La Grande Guerra 1914-1918

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La Grande Guerra 1914-1918

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Mario Isnenghi - Giorgio Rochat.

LA GRANDE GUERRA 1914-1918.

Il Mulino 2004

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«Questo libro osa scommettere ancora sulla storia e sulla storiografia, cioè sui fatti, il senso dei fatti, la conoscibilità dei fatti. Sberleffa idealmente la cosiddetta fine della storia; non sottintende l'altra giaculatoria che le ideologie sono morte; non retrodata il disincanto snobbando e castigando i sentimenti e le emozioni collettive che c'erano, quando c'erano, e chi ne viveva e giungeva anche a morirne; non ricusa di comprendere quel trapassato remoto, anzi, si studia di rientrarci e di rimetterlo a fuoco.» Con queste parole, Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, presentano la nuova edizione del loro libro che intreccia due filoni solitamente divisi: vicende e passioni politiche, culturali e operazioni militari rilette insieme alle ideologie, ai sogni e alle cifre del primo evento bellico mondiale. "La Grande Guerra" racconta il ruolo delle forze politiche e degli intellettuali, ma anche ciò che fanno e pensano i generali, i soldati, la società civile. Un esercizio di memoria che privilegia i fatti, materiali e immateriali, quantitativi e simbolici, e che prosegue fino ai giorni nostri, perché «la Grande Guerra - apocalissi del moderno - fu un memorabile accumulo di vissuto collettivo. Correre subito, come oggi si usa fare, a dichiararne l'assurdo e il nonsenso - clamorosi, sino allo scandalo, agli occhi disillusi e stanchi dei posteri, quasi cent'anni dopo - appare inconcludente e comunque assai più facile che ristabilirne, contemporaneamente, il senso, o i significati, quali apparvero agli uomini e alle donne mobilitati sulle illusioni, e i valori e disvalori di allora».

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MARIO ISNENGHI (Venezia, 1938) è professore di Storia contemporanea all'Università di Venezia Cà Foscari, dopo aver insegnato nelle Università di Padova e Torino. Ha dedicato vari saggi alla prima guerra mondiale, fra i quali: "Il mito della Grande Guerra" (1970, oggi alla quinta edizione) e "La tragedia necessaria. Da Caporetto all'Otto settembre" (1999). GIORGIO ROCHAT (Pavia, 1936) è stato professore di Storia contemporanea nelle Università di Milano, Ferrara e Torino e di Storia delle istituzioni militari a Torino e presso la Scuola di applicazione dell'esercito. Presidente dal 1996 al 2000 dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia di Milano, tra i suoi studi sulla Grande Guerra ricordiamo i volumi: "L'Italia nella prima guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca" (1976) e "Gli arditi della Grande Guerra" (1980). * Questa nuova edizione riproduce quella del 2000 senza sostanziali cambiamenti. Sono stati corretti alcuni errori, introdotti vari aggiornamenti bibliografici, riscritte alcune pagine. I due autori si sono divisi la stesura di capitoli e paragrafi secondo competenze e interessi, ma si assumono entrambi la responsabilità complessiva dell'opera.

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INDICE GENERALE. PRIMO VOLUME. Prefazione alla nuova edizione. 1. DALLA PACE ALLA GUERRA. La Grande Guerra come apogeo e crisi della società liberale. La lotta per l'egemonia europea. La corsa verso la guerra. L'estate del 1914. Note al cap. 1. 2. L'INTERVENTO ITALIANO. La guerra non breve. Le operazioni sugli altri fronti nel 1914 e nel 1915. L'Italia dalla neutralità all'intervento. L'intervento. Una guerra offensiva. Note al cap. 2. 3. LA GUERRA DI CADORNA. Le operazioni del 1915. Le prime battaglie dell'Isonzo. Le operazioni del 1916. La "Strafexpedition" e Gorizia. Le operazioni del 1917 fino all'autunno. La guerra italiana nei mari e nei cieli. La guerra italiana fuori d'Italia. Appendice. La forza dell'esercito. Note al cap. 3.

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4. GLI UOMINI IN GUERRA. La trincea. La guerra senz'armi. Gli studi sui soldati. Note al cap. 4.

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PREFAZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE. Tempi remoti, quelli in cui gli autori del volume muovevano i primi passi in quella che si sarebbe poi rivelata, per tutta la vita, una vera e propria milizia storiografica "grandeguerresca". E non solo tempi, ma interlocutori, bersagli e punti di riferimento critici totalmente altri da quelli recenti e attuali. Nella seconda metà degli anni Sessanta - in un paesaggio di rovine perpetuatosi a ormai vent'anni dalla caduta del fascismo, che aveva reso inservibili le chiavi d'accesso al "15-18", a partire da questa emblematica diminuzione non solo temporale della guerra mondiale a "guerra del 15" e "guerra nostra" - una sola visione aveva ancora corso; ma residuale e scolastico, nei manuali, appunto, e nelle scarne oleografie da anniversario: la "quarta guerra di indipendenza", la guerra per liberare "Trento e Trieste". Non fu difficile andare oltre, tanti erano rimasti gli interrogativi e i campi aperti, lasciati da esplorare dalle concorrenti mitizzazioni nazional-fasciste e nazional-democratiche. E' tutto cambiato. Era già tutto cambiato nella seconda metà degli anni Novanta, quando i due autori dell'opera oggi riedita decisero di far convergere e rendere complementari le rispettive sensibilità ed esperienze per far sfociare finalmente in una sintesi generale tanti anni di lavoro e approcci più particolari, propri ed altrui. Una sintesi, nelle intenzioni, solida, sfaccettata e destinata a durare, sfidando l'eccezionale capacità di questo tema - si può dire come nessun altro - di calamitare l'attenzione di sempre rinnovate generazioni di studiosi, appassionati e lettori. La guerra "per Trento e Trieste" - che appariva allora a tal punto un'angolatura riduttiva e una retorica sgualcita da libro "Cuore" - appare ai disincantati modi di vedere preminenti oggi tanto irricevibile e remota da suscitare per converso in noi, quasi, un moto di tenerezza e di difesa. Prevale infatti - e fa sentire i propri effetti anche negli studi, italiani e non, sulla Grande Guerra - un coacervo di 7

atteggiamenti mentali, di pregiudizi e di attese che, con le semplificazioni rese inevitabili dalle circostanze, si potrebbero definire improntate all' "individualismo", al "relativismo" e al "pensiero debole". E al pacifismo, con le sue buone ragioni attuali portate a retroagire invasivamente sulle situazioni di ieri e l'altro ieri. S'intende che la centralità e i diritti del soggetto possono declinarsi in differenti maniere e assumere colori anche politicamente diversi, dal liberalismo all'anarchismo. Comune rimane l'estraneità, l'irrilevanza dello Stato, di quello nazionale in ispecie, massime se imputabile di essere autoritario, dirigista e "giacobino", come in tempo di guerra avviene agli apparati pubblici di diventare. Contro cui, poi, di nuovo, si può nutrire, in un "mix" fra vetero e moderno, indifferenza o anche ostilità in chiave mondialista - cioè sovranazionale - o comunitarista - cioè sub-nazionale e localista. O anche è accaduto in particolare nella recente storiografia francese - si può rivendicare il nostro essere e dover essere neocittadini dell'Europa unita, nel coltivare un pedagogico, negligente orrore verso quelle antiche e sanguinose espressioni di primordiali cittadinanze nazionali: la "guerra dei trent'anni" ovvero una lunga e devastante "guerra civile" europea. Questo è il quadro generale in cui il nostro lavoro è sorto e si muove. I quadri sociali della concettualizzazione e della memoria del nostro oggetto di ricerca. Sarebbe insulso dire che vi sia sorto in opposizione, per negarli. Anzi, tutt'al contrario. Per quanto almeno riguarda gli approcci innovatori e le ricadute applicative nel modo di guardare alla Grande Guerra - a come fu voluta e non voluta, condotta e contestata, maledetta e ricordata -abbiamo fatto tutta la nostra parte. Se non che - per dirla senza falsa modestia - ci viene da pensare di essere stati altrettanto precoci e riequilibratori sia quando indirizzavamo l'agenda dei lavori verso la protesta, il dissenso, la repressione, sia quando, anni dopo, ci siamo posti il problema di come si affermino forme di disciplinamento delle masse e di governo delle istituzioni, con tutti i processi organizzativi e mentali che vi 8

corrispondono, tra coercizione e partecipazione: questioni nevralgiche del Novecento, debordanti dalla guerra al dopoguerra e oltre. E infine - terzo capitolo e fase attuale, culminante in questo libro uscito la prima volta nell'anno 2000 - quando abbiamo pensato e scritto in termini di dialettica sintesi di interventisti e neutralisti, generali e soldati, entusiasmi e disperazione. Potrebbe apparire un'ovvietà: i pro e i contro, tener conto di tutto, equilibrio... Non è solo questo. Parafrasando l'audace ossimoro di Berlinguer, potremmo riassumere spingendoci a dire che questo è un libro riuscito... "di lotta e di governo". Al di sotto di una nobile patina di buon costume scientifico, il nostro rimane infatti un libro di battaglia e intrinsecamente controcorrente. A partire dalla determinazione apparentemente più scontata di parlare del 1914-18 e non più solo del 1915-18, ma ciò significa, anche, restituire la possibilità della comparazione, cessare di isolare l'Italia dagli altri Paesi ed eserciti in lotta; smetterla di immaginarsi sempre i "nostri", a seconda del vento che tira, o come i più bravi o come i più inetti e criminali, squilibrando sempre la visione complessiva, che deve invece tener conto di "standard" d'epoca, senza assolutizzare una storia nazionale, nel bene o nel male. Proseguendo: questo libro osa scommettere ancora sulla storia e sulla storiografia, cioè sui fatti, il senso dei fatti, la conoscibilità dei fatti. Sberleffa idealmente la cosiddetta "fine della storia"; non sottintende l'altra giaculatoria che "le ideologie sono morte"; non retrodata il "disincanto" snobbando e castigando i sentimenti e le emozioni collettive che c'erano, quando c'erano, e chi ne viveva e giungeva anche a morirne; non ricusa di comprendere quel trapassato remoto, anzi, si studia di rientrarci e di rimetterlo a fuoco; anche per le "grandi narrazioni" - in attesa che i nostri tempi ne sappiano e vogliano fabbricarne e viverne di nuove - non sente intanto il bisogno di vendicarsi deprimendo o tacendo quelle altrui. E la Grande Guerra - apocalissi del moderno - fu anche questo, un memorabile accumulo di vissuto collettivo. Correre subito, 9

come oggi si usa fare, a dichiararne l'assurdo e il nonsenso - clamorosi, sino allo scandalo, agli occhi disillusi e stanchi dei posteri, quasi cent'anni dopo - appare inconcludente; e comunque assai più facile che ristabilirne, contemporaneamente, il senso, o i significati, quali apparvero agli uomini e alle donne mobilitati sulle illusioni, e i valori e disvalori di allora. Comprendiamo bene che l'operazione che abbiamo inteso condurre possa apparire a qualcuno una sorta di pensosa e malinconica filologia - di fatti o di sentimenti, di moventi o di scopi obsoleti -, superflua rispetto all'incombere dell'oggi: sia l'oggi "relativista", che azzera i fatti e riduce tutto a interpretazione; sia l'oggi impegnato nello scandalo dei conflitti che ritornano e nell'assolutizzazione dei valori della pace. Abbiamo detto sopra: i fatti, la conoscibilità dei fatti. Ma "fatti" in senso plurimo e lato: materiali e immateriali, quantitativi e simbolici. Di qui, e a questo fine, la strana coppia che ha pensato e scritto: uno storico militare, con le attenzioni e gli strumenti per ricostruire la prosa del combattimento e di tutto ciò che lo prepara e rende possibile, e poi il suo svolgersi, nel concreto delle dottrine che si misurano sul campo, con tutte le variabili dell'inveramento e del singolare, del coraggio e della paura: quegli uomini, su quella quota, quel giorno. E un altro e meno definibile autore, abituato a privilegiare come fonti le parole e le immagini, i sogni e le memorie. Metteteli insieme e, se la miscela funziona, se ne copre di terreno, nel moltiplicarsi delle sonde e dei punti di visione. C'è un altro crinale, più sottile, che contribuisce a distinguerci, senza forse altrettanto dividerci da altri addetti ai lavori. Il cosiddetto, e giustamente tenuto in sospetto, "uso pubblico della storia"; o anche - non è lo stesso, suona ancora più crudo - "uso politico del passato". E' una formula che accade di rinfacciarsi vicendevolmente nelle contese pubblicistiche che, anche nella stampa quotidiana, caratterizzano i nostri anni universalmente 10

"revisionisti". Si può deprecare l'uso, avviene però di scorgerlo in azione, nel passato e nel presente, specie nelle fasi costituenti, come motore del "fare storia" di un presente che si sia appena allontanato da noi e stia diventando il nostro passato; e anche di ricondurvisi, in nome delle più diverse opzioni e rilevanze, ogni volta che associazioni, istituzioni, epoche prendano a dar forma a una memoria degli eventi e a divulgarne il racconto. Quando, più direttamente e in maniera più ravvicinata, "de re nostra agitur". Non possiamo dire, perché non è vero, che - dopo il Risorgimento, dopo la Grande Guerra, dopo il Fascismo, per citare i grandi capitoli della storia dell'Italia unitaria l'organizzazione della memoria, il discorso pubblico, la ricerca storica, abbiano viaggiato su binari paralleli e distinti, privi di incontri e complicazioni. Con tecniche e doveri aggiuntivi e specifici, a cui è cruciale che si ricordi sempre di dover rispetto, lo storico è cittadino e uomo del suo tempo. La storia della storiografia, ma anche storie settoriali - dell'Università, dei musei, dell'editoria eccetera - ci mettono continuamente di fronte alle spinte politiche della "Storia del Risorgimento" e della "Storia contemporanea": nel loro stesso costituirsi come discipline di studio così denominate. Questo, all'Università e fuori: in un passato più lontano la prima disciplina, più recente la seconda, si può anzi riconoscere che la più forte e intrinseca connotazione ideologica e politica le ha tenuto a lungo fuori del novero delle materie "scientifiche", entrando infine all'Università, come per aggiramento, anche su sollecitazione di istituzioni esterne meno timorose di compromettersi con le passioni ancor vive e, anzi, intese a raccoglierne e diffonderne una propria interpretazione. Ebbene, anche se ai due autori di questo volume è sembrato di veder trasparire - nei modi di volgersi a questo loro oggetto di studio: la guerra europea del 1914-18 - una propensione, cui personalmente si sottraggono, a farne in sostanza l'occasione per innescare riflessioni attualizzanti e ripugnanze morali, magari condividibili, ma più da educazione civica che da storia, non per questo intendono 11

requisire per sé tutta l'attitudine scientifica e una ipotetica "oggettività". Essi si sanno benissimo parte di un conflitto interpretativo, che ogni volta ricomincia e continua, almeno finché il tema - la guerra, nel nostro caso -smuove dentro di noi qualcosa. E qui - come tante volte è avvenuto, e non ce ne scandalizziamo - la storia, cioè la storiografia, si alimenta dei bisogni del presente; e il confine si fa sdrucciolevole fra storiografia e politica, noi, ora, e quegli altri personaggi chiamati a fare da specchio e testimoni, con le loro passioni e i loro conflitti, delle nostre passioni e dei nostri conflitti d'ora. Studiamo la Grande Guerra, dunque, ma in realtà stiamo anche parlando dello Stato, di uno spazio pubblico chiamato Italia, dei rapporti fra società e Stato, governanti e governati, di idee e forme differenti di cittadinanza. Non per niente - lo abbiamo ricordato - la storia del Risorgimento è nata come prosecuzione della politica a ridosso delle biografie di Vittorio Emanuele e Garibaldi, ha preso forma a fine Ottocento nelle Società di Storia Patria; e più tardi mito e antimito della prima guerra mondiale hanno funzionato come meccanismi identitari, per socialisti e fascisti, cattolici e "Giellisti". E via seguitando. E seguitando, appunto - arriviamo anche a Ferruccio Parri, il "Maurizio" della Resistenza, il presidente del Consiglio del '45, il quale, nel '49, fonda a Milano, nella capitale della Resistenza antifascista, l'Istituto Nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia. Come dire: costruita la Repubblica, scritta la Costituzione, ma poi almeno in parte sconfitti in sede politica, ritiriamoci sotto la tenda, salviamo la memoria, prepariamo la storia. Come avvenne anche a molti democratici - non rifluiti a destra, ma rimasti tali dopo il Risorgimento: il "primo" Risorgimento, essendo da un certo punto di vista la Resistenza - altrettanto illusa e delusa - il "secondo". Ebbene, dopo la lunga Presidenza Parri, l'Istituto - intanto cresciuto, divenuto una capillare rete di centri di studio infra ed extra-universitari, non più solo intenti a riflettere e misurarsi con l'Antifascismo e il Fascismo, ma con le trasformazioni e gli svincoli dell'Italia del Novecento - vede arrivare al vertice Guido Quazza: 12

contemporaneamente, uno storico di professione e un partigiano; piemontese e, in quanto studioso, specialista di prìncipi sabaudi e di riforme illuminate; in quanto uomo e cittadino, teorico e pratico della banda partigiana come microcosmo di democrazia diretta. Anche negli Istituti provinciali, via via cresciuti a decine, sino a costituire una rete di oltre sessanta, si attraversano intanto diverse stagioni e equilibri fra i portatori e garanti della memoria i protagonisti, gli ex-partigiani, statutariamente e fattualmente ben presenti - e le successive generazioni di studiosi, con le loro categorie e le loro tecniche di addetti alla documentazione e all'interpretazione storiche. Frequente, a tutt'oggi, anche se per forza di cose decrescente, la doppia legittimazione riunita in una stessa persona: l'essere stato partigiano e l'esserne diventato non solo un memorialista, ma uno storico, con la professionalità dello storico. Di Quazza basti ricordare "Resistenza e storia d'Italia" (Milano, Feltrinelli, 1976). Di Claudio Pavone, "Una guerra civile" (Torino, Bollati Boringhieri, 1991), pensato e scritto quando l'autore era il vicepresidente nazionale dell'Istituto. Il che - sin dal titolo - dice la libertà di vedute sua personale e dell'Istituto in generale: fatto nonostante questo segno a interessate accuse di essere la centrale diffusionale di una cosiddetta "vulgata antifascista", che certamente vi fu, come vi furono altre "vulgate", ma che andava posizionata in sedi più proprie. Ebbene, è anche a seguito di questi tentativi di delegittimazione della "Repubblica nata dalla Resistenza" e dei suoi miti di fondazione (qualunque Paese o movimento che si rispetti ha i suoi "miti di fondazione", il problema insorge quando è troppo scettico e incredulo per averne) che, nel corso degli anni Novanta, venne in discussione e cominciò via via a prender forma la "Storia d'Italia nel secolo ventesimo (SISV). L'idea era di mettere al lavoro tutti i migliori specialismi gravitanti nell'area degli Istituti della Resistenza, proprio per mostrarne la vitalità e la forza interpretativa, tali cioè da consentire un orientamento generale e una rilettura globale della storia d'Italia nel 13

Novecento. Una scommessa, una sfida. E una forma di impegno civile, s'intende. Perciò i due autori, rinunciando a priori alla possibilità di proporre la loro opera conclusiva ai propri abituali editori, entrarono a far parte di questo orgoglioso progetto di riscrittura della storia d'Italia nel Novecento; né sarebbe stato logico scegliere diversamente, essendo tutt'e due dirigenti nazionali dell'Istituto promotore, e anzi, uno dei due, Giorgio Rochat, il successore di Quazza. Dei volumi previsti ne sono usciti diversi nel corso ormai di un decennio; altri usciranno; alcuni si sono persi, la morte ha portato via curatori e autori (Quazza, Massimo Legnani, Nicola Gallerano). Agli occhi di molti - non vogliamo tacerlo, anche all'interno del mondo degli Istituti della Resistenza, compositi per definizione - si è ulteriormente assottigliato il senso della possibilità di una rilettura unitaria. E' scomparsa la stessa casa editrice - o marchio editoriale: La Nuova Italia - con cui questo libro era uscito; ora esso continua con un altro marchio, autonomo, a questo punto, rispetto al progetto complessivo. Se il contesto istituzionale, l'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia - con la sua fisionomia pregnante e caratterizzante - e il progetto d'assieme risultano adesso più defilati, il testo in sé rimane quasi lo stesso, con qualche ritocco, soprattutto di natura bibliografica. Il nesso forte con i grovigli spesso irrisolti della storia del nostro Paese è tutto interno al modo di essere e di lavorare dei due autori. Venezia, Torre Pellice, luglio 2004 Mario Isnenghi e Giorgio Rochat ***

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LA GRANDE GUERRA. 1. DALLA PACE ALLA GUERRA. * LA GRANDE GUERRA COME APOGEO E CRISI DELLA SOCIETA" LIBERALE. - "Mezzo secolo di progresso". Pareva che il dono della pace dovesse durare in eterno. La "Belle Epoque": tale il suo nome riassuntivo, ancor oggi associato nel ricordo alla "Ville Lumière" - Parigi - e al ritmo, tra frivolo e frenetico, del ballo alla moda, il can can, e del più trionfalistico e pretenzioso "Ballo Excelsior". Sviluppo economico e culturale, benessere sempre più diffuso, aspettative crescenti di agi per tutti, in un'Europa innamorata di se stessa e della propria grandezza, forza e civiltà. Il culmine del mondo, il punto di arrivo e di confluenza di tutte le virtù, le invenzioni, la tecnica, l'arte. Il "progresso", divinità laica unificante di tutti gli europei, portati a rispecchiarsi nel mito di se stessi come frutto esaltante di secoli di lavoro e di incivilimento umano. Favole. Incantesimi dell'animo, come noi oggi sappiamo. E lo seppero ben presto, di persona e per primi, quegli stessi europei che, sul filo di poche settimane, si ritrovarono sgomenti in un buco scavato nella terra, intenti a sparare o a ripararsi dai tiri del tedesco - o del francese - incontrato magari inconsapevolmente qualche mese prima a passeggio sotto la Tour Eiffel. La nostalgia, lo splendore, l'accarezzamento di quel felice anteguerra viene - molto da quel dolorante e sbigottito confronto. Si vagheggia e mitizza ciò che si è perduto. Il mondo di ieri sembra bellissimo. E altrettanto fragile, se così in fretta si è dissolto (1). 15

E però, un giusto riequilibrio della visione di quegli anni d'anteguerra porta a riconoscere che non tutto si riduce a un gioco di prospettive. In quei decenni a cavallo fra i due secoli, il positivismo e la scienza alimentano la ricerca, moltiplicano le scoperte e le applicazioni tecniche; progrediscono la medicina, la chimica, le scienze della natura, ma non rimangono indietro le scienze sociali e i metodi d'analisi dell'anima - o del cervello, della psiche, del comportamento, sia individuale sia collettivo (psicologia, psichiatria, psicoanalisi, e sociologia, scienza della politica eccetera). Dai laboratori dei ricercatori scientifici ai macchinari delle grandi fabbriche, dal crescere vorticoso delle città industriali al moltiplicarsi dei giornali, delle scuole, delle università popolari, delle iniziative sociali e umanitarie, tutto appare dinamizzato e in crescita, lungo traiettorie fiduciose e sicure: l'uomo, il mondo sono conoscibili, trasformabili e dominabili con criteri razionali e benefici. La pace stessa - quella lunghissima pace fra le potenze che sembra relegare in un oscuro passato le forme primitive di regolazione dei contrasti con la violenza - viene vissuta come il nuovo e naturale quadro dei rapporti fra popoli evoluti e civili. In realtà, la pace non è veramente universale; e le guerre sono state semplicemente esportate ai confini dell'impero dell'uomo bianco, nel mondo giudicato incivile o antiquato dei neri (guerra anglo-boera) e dei gialli (guerra dei boxer e guerra russo-giapponese). Ed è vero pure che non l'intero mondo, ma una manciata di paesi europei - le cosiddette grandi potenze - che vedevano eurocentricamente se stessi come "il mondo" e "la civiltà" avevano raggiunto quel grado di benessere e di sicurezza dell'oggi e del domani, stabilità di ordinamenti, diritti civili, un soddisfacente grado di istruzione e libertà. Ed anzi, all'interno di ciascuno di questi paesi preminenti, non propriamente e ugualmente tutti i cittadini (o sudditi: differenza concettuale e politica non da poco, e tuttavia ancor proponibile persino all'interno di quel mondo apparentemente unificato dal privilegio), ma - in atto alcune classi superiori, e in potenza - cioè come speranza e 16

sogno socialmente lecito e diffuso - le classi inferiori: organizzate e incoraggiate, nella loro fiducia in un sempre migliore futuro, dai movimenti sindacali e politici della sinistra. Sono i socialisti della Seconda Internazionale, forti e bene organizzati in Germania, Austria, Francia, Gran Bretagna e anche, in diversa misura, in Russia e in Italia, per citare solo i maggiori fra i paesi di lì a poco coinvolti nella bufera devastatrice di quel conflitto europeo che - proprio per quel senso di carneficina fraterna - qualcuno finirà per considerare una sorta di "guerra civile". «Vorwärts», proclama fiducioso e sicuro il giornale portavoce del più grande dei partiti che hanno accolto e trasformato in movimenti di milioni di uomini le teorie di Karl Marx e Friedrich Engels; e «Avanti!» - traducendo il nome del confratello e dandogli ancora maggior slancio con il punto esclamativo - ripete l'organo quotidiano stampato dal 1892 dai socialisti italiani (2). La socialdemocrazia, che è riuscita a impiantarsi solidamente nel mondo operaio, frutto necessario e temibile dello stesso sviluppo capitalistico, è assai più che un animale parassitario incistato nel corpo altrui; e tuttavia anch'essa è vincolata ai processi e alle sorti dell'organismo nazionale di riferimento e condivide con i suoi antagonisti sociali e politici la fiducia nella illimitatezza dello sviluppo: al termine del quale - in un futuro indeterminato, ma ugualmente gratificante - si intravvede quel vago salto di qualità che la dottrina e le attese del movimento proletario chiamano "rivoluzione". Questo ottimismo storico e questa fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell'umanità - borghese o proletaria che sia: l'organo della sinistra francese si denomina, "tout court", l'«Humanité» - costituisce un marchio d'epoca, un orizzonte di attese diffuso. Lo è soprattutto fra i gradualisti del progresso, come ve ne sono sia fra i conservatori illuminati sia fra i riformisti del socialismo. Né gli uni né gli altri, peraltro, esauriscono le attese del proprio campo. Il liberalismo non soddisfa più parte delle destre (3), così come il riformismo, e quella rivoluzione procrastinata a 17

tempi imperscrutabili, non convincono e non nutrono più a sufficienza entusiasmi e passione del nuovo dei più giovani. La guerra è luogo di elezione di energie ed eccessi giovanili, ma non per questo dobbiamo pensare che essa sia stata voluta e resa possibile in funzione del malessere dei giovani, comunque collocati nello schieramento ideologico e politico. Accontentiamoci, per ora, di cogliere questi segni di malumore e di ribrezzo, qualche cosa di più di semplici increspature generazionali, indicatori piuttosto dei limiti e delle contraddizioni di quella miscela di ottimismo in cui sembra galleggiare l'autorappresentazione luminosa dell'Europa d'anteguerra. Parafrasando l'espressione di un politico, qualche anno fa, di successo, il quale attribuiva al suo partito la capacità di guidare il paese in un «progresso senza avventure», potremmo dire che, in quell'Europa spintasi, relativamente ignara, sulle soglie del baratro, il progresso indubitabilmente c'era stato e c'era, quelle che a qualcuno mancavano erano le avventure (4). E questo - come si vedrà - nelle attese e nel giudizio di molti, entro un variatissimo spettro di travestimenti ed opzioni politiche. Ne avranno assai più del bisogno, in misura imprevedibile e distruttiva.

- "La disfatta dell'internazionalismo socialista". C'è una sorta di "internazionale" del sangue - l'aristocrazia e in particolare i monarchi, questi ultimi, tutti, più o meno strettamente imparentati fra loro - che sopravvive a qualunque contrapposizione militare. Più antichi dei loro sudditi, si direbbe che coloro che detengono la più alta somma di poteri materiali e simbolici siano i primi a non credere - o per lo meno a passarvi con disinvoltura attraverso e oltre - nelle passioni, nelle scelte di schieramento, nelle prevenzioni ideologiche e negli stereotipi mentali che invece gonfiano d'ira e di commozione le folle patriottiche. Un quindicennio dopo che 18

l'Austria ha recitato per la nascitura Italia la parte del nemico e mentre le oleografie popolari caratterizzano ancora, come faranno a lungo, l'imperatore Francesco Giuseppe - Cecco Beppe - come l'impiccatore, il re d'Italia e l'imperatore passano tranquillamente in rassegna le truppe, l'uno a fianco dell'altro, nei prati del Padovano da poco "redento" e annesso al Regno. Pochi anni ancora, e gli sforzi dei diplomatici partoriranno la Triplice - che dal 1882 perpetua, sino al 1914, un'alleanza che, Germania a parte, fra Italia e Austria non poggia certo su un'amicizia fra le nazioni e i popoli. Sulla scacchiera internazionale, sia i grandi disegni sia le contingenze della diplomazia sono studiati e posti in atto da un pugno di aristocratici, rampolli delle più distinte e longeve prosapie, eredi di molte generazioni di ministri, generali e vescovi abituati al possesso e al comando, i quali - ancora al termine del secolo della borghesia amministrano come uno dei loro ultimi luoghi di competenza questa professionalità "sui generis": nella quale giovano i titoli, l'esperienza di uomini e di cose, la conoscenza delle lingue straniere, l'arte di viaggiare, la conoscenza del bel mondo, i modi garbati, i buoni patrimoni e matrimoni. Anche nei vertici militari si concentra in diversi paesi - quasi tutti, del resto, ancora monarchici - una piccola folla di nobili di alto o buon lignaggio. Non occorre sposare "in toto" le idee di Arno Mayer sulla persistenza dell'Ancien Régime sino alle soglie della prima guerra mondiale (5), per riconoscere il rilievo non solo residuale dell'aristocrazia in tali settori: un contrappeso, variabile da paese a paese, di spiriti sovranazionali, rispetto agli spiriti nazionali che accompagnano l'autocoscienza e la crescita della borghesia come nuova classe dirigente. Eppure, è dall'interno stesso del capitalismo - inteso come forma storica dell'economia borghese - e della sua imperiosa ascesa lungo il corso dell'Ottocento, che si sprigionano altri anticorpi rispetto alle identità e ai perimetri delimitanti delle nazioni e degli stati nazionali. In sé, per propria spinta interna, il capitalismo non conosce 19

frontiere. Poi, la realtà delle cose può imbrigliarlo in vincoli di varia natura: giuridica, politica, economica o anche, nei singoli capitalisti, in forme di coinvolgimento nazionale di natura etica e culturale. Si può essere capitalisti e patrioti, capitalisti e nazionalisti, ma ciò non toglie l'intimo carattere prevaricatore e sovranazionale dei meccanismi interni della produzione e del mercato. Sono già due forme di "internazionale", quella aristocratica, di ascendenza legittimista, che rimanda alla forza del passato, e quella capitalistica, che rimanda alla modernità e alla forza del presente. Meno dichiarate, ma non meno reali e attive - in un quadro complesso di spinte e controspinte - dell'unica che aspiri a riconoscersi e a farsi riconoscere con questo nome: l'Internazionale socialista, la sola apparentemente a chiamarsi sinistramente fuori e a fare appello ad altri valori e orizzonti rispetto a quello della coesione interclassista nell'unità dello Stato e della patria. S'intende, lo sfondo teorico, la mistica, la pratica congressuale, la pubblicistica che, dal 1864, punta a superare idealmente le frontiere nazionali, assumendo a postulato che i proletari non abbiano patria. «Nostra patria è il mondo intero», proclama fieramente un canto rivoluzionario del tempo, lacerante contro-inno di dissociazione rispetto alle emozioni corali degli inni patri. E, dietro a un tale sradicamento dalla nascita territoriale e a questa ricollocazione negli spazi illimitati dell'umanità (6) traspaiono, assieme ai fumi delle teorie e alla baldanza degli ideali, la dura lotta per la vita, i riadattamenti e le forme di cittadinanza precaria o multipla e di cosmopolitismo obbligato propri, per generazioni, di milioni di lavoratori partiti dai paesi della vecchia Europa per il Nuovo Mondo (7): America del Sud e del Nord ma anche Australia. O anche di lavoratori temprati alle diversità di ambiente e di lingua e alla varietà di costumi e di leggi da quell'altro grande fenomeno di rieducazione permanente e di trasformazione delle idee che è l'emigrazione temporanea: quella che, di generazione in generazione e talvolta da secoli, porta gli abitanti di una certa vallata o territorio ad 20

andare e tornare da lontane contrade, a partire verso le miniere dell'Europa centrale o dove si costruiscono ferrovie, o verso le fiere del Nord, a vendere stampe, seggiole, pentolame, vetri e quant'altro (8). Quando, in vista della guerra europea, parliamo di internazionale alludiamo alla Seconda, che ha superato almeno in parte i caratteri ideologicamente aperti, sino alla babele delle lingue politiche, propri della Prima (1864), trovando nella seconda e terza generazione dei marxisti l'ancoraggio teorico e nei sindacati e partiti socialdemocratici la dimensione fattuale e organizzata del movimento di riscatto del proletariato (9), soprattutto secondo la dottrina - quello operaio. Anche se poi, nel concreto degli specifici processi di sviluppo nazionali, può avvenire (come nel caso italiano) che il movimento operaio veda fra le sue precoci punte avanzate i braccianti, i quali sono, è vero, gli operai della terra, possiedono solo le proprie braccia e vendono a chi la compra la propria forza lavoro, ma non corrispondono certo alla figura classica dell'operaio di fabbrica, cosciente e organizzato (10). Si tratta di un imponente processo di alfabetizzazione politica delle masse popolari, che risveglia interessi e tesori di partecipazione e di energia (11). Paradossalmente, si potrebbe sostenere che la divulgazione delle teorie e la costruzione delle strutture materiali del movimento applichi in proprio l'ipotesi liberista e liberale secondo la quale l'individuo, operando per il proprio bene, innesca anche sviluppo e benessere per tutti: nel senso che la molla dell'interesse - individuale e "di classe" invece che individuale e "d'azienda" - alimenta bisogni e sogni, strappa alle chiusure misoneiste, fa studiare, leggere, scrivere, imparare a parlare in pubblico e a organizzarsi, costruire reti associative e forme di solidarietà, fondare ed amministrare cooperative, giornali, case del popolo. Il proletario socialista impara non solo a pensare, ma a pensare diversamente, in grande e sentendosi parte responsabile di un insieme (12). Anche le chiese sono un insieme di fedeli e anche gli stati - specialmente gli stati21

patria verso cui si è avviato il mondo dopo la crisi degli stati assoluti e dinastici - reclamano immedesimazione, si pongono cioè come un'insieme di cui l'individuo è e si sente (o dovrebbe sentirsi) parte. Ne escono, da paese a paese, da classe a classe, da generazione a generazione, incroci assai vari. Le forme di civismo, i luoghi di appartenenza, i riferimenti di valore, gli obblighi di fedeltà raggiungono o non raggiungono ciascuno: il quale - poniamo - è un suddito del Secondo Reich, ma poi è nato e vive in questo o quel Land, è uomo di monti o di pianura, è ricco o povero, operaio sindacalizzato o Junker prussiano, protestante, cattolico o membro di una lega del libero pensiero. Numerose sono le identità multiple che ciascuno, in teoria, potrebbe variegare e assemblare per se stesso: ovviamente, nella realtà le cose non vanno come in laboratorio e ciascuno, più che comporre consapevolmente il proprio modo di essere e di stare nel mondo, viene attraversato da stimoli e obbligazioni che lo raggiungono dall'esterno. Gli ultimi trent'anni dell'Ottocento vedono entrare in competizione nuovi soggetti politici antagonisti, accanto a quelli che tradizionalmente producono forme e contenuti di identificazione per singoli e gruppi. Il più importante è appunto il partito politico, intrecciato all'organizzazione sindacale. Aristocratici e borghesi hanno da tempo casini, circoli, club, caffè, gabinetti di lettura, salotti, per esprimere la propria sociabilità e far circolare interessi e idee (13). Dopo le osterie, la piazza e i luoghi tradizionali di acculturazione innovativa (14), il proletario di fine secolo comincia ad avere la lega, la camera del lavoro, la sezione di partito per sottrarsi all'autorità del parroco, uscire dalle conversazioni che si fanno alla domenica sul sagrato della chiesa, e, appunto, imparare prima di tutto a sentirsi un "proletario", il membro di una "classe" in lotta per il potere, abilitato a giudicare e a ricostruire in maniera diversa il paese e, addirittura, il mondo (15). «Guerra ai palazzi / pace alle capanne» proclama fieramente l'inno dell'Internazionale che, dalla fine del secolo, riempie di squilli entusiasmanti e minacciosi i giorni di sciopero e i 22

cortei del Primo maggio (16). Lo svolgimento reale dei fatti dimostrerà che sono di gran lunga più concreti e operanti i singoli partiti e sindacati di sinistra radicati nei diversi territori nazionali, che non l'organo di collegamento che pretende di coordinarli su un piano sovranazionale, ma finisce per rivelarsi più una cornice ideologica e una lusinghiera favola bella che un'effettiva arma di lotta. Guardando a tanti sforzi inani in senso internazionalista dalla prospettiva dell'Europa del 1914, un cinico o un rassegnato potrebbe affermare che la stessa socialdemocrazia tedesca - cioè il partito guida della Seconda Internazionale, nel paese di Marx - abbia finito per lavorare "per il re di Prussia", cioè per l'imperatore, insegnando per anni ordine, disciplina e spirito di unione alle falangi socialiste in nome di una trasformazione epocale dei rapporti fra le classi e fra i popoli e poi, al momento buono, schierandole politicamente e militarmente dalla parte del Kaiser, le cui armate - a differenza di quelle di altri paesi economicamente e politicamente meno sviluppati - potranno perciò valersi non solo della disciplina tradizionale del contadino, ma anche di quella più moderna del lavoratore di fabbrica, consapevole e organizzato (17). Così vanno a finire l'Internazionale e l'internazionalismo. Una ingloriosa disfatta, subita quasi senza impegnare battaglia, dalla Germania alla Francia: quasi che il primo rombo del cannone avesse il potere di ripristinare il principio di realtà e di richiamare repentinamente dalle utopie della fratellanza al crudo scontro di interessi incomponibili; e dalla scomposizione nazionale e ricomposizione internazionale lungo linee di classe alla contrapposizione internazionale lungo vie nazionali. Il trionfo delle patrie - non solo come ordinamento politico, ma come referente di valore per la moralità dei comportamenti dei gruppi e dei singoli - sembra delegittimare il pacifismo, provocare l'annichilimento di una prospettiva semisecolare di pace imposta dai popoli alle classi dirigenti: le stesse popolazioni si rivelano in notevole misura conniventi, partecipi di una volontà di guerra che, in 23

tutt'e due i blocchi, fende trasversalmente, sommuove e trasforma gli schieramenti politici. La realtà visibile, nell'immediato del 1914 e per l'Italia del 1914-1915, è proprio questa. La classe, le classi si ricompongono nell'universo interclassista della nazione; l'autonomia di classe del soggetto sociale intrinsecamente e volontariamente antagonista non regge, viene risucchiata all'interno di un soggetto egemonico, di una volontà politica più vasta. «Né aderire, né sabotare», suggeriscono a mezza voce i dirigenti centristi del Partito socialista italiano; ma è quasi un'espressione testamentaria e un altro modo per alzare bandiera bianca davanti al rullo compressore dello Stato che si riprende il controllo della violenza legittima e l'unicità del comando, spegnendo il contraddittorio, sbarrando i parlamenti o rendendoli mere camere di risonanza di decisioni elitarie (18). Disancorato dal suo "contro-mondo" rosso, entro cui aveva trovato senso e possibilità di comunicazione la sua ipotetica identità, o quanto meno autorappresentazione di proletario idealmente unito a tutti gli altri proletari coscienti del mondo, il soldato socialista veste la divisa del proprio paese e va al fronte, esternamente, come tutti gli altri. Il suo partito lo lascia tutt'al più libero, eventualmente, di «non aderire» intimamente alle ragioni e alle emozioni del massacro che si va preparando. Magra consolazione, e tuttavia altri partiti socialisti si piegano assai più di quello italiano alla forza travolgente dell'ondata unanimista (19). Non si arriva all'"union sacrée" e, a differenza che in Francia, l'unico socialista che fa il ministro nei governi di guerra è Leonida Bissolati, espulso dal partito come filogovernativo già nel 1912 (20). La citata escogitazione verbale del segretario del partito Costantino Lazzari lascia aperta la possibilità della dissociazione mentale, di una qualche secessione privata, rispetto alla ricomposizione coatta dei comportamenti esteriori. Vedremo più avanti che cosa ne possa uscire, tra follie vere e simulate e altre forme di soluzione individuale, più che collettiva, alla guerra (automutilazioni, diserzioni eccetera). 24

Dobbiamo dunque pensare che nulla resti di tutta una pluridecennale educazione alla pace, che l'Internazionale abbia predicato e fatto congressi per decenni solamente per il gusto inane di proferire parole e imbrattare carte? Sarebbe troppo. Intanto, perché è umano che, nell'ora delle scelte supreme, individui e gruppi facciano entrare in campo per intero la somma e il viluppo dei propri fattori costitutivi, che potevano comprendere sia le radici nazionali sia le aspirazioni internazionali, la cui coesistenza, consentita in tempo di pace, diventava esplosiva in tempo di guerra. La crisi vertiginosa delle istanze di principio non si spiega solo con la debolezza e il tradimento, ma con il sopraggiungere di una drammatica verifica delle priorità, che chiama in campo intelletto e sentimenti, libertà e necessità. La vicenda stessa di Benito Mussolini o di Gustave Hervé e di tanti altri celebri o meno celebri socialisti passati ai regimi, ai valori e agli uomini contro cui avevano speso anni di militanza potrebbe essere più utilmente letta nel segno del dramma storico, piuttosto che in quello di una opportunistica farsa. E comunque, all'entrata e all'uscita del conflitto, sia in Francia sia in Germania, si stagliano figure di indubitabile fedeltà ai princìpi della pace e dell'Internazionale, nonché alla prassi di una rivoluzione maturata dal rifiuto attivo della guerra. In Francia, l'"union sacrée" è anche un portato della eliminazione fisica del capo dell'opposizione socialista, Jean Jaurès (21) - additato con esecrazione dalle destre come un vero "tedesco" dell'interno - il 31 luglio 1914, cioè, significativamente, il giorno prima della mobilitazione generale (22). In Germania, la durata e l'andamento stesso della guerra maturano spaccature in seno alla socialdemocrazia, la nascita di una corrente di aspra opposizione intitolata alla Lega di Spartaco, l'insurrezione spartachista del gennaio 1919 e la brutale eliminazione dei suoi capi, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Tutto ciò va ricordato anche per non rendere la rientrata nei ranghi degli aspiranti superatori della nazione più facile e indiscriminata di quanto non sia. Va da sé che anche il 25

processo di disgregamento dello stato zarista, culminante nell'ottobre del 1917, rilancia l'opzione eversiva dell'internazionalismo in versione russa e sovietica, incardinando i sogni politici dei popoli europei in un territorio che è, insieme, uno stato determinato e la terra dell'utopia realizzata.

- "Le Chiese dinanzi alla guerra". Gli stati europei del 1914 sono cristiani e la loro guerra sarà sorretta dalle rispettive Chiese nazionali. Quattro delle sei maggiori potenze europee conoscono ancora la tradizionale alleanza tra trono e altare: sono Chiese di Stato l'anglicana in Gran Bretagna, la luterana in Germania, l'ortodossa in Russia, la cattolica in Austria-Ungheria. La separazione tra Chiesa e Stato vige soltanto in due paesi fortemente cattolici come la Francia e l'Italia, i cui eserciti reintroducono i cappellani soltanto per la guerra. Certo il periodo delle persecuzioni e discriminazioni religiose è concluso e in ognuno di questi stati ci sono minoranze religiose rispettate: in Gran Bretagna i cattolici e le Chiese evangeliche del "risvegliò (metodisti, battisti e altre confessioni sorte con un programma di rinnovamento fortemente centrato sulla conversione e l'impegno personale), in Francia la Chiesa riformata di lunga tradizione, in Austria-Ungheria minoranze protestanti e ortodosse (nonché i musulmani bosniaci). In Germania quasi un terzo della popolazione è cattolica. In Italia le piccole Chiese evangeliche godono di una piena eguaglianza, anche se nel Mezzogiorno sono spesso contrastate. Anche le secolari discriminazioni contro gli ebrei sono cadute nel corso dell'Ottocento, sebbene nei loro confronti permangano spesso chiusure di fatto; in Germania, Russia e Austria-Ungheria l'antisemitismo conserva forti radici (in Russia i "pogrom" contro le 26

comunità ebraiche non hanno termine con l'Ottocento), tanto che l'accesso alla vita politica è consentito agli israeliti soltanto nei partiti di sinistra. L'esercito italiano è l'unico che non discrimina gli ufficiali ebrei (che danno un buon numero di generali e nel 1902 un ministro della Guerra), mentre nella Francia di fine Ottocento l'"affaire Dreyfus" dimostra la persistenza dell'antisemitismo nella destra clericale e militare. Le Chiese conservano un ruolo di rilievo negli stati europei, sebbene le forze liberali, democratiche e socialiste ne combattano l'influenza nella vita pubblica, sviluppando un anticlericalismo diffuso e aggressivo. La decristianizzazione portata dalla rivoluzione industriale, dallo sviluppo delle città e dall'evoluzione dei costumi non ha ancora raggiunto dimensioni di massa. L'appoggio delle Chiese alla guerra sarà quindi di grande importanza; e sarà un appoggio pieno e convinto, perché, pur nella varietà di rapporti con le forze politiche, le Chiese europee sono accomunate (e quindi contrapposte) da un elemento: un pieno inserimento nelle rispettive realtà nazionali. La cultura protestante nei confronti dello Stato era di piena adesione. La predicazione dell'obbedienza alle autorità costituite, tradizionale nelle Chiese di massa luterana e anglicana, si saldava con il riconoscimento della legittimità dello stato liberaldemocratico e della sua "moralità" come strumento di organizzazione della società. Anche le confessioni minoritarie e quelle del "risveglio", che rivendicavano una netta separazione dallo Stato, non ne mettevano in discussione l'autorità, anzi gli chiedevano di farsi fattore di progresso civile. L'internazionalismo protestante del tempo delle guerre di religione aveva ceduto il passo a una forte identificazione con la patria e lo Stato, che poteva arrivare fino all'oltranzismo nazionalista. Allo scoppio della guerra, le Chiese protestanti di Stato, come quelle minoritarie e del "risvegliò, non avranno dubbi nell'accettare la guerra "difensiva" proclamata dai loro governi e nel sostenerla fino in fondo negli anni seguenti 27

con piena convinzione, anche se logicamente con accenti diversi a seconda delle situazioni e degli uomini. La posizione cattolica era più complessa. Il Vaticano continuava a condannare l'evoluzione politico- sociale dalla Rivoluzione francese ai governi liberali, che aveva provocato la riduzione della sua autorità; una condanna solennizzata nel "Sillabo" del 1864. E quindi aveva sviluppato rapporti conflittuali sia con il governo italiano, che tentava di negare e destabilizzare con il "non expedit" (ossia il divieto per i cattolici di partecipare alle elezioni e alla vita politica), sia con il governo repubblicano francese, contro il quale appoggiava le destre conservatrici. Per contro il Vaticano proponeva come modello l'alleanza tra trono e altare ancora vigente nell'Austria-Ungheria (che pure si era aperta al suffragio universale e al regime parlamentare). Dinanzi allo scoppio della guerra il papa Benedetto Quindicesimo non avrà dubbi: il conflitto (di cui coglieva pienamente la tragicità) era la condanna divina su un'Europa che si era sottratta all'autorità della Chiesa romana. Questa posizione non era di fatto condivisa dai cattolici europei che non potevano (né volevano) estraniarsi dal processo di consolidamento delle rispettive realtà nazionali, anche dove mantenevano atteggiamenti di distacco verso i rispettivi governi. In Italia la lunga battaglia contro lo stato liberale (battaglia che una consistente minoranza di cattolici praticanti non aveva mai condiviso: basti pensare alla lealtà verso lo Stato degli ufficiali cattolici, da Raffaele a Luigi Cadorna) si era praticamente esaurita alla vigilia della guerra mondiale. Nel 1914 i cattolici, fossero maggioranza come in Francia e in AustriaUngheria o minoranza come in Germania, si identificarono totalmente con le rispettive guerre nazionali, con l'approvazione delle loro gerarchie, non soltanto per la tradizione di obbedienza alle autorità costituite, ma per una diffusa accettazione dei valori patriottici, in non pochi casi fino all'estremismo nazionalista. E nel maggio 1915 i cattolici italiani passarono dal neutralismo alla rivendicazione di un patriottismo convinto e talora 28

ostentato. Il papa Benedetto Quindicesimo, chiuso in una difficile quanto obbligata neutralità dinanzi a un conflitto che vedeva paesi cattolici schierati da entrambe le parti, arriverà a sviluppare la condanna della guerra con impegnative dichiarazioni ufficiali, come la nota del primo agosto 1917 ai capi degli stati belligeranti che deplorava «l'inutile strage» e auspicava una pace di compromesso. Questa posizione era rifiutata dai cattolici di entrambe le parti, i quali si riconoscevano piuttosto nel cardinale belga Mercier, che denunciava con efficacia gli orrori dell'occupazione tedesca, o nei vescovi austriaci e tedeschi, altrettanto fermi nel sostenere le posizioni dei loro governi. Un'ultima nota. Valori come il pacifismo, il rifiuto della violenza, l'obiezione di coscienza non facevano parte della cultura cattolica né di quella protestante del tempo. La piena adesione delle Chiese alla guerra lasciava spazio a posizioni articolate, dall'oltranzismo nazionalista a un patriottismo che nel nemico rispettava l'uomo, ma escludeva scelte motivate di rifiuto. La partecipazione alla guerra non comportava problemi di coscienza; preti come Primo Mazzolari e Angelo Roncalli, destinati a diventare in seguito protagonisti di una profonda revisione di valori, nel 1915-1918 prestarono servizio l'uno come cappellano, l'altro come sergente di sanità. Soltanto alcuni gruppi evangelici inglesi e statunitensi si posero il problema dell'obiezione di coscienza, senza grande risonanza in un mondo cristiano che partecipava alla guerra con assoluta convinzione. - "La guerra medicina del mondo". Se guardiamo alle autorappresentazioni che fanno dell'anteguerra la "belle époque", parrebbe gratuito parlare contemporaneamente di guerra- farmaco. Ha bisogno di cure chi è malato, non chi gode di rigogliosa salute. E non era appunto questo - la florida salute, il benessere psicofisico - lo stato permanente di quell'Europa del tempo di pace? 29

Nuovo incitamento a non fermarsi alle apparenze oleografiche. Non si può traguardare al mondo da Place Pigalle, dal Lido o dall'Opéra di Parigi e neppure dal Ring di Vienna, né da tutti gli altri luoghi simbolici delle mitologie turistiche internazionali e - alla lettera - della vacanza delle élites. E del resto - visionata sulle tavole dei pittori impressionisti francesi o ascoltata sulle note della grande musica sinfonica e operistica del decadentismo mitteleuropeo - quell'immagine lusinghiera si intride di malinconie e interrogativi irrisolti e suona ben più enigmatica. La cronologia delle opere di drammaturghi come Henrik Ibsen, pittori come Edgar Munch (il suo tragico e simbolico "Grido", assurto a emblema dell'arte espressionista che precede, accompagna e chiosa l'avvento del conflitto europeo), il sinfonismo drammatico degli ultimi grandi romantici alla maniera di Anton Bruckner e di Gustav Mahler, le malattie fisiche e morali che insidiano la nostalgia dell'ordine in "La morte a Venezia" (1912) di un olimpico e goethiano mancato quale Thomas Mann, valgono a incrinare quell'immagine fissa. "Non bisogna essere grati per la sorte, del tutto inaspettata, di poter assistere a così grandi cose? Il mio sentimento fondamentale è un'enorme curiosità e, lo confesso, la più profonda simpatia per questa odiata Germania, così gravida di enigmi e di destino, che, se finora non ha considerato la "civilizzazione" il più alto di tutti i beni, adesso comunque si accinge a infrangere il più abietto stato poliziesco del mondo" (23). E le grandi narrazioni del dopo - che collocano il punto di vista nell'anteguerra, cogliendone appunto quei caratteri di precipite attesa nel gorgo dell'autodistruzione europea ribadiscono a maggior titolo quei sentimenti di crisi. Si pensi a costruzioni narrative potenti come "La montagna incantata" di Mann, uscito a stampa nel 1924, dove il grande scrittore tedesco - lui stesso tutt'altro che immune dai giuramenti in nome della "Kultur" germanica avverso i 30

"lumi" della "civilisation", e dai trascinamenti guerreschi del 1914 - stipa idealmente nei successivi piani del sanatorio di Davos le malattie sospette, veridiche o presunte di tanti giovani e meno giovani europei, fra corruzioni del fisico e della volontà, e fra simulazioni di salute e di malattia che già rassomigliano alle tante simulazioni cui saranno condotti fra breve i componenti di tutti gli eserciti. Fra queste divinazioni postume dei nessi fra guerra e anteguerra si pone anche un altro grande romanzo europeo, "La coscienza di Zeno" (1928), del triestino di famiglia ebrea Ettore Schmitz, risoluto a ostentare anche col suo nome di penna, Italo Svevo, il carattere plurimo e perplesso della sua identità di uomo di frontiera. E si potrebbero moltiplicare i riferimenti alle grandi architetture romanzesche in cui gli scrittori danno forma alle nevrosi e ai disadattamenti di quell'"Uomo senza qualità" che abita la civiltà europea in transito dalla pace alla guerra: come appunto Robert Musil, per citare almeno uno dei grandi nomi che rimandano a Vienna, alla Mitteleuropa e alla cultura della crisi. Quel crinale del 1914 è subito sentito e si fissa nella memoria - grazie anche all'autocoscienza letteraria (24) - coi caratteri di una rivelazione (25). Quali mali, dunque, per l'anima dei popoli europei affranta anche da un eccesso di raffinatezze? O suona in partenza grottesco preoccuparsi dei mali dell'anima o della psiche, quasi a voler presupporre che la salute e il benessere fisico siano ormai traguardi assicurati? Naturalmente, non è affatto così: anche nei paesi economicamente più evoluti, la giornata di lavoro del contadino si allunga ancora infinita da luce a luce, e quella dell'operaio, di poco più breve, conosce le inedite asprezze del regime di fabbrica e i problemi del vivere urbano. E' certo, comunque, che non possiamo chiamare a consulto solo artisti e uomini di lettere, per quanto le loro sonde nelle viscere dell'io e della società siano fra le più sensibili. Che si stia male, in molti paesi, perché si è cresciuti di numero e si è ormai in troppi, lo asseriscono anche scienziati sociali 31

ed empiristi della salute pubblica lontanissimi da intendimenti d'arte, quali demografi e statistici: e fra loro non manca chi addita la guerra di espansione, cioè la ridistribuzione violenta dello spazio vitale, come l'antico e sempre valido rimedio escogitato dagli individui e dagli agglomerati più sani della specie. La Germania, nel predicare come "difensivà la sua guerra, anche quando invade il Belgio neutrale, può richiamarsi a teorie intonate a questa sorta di darwinismo sociale. Che la lotta per la vita possa vestire panni umanitari, quando entrano in gioco i destini delle collettività, lo dimostra da noi anche un poeta mite e affettuoso quale Giovanni Pascoli in occasione della guerra di Libia: "la grande proletaria si è mossa", constata con soddisfazione l'antico autore di un' "Ode a Passannante", benedicendo quella "lotta di classé fra nazioni povere e ricche che l'ex socialista che è in lui legge colorata di rosso; intanto Enrico Corradini, il Giovanni Battista del neonazionalismo italiano, non teme di aizzarla come riscatto nazional- corporativo delle plebi attraverso la guerra conquistatrice e la lotta imperialista. E parlano, tutt'e due, di malattia e salute, di inedia e di stracci materiali e simbolici -, di plebe contadina e di miserabilismo da centomestieri da sottrarre alla diaspora cosmopolitica e snazionalizzatrice grazie appunto al richiamo, dalle lontananze delle Americhe, alla "Patria lontana" (è il titolo di un romanzo-manifesto del fondatore dell'Associazione nazionalista italiana) (26). Il populismo schiettamente strumentale della nuova destra delinea un'integrazione delle masse che, mantenendone la subalternità, ne spenga e ne inalvei le spinte classiste. Sono posizioni d'avanguardia, il grosso delle destre staziona ancora là dove le ha rispecchiate a caval di secolo un Gustave Le Bon, lo studioso francese della "Psychologie de la Foule" che ha dato dignità di scienza alle più sinistre percezioni della minaccia sociale oggettivamente insita nei grandi assembramenti umani favoriti dalla rivoluzione industriale, dalla proletarizzazione e soprattutto dalle arti malefiche di un nuovo soggetto eversivo, i "meneurs", i terribili agitatori, 32

"déclassés" o "spostati" che turbano i sonni delle classi proprietarie. Le folle sovversive e scioperanti, detentrici dell'esplosivo contropotere della piazza, esplicitano i timori di un popolo materialmente ed anche mentalmente armato, che la stessa coscrizione obbligatoria pone in essere e stenta poi a comprimere dietro le spesse mura delle caserme: questo oscuro concentrato di violenza potenzialmente ambivalente - piantato nel mezzo della città moderna da una "democratizzazione" della vita militare che, agli occhi della destra più diffidente e nostalgica, rimane pur sempre fortemente sospetta. All'appuntamento con la mobilitazione generale e con la guerra di massa tutta l'Europa monarchica - moderata, conservatrice o reazionaria, degli stati maggiori e delle Chiese - arriva con questo pregiudizio nei confronti del popolo armato. Anzitutto, perché armato; se poi, anche, cosciente o voluto tale, le prevenzioni raddoppiano: come, in Italia, fanno capire le pagine di un autore antimoderno, antidemocratico e triplicista della «Voce» quale Giovanni Boine, i cui "Discorsi militari" piacciono nel 1914 a più di un alto ufficiale e hanno successo nelle biblioteche di presidio. Nessun testo è così scoperto nel definire un cancro devastatore la lotta di classe e la guerra come il solo rimedio eroico (27). Per contro, buona parte delle sinistre riesce a riaccendersi d'entusiasmo per il cittadino-soldato e a vivere il proprio interventismo come prosecuzione della grande Rivoluzione: saldando l'amore dei francesi per la Francia all'amore dei democratici per la patria universale dei "Diritti dell'uomo e del cittadino" (28). Proprio in Francia, la guerra riunifica la generazione dei "dreyfusards" e degli "antidreyfusards" che un quindicennio prima si era spaccata pro e contro il capitano ebreo e le accuse dello stato maggiore. Il poeta e saggista "dreyfusard" Charles Péguy è una delle prime vittime di questo ritorno in forze delle contrapposte famiglie intellettuali alla religione civica di "Notre Patrie" (29). In Italia, è proprio questa visione dei "princìpi dell'89" come tavole atemporali di una religione civile che - fra il dileggio dei nazionalisti e gli ammonimenti 33

a moderare almeno i toni di critici delle ideologie quali Benedetto Croce (30) - risospinge verso la «nazione armata» e trasforma in fautori della guerra non pochi di coloro che, ancora nella Settimana rossa del giugno 1914, appaiono come i manovratori delle folle sovversive. Manovratori lo rimangono, i sindacalisti rivoluzionari pressoché in blocco, un certo numero di socialisti e persino diversi anarchici; ma la loro professionale conoscenza delle folle si volge ora ad altri fini, compatibili con lo Stato e con alleanze di ferro agli uomini d'ordine. In quella che piegandovisi con realismo come a un'esigenza dei tempi - il nazionalista Alfredo Rocco saluta come la nuova piazza tricolore (31). Fra i taumaturghi al capezzale dell'Italia malata gioca le prime parti Gabriele D'Annunzio. A quali virus intende reagire la sua cura d'urto? Il male è dentro l'Italia, anzi nell'"Italietta" che ne intisichisce le membra e corrompe l'anima. Politicamente, il suo nome riassuntivo è Giolitti, il nemico interno che assurge a fantoccio miserabile contro cui si appunta il dovizioso vocabolario del poeta vate all'insegna della rivitalizzazione del corpo della nazione. I passati che da troppo tempo ristagnano, la grandezza di Roma, l'impero navale di Venezia, gli stessi conflitti fra Comuni e Signorie - segno comunque di fierezza e vigoria del sangue italiano - e da ultimo la grande avventura garibaldina del 1860 debbono tornare a fluire con impeto nelle arterie. In tale maniera, il "passatismo" di un uomo di lettere così spesso volutamente arcaicizzante quale D'Annunzio va a far cumulo - nel nome di un presente immediato da vivere con pienezza gettandovisi senza risparmio (32) - con le ansie e le voglie estremiste dei "futuristi". Anche per Filippo Tommaso Marinetti - l'uomo che, da Parigi, nel 1909 ha internazionalmente lanciato il movimentismo artistico e mentale di questa nuova corrente di avanguardia - la guerra è natura e storia, istinto genetico e progetto politico, vocazione dell'Italia attuale e oscuro bisogno della specie, che travalica la politica e si alimenta di pretesti. Una tale irruenza prevede la dissipazione del 34

sangue e, quasi, un'ecatombe benefica che rigeneri la foresta potando i rami e abbattendo i tronchi (33). Gli antropologi e gli studiosi di polemologia (34) ci ragguagliano su come sia ricorrente, fra le visioni e gli usi della guerra nelle vicende umane, questo tripudiante senso della "guerra festà, che capovolge vitalisticamente in positivo persino l'incombere della morte di massa. Non solo nei giorni ancora ignari e relativamente innocenti dell'attesa, ma persino guerra durante e in un dopoguerra ormai consapevole delle proporzioni del massacro, Marinetti resta il "poeta" della mitragliatrice, continua a coniugare l'ebbrezza della tecnologia e quella del sangue, l'eccesso consumistico di vita e di morte. Alle soglie della guerra i più vicini a queste forme di "salutismo" esistenziale dell'io e della società si possono considerare i Papini e i Soffici che riempiono la loro nuova rivista, «Lacerba», di grida di giubilo alla guerra che ritorna e al salasso benefico che ne verrà (35). Non è facile mettere ordine fra spinte e motivazioni così contrastanti, senza dare il senso di un caleidoscopio di bisogni e adattamenti irriducibilmente individuali. Il minimo comune denominatore è comunque l'accettazione o meglio la presa di possesso della guerra - più o meno estatica o razionalizzata, politica o impolitica - da parte dell'intellettualità italiana ed europea. Le opzioni vanno più nel senso dell'ordine e della disciplina delle classi da restaurare per i più tradizionalisti (prototipo: Boine) ovvero nel senso di una ricorrente e rigenerante implosione dell'ordine dato non appena divenga costrittivo e limitante rispetto ai bisogni di ampliamento dei territori di un "io" o di un "noi" (prototipo: Marinetti). Inutile rilevare che tanto l'economia quanto la politica in senso stretto possono trovare espressione vuoi nelle richieste di ascetismo, rigorismo e abnegazione coatta di coloro che aspirano a rimettere in riga una società troppo lassista, invertendo il corso degenerativo della storia, vuoi al contrario in un'idea della guerra come motore, proprio per la forza propulsiva insita nella spirale distruttiva e ricostruttiva che avvia. 35

Occorre tornare indietro di un decennio per individuare un discorso e un cervello capaci di tenere insieme e dare senso e forza progettuale a questo ventaglio di immagini ed usi della guerra. Penso a Vilfredo Pareto. E' lui che, sul far del secolo, descrive con maggiore pregnanza analitica e con visione anticipatrice i meccanismi di funzionamento della macchina sociale e i suoi sviluppi prevedibili. Ragionando in termini di "miti" di classe e di partito come terreno su cui si è ormai spostato il conflitto per il potere, l'autore del "Trattato di sociologia" (36) mette in circolo con i suoi scritti, apparsi anche nelle riviste dei futuri interventisti, idee guida che costituiscono validi criteri di lettura di quanto avviene e avverrà. Anzitutto, la fertilità e ormai anzi la necessità dei miti per far politica e governare i sentimenti e le opinioni delle masse, approdate alla scena della politica e bisognose di linguaggi adeguati; poi, l'idea che, al grande mito mobilitante della lotta di classe e della rivoluzione con cui le nuove forze d'opposizione agitano le folle, inventando e divulgando la coscienza proletaria fra "chi non ha", coloro che detengono il potere - la borghesia, "chi ha" - non possano che rispondere anch'essi, se intendono resistere ai tentativi di esproprio economico e politico, sul terreno dei grandi miti aggreganti e mobilitanti. La scienza della politica e le tecniche del potere portano a ritenere che, contro la rivoluzione che sorge dal basso, chi sta in alto non possa alla fin fine rinunciare a schierare l'antidoto supremo, l'arma più collaudata per il ripristino d'autorità del dirittodovere al comando: la guerra. - "L'esplosione dei nazionalismi". Le pulsioni descritte percorrono le viscere della società europea sotto la superficie ottimistica del progresso inesauribile, ma non bastano a spiegare come si arrivi alla guerra né i meccanismi di adattamento che vi entrano in gioco. Il grande contenitore degli impulsi differenziati è la nazione. Le nazioni. Gli stati nazionali l'un contro l'altro 36

armati e, dal di dentro, le nazioni compresse o aspiranti tali che urgono dentro gli stati plurinazionali. Ai nostri giorni la sensibilità si è acuita a vantaggio delle regioni e parecchi parlano di un'Europa delle regioni, assicurando che gli stati nazionali sarebbero definitivamente in crisi. In vista e anche per mezzo della prima guerra mondiale gli stati nazionali sono invece ancora in fase di formazione. Questo processo si coglie soprattutto all'interno del plurinazionale Impero austroungarico, baluardo degli ordinamenti tradizionali costruiti su un diverso senso della origine e della legittimità del potere. La cosa interessa anche l'Italia, dove in nome del principio nazionale e del completamento del processo di unificazione si reclamano Trento e Trieste; ma con varia energia avanzano processi di disgregazione dell'impero e di riaggregazione in una pluralità di potenziali stati nazionali anche fra i popoli slavi soggetti agli Asburgo. Nell'impero tedesco degli Hohenzollern la seconda metà dell'Ottocento ha visto sormontare il Regno di Prussia come fattore di unificazione territoriale e politica delle varie realtà storiche dell'area germanica e gli elementi e i sentimenti di coesione etnica, culturale, politica e militare appaiono dominanti, a differenza che nel vecchio impero alleato dove gli elementi di destrutturazione e di reidentificazione interne, lungo faglie e linee di confine in fase di accentuazione, risulteranno decisivi ai fini della sconfitta militare. In altri termini, i due Imperi centrali perdono la guerra per ragioni diverse: quello tedesco - non battuto militarmente - perché strozzato dal blocco economico; quello austriaco, anche, perché eroso e battuto dall'interno nei suoi stessi fondamenti politici, per l'esplodere di parallele e contrapposte aspirazioni nazionali. Sono organizzazioni imperiali variegate e complesse anche il Regno Unito, la Repubblica francese, l'Impero russo e l'Impero ottomano, e nel pieno della guerra gli inglesi devono in effetti tenere a bada rivolte indipendentiste degli irlandesi; ma i tempi della decolonizzazione appaiono ancora lontani, nei rispettivi territori imperiali le genti asiatiche e africane non hanno 37

ancora maturato coscienza nazionale e rivendicazioni di indipendenza, per cui sia inglesi che francesi possono attingervi riserve di beni e di uomini. Quanto ai vasti spazi dell'impero degli Zar, le contrapposizioni sociali e politiche maturano prima e, in parte, intrecciate, rispetto alla pur effettiva pluralità delle identità etniche. Il possesso di regioni di confine come l'Alsazia e la Lorena che da tanto tempo costituiscono il campo di espressione e il simbolo dell'antagonismo tra Francia e Germania -, così come quello di Trento, Trieste, Bolzano, l'Istria, la Dalmazia - anch'essi luoghi di contiguità e di incrocio fra civiltà e interessi non univoci e non facilmente componibili diventano anche il punto di incontro e scontro più appariscente fra diversi concetti della nazione. Sotto la spinta della guerra, le idee di popolo, di nazione, di patria, che cosa ciascuno possa o debba fare o non fare per il "suò popolo, o per la patria, o in quanto suddito o cittadino di uno Stato, tutto è moralmente e politicamente rimesso in discussione. Anche perché la caratteristica della situazione è che, per milioni di persone abitanti in aree contese, non è facile - o è impossibile - essere contemporanemente fedeli alla nazione e allo Stato. Cesare Battisti - patriota e traditore - è solo un caso più tragico e illustre di appartenenze multiple e di lealtà non compatibili (37). Ora, fra le motivazioni che - soprattutto nel campo dell'Intesa - si divulgano della propria guerra, si evidenzia proprio quella di un'Europa delle libere nazioni e dei popoli reintegrati nella propria indipendenza e autonomia. A milioni combattono con questo ideale internazionalista democratico, che lascia sperare, al termine di una guerra necessaria, una pace giusta e un mondo nuovo. E' questo, in Italia, il senso dichiarato dell'interventismo democratico. Senonché, questa presunzione di una giustizia e fraternità possibili nei rapporti fra i popoli appare risibile ad altri che coltivano ben altra idea del benessere della nazione e dei rapporti fra gli stati. Sono in particolare i nazionalisti, che si vogliono però, più semplicemente, realisti e involgono molti che non si riconoscerebbero come nazionalisti, ma che 38

si sentono e si dichiarano pragmatici. Per costoro il senso ottocentesco e mazziniano della nazionalità, che rivive nell'ideologia dell'Intesa, appare un inganno arcaico e nobilmente polveroso. Esso sembra supporre che le nazioni esistano in natura e non costituiscano invece il portato di un faticoso processo storico, di uno spostamento dei confini che è stato e può tornare ad essere atto di imperio. L'intrinseco, sanguigno darwinismo delle correnti neonazionaliste e imperialiste applica ai rapporti fra grandi agglomerati umani i concetti positivisti della lotta per la sopravvivenza e della selezione naturale della specie. I buoni sentimenti di chi parla di libertà dei popoli e per esempio contrappone i "princìpi dell'89" al militarismo prussiano si riducono, nella cruda "Realpolitik" che questi disegnano come quadro necessario dell'operare degli stati, a una mera autorappresentazione ideologica, forse psicologicamente gratificante per chi combatte, ma niente di più che una droga allucinogena atta a confondere, magari utilmente, le idee a se stessi, agli antagonisti e ai paesi neutri. Prendendosi beffe dei loro stessi alleati interventisti quanto loro, ma per motivazioni umanitarie e libertarie - gli interventisti della nuova destra in gestazione parlano in Italia con soddisfazione del «fecondo inganno» (38) in cui quegli uomini di centrosinistra e di sinistra sono caduti e provvidenzialmente trascinano i loro seguaci. Il crudo disvelamento del carattere mistificatorio delle rivestiture democratiche di uno scontro per l'ampliamento o la difesa delle rispettive aree di influenza commerciale, militare e politica, e cioè fra opposti imperialismi, trova motivazioni di sinistra, oltre che di destra. E' di Lenin - il rivoluzionario che nel 1917 guiderà le masse popolari russe all'uscita unilaterale e anticipata dal conflitto militare e alla presa del potere nel nome di un riaffermato primato della classe sulla nazione - il saggio "L'imperialismo come fase suprema del capitalismo" (39): che è una chiave di lettura e una parola d'ordine. Le tre posizioni politiche esplicitamente formulate attorno all'affermazione della nazione - liberaldemocratica, cioè nel 39

concerto delle altre nazioni, ovvero autoritaria ed espansionista, cioè ai danni e con le spoglie dei concorrenti - e al suo superamento internazionalista, non bastano certo a esaurire i moventi e gli stimoli che mandano in campo milioni di maschi europei delle classi giovani, o meno anziane, e ve li tengono a dissanguarsi per un quadriennio. La temperatura normale dei popoli in guerra è sicuramente più alta che in tempo di pace; non raggiunge tuttavia, in molti, i livelli di accaloramento febbricitante che caratterizza le pur cospicue minoranze idealmente mobilitate in vista di questa o quella idea della guerra. Si pone quindi un problema, ma si pone in maniera diversa da paese a paese: se e quanto l'esplosione dei nazionalismi coinvolga l'uomo comune, se e come il civile (l'uomo e la donna, il cittadino e l'abitante delle campagne e così via), se e come il combattente, in quell'esercito in cui - almeno potenzialmente, ma, anche qui, non senza limiti e contraddizioni - si compie l'unità del paese. Più che di nazione, gli si parla e si cerca di fargli sentire la patria. E' più affettuoso, reciprocamente protettivo e anche meno impegnativo sul piano politico. Può valere a unificare i più, ad assicurare un minimo comun denominatore, sfumando le divisioni fra i meno, quelli che si intendono di politica. C'è un motto inglese che si può tradurre come espressivo dei modi di pensare diffusi - o per lo meno suggeriti come normali - in ogni paese: che abbia ragione o torto, è la mia patria. * LA LOTTA PER L'EGEMONIA EUROPEA. - "La natura della guerra". La prima guerra mondiale nacque per decidere quale nazione o gruppo di nazioni avrebbe avuto il ruolo dominante in Europa e, in prospettiva, nel mondo, data la supremazia che gli stati europei allora esercitavano su gran 40

parte del globo. Gli equilibri che avevano retto il continente dopo la fine delle guerre napoleoniche (1815) si erano venuti alterando in seguito agli sviluppi della rivoluzione industriale nei diversi paesi. Una loro ridefinizione, nella cultura del tempo, era possibile soltanto con un conflitto, di cui nessuno poteva prevedere la tragicità, l'intensità e la durata. La prima guerra mondiale è quindi una guerra per l'egemonia politico- economica in Europa e nel mondo che assunse anche una dimensione culturale, perché tutte le nazioni ritenevano di dover difendere e imporre i loro valori e la loro visione della società e dello Stato. Con il distacco concesso ai posteri, possiamo dire che questi valori non erano così lontani tra loro come pareva ai belligeranti, i quali erano tutti partecipi della stessa civiltà liberale, avevano strutture politiche di tipo parlamentare simili (salvo la Russia zarista) e differivano invece per sviluppo e interessi economici, nell'ambito però di una comune realtà capitalistica. La seconda guerra mondiale vedrà la contrapposizione articolata tra regimi politici ed economici profondamente diversi: le democrazie occidentali con un'economia capitalistica basata sulla concorrenza e sulla libertà di mercato (non senza monopoli e protezionismi nazionali), le dittature nazifasciste con un forte intervento statale in un'economia capitalistica, la dittatura sovietica con un'economia pubblica pianificata. Sarà un conflitto tra stati nazionali, tra regimi politici e ideologie radicalmente contrapposti, tra sistemi economici diversi per impianto e obiettivi; e si svilupperà con grandi movimenti e battaglie, occupazioni di interi paesi e creazione di stati-fantoccio, bombardamenti a tappeto e un pesante coinvolgimento della popolazione civile, guerre partigiane di riscatto nazionale e di rivoluzione sociale, atrocità terrificanti su scala mai vista. La prima guerra mondiale è invece una guerra tra stati nazionali che hanno strutture e cultura simili. La sua dimensione è la patria, un valore fondante della civiltà 41

liberale, che viene esasperato e assolutizzato, fino a diventare elemento di sopraffazione delle altre patrie. La demonizzazione del nemico, necessaria per ottenere la mobilitazione delle energie nazionali, porta alla esasperazione delle diversità e alla negazione degli elementi di civiltà comuni a tutti i belligeranti. La dimensione della patria è poi l'elemento unificante del conflitto, perché vale per i grandi stati industrializzati e moderni come per quelli minori arretrati sotto il profilo politico e economico. La prima guerra mondiale è innanzi tutto lo scontro tra gli eserciti nazionali; ma poiché dai cruenti campi di battaglia non viene quella rapida soluzione che tutti si attendevano, il conflitto diventa di logoramento e, prolungandosi negli anni, richiede la mobilitazione di tutte le forze militari, economiche, sociali, culturali. La guerra totale assume l'aspetto di una brutale verifica della capacità di sacrificio e di durata a tutti i livelli dei belligeranti. Il quadro che passiamo a tracciare delle cause di fondo della guerra mondiale e delle ragioni delle sue dimensioni e della sua durata non ha pretese di originalità. Su questi temi sono stati scritti centinaia di volumi. Ci limitiamo a riassumerne le linee principali. - "La rivoluzione industriale". Le innovazioni tecnologiche e le loro conseguenze sull'economia, dopo secoli di stagnazione e un lento progresso dal Quattrocento al Settecento, conobbero un'accelerazione decisiva dalla fine del Settecento in Inghilterra e dalla metà dell'Ottocento nel continente europeo (e negli Stati Uniti), dando origine alla cosiddetta rivoluzione industriale. L'elemento basilare fu l'invenzione e lo sviluppo delle macchine (a partire dalla macchina a vapore, 1769), che permisero il passaggio dalla produzione artigianale decentrata in botteghe a quella industriale concentrata in grandi stabilimenti, con un rapido aumento dei manufatti tessili, poi metalmeccanici, fino al sorgere di 42

settori nuovi come la chimica e l'elettromeccanica. Le ferrovie e la navigazione a vapore diedero uno straordinario impulso alla circolazione di uomini e mezzi con maggiore velocità e a costi ridotti. E i nuovi macchinari moltiplicarono le possibilità di sfruttamento delle miniere, a cominciare da quelle fondamentali di ferro e carbone, mettendo a disposizione dell'industria le materie prime necessarie, poi moltiplicate dal progresso scientifico. Tutto ciò fu permesso dallo sviluppo parallelo dell'organizzazione finanziaria, attraverso la forte crescita del sistema bancario, la diffusione delle società per azioni, la formazione di grandi concentrazioni capitalistiche orientate ora alla sfrenata concorrenza, ora alla costituzione di giganteschi monopoli e cartelli, e sempre più in grado di condizionare il potere politico. Gli effetti della rivoluzione industriale furono in un primo tempo il rafforzamento della superiorità economica, in tutti i settori, dell'Inghilterra, che intorno al 1850 deteneva da metà a due terzi della produzione mondiale di ferro, carbone e tessuti. La sterlina, la borsa e le banche di Londra dominavano i mercati finanziari, e la flotta inglese i mari, mentre l'impero coloniale britannico si estendeva in tutti i continenti. Nella seconda metà dell'Ottocento miniere, fabbriche, banche e ferrovie ebbero un grande sviluppo in Belgio, in Francia e poi in Germania (unificata nel 1871) e in misura minore, ma crescente, negli altri stati europei. Tra gli ultimi decenni dell'Ottocento e l'inizio del Novecento fu soprattutto straordinaria la crescita tedesca in tutti i campi, dalla estrazione di ferro e carbone alla produzione delle industrie pesanti, metalmeccaniche, chimiche, elettrotecniche, dalle scoperte scientifiche e tecnologiche all'incremento delle esportazioni, dall'espansione delle banche a quella delle ferrovie. Le cifre non bastano a evidenziare il ruolo dominante che l'economia tedesca aveva acquistato in Europa, fino a raggiungere, e in molti settori a sopravanzare, quella britannica, il cui tasso di sviluppo era ormai decisamente inferiore. 43

La rivoluzione industriale ebbe effetti devastanti sulle popolazioni europee. Il primo fu ovunque un peggioramento delle condizioni di vita: i salari delle masse operaie in rapido aumento erano bassi, i ritmi di lavoro massacranti, le abitazioni e le condizioni igieniche disastrose. E l'unico rimedio alla miseria delle campagne fu, a lungo, l'emigrazione: milioni e milioni di inglesi e tedeschi, poi di irlandesi, polacchi, italiani e spagnoli partirono nel corso dei decenni verso gli Stati Uniti e il Sudamerica. Poi molteplici fattori produssero un miglioramento. I sindacati e i partiti operai, a prezzo di dure lotte, ottennero salari e condizioni di lavoro più accettabili. Lo sviluppo economico portò un aumento dei consumi interni, in primo luogo alimentari, e un decisivo progresso della situazione igienica e sanitaria, con un lento aumento della durata media della vita. I governi liberali introdussero una legislazione sociale, la scolarizzazione di massa e il suffragio universale (maschile, s'intende). Il processo di urbanizzazione (nel 1800 le città europee con più di 100 mila abitanti erano 23 con il 2 per cento della popolazione complessiva, nel 1900 erano 135 con il 15 per cento di una popolazione raddoppiata) fu accompagnato dal parziale risanamento dei quartieri operai, dalla diffusione di nuove forme di socializzazione e di organizzazione del tempo libero, come lo sport, dalla generalizzazione di nuovi costumi e valori collettivi. Il miglioramento complessivo delle condizioni di vita si può misurare in base a due elementi: il primo è il raddoppio della popolazione europea, dai 200 milioni del 1800 ai 400 del 1900, malgrado l'emigrazione oltreoceano. In particolare l'Inghilterra passò da 15 milioni di abitanti nel 1800 a 46 nel 1914, la Germania da 24 a 67, l'Italia da 18 a 38. Il secondo elemento è l'adesione che i partiti socialisti di Gran Bretagna, Francia, Germania e AustriaUngheria diedero nel 1914 alla guerra, percepita come difensiva, che dimostrava come il proletariato industriale fosse ormai largamente integrato negli stati nazionali. Fin quasi al termine dell'Ottocento questa gigantesca trasformazione degli stati europei non aveva messo in 44

discussione gli equilibri internazionali stabiliti nel 1815. Nel corso del secolo le guerre e le rivoluzioni furono relativamente poche; l'unica che ebbe effetti rilevanti fu la guerra franco- prussiana del 1870-1871 che ridimensionò il ruolo della Francia come prima potenza continentale a favore della Germania unificata. Nel complesso il sistema di equilibri europeo dimostrò una notevole elasticità e resistenza: la supremazia britannica era accettata perché gli altri stati non potevano contrastarla sul piano economico e perché l'Inghilterra non mirava a un dominio politicomilitare diretto sul continente, ma si limitava a impedire che una singola potenza assumesse un ruolo predominante (e difatti la Francia fu la sua prima avversaria dal Seicento alla fine dell'Ottocento). La situazione cambiò con lo straordinario sviluppo della Germania, che nel 1900 era diventata la prima potenza continentale per la forza della sua economia e del suo esercito, con ambizioni di espansione politico-economica a livello europeo e oltre, che entravano in diretta collisione con le posizioni britanniche. Abbiamo finora lasciato da parte gli Stati Uniti d'America, protagonisti dello sviluppo più straordinario. La loro popolazione ammontava a 4 milioni al momento dell'indipendenza, a 31 milioni nel 1861 (inizio della guerra di secessione), a 96 milioni nel 1914, un incremento permesso dalla forte immigrazione europea. Lo sviluppo industriale fu spettacoloso: all'inizio del Novecento gli Stati Uniti erano ormai la prima potenza industriale del mondo, con una produzione superiore in tutti i settori a quella dei maggiori stati europei, un livello tecnologico pari a quello tedesco, un'agricoltura meccanizzata che copriva il fabbisogno interno ed esportava notevoli quantità di cereali. Avevano tuttavia un ruolo internazionale ridotto, perché l'eccezionale espansione del mercato interno aveva assorbito l'altrettanto eccezionale sviluppo dell'industria (grazie anche a una forte protezione doganale). E l'imperialismo statunitense si andava sviluppando verso l'America centrale e il Pacifico, senza entrare in contrasto diretto con quello delle potenze europee (salvo la debole 45

Spagna, cui nel 1898 gli americani tolsero con una breve guerra Cuba e le Filippine). Gli Stati Uniti ostentavano disinteresse nei riguardi dei problemi europei e l'Europa guardava agli Stati Uniti con sufficienza e altrettanto scarso interesse, sottovalutandone la potenza economica, la cultura e la crescente espansione imperialistica. Un senso di superiorità, non privo di elementi di disprezzo verso un «popolo di banchieri e di bottegai» ritenuto privo di capacità guerriere, che ritroveremo ancora in Hitler e Mussolini. - "Gli imperi coloniali". La dimostrazione più evidente del ruolo dominante dell'Europa erano gli imperi coloniali dei suoi stati, che ricoprivano buona parte del mondo. Il primo impero coloniale dell'età moderna, quello spagnolo nelle Americhe, era stato fondato sul saccheggio e la distruzione degli stati preesistenti e sullo sfruttamento illimitato delle genti e delle risorse locali, tanto che aveva perso man mano importanza e territori. Portoghesi e olandesi puntarono invece sul monopolio del commercio di merci pregiate con le regioni asiatiche. L'impero coloniale inglese, che nacque nel Seicento per raggiungere straordinarie dimensioni nell'Ottocento (circa un quinto della superficie terrestre), fu invece molto più articolato, venendo a occupare sia regioni di alta civiltà seppure povere di tecnologia e forze militari come l'India, cui fu concesso un limitato sviluppo in funzione degli interessi industriali britannici, sia regioni di cui l'immigrazione europea cancellò le arretrate civiltà come l'America settentrionale (dove però gli inglesi incassarono la loro maggiore sconfitta, l'indipendenza degli Stati Uniti) e l'Australia, sia regioni la cui agricoltura primitiva venne riorganizzata per produrre ciò che interessava al mercato europeo, come buona parte dell'Africa. La tenuta di questo impero era garantita dal dominio inglese dei mari, militare e mercantile, e dalla superiorità economica e tecnologica della Gran Bretagna. 46

Tra le colonie inglesi deve essere annoverata anche l'Irlanda, sottomessa nel Seicento, ma non mai assimilata né condotta a un qualche sviluppo economico, semisvuotata dall'emigrazione verso gli Stati Uniti nella seconda metà dell'Ottocento, percorsa da movimenti di rivolta nazionale che nel 1916 porteranno all'insurrezione di Dublino con una richiesta di aiuto ai tedeschi e in seguito finalmente riconosciuta come stato indipendente salvo che per la parte settentrionale, ancor oggi legata all'Inghilterra a prezzo di una lunga guerra civile che soltanto nel 1998 ha imboccato la via delle trattative. Minori dimensioni avevano i possedimenti coloniali olandesi (l'attuale Indonesia) e quello che a fine Ottocento restava degli imperi spagnolo e portoghese, soprattutto in Africa. Nel 1830 la Francia diede inizio alla conquista dell'Algeria (ci vollero quasi vent'anni per stroncare la resistenza araba), che divenne una colonia atipica per la forte immigrazione francese in una regione che, in relazione alle risorse, era già densamente abitata. Nel 1954, quando avrà inizio la guerra di liberazione d'Algeria, i francesi d'Algeria saranno oltre un milione, con in mano tutto il potere e le ricchezze, rispetto a nove milioni di arabi. In sostanza, fino agli anni 1870-1880, l'unico impero coloniale di considerevole importanza e ricchezza era quello britannico. Poi di colpo gli altri stati europei scoprirono i vantaggi del colonialismo, dando vita a una frenetica ricerca di territori da occupare. La Francia, che fu la prima a partire, nel giro di pochi anni mise le mani sull'Indocina e su vaste regioni africane. Il Belgio si assicurò il ricco Congo, sfruttato con cinica efficienza. La Germania, che si mosse qualche anno più tardi, occupò notevoli possedimenti in Africa e posizioni strategiche nel Pacifico, nettamente inferiori però a quelli francesi. Alla corsa alle colonie non parteciparono l'AustriaUngheria, potenza essenzialmente terrestre che puntava a un ampliamento dei suoi territori nei Balcani, e la Russia, assorbita da una forte espansione in Asia centrale, dalla valorizzazione della Siberia e da ambizioni verso l'Asia nordorientale che la portarono allo scontro con il Giappone, 47

potenza emergente di teatro, che nel 1904-1905 inflisse ai russi una dura sconfitta. L'Italia, come è noto, tentò una penetrazione in Africa orientale (sbarco a Massaua, 1885), che la portò a scontrarsi con l'Etiopia, l'unico stato africano in possesso di una ragguardevole forza militare. Nel 1896 la sconfitta di Adua segnò un punto di arresto nelle ambizioni italiane, che non potevano ritenersi soddisfatte dalle piccole colonie d'Eritrea e di Somalia. Nel 1911 l'Italia iniziò quindi l'occupazione della Libia (conclusa soltanto nel 1931), regione che per la sua povertà era rimasta fuori dei possedimenti inglesi e francesi nell'Africa mediterranea. All'espansione statunitense in America centrale e nel Pacifico abbiamo già accennato. La corsa alle colonie dell'ultimo quarto dell'Ottocento aveva motivazioni immediate di natura politica piuttosto che economica. Non è dubbio che il vero movente del colonialismo sia lo sfruttamento delle regioni conquistate attraverso il controllo del commercio e della produzione agricola e mineraria. Ciò però richiede un certo livello di capacità economiche, la disponibilità di regioni non prive di risorse, tempi non brevi per la valorizzazione delle miniere e la trasformazione dell'agricoltura; nell'ampliamento del loro impero gli inglesi, che pure disponevano di mezzi e di esperienza, avevano sempre privilegiato i tempi mediolunghi. Gli stati europei invece si avventarono sull'Africa, su una parte dell'Asia meridionale e del Pacifico pensando soltanto ad accaparrarsi i territori ancora liberi, di cui avrebbero in seguito esplorato le possibilità di sfruttamento. Non tutte le colonie erano ricche come il Congo belga o l'Indocina francese; non fu soltanto l'Italia a mettere le mani su regioni di assoluta povertà. Dietro all'improvvisa esplosione della corsa alle colonie c'erano ragioni di prestigio e speranze di arricchimento tutte da verificare. Le colonie erano diventate uno "status symbol" una dimostrazione di prestigio e di potenza prima che un affare economico. Questo valeva soprattutto per la Germania: nella competizione apertasi con la Gran Bretagna e nella ricerca di nuovi mercati per le esportazioni 48

nazionali, l'acquisizione di possedimenti coloniali era vista come un passo necessario per un'affermazione di potenza a livello mondiale e come un attacco indiretto alla superiorità britannica. In sostanza, la corsa alle colonie dell'ultimo Ottocento era la proiezione su scala mondiale delle rivalità e delle ambizioni degli stati continentali e un modo indiretto di contestare la supremazia britannica. Ciò non attenua il carattere di sopraffazione e di razzismo proprio di tutto il colonialismo: la conquista di nuovi possedimenti comportava in ogni caso la destabilizzazione delle società e la crisi delle economie tradizionali africane e asiatiche. - "Un'Europa nuova e pronta per la guerra". Nei decenni che precedono la prima guerra mondiale l'Europa conosce una serie di profonde trasformazioni. Interpretarle univocamente come una marcia verso la guerra sarebbe una forzatura, non soltanto per le contraddizioni e le resistenze che i processi di modernizzazione provocavano, ma perché civiltà liberale e rivoluzione industriale esprimevano una straordinaria vitalità e una ricchezza di aperture e conquiste che non si possono racchiudere in uno schema costruito a posteriori. Tuttavia le dimensioni, l'intensità e la durata della prima guerra mondiale furono rese possibili dalle grandi trasformazioni dei decenni precedenti. La più evidente è ovviamente il ruolo assunto dall'industria nei maggiori paesi. Cambia anche il paesaggio: città sempre più grandi, ferrovie e porti, miniere e zone industriali altamente inquinanti. Cambiano i rapporti politici: il peso crescente dell'industria nella prosperità di una nazione e la concentrazione del suo controllo in un numero ristretto di grandi imprenditori e di banchieri danno a costoro un'influenza sulle decisioni dei governi che controbilancia e talora sopravanza le conquiste delle democrazie parlamentari e dei partiti di massa. Un'altra contraddizione deriva dal contrasto tra le dimensioni e tendenze nazionali 49

e internazionali dell'industria, divisa tra l'utilità di un pieno controllo del mercato interno, quindi di una politica protezionistica, e la necessità di vendere e comprare sui mercati mondiali. La disponibilità di carbone e di ferro non bastava a garantire l'autosufficienza neppure agli stati più fortunati, perché quantitativi minori, ma essenziali, di minerali dovevano essere importati; ad esempio la difficoltà di procurarsi rame, zinco, nichel fu un notevole aggravio per la Germania durante il conflitto mondiale. Il possesso di un secolare e articolato impero coloniale costituiva per gli inglesi un grosso vantaggio, che la corsa alle colonie degli altri paesi iniziava appena a scalfire. La difficoltà di cogliere la profondità delle trasformazioni in corso è attestata dal fatto che nessuno aveva previsto il ruolo determinante che l'industria avrebbe avuto nel conflitto. Era convinzione generale che la guerra sarebbe stata breve (su ciò ritorneremo) e quindi condotta con le armi e le munizioni immagazzinate in tempo di pace. In realtà le dimensioni della prima guerra mondiale furono rese possibili dalla capacità dell'industria di moltiplicare e convertire la sua produzione per far fronte alle crescenti richieste degli eserciti, fino a tenere alle armi per anni milioni di uomini e a rifornirli di migliaia di cannoni e di decine di milioni di granate. Uno sviluppo superiore a ogni aspettativa, favorito dal superamento dei problemi di costo e di concorrenza, poiché lo Stato diventava l'acquirente unico, preoccupato soltanto della quantità e rapidità delle forniture. Un'altra conseguenza della rivoluzione industriale fu la trasformazione dell'agricoltura. Nei secoli precedenti la difficoltà e il costo dei trasporti avevano costretto gli stati a contare per la loro alimentazione essenzialmente sulla produzione agricola interna, che imponeva crudeli limiti all'aumento della popolazione. Con la rivoluzione industriale si verificarono processi complessi: la diminuzione delle superfici coltivate e del numero dei lavoratori agricoli, l'incremento della resa dei terreni grazie alle nuove tecniche, soprattutto la riduzione del costo dei 50

trasporti: navigazione a vapore e ferrovie resero possibile e conveniente per gli stati industrializzati europei l'importazione di cereali, carne e foraggi dalle grandi pianure russe, argentine e nordamericane. Fu così possibile l'incremento della popolazione grazie al miglioramento delle condizioni igienico- sanitarie e dell'alimentazione. Alla vigilia del conflitto mondiale, gli addetti all'agricoltura erano scesi al 12 per cento in Inghilterra e al 18 per cento in Belgio, la cui alimentazione dipendeva ormai dalle importazioni; erano ancora il 38 per cento in Germania (ma non bastavano per l'autosufficienza alimentare), il 56 per cento in Francia e il 75 per cento in Russia. Sono indici dei diversi livelli di sviluppo agricolo, da interpretare tenendo conto anche delle situazioni nazionali: con una percentuale simile di contadini, la Francia era un paese piuttosto ricco e sviluppato, l'Italia in gran parte povero e semindustrializzato. La rivoluzione industriale portò trasformazioni decisive anche nel settore dei trasporti. Le navi con scafo metallico e motore a vapore ridussero le distanze tra i continenti, le ferrovie diedero uno sviluppo mai visto alle comunicazioni interne, ridimensionando il contributo della navigazione fluviale, che per secoli era stata l'unico mezzo di trasporto conveniente sulle medie distanze. Anche il trasporto su strada perse importanza, salvo sulle piccole distanze: i cavalli non erano competitivi con il treno e nel 1914 gli automezzi erano ancora nella fase iniziale di sviluppo. Le operazioni militari danno un'idea della rivoluzione dei trasporti. Il treno conobbe la prima applicazione militare nella guerra piemontese del 1859, quando 120 mila francesi furono trasportati da Genova ad Alessandria in un sesto del tempo necessario per il trasferimento a piedi. Pochi anni dopo le ferrovie sostenevano il peso della guerra di secessione nordamericana. Nel 1870, poi, il treno permise ai prussiani di concentrare sul Reno 740 mila uomini provenienti da tutto il loro territorio prima che fossero pronte le truppe francesi già stanziate vicino alla frontiera. In seguito tutti gli eserciti pianificarono l'impiego delle 51

ferrovie per la mobilitazione e l'avvio alla frontiera delle truppe; si trattava di organizzare i movimenti di milioni di uomini e dei loro mezzi (cavalli, cannoni, viveri) e poi di procurare loro l'afflusso di rifornimenti necessari per vivere e combattere. Possiamo anticipare che causa non ultima della staticità dei fronti della prima guerra mondiale fu la necessità di un volume di approvvigionamenti quotidiani (migliaia di tonnellate) che soltanto le ferrovie potevano garantire, dati i limiti dei trasporti su strada. Le trasformazioni provocate dalla rivoluzione industriale sono immediatamente percepibili. Meno evidenti, ma altrettanto importanti sono altre trasformazioni, che si possono sintetizzare nello sviluppo dello Stato e delle sue strutture. Facciamo ancora riferimento ai problemi militari. Fu la Rivoluzione francese a introdurre il principio della coscrizione generale, ossia l'obbligo del servizio militare per tutti i cittadini; ma per tradurlo in pratica mancavano gli strumenti necessari, a cominciare dagli elenchi dei soggetti alla leva (erano le parrocchie che tenevano i registri delle nascite e dei morti) e dalla capacità di un controllo effettivo della popolazione. Lo Stato doveva in sostanza limitarsi a chiedere ai comuni di fornire annualmente un dato numero di reclute sulla base di criteri generali per arruolamenti ed esenzioni. Per arrivare alla piena utilizzazione delle risorse umane che fu propria della prima guerra mondiale occorrevano la creazione di un'anagrafe pubblica, lo sviluppo di una burocrazia militare in grado di gestire direttamente visite di leva ed esenzioni, nonché di corpi di polizia capaci di un controllo capillare dei cittadini e della ricerca efficace di renitenti e disertori. Occorreva anche un'evoluzione della cultura di massa, tale che il servizio militare non fosse più sentito come un'imposizione arbitraria del sovrano per fini estranei o incomprensibili alla popolazione, bensì come un dovere verso lo Stato, gravoso, ma socialmente accettato (malgrado la diffusione dell'antimilitarismo popolare) e comunque obbligato, non fosse altro che per il costo di un rifiuto. 52

Tutto ciò richiedeva uno sviluppo complessivo del ruolo dello Stato e dei suoi apparati, che (con ritmi e caratteristiche variabili a seconda dei paesi) conobbero un incremento crescente, destinato a protrarsi nel Novecento. Ci limitiamo ad alcuni esempi, come l'intervento nel settore sanitario con le vaccinazioni di massa, le condotte mediche, una prima normativa igienica; poi la legislazione sociale e i primi controlli sull'industria, o ancora la diffusione della scuola elementare e poi di quella tecnica. Su un altro versante, continuò a crescere la partecipazione dello Stato e degli enti locali all'economia e alla vita dei paesi con la creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo, l'introduzione di un sistema fiscale articolato, la regolamentazione del commercio, dell'urbanistica, dell'istruzione universitaria. Insieme cresceva la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica attraverso partiti e sindacati, parlamenti e amministrazioni locali, associazioni politiche, culturali e assistenziali. La mobilitazione delle energie nazionali per la guerra, che si verificò in proporzioni mai viste per sostenere sacrifici e perdite incalcolabili, fu dunque possibile perché gli stati avevano assunto compiti sempre più vasti e creato le necessarie strutture amministrative. Durante il conflitto il ruolo degli stati crebbe a dismisura; la situazione di emergenza e la necessità di fornire agli eserciti uomini e mezzi in quantità sempre maggiore portarono dovunque a concedere ai governi e alle strutture statali poteri crescenti e quasi dittatoriali. Con differenze minori tra i paesi, i parlamenti vennero largamente esautorati, la democrazia interna drasticamente ridotta, i diritti politici dei cittadini sospesi di fatto. Tutti i belligeranti sottoposero le opposizioni costituite e le forme spontanee di dissenso e protesta a un duro regime poliziesco ed esercitarono un forte controllo sugli strumenti di informazione e propaganda. Il grado di partecipazione della cultura liberale alla guerra si misura anche dal fatto che l'instaurazione di questi regimi dittatoriali avvenne con un 53

consenso diffuso, perché era avvertita come necessaria per la vittoria. Un'altra grande trasformazione si può indicare in sintesi come "nazionalizzazione delle masse". Era naturale che la classe dirigente si identificasse in stati che aveva voluto e creato e facesse del patriottismo la sua bandiera; e che riuscisse a influenzare in questo senso la piccola borghesia. Il problema era l'estraneità allo Stato dei contadini, quasi dovunque la maggioranza della popolazione, e l'opposizione del proletariato organizzato. Qui il discorso si complica, perché le differenze nazionali sono rilevanti (in Italia le campagne meridionali così come la pianura padana erano fonte di instabilità, mentre negli altri stati le masse contadine erano generalmente inquadrate e obbedienti) e gli studi offrono un notevole divario di interpretazioni e valutazioni. Possiamo quindi soltanto indicare le linee di tendenza di uno sviluppo assai articolato e non privo di contraddizioni, di cui misuriamo soprattutto gli esiti, ossia l'obbedienza e la capacità di sacrificio di cui diedero prova in guerra i soldati di tutti gli eserciti. Alla base del consenso dei contadini stava una radicata educazione all'obbedienza e al dovere, rafforzata dall'opera delle Chiese, che si traduceva in una accettazione rassegnata di ciò che non si poteva controllare, come la valanga e la grandine, l'emigrazione e la guerra. Valori nazionali penetravano nel mondo contadino in primo luogo attraverso la scuola elementare e il servizio militare obbligatorio, veicoli entrambi di un patriottismo che si aggiungeva senza contraddizioni ai valori tradizionali, con vicende appunto diverse e difficili da misurare: la campagna francese è spesso vivacemente patriottica, quella tedesca è più inquadrata e subordinata, quella italiana assai disomogenea. Il movimento socialista sviluppa invece un'aggressiva contestazione della cultura dominante, con una denuncia del ruolo di classe degli eserciti e la contrapposizione di un internazionalismo proletario; i congressi dell'Internazionale socialista comprendono di regola la richiesta di un forte impegno contro i conflitti tra 54

stati, fino alla minaccia di uno sciopero generale internazionale in caso di guerra. Con il consolidamento delle organizzazioni socialiste e il miglioramento delle condizioni di vita degli operai (quindi con ritmi diversi da paese a paese) si manifesta anche una loro progressiva integrazione nello stato liberale, un'accettazione delle regole della vita politica (quando non sono più indirizzate contro scioperi e lotte sindacali) e della democrazia borghese. Antimilitarismo e internazionalismo diventano temi di bandiera più che obiettivi prioritari e il patriottismo (mai rinnegato) viene man mano vissuto in una prospettiva nazionale. La realtà è più complessa di questo schema generale, l'integrazione del movimento socialista si svolge in tempi e modi diversi (con maggiori difficoltà in un'Italia più povera e arretrata) e trova opposizione in minoranze agguerrite. Ancora una volta possiamo misurarne soprattutto l'esito, ossia l'accettazione nel 1914 della guerra nazionale "difensivà da parte dei maggiori partiti socialisti europei. La nazionalizzazione delle masse operaie e contadine troverà compimento durante il conflitto, sotto la pressione di circostanze eccezionali. Il suo sviluppo fino al 1914 è uno degli elementi di una trasformazione complessiva dell'Europa che, torniamo a ripetere, non porta necessariamente alla guerra mondiale, ma è premessa necessaria perché questa guerra possa nascere e raggiungere dimensioni e intensità straordinarie. - "La guerra come frattura nella storia europea". Nell'estate 1914 tutti i belligeranti dichiararono di essere costretti a scendere in campo perché minacciati e aggrediti; e la guerra fu presentata e sentita come difensiva da entrambe le parti. La propaganda bellica insisté su questo tema: la colpa del conflitto era tutta del nemico, debitamente demonizzato come barbaro e traditore. Nel 1919, al momento della firma del trattato di pace di Versailles, i vincitori obbligarono la Germania sconfitta a 55

riconoscere di avere voluto e provocato la guerra, di cui perciò doveva pagare tutte le spese. Il verdetto dei vincitori non poteva logicamente risolvere la questione: nei vent'anni seguenti infuriò un aspro dibattito sulle responsabilità del conflitto e la ricerca storica si diede, con evidenti obiettivi e condizionamenti politici, alla ricostruzione dettagliata, ora per ora, delle intenzioni e delle mosse dei governi e degli stati maggiori nei giorni delle dichiarazioni di guerra, assolvendoli o condannandoli di volta in volta. Con il distacco dei decenni intercorsi possiamo dire che queste ricostruzioni minute hanno un'importanza relativa, perché la responsabilità del conflitto non si può addossare a un solo stato (e tanto meno a uno statista più che agli altri). Germania e Austria-Ungheria tennero certamente un contegno più aggressivo nell'estate 1914, ma la corsa verso la guerra era un atteggiamento comune a tutte le maggiori potenze, ognuna delle quali era stata protagonista di una serie di provocazioni negli anni precedenti. La prima guerra mondiale fu una guerra per l'egemonia in Europa. Anche a costo di un conflitto, la Gran Bretagna e i suoi alleati intendevano difendere le posizioni acquisite contro l'aggressiva espansione tedesca e la Germania affermare la sua superiorità e assicurarsi gli spazi per un'ulteriore crescita. Decidere chi avesse ragione, le potenze affermate nel sostenere con le armi un vantaggio che avevano cominciato a perdere sul piano economico, oppure la potenza emergente che non accettava limiti al suo sviluppo, è un problema che non intendiamo risolvere. Tutte le nazioni in lotta si muovevano nella stessa logica di potenza, piegando i valori della civiltà liberale ai loro interessi e alle loro ambizioni: quindi vanno collocate tutte sullo stesso piano. Se proprio si vuole stilare una graduatoria, le responsabilità vanno ripartite a seconda del peso dei singoli stati, attribuendone una parte maggiore alle grandi potenze (e quindi in primo luogo a Germania e Inghilterra) rispetto a quelle medie e piccole, la cui aggressività non era in grado di scatenare un conflitto così grande. 56

Il ragionamento può anche essere rovesciato: la rivalità anglotedesca non avrebbe determinato un conflitto tanto vasto, se alla corsa alla guerra non avesse partecipato una serie di altri stati. La Francia sognava la rivincita contro la Germania che nel 1870-1871 le aveva tolto l'Alsazia e la Lorena e il primato sul continente, ma, ormai troppo inferiore rispetto alla rivale, doveva ricercare alleati come la Russia (patti militari del 1893) e la Gran Bretagna ("Entente cordiale", intesa del 1904). La Russia si sentiva minacciata dalle mire tedesche sulle grandi pianure orientali e a sua volta puntava al controllo dei Balcani e degli stretti turchi del Bosforo e dei Dardanelli, che la chiudevano nel Mar Nero; inoltre vedeva nella guerra un mezzo per superare le crescenti difficoltà interne. Anche l'Austria-Ungheria sperava che una guerra vittoriosa avrebbe rinsaldato la sua unità plurinazionale e permesso una sua ulteriore espansione nei Balcani, una regione su cui pure l'Italia nutriva confuse aspirazioni. La crisi dell'Impero turco aveva lasciato un vuoto di potere nella penisola balcanica, in cui si affrontavano le ambizioni delle grandi potenze e quelle degli stati nazionali di recente costituzione, divisi da aspre rivalità e con frontiere ancora da definire. Fuori d'Europa bisogna ricordare la vicina Turchia, che dalla difesa di un impero in disfacimento passa all'affermazione di uno stato nazionale, e il lontano Giappone, che si limitò a impadronirsi dei possedimenti tedeschi tra Cina e Pacifico. E naturalmente gli imperi coloniali delle potenze europee, particolarmente quello britannico, che garantì alla madrepatria un flusso costante di rifornimenti e anche di truppe. Molti stati europei si dichiararono neutrali: Belgio e Lussemburgo furono ciononostante invasi dalle truppe tedesche, mentre Olanda, Svizzera, i paesi scandinavi, Spagna e Grecia riuscirono a restare fuori del conflitto, in cui invece entrarono in tempi diversi Italia, Bulgaria e Romania. 57

Come abbiamo detto, fu una guerra tra patrie, una dimensione che accomunava gli stati industrializzati e quelli più poveri e arretrati. In Austria-Ungheria però patria e nazione non per tutti coincidevano; e anche altri stati avevano al loro interno minoranze di altre nazionalità. Il caso più evidente era la Polonia, cancellata come stato alla fine del Settecento e divisa tra Russia, Germania e AustriaUngheria; ma bisogna anche ricordare cechi, slovacchi, finlandesi, sloveni, croati, bosniaci, nonché le regioni di frontiera sottratte ai vicini stati nazionali, come l'Alsazia e la Lorena, Trieste e il Trentino e non pochi territori balcanici. La forza degli stati moderni era tale che nel 1914 le minoranze nazionali marciarono inquadrate negli eserciti dei rispettivi stati. Le crepe e poi le fratture nazionali sarebbero emerse nel prosieguo del conflitto. Scoppiata per l'egemonia in Europa, affrontata da stati nazionali simili per strutture politiche ed economiche e per l'adesione ai valori liberali, la prima guerra mondiale si presentava come un evento interno alla crescita dell'Europa, che avrebbe dovuto ridefinire le gerarchie nazionali senza però arrestarne la marcia verso il progresso e il dominio mondiale. E invece il conflitto assunse sin dalle prime battute un'intensità che comportava lacerazioni irreversibili dei rapporti preesistenti e, subito dopo, una dimensione totale e un carattere di logoramento e di distruzione di risorse che non potevano non minare alle basi la crescita e il ruolo stesso dell'Europa. Lungi dal rimanere un fatto interno allo sviluppo europeo, la prima guerra mondiale divenne una frattura epocale a tutti i livelli. Le serene certezze della civiltà liberale naufragarono nell'orrore delle trincee. E le democrazie parlamentari di Francia e Inghilterra, emerse vittoriose e dominanti dal conflitto, dovettero subire l'assalto dei partiti e regimi nazifascisti e comunisti, che da opposti versanti negavano radicalmente quella civiltà, mentre gli equilibri raggiunti nel 1919 venivano messi in discussione dalla riscossa tedesca, dall'avvento dell'Unione Sovietica e infine dalla 58

nuova egemonia degli Stati Uniti e dalla crisi degli imperi coloniali. «Guerra dei trent'anni»: con questa definizione una corrente di pensiero storico- politico intende evidenziare la sostanziale continuità della storia europea sotto il segno della competizione per l'egemonia tra stati nazionali attraverso due guerre mondiali e vent'anni di pace. Questa interpretazione ha il pregio di sottolineare la precarietà dell'assetto europeo definito nel 1919: la politica anglofrancese di ridimensionamento della Germania (attraverso una serie di limitazioni di sovranità e pesantissime riparazioni di guerra) e di "cancellazione" della Russia comunista (isolata con un "cordone sanitario" che bloccava traffici e rapporti internazionali e accerchiata da una corona di stati ostili) si sarebbe rivelata efficace soltanto sul breve periodo e attestava la difficoltà che Francia e Inghilterra incontravano nell'esercitare una duratura egemonia, che fosse garanzia di stabilità. Il concetto di «guerra dei trent'anni» implica inoltre una giusta sottolineatura della continuità della dimensione nazionale e dei suoi valori dalla prima alla seconda guerra mondiale: la patria rimane nell'uno e nell'altro conflitto un elemento fondante di identificazione per gli stati e i combattenti. E la continuità delle ambizioni espansionistiche passa attraverso antiche democrazie e nuovi regimi totalitari, come dimostrano le mire di Hitler sulle pianure dell'Europa orientale, le preoccupazioni di Stalin per la sicurezza dei confini occidentali russi e per il controllo dei Balcani, la politica imperiale di Churchill. Riteniamo tuttavia che il concetto di «guerra dei trent'anni», pur stimolante, sia da respingere come interpretazione complessiva per più ragioni. La prima è il suo carattere eurocentrico: si può considerare la prima guerra mondiale come un conflitto essenzialmente europeo, anche se il contributo degli imperi coloniali e soprattutto degli Stati Uniti non fu secondario. La seconda guerra mondiale è però davvero mondiale, non soltanto perché combattuta nel Pacifico, in Asia, in Africa, con la 59

partecipazione del Giappone, della Cina e di altri paesi, ma perché ebbe come posta l'egemonia non solo a livello europeo ma appunto mondiale. Un'ulteriore ragione è che la seconda guerra mondiale ebbe carattere più complesso: guerra tra stati nazionali, ma anche tra regimi quanto mai diversi come ideologia, strutture politiche e organizzazione economica. Per fare un solo esempio, l'impero tedesco del 1914 e il Terzo Reich di Hitler sono comparabili come ambizioni di potenza, ma non certo come civiltà; la politica nazista di terrore e genocidio, con metodi industriali e dimensioni di massa, rappresenta un tragico salto di qualità rispetto alla guerra del 1914-1918. Inoltre la seconda guerra mondiale non fu condotta soltanto tra stati, ma conobbe pure lo sviluppo di conflitti civili, di classe e di liberazione nazionale, di dimensioni e conseguenze tutt'altro che trascurabili. Infine, ridurre la prima guerra mondiale a prima fase della guerra dei trent'anni porta a sottovalutare la sua natura di rottura epocale. All'inizio del Novecento l'Europa era in crescita sotto ogni profilo, dall'economia alle scienze, dalla democrazia interna allo sviluppo civile, dalla cultura alle condizioni di vita. Questa straordinaria ricchezza di energie fu bruscamente distorta dalle esigenze di una guerra mortale e fratricida, condotta in nome dei più alti valori della civiltà liberale. Una svolta disastrosa per il ruolo dell'Europa, che uscì dal conflitto logorata e diminuita, e ancor più per la grande civiltà liberale, che alle prospettive di progresso preferì le trincee di Verdun e del Carso. * LA CORSA VERSO LA GUERRA. - "La pace armata". Dopo la guerra franco- prussiana del 1870-1871 l'Europa conobbe un mezzo secolo di pace quasi assoluta, salvo conflitti limitati nei Balcani e fuori del continente. Era però 60

una pace armata: tutti gli stati europei continuarono a spendere per le loro forze di terra e di mare somme ingenti, motivate con la necessità di tener testa alla crescita delle forze degli altri stati. Gli eserciti, che nel periodo precedente avevano dato la priorità alla difesa dell'ordine interno, furono sempre più orientati alla prospettiva di una guerra europea, con incrementi ripetuti di uomini, cavalli e cannoni. In ogni paese il dibattito sull'entità delle spese militari e sull'organizzazione delle forze armate fu ripreso più volte con intensità e asprezza, con schieramenti che non si possono ricondurre schematicamente alla contrapposizione tra destra e sinistra liberale e democratica (in Italia l'esercito ebbe i bilanci più bassi negli anni di fine secolo, sotto i governi autoritari di Francesco Crispi, Antonio Di Rudinì e Luigi Pelloux, mentre tali bilanci conobbero gli incrementi più forti sotto uomini della sinistra liberale come Agostino Depretis e poi Giovanni Giolitti). Tale dibattito si concluse quasi sempre con la concessione degli stanziamenti richiesti dai militari, perché tutte le forze politiche (tranne i socialisti) erano sensibili all'appello di garantire una difesa nazionale più efficace. Sarebbe una forzatura presentare questo mezzo secolo come dominato dalla corsa alla guerra, che divenne una minaccia incombente soltanto negli anni immediatamente precedenti il 1914. L'intensificarsi dei sentimenti nazionali contrapposti e lo sviluppo delle rivalità di potenza si tradussero, a lungo, soprattutto in una richiesta di sicurezza. I continui incrementi degli apparati militari potevano tuttavia garantire pace e sicurezza sul breve periodo, ma diventavano a loro volta un fattore di rivalità e insicurezza, rilanciando la competizione tra stati. Con l'inizio del Novecento governi, stati maggiori e opinione pubblica furono presi in una spirale incalzante: il deteriorarsi degli equilibri europei era fronteggiato con l'aumento delle spese militari, che aggravava la crisi dei rapporti internazionali e le spinte aggressive, e quindi richiedeva ulteriori incrementi di eserciti e flotte da guerra. 61

Al trionfale sviluppo della civiltà liberale e dell'economia industriale nel corso del mezzo secolo si accompagnò perciò quello delle forze armate; e la richiesta crescente di sicurezza si tradusse in un fattore di competizione che generava nuove insicurezze e paure. Non era scritto che tutto ciò dovesse portare automaticamente alla conflagrazione europea, ma certo ne fu una delle cause principali.

- "Gli eserciti europei". Nel 1914 gli eserciti delle potenze europee erano simili per strutture e armamenti, perché avevano tutti assunto come modello, pur con adattamenti, quello prussiano affermatosi con le vittorie del 1866 e del 1870. Faceva eccezione l'esercito britannico, di cui diremo dopo. Alla base vi era la coscrizione obbligatoria, ossia l'obbligo di prestare servizio militare per tutti i maschi riconosciuti fisicamente idonei alla visita di leva. L'esonero a pagamento, che aveva contraddistinto il periodo precedente, era stato soppresso dovunque; soltanto per gli ufficiali di complemento restava il vantaggio di una ferma più breve. Chiamare alle armi tutti gli uomini disponibili avrebbe però comportato una spesa troppo alta; una parte del contingente di leva era quindi esentata dal servizio per il tempo di pace secondo criteri oggettivi, essenzialmente le condizioni di famiglia (venivano esonerati il primogenito di madre vedova, il secondo o terzo fratello nelle famiglie numerose, talora i figli unici, eccetera) e più raramente di "status" (il clero, non però dovunque: ad esempio in Italia l'esenzione era stata ritirata a seguito della guerra mossa dalla Chiesa romana allo Stato unitario). Ovviamente la percentuale degli arruolati variava a seconda dei paesi e dei momenti: nel primo Novecento la Francia, per poter disporre di una forza alle armi non troppo inferiore a quella 62

della più popolosa Germania, eliminò ogni forma di esonero sin dal tempo di pace. In Italia gli esentati per ragioni di famiglia erano assegnati alla terza categoria; un sorteggio pubblico ripartiva gli altri tra la seconda, (che doveva trattenersi per un massimo di sei mesi sotto le armi, ma finiva quasi sempre col restare a casa per mancanza di fondi), e la prima categoria, che compiva la ferma regolare (e con gli anni passò da 60000 a 150 mila uomini circa, grazie all'aumento dei bilanci e delle nascite e alla riduzione della ferma). La ferma (il servizio in tempo di pace) andava da due a tre anni a seconda dei paesi (tre anni in Italia, poi due anni poco prima del conflitto), generalmente con un anno in più per le armi a cavallo (a causa dell'addestramento più lungo e costoso) e per la marina. La ferma di due- tre anni era considerata breve, sebbene sufficiente per l'addestramento militare: governi e stati maggiori avrebbero preferito la ferma di cinque-sei anni del periodo precedente, che meglio garantiva l'educazione dei soldati all'obbedienza e alla lealtà verso l'istituzione, però consentiva di chiamare alle armi un numero inferiore di uomini. Terminata la ferma, il soldato poteva essere richiamato per brevi periodi di addestramento (o per emergenze, come una crisi dell'ordine pubblico) e poi per completare l'esercito in caso di mobilitazione generale per guerra. Chiariamo il sistema con un esempio. In Italia un reggimento di fanteria disponeva di una forza media di pace di circa 1000 uomini (di meno in inverno con due sole classi alle armi, di più in estate con tre classi), più una sessantina di ufficiali di carriera. Per raggiungere la forza di guerra di 3000 uomini era indispensabile la mobilitazione generale, che permetteva di completare il reggimento con le classi più giovani di riservisti (gli uomini congedati dopo la ferma costituivano appunto la riserva). Le unità di pace e i servizi necessari per i loro rifornimenti avevano una forza sufficiente per l'addestramento e i compiti normali di presidio, di tutela dell'ordine pubblico e di intervento in caso di calamità naturali; ma non erano in grado di 63

affrontare una guerra senza l'afflusso dei riservisti, permesso soltanto dalla mobilitazione generale. L'esercito italiano, che contava allora una forza di pace di circa 250 mila uomini (aumentata per l'occasione con il richiamo di una classe) per riuscire a inviarne 100 mila in Libia nel 1911-1913 dovette sconvolgere tutta la sua organizzazione. La mobilitazione generale comportava anche il richiamo delle classi meno giovani di riservisti e poi la chiamata di coloro che erano stati esonerati dalla ferma (e di chi fruiva del rinvio del servizio per motivi di studio). Questi uomini erano destinati alla formazione di nuove unità di rincalzo (dette, in Italia, di milizia mobile), il cui approntamento avrebbe però richiesto non pochi mesi (soltanto in Germania le unità della Landwehr avevano già un'organizzazione tale da permettere loro di entrare in campo insieme a quelle dell'esercito permanente). Le classi più anziane dovevano costituire reparti detti di milizia territoriale, con compiti di presidio interno e solo eccezionalmente di combattimento. Gli eserciti europei presentavano nel 1914 strutture simili: i reggimenti di fanteria mobilitati avevano dovunque circa 3000 uomini (divisi in tre battaglioni e dodici compagnie), e 16-18000 le divisioni, dette quaternarie perché contavano 4 reggimenti di fanteria (riuniti in 2 brigate), più un reggimento di artiglieria leggera (da campagna) e reparti del genio e dei servizi (sanità e rifornimenti). La differenza più sensibile riguardava l'artiglieria: le divisioni tedesche erano meglio provviste di quelle francesi e queste di quelle italiane. Oltre alle divisioni si contavano poi un numero variabile di unità di fanteria scelta o specializzata (come i bersaglieri e gli alpini italiani), di cavalleria e di artiglieria media, poi parchi d'assedio di artiglieria pesante poco mobile, reparti delle varie specialità del genio (zappatori, telegrafisti, ferrovieri, pontieri, minatori) e naturalmente il gran numero di unità dei servizi necessarie per il rifornimento delle truppe, soprattutto carri e cavalli (gli automezzi cresceranno con la guerra) per il trasporto dalle ferrovie ai campi di battaglia. 64

Tutti gli eserciti contavano su un corpo di ufficiali di carriera formati nelle apposite scuole, con avanzamenti per anzianità e merito, sovrabbondanti in pace perché proporzionati alle esigenze della mobilitazione. Era una corporazione chiusa (per usare un termine sociologico), che ostentava generalmente distacco se non disprezzo verso la classe politica, anche se di reclutamento ormai prevalentemente borghese. Godevano dovunque di un prestigio assai minore gli ufficiali di complemento, che prestavano un servizio di leva abbreviato, e i sottufficiali, arruolati con una ferma volontaria di almeno cinque anni, rinnovabile. Soltanto la guerra ne avrebbe riconosciuto l'importanza. La forza degli eserciti si misurava tradizionalmente sul numero di divisioni di fanteria permanenti e sugli uomini alle armi in tempo di pace. La Germania nel 1914 contava 50 divisioni e 850 mila uomini (più 31 divisioni di Landwehr di mobilitazione immediata). L'Austria-Ungheria 48 divisioni e 475 mila uomini. La Francia 47 divisioni e 800 mila uomini (più 25 divisioni di riserva semipronte). L'Italia 25 divisioni e 250 mila uomini. E' più difficile fornire cifre attendibili per la Russia: l'esercito contava 70 divisioni (più 24 di cavalleria) e poco meno di un milione di uomini, con altre decine di divisioni da approntare in tempi diversi. Si tenga comunque presente che queste cifre sono orientative, perché la forza degli eserciti poteva variare secondo le stagioni (era dovunque maggiore in estate), i bilanci annuali e i programmi di sviluppo. Faceva eccezione l'esercito britannico, l'unico che avesse rifiutato la coscrizione obbligatoria e continuasse a contare su truppe composte da volontari a lunga ferma. Le ragioni sono evidenti: da una parte per difendere l'Inghilterra non erano necessarie le grandi masse che soltanto la leva obbligatoria poteva dare, perché il suo schiacciante predominio navale escludeva ogni possibilità di invasione. Secondo una tradizione secolare, il concorso britannico alla guerra europea avrebbe dovuto limitarsi a un corpo di spedizione di ridotte dimensioni e trovare invece efficacia 65

in campo navale ed economico. Dall'altra, il compito principale dell'esercito inglese era la difesa di un potere imperiale che si estendeva su tutti i continenti: per fronteggiare guerre, guerriglie e occupazioni in territori così lontani erano necessari professionisti a lunga ferma, il cui reclutamento era garantito da un decisivo miglioramento delle loro condizioni di vita e di carriera. Ne conseguiva che nell'agosto 1914 sbarcarono in Francia 5 divisioni inglesi, in tutto 160 mila uomini bene addestrati, pochi dinanzi ai milioni di soldati messi in campo da francesi e tedeschi. -----------------------------------------------------------Tabella 1. Spese militari nel 1910 (in franchi- oro). [B] bilanci militari (milioni) - [P] popolazione (milioni) - [S] spese militari per abitante. Russia: B 1370 - P 150 - S 9,1 Germania: B 1011 - P 64,6 - S 15,6 Francia: B 872 - P 39,5 - S 22,1 Stati Uniti: B 844 - P 92 - S 9,1 Gran Bretagna: B 681 - P 48 - S 14,2 Austria-Ungheria: B 559 - P 52,6 - S 10,6 Italia: B 364 - P 34,4 - S 10,6 Giappone: B 219 - P 50,5 - S 4,3 La comparazione delle spese militari è sempre complessa, per la diversa impostazione dei bilanci nazionali e il diverso costo di molte voci (ad esempio un soldato di mestiere costa più di uno di leva). Alcune cifre della tabella sono discutibili, la popolazione della Russia e dell'Italia è sottostimata. Queste cifre, che comprendono anche le spese per la marina, hanno quindi un valore orientativo (40). ------------------------------------------------------------ "Lo sviluppo degli armamenti.

