scelta di campo che lo isolava rispetto a molti dei settori d’opinione rappresentati in Parlamento, dagli avvenimenti del ’70-’71 Garibaldi sarebbe uscito rafforzato, se non in senso strettamente politico, almeno dal punto di vista del consolidamento della sua immagine di mito antagonistico. Sul lungo periodo l’esperienza francese sancì anche la consacrazione di Ricciotti Garibaldi quale comandante e continuatore dell’opera del padre, che tendeva sempre più ad essere rappresentata come una tradizione da tramandare ed alimentare di generazione in generazione. Ricciotti, attraverso i decenni, avrebbe del resto riletto ripetutamente le vicende del ’70100, oltre che in chiave democratica, anche nell’ottica dell’alleanza latina e della lotta di civiltà. Si trattava chiaramente di una rappresentazione che avrebbe alimentato l’interventismo e che sarebbe convissuta anche con il fascismo, entrando in crisi, per evidenti ragioni, solo negli anni Trenta del Novecento.

Parte seconda

Racconti ed eredità del Risorgimento

Capitolo quinto

Itinerari garibaldini

1. «Biografie dei sovversivi»1 Negli anni tra Aspromonte e Mentana il Ministero dell’Interno controllava sistematicamente per lo meno 600 ex garibaldini, a quanto emerge dalle schede personali eloquentemente denominate «Biografie dei sovversivi»2. Si tratta senza dubbio di una stima al ribasso, poiché questi fascicoli non raccoglievano i profili di primo piano, ma un vasto tessuto di piccolo e medio livello3. Al censimento del potenziale sovversivismo sfuggivano generalmente i settori dell’impegno politico diretto, nell’ambito parlamentare o ai vertici dell’associazionismo democratico: per intenderci, in questo casellario ante litteram mancavano figure come Francesco Crispi, Alberto Mario, Agostino Bertani, Benedetto Cairoli, considerati e temuti, all’epoca, come pericolosi animatori dell’opinione antimoderata. Non mancavano certo esponenti di rilievo del garibaldinismo, ma si trattava, tutto sommato, di eccezioni. Ciò che caratterizzava questi profili era la loro maggioritaria appartenenza all’ambito dell’«anonimato», se non sul piano locale, certo su quello nazionale. Dai possidenti ai giornalieri, alle professioni liberali, con una presenza assai significativa dei gruppi artigianali e commerciali, tutte le componenti professionali ed economiche vi erano rappresentate; l’indagine copriva l’intero territorio del Regno d’Italia, capoluoghi e piccoli centri rurali. Non tutti gli ex garibaldini schedati risultavano di opinioni antimonarchiche: alcuni di loro – e nemmeno tutti – erano semplicemen151

te oppositori più o meno dichiarati dei governi moderati. Configurandosi alla fin fine più come un’ipotesi che non come un’acquisizione, il sovversivismo era quindi, innanzitutto, un punto di partenza: la militanza patriottica a fianco di Garibaldi rappresentava cioè un prerequisito sufficiente del sospetto e del controllo, ed era essa stessa a costituire un precedente «sovversivo», un fattore discriminante bastevole a suscitare diffidenza da parte degli apparati governativi. Queste biografie consentono di esemplificare le diverse vie d’accesso al garibaldinismo, i percorsi attraverso i quali ci si poteva in seguito riposizionare nel nuovo contesto statuale, ma anche la forma mentis con la quale prefetti, sottoprefetti e questori del Regno si accostavano a uomini che avevano partecipato agli eventi fondativi dell’Italia unita. Il quadro che ne emerge è articolato e pesantemente condizionato dai tempi e dai luoghi. Ciò non significa che l’individualità del funzionario – la sua sensibilità e le sue convinzioni politiche – non avesse il suo peso, emergendo in maniera più o meno esplicita: di fronte a chi non riusciva o non voleva cogliere la distinzione tra «rossi» e «neri» né tra opposizione e delinquenza, c’erano uomini – non molti per la verità – capaci non solo di valorizzare il passato patriottico degli schedati, ma anche di mettere ben in evidenza, nel proprio ragionamento, che quella che si stava giocando era almeno una partita a tre, i cui attori principali si individuavano nei moderati, nel Partito d’Azione e nelle forze legittimiste e antiliberali. Le vicende individuali che si citeranno nelle pagine seguenti sono quindi rappresentative di una casistica più vasta ed emblematiche dei parametri attraverso i quali i rappresentanti del Ministero dell’Interno interpretavano la loro contemporaneità e il recente passato; possono inoltre contribuire a tratteggiare contesti ed ambienti. Quello che si analizzerà è un panorama dell’opposizione politica fotografato, in linea di massima, all’altezza del 1863-64: a ridosso, quindi, di due esperienze garibaldine – quelle del ’60 e del ’62 – profondamente diverse, ma altrettanto profondamente connesse. La mappa geografica del controllo sulle camicie rosse rispecchiava i loro stessi spostamenti fisici, privilegiandone i luoghi di partenza e di radicamento e i punti d’arrivo, le direttive d’azione, i contesti che si ritenevano più coinvolti e forse destabilizzati dalle iniziative garibaldine. Dunque la Lombardia e la Sicilia innanzitutto, che assieme all’Emilia e alla Romagna erano le realtà più esplorate. Il contesto siciliano fu in effetti uno dei più intensamente coinvolti da questo censimento del dissenso, in cui rimanevano impi152

gliati, per esempio, vari corrispondenti di Francesco Crispi. Era il caso, tra gli altri, del messinese Francesco Savona, titolare di una società di navigazione, già implicato nella rivoluzione del ’48 e costretto ad emigrare a Malta, dov’era entrato in relazione con Nicola Fabrizi. Tornato in Sicilia al seguito del modenese nel ’60, aveva rinunciato ad ogni incarico dopo la fine del governo garibaldino4. Francesco Perroni Paladini era personaggio di più alto livello e di maggiore influenza, ma veniva assimilato per fede repubblicana al precedente: avvocato e animatore del giornalismo antimoderato, aveva avuto parte attiva nella mobilitazione del ’62, dopo essere stato protagonista anche due anni prima5. Dopo i fatti di Aspromonte la preesistente sfiducia nei confronti dei settori isolani più vicini a Garibaldi non poté che accentuarsi, coinvolgendo popolani e notabili, di cui si temeva ovviamente l’influenza, elemento costantemente preso in considerazione nelle biografie. Ad attirare l’attenzione era innanzitutto, com’è ovvio, chi era stato a fianco del Generale nel ’62 dopo averlo già seguito nel ’60. Era il caso del medico palermitano Enrico Albanese, nato nel 1834, già chirurgo divisionale fino al Volturno. Dopo la smobilitazione dell’Esercito meridionale, egli si sarebbe dimesso per non sottoporsi alla Commissione di scrutinio, «ritenendolo come un affronto alla di lui capacità»; nel ’62 aveva ripreso le armi e, fatto prigioniero, «rimase con [...] [Garibaldi] per assisterlo, come da tutti si conosce», continuando in seguito a frequentarlo a Caprera6. Carlo Trasselli aveva una storia simile, pur essendo di dieci anni più vecchio: negoziante, anch’egli palermitano, era stato ufficiale nel ’60 e due anni dopo aveva guidato «nelle montagne di quest’Isola [...] una forte squadriglia di Garibaldini», composta in gran parte di disertori. Perduto per questi motivi l’impiego alla dogana, era in quel momento nella Guardia nazionale7. Tra i siciliani implicati nell’iniziativa conclusasi sull’Aspromonte spiccava per influenza e coraggio il corleonese Giuseppe Bentivegna, fratello di Francesco, di felice ricordanza, che nel 1856 fu moschettato dal Governo Borbonico per avere innalzato il vessillo della libertà e pugnato per la medesima con infelice successo. [...] Nel 1862 fece parte del malaugurato tentativo del Generale Garibaldi ed ebbe il comando di una brigata [...]. Dopo il fatto di Aspromonte cadde prigioniero e fu liberato per l’amnistia accordata dal Re8.

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Così come altri ex garibaldini, egli era all’epoca ufficiale della Guardia nazionale, che rappresentò per molti volontari, anche fortemente antimoderati, una collocazione desiderabile e strategica. L’avversione al governo di alcuni ex rivoluzionari «recidivi» veniva derubricata come semplice ricaduta di una frustrazione personale, nata dalla convinzione di non essere stati adeguatamente compensati dalle istituzioni per la propria militanza patriottica. Non era una chiave di lettura adottata solo per il contesto siciliano: la si applicava altresì ad un calabrese dei Mille, Alberto De Nobili, di famiglia antiborbonica, volontario anche nel ’62, dopo essere stato impiegato nella Guardia nazionale. Di lui si diceva esplicitamente che «avuta una occupazione dal Governo» avrebbe smesso «da talune improntitudini di opposizione»9. Erano interpretazioni della realtà che potevano trovare conferma e giustificazione in itinerari come quello del messinese Nicola Palermo, rivoluzionario nel ’48, condannato a morte e poi ai ferri dai Borboni, maggiore garibaldino nel ’60, che aveva ottenuto un posto di delegato di pubblica sicurezza10. Come emerge da molte biografie, soprattutto al Sud gli avvenimenti dell’estate 1862 avevano messo in discussione posizioni acquisite, indotto a dimettersi uomini impiegati nell’esercito o nell’amministrazione e ne avevano spinti altri a rischiare e poi a perdere l’impiego. Poteva anche trattarsi – al contrario di quelli fin qui citati, tutti classificati come repubblicani – di individui d’opinioni moderate, protagonisti della rivoluzione del ’60 e di nuovo mobilitatisi nella convinzione di un accordo tra Garibaldi e il governo, come potevano suggerire le ambiguità del momento. Raffaele Muccio, di Modica, era stato almeno dal ’48 un «liberale onesto e costante»; anche per questo era rimasto isolato e privo di influenza, «per aver sempre fatta guerra a’ clericali e a’ borbonici, che in queste contrade troppo abbondano e che continuano a dominare». Nel ’62 «anch’egli fu tratto nell’errore di reputare il Governo in piena intelligenza con Garibaldi»; scioltosi l’equivoco, «se ne mostrò come molti altri profondamente esacerbato, ed in quel torno di tempo i pseudo-repubblicani fecero presa su di lui». Anche il figlio condivideva le sue opinioni accese, ma si confidava che, per entrambi, «l’allucinazione» avrebbe avuto «corta durata»11. Giuseppe Borruso12, originario di Castellammare, aveva una storia più complicata e drammatica: quando il padre Francesco – noto liberale di vecchia data e maggiore della Guardia nazionale – era stato ucciso nel moto reazionario del gennaio ’62, egli si trovava a Ver154

celli, in uno dei depositi in cui erano raccolti i volontari garibaldini che non si erano congedati. Pochi mesi dopo, entrato finalmente nell’esercito regolare, era stato tra i 32 ufficiali della Brigata Piemonte che avevano approfittato della possibilità di dimettersi, invece di battersi contro i garibaldini13. Nel 1864 scriveva per «Il Precursore», in cui avrebbe fatto «ampia professione de’ suoi principi sovversivi»; godeva inoltre – cosa che preoccupava – di simpatia ed influenza «specialmente pei luttuosi casi di sua famiglia». Nel 1864 risiedeva a Lecce il lucano Giuseppe Rossano, politicamente attivo fin dal ’48, emigrato in Grecia e in Turchia, garibaldino nel ’59, nel ’60 e poi di nuovo ad Aspromonte. Questo repubblicano di «spudorata opposizione»14 era stato sacerdote e aveva dismesso l’abito proprio in conseguenza delle sue convinzioni liberali. Assieme agli emigrati, gli spretati erano un soggetto collettivo che sembrava attirare in modo particolare la curiosità e il sospetto: si trattava, in entrambi i casi, di identità sospese e di itinerari spezzati, che avevano al proprio centro la scelta patriottica, una forma di dissidenza, una diserzione, militare o culturale che fosse. Queste biografie – per le informazioni che forniscono e l’ottica che tradiscono – confermano l’immagine della Sicilia come roccaforte di un sentimento patriottico, spesso assimilabile al garibaldinismo, che faticava ad identificarsi con la leadership moderata sabauda. Se nell’isola la spia di una persistente riserva nei confronti delle istituzioni era rappresentata dalla condotta seguita nel ’62, nel Meridione continentale erano anche altri i fattori capaci di dare la misura di un’eredità garibaldina più o meno compatibile con gli equilibri politici moderati. Quelle che apparivano come isole di liberalismo sotto l’assedio del brigantaggio e della reazione erano spesso difese anche da ex camicie rosse, come l’abruzzese Massimo Susi, luogotenente dell’Esercito meridionale, ora impegnato nella Guardia nazionale contro i briganti15. Pur non partecipando in prima persona alla guerra contro il brigantaggio, l’ultrasessantenne Francesco Fasulo, nato nel 1799, appariva quasi il simbolo vivente della resistenza contro l’involuzione della lotta tra «partiti» verso forme prepolitiche: beneventano, «gli fu uccisa la madre e fatto prigioniero il padre dalle orde del Cardinal Ruffo»; arrestato già nel 1821, era stato poi perseguitato dal ’48 al ’60, quando fu volontario ed arruolatore16. Anche tra gli ex garibaldini di sentimenti repubblicani si potevano trovare collaboratori più o meno affidabili nell’ingrata guerra in cor155

so. Il leccese Alessandro Bortone, impegnato nella Guardia nazionale mobile, era uno di loro, e la sua persistente opposizione al governo era letta alla luce di un’interpretazione già esposta, connessa com’era alla mancanza «di una posizione che gli assicuri la sussistenza»17. C’erano uomini che invece si consideravano perduti alla causa liberale moderata, poiché la loro notorietà in piccoli o grandi gruppi politici e sociali era legata al vincolo e all’affezione personale verso Garibaldi, a cui riconoscevano il merito di averli sollevati dall’anonimato. Con questi tratti si dipingeva il profilo del salernitano Alfonso Origlia, prima della rivoluzione uno oscuro avvocato, di sentimenti liberali e di costumi regolari. Dotato di uno scarsissimo ingegno, ma di una imaginazione [sic] ardente lesse nei primi tempi della rivoluzione le opere di Mazzini e ne fece il suo Vangelo. Garibaldi lo distinse in mezzo agli altri pel suo aspetto teatrale, la lunga barba, la fisionomia strana, e lo accolse con particolare benevolenza. Origlia si trovò improvvisamente creato Tribuno della Plebe. Nel 1861 fondò a Salerno un Circolo politico nel quale si ripetevano le più ridicole scene delle rivoluzioni degli altri paesi. Ei girava i paesi della Provincia arringando il popolo sulle piazze pubbliche. Nel 1862 in agosto fu ordinato dall’autorità militare il suo arresto; ma egli si rese latitante e non ricomparve che dopo cessato lo stato d’assedio. [...] Può essere pericoloso in un momento di eccitamento popolare e di aberrazione; nei tempi normali le sue declamazioni fanno ridere anche i suoi amici18.

Volendo concedere che lo sguardo prefettizio – spesso pronto del resto a screditare sistematicamente l’opinione antimoderata – cogliesse tutto sommato nel segno, non erano pochi i casi in cui, più che le convinzioni politiche, contavano identificazioni emotive e carismatiche e dinamiche legate al sentimento di gratitudine e ad un atteggiamento quasi fideistico. Lorenzo Carbonari, oste di Ancona, era stato uno dei Mille. È Garibaldino acceso e sogna sempre il ritorno di quella spedizione. È uomo coraggioso, ed ha una certa influenza tra quelli del suo partito. Volentieri si presta a qualunque arruolamento, ma non ha concetto politico, tranne la devozione a questi uomini con cui militò, e che crede soli capaci di redimere completamente l’Italia19.

Anche nella province centro-settentrionali, agli ex garibaldini si applicava innanzitutto un sommaria distinzione tra chi attendeva perennemente il rinnovarsi di episodi rivoluzionari e agognava l’azio156

ne e chi invece era da ritenersi recuperabile a forme meno dirompenti di dialettica politica, attraverso la soddisfazione di ambizioni personali e gratificazioni sociali. Del resto, assieme agli aspetti economici e professionali, anche la vita privata era percepita come fattore capace di dissuadere dal tradurre in azione le proprie convinzioni, temperando gli «ardori» e allontanando la tentazione di «avventurarsi in nuove imprese guerresche»20. La Lombardia, assieme all’Emilia e al Piemonte, era luogo d’elezione dell’emigrazione politica, specie veneta e mantovana, una categoria, come si è detto, particolarmente colpita dal controllo delle autorità periferiche. Spesso ritenuti disponibili a farsi coinvolgere in qualunque dinamica di tipo rivoluzionario e in qualsiasi emergenza insurrezionale – specie se diretta alla soluzione della «questione veneta» – su questi ex garibaldini, in molti casi studenti, gravava di frequente il peso doppio del cattivo giudizio politico e della riprovazione morale per una vita oziosa e dissoluta. Espatriati in corrispondenza della prima o della seconda guerra d’indipendenza, essi erano spesso passati attraverso diverse esperienze di volontariato – non solo garibaldino – e una frequente mobilità geografica. La definizione sprezzante di «emigrato ozioso» spettava al veneziano Cesare Pavan, che nel 1864 aveva 31 anni e risiedeva a Bologna. Volontario nel Veneto nel ’48, era stato con Garibaldi nel ’59 e nel ’60. Stabilitosi nel capoluogo emiliano, diede a conoscere di professare sentimenti piuttosto avanzati, accostando dei Mazziniani, che tanto abbondano nella classe degli Emigrati, ed allorché nell’Agosto 1862 Garibaldi tentò quel moto, che finì nella catastrofe di Aspromonte, il Pavan si allontanò da Bologna per prender parte al detto movimento [...]. La vita che egli conduce, è delle più dissipate, oziando tutto il giorno, e parte della sera per la Città, e pei Caffè frequentati da dei suoi compagni ex Garibaldini, ed emigrati. I suoi sentimenti sono da Mazziniano, ed è facile e pronto a parlare contro l’attuale ordine di cose. [...] Coll’insieme del suo contegno non corrisponde, come dovrebbe per riconoscenza, alla generosità del Governo, da cui certamente può dirsi non mal provveduto col sussidio sopraindicato21.

Un percorso simile aveva seguito Francesco Ferretto, nato a Thiene nel 1805, stabilitosi in Piemonte dopo essere stato difensore di Venezia nel ’49, volontario nell’esercito sardo nel ’59 e garibaldino nel ’60. Egli sembrava convinto «che l’educazione dei suoi figli 157

consista nel gridar forte contro i tiranni sieno essi austriaci, preti, o Regi»; ritenuto «agitatore delle infime classi del popolo»22. Angelo Panarotti, nato nel 1830 in provincia di Vicenza, garibaldino nel ’60, durante l’insurrezione del Friuli del 1864 era «incaricato di raccogliere gli emigrati e specialmente i disertori austriaci disposti a partire. [...] ora cammina di continuo fra Torino ed Alba ed in questa città frequenta le bettole popolate d’operai, ai quali non fa mistero delle sue tendenze»23. Anche l’emigrazione straniera era rappresentata in questo censimento dei gruppi d’opposizione. Tra gli schedati c’era il magiaro Frigyesi, che abbiamo ritrovato tra i comandanti garibaldini fino a Mentana24, ma anche il suo connazionale Rapolthi Nagy, residente come lui in Piemonte, cui si attribuiva il tentativo di far disertare gli uomini della Legione ungherese e di indirizzarli verso le iniziative del Partito d’Azione25. A Firenze si era stabilito invece l’esule russo Leone Mecˇnikov, legato ad Herzen e Bakunin, che nel ’60 avevano raggiunto Garibaldi al Sud con la spedizione Malenchini26. Se il contesto piemontese era tenuto sotto sorveglianza soprattutto in relazione alla presenza di emigrati, l’ambiente emiliano – bolognese in particolare – attirava l’attenzione anche per molti ex garibaldini autoctoni. Di alcuni di loro, come il maestro di lingue Gaetano Stagni, si temeva in particolare la capacità di influenzare con il suo credo repubblicano «quel ceto di persone, che congiunge l’infima classe alla borghesia»27. Una figura sospesa – a metà tra l’informatore e il sovversivo, tra l’oppositore politico e il delinquente comune – era Camillo Trenti, detto Camillone, personaggio profondamente radicato negli strati popolari della città. Di buona e ricca famiglia, nel ’48-’49 aveva combattuto nel Veneto e poi a Roma. Rientrato in patria e constatata la perdita di tutte le ricchezze, si era messo al servizio di un macellaio, dedicandosi anche al contrabbando del bestiame. Allorché si stava preparando la rivoluzione del 1859, i capi del partito nazionale dimoranti in Bologna, colla lusinga di tenere in freno il basso popolo all’atto del movimento, chiamarono a sé, come è ben noto, diversi popolani, che erano in voce di avere su di esso dell’ascendente, fra i quali il Trenti, e così egli ebbe a divenire uno dei così detti capi popolo. [...] nel 1860 si arruolò come volontario in una delle spedizioni per la Sicilia, da dove passò a Napoli.

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Tornato di nuovo a Bologna «vestito da Ufficiale Garibaldino», era stato assunto alle dipendenze del Municipio, «come premio dell’opera già da esso prestata nel suddetto moto politico». Per qualche tempo colla doppiezza del suo contegno, lasciò egli credere di proseguire nelle suddette relazioni per potere dominare, colla pretesa sua influenza, la ciurmaglia popolare allora temuta, ed infrenarla [...]. [...] Contemporaneamente si teneva in confidenziali rapporti colle Autorità, figurando di agire a pro di queste, ma in fondo egli abusava della fiducia troppo innocentemente in lui riposta, per servire totalmente alla causa del disordine.

Dalle indagini era infine emerso che «che egli era anima perduta», legata non solo al Partito d’Azione, ma anche alla criminalità comune, finendo condannato ai lavori forzati a vita28. I caffè di Bologna, frequentati come si è visto da molti emigrati politici, erano luogo di ritrovo per tutti gli ex garibaldini. Paolo Guerino Bovi aveva combattuto nel biennio rivoluzionario fino alla caduta di Roma, aveva indossato la camicia rossa al Sud e poi, congedato dall’esercito regolare, aveva tentato di unirsi ai volontari anche nel ’62. Due anni dopo era ancora «uno dei più caldi fanatici della democrazia. [...] Sull’imbrunire poi, e parte della sera la passa al Caffè del Rosso nella via Repubblicana a conversare coi suoi amici»29. L’area padana tra Pavia, Mantova e Parma costituiva anch’essa un territorio di effervescenza politica: in tempi differenti crocevia fra Stati e dominazioni diverse, ospitava emigrati, ex volontari, agenti d’arruolamento. Luigi Strambio, di Belgioioso, aveva fatto il suo apprendistato patriottico già nel ’31, combattendo di nuovo nel ’48. Emigrato e poi tornato in patria, aveva preso in gestione un podere dal fratello nei pressi di Pavia, vicino al Po. Approfittando della posizione, si mise «a favorire [...] nel 1859 il passaggio di giovani Lombardi ad arruolarsi tra le truppe Piemontesi». Capitano dei Cacciatori delle Alpi, era entrato nell’esercito sardo, da cui si dimise per seguire di nuovo Garibaldi in Sicilia30. Da Mirabello, non lontano da Pavia, proveniva il futuro volontario dei Vosgi Angelo Scaglioni, nato nel 1840, macellaio e già studente. Era uno dei Mille, «facile a maneggiar le mani», di nuovo partito per seguire Garibaldi nel ’62. «Di carattere audace, d’ingegno svegliato, pronto ad ogni arrischiata impresa si era procurato il soprannome di rabelais, che lo fa conoscere abbastanza come amante del disordine»31. 159

La mitizzazione del recente passato rivoluzionario e la nostalgia per i giorni passati a fianco del Generale accomunavano molte altre figure, anche assai diverse tra loro. Giuseppe Franceschini, giovane cocchiere bresciano, capace di guidare le diligenze sulle strade ghiacciate della Val Camonica, era stato sergente dell’Esercito meridionale. Ripatriò poscia, e fece ritorno al suo primo mestiere, avendo succhiato nel breve corso della sua carriera militare una certa dose di esaltazione per cui è chiamato «il matto Garibaldino»32.

Per Pietro Stagnetti, nativo di Orvieto e stabilitosi a Genova, il desiderio di rinverdire i fasti garibaldini avrebbe avuto, a quanto pare, altre implicazioni, ricalcate sull’immagine stereotipata del rivoluzionario capace di mettersi in luce solo nel disordine. Egli sarebbe stato «fra i più impazienti che nasca qualche movimento, per ritornare a galla e poter avere una posizione, dacché nello stato normale delle cose gli toccò di cadere al fondo»33. Tra Livorno e Firenze si collocava un’altra area in cui risiedevano e operavano ex volontari ancora molto sensibili alle vicende politiche. Nelle due città agivano uomini legati al Partito d’Azione ben inseriti nei settori popolari. Il fiorentino Antonio Galardini era uno di questi, garibaldino in Sicilia e ad Aspromonte. È giovane di molta influenza nel basso popolo e specialmente fra la gioventù. Non ha ottenuto gradi per essere illetterato, e questa condizione lo rende schiavo dell’altrui influenza. È repubblicano perché gli hanno detto essere questa l’unica forma di Governo che faccia il bene del popolo. È partigiano di Garibaldi per cieca idolatria al suo Capitano34.

A Livorno il punto di riferimento del garibaldinismo repubblicano erano indubbiamente gli Sgarallino – a più riprese in camicia rossa –, Andrea, Jacopo e in subordine Pasquale. Ai primi due si riservava il privilegio della biografia: descritto come «immorale, già contrabbandiere, giuocatore e crapulone», di Jacopo si riferivano i frequenti viaggi a Caprera, la confidenza con Menotti Garibaldi e la grande influenza tra il popolo del suo quartiere di barcaioli, detto la «Venezia»35. Noto e rispettato tra i «navicellai» era anche Andrea, che godeva delle stesse relazioni del fratello36. Di queste centinaia di schedati, prefetti e questori temevano certo la disponibilità all’azione e i contatti con i vertici democratici, ma 160

soprattutto paventavano la capacità di costruirsi un seguito, di conquistare proseliti, di affascinare e condizionare persone esterne alla propria cerchia di ex commilitoni, di saldare le frustrazioni politiche e sociali di ambienti diversi. Molti rappresentanti periferici del Ministero dell’Interno non riuscivano a liberarsi da una rappresentazione a tinte fosche dell’eterodossia politica, che assimilava il repubblicanesimo – spesso adottato come categoria onnicomprensiva del dissenso – all’oziosità, al vizio e a comportamenti morali ritenuti discutibili. Certo non mancavano gli uomini capaci di riconoscere onestà, valore e dignità professionale ai «sovversivi», ma erano molto più diffusi altri atteggiamenti. Il conformismo che trasudava da questo censimento trascendeva talvolta il livello politico, tanto che di un ufficiale garibaldino come Cesare Conti, medico bolognese, si potevano registrare con compiacimento le opinioni filogovernative, lamentando però la «condotta morale [...] alquanto pregiudicata per tresche erotiche e per le sue convinzioni religiose tendenti al protestantesimo per cui si fa biasimare»37. L’orizzonte mentale che queste biografie tradivano implicava forse la convinzione che determinate rappresentazioni potessero gratificare e compiacere il Ministero, rientrando nelle sue attese. Nell’ambito di questa ipotesi è tanto più interessante notare quale immagine si fornisse alla metà degli anni Sessanta di quelle che sarebbero diventate delle icone del patriottismo italiano, sul piano nazionale e locale. Di Enrico Cairoli – che avrebbe trovato la morte a Roma nel ’67 – e della madre si scriveva in questo modo: Appartenendo [...] ad una famiglia in cui la vedova Madre, alquanto ambiziosa di distinguersi, accoglieva persone che trattavano di politica, ed in cui il figlio maggiore Benedetto, attuale Deputato, avea dovuto fuggire fino dal 1853 per trovarsi implicato nell’esito delle cartelle del prestito Mazzini [...], il fratello Enrico si trovò pure ben presto iniziato nella vita politica. [...] Giovine ambizioso, e di carattere impetuoso egli prese sempre parte negli anni scorsi alle dimostrazioni popolari, amando di figurarne come capo e moderatore. Non attende all’esercizio dell’arte salutare, ma piuttosto si da [sic] al bel tempo38.

La bolognese Anna Grassetti Zanardi, nata nel 1815, aveva iniziato la sua attività politica, al fianco del marito cospiratore, ben prima del ’48, seguendo poi Garibaldi fino alla spedizione verso Roma39. Così il questore di Bologna, nell’agosto del ’63, dipingeva que161

sta figura femminile, il cui stile di vita doveva evidentemente inquietarlo: [...] per quanto udivasi dalla voce pubblica la sua vita fu sempre piuttosto licenziosa. [...] Liberata dalla prigionia, nell’anno 1859 dedicossi alle forniture di vestiarii per le nuove milizie, e nel 1860 raggiunse il Generale Garibaldi a Napoli sotto lo stesso titolo, ove però la pubblica voce ebbe a dire che essa fu ammessa tosto ad avvicinare il suo Stato Maggiore nella più intima famigliarità, che anzi senza alcun ritegno vi si prostituisse. Reduce dall’Italia Meridionale la sua abitazione divenne il convennio [sic] di varii individui del partito avanzato [...]. Smaniosa sempre di avere qualche parte nelle cose politiche, volle essa pure avere ingerenza nell’impianto di una Società politica femminile [...] che attualmente sta per fondersi con questa Società de’ Operaj. [...] Ora vive per quanto consta coll’ajuto della propria genitrice, e col frutto di forniture di oggetti di vestiario Militare, continuando a quanto dicesi a prostituirsi ai suoi conoscenti40.

Quella di cui si è parlato finora era una generazione che aveva vissuto la nascita del Regno d’Italia in un’età già matura; in effetti la maggior parte dei biografati aveva, tra il ’63 e il ’67, non meno di venticinque anni e non più di quaranta. Moltissimi di loro erano nati politicamente nel ’48, ma le esperienze garibaldine del ’59-’60 avevano rappresentato il terreno unificante di quei percorsi. Anche Celso Ceretti, di Mirandola, aveva combattuto nei Cacciatori delle Alpi, per poi seguire Garibaldi fino ai Vosgi, ma nel 1859 aveva solo 15 anni. Il suo profilo anagrafico gli consentiva, da uomo adulto, di incontrare di nuovo il garibaldinismo in una fase di intensi contatti con l’internazionalismo. La Comune ruppe gli indugi – ricordava Osvaldo Gnocchi-Viani, anch’egli garibaldino in Francia nel ’70 –, e le menti e i cuori di giovani ardenti e di operai svegliati si volsero ad essa, e da essa attinsero la luce e il fuoco delle nuove speranze. Il grande avvenimento parigino non lo si guardò che come un simbolo rivoluzionario, il quale, allacciandosi col suo spirito alle rivoluzioni pel risorgimento italiano, reclutò subito presso di noi gli animi ansiosi di non interrompere il corso del progresso umano e di allargarne le basi41.

L’influsso almeno indiretto della Comune era stato in effetti fondamentale soprattutto per chi aveva passato le Alpi in difesa della Repubblica. Si tratta ovviamente di questioni vaste e complesse, che 162

meriterebbero una trattazione più estesa. Attraverso alcuni casi concreti è possibile però esemplificare i percorsi attraverso i quali il garibaldinismo poteva intrecciare le sue implicazioni antagonistiche con nuovi linguaggi politici – in una prospettiva nazionale e sovranazionale – in un miscuglio di ribellismo, spirito anticonformista e ideologia. Ceretti, al ritorno dalla Francia, aveva fondato a Mirandola nel 1871 l’Associazione repubblicana anticattolica, che l’anno dopo avrebbe aderito al Fascio operaio. Amico e confidente di Garibaldi, il modenese mirava alla riunione delle componenti internazionaliste, repubblicane e razionaliste, mantenendo nel contempo assidue relazioni con Bakunin42. Pur avendo maturato oramai altre convinzioni politiche, all’inizio del 1873 aveva dato la sua disponibilità ad un progetto insurrezionale di matrice repubblicana da realizzarsi in Italia o da dirottare verso la Spagna, dove di lì a poco sarebbe stata proclamata la repubblica. Due anni dopo esplodeva la rivolta antiturca in Bosnia-Erzegovina e Ceretti, assieme ad alcune centinaia di volontari italiani accorsi in tempi diversi tra il ’75 e il ’77, prese parte alla lotta, offrendo il suo braccio agli insorti e alla Serbia43. Le forze rivoluzionarie locali e l’opinione democratica europea legittimavano queste iniziative come movimenti di liberazione nazionale, ma vi proiettavano anche attese di trasformazioni sociali radicali. Un tale connubio ideologico sollecitava del resto il recupero di metodi e modelli che rimandavano alle esperienze garibaldine. Sulla Drina, ai confini tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, affluirono uomini di convinzioni mazziniane, ma soprattutto internazionaliste, molti dei quali avevano vestito la camicia rossa nelle spedizioni più recenti. Alla mobilitazione armata presero parte, tra gli altri, Stefano Canzio, Achille Bizzoni e Luigi Castellazzo, che promossero la formazione di una Legione italiana, con a capo, appunto, Celso Ceretti. Una felice testimonianza di questi avvenimenti è dovuta alla penna di Giuseppe Barbanti-Brodano, avvocato socialista bolognese, anch’egli accorso con entusiasmo nei Balcani. La base dei suoi ricordi era costituita dalle lettere che inviava alla famiglia, integrate in seguito con ricche riflessioni storiche, politiche e culturali. Introducendo lo scritto, il fratello Augusto rievocava la partenza di Giuseppe, nell’autunno del 1876: Ho veduti molti volontarî partire per le guerre nazionali; essi erano ardenti ed entusiasti perché, si potrebbe dire, nell’aria stessa respiravano le

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idee nobili ed i sentimenti generosi pei quali andavano ad offrire la vita. Però quando mio fratello partì per la Serbia, quasi alla chetichella, salutato da piccolo numero d’amici, mentre che pochi apprezzavano tale risoluzione, io fui toccato da quel suo entusiasmo a freddo (mi si passi la frase), frutto di slancio giovanile, ma, più che altro, di mente riflessiva44.

La continuità e la distinzione rispetto al passato facevano indubbiamente riferimento ad un più solido bagaglio ideologico, ad una maggiore lucidità, propria – si sosteneva – di questa nuova generazione che, nel caso di Barbanti, non era politicamente nemmeno più quella di Ceretti, il quale rimaneva tuttavia capace di esercitare autorità anche in quanto ex garibaldino. La sua presenza era quasi una garanzia, la conferma della legittimità e del senso di una scelta, era un punto di raccordo, un veicolo di trasformazione e traduzione di linguaggi ed orizzonti mentali, nonché il simbolo di uno spirito libertario insofferente alle dottrine e a rigidi sistemi di pensiero; era l’emblema della vitalità, insomma, della tradizione garibaldina. Barbanti scriveva il 4 settembre ’76 da Udine: Laggiù sulle Rive della Morava e della Drina – checché ne pensino certi dottrinarî – si combatte una guerra di emancipazione, e più che altro, di emancipazione sociale. Ivi è il posto di coloro che a queste idee hanno votata la mente ed il cuore – ed è il mio posto – né potrei mancare all’appuntamento che la libertà ivi ci ha dato. Fata Morgana, farà, sullo splendido cielo d’Oriente, una breve apparizione, ma io voglio vederla, voglio salutarla, poi avvenga che può45.

La fiducia nella possibilità di conciliare progresso sociale e rivendicazioni nazionali, irredentismo slavo e italiano; la denuncia di quanto peso avessero avuto le diffidenze di classe nel naufragio dei progetti che avevano tentato di unire le lotte di serbi e croati a quelle dei magiari; la rivendicazione di una sorta di primato del patriottismo italiano nel raccordare libertà e nazionalità: tutto ciò conviveva e si mescolava nelle lettere e nelle riflessioni a posteriori di Barbanti. Del garibaldinismo egli si sentiva allo stesso tempo tra gli epigoni e i rinnovatori, e la figura di Ceretti gli appariva l’incarnazione migliore di questo atteggiamento. «Ceretti non ha che trentun’anni», ricordava Barbanti con una certa incredulità prima di enumerarne tutte le esperienze da volontario. «Nato alla Mirandola – un paese di codini e di rivoluzionarî», era «anche uomo del pensiero quantunque a vederlo sembri un ma164

novale [...]. Rivoluzionario sempre, fu repubblicano-socialista»; il suo «culto per Garibaldi» era immutato, ma ciò non gli impediva di rendersi conto che oramai il «garibaldinismo come partito [...] [era] parola vuota di senso»46, pur continuando a riconoscerne e a testimoniarne la rilevanza come modello di azione politica. All’inizio di novembre, a Belgrado, si era ventilata l’ipotesi che a Ceretti subentrasse nel comando un altro veterano della camicia rossa, il livornese Jacopo Sgarallino – appena incontrato tra i «sovversivi» degli anni Sessanta – che aveva condotto con sé sui Balcani un gruppo di volontari toscani. Per Barbanti e alcuni dei suoi compagni, pronti a chiedere il trasferimento ad un altro corpo, il suo era un nome che diceva poco, nonostante fosse entrato anch’egli nel circuito internazionalista italiano. Ceretti invece «rappresentava un programma di idee, quello appunto che noi siamo venuti a sostenere»47, e per quell’uomo e quelle idee Barbanti aveva accettato persino di vestire un’uniforme militare che lo metteva a disagio48. Senza Ceretti, lui e gli altri tornavano ad «essere puramente soldati»49. La presenza di questo trentunenne reduce da tutte le patrie battaglie fungeva quasi da surrogato dell’assenza di Garibaldi, che non poteva oramai fare di più – vicino ai settant’anni e fisicamente consumato – che legittimare idealmente l’iniziativa e mantenersi in relazione con i vertici slavi. Anche Ceretti alimentava però dinamiche di identificazione da piccolo capo carismatico, capace di esercitare fascino e autorità su gruppi non solo politicamente ma anche regionalmente connotati, ancora fortemente sensibili alla carica simbolica della camicia rossa. Il nome di Sgarallino doveva indubbiamente avere un peso diverso per un altro reduce dei Vosgi, garibaldino «solo» dal 1866, che avrebbe innestato anch’egli il credo internazionalista sul suo originario repubblicanesimo. Mi riferisco ad Ettore Socci, membro fin dalle origini della sezione toscana dell’Internazionale – fondata a Firenze all’inizio del ’72 – e poi della Federazione operaia fiorentina. Egli sarebbe stato più tardi deputato e protagonista del giornalismo democratico in Toscana e a Roma; nel 1875 però lo ritroviamo tra gli imputati nel processo per cospirazione ed internazionalismo svoltosi a Firenze. Il contesto era quello successivo agli arresti di Villa Ruffi e al fallimento dei moti insurrezionali progettati per l’estate del ’74, che avrebbero dovuto innanzitutto coinvolgere gran parte dell’Italia centrale. Dei 34 accusati di Firenze, perlomeno 7 erano stati garibaldini, anche in più di una campagna, e un terzo del tota165

le aveva un passato da volontario. Il profilo sociale e anagrafico di queste ex camicie rosse era simile a quello dei «sovversivi» biografati negli anni Sessanta, ma ora i loro trascorsi patriottici, che dieci anni prima avrebbero rappresentato una sorta d’atto d’accusa preventivo, venivano usati dalla difesa a garanzia della moralità e della dignità di quegli uomini. Nel resoconto postumo dei dibattimenti prodotto dalla parte politica messa sotto processo – che ci ha lasciato dei ritratti a tutto tondo degli imputati – il loro volontariato in armi e il loro ideale internazionalista venivano invece presentati non come sintomi e simboli di un temperamento irriducibile all’ordine, ma quali frutti della medesima nobile radice, nella prospettiva del progresso umano50. Un rovesciamento, dunque, nella rappresentazione dei retaggi rivoluzionari risorgimentali, che rispecchiava certo la diversa ottica di chi la proponeva, ma testimoniava anche orizzonti politici rinnovati. 2. Ritratti in uniforme Tra il 1859 e il 1862 la storia del garibaldinismo si intrecciò con la nascita dello Stato italiano e la definizione dei suoi apparati istituzionali, primo fra tutti quello militare. In quel breve arco di tempo molti volontari arrivarono ad indossare la camicia rossa dopo aver combattuto nell’esercito regolare, a cui poi fecero ritorno, trovandovi una collocazione più o meno stabile; altri vi furono integrati per la prima volta, da ufficiali, nella primavera del 1862, quando si definì finalmente lo status e il destino di ciò che rimaneva dell’Esercito meridionale. Ma pochi mesi dopo, le vicende di Aspromonte avrebbero di nuovo messo in discussione scelte e posizioni acquisite, sollecitando talvolta il gesto estremo della diserzione. Così come le istituzioni militari sabaude prima, ora quelle italiane rappresentavano uno dei punti d’approdo più naturali per uomini che avevano materializzato nella pratica delle armi attese e speranze. La nascita dello Stato unitario aveva del resto trasformato il panorama, contribuendo ad investire anche l’esercito di un ben più forte valore simbolico. La ricerca di un protagonismo nelle forze armate poteva dunque segnalare la soddisfazione per l’obiettivo raggiunto attraverso le lotte risorgimentali e il riconoscimento delle proprie aspirazioni nella realtà statuale nascente, ovvero la determinazione a marcarla in profondità, connotandola il più possibile in senso rivoluzionario. L’Italia unita sotto un regime liberale era quello 166

per cui migliaia di garibaldini avevano combattuto, il risultato attraverso il quale l’azzardo volontaristico aveva conquistato la legittimazione e la sanzione formale. Anche per chi aveva sofferto fin da subito di una forte disillusione politica, abdicare totalmente ai moderati non era per forza la scelta più conseguente. Tra i soli Mille, furono più di 200 coloro che entrarono a far parte a vario titolo del Regio Esercito, anche semplicemente in quanto giovani sottoposti alla ferma quinquennale. Tra i garibaldini partiti da Quarto c’erano moltissimi reduci dall’esperienza dei Cacciatori delle Alpi, ma anche uomini congedati o disertori dall’esercito sardo, in cui talvolta si erano volontariamente arruolati per partecipare alla seconda guerra d’indipendenza. Il comune denominatore di questi itinerari era l’imperativo prioritario di spendersi per la causa nazionale, talvolta senza la possibilità di scegliere l’opzione più compatibile con le proprie inclinazioni politiche. Tempi, luoghi, circostanze spesso imponevano infatti di accettare senza esitazioni la prima opportunità di combattere che si presentasse. Della spedizione partita da Quarto la notte tra il 5 e il 6 maggio ’60 faceva parte Antonio Radovich, nato nel 1837 in provincia di Treviso, che aveva anch’egli alle spalle un’esperienza di diserzione, quando, nel 1856, assegnato dalla leva austriaca agli ulani, aveva raggiunto il Piemonte attraverso la Lombardia e la Svizzera e si era arruolato nei bersaglieri51. In quel corpo aveva partecipato nel Bresciano alla guerra del ’59, ottenendo poi il congedo assoluto dopo Villafranca, in un contesto, dunque, di ribadito esilio forzato dal Veneto ancora asburgico. Condizioni di instabilità e sradicamento come quella di Radovich potevano facilmente propiziare una disponibilità verso iniziative armate che si ponessero in continuità con la scelta dell’emigrazione e che le dessero senso e sostanza. Imbarcatosi con Garibaldi per la Sicilia, il trevigiano l’avrebbe seguito per tutta la campagna, ottenendo alla fine il grado di sottotenente, con il quale sarebbe entrato nell’esercito regolare. Tra i reduci della spedizione dei Mille ci furono carriere da ufficiale assai più brevi e assai più lunghe della sua, che si concluse definitivamente nel 1869. La fedeltà di Radovich al Regio Esercito sopravvisse al trauma di Aspromonte ed ebbe modo di ritrovare la via dell’impegno bellico diretto nel 1866, in una guerra la cui conduzione e i cui esiti non potevano alimentare particolari sensi di orgoglio, specie in uomini dal suo passato. Le prove imbarazzanti fornite dall’armata dovettero forse essere controbilanciate, per il trevigiano, dall’unione all’Italia del Vene167

to, in cui egli, nei mesi successivi, si impegnò nell’organizzazione e nell’istruzione della Guardia nazionale. Proprio nelle ex province asburgiche, nel Veneziano in particolare, si svolse l’episodio che avrebbe segnato fatalmente l’epilogo della carriera militare di Radovich, responsabile di aver chiesto al sindaco di Dolo che il 19 marzo 1869 fosse innalzata in piazza la bandiera nazionale, in onore di Giuseppe Garibaldi, nella ricorrenza del suo giorno onomastico. Il gesto fu interpretato come un atto politico ed espose l’ufficiale al giudizio di un Consiglio di disciplina, che nel luglio lo privò del grado e del diritto alla pensione connessa alla medaglia dei Mille. Rimosso poco dopo dal servizio, egli si trovò nella necessità anche materiale di sollecitare direttamente e per interposta persona la cancellazione del provvedimento; solo dieci anni più tardi, su pressione dello stesso Garibaldi, il Ministero della Guerra gli avrebbe restituito il diritto di fregiarsi della medaglia e di godere dei benefici ad essa collegati. Nell’autunno del ’70, su invito diretto del Generale, tornò ad indossare la camicia rossa tra i volontari che sostennero la Francia repubblicana nel conflitto contro la Prussia. Inserito nella brigata condotta da Ricciotti Garibaldi, fu tra i protagonisti della vittoriosa battaglia di Digione, raggiungendo il grado di maggiore per meriti di guerra. La longevità di Radovich – scomparso alla fine del 1923 – gli consentì di rientrare nel ridotto numero dei reduci della spedizione dei Mille che superarono abbondantemente il tornante del nuovo secolo, divenendo fra l’altro soggetti ed oggetti della campagna interventista. La vicenda di questo garibaldino, che racchiuse una quasi decennale carriera nell’esercito regolare tra due esperienze di volontariato molto diverse tra loro, mi sembra capace di gettare un fascio di luce sui conflitti di legittimità e sui differenti principi di lealtà che costituirono lo sfondo dei destini individuali delle ex camicie rosse. La sua uscita dalle forze armate fu indubbiamente legata ad un episodio, senza il quale la sua vita da ufficiale avrebbe potuto plausibilmente prolungarsi per decenni. L’iniziativa che gli costò la destituzione si collocava in una fase non così lontana dalla spedizione di Mentana e in un contesto di non ricomposto conflitto tra garibaldinismo e monarchia; tuttavia a Radovich non dovette apparire inaccettabile né paradossale che un rappresentante dell’esercito con alle spalle una militanza risorgimentale come la sua chiedesse ad un amministratore dello Stato di associare la bandiera nazionale all’omag168

gio a Garibaldi. Quasi ritenesse che – allo stesso modo in cui un garibaldino come lui era entrato nel Regio Esercito – anche la figura del suo Generale potesse inserirsi pacificamente nella narrazione e nel rituale patriottico corrente, agì con una mancanza di cautela che tradiva una miopia. All’epoca, infatti, il quadro era più rigido di quanto egli pensasse, e tutto ciò che aveva a che fare con la camicia rossa non godeva di uno status consolidato di accettazione e legittimazione politica, rimanendo anzi esposto a una diffusa diffidenza. Le dinamiche interne della loro soggettività fatalmente ci sfuggono, ma molti ex garibaldini non videro di fatto in una lunga carriera in divisa una limitazione inaccettabile della propria libertà né un tradimento delle convinzioni che li animavano. Diversi elementi potevano contribuire a rendere gratificante un percorso del genere: non solo la prospettiva di una collocazione professionale di prestigio, ma anche una profonda fiducia nel ruolo che l’esercito poteva svolgere nel consolidamento degli obiettivi politici unitari e liberali, senza dover per forza leggere un ripiegamento conservatore dietro ogni curriculum vitae di questo genere. Lo spartiacque del 1861 poteva essere interpretato come la chiusura di una fase, che imponeva e giustificava l’abbandono di modelli volontaristici e di meccanismi di autolegittimazione dell’agire; lo si poteva anche vivere però con la fiducia e la pretesa che esso rappresentasse il punto d’esordio di un rinnovamento dei paradigmi e delle strutture istituzionali ereditate dal passato, prima fra tutte quella militare. Sappiamo che, smobilitata la massa, gli ufficiali dell’Esercito meridionale furono formalmente ammessi nelle schiere regie in numero di poco più di 1700, ma per i reduci della spedizione di Quarto è possibile ricostruire su buone basi di affidabilità numerosi itinerari personali all’interno delle forze armate52. Di fronte alla netta prevalenza, tra chi aveva già alle spalle esperienze patriottiche, di uomini provenienti dai Cacciatori delle Alpi, moltissimi dei circa 200 garibaldini dei Mille che entrarono nell’esercito regolare avevano già militato nel ’59 sotto le insegne piemontesi. Tra questi «integrati», i personaggi celebri non mancavano: ritroviamo il futuro giornalista e memorialista Giuseppe Bandi, che partecipò tra i regolari alla terza guerra d’indipendenza e cessò dal servizio, col grado di maggiore, all’inizio del 1870; Oreste Baratieri, anche deputato al Parlamento, che concluse la sua carriera militare alla fine del secolo in qualità di generale, associando il suo nome al colonialismo italiano ottocentesco. Il caso più noto è forse quello di Nino 169

Bixio, deputato e poi senatore, la figura che incarnò fin dagli stessi eventi del ’60 l’anima più «marziale» e autoritaria del garibaldinismo, già distaccatosi dal cosiddetto «partito garibaldino» nei primi anni postunitari, come dimostrava la sua condotta in Parlamento. Giuseppe Sirtori, rivoluzionario di vecchia data, aveva avuto nelle sue mani, nell’ultima fase, il comando dell’Esercito meridionale, ed era stato poi uno dei membri della Commissione di scrutinio, incaricata di verificare le credenziali degli ufficiali in camicia rossa. Di circa dieci anni più vecchio di Bixio, Sirtori, poco più giovane di Garibaldi, era nato in Brianza nel 1813, e sarebbe morto a Roma nel 1874. Apparteneva alla categoria di quei sacerdoti che avevano dismesso l’abito talare per motivi politici, così numerosi nel Risorgimento italiano, e gli esordi del ’48 europeo lo avevano trovato sulle barricate parigine, da dove si era poi spostato a Milano, promuovendo nella città insorta la causa repubblicana. Nel 1849, come organizzatore della difesa e combattente in prima persona, era diventato uno dei simboli della resistenza della Repubblica di Venezia sotto l’assedio austriaco. Compreso tra i quaranta proscritti, aveva peregrinato per l’Europa, tra Malta, la Svizzera, l’Inghilterra e Parigi, rientrando in Italia per la seconda guerra d’indipendenza. La fama di radicale che si era conquistato continuava ad attirargli la diffidenza dei moderati, tant’è che nel ’59 gli venne negato l’arruolamento volontario nelle truppe piemontesi. Dopo la spedizione garibaldina del ’60, insignito della Croce di commendatore dell’Ordine militare di Savoia – al pari di Bixio, Türr, Medici e Cosenz – egli sarebbe stato finalmente accolto nell’esercito regolare con il suo grado di tenente generale. Come altri ex garibaldini meno illustri di lui, sarebbe stato impegnato nella repressione del brigantaggio e di nuovo protagonista di meno ingrate azioni belliche durante la guerra del ’66, continuando a ricoprire incarichi militari fino all’anno della morte. Al contrario di Nino Bixio, nella fase di smobilitazione dell’Esercito garibaldino Sirtori aveva mantenuto una linea di dura ed esplicita opposizione alle scelte governative. Erano i mesi in cui si andava definendo, anche attraverso questi aspri scontri parlamentari, la natura dell’esercito italiano, plasmato sulle direttive del ministro Fanti, al quale si tentava di contrapporre la prospettiva di un forte protagonismo della componente garibaldina. Resta il fatto che, quando la linea conservatrice prevalse, Sirtori non ritenne opportuno né necessario abbandonare il suo ruolo di ufficiale. Furono anche altri i reduci dei Mille che trascorsero vari decen170

ni nelle file dell’esercito, meno noti di quelli appena citati, al pari dei quali, in alcuni casi, parteciparono alla vita pubblica anche attraverso l’impegno parlamentare. Giacinto Carini fu uno di loro: nato nel 1821 a Palermo, era stato ufficiale borbonico prima di combattere nel ’48 per la rivoluzione. Emigrato in Francia e in Inghilterra, aveva ripreso le armi nel ’60 con Garibaldi, conquistando riconoscimenti e onorificenze per la sua condotta. Ammesso nell’armata come maggiore generale, sarebbe stato anche aiutante di campo onorario di Vittorio Emanuele II, partecipando poi alla terza guerra d’indipendenza e venendo collocato in disponibilità solo alla fine degli anni Settanta53. Giuseppe Dezza, anch’egli deputato e senatore, era nato a Melegnano nel 1830: volontario nel ’48, prima del ’60 aveva già combattuto nel ’59 con Garibaldi, mentre la guerra del ’66 lo vide colonnello del Regio Esercito. Le numerose onorificenze degli ordini cavallereschi che ricevette e il ruolo di aiutante di campo del re avvicinavano il suo itinerario a quello di Carini54, ma è anche significativo ricordare che, nel 1877, egli sottoscrisse la proposta di Benedetto Cairoli e di altri esponenti della Sinistra di equiparare il tentativo di Sapri all’impresa dei Mille. Anche il percorso politico-militare del rodigino Domenico Piva prendeva le mosse dal ’48 nel Lombardo-Veneto e arrivava alla guerra del ’66 nei ranghi dell’esercito regolare, al cui interno l’ex garibaldino avrebbe raggiunto il grado di tenente generale. Ma tra queste due date stavano la difesa della Repubblica romana, la successiva prigionia di guerra sotto gli austriaci, la militanza forzata di otto anni nell’esercito asburgico e finalmente la possibilità di arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi55. Il piemontese Giovanni Pittaluga, troppo giovane per combattere nel ’48, non aveva ancora vent’anni quand’era partito da Quarto: entrato da subito nell’esercito come sottotenente, ne era uscito in qualità di tenente generale all’inizio del Novecento, partecipando alla campagna d’Africa del 1895-9656. Tra gli uomini che rinunciarono a priori all’ipotesi di un’integrazione nelle forze armate regie – per incompatibilità politica o rifiutando sdegnosamente di sottoporre ad un giudizio i propri requisiti militari – e quelli che intrapresero una lunga e brillante carriera stava la vasta schiera di chi, riconosciuto idoneo dalla Commissione di scrutinio, aveva ottenuto un inserimento nell’esercito poco più che simbolico, trascorrendo il decennio postunitario in lunghi periodi di aspettativa. 171

Molti comunque non avevano protratto la loro esperienza oltre la metà negli anni Sessanta, tornando a combattere la terza guerra d’indipendenza tra i volontari garibaldini, generalmente in ruoli di comando. Aveva seguito un percorso del genere il vicentino Domenico Cariolato, a lungo punto di riferimento di Garibaldi nel Veneto, che aveva combattuto a Venezia e a Roma nel ’48-’49, tra i Cacciatori delle Alpi nel ’59 e, dopo l’Unità, di nuovo in camicia rossa nel ’6657. Anche il veneziano Marco Cossovich, già combattente nel ’48 e Cacciatore delle Alpi, si era dimesso da luogotenente colonnello nel maggio del 1863 ed era tornato a militare agli ordini di Garibaldi tre anni dopo58. Pietro Stagnetti, di Orvieto, appena incontrato tra i «sovversivi» schedati dal Ministero dell’Interno, proveniva anch’egli dalla rivoluzione del ’48 e dai garibaldini del ’59. Dall’esercito regolare si era dimesso nella primavera del ’64, e, a detta del prefetto – lo si è visto – in quegli anni non desiderava altro che il riproporsi di nuovi arruolamenti. Nel ’66 sarebbe stato accontentato, conquistando una menzione onorevole per la sua condotta a Bezzecca. Come già accennato, molti non aspettarono il ’66 e la legittimazione politica del governo per ritornare agli ordini di Garibaldi: tra i reduci dei Mille provenienti dalle forze armate e presenti tra i volontari ad Aspromonte, il caso più noto è quello di Giacinto Bruzzesi, dimessosi poco prima, in seguito comandante garibaldino nel ’66. Le tappe successive del volontariato in camicia rossa, che avevano raccolto anche dimissionari dall’esercito, erano state ovviamente quelle del ’67 e del ’70, quando aveva perso la vita in Francia il bergamasco Luigi Perla, dopo aver dismesso l’uniforme regolare nel ’66. Alcuni dei Mille che uscirono dall’armata negli anni Sessanta vi rientrarono successivamente in qualità di ufficiali della Milizia mobile o di quella territoriale, istituzioni create tra il ’73 e il ’75, nel corso delle riforme Ricotti, mentre di fatto veniva abolita la Guardia nazionale. In questa specifica casistica il personaggio di più alto livello fu il calabrese Francesco Sprovieri, che nel ’48 aveva raggiunto Venezia insorta tra i volontari napoletani. Cacciatore delle Alpi nel ’59, l’anno successivo aveva percorso una brillante carriera nell’Esercito meridionale, raggiungendo il grado di luogotenente colonnello, con il quale era stato accolto nell’esercito regolare. Collocato a riposo nel ’63, aveva militato di nuovo tra i garibaldini nel ’66, divenendo poi, negli 172

anni Settanta, tenente colonnello nella Milizia mobile. Deputato di Cosenza dal 1874 e senatore dal 1891, non avrebbe superato l’inizio del secolo59. Il suo è uno dei casi in cui ci è permesso spingerci oltre l’esteriore linearità del percorso: analizzando gli umori serpeggianti nell’ufficialità di ascendenza garibaldina nell’estate del ’62, si è già fatto riferimento ad una sua intensa lettera a Francesco Crispi, a cui Sprovieri confessava la totale insoddisfazione politica e professionale e il tentativo frustrato di rassegnare le proprie dimissioni per ricongiungersi con Garibaldi, ch’egli riconosceva come suo unico capo60. I fascicoli personali dei Mille di Marsala consentono, fra l’altro, di fotografare in diversi momenti il futuro che attendeva i garibaldini ammessi nell’esercito e poi usciti da esso. A fronte dei casi in cui la malattia o le ferite di guerra che avevano spinto all’abbandono del servizio erano alla base di seri problemi economici, troviamo ex camicie rosse non costrette a vivere della sola pensione, ma in grado di esercitare una professione. In questa condizione si trovava, per esempio, Giuseppe Pietro Bresciani, che a metà anni Settanta era notaio nei pressi di Bergamo, suo luogo d’origine. Aveva lasciato l’esercito nell’autunno del ’62, dopo essersi arruolato volontario nelle truppe piemontesi nel ’59 ed aver raggiunto il grado di luogotenente garibaldino nel ’6061. Agostino Carminati, anch’egli bergamasco d’origine, era stato collocato a riposo nel 1872 per le ferite riportate in guerra e nel ’75 si era stabilito definitivamente a Savona – che l’aveva visto ufficiale dello stato maggiore della Piazza –, dove conduceva una rivendita di liquori62. Restava tuttavia molto rappresentata, tra i Mille usciti dall’esercito, la categoria degli uomini che non furono in grado di conquistare un ruolo sociale e professionale stabile, capace di garantire con continuità una vita serena e dignitosa. Antonio Carrara, sottotenente bergamasco, era stato revocato dall’impiego nel ’64 per aver contratto matrimonio senza autorizzazione; solo più tardi sarebbe stato riammesso al godimento del sussidio e poi della pensione connessi alla medaglia dei Mille, ma nel frattempo avrebbe combattuto di nuovo tra i garibaldini nel ’66 e nel ’67. Nel 1875 veniva registrato come agente d’affari a Roma, ma negli anni Ottanta lo si ritrovava tra i numerosi reduci che si appellavano – nel suo caso con l’appoggio di Oreste Baratieri – al compagno d’armi Francesco Crispi, asceso ai vertici istituzionali, per ottenere sussidi aggiuntivi. Nel 1888 scriveva, per esempio, al presiden173

te del Consiglio esponendogli lo stato di difficoltà economica in cui versava la sua famiglia, apparsogli in tutta la sua gravità al ritorno dall’Africa, dove si era trattenuto un anno come assistente del Genio militare63. Massimiliano Costetti, congedato definitivamente nel ’70, dopo aver combattuto la terza guerra d’indipendenza nell’esercito regolare, nel ’75 risultava sarto a Reggio Emilia, sua città natale, ma 15 anni dopo, finalmente riabilitatosi da una grave malattia, scriveva al Ministero dell’Interno per ottenere un qualunque impiego che gli consentisse il mantenimento della famiglia. L’anno prima però, impossibilitato al lavoro, aveva chiesto ed ottenuto un aiuto economico: a consegnargli di persona il sussidio di 300 lire decretatogli da Francesco Crispi era stato il prefetto Fabrizio Plutino, unitosi anch’egli, assieme al padre Agostino, ai garibaldini in Calabria nel ’60, e nipote di quell’Antonio che, nello stesso anno, era partito da Quarto verso la Sicilia assieme a Costetti64. 3. Costruire lo Stato Prima del 1860-61 nella penisola non esistevano, oltre al Piemonte, altri contesti in cui fosse possibile tradurre la propria volontaria scelta nazionale in un impegno militare o civile, arruolandosi o tentando di farsi eleggere in Parlamento. L’impossibilità di risolvere in termini di pura dialettica politica lo scontro tra gli attori sociali e istituzionali legati alla prospettiva unitaria e liberale e quelli che non erano compatibili con essa, la necessità insomma di ricorrere allo strumento della guerra, imponeva agli uomini interni al fronte patriottico un’ampia disponibilità ad un coinvolgimento nella dimensione militare. Non si trattava del resto di guerre in cui erano in gioco solamente domini territoriali, ma nelle quali si fronteggiavano diversi principi di legittimità. Il contesto era quello di un conflitto anche bellico tra Stati, alcuni dei quali però, come l’asburgico e il borbonico, subivano un’emorragia delle forze potenzialmente armabili a vantaggio della controparte; quest’ultima, rappresentata dallo Stato sabaudo o dalle formazioni garibaldine, chiamava a raccolta anche uomini privi di un’autentica vocazione militare, ma pronti ad imbracciare le armi in nome delle proprie convinzioni politiche, cui non era concessa cittadinanza nei luoghi d’origine. Questo stato di eccezionalità – che dilatava i confini di ciò che era fuorilegge – spiega fra l’altro la convivenza in medesimi gruppi di co174

spirazione e di volontariato di individui molto diversi per cultura, prestigio, notorietà, aspirazioni professionali, come rivelerà la fase postunitaria. Nei momenti di mobilitazione, il garibaldinismo, privo in linea di massima di un referente istituzionale a cui demandare funzioni e prerogative, necessitava di una forte osmosi tra gli attori militari e quelli politici, a partire ovviamente dallo stesso Giuseppe Garibaldi. Tutti gli esponenti più o meno in vista di quel mondo, anche quando non erano chiamati a scendere materialmente sul campo di battaglia, dovevano avere un ruolo di rilievo negli arruolamenti, nei contatti, nel coordinamento delle forze, nell’organizzazione degli spostamenti e degli approvvigionamenti, nella stesura e nella diffusione di proclami e ordini del giorno. Tra il ’60 e il ’61, la trasformazione delle Camere piemontesi in Parlamento italiano aprì la possibilità di un diretto impegno politico anche a uomini che non sarebbero stati disposti ad entrare negli organismi rappresentativi sardi, o che non vi sarebbero stati accolti facilmente. Ciò che si è detto per l’esercito vale anche per le istituzioni politiche: non si trattava più, oramai, di farsi spazio da «ospiti» in «casa» di Vittorio Emanuele II, tentando di consolidare e promuovere la politica nazionale intrapresa dal Piemonte. L’Italia che eleggeva i suoi deputati era quella che il Regno di Sardegna aveva voluto e dovuto ricevere dalle mani delle camicie rosse; per molti di loro – Crispi su tutti – era un soggetto politico nato da un patto rinnovato tra popolo e re, in cui la volontà del primo imponeva al secondo una precisa linea rivoluzionaria, al compimento della quale erano chiamati a vegliare e contribuire gli eletti. Le onorificenze che piovvero sui più alti ufficiali garibaldini alla fine della campagna del ’60 hanno, in questo senso, un valore emblematico: erano il segno di una nuova stagione, in cui la scelta unitaria imponeva anche alla vecchia classe dirigente di sanzionare l’operato dei rivoluzionari, tentando nel contempo di attirarne alcuni settori almeno nell’ambito della legalità e dell’istituzionalizzazione del conflitto. Tra le altre, la parabola di Enrico Cosenz corrispose pienamente a questa prospettiva: uscito dall’esercito borbonico nel ’48 per seguire Guglielmo Pepe, avrebbe trascorso il «decennio di preparazione» in esilio, per poi comandare nel ’59 un reggimento dei Cacciatori delle Alpi. A capo di una delle spedizioni che seguirono quella dei Mille, dal ’61 avrebbe ripreso la sua lunga carriera nell’esercito regolare – in cui era già entrato dopo Villafranca – partecipando alla guerra del ’66 e alla campagna del ’70 per la presa 175

di Roma. Fu anche il primo capo di Stato maggiore dell’esercito, dal settembre del 1882 al dicembre del ’93. Fin da subito deputato e già dal 1872 senatore, Cosenz si riconobbe nelle posizioni della maggioranza moderata, offrendo alle istituzioni adesione politica e competenza militare. Elementi biografici ed anagrafici si intrecciavano a questi dati dinamici del quadro generale: chi aveva combattuto a vent’anni, senza dover interrompere un percorso professionale o compromettere definitivamente l’andamento della propria esistenza, poteva trovare nell’impegno parlamentare la via più confacente per tenere assieme la stabilità personale e il perseguimento dei propri ideali. Nella storia dell’Italia liberale furono più di 250 gli ex garibaldini che entrarono in Parlamento in qualità di deputati o senatori. Ovviamente il loro contingente proveniva in gran parte dai volontari del ’60 e del ’66, i due momenti in cui i corpi militari in camicia rossa raggiunsero la più alta consistenza numerica. Tre di loro raggiunsero – tra la metà degli anni Settanta e l’inizio del Novecento – la carica di presidente del Consiglio, nell’ordine Benedetto Cairoli, Francesco Crispi e, nel 1905-1906, Alessandro Fortis, vecchio deputato repubblicano di Forlì, camicia rossa nel 1866 e a Mentana65. A questo trio si potrebbe aggiungere, non senza forzature, Agostino Depretis, prodittatore di Sicilia nel ’60, quando fu però soprattutto «ambasciatore» delle prospettive cavouriane. Oltre a quelli appena citati, solo altri 10 ex garibaldini ascesero al ruolo di ministro: il primo a diventarlo fu Antonio Mordini, titolare dei Lavori Pubblici nel terzo governo Menabrea, tra il maggio e il dicembre del 186966. L’era della Sinistra storica portò Giovanni Nicotera e poi Crispi all’Interno, inaugurando una nuova stagione e nuove rotte collettive e individuali. Con Cairoli e poi con Crispi, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ebbe una carica ministeriale anche l’avvocato calabrese Luigi Miceli, figura chiave del garibaldinismo meridionale. Eletto ininterrottamente nel collegio di Cosenza dal 1861 al 1896, senatore dal ’98, aveva esordito politicamente nel 1848 e, dopo la sconfitta della rivoluzione al Sud, era emigrato a Corfù, tornando in Italia per difendere la Repubblica romana. Dal nuovo esilio era rientrato per partecipare alla spedizione dei Mille, seguendo poi di nuovo Garibaldi nel 1862 e nel ’66. Dopo essere stato uno dei personaggi di spicco dell’Estrema, la moderazione delle sue posizioni politiche iniziò a manifestarsi a partire dagli anni Settanta, dopo la presa di Roma. 176

L’età crispina fu decisiva per altre ex camicie rosse: Giulio Adamoli – veterano garibaldino del ’60, di Aspromonte, Bezzecca e Mentana – tra il ’93 e il ’96 fu sottosegretario agli Esteri e al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio; al siciliano Abele Damiani, a lungo deputato di Alcamo, strettamente legato al presidente del Consiglio, garibaldino dal ’60 al ’66, venne affidato il sottosegretariato agli Esteri dal 1887 al ’91. Prima del 1889 nemmeno l’avvocato comasco Paolo Carcano – giovanissimo garibaldino nel ’60, a Bezzecca e a Mentana – aveva mai raggiunto una carica istituzionale che andasse oltre il ruolo di deputato: se con Crispi ebbe soltanto il sottosegretariato alle Finanze, ciò fu la premessa di un curriculum ministeriale che si protrasse quasi ininterrottamente dal 1898 al 1917, con Pelloux, Saracco, Fortis, Giolitti, Salandra e Boselli, gestendo Finanze, Agricoltura, Industria e Commercio, e Tesoro. Il siciliano Edoardo Pantano avrebbe avuto una longevità politica ancora maggiore: comparso sulla scena pubblica nella rivoluzione del ’60, era stato di nuovo garibaldino ad Aspromonte, Bezzecca e Mentana. Fermo nelle sue convinzioni mazziniane, era entrato in Parlamento solo nel 1882, a quasi sessant’anni, e solamente nel 1906, con Sonnino, era stato nominato ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, per poi riapparire addirittura nel primo dopoguerra come titolare del dicastero dei Lavori Pubblici nel primo governo Nitti. Le istituzioni rappresentative nazionali videro dunque transitare sui propri banchi diverse generazioni di garibaldini, che avevano spesso condiviso le stesse esperienze di volontariato, ma che, per ragioni anagrafiche o per il fatto di essersi mantenuti più o meno a lungo fedeli a posizioni intransigenti, avevano voluto e potuto entrare alla Camera in fasi differenti. Ciò non esclude che moltissimi di loro, nel frattempo, avessero portato avanti un impegno pubblico a livello locale, nell’ambito amministrativo e dell’associazionismo. Al di là delle «defezioni» e delle evoluzioni individuali, nel decennio postunitario la definizione corrente di «partito garibaldino» era inequivocabilmente sinonimo di opposizione. L’uso di questa etichetta, che indicava anche un modo di stare all’interno delle istituzioni rimanendone allo stesso tempo in parte estranei, si applicava soprattutto a uomini che ricoprivano un ruolo parlamentare, intrattenendo nel contempo rapporti significativi con Giuseppe Garibaldi, al quale lo legavano esperienze nodali del proprio itinerario patriottico. 177

L’adozione di questa categoria implicava certo l’appiattimento di una realtà molto sfaccettata, ma presupponeva proprio il fatto che, al di là delle dialettiche interne, da determinati gruppi non ci si potesse che attendere una convergenza attorno alle iniziative in camicia rossa. L’immagine del «partito garibaldino» funzionava quindi da strumento descrittivo e da implicito atto d’accusa, con il quale indicare e denunciare una doppia appartenenza che significava anche doppia fedeltà: in sostanza, un conflitto di legittimità. Di questo gruppo di parlamentari facevano parte soggetti di diverso livello e destinati a percorsi differenti. La prima linea era rappresentata da uomini come Crispi, Bertani, Benedetto Cairoli, Nicola Fabrizi e Giovanni Nicotera, tutti a vario titolo veterani del patriottismo di formazione mazziniana. Figure strettamente legate a Garibaldi, quali il suo segretario Giuseppe Guerzoni, rientravano anch’esse a pieno titolo nella categoria, così come una vasta schiera di deputati meridionali. I siciliani Giuseppe La Masa e Luigi La Porta ne erano figure rappresentative, il secondo eletto ininterrottamente per il collegio di Girgenti dal 1861 al ’90, dopo aver partecipato diciottenne alla rivoluzione del ’48, guidato una squadra di «picciotti» nel ’60 e seguito Garibaldi di nuovo nel ’62 e nel ’66. Pure il napoletano Giuseppe Fanelli e il trapanese Saverio Friscia sedevano negli anni Sessanta in Parlamento, ma la loro prospettiva politica era ormai legata all’internazionalismo, di cui si erano fatti propugnatori anche attraverso la lezione di Bakunin67. Entrambi aderivano comunque alle posizioni della Sinistra, con molti esponenti della quale avevano condiviso l’apprendistato patriottico nel biennio rivoluzionario e la militanza garibaldina, a cui Fanelli, destinato a finire i suoi giorni in un manicomio nel 1877, avrebbe offerto il braccio fino al ’67. L’obiettivo raggiunto della presa di Roma contribuì ad accentuare e rivelare le difformità interne di questo «partito», rendendo nel contempo inattuale ogni lettura del garibaldinismo esclusivamente connessa ad istanze patriottiche di matrice territoriale. Dopo il ’70 fu soprattutto Agostino Bertani ad incarnare la vitalità dell’eredità della democrazia risorgimentale, anche al di là delle rivendicazioni legate al principio di nazionalità. Una delle sue ambizioni rimase sempre quella di fare di Garibaldi un elemento centrale delle iniziative e dei progetti democratici; egli aveva mantenuto legami personali ed ideali con Mazzini e soprattutto non aveva mai rinunciato alla scommessa di conciliare Garibaldi e Cattaneo. Tra gli ex garibaldini inseriti nelle sfera istituzionale fu proprio Bertani, assie178

me a Crispi, a concentrarsi in modo particolare sull’elaborazione di una proposta politica che contemplasse precise riforme e conseguenti rapporti tra apparati statali e società. Se Crispi ebbe modo di tentare di realizzare il suo progetto solo a fine secolo, in differenti condizioni d’insieme68, Bertani dovette limitarsi ad affidare i suoi pensieri agli scritti, agli interventi alla Camera, ai discorsi elettorali ed alcune iniziative di inchiesta sociale. Fu proprio lui a formalizzare, già nel 1865, il contenuto e il senso dell’opposizione parlamentare, i cui elementi distintivi, due anni dopo, sarebbero stati trasfusi nel programma del giornale «La Riforma», sottoscritto anche da Crispi e Benedetto Cairoli. La premessa era la persuasione che un nucleo democratico convinto della sua dottrina ed iniziatore ardito, non possa oggigiorno trovarsi in migliore condizione per giovare al paese che sedendo a rappresentare il popolo, benché per suffragio ristretto, nel nuovo parlamento69.

Le proposte concrete poggiavano su alcuni robusti presupposti ideologici profondamente radicati nella lezione dei recenti avvenimenti: [...] in parlamento c’è il partito del presente, che è quello che governa e deve esserci il partito dell’avvenire, incarnato dai democratici. [...] non possono i democratici scusare codesto delirio dell’unità a qualunque costo. [...] Codesto unitarismo senza condizioni [...] può fatalmente trascinarci, per via della guerra come per quella della pace, al sagrificio della libertà. [...] La bandiera dell’unità, che per tanti anni fu la rivoluzionaria e perciò ci ha condotto tanto innanzi, è divenuta oramai una bandiera pericolosa per la libertà d’Italia. [...] Quella bandiera da che fu strappata di mano agli uomini della rivoluzione, è venuta nelle mani infide di chi mai la sognò, non la volle, o di chi la inchina innanzi ad interessi che non sono nazionali. [...] Lo stesso partito d’azione componesi d’ogni gradazione politica [...]. La generosità è l’unico comune contrassegno di questo glorioso partito che conquistò all’Italia l’improvvisa ammirazione del mondo. [...] Questo partito d’azione, divelto dal pensiero, che comprende tanti uomini possenti per volontà, deve anzi tutto giurarsi a un patto di libertà70.

Nell’ottica di Bertani questo programma, sul quale avrebbero dovuto convergere le varie anime della democrazia, prevedeva l’indipendenza della magistratura, l’abolizione della pena di morte, l’introduzione di un’imposta unica, proporzionale e progressiva, l’esten179

sione a tutti i cittadini non solo degli stessi diritti personali, ma dei medesimi diritti politici, la diffusione dell’istruzione primaria gratuita e obbligatoria, garantita da insegnanti congruamente retribuiti. Di questa base programmatica avrebbe fatto parte la rivendicazione della piena libertà di coscienza, della laicità dello Stato e della limitazione dei beni ecclesiastici. Bertani proponeva inoltre nella sfera amministrativa la valorizzazione delle autonomie locali, ed individuava nel diritto d’associazione una prerogativa paragonabile alla libertà di pensiero. Elemento centrale era poi l’idea della nazione armata e la polemica sociale, culturale, economica e politica contro il modello dell’esercito di caserma e il limitato coinvolgimento del popolo nell’esercizio delle armi. [...] La libertà non si sostiene se non pel valore dei cittadini che l’amano e la sanno difendere; ogni cittadino è soldato; e quando è soldato è più che mai cittadino, posciacché allora appunto e soltanto la patria gli affida l’armi per difendere le leggi che assicurano la libertà di tutti e combattere chi le conculca. La libertà non è mai sicura dove le armi sono un privilegio [...]71.

A queste direttive di fondo Bertani si sarebbe sempre mantenuto sostanzialmente fedele, tentando di creare attorno ad esse larghe convergenze. Il clima politico e gli equilibri di forza non gli avrebbero mai consentito di dare alle istituzioni nazionali un contributo più sostanziale di quello di deputato, ruolo che ricoprì quasi ininterrottamente dal 1860 al 1884. Disposto ad accordare una «vigilante fiducia» a Depretis72, nel 1879 avrebbe pubblicamente rivendicato la propria esclusiva identità politica di punto di riferimento dell’Estrema, che promuoveva prospettive e riforme inconciliabili con le forze governative73. In quello stesso anno Bertani dava alle stampe un accorato scritto rivolto agli ambienti democratici e irredentisti, a cui egli stesso sentiva di appartenere: era l’ennesima occasione per sottolineare la priorità del principio di libertà, interpretato tra l’altro come legame con l’esperienza risorgimentale e garanzia contro il tradimento della sua eredità: [...] Il concetto della libertà disarma i popoli gli uni verso gli altri, e alla loro collera non abbandona che un solo e comune nemico, il dispotismo, sia desso diplomazia o dinastismo, militarismo assorbente all’interno o invadente al di fuori, unificazione violenta o accentramento [...].

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[...] Io parlo ai fervidi patrioti dell’associazione in pro dell’Italia irredenta, che deplorano la mutilazione della patria; ma parlo altresì a democratici convinti; e ad essi io chieggo se eglino attaccherebbero la Francia repubblicana o la libera Elvezia per rivendicare altre terre italiane? [...] Sovviemmi a questo proposito, che quando il bollente Bixio nelle sue politiche improntitudini voleva aggregare il Canton Ticino all’Italia, il Cattaneo argutamente esclamava: tanto sarebbe uccidere un usignolo per aggiungere un’oncia di carne a un’oca. Si rivendicherebbero forse le terre italiane irredente mediante compenso all’Austria in Oriente? Me ne appello a uomini educati agli ideali della democrazia. [...] Per questa sola [via] arriveremo: della persistente volontà di renderci rispettati ed esemplarmente temuti, mediante lo spettacolo di una prosperità interna che, elaborata nel seno della libertà, ci innalzi fra i popoli come faro luminoso e come tipo su cui tutti agognerebbero di rispecchiarsi [...]. [...] Siamo laboriosi e modesti, come chi entrò da poco tempo nel gran torneo delle potenze, le quali serbano memoria del come ci componemmo in nazione, e non tutte hanno dimenticato gli aiuti o le ostilità per la nostra insperata fortuna74.

A quel punto, il Parlamento aveva già votato da due anni l’avvio di un’inchiesta agraria, coordinata da una commissione presieduta da Stefano Jacini, di cui faceva parte lo stesso Bertani; quest’ultimo avrebbe però desiderato un’indagine più connotata in senso economico e sociale, rispetto alla linea tecnico-produttivistica che prevalse. Era da tempo che egli tentava di promuovere un’operazione conoscitiva di quel genere come premessa di una politica di riforme, la cui necessità gli era apparsa evidente sin dal 1867, quando percorreva l’Agro romano al seguito di Garibaldi, dando la propria adesione ad una delle iniziative politicamente più radicali a cui la camicia rossa si fosse associata. La patina di sovversivismo che ricopriva quella spedizione era elemento persistente, capace di condizionarne la valutazione ancora molti anni dopo, tanto da poter essere utilizzata dall’opposizione come grimaldello per scardinare l’autorappresentazione patriottica dei settori governativi. Nel giugno del 1882 Felice Cavallotti, compagno ed erede di Bertani alla guida dell’Estrema, era relatore alla Camera di una proposta di legge per dichiarare anche quella del ’67 campagna nazionale. Si era all’indomani della morte di Garibaldi, e Cavallotti si ergeva ad interprete del suo testamento politico, forte del proprio ruolo di uomo 181

attorno al quale erano confluiti nel radicalismo molti garibaldini appartenenti, come lui, alla generazione successiva a quella di Bertani. Nella sua veste di deputato, egli si rivolgeva direttamente al presidente del Consiglio, ricordando a Depretis le origini della sua carriera istituzionale, quando nel ’60 aveva assunto da Garibaldi la prodittatura della Sicilia. D’altronde proprio il confronto tra gli episodi rivoluzionari ufficialmente legittimati e quelli la cui memoria era considerata ancora destabilizzante, era da sempre strumento utilizzato per conquistare spazi di cittadinanza politica a più ampie aree del processo risorgimentale. L’asse delle argomentazioni di Cavallotti poggiava in effetti sul parallelismo tra il ’60 e il ’67: prima della costituzione dell’Italia in Roma, tutto il diritto pubblico – egli ricordava – riposava «sul riconoscimento dell’iniziativa popolare, dell’iniziativa nazionale, dell’iniziativa rivoluzionaria». In quegli anni, tutto si muoveva attorno ad una sorta di «divisione di lavoro» tra prìncipi e rivoluzionari, e concludeva: [...] parliamo chiari, o parliamo del dietroscena? Parliamo della storia segreta o parliamo della storia ufficiale? Se parliamo del dietroscena, la storia segreta del 1860 vale la storia segreta del 1867, e se parliamo della storia ufficiale e dei documenti ufficiali, la disobbedienza ufficiale del 1867 vale la disobbedienza ufficiale del 1860; e non serve che l’onorevole Depretis si scolpi, ma egli ufficialmente nel 1860 era un ribelle75.

Lungo i decenni dell’Italia liberale l’accusa di tradimento rispetto al proprio passato era un modello rodato nella dialettica parlamentare tra governo e opposizione. A farne un uso massiccio era, tra i tanti, un altro garibaldino del ’60, entrato poi nell’esercito regolare, da cui si era dimesso nel 1870. Il napoletano Matteo Renato Imbriani, esponente di punta dell’irredentismo repubblicano, deputato per un decennio a partire dal 1886, pronunciava tra il 1890 e il ’96 tre discorsi particolarmente significativi rispetto ai rapporti tra Italia di fine secolo ed eredità democratica risorgimentale, tra imperativi istituzionali e retaggi rivoluzionari. Il 22 febbraio 1890 si discuteva alla Camera una sua interpellanza sullo scioglimento voluto da Crispi del Comitato romano per Trento e Trieste: il rispetto del diritto d’associazione era quindi al centro del dibattito, come spesso lo era stato, nel decennio postunitario, per iniziativa dello stesso Crispi, specie attorno ai momenti cruciali di Aspromonte e Mentana. Era, per Imbriani, «il fortunato occupatore del seggio ministeriale [che] tacitamente rinnega[va] le 182

parole del deputato...», «la voglia del potere e del prepotere, di rafforzare lo Stato in tutti i modi e di annichilire l’individuo e le sue libertà»76. Un linguaggio provocatorio e quasi paradossale se rivolto contro chi, come Crispi, fin dagli anni Sessanta aveva visto e auspicato nella progressiva costruzione dello Stato nato dalla rivoluzione il consolidarsi di un quadro che garantisse in modo sostanziale i diritti degli individui. Ma quello che era accaduto a Crispi dal 1861 in poi non era, per Imbriani, un caso isolato; si trattava ai suoi occhi di un’involuzione di cui erano caduti vittime molti degli uomini che più aveva amato. Così, commemorando Giovanni Nicotera il 13 giugno 1894, nel giorno della sua morte, il napoletano non si rassegnava ad associarne il ricordo all’immagine del parlamentare e del ministro: Venne in Parlamento, dopo che i plebisciti del 1860 consacrarono il nuovo diritto pubblico della Patria. Ahimè! In questa Camera molti grandi affetti si spengono, molti grandi ideali si sciupano! Noi abbiamo visto [...] i nostri migliori cittadini d’Italia, uno ad uno lasciare una parte dell’anima loro alle spine di questa siepe, che inestricabile ci circonda. [...] mi sarebbe stato più caro il vedere così nobile cittadino [...] abbandonarci in altro modo; lasciate che io me lo figuri pugnante per la libertà, contro la violenza; lasciate che io me lo figuri sempre giovane di venti anni, come quando combatteva sulle mura di Roma, sempre con lo stesso spirito di sacrificio, come quando sbarcava a Sapri, sempre con la stessa tenacità di intenti, come quando combatteva sulle rupi del Trentino, e quando si avviava verso questa Roma e fu trattenuto dalla notizia di Mentana!77

La soglia del Parlamento, dunque, come anticamera di una fatale deriva conservatrice per molti spiriti democratici; era però la stessa tribuna da cui Imbriani, due anni dopo, riecheggiando argomentazioni che la Sinistra aveva ampiamente utilizzato nella prima fase postunitaria – l’umiliazione dell’esercito da parte dei suoi vertici, la necessità che l’Italia mantenesse fede ai presupposti ideali della sua stessa esistenza –, tentava di reintrodurre nello scontro politico la centralità delle questioni di principio, contestando la politica africana qualche mese dopo Adua. In quell’occasione il bersaglio era il ministro degli Esteri Visconti Venosta e il suo passato patriottico, e a lui Imbriani ricordava i tempi di cui avrebbe dovuto andare veramente orgoglioso, i più belli della sua vita, quand’era «cospiratore pieno di fede, di entusiasmo e di forza» e ogni sera poteva attendersi l’irruzione della polizia che veniva ad arrestarlo. 183

A Pelloux, ministro della Guerra, che «alla testa della sua batteria cannoneggiava gli Austriaci» nel ’66, chiedeva invece se avrebbe potuto [...] avere la stessa risolutezza, la stessa fede, lo stesso sentimento, dinanzi ad un popolo che muove alla tutela della sua indipendenza, dinanzi ad orde (chiamatele pure così) di gente animata dallo spirito di Patria; di gente [...] che dice: questa terra è mia, tu me la vieni a contendere, ed io cerco di buttarti al di là, perché voglio stare e morire qui, voglio che questa terra frutti a me quel gramo pane che può produrre, e non voglio che sia tuo ludibrio e tua conquista. [...] Il bilancio dell’Africa per l’Italia è stato questo: l’Italia ha rinnegato il suo diritto pubblico ed è andata ad offendere il diritto altrui. [...] Le nostre conclusioni sono per l’abbandono di quella terra maledetta, per la cessazione di un bilancio così rovinoso per il paese78.

Capitolo sesto

Racconti garibaldini

1. Memorie del Risorgimento È la sensazione, la certezza di vivere o di aver vissuto qualcosa di memorabile che giustifica la scrittura di diari, lettere, ricordi garibaldini. Fissati in presa diretta o riesumati a distanza di decenni, le impressioni e gli episodi del volontariato patriottico vengono programmaticamente salvati dall’oblio, configurandosi come oggetti, soggetti e veicoli di memoria. I codici retorici a cui attingono questi testi hanno una circolarità nel discorso pubblico diffuso della fase risorgimentale e postrisorgimentale. Il circuito comunicativo all’interno del quale si sviluppano le varie espressioni della diaristica e della memorialistica garibaldina, assieme alla lunghezza dell’arco temporale che ne registra la nascita e l’emersione dalla sfera dell’inedito, favoriscono riecheggiamenti e dinamiche di condizionamento reciproco1. Il supposto carattere seriale e ripetitivo di questa produzione diaristica e memorialistica è meno sostanziale di quanto ci si potrebbe attendere, e si deve ricondurre casomai al ricorrere di topoi e nodi tematici, alla diffusa enfatizzazione di determinati momenti, aspetti ed episodi. La complessa articolazione e la grande varietà interna del mondo garibaldino si traduce anche nella ricchezza di una memorialistica che si potrebbe definire «minore», alludendo con ciò a testi spesso stampati da piccole tipografie e mai più riediti, prodotti senza particolari ambizioni letterarie da personaggi talvolta inseriti nella scena 185

pubblica postunitaria, ma non in posizioni di primo piano né di grande visibilità. Sarà in gran parte a quest’area diffusa che si attingerà nelle pagine che seguono2, ricostruendo indirettamente anche i percorsi dei «reduci» del garibaldinismo. L’andamento di queste narrazioni del patriottismo in armi è spesso simile a quello dei romanzi di formazione e in molti casi dedica ampio spazio agli antecedenti dell’esperienza, ad una sorta di ricostruzione a posteriori delle radici di un percorso. Il momento dell’arruolamento è assieme premessa, punto d’arrivo e di svolta, è la salvezza cioè da quel rischio di diminuzione del proprio essere costituito dal non potersi battere, in una visione che implicitamente allude quasi all’idea della camicia rossa, indossata in battaglia, come rito di passaggio verso l’età adulta del cittadino e della nazione. L’arruolamento, così come la fase speculare del congedo, è però, allo stesso tempo, una delle contingenze in cui lo slancio volontaristico – che è anche spirito di emulazione verso i «fratelli maggiori» – si scontra con la realtà. I ricordi consegnati alle stampe da Giulio Adamoli nel 1892 sono, in questo senso, emblematici e rivelatori. Diciottenne studente di matematica all’Università di Pavia, aveva iniziato nel 1858 a partecipare con i suoi compagni alle dimostrazioni antiaustriache. L’agitazione in città gravitava ovviamente attorno alla famiglia Cairoli e a personaggi come Angelo Bassini, combattente nel biennio rivoluzionario e futuro garibaldino, «che c’intratteneva della difesa di Roma, cui aveva preso parte»3. All’inizio del 1859 Adamoli, assieme a molti altri, avrebbe sconfinato per arruolarsi, eleggendo però a propria meta non Torino ma Genova, «essendo noi decisi, in omaggio ai principii, a combattere sotto gli ordini di Garibaldi»4. Finalmente, dopo tre settimane mortali, capitò a Genova Francesco Simonetta, che comandò poi in quell’anno le Guide di Garibaldi. Gli esponemmo la nostra situazione, ed egli, e come cugino mio, e come patriota, ci fece una gran paternale; ci dimostrò che non era tempo di disquisizioni politiche; ci persuase a seguirlo, e ci portò senz’altro a Torino. [...] Lieti e soddisfatti, dimentichi di ogni fisima politica, ci presentammo all’ufficio di leva, e passata, celiando, la visita, il 7 marzo tutta la piccola comitiva di Genova si arruolò nell’esercito regolare, sottoscrivendo, senza neppur leggerlo, il foglio d’ingaggio per un anno. [...] Io [...] venni assegnato [...] al 1° reggimento Granatieri5.

La ricostruzione a posteriori di Adamoli era in buona parte la 186

narrazione della catena di avvenimenti attraverso i quali il protagonista era riuscito finalmente ad indossare la camicia rossa, assunta come l’abito fisico e mentale più adatto alle proprie prospettive e al proprio modo di intendere il volontariato. Pur non disprezzata né sconfessata, la militanza sotto le insegne piemontesi era ricordata come una collocazione accettabile in via subordinata e in circostanze che imponevano l’imperativo di combattere. Si parlò assai, allora e dopo, della cattiva accoglienza, che i volontari ebbero dall’esercito regolare piemontese. In ciò va fatta molta parte alla esagerazione, molta alla ragione. Quegli antichi reggimenti piemontesi, solidi, con gerarchie consacrate dal tempo e dallo spirito di corpo, con norme di disciplina inflessibili, e nei quali, confessiamolo pure, la dottrina e la coltura non abbondavano, venivano senza dubbio un po’ scossi nella loro compagine dalla introduzione di un elemento affatto nuovo e inaspettato, che non poteva quindi non essere ricevuto che con diffidenza. Gli ufficiali, quasi tutti militari per tradizione di famiglia, abituati a comandare a soldati, che riconoscevano in loro un’autorità incontestata, non potevano accettare lietamente, nelle file, giovani troppo intelligenti per trasformarsi d’un tratto in reclute passive, giovani pieni di certe idee, che sembravano inutili anzi dannose nell’esercito. [...] I soldati, che poco capivano del movimento nazionale, non ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, diffidavano di cotesti commilitoni non della classe loro, ignoranti del dialetto piemontese [...]. Peggio poi i contingenti, cosidetti [sic] provinciali, che attribuivano ai volontari la provocazione della guerra [...]. [...] Per essere giusti bisogna confessare, che molti dei nostri offrivano pur troppo appiglio alle recriminazioni. Provenienti da regioni, dove l’aborrimento per lo straniero da tanti anni distoglieva i cittadini dalla carriera delle armi; dove stimavasi obbrobrioso ogni contatto con chi vestiva la divisa militare: [...] i volontari facilmente consideravano i superiori come tiranni, il regolamento come una pedanteria, e scherzavano sulle minuzie, discutendo ove discutere è colpa6.

Da questo lucido spaccato di vita piemontese di caserma emergeva anche un’immagine allo stesso tempo rispettabile – la cultura, l’intelligenza – e scanzonata dei volontari, già camicie rosse in pectore, tipica di chi era stato traghettato verso il garibaldinismo essenzialmente dall’esperienza studentesca. Del resto il quadro era più mosso di quanto si potrebbe sospettare, poiché Adamoli recuperava i ricordi di una realtà profondamente dinamica, in vorticosa accelerazione, dove i confini dei ruoli e delle identità erano molto la187

bili e le memorie degli avvenimenti si mescolavano alla nostalgia dei vent’anni. Nell’autunno del ’59 il futuro garibaldino di tutte le campagne – dal ’60 al ’67 – tornava in licenza a Pavia, immergendosi di nuovo in quella vita universitaria che «rubò qualche anima»7 alla scuola militare di Novara, cui erano stati assegnati lui ed altri volontari. Il partito d’azione, al quale appartenevano tanti miei amici, promettendo spedizioni e nuovi ardimenti a chi non fosse coperto da una divisa, tentò anche me. Solamente dopo fieri contrasti tornai fra’ commilitoni, ma in una condizione di spirito assai difficile. [...] Riuscito tra i primi agli esami, venni assegnato al mio antico reggimento, il 1° granatieri, di guarnigione a Milano [...]. [...] Fra gli ufficiali contavo una numerosa schiera di amici. Il reggimento, essendovisi introdotto, di mezzo alla severa ufficialità piemontese, un elemento nuovo, giovane, brillante, aveva preso un aspetto più gaio. Nella città piena di vita, esultante per la libertà recentemente acquistata, si succedevano splendide feste, e in ogni luogo ci si accoglieva con favore. Passai un inverno di delizie, alternando con il servizio balli e mascherate, e perfino un po’ di studi matematici8.

Ci si stava avvicinando all’iniziativa garibaldina del ’60, a cui Adamoli prese parte raggiungendo il Sud nella spedizione Agnetta. Alla scelta di lasciare l’uniforme per indossare la tanto agognata camicia rossa si era avvicinato, a suo dire, non [...] senza una lotta fiera e dolorosa. Perché se da una parte m’incalzavano la smania di fortune nuove, gli eccitamenti dei condiscepoli dell’Università, la convinzione di cooperare più attivamente alla liberazione della patria, e il lievito rivoluzionario, che un po’ fermentava sempre in fondo all’animo mio, anche per effetto delle opinioni di parte democratica, condivise da mia madre e da mio padre; dall’altra mi rattenevano lo scrupolo di abbandonare la bandiera, cui da così poco tempo avevo giurato d’esser fedele, l’affetto dei commilitoni, i consigli dei miei capi [...]. Solo chi ha vissuto in quei tempi di sovreccitazione può comprendere a quale duro cimento venisse posta la mia coscienza. E in tanto che mi dibattevo nel bivio, Garibaldi partì, e io mancai di far parte della prima spedizione dei Mille. [...] Non seppi resistere più oltre, e il 10 maggio presentai le dimissioni [...]9.

Il trevigiano Giovanni Saccomani, che volle ma non poté essere garibaldino nel ’60, riuscendovi solo 6 anni più tardi, restituiva delle atmosfere simili a quelle descritte da Adamoli, redigendo a cin188

quant’anni dai fatti quei ricordi che aveva ripetutamente pensato di scrivere. Allontanatosi dal Veneto nell’aprile del ’59, era riuscito ad arruolarsi a Cuneo, ricevendo l’istruzione nella stessa città e poi ad Alessandria. Licenziato nell’agosto dal Corpo dei bersaglieri, senza essere riuscito di fatto a combattere, nel febbraio del ’60 tornava ad arruolarsi in Emilia, venendo trasferito con il suo reggimento, dopo l’annessione, a Novi Ligure. [...] era stato stabilito che il grosso delle milizie create da quei governi, fosse portato nelle provincie subalpine, e sostituito nelle singole sedi dai vecchi reggimenti piemontesi. Si reputava necessario ed urgente recare tanta massa di volontari in un’atmosfera più sana sotto il punto di vista della disciplina militare, affin che in quella baraonda penetrasse il salutare influsso del nuovo ambiente10.

Qualche mese più tardi, Saccomani e i suoi compagni – fermati e arrestati sul torrente Polcevera, nei pressi di Sampierdarena, mentre tentavano di raggiungere i garibaldini in partenza – erano stati rinchiusi nella cittadella di Alessandria, da dove sarebbero usciti tre mesi dopo grazie all’amnistia, venendo distribuiti tra i nuovi e vecchi reggimenti, con una ferma di 18 mesi. Dopo essere stato di nuovo costretto a Susa «a subir la noia dell’istruzione militare», Saccomani fu trasferito a Parma, del cui soggiorno – alternato a periodi di attività militare in Abruzzo – conservava ricordi sgradevoli. Il reggimento si componeva di piemontesi, liguri, sardi, e di lombardi reduci dell’Austria; tutti, va senza dire, soldati di leva, che amavano i volontari come il fumo negli occhi. Altre noie quindi a subire dal contatto di quelle egregie persone, prodighe verso noi di disprezzo e d’odio [...]. Ci disprezzavano perché ci tenevano per dei vagabondi ingaggiatici non per la patria ma per la pagnotta; ci odiavano perché stoltamente ci attribuivano la causa della guerra tuttora fervente nella media e bassa Italia, e della conseguente prolungata permanenza sotto le armi delle classi anziane11.

Saccomani, finalmente congedato nell’agosto del ’61, non usciva affatto entusiasta dalla sua pluriennale esperienza militare; nel giugno del ’66, presa licenza dalla direzione delle Ferrovie meridionali, si recava a Bergamo per unirsi ai volontari di Garibaldi, «questa volta non avendo, a dire il vero, molta voglia di arruolarmi nell’esercito regolare»12. Anche il roveretano Pietro Candelpergher – garibaldino nel ’62 e nel ’66 –, nel ’59 studente di legge all’università di Padova, aveva 189

vissuto i mesi della seconda guerra d’indipendenza nella frustrazione di non poter vestire l’uniforme dei Cacciatori delle Alpi, né di riuscire a passare in Piemonte per entrare almeno nelle truppe sarde13. Avrebbe finalmente varcato il confine, da Riva del Garda, solo nell’autunno del ’60, raggiungendo un cugino a Milano, dove affluivano di continuo garibaldini reduci dal Meridione, con alcuni dei quali strinse vincoli d’amicizia. Sarebbe stato mia intenzione di arruolarmi tosto nei bersaglieri dell’esercito regolare; ma tutti gli amici mi dissuasero dimostrandomi che non era conveniente obbligarsi di servire per due anni e che inoltre non sarei più stato libero di seguire Garibaldi, che senza dubbio non si sarebbe lasciato scappare il momento per una ulteriore azione contro lo straniero14.

Convinto da queste argomentazioni, il giovane desisteva dal suo intento e decideva di continuare gli studi a Pavia, passando poi a Pisa. Nel frattempo a Milano aveva proceduto a grandi passi il suo apprendistato politico, attraverso la frequentazione di insigni patriotti quali il Nuvolari, il Guerzoni, l’Adamoli, Carlo Antongini, il Talacchini ed altri che in allora militavano nel così detto partito d’azione che ardentemente anelava alla liberazione immediata di tutta Italia mentre il partito governativo, o moderato, voleva agire soltanto quando v’era la sicurezza dell’esito. In quell’epoca e anche dopo Aspromonte, presi parte a varie dimostrazioni fatte contro i moderati e contro il militarismo ch’era in antagonismo coi Garibaldini15.

I dubbi sull’opportunità di vincolarsi alla regia uniforme, mentre si supponeva che Garibaldi potesse chiamare a raccolta da un momento all’altro le forze del volontariato, mettono questi ricordi in stretta relazione con le lettere attraverso le quali molte ex camicie rosse riflettevano all’epoca sul da farsi e chiedevano consigli a personaggi di primo piano16. In effetti ci sono lettere che si avvicinano molto a delle memorie, specie quando si intenda utilizzare lo strumento epistolare per giustificare un percorso e trarne un bilancio. Hyppolite Henry Gay, nato nel 1843 a Rodoretto – nel Pinerolese – da Mathieu Henry, pastore valdese, nel 1862 era entrato nella Scuola di cavalleria di Pinerolo. Sei anni dopo, nel gennaio del ’68, scriveva da Londra al cugino, omonimo del padre, a S. Giovanni, in Val Pellice, per «compter mon Odyssée», illustrandogli le motivazioni che l’avevano spinto a stabilirsi in Inghilterra. Descritti gli ostacoli frapposti ai suoi avan190

zamenti di grado, egli passava a questioni di più ampio respiro: non sapeva se il cugino avesse delle opinioni precise sulla politica italiana – e nel caso quali fossero – né che giornali leggesse, ma, da parte sua, riteneva che un militare essendo un uomo con un cuore e una coscienza come gli altri, e un giudizio libero può e deve farsi un’idea della sua posizione nei confronti del proprio paese [...]. Io ero monarchico prima del 1866, e ho fatto la campagna del 1866, ma dopo la campagna mi sono ritrovato completamente repubblicano. Perché? Per molte ragioni che derivano dai fatti che ho visto con i miei stessi occhi17.

All’inizio della terza guerra d’indipendenza aveva trovato inspiegabile il divieto di chiedere di essere mandati al fronte, imposto dal governo ai militari. Ottenuta questa possibilità in via del tutto eccezionale, si era visto sospendere la promozione e, giunto al reggimento, era rimasto sconcertato nel constatare l’inattività bellica di migliaia di uomini, paradossalmente occupati in marce e contromarce, mentre i prussiani chiedevano all’Italia di avanzare. Gli era parso assurdo che dopo Custoza nulla fosse cambiato nell’atteggiamento generale e nei movimenti strategici, e la subordinazione dei piani di guerra e della politica italiana al placet di Napoleone III l’aveva scandalizzato. Ti dirò che tutta l’Italia fu disgustata dalla vile condotta del re; tutti i militari irritati si fecero garibaldini, tutti quelli che erano già garibaldini divennero repubblicani. Dopo il 1866 la monarchia dei Savoia è morta nell’opinione nazionale. [...] io fui profondamente indignato nel vedere che noi militari siamo stati condotti in guerra per farci battere [...]. Sono stati condotti in guerra 400.000 [sic] uomini per farli uccidere nel macello di Custoza [...] perché il governo ha tradito la patria! Bisogna dunque riscattare la colpa e come? Dal quel momento il partito repubblicano si diede più che mai da fare. Si preparava già la spedizione di Roma che si è conclusa così sfortunatamente a Mentana. [...] io mi gettai con soddisfazione nel partito rosso ed entrai risolutamente nell’impresa romana. Noi dovevamo prendere Roma, poi proclamarvi la repubblica e consegnarla a Vittorio Emanuele solo a delle condizioni vantaggiose per la libertà e completamente mortali per il papato, il papa, la pretaglia, la Napoléonaille e tutta la Canaglia18.

Gay si era allontanato dal proprio reggimento a Rimini – dove era 191

stato inviato come istruttore di cavalleria – nella fase preparatoria della spedizione del ’67: formalmente disertore, aveva scelto di lasciare provvisoriamente l’Italia, per farvi ritorno al momento dell’azione. Nel frattempo, a Londra, era stato incaricato da Garibaldi di promuovere l’organizzazione di Comitati di soccorso per la spedizione, rimanendo sorpreso dall’esordio anticipato della campagna garibaldina19. Il quadro composto dalla lunga lettera di Gay era il riflesso del suo pensiero e del suo stato d’animo, indubbiamente emblematico, peraltro, di un certo modo di interpretare il ruolo del militare; è vero del resto che le vicende della terza guerra d’indipendenza contribuirono a radicalizzare gli atteggiamenti di molti settori garibaldini e costituirono un vulnus nell’immagine delle forze armate20. Tuttavia anche uomini che potremmo immaginare sensibili ai problemi posti dalle riflessioni di Gay consolidarono negli anni Sessanta la propria posizione nell’esercito, o comunque vi militarono a più riprese, pur portando con sé la memoria delle esperienze garibaldine. Il napoletano Achille De Feo, quindicenne nel ’60, era stato incoraggiato dallo stesso padre a recarsi in Sicilia. Il suo esordio in battaglia era stato piuttosto casuale: rifiutatogli ripetutamente l’arruolamento per questioni di età, nel luglio aveva raggiunto a Milazzo la divisione Medici e, convinto si trattasse di una rivista, aveva imbracciato le armi entrando inconsapevolmente in uno scontro. Integrato nei carabinieri genovesi, aveva combattuto fino al Volturno e, dopo l’entrata di Garibaldi a Napoli, aveva ritrovato lo zio, reduce della difesa di Roma e di Venezia nel ’48-’49, poi esule a Londra ed ora assegnato ad un reggimento in via di formazione. Su suo suggerimento, l’aveva seguito nell’esercito, trovandosi però a dover sopportare una lunga serie di prepotenze e di soperchierie. La mia giovinezza, il mio grado e le mie qualità fisiche e morali toccavano loro i nervi. [...] Per quei signori io ero una spia, un infingardo e tante altre belle cose, che, per decenza, non debbo ripetere21.

Indotto a chiedere un trasferimento, ottenne invece le dimissioni per motivi di età, essendo ancora lontano dai 17 anni prescritti. Gli si prospettava a quel punto la ripresa degli studi e un futuro di benessere economico e di affermazione professionale, «ma disgraziatamente per me e per i miei genitori che se ne desolavano, il militarismo, come uno spirito indemoniato mi era entrato nel corpo»22. Il padre, però, 192

prodigo di incitamenti nella primavera del ’60, trovava a quel punto anacronistici e politicamente illegittimi i desideri del figlio: «Il tuo compito è finito, egli mi diceva, come è finito quello della rivoluzione. Ora spetta al Re Vittorio Emanuele ed al suo governo di scegliere il momento opportuno di fare il resto; io voglio che dei quattro miei figli tre almeno servino [sic] con le armi il Re e l’Italia, però oramai che il più è fatto, ognuno di voi dovrà entrare al servizio con il decoro che i vostri mezzi apportano e che la vostra nascita richiede. Seguita i tuoi studi, a tuo turno entrerai alla Nunziatella [...]». Ma queste erano per me parole e consigli gettati al vento23.

Mentre i suoi fratelli avrebbero seguito i suggerimenti paterni, egli prese altre vie, spostandosi con la Guardia nazionale in Toscana per congedarsi poi a Napoli. Tornato in famiglia, il padre gli «attaccò alle costole un precettore» di appena 18 mesi più vecchio, che invece di placare gli ardori del suo allievo, si entusiasmava assieme a lui ai racconti garibaldini, tanto che entrambi si unirono al tentativo di Aspromonte24. Rimpatriato dalla Calabria, «quando rientrai in casa, solo mia madre corse ad abbracciarmi! Mio padre mi diede del repubblicano e ritirò la mano, che io voleva baciare»25. De Feo si ribellava anche a distanza di decenni a questa rappresentazione, rivendicando la mai tradita fedeltà al binomio «Italia e Vittorio Emanuele». Del resto non doveva trattarsi esclusivamente di un illanguidimento ideologico a posteriori, poiché nel dicembre del ’62 egli decideva di arruolarsi volontariamente a Reggio Emilia nel 39° reggimento di fanteria, con il quale sarebbe stato impegnato – e lo ricordava non senza imbarazzo – nella repressione del brigantaggio. La «penosissima campagna»26 del ’66 fu la tappa successiva, cui finalmente seguì la liberazione di Roma. Il mio battaglione quella notte – ricordava con orgoglio – bivaccò in Campidoglio. L’Italia era fatta! Il mio compito verso la patria era finito27.

La rappresentazione che De Feo offriva della vicenda risorgimentale corrispondeva in sostanza a questi parametri: il rifiuto di considerare la nascita del Regno d’Italia come chiusura definitiva di una stagione; la legittimità, anche nella fase immediatamente postunitaria, di iniziative extralegali; la priorità del battersi, tra i volontari così come nell’esercito regolare, nella prospettiva dell’obiettivo fondamentale di Roma, unico traguardo capace di dare compimento e credibilità al Risorgimento italiano. 193

Più stabili e sostanziali, evidentemente, le motivazioni che dovevano stare invece alla base delle lunghe carriere da ufficiali di vari ex garibaldini. Giuseppe Dezza, già ricordato come generale, deputato e senatore, rivendicava con particolare orgoglio nelle sue memorie l’iniziativa che aveva propiziato l’incontro tra Garibaldi e il re nel 1874 a Roma; non mancava di far trasparire quanto ciò significasse per lui, anche in termini di legittimazione del proprio percorso di garibaldino all’interno delle istituzioni militari28. Dezza tornava però con altrettanta fierezza su un altro episodio, avvenuto alla fine del 1860 e del pari emblematico del suo modo di intendere i rapporti tra militanza garibaldina e nuove lealtà istituzionali. Andai poscia a Milano a rivedere gli amici, e sentii, con mio grande dispiacere, che si parlava male dei garibaldini: che alcuni di costoro, giunti a Milano, non tenevano contegno decoroso [...]. Cercavo di persuadere gli amici, che i pochi di Milano non dovevano confondersi con la massa che aveva fatto il proprio dovere. Ma era un parlare al vento. La Società del Giardino [...] diede un gran ballo al quale intervenne Vittorio Emanuele, Cavour, Dipretis [sic], ministri, Türr, ecc. Decisi di andarvi e mettermi la mia bella uniforme, regalata a me ed a Bixio dalle Guide di Garibaldi [...]. Ci andai. Venni rimarcato e Türr venne a dimandarmi perché vestivo l’uniforme. Io gli risposi che, giunto a Milano, avendo sentito sparlare delle Camicie Rosse, l’avevo messa per vedere se qualcuno si fosse permesso di fare qualche malevola allusione; in tal caso avevo pronta la sciabola, per la difesa del nostro onore. [...] Verso la una, tutto procedendo regolarmente, tornai a casa a mettermi in frack [sic], e tornai alla festa; finimmo con un’ottima cena, con numerosi amici29.

Era il gesto di un uomo che vedeva nel proprio garibaldinismo l’elemento fondamentale che giustificava l’accesso nell’esercito e la principale credenziale del diritto a farne parte. Era per lui una questione di piani e di tempi, poiché con l’assedio di Capua e l’intervento delle truppe di Della Rocca «finiva il compito garibaldino»30. Per le sue scelte successive era comprensibile che un personaggio come Dezza si esprimesse in quel modo, cancellando dalla narrazione le resistenze delle camicie rosse all’idea di doversi far da parte, che se non furono sue, furono certo di molti altri. La stessa serena immagine del passaggio del testimone tra contributo volontaristico ed iniziativa regia si ritrovava anche nelle memorie del colonnello di stato maggiore Giacomo Fazio31 – che pure aveva 194

combattuto di nuovo, nel ’66 però, in camicia rossa – o in quelle di Emilio Zasio, bresciano dei Mille. Così come Dezza, anch’egli era entrato nell’esercito dopo lo scioglimento dei volontari, rimanendovi fino al 1869, alla vigilia della sua morte; ciò non escludeva che desiderasse rendere omaggio al modello della guerra di popolo e all’idea dell’indipendenza conquistata con le proprie forze, al di là e a prescindere da contributi esterni mai gratuiti32. Egli ricordava con rammarico i modi attraverso i quali era stata condotta la smobilitazione dell’Esercito meridionale, i meccanismi che avevano indotto alle dimissioni egregi ufficiali, togliendoli per sempre alle forze armate33; in ogni caso ciò che consegnava ai posteri non erano toni rivendicativi, ma fiere nostalgie. Alla fine vennero ordini di depositi da stabilirsi nelle vecchie provincie di Piemonte. Da Napoli e suoi ameni dintorni partimmo, salutando commossi le belle spiagge. Lieti pensieri ci accompagnarono, frutto di coscienze tranquille per compiuti doveri; ripensammo alle catene infrante di signoria aborrita, alla libertà di Sicilia e Napoli, alla fede nuova costituita, ai novelli tempi più fortunati [...]. Pazzi nello stringerci, fatti evviva e inneggiato a Garibaldi, finimmo sei mesi di vita guerresca. Oprammo pel bene d’Italia, dover nostro essendolo, obbedienti a Garibaldi, cuore e braccio dell’unità, superbi di nostra bandiera, d’Italia di Vittorio e della sua guerriera stirpe34.

Altri erano indubbiamente gli umori che si esprimevano in forme più immediate quali il diario e le lettere, a cui il bresciano Nicostrato Castellini, già combattente nel ’48 e poi di nuovo nel ’62 e nel ’66, affidava la sua amarezza per le scelte del governo. In data 8 novembre 1860 annotava da Aversa: Ieri l’altro Garibaldi si abboccò con Cialdini a S. Maria e quindi ritornò a Caserta, ma disgustato. Poi andò a Capua e si abboccò col Re, prese un convoglio, andò dritto a Napoli, solo [...]. Il Re quindi con un convoglio speciale andò anch’egli [...] a Napoli, ma senza Garibaldi e senza passare alcuna rivista alla nostra armata volontari. Si tentò dal Governo di poter dare delle pillole dolci a Garibaldi, offrendo a lui onori e cariche, ma egli non volle saperne: voleva al contrario concessioni per i suoi volontari ma sembra abbia trovato opposizioni. [...] Credo che il Governo scioglierà i volontari trattenendo tutto al più quei soldati che sono in età di coscrizione [...]. Io farò a cavallo una marcia, probabilmente passando per gli Abruzzi,

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o per Terracina andrò a Roma e da Roma a Bologna e da Bologna a Milano, viaggio lungo, che almeno mi permetterà di visitare tutta l’Italia35.

Una settimana dopo scriveva alla moglie: [...] il Governo si comporta nel modo più indegno, più ingrato, più impopolare possibile, per modo che formerà un forte partito nel paese che lo avverserà. [...] In tal modo, fra un mese o due, di tutta la generosa armata che diede due regni a Re Vittorio non resterà più traccia, e questo si vuole dalla camarilla che sembra invidiosa dei nostri risultati36.

Castellini avrebbe chiesto ed ottenuto le dimissioni nel dicembre del ’61, dedicandosi negli anni successivi all’assistenza materiale e politica ai reduci dall’impresa di Aspromonte – cui anch’egli prese parte –, all’organizzazione dei tiri a segno, alla promozione delle banche popolari e dei magazzini cooperativi, partecipando attivamente alla vita amministrativa di Milano fino alla morte. Con queste parole avrebbe scelto di ricordarlo nel 1868 Giovanni Battista Varè, uomo del ’48 veneziano, rendendo omaggio non solo all’individuo, ma ad un modo di essere reduci: Ciò che più distingueva l’indole di Castellini si appalesava principalmente durante le soste, durante queste paci che tutti sapevano essere tregua, e che all’animo del volontario erano sempre soverchiamente lunghe ed incresciose. La lode di accorrere a riempire le schiere quando tutto il paese vi spinge e vi slancia è lode che il Castellini ha comune con migliaia di giovani italiani. Più rara e più grande ai miei occhi è la lode di aver servito la patria nei giorni del silenzio, nei giorni del generale scoraggiamento, nei giorni in cui il cannone tace e non si sa quando ripiglierà il suo fragore37.

Castellini faceva parte di quei volontari del ’60 che non erano riusciti ad essere dei Mille, e che nei loro scritti hanno lasciato traccia del rimpianto per non aver potuto entrare in quella sorta di aristocrazia del garibaldinismo, apparsa fin da subito come sinonimo di una disponibilità, allo stesso tempo folle e ammirevole, a lanciarsi vittoriosamente in un’impresa all’apparenza senza prospettive. Giulio Adamoli li descriveva tra le prime immagini che gli erano apparse di Palermo: essi «assediavano di domande» i nuovi arrivati, ansiosi soprattutto di sapere ciò che si dicesse di loro sul continente. E noi li contentavamo, guardandoli con ammirazione e con rispetto, lieti di esse-

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re noi i primi a recare loro notizie del paese. Essi accoglievano le nostre dimostrazioni come un omaggio loro dovuto, né, in verità, si può dire che brillassero per troppa modestia; ma credo che nessun italiano abbia mai avuta tanta ragione, com’essi avevano, di sentire altamente di sé. Non eran essi partiti da Quarto per l’ignoto?38

La notizia della prima spedizione sembrava aver rappresentato per molti l’elemento risolutivo nella decisione della partenza per il Sud, poiché a quel punto la propria inadeguatezza non si misurava più solo rispetto ad un astratto dover essere, ma sul valore di altri uomini, spesso noti e persino amici. In questa situazione si era trovato suo malgrado anche il riminese Raffaele Tosi, figlio di un affiliato alla Giovine Italia, che aveva iniziato a combattere quindicenne durante il biennio rivoluzionario a Roma e a Venezia e nel ’60 si trovava vincolato ad una ferma di 18 mesi, a cui si era assoggettato arruolandosi nell’esercito sardo. Allontanatosi assieme ad altri alla notizia dei preparativi garibaldini, era stato ben presto fermato: A impedire l’estendersi del male, il governo dispose che tutti quei fuggiaschi fossero presi e imprigionati; e mentre io fantasticavo arrembaggi e battaglie, ecco che mi arrestano e mi confinano nella cittadella di Alessandria a sbollirvi i facili entusiasmi giovanili. Di là, accompagnavo con l’anima in tumulto quei Mille gloriosi veleggianti alla morte39.

Il naufragio politico e la morte apparivano appunto l’esito più realistico dell’iniziativa, come inducevano a credere anche quelle vicende del cui mito si nutrivano molti dei volontari del ’60: prima fra tutte la spedizione dei fratelli Bandiera, di cui lo stesso Tosi ricordava l’esumazione delle «reliquie» durante la liberazione del Mezzogiorno e l’adorazione che egli, assieme ad altri, ne aveva fatto, dopo essere stato cresciuto nel culto della loro impresa40. Tosi, pur solo ventisettenne, aveva oramai alle spalle una certa esperienza militare, ma per un giovanissimo come il reggiano Giuseppe Pomelli – anch’egli arruolatosi a fatica dopo aver visto partire tra i Mille il cugino trentacinquenne – la campagna meridionale del ’60 aveva anche significato sperimentare lo stridente contrasto della cultura libresca e dei racconti tramandati nel contesto familiare con la prosaica realtà del combattimento. I colpi si ripetevano e venivano col nostro avanzare sempre più distinti, ed a me facevano un effetto sgradevolissimo: forse la stanchezza e gli strapazzi del giorno prima, l’esser stato svegliato a colpi di cannone, l’aver lo

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stomaco vuoto, il marciare nell’oscurità cauti e guardinghi, tutto questo assieme dovette essere la causa che in quel momento il mio ardore guerriero fosse in gran ribasso e che in cuore desiderassi di trovarmi più tosto in letto a Reggio nell’Emilia che in marcia per assaltare Reggio di Calabria. [...] in quella notte sentii la paura. Avevo un bel ricordarmi i fratelli Bandiera, il Pisacane e Agesilao Milano... lo spaghetto trionfava41.

Lunghe vicende risorgimentali come quella di Raffaele Tosi, le cui memorie si estendevano dal 1848 al ’67, si prestano particolarmente a mettere in luce come ogni nuova iniziativa fosse un’occasione d’incontro tra le vecchie leve del volontariato e le nuove, come ogni appello di Garibaldi rappresentasse per le prime un appuntamento non solo con la storia ma anche con altri uomini compresi nelle medesime reti di relazione patriottiche. Nel ricordo delle sue due ultime campagne – Bezzecca e Mentana – il riminese esplicitava questi aspetti, individuando nel ’66 il momento di incontro tra la «vecchia guardia garibaldina e la gioventù nuova»42. Del ’67 – la cui narrazione era iniziata con la sua convocazione nella casa di villeggiatura di Saffi, assieme a molti suoi compagni d’armi – rievocava, invece, con particolare emozione il momento della separazione. [...] A Terni seguirono i commiati. Non so, ma qualche cosa mi faceva groppo alla gola; saremmo tornati alle case nostre col triste ricordo di quell’addio, l’ultimo forse per molti di coloro che contavano già un ventennio di guerra: la vita, finalmente, non è eterna43.

Tosi, anche se dal Generale lo separavano più di 25 anni, apparteneva alla generazione garibaldina che aveva difeso la Repubblica romana, a quella i cui racconti affascinavano i più giovani durante la navigazione verso il Sud dopo aver alimentato in loro il desiderio di partire. Lo spiegava bene Guido Sylva, ricostruendo prima l’ambiente bergamasco in cui era cresciuto e poi il viaggio verso la Sicilia44: Tra di noi, nati dal 1840 al 1845, non si parlava ormai d’altro che degli avvenimenti del 1848 e 1849 – e i nomi di Mazzini e di Garibaldi ricorrevano di continuo nei nostri sommessi conversari [...]. Quei nostri compagni, i quali, per essere di età poco maggiore, conservavano ancora la visione luminosa de l’una figura e de l’altra, di quando, nel 1848, li avevano veduti a Bergamo, Garibaldi entrarvi sfolgoreggiante, a la testa de’ suoi volontari, fra i quali spiccavano la balde figure di circa settanta reduci da l’Uruguay, eroico avanzo de la fatata legione italiana [...] – e Mazzini arringare il popolo [...], fanatizzandolo con la sua parola calda, vibran-

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te e suggestiva, ai più elevati concetti di libertà e d’indipendenza, prima d’allora non mai uditi – quei nostri compagni, ripeto, si infervoravano a tratteggiarne le nobili sembianze [...]45.

L’esperienza del ’60 portava con sé anche la possibilità di dare un volto a uomini ormai entrati nella mitologia vivente del patriottismo: Nicotera, Crispi, Missori sono solo alcuni dei nomi che ricorrono nelle memorie dei più giovani, talvolta stupiti nel rilevare su queste figure idealizzate i segni prosaici del volontariato in armi, fatto anche di fame, polvere e fatica. L’incontro con Garibaldi era però, senza possibilità di paragoni, l’evento della vita, il momento nel quale gli investimenti simbolici, le proiezioni psicologiche di cui la sua figura era oggetto si combinavano con l’opportunità di un contatto diretto, nel vivo dei viaggi e delle battaglie. Era un’idealizzazione che la vicinanza trasformava in fascinazione e innamoramento, specie per chi poteva legare la presenza accanto a Garibaldi solo ad un episodio memorabile, senza che essa si traducesse in una frequentazione più «quotidiana», in dimestichezza politica e personale. La memorialistica garibaldina è tutta punteggiata di questi riferimenti al contatto con il Capo, vissuto non solo come fattore decisivo per rinnovare entusiasmo e convinzione, ma come esperienza moralmente significativa e intimamente coinvolgente. Nella galleria di ritratti che spesso accompagnava gli scritti di cui si sta ragionando, il profilo di Garibaldi era vissuto e ricordato anche come quello dalla più elevata qualità umana. Alberto Mario, per nulla propenso ad associare le proprie convinzioni politiche a meccanismi di identificazione personale, ci ha lasciato una testimonianza tanto più eloquente di ciò che poteva rappresentare il giudizio del Generale, capace di trascendere ampiamente il significato formale della sanzione da parte di un superiore. Lo sfondo è ancora una volta quello del ’60 e il contesto specifico la degradazione di alcuni ufficiali per inadempienza in combattimento: Garibaldi comandò che i tre presenti dei cinque escissero dalle file e si presentassero al cospetto di lui e della divisione. A me pareva, anzi in quel punto lo sperai, che i raggi di tante migliaia d’occhi, conversi su quegli sciagurati, avrebberli come folgore inceneriti prima d’arrivarvi. [...] L’età giovanile dei colpevoli, il sentimento della umana debolezza, l’idea che un sùbito turbamento può sorprendere anche l’uomo di saldo petto, l’apparato solenne della punizione, la fisionomia e l’atteggiamento d’inflessibile severità di Garibaldi, destarono nell’animo mio un affetto pre-

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potente di pietà. Sentirsi dire da Garibaldi «siete un vile», appariva agli occhi miei morte peggiore d’ogni morte. Eppure il supplizio era giusto e necessario46.

Tutti i volontari erano potenzialmente esposti al giudizio di Garibaldi, a lui del resto ci si affidava materialmente e psicologicamente, anche se la sua azione non era imperscrutabile. Il suo carisma corrispondeva in sostanza alla forza di chi non aveva bisogno di legare formalmente a sé gli uomini per farsi seguire e obbedire. Anton Giulio Barrili – i cui ricordi si caratterizzano più di altri anche come racconti di viaggio – ha fermato sulla carta momenti d’intimità quasi bucolica con Garibaldi, in cui il rapporto gerarchico si svincolava dagli aspetti militari per trasferirsi essenzialmente sul piano umano, materializzandosi nel privilegio etico ed emotivo della vicinanza. Si era letteralmente alle porte di Roma – di cui si intravedevano i profili – ma soprattutto alla vigilia della battaglia di Mentana: Le tenebre regnavano intorno a noi [...] ma la giornata era stata singolarmente luminosa: rivedevo la campagna pianeggiante di là dall’Aniene, seminata d’illustri rovine, l’acquedotto Claudio, San Giovanni Laterano con la sua ordinanza aerea di statue, la cupola di San Pietro col suo globo d’oro, monte Mario coi suoi negri lancieri in vedetta [...]. Giornata inutile ad altri, che misurano ogni cosa dagli effetti ottenuti; ma non inutile a me, che l’avevo goduta! [...] ne fui grato a Garibaldi; gliene sarò grato finché io viva, perché veramente fu la prima e sarà certamente l’ultima giornata bella della mia vita con lui, davanti a lui, senza folle importune a levarmene la vista; vicino a lui nel pericolo lungo, nel pericolo dimenticato tra i lieti ragionamenti [...]. Viva Garibaldi! e il monte Sacro abbia il più sacro dei miei ricordi per lui47.

Avvicinarsi a Roma, tanto da poterne intuire la maestosità e lo splendore, ed esserne ricacciati indietro: ecco un altro topos delle narrazioni del garibaldinismo, nelle memorie di quella spedizione dell’Agro romano che, forse più di Aspromonte, incarnò l’antitesi del ’60, paradigma positivo, costante termine di paragone implicito e modello irripetibile. Al ’67 si associava anche un’immagine diversa dei garibaldini, pronti a ritrarsi come «ribelli cenciosi»48 – ai quali le porte di Roma rimanevano chiuse – con quel gusto della provocazione sociale e politica che, nei ricordi della campagna del Sud, rimaneva in secondo piano rispetto alla volontà di contrapporre ai ritratti diffamanti delle camicie rosse profili dignitosi, attraenti e ri200

spettabili. Nella spedizione conclusa a Mentana c’erano state solo rare parentesi luminose in cui lo stesso Garibaldi sembrava essere tornato quello di sette anni prima. Dopo la vittoria di Monterotondo, all’alba, vedemmo Garibaldi in tutta la gloria del suo trionfo. Era venuto sopra un piazzale, e sedeva sopra un muricciolo [...]. Indossava la camicia rossa e i calzoni bigi chiari [...]. Portava sulla camicia il suo poncho, non quello di panno grigio della campagna antecedente in Tirolo, che era nel fatto [...] un mantello di cavalleria; ma un poncho americano autentico, di stoffa a colori, vergato di rosso e d’azzurro [...]. [...] Era di lieto umore; la vittoria colorava d’un tenero incarnato il suo viso, negli ultimi anni un po’ cereo; la barba aveva ancora bionda, con riflessi dorati, il labbro vermiglio, dolcissimo, e il sorriso affascinante come la voce. Dal 1860, quando egli era a Genova, per preparare la spedizione di Sicilia, non avevo mai più veduto Garibaldi così giovane, così poeticamente bello49.

Nel ’60, invece, si trattava anche di promuovere un modello, e questa esigenza sembrava lasciare una traccia nell’autorappresentazione consegnata ai ricordi: l’impatto della rivoluzione sulle popolazioni meridionali dipendeva anche dalla capacità degli stessi garibaldini di apparire inequivocabilmente più belli, giovani e forti dei borbonici, di associare il proprio messaggio politico ad un’immagine solare e vincente. Il bresciano Giuseppe Capuzzi, partito con i Mille, nelle memorie nate dall’immediata rielaborazione delle note scritte nel vivo degli eventi ci offre un esempio di questo atteggiamento, dove nella celebrazione di se stessi era implicita la risposta alla propaganda della controparte. [...] sappia anche Francesco II e i suoi satelliti che la Colonna guidata da Garibaldi è il fiore della intelligenza d’Italia, che deputati al Parlamento, professori, letterati, dottori, studenti sono gli uomini che seguirono quel prode Campione della libertà, i filibustieri che sbarcavano a Marsala. [...] Quella banda dopo la vittoria non si sparpagliò per le case a far sacco, ad appiccar fuoco, non impose balzelli, non aspirò a premii e ad onori [...]. [...] Quella banda ha fatto impallidire i soldati dell’Austria, ha messo lo scompiglio in quelli di Napoli, e Francesco II non può dissimulare la sua paura, perché i vili e i malvagi tremano allo spettacolo della virtù, perché sa d’esser vicino all’ultima ora di regno, sa che i filibustieri canteranno sulle rovine del suo trono l’inno nazionale50.

Nelle pagine precedenti Capuzzi aveva rivendicato con orgoglio la specificità dell’esercito garibaldino, nel quale ai soldati era dato di 201

scegliere i propri superiori, com’era avvenuto nel viaggio per mare verso la Sicilia51. Il tema del particolare rapporto tra ufficiali e subordinati tornava anch’esso, del resto, con una certa frequenza nei diari e nelle memorie. Il carisma di Garibaldi, l’autorevolezza degli altri comandanti, la coesione delle truppe e la loro motivazione ideologica, il rifiuto dell’immagine brigantesca delle camicie rosse: tutti questi aspetti tornavano anche nell’interpretazione dei fatti del ’60 che gli stranieri, garibaldini essi stessi ovvero osservatori curiosi e simpatetici, consegnarono alle loro memorie. Il prussiano – svizzero d’adozione – Wilhelm Rüstow, che già aveva seguito la campagna del ’59 e che l’anno dopo divenne al Volturno capo di stato maggiore della divisione Türr, individuando nello specifico le radici della vittoria garibaldina a Calatafimi, citava proprio «l’incanto che esercitava su loro il capitano, [...], la cordiale relazione dei soldati fra loro, come pure fra questi e i loro superiori»52. Anche Gustav Rasch, a Genova nel maggio del ’60, descrivendo i volontari in attesa della partenza, si premurava di sottolineare che non si trattava certo di «plebaglia, [...] che accorra a combattere non avendo a casa nulla da fare né da mangiare!»53, così come, più avanti, avrebbe sostenuto che difficilmente si sarebbe potuto trovare nella storia un uomo più popolare di quanto lo fosse stato Garibaldi nel Meridione in quei mesi54. In effetti, gli attori degli avvenimenti erano molteplici: il soggetto collettivo molto articolato e complesso dei garibaldini, le popolazioni meridionali – altrettanto diversificate al loro interno – i moderati piemontesi e filopiemontesi, la controparte politica e militare borbonica. Le camicie rosse provenienti da altri paesi e altri continenti costituivano poi l’emblematica specificità di un fenomeno e di un’epoca, attirando l’attenzione, fra l’altro, di un acceso legittimista come il cappellano borbonico Giuseppe Buttà, che vi individuava ulteriori prove di quel «mondo alla rovescia» instaurato dai garibaldini in Sicilia, tra «baccano e saturnali»55. La loro «armata cosmopolita» – sottolineava sconcertato – si componeva di «francesi, inglesi, alemanni, ungheresi, polacchi», di «uomini che parlavano tutte le lingue e i dialetti d’Europa, e vi erano pure africani ed americani»56. Il parigino Maxime Du Camp, nello stato maggiore della 15a divisione, era uno dei componenti di quell’esotico contingente. Della sua esperienza nel Meridione d’Italia restituì un quadro a sua volta 202

improntato all’esotismo, pesantemente condizionato da un’idea dell’Oriente – associato in questo caso al Sud – come sinonimo allo stesso tempo di sporcizia e arretratezza, di pittoresco e di paesaggi strepitosi, di arcaica autenticità e di malattia. Se erano state la Calabria57 e la Campania – specie il miracolo del sangue di san Gennaro, «spettacolo della degradazione dell’anima umana»58 – a sollecitargli in modo specifico questa chiave di lettura della realtà meridionale, tutta l’Italia gli era apparsa fin da subito un contesto anomalo, complesso e ambiguo. Nell’agosto del ’60 Genova – in preda alla «febbre rossa»59 – era ai suoi occhi «sottratta [...] all’azione del Governo di Torino», quasi «una piazza d’armi da cui il dittatore attingeva per la Sicilia gli uomini e le munizioni che gli bisognavano»60. Stupito dall’atteggiamento di riverenza religiosa con cui i siciliani avevano accolto Garibaldi, Du Camp aveva del resto ricordato a se stesso che gli italiani «in modo veramente inconcepibile» usavano associare spesso le rivoluzioni ai nomi dei santi, com’era avvenuto a Venezia nel 184861. I tre testimoni stranieri che abbiamo appena citato, pur molto diversi tra loro, erano però accomunati dalla tendenza a leggere il garibaldinismo come lente attraverso la quale osservare le supposte anomalie italiane – meridionali in particolare – e, al contempo, come migliore espressione dell’Italia di quegli anni. Le stesse camicie rosse provenienti dai vari luoghi della penisola avrebbero espresso nei diari e nelle memorie un atteggiamento molto simile, rovesciando così in cifra positiva quel senso di eccezionalità e di trasgressione dalla normalità che tanto scandalizzava i legittimisti. Per i garibaldini settentrionali, straordinari erano i colori e i paesaggi; per tutti, straordinari erano i tempi. Gli elementi che anche visivamente segnalavano la rottura della tradizione – in città siciliane che le camicie rosse facevano apparire come traboccanti di «papaveri»62 – erano particolarmente emblematici: i preti e i frati garibaldini che arringavano il popolo, i volontari che trovavano ricovero nelle chiese – alimentando la diffidenza del clero filoborbonico –, i siciliani che, contro ogni previsione, prendevano le armi, superando la diffidenza e la paura delle cruente rappresaglie dell’esercito, e che a Palermo innalzavano di nuovo barricate degne di quelle di Milano e Parigi. Per tutti i protagonisti che raccontavano di sé si trattava di uno scarto rispetto alla propria quotidianità e alle esperienze pregresse, talvolta di un salto di qualità dall’immaginario al reale, dalle suggestioni letterarie al concreto, dal passato familiare enfatizzato dalla 203

fantasia al presente: capitava dunque che si cercasse inutilmente l’ideale estetico greco tra gli uomini e le donne della Sicilia, e che si potessero finalmente visitare nell’isola e sul continente i siti archeologici di cui tanto si era letto. All’alcamese Giacomo Fazio lo spirito rivoluzionario era cresciuto in casa e nel ’60, proprio in casa, la rivoluzione gli si era di nuovo materializzata: il fratello e il padre avevano partecipato agli avvenimenti del ’4863, dodici anni più tardi i garibaldini erano arrivati ad Alcamo e uno di loro era stato alloggiato presso la sua famiglia, divenendo oggetto delle sue «infinite domande»64. Al seguito delle camicie rosse, assieme ad alcuni compaesani, avrebbe tradotto le suggestioni in realtà, scoprendo che la battaglia era «qualcosa d’assai più freddo, d’assai più prosaico» di quanto i libri e i dipinti potessero suggerire65. Prima di partire per il Sud con la spedizione Medici, il ventenne pavese Piero Corbellini, come molti altri, non aveva mai visto il mare: nel suo zaino, oltre ai soldi e al cibo, trovava spazio un’edizione dei Sepolcri del 1843 – «un viatico, ch’io considero come un talismano»66. Della Sicilia lo colpivano in modo particolare – le sue erano in realtà annotazioni recuperate e rielaborate a cinquant’anni dagli avvenimenti – il colore del cielo e l’aspetto della natura; dell’atmosfera rivoluzionaria coglieva anche gli aspetti più concreti e vistosi: i festeggiamenti, il vino, i sorbetti e le granite offerti dalla popolazione67, le monache che «correvano con gli occhi ad incontrare lo sguardo dei polverosi garibaldini»68. L’origine diaristica di questa rievocazione spiega il forte rilievo che vi conservavano aspetti prosaici, quali la fame e la sofferenza per le precarie condizioni igieniche, specie nella fase della smobilitazione dell’Esercito meridionale, cui si legavano non solo i toni più amari, ma anche un non troppo oleografico repertorio delle canzonature che i volontari indirizzavano ai propri ufficiali, colpevoli – in quei frangenti – di uno zelo oramai eccessivo per la disciplina militare69. Nei fatti e nella rappresentazione postuma del garibaldinismo, la campagna di Sicilia rimane un fatto irripetibile. Ovviamente irripetibile rispetto alla «sventuratissima» guerra del ’6670, ma anche, subito, rispetto alla risalita del Meridione continentale, caratterizzata dai chiaroscuri. Napoli, poi, non è Palermo, e se stupisce e affascina con i suoi tripudi garibaldini di massa, impressiona anche per la povertà, il degrado e la superstizione. Era comunque il ’60 in generale a costituire il paradigma non più 204

ripetuto, come gli avvenimenti del ’62 si sarebbero premurati ben presto di rivelare. Anche Francesco Zappert, milanese di nascita, di madre ungherese e padre viennese, già volontario nel ’59 e l’anno successivo, doveva registrare nel suo amaro e rabbioso opuscolo sui fatti di Aspromonte, pubblicato nel ’63, l’impossibilità di rinnovare il movimento del ’60. Introducendo le sue memorie, osservava che molti di quelli che avevano scritto sul ’62, l’avevano fatto «per giustificarsi quasi dall’aver seguito Garibaldi»; lui invece «della sconfitta d’Aspromonte» si vergognava «tanto che tornerei da capo domani»71. Le sue erano pagine sdegnate contro gli uomini del ’60 che non erano tornati in camicia rossa due anni dopo, contro «Bixio, l’arrabbiato rattazziano, il paladino di un governo che dovea far Sarnico e Aspromonte»72. Zappert, nonostante avesse acquistato vari gradi nelle campagne combattute dal ’48 in poi, teneva a sottolineare come in lui rimanesse prevalente l’identità del garibaldino e come il suo modo di interpretare il ruolo del volontario sfuggisse ad ogni stabile collocazione negli apparati militari. [...] non presi mai sul serio i gradi ottenuti [...]. E non perché io tenga a vile la divisa militare, della quale nulla conosco di più nobile quando non sia portata da macchine da guerra, cui siano interdetti del pari la ragione e il giudizio; ma perché sapeva bene io che quelle vesti a stento coprivano in me il cittadino e per tutti i buchi lasciavano passare il borghese: dacché il volontario, per quanta voglia abbia di parerlo, riescirà difficilmente ad acquistar figura e imponenza di militare73.