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All'inizio dell'Ottocento la fanteria era armata di lunghi fucili ad avancarica, con accensione a pietra focaia, un tiro utile inferiore ai cento metri e la possibilità di un massimo di tre colpi al minuto. L'artiglieria sparava palle piene fino a mille metri, con una cadenza di tiro rallentata dalla necessità di rimettere in posizione i cannoni dopo ogni colpo perché il rinculo li faceva balzare indietro. La bassa velocità iniziale di palle e pallottole ne limitava la precisione e la polvere da sparo provocava nuvole di fumo e residui nelle canne. Le perdite in una giornata di battaglia campale potevano arrivare a un terzo degli uomini impegnati; le strutture sanitarie erano rudimentali e i feriti destinati in buona parte a morire prima delle cure o per gli effetti della cancrena. Erano ancora più gravi le perdite per malattia, dovute agli strapazzi delle lunghe marce, alle notti all'addiaccio, alla mancanza di igiene che favoriva le epidemie. Le guerre napoleoniche di grandi movimenti e grandi battaglie avevano costi umani altissimi, anche se la forza degli eserciti era limitata dalla difficoltà dei rifornimenti basati sui carriaggi. Nella prima metà dell'Ottocento i cambiamenti furono scarsi. Poi la rivoluzione industriale arrivò anche per gli eserciti. Nella guerra civile nordamericana e in quella franco- prussiana del 1870 la fanteria era già in grado di sviluppare un volume di fuoco tale da provocare grosse perdite agli attaccanti. Poi il progresso tecnologico conobbe un'accelerazione crescente. Ci limitiamo a sintetizzarne gli esiti al momento dello scoppio della guerra mondiale, con una precisazione importante: nel 1914 tutti gli eserciti delle potenze europee erano allo stesso livello tecnologico, ossia i loro fucili e cannoni avevano le stesse caratteristiche e prestazioni, con differenze minime. Abbiamo già rilevato come fossero simili le strutture degli eserciti, dal reclutamento alla composizione delle divisioni; erano simili anche armamenti ed equipaggiamenti, dai cannoni ai telefoni, dai fucili alle gavette. C'erano naturalmente differenze a livello quantitativo o di scelte di priorità; per esempio le divisioni tedesche avevano in dotazione cannoni 67

da 77 e obici da 105, quelle francesi soltanto cannoni da 75 (41), ma ciò era dovuto a una differente valutazione dei compiti dell'artiglieria, non a problemi di produzione. Nel 1939 gli eserciti saranno diversi per organizzazione e armamenti, ma nel 1914 si affrontavano senza sorprese né grosse differenze. Possiamo anticipare una seconda osservazione: lo sviluppo tecnologico nel corso della prima guerra mondiale riguardò settori relativamente secondari come l'aviazione, i gas, i carri armati, non però gli armamenti fondamentali: cannoni, fucili, mitragliatrici e munizioni del 1918 sono gli stessi del 1914, è straordinariamente aumentata la loro produzione, ma non sono cambiate qualità e prestazioni. Dalla fine dell'Ottocento la fanteria ha in dotazione fucili a retrocarica e canna rigata, a ripetizione manuale (il soldato inserisce nell'arma un caricatore di 6 colpi, ma per far fuoco deve agire ogni volta su una leva). Questi fucili (il Lebel francese, il Mauser tedesco, il 91 italiano) sparano fino a 3000 metri pallottole piccole, ma con una notevole velocità iniziale e forza d'impatto, con una cadenza fino a 20 colpi al minuto. Particolare importante, i soldati possono azionarli stando sdraiati a terra. Tutti gli esperti concordano sul fatto che la fanteria è ormai in grado di sviluppare un fuoco così intenso da stroncare ogni assalto della fanteria nemica o della cavalleria. Perché un attacco abbia successo, bisogna accompagnarlo con il fuoco dell'artiglieria da campagna, abbastanza mobile da poter intervenire su qualsiasi terreno pianeggiante. Lo sviluppo dell'artiglieria nella seconda metà dell'Ottocento fu travolgente. I cannoni divennero a retrocarica, in acciaio, con canna rigata (la rotazione del proietto migliorava gittata e precisione) e polveri senza fumo e assai più efficaci per il lancio. I proietti (il linguaggio tecnico distingue i proiettili delle armi portatili e i proietti dell'artiglieria) contenevano una carica esplosiva, che per le granate scoppiava all'impatto col terreno con una mortale rosa di schegge e per gli shrapnel (granate a tempo) quando passavano sopra le truppe nemiche per meglio offenderle. 68

Alla fine del secolo furono inventati gli affusti a deformazione: il rinculo agiva soltanto sulla bocca da fuoco, che a ogni colpo retrocedeva sull'affusto per tornare automaticamente in posizione grazie a un sistema di molle e freni idraulici, mentre il pezzo restava fermo sul terreno. Il tiro diventava così molto più preciso e rapido (fino a 20 colpi al minuto per il cannone francese da 75) perché non era più necessario riportare ogni volta in posizione il cannone. Al di là dei dettagli tecnici, il fuoco dell'artiglieria era migliorato in precisione, ritmo, gittata (circa 7 chilometri per i cannoni leggeri, fino a 20-30 chilometri per quelli pesanti) ed effetti distruttivi, senza perdere molto in mobilità: i pezzi dell'artiglieria leggera, trainati da tre pariglie di cavalli, potevano seguire da presso la fanteria (non così i pezzi medi e ancor meno quelli pesanti, nel cui traino i trattori stavano sostituendo i buoi). Secondo la dottrina militare del tempo, ciò avrebbe consentito una guerra di movimento come ai tempi napoleonici, alimentata fin dove possibile dalle ferrovie, poi condotta da colonne di uomini a piedi con artiglieria e rifornimenti ippotrainati. Alla luce delle esperienze della prima guerra mondiale, possiamo dire che questa dottrina militare si basava su una sorta di autoinganno, perché sottovalutava le conseguenze dello sviluppo tecnologico per non dover rinunciare alla prospettiva di una guerra di movimento. La nuova efficacia del fuoco d'artiglieria era infatti vista soltanto come sostegno agli attacchi della fanteria, senza pensare che avrebbe avuto un effetto ancora maggiore in appoggio alla difesa, opponendo un muro invalicabile alla fanteria attaccante allo scoperto. E' poi significativa la generale sottovalutazione della mitragliatrice, un'arma nota da decenni e perfezionata nei primi anni del secolo, capace di sparare centinaia di colpi al minuto con grande precisione (il soldato tende a far fuoco senza mirare, mentre la mitragliatrice può essere bloccata in modo da poter ruotare soltanto sul piano orizzontale, con un tiro falciante ad altezza d'uomo). L'impiego di quest'arma complicava però 69

le previsioni del combattimento, perché era troppo pesante per poter essere spostata dalla fanteria (con il treppiede pesava intorno ai 50 chili e più o meno lo stesso le cassette di munizioni necessarie per un fuoco continuato); valeva soprattutto nella difesa statica e quindi non sembrava di grande utilità, tanto che nel 1914 ce n'erano generalmente da due a sei per ogni reggimento di fanteria. La fiducia nell'offensiva a oltranza, in campo sia tattico sia strategico, costituiva la base della dottrina prebellica di tutti gli eserciti, anche contro l'evidenza del rafforzamento che la difensiva traeva dall'aumento della potenza di fuoco. Il caso più clamoroso era quello francese: nei primi anni del Novecento l'offensiva a qualsiasi costo divenne un dogma che ispirava anche il piano di guerra, basato su un attacco in massa sul fronte del Reno attraverso le fortificazioni tedesche: lo slancio delle truppe, sostenute dall'eccellente cannone da 75, avrebbe superato ogni ostacolo senza badare alle perdite. Una dottrina che esaltava le forze morali e la volontà di vittoria contro il positivismo troppo attento ai valori quantitativi e materiali (i militari francesi richiamavano esplicitamente lo spiritualismo di Henri Bergson), giungendo fino a difendere i tradizionali calzoni rossi della fanteria francese come simbolo di aggressività e di superiorità morale contro chi chiedeva una tenuta meno appariscente sul campo di battaglia. I tedeschi erano più attenti allo sviluppo degli armamenti (disponevano di un'artiglieria mobile più potente e davano più importanza alle mitragliatrici), ma ugualmente convinti sostenitori della necessità dell'offensiva e del movimento. Il piano Schlieffen, messo a punto per la guerra contro la Francia, mirava a cogliere alle spalle lo schieramento nemico con una manovra aggirante a largo raggio attraverso il Belgio, sulle cui motivazioni e conseguenze ritorneremo. Qui ci interessa segnalare le difficoltà tecniche della manovra. Cinque armate tedesche, ognuna di centinaia di migliaia di uomini, dovevano avanzare a piedi per una ventina di giorni alimentate da lunghe colonne di carri. Ciò comportava una notevole rigidità di mosse; al 70

momento della battaglia decisiva sulla Marna i tedeschi non erano più in grado di manovrare le loro divisioni, dipendenti da un sistema di rifornimenti legato alle strade e ormai ai limiti del collasso per le lunghe distanze percorse, tanto che la scarsezza di munizioni impedì loro di far valere la superiorità dell'artiglieria. Tra la straordinaria efficienza della rete ferroviaria e gli enormi bisogni delle masse di combattenti c'era un anello debole, i trasporti con carri e cavalli. La guerra statica di trincea sarà dovuta alla forza della difensiva, ma anche alla discontinuità dei progressi tecnologici; la guerra di movimento tornerà a essere possibile con la motorizzazione su larga scala del 1939. - "Le flotte". La rivoluzione industriale cambiò volto anche alla guerra sui mari. Intorno alla metà dell'Ottocento gli scafi di legno furono sostituiti da quelli di ferro e le vele dalle caldaie a vapore (che cinquant'anni più tardi passeranno dal carbone alla nafta), con un rapido aumento delle dimensioni delle navi. Poi lo sviluppo delle artiglierie portò un'altra trasformazione radicale: il combattimento ravvicinato tra navi affiancate divenne impensabile dinanzi alla potenza e alla portata dei nuovi cannoni e agli effetti devastanti delle loro granate. Le battaglie navali dovevano ormai svolgersi a distanze crescenti, fino a 20 chilometri; e le navi maggiori si coprivano di corazze. Il quadro fu complicato dall'invenzione delle mine subacquee e poi dei siluri che rilanciarono il ruolo delle navi minori, le torpediniere nate per attaccare le grandi navi col siluro e i cacciatorpediniere per difenderle. Per ultimo apparve il sommergibile, la cui importanza però fu colta soltanto durante il conflitto. Le flotte da guerra divennero quindi sempre più grandi, complesse e costose; ma per un secolo intero non ebbero praticamente occasione di affrontarsi (una delle poche eccezioni è la battaglia di Lissa del 1866). Il fatto centrale rimase lo schiacciante predominio britannico: la flotta inglese poteva proporsi e superare il "two powers 71

standard", ossia una forza che le consentisse di fronteggiare contemporaneamente la seconda e la terza potenza navale. Nel 1897 i sessant'anni di regno della regina Vittoria furono celebrati con la più grande parata navale della storia, 165 navi da guerra moderne che componevano la flotta stanziata nelle acque britanniche, senza toccare le forze navali dislocate nelle colonie. Negli anni seguenti la superiorità inglese fu accentuata dalla distruzione della flotta spagnola operata dagli statunitensi a Cuba nel 1898 e di quella russa nella guerra contro il Giappone del 1904-1905; e fu consolidata nel 1902 dall'alleanza con il Giappone e nel 1904 dall'accordo con la Francia, l'unica potenza che nei decenni precedenti avesse tentato di contrapporsi alla flotta britannica. Negli stessi anni si ebbe però lo sviluppo eccezionale di due marine fino a quel momento di dimensioni limitate. Le nuove ambizioni imperialistiche degli Stati Uniti portarono alla rapida creazione di una grande flotta da guerra, che nel corso della guerra mondiale avrebbe raggiunto la parità con quella inglese; era però orientata al dominio dell'America centrale e del Pacifico e quindi la sua crescita non influì sulle tensioni europee. Il discorso è diverso per quanto riguarda il riarmo navale tedesco. Dopo il 1871 la Germania possedeva una marina di medie dimensioni, adeguata al suo ruolo di potenza essenzialmente terrestre. Poi nel 1898 fu approvata una «legge navale» che programmava la creazione di una grande flotta con un preciso piano pluriennale di costruzioni di corazzate. L'obiettivo dell'ammiraglio Alfred von Tirpitz, il padre di questa grande flotta, non era di portarsi alla pari della Gran Bretagna, ma di limitarne il vantaggio con un solido deterrente navale che permettesse alla Germania di condurre una politica di potenza adeguata alla sua crescita in tutti i campi. Gli ingenti stanziamenti necessari furono resi possibili dalla concomitanza di due fattori, in primo luogo gli interessi della grande industria. Le spese per gli eserciti di terra andavano a vantaggio di questa industria soltanto in parte minore (essenzialmente 72

le artiglierie), perché gli acquisti per il mantenimento della forza alle armi, per le caserme e le fortificazioni favorivano settori meno moderni e non concentrati. La costruzione di navi da guerra era invece un colossale affare per l'industria metallurgica, cantieristica e meccanica, che la richiedeva e sosteneva con tutto il suo peso, in Germania come negli altri paesi. In secondo luogo il programma di una grande marina godeva di una straordinaria popolarità presso l'opinione pubblica tedesca grazie all'attività di numerose associazioni, tra cui ricordiamo i 270 "Flotten-Professoren", docenti universitari (tra cui i più bei nomi di tutte le facoltà) che si impegnavano direttamente nella propaganda navale. La nuova classe media vedeva nelle grandi corazzate, gioiello della scienza e della tecnica tedesca, la dimostrazione più evidente dei grandi progressi compiuti dal paese e del ruolo acquisito dinanzi al mondo. Nel 1906 i rapporti di forza in campo navale furono messi in crisi dal varo di una corazzata di nuovo tipo, l'inglese "Dreadnought", che d'un colpo fece apparire superate le precedenti navi da battaglia. La "Dreadnought" aveva 18000 tonnellate di dislocamento, 10 cannoni da 305, corazze sui fianchi fino a 280 millimetri e 21 nodi di velocità (poco meno di 40 chilometri all'ora), mentre i modelli precedenti (più o meno equivalenti in tutte le flotte) arrivavano a 14000 tonnellate, 4 cannoni da 305, corazze fino a 180 millimetri e 19 nodi. Naturalmente le flotte esistenti conservavano validità e possibilità di impiego; ma il ruolo decisivo passava alle corazzate di nuovo tipo, che tutte le marine si affrettarono a costruire sul modello della "Dreadnought", anzi con ulteriori miglioramenti (le corazzate inglesi entrate in servizio nel 1915 avevano 33000 tonnellate, 8 cannoni da 381, corazze fino a 330 millimetri e 25 nodi). Era un'occasione unica per la Germania per mettere in discussione la supremazia inglese proprio al livello decisivo: mobilitando tutti i suoi appoggi e l'opinione pubblica e manovrando con disinvoltura i bilanci parlamentari (ossia assumendo impegni per lavori non ancora autorizzati), Tirpitz varò un programma che 73

prevedeva la costruzione in pochi anni di 16 corazzate di nuovo tipo, con una spesa più che doppia. Un limite ai suoi piani venne soltanto dalle richieste dell'esercito tedesco di un sostanzioso aumento dei suoi bilanci. L'Inghilterra ovviamente non era rimasta a guardare. Stava perdendo terreno rispetto alla Germania in molti campi, ma la difesa della superiorità navale restava la base del suo ruolo mondiale e della sua prosperità. Come in Germania, l'industria interessata alle costruzioni navali era in grado di influenzare la classe politica e l'opinione pubblica, per suo conto già estremamente sensibile su questi temi. Il bilancio della marina britannica, che era di 10,7 milioni di sterline nel 1884, salì a 24,1 milioni nel 1899, a 32,3 nel 1909, fino a 48,8 milioni nel 1914 (ministro era Winston Churchill), mentre quello dell'esercito passava da 16 milioni nel 1884 a 28 nel 1914. L'obiettivo proclamato di mettere in cantiere 2 corazzate per ognuna di quelle tedesche non fu raggiunto, ma allo scoppio della guerra l'Inghilterra ne contava 24 contro le 16 tedesche, in parte più potenti. Vantava poi una superiorità ancora maggiore in tutti gli altri tipi di navi, dagli incrociatori da battaglia (armati come le corazzate, ma più veloci e meno protetti) agli incrociatori leggeri e ai cacciatorpediniere. Alla battaglia dello Jutland (31 maggio-1° giugno 1916) la flotta inglese schierava 37 grandi navi tra corazzate e incrociatori da battaglia, per un totale di 272 cannoni da 305, 343 e 381, più 34 incrociatori leggeri e 80 cacciatorpediniere. La flotta tedesca aveva 23 tra corazzate e incrociatori da battaglia, per un totale di 176 cannoni da 305, più 11 incrociatori leggeri e 67 cacciatorpediniere. Gli inglesi erano quindi riusciti a mantenere una forte superiorità, tanto più notevole se si pensa che, a differenza dei tedeschi, avevano forze navali in tutti i mari a protezione del traffico mercantile e delle colonie. In sostanza, la costruzione della grande flotta tedesca non aveva compromesso il dominio inglese dei mari, anche se aveva dato un forte contributo allo scatenamento delle tensioni e passioni che portarono al conflitto mondiale. 74

Le altre marine non potevano rivendicare che ruoli secondari. La flotta russa era destinata a rimanere bloccata nel Baltico e nel Mar Nero e quella austroungarica nel porto di Pola. La flotta francese poteva soltanto rinforzare la superiorità inglese nel Mediterraneo, che la marina italiana avrebbe dovuto subire in caso di guerra contro l'Intesa, senza poter impedire il blocco del traffico mercantile (un fatto che pesò nelle decisioni italiane del 1914-1915). - "L'illusione della guerra breve". La guerra europea sarebbe stata breve: non era una previsione, bensì una certezza generale. Ambienti militari, economici e politici, stati maggiori e governi, studiosi di guerra e scienziati, l'opinione pubblica bene informata di tutti i paesi concordavano su questo punto con un'unanimità priva di dubbi. Soltanto alcune personalità isolate sostennero che la guerra sarebbe stata lunga, con costi e perdite immense, senza una vittoria decisiva; ma vennero considerati eccentrici visionari (42). La fiducia nella guerra breve era motivata con l'impossibilità per i belligeranti di sostenere a lungo il peso di un conflitto che chiamando alle armi milioni di uomini avrebbe provocato l'arresto della produzione agricola e industriale. E infatti nessun governo aveva preparato la mobilitazione civile ed economica necessaria per sostenere una guerra che si prolungasse oltre qualche mese; e gli eserciti accumulavano nei loro depositi il materiale e le munizioni per le operazioni come se le fabbriche si dovessero fermare con l'inizio delle ostilità (non era previsto l'esonero dei tecnici e degli operai specializzati indispensabili per la produzione bellica). Questa sottovalutazione della capacità di mobilitazione delle risorse nazionali degli stati moderni è sorprendente, così come la convinzione generale che la guerra sarebbe stata di movimento (con eserciti di milioni di uomini alimentati da interminabili colonne di carri trainati da cavalli) e che l'offensiva sarebbe riuscita a penetrare in profondità. 75

L'illusione della guerra breve è un caso manifesto di autoinganno: i militari conoscevano l'effetto distruttivo delle singole armi, ma si rifiutavano di trarne tutte le conseguenze, ossia la difficoltà dell'offensiva. L'unica innovazione utilizzata in tutta la sua potenzialità era il sistema ferroviario, che permetteva di organizzare enormi eserciti e portarli alla frontiera in pochi giorni. Ma per quanto riguarda le previsioni sulle operazioni, il modello cui tutti gli stati maggiori si rifacevano era la guerra francoprussiana del 1870, decisa in poche settimane da grandi battaglie che avevano portato alla distruzione dell'esercito francese, senza che le truppe improvvisate della successiva mobilitazione di massa potessero raddrizzare la situazione. Gli uomini di governo e di cultura accettavano pienamente questa impostazione, appellandosi alla competenza tecnica dei militari. In realtà se governi e stati maggiori avessero sviluppato fino in fondo l'analisi della guerra futura (non era impossibile, come ricordano i profeti isolati), avrebbero dovuto misurarne i costi terrificanti e la mancanza di garanzie di vittoria. Parliamo perciò di un autoinganno generale o forse meglio di una incapacità culturale di cogliere appieno le trasformazioni in corso della società e degli stati, degli armamenti e dell'industria. Arrivare a cogliere tutta la portata di queste trasformazioni voleva dire mettere in discussione la stessa civiltà liberale e la sua fiducia nel progresso, riconoscendo che questo progresso poteva portare a lutti spaventosi. Da qui l'irrigidimento sulla illusione di una guerra abbastanza breve da non turbare l'ordine e le certezze della civiltà liberale. E invece questa civiltà veniva messa in discussione nel decennio prebellico anche dall'affermazione di movimenti irrazionalisti, che alla fiducia nel progresso comune contrapponevano l'esaltazione di valori assoluti come il nazionalismo aggressivo, la guerra come dimensione etica e risolutrice e in campo militare l'offensiva a oltranza.

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- "Mobilitazioni e piani di guerra". La fiducia nella brevità della guerra era gravida di conseguenze sotto un altro aspetto. Se tutto doveva essere deciso in poche grandi battaglie senza appello, i primi giorni del conflitto diventavano essenziali: arrivare in ritardo sul campo di battaglia poteva significare la sconfitta definitiva. Quindi il delicato meccanismo della mobilitazione e della radunata acquistava un'importanza eccezionale. Abbiamo già detto che in pace i reparti e i servizi di un esercito avevano una forza ridotta. Per metterli in grado di affrontare la guerra occorreva mobilitarli, ossia completarli con gli uomini richiamati alle armi; si pensi allo sviluppo necessario del sistema di rifornimenti, che doveva alimentare non più le caserme, ma le armate in marcia. Non bastava però completare le unità, bisognava poi portarle alla frontiera; per guadagnare tempo era anche possibile che un'unità partisse sul piede di pace e fosse completata sul luogo di radunata. Poiché tutti i movimenti avvenivano per ferrovia, era necessario predisporre sin dal tempo di pace il movimento di migliaia di treni fin nei minimi particolari (come le stazioni in cui le truppe dovevano ricevere il rancio e i cavalli il foraggio). E naturalmente finalizzare il tutto al completamento dei movimenti nel minor numero di giorni possibile. Grazie alle loro eccellenti reti ferroviarie, Francia e Germania contavano di concludere le operazioni di mobilitazione e radunata in 15 giorni, durante i quali le truppe non sarebbero state impiegabili perché in movimento e trasformazione (salvo alcune unità alla frontiera preventivamente rinforzate). Ciò presupponeva che la pianificazione ferrea dei movimenti ferroviari non poteva essere in alcun caso modificata. Di conseguenza, le possibilità di manovra dei governi nei momenti di crisi venivano notevolmente ridotte: gli stati maggiori non potevano non chiedere la mobilitazione immediata, perché 77

anche un solo giorno di ritardo sui 15 previsti diventava importante; e la proclamazione della mobilitazione equivaleva alla dichiarazione di guerra, perché metteva in moto un meccanismo gigantesco e inarrestabile, che aveva come sbocco un piano di guerra predisposto da tempo anche nei dettagli. Naturalmente uno stato maggiore poteva mettere a punto due o tre programmi di mobilitazione per diverse ipotesi di conflitto (quello italiano ne aveva due: radunata verso le Alpi occidentali per una guerra alla Francia, oppure dietro il Piave per fronteggiare un'aggressione austriaca); ma il governo doveva limitarsi a scegliere tra i piani predisposti, senza poterli adattare a situazioni non previste. E una neutralità era rischiosa, come Cadorna ricorderà con forza nell'agosto 1914, perché lasciava un esercito praticamente disarmato contro nemici già pronti. La rigidità dei piani di mobilitazione e radunata fu indubbiamente uno degli elementi che facilitarono lo scoppio del conflitto, radicalizzando e accelerando le scelte dei governi. Non bisogna però drammatizzarne l'importanza; nel 1914 le pressioni degli stati maggiori per una decisione rapida furono soprattutto uno stimolo e un alibi in un momento in cui tutti correvano alla guerra. Il ruolo dei militari fu invece decisivo nell'impostazione dei piani di guerra, di cui è superfluo sottolineare l'importanza. La cultura dell'epoca credeva infatti in una netta separazione di responsabilità tra politici e militari: questi ultimi erano chiaramente subordinati ai politici in tempo di pace, fino al momento delle dichiarazioni di guerra, ma poi la direzione delle operazioni spettava soltanto agli stati maggiori. Una separazione che presupponeva una guerra breve e tradizionale, e che quindi fu subito superata dal protrarsi di un conflitto sempre più vasto, con laceranti contrasti di potere che illustreremo per l'Italia. Ne discendeva comunque che la definizione dei piani di guerra spettava agli stati maggiori al di fuori del controllo dei governi, anche se logicamente non poteva non essere profondamente condizionata dalla situazione politica. 78

In Francia, abbiamo accennato, si ebbe una piena saldatura tra i generali e le correnti più entusiaste della guerra. Il famoso "Plan XVII" [17] preparava un'unica, grande offensiva per la via più breve, la fascia fortificata di confine con la Germania, confidando nello slancio aggressivo delle truppe per superare ogni ostacolo. Un piano che si risolse in un rapido fallimento. Anche l'alto comando austriaco era animato da uno spirito aggressivo non privo di collegamenti con le forze politiche oltranziste. Gli accordi con l'alleata Germania, che avrebbe inizialmente sguarnito il fronte orientale per concentrare il suo sforzo contro la Francia, assegnavano agli austriaci un ruolo difensivo contro le preponderanti forze russe. E invece il loro stato maggiore programmò una decisa offensiva contro l'esercito serbo, per eliminarlo rapidamente e così raggiungere le conquiste balcaniche che erano il primo obiettivo dell'Impero asburgico. Quanto ai russi, non potevano passare subito all'offensiva perché la loro mobilitazione richiedeva tempi assai lunghi a causa delle grandi distanze, della scarsa efficienza dell'apparato statale e dell'insufficienza della rete ferroviaria (malgrado i miglioramenti finanziati dalla Francia). Intendevano comunque attaccare subito la Prussia orientale con le forze disponibili per venire incontro alle richieste dell'alleato francese; e poi, ultimata la mobilitazione, schiacciare austriaci e tedeschi con le loro grandi masse. Le scelte più gravi per l'impostazione del conflitto furono quelle dello stato maggiore tedesco. Il suo esercito era indubbiamente il più forte per addestramento dei soldati, qualità del corpo ufficiali, abbondanza di materiali e per numero; soltanto su quest'ultimo aspetto cedeva ai russi, ma li surclassava su tutti gli altri. Era però inferiore alla somma degli eserciti francese e russo, malgrado l'apporto austriaco, e quindi temeva una guerra su due fronti. Per evitarla doveva sfruttare i circa tre mesi necessari ai russi per completare la loro mobilitazione, e cioè concentrare subito le sue forze contro i francesi, batterli decisamente, poi lasciare a ovest le truppe necessarie per completare la 79

vittoria e spostare le altre a est per liquidare i russi. Senonché i 250 chilometri di confine franco- tedesco erano stati fortificati da entrambe le parti; era perciò difficile che l'offensiva tedesca riuscisse a conseguire in breve tempo i risultati decisivi che erano indispensabili. I francesi, che si illudevano di riuscire a sfondare oltre il Reno, si dovettero ben presto ricredere. Il generale Alfred von Schlieffen, capo di stato maggiore dell'esercito tedesco nell'anteguerra (43), giunse nel 1905 alla conclusione che la grande e rapida vittoria era possibile a due condizioni: l'invasione del Belgio e del Lussemburgo, che avrebbe permesso di aggirare da nord la zona fortificata e di cogliere di sorpresa i francesi, e la concentrazione di quasi tutte le sue divisioni nella manovra di aggiramento, per darle un'ampiezza e una forza irresistibili. Schlieffen destinò pertanto 53 divisioni all'ala destra che doveva marciare attraverso il Belgio, 8 soltanto alla difesa della frontiera fortificata sul Reno e 10 a quella della Prussia orientale minacciata dai russi. Il piano rimase in vigore anche con il suo successore Helmuth von Moltke ("junior" per distinguerlo dallo zio, il vincitore della guerra franco- prussiana del 1870), anche se costui, meno propenso a giocare tutto su una carta sola, destinò le divisioni di nuova creazione a rafforzare la difesa della frontiera fortificata e non l'ala marciante. C'era però un problema: la neutralità del Belgio in una guerra continentale era riconosciuta da accordi internazionali firmati anche dalla Germania. E' caratteristico del sistema tedesco il fatto che l'invasione del Belgio venisse pianificata dallo stato maggiore per motivi militari senza riguardo alle conseguenze politiche, con l'autorizzazione dell'imperatore, ma senza coinvolgere il governo. Anche negli altri paesi europei gli stati maggiori definivano i piani di guerra senza consultare i governi, ma non giungevano fino a programmare autonomamente decisioni politiche gravi come l'aggressione di uno stato neutrale; il generale Joffre, comandante in capo francese, aveva prospettato l'invasione preventiva del Belgio, ma 80

aveva incontrato il preciso divieto del suo governo. In Germania invece il prestigio dei generali e l'appoggio che assicurava loro l'imperatore erano tali che il capo del governo non sollevò obiezioni quando fu informato, a titolo personale e con il vincolo di segretezza, della possibilità di una violazione della neutralità belga. Del resto l'invasione fu poi largamente approvata dall'opinione pubblica tedesca. Ebbe peraltro un alto costo politico per la Germania, che la propaganda franco- britannica poté efficacemente raffigurare come aggressore cinico e barbaro di un piccolo popolo neutrale. Ai limiti militari del piano Schlieffen abbiamo già accennato: una manovra aggirante di centinaia di chilometri condotta da 50 divisioni a piedi rifornite da carri e cavalli presentava notevoli elementi di rigidità e di debolezza logistica che Joffre poté sfruttare per bloccarla sulla Marna. Non bisogna tuttavia dimenticare che il piano per poco non ebbe successo, e in definitiva fallì perché i generali tedeschi avevano sopravvalutato la loro capacità di tenere in pugno le enormi e lente masse di armati e invece sottovalutato le possibilità di una contromanovra francese. Col senno di poi, si può dire che il piano Schlieffen fu il capolavoro della cultura militare prebellica per l'audacia strategica, l'eccezionale preparazione, la tenuta delle truppe, e nello stesso tempo la dimostrazione del suo fallimento, perché le gambe degli uomini e dei cavalli non potevano contrapporsi allo sviluppo tecnologico in molti settori decisivi, dalle ferrovie agli armamenti. * L'ESTATE DEL 1914. - "Le dichiarazioni di guerra". Tutto incomincia il 28 giugno 1914. Il mondo antico - di prima della guerra - sprofonda nel giro di un pugno di giorni a partire dal luogo e dal gesto fatidico: Serajevo, 81

l'irredentista serbo Gavrilo Princip, l'attentato riuscito contro l'arciduca Francesco Ferdinando, erede di Francesco Giuseppe. La lunga pace europea muore nei Balcani, nella «polveriera d'Europa», proprio là dove coloro che meno si erano illusi sulla sua immortalità avevano colto i primi tuoni in lontananza. Anche le modalità sono caratteristiche: piccoli contro grandi, affermazione nazionale contro tradizione imperiale, violenza innovatrice delle nuove idee e nuove forme della politica contro immutabilità materiale e simbolica dell'ordine. Quello che non era prevedibile è il repentino concatenarsi di situazioni che rispondono l'una all'altra, di colpi e contraccolpi, che sembrano rendere automatico, inarrestabile e pressoché fatale lo svolgersi della vicenda diplomatico-militare, bruciando le mediazioni e dando all'entrata in campo di ogni paese quasi l'aspetto di una scelta obbligata. Fa eccezione l'Italia, che - una volta presa la difficile decisione di non seguire immediatamente i suoi vecchi alleati della Triplice nella spirale delle dichiarazioni di guerra - ha la possibilità di scegliere a poco a poco se, con chi, quando, come e persino perché entrare in guerra. Dieci mesi di interrogativi e di ipotesi che confliggono e si bilanciano. Niente di simile avviene per la maggior parte delle altre nazioni. Il massimo di decisioni si concentra nelle due o tre settimane fra luglio e agosto. La durissima risposta all'attentato che ha colpito al vertice, politico e simbolico, dell'Impero porta all'ultimatum dell'Austria alla Serbia il 23 luglio. Non esistono margini di trattativa e il 28 la minaccia ultimativa si trasforma in dichiarazione di guerra. Il 29 e il 30 la Russia - alta protettrice dei popoli slavi e garante della piccola Serbia - risponde con la mobilitazione. Vani inviti della Germania a interromperla (30 luglio) e pronta contromobilitazione dell'Austria nei confronti della Russia (31 luglio). Il primo agosto è già pronta la dichiarazione di guerra allo Zar anche da parte della Germania, che intanto, a occidente, avanza verso il Lussemburgo, lo invade e (2 agosto) ingiunge al Belgio neutrale di lasciar passare le sue 82

truppe. La risposta della Francia, che le vede avvicinare e già nei pressi dei confini, è - il primo giorno di agosto - la mobilitazione. Mentre la manovra aggressiva dei due Imperi centrali prende velocemente forma sia a oriente che a occidente, la terza alleata della Triplice si dissocia e si sgancia, con la dichiarazione di neutralità del governo italiano. Il giorno dopo (3 agosto) siamo già all'invasione del Belgio e alla dichiarazione di guerra della Germania alla Francia, con immediata replica della Gran Bretagna a quella sempre più esplicita concorrente e antagonista per il predominio continentale (4 agosto). Dall'altra parte dell'Europa, l'Austria fa lo stesso con la Russia il giorno 6. Il 9 e il 13 la Repubblica francese e il Regno Unito sono ufficialmente in guerra anche con l'Impero austroungarico e gli schieramenti sono fissati. Dal 7, i tedeschi hanno occupato Liegi, il 20 prendono Bruxelles e il 3 settembre appena 30 giorni dopo la dichiarazione di guerra alla Francia - la velocità dell'avanzata li porta a prendere Reims e a raggiungere Senlis, a soli 35 chilometri da Parigi. Già dal giorno prima il governo francese ha lasciato la capitale per Bordeaux. Non proseguiamo. Bastano questi elementi a mostrare la straordinarietà dei mutamenti accelerati in corso. Il mondo non era mai cambiato tanto in fretta. - "La «comunità di agosto»". Il cambiamento non investe solo gli schieramenti diplomatici e i rapporti militari. Tutto - nei paesi sull'orlo del precipizio - appare messo in discussione. Benché nessuno possa allora immaginare quanto lunga, devastatrice e diversa da tutte le precedenti sarà la guerra in cui si appresta ad entrare, già tutto vacilla, frana e rinasce diverso: sentimenti, ideologie, autorappresentazioni collettive e di singoli, collocazioni politiche. Questo avviene dentro e fuori dei confini. Ciò che lo stato di guerra ridefinisce sono anzitutto i confini: delle amicizie e inimicizie internazionali, naturalmente, con 83

smottamenti cruenti dell'opinione pubblica, orientata da governi, partiti e giornali, che trasfigurano o sfigurano le identità di interi popoli; ma anche i confini del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, del lecito e dell'illecito. L'odio per il nemico viene incrementato, gli istinti omicidi legittimati e aizzati. Chiese e stati, filosofi e vescovi, scrittori e consiglieri spirituali d'ogni sorta e levatura gareggiano in ciascun paese per garantire la salute mentale dei civili prossimi a vestire la divisa, sancendo che l'entrata nel mondo della guerra sospende le regole e i comandamenti della legge divina e umana trasformando in sacro dovere il morire e l'uccidere per la propria patria. Da ogni parte si esibiscono i propri diritti e buona fede, e pochissimi - nessun paese o governo, solo qualche forza o personalità di arroganza particolare - appaiono disposti ad ammettere che la propria guerra non sia difensiva, ma offensiva. Travolte resistenze interne e messi da canto princìpi che erano apparsi indubitabili, si può capire che non reggano e vengano meno i perimetri di partito e che tutte le forme di identità collettiva e organizzazione politica siano esposte a mutamenti, intrecci e rifusioni. Qui ogni paese ha la sua storia e la rielabora più o meno profondamente nell'aderire all'evento; gli osservatori d'epoca e i memorialisti successivi hanno tuttavia consegnato alla memoria e alla storia un'immagine di quelle poche settimane dai tratti fortemente comuni, che si ripetono all'incirca simili nei vari paesi: quella di una stagione irripetibile e breve, la cosiddetta «comunità di agosto», da cui resta fuori l'Italia, che rimanda quell'estasi di autoriconoscimento e la mistica emozionata dell'unione al successivo maggio 1915 (44). Il fatto di sapere bene che il «maggio radioso» non è per tutti e dovunque altrettanto «radioso» come apparve a D'Annunzio e ai più trepidi fautori dell'intervento, ci potrebbe suggerire prudenza nel far nostra quell'immagine plebiscitaria anche in riferimento agli altri paesi. L'accompagna sicuramente un velo di favola. E' vero però che nessun altro paese, da una parte e dall'altra, risulta spaccato a tal punto fra interventisti e 84

neutralisti; ed è un fatto anche che sono profondamente diverse le condizioni temporali, poiché il dibattito prolungatosi per quasi un anno nei giornali, nelle piazze e in ogni altra sede toglie subitaneità, concentrazione e, almeno in parte, intensità alle emozioni che travolgono invece le collettività parigine o berlinesi. Tutti gli altri hanno molto meno tempo per interrogarsi, razionalizzare, soppesare pro e contro. Le burrasche emozionali invadono i cuori e indirizzano le menti con altra forza di trascinamento. La restrizione dei tempi di reazione e l'inesistenza o rarità di voci alternative favoriscono l'unificazione degli animi e le semplificazioni sentimentali. In Francia il capo socialista Jean Jaurès è contro la guerra, si sottrae a quest'ebbrezza unitaria. Un nazionalista lo elimina e non ne sortisce la rivolta o la dissociazione del movimento operaio, ma solo la sparizione di quella voce discorde, l'"union sacrée" andrà avanti comunque. Fotografie, film, servizi giornalistici, testimonianze e racconti ribadiscono la visione di folle in tripudio che accompagnano i soldati verso le stazioni ferroviarie, dove li attendono i treni che li porteranno sulla linea del fuoco. Da una parte e dall'altra, sembrano profilarsi altrettanto forti e partecipati gli stessi meccanismi contrapposti del noi- loro, le stesse procedure di inclusione-esclusione; e sembrano valere ugualmente bene - a saldare quel nuovo "noi" che fa giustizia delle usuali differenze di età, di condizione, di cultura, di partito - l'epica della guerra lampo che inorgoglisce i figli della grande Germania e l'ansia della resistenza sino all'estremo, "pour la France", che anima i blu e i bianchi, i vessilliferi dello spirito repubblicano e i nostalgici dei gigli di Borbone. Analogo appare questo cedere il passo, da parte dei civili ai militari, da parte dei vecchi ai giovani e da parte delle donne agli uomini. E' un mondo di giovani maschi armati, o in procinto di armarsi, quello che conquista in quei giorni il proscenio: classica e dovunque diffusa l'immagine delle lunghe file dei volontari, dei coscritti e dei richiamati avviati alle caserme e ai luoghi di riunione. Ma il luogo centrale 85

dell'immaginario dell'Europa che entra in guerra è sempre, logicamente, la stazione ferroviaria: dove i due mondi si toccano, si salutano e si lasciano; militari e civili prendono congedo gli uni dagli altri: le madri, i padri, le fidanzate, le mogli, i figli - per le classi anziane che ne hanno già. E' il luogo e il momento degli addii, dove i sentimenti privati si moltiplicano per milioni di nuclei familiari e amicali e lo stesso ripetersi uguale dei sentimenti e dei gesti rende misteriosamente unanime, solenne e indimenticabile, quell'ora. Difficile per tutti - mentre si levano le note degli inni nazionali e dei canti tradizionali di caserma, le bande suonano, la gente applaude e grida, i furieri tracciano scritte eroiche sulle pareti dei vagoni - preservare zone di silenzio e di rispetto, dove il privato non sia invaso e coinvolto dalle urgenze del pubblico. Forse è proprio questo la storia e il sentirsi parte di una storia. In questo consentimento. In questa improvvisa unione di sconosciuti e di lontani. Dove i vent'anni di oggi restaurano e fanno ritrovare quelli di una volta e le generazioni si riconoscono e si ritrovano. E' la storia ed è anche la patria, magari per la prima volta avvertita come tale. Molti giovani uomini che uscivano allora per la prima volta dalle mura di casa poterono sentirsene coinvolti e attirati: d'un tratto battezzati all'età adulta, promossi a difensori di quel mondo di disarmati che si lasciavano alle spalle. E molti fra gli uomini di mezza età e gli anziani che - come familiari o come spettatori - li accompagnavano alla partenza sentivano risuonare in se stessi gli echi e si commovevano al ricordo di una loro lontana partenza. Magari contro lo stesso nemico, quaranta o cinquant'anni prima. Passaggi del testimone. Tanto più vero e spontaneo - questo consentimento - quanto meno frutto contingente di quell'ebbrezza al limitare fra mondo della pace e della guerra, fra la routine quotidiana e la gloriosa e autorizzata effrazione delle regole; e invece esito di lunghe convivenze e secolari orgogli e sensi di sé, dentro cui i singoli possano istintivamente trovare appoggio: come in Inghilterra, in Francia, nelle componenti dinastiche dell'Impero 86

asburgico, non conquistate da idee centrifughe di autonomia nazionale, nel nocciolo duro di una Germania antica e nuova. - "La neutralità dell'Italia". Il senno di poi ha fissato l'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa e contro gli Imperi centrali come un portato naturale della storia nazionale. Nella realtà fu una scelta opinabile e contrastata (45), maturata sul filo dei mesi, non senza dubbi e ripensamenti, anche all'interno della parte che non è pregiudizialmente contraria ad entrare in guerra, ma soppesa i pro e i contro, le circostanze e i «fini di guerra» collegabili alle diverse ipotesi di schieramento (46). Nelle sue "Memorie" Vittorio Emanuele Orlando - che, essendo stato membro in posizione sempre più autorevole dei tre governi di guerra, ne rappresenta assieme a Sidney Sonnino la continuità - si dissocia da quanto nella rappresentazione che ne fa Antonio Salandra gli appare viziato da un eccesso di programmazione consapevole e di finalismo: "il libro del Salandra [...] tenderebbe, d'altra parte, a mettere in evidenza una specie di sua decisione anticipata, cui avrebbe fatto convergere tutta la sua azione. Ci si rende conto del sentimento da cui egli è indotto; ma, per la verità storica, io credo che sul grande evento abbiano avuto un'influenza, forse decisiva, alcune circostanze apparentemente accidentali, certo al di fuori dell'assoluto dominio di una volontà preordinata" (47). A parte il richiamo di Orlando a "Le forze occulte che influirono sulla dichiarazione di guerra" - il titolo a chiave con cui apre il suo ripensamento - bisogna dire che oltre un trentennio nell'ambito di una Triplice Alleanza (48) via via rinnovata dal 1882 non erano passati invano. Non sono riducibili a estrinseca contingenza diplomatica, sia perché il periodo è troppo lungo per ridurlo a contingenza, sia 87

perché i legami - in particolare con la Germania - vanno molto più in profondità, investono ambiti che dalle dinamiche finanziarie, bancarie ed economiche, dalla proprietà di industrie e controllo di giornali, si allargano alla ricerca scientifica e alle tecniche, spaziano dalla filologia alla filosofia, dall'arte al turismo. Il grido di dolore di Croce - di fronte alla criminalizzazione della "Kultur" tedesca da parte degli zelatori di una "civilisation" francese, presupposta, a differenza della prima, come umana e razionale - ha motivazioni che vanno ben oltre le personali propensioni di studio di un pensatore formatosi sulle pagine della grande filosofia idealista tedesca (49). Gli studenti fautori dell'interventismo più rumoroso e vociante avranno il loro da fare nel colpire, con dimostrazioni e contestazioni nelle aule universitarie, almeno alcuni prototipi di professore cresciuto nel culto del rigore intellettuale della ricerca scientifica tedesca e sentito perciò, adesso, come nazionalmente infido e poco allineato. Ammiratori della Germania ne esistono, nel 1914, in ogni settore della società. Chi ne addita la forza militare e chi la disciplina sociale, ma il paese di Bismarck è anche quello di Marx e al polo opposto delle destre che riconoscono come proprio o idealmente affine il modello autoritario dello stato prussiano - le sinistre possono scorgervi il paese guida delle socialdemocrazie e il cuore pulsante della Seconda Internazionale. E' il paese che ha dato all'umanità genii della portata di Beethoven, Goethe, Hegel, personaggi che ogni europeo colto sente come parte della sua stessa composizione mentale. E v'è anche chi, fra i frequentatori dei teatri, lascerebbe la musica di Verdi per quella di Wagner, come chi ritiene che l'ordine - di cui il Reich viene ritenuto da molti, prima della guerra, il depositario simbolico insieme più solido e moderno - debba molto al lavorio inesausto e fedele dei suoi maestri elementari. L'errore di prospettiva - accentuato dalle semplificazioni tipiche della propaganda di guerra - è stato quello di confondere i tedeschi con gli austriaci: tutti "tedeschi" e "crucchi", militaristi prussiani dall'elmo chiodato. Già dire 88

"austriaci" è impreciso e i ben diversi comportamenti militari dei vari popoli dell'Impero si incaricheranno di mostrarlo durante gli anni di guerra, sino appunto alla destrutturazione dell'Impero stesso per linee e spinte interne, e non solo sotto i colpi del nemico esterno. Gli stessi legami storici con il Risorgimento italiano sono del tutto diversi. E' appena il caso di ricordare che il "nemico storico" sono gli austriaci. I tedeschi, invece, sono gli alleati dell'Italia nella terza guerra di indipendenza, la aiutano, sono anzi decisivi nell'annessione del Veneto nel 1866. Rimettere a fuoco questa diversità di rapporti all'interno della Triplice giova sia a dar valore alla scelta della neutralità compiuta dal governo Salandra il 2 agosto del 1914 - tutt'altro che facile e indolore, posto che non si trattava solo di deludere le attese dell'Austria, ma anche quelle di una Germania assai ricca di estimatori, nella società, in parlamento e persino al governo - sia a inquadrare il senso del gioco diplomatico che si sviluppa nei mesi successivi, con la Germania che interpone i suoi buoni uffici perché Austria e Italia trovino un accordo, inteso, se non più a fare entrare in guerra al loro fianco l'Italia, per lo meno a tenerla fuori dal conflitto assicurandone la neutralità (50). Giova, infine, a comprendere il fatto che il «sacro egoismo» della guerra di Salandra si limiti all'Austria e che la stessa dichiarazione di guerra contro la Germania si configuri come un corollario, resosi necessario un anno dopo l'entrata in guerra contro il "vero" nemico. Del resto, anche questa visione dell'Austria come vero nemico, il nemico storico ritrovato, è espressione e strumentalizzazione di lasciti della memoria e di scale di valore a cui non tutti ugualmente partecipano, specialmente in quella destra liberale che detiene le leve del comando. A maggior ragione non risulta congeniale alla nuova destra, costituita dal piccolo ma agguerrito gruppo dei neonazionalisti antimazziniani e antiliberali di Corradini e Rocco, rinunciare a far blocco con i paesi d'ordine. Ci mettono poco a comprendere da che parte spiri il vento e come non sia possibile, per chi come loro auspichi una 89

politica di potenza e quindi la guerra, puntare su una sola carta: quella appunto dell'ormai pericolante Triplice Alleanza. La quale comunque non ripugnerebbe loro per nulla, mentre risulta loro estraneo e risibile il canto delle sirene - libertà, giustizia internazionale, fratellanza fra i popoli, autodifesa dei popoli liberi da quelli sopraffattori cui prestano invece devoto orecchio quei pezzi di società civile e politica che fra centro, centrosinistra ed estrema sinistra si apprestano ad entrare in campo. E' dal bilanciarsi e come provvisoria risultante di queste tutt'altro che univoche linee di tendenza che prende forma la scelta di Salandra e del suo primo ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano, di sottrarsi alle pressioni alleate e prendere tempo. La decisione di dichiararsi neutrali è un atto pragmatico, che non pregiudica il futuro, ma cui non è il caso di attribuire sin d'ora il senso di un passaggio intermedio necessariamente finalizzato al rovesciamento delle alleanze e all'entrata in guerra a fianco dell'Intesa (51). Come per ridislocare militarmente un esercito e fargli assumere posizioni opposte a quelle che aveva, così ci vuole tempo per ridislocare gli orientamenti diplomatici, politici e mentali della stessa classe dirigente (52), oltre che per raccogliere e costruire un certo supporto nell'opinione pubblica. Lungi dal manifestarsi come un frivolo e rapido «giro di valzer» - così vorranno crederlo gli interessati - il distacco dell'Italia dalla Triplice è immediato solo dove non poteva non esserlo: in quelle roventi settimane d'estate del 1914, quando pace e guerra si decidono sul filo delle ore. Tutto quanto segue, fra il 1914 e il 1915, è un lungo, faticoso processo di riorientamento, contrastato mentre avviene e tutt'altro che scontato nei suoi esiti. NOTE AL CAPITOLO 1. 1. Nino Valeri, "Dalla "belle époquè al fascismo", RomaBari, Laterza, 1975.

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2. Ernesto Ragionieri, "Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani (1875-1895). L'influenza della socialdemocrazia tedesca sulla formazione del P. S.I.", Milano, Feltrinelli, 1961; Gaetano Arfé (a cura di), "Storia dell'Avanti! (1896-1926)", Milano, Edizioni Avanti!, 1956. 3. Richard A. Webster, "L'imperialismo industriale italiano. Studi sul prefascismo (1908-1915)", Torino, Einaudi, 1975. 4. Mario Isnenghi, "Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte", Bari, Laterza, 1970 [ristampa con postfazione dell'autore Bologna, Il Mulino, 1997]. 5. Arno J. Mayer, "Il potere dell'Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale", Roma- Bari, Laterza, 1982 [prima ed. 1981]. 6. Emilio Franzina, "La grande emigrazione. L'esodo dei rurali dal Veneto durante il secolo XIX", Venezia, Marsilio, 1976; Id., "L'immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell'esperienza italiana all'estero fra i due secoli", Treviso, Pagus, 1992. 7. Emilio Franzina, "Gli italiani al Nuovo Mondo. L'emigrazione italiana in America (1492-1942)", Milano, Mondadori, 1995. 8. Orlando Tonelli, "Colibrì. Una strada per la Cajenna", Firenze, Giunti, 1991; Antonio De Piero, "L'isola della quarantina", Firenze, Giunti, 1991; Mario Rigoni Stern, "Storia di Tönle", Torino, Einaudi, 1978. 9. Leo Valiani, "Questioni di storia del socialismo", Torino, Einaudi, 1975. 10. Guido Crainz, "Padania", Roma, Donzelli, 1994.

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11. Ernesto Ragionieri, "Un comune socialista: Sesto Fiorentino", Roma, Rinascita, 1953; Andreina Bergonzoni (a cura di), "Arturo Frizzi. Vita e opere di un ciarlatano", Milano, Silvana, 1979; Gianni Bosio, "Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina", a cura di Cesare Ber- mani, Bari, De Donato, 1981. 12. Gastone Manacorda, "Il socialismo nella storia d'Italia", Bari, Laterza, 1966; Luigi Cortesi, "Il socialismo italiano fra riforme e rivoluzione 1892-1921", Bari, Laterza, 1969; Idomeneo Barbadoro, "Storia del sindacalismo italiano dalla nascita al fascismo", 2 voli., Firenze, La Nuova Italia, 1973, vol. 1, "La Federterra", vol. 2, "La Confederazione generale del lavoro"; Gastone Manacorda, "Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi", Roma, Editori Riuniti, 1974; Renato Zangheri, Giuseppe Galasso, Valerio Castronovo, "Storia del movimento cooperativo in Italia (1886-1986)", Torino, Einaudi, 1987; Maurizio Ridolfi, "Il P. S.I. e la nascita del partito di massa (1892-1922)", RomaBari, Laterza, 1992. 13. Maurice Agulhon, "Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848)", Roma, Donzelli, 1993; Marco Meriggi, "Milano borghese. Circoli ed élites nell'Ottocento", Venezia, Marsilio, 1992; Ute Frevert, "Il salotto", in Heinz- Gerhard Haupt (a cura di), "Luoghi quotidiani nella storia d'Europa", Roma- Bari, Laterza, 1993; Mariuccia Salvati, "Il salotto", in Mario Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita", Roma- Bari, Laterza, 1996. 14. Mario Isnenghi, "L'Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri", Milano, Mondadori, 1994. 15. Heinz- Gerhard Haupt, "L'Internazionale socialista dalla Comune a Lenin", Torino, Einaudi, 1978. 92

16. Marco Fincardi, "Il 1° Maggio", in Mario Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria. Personaggi e date dell'Italia unita", Roma- Bari, Laterza, 1997. 17. Fritz Fischer, "Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918", Torino, Einaudi, 1965. 18. Leo Valiani, "Il Partito socialista italiano nel periodo della neutralità 1914-1915", Milano, «Annali Feltrinelli», 1962. 19. Agostino Lanzillo, "La disfatta del socialismo", Firenze, Libreria della Voce, 1918; "Il P. S.I. e la grande guerra", numero speciale della «Rivista storica del socialismo», 32 (1967). 20. Raffaele Colapietra, "Leonida Bissolati", Milano, Feltrinelli, 1958; Ugoberto Alfassio Grimaldi, Gherardo Bozzetti, "Bissolati", Milano, Rizzoli, 1983; Fernando Manzotti, "Il socialismo riformista in Italia", Firenze, Le Monnier, 1965; Gaetano Arfé, "Storia del socialismo italiano (1892-1926)", Torino, Einaudi, 1966. 21. Carlo Pinzani, "Jean Jaurès, l'Internazionale e la guerra", Bari, Laterza, 1970. 22. Jean- Jacques Becker, "Le Carnet B. Les pouvoirs publics et l'antimilitarisme avant la guerre de 1914", Paris, Klincsieck, 1973; Id., "La France en guerre. La grande mutation", Bruxelles, Complexe, 1988. 23. Thomas Mann, "Lettera a Heinrich Mann, 7.8.1914", in Id., "Epistolario 1889-1936", a cura di Erika Mann, Milano, Mondadori, 1963; conf. anche Id., "Federico e la grande coalizione (Pensieri in guerra)", in "Tutte le opere di Thomas Mann", a cura di Lavinia Mazzucchetti, vol. 3, "Scritti storici e politici", Milano, Mondadori, 1957. 93

24. Stefan Zweig, "Il mondo di ieri", Milano, Mondadori, 1946. 25. Claudio Magris, "Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna", Torino, Einaudi, 1963; M. Isnenghi, "Il mito della grande guerra", cit.; Paul Fussell, "La Grande Guerra e la memoria moderna", Bologna, Il Mulino, 1984 [ed. orig. "The Great War and Modern Memory", Oxford, Oxford University Press, 1975]; Eric J. Leed, "Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale", Bologna, Il Mulino, 1985 [ed. orig. 1979]; Silvio Lanaro, "Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia (1870-1925)", Venezia, Marsilio, 1979. 26. Enrico Corradini, "La Patria lontana", Milano, Treves, 1910, immediatamente seguito dall'affine "La guerra lontana", Milano, Treves, 1911. 27. Giovanni Boine, "Discorsi militari", Firenze, Libreria della Voce, 1914. 28. Christophe Prochasson, "Les intellectuels, le socialisme et la guerre (1900-1938)", Paris, Seuil, 1993; Silvio Lanaro, "Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa", Venezia, Marsilio, 1996. 29. Charles Péguy, "Notre Patrie", Paris, Gallimard, 1905 (nel 1915, morto in guerra l'autore, il volume è già alla 36a edizione). 30. Benedetto Croce, "L'Italia dal 1914 al 1918: pagine sulla guerra", Bari, Laterza, 1965 [1a ed. Napoli, Ricciardi, 1919]. 31. Mario Isnenghi, "Il «Dovere nazionale»", in Id., "L'Italia del fascio", Firenze, Giunti, 1996, p. p. 63-76. 94

32. Mario Isnenghi, "Il poetavate e la rianimazione dei passati", in Id., "L'Italia del fascio", cit, p. p. 47-62. 33. Filippo Tommaso Marinetti, "Teoria e invenzione futurista", a cura di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 1968; Id., Taccuini 1915-1921, a cura di Alberto Bertoni, Bologna, Il Mulino, 1987. 34. Gaston Bouthoul, "Le guerre. Elementi di polemologia", Milano, Longanesi, 1951. 35. Con articoli, nel loro genere, classici: La vita non è sacra, Il dovere dell'Italia, Amiamo la guerra!, Abbiamo vinto!, tutti di Giovanni Papini, dall'ottobre 1913 in avanti; Per la guerra, Sulla soglia, di Ardengo Soffici; Per la guerra, Ultimo appello, Programma politico, a firma di «Lacerba», leggibili tutti in "La cultura italiana del '900 attraverso le riviste", vol. 4, «Lacerba», «La Voce» (1914-1916), a cura di Gianni Scalia, Torino, Einaudi, 1961. 36. Vilfredo Pareto, "I sistemi socialisti", Torino, Utet, 1954 [ed. orig. "Les systèmes socialistes", 1902]; Id., "Trattato di sociologia generale", 2 voli., Firenze, Barbera, 1916. 37. Claus Gatterer, "Cesare Battisti: ritratto di un'alto traditore", Firenze, La Nuova Italia, 1975. 38. Espressioni come questa sono correnti negli articoli di Francesco Coppola ed Enrico Corradini, Roberto Forges Davanzati e Maffeo Pantaleoni e degli altri redattori e collaboratori dell'«Idea nazionale» del 1915. 39. Scritto in Svizzera nel 1916. 40. André Corvisier (a cura di), "Dictionnaire d'art et d'histoire militaires", Paris, Puf, 1988, p. 308.

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41. I pezzi d'artiglieria sono indicati in primo luogo con il calibro, ossia il diametro della bocca da fuoco espresso in millimetri, che dà un'idea abbastanza precisa delle loro dimensioni complessive. A seconda della lunghezza della canna si dividono in cannoni (canna più lunga, maggiore gittata e traiettoria più tesa), mortai (canna molto corta, traiettoria molto arcuata, quindi gittata ridotta e proietti più pesanti) e obici (una via di mezzo). Si dividono in artiglieria leggera o da campagna (i pezzi più piccoli e mobili), media o pesante campale (più potenti e meno mobili) e pesante o da assedio (i pezzi più grossi e lenti). Ad esempio il 75/27 (pezzo base dell'artiglieria italiana nel 1915, costruito su licenza francese) è un cannone da campagna, che ha un diametro di 75 millimetri (e una lunghezza di 75 x 27 = 2 metri) e spara proietti relativamente leggeri a 7 chilometri, con un'elevata mobilità e cadenza di tiro. N. 42. Il più noto e interessante di questi profeti inascoltati fu Ivan Bloch, un ricco finanziere e industriale della Polonia russa. Costui predisse che il fuoco di fucili e cannoni avrebbe spezzato ogni offensiva, la guerra sarebbe stata lunga e terribile, con milioni di uomini in trincea, e dominata dalle innovazioni tecnologiche. La sua opera "La guerre future" del 1898 fu pubblicata in russo, francese, tedesco e inglese, apprezzata e discussa, ma non riuscì a intaccare la certezza assoluta nella guerra breve. Conf. Nicola Labanca, "Il pacifismo tecnologico di Ivan Bloch", «Rivista di storia contemporanea», 1991, n. 4. 43. In tutti gli eserciti lo stato maggiore era l'alto comando dell'esercito e il capo di stato maggiore il comandante in capo designato in tempo di pace ed effettivo in guerra. Il termine derivava dal fatto che il titolo di comandante dell'esercito spettava al sovrano, che però non ne esercitava più le funzioni; il capo di stato maggiore era nominalmente il primo collaboratore del sovrano e di fatto il comandante effettivo. In tempo di guerra lo stato maggiore di ogni esercito si divise; una parte rimase nella capitale 96

collaborando con il ministro della Guerra, un'altra parte si trasferì al fronte per dirigere le operazioni, assumendo per lo più la denominazione di Quartiere generale (e di Comando supremo in Italia). Ogni grande unità aveva poi un suo stato maggiore, ossia un gruppo di collaboratori e di uffici diretto da un capo di questo stato maggiore, agli ordini del comandante della grande unità. Gli ufficiali di stato maggiore erano poi ufficiali selezionati e addestrati per il servizio nei comandi, con vantaggi di carriera poco apprezzati dai colleghi. Questi cenni sintetici valgono per tutti gli eserciti, con differenze minori. S'intende che quando parliamo di stato maggiore senza altra specificazione ci riferiamo all'alto comando. 44. Robert Wohl, "Storia di una generazione", Milano, Jaca Book, 1984 [prima ed. 1979]. 45. Brunello Vigezzi, "Da Giolitti a Salandra", Firenze, Vallecchi, 1969. 46. Gioacchino Volpe, "Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915)", Milano, Ispi, 1940; Brunello Vigezzi, "L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale", vol. 1, "L'Italia neutrale", Milano- Napoli, Ricciardi, 1966. 47. Vittorio Emanuele Orlando, "Memorie 1915-1919", a cura di Rodolfo Mosca, Milano, Rizzoli, 1960, p. 27; Antonio Salandra dedica a questo periodo storico due libri di memorie: "La neutralità italiana", Milano, Mondadori, 1928; e "L'intervento", Milano, Mondadori, 1930. 48. Gioacchino Volpe, "L'Italia nella Triplice Alleanza (18821915)", Milano, Ispi, 1939; Alberto Monticone, "La Germania e la neutralità italiana (1914-1915)", Bologna, Il Mulino, 1971. 49. B. Croce, "L'Italia dal 1914 al 1918", cit.; Id., "Storia d'Italia dal 1875 al 1915", Bari, Laterza, 1927. 97

50. Giovanni Giolitti, "Memorie della mia vita", 2 voli., Milano, Treves, 1922; A. Salandra, "La neutralità italiana", cit.; Luigi Albertini, "Vent'anni di vita politica", 5 voli., Bologna, Zanichelli, 1951-1953, vol. 2, "L'Italia nella Prima guerra mondiale"; V. E. Orlando, "Memorie 1915-1919", cit.; Sidney Sonnino, "Diario 1914-1916", a cura di Pietro Pastorelli, Bari, Laterza, 1972; Id., "Carteggio 1914-1916", a cura di Pietro Pastorelli, Bari, Laterza, 1974. 51. Mario Toscano, "Pagine di storia diplomatica contemporanea", vol. 1, "Origini e vicende della prima guerra mondiale", Milano, Giuffrè, 1963. 52. Una testimonianza d'epoca assai ravvicinata e informata in Ferdinando Martini - il più interventista fra i ministri "Diario 1914-1918", a cura di Gabriele De Rosa, Milano, Mondadori, 1966; importanti anche le confidenze a futura memoria dei maggiorenti politici e militari al giornalista Olindo Malagodi, "Conversazioni della guerra 1914-1919", rese pubbliche solo nel 1960, morti ormai tutti gli interessati (2 voli., a cura di Brunello Vigezzi, MilanoNapoli, Ricciardi). ***

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2. L'INTERVENTO ITALIANO. LA GUERRA NON BREVE. LE OPERAZIONI SUGLI ALTRI FRONTI NEL 1914 E NEL 1915. - "Il fallimento delle grandi offensive del 1914". Il 3 agosto 1914 le truppe tedesche violarono la neutralità del Belgio con un attacco di sorpresa alla posizione chiave di Liegi, seguito dall'occupazione del paese. L'esercito belga si ritirò combattendo verso il mare, difese a lungo Anversa (caduta il 9 ottobre), poi continuò la guerra nelle Fiandre a fianco degli inglesi. In agosto le armate tedesche si concentrarono alla frontiera franco-belga, poi iniziarono la marcia aggirante verso Parigi prevista dal piano Schlieffen, che doveva prendere alle spalle lo schieramento nemico e schiacciarlo rapidamente. Nel frattempo anche i francesi avevano scatenato la loro grande offensiva verso il Reno; ma lo spirito aggressivo delle truppe non bastò a superare il fuoco dell'artiglieria tedesca, che stroncò in pochi giorni le loro ambizioni. All'inizio di settembre le armate tedesche che avanzavano dal Belgio, dopo aver respinto il corpo di spedizione britannico e le forze di copertura francesi, giunsero tra Parigi e Verdun, sulla Marna, sul rovescio del grosso delle forze nemiche. La situazione era così grave che il 2 settembre il governo francese abbandonò Parigi in pericolo. Centinaia di chilometri di marcia avevano però logorato le truppe tedesche e messo in crisi i loro rifornimenti e collegamenti. Il comandante in capo francese Joffre riuscì a manovrare per linee interne, spostando per ferrovia grossi rinforzi dalla Lorena, e contrattaccò le armate tedesche disunite, arrestandole e costringendole a retrocedere. La battaglia della Marna, 5-9 settembre, divenne famosa perché segnava il fallimento del tentativo tedesco di risolvere la guerra con una grande e rapida vittoria. Il 14 settembre il capo di stato maggiore tedesco Moltke, 99

criticato perché non aveva saputo tenere in pugno le sue armate con l'energia necessaria, fu sostituito con il generale Erich von Falkenhayn. La ritirata tedesca si arrestò sul fiume Aisne, poche decine di chilometri a nord della Marna. Poi l'andamento delle operazioni cambiò: il fronte dall'Aisne al Reno rimase statico, mentre entrambi gli eserciti riversavano nuove truppe a nord per aggirare lo schieramento nemico e rovesciarlo. La cosiddetta «corsa al mare», dopo una successione incalzante di movimenti, attacchi e furiosi combattimenti, si concluse tra novembre e dicembre con la creazione di un fronte continuo dall'Aisne alla Manica. Anche i combattimenti cambiavano forma: nelle prime settimane gli eserciti si erano affrontati in campo aperto, con le truppe che manovravano e andavano all'attacco secondo le previsioni subendo peraltro perdite tremende, ora invece chi doveva difendersi cominciava a scavare buche e poi trincee sempre più estese e profonde; aumentava il consumo di munizioni e comparivano i reticolati. Nel dicembre 1914 il fronte occidentale era diventato continuo e statico per i 700 chilometri dalla Manica alla frontiera svizzera (lasciando in mano ai tedeschi le regioni settentrionali francesi e il Belgio); e si sarebbe spostato di ben poco fino al 1918. Sul fronte orientale, i russi attaccarono subito con le truppe schierate ai confini già in tempo di pace, senza attendere il completamento della loro lenta mobilitazione. La loro invasione della Prussia orientale fu però respinta da forze tedesche assai inferiori per numero, ma meglio armate e appoggiate dalla rete ferroviaria; la vittoria di Tannenberg, 27-30 agosto, portò alla ribalta due generali tedeschi, l'anziano Paul von Hindenburg e il suo capo di stato maggiore, il giovane e brillante Erich Ludendorff, che aveva un peso decisivo nel comando. I russi ebbero maggiore fortuna nelle prime battaglie contro gli austro- ungarici, anche perché costoro avevano distolto parte delle loro truppe per liquidare la Serbia (ma tre diverse offensive da agosto a dicembre furono respinte dal piccolo esercito 100

serbo). In autunno il completamento della loro mobilitazione permise ai russi di attaccare con grandi forze su tutto l'immenso fronte, dalla Prussia orientale alla Galizia, e di schiacciare gli austriaci con grosse perdite da entrambe le parti fino ai Carpazi, minacciando l'invasione dell'Ungheria. L'arrivo di rinforzi tedeschi dal fronte occidentale permise a Hindenburg e a Ludendorff di riequilibrare provvisoriamente la situazione. In dicembre anche il fronte orientale aveva assunto un andamento continuo, sebbene presidiato con una minore densità di uomini e cannoni rispetto al fronte occidentale. - "La guerra continua". La fiducia nella guerra breve fu lenta a morire. Quando fu evidente che le operazioni si sarebbero protratte nell'inverno e oltre, si diffuse la convinzione che la decisione del conflitto sarebbe venuta nell'estate 1915, al più tardi in autunno. Col passare delle stagioni le illusioni caddero, la fine della guerra si allontanò sempre più e per i soldati la trincea diventò una condizione senza sbocco e senza tempo. I primi a rendersi conto che la guerra si sarebbe protratta furono coloro che dovevano alimentarla. Tutti gli eserciti erano scesi in campo convinti che i depositi di armi e munizioni predisposti in pace dovessero bastare per tutto il conflitto; ma nella battaglia della Marna l'artiglieria tedesca aveva sparato più colpi che nella guerra 1870-1871 e in ottobre aveva esaurito le scorte. Per affrontare la continuazione della guerra bisognava organizzare la produzione di armi e munizioni, pianificare i rifornimenti alimentari per le truppe e il paese, chiamare nuovi soldati per colmare i paurosi vuoti (i francesi avevano perso 300 mila uomini in agosto e settembre, quasi mezzo milione entro la fine dell'anno, gli austriaci oltre un milione). Le difficoltà organizzative erano grandi, le spese straordinarie, ma le necessità impellenti e crescenti. Con ritardi e contrasti, governi, industriali e stati maggiori si misero 101

dovunque all'opera, in primo luogo per la produzione di munizioni e mitragliatrici, poi per potenziare l'artiglieria portando al fronte i cannoni, anche antiquati, disponibili nelle retrovie e nei forti; sembrava infatti che non ci fosse tempo per la fabbricazione di nuovi pezzi, che venne affrontata su larga scala nel secondo inverno del conflitto. La Germania, che doveva subire le conseguenze del blocco del suo commercio navale, fu la prima a impostare programmi di respiro per il controllo delle materie prime, poi per la produzione di armi e munizioni, infine per il reperimento e la distribuzione delle derrate alimentari. Francia e Gran Bretagna, più ricche di risorse, si mossero più lentamente, con una produzione per le truppe inadeguata fino al 1916. La Russia invece non riuscì a tenersi al passo a causa dei limiti della sua industria e della cronica inefficienza della sua amministrazione; l'inferiorità in materiali delle sue truppe era destinata a aggravarsi sempre più, né gli alleati occidentali potevano inviare rifornimenti perché l'accesso ai porti russi del Baltico era bloccato dai tedeschi e quello ai porti del Mar Nero dai turchi. Restavano i porti dell'estremo nord, ma erano lontani, bloccati dai ghiacci per molti mesi e con ferrovie insufficienti. Era più facile affrontare il problema dei soldati, perché tutti gli stati avevano mobilitato soltanto una parte del loro potenziale umano. I giovani che non avevano prestato servizio militare, gli uomini tra i 30 e i 40 anni furono chiamati alle armi per ripianare le perdite e creare nuove divisioni. Merita attenzione il caso della Gran Bretagna, che poteva contare su un esercito di mestiere di dimensioni limitate (al primo gennaio 1915 gli inglesi tenevano 50 chilometri del fronte occidentale, i belgi 20, i francesi i restanti 650 chilometri); ma quando il governo lanciò nell'autunno 1914 un appello per l'arruolamento di volontari per la durata del conflitto, se ne presentarono 1 milione 900 mila (una bella dimostrazione del consenso popolare alla guerra). Questi uomini dovevano essere 102

addestrati, equipaggiati, armati, organizzati e inquadrati, quindi il loro impiego in combattimento fu lento e graduale. Intanto il conflitto si ampliava. Nel novembre 1914 la Turchia scese in guerra a fianco di Germania e Austria, lanciando una grossa offensiva verso il Caucaso (sanguinosamente respinta dai russi) e una minore verso il canale di Suez controllato dagli inglesi (pure fallita). Gli anglofrancesi decisero allora di forzare lo stretto dei Dardanelli per arrivare a Costantinopoli, in modo da potere rifornire la Russia e minacciare gli austro- tedeschi nei Balcani; era la strategia di aggiramento (caldeggiata in particolare dal ministro britannico della marina Churchill) in contrapposizione alla concentrazione di tutte le risorse sul fronte francese richiesta dai generali che vi combattevano. L'impresa fu però condotta nel peggiore dei modi per le incertezze dei governi e l'insipienza dei comandanti. Nel marzo 1915 la flotta anglofrancese non riuscì a forzare le deboli difese dello stretto; in aprile le truppe sbarcarono sulla penisola dei Dardanelli, ma non riuscirono a progredire dinanzi all'improvvisata e tenace resistenza turca (appoggiata dai tedeschi con ufficiali e materiali), malgrado le forze impegnate salissero in luglio a 12 divisioni. Tra il dicembre 1915 e il gennaio 1916 gli anglofrancesi si ritirarono: dei 500 mila soldati impiegati (tra cui molti australiani e neozelandesi) ne avevano perduti 250 mila tra morti, feriti e malati sgombrati. - "La guerra sui mari". La guerra sui mari fu essenzialmente una questione anglotedesca, perché la flotta francese (e poi quella italiana) era presente soltanto nel Mediterraneo, la marina austriaca era bloccata nei porti adriatici già prima dell'intervento italiano e quella russa non poteva uscire dal Baltico e dal Mar Nero. L'obiettivo immediato della flotta inglese era il dominio assoluto della Manica, che fu sempre mantenuto dall'azione combinata di vecchie corazzate e navi leggere. L'obiettivo 103

maggiore era la neutralizzazione della flotta tedesca da battaglia. Gli inglesi rinunciarono sin dall'inizio ad attaccarla nelle sue basi del Mare del Nord, protette da grosse artiglierie costiere e da estesi sbarramenti di mine, e misero in atto un blocco a distanza. Il nerbo della flotta da battaglia, ossia le corazzate moderne e la loro scorta di cacciatorpediniere, fu basato a Scapa Flow, nelle isole Orcadi a nord della Gran Bretagna, gli incrociatori più veloci più a sud nei porti scozzesi, mentre navi leggere controllavano il mare tra le isole britanniche e la Norvegia e il traffico mercantile (1). Gli inglesi non intendevano mettere a rischio la loro superiorità in corazzate (netta, ma non schiacciante) cercando a tutti i costi una grande battaglia con i suoi imprevisti; a loro bastava tenere la flotta nemica chiusa nei suoi porti. I tedeschi dal canto loro sapevano che in uno scontro diretto erano destinati a soccombere, quindi potevano soltanto sperare che la superiorità britannica fosse logorata dai sommergibili, dalle mine e da scontri fortunati. Di conseguenza la guerra navale nel Mare del Nord vide una sola grossa battaglia senza effetti risolutivi (detta dello Jutland, 31 maggio-1° giugno 1916); e invece diverse azioni minori, come le puntate di incrociatori veloci di entrambe le parti e i bombardamenti sulla costa inglese di dirigibili e aeroplani tedeschi, i quali produssero più allarme nell'opinione pubblica che non risultati concreti. In sostanza la prudente condotta inglese conseguì il suo obiettivo e la flotta da battaglia tedesca rimase bloccata nei suoi porti fino al termine del conflitto. Ciò lasciava agli inglesi il dominio degli oceani e la continuità del traffico mercantile, che permetteva di utilizzare le risorse delle colonie e degli stati neutrali, fattore assolutamente fondamentale per l'alimentazione della loro guerra. Le navi tedesche che nell'agosto 1914 stazionavano in mari lontani furono eliminate in pochi mesi (8 dicembre 1914, affondamento alle isole Falkland degli incrociatori "Scharnhorst" e "Gneisenau"). L'unico insuccesso si ebbe nel Mediterraneo, dove nell'agosto 1914 gli incrociatori "Goeben" e "Breslau" sfuggirono agli 104

anglofrancesi rifugiandosi a Costantinopoli e andando a rinforzare la flotta turca. Le colonie tedesche in Africa e nel Pacifico vennero occupate con relativa facilità; soltanto le forze dell'Africa orientale tedesca (l'odierna Tanzania) riuscirono a resistere per oltre tre anni con una brillante guerriglia, cedendo soltanto alla fine del 1917. Il dominio dei mari permise alla Gran Bretagna di decretare il blocco navale nei confronti della Germania, eliminando subito il suo traffico mercantile. Il problema era più complesso per gli stati neutrali, quelli che intendevano continuare a vendere le loro merci alla Germania, ma soprattutto quelli confinanti o vicini, come l'Olanda, la Svizzera, i paesi scandinavi, che esportavano normalmente in Germania parte notevole della loro produzione, nonché merci che ricevevano via mare. Le esportazioni degli Stati Uniti e dell'America latina vennero man mano deviate verso il mercato inglese, con un misto di pressioni economiche e di accordi con governi amici. E con una faticosa e complessa serie di accordi, facendo pesare con crescente durezza il loro dominio dei mari, gli inglesi ottennero progressivamente di limitare le importazioni degli stati neutrali europei al loro fabbisogno interno e, con minor successo, di ridurre l'esportazione verso la Germania della loro produzione agricola e industriale (la Svezia, meno ricattabile, continuò a vendere ai tedeschi ferro, legname, pesce). In definitiva nel 1915-1916 la Germania, che già aveva perso i rifornimenti dalla Russia, vide crollare la sue importazioni di materie prime e di prodotti agricoli e industriali, con gravi e crescenti ripercussioni sulla produzione bellica e sull'alimentazione della popolazione, anche se qualcosa riusciva comunque a filtrare attraverso il blocco. Dietro alle operazioni austro- tedesche nei Balcani e contro la Russia nel 1915-1916 c'era anche l'esigenza di controllare regioni divenute essenziali per i rifornimenti alimentari. La risposta tedesca al dominio inglese dei mari poteva venire soltanto dai sommergibili. Le loro capacità offensive furono dimostrate nei primi mesi del conflitto dai numerosi 105

affondamenti di navi da guerra, poi diventati più difficili perché le grandi navi venivano protette da una scorta di cacciatorpediniere. L'impiego dei sommergibili contro il traffico mercantile britannico fu inizialmente limitato, perché quelli disponibili erano pochi e rispettavano gli accordi internazionali, ossia siluravano senza preavviso le navi da guerra, ma dovevano ispezionare quelle mercantili prima di affondarle per accertarsi che fossero nemiche o con un carico destinato al nemico, lasciando agli equipaggi il tempo di scendere nelle scialuppe. Poi nel febbraio 1915 la Germania proclamò le acque intorno alle isole britanniche zona di guerra, in cui tutte le navi, nemiche o neutrali, potevano essere affondate senza controlli né preavviso. Ciò provocò le proteste dei paesi neutrali, in particolare degli Stati Uniti, tanto più dinanzi al siluramento di navi per passeggeri con grosse perdite di vite (il caso più noto è quello del transatlantico "Lusitania", colato a picco in maggio con oltre un migliaio di morti). La Germania cercava di giustificare l'inasprimento della guerra sottomarina con lo strangolamento delle sue importazioni navali da parte degli inglesi; ma logicamente l'opinione pubblica si commuoveva più per l'affondamento di un transatlantico che per il sequestro di un mercantile. Il tonnellaggio affondato (ossia la somma della stazza delle navi affondate) rimaneva però basso, 116 mila tonnellate mensili dal marzo all'agosto 1915, perché i sommergibili tedeschi erano pochi e di prestazioni limitate. Il governo tedesco, che cercava di mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti, impose quindi in settembre la rinuncia agli attacchi senza preavviso. La marina tedesca li riprese nel febbraio 1916, ma dovette nuovamente rinunciarvi in maggio. Il tonnellaggio affondato comunque cresceva (300 mila tonnellate mensili nell'autunno 1916) perché aumentavano i sommergibili disponibili e le loro prestazioni. Tuttavia fino al termine del 1916 le perdite non avevano messo in crisi il traffico britannico. - "Le operazioni del 1915". 106

La stabilizzazione del fronte occidentale poneva il problema di come continuare la guerra. Joffre e John French, il comandante britannico in Francia (poi sostituito da Douglas Haig), non avevano dubbi: reclamavano tutte le risorse disponibili in uomini, munizioni e cannoni per sferrare un'offensiva dopo l'altra fino al collasso tedesco, che davano per imminente. Offensiva nell'Artois nel dicembre 1914, offensiva nella Champagne tra dicembre e gennaio 1915, rinnovata in febbraio e poi in marzo, seconda offensiva nell'Artois in maggio- giugno, nuova offensiva nella Champagne in settembre- ottobre e contemporaneamente terza offensiva nell'Artois, tutte battaglie con lo stesso andamento: bombardamento iniziale d'artiglieria che sconvolge le trincee nemiche, attacchi della fanteria che occupa la prima linea, ma è decimata dall'artiglieria, contrattacchi tedeschi che riconquistano parte del terreno, nuovi bombardamenti, attacchi e contrattacchi, accorrere di truppe fresche da entrambe le parti, ancora bombardamenti, attacchi e contrattacchi fino all'esaurimento delle energie delle truppe. I risultati sono la conquista di qualche chilometro di trincea e perdite sempre maggiori, 100 mila attaccanti in maggio-giugno, 300 mila in settembre-ottobre. Oltre a queste battaglie maggiori Joffre lancia anche diverse offensive secondarie e incoraggia le truppe a un atteggiamento aggressivo con attacchi locali e colpi di mano. La sua fiducia è incrollabile, ogni volta prepara le divisioni di cavalleria per l'avanzata in profondità dopo lo sfondamento del fronte e reagisce agli insuccessi proclamando: «Je les grignote», li rosicchio, li consumo. In realtà le perdite tedesche sono inferiori della metà e il logorio dell'esercito francese è terrificante: 400 mila morti nel 1915, l'anno più sanguinoso. Tenendo conto di feriti, malati e prigionieri, ciò significa la perdita della metà dei 2 milioni 600 mila uomini al fronte. La condotta tedesca è più cauta. Falkenhayn ordina una difesa rigida e aggressiva per mantenere le posizioni, lancia soltanto offensive minori e cura l'organizzazione e 107

l'armamento: un sistema di trincee molto curato, con ricoveri in profondità, molte mitragliatrici, molte munizioni e lo sviluppo dell'artiglieria media. Nei suoi piani il fronte occidentale deve cedere la massima quantità di forze compatibile con la difesa a oltranza del terreno per rinforzare il fronte orientale e liquidare la minaccia russa. L'esercito russo andava infatti sviluppando una forte pressione su un arco amplissimo (come un inarrestabile rullo compressore, si diceva allora). Tra gennaio e aprile 1915, in condizioni climatiche durissime, attaccò sui Carpazi, fermato a stento dagli austriaci sorretti dai tedeschi. A nord fu invece respinto da una controffensiva di Ludendorff. Poi il 2 maggio 1915 gli austro- tedeschi agli ordini di August von Mackensen lanciarono una grande offensiva con mezzi potenti (1500 cannoni e i gas) tra Gorlice e Tarnow, nella Polonia meridionale. Troppo inferiore in materiale e male comandato, l'esercito russo crollò; entro metà agosto Mackensen aveva fatto 750 mila prigionieri e occupato tutta la Polonia. In agosto e poi ancora in settembre Ludendorff tornò all'offensiva da nord respingendo i russi più a est, su una linea che andava da Riga al confine romeno. Hindenburg e Ludendorff chiedevano nuove truppe per proseguire l'offensiva fino a costringere la Russia alla resa, ma Falkenhayn rifiutò, perché temeva che ciò avrebbe richiesto troppo tempo e troppe divisioni, mettendo in pericolo il fronte occidentale. La forza offensiva dell'esercito zarista era stata comunque spezzata, le sue perdite di mezzi e cannoni non erano rimpiazzabili; era possibile formare nuove divisioni, ma non equipaggiarle. La Russia sembrava ridotta ormai a un ruolo secondario. Restava da liquidare la Serbia, rimasta sulla difensiva dopo le vittorie del 1914 sugli austriaci. Nell'ottobre 1915 le truppe austro- tedesche di Mackensen l'attaccarono da nord, mentre la Bulgaria (decisasi allora all'intervento) la invadeva da sud. Dopo una breve resistenza l'esercito serbo crollò; i suoi resti si salvarono con una durissima marcia attraverso i monti verso il porto albanese di Durazzo, allora 108

in mano agli italiani. Lo sbarco in ottobre di truppe anglofrancesi a Salonicco avvenne troppo tardi per dare sostegno ai serbi e si ridusse alla difesa di un'ampia testa di ponte di scarso rilievo strategico fino al 1918. Falkenhayn aveva raggiunto i suoi obiettivi, il controllo di gran parte dei Balcani e la riapertura della via più diretta verso la Turchia; ritirò quindi parte delle sue truppe e rivolse il suo interesse al fronte francese, preparando l'offensiva di Verdun. * L'ITALIA DALLA NEUTRALITA" ALL'INTERVENTO. - "Le forze in campo". Al centro e a destra, i liberali e - come si continua a chiamarli in assenza di un partito politico vero e proprio - i cattolici (2). Con tutto ciò che ancora li divide, costituiscono nell'insieme un blocco moderato, che ha già fatto le sue prove nelle elezioni amministrative e in quelle politiche del 1913, e il grosso del paese e del parlamento. Insieme, coprono uno spazio sociale e politico larghissimo e non molto si può fare senza o contro di loro. L'asse di questo complesso agglomerato di forze non è comunque fisso e indiscutibile: all'interno vi è chi guarda a destra - uomini come Salandra o Sonnino - e chi guarda a sinistra, primo fra tutti Giolitti. All'ala estrema si va profilando una nuova destra, che è per ora una pattuglia di teste pensanti, con agganci nell'economia e nella cultura, tanto universitaria che militante. Spostiamoci sull'altro versante. Tenendo conto sia delle posizioni nelle istituzioni rappresentative sia dell'insediamento politico nel paese, incontriamo anzitutto la piccola e media borghesia radicale, uomini delle professioni, abbastanza fluttuanti come collocazione e comunque non lontani dai giolittiani e orbitanti nell'area di influenza dello statista piemontese. Seguono i repubblicani, non più numerosi dei radicali, ma con una grande storia alle 109

spalle e una identità più pronunciata; poi, dopo qualche gruppo isolato di riformisti ormai fuori dal Partito socialista, quello che si è ormai affermato come il partito della sinistra, sia nelle istituzioni parlamentari e locali, sia per i suoi collegamenti con il mondo sindacale e con le masse. Più a sinistra del Partito socialista, in parlamento non c'è nessuno, ma in certe aree e settori del paese sì: gruppi di estrema, spesso composti da fuoriusciti dal Partito socialista stesso, frutto di una continua diaspora, come i sindacalisti rivoluzionari; e - ancora più in disparte e isolati nella protesta - i gruppi anarchici (3). Questa piccola mappa politica lascia a desiderare quanto a efficacia nel delineare lo spazio pubblico, già prima che lo investano le burrasche politiche scatenate dalla necessità di prendere posizione rispetto alla guerra. Soddisfa solo in parte anche perché è dubbio che alla variegata geografia economica, sociale e politica della penisola corrisponda prima della guerra uno spazio politico unitario, riconducibile a parametri, forme e linguaggi politici omogenei. Nord e Sud, città e campagna, Roma e Milano, governanti e governati: i segni della diversità di situazioni si potrebbero moltiplicare. Neanche del partito politico più vicino a una forma di partito moderna e di massa - quello socialista - si può dire che disponga di un insediamento realmente omogeneo e nazionale; se poi diciamo «cattolici» - costretti dalle circostanze a utilizzare un soggetto politicamente improprio - copriamo anche in questo caso diversità profonde. La parrocchia e il prete veneto ben poco assomigliano a quelli siciliani e neppure il tessuto cattolico ha ovunque maglie altrettanto fitte e analoga forza di penetrazione e rappresentatività sociale. Se è difficile per noi ricostruire una plausibile mappa unitaria dei comportamenti politici, ovviamente fu ancor più difficile per i politici stessi unificare linguaggi e comportamenti, agire all'interno di queste discrasie e governare orientamenti e scelte in vista di una decisione (4). Li aiutarono non solo il dibattito, la volontà e capacità di persuadere, le procedure democratiche, ma gli stessi 110

vuoti di partecipazione che tenevano vaste masse lontane dall'azione politica, le pratiche e le abitudini di esclusione e autoesclusione, gli atti di imperio. Né si può dire che il parlamento sia il luogo vero e proprio del processo decisionale, di formazione della scelta di entrare in guerra. Lo sono molto di più la corte, il governo - in particolare la presidenza del Consiglio e il ministero degli Esteri -, le ambasciate che contano a Berlino, a Vienna, a Londra, e relativamente meno - a Mosca e a Parigi. L'esercito, tutto sommato, sta al suo posto, accetta il suo ruolo tecnico, in attesa di ordini che tarderanno, complicando i problemi di ridislocazione di uomini, armi e fortificazioni, dalla frontiera occidentale a quella nordorientale. Come luoghi di elaborazione e diffusione delle scelte si affermano piuttosto sedi e strumenti extraistituzionali: entrano attivamente in gioco la stampa (5) ed anche, in certo modo, la piazza. I primi a schierarsi sono i repubblicani, da una parte, e i nazionalisti dall'altra. Questi ultimi, come si è detto, trasformano presto in scelta netta a favore della guerra gli iniziali riflessi d'ordine, filogermanici e triplicisti. I dichiarati eredi di Mazzini e di Garibaldi, dal canto loro, hanno tenuto vivo per mezzo secolo l'irredentismo e adesso colgono al balzo l'occasione che rinverdisce il loro ruolo, storico e attuale. Pretendono Trento e Trieste italiane, in una guerra di libertà dei popoli, e sono pronti ad andare a liberare le città-simbolo - se l'Italia monarchica tarda a marciare - anticipando i tempi in una guerra di ardimento e volontariato: oggi in Francia, domani in Italia. La Francia repubblicana, erede della Rivoluzione e interprete deputata dei "princìpi dell'89", accoglie già nel 1914 alcune migliaia di volontari capeggiati da Peppino Garibaldi e dagli altri quattro nipoti dell'eroe, ma non è molto più disposta del Regno d'Italia ad apprezzare le inflessioni politiche eversive delle loro Camicie rosse. La galassia irredentista è comunque vogliosa di menare le mani, esige la guerra all'Austria e si mostra pronta a creare il "casus belli", con sconfinamenti, scontri di frontiera, per forzare la mano al governo Salandra che agisce con tutt'altro animo e tempi. 111

Valichiamo le posizioni del Partito socialista per rilevare che, sul terreno della «fratellanza latina» e della fascinazione accettata del paese guida della Rivoluzione, il neogaribaldinismo dei repubblicani più ardenti incontra e si intreccia con la diaspora dell'estrema sinistra: ex comunardi, qualche anarchico in libera uscita, soprattutto gli energici e appassionati leader sindacalisti rivoluzionari, Filippo Corridoni a Milano, Alceste De Ambris a Parma, alla testa di gruppi più o meno consistenti di proletariato organizzato. La frantumazione dello scenario politico abituale è già prefigurata in questi emuli di Georges Sorel, scissionisti e polemici, già da anni, rispetto alle strutture, agli spiriti e agli uomini della C. G.L. e del partito. Fra ottobre e novembre, a questo pullulante mondo politico in via di ridefinizione a sinistra verrà ad aggiungersi il carisma di Mussolini, come diremo più avanti. I neutralisti, all'inizio e poi anche nel corso di quei dieci mesi, appaiono più numerosi degli interventisti, se misurati guardando ai loro referenti politici. Originariamente quattro, tali referenti durante la crisi di governo del maggio 1915 si riducono quantomeno a due (socialisti e liberali giolittiani, dei cattolici diventa sempre più difficile dire); infine a uno (i socialisti) quando la crisi rientra, Salandra si presenta alla Camera e vengono votati i crediti di guerra (20 maggio). Il quarto referente politico dei neutralisti - il primo a diluirsi in un atteggiamento d'ordine, man mano che il governo rende decifrabili le sue propensioni - è il variegato mondo dei conservatori: il notabilato, la destra liberale, gli agrari, gli uomini d'ordine, coloro che - come il ministro degli Esteri marchese di San Giuliano e poi lo stesso barone Sonnino, suo successore dall'ottobre - non avrebbero visto male il rispetto della Triplice, se ne sono allontanati con rammarico e a fatica e, certo, non si sono scaldati la testa con i richiami alla fratellanza latina e con le poesie sulla libertà e la giustizia violate. Il "sacro egoismo" nasce da qui, e Salandra, in fondo, è un loro uomo. La loro neutralità non è neutralismo e non vuole avere nulla di ideale. Come il governo, stanno semplicemente a 112

guardare, ragionando in termini di calcolo e di convenienze, di bilanciamento delle forze in campo e di ipotesi antitetiche: starne fuori o entrarvi, e sulla base di quali compensi. Il 4 dicembre il direttore del quotidiano romano «La Tribuna», Olindo Malagodi - che sta discretamente promuovendo, a futura memoria, una preziosa serie di colloqui confidenziali con i protagonisti - appunta una previsione di Giolitti e la franca confessione dei criteri che definiscono il senso e i limiti di questo vasto settore del neutralismo borghese: «se la guerra si conclude senza vantaggio per noi, saranno guai. Anche i neutralisti odierni tireranno pietre». Ma l'ex ministro è indotto dai rapporti personali con il giornalista amico a scoprirsi ancor più e a confermare la peggiore immagine che i traccheggiamenti fra un blocco e l'altro vanno diffondendo dell'Italia: «Bisogna trovare modo d'intervenire quando l'Austria sia caduta; intervenire pel testamento» (6). Il pur discreto cronista non riesce a trattenere una perplessità che non è solo sua, ma anzi esemplifica le preoccupazioni di molti moderati, prosaicamente sospesi - superato ormai il «con chi» - fra il «se» e il «quando»: «E se troviamo un testamento già suggellato?». Quando, qualche mese dopo, i buoni uffici di Bernhard von Bulow - l'ex cancelliere tedesco sceso come ambasciatore d'eccezione a Roma per sfruttare i suoi buoni rapporti con l'Italia (ha persino sposato la figlia di un padre della patria quale Marco Minghetti) - e gli sviluppi generali della situazione avranno reso sempre più appetibile la non ostilità dell'Italia, Giolitti si farà interprete della disponibilità dell'Austria a concedere «parecchio», pur di tenerla fuori dal conflitto. In sostanza, Giolitti non ha cambiato idea (7). Ma otto giorni dopo la sua dichiarazione a «La Tribuna», il 12 dicembre, il neo ministro degli Esteri Sonnino aveva detto a Malagodi cose molto simili: «La guerra sarà lunga - ripete - bisognerebbe entrarci il più tardi possibile; ma che però non sia troppo tardi» (8). Realismo spinto sino al cinismo, dunque, nei due campi - a questo punto solo tatticamente e personalmente 113

contrapposti - in cui si è suddiviso il tradizionale partito di governo. Oggi, un tale pragmatismo potrebbe forse essere promosso a scienza della politica, e ribattezzarsi "geopolitica". Passiamo ai cattolici. Una mitologia a uso non solo interno vuole che il vecchio Pio Decimo muoia di crepacuore, il 20 agosto 1914, alle prime battute della strage fratricida. Il 5 settembre gli succede, con il nome di Benedetto Quindicesimo, l'arcivescovo di Bologna Giacomo Della Costa, che ribadisce in documenti e dichiarazioni orientamenti favorevoli alla pace nei quali sono rinvenibili sia afflati universalistici e spiriti umanitari, sia una più concreta e tradizionale simpatia per l'Austria, baluardo della conservazione e «paese cattolico». In un movimento così intimamente gerarchico e autoritario quale quello che fa capo a papa, vescovi e parroci, e in cui non difettano certo le propensioni per i paesi dell'ordine, cioè per gli Imperi centrali, le scelte ufficiali non possono che ripetere questi atteggiamenti: lo conferma la riunione nazionale del 24 settembre a Milano, dove le organizzazioni cattoliche si dichiarano per la neutralità in una fase in cui questa presa di posizione implica in sostanza la non disponibilità a fare la guerra contro i vecchi alleati e a fianco dei repubblicani, massoni, anticlericali e protestanti di Francia e Inghilterra. Il più noto fra i deputati "cattolici", il prossimo ministro nel governo Boselli Filippo Meda (9), si spinge a dire che l'Austria promuovendo la guerra alla Serbia non ha violato i patti di alleanza con l'Italia e che quindi la Triplice può benissimo restare in vigore: interpretazione rivelatrice e compromettente, in una fase in cui l'immagine internazionale dell'Italia è a rischio e altri fanno invece di tutto per dimostrare che, viceversa, fra luglio e agosto essa aveva tutto il diritto, oltre che la convenienza, a tirarsi indietro. Ma il neutralismo cattolico assume anche altre forme. Una è quella rappresentata da Guido Miglioli, l'organizzatore di punta dei contadini nel Cremonese, in diretta e ardente contrapposizione con l'altro "genius loci" Bissolati. E' 114

questo un pacifismo assoluto, a sfondo sociale e politico, testimonianza simbolica di una estraneità dei contadini alla guerra che si prepara, ma a cui non corrisponde ad un'azione organizzata su un piano generale. Un'altra rilevante espressione del mondo cattolico è Alcide De Gasperi, deputato cattolico del Trentino a Vienna come lo è Battisti per i socialisti. Al pari di Battisti, anche De Gasperi lascia il Trentino e scende nel Regno, ma - lungi dall'incitare all'intervento - lavora a Roma come uomo di collegamento della diplomazia vaticana tesa a fare da sponda a von Bulow. Preso atto, nel marzo del 1915, dell'impossibilità di tenere l'Italia fuori dal conflitto, De Gasperi compie ancora una volta la scelta opposta a quella di Battisti: torna nel Trentino e in Austria dove resterà per l'intera durata della guerra (10), in rappresentanza della maggioranza dei trentini "normali", come diranno i suoi difensori; ma contro l'Italia, continueranno a pensare, e talora anche a dire, i suoi detrattori. Vite parallele di uomini simbolo e figure di un dramma storico. Né gli atteggiamenti del supremo pastore di una religione ecumenica né quelli più direttamente politici sopra ricordati rispecchiano tuttavia pienamente le posizioni dei cattolici. De Gasperi ha i problemi particolari del rappresentante di un territorio di confine ed è il confronto con Battisti, l'"Apostolo" e il "Martire", che schiaccia e fa apparire tiepida la sua normalità, la quale invero lo accomuna ai più, in Trentino come in Italia. Miglioli è un "outsider", farà storia a sé per tutta la vita. La via maestra è Meda, triplicista come tanti altri, cattolici e laici, ma che poi finisce per rappresentare la sua parte all'interno delle compatibilità reali, quali si vengono definendo nei dieci mesi di discussione e durante gli anni di guerra. Certo, degli ostacoli, delle freddezze e dei ritardi dei cattolici in questa conversione alla guerra si ricorderanno gli ex interventisti e gli uomini del fronte interno, additandoli come "disfattisti" in potenza, accanto alle altre due grandi famiglie politiche del neutralismo. Ma i cattolici - glissando magari su qualche ostentazione di triplicismo - potranno ricordare di avere 115

ripetutamente detto di considerare a loro avviso auspicabile la pace, ma relativa e non assoluta la neutralità, condizionata sempre alle decisioni del governo, solo legittimo detentore del potere, rispetto a cui i cattolici avrebbero saputo dimostrare di essere buoni cittadini: anzi, per definizione, i più ubbidienti di tutti. Queste assicurazioni di ortodossia civica e di legalitarismo non costituiscono solo una affermazione ideologica: i tempi del "Sillabo", del «né eletti né elettori», della minaccia sociale costituita dal movimento clerico- intransigente sono ormai trascorsi e i cattolici - salvo rari apocalittici e frange reazionarie - si vogliono ormai italiani come e più degli altri. Entrati in lizza come elettori, se non ufficialmente come eletti, hanno interessi e uomini propri nel sistema bancario, nei giornali, nei centri di potere; la guerra di Libia ha rivelato un montante "nazionalismo cattolico" (11). I cattolici sono pronti, insomma, a giocarsi le proprie carte di soggetto sociale e culturale forte e di soggetto politico in via di costituzione propendendo - sinché la partita appare aperta - per uno dei contendenti o per la pace, piuttosto che per la guerra; ma - come avviene per altre forze, quali i nazionalisti - badando a non farsi tagliar fuori dagli avvenimenti nel momento in cui questi si avviano in direzione della guerra, e della guerra contro gli Imperi centrali. Staranno nella guerra come gli altri e diversamente dagli altri, con il loro patriottismo di moderati e uomini d'ordine, non ignari, a differenza di altri, dei veri sentimenti delle masse popolari. Spostiamoci fra coloro che costituiscono la terza componente del composito mondo dei renitenti alla guerra: i socialisti, del partito e del sindacato. Già il 27 luglio quando la linea del governo non ha ancora preso forma ufficiale - dicono no alla guerra, rispettivamente, la direzione della minuscola formazione riformista e il gruppo parlamentare del Partito socialista. Ma per i primi è solo un passaggio tattico per scongiurare l'ipotesi triplicista: già il 2 agosto, in contemporanea con la dichiarazione di neutralità, Bissolati scrive al suo vice Ivanoe Bonomi che 116

«bisogna preparare l'anima del proletariato italiano alla guerra» (12). «Neutralità dunque oggi e domani», prende invece atto e rilancia l'«Avanti!», mentre la direzione del partito, riunita con i dirigenti sia della C.G.L. sia - per il momento - dell'Unione sindacale italiana (USI), prospetta, in caso di sconfitta dell'ipotesi neutralista, l'indisponibilità proletaria a marciare e lo sciopero generale. E' un'arma, questa, che verrà via via spuntandosi: con la spaccatura dell'USI - dove già a fine agosto il sindacalista rivoluzionario De Ambris si orienta all'intervento, mentre l'anarchico Armando Borghi continua ad opporsi (13) -, con l'ammorbidimento progressivo della C.G.L. e soprattutto con il passaggio di Mussolini dall'una all'altra sponda. Ma per questo c'è tempo: il suo famoso pronunciamento "Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante" uscirà sull'«Avanti!» del 18 ottobre. Intanto vanno segnalate le visite propiziatorie di dirigenti socialisti, prima austriaci e poi tedeschi, che vorrebbero spiegare le proprie posizioni ai compagni italiani. L'incontro, rifiutato ai primi, concesso ai secondi, non ha esito, poiché viene loro chiarito che le sinistre italiane si dividono fra neutralismo e simpatia per la Francia, mentre non ne raccolgono alcuna né la Germania né l'Austria. Nonostante questo, fra gli interventisti, anche di sinistra, si alzano deprecazioni per contatti che già vengono percepiti come compromettenti e antinazionali (14). E' un segno della velocità e imprevedibilità dei processi in corso. A metà agosto il cinquantasettenne Bissolati ha già fatto domanda di essere riammesso nel quinto alpini. Il 9 settembre Mussolini, in una assemblea degli iscritti alla sezione milanese del partito - luogo chiave della sua evoluzione e una delle scene privilegiate delle trasformazioni e degli accessi all'intervento da sinistra - precisa che i socialisti sono pur sempre italiani e che non patrocineranno la guerra, ma potrebbero in determinate condizioni accettarla (15). L'«Avanti!» continua comunque la sua vigorosa campagna neutralista e il 21 settembre Mussolini firma accanto a Filippo Turati e a Camillo Prampolini un manifesto unitario 117

che ribadisce l'ostilità di principio alla guerra e le classiche linee dell'Internazionale. Il plebiscito di adesioni che esso suscita nel paese sembra assegnare al Partito socialista come non mai - un ruolo di riferimento nazionale più vasto del suo bacino elettorale. E anche, in qualche misura, internazionale, se non altro in veste di supplente, poiché diversi dei partiti fratelli maggiori hanno già abbandonato il terreno dell'Internazionale rifluendo all'interno delle rispettive compatibilità nazionali. Il 3 ottobre il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, annunciando le proprie dimissioni dal P.S.I. in nome delle divergenze sull'adesione dell'Italia alla guerra, fa filtrare sulla stampa di informazione l'annuncio che uno dei capi della sinistra neutrale attraversa una salutare crisi di ripensamento. Ne tace il nome, ma esso viene presto fuori: è quello di Mussolini. La grande stampa ci si butta (16), l'uomo non si tira indietro e con una serie di interventi, lettere aperte, interviste, si consuma una scelta destinata a non rimanere solo personale. Perché è vero che il grosso dei militanti non lo segue, ma quella pubblica rappresentazione di una radicale crisi di princìpi e di orientamenti pesa nel discorso pubblico sulla guerra e, indirettamente, anche su chi resta nel partito. I "giovanì - o, meglio, le riviste dei "giovani" - ne sono affascinati. «Politica, azione: ma si fanno meglio altrove. Ora c'è il "Popolò. E io sono a Roma per aiutar Mussolini»: così l'ex direttore della «Voce», nella pagina che si è riservata sul primo numero della nuova «Voce» letteraria di Giuseppe De Robertis. Poi, preoccupato che la sua possa riduttivamente apparire una soluzione attivistica al tedio ricorrente che gli ha fatto abbandonare la sua creatura: "Dunque, parola d'ordine, con Mussolini. Vorrei che tanti amici della «Voce», dalle provincie, dai paesi lavorassero con lui. Perché non informare? Essi hanno, qui dalla «Voce», avuto certi indirizzi ed illuminazioni. Ora si tratta di applicare" (17). 118

All'interno del suo partito l'inversione di marcia del leader della giovane sinistra non raccoglie i consensi prodigatigli fuori. Il 20 ottobre l'ordine del giorno presentato da Mussolini in direzione non riceve neanche un voto oltre al suo ed egli si dimette da direttore del quotidiano, che torna nelle mani della direzione del partito. Nuovo manifesto di riconferma della scelta di pace, che riconosce solo i socialisti russi e serbi come compagni sulle disertate trincee dell'internazionalismo (21 ottobre). Il vento però è mutato, ora l'attenzione del mondo politico è tutta per le divisioni in casa socialista. Mussolini non è solo, come prova la solidarietà di buona parte della sezione milanese (18) riunita il 22, alla presenza del sindaco socialista della città e di parecchi assessori. In una nuova riunione (10 novembre) il trentunenne leader dissidente dichiara che «il vecchio antipatriottismo è tramontato» e preannuncia la nascita del suo nuovo organo personale. Chi paga? chiedono coloro che non hanno cambiato idea. Il giorno 15 novembre il primo numero del «Popolo d'Italia» è pronto, con un altro pezzo mussoliniano destinato alla celebrità, "Audacia", chiuso da un'espressione a suo modo rivelatrice: "Il grido è una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, oggi: una parola paurosa e fascinatrice: "guerrà!" (19). Mussolini dice anche di sentirsi e di voler restare socialista (20) e il suo giornale si proclama tale in testata; ma l'ambiguità ormai va risolta e la stessa sua sezione accetta la proposta della direzione di espellerlo. Con parole destinate a restare memorabili nel mito fascista delle origini, il reietto «non si acquieta, ma grida, non si piega ma insorge» (21). Intanto il 31 ottobre il governo Salandra si dimette, ma per risorgere immediatamente più forte: l'«Avanti!» del 5 novembre lo battezza «ministero della Guerra». Le cose andranno per le lunghe - come aveva preannunciato 119

Giuseppe Prezzolini (22) -, ma così effettivamente sarà. Si è comunque entrati in una nuova fase e lo si vede anche dalle pressioni che ricevono i socialisti dai visitatori esteri: i quali non sono più i socialisti dei paesi della ex Triplice, impegnati a trattenerli, ma quelli dell'Intesa desiderosi di sospingerli. Intervenendo alla Camera, riaperta il 3 dicembre, alcuni dei massimi esponenti del riformismo, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani e Turati, mostrano tuttavia che pressioni e lacerazioni non hanno finora modificato la linea ufficiale: «né vincitori, né vinti». Tocca al segretario del partito, il vecchio Lazzari, enunciare sull'«Avanti!» l'11 gennaio 1915 i propositi operativi dei socialisti nel caso di una mobilitazione che gli sviluppi della situazione rendono sempre meno improbabile: nessuna opposizione se sarà per difesa, resistenza invece in caso contrario. Neanche per i socialisti, a questo punto, tutte le guerre e tutti i nemici si assomigliano e sono equiparabili. Riformisti e massimalisti si trovano comunque d'accordo nel raccomandare alla borghesia di non assumersi la responsabilità di una guerra, esponendosi a «immediate, incoercibili esplosioni dell'esasperazione popolare» (23) e nell'indire per il 21 febbraio, in occasione della riapertura del parlamento, manifestazioni in tutte le città d'Italia. Assai meno netta, ormai, la posizione teorica e pratica della C. G.L. Di sciopero generale, comunque, si parla meno e lo stesso Turati lo esclude come una forma di vera e propria rivolta, impossibile in tempo di guerra (24). L'apparizione sulla «Tribuna» della lettera di Giolitti a un suo fedele, l'onorevole Luigi Peano («Potrebbe essere che [...] "parecchio" possa ottenersi senza una guerra») riapre speranze di pace che sembravano ormai quasi compromesse, restituendo una sponda politica ai socialisti. Qualcuno di loro gli promette a priori il voto, se il vecchio condottiero andrà al governo per riprendere in pugno la situazione e salvare "in extremis" la pace. La giornata dimostrativa del 21 febbraio riesce, poiché le masse rispondono positivamente e si mobilitane in tutto il paese al richiamo pacifista del partito; si evidenzia, nel contempo, 120

che gli interventisti sono meno numerosi, ma più risoluti, pronti anche ad usare le maniere forti, spostando la contesa su un piano diverso da quello delle semplici dimostrazioni. Dovremo riparlarne. Il 4 marzo le autorità politiche operano una forzatura nel governo dell'ordine pubblico, proibendo i pubblici comizi. La disposizione ai prefetti non avrà però alcun seguito effettivo. Tant'è che il 31 marzo, a Milano, si confrontano due opposti cortei di interventisti e di neutralisti, rispettivamente capeggiati da Mussolini e da Giacinto Menotti Serrati, il vecchio e il nuovo direttore dell'«Avanti!». Che tipo di ordini abbia ricevuto la polizia lo dimostra il fatto che più di duecento socialisti vengono arrestati, mentre il direttore del «Popolo d'Italia» e i fautori della guerra rimangono padroni del campo. La direzione reagisce chiamando i compagni a «contrapporre subito dimostrazione a dimostrazione» (25). Così avviene l'11 aprile, sia a Roma che a Milano, ed entrambe le volte i cortei socialisti vengono dispersi dalla forza pubblica e molti dimostranti posti in stato di arresto. A Milano l'uccisione di un operaio da parte della polizia provoca un ultimo sussulto unitario, lo sciopero generale paralizza la città, una folla enorme segue i funerali, sono presenti e parlano ancora insieme personaggi ormai profondamente divisi dalla guerra. Ma siamo ben lontani dalla pretesa avanzata da Lenin, il quale, criticando la politica di mediazione perseguita dai socialisti italiani, incita a trasformare la guerra imperialista in guerra civile, senza cedere al ricatto della sconfitta nazionale (26). Quando lo sciopero generale proclamato il 17 maggio dalle organizzazioni operaie torinesi - dove la sinistra interna è più forte - si scontra con il passaggio dei poteri alle autorità militari e con l'occupazione della Camera del lavoro, che provoca un morto e diversi feriti, la circostanza vale da sinistro esempio dissuasivo di quanto, in proporzioni ben più gravi e incontrollabili, potrebbe avvenire decidendo di mettere in pratica la parola d'ordine della resistenza attiva alla mobilitazione. Quel giorno di sciopero - al termine della 121

breve crisi del «ministero della Guerra» - chiude dunque, lungi dall'aprirle, la possibilità e volontà di gettare in campo tutte le forze del movimento operaio contro una dichiarazione di guerra ormai imminente. Il 20 maggio il gruppo socialista si ritrova solo alla Camera a votare contro la guerra, mentre giolittiani e cattolici neutralisti sembrano essersi volatilizzati. Spetta a Turati, in un commosso intervento che è anche una confessione di impotenza, dichiarare a nome degli altri il «noi restiamo socialisti [...] Faccia la borghesia italiana la sua guerra [...] nessuno sarà vincitore, tutti saranno vinti». Ed anche - a prova e a preannuncio di un radicamento nazionale cui i socialisti italiani non intendono rinunciare, pur mentre si dissociano dalla scelta militare - «quando voi ci invitaste a gridare un "Viva l'Italia!" che non sia l'involucro insidioso di un "Viva la guerra!" nessuno vi risponderebbe con più profonda convinzione e con più schietto entusiasmo di noi» (27). - "La rottura delle sinistre". Il 4 agosto 1914 la socialdemocrazia tedesca - guida teorica e modello organizzativo della Seconda Internazionale - vota compatta a favore dei crediti di guerra con una motivazione che non lascia margini ad ambiguità: «Noi non abbandoniamo la nostra patria nel momento del pericolo». Nell'Impero austroungarico alla pluralità delle nazionalità corrisponde una pluralità di partiti socialdemocratici federati, ma all'impatto con la guerra le risposte sono solo tre: una forte componente nutre sentimenti e adotta comportamenti simili a quelli della S. P.D., solidali con il proprio paese impegnato a difendersi dal pericolo zarista e dall'imperialismo britannico; una minoranza di sinistra, ispirata da Friedrich Adler e di cui fa parte un gruppo di intellettuali marxisti, si schiera contro la guerra; il centro, guidato dal vecchio capo del partito Victor Adler, cerca di mediare fra spinte contrapposte. Nella Sezione francese dell'internazionale operaia - la SFIO - si sono fuse nel 1905 cinque organizzazioni di sinistra, variamente collocate 122

rispetto al nesso riforme- rivoluzione, e anche qui lo scoppio della guerra semplifica le posizioni. In quel primo decennio il partito è cresciuto elettoralmente sulla base di una pratica riformista incorniciata tuttavia da una teoria marxistica più avanzata, sedicente rivoluzionaria. Il suo uomo guida è Jaurès, i cui punti di riferimento - di fatto appaiono assai più il 1789 e il 1848 che non il marxismo; eppure è proprio Jaurès, alle prime battute della guerra europea, il bersaglio di un attentato nazionalista. Il gruppo dirigente del partito, passato sotto la guida di Paul Faure e Léon Blum, condivide l'idea della guerra difensiva, fa proprio il clima dell'"union sacrée" e - spingendosi oltre ciò che fanno altri - va al governo con suoi ministri. Questa somiglianza di situazioni nei due blocchi contrapposti attesta l'enorme difficoltà dei socialisti di assumere uniformemente atteggiamenti mentali e operativi di segno antinazionale nel momento in cui le sorti del paese di cui si è parte sono concretamente in gioco. L'estraneità proletaria alla guerra borghese si dimostra, in questi frangenti politici ed emozionali, assai meno reale di quanto non apparisse nei congressi dell'Internazionale, nelle affermazioni di principio e nella pubblicistica corrente. Le categorie dell'opportunismo e del tradimento, la denuncia dei rinnegati, non riescono a esaurire la drammatica complessità delle appartenenze multiple e delle dinamiche interclassiste e interstatuali. La prova del fuoco della mobilitazione generale, se non arriva dovunque a mostrare l'infondatezza del celebre assunto che «i proletari non hanno patria», lo mette però sicuramente in dubbio per quanto riguarda i gruppi dirigenti. Rimane aperto il problema - che non si può affrontare in generale, ma solo paese per paese e lungo l'intero corso della guerra - del grado di effettiva rappresentatività di tali gruppi, la cui presa su militanti ed elettori è rimessa completamente in gioco. Come si è accennato, i gruppi dirigenti infatti si frantumano, subendo un duplice ordine di modificazioni, sia all'inizio delle ostilità, quando il movimento operaio è costretto a prendere posizione a tutti i livelli, sia nel vivo 123

della guerra, allorché l'imprevedibile durata e sanguinosità del conflitto sottopongono a trasformazioni profonde, in maniera diversa, sia i combattenti che i civili, dalle trincee alle fabbriche. Due sono i grandi fattori di polarizzazione e di stimolo alla rifondazione dei partiti socialisti: la rivoluzione del 1917 - evento esplosivo per tutti, anche per chi è lontano dalla Russia e poco o nulla sa di certo su avvenimenti che comunque pesano per le loro componenti immaginifiche e virtuali - e la sconfitta militare, il collasso economico e la disgregazione istituzionale. Prima in Russia, nel 1917, poi in Germania e nelle terre soggette all'Austria, l'intreccio dei due fattori delinea un contesto in cui i rapporti di forza fra le correnti del movimento operaio possono rovesciarsi e le minoranze ostili alla guerra ritrovarsi meglio capaci di interpretare e guidare le masse esasperate verso nuovi assetti politici e sociali. In Italia, come si è anticipato, la situazione è diversa in quanto i rapporti di forza sono sin da principio opposti, per lo meno all'interno del Partito socialista, dove sono più numerosi e restano alla direzione gli elementi ostili alla guerra. C'è però, verso destra e verso sinistra, la diaspora vecchia e recentissima, che non può insidiare l'egemonia del partito sulle masse, ma ridistribuisce le opinioni e propaga insicurezza nel tradizionale "habitat" politicoculturale, nell'"humus" storico del socialismo italiano, recidendone i legami con la democrazia radicale che gremisce le file dell'interventismo di matrice risorgimentale. Chi rimane all'interno del partito, peraltro, non è sempre insensibile ai richiami della nazione e alle differenze ideologiche fra i blocchi contendenti. Non occorrerà aspettare le reazioni di un Turati o dei sindaci socialisti a Caporetto per rendersi conto che il «né aderire né sabotare» è una coperta che si può tirare in due sensi. - "Una guerra che viene da lontano". La guerra viene da lontano. L'abbiamo vista serpeggiare sin nelle viscere della "belle époque", con quel suo senso 124

illusorio della pace inesauribile. In Italia, per carenza di forze economiche impegnate strutturalmente e in proprio nella rottura degli equilibri giolittiani e nel mutamento del quadro politico in chiave espansiva, sono gli intellettuali a fungere da apripista e araldi di processi di rottura non ancora giunti a maturazione sul piano economico e politico. La filosofia idealista - che con Benedetto Croce e Giovanni Gentile logora e surroga nell'anteguerra la precedente egemonia del positivismo (28) - può trovare nelle teorie elitiste di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto spinte e conferme nella direzione di un potenziamento degli spiriti volitivi del "soggettò che pone il mondo e gli dà indirizzo e forma. Gli intellettuali delle riviste primonovecentesche, che si sentono abilitati a ripensare l'Italia e a vedere se stessi come guide della società, concepiscono le proprie riviste di poche migliaia di copie come il laboratorio in cui si agita il futuro (29). Fungono da "prepartitò, il prepartito degli intellettuali (30) della generazione nata intorno agli anni ottanta: grazie a costoro, Firenze diviene la capitale di un malessere che individua spesso in Giolitti (31) l'espressione di un'Italia che «così com'è, non [gli] piace» (32) e che induce alla fuga. Una fuga in avanti che - come ha loro insegnato Pareto, collaboratore e mentore delle loro pagine inquiete - intravvede presto nella guerra uno sbocco in cui le urgenze dell'io e le tensioni della società possono trovare un luogo di incontro. Fra il 1914 e il 1915, Croce tiene a distanziarsi dalle conseguenze dell'attivismo di quei "giovanì che sono però cresciuti per anni in relazione con lui e sotto il suo sguardo benevolo. Nel giro di un quindicennio - fra l'uscita di un romanzo e programma politico come "Il fuoco" di D'Annunzio (1900) e le lucide autoascultazioni dell'"Esame di coscienza di un letterato" consegnate da Renato Serra (33) alla «Voce» poche settimane prima di cadere sul Podgora (1915), ovvero fra la nascita del «Regno» (1903) e quella di «Lacerba» (1913) - narratori e saggisti, poeti e oratori lanciano una impressionante serie di segnali di disamoramento all'«Italia com'è» (34). Il protonazionalismo del corradiniano «Il 125

Regno»; il manifesto del futurismo che il genio promozionale di Marinetti colloca sulle paludate pagine di uno dei più austeri quotidiani borghesi d'Europa, «Le Figaro» di Parigi, perché abbia carattere più esplosivo e sovranazionale; le fratture generazionali e il disincanto rispetto alla mistica risorgimentale che Luigi Pirandello rappresenta nel suo romanzo dualisticamente dedicato a "I vecchi e i giovani"; i due romanzi sull'Italia fuori d'Italia e sui lavoratori emigrati all'estero "La patria lontana" e "La guerra lontana" (1910 e 1911), macchine narrative e autoritratti collettivi concepiti da Corradini insieme con il lancio dell'Associazione nazionalista, espressione dell'attivismo dello scrittore, sono tutti segni di questa intenzione militante della cultura. Fra i quali va annoverato anche il discorso libico sui contadini- soldati tenuto da Pascoli nel teatro di Barga, ove il poeta lancia il grido eloquente "L'Italia proletaria si è mossa", rendendo nazionale il suo antico socialismo nello stesso momento in cui Corradini si sforza di rendere sociale il suo nazionalismo. Sono incroci e sinergie che già preannunciano gli ormai non lontani "fasci interventisti". Se l'autoelezione, dopo la morte di Carducci, a poeta vate della nazione costringe Pascoli ad accenti e a luoghi che non gli sono consueti, assai più propensi e intonati a debordare dai libri e a reinventarsi le forme di presenza e di azione dell'intellettuale appaiono due figure - per altro verso antitetiche - destinate a marcare quegli anni: Marinetti e D'Annunzio. Il futurista aspira a essere innovatore nelle forme e negli strumenti non meno che nei contenuti: libri e riviste vanno bene, ma occorrono ormai alla milizia del nuovo intellettuale gesti di secessione e affermazione iconoclasta, nonché tutte le moderne forme di annuncio e di promozione. La polverosa didattica dei catechismi e dei decaloghi si trasforma così in propaganda gestuale: manifesti e proclami che occupano a pagamento le pagine dei quotidiani, ma vengono anche stampati a sé stanti e lanciati in piazza dalle torri; teatri affittati per esaltare i proseliti, sfidare gli avversari, provocare il pubblico dei 126

neutri, mostrarsi e competere in quelle recite tumultuose, microsommosse mimate e messe in scena, che diventano ben presto le "serate futuriste", camera di risonanza - anche grazie alle risse che ne seguono davanti ai teatri e alle successive polemiche giornalistiche - dei messaggi militari che fanno parte integrante del «dinamismo futurista». Tutto il quinquennio fra la pubblicazione parigina del loro manifesto e la deflagrazione mondiale è speso dai futuristi per diffondere la bellezza della violenza, rinnovatrice di tutto il vecchiume e capace di spazzar via le piattezze del mondo. Nel 1911 e 1912 due fra i più significativi esponenti della generazione della «Voce», Papini e Soffici, pubblicano due libri desiderosi e capaci di farsi leggere ambedue come gli squillanti manifesti della inquieta generazione degli anni ottanta: "Lemmonio Boreo" e "Un uomo finito" (35). E in quello stesso anno 1912, generoso di segnali e di gesti non solo d'ordine letterario, un terzo vociano, l'"irredentò e prossimo volontario e caduto di guerra Scipio Slataper, lancia in campo le immagini liriche e drammatiche di Trieste e del Carso, destinate fra breve a fare da palio e da orizzonte di vita e di morte di milioni di italiani, di austriaci e di slavi. Intanto, la guerra di Libia ha riattivato la vena epica di D'Annunzio, risospingendolo con testi di largo impatto quali le "Canzoni delle gesta d'Oltremare" - grazie anche alla tribuna offerta al poeta vate dal «Corriere della Sera» di Luigi Albertini - sulle vie del mare; Adriatico e Mediterraneo: idealmente "nostrum" comunque, perché già di Venezia e ancor prima di Roma (36). - "Il ruolo degli intellettuali". E" una guerra di idee. Per tale, almeno, la si vuole vivere e far vivere. Non da tutti. Non dagli uomini di governo, impegnati anzi a raffreddare una temperatura mentale ed emozionale che essi giudicano poco appropriata a un realistico calcolo delle forze e delle opportunità. Sono gli "intellettuali"- anzi, alcune "famiglie" di intellettuali - a voler entrare in campo, per moralizzare e idealizzare una 127

situazione che essi non ammettono possa restringersi a mere dinamiche di potenza. Riformisti e rivoluzionari - di questi ultimi, s'intende, coloro che scelgono di dilazionare la rivoluzione o di coniugarla alla patria - dicono sì alla guerra in nome di assoluti e di valori che asseriscono vilipesi da neutralisti e pacifisti vari, in combutta oggettiva con gli avversari dell'Intesa. Di questi riattualizzatori dei "princìpi dell'89", un portavoce intellettuale di alto prestigio è Gaetano Salvemini (37). In lui la cultura liberaldemocratica, l'ispirazione mazziniana, il riferimento alla Francia e ai diritti dell'uomo e del cittadino non hanno nulla del vessillo contingente, precipitosamente e strumentalmente impugnato. Storico della Rivoluzione francese, studioso di Mazzini, indipendente di sinistra critico intransigente di Giolitti - «ministro della mala vita» e delle capacità riformatrici del Partito socialista, il direttore dell'«Unità» non può dirsi un convertito dell'ultima ora; e àncora, inoltre, le sue idealità di interventista democratico, di patriota italiano e di cittadino di un'Europa delle nazioni a una riconosciuta vena pragmatica e concretista. Nell'imminenza della guerra e nel corso del conflitto Salvemini accentua il suo attivismo di aspirante moralizzatore della nazione e di stimolatore di coscienze, specie in campo giovanile, con assidui commenti alla cronaca e ai comportamenti delle autorità. La moltitudine di pagine da lui prodotte - pubbliche sin da allora o rese note più tardi - disegna il profilo di una sorta di ministro degli Esteri della democrazia, indaffarato a giudicare e a pretendere dagli altri comportamenti adeguati ma non sostenuto da alcuna forza politica e che quindi parla per se stesso. Certo, quando propone come parola d'ordine nazionale e internazionale il suo "Delenda Austria!" (38) non è il solo a scorgere nell'Impero asburgico l'antagonista decrepito e irriformabile dei liberi popoli d'Europa. La sua voce esprime un'opinione diffusa che - facendosi largo fra triplicisti, austrofili, antislavi e semplici difensori delle ragioni di equilibrio fra le potenze e delle funzioni di antemurale dell'Impero rispetto all'Europa centrale e 128

orientale - contribuirà a rendere possibile il mutamento nella politica estera del governo durante l'ultimo anno di guerra. Non bisogna tuttavia pensare che Salvemini sia l'espressione di uno spirito pubblico prevalente e non insidiato da opposte correnti di opinione. La voce di Croce non è certo meno rappresentativa e in grado di farsi sentire di quella, quasi compiaciutamente minoritaria, dello storico pugliese. «La Critica» ha anzi un'autorità, guadagnata sul campo, di tribunale dei dotti non scalfita dal successo delle riviste fiorentine che hanno visto Salvemini in posizione eminente, dalla «Voce» all'«Unità». Voci indipendenti e libere, l'una e l'altra, con più udienza quella di Croce nel mondo dell'alta cultura, delle istituzioni e - volendo indicarne il segno politico - maggioritaria nell'area della classe dirigente liberale, nel centrodestra; più polemica, nutrita di echi di battaglie minoritarie, intellettuali e politiche, e meglio capace di muoversi in sintonia con le giovani generazioni e gli orientamenti innovativi di un"«altra Italia», quella di Salvemini. Interventista e amico dell'Intesa e di un'Italia coordinata ai fini e ai valori di progresso nella libertà da lui attribuiti agli antagonisti degli Imperi centrali, Salvemini si fa mallevadore di tempi nuovi agendo in sinergia critica con il movimento e con i processi in corso; mentre a Croce - triplicista all'origine, poi neutralista condizionato e aideologico, sempre governativo - spetta un ruolo in controtendenza rispetto agli orientamenti più rumorosi e visibili della mobilitazione interventista di sinistra come di destra. Le "Pagine sulla guerra" uscite in volume nel 1919 costituiscono un monumento alla compostezza e al distanziamento, qualche volta ironico, dalla piazza interventista, ma anche dagli spiriti piazzaioli penetrati sin nelle aule d'università assumendo a bersaglio questo o quel professore «germanofilo» (39) o addirittura gonfiando d'eloquenza faziosa la voce di qualche «cattivo maestro». Una presa di distanza, insomma, dai rissosi e petulanti frutti di una ideologizzazione del conflitto che l'ottica distaccata del 129

filosofo è propensa a razionalizzare come espressione dell'involgarimento dei tempi e anche a comprendere quale espressione di emozioni collettive e amplificazioni propagandistiche, mai però ad accettare come buon costume nella sfera della cultura (40). Uno dei suoi lettori più rigorosi e più fini fra i giovani, Serra, lamenterà in lui proprio un eccesso di spirito olimpico rispetto alle contese del mondo, una frigidezza inconcussa di giudice bene attento a non lasciarsi contaminare dalla visceralità degli schieramenti, ma che proprio per questo rischia di perdere contatto con i sentimenti del tempo (41). Certo è che, nel quadro dei comportamenti intellettuali circostanti - nei quali lo stesso suo ex luogotenente Gentile risulta più compromesso e coinvolto - la figura di Croce si staglia. E non solo se commisurata all'orgia voluttuosa di sangue reclamata dalla nuova estetica della violenza, ultima scoperta di Papini (42) il quale si associa a Soffici e ai futuristi nel dare "Sulla soglia" della guerra un'impronta ridondante e omicida a «Lacerba» interventista: "La vile canizza giolittiana, l'ignobile, losco, vomitativo Giolitti; gli analfabeti dell'«Avanti», i preti, i giornalisti venduti, i generali bulowiani, la melma fetente universitaria, professorale, filosofica; la ciurmaglia cancrenosa, bavosa, laida del senato; i Lollis, i Barzellotti, i Chiappelli, i Croce, i Carafa d'Andria, i Santini, tutti questi sbirri, e cortigiani e ambiziosi e interessati - con che moneta pagheranno prossimamente, quando l'Italia, raggiunti a dispetto della loro vigliaccheria e infamia, i suoi fini di nazione civile e fatta per l'avvenire, troverà il momento di fare i conti con essi?" (43). Questi giovani immoralisti, dai quali «La Critica» si è per anni lasciata fiancheggiare utilizzandoli come arieti polemici nella battaglia di logoramento dell'idealismo contro il positivismo, appaiono ormai al filosofo napoletano prigionieri di un attivismo irrazionalista, moralmente guasti e politicamente irresponsabili in quei loro inni alla guerra e 130

all'imminente bagno di sangue malthusiano. L'ideologizzazione del conflitto contro cui si indirizzano le reprimende e le messe a punto della «Critica» - divenuta militante, a suo modo, quasi non meno di «Lacerba» - è però anche quella condensabile nel richiamo ai "princìpi dell'89". Dal punto di vista di una visione ortodossa e morigerata della politica, le posizioni di Salvemini e degli altri interpreti del cacofonico coro interventista non appaiono a Croce meno censurabili degli eccessi dei nazionalisti o dei futuristi. Molto più assennati degli intellettuali e di tutti coloro che pretenderebbero di rifare il mondo e di governare il paese in luogo del governo, giudicando di pace e di guerra, di diritto e barbarie, appaiono al filosofo quei semplici uomini e donne del popolo che gli accade di incontrare nei vicoli della sua Napoli: i quali deprecano l'avvento della guerra, come farebbero di fronte all'eruzione del Vesuvio o a un qualunque cataclisma naturale, ma poi si rassegnano a conviverci e assumono un atteggiamento fatalista, aspettando che passi. Nel mondo cattolico, forse anche a causa del già descritto orientamento moderato e pragmatico di fronte alla guerra, teso a perfezionare il processo di rilegittimazione civica dei cattolici nello stato liberale, è assai difficile distinguere qualcuno che parli e riesca a farsi sentire, in questo frangente, con un'alta voce cristiana (di ciò che pensano e fanno i cattolici italiani come massa diremo altrove). Non costituiscono una voce capace di inserirsi incisivamente nel dibattito né vescovi e parroci o uomini di Azione cattolica, più o meno esitanti o disponibili nel metter d'accordo i Vangeli e la vita quotidiana, il comandamento del «non uccidere» e la normalità, né le pagine segrete di diario, le lettere o i versi di qualche isolato scrittore, come il clericale apocalittico di Greve in Chianti, Domenico Giuliotti, o - fra breve - l'incupito pentito dell'interventismo, Papini, o, ancora, un temperamento tragico e diviso come Boine, il quale in pubblico fa scuola di ubbidienza cieca e assegna alla caserma e alla guerra straordinarie virtù rieducatrici delle plebi traviate dalla democrazia e dal socialismo (44), 131

e in privato si dissocia da quella guerra di massoni e di rivoltosi che insidiano nei due grandi imperi i baluardi militari e simbolici dell'autorità e dell'ordine. Latitando una cultura cattolica capace di muoversi e interloquire con rigore ed energia comunicativa nel dibattito su cause e fini della guerra (le note dei gesuiti di «Civiltà cattolica» sembrano scritte in una lingua morta, di nobiltà residuale), le masse confessionali sono aperte alle incursioni e ai tentativi di strumentalizzazione interni ed esterni al proprio campo. Niente di simile comunque, per intensità e impatto, all'«inutile strage» di papa Benedetto nell'agosto 1917 - un grido del resto sopravvalutato, e per lo più assunto isolandolo dal contesto - si leva fra il 1914 e il 1915 nelle file del cattolicesimo italiano, neppure in senso contrario, nel senso cioè di un'adesione al conflitto autonomamente motivata da parte dei cattolici. Le apostrofi o le concioni di un cardinale Maffi sono altra cosa. Quelli che non mancano sono invece i progetti e le pratiche di annessione subordinata agli altrui discorsi di pace o di guerra. Si distingue, fra coloro che si rivolgono ai cattolici e fanno espressamente conto su di essi, Alfredo Rocco. La testa pensante del nazionalismo italiano supera presto la delusione per il mancato scatto automatico della Triplice e adopera scientemente la guerra per disegnare non solo una politica estera di espansione territoriale, commerciale e militare che può portare l'Italia a scontrarsi con l'Austria per motivi di concorrenza e di egemonia sull'Adriatico e nei Balcani che nulla hanno a che fare con le ideologie intesofile, ma anche in una prospettiva, più strategica, di ricomposizione di un vasto blocco sociale e politico impensabile senza le masse confessionali e il potenziale di disciplinamento insito nella storia, nei simboli e nella cultura della Chiesa cattolica e dei suoi fedeli. Il discorso per l'oggi e per il domani che il professore dell'università di Padova porta avanti nel secondo semestre del 1914 sull'organo del nazionalismo Veneto da lui ispirato, il «Dovere nazionale» (45), è innovativo sul piano dei princìpi 132

e dei comportamenti anche perché teorizza la conquista della piazza tramite l'apprendimento delle tecniche della mobilitazione di massa da parte di una nuova destra che si è portata all'altezza dello scontro superando le idiosincrasie delle élites tradizionali della destra salandrina (46). Fino a che punto sia penetrato il discorso di questa incipiente nuova destra lo provano i contenuti e la forma dell'«Idea nazionale», il quotidiano nazionalista romano che nella primavera del 1915, inasprito e protervo nella faziosità antineutralista, dà voce ai clamori liberticidi con cui gli intellettuali militanti del nazionalismo - Corradini, Francesco Coppola, Luigi Federzoni, Maffeo Pantaleoni offrono una sponda politica al patriottismo sovversivo di D'Annunzio nel «maggio radioso». - "Forme di mobilitazione". Ma in quei dieci mesi di passione - cui riandranno instancabilmente con la memoria le diverse «Italie in cammino» contrapposte o riunite dal dopoguerra e dal fascismo - non si discute solo una scelta di pace o di guerra. Mutano anche le forme della politica. La politica va in scena, si teatralizza, si sottrae o affetta di sottrarsi agli "arcana imperii", nomina e chiama in causa di continuo il popolo e l'Italia, forzando o surrogando le istituzioni, le figure e i luoghi canonici della rappresentanza. Che questa effrazione delle regole notabilari avvenga mentre sono al potere uomini che appaiono in realtà i meno predisposti a un tale mutamento, fa parte delle contraddizioni dell'ora. In effetti le considerazioni coeve e le memorie successive di alcuni dei protagonisti di parte liberalconservatrice - a partire dallo stesso presidente del Consiglio - danno l'impressione che il nuovo sia loro scivolato addosso senza che se ne rendessero ben conto. Sarà qualche anno dopo un intellettuale liberale. Luigi Salvatorelli, a cogliere e a divulgare quante implicazioni eversive e persino protofasciste racchiudesse, nelle sue punte più aspre, quel movimento transpartitico che è l'interventismo. Non 133

vorremmo però qui ancorare quel prima a quel dopo, riecheggiare le preoccupazioni di quell'osservatore controcorrente, fra guerra e dopoguerra, del "Nazionalfascismo" incipiente, secondo il concetto e il titolo della sua raccolta di articoli nel volume delle edizioni di Piero Gobetti nel 1923. Nel crogiolo interventista del 19141915 non sono infatti ravvisabili solo i prodromi dello squadrismo e dell'autoritarismo fascista. Vi si miscelano componenti diverse, alcune delle quali portatrici di un'istanza di democraticità sostanziale superiore a quella insita nella cultura e nelle pratiche formali dell'oligarchia liberale. Parafrasando Prezzolini, il quale si vantava che nella «Voce» avessero scritto e fossero cresciuti sia i futuri fascisti che i futuri antifascisti, potremmo estendere alle giornate e alle folle interventiste questo riconoscimento di luogo di raccolta di diversi. Fra questi, il futuro duce dei fasci ma anche il comandante dei legionari fiumani, suo alleato- concorrente come possibile capo della rivoluzione nazionale; poi - in diverse e meno visibili posizioni, determinate anche dall'età - il capo dell'Aventino, Giovanni Amendola, il sindacalista rivoluzionario De Ambris, in seguito luogotenente di D'Annunzio a Fiume e più avanti fuoriuscito ed esponente della Concentrazione antifascista; infine i futuri dirigenti di Giustizia e libertà e del Partito d'azione, Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Ferruccio Parri. Nemmeno Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, da giovani socialisti non insensibili al carisma mussoliniano, risultano estranei a quel clima di rifondazione della politica. Più che sugli incontri fra uomini poi divisi e contrapposti dalle vicende nazionali, ci preme però focalizzare l'attenzione sull'interventismo come stimolo al rinnovamento delle forme di espressione e rappresentanza. L'urgenza delle scelte da compiere trasforma i giornali: non solo una rivista come «Lacerba», che si fa tutta "politicà perché giudica ogni altro argomento irrilevante in questa fase, ma anche l'organo di informazione quotidiana più espressivo e togato dalla borghesia del costume e delle imprese, il milanese «Corriere della Sera», che il 134

liberalconservatore Albertini, co-proprietario e direttore, rende più che mai aderente al suo ruolo di braccio e mente del partito liberale interpretando, blandendo e accompagnando il blocco moderato e governativo dalla decisione per la neutralità a quella per l'intervento nel campo opposto. La fittissima corrispondenza intrattenuta da Albertini, dal ponte di comando di via Solferino, con i suoi inviati e collaboratori d'eccezione (D'Annunzio, Luigi Barzini, Ugo Ojetti eccetera) e con le massime autorità politiche mostra quanto sia decaduta l'idea di una informazione neutra; e quanto il senso di responsabilità nazionale complichi e orienti il rapporto con le notizie da parte di un giornale che si vuole autorevole direttore di coscienza collettivo della classe dirigente borghese. Più che mai per essere organo di battaglia e giornale- partito nasce «Il Popolo d'Italia», con la pattuglia di eretici della rivoluzione chiamata a raccolta da Mussolini, dall'interno e dalla diaspora del P. S.I. Ma il rinnovato peso della stampa quotidiana come luogo di formazione e di scontro di un'opinione pubblica sempre più perturbata e bisognosa di chiarificarsi duellando in pubblico, si manifesta anche nel suo offrire una tribuna a uomini di cultura solitamente legati a sedi più riservate e pubblici più selettivi. Lo stesso Croce, in quel frangente di smottamento e ridefinizione dei giudizi di valore e degli orientamenti generali, accetta di trasferire nell'arena pubblica i suoi pacati distinguo e i suoi fermi altolà, intervenendo assiduamente con messe a punto e chiose alla cronaca, oltre che sulla «Critica», su «Italia nostra» - una rivista sospetta di propensioni tripliciste - e concedendo diverse interviste alla stampa quotidiana. Una forma di mobilitazione ancor più caratterizzante è quella che dal dibattito pubblicistico e dall'agitazione verbale nella carta stampata si sposta nei teatri, nelle sale di conferenza e nelle pubbliche piazze. Gli itinerari di marcia - tendenzialmente incrociati - di interventisti e neutralisti sono qui chiaramente visibili. Certo, niente può equiparare l'impatto provocatorio e catastrofistico che può avere avuto il voltafaccia di un uomo di confine come 135