Quello di Zappert – lo si è visto – era solo uno dei percorsi possibili attraverso i quali la memoria della militanza garibaldina andava a saldarsi con gli itinerari e le scelte successive, senza che altre rotte, diverse dalla sua, implicassero per forza l’imbarazzo e la sconfessione del proprio passato. 2. Da volontari a reduci In qualità di individui e di soggetto collettivo i combattenti del Risorgimento furono oggetto dell’azione e dell’indagine statale essenzialmente in due direzioni: come potenziali beneficiari di una normativa pensionistica ad hoc e come protagonisti di attività associative sottoposte, al pari delle altre, al controllo e all’eventuale limitazione delle iniziative. Questi due livelli possono richiamare i lineamenti attribuiti nell’immaginario alla figura del reduce, in perenne 205

stato di necessità, nella condizione di vivere di sussidi elargiti a fatica, disilluso dal presente ed indotto a ripiegarsi sul rimpianto e sulla sua celebrazione del proprio passato. In realtà il panorama è più complesso, non solo perché l’universo degli ex combattenti era assai diversificato al proprio interno, ma anche perché il loro associazionismo si configurò certo come strumento di pressione rispetto all’azione legislativa, ma tentò soprattutto di elaborare degli strumenti autonomi di soccorso economico e di estensione della pratica della cittadinanza. Pur nella povertà quantitativa degli studi specifici sul tema74, è stato sufficientemente chiarito come la distinzione terminologica tra veterani e reduci presupponesse in linea di massima una differenziazione sostanziale, legata non solo al fatto che i primi aggregassero soprattutto i protagonisti del 1848-49, ma anche ad orientamenti politici talvolta inconciliabili. I garibaldini, oltre che nei non numerosissimi sodalizi esplicitamente destinati a questa specifica categoria di volontari, si raccolsero in prevalenza nelle società di reduci che a decine e decine si andarono formando nei primi decenni dell’Italia unita, conoscendo destini assai difformi in termini di longevità e di forza numerica. Si è appena accennato ai Mille di Marsala come vertice di un’ipotetica gerarchia interna al mito garibaldino, come «figura» particolarmente adatta ad intercettare le proiezioni simboliche sull’impresa meridionale e a monopolizzarne le narrazioni diffuse. Furono gli stessi riconoscimenti formali che vennero attribuiti ad enfatizzare questo primato, alimentando attorno al loro gesto un’aura di eccezionalità e d’irripetibilità. Individuati come una sorta di élite morale, i garibaldini salpati da Quarto divennero dunque oggetto di un’attenzione particolare da parte delle istituzioni, che non vollero né poterono sottrarsi alle periodiche sollecitazioni di parte del Parlamento in tal senso. In effetti, tra le camicie rosse, solo i Mille poterono avvantaggiarsi di una precoce normativa pensionistica, poggiante su una legislazione che andò progressivamente precisandosi in senso estensivo, definendo il contributo economico sempre più in chiave di riconoscimento autonomo e non di sussidio concesso a compensazione di una marginalità sociale o di un’integrità fisica compromessa. Il 5 luglio del 1862 Pasquale Stanislao Mancini poteva finalmente presentare una mozione con la quale si chiedeva che fosse concessa a favore dei Mille una pensione annuale. Nell’attesa che Ca206

mera e Senato si esprimessero in merito, il Ministero dell’Interno aveva «determinato di accordare [...] un provvisorio assegno di £. 40 mensili sui fondi della Emigrazione». Per accedervi era necessario dimostrare di essere stati insigniti della medaglia decretata nell’estate del ’60 dal Municipio di Palermo, presentando contestualmente la copia del congedo o della dimissione volontaria, e rinunciando ad altri sussidi d’emigrazione75. La somma era stata stanziata «a solo titolo di sussidio» e non ne potevano dunque beneficiare gli ufficiali civili e militari «retribuiti dallo Stato avendo una conveniente posizione sociale»76. Si sarebbe usciti dalla provvisorietà solo tre anni dopo, con la legge77 che assegnava una pensione vitalizia di 1000 lire a ciascuno dei «fregiati della medaglia d’onore istituita per iniziativa del Municipio di Palermo»; ne rimanevano però esclusi coloro che già percepivano «da un pubblico erario sì nazionale che provinciale o municipale una somma superiore alle lire 1.200»78; la perdita del diritto di fregiarsi dell’onorificenza avrebbe del resto implicato la cessazione della pensione. Quest’ultima condizione rifletteva chiaramente il significato che si intendeva attribuire a quel beneficio economico, presentato non solo come fattore di legittimazione di un’iniziativa che nella sua eccezionalità sembrava trascendere gli aspetti politici, ma anche come sanzione di un’eccellenza morale da additare a modello. Se nelle discussioni parlamentari si rivelava la dimensione politica del problema, il lavoro della macchina burocratica costituì la premessa per ulteriori definizioni della normativa, pesantemente condizionate da considerazioni di ordine finanziario e dal fatto che la questione non rientrava assolutamente tra le priorità. Senza parlare delle altre migliaia di garibaldini dell’Esercito meridionale, per il Ministero dell’Interno i Mille non beneficiati dalla legge del ’65 di fatto non esistevano. Negli anni Settanta, quando si trattò di valutare la possibilità di un’estensione dei diritti acquisiti, si dovette avviare un’indagine conoscitiva su tutto il territorio nazionale, in modo da acquisire una visione d’insieme ed appurare quale peso economico avrebbe avuto una legge meno selettiva79. Quest’esigenza produsse una documentazione che consente ora di rilevare in quale condizione professionale si trovassero a 15 e poi a 18 anni dai fatti del ’60 i garibaldini della prima spedizione. Lo stesso elenco dei «Mille» venne negli anni verificato e aggiornato, fino ad accogliere, nella versione definitiva del 1878, 1089 nomi80. Questa ricognizione si era messa in moto dopo che nel giugno del 207

’76 era stato presentato alla Camera un progetto, dovuto tra gli altri a Mauro Macchi, per l’eliminazione delle restrizioni nei confronti degli stipendiati dall’erario e per l’estensione del beneficio agli uomini che, pur partiti da Quarto, erano scesi a Talamone su ordine dello stesso Garibaldi per la progettata diversione verso l’Agro romano. Realizzando finalmente la vecchia proposta di Mancini, si arrivò così alla legge del ’7981, che corrispose alle richieste estensive, correggendo gli aspetti che rendevano più debole la legge precedente e «mutavano quasi l’espressione della gratitudine nazionale in sussidio alla miseria»82. Si trattava in sostanza di estendere ai fregiati della medaglia dei Mille il trattamento che normalmente si riservava ai decorati della Croce di Savoia e delle medaglie al valore militare e civile, che ricevevano senza eccezioni e restrizioni gli assegni annessi. Dopo un complesso iter parlamentare, il progetto veniva alla fine approvato e trasformato in legge. Nella relazione della Commissione incaricata di esaminare la proposta, l’auspicio di un risultato positivo veniva caricato di forti implicazioni simboliche: esso avrebbe dovuto testimoniare il consolidamento istituzionale ed economico dell’edificio statale, il superamento di alcune passioni politiche divergenti e la volontà di esprimere a Garibaldi la riconoscenza del Paese. Avrebbe segnalato soprattutto l’esteso consenso attorno alla necessità di elevare la spedizione dei Mille allo status degli avvenimenti «superiori ad ogni critica, ad ogni discussione, che si impongono alle menti per forza irresistibile, ai quali nessun altro è paragonabile, malgrado qualunque apparente analogia»83. Estesi nel 1886 anche alle vedove e ai figli dei Mille, i benefici sanciti dalla legge del ’79 determinarono, rispetto alla normativa precedente, l’aumento di 86 soggetti tra gli aventi diritto. A quest’altezza si poteva con certezza verificare la sopravvivenza di 734 tra i 1089 garibaldini partiti da Quarto, 78 dei quali erano già morti nella stessa spedizione del ’60 e 41 in battaglie successive. I fascicoli personali dei Mille di Marsala fotografano la condizione professionale in cui essi versavano alla vigilia dell’approvazione della legge. In moltissimi casi però la documentazione si riferiva, oltre che ad elementi successivi, anche a dati pregressi, relativi alla situazione economica, ai luoghi di residenza, talvolta agli atteggiamenti politici. Ne emergono andamenti altalenanti, rapporti assidui e continuativi in termini di assistenza economica tra l’individuo e le istituzioni, ovvero contatti episodici legati a fasi di particolare difficoltà. Periodiche richieste di sussidio provenivano per esempio dal ber208

gamasco Ferdinando Martino Bianchi, che nel Regno d’Italia aveva continuato a svolgere la funzione di guardia doganale già ricoperta sotto l’Austria. Nel ’65, mentre si trovava a Trapani, ne veniva esonerato per aver contratto matrimonio senza autorizzazione. Alla fine degli anni Settanta risiedeva ancora in Sicilia, impiegato presso un Monte frumentario, occupazione che avrebbe perso di lì a poco. Le sue lettere al re e ai vari presidenti del Consiglio in carica coprirono un quindicennio a partire dal 1881 e contenevano la richiesta di un impiego e poi semplicemente di un sussidio. L’ultima missiva conservata risaliva al 1895 ed era indirizzata a Francesco Crispi, il quale, egli non dubitava, sarebbe stato pronto «a soccorrere [...] i commilitoni ch’esposero la vita per la comune Patria»84. Anche Pasquale Bonduan, emigrato veneto, aveva conosciuto momenti di difficoltà, ma solo all’indomani dell’Unità, quando riscuoteva in Piemonte un sussidio d’emigrazione, a cui nel ’62 si era sostituito l’assegno provvisorio dei Mille. Già beneficiato dalla legge del 1865, più di dieci anni dopo era scrivano privato in un paese del Cuneese, vivendo dei propri guadagni e della pensione85. La vicenda personale del comasco Bartolomeo Cattaneo non era molto diversa, senza l’elemento aggiuntivo di complicazione dell’essere emigrato. Anche per lui però i primi anni Sessanta avevano corrisposto ad uno stato di povertà e marginalità. Tuttavia, pensionato dal ’65, negli anni Settanta aveva ormai raggiunto una stabilità professionale come lavorante orefice a Milano86. Fregiato anche della medaglia del ’66, Salvatore Bottacci, di Orbetello, non aveva un profilo professionale che gli assicurasse una sicurezza economica: registrato come bracciante nel ’75, tre anni dopo risultava liquorista e negli anni Ottanta, povero e inabile al lavoro, aveva dovuto chiedere soccorso al Ministero guidato da Crispi87. Poteva accadere che reduci capaci di provvedere senza problemi a se stessi e alla propria famiglia lasciassero però quest’ultima in grosse difficoltà alla loro morte. Era il caso di Angelo Cantoni, morto nel ’67 a Firenze, che aveva vissuto per dodici anni con Luigia Polli, vivandiera garibaldina, da cui aveva avuto due figli. Alla donna, sussidiata episodicamente dal 1879, sarebbe stata negata nel ’90 la pensione stabilita dalla legge del 1886, poiché tra i due non era mai stato celebrato il matrimonio88. Più lineare la vicenda di altri volontari dei Mille: Lorenzo Cantoni, bracciante a Parma, godeva della pensione dal ’65 e alla sua morte, avvenuta nel 1882, alla moglie sarebbe stato concesso da su209

bito un aiuto89. Lo stesso avvenne alla famiglia del facchino genovese Antonio Casabona, scomparso nel 188190. Il fascicolo personale di Francesco Cucchi, parlamentare bergamasco e a lungo uomo di fiducia di Garibaldi, testimonia una situazione completamente diversa, in cui non solo la pensione era ampiamente sufficiente al sostentamento dell’ex volontario, ma diventava anche strumento di sussidio e assistenza per terzi, nella circolarità e nella continuità dell’impegno e della responsabilità del reduce nei confronti del Paese, in pace così come in battaglia. Cucchi, infatti, devolveva fin dal ’62 il suo assegno a favore degli scrofolosi, per i quali era stato fondato in città un comitato91. Il legame tra il diritto di fregiarsi della medaglia e il riconoscimento economico faceva sì che la perdita del primo implicasse il venir meno del secondo; le motivazioni che potevano giustificare la revoca erano insufficientemente chiarite dalla legge, in modo da lasciare ampi margini di discrezionalità. Angelo Castagnoli, falegname livornese, già pensionato dal 1865, nella primavera del 1880 fu condannato a trenta giorni di carcere «pei reati di manifestazioni sediziose e bestemmie», subendo contestualmente la sospensione della pensione. Del resto il prefetto informava il Ministero dell’Interno che l’ex garibaldino era sempre stato «di sentimenti repubblicani», non avendo mai «cessato di mostrarsi avverso all’attuale forma di Governo Monarchico-Costituzionale»92. Aveva fatto parte della locale Società dei reduci, per poi associarsi a quella dei carabinieri. In giugno il Ministero della Guerra dichiarava di ritenere in sé non molto grave l’episodio che era costato l’arresto a Castagnoli, colto in piena notte in stato di ebbrezza, ma di considerare altresì opportuno «ritardare la proposta di riabilitazione fino a che non si ricevano informazioni che assicurino aver egli smesso dal mostrarsi avverso all’attuale ordine di cose»93. L’ex volontario inviava in quei mesi ripetute istanze, una delle quali indirizzata al presidente del Consiglio Benedetto Cairoli, a cui significativamente si rivolgeva in qualità di «compagno vostro darmi [sic] alla grande impresa dello sbarco di Marsala». Castagnoli alla fine sarebbe stato reintegrato nel suo diritto, ma ancora nell’aprile del 1881 il deputato Achille Majocchi, anch’egli camicia rossa nel ’60, scriveva al Ministero dell’Interno per perorarne la causa: anche ammettendo che la sua condanna fosse giustificata, la sospensione dell’assegno non avrebbe dovuto prolungarsi oltre la durata del procedimento e della pena; del resto era ingiusto ed assurdo che «un poverissimo ope210

rajo analfabeta si volesse giudicare alla stregua del decoro che si esige in un ufficiale»94. Altre vicende furono indubbiamente più lunghe e tormentate. Il destino di Natale Imperatori ed Angelo Scaglioni procedette per alcuni anni in parallelo: nativo il primo di Lugano e il secondo di Pavia, entrambi nel 1864 erano stati condannati in Francia a vent’anni di reclusione, giudicati colpevoli di aver partecipato ad una congiura mirante all’uccisione di Napoleone III95. Dopo ripetute istanze e continue consultazioni tra un Ministero e l’altro, Imperatori sarebbe stato ammesso al godimento della pensione nel 188996. Più drammatico il percorso di Scaglioni, che non poté mai giovarsi di questa parziale riabilitazione. Nato nel 1840, figlio di un macellaio, seguì pur irregolarmente gli studi classici; nel ’59, volontario nell’Esercito sardo, combatté a Palestro. L’anno dopo seguì Garibaldi in Sicilia e nel ’62 fu ad Aspromonte. Tornato a Pavia dopo la breve reclusione, riparò presto per motivi politici a Lugano, dove prese contatti con Imperatori e gli altri congiurati, tra cui l’ex garibaldino Raffaele Trabucco. Condannato nel febbraio del ’64, Scaglioni scontò la pena a Clairvaux, fino all’amnistia concessa nel gennaio del ’70. Rientrato a Pavia, qualche mese dopo tornò in Francia tra i volontari garibaldini accorsi in difesa della Repubblica: morì prima di riuscire a combattere, ucciso nell’autunno a Chambéry da uno dei quei Cacciatori di Vincennes – già difensori del potere pontificio nel ’67 – con cui le camicie rosse avevano frequenti alterchi97. Ancora nell’estate del ’70, dal Ministero della Guerra era giunto a quello dell’Interno un parere negativo sulla riammissione di Scaglioni al diritto di portare la medaglia, nonostante l’amnistia francese98. Sette anni prima un Giurì d’onore costituito dal Ministero dell’Interno tra molti garibaldini illustri aveva sospeso il giudizio sulla questione, sostenendo che la condanna d’oltralpe non avrebbe dovuto avere un’immediata ricaduta sull’onorificenza italiana, ma che questioni di opportunità nei rapporti internazionali rendevano consigliabile una certa cautela. L’anno successivo il Ministero della Guerra riceveva il parere espresso sulla precedente deliberazione dall’avvocato generale militare, che si concludeva in questo modo: Il Giurì d’Onore, anziché accennare alle convenienze internazionali, avrebbe pur dovuto meglio apprezzare le convenienze della Nazione, la cui dignità non comporta che la Medaglia dei Mille, la quale rammemora una gloria Italiana, splenda in petto a due sciagurati, che sono indegni di appartenere all’Italia99.

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3. Tramandare «la missione»: i sodalizi dei garibaldini I casi individuali appena citati restituiscono un’immagine del reduce assai meno innocua di quella suggerita dalla pietas delle elargizioni a vecchi combattenti, allo stesso tempo fragili e monumentali. D’altronde la fase dei sussidi straordinari si collocava in linea di massima a fine secolo, quando gli ex volontari avevano ormai raggiunto un’età avanzata. Del resto molti garibaldini erano nati negli anni Quaranta e a un ventennio di distanza dall’Unità d’Italia erano ancora nel pieno delle energie fisiche ed intellettuali. Reduci, poi, lo si era tecnicamente dal ’61 in avanti, e in questo ruolo di «ex» le istituzioni moderate spingevano per relegare il più presto possibile potenziali nuovi volontari di poco più – e talvolta poco meno – di vent’anni. Da questo punto di vista il significato della sociabilità reducistica era ambivalente: essa poteva apparire da un lato l’espressione rassicurante della presa d’atto di un’azione e di un ruolo consegnati al passato; dall’altro il continuare a pensare se stessi in chiave di combattenti – seppure di ex combattenti – tradiva forti sensi identitari e alludeva ad un sorta di subcultura capace di coltivare e promuovere forme e modelli di patriottismo non per forza aderenti alle strategie ufficiali del «fare gli italiani». Gli anni Ottanta rappresentano a vario titolo un momento cruciale per l’analisi dell’associazionismo reducistico: a quell’altezza si collocarono i più seri sforzi di coordinamento su scala nazionale delle iniziative locali e il tentativo fallito di unificare i sodalizi dei reduci e dei veterani. Proprio di questo argomento si era dibattuto nel 1884 a Torino, al secondo congresso dei veterani del ’48-’49, il primo a cui fossero state esplicitamente invitate anche le altre società di ex combattenti. Si era giunti alla conclusione che l’ostacolo alla fusione era di natura politica: in effetti, ci si chiedeva, ciò che è possibile nel saggio e moderato Piemonte, sarà possibile in varie altre provincie d’Italia? Nelle Romagne, nelle provincie meridionali non parrebbe invero riuscire assai pericoloso il promuovere la fusione di tutte le società militari? motivi quindi di alta prudenza consigliano la sospensione della odierna questione, la quale è altresì una questione molto ardua. Questa associazione, che si propone, avrà un carattere spiccatamente monarchico? Ed allora saranno escluse quelle altre, che un consimile carattere non ritengono. Non avrà questo carattere? Ed allora si corre rischio di essere assorbiti, noi monarchici, da quelli altri che questo carattere non ritengono, e che pur sono attivissimi100.

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L’anno dopo a Venezia la questione, di nuovo riproposta, sarebbe stata di fatto definitivamente accantonata101. A Torino erano presenti 771 congressisti, in rappresentanza di 116 sodalizi, 42 dei quali costituiti da società di reduci, provenienti principalmente dall’Italia centro-settentrionale. L’anno dopo i congressisti erano ascesi a 1769 e le associazioni a 144, 54 delle quali di reduci, con la stessa caratterizzazione geografica dell’anno precedente. Il quarto congresso si svolse a Napoli nel 1886: gli atti ci restituiscono un’atmosfera particolare, che emerge non solo dall’annotazione di molti partecipanti in camicia rossa102, ma anche dai discorsi inaugurali del sindaco e di Benedetto Cairoli, tesi entrambi a valorizzare le radici garibaldine del binomio «Italia e Vittorio Emanuele». La partecipazione era stata molto alta: 2828 rappresentanti per 188 sodalizi, tra cui i reduci, presenti con 92 società, raggiungevano per la prima volta quasi il 50%. Si trattava di un trend in via di consolidamento, anche per evidenti questioni anagrafiche, visto che al settimo congresso, ospitato a Milano solo nel 1906, su 145 associazioni i reduci ne coprivano 94. Ma oramai quella era storia di un’altra epoca, in cui la presenza di alcuni veterani francesi del ’59 suonava come dissociazione dalla Triplice, e i reduci dalle campagne d’Africa tentavano di farsi largo tra i combattenti del Risorgimento, così come avevano iniziato ad essere accolti in alcuni dei loro sodalizi103. Anche la matrice garibaldina, che generalmente ogni società portava al proprio interno in proporzioni variabili, emerse diversamente in forme scoperte in ciascuno di questi appuntamenti periodici. Nel congresso torinese del 1884 solo un’associazione piacentina ed una torinese esplicitavano nel proprio nome questa caratterizzazione. L’anno dopo comparvero anche i garibaldini veneziani, gli astigiani, i romani e la Società democratica dei reduci di Brescia. A Napoli nel 1886 «debuttavano» la Società dei Mille di Marsala di Bergamo, le omonime di Venezia e di Milano, i reduci garibaldini di Ferrara, i radicali garibaldini di Mirandola, i superstiti di Mentana di Milano e i garibaldini di Reggio Emilia. Nel 1906 le associazioni dichiaratamente garibaldine erano 13, a cui se ne aggiungeva un’altra con specifico riferimento a Mentana. Per gli anni Ottanta sono disponibili fonti archivistiche che permettono di porre a confronto le varie realtà locali attraverso lo sguardo dei prefetti, che tendeva a inserire la fisionomia dei sodalizi dei reduci all’interno del contesto politico e sociale104. 213

C’erano province che si distinguevano per la diffusione di questo tipo di associazionismo e per il suo radicalismo. Arezzo sembrava rientrare nella categoria: in «talune Società dei reduci» prevaleva «l’elemento radicale»105; i «repubblicani vi conta[va]no non pochi aderenti ed anzi in qualcuna di esse esercita[va]no una perniciosa influenza»106. «Per contrapporre un argine alla invadente propaganda delle Associazioni democratiche radicali», il prefetto si era del resto mobilitato per far nascere nel capoluogo «un’associazione strettamente monarchica»107. Assieme all’Italia centrale, la Lombardia si caratterizzava per la presenza di gruppi di reduci particolarmente attivi e talvolta orientati in senso antimoderato, come a Varese108 e a Como109. Al contrario, in altre zone del Nord Italia, per esempio nel Veneto110 e in Piemonte111, i reduci destavano poche preoccupazioni. In contesti contraddistinti da una vita associativa non particolarmente ricca, poteva invece accadere che le associazioni degli ex combattenti fungessero da punto di aggregazione di gruppi con prevalenti intenti politici: così accadeva, a detta del prefetto, a Piacenza, dove le forze antimonarchiche non avevano sodalizi proprj e gli elementi repubblicani trovansi confusi con altri affini nella Società dei Reduci Garibaldi ed altre consimili, salvo poi a far causa comune col Partito Progressista Democratico nei momenti delle lotte elettorali amministrative e politiche112.

Qualcosa di simile si rilevava a Teramo, dove non esistevano associazioni politiche temibili. Un conato di tal fatta si ebbe fra i Reduci dalle patrie battaglie costituiti in Società [...]. Alcuni di essi prendendo occasione dal pellegrinaggio alla tomba del gran Re vollero manifestare le loro tendenze repubblicane adottando un nuovo vessillo che pur conservando i colori nazionali non portasse l’arma sabauda, ma in quella vece degli emblemi settarî, tali il pugnale e la bomba all’Orsini113.

Non c’è dubbio, tuttavia, che altre fossero le realtà locali che attiravano maggiormente l’attenzione: Roma, la Toscana, l’Emilia, la Romagna e il Mantovano. Nella capitale, secondo il prefetto, la Società dei reduci114 stava perdendo man mano il nobile scopo che indusse a formarla, s’infiltra sempreppiù nelle file dei radicali, propugna le idee di costoro, e non lascia dimostrazione ostile senza prendervi parte.

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[...] un gruppo [...] si è staccato e si è unito in Associazione col titolo di «Società Indipendente Giuseppe Garibaldi reduci dalle patrie battaglie», e si è addirittura frammischiata fra le file dei repubblicani spinti. Una scena rincrescevole avvenne allorquando si trattò di discutere e stabilire se la Società dei Reduci dovesse prender parte al Pellegrinaggio Nazionale: discussione tenutasi in vario senso e che cagionò le dimissioni del Presidente di essa On. Menotti Garibaldi, il quale insisteva che la Società doveva unirsi alle altre nel Pellegrinaggio suddetto, e conchiuse con le parole «sulla tomba di Vittorio Emanuele non si discute». Riconvocatasi l’adunanza e dopo non breve né placida discussione, fu approvato l’ordine del giorno proposto nella riunione precedente dall’On. Menotti, ciò che ebbe in conseguenza le dimissioni, seduta stante, dei Vice Presidenti Maiocchi e Pennesi e di alcuni Consiglieri e soci, i quali hanno poi costituito la nuova associazione della quale ho già parlato115.

La successiva relazione prefettizia si concentrava sull’attività del neonato sodalizio, nella cui sede, in via Monte Brianzo, nel marzo del 1884 Andrea Costa aveva commemorato la Comune di Parigi. L’associazione aveva anche cercato di imprimere il proprio carattere autonomo all’anniversario garibaldino del 2 giugno, tentando poi a più riprese di farsi «iniziatrice delle commemorazioni, quando a queste vuolsi dare il colore ultra repubblicano», discostandosi «dalle altre Società Monarchiche, se queste ultime iniziano cerimonie per commemorare date e fatti patriottici»116. Ancora nel 1889 quella dei reduci indipendenti – e la sua sezione di allievi tiratori – veniva individuata come associazione repubblicana, nella cui sede si riuniva anche il Circolo democratico universitario117. A Ravenna le iniziative associative degli ex combattenti erano valutate nel quadro di un ambiente in cui le agitazioni dei «partiti estremi», i repubblicani e i socialisti, «le bandiere rosse o rosso-nere inalberate anche nelle campagne» non facevano che alimentare l’irrequietezza di «plebi già profondamente sovversive»118. Nel 1882 erano nate nel capoluogo e a Faenza due società di reduci, «d’indole democratica», di cui ci si compiaceva che fossero prive d’armi e di divise. I nuovi sodalizi, a detta del prefetto, erano da considerarsi come trasformazioni, più apparenti che sostanziali, di quegli elementi demagogici che costituiscono da tempo la grande maggioranza delle masse popolari [...] ed è da tenerne conto piuttosto come manifestazioni di ambizioni irrequiete e di quel bisogno di agitarsi che tormenta queste popolazioni119.

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Nel 1883 si confermava la tale tendenza con la riunione in associazione dei reduci di Cotignola, affiliati alla Società repubblicana di Lugo120. Nella relazione del 1888 si tornava a sottolineare come uno dei fattori che alimentavano gli spiriti antigovernativi di quelle terre fosse l’ascendente che, nonostante tutto, continuavano ad esercitare, specie nelle campagne, alcuni protagonisti del Risorgimento121. Della provincia di Forlì si offriva un profilo non troppo dissimile: ciò che caratterizzava la popolazione era la mancanza del «senso della misura», l’incapacità di «affrontare la vita senza arrolarsi in una conbriccola», che tendeva sempre ad assumere «forma e denominazione politica»; «gran parte del male» aveva «origine appunto nella forza irresistibile delle associazioni»122. La relazione del 1883 confermava questo fervore associativo, informando della nascita di una nuova società di reduci a Forlimpopoli e dell’imminente formazione di un’altra a Cesena, che si andavano ad aggiungere a quelle già attive nel capoluogo, a Meldola e a Rimini123. Nel contesto emiliano la provincia di Ferrara era punteggiata di sodalizi politici e mutualistici: nel febbraio del 1884 si registravano 24 società operaie di mutuo soccorso che per la maggior parte si tengono nei limiti del loro scopo filantropico. Però fanno eccezione la Società dei Reduci di Ferrara, [...] la Società Filiale dei Reduci a Codigoro, [...] che sebbene di mutuo soccorso, pure hanno anche colore politico e in senso piuttosto radicale124.

Leader della prima era il deputato Severino Sani, ex garibaldino, che presiedeva anche l’Associazione democratica radicale, sempre pronta ad utilizzare gli anniversari garibaldini e mazziniani per fare «attiva propaganda di idee sovversive»125. La società, con le sue filiali provinciali, rimaneva in effetti il punto di compenetrazione di tutte le associazioni radicali e democratiche, e nel 1886 aveva promosso a Comacchio un nuovo sodalizio di veterani e reduci garibaldini, forte di 150 soci126. Anche a Parma gli ex combattenti si esprimevano in chiare forme politiche, specie in occasione di avvenimenti simbolicamente rilevanti: nel 1883 si tentò di far coincidere la commemorazione della morte di Garibaldi con la festa dello Statuto, «per tramutare questa in Festa Garibaldina»127. Il 24 giugno, anniversario della battaglia di San Martino, si era inaugurato il monumento a Vittorio Emanuele, attorno al quale era nato uno screzio nella Società dei reduci e in 216

quella dei tiratori parmensi tra i soci radicalmente antimonarchici e quelli propensi a partecipare alla cerimonia128. Alcuni contesti padani e toscani sono stati di recente bene indagati anche nell’ottica dell’associazionismo dei reduci129, ma sarà comunque utile incrociare brevemente quelle analisi con la documentazione fin qui utilizzata. Riflettendo sulla Toscana, Fulvio Conti ha messo innanzitutto in evidenza la precocità delle iniziative, molte delle quali si svilupparono già a partire dal 1865, quando nacque la società di Rocca San Casciano, centro all’epoca incluso nella provincia di Firenze, inglobato poi nel 1923 in quella di Forlì. Nel 1868 era stata la volta di Lucca e Pisa, dove le rappresentanze dei reduci – come si è già visto a proposito dei progetti insurrezionali del 1870130 – erano guidate da importanti esponenti del repubblicanesimo e del garibaldinismo, non privi di contatti con l’Internazionale, alle cui attività quelle società fornivano una sorta di copertura nei momenti di maggior pressione persecutoria131. Come in altre zone, anche in Toscana il decennio 1876-85 rappresentò una fase di grande sviluppo per la sociabilità reducistica, che ebbe il suo epicentro nelle province di Firenze, Pisa e Siena132. Per gli anni Ottanta anche le relazioni prefettizie restituiscono un panorama molto attivo: nella prima metà del 1885 si erano sciolte a Firenze le società dei reduci dei Vosgi e di Mentana, ma se ne erano costituite altre tre: una di reduci garibaldini e due di combattenti del ’67133; l’anno dopo si erano associati i reduci di Campi Bisenzio134, e nel 1888 quelli di Bagno di Romagna e di Figline Valdarno135. Anche nella città di Livorno i numerosi reduci avevano il loro peso ed erano radicati in un tessuto sociale dai tratti caratteristici, mantenutosi anche dopo l’Unità «nelle stesse condizioni di anormalità» del periodo rivoluzionario, forse per la caduta dell’illusione in un veloce progresso136. Il loro associazionismo, pur legando essenzialmente le proprie iniziative agli appuntamenti celebrativi, era in prevalenza dichiaratamente repubblicano137. Nel complesso delle province toscane, si formarono nell’età liberale un centinaio di società di ex combattenti, una quarantina delle quali legate ai reduci o miste: le prime nel 1895 raccoglievano quasi 1700 soci, le seconde poco meno di 2000138. Il Mantovano costituiva un altro contesto significativo: nata a metà degli anni Settanta, la Società dei reduci del capoluogo era diretta dagli stessi ex garibaldini che fondarono «le prime organizzazioni di resistenza del proletariato agricolo»139, tra cui spiccavano 217

Francesco Siliprandi e Giuseppe Lazzè. La medesima rete associativa animò in quegli anni anche l’agitazione a favore del suffragio universale, e nella fase precedente alle consultazioni del 1882 fu parte integrante dell’alleanza tra socialisti e repubblicani, sostenuta dai comitati diretti da Ettore Zanotti, reduce di Mentana e di Digione. Gruppi di ex camicie rosse organizzarono e coordinarono gli scioperi dei braccianti delle risaie di quella primavera; nell’autunno risultarono primi tra i non eletti, superando comunque i notabili moderati, due reduci del 1870 in Francia: il giornalista Alcibiade Moneta e l’avvocato Cesare Aroldi, futuro parlamentare. In quegli anni altri ex garibaldini operavano soprattutto nella zona dell’Oltrepò mantovano: Eugenio Sartori, già presidente della Società dei reduci del capoluogo, e Mario Panizza, appena eletto deputato. Questi uomini legati all’associazionismo reducistico si resero anche protagonisti della fondazione del Consolato operaio, che al primo si legava. Sartori e Siliprandi furono inoltre direttamente coinvolti nei fatti de la boje e nel processo che ne seguì, scontando alcuni periodi di carcere140. Contro la loro detenzione aveva organizzato una campagna di protesta proprio la Società dei reduci141, che dai rapporti prefettizi appariva come il punto di coordinamento e di irradiazione del sovversivismo. Poco dopo nasceva in provincia l’associazione degli ex combattenti di San Benedetto Po, che aveva inaugurato la propria bandiera nell’ottobre del 1887, con l’intervento di Enrico Ferri. Nella sua relazione egli accennò alla spedizione militare d’Africa, che disse non consentanea agli interessi ed alle aspirazioni del paese, in contraddizione ai principi d’amore e di libertà, che già formarono l’indipendenza d’Italia. Aggiunse che i Reduci altra via avrebbero adittato [sic] al Governo [...] e cioè le rupi vicine al nostro confine; disse anche doversi aiutare dal Governo le colonie italiane d’America142.

La fisionomia dell’associazionismo reducistico reggiano si avvicinava al caso mantovano, ma rispetto a quest’ultimo si contraddistingueva per uno spiccato carattere municipale143. Nel 1882 – quando si era anche adoperata per la partecipazione al voto di molti operai – la Società «Giuseppe Garibaldi» aveva tentato di dare alle celebrazioni per i martiri del 1821 e ’31 «un carattere apertamente radicale»; aveva inoltre partecipato con i suoi rappresentanti, assieme all’Associazione repubblicana cittadina, all’inaugurazione del monumento a Mazzini a Genova, al comizio imolese per l’abolizione dei provvedi218

menti eccezionali di pubblica sicurezza e al Congresso operaio144. I due sodalizi reggiani, del resto, avevano in comune molti dei loro componenti di spicco145. Per il prefetto la Società dei reduci nascondeva infatti sotto la forma mutualistica una preponderante natura politica ed era il punto d’incontro di tutte le forze contrarie agli equilibri istituzionali, il luogo in cui «socialisti e repubblicani si stringono fraternamente la mano uniti in un sol pensiero»146; le società operaie della zona sarebbero state del resto dipendenti dell’associazione dei reduci, a cui avrebbero fatto riferimento i loro vertici147. La Società Garibaldi dei Reduci dalle patrie battaglie è sempre quella a cui fanno capo tutti gli elementi irrequieti e turbolenti e i sodalizî operai, che si ispirano a principi radicali. Nel semestre scorso questa associazione si è fatta promotrice della commemorazione del 2° anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi, e a tale commemorazione, alla quale con poco patriottico sentimento si volle dare carattere partigiano, la medesima prese parte colla propria bandiera seguita nel corteo da alcune bandiere di società operaje [...]148.

Nelle zone analizzate da Marco Fincardi si erano innescati dei meccanismi in virtù dei quali varie generazioni di «sovversivi» erano entrate in contatto in una sorta di passaggio del testimone, nel quale il prestigio e l’ascendente garantito dalla militanza garibaldina avevano svolto un ruolo di rilievo nella trasmissione di un messaggio politico in trasformazione. Chi aveva compiuto il proprio apprendistato rivoluzionario nel ’48 ed era rimasto ai margini degli apparati istituzionali unitari divenne talvolta un riferimento dell’opposizione radicale padana, che formò culturalmente la seconda generazione di combattenti garibaldini: quella di Aspromonte, Mentana e Digione. [...] il ruolo sociale e politico assolto dai reduci – soprattutto nelle realtà municipali e sub-regionali – non venne poi riconosciuto per il suo effettivo valore storico nelle tradizioni di repubblicani, anarchici, democratici e socialisti, dal momento che le memorie di gruppo di questa successiva generazione di militanti ridisegnarono notevolmente la memoria collettiva, nel momento in cui crearono le loro reti politiche nazionali149.

Spesso fortemente proiettati, dunque, verso la società, i sodalizi dei combattenti esprimevano di frequente una tendenza alla frammentazione interna, alla scissione e alla proliferazione di gruppi dissidenti; atteggiamenti che potrebbero apparire pesantemente connotati in senso autoreferenziale, se non li si considerasse anche come l’espres219

sione di quella stessa vocazione politica. Il contesto bolognese offriva esempi eloquenti di queste dinamiche. Nel 1876 era stata fondata la Società di mutuo soccorso fra i reduci dalle patrie battaglie della città e provincia di Bologna, aperta ai combattenti dei corpi volontari e dell’esercito regolare, di tendenza repubblicana ed anticlericale, presieduta in origine da Francesco Pais-Serra150. Nel 1888 si sarebbe fusa con l’Associazione dei volontari garibaldini – nata quattro anni prima con intenti esplicitamente democratici – ma nel 1879 una modificazione statutaria aveva determinato l’uscita di molti iscritti, promotori di una nuova società, denominatasi dei Superstiti delle guerre per l’Unità d’Italia. Quest’ultima ebbe una grande importanza nell’ambito del mutualismo cittadino, contando alla metà degli anni Ottanta circa 800 soci151. Un ulteriore sodalizio apparve a Bologna a fine secolo, quello dei garibaldini indipendenti, estintosi formalmente solo nel 1934 e a lungo presieduto dall’avvocato repubblicano Aristide Venturini, camicia rossa nel ’66, difensore degli arrestati di Villa Ruffi, di Andrea Costa e di molti altri democratici ed internazionalisti152. Le società dei reduci, la cui ragion d’essere era anche l’attività di mutuo soccorso, avevano bisogno di darsi regole e direttive ben precise. Fondamentali per le esigenze quotidiane e per la sopravvivenza stessa di queste aggregazioni, gli statuti avevano anche un valore identitario più sostanziale: rappresentavano una base programmatica, un riflesso della fisionomia politica e sociale del sodalizio e un veicolo di autorappresentazione, rivolto anche all’esterno. Fermo restando che le norme statutarie erano più o meno articolate ed esplicite, i criteri di ammissione alla società rappresentavano un primo elemento caratterizzante: se in linea di massima ci si riferiva indistintamente all’arco risorgimentale 1848-70 e ai corpi volontari così come agli eserciti regolari, in molti casi si specificava la possibilità di includere anche i reduci dalla Crimea e da Mentana. Era quest’ultimo, chiaramente, un segnale indiretto di ispirazione garibaldina, che diventava ancora più scoperta quando si facesse riferimento alla partecipazione ad iniziative al di fuori dei confini nazionali. Era il caso della società cesenate153, che accoglieva nel suo direttivo il garibaldino Eugenio Valzania, punto di riferimento del sovversivismo romagnolo. La Società romana dei reduci, fondata da Garibaldi e a lungo presieduta dal figlio Menotti, nello statuto del 1880 dichiarava di accettare combattenti delle guerre dal 1820 al 1870, includendo ovvia220

mente il 1867, ma specificava che sarebbero stati rifiutati coloro che fossero tornati a servire i «governi spodestati»154. Far menzione della campagna contro il brigantaggio come requisito valido non era per forza sintomo di conservatorismo: vi faceva riferimento la Società dei reduci di Catania, che si definiva democratica, si apriva anche a chi si fosse battuto «per la libertà ed emancipazione di altri popoli»155 ed enumerava tra i suoi scopi la promozione dell’istruzione e del benessere. Lo statuto si proponeva anche l’istituzione di una biblioteca e l’organizzazione di conferenze sui diritti e i doveri dei cittadini, nonché di una scuola elementare per adulti. La bandiera della società non avrebbe potuto presenziare ai funerali degli aderenti qualora essi avessero avuto carattere religioso, ma solo accompagnarli dopo la cerimonia; sarebbero stati ammessi come benemeriti anche i medici che avessero curato gratuitamente i soci, chi avesse donato dei libri o tenuto conferenze non retribuite. Menzionava la lotta al brigantaggio un’altra società politicamente avanzata, l’associazione imolese, nata nel ’77 come sezione staccata della Società dei reduci di Bologna, da cui si era resa poi autonoma. Anch’essa si definiva democratica e ammetteva la propria partecipazione solo a riti civili156. I reduci di Suzzara, nel Mantovano, si erano dati uno statuto molto articolato, in cui si dichiarava il carattere schiettamente democratico del sodalizio, che aveva per obiettivo «il trionfo della sovranità popolare; per mezzi, l’istruzione e la partecipazione alla vita pubblica», proponendosi «entro certi limiti, anche il soccorso»157. Tra i soci effettivi si includevano i combattenti per la causa nazionale italiana o per quella di altri popoli; si garantiva l’accompagnamento dei defunti al cimitero, ma il funerale poteva essere pagato dall’associazione solo se di natura civile. Intenzionata ad organizzare conferenze e letture popolari, la società si sarebbe costituita in comitato elettorale in occasione delle consultazioni politiche e amministrative. Insisteva sull’orientamento democratico e sui funerali civili anche la società di Gallarate, che non accettava come soci effettivi – cui spettava anche il diritto al mutuo soccorso – i reduci che avessero superato i 60 anni, in modo da garantire la propria sopravvivenza economica e un profilo non puramente assistenziale158. Negli scopi dichiarati e nella rivendicata identità laica si avvicinava agli esempi appena citati la società pavese, che accoglieva reduci ma anche cittadini che si riconoscessero nei suoi orientamenti159. 221

Era significativo il modo in cui uno dei sodalizi milanesi legava la scelta democratica alla radice reducistica: [...] i Reduci dalle Patrie Battaglie – si sosteneva nello statuto – perderebbero l’onore della iniziativa nella causa del Riscatto Nazionale se ora si arrestassero, mentre che ad essi, più che ad altri, spetta progredire, e far progredire anche gli inerti [...]160.

L’associazione prevedeva la presenza al proprio interno non soltanto di ex combattenti ma anche di allievi tiratori, così come facevano, tra le altre, le società di Ferrara, Perugia, Fermo e Mantova161. Era un modo «per collegare in una tradizione comune la generazione» che aveva combattuto «con quella che dovrà, occorrendo, combattere, con essa o senza essa, le future Battaglie della Patria»162. In queste società la scelta voleva avere una connotazione democratica e popolare, come può ben testimoniare anche il profilo degli aderenti al sodalizio di Perugia, forte a metà degli anni Ottanta di più di 500 soci effettivi e oltre 100 «allievi volontari»: nel ruolo degli iscritti comparivano moltissimi reduci di Mentana – più di 130 – e ne emergeva un quadro professionale in cui abbondavano falegnami, camerieri, caffettieri, fabbri, muratori, pastai, cuochi, fornai, barbieri, cappellai, calzolai e sarti163. Tra le società che dichiaravano nella denominazione la propria matrice garibaldina prevaleva l’orientamento democratico, talvolta esplicitato nello statuto: così accadeva a Firenze, dove si era chiesta ed ottenuta la presidenza di Felice Cavallotti164, e tra i reduci di Forlì, che avevano voluto insistere sulla continuità nella «tradizione della leggendaria camicia rossa». Il loro regolamento prevedeva la possibilità di indossare la divisa da volontari e l’aggregazione di una sezione di figli dei garibaldini, a cui tramandare «la missione»165. Il tardo sodalizio palermitano, costituitosi nel ’93, esprimeva invece un atteggiamento più rivendicativo, giustificando la scelta associativa anche come reazione all’ingratitudine dei governi. Alla difesa della «dignità della Camicia Rossa», all’aiuto morale e materiale ai reduci e alla sollecitazione dell’azione legislativa si aggiungeva un dichiarato impegno politico, a fianco di quelle forze che si fossero adoperate per una maggiore equità sociale e per la progressiva trasformazione dell’esercito in nazione armata166. Alcune società ebbero lunga vita e dedicarono alla propria storia rievocazioni e bilanci. A Cremona i reduci si erano associati nel 222

1879, riunendo ex combattenti delle guerre dal 1848 al ’70 e raggiungendo nel 1886 la punta massima di 1144 soci. Nel trentennale della fondazione, l’orgoglio delle glorie locali, che si erano spese per la causa delle libertà sul territorio nazionale e all’estero, si accompagnava all’apprezzamento per gli uomini che avevano rinunciato agli onori e alle carriere, facendo ritorno alle proprie case dopo la battaglia167: una sorta di recupero del modello di Cincinnato, più frequente nell’autorappresentazione dei veterani, ma certo diffuso anche in molte caratterizzazioni di Garibaldi. Nel 1922 era ancora attiva a Udine la società nata nel 1868 tra i combattenti del biennio rivoluzionario, cui si erano poi uniti nel ’77 anche i volontari delle epoche successive. Oramai i soci erano 149, di cui 106 effettivi, ma dai numeri di matricola si può evincere che gli iscritti fossero stati almeno 900 in tutta la storia dell’associazione168. Nel ’79 i reduci friulani avevano sofferto la perdita del loro uomo simbolo, quel Giovanni Battista Cella che aveva combattuto nel ’60 tra i Mille ed organizzato le bande insurrezionali nel ’64 e nel ’66. La società era stata presieduta negli anni Ottanta dall’avvocato repubblicano Augusto Berghinz, volontario garibaldino nel ’66 e ’67, sotto la cui guida il sodalizio assunse posizioni radicali e irredentiste che preoccuparono le autorità169. Anche sotto la pressione dei controlli polizieschi, nel 1884 egli aveva preso la via dell’emigrazione, prima a Montevideo e poi a Buenos Aires, dove organizzò la colonia friulana170. Negli statuti e nelle pubblicazioni celebrative le società dei reduci esprimevano l’immagine della grandezza dei risultati raggiunti, ma al contempo della loro fragilità e dell’incompiutezza dei destini del Paese. Era anche su queste basi che si legittimava la loro stessa esistenza, come baluardo, testimonianza, anello di congiunzione. Aspetti ideali ed esigenze più prosaiche di sopravvivenza potevano quindi intrecciarsi nel giustificare la scelta di aggregare con l’andare degli anni «allievi tiratori» e congedati dall’esercito italiano. L’associazionismo reducistico si configurò anche come uno dei luoghi e dei veicoli attraverso i quali si cercò di dare sostanza, di riempire di contenuti le garanzie stabilite dal patto costituzionale stretto tra la monarchia sabauda e la società italiana, destinato a rimanere principio astratto o lettera morta per vasti strati di popolazione. Occupare gli spazi di libertà garantiti dallo Statuto passava in questo caso attraverso l’esercizio del diritto di associazione, un modo di sperimentare la cittadinanza anche per settori talvolta esclusi dal diritto di voto. Si trattò di un ruolo che si cercò di svolgere al proprio interno e talvolta 223

di proiettare verso il contesto circostante, delineando anche un microcosmo in cui potevano vigere regole diverse e modelli di comportamento alternativi, come quelli in virtù dei quali, per esempio, si garantiva la dignità di un rito funebre civile anche a uomini «comuni». Sempre pronto ad avocare seppur implicitamente a sé il diritto di interpretare ed incarnare l’eredità del Risorgimento e l’essenza del vincolo nazionale stretto nel ’60-’61, l’universo reducistico, all’apparenza facilmente spendibile come veicolo di consenso, era costituito alla fin fine da un insieme di attori sociali che, nella loro varia fisionomia, non rappresentavano comunque l’immagine riflessa delle istituzioni.

Parte terza

Il garibaldinismo dopo Garibaldi

Premessa Quel due giugno spietato, che un anno prima aveva orbata l’Italia del grande padre suo, or le rapiva questo dolce suo figlio, che nell’amore per essa uguagliava il suo Duce. E il tricolore velato e a mezz’asta, che sventolando dalle finestre chiamava Garibaldi alla memoria dei vivi li avvertiva che Alberto era da loro dipartito per sempre1.

Giuseppe Garibaldi moriva il 2 giugno 18822; esattamente un anno dopo lo seguiva Alberto Mario. L’accostamento tra le due figure e i due eventi ha un senso che va oltre questa singolare combinazione della sorte; esso intreccia implicazioni generazionali e elementi di dialettica politica, aspetti pubblici e dinamiche private, chiamando direttamente in causa l’idea dell’eredità. Lo abbiamo sepolto, al raggio velato del sole di giugno [...]. Ora non ho più ritrovi da dargli [...]. Quale egli entrò fiorente di forza, rugiadoso d’ideale, nella primavera sacra del 1848, tale egli esce da questa ombra bizantina di trasformismo. [...] Oh, s’io fossi Erodoto e potessi leggere a un uditorio di Greci, io vorrei scrivere [...] la vostra storia, o padri e fratelli eroici. Voi sparite un dopo l’altro dallo spettacolo della vita: la nuova gente agita bandiere e sparge fiori su le vostre bare e le tombe, e vi piange, e vi acclama, e vi prèdica... e poi vi dimentica. E forse non ha intiera la coscienza che l’Italia di rado o non mai ebbe cittadini eroici, devoti, modesti, gentili, quali voi foste3.

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Con queste righe, vergate nel 1883, Giosue Carducci introduceva l’anno successivo la raccolta di scritti di Alberto Mario, cui faceva da lungo prologo la ricostruzione biografica della vedova. Passaggi del testimone e questione di ruoli: il cantore della patria democratica, repubblicana ed anticlericale che non trovò mai la via per farsi anche combattente e la donna che aveva invece condiviso – sul piano politico e militare – le battaglie del marito, incontrato molti anni prima sulla sua strada di giovane inglese innamorata della causa della libertà italiana. Debbo finire il mio libro «Garibaldi e i suoi tempi» – confidava Jessie White nell’agosto del 1883 all’internazionalista Luigi Musini, garibaldino del ’66, di Mentana e dei Vosgi –. Ma senza di lui nulla mi riesce. [...] Scrivo il meno possibile e non veggo nessuno. Ciò che resta di me è tutto dedicato a scrivere il più completo possibile la sua vita e le sue opere4.

Scrivere di Garibaldi e del compagno della propria vita: due percorsi e due priorità di una stessa missione, perseguita all’insegna di un imperativo storico e morale, e verso la quale la profonda promiscuità di motivazioni politiche, di spinte emotive e di debiti sentimentali accresceva il doloroso fervore. Nei passi conclusivi della Vita di Alberto Mario le due morti si facevano eco l’una con l’altra, si sovrapponevano quasi nel ricordo del marito che, alla vigilia della scomparsa, raccomandava a Jessie di esporre il giorno successivo la bandiera a mezz’asta in omaggio a Garibaldi, come si era fatto negli ultimi dieci anni per l’anniversario di Mazzini5. Affiancati nella memoria e nell’assenza, i due simboli dell’identità repubblicana avevano preceduto chi, come Mario, aveva amato e seguito entrambi, allontanandosi poi in parte dall’uno e dall’altro, pur percorrendo negli anni estremi un ultimo tratto di strada assieme al nizzardo. Nelle pagine che Jessie White dedicò al Generale delle camicie rosse già nel 1882, all’indomani della sua morte, aleggiava un senso dominante di nostalgia, che non era solo retroversione verso il passato dettata dal rimpianto, ma anche reminiscenza dell’ideale e dolore della lontananza da esso. Era anche attraverso queste risposte immediate dell’emotività e del ricordo che si definiva e consolidava quello che già si era andato profilando mentre ancora Garibaldi era in vita, cioè la proiezione sulla sua figura di tutto ciò che l’Italia unita avrebbe dovuto e potuto essere, ma che non era ancora stato realizzato. Per chi aveva conosciuto il Generale ai tempi delle lotte clandestine e delle rivoluzioni, egli aveva rappresentato la conferma della rea228

lizzabilità dei propri sogni politici, li aveva letteralmente inverati, facendo anzi intravedere per essi più vaste e popolari basi di consenso. Garibaldi lo si amava per quello che rappresentava per sé e per quello che era capace di rappresentare, anche solo in fugaci fiammate, per decine di migliaia di altri, combattenti e non, per gli entusiasmi che ormai vicino alla morte riusciva ancora a suscitare nelle masse. La stessa Jessie White descriveva quei momenti estremi con occhio assieme esterno ed interno alle emozioni collettive. Già da tanto tempo, il suo corpo quasi non era più. Vedendolo per la prima volta dopo il settanta, un terrore subitaneo faceva trasalire i cuori. «Perderemo anche lui!» ognuno diceva a se stesso. Ma no! comparve a Milano, e in mezzo ad un popolo fremente d’amore, inaugurò il monumento ai caduti di Mentana. Divennero ancora più minacciose le apprensioni, ed eccolo cercare salute in quella Napoli, a cui aveva apportato libertà [...]. Poi ripassò il Faro e ricomparve sul Ponte dell’Ammiraglio fra i suoi Picciotti, i suoi prediletti, il suo popolo di Palermo, che, fra i suoi amati, era il più amato. [...] Poi si addormentò al tramonto. Ricomparve il sole coll’aurora, ma egli non si svegliò più6.

Vedere Garibaldi aveva rappresentato l’oggetto del desiderio per molti italiani del Sud durante il suo ultimo viaggio della primavera del 18827; ma ciò significava anche poterne verificare la sofferenza e la decadenza fisica, doverne intuire la morte non lontana, specie per chi l’aveva conosciuto e poi rivisto spesso lungo i decenni. Si prestava – emerge anche dalle memorie – una commossa attenzione al suo corpo, priva però di morbosità e senza enfasi. Capace negli anni postunitari – con il suo stesso esistere, con la sua provocatoria irriducibilità alla rispettabilità moderata – di «comunicare elementi di dissidenza» e di «mantenere aperto un contenzioso», il Generale avrebbe poi continuato a lungo, anche da morto, «a suggerire la retorica di un dissenso popolare, la favola bella di un vago, gratificante altrove, rispetto alle misure mediocri della politica delle istituzioni»8. Rievocare nel 1882 quel che Garibaldi aveva fatto fino al ’70, ciò che aveva raggiunto rispetto ai suoi progetti e ciò che non aveva potuto realizzare, ricostruirne poi l’impegno democratico degli ultimi anni significava per Jessie White preservare l’idea stessa di questo «altrove» possibile, nel momento in cui la sua personificazione veniva meno e diventava più difficile farsi persuasi di quell’alternativa; 229

era un modo per evitare che le convinzioni e l’ideale che erano anche i suoi assumessero i tratti di ciò a cui si guarda come ad un miraggio. La sopravvivenza che si tentava di garantire era dunque dell’oggetto ma anche del soggetto della scrittura, in una sorta di elaborazione del lutto e di compensazione della perdita. Anche per questo era utile e gratificante dipingere Garibaldi come individuo e leader politico inappagato dei risultati, eternamente proiettato verso il futuro, ma comunque vincente e costruttivo, uomo della storia e dell’azione9. Soldato dell’ideale, simbolo e punto di riferimento della militanza democratica, garanzia vivente dell’attualità e della bontà di una causa: questo era Garibaldi nelle pagine di Jessie White, che degli ultimi anni voleva valorizzare l’attivismo politico10. Diverso – non inconciliabile, ma perlomeno complementare – il ritratto che di lui consegnava ai posteri Francesco Crispi: Garibaldi era l’organizzatore delle operazioni militari, ma anche l’uomo di governo, colui che sapeva dare stabilità alla rivoluzione, rendendola strumento di gestione politica, che la faceva vivere, sopravvivere e agire in progetti ed azioni di riforma, imprimendole un carattere comprensibile agli occhi del popolo. Questo era il bilancio dell’esperienza del ’60 che il futuro presidente del Consiglio offriva nel 1884 agli universitari bolognesi11. Un profilo di Garibaldi, insomma, che costituiva una sorta di legittimazione delle proprie aspirazioni ad un impegno politico di vertice, alla traduzione in atto di quel progetto rivoluzionario di costruzione dello Stato prefigurato e poi interrotto più di vent’anni prima. Non mi pare si possa parlare di strumentalizzazione della memoria del Generale: questa era l’idea del garibaldinismo – non così peregrina del resto – a cui il siciliano aveva sempre aderito, e che restituiva peraltro una dignità di uomo politico, di «legislatore»12 a chi era sempre più esclusivamente rappresentato come comandante militare ricco di carisma e di fortuna. Una forte proiezione, dunque, verso ciò che rimaneva da fare; eppure anche Crispi, nel marzo 1882, per l’ultima volta al fianco di Garibaldi nelle celebrazioni siciliane per il sesto centenario dei Vespri, si identificava con «una generazione che se ne va»13. Egli aveva ancora quasi vent’anni di fronte a sé, densi oltretutto di un protagonismo e di una visibilità politica tali da dare il proprio nome ad un’età dell’Italia liberale. Ma questa sua tardiva ascesa al potere sarebbe avvenuta nell’assenza di moltissimi dei suoi vecchi compagni di lotta, già morti in battaglia o scomparsi lungo i decenni, com’egli stesso segnalava nel 1885, nella celebrazione palermitana dell’anniversario 230

della spedizione dei Mille, enumerando quanti di quella schiera non erano più presenti14. Sopravvissuto a molti di loro, Crispi appariva quasi sopravvissuto a se stesso. Com’è noto, Garibaldi, negli ultimi anni della sua vita, abbandonata anche di necessità la prospettiva delle iniziative armate, aveva reso più scoperta la propria azione prettamente politica, accettando di mettere a disposizione della causa democratica il peso e il prestigio del suo personaggio, nonché la rete di relazioni e di affetti consolidata negli anni della cospirazione e della nascita dello Stato unitario. La fase successiva alla spedizione francese del ’70 aveva del resto determinato fatalmente un ulteriore distacco da Mazzini, lontano dagli entusiasmi internazionalisti del Generale. Nel momento in cui non esisteva più quel «partito garibaldino» che – come categoria del dibattito e attore della vita pubblica – aveva rappresentato negli anni Sessanta un’alternativa di progetto e di classe dirigente rispetto ai gruppi di governo, tornava ad essere possibile sotto altre forme, attorno a Garibaldi, un’ampia seppur fragile convergenza di forze esterne alla diretta gestione del potere. Era un recupero dell’essenza del garibaldinismo, di ciò che di esso era traducibile in forma politica, e non solo di volontarismo in armi, e che si articolava pur sempre attorno ai pilastri del suffragio universale e della nazione armata, come veicoli dell’esercizio della sovranità. Nel 1866 Alberto Mario – che mai si era allontanato da queste due premesse – aveva icasticamente riassunto tale prospettiva nel binomio «voto e carabina»15. Proprio il repubblicano rodigino, tra gli altri, era stato al fianco di Garibaldi nei suoi due ultimi gesti politici di ampia risonanza: innanzitutto l’appello per la riunione delle varie componenti della democrazia, che aveva originato nel 1872 il primo «patto di Roma» – da cui era uscito una sorta di manifesto del radicalismo italiano – e al quale Mario aveva dato seguito promuovendo nell’autunno, assieme ad altri ex garibaldini, la Lega democratica del Veneto, trasformatasi l’anno successivo in Lega democratica veneto-mantovana. Egli aveva soprattutto partecipato, nell’aprile 1879, al congresso romano presieduto da Garibaldi, che diede vita alla Lega della democrazia. Nella Commissione esecutiva si raccoglievano, oltre a Mario, Bertani, Canzio, Cavallotti, Fratti e Valzania, cui si affiancavano nel più folto Comitato altre ex camicie rosse come Avezzana, Cella, Fortis, Guastalla, Imbriani, Missori, Pais-Serra, Pantano e Tivaroni. Quasi un nuovo partito garibaldino, come si è detto, costituito da 231

uomini spesso inseriti nella vita parlamentare, lontani però dalle prospettive di governo e in moltissimi casi dichiaratamente repubblicani, su posizioni più o meno intransigenti: lo si sarebbe potuto anche leggere come ciò che era rimasto dal vecchio gruppo politico garibaldino, scremato da chi nel frattempo aveva instaurato rapporti di maggiore identificazione con le istituzioni, giungendo persino, come Cairoli, alla guida del Paese. La lontananza di Garibaldi dall’Italia ufficiale, politicamente retta oramai dalla Sinistra, si misurava anche su altri livelli: un crescente – e del resto mai sopito – disagio nei suoi confronti si rilevava nella corrispondenza dei rappresentanti del governo all’estero, nella fase decisiva dell’avvicinamento diplomatico all’Austria e alla Germania16. Sotto i suoi auspici era del resto stata fondata nel 1877 da Matteo Renato Imbriani l’Associazione dell’Italia irredenta, aggregando umori all’epoca saldamente monopolizzati dagli ambienti democratici e repubblicani. Ancora nell’aprile del 1882 Robilant, ambasciatore a Vienna, scriveva a Tosi a Belgrado, deplorando «quel po’ di proclami e di discorsetti che il signor Garibaldi vomita a Palermo»17, in occasione della commemorazione dei Vespri. Dopo la sua scomparsa, De Launay, da Berlino, rivolgendosi proprio a Robilant, si lamentava delle manifestazioni spontanee in suo onore, che, al pari di quelle per Mazzini, avevano «un tale fetore di repubblicanesimo che sarebbe opportuno usare dei disinfettanti»18. Dopo la scomparsa del Generale, per i repubblicani risultò più semplice ed efficace utilizzare la sua figura in senso schiettamente antimonarchico, inserendola in una galleria di «martiri» che forse meglio di Mazzini – pensatore, maestro, educatore, autoesiliatosi più ancora di Garibaldi dall’Italia di Vittorio Emanuele e della prosa postrisorgimentale – si prestavano ad una sistematica rievocazione aggressiva dei «reati» di casa Savoia contro il Paese, la causa nazionale ed i suoi interpreti. Una sorta di pantheon degli uomini non rassegnati all’inazione, immolati sull’altare dell’autoconservazione monarchica, in cui Garibaldi veniva affiancato a Barsanti, a Oberdan e al soggetto collettivo del popolo italiano, nelle sue espressioni di lotta e di ribellione19. Nel giugno del 1882 erano stati per esempio affissi e poi sequestrati a Pisa cartelli inneggianti alla repubblica e alla rivoluzione sociale, che celebravano nel leader delle camicie rosse «il difensore di tutti gli oppressi», odiato dal Vaticano e dal Quirinale, emblema del «popolano morente sul campo per la patria»20. Più tardi, nel sesto anniversario della sua morte, la Società dei reduci dalle patrie battaglie 232

di Rimini diffondeva grandi manifesti – anch’essi fatti sequestrare – in ricordo del Generale, nemico del papato e profeta della «fratellanza dei popoli», che la Monarchia aveva storpiato ad Aspromonte, assistendo poi a Mentana «alla strage» dei suoi volontari21. Dal punto di vista della trasmissione generazionale, la lettura crispina di Garibaldi non avrebbe avuto grande successo, anche in virtù del fallimento – soprattutto sul piano internazionale – della proposta politica del siciliano. Il recupero del garibaldinismo avrebbe invece seguito altri percorsi, muovendosi sui due livelli apparentemente contraddittori del riconoscimento, da un lato, dell’esistenza di una fertile tradizione in camicia rossa – con le sue specifiche continuità e genealogie – e dell’insofferenza, dall’altro, nei confronti dei rigidi monopoli familiari e ideologici di quell’eredità22.

Capitolo settimo

Tra irredentismo e sovversivismo

1. La spedizione in Grecia e la camicia rossa contesa All’inizio del 1897 scoppiò a Creta l’ennesima insurrezione contro il dominio ottomano, subito delegittimata dalle potenze europee. Anche Roma si allineò all’atteggiamento generale, collaborando al blocco navale imposto all’isola. Nell’opinione pubblica si manifestò, invece, una diffusa mobilitazione in senso contrario, con un proliferare di conferenze e comitati «Pro Candia». Queste iniziative, appoggiate in Parlamento da uomini come Imbriani, Bovio, Barzilai, Colajanni e Cavallotti1, furono spesso espressione degli ambienti studenteschi, non solo repubblicani, ma videro anche una significativa presenza dei socialisti. A metà febbraio l’«Avanti!», il giovane quotidiano di Bissolati, dedicava un emblematico editoriale alla chiarificazione del proprio punto di vista. I giornali conservatori d’Italia – i crispini in prima linea – si sono dati in questi giorni a intonare il canto patriottico e a gridare che a Candia bisogna fare della politica di sentimento, una politica degna delle nostre tradizioni nazionali. [...] La parte odiosa che oggi sta per assumere l’Italia, non è che la conseguenza della politica estera che le classi dirigenti d’Italia vengono proseguendo da anni con cieca pertinacia. [...] tutti – crispini o rudiniani – furono egualmente cooperatori e complici in quest’opera altrettanto stupida quanto nefasta al paese. [...] Non sono essi, che, recentemente, quando il nostro esercito moveva all’attacco di un popolo che non ci aveva molestato, rispondevano colla

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beffa a coloro che arrischiavano qualche obiezione in nome appunto del diritto nazionale? Non sono essi quei medesimi i quali proclamarono già solennemente che base della politica sono gl’interessi e non già i sentimenti? [...] Il proletariato, fortunatamente, si trova in ben altre condizioni. I suoi interessi combaciano perfettamente coi suoi sentimenti. Suo interesse è che sparisca dal mondo la barbarie turca, che le nazionalità si sviluppino, che il mostro moscovita sia paralizzato nei suoi tentativi di conquista e di espansione. E questo suo interesse si illumina della più pura aureola del sentimento [...] che rende solidali, in un solo slancio verso la civiltà, i ribelli contro le sopraffazioni di razza coi combattenti contro le sopraffazioni di classe2.

L’attacco era rivolto in particolare alla «Tribuna», diretta da Attilio Luzzatto, che anche in Parlamento aveva tenuto a manifestare il proprio filellenismo3. Nelle stesse settimane, infatti, questo quotidiano romano rivaleggiava con l’«Avanti!» nella dichiarata polemica contro le scelte delle grandi potenze, riesumando un repertorio risorgimentale4 che ai socialisti, impegnati a mettere sotto accusa le «borghesie [...] dimentiche della loro origine rivoluzionaria»5, suonava particolarmente stonato dopo l’appoggio del giornale filocrispino alla politica coloniale. Nel frattempo, dalla campagna d’opinione si stava passando all’azione e l’«Avanti!», liquidando come solo apparente il contrasto con la «Critica sociale»6, poteva dichiarare che il partito socialista italiano è unanime nel ritenere che gli interessi suoi, che gl’interessi del proletariato europeo collimano colle aspirazioni del popolo greco. [...] il fatto che i socialisti [...] vollero confermare così luminosamente le loro parole coll’opera [...] contrapposto al contegno dei partiti conservatori il cui rappresentante, il governo, ha fatto bombardare gli insorti [...] deve certamente valere più che cento discorsi a vincere le diffidenze delle masse e a persuaderle della virtù dell’idea socialista e della sincerità del partito. [...] Noi siamo convinti e i compagni che partirono lo sono al pari di noi, che i primi lucri del loro sacrificio non saranno goduti dalle masse lavoratrici. Ma che importa? Il lucro definitivo sarà del proletariato internazionale, questo è ben certo. [...] Compiacciamoci anzi di questo spirito sviluppato di internazionalismo di cui i socialisti italiani han dato l’esempio ai socialisti degli altri paesi. Permettiamoci l’orgoglio di constatare che la parte più bella e più pura della tradizione rivoluzionaria della borghesia italiana, caratterizzata da quello spirito di fratellanza internazionale che dava i combattenti all’America, alla Francia, alla Polonia, sia passata nel partito socialista che la riconsacra nella lotta per l’emancipazione operaia. Facciamo tesoro di questo ardore di combattività [...]. Le fucilate dei

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nostri compagni sulla terra greca servano di ammonimento ai turchi d’Italia [...]7.

Il riferimento al garibaldinismo non si esplicitava, ma era palese: in effetti nel 1897 i primi a recuperare il modello del volontariato internazionale furono i socialisti, che anticiparono l’azione di Ricciotti Garibaldi. Il 24 febbraio il Comitato «Pro Candia» di Milano aveva deliberato di inviare sull’isola l’internazionalista Nicola Barbato – uno dei dirigenti del Fasci siciliani – «come soldato, come medico e come propagandista»8. Il primo marzo, da Corfù, egli confermava con una lettera all’«Avanti!» il senso del proprio essere lì: Non basta, no, o amici, la nostra predica nei giorni tranquilli per imprimere qualche nota socialista nei cervelli degli oppressi e dei sitibondi d’ideale; da veri missionari dobbiamo qui in Grecia, come altrove, trovarci in tutti i luoghi di maggior pericolo; il denaro e la vita di qualunque di noi, lasciata sul campo di combattimento credetemi, non saranno spesi male9.

Accolto senza entusiasmo dal governo monarchico greco, Barbato sarebbe alla fine riuscito a raggiungere Creta: visto il blocco che circondava l’isola, i suoi uomini, in prevalenza meridionali, non sarebbero mai diventati più di qualche decina, nonostante in Grecia cominciassero ad affluire molti aspiranti combattenti. Mentre il siciliano invitava democratici e internazionalisti d’Europa ad accorrere in Grecia10, il colonnello socialista Enrico Bertet si candidava alla guida dei volontari italiani del suo orientamento politico11, recandosi a Brindisi, pronto per la partenza. Nel frattempo, il 12 marzo giungeva al Pireo da Parigi Amilcare Cipriani, il vecchio garibaldino degli anni Sessanta, uomo simbolo della Comune e dell’internazionalismo, forte dell’appoggio dei gruppi locali più radicali. Anche la sua era però una presenza troppo connotata in senso rivoluzionario sia per instaurare caldi rapporti con la Grecia ufficiale, sia per attirare a sé il consenso di tutti gli italiani pronti a battersi: per chi non intendeva aggregarsi a lui era pronta una collocazione non troppo entusiasmante in una sorta di Legione straniera, la filellenica internazionale. Cipriani, intenzionato a combattere a Creta, sarebbe riuscito invece – con un contingente di italiani che si avvicinò al centinaio12 – ad operare verso la Macedonia, che nei limiti dei confini attuali sarebbe diventata territorio greco solo dopo la guerra del 1912. Il grande assente e il grande atteso era comunque Ricciotti Gari236

baldi, il più accreditato sia per fare da tramite tra il governo greco e alcuni esponenti di rilievo del mondo politico italiano, sia per esercitare con maggiore credibilità il ruolo del continuatore della tradizione del volontariato, sia infine per intercettare una più vasta adesione tra gli aspiranti volontari di varia matrice politica. Legate alla leadership di Ricciotti e alla mobilitazione dei settori repubblicani e radicali erano le iniziative che facevano capo anche materialmente allo studio artistico di Ettore Ferrari, trasformato di fatto in quei mesi in agenzia d’arruolamento13. Questa rete, pur distinguendosi dal filellenismo crispino, poteva indubbiamente vantare maggiori addentellati politici e istituzionali, anche attraverso alcuni ex garibaldini divenuti onorevoli, quali Socci e Pais-Serra o uomini come il repubblicano Barzilai. I referenti greci di questi movimenti, sensibili agli aspetti simbolici e propagandistici, pretesero sulle prime che, contro ogni considerazione pratica, le decine e decine di volontari raccolti in Italia partissero dalle coste laziali, nei pressi della capitale. Le difficoltà organizzative, i ritardi, gli ostacoli frapposti dalle autorità, avrebbero poi fatto sì che gli imbarchi avvenissero, com’era naturale, dai lidi romagnoli, da Ancona e da Brindisi; ma le memorie dell’esperienza del ’97 raccolte dallo stesso Ricciotti ben illustravano quelle preliminari incertezze14. A fine marzo si realizzarono i più concreti contatti tra Ferrari e il figlio di Garibaldi, desideroso di ottenere rassicurazioni sulla serietà e la concretezza dei progetti. La prospettiva che si profilava attraverso le notizie dalla Grecia era quella della nascita di un Corpo separato in camicia rossa, da affidarsi a Ricciotti, che sarebbe subentrato al nizzardo Luciano Mereu – garibaldino dal ’59 al ’70 – alla guida dei volontari che già si stavano organizzando15. La distinzione dalla Legione filellenica era formale ed operativa, ma aveva anche implicazioni ideologiche sostanziali. Da Atene giungevano, per esempio, gli echi dei malumori sollevatisi tra i garibaldini in pectore di fronte all’invito di prestare la stessa formula di giuramento imposta all’altra formazione, proclamando la propria fedeltà al re, uno dei sovrani più reazionari d’Europa. E quando un capitano greco si presentò ai nostri per legger questa formola, i ranghi si ruppero tra le proteste: l’incidente pareva grosso: fortunatamente il conte Romas era riuscito subito a persuadere il ministro della guerra: e finalmente si era giurato su questa semplice formola: «I volontarî del Corpo Garibaldino giurano di combattere con fedeltà ed onore per l’unità e l’indipendenza della Grecia, nell’imminente campagna contro la Turchia»16.

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Se lo studio di Ferrari era il luogo principale dove si incrociavano vorticosamente, in entrata e in uscita, lettere, dispacci, istruzioni, liste d’arruolamento, una succursale della mobilitazione si trovava, sempre a Roma, nella sede del «Futuro sociale» di Felice Albani, all’epoca repubblicano collettivista, leader in seguito del Partito mazziniano italiano, di lì a poco volontario egli stesso in Grecia17. Mentre giungevano in Italia le notizie degli scontri di cui era stata protagonista la colonna Cipriani, scioltasi poco dopo, e Ricciotti finalmente partiva il 21 aprile da Brindisi, l’organizzazione del fatidico imbarco laziale procedeva ancora incerta. Raccoltisi la sera prima tra Porta Portese e la Magliana, gli uomini sarebbero dovuti partire il 27 aprile da Fiumicino, con il supporto logistico di Gerolamo Malloni, il vecchio barcaiolo della spedizione Cairoli del ’67. Fermato dalle autorità, il piroscafo procurato a Genova da Stefano Canzio non sarebbe però mai giunto, così come altre imbarcazioni di fortuna: alla fine alcune centinaia di aspiranti volontari sarebbero rimasti per giorni abbandonati a se stessi, in attesa del nulla sotto la pioggia, a Fiumicino e a Ostia; non tutti riuscirono in seguito a raggiungere in treno Brindisi, mentre altri 150, organizzati da Antonio Fratti, partivano da Rimini. Ad inizio maggio, i circa 250 italiani del 1° battaglione garibaldino guidato da Mereu erano già partiti per l’Epiro. Ricciotti assumeva il controllo del 2° e del 3° e al deputato Federico Gattorno – garibaldino del ’60, del ’66 e del ’70 – era demandata l’organizzazione del 4°18. Destinato a partecipare alle operazioni di guerra in Tessaglia, il Corpo garibaldino si sarebbe avviato in quei giorni verso il fronte, battendosi valorosamente il 17 maggio a Domokós, dove si svolse il principale evento militare della guerra greco-turca. Le forze comandate da Ricciotti ammontavano complessivamente a quasi 1400 uomini, più di 900 dei quali poterono essere presenti alla battaglia di metà maggio, che costò ai volontari diciannove morti e varie decine di feriti. Gli italiani inquadrati erano quasi 70019, e in più di 500 furono presenti a Domokós20. Ad essi si aggiungevano una sezione inglese, una francese, un battaglione greco ed un altro misto. Nella zona di Domokós, il 17 maggio, quando la Tessaglia era stata in gran parte invasa dall’esercito ottomano, sembra fossero presenti nel complesso 35.000 greci e più o meno 50.000 turchi. Le forze greche erano posizionate sulle colline attorno alla città, mentre i turchi dal mattino si muovevano dalla pianura sottostante, aprendo il fuoco, però, anche da una cresta delle alture. Nelle ore centrali della giorna238

ta l’azione delle batterie greche era iniziata su tutta la linea per contrastare l’assalto nemico. Uno degli episodi che coinvolsero direttamente i garibaldini – collocati nelle posizioni inferiori, in prima linea di fronte ai turchi – si verificò quando le truppe ottomane portarono contro la destra della linea greca un’offensiva verso una trincea occupata da 150 camicie rosse, che alla lunga costrinsero i turchi a retrocedere verso la pianura. In quegli scontri ci furono i primi caduti tra i volontari e rimase ferito Amilcare Cipriani, che con altri guidava in quel frangente la formazione. Solo alla sera il fuoco si spense da entrambe le parti, dopo che gli ellenici erano riusciti a sostenere assalti poderosi e ben condotti, spesso in condizioni di inferiorità numerica: le loro linee furono rotte solo alla fine della giornata. I garibaldini presenti agli scontri descritti erano gli uomini del 1° battaglione guidato da Luciano Mereu, reduci dall’Epiro, cui all’ultimo momento fu ordinato dai comandi greci di rimanere sul fronte principale della battaglia, al fianco delle forze regolari, e di non unirsi alla colonna dei volontari di Ricciotti. A quest’ultimo era stata invece assegnata la difesa di una gola strategica, allo scopo di garantire all’esercito la possibilità della ritirata. Ai primi segnali della battaglia, Ricciotti ritenne di avvicinarsi alle forze elleniche in difficoltà, trovandosi presto di fronte ad un corpo turco in avanzata, di circa 6000 uomini, con cui si ingaggiò una lotta per la conquista di un’altura di fondamentale importanza. I garibaldini ebbero la meglio, aprendo quindi il fuoco contro il nemico, oramai a poche decine di passi, avanzando e distendendosi su un fronte di circa un chilometro, da cui, anche con attacchi alla baionetta, costrinsero i turchi a retrocedere. Fu in queste manovre che perse la vita, tra gli altri, Antonio Fratti. Questi, in sintesi, gli avvenimenti, attorno ai quali si agitarono divisioni, malumori, considerazioni politiche ed antropologiche, reciproche accuse e bilanci contrastanti. La disputa attorno alla camicia rossa potrebbe essere da sola una chiave di lettura per interpretare le vicende, tanto era pervasiva la presenza di questo simbolo nel discorso pubblico suscitato in Italia dalla partecipazione dei volontari alla guerra greco-turca. I primi a chiamare esplicitamente in causa l’emblema garibaldino erano stati gli uomini guidati da Cipriani, per bocca di Ciancabilla, il corrispondente dell’«Avanti!» che si sarebbe unito a quei volontari21. 239

[...] Sì, andremo con Cipriani. [...] partiremo domani o postdomani per Larissa, dov’è già Amilcare con 75 volontarii, quasi tutti socialisti, anarchici e repubblicani [...]. [...] Sono i migliori e i più bravi di tutti gl’italiani che son qui da parecchi giorni [...]. Ah, veramente è vergognoso quel che accade qui. [...] Buona parte degli italiani che son venuti qui [...] sono un’accozzaglia di avventurieri della peggiore specie [...]. Costoro appena giunti si sono affrettati ad arruolarsi nella cosiddetta legione straniera filellenica. [...] Quello che poi è più scandaloso si è la boria con la quale tre o quattro di essi, mascherati da garibaldini, portano la camicia rossa, esponendola al ridicolo invece che coprirla di gloria. Che la portino i volontari di Cipriani la camicia rossa, lo comprendo ed è giusto. Saranno essi all’avanguardia il giorno delle ostilità, e molte e molte di quelle camicie saranno inzuppate di sangue. Ma che questi buffoni passeggino in lungo e in largo le vie di Atene da 15 giorni, e frequentino i restaurants e i caffè chantants, facendo pompa di una divisa che ha una tradizione gloriosa di eroismi e di valore, questo è ciò che ha indignato e stomacato tutti noi che siamo venuti qui per qualche cosa di più che per fare i damerini e gli scioperanti alle spese del governo greco. So che a Corfù parecchi nostri amici repubblicani, fra cui Ferruccio Tolomei, Carlo Alberto Guizzardi e Antonio Maggioli di Roma, obbligarono uno di questi vanitosi a smettere quella divisa ora trasformata in costume da maschera, e fecero bene22.