Mussolini, passato da voce del neutralismo a voce dell'interventismo. Meno concentrata in un personaggio emblematico, ma altrettanto e più diffusamente visibile è la trasformazione della piazza da "rossa" a "tricolore". Teorizzata fin dalle prime settimane dal cervello più lucido della nuova destra, Rocco, questa trasformazione si concretizza sul filo dei mesi in una progressione di discorsi, cortei, dimostrazioni, scritte, acclamazioni, inni e canzoni, incontri e scontri con la polizia e con i socialisti, che alla fine portano al rovesciamento delle parti: alla espropriazione politica dei luoghi pubblici di riunione, alla riduzione in periferia dei neutralisti ancora disposti a rischiare la manifestazione pubblica, e alla conquista della piazza da parte di masse e folle composte in larga misura di giovani e giovanissimi delle università e delle scuole. Una alfabetizzazione politica accelerata e quindi inevitabilmente condizionata dalla componente generazionale, dalla geografia politica dei luoghi, dal carattere eclettico e promiscuo delle culture politiche e dei percorsi umani che in quella piazza si rifondono. Non per niente la piazza si vuole, è sentita come una piazza ancora per tanti versi "contro" e non sempre e solo "per". Le sue pressioni vanno oltre l'incitamento e il plauso, promettono obbedienza, ma non escludono le minacce e tengono di riserva il ricatto (47). Oltre ai rappresentanti del patriottismo di matrice irredentista - la cui lunga vigilia viene finalmente legittimata sul campo e anzi acquisisce essa stessa poteri di legittimazione della guerra - compongono quelle folle rigenerate anche non pochi fra coloro che, appena a giugno, dalle Romagne alle Marche, alzavano gli alberi della libertà e proclamavano le microrepubbliche della Settimana rossa. Un altro caratterizzante capitolo della messa in scena della politica e del mutamento di referenti e di fini, in particolare per il "popolo di sinistra", è quello rappresentato dall'attività inesausta di Battisti. Percorrendo sistematicamente, con decine di discorsi pubblici, teatri e sale di conferenza in tutta la penisola, il deputato socialista di Trento accorre, dovunque lo chiami un comitato e lo 136

attenda il suo composito e trepidante pubblico di compagni in bilico, di patrioti e di curiosi, per ragionare e convincere che «l'ora di Trento» è suonata e che un socialismo bene inteso non può ignorare le radici nazionali e le ragioni dell'appartenenza (48). Quello che compie Battisti è una riedizione e attualizzazione di quel «viaggio in Italia» che già in età risorgimentale aveva assunto valenze politiche e che - con atti e con parole, dai fratelli Bandiera a Garibaldi - fra gli anni quaranta e sessanta del secolo scorso aveva operato una occupazione e una segnatura del territorio nella, chiave di un riconoscimento e autoriconoscimento nazionale. Nell'autunno- inverno del 1914-1915 il socialista riconciliato con la patria annuncia con la sua persona, prima ancora che con la sua appassionata parola, che non solo l'Italia va ridefinita secondo perimetri territoriali più estesi, che includano le regioni di frontiera rimaste sin qui escluse, ma che vanno ridefiniti i rapporti interni, sociali e politici, fra la classe e la nazione, fra il popolo e la patria, fra la pace e la guerra. C'è molto anche di Battisti in quelle piazze spaccate e ricomposte lungo linee diverse dalle consuete. Ma benché le occasioni della propaganda e le ragioni del fronte unico delle forze interventiste lo portino in qualche caso a imbarazzanti vicinanze oratorie con i nazionalisti, il suo discorso appare tuttavia più pertinente al luogo di incontro chiuso che non alla piazza. E infatti ragionando, e non solo commuovendo, che egli vorrebbe portare gli astanti a ripercorrere il suo stesso cammino di ritorno alla nazione. Il suo tempo non è perciò quello estremo, quando al suo discorso subentrano la parola desemantizzata, il gesto apodittico e l'invettiva ultimativa del D'Annunzio romano (49), ma i mesi intermedi, quando ancora si può e si deve fare appello alle coscienze. Buona parte dei suoi ragionamenti finiscono comunque per avere anch'essi una prosecuzione all'aperto, per inserirsi nel conflitto per il possesso della piazza. Ci scappa, talvolta, anche il morto (50). 137

Tratto comune a tutte queste nuove modalità di espressione della politica è il fatto che l'esercito degli attori che manifestano in pubblico l'ansia e la volontà dell'entrata in guerra, nel nuovo mondo della guerra, non è composto solo dagli "ufficiali" del movimento, cioè da coloro repubblicani, socialisti riformisti, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti - che divengono ora protagonisti o raccolgono fra il 1914 e il 1915 i frutti di uno strappo precedente, ma da giovani e giovanissimi, quelli che non hanno bisogno di cambiare, poiché rappresentano essi stessi la primavera della politica. Le università, ma anche e non meno le scuole medie, rappresentano non solo la camera di risonanza, ma il luogo stesso di gestazione e di agitazione della prassi e della retorica del mutamento. Ce ne dà la prova la composizione sociale e per fasce d'età - nelle città in cui è stata ricostruita in dettaglio attraverso documenti di polizia e cronache giornalistiche - delle manifestazioni di piazza interventiste (51). Nell'ambito di questa generazione nuova e nuovissima, ancora adolescente e alla ricerca di se stessa, gli usuali bisogni di distacco dalla routine familiare e scolastica lucrano dalle circostanze orizzonti di autoaffermazione inusitati e grandiosi. Nascono in quei mesi di vigilia - esistenziali e generazionali, oltre che politici e nazionali - solidarietà, comunanze di destino, gratitudini e fedeltà spesso destinate a durare e a marcare le vite di molti giovanissimi di allora, che il caso aveva fatto trovare insieme al momento giusto nell'età dei grandi entusiasmi (52). Gratitudine e fedeltà della giovinezza si indirizzano, in particolare, a quei rappresentanti degli adulti che hanno il coraggio di rompere e di differenziarsi dal proprio mondo, cioè dai Giolitti, dai Croce, da tutti i mentori e i padri che, a lezione e a casa, ammoniscono a esser prudenti, a calcolare, a non lasciarsi trasportare dalle emozioni e dai gesti, dal fascino delle scelte estreme. Corridoni, Battisti, D'Annunzio, Mussolini sono i leader allo stato nascente di questo movimento aurorale che tende a far coincidere il pubblico e il privato, l'impeto della propria giovinezza con quello attribuito alla nazione. Un gran numero di biografie 138

di personaggi che negli anni venti e trenta saranno uomini fatti rimanda a quegli indimenticabili esordi. - "Trentini e triestini". Trento e Trieste si fissano nella memoria come la ragione stessa della guerra, la forma di legittimazione più esibita allora, ma anche più elastica e meglio capace, poi, di sopravvivere al naufragio della cultura nazionalfascista. E tuttavia, niente di meno conosciuto nei suoi contorni reali. Piuttosto, un campo di affabulazioni e di forzature ideologiche a lungo indisponibili al confronto con fatti e comportamenti riscontrabili. Un migliaio circa di fuoriusciti nel Regno e, per contro, 60000 trentini che vestono la divisa austroungarica (53). Questi i dati minimi, lo scandalo di un divario lungamente rimosso - diciamo pure, accettando il parametro della guerra di liberazione nazionale, fra dover essere ed essere - che bastano a delineare un paesaggio reale alquanto diverso dalla "vulgata" patriottica. Né i contemporanei, né il fascismo, né il postfascismo avranno interesse a esplicitarli. Il disincanto postumo e l'ansia di uscire dalla retorica unanimista di un irredentismo stampato dall'esterno addosso ai territori- simbolo dell'idea nazionale italiana hanno perciò investito negli ultimi trent'anni con particolare intensità i protagonisti di una storiografia locale che si può considerare - in entrambi i casi, e cioè sia nel Trentino che a Trieste, - fra le più attrezzate e metodologicamente aggiornate dell'intera penisola (54). La situazione risulta quindi ora rovesciata rispetto a qualche anno fa. Sia della città di Trieste (55), sia dei centri urbani e delle campagne del Trentino conosciamo più analiticamente che di qualsiasi altra area la storia sociale, intesa come psicologia collettiva e vita della gente comune in tempo di guerra (56): la mentalità, la quotidianità militare, le comunità paesane, le donne, le soggettività, la scrittura popolare, in forma epistolare, diaristica, memorialistica. Assai più sullo sfondo, lo Stato - anzi, gli 139

Stati - che si contendono la fedeltà o l'obbedienza di quei sudditi di frontiera. Non torneremo qui a contrapporre a questi assunti l'alta e tragica figura di Battisti. Una storia politica all'altezza dei tempi non può non farsi carico anche della storiografia della gente comune, con tutte le sue lontananze ed estraneità rispetto alle dinamiche complessive e statuali. Anche a chi, in questa riluttanza delle maggioranze a incarnare i ruoli simbolici loro attribuiti, ritenga di trovare conferma della capacità decisionale delle élites, non è più possibile privilegiare univocamente le attese e gli uomini dell'irredentismo e riassumere il rapporto fra gli abitanti delle terre contese, il Regno d'Italia e l'Impero austroungarico, nella edificante triade scolastica degli impiccati trentini - Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa - più Nazario Sauro sullo sfondo per la parte giuliana. E questo, non certo perché quei simboli ci appaiano oggi errati o remoti: il nostro intento è infatti ricostruire quel che appariva giusto e vero allora, non dopo e a noi. Ma proprio perché neanche allora la chiave irredentista e italofila -in qualunque gradazione declinata, nazionalista, liberal- nazionale, repubblicana, socialista battistiana - deteneva il monopolio dei comportamenti e delle coscienze, come appare chiaro se si allarga lo sguardo dagli strati dirigenti e dall'opinione pubblica urbana alle propensioni dei più (57). Le valli del Trentino rurale esprimono voti di cattolici, conservatori e moderati, assai più ansiosi di pace che di guerra, e paghi di contenuti e forme di autonomia nell'ambito delle istituzioni dell'Impero, quando ormai il deputato socialista del collegio di Trento ha deposto ogni speranza di mediazione e si è risolto a gridare venuta «l'ora di Trento» e a puntare tutto sulla guerra e sull'annessione al Regno d'Italia (58). Uno strappo lacerante che, aggiungendosi al suo socialismo, ne fa, se non un corpo estraneo, certo una presenza e poi una memoria imbarazzanti cui si oppongono molteplici resistenze: gli "austriacanti" veri e propri, ma anche coloro che si riconoscono anzitutto come "trentini", diffidano dello 140

Stato in quanto istituzione al tempo stesso invadente e lontana, si sentono membri di una piccola patria territoriale con usi e identità propri e affidano tutt'al più alla Chiesa cattolica l'interpretazione e la tutela di valori e orizzonti più vasti; infine gli esponenti, ostili a qualunque guerra, della società rurale. Se fosse possibile risolvere questioni di orientamento e stratificazioni mentali così complesse in un gioco emblematico di nomi, potremmo dire che - di là dalla retorica nazionalitaria - si tratta di restituire il Trentino a De Gasperi, o piuttosto al vescovo Endrici. Fatta la tara alla memoria ufficiale e ristabilite le proporzioni, il fenomeno dell'irredentismo e del fuoriuscitismo e volontarismo che ne derivano risultano comunque tutt'altro che irrilevanti. Né si può sostenere che i 60000 che non sconfinano in Italia e partono con le "insegne giallo-nere" siano per ciò stesso, tutti, cittadini di sentimenti austriaci e affidabili combattenti dell'Impero. Anzi, alle ragioni consuete di lontananza della comunità contadina dallo Stato si viene qui a sommare - anche se non raggiunge le temperature ardenti dell'irredentismo intellettuale e urbano - un più o meno avvertito senso di diversità etnico- linguistica che funge da ulteriore spinta centrifuga. Nei campi di Galizia i reparti austro- ungarici con una forte componente italiana vengono perciò considerati a rischio e tenuti sotto particolare controllo: costituiscono infatti il naturale terreno di cultura per forme di dissidenza che possono spingersi sino alla dedizione volontaria al nemico (59). Si manifesta infatti anche sul fronte orientale - dove appunto coinvolge, fra gli altri, gli italiani soggetti all'Austria - la complessa fenomenologia della diserzione, cui la composizione plurietnica dell'Impero asburgico e la politica nazionale dell'Intesa offrono forme di incoraggiamento e di legittimazione politica. Sul fronte italiano, i militari che si distaccano dall'esercito imperiale consegnandosi volontariamente al nemico sono slavi e, soprattutto, boemi; sul variegato e vastissimo fronte orientale - nella Russia essa stessa plurietnica, dove tutte le identità e le gerarchie fra nazioni e popoli appaiono in 141

ebollizione e dove poi la rivoluzione instaura nuove variabili di classe e opzioni di partito - tra i fuggiaschi sono riconoscibili gli italiani, specialmente quelli di Trieste e del Litorale. La recente inchiesta storiografica fra "I prigionieri dello Zar" mostra il processo di accelerazione nella formazione delle identità nazionali, favorita dalla non sempre pacifica convivenza etnica all'interno dell'esercito austroungarico. Una ridda di lingue, immagini collettive e profili di popoli che l'incontro con l'altrettanto variegata composizione della società zarista non può che accentuare nei campi di prigionia dove si vale, si mangia, si lavora e si sopravvive non solo in base alla buona sorte e alle doti individuali, ma anche alla nazionalità in cui si viene incardinati e a gerarchie non scritte, di valore e di trattamento, nei rapporti fra i popoli (60). La lontananza dai luoghi di partenza - come avviene per gli emigrati, che partono ignorando l'Italia e la scoprono quando ne sono privi (61) e la lotta per la sopravvivenza nella babele europea della guerra e della prigionia potranno rendere un pò"meno paesani e un pò più italiani" anche questi contadini partiti senza opporre resistenza per fare il soldato nelle armate dell'imperatore, "nemico storico" della loro nazione, e che magari, nel maggio 1915, hanno condiviso la rabbia e il rancore per il "tradimento" e l'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria. Per tutti costoro l'italianità può essere, se del caso, un divenire. E' invece un dato di partenza, un'opzione originaria, nella componente nazionale dei disertori verso la Russia (i cui sviluppi rivoluzionari consentiranno a un certo punto diserzioni altrettanto politiche ma motivate in chiave internazionale e di sinistra, invece che nazionale e patriottica). Si dà volontariamente ai russi - dopo avere progettato ad arte questa estrema via d'uscita - anche Giuseppe Bresciani, quel barbiere di Riva del Garda autore di corrispondenza e di memorie di intonazione irredentista di singolare efficacia, perché offrono uno spaccato sugli ambienti piccoloborghesi e microintellettuali (62). Per Bresciani disertare verso i russi 142

rappresenta l'ultima possibilità per non continuare a combattere da una parte che non sente come la sua, dopo che, all'inizio del conflitto, lo hanno avvistato e catturato all'ultimo metro mentre stava sconfinando nel Regno passando per la Val di Fassa. Interrogatori, processo, partenza con la divisa non voluta, e poi la difficile vita quotidiana del militare nazionalmente sospetto: tutto ciò costituisce il racconto ritrovato di questo modesto, ma risoluto esponente di un'italianità volontaria, come tendenzialmente "volontarie" - non però prive di vincoli e condizionamenti, non affermate nel vuoto - sono un pò tutte queste identità di frontiera frantumate e a rischio, tanto più durante una guerra che si nobilita dichiarandosi mossa dal principio di autodeterminazione. Come membri dell'Intesa, i russi offrono un trattamento diverso agli italiani d'Austria, radunati nel campo di Kirsanov, che si pronuncino concretamente a favore dell'Italia scambiando la liberazione dal campo di prigionia con la disponibilità a ripartire come soldato in grigioverde. Sembra un modo efficace per discernere, tra le varie forme di diserzione, quelle effettivamente motivate da spinte patriottiche. In realtà, conosciamo itinerari del ritorno resi estremamente lenti e complessi, oltre che dalla vastità della Russia e dalle difficoltà di trasporto, anche da resipiscenze e incertezze, sia da parte russa che italiana. Lo stesso Bresciani e diversi fra i suoi coetanei che hanno avuto sorti simili alla sua, una volta riusciti a tornare in Italia con viaggi che possono durare mesi, lamentano che l'Italia sembra non sapersene che fare di loro e l'esercito volerli tenere quasi a distanza. Preme ai più sinceri e motivati scrollarsi di dosso il sospetto - che non ignorano diffuso nelle comunità di partenza messe in crisi e in qualche modo lacerate dal loro gesto di dissociazione - che più d'un "viva l'Italia!' e più di un passaggio nel Regno celino in realtà semplicemente il desiderio di scampare alla chiamata alle armi. L'unica risposta concreta ai sospetti è l'arruolamento. Qualcuno non riuscirà nemmeno a partire o partirà tardi e ciò per un convergere di motivi, fra i quali - particolarmente dolorosi 143

e insultanti per gli irredenti in buona fede - la diffidenza di militari e uomini d'ordine per chi, dopo tutto, ha "tradito", violato la legalità dello Stato di cui era cittadino, contrapposto l'anarchia volitiva del proprio "io" alla maestà della legge e, se ha tradito una volta, potrebbe tradire ancora. E poi: quel sedicente patriota e aspirante volontario non potrebbe, alla fin fine, celare un possibile doppiogiochista, una spia austriaca? Le motivazioni opposte agli irredenti sono naturalmente diverse. Alcuni, ancora negli ultimi mesi di guerra, premono per andare in linea e non vedere umiliata la propria devozione alla patria in qualche caserma di retrovia, con la prospettiva di tornare ai luoghi di origine portandosi addosso il marchio dei mezzi imboscati, di quelli che a conti fatti hanno combattuto meno del grosso dei militari i quali invece la guerra non la volevano e si sono limitati a obbedire. A questi irredenti si fa capire che si preferisce tenerli indietro per non esporli al pericolo di essere catturati, magari riconosciuti nonostante i falsi nomi, processati e condannati a morte come traditori. E non sono pericoli inventati. L'ombra di Battisti - e di altri meno illustri di lui - incombe. Anche Trieste ha testimoniato, in tal senso, con il caso dei tre giovani intellettuali della «Voce», volontari e combattenti: Slataper, ucciso sul Podgora nel 1915, Carlo Stuparich, che sceglie il suicidio sul Cengio, nelle azioni di resistenza alla "Strafexpedition", nell'attimo in cui, circondato dagli austriaci, sta per essere preso prigioniero, e suo fratello Giani, il quale nella medesima circostanza decide di rischiare, viene catturato e vive poi due anni in campo di prigionia nell'incubo continuo di un possibile riconoscimento, magari per un incontro fortuito con un concittadino fedele all'Austria che potrebbe svelarne la vera identità e portarlo al capestro. Giani si salva e dedicherà poi la vita a fissare il ricordo della sua generazione e della sua guerra (63). Non si salva invece Battisti, che nel 1916 è riconosciuto da alcuni trentini e che gli austriaci si divertono a far sfilare nelle strade di Trento, esposto alle grida e ai gesti ostili dei «fedeloni», cioè di chi 144

esecra in lui l'Italia, la guerra, il socialismo o anche - come in certi strati sociali può avvenire - le tre cose insieme (64). Sono gli angosciosi incastri e le truci forme di incomunicabilità fra uomini e classi di una stessa comunità, le cui regole sono state messe in mora e travolte dallo stato di guerra. Trentino e Venezia Giulia - entrambi poste in palio e simboli di identità - esaltano l'italianità di molti nel Regno e al tempo stesso la rendono più ardua e contrastata nei luoghi contesi. Si può esemplificare quello che fu per qualche generazione un sentire comune ricordando due memorie, datate e però sempre intense, di personaggi e testimoni dall'interno dell'irredentismo triestino: il "Diario di un sepolto vivo (1915-1918)" del professor Ferdinando Pasini (65) e "Attendiamo le navi", di Carmela Timeus, sorella del giovane volontario nazionalista Ruggero Timeus, caduto in guerra (66). Di recente - utile a sfaccettare un'immagine di Trieste altrimenti troppo univoca e lucente - è stata resa nota una fonte di natura scolastica: i temi d'attualità di una classe elementare femminile scritti il 27 maggio del 1915, a immediato commento dei celebri, favoleggiati ma in definitiva scarsamente conosciuti giorni del 23 e 24 maggio, quando - nella "vulgata" nazionale - la teppa austriacante sobillata dalla polizia e dai servizi dà l'assalto e saccheggia i luoghi e i simboli di italianità, dal «Piccolo» alla statua di Verdi e ai caffè frequentati dagli irredentisti (67). La maestra risulta di sentimenti italiani, la scuola è controllata dal Comune, dietro le venticinque ragazzine di quella quinta B di via dell'Istria ci sono famiglie e quartieri popolari dai nomi sia italiani sia sloveni; ma non vi è traccia, in questi temi, della lettura scandalizzata di parte liberal-nazionale (che, almeno in parte, diventerà poi nazional-fascista) che consegnerà alla memoria quei giorni dell'entrata in guerra. Non ne trapelano solidarietà e tanto meno immedesimazione con gli attaccati, né giudizi particolarmente negativi per gli aggressori. Il comune sentire sembra semmai la curiosità per quella strana libertà di spaccare tutto senza che nessuno dica nulla, per tutte 145

quelle belle cose - oggetti di pregio, altrimenti inarrivabili di cui qualcuno riesce a impadronirsi, non escluso - par di intuire - qualcuno che questa o quella scolara sa bene chi sia. Questa piccola spia di una visione depoliticizzata, che manifesta priorità e rilevanze differenti rispetto a quelle che appaiono ovvie alla storia politica e, a maggior ragione, alla "storia sacrà della Grande Guerra, ci rinvia all'insieme delle fonti popolari, riportate alla luce e valorizzate dalla storiografia recente. Se Bepi Bresciani e gli interlocutori della sua cerchia gardesana di piccolo leader giovanile ci permettono di scendere di qualche gradino nella scala sociale e di verificare che sinceri irredentisti e italiani volontari erano presenti non solo fra gli intellettuali o gli studenti di buona famiglia, ma anche nella più modesta microborghesia dei barbieri e dei cartolai, la questione che invece sollevano le nuove fonti di scrittura popolare è quella relativa alle opinioni, al modo di vivere, alle reazioni di fronte alla guerra di quei "fuori- storià - veri o presunti - che sono i contadini, in certo senso violentati dalla storia altrui. Grazie al più alto grado di alfabetizzazione dei contadini italiani dell'Impero rispetto ai "regnicolì e a una più spiccata propensione della ricerca locale a esplorare quest'ambito, disponiamo oggi di una migliore conoscenza della soggettività popolare in area trentina e giuliana. Accurate indagini specialistiche sono state dedicate a queste umili reti parentali di uomini e donne, voci di soldati semplici sbalestrati via da casa e dai campi: una sorta di "zona grigia" - per trasferire alla situazione del 1914-1918 una categoria che ha contribuito a ridisegnare il quadro delle forze in campo nel 1943-1945 - rispetto alle alte temperature dei convincimenti pro o contro la guerra maggiormente diffusi in altri strati sociali. E' la vita quotidiana nelle sue nuove condizioni sotto le armi quella che campeggia nelle lettere, nei diari o nelle successive memorie di quei loro giorni diversi e scombinati, alla mercé di circostanze e poteri sovrastanti. Politica in senso stretto e dichiarato, poca. Anche negli scritti di chi porta un nome 146

e un cognome riconoscibili come italiani, rari sono i riferimenti alla lingua "altà e, tutto sommato, "stranierà, dell'irredentismo: opzione difficile già nel nome. Si vive di altre cose. L'angoscia che sembra largamente prevalere fra gli italiani d'Austria è quella comune al contadino- soldato di altri fronti: essere costretto da forze superiori ad arrischiare la propria vita di figlio, di marito e di padre, sottraendola forzosamente a obblighi sentiti come ben più naturali e prioritari. E le risorse che ciascuno mette in campo per resistere sono il santuario interiore delle memorie domestiche e delle credenze religiose (68). *

L'INTERVENTO. - "La rottura della classe liberale". La guerra rompe la classe dirigente alternativa, rende opinabile il significato della parola "rivoluzione", sconvolge i confini fra culture, classi sociali, partiti politici e all'interno di questi - fra correnti e tendenze. La prima vittima dello stato di guerra, sin da quando essa si presenta solo come imminente, è - come detto - l'Internazionale; e, all'interno dei diversi paesi, appunto l'opposizione e la classe dirigente cresciuta e orientata nel senso di un ricambio sostitutivo, più o meno traumatico, di quella di governo. Risultano tuttavia traumatiche anche le divisioni all'interno della classe dirigente liberale. Il fatto stesso che il "dittatore" della vita parlamentare italiana per oltre un decennio, colui che dà il proprio nome a un'intera epoca "l'età giolittiana" - si trovi fuori dal governo nel momento in cui l'imminenza e radicalità ultimativa delle decisioni ne potenziano grandemente compiti e responsabilità, contribuisce a squilibrare la situazione. Non è la prima volta 147

che un altro esponente del partito liberale sostituisce Giolitti come presidente del Consiglio, in governi di più o meno labile durata e in rapporto ad assestamenti tattici e contingenze parlamentari. Sonnino e Salandra erano da tempo alternative potenziali alla "leadership" giolittiana, e al primo dei due - l'aristocratico e colto possidente toscano - era per due volte avvenuto di poter guidare il governo, mentre il giurista pugliese era sulla breccia come ministro già dai tempi della sua partecipazione al governo Pelloux: un precedente autoritario cui rimarrà tendenzialmente fedele per tutta la sua lunga carriera politica, terminata da filofascista e senatore del Regno. Nel periodo attorno alle elezioni politiche del 1913, le mutate condizioni della contesa politica ed elettorale gli suggeriscono di prendere le distanze dal leader di riferimento dei liberalconservatori, Sonnino - dei cui governi era stato membro e di avvicinarsi a Giolitti. Grazie a questo riposizionamento tattico all'interno della galassia liberale, il 21 marzo 1914 viene indicato come capo di un esecutivo interpretato al momento come un'ulteriore successione interinale a Giolitti, il quale conserva nel frattempo tutte le sue posizioni di potere sia in parlamento, sia nella burocrazia ministeriale e negli apparati centrali e periferici dello Stato. Salandra, del resto, mantiene nel governo da lui costituito alcuni ministri del precedente esecutivo Giolitti, fra i quali la figura chiave del ministro degli Esteri, di San Giuliano. E" soprattutto a questi due uomini politici che tocca la responsabilità di gestire sul filo dei giorni e persino delle ore la situazione fattasi improvvisamente drammatica e ultimativa fra giugno e luglio: la decisione di mantenere l'Italia fuori del conflitto, resistendo alle pretese austriache e alle sollecitazioni tedesche, cioè di due antiche alleate alle quali nulla, in sostanza, del loro personale passato politico li predispone a dire di no, strappa il loro ruolo ai limiti dell'amministrazione dell'esistente e impone di misurarsi con scelte da statisti, di quelle che impegnano durevolmente e coinvolgono alla radice i destini di un paese. Pace o guerra? Con chi e contro chi? 148

E in vista di quali scopi? A questo punto Salandra non è e non può più sentirsi un mero sostituto di altri. Fra le molteplici variabili che, assommandosi, condurranno all'entrata in guerra, va annoverata anche questa: l'ambizione di Salandra di stabilire nuovi equilibri all'interno del partito liberale e di spostare a destra l'asse del potere che Giolitti aveva tendenzialmente orientato a sinistra. Naturalmente, il decisionismo di cui si mostra capace, e che la dichiarazione di neutralità dell'Italia in questo momento implica, non significa che l'intero sistema di potere costruito da Giolitti nel corso di lunghi anni si sposti e si riorienti altrettanto rapidamente. E non ce n'è neppure bisogno, almeno fino a quando, rotti gli indugi, le posizioni di Salandra e Giolitti non finiscono per risultare divaricate. Ma, per diversi mesi, non si può dire che al conclamato neutralismo del vecchio presidente del Consiglio si contrapponga l'interventismo del nuovo. Si tasta il terreno in più direzioni, si lavora coperti, si tratta. Prima attraverso di San Giuliano, poi - quando questi, già ammalato, muore sulla breccia - attraverso il nuovo ministro degli Esteri prescelto da Salandra, il suo vecchio capocorrente e presidente Sonnino, con il quale c'è intesa a parti rovesciate (del resto Sonnino era stato interpellato prima di Salandra per la composizione del governo, e vi aveva rinunciato). Tali rapporti personali, il carattere forte di Sonnino e le circostanze del momento si assommano nel rendere il ministero degli Esteri un vero centro di potere dotato di larga autonomia all'interno del governo. Quando, nel maggio 1916, il governo Salandra cade, Sonnino non cade con lui ma politicamente gli sopravvive e rimane ministro degli Esteri in tutti e tre i governi di guerra Salandra, Boselli e Orlando - imprimendo la sua impronta tradizionalista e autoritaria a tutta la politica di guerra della classe dirigente liberale. - "Il governo e la piazza".

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Tutto il vecchio mondo del notabilato liberale ha scarsi o nulli rapporti con la piazza: "hic sunt leones". Ciarlatani, arruffapopoli, venditori di specifici e presunti medicamenti per le piaghe dell'anima e del corpo, individuale e sociale. All'incirca questo era, per la repulsione conservatrice e moderata, quel domestico "altrove" animato da figure dubbie e zingaresche, di irregolari e di spostati. Inutile dire che i contatti fra il mondo della piazza e il mondo dei "normalì era nella realtà, e da sempre, assai più mosso e sfumato di quanto non mostrassero di ritenerlo i timorosi lettori della "Psychologie de la foule" di Gustave Le Bon (69). Ma in personaggi della formazione di quelli che reggono il governo fra il 1914 e il 1915 si indovina un vero deficit di cultura politica, una secca retrodatazione rispetto al peso e al ruolo che le manifestazioni di piazza sono destinate ad assumere come moderna forma di rappresentazione degli avvenimenti e - nella circostanza di ratifica popolare delle scelte di vertice. Rispetto al montare delle emozioni collettive e alla loro pubblica messa in scena questi esponenti della vecchia politica e della diplomazia segreta sono degli increduli, il che li estrania dal movimento che va crescendo. Ovviamente, non sono gli ultimi borghesi rimasti a nutrire le prevenzioni della vecchia destra rispetto a certi riti e assembramenti plebei, nei quali non riescono a cogliere che provocazione manovrata ad arte dalla polizia o da essa repressa. Che siano ancora in molti a confidare di poter governare senza e contro le masse e senza e contro la piazza, lo dimostra il fatto che, ancora alle fine dell'ottobre 1922 mentre la Marcia su Roma esplicita le nuove forme della politica, un Salandra non molto diverso dal Salandra del 1914-1915 possa rimanere in lizza sino all'ultimo, sia come possibile partner che come alternativa estrema all'uomo nuovo della politica e della destra italiana, Mussolini. Le due destre, quella tradizionale dei notabili che prescinde dalle masse e quella nuova, risoluta a servirsene, dunque convivono, in una coesistenza non sempre capace di comunicare, né sempre pacifica. 150

Questi mesi decisivi, in cui si ricapitola tutta la storia d'Italia, ci mettono di fronte a una molteplicità di piani d'azione tendenzialmente distinti. Anzitutto il percorso parallelo, quasi privo di zone di contatto, delle tre correnti neutraliste: socialisti, cattolici e liberali giolittiani. Ciascuno dei tre non ignora, ovviamente, l'esistenza delle altre due e può anche far conto su di esse; mancano tuttavia progetti comuni e punti d'incontro. Il fronte interventista può crescere e prevalere anche perché il parallelismo fra le varie motivazioni e spinte dei fautori della guerra - che pure esiste ed è distinguibile nelle sue linee di frattura - viene almeno in parte superato nel momento in cui si accettano luoghi e forme di ricomposizione. Quanto ai rapporti reciproci fra neutralisti e interventisti, non arriveremo a dire che i due movimenti viaggino in parallelo senza mai incontrarsi, perché anzi è proprio una miriade di scontri e scaramucce locali a portare nel giro di qualche mese alla conquista della piazza da parte interventista, alla nascita di una inedita piazza tricolore e all'emarginazione o all'autoesclusione degli altri. Non si giunge tuttavia a uno scontro risolutivo, a un momento e a un luogo di contrapposizione di rilievo nazionale: i neutralisti si consumano e si ritirano dal campo prima ancora di avere tentato di agire come blocco unificato, al di là delle differenti provenienze. A questo punto, mentre la piazza tende ormai a svuotarsi di renitenti alla guerra, giunge l'ora del chiarimento fra movimento interventista e governo. Procedere in parallelo non basta e a questo punto - fra marzo e maggio 1915 - non si può più. Il movimento non si è mai interamente riconosciuto in quel governo troppo equidistante, prudente e calcolatore. Ha accettato una divisione di compiti "pro tempore": tenere la piazza e scaldare gli animi nell'attesa, nella fiducia che la diplomazia crei nel frattempo le condizioni adatte e il governo decida. Quando l'iniziativa giolittiana passata alla storia con la formula del «parecchio» minaccia di richiamare in campo il parlamento e la sua maggioranza e di riconfermare l'egemonia del vecchio leader della sinistra liberale, 151

rimettendo in discussione una scelta di guerra che su altri piani appare ormai matura, quella divisione dei ruoli salta. La piazza interventista, dove s'incontrano sovversivi di sinistra e di destra unificati dallo scopo immediato, si arroga la funzione di stimolo decisivo nei confronti delle più alte istituzioni statali e governative e si propone quasi come un possibile governo di riserva, autoinvestito di diretta rappresentanza popolare. Qui gioca le sue carte Salandra. Il 13 maggio si dimette. Il re sente Giolitti, sente Salandra, mentre D'Annunzio, Mussolini, «Il Popolo d'Italia» e «L'Idea nazionale» elettrizzano il clima e minacciano la guerra civile. La guerra divide, la monarchia unifica i due statisti. Il liberale neutralista arretra, rinuncia a fare appello alla "suà piazza che anch'essa, del resto, tace. Il liberale conservatore, "bon gré mal gré" associato alla piazza del popolo patriottico, prevale. E la Camera dei deputati, il 20 maggio, si piega. - "Il Patto di Londra". Doveva finire necessariamente così? Questo interrogativo rimane sospeso da allora. Certo, l'Austria - nonostante i buoni uffici della Germania - sembra far di tutto, nei mesi in cui diverse vie d'uscita rimangono aperte, per sospingere l'Italia nelle braccia dell'Intesa. L'Italia finirà per rifugiarvisi, spinta sì da fervidi sostenitori e della guerra e dell'Intesa, e con un grado di partecipazione e di sostegno comunque inusitati, ma dovendo, strada facendo, superare forti resistenze sia alla guerra in sé, sia al rovesciamento delle alleanze. A cavallo tra la fine del 1914 e l'inizio del 1915, la classe dirigente italiana appare ancora in condizione di riunificarsi e di trovare nel paese un vasto consenso sociale all'eventualità di acquisti territoriali a spese degli Asburgo che gli uni poi - cioè gli interventisti democratici - potrebbero colorire in chiave irredentista, e gli altri - i salandrini del «sacro egoismo», i giolittiani del «parecchio», ma anche i nazionalisti intenzionati all'espansione nonché coloro che preferiscono comunque 152

mantenere l'Italia fuori della guerra - di tinte più neutre e tradizionali. Il fatto è che l'Austria - man mano che l'andamento della guerra tanto sul fronte orientale quanto su quello occidentale rialza il peso del non intervento italiano - può recalcitrare sempre meno e deve infine rassegnarsi a perdere il Trentino, ma stenta assai di più ad accettare la rinuncia a una città ricca e operosa come Trieste, sia per il peso strategico assai maggiore, sul piano commerciale non meno che su quello militare, della città e del suo porto, sia perché la situazione etnica del territorio giuliano, caratterizzata dalla difficile coesistenza di diverse minoranze e dei relativi referenti nazionali esterni, è più complessa di quella trentina. Darla vinta all'Italia significherebbe perciò dare inizio a una catena di ripercussioni e di contrasti, non solo rispetto all'elemento tedesco, ma anche a quello slavo. Il dualismo fra la destra liberale - che detiene le leve del governo in una situazione di guerra dove l'autorità, la riservatezza e l'insindacabilità del potere risultano notevolmente ampliate - e una costituzione materiale del potere che fa capo a Giolitti e al capitale di uomini e di relazioni, nazionali e internazionali, accumulate dall'anziano statista nel corso dei decenni, fa sì che questi divenga il polo extragovernativo di molteplici attese e pressioni. In Italia sperano in lui, se si potrà metterlo a capo di un rovesciamento degli equilibri interni al partito liberale, coloro per i quali l'obiettivo prioritario è in ogni caso evitare all'Italia la guerra. Sia che non la ritengano giusta e augurabile, sia che, più semplicemente, non ne ritengano l'Italia all'altezza, Giolitti è comunque il loro uomo. Fuori d'Italia, e in particolare da parte degli Imperi centrali, finiscono oggettivamente per riferirsi al suo contropotere coloro che sperano di scongiurare l'entrata in campo di un avversario in più. Il capo presunto dell'opposizione neutralista - un Turati più che mai fiacco e affetto da sentimenti di incredulità e impotenza (70), come rivelano le sue quotidiane lettere confidenziali da Roma alla sua compagna Anna Kuliscioff (71) - continua a sperare e a 153

dirsi certo, ancora ai primi di marzo, che «in guerra non si va [...] Ma la guerra nessuno la vuole, come non si vuole il colera - semplicemente» (72). Il 10 marzo, Turati non teme di designare così il ruolo effettivo e l'immagine internazionale del vecchio e del nuovo capo del governo: "Non ti conto tutte le storielle che corrono qui, perché non posso distinguere le probabili verità (ce ne sono?) dalle frottole certe. Oggi si dava per sicuro il contratto con Bulow e coll'Austria: Trentino, rettifica confine all'Isonzo, Trieste neutralizzata. Non me ne intendo, ma mi sembrano bubbole solenni. Di positivo c'è la visita di Salandra a Giolitti, pare per consiglio del re, perché Giolitti essendo il vero capo della maggioranza gli ambasciatori con Salandra e con Sonnino non trattano affatto non credendoli responsabili" (73). Questo gioco delle parti assicura senz'altro a Giolitti, agli occhi degli interventisti, il ruolo di "uomo dei tedeschi". Il punto di arrivo di un'iniziativa politica che appare irrituale - cioè extragovernativa, dal momento che Giolitti è fuori dal governo, ed extraparlamentare, giacché Salandra tiene chiusa la Camera - è la celebre lettera del «parecchio». La pubblica, il 2 febbraio, il quotidiano liberale giolittiano di Roma «La Tribuna» quando del testo, negli ambienti politici, si vocifera da giorni. Esso guadagna dall'essere conosciuto in modo più esteso e circostanziato, non inchiodato a quel termine prosaico che la mistica dell'intervento ebbe buon gioco a incriminare come spia di un atteggiamento irriducibilmente mediocre e bottegaio. "Certo io non considero la guerra come una fortuna, come i nazionalisti, ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare solo quando è necessario per l'onore e per grandi interessi del paese. Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per un sentimentalismo verso gli altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del paese. 154

Ma quando fosse necessario non esiterei nell'affrontare la guerra, e l'ho provato. Credo parecchio, nelle attuali condizioni dell'Europa potersi ottenere senza guerra" (74). Ovvietà, a mente fredda. Eresie antinazionali allora, in un clima surriscaldato in cui quell'invito alla ragione sembra gettare invece benzina sul fuoco. Da una parte, infatti, l'Austria non si risolve con tempestività a utilizzare la possibile sponda che quest'iniziativa giolittiana riapre in Italia al partito della pace e continua, con i suoi atteggiamenti negligenti o dilatori nei confronti delle esigenze italiane, a scoraggiare coloro che ormai da diversi mesi perseguono le vie della trattativa, favorendo così sia il partito della guerra, sia quello della doppia trattativa. Dall'altra Salandra e Sonnino - proprio perché non pensano a una guerra di princìpi, ma di interessi e di potenza - non sono del tutto sordi ad altre ipotesi diplomatiche, né possono a loro volta rimandare a lungo la verifica di un'ipotesi di accordo con l'Intesa. Già in precedenza non erano ovviamente mancati contatti fra ambasciatori, ma a partire da marzo i rapporti, in particolare con l'Inghilterra, si stringono e da questo momento procedono con ben altra velocità e concretezza. Nonostante gli sforzi della Germania per porsi quale mediatrice fra l'Italia e gli Asburgo, i molti mesi di sondaggi più o meno discreti e coperti dalle regole della diplomazia segreta - mentre fuori urge l'altro, demagogico linguaggio della politica che mette tutto in piazza - pongono i massimi dirigenti italiani di fronte al fatto che le potenze dell'Intesa, per avere l'Italia in guerra dalla propria parte, garantiscono maggiori vantaggi di quanto siano disposti a riconoscerle gli Imperi centrali per mantenerla al di fuori del conflitto. Col senno di poi, conoscendo il prezzo finanziario ed umano della guerra, quel confronto e la scelta che ne deriva appaiono opinabili. A quanti chilometri quadrati corrispondono 600 mila morti? La questione diventa irrisolubile. Anche perché nessuno allora immaginava quanto sarebbe stata lunga e sanguinosa 155

la prova. I termini del ragionamento e del calcolo appaiono inoltre sfasati anche a causa dell'ottica datata e tradizionale con la quale allora si affrontò una guerra che si sarebbe poi configurata in modalità del tutto inedite. Il 26 aprile 1915 viene così stipulato il Patto di Londra segreto - che impegna l'Italia a entrare in guerra entro un mese a fianco della Gran Bretagna, della Francia e della Russia. La vittoria le garantirà il Trentino e il Sud Tirolo, con il confine al Brennero, Trieste e l'Istria sino al Quarnaro - ma senza Fiume -; inoltre la Dalmazia, una specie di protettorato sull'Albania e compensi indefiniti in caso di disgregazione dell'Impero ottomano e di guadagni coloniali da parte inglese e francese. Come si vede, un coacervo in cui le motivazioni risorgimentali e libertarie di alcuni sono costrette a confondersi con il «sacro egoismo» della vecchia destra e con le propensioni imperialistiche della nuova. Le divisioni in politica estera, sia nel periodo bellico sia in quello successivo, affondano le radici in queste motivazioni e finalizzazioni divaricate e mistilingui. - "Il «maggio radioso»". Quanti, e a partire da quando, sapevano del Patto di Londra e ne conoscevano il contenuto? E" difficile dirlo. L'impegno assunto il 26 aprile di entrare in guerra entro un mese come infatti avverrà - porterebbe a ritenere che almeno la sostanza dell'accordo, se non i particolari, fosse di pubblico dominio, dato che un esercito non può prendere posizione in forma clandestina. Eppure, quando il 5 maggio viene inaugurato a Quarto il monumento ai Mille, la speranza coltivata negli ambienti interventisti che il re sia presente viene delusa. Né il capo dello Stato né il governo intendono ancora scoprire del tutto le carte. Alla coralità del rito, cui la parola alata dell'oratore ufficiale D'Annunzio si ingegna di attribuire il valore di una dichiarazione di guerra all'Austria a nome dell'intero popolo italiano - vivi e morti manca quindi la sanzione ufficiale. Addirittura, ai colloqui ufficiali seguiti alle dimissioni del governo Salandra il 156

giorno 13, il suo antagonista Giolitti dirà di essersi presentato disponendo solo di notizie sommarie sugli accordi intercorsi con l'Intesa. Giolitti rinuncia "in extremis" a prendere personalmente in pugno la situazione allorché ne viene informato e apprende che essi coinvolgono le istituzioni al massimo livello, nella persona del re. Mentre al vertice si consumano le ultime scelte, si accentua nelle piazze il fervore oratorio degli interventisti e le loro parole si fanno più incendiarie e virulente. Fra il 5, quando sembra si sia a un passo dall'entrata in guerra, e il 13, quando tutta la situazione sembra poter ritornare al punto di partenza, si verificano due contro- gesti significativi: la venuta di Giolitti a Roma, a Camere chiuse, e la dimostrazione di persistente fedeltà dei parlamentari giolittiani, con il celebre espediente dei 250-300 biglietti da visita recapitati allo statista nella sua abitazione romana. Il fantasma del «parecchio» torna ad aleggiare, i neutralisti mettono in giro la voce che «l'Austria ci farebbe - adesso delle concessioni tali da accontentare il più frenetico degli imperialisti italiani» e «nuove speranze risorgono nei cuori dei più incarogniti triplicisti», come ironizza il giorno il Mussolini sul «Popolo d'Italia» nella feroce invettiva "Abbasso il Parlamento!" (75). Il giorno dopo, 12 maggio, in un pezzo più argomentato, Mussolini addita "Il delitto" di Giolitti (è il titolo del pezzo) nell'avere, con la sua pervicace iniziativa parallela a quella del governo in carica spinta sino all'ultimissima ora, «diviso il Paese mentre stava unificandosi»: dalla metà di aprile, infatti, «si era venuto formando uno stato d'animo di fiduciosa attesa negli elementi interventisti e di passiva rassegnazione fra quelli neutralisti». Come in tutto il «maggio radioso», il protagonista della oralità bellicista è il poeta vate, mentre la parola scritta lancia grida d'allarme e drammatizza in modo ultimativo la scena soprattutto sul «Popolo d'Italia» e sull'«Idea nazionale». Ma, come asserisce il poeta nella sua "Arringa 157

al popolo di Roma in tumulto, la sera del XIII Maggio MCMXV": "Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei; né mi parrebbe di averne rimordimento. Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca a imbrattare e a perdere l'Italia" (76). Il seguito dei suoi discorsi romani sarà in stile, spingendosi sino all'invocazione squadrista ai giovani seguaci di non permettere ai parlamentari sospetti l'accesso alla Camera (17 maggio) e - sempre nel discorso del 17 dalla ringhiera del Campidoglio, prodromo della ringhiera di Fiume nel 1919 e 1920 -all'asserzione conclusiva che «questo è il vero parlamento» (77). Gli stessi toni prescrittivi e preclusivi in "Nell'andare al parlamento, per la grande assemblea del XX Maggio": «"Basta! Basta!' è oggi la parola d'ordine». "Basta l'indugio, basta il sotterfugio, basta il cavillo, basta la reticenza, basta la furberia, basta ogni forma di viltà, ogni forma di vergogna. Basta, in fine, tutto quel che non è italiano. Questo è il vostro volere, anzi il vostro comando. Ci rivedremo, prima che il sole tramonti. Viva il popolo di Roma, padre della Patria!" (78). Non sono libertà poetiche. Un quotidiano politico portatore di interessi finanziari e industriali molto concreti quale «L'Idea nazionale» adotta in quei giorni uno stile ugualmente intimidatorio, potenzialmente omicida. E' l'economista Maffeo Pantaleoni - non un letterato - a ricordare a tutti, il 15 maggio, la «"fortunata disgrazia" 158

[che] liberò il paese dal Jaurès» (79) in Francia, dieci mesi prima. La massima concentrazione di fuoco dei gruppi interventisti si manifesta fra il 13 e il 16, cioè fra le dimissioni di Salandra e la decisione del re di respingerle. In quei quattro giorni persino un organo di estrema destra come questo si permette di premere sul sovrano, con toni che passano dall'affettazione di fiducia ad appena velate accuse di tradimento. Aperta è invece la sfida al «binomio della nostra vergogna», Giolitti e il parlamento. Per gli uomini di Corradini e di Rocco non si tratta solo di strappare la scelta di guerra, ma di invertire tutta una linea politica, infangando e mettendo stabilmente in mora le istituzioni parlamentari in quanto inadatte a rappresentare la nazione. Così recita uno dei pezzi pubblicati il 15, quando la tensione dell'attesa è al diapason: "Nell'ora decisiva del suo destino, la nuova Italia, la Nazione, aveva scelta la sua strada, la strada dello sforzo, del sacrificio della vita, della grandezza: la guerra. Al cimento aveva preparato le armi ed il cuore. La sua volontà sfolgorava come una spada, la sua sete di vita e di avvenire le infiammava il sangue per il nuovo meriggio; l'animo, proteso verso la speranza ed il dovere, chiedeva di immolarsi e di vincere. Sacro, il nome di Italia risorgeva dalle memorie circonfuso di luce eroica da troppo tempo spenta. Ed ecco, che attraverso il suo balzo si è improvvisamente gittato il Parlamento. L'urto, che era fatale, è avvenuto. L'urto è mortale. O il Parlamento abbatterà la Nazione, e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani" (80). Lo stesso linguaggio politico del «maggio radioso» meriterebbe qualche indugio descrittivo. Certo Battisti e Salvemini parlavano diversamente, ma non è già più il loro momento. 159

* UNA GUERRA OFFENSIVA. - "L'esercito italiano alla vigilia del conflitto". Il livello di preparazione e di efficienza dell'esercito italiano nel 1914 fu oggetto di dure accuse dopo la guerra. Salandra lo definì «imperfettissimo organismo militare» con «stridenti deficienze» che ne sconsigliavano l'impiego; e il capo di stato maggiore Cadorna giunse a scrivere che «all'aprirsi del conflitto europeo l'esercito italiano si trovava in uno stato di vera disgregazione». Giudizi come questi risentono fortemente di polemiche personali (Salandra e Cadorna dovevano difendere il loro operato) e soprattutto politiche: negli anni venti, tanto più dopo l'avvento del regime fascista, si faceva carico all'Italia liberale e giolittiana di non aver saputo né voluto perseguire una politica di potenza adeguata alle aspirazioni nazionaliste e quindi di non aver apprestato lo strumento militare necessario. In realtà dietro alle critiche all'esercito prebellico stavano soprattutto le amare delusioni della guerra di trincea, che veniva naturale imputare da una parte a Cadorna, dall'altra ai governi liberali. Queste critiche sono state poi riprese da non pochi studiosi italiani e stranieri, senza verifiche né il necessario confronto con quanto avveniva all'estero (81). Un giudizio più equilibrato deve tenere conto delle prove di saldezza date dall'esercito nel corso del conflitto; tuttavia alcuni elementi specifici di debolezza devono essere ricordati, sebbene siano generalmente trascurati proprio dai suoi critici. Le strutture dell'esercito italiano erano simili a quelle, già descritte, degli altri eserciti continentali: coscrizione obbligatoria, ferma di tre, poi di due anni, larga intelaiatura di reparti con forza insufficiente in pace che si completavano con la mobilitazione. Il sistema di reclutamento differiva però in modo significativo. In 160

Germania i reggimenti di fanteria traevano i loro soldati dalla regione in cui avevano sede stabile. Ciò garantiva la semplificazione delle operazioni di reclutamento e la coesione dei reparti, costituiti da uomini vicini per origine, vita e dialetto, nonché l'efficienza della mobilitazione: i richiamati dovevano fare poco cammino fino al loro reggimento, in cui ritrovavano ufficiali e sottufficiali che avevano conosciuto durante la ferma e i loro compaesani. Gli ufficiali poi venivano formati in scuole centrali, ma svolgevano gran parte della loro carriera nello stesso reggimento. Questo sistema di reclutamento (detto territoriale o regionale) era considerato il migliore dal punto di vista militare, perché garantiva una coesione di base ai reparti, un alleggerimento della struttura amministrativa e una rapida mobilitazione. Il suo limite era la difficoltà di impiegare le truppe nella repressione di eventuali disordini, a causa degli stretti legami tra soldati e popolazione; si tenga presente che in tutta Europa le forze di polizia erano allora assai meno sviluppate di oggi e che il ricorso alle truppe per mantenere l'ordine pubblico era normale. La Germania non aveva timori di rivolte e sommosse, quindi poteva permettersi il reclutamento territoriale, con qualche adattamento. I problemi erano maggiori in Francia e in Austria-Ungheria. Il carattere plurinazionale dell'Impero asburgico e le spinte centrifughe latenti facevano sì che i reggimenti composti da uomini della stessa regione potessero essere stanziati in un'altra lontana. Le minoranze considerate difficili erano poi destinate a reggimenti misti; i soldati trentini, ad esempio, avevano ufficiali e sottufficiali austriaci o ungheresi. In Francia poi il ricordo dell'insurrezione della Comune di Parigi obbligava a disperdere le reclute delle grandi città operaie, anche se si cercava di dare un reclutamento territoriale alle divisioni tratte dalle campagne. La situazione italiana era più complessa. Negli anni 18711876, quando l'esercito venne riorganizzato sul modello prussiano con la ferma di tre anni, il reclutamento 161

territoriale era impensabile nel Mezzogiorno, dove la rivolta detta del brigantaggio era stata appena schiacciata (si pensi anche all'insurrezione di Palermo nel 1866), ma non meno nella pianura padana, dopo i moti di massa del 1869 contro l'imposta sul macinato. Fu quindi adottato il reclutamento nazionale: ogni reggimento riceveva le sue reclute da sei o più province di regioni diverse e lontane dalla sua sede. Secondo la versione ufficiale, ciò doveva servire alla conoscenza reciproca degli italiani, che in generale parlavano soltanto il loro dialetto. In realtà il provvedimento mirava a rescindere i legami dei soldati con la popolazione e a favorire obbedienza e identificazione con l'istituzione militare. Ne derivavano una minore coesione dei reparti e un incremento dell'apparato burocratico. Era un prezzo da pagare alla difficile formazione dello stato unitario. Per lo stesso motivo, ossia per garantire il carattere nazionale del corpo ufficiali contro la forza dei regionalismi e delle tradizioni preunitarie, i reggimenti di fanteria, cavalleria e artiglieria da campagna furono sottoposti a un regime di frequenti trasferimenti da un capo all'altro d'Italia (in media uno ogni tre anni nei primi decenni, uno ogni cinque anni nell'età giolittiana), con disagi e inconvenienti facilmente intuibili, ma con il risultato di avere ufficiali e reggimenti uguali e intercambiabili, senza legami col territorio, appunto nazionali. Fu fatta un'eccezione soltanto per gli alpini e l'artiglieria da montagna, a reclutamento rigorosamente territoriale per ragioni militari (rapidità della mobilitazione per il presidio delle frontiere) e politiche, la tradizionale fedeltà e obbedienza delle genti alpine. E" difficile calcolare gli effetti negativi di questa nazionalizzazione forzata. A parte l'aumento delle spese e della burocrazia e la complicazione della mobilitazione, i reggimenti avevano minore tradizione e coesione e pochi rapporti con la popolazione; i battaglioni alpini, basati sul reclutamento territoriale, erano più solidi e popolari. In ogni caso si trattava di una scelta obbligata, come ben sapevano le autorità militari, che rimpiangevano 162

apertamente il reclutamento territoriale, ma lo dicevano inapplicabile per ragioni politiche. Un altro elemento di debolezza consisteva nella tendenza dei governi italiani ad avere un esercito più grande di quanto permettessero i fondi disponibili. Non che le spese militari fossero basse (come ripetono i critici dell'Italia liberale): la loro incidenza era anzi fortissima. Tutti i dati disponibili (bilanci ufficiali e rielaborazioni di autorevoli studiosi) giungono alle stesse conclusioni: nel primo mezzo secolo di vita unitaria, le spese obbligate dello Stato (il pesante debito pubblico, l'amministrazione generale e l'apparato fiscale) assorbirono poco più della metà delle disponibilità finanziarie. Tutto il resto della spesa pubblica si può dividere in due parti, una lievemente maggiore per i ministeri militari, l'altra di poco minore per l'insieme delle spese civili (istruzione e cultura, giustizia, sviluppo economico, assistenza e altro ancora). In complesso le spese militari assorbirono nel cinquantennio il 23,7 per cento di quelle statali, già schiacciate dal debito pubblico. Il dato non si presta a facili confronti con gli altri stati, né con la situazione odierna, per le differenze di impostazione dei bilanci; basta però a indicare la priorità assoluta delle spese militari in uno stato ancora in via di consolidamento e tutt'altro che ricco. Pur gravosissime per il bilancio statale, queste spese non erano sufficienti per la politica di potenza che la classe dirigente perseguiva. Il numero delle unità esistenti in pace fu quindi fissato tenendo d'occhio i rapporti internazionali più che le disponibilità finanziarie; e nel 1882, al momento della nascita della Triplice Alleanza, l'esercito ebbe 12 corpi d'armata rispetto ai 16 austriaci e ai 18 francesi e tedeschi del momento, malgrado il suo bilancio fosse nettamente inferiore. Quando poi i governi di destra di fine secolo dovettero ridurre drasticamente le spese militari, il numero delle unità di pace, per ragioni di prestigio, non fu diminuito anche se mancavano i mezzi per la loro normale attività. Questa politica comportava economie obbligate sulla forza alle armi, l'addestramento, gli armamenti, l'abitabilità delle 163

caserme, le retribuzioni degli ufficiali. Dal 1907 il governo Giolitti poté concedere grossi aumenti delle spese dell'esercito e della marina; ma restava una certa tendenza a privilegiare l'apparenza e a ricorrere a espedienti. Durante la costosa guerra di Libia, ad esempio, gli intangibili magazzini di mobilitazione furono intaccati senza un immediato reintegro. Questi elementi di debolezza (così come altri derivanti dal ritardo dello sviluppo italiano, ad esempio l'elevata percentuale di soldati analfabeti, circa un terzo, e l'insufficienza della rete ferroviaria) non vanno però drammatizzati (e non soltanto perché nessun esercito è mai perfetto), né isolati dal contesto europeo. Tutti gli eserciti del tempo avevano anche un ruolo di difesa degli assetti politico- sociali interni e quindi compiti repressivi, denunciati con aspre polemiche dai socialisti europei, da Jaurès al più profondo Liebknecht; e nel 1907 il 17esimo reggimento francese si ammutinò per non intervenire contro le agitazioni dei vignaioli del Languedoc in cui era reclutato. In tutti gli eserciti le ambizioni di potenza avevano portato a squilibri di crescita e la modernizzazione degli armamenti presentava lacune e ritardi. Dire che l'esercito italiano del 1914 non aveva l'efficienza di quello tedesco è certamente giusto, ma non basta, perché l'efficienza di un esercito non si misura in termini astratti, bensì in relazione al ruolo che ha nella politica nazionale e internazionale e nel confronto con gli avversari. In sostanza, la preparazione dell'esercito prebellico può essere valutata empiricamente in rapporto a due elementi: il ruolo decisivo che governi, comandi e opinione pubblica gli affidavano nelle scelte del 1914-1915 e la sua capacità di condurre la guerra di trincea, di cui discorreremo più avanti. Diamo qualche cifra. Intorno al 1910 l'esercito contava 96 reggimenti di fanteria, 12 di bersaglieri, 8 di alpini (in tutto 362 battaglioni di fanteria), più 29 di cavalleria, 36 di artiglieria da campagna (258 batterie leggere su 6 pezzi, compresa l'artiglieria da montagna); inoltre un parco d'assedio di artiglierie medie e pesanti, 84 compagnie delle 164

varie specialità del genio, servizi di sanità e una complessa organizzazione per i rifornimenti. In totale 25 divisioni permanenti su 12 corpi d'armata (le truppe alpine costituivano poi l'equivalente di altri due corpi). Prima della spedizione di Libia la forza media alle armi era intorno ai 240 mila uomini (di cui 30000 carabinieri) e 14-15000 ufficiali effettivi. Con la mobilitazione e la prevista costituzione di 10 nuove divisioni l'esercito sarebbe sceso in campo con circa 900 mila uomini più 350 mila di milizia territoriale nel paese. Era - per avere un riferimento orientativo - una forza pari alla metà di quella francese. Il ritardo qualitativo rispetto ai maggiori eserciti europei era evidenziato dal minor sviluppo della costosa cavalleria (ma ciò non avrebbe avuto peso nel conflitto) e soprattutto dell'artiglieria media e pesante. Rare le mitragliatrici (solo 2 per reggimento nel 1914-1915), sottovalutate però anche all'estero. A partire dal 1907 l'aumento degli stanziamenti permise di affrontare le lacune maggiori (aumento del contingente incorporato, adozione dell'ottimo cannone francese da 75, sviluppo delle fortificazioni al confine austriaco). La campagna di Libia rilanciò la popolarità dell'esercito (anche perché propaganda e censura ne nascosero le incertezze, le brutalità e gli insuccessi del 1914-1915), ma ne sconvolse le strutture. Nel 1911-1912 fu infatti necessario inviare oltremare 100 mila uomini, il triplo delle previsioni, tratti dai reparti in patria; poi la situazione si normalizzò con la creazione di nuove unità (equivalenti a 2 nuovi corpi d'armata), anche se tenere in Libia 50-60000 uomini era uno sforzo pesante. Per la marina ricordiamo soltanto che, nella scala delle flotte del tempo, era meglio piazzata dell'esercito. Era una marina secondaria rispetto a quelle di Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti; ma non era troppo inferiore a quella francese e decisamente superiore a quella austroungarica. - "Le scelte dell'estate 1914". 165

Nel 1888 era stata firmata una convenzione militare italotedesca che prevedeva, nel caso di una guerra contro la Francia, il trasporto di 5 corpi d'armata italiani sul Reno, in Alsazia. Il terreno e le fortificazioni delle Alpi le rendevano di fatto insuperabili da entrambe le parti; era quindi logico impiegare sul fronte decisivo le forze non necessarie al presidio della frontiera e delle coste. La convenzione aveva un carattere puramente tecnico, non era firmata dai governi, ma dagli stati maggiori, quindi la sua attuazione era subordinata alle decisioni politiche; ma costituiva un rafforzamento della Triplice Alleanza (in cui i rapporti dei militari italiani con quelli tedeschi furono sempre buoni, quanto freddi quelli con gli austriaci) e forniva una chiara indicazione per i piani di guerra. Nel primo decennio del secolo il riavvicinamento italofrancese e il peggioramento delle relazioni con l'Austria-Ungheria cambiarono il quadro politico; ma la convenzione del 1888 rimase in vigore fino al novembre 1912, quando Alberto Pollio, il capo di stato maggiore italiano, ne sospese l'efficacia per il peso degli impegni in Libia. Nel giugno 1913 fu però firmata una convenzione navale tra le marine italiana, austriaca e tedesca, che ipotizzava una guerra comune contro gli anglofrancesi. E nell'inverno 1913-1914 Pollio tornò a promettere l'invio di truppe sul Reno; gli accordi firmati nel marzo 1914 stabilivano che 3 corpi d'armata italiani sarebbero giunti in Alsazia a quattro settimane dall'inizio del conflitto, sempre che l'Italia fosse scesa in guerra a fianco di Germania e Austria-Ungheria. Nel 1914 l'esercito italiano disponeva di due opposti piani di mobilitazione e radunata che rispondevano alle difficoltà della politica estera nazionale, il primo all'eventualità di una guerra contro la Francia con l'invio citato di truppe sul Reno, il secondo per fronteggiare un'aggressione dell'alleato austriaco, con il grosso dell'esercito schierato sul Piave in 23 giorni e forze avanzate nella pianura veneta. Non c'era un piano per una guerra offensiva contro l'Austria-Ungheria, né a questa ipotesi si prestava il piano difensivo perché non proiettava abbastanza avanti il grosso 166

dell'esercito. Come abbiamo detto, questi piani erano talmente complessi da non poter essere modificati: occorrevano 2500 convogli ferroviari per la mobilitazione dell'esercito e 4600 per la sua radunata. Per di più le due serie di movimenti, che dovevano compiersi in tre settimane, erano intrecciate per guadagnare tempo. La decisione della neutralità fu comunque presa dal governo il 2 agosto 1914 senza tener conto dell'esercito (Cadorna, appena nominato capo di stato maggiore, non fu consultato) e non prevedeva la mobilitazione; come scrisse più tardi Salandra, «mobilitazione e neutralità erano, nel sentimento generale, termini contraddittori. Mobilitazione significava guerra». Ciò poneva Cadorna in una situazione precaria: un esercito non mobilitato nell'Europa in guerra era come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, perché prima di essere impiegabile doveva traversare alcune settimane di crisi dinanzi a nemici già pronti, in grado di attaccarlo subito (ma gli austriaci erano già pienamente impegnati contro russi e serbi). Cadorna chiese quindi l'immediata mobilitazione a scopo cautelativo, Salandra la rifiutò e concesse soltanto provvedimenti parziali (come il richiamo di due classi) che miravano a dare all'opinione pubblica un'impressione di fermezza, ma non cambiavano la sostanza. Cadorna affermava inoltre che un immediato intervento italiano avrebbe potuto giocare un ruolo decisivo nel conflitto europeo ancora incerto, mentre Salandra non intendeva correre rischi, bensì attendere che una delle due parti prendesse il sopravvento sui campi di battaglia prima di impegnare l'Italia. Il fallimento della guerra breve mise tutti d'accordo e a fine settembre ogni decisione fu rinviata alla primavera 1915. Nelle memorie scritte dopo la guerra, di non grande livello, Salandra sostenne di essere stato costretto a rinunciare all'intervento nell'autunno 1914 a causa dell'impreparazione dell'esercito. In realtà i tempi erano tanto stretti (era necessario dichiarare la mobilitazione in settembre per cominciare le operazioni in ottobre, prima che le Alpi diventassero intransitabili) che decidere di 167

entrare in guerra poche settimane dopo aver proclamato la neutralità era praticamente impossibile, tanto più considerata la debole base parlamentare di Salandra e la mancanza di movimenti a favore dell'intervento. Anche le pressioni di Cadorna ci sembra mirassero soprattutto a rilanciare l'esercito come fattore determinante nella politica italiana e infatti non furono sorrette dall'enunciazione degli obiettivi concreti che un'aggressione all'Austria avrebbe potuto offrire (82). - "La preparazione dell'esercito nell'inverno 1914-1915". Abbiamo già detto che la cultura europea del tempo tracciava una netta separazione tra il tempo di pace, in cui potere e responsabilità spettavano ai governi, e il tempo di guerra, in cui gli stati maggiori avevano un ruolo dominante; una separazione resa credibile dalla fiducia nella guerra breve e quindi subito superata dagli avvenimenti. In Italia il capo di stato maggiore dell'esercito era la massima autorità dottrinale, il responsabile della preparazione della mobilitazione e dei piani di guerra e di fatto il comandante in capo designato per una guerra, ma in tempo di pace era subordinato al ministro della Guerra (di regola un generale autorevole, ma non al vertice della gerarchia), che gestiva il bilancio, gli uomini e gli armamenti. A ben vedere la responsabilità della difesa era divisa tra il sovrano (Vittorio Emanuele però interveniva raramente in modo diretto), il presidente del Consiglio, il ministro della Guerra e il capo di stato maggiore, con un'evoluzione graduale che rafforzava la posizione di quest'ultimo. I contrasti erano inevitabili (come all'estero), ma fino al 1914 furono contenuti. La dichiarazione di neutralità aveva però creato un'imprevista situazione di transizione: l'organo decisionale restava il governo (che Salandra e Sonnino andavano esautorando a loro esclusivo profitto) con il ministro della Guerra Domenico Grandi come responsabile dell'esercito, ma Cadorna non poteva più essere relegato a un ruolo consultivo e subordinato, poiché 168

doveva curare la preparazione per una guerra ormai probabile e quindi poteva chiedere decisioni politiche come la mobilitazione in agosto e l'intervento in settembre, grossi stanziamenti e provvedimenti alla frontiera. Si creava una sovrapposizione di responsabilità che avrebbe dovuto essere affrontata da un organo collegiale di collegamento o per lo meno attraverso consultazioni regolari e frequenti, visto che il sovrano non assumeva iniziative. Si ebbero invece soltanto rari contatti bilaterali in cui emergevano soprattutto contrasti e incompatibilità personali. Questa mancanza di coordinamento, già negativa in agosto e settembre, assunse aspetti paradossali nei mesi seguenti. Salandra non discusse la sua linea d'azione con Cadorna, non si fece spiegare quali risultati l'esercito avrebbe potuto conseguire contro gli austriaci, non gli diede mai direttive precise. Era ossessionato dalla necessità del segreto, anche per la debolezza della sua base parlamentare e politica, e intendeva riservarsi fino all'ultimo libertà di movimento nei confronti dei suoi avversari interni così come verso l'Austria-Ungheria. Cadorna quindi preparava la guerra offensiva contro l'Austria sulla base di un accordo implicito (era l'unica ipotesi di guerra rimasta sul tappeto), senza l'indicazione di tempi meno generici della primavera 1915, né di obiettivi politico-strategici. A partire dall'ottobre ebbe gli stanziamenti e il potere che chiedeva per la preparazione dell'esercito, ma senza essere sicuro che la guerra ci sarebbe stata. In sostanza Salandra e Cadorna si muovevano secondo linee parallele, ma non comunicanti né coordinate; ci andò di mezzo il ministro Grandi, che aveva tentato di mantenere un collegamento tra azione politica e militare, e invece fu sostituito in ottobre dal generale Vittorio Zuppelli, che accettò il ruolo di collaboratore di Cadorna (nominalmente suo subordinato) perdendo contatto con Salandra. Si suole indicare come caso limite della mancanza di rapporti tra governo e Cadorna il fatto che costui stese il piano di guerra contro l'Austria senza consultare il governo, dandone visione soltanto al re. Ci sembra più grave un altro 169

punto. Il Patto di Londra già citato venne preparato da Salandra e Sonnino senza consultare l'esercito né la marina; a fine aprile Cadorna fu messo al corrente dell'impegno assunto per l'intervento, ma non ebbe in visione il testo del trattato. Tra le acquisizioni territoriali assicurate all'Italia c'era buona parte della Dalmazia, che anche nel dopoguerra sarà un punto fermo delle aspirazioni dei nazionalisti e della marina. Nessuno però aveva chiesto il parere dell'esercito, che avrebbe avuto il carico della difesa di questi territori. Eppure il parere c'era, e negativo: un promemoria del febbraio 1915 dello stato maggiore di Cadorna, che sottolineava come il possesso della Dalmazia non interessasse all'esercito, che invece avrebbe dovuto assumersi un costo elevatissimo per la difesa di questa lunga fascia costiera. Non sappiamo se il promemoria fu passato o riassunto a Salandra; resta il dato di fatto che costui e Sonnino impostavano la politica balcanica dell'Italia senza assicurarsi che fosse militarmente sostenibile (83). Veniamo all'opera di preparazione svolta durante la fase di neutralità. Cadorna si preoccupò di portare l'esercito al massimo dell'efficienza contemplata dai piani prebellici, senza novità di qualche consistenza. Le unità di cui era prevista la costituzione al momento della mobilitazione (10 divisioni) vennero impiantate in anticipo affinché garantissero la stessa formazione ed efficienza di quelle permanenti; furono creati nuovi reparti in sostituzione di quelli in Libia e pochi altri. L'attenzione di Cadorna si volse soprattutto agli ufficiali e all'artiglieria. Ricorrendo a corsi accelerati e a promozioni straordinarie, a metà luglio 1915 erano disponibili 17000 ufficiali di carriera e 22000 di complemento, su cui sarebbe ricaduto il peso dei combattimenti (84). Cadorna stabilì il principio che per «ragioni tecnico- morali» tutti costoro dovessero avere il grado corrispondente all'incarico ricoperto, dando il via a una grandinata di promozioni destinata a continuare per tutta la guerra. Il provvedimento era discutibile perché pensava al morale degli ufficiali e non all'interesse 170

dell'esercito, perché le molte promozioni provocavano un'eccessiva rotazione di ufficiali ai reparti (85). Fu poi migliorata l'organizzazione dell'artiglieria e accelerata l'introduzione dei nuovi materiali (cannoni da 75 e obici da 149). Da notare che Cadorna volle che le batterie di artiglieria leggera passassero da 6 a 4 pezzi per guadagnare mobilità (utile nella guerra di movimento, non certo in quella di trincea) e si adoperò per l'aumento del numero dei fucili e del loro munizionamento, anche con commesse all'industria privata, ma non colse la necessità di analoghe commesse per il munizionamento dell'artiglieria. Pure insufficienti le cure per mitragliatrici e bombe a mano. Quanto all'artiglieria media e pesante, non molto si poteva fare con il materiale disponibile, scarso sotto tutti gli aspetti. Un ultimo aspetto della preparazione va ricordato: il completo fallimento dei tentativi di accelerare i tempi dell'offensiva iniziale. I rigidi piani di mobilitazione del 1914 erano superati sia dalla costituzione anticipata di unità e servizi, sia dall'esigenza di spostare in avanti la radunata prevista sul Piave. Si decise perciò di mobilitare le unità sul posto, richiamando buona parte degli uomini con cartolineprecetto, ma anche di cominciare i trasporti verso la frontiera di unità incomplete, nella speranza che potessero entrare in azione anticipatamente. Il risultato fu che tutti i piani saltarono e sia la mobilitazione che la radunata furono condotte in notevole confusione. L'esercito fu pronto alla frontiera nella prima metà di luglio, un mese e mezzo dopo la dichiarazione di guerra e molto di più dall'inizio dei movimenti. I piani del 1914 promettevano lo stesso risultato in ventitré giorni. ---------------------------------------------------"Quadro riassuntivo della forza dell'esercito a metà luglio 1915, ossia a mobilitazione completata". "Grandi unità mobilitate": 4 armate, 14 corpi d'armata, 35 divisioni di fanteria (forza media: 430 ufficiali, 16000 171

uomini, 2.700 quadrupedi, 36 cannoni da 75), 4 divisioni di cavalleria. "Fanteria": 146 reggimenti e 438 battaglioni di fanteria, più 58 battaglioni bersaglieri e 52 battaglioni alpini, in tutto 548 battaglioni. Fucili e moschetti mod. 91 erano disponibili in quantità appena sufficiente, ma erano in corso commesse adeguate, anche per il munizionamento. Le mitragliatrici erano soltanto 618 (in distribuzione 2 per reggimento) perché la ditta inglese Wickers non aveva ultimato le consegne; nel novembre 1914 era stata adottata la mitragliatrice Fiat, ma la sua produzione era agli inizi. Infine esisteva un solo tipo di bomba a mano, definita nel gennaio 1915, ma fabbricata in quantitativi irrilevanti per mancanza di fondi (ossia di interesse). "Cavalleria": 30 reggimenti con 171 squadroni. "Artiglieria leggera": 49 reggimenti di artiglieria da campagna ippotrainata con 363 batterie da 75, più 76 batterie a cavallo, someggiate o da montagna, in tutto 439 batterie di artiglieria leggera su 4 pezzi per un totale di 1.797. Il materiale da 75 era ottimo (pezzi Déport costruiti su licenza) o buono (pezzi Krupp acquistati una diecina d'anni prima), i pezzi da 65 dell'artiglieria da montagna buoni (ma inferiori a quelli austriaci da 75, che dopo la guerra verranno acquisiti dall'artiglieria italiana e faranno tutto il secondo conflitto mondiale). Munizionamento: 1500 colpi per pezzo. "Artiglieria pesante campale" (ossia pezzi medi mobili): 28 batterie di obici ippotrainati da 149 Krupp moderni (192 in tutto, pochi in confronto alle necessità) con 800 colpi per pezzo. "Parco d'assedio" (ossia pezzi medi e pesanti poco mobili): 48 mortai da 240, 8 obici da 210, 48 cannoni da 149A, 28 cannoni da 149G, in tutto 132 pezzi con un munizionamento da 600 a 1500 colpi per pezzo. Naturalmente c'erano altri 172

pezzi medi e pesanti, nelle fortificazioni, nelle retrovie o in corso di allestimento, che verranno portati al fronte nei mesi successivi (e quindi altre fonti danno cifre lievemente diverse). Mancavano le bocche da fuoco moderne previste dai programmi prebellici, l'unico miglioramento era l'introduzione del traino meccanico per i pezzi pesanti. Genio: un'articolazione complessa in battaglioni, parchi e compagnie zappatori, telegrafisti, minatori, pontieri, ferrovieri, nonché sezioni radiotelegrafisti, fotoelettriche e fotografiche, che non è possibile riassumere. "Elementi non combattenti": 207 battaglioni di milizia territoriale e 113 compagnie presidiarle per il servizio all'interno del paese. "Servizi": colonne, salmerie e parchi munizioni e viveri, ospedali e ospedaletti, sezioni sussistenza, sanità e panettieri, parchi automobilistici e infermerie cavalli, che rinunciamo a dettagliare. "Aeronautica": 10 sezioni aerostatiche, 15 squadriglie d'aeroplani, 5 dirigibili. "Forza complessiva dell'esercito mobilitato all'inizio di luglio": 31000 ufficiali, 1.058.000 uomini di truppa, 11000 civili e 216.000 quadrupedi. Tenendo conto delle forze dislocate all'interno del paese, la forza delle armi sale a 1.556.000 uomini (86). ---------------------------------------------------Secondo il parere pressoché unanime degli studiosi, il rafforzamento condotto da Cadorna era insufficiente per quantità e qualità: l'esercito scese in campo nel 1915 sostanzialmente con le forze previste nel 1914, meglio organizzate, ma senza quei progressi per l'artiglieria e il munizionamento che i combattimenti in corso indicavano come necessario. Le critiche sono esatte: nei dieci mesi di neutralità si era accentuato il divario tra l'esercito italiano 173

e quello austriaco, pur così duramente provato. Si pensi che gli austriaci avevano subìto perdite non molto inferiori alla forza combattente iniziale: un milione e mezzo di combattenti nell'agosto 1914, 1 milione 250 mila tra morti, dispersi, feriti e malati entro l'anno; ma erano riusciti a sostituire questi uomini e nell'estate 1915 schieravano ancora un milione e mezzo di soldati, forse dotati di minor spirito aggressivo, ma addestrati alla guerra di trincea, con più mitragliatrici e cannoni medi e pesanti e una adeguata produzione di munizioni. Uno sforzo così grande era stato possibile grazie alla mobilitazione di tutte le energie nazionali sotto la minaccia del crollo dell'Impero, e un'analoga prestazione non era assolutamente immaginabile per un paese ancora fuori dal conflitto. Cadorna aveva chiesto e ottenuto tutto quello che gli sembrava necessario in base alla cultura prebellica; ci voleva la drammatica esperienza delle battaglie sull'Isonzo perché lui, i suoi ufficiali, il governo e il paese si convincessero che la guerra richiedeva molto di più e che era possibile fornirlo. In sostanza, durante la neutralità tutti ragionavano ancora con il metro del tempo di pace: soltanto la condizione di guerra poteva produrre le straordinarie accelerazioni della mobilitazione bellica che vedremo verificarsi in tutti i campi.

- "Il piano di guerra di Cadorna". Il teatro della guerra italiana si può dividere in tre parti: il saliente trentino, Cadore e Carnia, la valle dell'Isonzo. Il Trentino (allora austriaco) si protendeva come un cuneo tra la Lombardia e il Veneto. Costituiva una minaccia permanente per un'offensiva italiana in direzione di Trieste, che si trovava esposta a un attacco austriaco alle spalle. Eliminare questa minaccia era però quanto mai difficile: il confine lungo il saliente era tutto montuoso, su posizioni 174

favorevoli agli austriaci e ben fortificate. Un'offensiva italiana su Trento si presentava perciò ardua, non risolutiva sul piano militare (per togliere agli austriaci la possibilità di una controffensiva bisognava arrivare a Bolzano o addirittura al Brennero) e di scarso peso nell'economia del conflitto, perché la perdita di una regione periferica non avrebbe intaccato la capacità di resistenza dell'AustriaUngheria. Anche in Cadore e in Carnia il fronte, che correva lungo la displuviale delle Alpi, era montuoso e quasi sempre ben fortificato. Uno sfondamento avrebbe aperto prospettive strategiche migliori, anche se pur sempre in direzioni secondarie, ma non era certo facile, tanto più data la scarsezza di artiglierie adeguate. Era la geografia a indirizzare lo sforzo offensivo italiano sul fronte dell'Isonzo. Da Tolmino al mare la catena delle Alpi cedeva il passo a una serie di bassi altopiani, che favorivano la difesa, ma permettevano anche un attacco in forze. Vicino al mare, il Carso presentava un terreno aspro e mosso, ma privo di rilievi importanti, tradizionale via di tutti gli eserciti in entrambe le direzioni. Al di là si aprivano obiettivi politico- strategici di assoluto rilievo: Trieste, poi la pianura di Lubiana e, in prospettiva, Vienna. Che il piano di guerra di Cadorna concentrasse il grosso delle forze sul fronte dell'Isonzo era perciò logico. Delle 35 divisioni disponibili, 6 erano destinate alla prima armata disposta intorno al saliente trentino, 5 alla quarta armata in Cadore, 2 al corpo d'armata autonomo della Carnia e 15 alle armate seconda e terza, che dovevano sferrare l'attacco decisivo da Tolmino al mare. Queste 15 divisioni furono presto rinforzate dalle 7 lasciate inizialmente in riserva. Non si può quindi rimproverare a Cadorna di non aver colto subito la necessità di concentrare la maggior parte delle sue forze sul fronte dell'Isonzo. Il suo piano è invece criticabile sotto un altro aspetto. La prima armata ebbe il compito di assicurare le spalle allo schieramento italiano montando la guardia intorno al saliente trentino, con un atteggiamento difensivo che prevedeva attacchi locali soltanto in 175

condizioni favorevoli. La quarta armata e le truppe della Carnia avevano invece compiti offensivi di rilievo: dovevano conquistare valichi importanti (verso Dobbiaco e verso Tarvisio) e poi penetrare nelle vallate austriache. Questi attacchi erano destinati a un sanguinoso fallimento, per la mancanza di un adeguato appoggio d'artiglieria e la forza delle posizioni austriache. Il fatto che Cadorna li avesse richiesti dimostra come non avesse ancora capito quanto fosse difficile condurre un'offensiva, tanto più su un terreno montuoso. Una riprova di questa difficoltà è costituita dalla diffusione in decine di migliaia di copie della circolare «Attacco frontale e ammaestramento tattico» del 25 febbraio 1915, nota come «libretta rossa» dal colore della copertina. La dottrina tattica elaborata dal predecessore di Cadorna, il generale Pollio, seguiva quella tedesca e austriaca nel raccomandare l'attacco sul fianco del nemico come più redditizio, ogni qual volta possibile. Per contro i francesi avevano rilanciato l'attacco frontale come il più idoneo a conseguire la superiorità morale sul nemico. Cadorna era giunto alle stesse conclusioni molto tempo prima: la «libretta rossa» riproduceva nella sostanza un suo opuscolo steso all'inizio del secolo e dedicato alla preparazione ed esecuzione dell'attacco frontale. Una manovra di aggiramento sul fianco, egli spiegava, si poteva realizzare in campo strategico; ma in campo tattico, sul campo di battaglia, l'attacco non poteva essere che frontale, perché anche un attacco sul fianco tornava a essere frontale non appena il nemico avesse spostato le sue truppe per fronteggiarlo. A Cadorna interessava soprattutto sostenere che il grande aumento della potenza di fuoco non aveva cambiato le regole della guerra e che un attacco frontale poteva essere condotto con successo, purché adeguatamente preparato dall'artiglieria e condotto con determinazione da linee successive di fucilieri decisi a giungere al combattimento alla baionetta. Cadorna non era particolarmente originale, tutta la dottrina tattica prebellica, come abbiamo visto, sosteneva che 176

l'aumento della potenza di fuoco del difensore avrebbe aumentato le perdite dell'attaccante, ma non impedito il suo successo. Il fatto che mantenesse la sua convinzione anche dopo sei mesi di guerra europea è da ricondurre alla già accennata difficoltà di cogliere le straordinarie novità della guerra. «L'offensiva dunque presenta oggi più favorevoli condizioni di riuscita che in passato. Questo fatto non è che apparentemente contraddetto da quanto va verificandosi nell'attuale conflitto», scriveva nella citata circolare del 25 febbraio. «L'esperienza della guerra in corso dimostra che la conquista di posizioni nemiche anche fortemente rafforzate non offre difficoltà insormontabili» agli attacchi frontali, ormai obbligati poiché l'estensione dei fronti rendeva illusoria ogni manovra di aggiramento. L'attacco doveva essere preparato e appoggiato dall'artiglieria, concludeva Cadorna, ma soprattutto condotto con grande energia e rinnovato con incrollabile fiducia fino al successo. Per gli ufficiali in trincea la «libretta rossa» divenne presto oggetto di odio e simbolo dell'incapacità e insensibilità di Cadorna (poi venne accantonata e dimenticata). In realtà Cadorna non diceva cose diverse da Joffre, che pure aveva diretta esperienza della guerra combattuta; e la responsabilità del fallimento degli attacchi frontali del 1915 non è della «libretta rossa», ma delle concrete situazioni che delineeremo. La «libretta» non contò per le indicazioni tattiche che dava, ormai superate, ma per il forte appello alla superiorità delle forze morali, perché ribadiva che erano l'energia degli ufficiali e la loro fiducia a determinare il successo e quindi giustificava la ripetizione di attacchi sempre uguali e falliti. Lo stesso avveniva sugli altri fronti, perché in tutti gli eserciti la spietata energia nel comando e la fiducia assoluta nel successo erano dogmi vissuti e incrollabili. Prima di concludere, bisogna ricordare quanto fosse difficile la guerra che l'esercito italiano intraprendeva. Nella prima guerra mondiale lo sviluppo degli armamenti dava alla difensiva un grosso vantaggio sull'offensiva. La guerra italiana doveva però essere offensiva, senza badare 177

ai costi, per evidenti ragioni politiche. Inoltre il terreno favoriva grandemente gli austriaci, soprattutto sull'ampio fronte montuoso, dove avevano sempre posizioni dominanti, ma anche sul fronte dell'Isonzo, dove i rilievi in loro possesso erano minori, ma pur importanti. Pesava anche la minaccia latente di un attacco alle spalle dal Trentino. Il terreno concedeva agli italiani un solo vantaggio: le comunicazioni tra i diversi settori del loro fronte erano abbastanza rapide, malgrado l'insufficiente sviluppo delle ferrovie venete, mentre lo spostamento delle truppe austriache dal Trentino all'Isonzo richiedeva parecchi giorni.

NOTE AL CAPITOLO 2. 1. In sintesi, le corazzate erano le navi più grosse (fino a 30000 tonnellate di dislocamento), con i cannoni più potenti (da 305 a 381 millimetri di calibro) e lo scafo protetto da corazze (fino a 350 millimetri nei settori vitali). I vari tipi di incrociatori erano più veloci, ma meno armati e meno protetti; agivano insieme alle corazzate con compiti di esplorazione, oppure erano utilizzati per il controllo degli oceani. Sotto il termine di navi leggere comprendiamo i cacciatorpediniere (intorno a 1000 tonnellate di dislocamento, cannoni da 100 a 150 millimetri), veloci e di grande autonomia, ma poco protetti, impiegati soprattutto per difendere le corazzate dai sommergibili e per attacchi col siluro; le torpediniere e vari tipi di navi minori (anche mercantili armati), destinati soprattutto alla difesa dai sommergibili. Le mine potevano essere sganciate da quasi tutti i tipi di nave e ancorate su fondali non troppo profondi in modo da costituire sbarramenti quasi intransitabili; la loro eliminazione spettava ai piccoli dragamine.

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2. Giuseppe Rossini (a cura di), "Benedetto Quindicesimo, i cattolici e la prima guerra mondiale", atti del Convegno di studio, Spoleto, 7-8-9 settembre 1962, Roma, Cinque Lune, 1963. 3. Piero Melograni, "Storia politica della Grande Guerra 1915-1918", Bari, Laterza, 1969; Giorgio Rochat, "L'Italia nella prima guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca", Milano, Feltrinelli, 1976; Nicola Tranfaglia, "La prima guerra mondiale e il fascismo", Torino, Utet, 1995. 4. Alberto Caracciolo e al., "Il trauma dell'intervento (19141919)", Firenze, Vallecchi, 1968. 5. Uno sguardo dall'interno è nell'"Epistolario 1911-1926" del coproprietario e direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini, 2 voli., a cura di Ottavio Bariè, Milano, Mondadori, 1968, vol. 2, "La grande guerra". 6. In O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 37. 7. Conf. "Quarant'anni di politica italiana. Dalle carte di Giovanni Giolitti", 3 voli., Milano, Feltrinelli, 1962, vol. 3, "Dai prodromi della grande guerra al fascismo (19101928)". 8. In O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 32. 9. Anche Filippo Meda aggiungerà nel dopoguerra la sua voce alla importante «Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra del mondo diretta da Angelo Gatti» con il volume "I cattolici italiani nella guerra", Milano, Mondadori, 1928.

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10. Alcide De Gasperi, "I cattolici trentini sotto l'Austria. Antologia degli scritti dal 1902 al 1915 con i discorsi al Parlamento austriaco", 2 voli., Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1964. 11. Luigi Ganapini, "Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al 1914", Bari, Laterza, 1971. 12. Luigi Ambrosoli, "Né aderire né sabotare. 1915-1918", Milano, Edizioni Avanti!, 1961, p. 22. 13. Maurizio Antonioli, "Armando Borghi e l'Unione sindacale italiana", Manduria, Lacaita, 1990. 14. Le raccoglie fra gli altri il giornalista socialista mussoliniano Francesco Paoloni, ideatore della trilogia "I nostri Boches (giolittiani, socialisti, cattolici)", nel secondo volume dedicato a "I sudekumizzati del socialismo", Milano, Edizione del Popolo d'Italia, 1917. 15. L. Ambrosoli, "Né aderire né sabotare", cit.; Renzo De Felice, "Mussolini il rivoluzionario (1883-1920)", Torino, Einaudi, 1965. 16. Oltre che nel «Resto del Carlino» di Bologna, nel «Giornale d'Italia» di Roma, nell'«Avanti!» di Milano, la provocazione nominativa a Mussolini perché rompa gli indugi si svolge, ad opera di Giuseppe Prezzolini, sugli ultimi numeri della «Voce», quasi a coronamento di una lunga milizia intellettuale. Conf. "I socialisti non sono neutrali", firmato «La Voce», nel n. 19 del 13 ottobre 1914 e "Mussolini fonda un giornale a Milano", non firmato, nel n. 21 del 13 novembre. 17. L'articolo di Prezzolini reca la data del 15 dicembre 1914.

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18. Viene da quegli scontri milanesi anche Alberto Malatesta, nel dopoguerra autore del volume "I socialisti italiani durante la guerra", nella «Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra del mondo diretta da Angelo Gatti», Milano, Mondadori, 1926. 19. "Audacia" è il primo articolo del vol. 1, "Dall'Intervento al fascismo (15 novembre 1914-23 marzo 1919)" di Benito Mussolini, "Scritti e discorsi", 12 voli., Milano, Hoepli, 1934-1939, uscito nel 1934 e destinato a visualizzare, per il pubblico fra le due guerre, quella sua seconda nascita e vita. 20. Benito Mussolini, "Il distacco dai compagni ciechi", discorso pronunciato il 25 novembre all'assemblea della sezione socialista di Milano che ne decreta l'espulsione, in Id., "Scritti e discorsi", cit, vol. 1, p. 13. 21. L. Ambrosoli, "Né aderire né sabotare", cit., p. 50. 22. Giuseppe Prezzolini, "La guerra tradita"; «La Voce», n. 18, 28 settembre 1914. Sembra quasi una sconfortata chiusura, e tuttavia l'autore è costretto ad aggiungere "in extremis" un poscritto perché la situazione sembra di nuovo essersi rovesciata, stavolta verso l'entrata in guerra. 23. L. Ambrosoli, "Né aderire né sabotare", cit., p. 59. 24. L. Ambrosoli, "Né aderire né sabotare", cit., p. 61. 25. L. Ambrosoli, "Né aderire né sabotare", cit., p. 69. 26. Vladimir Il'ic Lenin, "L'opportunismo e il crac della Seconda Internazionale" (1916), in "Opere scelte in due volumi", Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947.

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27. L. Ambrosoli, "Né aderire né sabotare", cit., p. p. 91, 90, 89. 28. Eugenio Garin, "La cultura italiana tra '800 e '900", Bari, Laterza, 1962; Id., "Cronache di filosofia italiana (1900-1943)", Bari, Laterza, 1959. 29. Ricordiamo in particolare, a inizio secolo, «Leonardo» di Giovanni Papini, «Il Regno» di Enrico Corradini, «Hermes» di Giuseppe Antonio Borgese; e dal 1908 «La Voce» di Giuseppe Prezzolini, tutte con interscambi continui di problemi e di uomini. 30. Il prototipo è «L'Unità», la rivista animata da Gaetano Salvemini dopo la rottura con «La Voce»; ma il cenacolo più autorevole rimane, da Napoli, «La Critica», rivista d'autore di Benedetto Croce e, finché regge la loro alleanza, di Giovanni Gentile. 31. Salvemini indirizza contro questo emblema, a suo avviso, di mediocrità e corruzione il famoso libello "Il ministro della mala vita", ora in Gaetano Salvemini, "Il ministro della mala vita e altri scritti sull'Italia giolittiana", a cura di Elio Apih, Milano, Feltrinelli, 1962. 32. Come, in particolare, negli articoli di Giovanni Amendola sulla «Voce». 33. Renato Serra, "Scritti letterari, morali e politici", a cura di Mario Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974. 34. "La cultura italiana del '900 attraverso le riviste", vol. 1, "«Leonardo», «Hermes», «Il Regno»", a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Torino, Einaudi, 1960; vol. 3, "«La Voce» (1908-1914)", a cura di Angelo Romano, Torino, Einaudi, 1960; vol. 4, "«Lacerba», «La Voce» (1914-1916)", cit.; vol. 5, "«L'unità», «La Voce politica»", a cura di Francesco Golzio e Augusto Guerra, Torino, Einaudi, 1962. 182

Conf. anche Giuseppe Prezzolini, "La Voce (1908-1913). Cronaca, antologia e fortuna di una rivista", con la collaborazione di Emilio Gentile e di Vanni Scheiwiller, Milano, Rusconi, 1974; per l'indotto librario, Carlo Maria Simonetti (a cura di), "Le edizioni della «Voce». Catalogo", Firenze, La Nuova Italia, 1981; per le imitazioni o emulazioni in provincia Umberto Carpi, "Giornali vociani", Roma, Bonacci, 1979. 35. Del 1911 il "Lemmonio Boreo", del 1912 "Un uomo finito", ambedue Firenze, Vallecchi. 36. Per un'analisi più ampia, rimando a M. Isnenghi, "Il mito della grande guerra", cit, e a Id., "L'Italia del fascio", cit. 37. Gaetano Salvemini, "Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915", a cura di Augusto Torre, Milano, Feltrinelli, 1963; Id., "Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925"), a cura di Carlo Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1964. 38. Gaetano Salvemini, "Finis Austriae?", «L'Unità», 12 marzo 1915. Tema ricorrente e linea politica presto non più ipotetica e interrogativa. Conf. Beniamino Finocchiaro (a cura di), "L'Unità di Gaetano Salvemini", Vicenza, Neri Pozza, 1958. 39. Benedetto Croce, "Il caso De Lollis", lettera al direttore del «Giornale d'Italia», 25 aprile 1915, in difesa dell'illustre studioso, Cesare De Lollis, direttore del giornale «Italia nostra». Ora in Id., "L'Italia dal 1914 al 1918", cit, p. p. 4243. 40. Benedetto Croce, "L'entrata dell'Italia in guerra e i doveri degli studiosi" (1915), in Id., "L'Italia dal 1914 al 1918", cit., p. p. 53-56; "Germanofilia" (intervista al «Roma» di Napoli, 1° ottobre 1915), in Id., "L'Italia dal 1914 al 1918", cit., p. p.71-76. 183

41. R. Serra, "Scritti letterari, morali e politici", cit. 42. Mario Isnenghi, "Papini", Firenze, La Nuova Italia, 1972. 43. Ardengo Soffici, "Sulla soglia", «Lacerba», n. 20, 15 maggio 1915. 44. G. Boine, "Discorsi militari", cit. 45. M. Isnenghi, "Il «Dovere nazionale»", cit. 46. M. Isnenghi, "L'Italia in piazza", cit.; Luciano Pomoni, "Il dovere nazionale", Padova, Il Poligrafo, 1998. 47. Franco Gaeta (a cura di), "La stampa nazionalista", Bologna, Cappelli, 1965. 48. Ernesta Bittanti, "Con Cesare Battisti attraverso l'Italia. Agosto 1914-maggio 1915", Milano, Garzanti, 1945. 49. Gabriele D'Annunzio, "Per la più grande Italia. Orazioni e messaggi", Milano, Treves, 1915. 50. Mario Isnenghi, "Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945", Milano, Mondadori, 1989. 51. Come nel volume di L. Pomoni sui casi veneziano e padovano, "Il dovere nazionale", cit. Conf. inoltre Alessandra Staderini, "Combattenti senza divisa. Roma nella grande guerra", Bologna, Il Mulino, 1995. 52. Conf. Livio Vanzetto (a cura di), "L'anomalia laica. Biografia e autobiografia di Mario e Guido Bergamo", con un saggio di Mario Isnenghi, Verona, Cierre, 1994, dove i due fratelli repubblicani sono affiancati, fra gli altri, da Ottavio Dinale. 184

53. Miria Manzana, "Lettere di volontari trentini nell'esercito italiano (1915-1918)", «Venetica. Rivista di storia delle Venezie», luglio- dicembre 1985, n. 4. 54. Conf. rispettivamente le riviste «Materiali di storia», «Archivio trentino di storia contemporanea», pubblicato dal Museo del Risorgimento di Trento, e «Qualestoria», pubblicato dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia Giulia, nonché i materiali dei convegni e le pubblicazioni sull'argomento ivi segnalati. 55. Lucio Fabi, "Trieste 1914-1918: una città in guerra", Trieste, Mgs Press, 1996. 56. Luciana Palla, "Fra realtà e mito. La grande guerra nelle valli ladine", Milano, Franco Angeli, 1991. 57. Per un ripensamento della "Erbfeindschaft" in prospettiva sovranazionale, si veda il volume di Claus Gatterer - autore di Sesto Pusteria, in equilibrio fra i due mondi - ""Italiani maledetti, maledetti austriacì. L'inimicizia ereditaria", Bolzano, Praxis, 1986, traduzione dell'originale tedesco del 1972. 58. E. Bittanti, "Con Cesare Battisti attraverso l'Italia", cit. 59. Marina Rossi, "I prigionieri dello Zar. Soldati italiani dell'esercito austroungarico nei lager della Russia 19141918", Milano, Mursia, 1997. 60. L'evidenziarsi accelerato delle distinte nazionalità fra i prigionieri dell'Impero ha trovato conferma, da ultimo, in Alessandro Tonato, "La prigionia di guerra in Italia 19151919", con una "Prefazione" di Mario Isnenghi, Milano, Mursia, 2004. 185

61. E. Franzina, "Gli italiani al Nuovo Mondo", cit. 62. Giuseppe Bresciani, "Una generazione di confine. Cultura nazionale e Grande Guerra negli scritti di un barbiere rivano", a cura di Gianluigi Fait, prefazione di Mario Isnenghi, Trento, Museo del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1991. 63. Giani Stuparich, "Colloqui con mio fratello, Milano", Treves, 1925; Id., "Guerra del '15. Dal taccuino di un volontario", Milano, Treves, 1931; Id., "Ritorneranno", Milano, Garzanti, 1941. 64. Una narrazione d'epoca appassionata e partecipe è in "Per l'Italia immortale. Cesare Battisti: la sua terra e la sua gente", a cura di Oreste Ferrari, edito dalla Legione Trentina, Trento, 1935. 65. Le memorie di Pasini, di intonazione risorgimentale, escono una prima volta in tiratura limitata nel 1921, poi di nuovo in una edizione rielaborata, Milano, Mondadori, 1934. 66. Il "Diario di una giovinetta triestina 1914-1918", risentita interprete - come lei dice - delle "aspettantì, anzi di tutto un "popolo di donne in ansiosa attesà, esce a Bologna presso Cappelli, nel 1934. 67. L. Fabi, "Trieste 1914-1918", cit. 68. Le raccolte più organiche di testi fanno capo alle collane «Scritture di guerra», a cura di Quinto Antonelli, Gianluigi Fait e Diego Leoni, edita dal Museo storico in Trento e dal Museo storico italiano della guerra in Rovereto, e «Fiori secchi. Testi e studi di scrittura popolare», diretta da Antonio Gibelli, promossa dalla Federazione degli archivi di scrittura popolare e pubblicata dalle edizioni Marietti di Genova e Paravia- Scriptorium di Torino. 186

69. Dello stesso Gustave Le Bon conf. anche "La Psychologie politique et la Défense sociale", Paris, Flammarion, 1910. 70. Renato Monteleone, "Filippo Turati", Torino, Utet, 1987. 71. Filippo Turati, Anna Kuliscioff, "Carteggio", 9 voli., raccolto da Alessandro Schiavi, a cura di Franco Pedone, vol. 4, "1915-1918 La grande guerra e la rivoluzione", t. 1, Torino, Einaudi, 1977. 72. F. Turati, A. Kuliscioff, "Carteggio", vol. 4, 1.1, cit., p. 52. 73. F. Turati, A. Kuliscioff, "Carteggio", vol. 4, 1.1, cit., p. 56. 74. G. Giolitti, "Memorie della mia vita", cit., vol. 2, p. p. 529-530. Nella sua lettera Giolitti aveva usato la parola «molto», che chi in quel momento la pubblica preferisce attenuare in «parecchio». 75. B. Mussolini, "Scritti e discorsi", cit., vol. 1, p. p. 35-36. 76. G. D'Annunzio, "Per la più grande Italia", cit., p. p. 7374. 77. G. D'Annunzio, "Per la più grande Italia", cit., p. 101. 78. G. D'Annunzio, "Per la più grande Italia", cit., p. 105. 79. Maffeo Pantaleoni, "Avanti", ripubblicato con il titolo "La logica degli schiaffi", in F. Gaeta (a cura di), "La stampa nazionalista", cit., p. 106. 80. "Il Parlamento contro l'Italia", in F. Gaeta (a cura di), "La stampa nazionalista", cit., p. 105. 187

81. Per i problemi della preparazione nel 1914-1915 rinviamo a Giorgio Rochat, "L'esercito italiano nell'estate 1914", ora in Id., "L'esercito italiano in pace e in guerra", Milano, Rara, 1991. Si veda poi dello stesso autore "La preparazione dell'esercito italiano nell'inverno 1914-1915 in relazione alle informazioni disponibili sulla guerra di posizione", «Il Risorgimento», 1961, n. 1. 82. Nel dicembre 1914 per dare una base ai calcoli sul fabbisogno di complementi, Cadorna abbozzava le possibili linee di una guerra contro l'Austria-Ungheria: immediata offensiva oltre Trieste con una prima grande battaglia dopo 15 giorni a due- tre tappe dalla frontiera, una seconda battaglia dopo 45 giorni e sei- sette tappe, quindi avanzata da Lubiana su Vienna. Non ci risulta che Cadorna avesse fatto balenare questi possibili risultati al governo nei mesi precedenti: una giusta prudenza sui risultati possibili, o forse meglio la sua convinzione che il governo non dovesse avere parte alcuna nei piani di guerra, neppure a livello di informazione sommaria. 83. Il promemoria del 17 febbraio 1915 è conservato nell'archivio privato di Cadorna e firmato dal tenente colonnello Alberico Albricci. «L'importanza di un'occupazione puramente territoriale della Dalmazia senza altri obiettivi, è più politica che militare», scriveva Albricci. «E" il caso di domandarci: una volta occupata la Dalmazia, può essa tenersi? Non si considera il caso della occupazione delle isole, che ha valore marinaro indiscutibile, e della città di Zara, punto isolato, privo d'importanza militare che non occorrerebbe difendere. La domanda riguarda il possesso stabile dell'intera regione. Un'occupazione stabile dovrebbe essere spinta sino a linee assolutamente ben difendibili, cioè fino ai confini geografici, Velebit, Alpi dinariche e monti che cadono sulla Narenta inferiore. Queste linee formano una barriera realmente fortissima a motivo della sua forma a muraglia e 188

della povertà e dell'asprezza del suolo. Ma essa è lunga ben 250 chilometri e avvolge un paese estesissimo nel senso della fronte e scarsissimo in profondità». Conf. Giorgio Rochat, "Alcuni dati sulle occupazioni militari adriatiche durante il governo Nitti", «Il Risorgimento», 1966, n. 1, p. 43. Anche nel dopoguerra l'opposizione dell'alto comando dell'esercito all'acquisizione dei territori dalmati sarà chiara, sebbene non pubblicizzata. 84. A costoro andavano aggiunti 8200 ufficiali di milizia territoriale destinati all'interno e una parte imprecisata dei 9000 ufficiali di carriera richiamati dal congedo e destinati prevalentemente alle retrovie. In tutto circa 50000 ufficiali alle armi. 85. Gli altri eserciti erano meno generosi di promozioni. Per i tedeschi divenne abituale attribuire agli ufficiali un comando superiore al loro grado (le compagnie erano generalmente affidate a tenenti e non a capitani), mentre gli inglesi e poi gli statunitensi preferirono dare promozioni provvisorie, valide per la durata del conflitto (un ufficiale poteva guadagnare tre gradi in guerra e perderne due con la pace). 86. Ufficio storico dell'esercito, "L'esercito italiano nella Grande Guerra 1915-1918", vol. 1, "Le forze belligeranti. Narrazione", Roma, 1927. L'opera è nota come "Relazione ufficiale" e così la citeremo in seguito. ***

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3. LA GUERRA DI CADORNA. LE OPERAZIONI DEL 1915. LE PRIME BATTAGLIE DELL'ISONZO. - "Lo sbalzo iniziale". La guerra italiana iniziava con ambizioni grandi quanto vaghe: Trento e Trieste, la marcia su Lubiana e magari Vienna. Più degli obiettivi territoriali, che il governo e Cadorna non precisavano (sulle promesse del Patto di Londra si ebbero soltanto notizie indirette fino al 1917, quando il governo rivoluzionario russo pubblicò i patti segreti dell'Intesa), contava l'attesa dei successi delle armi italiane e di una rapida conclusione del conflitto. La fiducia nella guerra breve era ancora diffusa nei paesi belligeranti e negli eserciti inchiodati nelle trincee, non c'è quindi da stupirsi che le autorità italiane e l'opinione pubblica ritenessero che il conflitto sarebbe stato deciso entro il 1915. Queste aspettative furono presto deluse. A metà luglio, quando l'esercito fu finalmente pronto, era già fallito il cosiddetto sbalzo iniziale, ossia il tentativo di raggiungere posizioni importanti oltre confine prima dell'afflusso delle forze austriache. L'insuccesso fu più bruciante sul basso Isonzo, dove i reparti di cavalleria e bersaglieri che avrebbero dovuto penetrare in profondità si mossero con prudente lentezza, pur avendo dinanzi a sé soltanto pattuglie di gendarmeria e truppe territoriali. Gli austriaci poterono ritirarsi senza difficoltà sul "confine militarè, ossia sulle posizioni migliori per la difensiva su cui intendevano resistere a oltranza, dopo aver fatto saltare i ponti e allagato la zona del basso Isonzo. Antonio Sema ha messo in rilievo l'impreparazione del servizio informazioni italiano, che rimase vittima dell'attività di disinformazione condotta dagli austriaci con la diffusione di voci allarmistiche sull'afflusso di rinforzi e sull'ostilità della popolazione; i 190

comandi italiani videro dovunque spie e trappole che non c'erano e reagirono con il prelievo di ostaggi, l'arresto di parroci e la fucilazione di civili sospetti. In realtà la popolazione slovena dei paesi occupati, pur filoaustriaca, aveva mantenuto un contegno passivo; verrà poi internata in massa (70000 persone). L'eco della resistenza belga all'invasione tedesca (amplificata dalla propaganda dell'Intesa) alimentava la diffidenza dei comandi verso le popolazioni. La lentezza della preparazione italiana fu comunque la causa principale del fallimento dello sbalzo iniziale oltre l'Isonzo; nell'unico tratto in cui le posizioni austriache furono intaccate, nella zona del Monte Nero a nord di Tolmino, i battaglioni alpini furono fermati dalla mancanza di ordini e di rifornimenti. Era il prezzo da pagare per la messa a punto del più grande esercito mai allestito sul suolo italiano, che a metà luglio schierava un milione di combattenti. - "Gli austro-ungarici". L'intervento italiano sembrava presentarsi come il colpo di grazia per un'Austria-Ungheria vicina al collasso: la pressione russa aveva provocato perdite gravissime e procedeva inarrestabile; tre offensive non erano bastate a mettere fuori gioco la Serbia. Se non che, il 2 maggio, l'offensiva austro- tedesca di Gorlice- Tarnow rovesciava le sorti della guerra sul fronte orientale: l'esercito zarista veniva duramente battuto e costretto a un'interminabile ritirata. Sul tempo breve, l'offensiva giocò a favore dell'Italia, perché l'esigenza di sfruttarne in profondità il successo assorbì le truppe austriache disponibili, ritardando il rafforzamento del fronte italiano; ma sul piano generale la crisi dell'esercito zarista indeboliva il presupposto fondamentale della guerra italiana, cioè la sicurezza che l'Austria-Ungheria fosse fortemente impegnata a est. Quanto all'esercito serbo, le campagne pur vittoriose del 1914 ne avevano consumato le forze, tanto 191

che non era in grado di uscire da una posizione difensiva e pochi mesi dopo sarebbe crollato dinanzi a un'offensiva ben congegnata. In sostanza l'intervento italiano trovava un'Austria-Ungheria in ripresa e con una crescente disponibilità di truppe. Che il fronte austriaco fosse "ideale per la difensiva" è un fatto noto e riconosciuto. Su tutto l'arco alpino, dall'Adamello a Tolmino, il confine militare (mediamente arretrato di alcuni chilometri rispetto a quello politico) correva su posizioni aspre e dominanti, con una serie di fortificazioni permanenti nei punti cruciali e una rete di comunicazioni alle spalle. Posizioni che potevano essere mantenute con forze ridotte, anche perché gli italiani non disponevano delle necessarie artiglierie. La difesa fu dapprima improvvisata reclutando milizie locali di anziani e giovanissimi, poi gradualmente rafforzata con l'afflusso di truppe regolari; nell'estate vi fu anche destinato provvisoriamente un corpo tedesco da montagna, l'"Alpenkorps", che doveva intervenire in caso di penetrazioni italiane e fu poi ritirato quando arrivarono i rinforzi austriaci. Da Tolmino al mare il fronte si appoggiava prima ai rilievi che dominavano il difficile corso dell'Isonzo, poi alle alture della testa di ponte di Gorizia, infine al ciglione del Carso che sovrastava un terreno allagato. Gli austriaci compensarono la loro inferiorità numerica con tre fattori di superiorità. Il primo era appunto il terreno favorevole alla difensiva: gli attacchi italiani dovevano essere condotti in salita, sotto il fuoco d'artiglieria ben diretto da osservatori che dominavano tutta la zona dei combattimenti, mentre le riserve e i movimenti austriaci erano sottratti al fuoco italiano. Il secondo era la disponibilità di un armamento migliore: l'esperienza di dieci mesi di guerra aveva portato gli austriaci a sviluppare mitragliatrici, bombe a mano, artiglieria media e munizionamento, nonché la tecnica dei contrattacchi locali. Nel 1916 gli italiani avrebbero ricuperato questo svantaggio, ma nel 1915 scontavano 192

un'inferiorità netta, che potevano fronteggiare soltanto con il sacrificio delle fanterie. Il terzo fattore di superiorità degli austriaci era il ricorso alla fortificazione campale, ossia la creazione di un sistema di trincee e di reticolati. Si trattava spesso di fortificazioni improvvisate: sul roccioso Carso molte trincee non erano più profonde di un metro e mancavano ricoveri e depositi interrati e protetti. Un vero sistema di fortificazioni campali fu creato in seguito. Ma l'efficacia di un sistema difensivo dipende dai mezzi di cui dispone l'attaccante per batterlo. Le improvvisate trincee austriache diventavano insuperabili perché gli italiani non avevano l'artiglieria necessaria per eliminare l'ostacolo dei reticolati; le pinze tagliafili distribuite ai fanti servivano soltanto a aumentare le perdite, i tubi di gelatina (1) da introdurre sotto i reticolati intatti aprivano brecce ristrette che incanalavano l'assalto dinanzi al fuoco nemico. Nell'esercito austroungarico del 1914 su 1000 soldati 267 erano tedeschi, 223 ungheresi, 135 cechi, 85 polacchi, 81 ruteni, 67 serbi e croati, 64 rumeni, 38 slovacchi, 26 sloveni e 14 italiani. Gli ufficiali effettivi erano prevalentemente tedeschi, poi ungheresi; le altre nazionalità fornirono soprattutto quadri inferiori di complemento durante il conflitto. La tradizione esalta il valore delle truppe tedesche e ungheresi e la combattività di croati e sloveni, che difendevano la loro terra dall'espansionismo italiano fortemente denunciato dalla propaganda. In realtà sul fronte italiano, particolarmente sull'Isonzo e sul Carso, si avvicendarono truppe di tutte le nazionalità dell'Impero, con un rendimento garantito dalla sperimentata macchina bellica asburgica e un morale buono nel 1915, poi logorato dalla durezza della guerra di trincea. Le forze austriache impegnate sul fronte italiano aumentarono rapidamente; nell'autunno 1915 ammontavano a 15 divisioni, 7 schierate sull'arco alpino e 8 sull'Isonzo e sul Carso. Le divisioni austriache contavano nel 1915 più battaglioni di quelle italiane, quindi si può calcolare che la loro forza totale fosse di poco inferiore alla 193

metà di quella italiana. Un'inferiorità compensata dai vantaggi citati e dal maggior costo della battaglia offensiva che gli italiani dovevano condurre. - "L'insufficienza dell'artiglieria". Nell'estate-autunno 1915 l'esercito italiano contava 35 divisioni di fanteria, ognuna su 12 battaglioni, più un buon numero di battaglioni bersaglieri e alpini. In tutto 548 battaglioni di fanteria di circa 1000 uomini (2). Le differenze tra le unità già esistenti in tempo di pace e quelle costituite nei primi mesi del 1915 erano lievi e presto scomparvero, tanto che possiamo non tenerne conto. In complesso le unità erano inquadrate da ufficiali di carriera fino al grado di capitano, mentre tenenti e sottotenenti erano quasi tutti di complemento; i soldati erano uomini sotto i trent'anni, che stavano prestando il servizio di leva o lo avevano terminato da poco, con un addestramento omogeneo e un elevato livello di disciplina e di partecipazione. La fanteria era buona. Il problema era la scarsezza di mitragliatrici e di artiglieria. Su questo punto l'esercito italiano era ancora sui livelli prebellici; per esempio aveva due mitragliatrici per reggimento, mentre gli austriaci ne avevano ormai due per battaglione e le aumentavano più in fretta, perché la produzione in serie della Fiat 1914 (la mitragliatrice della guerra italiana) era appena agli inizi (50 pezzi al mese) e avrebbe dato risultati soddisfacenti soltanto nel 1916. L'insufficienza più grave riguardava però l'artiglieria. Il pezzo base era il cannone da 75 millimetri e, come abbiamo già detto, ce n'erano 1800 di buone prestazioni. Si trattava di un pezzo concepito per la guerra di movimento, che le pariglie di cavalli potevano trainare anche su terreno rotto, con un'elevata rapidità di tiro; le sue granate esplodevano in aria (grazie a una spoletta a tempo) o al momento dell'impatto col terreno, con una rosa di schegge mortali per la fanteria alla scoperto. Il pezzo era invece 194

scarsamente efficace contro fortificazioni, trincee e reticolati perché l'insufficiente carica esplosiva delle sue granate aveva effetti distruttivi limitati. Nella guerra di trincea era più utile al difensore, il quale poteva bersagliare il nemico che avanzava allo scoperto, che non all'attaccante, perché non riusciva a neutralizzare le posizioni fortificate. La relativa disponibilità di questi pezzi (pur con problemi di munizionamento) non bastava a garantire alla fanteria l'appoggio necessario; per spianare la via agli assalti ci volevano calibri maggiori, ma c'erano in tutto 200 pezzi medi e 132 pezzi pesanti. Nel corso del 1915 si aggiunsero grossi calibri tolti dalle fortificazioni lontane dal fronte, troppo pochi comunque per cambiare il quadro, anche per la scarsezza di munizioni. Si è fatto carico a Cadorna di avere disperso i pochi pezzi medi e pesanti in troppe direzioni, per appoggiare le mosse offensive sulle Alpi, invece di concentrarli subito sul fronte principale. L'osservazione è esatta, ma una distribuzione più razionale dei grossi calibri non avrebbe cambiato molto, perché erano comunque scarsi. Non erano problemi soltanto italiani, tutti gli eserciti in campo avevano sperimentato le grandi difficoltà incontrate nell'azione offensiva e chiedevano a gran voce grosse artiglierie e abbondanti munizioni. Lo avevano segnalato con diligenza gli ufficiali italiani distaccati come osservatori presso gli alti comandi francesi e (prima del maggio 1915) tedeschi; ma è interessante notare come la loro attenta descrizione della novità e della durezza della guerra di trincea si arrestasse dinanzi al dogma che l'offensiva restava necessaria e lo sfondamento possibile. Non era soltanto la rigidità della cultura militare, ma la decisione assoluta con cui tutti i belligeranti (governi, stati maggiori, opinione pubblica) affrontavano il conflitto a impedire loro di rinunciare alla fiducia in una vittoria a breve termine, alla certezza che la loro superiorità morale e lo slancio delle truppe avrebbero avuto ragione di ogni ostacolo. Anche in Italia tutti chiedevano a Cadorna di attaccare e poi 195

attaccare di nuovo fino a riuscire a sfondare. E Cadorna non era uomo da avere dubbi o esitazioni. - "La guerra in montagna". Gran parte del fronte italiano correva in montagna, attraverso regioni troppo diverse e articolate per poterle descrivere in dettaglio, generalmente tra i 1000 e i 2000 metri di quota. La guerra su un fronte montuoso di così grande estensione costituiva un'assoluta novità: nei secoli precedenti si era sempre combattuto in pianura e le catene montuose avevano rappresentato un grosso ostacolo ai movimenti, ma erano state forzate quando necessario. Basti pensare che fino al 1880 circa i piani di guerra dell'esercito italiano non prevedevano di arrestare il nemico francese o austriaco sulle Alpi, ma di affrontarlo nella pianura padana. Un'inversione di tendenza si era avuta con la creazione dei battaglioni alpini, destinati a difendere ognuno la valle in cui era reclutato e stanziato; e a partire dalla fine del secolo la frontiera con la Francia e poi quella con l'Austria erano state dotate di una rete di forti e di strade. Tuttavia nel 1914 l'organizzazione di tutti gli eserciti e la loro dottrina continuavano a dare per scontato che la guerra si sarebbe combattuta essenzialmente in pianura. E così avvenne, soltanto sulle montagne italiane si combatté per tre anni e mezzo. La prima conseguenza fu che i battaglioni alpini furono raddoppiati: ai 26 permanenti, con nomi di località, nel 1915 se ne aggiunsero 26 nuovi con nomi di valli, con 50 batterie di artiglieria da montagna su 4 obici da 65/17. Nel gennaio 1916 vennero creati altri 26 battaglioni con nomi di monti, nel 1917 si arrivò a 85 battaglioni alpini con 75 batterie di artiglieria da montagna e 75 someggiate (3). Molti di questi battaglioni andarono persi nel disastro di Caporetto e non poterono essere ricostituiti perché le zone di reclutamento alpino erano già state sfruttate fino all'osso, mandando al fronte anche le classi anziane. Nel 1918 i battaglioni alpini erano 58, più 3 sciatori. Nel corso 196

del conflitto questi battaglioni furono composti ugualmente di giovani e anziani, ma conservarono il reclutamento territoriale che dava loro coesione e morale. Presentavano alcuni vantaggi rispetto alla fanteria: un equipaggiamento migliore, un certo numero di muli, uomini abituati alla montagna, un alto spirito di corpo grazie appunto al reclutamento territoriale, ufficiali di complemento tratti dalla élite cittadina che praticava gli sport alpini. Erano però troppi per essere impiegati come reparti di alta specializzazione alpinistica e troppo pochi per un fronte montuoso così ampio. Furono quindi utilizzati secondo criteri diversi e in parte discutibili, ora in alta montagna, ora insieme alla fanteria, isolati oppure riuniti in gruppi e raggruppamenti, sempre senza risparmio, come testimoniano ancora oggi i lunghi elenchi di nomi dei monumenti ai caduti nei comuni alpini. Buona parte del peso della guerra in montagna ricadde sulla normale fanteria, ossia su uomini che generalmente vedevano le Alpi per la prima volta nella loro vita. In complesso si comportarono bene, anche perché troppo spesso i comandi italiani impostavano la guerra in montagna come quella sul Carso, con trincee che non tenevano conto del terreno e attacchi frontali votati al fallimento, in condizioni cioè che richiedevano disciplina e sacrificio più che adattamento all'ambiente particolare. Si può rilevare che l'esercito italiano seppe risolvere le particolari difficoltà della guerra in montagna più sul piano logistico che su quello operativo. Nel 1915 le brigate di fanteria furono inviate a combattere in quota senza un addestramento né un equipaggiamento adeguato, con grossi problemi di rifornimenti; ma negli anni seguenti le strutture logistiche ebbero uno sviluppo straordinario con la costruzione di strade e teleferiche, postazioni e ricoveri in galleria, e con miglioramenti nell'equipaggiamento e nel vitto tali da garantire condizioni di vita accettabili (per il tempo di guerra). Soltanto lo studio della buona produzione storiografica sulla guerra in montagna nei diversi settori 197

può dare un'idea delle straordinarie opere realizzate per mettere le truppe in grado di vivere e combattere in quota. A livello operativo registriamo brillanti successi in attacchi locali preparati con grande cura e uno sviluppo interessante della guerra di mine, con lo scavo di gallerie di centinaia di metri per minare e distruggere posizioni austriache altrimenti imprendibili. Tutte le offensive italiane sulle Alpi invece fallirono o diedero risultati minimi in relazione ai sacrifici (mentre dall'altra parte si ebbero gli sfondamenti della "Strafexpedition" e di Caporetto). La ragione principale sembra la difficoltà degli alti comandi italiani a comprendere le particolari esigenze della guerra in montagna, che deve tenere gran conto del terreno (tutti i maggiori attacchi italiani vennero sferrati contro posizioni già forti per natura) e contare su una preparazione accuratissima. L'impiego dell'artiglieria in montagna è ancora più importante che in pianura, ma molto più difficile perché deve essere di assoluta precisione; l'artiglieria italiana non era invece abbastanza addestrata e l'osservazione dei suoi tiri non sufficientemente curata. Facevano eccezione le batterie da montagna, ma i loro precisi pezzi da 65/17 erano troppo leggeri per una guerra di posizione. Non sorprende perciò che tutti gli attacchi lanciati sulle Alpi nel 1915 fallissero. La prima armata che copriva i due versanti del saliente trentino conseguì vantaggi iniziali di rilievo tra il Garda e Rovereto e in Valsugana, ma soltanto perché gli austriaci si erano ritirati su posizioni più forti. Negli altri settori i progressi furono scarsi o nulli. Secondo i piani di Cadorna, la quarta armata del Cadore e il corpo d'armata della Carnia avrebbero dovuto forzare le Alpi; gli attacchi vennero sferrati con debole appoggio d'artiglieria e più volte rinnovati con largo spargimento di sangue, ma senza risultati apprezzabili. Quando la neve venne a bloccare le operazioni, dall'Adamello all'Isonzo correva una linea ininterrotta di trincee (spesso spinte così in avanti da renderle pericolose), ma erano state conquistate soltanto alcune posizioni e vette che non mettevano in pericolo la 198

difesa austriaca. Il fallimento dei piani di Cadorna fu nascosto dal rilievo dato a singole azioni brillanti e soprattutto dal ruolo dominante assunto dal fronte dell'Isonzo. - "Le quattro battaglie dell'Isonzo". Dopo la fine del conflitto l'Ufficio storico dell'esercito fu potenziato perché potesse riordinare la straordinaria mole di documenti prodotti dai comandi di tutti i livelli e stendere una ricostruzione delle operazioni. Negli anni venti pubblicò tredici volumi con i dati essenziali sulla composizione, le vicende e le perdite dei comandi e delle unità dell'esercito e avviò l'edizione di una "Relazione ufficiale" (4) di grande ampiezza, che ricostruiva con serietà e minuzia la guerra combattuta. I volumi dell'Ufficio storico costituiscono la base di una produzione sulla guerra combattuta di straordinaria ricchezza e articolazione: studi generali e settoriali, memorie di protagonisti grandi e piccoli, pubblicazioni documentarie - e naturalmente agiografia e propaganda per tutti i palati. Chi volesse condurre approfondimenti non ha che l'imbarazzo della scelta: basti citare gli 11200 raccoglitori di "Diari storici" dei comandi e dei reggimenti conservati dall'Ufficio storico e gli imponenti fondi di vario tipo raccolti presso archivi e musei civili e militari. Le fonti non mancano. Eppure la ricostruzione delle battaglie dell'Isonzo rimane difficile e ancora più difficile è riassumerla in termini comprensibili. Si possono enumerare i corpi d'armata impegnati, citare le divisioni e le brigate che andarono all'attacco, fornire il totale dei pezzi d'artiglieria, dei colpi sparati, delle perdite, si possono riprodurre sulle carte geografiche le linee contrapposte e i loro spostamenti. Se però si vuole andare oltre questo quadro generale e ricostruire le fasi della battaglia, le sue vicende concrete, ci si imbatte in difficoltà insuperabili: mancano le grandi decisioni dei comandanti, i rapidi movimenti di truppe, gli attacchi decisivi, i momenti chiave 199

da raccontare per presentare e illustrare l'andamento dei combattimenti. In parte si tratta di una caratteristica di tutta la guerra di trincea, ma nelle maggiori battaglie degli anni successivi si possono individuare momenti e azioni decisive. E invece le offensive del 1915 sembrano consistere soltanto in una successione di attacchi frontali, settore per settore, ripetuti fin quando le truppe non crollano. Il piano di Cadorna nelle cosiddette quattro battaglie dell'Isonzo 1915 è sempre lo stesso: a fine giugno, a metà luglio, poi in ottobre e ancora in novembre Cadorna attacca su un fronte ristretto, poi estende l'offensiva su un fronte più ampio e l'alimenta con le riserve disponibili senza riuscire a dirigerla. In realtà non ha i mezzi per sfondare dove vorrebbe, quindi può soltanto ampliare il fronte offensivo e reiterare gli attacchi sperando di esaurire le forze austriache fino a trovare una falla nelle loro difese. Ci limitiamo ai dati essenziali. Il fronte dell'Isonzo andava da Tolmino al mare. La testa di ponte di Tolmino sbarrava l'Isonzo all'uscita dalle montagne; era ben fortificata e resse agli attacchi diretti e ai tentativi di avvolgimento, reiterati nel 1915 e negli anni seguenti, fino al 24 ottobre 1917, quando da Tolmino partì l'offensiva di Caporetto. A sud il fiume scorre incassato tra due alti ciglioni, separando i due schieramenti; gli italiani lo avevano varcato in giugno a Piava, costituendo una piccola testa di ponte dominata dal nemico, che tra mille difficoltà e sacrifici riuscì a mantenersi, ma non a svilupparsi. Poco più a sud si stendeva sulla sponda destra la testa di ponte che copriva Gorizia, una striscia di terreno poco profonda di una decina di chilometri, che dai 600 metri del Sabotino a nord scendeva attraverso i villaggi di Oslavia e Peuma fino alle colline sui 200 metri del Podgora e del Calvario. Fu uno dei due grandi obiettivi delle offensive del 1915, che malgrado ogni sforzo non riuscirono a penetrare nel solido sistema di trincee ben protette dal fuoco dell'artiglieria piazzata sull'altra sponda. Dopo il Calvario la linea austriaca traversava il fiume a nord di Savogna e poi correva lungo il ciglione del Carso, che sovrastava la pianura inondata del 200

basso Isonzo dai 275 metri del San Michele (l'altro obiettivo principale delle truppe italiane) fino a Monfalcone, con un'altezza media intorno ai 100 metri. Dopo una serie di attacchi settoriali, il 23 giugno Cadorna sferrò la "prima battaglia" su tutto il fronte, dando come obiettivi principali la testa di ponte di Gorizia alla seconda armata e il San Michele alla terza armata. Il 7 luglio l'offensiva fu sospesa, il 20 luglio ebbe inizio la "seconda battaglia", protrattasi fino al 3 agosto. I guadagni territoriali furono minimi, dovunque le trincee italiane furono spinte fin sotto i reticolati austriaci, in condizioni estremamente precarie. Gli italiani persero circa 67000 uomini, gli austriaci non molti di meno, perché difendevano il terreno metro per metro, con ripetuti contrattacchi che li esponevano al tiro dell'artiglieria italiana. Nei due mesi seguenti gli attacchi continuarono su scala ridotta. Intanto Cadorna portava in linea le sue riserve e tutti i cannoni medi e pesanti disponibili. La "terza battaglia" fu iniziata il 18 ottobre e interrotta il 4 novembre, ripresa il 10 come "quarta battaglia" e chiusa il 2 dicembre per l'esaurimento delle truppe. Anche questa volta gli attacchi andarono da Tolmino al mare, furono protratti soprattutto contro la testa di ponte di Gorizia e il San Michele, non conseguirono guadagni territoriali significativi. Il cambiamento più evidente fu il tempo: in estate le truppe avevano sofferto il caldo e la sete, in autunno patirono la pioggia, il fango, il freddo. Le perdite italiane ammontarono a 67000 uomini nella terza battaglia e a 49000 nella quarta, quelle austriache a 42000 e a 25000. Il fatto che le perdite austriache fossero inferiori, ma comunque elevate, era l'unico risultato positivo nella triste logica della guerra di logoramento, perché gli austriaci avevano meno riserve umane degli italiani. - "Assalti e perdite". Raccontare la battaglia è impossibile, abbiamo detto, perché si frantuma in cento assalti settoriali, uguali nelle 201

linee generali e sempre diversi nei particolari concreti. Ogni volta l'attacco è preceduto da una preparazione d'artiglieria, affidata soprattutto ai pezzi da 75, perché quelli medi e grossi sono rari e con poche munizioni. Reticolati e trincee austriache hanno quindi pochi danni. La fanteria italiana va all'attacco in formazioni compatte, subisce il fuoco delle mitragliatrici e dei cannoni, si arresta dinanzi ai reticolati, rifluisce indietro, ritorna all'attacco. Talora riesce a superare il reticolato e a raggiungere la trincea austriaca, dove però deve sostenere ripetuti contrattacchi; altre volte si aggrappa al terreno costituendo una linea precaria di mucchietti di pietre e sacchetti di terra sotto i reticolati come base per nuovi attacchi; oppure ripiega sulla trincea di partenza. L'azione prosegue fino all'esaurimento delle forze dei reparti, viene ripresa con nuove truppe e continuata con la rimozione dei comandanti che non mostrano sufficiente durezza (5). Seguiamo le vicende di una tra le tante brigate di fanteria, la Casale. Nella primavera 1915 è stanziata a Forlì e Cesena e composta da uomini di tutte le parti d'Italia (6). In maggio viene portata alla forza standard di 130 ufficiali e 6000 soldati e inviata al fronte, dinanzi alle posizioni austriache del Pogdora e del Calvario, dove resterà per oltre un anno, fino alla presa di Gorizia. In giugno primi attacchi e prime perdite, circa 440 uomini. A fine mese falliscono una serie di attacchi in forze, poi si passa all'«attacco metodico», che significa una costante pressione sul nemico fatta di azioni di pattuglie, assalti locali, trincee spinte sempre più avanti. Nuovi attacchi in forze a luglio, che si esauriscono dinanzi ai reticolati quasi intatti; in un settore le truppe mettono piede nella trincea austriaca, ma sono respinte da un contrattacco. Altre 800 perdite. Seguono tre mesi di minore attività, che la brigata trascorre sempre in trincea; i suoi battaglioni si alternano tra la prima e la seconda linea. A fine ottobre ricominciano gli attacchi in forze, la cresta del Podgora è presa e persa più volte. Il "Diario storico" della brigata registra sotto la data del 3 novembre: 202

"I soldati che per l'intera giornata hanno combattuto esposti al tiro violento e continuo della fanteria e dell'artiglieria avversaria, avendo avuto numerose perdite, sotto pioggia incessante ed immersi nel fango, nel rigore della notte si trovano in triste condizione che si ripercuote sul loro morale. Si ricorre a tutta l'energia richiesta per tenerli a posto. I comandanti hanno fatto presente la grave difficoltà di far fronte a questa situazione, ma sempre vien loro dato e ripetuto l'ordine tassativo di mantenere a ogni costo e con tutti i mezzi la posizione conquistata". Non è l'unico caso in cui gli ufficiali in trincea fanno presente ai comandi superiori l'estrema stanchezza delle truppe, anzi ciò accade più spesso di quanto tramandi la memoria della guerra sull'Isonzo; e qualche volta gli alti comandi accettano di porre termine agli attacchi. Ma in questo caso hanno l'impressione che il nemico stia cedendo, quindi la Casale riceve ordini draconiani. In un mese e mezzo la brigata registra 2822 perdite, circa metà della sua forza (tra cui 86 ufficiali, i due terzi); e mancano i dati sugli ammalati, che si contano certamente a centinaia. In dicembre si torna all'attacco «metodico» (7). A fine anno la brigata va a riposo nelle retrovie, con l'ordine di impedire ai soldati di rilassarsi. In tutto il 1915 ha fatto 7 mesi di trincea e 9 giorni di riposo e ha perso 154 ufficiali (più della forza iniziale) e 4276 soldati, più gli ammalati. La Casale è una tra le decine di brigate massacrate negli attacchi del 1915. Altre hanno vicende ancora più drammatiche, come la Lombardia, impegnata poco più a nord contro le trincee di Peuma e Oslavia. Primi attacchi a fine giugno, poi l'attacco «metodico», benché i comandanti di reggimento facciano presente ripetutamente l'impossibilità di continuare ad affrontare i reticolati intatti; 200 uomini afflitti da pediculosi (pidocchi), epidemia di febbri intestinali in un battaglione. In agosto i reparti della brigata godono a turno di 6 giorni di riposo, saranno gli unici fino a metà dicembre. Un battaglione in isolamento per un'epidemia di enterite: si tratta in realtà di colera, 203

passato dalle trincee austriache a quelle italiane; seguono vaccinazioni di massa in tutto l'esercito. Le perdite ammontano a 942 morti e feriti in giugno- luglio, 292 in agosto- settembre, cui sono da aggiungere 540 ospedalizzati al 31 luglio per un reggimento, 795 ospedalizzati e 478 colerosi inviati in lazzaretto per l'altro reggimento al 30 settembre. Il 18 ottobre la brigata torna all'attacco su Oslavia, seguono settimane di mischia furiosa (un reggimento cambia in un mese cinque comandanti per ferite, crolli psicofisici e siluramenti). Il "Diario storico" della brigata segnala la perdita di quasi tutti gli ufficiali, sostituiti da sottotenenti appena usciti dalle scuole; il 15 novembre 300 uomini del 74esimo reggimento, dopo «rigorosa visita», sono ospedalizzati per assideramento, «piedi maceri e sfaldati», sintomi di colera. Il 26 novembre «lo stato delle truppe, a parere unanime dei comandanti, lascia molto a desiderare». A fine mese le perdite sono salite a 97 ufficiali e 2.841 uomini, tra cui, per la prima volta, un forte numero di dispersi (un indice della durezza della mischia: il succedersi di attacchi e contrattacchi lasciava oltre le linee morti, feriti e prigionieri). Mancano cifre totali sugli ammalati. La brigata è ridotta a poche centinaia di uomini, ma rimane in trincea fino al 10 dicembre, poi scende a riposo con una nuova epidemia di colera, meno grave, ma non quantificata. Tornerà in trincea il 20 gennaio; nel 1916 subirà ancora 2000 perdite sull'altopiano di Asiago e 3000 nella battaglia di Gorizia. Una vicenda particolare è quella della Sassari. La brigata viene costituita "ex novo" in Sardegna nella primavera 1915 e, probabilmente per le difficoltà dei trasporti, conta una grossa maggioranza di sardi tra i soldati e gli ufficiali. Arriva al fronte per la seconda battaglia, è impegnata sul San Michele con perdite fortissime, 2416 uomini in due settimane, poi affronta con grande determinazione anche l'attacco «metodico» («Ogni giorno deve segnare per ogni corpo d'armata un passo avanti verso le posizioni nemiche ed ogni conquista una volta fatta deve essere mantenuta», ordine del 3 agosto del comando della terza armata) e infatti 204

registra 1191 ulteriori perdite in agosto. La brigata è così mal ridotta che deve essere mandata a riposo per ricostituirla, torna sul San Michele in novembre e conquista una serie di posizioni austriache con grande slancio e 1732 perdite, più 817 ammalati per le dure condizioni climatiche. La sua aggressività ottiene un riconoscimento, sarà composta soltanto da sardi, unica brigata a reclutamento regionale; e la sua fama, confermata negli anni successivi, le garantirà un trattamento di riguardo. Una vigorosa protesta dei soldati per il ritardo delle licenze invernali, il 17 gennaio 1916, con spari in aria e giovani ufficiali buttati nei fossi (8), viene composta senza provvedimenti disciplinari e dopo un mese arrivano le licenze. Questi rapidi cenni danno un'idea del costo della guerra del 1915 per le truppe italiane; abbiamo già detto che tutte le brigate impegnate sull'Isonzo conobbero le stesse vicende e perdite simili. Si può notare come la staticità del fronte avesse comportato una riorganizzazione della battaglia, che non aveva come protagonista la divisione, ossia la grande unità che riuniva fanteria e artiglieria, ma vedeva una separazione tra l'artiglieria, impiegata tutta su posizioni statiche e senza avvicendamenti (perché ogni pezzo era necessario al fronte e perché gli artiglieri avevano perdite limitate e condizioni di vita meno dure), e le brigate di fanteria, che si alternavano in trincea. La necessità di utilizzare al meglio un'artiglieria sempre al di sotto delle esigenze faceva passare in secondo piano il vantaggio dell'affiatamento tra batterie e battaglioni che si poteva ottenere nell'ambito di una divisione bene addestrata. Perdite elevatissime si ebbero anche nelle offensive del 1916-1917, tuttavia, secondo molti protagonisti, la guerra del 1915 sull'Isonzo fu la più dura, perché alle fatiche e al sangue degli assalti si aggiungevano le tragiche condizioni di vita anche nei momenti di pausa: posizioni avanzate troppo pericolose, trincee esposte a ogni offesa del nemico e del clima (caldo e sete nell'estate, pioggia, fango e gelo in autunno), vitto insufficiente e irregolare, epidemie di tifo e 205

colera, scarse possibilità di riposo autentico nelle retrovie. Inoltre pesava la consapevolezza di un'impreparazione generale: era troppo evidente la superiorità austriaca in fatto di mitragliatrici e fuoco d'artiglieria, i reticolati erano un incubo senza scampo, la mancanza di addestramento alla guerra di trincea aumentava le perdite, gli alti comandi non ispiravano fiducia. Anche l'alto morale iniziale (attestato da tutte le fonti) non poteva reggere se i soldati si convincevano di non essere che carne da cannone. Secondo Piero Pieri, «l'esercito italiano dopo il grande sforzo dell'ottobre-novembre 1915 venne a trovarsi per due o tre mesi in uno stato di vero collasso, di cui per fortuna gli austriaci e il paese stesso non ebbero esatta sensazione». Anche gli alti comandi non si rendevano conto dell'esaurimento delle truppe, tanto che in dicembre pretendevano la ripresa dell'attacco «metodico». Di fatto la preoccupazione dominante divenne la sistemazione delle trincee per l'inverno, mentre agli uomini che avevano fatto tre mesi al fronte veniva finalmente concessa una breve licenza. Furono gli austriaci a prendere l'iniziativa con azioni locali ben condotte: il 14 gennaio attaccarono con pochi battaglioni nella zona tra San Floriano e Oslavia, dove la loro linea era stata intaccata in novembre. Vennero respinti con grande fatica, tornarono all'attacco il 24 gennaio e ripresero più o meno il terreno che avevano perso. Non è sempre facile avere cifre precise sugli uomini in guerra, per tutti gli eserciti e per tutte le guerre. Quelle che diamo sulle perdite sono spesso orientative, in opere autorevoli se ne possono trovare altre maggiori o minori. Il fatto può sorprendere, perché gli eserciti della prima guerra mondiale hanno fame di cifre (quante razioni, quante scarpe, quante munizioni, quanti feriti) e una grossa organizzazione burocratico- amministrativa (tutti i reduci si lamentano per le troppe carte da riempire). In tempo di pace uomini e materiali sono effettivamente sotto controllo; ma poi intervengono lo sviluppo straordinario dell'apparato 206

bellico e le variabili legate allo stato di guerra. I dati sugli uomini chiamati alle armi sono sicuri, perché provengono dai distretti; e le cifre sulle unità schierate al fronte sono generalmente complete e dettagliate, anche se oltre alle truppe schierate in linea comprendono le riserve e una congerie di servizi logistici. Mancano invece notizie sugli uomini rimasti in paese, dispersi in una grande quantità di reparti, enti e servizi; anche per i dispensati e gli esonerati non abbiamo altri dati che il numero degli operai addetti all'industria. Il calcolo delle perdite è poi straordinariamente complesso. I reggimenti compilavano quotidianamente gli elenchi di morti, feriti e dispersi, i comandi superiori riepilogavano queste cifre, ma i totali diffusi potevano variare a seconda dei giorni di battaglia considerati o del calcolo delle truppe impegnate. I dati sui dispersi erano generici, comprendevano i morti di cui non si aveva certezza (si tenga presente che la dichiarazione di morte aveva effetti civili immediati, quindi doveva essere corroborata da testimonianze indubbie, mentre non pochi corpi rimanevano nelle linee nemiche o erano irriconoscibili), i prigionieri, i disertori e gli sbandati (anche soldati che si perdevano nel corso della battaglia e rientravano al loro reparto dopo un paio di giorni). Non è poi possibile sapere quanti dei feriti soccombevano in seguito, perché gli ospedali avevano un'altra dipendenza amministrativa, e quanti erano recuperabili (circa la metà). Infine i dati sulle perdite in combattimento generalmente non tengono conto degli ammalati ospedalizzati, che potevano raggiungere livelli altissimi per il logorio psicofisico della vita in trincea, le epidemie, la scarsa igiene. Ne consegue che i dati sulle perdite hanno un margine non trascurabile di approssimazione. E" difficile anche avere numeri precisi sui cannoni e le altre armi, perché le cifre possono variare se si tiene conto soltanto di quelli impegnati all'inizio della battaglia o anche di quelli affluiti in un secondo tempo oppure assegnati ad azioni diversive. I dati che diamo non coincidono sempre 207

con quelli di altre opere autorevoli. Del resto basti pensare che mancano cifre sicure sul totale dei cannoni consegnati all'esercito durante il conflitto, come vedremo più avanti. Diamo queste precisazioni per ricordare che la guerra non è una scienza esatta che si possa tradurre in statistiche e tabelle sempre precise. La mobilitazione di milioni di uomini, la produzione di migliaia di cannoni e di milioni di granate mettevano a durissima prova le strutture dello Stato e dell'esercito; errori e scompensi erano frequenti. Ciò che chiediamo alle cifre sulla forza dell'esercito e sulle perdite non è una perfezione contabile, ma l'indicazione delle dimensioni dello sforzo straordinario e dei grandi sacrifici richiesti dalla guerra. * LE OPERAZIONI DEL 1916. LA STRAFEXPEDITION E GORIZIA. - "La guerra sugli altri fronti nel 1916: Verdun e la Somme". Nel 1916 i tedeschi tornarono all'offensiva sul fronte francese. Il loro comandante Falkenhayn non credeva alla possibilità di uno sfondamento decisivo, ma intendeva infliggere ai francesi perdite così gravi, in aggiunta a quelle dei 18 mesi precedenti, da portarli al limite di rottura. Scelse di attaccare dove i francesi non potevano cedere posizioni per motivi di prestigio, anche se il terreno favoriva i tedeschi: la città di Verdun, a ridosso della prima linea (9). L'offensiva iniziò il 21 febbraio con un terrificante bombardamento e la rapida occupazione della prima linea francese (10); ma la ripetizione di questo schema, bombardamento d'artiglieria e avanzata della fanteria con poche perdite, si rivelò presto impossibile per la tenace reazione francese. La battaglia divenne una mischia confusa di attacchi e contrattacchi, con perdite crescenti da entrambe le parti, una battaglia di logoramento come tante del conflitto, ma di estrema violenza e destinata a durare 208

per mesi, più a lungo di ogni altra. Falkenhayn, sperando nel collasso francese, continuò infatti ad attaccare fino a tutto giugno, mentre il generale Philippe Pétain (il cui nome rimase legato a quello di Verdun) riorganizzava la difesa francese, assicurava la rotazione delle truppe in trincea, riusciva a garantire i rifornimenti con l'impiego di migliaia di automezzi. La fine dell'offensiva fu imposta ai tedeschi dalla necessità di distogliere truppe per fronteggiare l'offensiva russa di giugno e poi la battaglia della Somme. Verdun fu la più grande battaglia della guerra, con circa 270 mila morti francesi e 240 mila tedeschi (contando feriti, malati e prigionieri ci si avvicina al milione di perdite da entrambe le parti); divenne il simbolo della resistenza e della vittoria della Francia, ma anche dei suoi spaventosi sacrifici. Subito dopo iniziò la battaglia della Somme. L'esercito britannico aveva conosciuto una crescita spettacolosa, nel 1916 contava 36 divisioni bene armate e altre erano in corso di costituzione (per avere gli uomini necessari il governo arrivò per gradi, nel corso dell'anno, alla coscrizione obbligatoria) (11). Nell'estate 1916 era pronto a condurre la sua prima grande offensiva. L'attacco sferrato il primo luglio sul fiume Somme, dopo una settimana di bombardamenti, si rivelò un disastro, fino a raggiungere il triste record di 20000 caduti in un solo giorno, con risultati minimi. Anche il generale Haig, comandante delle forze britanniche in Francia, e i suoi ufficiali non mancavano di energia e fiducia; quindi l'offensiva riprese, divenne un susseguirsi di attacchi settoriali, contrattacchi, nuovi attacchi, con perdite gravi da entrambe le parti (i tedeschi difendevano a oltranza ogni palmo di terreno). A metà novembre, quando Haig rinunciò a proseguire gli attacchi, aveva conquistato pochi chilometri di trincee piene di fango. Nel corso della battaglia, il 15 settembre, gli inglesi avevano impiegato per la prima volta i carri armati, ma in modo così sconsiderato (per la sfiducia degli alti comandi) da portarli a un pieno insuccesso; ci sarebbero voluti altri 209

14 mesi perché i "tanks" potessero tornare in azione in circostanze migliori. Sul fronte orientale, l'esercito russo disponeva ancora di 130, poi 160 divisioni male addestrate e armate (contro 46 tedesche e 40 austro- ungariche passate sulla difensiva). L'alto comando zarista preparava una ripresa offensiva per l'estate; ma in marzo cedette alle richieste francesi di soccorso e lanciò a nord un'offensiva presto arrestata. Furono poi gli italiani a chiedere una pressione russa che richiamasse le divisioni impegnate nella Strafexpedition; il generale Brusilov, comandante del fronte sudovest, lanciò quindi il 4 giugno un'offensiva a obiettivi limitati, che incontrò un successo insperato (anche perché alcune buone divisioni austriache erano partite per il Trentino): due armate austriache crollarono (lasciando 200 mila prigionieri in tre giorni) e i russi poterono avanzare in Bucovina e in Galizia fino ad avvicinarsi nuovamente ai Carpazi. Nei tre mesi seguenti le armate zariste continuarono a premere con crescenti perdite e problemi di rifornimenti, mentre i tedeschi riorganizzavano il fronte con rinforzi affluiti dalla Francia, tamponavano i progressi russi e poi riprendevano l'iniziativa. In autunno la situazione era ristabilita, i russi avevano perso un milione di uomini ed erano in piena crisi per mancanza di rifornimenti. Non furono perciò in grado di appoggiare la Romania, che entrò in guerra il 27 agosto, invadendo la Transilvania e l'Ungheria; forze tedesche minori, ma bene equipaggiate e dirette, con l'aiuto di austriaci e bulgari in tre mesi fecero a pezzi le armate romene e occuparono il paese. Anche in questa occasione il corpo di spedizione alleato di Salonicco non riuscì a intervenire in modo efficace. Due righe per le operazioni in Medio Oriente. Per proteggere i pozzi petroliferi del Golfo Persico gli inglesi occuparono Bassora nel novembre 1914, poi avanzarono in Mesopotamia, l'attuale Iraq; nell'inverno 1915-1916 mossero su Baghdad, ma furono ricacciati dai turchi; ritentarono alla fine del 1916 e questa volta arrivarono a Baghdad l'11 marzo 1917. L'altro punto nevralgico della 210

regione era il canale di Suez, fortemente presidiato dagli inglesi. Dopo aver respinto un nuovo attacco turco nella primavera 1916, gli inglesi tentarono di invadere la Palestina e furono a loro volta respinti. Li vedremo nuovamente all'offensiva nel 1917, con operazioni che non influivano sull'esito del conflitto, ma miravano a stabilire un duraturo predominio britannico nel Medio Oriente. - "L'ampliamento dell'esercito italiano". L'esito deludente delle offensive del 1915 non poteva che peggiorare i rapporti già tesi tra il governo e Cadorna. Il fatto che anche sugli altri fronti la guerra fosse diventata di logoramento non impediva che Salandra e gli ambienti politici, più o meno apertamente, facessero carico a Cadorna di non essere riuscito a conseguire successi di qualche rilievo. Costui insisteva in una concezione unilaterale della collaborazione con il governo: non ammetteva ingerenze nella sua opera di comando, né forniva informazioni sui suoi piani, ma pretendeva che le sue crescenti richieste di uomini e materiali venissero accolte senza alcun riguardo per le difficoltà che il governo doveva affrontare. Problemi analoghi si ponevano anche negli altri paesi in guerra; in Germania erano stati risolti affidando ai militari il controllo della mobilitazione economica, in Francia e in Gran Bretagna il governo aveva mantenuto la direzione dello sforzo bellico nazionale. La reazione dei generali dinanzi al prolungamento della guerra era semplice e univoca: per continuare a farla occorrevano più uomini e più cannoni, spettava ai governi procurarli. Per quanto ingenti fossero queste richieste, non erano mai adeguate alle necessità del tremendo logorio della guerra e quindi venivano man mano aumentate. I governi erano altrettanto consapevoli che la guerra doveva essere continuata e vinta a qualsiasi prezzo, ma la riorganizzazione dell'economia e della vita nazionale in funzione del conflitto non poteva essere realizzata in breve 211

tempo; e quindi le richieste dei generali non potevano essere soddisfatte integralmente, il che provocava tensioni e accuse reciproche. Ciò nonostante i risultati conseguiti furono grandiosi (e terrificanti, se si hanno presenti le devastazioni prodotte dal conflitto). I contrasti tra Cadorna e Salandra vanno visti in questa prospettiva, al di là dei dissensi personali. Le richieste di uomini e materiali vennero in gran parte accolte non perché il governo aveva una base politica precaria mentre il «generalissimo» era sostenuto ed esaltato dalla stampa e dalla propaganda, ma perché questa era la logica della guerra. Ci andò di mezzo il ministro della Guerra Zuppelli perché era il responsabile del collegamento tra governo e Comando supremo: Cadorna, che lo aveva imposto nell'ottobre 1914, ne ottenne la sostituzione con il più docile generale Paolo Morrone nel marzo 1916. In sostanza venne riaffermata una separazione di poteri: Cadorna avrebbe continuato a gestire le operazioni senza controlli politici, ma la mobilitazione dell'industria e del paese sarebbe rimasta di competenza del governo. Dei gravi contrasti tra Cadorna e il governo per quanto riguarda le truppe in Libia, Albania e Salonicco diremo più avanti, così come degli accordi con gli alleati. Nei primi mesi del 1916 furono costituiti 24 nuovi reggimenti di fanteria, 2 di bersaglieri e 26 battaglioni alpini, il nuovo corpo dei bombardieri con 200 mila uomini e tutte le batterie medie e pesanti per cui si reperivano i materiali. Le divisioni erano 35 nel 1915, 48 alla fine del 1916. Anche i servizi ebbero uno sviluppo crescente, basti ricordare che i medici militari passarono in 18 mesi da 1000 a 14000. In cifra tonda, gli uomini al fronte salirono dal milione del 1915 a un milione e mezzo nel 1916 e poi a due milioni nel 1917. Trovare gli uomini per le nuove unità non costituiva un problema. Nell'inverno fu chiamata alle armi la classe 1896, mentre procedeva il richiamo di aliquote delle classi anziane (fino ai quarantenni delle classi 1876 e poi 1874) e la revisione degli esoneri accordati in tempo di pace per 212

inidoneità fisica. L'addestramento delle reclute era breve e non molto curato: ordine chiuso, marce, qualche caricatore sparato in poligono; poi venivano mandate al fronte. Era un grave difetto non recuperabile, che attesta i limiti professionali degli alti comandi: un addestramento adeguato avrebbe dato ai soldati un morale più solido e una maggiore capacità di adattamento alle esigenze belliche, che non si riassumevano nell'assalto frontale di masse inquadrate. Il discorso è più complesso per gli ufficiali, anche perché i dati disponibili sono insoddisfacenti. Le necessità erano enormemente superiori alle previsioni, quindi divenne indispensabile creare un gran numero di nuovi ufficiali di complemento e di milizia territoriale (12), ben 147 mila tra l'agosto 1914 e la fine del 1918; quando nel 1917 i volontari cominciarono a scarseggiare, le spalline di sottotenente furono rese obbligatorie per chi aveva compiuto le scuole superiori. Anche questi nuovi ufficiali ricevevano un addestramento sommario, due o tre mesi di corso, portati a quattro nell'ultima fase del conflitto. All'incirca metà furono destinati al fronte, gli altri all'interno per le necessità della macchina bellica. Al fronte tutti i subalterni erano di complemento, poi anche i capitani e nel 1918 una parte dei maggiori, i comandanti dei battaglioni, con una selezione ridotta, poiché quasi tutte le promozioni avvenivano per anzianità. Gli ufficiali di complemento inviati al fronte diedero prova di grande coraggio e dedizione (specialmente quelli destinati ai reparti di fanteria, dove morivano in proporzione maggiore dei loro soldati), ma non tutti avevano le doti per supplire ai limiti di addestramento, specialmente quando salivano di grado. Gli ufficiali effettivi, che avevano una preparazione più completa, vennero progressivamente sostituiti da quelli di complemento nei gradi inferiori e destinati ai comandi di maggiore responsabilità (13). - "La Strafexpedition". 213

Alla fine del 1915 la situazione dell'Impero austroungarico era migliorata: le terribili perdite dell'inverno 1914-1915 erano state ripianate, l'esercito serbo era stato eliminato, la capacità offensiva dell'esercito zarista sembrava spezzata (e comunque il fronte orientale era stato portato ben all'interno del territorio russo), l'offensiva italiana era stata contenuta con arretramenti minimi, anche se con perdite rilevanti, la produzione di armi e munizioni era notevolmente aumentata. Tuttavia il logoramento era stato fortissimo, i rifornimenti alimentari cominciavano a scarseggiare e la continuazione della guerra su due fronti sembrava insostenibile. Per uscire da questa situazione il capo di stato maggiore Conrad von Hoetzendorff riteneva indispensabile passare all'offensiva. Se non che la Russia era difesa dalle sue grandi distanze; per eliminarla occorreva avanzare di centinaia di chilometri, quindi forze ingenti e molto tempo. Un'offensiva contro l'Italia dal Trentino richiedeva forze minori e lasciava sperare di riuscire a prendere alle spalle il grosso dell'esercito italiano sull'Isonzo e di obbligarlo a una ritirata disastrosa (una Caporetto anticipata), che avrebbe potuto aprire agli austriaci la pianura veneta e, nel caso più favorevole, mettere addirittura l'Italia fuori combattimento. Sembra probabile che la decisione di Conrad di scatenare la "Strafexpedition" (spedizione punitiva, il nome è significativo) fosse influenzata dalla sua comprovata ostilità verso l'Italia, che lo portava a considerare il suo passaggio dalla Triplice Alleanza all'Intesa un tradimento da vendicare; ma aveva anche solide ragioni strategiche. Conrad però non aveva tutte le 16 buone divisioni che riteneva necessarie per l'offensiva; nel dicembre 1915 chiese quindi all'alleato Falkenhayn 8 divisioni tedesche, da impiegare nell'offensiva o da destinare al fronte russo in sostituzione di altrettante austriache. Falkenhayn rifiutò con ottimi ragionamenti: l'attacco a Verdun che stava preparando richiedeva tutte le sue forze e comunque 16 divisioni erano sufficienti per un successo locale, non per raggiungere la pianura e mettere fuori combattimento 214

l'Italia, l'unico obiettivo significativo. Conrad decise di attaccare da solo con 14 divisioni prelevate in parte dal fronte russo, in parte da quello dell'Isonzo, più le forze mobili disponibili in Trentino, con l'appoggio di 1200 pezzi d'artiglieria, di cui 100 grossi calibri e 500 medi (nell'estate 1915 la quarta armata italiana aveva condotto i suoi attacchi con soltanto 12 grossi calibri e 48 medi). Per un grande obiettivo valeva la pena di correre qualche rischio indebolendo gli altri fronti. L'offensiva principale doveva avere luogo il 20 marzo per la valle dell'Astico, la via più diretta per la pianura veneta; ma la preparazione fu più lunga del previsto e poi fu necessario attendere lo scioglimento delle grandi nevicate invernali. L'attacco fu quindi sferrato il 15 maggio 1916. Da parte italiana la difesa fu impostata nel peggiore dei modi. La prima armata del generale Roberto Brusati, che cingeva sulle due parti il saliente trentino, aveva avuto da Cadorna nel 1915 compiti strettamente difensivi ben comprensibili, data la forza delle difese austriache e la mancanza di obiettivi strategici. Invece Brusati aveva impresso alle operazioni della sua armata un orientamento spiccatamente offensivo, con difficili e sanguinosi attacchi locali che avevano dovunque portato le truppe fin sotto le fortificazioni austriache, su posizioni costose da mantenere che erano le meno favorevoli alla difensiva. Brusati aveva inoltre trascurato la preparazione di posizioni di resistenza più arretrate e la costituzione di riserve: si era in sostanza comportato come i comandanti italiani sull'Isonzo, che però avevano compiti offensivi e non difensivi. Si aggiungeva il cattivo funzionamento del Comando supremo (14), su cui concordano tutti gli studiosi. Cadorna era un accentratore che non tollerava collaboratori troppo autorevoli; quindi volle mantenere il controllo diretto di tutte le armate, anche se non poteva occuparsi del fronte alpino perché la sua attenzione era assorbita da quello dell'Isonzo. Non si accorse quindi fino all'ultimo che Brusati aveva disobbedito alle sue direttive. Inoltre il Comando supremo era male organizzato: Cadorna aveva relegato a 215

compiti secondari il generale Carlo Porro, sottocapo di stato maggiore, esautorato l'Ufficio operazioni e dato insufficiente sviluppo (e credito) all'Ufficio informazioni. Si fidava soltanto della sua piccola segreteria, che nel 1916 era retta dal colonnello Roberto Bencivenga, un ufficiale di valore, che poteva tradurre le direttive di Cadorna in ordini da trasmettere alle armate, ma non aveva i necessari strumenti di informazione e di collegamento, né l'autorità per imporsi ai comandanti più elevati. Nei primi mesi del 1916 non si ebbero grossi combattimenti sull'Isonzo, bensì la continuazione dell'attacco «metodico» per migliorare le basi di partenza delle prossime offensive e mantenere alta l'aggressività delle truppe. La cosiddetta "quinta battaglia dell'Isonzo" (1-15 marzo) fu una battaglia dimostrativa, una serie di azioni settoriali senza risultati sferrate da Cadorna per venire incontro alle richieste dei francesi, che temevano il trasferimento di truppe austriache sul fronte di Verdun. Contemporaneamente anche gli austriaci lanciavano diversi attacchi locali per distogliere l'attenzione dalla preparazione della Strafexpedition. Le perdite italiane complessive, circa 13000 uomini, rientravano nella "normalità" di una guerra di logoramento. L'attenzione di Cadorna era tutta rivolta alla preparazione di una grande offensiva su Gorizia, programmata per l'inizio dell'estate. Ragionando a tavolino, si era convinto che Conrad non avesse forze sufficienti per attaccare dal Trentino; non diede quindi molto credito alle notizie sull'imminente offensiva austriaca provenienti dall'Ufficio informazioni della prima armata, più efficiente di quello del Comando supremo. Concesse tuttavia grossi rinforzi, pari a circa 5 divisioni, che Brusati continuò a spingere troppo avanti, ribadendo ancora il 14 aprile che la difesa a oltranza andava condotta sulla prima linea. Soltanto ai primi di maggio Cadorna si rese conto che Brusati aveva sistematicamente trasgredito i suoi ordini e lo esonerò dal comando. Era troppo tardi perché il nuovo comandante della prima armata, il generale Guglielmo Pecori Giraldi, potesse modificare lo schieramento delle truppe, 216

arretrandole su posizioni più forti e costituendosi una riserva (15). L'offensiva austriaca, scattata il 15 maggio, ebbe un successo iniziale travolgente: le truppe italiane, addensate sulle trincee precarie della prima linea, furono massacrate dal grosso concentramento d'artiglieria e sopraffatte, le poche riserve disponibili vennero buttate nella mischia senza risultati e per di più alcuni comandanti italiani persero la testa, cedendo posizioni importanti senza combattere. All'inizio di giugno gli austriaci erano avanzati a nord in Valsugana, al centro sull'altopiano di Asiago, a sudovest in val d'Astico, Vallarsa e val Lagarina fino a una ventina di chilometri; e si affacciavano alla pianura. Tuttavia Conrad aveva impegnato e logorato tutte le sue truppe (e non bastavano a dare nuovo slancio le 3 divisioni che faceva affluire dall'Isonzo e da altri settori), che non avevano più l'appoggio delle artiglierie medie e pesanti rimaste sulle posizioni di partenza, né rifornimenti adeguati; e il terreno montuoso (nonché i contrasti tra i generali) portava a disperdere le forze in più direzioni. E invece Cadorna aveva costituito nella pianura veneta un'armata di 10 divisioni tratte dalle riserve (e in parte dalle trincee) del fronte dell'Isonzo. Il 4 giugno ebbe inizio sul fronte russo l'offensiva del generale Brusilov, che riportò insperati successi sulle assottigliate armate austriache. Conrad tentò un ultimo sforzo, ma i suoi attacchi si esaurirono su una linea che andava dal Coni Zugna e dal Pasubio all'estremo lembo dell'altopiano di Asiago, rincalzata dall'afflusso delle riserve italiane. Il 16 giugno Conrad rinunciò a proseguire l'offensiva e, poiché doveva togliere truppe dal Trentino per fronteggiare l'avanzata russa, il 24 ripiegò su una linea più idonea alla difensiva, all'incirca intermedia tra le sue posizioni iniziali e quelle raggiunte il 16 giugno; gli austriaci mantennero le posizioni acquistate alle due estremità del fronte, sul massiccio del Pasubio e in Valsugana, e sgombrarono l'alta Vallarsa e la conca di Asiago. 217

I comandi italiani non seppero resistere alla tentazione di impiegare le molte divisioni fatte affluire per riconquistare le posizioni perdute. La cosiddetta controffensiva italiana non fu una grande battaglia organizzata con i mezzi necessari, ma una serie di attacchi condotti dai comandi settoriali senza la necessaria preparazione e soprattutto senza un adeguato supporto d'artiglieria media e pesante. In sostanza le truppe furono dissanguate in attacchi locali contro le posizioni austriache dominanti, in parte improvvisate, ma forti per natura, come se l'esperienza del 1915 nulla avesse insegnato. Gli attacchi continuarono per gran parte di luglio con guadagni territoriali minori, in complesso trascurabili, e perdite crescenti (16). Averli autorizzati senza adeguata preparazione, cedendo all'offensivismo dei suoi generali, fu senz'altro un errore di Cadorna. La Strafexpedition era fallita perché, come sempre nella guerra di posizione, il grosso successo iniziale di un'offensiva ben preparata si esauriva rapidamente per il logoramento delle fanterie attaccanti e per l'impossibilità di spostare in avanti le artiglierie medie e pesanti, mentre la difesa avversaria si rafforzava con l'afflusso delle riserve. Il terreno montuoso aveva irrigidito i movimenti di entrambi i contendenti, prima facilitando l'avanzata delle truppe austriache (anche per i grossi errori di Brusati), poi impedendo loro di concentrare gli sforzi per lo sfondamento verso la pianura; si deve comunque riconoscere che gli austriaci ne avevano sfruttato le caratteristiche meglio degli italiani. In definitiva Conrad aveva sottovalutato gli italiani, intraprendendo un'offensiva senza le truppe per condurla a fondo contro un avversario che disponeva di grosse riserve e poteva utilizzare le buone comunicazioni della pianura. La sua ostinazione nello sferrare comunque la Strafexpedition fu duramente pagata con i successi di Brusilov e poi di Cadorna su Gorizia, entrambi facilitati dal concentramento di forze austriache nel Trentino. Conrad aveva sperato che un grosso successo contro l'Italia rilanciasse il ruolo dell'esercito austroungarico e invece 218

doveva riconoscere che la continuazione della guerra austriaca dipendeva più che mai dall'aiuto tedesco. Il bilancio italiano non era più positivo. La Strafexpedition era stata contenuta e bloccata (e dati i rapporti di forza era difficile pensare a un esito diverso), ma a caro prezzo, e non soltanto per le perdite, 76000 uomini contro 30000 austriaci (è interessante notare che i morti e feriti austriaci pareggiarono quasi quelli italiani, un indice dell'asprezza dei combattimenti, mentre la differenza sta nei 41000 dispersi italiani, in gran parte caduti prigionieri nella ritirata). Grave fu la perdita di prestigio causata dai successi austriaci, che fecero temere un crollo rovinoso; meno evidente, ma altrettanto pesante l'incapacità di impostare una difesa efficace contro un'offensiva attesa (un'incapacità che non si può addossare soltanto a Brusati e a Cadorna, perché troppi generali si lasciarono dominare dal terreno e dagli austriaci, come avverrà pure a Caporetto). Positiva invece la reazione di Cadorna, che seppe muovere rapidamente le grosse riserve che aveva (ma non avrà a Caporetto), fino a impegnare nella battaglia 21 divisioni in aggiunta alle 6 iniziali della prima armata. Decisamente negativo il bilancio della controffensiva successiva, che costò agli italiani oltre 70000 uomini; elevate anche le perdite austriache, 53000 uomini (17). Infine, gli austriaci avevano arrestato il loro ripiegamento su posizioni forti e dominanti, mentre quelle italiane vennero nuovamente spinte troppo avanti nel corso della controffensiva. Inoltre la linea italiana aveva adesso poco spazio alle spalle prima della pianura e quindi doveva essere presidiata con grosse forze, il triplo di quelle precedenti l'offensiva di Conrad. A pagare la Strafexpedition fu il governo Salandra, costretto alle dimissioni; la posizione di Cadorna era stata vivacemente discussa, ma un suo esonero avrebbe rappresentato un salto nel buio, poiché nessuno dei suoi generali era abbastanza conosciuto. La vittoria di Gorizia sarebbe presto giunta a rialzare il prestigio del «generalissimo». 219

- "La presa di Gorizia". La conquista di Gorizia nella "sesta battaglia" dell'Isonzo fu il primo autentico successo della guerra italiana, dovuto soprattutto a due nuovi elementi: la realizzazione di una piena sorpresa sugli austriaci e una preparazione finalmente adeguata degli attacchi principali. Cadorna aveva dovuto rinviare la grande offensiva in preparazione per fronteggiare la Strafexpedition, ma intendeva lanciarla non appena possibile, anche se con obiettivi ridimensionati perché aveva logorato le sue riserve sul fronte della prima armata. Per contro l'"Isonzo- Armee" del generale Boroevich era stata indebolita dalla sottrazione di truppe per il Trentino; gli austriaci ritenevano impossibile che gli italiani potessero riprendere l'iniziativa così presto e quindi aspettavano a ricostituire le loro riserve. In sostanza sottovalutavano gli italiani; e il loro efficiente servizio informazioni questa volta non diede un allarme tempestivo. Si limitarono a tenere gli italiani sotto pressione impiegando per la prima volta i gas asfissianti il 29 giugno in un attacco sul San Michele e il vicino San Martino: una nuvola venefica emessa da centinaia di bombole. Le perdite italiane furono gravi, ma l'attacco fu respinto. Per ingannare gli austriaci, Cadorna rimase fino all'ultimo sul fronte alpino. Affidò quindi la direzione dell'offensiva al duca d'Aosta, comandante della terza armata dislocata lungo il ciglione del Carso, che aveva anche la responsabilità del sesto corpo d'armata del generale Luigi Capello dinanzi alla testa di ponte di Gorizia. Le 6 divisioni di questo corpo dovevano attaccare l'obiettivo principale, appunto la testa di ponte dal Sabotino al Podgora; l'altro grosso obiettivo era il San Michele. Le forze necessarie vennero fatte affluire dal fronte trentino tra la fine di luglio e i primi di agosto con un movimento ferroviario ben congegnato e tenuto celato. La carta vincente era comunque la disponibilità di una massa d'artiglieria 220

finalmente notevole, 1200 cannoni (di cui 400 medi e 50 grossi calibri) e quasi 800 bombarde (18). Gli attacchi sugli obiettivi principali erano stati preparati con molta cura. In primo luogo le trincee italiane furono spinte quanto più avanti possibile per accorciare il balzo che gli attaccanti dovevano compiere allo scoperto, in modo che potessero irrompere nelle trincee nemiche prima che fossero guarnite dal grosso dei difensori che restavano fino all'ultimo nei ricoveri. Abbiamo criticato l'offensivismo dei comandi italiani che costringeva le truppe ad aggrapparsi a trincee precarie sotto i reticolati nemici, con alte perdite e sofferenze; ma questa volta lo scavo di posizioni avanzate non avveniva a detrimento delle condizioni di vita e di sicurezza delle truppe. I lavori ebbero uno sviluppo esemplare sulle pendici del Sabotino, su cui si erano infranti tanti assalti nel 1915; facendo brillare fino a 2500 cariche da mina per notte, fu costruita un'estesa rete di trincee, camminamenti e ricoveri nella roccia, fino a 20 metri dai reticolati austriaci. Il colonnello Pietro Badoglio, che aveva diretto i lavori, riuscì il 6 agosto a conquistare la vetta del Sabotino in 38 minuti (e fu l'inizio di una folgorante carriera). Il ruolo decisivo spettava comunque all'artiglieria. Non bastava aumentare numero e calibro dei pezzi, bisognava organizzarne l'impiego, in primo luogo migliorando l'osservazione del tiro con il ricorso a palloni frenati (ossia trattenuti da un cavo, che permetteva anche il collegamento telefonico dell'osservatore) e all'aviazione. Non era però possibile proteggere la fanteria dal fuoco dell'artiglieria nemica scaglionata in profondità, fuori della gittata dei cannoni italiani, ma in grado di colpire le trincee (una costante questa di tutta la guerra). Fu comunque predisposto il bombardamento degli osservatori e dei comandi austriaci, anche con l'impiego di proietti a gas, per ostacolare le reazioni nemiche; e poi il tiro sui passaggi obbligati dei rinforzi (ma i ponti sull'Isonzo non furono interrotti). Il compito principale dell'artiglieria era comunque la distruzione delle trincee e dei reticolati, e fu 221

assolto con notevole successo, anche perché gli austriaci non si attendevano un bombardamento così massiccio e quindi non sempre si erano interrati a sufficienza. Quanto ai reticolati, nei settori cruciali furono letteralmente spazzati via dal fuoco dei pezzi medi e delle bombarde. La bombarda (19) era un'arma nuova, caratteristica della guerra di trincea. Consisteva in un tubo metallico di diametro da 30 a 200 e più millimetri, che poggiava su una piastra metallica per i pezzi più piccoli, su una base di travi in legno per quelli più grossi. Era più facile da costruire dei cannoni, perché impiegava cariche di lancio ridotte (quindi il tubo era sottoposto a minori tensioni); e sparava grosse bombe con una traiettoria molto curva e una portata limitata, anche poche centinaia di metri. In sostanza era un'arma economica e rustica, non troppo precisa, ma molto efficace contro trincee e reticolati, perché le sue bombe contenevano più esplosivo dei proietti d'artiglieria. I primi esemplari arrivarono dalla Francia alla fine del 1915, poi le bombarde furono prodotte in grande quantità. Per il loro impiego fu costituito nel febbraio 1916 il corpo dei bombardieri, sciolto al termine del conflitto. La bombarda aveva il difetto di non essere facilmente spostabile, soprattutto se di grosso calibro, ma era un limite di tutta l'artiglieria. L'offensiva ebbe inizio il 6 agosto con un massiccio bombardamento, poi l'attacco delle fanterie. Il Sabotino fu conquistato con straordinaria rapidità, ma nel settore del Podgora lo sfondamento fu contenuto dai contrattacchi austriaci. Anche il San Michele cadde subito, ma la penetrazione fu bloccata. Gli attacchi italiani furono rinnovati senza sosta, con faticosi progressi; l'elemento decisivo fu la scarsezza delle riserve austriache. La notte sull'8 agosto Boroevich non aveva più truppe per sostenere una resistenza rigida, fu quindi costretto a ordinare lo sgombero della testa di ponte (soltanto 5000 austriaci su 18000 riuscirono a passare il fiume) e poi del Vallone, la prima fascia del Carso dal San Michele a Monfalcone. L'8 agosto le truppe italiane entrarono in Gorizia e dilagarono 222

oltre il San Michele, mentre Capello chiedeva truppe celeri per incalzare il nemico che credeva in piena rotta. Invece gli austriaci, pur provati, si stavano attestando sulle posizioni predisposte delle colline intorno a Gorizia. Dal 10 al 16 agosto i comandi italiani tentarono di sfruttare il successo attaccando la nuova linea austriaca; ma l'artiglieria era rimasta dietro l'Isonzo e quindi gli assalti fallirono con grosse perdite, mentre il fronte austriaco si rafforzava grazie all'arrivo di truppe fresche. Il 16 Cadorna arrestò l'offensiva. Gli italiani avevano perso 51200 uomini, più 12300 malati, gli austriaci 37500 uomini, più 4300 malati. La battaglia fu soltanto una fase della guerra di logoramento: al di là di Gorizia c'erano soltanto nuove trincee, su cui la guerra di posizione continuava con tutti i suoi orrori e sacrifici. Ciò nonostante la vittoria italiana era indubbia. Come scrive Piero Pieri, «per la prima volta, dopo quindici secoli di storia, un esercito tutto italiano sconfiggeva in una grande battaglia un esercito tutto straniero; e per la prima volta dopo più di tredici mesi di guerra nostra, e dopo ventiquattro di guerra mondiale, si cominciò a condurre la guerra secondo i dettami della sanguinosa esperienza». Particolare non secondario, la conquista del Sabotino dava finalmente agli italiani buoni osservatori per l'artiglieria, mentre sul Carso gli austriaci avevano perso le posizioni dominanti. - "Le "spallate autunnali sul Carso". Cadorna non aveva le forze per una nuova grande offensiva, ma non intendeva né poteva restare passivo fino all'inverno. Era ormai consapevole dell'impossibilità di realizzare uno sfondamento così ampio e profondo da avere importanza strategica e, come i comandanti del fronte occidentale, aveva accettato la logica della guerra di logoramento. Si proponeva perciò di attaccare su un settore delimitato, con un bombardamento così forte da distruggere le difese austriache e permettere alle fanterie di occuparle con 223

poche perdite, respingendo poi i contrattacchi austriaci ancora con il contributo determinante dell'artiglieria. Era il tipo di battaglia che il generale Robert Nivelle riuscì a realizzare a Verdun il 24-25 ottobre e poi il 15-16 dicembre 1916: l'artiglieria conquista, la fanteria occupa, dicevano i francesi. Una serie di "spallate" (il nome ne indicava gli obiettivi limitati) con perdite contenute ("accettabili", nella logica della guerra di logoramento) avrebbe mantenuto la pressione sull'esercito austroungarico, che dopo le grandi perdite sul fronte orientale sembrava giunto al limite di rottura, e dato soddisfazione al governo e all'opinione pubblica, che continuavano a sperare in successi significativi. Il terreno scelto per le offensive autunnali fu il Carso, non per ragioni strategiche (solo i giornalisti pensavano all'obiettivo di Trieste), ma perché l'arretramento del fronte aveva portato gli austriaci su posizioni nuove, verosimilmente meno fortificate e su un terreno pianeggiante, che non offriva grandi vantaggi ai difensori. Dobbiamo tornare sul meccanismo della guerra di trincea, caratterizzato da due costanti. In primo luogo, la striscia di pochi chilometri di trincee su cui si affrontavano le fanterie era sottoposta al fuoco delle artiglierie di entrambe le parti, che non era facile controbattere. Anche quando l'artiglieria italiana era superiore, non poteva raggiungere i pezzi medi e pesanti austriaci collocati a distanza di sicurezza (e quindi sempre in grado di battere le trincee). Poteva invece tirare sui pezzi leggeri e sulle bombarde collocate più avanti e lo faceva nella fase di bombardamento preliminare (nella misura in cui era stato possibile individuarli con precisione); ma quando iniziava il combattimento delle fanterie, da entrambe le parti era più redditizio tirare sulla fanteria nemica che sui cannoni. Ciò spiega perché anche un'artiglieria inferiore fosse in grado di infliggere grosse perdite alla fanteria nemica uscita dai ricoveri, tanto che in tutte le battaglie la gran parte delle perdite toccava ai fanti. L'altra costante era l'impossibilità di spostare l'artiglieria durante la battaglia. Per i grossi pezzi occorrevano tempo e 224

strade, ma anche l'artiglieria leggera non era in grado di procedere sui campi di battaglia sconvolti da scavi, reticolati e crateri di granate (a prescindere dalla vulnerabilità dei suoi cavalli). Ne derivava che l'artiglieria poteva spianare le difese nemiche e proteggere l'avanzata delle fanterie per il primo balzo; ma il suo fuoco perdeva efficacia man mano che la fanteria progrediva, non fosse che per la difficoltà di seguirne il movimento senza mezzi di collegamento, mentre il fuoco dell'artiglieria nemica continuava con immutata efficacia. Un battaglione che trovava le linee nemiche realmente devastate dal bombardamento iniziale poteva avanzare per qualche centinaio di metri, ma perdeva il collegamento con la sua artiglieria (non c'erano radio da campo, non era possibile stendere un filo telefonico senza che fosse interrotto dagli scoppi, i segnali ottici scomparivano nella polvere sollevata dalle granate); era invece esposto al fuoco nemico e costretto a sostenere i contrattacchi austriaci con i fucili e le bombe a mano che aveva con sé, poiché rinforzi e rifornimenti dovevano attraversare un terreno battuto dall'artiglieria (per portare avanti una mitragliatrice con treppiede e munizioni ci volevano quattro uomini e molta fortuna). E quindi la penetrazione si arrestava presto. La presenza di queste due costanti e il fatto che tutti gli eserciti impiegassero armi simili, con differenze quantitative, ma non qualitative, non devono far credere che le battaglie avessero tutte lo stesso sviluppo. Non era soltanto l'incremento dell'artiglieria a cambiare i termini dello scontro, ma una continua ricerca di miglioramenti a tutti i livelli. Nel 1916 l'esercito italiano ebbe in dotazione le bombarde, gli elmetti in acciaio, i gas per l'artiglieria, un numero crescente di mitragliatrici e di bombe a mano; e abbiamo visto come gli attacchi di agosto fossero preparati con grandi lavori e lo studio minuzioso delle difese nemiche. Anche gli austriaci non stavano fermi: se in agosto erano stati sorpresi dalla potenza dell'artiglieria italiana e dalla nuova cura posta nella preparazione dell'offensiva, si diedero subito a rafforzare le loro difese, aumentandone la 225

profondità fino a quattro ordini di trincee, curando la protezione delle truppe con ricoveri e gallerie scavate nella roccia (venivano utilizzate le numerose caverne del Carso) e predisponendo adeguate riserve per i contrattacchi. Restava l'ordine di non cedere un palmo di terreno, soltanto Boroevich poteva autorizzare ripiegamenti settoriali. Le "spallate" dell'autunno si svolsero in tre riprese, denominate "settima", "ottava" e "nona battaglia dell'Isonzo", il 14-17 settembre, il 10-13 ottobre e l'1-4 novembre, sempre negli stessi settori del Carso e con andamento simile. Offensiva sul fronte di due corpi d'armata, con una forte superiorità d'artiglieria; bombardamento iniziale con risultati ineguali, attacco delle fanterie con scarsi risultati, contrattacchi austriaci, nuovi attacchi, Cadorna che ordina l'arresto delle operazioni e i comandi in subordine che ottengono di prolungarle ancora per uno- due giorni, perché hanno l'impressione che la resistenza nemica stia cedendo. In realtà la difesa rigida degli austriaci procurò loro perdite molto forti, tanto che Boroevich dovette chiedere cospicui rinforzi; ma in complesso tennero bene. Nelle tre battaglie gli italiani persero 77300 uomini e gli austriaci 74300; certamente i malati furono numerosi perché il tempo era pessimo. Il fatto che le perdite fossero quasi uguali è una dimostrazione dell'efficienza dell'artiglieria italiana e dei costi della difesa a oltranza delle trincee austriache. Le offensive limitate di Cadorna erano state più costose del previsto e i guadagni territoriali inferiori alle aspettative. Nell'arida contabilità di una guerra di logoramento si può parlare di un relativo successo italiano, dato che per gli austriaci era sempre più difficile sostituire morti e dispersi, ma era difficile spiegarlo ai soldati italiani nel gelido fango delle trincee e all'opinione pubblica che misurava le avanzate sulla carta geografica. Nella seconda metà del 1916 si combatté duramente anche sulla catena dei Lagorai con brillanti e costosi successi che non bastavano però ad aprire la via di Predazzo (da fine agosto a ottobre); sul Pasubio, dove fallirono tutti gli sforzi 226

italiani di dare maggiore respiro a una linea che aveva la pianura alle spalle (10 settembre, 9-20 ottobre, poi cadde la neve); e senza successo sul Rombon e sul Monte Nero sulle montagne tra Plezzo e Tolmino, negli stessi giorni dell'ottava battaglia dell'Isonzo. * LE OPERAZIONI DEL 1917 FINO ALL'AUTUNNO. - "Cadorna, il generalissimo". Negli anni del conflitto Cadorna il «generalissimo» (appellativo di origine giornalistica) fu esaltato senza limiti in pubblico e spesso criticato a mezza voce oppure vituperato dai combattenti come il responsabile dei sanguinosi attacchi frontali. Anche nei decenni seguenti l'esaltazione ufficiale della sua figura si è generalmente accompagnata a critiche pesanti, più emotive che documentate. Oggi ha preso il sopravvento un atteggiamento critico che ha sovente il limite di isolare la figura di Cadorna dal contesto della guerra europea, fino a ingigantire le sue responsabilità, come se la guerra di trincea fosse frutto dei suoi errori. Riteniamo invece che soltanto il confronto con quanto avveniva sui campi di battaglia di Francia possa consentire di individuare quanto nell'azione di Cadorna era dettato dalla logica ferrea della guerra di trincea e di logoramento, cui anch'egli doveva soggiacere, e quanto sia da ricondurre alla sua personalità e alla specificità della situazione italiana. Cadorna (20) aveva in alto grado le qualità tipiche dei grandi comandanti del 1914: forte carattere e grande fiducia in sé, buona cultura militare senza molti altri interessi, notevoli capacità organizzative, disprezzo malcelato per il mondo politico che non conosceva affatto, per forza di cose nessuna esperienza di guerra combattuta. La sua mancanza di autocritica e la sua incapacità di accettare un contraddittorio erano aggravate dall'età: un 227

uomo di 65 anni, già rigido di suo, non poteva comprendere appieno le esigenze straordinariamente complesse di una guerra così diversa da quella che aveva studiato. L'età era un problema inevitabile e comune a tutti gli alti comandanti del 1914, perché in tempo di pace l'avanzamento logicamente si basava sull'anzianità; la drastica selezione dei quadri dell'esercito operata dallo stesso Cadorna (esonero di 206 generali, più di quanti ce n'erano in pace, e di 255 colonnelli, con ingiustizie gravi quanto inevitabili) ebbe il merito di portare ai vertici uomini sui 50 anni che avevano appreso dall'esperienza come gestire un esercito di massa. Dinanzi al fallimento della guerra breve la reazione degli alti comandanti, abbiamo già detto, fu dovunque priva di dubbi: la guerra doveva continuare, l'offensiva era doverosa, il successo possibile se ben preparato, quindi occorrevano più uomini, più cannoni, più munizioni. Da questo punto di vista Cadorna fu certamente all'altezza della situazione e seppe condurre la guerra italiana con fermezza e ampiezza di vedute. Non ci pare lecito criticarlo per le sue scelte strategiche di fondo, bisognava attaccare (lo chiedevano il governo, le forze politiche, gli alleati) e non si poteva attaccare in forze che sull'Isonzo e sul Carso. Si può discutere se Cadorna avrebbe fatto meglio a mantenere un atteggiamento strettamente difensivo su tutti gli altri fronti, evitando di lanciare una serie di attacchi medi e piccoli, costosi e di scarsi risultati; è però difficile immaginare che tutto il fronte alpino potesse restare passivo. Rimane comunque l'impressione che i comandi italiani non riuscissero mai a gestire bene la guerra offensiva in montagna, anche se in questo Cadorna non aveva colpe dirette. Non ha senso addebitare a Cadorna (come pure fanno non pochi storici) la tragedia della guerra di trincea e l'impossibilità di sfondamenti decisivi. Le offensive inglesi e francesi non sono molto diverse dalle "spallate" sul Carso. Tuttavia la sua condotta delle operazioni merita due rilievi di fondo. Va certamente addebitato al carattere 228

accentratore e sospettoso del generalissimo il cattivo funzionamento (già accennato) del Comando supremo: con un servizio informazioni mediocre e poco ascoltato, un Ufficio operazioni ridotto all'osso, nessuna struttura di collegamento e di controllo con le armate, Cadorna si condannava a incidere poco sulle battaglie in corso; ogni volta finiva col cedere alle pressioni dei comandanti in subordine, preoccupati soltanto del loro settore e sempre convinti che un'altra brigata e un ultimo attacco avrebbero messo in ginocchio gli austriaci. Era una caratteristica delle grandi battaglie di trincea, in cui l'intervento dell'alto comando si riassumeva nella gestione delle riserve; ma da questo punto di vista il confronto con Diaz è tutto a vantaggio di quest'ultimo. Si può poi osservare che Cadorna non dimostrava interesse per l'organizzazione tattica della battaglia, ma si limitava ad accumulare sempre più uomini e mezzi senza preoccuparsi che fossero impiegati al meglio. Era un compito che toccava soprattutto ai comandi in trincea, ma al comandante supremo spettava comunque un ruolo essenziale di impulso. Generali come Ludendorff e Pétain dedicarono molta attenzione all'organizzazione della battaglia e all'addestramento di uomini e unità: anche Diaz se ne occupò più di Cadorna. A costui si deve pure addebitare, in ultima analisi, se l'addestramento delle reclute e dei nuovi ufficiali fu sempre condotto in modo troppo sbrigativo. Gli studiosi hanno generalmente sottovalutato questi limiti "tecnici" di Cadorna (21) e hanno invece sottolineato fortemente quelli più evidenti nel governo del personale. L'obbedienza assoluta dei soldati era un dogma della cultura militare. Un uomo rigido come Cadorna, che non si preoccupò mai di assumere informazioni dirette e concrete sulla realtà della vita in trincea, non poteva capire che nei combattimenti sul Carso era inevitabile e normale un certo livello di cedimenti individuali e collettivi, di gesti di insubordinazione e protesta, di fughe e diserzioni. Invece di nutrire ammirazione e riconoscenza per l'incredibile capacità di obbedienza e sacrificio dei soldati, Cadorna 229

drammatizzava ogni deviazione dal suo ideale di obbedienza (un ideale cui personalmente era poco fedele, come vedremo nei suoi rapporti con il governo), l'attribuiva alla viltà dei soldati o all'azione disgregatrice proveniente dal paese e indicava come unico rimedio una repressione rapida e severa. La lettura delle numerose circolari di Cadorna sulla disciplina è mortificante, così come l'elenco dei provvedimenti che prescriveva in termini ultimativi: azione immediata ed esemplare di tribunali regolari e straordinari, decimazioni di reparti, abbattimento dei vili per mano degli ufficiali, insomma fucilazioni e galera (22). Da rilevare la sua convinzione assoluta che fosse il disfattismo del paese a inquinare le truppe: un modo per evitare di mettere in discussione le condizioni reali dei combattenti e la sua azione di comando. Né si può dimenticare il disinteresse di Cadorna per la vita dei soldati (vitto, alloggiamenti, turni di riposo, licenze); non che il comandante in capo dovesse occuparsi del funzionamento delle cucine (come faceva Pétain, non senza successo), ma a lui spettava dare direttive generali e la sensazione dell'importanza di questi problemi. Per l'introduzione dei cappellani Cadorna si era mosso di persona; ma questo fu il suo unico intervento a favore dei soldati. C'è da credere che nei cappellani vedesse soltanto uno strumento di controllo e non di conforto. Non che tali problemi fossero affrontati in modo diverso negli altri eserciti; la disciplina presso tedeschi e austroungarici era durissima e pure Joffre chiedeva e praticava una severa repressione (ma in Francia il governo era intervenuto con un'azione moderatrice e le condizioni dei soldati erano oggetto di maggiore attenzione). Le direttive repressive di Cadorna, poi, erano largamente condivise dai generali e da gran parte degli ufficiali, anche se costoro non sempre le applicavano ai loro uomini con il rigore ordinato. In sostanza l'atteggiamento di Cadorna rientrava nella logica brutale del conflitto. La sua incapacità di comprendere (o tentare di comprendere) la realtà della guerra e i sacrifici dei soldati rimase comunque immutata 230

dal 1915 al 1917, si aggravarono soltanto la sua indignazione e le disposizioni repressive. Anche sui cattivi rapporti tra Cadorna e il governo si è spesso scritto senza tenere conto che lo stesso accadeva negli altri paesi. Dovunque gli alti comandi chiedevano molto e si indignavano per la lentezza con cui si veniva incontro alle loro esigenze. Nessun altro comandante però assunse un atteggiamento così polemico verso il proprio governo quanto Cadorna. L'esercito italiano aveva una tradizione di subordinazione al potere politico, ma Cadorna aveva a che fare con presidenti del Consiglio deboli come Salandra e Boselli, incapaci di porre un freno alla sua autorità e invadenza. Non era il potere militare che si imponeva a quello politico, come avveniva in Germania (e infatti nelle decisioni di politica estera Cadorna dovette sempre cedere a Sonnino), bensì il generalissimo che acquisiva un ruolo politico crescente senza fruire dell'appoggio della tradizione e dell'"establishment" militare, ma soltanto di quello della stampa oltranzista. In sostanza Cadorna negò al governo (e allo stesso sovrano) qualsiasi ingerenza nella sua sfera di comando (fino a vietare l'accesso alla zona di guerra al ministro Bissolati, incaricato dei rapporti tra governo ed esercito), mentre dal canto suo si intromise pesantemente nell'attività di governo, chiedendo (in particolare con quattro lettere a Boselli dell'estate 1917) una politica interna repressiva, stringendo rapporti con gli oppositori del ministro dell'Interno Orlando e utilizzando i carabinieri ai suoi ordini per spiare gli stessi ministri. Cadorna aveva torto su tutta la linea e il confronto con il diverso atteggiamento di Diaz è ancora una volta a suo sfavore. In conclusione, una valutazione del generalissimo va riportata al contesto nazionale e internazionale. Non ha senso addebitargli la strategia offensiva, gli orrori della trincea, gli esiti deludenti delle grandi battaglie: se si doveva fare la guerra, non era possibile farla diversamente. Gli si deve riconoscere la fermezza nella condotta della guerra e nello sviluppo dell'esercito; ma, se seppe cogliere 231

le dimensioni quantitative assunte dal conflitto, non ne afferrò mai la complessità. La fiducia in sé, necessaria per comandare, divenne chiusura e disprezzo verso l'esterno. Un comportamento permesso e facilitato dalla debolezza dei governi Salandra e Boselli. L'aspetto più negativo (e più triste) della personalità di Cadorna e della sua opera di comando fu l'incapacità di rispettare i soldati, oggetto soltanto di repressione e di denunce, non mai di interesse e di riconoscimenti.

- "La decima battaglia dell'Isonzo". L'ampliamento dell'esercito proseguì senza soste tra il 1916 e il 1917. La classe 1897 fu chiamata alle armi nell'autunno 1916, la classe 1898 nella primavera 1917, la classe 1899 nell'estate. Furono anche richiamate aliquote delle classi anziane fino a quella del 1873 e rivisti gli esoneri concessi in tempo di pace, per esempio abbassando il minimo di statura. Fu così possibile fronteggiare le perdite (occorreva una media di 100 mila uomini al mese, di cui un terzo tratti da feriti e malati ricuperabili) (23) e creare nuove unità. La fanteria giunse a contare su 860 battaglioni (compresi bersaglieri e alpini), organizzati in 65 divisioni, con un aumento fortissimo delle mitragliatrici, 600 nel maggio 1915, 3000 a fine 1916, 12000 nell'ottobre 1917 (24). Maggiore l'incremento dell'artiglieria, che nella primavera 1917 contava poco meno di 4000 pezzi leggeri, 3000 pezzi medi (i più necessari), 157 pesanti, oltre alle bombarde. Finalmente soddisfacente la disponibilità di munizioni per l'artiglieria. Notevole anche lo sviluppo delle diverse specialità del genio, zappatori e minatori, telegrafisti e telefonisti, pontieri e ferrovieri, reparti per il servizio teleferiche, fotoelettrico, idrico, poi anche radiotelegrafisti e lanciafiamme. Dell'aviazione e dei reparti d'assalto diciamo a parte. Soltanto la cavalleria non trovava spazio nella guerra di trincea. In cifra tonda, l'esercito al fronte 232

venne a contare oltre due milioni di uomini. Per quanto riguarda l'Austria-Ungheria, le ingentissime perdite del 1916 (1 milione 700 mila uomini) erano state fronteggiate mobilitando ogni uomo disponibile; non c'erano più riserve, ma il progressivo disfacimento dell'esercito zarista avrebbe permesso di spostare truppe dal fronte orientale a quello italiano. Dove impiegare queste grandi forze? Cadorna scelse di porre un freno all'offensivismo dei comandi subordinati: sul lungo fronte alpino (dove l'inverno era stato di eccezionale durezza) gli attacchi locali vennero limitati in numero e proporzioni, tanto che possiamo rinunciare a ricordarli (anche se in alcuni casi si tratta di imprese davvero pregevoli). Vennero addirittura autorizzati alcuni arretramenti là dove le posizioni italiane erano troppo esposte. La guerra italiana del 1917 si riassume quindi in tre grandi offensive, la decima e l'undicesima sull'Isonzo e l'Ortigara. E poi naturalmente la dodicesima battaglia dell'Isonzo: Caporetto. La ripresa dell'offensiva si ebbe in maggio con la "decima battaglia dell'Isonzo" (l'appellativo di battaglia del KukVodice indica uno soltanto dei settori in cui si combatté). Il piano di Cadorna cercava di combinare la battaglia di materiale con un tentativo di manovra. Intendeva anche questa volta utilizzare la superiorità in artiglierie per spianare la via alla fanteria per un primo balzo e poi arrestare l'attacco quando diventava troppo costoso, consumando proietti d'artiglieria per risparmiare le truppe. La manovra doveva venire da un'offensiva in due tempi: la «zona Gorizia» (il comando creato per la battaglia) doveva attaccare verso l'altopiano della Bainsizza, poi cedere parte dei suoi cannoni alla terza armata per un'offensiva sul Carso, con l'obiettivo di forzare le posizioni dell'Ermada (o Hermada) in direzione di Trieste. Il piano fallì per due ragioni. In primo luogo il potenziamento dell'artiglieria italiana rispetto all'anno precedente era controbilanciato dal parallelo incremento dell'artiglieria austriaca e dal rafforzamento delle posizioni nemiche, con grossi lavori e 233

ricoveri in caverna per la protezione delle truppe in trincea e dei rincalzi. Il bombardamento italiano (dal 12 al 14 maggio a nord di Gorizia) aprì quindi delle grosse brecce nel sistema difensivo austriaco, senza riuscire a distruggerlo; l'avanzata delle fanterie fu lenta e presto arrestata dal fuoco dell'artiglieria e dai contrattacchi. Si può osservare che nessun progresso era stato fatto nell'addestramento della fanteria, che attaccava ancora in formazioni compatte come nel 1915; quando non trovava la via spianata dall'artiglieria, poteva soltanto rinnovare assalti frontali sanguinosi quanto scarsamente efficaci. Gli austriaci invece davano un addestramento più curato a una parte della fanteria, le "Sturmtruppen" (truppe d'assalto), utilizzate specialmente per i contrattacchi. I francesi contavano soprattutto su un bombardamento d'artiglieria minuziosamente organizzato, ma il 16 aprile la grande offensiva del generale Nivelle era andata incontro a un clamoroso fallimento. L'altro elemento di crisi fu l'insufficiente controllo della battaglia da parte di Cadorna. La «zona Gorizia» era affidata al generale Capello, già comandante del sesto corpo d'armata che nove mesi prima aveva preso Gorizia (25). Uomo di forte personalità e vivace intelligenza, interessato a ogni possibile progresso dell'efficienza delle truppe, ma inflessibile nel mandarle all'attacco, Capello era considerato da molti il miglior comandante italiano e il possibile successore di Cadorna; questi lo aveva osteggiato per la sua popolarità (26), ma gli aveva poi affidato il comando dell'offensiva a nord di Gorizia. Il 14 maggio le truppe di Capello attaccarono il margine della Bainsizza partendo dalla piccola testa di ponte di Piava e da Gorizia, con risultati inferiori alle aspettative. Due giorni dopo Cadorna avrebbe voluto arrestare l'offensiva divenuta troppo costosa, ma Capello, sicuro del successo, ottenne di continuarla (tenendosi le artiglierie destinate al Carso); riuscì a intaccare le posizioni austriache (conquista delle alture del Kuk e del Vodice), ma non a sfondarle, pur proseguendo gli assalti fino al 28 maggio. L'offensiva della 234

terza armata sul Carso, scattata il 23 senza i cannoni trattenuti da Capello, ebbe un andamento analogo: progressi iniziali ridotti, continuazione degli attacchi a oltranza, conquista di una striscia di territorio, ma non delle posizioni austriache più importanti. La decima battaglia terminò il 31 maggio. In sostanza, era stata una nuova battaglia di logoramento, con molti più uomini e mezzi, ma lo stesso andamento delle battaglie del 1915 e dell'autunno del 1916. Ancora una volta le brigate di fanteria dovettero rinnovare gli attacchi fino al dissanguamento, fermate non più dai reticolati, ma dall'artiglieria austriaca molto rafforzata. L'intenzione di Cadorna di arrestare l'offensiva quando diventava troppo costosa non resse alla prova, per l'ostinazione offensiva di Capello e del duca d'Aosta comandante della terza armata, ma anche perché lo stesso generalissimo non riusciva a sottrarsi alla logica della guerra di logoramento. Le perdite furono pesanti: 112 mila tra morti, feriti e dispersi, contro 76000 austriaci, più gli ammalati (27). In realtà gli austriaci erano andati vicini alla crisi, ma erano riusciti a resistere per l'arrivo di rinforzi dal fronte russo. Poi il 4 giugno sferrarono un contrattacco limitato nella zona di Flondar, per ridare spazio alle posizioni chiave dell'Ermada; colte di sorpresa, le precarie linee italiane furono travolte con perdite notevoli, 22000 uomini, di cui 10000 prigionieri. La voce subito corsa che tre reggimenti avessero ceduto senza combattere era infondata, le truppe si erano battute bene come in tutta l'offensiva, ma lo stesso Cadorna tendeva a scaricare su di esse e sulla propaganda disfattista la responsabilità degli insuccessi. - "La battaglia dell'Ortigara". Se c'è una battaglia che non avrebbe dovuto essere combattuta, è quella dell'Ortigara, per la quale non possono essere addotte le motivazioni politico- militari che dettavano le offensive sull'Isonzo. Dopo la Strafexpedition Cadorna desiderava una rivincita con la riconquista di 235

posizioni più forti di quelle lasciategli dal ripiegamento austriaco del giugno 1916. La preparazione di un'offensiva sul monte Ortigara, che chiudeva a nord il fronte austriaco sull'altopiano d'Asiago prima dello strapiombo sulla Valsugana, fu sospesa alla fine del 1916 per le nevicate e ripresa nella primavera 1917. La direzione era ben scelta, perché la conquista della cresta dell'Ortigara avrebbe aggirato da nord l'intero dispositivo austriaco sull'altopiano, ma prescindeva dalla difficoltà del terreno e dalla forza delle difese austriache. Cadorna non lesinò i mezzi, mettendo a disposizione del generale Ettore Mambretti, comandante della sesta armata dell'altopiano, ben 12 divisioni (circa 300 mila uomini), 500 pezzi medi, 450 leggeri e 550 bombarde, per un fronte d'attacco di 14 chilometri. Qui emerse l'incapacità dei comandi italiani di organizzare una battaglia in montagna, su quote tra i 1000 e i 2000 metri. Una massa d'artiglieria aveva senso sul Carso, dove rovesciava i suoi proietti su una fascia di trincee; ma in montagna il tiro doveva essere mirato e preciso per ogni singolo pezzo, bastava un piccolo scarto perché i proietti cadessero nella valle retrostante. Soltanto il fuoco d'artiglieria poteva distruggere i reticolati, le strette trincee, le molte posizioni in caverna; ma erano necessari un'eccellente organizzazione e un tempo perfetto per l'osservazione e l'aggiustamento dei tiri. L'artiglieria austriaca sparava invece su bersagli prestabiliti, il terreno dinanzi alle linee o le sue stesse posizioni quando cadevano in mano agli italiani, quindi poteva operare anche con la nebbia o di notte. Probabilmente la linea dell'Ortigara era imprendibile, ma per avere qualche speranza di successo occorreva la sorpresa, un'organizzazione minuziosa, poche truppe bene orientate. I comandi italiani invece si limitarono a accumulare truppe e cannoni con tale abbondanza, che dovettero estendere il fronte d'attacco verso sud, fino al monte Rasta a breve distanza da Asiago. L'attacco fu sferrato il 10 giugno con un tempo che volse rapidamente al brutto. Malgrado un grosso 236

bombardamento, le truppe trovarono quasi dappertutto i reticolati intatti e un intenso fuoco di mitragliatrici e artiglieria; i pochi reparti che riuscirono a raggiungere le trincee nemiche furono sopraffatti e respinti. A sera l'offensiva era fallita su quasi tutto il fronte con la perdita di 6750 uomini; soltanto all'estremo nord gli alpini avevano raggiunto la cresta dell'Ortigara. Ai comandi italiani mancò il coraggio morale di riconoscere l'insuccesso e porre fine alle operazioni; le posizioni sulla cresta dell'Ortigara vennero mantenute (e il 15 respinsero un forte contrattacco austriaco), benché fosse caduta la possibilità di una penetrazione in profondità. Poi il 19 giugno fu lanciato un nuovo attacco su tutto il fronte, con risultati nulli, salvo che sull'Ortigara, la cui vetta venne raggiunta dagli alpini. Era una posizione insostenibile, pietrosa e senza ripari, esposta al fuoco dell'artiglieria austriaca, che raggiungeva anche il vallone tra la cresta dell'Ortigara e le linee italiane, attraverso il quale dovevano passare rincalzi e rifornimenti. Inoltre il fallimento dell'offensiva lasciava agli austriaci la possibilità di concentrare le loro forze contro il presidio italiano sull'Ortigara. E infatti il 25 un attacco ben preparato e condotto travolse questo presidio, mentre il 29 cadde l'ultima posizione italiana poco sotto la vetta. La battaglia si chiudeva con un completo insuccesso e 25000 perdite (28000 secondo altri calcoli). Le truppe si erano battute con grande slancio in condizioni avverse, soprattutto i battaglioni alpini che persero metà dei loro uomini; ma i comandi italiani non erano stati all'altezza della situazione. Il Comando supremo ebbe un ruolo passivo: Cadorna concesse truppe, cannoni e fiducia a Mambretti, non ne controllò l'operato, lo silurò dopo la battaglia e, cosa peggiore, trasse l'impressione che, come già sul fronte dell'Isonzo, «la principale causa dell'insuccesso» fosse «il diminuito spirito combattivo di una parte delle truppe per effetto della propaganda sovversiva». Il che dimostra quanto poco conoscesse della guerra che dirigeva. 237

- "L'undicesima battaglia: la Bainsizza". L'undicesima battaglia fu impostata subito dopo la fine della decima. Il problema era sempre lo stesso: non c'erano posizioni decisive da conquistare, dietro una linea di colline ce n'era un'altra, tutto si riduceva a infliggere grandi perdite agli austriaci contenendo le proprie. Per questo era utile realizzare una sorpresa tattica attaccando dove gli austriaci meno se l'aspettavano, perché ciò consentiva un progresso iniziale con perdite limitate. Una sorpresa non era possibile sul Carso, quindi l'attenzione di Cadorna tornò a posarsi sul terreno a nord di Gorizia, in particolare sull'altopiano della Bainsizza. L'altopiano, sui 600-700 metri di altezza, si stende sulla riva sinistra dell'Isonzo, con un terreno ondulato, senza strade né acqua; a nord ha l'altopiano dei Lom, alle spalle di Tolmino, a sud l'altopiano di Tarnova, alle spalle di Gorizia. Nella decima battaglia gli italiani ne avevano conquistato l'accesso a sudovest con il Kuk e il Vodice, dove però li attendevano gli austriaci; per realizzare la sorpresa fu preparato il passaggio a forza dell'Isonzo più a nord. La Bainsizza in sé non costituiva un obiettivo degno di interesse, ma la sua conquista avrebbe permesso di proseguire l'offensiva a nord per far cadere la testa di ponte di Tolmino, oppure a sud, oltre Gorizia, aggirando le posizioni austriache sul Carso. Per l'offensiva Cadorna riunì gran parte delle forze di cui disponeva: 600 battaglioni, 5650 mitragliatrici, 3750 pezzi d'artiglieria, 1900 bombarde, in cifre tonde 1 milione 200 mila uomini. Gli austriaci contrapponevano 250 battaglioni, 2000 mitragliatrici, 1500 pezzi, con la possibilità di ricevere rinforzi da altri fronti. La superiorità italiana in fanterie era quella abituale, all'incirca 10 a 4 dal 1915, non altrettanto forte, ma netta per le mitragliatrici e l'artiglieria. L'undicesima fu una battaglia di logoramento come la decima e quindi non la seguiamo in dettaglio. Vi trovarono conferma sia l'incapacità di Cadorna di tenere in pugno le operazioni, sia l'insufficiente organizzazione della battaglia offensiva. Cadorna intendeva occupare la Bainsizza e poi 238

muovere verso sud, ma Capello, ora alla testa della seconda armata, riteneva più importante la conquista di Tolmino e, approfittando della difficoltà che Cadorna aveva a controllarlo (privo com'era di un comando bene organizzato), non esitò a modificare gli ordini ricevuti, concentrando i suoi sforzi a nord. Il bombardamento delle posizioni austriache iniziò il 17 agosto, il 19 le truppe passarono all'offensiva da Tolmino al mare. Gli attacchi sul Carso avevano lo scopo principale di impedire lo spostamento a nord delle riserve austriache, ma continuarono anche dopo l'ordine di Cadorna di sospenderli, con successi di scarso peso. Sul fronte della seconda armata, il passaggio a forza dell'Isonzo incontrò molte difficoltà, ma al centro il ventiquattresimo corpo del generale Enrico Caviglia raggiunse l'altopiano della Bainsizza e progredì rapidamente; invece di sostenerlo, Capello reiterò gli attacchi verso Tolmino, tutti sanguinosamente falliti. Il 24 gli austriaci ristabilivano una nuova linea di resistenza sul margine meridionale della Bainsizza e fermavano le esauste truppe di Caviglia, mentre Capello si intestardiva ancora contro Tolmino. Poi finalmente vi rinunciava e tentava di riprendere l'offensiva a sud, quando ormai gli austriaci si erano rafforzati. Mentre la battaglia cessava negli altri settori, Capello lanciava una brigata dopo l'altra contro il monte San Gabriele, perno della nuova linea austriaca, fino al 12 settembre, ma otteneva soltanto una nuova serie di pesanti perdite. Il brillante successo ottenuto sulla Bainsizza restava così fine a se stesso, perché l'arretramento della linea austriaca non si estendeva alle posizioni da Gorizia al mare. Non è dato sapere fin dove Caviglia avrebbe potuto spingersi se fosse stato sostenuto a tempo; ma tutto il comportamento di Capello appare negativo, dall'aperta disobbedienza alla ripetizione degli attacchi verso Tolmino e poi sul San Gabriele, tutti falliti. Negativa anche l'azione di Cadorna, incapace di imporre una gestione unitaria della battaglia e di farsi obbedire dai suoi generali; né il generalissimo osava far pagare a Capello la sua disobbedienza, temendo la sua 239

popolarità. Cadorna non poteva attendersi sostegno dal governo che aveva così duramente attaccato, quindi era costretto a subire la crisi della sua autorità, coprendo la disobbedienza di Capello per salvare il posto. Un governo più forte e attento avrebbe dovuto sostituirlo allora, se non prima. La guerra di trincea, abbiamo già detto, rispondeva a una ferrea logica che lasciava poco spazio a miglioramenti. Si deve comunque rilevare come l'esercito italiano nelle battaglie del 1917 puntasse essenzialmente sulla quantità più cannoni e più uomini - senza cercare progressi qualitativi. Nell'undicesima battaglia i cannoni italiani spararono quattro milioni di proietti e le bombarde un altro milione e mezzo: una tempesta di fuoco che inflisse gravi perdite agli austriaci, ma non riuscì a distruggere le loro posizioni fortificate. Per venirne a capo le brigate di fanteria furono mandate all'assalto ancora in formazioni compatte, un'ondata dopo l'altra, sotto il fuoco dell'artiglieria austriaca scaglionata in profondità, con risultati deludenti e gravissime perdite. Se non era possibile ottenere la vittoria di forza, ragionavano i comandi, la si sarebbe ottenuta per logoramento, quando gli austriaci sarebbero stati costretti a cedere non avendo più riserve per prolungare il massacro. Gli altri eserciti stavano cercando nuovi metodi di combattimento con esiti alterni, gli anglofrancesi con una più stretta collaborazione tra artiglieria e fanteria, gli austriaci con una nuova organizzazione dei contrattacchi settoriali (un bombardamento breve e violentissimo, poi l'irruzione di truppe appositamente addestrate), i tedeschi con una riorganizzazione della battaglia difensiva e offensiva su cui torneremo. Sotto questo aspetto l'esercito italiano era in ritardo, i soldati continuavano a ricevere un addestramento insufficiente, i comandi a privilegiare gli attacchi in massa. Non che mancasse l'iniziativa ai minori livelli: abbiamo numerosi esempi di attacchi locali bene organizzati quando i comandi in trincea ne avevano la possibilità; e proprio nell'undicesima battaglia fecero le prime prove i reparti 240

d'assalto, creati nell'ambito della seconda armata. Quando però gli alti comandi decidevano un attacco in forze, come Capello verso Tolmino o sul San Gabriele, tornavano a lanciare una brigata dopo l'altra in assalti poco preparati, senza curarsi delle perdite. Salvo poi dare la colpa dei mancati successi all'insufficiente ardore combattivo delle truppe, da rianimare con repressioni esemplari. Le perdite italiane nell'undicesima battaglia salirono a circa 160 mila uomini, più i malati, quelle austriache a 85000 uomini, più 28000 malati. Era soprattutto la fanteria a essere colpita: con un calcolo approssimativo, 400 dei 600 battaglioni sull'Isonzo persero in pochi giorni da metà a due terzi della loro forza. Analoga sorte toccò alle unità austriache. - "I gas asfissianti". Il 22 aprile 1915 i tedeschi lanciarono a Ypres, nelle Fiandre, il primo attacco di gas: una nuvola di 168 tonnellate di cloro emessa da 6000 bombole e spinta dal vento. Due divisioni francesi fuggirono in disordine, lasciando nelle trincee migliaia di agonizzanti, ma i tedeschi sfruttarono solo parzialmente il successo perché avevano sottovalutato l'effetto del cloro. Nei mesi seguenti i gas asfissianti divennero una componente essenziale della guerra sul fronte occidentale, con la ricerca di tipi sempre più letali; in quantitativi meno ingenti vennero impiegati anche sul fronte italiano e su quello orientale. I gas asfissianti (28) della prima guerra mondiale erano sottoprodotti dell'industria chimica, che in molte lavorazioni disperde nell'aria gas nocivi. Produrre gas asfissianti era quindi abbastanza semplice e rapido; gli scienziati non ebbero difficoltà a metterne a punto tipi diversi per composizione e effetti, né l'industria a fornire i quantitativi richiesti. Senza entrare in dettagli tecnici, citiamo il gruppo dei gas asfissianti veri e propri, che bruciano i polmoni, quello dei lacrimogeni, che attaccano le mucose delle vie respiratorie, e quello dei vescicanti, che 241

producono lesioni sul corpo. Il loro impiego poneva vari problemi, in primo luogo perché soltanto un'alta concentrazione di gas produce effetti mortali (i gas lacrimogeni in piccole dosi sono impiegati da tutte le polizie senza gravi conseguenze); e un'alta concentrazione è difficile da ottenere e mantenere all'aperto. In secondo luogo la difesa contro i gas è relativamente facile, la maschera antigas assicurava una protezione adeguata (anche se era necessario adeguare i filtri ai tipi sempre nuovi di gas) (29). In terzo luogo l'uso delle bombole è molto aleatorio, perché la propagazione dei gas viene a dipendere dalle correnti d'aria, mentre le granate a gas sparate dall'artiglieria ne contengono una quantità limitata e quindi ne occorrono centinaia per saturare una zona. Tutto ciò spiega come l'impiego dei gas avesse effetti terrificanti contro un nemico colto di sorpresa (come il 22 aprile 1915 a Ypres, con il 40 per cento di morti tra i francesi in trincea, e sul fronte italiano il 29 giugno 1916 sul San Michele e il 24 ottobre 1917 nella conca di Plezzo); ma quando l'uso della maschera antigas si generalizza (e la scatola in tela o lamiera con la maschera diventa presto compagna inseparabile di ogni soldato in trincea), le perdite diminuiscono drasticamente (il 2,5 per cento delle truppe attaccate con i gas sul fronte occidentale nel 1918). Si calcola che la Germania impiegò nel conflitto 55000 tonnellate di gas, 26000 la Francia, 14000 la Gran Bretagna, 8000 l'Austria, 6000 l'Italia, con perdite complessive di circa 200 mila intossicati e 10000 morti per i tedeschi, gli inglesi e i francesi, 60000 intossicati e 5000 morti per gli italiani. La Russia invece, che non disponeva di maschere moderne in numero sufficiente, ebbe circa 500 mila intossicati e 56000 morti, benché i tedeschi impiegassero a est assai meno gas che a ovest. Gli effetti dei gas tuttavia non si possono misurare soltanto contando i morti. Nessuna altra arma impiegata nel conflitto suscitò altrettanta paura e angoscia nelle truppe. Le folate di gas arrivavano di sorpresa, con una lieve brezza o in mezzo agli scoppi delle granate, e i tipi più perfezionati 242

erano inodori; respirarne alcune boccate significava la morte o la perdita di pezzi di polmone. Non era possibile indossare la maschera come difesa preventiva, perché la respirazione era così faticosa che dopo mezz'ora diventava insostenibile. I soldati dovevano aspettare il grido di allarme "GAS!" accompagnato dal clangore di ferri battuti, il segnale più usato perché percepibile anche nel fragore della battaglia, e poi indossare la maschera sperando che fosse in buone condizioni e che il nemico non impiegasse un nuovo gas capace di superare i filtri protettivi; e poi continuare a combattere in condizioni menomate, perché la maschera limitava la vista e l'udito, impediva di parlare, costringeva a una respirazione affannosa. Nell'ultima fase del conflitto il tiro a gas dell'artiglieria sulle batterie e sui comandi nemici mirava appunto a seminare terrore e confusione più che a uccidere. I gas come arma atroce, subdola, sleale. Una fama certamente superiore alla loro reale efficacia (non saranno impiegati nella seconda guerra mondiale, benché tutti gli eserciti ne avessero grossi depositi), che risponde a reazioni emotive dei combattenti e dell'opinione pubblica. In una guerra in cui si uccide in molti modi, ora brutali ora sofisticati, i gas non sono più sleali o atroci di altre armi. Tuttavia nel dopoguerra saranno proibiti da accordi internazionali (30), anche se i teorici del bombardamento aereo ne prevederanno l'impiego terroristico sulle città nemiche. E ancora oggi i gas, gli aggressivi chimici sono considerati mezzi micidiali, atroci e sleali, ben al di là dei nuovi perfezionamenti tecnici. Si può pensare che verso questa arma nuova si riversasse la reazione di ripulsa istintiva che non era possibile verso mezzi di guerra legittimati dalla tradizione e dalla diffusione, come l'assai più efficace artiglieria o le baionette (31). * LA GUERRA ITALIANA NEI MARI E NEI CIELI. 243

- "Gli oceani e l'Adriatico". Nei volumi dedicati alla guerra italiana non c'è spazio per la guerra sui mari: poche pagine quasi in appendice o il silenzio. Le grandi offensive e le centinaia di migliaia di morti della guerra di trincea suscitano logicamente più interesse e commozione delle operazioni navali, che appaiono meno drammatiche e meno importanti. In realtà la guerra nei grandi mari ebbe un peso straordinario (anzi determinante, secondo non pochi studiosi) nelle sorti del conflitto, permettendo l'alimentazione della guerra dell'Intesa in viveri, materiali e uomini e sottraendo risorse essenziali alla Germania e all'Austria. Nell'Adriatico si combatté invece una guerra diversa, senza traffico mercantile, con un ruolo certamente minore nelle sorti del conflitto, ma interessante per più aspetti. Negli anni precedenti il conflitto la crescente ostilità tra la Triplice Alleanza e la Gran Bretagna aveva posto la marina italiana in una situazione difficile: le flotte italiane e austriache riunite potevano fronteggiare quella francese, ma non l'alleanza franco- britannica. La convenzione navale firmata il 23 giugno 1913 nell'ambito della Triplice Alleanza garantiva all'Italia l'appoggio della flotta austriaca; ma ciò poteva forse servire a difendere le coste italiane, non certo il traffico mercantile. La consapevolezza che la continuità di questo traffico vitale era nelle mani degli inglesi fu causa non ultima della scelta della neutralità nell'estate 1914. Da questo momento la marina italiana poté dedicarsi a rivendicare il dominio dell'Adriatico. Nel 1914-1915 assisté con molta preoccupazione all'ingresso in questo mare della flotta francese, che per bloccare nei porti quella austriaca vi perse una corazzata e un incrociatore. La decisione dell'intervento fu quindi accolta con sollievo perché faceva della marina italiana la protagonista della guerra nell'Adriatico. Il dominio di questo mare divenne non soltanto il primo obiettivo delle operazioni, ma anche il punto di riferimento della politica e delle aspirazioni della marina italiana, che 244

non ebbe parte diretta nella stipulazione del Patto di Londra del 26 aprile 1915, ma ne approvava pienamente il programma di acquisizioni di territori istriani e dalmati (e lo avrebbe difeso a oltranza nel dopoguerra e poi fino alla seconda guerra mondiale). Non deve sorprendere che questa politica fosse portata avanti senza collegamento con l'esercito, che non aveva interesse per l'acquisizione della Dalmazia di cui avrebbe dovuto assicurare la difesa in condizioni molto difficili, perché marina ed esercito si ignoravano a vicenda e condussero ognuno la sua guerra (come del resto accadeva negli altri paesi). La marina aveva tradizionalmente un ruolo politico più dinamico dell'esercito (non fosse che per i suoi stretti rapporti con l'industria pesante) e legato alla destra nazionalista; e lo spese tutto per assicurarsi il dominio militare e politico, immediato e futuro dell'Adriatico, in piena sintonia con la politica estera di Sonnino. Un attento studioso della guerra navale, Ezio Ferrante, ha notato come ne derivasse uno scarso interesse della marina per una politica mediterranea e coloniale di maggiori e più difficili ambizioni: la partecipazione alla guerra fuori dell'Adriatico si ridusse alla difesa del traffico mercantile nelle acque nazionali e libiche contro i sommergibili, con la rinuncia a intervenire accanto a inglesi e francesi in operazioni di più ampio raggio (32). Il retroterra politico della strategia navale è stato comunque poco studiato, forse perché il «partito adriatico» del dopoguerra non amava ricordare quanto dovesse a Sonnino, che nel nuovo clima dannunziano e poi fascista appariva superato. Con la convenzione navale di Londra del 10 maggio 1915, che impostava la collaborazione tra la flotta italiana e quelle dell'Intesa, la marina italiana chiese e ottenne la piena responsabilità delle operazioni nell'Adriatico e il comando delle unità alleate che vi penetrassero e di quelle non trascurabili che collaboravano al blocco dello stretto d'Otranto. Era il successo politico che chiedeva. Vale la pena di ricordare che la concessione non era grave per gli anglofrancesi, per i quali l'Adriatico era un mare 245

secondario. Questo successo fu difeso con fermezza per tutto il conflitto, anche con il rifiuto italiano di accettare un comando navale unico per il Mediterraneo nel 1918. - "Le operazioni nell'Adriatico". Condurre la guerra nell'Adriatico non era facile. La costa italiana, dalla foce dell'Isonzo al canale d'Otranto, era bassa e uniforme, senza porti naturali; le uniche basi della marina erano Venezia e Brindisi, idonee soltanto per il naviglio leggero, mentre le corazzate dovevano restare a Taranto. La costa austriaca, dall'Istria alle bocche di Cattaro, era invece rocciosa, ricca di porti naturali e protetta da una catena di isole, dietro le quali le navi potevano muovere senza essere avvistate. La flotta austriaca aveva la sua base principale nel munito porto di Pola, ma disponeva di una serie di altri porti sicuri, da cui le navi veloci potevano traversare l'Adriatico in tre ore, bombardare la costa italiana e rientrare prima di essere intercettate. La geografia tornava a vantaggio dell'Italia soltanto allo sbocco del mare: dalle basi pugliesi e dal porto di Valona, occupato già durante la neutralità, si poteva chiudere il canale d'Otranto al traffico di superficie. I problemi che si ponevano all'alto comando della marina (33) si possono riassumere in tre punti: la flotta austriaca da battaglia, la difesa delle coste, lo sbarramento del canale d'Otranto. Abbiamo già detto come le 387 miglia di coste adriatiche italiane fossero esposte agli attacchi austriaci di sorpresa, gravi per le ripercussioni sull'opinione pubblica e il prestigio prima che per gli effetti militari (l'unico obiettivo era la linea ferroviaria, relativamente facile da ripristinare). Fu gradatamente messa a punto una complessa organizzazione con batterie costiere, treni armati di cannoni ogni 60 chilometri, sorveglianza aerea, pattuglie di mas, che rese le incursioni nemiche più difficili e poi impossibili. La flotta austriaca disponeva di 3, poi 4 corazzate moderne, ma non intendeva rischiarle contro la superiorità navale 246

dell'Intesa e quindi già prima dell'intervento italiano le teneva chiuse nel porto di Pola, lasciando al naviglio leggero le azioni di disturbo. Gli italiani disponevano di 4, poi 6 corazzate moderne (durante il conflitto vennero completate quelle già in allestimento, mentre le nuove costruzioni riguardarono il naviglio leggero e i sommergibili), con cui avrebbero volentieri affrontato una battaglia decisiva, ma nulla potevano fare per obbligare gli austriaci a uscire dal porto. Per un anno e mezzo la ricerca della grande battaglia fu l'obiettivo principale del comandante delle forze navali, Luigi di Savoia duca degli Abruzzi, con perdite in mare (due incrociatori e una corazzata di seconda classe) (34) senza risultati concreti, poi nel febbraio 1917 il comando della marina passò all'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, sostenitore di una condotta della guerra più articolata. L'Adriatico era troppo piccolo per l'azione delle corazzate, che correvano grossi rischi contro i sommergibili e gli sbarramenti di mine subacquee senza avere obiettivi degni, visto che le corazzate austriache restavano in porto; si prestava invece all'azione di mezzi piccoli e nuovi. Thaon di Revel diede quindi impulso alla cosiddetta «guerriglia navale», impiegando mas, sommergibili, aviazione, mezzi d'assalto. I mas (motoscafi antisommergibili) erano piccole imbarcazioni veloci, adatte per la navigazione vicino alle coste, armate di due siluri e di bombe di profondità. Ne entrarono in servizio 244, impiegati nel pattugliamento antisommergibili, in agguati dinanzi ai porti nemici, in attacchi di sorpresa. Devono molta della loro fama a D'Annunzio, che li guidò in azioni di sicuro effetto propagandistico come la cosiddetta «beffa di Buccari», ma svolsero soprattutto un grosso lavoro oscuro. Conseguirono anche successi eclatanti come il siluramento della corazzata "Wien" di seconda classe nel porto di Trieste il 10 dicembre 1917 e della corazzata moderna "Szent Istvàn" il 10 giugno 1918 al largo dell'isola Premuda. Il forzamento dei porti austriaci fu perseguito anche con speciali mezzi d'assalto in grado di superare le ostruzioni che ne sbarravano 247

l'ingresso; ricordiamo l'affondamento il primo novembre 1918 nel porto di Pola della corazzata moderna "Viribus Unitis" (ormai passata alla nuova marina iugoslava). Thaon di Revel dedicò molta attenzione anche all'aviazione. Per dare un'idea del suo sviluppo citiamo le missioni effettuate: 261 nel 1915, 858 nel 1916, 4687 nel 1917, 11284 nel 1918. In quest'ultimo anno l'aviazione della marina arrivò a contare 640 aerei (in grande maggioranza idrovolanti) e 19 dirigibili. Dal dettaglio delle missioni del 1918 risulta che aerei e dirigibili erano impiegati soprattutto per la difesa del traffico mercantile (quasi tre quarti dei voli) e per l'esplorazione marittima e soltanto in via subordinata per il bombardamento, la caccia e la scorta. Lo sbarramento del canale d'Otranto, volto inizialmente a impedire l'uscita delle navi mercantili e militari, acquistò crescente importanza con lo sviluppo della guerra sottomarina nel Mediterraneo, condotta soprattutto da sommergibili tedeschi basati a Cattaro (con picchi come l'affondamento di 56 navi nell'aprile 1917 e poi di nuovo nel maggio 1918). Per chiudere il canale ai sommergibili si contava sulle crociere di cacciatorpediniere e la ricognizione di idrovolanti, sugli sbarramenti fissi di mine e reti sorrette da boe, sulla vigilanza di piccole unità munite di idrofoni; nel 1918 partecipavano allo sbarramento navi italiane, francesi, inglesi, statunitensi, giapponesi, australiane. I suoi risultati non furono comunque decisivi, la sconfitta dei sommergibili tedeschi venne dall'organizzazione del traffico mercantile in convogli scortati. Ricordiamo rapidamente altre attività della marina, come il concorso determinante nel trasporto dei resti dell'esercito serbo da Durazzo a Corfù nell'inverno 1915-1916 (e di 23000 prigionieri austriaci alle isole di Lipari e Asinara); la partecipazione alle battaglie di terra con uomini e artiglieria schierati prima nella zona di Monfalcone, poi alla foce del Piave; i trasporti per le forze in Albania e in Macedonia; la protezione contro i sommergibili del traffico costiero nel mare Ligure e nel Tirreno. E il sacrificio della 248

marina mercantile, con 950 mila tonnellate di navi affondate. La marina militare perse 108 mila tonnellate di navi (35), con 3169 morti e 2936 feriti su una forza mobilitata di 68000 uomini. In complesso, la marina italiana fece tutta la sua parte. Non aveva avuto la battaglia di corazzate che sognava, ma aveva reagito bene alla situazione difficile in cui la ponevano la geografia e la passività austriaca, sviluppando con molta inventiva mezzi nuovi e leggeri, adatti alla situazione. Era una scelta imposta dalle circostanze, che sarà rinnegata nel dopoguerra, quando Thaon di Revel, con tutto il prestigio del vincitore, ritornerà a imporre le grandi corazzate come arma decisiva e rinuncerà all'aviazione navale. - "La guerra nei cieli". Ci sono tre chiavi di lettura per le vicende dell'aviazione nella grande guerra: il mito del volo e del pilota, lo sviluppo delle macchine, la ricerca di un'efficacia e di un ruolo bellico della nuova arma. Le macchine volanti erano una novità assoluta, che suscitava stupore ed entusiasmo, che affascinava. Il volo era la realizzazione di un sogno, l'esaltazione della fantasia più sfrenata, il superamento delle leggi della natura; era anche un prodotto straordinario della modernità, del progresso, della tecnologia. Le capacità di suggestione dell'aviazione sono attestate dal suo eccezionale successo nei vent'anni successivi al conflitto quando i grandi raid, la trasvolata di Lindbergh, le crociere di Balbo susciteranno mobilitazioni di massa. Durante la guerra non erano i primati e le grandi imprese a interessare, bastava il semplice volo degli apparecchi. Il soldato del Carso non vedeva per settimane che le pareti della trincea, qualche pezzo di reticolato, qualche metro di fango dinanzi al parapetto; e poi uno spicchio di cielo e un aereo in volo, così leggero ed elegante, così lontano dalla sordida realtà quotidiana. Anche i combattimenti aerei non sembravano 249

guerra, ma mosse di danza; e la scia di fumo di un aereo che cadeva era troppo elegante per far pensare alla morte. L'aviazione fu quindi mito e leggenda, i piloti cavalieri del cielo che conducevano una guerra individuale e fascinosa, dove valevano ancora l'uomo solo e la bravura personale, i codici dell'onore e della generosità. E il simbolo della nuova arma non fu Giulio Douhet (36), che predicava inascoltato le terrificanti capacità distruttive dei bombardamenti aerei, ma D'Annunzio, il poeta che dell'aviazione coglieva e propagandava genialmente gli aspetti di modernità, di coraggio, di cavalleria. I piloti erano combattenti così fuori della norma, che la stampa poteva attribuire loro donne, cavalli e champagne senza suscitare la reazione della massa di combattenti tanto meno fortunati. Nei romanzi d'avventure come in quelli rosa del dopoguerra l'ufficiale pilota prenderà il posto del tenente di cavalleria come simbolo di virilità, fascino e successo mondano. La realtà era meno romantica, il volo comportava rischi altissimi, gli apparecchi erano poco sicuri e i piloti senza paracadute (37), il combattimento aereo crudele, ma anche ben remunerato grazie ai premi corrisposti per ogni abbattimento dai comandi, dai giornali e dalle industrie costruttrici. Il fatto che le industrie distribuissero premi in denaro ai piloti che portavano i loro apparecchi al successo apre uno spiraglio su una realtà contraddittoria. La progettazione degli aerei era affidata a tecnici improvvisati, senza un retroterra di studi ed esperienze scientifiche; e la loro costruzione era condotta con metodi artigianali da ditte spesso senza esperienza (come mobilifici convertiti a una produzione più lucrosa). Le esigenze belliche erano però drammatiche, nel corso del conflitto la produzione passò da pochi esemplari a 540 al mese, quindi grandi commesse e grandi anticipi venivano assegnati senza controlli né garanzie, con risultati quanto mai diversi. I primi Caproni da bombardamento vennero commissionati nel dicembre 1914 a una ditta non ancora costituita che non disponeva di fabbriche, i primi idrovolanti nazionali furono copiati da un 250

apparecchio austriaco catturato intatto; e nel 1917 il ricognitore SIA 7b-1 (Fiat) fu costruito in 500 esemplari e poi radiato perché sottoposto alle sollecitazioni del combattimento aveva la sgradevole tendenza a perdere le ali. La dimostrazione più clamorosa delle incertezze della politica di costruzioni aeronautiche è la vicenda del Caproni 600. Nel 1917 l'aeronautica disponeva di un buon apparecchio da bombardamento, il Caproni 450; ma sotto la spinta di incontrollate ambizioni e illusioni tecniche, politiche e industriali, nel novembre 1917 fu varato un gigantesco programma per la costruzione di un'imponente flotta da bombardamento imperniata su un nuovo e più grande apparecchio, il Caproni 600, ordinato in ben 3500 esemplari da consegnare entro dicembre 1918 benché non fosse ancora collaudato. Il piano fu un fallimento totale, prima dell'armistizio furono costruiti solo 190 Caproni 600, che all'atto pratico rivelarono deficienze così gravi da limitarne l'impiego. La costruzione dei collaudati Caproni 450 era stata sospesa, così nelle battaglie del 1918 l'aeronautica poté contare su una massa da bombardamento ridotta. La produzione di armamenti per l'esercito, abbiamo già notato, presentò un forte sviluppo quantitativo, ma non novità tecniche di rilievo, i cannoni erano gli stessi nel 1914 e nel 1918. Nel campo aeronautico invece tutto doveva essere improvvisato in una situazione di sviluppo tecnologico accelerato, quindi errori e incertezze furono frequenti e gravi, così come gli scandali e le ruberie. Il dato di fondo fu comunque uno straordinario aumento della produzione italiana: 382 apparecchi nel 1915, 1255 nel 1916, 3861 nel 1917, 6488 nel 1918, in totale 12000 apparecchi con 24400 motori (38). Non è possibile calcolare quanti di questi aerei fossero impiegati al fronte, perché una parte rivelava caratteristiche insufficienti e molti erano necessari per le scuole, ma soprattutto perché la vita media di un aereo era di pochi mesi per l'elevata incidenza di guasti e incidenti sufficienti a mettere fuori uso l'apparecchio anche quando non avevano conseguenze per 251

i piloti (si tenga comunque presente che gli aviatori caduti furono 1000 in voli bellici e 750 in addestramento). In termini approssimativi, nell'ultimo anno di guerra l'aviazione dell'esercito disponeva di 1000-1100 apparecchi e quella della marina di 600-700; una valutazione più concreta viene dalla forza effettivamente presente nei giorni della battaglia di Vittorio Veneto, una media di 200 caccia, 200 ricognitori e 50 bombardieri. Che ruolo avevano questi aerei? Il mito esalta soprattutto i piloti da caccia, in realtà il compito essenziale dell'aviazione fu sempre l'esplorazione e l'osservazione del tiro d'artiglieria. La guerra era statica, ma il controllo dei movimenti del nemico era importante e fondamentale la conoscenza del terreno della battaglia attraverso la fotografia aerea, che permetteva di riconoscere posizioni, batterie, distruzioni e progressi (39). La regolazione del tiro d'artiglieria era la base della battaglia di trincea; l'osservazione da punti dominanti era il metodo tradizionale (anche i modesti rilievi del Carso diventavano importanti), ma andava integrata con l'impiego dei palloni frenati (peraltro facile preda dei caccia) e degli aerei, attraverso segnalazioni in volo, lancio di messaggi, fotografie da sviluppare d'urgenza, anche le prime trasmissioni radio. L'efficacia di questa attività non si può misurare, ma i comandi dell'esercito la ritenevano di primaria importanza. Gli apparecchi da ricognizione furono in un primo tempo tipi francesi costruiti su licenza, con una velocità sui 100 chilometri orari o di poco superiore, due- tre ore di autonomia, un equipaggio di due persone (l'osservatore era un ufficiale, il pilota poteva essere un sottufficiale o un soldato), una mitragliatrice e un piccolo carico di bombe. Poi furono adottati apparecchi italiani di prestazioni migliori seppur mai del tutto soddisfacenti, fino al celebre SVA (Ansaldo) dell'ultima fase del conflitto, poco maneggevole, ma veloce e di buona autonomia, protagonista il 9 agosto 1918 del noto volo su Vienna con D'Annunzio. 252

La necessità di impedire l'esplorazione nemica portò rapidamente allo sviluppo degli aerei da caccia, concepiti unicamente per ottenere il dominio dell'aria. L'armamento iniziale era disparato (i primi abbattimenti furono ottenuti con pistole e carabine), poi fu risolto il problema di utilizzare una mitragliatrice che sparava attraverso il disco dell'elica senza colpirla, sincronizzando i due meccanismi. Sul fronte francese la supremazia passò più volte dai tedeschi agli anglofrancesi e viceversa, man mano che entravano in campo aerei di prestazioni più sofisticate. Sul fronte italiano al predominio iniziale austriaco seguì una lunga situazione di sostanziale equilibrio, poi un netto vantaggio italiano nel 1918. I caccia impiegati erano costruiti su licenza francese, il "Bebé" Nieuport, poi gli Spad. VII [7] e XIII [13] e l'Hanriot H. D.1, con motori sui 150 cavalli, velocità di poco inferiore ai 200 chilometri, grande maneggevolezza e una mitragliatrice. Potevano essere impiegati anche per mitragliare le trincee nemiche, ma il loro compito essenziale era appunto la conquista del dominio del cielo sopra il fronte. Il bombardamento italiano ebbe come protagonista il Caproni 450, con tre motori da 150 cavalli, velocità massima di 140 chilometri orari, 4 ore di autonomia e un carico massimo di 450 chili di bombe. In realtà l'efficacia era limitata, perché il volo era soggetto a molte incognite e il lancio delle bombe impreciso. I risultati maggiori in questo campo furono conseguiti dagli austriaci, che sottoposero a ripetuti bombardamenti le città venete e del litorale adriatico, con puntate su Milano (l'11 marzo 1918 un dirigibile tedesco raggiunse Napoli), con un bilancio di alcune centinaia di incursioni e oltre un migliaio di morti. Erano azioni terroristiche che miravano a suscitare paura e insicurezza e obbligarono i comandi italiani a mettere a punto una costosa difesa con punti di avvistamento, batterie antiaeree, mitragliatrici, squadriglie di caccia. Gli italiani non avevano altrettanti obiettivi; bombardarono pesantemente Trieste e Pola con risultati nulli sulle installazioni militari e invece danni alla popolazione. Non 253

più efficace l'azione degli idrovolanti della marina e dei pochi dirigibili, che portavano maggior carico di bombe, ma erano troppo vulnerabili. L'impiego del bombardamento a diretto sostegno delle operazioni fu concentrato sui nodi ferroviari e le retrovie, meno frequentemente sulle linee austriache, con scarsi risultati pratici. In sostanza l'aviazione ebbe una parte secondaria nel conflitto, pur avendo un ruolo brillante e suscitando sia miti fascinosi, sia paura e commozione maggiori dei suoi risultati. L'industria italiana rivelò limiti netti nella progettazione e nella tecnologia, ma riuscì a produrre le migliaia di aerei necessari. Nel dopoguerra i comandi dell'esercito e della marina dimostrarono scarso interesse per lo sviluppo della nuova arma, che invece seppe attirare l'attenzione crescente dell'opinione pubblica e poi imporsi come forza armata con il miglioramento delle sue capacità belliche. * LA GUERRA ITALIANA FUORI D'ITALIA. - "Una guerra di coalizione". Il conflitto mondiale ebbe una duplice natura: le guerre nazionali condotte dagli eserciti contrapposti con milioni di soldati e di morti e lo scontro tra due coalizioni di stati. La dimensione nazionale fu quella dominante per i combattenti, le forze politiche, l'opinione pubblica, i miti e gli obiettivi. Condizionò poi gli assetti postbellici e gli studi - in Italia ancor più che nelle altre nazioni, perché la partecipazione degli alleati alla nostra guerra fu poco evidente e per l'impostazione angusta della nostra politica estera, dal Patto di Londra alle rivendicazioni adriatiche. E tuttavia sarebbe un errore dimenticare o sottovalutare la dimensione internazionale, che fu determinante per la vittoria dell'Intesa. 254

Ne ricordiamo brevemente quattro componenti molto diverse. In primo luogo la mobilitazione ideologica e la propaganda. Come abbiamo già detto, da entrambe le parti la grande guerra fu presentata come uno scontro di civiltà, un conflitto per l'affermazione degli autentici valori liberalnazionali, con la denigrazione sistematica e la demonizzazione del nemico (senza troppi imbarazzi per la presenza della Russia zarista nella coalizione dell'Intesa). Che la dimensione nazionale restasse vincente sui grandi obiettivi di civiltà e pace duratura lo avrebbero dimostrato il trattato di Versailles e le vicende successive. Un aspetto molto più concreto della dimensione internazionale fu il dominio dei mari, che per l'Intesa era strumento essenziale per l'alimentazione della guerra e delle economie nazionali, nonché per il blocco del commercio tedesco. Ne trattiamo in uno dei prossimi capitoli. La dimensione internazionale è poi evidente nel finanziamento della guerra dell'Intesa. Alla vigilia del conflitto le esportazioni italiane, circa 2,2 miliardi di lire, erano inferiori alle importazioni, circa 3,5 miliardi, con un saldo negativo di 1,2 miliardi. Negli anni di guerra le esportazioni aumentarono fino a 3,3 miliardi di lire, ma le importazioni necessarie per la produzione bellica e i consumi interni balzarono a 8,4 miliardi nel 1916,14,0 nel 1917,16,0 nel 1918, con un saldo negativo di 12,7 miliardi in quest'ultimo anno. Lo stesso accadeva per la Francia, che nel 1918 registrava esportazioni per 4,7 miliardi di franchi e importazioni per 22,3, con un saldo negativo di 17,6 miliardi, undici volte maggiore di quello prebellico; e per la Gran Bretagna, che nel 1918 vedeva 501 milioni di sterline di esportazioni e 1285 di importazioni, con un saldo negativo di 784 milioni, circa sei volte maggiore di quello prebellico. In sostanza la guerra dell'Intesa fu resa possibile da uno straordinario aumento delle importazioni, finanziate da un altrettanto straordinario sistema di prestiti internazionali. Nei primi anni il grande banchiere dell'Intesa fu la Gran Bretagna, che prestò circa 7 miliardi 255

di dollari alla Francia, alla Russia, all'Italia, agli altri alleati minori; poi furono gli Stati Uniti a finanziare la guerra dell'Intesa con altri 7 miliardi. Alla fine del conflitto l'Italia era debitrice di quasi 3 miliardi di dollari, per due terzi alla Gran Bretagna e per un terzo agli Stati Uniti (40). Per quanto sommarie, queste cifre bastano a indicare che la guerra era davvero mondiale. Veniamo al quarto e ancora diverso aspetto di questa dimensione mondiale del conflitto: la ricerca di teatri di guerra alternativi a quelli europei. I comandanti degli eserciti impegnati sui tre grandi fronti, occidentale, italoaustriaco e orientale, non avevano dubbi: tutte le risorse disponibili in uomini e mezzi dovevano essere messe a loro disposizione, perché era su questi fronti che si decideva il conflitto. I generali tedeschi e austriaci dovettero distogliere forze minori per coprire il fianco balcanico (nel 1914-1915 contro la Serbia, nel 1916 contro la Romania, poi contro la testa di ponte di Salonicco), anche per l'importanza delle importazioni alimentari da queste regioni. Però poterono sempre concentrare gran parte delle loro forze sui fronti principali, non senza contrasti perché il peso della guerra contro la Russia venne a ricadere sempre più sui tedeschi. E' significativo che costoro accettassero di inviare truppe sul fronte italiano nell'autunno 1917 soltanto per evitare il crollo austriaco e per pochi mesi; la priorità sempre riconosciuta al fronte occidentale impediva loro di pensare a conseguire un più ampio successo sull'Italia. La situazione dell'Intesa era più complessa. Nella seconda guerra mondiale Gran Bretagna e Stati Uniti strinsero una vera alleanza politico-militare, con contatti regolari e consultazioni continue tra i governi, grandi conferenze per la pianificazione strategica, stati maggiori e comandi integrati. Nella prima guerra mondiale invece l'Intesa rimase un'alleanza di tipo ottocentesco, una coalizione di stati che conducevano guerre parallele, unificate dalle esigenze di un conflitto mortale contro lo stesso nemico, ma senza strutture di concertazione. Le conferenze periodiche dei capi di governo e dei comandanti in capo erano 256

consultazioni non impegnative, gli organi di collegamento ebbero sviluppo limitato; il rappresentante di Cadorna presso l'alto comando francese era un generale di brigata con pochi collaboratori, che era tenuto informato delle decisioni strategiche, ma non dei piani operativi e delle difficoltà degli alleati, e a sua volta poteva dare soltanto notizie generali sui piani di Cadorna. Sul fronte occidentale, dove inglesi e francesi combattevano fianco a fianco, non ci furono mai comandi integrati; un comando unico fu creato soltanto nel 1918 e con poteri definiti. Se la guerra sui grandi fronti europei fu in sostanza la somma di guerre parallele, si può capire come l'Intesa non fosse in grado di condurre una guerra comune sugli altri teatri minori. In realtà soltanto la Gran Bretagna condusse una guerra di respiro mondiale per le tradizioni e le esigenze del suo grande impero e perché la guerra sui mari non aveva frontiere. Negli oceani Indiano e Pacifico forze britanniche rimasero a fronteggiare gli sporadici attacchi tedeschi al traffico mercantile e i progressi dell'alleato giapponese, che aveva esteso la sua area di influenza a danno dei possedimenti tedeschi. Forze britanniche furono poi impegnate in Africa contro le colonie tedesche e soprattutto in Medio Oriente con una serie di spedizioni di alterne vicende, al fine di subentrare ai turchi nel controllo di regioni ricche di petrolio. Queste operazioni periferiche avrebbero avuto un peso nello scenario del dopoguerra, ma non incidevano sulla guerra in Europa. Un gruppo ristretto di politici e militari, soprattutto inglesi, sostenevano la necessità di aprire un fronte alternativo, sfruttando il dominio del mare, per colpire gli austro- tedeschi dove erano più deboli; ma l'unico tentativo promettente fu lo sbarco nei Dardanelli nel 1915, il cui successo avrebbe potuto modificare le sorti del conflitto assicurando un flusso regolare di rifornimenti via mare alla Russia. Se non che il forzamento dei Dardanelli naufragò per le rivalità e l'insipienza dei comandanti alleati; ebbero così buon gioco i generali francesi e inglesi che difendevano la priorità del fronte occidentale contro ogni 257

diversione. Il secondo tentativo, la testa di ponte di Salonicco costituita nell'ottobre 1915, non poteva che confermare i limiti di una strategia periferica: il fronte fu aperto senza tener conto della difficoltà di un'avanzata sul terreno montuoso e non fu mai alimentato con convinzione, dato che il suo obiettivo era più la difesa degli interessi balcanici dei franco- britannici che lo sviluppo di una minaccia autentica per gli austro- tedeschi. Nel 1918 contava su 200 mila francesi, 140 mila britannici, 52000 italiani, 120 mila serbi e 135 mila greci, che avevano di fronte quasi mezzo milione di bulgari e poche migliaia di tedeschi e austriaci; la grande offensiva lanciata in settembre giungeva troppo tardi per incidere sulle sorti del conflitto. - "I teatri minori della guerra italiana". Anche la guerra italiana contro l'Austria-Ungheria fu impostata e condotta come parallela alle altre guerre dell'Intesa e ottenne risultati altrettanto deludenti sui teatri minori. Negli incontri periodici di Cadorna o dei suoi rappresentanti con i comandanti anglofrancesi (41), le parti si limitavano a illustrare le loro forze, i maggiori problemi, le deficienze (come l'insufficienza delle artiglierie e delle munizioni) e le offensive in preparazione; ogni volta veniva auspicato un coordinamento di queste offensive che impedisse gli spostamenti delle riserve nemiche, senza che ciò vincolasse realmente le operazioni nazionali. Quando un esercito in difficoltà (come i francesi a Verdun o gli italiani dinanzi alla Strafexpedition) chiedeva agli alleati di lanciare una loro offensiva, la richiesta veniva accolta nella misura che pareva possibile ai comandanti nazionali. Nel gennaio 1917 il primo ministro inglese David Lloyd George suggerì l'invio di grosse forze franco-britanniche in Italia per eliminare l'Austria, ma i suoi stessi generali non presero in considerazione la proposta troppo lontana dalla loro concezione del conflitto; né del resto Cadorna e il governo italiano avrebbero accettato un aiuto così massiccio da 258

mettere in discussione il loro controllo della guerra in Italia. Ci volle il disastro di Caporetto perché arrivasse in Italia un'armata anglofrancese, non così forte comunque da intaccare l'autonomia della guerra italiana. In questo quadro, la presenza di truppe italiane su teatri fuori del territorio nazionale non dipendeva da decisioni interalleate, ma da decisioni puramente nazionali, soprattutto dalla politica estera di Sonnino. Si può notare che Cadorna era contrario a queste presenze, o avrebbe voluto ridurle fortemente, ma il governo, in altre occasioni così debole dinanzi al generalissimo, non ebbe esitazioni nell'imporsi. I teatri in questione sono tre: Libia, Albania, Salonicco (42). L'invasione italiana della Tripolitania e della Cirenaica, poi unificate come Libia (43), fu condotta nel 1911 con grande successo di propaganda e un'assoluta ignoranza dell'ambiente, quindi con una sottovalutazione della resistenza delle popolazioni. La forza di occupazione salì a 100 mila uomini nel 1912-1913 e ne contava circa 60000 nel 1914; non bastava però ad assicurare il controllo dell'interno, perché mancavano truppe, mezzi e metodi adeguati al deserto. Nell'inverno 1914-1915 le truppe italiane e i battaglioni di ascari eritrei che avevano occupato gran parte della Tripolitania, fino al Fezzan, furono travolti dalla riscossa delle tribù seminomadi con una serie di sanguinosi insuccessi, che costarono 2500 morti italiani e 1000 eritrei, oltre a 1500 prigionieri. Il disastro fu tenuto nascosto dalla censura e dai clamori della guerra europea. Autorità politiche e militari convennero che una ripresa offensiva era per il momento esclusa; l'occupazione italiana fu quindi limitata ai porti di Tripoli e Homs in Tripolitania e di Bengasi, Merg, Derna, Cirene e Tobruk in Cirenaica. Il governo riteneva necessaria per questi presìdi circa 60000 uomini; Cadorna (che già nel 1914 aveva chiesto invano il ripiegamento alla costa) si batté energicamente, ma senza successo, per ridurre queste forze, in effetti superiori alle esigenze (le tribù libiche non avevano i mezzi per attaccare posizioni fortificate). Fino al termine del conflitto non si 259

ebbero in Libia combattimenti di qualche rilievo (44). Le operazioni offensive vennero poi riprese alla fine del 1921 e condotte con notevole efficienza e alti costi, fino al completo schiacciamento della resistenza nel 1931 (45). Più complesse le vicende dell'Albania, che era da tempo un obiettivo dell'imperialismo italiano per la sua vicinanza alle coste pugliesi e perché la sua povertà la rendeva poco appetita dalle altre potenze. L'occupazione del porto di Valona a fine dicembre 1914 con un reggimento di bersaglieri rispondeva in primo luogo alle esigenze della marina per lo sbarramento del canale d'Otranto, ma per i sostenitori di una penetrazione nei Balcani si trattava soltanto di un inizio. L'occasione propizia sembrò giungere nell'autunno 1915, quando i resti dell'esercito serbo, con masse di profughi e di prigionieri austriaci, cercarono scampo nell'Albania settentrionale. Cadorna rifiutò energicamente di fornire nuove truppe, ma Sonnino si impose: le forze in Albania furono poste alle dipendenze dirette del governo e aumentate. Fu così possibile procedere all'occupazione del porto di Durazzo e portare in salvo 270 mila serbi e 23000 prigionieri austriaci; ma l'ostilità della popolazione e l'arrivo di truppe austriache provocarono nel febbraio 1916 il ripiegamento italiano e il precipitoso sgombero di Durazzo sotto il fuoco nemico. Nella primavera 1916 l'occupazione italiana (circa un corpo d'armata) era nuovamente limitata alla regione di Valona, poi tornò a espandersi con una serie di piccoli scontri con le forze austriache che presidiavano l'Albania centrosettentrionale, anche per frenare la penetrazione di truppe greche e francesi da Salonicco. L'occupazione italiana rimaneva precaria per la mancanza di saldi appoggi tra la popolazione, la difficoltà del terreno, l'imperversare della malaria. Poi la fine del conflitto, il vuoto di potere apertosi nei Balcani e la politica italiana di espansione adriatica rilanciarono le aspirazioni sull'Albania. Nel 1919 l'occupazione venne estesa a quasi tutto il paese, senza però trovare un sostegno efficace tra le diverse forze albanesi, dilaniate da aspre rivalità, ma concordi nell'ostilità all'Italia. 260

La precarietà della situazione, lo stillicidio di perdite dovute alla guerriglia e soprattutto alla malaria, il mutato clima nazionale, nonché la difficoltà di trovare truppe per operazioni impopolari e sempre più difficili (46), indussero nell'agosto 1920 il governo Giolitti a rinunciare all'Albania. Terminava così un'occupazione ampiamente discutibile sotto tutti i punti di vista (47). Anche la presenza italiana sul fronte di Salonicco portò più delusioni che successi. L'invio di un contingente italiano di 30000 uomini (la 35esima divisione rinforzata) nell'agosto 1916 intendeva soprattutto ricordare che anche l'Italia aveva ambizioni nella regione balcanica. Questa volta Cadorna era favorevole all'invio per difendere il principio della collaborazione interalleata e perché si illudeva sulle possibilità di sviluppo del fronte, mentre Sonnino vedeva con diffidenza un'operazione che avrebbe contribuito a sconvolgere gli equilibri balcanici a danno delle sue ambizioni adriatiche. Nei due anni successivi le truppe italiane si comportarono dignitosamente, ma il fronte non costituì mai una minaccia autentica per l'occupazione austro- tedesca dei Balcani, né la partecipazione italiana ebbe i riconoscimenti che cercava, anche se nel 1918 era salita a 52000 uomini. In complesso una vicenda deludente dal punto di vista politico, che costò 8000 tra morti e feriti sul campo e perdite maggiori per le malattie (ancora la malaria) e i congelamenti (48). In definitiva, i teatri minori della guerra italiana assorbirono forze cospicue (ma difficili da calcolare: alcune centinaia di migliaia di uomini se si tiene conto della loro rotazione) senza incidere affatto sull'esito del conflitto; e non fruttarono guadagni territoriali o altri vantaggi. Sono una riprova della debolezza dell'imperialismo italiano, costretto a puntare su regioni marginali e povere come la Libia e l'Albania, senza la possibilità di competere per altri più ricchi bottini. * APPENDICE. LA FORZA DELL'ESERCITO. 261

Nel corso della guerra furono mobilitati circa sei milioni di italiani su una popolazione di 36 milioni, mentre i francesi chiamati alle armi furono otto milioni su una popolazione di poco superiore, 39/40 milioni. Il fatto è che tutti i dati sulla popolazione italiana del tempo sono resi incerti dalla fortissima emigrazione, circa 15 milioni di uomini e donne nel ventennio che precede la guerra. Non mancano gli studi, bensì statistiche affidabili, non sappiamo quanti di questi 15 milioni fossero emigrati definitivi o temporanei, tanto meno che posizione militare avessero. L'esercito era in grado di fronteggiare le emigrazioni stagionali diffuse in tutto l'arco alpino (i giovani che non erano presenti alla chiamata di leva perché all'estero per lavoro erano dichiarati renitenti, ma subito ricuperati con amnistie quasi automatiche se si presentavano con qualche mese di ritardo), ma non le partenze verso le Americhe o altre destinazioni lontane. In parte avvenivano senza autorizzazione (la Liguria fu per decenni in testa alle statistiche sulla renitenza perché i giovani si imbarcavano prima della visita di leva), ma anche quando gli emigranti partivano con un regolare passaporto ciò non veniva comunicato ai distretti militari. Ancora meno questi erano in grado di sapere quanti degli emigrati rinunciassero alla cittadinanza italiana per integrarsi nelle nuove patrie (grosso modo la metà dei 15 milioni citati). Le cifre allarmistiche su renitenti e disertori siciliani diffuse durante la guerra, anche nelle denunce di Cadorna al governo, erano dovute all'incapacità dei distretti militari di tenere conto dell'emigrazione. Nel 1914 gli italiani all'estero erano circa sei milioni, secondo calcoli approssimativi. Ne rimpatriarono per la guerra 304 mila (di cui 155 mila dalle Americhe) secondo le fonti ufficiali, quelli che passarono attraverso i consolati per avere il viaggio gratuito; sono da aggiungere quelli che rientrarono per conto loro, soprattutto dai paesi europei. La grande maggioranza non rientrò, ma non abbiamo elementi per capirne le ragioni (piena integrazione nei nuovi stati o comunque distacco definitivo dalla madrepatria, timore 262

della guerra o altro) né per calcolare quanti tra costoro fossero maschi tra i 20 e i 45 anni, idonei al servizio militare (due milioni, a titolo di ipotesi). Siamo dinanzi a dinamiche complesse e troppo poco studiate per consentire conclusioni, ci vorrebbero studi difficili, possibili soprattutto su scala locale. Il fatto certo è una notevole riduzione degli italiani mobilitabili (49). Da ricordare che non pochi emigrati si arruolarono nell'esercito francese e in quello statunitense, mentre quelli che nel 1915 erano in Austria e Germania vennero trattenuti a forza. L'altro elemento che incise sulla forza da chiamare alle armi fu il ritardo dello sviluppo italiano, in termini brutali la fame arretrata di gran parte della popolazione. Nei decenni prima del conflitto, circa la metà dei giovani di leva venivano esonerati per insufficienza fisica, da ricondurre quasi sempre alle carenze dell'alimentazione (è documentato che non pochi dei giovani arruolati aumentavano di peso e statura perché nelle caserme si mangiava pane bianco e carne). Durante la guerra le visite mediche furono rifatte con dura severità, ma i riformati per ragioni fisiche rimasero poco meno del 30 per cento. In sostanza, abbiamo cifre dettagliate sugli uomini mobilitati per il conflitto, ma non possiamo rapportarle con precisione al totale della popolazione effettiva, che rimane approssimativo. Non si sono però dubbi sulla severità con cui gli uomini disponibili furono chiamati alle armi, non inferiore a quanto accadeva negli altri stati in guerra. Veniamo ora ai dati essenziali sulla forza dell'esercito, in parte già indicati nelle pagine precedenti. La fonte principale, che non citiamo ogni volta, è il volume "La forza dell'esercito. Statistica dello sforzo militare italiano nella Guerra Mondiale", curato dal col. Fulvio Zugaro per l'Ufficio statistica del ministero Guerra, Roma, 1927. Abbiamo arrotondato le cifre al migliaio. -----------------------------------------------------------Tabella 2. "La forza dell'esercito in alcuni momenti del conflitto". 263

[Armi] Forza totale alle armi: ufficiali (U) - truppa (T) [Esercito] Forza dell'esercito mobilitato: ufficiali (U) truppa (T). 1.7.1915: Armi: U ... - T 1.556.000 / Esercito: U 31.000 - T 1.058.000 1.1.1916: Armi: U 90.000 - T 2.059.000 / Esercito: U 38.000 - T 1.154.000 1.7.1916: Armi: U ... - 2.347.000 / Esercito: U 51.000 - T 1.585.000 1.1.1917: Armi: U 118.000 - T 3.042.000 / Esercito: U 60.000 - T 1.867.000 1.10.1917: Armi: U ... - T 3.103.000 / Esercito: U 79.000 - T 2.352.000 1.1.1918: Armi: U 147.000 - T 2.809.000 / Esercito: U 71.000 - T 1.989.000 1.7.1918: Armi: U ... - T 3.026.000 / Esercito: U 80.000 - T 2.237.000 1.10.1918: Armi: U 186.000 - T 2.941.000 / Esercito: U 84.000 - T 2.207.000 I dati sull'esercito mobilitato comprendono gli uomini al fronte e quelli dislocati nei minori teatri di operazioni fuori d'Italia. I quadrupedi erano 228 mila nel luglio 1915, 374 mila nell'ottobre 1917, 312 mila nell'ottobre 1918, di cui circa 70000 da sella, gli altri da tiro. -----------------------------------------------------------Queste cifre sono dettagliatissime per la forza mobilitata, ma lasciano aperti molti problemi. Non abbiamo praticamente dati sugli uomini rimasti in paese (ossia sul territorio nazionale che non era zona di guerra), oltre un milione in alcuni momenti, che comprendevano le reclute in addestramento e le nuove unità in formazione, i feriti e i malati ospedalizzati, i reparti che tutelavano l'ordine pubblico, l'enorme apparato logistico necessario per 264

alimentare il fronte. Anche le cifre sugli ufficiali sono insufficienti, non sappiamo come fossero distribuiti i molti (oltre la metà) che restavano in paese: alla fine del conflitto c'era un ufficiale ogni 26 soldati al fronte, uno ogni 7 soldati in paese (50). Per chiamare alle armi circa sei milioni di uomini non bastavano il richiamo di quanti avevano prestato il servizio di leva (fino alla classe 1874 compresa) e il gettito delle nuove classi (fino ai nati nel 1900). Le esenzioni concesse in tempo di pace furono eliminate se dovute a motivi di famiglia (ci furono 45000 nuclei famigliari con 4 o più maschi in divisa) o ridotte con la revisione degli esoneri concessi per insufficienza fisica (per esempio il minimo di statura fu abbassato da 154 a 150 centimetri). Nel 1916 furono arruolati 565 mila già riformati delle classi anziane, nel 1917 altri 226 mila. E" difficile calcolare la renitenza. Dopo le vicende tumultuose dell'unificazione nazionale i renitenti erano scesi al 2 per cento (un dato "fisiologicò, dovuto più ai limiti della burocrazia militare che a precisi rifiuti individuali, ormai difficili e costosi), poi la percentuale era risalita intorno al 10 come conseguenza dell'emigrazione. Nelle classi chiamate durante il conflitto la renitenza si aggirò intorno al 12 per cento; secondo Piero Del Negro la causa principale era ancora l'emigrazione, la renitenza vera e propria intesa come rifiuto della guerra si può stimare tra il 2 e il 4 per cento (51). In totale gli uomini chiamati alle armi durante il conflitto furono 5 milioni 903 mila, cui sono da aggiungere circa 200 mila ufficiali (52), che però la nostra fonte non comprende in tutte le elaborazioni successive. Da questo totale vanno tolti 145 mila uomini passati alla marina, 282 mila dispensati per i servizi essenziali e la pubblica amministrazione e 437 mila esonerati a titolo definitivo per le esigenze dell'economia (sappiamo soltanto che 156 mila erano operai, per gli altri mancano notizie precise: dirigenti e quadri dell'industria e dei trasporti, imprenditori agricoli e simili). In sostanza vestirono l'uniforme dell'esercito 5 265

milioni 39 mila uomini, così distinti per provenienza: 48,7 per cento dall'Italia settentrionale, 23,2 dall'Italia centrale, 17,4 dall'Italia meridionale, 10,7 dalle isole (una ripartizione che penalizzava lievemente l'Italia settentrionale e centrale, probabilmente per la maggiore incidenza dell'emigrazione nel sud). Il 32,5 per cento apparteneva alle classi 1874-1885 (rendimento medio 130 mila uomini per le classi 1874-1881, 151 mila per quelle 1882-1885), il 40,7 per cento alle classi 1886-1895 (rendimento medio 205 mila) e il 26,7 per cento alle classi 1896-1900 (rendimento medio 269 mila). Dei 5 milioni 39 mila soldati (circa la metà dei maschi delle classi 1874-1900), 839 mila rimasero in paese (i più anziani, più 166 mila operai assegnati temporaneamente all'industria bellica e un numero imprecisato di imboscati) e 4 milioni 200 mila andarono al fronte (a quelli già al fronte nel maggio 1915 se ne aggiunsero 439 mila entro la fine dello stesso anno, 872 mila nel 1916, 1 milione 239 mila nel 1917 e 461 mila nel 1918). Le perdite gravarono tutte su costoro: con qualche approssimazione, i caduti fino a tutto il 1918 furono 500 mila (compresi circa 100 mila deceduti per malattia), altri 100 mila perirono in prigionia, 50000 morirono nel dopoguerra in conseguenza di ferite e malattie dovute alla guerra. Il totale di 650 mila morti è ragionevolmente sicuro, cifre più alte sembrano gonfiate per ragioni propagandistiche. Mancano invece dati precisi sui feriti (oltre un milione, forse la metà ricuperati per il fronte) e sui congedati per malattia (alcune centinaia di migliaia). Gli invalidi riconosciuti furono 452 mila, la cifra dovrebbe essere esatta perché costoro ricevevano modiche pensioni.