Da questa lunga lettera emergeva un tratto dominante dell’esperienza del ’97, durante la quale ciascuna delle componenti italiane filelleniche tentò di stringere attorno a sé il perimetro della legittimità, relegando gli altri soggetti collettivi nel territorio dell’indegnità. Del resto i contrasti e le divisioni emersi ed esplosi sul suolo ellenico assumevano pieno significato nel panorama politico interno, mentre oltre Adriatico potevano apparire ad un occhio esterno difficilmente decodificabili. Il desiderio della distinzione era emerso anche nel rifiuto dei garibaldini affidati provvisoriamente in toto a Mereu a sottoscrivere il giuramento imposto alla Legione filellenica. In precedenza i «sovversivi» di Cipriani avevano inaugurato questo atteggiamento, come traspariva ancora una volta dalle pagine dell’«Avanti!», attraverso le corrispondenze di Ciancabilla. Alla frontiera, alla frontiera! Ed è là che noi andremo, a raggiungere la compagnia Cipriani. Noi socialisti non vogliamo saperne di arruolamenti, lo abbiamo dichiarato.

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Noi portiamo qui un contributo di sangue e di vitalità nuova, e vogliamo che questo contributo non vada sciupato. [...] Sapete di che cosa si preoccupa qui il mondo ufficiale? Delle nostre elezioni. Questa buona gente si augura nientemeno la sconfitta di Rudinì ed il ritorno di Crispi. Questo farabutto, che ora ha sfruttato per manovre elettorali il sentimento filellenico degli italiani, gode qui di un’immensa simpatia. Noi ci siamo sforzati di far comprendere a questi signori che in Italia [...] cambia il maestro di musica talvolta al governo, ma la musica rimane sempre quella. Così, con profondo disgusto udii gridarmi all’orecchio da quella buona gente che credeva di farmi piacere: Viva Cavallotti! Viva Menotti Garibaldi! Ah! Queste vecchie e tarlate cariatidi di una democrazia vigliacca e infrollita hanno saputo con qualche telegramma e con qualche indirizzo giuocar la buona fede di tutto un popolo23.

L’aggressiva polemica del corrispondente socialista non colpisce tanto per i suoi attacchi a Crispi e alla discendenza di Giuseppe Garibaldi, ma per l’assimilazione di un personaggio come Cavallotti alla linea governativa; la miopia che egli attribuiva ai greci, incapaci a sua detta di cogliere le poco limpide dinamiche interne al vasto fronte filellenico, aveva come contraltare la sua stessa incapacità di svincolarsi da un discorso e da un linguaggio tutto interno alla politica italiana e al mondo socialista in particolare, in una circolarità di equivoci e d’incomunicabilità. La dissociazione tra Grecia ufficiale e popolo era un altro elemento chiave del dibattito. Distinguere in questo senso era anche ciò che si preoccupava di fare lo stesso Cipriani in una lettera indirizzata a Parigi: Noi difendiamo essi [i greci], non la monarchia: noi non siamo al soldo di questa, ma al soldo del comitato rivoluzionario che ci ha armati e pagati. Noi viaggiamo come insorti e nulla più. Abbiamo con noi la bandiera rossa frastagliata dai colori d’Italia e di Grecia. Siamo vestiti in borghese, con la camicia rossa24.

Rispetto al sopraggiungente Ricciotti e ai suoi uomini, invece, ci si interrogava provocatoriamente: Sono essi la tradizione garibaldina, che vive tuttavia nelle pampas americane e sui colli di Francia, e che si va a confondere ora con le memorie gloriose della Grecia? O non sono invece la profanazione del nome di Garibaldi? Che cosa rappresentano dell’Italia borghese? La decadenza e il crispismo e nient’altro25.

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Era ancora una volta il quotidiano socialista, con il suo corrispondente-volontario, ad introdurre il lettore in un’altra disputa. Ricciotti Garibaldi si contendeva la camicia rossa con il colonnello Bertet, con cui avrebbe dovuto condividerla, salvo una leggera differenza nella divisa e a condizione di una diversa destinazione territoriale. Così scriveva Ciancabilla il 6 maggio da Atene, quando la Legione Cipriani si era ormai sciolta: Oltre all’aulente fioritura delle rose, c’è ora qui ad Atene la smagliante fioritura delle camicie rosse. Camicia rossa e pantaloni verde-cupo vuol dire legione Ricciotti Garibaldi; camicia rossa e pantaloni bigio-azzurrini significa legione Bertet. In questa sfumatura di tinte c’è un abisso sconfinato. [...] Ai ripicchi e alle contese delle due legioni contribuiscono gli ozii forzati di Capua, ai quali entrambe le legioni son sottomesse qui in Atene. Tolta le legione Mereu, che ottenne di partire per l’Epiro una settimana fa, gli altri garibaldini son qui ad oziare nei caffè e nei restaurants da una settimana. [...] Comincia ad essere anche una questione di amor proprio il fatto di essere costretti a trascinare per le vie ed i passeggi di Atene quella povera camicia rossa così in vista, quando bene o male le truppe greche si battono in Tessaglia. [...] Il governo invece se la prende con calma. [...] Scartato il fatto dell’utilità pratica, il governo greco sfrutta il significato morale della partecipazione di questi giovani stranieri in suo favore nel conflitto greco-turco. [...] E così è sempre l’attesa. Le camicie rosse si incrociano in un allegro barbaglio di colori fiammeggianti per le vie di Atene. Bello, ideale poetico, tutto quel che volete! Ed io sarò un lugubre pessimista impenitente; ma a me questa sciorinatura postuma della leggendaria divisa, non so perché, fa un effetto triste26.

Il corrispondente dell’«Avanti!» doveva però confessare che anche nella legione del figlio di Garibaldi i socialisti non erano pochi: tra di loro – nel battaglione Mereu – il catanese Giuseppe De Felice Giuffrida, che, pur su posizioni diverse, era stato al fianco di Barbato nei Fasci siciliani. Alcune decine di uomini, tra di loro Arturo Labriola, avevano del resto lasciato la formazione di Cipriani ancor prima del suo scioglimento, per venire integrati in quel battaglione garibaldino, e lo stesso rivoluzionario della Comune, così come Ciancabilla e alcuni altri, si sarebbe unito in extremis a Ricciotti nello 242

scontro di Domokós. Si trattava del resto di aderire a quello che era stato da sempre l’imperativo del volontario: innanzitutto battersi. Per giornali liberal-conservatori, come il «Corriere della Sera» e «La Stampa» di Torino, le ambiguità e i conflitti venutisi a creare in Grecia erano l’occasione per denunciare la cattiva immagine dell’Italia che ne emergeva, tanto più che – a quanto si sosteneva – tra i sovversivi si sarebbero abbondantemente mescolati i delinquenti: Persistono i dissensi fra i caporioni dei volontari italiani – telegrafava da Atene Adolfo Rossi al «Corriere» –. [...] Parecchi volontari lasciarono Bertet per arruolarsi sotto Ricciotti Garibaldi che almeno mantiene la disciplina ed occupa i suoi in esercizi militari. Tra gli ultimi arrivati vi sono anarchici e socialisti, che dichiarano d’esser venuti non tanto per difendere l’indipendenza della Grecia quanto per esercitarsi in esperimenti rivoluzionari e fare affermazioni di partito. Non mancano i ladri che derubano i figli di buone famiglie; la peggiore feccia s’è data convegno in Atene27.

A metà maggio, pochi giorni prima della battaglia di Domokós, giungeva al culmine ad Atene, e rimbalzava sui giornali italiani, lo scontro tra il figlio di Garibaldi e Bertet, che rilasciava una sorta di intervista al corrispondente del «Corriere». Paragonato, per la sua «barba bianca» e il «ventre prominente» ad «un vecchio cappuccino vestito da colonnello garibaldino», egli dichiarava di avere ai suoi ordini circa 200 uomini e di essersi rifiutato di unirsi a Ricciotti. – Io – aveva risposto alle sollecitazioni del giornalista – ero in trattative col Governo greco per la formazione di un colonna autonoma prima della venuta di Ricciotti ed ero già d’accordo che non avrei avuto nulla di comune coi figli di Garibaldi. – E perché allora indossate la camicia rossa? – Questa non è un monopolio della famiglia di Garibaldi. – Ma i figli di Garibaldi come generali dovrebbero essere riconosciuti da voi quali superiori. – Tutto ciò che io posso fare è di evitare attriti fra i miei uomini e quelli di Ricciotti, procurando di essere mandato via da Atene, o in Epiro o in Tessaglia, al più presto possibile28.

Il giorno dopo il quotidiano tornava sull’argomento, additando ad esempio l’atteggiamento del vecchio garibaldino Gattorno, che dichiarava di aver «lasciato a Brindisi tutto il [...] [suo] bagaglio politico», per trasformarsi semplicemente in «un italiano venuto a combattere per la Grecia»29. 243

«La Tribuna» si faceva invece interprete e portavoce degli irrigidimenti di Ricciotti: «non potendo permettere che un corpo che si chiama[va] socialista [...] si chiamasse garibaldino e vestisse l’uniforme garibaldina»30, egli aveva rassegnato al Ministero greco le proprie dimissioni, prontamente respinte. Era del resto – come si è già accennato – più che altro una questione di etichette, visto che la stessa varia ed eccentrica umanità repubblicana, anarchica, socialista – ma persino monarchica – che veniva individuata con sconcerto dai giornali conservatori tra gli uomini di Bertet, albergava anche nel quartiere dei volontari di Ricciotti. In ogni caso, si era giunti ad un compromesso: i primi sarebbero stati assegnati all’Epiro – dove, attorno ad Arta, continuava a combattere Mereu con i suoi –, mentre Ricciotti avrebbe agito in Tessaglia. Per i figli di Garibaldi era anche, però, un problema di gestione di un’eredità e della rendita di posizione politica e sociale che essa garantiva. Ferruccio Tolomei, corrispondente della «Tribuna», era molto vicino al figlio di Garibaldi e si sarebbe arruolato ai suoi ordini: partito per la Grecia già a marzo, il 19, da Corfù, incitava Ricciotti a non temporeggiare, proprio per non lasciarsi usurpare da altre forze politiche di una funzione storica che apparteneva alla democrazia. Si trovavano già ad Atene circa 300 italiani e continuamente ne sopraggiungevano: Sono laggiù, di uomini che potrebbero prendere un’azione direttiva, il colonnello Bertet, socialista, e Cipriani, anarchico. Ma non converrà che la democrazia che conserva in Italia la tradizione Mazziniana e Garibaldina si lasci levar la mano in una questione di nazione e di patria che è precipuamente sua31.

Ricciotti Garibaldi, che, nel titolare le sue memorie, decise non a caso di personificare nel simbolo della camicia rossa il soggetto collettivo dei volontari, consegnò a questo volume la sua interpretazione e il bilancio degli avvenimenti. La ricostruzione fu pubblicata a due anni dai fatti, alla sua redazione collaborò Ettore Ferrari e il capitolo introduttivo portò la firma dell’ex garibaldino Ettore Socci. Quest’ultimo si soffermava innanzitutto sulla gloriosa tradizione della Camicia Rossa, simbolo di libertà per gli oppressi, di giustizia per tutti. Ravvisare in ogni essere umano che soffre un fratello e in una nazione oppressa una patria, tale la missione che erasi imposta e che

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esercitò fino agli ultimi anni della sua vita Garibaldi, tale il retaggio che ha lasciato [...]32.

Si trattava oramai di una rievocazione a freddo, che riusciva anche a dimostrarsi rispettosa dell’opera di quelli che erano stati in Grecia i rivali di Ricciotti. Le citazioni riservate a Cipriani e Barbato erano improntate a questi accenti sereni ed equilibrati, e l’orgoglio per il suo «Corpo veramente cosmopolita»33 – anche in questo legittimo continuatore di una tradizione – conviveva nel figlio di Giuseppe Garibaldi con la confessione, strategica del resto, delle tormentate riflessioni che stavano alla base di una scelta. E così la nostra Camicia Rossa andava a trovarsi di nuovo sui campi di battaglia, a combattere ancora una volta per la indipendenza e la libertà dei popoli. Si può immaginare come io ero oppresso dalla terribile responsabilità che m’ero assunta nel riprendere in fatto la leggenda scritta su tante pagine gloriose [...]34.

Da parte sua, dunque la consapevolezza, quasi la coscienza di una missione: questa rivendicazione, che era anche una messa in posa, aveva del resto come contraltare gli strascichi del contrasto con Bertet. L’ideare e formare una compagnia qualsiasi di volontari è una cosa abbastanza facile – ma il tenerne assieme la compagine materiale e morale è cosa ben diversa e ben più difficile. [...] Ora qualunque volontario armato vestito di una camicia rossa oggi è chiamato garibaldino. Quindi se vi è uno che porta il nome di Garibaldi, in una posizione d’autorità e sullo stesso campo d’azione, qualunque cosa succeda – nell’opinione di un pubblico lontano – quegli ne porta tutta la responsabilità. Sono sicuro che i componenti la Legione Bertet [...] avrebbero fatto su qualsiasi campo di battaglia la stessa splendida figura che fecero i loro connazionali su quello di Domokos. Ma la battaglia non è che l’incidente in una guerra – e per il restante della campagna? Cosa ci vuole di previsione e di pazienza per impedire fatti spiacevoli non lo sanno che quelli che hanno avuto comando indipendente di volontari in tempo di guerra – anche quando si ha tutto il necessario. Ora invece la campagna di Grecia si presentava in condizioni difficilissime, per il condottiero di un corpo di volontari [...]. [...] potevo io contentarmi che accanto al mio vi fosse un altro corpo di volontarî che portavano la stessa uniforme leggendaria – che cioè nella men-

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te del pubblico erano Garibaldini – e dei quali io avevo la responsabilità morale, senza avere sopra di essi non solo nessun’autorità, ma con essi né meno un qualsiasi rapporto?35

Ciò che si faceva pesare era la conoscenza diretta dei meccanismi del volontariato, la dimestichezza con le sue tipologie umane e i criteri d’azione, che nessuna carriera militare regolare poteva sostituire. L’attacco al colonnello socialista era portato, quindi, anche su questo fronte, sulla sua costitutiva inadeguatezza a misurarsi con fenomeni che erano stati fin dalla prima giovinezza il pane quotidiano di Ricciotti: Io dunque insistei perché questa confusione di divise – e quindi di reali e apparenti responsabilità – non avvenisse, unicamente perché prevedevo – fatto esperto da fatti consimili accaduti nel passato – la possibilità di conseguenze spiacevoli. [...] l’insistenza contraria del Bertet – di avere, cioè, ad ogni costo la Camicia Rossa per i suoi – mi faceva un po’ l’effetto del negoziante, il quale sapendo che una tale marca rinomata non è coperta da privativa legalizzata, la applica subito alle proprie merci – incorrendo in un atto contro il quale non si può elevare contravvenzione per mano d’usciere, ma che non è forse estremamente delicato!36

Va riconosciuto che questo repertorio di richiami storici aveva una sua circolazione in quell’esercito volontario del ’97: Franquinet de Saint-Remy, ufficiale di Ricciotti, era fiero di riferire in una relazione postuma sugli avvenimenti militari, il discorso con cui aveva ritenuto opportuno arringare le truppe, quasi ad alfabetizzarle, a farle consapevoli di quella che avrebbe dovuto essere la loro specifica identità: [...] noi non siamo – avrebbe detto – un esercito regolare – ma questa camicia rossa che indossiamo è più gloriosa e più sacra di qualunque divisa di eserciti regii o stanziali [...]. Noi tutti vestendo la camicia rossa [...] ci siamo assunti, noi giovani, la grave responsabilità, innanzi all’Italia e alla storia di conservare la camicia rossa immacolata come quella dei valorosi che compirono i grandi fatti della nostra Rivoluzione e abbiamo giurato a noi stessi di fare tutto il nostro possibile per renderci degni del nome di Garibaldini37.

Tra i volontari che avrebbero dovuto essere i destinatari di tali richiami alla tradizione garibaldina, si potevano rilevare fenomeni di profonda interiorizzazione di questi paradigmi. Paride Marincola Cattaneo nel 1897 era un giovane socialista calabrese, studente a Roma38, e si era arruolato attraverso la Società dei reduci della capitale, decidendosi a partire solo quando ebbe la certezza di un impegno 246

diretto di Ricciotti, a cui avrebbe dedicato i suoi ricordi. Egli del resto era partito dall’Italia «anelante l’onore d’indossare la camicia rossa e di emulare i gloriosi garibaldini»39. L’enfasi sull’uniforme garibaldina percorreva tutte le sue memorie e si intensificava ovviamente nella descrizione del momento della «vestizione»: [...] finalmente giungevano in caserma i carri colle camicie rosse, e tutto il resto della divisa. Fu quello un giorno di gran festa per tutti noi. Aveva cominciato a pesarmi addosso l’abito di borghese; e in quel rosso fiammante della camicia, io non so, trovavo qualche cosa che significava entusiasmo italiano e che si confaceva allo stato della mia anima [...]. E quando divenimmo, anche con l’abito garibaldini, era tutti [sic] un saltare e un gridare in quel cortile, come è appunto dei ragazzi [...]40.

Nelle pagine successive, ricostruendo la fisionomia e l’azione del Corpo dei volontari, Marincola Cattaneo si lanciava in una sintesi dei caratteri distintivi del soldato in camicia rossa, che era anche un modo per rivendicarsi al contempo garibaldino e socialista, in un’identificazione quasi fideistica nella potenza di quella divisa-simbolo. La camicia rossa non avrebbe dato alla storia una leggenda gloriosa, se essa non si fosse sempre ispirata alle più grandi idealità. Giuseppe Garibaldi, prima di mostrare un coraggio, mostrò un’anima grande e un cuore cosmopolita. [...] E però chi indossa la camicia rossa, assume in faccia alla storia una grande responsabilità [...]. [...] Il garibaldino uccide quasi costretto alla guerra. Egli non va per seminare morte – per morire forse sì – ma nessuno quanto lui, in linea astratta, è nemico della guerra, il più gran delitto politico. E va perciò soltanto eccezionalmente per la difesa e il trionfo di una grande causa, di un alto ideale, i cui interessi ancora oggi sono dolorosamente affidati alle armi. [...] E se prigioniero suo diventa il nemico, egli lo tratta come un compagno, un fratello, e non lo lega, non lo tormenta, gli dà da mangiare quello che mangia lui, e l’incuora, quasi per dirgli: non temere non odio te – son nemico soltanto del tuo sistema che fatalmente ti conduce a contrariare o a violare le mie idealità. [...] Questo è il garibaldino41.

La rappresentazione del giovane socialista era ingenua ma emblematica e non priva di rispondenza con la realtà, così come aveva un senso la sua valorizzazione di quell’«alleanza garibaldina» sovranazionale, che egli aveva sperimentato con entusiasmo in Grecia e 247

che permetteva a italiani, francesi e inglesi di combattere fianco a fianco, a prescindere dagli accordi e dalle posizioni ufficiali dei loro governi42, rendendosi interpreti di un’opinione pubblica che sapeva anche dissociarsi dai propri vertici istituzionali43. Nell’immagine complessivamente luminosa che Marincola Cattaneo restituiva del 1897 rientrava anche il ritratto positivo di Ricciotti Garibaldi, capace di conquistare in breve la fiducia dei volontari, esponendosi per primo ai pericoli e ai disagi e tollerando anche, sulla scorta dell’esperienza, le proteste, i malumori e talvolta le intemperanze dei suoi uomini44. In effetti, tra i vari comandanti, il figlio di Giuseppe Garibaldi offrì le prove migliori: non sempre capace di gestire con misura e senso dell’opportunità la pesante eredità paterna, e pur non essendo personaggio di grande levatura, Ricciotti dimostrò comunque di possedere l’esperienza e la «professionalità» per gestire e guidare un Corpo volontario. Lo aiutava, ovviamente, l’autorevolezza che gli derivava dal cognome, ma anche dal fatto di «esserci stato», di aver combattuto e ricoperto ruoli di comando in alcuni degli episodi già entrati nella «mitologia» del volontariato garibaldino. Marincola Cattaneo non era certo l’unico internazionalista a nutrire stima per Ricciotti e a riconoscerne i meriti. Tra gli altri, lo scultore ravennate Gaetano Zirardini, futuro deputato socialista45, gli scriveva nel giugno del ’97 per renderlo partecipe della sua soddisfazione per l’esperienza appena conclusa, informandolo dell’imminente commemorazione dei caduti in Grecia: Della nostra campagna io sono da buon materialista fra i pochi idealisti rimasti – vale a dire soddisfattissimo ed entusiasta. Questa gita di Grecia mi ha porto occasione di servire la buona causa di un popolo oppresso; di vedere da vicino una guerra, sì nella parte direttiva che in quella esecutiva; e – né piccolo né ultimo vantaggio – di conoscerla, mio caro Generale che oggi amo e stimo assai [...]. Se gli eventi lo vorranno io sarò sicuramente con Lei, il giorno in cui, continuando Ella degnamente le gloriose tradizioni paterne, la Camicia Rossa ridiventerà bandiera armata della Civiltà46.

Verificare attraverso quali meccanismi si mettesse in moto la mobilitazione a favore della Grecia, su quali basi si giungesse alla scelta di arruolarsi, può gettare luce sui problemi appena affrontati, sul ruolo e l’immagine di Ricciotti in particolare. Nella prima metà del ’97 giungevano al figlio di Garibaldi numerosissime lettere di uomini disposti a partire, molti dei quali però dichiaravano di aver ap248

preso dai giornali – chi dai quotidiani liberali, chi da quelli socialisti – dell’organizzazione di un Corpo, a riprova di come ormai non funzionassero più, nella maggior parte dei casi, le vecchie reti di relazione diretta del volontariato garibaldino47. Questi aspiranti combattenti rientravano in alcune tipologie: si trattava talvolta di figli di camicie rosse, desiderosi di ripercorrere i passi dei padri, ma anche di ex garibaldini pronti a riprendere le armi. Era il caso del ravennate Leopoldo Bedeschi, che aveva letto sulle pagine dell’«Avanti!» della progettata spedizione. Io sono disposto a partire e come me altri miei concittadini ma sarebbe [sic] indispensabili i mezzi di trasporto fino al punto d’imbarco [...] se avrà piacere di avere presso di se [sic] un suo vecchio commilitone. [...] P.S. Se vi saranno i mezzi di viaggio, come ho detto, saranno molti i Romagnoli che partono ed io potrei fare un giro per la romagna [sic] ad arruolarne un buon numero48.

Scrivevano a Ricciotti reduci di Mentana e della Francia, ma anche veterani del patriottismo come il riminese Giovanni Genghini: Chi vi scrive e uno che ci siamo trovati a combatere per lunita Ditalia diverse volte. Se per cosa certa che voi fate gli arolamenti per la Gregia io sono disposto di venire ancora una volta con voi mentre col Bon vostro Defunto padre o fatto 7 Campagni cioè 48.49.59.60.61.66.6749.

Chiedevano di arruolarsi, però, anche uomini che avevano di recente combattuto in Africa, individui appena congedati dall’esercito, dopo avervi militato più o meno a lungo, e persino giovani di leva disposti a disertare. «Sono soldato – scriveva dalla Sardegna Italico Del Vivo – [...] mi hanno insegnato tenere e maneggiare il fucile e sarebbe col più grande entusiasmo che lo adopererei in prò [dei cretesi oppressi]»50. Oltre a quella di Roma, varie altre associazioni di ex combattenti si adoperavano per gli arruolamenti e corrispondevano a tal proposito con Ricciotti, come facevano per esempio la Società di Osimo, la ravennate e quella fiorentina dei reduci garibaldini e dei superstiti di Mentana51. Un certo entusiasmo la spedizione del ’97, nonostante tutto, lo dovette suscitare, visto che numerosi volontari continuavano anche in seguito a scrivere a Ricciotti, per non essere esclusi, per esempio, dalla mobilitazione a favore dell’insurrezione cubana52, a sostegno della quale sembrava che egli potesse capeggiare una spedizione. 249

Questa era la speranza del forlivese Ardoino Borini, già garibaldino nel ’66, arruolatosi negli anni Settanta a difesa della Spagna repubblicana e della rivolta dell’Erzegovina. Dopo essere stato agli ordini di Ricciotti nel 1897, l’anno successivo lo interrogava su quale via dovesse seguire per «portare l’aiuto della mia persona ad un popolo generoso, che vuole infrangere il giogo di secolari tirannie»53. I vari elenchi parziali conservati nelle carte di Ricciotti ci possono dire qualcosa sulla provenienza geografica dei volontari del ’97: i romani, per esempio, erano per lo meno una quarantina e circa venti i triestini. Tra i feriti e i morti di Domokós prevalevano i centrosettentrionali, ma la rappresentanza meridionale – tra campani, siciliani e pugliesi – era indubbiamente considerevole54. Anche in Grecia si confermava la tradizione dei volontari giovani e giovanissimi, presenza caratterizzante di ogni campagna garibaldina: a questa categoria apparteneva, tra gli altri, D’Artagnan Piva, di Adria, tra i feriti di Domokós. Controllato dal Ministero dell’Interno come anarchico dal dicembre del ’97, il diciottenne era stato in precedenza in Brasile – dove si era dato alla propaganda politica – e sarebbe poi vissuto tra il Veneto, la Lombardia e la Liguria, dividendosi tra la militanza sovversiva ed occupazioni occasionali55. Anche i caduti di Domokós rappresentavano un microcosmo vario ed emblematico. Tra di loro c’era l’aretino Antonio Pini, proveniente da una famiglia dove i garibaldini, nel Risorgimento, erano stati cinque. Il nonno materno del socialista romagnolo Giovanni Capra, di Castel Bolognese, era stato decapitato sulla pubblica piazza durante il dominio pontificio; da parte di padre egli vantava altri compromessi nei moti e tutti i suoi zii avevano vestito a varie riprese la camicia rossa. Dallo stesso paese proveniva il socialista Ugo Silvestrini, scrivano presso un banco di lotto, figlio pure lui di un volontario. Socialista era anche il trentenne Filippo Bellini, di Comacchio, così come lo studente barese Michele Frappampina, poco più che ventenne. Repubblicani erano invece l’anconetano Alfredo Antinori, che si era unito al battaglione Mereu dopo essere stato con Cipriani, l’ingegnere romano Romolo Garroni e il bergamasco Ettore Panseri, sottotenente di complemento degli alpini, figlio di un garibaldino dei Mille, il cui fratello combatteva anch’egli agli ordini di Ricciotti, dopo essere partito per Creta con Barbato. Erede di una camicia rossa era anche il vogherese Oreste Tomassi, appena laureato in giurisprudenza. Politicamente legato a Cipriani era, invece, il decoratore romano 250

Francesco Fraternali, che al seguito del rivoluzionario era passato dal repubblicanesimo all’anarchismo56. Dominata fino a metà maggio – nell’attesa dello scontro – dalle divisioni interne e dalla discussione sul monopolio della camicia rossa, la vicenda del volontariato del ’97 assumeva di colpo nuove valenze con il sangue versato sul campo di battaglia. La morte di Fratti e degli altri volontari imponeva a quel punto una riflessione e un complessivo bilancio sul significato del contributo garibaldino nella guerra greco-turca. 2. La Grecia ingrata A poche settimane dalla morte di Fratti, il «Corriere della Sera» dedicava al repubblicano forlivese un ricordo di Adolfo Rossi, corrispondente dalla Grecia, dove i due si erano incontrati ai primi di maggio. – Tu credi dunque – egli mi domandò – che non valesse la pena di venire a combattere per la Grecia? – Ohimè! – risposi – lo temo. Fra pochi giorni, dopo aver veduto la Grecia contemporanea quale è realmente, sarai forse tu pure dello stesso parere. E gli dissi brevemente le impressioni mie, informandolo della insufficienza e disorganizzazione dell’esercito greco [...]. – Basta – disse Fratti – oramai ci siamo e dobbiamo cercare di onorare ancora una volta la camicia rossa. Lascia che ci mandino avanti con Ricciotti e vedrai che il nostro dovere lo faremo. Chissà che alle Termopili il turco non venga respinto? [...] Fratti non poteva giustamente tollerare i soliti ciarlatani, veri parassiti delle spedizioni di volontarî, maniaci per le uniformi e per i distintivi, che scompaiono poi alla vigilia dei combattimenti. In Atene vi era una grossa collezione di simili tipi. [...] Miserie umane!

Fratti invece – garibaldino del ’66, di Mentana e del ’70 – avrebbe continuato – a detta di Adolfo Rossi – a portare l’abito borghese «non volendo indossare la camicia rossa se prima Ricciotti non avesse combinato la partenza della sua colonna». Si sarebbe adoperato, senza molto successo, per far rientrare i contrasti tra i diversi gruppi di volontari e per tenere la politica fuori dalla guerra, poiché con quest’ultima, nell’ottica avvalorata da chi scriveva, essa non aveva nulla a che fare. Se tutti i garibaldini avessero fatto parte della legione Ricciotti, tutti si sarebbero trovati alla battaglia e fatto onore: i separatisti invece, mentre a Domoko [sic] si combatteva e si moriva, litigavano e facevano a revolverate fra loro nell’Epiro.

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[...] Così buono, educato e gentile, Fratti non aveva che amici in tutti i partiti. La sua fede politica non si manifestava mai in astiose polemiche partigiane. Nelle discussioni portava sempre una nota elevata, come nella guerra greco-turca, mentre altri si perdevano in miseri dissensi, egli non recò che sentimenti nobili e disinteressati, quelli del sacrificio e del dovere57.

Nel momento in cui la morte di un personaggio autorevole e di primo piano del repubblicanesimo italiano caricava di drammaticità una vicenda fino ad allora trattata dal «Corriere» con una certa disincantata sufficienza, il cambio di registro imposto dagli eventi veniva utilizzato per attribuire alla figura di Fratti i caratteri dell’esemplarità. La sua presunta apoliticità serviva in realtà ad alimentare e legittimare l’attacco del quotidiano verso il volontariato socialista, ben rappresentato, però, come si è detto, anche tra gli uomini di Ricciotti e presente allo scontro di Domokós. Rispetto alle altre formazioni, indubbiamente il figlio di Garibaldi riuscì ad instaurare, seppur in modo instabile, migliori rapporti con le istituzioni politiche e militari elleniche, anche in virtù della connotazione meno radicale che intese dare al suo contributo: ciò gli garantì un minimo di sostegno materiale ed operativo, che in sostanza mancò agli altri gruppi. D’altronde, furono alcuni ambigui episodi di cui si resero protagonisti questi ultimi e l’immagine che gli stessi interessati restituirono di sé a suggerire un quadro assai poco luminoso, retrocedendo repentinamente dal piano delle attese, delle dichiarazioni d’intenti e dei ritratti entusiastici del popolo greco verso i bilanci fallimentari e le denunce rancorose. A fine marzo, Giuseppe Ciancabilla, il corrispondente-volontario a cui l’«Avanti!» delegava il proprio racconto degli avvenimenti, distinguendo con nettezza tra il Paese e la monarchia, assicurava trionfalmente da Atene che, pur nella povertà dei mezzi, il popolo era risoluto alla guerra e l’avrebbe fatta: in alternativa ci sarebbe stata la rivoluzione58. Pochi giorni prima, un altro combattente della Legione Cipriani, il salernitano Pasquale Guarino, legato agli ambienti socialisti partenopei, dipingeva uno scenario incandescente: Lasciamo dietro di noi la Grecia che pare un paese in fiamme. [...] Se non scoppia la guerra per dichiarazione del governo, scoppierà la rivoluzione. [...] la dinastia salterà in aria. E sarà una di meno, in Europa59.

Eloquente era la lettera che Ciancabilla inviava, all’inizio di aprile, dal confine con i territori controllati dai turchi, quando oramai le 252

proiezioni ideologiche iniziavano a confrontarsi con la realtà, in un misto di paternalismo trasferito dal piano sociale a quello etnico, spirito missionario politicamente inteso e razzismo latente: Per ogni dove è passata la nostra legione, attraverso questo popolo rozzo, brutale, quasi feroce, ha lasciato dappertutto una traccia indelebile, un’impressione quasi di leggenda, un’idea di generosità e di sentimenti buoni e miti che non si distruggerà più. A questa gente poi abbiamo messo nell’anima il dubbio, il presentimento di una cosa nuova, di una cosa grande da conquistarsi nell’avvenire, oltre alla patria che essi vogliono riconquistare adesso. A questa gente noi abbiamo voluto per quanto è stato possibile fare comprendere la nostra essenza di socialisti. [...] io sono sempre convinto che noi socialisti abbiamo fatto bene a venir qui60.

Nelle settimane centrali del mese di aprile giungeva anche in Italia l’eco del traumatico contatto con i cosiddetti «insorti macedoni», al cui fianco gli italiani avrebbero dovuto combattere. L’insurrezione in Grecia – scriveva Serse Alessandri, volontario di Cipriani – è divenuta un mestiere. Gl’insorti – pure facendo le debite eccezioni – sono per lo più gente che non ha nulla da temere e nulla da perdere. Gente che vive rubando, che s’impone uccidendo, e le lubriche voglie soddisfano con ributtante cinismo. Ora se noi sconfineremo come potremo rimanere indifferenti al saccheggio spietato, ingiusto, alle stragi, ai ladrocini, agli stupri violenti, stomachevoli? [...] Per la questione tecnica possiamo dire che fino ad oggi abbiamo marciato col capo nel sacco e alla mercé degli insorti. [...] Domani, entrati nel territorio turco, dobbiamo essere sicuri che i nostri feriti saranno soccorsi e curati, e che marciando innanzi con criteri tecnicamente giusti, saremo guardati alle nostre spalle e protetti. La «Compagnia della morte» come qua ci chiamano, è orgogliosa di marciare innanzi e di meritarsi questo nome; ma vuole che non inutile sia il suo sacrificio e che, accoccolati sui morti, non bivacchino gl’insorti ubriachi61.

L’inquietante etichetta di cui si vantava provocatoriamente il volontario era stata imposta in Grecia alla Legione Cipriani, ironizzando ferocemente sulla volontà di battersi a tutti i costi, pur in condizioni improbabili. Essa dava anche il titolo ad una memoria scritta a più mani, con palesi intenti polemici, da alcuni degli uomini che avevano lasciato quella formazione prima del suo scioglimento62: in 253

quelle pagine c’era la rivendicazione della dignità delle proprie scelte, la denuncia della conduzione delle operazioni e la condanna del rivoluzionario della Comune parigina come capo militare e leader politico. Nella prefazione, Arturo Labriola, diretta parte in causa, ricordava che i socialisti erano partiti per la Grecia «per concorrere a portare un colpo decisivo alla barbarie turca, supposta il propugnacolo avanzato della politica reazionaria e anti-civile della Russia»63, convinti di giovare nel contempo alla causa del proletariato. Le disillusioni erano arrivate subito, suscitate innanzitutto dall’atteggiamento del governo e dell’esercito greco; ma fatale era stata l’unione con gli insorti macedoni, rispetto ai quali Cipriani non seppe condursi con autorevolezza né garantire la dignità dei propri uomini, incrinando ben presto la loro già instabile fiducia nei suoi confronti. Il comandante si rivelava incapace, inoltre, di gestire un esercito di volontari, troppo suscettibile ed esageratamente insofferente di quei malumori e quelle fisiologiche intemperanze che invece Ricciotti Garibaldi, a quanto pare, sapeva sdrammatizzare e lasciar sgonfiare da sé. La situazione degenerava e maturava la scelta di lasciare: Filtrava dalla terra ammollata dalla pioggia recente un tremito febbrile nell’ossa e l’aria diaccia della montagna rendeva lividi e spettrali i volti emaciati dalla notte insonne. Il crepitìo molesto e continuo della fucilata batteva malamente il tempo ai torbidi pensieri dei nostri cervelli [...]. Sparsi a gruppi, tacevamo. Oh, dove erano i segni della guerra santa immaginata? Un’orda di banditi, senza governo né sentimento, stringeva una sessantina di turchi in una casa, ed inconsciamente i nostri animi simpatizzavano coi fortissimi e pochi assediati64.

La rievocazione a pochi mesi dai fatti collimava con le spiegazioni che i volontari «dimissionari» avevano voluto fornire all’indomani della decisione: nella dichiarazione collettiva firmata da quei venti reduci si parlava appunto di bande di briganti, incuranti delle norme minime di sollievo ai feriti e agli ammalati e privi di ogni attenzione alle esigenze di approvvigionamento, colpevoli inoltre di una condotta criminale nei confronti dei prigionieri turchi65. La Legione Cipriani si scontrò indubbiamente con gli aspetti peggiori dell’esperienza del ’97; la particolare ambizione degli obiettivi politici ostentati contribuì del resto ad esasperare per questa formazione dichiaratamente rivoluzionaria lo scarto tra le attese e la realtà. Chiamati a farsi volontari dallo «spirito umanitario e giovanile», quei combattenti intendevano dissociarsi apertamente, di fronte alla Gre254

cia, dall’«Italia diplomatica, [che] obliando le sue nobile tradizioni [...] scagliava le sue corazzate e fuoco e piombo su di lei»66. Nutriti – in molti casi – di suggestioni classiche, oltre che di fervori ideologici, questi italiani, appena messo piede in terra greca, si erano ingenuamente stupiti, a Patrasso, di non riuscire a comprendere la lingua sulla base del greco antico. Ad Atene la delusione si faceva estetica oltre che politica: la tiepida accoglienza priva di entusiasmi guerrieri si combinava ad una veste urbanistica poco attraente e all’aspetto delle donne, quasi per nulla corrispondente ai canoni della bellezza greca67. Tra gli uomini che, dopo il suo arrivo, avrebbero accettato Cipriani come comandante, si distinguevano alcune componenti non solo geograficamente connotate: i siciliani, ma soprattutto i fiorentini e i napoletani, entrambi di orientamento socialista, i secondi, però, assai più politicizzati. Tra di loro, ovviamente Arturo Labriola, ma anche Ettore Croce, abruzzese di nascita, all’epoca appena uscito dal carcere, già condannato al domicilio coatto, attivo nel primo dopoguerra in Emilia e in Romagna, esule in Francia dal 1924 al ’40. Al contrario di quest’ultimo, Walter Mocchi, futuro esponente del sindacalismo rivoluzionario, emigrato nel 1906 in Argentina, sarebbe rimasto fedele a Cipriani fino allo scioglimento della Legione, seguendolo poi anche a Domokós. I fiorentini, tra i quali Cavaciocchi, non erano particolarmente entusiasti di porsi agli ordini del rivoluzionario della Comune, a cui il carcere e le battaglie «non piegarono i muscoli, indebolirono però assai le facoltà intellettive»68. Formati a metà marzo i due plotoni della Legione, con Labriola segretario e Francesco Malgeri ufficiale medico, il 19 ci si era mossi in nave da Atene verso Vólos, e di lì in direzione di Tríkala, «attraverso la storica e sterminata pianura sulla quale Cesare sconfisse il rivale Pompeo»69. Raggiunti in varie tappe del tragitto da altri volontari, come il corrispondente dell’«Avanti!», tra gli uomini erano cresciuti i malumori e i dissensi. In essi si manifestava anche la debolezza strutturale della Legione, che non dovette mai godere del fattore essenziale della coesione e della fiducia reciproca, e perdette strada facendo almeno un quarto dei suoi circa ottanta componenti. Il momento dello sconfinamento – che rappresentò anche il casus belli tra Grecia e Turchia –, il 9 aprile, era stato quello decisivo: si concretizzava finalmente lo scopo delle estenuanti marce, ma si svelava anche un panorama mortificante: [...] Gl’insorti [...] sono circa tremila, divisi in bande separate, completa-

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mente indipendenti l’una dall’altra, e ciascuna al comando di un capitano od oligarco o di qualche pseudo-caporale. Di istruzione militare nulla; solo la conoscenza delle armi che portano. Mal vestiti, provenienti da tutte le parti dell’oriente, da Alessandria, Smirne, Salonicco, pochi di Grecia, qualcuno di Macedonia, meno di Rumenia, pochissimi i Bulgari ed i Montenegrini; armati di fucile, cartucce (molte cartucce), baionetta, coltellacci, nel complesso sono gente [sic] svelte, rotte ai disagi, ignoranti che portano con loro le lotte di campanile, superstiziosi e religiosi all’eccesso70.

Dopo il primo scontro con i turchi, Cipriani aveva decretato a metà aprile lo scioglimento della Legione, che, per sua stessa ammissione, aveva fallito nel proprio scopo, non essendo riuscita a far divampare e diffondere l’insurrezione macedone. A detta di chi scrisse la storia della «Compagnia della Morte» quell’insurrezione, in sostanza, non era mai esistita71, e il suo miraggio aveva costituito il pretesto con cui il comandante giustificava l’ansia di fare da sé. Ma la storia del Corpo di Cipriani, in quelle settimane, continuò anche ad essere scritta sull’«Avanti!», per mezzo delle corrispondenze del fedele Giuseppe Ciancabilla. Soprattutto attraverso la sua penna si tracciò giorno dopo giorno la parabola discendente delle speranze rivoluzionarie proiettate sulla guerra greco-turca. Il 21 aprile il socialista parlava ancora di causa ellenica tradita dalla diplomazia, dagli «interessi dinastici e capitalistici», vaticinando che presto si sarebbe tradotta «in una farsa disgustosa»72; qualche giorno dopo, il bersaglio era l’istituzione militare greca, il cui fallimento gettava ombra, però, anche su un terreno più vasto. Quest’esercito in fuga non ha avuto che poche decine di morti e di feriti e non ha nemmeno veduto il nemico. I soldati hanno perduto il fucile e gli ufficiali la sciabola. L’esercito greco ha perduto l’onore. E tutto così, è perduto. Ormai da questa gente non potreste più ottenere uno slancio, un ultimo sforzo, un ultimo tentativo disperato. La mezzaluna tagliente ha spezzata netta la spina dorsale di quest’organismo militare della Grecia che pareva volesse conquistare il mondo. [...] Colla fine degli entusiasmi bellicosi sono terminati anche gli entusiasmi deliranti filo-italici! Mi dicono che ad Atene e altrove vi è chi persino dà colpa alla legione Cipriani di essere la causa di questo disastro, perché sconfinò senza il permesso del governo, provocando troppo presto la guerra!!!73

Il tema dell’ingratitudine cominciava ad esplicitarsi e sulle pagi256

ne dell’«Avanti!» la denuncia dell’ignavia della monarchia, dell’inadeguatezza del governo e dell’esercito si trasformò alla fine nella condanna di tutto un popolo, e la parola d’ordine diventò: «i greci non si battono». Per lunghi decenni, il Risorgimento e il postrisorgimento italiano si erano confrontati con questa accusa, caratterizzandosi anche come provocatoria contrapposizione vivente ad essa: ora epigoni del volontariato in armi, forti della loro scelta e del passato che riattualizzavano, si facevano giudici della decadenza ellenica e, fossero democratici o internazionalisti, finivano per identificare nella difesa armata delle proprie prerogative nazionali la misura del valore e della civiltà di un popolo. Inneggiare alla Grecia – all’idea della Grecia, a una potenziale Grecia del futuro – e non più ai greci si affermò quindi come formula paradossale con cui legittimare, ancora nel corso degli avvenimenti e poi a posteriori, il proprio impegno. Perso ogni entusiasmo per la causa ellenica, a Ciancabilla, che si sarebbe comunque unito ai garibaldini nella battaglia di Domokós, non restava che la tristezza per un primo maggio trascorso non «tra un fragor di armi e battaglie», ma ad osservare le terribili conseguenze di una guerra ormai spogliata d’idealità, registrando l’indifferenza degli ateniesi per la patria disonorata. Credevo che Atene avesse rivestito in quest’occasione un aspetto straordinario. Mi attendevo di giungere in una città di bivacco, in una città impressionata, in lutto. Ci era persino giunta l’eco, lassù a Velestino, di un moto rivoluzionario. Invece nulla. Atene ride, bianca e festosa come quando ne partii un mese e mezzo fa. [...] Lo stadion è affollatissimo, come sempre, di buona gente che passeggia, conversa e ride. Le toilette primaverili, quasi estive fanno bella mostra di sé. Questa è Atene, cuor della Grecia, dopo il disastro e la vergogna di Larissa. [...] Che bella città Atene, ora, in primavera! [...] I buoni borghesi di Atene, tra un telegramma e l’altro dal teatro di guerra, vanno alla marina. [...] Questa è la vita che si vive ad Atene, capitale della Grecia, in piena fioritura di maggio, in un incanto di cielo e di sole, nell’anno di grazia 1897, dopo che la Tessaglia, un quinto del territorio nazionale, è stata abbandonata nelle mani di Turchi, sotto la protezione di Allah74.

Anche Paride Marincola Cattaneo, il giovane socialista che volle tramandare un’immagine più solare del volontariato italiano in Grecia, associava al primo maggio la memoria di considerazioni per257

plesse. Salpato da Brindisi e fatta tappa a Corfù, era appena ripartito per Patrasso: Salito a bordo, mi ritirai in un cantuccio, tutto solo coi miei pensieri. Per dire la verità io ero rimasto molto deluso dello stato d’animo della prima popolazione greca, da me incontrata: l’entusiasmo per la guerra sembrava maggiore in noi e pareva che fossimo noi a spingerli a gridare Zito polemos75: notai una indifferenza e un accasciamento: la parola rivoluzione non la sentii né in greco, né in francese, né in arabo: eppure secondo i giornali d’Italia (oh fanfaroni benedetti!) la Grecia era in fiamme contro la dinastia, su cui si faceva pesare la vergognosa ritirata di Larissa. [...] Passai poi ad altri pensieri. Mi ricordai che in quel giorno ricorreva la data del 1° maggio, e il ricordo mi sprofondò nei miei più elevati ideali. Sentivo che la virtù del sacrifizio, quando esce dai confini della patria, per coerenza di idee e di principii, è più propria del socialista; e da quel modesto angolo di bordo, dove stavo rincantucciato, e raccolto coi miei pensieri, segretamente inviavo un saluto alla festa del lavoro, e un augurio alla causa del proletariato76.

A quanto scriveva, Marincola Cattaneo non avrebbe mancato di rassicurare i compagni – e se stesso – dell’incrollabile bontà della causa, nonostante quella che gli appariva sempre più come l’innegabile «degradazione dei Greci»77 rispetto al suo orizzonte di attese e al confronto implicito con la rappresentazione epica della Grecia antica78. La popolazione ellenica – in alcuni contesti – non gli sembrava inoltre per nulla diversa dallo stereotipo negativo del turco: a Dranitsa, per esempio, in Tessaglia, non si vedevano donne per le strade, presumibilmente rimanevano chiuse in casa, «recluse» da uomini più gelosi di quanto immaginava dovessero essere i musulmani79. Prima di dedicare una densa appendice alle condizioni politiche e culturali del popolo greco, tentando di individuare i fattori di una grave arretratezza e gli autentici veicoli di progresso80, Marincola Cattaneo riservava molte pagine delle sue memorie ad una riflessione sui rapporti tra le camicie rosse e i loro «alleati». Lo stesso aspetto delle truppe greche – la trascuratezza, l’aria dimessa, la divisa poco accattivante – gli sembrava alludere ad una debolezza morale, alla scarsa considerazione di sé e dei propri mezzi da parte degli ufficiali e dei soldati medesimi – vittime del resto di una sorta di attrazione estetica per la camicia rossa – a cui i garibaldini apparivano «sempre indemoniati»81 per la loro energia. Il momento della marcia verso il luogo di battaglia veniva qui rappresentato con toni molto diversi rispetto al registro utilizzato per le 258

vicende della «Compagnia della Morte». L’immagine delle camicie rosse che avanzavano verso il fronte cantando l’inno dei lavoratori e quello di Garibaldi era il simbolo di un ricordo politicamente e privatamente gratificante, l’emblema della capacità di mettere d’un tratto tra parentesi le frustrazioni, i disagi, le proteste, tutte quelle intemperanze che comunque i comandi – a quanto pare – avevano saputo gestire82. Alla partenza per Brindisi, ad avvenimenti conclusi, Marincola Cattaneo avrebbe inviato in cuor suo un augurio alla Grecia, «che essa potesse risorgere veramente, e che sul suo territorio, tanto ricco di tradizioni, potesse di nuovo attecchire la virtù civile, ed il bello in tutte le sue forme»83. Era del resto – a suo parere – una questione di classe dirigente, che dai vertici politici discendeva ai capi militari, poiché i garibaldini greci – guidati da comandanti all’altezza della situazione – si erano saputi condurre con valore84. Ma non tutti i congedi furono così lucidi ed equilibrati. Dopo la battaglia di Domokós, che rappresentò comunque la migliore prova di valore dei greci, il 21 maggio veniva concluso un armistizio tra i due contendenti. Cominciava quindi la ritirata, per riguadagnare la strada verso la capitale. Giuseppe Ciancabilla, anch’egli presente allo scontro, trasse da questa sua esperienza – e dagli usi pubblici che ne seguirono – ulteriori motivi di rancore e di rivendicazione energica di un’identità distinta, socialmente e politicamente connotata. Se la bandiera d’Italia sventolò in Grecia libera al sole e poté con onore ripiegarsi nella ritirata [...] è merito della causa che trasse i nostri in terra straniera, volontari, soldati della libertà. [...] Gl’italiani, accorsi in Grecia, erano affascinati da un’idealità più o meno discutibile, ma alta a ogni modo: erano tratti a difendere, non a combattere l’indipendenza di un popolo. Qui è la questione. E si batterono da prodi; meglio dei greci stessi, ai quali non è ben certo se la guerra abbia messo paura o abbia servito invece così come un giuoco diplomatico. [...] Il governo italiano e i partiti conservatori in genere si sono compiaciuti per l’eroismo dimostrato dai nostri e per il «prestigio» e l’«onore» rilevati e rimessi in commercio. E sta bene. Ma poche eccezioni fatte, i volontari italiani [...] appartengono in Italia, chi materialmente e chi moralmente, a quella categoria che si è convenuto di chiamare degli spostati. Erano, in certo qual modo (non tutti, ripetiamo) i banditi della società, e perciò i ribelli, anche incoscienti. Erano il frutto della costituzione sociale presente e della pessima organiz-

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zazione politica ed economica dell’Italia. Anelanti alla libertà, per la libertà combatterono, alcuni morirono. [...] la loro istoria è così intessuta: è la storia degli altri, è l’eroismo degli altri, è il sacrifizio degli altri; così come le loro ricchezze sono il denaro degli altri. La plebe, gli spostati, la «canaglia», non hanno storia85.

Emblematica, suggestiva, tagliente, la diagnosi di Ciancabilla era però in gran parte frutto di proiezioni ideologiche e, nel tracciare il profilo dei volontari, coglieva nel segno, casomai, più dal punto vista politico e culturale che non da quello economico e sociale. Con il trascorrere delle settimane il quadro peggiorava, inducendo il corrispondente a trascendere in giudizi perentori ed estremi contro il popolo greco, ridicolizzato nelle sue stesse abitudini quotidiane, senza più alcuna distinzione tra il Paese e la sua classe dirigente. Con questa lunga lettera al giornale, egli si congedava il primo giugno da Atene: Le camicie rosse, son dunque partite. O meglio sono state congedate. E forse meglio sono state cacciate. Dopo la prova di Domoko [sic], visto che i greci ci scapitavano al paragone, il governo si affrettò a rinviare i garibaldini senza nemmeno dar loro gli otto giorni come alle serve infedeli. [...] Che il governo greco abbia avuto paura ch’essi diffondessero un po’ di contagio di valore e di ardimento fra questo popolo divorator d’agnelli? No, altra è la paura del governo e del re. Essi temono la rivoluzione. Mai parola così terribile suona ora così comica e così ridicola in bocca di questa gente. È il bis della parola guerra. Anche quella terribile espressione fu sciupata per mesi e mesi per ottenere una pace vergognosa. [...] Eppure il governo ed il re hanno una paura matta. [...] Sgranate, sgranate, o greci, le vostre corone-passatempo, in una beata e placida indolenza. [...] purtroppo, bisogna confessarlo, dopo il nostro esperimento doloroso di filellenismo anche il popolo greco (notate, non la causa greca) non è più simpatico a noi. Ritorniamo in Italia pieni di delusioni sentimentali e di delusioni storiche. Infatti, chi di noi crede più ora alla storia antica della Grecia?86

Era curioso come il bilancio affidato dal quotidiano socialista al suo corrispondente-volontario non si discostasse poi molto da quanto andava scrivendo in quegli stessi giorni il «Corriere della Sera», irrimediabilmente scettico fin dal principio rispetto all’iniziativa. Si trattava non solo, per il giornale milanese, di dare libero sfogo alle proprie riserve di disincanto, ma anche di guardare con sufficienza a tutto quel vasto mondo, trasversale al sovversivismo e al radicali260

smo, che aveva alimentato materialmente e legittimato idealmente la mobilitazione armata a sostegno della Grecia: [...] salutando con l’articolo augurale, la spedizione dei vecchi e nuovi garibaldini, li avevamo ammoniti, dicendo che, partiti filelleni, sarebbero ritornati turcofili. Facile vaticinio! oroscopo securo! [...] Accolti al loro prima apparire come liberatori, dovevano finire quasi sfrattati dai liberandi. Battutisi valorosamente sul campo [...] son disarmati come facinorosi. [...] Quei giovani stranieri, più che ausiliari preziosi, erano incomodi testimoni. I pronipoti di Ulisse volevano fare o non fare da sé. Senza i corrispondenti dell’Avanti e organi simili, il mondo crederebbe probabilmente ancora al valore, come al sale, attico. [...] Del resto, le lettere private di molti fra quei «diavoli rossi» – come li chiamava la regina Olga – parlano chiaro. I volontari della colonna Bertet, senza parlare dei «ciprianisti» propriamente detti, erano andati laggiù per recare alla Grecia la vera libertà – non quella di Garibaldi, ma quella di Marx. [...] dopo Domoko [sic], essi s’aspettavano che i greci insorgessero come un Armodio contro la dinastia, responsabile della «viltà collettiva». [...] Più ingenui di così non si poteva essere. Parlare di socialismo in Grecia è come parlar di pollicoltura al pollo. Le nazioni cristiane di Oriente sono in piena età eroica [...]. Rumenia, Serbia, Bulgaria, Grecia devono ancora raggiungere l’unità. La questione della nazionalità governa ed eclissa tutte le altre. Il diritto disputato del sangue affiochisce la voce di ogni altro diritto. E dopo il sangue, la fede: la fede che divide le genti balcaniche ben più che il linguaggio. [...] Ah! i bei giorni del Pireo son passati e per sempre. Non più gli inni gaudiosi all’Acropoli: non più le invocazioni obbligatorie a Pallade astata: non più, non più i versi di Byron, di Leopardi, di Berchet ripetuti per omaggio a memoria... [...] La Grecia non è più, a sentirli, una culla di forti, ma un’incubatrice di conigli. E tanto sdegno perché? Per aver scambiato l’Oriente col paese dell’Utopia, la Grecia con la Lunigiana e Atene con Bagnocavallo... In verità, l’ignoranza della geografia perderà un giorno l’Italia!87

Così si concludeva quella «dolorosa e terribile campagna»88, gestita e ricordata dagli uomini di Ricciotti, tra tutti, con i toni più equilibrati. Era lo stesso comandante, nelle sue già citate memorie edite nel 1899, a tentare di gettare acqua sul fuoco, sulla base della sua ultradecennale esperienza di volontariato in armi. A suo parere, la stessa cupa immagine della popolazione ostile e inospitale andava contestualizzata e sfumata: i giovani avevano vissuto con comprensibile 261

inquietudine e amarezza le carenze logistiche, le insufficienze del vestiario e degli approvvigionamenti, ma chi come lui, aveva conosciuto il ’66 e Mentana, poteva invece convincersi che, al confronto, si trattava quasi di «una cuccagna»89. E quando gli scarsi abitanti che trovavamo, chiedevano forse tre soldi per ciò che valeva due (e questa modica elevazione dei prezzi era poi anche eccezionale) – non sapevano i nostri volontarî che in una campagna fatta in Italia per l’Italia e in mezzo ai nostri connazionali italiani avevamo dovuto pagare una gallina – e non troppo grassa – dodici lire! I contadini – in genere e in tutti i paesi – non sono troppo idealisti. Ma mi ricordo però un contadino di Kato Dranitza che rispose a un nostro ufficiale (il quale aveva riposato la notte in una sua casa), domandando quattro drachme; quando però un suo connazionale gli spiegò che l’italiano era venuto spontaneamente per difendere la Grecia, immediatamente restituì le quattro drachme90.

Fosse anche solo una scaltra operazione propagandista, era comunque una via lucida e dignitosa per uscire da quell’esperienza, la più opportuna per un comandante ed un uomo-simbolo come Ricciotti Garibaldi, a cui alcuni intimi non avevano del resto mai nascosto le proprie perplessità sull’iniziativa. Si trattava, dopo tutto, di assumere la responsabilità di rinverdire una tradizione, a cui molti uomini legavano non solo i loro ricordi, ma anche una buona porzione della propria credibilità pubblica. Stefano Canzio, che alla fine avrebbe collaborato all’organizzazione della spedizione, nutriva molte riserve ed esternava previsioni sconsolate, alludendo però al contempo all’insofferenza verso «indebite» appropriazioni. Ciò che oggi più di tutto mi impensierisce, mi scoraggia e mi sconforta si è l’aver visto lo sperpero che si è fatto e si continua a fare di quella grande forza che erano i Volontari Italiani, cresimata dalla leggenda Garibaldina, forza che avrebbe potuto essere l’orgoglio e la speranza dell’Italia futura; lasciata oggi a disposizione del primo venuto [...] a capriccio e con programmi discordi [...]. Un’altra insurrezione Greca e addio Garibaldinismo91.

L’esperienza del ’97 fu sollecitata e attraversata da miraggi e miopie, da equivoci talvolta indotti anche da un contesto balcanico di ardua decifrabilità, non solo per il bagaglio ideologico e «retorico» dell’internazionalismo garibaldino, ma anche e soprattutto per le nuove culture politiche che confluirono nella sua riattualizzazione. Nella molteplicità di attori e di presenze, nella confusione e con262

taminazione dei principi di legittimità dell’iniziativa, il volontariato del 1897 soffrì fin dal principio dell’assenza di un comandante al di sopra di ogni discussione. L’unico che seppe superare almeno in parte la prova fu Ricciotti Garibaldi, mentre Amilcare Cipriani – vittima anche dei contrasti interni al mondo socialista e anarchico – ne uscì con onore come combattente, ma sconfitto in quanto capo militare, pur confermando le sue doti di catalizzatore di energie rivoluzionarie. In effetti egli non riuscì a far funzionare quel meccanismo di congelamento delle divisioni – in nome di una nuova e forse transitoria appartenenza, a sua volta politicamente connotata – che aveva rappresentato una delle chiavi del garibaldinismo. La generazione, ma anche la cultura politica in cui si collocava la figura di Antonio Fratti conservava invece ancora in se stessa le risorse e la credibilità di una coerenza interna, cui faceva da supporto un repertorio linguistico ed ideologico di grande forza evocativa e dalle potenzialità inclusive. Era anche la salda fiducia nella bontà degli scopi e dei mezzi, che ben emergeva dalle parole con cui Giovanni Bovio aveva scelto di commemorare il 22 agosto ’97, a Forlì, il repubblicano romagnolo: [...] morire per l’Italia o per la Grecia, per la Francia o per la Polonia è tutt’uno, quando una è la causa. [...] Non si può combattere, non si può morire per un paese straniero, senza presentire la Città universale, senza riposare in quella visione l’ultimo sguardo. E in questa visione riposa lo sguardo di tutte le parti della democrazia militante; in questa si raccolgono tutte, per questo accanto a Fratti può militare Cipriani e l’uno può onorar l’altro. Si cada a Domokos o a Digione, si cada in Polonia o in Armenia, l’occhio del caduto guarda più in là, oltre il confine, guarda senza emigrare, senza intoppare in resistenze gelose, in codici ostili, senza incontrare il doganiere dove cerca l’uomo, dove una legge comune raccoglie la comune famiglia. Non c’è gran cervello senza questa umana visione, senza questa respublica gentium, argomento di chi pensa, e sospiro di chi cade in terre ignote. Qualunque nome diate a questa suprema utopia, qualunque sia il mezzo col quale vi gravitate, in questa è il più vivo dell’uomo nuovo. Antonio Fratti guardò la vecchia Europa, vide l’arbitrio dei re in luogo di un codice internazionale, e conchiuse che a grandi fini non si riesce senza l’olocausto92.

Capitolo ottavo

Dalla guerra di Libia all’intervento

1. La «chimera garibaldina». Grecia 1912 Gli avvenimenti del 1912 si legano in modo specifico alle vicende che coinvolsero in quegli anni il mondo repubblicano. Nato formalmente nel 1895, il Partito attraversava una crisi d’identità più o meno latente, che sarebbe esplosa proprio a cavallo della guerra di Libia. Il nodo era rappresentato dalla dialettica tra gli organi direttivi, la base e il gruppo parlamentare, e chiamava prepotentemente in causa l’atteggiamento verso le istituzioni monarchiche, la rigidità del legame con la dottrina mazziniana e l’attualità dei modelli d’azione rivoluzionari. Del resto, fin dai primi anni del secolo si registrava, in settori genericamente bollati come «sovversivi», la spiccata tendenza ad una proiezione sovranazionale delle iniziative. Si trattava spesso di semplici campagne d’opinione, che facevano capo all’imperativo dei diritti dei popoli, nella convivenza e nell’alternanza di accenti di tipo nazionale e sociale; fu proprio attorno a questa complessità di implicazioni che in alcuni casi poterono realizzarsi convergenze tra repubblicani, socialisti ed anarchici1. Nel triennio 1911-13 furono proprio questioni allo stesso tempo interne ed internazionali a sollecitare in seno al repubblicanesimo divisioni e chiarificazioni. Se attorno all’opposizione alla guerra di Libia si venne a creare un’intesa tra la quasi totalità della base repubblicana e la maggior parte dei socialisti e degli anarchici, i conflitti balcanici dei primi anni Dieci posero a quegli stessi ambienti dei pressanti interrogativi sull’ipotesi di un intervento diretto. 264

Mentre nel PRI – alla vigilia dell’impresa africana – si profilava all’orizzonte lo scontro tra il «tripolino» Salvatore Barzilai e le correnti maggioritarie legate a Chiesa, Pirolini e Ghisleri2, nel marzo del 1911 era scoppiata nell’Alta Albania l’insurrezione antiturca. I legami tra il movimento nazionale italiano e quello schipetaro si erano consolidati anche attraverso la partecipazione di vari rappresentanti delle «colonie» albanesi meridionali al processo risorgimentale, alle iniziative garibaldine in particolare. Per lo meno dalla fine dell’Ottocento Ricciotti Garibaldi aveva rappresentato un punto di riferimento per le aspirazioni autonomistiche di quel popolo e per la rivendicazione di diritti civili e politici. A cavallo dei due secoli si andava anche affermando il ruolo di Felice Albani3, capace di acquistare un crescente prestigio presso i settori rivoluzionari di quelle popolazioni. Negli anni successivi al volontariato in Grecia del ’97, egli aveva velocemente esaurito la propria fase repubblicano-collettivista4 per farsi protagonista delle tendenze più intransigenti e dar vita, alla svolta del nuovo secolo, al Partito mazziniano italiano. Ad esso si legò una nuova e più longeva iniziativa editoriale del repubblicano, con la nascita della «Terza Italia», destinata a svolgere una funzione centrale nella mobilitazione filoalbanese. Attorno agli avvenimenti balcanici del 1911-12 si sarebbero consumate due separazioni: l’una tra l’azione e le prospettive di Albani e quelle di Ricciotti, l’altra all’interno di una visione complessiva di quei movimenti nazionali, che avrebbe indotto il figlio di Giuseppe Garibaldi a subordinare le simpatie per il popolo albanese al proprio filellenismo, mentre il mazziniano raffreddò progressivamente i suoi entusiasmi verso le rivendicazioni greche. Queste vicende produssero vivaci strascichi polemici tra i due, e Ricciotti venne accusato da Albani di aver compromesso la realizzazione delle iniziative con un comportamento ambiguo, un eccesso di protagonismo e continui temporeggiamenti5. Contribuendo a scrivere un nuovo capitolo della disputa sull’eredità del garibaldinismo e della camicia rossa, Albani sosteneva che nella fallita collaborazione con i rivoluzionari albanesi insorti si erano fatalmente rivelati i reciproci fattori di incompatibilità tra l’impegno del Comitato mazziniano e la prospettiva di Ricciotti. Per lui si trattava d’una occasionale spedizione di Camicie rosse: pel Com. Pro Albania di una parte già contemplata della propria azione che risaliva a qual-

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che anno, e che col moto albanese si collegava al problema orientale sulla direttiva mazziniana: per noi poi della Terza Italia e di Fede Nuova si trattava anche di chiamare l’Italia popolare – in confronto al Cinquantenario Ufficiale – a segnare con un’idea redentrice luminosa e col valore de’ suoi figli, un grande solco nell’accidia politica in cui s’intorpidiva il Paese6.

Nel febbraio del 1911 il presidente del Consiglio Luigi Luzzatti faceva diramare ai prefetti un dispaccio telegrafico in cui attirava l’attenzione sugli arruolamenti che sarebbero stati aperti a sostegno della causa albanese «sotto la influenza di Ricciotti Garibaldi». Le sue direttive erano di impedire la mobilitazione e promuovere in proposito un’indagine «necessaria alla conservazione dei nostri buoni rapporti colla Turchia e alla osservanza dei nostri doveri internazionali, non potendo l’Italia essere considerata elemento di perturbazione in Europa»7. Tra la primavera e l’estate i controlli si intensificarono, e una particolare sorveglianza fu esercitata ovviamente nelle zone costiere del confine orientale8, nei porti pugliesi9 e nella capitale. Le informazioni più corpose si raccolsero a Roma, ad Ancona, a Bologna e in Romagna10, dove tra gli arruolatori e gli arruolati abbondavano i repubblicani e non mancavano i socialisti e gli anarchici. Rispetto a queste iniziative il PRI aveva una posizione articolata, distinguendo sostanzialmente tra le dichiarazioni di principio e l’azione. Anche attraverso «La Ragione», suo organo di stampa, il Partito esprimeva tutta la propria solidarietà verso la causa albanese, ma auspicava che i giovani repubblicani si astenessero dal recuperare modelli garibaldini, prendendo invece coscienza della necessità di battersi per i propri ideali in Italia11. Se a Roma la mobilitazione a favore dell’Albania era in mano a gruppi già da tempo allontanatisi dal PRI, con un ambiguo ruolo esterno di un personaggio come Barzilai, in altre zone la direzione dell’attività filoalbanese era stata invece assunta da uomini interni al Partito, ma che avevano scelto di dissociarsi da esso su questo argomento. Nelle Marche, per esempio, la spedizione si stava organizzando soprattutto attorno ad Oddo Marinelli12, mentre in Lombardia il punto di riferimento era Cipriano Facchinetti13. Il Comitato romano e le sue diramazioni periferiche avevano promosso una vasta mobilitazione, risoltasi, a quanto pare, in un movimento di varie centinaia di uomini disposti a partire14. Le crescenti perplessità di Ricciotti, che si conclusero con la scelta di esimersi dall’azione15, trasformarono completamente il quadro; ciò non im266

pedì che piccoli gruppi raggiungessero per terra e via mare le zone di confine tra il Montenegro e i territori dell’Alta Albania. Tra di loro – qualche decina in tutto – ritroviamo l’appena citato Facchinetti, ma anche il giovane anconetano Lamberto Duranti, che sarebbe tornato nei Balcani l’anno successivo. I volontari parteciparono ad alcuni scontri assieme alle bande di insorti, finché il conflitto fu interrotto dalla tregua propiziata dalle concessioni turche16. Nelle altre zone dell’Albania – a cui non erano state subito estese le riforme – l’agitazione continuava: anche l’azione degli italiani si rivolse allora verso le regioni meridionali, dove si diresse in agosto l’ambulanza organizzata da Alina Tondi Albani, con lo scopo dichiarato di soccorrere profughi e combattenti feriti, ma con palesi intenti politici. Giunto a Corfù, il piccolo gruppo – di cui facevano parte anche il marchigiano, veneziano d’adozione, Giuseppe Chiostergi e Lamberto Duranti – avrebbe progettato di spostarsi sull’isola di Lefkada17, da cui sarebbe stato più semplice raggiungere l’Epiro e la Bassa Albania. Dopo aver tentato inutilmente di unirsi all’insurrezione e di ottenere supporti da Atene, i componenti dell’ambulanza – una quindicina di persone – fecero di lì a poco ritorno in Italia18. Nell’autunno del 1911 scoppiò in Libia il conflitto tra Italia e Turchia e, qualche mese dopo, esplosero i contrasti interni al movimento repubblicano. Ancor prima della formale dichiarazione di guerra, dalle zone in cui il repubblicanesimo si legava a più spiccate tradizioni rivoluzionarie – la Romagna, la Toscana, le Marche, la Lombardia – si erano sollevati segnali di insofferenza verso le ambiguità e le esitazioni del Partito. Molte sezioni del Centro-Nord avevano del resto aderito spontaneamente allo sciopero indetto per il 27 settembre 1911 dai socialisti contro il conflitto imminente. In quei mesi fu la Consociazione romagnola a sollecitare per prima un’iniziativa decisa, che esprimesse i malumori della base contro la condotta dei vertici. La crisi precipitò dopo il 23 febbraio 1912, quando la maggioranza del gruppo parlamentare, Barzilai in testa, votò a favore dell’annessione della Libia19, scatenando lo sdegno di moltissime sezioni. Tutto ciò avrebbe prodotto i suoi effetti al congresso nazionale svoltosi nel maggio ad Ancona, in cui si rivelarono i rapporti di forza che avrebbero poi determinato l’emarginazione di Barzilai e l’elezione a segretario del leader sindacale Oliviero Zuccarini20. Ci si stava ormai avvicinando ad una nuova mobilitazione, rispetto alla quale i settori repubblicani avrebbero avuto ancora una 267

volta un’indubbia centralità, nonostante lo scetticismo dei vertici del Partito. Quando, nell’ottobre del 1912, era iniziata la prima guerra balcanica, la solidarietà di vasti settori repubblicani si era rivolta indistintamente alla quadruplice – Bulgaria, Serbia, Montenegro e Grecia21 –, tanto che le prime ipotesi di spedizione avevano persino rivelato un’iniziale preferenza verso la Serbia o la Bulgaria22. Né Ettore Ferrari – e, attraverso di lui, la Massoneria –, né Eugenio Chiesa, tradizionali punti di riferimento di queste iniziative, avevano però manifestato alcun entusiasmo23 per uno slancio che mostrava spiccati caratteri generazionali e che, tra i «vecchi» leader, venne intercettato dal solo Ricciotti. Mano a mano che la spedizione garibaldina verso la Grecia si avviò verso la concretizzazione, si chiarì che gli elementi discriminanti non erano esclusivamente di natura politica, ma anche e soprattutto di matrice generazionale. Il gruppo che aveva ripreso di recente le redini del PRI – e che individuava in Arcangelo Ghisleri, leader storico, il proprio punto di riferimento ideale – si era reso conto di doversi confrontare anche con gli umori della Federazione giovanile24, dove, in nome del ritorno alle radici rivoluzionarie che gli stessi dirigenti promuovevano, il «byronismo» avrebbe mietuto, ai loro occhi, troppe vittime. Ciò non significa che per la Grecia partissero esclusivamente i ventenni, dal momento che le nuove leve si incontrarono con reduci di Domokós25 e con alcuni veterani di più lungo corso26; ma venne meno l’adesione di personaggi di livello nazionale che godessero in quegli anni di una forte visibilità pubblica. Di fronte agli avvenimenti del 1912 si ponevano più che mai due ordini di problemi: l’opportunità o meno di dirottare al di fuori dei confini nazionali le energie dei giovani repubblicani e di altri «sovversivi», e la necessità di valutare se la causa balcanica meritasse di per se stessa il recupero della tradizione del volontariato. Iniziata ai primi di ottobre, la guerra balcanica aveva visto fin da subito il netto e rapido prevalere dei quattro alleati, che per proporzioni e velocità colse di sorpresa le potenze e l’opinione pubblica. A novembre i possedimenti europei dell’Impero ottomano erano già ridotti a pochi capisaldi isolati. L’Albania era da un lato sotto il controllo delle truppe turche, dall’altro «protetta» dall’intervento diplomatico congiunto di Italia e Austria-Ungheria, che rappresentava con tutta evidenza un tentativo di mettere un piede in quei territori. L’Italia aveva concluso in quelle settimane la pace con la Turchia, tradendo in qualche modo le attese degli Stati balcanici, fiduciosi in 268

un proseguimento del conflitto che indebolisse il comune nemico. In questo quadro la prospettiva di un’azione mirante a sostenere un soggetto qualunque della quadruplice balcanica era quindi totalmente estranea ai disegni governativi. Del tutto fuori luogo e fuori tempo – rispetto alla politica estera di Roma – era poi l’idea di rinverdire gli spiriti filellenici. Molto più forte di quella del 1897, la Grecia del ’12 era non solo la principale concorrente delle ambizioni italiane in Albania, ma costituiva con la sua stessa esistenza un atto d’accusa contro l’occupazione italiana delle isole del Dodecaneso, totalmente priva di senso sulla base del principio nazionale. Furono anche questi fattori a determinare un sistematico boicottaggio delle partenze dalle coste adriatiche, attraverso operazioni di controllo molto più capillari ed energiche di quelle volute da Rudinì quindici anni prima. I popoli balcanici erano troppo forti e vincenti per richiedere l’aiuto dei volontari italiani: questa era in sostanza la prima obiezione – spesso non palesemente dichiarata – che si avanzava da destra e da parte dei settori di governo nei confronti della nascente mobilitazione. La stessa riserva – caricata di implicazioni diverse – proveniva anche da sinistra, da chi riteneva cioè che l’astensione da un impegno diretto servisse meglio la causa del progresso, della giustizia sociale, della libertà, della repubblica e della solidarietà sovranazionale. Anche i socialisti ufficiali – dal Partito erano stati appena espulsi i riformisti di Bissolati – espressero nettamente, in larga maggioranza, il proprio dissenso agli arruolamenti. Benito Mussolini, poco prima di assumere effettivamente la direzione dell’«Avanti!», irrideva in novembre dalle pagine del giornale i «tardivi epigoni del grande Garibaldi che correvano in soccorso dei vincitori»27. All’interno del mondo repubblicano la situazione era assai più articolata. Tra tutti i partiti, il PRI – in piena coerenza con la propria tradizione e le radici mazziniane – era stato il più esplicitamente schierato in favore dei popoli balcanici. I problemi e le ambiguità sopraggiungevano nel momento in cui dalle dichiarazioni di principio si volessero trarre elementi di orientamento per l’azione. Nel biennio 1911-12 il Partito, attraverso le proprie vicende interne, aveva inequivocabilmente voluto lanciare un segnale di rinnovamento e di recupero di un’identità politicamente irriducibile ad un cauto riformismo. Un più energico antitriplicismo, non appiattito su umori irredentisti sempre più contigui al nazionalismo, era stato individuato come necessario corredo di questa svolta. Del rifiuto 269

dell’alleanza con gli Imperi centrali, uomini come Ghisleri e Zuccarini avrebbero voluto che apparissero più evidenti le ricadute relative alla politica interna28, mentre tra i giovani, e tra chi rimaneva legato a modelli d’azione insurrezionale, le questioni di politica estera assumevano di conseguenza una rinnovata centralità. Sostenere che questi gruppi rimasticassero «malamente e confusamente un po’ di Mazzini e un po’ Bakunin, un po’ di Sorel e un po’ di D’Annunzio»29 coglie in parte nel segno, individuando oltretutto il terreno sul quale potevano sussistere elementi di convergenza con un certo anarchismo e con segmenti del sindacalismo rivoluzionario. Ciò non deve però indurre a peccare di anacronismo, attribuendo in toto queste irrequietezze ai prodromi di una deriva nazionalista o persino di un futuro prossimo fascista. Inoltre in contesti dov’erano particolarmente vivi i retaggi e il mito del garibaldinismo – come per esempio la Romagna e l’ambiente romano – l’esperienza del volontariato in camicia rossa si associava all’idea di un’irrinunciabile iniziazione politica, con cui avvicinarsi almeno idealmente alle generazioni che avevano potuto e saputo fare la storia. Tutto il repertorio risorgimentale, antimperialista e antimonarchico recuperato dai nuovi vertici del Partito repubblicano per legittimare la propria opposizione alla guerra di Libia poteva dunque essere recepito da alcuni gruppi anche generazionalmente connotati come sinonimo di un necessario rinnovamento della tradizione garibaldina. Il fatto che nel linguaggio e nelle pose eroiche i volontari del ’12 potessero essere astrattamente avvicinabili ai nazionalisti «tripolini» non deve far dimenticare che, nella maggior parte dei casi, essi amavano autorappresentarsi come fautori e protagonisti di un percorso politico radicalmente incompatibile con la scelta colonialista. Quando si imbarcarono per la Grecia, gli aspiranti garibaldini furono accompagnati dalla sconfessione degli stessi mazziniani di Albani e dall’appello di Arcangelo Ghisleri30, che li invitava a non partire e ricordava che la causa dei popoli balcanici si difendeva lottando in Italia e costringendo i governi a rispettarne i diritti. Prive dunque di autorevoli legittimazioni, le motivazioni politiche e generazionali del volontariato del 1912 traspaiono con particolare evidenza dagli scritti di due dei suoi protagonisti. Il diario del giovane repubblicano Camillo Marabini31, direttore della «Luce» di Roma, è particolarmente emblematico di quella commistione di linguaggi, di toni e di culture politiche che contribuì a plasmare l’esperienza32. 270

Compilando la nota del 23 ottobre, Marabini si presentava in questo modo: [...] noi preferimmo [...] aggrupparci in disparte pensierosi e tristi, figgendo lo sguardo nell’ideale cui demmo tutti i palpiti della nostra giovinezza, quando le folle italiane, pervase da un delirio di guerra e di sangue, salutavano, in ogni arma luccicante al sole, ed in ogni nave veleggiante verso l’Africa, la rinnovata energia della stirpe; noi, è vero, pur con un senso di profonda sofferenza, in quei giorni sentimmo tutta la poesia e tutta le bellezza della nostra solitudine e del nostro sogno umano; ma ora, è un’altra cosa, ora ci pare che ogni popolo balcanico rinnovi, ne la storia, i travagli, le ansie e le supreme audacie per le quali la nostra patria s’ebbe la libertà e l’indipendenza33.