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NOTE AL CAPITOLO 3. 1. Tubi metallici di circa 2 metri, pieni di esplosivo, che venivano trascinati nottetempo fino alle trincee austriache, infilati sotto il filo spinato e fatti esplodere con una miccia. Aprivano una breccia nei reticolati, ma la fanteria poteva attaccare soltanto molte ore dopo, all'alba. Portare avanti i tubi era molto rischioso, i volontari ricevevano piccoli premi in denaro o giorni di licenza. Le pinze tagliafili erano altrettanto pericolose e davano scarsissimi risultati. Dopo il 1915 tubi e pinze furono impiegati sempre meno. 2. I dati si riferiscono alle truppe mobilitate e inviate al fronte e non comprendono le truppe lasciate nelle retrovie e nel paese per il controllo del territorio e dell'ordine pubblico (battaglioni di milizia territoriale composti con classi anziane), nonché la massa crescente di servizi necessari per alimentare il fronte. 3. Le batterie someggiate furono costituite nel 1915 con i vecchi obici da 70 ad affusto rigido e in gran parte destinate al fronte dell'Isonzo per il sostegno ravvicinato delle fanterie. Nel 1916 ebbero in dotazione i pezzi da 65/17, nel 1917 furono trasformate in batterie da montagna (la differenza era soltanto nel numero dei muli). 4. A metà degli anni trenta l'opera era giunta agli avvenimenti dell'estate 1917 e qui si arrestò per oltre trent'anni, perché le responsabilità della sconfitta di Caporetto sollevavano ancora troppe polemiche tra i generali. La pubblicazione della "Relazione ufficiale" fu ripresa alla fine degli anni sessanta. Gli interessanti volumi sulle operazioni del 1918 sono usciti negli anni ottanta per mano del generale Alberto Rovighi. In complesso l'opera conta 37 volumi. Di particolare valore l'apparato cartografico, supporto indispensabile per tutti gli studiosi.

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5. Una buona e articolata analisi in Giorgio Longo, "Le battaglie dimenticate. La fanteria italiana nell'inferno carsico del S. Michele", Bassano del Grappa, Itinera, 2002, con il merito di rivalutare le capacità professionali e morali di non pochi ufficiali superiori, che cercavano di impostare le azioni offensive con elasticità, aderenza al terreno e rispetto delle truppe, spesso senza riuscire a farsi ascoltare dai generali più lontani dal fronte. 6. Nella primavera 1915 i soldati della Casale provengono dai distretti di Novara, Como, Pavia, Ferrara, Massa, Arezzo, Macerata, Campobasso, Benevento, Barletta, Siracusa e Trapani. Al momento della mobilitazione la brigata è completata con richiamati della zona in cui è stanziata, ossia emiliani, ma costoro non bastano a darle una connotazione regionale, perché i complementi che riceverà in seguito saranno tratti dalle più diverse regioni. Lo stesso si può dire per le altre unità dell'esercito, tutte a reclutamento nazionale (tranne gli alpini). 7. Si veda l'ordine di operazioni sul «procedimento metodico» del 6 dicembre della terza armata: «Le operazioni saranno condotte con procedimento metodico, informato cioè ai principi che regolano la guerra d'assedio [...]. L'avanzata metodica dovrà tendere a conseguire risultati che costituiscano naturale preparazione ed avviamento alla futura, vigorosa ripresa offensiva [...]. La pressione sul nemico, per quanto esercitata col minimo indispensabile logorio di forze, deve tendere a mantenere il nemico in continua tensione, essendo di vitale importanza conservare il conseguito predominio morale su di esso [...]. Raccomando infine nuovamente che, nei limiti concessi dalle operazioni, si provveda perché le truppe soffrano il meno possibile per i disagi dipendenti dalla rigidezza della stagione, assicurando loro, nei ricoveri, il modo di ristorare efficacemente le forze».

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8. Non è la prima protesta collettiva di cui abbiamo notizia. L'11 dicembre 1915 il 48esimo reggimento della brigata Ferrara (ridotto a 700 uomini in quattro mesi di trincea) si era ammutinato in modi e per cause simili. In questo caso intervennero i comandanti di divisione e di corpo d'armata, fu convocato un tribunale straordinario e il giorno dopo furono fucilati due soldati. Conf. G. Longo, op. cit., p. 165 segg. 9. Il fronte francese correva da ovest a est attraverso la Champagne, poi a Verdun piegava verso sud. I tedeschi potevano quindi schierare le loro artiglierie su un arco concentrico attorno al saliente di Verdun e dominarne le vie di accesso, tanto che ai francesi rimase una sola strada per l'afflusso dei rifornimenti e delle truppe. 10. I francesi ebbero 4000 tra morti e feriti e 16400 prigionieri. Riportiamo questa cifra perché anche nella prima fase della Strafexpedition austriaca troveremo un alto numero di prigionieri, che non è un indice di cattivo comportamento delle truppe, ma il frutto di un'offensiva ben preparata, ben sostenuta dall'artiglieria e inattesa o sottovalutata. 11. Benché sia difficile riassumere le forze in campo in una sola cifra, nella primavera 1916 i britannici schieravano in Francia un milione di combattenti (due milioni l'anno dopo), mentre i francesi ne avevano in tutto 2 milioni 250 mila, i tedeschi 3 milioni 600 mila, gli italiani stavano raggiungendo il milione e mezzo, gli austriaci avevano poco meno di due milioni di uomini prima dell'offensiva di Brusilov, mentre non disponiamo di un dato sicuro per i russi, che non potevano mettere in campo tutte le loro riserve di uomini per mancanza di armi e materiali. Si tratta di cifre orientative, perché le forze in campo variavano a seconda delle perdite e dell'afflusso di reclute e perché non è facile separare nettamente le forze al fronte da quelle alle loro spalle. 269

12. Gli ufficiali di complemento acquisivano i gradi con un corso di pochi mesi, quelli della milizia territoriale (destinati di massima ai servizi e all'interno del paese) potevano essere nominati anche in base ai titoli di studio e al rango sociale. Poi anche per loro si generalizzò l'obbligo di un breve corso. 13. Il corpo di sanità fu quello che diede più spazio agli ufficiali di complemento, tanto che nel 1918 tra gli ufficiali superiori medici quelli di complemento erano più numerosi di quelli di carriera; tutti i generali del corpo erano però effettivi. 14. La denominazione tradizionale dell'alto comando dell'esercito mobilitato per la guerra era Quartier generale o Gran Quartiere generale, nelle guerre del Risorgimento come negli eserciti della guerra mondiale. Fu Cadorna a volere il termine di Comando supremo per sottolineare la pienezza della sua autorità contro il governo e lo stesso re, che pure era il comandante supremo dell'esercito e della marina. 15. La sostituzione di Brusati, l'8 maggio, era giustificata anche se tardiva. Se non che il governo annunciò il 25 maggio il collocamento a riposo d'autorità di Brusati, senza dire che era stato esonerato prima dell'attacco austriaco, in modo da indicarlo all'opinione pubblica come il responsabile della sconfitta al di là delle sue già gravi responsabilità. 16. In uno di questi attacchi, il 10 luglio sul Monte Corno in Vallarsa, furono catturati Cesare Battisti e Fabio Filzi, trentini che avevano scelto l'Italia, impiccati due giorni dopo come disertori. 17. Perdite durante l'offensiva di Conrad: morti e feriti italiani 34700, austriaci 28000; dispersi italiani 41400, 270

austriaci 2000. Durante la controffensiva successiva: morti e feriti italiani 57400, austriaci 27900; dispersi italiani 14200, austriaci 25000. Da queste cifre traspare sia il grosso successo iniziale dell'offensiva austriaca, con molte unità italiane sopraffatte o sbandate, sia la durezza con cui furono condotti da entrambe le partì i successivi combattimenti. Per la seconda fase, i molti morti e feriti italiani attestano il costo degli attacchi frontali, ma anche della ostinazione con cui gli austriaci difendevano le posizioni; l'alto numero di dispersi austriaci dovrebbe indicare che il ripiegamento di fine giugno non fu sempre condotto in buon ordine, a causa della stanchezza delle truppe e dell'inseguimento pur improvvisato degli italiani. In totale si ebbero 147700 perdite italiane e 82800 austriache, più gli ammalati. 18. Si tratta di dati orientativi, come sempre, perché le varie fonti danno cifre spesso diverse, anche se non di molto, a seconda che tengano conto dei pezzi impegnati sugli obiettivi principali, su tutto il fronte o tenuti in riserva. 19. Nota anche come lanciagranate, lanciamine, lanciatorpedini (traduzioni dei termini stranieri). Da non confondere con i mortai della prima guerra mondiale, grossi pezzi d'artiglieria a tiro curvo molto preciso, da impiegare contro forti e opere blindate. La bombarda ha dato origine ai mortai della seconda guerra mondiale, che hanno lo stesso tubo, ma calibro inferiore (il tipo più diffuso è di 80 millimetri) e come base una piastra metallica facilmente trasportabile. Il ruolo delle bombarde fu decisivo nel 19161917, poi calò con l'incremento delle artiglierie medie, più costose, ma più precise ed efficaci. 20. Luigi Cadorna nacque a Pallanza nel 1850; il padre Raffaele era ufficiale dell'esercito piemontese e poi italiano, noto come comandante delle truppe che presero Roma nel 1870. Ufficiale d'artiglieria, poi di stato maggiore, Cadorna ebbe una carriera regolare e veloce, senza comandi 271

coloniali né incarichi presso il ministero o lo stato maggiore romano. Comandante di divisione nel 1905, nel luglio 1914, quando successe al generale Pollio come capo di stato maggiore dell'esercito, era il primo per grado e anzianità tra i generali italiani. Maresciallo d'Italia nel 1924, morì nel 1928. 21. Per essere precisi, i due maggiori studiosi della guerra italiana, Piero Pieri e Roberto Bencivenga, hanno analizzato con molta cura la difficoltà di Cadorna nel dirigere la battaglia e controllare i suoi generali. Entrambi dedicano invece poca attenzione all'organizzazione tattica della battaglia di trincea, su cui disponiamo di studi settoriali, ma non di un'opera complessiva. Quasi tutti gli studiosi, anche i militari di professione, dedicano più attenzione alla strategia o alle fucilazioni che agli aspetti tattici della guerra. 22. Il lettore può trovare esempi adeguati in opere reperibili come P. Melograni, "Storia politica della Grande Guerra", cit., e Gianni Rocca, "Cadorna", Milano, Mondadori, 1985. Lo studio più serio è di Enzo Forcella, Alberto Monticone, "Plotone d'esecuzione. I processi della prima guerra mondiale", Bari, Laterza, 1968. 23. Il fabbisogno di 100 mila uomini al mese è evidentemente una media che tiene conto delle perdite delle grandi battaglie, dello stillicidio di morti e feriti che le truppe al fronte subivano nelle azioni locali e negli stessi periodi tranquilli, dei malati e convalescenti che le statistiche ufficiali trascurano, degli invalidi che l'esercito era costretto a congedare (soltanto la metà degli ospedalizzati per ferita o malattia tornavano al fronte). 24. In ogni battaglione una delle 4 compagnie fucilieri fu trasformata in compagnia mitragliatrici. Nel 1917 si diffusero anche le pistole mitragliatrici, armi automatiche abbastanza leggere per essere maneggiate e portate da un 272

solo uomo, in modo da aumentare la potenza di fuoco della fanteria negli assalti. Erano però troppo imprecise e consumavano troppo in fretta le munizioni per ottenere la piena fiducia delle truppe. I battaglioni ebbero in dotazione anche 6 lanciatorpedini Bettica, potremmo dire piccole bombarde relativamente mobili. 25. Luigi Capello, nato a Intra nel 1859, ufficiale di fanteria, poi di stato maggiore, comandante di divisione nel 1914, poi del sesto corpo d'armata nel settembre 1915, ebbe il comando della «zona Gorizia» nel marzo 1917, poi della seconda armata nel giugno. Dopo Caporetto tenne per due mesi il comando della quinta armata, poi fu messo a disposizione della Commissione d'inchiesta su Caporetto e nel settembre 1919 collocato a riposo. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista, che passò a combattere quando Mussolini ruppe con la massoneria. Coinvolto in precari tentativi di opposizione attiva, fu arrestato nel 1925 e condannato dal Tribunale speciale a 30 anni di prigione e alla radiazione dall'esercito. Morì nel 1941. 26. Secondo vari studiosi, il contrasto sarebbe stato accentuato dal fatto che Capello era notoriamente massone e Cadorna cattolico praticante. In realtà nell'esercito italiano la divisione tra ufficiali massoni e cattolici rimase un fatto privato senza implicazioni politiche; per gli ufficiali cattolici la lealtà verso il sovrano e lo stato unitario veniva prima della fedeltà al papa. Cadorna sceglieva i comandanti senza preoccuparsi se fossero massoni o cattolici; ciò che lo disturbava erano la popolarità di Capello e i suoi buoni rapporti con la stampa e gli ambienti interventisti. 27. Sul Carso erano schierate anche 10 batterie inglesi di obici da 152. Alla battaglia dell'Ortigara parteciparono 8 cannoni francesi da 320 e 6 da 190. L'undicesima battaglia vide lo schieramento di 64 obici inglesi da 152, 24 cannoni francesi da 155 e 10 grossi mortai francesi. 273

28. Il termine tecnico corretto è aggressivi chimici, perché alcuni sono in realtà liquidi. Però nella prima guerra mondiale si parla sempre di gas e il termine continua a essere largamente usato ancora oggi. 29. Nel 1917 venne introdotta l'iprite, un liquido oleoso altamente tossico che l'esplosione della granata sparata dall'artiglieria trasformava in una nube di goccioline letali, le quali provocavano la morte se respirate, gravi lesioni se penetravano nei corpi, con la capacità di impregnare il terreno per alcuni giorni rendendolo impraticabile. Contro l'iprite non è possibile una difesa, come protezione è necessaria una tuta in gomma completa; l'unico deterrente è il suo forte odore di mostarda. 30. Un trattato internazionale del 1925 proibisce l'uso di armi chimiche e batteriologiche. Firmato subito da 26 stati, tra cui l'Italia, poi in tempi diversi da quasi tutti gli stati (nel 1975 anche dagli Stati Uniti), il trattato è ancora in vigore. E' stato violato a più riprese nelle guerre contro stati arretrati o nella repressione di insurrezioni popolari che non potevano effettuare ritorsioni; il caso più noto sono i bombardamenti all'iprite effettuati dall'aviazione italiana sull'Etiopia nel 1935-1940. 31. In molti musei della guerra italiana erano conservate come prova della barbarie degli austriaci le mazze ferrate che usavano negli assalti, benché sia difficile considerarle più atroci o immorali di una baionetta. Per parte loro gli austriaci condannarono il pugnale degli arditi come arma da rissa tra delinquenti. 32. Conf. Ezio Ferrante, "La grande guerra in Adriatico", Roma, Ufficio storico della marina, 1987; Id., "Il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel', Roma, Rivista marittima, 1989; Id., "Il pensiero strategico navale in Italia", Roma, Rivista marittima, 1988. 274

33. La direzione della marina era divisa tra il ministro, il capo di stato maggiore e il comandante in capo delle forze navali. L'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, capo di stato maggiore dal 1913, diede le dimissioni nell'ottobre 1915 perché non riusciva a imporre la sua politica al comandante delle forze navali, il duca degli Abruzzi; poi nel febbraio 1917 ottenne di cumulare le cariche di capo di stato maggiore e di comandante delle forze navali, divenendo il capo incontrastato della marina. I rapporti tra gli ammiragli e il governo furono sostanzialmente buoni durante tutto il conflitto. 34. Per brevità indichiamo come corazzate di seconda classe quelle costruite nei primi anni del Novecento, inferiori per stazza e armamento alle corazzate più moderne, ma pur sempre temibili. 35. Le perdite maggiori si ebbero nel porto di Taranto, dove saltarono in aria il 27 settembre 1915 la corazzata di seconda classe "Benedetto Brin" e il 2 agosto 1916 la moderna corazzata "Leonardo da Vinci". Le inchieste attribuirono le esplosioni a incendi spontanei nel deposito delle polveri; le voci diffuse che si trattasse di azioni austriache di sabotaggio hanno poi trovato conferma, seppure con una documentazione insufficiente. 36. Giulio Douhet (1869-1930), ufficiale d'artiglieria, sin dal 1910 seppe cogliere le grandi potenzialità dell'aviazione militare, sostenendo l'importanza del dominio dell'aria, la necessità dell'autonomia dell'aeronautica, il ruolo decisivo dei bombardamenti aerei. Viene considerato il maggiore teorico della guerra aerea a livello mondiale, oltre che lo studioso italiano di guerra più noto dopo Machiavelli. Le sue doti profetiche e la brillante vena di polemista non gli facilitarono la carriera; durante la guerra mondiale fu tenuto lontano dall'aviazione combattente. Non abbiamo una sua biografia soddisfacente; si veda Giulio Douhet, "Scritti 1901-1915", a cura di Andrea Curami e Giorgio 275

Rochat, Roma, Ufficio storico dell'aeronautica, 1993, e Patrick Facon, "Le bombardement stratégique", Monaco, Ed. du Rocher, 1995. 37. Il paracadute era in dotazione al personale dei palloni frenati, ma non era usato dai piloti perché era ingombrante e di funzionamento precario e perché un guasto al motore lasciava ragionevoli speranze di un atterraggio di fortuna. 38. E' difficile ripartire questa produzione tra le industrie, perché era pratica diffusa il decentramento delle commesse presso ditte minori. Quattro società (Fiat, Caproni, Macchi, Ansaldo) costruirono quasi metà degli aerei, la Fiat da sola un pò"più di metà dei motori. 39. Le fotocamere erano 22 nel 1915, 391 nel 1918, le lastre utilizzate nel conflitto 120 mila. Nella primavera 1916 fu realizzato il primo rilievo aerofotografico del fronte goriziano, dal Pogdora al San Michele. 40. Gerd Hardach, "La prima guerra mondiale 1914-1918", Milano, Etas libri, 1982, pp. 170 e 176. 41. Cadorna si fece rappresentare dal generale Porro alle conferenze militari che si tennero a Chantilly, presso il quartier generale francese, in luglio e dicembre 1915, in marzo e in novembre 1916. Partecipò invece ai convegni di Parigi, marzo 1916, Roma, gennaio 1917, e Parigi, giugno 1917, che riunivano capi di governo e capi militari. 42. Non ci occupiamo di casi minori, come la presenza di ridotte guarnigioni italiane nel Dodecaneso, in Eritrea e in Somalia. Un caso a parte è l'invio di un corpo d'armata in Francia nel 1918, che tratteremo a tempo debito. 43. Con il nome di Libia i romani indicavano l'Africa settentrionale non egiziana. Il termine fu ripreso dagli italiani per unificare due regioni tradizionalmente distinte, 276

anche se contigue e simili per ambiente e cultura; è stato mantenuto al momento dell'indipendenza del nuovo Stato. 44. L'invio di truppe eritree e libiche sul fronte italiano fu preso in considerazione e subito concordemente escluso. Ci si limitò ad arruolare lavoratori libici per le fabbriche italiane, con un sostanziale fallimento. 45. Per tutte queste vicende si veda Angelo Del Boca, "Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d'amore 1860-1922", RomaBari, Laterza, 1986; Id., "La disfatta di Gasr bu Hàdi. 1915: il colonnello Miani e il più grande disastro dell'Italia coloniale", Milano, Mondadori, 2004. 46. A fine giugno 1920 si ebbero ammutinamenti in un reggimento di bersaglieri che doveva imbarcarsi ad Ancona e in reparti di arditi in navigazione. Per le operazioni del 1920 si veda Mario Montanari, "Le truppe italiane in Albania (anni 1914-1920 e 1939"), Roma, Ufficio storico dell'esercito, 1978. 47. La forza presente in Albania variò considerevolmente nei diversi periodi, fino al culmine di 120 mila uomini alla fine del 1918. I morti e feriti in combattimento fino al 1920 furono circa 3000, molti di più gli ammalati, tra cui ben 85000 malarici. 48. Si veda Ufficio storico dell'esercito, "Relazione ufficiale", cit., vol. 8, "Le operazioni fuori del territorio nazionale. Albania, Macedonia, Medio Oriente", Roma, 1983. 49. Per una prima esplorazione degli archivi dei distretti, una fonte di straordinaria ricchezza e di faticosa consultazione, conf. Giorgio Rochat, Stefania Tormena, "Primi dati sui soldati valdostani nella prima guerra mondiale", Istituto storico della resistenza in valle d'Aosta, 2000. Per la situazione francese, conf. Caroline Douki, "Les 277

émigrés face à la mobilisation militaire de l'Italie", in '14-18 aujourd'hui, today, heutè (Historial de la Grande Guerre de Péronne), n. 5, 2002. 50. Conf. Giorgio Rochat, "Gli ufficiali italiani nella I. G.M.", in Id., "L'esercito italiano in pace e in guerra", Milano, Rara, 1991. 51. Piero Del Negro, "La leva militare in Italia dall'unità alla Grande Guerra", in Id., "Esercito, stato, societa", Bologna, Cappelli, 1979. Distretti militari e carabinieri controllavano saldamente la popolazione sedentaria, ossia la grande maggioranza, ma avevano difficoltà a seguire i processi di inurbamento e l'emigrazione. 52. Non sappiamo quanti degli ufficiali siano già compresi nei totali della truppa; per una parte minore ciò è sicuro, visto che nel 1917 i soldati e sottufficiali che avevano i titoli di studio richiesti per la nomina a ufficiale furono obbligati a conseguirla. ***

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4. GLI UOMINI IN GUERRA. LA TRINCEA. - "Miti e interpretazioni del tempo". "Quando gli ufficiali ci spiegavano le ragioni ideali della nostra guerra e la necessità di schiacciare la barbarie e il militarismo degli Imperi centrali, i soldati ascoltavano con profonda attenzione, ammirando la cultura e l'intelligenza dei superiori: ma non ne capivano niente. [...] Il voler insistere sarebbe stata fatica sprecata: che importava ai soldati saper per quale ragione si faceva la guerra? L'essenziale era questo: bisognava farla, se no... [...] Una volta il Comandante del Nono Corpo d'Armata, che io non nomino per "scaramanzia", domandò a un soldato della mia squadra: - Chi sono gli austriaci? - Eccellenza sì - rispose il soldato. Questa risposta è la definizione di uno stato d'animo" (1). L'espressione dell'"enfant terrible" Kurt Suckert - non ancora Curzio Malaparte - è provocatoria, ma veritiera e senza dubbio efficace. Per la collocazione militare (il testimone stesso è nella rara condizione del soldato semplice, sino all'estate 1917) e per il retroterra politico dell'autore, la sua cronaca romanzata ha poi il pregio di coprire uno spettro assai ampio e solitamente disgiunto di posizioni. Il giovane pratese è infatti entrato come repubblicano, appena diciassettenne, e da volontario in una guerra di cui non ha voluto aspettare l'inizio in Italia, anticipandolo personalmente nella campagna garibaldina in Francia. Proviene dunque dal più minoritario dei partiti popolari, quello che da sempre è abituato a coniugare l'altezza della rappresentanza simbolica con la pochezza dei numeri. L'agonismo e l'antagonismo in cui si intrecciano le tendenze del gruppo politico di riferimento e il suo 279

temperamento personale hanno meno bisogno d'altri di illusioni e correttivi edificanti circa i sentimenti maggioritari dei contadini- soldati, gregge predisposto a seguire la corrente per inclinazione e abitudine alla passività: quella passività che il suo famoso libello del dopoguerra - "Viva Caporetto!" - celebra lacerata per un solo momento e quasi immediatamente ricomposta, per il sormontare vittorioso di pratiche di obbedienza antiche e in assenza di un gruppo di comando alternativo a quello tradizionale momentaneamente impedito. L'ambivalenza precipua dell'autore e di questo suo testo giovanile di rara pregnanza - rispetto alle divaricazioni e agli sviluppi che il primo dopoguerra reca in se stesso in potenza - prospetta gli inveramenti politici opposti a cui potrebbero prestarsi sia la rottura che il ricupero delle attitudini gregarie delle masse rispetto alle élites dominanti. Niente di questo era rintracciabile negli elogi dello spirito gregario o nelle invocazioni al suo ripristino "manu militari", che costellano pochissimi anni prima, in prossimità o già dall'interno degli anni di guerra, le riflessioni sulla vita militare di Boine, o di Agostino Gemelli, o, indirettamente, anche di Croce, oltre a costituire il corredo ideologico di base di tante allocuzioni scritte e parlate di taglio moderato o conservatore. La passività, la disciplina cieca, i benefici automatismi di caserma e di trincea descritti e plauditi come codice comportamentale nei "Discorsi militari" di Boine - autore - e di Prezzolini editore (1914) - o nei "Saggi di psicologia militare" raccolti da Gemelli nel volume del 1917 intitolato a "Il nostro soldato" (2), si collocano e permangono in auge e su itinerari ben più statici e conservatori: dove non ci si pone neppure in via di ipotesi in positivo, e si continua invece a deprecare qualunque forma di attivizzazione delle masse. Ciò che appare inaudito e deprecabile agli uni, cioè che il «proletariato delle trincee» - come lo chiama - accenni a volontà, reazioni, comportamenti attivi e propri, può attrarre invece il giovane Malaparte sia in ciò che nelle sue ambivalenze, fra il 1917 e il 1921, si può dire 280

potenzialmente "fascista", sia in ciò che si può dire potenzialmente "comunista": e comunque "sovversivo" rispetto ai circostanti elogi della passività, della eteronomia e della rassegnazione sociale. E" proprio la rassegnazione, comunque, il concetto che va per la maggiore nel 1915-1918, la griglia interpretativa che matura da lontano, in cui tendono a comporsi le differenze fra triplicisti e intesofili e fra interventisti e neutralisti. L'immagine collettiva che si divulga è quella di un laborioso e paziente esercito "contadino", reso capace di tollerare la fatica della guerra, senza sapere e senza chiedere "perché", anche in rapporto con il primato, asserito e invocato, della subordinazione dei più ai meno. Altre immagini - meno disciplinate dalla cattolica religione del sacrificio e del lavoro, condanna e riscatto a un tempo - vengono sospinte ai bordi: come l'immagine, ancor più animalesca e destituita di razionalità, del bruto eroico, che pure ha una certa circolazione nell'opinione d'anteguerra; o quelle sanguinarie e teppistiche di cui si gloriano gli articoli più esibizionisti di «Lacerba» interventista; o le geometrie avveniristiche di uomini- macchina e di battaglie chimiche, elettriche e di robot pregustate dal modernismo tecnologico dei futuristi. Quella che campeggia come valore centrale e comportamento di massa è la passività; e la rassegnazione alla passività. E nessuno, su questo terreno, ha più titoli di credito dei cattolici, agli occhi delle autorità militari e, "bon gré, mal gré", politiche (si veda il paragrafo "I cappellani"). All'etica della rassegnazione e alle forme minimali e apatiche di "consensò finiscono per piegarsi gli stessi interventisti democratici, ancorché urtino con le loro, più o meno pronunciate, teorie della cittadinanza attiva e consapevole, rimandando alle aporie genetiche del processo di unificazione nazionale e ai nessi arretrati e difettosi fra società e Stato. Salvemini, come gli altri esponenti della sua famiglia culturale e politica, si avvolge in queste contraddizioni, da cui non si può uscire se non in forma "elitista"; e Piero Jahier - il meno lontano fra gli scrittori delle riviste dalla guerra di partecipazione e di 281

valori auspicata da questo settore dell'interventismo scrive le pagine più scadenti di "Con me e con gli alpini" (3) proprio quando è costretto a non mimetizzare il ricorso all'etica della rassegnazione: che viene recuperata - anche dai populisti e contadinisti come lui - quale espediente insostituibile rispetto a una «disciplina di coercizione» (Cadorna) non ancora trasposta in «disciplina di persuasione» (come, secondo il direttore dell'«Astico» e del «Nuovo contadino», avverrà ai tempi di Diaz e del servizio P) (4). In altri termini, la guerra di massa - rivelando la distanza e l'incomunicabilità fra lo stato liberale e le masse contadine - riconferma il mandato sociale della Chiesa e apre la strada, anche in tema di obbedienza, a quella che si può chiamare la supplenza cattolica. Questo trionfo di un concetto d'ordine così minimale com'è una gregaria passività non è fatto per compiacere tutti; e se, a sinistra, coloro che considerano giusta la guerra vi si possono adeguare per realismo - come unico modo per rappresentarsi gli "umili" così come a tutt'oggi in Italia sono, e per stabilire qualche forma di comunicazione con loro - può accadere di imbattersi in dimostrazioni di malumore a destra, fra uomini d'ordine che amerebbero un patriottismo più franco e agguerrito, e una disciplina meno parassitaria. E' di questi Carlo Emilio Gadda, che ha scatti di furore verso l'ideologia e la pratica della passività rassegnata (5). - "La quotidianità". Inestricabilmente connessi, la trincea e l'assalto - lo stare e l'andare, il dentro e il fuori, il luogo di riparo e il luogo senza riparo - sono le forme specifiche della guerra del 19141918, destinate ad affermarsi come strutture permanenti della memoria collettiva fra i popoli e le classi di età coinvolti in quel modo nuovo di fare la guerra. L'Ottocento conosce quelle particolari trincee del popolo che sono le barricate, dietro cui gli insorti cittadini si difendono dagli assalti della cavalleria e dai colpi della 282

polizia. Le avvolge, nel ricordo - con tutte quelle cose di casa e della vita quotidiana sacrificate per erigerle: materassi, mobili, botti, sacchi, carri - un alone di partecipazione corale e di epica civile. Nulla di così colorito e domestico nelle trincee della prima guerra mondiale. Solo i disegni di Achille Beltrame nelle celebri copertine della «Domenica del Corriere» ne generalizzano la profondità, la sicurezza, la costruzione a regola d'arte, che furono solo di alcune e non di prima linea; mentre le altrettanto note tavole di Antonio Rubino - nel più diffuso e curato dei giornali di trincea, «La Tradotta» - le dipingono come microcosmi giocosi, completi di ogni rustico comfort, popolati di una giovane umanità maschile di pupazzetti intenti ai mille compiti e mestieri della vita quotidiana: lavare, lustrare, cucinare, cantare, chiacchierare, scrivere, leggere, suonare, tutto, fuor che ammazzare e farsi ammazzare. Non mancheranno nei decenni successivi - e giungono sino a noi - gli studiosi delle forme di comunicazione di massa che ispirano il proprio giudizio sulla stampa illustrata, il cinema e tutto quell'immaginario d'epoca, oltre che all'intrinseca qualità, al postulato che chi vive una situazione di morte non per questo desidera che gli venga rammentata in un puntuale rispecchiamento; e che, anzi, più gli echi della violenza giungono smorzati, più la favola di un mondo virtuale e parallelo surroga l'esperienza di ogni giorno, e meglio quelle rappresentazioni riescono a svagare e divertire. Si tratta anche di distinguere la natura del mezzo, il genere di pertinenza e l'effettivo destinatario. Una visione edulcorata della condizione dell'uomo in trincea - pensata magari per un destinatario civile - irrita e risulta controproducente se va in mano a coloro che sono personalmente in grado di misurare il divario fra reale e virtuale. All'epoca, infatti, la reazione degli interessati appare improntata a un senso di radicale incomprensione. "Leva un giornale accartocciato, mi s'avvicina, mi dice tutto peritoso: - Signor tenente, ho portato questo per lei. 283

Mentre gli altri continuano a confabulare, do un'occhiata: è un giornale illustrato, pieno di notizie e di fotografie di guerra. C'è una illustrazione in prima pagina che mostra un ricovero da trincea ammobigliato come un salotto, pieno di soldati azzimati che brindano e suonano dei mandolini e delle chitarre attorno ad una tavola pingue. Leggo qua e là chiacchiere ampollose, le allegorie iperboliche con cui qualche fegataccio alla Camera e qualche propagandista nei salotti delle belle signore, rappresenta questa legione di straccioni e di martiri. Butto il giornale con disprezzo. E il foglio passa di mano in mano, tra i pidocchiosi che vegetano con me; osservano, leggono, commentano questo lirismo, che deforma e invilisce il nostro sacrificio. Parlano in crocchio: - Dite su, perché i signori che fanno i giornali non vengono a dare un'occhiata?" (6). La realtà è più grigia e fangosa. Gran parte delle trincee non assomiglia ai prototipi ideali che se ne divulgano, sono molto più approssimative come materiali e come tecnica di costruzione, scavate meno a fondo, più provvisorie e precarie. Dipende dal terreno, roccioso o di terriccio più tenero; da chi, quando e in che condizione le ha scavate, prima dell'inizio delle operazioni o sotto il rischio del fuoco nemico, come parte di un sistema di fortificazioni preordinato in tempo di pace o come punto d'appoggio e riparo in un territorio nuovo, più avanzato o più arretrato rispetto alla linea che il reparto occupava prima dell'ultima azione. Le circostanze portano spesso i contendenti a scambiarsi le parti, prendendo possesso gli italiani di trincee, camminamenti, postazioni e gallerie allestiti dagli austriaci o viceversa. Su questo fronte, più che mai, sono le circostanze della diplomazia e della politica a influire sui tempi e la qualità della preparazione militare. Italia e Austria erano unite da decenni in un'alleanza difensiva. Il sordo sussistere di un contenzioso ideale e territoriale di matrice risorgimentale aveva certo precauzionalmente 284

portato gli uni e gli altri - pur all'interno della Triplice - a costellare di forti in cemento armato, muniti di cannoni di grosso calibro, quote di montagna e sbocchi di valle. La maggior parte delle trincee sono invece il frutto relativamente tardivo e accelerato dell'andamento negativo delle trattative e del peggioramento dei rapporti fra i due paesi fra il 1914 e il 1915, che inducono i comandi austroungarici, negli ultimi mesi prima del maggio 1915, per difendere Gorizia e Trieste, a far scavare a tappe forzate trincee a una manodopera mista di militari e di civili fatti affluire anche da lontano (7). I caratteri fisici dei luoghi, la collocazione della linea del confine, il difetto di uomini poiché il grosso dell'esercito è già impegnato sul fronte orientale - e il fatto che spetterà alla controparte italiana l'onere dell'attacco si sommano nell'assegnare una particolare importanza alle trincee - luogo di attesa e di resistenza - per l'esercito che programma una guerra di difesa. Forse non tutte le trincee austro- ungariche erano così profonde e attrezzate come le fa apparire la propaganda italiana, ma è vero che l'intervento dell'uomo si salda da quella parte alla barriera naturale del Carso e ai bastioni rocciosi delle Dolomiti. E sono gli italiani a dovere avanzare contro la muraglia difensiva eretta dalla natura e dall'uomo. Ben presto i due piani militari e le due condizioni di guerra - quella di attacco e quella di difesa - si riavvicinano sino ad assomigliarsi e, deposte le speranze di una veloce avanzata, anche l'esercito di Cadorna deve attrezzarsi per quella nuova e opaca forma di guerra che è la guerra di posizione, che caratterizza e fa ristagnare i combattimenti su tutti i fronti. E' la guerra di trincea, fatta di immobilità, di posizioni che si fronteggiano e rimangono fisse per settimane o per mesi, da cui i contrapposti reparti si scrutano, alla distanza di poche decine o centinaia di metri, con una "terra di nessuno" in mezzo (8), tenuta sotto controllo dalle vedette appostate alle feritoie e sempre a rischio di essere spazzata dalle mitragliatrici. E' in questo spazio neutro, fra reticolato e reticolato, che gemono a 285

lungo i feriti e rimangono esposti i cadaveri dei precedenti scontri, memento ai vivi. Quando non è giorno di assalto, di che cosa è fatta la vita quotidiana del fante? Anzitutto di costruzione o di manutenzione di quella sua provvisoria dimora a cielo aperto, che le intemperie e il fuoco del nemico non permettono mai di considerare finita: "Quando fu chiaro il carattere sostanzialmente statico delle operazioni belliche, così come l'estrema pericolosità dello stazionamento pressoché all'aperto delle truppe, le posizioni raggiunte nei primi assalti estivi vennero unite e consolidate mediante piccoli scavi, pietrame e cemento, sacchi di terra e altro materiale racimolato nelle vicinanze, come tavole di costruzione, traversine della vicina ferrovia, imposte strappate alle case, ma anche armadi, tavoli e persino i marmi delle chiese e dei cimiteri, fino a costituire un sistema trincerato articolato e profondo, capace di rivaleggiare con (ed a volte superare) il vallo nemico. Uno dei tanti ufficiali memorialisti del conflitto, Leo Pollini, descrive in maniera sinteticamente efficace, nel suo "Le veglie del Carso", la progressiva evoluzione delle trincee italiane: «Da principio furono i sassi e le sporgenze naturali del terreno dietro a cui, dopo la breve follia dell'assalto, gli uomini schiacciarono la testa, schiacciando in bocca la terra rossa [...] Poi arrivò il sacchetto a terra. Chi ha inventato questo amico fedele del combattente, questo alleato sicuro, che sostituisce la pietra e che non lascia vani e che, dove è messo, non si muove più? Le trincee si alzarono e furono più solide. Si tracciarono i camminamenti, prima diritti e senz'arte, da passarci solo la notte, poi defilati e coperti [...] Poi vennero le caverne»" (9). Oltre al lavoro comandato, vivere in trincea richiede anche cure e interventi individuali. Pur sapendo che niente è più provvisorio della vita del soldato e che in qualunque momento un ordine venuto da chissà dove può sbalzarlo 286

altrove, sopravvivere significa anche scavarsi una nicchia, rendere meno estranei e più riconoscibili i luoghi. La memorialistica è fitta di questa microcasistica, fatta di particolari e di modeste forme di ambientazione: un ricovero meno scomodo per dormire, un sasso dietro cui si vede e non si è veduti, una caverna vicina, opportunamente scavata e orientata rispetto al tiro dei cannoni, una ubicazione e dei collegamenti rispetto alle retrovie che favoriscano il regolare arrivo del rancio e della posta: due momenti essenziali della giornata del militare in trincea, che viene scandita, e che prende significato proprio da questi appuntamenti attesi: routine e al tempo stesso interruzione della routine (10). Quando il tiro nemico impedisce l'arrivo dei vivandieri o lo ritarda, facendo arrivare i "tubi" di pasta ancora più gelati e immangiabili, la giornata è ancora più lunga, tediosa e difficile da superare; e diviene tristissima tutte le volte - e sono molte che il mancato arrivo della posta priva il soldato di ciò di cui ha maggiormente bisogno: qualcuno che, scrivendogli, gli dia un nome, lo tenga in collegamento con la vita normale, gli parli del paese e delle cose di casa (11). L'inesausto bisogno di leggere e scrivere lettere - testimoniato dai numerosi reperti di "scrittura popolare" che sono, in anni recenti, diventati una delle fonti privilegiate per la storia sociale della guerra - è il frutto precipuo della guerra come «evento separatore» (12); e - come l'altro storico evento separatore, l'emigrazione, che è anch'essa partenza per un nuovo mondo - costringe una massa illetterata a industriarsi. Chi è troppo irrimediabilmente analfabeta per raspare i suoi insicuri caratteri su un foglio di carta o su una cartolina in franchigia ricorrerà a un compagno meno incolto, al suo tenente o al cappellano. Ma la giornata procede lenta - se è di ordinaria amministrazione e non succede nulla: ma cos'altro deve augurarsi il soldato, se non appunto che non succeda nulla? - ed è lunga da trascinare verso la fine: cioè verso i turbamenti e i rumori sinistri della notte, con il lavorio segreto delle pattuglie, l'ansia dei possibili colpi di mano, 287

l'orrore del sonno traditore e dell'assalto improvviso: per approdare, se tutto va bene, all'alba di un nuovo giorno, destinato a ripetersi uguale. Salvo il mutare delle stagioni. La neve, la pioggia e - non meno terribili da valicare - certe infinite giornate, che non finiscono mai, nella calura di agosto, accanto ai cadaveri sconosciuti e persino troppo noti che si decompongono al sole. La noia, dunque, la monotonia e il non senso, la deprivazione psicologica, l'ottundimento e l'atrofizzarsi dell'"io", sono fra i nemici con cui l'uomo in trincea deve rassegnarsi a convivere. "Da settimane non leggo un giornale. Quassù non si sa nulla, non arriva nulla. Niente notizie, niente posta. Viviamo soltanto della tragica vicenda della guerra che ci seppellisce nello spazio breve di questa putrida trincea". Questa è la voce disperata di Mario Muccini, un ufficiale che nella guerra ci crede (13). Come continua nonostante tutto a crederci Carlo Salsa, il diarista che ha posto le "Trincee" al centro del suo rovello di ufficiale, cui il patriottismo e l'adesione alla guerra non tolgono lucidità di sguardo sulla desolata abiezione di questa vita retrocessa e umiliata. Ecco il suo primo incontro con la trincea che, a un cambio, gli è stata assegnata: "- Tutto il primo plotone insalsicciato in questo budello profondo un metro: guai a chi, durante il giorno, si permetta di allungare uno stinco. Qua, spazio netto, battuto da fucili puntati durante la notte. Poi, buca del comando di compagnia. A destra, altra zona scoperta, trattata come l'altra. Di là fino a noi tane d'appostamento e qualche breve tratto di scavo, protetto da pochi sacchetti di sabbia a terra e da molti morti che ci fanno da riparo. Bisogna farci lo stomaco, ai morti: vedrai, domani, alla luce del sole. Senti che tanfo? (Oh, alla sera - io non so il perché cominci a salire alla sera - questo lezzo ci ammorba e ci sgomenta. Orribile! Oh! Orribile!) Ebbene, anche qui, sotto questi sacchetti, c'è 288

una carcassa di ungherese, conficcata nel fango. Che devo fare? Toglierla? Impossibile. Ci dormo su" (14). Ma padre Gemelli non ci sta. Forte dei suoi studi di professionista della medicina e della psicologia, sovrapposti al suo zelo sacerdotale, l'immagine della trincea e della vita dell'uomo in trincea che egli consegna ai già ricordati "Saggi di psicologia militare" è tutt'affatto diversa. L'"apatia" e l'"anestesia mentale" di cui mostrano di soffrire ufficiali come quelli citati si capovolgono per lui in bene: sono appunto il benefico indotto della trincea, lo spossessamento, l'alienazione, il sentirsi e l'agire come automi, incapaci di autogoverno e disponibili al comando di chi sappia e voglia anche per loro. Per il frate- psicologo nelle grazie del generale Cadorna anche perché questo suo discorso legittima su un piano scientifico ciò che il generale già pensa e auspica di suo - di questa atonia e processo di passivizzazione potranno forse soffrire gli intellettuali, coloro che sono andati alla guerra sulla base di scelte e di valori ora messi in mora dalla scoperta della realtà; ma non i soldati illetterati, non i contadini, che formano il nerbo dell'esercito e non hanno, per fortuna loro e della patria, tutte le attese o i grilli per il capo dei giovani allievi dei licei, né di interventisti, volontari e aspiranti eroi. Sono, dalla vita, predisposti a lasciarsi dirigere dagli altri e a vivere alla giornata. L'oggetto delle sue brame, sentendosi semplicemente - "carne da cannone", non andava dunque lontano dal vero, alla luce degli stessi criteri scientifici. - "L'assalto". Viene, comunque, il giorno che da quelle sordide tane è forza uscire fuori. E' in quelle ultime ore e in quegli estremi momenti di attesa che la trincea - coi suoi modesti ripari di pietra, sacchetti di sabbia e tavole di legno - finisce per assomigliare a un'abitazione, qualche cosa che è diventato a suo modo noto e protettivo e da cui non ci si vorrebbe strappare, compiendo quel gesto innaturale di rizzarsi in 289

piedi, rinunciare a quell'ultima precaria difesa, uscir fuori all'aperto ed esporre il proprio corpo, nudo, ai colpi, avanzando nella terra di nessuno: quella che, nei lunghi giorni di routine delimitava il campo visivo, esponendo i resti terrificanti e pietosi degli assalti precedenti, con l'una o l'altra divisa. Trincea e assalto sono i due poli in tensione dell'esperienza di ogni fante. A quanti assalti si può sopravvivere? Ogni provvisorio abitante di una trincea vive circondato dai morti, cioè dai suoi diretti predecessori, che hanno vissuto e concluso qui una vita esposta e misera come la sua, qualche giorno, settimana o mese prima; e passa parte del suo tempo a interrogarsi se nel suo caso arriverà prima il cambio o l'assalto, il quale - ogni volta che si partecipa a uno - riduce le probabilità di farcela a sopravvivere anche al successivo. La centralità dell'assalto è assoluta nella memorialistica. Si possono pescare situazioni a piene mani, anche se, al solito, i testi editi sono quasi tutti di ufficiali di complemento (15). A distanza di anni e di decenni quei momenti rimangono lucidi e presenti, come fissati in una immobile atemporalità: "Cinque e trenta; una sorsata di cognac. Osservo sul quadrante dell'orologio, la lancetta che procede a una velocità tremenda. [...] - Fuori, ragazzi! Come i primi si scagliano oltre i varchi aperti, il cielo esplode d'improvviso come per lo scatenarsi di una conflagrazione atmosferica. [...] I soldati si buttano sul fondo della trincea, la testa fra le mani. [...] Vedo, alla nostra sinistra, i granatieri che fiottano dai loro ripari come un'emersione d'insetti. Bisogna uscire anche noi, per non lasciare lungo l'ondata d'assalto una lacerazione. - Fuori, fuori! Afferro un soldato, come un fardello. - Signor tenente, mi spari, ma fuori no..." (16). 290

Il tenente Salsa ricorre a mezzi di coercizione meno radicali, lo issa sul bordo della trincea e lo spinge fuori; subito dopo, però, urta dietro il muto rifiuto di uscire all'assalto del reparto delle pistole mitragliatrici, che «rimane abbarbicato alla roccia e non riesce a svellersi» (17). Si rassegna a lasciarcelo e a farne senza, ma, in questo modo, sarebbe lui stesso già passibile per questo di gravi sanzioni. E' importante rilevare che l'autore di "Trincee" è a quel punto un ufficiale ormai esperto, maturato da mesi e mesi di Carso, e certamente un critico aspro della maniera dei comandi di fare e far fare la guerra, ma niente affatto un sordo o un indifferente alle ragioni della guerra. All'inizio della sua iniziazione un altro giovane ufficiale di complemento, il tenente a cui da il cambio nella già citata scena di presentazione della trincea sul San Michele, gli aveva detto di aver provato ad affrontare a tu per tu il maggiore comandante di battaglione che insisteva a ordinare il quarto assalto alla sua compagnia ridotta ormai a cinquanta uomini, dopo altri tre consecutivi e micidiali: "Non ci vedo più: mi precipito, tra un fottìo di pallottole, al comando di battaglione: mi metto a gridare che sarebbe una pazzia, mi sfogo una volta a cantar chiaro. Il maggiore mi lascia terminare, poi mi spiana sotto il naso la sua rivoltella e mi dice tranquillamente: - O lei va all'attacco o io ho il dovere di sparare. E avevo già questa medaglia d'argento sul petto, allora. Che c'era da fare? Uscimmo" (18). Quello che le confidenze fra questi giovani comandanti di compagnia e di plotone, sul Carso, nel 1915, mettono a fuoco, non è la mancanza di buon senso di un singolo comandante, ma la natura sanguinosa e spietata della tattica offensiva di Cadorna, che, dal Comando supremo, discende per gradi sino ai reparti minori: uomini contro macchine, avendo ancora abbondanza di uomini e penuria di macchine, come avviene in particolare nei primi mesi, e andando a urtare contro posizioni munite, sovrastanti e predisposte alla difesa. Di assalti continueranno a 291

essercene anche più avanti; e la situazione riportata da un altro valorosissimo tenente e capitano può confermarne - in altro momento e zona - il carattere di luogo tipico, negazione e rottura inevitabile della guerra statica: "«Pronti per l'assalto», ripeté ancora il capitano. Di tutti i momenti della guerra, quello precedente l'assalto era il più terribile. L'assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra. Le parole del capitano caddero come un colpo di scure. [...] Due soldati si mossero ed io li vidi, uno a fianco dell'altro, aggiustarsi il fucile sotto il mento. Uno si curvò, fece partire il colpo e s'accovacciò su se stesso. L'altro l'imitò e stramazzò accanto al primo. Era codardia, coraggio, pazzia? Il primo era un veterano del Carso" (19). Le battaglie dell'Isonzo - sino alla dodicesima, Caporetto continuano, di "spallata in spallata", nella convinzione strategica che gli assalti in velocità, che non sono riusciti come sperato all'inizio del conflitto, possano essere sostituiti e raggiungere infine l'esito dello sfondamento delle linee austriache con una serie ripetuta e metodica di pressioni in forza. Ma fin da quei sanguinosissimi assalti del 1915 si scava nelle trincee - non solo fra i soldati semplici, ma fra i migliori degli ufficiali di complemento - un senso profondo di diversità e di rancore fra combattenti e comandi, alti e intermedi, che, minando la fiducia e la stima, serpeggerà sino a esplodere in varie forme: "Il reticolato! Il coraggio non può nulla contro questa misera e terribile cosa: la massa non può nulla. Eravamo sprovvisti di tutto: e le ondate s'impigliarono in queste ragnatele di ferro, vi s'infransero come contro scogliere di granito. [...] Carne umana contro la materia bruta [...] quasi tutti i reggimenti vennero pressoché annientati: non si 292

poteva più andare oltre, senza artiglieria sufficiente, senza bombarde, senza nulla. Ma i comandi sembravano impazziti. Avanti! Non si può! Che importa? Avanti lo stesso. Ma ci sono i reticolati intatti! Che ragione! I reticolati si sfondano coi petti o coi denti o con le vanghette. Avanti! Era un'ubriacatura. Coloro che confezionavano gli ordini li spedivano da lontano. Nessun alto ufficiale fu visto mai salire tra noi per rendersi conto, per giudicare. Qualche colonnello, sgomentato dalla strage, cominciò ad opporsi agli ordini che ripetevano come un ritornello: Avanti ad ogni costo! Fu silurato, col motivo che, non nutrendo fiducia nell'esito dell'attacco, non poteva infonderla nei dipendenti. Gli altri, per non deragliare dai binari della carriera che s'annunziava promettente, tacquero, o, peggio, affettarono una fede incrollabile. E facevano proseguire fino a noi, con aggiunte draconiane, ordini pazzeschi di uscire in pieno giorno, all'assalto, contro le difese intatte" (20). A segnalare l'incomunicabilità e radicalizzare il divario fra combattenti e non, valgono anche gli entusiasmi militanti di uomini della cultura come quelli che, con attrezzatura scientifica e in sedi tecniche, riescono a scrivere dell'«entusiasmo lirico per la bellezza dell'assalto» parole di questa fatta: "La vendetta, però, meglio la rappresaglia è possibile soltanto con l'assalto allo scoperto (il grande sogno di tutti i nostri soldati) o con le imprese azzardate. L'annuncio di prepararsi per l'assalto è accolto sempre con gioia anche se si sa che è in quei momenti che le mitragliatrici fanno strage. Che debba essere una pienezza di tutto l'essere, un senso di liberazione piena, anche per l'eventuale sacrifizio che serva ad affermare la conquista, l'arguisco dalla grande passione con cui tutti ne parlano. E' soprattutto per balzare all'assalto che tutti i feriti anelano a ritornare al fronte" (21). 293

Non è un pezzo di colore sulla «Domenica del Corriere» a proposito di soldati particolarissimi quali saranno gli arditi (22). Siamo appena nel 1915, quando si tratta ancora di dare fondamento sperimentale e concettuale alla comprensione di quella inaudita dimensione esistenziale che ha avuto inizio per milioni di uomini in tutta Europa; e chi si dimostra tanto incapace di confrontarsi con la realtà è qualcuno fra i teoricamente meglio piazzati per coglierla, poiché si tratta di un addetto ai lavori quale il direttore del manicomio di Imola, dove cominciano a venir convogliati anche i militari toccati dalla "follià di guerra" (23). - "Disciplina e tribunali militari". Il Codice militare con cui l'Italia entra in guerra è vecchio di oltre mezzo secolo poiché è quello varato nel 1859 per l'esercito del Regno di Sardegna, non dissimile a sua volta da quello -precostituzionale - del 1840. Coevi o appena meno antichi sono del resto i codici in vigore negli eserciti alleati e avversari. Mentre in altri settori la modernizzazione è il frutto obbligato del nuovo tipo di guerra, questo è lungi dall'avvenire in campo giudiziario; anzi, la guerra di massa rende la normativa obsoleta per difetto, e non per eccesso, di apparati e spiriti repressivi. Cadorna usa sino in fondo delle proprie prerogative per irrigidire ulteriormente la già dura normativa, moltiplicare le figure di reato, aggravare le pene. Incalza i giudici dei tribunali militari perché non siano indulgenti e si guardino dall'invocare attenuanti, impone agli ufficiali in linea e ai comandi di reparto forme di giustizia sommaria, sparge fra i sottoposti il terrore di poter apparire lassisti e venire per questo "silurati". L'aspra pedagogia dell'intervento esemplare - che si espanderà sino alla dottrina e alla prassi spietata della decimazione - si ispira al criterio che in guerra l'essenziale non sia individuare e colpire, in un singolo, il colpevole effettivo e provato, ma sanzionare immediatamente agli occhi dei responsabili e di tutti un crimine sociale. Più che mai, in tempo di guerra, preservare 294

l'organismo conta più dei diritti della persona. E' il ragionamento sottinteso alla mancata tutela dei prigionieri di guerra caduti - si sospetta volontariamente o senza aver opposto sufficiente resistenza - nelle mani del nemico, i quali - siano o non siano individualmente colpevoli di essersi arresi - vengono chiamati da Cadorna, così come da Sonnino, a ricoprire comunque un ruolo di dissuasione nei confronti dei loro potenziali imitatori (24). Il nome del ministro degli Esteri vale anche a chiarire come - nei rapporti fra governanti e governati - si sia in presenza di una cultura diffusa, di una politica di intransigenza autoritaria e di una analisi pessimistica del grado di convincimento e di tenuta della società italiana, e non alle inclinazioni di un singolo personaggio. Come confermano il decreto emergenzialista del ministro di Grazia e Giustizia Ettore Sacchi, politicamente un radicale, contro l'indefinita galassia di ciò che appare "disfattismo", firmato il 4 ottobre 1917; e, più ancora, il fatto che l'esercito di Diaz, fra Caporetto e Vittorio Veneto, veda innovazioni in altri settori, ma non in quello della giustizia militare (25). Proprio uno dei suoi due vice, del resto, il generale Gaetano Giardino, quando era ancora ministro della Guerra, si era fatto latore presso il presidente del Consiglio Paolo Boselli dei durissimi "Provvedimenti contro i disertori" prefigurati dal Comando supremo (giugno 1917) (26). La tipologia di reati militari prefigurata all'inizio della guerra dal Codice, e poi infittita e appesantita dagli interventi del Cadorna "legislatorè tramite norme aggiuntive e interventi ammonitori - che fanno anch'essi, in certo modo, "giurisprudenza" - comprende anzitutto il tradimento; la codardia, che prevede la pena di morte per il militare che «in faccia al nemico si sbandi, abbandoni il posto o non faccia la possibile difesa»; l'abbandono di posto e la violata consegna; la diserzione, con tutta una molteplicità di gradi e condizioni tesi al rialzo della gravita del reato e della pena (sino a quando Caporetto, con le proporzioni stesse del fenomeno, costringe anche a relativizzarlo); le diverse varianti dell'insubordinazione 295

individuale e collettiva, fra cui la rivolta armata (che scatta a partire dal numero di quattro militari) o non armata; e l'ammutinamento. La memorialistica - come in un piccolo classico del genere quale il "Diario di un imboscato" di Attilio Frescura - prova quanto sia inesauribile e fantasiosa la casistica dell'uomo in fuga dal rischio quotidiano di morte. L'automutilazione - spararsi su una mano o su un piede, rendersi comunque inabili alle fatiche di guerra - vi appare quasi routine, la forma individuale di rivolta, minimale e apolitica: come la follia, che anch'essa si può sperare di fingere; e come può avvenire per la stessa diserzione, realizzata aspettando l'occasione buona da un numero imprecisabile di prigionieri e di dispersi. "Il Tribunale di guerra ha recentemente condannato a cinque anni di reclusione militare un soldato che è andato per le spicce: si è forato senz'altro il timpano dell'orecchio destro con un chiodo di ferro da cavallo; ed a vent'anni ha condannato un altro che si è spalmato in un occhio la secrezione blenorragica di un compagno. [...] Ma non basta: «[...] le bronchiti sono procurate con protratte inalazioni di fumo, bruciando paglia, fieno, stracci [...]». E ancora: «[...] gli ascessi vengono specialmente prodotti con iniezioni sottocutanee di benzina, petrolio e perfino di materie luride [...]». La legge vigila, scruta, colpisce; il soldato la elude con metodi sempre nuovi, sottili, ingegnosi ed eroici; è una sorda lotta per l'esistenza fra chi vuol costringere l'uomo a morire e l'uomo che si mutila per non morire" (27). Se già fra i contemporanei si mormorava - o si gridava - di imboscati, disertori, sbandati, ammutinati, e di tutte le altre figure e forme di dissociazione dalla guerra, non è poi stato facile ricostruire le cifre della complessa fenomenologia della protesta e della non meno complessa replica operativa delle autorità. Non tutto appare ancora certo (si pensi alla difficoltosa documentazione delle forme di giustizia sommaria, che certo erano contemplate, ma è più difficile 296

affermare in quali circostanze e misura siano state applicate) (28). Gli ordini di grandezza sono stati però determinati. Dalla dichiarazione di guerra all'amnistia concessa dal governo Nitti il 2 settembre 1919, le denunce all'autorità militare assommano a 870 mila, su poco più di 5 milioni di mobilitati. Ben 470 mila di queste corrispondono peraltro a una particolarissima figura di renitenti alla leva, cioè a quella larga parte degli emigrati che non rispondono alla chiamata alle armi (anche se pompato dalla propaganda, è però significativo anche il numero di coloro che tornano in Italia e fanno il militare). La percentuale di denunziati ascende dunque al 6 per cento, cifra sicuramente impressionante, ma suscettibile di interpretazioni diverse (29). Si è calcolato che uno su dodici, fra soldati e ufficiali, venga incriminato per una qualche forma di reato nel corso del 1915-1918. Il 60 per cento di quelle denunce si traduce in condanna (30). Frutto dell'esperienza concreta è la decisione di rimandare a dopo la guerra l'effettiva espiazione delle pene detentive di qualche anno: troppo chiaro parlavano le esplosioni di gioia di certi condannati, all'idea di poter scambiare la sicurezza della vita con pochi anni di carcere (31). Seguendo la parabola di uno dei reati più gravi, la diserzione, si può inoltre registrarne la netta curva ascensionale: 8000 casi fra il 1915 e il 1916, nel primo anno di guerra, che salgono a 25000 nel secondo, mentre il 1917 - anno cruciale della protesta sociale nei paesi e negli eserciti di tutta Europa - vede già raggiunta la cifra di 22000 nei mesi che precedono Caporetto (32). Quanto alla natura di tali diserzioni essa appare assai varia: intanto, solo un'esigua minoranza conduce il militare verso le file del nemico, non è il caso dunque di generalizzare in quel gesto di separazione forme di simpatia all'Austria o di internazionalismo. Dalle carte processuali risulta che ai circa 3000 disertori verso le linee nemiche si affiancano gli oltre 150 mila che si avviano, semplicemente, verso casa o che, ancora più spesso, vengono dichiarati disertori perché - facendolo apposta o no - ritardano di qualche giorno o di 297

qualche ora il loro rientro ai reparti al ritorno da una licenza. In questi casi, che costituiscono a quanto risulta la maggioranza, più che di dissenso dei soldati è forse il caso di parlare di scarsa elasticità o di sordità sociale dei comandi ai bisogni e ai tempi di un esercito contadino. Non per niente una delle novità introdotte dalla gestione Diaz riguarderà proprio le licenze, in particolare quelle agricole, che restituiscono il contadino-soldato al suo mondo nei momenti cruciali del ciclo lavorativo; mentre Cadorna le aborriva, proprio in quanto ricucivano i legami fra due mondi differenti, uno dei quali - quello della guerra, della cui integrità e assolutezza intendeva essere lui il solo e geloso custode - basato su una drastica separazione dall'altro. Fra i punti più rappresentativi della drammatizzazione del rapporto militare in chiave di aggravamento repressivo della normativa, si ricordano due circolari del Comando supremo: la n. 3525, del 28 settembre 1915, quando la guerra è ancor giovane, ma si vanno già spegnendo le illusioni di una rapida avanzata su Vienna; e un'altra, del primo novembre 1916. "Deve ogni soldato esser certo di trovare, all'occorrenza, nel superiore il fratello o il padre, ma anche deve esser convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi [...] Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato da quello dell'ufficiale" (33). Ed eccone lo svolgimento ulteriore tredici mesi dopo, a interpretazione e rilancio sul piano dei princìpi di un episodio concreto di due fucilazioni per sorteggio e di altre fucilazioni sommarie avvenute il 30 e il 31 ottobre: 298

"ricordo che non vi è altro mezzo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli, e allorché accertamento identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte. A codesto dovere nessuno, che sia conscio della necessità di una ferrea disciplina in guerra può sottrarsi e io ne faccio obbligo assoluto e indeclinabile a tutti i comandanti" (34). Il numero di condanne a morte comminate e di quelle poi effettivamente eseguite che esce dalla somma del codice e di circolari come queste, dei tribunali militari e della giustizia sommaria, non si può dire certo. Si sono calcolate circa 4000 condanne a morte comminate dai tribunali, quasi 3000 delle quali in contumacia, e - delle rimanenti - 750 eseguite, 311 non eseguite (35). Vanno aggiunte le decimazioni e fucilazioni sul campo, circa 300 (36). - "La fuga individuale". L'ideologia della rassegnazione non domina incontrastata come codice d'epoca della condizione militare. Anzitutto urta nelle resistenze di tutti coloro che in chiave politica da sinistra o da destra - tenderebbero a non accontentarsi di mutuare i comportamenti della società militare dai presunti comportamenti di una società contadina a sua volta riassunta e schematizzata in un modello statico e tradizionalista. Non mancano poi gli elementi di contraddizione che scaturiscono dall'esperienza reale. Contro l'ottimismo di chi attribuisce alla vita di trincea la capacità di rigenerarsi, producendo essa stessa meccanismi di assuefazione e di adattamento, stanno le cifre altissime del disadattamento che spingono moltitudini di malati e di folli sotto le cure dei medici militari. Proprio questo - gli uomini in fuga dalla guerra attraverso la via stretta del rifugio in qualche forma di anomalia - è diventato in anni recenti uno dei temi che maggiormente attirano la storia 299

sociale della Grande Guerra (37). In un libro nato a ridosso della guerra russo- giapponese, ma che la guerra europea rilancia facendone un caso internazionale - "Il riso rosso", dello scrittore russo Leonid Andreev (tradotto in italiano nel 1915) (38), il personaggio di un medico, lui stesso pazzo, si propone di andare in giro proclamando «pazza la nostra patria; pazzi i nostri nemici; pazzi tutti coloro che non hanno ancora perduta la ragione» (39). Anche questa - il successo del volume sembra dimostrarlo - può essere una maniera per inquadrare e per reagire alla incomparabilità dell'evento, in una guerra trasformata dalla mitragliatrice: rispondere alla caduta dei significati, rifugiandosi nel non senso. Rinunciare a inseguire l'assurdo della guerra disindividualizzata, tentando ancora di sottometterla ai valori, e ripiegare senz'altro nell'assurdo. E' il contrario di quanto ancora si affannano a fare gli addetti ai valori, religiosi o laici, compresi quei minimalisti che sono i nostalgici cantori della rassegnazione contadina. Ma che cosa vuol dire, esattamente, esser "folli"? Gli studiosi odierni - accanto alle cifre presuntive delle diverse fattispecie medico-psichiatriche - si sono trovati di fronte a un vero e proprio conflitto interpretativo, perdurante lungo l'intera guerra, nella definizione teorica di una tanto sfuggente e particolare "malattià, sul quale pesano più che mai, per un verso, inframmettenze, eccessi, gesti e comportamenti recitati, simulazioni vere e proprie, e per l'altro verso le diverse scuole mediche. Dietro ciascun operatore medico c'è questa o quella formazione e questo o quell'itinerario tecnico- scientifico, che comportano, all'epoca, una grande divaricazione di linguaggi, diagnosi, terapie. Si aggiungono il sospetto diffuso della simulazione e le pressioni dei comandi - sui medici, come sui giudici perché non si lascino abbindolare da questa forma di diserzione mascherata di chi "e" o forse "fà" il "matto". Vi sono alienisti - come un capitano medico che lavora e scrive un saggio nel 1917 sopra un campione di trenta imputati di diserzione ricoverati nell'ospedale psichiatrico di Mombello - che danno chiaramente il senso di 300

considerare un territorio di frontiera di ardua distinzione quello che comprende folli e disertori; non è evidentemente la sua personale specializzazione, ma tutta una concezione culturale del "normale" e dell'"anormale", che lo porta ad affermare la necessità che «ogni caso di diserzione venga studiato alla stregua dei moderni concetti psicopatologici» (40). «La diserzione, dunque, come malattia» (41): c'è forse altrettanta chiusura politica che umana pietà in questa medicalizzazione della diserzione, tesa a escluderne in linea di massima una matrice politica volitiva. Al di là dei pregiudizi e dei quadri concettuali in cui vengono accolti e trovano spiegazione gli inediti dati sui comportamenti militari di massa: "Le testimonianze medico-psichiatriche sono piene di riferimenti a figure ai limiti dell'umano, colte a vagabondare senza sapere perché, attonite, sudicie, con l'abbigliamento lacero o nude: sono i reduci o meglio i transfughi della terra di nessuno, coloro che hanno cercato una fuga senza scampo dal territorio della guerra, vagando per ore, spesso per giorni" (42). Lo studioso della follia di guerra che è anche studioso dell'emigrazione ha buon gioco nel cogliere la doppia analogia che si profila sia nella figura del marginale, vagabondo e migrante che esce dai ranghi della società stabile in tempo di pace e in quella similare che sfugge ai vincoli della trincea; sia nella diffidenza e ostilità dei normali o normalizzati - di fronte a quelle varianti di nomadismo - tanto in pace che in guerra (43). I nuovi studi sulla prima guerra mondiale come laboratorio del moderno, in cui per milioni di uomini si ripete l'impatto traumatico con la meccanizzazione e la serializzazione della vita e della morte militari, sono popolati dal ripetersi, anch'esso in serie, di questo nuovo, penoso manifesto del disadattamento che è «la figura del soldato impazzito, smemorato, ammutolito, che non riconosce gli altri ed è divenuto irriconoscibile, travolto da una radicale 301

metamorfosi» (44). E' un fenomeno che investe tutti gli eserciti. In quello italiano si possono calcolare in circa 40000 i militari che entrano, con ritmo crescente, negli ospedali psichiatrici della zona di guerra (45). I sondaggi sin qui svolti indicano che - al di là di come poi si evolvono i singoli casi - i contadini "impazziscono" meno degli operai e gli ufficiali un po’ più dei soldati (46). Le manifestazioni di "follia" che si ripropongono negli ufficiali - «depressi, ansiosi, insonni, deliranti» (47) - suggeriscono che esse possano anche essere ricondotte al loro ruolo specifico, che fa loro obbligo di condurre al fuoco i sottoposti, caricandoli così di inusitate responsabilità di vita e di morte (48). Tenendo conto dei due dati - chi si dimostra più e chi, relativamente, meno sensibile ai traumi della trincea - si potrebbe riandare a ciò che costituisce uno degli assiomi degli esperimenti di quella complessa figura che è Gemelli (medico, psicologo, frate, consigliere del Comando supremo): e cioè che la misura dell'adattamento alle restrizioni della vita in trincea sia inversamente proporzionale alla raffinatezza dell'individuo. Il giovane intellettuale, pieno di motivazioni e di attese, soffre di quell'inevitabile ottundimento e processo di brutalizzazione maggiormente di chi sia in partenza meno sensibile e più rozzo o, diciamolo pure, più vicino al bruto, per conto suo (49). Per quanto gli studi vadano evidenziando all'epoca - come si è detto - un ventaglio di posizioni alquanto differenziato nel trattamento della follia di guerra, almeno alcuni punti appaiono comuni. Anzitutto è molto forte, a priori, il sospetto della simulazione, che, se scoperta, viene perseguita come un reato, alla maniera in cui sono simulazioni e reati le varie forme di automutilazione, alle mani, ai piedi, agli occhi eccetera, che colpiscono il fisico in luogo del comportamento. Il simulatore, comunque, viene restituito a quella vita esposta ai pericoli da cui aveva cercato di fuggire. Ma anche chi simulatore non è e viene riconosciuto come un ammalato, subisce sì un altro trattamento, non viene sottoposto a processo, ma alle 302

dovute cure, e tuttavia l'obiettivo perseguito dagli apparati di potere è analogo: operare un rapido intervento di manutenzione su quel materiale umano logoro o scadente e rimandarlo appena possibile al fronte. Con tutta la labilità di confini fra salute e malattia che è propria delle malattie mentali, come d'altra parte avviene spesso che si accelerino oltremodo le "guarigioni" e la restituzione alle fatiche di guerra anche in caso di più concrete e riconoscibili ferite e malattie del corpo. * LA GUERRA SENZ'ARMI. - "I cappellani". Il Regno d'Italia, diversamente dal Regno di Sardegna, non prevede cappellani militari. Questa orgogliosa scelta ormai semisecolare di laicità viene con repentino pragmatismo messa da parte nelle immediate prossimità della guerra. L'iniziativa - in questa inversione di politica culturale e delle strategie di approccio alle masse popolari - è dei vertici militari, e affidata al basso profilo di una circolare di Cadorna del 12 aprile che sia il governo, sia il Vaticano non tardano ad assecondare. Il piano del capo dell'esercito uomo di cultura cattolica, che aprirà il Comando supremo all'invadenza di personaggi come il barnabita Giovanni Semeria e il francescano Gemelli - è di dotare ogni reggimento delle varie armi e corpi di un cappellano (50). E' una ripresa in grande dell'esperienza già fatta durante la guerra di Libia, quando una ventina di cappellani seguono le truppe in Africa e assai di più avevano fatto domanda per farlo, fra il tripudio delle gerarchie ecclesiastiche che misurano la differenza dalle arcigne separatezze anticlericali della prima guerra d'Africa. Da quei tempi di contrapposizione fra Stato e Chiesa, il clerico-moderatismo e il "nazionalismo cattolico" (51) hanno fatto lunghi passi avanti. Il conflitto europeo è l'occasione per farne altri 303

decisivi, nel ritorno della Chiesa all'Italia e dell'Italia alla Chiesa, esaltando la reciproca convenienza e volontà di incontro. La barocca, grandeggiante pretesa gemelliana, attuata ai primi del 1917, previa autorizzazione del papa, di consacrare massivamente divisioni e brigate al Sacro Cuore di Gesù - consegnando milioni di bandierine tricolori con al centro l'immagine del Sacro Cuore - sarà meno di due anni dopo il segnale più esteriore e vistoso di una riconquista a lungo sognata (52). Le tappe principali sono queste. Un decreto del 27 giugno 1915 istituisce la figura del vescovo di campo, equiparandolo come grado a un maggiore generale, mentre ai cappellani spetta quello di tenente. Monsignor Angelo Bartolomasi - coadiuvato da tre vicari con il grado di maggiori - eserciterà questo specialissimo ruolo di comando e di cerniera nell'ambito di una duplice catena gerarchica, per l'intero arco del conflitto. Il motto d'ordine che riassume la dedizione patriottica con cui lo esercita - testimoniato da coloro che assistono alle sue omelie tenute di fronte a migliaia e migliaia di militari in armi - è riassumibile nel non ancora fascista «Dio- Patria- Famiglia»; questo non gli impedisce di allontanare non pochi dei circa 700 cappellani già assunti per scelta e con i criteri delle autorità militari nel periodo precedente la sua nomina, a seguito della quale spetta unicamente a lui, come vescovo da campo, selezionare le sovrabbondanti richieste ed effettuare le nomine. Si tratta di dare un cappellano a ogni reggimento di fanti, granatieri, bersaglieri, artiglieri da campagna e a ogni battaglione di alpini (53). Molti dei quasi 25000 ecclesiastici arruolati ambivano a essere fra i prescelti, per un cumulo di motivazioni fra le quali non mancano certo la sollecitudine religiosa, l'orrore cristiano per l'obbligo di portare le armi e di uccidere, l'imbarazzo per certe forzate convivenze, ma trapela talvolta anche l'umana speranza di nobilmente "imboscarsi". Secondo le stime della Santa Sede il numero dei cappellani nominati durante il 1915-1918 ascende a 2400. Oltre a quelli cattolici, esistono i nove pastori valdesi destinati a prestare assistenza religiosa ai 3304

4000 confratelli, un cappellano metodista e diversi rabbini. Se dunque lo stato liberale non è più così laico e autosufficiente come ha cercato di esserlo nel primo cinquantennio di vita, il riconoscimento e l'istituzionalizzazione di un pluralismo confessionale indicano come esso non si sia però clericalizzato e meno ancora cattolicizzato con la decisione di far ricorso alla presenza dei religiosi come unica forma pianificata di presidio e conforto ideologico e psicologico ai soldati: almeno finché dura Cadorna, poco amante delle baionette intelligenti e di tutto ciò che ecceda una disciplinata ubbidienza. Dopo Caporetto e sotto Diaz, l'ultimo anno di guerra vedrà esaurirsi sul fronte morale quella sorta di supplenza cattolica in regime di semimonopolio e organizzarsi - in parallelo alla rete dei cappellani e al tessuto delle Case del soldato - il servizio P (la propaganda). Le due reti un pò"si ignorano, un pò"collaborano, nel clima consociativo che caratterizza la guerra di resistenza. Intanto, però, finché sono le idee di Cadorna a determinare le scelte, l'unica figura di intellettuale compatibile con la sua visione della condizione militare è quella di un sacerdote doppiamente inquadrato in un sistema gerarchico. Per affermare una tale ortodossia sostanziale egli aveva dovuto, del resto, forzare una ortodossia istituzionale che escludeva il prete da ogni rango differenziato e lo equiparava a un qualunque fantaccino. Il tradizionalismo di Cadorna non esclude dunque capacità di critica e superamento dell'esistente. Ci si è chiesti, naturalmente, quali doti facciano preferire i prescelti fra gli aspiranti e su quali punti di equilibrio si assestino - in quel sacerdote in divisa - le non facili sinergie fra gli spiriti di pace e di guerra, l'uomo di Dio e quella variante particolarissima di cittadino-soldato. Si è calcolato che in circa due terzi dei cappellani il compromesso privilegi il ruolo civico e l'adesione a una particolare forma di incombenza patriottica dell'ora, lasciando alla minoranza atteggiamenti più distaccati e l'ansia di un servizio più radicalmente spirituale (54). Si può spingersi a ritenere che 305

siano più vicini alla condizione sacrificata ed esposta dell'uomo comune, e perciò credibili, i preti- soldati che non hanno il privilegio di salire al grado di cappellano: quei 10000 fra seminaristi, conversi eccetera che fanno i soldati mescolati agli altri e gli almeno altrettanti, più anziani, che svolgono servizi di assistenza in reparti di sanità (55). Dalle relazioni, lettere e memorie disponibili risultano in effetti le non poche difficoltà e qualche volta le miserie del doppio ruolo del cappellano militare: necessità di ingraziarsi gli ufficiali per svolgere i propri compiti presso i soldati; imbarazzanti rapporti imposti dalla contiguità nella vita quotidiana; pericolosità del servizio svolto senza risparmio e d'altra parte sospetti di imboscamento per il prete che frequenti più i comandi che le trincee; fulmineità seriale di certe confessioni realizzate in maniera burocratica concedendo pochi momenti a ciascun soldato; irrigidimento militaresco dei riti (dei quali, naturalmente, riescono a soffrire solo i più rigorosi). Non mancano i fiduciosi, che scorgono un popolo restituito alla fede dal sacrificio; altri temono di scorgere, nelle pratiche di devozione che d'altra parte i cappellani incentivano (immagini sacre, medagliette, giaculatorie, rosari collettivi in trincea e così via), dei segni esteriori, piuttosto di superstizione che di genuina religiosità; i più apprensivi indovinano l'inquietudine degli assistiti, quando il cappellano si presenta in qualche tratto del fronte, e la fama di iettatori che li accompagna presso chi associa la loro visita alla morte o a un assalto imminente; e qualcuno confessa di sentirsi bene accetto solo per motivi utilitari, quando porta qualcosa in dono. Quest'ultima constatazione, elaborata in forme pratiche, aprirà ai religiosi il grande campo dell'assistenza materiale, oltre che morale, ai soldati, dove eccelle il sacerdote abruzzese don Giovanni Minozzi, l'inventore e propagatore inesausto delle Case del soldato: una figura particolare di cappellano, dipendente dall'Ordine dei Cavalieri di Malta e quindi autonomo rispetto al vescovo castrense, ex modernista, come lo era e va segnalato - anche il principe dei cappellani e 306

dell'oratoria clerico-patriottica, il celebre e tonante Semeria, mentre Gemelli, medico e scienziato, è addirittura un convertito, tornato alla fede cattolica in età adulta. Il talento di questi imprenditori confessionali si sposa alla disponibilità all'attivismo partecipativo, senza troppa paura di sporcarsi le mani, nelle contingenze e nei compromessi istituzionali. Anche se lo stesso cappellano del Comando supremo, quel Semeria apparentemente spavaldo e impermeabile ai dubbi, non andrà neppur lui esente da affanni e da nevrosi (56). Un prezioso carteggio reso noto di recente permette di cogliere il dilatarsi dei compiti dei più caritatevoli e zelanti fra i cappellani; quello in particolare - volto alla cura non dell'anima, ma del corpo che li elegge a terminale ricercato e autorevole di una inesauribile serie di lettere di familiari in disperazione, da ogni parte d'Italia. Sono le "Lettere a un cappellano militare della Grande Guerra", ricevute da Don Giovanni Rossi, cappellano di un Reggimento sfruttatissimo, il primo Granatieri, che ha insanguinato durante la Strafexpedition monte Cengio e, prima e dopo, il Carso. Gli scrivono centinaia di lettere i familiari, amici e patroni di militari che non danno più notizia di sé e che si può quindi temere che siano feriti, prigionieri, dispersi: timori che possono anche trasformarsi in speranza, nel momento in cui si realizza invece la probabilità che siano morti. Cominciano a questo punto le dolorose e pietose cure - epistolari per chi scrive, fattuali e tutt'altro che facili e lievi per il destinatario - per ritrovare se possibile quel caro e "unicò corpo, dargli sepoltura e riconoscibilità, subito e, soprattutto, dopo: dopo la guerra, quando la famiglia spera di poter rientrare in possesso di quei resti, riportarli al paese, restituirli alla normalità delle cure e degli onori rituali del tempo di pace (57). - "Nelle retrovie". L'ipotesi massima dei dottrinari del fronte come mondo separato e a sé stante urta contro la realtà delle cose, ma 307

due in particolare sono i nodi che i comandi non possono, alla fin fine, ignorare: sessualità e "tempo liberò dei soldati. E si tratta, evidentemente, di questioni intrecciate. Milioni di giovani maschi, generalmente fra i 20 e i 35 anni, relegati per tre anni in un lembo di Italia, in quel luogo di contenzione che sono le trincee nei turni di servizio e poi nei paesi e nelle cittadine friulane e venete durante i turni di riposo, non possono non determinare squilibri e trasformazioni dei comportamenti collettivi - sia maschili sia femminili e sia fra i giovani militari venuti da lontano sia fra gli abitanti e, in particolare, fra le abitanti del posto che la storia sociale è ancor oggi lontana dall'avere convenientemente esplorato. Fra l'erotismo esplicito e compiaciuto di un eversore dei costumi tradizionali quale Marinetti, che investe provocatoriamente la componente femminile del dovere patriottico di saziare senza tante storie le voglie sessuali del maschio combattente, e le rimozioni, fra reticenti e pietose, che hanno a lungo circondato questi temi - a maggior ragione dopo che un anno di occupazione austroungarica ha aggiunto implicazioni ulteriori d'ordine nazionale e patriottico - c'è tutta una vasta zona di silenzio pudico, rotto da episodi e allusioni disseminati nella memorialistica. Il "tempo liberò del soldato nella breve parentesi di relativo riposo fra due turni di servizio vuol dire, in essenza, poter operare uno stacco, dimenticare la trincea? Non è questa la posizione di Cadorna. Il soldato deve anzi restare soldato. E avere una vita quotidiana, anche qui, istituzionalizzata e sotto controllo, fatta di saluti d'ordinanza, divisa in ordine, presenza, diversità e distacco dai civili; e fatica fisica, lavoro, esercizi militari. Noia, anche. Di questa volontà pervicace dei comandi di contrastare il distacco mentale dalla condizione militare e di come questo sia sofferto come incomprensione assoluta dei bisogni umani dei soldati, abbiamo continue testimonianze. Il riposo tanto agognato mentre si è in trincea conferma, sì, quando giunge, la sua motivazione suprema - almeno per un po’ si è al sicuro e non si muore -, ma per il resto delude molti. Quel precario 308

"altrove" ridiventerà prezioso e caro quando si tratterà di "tornar su". E' come per l'ancor più lungamente vagheggiata e rara licenza: anch'essa - con il contingente ritorno degli esclusi al mondo normale e alla vita che continua intanto senza di loro - provoca sentimenti contraddittori, rimescolii d'anima, disadattamenti e furori, alla vista degli "imboscati" e, talvolta, alla scoperta dolorosa di quante ragazze e mogli non hanno saputo resistere alla lontananza del marito o dell'innamorato. Molti reati militari - ne tiene ben conto Cadorna, che lesina anche per questo le licenze, e che non cessa di farne carico al governo e più in generale al paese - avvengono al ritorno, come espressione di malessere sulle tradotte che attraversano il confine fra i due mondi (58). Postriboli militari e Case del soldato sono le due principali risposte organizzate che vengono avviate nel 1915 per venire incontro al viluppo di situazioni nuove posto dalla mobilitazione di queste grandi masse. Il tradizionalismo di Cadorna gli consente, tutt'al più, di tollerare e inalveare le eventuali iniziative volte a umanizzare la vita del soldato nelle retrovie, agendo sui suoi bisogni materiali, affettivi e intellettuali. Lascia perciò tutto questo grande campo dell'assistenza materiale e morale a un'azione parallela e distinta, che si configura spesso come una sorta di supplenza cattolica in assenza dello Stato. Quello stesso tradizionalismo non gli vieta invece di dare forma istituzionale a una sfera particolarissima dei bisogni primari del soldato- massa, cioè quelli d'ordine sessuale (59). Gli interventi normativi e regolatori del Comando supremo in tema di «Vigilanza e disciplina del meretricio» si collocano subito all'inizio delle ostilità. "Qualora la guerra dovesse prolungarsi si potrà nei luoghi ove siano forti concentramenti di truppe, e dove se ne riconosca l'opportunità, raccogliere, d'intesa con l'Autorità Politica e civile del luogo, le femmine che consentano a sottoporsi a speciale sorveglianza e disciplina in appositi locali posti sotto la vigilanza dell'Autorità Sanitaria 309

Militare. Ciò anche a scongiurare [...] che i militari si affidino alle prostitute clandestine che pullulano un pò dappertutto sotto le apparenze più diverse (60). Le ultime battute lasciano forse indovinare una pluralità di rapporti in zona di guerra cui però ci si affretta a negare natura sentimentale, restituendoli a una fisicità minimale e a quella natura spersonalizzata e mercenaria che è l'unica concepibile nell'idea concentrazionaria dell'universo di guerra. Del resto, proprio questo carattere dei rapporti, spalancando il rischio della sifilide e di ogni altra possibile infezione, suggerisce la necessità di "militarizzare" le prostitute, tenendo con ciò sotto controllo sia queste donne di utilità pubblica sia gli uomini in divisa destinati a monopolizzarle (decine e decine di rapporti al giorno per ciascuna di queste estreme rappresentanti della differenza). Il pragmatismo dei comandi in tema di pianificazione istituzionale dei bisogni e delle risorse sessuali porta alla localizzazione di una ragnatela di postriboli militari nei centri compresi in zona di guerra che non può non allarmare - per la novità degli insediamenti e la visibilità della frequentazione - i difensori di uno "status quo" peraltro ormai terremotato dalla contiguità con la guerra. Di tutto l'indotto economico paramilitare che anima e riattiva tanta parte della sonnolenta provincia venetofriulana, questa legittimazione del commercio di sesso inedita per proporzioni e ufficialità - non può non ferire, in particolare, gli interpreti deputati dell'etica tradizionale. Ed è anche per la necessità maggiormente avvertita di dare un'alternativa in positivo, moralmente più commendevole, alle continue ondate di fanti che scendono dalle trincee alle località di riposo, che troviamo la Chiesa cattolica in prima linea - con tutta la collaudata articolazione delle sue strutture e dei suoi militanti, ecclesiastici e laici nell'organizzare i divertimenti e l'educazione del soldato nel tempo libero delle retrovie. Case del soldato se ne conoscono anche prima, in tempo di pace, sin dall'inizio del 310

secolo, per iniziative diverse e d'avanguardia maturate ai bordi delle caserme, nel non nascosto intento di contendere i soldati al vino e al socialismo: due pericoli sociali che spesso, com'è noto, si riunivano nell'osteria, luogo topico della sociabilità proletaria (61). Il movimento cattolico in ispecie vi aggiunge, in età giolittiana, la pratica di intervento delle Case dell'operaio, e in particolare sugli emigranti, maturata nell'ambito dell'Opera Bonomelli, vale a dire in uno dei settori più precocemente e cordialmente patriottici del movimento cattolico (62). Tutta l'attività dei settori non apocalittici e intransigenti, ma conciliatoristi, del mondo cattolico, configura qui come altrove, in pace e in guerra, dei rapporti fra Chiesa e Stato che riescono contemporaneamente a essere e a essere vissuti come alleanza e come concorrenza. Non meraviglia che una delle più tempestive e frequentate Case del soldato nasca nel giugno 1915 a Vicenza, sotto l'ala protettiva del vescovo Ferdinando Rodolfi, che dell'Opera Bonomelli è il presidente nazionale e che nel dicembre 1918 rivendica una primazia che l'ultimo anno di guerra - con una maggiore presenza in proprio dello Stato - e la ripresa della lotta politica nel dopoguerra rimettono in discussione. A tre anni dalla nascita una relazione dell'opera compiuta dalla sola Casa del soldato di Vicenza fa ascendere a un 1 milione 200 mila le presenze complessive di militari transitati per i suoi locali, con un movimento di 800 mila lettere e cartoline (le sale di scrittura sono sempre fra le più frequentate in tutte le Case conosciute), 1800 consulenze legali, 300 spettacoli teatrali, cinematografici e musicali (63). Dove la Casa del soldato non nasce naturalmente dal tessuto preesistente del movimento cattolico e c'è invece bisogno di far sorgere dal nulla una prima base di ritrovo, ci si incontra con la capacità di pensare e agire in grande di don Minozzi che la condizione di cappellano dell'Ordine di Malta lascia relativamente libero di dedicarsi alla sua particolarissima attività di imprenditore, coltivando sapientemente tutte le relazioni sociali e militari utili al reperimento di autorizzazioni, sedi, attrezzature e fondi. Su 311

sua stimolazione diretta o per contagio imitativo sorgeranno centinaia di Case del soldato, su tutto l'arco del fronte, a partire dalle prime nate sulle montagne del Cadore. Le sue memorie (64) hanno toni persino epici nel tracciare la parabola del fenomeno, trionfale, anche se non priva di incomprensioni e di contrasti. Alle origini dell'impresa il dato di fatto che «il paese non sentiva la guerra, purtroppo» e non la sentiva neppure il governo «di pieno accordo in questo, purtroppo, con la maggioranza del paese», mentre «il socialismo ufficiale sabotava apertamente lo sforzo bellico senza mezzi termini». Si dicono queste cose, con un interlocutore indicativo che è il nazionalista Corradini, a Milano, nell'ottobre 1916 (65), quando comunque il suo progetto è già avviato. All'insegna dichiarata del fare, non parlare. "Discussioni dialettiche su la guerra giusta o ingiusta, su le responsabilità ultime e lontane, ridicole: perditempo da mentecatti" (66). Minozzi tratta con insofferenza gli oratori, anzi «i tromboni della guerra», imboscati nei comandi, che sperano di indorare la pillola ai soldati. Non risparmia neppure il più celebre di tutti, padre Semeria, con i suoi «quattro o cinque discorsi che invariabilmente ripeteva» dovunque andasse, senza variare una virgola o un passaggio retorico. In realtà, anche nelle Case da lui ispirate non si rinuncia alla parola, parlata e scritta, e - oltre che giovarsi di una serie di servizi materiali e di svaghi - i soldati possono anche istruirsi o educarsi ascoltando conferenze e letture dello stesso Semeria, del poeta- professore Giovanni Bertacchi, del commediografo Giannino Antona- Traversi, di Renato Simoni - uomo di teatro, redattore del giornale della terza armata «La Tradotta» e collaboratore del Teatro al fronte , di parlamentari come Luigi Gasparotto, Giulio Alessio, Nino Tamassia e anche di padre Gemelli. Le parole appaiono tuttavia una forma di nobilitazione ideologica di iniziative che ripongono la loro ragion d'essere, 312

essenzialmente, nei servizi pratici che riescono a offrire, all'interno delle capanne, fabbriche abbandonate, ville o patronati che ospitano le Case. Al termine del 1918, la zona di guerra arriverà ad ospitarne 489 (67). Un'altra iniziativa destinata a corroborare il morale delle truppe non in prima linea - anch'essa, di per sé, d'ordine privato e solo in seconda battuta concordata con le autorità militari - è quella del Teatro al fronte. Se non all'inizio della guerra come con le Case del soldato nel paese e nelle retrovie siamo comunque anche qui prima di Caporetto; e cioè prima che la riflessione sull'avvenuto porti a intervenire sistematicamente sul terreno sin qui lasciato pressoché sgombro dalle pubbliche autorità (salvo, come si è visto, la scelta dell'erotismo di Stato) e delegato ai privati. La prima spinta viene dalla Società italiana degli autori, vi si impegnano numerosi attori e critici richiamati, fra cui il già citato critico del «Corriere della Sera» Simoni, e i comandi decidono di autorizzare e appoggiare il progetto mettendo a disposizione strutture e mezzi di trasporto. Le spese, compresi gli stipendi dei 138 attori coinvolti, vengono coperte con sottoscrizioni private cui concorrono le cittadinanze di Milano, Torino e Genova. Tre teatri al fronte vengono inaugurati contemporaneamente il 12 agosto 1917, con due commedie umoristiche (il genere prevalente nei 149 spettacoli susseguitisi nelle settimane successive) e con l'emozionante dramma patriottico di Girolamo Rovetta "Romanticismo" rilanciato già nel maggio del 1915 per dotare di uno sfondo risorgimentale, noto e condiviso, il conflitto con l'Austria. Diversi fra i più affermati fra gli attori e le attrici italiane - da Ermete Novelli a Ermete Zacconi, da Tina di Lorenzo a Bella e Alfredo Sainati, da Ettore Petrolini a Ruggero Ruggeri - non fanno mancare la propria presenza nel Teatro al fronte (68). - "Feriti e medici". Nel giugno 1915 l'esercito italiano disponeva di 24000 posti letto al fronte (ospedaletti someggiati da 50 letti, ospedali 313

da campo da 100 e 200 letti) e di oltre 100 mila nelle retrovie e nel paese, con un migliaio di medici, in gran parte in servizio effettivo. Questa organizzazione si rivelò subito tragicamente insufficiente, ma venne sviluppata con larghezza; alla fine del 1916 i posti letto al fronte erano 100 mila, compresi quelli predisposti dalla Croce Rossa e dall'Ordine di Malta. L'incremento maggiore riguardò l'organizzazione dello sgombero di feriti e malati verso il paese, dove venne creata un'imponente rete di ospedali e di convalescenziari, oltre un migliaio, in parte utilizzando le strutture sanitarie civili, in parte maggiore con la requisizione di caserme, scuole, collegi, seminari, alberghi. Alla fine del 1916 gli ufficiali medici erano saliti a 8000 al fronte più 6000 all'interno, nel 1918 erano 17000, grazie alla mobilitazione dei medici civili e degli studenti di medicina (che ebbero corsi accelerati presso l'università castrense di San Giorgio di Nogara, poi furono riuniti in un battaglione apposito presso l'università di Padova). Si aggiungevano ufficiali farmacisti, automobilisti, d'amministrazione, cappellani, personale civile e 8200 infermiere volontarie della Croce Rossa; agli ospedali vennero poi assegnati gran parte degli ecclesiastici mobilitati come soldati. Alla fine del conflitto c'erano al fronte 96 sezioni sanità, 234 ospedali da 50 letti, 167 da 100 letti, 46 da 200 letti, 9 ambulanze chirurgiche e 17 radiologiche, 38 sezioni di disinfezione. Il trasporto di feriti e ammalati era assicurato da 59 treni ospedale, più 24 della Croce Rossa e 4 dell'Ordine di Malta; il totale degli sgomberati dalla zona di guerra verso il paese salì da 81000 nel 1915 a 305 mila nel 1917 e 334 mila nel 1918 quando i posti letto erano 140 mila in zona di guerra, 272 mila in paese più 56.000 dei servizi specializzati, 25000 in Albania e Macedonia, mezzo milione in totale (69). Questo notevole sviluppo non deve far dimenticare che il vero e mai risolto problema rimaneva il fronte. Il primo dramma era la sorte dei feriti rimasti al di là delle linee, che dovevano attendere la notte per strisciare verso la trincea amica o sperare in una di quelle tregue informali, non così 314

rare, che permettevano di ricuperare i feriti più gravi. Quelli che restavano nelle linee nemiche venivano raccolti e curati da entrambe le parti, anche se italiani e austriaci pensavano prima ai loro feriti non dimenticavano quelli nemici. Il dramma continuava nel posto di medicazione in trincea, una buca ancora sotto il fuoco nemico dove i feriti ricevevano le prime cure, poi, dopo un penoso trasporto a spalle o in barella, nell'ospedaletto avanzato, dove medici stravolti dalla fatica praticavano gli interventi più urgenti e facevano una selezione tra i feriti leggeri che potevano attendere, quelli che dovevano essere operati subito in ospedali più attrezzati e quelli per cui non c'erano speranze, lasciati morire con un cappellano e una fiala di morfina (quando c'erano). La memorialistica ci ha lasciato tragiche testimonianze sull'orrore di questi posti avanzati nei giorni di battaglia, dove in spazi angusti si accumulavano feriti di ogni tipo, medici e infermieri resi insensibili dal troppo lavoro, bende e seghe, secchi di sangue e rifiuti. La scienza medica anteguerra si aspettava soprattutto ferite da arma bianca (lance, sciabole e baionette) e da palla di fucile, relativamente semplici e pulite. La realtà della guerra di trincea fu molto più dura: le ferite da arma bianca erano rare (meno dell'1 per cento), mentre la maggior parte (oltre il 75 per cento) erano provocate dall'artiglieria, quindi molto più difficili da curare perché le schegge provocavano vaste lacerazioni e inoltre le sporcavano con i detriti del campo di battaglia, aprendo la via alla «gangrena gassosa» allora incurabile (l'unica terapia era l'amputazione degli arti) (70). In questi casi la tempestività delle cure diventava di importanza essenziale; l'unico mezzo per prevenire la gangrena era pulire quanto prima possibile le ferite asportando i lembi macerati più soggetti a favorire l'infezione. Si cercò quindi di potenziare i posti avanzati, dove era possibile intervenire prima; ma erano troppo vicini al fronte per poterli dotare delle strutture necessarie per sostenere lo straordinario afflusso di feriti nei giorni di battaglia. Anche i tentativi di accelerare i trasporti verso gli ospedali più attrezzati non ebbero grande 315

successo, perché le strade erano intasate dai rifornimenti per il fronte che avevano la precedenza sulle autoambulanze e sui carri carichi di feriti. In sostanza l'assistenza immediata ai feriti fece progressi importanti, ma rimase sempre insufficiente durante le grandi offensive (71). Non vanno comunque sottovalutati i notevoli sviluppi della tecnica chirurgica (una ferita al ginocchio comportava quasi sempre l'amputazione all'inizio del conflitto, due anni più tardi il ginocchio veniva salvato); furono create le prime ambulanze radiologiche e nelle retrovie una serie di servizi specializzati: oftalmico, otorinolaringoiatrico, stomatologico, neurologico, neuropsichiatrico, dermoceltico, per i colpiti da gas e da assideramento. La guerra provocò indubbiamente un'accelerazione del progresso scientifico in campo sanitario, pur condizionandolo pesantemente con le sue esigenze: la guarigione dei feriti doveva essere perseguita soprattutto per fare fronte alle esigenze di uomini dell'esercito, quindi i medici dovevano occuparsi anche di combattere l'autolesionismo e le simulazioni. - "L'incidenza delle malattie". La guerra 1914-1918 fu la prima in cui il numero dei morti per ferita sopravanzò nettamente quelli per malattia. Nei secoli precedenti i soldati morivano in primo luogo per le fatiche delle marce, le notti all'addiaccio, le avversità climatiche, la scarsa igiene delle caserme, il vitto irregolare, oltre che per le epidemie e le malattie veneree; le armate si assottigliavano prima ancora di arrivare alla battaglia. Nella guerra di secessione nordamericana l'esercito dell'Unione perse 96000 morti in battaglia e 183 mila per malattia. Nella prima guerra mondiale invece i morti per malattia dell'esercito francese furono 135 mila, il 10 per cento sul totale di 1 milione 350 mila caduti (72). Le condizioni di vita dei soldati al fronte erano, se possibile, peggiori che nei conflitti precedenti: non dovevano più compiere marce forzate, ma i prolungati soggiorni in 316

trincea provocavano uno straordinario logorio psicofisico. D'inverno si diffondevano malattie polmonari e reumatismi, d'estate infezioni intestinali, in ogni stagione epidemie e malattie veneree. La mortalità tuttavia diminuiva per l'efficienza dell'organizzazione sanitaria (si pensi agli effetti delle vaccinazioni di massa contro il tifo, il colera, la peste) e per il miglioramento della situazione alimentare e sanitaria della popolazione nel corso dell'Ottocento, che dava soldati più robusti e resistenti (e meglio nutriti, il vitto in trincea era scadente come qualità, ma garantito e abbondante). I dati sui soldati italiani ricoverati in ospedale per malattia sono impressionanti: 1.057.300 (di cui 25500 ufficiali) nel 1917, 1.310.300 (34300 ufficiali) nel 1918 (73). Dopo di che non stupisce che i morti per malattia fossero circa 100 mila sui 500 mila caduti entro il 1918, ossia il 20 per cento, più del doppio in percentuale rispetto all'esercito francese (e non teniamo conto dei morti in prigionia e nel dopoguerra) (74). Per spiegare cifre così alte possiamo soltanto avanzare ipotesi. Una prima spiegazione è certamente il ritardo dello sviluppo italiano: nei cinquant'anni tra l'unità e la prima guerra mondiale la situazione alimentare e sanitaria nazionale aveva registrato notevoli progressi, ma era ancora lontana dal livello dei paesi industrializzati. La vita media degli italiani era di 35 anni nel 1882, di 43 anni nel 1901 (75). In tempo di pace l'esercito eliminava per inidoneità fisica circa il 50 per cento dei giovani di leva, negli anni di guerra lo scarto fu ridotto intorno al 30 per cento per le nuove classi chiamate alle armi, mentre quelle anziane furono sottoposte a una severa revisione degli esoneri. Ciò comportava l'arruolamento di uomini minati da tubercolosi, tracoma, malaria, per citare le più frequenti malattie caratteristiche di un paese semisviluppato. Si giunse ad arruolare 10000 uomini ufficialmente definiti tracomatosi (76). Si può inoltre ricordare che soltanto nell'inverno 1915-1916 si procede alla vaccinazione delle truppe contro il colera, diffuso sul fronte dell'Isonzo, e il tifo. Poco si poteva fare 317

per altre malattie caratteristiche della vita in trincea, come la dissenteria batterica, le affezioni reumatiche, la meningite, per le malattie veneree e per la malaria che decimò le truppe nei Balcani. Ci chiediamo poi se la maggiore incidenza di morti per malattia rispetto all'esercito francese non sia una conseguenza dell'eccessivo sfruttamento delle truppe attuato da Cadorna. Le unità francesi furono massacrate in battaglia assai più di quelle italiane (le perdite francesi furono il doppio di quelle italiane, con una popolazione più o meno equivalente), ma ebbero condizioni di vita decisamente migliori. Nel 1915-1916 avevano già quello che i soldati italiani ottennero soltanto nel 1918: turni regolari di riposo, vitto abbondante, licenze garantite, propaganda efficace, regime disciplinare senza eccessi terroristici (e ciò nonostante si ammutinarono in massa nel maggio- giugno 1917). Le truppe italiane fruirono di minori riguardi. Per fare un solo esempio, la razione viveri contava 4082 calorie nel maggio 1915, ma fu ridotta a 3850 nel dicembre 1916 e a 3067 calorie nei giorni di Caporetto: una diminuzione che non teneva conto degli sprechi inevitabili in trincea, ma più ancora della scarsezza di generi di conforto e di vino o alcolici della razione italiana rispetto a quella francese o inglese (77). Una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei soldati avrebbe comportato una minore incidenza di malattie dovute, direttamente o indirettamente, al loro esaurimento psicofisico? Riteniamo di sì, ma lasciamo aperto il discorso. L'alta incidenza delle malattie al fronte trova spiegazione anche nelle condizioni generali del paese. Bruna Bianchi scrive che "durante i tre anni di guerra le condizioni sanitarie del paese regredirono a livelli ottocenteschi. La mortalità generale, che dal 1888 al 1914 presentava valori decrescenti nonostante il progressivo aumento della popolazione, subì un brusco aumento a partire dal 1915. Un promemoria per il Consiglio superiore di sanità nel 1919 318

valutava in 546.450 i casi di morte in più del normale avvenuti tra le popolazioni civili" (78). Nel corso della guerra si ebbero in Italia 6 milioni di casi di malaria (con 10000 morti nel solo 1918) e 2 milioni di casi di tubercolosi, nonché una ripresa di malattie che parevano sotto controllo, come la pellagra, il morbillo, la difterite. Infine, tra la fine del 1918 e l'inizio del 1919 la "spagnolà, un'influenza di cui ancora oggi sappiamo ben poco, fece milioni di morti in Europa e 600 mila in Italia, tra cui un numero imprecisato di soldati. La "spagnolà non fa parte della guerra, ma la sua diffusione fu facilitata dalle conseguenze del conflitto sulla popolazione: i problemi di alimentazione, i ritmi massacranti di lavoro, l'indebolimento delle strutture sanitarie civili (79). * GLI STUDI SUI SOLDATI. - "Cosa sappiamo dei soldati". Negli ultimi decenni gli studiosi hanno dedicato una nuova attenzione ai soldati. In cifre tonde, 4 milioni 200 mila italiani (oltre il 10 per cento della popolazione, circa metà dei maschi tra i 18 e i 40 anni) andarono al fronte: 500 mila morirono di ferite o malattie prima della fine del conflitto, 600 mila caddero prigionieri (e 100 mila di costoro non tornarono), quasi mezzo milione riportarono invalidità permanenti più o meno gravi, 2 milioni erano al fronte nell'estate del 1918. Cosa sappiamo di costoro? Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, siamo relativamente bene informati per i circa 200 mila ufficiali. I volumi di memorie si contano a centinaia, altrettanto numerosi i diari e gli epistolari di ufficiali caduti curati dalle famiglie. A scrivere sono soprattutto i giovani ufficiali di complemento, pochi rispetto ai 200 mila citati, comunque abbastanza numerosi e diversi per vicende e giudizi da potere essere 319

considerati rappresentativi della stragrande maggioranza della categoria (80). Costoro documentano le diverse posizioni degli ufficiali dinanzi al conflitto, che vanno dal nazionalismo esasperato al patriottismo democratico, senza che sia mai dubbia la loro adesione alla guerra e la capacità di sacrificio. La loro descrizione viva e drammatica della guerra di trincea è la base delle nostre conoscenze e analisi anche per quanto riguarda i soldati. Verso costoro gli ufficiali mantengono però l'atteggiamento paternalistico di chi è avvezzo a decidere per tutti; non pochi hanno per i loro soldati un forte affetto e li trattano con senso di responsabilità, ma non si chiedono chi siano e cosa pensino. Nel volume "I vinti di Caporetto" di Mario Isnenghi è bene illustrato prima lo sgomento con cui gli ufficiali vedono le masse dei soldati in rotta sottrarsi alla loro guida, poi il senso di sollievo con cui accolgono il ritorno alla normalità, pronti ad addebitare la crisi momentanea della loro "leadership" a una "ubriacatura collettivà della truppa che non criminalizza i soldati e permette agli ufficiali di non spingere oltre l'analisi del comportamento dei loro uomini (81). Bisogna avere presente la netta distinzione di classe che c'era tra ufficiali e soldati. Soltanto chi aveva frequentato le scuole superiori poteva fare l'ufficiale; quando nel 1917 i volontari non furono più sufficienti, fu fatto obbligo a tutti i militari in possesso dei titoli di studio richiesti (che erano stati abbassati all'iscrizione al penultimo anno delle scuole superiori) di seguire i corsi per diventare aspiranti e sottotenenti. Il sistema in sé non era sbagliato, era un portato dei tempi che gli ufficiali dovessero avere un certo livello di cultura; in un paese in cui l'istruzione secondaria era ancora un privilegio di classe, ciò voleva dire restringerne il reclutamento alla classe dirigente (intesa in senso lato, la borghesia media e gruppi emergenti di quella piccola). Si noti che l'esercito prebellico reclutava una parte minore dei suoi ufficiali tra i sottufficiali migliori, senza chiedere loro i titoli di studio normali; per quanto ci risulta questa consuetudine fu abbandonata durante la guerra, 320

tanto che fu creato il nuovo grado di aiutante di battaglia per premiare i sottufficiali che si erano distinti, senza doverli promuovere sottotenenti. In una situazione in cui era necessario creare decine e decine di migliaia di nuovi ufficiali senza una selezione autentica né una preparazione accurata, il titolo di studio e il livello sociale connesso furono ritenuti l'unica discriminante possibile (82). Il risultato fu che la distanza tra ufficiali e soldati, già fortissima all'interno dell'istituzione militare come "status" e come compiti, era rafforzata dalla loro provenienza da ambienti socioculturali diversi. Ne veniva accresciuto il ruolo di leader dell'ufficiale, ma anche la sua difficoltà a capire mentalità e comportamenti dei soldati, ad avere con loro un rapporto non mediato dal comando e dal grado (83). Questo non era un danno in una guerra quasi sempre combattuta da masse inquadrate, ma ci spiega perché la memorialistica degli ufficiali, pur così ricca di notizie e particolari sui soldati, sia di limitato aiuto per chi voglia conoscerli meglio. Gli studi tradizionali ci dicono ben poco sui soldati, insistono soprattutto sul carattere di rottura radicale con la vita, le esperienze e i valori precedenti provocata dalla durezza, monotonia e brutalità della trincea. E poi sul progressivo ottundimento dei combattenti. «Il soldato in trincea - scrive Agostino Gemelli - pensa poco, perché vede assai poco, pensa sempre le stesse cose. La sua vita mentale è assai ridotta, niente la alimenta». Si arriva così a «una specie di restringimento del campo della coscienza», necessario per sopravvivere alle tensioni, alla fatica, agli orrori; da questo punto di vista il soldato contadino è privilegiato rispetto al cittadino, perché gli riesce più facile adattarsi al progressivo abbrutimento. Si noti che padre Gemelli non era soltanto uno studioso affermato di psicologia delle masse, ma anche consulente in materia del Comando supremo; la sua analisi ha quindi un carattere semiufficiale e certamente rappresenta l'interpretazione dominante presso gli alti comandi. La consacrazione delle truppe al Sacro Cuore di Gesù, che egli perseguì, era il 321

logico coronamento di questa posizione: si trattava di santificare la guerra e i destini collettivi, non di raggiungere i soldati con un discorso di conversione e impegno personale ritenuto implicitamente troppo difficile o inutile (84). Gli ufficiali che si impegnavano a migliorare l'efficienza delle truppe, in particolare quelli che crearono i reparti d'assalto, avevano una posizione più moderna: un addestramento fatto bene doveva provocare un automatismo negli atti del combattimento, in modo da dare al soldato maggior fiducia e la possibilità di pensare e decidere cosa fare durante l'azione. Nella memorialistica e negli studi tradizionali la descrizione dei soldati ripete stereotipi fissi. Il più diffuso è quello del "soldatino" che non capisce le ragioni ideali della guerra, o le intuisce appena, ma si batte per obbedienza e senso del dovere, per devozione verso il suo tenente e per non deludere la mamma. Il contraltare è l'alpino, che bestemmia la guerra e Cadorna, cerca il vino e le ragazze, ma si rivela combattente obbediente e devoto, forte come una roccia delle sue montagne. Poi ci sono stereotipi particolari: l'eroe purissimo che vive per la pugna e sogna la morte eroica (figura cara ai giornalisti, non certo ai combattenti); l'ardito che ama la guerra e la fa con una abilità e una ferocia che suscitano brividi e qualche sospetto; infine il vile, capace di ogni bassezza per salvare la pelle, che può scendere fino alla cupa figura del disertore. Tutti stereotipi presenti nella propaganda e nella memoria, ma che non sono di qualche utilità per un'analisi seria. Negli ultimi decenni una nuova leva di studiosi si è messa con tenacia a ricercare fonti dirette sui sentimenti e comportamenti dei soldati, che non siano passate attraverso la mediazione degli ufficiali o della cultura tradizionale. Se non che la straordinaria mole di lettere che i soldati scrivevano e ricevevano è andata quasi completamente distrutta, così come i diari che non pochi soldati tenevano e i memoriali che altri avevano steso, generalmente al momento del ritorno. Ritrovare in un archivio qualche centinaio di lettere dimenticate o rintracciare qualche 322

diario o qualche memoriale di soldati è una fortuna poco frequente; i materiali disponibili sono troppo pochi per offrire più di spunti o interrogativi e sono comunque difficili da inquadrare (un soldato può scrivere a casa la sua protesta, ma continuare a servire con obbedienza) (85). Un'altra fonte preziosa sono gli archivi della censura militare e dei tribunali; ma pure in questo caso l'analisi è difficile, perché testimonianze e avvenimenti sono mediati dall'intervento inquisitorio degli ufficiali, da cui dipende la scelta dei materiali da salvare e la loro presentazione. In sostanza, i materiali recentemente acquisiti sono preziosi perché documentano la presenza tra i soldati di sentimenti di protesta e di rifiuto, che le fonti tradizionali avevano cancellato (86). Non consentono però di misurare la diffusione di questi sentimenti, né di inquadrarli adeguatamente. Il che ci riporta al punto di partenza. Non abbiamo elementi sufficienti per capire cosa pensassero i soldati, né perché combattessero. Siamo costretti a studiarli sulla base di dati ed elementi esterni, che ci dicono a grandi linee (e raramente con la chiarezza necessaria) cosa facevano, ma non perché lo facessero. Non è un caso soltanto italiano, gli stessi problemi si presentano per gli altri eserciti e la nostra storiografia non è più arretrata di quelle straniere. - "Il consenso". Partiamo da una constatazione. In tre anni e mezzo di guerra durissima sotto tutti gli aspetti l'esercito italiano diede prova di solidità e compattezza e poté sempre contare sull'obbedienza dei soldati. Ciò non vuol dire che la gestione degli uomini non ponesse gravi problemi e che tra i soldati non fossero diffusi sentimenti e comportamenti di protesta e di rifiuto, che illustreremo in seguito. Tuttavia va rilevato che l'esercito italiano non si comportò diversamente dagli altri eserciti in campo, anzi non conobbe una crisi della gravità degli ammutinamenti francesi del 1917. Riteniamo 323

quindi corretto parlare di consenso dei soldati, anche se nei termini che cercheremo di precisare. Per la grande maggioranza dei soldati questo consenso non era dovuto a una motivazione patriottica forte. Dall'insieme degli studi e della memorialistica emerge con sicurezza che soltanto una minoranza piccola e non quantificabile dei soldati faceva la guerra con la chiarezza di idee e convinzioni che caratterizzava gli ufficiali (87); i più facevano la guerra senza comprenderne le ragioni o senza condividerle, al di là della ripetizione di slogan della propaganda. Non è possibile approfondire questo giudizio generale, ma neanche metterlo in dubbio sulla base delle fonti disponibili, soprattutto della testimonianza degli ufficiali. E' però necessaria un'osservazione. Anche se valutazioni così generali hanno un grosso margine di approssimazione, la maggioranza dei soldati francesi, inglesi e tedeschi avevano certamente una motivazione patriottica; non bisogna però dimenticare che ciò non era soltanto il frutto di un più alto livello di acculturazione e di integrazione delle masse, bensì anche del modo in cui la guerra era stata impostata. Nell'agosto 1914 i cittadini erano stati chiamati alle armi per difendere il loro paese da un'aggressione ingiusta e pericolosa; e la difesa della patria in pericolo continuò a essere il tema dominante della propaganda dei belligeranti. Il soldato francese a Verdun aveva chiaro perché combatteva; e non poteva sapere né tanto meno capire che pure il nemico tedesco era convinto di combattere per difendere la patria aggredita. Un discorso del genere non poteva essere fatto al soldato italiano, l'Italia non era stata aggredita né invasa, il soldato doveva combattere per obiettivi astratti come l'onore, il dovere, i destini nazionali, l'acquisizione di territori che ignorava; in confronto erano più forti le motivazioni degli austro- ungarici, una parte dei quali si batteva per difendere la patria dalle ambizioni italiane di conquista. Non importa che questi o altri pericoli drammatizzati dalla propaganda fossero reali, importa che fossero credibili e creduti dalle truppe. 324

Ne consegue che la mancanza di una motivazione patriottica della massa dei soldati italiani non era dovuta soltanto a una minore acculturazione nazionale, ma anche all'impostazione della guerra italiana, che offriva obiettivi validi per la borghesia, come lo slogan «Trento e Trieste», ma poco comprensibili o irrilevanti per le masse. E quindi imponeva ai soldati uno sforzo maggiore, perché non era in grado di dare una ragione chiara ed evidente ai loro sacrifici. Il discorso iniziale va quindi in parte rovesciato: se il soldato non aveva una motivazione forte, è perché la classe dirigente non era in grado di fornirgliela e perché se ne preoccupava così poco, che fino a Caporetto mancò l'organizzazione di una propaganda efficiente per le truppe. Anche la gestione dei soldati non teneva conto delle loro esigenze: più che del miglioramento delle condizioni di vita nelle trincee o dell'organizzazione di una propaganda per i soldati, Cadorna si preoccupava di mantenere la disciplina attraverso la repressione, già prima dell'inizio delle operazioni. La poca fiducia che costui aveva nelle sue truppe non si può ricondurre soltanto a fattori personali, ma era il corrispettivo in campo militare della gestione politica della destra autoritaria di Salandra e Sonnino, altrettanto diffidenti verso le masse. Non va infine dimenticato che l'esercito italiano continuò a basarsi in guerra sul reclutamento nazionale (ogni reparto era composto da uomini di tutte le regioni) che applicava in pace per le esigenze di politica interna indicate nel capitolo 2. Ciò dava ai reparti una coesione di partenza minore di quelli a reclutamento regionale, perché i soldati tendevano a suddividersi in nuclei omogenei per origine e dialetto; la riconosciuta solidità dei battaglioni alpini dipendeva in primo luogo dal reclutamento strettamente territoriale che li caratterizzava. Per le fanterie britanniche, tedesche e austriache il reclutamento territoriale era la norma, il che dava loro un vantaggio iniziale su quelle italiane. In definitiva, possiamo dire con buona certezza che i soldati non capivano le ragioni della guerra di Cadorna. Ciò non vuol dire che non avessero altra motivazione per continuare 325

a combattere che la durezza della repressione o l'ottundimento generale di cui parlava Gemelli. Accettare gli orrori della guerra e la prospettiva della morte è un comportamento così lontano dalla vita normale e dai suoi valori consolidati che non può essere spiegato soltanto in un'unica chiave, l'adesione ai valori ufficiali o la paura della fucilazione. La guerra non avrebbe potuto essere condotta senza il consenso dei soldati, questo è evidente per chi la studia. Misurare e analizzare le ragioni di questo consenso è impossibile, ci mancano gli strumenti, non possiamo dire quanto fosse obbedienza passiva o partecipazione consapevole, a prescindere dal fatto ovvio che il consenso varia secondo le persone e i momenti. Possiamo soltanto indicare i grandi fattori che furono alla sua base, lavorando su ipotesi logiche, ma non documentabili e quindi da discutere. In primo luogo, gli uomini che vestivano la divisa erano stati educati alla disciplina dall'ambiente familiare e di lavoro. La società contadino-cattolica era una straordinaria scuola all'obbedienza e all'accettazione del destino. E la cultura contadino- cattolica era ancora forte nelle città, malgrado le novità disgregatrici e la diffusione del socialismo. Le tradizioni ed esperienze di lotta sociale erano poi legate all'ambiente di lavoro, non erano riproponibili nell'ambiente militare; e comunque non mettevano in discussione l'etica del lavoro. In sostanza la recluta era predisposta all'obbedienza e all'accettazione di una gerarchia, della fatica, del sacrificio, del destino, che erano i requisiti fondamentali del soldato della prima guerra mondiale. E" più difficile dire quale grado di acculturazione avessero i soldati italiani, quale capacità di identificazione in una collettività portassero nella vita militare; certamente bisognerebbe potere distinguere tra i diversi ambienti di provenienza. Sembra difficile sostenere l'assoluta estraneità verso lo Stato e la guerra della maggioranza dei soldati, la società italiana non era tutta così lontana da quella francese o tedesca. Un contadino cattolico o un 326

operaio socialista, per esempio, non erano predisposti a contribuire a una guerra di conquista imperialista, ma avrebbero probabilmente accettato una guerra difensiva. Ci chiediamo quindi se la divisione tradizionale tra una minoranza di soldati partecipi e una maggioranza estranea alla guerra non dovrebbe lasciare il posto a una visione più articolata, in cui ci sia posto anche per una partecipazione che non rientrava negli schemi cadorniani, ma non per questo va negata o sottovalutata. Per fare un caso specifico, la nutrita memorialistica, gli studi, il mito (e le fredde cifre) non lasciano dubbi sul valore, la dedizione, il sacrificio dei battaglioni alpini, sempre annoverati tra le migliori truppe italiane. Eppure la loro vita e la loro disciplina sono lontane dalle concezioni cadorniane. Nei battaglioni alpini la disciplina non è formale, ma di sostanza; non mancano rumorose proteste nei trasporti verso il fronte, casi di insubordinazione e diserzione verso casa, disordini nelle retrovie, proteste di ubriachi contro la guerra. Le loro canzoni (un repertorio straordinario, ancora poco studiato) non parlano mai di patria, descrivono la guerra come lutto, dovere, sacrificio ("Monte Nero, Monte Rosso / traditore della vita mia... Per venirti a conquistare / ho perduto tanti compagni / tutti giovani sui vent'anni / la sua vita non torna più...'). Sono elementi di grande interesse per capire la vita delle truppe, la complessità e contraddittorietà dei loro comportamenti, più conosciuti per gli alpini, certo presenti anche nei reggimenti di fanteria, lo spirito di corpo non dipendeva soltanto dalle penne nere (88). L'impostazione data alla guerra italiana e la mancanza di iniziative politiche adeguate fecero sì che l'organizzazione del consenso dei soldati fosse scaricata tutta sull'istituzione militare. Gli studi in materia ne hanno sottolineato soprattutto la componente repressiva, e certamente le circolari di Cadorna incoraggiano questa visione, così come la documentazione drammatica dei processi e delle fucilazioni. Dovrebbe però essere evidente che la repressione è una componente essenziale di ogni società e 327

di ogni esercito (tanto più dura quanto più cruento è il conflitto), ma da sola non ha efficacia, può valere soltanto come elemento di un sistema complesso. In realtà l'istituzione militare ha grandi capacità di coinvolgimento che non vanno dimenticate e che cercheremo di accennare, grazie anche ai contributi della sociologia militare (89). Testimonianze e studi vecchi e nuovi insistono sulla rottura totale con le esperienze prebelliche provocata dalla guerra di trincea, che annulla i valori e i punti di riferimento tradizionali. Il combattente non rimane però nudo e solo, perché trova inquadramento nell'istituzione militare, così come (in condizioni meno drammatiche) accade alla recluta che entrando in caserma lascia alle spalle il mondo civile. Valga l'esempio della depersonalizzazione del soldato, che l'istituzione persegue con l'azzeramento delle sue qualifiche e condizioni civili e con un'egualizzazione coatta (dalla divisa all'imposizione di regole e ritmi rigidi e talora privi di senso), per non lasciargli altra identità che quella militare e altra collocazione che quella all'interno dell'istituzione. In condizioni più drammatiche, lo stesso processo si riproduce in trincea, il soldato non ha alternativa all'identificazione con l'istituzione e all'accettazione della sue regole e gerarchie, a cui lo spingono anche l'educazione all'obbedienza ricevuta e i sentimenti di dovere e patriottismo che può nutrire. L'ufficiale diventa un punto di riferimento obbligato, la disciplina un elemento di organizzazione necessario nella società chiusa della trincea, che non ha rapporti con l'esterno, anzi guarda con rancore e distacco tutto quanto sta alle sue spalle. Il battaglione è certamente una società provvisoria, nata dalla violenza che la guerra esercita sui soldati a tutti i livelli, ma è pure una società concreta, che garantisce al soldato un inquadramento adeguato alla realtà della guerra e gli fornisce valori e regole di vita sostitutive di quelle civili che ha perso. Questo nuovo mondo non si presenta soltanto come coercizione, ma anche come una realtà di rapporti forti con i compagni e di identificazione con il reparto (90). La 328

tradizione parla a questo proposito di spirito di corpo, la sociologia più laicamente di dinamica dei piccoli gruppi all'interno di un'istituzione chiusa. La grande ricerca sociologica sulle forze armate statunitensi nella seconda guerra mondiale, "American Soldier", giunge a sostenere che la lealtà verso il piccolo gruppo è l'elemento essenziale di coesione; i soldati rifiutano tutto quanto esce dalla loro esperienza diretta, si identificano nel gruppo di cui fanno parte, affrontano i rischi del combattimento per solidarietà verso i compagni. Senza arrivare a conclusioni così perentorie, riteniamo che le dinamiche di coesione interne ai reparti (che garantiscono al soldato legami affettivi alternativi a quelli civili) siano determinanti a livello orizzontale, per così dire, in combinazione con il livello verticale dell'inquadramento gerarchico che garantisce una guida. L'istituzione militare ha capacità di coinvolgimento e di acculturazione che è impossibile calcolare, anche perché ovviamente variano con le situazioni e i momenti, ma che non bisogna sottovalutare se si cerca di capire perché i soldati continuassero a obbedire e combattere. Non va inoltre dimenticato che la trincea non lasciava alternative, era generalmente una guerra di reparti inquadrati, in cui le possibilità di fuga individuale erano rare e costose. Ci sembra poi fuorviante parlare di una guerra "stupidà", anche se così la definiscono non pochi reduci e studiosi. Il conflitto mondiale può essere definito ingiusto o criminale, esempio della follia umana; e naturalmente comporta un elevato numero di scelte e comportamenti stupidi o insensati, più evidenti che nelle attività civili perché fuoriescono dai canoni normali e mettono in gioco migliaia di vite. Perché un esercito di milioni di uomini viva e combatta occorrono però tesori di intelligenza e dedizione a tutti i livelli, a cominciare dagli alti comandi che gestiscono molti più uomini di qualsiasi industria; anche la ripetizione di attacchi sanguinosi risponde alla cultura del tempo e si accompagna a una continua ricerca di miglioramenti tecnici. Considerare i soldati in trincea come 329

schiavi tenuti insieme dal terrore non è realistico, ma offensivo verso questi uomini travolti da una tragedia collettiva, eppur sempre capaci di reazioni e sentimenti e che nel loro adattamento alla trincea non erano affatto passivi. - "Il rifiuto". Certo, il consenso coesiste col rifiuto. Secondo non pochi studiosi, il rifiuto è assai più significativo, mina e riduce il consenso, testimonia una condizione latente di scontento e rivolta. Cerchiamo di chiarire i termini del problema, con l'avvertenza che in materia gran parte delle valutazioni rimangono soggettive. Un primo punto è però sicuro: non esiste un rifiuto organizzato con una motivazione forte. Né le occhiute indagini dei carabinieri, né le ricerche archivistiche hanno trovato traccia di tentativi di penetrazione tra i soldati da parte di socialisti e anarchici, tanto meno di complotti e sedizioni. Nei riguardi dell'esercito mobilitato i dirigenti socialisti applicarono alla lettera la formula «né aderire, né sabotare», ossia se ne disinteressarono, senza chiedere ai loro militanti in divisa di prendere posizione contro la guerra. E costoro non si comportarono diversamente dagli altri soldati. Su un altro versante, il mondo cattolico non aveva tentazioni pacifiste e non accettò mai la condanna del conflitto espressa dal papa Benedetto Quindicesimo. Il rifiuto dei soldati non dipende dal disfattismo socialista o cattolico denunciato da Cadorna, ma va ricondotto ai problemi interni all'esercito (91). Distinguiamo gli atti di rifiuto individuali da quelli collettivi. I primi sono così numerosi che non possono essere censiti neppure in modo approssimativo. Gli unici dati riguardano i procedimenti giudiziari aperti, 100 mila per renitenza e 340 mila verso militari alle armi, e le condanne di questi ultimi, 101700 per diserzione, 24500 per indisciplina, 10000 per autolesionismo e 5300 per resa o sbandamento, per citare i reati più significativi. Queste cifre non bastano 330

per misurare la frequenza delle infrazioni, perché non tutte erano rilevate e perseguite (e comunque la maggior parte veniva risolta senza la denuncia ai tribunali) e molte denunce erano infondate, visto che i procedimenti conclusi registrano il 40 per cento di assoluzioni (92). Risulta incontrovertibile che tra i soldati esisteva un margine ampio (seppure non quantificabile) di insofferenza e di rifiuto, articolato tra vie di fuga diverse, sia studiate, sia prese d'impulso, e tra gesti di insubordinazione (oltre ai desideri di fuga e protesta che risultano dalle lettere, che possono essere più un sogno che un programma d'azione). Un altro tipo di rifiuto sono le nevrosi provocate dalla guerra, che per i soldati si traducono in invalidità parziali dovute allo stress psicofisico, come sordità, mutismo, perdita del controllo di un braccio, oppure uno stato confusionale generale. Gli alti comandi tendono a considerare queste nevrosi come casi di autolesionismo o di finzione, soltanto per gli ufficiali si parla generalmente di esaurimento nervoso. Non è possibile quantificare questi casi, certo più numerosi delle 10000 condanne per autolesionismo; sono abbastanza frequenti da allarmare le autorità e provocare ricerche e dibattiti tra i medici. Si verificano naturalmente in tutti gli eserciti; gli inglesi li classificano come "Shell-shock", traumi da esplosione, con riferimento agli effetti dello scoppio di una granata d'artiglieria che squassa e sconvolge anche quando non ferisce con le schegge (93). Il problema è come interpretare questo margine di rifiuto, dovuto alle straordinarie tensioni e durezze della guerra; e infatti è più alto nei reparti di fanteria al fronte e diminuisce quando ci si allontana dalle trincee. Per non pochi studiosi è la dimostrazione dei limiti di solidità e consenso dell'esercito; una conclusione che richiede alcune precisazioni. In primo luogo, per quanto ampio sia questo margine di rifiuto, non tocca la maggioranza dei soldati, che rimangono a combattere con obbedienza ed efficienza. In secondo luogo, un certo livello di rifiuto e di repressione è presente in ogni esercito, tanto più in un esercito di massa. 331

Tutti gli eserciti della prima guerra mondiale ebbero gli stessi problemi di quello italiano, anche se la mancanza di studi comparativi non permette un confronto articolato (94). In terzo luogo, una parte minore di questi rifiuti hanno un carattere definitivo, sono cioè espressione della decisione di uscire dalla guerra a qualsiasi costo, come l'autolesionismo, mentre altri sono gesti di protesta o insofferenza dovuti alla straordinaria tensione della trincea, ma recuperabili (a cominciare da quelli che furono liquidati senza una denuncia ai tribunali). Si ricordi che le pene fino a sette anni venivano sospese e i condannati rispediti in trincea, dove non si comportavano diversamente dagli altri soldati. Infine viene da chiedersi fino a che punto questi rifiuti non fossero dovuti alla scelta dei comandi di anteporre la repressione alla ricerca di un miglioramento delle condizioni di vita dei soldati. Se analizziamo le 101 mila 700 condanne per diserzione, vediamo che solo 3000 riguardano la diserzione con passaggio al nemico, ossia una scelta definitiva (si tratta però di processi contro prigionieri che non possono difendersi, in una parte dei casi non hanno disertato, ma sono stati catturati dal nemico), e 6300 la fuga dal reparto in trincea; nella stragrande maggioranza delle condanne sono compresi sia i soldati che scappavano dalle retrovie nell'illusione di nascondersi fino al termine della guerra, sia quelli che si prendevano arbitrariamente una licenza, sia quelli che prolungavano di qualche giorno una licenza legittima. Tutte queste diserzioni si sarebbero verificate se il soldato italiano avesse avuto il regime di licenze più intelligente e generoso garantito al soldato francese? Passiamo ora ai rifiuti collettivi, più gravi come indice di crisi. Non ci occupiamo dei reati di resa e sbandamento, che pure danno 5300 condanne su 8500 denunce, perché la documentazione non consente un'analisi dettagliata e perché è sempre difficile e molto soggettivo stabilire nelle fasi del combattimento se un reparto che si ritira o viene disperso lo fa per cedimento interno o perché costretto 332

dalla superiorità del nemico. La ripartizione per anno di queste condanne (1800 nel 1915, 2300 nel 1916, poi un rapido calo nel 1917 fin quasi alla scomparsa nel 1918) ci dice come fossero dovute a una politica di repressione dei comandi più che alle vicende reali del fronte. Ci soffermiamo invece sui rifiuti collettivi di obbedienza, in sostanza le manifestazioni di protesta delle truppe, su cui abbiamo una documentazione incompleta, ma interessante. Non conosciamo fenomeni collettivi di insubordinazione di reparti in trincea, in Italia come sugli altri fronti; dinanzi al nemico si hanno soltanto fughe o gesti di ribellione individuali. La protesta collettiva nasce sempre in reparti di fanteria a riposo nelle immediate retrovie del fronte; gli undici casi documentati (tre del 1916, otto del 1917) riguardano tutti reparti che ricevono l'ordine di tornare in prima linea e, col favore delle tenebre, protestano vivacemente all'interno dell'accampamento sparando in aria. Con una sola eccezione, la protesta si ferma qui, all'alba i reparti si ricompongono e prendono la via della trincea. Anche se la memorialistica narra di una serie di casi analoghi, è lecito presumere che questi undici fossero i più gravi, perché la loro repressione comportò una serie di esecuzioni sommarie (una quarantina, più i ventotto della Catanzaro) con il ricorso alla decimazione (il sorteggio dei soldati da fucilare) in almeno quattro casi (95). In un solo caso si può parlare di rivolta: nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917 nell'accampamento della brigata Catanzaro ci furono confuse sparatorie, fuoco di mitragliatrici e propositi di resistenza, con un totale di 2 ufficiali uccisi e 2 feriti, 9 soldati uccisi e 25 feriti. All'alba la rivolta cessò dinanzi allo spiegamento delle truppe accorse. Furono subito fucilati 16 indiziati e 12 sorteggiati, poi la brigata tornò in linea. Una successiva inchiesta della magistratura portò all'arresto di 123 soldati, numerose condanne e altre 4 fucilazioni, senza che fosse trovato alcun indizio di organizzazione o premeditazione della protesta, come in tutti i casi analoghi (96). 333

Come valutare queste proteste collettive? La prima cosa da dire è che scoppiano senza una logica, in brigate provate dalla trincea, ma non diverse dalle altre. L'elemento forse più interessante è che, lasciando da parte il caso della Catanzaro, la protesta rimase sempre in limiti precisi: gli ufficiali non vengono presi di mira, le nutrite sparatorie in aria provocano un solo ferito nei dieci casi documentati, i soldati si rimettono in ordine all'alba senza bisogno di interventi, i reparti tornati in trincea si comportano come gli altri. Gli episodi di protesta analoghi che non sono compresi nella nostra documentazione non furono certamente più gravi, tanto che furono risolti senza esecuzioni sommarie; secondo più testimonianze, gli ufficiali dei reparti coinvolti tendevano generalmente a proteggere i loro uomini. Oltrepassare i limiti citati era facile, come dimostra il caso della Catanzaro, il fatto che in tutti gli altri casi fossero rispettati ci sembra degno di nota: che ogni volta centinaia di soldati scaricassero in aria il fucile senza rivolgerlo contro gli ufficiali (di notte si poteva sperare nell'impunità), vuol dire che conoscevano la differenza tra una protesta e una rivolta (piccola soltanto per i codici militari) e che la loro protesta si collocava all'interno della guerra, non era un'illusoria fuga dal conflitto. Abbiamo una possibilità di confronto specifica, gli ammutinamenti dell'esercito francese del 1917. Li presenteremo appresso, per ora ci limitiamo a dire che si svolgono più o meno nei limiti delle proteste collettive italiane, ma su scala molto più vasta e con conseguenze ben più gravi. I comandi francesi non accusarono i soldati di tradimento o di viltà, bensì arrivarono alla conclusione che la protesta era dovuta alla stanchezza delle truppe, alle perdite spaventose, ai troppi assalti mal condotti, alle pessime condizioni di vita nelle trincee; e accettarono di modificare la condotta della guerra. Per gli studiosi francesi questi ammutinamenti sono uno degli aspetti della guerra, da studiare senza arrivare a mettere in discussione l'obbedienza e il rendimento complessivo dei soldati. Non si capisce perché le proteste collettive italiane, di tanto più 334

limitate, dovrebbero rappresentare un rifiuto più grave, tale da compromettere l'efficienza dell'esercito. Così non furono considerate dagli alti comandi, che non le ritennero tanto preoccupanti da dover modificare la loro gestione della guerra; Cadorna ne scaricò la responsabilità sul disfattismo socialista e cattolico, sul governo, sul paese, ma per quanto era di sua competenza si limitò a ordinare repressioni draconiane, senza mai pensare di dover rivedere la sua strategia offensiva o più semplicemente di doversi impegnare nel miglioramento delle condizioni di vita delle truppe in trincea. In sostanza, fece il possibile per alimentare lo scontento delle truppe. Veniamo a una conclusione. Consenso e rifiuto dei soldati vanno misurati all'interno di quella tragedia collettiva che furono il primo conflitto mondiale a livello culturale e politico e la guerra di trincea a livello militare. Milioni di soldati portati al fronte avevano logicamente sentimenti diversi nei confronti della guerra, dall'adesione al rifiuto, passando attraverso gradi di partecipazione diversi, comunque sempre mediati da un'educazione all'obbedienza. E la macchina militare aveva una collaudata capacità di creare e imporre consenso. Il buon rendimento dell'esercito italiano in tre anni e mezzo di operazioni, pur con tutti i limiti di mezzi e di cultura, gli insuccessi e le sconfitte che abbiamo indicato (e indicheremo per l'ultimo anno di guerra) è la prova migliore che un consenso dei soldati c'era, anche se beninteso è impossibile sapere in quale misura fosse attivo o passivo, adesione politica o semplice obbedienza (e naturalmente c'era anche una percentuale di estraneità alla guerra). Questo consenso coesiste con un margine di rifiuto articolato, non quantificabile, ma diffuso, che è soprattutto la reazione alla durezza della guerra, alle perdite altissime, alle condizioni di vita in trincea, alla mancanza di attenzione per i soldati. E si traduce sia in tentativi di fuga definitiva (come l'autolesionismo o la diserzione senza ritorno all'interno o verso il nemico), sia in gesti di rivolta individuale, sia in 335

fughe temporanee, spesso ricuperabili alla trincea. Sono comportamenti comuni a tutti gli eserciti, ancora da studiare in termini comparati, forse più gravi in Italia sia per la minore acculturazione di parte delle masse, sia per l'impostazione data alla guerra, di aggressione e non di difesa, sia per la scarsa attenzione che gli alti comandi dedicano alle esigenze morali e materiali dei soldati. Non autorizzano comunque a presentare l'esercito italiano come dominato dall'insubordinazione individuale e collettiva, la realtà dominante è l'obbedienza e il consenso dei soldati. Lo studio della guerra di trincea non consente conclusioni perentorie, il comportamento di milioni di uomini non può essere rinchiuso in formule rigide, nessuno potrà mai spiegare in termini esaustivi perché costoro abbiano affrontato gli orrori della trincea e la morte. La ricerca storica può arrivare fino a un certo punto, oltre rimane soltanto il rispetto per questi uomini e il loro sacrificio.

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NOTE. AL CAPITOLO 4. 1. Kurt Suckert (Curzio Malaparte), "Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti", Milano, Mondadori, 1981, p. p. 60-61. 2. Agostino Gemelli, "Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare", Milano, Treves, 1917. 3. Piero Jahier, "Con me e con gli alpini", Firenze, La Voce, 1919. 4. Mario Isnenghi, "Giornali di trincea 1915-1918", Torino, Einaudi, 1977. 5. Carlo Emilio Gadda, "Il castello di Udine", Torino, Einaudi, 1961; Id., "Giornale di guerra e di prigionia", Torino, Einaudi, 1965, ripubblicato con l'aggiunta di un "Taccuino di Caporetto. Diario di guerra e di prigionia (ottobre 1917-aprile 1918)", a cura di Sandra e Giorgio Bonsanti, note di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1991. 6. Carlo Salsa, "Trincee", Milano, Sonzogno, 1924, p. 125. 7. Lucio Fabi, "Gente di trincea", Milano, Mursia, 1994, p. p. 29-35. 8. E' la condizione umana al centro dell'omonima opera di E. J. Leed, cit. 9. L. Fabi, "Gente di trincea", cit., p. p. 35-36. 10. La quotidianità dell'uomo comune in guerra e le reazioni e adattamenti del soldato semplice vengono più direttamente scandagliati - dopo l'azione pionieristica della rivista trentina «Materiali di lavoro» - dalle collane specificamente dedicate alla raccolta, edizione e studio dei 337

testi della "scrittura popolarè: corrispondenza, diari, memorie, citate alla nota 64 del capitolo 2. 11. Federico Croci, "Scrivere per non morire. Lettere dalla Grande Guerra del soldato bresciano Francesco Ferrari", prefazione di Antonio Gibelli, Genova, Marietti, 1992; Rosalba Dondeynaz, "Selma e Guerrino. Un epistolario amoroso (1914-1920)", introduzione di Luisa Passerini, Genova, Marietti, 1992. 12. Ne ha ripetutamente ragionato Emilio Franzina, utilizzando come fonte le lettere popolari dall'emigrazione e dalla guerra, che sono gli «eventi separatori» per eccellenza all'origine del bisogno di scrivere e leggere degli illetterati. Conf. anche "I luoghi della scrittura autobiografica popolare", atti del terzo seminario nazionale, Rovereto, 1-3 dicembre 1989, «Materiali di lavoro», 1990, n. 1-2; e ancor prima "La scrittura popolare della guerra. Diari di combattenti trentini", relazione presentata da Gianluigi Fait, Diego Leoni, Fabrizio Raserà e Camillo Zadra al convegno di Rovereto del 1985, i cui atti sono stati pubblicati con il medesimo titolo del convegno: Diego Leoni, Camillo Zadra (a cura di), "La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini", Bologna, Il Mulino, 1986. 13. Mario Muccini, "Ed ora, andiamo. Il romanzo di uno scalcinato", Milano, Garzanti, 1939. 14. C. Salsa, "Trincee", cit., p. 70. 15. Fra le eccezioni da segnalare, in aggiunta alle raccolte di testi popolari già menzionate, il "Diario di guerra di un contadino toscano", di Giuseppe Capacci - mezzadro dell'aretino -, uscito a cura di Dante Priore e con note introduttive di Mario Isnenghi e di Pietro Clemente, Firenze, Cultura, 1982. 16. C. Salsa, "Trincee", cit, p. p. 292-294. 338

17. C. Salsa, "Trincee", cit., p. 294. 18. C. Salsa, "Trincee", cit., p. 76. 19. Emilio Lussu, "Un anno sull'Altipiano", Torino, Einaudi, 1964, p. 105 [1a ed. Parigi, Edizioni italiane di cultura, 1938]. 20. C. Salsa, "Trincee", cit., p. p. 75-76. 21. Giulio Cesare Ferrari, "Osservazioni psicologiche sui feriti della nostra guerra", «Rivista di psicologia», 1915, p. p. 171-172. 22. Giorgio Rochat, "Gli arditi della grande guerra. Origini, battaglie e miti", Milano, Feltrinelli, 1980 [2a ed. Gorizia, Editrice goriziana, 1990]. 23. Antonio Gibelli, "L'esperienza di guerra. Fonti medicopsichiatriche e antropologiche", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit.; e nello stesso volume Bruna Bianchi, "Delirio, smemoratezza e fuga. Il soldato e la patologia della paura"; di Antonio Gibelli si veda poi il volume "L'officina della guerra", Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pure impegnato sulla fenomenologia della "follià di guerra. 24. Giovanna Procacci, "Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite", Roma, Editori Riuniti, 1993. 25. La parabola del diritto e delle sue applicazioni militari nel saggio di Alberto Monticone che apre il volume di E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit. 26. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit., p. p. 464-465. 339

27. Attilio Frescura, "Diario di un imboscato", Bologna, Cappelli, 1921, p. p. 170-172. La prima edizione, non depurata come le successive, esce a Vicenza nel 1919, presso la Tipografia editrice Galla. 28. Irene Guerrini, Marco Pluviano, "Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale", Udine, Gaspari, 2004. 29. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit., p. 435. 30. Giovanna Procacci, "Dalla rassegnazione alla rivolta. Osservazioni sul comportamento popolare in Italia negli anni della prima guerra mondiale", «Ricerche storiche», 1989, n. 1. 31. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit., p. p. 460-461. 32. Bruna Bianchi, "Le ragioni della diserzione. Soldati e ufficiali di fronte a giudici e psichiatri (1915-1918)", «Storia e problemi contemporanei», 10 (1992). 33. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit., p. 450. 34. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit., p. 451. 35. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit., p. p. 442-443. 36. Irene Guerrini, Marco Pluviano, "Le sommarie nella prima guerra mondiale", cit.

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fucilazioni

37. Conf. i saggi già citati di B. Bianchi e A. Gibelli in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit.; e dello stesso A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., il cui sottotitolo recita appunto "La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale". 38 Leonid Andreev, "Il riso rosso", Milano, Sonzogno, s. d. (ma 1915). 39. L. Andreev, "Il riso rosso", cit., p. 40. 40. Giuseppe Sacchini, "Il reato "diserzioné nei soldati ricoverati nell'Ospedale militare psichiatrico di Mombello", citato da A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., p. 133. 41. A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., p. 133. 42. A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., p. 134. 43. A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., p. p. 123-131. 44. A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., p. 122. 45. A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit., p. 122. 46. B. Bianchi, "Delirio, smemoratezza e fuga", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit., p. 98. 47. B. Bianchi, "Delirio, smemoratezza e fuga", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit., p. 78. 48. B. Bianchi, "Delirio, smemoratezza e fuga", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit., p. 78. 49. A. Gemelli, "Il nostro soldato", cit.

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50. Roberto Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra. Cappellani militari e preti- soldati (1915-1919)", prefazione di Alberto Monticone, Roma, Studium, 1980, p. 8. 51. E' il titolo dell'opera di L. Ganapini, cit. 52. R. Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra", cit., p. p. 207-208. 53. R. Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra", cit, p. 10. 54. R. Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra", cit., p. p. 79-84. 55. R. Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra", cit., p. p. 126-127. 56. Giovanni Semeria, "Memorie di guerra offerte per gli orfani a tutti i buoni Italiani", Roma- Milano, Amatrix, s. d. Si tratta di scritti del 1920 e 1921, in parte usciti in una prima edizione in Sudamerica, poi più volte negli anni venti e aperti da una dedica a Cadorna. Conf. inoltre Id., "Nuove memorie di guerra", Milano, Amatrix, s. d.; Id., "I miei ricordi oratori", Milano- Roma, Amatrix, 1927-1929; Id., "I miei tempi. Volume II de I miei ricordi oratori", Milano, Amatrix, 1929. La Amatrix è l'editrice dell'Opera nazionale orfani di guerra di Semeria e Minozzi, sorta nel 1921 e che vanta decine di orfanotrofi, asili infantili, laboratori e colonie alpine sparsi in tutta Italia. 57. Girolama Borella, Daniele Borgato, Roberto Marcato, "Chiedo notizie di vita o di morte. Lettere a un, cappellano militare della Grande Guerra", con una "Introduzione" di Mario Isnenghi e una antologia di lettere, Rovereto, Museo Italiano della guerra, 2004. 58. Si vedano il saggio di Alberto Monticone, "Il regime penale nell'esercito italiano durante la prima guerra 342

mondiale", e la raccolta di imputazioni e di sentenze dei tribunali militari in E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit. 59. Emilio Franzina, "Il tempo libero dalla guerra. Case del soldato e postriboli militari", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit., ora ampliato in volume, "Casini di guerra. Il tempo libero dalla trincea e ipostriboli militari", Udine, Gaspari, 1999. 60. Si tratta della circolare Cadorna n. 268, 11 giugno 1915, «Vigilanza e disciplina del meretricio», cit. da E. Franzina, "Il tempo libero dalla guerra", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit. 61. Marco Pluviano, "Le case del soldato", «Notiziario dell'Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia», 36 (dicembre 1989), p. 8. 62. E. Franzina, "Il tempo libero dalla guerra", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit, p. 183. 63 E. Franzina, "Il tempo libero dalla guerra", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit., p. 174. 64. Giovanni Minozzi, "Ricordi di guerra", 2 voli., Amatrice, Tipografia dell'Orfanotrofio maschile, 1956. 65. G. Minozzi, "Ricordi di guerra", cit., vol. 1, p. 14. 66. G. Minozzi, "Ricordi di guerra", cit., vol. 1, p. 198. 67. M. Pluviano, "Le case del soldato", cit., p. 21. 68. Desumo i dati da Emanuela Scarpellini, "Teatro e guerra", in Alceo Riosa (a cura di), "Milano in guerra (19141918). Opinione pubblica e immagini delle nazioni nel primo conflitto mondiale", Milano, Unicopli, 1997, p. p. 153-179. 343

69. Anche se provenienti da fonti ufficiali, queste cifre presentano qualche margine di approssimazione perché manca uno studio esaustivo sullo sviluppo del servizio sanitario. 70. Conf. Philippe Masson, "L'homme en guerre 19012001", Paris, Ed. du Rocher, 1997, p. p. 103 seg. Sono dati validi per l'esercito francese: quelli che abbiamo per l'esercito italiano sono simili, ma meno sicuri. 71. Gino Frontali, un medico poi illustre, ragiona sulla sua esperienza di ufficiale medico pubblicando durante la guerra, nel 1916, il saggio di natura tecnica "Il medico di battaglione", mentre solo ottant'anni dopo verranno stampate le sue note diaristiche, con il titolo "La prima estate di guerra", e una "Introduzione" di Mario Isnenghi, Bologna, Il Mulino, 1998. 72. P. Masson, "L'homme en guerre", cit., p. 107. 73. Ministero della Guerra, "I rifornimenti dell'esercito mobilitato durante la guerra alla fronte italiana 1915-1918", Roma, 1924, p. 248. Mancano i dati per gli anni precedenti. Quelli riportati comprendono gli ospedalizzati per malattia provenienti sia dal fronte che dal paese. Nel 1917 gli ospedalizzati per ferita furono 302 mila 400, e 120 mila 600 nel 1918; non sono cifre confrontabili con quelle degli ammalati, perché un buon numero di feriti morivano prima di arrivare agli ospedali. 74. Secondo i calcoli di Corrado Gini, presidente dell'Istituto centrale di statistica, i caduti fino al dicembre 1918 erano 402 mila per ferita e 169 mila per malattia. Nel settembre 1925 i morti erano saliti a 652 mila (F. Zugaro, "La forza dell'esercito", cit., p. XIV). Sono i dati più attendibili, anche se da integrare. Tenendo conto che dei 100 mila morti in prigionia soltanto una piccola percentuale 344

decedette per le ferite riportate prima della cattura (e la grande maggioranza per le conseguenze della fame disperata), si può calcolare che dei 500 mila caduti al fronte e nelle retrovie entro dicembre 1918 i morti per ferita furono circa 400 mila e quelli per malattia 100 mila. Non sappiamo invece come ripartire i 50000 deceduti dopo il 1918 per le conseguenze delle ferite e delle malattie di guerra. 75. Giorgio Cosmacini, "Storia della medicina e della sanità in Italia", Roma- Bari, Laterza, 1987, p. 407. Nei reggimenti italiani intorno al 1880 era considerato normale perdere per malattia una decina di soldati all'anno su una forza media di 1000 giovani fatti abili alla visita di leva, che morivano d'inverno per le malattie polmonari e la tubercolosi, d'estate per il tifo e le infezioni intestinali, in ogni stagione per le epidemie, compreso il morbillo. Intorno al 1910 queste morti erano calate a una o due per reggimento, in seguito alle vaccinazioni di massa, al miglioramento dell'igiene nelle caserme, allo sviluppo delle condizioni di vita e alimentazione nel paese. Conf. Giorgio Rochat, "Strutture dell'esercito nell'Italia liberale", in Id., "L'esercito italiano in pace e in guerra", cit. 76. Purtroppo gli studi non hanno fatto molti progressi dall'opera fondamentale di Giorgio Mortara, "La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra", Bari, Laterza, 1925. Si veda Giuliano Lenci, "Caduti dimenticati. I morti per malattie", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit. Soltanto l'incidenza della tubercolosi è stata studiata: conf. Tommaso Detti, "Stato, guerra e tubercolosi, in Storia d'Italia. Annali 7: Malattia e medicina", Torino, Einaudi, 1984. 77. La razione viveri nel 1915 comprendeva 750 grammi di pane, 375 di carne fresca (calcolata sull'animale vivo, compreso tutto lo scarto), 150 di pasta o di riso, 350 di patate (o legumi o verdura), 15 di caffè tostato, 20 di 345

zucchero, un quarto di litro di vino e i condimenti. Le riduzioni successive gravarono soprattutto sulla carne, le patate e il vino. I generi di conforto si riducevano al caffè mattutino e un quartino di vino tre volte alla settimana, salvo distribuzioni straordinarie di alcool e cioccolato prima degli assalti. Nel 1918 veniva distribuito un sigaro al giorno. In sostanza il soldato veniva nutrito, ma con ben poca attenzione ai particolari. Per fare un esempio, in Francia il "pinard", il vino scadente, ma abbondante della razione quotidiana, era considerato un diritto intoccabile del soldato. In Italia la razione di vino fu sempre scarsa per ragioni di gretta economia da parte di comandi troppo lontani, che non riuscivano a capire che in trincea un mezzo litro di vino forniva calorie, aiutava a digerire un rancio spesso ridotto a un pastone freddo e dava al soldato una mezz'ora di preziosa distensione. 78. Bruna Bianchi, "Salute e intervento pubblico nella industria di guerra", in Giovanna Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale", Milano, Franco Angeli, 1983. 79. Giorgio Cosmacini, "Medicina e sanità in Italia nel Ventesimo secolo", Roma- Bari, Laterza, 1989, p. p. 3 seg. 80. Sono rare le testimonianze degli ufficiali dei servizi e di quelli che non andarono al fronte. Poche anche le memorie degli ufficiali superiori e generali, cioè degli ufficiali di carriera, di cui abbiamo soprattutto interventi di tipo tecnico; la loro adesione alla guerra non è comunque dubbia, anche se con differenze che possiamo intuire più che documentare. Non conosciamo scritti di ufficiali contro la guerra: i numerosi interventi polemici, particolarmente violenti nell'immediato dopoguerra, sono rivolti contro la condotta delle operazioni e gli alti comandi, ma non mettono in discussione la necessità del conflitto.

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81. Mario Isnenghi, "I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Padova, Marsilio, 1967. 82. In Germania era tassativamente escluso che un ufficiale potesse provenire dalla truppa; in Francia invece una parte non piccola degli ufficiali creati nel corso del conflitto erano sottufficiali che si erano distinti sul campo. Oltralpe il livello di scolarità era più alto che in Italia, quindi non era raro che giovani che avevano fatto le scuole superiori servissero come soldati, come risulta da una memorialistica più articolata di quella italiana. 83. Roberto Morozzo della Rocca ha messo bene in rilievo la profonda differenza di reazioni tra i preti nominati cappellani, che con l'acquisizione dello "status" di ufficiale maturavano un atteggiamento di adesione alla guerra, e quelli rimasti soldati semplici, in cui l'obbedienza non impediva un giudizio spesso molto più critico. Nell'ultima fase del conflitto costoro erano probabilmente gli unici soldati semplici con un'istruzione superiore, sebbene non valida per la nomina a ufficiale. Conf. R. Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra", cit. 84. Conf. A. Gemelli, "Il nostro soldato", cit.; sulla figura di Gemelli si vedano M. Isnenghi, "Il mito della grande guerra", cit., e Mimmo Franzinelli, "Padre Gemelli per la guerra", Ragusa, La fiaccola, 1989. 85. In un unico caso la ricerca di fonti dirette ha dato risultati tali da permettere un'analisi scientifica. Il gruppo di studiosi di Rovereto che editava la rivista «Materiali di lavoro» con una ricerca capillare più che decennale ha rinvenuto un centinaio tra diari e memoriali di soldati trentini di straordinaria ricchezza, che documentano i vari gradi di consenso, obbedienza, scontento e rifiuto. Purtroppo questi risultati non sono estensibili ad altre situazioni, perché risentono dei problemi particolari del Trentino austriaco, diviso tra la fedeltà all'imperatore e le 347

aspirazioni irredentistiche. I soldati trentini erano inquadrati da ufficiali e sottufficiali austriaci e ungheresi, quindi la loro coesione non può essere messa a confronto con quella dei battaglioni alpini trentini della seconda guerra mondiale. 86. Si vedano le recenti analisi, eccellenti per ricchezza e capacità di andare oltre gli stereotipi tradizionali, di L. Fabi, "Gente di trincea", cit.; Antonio Gibelli, "La grande guerra degli italiani", Milano, Sansoni, 1998; Frédéric Rousseau, "La guerre censurée. Une histoire des combattants européens de '14-18", Paris, Ed. du Seuil, 1999. 87. Il basso numero dei volontari, 8171 al primo luglio 1915, non ha alcun significato, perché l'esercito classificava come tali soltanto chi chiedeva di arruolarsi senza averne obbligo legale, ossia i giovanissimi e gli anziani, oppure gli irredenti. E' quindi inesatta la qualifica di volontari che molti reduci si attribuiscono per indicare il loro interventismo ed entusiasmo. Per l'esercito anche chi rientrava dalle Americhe per fare la guerra, mentre avrebbe potuto restare all'estero senza rischi, non era un volontario, ma soltanto un militare in congedo che rispondeva alla chiamata come era suo dovere. 88. Per le canzoni, non soltanto degli alpini, e le loro infinite varianti e successive manipolazioni conf. A. Virgilio Savona, Michele L. Straniero, "Canti della Grande Guerra", Milano, Garzanti, 1981. Poi Claudia De Marco, "Il mito degli alpini", Udine, Gaspari, 2004. 89. La sociologia militare è nata con la seconda guerra mondiale e per il suo stesso modo di procedere a partire da inchieste sul campo non può essere applicata ai conflitti precedenti. Tuttavia offre una serie di stimoli e di concetti cui siamo grandemente debitori. Per una sintesi degli studi rinviamo a Enrico Pozzi, "Introduzione alla sociologia militare", Napoli, Liguori, 1979 (anche per la discussione 348

dell'opera "American Soldier" appresso citata); Fabrizio Battistelli, "Marte e Mercurio. Sociologia dell'organizzazione militare", Milano, Franco Angeli, 1990; Marina Nuciari, "Efficienza e forze armate. La ricerca sociologica sull'istituzione militare", Milano, Franco Angeli, 1990; Giuseppe Caforio, "Sociologia e forze armate", Lucca, Pacini Fazzi, 1987. 90. Rinviamo all'ottima analisi di F. Rousseau, "La guerre censurée", cit. 91. I rarissimi pacifisti di cui è rimasta traccia non ebbero influenza sulle truppe. Giacomo Matteotti, uno dei pochi esponenti socialisti rimasto fermo su posizioni pacifiste intransigenti, fu richiamato alle armi e relegato in uno sperduto paesino siciliano. 92. La fonte è il fondamentale volume di E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit. L'elaborazione dei dati è di Monticone. Ne risulta che circa il 6 per cento dei militari al fronte venne denunciato ai tribunali e circa il 3 per cento condannato (tenendo conto delle assoluzioni e dei processi non conclusi per il sopravvenire dell'amnistia del 1919). 93. Conf. E. J. Leed, "Terra di nessuno", cit.; A. Gibelli, "L'officina della guerra", cit. Per il dibattito sul rifiuto dei soldati rinviamo alle rassegne di Bruna Bianchi, "La grande guerra nella storiografia italiana dell'ultimo decennio", «Ricerche storiche», 1991, n. 1, e Angelo D'Orsi, "La grande guerra. Ricerca storica e dibattito negli ultimi vent'anni", «Giano», 1989, n. 3, e 1990, n. 4. 94. Per esempio l'esercito francese ha una proporzione di diserzioni decisamente inferiore, anche perché il reato di diserzione scattava dopo tre giorni di assenza, mentre in Italia bastava mancare a due appelli consecutivi, cioè un'assenza di dodici ore per essere proclamati disertori. 349

Rinviamo allo studio di Jules Maurin, "Armée, guerre, société. Soldats languedociens 1889-1918", Paris, Publications de la Sorbonne, 1982. Le fucilazioni dopo un regolare processo furono comunque molto più numerose nell'esercito italiano: 750 contro le circa 600 dell'esercito francese (che aveva due volte più soldati) e le 300 dell'esercito britannico. Mancano dati sulle fucilazioni nell'esercito tedesco, che sembra fossero poche decine (anticipazione sulle ricerche in corso del professor Gert Krumeich), a riprova del fatto che la saldezza delle truppe dipende in primo luogo dall'efficacia dell'inquadramento e dell'addestramento. Molte invece le esecuzioni nell'esercito austroungarico. Nella seconda guerra mondiale l'esercito tedesco condannò a morte 50000 dei suoi soldati e ne fucilò 20000. 95. La fucilazione sul campo degli indiziati dei reati più gravi (senza attendere la convocazione di un tribunale straordinario) o di un certo numero di estratti a sorte quando non fosse possibile individuare singoli responsabili (la cosiddetta decimazione, anche se i fucilati non raggiungevano il 10 per cento dei coinvolti) fu non solo autorizzata, ma tassativamente prescritta da Cadorna a più riprese, con la clausola che le esecuzioni sommarie dovessero avere luogo a caldo e dinanzi alle truppe per servire da ammonimento. Cadorna aveva anche ordinato agli ufficiali di abbattere sul campo i vili che indietreggiassero nell'assalto. Non sappiamo se e in che misura quest'ultimo ordine venisse applicato; le esecuzioni accertate furono circa 300, da aggiungere alle 750 fucilazioni dopo regolare processo. 96. Conf. E. Forcella, A. Monticone, "Plotone d'esecuzione", cit. I dati sulle proteste collettive provengono da un'inchiesta del 1919 sulle esecuzioni sommarie, conf. Irene Guerrini, Marco Pluviano, op. cit. Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. 350

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SECONDO VOLUME. INDICE DEL SECONDO VOLUME. 5. IL FRONTE INTERNO. L'economia di guerra. Il regime di guerra. Le donne e la guerra. I prigionieri. Note al cap. 5. 6. 1917. LA SVOLTA DELLA GUERRA. Un anno di crisi. Caporetto, la battaglia. Caporetto, l'immaginario e le valutazioni storiche. Note al cap. 6. 7. 1918. L'ANNO DELLA VITTORIA. Il ritorno degli intellettuali. Le terre invase. L'esercito di Diaz. La vittoria dell'Intesa. Note al cap. 7. 8. LA GUERRA DOPO LA GUERRA. Dagli armistizi alla pace. La discussione sulla guerra. Note al cap. 8. Note bibliografiche di Mario Isnenghi. Note bibliografiche di Giorgio Rochat. Note bibliografiche alla nuova edizione. 352

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5. IL FRONTE INTERNO. L'ECONOMIA DI GUERRA. - "Caratteristiche generali". La mobilitazione di eserciti di milioni di uomini, i loro sacrifici e le grandi perdite furono la caratteristica più evidente e drammatica del conflitto, che ne ha dominato la memoria e ancora oggi suscita interesse ed discussioni. Ciò che si sviluppò dietro agli eserciti è meno noto ed esaltante, ma altrettanto importante nella decisione della guerra: la mobilitazione dell'economia e della società, quanto mai complessa e articolata, che forniva ai combattenti le risorse necessarie e nel medesimo tempo provocava modificazioni durevoli nella struttura degli stati, dei sistemi di produzione e dei rapporti internazionali. La prima caratteristica di questa mobilitazione fu la combinazione tra intervento pubblico e grandi interessi privati. La civiltà liberale credeva fermamente nella bontà del sistema capitalistico: l'aumento e la concentrazione della ricchezza privata costituivano il presupposto necessario per una rapida accumulazione di capitale, che alla fine avrebbe giovato alla collettività perché il nuovo e più elevato livello di sviluppo delle forze produttive avrebbe consentito un maggiore benessere per tutti. Lo Stato doveva fornire le strutture necessarie alla convivenza di milioni di uomini, ma interferire il meno possibile nello sviluppo economico e non cercare di controllare le forze capitalistiche. Nel 1914 questo schema teorico si rivelò inadeguato: soltanto un intervento pubblico sempre più esteso poteva garantire la mobilitazione delle risorse necessarie per la guerra. Gli interessi privati, soprattutto i grossi interessi capitalistici dovevano però essere rispettati, la collaborazione degli industriali garantita da un alto livello di profitti e dalla libera espansione delle aziende. Era convinzione generale che lo Stato potesse imporre ai 354

cittadini il sacrificio delle loro vite sui campi di battaglia, ma non sequestrare una fabbrica o confiscare realmente i profitti degli imprenditori. Secondo Lenin, il grande capitale industriale e finanziario aveva voluto la guerra e la gestiva per rafforzare il suo predominio all'interno degli stati e sulla scena internazionale. Una interpretazione troppo semplificata per la maggior parte degli studiosi, che preferivano considerare l'economia di guerra come una distorsione drammatica, ma temporanea del sistema capitalistico, utilizzato per scopi non economici, non per lo sviluppo e lo scambio, bensì per la distruzione di risorse. Per gli economisti liberali come Luigi Einaudi, la mobilitazione bellica era una parentesi da superare al più presto con lo smantellamento dell'intervento pubblico e il ritorno alla libera concorrenza. Lenin era certamente troppo schematico quando dimenticava la forza delle passioni nazionalistiche che dominavano il conflitto, ma non aveva torto quando sottolineava che la guerra si risolveva in un generale rafforzamento della grande industria e dell'alta finanza, nonché delle forze politiche loro alleate. Non mancavano però rivalità e contraddizioni; gli interessi dei grandi agrari, per esempio, posero sempre un limite allo sfruttamento razionale delle risorse agricole della Germania, contribuendo alla sconfitta dell'imperialismo tedesco. La nazionalizzazione di tutte le attività economiche e la dittatura staliniana permisero all'Unione Sovietica una mobilitazione totale delle risorse nazionali nel 1941-1945, ma questo non era possibile nel 1914-1918 per i regimi capitalistici, la cui organizzazione per la guerra non poteva che basarsi sul coinvolgimento ben remunerato dell'industria e degli altri interessi privati. ------------------------------------------------Tabella 3. "Spese statali nel periodo bellico e spese di guerra dei paesi belligeranti (in miliardi di dollari)". Spese normali - Spese di guerra. 355

Francia: 5,0 - 28,2 Gran Bretagna: 4,7 - 43,8 Impero britannico: 5,9 - 5,8 Italia: 2,9 - 14,7 Russia: 5,9 - 16,3 Stati Uniti: 2,9 - 36,2 Altri alleati: 3,3 - 2,0 INTESA: 30,6 - 147,0 Germania: 3,3 - 47,0 Austria-Ungheria: 5,4 - 13,4 Bulgaria, Turchia: 1,4 - 1,1 IMPERI CENTRALI: 10,1 - 61,5) ------------------------------------------------Le dimensioni della mobilitazione bellica sono illustrate (conf. Tab. 3) dal confronto tra le spese statali "normalì del periodo bellico e le spese di guerra dei belligeranti (1). Queste enormi spese furono fronteggiate con sistemi analoghi, anche se con logiche differenze nei singoli stati. L'inasprimento del carico fiscale fu dovunque contenuto per non provocare malcontento; i risparmi privati furono rastrellati dalle banche e soprattutto attraverso grandi prestiti nazionali, che facevano appello al patriottismo (sono noti i manifesti con soldati che esigono i mezzi per continuare a combattere, oppure vedove e orfani che implorano di non rendere vano il sacrificio dei loro cari), anche al controllo sociale (le sottoscrizioni erano pubbliche) e alla convenienza (erano garantiti interessi e vantaggi fiscali). In realtà le somme prestate vennero falcidiate dall'inflazione, a tutto danno delle classi medie tradizionali che avevano dato alla guerra i loro risparmi. La fonte maggiore di finanziamento divenne infatti la stampa di carta moneta, che provocò dovunque una svalutazione prima strisciante, poi massiccia (tra guerra e dopoguerra la lira perse l'80 per cento del suo valore). Gli Imperi centrali non avevano altri mezzi di finanziamento, se si escludono lo 356

sfruttamento del Belgio e delle province francesi occupate e le requisizioni operate nei territori conquistati dell'Europa orientale. Gli stati dell'Intesa invece ricorsero su larga scala ai prestiti internazionali. Nella prima fase del conflitto il ruolo di banchieri dell'alleanza fu sostenuto dalla Francia e soprattutto dalla Gran Bretagna, con difficoltà dovute al fatto che i prestiti dovevano essere in dollari perché il principale fornitore di materie prime e di grano erano gli Stati Uniti; poi questi ultimi si assunsero il peso del finanziamento della guerra con evidente vantaggio della loro economia, che forniva appunto quanto serviva agli stati europei. La situazione del debito pubblico interalleato al momento dell'armistizio (conf. Tab. 4) evidenzia questo intreccio di rapporti (2). ----------------------------------------------------------------------Tabella 4. "Debito pubblico interalleato (in milioni di dollari)". Creditori: A USA - B Gran Bretagna - C Francia - Totale. Debitori: Gran Bretagna: A 3.696 - Tot. deb. 3.789 Francia: A 1.970 - B 1.683 - Tot. deb. 3.653 Russia: A 188 - B 2.472 - C 955 - Tot. deb. 3.614 Italia: A 1.031 - B 1.855 - C 75 - Tot. deb. 2.961 Belgio: A 172 - B 434 - C 535 - Tot. deb. 1.141 Altri: A 21 - B 570 - C 672 - Tot. deb. 1.264 TOTALE CREDITORI: A 7.077- B 7.014 - C 2.238 - Tot. deb. 16.423 ------------------------------------------------------------------Queste cifre valgono a ricordare la dimensione internazionale del conflitto: l'esercito italiano condusse le sue battaglie senza apporti rilevanti dall'estero (salvo all'indomani di Caporetto), ma la guerra italiana non sarebbe stata possibile senza gli alleati, il loro dominio del mare che garantiva i rifornimenti necessari e i loro prestiti 357

che permettevano di pagarli. Di conseguenza nella determinazione del ruolo internazionale dell'Italia nel dopoguerra non contavano soltanto i suoi morti (come volevano gli oltranzisti della «vittoria mutilata»), ma anche i suoi debiti. La disperata esigenza di vittoria a qualsiasi costo era dovuta allo scatenamento delle passioni nazionali, ma anche alla speranza di fare pagare i costi della guerra al nemico sconfitto, l'unica possibilità di evitare la bancarotta. Il dopoguerra non avrebbe soddisfatto questa aspettativa (3), abbiamo già abbastanza carne al fuoco per essere scusati se non ce ne occupiamo in questa sede, ma passiamo alle vicende della mobilitazione economica italiana. - "L'organizzazione della guerra italiana". Al momento dell'intervento il parlamento accordò al governo i pieni poteri, cui seguirono amplissime deroghe alle norme di contabilità dello Stato e in pratica l'abolizione dei controlli della Corte dei conti. Ne derivarono il rafforzamento del ruolo del governo (i cui decreti avevano valore di legge) e una crescente autonomia della grande burocrazia, l'esautoramento del parlamento e la drastica riduzione della lotta politica, soffocata da una rigida censura sulla stampa e dal controllo poliziesco. Gli altri belligeranti avevano già preso provvedimenti analoghi, salvando però spazi di critica e di controllo politico maggiori che in Italia. Il rafforzamento dell'autorità del governo, abbiamo già detto, non fu però esteso al campo militare, dove Cadorna godé di un'autonomia quasi illimitata. Per l'organizzazione dello sforzo bellico furono creati nuovi ministeri e organi, come il sottosegretariato per le Armi e Munizioni (luglio 1915, salito a ministero nel 1917), i ministeri dei Trasporti marittimi e ferroviari, degli Approvvigionamenti e Consumi, dell'Assistenza e Pensioni di guerra e altri (i ministeri passarono da 12 a 18), nonché una serie di sottosegretariati e commissariati, con la partecipazione di grosse personalità del mondo industriale. 358

Questa proliferazione di organismi era necessaria, ma diede luogo a rivalità e sovrapposizioni di competenze, anche perché i governi Salandra e Boselli erano troppo deboli per gestire un coordinamento complessivo, che fu cercato soltanto con il governo Orlando, soprattutto per iniziativa del ministro del Tesoro Nitti, in particolare per la razionalizzazione delle forniture militari e per gli acquisti all'estero. Una conseguenza dello sviluppo di questi organismi fu l'incremento del personale della pubblica amministrazione: tra il 1915 e il 1921 gli impiegati dei ministeri salirono da 210 mila a 261 mila, il totale dei dipendenti pubblici da 339 mila a 519 mila (aumentarono soprattutto i ferrovieri, da 119 mila a 222 mila, i corpi di polizia e la guardia di finanza) (4). Va poi ricordato che nella «zona di guerra» il Comando supremo esercitava poteri quasi assoluti: limitata all'inizio alle province venete, alle piazzeforti marittime, alle fortezze e alla costa adriatica, la zona di guerra venne estesa ai principali centri industriali e a parte della Sicilia per un più severo controllo dell'ordine pubblico e dopo Caporetto a quasi tutta l'Italia settentrionale, con competenze crescenti anche in campo civile come l'assistenza ai profughi e poi la ricostruzione dei territori riconquistati o annessi nel 1918. Il Comando supremo e i comandi territoriali dipendenti potevano emanare bandi con forza di legge, anche in deroga alle norme dello Stato e senza alcun controllo da parte delle autorità politiche; e i tribunali militari aprirono 60000 procedimenti giudiziari verso civili per reati come furto e ricettazione, contravvenzione ai divieti di circolazione, soggiorno, attività politica, insubordinazione, oltraggio, lesioni e altri. La struttura più importante e diffusa fu quella della mobilitazione industriale, gestita dal sottosegretariato, poi ministero alle Armi e Munizioni (retto dal generale Alfredo Dallolio) attraverso un comitato centrale e sette, poi undici comitati regionali, in cui militari e funzionari dell'amministrazione pubblica erano affiancati da industriali, tecnici e sindacalisti. La marina militare aveva 359

una lunga consuetudine di rapporti con l'industria privata per la costruzione di navi, corazze, artiglierie, con un intreccio di interessi ben rappresentato dalle vicende delle acciaierie di Terni (5); l'esercito prebellico invece aveva esigenze minori, provvedeva alla fabbricazione di fucili e munizioni negli stabilimenti militari e acquistava all'estero le artiglierie fino al 1911, quando per la prima volta ricorse all'industria nazionale per la costruzione dei cannoni da 75 modello Déport. Bisognava quindi improvvisare dando un'amplissima delega ai comitati per la mobilitazione industriale che cumularono una serie di compiti: la scelta dei materiali da produrre, l'acquisto delle materie prime in Italia e all'estero e la loro assegnazione alle aziende, la stipulazione di commesse (con relativi anticipi) allettanti per gli imprenditori, il controllo quantitativo e qualitativo della produzione. Dovevano poi occuparsi della manodopera, quella militare esonerata dal servizio al fronte e quella civile da reperire e stabilizzare, nonché delle condizioni di lavoro (orari, cottimi, sicurezza) e dei salari (mediazione tra padroni e operai e decisione sulle controversie), ma anche di preparazione professionale, assistenza, previdenza. Le dimensioni dell'attività del sottosegretariato per le Armi e Munizioni (poi ministero con 5.700 addetti) sono evidenziate da alcune cifre. Gli stabilimenti industriali coinvolti e dichiarati «ausiliari» erano 125 nel 1915 con 115 mila operai, 1976 nel 1918 con oltre 900 mila operai (inclusa una sessantina di stabilimenti militari). Erano concentrati prevalentemente in Lombardia (oltre 250 mila addetti), Piemonte, Liguria e zona di Napoli, comprendevano sia grandi fabbriche moderne, sia piccole officine improvvisate per le lavorazioni più semplici, e fornivano tutta la gamma di armamenti, munizioni e materiali richiesti dall'esercito e dalla marina, con qualche fornitura per i francesi e gli americani. In un bilancio dell'attività del sottosegretariato e degli stabilimenti ausiliari, Paola Carucci ha sottolineato l'elevata spesa pubblica, la crescita disorganica dell'industria e lo spazio 360

lasciato a speculazioni spregiudicate, ma anche la mancanza di alternative a questa organizzazione e la sua capacità di garantire il livello di produzione necessario per la guerra (6). - "La manodopera". Sugli operai degli stabilimenti ausiliari e militari abbiamo parecchi studi, ma poche cifre dettagliate. Nel luglio 1918 su 902 mila addetti 322 mila erano militari, di cui 166 mila assegnati temporaneamente, gli altri a titolo definitivo (7). Poiché non bastavano, anche tenendo conto degli operai non richiamati per l'età, l'industria ricorse all'assunzione su larga scala di giovani non ancora in età di leva, anche ragazzi (il limite di 15 anni non era sempre rispettato) e di donne (circa 180 mila, meno che in Germania e in Gran Bretagna dove fornirono il 35 per cento delle maestranze industriali). La manodopera degli stabilimenti militari venne militarizzata, quella degli stabilimenti ausiliari venne assoggettata a un pesante regime disciplinare: sospensione di tutte le conquiste sindacali (a cominciare dal diritto di sciopero), orari e cottimi in funzione dell'emergenza, multe e licenziamenti per donne e ragazzi, disciplina militare per gli uomini (prigione, processi, invio al fronte). Da questo punto di vista soltanto gli operai austriaci vennero trattati come gli italiani, negli altri paesi la disciplina di fabbrica venne mantenuta senza militarizzazione. La caduta dei salari operai fu comunque un fenomeno europeo. In Italia le paghe orarie non vennero aumentate per tutto il conflitto malgrado l'incremento dei costi della vita, quasi raddoppiati nel 1917 (8). Si noti che per mantenere alto il livello della produzione il sottosegretario generale Dallolio non era contrario a miglioramenti salariali (così come concedeva grossi profitti agli imprenditori) e infatti coinvolse i sindacati socialisti nella gestione della mobilitazione industriale promuovendo forme relativamente moderne di contrattazione nazionale e di previdenza. Gli industriali e la 361

maggior parte dei militari avevano però una concezione tradizionale dei rapporti di fabbrica, ossia vedevano nel duro trattamento dei lavoratori il modo migliore per garantire produzione e disciplina. Per tenere testa alla crescita dei costi gli operai potevano contare soltanto sull'aumento delle ore di lavoro e sui cottimi, in misura comunque insufficiente per mantenere il loro potere d'acquisto. Nel 1917-1918 questa situazione portò a una serie di agitazioni operaie, sulle cui dimensioni e caratteristiche si discute ancora, anche perché le informazioni disponibili sono quanto mai ridotte (i rapporti della polizia e poche testimonianze). Si trattava di manifestazioni di protesta e di scioperi spontanei (i sindacati socialisti erano sottoposti a stretti controlli e poco propensi ad azioni dirette di rivendicazione), diffuse capillarmente (anche se non quantificabili con precisione) e brevi, che spesso univano la richiesta della pace a quella di miglioramenti salariali. Forte la partecipazione di donne, le più sfruttate in fabbrica, ma anche meno esposte alle rappresaglie. Queste agitazioni sono testimonianza di un malcontento diffuso, di una protesta contro la guerra esasperata dalle privazioni; considerarle indice di un rifiuto politico e di una situazione prerivoluzionaria è però esagerato se si ha presente quanto avveniva all'estero. In Gran Bretagna le agitazioni sindacali non si interruppero durante il conflitto, malgrado l'appoggio dato alla guerra da laburisti e sindacati: gli operai difendevano salari, condizioni di lavoro, qualifiche professionali, poi il diritto all'esenzione dalla coscrizione obbligatoria, con scioperi di dimensioni anche rilevanti (200 mila minatori gallesi nel luglio 1915). In Germania gli scioperi coinvolsero in media 1000 operai al mese nel 1915, 10000 nel 1916, 50000 nel 1917 e 100 mila nel 1918; traevano generalmente origine dal peggioramento delle condizioni di vita, ma nel gennaio 1918 a Berlino 400 mila operai scioperarono chiedendo una pace senza annessioni né riparazioni (9). Le agitazioni italiane sono decisamente minori, non possiamo dire se per la messa fuori gioco dei 362

sindacati e del Partito socialista, l'articolazione del controllo e della repressione, la debolezza di una manodopera disomogenea e in buona parte nuova, la difficoltà di passare dal malcontento al rifiuto politico. Pesava certamente l'isolamento in cui la scelta neutralista aveva posto i socialisti italiani, che permise la soppressione di ogni attività sindacale e lo scatenamento di un'attiva propaganda contro gli operai imboscati e i loro alti salari, contrapposti ai contadini che combattevano e morivano in trincea, un tema che ha trovato eco ancora nella storiografia contemporanea (10). In realtà nulla lascia credere che al fronte ci fossero divisioni o tensioni tra soldati di origine contadina o operaia, né che gli uni morissero più degli altri; i dati di cui disponiamo sull'estrazione sociale dei caduti sono scarsissimi e non permettono conclusioni (11). La contrapposizione era tra il fronte e il paese, chi stava in prima linea considerava imboscati tutti gli uomini alle sue spalle e non distingueva tra città e campagne. - "L'industria degli armamenti". Nel 1914 l'Italia era un paese semindustrializzato, che in un settore chiave come la produzione dell'acciaio si fermava a 900 mila tonnellate rispetto a 17,6 milioni di tonnellate prodotte annualmente in Germania, 7,8 in Gran Bretagna, 4,8 in Russia, 4,6 in Francia, 3,8 in Belgio, 2,6 in AustriaUngheria. Eppure fu in grado di soddisfare le enormi richieste di armamenti dell'esercito grazie all'organizzazione della mobilitazione industriale già descritta (e naturalmente all'impegno del governo che la rendeva possibile) e a due fattori essenziali: l'apporto degli alleati in materie prime e risorse finanziarie e la relativa semplicità dei processi tecnologici. Gli armamenti fondamentali conobbero un'evoluzione limitata durante il conflitto, i cannoni e le mitragliatrici del 1918 erano gli stessi del 1914 e di costruzione alla portata della nostra industria, con un largo impiego di licenze inglesi e francesi 363

per le maggiori artiglierie e l'utilizzazione disinvolta di brevetti tedeschi e austriaci. Nella seconda guerra mondiale la rapida evoluzione degli armamenti (un aereo o un carro armato del 1939 non era più competitivo nel 1943) avrebbe sottolineato i ritardi tecnologici dell'industria italiana; ma nella prima guerra mondiale le uniche novità furono i gas, di produzione relativamente semplice (anche se nel 1918 fu necessario acquistare maschere antigas inglesi), i carri armati, in preparazione per la primavera 1919 (erano stati ordinati alla Fiat 1400 carri Renault), e gli aeroplani, anch'essi di produzione relativamente semplice e comunque costruiti in buona parte su licenze francesi. Ciò non vuole dire che tutto fosse facile (non tutti gli aerei e cannoni erano di elevate prestazioni e non mancarono fallimenti e truffe), ma spiega i buoni risultati. ------------------------------------------------------------Tabella 5. "La produzione italiana di armamenti". 1) presso l'esercito (nov. 1918) - 2) produzione 1918 mensile o giornaliera - 3) produzione tot. 1915-1918. fucili e moschetti - 1.260.000 - 3.900/giorno - 3.135.343 mitragliatrici - 24.934 - 1.200/mese - 37.029 bombarde - 4.864 - 100/mese - 7.000 artiglierie vari calibri - 9.021 540/mese - oltre 16.000 munizioni cal. 6,5 millimetri - 364. 497.000 - 3.400.000/g 3.616.000.000 munizioni per bombarde - 3.389.000 - 357.000/mese 7.300.000 munizioni per artiglierie - 20.972.000 - 88.400/giorno 70.000.000 bombe a mano - 9.000.000 - 45.000/giorno - 22.360.000 ------------------------------------------------------------Nella tabella 5 diamo le cifre principali sulla produzione (12). A titolo di confronto, l'industria britannica produsse 21000 cannoni, 240 mila mitragliatrici, 4 milioni di fucili, 364

195 milioni di granate d'artiglieria e 55000 aeroplani, in parte ceduti agli alleati (13). I risultati dell'industria italiana risultano di tutto rispetto, tanto più che bisognerebbe aggiungere le costruzioni navali e aeronautiche. Senza entrare in una disamina dettagliata, ci limitiamo a riprendere alcune osservazioni di Andrea Curami sulla produzione di artiglierie, cominciando col dire che la differenza tra i 9021 cannoni in distribuzione al novembre 1918 e gli oltre 16000 costruiti si spiega in parte con le perdite di Caporetto, 3152 pezzi, quelle normali in combattimento o per logorio e i 1000 pezzi esistenti nelle retrovie al novembre 1918 per addestramento o riserva; tuttavia rimane una discrepanza di circa 2000 pezzi. Il fatto è che manca una cifra sicura sul totale delle artiglierie costruite, perché i comitati di mobilitazione non tenevano una contabilità dei contratti che passavano alle aziende (oltre 27000, più un numero imprecisato di ordinativi informali o addirittura verbali); per stabilire le sue statistiche, il ministero dovette chiedere alle industrie quanti cannoni avessero fornito, ottenendo risposte incomplete o largamente imprecise (l'Ansaldo, la maggiore fornitrice di cannoni, diede in epoche diverse dati che variavano di un migliaio di pezzi). Va tenuto presente che il conteggio era più difficile per i cannoni, perché bocche da fuoco, masse oscillanti, affusti e strumenti di puntamento erano costruiti spesso da ditte diverse, a differenza dei fucili o delle granate commissionate a una sola azienda. L'impossibilità di avere dati sicuri sulla produzione di cannoni è significativa della confusione con cui fu condotta la produzione bellica: i materiali arrivavano al fronte, e questo era ciò che contava per Cadorna e Dallolio, ma con sprechi e sperperi che ne aumentavano il costo per lo Stato (13). Dopo di che si può capire come i profitti dichiarati dagli industriali, pur notevoli, non meritino particolare fiducia. Sono più interessanti gli aumenti del capitale societario: quello dell'Ansaldo passò da 30 milioni nel 1916 a 500 nel 1918, con investimenti dichiarati per 588 milioni a fronte di 365

42 milioni di valore degli impianti al 1914, mentre gli addetti passavano da 6000 a 56000 nel 1919, 111 mila considerando le aziende affiliate. Nel giro di pochi anni una media azienda era diventata un colossale complesso articolato nei settori siderurgico, meccanico e marittimo, capace di produrre migliaia di cannoni e di aerei e 96 navi da guerra, tra cui una corazzata, per poi crollare nel dopoguerra, non appena finirono le lucrose commesse belliche. Altrettanto rapide l'espansione e poi la crisi dell'Ilva, un altro colosso siderurgico che in tre sole forniture aveva venduto allo Stato acciaio per 700 milioni. Un'altra crescita spettacolosa fu quella della Fiat, che costruendo automezzi (il 92 per cento della produzione nazionale), aerei, mitragliatrici, motori marini, passò da 4000 a 40500 addetti; il complesso creato era però omogeneo (tre quarti del settore metalmeccanico piemontese) e non legato soltanto alle commesse militari, quindi la società poté affrontare con successo la riconversione postbellica. Una vicenda eccezionale fu quella della Caproni, che partendo da zero e senza mai raggiungere «una vera e propria organizzazione industriale di lavoro» (come denuncia un'inchiesta ministeriale del 1916), riuscì a imporsi come il primo costruttore aeronautico nazionale e nel 1917 a farsi finanziare il piano per la consegna in 12 mesi di 2200 bombardieri che si risolse in un completo fallimento, con la richiesta di restituzione di 300 milioni sui 363 già incassati (15). Ci fermiamo qui, ripercorrere le vicende della mobilitazione industriale nei suoi diversi settori, dal metalmeccanico a quello chimico, cantieristico o idroelettrico, non rientra nei limiti di questo volume (16). Si deve apprezzare l'ottimo risultato complessivo, nel 1917-1918 l'esercito ebbe quanto chiedeva, ma pure rilevare che la guerra costituì una colossale occasione di sviluppo per buona parte dell'industria italiana. Non avrebbe senso rimproverare agli industriali di essersi arricchiti con le commesse belliche perché l'amministrazione pubblica non era in grado di controllare i loro profitti, ma si deve ricordare che costoro 366

non temettero di giustificare frodi, sprechi e guadagni con l'ansia patriottica di fornire le armi per la vittoria; e che la stessa propaganda che rimproverava avaramente agli operai i loro salari e i loro esoneri non esitò a presentare gli industriali come benemeriti della patria. Le inchieste e i processi del dopoguerra accumularono materiale per gli storici, ma non scalfirono le posizioni di potere che la guerra aveva dato agli industriali. - "Il costo della guerra". Per la grande maggioranza degli italiani la guerra significò impoverimento. L'agricoltura fu colpita dalla sottrazione degli uomini più forti, dalla requisizione di parte del bestiame (2 milioni 750 mila bovini su circa 6 milioni), dalla scarsezza di concimi chimici; il lavoro nei campi ricadde sugli anziani, le donne, i ragazzi, con il rinvio degli interventi di manutenzione e valorizzazione dei terreni. Diminuirono le aree seminate, la resa per ettaro, i raccolti. Per il grano si passò da 5 milioni 767 mila ettari coltivati nel 1913 a 4 milioni 366 mila nel 1918, da una resa media di 12,3 quintali per ettaro a 8,9 nel 1917. Sui consumi pesavano le esigenze dell'esercito: la razione del soldato richiedeva 136 chilogrammi di carne all'anno contro i 15 dei civili, quasi un chilo di pane al giorno mentre il tesseramento ne garantiva ai civili da 200 a 400 grammi (il rancio in trincea restava insufficiente, ma questo è un altro problema). Fu l'apporto degli alleati a salvare il paese dalla fame, le importazioni di cereali dalla Russia vennero sostituite da quelle dagli Stati Uniti, grazie ai prestiti di guerra. I consumi alimentari comunque diminuirono per l'aumento dei prezzi, il calmieramento di quelli essenziali si rivelò insufficiente e nel 1917 fu introdotto il tesseramento. Nell'estate 1917 una crisi dei rifornimenti di grano, dovuta ai successi della guerra sottomarina tedesca (la produzione nazionale dava soltanto 40 dei 70 milioni di quintali necessari), portò le grandi città sull'orlo della rivolta (con 367

gravi disordini a Torino dal 21 al 25 agosto, repressi con 35 morti e una serie di processi). Abbiamo già detto che le privazioni degli anni di guerra provocarono 546 mila 450 casi di morte in più del normale, secondo una stima del Consiglio superiore della sanità, e una recrudescenza impressionante della malaria (6 milioni di colpiti, 10000 morti nel 1918), della tubercolosi (oltre 2 milioni di ammalati, 51000 morti nel 1915 e oltre 70000 nel 1918), di altre malattie endemiche. Si aggiunsero il peggioramento delle condizioni del lavoro nelle fabbriche e l'insorgere di nuove malattie professionali, come le intossicazioni nell'industria degli esplosivi, in cui ci si preoccupava soltanto di evitare gli scoppi. L'attività di prevenzione e tutela igienico- sanitaria negli stabilimenti industriali fu infatti limitata e boicottata, sempre in nome delle esigenze prioritarie della produzione per il fronte (17). Non è possibile calcolare il costo della guerra italiana in tutti i suoi aspetti, né avrebbe molto senso dare elenchi di cifre di prezzi e spese; tuttavia alcuni dati possono evidenziare il fortissimo impegno dello Stato. Secondo le elaborazioni dei bilanci condotte da Antonio Pedone, le spese militari assorbono dal 21 al 27 per cento della spesa pubblica nei primi cinquant'anni di vita unitaria, passano al 76 per cento nel periodo 1913-1919 (il 15 per cento va per il debito pubblico e l'amministrazione generale, il 2 per giustizia e polizia, il 2 per l'istruzione, il 4 per i servizi economici), restano al 43 per cento negli anni 1920-1928 per la liquidazione delle spese di guerra e assistenziali e poi si aggirano sul 20-21 per cento fino al 1963 (da notare la scarsa incidenza delle spese per la guerra 1940-1943). Sono forse più significative le percentuali delle spese militari sul reddito lordo nazionale: il 3 per cento dal 1862 al 1912, il 38 per cento nel 1913-1919, l'8 per cento nel 1920-1928, poi il 5-6 per cento fino al 1963 (18). Francesco A. Repaci ha rielaborato i bilanci statali, dividendo le spese normali da quelle eccezionali dovuteci conflitto, sia civili che militari, arrivando alla conclusione che il costo finanziario complessivo della guerra italiana fu 368

di 128,2 miliardi di lire correnti, pari a 39686 milioni di lire 1913-1914. A titolo di confronto nel 1913-1914 il bilancio dello Stato contava 2287 milioni di entrate e 2.501 di uscite, il che significa che i tre anni e mezzo di guerra costarono come 16 bilanci normali di pace. Il debito estero ammontò a 11606 milioni di lire prebelliche, il 29 per cento del costo complessivo della guerra (19). Per quanto sommarie, queste cifre attestano la capacità della classe dirigente liberale di spremere dal paese i sacrifici di sangue e le risorse economiche per condurre la guerra con efficacia. Non abbiamo taciuto i limiti di questa mobilitazione, che vanno comunque rapportati alle dimensioni inaudite dello sforzo bellico, e infatti si ritrovano anche negli altri stati europei. Un quarto di secolo più tardi l'Italia fascista fallirà senza appello la prova della guerra che l'Italia liberale aveva portato a termine con successo. * IL REGIME DI GUERRA. - "L'opera dei governi". La destra liberale caratterizza il governo Salandra, per la presenza dello stesso presidente del Consiglio agli Interni e di Sidney Sonnino - tradizionale uomo-guida dei conservatori nello storico partito di governo della borghesia nazionale - agli Esteri. Figura di rilievo e in sintonia anche il vecchio patriota Ferdinando Martini (Colonie), mentre un tocco di liberalismo più moderno e un ruolo di mediazione si ha con Orlando (Giustizia) che ha fatto tutta la sua carriera di ministro accanto a Giolitti. L'ingresso di Orlando e la sostituzione di Antonino di San Giuliano (deceduto) con Sonnino segnano nel novembre 1914 il passaggio dal primo al secondo governo Salandra, che durerà sino ai giorni della Strafexpedition (18 giugno 1916). Con Boselli la composizione si allarga di qualche unità (restano comunque governi con pochi ministeri, di 10-15 persone) e copre uno 369

spazio politico un po’ più largo e variegato: si agganciano i cattolici (Filippo Meda alle Finanze) e la simbolica pattuglia dei socialriformisti radiati nel 1912 dal Partito socialista: Ivanoe Bonomi ai Lavori pubblici, ma soprattutto - per quanto ministro senza portafoglio - la prestigiosa figura di Leonida Bissolati. Se si considera che Orlando sale al ministero strategico degli Interni al posto di Salandra e che il nuovo presidente del Consiglio ha figura e ruolo di mediatore, a differenza del politicamente più caratterizzato Salandra, ne consegue un bilanciamento di Sonnino, il quale, rimanendo agli Esteri dall'inizio alla fine della guerra, si conferma comunque come l'uomo forte e l'elemento di continuità dei tre governi. Da segnalare nel giugno 1917 l'istituzione del nuovo ministero delle Armi e Munizioni, importante organo tecnico- politico di coordinamento affidato all'energica figura del generale Dallolio. In piena crisi di Caporetto, il 30 ottobre 1917 diventa presidente del Consiglio Orlando, che mantiene anche gli Interni. Entra, e fra i ministri che contano (Finanze), un uomo nuovo e politicamente ambizioso, riformista, il professore di Scienze delle finanze Francesco Saverio Nitti (nel 1919 sarà il successore di Orlando e più avanti un esule antifascista). Collaterale per quantità e collocazione rispetto agli uomini del partito liberale, ma ugualmente rilevante negli equilibri e corresponsabilità cui allude, la permanenza di qualche figura di cattolico e di socialista riformista. Fra i primi atti politici del nuovo governo l'allontanamento di Cadorna e la sua sostituzione con Armando Diaz: una scelta che è militare, ma non meno politica, e che chiude due anni di competizione fra le due sfere di potere e anche fra due personaggi. Salandra stesso dipinge il suo governo come non molto più di un "governicchio" - diremmo noi - non espressivo della maggioranza parlamentare, rimasta fedele al suo vecchio capo Giolitti, e però sovradeterminato dall'aver dovuto e saputo compiere due grandi scelte: il non intervento a fianco dei vecchi alleati, nel luglio 1914 e, dieci mesi dopo, 370

l'intervento dalla parte opposta (20). Che questo configuri uno sdoppiamento dei poteri e una carenza di legittimazione internazionale di chi formalmente conduce le trattative per l'Italia fra il 1914 e il 1915, lo dice - come s'è visto - il capo dell'opposizione (21). A fatti compiuti - e da lui accettati e avallati nel maggio del 1915, rinunciando a portare sino in fondo la crisi del governo della guerra, dimissionario - il capo di quella sorta di "governo ombrà interno alla stessa classe dirigente, Giolitti, chiosa freddamente: «Salandra la voleva [la guerra] per ristabilire il governo dei conservatori: se ne accorgerà a guerra finita» (22). A giudicare da ciò che dicono del proprio operato il presidente- ministro degli Interni e il ministro degli Esteri che portano il paese in guerra, l'impronta nettamente elitista che traspare dai loro assidui incontri e carteggi di quei giorni (23) farebbe ritenere che il bandolo degli avvenimenti e la decisione finale stiano sostanzialmente nelle loro mani, previ informazione e benestare del re e, tutt'al più, qualche precario contatto con Giolitti. A guerra cominciata, al piccolo gruppo di comando si aggiunge Cadorna, ma la ristrettezza del vertice non assicura assenza di tensioni fra l'autorità politica e l'autorità militare. Esauritosi - ma solo parzialmente - il dualismo del 19141915 fra maggioranza giolittiana e governo salandrino, permane in sottofondo il dualismo fra chi ha voluto la guerra e chi vi si è adattato. Si prolungano inoltre le frizioni e le differenze di accenti fra gli uomini delle istituzioni e gli uomini della piazza, nonché fra l'una e l'altra frazione del composito fronte dei fautori della guerra. Fra i gruppi e i personaggi che contano, il confronto si esprime, oltre che nella polemica immediata, in una trama - allora generalmente segreta o confidenziale, ma non per questo meno incisiva nel produrre disunione - di giudizi reciproci nei diari, nella corrispondenza, nelle successive memorie, nelle interviste raccolte dal direttore della «Tribuna», cronista dietro le quinte ai vertici della classe politica come lo è Angelo Gatti ai vertici della classe militare, con 371

altrettanta discrezione e penetrazione e anche lui scrivendo a futura memoria (24). Forte è il senso di autoisolamento che trapela dalle pagine coeve in cui i due dioscuri della destra liberale si scambiano, in certe fasi quasi giornalmente, notizie, interrogativi e orientamenti: non senza lo sgomento del dover decidere, in due, per l'oggi e per il domani di tutti che talvolta filtra in qualche riga commossa di Salandra, se non in quelle del più rigido e chiuso Sonnino. Questi, che rappresenta la continuità di governo e di politica estera nei tre ministeri di guerra, è la bestia nera di uno dei non pochi personaggi che quotidianamente commentano - rodendosi nel non poter fare - l'operato di quei pochissimi abilitati a "farè e a dirigere le cose della guerra: Salvemini, che giudica quasi fosse o si sentisse il ministro degli Esteri della democrazia, il vindice di un'Italia che non c'è, un' "altra" Italia che, come stanno a dimostrare le sue stesse lettere amareggiate e offese, non si concretizza in forze sociali e di partito, ma resta circoscritta a piccoli gruppi: Battisti, Bissolati (con riserve sulle debolezze dell'uomo), Salvemini stesso, qualche giovane amico e seguace. Nel suo contenzioso epistolare avverso il tetragono rappresentante di una politica estera che egli giudica miope e antiquata, emblematica delle chiusure e arretratezze con cui è stata condotta una guerra che avrebbe dovuto dispiegarsi in una dimensione europeista, Salvemini arriva a scrivere furibondo a Umberto Zanotti Bianco il 10 gennaio del 1918: «Quell'uomo, oramai, io lo odio e lo disprezzo come il più inguaribile usuraio cretino, che la storia abbia mai visto», sfiorando addirittura la nota antisemita (25). E in una lettera a Ugo Ojetti del 26 gennaio 1917 condensa in poche battute la sua visione generale: la guerra dell'Italia è scaturita da una alleanza dei «triplicisti delusi», capitanati da Sonnino, con gli antitriplicisti («noi») contro i «triplicisti impenitenti», cioè Giolitti e quelli del "parecchio" (26). Nella ristretta compagine del secondo ministero Salandra, c'è in particolare un ministro, quello delle Colonie, che, privato dalle circostanze e dai comportamenti del duo 372

Salandra- Sonnino di uno spazio politico autonomo, si ritaglia un importante osservatorio riservato in un diario, reso pubblico negli anni sessanta (27), in cui finalmente un uomo di quel governo si mostra desideroso e capace di allargare lo sguardo fuori del palazzo in cui si consumano le scelte dei suoi esponenti decisivi. Interventista risoluto forse il più interventista fra i componenti del governo Salandra - lo scrittore- ministro, Ferdinando Martini, conosce il paese, specialmente la sua Toscana neutralista e perciò a lui personalmente ostile, e non confonde le proprie propensioni con quelle della gente comune. Del resto, chi può dire di possedere chiavi interpretative sicure su ciò che vuole il paese? Un interventista ancora più acceso di Martini - appunto Salvemini -, descrivendo con rabbia le modalità della caduta del governo Salandra nel giugno 1916, quando, contrariamente alle sue speranze, la crisi non partorisce un governo Bissolati, ma solo il vecchio Boselli (mentre al garante della guerra democratica viene assegnato un semplice ministero senza portafoglio), parla invece a un altro eminente osservatore in disparte, Giustino Fortunato, di una forbice crescente fra governo e paese: "Quel che è stata Roma nei giorni scorsi, è inaudito. Ci sono stato tre giorni, e ne sono scappato atterrito. No, no, perdio, il paese è infinitamente migliore della Camera. Che peccato che i terremoti capitano a Messina e ad Avezzano" (28). Di recente si sono rivalutati sia l'uomo Boselli, sia la portata del suo governo (29). Il "quantum" di "union sacrée" che quell'Italia divisa della metà del 1916 è in grado di esprimere si concentra nella figura di mediazione, fra nobile e sbiadita, di quel vecchio esponente del patriottismo (classe 1838) richiamato dalle riserve della memoria risorgimentale perché offre meno spigoli di un Salandra rispetto ai due "uomini fortì in circolazione, Giolitti e Cadorna. La funzione mediatrice del governo Boselli è inoltre attestata dalla presenza di alcuni uomini politici esterni al partito liberale: non tanto il 373

radicale cremonese Sacchi, già ripetutamente ministro con Sonnino e con Giolitti, troppo ministeriale persino per una parte dei suoi e sino all'ultimo triplicista e neutralista, quanto il cattolico Meda, i cui palesi orientamenti austrofili abbiamo già segnalato, ma che proprio per questo indica l'esigenza di allargare la base politica nella direzione del paese in guerra. E infine - questi sì in rappresentanza di strati sin qui estranei alla formula di governo e maggiormente legati agli ambienti interventisti - il repubblicano Ubaldo Comandini, deputato di Cesena dal 1900, ministro senza portafoglio, il cui ruolo politico è tuttavia destinato a crescere in seguito alla crescente rilevanza della propaganda; e Bissolati, il socialista radiato dal suo vecchio partito, ridottosi a poco più che un eloquente ufficiale politico senza soldati, che gode però della rendita di posizione di un uomo di frontiera nel momento in cui gli orientamenti maggioritari del socialismo ufficiale e l'esilio interno di Giolitti a Cuneo sembrano relegare gli ex neutralisti ai margini estremi della legittimità. Se modeste sono le possibilità di Bissolati di assumere le vesti di uomo di cerniera rispetto al proletariato - di cui pure è stato, un tempo, uno dei capi più amati - più funzionale si rivelerà il suo tentativo di migliorare i rapporti fra Roma e Udine, la capitale della politica e la capitale della guerra. Del resto, già prima che il nuovo presidente del Consiglio gli affidi questo ministero - anch'esso senza portafoglio - l'anziano volontario alpino cinquantottenne aveva cominciato ad ammorbidire un Cadorna inizialmente ostile sia alla sua figura politica, sia al sospetto di interferenza dei civili nelle cose di guerra (30). L'uomo nuovo del ministero Boselli è però, in certo senso, il cinquantacinquenne Orlando, duttile esponente dell'area giolittiana, promosso dalla Giustizia agli Interni e destinato a salire ancora, sino alla carica di presidente del Consiglio, nel terzo dei tre governi di guerra (30 ottobre 1917). Diversi decenni sono trascorsi da quando l'allora giovanissimo giurista siciliano teorizzava il taglio delle radici 374

rivoluzionarie da cui era nato il Regno d'Italia e perciò, al limite, uno Stato "senza società". Fra il 1916 e il 1919 la sorte lo designa a ricoprire proprio i ruoli di massima esposizione e impegno nella direzione degli apparati di governo, nella fase di maggior difficoltà nei rapporti fra società e Stato. Diventa il bersaglio preferito di Cadorna e degli uomini del fronte interno che si riconoscono nella crescente autorità di dittatore "in pectore" del generale, dai quali Orlando è giudicato debole e accomodante con il "nemico interno". Che proprio lui raccolga l'eredità di Boselli, nei giorni di Caporetto, e che fra i suoi primi atti politici vi sia la sostituzione di Cadorna con Diaz è un segnale del complesso di pesi e contrappesi da cui verrà la vittoria. In particolare, in questa fase finale del conflitto di potere fra Roma e Udine (e, oramai, fra Roma e Padova), caduto l'uomo forte, il militare tutto d'un pezzo indisponibile alle mediazioni coi politici, quella che viene privilegiata è una scelta "morbida" sia per i vertici politici (come già con Boselli) sia per i vertici militari. Ne nasce un rinnovato equilibrio, che, come si vedrà, funziona. - "La propaganda". "Si chiamava propaganda ordinare dei soldati sull'attenti in un cortile, dopo otto ore di fatiche e lì, togliendo un'ora di libertà, obbligarli a sentire la chiacchierata di un avvocato inabile alle fatiche di guerra" (31). E" la voce del poi. Quella, in particolare, di Prezzolini, coinvolto personalmente, nell'ultimo anno di guerra, nella fase successiva e più matura della propaganda organizzata e impegnato, nell'immediato dopoguerra, a fissare una prima periodizzazione interna del conflitto anche e in particolare dal punto di vista del "moralè delle truppe (32). Teniamoci dunque al prima, prima cioè dello spartiacque rappresentato da Caporetto. Nell'esercito di Cadorna vige l'idea tradizionale che, fra i militari, le idee siano di troppo e gli intellettuali di fiducia del generale - preti oratori come 375

Semeria, preti scienziati come Gemelli - non fanno che legittimare tale postulato, che Gemelli accredita anche dal punto di vista medico- psicologico. Fra il 1915 e il 1917 si profilano però tre vie per aggirare in parte tali prevenzioni. Anzitutto, come si è già visto parlando delle Case del soldato, la sistematica opera di don Minozzi che, in quanto sacerdote, può realizzare un'azione di supplenza al riparo della religione rispetto a politici e militari in sedi finalizzate alla messa a disposizione di servizi e pertanto non riducibili a semplici luoghi di eloquenza parenetica (peraltro non assente). La seconda via è la più o meno estemporanea presenza di qualche onorevole al fronte, più o meno volentieri tollerato - in attesa che se ne torni da dove è venuto - sia dai comandi sia dai soldati. Non sono infrequenti, nella memorialistica, gli echi mordaci della negligenza o della vera e propria ostilità di cui gli uomini abituati a esporsi al fuoco circondano questi facondi messaggeri dell'al di là. L'apostolo delle Case del soldato li assume, già lo si è visto, quali contraltare retorico e controproducente, cui contrapporre un'idea di persuasione ben più concreta e fattiva. Una variante nobile della figura dell'aspirante missionario civile mandato in ispezione dal paese al fronte può essere considerata quella dell'interventista senza obblighi militari, e magari abbastanza anziano, che ottiene di partire volontario, porta la divisa e partecipa a qualche combattimento. Costui rimane pur sempre un politico, un interventista e un volontario - prerogative che non sono fatte per renderlo simpatico ai soldati qualunque -, ma le sue parole di incitamento appaiono comunque meno comode e più credibili. Breve e sfortunata è - fra questi testimoni dell'idea interventista - l'esperienza militare di Salvemini. Più impegnative e durevoli le prove di coerenza offerte da Bissolati, D'Annunzio, Gasparotto (33). Certo, è difficile pensare che la loro diversità, la quale si esprime anche nei modi e tempi diversi della loro presenza in azione, non sia avvertita dai commilitoni. Probabilmente, il vecchio socialista si illude quando il 18 luglio del 1916 appunta nel 376

suo "Diario di guerra" di alpino poco meno che sessantenne, ferito nella resistenza del Cengio, «il gran piacere di sentir[si] e di essere [sentito] il soldato-ministro» (34). Per i ruoli effettivi che ricopre - a Roma, al fronte, in missioni d'un certo rilievo all'estero - Bissolati assomiglia comunque più di Salvemini a quel ministro degli Esteri della democrazia che il professore di Molfetta si figura di essere nei suoi carteggi e dunque a un possibile "anti- Sonninò. L'antitesi è palese. Da una parte il simbolo del palazzo e di una trama separata e segreta di relazioni tradizionali fra piccolissime élites extraparlamentari; dall'altra il tentativo - seppur paternalistico - di suturare governanti e governati portando lo Stato più vicino al popolo e il popolo più vicino allo Stato. Si tratta, in sostanza, di buone intenzioni e perciò ci pare di doverle rubricare nel capitolo della propaganda. Ministro senza portafoglio nell'Italia dei politici, sergente degli alpini nell'Italia dei militari, Bissolati, socialista redento, non può non richiamare un'altra parallela figura della redenzione politica: il soldato e poi a mala pena caporale Mussolini. Due uomini, due personaggi, due schegge della sinistra - il sergente e il caporale, Bissolati e Mussolini, il leader dell'estrema destra socialista e il leader dell'estrema sinistra - che non sono niente nella gerarchia militare e anche per questo implicano un rifondarsi e un risalire dal basso, con legittimazione, attenzioni, rapporti, visibilità differenti. I due uomini politici sono un pegno del passato e un'ipotesi diversa per il futuro. Un'analogia sta anche nel fatto che tutt'e due avvertono l'opportunità di descrivere in un proprio diario di guerra questo loro viaggio sociale di riscoperta e palingenesi. Sarà la morte precoce del meno giovane dei due, Bissolati, nel 1920, a disinnescare una delle due potenzialità e a liberare l'astro nascente del fascismo da quel possibile concorrente nell'Italia "trincerista". La terza via per aggirare l'idiosincrasia di Cadorna e dei vecchi quadri di comando per le "baionette intelligentì è quella di cui si rendono protagonisti militari più aperti al nuovo, disposti a sperimentare forme più complesse e 377

partecipate di disciplina, e anche dotati di spirito di autonomia e di intraprendenza rispetto alla cultura dominante nel Comando supremo. Fra i generali di alto rango, Capello. E' soprattutto il comandante della seconda armata - di dieci anni più giovane di Cadorna e aspirante suo successore, borghese e non aristocratico, progressista e non conservatore, laico, massone e circondato da intellettuali, anziché cattolico e circondato da preti personalmente sensibile ai problemi del "moralè e impegnato nella costruzione di una rete di addetti alla propaganda. Ne abbiamo diretta testimonianza nella sua memoria difensiva, scritta alla metà del 1918, in vista dei lavori della commissione di inchiesta su Caporetto, quando la rotta che ha travolto la sua armata lo ha sbalzato dal potere e costretto a ripensare, anche a fini difensivi, i fatti e il senso di tutto il proprio operato (35). Certo, il fatto che siano stati sfondati proprio quei reparti in cui la questione disciplinare è stata posta in maniera meno repressiva, sino a sfiorare l'esigenza di costruire il consenso, non può non sollevare interrogativi sulle forme e la portata di tale intervento. Il tenente colonnello Alessandro Casati - già mecenate degli scrittori vociani, ninfa Egeria del Comando e futuro ministro della Pubblica Istruzione - condensa in un promemoria il lavoro affidatogli da Capello nel luglio del 1917: fornire a una quarantina di ufficiali selezionati come conferenzieri, militarmente e politicamente affidabili, e ad altrettanti graduati di truppa indicazioni «particolarmente adatt[ e] alle menti degli ascoltatori e alle necessità del momento», nell'ambito di una «sezione istruzione propaganda» strettamente coordinata alle notizie sui comportamenti delle truppe provenienti dai carabinieri (36). L'uomo di fiducia di Capello non tace che ad alcuni parve allora «novità pericolosa» ciò che successivamente come si compiace di rilevare - verrà «accettato e raccomandato». I temi - che erano stati elencati in una circolare del Comando della zona di Gorizia già il 17 marzo 1917 - non sembrano avere in sé niente di sconcertante: «1. Ragioni morali della guerra europea; 2. Necessità della 378

nostra guerra; 3. Inconvenienti di una pace affrettata; 4. Il dovere di ogni italiano verso il patrimonio di libertà e di civiltà del nostro paese; 5. Ricordando il passato e riflettendo sul presente il soldato italiano deve esecrare il nemico; 6. La disciplina è fattore di vittoria; 7. Il cordiale cameratismo e la fiducia reciproca tra ufficiali e soldati sono cemento, sono coesione, sono forza viva; 8. Il passaggio al nemico è il delitto più ignominioso di cui si possa macchiare un uomo; 9. Spirito aggressivo» (37). Niente di particolarmente innovativo, dunque, tanto più che i commenti aggiunti in questo e altri documenti operativi mettono l'accento proprio sull'ultimo tema, cioè su quello spirito aggressivo che purtroppo difetta in quei «bravi figlioli dall'anima mite, alieni dalla violenza, lieti di vivere e di lasciar vivere» che sono i nostri soldati. Ciò che feriva qualcuno dei più conformisti fra gli alti ufficiali doveva perciò risiedere nel fatto stesso di pretendere di coinvolgere più attivamente il soldato semplice. L'altra anticipazione degli orientamenti del servizio P, nel 1918, ispirato alle direttive dei tecnici della comunicazione, risulta da una conferenza tenuta dal generale Capello a Vipulzano, l'8 aprile 1917, ai comandanti delle varie armi e reparti della zona di Gorizia. Vi si annuncia l'avvenuta messa a punto della rete, interna ai reparti, dei propugnatori e divulgatori delle sue «idee parlate» (38): "Finalmente si è inteso quale era lo scopo delle conferenze alle truppe: svegliare l'emulazione dei comandanti di reparto. Oggi mi si comunica che quasi ogni reggimento ha i suoi naturali conferenzieri: questo appunto era il fine che io mi prefiggevo. Ho anche saputo che qualche graduato e soldato di truppa ha mostrato il desiderio di parlare ai propri compagni. Compiacendomi di questi segni promettenti di risveglio morale, desidero una nota di tali militari di truppa cui personalmente rivolgerò una preliminare istruzione. Bisogna aver fiducia nell'efficacia della parola" (39). 379

- "La mobilitazione degli spiriti". "Che magnifica cosa il contadiname e che sporcizia gl'"intellettualì!" (40). E" ciò che ritiene uno fra i più pensosi ed acuti di coloro che, dall'interno della classe dirigente tradizionale, stanno - in questo caso anche per ragioni di età - nella posizione di osservatori, certo profondamente partecipi delle sorti del paese, ma anche volutamente estraniati rispetto alle forme più accalorate di mobilitazione degli spiriti. E' il vecchio meridionalista Fortunato che così scrive, il 3 novembre 1915, a un altro e pubblico critico dei trasporti bellicisti e intesofili, il suo amico Croce. Difficile, evidentemente, fondare la fiducia in un'opera attiva di mobilitazione e di propaganda su una tale sfiducia in coloro, gli intellettuali, che dovrebbero esserne gli attori e su una concomitante, paradossale adesione alla «serena calma fatalistica del contadiname», di coloro cioè che dovrebbero esserne, come militari o come civili, i destinatari. Quella predisposizione generalizzata del popolo a subire e assorbire i colpi della sorte, che Fortunato aveva già additato in una lettera a Salvemini del 14 ottobre (1915) (41), è la "scopertà grata di tutta la sua corrispondenza dei primi mesi della guerra. Tale corrispondenza sembra disegnare una rete di relazioni private, trasversale rispetto alle antitesi pubbliche fra interventisti e neutralisti, alla quale partecipano figure intellettualmente e politicamente rilevanti che riflettono sulla situazione insieme a questo giudice tormentato, quasi apocalittico, dei costumi di un paese «infinitamente debole, venuto su a galla per sola virtù del Caso (42): "Tra la pochissima fiducia che io ho, quella è più viva che si attiene al forte nerbo della razza. C'è qualche cosa di fatalistico, nella nostra razza, che molto mi colpisce, e molto, a un tempo, mi riconforta per l'avvenire" (43). 380

"Tutto quello che l'Italia, la vecchia Italia, appena sorta dal sepolcro di 2000 anni, ha saputo fare, da un anno e mezzo in qua, è così grande e bello che io - il pessimista - ho l'animo sempre, sempre più fiducioso" (44). Le due ultime citate sono fra le centinaia di lettere in cui si svolge l'inesausta conversazione tra il paese e il fronte, anzi, fra due rappresentanti del "paese realè, quali potremmo considerare il vecchio Fortunato - nella solitudine del suo ritiro nel profondo Sud, a Rionero in Vulture - e il giovane militare, neutralista, che l'anziano moralista si è scelto quale interlocutore fisso, una sorta di rappresentante simbolico della generazione giovane e dell'Italia meridionale alla guerra. L'indicazione del fatalismo delle plebi meridionali - nella prima lettera, che è del 13 novembre 1915 - come precipua risorsa sociale dell'Italia in guerra fa pensare, lungi da qualsivoglia mobilitazione degli spiriti, ai compiaciuti apprezzamenti pubblici di Croce per la sapienza popolare che nella guerra vede solo un terremoto, rincalzati dai rilievi tecnici di Gemelli sulla benefica ottusità indotta nei militari dal tedio inesorabile di quella vita animale in trincea. Il relativo ottimismo del 9 aprile 1916, la constatazione di una evoluzione positiva in corso al di là di ogni migliore aspettativa presuppongono anch'essi uno spontaneo adattamento del mondo contadino ai fatti compiuti e continuano a prescindere da forme più attive di mobilitazione e di consenso. Solo poche settimane dopo, del resto, l'umor nero e il disincanto del grande meridionalista saranno, con la Strafexpedition, ristabiliti dalla «disastrosa, incomprensibile nostra ritirata dal Trentino. E' un enigma» (45). E quando poi, un anno dopo, nell'agosto del 1917, don Giustino verrà fatto segno a un'aggressione e ferito a coltellate da un contadino, questo sarà per lui la fine di un mondo, il mondo del paternalismo e della deferenza che da ormai due secoli vedeva primeggiare la sua famiglia di possidenti al centro di quella società contadina messa in rotta anch'essa dai traumi del conflitto. Non solo quel mezzo pazzo, ma anche tutti gli altri 381

- confessa amarissimamente ai suoi interlocutori privati, dopo avere raccomandato la discrezione pubblica su un avvenimento dai troppo scoperti risvolti metaforici - vedono ormai anche lui, il neutralista, il loro ex rappresentante e patrono, quasi uno dei tanti "signorì che hanno voluto la guerra per liberarsi dei contadini. E a questo punto l'isolamento e la contrapposizione dell'intellettuale, del borghese, dell'uomo dello Stato, nelle campagne del Sud, non suonano dissimili da quelli testimoniati dal ministro Martini per la Toscana, in occasione delle sue visite nei luoghi del suo collegio elettorale. Estendere la disamina di questo tipo di fonti coeve - sonde gettate nello spirito pubblico della piccola Italia extraurbana - metterebbe certo di fronte alla geografia delle differenze e a una molteplicità di varianti spaziali e temporali, ma non farebbe comunque che confermare come - fra le due fasi della mobilitazione degli spiriti a favore della guerra, la prima durante la campagna interventista, la seconda durante l'ultimo anno di guerra - la tenuta del paese e del fronte si affidino a meccanismi che non rispondono a un progetto d'assieme e non poggiano su un sentire comune. Su scala nazionale, l'unica diretta ed effettiva mobilitazione posta in essere è quella militare. La passività e gli automatismi della disciplina militare, inalveandosi su quella sociale preesistente, sembrano poter prescindere da interventi e comportamenti più consapevoli e attivi. Naturalmente l'assenza sino alla fine del 1917 di un soggetto e di un progetto complessivi non toglie che in molti autonomamente si mobilitino per spinte locali o particolari, di varia natura. Queste forme di volontariato civile investono tuttavia prevalentemente la società cittadina. Si muovono associazioni e comitati, da una fucina di italianità quale la Dante al più modesto circolo di provincia; prendono la parola i maestri e le donne, si moltiplicano le crocerossine e le madrine di guerra, entrano in fibrillazione le scuole di ogni ordine e grado, promuovono discorsi e riti patriottici le università e le accademie: la casistica della presenza e della compartecipazione patriottica è assai varia, veicola 382

entusiasmi e impegno insieme a comportamenti opportunistici e forme di recita sociale e di mimetismo, com'è naturale che avvenga quando la società è sotto pressione. Sia pure in ordine sparso gli echi di questa mobilitazione a cui l'entrata in guerra ha tolto il suo epicentro - la piazza - si diffondono per più rivoli, sino a emergere talvolta a mò di tasselli intrusivi persino nei testi della apparentemente più apolitica e distante «scrittura popolare». E' una forma di mobilitazione anche questa, che travolge lontano da casa e dal micromondo usuale milioni di poveri diavoli e le loro donne, costringendoli a faticare su milioni e milioni di lettere dal fronte e verso il fronte, nello sforzo di tenere insieme i cocci di una normalità povera e cara, insidiata e percorsa da echi di eventi e parole inusitati. - "L'altro esercito". In Italia portare ai vertici del potere i socialisti non risulta possibile, neanche nelle più rassicuranti vesti di ex socialisti. Bissolati è una farfalla che rimane in bozzolo, la presenza di Bonomi resta ancora più umbratile e Mussolini - che ai tempi remoti dei congressi d'anteguerra aveva contribuito a spingere il vecchio Leonida fuori del partito recita dopo l'intervento parti più defilate, cui solo le circostanze daranno in seguito valore di premonizione. Se in Francia può avvenire che proprio un socialista, Albert Thomas, venga messo alla testa di un ministero chiave di nuova istituzione quale quello degli Armamenti e Fabbricazioni di guerra, in Italia il sottosegretario e poi ministro alle Armi e Munizioni è invece, significativamente, un generale: Dallolio. Energici, efficienti e autoritari entrambi, ma è chiaro che mentre il socialista può ritenere di inverare secondo i tempi premesse economiche e politiche di sinistra, sottomettendo i capitalisti privati e il mercato agli interessi generali e alle regole di un piano economico sotto la direzione dello Stato, il generale lavora con altro spirito. Elementi di dirigismo economico vengono comunque di necessità introdotti anche in Italia, nei 383

rapporti fra pubblico e privato, imposti dalla necessità di incrementare la produzione. L'esercito, che nel 1915 ha solo 600 mitragliatrici, ne avrà 20000 nel 1918; le auto salgono da 9000 a 20000; la disponibilità giornaliera di munizioni, calcolata in 10000 colpi all'inizio della guerra, alla conclusione sarà di alcuni milioni. Se, adottando un altro parametro, ci volgiamo alla crescita delle principali industrie coinvolte nella produzione di guerra, vediamo il capitale dell'Ansaldo impennarsi da 30 a 500 milioni di lire, quello dell'Uva da 30 a 300, mentre alla Fiat passa da 17 a 200. Cresce in proporzione anche la manodopera: nella sola industria meccanica, gli addetti sfioreranno il mezzo milione al termine di questa accelerazione "drogatà dall'inaudita velocizzazione del ciclo produzione- consumo, che sembra realizzare i più arditi sogni macchinistici dei futuristi. Come irreggimentare il proletariato di fabbrica, più che mai necessario al funzionamento generale del sistema e più che mai irrequieto? In un paese come l'Italia, dove - a differenza che negli altri - la sinistra non ha concesso a priori il suo appoggio politico e sindacale alla guerra, la disciplina va riconquistata, ottenuta o imposta ogni giorno. Ogni giorno, infatti, le condizioni di lavoro riproducono il conflitto. Quel conflitto aperto e dispiegato che né i dirigenti del Partito socialista né quelli della C. G.L. hanno, a guerra dichiarata, la forza e la volontà di organizzare su un piano generale, si trasferisce in fabbrica, persiste nella base, adotta vesti salariali e normative, si impegna su orari e cottimi, si trincera dietro le donne e i giovanissimi che apprendono in fretta, dalle aristocrazie tecniche e militanti degli operai specializzati, non solo il mestiere, ma soprattutto le forme di lotta. Le donne strappate ai campi e impiegate nell'industria bellica controllata dallo Stato sono 80000 nel 1916 e saranno 180 mila nell'ultimo anno di guerra. Tutti i processi - anche dalla parte degli operai e delle operaie - si accelerano: l'entrata in fabbrica, l'apprendimento del mestiere, i ritmi di lavoro, l'iniziazione sindacale e politica, il protagonismo sociale, i mutamenti di costume (46). 384

La "militarizzazione" delle fabbriche, l'ingresso di ufficiali accanto ai proprietari per gestire l'organizzazione del lavoro nell'ambito di rigide normative e di regole unificanti sottoposte al controllo dei comitati di mobilitazione industriale, costituiscono un quadro generale di cui solo studi recenti vanno ricostruendo le mille varianti locali (47). Ne emerge una retrovia industriale percorsa, non meno del fronte, da bisogni e urgenze che la coazione disciplinare e la durezza del comando stentano a inalveare o a reprimere. Non manca chi vorrebbe andar oltre la microconflittualità spontanea continuamente rigenerata e rilanciata dall'asprezza quotidiana della vita operaia (48), e si aspetta dall'opposizione alla guerra ad opera dei civili ciò che non può venire dall'assai più impedita opposizione alla guerra a opera dei militari. Ma le lotte rimangono ancorate alla fabbrica anche grazie a normative "ad hoc" che, mentre istituiscono la figura degli operai esonerati dal servizio militare perché qualificati e più utili in produzione, lasciano tuttavia pendere su ciascuno la minaccia della revoca di quella forma di "imboscamento" ufficiale (ambito, infatti, anche da coloro che veri operai non sono) e dell'invio in linea. Evenienza indubbiamente reale, intimidazione pressante che tuttavia contrasta da una parte con la fame di operai provetti che assilla il padronato, dall'altra con l'inopportunità di contaminare con elementi "sovversivi" e inaffidabili proprio il mondo delle trincee. Un agitatore del calibro di Giacomo Matteotti finirà non per niente in Sicilia. Secondo i calcoli di Angiolo Cabrini - un altro dei riformisti espulsi nel 1912 dal P. S.I., che svolge compiti di rilievo nell'ambito della mobilitazione industriale - a metà della guerra gli stabilimenti definiti come "ausiliarì assommano a 1085, con una maestranza di 448 mila 179 operai così distribuiti: 64977 esonerati (14,49 per cento), 53957 comandati e a disposizione (12,30 per cento), 240 mila 554 uomini borghesi (53,67 per cento) e 66977 donne (14,49 per cento) (49). Per quanto nei comitati si sommino l'autoritarismo militare e quello padronale, solo in parte smorzati dalla terza componente, operaia e sindacale (con 385

una consistente presenza di sindacalisti rivoluzionari, rappresentanti dell'interventismo dell'estrema) non si può sostenere che la linea generale degli apparati che fanno capo a Dallolio si riduca alla repressione. In questi organismi corporativi gli spiriti giacobini non annullano la conoscenza della realtà delle cose e le spinte e controspinte - compresi gli spiriti animali del capitalismo, presenti con il loro particolarismo anche al massimo livello - trovano in essi una camera di compensazione. Ci si rende conto, fra l'altro, che le paghe più basse sono assolutamente al di sotto del minimo vitale per la famiglia operaia e si adottano contromisure con aumenti mirati. Governare questo contenzioso non è facile, tanto più che la protesta minimale e il conflitto di fabbrica trovano alimento anche esterno e un contesto sempre più adeguato man mano che i costi e le sofferenze della guerra si fanno più pesanti per tutti. Si moltiplicano i focolai di malessere e il cortocircuito tra fronte e retrovie, militari e "disfattisti" paventato da Cadorna - sembra sul punto di realizzarsi. La protesta tende sempre più spesso a uscire di fabbrica. Si grida «pane!» e sempre più spesso si sottintende «pace!». E' nel quadro di queste rapide e crescenti amplificazioni dall'obiettivo più umile e immediato delle donne impegnate nella spesa quotidiana per i bisogni domestici, al desiderio sociale più vasto e imperioso - che si spiegano i fatti di Torino dell'agosto 1917. Nessun altro grande centro industriale europeo, nei paesi dell'Intesa e a eccezione della Russia, giunge in tempo di guerra a esprimere una tal carica rivoltosa. Il 13 agosto i dirigenti russi, presentati da Serrati a un foltissimo pubblico operaio, hanno la sorpresa di vedersi accolti - essi che bolscevichi non sono - al grido di «Viva Lenin!», «Viva la rivoluzione!» - che è come dire «Abbasso la guerra!» (50). Pochi giorni dopo, fra il 22 e il 26 agosto, il potenziale di lotta insito in quella grande concentrazione operaia di 100 mila lavoratori sopra un insieme di 500 mila abitanti, deborda dai circuiti separati del lavoro di fabbrica e della mediazione istituzionale per ritornare in piazza, guadagnare il centro e "prendersi la 386

citta". Il potere passa immediatamente ai militari, che fanno intervenire reparti alpini. Neanche questa volta prende corpo il sogno ideologico, che i lavoratori in divisa non sparino sui compagni senza divisa. Sparano, invece, e fra i civili ci sono diverse decine di morti. A Torino, la repressione ha successo; altrove, in tutta Italia, le notizie arrivano col contagocce, frenate dalla censura e dalla volontà di impedire il contagio. Ma, intanto, il sintorno inquietante del livello di guardia ormai raggiunto nella sopportazione della guerra da parte degli strati popolari - o per lo meno dei più avanzati - è a conoscenza delle autorità. - "Il controllo dei cittadini". Le giornate di Torino rappresentano una punta massima nell'inasprimento dei rapporti sociali e politici che numerose circostanze di carattere locale suggeriscono di non estendere a sintorno di una situazione nazionale: la massima concentrazione operaia, gli apparati e gli spiriti giolittiani - compresa l'influenza sull'opinione pubblica del quotidiano «La Stampa» -, un'effettiva crisi negli approvvigionamenti di pane, il radicamento e l'attivismo tutti particolari della frazione estrema del Partito socialista. In due città per diversi motivi "strategiche" - Milano, l'altro maggior centro industriale, e Bologna, con il suo nodo ferroviario - i socialisti sono essi stessi al governo dell'amministrazione locale e, lungi dal comportarsi come forze antiStato, assumono un atteggiamento collaborativo, rinviando al dopoguerra la lotta politica e potenziando gli interventi sul piano economico, sociale e dell'assistenza ai civili. Quei moti torinesi, dunque, non si allargano, non si producono tensioni paragonabili né a Milano, né altrove; così come, qualche mese dopo, Caporetto non si estende dalla seconda alle altre armate. Questo vuol dire che, se certe precondizioni esistono potenzialmente in forma generalizzata e vanno crescendo con il prolungarsi del conflitto, perché la protesta si inneschi e si amplifichi nelle 387

forme diverse proprie dei civili e dei militari devono anche darsi occasioni e circostanze precipue. Altrimenti, la rete delle obbligazioni e degli ammortizzatori sociali tiene. Spostiamoci all'inizio di quest'anno 1917 che, un po’ in tutti i paesi, è destinato a metterla maggiormente a rischio e anche a vederla lacerata, in maniera stabile (come in Russia) o in forma parziale e non irrimediabile, come in Italia. Il 5 gennaio il ministro degli Interni - principale bersaglio di quelli che persino un insospettabile come Bissolati accetta nel giugno di considerare gli «energumeni pazzi e irresponsabili dell'interventismo» (51) - si sfoga con il direttore della «Tribuna», lamentando che si scambino per rivoluzione quattro donnette che, a Napoli o altrove, protestano per il pane (52). Anche Bissolati, venti giorni dopo, difende Orlando e la politica interna del governo dalle reiterate accuse di fiacchezza e connivenza con i disfattisti. Lo fa a suo modo, da uomo nettamente schierato, seppur ugualmente di cerniera, perché chiamato a montare la guardia sulla linea di un doppio conflitto latente, quello fra interventisti e semplici "intervenutì, e quello, troppo ampio e impegnativo, fra governanti e governati. A Malagodi - lui stesso, come uomo della cerchia giolittiana, non immune da sospetti agli occhi del «fronte interno», e utilizzabile quindi come una sorta di messaggero "in partibus infidelium" Bissolati da una doppia e brusca assicurazione: «Noi siamo disposti anche a fucilare, ma non a provocare quando non sia necessario» (53). Non «provocare» i socialisti: questo è un cardine della politica interna del governo (s'intende, i dirigenti del sindacato e del partito, quello strategico antemurale di teste pensanti che fa da argine, a sinistra, rispetto alle tensioni disgregative intrinseche alle masse sofferenti). Le lettere, a tratti quasi giornaliere, che si scambiano due fra i più eminenti rappresentanti di questa classe dirigente dell'opposizione, Kuliscioff e Turati, lasciano intendere come essi siano consapevoli di questo capovolgimento di funzioni: che ne fa i "pompierì delle lotte e in qualche modo i rappresentanti dello Stato presso la classe, dell'organamento istituzionale nella 388

frammentazione movimentista. A metà maggio, quando la rivolta di agosto si va avvicinando, un altro tramite con il "paese realè e precisamente con la componente borghese giolittiana, il capo di gabinetto del ministero degli Interni, Camillo Corradini, anticipa che «il punto peggiore è Torino»; ma anche lui mostra di confidare sui socialisti esclusa la frazione intransigente, rappresentata a Torino da Franco Barberis - quali figure di sistema, che agiscono da uomini di governo senza essere al governo. "I capi socialisti, dopo le dimissioni di Barberis, lavorano a impedire scoppi, e sanno di essere tenuti d'occhio e seguiti da noi in ogni loro mossa" (54). A metà giugno, Corradini si incontra con un Bissolati sempre più compreso del suo ruolo di statista, preoccupato che il transpartitico partito della guerra ecceda nella sua funzione di custode della matrice interventista del conflitto, mettendo a rischio l'ardua funzione di comando di un governo in precario equilibrio al vertice di una piramide sociale percorsa, alla base, da rumori di terremoto. Arriva a evocare quel che sta accadendo in Russia, dove l'ipotesi di democratizzare la guerra si va capovolgendo, in seguito all'attivazione delle masse, nella sua negazione radicale. "Questa gente non si rende conto della realtà profonda della situazione, e che se non si procede con cautela si può provocare la catastrofe. Se gli energumeni della guerra scendono in piazza, compromettendo gli organi legali, potrebbe succedere quello che è successo in Russia; dopo la rivoluzione per la guerra verrebbe la seconda ondata, la valanga per la pace, che travolgerebbe tutto. Non bisogna, in un momento quale è l'attuale, giocare con la folla, sia pure quella organizzata in un club o in un partito" (55). Valichiamo qui d'un balzo Caporetto, di cui sarà necessario parlare a parte, proprio perché fu vissuto, da tanti, come l'esito logico di una crescente spirale di proteste ispirata dal 389

nemico interno. Spingiamoci sino al dicembre di quell'anno di passione, il 1917, che - se le ansie e i furori del «fronte interno» fossero stati fondati - avrebbe dovuto risultare conclusivo. E diamo la parola a Giolitti, evidentemente persuaso che gli avvenimenti stiano dando ragione alle sue fosche previsioni del 1914-1915 e risoluto nell'affermare che tutto sarebbe perduto se ci si incamminasse sul terreno della sfida diretta a quel movimento operaio che gli "ultras" della guerra considerano quasi come un apostolo della sconfitta e che al vecchio navigatore della politica italiana appare invece la necessaria camera di compensazione di altrimenti devastanti e inalveabili esplosioni di folla. "I propositi del nuovo Fascio sono pericolosi. Se si provocano i socialisti non si sa dove si andrà a finire. Se quattro socialisti nel Piemonte alzano la voce, non basterà un Corpo d'Armata a tenere in soggezione le masse, non solo nelle città, ma anche nelle campagne" (56). - "La caccia al disfattista". Le regole della società oligarchica e notabilare, rinforzate dallo stato di guerra e dalla diffidenza radicale per quelle folle e masse umane, civili e in divisa, che pure a suo tempo è stato necessario mobilitare, inducono al silenzio sulla reale situazione del paese. In assenza di fatti accertati, prosperano le manipolazioni, i sospetti, le mezze verità e le favole vere e proprie. L'intervento stesso è stato attuato all'insegna del segreto e dello iato fra governo e parlamento. La disinformazione persiste, durante la guerra, nelle vesti di autonomia della dimensione militare da quella politica, mentre si stabilizzano la separatezza e lo squilibrio fra l'esecutivo e gli altri, impotenti, poteri. La stampa tace o si adegua; e il modo di adeguarsi più consono all'ora è di mentire a fin di bene, rendendo indistinguibile il confine fra informazione e propaganda. Il modello di stampa messo a punto fra le due guerre - non "quarto poterè, bensì "quarta armà, psicologica (57) - trova nei giornali per i civili e per i 390

militari prodotti in questi anni una elaborazione operativa; e nei già menzionati carteggi fra Albertini e i suoi inviati (58) un'esplicita giustificazione in chiave di partecipazione patriottica e di civismo. Poiché tuttavia il non sapere non esime dall'ansia crescente di darsi una qualche ragione delle cose, il regime di censura è anche il regno del virtuale, quello che maggiormente alimenta le affabulazioni, che inverano anche sogni e paure preesistenti. Tra i fantasmi che la mancanza e insieme il bisogno di chiavi interpretative mettono in circolazione, il più potente e intrusivo è il "disfattista". Il termine appare più funzionale d'altri nel mantenere sotto giudizio e in stato di allarme, proprio perché più comprensivo e dilatabile: ribelle, rivoltoso, rivoluzionario e simili varrebbero a indicare tutt'al più uno solo dei grandi campi del rifiuto allo zelo preteso dagli "spiriti della vigilia". Quella classe dirigente trasversale e al di là delle tradizionali divisioni fra destra, centro e sinistra che è il partito della guerra o «fronte interno» intende perpetuare il sospetto non solo nei confronti dei socialisti - che pur rimangono i primi della lista, come nemico interno -, ma anche contro Giolitti, i politici e i funzionari giolittiani, il neutralismo cattolico, le inerzie o connivenze governative, le disfunzioni colpevoli degli apparati, i cedimenti ai richiami di pace da qualunque parte provenienti Germania, Vaticano, Russia. Per esempio il già ricordato ministro delle Colonie Martini, spirito indipendente, in eccellenti rapporti con Salandra e con Sonnino ma più accalorato di loro nella convinzione della guerra giusta e necessaria, propende per soluzioni giacobine, si sente condannato a metodi rivoluzionari, come, alle origini dello Stato, i conservatori del Risorgimento. "Bisognerebbe guardarsi un pò"più dai nemici interni e dare qualche esempio. [...] la concordia non c'è. Bisogna farsi temere" (5 settembre 1915).