Marabini – convinto di partecipare a un’iniziativa capace di consolidare «una tradizione di fraternità tra gli slavi ed il popolo italiano»34 – registrava nelle note successive lo sconcerto con cui aveva letto le risposte di molti repubblicani alle sue richieste di adesione: erano spesso uomini insospettabili di viltà, che declinavano amaramente l’invito ad una guerra fatalmente gravata – ai loro occhi – dalla matrice dinastica35. Le stesse obiezioni gli erano state espresse per iscritto da Eugenio Chiesa, il cui rifiuto – confessava Marabini – aveva «scrosciato come un tuffo d’acqua gelida sul mio capo»36. Accolto l’appello di Ricciotti, che già si trovava in Grecia37, egli si era deciso a seguirlo, non prima di realizzare per «La Luce» un articolo dedicato a Le ragioni di una partenza, ch’egli trascriveva sotto la data del 7 novembre; il pezzo era così profondamente intriso di esibite implicazioni generazionali da poter essere accostato alle memorie di Aldo Spallicci, giovane repubblicano forlivese, arruolatosi come volontario medico. [...] confessiamo che questa nostra partenza – scriveva Marabini – non è accompagnata dal sorriso dell’entusiasmo e dal bacio della fede, confessiamo che invece della stretta di mano commossa di chi rimane ci saluterà invece il ghigno beffardo di chi irriderà a noi. [...] Come scribacchini, come repubblicani siamo gli uomini più indisciplinati di questo mondo, ma come volontari della camicia rossa abbiamo il dovere di correre dove la tradizione ed il comando ci conduce. [...] Il nostro partito discute troppo, fa troppe commemorazioni di rito, inaugura soverchie bandiere; ha esso murato lapidi in tutte le piazze d’Italia, ha troppe fanfare e troppi ritratti di «uomini illustri» nelle proprie sale.

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Noi invece amiamo la vita che travolge e sospinge verso le mèta, amiamo il frastuono battagliero della parola, della penna, del fucile. [...] Ci vuole un po’ di propaganda dell’azione, un po’ di ginnastica rivoluzionaria. [...] non ci troveranno impreparati il giorno in cui tutti questi globuli rossi saranno ritornati a spargersi per le cento città d’Italia portando il ricordo dell’ora vissuta, recando il proponimento di riprendere le armi al primo squillo di tromba, dentro e fuori d’Italia! Sia dunque quella di Patrasso, magari una grande manovra, ma serva a formare i quadri del primo nucleo dell’esercito rivoluzionario. [...] Troppe volte abbiamo fatto centinaia di chilometri di ferrovia per andare a conferenziare in una sala od in una piazza dinanzi ad una folla desiderosa... di bere molti e svariati bicchieri di vino! [...] Invece di avere le mani in tasca i nostri ascoltatori avranno nel proprio pugno il fucile e nessuno di essi avrà la podagra ed ogni camicia rossa sarà una bandiera38. O sogno di tempi passati, o gloriosa assisa de’ nostri padri per cui noi tardi nipoti rimpiangemmo d’essere nati troppo tardi, potremo dunque rivederti nel sole, camicia rossa? [...] Ora all’idealità che non ha confini è ben lecito tormentarsi per la santità di cause altrui, è ben lecito sacrificarsi per la generosa bellezza di combattere per una patria che non è vostra, per un focolare che non vi riguarda dappresso. Certe ore non battono di frequente nella vita di un uomo [...]39.

Fatto scalo a Corfù il 10 novembre, Marabini si era intrattenuto con alcuni giovani che rientravano a Costantinopoli con le loro famiglie: i ragazzi avevano tentato di lusingare i garibaldini canticchiando Tripoli bel suol d’amore, ma dopo la prime strofe si voltarono sorpresi di non sentire noi a far coro. Io prendo un giovane [...] sotto il braccio e mi accingo a spiegargli essere profondamente diversa l’idealità che sospinge noi a combattere contro il turco da quella che condusse l’Italia a Tripoli. Il giovane confuso mi chiede scusa arrossendo40.

Giunto a Patrasso il 12 novembre, Marabini si era subito spostato ad Atene, dove era avvenuta l’organizzazione del Corpo. A questo punto erano ormai operanti in Macedonia due battaglioni garibaldini greci41 di circa 900 uomini complessivi, guidati dal conte Romas, reduce del ’97 ed ex presidente delle Camera ellenica. Il terzo battaglione – comandato dal maggiore Girolamo Bianchini, già capitano dell’esercito regolare e camicia rossa nel ’97 – che si stava for272

mando a metà novembre nella capitale42, avrebbe dovuto comporsi di quattro compagnie di 125 uomini ciascuna, la prima delle quali totalmente composta da italiani43. Questi volontari erano identificabili in vari gruppi regionali: in particolare i romani, i toscani e i romagnoli, tra i quali si riconosceva Luigi Tassinari, attendente di Fratti nel 1897, «che qui ha portato la rossa bandiera, che a lui, dice, han consegnato le belle fanciulle forlivesi»44. Marabini aveva letto nei ruoli i nomi di almeno altri trenta volontari italiani sparpagliati nelle varie compagnie, mentre un’altra quarantina era presente in qualità di ufficiale sia in queste ultime che nel quarto battaglione greco comandato dal colonnello inglese Brown45. I garibaldini italiani erano dunque circa 200, un numero che va messo in relazione con i severi controlli delle forze dell’ordine, pronte a salire persino sulle navi in partenza per far uscire gli arruolandi dai loro nascondigli46. In ogni caso, il 17 novembre, finalmente, si lasciava Atene, muovendo in treno verso Lárissa, la città che richiamava alla memoria la disfatta dell’esercito greco nel 1897. Rispetto all’impatto con la realtà ellenica e con la guerra, le note di Marabini non sono però così efficaci come le memorie di Aldo Spallicci: grondante di suggestioni storiche – dalla Grecia antica a Roma, dalla Serenissima al Risorgimento, alle più recenti vicende del garibaldinismo – lo sguardo di questo forlivese sapeva trasmettere meglio della penna di Marabini la drammaticità di alcuni episodi e l’inquietudine che aleggiava tra i volontari in quelle settimane. Il giovane accompagnava del resto la descrizione dell’arrivo ad Atene con un’emblematica rivendicazione identitaria: La Romagna è la meglio rappresentata, sì, ma ce ne volevano altri, e noi, a incolpare e a bestemmiare contro la vigilanza della polizia di Brindisi. [...] Oh, come avremmo voluto allora per l’orgoglio nostro avere d’accanto molti e molti dei nostri conterranei e poter dire in faccia a tutti «Vedete? Noi non siamo soltanto i fratricidi rossi e gialli, noi non ci agitiamo convulsi per il solo pane o per la scheda, noi non facciamo soltanto le coreografie ai cortei; corriamo numerosi dove si brandisce una rossa bandiera per una causa santa!». Benedetto ’97, benedetta la saldezza di quelle fedi martellate e temprate al fuoco di Domokos!47

Così come quindici anni prima, il momento del giuramento aveva rappresentato la prima occasione per verificare lo scarto fra il retroterra ideologico e culturale dei garibaldini e il contesto nel quale 273

si trovavano ad agire. Sotto la chiesa di S. Spiridione un pope era venuto incontro ai volontari col Vangelo aperto [...] per codificare divinamente il nostro atto, ma alle nostre voci di protesta se ne è andato. «Giureremo – abbiam detto al Generale – ma non vogliano il prete». «E sia – à risposto Ricciotti sorridendo – ma per servire le proprie idee si passa sopra a questo e ad altro [...]».

Ottenuto di giurare solo sulla libertà e l’indipendenza del popolo greco, tutto sembrava essere tornato al suo posto, in una rassicurante corrispondenza di ideali e di simboli, che aveva la meglio sui dubbi e le impazienze: [...] ci avviamo al piazzale dominato dai ruderi del tempio di Giove ove à luogo la rivista. Nella luce rossa del tramonto la corsa delle camicie garibaldine è stata meravigliosa e commovente. Però si minaccia di fare i soldati da parata e un vivo malcontento serpeggia fra di noi per l’inesplicabile indugio alla partenza. Si vocifera di gelosie da parte dello stato maggiore greco, si fantastica di misteriose influenze del governo italiano, e intanto il nervosismo e l’impazienza dominano tutti. Tassinari di Forlì sfodera la bandiera rossa del circolo «Antonio Fratti» di Milano e corre le vie d’Atene seguito da una ventina dei nostri, inneggiando alla repubblica, alla camicia rossa e alla rivoluzione sociale48.

Ma qualche giorno dopo, nell’attesa del treno per il fronte, il primo inequivocabile segnale di un universo inquietante, premessa di quel vortice di sconcerto – e talvolta di orrore – in cui sarebbe stata coinvolta la spedizione. Alla stazione un vecchio vuole venire con noi. Ha avuto un nipote bruciato dai turchi e un figlio in guerra di cui non à notizie da tempo, vuole seguire Garibaldi ed ha negli occhi chiari e maculati un proposito feroce di vendetta e di odio. [...] [A Lárissa] Nessuno ci accoglie. Il paese buio e deserto ci si presenta come un grande campo trincerato. I soldati si rintanano nelle caserme e gli ufficiali cercano ospitalità nelle case. Lárissa puzza di turco lontano un miglio, ce ne accorgiamo subito dal senso di ostile diffidenza con cui siamo accolti. Di qui è passato il conte Romas che combatte ora in Macedonia e due de’ suoi garibaldini sono stati sgozzati dagli abitanti di questo paese. [...] Il cielo è plumbeo e piovoso. I corvi passano a nembi crocidando, si appollaiano sulle grondaie, si gettano famelici bisticciandosi come monelli sulle carogne di cavalli insepolti abbandonati sulle piazze.

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Si respira l’atmosfera funebre della guerra. Accanto ai bianchi minareti da cui non udimmo la voce del muezzin parlare di Allah alle turbe mussulmane prosternate, passa l’antico fiume Peneo livido e gonfio. Gremiti in una lurida caserma abbiamo veduto un centinaio di prigionieri turchi sfiniti dalla fame e dagli stenti49.

Proprio a Lárissa, e proprio rispetto ai prigionieri, capitava di assistere al primo episodio raggelante: Alla stazione di Lárissa giungeva un convoglio di prigionieri di guerra condotti da un capitano greco. Dietro questi veniva un povero vecchio affamato, coi piedi piagati che implorava pietà. Per tutta risposta il capitano gli scaricò la rivoltella nella testa. Il poveretto era in ginocchio e si rovesciò senza mandare un lamento. Il misfatto fece rumore tra i nostri e Tassinari di Forlì giunto bestemmiando fra di noi dichiarò apertamente di ritornare in Italia piuttosto che combattere per una gente che assassina così barbaramente gli inermi. E ritornò, fermo nel suo proposito. Noi volemmo dimenticare facendo tesoro delle parole del vecchio Mordini: «Nelle guerre ci sono sempre i prepotenti ed i crudeli, ma se troviamo oggi un assassino perché trattare tutti da assassini?» e seguitammo50.

Fermo nella sua scelta, seppur incredulo e impietoso nel denunciare la crudeltà, Spallicci procedeva assieme agli altri, attraverso la Tessaglia, fino a Tríkala, dove l’entusiasmo e l’ospitalità della popolazione riscaldava finalmente il cuore. Ma proprio lì esplose all’interno del Corpo garibaldino il caso che avrebbe gettato un’ombra su tutta la campagna. Ioánina, il caposaldo turco verso il quale ci si avviava, e nelle cui vicinanze avrebbe avuto luogo la battaglia di Drisko, non poteva essere considerata greca oltre ogni ragionevole dubbio: erano territori caratterizzati da una forte mescolanza etnico-religiosa e venivano rivendicati anche dagli albanesi. Ai volontari si profilava poi la prospettiva di essere lanciati all’inseguimento di bande di turchi irregolari, che imperversavano nella zona. Alcuni dei suoi uomini, quattordici per la precisione, insoddisfatti delle risposte elusive di Ricciotti, gli avevano indirizzato il 24 novembre una lettera accorata. Fedeli alla «idealità garibaldina, [...] causa di luce e di libertà», essi chiedevano al comandante la «licenza di rompere le file». Orbene, Generale, sui confini della Tessaglia, i nostri cuori si spezzano. Noi non ci sentiamo di dare il nostro nome a una spedizione garibaldina, cui viene affidato per unico incarico glorioso l’aggressione di bande brigantesche senza bandiera e senza patria. Non ci sentiamo di portare le no-

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stre armi, oltre il confine greco, nella patria che la storia, la geografia, la lingua e i costumi assegnano al popolo albanese. Per la libertà della Grecia oggi e sempre; contro l’Albania degli albanesi non oggi e non mai. Lasciamo i nostri plotoni con rimpianto, ma non sapremmo rispettare noi stessi se per avventura di un patto purchessia avessimo il coraggio di spezzare ai nostri piedi la tradizione purpurea nata sullo scoglio di Quarto, santificata sul colle di Calatafimi in nome dell’audacia disperata per la libertà, solo per la libertà, niente altro che per la libertà. Accogliete la nostra decisione come un giuramento51.

Nessun principio nazionale avrebbe potuto sciogliere quel dilemma greco-albanese, venendo in soccorso ai «disertori» in modo così chiaro da rassicurarli totalmente: nella loro ingenuità – degna di ogni rispetto – essi avevano persino tentato di far pervenire un telegramma ad Arcangelo Ghisleri, appellandosi alla sua cultura storica e geografica. Tra i quattordici firmatari compariva Cipriano Facchinetti, volontario l’anno prima a favore dell’Albania, e quattro romagnoli, due dei quali – Nullo Bovelacci e Luigi Babini – erano partiti da Forlì assieme a Spallicci. Come medico che non fa questione di patrie io rimasi allora al mio posto pur dichiarandomi solidale coi dissidenti fra cui contavo i miei due amici forlivesi. La scena che si svolse alla stazione di Triccala [sic] per la partenza dei quattordici fu spiacevolissima e disgustosa. I partenti furon trattati da disertori e accompagnati al treno da una compagnia di macedoni colle baionette inastate. [...] Piovigginava. Cielo, terra, uomini e cose avevano un colore livido ed uniforme di fanghiglia. Quando il treno si mosse la commozione ci prese alla gola e singhiozzavamo tutti, partenti e restanti. Qualcosa sembrava morto in noi ed il grido lanciato alto tra i singulti «Evviva Giuseppe Garibaldi il Grande!» ci colpì in pieno colla violenza d’uno schiaffo. Allora, mentre lacrime di fuoco ci solcavano le guancie e lo strazio ci annodava la gola, ci guardammo, noi rimasti, quasi vergognosi negli occhi. Quale mala genìa di epigoni aveva tolto dal sacrario delle memorie il simbolo della libertà italiana per ricoprirlo d’infamia sui campi di Tessaglia?52

Armati di vecchi Gras ad un solo colpo e di «sciaboloni da cavalleria pesanti come barre di ferro e tanto taglienti da non essere neanche buoni per la tradizionale ricotta»53, i volontari si erano mossi a metà novembre verso il fronte con coperte insufficienti e senza cappotti. Li avevano ricevuti solo a fine mese, a Tríkala, da dove erano potuti finalmente partire verso Kalambáka, Métsovo e poi Ioáni276

na, attraverso le montagne del Pindo, superando anche i 1500 metri di altitudine. Nel frattempo il conte Romas, che aveva operato in Macedonia, si era mosso per raggiungere le formazioni di Ricciotti. I suoi due battaglioni – così come gli altri – avevano subìto perdite e diserzioni, ma ne avevano anche guadagnato in qualità, come confermerà il comportamento di questi e degli altri garibaldini nelle giornate di Drisko, tra il 10 e il 12 dicembre54. A Métsovo, le due colonne di volontari si congiunsero e Garibaldi rimase inutilmente in attesa del preannunciato sopraggiungere dell’esercito regolare. Tra le due parti ci si accordò, quindi, per riunirsi sopra Ioánina, dove i garibaldini avrebbero comunque preceduto l’armata. Non si appurò mai fino in fondo ciò che accadde, fatto sta che, per cattiva volontà o difficoltà di comunicazione, solo 300 soldati forniti di quattro mortai fornirono più tardi soccorso ai volontari appostati sopra la città. Tuttavia i sopraggiunti non si portarono mai sulla linea del fuoco e si ritirarono poi per primi. I turchi erano invece non meno di 7000, e potevano avvalersi di una buona e ricca artiglieria e in genere di armi nettamente superiori. I garibaldini avevano raggiunto le posizioni su tre colonne, guidate rispettivamente da Romas, Peppino e Ricciotti Garibaldi. I volontari greci e internazionali resistettero alla controffensiva nemica per più di 24 ore consecutive, pur nel totale squilibrio delle forze e nella penuria di munizioni. In proporzione limitata rispetto all’intera Legione garibaldina, esposti meno direttamente degli uomini di Romas al contrattacco ottomano, gli italiani non subirono perdite ed ebbero solo alcuni feriti; fra tutti i volontari, i morti furono invece più di 40055. Le memorie di Spallicci offrono descrizioni eloquenti della quotidianità dei garibaldini in marcia attraverso i monti, tratteggiando con particolare partecipazione il rischio di abbrutimento sempre in agguato e la difficile contiguità con una disorientante realtà balcanica. Il sonno è breve perché il freddo intensissimo ci assidera i piedi e ci fa correre alla fiammata. [...] Tra i monti di Tessaglia è ben dura la veglia [...]. Le ossa rotte, gli occhi brucianti per il tormento del sonno non dormito, lo stomaco digiuno, coi brividi di freddo in corpo. E si va, si va, alla cerca di un villaggio. Marciamo così un giorno intero non incontrando che torme di nomadi piangenti, non vedendo che rarissime capanne abbandonate o macerie di case abbruciate. [...] Mancano i viveri intanto e la popolazione non vuol saperne di sfa-

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mare i soldati. In un negozio ci si rifiuta tabacco e mastica chiesti coi danari alla mano e ci si chiude la porta in faccia. I volontari, affamati, si danno alla caccia dei polli e degli agnelli. La fame è cattiva consigliera. Guai a chi avesse osato togliere la preda di mano ad un macedone che ritornava con un capretto sulle spalle! C’era da farsi scannare!56

Un medico greco con cui egli interloquiva in francese e i fieri e crudeli volontari cretesi diventavano nei suoi ricordi gli emblemi di un’esperienza in cui venivano continuamente messe in crisi le idee pregresse dei limiti entro i quali avrebbe dovuto mantenersi una guerra di liberazione nazionale. Il collega di Spallicci gli aveva confidato di aver personalmente sgozzato cinque dei cinquanta prigionieri turchi catturati in una battaglia precedente; i candioti dicevano d’aver ridotto ad un decimo un convoglio di soldati ottomani a loro affidato per essere condotto ad Atene. Durante la marcia uno di questi cretesi era stato colto «da improvvisa ilarità»57 alla vista del cadavere di un turco interrato fino alla testa, sulla quale aveva preso a sputare. Era la pena del taglione nella sua inesorabile logica. E dire che questi uomini sono religiosi e cristianamente ortodossi fino al feticismo! Prima di giungere a Kavallari, rammento, varcando un ponte altissimo quasi a sesto acuto osservammo in mezzo ad un campo una rozza croce che recava infissa in alto una testa di turco. I nostri greci, passando, scaricavano il revolver su quel misero avanzo umano! Ebbene, non passava celletta recante nella nicchia un’immagine di madonna senza che la bandiera si fosse inchinata con reverenza ed ogni soldato si fosse fatto il segno della croce. Guai se i torvi macedoni avessero compreso il senso di qualche atroce bestemmia che sfuggiva bene spesso dalle labbra dei nostri volontari! Eran tali da uccidere un fratello per una bestemmia58.

Le giornate della battaglia venivano rivissute e ricostruite non con lo sguardo del combattente, bensì con quello del medico, che aveva dovuto confrontarsi con chi interpretava differentemente il proprio ruolo. Sul sagrato della chiesa, limitato da un breve muretto erano ancora i segni della battaglia. Bossoli di cartucce e cenci insanguinati. Disteso accanto al muro un prigioniero turco ferito. – «Avete curato voi quest’uomo?» – chiedo all’ispido collega. – «Sì, l’ò fasciata io quella cattiva bestia – mi ri-

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sponde fissando biecamente il prigioniero – ma se volete curarlo voi, oh! fate pure», e se ne va stringendosi nelle spalle. [...] lo accompagno entro la chiesina; ma non ò ancora varcato il presbiterio che i greci inginocchiati davanti alle immagini dei santi m’investono vociando – «No, no, indietro, indietro, la chiesa è cosa sacra e dov’è la madonna non può entrare il turco.» Ed io a protestare di rimando che non v’è cosa più sacra d’un ferito e mandare al diavolo la loro religione, la loro chiesa, i loro santi e i loro pregiudizi. Per buona ventura maledivo in italiano per cui nessuno mi comprese, ma mi ridussi però a lasciare il mio uomo in un angolo del piccolo pronao59.

Le memorie di Spallicci dedicavano delle pagine intense anche all’epilogo, al bilancio della campagna. Da un lato la diffidenza dei regolari greci, dall’altro l’amara previsione di ciò che avrebbe atteso in patria i volontari, partiti «senza marca di fabbrica di nessuna chiesa e di nessun partito»60. Al suo ritorno, lo consolava e lo inorgogliva, del resto, sfogliare le vecchie collezioni dei giornali del 1860 e verificare il riproporsi dello stesso linguaggio riservato cinquant’anni prima ai Mille dalla «ferrea logica dei ben pensanti che restarono a casa»61. I partiti dell’ordine oggi sono... all’ordine di Francesco Giuseppe nella diplomazia sentimentale, colla formula austriaca «l’Albania agli Albanesi». E ben venga e sia benedetta la patria concessa agli Albanesi ma, riverite eccellenze, sia così pure delle isole greche alla Grecia, della Polonia ai Polacchi, della Libia ai Libici, di tutta l’Italia agli Italiani. L’idea non muore per vanità di parole. Giuseppe Garibaldi, il Grande, dette primo l’esempio del garibaldinismo errante correndo a Dijon; Ricciotti ha raccolto il filo della tradizione e scrive accanto a Digione, i nomi di Domokos e di Drysco62.

La sua Romagna, poi, gli faceva quasi da nido, isola e prefigurazione di un’«altra» Italia, in cui il linguaggio politico che aveva voluto rinverdire era ancora compreso ed attuale. La guerra Libica aveva allora posto l’Italia alla stregua delle grandi nazioni liberticide, aveva affogato le idealità nel salvadanaio e nel portafoglio; la spedizione garibaldina, in favore della Grecia combattente per la integrità della patria, ha voluto dimostrare al mondo che il popolo italiano è ancora figlio del suo Risorgimento, che nessuna guerra comprende né combatte che non sia combattuta per l’indipendenza e per la libertà. Io mi sento così dappresso a questa mia vecchia Romagna troppe volte tacciata di degenere nelle sue nobili follie di ribelle minoranza. Questa Ro-

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magna che fu percorsa dal brivido della rivolta all’annunzio della guerra italo-turca è quella stessa, profondamente antidinastica e garibaldina, che per le vie di Forlì dileggiò e schernì i piumati bersaglieri, reduci d’Aspromonte63.

Politico ed esistenziale il congedo dal lettore di Spallicci; lo era altrettanto quello di Marabini, ma più violento, rancoroso ed amaro: [...] Saremo compatiti, misconosciuti, dileggiati. Dovremo domandarci se commettemmo una colpa od avemmo il sorriso di una sublime utopia. [...] Povera camicia rossa! Ti copriremo ben bene, con il cappotto, perché non ti vedano. Poi, corsi a casa, troveremo per te un cantuccio in fondo ad ogni nostro cassettone, e te cercheremo, nelle ore dello sconforto [...]. Ora indosseremo gli abiti alla moda, i colletti duri, c’impomateremo i capelli, ci guarderemo allo specchio; vivremo delle piccole cose, dei piccini rancori, delle mille miserie della vita. Il sogno è finito, sfumato. [...] A Brindisi ci attenderanno i poliziotti, i doganieri. Questi ci frugheranno nelle valigie, quelli nel cervello. [...] Oh! il nostro irraggiungibile sogno ribelle! Oh! la nostra chimera garibaldina!64

Fuori tempo e fuori luogo rispetto alla guerra contro la Turchia e alle direzioni generali della politica estera di Roma, la spedizione greca del 1912 fu osservata dall’Italia con scetticismo, sufficienza e disagio: quasi assente dalle pagine dei grandi giornali, lasciò traccia nella corrispondenza intercorsa tra il Ministero degli Esteri e quello dell’Interno, e tra gli organi di pubblica sicurezza, intenti questi ultimi a sorvegliare partenze e ritorni, preoccupati i primi delle intemperanze e della condotta di truppe improvvisate65. Irrilevante per le sorti della guerra balcanica, pur nell’alto profilo delle sue prove militari, il volontariato del 1912 – realmente privo di sponsor politici e di organici riferimenti ideologici – fu l’espressione di un’epoca e di un significativo segmento generazionale. Esso contribuì inoltre a rivelare come tra Otto e Novecento il filellenismo, quasi al pari della francofilia e al di là degli orientamenti della diplomazia più o meno ufficiale, si consolidasse definitivamente quale punto fermo ed elemento distintivo del garibaldinismo. 2. «La rossa avanguardia dell’Argonna» Sul battello a vapore, gremito da una folla cosmopolita, l’allegria è generale. I canti popolari e le canzonette più in voga si alternano in tutte le lingue

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della Federazione con le note gutturali e solenni dell’Inno di Guglielmo Tell, che una comitiva intona ad intervalli. Le ombre della sera già avvolgono il panorama incantevole di Lugano in una leggera caligine, quando una lanterna rossa, risplendente e sinistra come l’occhio di un ciclope, appare sul campanile del Municipio. Abbiamo appena il tempo di rivolgere gli occhi sul quel lume insolito, che una voce erompe dalla folla: [...] La mobilitazione generale! È scoppiata la guerra!66

Quest’istantanea di un’allegra brigata di profughi politici venne fissata, più di vent’anni dopo, da uno di quegli esuli, l’avvocato umbro Ugo Cappuccino. Nell’estate del 1914 Lugano ospitava, infatti, una particolare colonia italiana, che faceva capo all’«Albergo Bolognese»: si trattava degli uomini sfuggiti agli arresti successivi ai fatti della «settimana rossa», che in alcune zone dell’Italia centro-settentrionale avevano rivelato inaspettate basi di convergenza d’azione tra i settori più estremi dell’opposizione antigovernativa67. I recenti episodi insurrezionali avevano ridato forza, all’interno dell’emigrazione politica – connotata negli ultimi decenni in senso prevalentemente internazionalista – alla componente repubblicana, che nella fase risorgimentale aveva inaugurato e dominato questa specifica presenza italiana nelle città elvetiche. Nei suoi ricordi, Cappuccino, letteralmente, metteva in scena: tutto nella narrazione contribuiva a trasmettere l’idea dell’improvviso irrompere di un evento traumatico e rivelatore, capace di minare fatalmente i fragili ed ingannevoli equilibri dello status quo. Premessa di scelte e movimenti materiali e mentali, la guerra faceva di fatto irruzione in un territorio da vari punti di vista neutrale, una sorta di isola che aveva reso possibile la tregua politica tra le varie anime del sovversivismo italiano. [...] quella sera la nostra cena fu più triste del solito e meno cordiale. Le facce erano pensose e torve, profonde rughe solcavano le fronti, mentre gli occhi si rivolgevano sguardi interrogativi e fugaci lampeggiavano luci insolite. Solo alla fine ci scambiammo poche parole, diventate subito concitate, che dovevano costituire le prime battute polemiche di quel grande avvenimento quale fu la guerra d’Europa68.

Il repubblicano del 1914 riviveva nella rappresentazione di chi, vent’anni dopo, rileggeva il proprio passato alla luce di una palese identificazione con l’Italia fascista: i ricordi tradivano l’intento di individuare finalisticamente, all’interno della Sinistra antigiolittiana, 281

quei rami «nobili» che avrebbero costituito le ascendenze culturali e politiche del regime. La sua ricostruzione, tuttavia, non risultava ingannevole rispetto alle subitanee fratture che il conflitto europeo aveva determinato all’interno dei gruppi programmaticamente estranei alle istituzioni. D’altronde l’eredità della «settimana rossa» – come congiuntura rivoluzionaria – si esaurì di fatto tra le forze dell’opposizione radicale molto prima di quanto non sospettassero il governo e i suoi rappresentanti periferici. Prima ancora della campagna interventista vera e propria, i contrasti e le discussioni interne alla Sinistra antigiolittiana si accesero attorno alla prospettiva di una decisa presa di posizione a sostegno della Francia. Anche dopo la dichiarazione di neutralità dell’Italia, l’azione dei repubblicani sembrò a lungo condizionata – più che dalla volontà di capovolgere le alleanze – dalla priorità di scongiurare l’ipotesi di un intervento a fianco degli Imperi centrali, nella convinzione che l’Italia dei Savoia non sarebbe mai stata capace di schierarsi risolutamente «dalla parte giusta». Sulla sonora smentita di questo sbandierato punto fermo sarebbe naufragato il miraggio di una guerra politicamente estranea al retroterra storico della monarchia e ai presupposti ideali del nazionalismo. Mettendo in luce precocemente l’impossibilità di riproporre, dinanzi alle urgenze della politica estera, il fronte della «settimana rossa», il fenomeno del volontariato garibaldino in Francia69 continuerà poi per mesi ad intrecciarsi con le vicende delle forze che si volevano socialmente e politicamente irriducibili al sistema monarchico e liberal-moderato. Tutto ciò che ruotò attorno ai volontari delle Argonne accompagnò da vicino il passaggio dall’appello rivoluzionario alle forze sovversive per un’azione autonoma, ad una campagna per l’intervento che si risolse invece nella pressione sulla classe dirigente alla guida del Paese. Sospeso tra la legittimazione dell’interventismo democratico e di quello rivoluzionario, questo ennesimo episodio della tradizione «in camicia rossa»70 rispecchiò in pieno l’ibridismo di linguaggi delle due tendenze, e il dibattito pubblico di cui fu oggetto rivelò elementi di contaminazione con una sensibilità nazionalista a sua volta fluida e mimetica. La mobilitazione a favore della Francia si attivò almeno a partire da agosto, in Italia così come oltralpe, attraverso le iniziative parallele dei repubblicani e dei figli di Ricciotti Garibaldi, i cui movimenti conobbero sovrapposizioni, frizioni e momenti di confluenza. Al282

l’inizio del mese si segnalava, per esempio, a Parigi l’attività del futuro antifascista Luigi Campolonghi – corrispondente del «Secolo» –, che organizzava riunioni e comizi per riscuotere adesioni ai progetti d’arruolamento71. Entro la fine di agosto sarebbero arrivati dall’America nella capitale transalpina prima Ricciotti jr. e poi Bruno e Peppino Garibaldi72. Iniziava da quel momento, da parte dei nipoti del Generale, una serie di consultazioni e contatti più o meno formali, a livello istituzionale ed extraistituzionale, per giungere a forme di collaborazione e compromesso che consentissero l’organizzazione di un Corpo volontario capace di fare simbolicamente da ponte tra Francia e Italia. Nelle stesse settimane si erano messi in moto anche i repubblicani italiani, dentro e fuori dai confini nazionali: la parola d’ordine divenne «O sui campi di Borgogna per la sorella latina o a Trento e Trieste»73. Una particolare animazione si segnalava in Romagna e nelle Marche, zone rispetto a cui, peraltro, si manifestava una sorta di ipersensibilità delle autorità, indotta anche dalle esplosioni insurrezionali di giugno. In effetti in quei mesi si tendeva ad interpretare ogni movimento dei partiti estremi come il tentativo di replicare, in forme ancor più clamorose e prolungate, gli episodi della «settimana rossa», il cui ricordo pesava come un incubo e una promessa74. Come si è visto, dalla campagna di Libia in avanti il movimento repubblicano aveva avviato un rinnovamento e una chiarificazione interna, che ne accentuarono la connotazione di forza antisistema. Ciò propiziò indubbiamente una certa intransigenza nel recupero delle radici storiche, ma anche l’adozione di linguaggi ed atteggiamenti – caratterizzati dalla centralità dell’idea della rivoluzione – che si andavano diffondendo in altre aree della Sinistra. Questa temperie comune, trasversale rispetto ai veri e propri programmi politici, avrebbe avuto un peso non trascurabile nello sviluppo e nell’affermazione di un certo interventismo. Tra la primavera e l’autunno del 1914 i repubblicani italiani coltivarono un sogno di protagonismo storico che presto sarebbe tramontato, senza che gli stessi se ne rendessero forse ben conto. Ad alimentare quest’ambizione avevano contribuito avvenimenti piuttosto imprevisti: innanzitutto i fatti di giugno – in cui l’iniziativa della base aveva preso in contropiede gli stessi dirigenti locali e nazionali –, poi lo scoppio della guerra, che sembrava imporre agli eredi di Mazzini e della democrazia risorgimentale il recupero del proprio ruolo di guida ed avanguardia. Le manifestazioni insurrezionali del283

la «settimana rossa» erano risultate del resto particolarmente radicali e violente laddove la più recente politicizzazione di matrice socialista e sindacalista si era saldata alle permanenze di un substrato repubblicano e risorgimentale di spiriti antimonarchici e anticlericali. Ben lo testimoniavano gli obiettivi delle distruzioni e degli incendi e la simbologia del dissenso, che univa l’Inno dei lavoratori alla Marsigliese, le bandiere rosse agli «alberi della libertà»75. Di un’idea di repubblica dalle forti connotazioni sociali gli uomini del PRI e i mazziniani rivendicavano ovviamente la primogenitura. L’esplodere del conflitto europeo poneva inoltre all’ordine del giorno l’antitriplicismo, che in quegli anni si stava tentando di aggiornare e ridefinire, accostando alle motivazioni irredentiste una polemica più vasta e sostanziale rispetto al modello politico di cui gli Imperi centrali erano ritenuti portatori. A molti repubblicani quella della guerra poté dunque apparire la svolta decisiva per acquisire stabilmente la leadership di un movimento antimonarchico che si ricollegasse anche alle proprie tradizioni. Tra Ravenna e Forlì si muovevano alcuni personaggi che di questi spiriti erano simboli e incarnazioni, come il veterano del garibaldinismo Chiarissimo Maldini, già volontario in Grecia, che, dopo aver subìto controlli e fermi da parte delle forze di polizia italiane76, non riuscirà a farsi arruolare da Peppino in Francia solo per motivi anagrafici. Assieme al tratto costiero tra il Po e Ancona77, anche Roma era un epicentro di quei movimenti, in un contesto in cui anche alcuni settori anarchici, coinvolti in precedenza nel volontariato a sostegno della causa ellenica e pienamente partecipi dell’opposizione antitriplicista, erano già passati assieme ai repubblicani alle vie di fatto. In effetti, un piccolo gruppo di sette uomini era partito verso la Serbia78. Ne faceva parte anche Cesare Colizza, leader del Circolo anarchico di Marino, volontario in Grecia due anni prima, morto il 20 agosto a Babina Glava in uno scontro tra l’esercito di Belgrado e le truppe austriache79. Un altro repubblicano reduce del ’12, Camillo Marabini, era in contatto nella capitale con i vertici della mobilitazione, che facevano in parte capo al vecchio Ricciotti, in relazione più o meno diretta con il governo francese. L’ex direttore della «Luce» sarebbe partito all’inizio di agosto per Parigi, dove poco più tardi affluirono anche rappresentanze ufficiali del PRI, tra cui Eugenio Chiesa. Uno dei primi risultati concreti di queste complesse trame risali284

va al 23 agosto, quando Peppino Garibaldi aveva indirizzato dalla Francia una lettera al Partito repubblicano, compiacendosi della presa di posizione a favore degli arruolamenti e dichiarandosi disponibile ad un’azione comune, mirata ad ottenere dal governo transalpino «la facilitazione dei nostri piani»80. L’allusione era proprio al progetto di organizzare un Corpo volontario composto di italiani con il quale combattere sulle coste balcaniche contro gli Imperi centrali. La prospettiva non poteva che corrispondere alle attese repubblicane, conciliando francofilia, antitriplicismo ed autonomia d’azione dalla monarchia. Nei primi giorni di settembre gli accordi tra i fratelli Garibaldi e il governo francese si precisarono in una soluzione di compromesso, che poteva lasciare l’amaro in bocca, ma che rappresentava quanto di meglio potessero realisticamente concedere le istituzioni transalpine, molto più preoccupate di non porre in imbarazzo l’Italia ufficiale e di accompagnarne con discrezione il lento ed esitante distacco dalla Triplice. Si era ottenuta l’autorizzazione per la nascita di un Corpo formato da quattro battaglioni, di cui si approntavano i depositi a Montélimar e nei dintorni di Nîmes. I quadri della formazione sarebbero stati costituiti da ufficiali francesi e italiani e, rispetto a questi ultimi, Peppino avrebbe dovuto sottoporre le sue proposte al Ministero della Guerra. Non veniva inoltre autorizzato l’uso della camicia rossa81, ufficialmente perché troppo vistosa, mentre si prevedeva l’eventualità di un distintivo speciale da portare sull’uniforme francese. Alcune clausole particolari erano giustificate dai tempi e dai modi in cui, fino a quel momento, si era gestito l’afflusso di volontari, già in parte inseriti – si trattasse di uomini provenienti dalla penisola o di italiani residenti in Francia – nei ranghi della Legione straniera propriamente detta. La bozza di accordo prevedeva infatti che a partire dalla nascita del Corpo garibaldino – soggetto separato a sua volta inserito nella Legione straniera – gli italiani presenti nei depositi dei vari battaglioni non fossero più messi in ordine di marcia, ma trasferiti a Montélimar e Nîmes82. In effetti durante l’estate, nell’assenza di collocazioni alternative create ad hoc, i volontari italiani avevano preso la via che tradizionalmente la Francia riservava agli stranieri83, come forse le gerarchie dell’esercito e i gruppi più conservatori avrebbero gradito che continuasse ad accadere anche in seguito. Mentre Eugenio Chiesa si incaricava di sottoporre al suo Partito 285

le ipotesi di ingaggio, gli spazi di manovra e le perplessità dei repubblicani erano determinati dalla persistente e non casuale vaghezza rispetto alla destinazione e al luogo d’impiego; una vaghezza che lasciava ancora strategicamente aperta la prospettiva di una destinazione sulle coste adriatiche dell’Impero asburgico. Il 21 settembre si svolgeva al Circolo repubblicano di Forlì una riunione segreta, presieduta da Gaudenzi, Pirolini e Comandini: si concludeva che, nell’impossibilità di realizzare dalla Romagna una partenza di massa verso l’Istria e la Dalmazia, sarebbe stato più saggio consigliare ai giovani di portarsi alla spicciolata oltre il confine francese, nella speranza di realizzare con più agio il progetto in collaborazione con Parigi84. In quella fase furono le proteste avanzate dagli alleati della Triplice, dalla Germania in particolare, a sollecitare una chiara presa di posizione del governo italiano nei confronti della mobilitazione a sostegno della Francia85. Sulla «Gazzetta Ufficiale» del 28 settembre veniva allora pubblicata una netta dissociazione del Ministero dagli arruolamenti in corso, ricordando che i responsabili di tali iniziative, con l’esporre lo Stato ad un pericolo di guerra, erano di fatto perseguibili penalmente e, prendendo servizio militare presso una potenza estera, potevano essere privati del diritto di cittadinanza. Le iniziative a favore della Francia avevano dunque creato imbarazzi all’Italia ufficiale nei suoi rapporti con gli Imperi centrali; d’altronde la ribadita disapprovazione di Roma confermava agli occhi dei più accesi fautori di un’azione autonoma la persistente fedeltà del governo del re alla Triplice. Del resto si stavano progressivamente intensificando i controlli, soprattutto alla frontiera ligure e piemontese e sulle coste toscane, ma anche a Bologna, il cui nodo ferroviario era il primo punto di approdo per i partenti delle zone limitrofe86. Nel frattempo continuavano a giungere al Ministero dell’Interno notizie di singoli o di gruppi allontanatisi dai luoghi di residenza con l’intento manifesto di raggiungere la Francia. Il fenomeno era particolarmente rilevante nell’Italia centro-settentrionale e in alcuni casi la fisionomia degli aspiranti volontari emergeva in modo più netto. Nel dicembre, la Corte d’Appello di Ancona proscioglieva due arruolatori e 40 arruolati che, nel settembre precedente, erano stati fermati al confine: i primi avevano rispettivamente 34 e 26 anni ed esercitavano la professione di calzolaio a Jesi. Tutti compresi tra i 16 e i 28 anni, gli arruolati risiedevano soprattutto nel capoluogo, a Fabriano, Jesi e Se286

nigallia. Tre di loro erano calzolai, e altrettanti fabbri, a cui si aggiungevano un operaio, un cartaio, un fattorino, un colono, un giornaliero, un muratore, un fiaccheraio, un impiegato, un commesso viaggiatore e sette studenti87. La prefettura di Roma in estate seguiva con particolare attenzione i movimenti di Ricciotti Garibaldi, Camillo Marabini, Mario Ravasini e l’anarchico Attilio Paolinelli, che già pochi anni prima si erano trovati a collaborare nelle iniziative a favore dell’Albania e della Grecia. In provincia si distingueva per un particolare attivismo la zona dei Colli Albani, da cui i giovani erano partiti a decine88. Il porto toscano di Piombino era invece in posizione strategica per raggiungere la Corsica e di lì Marsiglia. Era stato quello il percorso seguito, tra gli altri, da un gruppo di nove volontari di Massa Marittima, che nei primi giorni di ottobre erano partiti verso la Francia: tre minatori, tre operai, un falegname, un sarto ed un impiegato89. Ovviamente le autorità di Porto Maurizio erano le più impegnate a gestire i tentativi di espatrio, e a fine ottobre il prefetto comunicava al Ministero di essere riuscito a fermare fino ad allora lo sconfinamento di 120 persone90. Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno non erano molti in Italia i soggetti desiderosi di dichiarare pubblicamente la propria simpatia per i volontari affluiti in Francia. Le prefetture erano legittimate dalle direttive ministeriali a leggere partenze e tentativi di arruolamento in chiave di indistinto sovversivismo. I rappresentanti all’estero – l’ambasciatore Tittoni e i consoli – guardavano con imbarazzo e fastidio alle iniziative che coinvolgevano i loro connazionali, tradendo un pregiudizio politico e sociale. A detta del console di Nizza, la maggior parte dei volontari in transito verso Montélimar aveva per esempio dichiarato alla popolazione accorsa alla stazione di appartenere al partito repubblicano ed alcuni al partito radicale. Qualcuno, conversando con francesi, ha detto che essi vengono ad arruolarsi in Francia, malgrado la probabilità di un intervento armato dell’Italia in favore degli alleati franco-russi, poiché essi non vogliono combattere sotto le insegne della monarchia91.

Qualche giorno dopo giungevano altre notizie, con cui in parte si aggiustava il tiro rispetto alla fisionomia e alla qualità umana dei volontari, accentuando però la disapprovazione verso il fenomeno in sé. I giovani continuavano 287

sempre più numerosi ad arrivare a Nizza eludendo la vigilanza [...]. Non si tratta più, come nei primi tempi, di gente appartenente alla mala vita, ma di giovani dall’aspetto civile, per quanto esaltati e turbolenti. Fa grandissima pena il vedere questa nostra balda gioventù, i cui sentimenti indubbiamente generosi furono lusingati da promesse di avventure gloriose, avviarsi a Montélimar, per essere arruolata nella legione straniera, che è il rifugio dei peggiori soggetti del mondo intero. [...] La «legione garibaldina» e la «compagnia Nizza» si dimostrano menzogne per adescare giovani ignari delle male arti dei nostri onorevoli demagoghi. E non bastando più l’incentivo della camicia rossa, sfatata dopo la ridicola impresa per soccorrere i greci nella guerra balcanica, si è fatto correre la voce di una spedizione italiana in Adriatico sotto la protezione di navi francesi, per la redenzione di Trieste, che dovrebbe essere il segnale di rivolta e della proclamazione della repubblica in Italia92.

I giudizi impietosi dei rappresentanti italiani in Francia erano riecheggiati da ciò che, entro i confini, pensava e scriveva la Destra nazionalista. Ecco come «L’Idea Nazionale» commentava – ridicolizzandolo – l’esordio della mobilitazione a favore della «sorella latina», a cui per primo il vecchio Ricciotti aveva offerto di nuovo la sua opera. Per trent’anni la spada di Ricciotti ha minacciato l’Austria. Di tanto in tanto l’orizzonte politico rosseggiava di camicie garibaldine, e il comitato d’azione pro Italia irredenta emetteva buoni da una lira. Ricciotti invitava la gioventù italiana a tenersi pronta, e snudava la spada. [...] Le autorità austriache se ne impressionavano veramente. [...] Ma Ricciotti non veniva. Qualche irredento finiva in galera per alto tradimento, e Ricciotti se ne stava a casa. [...] Oggi – se gli italiani non sono impazziti – qualche cosa nell’Adriatico si sta per fare. Però anche la Serbia e la Francia si battono. Ricciotti ha pensato alla sua spada. [...] Ma come si può combattere per l’Italia, quando la Francia e la Serbia si battono? Dove andrebbe a finire l’altruismo nazionale, gloriosa tradizione... ecc.? Poi il figlio di Garibaldi non può mica limitarsi a combattere per quell’angusta cosa che è la Patria. Ricciotti combatte per l’Idea. E per qualunque buon democratico qualunque Idea è rappresentata da tutti fuorché dall’Italia. [...] Fin qui la commedia... Ma ora la cosa comincia a diventar triste. Il Governo francese ha creduto di non aver affatto bisogno della spada di Ricciotti, e l’ha invitato a combattere altrove, in Serbia, magari perfino in Italia. [...] Ricciotti ha offerto la spada. Hervé lo ha preso per l’orecchio e glielo ha tirato, rimandandolo da Digione a Trieste per la quale Ricciotti spasimava in tempo di pace. Purtroppo, con lui la tirata d’orecchi di Gustavo Hervé l’ha pigliata an-

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che l’Italia, perché è l’unico paese del mondo che pratica la esportazione delle camicie rosse quando la guerra impedisce l’esportazione dei pomodori. Ma l’abbiamo meritata! A un paese che considera Mussolini un uomo e Ricciotti un patriota, può capitare di farsi invitare alla guerra da Gustavo Hervé!93

Più di un mese dopo, l’attacco della testata romana – attraverso la penna di Francesco Coppola – era rivolto a tutte quelle forme di interventismo che anche solo vagamente potessero essere avvicinate allo spirito «democratico» e che coltivassero l’idea di un’adesione condizionata all’imperativo nazionale. Si dice in Italia: la guerra che si combatte oggi in Europa è la guerra dello spirito democratico contro lo spirito di autorità, del principio di nazionalità contro l’imperialismo, della civiltà a tipo umanitario e pacifista contro la civiltà a tipo militare, è l’ultima delle guerre, la guerra suprema perché non vi abbiano poi ad essere più guerre nel mondo, almeno fra le così dette nazioni civili. [...] Ora, tutto questo è infinitamente puerile. [...] Affrancarsi dalla democrazia, [...] è respingere da sé totalmente questa moralità, rifiutare questo piano spirituale, questa forma mentis democratica, è porre al sommo della scala non un’ideologia o un partito ma la nazione, cui ogni ideologia ed ogni interesse di partito deve incondizionatamente subordinarsi. In questo senso coloro che per amore settario non vogliono battersi contro la repubblica radico-socialista di Francia e coloro che per odio settario non vogliono battersi per la repubblica radico-socialista di Francia sono egualmente «democratici»: gli uni e gli altri subordinano al loro amore o al loro odio l’Italia; negli uni e negli altri il patriottismo è mera coincidenza casuale. Per noi non esiste odio né amore, né ammirazione né rispetto, da preferire all’Italia. [...] La guerra che si combatte oggi in Europa e nel mondo non è guerra della democrazia pacifista contro l’imperialismo militare, è guerra di popoli e di razze per l’esistenza, per la ricchezza, per il dominio e per il predominio; è guerra di nazioni, anzi è la guerra delle nazioni, la guerra nazionale per eccellenza: guerra nazionale ed imperiale. [...] una grande guerra vittoriosa è sempre per se stessa esaltatrice di tutti i valori nazionali, dei valori cioè antitetici a quelli della democrazia, che sono per definizione internazionalisti94.

Si trattava di un’ottica che Coppola declinava in tutta la sua aggressiva lucidità, ma la cui sostanza permeava circuiti comunicativi che andavano oltre le discussioni degli intellettuali. Altrove, tra i na289

zionalisti «anonimi», essa si traduceva più grossolanamente nello scandalo di fronte ai giovani italiani che rischiavano la vita per un altro Paese e alle autorità incapaci di garantire l’ordine rispetto alle iniziative individuali95. Mentre in Italia la Destra più aggressiva ragionava in questo modo, oltre confine si era messo in moto il cortocircuito tra sovversivismo e garibaldinismo. Nel settembre del ’14 Ugo Cappuccino, il profugo della «settimana rossa», riceveva dal repubblicano marchigiano Oddo Marinelli – esule a Chiasso e già protagonista nel 1911 della mobilitazione filoalbanese – una lettera in cui quest’ultimo gli annunciava il proprio imminente passaggio a Lugano in direzione della Francia. «La libertà dei popoli, mi scriveva Marinelli, si difende oramai sulle rive della Marna»96. Assieme ad una ventina di emigrati politici Cappuccino rispondeva all’appello e partiva dalla Svizzera verso il deposito garibaldino. Da metà ottobre sarebbero affluiti a Montélimar anche alcuni dei volontari che erano rimasti fino ad allora a Nizza: lì si era concentrata la mobilitazione più dichiaratamente connotata in senso repubblicano, che subordinava la propria presenza in Francia alla prospettiva di un imminente utilizzo sulle coste adriatiche. A questi gruppi apparteneva Giuseppe Chiostergi, la cui corrispondenza indirizzata quasi giornalmente alla futura moglie Elena Fussi ci ha restituito una sorta di diario politico e militare. Così le scriveva tra agosto e settembre da Senigallia, poche settimane prima della partenza per la Francia: Tu senti non meno di me l’odio contro l’imperialismo tedesco, la simpatia per chi si difende dalle sue aggressioni, per la Francia in special modo. Quindi bisogna essere conseguenti a se stessi e l’«armiamoci e partite» non può mai essere la nostra divisa, lo sai bene. Per l’Italia io auguro di tutto cuore che si tenga fuori del travolgente turbine della guerra, ma se gli Imperi centrali dovessero affermare la loro egemonia, non sarebbe un delitto restare inoperosi e non riconoscere il nostro dovere verso l’umana democrazia? [...] T’ho già detto che, per l’Italia, io sono partigiano della neutralità o della rivoluzione se la monarchia vuol tenere fede ai suoi trattati97.

Nel settembre del ’14 Nizza e Montélimar erano ancora due territori «aperti», tra i quali intercorrevano scambi e contatti di uomini e di progetti, nell’assenza di una definitiva formalizzazione degli accordi tra Peppino e il governo francese e di un preliminare asse290

stamento dei ranghi. I repubblicani spingevano per concretizzare l’idea originaria di una spedizione verso i Balcani, dimostrando talvolta la propria insofferenza per il ruolo di intermediari privilegiati che i fratelli Garibaldi si erano assunti nei confronti delle istituzioni transalpine. A Nizza del resto continuavano ad affluire nuove forze – tra cui Luigi Ghisleri98, il figlio di Arcangelo –, ma l’impazienza aumentava. Lo stesso Chiostergi non mancava di manifestare, nella sua scrittura privata, una delusione e un’insofferenza crescenti. Alla lettera del 12 ottobre egli affidava alcune delle riflessioni più significative e più scopertamente rivelatrici del conflitto politico ed esistenziale che stava vivendo, nonché delle contraddizioni che ogni scelta – quella di restare in ogni caso, così come quella di ripartire – implicava dal punto di vista della fedeltà ai propri ideali e della nobiltà dell’azione. Tu mi chiedi quale differenza esiste fra la nostra Compagnia, non ancora ingaggiata, e il primo Reggimento straniero che ha Peppino Garibaldi: la differenza è di indole morale e politica, noi rappresentiamo un Partito, cioè un’Idea; gli altri non sono legati che dalla volontà di battersi contro i tedeschi. Noi non siamo ancora arruolati regolarmente proprio perché pretendiamo il riconoscimento della collettività nostra, delle nostre caratteristiche [...]. Come vedi, siamo proprio alla fine del primo periodo, il periodo diplomatico. Dopo, dovrebbe iniziarsi il periodo militare. Ho detto dovrebbe, perché fra i nostri è forte la corrente di negare alla Francia ogni aiuto, dato che manca ai patti. Io sono d’opinione che si debba andare a battersi ad ogni costo. Di fronte al Paese, noi abbiamo l’impegno assunto col manifesto nostro. Il non andare «sui campi di Borgogna» perché è esclusa la possibilità di agire nell’Adriatico mi pare tutt’altro che onorevole99.

In effetti, di fronte alle sollecitazioni sempre più stringenti del PRI, il governo francese non aveva ceduto, e non si era ottenuto il suo impegno formale ad utilizzare i volontari sulle coste adriatiche. Era del resto comprensibile che i Ministeri d’oltralpe ragionassero nell’ottica predominante dei rapporti tra Stati e degli equilibri diplomatici, sforzandosi innanzitutto di non irritare l’Italia ufficiale, che per prima avrebbe mal sopportato un’iniziativa in Dalmazia. Al di qua e al di là delle Alpi dilagavano i dubbi nei settori repubblicani100. Dopo che il Partito – di fronte alla caduta delle speranze proiettate verso est – aveva declinato ogni responsabilità politica rispetto agli arruolamenti, pur lasciando libertà di azione ai sin291

goli, a Nizza la risoluzione definitiva fu presa il 14 ottobre: la Compagnia «Mazzini» era sciolta101. La notte successiva Chiostergi scriveva alla fidanzata: Non passeranno molte ore e noi partiremo da Nizza diretti a Montélimar. Quando riceverai questa lettera, io sarò già un soldato francese. [...] Io comprendevo e condividevo il desiderio di compiere un’azione puramente nazionale, ma ora [...] allo scopo nazionale, alquanto egoistico se vogliamo, viene naturalmente a sostituirsi il dovere internazionale. Io non ho esitato e la mia decisione è stata ben presto presa [...]. [...] Io credo fermamente che è utile al mio Partito e all’Italia l’affermazione del nostro internazionalismo, della nostra devozione alla Francia che rappresenta l’idea superiore di umanità, di civiltà102.

Dei più di 200 della «Mazzini», solo una quarantina di uomini si diresse ai depositi garibaldini. Sono in compagnia buona – scriveva Chiostergi il 16 ottobre – e sono lieto, in quanto è iniziata l’azione seria e sono finite le chiacchiere, le eterne terribili chiacchiere che rovinano un’iniziativa che merita tutto l’entusiasmo giovanile dei sovversivi d’Italia, che hanno sempre combattuto contro la Triplice Alleanza a favore della fraternità con la Francia103.

L’impatto con il campo di Montélimar era stato positivo; ora si trattava di mettersi agli ordini di Peppino, verso cui il repubblicano – come molti altri – non nutriva a priori grande simpatia. «Questi Garibaldi – aveva scritto il 29 settembre – hanno costituito una vera e propria dinastia; purtroppo dovremo subirla»104. La descrizione in chiaroscuro dell’incontro con il comandante105 era del resto emblematica di ciò che era stato e continuava ad essere, per alcuni gruppi, il garibaldinismo dopo Giuseppe Garibaldi, come era accaduto, per esempio, in Grecia già nel 1897, quando «la causa» e la «camicia rossa» avevano spesso prevalso sulle riserve politiche e personali. Quel mese di ottobre aveva visto anche il progressivo accrescersi dell’esposizione mediatica del volontariato in Francia, senza che le principali testate di respiro nazionale, con l’eccezione del democratico-radicale «Il Secolo», lasciassero trasparire la propria adesione incondizionata nei confronti del fenomeno nel suo insieme. Quello fornito dal «Corriere della Sera» per il campo di Montélimar era, per esempio, un quadro di maniera, da cui si tendeva ad espellere la politica, indugiando piuttosto sui ritratti dei singoli. La 292

prima descrizione articolata risaliva all’11 ottobre, quando il corrispondente si premurava anche di sottolineare la differenza tra la Legione straniera tout court, dove l’ingaggio era di cinque anni, e la formazione garibaldina, in cui ci si arruolava per la durata della guerra, con la possibilità di svincolarsi nel caso di uno schieramento dell’Italia a favore dell’Intesa. Distinti i connazionali residenti più o meno stabilmente in Francia e gli uomini partiti dalla penisola, si scendeva poi nel dettaglio e si segnalavano numerosi volontari «provenienti dalla Svizzera dove eransi rifugiati in seguito ai fatti di giugno ad Ancona e nelle Romagne», citando «Lamberto Duranti, l’avv. Cappuccino di Foligno, Renato Gigli di Ancona» e una «quindicina di triestini, alcuni dei quali erano ufficiali dell’esercito asburgico». Tra Nizza e Montélimar gravitavano anche personaggi come Chiesa, Pirolini, Libero Tancredi, Corridoni e Amilcare De Ambris106. I nomi appena citati, nella varietà della provenienza partitica e dei profili individuali, ben si prestano a rivelare come, in realtà, la dialettica e talvolta lo scontro politico irrompessero in un universo dove gli atteggiamenti e la retorica rivoluzionaria intrecciavano e riplasmavano una congerie di appartenenze. Anche la matrice anarchica vi era rappresentata, come segnalava, tra gli altri, la figura atipica di Massimo Rocca alias «Libero Tancredi», che già aveva manifestato la propria insofferenza alle classificazioni e alle scelte obbligate e il gusto per la provocazione con la presa di posizione «tripolina»107. Egli faceva parte di quel gruppo che da Nizza si era portato a Montélimar dopo lo scioglimento della «Mazzini» e, ancora in Italia, aveva giustificato la sua imminente partenza con l’imperativo del «fare». [...] fra il morire da imbecille – scriveva il 29 settembre da Milano all’anarchico Alfredo Consalvi – dopo aver desiderato la rivoluzione senza farla ed il ricevere una palla in petto sul campo di battaglia, è ancora più decente quest’ultima alternativa. [...] Per ora, è meglio andarsene ed agire per una causa generosa, anche se non anarchica col timbro, poiché l’azione si presenta. Sono felice di andare a combattere per i popoli slavi e vicino ad essi108, poiché ammiro la loro grandezza morale che val meglio della civiltà dei cannoni e dei comignoli; perché così non mi si potrà dire neppure che lotto per la mia razza – la razza latina. Del resto l’anarchismo è slancio per tutte le libertà, anche per quella nazionale; il giorno in cui un’oppressione ed una rivolta qualsiasi non susciti più una simpatia ed un soccorso, l’anarchismo avrà finito per sem-

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pre. Perché, o Alfredo, perdere l’occasione di dimostrare con i fatti che gli anarchici siamo soltanto noi?109

A quel mondo faceva riferimento anche un singolare personaggio che aveva raggiunto la Francia dalla Romania, dove si era fermato nelle sue peregrinazioni. Era il giovane Gino Coletti, musicista itinerante, rodigino di nascita, presto spostatosi con la famiglia in Emilia, dove aveva abbracciato gli ideali anarchici attraverso i contatti con Oberdan Gigli. Dopo aver combattuto tra gli Arditi nell’esercito italiano, nel primo dopoguerra, passando attraverso simpatie «fiumane», sarebbe entrato in collisione con il fascismo proprio nel tentativo di preservare un’autonomia politica all’associazionismo reducistico. Nel marzo del 1915, alla vigilia dello scioglimento della Legione garibaldina, avrebbe scritto ormai anacronisticamente a Gigli da Barsur Aube: «O la guerra o la corona!». Sia questo il nostro grido il quale non può essere condiviso dai Nazionalisti. Di costoro noi non vogliamo saperne – dillo pure a tutti in Italia – e le loro cerimonie per noi ci offendono. [...] Ricorderai [...] che ero fra i più ferventi propugnatori della causa albanese; ma tutto andò... male. Cercai di partire nel ’12 per la Grecia; gli arresti continui e la prigione che m’inflissero le polizie di Bari, Lecce, Brindisi per non lasciarmi partire mi impedirono di arrivare ove volevo. Questa volta vi sono riuscito e puoi ben immaginare con che gioia110.

A rinsaldare in Coletti la convinzione che la «camicia rossa» ben si combinasse con l’anarchismo contribuiva anche ciò che aveva visto accadere nelle Argonne, ch’egli rievocava, assieme, con fiera commozione e compiacimento: Vidi un compagno cadere con una palla in fronte. Era Mario Perati profugo della Settimana Rossa che, sino all’ultimo istante di vita innegiò [sic] l’anarchia. [...] udii nel furore della mischia [...] mille gridi differenti «Italia!», «Trieste!», «Garibaldi!», «Evviva la Repubblica Sociale!», «Evviva l’Anarchia!». Vidi morire serenamente e partire con eroico stoicismo i «poilus», vidi molte e molte cose che vieppiù mi infusero entusiasmo e ardire nella mischia111.

La suggestione della figura di Perati ritornava anche nelle pagine del «diario» di Chiostergi, pure qui sinonimo della multiformità ideologica dei volontari, che poteva anche trascendere, in quell’autunno d’attesa, in violento scontro politico112. Il quadro militare si era nel frattempo precisato: risaliva al 5 no294

vembre 1914 il decreto costitutivo del reggimento garibaldino su tre battaglioni – di quattro compagnie ciascuno –, due dei quali dislocati a Montélimar ed uno a Nîmes. Essi avrebbero costituito precisamente il 4° reggimento di marcia del 1° reggimento della Legione straniera. Ci si riservava di formare un quarto battaglione con i nuovi afflussi. Il 9 novembre i reparti raggiungevano Mailly-le-Camp, tra Troyes e Reims: quando partirono per il fronte il 17 dicembre, i battaglioni comprendevano nel loro insieme più di 1900 uomini, guidati da ufficiali italiani e francesi113. Tra la costituzione formale della Legione garibaldina e la battaglia si interposero lunghe settimane, che lasciarono ampi spazi ai dubbi e alle riflessioni negli uomini più abituati ad interrogarsi sulle proprie scelte. Poteva apparire privo di senso che Giuseppe Chiostergi chiedesse alla fidanzata di spedirgli la sua camicia rossa, ma per lui, nell’impossibilità di averla come divisa, essa avrebbe rappresentato materialmente il simbolo dell’idea per la quale noi siamo qui e che non ci confonde con la milizia regolare, noi, i soldati della rivoluzione che fanno guerra alla guerra contro ogni esagerazione nazionalista. Desidero terminare presto la vita di guarnigione che è di una esasperante uniformità grigia, insulsa114.

La mal sopportata vita di caserma lo rinsaldava nelle sue convinzioni politiche avverse agli eserciti stanziali e al militarismo, a cui prometteva di opporsi ancora più energicamente dopo il suo ritorno115. L’attesa, per Chiostergi, si traduceva anche nella lotta psicologica per conservare un senso a ciò che stava vivendo, significava tentare di accendere il proprio entusiasmo riaccostandosi ad esempi paradigmatici che finivano però col risultare frustranti: Ieri mattina leggevo Da Quarto al Volturno di Abba. Lì c’è una poesia così semplice che commuove: quella è stata un’impresa veramente garibaldina. Ora tutto traligna. Ma speriamo sempre di scrivere una pagina di storia degna della nostra Italia e delle nostre idee... senonché assale il dubbio talvolta. Sursum corda! Tornerò a leggere quelle splendide pagine dell’Abba: è l’unico mezzo per credere. Qui la prosa imperversa: tutte le figure, gli atti e i fatti sono addirittura microscopici in confronto a quelli che pur son lontani nel tempo e giganteggiano sempre più116.

Due erano i suoi spettri: non arrivare a combattere e non riuscire a dar prova del proprio «rivoluzionarismo», che non avrebbe do295

vuto essere messo in dubbio anche di fronte all’eventualità di un impegno al fianco della monarchia, per Trento e Trieste. Dopo la guerra e attraverso di essa si sarebbe dovuti del resto tornare all’antico, all’azione mazziniana per la Repubblica sociale. [...] La politica, per me non può essere un’aspirazione ideale verso la Repubblica [...]. Il rivoluzionarismo è la mia fede: l’azione rivoluzionaria è l’espressione pura delle mie convinzioni117.

E tre giorni dopo: [...] non è fors’anche la rivoluzione, come la guerra, una cosa dolorosa, ma necessaria? E questa guerra la combatterò come fosse una rivoluzione: il contenuto, il fine sono gli stessi. Contro la forza che impone e difende il privilegio, nessuna debolezza sentimentale deve predominare118.

Dimostrare di non essere venuto in Francia per essere un «mangiagavetta» significava realizzare anche l’intento di fare propaganda dei propri ideali attraverso l’azione. Questo era in fondo il tratto comune di molti di quei volontari, convinti con ciò di ricondursi alle radici delle proprie differenti culture politiche, in contrapposizione a quella che all’epoca si sarebbe chiamata la politica «dottrinaria». Assai meno tormentata, ma al pari emblematica, era la lettura offerta da un altro repubblicano, il tenente Camillo Marabini, desideroso di caricare la propria francofilia di implicazioni eloquenti anche in prospettiva. Così è il garibaldinismo. È la febbre che, quando vi ha ghermito, più non vi abbandona. [...] noi andremo in Francia. Perché è sui campi del Belgio insanguinato, amputato, che si decideranno i destini d’Europa. Poiché quella che è tesa dal mare alla Lorena non è una massa d’eserciti, è una immane barricata, ove si combatte la seconda rivoluzione. Nel 1789 per il diritto dell’uomo. Nel 1914 per il diritto delle nazionalità. [...] E l’Italia deve essere assente? [...] ricostruire bisogna, con il sacrificio, una tradizione di fraternità interrotta dagli errori dei governanti. [...] E quando l’orda germanica è straripata, ha investito Liegi, s’è drizzata verso il cuore della Francia, ogni garibaldino della vecchia guardia, ogni giovane insofferente d’indugi ha fatto la sua valigia silenziosamente ed è partito verso Parigi119.

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A quanto scriveva Chiostergi, dall’arrivo a Montélimar in avanti, Marabini gli era stato spesso al fianco nelle iniziative mirate ad esprimere inequivocabilmente il significato politico del loro essere volontari. Presto avrebbe condiviso con lui una coraggiosa condotta sul campo. Il 26 dicembre si andava al fuoco. 3. Dalla Francia repubblicana allo scoglio di Quarto Se l’Italia non farà la sua guerra, il ricordo di questi suoi figli caduti sotto la bandiera di un altro paese la perseguiterà come una maledizione. [...] sulla nostra coscienza nazionale, che sarà irrimediabilmente depressa e umiliata dalla nostra inerzia, [...] la memoria di quell’eroismo, la rampogna di quell’olocausto opereranno come un terribile dissolvente. Alla viltà del Governo e delle classi dirigenti, alla constatata inutilità dell’Esercito, la retorica sovversiva contrapporrà necessariamente, in una antitesi formidabile, i nomi fulgenti dei giovani rivoluzionari caduti nell’Argonne. Come nei giorni più tristi del nostro passato, lo spirito di sacrificio, l’amore del pericolo, il disprezzo dei beni materiali saranno, o sembreranno essere dalla parte dei nemici dello Stato; e dall’altra parte, ingeneroso egoismo, gretta inconsapevolezza, paura. [...] nessuna forza rivoluzionaria costituisce una seria minaccia per lo Stato, finché essa non può vantare, o illudersi di vantare, per sé, le ragioni di un ideale. [...] la borghesia conservatrice ha avuto il torto di immaginarsi che tutte le forze della Rivoluzione potessero placidamente sommergersi così nel pantano della comune viltà. Guai se un raggio di gloria, se un riflesso di idealità vengano ancora a illuminare il rosso vessillo (o il labaro verde) della socialdemocrazia, mentre il tricolore del Regno d’Italia resta ammainato nell’ombra! [...] Questo fu il germe di dissolvimento, connaturato alle stesse origini rivoluzionarie dello Stato italiano: il garibaldinismo; vittoriosa e magnanima virtù epica nel momento dell’azione, gravante come eredità incresciosa dopo la realizzazione: il garibaldinismo, che donò la Sicilia e Napoli all’Italia, che, come a Mentana per Roma, segnò sui campi di Bezzecca il diritto nazionale per le terre irredente, ma che entrò nella formazione della nuova società unitaria come un elemento pressoché irriducibile di resistenza a ogni principio di gerarchia e di disciplina. Esso fu sempre, nel corso diseguale della sua epopea, una milizia di pochi; ma visse e operò nell’illusione di raccogliere il volere di tutto il popolo e come forza di popolo pretese atteggiarsi in opposizione alla Monarchia. [...] L’Italia aspetta dal ’66 la sua vera guerra nazionale, per sentirsi finalmente unificata e rinnovata dall’azione concorde, dal sacrificio identico di tutti i suoi figli. Oggi, mentr’ella tentenna ancora davanti alla necessità

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che la storia le impone, il nome di Garibaldi, nuovamente santificato dal sangue, risorge ancora ad ammonirla che ella non potrà vincere la Rivoluzione se non combattendo e vincendo la sua guerra nazionale120.

«L’Idea Nazionale» pubblicava quest’editoriale di Federzoni, straordinariamente lucido ed emblematico, all’indomani della prova del fuoco dei volontari – in cui aveva trovato la morte Bruno Garibaldi – e alla vigilia di due nuove battaglie, in cui avrebbe perso la vita anche Costante, un altro figlio di Ricciotti. Se con il trascorrere delle settimane era cresciuta l’attenzione della stampa italiana verso i garibaldini, le battaglie di dicembre e gennaio e gli omaggi funebri ai caduti che ne seguirono conobbero una fortissima copertura mediatica, senza che i toni eroicizzanti fossero tuttavia unanimemente diffusi. Il lungo ragionamento di Federzoni è testimonianza eloquente delle riserve ideologiche che gli ambienti nazionalisti continuavano a nutrire verso la mobilitazione a favore della Francia, già messa in ridicolo per le sue «ingenuità» democratiche. Vi si rivelava però un salto di qualità: la consapevolezza che non si potesse e non si dovesse più stare a guardare. Le considerazioni di Federzoni esprimevano inquietudine nei confronti di una tradizione sovversiva resa fatalmente più forte, seducente e potenzialmente combattiva dalle inaspettate stimmate dell’eroismo. Era anche su questi presupposti che potevano legittimarsi i riposizionamenti e un crescente protagonismo della nuova Destra, nel tentativo di imprimere il proprio marchio sul movimento d’opinione contrario alla neutralità. Mano a mano che l’eventualità di una concreto impiego militare dei volontari in Francia prendeva forma, si restringevano per la stampa gli spazi del silenzio e dell’astensione. Un quotidiano come l’«Avanti!», che viveva ancora i postumi della virata interventista di Mussolini, tradiva anche rispetto alla questione un certo disorientamento. Era proprio la discriminante del volontariato, della scelta dell’esposizione personale e diretta che non andava in cerca di legittimazioni istituzionali, il nodo attorno al quale sarebbero convissute per mesi, nel giornale socialista, la dissociazione politica verso l’azione dei garibaldini e il rispetto umano per le iniziative e le speranze dei singoli121. Ma questa posizione si sarebbe presto rivelata poco lungimirante e sostanzialmente insostenibile: fattori politici e suggestioni emotive propiziarono la sempre più netta egemonia di un discorso pubblico teso invece a determinare per via extraistituzionale le scelte del governo, inducendolo a risoluzioni definitive che impo298

nessero al Paese nella sua interezza la necessità di assoggettarsi a priorità ed obblighi insindacabili. Mentre in Italia il dibattito politico si articolava in questo modo, sul fronte delle Argonne, la vigilia di Natale, giungeva l’ordine di mettersi in marcia per raggiungere la linea del fuoco. Ci si avviava allora verso Bolante, dove sarebbe avvenuto il primo scontro tra i garibaldini e l’esercito tedesco. [...] ieri sera – scriveva Marabini – s’è rimediato del caffè. Si sono accesi i fuochi, si sono armate le tende. Ma non si è proprio potuto dormire tanto era il freddo. I volontari hanno passato la notte a riscaldarsi attorno agli immensi bracieri e a dir male dei propri ufficiali. Io che fingeva, in omaggio alla disciplina, di dormire ne ho sentite di cotte e di crude a proposito del nostro comandante di compagnia. In fondo ne ho avuto piacere. A mezzanotte dicono che ci sia stata la messa di Natale, all’aria aperta, ed aggiungono anche che il cappellano è rimasto molto scandalizzato a non vedere nessuno dei nostri. I nostri invece, attendevano il grande bombardamento delle trincee nemiche [...] premeditato per le ventiquattro ore precise. Orologio alla mano, allo scoccare della mezzanotte, s’è udito un frastuono del diavolo. [...] Natale tragico. [...] Domani ci sarà un bon travail per i garibaldini. Ça chauffera: farà caldo. È il gergo della trincea. [...] Signori che siete lontani, voi che avete insultato a noi, garibaldini, voi che avete sghignazzato in viso al nostro sogno: è la vostra ora anche per voi. Vergognatevi. Voi la gioia, voi i piaceri, voi la placida politica; noi, questa sera, la terra il freddo e, domani, forse, una palla in fronte. Mercenari che mettono a prezzo la vita: un soldo al giorno; filibustieri ebri di sangue noi siamo, e traditori della patria, e illusi, e traviati. Eppure, in fondo a tutto questo c’è un sacrifizio, e vi sarà domani, del sangue e del lutto [...]122.

Nelle ultime righe il volontario faceva provocatoriamente il verso ai ritratti negativi che – diversamente collocati a livello politico – erano circolati in quei mesi, recuperando e riattualizzando rappresentazioni di più lunga durata. Il tono era quello verbalmente violento della sfida, dell’esibizione del valore e del coraggio dinanzi alla «mediocrità». L’aggressività era in effetti una delle cifre distintive delle pagine di Marabini, che sembrava quasi interpretare la sua «missione» come uno schiaffo a modelli politici, atteggiamenti culturali e persino equilibri internazionali ch’egli rifiutava. Al contrario 299

di quanto accadeva per Chiostergi, il suo diario era percorso da un fortissimo rancore antigermanico, che si alimentava delle visioni di distruzione e dei racconti della popolazione civile sugli orrori dei boches123. Questi furono gli umori scandalizzati e rabbiosi che accompagnarono il suo avvicinamento al fronte, dove avrebbe sperimentato direttamente le dimensioni pur sempre inaspettate della «Grande Guerra». Nella battaglia di Bolante del 26 dicembre i garibaldini ebbero 33 morti, 23 dispersi e 105 feriti. Sommati a quelli dei due successivi scontri a cui parteciparono – il 5 gennaio a Courtes-Chausses e Four de Paris, l’8 e 9 a Fille-Morte e Ravin des Meurissons – i caduti furono in totale più di 90, ai quali si aggiunsero 141 dispersi e 352 feriti. Il reggimento garibaldino non superava i 2000 effettivi. Il secondo e il terzo episodio videro tra i protagonisti due volontari attraverso le cui parole abbiamo finora ricostruito gli avvenimenti. Il 5 gennaio Giuseppe Chiostergi fu dato per morto: in realtà, più volte colpito, fu salvato da un sicuro dissanguamento dalle bassissime temperature e cadde prigioniero dei tedeschi. Mentre in Italia si organizzavano commemorazioni in suo onore, il repubblicano iniziava le sue peregrinazioni in vari ospedali militari, che l’avrebbero condotto nel cuore della Germania124. Dopo aver rischiato di essere passato per le armi – poiché assimilato, come volontario di cittadinanza italiana, ad un franco tiratore – Chiostergi sarebbe stato liberato solo nel maggio del 1916, grazie ad uno scambio di prigionieri, venendo aggregato ai francesi rilasciati ed internati in Svizzera125. Di lì sarebbe iniziata per lui una nuova vita e avrebbero preso forma, a Ginevra, nuove scelte politiche, tali da consentirgli il rientro in Italia solo dopo la caduta del fascismo. Nelle operazioni dell’8-9 gennaio 1915 ebbe invece una parte significativa Camillo Marabini, che seppur ferito, volle subito tornare al fuoco, meritandosi a tal titolo una delle onorificenze in seguito assegnate ai volontari dallo stato maggiore francese. Nelle tre battaglie in cui combatterono, i garibaldini lasciarono dunque sul campo molte vittime, le quali non solo testimoniarono la serietà dell’impegno militare, ma contribuirono a garantire il raggiungimento dello scopo politico che la Francia e gli stessi protagonisti perseguivano. Ciò avvenne in un contesto di progressiva accelerazione dei tempi storici e delle ridefinizioni politiche: quelli che chiedevano l’abbandono della Triplice nell’estate del ’14 – non riuscendo nemmeno a sperare, allora, in un avvicinamento diplomati300

co all’Intesa – non erano più gli stessi che premevano prepotentemente per l’intervento nella primavera del ’15. Non solo erano cambiati gli attori sociali e il loro campo si era ampliato, ma si erano trasformati anche il linguaggio, i riferimenti ideologici e culturali, i toni, le pratiche concrete dell’azione politica e delle campagne d’opinione. In queste dinamiche svolsero un ruolo per nulla trascurabile i caduti delle Argonne e tutto ciò che ruotò attorno alla loro celebrazione, così come la discussione sul significato storico e politico di quelle morti. Fu forse a cavallo degli eventi che la stampa si rese pienamente conto delle potenzialità mediatiche della vicenda che si stava svolgendo in Francia: essa rappresentò – anche per la descrizione di massacri e tecniche di combattimento che trascendevano l’immagine tradizionale di un conflitto – una sorta di anticipazione del racconto della guerra italiana. I combattimenti dei garibaldini consentirono anche di rodare forme comunicative che potessero avvalersi della corda emotiva per catturare l’attenzione di un pubblico non per forza politicamente connotato126. Si trattava pur sempre, del resto, dei primi Garibaldi morti in battaglia. Anche in quelle circostanze l’«Avanti!» non volle rinunciare a ribadire il suo articolato punto di vista, dedicando il 2 gennaio a Bruno Garibaldi e agli altri caduti alcune delle colonne più sentitamente partecipi che la carta stampata riservasse agli avvenimenti: Alcuni crisantemi cadranno idealmente anche da mani socialiste sulla ignota fossa dei garibaldini uccisi nelle Argonne. Noi combattiamo in nome dei nostri gli opposti ideali altrui; ma facciamo il saluto delle armi all’ideale [...]. Noi detestiamo e dileggiamo coloro i quali non credono in nulla e quelli che pongono le loro opere in conflitto col loro «credo» [...]. Ma i caduti nelle Argonne hanno dato il crisma del loro sangue alla bella dignità, alla natura idealistica della loro impresa guerresca. [...] Noi non crediamo vi sia alcuna possibilità di stabilire, nell’ordine logico delle cose, un qualsiasi legame tra il bel gesto garibaldino e le aspirazioni guerrafondaie di taluni gruppi di italiani. Due ispirazioni difformi, due tempre diverse, due logiche distinte: il sacrificio e l’egoismo, l’azione e il blateramento, la immolazione e la irresponsabilità; chi corre, inebriato, verso la morte, e chi ne esalta la bellezza, rimanendo attaccato alla vita. Questi giovani garibaldini, una volta scoppiata la guerra europea, pensarono che il loro posto al cospetto dell’immane tragedia non potesse essere quello degli spettatori; che fra le ragioni che trasformavano la Francia in

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un vasto campo trincerato e le proprie passioni esistesse un legame più che di solidarietà, di identità morale e politica. [...] Essi non cercarono di armare gli altri delle loro passioni guerresche e di sospingerli al sacrificio, restando a casa a farne le esaltazioni letterarie. [...] Ecco perché i nazionalisti italiani non hanno diritto di onorare come loro morti i caduti nelle Argonne. Non è neppure giusto che li proclamino loro pionieri. Essi non chiesero mai, come avvenne ai nazionalisti, la guerra in solidarietà con l’Austria. Chiesero, i morti delle Argonne, di correre a respingere un oppressore, di morire per il più debole e per il più giusto. E per questo io penso che si dovrebbe consentire loro di scendere nella fossa con la camicia rossa, nascosta fin qui sotto la giubba del soldato francese...127.

L’«Avanti!» si assestava così su una linea destinata in seguito a rivelarsi indifendibile, esposta com’era alle erosioni di senso determinate dalla crescente egemonia dei toni più estetizzanti e aggressivi, a vantaggio dei quali le diverse anime dell’interventismo finirono con l’abdicare. Ma in quel momento la lettura del quotidiano socialista coglieva ancora nel segno e conservava una sua efficacia polemica. Ne erano una riprova gli accenti con i quali la stampa nazionalista romana e un quotidiano conservatore vicino alla nuova Destra come «Il Giornale d’Italia» sceglievano di accostarsi alla memoria dei caduti. «L’Idea Nazionale», che in precedenza non aveva esitato a trattare con disprezzo ed ironia irridente la scelta di chi passava il confine, dimostrava di aver ora ben chiaro che, se ci si poteva contrapporre anche brutalmente a quei «sovversivi» da vivi – magari ridicolizzandoli –, da morti, da caduti in battaglia, era necessario agitarne l’ombra con maggiore accortezza. Ci si stava rendendo conto, in sostanza, della difficoltà e assieme della necessità di entrare in concorrenza con i morti, intercettando e indirizzando politicamente anche l’onda emotiva che quegli eventi potevano suscitare. Così «L’Idea Nazionale», ancora rigida, di fatto, nelle proprie diffidenze antifrancesi, commentava la morte di Bruno Garibaldi: È il primo dei Garibaldi caduti sul campo, all’attacco. Scopriamoci. [...] quando il cannone rombò su «le profonde foreste delle Argonne», egli partì cantando un inno non suo, la Marsigliese. È triste. [...] non possiamo non dolerci che sia stato reciso questo estremo fiore dei Garibaldi, combattendo per un paese non suo, come un antico Giovanni dalle Bande nere... Oggi non è più il giorno dell’avventura, per quanto nobile; e nell’affermarsi dei diversi egoismi nazionali, non possiamo noi, noi soli – eterni ca-

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valieri erranti –, in mancanza della nostra guerra nazionale, combattere e cadere per altri, che, se anche ci pagano, non ci amano. La nostra gioventù è pel domani nostro128.

Se l’«Avanti!» rendeva comunque omaggio alla scelta disinteressata di spendersi per un ideale, agendo attraverso percorsi autonomi rispetto all’Italia ufficiale, «L’Idea Nazionale» richiamava all’ordine e agli imperativi del presente. Non era più il tempo – si ammoniva – di sentimentalismi: la particolare tradizione internazionalista a cui i volontari si richiamavano non era recuperabile nel suo corredo ideologico attardato su modelli ottocenteschi, commisti a più recenti irrequietezze rivoluzionarie; la si poteva casomai riattualizzare come scuola di spiriti guerrieri, a patto che si mettesse la testa a posto. Non era più il momento di scherzare, e chi non sapeva cogliere il significato provvidenzialmente egoistico e feroce del conflitto in corso non era meritevole di guidare e indirizzare l’opinione pubblica: questo il succo del discorso. Mentre i nazionalisti si atteggiavano ad interpreti privilegiati dell’attualità, contribuivano in realtà a fornirne una rappresentazione capace di incidere sul corso degli avvenimenti e sul cammino di avvicinamento alla guerra. Pochi giorni dopo, «Il Giornale d’Italia» si inseriva su questa scia, e, di fronte alla seconda ondata di notizie funebri dalle Argonne, indirizzava persino una lettera aperta al vecchio Ricciotti, in cui si negava provocatoriamente ai volontari il diritto a disporre liberamente delle proprie vite fuori dei confini129. Fino ad allora il foglio aveva sostanzialmente trascurato la presenza delle «camicie rosse» in Francia, offrendone casomai un ritratto poco lusinghiero, come registrava nelle sue lettere lo stesso Chiostergi, pregando la fidanzata di procurare ai suoi genitori – che leggevano solo quel quotidiano – altre fonti130. Forse al repubblicano – oramai prigioniero dei tedeschi – non sarebbe dispiaciuto leggere sull’«Avanti!» del 7 gennaio l’editoriale dedicato ai nuovi lutti tra i volontari: il pezzo testimoniava infatti come fosse difficile, anche per l’organo socialista, sottrarsi ad un’ammirata incredulità verso gesti politici e militari che non si intendeva consegnare in toto alla gestione dei nazionalisti e dell’emergente interventismo conservatore. Noi chiniamo pensosi e dubitanti la fronte dinanzi al nobile sacrificio che volontariamente si compie sull’insanguinato altare della guerra. Pensiamo alla bellezza grandiosa di questo gesto magnifico dei giovani Garibaldi [...] in sacro olocausto alla democrazia, al diritto, alla libertà.

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Pensiamo che certo questa nostra piccola società cosiddetta civile di speculatori e di mercanti, sarebbe presto distrutta, e presto potrebbe compiersi il sogno generoso della nostra ardente gioventù, ove il mirabile esempio di altruismo dato da questi rinnovatori della tradizione garibaldina, trovasse seguaci ed emuli sul campo delle competizioni civili. Dubitiamo che le giovani vite immolatesi sui campi delle Argonne servano veramente alla causa della redenzione umana [...]. Ma appunto per questa loro sublime noncuranza delle conseguenze, per questo completo abbandono di sé [sic] stessi alla causa dell’azione [...] senza alcuna preoccupazione delle risultanze, noi, pensosi e dubitanti, ammiriamo coloro che hanno voluto combattere e morire131.

Inaugurando un percorso che altre testate non avrebbero faticato a seguire, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio anche «Il Popolo d’Italia» aveva iniziato a concentrarsi sugli avvenimenti francesi: proprio perché il sangue versato nelle Argonne dai garibaldini – la cui mobilitazione era passata fino a quel momento quasi sotto silenzio – consentiva l’adozione di un registro più aggressivo ed eroicizzante. Le connotazioni ostentatamente eversive dell’interventismo di Mussolini erano per esempio ben riconoscibili nel pezzo con il quale, l’ultimo giorno dell’anno, egli – neofita dell’esaltazione del garibaldinismo – celebrava la «vera» Italia che si batteva sui campi di Francia in contrapposizione alla pusillanimità di Roma, dell’«Italia ufficiale», dei «profeti della vigliaccheria nazionale»132. Se i funerali romani dei fratelli Garibaldi offrivano al giovane quotidiano l’occasione per esasperare i toni attorno alle categorie dell’eroismo, del martirio, del sacrificio133, era soprattutto in una successiva riflessione sul fenomeno del volontariato che Mussolini affondava il colpo contro gli ex compagni di partito. Un articolo intriso di ambiguità, che mentre esibiva provocatorie pose rivoluzionarie, delimitava in realtà i confini del dialogo politico innalzando barriere solo a sinistra. Così come tentava di fare l’«Avanti!» rispetto ai nazionalisti – diffidandoli dall’appropriarsi dell’eredità dei caduti – Mussolini si impegnava a creare quasi a tavolino il fronte dei «profanatori» della memoria dei volontari. A quanto asseriva il direttore del «Popolo d’Italia», le reazioni politiche ed emotive sollecitate in Italia dalla morte dei garibaldini dovevano leggersi come «un grido di guerra» e costituire motivo di meditazione per le istituzioni e i poteri tradizionali. Contro la Triplice alleanza, di fatto ormai defunta, Bruno Garibaldi ha sigillato col sangue la nuova alleanza. Non si passa

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su quel cadavere, o rimbambiti vecchiardi triplicisti del senato: o letterati, o filosofi, o giornalisti neutrali – oggi – per amore della Germania. [...] il popolo distingue: l’Italia dà volontari alla Francia, ma non ne ha dato uno solo alla Germania... esclusi quelli che... scrivono sulle gazzette delle Ambasciate austro-tedesche. Il popolo guidato dal suo infallibile intuito distingue tra guerra e guerra: per l’una è infame il combattere, per l’altra è santo il morire. Ma voi, socialisti ufficiali, non sentite dunque che le masse anonime e immense vi sfuggono; non avvertite che vi straniate lentamente, ma irresistibilmente da queste masse che dovevano darvi il materiale umano per la nuova storia. [...] La vostra ora è passata, o socialisti d’Italia. Quando i morti vivono, ci sono dei vivi che debbono morire...134.

Sulla pervasività delle ombre dei morti – e sul loro porsi in concorrenza con chi era solo biologicamente vivo – anche D’Annunzio, qualche mese dopo, avrebbe costruito buona parte della sua orazione sullo scoglio di Quarto. In effetti, le cerimonie funebri in onore delle vittime delle Argonne e le celebrazioni commemorative svoltesi in tutta Italia in loro omaggio rappresentarono un tornante non sottovalutabile. Tutto ciò rese improvvisamente eroici e monumentali figure e soggetti collettivi che, fino a qualche settimana prima, erano generalmente dipinti – nel migliore dei casi – come giovani generosi, idealisti e scanzonati. Essi perdevano ora i già sfumati contorni politici e sociali per acquistare una valenza essenzialmente simbolica135. Giornali giolittiani e tendenzialmente neutralisti come «La Stampa» erano quasi presi in contropiede da questa straordinaria esposizione mediatica, non tanto perché avessero ignorato le vicende dei garibaldini, quanto per la difficoltà e la resistenza a far propri la retorica e il linguaggio che ora li circondavano. In effetti il quotidiano torinese non era stato tra i più refrattari alle notizie sulla mobilitazione dei volontari: anzi, dopo aver dato voce a rappresentazioni poco lusinghiere, nella prima metà di dicembre si era impegnato ad esprimere giudizi più articolati, cauti e rispettosi nei loro confronti136. Le riserve, però, non venivano meno, così come l’insuperabile disapprovazione per una perdurante «anomalia» della tradizione italiana, di cui le «camicie rosse» erano materializzazione. Le proiezioni politiche di cui esse erano fatte oggetto variavano nettamente nelle corrispondenze di cui si valeva il democratico-radicale «Il Secolo», attento anche alla «prosa» delle formazioni garibaldine. Le co305

struzioni retoriche che si sviluppavano attorno alla loro francofilia in armi tradivano lo spirito scopertamente simpatetico del giornale, ma ci si dilungava anche su considerazioni di ordine sociale, attraverso le quali il volontariato veniva inserito in un preciso quadro storico. Del resto l’idealizzazione di una nuova forma di unione e di solidarietà tra le «sorelle latine», che trascendeva la dimensione militare e preesisteva ad essa, risaliva ancora all’inizio dell’autunno e alle prime ipotesi di impiego della componente italiana. Questo volontariato novello palpita tutto di nomi e di ricordi antichi. Garibaldi vi appare rinato; vi riappaiono le camicie rosse dei Vosgi, il fiore dei giovani eroi caduti sul suol di Borgogna, e, di là da essi, tutti i manipoli fieri e i cavalieri solinghi che l’Italia, ancora incompiuta, ebbe disseminati dietro i vessilli della libertà mondiale, in Polonia, in America, in Grecia, in Ispagna, ad abbozzarvi nel cospetto dei popoli il disegno fatale della loro patria futura. Se non che, mentre quei combattenti errabondi erano i figli immediati dell’ideale, gli apostoli diretti del pensiero dei popoli, eroicamente straniati e lontani dalle materiali e quotidiane necessità della vita, questi diecimila [sic] sono lo stesso lavoro italiano, la stessa emigrazione italiana che trova nel cospetto del mondo la sua sanzione epica [...]. Bella è questa improvvisa milizia che sbuca dalle officine e dalle miniere [...]. [...] la patria nostra è già presente nel conflitto, secondo i suoi istinti e secondo le sue memorie; è una parte d’Italia, una minore Italia che si pone sovra un cumulo dell’ospite terreno di Francia, per giungere a guardare negli occhi la sua Sorella maggiore, per immergere il capo con lei nel limbo della medesima luce137.

Tre mesi dopo, quando si celebrava il bagno di folla dell’omaggio reso a Roma alle spoglie dei Garibaldi, queste rappresentazioni sarebbero apparse profondamente lontane e superate. Dipingere gli italiani come eroi del lavoro e non come guerrieri, pieni di gratitudine per l’ospitale Francia repubblicana, sarebbe stato allora impensabile per i cantori del sangue latino sparso nelle Argonne, esaltato come prefigurazione di un’Italia più bellicosa e potente. A maggior ragione, non avrebbe più potuto trovare spazio la valorizzazione dell’esperienza migratoria come fattore di sviluppo di identità e sensi d’appartenenza più vasti e articolati, che contribuissero ad arricchire di nuove motivazioni gli antichi slanci internazionalisti del garibaldinismo. Ora i caduti diventavano eroi e «figure»: qualunque 306

elemento che tendesse a caratterizzarli socialmente finiva con l’essere non solo superfluo, ma persino inopportuno. Tutti i quotidiani – quelli che avevano «scoperto» i volontari da pochi giorni, così come chi li seguiva dalla fine dell’estate – dedicarono ampi resoconti, corredati talvolta di apparati fotografici, ai funerali di Bruno Garibaldi, che si celebrarono con maggior clamore rispetto a quelli, di poco successivi, di Costante. Il «Corriere della Sera», sempre più scopertamente interventista, seguì con grande attenzione il trasporto ferroviario della salma di Bruno e poi la cerimonia romana con il corteo che percorse le vie della capitale dalla stazione Termini al Verano138. L’esempio più emblematico di quello che poteva diventare sulla stampa quotidiana la vicenda delle Argonne, il giornale milanese lo forniva però circa un mese dopo, quando si trattava oramai di rievocare quasi una leggenda. Il compito spettava a Luigi Barzini, a cui si doveva un lungo articolo, pubblicato in due riprese, nel quale il titolo – Sangue italiano nella Foresta – contava forse più del contenuto. La rievocazione dell’azione dei garibaldini assumeva toni epici, il linguaggio faceva ricorso a formule ad effetto: l’area dei combattimenti era un «semicerchio di furore»139, la Legione garibaldina un «corpo d’impeto»140, la natura circostante subiva quasi un processo di personificazione, i momenti della battaglia diventavano altrettanti bozzetti di eroismo e abnegazione, gli inni all’Italia erano il «grido di guerra della razza»141. Il pezzo, che occupava quasi interamente la terza pagina, era una cassa di risonanza di suggestioni e formule che sarebbero poi invalse dopo l’entrata in guerra dell’Italia, ma l’enfasi del suo linguaggio era in quel momento una novità rispetto alla stessa autorappresentazione dei garibaldini. In effetti la loro iniziativa a sostegno della Francia repubblicana veniva sostanzialmente decontestualizzata e spogliata di ogni veste politica; passava attraverso la storia ma si poneva quasi al di fuori di essa. In realtà, mentre Barzini scriveva e dopo che le varie commemorazioni dei caduti si erano svolte sotto la vigile sorveglianza delle autorità prefettizie142, l’azione della famiglia Garibaldi tentava di nuovo di intrecciarsi con le dinamiche politiche dell’attualità. Falcidiato dai combattimenti, il reggimento dei volontari era stato richiamato dal fronte e si vociferava di una sua ricostituzione con nuove forze. Rispetto all’autunno il quadro era in realtà profondamente mutato: l’intervento dell’Italia a fianco dell’Intesa era un’ipotesi sempre 307

meno fantasiosa e l’impegno delle forze volontarie andava comunque ripensato in un contesto rinnovato. Risaliva al febbraio il viaggio a Parigi e a Londra di Ricciotti, allo scopo di verificare la disponibilità finanziaria e politica dei due Paesi in vista dell’organizzazione di una Legione di 30.000 volontari, che avrebbero dovuto combattere sul suolo francese. Pur accolto con un certo entusiasmo al di qua e al di là della Manica, il suo tentativo si risolse in un fallimento143. In quelle settimane, così come nell’estate e nell’autunno precedenti, la prefettura di Roma, continuava ad inviare al Ministero rapporti allarmistici sull’attività di Ricciotti Garibaldi, dei repubblicani e degli altri settori della Sinistra interventista: si segnalavano progetti di matrice rivoluzionaria per mettere in imbarazzo il governo sul piano internazionale, propiziando in alternativa azioni antimonarchiche sul piano interno144. Negli stessi giorni il console a Lione informava Roma del malcontento diffuso nell’ufficialità francese per le decorazioni elargite ai volontari, indubbiamente meritevoli, ma beneficiari di riconoscimenti palesemente sollecitati anche da considerazioni di opportunità politica. Riferiva inoltre che in Francia correva voce che il supporto ad un moto repubblicano nella penisola fosse ancora lo scopo recondito della Legione, intenzionata a realizzare «un atto di carattere intervenzionista», che determinasse la proclamazione della repubblica italiana sulle coste adriatiche dell’Impero asburgico145. Poco dopo, il 5 marzo, il reggimento garibaldino in Francia veniva sciolto: la notizia rimbalzò velocemente sulla stampa italiana, dove comparivano corrispondenze ed interviste ai volontari e a fatica si componeva il quadro della situazione. La versione ufficiale, assai edulcorata, parlava di una decisione presa di comune accordo tra le parti in causa, anzi sollecitata dagli stessi Garibaldi in vista dell’entrata in guerra dell’Italia146; ma la scelta aveva anche alle spalle diffidenze politiche e problemi disciplinari147 e avrebbe accresciuto le preoccupazioni delle autorità italiane verso i volontari smobilitati148. Sciolto il loro reggimento, i garibaldini avrebbero potuto continuare a prestare servizio nella Legione straniera, ma, su un totale di 2354 volontari149, solo un centinaio di essi sfruttarono quest’opportunità. Gli altri rimpatriarono, sotto il controllo sospettoso delle prefetture, messe sull’avviso dal Ministero150. Gli archivi dipartimentali francesi hanno conservato 771 indirizzi di familiari di volontari da avvisare in caso di decesso e 1034 do308

micili relativi al marzo del 1915. Sulla base di questi dati – che si riferivano rispettivamente al 32,7% e al 43,9% degli effettivi – emerge che più di metà delle famiglie dei garibaldini risiedeva in quel momento in Francia, il 43% in Italia, il rimanente essenzialmente in Svizzera. All’epoca dello scioglimento del Corpo, l’82,4% dei garibaldini era domiciliato oltralpe e il 14,5% in Italia. La schiacciante preponderanza dei residenti in Francia non deve però trarre in inganno: molti volontari vi avevano preso alloggio solo per la durata dell’impegno militare e per essere licenziati più velocemente; in alcuni casi alla stessa persona corrispondevano peraltro due indirizzi, uno al di qua e l’altro al di là delle Alpi. Non pochi venivano poi di fatto ospitati da altri compagni che vivevano oltre i confini. La mappa francese del reclutamento garibaldino corrispondeva in gran parte alle aree d’emigrazione, con la prevalenza del Midi e delle regioni parigina e lionese. Stando ai domicili indicati nei documenti conservati, in Italia i luoghi di provenienza si situavano soprattutto nei contesti urbani del Centro-Nord, specialmente in Lombardia, in Piemonte, in Emilia-Romagna, in Toscana e ad Ancona151. Così come quelle francesi, anche le fonti italiane relative ai rimpatri sono lacunose e si riferiscono, in linea di massima, alla prima fase dei rientri: se ne ricava in ogni caso un quadro non dissimile da quello appena descritto, ma non va dimenticato che tale documentazione era stata prodotta con uno scopo essenzialmente politico, come strumento di controllo e di verifica degli orientamenti e della condotta dei reduci. A fine marzo erano rientrati via Ventimiglia, in diversi scaglioni, 245 volontari, la maggior parte dei quali diretti verso i luoghi d’origine del Centro-Nord Italia. Per ognuno di essi era stata inviata comunicazione alle prefetture di riferimento perché esercitassero una sollecita sorveglianza e ragguagliassero il Ministero sui loro precedenti152. Moltissimi di quegli individui – in gran parte giovani e giovanissimi, e alcuni dei quali tornavano in Italia dopo esperienze di emigrazione – svolgevano attività legate al mondo dell’artigianato e del commercio e gravitavano attorno al movimento repubblicano o al sindacalismo. Nelle settimane che separarono lo scioglimento della Legione garibaldina dall’intervento nel conflitto dell’Italia, il potenziale soggetto collettivo dei volontari mobilitabili e i loro punti di riferimento politici e militari entrarono più o meno direttamente nel dibattito pubblico, furono in ogni caso al centro della corrispondenza che 309

intercorreva tra i Ministeri, le rappresentanze diplomatiche in Francia e le prefetture. Il 13 marzo Sidney Sonnino riceveva dall’ambasciatore a Parigi un telegramma con cui gli si riferiva l’offerta di trecento volontari pronti a recarsi in Italia, avanzata da un ex ufficiale della Legione. Il giorno dopo il ministro degli Esteri inoltrava la comunicazione a Salandra, sollecitando il suo parere, pur dichiarando preventivamente di ritenere che si dovesse «declinare, in forma cortese, l’offerta di cui si tratta»153. Il presidente del Consiglio rispondeva a stretto giro di posta di non poter assolutamente ammettere alcuna trattativa, diretta o indiretta, con gruppi garibaldini per certe eventualità. I garibaldini sono oramai nella storia. Adesso il Governo non può, in qualunque ipotesi, che conoscere soldati del Regio Esercito, al quale gli italiani validi, se e per quanto non ne siano indegni, potranno arruolarsi154.

L’ultimo periodo della risposta prefigurava ciò che realmente sarebbe accaduto nei mesi successivi, ma fino al momento dell’entrata in guerra i gruppi legati al garibaldinismo e a modelli volontaristici continuarono a muoversi tra i due poli dell’azione rivoluzionaria autonoma – nella prospettiva di provocare il casus belli – e della ricerca di una più o meno scoperta collaborazione con il governo. I loro movimenti si intrecciarono e talvolta si sovrapposero alle iniziative dei Fasci d’azione rivoluzionaria, sorti a Milano nel dicembre del ’14, in cui avrebbe avuto un ruolo di crescente importanza la figura di Mussolini155, e ai quali aderirono nel marzo i fratelli Garibaldi, riscuotendo il plauso entusiasta del «Popolo d’Italia». [...] il programma dei Fasci al quale i Garibaldi aderiscono, non contempla soltanto la necessità della guerra contro gli Imperi Centrali. Se la guerra si farà noi chiederemo un fucile per andare alle trincee, ma se, malgrado la nostra propaganda, la Monarchia deludesse le aspirazioni nazionali, noi speriamo di trovare un fucile per andare sulle barricate. I fratelli Garibaldi si associano al grido che echeggiò nella prima memorabile adunata dei Fasci: O il rischio della guerra, o il rischio della corona; accettano, dunque, il nostro programma d’azione interna che s’inspira – è bene ricordarlo – alle idealità socialiste e rivoluzionarie. Io credo che colla loro adesione, i fratelli Garibaldi abbiano voluto dimostrare che – dato il corso delle vicende italiane – il campo in cui si deve «agire» è l’Italia. [...] Volontari garibaldini, il vostro compito in Francia è finito. Noi vi

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aspettiamo in Italia. La Patria vi reclama. Vi reclama per combattere i nemici interni e quelli esterni. C’è bisogno di voi. C’è bisogno di tutti gli uomini liberi e vivi, per fare la Guerra o per fare la Rivoluzione156.

Era proprio la preoccupazione per questo ricatto politico ad emergere anche dai rapporti che giungevano al Ministero dell’Interno dalla Francia, dal consolato di Marsiglia in particolare: vi si denunciavano progetti miranti ad un «movimento antidinastico e rivoluzionario» che estendeva le sue trame al di qua e al di là delle Alpi, tentando di far proseliti anche tra i volontari appena congedati e facendo capo a gruppi e personaggi che avevano alimentato negli ultimi anni il volontariato garibaldino157. Il prefetto di Milano era per esempio convinto che, nel contesto particolarmente surriscaldato della città, la presenza dei reduci dalle Argonne non potesse che peggiorare la situazione. [...] il ritorno in Italia dei volontari della Francia, il fascino che permane, malgrado le vicissitudini di Grecia e Francia, per la storica camicia rossa, l’aureola di cui ostentatamente vuole circondarsi Peppino Garibaldi sono tante condizioni che avvalorano la possibilità di attuazione del ripetuto dilemma [«Guerra o Rivoluzione»] tanto per un colpo di mano contro l’Austria quanto per un moto insurrezionale interno158.

Ben poco di tutto ciò trapelava attraverso le pagine dei giornali, che avevano iniziato nel frattempo ad alimentare l’attesa per le celebrazioni di Quarto del 5 maggio in onore dei Mille, in cui sarebbe stato inaugurato il monumento di Eugenio Baroni. Il ruolo centrale attribuito come oratore a D’Annunzio eliminava ogni incertezza sul significato politico delle celebrazioni, che non a caso il re, all’ultimo momento, ritenne opportuno disertare. Torneremo in Italia – aveva scritto Camillo Marabini nella chiusa del suo diario –. [...] Ma prima [...] s’è dipartita dalla Argonna la grande avanguardia. È discesa per i Vosgi, è passata per Digione, s’è fermata sulla spiaggia di Nizza. Ora ha varcato l’Alpe, ha veleggiato nel cielo sopra San Martino e Solferino, e per Varese e per i dieci bivacchi gloriosi, dal Garda a Bezzecca, ha raggiunto le frontiere. Sono i morti, tutti i nostri morti che tornano. Sono passati al di sopra delle trincee, oltre il vallo, oltre le giogaie. Han varcato il Carso, il Cadore, l’Isonzo. Sono apparsi, improvvisi, nelle fiamme delle albe e dei tramonti, in ogni valle del Trentino, in ogni casa di Trieste. Han già segnata la strada. Sono tutti i nostri morti che tornano, sono i vittoriosi.

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Fratelli, che aspettate, è la rossa cavalcata della Argonna, è l’avanguardia della Patria. Dietro, verrà l’Italia tutta intiera159.

Era il genere di suggestioni di cui si serviva anche D’Annunzio per mettere in scena – attraverso la rievocazione delle ombre di Bruno e Costante – la sua «apoteosi riattualizzante del mito garibaldino»160. Assente il re, alla celebrazione di Quarto erano ben visibili molte rappresentanze delle istituzioni e gli ultimi superstiti della prima spedizione del 1860. Tra di loro mancava una figura che avrebbe ben potuto personificare la caratterizzazione interventista e irredentista che la cerimonia aveva voluto darsi. Infatti Ergisto Bezzi, il trentino dei Mille, il volontario di Bezzecca e di Mentana, mantenutosi negli anni fedele alle sue convinzioni mazziniane, aveva deciso di non parteciparvi. «Avverrà – aveva scritto – quello che avvenne nel cinquantesimo a Palermo. I vecchioni dei Mille serviranno a far fare una dimostrazione al re, ai ministri, senatori e deputati; alla larga...»161. A molti degli stessi corrispondenti di Bezzi, egli poteva apparire oramai – anche per quella presa di posizione – come un monumento fuori dalla storia: pur continuando a seguire con appassionata attenzione gli avvenimenti bellici e la prospettiva dell’annessione di Trento e Trieste, il vecchio garibaldino aveva progressivamente perduto gli entusiasmi per una guerra che l’Italia si apprestava ad intraprendere dopo aver a lungo oscillato tra uno schieramento e l’altro, e che – egli temeva – avrebbe rischiato di rinsaldare ancora una volta la monarchia e i tradizionali equilibri politici. Il giorno dopo la commemorazione l’«Avanti!», non senza qualche schematismo postumo, denunciava il tradimento della memoria di Giuseppe Garibaldi, che in quelle settimane, attraverso le vignette di Scalarini, si era già premurato di fustigare figli e nipoti: Nel nome del poeta puro si chiude così, con un ben congegnato apparato coreografico, un’altra serie della campagna guerraiola. Si chiude attorno alla figura di Garibaldi grande e sfolgorante, di Garibaldi che guidava schiere di volontari e non chiedeva la guerra dalle colonne dei giornali, di Garibaldi che non è stato mai strumento dei moderati, di Garibaldi che regalava regni e non chiedeva onori, di Garibaldi che si batteva a Digione ma non organizzava collette per i combattenti nei caffè parigini162.

Al pari degli eredi del Generale, anche gli altri reduci dalle Argonne sarebbero stati inghiottiti nella guerra di massa, come volontari e come mobilitati, perdendovi la vita o uscendone più o meno 312

trasformati. Tutto quello che ruotò attorno alla cerimonia di Quarto era pura rappresentazione, metteva in scena la compattezza di un fronte interventista che conservava in realtà al proprio interno elementi reciprocamente antagonistici. Ma ciò che contava – per un Paese che si apprestava ad entrare in guerra – era la vicendevole disponibilità a recitare sullo stesso palcoscenico. In quei mesi molti avevano proclamato di voler risolutamente perseguire un grande scopo attraverso il suo contrario: la guerra per sconfiggere la guerra, la violenza per combattere la sopraffazione, lo scontro tra nazioni per fondare gli Stati Uniti d’Europa, l’irreggimentazione per realizzare lo scardinamento dell’ordine sociale. Dinanzi a queste rivendicazioni di fedeltà ai propri principi, talvolta acrobatiche ed instabili, la linearità era stata, tutto sommato, dalla parte dei nazionalisti, che, nonostante il «voltafaccia» antitriplicista, non erano mai caduti vittime di trasporti emotivi né cercavano la legittimazione delle proprie scelte in una coerenza ideale correntemente intesa. Questo movimento – sostanzialmente privo di «tradizioni» invalidanti –, la cui nascita ufficiale era molto più recente rispetto alle altre culture politiche, aveva saputo forse meglio intravedere, non senza compiacimento, le novità più cupe del conflitto in corso e aveva inciso in maniera più caratterizzante sulla temperie che accompagnò la società italiana verso l’intervento.

Epiloghi

Lasciare i garibaldini sullo scoglio di Quarto – dopo averli incontrati cinquantacinque anni prima sulle sponde del Volturno – significa quasi abbandonarli alla deriva. Dalla vigilia dell’intervento la corrente li trascina direttamente al primo dopoguerra, traghettando poi alcuni di loro verso l’adesione più o meno duratura al fascismo. La consequenzialità – per nulla ovvia, ma centrale nell’autorappresentazione del regime – tra interventismo e Ventennio induce a citare innanzitutto questo tipo di itinerario1, la cui analisi implicherebbe una ricerca a sé stante. In queste brevi note conclusive intendo semplicemente introdurre in dissolvenza uno spunto di riflessione attorno a due percorsi significativi, a loro modo emblematici del tentativo di conciliare l’eredità garibaldina con le prese di posizione imposte dagli eventi politici italiani ed europei della prima metà del Novecento2. Camillo Marabini, l’autore di due dei più significativi diari in camicia rossa attraverso i quali abbiamo ricostruito le vicende degli anni Dieci, fu controllato dal Ministero dell’Interno dal 1906 alla caduta del fascismo. Per l’estensione e la ricchezza, il suo fascicolo personale è quasi una biografia politica non autorizzata3: fin dall’adolescenza era stato un acceso militante repubblicano, divenendo di lì a poco uno dei punti di riferimento, nella capitale, prima della Federazione giovanile e poi del Partito. Volontario in Grecia nel 1912 e di nuovo in Francia due anni dopo, ben rappresentò quella nuova generazione del garibaldinismo, per la quale il simbolo della camicia rossa assunse quasi il ruolo carismatico esercitato in vita dal Gene315

rale. Con l’entrata in guerra dell’Italia, Marabini si arruolò nel 51° fanteria della Brigata Alpi, comandata da Peppino Garibaldi, e combatté sul Col di Lana. Negli anni successivi si avvicinò progressivamente al fascismo, come ben testimoniato dall’introduzione che scelse di premettere, nel 1935, alla seconda edizione del suo diario del ’14-’15. L’estesa panoramica sul fenomeno volontaristico italiano, dagli anni Trenta dell’Ottocento alla Milizia, passava attraverso il discredito nei confronti dei repubblicani di fine secolo, che si sarebbero arrogati «il diritto di considerarsi i continuatori della tradizione mazziniana», rintanandosi «nelle società pubbliche e segrete»; si soffermava quindi sull’esaltazione del ruolo della monarchia al fianco delle forze popolari e celebrava poi nel regime la risurrezione dell’Italia. Dal ’22, infatti, Mussolini sarebbe riuscito a realizzare il miracolo che Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi non avevano potuto condurre a compimento: l’inserzione, cioè, della Rivoluzione italiana nello Stato italiano, la fusione dei due vibranti metalli, delle due forze nazionali in una sola4.

Quando dava alle stampe queste considerazioni, Marabini, che aveva sposato una donna francese, risiedeva già da alcuni anni al di là delle Alpi: radiato alla fine degli anni Venti dal Casellario politico, il suo fascicolo veniva riaperto nel 1938. In quell’anno aveva infatti partecipato a Verdun alla commemorazione dei combattimenti delle Argonne, inneggiando all’amicizia franco-italiana e sostenendo che la consequenzialità della storia era più forte della volontà di qualunque individuo5. Nel 1939 egli tornava ad essere osservato con sospetto dalla polizia politica fascista come presidente dell’Union des garibaldiens de l’Argonne, a cui si contrapponeva la Fédération des garibaldiens de l’Argonne, des Combattants dans l’Armée Française et Sympathisants Garibaldiens, guidata da Sante Garibaldi. Per il Ministero degli Esteri un gruppo valeva l’altro, e si prevedeva che all’«azione antitaliana» della «cricca» del nipote del Generale dei Mille, si sarebbe presto affiancata quella di Marabini, al quale era stata da poco ritirata la tessera del Partito per aver trasgredito alle «direttive del Regime»6. In realtà, da quel momento in poi questo reduce delle Argonne, in feroce concorrenza con le iniziative garibaldine autenticamente antifasciste, si impegnò senza soluzione di continuità a mobilitare forze contro il «pangermanesimo» e attorno ad una conciliazione tutta sua tra fascismo, francofilia e garibaldinismo, alla quale il governo di Mussolini non intendeva dare alcuna legittimazione. Mara316

bini, da buon vecchio volontario, riteneva invece di potersi autolegittimare, forte della tradizione di cui si sentiva erede e continuatore. Nel 1939 aprì un ufficio di reclutamento di volontari, che si contrapponeva ai progetti di arruolamento di stampo antifascista facenti capo a Sante Garibaldi e ai fuorusciti, tra i quali si segnalava il repubblicano Randolfo Pacciardi, già comandante in Spagna del battaglione «Garibaldi» delle Brigate internazionali. Entrambe queste iniziative non ebbero però alcun concreto successo7. Tra il ’39 e il ’40 Marabini tentò persino di organizzare una spedizione a favore della Finlandia aggredita dall’URSS, ma fu fermato e internato dal governo britannico, per essere ricondotto, in seguito, oltre Manica. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia fu considerato a torto da Roma un antifascista, in quanto nemico irriducibile dell’Asse, mentre l’ex garibaldino continuava ad esibire in pubblico il distintivo del PNF: da parte sua, Mussolini autorizzò le forze tedesche in Francia a fare di lui ciò che volevano, se avesse persistito nelle sue attività8. Il progetto di Marabini – che sognava di ricostituire un’avanguardia di solidarietà armata tra la Francia di Pétain e l’Italia di Mussolini contro i boches – era allo stesso tempo grottesco ed inquietante. Il suo tentativo autenticamente appassionato di essere coerente con la propria identità garibaldina senza venir meno, alla vigilia del conflitto e poi nel pieno della seconda guerra mondiale, alla fedeltà al fascismo, era poco meno di un delirio e finì col perdersi nel cupo binario morto della Francia di Vichy. Quando, il 25 aprile del 1962, Marabini prese la parola in occasione della traslazione a Senigallia delle ceneri di Giuseppe Chiostergi9 – il suo compagno della Grecia e delle Argonne, ma soprattutto l’antifascista – il profilo che si materializzò fu quello di un sopravvissuto. Il vecchio repubblicano d’inizio secolo rappresentava in quella sede l’Associazione dei Garibaldini di Francia, di cui era presidente: egli parlò come se non fosse mai uscito dalla foresta delle Argonne, come se ancora avesse dinanzi a sé il bersaglio polemico dei neutralisti e dei filotriplicisti. Il patrimonio di ricordi, di scelte e di esperienze a cui poteva fare ricorso per celebrare il ricordo di Chiostergi si fermava al 1915 o al più tardi al ’18. In questo modo si rivolgeva idealmente al suo compagno d’armi: Ricordi, Beppe, la sera del Natale 1914? Marino, Duranti, Lurgo ed io ce n’eravamo andati lungo la strada della Maison Forestière, t’incontrammo e tu fosti così lieto di riabbracciare Lamberto, che ti era stato compagno in Albania. [...] Per controbattere gli intrighi degli emissari austriaci e

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tedeschi, aiutati dai neutralisti italiani, occorreva, ed era urgente, che molto sangue scorresse, che molti morti contrastassero quegli intrighi, occorreva che ogni luogo della nostra terra s’inorgoglisse dell’olocausto dei volontari, infiammasse l’anima del popolo italiano, che è anima garibaldina10.

Tre anni dopo quella cerimonia, Marabini concludeva i suoi giorni a Parigi. Anche Aldo Spallicci – all’epoca presidente dell’Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini – aveva speso calde parole per commemorare Giuseppe Chiostergi: gli era infatti stato accanto nella spedizione greca del 1912 e aveva condiviso con lui la permanenza a Nizza, nell’autunno del ’14, prima che la Compagnia «Mazzini» si sciogliesse. Nemmeno il romagnolo riusciva a non tornare a quelle esperienze giovanili, ma poteva concludere celebrando l’attività ginevrina del defunto, sempre ispirata a liberi sensi di italianità, che non si arrestò né durante il conflitto, né durante il ventennio fascista. Tenace combattente dell’ideale repubblicano, i garibaldini gli rendono l’omaggio che si deve ai benemeriti del pensiero e dell’azione11.

Con Chiostergi, infatti, Spallicci aveva condiviso anche la scelta antifascista, sedendo poi al suo fianco all’Assemblea Costituente. Controllato dalla metà degli anni Venti12, quest’altro mazziniano innamorato della camicia rossa era stato presto costretto ad allontanarsi dalla sua terra d’origine per i continui contrasti con i fascisti locali e a spostarsi a Milano, per essere poi internato in provincia di Avellino nel marzo del 1941. Durante il Ventennio, Spallicci e i gruppi con cui era in relazione – rappresentati come rami secchi dello sviluppo storico italiano – dovettero ridursi a forme di dissenso e di «culto» quasi catacombali. Nel 1936 la questura di Forlì riferiva al Ministero dell’Interno che Spallicci aveva prodotto e spedito in loco tre bozze di epigrafi da scolpire in onore del defunto Giuseppe Gaudenzi, repubblicano aventiniano e antifascista fino alla morte. Egli vi veniva ricordato come il «tribuno / che / le accese folle di Romagna / sospinse / verso i campi del giusto», spentosi il 10 luglio 1936, «nell’ora trista dei lupi / che nel mondo imperversa»13. Ma queste parole avrebbero potuto al massimo essere impresse sul muro di un podere di Pievequinta, un villaggio a pochi chilometri da Forlì. Al contrario di Marabini, però, Spallicci e, su un altro livello, Giuseppe Chiostergi poterono credere, senza troppe forzature, di 318

tener fede ai propri ideali originari lungo i decenni, ed essere protagonisti della Costituente repubblicana sognata da Mazzini, rappresentanti di uno Stato nato anche da una guerra volontaria di popolo, uscendo dal conflitto mondiale al fianco dell’amata Francia. Con ciò non si vuole suggerire che il garibaldinismo del ’12 e del ’14-’15 potesse autenticamente contenere in sé solo le premesse dell’antifascismo; s’intende però sottolineare in quale delle due direzioni la fedeltà alla camicia rossa poté essere conservata solo a prezzo di profondi strappi, che imposero, alla fin fine, l’alternativa tra l’emarginazione e la sua sostituzione con la camicia nera.

Note

SIGLE E ABBREVIAZIONI

ACS ASSV AUSSME MCRR

Archivio centrale dello Stato (Roma) Archivio della Società di studi valdesi (Torre Pellice) Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (Roma) Museo Centrale del Risorgimento (Roma)

A5G Prima Ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica Guerra Mondiale sicurezza, Affari generali e riservati, A5G, Prima Guerra Mondiale Biografie Ministero dell’Interno, Biografie dei sovversivi (1861dei sovversivi 1869) CPC Ministero dell’Interno, Casellario Politico Centrale Crispi, ASP Carte Crispi, Archivio di Stato di Palermo Crispi, DSPP Carte Crispi, Deputazione di Storia Patria di Palermo Crispi, RE Carte Crispi, Reggio Emilia DGPS Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Ufficio Riservato Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari generali e riservati Grazia Ministero di Grazia e Giustizia, Direzione Generale dee Giustizia gli Affari Penali, delle Grazie e del Casellario, Miscellanea I Mille Ministero dell’Interno, I Mille di Marsala di Marsala PCM, Guerra Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra Europea Europea (1915-1918) 1915-1918

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Rapporti dei prefetti Segretariato generale per gli affari civili

Ministero dell’Interno, Gabinetto, Rapporti dei prefetti (1882-1894) Comando supremo, Segretariato generale per gli affari civili

AP b./bb. CD DDI fasc. ins. n.s. reg. R.d. s. sc./scc. s/fasc. s.l. s.n.t. VM v.s. vol./voll.

Atti Parlamentari busta/e Camera dei Deputati I Documenti Diplomatici Italiani fascicolo inserto nuova serie registro Regio decreto serie scatola/e sottofascicolo senza luogo senza nota tipografica volume manoscritto vecchia serie volume/i

Prologo 1 Da Marsala al Volturno. Ricordi di E. Z.[Zasio], Tipografia editrice Sacchetto, Padova 1878, p. 135. 2 Sui volontari del 1859 si veda A.M. Isastia, Il volontariato militare nel Risorgimento. La partecipazione alla guerra del 1859, Stato Maggiore dell’Esercito - Ufficio Storico, Roma 1990. 3 Sulle dinamiche legate al venir meno di una quadro istituzionale e politico si può far riferimento a Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, a cura di P. Macry, Liguori, Napoli 2003. 4 Su questi aspetti si veda D. Mack Smith, Cavour e Garibaldi nel 1860 (1954), Einaudi, Torino 1958. 5 Il carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, IV, La liberazione del Mezzogiorno, Zanichelli, Bologna 1929, p. 122. Il testo della lettera è in francese (traduzione mia). 6 Sulla dimensione militare del personaggio si veda Garibaldi condottiero. Storia, teoria, prassi, a cura di F. Mazzonis, Franco Angeli, Milano 1984. 7 Cfr. G. Pécout, P. Dogliani, Il volontariato militare italiano. L’eredità di un’avventura nazionale e internazionale, in La scelta della patria. giovani volontari nella Grande Guerra, a cura di P. Dogliani, G. Pécout, A. Quercioli, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto 2006. Si veda anche il catalogo della mostra allestita

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dal Museo del Risorgimento di Bologna, Giovani, volontari e sognatori. I Garibaldini dal Risorgimento alla Grande Guerra, a cura di R. Balzani, M. Gavelli, O. Sangiorgi, F. Tarozzi, Costa, Bologna 2003. PARTE PRIMA

Capitolo primo 1 Il decreto dell’11 novembre 1860 stabiliva che i volontari avrebbero formato un corpo separato dall’esercito regolare con ferma di due anni per la bassa forza; gli ufficiali avrebbero potuto entrare nell’armata dopo essersi sottoposti al giudizio di una Commissione di scrutinio mista. Ufficiali, sottufficiali e soldati, presentando le dimissioni, avrebbero goduto della gratificazione di sei mesi di paga. Sullo scioglimento dell’Esercito meridionale si possono vedere F. Molfese, Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, «Nuova Rivista Storica», XLIV, 1960, 1, pp. 1-53; P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Einaudi, Torino 1962, pp. 734-744; M. Mazzetti, Dagli eserciti preunitari all’esercito italiano, «Rassegna storica del Risorgimento», LIX, 1972, 4, pp. 563-592. 2 Alla fine, nell’autunno del ’60, l’Esercito meridionale era arrivato a contare circa 50.000 uomini complessivi, di cui 7000 ufficiali. 3 Il dibattito alla Camera si svolse in particolare nelle sedute dell’8, 9 e10 ottobre 1860. 4 AP, CD, Discussioni, VII legislatura, sessione del 1860, tornata dell’11 ottobre 1860, pp. 1000-1002. 5 Ibid. 6 Ibid. 7 Ivi, VIII legislatura, sessione del 1861, tornata del 2 aprile 1861, p. 361. 8 Ivi, pp. 361-368. 9 Ivi, tornata del 4 aprile 1861, p. 395. 10 Come osserva Molfese, il decreto riduceva il Corpo volontari italiani «ad organismo puramente di quadri» (Molfese, Lo scioglimento cit., p. 41); gli ufficiali previsti, circa 2200, dovevano essere scelti tra quelli riconosciuti dalla Commissione di scrutinio, ma gli stessi erano collocati in disponibilità o in aspettativa. Gli arruolamenti dei volontari, che avrebbero dovuto costituire la bassa forza, erano genericamente rimandati al futuro. L’art. 13 accordava al ministro della Guerra la facoltà di chiamare singoli ufficiali a frequentare corsi d’istruzione, su richiesta dei comandi divisionali. 11 Faccio riferimento alle sedute del 13, 18, 19 e 20 aprile 1861. 12 Sedute del 23 e 25 marzo 1861. 13 AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861, tornata del 23 marzo 1861, pp. 274-275. 14 Come puntualizza Molfese, il decreto fu in realtà pubblicato a Torino, a firma di Cavour e Fanti, solo il 16 novembre, ma appositamente retrodatato all’11. Il provvedimento aveva come antecedente immediato il Consiglio svoltosi presso Vittorio Emanuele proprio l’11 novembre a Napoli. In quella contingenza Fanti e Della Rocca avevano espresso tutte le loro riserve rispetto ai garibaldini, mentre Farini – per opportunità politica e su mandato di Cavour – aveva tentato di ammorbi-

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dire la loro linea, proponendo gratificazioni di tipo pensionistico ed economico. Quest’incontro produsse innanzitutto l’ordine del giorno che il re indirizzò alle truppe il 12 novembre, anticipando in sostanza i contenuti del decreto poi retrodatato; l’atto conclusivo fu però rappresentato dal Consiglio dei ministri svoltosi a Torino il giorno 14, cui partecipò lo stesso Fanti, in arrivo dal Sud e pronto a riscuotere il consenso della linea perorata dai vertici dell’esercito regolare. L’esito finale costituì anche una vittoria politica per Cavour, che vide neutralizzati i progetti dei generali garibaldini dalla rigidità della posizione di Fanti e rispettate le opportunità di politica interna grazie ai ritocchi più moderati voluti da Vittorio Emanuele (cfr. Molfese, Lo scioglimento cit., pp. 25-27). 15 Questa denuncia, contrapposta alla presunta inflessibilità dell’esercito regolare, era una delle argomentazioni tipiche di Fanti, che piegava però la rappresentazione dei fatti ai propri obiettivi politici. 16 ACS, Archivio Manfredo Fanti, scatola unica, copia di lettera di Fanti a Vittorio Emanuele II, Napoli, 11 novembre 1860, su carta intestata «Comando Generale dell’Armata». Il foglio porta un’aggiunta a penna di Fanti: «Lettera da me scritta e presentata a S.M. Fu in seguito di questa lettera che sono partito da Napoli per Torino, onde stabilire in Consiglio di Ministri il modo e le norme di condotta inverso delle truppe o volontarj di Garibaldi». Alla missiva faceva seguito una bozza di decreto proposta da Fanti, che nella sostanza avrebbe trovato riscontro nella stesura definitiva del provvedimento. 17 Su Sirtori si veda infra, cap. 5, paragrafo 2. 18 AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861, tornata del 23 marzo 1861, pp. 275-276. 19 Ivi, tornata del 20 aprile 1861, pp. 622-623. 20 Ivi, tornata del 18 aprile 1861, pp. 568-569. 21 Ivi, p. 569. 22 Ivi, pp. 570-571. 23 Ivi, pp. 578-579. 24 Cfr. ivi, p. 581. 25 Sulla Guardia nazionale si deve far riferimento a E. Francia, Le baionette intelligenti. La guardia nazionale nell’Italia liberale (1848-1876), Il Mulino, Bologna 1999. 26 «Il progetto di legge per l’armamento – scriveva Mordini a Fabrizi – sarà adottato con tali modificazioni che non sarà più il suo. Cavour ha paura di armare i nullatenenti» (ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 3, fasc. 20, n. 190, lettera di Antonio [Mordini] a Fabrizi, Torino, 5 maggio 1861). 27 AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861, tornata del 20 giugno 1861, p. 1438. 28 ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 3, fasc. 17, n. 34, lettera non firmata, Catania, 2 febbraio 1861. 29 Ivi, fasc. 23, n. 329, lettera di Luigi Fabrizi al fratello, Torino, 10 ottobre 1861. 30 Ivi, sc. 2, fasc. 15, n. 13, Luigi Fabrizi al fratello, Napoli, 8 novembre 1860. 31 Cfr. Molfese, Lo scioglimento cit., pp. 28-32. Anche gli archivi militari raccolgono documentazione significativa al riguardo. Si può vedere in particolare AUSSME, G-3/25. Le relazioni si riferiscono tra le altre cose alle turbolenze dei garibaldini nei teatri, dove la richiesta dell’Inno di Garibaldi era considerata dalle autorità militari come un pretesto per suscitare disordini. A livello di ordine pubbli-

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co, un problema solo apparentemente banale era rappresentato per esempio dal fatto che molti ex garibaldini continuassero a portare armi e divisa anche alcuni mesi dopo aver rassegnato le dimissioni. Ciò si legava del resto al fenomeno dei finti garibaldini che ostentavano camicie rosse per godere di considerazione in alcune comunità. Si trattava di un fenomeno più diffuso al Sud, ma di certo non circoscritto a quella realtà, e registrato con preoccupazione, per esempio, anche a Milano (cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto Serie I, 1849-1878, b. 17, fasc. 160). 32 Il 28 ottobre Garibaldi aveva consegnato il comando dell’esercito volontario al generale Della Rocca, che lo cedette al garibaldino Sirtori. 33 Cfr. Molfese, Lo scioglimento cit., pp. 24-25. 34 AUSSME, G-3/25, lettera di Ferdinando Festacini a Sirtori, Napoli, 29 dicembre 1860. 35 ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 3, fasc. 18, bozza di lettera di Fabrizi ad Antonio [Mordini], 25 marzo 1861. 36 Ivi, fasc. 17, n. 64, bozza di lettera di Fabrizi a Fanti, Malta, 23 febbraio 1861. 37 Molfese, Lo scioglimento cit., p. 29. 38 Ivi, p. 32. 39 Cfr. ibid. 40 ACS, Crispi, ASP, fasc. 115, s/fasc. I, lettera del consigliere Turrisi al Comandante Generale Militare Brignone, 24 gennaio 1861. 41 ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 2, fasc. 15, n. 5, Francesco Savona a Fabrizi, Messina, 23 dicembre 1860. 42 Ivi, sc. 3, fasc. 17, n. 16, Savona a Fabrizi, Messina, 29 gennaio 1861. 43 Ivi, fasc. 19, n. 185, Savona a Fabrizi, 30 aprile 1861. 44 Ivi, fasc. 18, n. 89, Biagio Politi a Fabrizi, Noto, 9 marzo 1861. 45 Ivi, n. 129, Giuseppe Fanelli a Fabrizi, Napoli, 31 marzo 1861. 46 Ivi, n. 113, Domenico Piazzabiocca a Fabrizi, Palermo, 24 marzo 1861. 47 Cfr. AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861, tornata del 19 aprile 1861, pp. 595-597. 48 ACS, Crispi, DSPP, b. 153, fasc. 1600, Luigi La Porta a Crispi, MondovìBreo, 18 agosto 1861. 49 Per gli ufficiali la cui posizione non era stata ancora definita dalla Commissione di scrutinio, l’anzianità sarebbe decorsa dalla data del decreto di conferma. 50 Gli ufficiali in eccedenza di questa categoria sarebbero stati collocati in aspettativa. 51 ACS, Crispi, ASP, fasc. 119, s/fasc. II, lettera a Crispi, s.l., s.d. 52 ACS, Crispi, DSPP, b. 153, fasc. 1600, La Porta a Crispi, Mondovì-Breo, 6 aprile 1862. 53 AP, CD, Discussioni, VII legislatura, sessione del 1860, tornata del 9 ottobre 1860, p. 1008. 54 ACS, Crispi, ASP, fasc. 103, s/fasc. I, Bertani a Crispi (su carta intestata «Soccorso a Garibaldi. Cassa Centrale in Genova »), Genova, 26 gennaio 1861. 55 Ferrari a Crispi, Torino, 13 ottobre 1860, in Carteggi politici di Francesco Crispi (1860-1900) estratti dal suo archivio e annotati da T. Palamenghi-Crispi, L’Universelle, Roma [1912], pp. 2-3. 56 ACS, Crispi, ASP, fasc. 109, s/fasc. X, Bertani a Crispi, Miasino sopra Orta (No), 31 ottobre 1860. 57 Mordini a Crispi, Napoli, 19 gennaio 1861, in Carteggi politici cit., pp. 18-20. 58 Bertani a Crispi a Torino, Genova, 9 aprile 1861, ivi, p. 26.

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59 Cfr., tra le altre, ACS, Crispi, ASP, fasc. 114, s/fasc. XLII, Crispi a Bertani, 15 aprile 1861. 60 Ivi, s/fasc. XI, Bertani a Crispi, Genova, 13 aprile 1861. 61 Ivi, n. 134, Abele Damiani a Crispi, Torino, 6 aprile 1861. 62 ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 3, fasc. 19, n. 167, Damiani a Fabrizi, Torino, 19 aprile 1861. 63 Ivi, fasc. 20, n. 190, Antonio [Mordini] a Fabrizi, Torino, 5 maggio 1861. 64 MCRR, Carte Bargoni, b. 221, f. 22, n. 8, lettera anonima alla direzione del «Diritto», [24 aprile 1861]. 65 ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 3, fasc. 20, n. 211, Damiani a Fabrizi, Torino, 17 maggio 1861. 66 Bertani a Crispi, Genova, 16 agosto 1861, in Carteggi politici cit., pp. 47-48. 67 ACS, Crispi, ASP, fasc. 114, s/fasc. XII, Asproni a Crispi, Palermo, 6 giugno 1861. 68 Crispi a Rosario Bagnasco, Torino, 24 maggio 1861, in Carteggi politici cit., p. 35. 69 ACS, Crispi, ASP, fasc. 119, s/fasc. II, minuta autografa di Crispi agli amici, Torino, 29 gennaio 1862. 70 ACS, Crispi, RE, sc. 1, ins. 7, Copialettere autografo di Francesco Crispi 14 febbraio 1862-8 aprile 1862, Crispi a [Domenico] Peranni, Torino, 4 marzo 1862. 71 Ivi, Crispi a Luigi [?], Torino, 29 marzo 1862. 72 MCRR, Archivio Garibaldi, b. 47, fasc. 8, n. 1, Alberto Mario a Garibaldi, Manchester, 1° febbraio 1862. La missiva era stata sollecitata dalla recente assemblea dei Comitati di provvedimento, che aveva eletto Mario a membro di un Comitato centrale in cui i mazziniani rappresentavano la maggioranza. 73 Sedute del 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 10 e 11 dicembre 1861. 74 AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861, tornata del 2 dicembre 1861, p. 83. 75 Ibid. 76 Ivi, p. 84. 77 Ivi, pp. 90-91. 78 Cfr. ivi, tornata del 7 dicembre 1861, pp. 187-190. 79 Ivi, pp. 191-192. 80 Ivi, tornata dell’8 dicembre 1861, p. 205. 81 Ivi, p. 206. 82 Ivi, pp. 206-207. 83 Ivi, tornata del 10 dicembre 1861, p. 272. 84 Il 27 maggio, «Il Diritto», 27 maggio 1861. 85 Cfr., per esempio, Palermo, 12 novembre, «Il Precursore», 15 novembre 1860. 86 [F.C.], Palermo, 5 gennaio, «Il Precursore», 6 gennaio 1861. 87 Cfr. Gli ufficiali garibaldini di Sicilia, «La Campana della Gancia», 14 marzo 1861. 88 Piemontesismo, «La Campana della Gancia», 26 ottobre 1861. 89 Le due correnti, «La Campana della Gancia», 22 marzo 1861. 90 Palermo, 1 dicembre, «Il Precursore», 2 dicembre 1860. Il corsivo è mio. 91 Gli amici e i nemici della Monarchia, «La Campana della Gancia», 5 maggio 1861. 92 Ibid.

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93 Cfr., per esempio, F. Perroni Paladini, Attualità, «La Campana della Gancia», 12 aprile 1861. L’autore dell’articolo, importante esponente siciliano del Partito d’Azione, era all’epoca direttore del quotidiano. 94 Un consiglio, «La Campana della Gancia», 16 aprile 1862. 95 Lo stesso Crispi, sfuggito all’arresto ordinato da La Farina, chiariva dalle pagine del «Precursore» questa doppia valenza del rispetto della legalità: cfr. Rettificazioni, «Il Precursore», 5 gennaio 1861. 96 F.P.P., La situazione, «La Campana della Gancia», 16 marzo 1861. 97 I garibaldini e le cose di Napoli, «Il Precursore», 8 agosto 1861. 98 Obbligato il riferimento a P. Pezzino, La congiura dei pugnalatori. Un caso politico-giudiziario alle origini della mafia, Marsilio, Venezia 1992. 99 ACS, Crispi, ASP, fasc. 114, s/fasc. XLII, Crispi a Bertani, Palermo, 27 agosto 1861. 100 ACS, Crispi, DSPP, b. 157, fasc. 1860, Luigi Pellegrino a Crispi, Palermo, 9 aprile 1861. 101 ACS, Archivio Nicola Fabrizi, sc. 3, fasc. 18, n. 157, Giovanni Aliamo (da inventario Adamo) a Fabrizi, Licata, 13 aprile 1861.