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"Da un anno vado dicendo a colleghi ed amici che il ministero non è giacobino abbastanza. [...] Bisognava persuadersi che eravamo, volere o non volere, in rivoluzione - dato alla parola il significato che deve avere in questo caso - e procedere con mezzi e modi rivoluzionari" (21 giugno 1916). "Conclusione. La mia solita tesi: guerra e Parlamento sono "in Italia" (né io cerco se altrove) termini inconciliabili. Noi siamo in ore rivoluzionarie" (7 dicembre 1916). "La politica interna è stata molle, secondo me, anche sotto il nostro Ministero. Troppi scrupoli. In tempo di guerra bisogna cacciarli da sé. Ma ora poi è addirittura fiacca" (5 gennaio 1917) (59). A partire dal 1917, il diario di Martini vede infittirsi la casistica delle "sommosse" femminili, forma usuale della protesta sia nella realtà sia, ancor più, nella rappresentazione offerta dal cronista il quale non se ne mostra, più che tanto, impressionato e solo auspica energia e determinazione maggiori di quante sappia usarne Orlando. La testimonianza di Martini va, a nostro avviso, privilegiata proprio per la saldatura che in questo vecchio esponente dell'Italia liberale si realizza fra vecchio e nuovo patriottismo e per le ferree coloriture giacobine che assume - dichiaratamente, "pro tempore" - la sua volontà politica di tenere insieme, organizzare e dirigere il paese recalcitrante (60). La richiesta di un sovrappiù di autorità da parte di un interventista rivoluzionario, neofita della patria, o di un nazionalista non sarebbe altrettanto significativa. Oltre tutto Martini registra, ma fa obiezione e si mostra incredulo rispetto alle derive più ossessionate ed estremiste nella rappresentazione dei pericoli che corre il paese: non forza le tinte nella descrizione delle diffuse proteste sociali e ritiene che l'efficienza negli approvvigionamenti e una giusta dose di energia basterebbero a contenere la situazione. Né peraltro la Francia o l'Austria - per non dire 392

della Russia - se la passano meglio dell'Italia. Nell'arginare, con il suo realismo, gli orrori e gli incubi di chi stravede, Martini offre contemporaneamente degli squarci su paesaggi d'epoca, siano essi materiali o mentali. Come in questo quadro romagnolo: "Si sparge la notizia di gravi disordini avvenuti in Romagna. Andando in automobile a San Giovanni in Persiceto trovo per la strada bersaglieri ciclisti, cavalleria, fanteria accampata lungo la via come in attesa di ordini. S. Giovanni è tranquillo. Tornato all'albergo mi si racconta che a Forlì, un treno militare dovendo partire, le donne si sono distese sulle rotaie a impedire la partenza. Il comandante di reparto ha ordinato al macchinista di mettere in movimento la macchina dopo aver provveduto allo sgombro della linea. Il macchinista sebbene militarizzato s'è rifiutato. Dopo vari incidenti, il macchinista persistendo e insultando, il capitano lo avrebbe freddato con un colpo di rivoltella. Caduto poi egli stesso nelle mani delle donne inferocite, ne sarebbe stato straziato ed ucciso. Tutto ciò mi appare alquanto fantastico" (61). Questo lo scrive giunto a Padova, l'8 aprile. Il giorno dopo, tornato a Roma, la sua incredulità trova conferma. "Sommossa di donne sì, come altrove. Tutto il resto frangia. L'episodio del capitano che uccide ed è poi ucciso dalle femmine inferocite si disse già avvenuto in quel di Pisa e non avvenne neppur lì. Favole che s'inventano e fan parte del sistema propagandistico antiguerresco" (62). Tutto molto lucido, come di chi è immerso nella situazione e, nello stesso tempo, riesca a tener la testa fuori e lo sguardo alto. Nell'episodio si riconoscono non solo gli assilli fantasmatici di chi manovra o sente "contrò la guerra, ma un più generale, coinvolgente e interdipendente intreccio ovvero «sistema», come dice Martini - di rappresentazioni. Le figure omicide, i segnali sinistri della violenza civile vi 393

sono infatti per tutt'e due le parti: lo Stato e la società, la ribellione e la legge. * LE DONNE E LA GUERRA. - "Il lavoro femminile". Il carattere "terroristico" delle figure femminili che occupano l'immaginario d'epoca ha motivazioni oggettive. Una classe dirigente che solo alle soglie della conflagrazione si è risolta a riconoscere il diritto di voto alle classi popolari maschili - e che rimane lontana dal concepire un'analoga maturità delle proprie figlie, mogli e sorelle, per non parlare della donna di ceto popolare nutrita di ancor più parchi studi - si ritrova d'improvviso di fronte a una diffusa e variegata tipologia dell'emancipazione femminile: a un indotto modernizzante della guerra che procede nel senso degli strappi alla cultura e alla condizione tradizionali. Sostanzialmente, moltissime donne escono per volontà propria o di necessità - dalle mura domestiche e acquistano una visibilità inusitata. La dimensione sociale viaggia più veloce di quella politica e i processi reali più di quelli mentali. Le circostanze accerchiano anche l'occhio maschile più misoneista e incredulo con tutta una serie di immagini femminili nuove e di fatti compiuti. L'anarchica Maria Rygier si converte alla patria e sale sui palchi degli interventisti per fare discorsi pubblici (63). Altrettanto politiche e pubbliche si fanno le avanguardie femminili repubblicane (64). Margherita Sarfatti compie lo stesso tragitto politico di Mussolini, dall'«Avanti!» al «Popolo d'Italia» e Anna Kuliscioff appare più che mai importante consigliera politica accanto a Turati, tutt'altro che disponibile a vivere parassitariamente all'ombra delle propensioni neutraliste del suo uomo. L'aristocrazia produce crocerossine e sublima patriotticamente le pratiche sociali della beneficenza (65). Alla cura degli 394

infermi e dei poveri si dedica con precipua dedizione il laicato femminile cattolico, anch'esso contestualizzando e colorando di nuovi sapori virtù di per sé compatibili con la carità cristiana e i ruoli matronali. In ciascun ambito sociale lo stacco si manifesta secondo modalità proprie. Una figura itinerante del nuovo - che sappiamo avere particolarmente colpito la fantasia - è la donna tramviera e con essa la portalettere. Per la natura stessa del loro lavoro, esse costituiscono un segno mobile delle innovazioni in corso: viste dal vero in azione, come può accadere a tutti i cittadini, o conosciute anche solo in fotografia, queste figure femminili in divisa alludono palesemente al movimento e a una trasformazione di ruolo. E' superata la vecchia e popolarissima canzone milanese dei primordi del tram - risalente dunque a non molti anni prima - che trovava divertenti, ma anche ben naturali le paure delle fanciulle invitate da intrepidi giovanotti su quegli stessi traballanti carrozzoni. Tramviera, postina, telefonista, impiegata - ovviamente, da più tempo, maestra e ora, per estensione, addetta agli uffici di propaganda -, tutto ciò può suscitare reazioni diverse: apparire volta a volta progressivo, nobile, o solo grazioso, curioso, contingente. L'allarme per lo scambio dei ruoli può restare in sospeso, venire sostanzialmente rinviato al dopoguerra, quando ci si può rassicurare pensando che la "normalità", con il ritorno degli uomini dalle trincee ai loro posti di lavoro, verrà restaurata e le donne riprenderanno la canonica via di casa. Ma ci sono altri luoghi, forme e figure dell'accesso delle donne al "mondo degli uomini" che violentano l'immaginario, destando inquietudini più gravi e preoccupazioni immediate. Sono le contadine inurbate, le molte decine di migliaia di donne e ragazze, spesso giovanissime, che arrivano per la prima volta in fabbrica. Costituiscono un elemento di lacerazione nei due mondi, di partenza e di accesso, e cioè sia nell'universo familiare e nel tessuto della società contadina e paesana da cui muovono, sia negli assetti consolidati della fabbrica: dove le classi 395

sociali si rispecchiano in simmetrie gerarchiche messe a rischio da quella presenza imprevista e difforme di manodopera industrialmente analfabeta e senza un passato omogeneo, capace con la sua anomalia di dare impaccio sia alle norme padronali sia a quelle operaie. Le nuove venute danno il nerbo e il tono alle manifestazioni per il caroviveri, inedita folla vociferante per le strade, più difficile da contenere che le dimostrazioni maschili del tempo di pace. Di fronte a quel femminile nuovo e disinibito, gli apparati repressivi ma anche mentali maschili appaiono inibiti e sulla difensiva. E non solo all'interno del mondo moderato e conservatore: anche una coppia di frontiera quale è, nell'ordine pubblico e privato, quella di Turati e Kuliscioff avverte come straniere e ingovernabili quelle riottose figure di virago, che si agitano, rivogliono i loro uomini e niente sanno né vogliono sapere delle ragioni generali e delle necessità della guerra. - "L'assistenza patriottica". L'accesso delle donne alla sfera pubblica si manifesta in maniera pervasiva soprattutto in quegli ambiti che maggiormente attengono alla cura e al "maternage" di massa. Servizi, dunque, lavori domestici - tagliare, cucire, lavorare a maglia, preparare calze, guanti, indumenti caldi per i soldati esposti al freddo e all'umido delle trincee - che si possono fare sia individualmente, nella propria casa, sia in forme associative e di gruppo (66). E' l'esaltazione dei tipici ruoli e lavori femminili, la conferma di un modello tradizionale di donna che assiste e si prende cura dell'uomo: questa volta non più solo del "suo" uomo, ma per così dire in un rapporto da genere a genere - dell'intera categoria maschile, sotto la specie eminente del combattente, e ancor più in stile - del combattente ferito, del quale urge cauterizzare le ferite fisiche e psicologiche restituendo il disarmato alle armi. Una grande metafora iperrealista dei rapporti di genere. L'alacre cucitrice di maglie di lane estende a questo punto la propria pietosa consegna di 396

assistenza ai maschi della patria facendosi infermiera o dama di carità e porgendo conforto e aiuto nei treni ospedale e nei reparti medici. E' un passo in più, naturalmente, poiché in questa versione l'incombenza tutta femminile della cura comporta di necessità l'uscire di casa, talvolta l'allontanarsi dalla propria abitazione e il vivere a contatto con una moltitudine di maschi, combattenti e borghesi, ammalati e sani. Cronache, letteratura amena e memorialistica sono costellate di queste figure femminili pietose, circondate di ammirazione e gratitudine, che lasciano tuttavia non di rado trapelare più d'un sospetto malevolo per questa sovraesposizione femminile in territorio maschile e per una altrimenti inaudita promiscuità. Il "luì e la "leì di "Addio alle armi", il famoso romanzo di Ernest Hemingway ambientato al fronte e nelle retrovie italiane, daranno corpo a illazioni diffuse sui più o meno fuggevoli amori fioriti in zona di guerra, approfittando della messa in mora dei codici usuali. L'auspicata complementarità della parte femminile agli sforzi militari della parte maschile della nazione mobilitata si misura dunque sulle cose, in un'economia degli affetti e delle funzioni rispetto alla quale la presa della parola da parte di alcune singole donne politicizzate, pur in se stessa significativa, appare aggiuntiva e relativamente marginale. Naturalmente, ha un suo rilievo periodizzante che Teresa Labriola e altre grandi firme della Federazione nazionale italiana pro suffragio femminile respingano nell'agosto del 1917 la «pace senza vincitori né vinti» ipotizzata da femministe austriache e di paesi neutri, rivendicando alle «suffragiste italiane» di avere inteso sin da prima del maggio 1915 la necessità morale e politica della guerra (67); o che giovani militanti di provincia, come Linda Garatti Bergamo, acquisiscano l'abitudine e il peso per parlare a grandi folle in una piazza difficile come Bologna (68). Ci sembra tuttavia appropriato segnalare l'anticipo che la vocazione femminile per le "operè segna rispetto a una propaganda maschile che resta più a lungo circoscritta nell'ambito delle parole, e solo nell'ultimo anno di guerra, 397

fra Caporetto e Vittorio Veneto, individua un miglior equilibrio tra parole e cose, fra propaganda e assistenza. La propaganda patriottica delle donne nasce infatti sin dal principio come assistenza. Una innovativa e diffusa figura intermedia fra l'umile collaborazione domestica, pratica e simbolica al tempo stesso, della cucitrice, espressione partecipativa senza età, aperta all'esperienza delle anziane e all'apprendistato delle giovanissime, e l'attività proiettata verso l'esterno della crocerossina, è quella della madrina di guerra. E' una figura mista, suscettibile di essere interpretata in senso materno, sororale, amichevole, amoroso. Qui, a differenza che per la crocerossina, l'attività di assistenza e conforto è basata sulla parola, ma sulla parola scritta. Ogni madrina ha il "suò soldato, gli scrive, ne riceve a sua volta lettere, in un rapporto destinato di norma a rimanere di carattere solo epistolare. Non si è forse lontani dal vero presupponendo che l'investimento affettivo che, prendendo e coltivando l'iniziativa, vi fa l'interlocutrice femminile sia maggiore di quello dell'interlocutore maschile, verosimilmente più imbarazzato nel leggere e nel rispondere alla sconosciuta: lei può essere portata ad assumere una tale corrispondenza come un succedaneo d'epoca del diario e della corrispondenza amicale, pratiche, com'è noto, precipuamente femminili; se chi scrive è una ragazza, o magari una donna nubile e sola, quel "luì misterioso e lontano può anche diventare uno schermo, il destinatario socialmente commendevole di sentimenti altrimenti illeciti nei confronti di uomini, per giunta estranei. Si ha notizia di letterine di matrice scolastica, in cui trova sfogo l'impegno patriottico delle maestre che stimolano intere classi di scolare a questa forma di assistenza spirituale a distanza, che viene a essere anche una forma d'epoca di educazione civica. Bisognerebbe disporre di una più estesa e sistematica campionatura di questo importante capitolo della «scrittura popolare» innescato fra i due generi dall'evento separatore della Grande Guerra (69). Esso non è certamente riconducibile alla fenomenologia della lettera 398

a casa e da casa (70). Nella figura della madrina e nella corrispondenza dalla parte di lei si manifesta un insieme di motivazioni e di bisogni in cui la storia delle donne e di genere potrebbe rinvenire un complesso di rappresentazioni e autorappresentazioni liberate e dinamizzate dallo stato di guerra che non appaiono riducibili a una tranquilla accettazione della differenza delle identità e dei ruoli. - "Le donne del soldato". Le figure eccentriche dell'infermiera e della madrina non tolgono che la famiglia rimanga comunque al centro di un immaginario mediato da ogni sorta di rappresentazione scritta e figurata, dalla pubblicistica, alle cartoline, alla pubblicità, alla vera e propria propaganda. E al centro del centro, due varianti del femminile, la madre e la sposa. Dominante è la prima, poiché la raffigurazione d'epoca usa sottolineare la maternità anche nella seconda, circondando la moglie del soldato di «una nidiata di bimbi», ovvero ponendola senz'altro come vedova. La vera coppia è quella madre- figlio, mentre la coppia moglie- marito viene occultata o ridotta riassorbendola nell'universo familiare. Non è facile distinguere nell'iconografia d'epoca elementi di carattere amoroso, e tanto meno sessuale, sopravvissuti a tale sublimazione degli affetti. L'erotismo è pressoché per intero extrafamiliare, ispira le forme flessuose delle "ragazze di Trieste" nelle tavole liberty di un elegante illustratore come Umberto Brunelleschi, collaboratore della «Tradotta», lo splendido giornale della terza armata; o le diverse varianti di un'"Italia" semivestita o drappeggiata in pepli e bandiere tricolori, magari allegrotta e procace e, nelle illustrazioni più corrive, incorniciata di baionette e cannoni dalle forme, non di rado, sessualmente allusive (71). La centralità della famiglia e l'assidua riproposizione dell'ambito familiare come retroterra istituzionale e mentale è l'argine ideologico che viene elevato rispetto a 399

una condizione oggettiva che, per gli uomini come per le donne, moltiplica invece le occasioni, le figure e gli incontri della vita extrafamiliare. E' il richiamo della normalità rispetto a una straordinaria eccedenza di stimoli centrifughi. Anche le lettere a casa nascono sotto il segno di questa normalità continuamente bisognosa di essere restaurata, nel ricordo, dà segni di presenza e di mutua assicurazione. E alla famiglia e alla casa fanno riferimento i provvedimenti di Stato: sia quelli di carattere assistenziale (sussidi, pensioni, assicurazioni), sia quelli di carattere intimidatorio e punitivo (come quando sulla porta del disertore si affiggono le stigmate del suo reato, destinato nelle intenzioni a travolgere nella disistima sociale la famiglia del colpevole). Tutti questi milioni di contadinisoldati e di giovanissimi sono stati sbalestrati ben lontano dal centro del loro ordine mentale e della loro vita quotidiana, dal rispettivo campanile di Marcellinara, per dirlo con le parole dell'antropologo (72). L'immaginario familista, già profondamente radicato nella cultura del soldato e ulteriormente incentivato dagli addetti cattolici e laici al "morale delle truppe" (73) contrasta con la diversità degli orizzonti di vita quotidiana del militare, dove ogni figlio, marito e padre è esposto alla possibilità e al rischio del mutamento. La sua identità vacilla, si sfrangia e si trasforma. Fa, pensa, vede, entra in contatto con situazioni che prima non facevano parte della sua esperienza. E anche le donne del soldato possono mutare, non rimanere legate al modello familista, aprire a nuove e qualche volta eterodosse figure femminili. Non solo le donne dei postriboli militari, ma anche semplicemente quelle della zona di guerra, cioè altre madri e altre mogli, liberate dalla lontananza, dalla prigionia o dalla morte dei rispettivi uomini, svincolate dalle regole consuetudinarie ed esposte anch'esse ai contraccolpi dello stato di guerra, che frantuma il controllo sociale delle reti comunitarie. Conosciamo meno bene della sua immagine ideale questa storia sociale dei rapporti di genere in zona di guerra (74). Conosciamo però come un "topos" della memorialistica del 400

militare in licenza la malinconica o furente scoperta che, al paese, le donne non aspettano. Nella contrapposizione tra quel "noi" e quel "loro" - l'universo dei sacrificati al fronte e quello dei "profittatori" e degli "imboscati" - il controllo dei comportamenti del corpo femminile rappresenta una delle note più dolenti, che fa crescere il disincanto e il rancore fra i maschi catturati dalla divisa ed esiliati ai confini. E' come se le contese tradizionali del mondo di ieri fra i giovani dei paesi per la conquista delle ragazze dei paesi vicini e la difesa monopolistica di quelle del proprio si fossero enormemente allargate, assumendo le dimensioni di un gigantesco mercato libero dell'amore e del sesso dove i militari giocano una partita doppia, che per un verso può farne dei possibili nomadi predatori, ma per l'altro quelli che hanno più da rischiare, che non concorrono ad armi pari. Un icastico luogo di accumulo e di ibridazione delle principali immagini femminili con cui il soldato ha a che fare - le abitanti del Friuli e del Veneto, le prostitute dei postriboli militari, le propagandiste, infermiere e dame di carità - sono le pagine convulse dell'autore di "Viva Caporetto!"; Malaparte, volontario repubblicano qui alla sua prima prova di scrittore, legge come rivelatori il capovolgimento e l'anomia, intrecciando la dimensione effettuale e onirica di una rotta in cui tutti i confini di identità e di ruolo vengono travolti: "Ah!, donne d'Italia, ammalate della lue romantica e, forse, patriottica, degli ufficiali dei comandi e dei sottufficiali dei servizi ausiliari - come fuggivate tremanti, ben sapendo che i poveri cristi dell'Isonzo non avrebbero avuto rispetto per la vostra virtù e per la vostra pudicizia e avrebbero sbeffeggiato sin la vostra verginità, contagiata dal contatto di tutti gli imboscati e di tutti i vigliacchi d'Italia! Ben sapevate, scappando, che gli insorti di Caporetto portavano in trionfo, nude e arruffate, sconcie e turpi, sul tumulto della moltitudine in rotta, le prostitute dei bordelli militari. 401

Le portavano in trionfo, nude e sconcie, acclamando" (75). "Fuggivano, le "donne della Croce Rossa"; ma quando l'orda degli insorti, dei pezzenti, dei rifiuti di tutti gli ospedaletti da campo e di tutte le trincee, raggiungeva uno di questi camions, carichi di umanitarismo sportivo, impossibilitati a proseguire da un guasto o dalla calca dei fuggenti, allora, con un urlìo osceno di gioia (ah! l'oscenità della gioia ... di una folla rivoluzionaria!) i fanti senza fucile, senza mostrine, i fanti marci di vino e di fatica, si gettavano su quelle donne, le strappavano dai sedili, le arruffavano, le tastavano, le denudavano, le cacciavano a sputi nella calca terribile, tra i soldati, tra i porci, tra i contadini, tra i carri, nella babelica confusione di paure e di egoismi della moltitudine in rotta. - A piedi! a piedi! basta con le comodità! basta con le parzialità! A piedi! giù! giù!" (76). * I PRIGIONIERI. - "La prigionia nella prima guerra mondiale". Nel corso dei secoli i prigionieri di guerra non conobbero altra legge che il potere assoluto dei vincitori, che potevano trucidarli in massa, venderli come schiavi o incatenarli ai remi delle galere, oppure concedere loro la vita per solidarietà di casta o speranza di riscatto. Tra il Sette e l'Ottocento si diffuse il concetto che i prigionieri dovessero essere custoditi e poi restituiti, con ancora molte eccezioni. Poi l'ampliamento degli eserciti (nel 1870 i prussiani catturarono 300 mila soldati francesi, liberati dopo pochi mesi) impose nuove soluzioni; la guerra civile nordamericana 1861-1865 vide la nascita di campi di prigionia per decine di migliaia di uomini e una prima regolamentazione del loro trattamento, le cosiddette 402

"Lieber's Instructions" emanate nel 1863 dal presidente Lincoln. In una serie di conferenze e convenzioni internazionali, tenute a Ginevra e all'Aia dal 1864 al 1907, fu messa a punto una normativa che, con miglioramenti e aggiornamenti successivi, è ancor oggi in vigore. Il punto centrale è il riconoscimento del diritto del prigioniero ad avere certezza di vita, trattamento adeguato come alloggio e vitto, assistenza sanitaria e religiosa, corrispondenza regolare con la famiglia. L'esercito detentore a sua volta ha il diritto di chiudere i prigionieri in campi di sicurezza e di imporre loro disciplina e lavoro coatto in termini ovviamente elastici, ma sottoposti al controllo di uno stato neutrale concordato e di un ente internazionale come la Croce Rossa. Gli ufficiali devono avere campi separati e non possono essere costretti al lavoro (77). Questa normativa fu messa in crisi già nel 1914 da un afflusso di prigionieri su tutti i fronti molto superiore alle previsioni, prigionieri che bisognava trasferire, custodire, nutrire non per pochi mesi ma per anni; ben presto fu necessario ricorrere a grandi campi di baracche in legno, circondati da reticolati e decentrati su tutto il territorio nazionale (e coloniale, i francesi aprirono campi in Nordafrica). Lo sviluppo delle passioni nazionali non poteva risparmiare la prigionia: la propaganda di tutti gli stati trovava fertile campo nella denuncia della brutalità del trattamento che il nemico infliggeva ai prigionieri, con la richiesta di ritorsioni e la malcelata speranza di illustrare ai soldati che arrendendosi andavano incontro a sofferenze peggiori della trincea. Va comunque precisato che gli stati coinvolti nella prima guerra mondiale fecero il possibile per rispettare le convenzioni internazionali sulla prigionia (78). Tuttavia già nel 1915 Germania e Austria-Ungheria si trovarono in difficoltà ad assicurare ai prigionieri un vitto adeguato, perché il blocco delle importazioni marittime provocava crescenti restrizioni nell'alimentazione della popolazione e delle loro truppe. Alla fine del 1915 i prigionieri francesi in 403

mano tedesca erano oltre 300 mila, con razioni quotidiane insufficienti; per assicurarne la sopravvivenza il governo francese fece appello all'invio di pacchi da parte delle famiglie e delle associazioni umanitarie, poi nel luglio 1916 raggiunse un accordo con le autorità tedesche per l'invio regolare di generi alimentari, di vestiario e oggetti di varia utilità. Di fatto il vitto dei prigionieri francesi e britannici fu assicurato dai loro governi, con treni di rifornimenti regolari e controllati, che facevano sì che i prigionieri fossero meglio nutriti e vestiti dei militari tedeschi che li custodivano. Gli aiuti furono estesi a parte dei prigionieri russi e balcanici. In tutto i 600 mila francesi prigionieri di guerra ricevettero 15 milioni di pacchi dalle famiglie e dalle associazioni di soccorso, un milione di quintali di pane, altri rifornimenti e 625 mila pacchi di vestiario dal governo. La mortalità fu ridotta a 18882 casi, compresi i morti per ferite contratte prima della resa (79). Furono anche conclusi accordi per la liberazione dei prigionieri invalidi (soprattutto gli amputati e i tubercolotici) o anziani, che però ebbero effetti limitati (80). La prigionia dei francesi fu quindi accettabile, secondo i criteri di valutazione del tempo. In realtà la prigionia di guerra comporta sempre sofferenze e costi straordinari moltiplicati dalla sua durata. Innanzi tutto le esigenze di sicurezza e di economia dell'esercito detentore impongono una convivenza forzata in spazi ristretti e generalmente disagiati, secondo regole e ritmi fatti osservare rigidamente, con una separazione totale dalla patria e dalle famiglie (attenuata soltanto da una corrispondenza ridotta, censurata e con tempi lunghissimi, perché le lettere devono passare attraverso stati neutri) e rapporti con l'esterno limitati alle necessità di lavoro. Il prigioniero deve misurare quotidianamente la sua soggezione quasi assoluta alle autorità che ne assicurano la custodia (anche quando intendono rispettare le convenzioni internazionali). Vive fuori del mondo e del tempo, in una "società chiusà di soli maschi giovani che azzera le differenze di origine e di condizione (salvo quelle tra soldati e ufficiali) e le 404

prospettive di futuro, unificate nell'attesa della liberazione. Il lavoro è la sola possibilità di ritrovare un contatto con la realtà, ma nella maggioranza dei casi si tratta di lavori coatti e inquadrati, in condizioni spesso dure e penose che diventano distruttive quando il vitto è insufficiente; sono fortunati i prigionieri mandati a lavorare nelle campagne, dove possono trovare cibo e rapporti umani. L'aspetto più penoso della condizione del prigioniero è il sospetto diffuso che la sua resa fosse dovuta a insufficiente volontà di lotta, a vigliaccheria, forse addirittura a una diserzione mascherata. Lo vedremo per gli italiani, ricordiamo che anche in Francia il ritorno dei prigionieri fu guastato da prevenzioni, rimproveri, inchieste. Ci vollero dieci anni di battaglie della Fédération nationale des anciens prisonniers de guerre perché a costoro fossero riconosciuti la maggior parte dei diritti degli ex combattenti (81). - "l prigionieri italiani, una storia cancellata". Fino a non molti anni fa, nei calcoli sulle perdite italiane nella Grande Guerra restava una lacuna. I dati disponibili, approssimativi ma provenienti da fonti ufficiali, davano 500 mila morti per ferita o malattia al fronte o nel paese fino all'armistizio, 50-60000 morti in prigionia, circa 50000 negli anni successivi per causa di guerra; la somma non arrivava ai 650 mila morti che, sempre con un certo margine di approssimazione, rappresentano il costo del conflitto per l'Italia. Soltanto nel 1993 un volume di Giovanna Procacci ha permesso di far quadrare i conti, rivelando che i morti in prigionia erano almeno 100 mila (82). La cosa singolare è che questa cifra non avrebbe dovuto essere ignota, perché proviene dalla voluminosa relazione del 1920 della Commissione d'inchiesta sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico. Il fatto che non sia stata ripresa nelle molte opere di documentazione ufficiale sulla guerra, che non si occupano mai della prigionia, né negli studi apparsi nei settant'anni successivi, in parte assai 405

vivaci nel denunciare gli orrori della guerra italiana, è il risultato di un'operazione pienamente riuscita: la cancellazione della prigionia dalla memoria della guerra italiana. Durante il conflitto la propaganda si occupò della prigionia quasi soltanto per ribadirne il carattere disonorante: i prigionieri erano «sventurati e svergognati» che avevano «peccato contro la patria», come proclamava D'Annunzio e ripeteva la stampa. Il disastro di Caporetto, in cui 280 mila soldati caddero nelle mani del nemico, suggellò questa riprovazione: la responsabilità della disfatta era di chi si era arreso senza combattere o peggio aveva tradito. La scarsa memorialistica in materia attesta come gli stessi prigionieri accettassero questa accusa: chi scrive si preoccupa soltanto di allontanare da sé il sospetto di non aver combattuto allo stremo prima di una resa obbligata, difende chi si è trovato nelle sue stesse condizioni (per esempio chi è stato catturato sul Carso), ma dà per scontato che la massa dei compagni di sventura meriti il giudizio severo dell'opinione pubblica. Sono particolarmente i prigionieri di Caporetto a sentirsi coinvolti in un collasso disonorante che macchia anche chi non è venuto meno al dovere (83). Ben pochi protestano contro il governo che li ha abbandonati, i più si limitano a descrivere la loro durissima condizione di fame e sconforto (84). La propaganda si occupa dei prigionieri da un altro punto di vista con una serie di opuscoli diffusi nel 1917-1918 con titoli eloquenti: "La crudeltà austriaca", "Gli orrori della prigionia austriaca", "Calvario d'oltr'Alpi", "Dalla tomba dei vivi" e simili. Le atroci condizioni di vita dei prigionieri vi sono descritte a fosche tinte con il duplice scopo di attizzare l'odio contro gli austriaci (fatti colpevoli di tutte le sofferenze e privazioni illustrate) e di distogliere i soldati da ogni tentazione di resa. Il messaggio è chiaro, chi si arrende compie un atto disonorevole che peggiora le sue condizioni di vita e le sue speranze di sopravvivenza. Questo atteggiamento era condiviso e incoraggiato dalle autorità militari e politiche italiane, perché era un aspetto 406

della scarsa fiducia che esse avevano nelle truppe. Abbiamo già visto quale dura disciplina fosse imposta ai soldati e con quale facilità venissero accusati di diserzione. Era generalmente impossibile conoscere con precisione le circostanze della resa, sapere se i soldati avevano davvero combattuto fino all'ultimo, se si erano lasciati sopraffare dalla paura, se non avevano accolto la cattura con sollievo perché li salvava dal rischio di morte, o addirittura se non avevano approfittato della confusione della battaglia per consegnarsi volontariamente al nemico. Erano dubbi impossibili da risolvere, nessuno può ricostruire con certezza cosa determini il comportamento di un soldato in combattimento; comunque un alto numero di prigionieri non è di per sé un indice di scarsa combattività, se i francesi ebbero molti più prigionieri dei tedeschi la colpa fu certamente più dei comandi che dei soldati. In ogni caso Cadorna non ebbe mai dubbi, i prigionieri italiani erano troppi, quindi erano colpevoli come minimo di insufficiente aggressività, probabilmente di viltà, non pochi di diserzione. Le tremila condanne a morte in contumacia emanate dai tribunali militari si riferiscono in gran parte a disertori verso il nemico, veri o supposti; sono da aggiungere i processi non portati a conclusione e soprattutto le migliaia di prigionieri sospettati di diserzione, senza elementi abbastanza gravi da autorizzare la denuncia ai tribunali, comunque sufficienti perché a costoro fosse negato il diritto di ricevere posta e pacchi. L'azione delle autorità politiche e militari fu volta a ridurre la prigionia a problema privato e secondario. Erano le famiglie dei prigionieri che dovevano preoccuparsi di inviare loro aiuti, lo Stato se ne disinteressava, anzi interveniva per frenare questi aiuti, come vedremo nel prossimo paragrafo. Fu fatto divieto alla Croce Rossa di promuovere raccolte di fondi per l'assistenza ai prigionieri, doveva essere chiaro che la descrizione delle loro miserevoli condizioni non meritava alcuna solidarietà. Il risultato fu che la prigionia divenne qualcosa di poco onorevole, di sospetto, da passare sotto silenzio e da 407

rimuovere, un risultato raggiunto con un'efficacia e un'unanimità sorprendenti. La stampa si occupa dei prigionieri al momento del loro rientro alla fine del 1918, poi però le loro vicende hanno scarso peso nella violenta campagna socialista dell'estate 1919 contro la guerra e non lasciano traccia nella stampa militare che difende il ruolo e le carriere degli ufficiali, nei dibattiti del dopoguerra, nelle memorie dei comandanti, nella documentazione pubblicata dall'Ufficio storico dell'esercito e negli studi successivi. In Francia gli ex prigionieri avevano costituito una federazione per difendere i loro diritti, in Italia potevano soltanto cercare di farsi dimenticare (abbiamo già detto che la loro memorialistica è scarsa, poco efficace e ancor meno nota). L'avvento del regime fascista venne a consolidare quanto era già avvenuto, la cancellazione della prigionia dalla memoria della guerra in un modo così radicale che è difficile da accettare e spiegare; gli studiosi di psicologia delle masse vi possono vedere il bisogno collettivo di difendere l'onore nazionale e il nuovo prestigio militare dai dubbi risorgenti con l'eliminazione della pagina più triste e discutibile. Certo è che abbiamo dovuto aspettare il volume di Procacci del 1993 per ridare alla prigionia il posto che le spetta nella storia della guerra italiana. - "Centomila morti per scoraggiare le diserzioni". Insieme alla prigionia è stata dimenticata la scelta più cinica e feroce di tutta la guerra, la peggiore prova della classe dirigente militare e politica: la decisione di lasciar morire di fame decine di migliaia di prigionieri, nella convinzione che ciò valesse a trattenere i combattenti dalla resa e dalla diserzione. Nei primi mesi del conflitto l'assistenza ai prigionieri fu delegata alla commissione costituita dalla Croce Rossa e alle famiglie, con modeste facilitazioni per l'invio di pacchi e di denaro. La soluzione si rivelò presto inadeguata: i pacchi erano troppi perché fosse possibile controllarli, inoltrarli e poi distribuirli con i mezzi normali (arrivarono a 18 milioni nel corso del conflitto), 408

inoltre molti prigionieri non potevano contare sull'appoggio delle famiglie. Intanto diminuivano le razioni distribuite dagli austriaci per la drammatica crisi alimentare che minava la loro resistenza (i loro soldati nelle retrovie non stavano molto meglio dei prigionieri). Abbiamo già visto che il governo francese si risolse nel 1916 a organizzare l'invio regolare di treni di rifornimenti ai suoi prigionieri, salvandoli così dalla fame. Gli austriaci proposero la stessa soluzione al governo italiano, che rifiutò. L'agghiacciante documentazione raccolta da Procacci non lascia dubbi: il Comando supremo sapeva bene che i prigionieri italiani stavano morendo di fame (tanto che faceva ogni sforzo perché ciò fosse illustrato ai soldati al fronte), ma non intendeva facilitare l'invio di aiuti di cui non li considerava degni. Le dure posizioni del Comando supremo (su questo punto non ci sono differenze tra Cadorna e Diaz) trovarono il pieno appoggio del ministro Sonnino, che ebbe ragione dei dubbi dei suoi colleghi di governo. La stampa francese aveva sostenuto con energia e successo l'obbligo morale di dare assistenza ai prigionieri, quella italiana si occupò del tema soprattutto per denunciare la barbarie austriaca, lasciando circolare la voce che gli austriaci si appropriassero dei rifornimenti spediti dall'Italia (era falso, ma la voce non fu mai fermata). L'unico provvedimento delle autorità militari fu la costituzione di un Ufficio prigionieri presso il ministero della Guerra, che si occupava del controllo della corrispondenza con lo scopo precipuo di individuare i sospetti disertori (subito puniti con la sospensione della posta e dei pacchi, nonché del sussidio alle famiglie se bisognose). Il risultato furono crescenti ritardi nelle spedizioni e ingorghi così gravi alla frontiera, che nell'aprile 1918 vennero distrutte 17 tonnellate di posta arretrata, un gesto di criminale disumanità se si ha presente l'importanza che le lettere avevano per i prigionieri. Il gesto tuttavia rientra nella politica del Comando supremo, che in più occasioni si adoperò per limitare o sospendere la spedizione di pacchi e lettere, per impedire l'invio (più celere e sicuro) 409

di vagoni di rifornimenti, per ostacolare la raccolta di fondi per la Croce Rossa con pretesti diversi. In sostanza il Comando supremo e Sonnino, con la connivenza dei successivi governi, non soltanto impedirono l'invio di rifornimenti governativi (l'unico modo per aiutare seriamente i prigionieri), ma fecero il possibile per sabotare l'opera della Croce Rossa e le premure delle famiglie. La guerra presenta una serie infinita di orrori e di bestialità. Si possono trovare spiegazioni e giustificazioni per la ripetizione dei sanguinosi attacchi frontali, per le grandi offensive, per una disciplina terroristica. Non è possibile trovare giustificazione o razionalità nella politica del Comando supremo verso i prigionieri, avallata dal governo e accettata dalla stampa; ricordiamo che i francesi ebbero lo stesso numero di prigionieri (e per un tempo medio maggiore), ma 20000 morti invece di 100 mila perché il loro governo li rifornì regolarmente di viveri. Il comportamento opposto di Cadorna e Sonnino attesta soltanto estraneità e disprezzo verso i soldati italiani, quelli che si arrendevano ed erano considerati in blocco vili e sospetti disertori, quelli che morivano di fame nei campi austriaci mentre i loro comandanti impedivano che fossero soccorsi, quelli che continuavano a combattere ma dovevano essere terrorizzati con l'annuncio che sarebbero morti di fame se si fossero arresi. Un comportamento che costituisce il punto più basso della condotta morale e professionale dei comandanti e del governo italiano nella Grande Guerra. - "La sorte dei prigionieri". Riepiloghiamo le cifre disponibili: circa 260 mila prigionieri catturati prima di Caporetto, 280 mila nel corso della rotta, 50000 nell'ultimo anno di guerra, in tutto circa 600 mila, di cui 19500 ufficiali (austriaci e tedeschi ne denunciarono 587 mila 675, ammettendo la possibilità di lacune). Invalidi rimpatriati durante il conflitto 16142, di cui 1169 ufficiali. Prigionieri rimpatriati 485 mila 145 tra il novembre 1918 e 410

l'aprile 1919. Morti in prigionia per cui esiste una documentazione 49435., di cui 480 ufficiali. Totale morti in prigionia circa 100 mila, di cui orientativamente il 10 per cento per le ferite precedenti la cattura (85). Non è possibile calcolare i deceduti dopo il rimpatrio in conseguenza delle privazioni, i quali rientrano nel totale approssimativo di 50000 morti dopo il dicembre 1918 per le ferite e malattie contratte in guerra (86). Riusciamo a ricostruire a grandi linee la prigionia degli ufficiali, grazie alla scarsa memorialistica e al volume di Procacci. Costoro ebbero il trattamento privilegiato rispetto ai soldati, garantito dalle convenzioni internazionali: nessun obbligo di lavoro, campi separati e meglio organizzati, con servizi assicurati dagli attendenti, facilitazioni per la corrispondenza. La razione viveri era un po’ superiore a quella dei soldati, comunque insufficiente (sembra intorno alle 1400-1600 calorie); ma gli ufficiali ricevettero quasi sempre dalle famiglie soccorsi in denaro e un numero sufficiente di pacchi distribuiti regolarmente (erano dislocati in campi grandi e stabili), quindi il loro livello di vita fu generalmente sopportabile (e infatti non mancarono i tentativi di evasione). Con una sola eccezione: nei primi mesi dopo Caporetto Sonnino ottenne che fosse sospeso l'invio dei pacchi, costringendo anche gli ufficiali a un periodo di fame disperata crudamente attestato dalla memorialistica. La mortalità fu nettamente inferiore rispetto ai soldati, circa 600 ufficiali su 19500, comunque sufficientemente alta per indicare i limiti del loro tenore di vita; fu soprattutto la tubercolosi a colpire i più giovani. Pessime le condizioni del vestiario, negativa e talora disastrosa la situazione morale per la coscienza di essere abbandonati e ripudiati dalla patria. Ricostruire la vita dei soldati è impossibile, perché furono dispersi in un centinaio di campi (per circa due terzi austriaci, gli altri tedeschi) e in un numero molto maggiore e variabile di distaccamenti di lavoro. Sembra che una minoranza riuscisse ad avere condizioni di vita sopportabili (quelli che rimasero nei grandi campi, dove era possibile 411

ricevere pacchi o trovare lavori sopportabili, e quelli che furono decentrati presso fattorie e insediamenti agricoli). La grande maggioranza dovette affrontare condizioni allucinanti: una razione quotidiana inferiore alle 1000 calorie, alloggiamenti e vestiario penosamente insufficienti, 12 e più ore di lavoro pesante (generalmente lavori di manovalanza, ma anche in miniera), un trattamento duro con abbondanza di percosse e punizioni, in una situazione di isolamento quasi assoluto (niente pacchi e poche lettere). Le poche testimonianze conservate (rinviamo ancora al volume di Procacci) sono drammatiche e monocordi: scheletri cenciosi alla disperata ricerca di erbe e rifiuti, ombre inebetite dall'inedia, moribondi sdraiati nella sporcizia. Centomila uomini, o poco meno, morirono di fame e delle sue conseguenze dirette (in primo luogo la tubercolosi). Austriaci e tedeschi non perseguivano una politica punitiva nei confronti dei prigionieri italiani, né commisero particolari efferatezze nei loro confronti; non intendevano però rinunciare al loro lavoro, anche se non erano in grado di distribuire razioni adeguate, perché la fame regnava anche tra i loro soldati e civili. Per francesi e inglesi, che avevano abbastanza da mangiare, la prigionia non fu drammatica e il lavoro coatto sopportabile. La differenza stava tutta nelle diverse decisioni dei rispettivi governi: erano Cadorna e Sonnino che avevano condannato la gran parte dei centomila morti (87). I patti d'armistizio prevedevano il rimpatrio sollecito, ma graduale dei prigionieri italiani (quelli austriaci dovevano attendere la conclusione della pace). Se non che lo stato di sfacelo dell'Impero asburgico fece sì che la massa dei prigionieri prendesse di iniziativa la via del ritorno, riversandosi in pochi giorni nel Veneto. Queste centinaia di migliaia di uomini bisognosi di ogni soccorso trovarono soltanto disorganizzazione e diffidenza, spesso neppure un rancio caldo. Il Comando supremo, che era giunto a studiare di destinarli in Libia o nei Balcani, si adoperò per chiudere tutti i prigionieri in campi di concentramento per 412

il tempo necessario a vagliare le loro posizioni, nella convinzione che molti dovessero essere denunciati per diserzione. Dinanzi alle proteste della stampa e delle forze politiche (e all'impossibilità pratica di concludere interrogatori e inchieste in tempi brevi), i campi furono sciolti e nel gennaio 1919 i prigionieri finalmente inviati in licenza, per poi ritornare ai reparti e seguire le vicende delle loro classi per il congedo. Poi la prigionia fu dimenticata. - "I prigionieri austriaci". Anche i prigionieri austro- ungarici in mani italiane furono cancellati dalla memoria e dimenticati dalla storiografia; pure le cifre disponibili sono incomplete. Al primo gennaio 1917, è una cifra sicura, erano 80000, più precisamente 78013 sottufficiali e soldati e 1965 ufficiali (compresi gli aspiranti). Un'altra cifra abbastanza sicura sono 130 mila prigionieri avviati al lavoro ai primi di aprile 1918, cui occorre aggiungere i malati, gli inabili e gli ufficiali. L'Ufficio storico dell'esercito dà un totale di 168 mila 898 prigionieri prima della battaglia di Vittorio Veneto, più 5513 disertori, non sappiamo se comprenda anche i morti e gli invalidi restituiti nel corso del conflitto. In altri documenti si trova un totale di 180 mila, approssimativo e accettabile (88). Una vicenda a parte fu quella degli austriaci fatti prigionieri dai serbi nel 1914. Nell'ottobre 1915 il fronte serbo fu travolto e, come abbiamo già detto, i resti dell'esercito raggiunsero la costa adriatica, portando con sé i prigionieri, metà dei quali morirono nella durissima marcia (mancano cifre precise). I superstiti furono raccolti in condizioni disperate dalla marina italiana che li portò all'isolotto dell'Asinara, sulla costa nord della Sardegna, già adibito a penitenziario con 300 reclusi. La scelta di questa destinazione aveva una sola giustificazione, il colera diffuso tra i prigionieri, che fece alcune centinaia di morti già durante i trasporti. Sta di fatto che tra il 18 dicembre 1915 413

e i primi di gennaio (con arrivi minori fino ai primi di marzo) 23854 prigionieri austriaci gravemente debilitati furono sbarcati su un isolotto sprovvisto di tutto (mancava anche l'acqua), alloggiati sotto tenda in pieno inverno, con scarsi viveri a secco, lasciati in preda a colera, tifo, dissenteria e tubercolosi. Circa 7000 morti, poi le autorità italiane si impegnarono seriamente a migliorare vitto e assistenza sanitaria. A partire da aprile i circa 16000 sopravvissuti furono consegnati ai francesi. Una bruttissima pagina, i comandi italiani non avevano intenti vendicativi, ma non seppero fronteggiare una drammatica emergenza (89). Poi l'Asinara divenne un campo di prigionia normale. Gli austriaci fatti prigionieri in Italia ebbero un trattamento del tutto adeguato alle norme internazionali, seppure con difficoltà e problemi dovuti alla necessità di improvvisare strutture di accoglienza e custodia largamente superiori alle previsioni. Basti ricordare che in un primo tempo era previsto di raccogliere i prigionieri nella fortezza di Alessandria; presto fu necessario distribuirli in altre fortezze e caserme, infine si addivenne alla costruzione di campi appositi di baracche, più o meno come all'estero. Al primo gennaio 1917 i prigionieri erano distribuiti in oltre cento tra campi e ospedali su tutto il territorio italiano, in particolare nell'Italia centrale. Le condizioni variavano da campo a campo, ma erano regolari, non di rado più favorevoli delle regole internazionali. Il vitto fu sempre assicurato (la razione del soldato italiano nelle retrovie, non sempre gradita), la cucina era affidata generalmente agli stessi prigionieri, ammessi gli acquisti dal commercio e la consumazione di vino e birra. Garantita la corrispondenza e l'assistenza religiosa, anche per le minoranze protestanti e israelitiche (90). Ovviamente non mancarono incidenti e proteste, che però sembrano rientrare nella "normalità" delle vicende di prigionia (91). Non si può fare a meno di notare, dice bene Tortato, la differenza tra il pieno rispetto dei prigionieri austriaci da parte delle autorità italiane e la sfiducia e il disprezzo che queste riservarono ai soldati italiani caduti in mano agli austriaci. Anche lo scambio di 414

prigionieri invalidi o anziani e del personale di sanità fu limitato dalla diffidenza di Sonnino e dei comandi italiani verso i prigionieri italiani; quelli austriaci restituiti furono soltanto 2390 nel 1917-1918 (92). I prigionieri furono avviati al lavoro a partire dal maggio 1916, quando non costituivano più una concorrenza con la manodopera nazionale. Divennero rapidamente una risorsa preziosa per i lavori agricoli e forestali, ma furono impiegati nei settori più disparati, in piccola parte anche nelle industrie; in condizioni ragionevoli (10 ore di lavoro, compresi i trasferimenti) e con mercedi non soltanto simboliche. Sempre esclusi gli ufficiali, che avevano il trattamento privilegiato previsto dalla convenzione di Ginevra. Dopo i primi tempi i prigionieri furono divisi in due grandi gruppi, tedeschi (austriaci e ungheresi) e slavi (boemi, polacchi, slovacchi e croati), poi in più gruppi nazionali definiti, anche perché, attraverso molti dubbi e resistenze, governo e stato maggiore si erano indirizzati alla costituzione di corpi armati tratti dai prigionieri. Nel 1918 almeno 25000 prigionieri accettarono di arruolarsi nei reparti cecoslovacchi inquadrati nell'esercito italiano (una legione, poi una divisione che combatté sul Piave nel giugno 1918, infine un corpo d'armata). Fu costituita pure una legione rumena (93). La battaglia di Vittorio Veneto vide lo sfacelo dell'esercito austroungarico. Prima che l'armistizio entrasse in vigore, le truppe italiane catturarono 416 mila 116 soldati e 10658 ufficiali (il che porta il totale dei prigionieri a circa 600 mila) (94). Una massa inattesa, che conobbe un primo periodo di dure privazioni per la mancanza di organizzazione, poi venne ripartita in campi regolari divisi per nazionalità. Le loro sorti dipesero dalla politica italiana, che tentava di inserirsi nelle complesse vicende degli stati sorti dalla disgregazione dell'impero asburgico. Il corpo d'armata cecoslovacco già costituito rimpatriò in dicembre, seguito nei primi mesi del 1919 da altri 75000 cecoslovacchi organizzati in reparti. In marzo vennero rimpatriati 37200 rumeni, inquadrati senza armi. Per le altre nazionalità i dati 415

sono meno chiari, entro l'estate vennero rimpatriati 25000 polacchi e altri gruppi minori e posti in libertà gli uomini delle regioni annesse all'Italia. Furono trattenuti (e avviati al lavoro per la ricostruzione delle terre invase dopo Caporetto) 40800 "jugoslavì (termine di nuova adozione), 95000 austriaci e 79000 ungheresi, poi rimpatriati alla fine del 1919, gli ultimi in gennaio 1920 (95). I prigionieri austriaci morti in Italia ammontano a 40947, di cui 13217 deceduti per le ferite riportate in combattimento e 27740 per altre cause (96). Non è possibile ripartire questi morti tra i prigionieri fatti prima o dopo Vittorio Veneto; in ogni caso non sono pochi, tenendo conto del fatto che i prigionieri ebbero quasi sempre un vitto adeguato. Forse incidono gli effetti dell'influenza "spagnolà, che tra la fine del 1918 e l'inizio del 1919 fece 600 mila morti in Italia, sempre scorporati dalle perdite della guerra. Due righe per ricordare un'altra categoria di prigionieri, i trentini e triestini dell'esercito austriaco, inviati a combattere sul fronte orientale e catturati dai russi. Nel 1916 il governo zarista annunciò che avrebbe liberato quelli disposti a riprendere la guerra dalla parte dell'Italia; su oltre 30000 prigionieri austriaci di origine italiana circa 2500 accettarono, furono affidati a una missione militare italiana e rimpatriati. Di quelli rimasti in Russia abbiamo poche notizie, tra cui alcuni resoconti di vicende straordinarie attraverso la Russia sconvolta dalla guerra civile, fino alla Siberia e poi alla Cina (97).

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NOTE AL CAPITOLO 5. 1. G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. 182. Si tratta ovviamente di cifre orientative per la difficoltà di separare spese normali e spese di guerra e di comparare bilanci nazionali assai diversi per struttura, nonché le conseguenze della svalutazione. Gli «altri alleati» dell'Intesa sono Belgio, Grecia, Giappone, Portogallo, Romania, Serbia. E' inutile ricordare che il dollaro aveva un valore assai più alto di quello attuale. 2. G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. 176. Il debito della Gran Bretagna verso gli Stati Uniti presenta una lieve differenza nella prima e nella quarta colonna che non possiamo spiegare. 3. Una soluzione radicale fu la decisione del governo bolscevico di non riconoscere i debiti contratti dalla Russia zarista. Per arrivarci ci voleva però una rivoluzione che scontava la rottura dei rapporti internazionali tradizionali. 4. Guido Melis, "Storia dell'amministrazione italiana", Bologna, Il Mulino, 1996, p. p. 269 seg.; G. Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia", cit.; Giorgio Porisini, "Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale", Firenze, La Nuova Italia, 1975. 5. Conf. Franco Bonelli, "Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962", Torino, Einaudi, 1975. 6. Paola Carucci, "Funzioni e caratteri del ministero per le armi e munizioni", in G. Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia", cit.; si veda inoltre Alberto Caracciolo, "La grande industria nella prima guerra mondiale", in Id. (a cura di), "La formazione dell'Italia industriale", Bari, Laterza, 1969.

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7. Su circa 6 milioni di uomini chiamati alle armi, alla fine del 1918 c'erano 282 mila dispensati perché addetti a servizi essenziali (ferrovie, poste, polizia, prefetture e simili), 166 mila assegnati temporaneamente agli stabilimenti industriali e 437 mila esonerati a titolo definitivo (F. Zugaro, "La forza dell'esercito", cit., p. p. 2829). Tra questi ultimi si contavano 156 mila operai delle classi più anziane, gli altri erano quadri intermedi e dirigenti di fabbrica, imprenditori, tecnici e dirigenti di aziende agricole e altri, anche imboscati secondo le denunce della stampa (non abbiamo elementi per una ripartizione). Il totale di 322 mila militari assegnati all'industria si trova in A. Caracciolo, "La grande industria nella prima guerra mondiale", in Id. (a cura di), "La formazione dell'Italia industriale", cit., p. 179; cifre un pò"più alte in Ministero della Guerra, "I rifornimenti dell'esercito mobilitato durante la guerra", Roma, 1924, p. 239. A titolo di confronto, nel 1940 vennero esonerati circa 900 mila uomini, di cui 500 mila per le fabbriche, gli altri per l'amministrazione e i servizi pubblici. Secondo G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. 94, in Germania gli operai esonerati dal servizio militare erano 1.200 mila nel settembre 1916,1.900 mila nel luglio 1917, un totale che dovrebbe comprendere anche gli operai fino a 60 anni che in Italia non avevano più obblighi militari. 8. Indici del costo della vita secondo l'Istituto centrale di statistica: 1914 = 100; 1915 = 107; 1916 = 133,9; 1917 = 189,4. Si tratta ovviamente di medie nazionali, le situazioni locali potevano presentare differenze, ma non ci sono dubbi sugli effetti della svalutazione, non compensata dalla concessione di un'indennità di carovita. Tra il 1918 e il 1921 il valore della lira precipitò fino a un quinto circa di quello del 1914. I dati sui salari reali indicano una loro diminuzione di circa un terzo fino al 1918. 9. Conf. G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. p. 213 seg. Si noti che non vi sono dubbi sull'adesione alla 418

guerra "difensivà del 1914 di larga parte della classe operaia tedesca, francese e inglese. 10. Si veda per esempio P. Melograni, "Storia politica della Grande Guerra", cit., p. p. 359 seg., che torna a contrapporre gli operai imboscati e ben pagati ai contadini che davano la gran parte della fanteria e quindi dei caduti. 11. Due dati sono indiscutibili: poco più della metà degli italiani erano contadini e la fanteria ebbe l'85 per cento delle perdite. Quando Melograni scrive che «quasi tutti i contadini appartennero alla fanteria» e quindi ebbero le perdite maggiori, riporta un tema della propaganda oltranzista senza alcuna prova né vaglio critico. E' vero che l'artiglieria prelevava le reclute più istruite, di provenienza cittadina, ma aveva bisogno anche di contadini per i suoi cavalli; e contadini erano certamente la maggioranza dei soldati di cavalleria, del genio (gli zappatori) e dei trasporti ippotrainati. In realtà non abbiamo dati sulla composizione sociale delle varie armi, tanto meno sulla ripartizione sociale dei caduti, salvo un generico 64 per cento di orfani di contadini contrapposto a un 30 per cento di orfani di operai che dimostrerebbe proprio il maggiore sacrificio degli operai (e la capacità della borghesia di sottrarsi ai più forti sacrifici) se fosse davvero attendibile. Conf. G. Rochat, "L'Italia nella prima guerra mondiale", cit., p. p. 76 seg. 12. Andrea Curami, "Un grande mistero: la produzione italiana di artiglierie", in Andrea Curami, Alessandro Massignani, "L'artiglieria italiana nella grande guerra", Valdagno, Rossato, 1998, p. p. 7-8. Sono i dati ufficiali editi nel 1924 dal ministero della Guerra. Abbiamo sommato i dati per fucili e moschetti e quelli per mitragliatrici e fucili automatici (o mitragliatrici leggere, 5000 nel novembre 1918). Le munizioni calibro 6,5 mm sono quelle per fucili, moschetti e mitragliatrici. Dipendiamo dallo studio di Curami per tutte le note seguenti sulla produzione di cannoni. 419

13. G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. 111. 14. Sperperi e alti profitti non si verificarono soltanto in Italia. G. Hardach ("La prima guerra mondiale", cit., p. 107) ricorda che la granata da 18 libbre, il più diffuso proietto dell'artiglieria britannica, all'inizio del 1915 era pagato 32 scellini (all'incirca il salario settimanale di un operaio); a metà dell'anno nuove ditte la offrirono per 20 scellini e alla fine del 1915 il ministero poté imporre il prezzo di 12,5 scellini, rispetto a un costo di produzione di 9-10 scellini. 15. Conf. A. Caracciolo, "La grande industria", cit.; Rosario Romeo, "Breve storia della grande industria in Italia", Bologna, Cappelli, 1961; Valerio Castronovo, "Giovanni Agnelli", Torino, Utet, 1971; Giorgio Mori, "Il capitalismo industriale in Italia", Roma, Editori Riuniti, 1977; Paride Rugafiori, "Ferdinando Maria Perrone", Torino, Utet, 1992. 16. Bisogna almeno ricordare l'eccezionale sviluppo del settore idroelettrico, che fornì l'energia necessaria alle fabbriche, e poi l'intreccio di interessi legati ai rifornimenti di carbone, come la continuazione delle importazioni dalla Germania fin quasi al termine del 1916 e poi gli acquisti nel 1917 di carbone francese che aveva il pregio di arrivare via terra (era il momento dei maggiori successi dei sottomarini tedeschi), ma per la sua cattiva qualità provocò il deperimento delle locomotive e una crisi dei trasporti ferroviari (Ministero della Guerra, "I rifornimenti dell'esercito", cit., p. p. 112-114). 17. Rinviamo allo studio già citato di B. Bianchi, "Salute e intervento pubblico nella industria di guerra", in G. Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia", cit. Non erano problemi soltanto italiani: il tritolo era considerato innocuo, ma la sua lavorazione in tempo di guerra provocò 24000 casi di intossicazione negli Stati Uniti 420

e 20000 in Gran Bretagna, dove però l'attività di prevenzione e tutela fu assai più sviluppata che in Italia. 18. Antonio Pedone, Il bilancio dello stato, in Giorgio Fuà (a cura di), "Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell'economia italiana negli ultimi cento anni", Milano, Franco Angeli, 1969, vol. 2, p. p. 216-217. 19. Francesco A. Repaci, "La finanza pubblica italiana nel secolo 1861-1960", Bologna, Zanichelli, 1962, p. 150. 20. Antonio Salandra, "Memorie politiche 1916-1925", Milano, Garzanti, 1951. 21. F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio, vol. 4, 1915-1918,1.1, cit. 22. Nel colloquio del 30 settembre 1915 con O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 71. 23. S. Sonnino, "Carteggio 1914-1916", cit. 24. O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit.; quanto allo storico del Comando supremo, Angelo Gatti, giudichiamo dalla parte conosciuta, "Caporetto. Dal diario di guerra inedito (maggio- dicembre 1917)", a cura di Alberto Monticone; Bologna, Il Mulino, 1964 (ristampato nel 1997). 25. Gaetano Salvemini, "Carteggio 1914-1920", a cura di Enzo Tagliacozzo, Roma- Bari, Laterza, 1984, p. 350. 26. G. Salvemini, "Carteggio", cit., p. p. 292-293. 27. F. Martini, "Diario 1914-1918", cit. 28. G. Salvemini, "Carteggio", cit., p. 261.

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29. Danilo Veneruso, "La grande guerra e l'unità nazionale. Il ministero Boselli giugno 1916-ottobre 1917", Torino, Società editrice internazionale, 1996. 30. Leonida Bissolati, "Diario di guerra", Torino, Einaudi, 1935. 31. Giuseppe Prezzolini, "Vittorio Veneto", Roma, La Voce, 1920, p. p. 15-16. 32. In interventi, immediati ma meditati, quali "Tutta la guerra: antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese", Firenze, Bemporad, 1918; "Dopo Caporetto", Roma, La Voce, 1919; "Vittorio Veneto", cit. 33. Luigi Gasparotto, "Diario di un fante", Milano, Treves, 1919. 34. L. Bissolati, "Diario di guerra", cit., p. 67. 35. Luigi Capello, "Caporetto, perché? La seconda armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917", Torino, Einaudi, 1967. 36. L. Capello, "Caporetto, perché?", cit., p. p. 257-258. 37. L. Capello, "Caporetto, perché?", cit., p. 263. 38. L. Capello, "Caporetto, perché?", cit., p. 26. 39 L. Capello, "Caporetto, perché?", cit., p. 243. 40. Giustino Fortunato, "Carteggio 1912-1922", a cura di Emilio Gentile, Roma- Bari, Laterza, 1979, p. 221. 41. G. Fortunato, "Carteggio", cit., p. 219. 42. Lettera a Salvemini, 31 dicembre 1914, in G. Fortunato, "Carteggio", cit., p. 184. 422

43. Lettera a Michele Rigillo, 13 novembre 1915, in G. Fortunato, "Carteggio", cit., p. 222. 44. Lettera a Rigillo, 9 aprile 1916, in G. Fortunato, "Carteggio", cit., p. 233. 45. Lettera a Rigillo, 29 luglio 1916, in G. Fortunato, "Carteggio", cit., p. 242. 46. Alessandro Camarda, Santo Peli, "L'altro esercito. La classe operaia durante la prima guerra mondiale", Milano, Feltrinelli, 1980; G. Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia", cit. Si veda anche il volume autobiografico di Silvio Crespi, l'industriale milanese incaricato dal governo di assicurare gli approvvigionamenti del paese sul mercato interno e internazionale, "Alla difesa d'Italia in guerra e a Versailles (Diario 1917-1919)", Milano, Mondadori, 1937. 47. Come Piero Nicola Di Girolamo, "Operai e mobilitazione industriale a Milano durante la grande guerra", tesi di dottorato in Storia contemporanea (nono ciclo), Università di Torino, la cui stampa in volume è in corso di allestimento. 48. Come sopravvive una città in tempo di guerra, in vicinanza delle linee, lo ha di recente analizzato Bruna Bianchi, "Venezia nella Grande Guerra", in "Storia di Venezia. L'Ottocento e il Novecento", a cura di Mario Isnenghi e Stuart Woolf, t. 1, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2002. 49. Estraggo i dati da P. N. Di Girolamo, "Operai e mobilitazione industriale", cit. 50. Alberto Monticone, "Il socialismo torinese e i fatti dell'agosto 1917", in "Gli italiani in uniforme (1915-1918)", 423

Bari, Laterza, 1972; Paolo Spriano, "Torino operaia nella grande guerra (1914-1918)", Torino, Einaudi, 1960. 51. Colloquio con Bissolati, 19 giugno 1917, in O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 141. 52. Conf. in O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 101. 53. Il 26 gennaio 1917, in O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 107. 54. Colloquio con Bissolati, 18 maggio 1917, in O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 124. 55. Colloquio con Bissolati, 19 giugno 1917, in O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 141. 56. Colloquio con Giolitti, 20 dicembre 1917, in O. Malagodi, "Conversazioni della guerra", cit., vol. 1, p. 238. 57 M. Isnenghi, "L'Italia del fascio", cit. 58. L. Albertini, "Epistolario 1911-1926", cit., vol. 2, "La grande guerra". 59. F. Martini, "Diario 1914-1918", cit., p. p. 526, 737-738, 819, 853. 60. In materia, si veda ora Angelo Ventrone, "La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (19141918)", Roma, Donzelli, 2004. 61. F. Martini, "Diario 1914-1918", cit., p. 900. 62. F. Martini, "Diario 1914-1918", cit., p. 900.

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63. Maria Rygier, "La nostra patria: sulla soglia di un'epoca", Roma, Libreria politica moderna, 1915. 64. Sara Miriade, "Una donna repubblicana. Linda Garatti Bergamo", tesi di laurea, Università di Venezia, rel. Mario Isnenghi, a. a. 1997-1998. 65. Augusta Molinari, "La buona signora e i poveri soldati. Lettere a una madrina di guerra (1915-1918)", Torino, Scriptorium, 1998. 66. Una illustre imprenditrice patriottica del lavoro femminile per la guerra è, fra Venezia e Genova, Maria Pezze Pascolato, di cui Nadia Maria Filippini ha ora tracciato il profilo biografico, Verona, Cierre, 2004. 67. F. Martini, "Diario 1914-1918", cit, p. 976. 68. S. Miriade, "Una donna repubblicana", cit. 69. Conf. intanto il già citato volume di A. Molinari, "La buona signora", la cui protagonista - la patrizia veneta Bianca Erizzo, sposata al genovese avvocato Giuseppe Giglio - è una delle 2000 donne impegnate, nella sola Genova, nelle opere di assistenza e propaganda (p. 8). 70. Conf. "I luoghi della scrittura autobiografica popolare", cit. 71. Lamberto Pignotti, "Figure d'assalto. Le cartoline della Grande Guerra. Dalla collezione del Museo storico italiano della guerra di Rovereto", Rovereto, Museo storico italiano della guerra, 1985. 72. E' un riferimento a un'esperienza di Ernesto De Martino, ricuperata da Glauco Sanga, "Campane e campanili", in M. Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria", cit., vol. 1, p. p. 35-36. 425

73. M. Isnenghi, "Giornali di trincea", cit. 74. Anna Bravo e al., "Donne e uomini nelle guerre mondiali", Roma- Bari, Laterza, 1991; E. Franzina, "Casini di guerra", cit. 75. C. Malaparte, "Viva Caporetto!", cit., p. 121. 76. C. Malaparte, "Viva Caporetto!", cit., p. p. 117-118. 77. Conf. Arturo Marcheggiano, "Diritto umanitario e sua introduzione nella regolamentazione dell'esercito italiano", 3 voli., Roma, Ufficio storico dell'esercito, 1990-1991; e la voce "Prisonniers de guerre", in A. Corvisier (a cura di), "Dictionnaire d'art et d'histoire militaires", cit., p. p. 693697. 78. Si tratta di una differenza sostanziale con la seconda guerra mondiale, quando la Germania nazista diversificò il trattamento dei prigionieri di guerra secondo pregiudizi razziali e ragioni di opportunità, lasciando morire di fame milioni di russi, sottoponendo polacchi e italiani a uno sfruttamento terroristico, riservando condizioni accettabili a francesi, britannici e statunitensi. 79. La precisione di quest'ultima cifra non deve illudere, tutti i dati sulla prigionia restano approssimativi, come il totale di 600 mila prigionieri francesi, 350 mila tedeschi, 200 mila britannici. Per austriaci e russi i prigionieri si contano in milioni, ma le cifre sono ancora più incerte. In tutto i prigionieri di guerra furono circa 8 milioni e mezzo, con vicende molto diverse, in parte catturati al momento del crollo finale dei loro eserciti. Conf. Odon Abbal, "Les prisonniers de la Grande Guerre", «Guerres mondiales et conflits contemporains», 147 (1987).

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80. Furono invece liberati attraverso la Svizzera quasi mezzo milione di internati civili, ossia di donne, bimbi e anziani sorpresi dallo scoppio della guerra in territorio nemico e quindi posti sotto custodia più o meno dura. 81. Una piccola indennità per le spese sostenute dalle loro famiglie fu negata nel 1930 dopo un dibattito parlamentare e poi liquidata nella misura di 50 franchi nel 1963, quando era presidente della Repubblica un prigioniero della Grande Guerra, Charles de Gaulle. 82. G. Procacci, "Soldati e prigionieri italiani", cit. Quasi tutto quello che diciamo dei prigionieri italiani proviene da questo eccellente e documentato volume, anche se non lo citeremo ogni volta. Si noti che la "Relazione ufficiale" sulla battaglia di Vittorio Veneto, apparsa nel 1988, dava già 100120 mila morti o dispersi in prigionia, ma non sottolineava l'enormità della cifra, che passò inosservata. Conf. Ufficio storico dell'esercito, "Relazione ufficiale, vol. 5, Le operazioni del 1918", t. 2, "La conclusione del conflitto. Narrazione", Roma, 1988, p. p. 1081-1082; nonché t. 2 bis, "Documenti", Roma, 1988, p. p. 1482-1486, Promemoria dello stato maggiore del 28 aprile 1936. 83. Si veda quanto scrive C. E. Gadda, "Giornale di guerra e di prigionia", cit. e "Taccuino di Caporetto", cit. 84. Conf. Giorgio Rochat, "La prigionia di guerra", in Mario Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell'Italia unita", Roma- Bari, Laterza, 1997. La memorialistica di prigionia è scarsa e quasi clandestina, di qualche utilità per illustrare le vicende degli ufficiali, muta su quelle dei soldati. La sola testimonianza che ha avuto diffusione per la notorietà dell'autore è il diario citato di Gadda, uscito a mezzo secolo dagli avvenimenti. 85. La percentuale sembra accettabile per i militari catturati prima e dopo Caporetto, non per la maggioranza 427

di quelli che si arresero durante la rotta, quindi andrebbe diminuita sul totale dei prigionieri. 86. G. Procacci, "Soldati e prigionieri italiani", cit., e Ufficio storico dell'esercito, "Relazione ufficiale", vol. 5, t. 2 bis, cit., Promemoria dello stato maggiore del 28 aprile 1936. 87. Non è possibile fare confronti tra prigionie diverse, perché troppe sono le differenze a tutti i livelli. Va comunque notato che la mortalità fu più alta (più del doppio) che tra i militari italiani catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943, i quali pure conobbero condizioni di prigionia altrettanto dure e per certi aspetti peggiori (volontà punitiva e licenza di uccidere da parte dei carcerieri). Viene da chiedersi che ruolo giocassero le forze morali: nel 1943-1945 i prigionieri italiani difendevano la loro dignità di uomini e di soldati contro il nazifascismo che avevano rifiutato di servire, nel 1915-1918 erano vittime passive di una tragedia in cui era l'Italia a negare loro dignità e aiuti. Un confronto molto difficile da sviluppare. 88. Le fonti disponibili sono la "Relazione ufficiale", vol. 5, tomo 2, cit., p. p. 1083-1087, e tomo 2 bis, cit., p. p. 14781487 (ivi la "Nota del 28 aprile 1936", p. 1.482, con il totale dei prigionieri prima di Vittorio Veneto): e A. Tortato, "La prigionia di guerra in Italia 1915-1919", cit., p. p. 30-33 e 107-108 per i dati al gennaio 1917 e aprile 1918. Il recente volume di Tortato è il primo studio serio sul tema, che utilizziamo largamente senza citarlo quanto sarebbe giusto. 89. Conf. A. Tortato, op. cit., p. p. 65 segg. Questi prigionieri non dovrebbero essere compresi nei totali che abbiamo dato. 90. Con limiti dettati dalla dispersione di circa 10000 evangelici in 81 campi diversi e dai problemi di lingua, i due cappellani valdesi chiesti dalle autorità militari parlavano il tedesco, ma i loro assistiti appartenevano a sette 428

nazionalità diverse, soprattutto ungheresi (Giorgio Rochat, "Note sui cappellani valdesi 1911-1945", in "La spada e la croce. I cappellani italiani nelle due guerre mondiali", a cura di G. Rochat, Società di studi valdesi, Torre Pellice, 1995). 91. Secondo A. Tortato, op. cit., le accuse austriache di maltrattamenti (che ritroviamo in G. Procacci, "Soldati e prigionieri italiani", cit., p. p. 223-226) si riferiscono a casi isolati che la stampa e i comandi austriaci drammatizzavano per le stesse esigenze di criminalizzazione del nemico che abbiamo visto da parte italiana. La scarsa memorialistica di prigionia, vista da Tortato, è più equanime e non priva di riconoscimenti. 92. Analoghi negoziati con la Germania si arenarono per motivi di prestigio, troppo divario tra 170 mila italiani in Germania e 250 tedeschi in Italia (A. Tortato, op. cit., p. 43). Questo è l'unico accenno a prigionieri tedeschi, verosimilmente seguirono le sorti degli austriaci. 93. "Relazione ufficiale", vol. 5, tomo 2, cit., p. p. 172-174. 94. "Nota" del 28 aprile 1936, cit. Si tratta di calcoli dell'Ufficio storico dell'esercito, quindi certamente attendibili come ordine di grandezza, anche se lasciano dubbi minori. 95. Relazione ufficiale, vol. 5, tomo 2, cit., p. p. 173-74 e 1083-1085; A. Tortato, op. cit., p. p. 141 segg. Cifre e vicende sono soltanto orientative e la documentazione finora utilizzata insufficiente. Da notare la difficoltà delle autorità italiane a districarsi tra le nazionalità dell'Europa orientale e le loro preoccupazioni politiche: un piccolo nucleo di prigionieri "russì fu inviato in Polonia perché di orientamento antibolscevico, altri trattenuti perché sospetti di simpatia per la rivoluzione. 429

96. "Nota del 28 aprile 1936", cit. Cifra troppo precisa (e non dettagliata) per essere accettata senza riserve. 97. Una serie di grande interesse di diari e memoriali di soldati trentini prigionieri in Russia è stata raccolta dal gruppo di Rovereto che ne ha pubblicato diversi nella rivista "Materiali di lavorò (1978-1995). Per i triestini conf. Marina Rossi, "I prigionieri dello Zar", Milano, Mursia, 1997, e Id., "Irridenti giuliani al fronte russo", Udine, Del Bianco, 1998. *** 6. 1917. LA SVOLTA DELLA GUERRA. UN ANNO DI CRISI. - "La stanchezza degli stati in guerra". L'anno 1917, il quarto del conflitto (il terzo per l'Italia) vide una serie di crisi drammatiche che ne mutarono il quadro complessivo. La più evidente fu il crollo della Russia, dove nel giro di pochi mesi si verificarono la fine dell'assolutismo zarista, la paralisi del governo, il collasso delle strutture dello Stato, infine la disgregazione dell'esercito fino al suo scioglimento di fatto. La rivoluzione bolscevica si impadronì di quello che restava del potere centrale e concluse a caro prezzo la pace. Una grande vittoria per la Germania e l'Austria-Ungheria, che si liberavano dall'incubo della guerra su due fronti, occupavano estesi territori e ricuperavano truppe per gli altri fronti. Una crisi di minori proporzioni si verificò all'interno dell'esercito francese: nel maggio- giugno 1917 decine di reggimenti rifiutarono di tornare in trincea e inneggiarono alla pace. La crisi non toccò però le strutture dello Stato, il paese e la maggioranza dei soldati. Poté quindi essere riassorbita, a prezzo della rinuncia della Francia al ruolo 430

dominante che aveva avuto sul fronte occidentale, il cui peso maggiore passò all'ampliato esercito britannico. La crisi raggiunse anche l'Italia: a fine ottobre 1917 un'offensiva austro- tedesca ben preparata sfondò il fronte a Caporetto e prese alle spalle lo schieramento italiano. Cadorna non aveva riserve, dovette quindi ordinare la ritirata, che per la seconda armata si tramutò in rotta. L'esercito quasi dimezzato riuscì a resistere sul Piave e sul Grappa, la guerra poteva continuare. Gli Imperi centrali non furono in grado di approfittare appieno di questa crisi dell'Intesa. L'Austria-Ungheria traversava a sua volta grosse difficoltà interne: le perdite spaventose dell'esercito, l'insufficienza dei rifornimenti alimentari, la stanchezza della popolazione, il rilancio dei nazionalismi. Nell'autunno 1917 dovette chiedere l'aiuto tedesco per continuare a tener testa alle offensive italiane. Trovò respiro con la vittoria di Caporetto, ma tentò inutilmente di aprire trattative di pace per chiudere una guerra ormai insostenibile. In Germania la destra e gli alti comandi rinsaldarono il controllo sullo Stato per proseguire la guerra fino alla vittoria, malgrado il paese fosse scosso dalle privazioni e dagli scioperi. Nel gennaio 1917 fu decisa la guerra sottomarina illimitata nella convinzione che avrebbe portato al collasso del traffico marittimo. Fu un momento durissimo per gli inglesi, che riuscirono comunque a resistere. Il tempo giocava ormai contro i tedeschi, la loro ultima carta saranno le grandi offensive in Francia della primavera 1918. Anche per la Gran Bretagna il 1917 fu pieno di preoccupazioni per l'aumento dei siluramenti e le privazioni imposte alla popolazione. Il suo esercito era però relativamente fresco, il dominio dei mari indiscusso. L'intervento degli Stati Uniti venne a garantire all'Intesa la continuazione del flusso di rifornimenti e in prospettiva un forte numero di divisioni. Alla fine del 1917 tutti gli stati avevano perso la fiducia assoluta nella vittoria dei primi anni. Erano decisi a 431

continuare la guerra malgrado i sacrifici devastanti, ma non sapevano bene come portarla a conclusione. La realtà era che la guerra continuava con la sua logica implacabile di massacri e di logoramento. - "La fine della Russia zarista". Il crollo della Russia giunse nel 1917 inatteso e sconvolgente, ma con il senno di poi non così sorprendente, se si pensa al collasso a fine 1918 di stati ben più solidi e sviluppati come la Germania e l'Austria-Ungheria. In estrema sintesi, l'Impero zarista aveva conosciuto una tumultuosa crescita industriale, in parte notevole indirizzata all'incremento del potenziale bellico (ferrovie e industria pesante), che però si era innestata su una situazione sociale estremamente arretrata nelle campagne (la servitù della gleba era stata abolita cinquant'anni prima per poter introdurre il servizio militare obbligatorio, ma lo strapotere della nobiltà latifondista non era molto diminuito) senza portare alla formazione di una forte borghesia moderna. Il potere restava nelle mani dello Zar e di una classe dirigente ristretta, incapace di dominare l'evoluzione in corso, che aveva affrontato la guerra con determinazione, ma non era in grado di organizzare lo straordinario sforzo bellico necessario. L'esercito era il principale sostegno del regime, che aveva difeso dalla rivoluzione del 1905; era stato rinnovato dopo le sconfitte della guerra contro il Giappone nel 1904-1905 e nel 1914 schierava 70 divisioni di fanteria e 24 di cavalleria. I soldati erano obbedienti e valorosi, gli ufficiali più coraggiosi che preparati, l'alto comando mediocre. Il difetto più evidente era l'insufficienza dell'artiglieria: il cannone da 76 era buono, ma le divisioni ne avevano la metà di quelle tedesche, mancava l'artiglieria media e le munizioni erano poche. Questo esercito fu impiegato con uno spirito altamente offensivo nel 1914, e registrò una serie di sconfitte contro i tedeschi (che dovettero comunque impiegare a est molte più truppe del previsto) e di successi 432

contro gli austriaci. Se non che lo Stato si rivelò incapace di ripianare le forti perdite, 1 milione 200 mila uomini, e soprattutto di sviluppare la mobilitazione delle energie nazionali. Gli uomini non mancavano (la Russia contava all'incirca 30 milioni di maschi tra i 18 e i 40 anni, ne chiamò 15 alle armi in tre anni), ma le divisioni di nuova formazione (oltre 100 fino al 1916, con 4 milioni di uomini al fronte) avevano un livello sempre più basso di addestramento e di ufficiali. Mancò soprattutto un incremento della produzione industriale paragonabile a quello degli altri belligeranti, anche per il blocco dei rifornimenti marittimi (il Mar Nero e il Baltico erano senza sbocco, l'aiuto degli alleati poteva arrivare soltanto dai porti dell'Oceano glaciale artico). Nel 1915 la fabbricazione di granate, di cannoni, di mitragliatrici rimase disastrosamente inferiore alle necessità e registrò qualche miglioramento soltanto nel 1916. Anche negli altri settori lo stato zarista non resse allo sforzo bellico per l'inefficienza e la corruzione della burocrazia, la debolezza delle autorità dinanzi agli industriali che non avevano bisogno di aumentare la produzione per arricchirsi, la crisi della distribuzione interna e delle ferrovie che affamava le città e le truppe, la repressione poliziesca come unico strumento di coesione sociale. La parte che la Russia ebbe nel conflitto non va comunque sottovalutata, i suoi sacrifici costrinsero la Germania a quella guerra su due fronti che aveva cercato disperatamente di evitare. Per tutto il 1915 l'esercito tedesco mantenne la difensiva sul fronte occidentale per consentire lo spostamento a est delle forze necessarie per liquidare la minaccia zarista. Nei primi mesi dell'anno le armate russe avevano continuato ad attaccare senza preoccuparsi delle perdite; in maggio non avevano più le riserve per fronteggiare la grande offensiva di GorliceTarnow, condotta dai tedeschi con larga superiorità di materiali. Nei mesi seguenti i russi dovettero ritirarsi combattendo in condizioni rese drammatiche dalla crisi di rifornimenti: mancavano cannoni, granate, persino fucili (si 433

giunse al punto di inviare al fronte reparti di rincalzo disarmati, che dovevano raccogliere le armi dei compagni caduti). In autunno, quando i tedeschi arrestarono l'offensiva per preparare la battaglia di Verdun, i russi avevano perso tutta la Polonia, la Lituania, la Galizia, due milioni e mezzo tra morti e feriti e oltre un milione di prigionieri. Le truppe avevano continuato a combattere malgrado le perdite e l'evidente inferiorità di mezzi, anche se si erano registrati i primi casi di crolli, come la facile resa di piazzeforti affidate a truppe inesperte. Nei mesi seguenti gli austro-tedeschi passarono alla difensiva, ricuperando dal fronte orientale truppe per le offensive in Francia e in Trentino. L'esercito russo mise in campo nuove divisioni meno addestrate e scarse di mezzi, ma l'alto comando (assunto direttamente dal debole zar Nicola Secondo) non intendeva restare passivo. Nel marzo 1916, accogliendo la richiesta francese di un'offensiva che attirasse truppe tedesche, lanciò un attacco a nord, verso il lago Naroc, con esiti disastrosi. «I tentativi russi dovrebbero essere chiamati sacrifici sanguinosi piuttosto che attacchi», scrisse il generale Falkenhayn. «Le colonne d'attacco, composte da uomini e ufficiali male addestrati e disposte in pesanti formazioni massicce, subirono perdite spaventose». Furono poi gli italiani a chiedere un attacco russo che richiamasse truppe austriache dal Trentino. Il generale Brusilov, comandante del gruppo d'armate meridionale, accettò di anticipare un'offensiva in preparazione che iniziò il 4 giugno con insperato successo, malgrado i russi non avessero una reale superiorità di fanterie e fossero inferiori in artiglieria. Anche l'esercito austriaco era logoro e aveva dovuto mandare verso il Trentino alcune delle migliori divisioni; due armate crollarono in pochi giorni e aprirono la via a un'avanzata russa in profondità, che fece 450 mila prigionieri. Come abbiamo già detto, furono i tedeschi a tamponare dapprima la falla, poi a riprendere l'iniziativa con divisioni affluite dal fronte francese. Le truppe russe, nuovamente in crisi gravissima di rifornimenti, ripiegarono con perdite 434

spaventose. In autunno dovettero correre in aiuto della Romania, scesa in guerra nel momento sbagliato. Quando le operazioni cessarono, a fine anno, i russi avevano perso altri 2 milioni 700 mila uomini. L'unico fronte su cui avevano riportato una serie di successi dal 1914 al 1916 era quello del Caucaso, dove erano riusciti a respingere gli attacchi di forze turche notevolmente superiori. Nel 1917 l'esercito zarista crollò rapidamente e completamente. In tre anni di guerra aveva avuto perdite enormi: 2 milioni 500 mila morti, 3 milioni 850 mila feriti, 2 milioni 400 mila prigionieri (1). Aveva combattuto quasi sempre in netta inferiorità di mezzi, compensando con il massacro della fanteria la scarsezza di armi e munizioni, con truppe che scadevano di livello con il passare dei mesi, ma che fino al termine del 1916 avevano dato prova di straordinaria obbedienza e capacità di sacrificio. Nel 1917 l'esercito non dovette più fronteggiare grandi offensive (gli austro- tedeschi erano duramente impegnati sugli altri fronti), ma quando a febbraio scoppiarono a Pietrogrado grandi manifestazioni spontanee di protesta, reparti di reclute rifiutarono di sparare sulla folla e si ammutinarono. Fu l'inizio di una serie crescente di rivolte di reparti che chiedevano la fine del conflitto, si ribellavano agli ufficiali e dichiaravano di voler obbedire soltanto ai compagni da loro scelti. E in misura crescente intervenivano nella lotta politica, non per sostenere governi reazionari come era tradizione, ma appoggiando le proteste popolari e poi gli assalti al potere dei rivoluzionari. Prima dell'esercito era crollato lo stato zarista. Sono fatti ben noti: la ristretta classe dirigente aristocratica e burocratica aveva dimostrato una tale incapacità a dirigere lo sforzo bellico e a dominare le proteste crescenti, che l'altrettanto ristretta borghesia cittadina, più moderna, ma anch'essa priva di basi popolari, la esautorò con la cosiddetta «rivoluzione di febbraio». Senza più il sostegno delle truppe e dei suoi stessi generali, lo zar Nicola Secondo abdicò il 15 marzo 1917. I governi provvisori che si succedettero avrebbero voluto dare nuovo impulso alla 435

guerra, ma non avevano la possibilità di imporsi in una situazione sempre più convulsa. Gli strumenti tradizionali di governo venivano meno, mentre assumevano un ruolo decisivo le masse operaie di Mosca e Pietrogrado e i partiti rivoluzionari che le controllavano, in primo luogo quello bolscevico; era una piccola minoranza, ma l'unica con un programma chiaro, mentre le masse contadine non si schieravano, chiedevano la pace e cominciavano a impadronirsi delle terre. In novembre la Rivoluzione d'ottobre (in Russia era ancora in vigore il medievale calendario gregoriano) portò al potere Lenin: un potere quanto mai ridotto (fu soltanto con la guerra civile, l'Armata Rossa e la promessa della terra ai contadini che il governo comunista si assicurò il controllo del paese), ma sufficiente a decidere la fine della guerra. Sulle cause del collasso dell'esercito zarista si è molto discusso. Non è dubbio che siano in primo luogo interne: le perdite elevatissime, con la progressiva scomparsa degli ufficiali migliori e delle truppe più addestrate, ma pure le sofferenze dei soldati dovute alla deficiente organizzazione, alla brutalità e incompetenza di molti ufficiali e alla mortificante esperienza di combattimenti affrontati con una costante inferiorità di mezzi. Anche truppe obbedienti e coraggiose come quelle russe non potevano non capire che pagavano col sangue la determinazione del governo e dei comandi a condurre una guerra offensiva senza averne i mezzi necessari. La responsabilità non era soltanto dei comandi, era l'inefficienza delle strutture dello stato zarista che non forniva all'esercito le armi, le munizioni, i rincalzi addestrati e inquadrati per fare la guerra. Tuttavia fino all'estate 1917 le truppe al fronte restarono sostanzialmente disciplinate, a metà luglio condussero un'ultima offensiva presto fallita. Erano le truppe delle retrovie e delle grandi città che si rivoltavano contro gli ufficiali e appoggiavano le forze rivoluzionarie; il primo marzo il famoso «ordine n. 1» del soviet di Pietrogrado istituiva i consigli dei soldati in tutte le unità della guarnigione e affidava loro il controllo dei reparti e degli 436

stessi ufficiali, dando inizio a un movimento inarrestabile. Il crollo si ebbe ai primi di settembre, il tentativo controrivoluzionario del generale Kornilov provocò un'ondata di crescenti violenze verso gli ufficiali, torturati e uccisi a migliaia (non pochi si suicidarono). Poi l'esercito zarista si sciolse, milioni di soldati marciarono verso casa, dove si impadronirono delle terre massacrandone i proprietari. Gli austro-tedeschi avevano mantenuto forze notevoli sul fronte orientale (83 divisioni tedesche, il 38 per cento di quelle disponibili, e il 48 per cento di quelle austriache) (2), ma rimasero sostanzialmente passivi per tutto il 1917, perché temevano che una loro avanzata potesse risollevare lo spirito patriottico delle truppe russe, di cui non riuscivano a cogliere il collasso irrimediabile. Soltanto il primo settembre i tedeschi conquistarono Riga con un'operazione in cui sperimentarono le tecniche d'assalto applicate poi a Caporetto e nelle offensive della primavera 1918 in Francia. In dicembre concessero al governo bolscevico un armistizio provvisorio, ma le trattative di pace furono lunghe, perché le richieste austro- tedesche erano così dure che Lenin esitava ad accettarle, pur avendo un disperato bisogno di finire la guerra. In realtà i governi austro- tedeschi erano disposti a una pace moderata per evitare di continuare a disperdere forze sul fronte orientale, ma l'alto comando tedesco non intendeva rinunciare a un'espansione a est con grandi annessioni e ulteriori espansioni come l'occupazione dell'Ucraina e della Finlandia. Il 3 marzo 1918 il governo russo firmò a BrestLitovsk la pace, che implicava la perdita della Finlandia, dei paesi baltici e dei territori polacchi, dell'Ucraina, dell'Armenia e pesanti riparazioni economiche. Anche la Romania dovette arrendersi e cedere territori e petrolio. L'uscita della Russia dal conflitto mondiale segnava una svolta profonda, la fine della guerra su due fronti per la Germania e la scomparsa del suo principale nemico per l'Austria-Ungheria, più la realizzazione (peraltro precaria, 437

perché condizionata dall'esito della guerra a ovest) delle loro maggiori aspirazioni di dominio sull'Europa orientale, con grandi acquisizioni di territori e risorse economiche e il drastico ridimensionamento della potenza russa. Il trionfo rinsaldava il predominio dei sostenitori della guerra a oltranza, contro i tentativi austriaci di una pace negoziata. L'occupazione e lo sfruttamento dei territori orientali facevano sì che entrambe le potenze mantenessero nel 1918 forze considerevoli a est (53 divisioni, circa un milione d'uomini per la Germania, a fronte di 200 divisioni e tre milioni e mezzo di uomini sul fronte occidentale); erano comunque in grado di spostare forze notevoli contro i franco- britannici e gli italiani. - "Gli ammutinamenti francesi del 1917". Un milione di soldati francesi, tedeschi e inglesi erano morti nel 1916 sul fronte occidentale senza che si potesse intravvedere una conclusione del conflitto. In dicembre il governo francese liquidò Joffre, che riusciva a proporre soltanto nuove battaglie di logoramento, e nominò comandante in capo il generale Nivelle, un uomo nuovo che aveva appena condotto due brillanti attacchi a obiettivi limitati sul fronte di Verdun. Nivelle si presentava garantendo una vittoria decisiva con un ottimismo contagioso per un governo che non sapeva cosa fare per finire la guerra e per truppe ormai logorate dai sacrifici e dalle troppe perdite. In realtà l'offensiva lanciata il 16 aprile 1917 sull'Aisne contro le posizioni del Chemin des dames non era meglio preparata delle precedenti e si risolse rapidamente in un sanguinoso fallimento, tanto più che Nivelle non seppe interromperla dopo il primo scacco, come aveva promesso, ma continuò ad attaccare fino al 9 maggio. In poche settimane i francesi persero 270 mila uomini, di cui 80000 morti; altre offensive erano state altrettanto povere di risultati e anche più sanguinose, ma questa aveva suscitato troppe speranze e quindi la delusione fu grande. L'11 maggio Nivelle fu sostituito con Pétain, che a Verdun 438

si era fatto la fama di generale prudente e tenace, apprezzato dai soldati perché non era prodigo delle loro vite. Prima che la battaglia finisse erano cominciati gli ammutinamenti della fanteria francese, che si moltiplicarono in maggio, poi diminuirono fino a luglio, con alcuni episodi anche nei mesi successivi. Una crisi gravissima che fece temere il collasso dell'intero esercito. La rigida censura impedì che fosse conosciuta fino al termine del conflitto (i tedeschi non ne ebbero sentore, gli stessi alleati inglesi ne seppero ben poco); ma anche nei decenni seguenti la chiusura degli archivi fece sì che gli ammutinamenti fossero mitizzati, ridimensionati o mistificati a seconda dei momenti e delle opinioni. Soltanto nel 1965 Guy Pedroncini ha potuto consultare gli archivi militari senza limitazioni e tracciare un bilancio ampio e documentato (3). Pedroncini registra 250 casi di ammutinamento in 65 divisioni (due terzi di quelle esistenti), in grande maggioranza verificatisi tra maggio e giugno nella zona dell'offensiva di Nivelle. Si tratta quasi sempre di reggimenti di fanteria in seconda linea che, nel momento in cui ricevono l'ordine di tornare in linea, esplodono in improvvise manifestazioni di protesta: tumulti, comizi e cortei, grida che chiedono la fine della guerra e soprattutto degli attacchi, bandiere rosse e il canto dell'"Internazionale". In numerosi casi gli ufficiali vengono malmenati, mai uccisi. Gli ammutinamenti infatti non comportano violenze gravi (si spara in aria, non per ferire) e non durano più di 12-24 ore; poi i reparti tornano in ordine senza bisogno di interventi repressivi. Non esistono tracce di organizzazione sovversiva, né di propaganda pacifista: gli ammutinamenti sono spontanei, scoppiano senza una logica apparente (per esempio accade che in una brigata un reggimento si rivolti e l'altro resti tranquillo), in unità che si erano battute valorosamente; e se i soldati chiedono la pace, non intendono con questo favorire la Germania, anzi 439

ripetono di essere disposti a tornare in trincea se c'è da respingere un attacco tedesco, non però per attaccare. La maggior parte dei generali francesi non ha dubbi: i disordini sono dovuti all'azione di agitatori esterni, socialisti o pagati dai tedeschi, la colpa è della debolezza del governo verso i nemici interni. La maggioranza degli ufficiali ritiene invece che le cause degli ammutinamenti siano interne all'esercito: la stanchezza delle truppe dopo anni di trincea, le perdite, le speranze deluse dell'offensiva "decisiva" di Nivelle. E' significativo che praticamente tutte le unità ammutinate siano di fanteria, l'arma che patisce le maggiori sofferenze e quasi tutte le perdite. Su questa linea, con differenze minori, si schierano il governo e il nuovo comandante in capo Pétain, che chiede una repressione moderata e selettiva, senza interventi drastici (anche perché nessun reparto obbedirebbe all'ordine di sparare sugli ammutinati) e una lunga e attenta opera per la ricostruzione del morale e dell'obbedienza dell'esercito (4). I tribunali militari lasciarono cadere la maggior parte delle denunce ed emanarono 1492 condanne leggere, 1381 gravi (da cinque anni di carcere all'ergastolo) e 554 a morte. I pressanti inviti del governo alla clemenza fecero sì che la grande maggioranza delle condanne a morte venisse seguita dalla grazia. Le fucilazioni effettuate in seguito agli ammutinamenti furono 49 (5). Sono quelle di cui ancora oggi si discute in Francia, anche in seguito all'invito a rivedere la patente d'infamia per questi morti di cui si è fatto interprete nel 1998 il presidente del Consiglio Lionel Jospin. In realtà queste fucilazioni sono soltanto una piccola parte delle 600 eseguite nel corso della guerra francese. Nei mesi seguenti Pétain si impegnò a fondo nel miglioramento delle condizioni di vita dei soldati, curando il vitto, l'equipaggiamento, i turni in trincea, l'organizzazione delle posizioni, anche con frequenti ispezioni personali alle prime linee, valorizzate dalla propaganda. Alle truppe che scendevano dal fronte venne assicurato un riposo effettivo, senza lavori extra, in alloggiamenti tranquilli e ben sistemati. Le licenze, dieci 440

giorni ogni quattro mesi dal 1915, vennero aumentate e soprattutto garantite togliendo ai comandi la possibilità di sospenderle o rinviarle per esigenze belliche (come era stato fatto per la preparazione dell'offensiva di Nivelle con generale malcontento); e furono potenziati i treni che portavano i soldati verso casa. Pétain inoltre fece il possibile per convincere i soldati che le loro vite non sarebbero più state sacrificate con troppa facilità; quindi limitò drasticamente lo stillicidio di perdite delle azioni locali e mise tutto l'esercito sulla difensiva. Fino al termine del 1917 i francesi tornarono all'attacco soltanto per azioni limitate preparate con grandi concentramenti d'artiglieria, il 20 agosto a Verdun e il 23 ottobre sullo Chemin des dames, e finalizzate a rialzare il morale delle truppe con brillanti successi ottenuti senza subire troppe perdite. Di conseguenza spettò agli inglesi il compito di impegnare il nemico nei mesi restanti del 1917. Haig, il comandante delle forze britanniche in Francia, non si tirò indietro: aveva finalmente 64 divisioni (di cui alcune canadesi, neozelandesi, australiane) con molta artiglieria, con cui affermare il peso inglese nella guerra. Aveva condotto una prima offensiva in aprile nel settore di Arras, continuò con molti attacchi locali, poi a fine luglio sferrò la grande offensiva nelle Fiandre. Un bombardamento di dieci giorni distrusse il secolare sistema di drenaggio della regione, dopo di che le truppe affondarono negli acquitrini e nel fango; ma con incrollabile energia Haig le lanciò in assalti ripetuti, senza curarsi degli scarsi risultati dinanzi alla tenace difesa che i tedeschi conducevano con metodi nuovi (non più una trincea continua, ma molti piccoli capisaldi fortificati con mitragliatrici e immediati contrattacchi). Un'altra terribile battaglia di logoramento durata tre mesi e mezzo in condizioni spaventose (Passchendaele, l'ultimo obiettivo, rimase come un incubo nella memoria dei combattenti), senza altro risultato che perdite per centinaia di migliaia di morti, feriti, dispersi e malati da entrambe le parti. Poi gli inglesi tornarono all'attacco il 20 novembre a 441

Cambrai con 380 carri armati e un grosso successo iniziale, chiuso però da un forte contrattacco tedesco. Dall'autunno 1914 alla fine del 1917 la linea del fronte era rimasta praticamente invariata, con spostamenti di pochi chilometri. L'unica variazione di rilievo fu il ripiegamento attuato nel marzo 1917 dai tedeschi sul fronte della Somme per risparmiare uomini su una linea più breve, accuratamente predisposta per la difesa. Gli ammutinamenti francesi del 1917 meritano alcune considerazioni. Le cause sono chiare: le truppe francesi erano state spremute all'estremo in tre anni di guerra durissima, senza risultati e senza prospettive di una soluzione, con sofferenze inaudite e perdite spaventose, oltre un milione di morti (6). E' comprensibile che facessero sentire una protesta che non metteva in discussione la guerra contro la Germania né l'istituzione militare, ma chiedeva la fine dei sacrifici o quanto meno una diversa gestione del conflitto. La risposta del governo e di Pétain mirava in prima battuta a rialzare il morale dei soldati, ma nella sostanza ne accettava la richiesta: poiché non era possibile porre fine alla guerra, bisognava rinunciare ad attaccare per non mettere in pericolo la coesione dell'esercito. Ciò comportava una revisione della parte della Francia nel conflitto, ossia la rinuncia al ruolo dominante che aveva avuto sul fronte occidentale. Era il vantaggio di una guerra di coalizione: la Francia poteva evitare il collasso perché gli inglesi si assumevano il compito di impegnare l'esercito tedesco, in attesa che gli Stati Uniti fossero in grado di sviluppare la loro potenza per dare il colpo di grazia a una Germania esausta. Ciò comportava un ridimensionamento delle ambizioni di egemonia europea della Francia, ma almeno ne impediva il crollo. Si può capire perché l'esercito britannico non dovesse affrontare una crisi analoga: per i primi due anni del conflitto aveva avuto una parte minore sul fronte occidentale, in cui si era logorato l'esercito professionale del tempo di pace. Con la battaglia della Somme, 1° luglio 442

1916, era subentrato l'esercito di massa con milioni di uomini che non avevano sulle spalle la fatica degli anni precedenti e quindi si sacrificarono senza proteste nel fango delle Fiandre. E' più difficile capire perché l'esercito tedesco continuò a combattere senza crisi fino all'estate 1918, con perdite complessive superiori a quelle francesi e alle spalle un paese duramente provato dalla scarsezza di viveri. Non abbiamo trovato una risposta negli studi sulla guerra, condotti ancora su base nazionale senza interesse per la dimensione comparativa; e non ci sentiamo di ricorrere al luogo comune che il tedesco sia nato per la guerra, soldato perfetto e contento in ogni circostanza. Forse contava il fatto che la Germania non aveva conosciuto soltanto le delusioni del fronte occidentale, ma anche le vittorie eclatanti del fronte orientale; e soprattutto la maggiore coesione del suo esercito, con un corpo ufficiali di straordinaria professionalità e la valorizzazione di sottufficiali molto bene addestrati. Il discorso deve rimanere aperto in attesa di nuovi studi. Gli ammutinamenti francesi, infine, offrono non pochi stimoli per l'analisi della guerra italiana. In primo luogo perché hanno lo stesso andamento delle proteste collettive delle brigate italiane e quindi verosimilmente le stesse cause interne, la stanchezza dei soldati più che una volontà di rottura. Rimane da capire perché l'esercito italiano ebbe una maggiore percentuale di rifiuti individuali rispetto a quello francese (nella misura in cui i procedimenti giudiziari valgono come indice attendibile, il che meriterebbe uno studio comparativo) e una percentuale così inferiore di proteste collettive, poche decine rispetto a qualche centinaio, anche se represse con molta più brutalità e un numero di fucilazioni decisamente maggiore (senza dimenticare che l'esercito francese non ricorse mai alle decimazioni). L'elemento di comparazione più interessante sono però le reazioni dinanzi agli ammutinamenti. Molti dei comandanti francesi ebbero le stesse reazioni di Cadorna: le cause delle proteste dei soldati erano esterne, la propaganda disfattista o complotti sovversivi da combattere 443

con la repressione. Se non che il governo francese impose un'altra, più corretta interpretazione, trovò in Pétain il generale capace di far fronte alla situazione e riuscì a tenere celata la gravità della crisi, di cui peraltro non diede la colpa ai soldati. E grazie a un'accorta gestione politica gli ammutinamenti non intaccarono la reputazione dell'esercito francese. In Italia si ebbe il caso opposto: il governo non ebbe la forza di controllare l'azione di Cadorna, né di impedirgli di denunciare i suoi soldati. Gli elementi di crisi delle truppe vennero sottolineati e ampliati da una repressione durissima, poi da una gestione politica che sacrificava la reputazione dell'esercito alla salvaguardia della reputazione e del potere di Cadorna. Non si possono paragonare gli ammutinamenti francesi e Caporetto, ma il confronto della gestione militare e politica di queste crisi torna a tutto vantaggio dei francesi. - "La guerra sottomarina". Il problema di come risolvere la guerra tormentava anche gli Imperi centrali, malgrado le loro vittorie sul fronte orientale. La strategia di logoramento perseguita dal generale Falkenhayn non era riuscita a piegare i francesi, mentre l'incremento delle forze britanniche assicurava all'Intesa una crescente superiorità sul fronte occidentale. I generali Hindenburg e Ludendorff, che tenevano il Comando supremo dell'esercito tedesco dalla fine dell'agosto 1916, diedero mano a una profonda riorganizzazione delle loro truppe, ma appoggiarono la richiesta della marina di una ripresa della guerra sottomarina illimitata. Con una flotta di 110 sommergibili di prestazioni notevolmente aumentate che parevano quasi invincibili (in tutto il 1916 ne erano stati colati a picco soltanto 19), gli ammiragli promettevano di portare gli affondamenti di mercantili nemici a 600 mila tonnellate di stazza mensili, il che in cinque mesi avrebbe ridotto i rifornimenti marittimi a un livello così insufficiente da obbligare la Gran Bretagna alla resa. La guerra sottomarina 444

illimitata avrebbe con ogni probabilità provocato l'intervento degli Stati Uniti e perciò il governo tedesco la rifiutava, ma dovette cedere alle pressioni congiunte dei generali e degli ammiragli, che ritenevano di poter arrivare alla vittoria prima che la potenza americana potesse pesare sull'andamento del conflitto. Fu quindi annunciato che dal primo febbraio 1917 i sommergibili tedeschi avrebbero silurato senza preavviso tutte le navi nell'Atlantico e nel Mediterraneo. Gli affondamenti salirono a una media di 630 mila tonnellate nei sei mesi seguenti; in pratica veniva colata a picco una nave ogni quattro che prendevano il mare. Gli ammiragli tedeschi però avevano sbagliato i conti, la Gran Bretagna non si arrese, ma questo fu certamente il momento peggiore del conflitto per l'Intesa, anche se ai primi di aprile gli Stati Uniti scesero in guerra. La crisi venne superata con una serie di provvedimenti, il più importante dei quali fu il ricorso al sistema dei convogli (venti e più navi che viaggiavano insieme sotto la protezione di un nucleo di navi da guerra). I convogli, che fino a quel momento la marina mercantile inglese aveva ostinatamente rifiutato, condussero a una forte riduzione delle perdite, che pure continuarono con una media mensile di 296 mila tonnellate dall'agosto 1917 all'ottobre 1918, però con crescenti affondamenti di sommergibili. L'altro provvedimento decisivo fu il rilancio delle costruzioni navali; grazie a una standardizzazione della produzione e all'apporto dei cantieri americani, la media mensile di nuove navi fu di 243 mila tonnellate nel 1917 e di 450 mila tonnellate nel 1918, superiore quindi alle perdite (7). La diminuzione dei traffici navali fu fronteggiata con una riorganizzazione delle esigenze e il razionamento in Gran Bretagna di tutti i generi alimentari. Furono anche ridotti d'autorità i guadagni degli armatori, che nel 1916 erano aumentati di dieci volte rispetto al 1914. Gli studi sulla guerra navale si interessano in primo luogo delle vicende inglesi, come è logico, e dimenticano il Mediterraneo, dove pure si ebbe oltre un quarto degli 445

affondamenti di mercantili, 3 milioni 700 mila tonnellate sulle 12 milioni 500 mila di tutto il conflitto, per lo più a opera dei sommergibili tedeschi basati nei porti austriaci. La difesa del traffico nel Mediterraneo fu condotta dagli anglofrancesi; il ruolo della marina italiana fu secondario, salvo che per lo sbarramento del canale di Otranto e la protezione delle coste. Non ci soffermiamo sulle flotte di superficie, perché il loro ruolo non ebbe mutamenti durante tutto il conflitto. Le flotte tedesche e austriache erano bloccate nei porti, quelle dell'Intesa dominavano i mari. Abbiamo già detto che le grandi corazzate inglesi e tedesche si incontrarono una sola volta nella battaglia dello Jutland (31 maggio - 1° giugno 1916), dove soltanto le rispettive avanguardie entrarono in combattimento, perché il grosso della flotta tedesca preferì ritirarsi nei suoi porti anziché accettare uno scontro in una situazione di inferiorità. - "L'intervento degli Stati Uniti". Fino al gennaio 1917 gli Stati Uniti avevano mantenuto una neutralità favorevole all'Intesa, perché avevano accettato che il blocco navale azzerasse il loro commercio con la Germania e l'Austria-Ungheria. In compenso avevano aumentato del 50 per cento le loro esportazioni verso gli stati europei neutrali e quadruplicato quelle verso i paesi dell'Intesa, da 800 a 3200 milioni di dollari. Inoltre avevano prestato 2,3 miliardi di dollari alla Gran Bretagna e alla Francia. Un intervento nel conflitto era chiesto soltanto da una minoranza; il presidente Woodrow Wilson si era ripetutamente dichiarato deciso a mantenere la neutralità e ancora il 22 gennaio 1917 aveva auspicato una «pace senza vittorie». A questo punto intervenne la proclamazione tedesca della guerra sottomarina illimitata, presto seguita dal siluramento di navi americane. Wilson e buona parte dell'opinione pubblica la avvertirono come una provocazione inaccettabile sul piano dei princìpi morali, 446

della dignità nazionale e della difesa dei rilevanti interessi economici in gioco. Per di più venne intercettato e diffuso un maldestro messaggio del governo tedesco che proponeva al Messico un'alleanza con la prospettiva dell'annessione del Texas e di altri territori statunitensi. Il 2 aprile 1917 Wilson annunciò l'intervento nel conflitto, che il congresso approvò a grande maggioranza (8). Ci sembra eccessivo sostenere che fu l'intervento degli Stati Uniti a decidere la guerra a favore dell'Intesa, la cui vittoria finale fu il risultato di una pluralità di cause sia militari sia politiche (9). Non si può comunque sottovalutarne il peso, in primo luogo sul piano economico: furono il flusso di rifornimenti di grano e di materie prime, l'apporto del naviglio e dei cantieri, nonché i prestiti americani (7 miliardi di dollari) che consentirono a Gran Bretagna, Francia e Italia di prolungare la loro guerra e di affrontarne l'ultimo, pesantissimo anno con il respiro sufficiente. Una conseguenza dell'intervento degli Stati Uniti fu la drastica riduzione delle loro esportazioni verso i paesi europei neutrali: dal giugno 1915 al giugno 1916 erano state di 267 milioni di dollari, poi furono riviste in modo da eliminare ogni contrabbando verso la Germania, quindi dal giugno 1917 al giugno 1918 scesero a 61,9 milioni (10). Sul piano militare l'apporto americano fu minore. Dopo le grandi mobilitazioni della guerra civile 1861-1865, gli Stati Uniti erano ritornati a un piccolo esercito di mestiere, 6000 ufficiali e 190 mila uomini, più una forza equivalente e poco addestrata della guardia nazionale. Con l'aiuto di una coscrizione generale selettiva, fu deciso di inviare in Francia un milione di soldati, da portare gradualmente a tre milioni. Tutto era però da fare, anche l'industria non era attrezzata per la produzione di armamenti, che furono in parte ordinati alle fabbriche francesi e inglesi, anche a quelle italiane. Le prime quattro divisioni americane sbarcarono in Francia entro il 1917, accolte trionfalmente dalla popolazione che sperava che il nuovo alleato prendesse su di sé il peso della guerra. Alla fine del 1917 le forze statunitensi in Francia contavano 200 mila uomini, 447

alla fine del 1918 erano salite a due milioni. Erano però costituite da reclute e da ufficiali di limitata esperienza, quindi dovevano sottostare a un lungo addestramento prima di poter affrontare il fuoco. I comandi anglofrancesi guardavano queste truppe improvvisate con malcelato senso di superiorità, ma ne avevano un terribile bisogno per rincalzare le loro stanche armate. Le prime unità statunitensi entrarono in linea nella tarda primavera 1918 per colmare i vuoti aperti nelle file anglofrancesi dalle grandi offensive tedesche; poi il loro comandante, il generale John Pershing, ottenne per l'ultima fase della guerra di riunirle in 3 armate (32 grosse divisioni) ai suoi ordini. I soldati pagarono la loro relativa inesperienza e la determinazione offensiva dei comandi con 53000 morti e 180 mila feriti in pochi mesi. Altri 50000 uomini morirono per l'epidemia di "spagnola". Il governo italiano chiese che una parte delle truppe americane venisse inviata sul suo fronte, ma gli ostacoli pratici e le esigenze francesi erano troppo forti. A titolo simbolico, per sottolineare l'alleanza, vennero inviati in Italia alcuni reparti di autoambulanze nel 1917 (11) e il 332esimo reggimento di fanteria nel 1918, 4000 uomini in tutto, una parte dei quali combatté a Vittorio Veneto. * CAPORETTO, LA BATTAGLIA. - "La preparazione dell'offensiva austro- tedesca". La genesi dell'offensiva di Caporetto (12) è nota: al termine della battaglia della Bainsizza l'alto comando austroungarico si rese conto di non essere in grado di affrontare con successo una nuova grande offensiva italiana, nel tardo autunno o nella primavera 1918. Gli austriaci non si ritenevano affatto inferiori agli italiani, ma non disponevano più dei mezzi e soprattutto degli uomini per alimentare una resistenza prolungata; avrebbero potuto 448

sostenere gli attacchi per qualche tempo, poi avrebbero dovuto cedere per mancanza di rincalzi. Le terribili perdite italiane nelle battaglie dell'Isonzo avevano conseguito il loro obiettivo reale, logorando il nemico fino a consumarne la capacità combattiva (anche se non bisogna dimenticare che gli austriaci avevano avuto più perdite contro russi e serbi che contro gli italiani). L'alto comando austriaco chiese quindi all'alleato tedesco l'aiuto necessario per un'offensiva di alleggerimento, che costringesse gli italiani ad arretrare. Hindenburg e Ludendorff non erano affatto propensi a distogliere truppe dalla preparazione della grande offensiva della primavera 1918 sul fronte occidentale, con cui speravano di risolvere la guerra. Tuttavia si resero conto che era loro interesse impedire il crollo degli austriaci. E quindi concessero 7 divisioni di prima qualità, le artiglierie e i mezzi necessari per un'offensiva ben preparata di medie dimensioni, mettendo in chiaro che queste forze dovevano essere ritirate dal fronte italiano in tempo per l'offensiva di primavera; ossia erano disponibili fino a dicembre, anche se non furono fissate date precise. Per l'offensiva fu costituita la quattordicesima armata con 7 divisioni tedesche e 8 austriache di provata efficienza, agli ordini del generale tedesco Otto von Below. Il piano tracciato dal generale Konrad Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore dell'armata (13), prevedeva un attacco in forze dalla testa di ponte di Tolmino e uno minore dalla conca di Plezzo, da condurre con metodi nuovi per il fronte italiano. L'analisi di questi metodi ha travagliato per decenni i generali e gli studiosi italiani, molti dei quali hanno ceduto alla tentazione di individuare il segreto del travolgente successo austro- tedesco in singoli particolari, come la tattica di infiltrazione, l'impiego dei gas e delle artiglierie oppure il cedimento di reparti e comandanti italiani. La realtà è nel medesimo tempo più semplice e più complessa. Una guerra mondiale lascia poco spazio all'improvvisazione e alla fortuna, il successo tedesco fu 449

dovuto a una lunga preparazione articolata, oltre che al terreno e agli errori italiani. Il fallimento della battaglia di materiale di Verdun aveva indotto i comandi tedeschi (con il decisivo impulso di Ludendorff) a cercare nuove soluzioni tattiche, in un primo tempo per la difensiva (cui i tedeschi si attennero sul fronte occidentale dall'estate 1916 al marzo 1918). Facciamo due esempi concreti. Molte regioni della Francia settentrionale presentano lunghe e leggere ondulazioni (una successione di colline molto basse, per intenderci); come indicava la dottrina, i tedeschi ponevano le loro trincee sulle creste, che così dominavano col fuoco gli attaccanti, ma erano esposte all'azione dell'artiglieria nemica. Nell'autunno 1916 passarono alla difesa in contropendenza: sulla cresta rimaneva soltanto un velo di vedette, le trincee erano disposte sul pendio nascosto al nemico. Gli attaccanti raggiungevano così la cresta con minori difficoltà, ma quando scendevano il pendio erano esposti al fuoco delle trincee tedesche senza avere più l'appoggio diretto della loro artiglieria, che sparava senza vedere il bersaglio. Secondo esempio. La difesa rigida era un dogma per tutti gli eserciti; la prima linea di trincee andava difesa a oltranza e sostenuta con contrattacchi immediati dalla seconda linea. Così combattevano gli austriaci nel 1917. I tedeschi invece erano passati alla difesa elastica: la resistenza non era condotta sulla prima linea, ma i reparti avanzati ripiegavano prima di essere distrutti, lasciando progredire il nemico; il contrattacco, affidato a reparti freschi e ben addestrati, scattava quando gli attaccanti si erano scompaginati avanzando e avevano perso l'appoggio diretto dei loro cannoni. L'obiettivo non era più la difesa di ogni metro di trincea, bensì il mantenimento di un fronte continuo con una difesa mobile e aggressiva, che poteva rinunciare alle posizioni troppo costose. Non è che questi metodi potessero cambiare radicalmente la battaglia difensiva, ne miglioravano però l'efficienza, ossia riducevano le perdite a parità di risultati. L'aspetto più interessante era che i miglioramenti tattici non erano 450

lasciati all'iniziativa dei comandi minori, bensì studiati, pianificati e preparati con un programma sistematico di addestramenti. Tutti gli eserciti cercavano di aumentare l'efficienza delle loro unità con corsi per ufficiali e specialisti ed esercitazioni delle truppe a riposo; ma per dare un'idea della superiorità tedesca in questo campo, le divisioni che avevano brillantemente combattuto da Caporetto al Grappa dovettero affrontare un nuovo ciclo di addestramenti prima di tornare al fuoco in Francia. Per gli eserciti dell'Intesa una maggiore efficacia della battaglia offensiva voleva dire soprattutto l'aumento del fuoco d'artiglieria, in primo luogo con un bombardamento iniziale di più giorni che mirava a distruggere le difese nemiche. L'assalto continuava a essere condotto con ondate successive di fanteria, che inglesi e francesi cercavano di appoggiare con uno sbarramento mobile, ossia con una cortina di fuoco d'artiglieria che doveva proteggere l'avanzata della fanteria, spostandosi in avanti secondo orari predeterminati. Un metodo applicato anche dagli italiani, che però non poteva tener conto degli imprevisti del combattimento; senza mezzi di collegamento sicuri, la cortina di fuoco finiva col procedere più rapidamente della fanteria o per soffocarne i progressi più veloci del previsto. Bombardamenti brevi e violenti si usavano soltanto per attacchi locali di sorpresa, come quelli molto efficaci degli austriaci nel 1917, cui i comandi italiani non concessero la dovuta attenzione. Nel 1917 i tedeschi misero a punto una nuova organizzazione della battaglia offensiva, collaudata nella rapida conquista di Riga (settembre 1917) e a Caporetto, poi applicata su larga scala e con travolgente successo nelle grandi battaglie della primavera 1918 sul fronte occidentale. I punti essenziali erano tre. Il primo non era una novità: la ricerca della sorpresa è un elemento comune a tutte le offensive. A Caporetto fu perseguita con estrema cura, celando fin quasi all'ultimo l'afflusso della quattordicesima armata (che raggiunse il fronte con marce notturne, spostando a braccia i cannoni) e rinunciando ai 451

tiri di preparazione dell'artiglieria (sostituiti da un complesso sistema di calcoli e rilevamenti che assicuravano la precisione del fuoco senza il tradizionale preallarme dei tiri di prova). E infatti i comandi italiani ebbero notizia dell'attacco in preparazione, ma non poterono coglierne la portata. La sorpresa tattica fu realizzata con la rinuncia al bombardamento prolungato delle linee italiane. A Caporetto, nella notte sul 24 ottobre, quasi 2500 tra cannoni e bombarde spararono a gran ritmo granate esplosive e a gas dalle 2.00 alle 4.30 e poi dalle 6.30 fino al momento dell'attacco. L'obiettivo era di neutralizzare le batterie italiane con le granate a gas e di interrompere i collegamenti telefonici con i comandi, poi di permettere agli attaccanti di sorprendere la fanteria italiana ancora nei ricoveri. L'obiettivo fu raggiunto, i collegamenti saltarono lasciando batterie e riserve senza ordini e le trincee italiane furono prese prima che la fanteria si schierasse per difenderle. Il terzo elemento era la tattica di infiltrazione. Anche questa non era una novità assoluta, nelle offensive italiane del 1917 i reparti che penetravano nelle trincee nemiche avevano l'ordine di procedere senza badare ai fianchi, lasciando alle ondate successive la pulizia delle posizioni conquistate. I tedeschi avevano messo a punto una tattica più elaborata: la fanteria non attaccava più a ondate, ma in agili colonne bene addestrate e armate di mitragliatrici leggere e pesanti, che a Caporetto oltrepassarono le trincee con l'aiuto di una fitta nebbia e continuarono a progredire in profondità, piombando sui reparti arretrati che si credevano lontano dalla battaglia. Furono curati particolari come il rilevamento del terreno e la distribuzione di carte dettagliate fino alle pattuglie, i collegamenti con le colonne avanzanti con razzi, aerei e appena possibile radio, l'intercettazione delle comunicazioni radio italiane, l'utilizzazione di informatori dietro le linee. Pochi mesi più tardi i tedeschi colsero successi travolgenti con questi metodi anche sul fronte occidentale, 452

nell'offensiva del 21 marzo avanzarono di 65 chilometri in sei giorni. Poi furono fermati dall'accorrere delle riserve, perché la nuova efficacia dell'offensiva non bastava a rovesciare le leggi della guerra di trincea. A Caporetto non furono fermati, cercheremo di spiegare perché. - "Cadorna, Capello e Badoglio". La produzione italiana sulla battaglia è abbondante e cresce ancora, sebbene gli studi di Pieri, Bencivenga e Monticone abbiano già tracciato un quadro esauriente e nelle grandi linee definitivo (14). In particolare non è ancora sopito il dibattito sulla responsabilità dei singoli comandanti, anche se non vi sono dubbi sul fatto che la battaglia difensiva fu impostata e condotta male. Il primo responsabile di una sconfitta di tali dimensioni è logicamente il comandante in capo, che risponde anche degli errori di impostazione dei suoi generali. A Cadorna si deve imputare in primo luogo la mancata preparazione di una battaglia difensiva. Il 18 settembre egli aveva emanato l'ordine che l'esercito si ponesse sulla difensiva per fronteggiare un eventuale ritorno offensivo austriaco e il 10 ottobre lo aveva reiterato, ma sempre in termini generici. Cadorna non credeva possibile un'offensiva austriaca di grossa portata (incoraggiato dal cattivo funzionamento del suo servizio informazioni), ma soltanto attacchi di alleggerimento. Non pensò a emanare direttive precise per la battaglia difensiva e non si curò di controllare che le armate avessero compreso ed eseguito i suoi ordini (anche perché il suo comando non era attrezzato a questo fine, come già sottolineato). Il fatto che non provvedesse a costituire una riserva di divisioni efficienti è la riprova di come non si attendesse un attacco nemico di rilievo. Il secondo responsabile è certamente il generale Capello, comandante della seconda armata, la cui ala sinistra fu travolta a Caporetto. Capello ignorò deliberatamente gli ordini di Cadorna, non modificò lo schieramento offensivo delle sue truppe, non predispose riserve di settore efficienti 453

e infine sottovalutò fino all'ultimo le notizie sull'attacco in preparazione. E' difficile capire le ragioni di tanta passività, quando una riorganizzazione delle sue forze era comunque opportuna per meglio affrontare l'inverno; probabilmente Capello non voleva rinunciare al ruolo di sostenitore dell'offensiva a oltranza che giocava contro Cadorna. Una grave forma di nefrite, inoltre, gli impediva di tenere il comando con la continuità necessaria. Il terzo responsabile dovrebbe essere Badoglio, comandante del ventisettesimo corpo d'armata attraverso cui si sviluppò l'attacco decisivo da Tolmino. Contro di lui stanno ancora il mantenimento dello schieramento offensivo delle sue divisioni, le dichiarazioni irresponsabili di fiducia ribadite fino alla vigilia, il fatto che fu subito tagliato fuori dalle sue truppe e praticamente scomparve nei giorni più drammatici. Contro di lui gioca poi il fatto che il suo ruolo di braccio destro di Diaz nel nuovo Comando supremo gli valse un trattamento di assoluto favore da parte della commissione d'inchiesta su Caporetto, che nel 1919 omise di pubblicare le pagine sulla sua parte nella sconfitta: un favore pagato con polemiche velenose sulle sue responsabilità mai sopite, anzi inasprite dalle sue successive fortune (15). In realtà la ricerca delle singole responsabilità deve avere un limite, perché a Caporetto saltò l'intero sistema di comando dell'esercito: il collasso di interi corpi d'armata va ricondotto a cause più ampie. Per quasi due anni e mezzo i generali italiani avevano dovuto condurre una guerra esasperatamente offensiva prescindendo dalla cultura militare prebellica, dall'insufficienza dei mezzi, dagli spaventosi sacrifici chiesti ai soldati, nonché dagli esiti deludenti di tante battaglie. Nella gestione di questa guerra così nuova e traumatica Cadorna e i suoi generali avevano buttato tutte le loro energie morali e intellettuali, dando all'esercito capacità di tenuta e una crescente efficienza; ma erano rimasti per così dire fossilizzati in questa dimensione offensiva, senza il tempo né l'energia di pensare anche ad altre forme di combattimento, né la capacità di 454

fronteggiare un attacco condotto con efficacia e metodi nuovi. Non era soltanto per la sua rivalità con Cadorna che un comandante d'ingegno come Capello aveva trascurato una seria preparazione difensiva; il fatto è che non riusciva più a immaginare una battaglia diversa da quelle che aveva gestito e quindi dava per scontato che l'offensiva nemica sarebbe stata condotta con i metodi e i lenti risultati di quelle italiane. Nessuno dei generali aveva poi avvertito la necessità di curare l'addestramento delle truppe in modo sistematico (16). Ci vorrà il trauma di Caporetto perché un generale giovane ed energico come Badoglio possa superare le chiusure dell'offensivismo e ricuperare la capacità di affrontare e gestire una guerra più articolata. La "fossilizzazione offensivà non era comunque un problema soltanto italiano: il crollo della quinta armata britannica nel marzo 1918 ha una fortissima somiglianza con quello dei corpi di Capello (17). - "Lo sfondamento del fronte italiano". Il corso dell'Isonzo era in mano agli italiani dalla conca di Plezzo, dove il fiume sbuca dalle montagne, fino al mare, salvo la testa di ponte di Tolmino, che aveva resistito a tutti gli attacchi, fino a quelli reiterati di Capello nell'agosto 1917. Tra Plezzo e Tolmino c'è un triangolo sbilenco, di cui due lati sono formati dall'Isonzo, che scorre prima per 8 chilometri da Plezzo verso sudovest fino alla stretta di Saga (da cui si può arrivare al bacino del Tagliamento), poi piega verso sudest fino a Tolmino, passando per la cittadina di Caporetto (30 chilometri di strada). L'altro lato del triangolo è l'alta catena nord- sud da Plezzo a Tolmino, con il Monte Nero e il Merzli (circa 25 chilometri in linea d'aria). Il fronte seguiva le montagne da Plezzo alla testa di ponte di Tolmino, poi tornava a est dell'Isonzo con la Bainsizza, Gorizia e il Carso. Il primo tratto era presidiato dal quarto corpo del generale Alberto Cavaciocchi (56 battaglioni e 450 pezzi d'artiglieria), mentre le trincee dinanzi a Tolmino erano difese dalla 19esima divisione del ventisettesimo 455

corpo di Badoglio, che aveva altre 3 divisioni sulla sinistra dell'Isonzo (in tutto 49 battaglioni e 560 pezzi). Alle spalle dei due corpi era in corso di costituzione il settimo corpo del generale Luigi Bongiovanni (18). Dietro al fronte non c'erano altre linee o posizioni fortificate e stabilmente presidiate; le unità dislocate in profondità erano generalmente accampate senza predisposizioni difensive, perché il loro compito era di alimentare il combattimento sulla linea del fronte, dove doveva svolgersi la battaglia secondo i comandi italiani. In particolare non era organizzata a difesa la bassa dorsale montuosa che corre lungo la sponda destra dell'Isonzo da Tolmino all'alto bacino del Natisone, dal Kolovrat al Matajur fino a Montemaggiore; vi erano sì dislocati molti reparti, ma come riserve per il fronte. A sud di queste alture (sui 1000 metri di altezza) si apre la pianura friulana: 20 chilometri per Cividale, altri 15 fino a Udine. L'obiettivo essenziale della quattordicesima armata era la conquista del triangolo citato e delle alture tra l'Isonzo e la pianura. Si è molto discusso se gli austro- tedeschi avessero maggiori ambizioni; in realtà per un'offensiva di medie dimensioni sarebbe già stata una grande vittoria raggiungere questi risultati, che avrebbero costretto gli italiani a sgombrare la Bainsizza e a costituire un nuovo fronte in pianura, da Gorizia a Udine e Pordenone, abbandonando anche la Carnia e forse il Carso troppo esposto. Naturalmente gli austro- tedeschi erano pronti a proseguire oltre gli obiettivi citati, come fu permesso dal crollo italiano. La quattordicesima armata attaccò all'alba del 24 ottobre e raggiunse i suoi obiettivi con una rapidità superiore a ogni previsione, in circa due giorni. L'attacco secondario dalla conca di Plezzo fu facilitato dall'emissione di gas: il fosgene liberato da 800 bombole eliminò silenziosamente i 600 uomini che presidiavano il fondovalle, poi 4 divisioni scesero il corso dell'Isonzo superando una resistenza non coordinata e raggiunsero in serata la stretta di Saga. Gli attacchi sulle montagne da Plezzo a Tolmino, dove la linea 456

italiana era più debole, conseguirono successi limitati, ma lo sfondamento decisivo fu operato dal grosso della quattordicesima armata a partire dalla testa di ponte di Tolmino, dove la difesa italiana era più forte. Si discute ancora oggi se e quali dei 560 pezzi di Badoglio abbiano aperto il fuoco; quello che è certo è che tutti i collegamenti saltarono e che l'azione dell'artiglieria italiana fu priva di efficacia (come del resto in tutti questi giorni). Le trincee furono sconvolte dal breve e violento bombardamento, poi superate di slancio dalle colonne tedesche, grazie anche a una fitta nebbia. Parte del fronte della 19esima divisione fu travolta in un paio d'ore, aprendo agli attaccanti la via del Kolovrat, parte resistette tenacemente per 24 ore. Il gesto più noto della giornata fu la facile avanzata della 12esima divisione slesiana sulla strada non presidiata lungo l'Isonzo; alle ore 16 era già a Caporetto, la sera alla stretta di Saga. Meno spettacolare ma decisiva fu la conquista delle alture lungo l'Isonzo, su cui le colonne austro- tedesche dovettero superare una resistenza a tratti aspra, ma sempre disorganizzata e colta di sorpresa. Alla sera del 25 ottobre la quattordicesima armata aveva il controllo del triangolo isontino e della catena che dominava la pianura e dalla stretta di Saga minacciava l'alto Tagliamento (19). Sul comportamento delle unità italiane il 24-25 ottobre abbiamo notizie insufficienti, perché nessuno si preoccupò di raccogliere le testimonianze dei reduci quando ancora era possibile. I dati costanti sono disorganizzazione e sorpresa, con una resistenza ora violenta ora debole: le truppe nelle trincee furono travolte prima di potersi disporre a difesa, quelle nelle retrovie aggredite quando ancora non se lo aspettavano, costrette a combattere senza collegamenti né artiglierie né un addestramento adeguato a situazioni impreviste. Va comunque precisato che non esiste alcuna documentazione o testimonianza che uno o più reparti si arrendessero per tradimento o perché rifiutassero di combattere: crollarono perché sopraffatti dall'efficacia degli attacchi o sorpresi su posizioni infelici, per la mancanza di ordini e il collasso di tutta l'organizzazione 457

difensiva. Erano certamente reparti logorati dalla guerra, ma nulla autorizza a ritenere che non fecero il possibile in condizioni quanto mai precarie. Le troppe facilitazioni offerte all'avanzata nemica, come la mancata difesa del fondovalle dell'Isonzo, i ponti che non saltarono, le posizioni chiave abbandonate senza combattere come la stretta di Saga, sono dovute a documentati errori dei comandi o di singoli generali che persero la testa, come accade in tutte le rotte. La sconfitta non fu dovuta alle truppe, ma all'insufficienza dei comandi prima, poi al collasso di tutta l'organizzazione dell'esercito (20). - "La decisione del ripiegamento". Il grosso successo conseguito dalla quattordicesima armata il 24-25 ottobre fu amplificato da due elementi: la geografia e la mancanza di riserve italiane. Anche nelle grandi offensive della primavera 1918 sul fronte occidentale i tedeschi realizzarono sfondamenti su grande scala e penetrazioni di decine di chilometri. I terreni pianeggianti della Francia centrosettentrionale non offrivano però obiettivi strategici decisivi, mentre l'ottima rete ferroviaria consentiva agli alleati di tamponare e poi arrestare l'avanzata tedesca con le riserve disponibili. Le divisioni tedesche ricevevano invece rifornimenti e rincalzi con crescente difficoltà, perché il terreno conquistato era difficilmente percorribile da carri e automezzi. Sul fronte italiano invece le truppe austro- tedesche raggiunsero rapidamente la catena montuosa che dominava la pianura friulana, con una buona strada alle spalle, ossia posizioni forti e strategicamente straordinarie, perché incombevano sulle retrovie del grosso dell'esercito italiano schierato a est dell'Isonzo. Inoltre Cadorna non disponeva di riserve con cui fronteggiare la minaccia. Questo è forse il maggiore appunto che gli si può fare, oltre che la prova di come avesse sottovalutato l'offensiva nemica. Sulla carta queste riserve non mancavano (un centinaio di battaglioni), ma 458

erano reparti che trascorrevano un periodo di riposo nelle retrovie, non inquadrati in unità operative e privi di artiglieria, quindi in grado di alimentare una battaglia già bene impostata, non di raddrizzare con un'azione autonoma una battaglia compromessa. I pochi a portata di mano (la gran parte era orientata verso il Carso) furono avviati alla spicciolata a difendere le alture su cui stavano avanzando gli austro- tedeschi, senza altra possibilità che di ritardarne i progressi prima di essere travolti. Non ha senso chiedersi cosa sarebbe successo se Cadorna avesse disposto di riserve efficienti; sta di fatto che dovette assistere impotente alla crisi dell'ala sinistra della seconda armata e già la sera del 25 arrivare alla conclusione che, non avendo i mezzi per arrestare l'avanzata austro- tedesca, doveva ordinare il ripiegamento di gran parte dell'esercito. Sulle cause della sconfitta Cadorna non ebbe mai dubbi. La mattina del 25 telegrafava a Roma: «Alcuni reparti del quarto corpo abbandonarono posizioni importantissime senza difenderle». La sera rincarò la dose: «Circa 10 reggimenti arresisi in massa senza combattere. Vedo delinearsi un disastro, contro il quale combatterò fino all'ultimo». Il 27 dettò il tristemente famoso bollettino (di cui il governo riuscì a impedire la diffusione nel paese, ma non all'estero), che denunciava la «mancata resistenza di reparti della seconda armata vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico»; e telegrafò al presidente del consiglio Boselli: «L'esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno, per combattere il quale ho inviato al governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta». Si tenga presente che Cadorna non aveva un quadro preciso della battaglia in corso, né tanto meno notizie dettagliate sul comportamento delle unità della seconda armata; la sua non era l'analisi ponderata della situazione che un comandante doveva fare, ma una valutazione tutta politica in difesa del suo ruolo e della sua gestione della guerra, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze (il suo 459

bollettino del 27 avallava in anticipo le più pesanti accuse mosse alle truppe nei giorni e anni seguenti). Gli ordini per una ritirata generale furono preparati la sera del 25, poi sospesi nella speranza di un impossibile ricupero e infine emanati nella notte tra il 26 e il 27. In sintesi, prescrivevano il ripiegamento sul Tagliamento della seconda e della terza armata, lo sgombero immediato della Carnia e quello graduale del Cadore. L'offensiva della quattordicesima armata aveva conseguito risultati davvero straordinari in soli tre giorni, se gran parte dell'esercito italiano, 700 battaglioni su 850, circa un milione e mezzo di uomini, dovevano abbandonare le posizioni su cui si erano battuti per due anni e mezzo. Questi ordini erano realistici, malgrado il giorno di ritardo, salvo su un punto cruciale. Cadorna si era convinto che l'intera seconda armata fosse in un tale stato di disgregazione da potersi considerare persa. Era un'idea priva di base: l'offensiva austro- tedesca aveva travolto l'ala settentrionale della seconda armata, una diecina di divisioni, ma non ne aveva toccato il grosso, la ventina di divisioni schierate oltre l'Isonzo, dalla Bainsizza a Gorizia, che davano le stesse garanzie di solidità e obbedienza delle 10 divisioni della terza armata sul Carso. La ritirata dalla Bainsizza poneva problemi più gravi che quella dal Carso, perché doveva svolgersi con il nemico sul fianco e su strade sovraffollate. Se non che Cadorna decise, senza sentire i loro comandanti, che queste 20 divisioni erano minate dalla rivolta e quindi andavano sacrificate per proteggere la ritirata della terza armata. Sul Tagliamento c'erano tre gruppi di ponti, due della seconda armata (Pinzano e Cornino allo sbocco del fiume nella pianura, Codroipo a metà corso) e uno della terza (Latisana, vicino al mare). Cadorna assegnò alla terza armata anche i ponti di Codroipo, perché potesse ritirarsi in buon ordine, togliendo così ogni speranza alle divisioni della seconda armata, che per raggiungere i ponti di Pinzano e Cornino avrebbero dovuto marciare verso nordovest, cioè verso il nemico che il 27 entrava in Cividale e il 28 in Udine. Una nuova e grave 460

dimostrazione di come il generalissimo avesse perso il contatto con la situazione. Lo stesso 27 ottobre Cadorna abbandonò Udine con tutto il suo comando e si trasferì a Treviso, a oltre 100 chilometri dal fronte, senza curarsi di lasciare sul posto un comando provvisorio per la raccolta delle informazioni e il collegamento con le truppe in movimento, lasciate senza guida. - "La rotta". Una fiumana di centinaia di migliaia di soldati disarmati e pronti a inneggiare alla pace, frammisti alle colonne di profughi con i poveri averi caricati su carrette: questa è l'immagine che il nome di Caporetto immediatamente evoca. La rotta ci fu, in cifre approssimative con 280 mila prigionieri e 350 mila militari sbandati, da aggiungere ai 40000 tra morti e feriti, più 400 mila civili in fuga. Furono abbandonati o persi nella ritirata 3150 pezzi d'artiglieria (due terzi dei grossi calibri esistenti, metà dei medi, due quinti dei pezzi leggeri), 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici e quantità enormi di munizioni, viveri, rifornimenti di ogni tipo. Non possiamo ripercorrere queste vicende in dettaglio, ci limitiamo ad alcune note d'insieme (21). Innanzi tutto, una parte dell'esercito si ritirò in buon ordine: 300 mila uomini della terza armata dal Carso al Piave, 230 mila della quarta dal Cadore al Grappa. Le due armate avevano a disposizione strade sufficienti e dovettero sostenere soltanto combattimenti di retroguardia; lasciarono indietro i cannoni più pesanti e gran parte del materiale, ma portarono con sé artiglierie, mitragliatrici e munizioni. Persero circa il 20 per cento degli uomini, giunsero sulle nuove linee in buon ordine e le difesero efficacemente nei due mesi successivi. Minor fortuna ebbe la ritirata dei 90000 uomini della Carnia, condannati in gran 461

parte alla prigionia dal ritardo con cui gli alti comandi ordinarono la loro ritirata. Il disastro tra l'Isonzo e il Piave coinvolse la seconda armata, forte di circa 670 mila uomini, e le unità delle retrovie, un milione di uomini come ordine di grandezza. In parte notevole si trattava di reparti non combattenti della grande rete di magazzini e depositi di ogni tipo, ospedali, servizi logistici, officine, aeroporti e installazioni ferroviarie, che si era sviluppata per alimentare il fronte. Centinaia di migliaia di soldati dimenticati negli studi sulla battaglia, o citati di sfuggita (tanto che non possiamo calcolarne il numero) che non erano addestrati né organizzati per il combattimento, ma potevano soltanto mettersi in marcia verso ovest, i più fortunati con un rapido viaggio in autocarro, gli altri presto confusi nella massa degli sbandati. Si può fare un elenco delle unità combattenti, i reparti inviati a ritardare il nemico e la ventina di divisioni della seconda armata dislocate sulla Bainsizza che Cadorna aveva ritenuto sacrificabili, ma non è possibile ricostruirne tutti i movimenti. Tra l'Isonzo e il Tagliamento la ritirata si frantumò in mille episodi confusi: la disperata ricerca di strade ancora libere con marce e contromarce senza pause né viveri, combattimenti d'incontro spesso violenti, anche con successi parziali, ma non risolutivi, l'assottigliamento delle colonne che si lasciavano alle spalle prigionieri e sbandati. Vale la pena di ricordare che l'esercito di Cadorna era organizzato per la guerra su un fronte statico, con una separazione tra l'artiglieria che era fissa sul fronte e le brigate di fanteria che vi si alternavano perché avevano le maggiori perdite; le divisioni della Bainsizza non erano grandi unità preparate per il movimento offensivo (come quelle tedesche), ma un insieme di reggimenti di fanteria che non avevano l'appoggio dell'artiglieria (i cui reparti si ritiravano per loro conto), quindi non erano in grado di sostenere combattimenti prolungati (22). I giorni più drammatici furono quelli tra l'Isonzo e il Tagliamento, in cui si ebbero quasi tutte le perdite, poi le truppe che erano 462

riuscite a passare i ponti prima che fossero fatti saltare e la fiumana di sbandati poterono raggiungere il Piave con minore affanno. Una parte delle brigate della seconda armata era ancora in condizioni di concorrere alla prima difesa del fiume. Fu buona sorte che gli austro- tedeschi non sfruttassero il successo con la stessa efficacia dei primi giorni dell'offensiva. Le divisioni della quattordicesima armata erano troppo poche per chiudere tutte le vie di scampo, le truppe non potevano continuare a marciare con la stessa rapidità dei primi giorni, i comandi dovevano improvvisare ed erano divisi sugli obiettivi, il grosso delle artiglierie era rimasto sulle posizioni di partenza; e lo straordinario bottino in viveri e materiali non poteva essere lasciato incustodito (23). Gli austro- tedeschi concentrarono i loro sforzi nel tentativo di arrivare ai ponti del Tagliamento e poi del Piave prima delle forze italiane, ma in sostanza riuscirono a bloccare solo le retroguardie e parte degli sbandati, malgrado Cadorna non riuscisse mai a riprendere il controllo della ritirata, né a diramare ordini tempestivi. Sul comportamento delle masse di sbandati nei lunghi giorni di marcia verso il Piave abbiamo più interpretazioni che notizie precise. Ci limitiamo a due osservazioni. In primo luogo, fra queste centinaia di migliaia di uomini che per più giorni ripiegano senza ordine e senza viveri non si verificano manifestazioni di violenza. Le autovetture di ufficiali dirette a ovest sono seguite da urla e invettive, ma non risultano casi di ufficiali malmenati o uccisi. I rapporti con la popolazione sono buoni, i contadini offrono viveri e sopportano i furti inevitabili, senza che si arrivi a episodi di rapina o di saccheggio (ci saranno stati, pare inevitabile, ma non hanno inciso sulla memoria collettiva). In secondo luogo, i comandi sembra avessero capito l'impossibilità e inutilità di una repressione, le notizie di fucilazioni sommarie sono quasi tutte di seconda mano e per lo meno dubbie. L'unico caso clamoroso è dovuto a Cadorna, che il 2 novembre nominò ispettore generale del movimento di sgombero il generale Andrea Graziani, noto per la sua 463

durezza, che fece eseguire 34 (o 36) fucilazioni sommarie. Ce ne sono altre accertate, meno di una decina, ben poche per i metri della giustizia cadorniana. - "L'esonero di Cadorna". Secondo uno studioso equilibrato come Lucio Ceva, «non sarebbe esagerato affermare che Caporetto si tramutò in un costosissimo successo italiano» (24), perché l'Italia non fu costretta alla resa. Un'affermazione provocatoria che è soprattutto una reazione alle successive enfatizzazioni e strumentalizzazioni della sconfitta operate da destra, come denuncia dei limiti dell'Italia liberale e legittimazione della dittatura mussoliniana, ma anche frammentariamente da sinistra, Caporetto come «rivoluzione mancata». Restando ai fatti, la battaglia di Caporetto e la rotta che ne seguì fu un eccezionale successo delle armate austro- tedesche, che evidenzia sia la loro capacità di condurre un'offensiva con metodi nuovi ed efficaci, sia i limiti dell'esercito italiano, della sua organizzazione di comando prima che dei suoi soldati. Va ricordato che gli austro- tedeschi avevano impostato un'offensiva di medie dimensioni che aveva come obiettivo massimo la ritirata italiana dalla Bainsizza; fu il collasso dei comandi italiani a trasformare il grosso successo nemico in una ritirata disastrosa al Piave. Senza dimenticare che i tedeschi conseguirono successi tattici anche maggiori contro gli anglofrancesi pochi mesi dopo e che appunto l'esercito italiano seppe riprendersi e proseguire la guerra fino alla vittoria. La sconfitta provocò l'esonero di Cadorna. In realtà la sua sostituzione era già stata decisa a fine ottobre, al momento della costituzione del governo presieduto da Orlando, che pose al re come condizione per la sua accettazione la testa di Cadorna e scelse come ministro della Guerra il generale Vittorio Alfieri a lui ostile. La motivazione era la comprovata impossibilità di una collaborazione con il generalissimo, oltre agli attacchi che quest'ultimo aveva rivolto alla politica non abbastanza dura di Orlando come ministro 464

degli Interni nel governo Boselli. La sostituzione venne però rinviata per non cambiare il comandante in capo nel corso della ritirata. Se non che il generale Foch, giunto a Treviso il 30 ottobre per studiare l'invio di truppe alleate in Italia, ebbe un'impressione disastrosa del comando di Cadorna; e il 6 novembre, nel convegno interalleato di Rapallo, il primo ministro inglese Lloyd George pose la sostituzione del generalissimo come condizione per l'invio degli aiuti in questione. L'8 novembre Vittorio Emanuele annunciò agli alleati l'esonero di Cadorna (nominato rappresentante italiano nel Consiglio superiore di guerra di Versailles, organo di nuova costituzione e di scarso potere); lo stesso giorno emanò il breve ed efficace "proclama di Peschiera" (25). Poiché nessuno dei comandanti d'armata sembrava avere i requisiti necessari, il nuovo capo di stato maggiore dell'esercito fu un generale poco conosciuto, Armando Diaz, che si era distinto come comandante di corpo d'armata sul Carso, indicato dal re e approvato dal ministro Alfieri. Gli furono affiancati come sottocapi Gaetano Giardino, un uomo di Cadorna, che come ministro della Guerra aveva garantito il 24 ottobre alla Camera lo stroncamento dell'offensiva austro- tedesca, e Pietro Badoglio, comandante del ventisettesimo corpo d'armata attraverso cui lo stesso giorno era passato l'attacco decisivo da Tolmino. Precedenti non certo esaltanti, ma il nuovo Comando supremo avrebbe fatto ottima prova. * CAPORETTO, STORICHE.