Capitolo secondo Il fatto di Brescia, «La Campana della Gancia», 22 maggio 1862. AUSSME, G-13/23, fasc. 845, comandante del 19° reggimento fanteria Barberis al ministro della Guerra, Brescia, 22 maggio 1862. 3 Ivi, ministro della Guerra al comandante del 19° reggimento fanteria Barberis, Torino, 24 maggio 1862. 4 Ivi, fasc. 841. I corsivi sono miei. 5 DDI, 1a s. (1861-70), vol. II (31 dicembre 1861-31 luglio 1862), Vittorio Emanuele II al principe Napoleone, Torino, 22 aprile 1862, pp. 310-311. 6 Ivi, Costantino Nigra a Giacomo Durando, Parigi, 12 giugno 1862, p. 434. 7 Dal Volturno ad Aspromonte. Memorie del colonnello Giacinto Bruzzesi, Arnaldo De Mohr e C., Milano 1907, pp. 53-54. 8 MCRR, VM 8 (Archivio Jessie White Mario, Ricordi di Ergisto Bezzi), lettera di Ergisto Bezzi a Giuseppe [Castiglioni], Milano, 13 luglio 1883. 9 ACS, Crispi, ASP, fasc. 123, s/fasc. VI, Crispi a Garibaldi, Napoli, 16 maggio 1862. 10 ACS, Archivio Fabrizi, sc. 2, fasc. 26, n. 5, Fabrizi ad Abele Damiani, Torino, 18 luglio 1862. 11 ACS, Crispi, DSPP, b. 161, fasc. 2075, Francesco Sprovieri a Crispi, Parma, 7 agosto 1862. I corsivi sono miei. 12 ACS, Crispi, ASP, fasc. 125, s/fasc. VI, Andrea Guarneri (già ministro della Giustizia nel governo garibaldino in Sicilia) a Crispi, Palermo, 1° luglio 1862. 13 Cfr. Guerzoni a Mordini, Palermo 23 luglio 1862, in M. Rosi, Il Risorgimento italiano e l’azione di un patriota, cospiratore, soldato, Roux e Viarengo, Roma-Torino 1906, p. 436. 14 ACS, Crispi, DSPP, b. 156, fasc. 1756, Mordini a Crispi, Napoli, 8 agosto 1862. 15 MCRR, b. 236, fasc. 51, n. 5, Mordini ad Angelo Bargoni, Napoli, 8 agosto 1862. 1 2

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Ivi, n. 8, lettera di Mordini a Bargoni, Catania, agosto 1862. Ivi, b. 233, fasc. 54, n. 11, Giuseppe Civinini a Bargoni, Palermo, 20 luglio

1862. Ivi, fasc. 55, n. 6, Civinini a Bargoni, Campo di M., 4 agosto 1862. Dal Volturno ad Aspromonte cit., pp. 243-244. 20 Malinconie, «La Campana della Gancia», 29 maggio 1862. 21 Parliamoci chiari, «La Campana della Gancia», 28 maggio 1862. 22 Cfr. A che siamo, «La Campana della Gancia», 20 agosto 1862. 23 La situazione, «La Campana della Gancia», 19 agosto 1862. 24 ACS, Crispi, ASP, fasc. 122, s/fasc. III, Bertani a Garibaldi, Torino, 30 giugno 1862. 25 Cfr. Milano, 4 agosto, «La Perseveranza», 5 agosto 1862. 26 Cfr. Notizie politiche, «La Perseveranza», 9 agosto 1862. 27 Italia e Vittorio Emanuele, «La Perseveranza», 12 agosto 1862. 28 Milano, 19 agosto, «La Perseveranza», 19 agosto 1862. 29 Cfr. Sicilia e Roma, «La Perseveranza», 26 luglio 1862. 30 DDI, 1a s. (1861-70), vol. II (31 dicembre 1861-31 luglio 1862), Giorgio Pallavicino a Rattazzi, Palermo, 11 luglio 1862, pp. 530-531. 31 Queste argomentazioni erano molto simili a quelle utilizzate il 3 agosto in Parlamento da Francesco Crispi, che ricordava come nessuno in Sicilia avesse violato la legge né avesse inteso mettere in discussione Vittorio Emanuele e il programma del ’60 (cfr. AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861-62, tornata del 3 agosto 1862, pp. 4025-4026). C’è da ricordare che lo stesso Garibaldi, nel celebre proclama catanese del 24 agosto, aveva ribadito questi presupposti: fedeltà al programma del plebiscito; riconoscimento dell’autorità del re, ma non del Ministero; auspicio che l’esercito si associasse ai maggioritari spiriti antigovernativi della nazione. 32 Cfr. DDI, 1a s. (1861-70), vol. III (1 agosto 1862-9 luglio 1863), Giacomo Durando a Nigra, Torino 10 agosto 1862, pp. 530-531. 33 Cfr. Torino, 8 agosto, «Il Diritto», 9 agosto 1862. Si veda anche Torino, 26 agosto, «Il Diritto», 27 agosto 1862. 34 Cfr. in particolare Torino, 9 agosto, «Il Diritto», 10 agosto 1862; Torino, 24 agosto, «Il Diritto», 25 agosto 1862. 35 Cfr. DDI, 1a s. (1861-70), vol. III (1 agosto 1862-9 luglio 1863), Gioacchino Napoleone Pepoli a Rattazzi, Parigi, 22 agosto 1862, pp. 44-45. 36 Cfr. AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861-62, tornata del 3 agosto 1862, p. 4021. 37 Aspromonte e Mentana. Documenti inediti con introduzione e note di Alessandro Luzio, Le Monnier, Firenze 1935, p. 190. 38 Il decreto di stato d’assedio per la Sicilia fu firmato il 17 agosto e pubblicato il 20; per il Napoletano fu firmato il 20 e pubblicato il 25. In entrambi i casi lo si revocò solo il 16 novembre. 39 Cfr. Aspromonte e Mentana cit., pp. 228 e 252. 40 Ivi, p. 234. 41 AUSSME, G-13/26, fasc. 9, telegramma di Agostino Petitti ad Efisio Cugia, Torino, 10 agosto 1862, h. 3 pomeridiane. 42 Ivi, telegramma di Petitti a Cugia, Torino, 10 agosto 1862, h. 8.15 antimeridiane. 43 Ivi, telegramma di Petitti a Cugia, Torino, 13 agosto 1862. 44 Ivi, telegramma di Petitti ad Alfonso La Marmora, Torino, 26 agosto 1862. 18 19

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45 G. Asproni, Diario politico 1855-1876, III, 1861-1863, Giuffrè, Milano 1980, p. 294. 46 AUSSME, G-13/26, fasc. 9, telegramma di Petitti a Cugia, Torino, 18 agosto 1862. 47 DDI, 1a s. (1861-1870), vol. III (1 agosto 1862-9 luglio 1863), Nigra a Giacomo Durando, Torino, 18 agosto 1862, p. 56. 48 Cfr. ivi, Nigra a Giacomo Durando, Parigi, 22 agosto 1862. 49 Per un panorama complessivo dei settori democratici in quegli anni rimane fondamentale il riferimento a A. Scirocco, I democratici italiani da Sapri a Porta Pia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1969. 50 Cfr. ACS, Crispi, RE, sc. 1, ins. 11, Copialettere autografo di Francesco Crispi 22 settembre 1862-13 ottobre 1862, Crispi a ’Nzulo [Vincenzo Favara], Torino, 22 settembre 1862. 51 Ivi, Crispi a Saverio [Friscia], Torino, 11 ottobre 1862. 52 Ivi, Crispi a Giovannino [Giovanni Raffaele, già ministro dei Lavori Pubblici nel governo garibaldino in Sicilia], Torino, 23 ottobre 1862. 53 Nonostante l’amnistia risalisse a inizio ottobre, nel gennaio del 1863 si trovavano ancora nei forti genovesi più di 100 garibaldini in attesa di rimpatrio. Cfr. AUSSME, G-14-18/3, fasc. 15. 54 Cfr. ibid. 55 ACS, Crispi, ASP, fasc. 125, s/fasc. XXVII, Stanislao Marchese, Lucio Scherina, Antonino Gruccione a Crispi, Forte di Bard, 25 settembre 1862. 56 Ivi, s/fasc. XX, Antonino Colombo a Crispi, a bordo del Venezia, 6 settembre 1862; cfr. anche ivi, Antonino Colombo (indica «di Calatafimi») a Crispi, Forte di Bard, 16 settembre 1862. 57 Al di là di queste sollecitazioni, Crispi, come testimoniano anche le sue carte, assunse la difesa di alcuni volontari imputati di diserzione. 58 ACS, Crispi, ASP, fasc. 125, s/fasc. VIII, Civinini a Crispi, Forte Monteratti, 12 settembre 1862. 59 AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861-62, tornata del 20 novembre 1862, pp. 4444-4445. 60 Ivi, p. 4447. 61 Mordini faceva in particolare riferimento al fatto che, quando venne proclamato lo stato d’assedio, il Senato era ancora aperto e non fu interpellato. 62 C. Bon-Compagni, Il Ministero Rattazzi ed il Parlamento, Gaetano Brignola Editore, Milano 1862. Bon-Compagni vi sosteneva le stesse tesi espresse alla Camera. 63 AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861-62, tornata del 20 novembre 1862, pp. 4440-4441. 64 Ivi, p. 4457. 65 Ivi, p. 4461. 66 Ivi, tornata del 22 novembre 1862, p. 4494. 67 Ibid. 68 Ivi, pp. 4496-4497. 69 Ivi, pp. 4495-4496. 70 Cfr. ivi, tornata del 21 novembre 1862, pp. 4456-4457. Sulla vicenda si veda AUSSME, G-4/2. 71 Cfr., tra gli altri, Torino, 2 settembre, «Il Diritto», 3 settembre 1862; Torino, 7 settembre, «Il Diritto», 8 settembre 1862. Gli interessati produssero anche una

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breve pubblicazione sulla vicenda: Petizione dei 32 ufficiali rimossi della Brigata Piemonte, Tipografia Cavour, Torino 1862. 72 Aspromonte e Mentana cit., pp. 291-292. 73 Cfr. ACS, Tribunali militari di guerra di Palermo, Messina, Catania e Catanzaro (1862), bb. 1-6. 74 Stando alle fonti dell’Ufficio Storico, sull’Aspromonte si ebbero complessivamente 12 morti e 44 feriti, distribuiti quasi equamente tra regolari e volontari (cfr. AUSSME, L-3/251, fasc. 4). 75 Nei suoi ricordi Bennici dichiarava di aver usufruito della possibilità di dimettersi che gli era stata offerta, ma di non aver aspettato che le sue dimissioni, regolarmente presentate, fossero formalmente accettate. In effetti nella sentenza egli appare imputato e condannato per tradimento – non per diserzione – essendosi poi unito ai garibaldini (ACS, Tribunali militari di guerra di Palermo, Messina, Catania e Catanzaro (1862), b. 6). 76 Dopo Aspromonte. Ricordi di Giuseppe Bennici, Tipografia Cerutti e Derossi, Torino 1865, pp. 1-2. 77 Ivi, p. 2. 78 Ivi, p. 13. 79 Ivi, p. 23. 80 Ivi, p. 44. 81 Cfr. ivi, p. 43. 82 Ivi, p. 23. 83 Cfr., per esempio, Aspromonte. Ricordi storico-militari del marchese Ruggiero Maurigi già aiutante di campo del generale Garibaldi, Tipografia del Diritto diretta da Carlo Bianchi, Torino 1862. 84 Una voce dalle prigioni, Il fatto di Aspromonte, Tip. Veladini e C., Lugano 1862, pp. 16-31. 85 Asproni, Diario politico, III cit., p. 334, nota del 3 novembre 1862. 86 Ivi, p. 295. 87 DDI, 1a s. (1861-70), vol. III (1 agosto 1862-9 luglio 1863), pp. 138-139. Il testo è in francese (traduzione mia).

Capitolo terzo 1 DDI, 1a s. (1861-70), vol. III (1 agosto 1862-9 luglio 1863), Terenzio Mamiani a Emilio Visconti Venosta, Atene, [aprile 1863], pp. 497-498. 2 Su questi aspetti è ricco di informazioni il volume di A. Tamborra, Garibaldi e l’Europa. Impegno militare e prospettive politiche, Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1983. 3 Cfr. L.E. Funaro, L’Italia e l’insurrezione polacca: la politica estera e l’opinione pubblica italiana nel 1863, Società tipografica editrice modenese, Modena 1964, p. 27. 4 Si vedano al riguardo la ricostruzione e le considerazioni di A. Liakos, L’unificazione italiana e la Grande Idea. Ideologia e azione dei movimenti nazionali in Italia e in Grecia, Aletheia, Firenze 1995, pp. 60-75. Sul mito di Garibaldi e sui greci in camicia rossa cfr. ivi, pp. 107-119. 5 Cfr. Tamborra, Garibaldi e l’Europa cit., p. 52. 6 Per questi aspetti della vita di Canini si può fare riferimento a F. Guida, L’Ita-

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lia e il Risorgimento balcanico. Marco Antonio Canini, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984. Si veda anche W. Maturi, Le avventure balcaniche di Marco Antonio Canini nel 1862, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, II, Sansoni, Firenze 1958, pp. 559-643. 7 Sugli avvenimenti e sui rapporti tra Grecia e Italia in questa fase si veda anche Liakos, L’unificazione italiana cit., pp. 146-169. 8 Ivi, pp. 171-179. 9 Guida, L’Italia e il Risorgimento balcanico cit., pp. 182-183. 10 In Siberia furono deportati Febo Arcangeli, Achille Bendi, Alessandro Venanzio, Luigi Caroli, Giuseppe Clerici, Ambrogio Giupponi, Lucio Meuli. Il bergamasco Luigi Caroli morì in prigionia nel giugno del 1865. 11 Ai bergamaschi si unirono a Cracovia altri volontari italiani, mentre alcuni dei primi furono arrestati dalla polizia austriaca e fatti rimpatriare. In Polonia Nullo fu posto al comando di una Legione di più di 500 uomini, tra cui 18 italiani, 7 francesi, il rimanente polacchi. Nello scontro di Krzykawka del 5 maggio perse la vita Nullo e fu ferito Paolo Mazzoleni, che morì in seguito. 12 La spedizione bergamasca avrebbe dovuto comporsi di una trentina di uomini, ma ad alcuni di loro fu negato dalle autorità – indotte ad una particolare vigilanza dal Ministero – il passaporto per la partenza. 13 Oltre a Francesco Nullo, si trattava di Febo Arcangeli, Giacomo Cristofoli, Giuseppe Dilani, Giuseppe Ambrogio Giupponi, Enrico Isnenghi, Giovanni Maggi, Stefano Elia Marchetti, Eugenio Aiace Sacchi, Luigi Testa. Giovan Battista Belotti e Paolo Mazzoleni avevano fatto parte anch’essi dell’Esercito meridionale garibaldino. Alessandro Venanzio, già Cacciatore delle Alpi nel 1859, nel 1860 – caporale volontario nel 6° artiglieria – aveva tentato di partire con la spedizione Medici, ma fu fermato e rinchiuso in carcere militare. 14 Cfr. AP, CD, Discussioni, VIII legislatura, sessione del 1861-62, tornata del 26 marzo 1863, p. 6071. 15 Ivi, tornata del 9 febbraio 1863, p. 5084. 16 Ivi, tornata del 27 marzo 1863, pp. 6077-6079. 17 Dopo un precedente quarantottesco, la Legione ungherese in Italia fu istituita originariamente il 24 maggio 1859 e all’inizio di luglio poteva contare su un organico di 3200 uomini. L’armistizio di Villafranca non permise ai magiari di combattere contro l’Austria, eccezion fatta per quei pochi di loro che furono uniti ai Cacciatori delle Alpi. Sciolta dopo la fine della guerra, la Legione fu ricostituita a Palermo per decreto di Garibaldi il 16 luglio del 1860, raccogliendo innanzitutto gli ungheresi che militavano in camicia rossa. Dopo aver combattuto fino al Volturno, visse la fase di smobilitazione di tutto l’Esercito meridionale garibaldino, ma alla fine si decise di non scioglierla. Tra l’aprile del 1861 e l’agosto dell’anno successivo la Legione fu impiegata nella lotta al brigantaggio. Nell’estate del ’62, in corrispondenza con l’iniziativa garibaldina, la percorsero gravi fenomeni di ammutinamento e diserzione. Fu quindi trasferita in Piemonte e riformata, rendendosi poi nuovamente responsabile, nel 1863, di atti di insubordinazione legati a progetti di spedizione verso l’Europa orientale. Tra la primavera di quell’anno e l’estate del 1866 fu spostata nelle Marche e poi in Abruzzo, dove fu di nuovo impiegata contro il brigantaggio. Messa a disposizione del Comando supremo dell’esercito nella guerra del 1866, ma non impiegata, la Legione fu sciolta definitivamente il 27 gennaio del 1867. Si veda A. Vigevano, La Legione Ungherese in Italia (1859-1867), Libreria dello Stato, Roma 1924.

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18 Si vedano Rosi, Il Risorgimento italiano cit., pp. 290-307, 441-447; Tamborra, Garibaldi e l’Europa cit., pp. 68-74. 19 ACS, Carte Ricasoli Bastogi, b. 3, fasc. 45, procuratore di Bologna a Ministero di Grazia e Giustizia, Bologna, 17 marzo 1863. 20 AUSSME, G-13/1, questore di Bologna a prefetto, Bologna, 14 marzo 1863. 21 ACS, Grazia e Giustizia, b. 3, fasc. 45, questore di Bologna a procuratore, Bologna, 31 marzo 1863. 22 Si veda, per esempio, G. Guerzoni, Il militarismo, «Il Dovere», 21 marzo 1863. 23 Il cinque maggio. Insegnamenti, «Il Dovere», 9 maggio 1863. 24 Cfr. Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi (1849-1890), Roux e Viarengo, Torino 1890, pp. 307-360. 25 Già sostanzialmente espressa in varie occasioni, questa dichiarazione di Crispi si collocava all’interno del dibattito parlamentare sulla Convenzione di settembre – a cui il siciliano si oppose – svoltosi il 18 novembre 1864. 26 Per un ampio profilo dell’intera parabola politica di Francesco Crispi si veda C.J.H. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, Roma-Bari 2000. 27 Come studio specifico si può vedere E.L. Funaro, Il viaggio di Garibaldi in Inghilterra e la crisi della democrazia italiana dopo l’unità, «Studi storici», VII, 1966, 1, pp. 129-157. 28 DDI, 1a s. (1861-70), vol. IV (10 luglio 1863-30 giugno), Minghetti a Vittorio Emanuele d’Azeglio, Bologna, 29 marzo 1864, pp. 612-613. 29 Italia, «Il Diritto», 10 luglio 1864. 30 Cfr. MCRR, VM 12, n. 128, Benedetto Cairoli a Bertani, Casamicciola, 14 luglio 1864. 31 Sui vari provvedimenti che li riguardarono si veda Raccolta in ordine cronologico delle varie disposizioni che si riferiscono ai Corpi di Volontari, C. Cassone e Comp. Tipografi di S. M., Firenze 1866. 32 Palermo, 9 maggio, «Il Precursore», 10 maggio 1866. 33 Ibid. 34 Cfr., per esempio, La lettera del generale Garibaldi, «L’Opinione», 16 maggio 1866. 35 Corrispondenze italiane, «L’Opinione», 14 giugno 1866. 36 Legione di S. Marco, «Il Precursore», 7 maggio 1866. 37 La Legione di S. Marco, «Il Precursore», 9 maggio 1866. 38 A. De Gubernatis, I volontari, I, «Il Precursore», 16 maggio 1866. 39 C. Tivaroni, Il Volontario, I, «Il Volontario», n. programma [26 maggio 1866]. 40 Cfr. I nuovi 20 battaglioni, «Il Volontario», 2 giugno 1866. 41 Notizie, «Il Volontario», 9 giugno 1866. 42 Gallarate, 6 giugno, «Il Volontario», 9 giugno 1866. 43 D., Molfetta, 19 giugno, «Il Volontario», 23 giugno 1866. A quanto pare condizioni simili si riscontravano in quegli stessi giorni a Modugno, dov’era collocato il 3° battaglione del 6° reggimento Volontari: cfr. MCRR, b. 503, fasc. 5, n. 5, colonnello comandante 3° battaglione a comandante 6° reggimento, Modugno, 20 giugno 1866. 44 Finalmente!, «Il Volontario», 23 giugno 1866. 45 Cfr. AUSSME, G-8/414. 46 Ivi, G-8/463, Comandante 4a Legione Carabinieri Reali, Divisione di Como a Comandante Divisione Militare Territoriale, Como, 28 maggio 1866.

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47 Ivi, Comandante 4a Legione Carabinieri Reali a Comandante Divisione Militare Territoriale, Milano, 1° giugno 1866. 48 Si possono vedere, per esempio, I volontari a Como, «L’Opinione», 4 giugno 1866; Notizie de’ volontari, «Il Precursore», 9 giugno 1866. 49 Oltre ai garibaldini, i combattenti italiani effettivi non furono più di 220.000. 50 Cfr. [G. Garibaldi], Scritti e discorsi politici e militari, vol. II, (1862-1867), a cura della Reale Commissione, Cappelli, Bologna 1935, pp. 274-356. 51 A. Mambelli, L’Italia e l’attuale sistema, «Il Dovere», 28 luglio 1866. 52 A. Saffi, Le due somme, «Il Dovere», 25 agosto 1866. 53 G. Mazzini, La pace, «Il Dovere», 25 agosto 1866. 54 ACS, Crispi, ASP, fasc. 114, s/fasc. XLII, Crispi a Bertani, Firenze, 8 luglio 1866. 55 Ivi, Crispi a Bertani, Firenze, 6 agosto 1866. 56 Ivi, Crispi a Bertani, 10 agosto 1866. 57 I Volontari, «Il Precursore», 13 agosto 1866. 58 In virtù di questo dato, Vittorio Emanuele, autorizzata il 6 maggio la creazione di 20 battaglioni di volontari, a fine mese aveva concesso che il loro numero ascendesse a 40. 59 G. Asproni, Diario politico 1855-1876, IV, 1864-1867, Giuffrè, Milano 1980, p. 300, Napoli, 12 agosto 1866. 60 Ivi, pp. 301-302, Napoli, 15 agosto 1866. 61 AUSSME, G-13/6, fasc. 201. 62 Nel già citato diario di Asproni non mancano accenni a questi aspetti. 63 Le impazienze dei Volontarii, «Il Precursore», 30 agosto 1866. 64 ACS, Carte Ricasoli Bastogi, b. 1, fasc. 12, prefetto di Brescia a Ministero dell’Interno, Brescia, 13 agosto [1866], h. 23. 65 MCRR, b. 503, fasc. 10, n. 4. 66 AUSSME, G-8/463, Comandante IV Legione Carabinieri Reali a Comandante dipartimento militare, Milano, 7 settembre 1866. 67 ACS, Carte Ricasoli Bianchi, b. 1a, fasc. 5. 68 Cfr. ivi, fasc. 12.

Capitolo quarto 1 Cfr. Tamborra, Garibaldi e l’Europa cit., pp. 131-134; A. Bandini Buti, Una epopea sconosciuta. È il contributo di fede e di sangue dato dai volontari italiani per la causa degli altri popoli dal Trocadero e Missolungi alle Argonne e Bligny, Ceschina, Milano 1967, pp. 84-86; G. Frigyesi, L’Italia nel 1867. Storia politica e militare, Tipografia di F. Boncini, Firenze 1868, pp. 169-176. I garibaldini giunsero in Grecia in due tempi: innanzitutto nell’autunno del 1866, quando partì un nutrito gruppo di volontari, che riuscì a partecipare a qualche scontro; all’inizio dell’anno successivo partì una spedizione molto meno numerosa, di matrice essenzialmente toscana, alla cui testa stavano il livornese Jacopo Sgarallino e Ricciotti Garibaldi, ben presto invitati dal governo greco a far ritorno in Italia. La cifra di 2000 volontari, correntemente attribuita all’iniziativa dell’autunno ’66, è stata messa in discussione in L.F. Callivetrakis, Les garibaldiens à l’insurrection de 1866 en Crète (Le jeu des chiffres), in Indipendenza e unità nazionale in Italia ed in Grecia, Atti del Convegno di studio, Atene, 2-7 ottobre 1985, Olschki, Firenze 1987, pp. 163-179. L’autore di questo saggio,

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pur nella dichiarata frammentarietà delle fonti a disposizione, sostiene che il numero dei volontari non potesse superare le poche centinaia. Sulla partecipazione dei garibaldini alle insurrezioni a Creta e nella Grecia continentale nel 1866-67 si veda anche Liakos, L’unificazione italiana cit., pp. 189-201. Per una significativa testimonianza della bruciante delusione dei volontari italiani accorsi a Creta si deve fare riferimento a [A. Bruzzone], Lettere di volontari garibaldini sull’insurrezione di Candia, Tipografia del giornale «La Riforma» di G. Polizzi e C., Firenze 1867. 2 I dati sono ricavati da uno specchio dell’effettivo al 26 ottobre 1867. Se ne trova copia in ACS, Crispi, ASP, fasc. 146, s/fasc. XIV, e in MCRR, VM 6. 3 Da altre fonti si apprende che da Bevagna, Foligno e Trevi partirono complessivamente 127 volontari. 4 Santa Sofia, nella cosiddetta Romagna toscana, era all’epoca compresa nella provincia di Firenze. 5 Il prigioniero più vecchio aveva 50 anni, i più giovani 14. 6 Si veda, per esempio, Con la guerra nella memoria: reduci, superstiti, veterani nell’Italia liberale, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, numero monografico del «Bollettino del Museo del Risorgimento», XXXIX, Bologna 1994. 7 Cfr. Frigyesi, L’Italia nel 1867 cit., pp. 270-287, 591-596. 8 ACS, Grazia e Giustizia, b. 12, fasc. 289, procuratore generale di Perugia a ministro di Grazia e Giustizia, Perugia, 8 agosto 1867. 9 Cfr. ivi, lettera riservata del Ministero dell’Interno al Ministero di Grazia e Giustizia, Firenze, 2 agosto 1867. 10 [N. Fabrizi], Mentana, pp. 10-16, relazione a stampa conservata in MCRR, b. 660, fasc. 3, n. 20. 11 ACS, Crispi, ASP, fasc. 145, s/fasc. XVIII, Raffaele Di Benedetto a Crispi, s.l., s.d. (ricevuta il 17 ottobre 1867). 12 Cfr. ivi, fasc. 151. 13 Ne facevano parte, assieme a lui, Giorgio Pallavicino, Benedetto Cairoli, Giuseppe Dolfi, Luigi La Porta, Luigi Miceli, Antonio Oliva, Enrico Guastalla, Filippo De Boni. 14 Cfr. ACS, Crispi, ASP, fasc. 151, s/fasc. LXXXVIII. 15 Carteggi politici cit., pp. 257-262. 16 ACS, Crispi, ASP, fasc. 146, s/fasc. XXIII, Carmelo Agnetta a Crispi, s.l., 22 ottobre 1867. 17 E. Socci, Prefazione a P.V. Ferrari, Villa Glori. Ricordi ed aneddoti dell’autunno 1867, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1899, p. VI. 18 Memorie della spedizione dei volontari garibaldini nel territorio pontificio di Tommaso Fratellini, a cura di L. Gentili, Protagon, Perugia 1993, p. 105. 19 Ivi, p. 128. 20 E. Ovidi, Episodi della campagne nazionali. I volontari del 1867, Stabilimento Civelli, Firenze 1870, p. 35. 21 Ivi, p. 57. 22 R. Tosi, Da Venezia a Mentana (1848-1867). Impressioni e ricordi di un ufficiale garibaldino ordinati e pubblicati a cura del figlio Volturno, Casa Editrice Ditta L. Bordandini, Forlì 1910, pp. 140-141. 23 A.G. Barrili, Con Garibaldi alle porte di Roma (1867). Ricordi e note (1895), Treves, Milano 1909, pp. 78-80. 24 Ivi, p. 269.

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25 ACS, Crispi, ASP, fasc. 146, s/fasc. XIX, Niccolò Botta a Crispi, Poggio Mirteto, 31 ottobre 1867. 26 Ivi, Niccolò Botta a Crispi, Poggio Mirteto, 1° novembre 1867. 27 L. Musini, Dal Trentino ai Vosgi. Memorie garibaldine ordinate e pubblicate a cura del figlio Nullo, Casa Editrice Verderi e C., Borgo S. Donnino-Salsomaggiore 1911, p. 56. 28 Ovidi, Episodi delle campagne nazionali cit., pp. 57-58. 29 Ferrari, Villa Glori cit., p. 151. 30 Ivi, p. 175. 31 Cfr. AUSSME, G-5/9. 32 Cfr. ibid. 33 A. Cardinali, I volontari Garibaldini del 1867 nella provincia di Viterbo, Tipografia economica, Jesi 1895, pp. 49-54. 34 Su questi aspetti cfr. AUSSME, G-13/7, fasc. 247. 35 Ibid. 36 Programma del giornale La Riforma. Firenze, 4 Giugno 1867, Tipogr. della Riforma-G. Polizzi e C., [Firenze 1867]. Il programma veniva ovviamente pubblicato anche nel primo numero del giornale, uscito il 4 giugno 1867. I capisaldi della proposta politica erano il suffragio universale con l’esclusione degli analfabeti, la retribuzione della carica di deputato, la completa libertà religiosa e il rifiuto di ogni concordato, la progressiva riforma dell’esercito fino a giungere alla nazione armata, l’abolizione della pena di morte, la promozione della pubblica istruzione, il decentramento amministrativo. Si sosteneva anche la necessità di riforme economiche e sociali e di una politica estera più autonoma. 37 Firenze, 9 ottobre, «La Riforma», 10 ottobre 1867. 38 Firenze, 16 ottobre, «La Riforma», 17 ottobre 1867. 39 Il nuovo ministero, «La Riforma», 29 ottobre 1867. 40 L’umiliazione dell’esercito, «La Riforma», 8 novembre 1867. 41 Cfr. AUSSME, G-13/7, fasc. 243; G-14-18/7, fasc. 46. 42 Aspromonte e Mentana cit., p. 328. 43 Ivi, pp. 31-32. 44 AP, CD, Discussioni, X legislatura, sessione del 1867, tornata del 16 dicembre 1867, p. 3174. 45 Ivi, tornata del 13 dicembre 1867, p. 3096. 46 Ivi, tornata del 10 dicembre 1867, pp. 3041-3042. 47 Ivi, tornata del 13 dicembre 1867, p. 3098 48 Ivi, p. 3102. 49 Frigyesi, L’Italia nel 1867 cit., pp. 481-482. 50 In realtà, i progetti e i tentativi non si erano mai veramente interrotti. Tra l’estate e l’autunno del 1868 al Ministero di Grazia e Giustizia erano arrivate ripetute informazioni su tentativi di arruolamento per un’impresa su Roma. Le notizie giungevano in particolare dalle Marche, dove operavano personaggi locali o provenienti dall’Emilia e dalla Romagna, di convinzioni repubblicane e con alle spalle esperienze garibaldine (cfr. ACS, Grazia e Giustizia, b. 15, fasc. 351). 51 Già leader della locale società democratica, era all’epoca presidente del tiro a segno. 52 ACS, Grazia e Giustizia, b. 18, fasc. 385, s/fasc. 5, copia del rapporto diretto il 18 maggio dal prefetto di Livorno al Ministero dell’Interno. 53 Cfr. ACS, Ministero della Guerra, Gabinetto, Affari diversi (1868-85), b. 6,

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fasc. Bande armate repubblicane e tentativi promossi dal partito mazziniano, s/fasc. Banda Galliano (Toscana), Carabinieri Reali, Legione di Firenze al ministro della Guerra, Firenze, 11 giugno 1870. 54 Cfr. ibid. 55 Cfr. ACS, Grazia e Giustizia, b. 18, fasc. 385, s/fasc. 4, procuratore di Lucca al ministro di Grazia e Giustizia, Lucca, 5 giugno 1870. 56 Su Strocchi e sugli episodi appena citati si veda anche la bella ricostruzione di U. Sereni, Per L’Italia giusta. Uomini, vicende e memoria del Risorgimento nella Valle del Serchio, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2005, pp. 123-135. 57 Cfr. ACS, Grazia e Giustizia, b. 18, fasc. 385, s/fasc. 2. 58 Ibid. 59 Ibid. 60 Il dato si ricava sommando i parmensi rientrati in patria nel marzo 1871 a quelli morti nelle battaglie francesi; cfr. MCRR, VM 176 e ACS, Grazia e Giustizia, b. 22, fasc. 405. 61 Da Langhirano, dove egli risiedeva, partirono oltre a lui almeno altri 12 volontari. 62 ACS, Grazia e Giustizia, b. 22, fasc. 405, rapporto del procuratore di Parma al ministro di Grazia e Giustizia, Parma, 25 ottobre 1870. 63 E. Socci, Da Firenze a Digione, in Memorialisti dell’Ottocento, tomo II, a cura di C. Cappuccio, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1958, pp. 584-585. L’opera nacque sotto forma di appunti presi durante l’esperienza francese, poi revisionati e pubblicati in volume per la prima volta a Prato nel 1871. 64 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 (1951), Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 3-177. 65 J. White Mario, I Garibaldini in Francia, Tipografia di Giovanni Polizzi, Roma 1871, pp. 12-13. Si tratta della versione italiana di ciò che la White aveva scritto in presa diretta per la stampa inglese e americana. 66 Ivi, p. 15. 67 Ivi, pp. 21, 39-40. 68 Ivi, p. 40. 69 Musini, Dal Trentino ai Vosgi cit., p. 66. Nello scontro rimase ucciso il sottotenente pavese Angelo Scaglioni, uno dei Mille. Su di lui cfr. infra, cap. 5, par. 1 e cap. 6, par. 2. 70 A. Bizzoni, Impressioni di un volontario all’esercito dei Vosgi, Sonzogno, Milano 1871. 71 Socci, Da Firenze a Digione cit., pp. 615-616. 72 Ivi, p. 620. 73 Ivi, p. 617. 74 Cfr. DDI, 2a s. (1870-1896), vol. I (21 settembre-31 dicembre 1870), console generale a Nizza, Galateri di Genola, al ministro degli Esteri Visconti Venosta, Nizza, 24 settembre 1870, pp. 36-37; ivi, console generale a Chambéry, Basso, al ministro degli Esteri Visconti Venosta, Chambéry, 4 ottobre 1870, pp. 144-145. 75 Cfr. DDI, 1a s. (1861-70), vol. XIII (5 luglio-20 settembre 1870), segretario generale agli Esteri, Blanc, a ministro dell’Interno, Firenze, 13 settembre 1870, p. 538; DDI, 2a s. (1870-1896), vol. I (21 settembre-31 dicembre 1870), ministro degli Esteri Visconti Venosta al ministro a Berlino, De Launay, Firenze, 18 ottobre 1870, pp. 235-236. 76 Cfr. DDI, 2a s. (1870-1896), vol. I (21 settembre-31 dicembre 1870), console

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generale a Chambéry, Basso, al ministro degli Esteri Visconti Venosta, Chambéry, 15 novembre 1870, p. 459. 77 A metà ottobre 1870 l’armata dei Vosgi comprendeva dai 3500 ai 4000 uomini, che sarebbero ascesi a circa 20.000 nel gennaio successivo. 78 Si tratta di una cifra approssimativa e oscillante. In ogni caso, nel marzo, risultavano ancora quasi 2700 i volontari italiani presenti nei vari corpi: cfr. DDI, 2a s. (1870-1896), vol. II (1 gennaio-30 giugno 1871), console generale a Nizza, Galateri di Genola, al ministro degli Esteri Visconti Venosta, 8 marzo 1871, pp. 255256. 79 In seguito fu creata anche una quinta brigata, poi rifusa nella prima, da cui aveva attinto i suoi elementi. 80 Cfr. Bizzoni, Impressioni di un volontario cit., p. 29. 81 Ivi, pp. 19, 21. 82 Ivi, p. 59. 83 Asproni, Diario politico 1855-1876, V, 1868-1870, Giuffrè, Milano 1980, p. 580, Napoli, 27 agosto 1870. 84 Ivi, p. 637, Napoli, 29 ottobre 1870. 85 Asproni, Diario politico 1855-1876, VI, 1871-1873, Giuffrè, Milano 1983, p. 50, Napoli, 22 marzo 1871. 86 Ivi, p. 60, Napoli, 11 aprile 1871. 87 Da Digione all’Argonna. Memorie eroiche di Ricciotti Garibaldi raccolte da G. A. Castellani, Treves, Milano 1915, pp. 57-58. 88 Socci, Da Firenze a Digione cit., pp. 708-709. 89 Cfr. Bizzoni, Impressioni di un volontario cit., pp. 181-184. 90 White Mario, I Garibaldini in Francia cit., p. 45. 91 Socci, Da Firenze a Digione cit., p. 719. 92 Bizzoni, Impressioni di un volontario cit., pp. 293-295. 93 Musini, Dal Trentino ai Vosgi cit., pp. 98-99. 94 Cfr. MCRR, VM 173. 95 Cfr. MCRR, VM 174. 96 Cfr. MCRR, VVMM 173-175. 97 ACS, Grazia e Giustizia, b. 22, fasc. 405, rapporto del procuratore generale di Parma al Ministero di Grazia e Giustizia, Parma, 18 marzo 1871. 98 Si veda C. Pavone, Le bande insurrezionali della primavera del 1870, «Movimento operaio», VIII, 1956, 1-3, pp. 42-107. 99 Cfr. Socci, Da Firenze a Digione cit., p. 665. 100 Si vedano, per esempio, Da Digione all’Argonna cit.; R. Garibaldi, Ricordi della campagna di Francia 1870-71, Stabilimento della Casa Editrice E. Perino, Roma 1896. PARTE SECONDA

Capitolo quinto 1 Per un approfondimento e una più ampia trattazione delle questioni analizzate in queste pagine mi permetto di rinviare a E. Cecchinato, «Biografie dei sovversivi». Profili e itinerari garibaldini dopo l’unità, «Italia contemporanea», 2006, 243, pp. 303-323.

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2 ACS, Biografie dei sovversivi, scc. 1-18. Il fondo è composto complessivamente di circa 3500 schede personali, alcune delle quali relative anche ai cosiddetti «reazionari», fossero essi personaggi direttamente coinvolti nel fenomeno del brigantaggio o uomini di opinioni legittimiste. L’assenza di figure di estremo rilievo – che all’epoca erano indubbiamente oggetto di controllo – lascia supporre che si trattasse di una sezione specifica a cui se ne affiancavano altre, ovvero che ci si trovi di fronte a ciò che si è conservato di una documentazione molto più ampia e cronologicamente più estesa. Quest’ipotesi è suffragata dalle stesse conclusioni a cui giungevano – pur con tutte le cautele del caso – i compilatori dell’inventario del fondo, al momento del suo riordino. 3 Oltre ai fondamentali dati anagrafici, le informazioni contenute nelle schede riguardavano la professione o comunque le fonti di reddito e i mezzi di sostentamento, lo stato civile, le abitudini e la «condotta morale». Grande evidenza veniva data, ovviamente, all’orientamento politico e agli eventuali legami intrattenuti con reti di relazione di respiro regionale o nazionale. 4 ACS, Biografie dei sovversivi, fasc. 760. 5 Ivi, fasc. 213. 6 Ivi, fasc. 546. 7 Ivi, fasc. 514. 8 Ivi, fasc. 629. 9 Ivi, fasc. 654. 10 Ivi, fasc. 1807. 11 Ivi, fasc. 385. 12 Ivi, fasc. 2809. La scheda personale contiene varie inesattezze, verificate attraverso altre fonti. Lo stesso Borruso (registrato come Baruso) è oggetto di un’altra scheda (fasc. 762) in cui compaiono alcuni dati coincidenti ed altri complementari. 13 Si veda supra, cap. 2, par. 2. 14 ACS, Biografie dei sovversivi, scc. 1-18, fasc. 463. 15 Ivi, fasc. 1219. 16 Ivi, fasc. 2254. 17 Ivi, fasc. 1389. 18 Ivi, fasc. 1082. 19 Ivi, fasc. 904. Nella scheda il suo nome di battesimo risulta erroneamente «Giuseppe». 20 Ivi, fasc. 950 (biografia redatta a Milano il 24 febbraio 1864), Luigi Ciugia, 35 anni, nato e domiciliato a Lodi, laureato in legge e possidente, repubblicano. 21 Ivi, fasc. 2602. 22 Ivi, fasc. 1627. 23 Ivi, fasc. 1654. 24 Ivi, fasc. 2915. 25 Ivi, fasc. 2931. 26 Ivi, fasc. 915. 27 Ivi, fasc. 157. 28 Ivi, fasc. 2607. 29 Ivi, fasc. 1244. 30 Ivi, fasc. 160. 31 Ivi, fasc. 2225. Su Scaglioni e la sua drammatica fine cfr. supra, cap. 4, nota 69, e infra, cap. 6, par. 2.

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Ivi, fasc. 1021. Ivi, fasc. 2229. 34 Ivi, fasc. 1393. 35 Ivi, fasc. 203. 36 Ivi, fasc. 487. 37 Ivi, fasc. 857. 38 Ivi, fasc. 1248. 39 Sul suo personaggio si può vedere anche N. Tombaccini, Presenza e/o assenza delle donne nelle società reducistiche bolognesi, in Con la guerra nella memoria, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, cit., pp. 120-126. 40 ACS, Biografie dei sovversivi, fasc. 189. 41 O. Gnocchi-Viani, Ricordi di un internazionalista (1909), a cura di L. Briguglio, Tipografia Antoniana, Padova 1974, p. 141. 42 Cfr. R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, I, Dalla rivoluzione francese a Andrea Costa, Einaudi, Torino 1993, pp. 295-305. 43 Sugli italiani nei Balcani, in questa contingenza, si può far riferimento a Tamborra, Garibaldi e l’Europa cit., pp. 136-147; M. Deambrosis, Garibaldini e militari italiani nelle guerre ed insurrezioni balcaniche (1875-77), in Giuseppe Garibaldi e le origini del movimento operaio italiano (1860-82), a cura di R. Giusti, Mantova 1984, pp. 29-51; Id., La partecipazione dei garibaldini e degli internazionalisti italiani all’insurrezione di Bosnia ed Erzegovina del 1875-1876 e alla guerra di Serbia, in Studi garibaldini e altri saggi, a cura di R. Giusti, Museo del Risorgimento di Mantova, Mantova 1967, pp. 33-82. 44 G. Barbanti-Brodano, Serbia. Ricordi e studi slavi, Società Editrice delle «Pagine Sparse», Bologna 1877, p. 3 45 Ivi, pp. 11-12. 46 Ivi, pp. 193-195. 47 Ivi, p. 225. 48 Cfr. ivi, p. 156. 49 Ivi, p. 225. 50 Cfr. Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi alle Assisie di Firenze raccolti dall’Avv. Alessandro Bottero, Francesco Capaccini Editore, Roma 1875. Sul processo di Firenze si vedano anche ACS, Grazia e Giustizia, b. 33, fasc. 486; Zangheri, Storia del socialismo italiano, I cit., pp. 430-441. 51 Cfr. G. Simionato, Antonio Radovich bersagliere e garibaldino dei Mille, GMV, Villorba (Treviso) 1999. 52 Cfr. per esempio P. Schiarini, I Mille nell’esercito, «Memorie storiche militari», 5 dicembre 1911, pp. 527-610. 53 Cfr. ivi, pp. 263-264. 54 Ivi, pp. 574-575. 55 Ivi, pp. 594-595. Su di lui si veda anche E. Piva, Un volontario garibaldino. Il Generale Domenico Piva. Note storiche biografiche (1826-1907), «Rassegna storica del Risorgimento», IV, 1917, 1, pp. 47-129. 56 Schiarini, I Mille nell’esercito cit., pp. 593-594. 57 Ivi, p. 564. 58 Ivi, pp. 569-570. 59 Ivi, pp. 604-605. 60 Cfr. supra, cap. 2, par. 2. 32 33

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ACS, I Mille di Marsala, b. 6, fasc. 175. Ivi, b. 8, fasc. 248. 63 Ivi, b. 8, fasc. 250. 64 Ivi, b. 11, fasc. 331. 65 Sul personaggio e il contesto si può vedere A. Malfitano, Il deputato della «Vandea rossa». Alessandro Fortis, il trasformismo e la Romagna repubblicana, Pazzini, Verucchio (Rn) 2000. 66 Angelo Bargoni, vicino agli ambienti garibaldini e già legato nel ’60 a Depretis, guidò il Ministero della Pubblica Istruzione nel terzo governo Menabrea, tra il maggio e il dicembre del 1869. 67 Cfr. Zangheri, Storia del socialismo, I cit., passim. 68 Su questi aspetti si deve far riferimento allo studio di D. Adorni, Francesco Crispi. Un progetto di governo, Olschki, Firenze 1999. 69 Della opposizione parlamentare. Pensieri di Agostino Bertani, Robecchi Levino Libr.-Edit., Milano 1865. 70 Ivi, pp. 12-20. 71 Ivi, p. 32. 72 A. Bertani, La vigilante fiducia nel Ministero della Sinistra. Prime avvisaglie circa la riforma elettorale, Tipografia romana, Roma 1877. 73 Cfr. Id., L’Estrema Sinistra e la riapertura della Camera. Novembre 1879, Tipografia Fratelli Richiedei, Milano 1879, p. 7. 74 Id., Pro patria et libertate, Stabilimento Tipografico Italiano diretto da L. Perelli, Roma 1879, pp. 5-14. 75 Discorsi parlamentari di Felice Cavallotti pubblicati per deliberazione della Camera dei deputati, I, Tipografia della Camera dei deputati, Roma 1914, sedute del 17 e del 28 giugno 1882, pp. 344-363. 76 Discorsi parlamentari di Matteo Renato Imbriani-Poerio pubblicati per deliberazione della Camera dei deputati, Tipografia della Camera dei deputati, Roma 1923, pp. 58-59. 77 Ivi, pp. 449-450. 78 Ivi, tornata del 1° dicembre 1896, pp. 671-672. 61 62

Capitolo sesto 1 Sui meccanismi che regolano la memoria all’interno di gruppi più o meno estesi rimane fondamentale la riflessione di M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria (1925), Ipermedium, Napoli 1996; Id., La memoria collettiva (1950), Unicopli, Milano 1996. 2 Per una riflessione sul volontariato garibaldino a partire da queste ed altre memorie mi permetto di rinviare a E. Cecchinato, M. Isnenghi, La nazione volontaria, in Storia d’Italia, Annali 22. Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Einaudi, Torino 2007, pp. 697-720. 3 G. Adamoli, Da San Martino a Mentana. Ricordi di un volontario (1892), Treves, Milano 1911, p. 4. 4 Ivi, p. 11. 5 Ivi, pp. 12-13. 6 Ivi, pp. 23-26. 7 Ivi, p. 66.

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Ivi, pp. 66-68. Ivi, pp. 71-72. 10 G. Saccomani, Rimembranze di un fantaccino partecipe alle campagne del 1859, 1860-61, 1866, Ditta Ed. L. Coppelli, Treviso 1911, pp. 34-35. 11 Ivi, pp. 38-39. 12 Ivi, p. 58. 13 Cfr. P. Candelpergher, Ricordi d’un garibaldino. Aspromonte-Bezzecca, Tip. Dorica, Ancona [1908]. Ringrazio Gabriella Ballesio, responsabile dell’Archivio della Società di studi valdesi di Torre Pellice, per avermi fornito questo testo. 14 Ivi, p. 11. 15 Ibid. 16 Cfr. supra, capp. 1 e 2. 17 ASSV, Carte Risorgimento, b. 6, Hyppolite Henry Gay a Mathieu Henry Gay, Londra, 24 gennaio 1868. Il testo della lettera è in francese (traduzione mia). Ringrazio ancora la dottoressa Ballesio per avermi fornito copia della lettera e per aver gentilmente recuperato le informazioni biografiche sul suo autore. 18 Ibid. Il testo della lettera è in francese (traduzione mia). 19 Cfr. J. Jalla, Glanures d’histoire vaudoise, Tipografia Alpina, Torre Pellice (To) 1936, pp. 148-152. A partire dall’autunno 1867 Gay aveva tentato di rientrare in Italia, incontrando ostacoli diplomatici e formali; costretto a restare in Inghilterra, sopravvisse attraverso l’attività di professore, istitutore e conferenziere. Si trasferì quindi a Parigi e nel ’70 combatté con Garibaldi a Digione. Viaggiò poi molto in America, nel Messico e negli Stati Uniti in particolare. Incaricato della direzione dei lavori dei primi chilometri del canale di Panama, vi contrasse la febbre gialla che nel 1886 lo portò alla morte. 20 Cfr. A.M. Banti, M. Mondini, Da Novara a Custoza: culture militari e discorso nazionale tra Risorgimento e Unità, in Storia d’Italia, Annali 18. Guerra e pace, a cura di W. Barberis, Einaudi, Torino 2002, pp. 448-462; M. Mondini, Guerra, nazione e disillusione. Custoza e l’antimito dell’Italia imbelle, «Venetica», XVI, 2002, 2, pp. 63-80. 21 A.C. De Feo, Da Milazzo a Porta Pia. Lontani ricordi del mio lungo volontariato, Stab. Tipografico Pompeiano, Scafati 1902, pp. 7-27. 22 Ivi, p. 38. 23 Ivi, pp. 38-39. 24 Ivi, pp. 40-41. 25 Ivi, p. 42. 26 Ivi, p. 61. 27 Ivi, p. 70. 28 Cfr. G. Dezza, Memorie autobiografiche e carteggio (1848-1875), Renon Editore, Milano 1963, pp. 219-223. 29 Ivi, pp. 153-154. 30 Ivi, p. 135. 31 Cfr. G. Fazio, Memorie giovanili della rivoluzione siciliana e della guerra del 1860, Tipografia di Francesco Zappa, Spezia 1901. 32 Da Marsala al Volturno. Ricordi di E. Z.[Zasio], Tipografia editrice Sacchetto, Padova 1868, pp. 2-10. 33 Cfr. ivi, p. 129. 34 Ivi, p. 142. 35 G. Castellini, Pagine garibaldine (1848-1866). Dalle memorie del Maggiore Ni8 9

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costrato Castellini, con lettere inedite di G. Mazzini, di G. Garibaldi, di G. Medici e con un carteggio inedito di Laura Solera Mantegazza, Fratelli Bocca, Torino 1909, pp. 96-97. 36 Ivi, pp. 98-99, lettera di Nicostrato Castellini [alla moglie], Aversa, 15 novembre 1860. 37 Ivi, p. 197. 38 Adamoli, Da San Martino a Mentana cit., p. 91. 39 Tosi, Da Venezia a Mentana cit., p. 80. 40 Ivi, p. 87. 41 G. Pomelli, Da Taormina a Teano, I, «Garibaldi e i garibaldini», I, 1910, 1, p. 93. 42 Tosi, Da Venezia a Mentana cit., p. 115. 43 Ivi, p. 149. 44 G. Sylva, Cinquant’anni dopo la prima spedizione in Sicilia. Impressioni e ricordi di un bergamasco dei Mille, Stabilimento Cromo-Tipografico Edoardo Isnenghi, Bergamo 1910, pp. 26-27. 45 Ivi, p. 7. 46 A. Mario, La camicia rossa (1870), Universale Economica, Milano 1954, p. 147. 47 Barrili, Con Garibaldi cit., pp. 238-239. 48 A. Fratti, Da Castel Giubileo a Mentana. Ricordi della giovinezza, in Per Mentana. Pubblicazione Repubblicana per cura del Comitato d’apostolato del circolo «Gioventù operosa» di Roma, numero unico, 3 novembre 1888, p. 5. 49 Barrili, Con Garibaldi cit., pp. 197-198. 50 La spedizione di Garibaldi in Sicilia. Memorie di un volontario per Giuseppe Capuzzi, Tipografia Bresciani, Ferrara 1861, p. 67. 51 Cfr. ivi, pp. 9-10. 52 W. Rüstow, La guerra italiana del 1860 descritta politicamente e militarmente, Tipografia di Gio. Cecchini Editore, Venezia 1861, p. 185. 53 G. Rasch, Garibaldi e Napoli nel 1860. Note di un viaggiatore prussiano, Laterza, Bari 1938, p. 13. 54 Ivi, p. 47. 55 G. Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861 (1882), Bompiani, Milano 1985, p. 64. 56 Ivi, pp. 73 e 143. 57 M. Du Camp, Le spedizione delle Due sicilie (1861), Cappelli, Rocca San Casciano 1863, pp. 187-193. 58 Ivi, p. 297. 59 Ivi, p. 26. 60 Ivi, p. 25. 61 Ivi, p. 67. 62 Pomelli, Da Taormina a Teano cit., p. 91. 63 Fazio, Memorie giovanili cit., p. 17. 64 Ivi, p. 44. 65 Ivi, p. 92. 66 P. Corbellini, Diario di un garibaldino della spedizione Medici in Sicilia 1860, Riccardo Gagliardi, Como 1911, p. 3. 67 Ivi, pp. 15-17, 24-25, 66. 68 Ivi, p. 24. Una sensibilità simile si può ritrovare in Da Milano a Capua. Dia-

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rio di Ismaele Boga, garibaldino. 1860-1861, trascrizione e cura di E. Cecchinato, Edizioni Nova Charta, Padova 2005. 69 Ivi, pp. 129-130. 70 Da Milazzo a Villa Glori. Diari di Baldassarre Stragliati, II, «Garibaldi e i garibaldini», I, 1910, 3, p. 246. 71 Da Palermo ad Aspromonte. Frammenti di Francesco Zappert (1863), I, «Garibaldi e i garibaldini», I, 1910, 1, pp. 102-103. 72 Da Palermo ad Aspromonte. Frammenti di Francesco Zappert, II, «Garibaldi e i garibaldini», I, 1910, 3, p. 307. 73 Ivi, pp. 309-310. 74 Si può far riferimento alla veloce esplorazione di G. Isola, Un luogo d’incontro tra esercito e paese: le associazioni dei veterani del Risorgimento, in Esercito e città dall’unità agli anni trenta, Atti del Convegno di studi Spoleto 11-14 maggio 1988, t. I, Ministero per i Beni culturali e ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1989, pp. 499-519; al saggio di M. Fincardi, I reduci risorgimentali veneti e friulani, «Italia contemporanea», 2001, 222, pp. 65-91; e soprattutto a Con la guerra nella memoria, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, cit. 75 ACS, I Mille di Marsala, b. 35, fasc. C, Circolare del Ministero dell’Interno ai prefetti e sottoprefetti del Regno, 23 agosto 1862. 76 Ivi, Circolare del Ministero dell’Interno ai prefetti del Regno, 21 novembre 1862. 77 Legge 22 gennaio 1865, n. 2119. 78 Lo stesso articolo 2 della legge precisava che qualora lo stipendio percepito non superasse le 200 lire, la somma sarebbe stata erogata interamente, in caso contrario l’ammontare della pensione veniva ridotto all’importo necessario per raggiungere le 1200 lire complessive. 79 Cfr. ACS, I Mille di Marsala, b. 37, fasc. L, circolare del ministro dell’Interno ai prefetti, 6 settembre 1876. 80 Corrispondenti agli aventi diritto in virtù della legge del 26 gennaio 1879, agli esclusi per indegnità e ai defunti. 81 Legge 26 gennaio 1879, n. 4708 (s. 2a). 82 AP, CD, Documenti, XIII legislatura, sessione del 1878, n. 82, Progetto di Legge presentato dal ministro dell’interno (Zanardelli) nella tornata del 22 giugno 1878, Modificazioni e aggiunte alla legge del 22 gennaio 1865 relativa alla pensione vitalizia dei Mille di Marsala. 83 Ivi, n. 82-A, Relazione della Commissione composta dai deputati Avezzana, Adamoli segretario relatore, Del Vecchio Pietro, Carini, Castellano, Favara, Coccini, Negretto e Chinaglia sul progetto di legge presentato dal ministro dell’interno nella tornata del 22 giugno 1878, Modificazioni e aggiunte alla legge del 22 gennaio 1865 relativa alla pensione vitalizia dei Mille di Marsala, tornata del 29 giugno 1878. 84 ACS, I Mille di Marsala, b. 4, fasc. 114. 85 Ivi, b. 5, fasc. 139. 86 Ivi, b. 9, fasc. 275. 87 Ivi, b. 5, fasc. 157. 88 Ivi, b. 8, fasc. 226. 89 Ivi, fasc. 227. 90 Ivi, b. 9, fasc. 255. 91 Ivi, b. 12, fasc. 344.

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92 Ivi, b. 9, fasc. 265, prefetto di Livorno a Ministero dell’Interno, Livorno, 5 maggio 1880. 93 Ivi, Ministero della Guerra a Ministero dell’Interno, Roma, 21 giugno 1880. 94 Ivi, Achille Majocchi al ministro dell’Interno, Roma, 26 aprile 1881. 95 L’episodio, meglio noto come «affare Greco» – dal nome di uno dei supposti aspiranti attentatori – ebbe contorni molto confusi e si inserì nella strategia di screditamento della figura di Giuseppe Mazzini, additato dalle autorità francesi e italiane come mandante politico del presunto complotto. 96 ACS, I Mille di Marsala, b. 18, fasc. 542. 97 Pavia e la spedizione dei Mille, Comitato per le celebrazioni del Primo Centenario della Spedizione dei Mille, 1860-1960, Pavia 1960, p. 50. Su Scaglioni si veda supra, cap. 5, par. 1. 98 ACS, I Mille di Marsala, b. 29, fasc. 911, ministro della Guerra al ministro dell’Interno, Firenze, 1° luglio 1870. 99 Ivi, copia del parere dell’avvocato generale militare al Ministero della Guerra, 31 marzo 1864. 100 Atti del 2° Congresso dei Veterani 1848-49 e delle Società di ex-militari del Regno tenuto in Torino il 28, 29, 30 e 31 luglio 1884, Tip. Eredi Botta di Giovanni Brunerj, Torino 1884, p. 13. 101 Atti del III Congresso dei veterani 1848-49 e delle Società di ex-militari del Regno tenuto in Venezia nei giorni 25, 26 e 27 ottobre 1885, s.n.t., [Venezia 1885], p. 13. 102 Comizio Regionale dei veterani 1848-49 delle Provincie Napoletane, Atti del IV Congresso dei veterani 1848-49 ed ex-militari d’Italia tenuto in Napoli nel novembre 1886, R. Tipografia comm. Francesco Giannini & figli, Napoli 1886, p. 20. 103 Atti del 7° Congresso dei Superstiti delle Patrie Battaglie 1848-1870 tenuto in Milano dal 18 al 21 Settembre 1906 coll’intervento della rappresentanza dei veterani francesi, Tipo-Litografia Doni & Trasi, Sesto San Giovanni 1907. 104 ACS, Rapporti dei prefetti, bb. 1-23. 105 Ivi, b. 2, fasc. 4, Arezzo, s/fasc. 3, Relazione del 1° semestre 1884 sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizi amministrativi, Arezzo, 26 luglio 1884. 106 Ivi, s/fasc. 4, Relazione semestrale sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizi amministrativi, Arezzo, 2 gennaio 1885. 107 Ivi, s/fasc. 9, Relazione annuale, Arezzo, 20 gennaio 1891. 108 Cfr. ivi, b. 7, fasc. 20, Como, s/fasc. 1, Rapporto semestrale, Como, 25 gennaio 1883. 109 Cfr. ivi, Rapporto semestrale, Como, 22 luglio 1882. 110 Cfr. ivi, b. 23, fasc. 69, Vicenza, s/fasc. 3, Relazione semestrale per il 1° Semestre dell’anno 1885. Su questo contesto regionale si veda anche M. Fincardi, Patriottismo e solidarietà nel Veneto. Dati per un censimento delle associazioni dei reduci risorgimentali (1866-1900), «Rassegna storica del Risorgimento», XCIII, 2006, 2, pp. 183-218. 111 Cfr. ACS, Rapporti dei prefetti, b. 15, fasc. 41, Novara. 112 Ivi, b. 17, fasc. 48, Piacenza, s/fasc. 7, Relazione sullo spirito pubblico della Provincia di Piacenza durante l’anno 1889. 113 Ivi, b. 22, fasc. 62, Teramo, s/fasc. 2, Rapporto del 2° semestre 1884, Teramo, 31 gennaio 1885. 114 Il sodalizio era stato fondato dallo stesso Garibaldi ed era presieduto dal figlio Menotti. Per una ricostruzione dall’interno della propria storia e della propria funzione storica si veda Società «Giuseppe Garibaldi» tra i reduci dalle patrie bat-

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taglie-Roma, Relazione sulla attività della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie «Giuseppe Garibaldi» durante i suoi cinquant’anni di esistenza, dal 1871 ad oggi, Tip. L. Ariani, Roma [1921]. 115 ACS, Rapporti dei prefetti, fasc. 45, Roma, s/fasc. 2, Relazione sullo spirito pubblico del 2° semestre 1883, Roma, 10 febbraio 1884. 116 Ivi, s/fasc. 2, Relazione sullo spirito pubblico 1° Semestre 1884, Roma, 18 luglio 1884. 117 ACS, Carte Crispi, Roma, sc. 16, fasc. 347. 118 ACS, Rapporti dei prefetti, b. 18, fasc. 52, Ravenna, s/fasc. 1, Relazione semestrale Politica, Ravenna, 30 giugno 1882. 119 Ibid. 120 Ivi, s/fasc. 2, Relazione sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizi amministrativi nella Provincia di Ravenna durante il 2° Semestre 1883. 121 Ivi, s/fasc. 7, Prima relazione semestrale 1888 sullo spirito pubblico e sui servizj Amministrativi, Ravenna, 1° luglio 1888. 122 Ivi, b. 10, fasc. 27, Forlì, s/fasc. 1, Relazione semestrale sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizii amministrativi, Forlì, 10 luglio 1882. 123 Ivi, s/fasc. 2, Relazione sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizi amministrativi nella Provincia. 2° Semestre 1883, Forlì, 30 gennaio 1884. 124 Ivi, b. 9, fasc. 24, Ferrara, s/fasc. 1, Relazione semestrale, Ferrara, 3 febbraio 1884. 125 Ivi, s/fasc. 2, Relazione semestrale, Ferrara, luglio 1884. 126 Ivi, s/fasc. 4, Relazione sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizi amministrativi durante il 1° Semestre 1886, Ferrara, 8 agosto 1886. 127 Ivi, b. 16, fasc. 1, Parma s/fasc. 2, Relazione semestrale politica 1° Semestre 1883, Parma, 2 luglio 1883. 128 Cfr. ibid. 129 Faccio riferimento ai saggi di Fulvio Conti, Marco Fincardi, Fabio Merlo e Otello Sangiorgi contenuti in Con la guerra nella memoria, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, cit. 130 Cfr. supra, cap. 4, par. 2. 131 F. Conti, Per una geografia dell’associazionismo laico in Toscana dall’unità alla Grande Guerra: le società di veterani e reduci, in Con la guerra nella memoria, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, cit., p. 24. 132 Ivi, p. 29. 133 ACS, Rapporti dei prefetti, b. 9, fasc. 25, Firenze, s/fasc. 4, 1° Semestre 1885. Relazione sullo spirito pubblico e sui servizi governativi, Firenze, 25 luglio 1885. 134 Ivi, s/fasc. 4, Relazione sullo spirito pubblico e sui servizi governativi nel 1° Semestre 1886, Firenze, 14 luglio 1886. 135 Ivi, s/fasc. 7, Rapporto sullo spirito pubblico e sui vari servizi governativi nel 2° Semestre 1888, Firenze, 1° febbraio 1889. 136 Ivi, b. 11, fasc. 32, Livorno, s/fasc. 1, Relazione semestrale sullo spirito pubblico, Livorno, 23 febbraio 1883. 137 Ivi, s/fasc. 2, Relazione semestrale sullo spirito pubblico, Livorno, 13 febbraio 1884. 138 Conti, Per una geografia cit., pp. 34-39. 139 M. Fincardi, L’associazionismo garibaldino in un’area padana, tra strategie politiche municipali ed extralocali, in Con la guerra nella memoria, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, cit., p. 76.

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Ivi, pp. 76-81. ACS, Rapporti dei prefetti, b. 13, fasc. 35, Mantova, s/fasc. 4, Relazione semestrale sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizî amministrativi, Mantova, 18 gennaio 1886. 142 Ivi, s/fasc. 5, Relazione sullo spirito pubblico e sull’andamento dei servizî amministrativi, Mantova, 14 gennaio 1888. 143 Fincardi, L’associazionismo garibaldino cit., pp. 84-92. 144 ACS, Rapporti dei prefetti, b. 19, fasc. 54, Reggio Emilia, s/fasc. 1, Relazione semestrale sullo spirito pubblico e sui servizî amministrativi, Reggio Emilia, 27 agosto 1882. 145 Ibid. 146 Ivi, s/fasc. 2, Relazione semestrale sullo spirito pubblico e sui servizî amministrativi, Reggio Emilia, gennaio 1884. 147 Ivi, s/fasc. 3, Relazione semestrale, Reggio Emilia, 1° luglio 1884. 148 Ibid. 149 Fincardi, L’associazionismo garibaldino cit., pp. 99-101. 150 Di origini sarde, Pais-Serra aveva combattuto con Garibaldi nel ’66, a Mentana e in Francia. Esponente di spicco del mondo democratico, dal 1882 rappresentò per 37 anni il collegio sassarese di Ozieri. Così come il cognato Alessandro Fortis, trasformò progressivamente le sue posizioni, avvicinandosi a Crispi. 151 Cfr. Società di mutuo soccorso fra i superstiti delle guerre per l’unità d’Italia in Bologna. Cenni e dati statistici stampati in occasione della festa del X anniversario della fondazione del sodalizio, Società Tip. già Compositori, Bologna [1889]. 152 Cfr. Sangiorgi, Le associazioni dei reduci del Risorgimento a Bologna. Materiali per un censimento, in Con la guerra nella memoria, a cura di A. Preti e F. Tarozzi, cit., pp. 145-146. 153 Statuto della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie di Cesena, Tipografia Nazionale di G. Vignuzzi, Cesena 1885. 154 Statuto della Società di mutuo soccorso fra i Reduci dalle Patrie Battaglie in Roma. Presidente onorario a vita Giuseppe Garibaldi, Tip. Capaccini e Ripamonti, Roma 1880. 155 Statuto della società dei Reduci dalle Patrie Battaglie presidente onorario il generale G. Garibaldi, Tipografia di G. Pastore, Catania 1880. 156 Statuto-regolamento della società dei reduci dalle patrie battaglie e dall’esercito d’Imola, Lega Tipografica, Imola 1885. 157 Statuto della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie costituitasi in Suzzara addì 6 Giugno 1884, Premiato Stab. Tip. Lit. Mondavi, Mantova 1885. 158 Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie della Città e Mandamento di Gallarate. Statuto e norme direttive deliberate nell’Assemblea Generale del giorno 7 Dicembre 1881, Tipografia Croci, Gallarate 1882. Lo statuto sarebbe stato rinnovato senza sostanziali modifiche nel 1887. 159 Società democratica e dei Reduci dalle Patrie Battaglie in Pavia e regolamento del mutuo soccorso, Tipografia popolare, Pavia 1883. 160 Statuto della Società Democratica di Mutuo Soccorso fra i Reduci dalle Patrie Battaglie in Milano, Tipografia E. Civelli, Milano 1883, p. 3. 161 Statuto della società dei reduci dalle patrie battaglie reduci dall’Esercito e allievi tiratori della città e provincia di Ferrara, Premiata Tipografia Sociale, Ferrara 1885; Società Reduci dalle Patrie Battaglie in Perugia, Tipografia di V. Cantucci, Perugia 1884; Statuto e regolamento della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie in Fermo, Tipo140 141

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grafia Paccasassi, Fermo 1885; Regolamento Statutario che chiarisce, completa ed amplia il vigente Statuto sociale 20 giugno 1878, Tipografia Apollonio, Mantova 1880. 162 Statuto e regolamento della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie in Fermo cit., p. 24. 163 Società Reduci dalle Patrie Battaglie in Perugia cit. 164 Società dei Reduci Garibaldini in Firenze. Statuto, Tipografia Eduardo Ducci, Firenze 1885. 165 Statuto della Società Volontari Garibaldini forlivesi, Tip. Lit. Democratica, Forlì 1887, pp. 5-10. 166 Statuto della Società I Garibaldini, Tip. Corselli, Palermo s.d. [1893], pp. 3-6. 167 Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie in Cremona, Discorso di Luigi Ratti per la commemorazione del XXX anniversario della fondazione della Società, solennizzato il XX Settembre 1909 nel Politeama Verdi di Cremona, Tipografia sociale, Cremona 1909. 168 Memorie di alcuni atti della Società Veterani-Reduci (1848-70) di Udine, dal 1912 al 1921 inclusivi, Tip. D. Del Bianco e Figlio, Udine [1922]. 169 ACS. Rapporti dei prefetti, b. 23, fasc. 66, Udine, s/fasc. 1, Bollettino sullo spirito pubblico, 2° Semestre 1882, Udine, 10 Gennaio 1883. 170 Su questa società si può vedere anche il saggio di Fincardi, I reduci risorgimentali cit., pp. 79-83. PARTE TERZA

Premessa 1 Della vita di Alberto Mario. Memorie di Jessie ved. Mario, in Scritti di Alberto Mario scelti e curati da Giosuè Carducci, Zanichelli, Bologna 1884, p. CLXXVI. 2 Per una sintesi della sua vicenda biografica e politica si veda, tra i più recenti, A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Laterza, Roma-Bari 2004; utile anche L. Riall, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Storia d’Italia, Annali 22. Il Risorgimento cit., pp. 267-288. 3 Della vita di Alberto Mario cit., s.i.p. 4 Musini, Dal Trentino ai Vosgi cit., p. 155. 5 Cfr. Della vita di Alberto Mario cit., p. CLXXV. 6 J. White Mario, Vita di Giuseppe Garibaldi, Treves, Milano 1882, pp. IX-XI. 7 Ivi, pp. 286-293. 8 M. Isnenghi, Garibaldi, in Id. (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 32. 9 Cfr. White Mario, Vita di Giuseppe Garibaldi cit., pp. XII-XIII. 10 Ivi, pp. 266-283. 11 Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi (1849-1890) cit., pp. 648-655. 12 Ivi, p. 650. 13 Ivi, p. 592. 14 Ivi, pp. 595-596. 15 La Repubblica e l’Ideale. Antologia degli scritti di Alberto Mario, a cura di P.L. Bagatin, Tipografia Litografia Lendinarese, Lendinara 1984, pp. 181-183. Mario si era espresso in questo modo il 19 marzo 1866 a Firenze, al comizio popolare per l’elezione di Mazzini al collegio di Messina.

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16 Cfr. DDI, 2a s. (1870-1896), voll. XI (17 ottobre 1878-13 luglio 1879) e XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880). 17 Ivi, vol. XIV (29 maggio 1881-20 maggio 1882), p. 675, Robilant a Tosi, Vienna, 6 aprile 1882. 18 Ivi, voll. XV-XVI (21 maggio 1882-31 dicembre 1883), p. 103, De Launay a Robilant, Berlino, 25 giugno 1882. Il testo è in francese (traduzione mia). 19 Un saggio eloquente di questi recuperi più o meno «a caldo» della figura di Garibaldi si ha nel materiale – soprattutto volantini e manifesti – sequestrato dalle autorità e conservato in particolare in ACS, Grazia e Giustizia, bb. 66, 87. 20 Ivi, b. 66, fasc. 704, s/fasc. 8. 21 Ivi, b. 87, fasc. 848. 22 Su questi aspetti si può vedere I Garibaldi dopo Garibaldi. La tradizione famigliare e l’eredità politica, a cura di Z. Ciuffoletti, A. Colombo, A. Garibaldi Jallet, Lacaita, Manduria 2005; in particolare l’ottimo saggio di G. Monsagrati su Ricciotti Garibaldi e la fedeltà alla tradizione garibaldina (pp. 81-124).

Capitolo settimo 1 AP, CD, Discussioni, XX legislatura, sessione del 1897, tornate dell’8, 9, 11 e 12 aprile 1897, pp. 22-45, 62-83, 123-143, 159-174. 2 Rettorica, «Avanti!», 19 febbraio 1897. 3 AP, CD, Discussioni, XX legislatura, sessione del 1897, tornata dell’11 aprile 1897, pp. 128-131. 4 Cfr. in particolare L’opera delle potenze, «La Tribuna», 18 febbraio 1897; L’Italia al bivio, «La Tribuna», 20 febbraio 1897. 5 Pro Candia. Le dimostrazioni a Roma, «Avanti!», 24 febbraio 1897. 6 Sulle discussioni e sui conflitti interni suscitati nel mondo socialista dagli avvenimenti greci si veda il contributo – talvolta impreciso, però, nella ricostruzione dei fatti – di G. Oliva, Un dibattito socialista di fine secolo: la nazione armata e la guerra greco-turca del 1897, «Rivista storica italiana», XCIV, 1982, 2, pp. 508-526. 7 Il partito socialista italiano nella questione greca, «Avanti! », 12 marzo 1897. I corsivi sono miei. 8 «Avanti!», 25 febbraio 1897. 9 La questione di Candia. La Grecia resisterà alle potenze. Una lettera di Nicola Barbato, «Avanti!», 6 marzo 1897. 10 Per Candia. La partenza della flotta – Il linguaggio dei giornali – Un manifesto di Barbato, «Avanti!», 7 marzo 1897. 11 Comitato socialista per la Grecia, «Avanti!», 6 marzo 1897. 12 Su questa esperienza si possono vedere anche le considerazioni di G. Oliva, Illusioni e disinganni del volontariato socialista: la «Legione Cipriani» nella guerra greco-turca del 1897, «Movimento operaio e socialista», n.s., V, 1982, 3, pp. 351-365. 13 Cfr. F. Guida, Ettore Ferrari e il volontarismo garibaldino nei paesi del sud-est europeo (1897-1912), in Il progetto liberal-democratico di Ettore Ferrari. Un percorso tra politica ed arte, a cura di A.M. Isastia, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 61-65. 14 R. Garibaldi, La Camicia Rossa nella guerra greco-turca (1897), Tipografia Cooperativa Sociale, Roma 1899, pp. 16-17. 15 Ivi, pp. 20-22. 16 Ivi, p. 23.

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Ivi, p. 24. Ivi, pp. 27-33. Al comando del 2°, 3° e 4° battaglione (uno italiano, uno greco e uno misto) erano posti rispettivamente il maggiore Gustavo Martinotti, il tenente Vittorio Martini e il tenente Girolamo Bianchini (cfr. MCRR, VM 1043, n. 33). 19 Complessivamente si possono stimare in circa 2000 i volontari stranieri presenti in Grecia nel 1897. 20 Cfr. MCRR, VM 1043, nn. 25 e 34, Stato numerico del Corpo. 21 Giuseppe Ciancabilla, poco dopo il suo ritorno dalla Grecia, avrebbe aderito al movimento anarchico, rendendo note le ragioni della sua scelta in una intervista a Errico Malatesta pubblicata ai primi di novembre sull’«Avanti!», che destò molto clamore. Costretto dalle persecuzioni poliziesche a spostarsi in Svizzera e in Francia, alla fine del 1898 lasciò l’Europa per gli Stati Uniti, dove svolse attività politica e giornalistica, venendo a contatto con molti emigrati italiani, tra cui Gaetano Bresci. Morì a San Francisco nel 1904, a soli 32 anni. 22 Lettera dalla Grecia, «Avanti!», 31 marzo 1897. 23 Lettera dalla Grecia, «Avanti!», 27 marzo 1897. 24 Per Candia, «Avanti!», 4 aprile 1897. 25 Riabilitazione?, «Avanti!», 23 aprile 1897. 26 Lettera dalla Grecia. Le camicie rosse, «Avanti!», 12 maggio 1897. 27 Il triste spettacolo dato dai volontari, «Corriere della Sera», 4-5 maggio 1897. 28 I volontari italiani in Grecia, «Corriere della Sera », 10-11 maggio 1897. 29 La pace o la guerra?, «Corriere della Sera», 11-12 maggio 1897. 30 L’onomastico del re – i volontari italiani – notizie dal campo, «La Tribuna», 15 maggio 1897. 31 MCRR, VM 1046, n. 52. 32 R. Garibaldi, La Camicia Rossa cit., p. 14. 33 Ivi, p. 8. 34 Ivi, p. 58. 35 Ivi, pp. 75-77. 36 Ivi, pp. 77-78. 37 MCRR, VM 1044, n. 34. 38 Allora ventiduenne, sarebbe entrato nel 1899, come avvocato socialista residente nella capitale, nel Casellario Politico, per esserne poi radiato nel 1929 (cfr. ACS, CPC, b. 3064). 39 P. Marincola Cattaneo, In Grecia. Ricordi e considerazioni di un reduce garibaldino, Tipografia del Giornale il «Sud», Catanzaro 1897, p. 2. 40 Ivi, pp. 26-27. 41 Ivi, pp. 86-88. 42 Un ottimo contributo interpretativo su questi aspetti è rappresentato dal saggio di G. Pécout, Une amitié méditerranéenne: le philhellénisme italien et français au XIX siècle, «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», XXXIX, 2005, La democrazia radicale nell’Ottocento europeo. Forme della politica, modelli culturali, riforme sociali, a cura di M. Ridolfi, pp. 81-106. Questa riflessione inserisce gli avvenimenti del 1897 nella lunga parabola del filellenismo ottocentesco, di cui sottolinea la dimensione politica oltre che culturale, legata anche all’idea dei debiti e della gratitudine reciproca tra i diversi movimenti nazionali. Convincente è anche la valorizzazione del concetto ottocentesco di solidarietà tra i popoli, in virtù del 17 18

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quale fino alla prima guerra mondiale alcuni gruppi progressisti – liberali e socialisti – non videro un’opposizione sostanziale tra lotte nazionali e internazionalismo. 43 Marincola Cattaneo, In Grecia cit., pp. 89-91. 44 Cfr. ivi, pp. 60-62. 45 Anche Zirardini compariva tra i socialisti schedati. Nato nel 1857, il suo primo cenno biografico risaliva al 1894, quando lo si segnalava già attivo dagli anni Ottanta. Si impegnò nel giornalismo, collaborando anche all’«Avanti!», e nell’organizzazione dei lavoratori, divenendo nel 1914 segretario della Camera del Lavoro di Ferrara. Alla fine degli anni Venti era ancora controllato (cfr. ACS, CPC, b. 5579). 46 MCRR, VM 1047, n. 46, Gaetano Zirardini a Ricciotti Garibaldi, Ravenna, 8 giugno 1897. 47 Si vedano in particolare MCRR, VVMM 1049-1050. 48 MCRR, VM 1049, Leopoldo Bedeschi a Ricciotti Garibaldi, Ravenna, 7 aprile 1897. 49 Ivi, VM 1050, Giovanni Genghini a Ricciotti Garibaldi, Rimini, 5 marzo 1897. La lettera è trascritta mantenendo l’ortografia e la sintassi originarie. 50 Ivi, VM 1049, Italico Del Vivo a Ricciotti Garibaldi, Tempio, 9 marzo 1897. 51 Cfr. ivi, VM 1050, nn. 73, 118, 122. 52 Con un certo ritardo rispetto agli avvenimenti cubani del 1895, il Comitato italiano centrale per la libertà di Cuba sorse l’anno dopo. Le iniziative, a cui gli avvenimenti ellenici sottrassero molte energie, furono animate da alcuni uomini impegnatisi direttamente anche per la Grecia, come Ferruccio Tolomei e il repubblicano collettivista Felice Albani. Solo nel 1898 alcune decine di volontari, in prevalenza centro-settentrionali, sbarcarono a New York, non riuscendo però a raggiungere Cuba. Ricciotti Garibaldi non assunse mai alcun ruolo formale in tutto ciò. 53 MCRR, VM 1049, n. 55, Ardoino Borini a Ricciotti Garibaldi, Forlì, 9 aprile 1898. 54 Cfr. ivi, VVMM 1043-1044. 55 Cfr. ACS, CPC, b. 4021. 56 I dati biografici si ricavano in prevalenza da R. Garibaldi, La Camicia Rossa cit., pp. 205-253, e dalle cronache dei giornali. 57 A. Rossi, Tornando dalla Grecia. Antonio Fratti, «Corriere della Sera», 4-5 giugno 1897. 58 Lettera dalla Grecia, «Avanti!», 31 marzo 1897. 59 Per Candia, «Avanti!», 26 marzo 1897. Il giornale di Bissolati riproduceva una corrispondenza indirizzata al «Roma» di Napoli. 60 Lettera dalla Grecia. Dalla frontiera macedone, «Avanti», 7 aprile 1897. 61 La guerra greco-turca, «Avanti!», 20 aprile 1897. La corrispondenza, indirizzata in origine al «Caffaro» di Genova, era stata scritta il 6 aprile a Kalambáka, in Tessaglia. 62 G. Cavaciocchi, La Compagnia della Morte. Ricordi di un volontario della Legione Cipriani, Ettore Croce Editore, Napoli 1898. Da quanto emerge, Cavaciocchi era in realtà solo uno dei protagonisti degli avvenimenti rievocati – e probabilmente il curatore del testo definitivo –, della cui ricostruzione furono responsabili Giuseppe Belli, Mario Benenati, Arturo Labriola, anche prefatore, e Pietro Marogna. Anche l’editore aveva combattuto con Cipriani per poi allontanarsene. 63 Ivi, p. IX. 64 Ivi, p. XVIII. 65 La legione Cipriani. Dichiarazione collettiva dei reduci, «Avanti!», 26 aprile 1897. Il documento – datato Atene, 15 aprile ’97 – era sottoscritto dai 20 volonta-

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ri che avevano lasciato la Legione, tra cui Mario Benenati, Ettore Croce, Pasquale Guarino, Arturo Labriola, Francesco Malgeri. Giuseppe Cavaciocchi aveva già abbandonato in precedenza il Corpo per ragioni private. 66 Cavaciocchi, La Compagnia della Morte cit., p. 3. 67 Ivi, pp. 37-45. 68 Ivi, p. 50. 69 Ivi, p. 95. 70 Ivi, pp. 113-115. Questa descrizione, datata 15 aprile 1897, era probabilmente in origine una lettera, forse redatta a scopo di corrispondenza giornalistica. 71 Ivi, p. 137. 72 Lettera dalla Grecia, «Avanti!», 1° maggio 1897. La corrispondenza era datata 21 aprile. 73 Lettera dalla Grecia, «Avanti!», 8 maggio 1897. Lettera di Ciancabilla, Vólos, 26 aprile. 74 Lettera dalla Grecia. Ad Atene, «Avanti!», 11 maggio 1897. Corrispondenza di Giuseppe Ciancabilla, Atene, 5 maggio 1897. 75 «Viva la guerra». 76 Marincola Cattaneo, In Grecia cit., pp. 15-16. 77 Ivi, p. 23. 78 Ivi, p. 38. 79 Ivi, p. 67. 80 Ivi, pp. 141-146. 81 Ivi, p. 54. 82 Ivi, pp. 75-76. 83 Ivi, p. 137. 84 Ivi, p. 124. 85 Il sacrifizio, «Avanti!», 21 maggio 1897. 86 Lettera dalla Grecia, «Avanti!», 5 giugno 1897. 87 Il ritorno, «Corriere della Sera», 29-30 maggio 1897. 88 Ibid. 89 R. Garibaldi, La Camicia Rossa cit., p. 275. 90 Ivi, pp. 275-276. 91 MCRR, VM 1046, n. 97, Stefano Canzio a Ricciotti Garibaldi, Genova, 4 maggio 1897. 92 Ho ricavato il testo della commemorazione da Giovanni Bovio per Antonio Fratti, «Il Futuro Sociale», 22-29 agosto 1897.

Capitolo ottavo 1 Le principali iniziative di questo genere che unirono repubblicani, socialisti ed anarchici furono, a partire dal 1904, le manifestazioni antizariste, la mobilitazione contro la fucilazione di Francisco Ferrer e le sue commemorazioni (cfr. ACS, DGPS, 1904, b. 8; ivi, 1909, bb. 3, 4, 5, 6; ivi, 1912, b. 36; ivi, 1913, b. 41; ivi, 1914, b. 34); gli indirizzi a favore della rivoluzione portoghese (ivi, 1910, b. 7) e, dal 1911, la polemica anticoloniale. Si veda anche ivi, 1909, b. 3, fasc. Arruolamenti, s/fasc. Arruolamenti di volontari italiani per la Serbia. 2 Cfr. M. Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Firenze 1978, pp. 55-107.

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3 Su Albani – milanese, ma romano d’adozione – e la moglie si vedano, tra gli studi più recenti, B. Ficcadenti, Il Partito Mazziniano Italiano, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1999; M. Scioscioli, I repubblicani a Roma fra ’800 e ’900, e G. Monsagrati, Il mazzinianesimo di Ettore Ferrari, in Il progetto liberal-democratico di Ettore Ferrari, a cura di A.M. Isastia, cit., pp. 15-28, 45-60. 4 Durante la quale egli aveva diretto, nella capitale, «Il Futuro Sociale». 5 Nel giugno del 1912 Albani avrebbe inviato alla redazione del «Fieramosca» di Firenze lunghe lettere di ragguaglio sui fatti dell’anno precedente, come tentativo di discolpa rispetto alle proprie responsabilità e soprattutto come atto d’accusa verso l’operato di Ricciotti. Lo stesso aveva fatto quest’ultimo qualche giorno prima, con intenti speculari. Sui rapporti tra i repubblicani e Ricciotti si veda anche MCRR, b. 1062, fasc. 60. 6 Ibid. 7 ACS, DGPS, 1913, b. 6, fasc. Albania, dispaccio telegrafico di Luzzatti a tutti i prefetti del Regno, 16 febbraio 1911. 8 Cfr. ivi, fasc. Trieste. Movimento pro Albania. 9 Cfr. ivi, fasc. Bari. Agitazione pro-Albania. 10 Cfr. ivi, fasc. Pro-Albania. Affari generali; ivi, fasc. Albania; ivi, b. 7, fasc. Montenegro, s/fasc. Roma. Movimento Pro-Albania; ivi, fasc. Bologna. Movimento Pro Albania 11 Cfr. Tesoro, I repubblicani cit., pp. 58-61. 12 Cfr. ACS, DGPS, 1913, b. 6, fasc. Ancona. Già fondatore nel 1904, a sedici anni, della Federazione giovanile repubblicana, Marinelli avrebbe diretto nel primo dopoguerra il «Lucifero», storico giornale dei repubblicani anconetani. Antifascista, prolungò la sua vita pubblica fino al secondo dopoguerra, nel Partito d’Azione e poi di nuovo nel PRI. 13 Facchinetti dirigeva all’epoca «Il Cacciatore delle Alpi» di Varese ed era agli esordi di una lunga carriera politica. Più tardi avrebbe fatto proprie le posizioni dell’interventismo democratico, e, dopo l’ascesa del fascismo, avrebbe vissuto l’esperienza del fuoruscitismo in Francia, aderendo a Giustizia e Libertà e alla Concentrazione antifascista. Attivo nel CLN durante la Resistenza, nel secondo dopoguerra ricoprì a più riprese cariche ministeriali. 14 Tra i giovanissimi che si diressero inutilmente verso i porti adriatici, si deve segnalare il quindicenne Italo Balbo, impegnato anche l’anno dopo, tra i mazziniani intransigenti riuniti a convegno a Forlì, a perorare la causa dei popoli balcanici (cfr. ivi, 1912, K4, b. 38, fasc. Partito repubblicano, s/fasc. Forlì). 15 Cfr. ivi, fasc. Bologna. Movimento Pro Albania. 16 Sulla spedizione del 1911 – così come su molte altre vicende del volontariato italiano all’estero – si veda anche A. Bandini Buti, Una epopea sconosciuta. È il contributo di fede e di sangue dato dai volontari italiani per la causa degli altri popoli dal Trocadero e Missolungi alle Argonne e Bligny, Ceschina, Milano 1967, pp. 139145. 17 Indicata nei documenti con la denominazione veneziana di Santa Maura. 18 Sull’iniziativa dell’ambulanza, propagandata ovviamente sulle pagine della «Terza Italia», si veda anche ACS, MI, DGPS, 1913, b. 6, fasc. Albania. Ambulanza italiana diretta da Albani Tondi Alina. 19 Tra i repubblicani, 13 deputati votarono a favore, si astenne Eugenio Chiesa, espressero voto contrario Viazzi, Gaudenzi e Bonopera. Napoleone Colajanni, che aveva appoggiato anch’egli la linea di Barzilai – per rispetto ai combattenti e

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accettazione del fatto compiuto –, avrebbe poi sconfessato questa decisione, assestandosi stabilmente tra gli «antitripolini». 20 Cfr. Tesoro, I repubblicani cit., pp. 146-160. Sul congresso di Ancona si veda anche ACS, DGPS, 1912, K4, b. 38, fasc. Partito repubblicano, s/fasc. Ancona. Su questo momento di crisi cfr. ivi, 1912, K4, b. 39, fasc. Partito repubblicano, s/fasc. Milano. 21 La cosiddetta «prima guerra balcanica» vide allearsi i quattro Stati citati contro l’Impero ottomano, in breve tempo messo alla corde. Manifestatisi ai danni dei vicini gli intenti espansionistici della Bulgaria, gli altri tre soggetti si unirono contro di essa a fianco della Romania e della stessa Turchia. Questa seconda guerra balcanica scoppiò e si concluse nel 1913. 22 Fin da subito, nell’ottobre del 1912, alcuni volontari erano accorsi alla spicciolata in Serbia, Bulgaria e Montenegro. 23 Cfr. F. Guida, L’ultima spedizione garibaldina in Grecia, in Indipendenza e unità nazionale in Italia ed in Grecia, Atti del Convegno di studio, Atene, 2-7 ottobre 1985, Olschki, Firenze 1987, pp. 199-200. 24 Su questi gruppi si veda R. Balzani, La Federazione Giovanile Repubblicana nell’età liberale, in Id., D. Giacalone, La libertà, la repubblica, l’altra Italia. Profilo storico della Federazione Giovanile Repubblicana, La Critica Politica, Firenze 1984, pp. 19-98. Alcuni degli esponenti della Federazione giovanile, nata nel 1904, avevano dato anche vita, nello stesso anno, all’associazione segreta Giovine Italia. 25 Un reduce di Domokós tornato in Grecia nel 1912 era il perugino Giuseppe Evangelisti: nato nel 1873, di umili origini, già da bambino aveva appreso l’arte di decoratore presso il vecchio garibaldino Giovanni Bisacchi. Evangelisti raggiunse negli ultimi anni dell’Ottocento una certa notorietà sia come ciclista che come attivista repubblicano. Nel 1914 Evangelisti avrebbe combattuto tra i volontari per la Francia. Rientrato in Italia, fece proprie le ragioni dell’interventismo democratico, arruolandosi nell’esercito al momento dell’entrata in guerra. Nel 1926 fu arrestato come «massone sovversivo» e mandato al confino; liberato nel 1929, l’anno dopo espatriò in Francia, dove morì, a Nizza, nel 1935. 26 Tra di loro il ravennate Chiarissimo Maldini, veterano del garibaldinismo dagli anni Sessanta in poi. Dopo aver aderito al Partito mazziniano di Albani, nel 1908 egli era stato tra i promotori di un’ulteriore diaspora politica, con la nascita del Partito mazziniano italiano intransigente. Vi avevano aderito, in particolare, alcuni gruppi romagnoli, marchigiani, toscani e liguri. 27 Guida, L’ultima spedizione cit., p. 195. 28 Cfr. Tesoro, I repubblicani cit., pp. 193-195. 29 Ivi, p. 187. 30 Cfr. ivi, pp. 197-198. 31 Marabini, nato nel 1887, aveva già alle spalle una pluriennale militanza tra i giovani repubblicani. Nel 1906 aveva rappresentato due circoli romani al Congresso internazionale giovanile repubblicano di Barcellona. Al Congresso di Ancona del 1912 era stato uno dei redattori dell’ordine del giorno vincente, che, pur richiamando alla disciplina il gruppo parlamentare, non imponeva una netta rottura tra le parti. Per gli esordi politici di Marabini si veda anche ACS, MI, CPC, b. 3010. 32 Pubblicato nel 1914, il testo – che riportava in copertina la citazione dannunziana «per vivere di una vita più fervida o / per morire di una più nobile morte» – era introdotto da Innocenzo Cappa, all’epoca repubblicano, ma destinato a

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prolungare attraverso i decenni la sua vita pubblica come senatore e giornalista fascista. 33 C. Marabini, Dietro la chimera garibaldina... Diario di un volontario alla guerra greco-turca del 1912, Casa Editrice Sacchi & Ribaldi, Roma 1914, pp. 1-2. 34 Ivi, p. 2. 35 Cfr. ivi, p. 7. 36 Ivi, p. 11. 37 Anche questa sua ennesima iniziativa ebbe una ricaduta memorialistica: R. Garibaldi, La Camicia Rossa nella Guerra Balcanica. Campagna in Epiro 1912, Tipografia Editrice Antonio Cavalleri, Como 1915. 38 Marabini, Dietro la chimera cit., pp. 17-20. 39 A. Spallicci, La Spedizione Garibaldina in Grecia. Le giornate di Drisko, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì 1913, pp. 4-5. 40 Marabini, Dietro la chimera cit., p. 28. 41 Le formazioni volontarie del ’12 – che facevano esplicito riferimento al garibaldinismo – ebbero carattere internazionale, ma con una preponderante presenza dell’elemento greco. 42 Cfr. Marabini, Dietro la chimera cit., pp. 42-48. Marabini parlava però erroneamente di secondo battaglione, considerando gli uomini di Romas come unità singola. 43 Sugli ufficiali del terzo e quarto battaglione e sullo stato maggiore si veda anche ACS, DGPS, 1913, fasc. Balcani. Arruolamenti, s/fasc. Ricciotti Garibaldi (Generale). Partenza per la Grecia. 44 Marabini, Dietro la chimera cit., p. 44. 45 Il terzo e quarto battaglione della Legione garibaldina, operanti sotto il diretto controllo di Ricciotti, ascendevano complessivamente a 1166 effettivi. 46 Cfr. Marabini, Dietro la chimera cit., pp. 23-26. 47 Spallicci, La Spedizione Garibaldina cit., pp. 8-9. 48 Ivi, pp. 12-13. 49 Ivi, pp. 14-16. 50 Ivi, pp. 16-17. 51 Marabini, Dietro la chimera cit., pp. 77-78. 52 Spallicci, La Spedizione Garibaldina cit., pp. 18-19. 53 Marabini, Dietro la chimera cit., p. 40. 54 Cfr. Guida, L’ultima spedizione garibaldina cit., pp. 205-206. 55 Cfr. ivi, pp. 209-213. 56 Spallicci, La Spedizione Garibaldina cit., pp. 22-24. 57 Ivi, p. 29. 58 Ibid. 59 Ivi, pp. 33-34. 60 Ivi, p. 48. 61 Ivi, p. 50. 62 Ivi, p. 51. 63 Ivi, p. 54. 64 Marabini, Dietro la chimera cit., pp. 169-170. 65 Si veda ACS, DGPS, 1912, b. 39, fasc. Balcani. Arruolamenti. 66 U. Cappuccino, Le ultime «camicie rosse» nella Grande Guerra. Impressioni e ricordi, Casa del Libro, Roma 1936, p. 1. 67 Sull’argomento si vedano L. Lotti, La settimana rossa, Le Monnier, Firenze

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1965; M. Martini, Giugno 1914. Folle romagnole in azione, «Rivista di storia contemporanea», XVIII, 1989, 4, pp. 517-559. 68 Cappuccino, Le ultime «camicie rosse» nella Grande Guerra cit., p. 4. 69 Il più recente lavoro sui garibaldini in Francia nel 1914-15, attento agli aspetti mediatici e politici, così come a quelli militari si deve a H. Heyriès, Les garibaldiens de 14. Splendeurs et misères des chemises rouges en France, de la Grande Guerre à la Seconde Guerre mondiale, Serre éd., Nice 2005. 70 Come si vedrà più avanti, in questo caso, le virgolette sono tecnicamente d’obbligo. 71 Cfr. ACS, PCM, Guerra Europea 1915-1918, b. 25, fasc. 17/1-11; ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 12, fasc. 2, s/fasc. 2, Francia e litorale adriatico. Eventuale spedizione di volontari italiani contro l’Austria. 72 Cfr. R. Garibaldi, I fratelli Garibaldi dalle Argonne all’intervento (1933), 3a edizione ampliata e corretta, «Edizioni Garibaldine», Milano 1935, pp. 17-19. 73 La formula era contenuta in un manifesto indirizzato «agli italiani», diffuso in tutto il Paese. La prima posizione ufficiale del Partito risaliva all’11 agosto 1914, quando si era riunito a Milano il Comitato speciale, composto dalla Commissione esecutiva e dai rappresentanti delle varie regioni. 74 Cfr. ACS, DGPS, 1914, b. 35, fascc. Forlì. Maneggi insurrezionali e Ravenna. Mene anarchiche e sovversive rivoluzionarie. 75 Cfr. Martini, Giugno 1914 cit., pp. 540-541. 76 Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 14, fasc. 20, s/fasc. 9, ins. 9, Forlì. Guerra Austro-Serba. Arruolamenti di volontari. 77 Si vedano in particolare ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 14, fasc. 20, s/fasc. 9, ins. 2, Ancona. Guerra Europea. Arruolamenti; ivi, ins. 9, Forlì. Guerra Austro-Serba. Arruolamenti di volontari; ivi, ins. 22, Ravenna. Guerra Austro-Serba. Arruolamenti di volontari. 78 Sullo scenario romano di quei mesi si veda A. Staderini, Combattenti senza divisa. Roma nella grande guerra, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 15-33. Sui rapporti tra sovversivismo e volontariato si possono ricavare elementi di inquadramento generale da B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale, I, L’Italia neutrale, Ricciardi, Milano-Napoli 1966, pp. 234-248, 325-336. 79 Si veda, in particolare, A. Mannucci, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914 (nel solco della prima guerra mondiale), Tip. Risorgimento, Roma s.d. [1960]. Nella stessa circostanza avevano perso la vita anche i repubblicani Mario Corvisieri – intimo di Camillo Marabini, a fianco del quale aveva collaborato alla «Luce» –, Francesco Conforti – salernitano di famiglia patriottica –, Vincenzo Bucca e Nicola Goretti, entrambi attivi nel repubblicanesimo laziale. Erano sopravvissuti Ugo Colizza, fratello di Cesare e futuro console della Milizia, e Arturo Reali, anch’egli legato all’ambiente romano. Corvisieri e Conforti erano stati in Grecia nel 1912. 80 La lettera è citata, tra l’altro, in R. Garibaldi, I fratelli Garibaldi cit., p. 46. 81 In seguito furono distribuite ai volontari camicie rosse, da indossare, però, sotto una giubba. 82 Cfr. R. Garibaldi, I fratelli Garibaldi cit., pp. 47-50. 83 Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 12, fasc. 20, s/fasc. 2, Francia e litorale adriatico. Eventuale spedizione di volontari italiani contro l’Austria. 84 Ibid. 85 Cfr. ACS, PCM, Guerra Europea 1915-1918, b. 25, fasc. 17/1-11. 86 Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 14.

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Ivi, fasc. 20, s/fasc. 9, ins. 2, Ancona. Guerra Europea. Arruolamenti. Ivi, ins. 24, Roma. Arruolamenti volontari. 89 Ivi, ins. 11, Grosseto. Arruolamento di volontari. 90 Ivi, ins. 21, Porto Maurizio. Guerra Austro-Serba. Arruolamenti di volontari. 91 Ivi, b. 12, fasc. 20, s/fasc. 2, Francia e litorale adriatico. Eventuale spedizione di volontari italiani contro l’Austria, copia del rapporto del Consolato Generale d’Italia a Nizza in data 28 settembre 1914 diretto al Ministero degli Esteri. 92 Ivi, copia del rapporto del Consolato Generale d’Italia a Nizza in data 30 settembre 1914 diretto al Ministero degli Esteri. 93 La spada di Ricciotti, «L’Idea Nazionale», 20 agosto 1914. 94 F. Coppola, Per la democrazia o per l’Italia?, «L’Idea Nazionale», 3 ottobre 1914. Sulle implicazioni del ragionamento di Coppola si veda anche M. Isnenghi, Il mito della grande guerra (1970), Il Mulino, Bologna 1997, pp. 306-307. 95 Si veda per esempio, ACS, A5G, b. 14, fasc. 20, s/fasc. 9, ins. 26, Sassari. Arruolamenti volontari. 96 Cappuccino, Le ultime «camicie rosse» cit., p. 16. 97 G. Chiostergi, Diario Garibaldino ed altri scritti e discorsi, a cura di E. Fussi Chiostergi e V. Parmentola, Associazione mazziniana italiana, Milano 1965, pp. 6162. La citazione è tratta dalle lettere del 30 agosto e del 3 settembre 1914. 98 Sulla sua esperienza in Francia si veda L. Ghisleri, Diario della Legione Repubblicana Italiana, la Compagnia G. Mazzini, (Nizza 1914), a cura di V. Parmentola, «Archivio trimestrale», IV, 1978, 1-2, pp. 41-79. 99 Chiostergi, Diario Garibaldino cit., pp. 70-71. 100 Sui rapporti tra i repubblicani e i fratelli Garibaldi si veda anche Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale cit., pp. 828-844. 101 Il giorno dopo lo scioglimento della «Mazzini», il console di Nizza – fermo nella sua lettura del fenomeno in chiave sovversiva – telegrafava al Ministero riferendo che sarebbero rimpatriati «circa 130 giovani mazziniani i quali hanno parola d’ordine portare rivoluzione in Italia» (ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 12, fasc. 2, s/fasc. 2, Francia e litorale adriatico. Eventuale spedizione di volontari italiani contro l’Austria). 102 Chiostergi, Diario Garibaldino cit., pp. 72-73. 103 Ivi, p. 74. 104 Ivi, p. 66. 105 Cfr. ivi, p. 75, lettera del 16-17 ottobre. 106 M. Rossi, I 1400 volontari italiani a Montélimar comandati da Ricciotti Garibaldi, «Corriere della Sera», 11 ottobre 1914. 107 Sui settori minoritari degli interventisti anarchici e sugli intrecci tra quella tradizione e il volontariato si vedano, tra i contributi più recenti, M. Antonioli, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale, «Rivista storica dell’anarchismo», II, 1995, 1, pp. 77-112; Id., Nazionalismo sovversivo?, «Rivista storica dell’anarchismo», IX, 2002, 1, pp. 9-34; P.C. Masini, Gli anarchici fra neutralità e intervento (1914-1915), «Rivista storica dell’anarchismo», VIII, 2001, 2, pp. 9-22. 108 Come si è visto, in quel momento si poteva ancora partire dall’Italia per la Francia con questa convinzione. 109 Antonioli, Gli anarchici italiani cit., pp. 108-112. 110 Id., Nazionalismo sovversivo? cit., p. 28. 111 Ivi, p. 27. 87 88

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112 Cfr. Chiostergi, Diario Garibaldino cit., pp. 97-98, 101-106, lettere del 29 novembre e del 2, 4 e 5 dicembre 1914. 113 Tra i circa 30.000 stranieri che offrirono nelle varie formazioni il proprio braccio alla Repubblica, gli italiani furono indubbiamente i più numerosi. Secondo quanto pubblicato sulla stampa francese il 1° gennaio 1915 essi risultavano in totale 4913 contro 3393 russi, 1467 svizzeri, 1462 belgi, 1369 austro-ungarici, 1072 tedeschi, 969 spagnoli, 592 turchi, 541 lussemburghesi, 379 inglesi, 300 greci, 200 americani del Nord e del Sud, 11.854 di altre nazionalità, tra cui circa 10.000 alsaziani e lorenesi. I russi, gli austro-ungarici e i tedeschi erano per la maggior parte ebrei originari dell’Europa orientale. Il 29 luglio 1924, nel bilancio esposto alla Camera a proposito degli arruolati stranieri nell’esercito francese si parlò di un totale di 29.796 volontari, di cui 7125 italiani, 2848 russi, 2702 greci e 2662 belgi. Gli italiani ebbero 608 morti, una Legion d’onore, 108 medaglie al valore e 632 croci di guerra. Per questi dati si veda Heyriès, Les garibaldiens de 14 cit., p. 99 e n. 114 Chiostergi, Diario Garibaldino cit., p. 86, lettera del 5 novembre 1914. 115 Cfr. ivi, pp. 91-92, lettera del 16 novembre 1914. 116 Ivi, p. 104, lettera del 4 dicembre 1914. 117 Ivi, pp. 105-106, lettera del 5 dicembre 1914. 118 Ivi, p. 110, lettera dell’8 dicembre 1914. 119 C. Marabini, La rossa avanguardia dell’Argonna. Diario di un garibaldino alla guerra franco-tedesca, Ravà & C., Milano 1915, pp. 1-6. Dopo essere stato tradotto in francese nel ’17, il diario veniva riedito a Roma nel 1935: vi si riportava ancora l’originaria prefazione di Gabriele D’Annunzio e la riproduzione di una lettera di Peppino Garibaldi all’autore, del 20 maggio 1915; rispetto all’edizione precedente si aggiungeva invece una missiva inviata a Marabini da Mussolini nel settembre del ’15. 120 L. Federzoni, Garibaldinismo, «L’Idea Nazionale», 1° gennaio 1915. 121 L’atteggiamento del quotidiano può ricordare la reazione di un giovane socialista, il siciliano Girolamo Li Causi, studente a Venezia dal 1913, destinato, dopo la lotta antifascista e la Resistenza, ad una pluridecennnale carriera politica nel PCI. Durante la campagna interventista il suo neutralismo non gli aveva impedito di guardare con rispetto alla scelta di Giuseppe Chiostergi di partire per la Francia: «Il gesto [...] non poteva non riscuotere tutta la mia simpatia, in quanto si ricollegava a una nobile tradizione internazionalista [...] che ci affratellava a tutti i popoli oppressi del mondo e ripeteva, con motivi ed entusiasmi nuovi, l’esempio incarnato nella maniera più completa, umana e universale da Garibaldi» (cfr. G. Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 48). 122 Marabini, La rossa avanguardia dell’Argonna cit., pp. 86-89, diario del 25 dicembre 1914. 123 Si veda in particolare ivi, pp. 71-74, diario del 19 dicembre 1914. 124 Cfr. Chiostergi, Diario Garibaldino cit., pp. 27-30, 129-132. 125 Dichiarato invalido, e quindi liberato dallo status di internato e dall’obbligo di indossare la divisa francese, dopo Caporetto Chiostergi tentò senza successo, date le sue condizioni fisiche, di essere arruolato dall’esercito italiano. 126 Sul ruolo della stampa, nel contesto generale del dibattito pro e contro l’intervento, si veda M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, La Nuova Italia, Firenze 2000, pp. 85-134. 127 F. Ciccotti, Quelli che hanno pagato di persona, «Avanti!», 2 gennaio 1915.

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128 I volontari italiani al fuoco. 40 morti e 150 feriti in uno scontro nell’Argonne, «L’Idea Nazionale», 31 dicembre 1914. 129 G. Romualdi, Lettera aperta a Ricciotti Garibaldi, «Il Giornale d’Italia», 8 gennaio 1915. 130 Chiostergi, Diario Garibaldino cit., p. 105. 131 L’editoriale veniva ripubblicato l’8 gennaio dal «Giornale d’Italia» sotto il titolo Un commento dell’«Avanti!». 132 B. Mussolini, Sangue che unisce..., «Il Popolo d’Italia», 31 dicembre 1914. 133 Cfr. A.P., Anima garibaldina, «Il Popolo d’Italia», 7 gennaio 1915. 134 B. Mussolini, I morti che vivono..., «Il Popolo d’Italia», 8 gennaio 1915. 135 Sul culto dei caduti e l’uso pubblico della morte in guerra è fondamentale il riferimento a G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990. 136 Si vedano in particolare P. Scarfoglio, Due giorni coi volontari italiani, «La Stampa», 8 dicembre 1914; Id., Nella piccola Italia agli ordini di Joffre, «La Stampa», 14 dicembre 1914. 137 G. Bertacchi, I Diecimila, «Il Secolo», 6 ottobre 1914. 138 Si vedano in particolare La salma di Bruno Garibaldi a Roma, «Corriere della Sera», 6 gennaio 1915; I grandiosi funerali di Bruno Garibaldi a Roma, «Corriere della Sera», 7 gennaio 1915. 139 L. Barzini, Sangue italiano nella Foresta, «Corriere della Sera», 4 febbraio 1915. 140 Id., Sangue italiano nella Foresta, «Corriere della Sera», 7 febbraio 1915. 141 Id., Sangue italiano nella Foresta, «Corriere della Sera», 4 febbraio 1915. 142 Si veda ACS, DGPS, 1915, b. 28, fasc. Commemorazione dei Garibaldini caduti in Francia. 143 Già in precedenza, il 24 dicembre del 1914, Ricciotti aveva inviato al ministro della Guerra Zupelli una lettera con cui offriva, in caso di mobilitazione, un Corpo volontario di 30.000 uomini. La proposta non era stata presa in considerazione. Per queste fasi si vedano i rapporti di prefetti, consoli e ambasciatori ai ministeri, contenuti in ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 13, fasc. 20 e in ACS, PCM, Guerra Europea 1915-1918, b. 25, fasc. 17/1-11. 144 ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 13, fasc. 20, prefettura di Roma a Ministero dell’Interno, 4 e 19 febbraio 1915. 145 Ivi, b. 12, fasc. 2, s/fasc. 2, Francia e litorale adriatico. Eventuale spedizione di volontari italiani contro l’Austria, Consolato Generale d’Italia a Lione al Ministero dell’Interno, Lione, 22 febbraio 1915. 146 Si vedano, tra gli altri, Perché la legione garibaldina è stata sciolta, «La Stampa», 10 marzo 1915; La legione garibaldina in Francia. Non scioglimento, ma congedi individuali?, «Corriere della Sera», 10 marzo 1915; La Legione garibaldina definitivamente sciolta, «Corriere della Sera», 19 marzo 1915; A. di Lea, Quel che dicono i garibaldini della disciolta legione, «Il Giornale d’Italia», 11 marzo 1915. 147 Anche questi aspetti sono analizzati da Heyriès, Les garibaldiens de 14 cit., pp. 260-273. 148 Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 13, fasc. 20, Consolato Generale d’Italia a Lione al Ministero dell’Interno, Lione, 20 marzo 1915. 149 La cifra si ottiene sommando a chi partì a metà dicembre per il fronte quelli che erano nel frattempo ancora nei depositi. 150 Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 15, fasc. 20, s/fasc. 10.

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Cfr. Heyriès, Les garibaldiens de 14 cit., pp. 99-134. Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 15, fasc. 20, s/fasc. 10, reg. Rimpatriati della disciolta Legione Garibaldina e ins. Porto Maurizio. Da Firenze si inviavano al Ministero notizie relative, tra gli altri, al giovane repubblicano Kurt Suckert – il futuro Curzio Malaparte –, da cui emergeva che egli era partito non prima di metà febbraio. Giunto in Francia, aveva trovato la Legione in via di smobilitazione ed era rientrato in patria senza aver mai combattuto (ivi, ins. Firenze). 153 ACS, PCM, Guerra Europea 1915-1918, b. 25, fasc. 17/1-11, Sonnino a Salandra, Roma, 14 marzo 1915. 154 Ivi, dispaccio telegrafico di Salandra a Sonnino, Roma, 16 marzo 1915. 155 Su questa fase della sua attività politica e giornalistica e dell’interventismo rivoluzionario in generale si veda R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario (18831920) (1965), Einaudi, Torino 1995, pp. 257-315. 156 B. Mussolini, Verso l’azione, «Il Popolo d’Italia», 12 marzo 1915. 157 Cfr. ACS, A5G Prima Guerra Mondiale, b. 13, fasc. 20. 158 Ivi, telegramma del prefetto di Milano al Ministero dell’Interno, Milano, 3 aprile 1915. 159 Marabini, La rossa avanguardia dell’Argonna cit., pp. 206-207. 160 M. Isnenghi, Usi politici di Garibaldi. Dall’interventismo al fascismo, «Rivista di storia contemporanea», XI, 1982, 4, p. 517. 161 E. Bezzi, Irredentismo e interventismo nelle lettere agli amici. 1903-1920, a cura di T. Grandi e B. Rizzi, Museo trentino del Risorgimento e della Lotta per la Libertà, Trento 1963, p. 124, lettera a [Giuseppe] Locatelli [Milesi], Torino, 19 aprile 1915. 162 L’intervento poetico, «Avanti!», 6 maggio 1915. 151 152

Epiloghi 1 Sul volontariato garibaldino in Francia come possibile anticamera del fascismo si vedano gli interrogativi posti da P. Milza, La Légion des volontaires italiens dans armée française: une antichambre du fascisme?, in Les italiens en France de 1914 à 1940, a cura di P. Milza, École Française de Rome, Rome 1986, pp. 143-154. 2 Sull’eredità del garibaldinismo tra fascismo e antifascismo si veda anche Heyriès, Les garibaldiens de 14 cit., pp. 307-409. 3 Cfr. ACS, CPC, b. 3010. 4 C. Marabini, La rossa avanguardia dell’Argonna. Diario di un garibaldino alla guerra franco-tedesca (1914-15), Anonima Tipo Editoriale Libraria, Roma 1935, pp. 3-7. 5 ACS, CPC, b. 3010. 6 Ivi, copia del telespresso del Ministero degli Esteri in data 3 aprile 1939 al Ministero dell’Interno. 7 Sui rapporti tra Sante e gli ambienti più dichiaratamente connotati in senso antifascista si veda L. Rapone, I fuorusciti italiani, la seconda guerra mondiale e la Francia, in Les italiens en France, a cura di P. Milza, cit., pp. 343-384. Per una riflessione su questi fenomeni, all’interno di una periodizzazione molto più ampia, si veda anche M. Agulhon, Le mythe de Garibaldi en France de 1882 à nos jours, in Id., Histoire vagabonde, II, Idéologie set politique dans la France du XIXe siècle, Gallimard, Paris 1988, pp. 122-125. Su queste iniziative, inserite nel contesto del fuoruscitismo ita-

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liano e nell’ottica di un esule repubblicano, si veda Il diario retrospettivo di Aurelio Orioli, a cura di S. Mattarelli, «Archivio trimestrale», XI, 1985, 2, p. 296. 8 ACS, CPC, b. 3010. 9 Morto a Ginevra il 1° dicembre 1961. 10 Chiostergi, Diario Garibaldino cit., pp. 322-323. 11 Ivi, p. 326. 12 ACS, CPC, b. 4897. 13 Ibid.

Ringraziamenti

Questo libro, nato da una tesi di dottorato svolta all’Università di Torino, ha rappresentato innanzitutto un’occasione di crescita e di gratificazione. Luoghi e persone mi hanno accompagnato a vario titolo nei tre anni di ricerca. A Roma, tra archivi, biblioteche e lenti vagabondaggi per la città ho trascorso alcuni dei momenti più felici ed emozionanti della mia vita. A Venezia, dove è iniziato e continua il mio percorso di studi, ha riempito le mie giornate l’amicizia di Giulio Bobbo, Lisa Bregantin, Simone Longhin, Jolanda Milani e Giovanni Sbordone, compagni di vita insostituibili. Voglio anche ricordare i momenti condivisi con Dario Battistin, Elena Carano, Erika Lorenzon, Tommy Pizzolato e Paolo Tagini. Tra Venezia e Torino si colloca la figura di Mario Isnenghi, che, ancora una volta, ha creduto profondamente nel mio lavoro, pur lasciandomi sempre la libertà di scegliere temi e percorsi di ricerca, in un raro equilibrio tra sintonia di interessi e di accenti e diversità d’approccio. A lui si è affiancato come tutor Giorgio Rochat, che ha ricoperto il suo ruolo con intelligenza, estremo rispetto e grande impegno, rendendo possibile, con generosità, un assiduo dialogo ricco di stimoli. In questo binomio umano e scientifico ha potuto trovare conforto la mia fiducia nel valore di quello che Giorgio Rochat mi ha descritto un giorno, con immutata passione per il proprio lavoro di storico, come «il mestiere più bello del mondo». A Torino ho avuto l’occasione di consolidare preziosi rapporti 361

umani ed intellettuali. Desidero innanzitutto ricordare i tre coordinatori del dottorato che si sono succeduti: ancora una volta Giorgio Rochat, Nicola Tranfaglia e Gian Carlo Jocteau. Tra gli altri docenti voglio ringraziare in particolare, per i suggerimenti, l’attenzione e la disponibilità, Daniela Adorni, Ester De Fort, Adriana Lay, Emma Mana e Brunello Mantelli. Un pensiero affettuoso va poi a tutti i miei compagni, specialmente a Matteo Dominioni, Gian Luigi Gatti, Silvia Inaudi e Mario Ivani, belle persone e appassionati giovani storici. Voglio inoltre confessare il mio debito verso Hubert Heyriès – per la rara generosità e le piacevoli e proficue discussioni romane e telematiche sui garibaldini in Francia – e verso Giuseppe Monsagrati, prodigo di consigli e chiarimenti su alcune fonti essenziali. Le riflessioni e i suggerimenti di Gilles Pécout mi hanno inoltre accompagnato nella stesura del libro. I miei ringraziamenti per la disponibilità incontrata vanno infine agli addetti di tutti gli archivi e le biblioteche che ho frequentato. Il primo cenno affettuoso va al personale del Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Venezia. Desidero inoltre citare, in particolare, Gabriella Ballesio, responsabile dell’Archivio della Società di studi valdesi di Torre Pellice, Mariapina Di Simone, direttrice della sala di studio dell’Archivio Centrale dello Stato, Fabrizio Alberti del Museo Centrale del Risorgimento, Filippo Cappellano dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito ed Ettore Tanzarella della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma. Da ultimo voglio ricordare la vicinanza di Daniele Ceschin – con cui ho condiviso anche speranze, rabbia e gioie – presenza fondamentale al fianco della quale ho potuto realizzare, ma prima ancora concepire, l’idea di dedicare tempo, energie, entusiasmo e passione alla ricerca storica. Un pensiero va infine a chi non c’è più. Vorrei ricordare la figura di Giannantonio «Nane» Paladini, a lungo docente all’Università di Ca’ Foscari e protagonista della vita culturale veneziana, che mi ha offerto l’opportunità di continuare a scrivere e studiare quando sembrava che mi fosse momentaneamente preclusa la via della ricerca storica. Questo libro è dedicato alla memoria di Silvano Franzoi (19412006), che mi ha insegnato l’amore per la vita e a cui non ho potuto restituire tutti i sorrisi che mi ha regalato.

Indici

Indice dei nomi

Abba, Giuseppe Cesare, 295. Acerbi, Giovanni, 122-123, 131. Adamoli, Giulio, 124, 177, 186-188, 190, 196, 340, 342. Adorni, Daniela, 340, 362. Agnetta, Carmelo, 188, 334. Agulhon, Maurice, 359. Albanese, Enrico, 153. Albani, Felice, 238, 265, 270, 350, 352-353. Alberti, Fabrizio, 362. Alessandri, Serse, 253. Aliamo, Giovanni, 327. Amedeo Ferdinando Maria di Savoia, duca di Aosta, re di Spagna, 94. Andreoletti, Francesco, 99. Antinori, Alfredo, 250. Antongini, Carlo, 190. Antonioli, Maurizio, 356. Arcangeli, Febo, 331. Aroldi, Cesare, 218. Asproni, Giorgio, 39, 72, 87, 113, 143, 326, 329-330, 333, 337. Avezzana, Giuseppe, 231.

Bagnasco, Rosario, 40, 326. Bakunin, Michail Aleksandrovicˇ, 158, 163, 178, 270. Balbo, Italo, 352. Ballesio, Gabriella, 341, 362. Balzani, Roberto, 323, 353. Bandi, Giuseppe, 169. Bandiera, fratelli, VIII, 66, 197-198. Bandini Buti, Antonio, 333, 352. Banti, Alberto Mario, 340-341. Baratieri, Oreste, 169, 173. Barbanti-Brodano, Augusto, 163. Barbanti-Brodano, Giuseppe, 163165, 339. Barbato, Nicola, 236, 242, 245, 250. Barberis, 327. Barberis, Walter, 341. Bargoni, Angelo, 37, 64, 84, 327-328. Baroni, Eugenio, 311. Barrili, Anton Giulio, 128, 200, 334, 342. Barsanti, Pietro, 148, 232. Barzilai, Salvatore, 234, 237, 265267, 352. Barzini, Luigi, 307, 358. Bassini, Angelo, 186. Basso, Luigi, 336-337. Battistin, Dario, 361.

Babini, Luigi, 276. Bagatin, Pier Luigi, 347.

365

Bresciani, Giuseppe Pietro, 173. Brignone, Filippo, 325. Briguglio, Letterio, 339. Brown, Frank Cooper, 273. Bruzzesi, Giacinto, 60, 66, 95, 98, 116, 172. Bruzzone, Adolfo, 334. Bucca, Vincenzo, 355. Buttà, Giuseppe, 202, 342.

Bedeschi, Leopoldo, 249, 350. Belli, Giuseppe, 350. Bellini, Filippo, 250. Belotti, Giovan Battista, 331. Bendi, Achille, 331. Benenati, Mario, 350-351. Bennici, Giuseppe, 84-86, 330. Bentivegna, Francesco, 66, 153. Bentivegna, Giuseppe, 153. Berghinz, Augusto, 223. Bertacchi, G., 358. Bertani, Agostino, XI-XII, 30-32, 3435, 37, 39, 45-48, 53, 68, 75, 100, 102-103, 112, 132, 151, 178-182, 231, 325-328, 332-333, 340. Bertet, Enrico, 236, 242-246. Bezzi, Ergisto, 61, 124, 312, 327, 359. Bianchi, Ferdinando Martino, 209. Bianchini, Girolamo, 272, 349. Bignami, Enrico, 144. Bisacchi, Giovanni, 353. Bissolati, Leonida, 234, 269, 350. Bixio, Nino, 30, 36, 38, 95, 116, 170, 181, 194, 205. Bizzoni, Achille, 140, 142, 144-145, 163, 336-337. Blanc, Alberto, 336. Bobbo, Giulio, 361. Bonaparte, Napoleone Giuseppe, detto Girolamo, 60, 327. Bon-Compagni, Carlo, 79, 329. Bonduan, Pasquale, 209. Bonopera, Augusto, 352. Borini, Ardoino, 250, 350. Borruso, Giuseppe, 154, 338. Bortone, Alessandro, 156. Boselli, Paolo, 177. Bossi, Luigi, 144. Botta, Niccolò, 128-129, 335. Bottacci, Salvatore, 209. Bottero, Giovanni Battista, 71. Bovelacci, Nullo, 276. Bovi, Paolo Guerino, 159. Bovio, Giovanni, 234, 263. Bregantin, Lisa, 361. Bresci, Gaetano, 349.

Cadolini, Giovanni, 26. Cairoli, Benedetto, 98, 103, 108, 132, 151, 161, 171, 176, 178-179, 210, 213, 232, 332, 334. Cairoli, Enrico, 161. Callivetrakis, Leonidas F., 333. Calvino, Salvatore, 62, 74, 79. Campolonghi, Luigi, 283. Candelpergher, Pietro, 189, 341. Canini, Marco Antonio, 93-94, 330. Cantoni, Achille, 123. Cantoni, Angelo, 209. Cantoni, Lorenzo, 209. Canzio, Stefano, 142, 163, 231, 238, 262, 351. Cappa, Innocenzo, 353. Cappellano, Filippo, 362. Cappuccino, Ugo, 281, 290, 293, 354-356. Cappuccio, Carmelo, 336. Capra, Giovanni, 250. Capriolo, Vincenzo, 71. Capuzzi, Giuseppe, 201. Carano, Elena, 361. Carbonari, Lorenzo, 156. Carcano, Paolo, 177. Cardinali, Angelo, 335. Carducci, Giosue, 228. Carini, Giacinto, 171. Cariolato, Domenico, 172. Carminati, Agostino, 173. Caroli, Luigi, 331. Carrara, Antonio, 173. Casabona, Antonio, 210. Castagnoli, Angelo, 210. Castellazzo, Luigi, 140, 163.

366

Conforti, Francesco, 355. Consalvi, Alfredo, 293-294. Conti, Cesare, 161. Conti, Fulvio, 217, 345. Coppola, Francesco, 289, 356. Corbellini, Piero, 204, 342. Corridoni, Filippo, 293. Corte, Clemente, 108-109, 116. Corvisieri, Mario, 355. Cosenz, Enrico, 36, 39, 170, 175-176. Cossovich, Marco, 172. Costa, Andrea, 215, 220. Costetti, Massimiliano, 174. Crispi, Francesco, VIII, XI-XII, 7, 1012, 27, 29-30, 32-36, 38-42, 46-47, 49, 52-55, 61-62, 76-78, 84, 96, 100-101, 104, 112, 125-126, 128, 132-133, 151, 153, 173-174, 176179, 182-183, 199, 209, 230-231, 241, 325-329, 332-335. Cristofoli, Giacomo, 331. Croce, Ettore, 255, 351. Cucchi, Francesco, 95, 122, 210. Cugia, Efisio, 71-72, 74, 328-329.

Castellini, Gualtiero, 341. Castellini, Nicostrato, 195-196, 342. Castiglioni, Giuseppe, 327. Cattabeni, Giovan Battista, 99. Cattaneo, Bartolomeo, 209. Cattaneo, Carlo, 178, 181. Cavaciocchi, Giuseppe, 255, 350351. Cavallotti, Felice, 144, 181-182, 222, 231, 234, 241. Cavallotti, Giuseppe, 144. Cavour, Camillo Benso, conte di, VIIIXI, 14, 30, 32-33, 38, 40, 43, 46, 50, 81, 90, 93, 98, 194, 323-324. Cecchinato, Eva, 337, 340, 343. Cella, Giovanni Battista, 223, 231. Ceretti, Celso, 162-165. Cesare, Caio Giulio, 255. Ceschin, Daniele, 362. Chabod, Federico, 139, 336. Chiesa, Eugenio, 265, 268, 271, 284285, 293, 352. Chiostergi, Giuseppe, 267, 290-292, 294-295, 297, 300, 303, 317-318, 356-358, 361. Cialdini, Emilio, XI, 36-40, 53, 74, 108. Ciancabilla, Giuseppe, 239-240, 242, 252, 256-257, 259-260, 349, 351. Ciccotti, Francesco, 357. Cincinnato, Lucio Quinzio, 223. Cipriani, Amilcare, 236, 238-242, 244-245, 250, 253-256, 263, 350. Ciuffoletti, Zeffiro, 348. Ciugia, Luigi, 338. Civinini, Giuseppe, 65, 78, 84, 134, 328-329. Clerici, Giuseppe, 331. Cola di Rienzo, 8. Colajanni, Napoleone, 234, 352. Coletti, Gino, 294. Colizza, Cesare, 284, 355. Colizza, Ugo, 355. Colombo, Antonino, 329. Colombo, Arturo, 348. Comandini, Ubaldo, 286.

Dalla Palù, Antonio, 85. Damiani, Abele, 35, 38, 62, 177, 326327. D’Annunzio, Gabriele, 270, 305, 311-312, 357. Danton, Georges Jacques, 139, 144. d’Azeglio, Massimo, IX. d’Azeglio, Vittorio Emanuele, 332. De Ambris, Amilcare, 293. Deambrosis, Marcella, 339. De Boni, Filippo, 334. De Felice, Renzo, 359. De Felice Giuffrida, Giuseppe, 242. De Feo, Achille, 192-193, 341. De Fort, Ester, 362. De Gubernatis, Angelo, 332. De Launay, Edoardo, 232, 336, 348. Deleuse, Giuseppe Clemente, 83. Del Vivo, Italico, 249, 350. De Nobili, Alberto, 154.

367

Festacini, Ferdinando, 20, 325. Ficcadenti, Bruno, 352. Fincardi, Marco, 219, 343-347. Fortis, Alessandro, 176-177, 231, 346. Franceschini, Giuseppe, 160. Francesco Giuseppe d’Asburgo-Lorena, imperatore d’Austria, 279. Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie, IX-XI, 80, 201. Francia, Enrico, 324. Franquinet de Saint-Remy, 246. Franzoi, Silvano, 362. Frapolli, Lodovico, 142. Frappampina, Michele, 250. Fratti, Antonio, 231, 238-239, 251252, 263, 273, 342. Frigyesi, Gusztáv Suták, 123, 135, 158, 333-335. Friscia, Saverio, 178, 329. Funaro, Liana Elda, 330, 332. Fussi, Elena, 290, 356.

Depretis, Agostino, XI, 6-8, 176, 180, 182, 340. De Sanctis, Francesco, 80-82. Dezza, Giuseppe, 171, 194-195, 341. Di Benedetto, Raffaele, 334. Dilani, Giuseppe, 331. Di Simone, Mariapina, 362. Dogliani, Patrizia, 322. Dolfi, Giuseppe, 334. Dominioni, Matteo, 362. Du Camp, Maxime, 202-203, 342. Duggan, Christopher J.H., 332. Durando, Giacomo, 60, 70, 73, 89, 94, 327-329. Durando, Giovanni, 59. Duranti, Lamberto, 267, 293, 317. Eberhardt, Károly, 85. Elia, Augusto, 123. Erodoto, 227. Evangelisti, Giuseppe, 353. Fabrizi, Luigi, 17-19, 324. Fabrizi, Nicola, VIII, 16-18, 21, 23-24, 26-27, 35-36, 38, 53, 55, 62, 74, 79, 109, 115, 123-126, 153, 178, 324327, 334. Facchinetti, Cipriano, 266-267, 276, 352. Failly, Pierre Louis Charles de, 141. Fanelli, Giuseppe, 178, 325. Fanti, Manfredo, XI, 9-13, 17, 21, 38, 43, 170, 323-325. Farini, Luigi Carlo, 10, 43, 323. Fasulo, Francesco, 155. Favara, Vincenzo, 76, 329. Favre, Jules, 145. Fazio, Giacomo, 194, 204, 341-342. Federzoni, Luigi, 298, 357. Ferrari, Ettore, 237-238, 244, 268. Ferrari, Giuseppe, 7-8, 32, 44-45, 71, 97, 325. Ferrari, Vittorio Pio, 130, 334-335. Ferrer, Francisco, 351. Ferretto, Francesco, 157. Ferri, Enrico, 218.

Galardini, Antonio, 160. Galateri di Genola, 336-337. Galliano, Giacomo, 135-136, 138. Garibaldi, famiglia, 301-302, 307308. Garibaldi, fratelli, 285, 291, 303-304, 306, 310, 356. Garibaldi, Bruno, 283, 298, 301-302, 304, 307, 312. Garibaldi, Costante, 298, 307, 312. Garibaldi, Giuseppe, VIII-XIII, 5-7, 10, 14-16, 19-20, 23-27, 30-42, 4465, 67-75, 79-88, 90-104, 107-111, 113-115, 117-118, 122-127, 129, 131, 133-134, 136-142, 144-148, 152-154, 156-163, 165, 167-172, 175-178, 181, 186, 189-190, 192, 194-195, 198-203, 205, 208, 210211, 216, 219-220, 223, 227-233, 242-245, 247-248, 252, 259, 261, 269, 276, 279, 288, 292, 294, 298, 312, 316, 324-328, 330-331, 341, 344, 346, 348, 357.

368

tore di Germania e re di Prussia, 141. Guida, Francesco, 330-331, 348, 353354. Guizzardi, Carlo Alberto, 240.

Garibaldi, Giuseppe, detto Peppino, 277, 283-285, 291-292, 311, 316, 357. Garibaldi, Menotti, 116, 122-124, 127, 136, 142, 146, 160, 215, 220, 241, 344. Garibaldi, Ricciotti, 118, 142-143, 146, 148, 236-239, 241-252, 254, 261-263, 265-266, 268, 271, 274277, 279, 282-284, 287-288, 298, 303, 308, 333, 337, 348-352, 354, 358. Garibaldi, Ricciotti jr., 283, 355. Garibaldi, Sante, 316-317. Garibaldi Jallet, Annita, 349. Garroni, Romolo, 250. Garzilli, Niccolò, 66. Gatti, Gian Luigi, 362. Gattorno, Federico, 238, 243. Gaudenzi, Giuseppe, 286, 318, 352. Gavelli, Mirtide, 323. Gay, Hyppolite Henry, 190-192, 341. Gay, Mathieu Henry (cugino), 341. Gay, Mathieu Henry (padre), 190. Genghini, Giovanni, 249, 350. Ghisleri, Arcangelo, 265, 268, 270, 276, 291. Ghisleri, Luigi, 291, 356. Giacalone, Davide, 353. Gigli, Oberdan, 294. Gigli, Renato, 293. Ginsborg, Paul, 340. Giolitti, Giovanni, 177. Giupponi, Giuseppe Ambrogio, 331. Giusti, Renato, 339. Gnocchi-Viani, Osvaldo, 162, 339. Goretti, Nicola, 355. Grandi, Terenzio, 359. Grassetti Zanardi, Anna, 161. Gruccione, Antonio, 329. Guarino, Pasquale, 252, 351. Guarneri, Andrea, 327. Guastalla, Enrico, 66, 231, 334. Guerzoni, Giuseppe, 60, 64, 95, 98, 100, 123, 134, 178, 190, 327, 332. Guglielmo I Hohenzollern, impera-

Halbwachs, Maurice, 340. Hervé, Gustave, 288-289. Herzen, Aleksandr Ivanovicˇ, 158. Heyriès, Hubert, 355, 357-359, 362. Imbriani, Giorgio, 144. Imbriani, Matteo Renato, 182-183, 231-232, 234. Imperatori, Natale, 211. Inaudi, Silvia, 362. Isastia, Anna Maria, 322, 348, 352. Isnenghi, Enrico, 331. Isnenghi, Mario, 340, 347, 356-357, 359, 361. Isola, Gianni, 343. Ivani, Mario, 362. Jacini, Stefano, 181. Jalla, Jean, 341. Jocteau, Gian Carlo, 367. Labriola, Arturo, 242, 254-255, 350. La Farina, Giuseppe, 327. La Marmora, Alfonso Ferrero di, 9, 43, 72, 74, 79, 113, 328. La Masa, Giuseppe, 178. Lamoricière, Christophe Louis Léon Juchault de, XI. La Porta, Luigi, 28-29, 116, 178, 325, 334. Lay, Adriana, 362. Lazzè, Giuseppe, 218. Liakos, Antonis, 330-332. Li Causi, Girolamo, 357. Lobbia, Cristiano, 142. Locatelli Milesi, Giuseppe, 359. Longhin, Simone, 361. Lorenzon, Erika, 361. Lotti, Luigi, 354. Lurgo, Alessandro, 317.

369

Luzzatti, Luigi, 266, 352. Luzzatto, Attilio Italico, 235.

98-102, 110-112, 115, 133-134, 138, 140, 143, 148, 156, 161, 178, 198, 218, 228, 231-232, 270, 283, 316, 319, 333, 344, 347. Mazzoleni, Paolo, 331. Mazzonis, Filippo, 322. Mecˇnikov, Lev, 158. Medici, Giacomo, 36, 38, 170, 192, 204. Menabrea, Luigi Federico, 176. Mereu, Luciano, 237-239, 244. Merlo, Fabio, 345. Meuli, Lucio, 331. Miceli, Luigi, 176, 334. Milani, Jolanda, 361. Milano, Agesilao, 66, 198. Milza, Pierre, 359. Minghetti, Marco, 7, 43, 54, 102, 332. Missori, Giuseppe, 123, 199, 231. Mocchi, Walter, 255. Molfese, Franco, 21-22, 323-325. Mondini, Marco, 341. Moneta, Alcibiade, 218. Monsagrati, Giuseppe, 348, 352, 362. Mordini, Antonio, XI-XII, 21, 33, 3637, 62, 64-65, 74, 79, 97-98, 176, 275, 324-329. Morozzo della Rocca, Enrico, XI, 323, 325. Mosse, George L., 358. Mosto, Antonio, 123, 133. Muccio, Raffaele, 154. Musini, Luigi, 129, 138, 228, 335337, 347. Mussolini, Benito, 269, 289, 298, 304, 310, 316-317, 357-359.

Macchi, Mauro, 208. Mack Smith, Denis, 322. Macry, Paolo, 322. Maggi, Giovanni, 331. Maggioli, Antonio, 240. Majocchi, Achille, 210, 344. Malaparte, Curzio (Kurt Suckert), 359. Malatesta, Errico, 349. Maldini, Chiarissimo, 284, 353. Malenchini, Vincenzo, 158. Malfitano, Alberto, 340. Malgeri, Francesco, 255, 351. Malloni, Gerolamo, 238. Mambelli, A., 333. Mamiani, Terenzio, 90-91, 330. Mana, Emma, 362. Mancini, Pasquale Stanislao, 206. Mannucci, Asterio, 355. Mantelli, Brunello, 362. Marabini, Camillo, 270-273, 280, 284, 287, 296-297, 299-300, 311, 315-318, 353-355, 357, 359. Marchese, Stanislao, 329. Marchetti, Stefano Elia, 331. Marincola Cattaneo, Paride, 246248, 257-259, 349-351. Marinelli, Oddo, 266, 290, 352. Marino, Pasquale Roberto, 317. Mario, Alberto, 39, 42, 123, 139, 151, 199, 227-228, 231, 326, 342. Marogna, Pietro, 350. Martini, Manuela, 355. Martini, Vittorio, 349. Martinotti, Gustavo, 349. Masini, Pier Carlo, 356. Massari, Giuseppe, 7-8, 44, 80-82. Mattarelli, Sauro, 360. Maturi, Walter, 331. Mayer, Carlo, 136. Mazzetti, Massimo, 323. Mazzini, Giuseppe, 31, 42, 92, 96,

Napoleone III Bonaparte, imperatore dei Francesi, XI, 69, 88, 137, 191, 211. Nicotera, Giovanni, 53, 109, 116, 122, 176, 178, 183, 199. Nigra, Costantino, X, 60, 70, 73, 89, 327-329. Nitti, Francesco Saverio, 177.

370

Pettinengo, Ignazio De Genova, conte di, 113. Pezzino, Paolo, 327. Pianciani, Luigi, 113. Piazzabiocca, Domenico, 325. Pieri, Piero, 323. Pini, Antonio, 250. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 69, 119. Pirolini, Giovanni Battista, 265, 286, 293. Pisacane, Carlo, VIII, 144, 198. Pittaluga, Giovanni, 171. Piva, D’Artagnan, 250. Piva, Domenico, 171. Piva, Edoardo, 339. Pizzolato, Tommy, 361. Plutino, Agostino, 174. Plutino, Antonio, 174. Plutino, Fabrizio, 174. Politi, Biagio, 325. Polli, Luigia, 209. Pomelli, Giuseppe, 197, 342. Pompeo, Gneo, 255. Preti, Alberto, 334, 339, 343, 345346.

Nullo, Francesco, 57, 64, 92, 95-96, 100, 331. Nuvolari, Giuseppe, 190. Oberdan, Guglielmo, 232. Olga, regina di Grecia, 261. Oliva, Antonio, 334. Oliva, Gianni, 348. Origlia, Alfonso, 156. Ottone I, re di Grecia, 90, 94. Ovidi, Ercole, 334-335. Pacciardi, Randolfo, 317. Paggi, Natale, 123. Pais-Serra, Francesco, 220, 231, 237, 346. Paladini, Giannantonio, 362. Palermo, Nicola, 154. Pallavicini di Priola, Emilio, 73, 82. Pallavicino Trivulzio, Giorgio Guido, 69, 328, 334. Panarotti, Angelo, 158. Panizza, Mario, 218. Panseri, Ettore, 250. Pantano, Edoardo, 177, 231. Paolinelli, Attilio, 287. Parmentola, Vittorio, 356. Pavan, Cesare, 157. Pavone, Claudio, 337. Pécout, Gilles, 322, 349, 362. Pellegrino, Luigi, 54, 327. Pelloux, Luigi Girolamo, 177, 183. Pepe, Guglielmo, 175. Pepoli, Gioacchino Napoleone, 328. Perati, Mario, 294. Perla, Luigi, 172. Perroni Paladini, Francesco, 153, 327. Persano, Carlo Pellion, conte di, 113. Pétain, Henri Philippe Omer, 317. Petitti Bagliani, Agostino, 59, 72, 328-329. Petruccelli della Gattina, Ferdinando, 16-17.

Quercioli, Alessio, 322. Radovich, Antonio, 167-168. Raffaele, Giovanni, 329. Rapolthy Nagy, 158. Rapone, Leonardo, 359. Rasch, Gustav, 202, 342. Rattazzi, Urbano, 43, 56, 59, 61-62, 64, 68-71, 75-76, 79-80, 87, 122, 328. Ravasini, Mario, 287. Reali, Arturo, 355. Riall, Lucy, 347. Riboli, Timoteo, 147. Ricasoli, Bettino, 12, 108, 117. Ricotti Magnani, Cesare, 83, 172. Ridolfi, Maurizio, 349. Rizzi, Bice, 359.

371

Simonetta, Francesco, 186. Sirtori, Giuseppe, 10, 20, 36, 38, 170, 324-325. Socci, Ettore, 138-139, 141, 144-145, 165, 237, 244, 334, 336-337. Sonnino, Sidney, 310, 358. Sorel, Georges, 270. Spallicci, Aldo, 271, 273, 275-280, 318, 354. Spaventa, Silvio, 46. Sprovieri, Francesco, 63, 172-173, 327. Staderini, Alessandra, 355. Stagnetti, Pietro, 160, 172. Stallo, Luigi, 142. Strambio, Luigi, 159. Strocchi, Tito, 136-138, 336. Susi, Massimo, 155. Sylva, Guido, 198, 342.

Robespierre, Maximilien François Isidore, 44, 144. Robilant, Carlo Felice Nicolis, conte di, 232, 348. Rocca, Massimo (Libero Tancredi), 293. Rochat, Giorgio, 357, 361-362. Romas, Alessandro, 237, 272, 274, 277. Romualdi, Giuseppe, 358. Rosi, Michele, 327, 332. Rossano, Giuseppe, 155. Rosselli, Carlo, V. Rossi, Adolfo, 243, 251, 350. Rossi, Carlo, 144. Rossi, M., 356. Rudinì, Antonio Starrabba, marchese di, 269. Ruffo di Bagnara, Fabrizio, cardinale, 155. Rüstow, Wilhelm Friedrich, 202, 342.

Tagini, Paolo, 361. Talacchini, 190. Tamborra, Angelo, 330, 332-333, 339. Tanara, Faustino, 124, 138, 140, 142143. Tanzarella, Ettore, 362. Tarozzi, Fiorenza, 323, 334, 339, 343, 345-346. Tassinari, Luigi, 273-275. Tesoro, Marina, 351-353. Testa, Luigi, 331. Tittoni, Tommaso, 287. Tivaroni, Carlo, 106, 231, 332. Tolomei, Ferruccio, 240, 244, 350. Tomassi, Oreste, 250. Tombaccini, Nadia, 339. Tondi Albani, Alina (Adele), 267. Tosi, Antonio, 232, 348. Tosi, Raffaele, 127, 197-198, 334, 342. Trabucco, Raffaele, 211. Tranfaglia, Nicola, 362. Trenti, Camillo, 158. Türr, István, 60, 98, 170, 194. Turrisi, 325.

Sacchi, Eugenio Aiace, 331. Saccomani, Giovanni, 188-189, 341. Saffi, Aurelio, 111, 333. Salandra, Antonio, 177, 359. Salomone, Federico, 123. Sangiorgi, Otello, 323, 345-346. Saracco, Giuseppe, 177. Sartori, Eugenio, 218. Savona, Francesco, 24, 153, 325. Sbordone, Giovanni, 361. Scaglioni, Angelo, 159, 211, 336, 338. Scarfoglio, Paolo, 358. Scherina, Lucio, 329. Schiarini, Pompilio, 339. Scioscioli, Massimo, 352. Scirocco, Alfonso, 329, 347. Sereni, Umberto, 336. Sgarallino, fratelli, 136. Sgarallino, Andrea, 160. Sgarallino, Jacopo, 160, 165, 333. Sgarallino, Pasquale, 138, 160. Siliprandi, Francesco, 218. Silvestrini, Ugo, 250. Simionato, Giuliano, 339.

372

Valzania, Eugenio, 99, 123, 220, 231. Varè, Giovanni Battista, 196. Venanzio, Alessandro, 331. Venturini, Aristide, 220. Viazzi, Pio, 352. Vigezzi, Brunello, 355-356. Visconti Venosta, Emilio, 90, 183, 330, 336-337. Vittorio Amedeo, duca di Savoia, re di Sicilia, re di Sardegna, 50-51. Vittorio Emanuele II di Savoia, re di Sardegna, re d’Italia, VII, IX, XI-XII, 5-6, 10, 33, 42, 46, 48, 50-51, 53, 56, 60-61, 69-70, 86, 88, 91-94, 98, 106, 113-114, 132, 171, 175, 191-

196, 213, 215-216, 232, 323-324, 327-328, 332-333. Voltaire, pseudonimo di FrançoisMarie Arouet, 139. White Mario, Jessie, 139-140, 145, 228-230, 336-337, 347. Zangheri, Renato, 339-340. Zanotti, Ettore, 218. Zappert, Francesco, 205. Zasio, Emilio, VII, 194. Zirardini, Gaetano, 248, 350. Zuccarini, Oliviero, 267, 270. Zupelli, Vittorio, 358.

Indice del volume

Prologo

VII

Parte prima

Dall’Unità d’Italia alla presa di Roma I.

I garibaldini all’indomani dell’Unità

5

1. «L’entusiasmo non si organizza», p. 5 - 2. La smobilitazione dell’Esercito meridionale garibaldino, p. 16 - 3. Garibaldi e i garibaldini, p. 30 - 4. «Mandate Garibaldi a Napoli», p. 43

II.

Aspromonte

56

1. Prove generali con comparse, p. 56 - 2. Attese siciliane, p. 60 - 3. Dopo Aspromonte. Repressione, bilanci, disincanti, p. 73

III.

Verso la terza guerra d’indipendenza. Limiti e contraddizioni del garibaldinismo disciplinato

90

1. «Internazionalismo» garibaldino e diplomazia parallela, p. 90 - 2. Il 1866 e l’«Obbedisco», p. 103

IV.

Alle porte di Roma

118

1. Un altro Aspromonte? Ritratti e vicende dei garibaldini del 1867, p. 118 - 2. Il 1870. Da Roma a Digione, p. 134

375

Parte seconda

Racconti ed eredità del Risorgimento V.

Itinerari garibaldini

151

1. «Biografie dei sovversivi», p. 151 - 2. Ritratti in uniforme, p. 166 - 3. Costruire lo Stato, p. 174

VI.

Racconti garibaldini

185

1. Memorie del Risorgimento, p. 185 - 2. Da volontari a reduci, p. 205 - 3. Tramandare «la missione»: i sodalizi dei garibaldini, p. 212

Parte terza

Il garibaldinismo dopo Garibaldi VII.

Tra irredentismo e sovversivismo

234

1. La spedizione in Grecia e la camicia rossa contesa, p. 234 - 2. La Grecia ingrata, p. 251

VIII. Dalla guerra di Libia all’intervento

264

1. La «chimera garibaldina». Grecia 1912, p. 264 - 2. «La rossa avanguardia dell’Argonna», p. 280 - 3. Dalla Francia repubblicana allo scoglio di Quarto, p. 297

Epiloghi

315

Note

321

Ringraziamenti

361

Indice dei nomi

365