L'IMMAGINARIO

E

LE

VALUTAZIONI

- "Una realtà virtuale". Chi ha seguito sin qui la descrizione dei fatti militari, sa già che tutto ciò che chiamiamo, in solido, "Caporetto", non solo non rappresenta l'esito finale, come è ovvio, ma neppure la 465

chiave della guerra. Eppure tale immediatamente apparve, e a molti. Ci dovevano essere - in alto, fra coloro che a diverso titolo esercitavano il potere - molta insicurezza di sé e molta diffidenza nei confronti dei governati, se così repentinamente quella sconfitta assume il valore di una rivelazione fulminea e consequenziale. Non cioè semplicemente una battaglia perduta, ma l'inveramento lungamente temuto, atteso e - di protesta in protesta - quasi evocato di una dissociazione di massa; il crudo manifestarsi di una spaccatura irriducibile fra mentalità, classi e partiti; la prova che quella "patrià che scalda il cuore di alcuni non esiste, invece, cioè lascia freddi e indifferenti infiniti altri. Stranieri, dunque, gli uni agli altri, i governanti ai governati, i governati ai governanti. Questa fulminea rivelazione della fondatezza di un sospetto preesistente adombra il celebre e vituperato comunicato Cadorna che getta la colpa sul tradimento e la diserzione di interi reparti. Ed esso - tamponato come si poteva dai politici, più di lui avvertiti dei disastri ulteriori impliciti in quella drastica interpretazione degli accadimenti avvenuti e in corso - non costituisce solo un'uscita estemporanea e isolata, rilevante solo in virtù dell'autorità della fonte. Concettualizzazioni affini sgorgano indipendentemente l'una dall'altra, rimbalzano e riecheggiano nelle voci, pubbliche e private, di un buon numero di personaggi e testimoni. Voci allarmate e allarmanti che provengono dall'intero arco del fronte interventista e dello schieramento politico, poiché, come già l'entrata in guerra, Caporetto sommuove e ridefinisce i confini politici. Così, se dal fronte interventista si mette sotto accusa il mondo degli ex neutralisti come il terreno di cultura dell'ammutinamento militare e sociale, la generalità degli ex neutralisti rifiuta di lasciarsi schiacciare in quel ruolo estremo di "disfattisti", vale a dire di organizzatori volontari di una secessione rivoltosa. Bissolati, forte dei suoi trascorsi, escogita la formula più efficace per rappresentarsi ciò che accade. Sostiene che si tratti di uno 466

"sciopero militare". Formula che, insieme, raccoglie una pluralità di ipotesi, le sintetizza e delimita. Anarchia, rivolta, ribellione, "fare come la Russià sono e appaiono ancora più estreme e terrorizzanti come forme di concettualizzazione e di rappresentazione dell'ignoto, poiché di questo si tratta: di dar forma all'ignoto, in quanto quel che veramente è avvenuto e sta avvenendo non lo sa, nei primi giorni, nessuno. Uno sciopero è molto meno di una rivoluzione, Bissolati è il primo a saperlo; e però anch'esso ha bisogno di chi voglia e sappia organizzarlo. I dirigenti del Partito socialista - primo naturale indiziato per un progetto consimile - si affrettano anch'essi ad arretrare da quella imputazione di responsabilità e a dissociarsi da quell'immagine eversiva. "Proletariato e resistenza", l'articolo apparso il primo novembre su «Critica sociale» a firma di Turati e di Treves, segna un secondo, più comprensivo e diffuso ritorno alla patria del socialismo italiano, dopo quello dichiarato da alcuni fra il 1914 e il 1915 (e quello, praticato senza dirlo, dalle amministrazioni "rosse" e da tanti "compagni-soldati"). Cogliere questa accettazione dello stato nazionale come spazio pubblico che delimita i conflitti interni significa additare una linea maggioritaria, non misconoscere lontananze e opposizioni che permangono. Esse però si interpretano meglio con le categorie della spontaneità che con quelle dell'organizzazione. Su quanto permanga di estraneità e di renitenza spontaneamente diffuse e propagate dalle condizioni stesse di vita, drammatizzate dallo stato di guerra, nel proletariato industriale vecchio e nuovo e nel mondo contadino, la storiografia non cessa di indagare e anche noi dovremo di nuovo interrogarci trattando dell'ultimo anno di guerra, fra Caporetto e Vittorio Veneto. Ora, però, restiamo all'interno di un pugno di giorni a cavallo fra ottobre e novembre, del nodo sconfitta-rottaritirata, che sono quelli in cui prospera convulsamente una realtà virtuale. Difettando i fatti certi e le concatenazioni causali, il bisogno di sapere si nutre di supposizioni e sospetti. Per l'accertamento di quel che è veramente 467

avvenuto in quell'angolo di monti ai bordi d'Italia, non basteranno decenni di attenzione e scrupoli filologici. Tanto più che, al termine dei suoi itinerari, la filologia rischia di vedersi sfarinare sotto gli occhi l'oggetto di ricerca. Una volta, infatti, accertato che non vi fu macchinazione politica e che si tratta di una "normalè sconfitta militare, ciò che rischia di dissolversi è proprio l'alone immaginifico che circonda e rende da subito incomparabile questa sconfitta. Ciò che la rende diversa è appunto che viene vissuta e fatta vivere sin da subito come diversa e come tale si fissa e si radica nella memoria. Per questo sembra appropriato fare ricorso alle categorie della realtà virtuale, dell'immateriale e dell'immaginario, che la nostra cultura televisiva impregnata di metarealtà ha reso oggi d'uso comune. Quell'ottobre-novembre 1917 postula un'irruzione in dosi massicce del virtuale: non come assoluto non senso e attività visionaria allo stato puro, ma come affioramento di strati profondi, di postulati e immagini sociali che non da ora regolano i rapporti fra ufficiali e soldati, destre e sinistre, laici e cattolici, cittadini consapevoli e masse agnostiche, città e campagna; e via seguitando, in una molteplicità di coppie oppositive, a loro volta intrecciate e sovrapposte. Chi, sentendosi membro a qualunque livello della classe dirigente, soffre Caporetto come spia di un malessere radicale può essere portato a "razionalizzare" la rotta della seconda armata come l'esito a suo modo naturale di tutta la storia dell'Italia unitaria. Di qui il panico: i contadini - mai integrati nelle sorti della nazione presentano il conto. La società si rivolta allo Stato. L'Italia "reale" si sottrae al controllo dell'Italia "legale". Il pugno di ferro non bastava o non è stato abbastanza di ferro. Cerchiamo qui di dar forma a sensazioni e frammenti di interpretazione che affiorano dalle opinioni espresse in simultaneità agli eventi; e naturalmente non è sempre possibile essere certi dei tempi di reazione dei testimoni (26), in situazioni di trapasso a tal punto labili e mutevoli. Tutte le messe a fuoco coeve appaiono precarie; anzi, più vogliono essere perentorie - come nel caso di Cadorna - più 468

astraggono dai fatti e dalle prove e fanno ricorso al pregiudizio. Una volta poi intuito che non è in atto nessuna forma di ribellione organizzata e guidata, sia di rivoluzionari sia di scioperanti, quelle moltitudini di sbandati che vengono via dalle trincee gettando in gran parte le armi debbono essere viste e interpretate in maniera diversa. Se non ci sono, dietro i loro atti e alla loro testa, una volontà politica positiva e un centro motore - come qualcuno in un primissimo tempo aveva potuto temere -, allora la minaccia da fronteggiare è diversa, non necessariamente meno grave. Si può infatti temere che venga da più lontano, dalla storia d'Italia, dalle viscere del paese, da una renitenza del popolo a sentirsi tale. Forse - paventano i temperamenti più drammatici e maggiormente disposti a lasciar libero campo all'angoscia - l'Italia non esiste, è solo un sogno e un'illusione di alcuni, senza radici in un consentimento dei più; la guerra era una forzatura; e Caporetto è la risposta. "Sapevo degli amori tra contadine e prigionieri austriaci. Schifo. Vedi: quel che accora in questa tragedia è pensare che forse noi ci siamo montata la testa prendendo per realtà un desiderio, - che noi si è un popolo di fannulloni, di disonesti, di incoscienti e di servitori, - che solo una minoranza è fatta di "uomini", - che la nostra indipendenza è un'espressione politica senza una rispondenza morale e senza continuità di propositi e di fatti. Questo il mio terrore. Su quaranta milioni, trentotto o trentanove sono degli "sbandati", e non c'è "rimedio" (27). Ojetti è uno dei più accreditati e influenti opinionisti del paese, uno dei fiori all'occhiello del «Corriere della Sera» e delle sue ramificazioni giornalistiche nel paese e al fronte. Si è scavato nicchie di autorità anche al Comando supremo, è nelle grazie di Cadorna, di D'Annunzio, di Albertini, sarà fra i promotori della propaganda, oltre che consigliere e attore nel salvataggio dei monumenti e beni culturali. Attore e commentatore pubblico, com'è, di una scelta che 469

sente come cosa sua e del suo mondo, ce ne ha lasciato nel contempo un controcanto critico - in un diario nato in forma di lettere alla moglie - che giunge alle punte più rivelatrici e sprezzanti proprio quando si tratta di commentare i comportamenti del popolo e dell'esercito a Caporetto. Ma tutta la ragnatela confidenziale e a quel tempo segreta della corrispondenza personale e della diaristica di tanti esponenti d'alto bordo della classe dirigente è costellata, in quelle settimane, non solo di inquietudine per l'abisso che sembra spalancarsi all'orlo di un breve tratto che solo divide dalla caduta, ma dallo scandalo per quelli che appaiono i segni di una rivolta servile. Il criterio sembra essere quello di Caporetto sì come "autobiografia della nazioné, ma di una "nazioné che non c'è, cui i più si sono mantenuti e si dimostrano beotamente estranei, mentre essa è vissuta e sussiste solo nelle illusioni e negli autorispecchiamenti delle élites. Intensamente elitario, ma animato da un furore illimitato e perdurante contro tutti i sabotatori della guerra, in alto e in basso - «Napoleoni sopra le spalle», «teppa e traditori dietro le spalle» - e ancora ossessionato da quei giorni, come bloccati nella sua memoria di dolente «vinto di Caporetto», si dimostrerà nel suo diario Gadda. E' la nota comune dello sprezzo elitario che ce ne suggerisce la citazione a questo punto, dopo il riferimento a un personaggio da cui - salvo le comuni coordinate politiche e di classe - tutto sembra dividerlo. «Il Regno d'Italia, per i miei, era una cosa viva e verace; che valeva la pena di servirlo e tenerlo su» - questo il postulato originario de "Il Castello di Udine": ed ecco allora l'investimento affettivo e l'invettiva struggente che ancora nel 1934 sono capaci di uscire dalla penna di Gadda all'indirizzo dei responsabili della sua messa a rischio: "sono ancora capace di odio contro chi denigrò, tramò, vilipese, indebolì, seminò scàndalo e scismi: e contro chi non pensò, non vide, non predispose, non capì, non sentì, non curò. Sono un tal tànghero, che odio più i traditori dei nemici: gli asini quanto i nemici. E più gli spioni di casa che 470

Conrad, sebbene odiassi con compiuta interezza anche lui. Sono un frenetico. Ma nessuna corazzata "Leonardo da Vinci" saltò in aria dai porti tedeschi: nessuna polveriera di Udine saltò in aria in Germania al primo giorno della Bainsizza, migliaia di tonnellate di proietti" (28). Memoria e letteratura sono in grado di annullare le distanze temporali. E ritrovare una tal congestione d'astio quasi vent'anni dopo può confermarci la gravità della ferita. Noi però avremmo bisogno di avvicinarci quanto più è possibile all'orlo del cratere, di riascoltare le voci di chi c'era, o era nei pressi, o parla con piglio di testimone. Ma non è facile. I tempi di pubblicazione di un libro sono tali da farci comunque uscire dall'immediatezza dell'incubo, ma la "verità" di Caporetto sta proprio nella visceralità dell'impatto, in quel "non sapere" che - come nelle notti più oscure - si riempie di ombre e di visioni. Anche le testimonianze a stampa più a ridosso degli avvenimenti sanno come è poi andata a finire. Siamo dunque costretti a fidarci delle asserzioni degli autori circa i tempi di stesura dei testi. In realtà, non ci fidiamo affatto, poiché sappiamo che proprio le pagine su Caporetto sono fra le più torturate da manipolazioni editoriali e autointerpretazioni interessate. Detto questo, le prime edizioni del "Diario di un imboscato" di Frescura (1919) e "Viva Caporetto!" di Suckert-Malaparte (1921), uscite rispettivamente presso una tipografia di Vicenza e di Prato, riescono a restituirci il senso e a farci quasi rientrare nel presente dell'incubo attraversato. Ecco un flash alla data del 24 ottobre, che l'ex neutralista Frescura si trova a vivere proprio nell'occhio del ciclone: "al ponte era un problema passare. Lo si stava minando febbrilmente. Figurarsi con che cuore salivano i rincalzi! Un capitano, impazzito, puntava la rivoltella gridando. - Indietro! Indietro! Indietro a tutti, anche a quelli che vogliono andare avanti! 471

Guardando il terribile uomo impazzito, ho avuto la visione di quello che ormai eravamo... A Caporetto ho trovato il capo di stato maggiore che mi ha incaricato con gli altri di frenare l'ondata dei fuggiaschi, che ormai dilagava e travolgeva. Ingaggiamo la lotta per le vie. Fermiamo chi ha un fucile. Chi non ne ha, prosegua, per non impacciare. Ma allora avviene che i lontani, scorta la manovra, buttano il fucile [...]. La battaglia è nelle vie, ma la battaglia è perduta. Mi ritrova un ufficiale del mio comando. Mi urla: - Via, o ci prendono! Chiedo: - Ma, e gli altri? - Via, via, tutti via, corra! Saltiamo sul predellino di una nostra automobile, in cui rivedo qualche ufficiale del comando. Attorno all'automobile si aggrappa una umanità vile che urla selvaggiamente. - Via! Via! Via, anche l'onore, via!" (29). Quella di Frescura è la rappresentazione - seppure sovraeccitata dalle circostanze - di un moderato, e non solo in senso politico. Accenti visionari e ridondanze estreme ha invece lo schizzo sinistro di un giovane interventista e volontario repubblicano quale Malaparte, al suo primo libro e all'origine di una carriera di provocatore. Nessun altro testo dell'immediato dopoguerra restituisce, amplifica e dà corpo a tal punto alle inquietudini interpretative che appena pochi mesi prima avevano circondato l'evento Caporetto. Facendo onore a un nome di penna che non ha ancora assunto, il prossimo Malaparte fa l'incendiario, opera come un terrorista intellettuale raccogliendo e dando ragione di tutti i terrori dei borghesi. Quell'appena ieri gravido di mondi alternativi, rivoluzione fatta balenare e poi ingorgata e retrocessa, rifiuta nelle sue pagine di nascondersi dietro il lieto fine. Forte delle sue costitutive ambivalenze - caratterologiche, ma anche politiche, in 472

quanto repubblicano, cioè patriota e "sovversivo" - Suckert concepisce e lancia "Viva Caporetto!" nel vivo di un dibattito in cui l'"Ottobre" italiano, le sue cause e le sue implicazioni costituiscono ancora un caso aperto: merce di scambio e parametro di aggiustamenti delle memorie collettive e riposizionamenti politici, quando la guerra ha ormai trovato la sua strada, ha definito vinti e vincitori, si è conclusa; ma il dopoguerra, no. "Il popolo delle trincee invase l'Italia. Un grido d'orrore si alzò dall'Italia. Il Veneto fu messo a sacco. [...] A Caporetto, come in tutte le rivoluzioni il popolaccio ebbe le sue bandiere. I ciompi, i pezzenti, i ribelli, il carname delle undici battaglie, i rifiuti di tutti i settori e di tutti i reticolati abbandonarono le trincee e si gettarono contro il paese alzando su gli elmi bruni e sui torrenti di popolo grigioverde i trofei e le insegne della santa e cristianissima fanteria; giubbe lacere e sforacchiate, farsetti a maglia unti e pidocchiosi, elmetti contorti dalle scheggie, scarpe sfondate. - Viva la guerra! Viva la patria! - gridava il popolo degli insorti su tutte le strade di Tolmino e di Udine. Risate oscene si alzavano ogni tanto intorno ai miserabili ed eroici trofei, infissi sulle canne dei fucili e agitati sulle teste e le carra. [...] Tutti coloro che temevano l'ira e l'esasperazione del fante, erano fuggiti a precipizio, senza nemmeno pensare a resistere, a prendere le armi, dopo avere scagliato anatemi contro i "traditori della patrià che non volevano più farsi ammazzare per loro" (30). - "Mito e antimito". Storicizzare Caporetto non comporta dunque solo l'usuale trapasso oltre la sfera delle memorie, ma il farsi strada nell'alone mitico che circonda e, particolarmente in un caso come questo, sostanzia e surroga i fatti. Demitizzare 473

dunque, procedendo lentamente in senso inverso rispetto a quell'imperioso accumulo di certezze allo stato di fantasmi. Smontare le favole radicate, diffuse e accreditate come vere, rappresenta una fatica di Sisifo, poiché esse in qualche misura vivono di vita propria, rispondono a bisogni e credenze difficilmente attaccabili dalla filologia. I primi a provarcisi sono i componenti, militari e politici, della Commissione di inchiesta nominata e postasi al lavoro nei primi mesi del 1918 e le cui conclusioni - tre volumi di relazione, testimonianze, carte geografiche - vengono rese pubbliche nell'estate del 1919. Qualche settimana di scontri, poi il principale giornale di opinione della classe dirigente, il «Corriere della Sera», coinvolto in prima persona come organo dell'intervento, può credere, soddisfatto, che sia già venuto il momento di consegnare tutto agli archivi. Mentre la commissione lavora, alla testa del governo c'è Orlando, ministro degli Interni con Boselli e principale bersaglio delle accuse di debolezza verso i "disfattisti" avanzate da Cadorna e dagli interventisti; inoltre il generale Giardino, già ministro della Guerra, e il generale Badoglio, sospetto di essere fra i massimi responsabili della sconfitta, sono saliti al Comando supremo e, al fianco di Diaz, conducono l'Italia alla vittoria. Non poteva poi giovare alla libertà dei testimoni il fatto che tra i commissari fosse presente l'avvocato generale militare preso il Tribunale supremo militare. Lo stesso Orlando, del resto, nelle sue memorie, non fa mistero del carattere dilatorio e di mediazione affidato a una commissione che, nonostante il vespaio che rischia di suscitare, non si può fare a meno di istituire. Con tutto ciò, pur non potendosi chiedere a un simile organismo e in quelle circostanze la verità storica, l'inchiesta svolge una rilevante opera di istruzione e di raccolta di materiali e testimonianze di prima mano: più di 1000 testimoni, fra cui 200 generali, 150 ufficiali superiori, un centinaio fra capitani e tenenti, e altri 450 fra subalterni, graduati e soldati. E' soprattutto il volume delle testimonianze che oggi si offre come una preziosa miniera 474

allo studioso, mentre all'epoca il dibattito si impadronisce soprattutto del senso politico generale dell'inchiesta: che suona conferma delle accuse a Cadorna, ma anche al suo antagonista Capello, mentre le sopraggiunte circostanze portano al "salvataggiò di Badoglio; nel complesso, l'inchiesta scontenta più gli ex interventisti che gli ex neutralisti, grazie alla «sostanziale assoluzione guadagnata dai socialisti, dai neutralisti e dai cattolici: i quali erano i principali accusati del bollettino del 28 ottobre» (31). Succede di frequente alle commissioni di inchiesta di esaurire il proprio significato in se stesse e di finire presto nel dimenticatoio, ma nel caso di quella su Caporetto è evidente la discordanza fra questa attribuzione di responsabilità e gli sviluppi politici immediatamente successivi. Al fascismo vittorioso intento a vantarsi interprete dell'"Italia di Vittorio Veneto", non basta che sia stato restituito onore ai "trinceristi", serve anche salvare gli apparati di comando e ricuperare i generali. L'antitesi colpevolizzante - o hanno sbagliato i generali, o hanno tradito i soldati - appartiene al passato. Aveva già cominciato Nitti a dirlo, che la vittoria ha chiuso i conti e che i troppi interrogativi sono diventati oziosi, ma per Mussolini diventa un assioma: Caporetto è una parentesi, e una parentesi chiusa. Quando il generale Gatti chiede di poter vedere la documentazione per fare la storia di Caporetto, il nuovo capo del governo gli rinfaccia che non è tempo di storia, ma di miti. E il progetto di lavoro si arresta lì. I posteri, nel 1964, potranno vedere pubblicato l'importante diario su Caporetto di quello che, fino all'ottobre 1917, è lo storico "ufficiale" di Cadorna, addetto alle segrete cose del Comando supremo, e che nelle successive settimane accompagna il trapasso di poteri da Cadorna a Diaz (32). Ma intanto, alla metà degli anni venti - e cioè nel novembre del 1924, in piena crisi Matteotti - la politica della memoria che interessa davvero è quella che conduce Mussolini a superare i diverbi del dopo Caporetto, sviluppatisi nei contrapposti memoriali del dopoguerra, facendo emblematicamente marescialli d'Italia sia Cadorna 475

sia Diaz, ufficializzando cioè il prima e il dopo, mentre Badoglio diventa capo di stato maggiore generale (1925). A questo punto, si possono considerare finiti su un binario morto sia l'inchiesta del 1918-1919, sia le contese dei generali, dominate dal dualismo Cadorna-Capello (politicamente liquidato come massone e antifascista), sia anche gli studi sulla guerra e su Caporetto stesi in chiave liberaldemocratica, pur se il totalitarismo imperfetto del regime non esclude volumi e saggi non del tutto allineati. Del resto, Novello Papafava o Salvemini, e più avanti Pieri e Adolfo Omodeo sono tutti, benché non fascisti, degli ex combattenti. Da valutare a parte è un agile libro scritto nel 1928 da uno storico di valore quale Gioacchino Volpe e che, pur essendo questi un intellettuale militante fra i più potenti e accreditati, deve attendere due anni prima di vedere la luce, proprio perché "Ottobre 1917. Dall'Isonzo al Piave" restituisce comunque visibilità a vicende che il contromito fascista ha scelto sinora di sottacere (33). L'ex ufficiale P dell'ottava armata, forte dei titoli che lo accreditano come voce affidabile, ha il merito di aggiungere in questo modo un capitolo ostico alla sua simpatetica e compartecipe immersione nella storia dell'"Italia in cammino" (34). Lo fa, naturalmente, da par suo, senza trovare intralci al finalismo che orienta tutte le sue ricostruzioni verso l'Italia del fascio. "Si favoleggiò di tradimento, arguendo forse da qualche sporadico, minuscolo caso di "tregua" o "pace separata" o "fraternizzazione" che poté avvenire qua e là, in angoli isolati e tranquilli della fronte, per iniziativa tanto nostra quanto degli Austriaci. Ma cosa assurda il tradimento di un esercito! Si disse, anche più comunemente e autorevolmente: "sciopero militarè, cioè preordinata volontà di gettare le armi. Neppure, assolutamente. Solo è vero che, con la sorpresa, con l'aggiramento, con la sùbita constatazione della nostra inferiorità, col senso della inutilità della resistenza, cadde rapidamente quel che rimaneva di spirito aggressivo e di iniziativa, cadde quella 476

volontà, fortissima nei nostri durante l'altra offensiva nemica sugli altipiani, di tener duro a tutti i costi, dalla quale può nascere, anche nei casi disperati, la vittoria. Si ebbe il nervosismo e l'ansia. La difesa divenne uno sforzo di conservazione individuale, più che collettivo. In tali condizioni, si può ammettere che i fattori dissolventi, che dentro covavano, divennero operosi. Si formarono i primi rigagnoli di sbandati, in cui si mescolavano insieme quelli che erano stati travolti nel disordinato ripiegamento e quelli che avevano abbandonato il loro posto. E i rigagnoli, passando rasente o in mezzo ai reparti ancora inquadrati, magari accorrenti al rincalzo, trascinavano con sé gli elementi meno solidi: presso a poco quello che fa l'acqua in piena, quando comincia a battere contro un argine o infiltrarsi attraverso qualche fessura" (35). Come si vede, Volpe concede molto - scrivendo quando scrive ed essendo, politicamente, quello che è - alla problematizzazione e all'intreccio degli avvenimenti. "Rotti i legami organici, quella gente è folla di buoni e di cattivi, non esercito. Ma vero e proprio saccheggio, no. E neppure atti di indisciplina: non individuali, ancor meno collettivi. O essi si esauriscono in male parole contro automobili di Comandi che vogliono rompere la calca, in imprecazioni ai "traditorì, in grida di "viva la pacè. Poiché anche il fante ha bisogno di spiegarsi quel che vede. E pensa al tradimento: tradimento di nemici, che dalla trincea avevan gridato la pace, di artiglieri che sono scappati senza sparare, di comandi che han pensato ai casi loro o si sono venduti. E vi è anche chi sa, in lire e centesimi, che cosa il tradimento ha fruttato! Ma altri credono che tutto avvenga, quel che avviene, perché la guerra è finita. Hanno avuto ordine di ritirarsi. Lo ha voluto il Re. Ora si va tutti a casa. Non sono fuggiti loro! Nessuno ammetterebbe di avere voltato le spalle per paura. Se mai, si persuadono, e ogni tanto qualcuno lo grida, di aver voluto essi far finire la guerra, perché gli altri, il Governo, gli imboscati, i 477

pescicani, non volevano finirla. Così si creò, fra i soldati stessi, o dandone essi lo spunto, l'idea dello "sciopero militare" (36). C'è una punta di distanziamento paternalista, di fronte a questo popolo che, in armi o disarmato, ha comunque bisogno di inquadramento esterno; ma che affresco! Senza sapere di realtà virtuale, si può ritenere che pagine come questa anticipino nella sostanza molto del gioco delle rappresentazioni reciproche e degli autorispecchiamenti illusori in cui ci sembra consistere, oggi, quel che differenzia questa sconfitta dalle altre. Mentre Volpe fa dal canto suo quanto può per innovare il discorso pubblico e restituire contorni più razionali al mito di Caporetto, nell'Italia fascista quanto resta di Italia liberale e antifascista procede intanto per suo conto, in forme più discrete e meno influenti, a darsi ragione dei fatti. Lo fa soprattutto una rara figura di generale, liberale amendoliano, che per il suo conseguente antifascismo conservatore si guadagna nel 1926 la radiazione dall'esercito e cinque anni di confino. E' Bencivenga, a suo tempo, come giovane colonnello, capo della segreteria di Cadorna e, di fatto, suo capo di stato maggiore; poi, nell'ultimo anno di guerra, al comando della brigata Aosta, che sul Grappa e sul Piave si guadagna la medaglia d'oro (37). E' un segno degli avvolgimenti della storia d'Italia se Bencivenga è costretto a scrivere il suo "Saggio critico sulla nostra guerra" nelle condizioni straordinarie del confinato politico e può togliersi la paradossale soddisfazione di datare da Ponza (autunno 1930) quella che gli storici militari d'oggi giudicano il lavoro più penetrante di ricostruzione uscito fra le due guerre. "Uscito", per modo di dire: l'autore è costretto a pubblicarlo a sue spese presso semplici tipografie, in cinque volumi fra il 1930 e il 1938, dei quali "La sorpresa strategica di Caporetto" viene premesso volutamente agli altri. E questo per l'intenzione dichiarata di arginare la leggenda di Caporetto, che, una 478

volta entrata in circolazione, sta facendo la sua strada all'estero: "Quest'episodio della nostra guerra è stato troppo falsato nella individuazione delle cause e nella valutazione degli effetti - con grave danno circa l'estimazione del nostro soldato e la valutazione del contributo portato dal nostro paese alla causa degli Alleati - perché ogni tentativo inteso a ristabilire la verità dei fatti debba essere lasciato intentato, prima che le erronee interpretazioni sulle cause dell'insuccesso di Caporetto mettano radice nelle varie opere storiche cui attendono gli Stati maggiori delle potenze belligeranti, e la leggenda perpetui così versioni contrarie alla verità" (38). La scarsissima diffusione impedisce sin dal principio all'opera di Bencivenga di agire pervasivamente nel senso auspicato, rimane un'opera rara e pochissimo conosciuta, anche se Pieri dal suo osservatorio nella «Nuova rivista storica», anch'essa tenuta d'occhio dal regime, non le fa mancare il suo consenso. Quella stessa alta estimazione che le viene confermata dalla storiografia militare odierna, in occasione di una ristampa che - di nuovo, segno del perdurare di certi giudizi di rilevanza - è ripartita dalla fine, cioè dal volume che originariamente si autoproclamava "Appendice al «Saggio critico sulla nostra guerra»", reso tuttavia suggestivo e prioritario dal tema: Caporetto. Quanto all'interpretazione, la rivela già il titolo a chiave: fu una «sorpresa strategica» a dare origine a tutto ciò che poi segue. Libro di un tecnico, angolato in chiave prettamente militare, e quindi originale e diverso, l'opera dell'antifascista Bencivenga non si discosta alla fine molto nell'interpretazione "riduttiva" di Caporetto - dalle intenzioni e dal tracciato interpretativo dell'autore fascista coevo. Che l'interpretazione "militarè e non quella "politicà sia quella "verà lo confermeranno - in tutt'altra temperie storico- politica - anche gli studi del secondo dopoguerra: in 479

particolare il citato volume dedicato da Alberto Monticone, già nel 1955, alla "Battaglia di Caporetto". Nella stessa direzione si orienta il raro volume di un osservatore della guerra italiana dall'estero, "Caporetto. The Scapegoat Battle", dell'inglese Ronald Seth (1964), tradotto in italiano nel 1966, programmaticamente inteso a smontare la visione, sedimentata nel suo paese da decenni, degli "italiani che scappanò, visione costruita proprio sulla base di interpretazioni pregiudiziali di Caporetto come caso unico e sintomatico e ribadita in seguito da una concezione diffusa di una seconda guerra fatta finire nel 1943 e decurtata della Resistenza. Intanto in Italia viene reso per la prima volta pubblico, a cura di Monticone (1964), il diario riservato del colonnello Gatti, il collaboratore militare del «Corriere della Sera» scelto da Cadorna come storico del Comando supremo e messo così in grado di conoscere da vicino e dall'alto lo svolgersi dei fatti e - nei giorni prima e dopo il 24 ottobre - le notizie, le false notizie, i fantasmi e gli errori sulla cui base gli alti comandi impostano le scelte che producono, con la sconfitta, l'effetto valanga. Nell'avvicinarsi al cinquantenario, quell'autorispecchiamento d'epoca rinvigorisce gli interrogativi e i sospetti di allora; e ancor più li rende presenti un'antologia di testi degli anni 1917, 1918, 1919 e degli anni seguenti, che esce nel 1967 con il programma di indagare l'animo e i comportamenti dei "Vinti di Caporetto", sulla traccia di ciò che essi stessi o i combattenti di altre armate ne avevano scritto in diari, memorie e testi narrativi. La novità dell'approccio sta nel non proporsi di cauterizzare, ma di riaprire la vecchia ferita, ponendo alla prova, con quel tipo di documenti della soggettività dei combattenti, le accuse di ribellione politica o di sciopero militare avanzate da Cadorna o da Bissolati. Da quella disamina d'epoca, per quanto volonterosamente interrogata, non esce però nulla di simile a un Ottobre italiano esemplato sull'Ottobre russo: tutt'al più un clima diffuso di stanchezza, avvilimento e passività, da "tutti a casa" (39). E quindi la convalida non già delle critiche alle 480

masse popolari e al Partito socialista per aver "fatto Caporetto", piuttosto quelle avanzate già negli anni venti dai comunisti su «Lo Stato operaio» di non avere veramente pensato, voluto e orientato quell'evento in senso politicamente attivo. «Caporetto fu una rivolta disperata e senza meta», aveva scritto nel 1927 Ruggero Grieco, in uno dei non frequenti interventi di critica da sinistra della guerra: «un episodio al quale il Partito socialista fu estraneo e che certamente non comprese. [...] Da noi la insurrezione di ottobre fu senza armi e senza direzione. Essa era condannata sul nascere» (40). Eppure l'anno dopo (1968) la raccolta di sentenze dei tribunali militari "Plotone d'esecuzione" viene accolta come conferma di un malessere e di uno scollamento disgregativo, malamente rintuzzato con la repressione, e al culmine dei quali si poteva collocare Caporetto, quasi che l'opera non apparisse a firma di quello stesso Monticone che già quindici anni prima aveva liquidato storiograficamente l'interpretazione non militare della "Battaglia di Caporetto". Siamo negli anni della contestazione e - una volta di più, ma questa volta in senso politicamente dissidente - la Grande Guerra si presta come misuratore della temperatura politica circostante, i cui mutamenti determinano approcci rinnovati. E poi i libri, una volta scritti e stampati, seguono una propria strada, che non coincide sempre con l'identità e gli itinerari dell'autore. Quel lavoro dai contenuti e dal titolo incandescenti recava in copertina il nome di un prossimo presidente dell'Azione cattolica e quello di un giornalista, ex collaboratore del «Mondo», che propone come titolo del suo contributo e come chiave di lettura un'"Apologia della paura": provocatoria sì rispetto alla "vulgata" patriottica, ma abbastanza improbabile rispetto agli usi politici preconizzati dalla cultura del Sessantotto, e semmai anticipatrice del disinteresse e delle sprezzature dei futuri esponenti della storia sociale della Grande Guerra per coloro che ancora, negli anni ottanta e novanta, insistono a fare storia politica di quei remoti avvenimenti, giudicati da 481

buona parte della generazione successiva - quella del disincanto - ormai irrecuperabili a un qualunque senso generale, patriottico e non. Negli ultimi anni la storiografia non ha offerto molti contributi specifici su Caporetto, neppure approfittando dell'ottantesimo. Possiamo citare qualche significativa ripresa, come le opere già menzionate di Bencivenga, Gatti e Forcella- Monticone, o anche "Gli "ultimi di Caporetto" che il giornalista del «Corriere della Sera» Cesco Tomaselli aveva ideato nel 1931 con l'esplicito proposito di contrastare la "leggenda" e, in particolare, di collezionare episodi e titoli di benemerenza patriottica a favore delle popolazioni venete e friulane, traendone una raccolta di "Racconti del tempo dell'invasione". Il curatore-editore Paolo Gaspari, friulano, accompagna la riproposta interessante anche perché sposta l'attenzione sui comportamenti collettivi dei civili, un grande tema mai sufficientemente esplorato - con un saggio dal titolo apparentemente bizzarro, o "leghista", "La vittoria di Caporetto": utilizzando fonti locali e austro- ungariche, carica sui comandi le responsabilità e "assolve", anzi tributa onore alla capacità di resistenza e di contrattacco degli italiani nell'ultimo anno di guerra. In questa sorta di eterno ritorno, magnetizzato da quei giorni di svolta, è un po’ come se fossimo tornati alle origini, all'"instant-book" di Prezzolini, per il quale la frustata del 1917 finisce per assumere contorni quasi provvidenziali, dando luogo a una resistenza semiunanime e, alla fine, coronata dalla vittoria (41).

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NOTE AL CAPITOLO 6. 1. Sono cifre approssimative, come di consueto, anche perché è difficile separare le perdite della guerra 19141917 da quelle della rivoluzione e della successiva guerra civile. 2. Il numero di divisioni è però un indice approssimativo, perché molte di queste erano di seconda qualità o incomplete. 3. Guy Pedroncini, "Les mutineries de 1917", Paris, Puf, 1967; Id., 1917: "Les mutineries de l'armée française", Paris, Julliard, 1968. 4. Secondo i minuziosi calcoli di Pedroncini, i soldati direttamente coinvolti nelle manifestazioni di protesta sono forse 40000, ossia una piccola minoranza dell'esercito. La cifra non è però significativa se, come ritengono sia Pétain sia Pedroncini, gli ammutinamenti non sono dovuti a cause specifiche, ma a ragioni generali comuni alla massa dei soldati. Erano fattori minimi, se non casuali, che facevano sì che un reggimento si rivoltasse mentre quelli vicini rimanevano tranquilli. Le proteste non si limitavano poi al fronte: in questi mesi si verificarono 130 casi di disordini, con grida e canti contro la guerra, nelle stazioni ferroviarie in cui transitavano i soldati in licenza. 5. Pedroncini avverte che questi totali vanno presi con qualche riserva, perché non è sempre facile isolare i processi per gli ammutinamenti da quelli per altri fatti precedenti o contemporanei. Va ricordato che il governo francese cercò costantemente di limitare le condanne a morte, per le quali all'inizio del 1915 fu ripristinato il diritto di grazia del presidente della Repubblica. Su una media mensile di 22-23 condanne a morte quelle eseguite erano 78. 483

6. La Francia mobilitò tra il 1914 e il 1918 8 milioni di uomini (su poco meno di 10 milioni di maschi tra i 18 e i 50 anni) e portò sul continente 450 mila coloniali (per lo più algerini e senegalesi). La forza al fronte passò dai 2 milioni di soldati del 1914 ai 3 milioni del 1917. Ebbe in totale 1 milione 350 mila morti, 600 mila prigionieri, 2 milioni 800 mila feriti (la metà con due ferite), 140 mila intossicati dai gas, 1 milione 800 mila malati ospedalizzati. 7. Nel 1914 la media mondiale di nuove costruzioni era stata di 200 mila tonnellate mensili, per oltre due terzi inglesi. Nel 1918 i cantieri inglesi uguagliarono quasi la produzione prebellica, ma il primato era passato agli Stati Uniti, che da 17.000 tonnellate mensili di nuove navi nel 1914 arrivarono alle 253 mila del 1918. Conf. G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. 68, da cui dipendiamo per tutte le cifre sulla guerra sottomarina. 8. Nei mesi seguenti dichiararono guerra agli Imperi centrali una serie di piccoli e medi stati dell'America latina, nonché il Brasile, che inviò anche truppe sul fronte occidentale. Era già entrato in guerra il Portogallo, mentre la Spagna e l'Argentina rimasero neutrali. I "Dominions" britannici, Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, avevano seguito l'Inghilterra sin dal 1914, con una partecipazione attiva su più fronti, compreso quello occidentale (salvo il Sudafrica). 9. Di volta in volta la vittoria è stata attribuita al valore degli eserciti e alla capacità di sacrificio dei combattenti, alla mobilitazione della società, alla produzione industriale, agli effetti del blocco navale, all'insufficienza delle risorse economiche degli Imperi centrali e altro ancora. Non ci sembra possibile stabilire una graduatoria tra cause così diverse e tutte importanti. 10. G. Hardach, "La prima guerra mondiale", cit., p. 51. 484

11. Tra i giovani volontari che guidavano le autoambulanze due sarebbero diventati scrittori illustri, John Dos Passos ed Ernest Hemingway; nel suo celebre romanzo "Addio alle armi" quest'ultimo ha lasciato una descrizione del fronte italiano e della rotta di Caporetto molto efficace, anche se romanzata (era arrivato in Italia soltanto nel 1918). Conf. Giovanni Cecchin, "Con Hemingway e Dos Passos sui campi di battaglia italiani della Grande Guerra", Milano, Mursia, 1980; Id. (a cura di), "Americani sul Grappa", Asolo, Comunità pedemontana, 1984; Id., "La Grande Guerra. Cronache particolari", Bassano, Collezione Princeton, 1998. 12. La battaglia assunse questo nome perché la cittadina di Caporetto (oggi la slovena Kobarid) era il piccolo capoluogo della zona attaccata dagli austro- tedeschi, anche se non ebbe un ruolo decisivo nei combattimenti. 13. Nell'esercito tedesco il comando delle grandi unità era diviso tra il comandante e il capo di stato maggiore in modo così elastico, che quest'ultimo aveva generalmente la direzione delle operazioni. Krafft von Dellmensingen fu il primo artefice del successo, anche se nel suo studio sulla battaglia ricorda che la responsabilità delle decisioni spettava a von Below. Lo studio è stato tradotto come "1917. Lo sfondamento dell'Isonzo", Milano, Arcana, 1981. 14. I contributi maggiori di Piero Pieri su Caporetto sono riprodotti nel suo volume "La prima guerra mondiale 19141918. Studi di storia militare", nuova edizione a cura di Giorgio Rochat, Roma, Ufficio storico dell'esercito, 1986 [la ed. 1947]. Si veda anche Piero Pieri, Giorgio Rochat, "Pietro Badoglio", Torino, Utet, 1974, poi Roberto Bencivenga, "La sorpresa strategica di Caporetto. Appendice al «Saggio critico sulla nostra guerra»", Roma, tip. Madre di Dio, 1932, e Alberto Monticone, "La battaglia di Caporetto", Roma, Studium, 1955.1 volumi di Pieri, Bencivenga e Monticone sono stati ristampati dall'editore Gaspari di Udine, 19971999. 485

15. Pietro Badoglio, nato nel Monferrato nel 1871, tenente colonnello nel 1915, comandante di corpo d'armata nel 1917, fu sottocapo di stato maggiore dell'esercito dal novembre 1917 al 1919, capo di stato maggiore dell'esercito nel 1919-1921, capo di stato maggiore generale dal 1925 al 1940 accanto a Mussolini, capo del governo dal 25 luglio 1943 al 6 giugno 1944 (e quindi figura centrale del disastro dell'8 settembre 1943). 16. Negli ordini diramati da Cadorna e da Capello prima della battaglia si trovano molte utili disposizioni difensive, ad esempio per una contropreparazione d'artiglieria che stroncasse l'attacco nemico sul nascere. Non basta però impartire ordini intelligenti se non li si inserisce in un contesto adeguato e non si verifica che i comandi dipendenti li abbiano compresi e che le truppe siano state addestrate a eseguirli. Il tiro di contropreparazione nell'ottobre 1917 rimase sulla carta, mentre nel giugno 1918 fu eseguito con efficacia, in un contesto ben diverso. 17. A chi voglia verificare come i limiti tecnico- culturali dell'offensivismo obbligato della guerra di trincea non fossero un problema soltanto italiano consigliamo due testi inglesi: la descrizione della battaglia della Somme condotta da John Keegan nel suo volume "Il volto della battaglia" (Milano, Mondadori, 1978) e il romanzo storico di Cecil Scott Forester, "Il generale" (Milano, Mondadori, 1939 e 1954), acuta analisi della mentalità degli ufficiali britannici. 18. Il settimo corpo non aveva ancora una composizione definita; al 24 ottobre assommava una trentina di battaglioni senza artiglierie. La quattordicesima armata contava 164 battaglioni, 1800 cannoni e 400 bombarde. Questi dati valgono per un confronto orientativo, i rapporti di forza sul terreno variavano a seconda dei luoghi e dei momenti. Quasi dovunque gli austro- tedeschi ebbero una superiorità d'artiglieria decisiva. Inoltre disponevano di 486

ingenti forze aeree, mentre l'apporto della ricognizione aerea italiana fu nullo in tutta la battaglia. 19. In un battaglione di "Alpenjäger" si distinse il tenente Erwin Rommel, poi fortunato maresciallo nella seconda guerra mondiale, che ha lasciato una sintesi delle sue vicende nel volume "Fanterie all'attacco", Milano, Longanesi, 1972. La sua fama successiva ha indotto alcuni autori a immaginargli un ruolo decisivo nella vittoria; in realtà Rommel fu soltanto l'eccellente vicecomandante di un bel battaglione tra i 164 della quattordicesima armata. 20. Definire basso il morale delle truppe italiane, come in quasi tutti gli studi, è una valutazione soggettiva a posteriori. Il morale delle truppe dipende da troppi fattori perché siano possibili facili generalizzazioni; un reparto può combattere bene se impegnato secondo le previsioni e crollare se attaccato in situazioni che non è addestrato a fronteggiare. 21. Abbiamo riportato i dati ufficiali, che sono però insoddisfacenti, perché lasciano nel vago la sorte di alcune centinaia di migliaia di uomini. Quasi certamente i morti e soprattutto gli sbandati furono assai più di quelli ufficialmente riconosciuti; ma non è questa la sede per rifare tutti i calcoli. I dati sui prigionieri e sul materiale abbandonato sono invece attendibili. 22. Le divisioni della quattordicesima armata avevano mediamente 3 reggimenti di fanteria e 1 o 2 reggimenti di artiglieria da campagna o da montagna, che muovevano insieme. Le divisioni italiane avevano di regola 2 brigate con 4 reggimenti di fanteria, ma neppure una batteria, perché era previsto di impiegarle su un fronte ben provvisto di cannoni, non in aperta campagna come nel corso della ritirata.

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23. Gli ordini di bruciare tutti i magazzini furono eseguiti molto parzialmente, per la grande confusione e perché mancava la mentalità di fare "terra bruciatà. 24. Lucio Ceva, "Parliamo ancora di Caporetto", «Nuova antologia», 2206 (aprile- giugno 1998), p. 97. 25. Mario Isnenghi ha rilevato la differenza di tono ed efficacia tra il proclama aulico e retorico indirizzato da Vittorio Emanuele ai «Soldati di Terra e di Mare» il 24 maggio 1915 e il suo appello dell'8 novembre 1917 alla resistenza e all'unità, rivolto agli «Italiani, Cittadini, Soldati». Conf. M. Isnenghi, "Le guerre degli italiani", cit., p. p. 57-61. 26. M. Isnenghi, "I vinti di Caporetto", cit. 27. Ugo Ojetti, "Lettere alla moglie 1915-1919", a cura di Fernanda Ojetti, Firenze, Sansoni, 1964. 28. C. E. Gadda, "Il castello di Udine", cit., p. 39; Id., "Taccuino di Caporetto", cit. 29. A. Frescura, "Diario di un imboscato", p. p. 386, 388 (citiamo dalla prima ed., Vicenza, Tipografia editrice Galla, 1919). 30. C. Malaparte, "Viva Caporetto!", cit., p. p. 113-115. 51. Nicola Labanca, "Caporetto. Storia di una disfatta", Firenze, Giunti, 1997, p. 95. 32. A. Gatti, "Caporetto", cit. 33. Milano- Roma, Libreria d'Italia, 1930. 34. Milano, Treves, 1927. 488

35. G. Volpe, "Ottobre 1917", cit., p. p. 105-106. 36. G. Volpe, "Ottobre 1917", cit., p. p. 121-122. 37. Giorgio Rochat, "Presentazione" a Roberto Bencivenga, "La sorpresa strategica di Caporetto. Appendice al «Saggio critico sulla nostra guerra»", Gaspari, Udine, 1997, p. 5. 38. R. Bencivenga, "La sorpresa strategica di Caporetto", cit., p. 8. 39. M. Isnenghi, "I vinti di Caporetto", cit. 40. Ruggiero Grieco, cit. in G. Rochat, "L'Italia nella prima guerra mondiale", cit., p. 48, nota 40. 41. G. Prezzolini, "Dopo Caporetto", cit. ***

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7. 1918. L'ANNO DELLA VITTORIA. IL RITORNO DEGLI INTELLETTUALI. Nei paragrafi che seguono verrà affrontato il tema, assolutamente cruciale, di quanto e come cambi la conduzione della guerra con la rinnovata composizione del Comando supremo e, congiuntamente, con il vero e proprio mutamento di natura della guerra italiana: costretta ora a farsi difensiva, da offensiva e perciò sanguinosamente distruttiva che era stata sinché ci si era basati sulla strategia del "logoramentò attraverso successive "spallate" sull'Isonzo. Attrezzarsi non più per avanzare, ma per impedire agli austro- tedeschi di avanzare loro, comporta fare ricorso a un cumulo di risorse, sia materiali sia sociali e culturali, di cui l'esercito e tutto l'insieme del «paeseItalia» (1) si mostreranno, alla prova dei fatti, maggiormente dotati che non di quelle richieste dall'espansione dannunziana e nazionalista della «più grande Italia». Si resta esitanti di fronte all'interrogativo se - negli ormai ottant'anni che ci separano dai fatti - si sia attribuito maggior peso sintomatico e fatto un investimento di interesse più insistente per l'anno di Caporetto oppure per l'anno di Vittorio Veneto. L'Italia nazional- fascista fu - lo si è visto - naturalmente incline a enfatizzare la vittoria e a togliere dai riflettori i giorni imbarazzanti e a questo punto inesplicabili, ma ininfluenti, della rotta. Dopo una nuova ritirata - questa volta non solo militare - dalla storia, o per lo meno dalla speranza di farvi giocare all'Italia un ruolo di grande potenza, le elaborazioni del naufragio del fascismo e di quella sorta di nuova e più irrimediabile Caporetto che fu per molti l'8 settembre 1943 (2) riapriranno interrogativi sulle motivazioni e i possibili significati non solo militari delle proteste, degli ammutinamenti e della rotta del 1917. E una parte della storiografia antifascista tornò a ipotizzare che non in Vittorio Veneto, ma appunto nel "flash" rivelatore 490

di Caporetto stesse la chiave interpretativa non tanto della guerra in se stessa, quanto dei rapporti di lunga durata fra le classi sociali nell'Italia unitaria e più immediatamente fra i comandi e le truppe in tempo di guerra. Il presente lavoro tende al superamento di tale intermittente alternanza di ciascuno dei due poli, nel presupposto che il 1917 e il 1918- ed emblematicamente Caporetto e Vittorio Veneto - si possano valutare e comprendere solo se concatenati, cioè insieme, senza sottacere l'uno a vantaggio dell'altro. Sono tutt'e due il frutto - oltre che di circostanze specifiche - della storia d'Italia. Con la precisazione alla fin fine logica che ciò che segue supera ciò che precede e in qualche modo lo risolve e lo ingloba. - "Il servizio P". Fra le risorse messe in campo in forme e dimensioni sino a quel punto non praticate, per reagire alla disfatta e riarmare gli spiriti della resistenza, risultano caratterizzanti le armi intellettuali. Intendiamo proprio l'uso, la rifunzionalizzazione di questa risorsa - gli specialismi degli uomini di cultura - fra le altre risorse: cioè il "che farè degli scrittori, artisti, teatranti, e degli storici, pedagogisti, psicologi, professori e giornalisti vari, aventi obblighi militari, sullo sfondo più vasto di coloro che, pur non avendo obblighi militari, intendono tuttavia collaborare allo sforzo comune. Tre stagioni sono riconoscibili nel rapporto fra gli intellettuali e la guerra. Fra i due poli di massima partecipazione - cioè i dieci mesi di dibattito sull'intervento, sino al «maggio radioso», e, appunto, l'anno fra Caporetto e Vittorio Veneto - stanno due anni e mezzo di depressione del loro ruolo, immagine e funzioni. Essa si può considerare il frutto di motivazioni diverse e convergenti. Prima di tutto - dopo quella che Cadorna e gli alti comandi in genere tendono a considerare la sbornia ideologica della mobilitazione interventista - subentrano la reintegrazione 491

negli apparati e l'imposizione del silenzio. I capipopolo, gli uomini della piazza, i leader di opinione perdono gran parte della propria visibilità pubblica e precipitano al fondo delle gerarchie militari. Al Comando supremo, come non si gradiscono le "baionette intelligentì, mal si tollerano anche le intrusioni di quei manipoli di "grilli parlantì intellettuali e politici. Il generale Capello fa mormorare i detrattori ed è visto dagli estimatori come un possibile e più moderno sostituto di Cadorna anche e proprio perché, a differenza dei generali cadorniani, apre il comando della seconda armata agli ufficiali acculturati, anche se di complemento: in genere, se ne vuoi vedere solo il lato vanesio e promozionale. Inoltre, nei migliori fra gli intellettuali può anche subentrare, dopo il 24 maggio, un senso di discrezione, l'aspirazione a mostrarsi militari normali, idonei e in grado di compiere la propria umana fatica accanto e non diversamente dagli altri: "primi inter pares", rispetto ai contadini-soldati, ai semplici e agli analfabeti, senza più il privilegio esibito di motivazioni ulteriori, sotto l'uniforme che accomuna. C'è un ascetismo che può spingersi all'abnegazione e giungere magari, come avviene precipuamente in Serra, alle manifestazioni regressive del «marciare insieme, senza sapere perché» (3). Questo bisogno di essere uomo fra gli uomini, di deporre gli orgogli di casta e "farsi popolo", imparando dai semplici, circola ampiamente nei libri di chi scrive per un pubblico cosi come nella corrispondenza o nelle memorie di ufficiali di complemento più o meno anonimi. A dismettere l'abito intellettuale si può del resto essere spinti da motivazioni antitetiche, nobili o mediocri: sicuramente anche dall'intenzione di "imboscarsi", lucrando esoneri e compiendo lavori umili e defilati pur di scampare all'invio al fronte e quindi rinunciando alle competenze intellettuali che si hanno e fingendo competenze manuali che non si hanno; ovvero, tutt'al contrario, dalla scelta di non essere e neppure apparire imboscati, e quindi non ricercando o rinunciando a qualche più o meno decorosa sinecura o 492

passaggio di "scartoffie" negli uffici di cui un vasto apparato militare abbisogna. Rispetto a questo rientro generale nei ranghi fra il 1915 e il 1917, subito o cercato, l'ultimo anno di guerra implica il ritorno di un certo numero di intellettuali alla piena legittimazione tecnica e morale a esercitare, al servizio della patria e in vista del buon esito della guerra, per l'appunto la propria professionalità. La negazione dello specifico intellettuale - che nell'esercito di Cadorna e di Gemelli era stata praticata e si può dire anche teorizzata appare come la rinuncia a una risorsa che viene invece capitalizzata nell'esercito di Diaz. Che ognuno assuma e tenga il proprio posto nella resistenza può voler dire che le licenze agricole date nella stagione giusta alle persone giuste restituiscono il contadino- soldato ai campi, quando è meglio - tanto per il suo morale quanto per l'andamento dell'economia nazionale - avere un contadino in più e un soldato in meno; e può anche voler dire, per uno scrittore vociano come Jahier (classe 1884), vedere dilatarsi enormemente il suo ruolo di ufficiale addetto all'istruzione delle truppe, passando dalla caserma dove ha addestrato qualche successiva compagnia di alpini alla redazione dell'«Astico», il «Giornale delle trincee» che ha l'ambizione di istruire e curare il morale dell'intera prima armata. Le risorse e gli specialismi messi a frutto nella chiamata generale alla resistenza possono essere anche quelle dei disegnatori, illustratori e pittori, chiamati a moltiplicare e rendere più efficace e comunicativo l'immaginario di guerra, con i manifesti, le cartoline, i giornali di trincea, che proprio fra Caporetto e Vittorio Veneto trovano incentivo e appoggi. Anche la gente di spettacolo, gli addetti al tempo libero e i tecnici del divertimento e dell'evasione trovano occasioni di impiego in un secondo tempo della guerra in cui molti più militari e politici che nel recente passato devono arrendersi alla constatazione che presidiare o ricostruire il morale delle truppe è la prima scelta strategica per chi abbia governo di uomini; che questo bene prezioso e fragile ha bisogno di incentivi e tutele di vario 493

ordine; e che si è dimostrato illusorio, per la tenuta della macchina militare, affidarsi per intero agli strumenti coattivi e disciplinari. Infine, un capitolo particolare del ritorno, e persino di un appello agli intellettuali - all'insegna di una parola d'ordine almeno tendenziale che suona "ciascuno al suo postò - è quello che vede mobilitarsi intenditori d'arte e tecnici del ramo per la salvezza dei monumenti e delle opere d'arte, sia studiando le migliori forme di difesa "in loco", sia individuando luoghi di rifugio in depositi sicuri, lontani dal Veneto a rischio di invasione. Non si può negare che, in questo ritorno dell'intellettuale al suo posto distinto da quello anonimo delle masse, il privilegio individuale si connetta inscindibilmente al ritrovamento di un mandato sociale e di una funzione di utilità pubblica. Scrivendo e illustrando «La Ghirba» - per nominare un altro tra i più coloriti e gradevoli giornali di intrattenimento per la truppa - questi addetti alla cultura mettono anche al sicuro la propria personale "ghirbà, hanno cioè probabilità maggiori di salvare la pelle. Del resto, privilegio è già quell'attribuzione di compiti personali, diversificati e gratificanti, volti a spiegare agli altri quanto sia giusta, doverosa e magari persino "bella la guerra", mentre milioni di contemporanei diguazzano nelle trincee e vi sentono ottundere il proprio "io": quell'"io" che, affranto e conculcato dai disincanti dei primi due anni di guerra, torna invece ad affermarsi in questi singolari "profittatori di guerrà miracolati da Caporetto, giunti a ricoprire un ruolo più consono alla loro vocazione e alla loro vita di prima. Gli apparati in cui queste truppe scelte dell'intellettualità militare ritrovano identità e voce sono quelli del servizio P (P sta per propaganda) (4). Ritrovare il senso di una propria utilità sociale implica nel contempo, per definizione, accettare di muoversi come tecnici della parola e dell'immagine chiamati a orchestrare una particolarissima campagna promozionale del "prodotto Italia". Essere selezionati, fra gli altri ufficiali, come ufficiali del servizio P e come tali assegnati al servizio nell'ambito di un reparto, non implica la conoscenza e la ridiscussione dei "fini di 494

guerra": la guerra c'è e c'è stata anche Caporetto, ora l'Italia deve riprendersi e vincerla. Come? E" nell'ambito del "come" che gli addetti alla nuova arma psicologica sono chiamati a dare il proprio contributo, lavorando sul sin qui troppo trascurato "morale". Psicologia, pedagogia, retorica, le arti della persuasione e della parola in senso lato sono quelle maggiormente destinate a entrare in campo. Dunque, gli uomini di lettere - i tuttofare della cultura, scrittori in testa -, con qualche più moderna iniezione proveniente dalle scienze sociali. Basti qui il nome di un tecnico dell'educazione quale il pedagogista Lombardo Radice, che ha lasciato il Partito socialista per la guerra e non tarderà molto ad assurgere a luogotenente di Gentile nella riforma della scuola, ma intanto è impegnato a impostare metodologicamente e fare acquisire costrutto tecnico ai fervori verbali di qualche propagandista volonteroso, ma povero di criteri. Oltre che ad apprestare l'alfabeto tecnico di una pedagogia per le truppe che assomiglia a una sorta di elementare scuola di educazione civica per gli adulti, Lombardo Radice si applica anche autorevolmente a definire il contesto omogeneo e non contraddittorio in cui questo discorso sulla guerra può funzionare. Sostanzialmente, dalle sue relazioni quindicinali sul morale delle truppe - uno degli strumenti preliminari di lettura della situazione messi a punto traspare la preoccupazione che l'informazione positiva offerta nell'universo di guerra dalla nuova oralità e scrittura "di trinceà a opera dei delegati dai comandi possa essere contraddetta dalla stampa per i civili che capita sotto gli occhi dei soldati. Mutato quel che c'è da mutare - cioè il significato politico della guerra e dell'alleanza - il monopolio della visione e delle rappresentazioni, l'unità incontrastata dell'universo mentale rimangono il programma massimo degli interventisti, ancorché democratici, saliti ai vertici della moralità pubblica dell'esercito, come già lo erano stati per l'uomo d'ordine Cadorna. Ecco un esempio dell'aprilemaggio in cui il tenente Lombardo Radice - niente, nella gerarchia militare, ma pedagogo di Stato finalmente 495

restituito ai grandi compiti normativi di codificatore della realtà più consoni alle ambizioni dell'intellettuale comunica agli uffici superiori una certa «recrudescenza del pacifismo»; e, non pago della diagnosi psico- sociopolitica, ne addita anche la possibile terapia. "Dalla censura di una Divisione risulterebbe alquanto abbassato il morale delle truppe, a causa di qualche accenno a discussioni di pace, avvenute sui giornali. In queste notizie delicatissime occorrerebbe che i giornali o non si trattenessero affatto o lo facessero coi riguardi dovuti e, dove occorre, imposti autorevolmente" (5). La censura, dunque: normale, inevitabile strumento di guerra, quindi realistico riferirvisi e farvi conto, pretendendo che funzioni; e però anche imbarazzante sentirla reclamare - ancora più cruda e pervasiva - proprio dagli uomini intenti a restituire alla guerra motivazioni ideali, riportandola dal piano della forza bruta a quello della giustizia della propria causa e dei valori. D'altra parte, gli uomini della cultura sono riemersi precisamente a patto di non sottilizzare sulle differenze fra cultura e propaganda; di praticare - in nome della legittimità dei fini patriottici di cui sono compartecipi e militanti - tutte le possibili tecniche nella organizzazione di una disciplina garantita adesso da qualche maggior quota di adesione e di consenso. Se la santità dei fini esige il sequestro delle notizie e la pianificazione autoritaria di ciò che è lecito sapere, questi intellettuali organici alla patria in armi si dimostrano pronti a pagare lo scotto. Naturalmente, è corretto riconoscere che questi «commissari politici» - come amava autorappresentarsi e ricordarli uno di loro, Jahier - credono alla sostanza di ciò che considerano loro dovere militare e civico far credere anche al grosso delle truppe. Tuttavia, questo avviene con assunti totalizzanti di occupazione di tutti gli spazi della visione e dell'informazione, sulle linee e dietro le linee, che non mancano di aspetti sinistri. 496

"Non dovrebbero mai comparire sui giornali di nessuna specie dei passi in bianco censurati; i passi censurati dovrebbero essere sostituiti da altro materiale innocuo. Un giornale ha sempre materiale vario di cronaca, ritagli da altri giornali ecc. Gli spazi bianchi fanno lavorare troppo le fantasie degli inesperti; un giornale che non si rassegnasse a riempire con materiale di ripiego i pezzi censurati dovrebbe essere soppresso dalla circolazione per quella giornata. Senza questo ripiego, la censura, anche fatta bene, porta un nocumento" (6). Anche Salvemini è fra gli ispiratori del servizio P, cioè tra i formatori dei formatori, e aggiunge al suo sapere di storiografo qualche più produttivo sapere in quanto teorico e animatore dei piccoli gruppi: è fra coloro che più persuasivamente incitano a superare la dimensione oratoria del discorso pubblico e a passare - in questa nuova stagione della guerra in cui la testa e il cuore delle persone contano qualcosa - a un lavoro discreto "sull'uomò, fatto di conversazioni alla mano, spontanee o apparentemente tali, a tema, in cui confidenzialmente, nella quotidianità della vita di trincea, senza poco credibili "professori" venuti da fuori a montare in cattedra, un militare il più possibile "come loro" spieghi a un piccolo gruppo di soldati tutto quel che vogliono sapere o che è opportuno pensino: sulla guerra dell'Italia, i rapporti con i paesi alleati, gli avvenimenti di Russia, i «quattordici punti» di Wilson, la pace. Tutti interrogativi e problemi su cui - a parte i criteri generali di Lombardo Radice con cui Salvemini concorda - è facile partire per la tangente e prodursi in allocuzioni ideologiche destinate a passare sopra la testa dei soldati. Bisogna invece essere semplici, alla mano, parlare come loro, anzi "essere" loro: quando sia possibile, come è auspicabile, arrivare a reperire in un reparto non solo un tenente, ma un sergente, o addirittura un soldato acculturato, patriotticamente affidabile e disponibile a sviluppare, senza parere, qualcuno degli "spunti" discorsivi che può fornire il servizio P e di cui proprio Salvemini è fra i più entusiasti e 497

meticolosi autori. E del resto, non si tratterà solo e sempre di spezzare il pane della politica; può anche avvenire - e vi troviamo volonterosamente impegnato tra gli altri un Piero Calamandrei - che si tratti di persuadere le truppe non della bontà delle alleanze, ma delle qualità culinarie del riso, visto che i servizi fanno sapere che non gli si può sempre servire la ben più amata pastasciutta. - "I giornali per le truppe". "Si distribuivano i giornali politici, con servizi rapidissimi. E il fante aveva in linea il giornale nella stessa ora in cui la posta lo portava ai Comandi. Così si manteneva il contatto col Paese e si otteneva che la propaganda spicciola non fosse fatta per dovere a rime obbligate, ma divenisse il naturale commento delle notizie. Furono creati i "giornali di trincea", ricchissima letteratura di guerra alla quale collaboravano i soldati stessi, con scritti, con disegni, con caricature. Ogni armata aveva il suo, ma ce n'erano tanti, emanazione di enti minori; e tanti modestissimi fogli con tirature irrisorie, stampati a poligrafo, venivano redatti da piccolissimi reparti. I giornali di trincea educavano, divertivano, istruivano. E il fante aveva un vero gusto del giornale suo, fatto da lui, del quale conosceva spesso gli umili e simpatici redattori, e nel quale vedeva celebrato il suo reparto e rappresentata la sua vita d'eccezione con amabile umorismo" (7). A questa eruzione di entusiasmo con cui, subito dopo la guerra, uno degli iniziatori (presso il quinto corpo d'armata) e poi dei protagonisti del servizio P ne ripercorre i caratteri e i pregi, va sicuramente fatta un pò"di tara. Lombardo Radice vi appare ancora innamorato, un padre compiaciuto di quella che considera anche una sua creatura, e tende a mescolare e confondere essere e dover essere. Quei "giornali politici" che circolano tempestivamente in linea disegnano un fronte più libero e acculturato di quanto non fosse, fra l'altro prescindono dal dire che molti quotidiani di 498

informazione chiudono o vengono fatti chiudere, almeno nelle prime settimane dopo Caporetto, per non dire dell'«Avanti!», proibito a questo punto in circa la metà delle province. Tutta quella ricchezza di informazione e di partecipazione va dunque realisticamente riportata a un monopolio e a un dirigismo che si accentuano e non al loro contrario. Così pure, se è vero che non mancano casi di microgiornalismo realmente di trincea, non par dubbio che il quadro generale sia meno fervido e meno pullulante di iniziative autonome e dal basso, caratterizzato invece dallo spirito di intrapresa e dalle più o meno felici sinergie fra comandi e ufficiali addetti alla propaganda. Le varianti che si determinano nei singoli corpi, in base a come la catena gerarchica interpreta queste nuove attribuzioni del comando e alla possibilità e capacità di identificare dei validi ufficiali P, mettendo l'uomo giusto al posto giusto, comportano diversità non lievi, di visione e di stile, sia pure all'interno di un universo forzosamente uniformato dalle circostanze. «L'Astico», rispetto ad altri confratelli, appare democratico, populista, riformista e wilsoniano, cosa che si potrebbe dire anche della «Giberna», che tuttavia nasce al di fuori del servizio P, è un foglio apertamente politico elaborato in ambienti cittadini interessati a coltivare un'accezione riformista della guerra, mediando fra patria e socialismo ed enfatizzando per esempio con giubilo il discorso di Turati alla Camera. Anche «Guerra alla guerra» ha la sua direzione a Roma e orienta le sue decine di migliaia di copie di piccolo «Giornale settimanale per l'istruzione e la difesa della povera gente», al prezzo di un centesimo, verso il pubblico delle leghe e dei circoli, ovunque vi siano lavoratori da rieducare patriotticamente, con la parola d'ordine della resistenza al «militarismo prussiano» in questa ardua, ma necessaria «ultima guerra». «La Giberna» e «Guerra alla guerra» pertengono per così dire all'indotto del servizio P e insieme al clima di mobilitazione generale delle coscienze e degli sforzi che, rotte le separatezze, procede ormai nei due sensi, fra paese e fronte. Se vogliamo cogliere le differenze restando 499

all'interno della macchina propagandistica messa in movimento dai e per i militari, allora il confronto va fatto fra il settimanale della prima armata, che è appunto «L'Astico», e quello della terza, il più noto di tutti, «La Tradotta», oppure con quello della quarta, «La Ghirba». Non è solo un problema di accentuazioni politiche, in cui si riverberano, seppur attutite dalle circostanze ed evitando espresse polemiche, le varianti interne al fronte interventista; è anche un problema di formule giornalistiche. Non a caso, dietro la fattura professionale della «Tradotta» stanno gli uomini del «Corriere della Sera», della «Domenica del Corriere» e del «Corriere dei piccoli»; dietro «L'Astico», molto più scritto e raziocinante, stanno uno scrittore, un filosofo e uno storico; e dietro la così ben disegnata e gradevole «Ghirba», fra gli altri, un pittore-scrittore come Soffici. A livello non di armata, ma di corpi intermedi e con diffusione meno estesa, organi come «La Marmitta», «Il Grappa» o il graficamente assai bello «San Marco», trimensile a otto pagine dell'ottavo corpo d'armata disegnato da un illustratore come Filiberto Mateldi, mettono l'accento sulla grandezza d'Italia, accompagnano e stimolano la spinta espansionista e vanno inquadrati in un contesto più sensibile a parole d'ordine nazionaliste e di via via crescente «sacro egoismo». Tant'è che «Il Grappa», con il nome che ha, idealmente collegato a una guerra di resistenza e di difesa, non troverà contraddittorio modificare alla fine la propria testata, ridenominandosi come niente fosse «Il Grappa in Albania». Forse nessuno fra i cosiddetti «giornali di trincea» - più spesso, dunque, "per" le trincee ed elaborati nelle retrovie, da cabine di regia e luoghi di direzione - restituisce più dell'«Astico» il senso di una comunità intellettuale, fitta anche di relazioni umane e di lavoro precedenti, trasferita alla guerra. E ciò ad onta che il suo "factotum" Jahier - il quale vi riporta l'animo e l'ideologia populista del suo già ricordato diario del 1916, "Con me e con gli alpini" - non nasconda l'intento e non risparmi gli sforzi per coinvolgere e mettere in pagina come attori e autori del «Giornale delle 500

trincee» della prima armata i soldati veri, il suo beneamato popolo- contadino in grigioverde. In realtà - oltre allo stesso Jahier, che come "barba Piero" o senza firma redige interventi multipli per ognuno dei 39 numeri del settimanale usciti dalla tipografia di Piovene fra il 14 febbraio e il 10 novembre 1918 - altri esponenti della cultura nazionale impegnata al fronte ne occupano le pagine, con le idee o di persona: Lombardo Radice, che tiene una sia pur saltuaria rubrica come "il filosofo grigioferro"; Emilio Cecchi, più episodicamente, per "ricordare gli assenti", facendo rientrare così in scena anche uno scomparso, Serra; e Salvemini, che potremmo considerare il referente politico dell'«Astico» per quanto attiene agli orizzonti generali, cui Jahier aggiunge il repertorio della sua etica ruralista e del suo rigorismo applicati alla quotidianità della vita militare. C'è un pezzo, nel n. 13 del 9 maggio, che citeremo ora per esteso, poiché rappresenta un concentrato di molte delle cose che veniamo dicendo. Cominciamo da quell'aria di famiglia, quasi una sorta di compagnia di giro degli intellettuali delle riviste primonovecentesche che calchi ora le scene sul palcoscenico della guerra, porgendosi vicendevolmente la battuta e guadagnandosi un pubblico e un successo assolutamente insperati ai tempi risentitamente elitari della «Voce» o dell'«Unità». "Un vero amico del popolo è venuto quassù a parlare ai soldati. Ha parlato ai fanti, agli alpini, ai bersaglieri, ascoltato dappertutto con attenzione amorosa. Parlava alla buona, col calore semplice della convinzione, come un buon compagno più esperto a guidare. E difatti, era un buon compagno, un vecchio amico del popolo italiano - GAETANO SALVEMINI. In pace aiutava il popolo a combattere per la giustizia sociale - e tanti soldati, contadini in uniforme - l'àn riconosciuto e lo fermavano per stringergli la mano. 501

In guerra ha continuato a aiutarlo, scendendo con lui in trincea a combattere per la giustizia tra i popoli, che è poi il fondamento della giustizia sociale. E" per questo che se anche molti non sapevano che parlava un sapiente: il professor Salvemini che onora la scienza italiana, tutti àn capito che parlava un amico vero, di quelli che amano a fatti e non a parole" (8). C'è persino, come si vede, un accenno pudico a quando Salvemini era socialista. E un socialismo non dichiarato, di reduci e transfughi dal partito, dimostratisi pienamente compatibili con la patria in armi, rappresenta in effetti dall'«Astico» alla «Giberna» - uno dei rivoli che alimentano la "koine" di questo giornalismo di guerra, impegnato a mettere a frutto, nell'ora del pericolo, tutti i possibili tramiti comunicativi per raggiungere efficacemente il suo destinatario auspicato. L'articolo - "excusatio non petita" - passa poi a giustificare il fatto che Salvemini sia venuto a fare un discorso, apparentemente di propaganda e di vecchio stampo, proprio lui che, come sanno Jahier, Lombardo Radice e ovviamente l'interessato, è fra coloro che teorizzano il superamento di queste forme troppo esplicite e scoperte, giudicate non redditizie. Si veda come l'estensore di questo servizio di cronaca fortemente ideologizzata (che è lo stesso direttore) gioca di sponda affettando naturalezza dove tutto è invece preordinato, affidato al calcolo degli effetti e a "spuntì che, in tempi successivi, si chiameranno più crudamente "veliné. "Per cominciare ci ha portato UNA SORPRESA questo amico. Non è venuto a propagandare; a pregar i soldati di fare il loro dovere. Tra le tante disgrazie di Caporetto c'è stata anche quella dei borghesi che fanno il loro comodo e vengono a predicare il dovere ai soldati. Salvemini, invece, è venuto a ringraziare il popolo in uniforme che subito dopo la "disgrazià si è ripreso e tien 502

duro alle frontiere. Che ha fatto come quand'era contadino e il campo gli prendeva la grandine proprio al momento del raccolto buono; non ci piangeva sopra, ma da uomo che sa che oggi dice male e domani bene, riattaccava subito a lavorare. E dopo aver ringraziato - cuore a cuore - e aver promesso che riporterà nella patria borghese come ci ha trovato franchi e fedeli, ci ha portato una NOTIZIA BUONA. Anche per chi resiste bene ci sono i momenti di sfiducia in questa guerra di così lunga passione. E' naturale. E in quei momenti ci si domanda: ma ce la faremo? Quei manigoldi di MUK àn le ossa così dure! Eravamo così vicini al raccolto buono! E invece ecco la Russia a mancarci di fede! Lo sappiamo che ora è disperata, ma intanto ci tocca a ricominciare. Il sangue del soldato avrà la sua ricompensa? Ce la faremo?" Come si vede, un concentrato sapiente di messaggi dichiarati e latenti, perfettamente consapevole della difficoltà preliminare di dover superare la barriera del pregiudizio avverso tutto ciò che arieggi a propaganda e solo poi misurarsi sui contenuti. E allora ecco come l'accoppiata Salvemini- Jahier ritiene di poter far breccia fra le difese di lontananza ed estraneità del fante: "Ebbene: ecco la NOTIZIA BUONA che Salvemini ci ha portato: CORAGGIO, PERCHE" CE LA FAREMO. E questa notizia ce l'ha ragionata sui fatti, da uomo che conosce la storia dei popoli e li sa misurare. Si approssima la fine della guerra mondiale. Da tanti segni si vede. E' verso la fine che si è più stanchi. E infatti, mai i popoli sono stati stanchi come ora. [...] Ma chi è più vicino al traguardo? Possiamo rispondere con sicurezza che siamo noi, popoli liberi dell'Intesa. Guardiamo le prove. Ma prima confessiamo il passato. Perché non ce l'abbiamo fatta finora? Perché abbiamo sbagliato. Quando l'Austria e la Germania scatenarono la guerra, credevamo di vincere 503

perché avevamo più uomini... Non pensavamo che avere più uomini è nulla se non si possono armare... Confessiamo di avere sbagliato... Ora il capo della battaglia è uno solo e ha in mano lui i soldati di tutte le nazioni e li manovra d'urgenza dove bisogna. Ora non combattiamo più, uomini soli che si aggrappano ai reticolati, come quel primo anno terribile sul Carso, ma abbiamo mitraglie e cannoni e celi prestiamo... A dimostrare poi perché ce la faremo basta guardare quel che succede nella battaglia di Francia. Quantunque manchi la Russia, la Francia e l'Inghilterra li fermano, li contrattaccano, li fanno indietreggiare. [...] E" un'altalena di avanzate e di ritirate in cui perderà chi avrà meno riserve di uomini alla fine. Ora per questo la Germania sta peggio di noi, non solo perché ha già perso 4 milioni di uomini ...; ma perché la Germania non può sperar in nessun nuovo aiuto né di uomini né di armi né di denari; quello che fa in questo momento è il massimo che possa fare. Noi invece la nostra condizione migliora e migliorerà sempre. La buona causa ci fa sempre nuovi amici. E' partita la Russia e arriva l'America, coi suoi 100 milioni di uomini; colle sue leve che rendono ciascuna un milione di soldati freschi e nuovi. ECCO LA NOTIZIA BUONA: CE LA FAREMO. Le riserve stanno per noi e sono le riserve che vinceranno la guerra" (9). - "L'ideologizzazione della guerra". Giornale d'autore, «L'Astico» può a buon diritto classificarsi fra le opere di Jahier, poiché vive della mediazione fra una coscienza e uno stile riconoscibili e un repertorio partecipato di convinzioni ideologiche generali sul senso della guerra che - superando sia la guerra di rassegnazione che il «sacro egoismo» - ingloba il "noì italiano e la guerra per Trento e Trieste nella responsabilità di un più vasto "noì europeo dei popoli dell'Intesa. Lo stesso Lombardo Radice 504

qui coesiste con Salvemini e con i «quattordici punti» e le ideologie wilsoniane. Il "pot-pourri" del servizio di propaganda può nel contempo vederlo attivo in altre combinazioni, poiché il ritorno degli intellettuali nel 1918 senza restaurare il multipolare fronte interventista del 1915 - restituisce comunque modulazioni diverse dei motivi e dei fini di guerra. Molto dipende dai redattori dei singoli fogli, molto dal destinatario che essi si assegnano nell'ambito dei reparti. «L'Astico» ha la mistica della evangelizzazione del popolo, in un mutuo alimentarsi valoriale fra educatori ed educandi. Se invece dei giornali per il popolo al fronte o nelle retrovie prendiamo in considerazione quelli di e per ufficiali di complemento - cioè le autoriflessioni generazionali della classe dirigente al fronte - possiamo trovarci di fronte a pubblicazioni severe e raziocinanti, assai simili a vere e proprie riviste di cultura che ragionino sulla condizione umana a partire dal presente di guerra. Si pensi specialmente a «Volontà» e a «Fatti e commenti». E' in quest'ultima - l'organo dell'ottava armata di Caviglia - che agisce un duo intellettuale Volpe- Lombardo Radice, nel quale la coesistenza del pedagogista ex socialista con lo storico liberalconservatore, poi nazional- fascista, produce esiti diversi (10) da quelli poco sopra esemplificati del duo Lombardo Radice- Salvemini. E si veda se le considerazioni "Al margine della guerra" apparse su «Fatti e commenti» del maggio 1918 non suonino a contraltare rispetto al parallelo articolo dell'«Astico». "Si mettono in luce gli scopi di "civiltà" e "giustizia" della presente guerra. E sta bene. Ma non dimenticar di dare un contenuto concreto a queste nobili parole. "Nazioni e Stati lottano per assicurarsi condizioni migliori di esistenza e di sviluppo". Questo è il loro ideale, realizzando il quale, servono la civiltà e la giustizia, beni universali. Noi arriviamo al mondo attraverso le varie circoscritte patrie. Il punto d'appoggio per la nostra azione è qui. Così pensano e praticano Inglesi, Francesi, tutti, anche se ora sembra 505

veder le varie patrie che combattono l'una a fianco dell'altra come annullate entro una patria grande ed unica". E" la negazione della guerra ideologica dell'Intesa, l'implicito declassamento a semplice additivo emozionale di quanto altrove si va dicendo sull'argomento. Par di rileggere i fermi "distinguo" di Croce nelle sue "Pagine sulla guerra", avverso l'ideologizzazione del conflitto. All'egemonia dell'idealismo rimanda anche «Volontà», in particolare al doverismo e agli spiriti militanti di Gentile: Luigi Russo, che è fra i collaboratori, vi legge un'anticipazione dell'azionismo, come anche Leo Valiani; e Lussu, che ha in generale scarsa stima dei giornali di propaganda e nega che abbiano potuto esercitare anche «una minima influenza», giudica che quello animato da Vincenzo Torraca sia stato comunque il migliore (11). Ne stralciamo un saggio, alla data del 20 novembre 1918, poiché diversi di questi organi di educazione nazionale affermano la propria natura e il proprio ruolo non effimero continuando a uscire per un certo periodo anche dopo la fine delle ostilità. Non si tratta solo della smobilitazione che per molti tarda a venire, ma dell'esigenza di continuare a muoversi nell'"acqua" di queste grandi masse sradicate dai loro luoghi abituali di vita e, per il bene e per il male, esposte a grandi smottamenti di opinione che vanno ispirati e tenuti sotto controllo. La faceta e affabulatrice «Tradotta» della terza armata non ha ancora chiuso i conti con il nemico militare che già li ha aperti con il nemico politico: il bolscevismo. Jahier chiude l'11 novembre del 1918 il trentanovesimo numero del «Giornale delle trincee» e il 31 luglio del 1919 gli assicura già un prolungamento in tempo di pace con il primo degli undici numeri del quindicinale «Il Nuovo contadino. Giornale del popolo agricoltore». E l'editore è «La Voce», restituita alla pace con l'ansia di non perdere i più vasti contatti e compiti sociali guadagnati sul campo dai suoi redattori. Lombardo Radice, accanto a Prezzolini, appare il più programmatico nella dichiarazione di intenti che fa dell'anno di Caporetto e Vittorio Veneto un 506

nuovo "anno dei portenti", quello della rifondazione dei legami fra borghesia e popolo e fra società e Stato. Di conseguenza, chiama la sua nuova rivista «L'Educazione nazionale». Anche «Volontà», più che chiudere la guerra, istituisce una continuità fra guerra e pace, riconnette i due tempi e i due mondi: aspira insomma a proseguire, con modalità diverse, l'azione controcorrente già svolta rispetto ai dottrinari della separazione fra esercito e paese. Questa sorta di spirito costituente si dà espressamente un titolo che suona parola d'ordine e direzione di marcia: "Verso il risorgimento". "Ci avviamo oggi al nostro vero risorgimento nazionale. Il siciliano, il sardo, il friulano hanno per la prima volta combattuto con la stessa anima, con lo stesso scopo; difesa la terra del proprio compagno, la casa e l'onore di lui, come la propria terra, la propria casa, il proprio onore; condiviso con i fratelli strappati all'invasione nemica la commozione, le lagrime, il pane. Tanta generosità di sentimenti non deve andare perduta; se non sapremo fare di essa, oggi, la base per la edificazione dell'Italia, non risorgeremo mai più. Potenziare il comune sentimento di una comune coscienza che sia storia, ideale, fede - eternare e perfezionare, così, in una unione più alta la fusione di questi giorni; è il compito dell'Italia dirigente, sorta dalla guerra" (12). La linea evolutiva sostenuta da «Volontà» è ben lungi dall'esaurire gli orizzonti mentali di chi scrive e legge fogli che la fine dei combattimenti indirizza ormai apertamente verso le contese politiche, interne ed esterne, del dopoguerra. Siamo già nel 1919 quando un «Bollettino del soldato», stampato da una tipografia della capitale della politica "adriaticà quale è la Venezia irredentista e dannunziana di Piero Foscari, Giuseppe Volpi e Giovanni Giuriati, affronta numero per numero il problema dei "Confini d'Italia" spingendoli sino a Cattaro nel primo numero e all'Alto Adige nel secondo. Come si può scorgere, 507

anche i richiami a giustizia e libertà assumono ormai coloriture prettamente imperialiste: "L'Adriatico è troppo piccolo per poter consentire a popolazioni armate di razza diversa di vivere in pace. Una sola potenza deve averne il controllo, e l'Italia ha dato prove bastevoli, perché si possa e debba ritenere che controllo italiano è sinonimo di libertà e giustizia" (13). - "Gli stereotipi della guerra". Non si poteva volare così alto, nei cieli dell'ideologia e della politica, senza violare le tecniche della comunicazione di cui proprio alcuni dei personaggi citati si fanno precettori. La deriva politicistica spinge poi istintivamente gli intellettuali, o per lo meno i professori, a dimenticarsi il colloquio coi fanti e a restringerlo tendenzialmente a quello con il pubblico affine degli ufficiali: come quando, in tempo di pace, comunicavano o discutevano di idee nella loro aula o, tutt'al più, nelle loro riviste per pochi. Il "popolo" e il soldato semplice - l'operaio-massa della fabbrica della guerra - stenta a rimanere destinatario, tende a diventare oggetto o tutt'al più referente, e anche, il più spesso, sottratto alla sfera del moderno e ricondotto ai valori tradizionali. Naturalmente, si può errare per eccesso, ma anche per difetto di idee; perché si ideologizza o perché si deideologizza; perché si fa troppa politica o perché se ne fa - o si mostra di farne - poca o niente del tutto. Benché permanga alla fine irrisolto il problema della ricezione, cioè di come e quanto ciò che viene comunicato raggiunga in effetti un qualche pubblico, sembra naturale ritenere che i più seri ed esigenti fra i giovani ufficiali di complemento tolti dalla guerra alle professioni, all'università e alle scuole, trovino finalmente alimento cerebrale e possibilità di rispecchiamento in una minoranza di «giornali di trincea» più seri, motivati e difficili, cioè in quelle mezze riviste di e da "professori", che li restituiscono in qualche modo a se stessi: sbagliatissime, invece, per un pubblico 508

largo, non da piccolo gruppo e tanto meno da cenacolo intellettuale. Chi può parlare - ammesso che qualcuno ci possa riuscire -, chi ha qualche cosa da comunicare e, soprattutto, conosce i mezzi per farlo, se l'ambizione non è quella di scrivere per quelli che già per loro conto leggono libri e giornali, ma per chi non li ha mai frequentati, o solo alle scuole elementari o nella forma del libro da messa? Posta in maniera così estrema, la risposta potrebbe anche essere, semplicemente: in quelle circostanze, nessuno. E la questione chiudersi qui. Bisogna invece sfumare e articolare maggiormente la situazione: un certo grado di alfabetizzazione alla cultura scritta anche nel mondo della cultura orale si era comunque affermato, nei decenni che precedono la guerra, sia tramite la scuola, sia grazie alla religione, alla politica e persino alla letteratura. C'è stata una letteratura da muricciolo. I manuali tecnici della casa editrice Hoepli, le conferenze delle università popolari, gli opuscoli della Società umanitaria e di altre consimili iniziative di diffusione della cultura presso i ceti popolari, quanto meno urbani, agiscono da anni o da decenni. Ed esistono ormai, localmente ben radicati, un giornalismo popolare cattolico e un giornalismo popolare socialista, che hanno pur dato origine a bisogni e abitudini di lettura anche fra gli illetterati dei piccoli centri e persino della campagna. In tempo di guerra, essi sono costretti alla mimetizzazione o, quelli di sinistra, al silenzio e comunque sottoposti a censura; ma proprio sulle premesse poste da questa ramificatissima rete di microgiornalismo popolare di dimensione locale o tutt'al più provinciale o diocesana, e sfruttandone la crisi di autonomia, può impiantarsi, con qualche probabilità di non parlare al muro, il giornalismo popolare di Stato del 1918. Esso deve capitalizzare e volgere ai propri fini gli usi espressivi, i personaggi e le trame narrative di tutte le forme di comunicazione - scritta, teatrale e anche orale - di cui la massa dei soldati semplici può avere qualche esperienza. Alla luce di ciò, fra i redattori dei giornali di trincea dovremmo trovare preti e socialisti. In generale però non 509

troviamo preti - anche se esistono organi specifici, come «Il Prete al campo» o lo «Svegliarino mensile per i chierici padovani soldati» del Seminario di Padova (14) - perché il clima del nuovo Comando supremo non è più quello clericaleggiante di Cadorna e perché il contributo dei religiosi agisce in parallelo, ma continua a concentrarsi altrove. Troviamo invece (però più nei servizi di retrovia che al fronte) i socialisti compatibili con la guerra; e soprattutto gli uomini di mediazione e di raccordo, per storia politica personale o per mestiere, per lo più pubblicisti e disegnatori. Non sembra dunque un caso se il "migliorè nel senso del più comunicativo ed efficace - fra tutti i giornali di trincea sia apparso «La Tradotta», espressione e investimento al fronte di una grande azienda giornalistica, quella del «Corriere della Sera», che mette in campo però in questo caso i pezzi forti della «Domenica del Corriere» e del «Corriere dei piccoli». Se infatti, più che indottrinare il fante, occorre divertirlo, le figure valgono meglio delle parole; le favole, le barzellette e i pupazzi più della cronaca; e un mondo colorato a forti tinte - come nelle accattivanti tavole illustrate di Rubino - è ancor più efficace delle ballate popolari in versi reinventate da Simoni. In sintesi: se far propaganda comporta alleggerire i problemi, scendere di tono, non temere di apparire elementari, funzionano di più i fogli scritti alla buona dai giornalisti che quelli più severi e pensati dei professori; e meglio ancora i fogli illustrati dai disegnatori che quelli scritti dai giornalisti. A questo punto, che «La Tradotta» sia, come uomini e taglio, figlia del settimanale di intrattenimento per la famiglia dei ceti medio- inferiori e del settimanale borghese per l'infanzia rappresenta un esito naturale, la messa a frutto dei talenti e delle pratiche comunicative disponibili. La borghesia italiana, il mondo moderato, la patria liberale non potrebbero spingersi oltre nello sforzo per raffigurarsi il pubblico popolare in divisa e colloquiare con lui. Naturalmente, questo ha come causa ed effetto l'infantilizzazione del popolo, l'esclusione del dramma, la mimetizzazione del sangue e della morte: proprio come 510

avviene nel cinema coevo, per spinta concomitante della censura e dei calcoli commerciali sui desideri del pubblico. Far divertire - letteralmente - il pubblico dalle fatiche e dalle angosce della sua vita quotidiana a rischio, significa riesumare la goliardia di caserma, non risparmiare i doppi sensi lubrichi, popolare le pagine di figurette femminili più o meno allusive - ma volta a volta con l'allusione grassoccia e volgarotta di un umorismo plebeo ovvero con l'elegantissima grafica liberty delle ragazze di Trieste e in genere delle "silhouettes" femminili di Brunelleschi. Una maniera giornalistica ritornante sino all'affatturazione è, in numerosi fogli, la lettera femminile o viceversa la lettera del militare alla donna: la quale - a seconda delle scelte giornalistiche e di stile - può essere l'innamorata, la moglie, la madre, la madrina, dando luogo a variazioni di atteggiamento fra l'alto e il basso, in cui tocca più spesso al basso rappresentare la nota popolare e una supposta antiretorica, che può anche finire per essere la retorica dell'erotismo e del corporale. D'altra parte, va anche detto che - a quasi tre anni dall'inizio dello stato di coazione nell'universo militare - può risultare alla fin fine liberante, seppur ripetitivo e vagamente postribolare, dare un pò"corda in tante rubriche fisse di micropersonaggi popolareschi e semidialettali all'ossessione dei sessi divisi. Questa nota bassa e "rabelaisianà si alterna o si mescola, d'altronde, in diversi giornali o anche in pagine diverse dello stesso giornale, alla nota alta, al registro doverista e austero dell'ideale e del sublime. Molto più arduo parrebbe - individuare anche per il grosso dell'esercito quella nota media e colloquiale, che sembra sussistere nei casi più riusciti di giornali per gli ufficiali. E infatti, è proprio questo - la mediazione culturale, il colloquio fra le classi - il terreno nuovo e in buona parte sperimentale proposto dalla situazione di guerra e acuito dal dopo Caporetto. Prima il fante lo si ignorava; adesso si è capito che bisogna parlargli, ma che cosa dirgli e soprattutto come dirglielo? La riduzione della patria a casa, donna e campo, a un sentimento di identificazione proprietaria, 511

semiprivato, e di protezione allargata dei beni e della "roba", è ancora il meglio che si sappia fare: se e quando si vuole, in qualche modo, non rifuggire in maniera totale da un qualche quadro generale e concettualizzazione della situazione politico- militare. In questi casi, tocca naturalmente al nemico -indifferentemente austriaco o tedesco, bosniaco o croato - fare la parte di chi viola e rapina le cose e le donne d'altri. Molti giornaletti, o molte pagine anche dei fogli meno disimpegnati, si accontentano di ancora meno, restano al di qua della politica anche in quel senso minimale che riconduce la patria del soldato al fosso di divisione e alla siepe del suo campo. Badano cioè a metterla in ridere, a far gruppo e preservare lo spirito di corpo dentro orizzonti d'arma o di reparto, ristretti e riconoscibili. E non è detto che questa scelta, politicamente rinunciataria, si riveli nei fatti la meno efficace o la più semplicistica. * LE TERRE INVASE. Che cosa avviene nelle terre occupate di là dal Piave, dopo Caporetto, nell'anno che separa la rotta e l'imminente sconfitta dalla vittoria? In Friuli e nella metà del Veneto invasi si riversano ben 800 mila militari - di tutti i popoli, lingue e religioni dell'Impero - nelle vesti di vincitori militari e di avidi, affamatissimi predatori di un ricco e insperato territorio da spogliare. Circa altrettanti civili - donne, anziani, bambini, una buona parte della popolazione rurale - sopravvivono fra i pericoli e nella promiscua precarietà di una zona d'occupazione che rimane o è destinata a ridiventare zona di combattimenti; altri 600 mila circa - la gran parte della popolazione urbana - si sono invece ritirati frammisti all'esercito italiano in rotta. I profughi a lunga distanza sono questi delle città e cittadine occupate o come Treviso e la stessa Venezia - a rischio di occupazione e i loro diversi destini nei vari luoghi di rifugio della penisola 512

costituiscono un problema nel problema (15); ma vanno profughi, sono costretti dalle operazioni militari a forme di migrazione interna alla spicciolata, a lasciare casa e paese e a trovare precario rifugio altrove, anche molti di coloro che pure rimangono al di là del Piave. Un mondo in frantumi. - "Le memorie e la storia". Le variatissime sorti di questo milione e mezzo di civili del NordEst investiti direttamente dalla guerra e che vivono un pezzo della loro vita frammischiati agli uomini e alle cannonate di due eserciti che si contendono letteralmente i loro campi e le loro fattorie, e grano, vino, bovini e pollame, sinché ne rimangono: è questo uno dei grandi temi sostanzialmente rimossi dalla memoria e dalla storiografia nazionale, il che naturalmente non significa precluso "in loco" all'affabulazione e a un dolente, rancoroso affollarsi di memorie divise (16). Per i più direttamente interessati - più ancora e più durevolmente che nel caso di Caporetto - si può dire che l'immaginario e il virtuale si siano sovrapposti e mescolati a ciò che è veramente accaduto, al di là di quel nuovo confine, dopo l'inversione strategica della guerra, tanto da scoraggiare o ritardare il passaggio dalla memoria alla storiografia. La situazione ha cominciato a cambiare di recente, sull'onda della nuova attenzione della storia sociale per la vita quotidiana dei più. Si è intrapresa l'opera di ricupero e di riordino del vasto materiale pressoché sommerso di testimonianze consegnate alle tipografie locali degli anni venti, trenta e seguenti, o rimaste inedite, spingendosi sino a raccogliere le ultime fonti orali. Ne sono uscite opere specialmente attratte dalla dimensione umana della sofferenza di quei poveri uomini - e ancor più donne, anziani e bambini - travolti da una bufera più grande di loro e vissuta sostanzialmente come qualcosa di estraneo: volumi ricchi di aneddotica e ispirati dall'umana pietà per i mali della gente, e in particolare di un'umile gente contadina 513

presa in mezzo alle lotte dei potenti (17). Restituire la parola ai diretti testimoni non costituisce del resto solo un'opzione di metodo, ma almeno in parte uno stato di necessità per la dispersione che ha investito le carte dei comuni, travolti e sdoppiati - fra esuli e non - dalle peripezie di quell'anno d'eccezione. Proprio i comportamenti rispettivamente dei sindaci e dei parroci, dei prefetti e dei vescovi, saranno al centro di ripetuti contenziosi locali, che derivano i loro titoli di nobiltà dalla problematica dei rapporti fra Stato e Chiesa, anche se a volte coprono semplicemente gli scontri, amministrativi e non, fra micropotentati locali. Patrioti in esilio o impauriti fuggiaschi? Questo il dilemma identitario serpeggiante polemicamente "in loco" a proposito delle autorità civili che lasciano le terre invase. E viceversa, per il tessuto gerarchico e di base delle autorità ecclesiastiche, le quali invece rimangono: austriacanti e collaborazionisti o veri pastori del popolo, rivelati e confermati nell'ora del pericolo? Anche chi ha voluto andare oltre le testimonianze popolari e sondare maggiormente gli archivi pubblici si è trovato di fronte a gravi difficoltà oggettive di documentazione (18). Una fonte straordinaria, ancora in attesa di essere pienamente valorizzata, è ad esempio la relazione della Commissione reale di inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, istituita con decreto legge del 15 novembre 1918 e presieduta da un giurista dell'autorità di Ludovico Mortara. Lavorando con metodo e celerità, interrogando sindaci e parroci, militari e civili, la commissione mista di 15 membri produce e pubblica nel 1919 una relazione di ben sei volumi, oltre ai materiali preparatori conservati in archivio (19). E tuttavia non ci si può nascondere che anche su questa fonte così particolareggiata e fattuale pesano il contesto, le spinte affabulatorie e le convenienze pubbliche e private che le danno origine: non per niente l'iniziativa della commissione nacque a quanto risulta (20) per spinta iniziale di un addetto alla propaganda come Ojetti (21), venne immediatamente fatta propria dai vertici militari e 514

utilizzata dai politici e dai diplomatici che trattavano a Parigi per l'Italia sul pagamento dei danni di guerra. La posta in palio nel superamento di questo «vuoto storiografico» (22), ultima grande zona rimossa della storiografia sulla Grande Guerra, non è solo - e già non sarebbe poco - restituire piena visibilità, in chiave di storia sociale, alle campagne e città friulane e venete nell'anno dell'occupazione austroungarica; e cioè agli eventi materiali e mentali che travolgono gli 800 mila abitanti che rimangono (c'è un militare occupante per ogni civile occupato) e gli oltre 600 mila profughi dalle province invase e da quelle a rischio di esserlo (Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza). Si può infatti ipotizzare che ci si trovi in realtà di fronte a un nodo propriamente politico di rilevanza non locale, e che andrebbe affrontato in una con il ricupero delle afflizioni della gente: a un peculiare capitolo, cioè, di quella che si è chiamata l'opera di supplenza cattolica. Svincolata grazie alle circostanze dal patto clericomoderato con le istituzioni, una parte consistente della Chiesa locale sembra infatti propensa a giocare la carta dell'autonomia dallo Stato e di una restaurazione della sovranità territoriale di vescovi e parroci come unica classe dirigente di fatto, perché riconosciuta e accettata dal popolo, e in particolare da quel mondo contadino rispetto a cui lo Stato liberale ha sin qui stentato a porsi come referente alternativo alla Chiesa. Non più di mezzo secolo è trascorso da quando, nel 1866, si sono viste partire le armate che ora ritornano; qui la memoria dell'Austria non si è ancora spenta, né fa scattare per tutti i cittadini di queste terre di confine i luoghi comuni dello spirito risorgimentale. Per una parte dei territori, poi - cioè quelli "irredenti", due volte passati di mano in pochi mesi - i dualismi identitari e la contesa risultano ancora più aspri e immediati. Quando le truppe italiane lasciano Gorizia e quelle imperiali vi rientrano, il sentimento che si diffonde come documenta con particolare trasporto la stampa slovena (23) e filoaustriaca - non appare quello dell'occupazione e della conquista, ma quello della 515

liberazione, del ricongiungimento patriottico: simmetrico, si può dire, al tripudio per la liberazione di Gorizia vissuto solo un anno e mezzo prima da parte italiana. La mobilità dei confini e la ridislocazione delle forze si intrecciano con la riemergenza di altri mondi possibili e storie interrotte. Ora, i vescovi di questa zona in cui la sovranità dello Stato italiano è a rischio sono nati quasi tutti negli anni sessanta del secolo trascorso (24); appartengono a una generazione che si è formata in seminari in cui i rapporti con lo stato liberale erano lungi dall'apparire districati e risolti in maniera limpida; e i loro stessi itinerari ecclesiastici all'interno della gerarchia - mentre l'uomo di punta della Chiesa è il parroco di Riese, patriarca di Venezia e papa Giuseppe Sarto (Pio Decimo) - risentono dei processi generali in corso che, nel giro di appena qualche anno, capovolgono la strategia dell'"esercito cristiano" da clericointransigente a clerico-moderata. La cultura muta con tempi più lenti della politica, specie in parrocchia, dove arcipreti di lunghissimo corso attraversano i tempi e le generazioni, governando le anime e i corpi dei fedeli. L'antica «Riscossa» dei tre monsignori di Breganze, i terribili fratelli Scotton, mastini dell'ortodossia, si guarda bene dal chiudere semplicemente perché ai vertici ecclesiastici è prevalsa la linea clerico- moderata degli "integrati" - o piuttosto, nello spirito, degli "integratori" - su quella clerico-intransigente degli apocalittici. Ebbene, alla testa delle diocesi di Padova e di Treviso, da sempre di particolare rilievo nell'economia della fede e ora divenute, dopo Caporetto, un avamposto sul crinale di identità che vacillano e di opposte autorità, sono in quel momento due figure di vescovi di singolare energia e personalità, Luigi Pellizzo e Andrea Giacinto Longhin. Il friulano Pellizzo, nella cui famiglia si parla sloveno (25), si è presentato un decennio prima sfidando la cultura urbana e l'università del deprecato filosofo- simbolo Roberto Ardigò e ha poi, con grande spirito imprenditoriale, animato l'azione sociale nelle campagne dei suoi cappellani. Negli anni della guerra la maggioranza nell'amministrazione comunale di Padova 516

non è più quella laico- progressista che Pellizzo aveva trovato all'arrivo: anzi, scrivendo confidenzialmente al pontefice (26), il vescovo ritiene di poter accreditare «l'ottimo sindaco» come il «[suo] braccio forte». Questo missionario della riconquista cristiana, come lo rivelano le sue lettere, appare ossessionato dalla permeazione massonica nelle strutture della classe dirigente; e se, sin qui, ha combattuto la battaglia ideologica e sociale dell'"instaurare omnia in Christo" identificando nel palazzo del Bo (l'edificio centrale della secolare e allora unica università delle Venezie) il quartier generale di una società e di uno stato senza Dio (27), adesso, in qualità di vescovo della nuova capitale al fronte, guadagna come interlocutori addirittura il sovrano, Diaz, gli uomini del Comando supremo. Straordinario punto di osservazione, che fa della sua voce la più importante e rivelatrice fra tutte quelle dei vescovi Veneti e friulani di recente sottratte alla comprensibile riservatezza dell'archivio segreto del Vaticano. Il frate cappuccino che dal 1904 governa con pugno di ferro Treviso, la "diocesi del papa" - e che è un uomo di assoluta fiducia di Pio Decimo, con il quale intrattiene una pluriennale corrispondenza cui non sfugge alcun problema locale, per minuto e particolare che sia (28) - entra da protagonista in tutta la bibliografia del movimento cattolico e anche del sindacalismo bianco, da lui evocato, incoraggiato, seguito e stroncato, a seconda delle convenienze della Chiesa, fra anteguerra e dopoguerra (29). Fra Caporetto e Vittorio Veneto, le lettere di Longhin a Benedetto Quindicesimo sono anch'esse una fonte di grande interesse, per ragioni tuttavia opposte a quelle per cui lo sono quelle del suo confratello padovano. Infatti, nella città del Comando supremo, il capo della chiesa locale esercita e testimonia in segreto, nella sua fittissima attività di corrispondenza con Roma, una sorta di contropotere, fatto anzitutto di controinformazione, che coltiva e drammatizza la visione della caduta delle infrastrutture dello stato laico e idealizza per contro la tenuta - a fianco e 517

dentro il popolo in sofferenza o in fuga - sempre e solo delle infrastrutture della comunità cristiana. Nella quotidianità della sua vita di vescovo di frontiera il cui ruolo è esaltato dalle circostanze - allo stesso modo in cui nel corso di quest'anno chiave della storia nazionale esce dalla dimensione locale tutto ciò che avviene a Padova - Pellizzo invece media e diplomatizza il conflitto trattando e intercedendo ai più alti livelli della catena di comando. Intanto, a Treviso, il vescovo Longhin agisce in tutt'altro contesto, poiché quanto è piena e affollata di poteri, uffici, cittadini e visitatori importanti Padova, altrettanto Treviso è svuotata, anche materialmente svuotata della gran parte dei suoi abitanti. L'esodo di prefetto, sindaco e autorità civili abbandona perciò il capoluogo e in generale le cittadine e i paesi della Marca a un simulacro di contropotere ecclesiastico non solo rivendicato, ma in qualche modo anche esercitato. E' questo essere stati, proprio come Chiesa, l'unica superstite classe dirigente dei ceti popolari abbandonati a se stessi dal subitaneo allontanarsi delle autorità ufficiali il merito che l'ardente cappuccino e altri presuli e maggiorenti cattolici tenderanno più avanti a rivendicare, magari finendo, in epoca fascista, per colorare di patriottismo ciò che era nato pregno di antagonismo e di sensi di rivalsa rispetto allo Stato e alla patria della borghesia liberale. Del resto, la personalità del capo della diocesi risulta assolutamente centrale e la fonte su cui ci basiamo - le lettere dei vescovi al papa dell'«inutile strage» - lo mette in evidenza, così come chiarisce le differenze di visione e di accento. Non in tutti la supplenza della Chiesa rispetto allo Stato assume valenze di terzietà rispetto a Italia e Austria; e tanto meno, come nel vescovo di Padova, si colora oggettivamente di venature anche politicamente nostalgiche. C'è anche chi, come il vescovo di Udine, finisce per prendere, separandosi dal grosso del suo clero, la strada dell'esilio, che i liberali designano come quella dell'onore e i clericali come quella della fuga. E c'è soprattutto Rodolfi, il vescovo di Vicenza, il personaggio di 518

maggior statura, che appare il più franco nell'esprimere comportamenti né subalterni né reazionari, anzi all'altezza del nuovo ruolo dirigente di un mondo cattolico che ha ormai accettato di sentirsi parte integrante e preminente della nazione e dello Stato. C'è una sua fiera lettera del 30 maggio 1918, al presidente del Consiglio Orlando e al guardasigilli Sacchi, nella quale Rodolfi rivendica con piglio di capo di essere stato lui nel Vicentino l'ispiratore della resistenza civile nel maggio e giugno 1916, nei giorni della «spedizione punitiva», e poi di nuovo in quelli di Caporetto; e con lui e al suo comando, tutti i preti e i seminaristi della diocesi, non uno escluso, donde l'iniquità dei sospetti e delle attività persecutorie nei confronti di innumerevoli ecclesiastici, dettati - a giudizio del vescovo di Vicenza - dal pregiudizio anticlericale. In realtà, non mancano all'interno della diocesi vicentina i segni di come non tutti abbiano abbandonato le vecchie posizioni intransigenti: come la velenosa lettera contro Battisti e gli indebiti entusiasmi per la «guerra nazionale» diretta il 16 agosto 1916 alla Santa Sede da Adriano Navarotto, direttore defenestrato del vecchio quotidiano clerico- intransigente «Il Berico» (30), sostituito dal «Corriere vicentino» di Giuseppe De Mori, dalla cui penna conciliatrice uscirà anche, a suo tempo, la cronistoria di "Vicenza nella guerra 1915-1918" (31). Ma ecco il nucleo centrale della comunque strategicamente indicativa autorappresentazione patriottica del presule vicentino ai governanti: "Partirono molti della città. I signori del comitato di resistenza, che sono poi i medesimi delle denuncie, affissero un manifesto che diceva: «Donne, al nemico resistete voi!» e in buon numero presero arditamente il treno e furono prima essi al di là del Tevere, che il nemico alle sponde del Tagliamento; gli altri rimasti predicavano che bisognava scappare, che chi restava sarebbe stato da loro denunciato come austriacante. Sa anche il governo che chi persuase di star calmi, d'aver fiducia, di far coraggio ai soldati fu il clero. Eppure, dopo sei mesi, a 33 chilometri sotto Bassano, 519

il Tribunale di Bassano residente in Vicenza, fa la scoperta che in Bassano c'è Vigolo don Giuseppe, il quale di novembre ha espresso dubbi sulla resistenza, e lo condanna. Eccellenze, il popolo giudicò diversamente, e ha detto: "il giudice che è scappato ha condannato il prete che è restato!" Bassano è sotto il tiro del nemico: a migliaia vi sono cadute e vi cadono ancora le bombe: sono fuggiti tutti i giudici, procuratore del re, pretore, cancelliere, ufficiali di registro, di tasse, di poste e telegrafi, tutti i medici, tutti i professori, tutti i maestri. La città è un deserto e dentro quasi nessuno. Fuori vi sono ancora i contadini, malgrado vi piovano le granate; e coi contadini, i sacerdoti, tutti, non uno eccettuato; anche i vecchi e non uno che abbia chiesto trasloco. Coi sacerdoti a Bassano vi è don "Vigolo", il disfattista, lui con la sua vecchia madre. Dirò di più. Don "Vigolo" uscito di prigione, venne da me, e gli dissi: «E adesso?» - «Adesso, rispose, se non c'è altri comandi, torno al mio posto». - «Torna pure, soggiunsi; quello è il posto del dovere». E tornò ed è là tranquillo. Eccellenze, tornerebbero a Bassano il giudice ed il procuratore che lo hanno condannato?" (32). - "Occupanti, occupati e profughi". Non si contano, in effetti, i sindaci provvisori di nomina austriaca, o i capi di comitati civici provvisori accettati come interlocutori dagli occupanti, che sono sacerdoti, anzi il parroco locale. Nei piccoli paesi questa sembrerebbe essere stata pressoché la regola. Magari perché non c'è nessun altro disponibile. E perché non solo gli occupati, ma anche gli occupanti hanno bisogno di una figura di mediazione, che tutto li predispone a identificare in quelle figure seriali, riconosciute e radicate che sono localmente i parroci (33). Il contenzioso fra i due monconi di classe dirigente, con diversi titoli di legittimità, non attende neppure la fine della guerra per farsi esplicito: in particolare fra gli amministratori eletti, profughi, e quelli 520

nominati o ratificati dallo straniero al loro posto e nel caso migliore intenti - come racconterà uno di loro nel 1919 - in faticosi esercizi di doppiogioco giornaliero per «ammansire il nemico con la dolcezza e [...] addormentarlo con qualche iniezione di morfina, evitando eroismi intempestivi ed inconsulti» (34). Riandando a quei mesi di collaborazione più o meno controvoglia - cui sembrano attagliarsi le categorie attuali della "zona grigia" - uno degli amministratori di Udine tacciati di collaborazionismo (di professione filologo, abituato dunque all'analisi dei documenti) rintuzza che non era il momento degli eroismi e che la «quasi totalità dei famigerati "diarì rielaborati "patriotticamente" cioè retoricamente o accortamente poi [...] costituiscono un'insigne falsificazione» (35). Un paesaggio più vicino al vero può essere riconosciuto forse in quello dipinto in una lettera diretta dal Friuli a una delle zone di rifugio dei profughi e intercettata dalla censura, nel settembre 1918: "Fatte le debite e onorevoli eccezioni, la popolazione si compone ora di madri che si sono date allo strozzinaggio e battono indisturbate i paeselli del Friuli e della Carnia racimolando derrate, che portano in città a prezzi proibitivi; di mariti tornati in permesso dal campo o esonerati o per altra ragione liberi intenti a spogliare con loro comodo i quartieri dei regnicoli o dei fuggiaschi, di ragazzini dai dodici anni in su, non attendenti a nessun mestiere, lasciati in loro piena balia dai genitori, un esercito tutt'insieme di un tremila circa; e i rimanenti che, per ignavia o infingardaggine, non hanno professione dichiarata, fanno la spia, fatta eccezione pei ragazzacci che borseggiano i passanti. Domina sopra questo miseralume un'arroganza e un aperto, alto, generale infischiarsi di tutti e di tutto ciò che è civiltà, che è uno sgomento" (36). Pochi mesi dopo, nel gennaio 1919, il prefetto di Udine relaziona a Roma su com'è cambiata la popolazione, in toni più sobri, ma sostanzialmente non difformi, riferendosi in 521

diversa maniera sia a chi è rimasto, sia a chi è andato ramingo per la penisola. "Un anno di occupazione nemica ha rovesciato abitudini e sconvolto molti valori morali e molte abitudini nella popolazione rimasta; un anno di vita randagia dei profughi nel Regno ne ha modificato enormemente l'animo" (37). Quello che appare lacerato è proprio il tessuto comunitario tradizionale che ancora vagheggiano e di cui si pretendono garanti nelle loro lettere al papa i vescovi veneti. Non però Atanasio Rossi, quello di Udine, la prima capitale al fronte, giudicato nei primi due anni e mezzo di guerra «il prelato italiano a più vicino contatto con il mondo politico e militare» (38). Al termine di non poche esitazioni, costui si risolverà ad abbandonare la città e la diocesi, senza però che il suo gesto anomalo sia seguito dal grosso dei 642 sacerdoti delle 203 parrocchie, che passano perciò "pro tempore" sotto la guida di Longhin. Va rilevato che al vescovo Rossi - uno venuto da fuori, un milanese - questo abbandono del suo gregge non concilia simpatie, tanto più che egli passa per uno dei vescovi patriotticamente più affidabili per lo Stato e dunque meno idonei a interpretare, dal punto di vista della Chiesa, questo difficilissimo interregno. «La sua fuga dopo Caporetto fu da molti giudicata una diserzione», chiosa senz'altro l'editore delle sue lettere al pontefice (39). Le polemiche riprenderanno al suo ritorno nel dopoguerra e alla fine il Vaticano si risolverà a rimuoverlo; come del resto avviene, all'altro estremo della tipologia vescovile, con il Pellizzo, in circostanze e per motivazioni mai del tutto chiarite, che forse potrebbero non essere prive di agganci con gli atteggiamenti patriotticamente discutibili rivelati dai suoi commenti all'occupazione, sia pure segreti. Diamo la parola a lui, per frammenti - come non possiamo non fare - ma senza tradire lo spirito delle sue informazioni, che sono appunto costitute da frammenti spiccioli ingigantiti da aprioristiche concettualizzazioni. Partiamo 522

dalla lettera n. 77, inviata a Benedetto Quindicesimo il 18 agosto, subito dopo la nota pontificia, in segno di adesione totale alla sua indicazione pacifista e a testimonianza dell'entusiasmo che l'ha accolta, dice, nelle trincee: "Né minore aspettativa ed entusiasmo si manifestò al fronte, come da notizie giuntemi in questi giorni; altro che morale alto dei soldati! Ma quale sia il vero stato d'animo di questi e quale terribile catastrofe si stia apparecchiando per il prossimo inverno, qualora non avvenga prima la pace, od almeno un armistizio lo dimostrano chiaramente i dolorosi episodi che di continuo succedono. Sono reggimenti che si rifiutano di andare avanti e vengono decimati: sono altri spinti avanti a viva forza dai carabinieri con le armi impugnate, i quali a un certo punto rivolgono le armi contro i carabinieri, mietendoli al suolo a decine, a centinaia talora; altri reggimenti cercano darsi prigionieri in massa, e talora vi riescono delle compagnie intere, o dei battaglioni; e talora la mossa viene scoperta, e si intima il fuoco dietro i fuggitivi, con quali massacri lascio immaginare Vostra Santita" (40). Un manierista dell'orrore, da lui lontanissimo, quale Suckert- Malaparte, nei suoi affreschi granguignoleschi di "Viva Caporetto!" non dice di più. Tale essendo l'animo di Pellizzo, si può comprendere come il sopraggiungere di quella apocalisse militare che è Caporetto non rappresenti per lui una sorpresa, ma anzi un inveramento che egli accoglie non senza qualche accenno di compiacimento ideologico. Il 26 ottobre è in sede, di ritorno da Faedis, ma la mattina del 25 era ancora di fronte al Rombon e a Monte Nero, coinvolto in qualche modo di persona nella rotta incipiente, a colloquio con due soldati italiani in fuga dopo il "si salvi chi puo".

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"E i paesi, domandai, sgombrano? Nemmeno per sogno, mi dissero: quelle popolazioni li aspettano a braccia aperte: tanto è vero che in mezzo a tutto questo trambusto stanno tranquilli e tutti attendono ai consueti lavori senza la menoma preoccupazione" (41). Si apre a questo punto una lunghissima serie di lettere, destinata a interrompersi solo l'8 novembre dell'anno dopo, a guerra ormai finita, e, contro ogni sua attesa, vinta (42), quando torna nella casa dei suoi in Friuli e scopre con raccapriccio quello che hanno fatto gli austro- ungarici (43): rivelativa di un punto di vista non equilibrato è la collezione di testimonianze comparative che raffigurano i soldati italiani in fuga come masnade che saccheggiano e devastano senza remissione tutto quanto si trova sulla loro strada e, viceversa, le truppe austro- ungariche come occupanti civili, affidabili e ordinati. Emblematica la lettera del 12 novembre: "non è solo Pordenone in queste condizioni tristissime prodotte dai nostri, ma questa è la sorte comune di tanti paesi sino al Piave: e "tutti gli incendi" e saccheggi furono compiuti gloriosamente dai nostri. [...] Quale differenza fra queste ritirate e quelle che hanno fatto gli austriaci sulla Bainsizza, quando, mesi addietro, fecero i nostri la famosa ultima avanzata. Mi raccontavano soldati e ufficiali tutti meravigliati di aver trovato ogni cosa a posto per tutto il larghissimo tratto di chilometri e chilometri abbandonato: le case intatte, i magazzini forniti, i pollai ripieni, gli orti coltivati di maniera che la sera medesima della entrata in non so qual paese gli ufficiali poterono far allestire una lautissima cena. Dietro le ritirate dei nostri invece non si trovano che devastazioni e rovine" (44). "sono già discesi gli austriaci a Feltre, hanno occupato pacificamente Valdobbiadene, Segusino, Vas, Quero, Alano, Fener, poi Fonzaso, Arsiè tutte parrocchie della mia diocesi, 524

nelle quali a quanto mi consta, son rimasti i parroci con tutta la popolazione: il che è assai bene. Dal bollettino si apprende che sono a Tezze all'imboccatura della Valsugana; il che vuol dire che venne evacuato quanto era stato occupato dai nostri fin dal maggio 1915 da Tezze primo paese di confine, fino a Borgo: altro che andare a Trento! Da quanto mi viene riferito, la massoneria al comando, ora che non sono più duci religiosi a difendere il clero, si sta macchinando contro i preti militari qualche cosa: e lo faranno certamente. Se prima cercavano ogni occasione può ben immaginarsi che occasioni non mancheranno ora che siamo completamente in mano ai massoni. Anche Semeria e Gemelli saranno serviti!" (45). Non sembra il caso di infierire. Siamo ancora al 12 novembre, la rotta urge, le notizie si affollano; ma quello che non è destinato a mutare nelle oltre cento altre lettere al papa che partono da Padova dopo questa, che è già la centesima, è il fermo ergersi e autorappresentarsi come esponente di una potenza distinta dallo Stato, titolare di autonomi e più profondi carismi di interprete effettiva del bene del popolo. E però, se questa fonte autorevole e segreta può aprire prospettive inquietanti sui fatti e sugli stati d'animo di allora, non è il caso di concedere a un singolo ecclesiastico la rappresentanza esclusiva del vissuto cattolico. Le divergenze, come s'è visto, sono misurabili anche nell'ambito di questa stessa fonte, cambiando semplicemente diocesi e presule. A significare l'intrinseca pluralità delle visioni e degli atteggiamenti scegliamo qui una voce più umile: quella di un frate del convento francescano della Madonna dei Miracoli di Motta di Livenza, Lodovico Ciganotto, il quale - alla data dell'8 novembre, coinvolto com'è di persona nella violenza dell'invasione - mostra di reagire in maniera altrettanto passionale, ma del tutto diversa da quella del vescovo di Padova. Certo, il diario è reso pubblico e dato alle stampe 525

nel 1922, in un contesto in cui la tepidezza nazionale del vescovo appare imbarazzante ed è bene che rimanga riservata, mentre il contrario si può dire del risentito patriottismo del frate. "8 novembre. Ci addormentiamo italiani e ci svegliamo austriaci. Non la nostra sorpresa, ma il nostro dolore lo pensi chi sente qualche cosa, chi intende qualche cosa. Mai il sole che spuntava fra le nubi rosseggianti ci parve spargere luce sì languida, mai ci parve sì triste, sì pallido. Sono impressioni profonde che non si dimenticheranno mai. Convento invaso, porte sfondate, mobili fracassati e mezzo bruciacchiati, fuoco in ogni angolo: quel poco di viveri che avevamo, depredato. Un nemico affamato, violento, spirante odio, è padrone della casa nostra, del nostro Paese. Rapina è la sua bandiera. Chi osi una semplice opposizione, si vede puntare la pistola al petto: questo accadde a noi proprio stamane, e questo accadde a tutti [...]. Ad alcuni ufficiali feci garbatamente lagnanza che i loro soldati si lasciano andare alla rapina e alla violenza. «Est bellum!»: mi rispose un primo tenente che si qualificò per professore di latino a Vienna. E accennando alla devastazione che compievano in convento, soggiunse sardonicamente: «Milites vastarunt monasterium!» e, tra un sorso di caffè e l'altro: «Furor teutonicus!»" (46). - "Vita quotidiana". La crisi e le devastazioni materiali e mentali investono senza riparo, in particolare, i centri urbani. Di che vivono i circa 6000 abitanti cui si sono ridotte sia Udine che Belluno, e i 2-3000 di Conegliano, Vittorio Veneto, Pordenone, Feltre, Portogruaro, cui si aggiungono, accolti fra difficoltà e fastidio, rivoli disperati di profughi dal circondario? Attività economiche sconvolte, fabbriche distrutte, uffici ridotti a malpartito, scuole generalmente chiuse, per mancanza di insegnanti e perché gli edifici sono stati requisiti come caserme o come abitazione provvisoria per 526

rifugiati e profughi. Ben 800 mila - all'incirca quanti sono gli abitanti rimasti - sono i militari delle truppe di occupazione. E l'ordine delle autorità è sin dal principio esplicito: l'armata non dovrà più gravare per il suo sostentamento alimentare sull'Austria, ma sull'Italia, devono tutti nutrirsi di ciò che hanno prodotto e riusciranno a produrre le ricche pianure invase. Il raccolto del 1917, pur intaccato dalle dilapidazioni orgiastiche testimoniate per i primi tempi nell'ebbrezza della conquista, è stato eccellente. Le strategie di governo delle autorità militari anche quando lasciano in vigore le leggi italiane e si affidano per l'ordinaria amministrazione a esponenti della cittadinanza disposti a collaborare - consistono perciò in sostanza nel garantire i presupposti per la sussistenza delle loro truppe a carico delle terre occupate. Basta mantenere l'ordine, evitare ribellioni - e la sottomissione sarà generalmente ottenuta - e, ma questo è già più arduo, assicurare la continuità dei lavori agricoli ai fini del prossimo e altrettanto atteso e necessario raccolto. In tali circostanze, località per località, sta a quel poco che resta di classe dirigente ecclesiastica e civile industriarsi per strappare ai militari le derrate sufficienti alla sopravvivenza dei civili. Fra il caos oggettivo e la labilità dei diritti e dei poteri, si sviluppa il mercato nero e, come avviene in tali circostanze, tirare avanti è più facile per la campagna che per la città; entrambe tuttavia si sentono reciprocamente sfruttate e vessate. E' un altro inquietante solco che si approfondisce, fra cittadini e contadini, oltre a quello scavato - nella sospesa anomia dell'anno dell'invasione - fra coloro che sono partiti e coloro che hanno dovuto o voluto rimanere. Anche se l'istinto che muove a sfuggire in massa l'invasore seguendo i nostri nel Regno implica comunque una identificazione nazionale e una scelta elementare fra amici e nemici, non manca certo chi colora di patriottismo una fuga precipitosa; come vi sono, nel caos della rotta, prefetti, sindaci e ufficiali che sbagliano il momento o i modi del "si salvi chi puo", magari contraddicendosi l'un l'altro o a distanza di ore e dando ordini confusi e scriteriati a 527

popolazioni vanamente in cerca di indicazioni chiare sul da farsi. Ed è vero che, più spesso dei contadini, i benestanti, anzi i "siori" trovano la volontà, l'interesse e anche materialmente il modo e il tempo per andarsene. Un comportamento difforme, passibile di interpretazioni diverse (47). Il primo dopoguerra, che vede mobilitarsi anche i contadini "bianchi" del Veneto, può inclinare a leggere la divaricazione dei comportamenti collettivi in chiave di classe: i padroni si mettono al sicuro, i contadini rimangono esposti al pericolo, a lavorargli le terre. E d'altra parte - a vittoria nonostante tutto sopraggiunta - come ricordarsi e lasciar ricordare quel che si era pensato come possibile, fatale o magari anche auspicabile nelle settimane della rotta, cioè il ritorno sotto l'Austria? Non alludevano, dopo tutto, alla tradizionale antitesi fra "Italia reale" e "Italia legale" certi commenti acidi a ridosso di Caporetto, sulla classe dirigente laica che se l'è tirata addosso quella disgrazia, proprio un segno dei cieli, e quel soddisfatto additare in se stessi, vescovi e preti, gli effettivi pastori del popolo? Ma non c'erano solo i grandi problemi di schieramento dei soggetti pubblici a indurre a molte rimozioni del pensato e dell'accaduto, a tenere relativamente sottotono le affabulazioni che pure gremiscono durevolmente le memorie interne alle comunità violate dalla storia. Nel valutare perché rimanga a lungo tanto difficile fare storicamente i conti con la memoria delle terre invase, districando il reale dal virtuale, bisogna tener conto dei fattori politici, sociali e amministrativi, ma anche di quelli che incidono sulla vita privata e più intima delle persone, una volta ritornate a casa. Una dolente spinta alla rimozione e al riserbo trae origine dalla stessa truculenta immagine del nemico e dei rapporti fra invasori e invasi costruita dalla propaganda italiana nell'ultimo anno di guerra. E tanto più in quanto la propaganda avversaria è impegnata a contrapporvi - in particolare con l'arma delle fotografie l'immagine di un'occupazione pacifica e accettata, con ripetuti, ammiccanti crocchi di contadine e di militari che 528

fraternizzano (48). Due linguaggi diversi, ma alla fine passibili di convergenze. Se i due apparati di propaganda avevano detto in diversa maniera il vero, qui ogni donna era stata o si poteva temere, supporre, sospettare che fosse stata preda degli istinti sessuali di un nemico che si era senza risparmio dipinto come un'orda vandalica di bruti assetati di sangue e di sesso; ovvero - meno drammatico, ma non meno inquietante, almeno in una concezione proprietaria del patriottismo che si estenda dalle terre alle "femmine della razzà - si era data al nemico per amore, mettendo il sentimento privato al di sopra di ogni rispetto pubblico. "L'alcova d'acciaio", il romanzo che Marinetti dedica alle ultime settimane di guerra, effonde senza veli la metafora di una riconquista del territorio che non potrà non essere anche sessuale - «Abbiamo vinto, tutto è permesso» (49) - proprio per restituire ai maschi italiani il possesso dei corpi femminili violati dall'invasore. "Ma si ripigliano, si ripiglieranno con la sana virilità della razza che sa prendere bene e tenere sotto le donne e le montagne sue" (50). Quanti veli di silenzio era umano e discreto stendere allora, anche, sui bambini nati in terra di occupazione entro un certo periodo? Fra i compiti che qualche religioso appena uscito dalla guerra assume come un'altra supplenza propria della Chiesa c'è proprio quello di intervenire a vantaggio di orfani, trovatelli, ragazze- madri, cui non abbia già per conto suo riaperto le braccia la solidarietà contadina. * L'ESERCITO DI DIAZ. - "La battaglia d'arresto sul Piave e sul Grappa". Assumendo il comando dell'esercito il 9 novembre, Diaz (51) aveva dinanzi a sé una situazione quanto mai incerta. Il 529

problema più grave, il comportamento delle truppe, fu risolto subito: le truppe si battevano come prima, le denunce sulla loro crisi morale erano infondate. Il secondo problema era che queste truppe erano poche. Il fronte dallo Stelvio all'altopiano d'Asiago non era stato toccato dall'offensiva, ma non poteva essere sguarnito perché stava per essere attaccato dall'undicesima armata austriaca del Trentino. Sulle nuove posizioni del monte Grappa e del Piave, su cui si doveva arrestare la ritirata, Diaz poteva schierare le 7 divisioni della quarta armata del generale Di Robilant (ritiratasi dal Cadore al Grappa) e le 8 divisioni della terza armata del duca d'Aosta (passata dal Carso al Piave), in discreta efficienza, che però avevano perso gran parte delle artiglierie medie e pesanti e delle bombarde. Nella pianura veneta erano in corso di riordinamento le unità della seconda armata che avevano conservato una certa consistenza, mentre più indietro la quinta armata aveva il compito di raccogliere e riorganizzare le centinaia di migliaia di sbandati. Alle spalle del fronte italiano stavano affluendo i rinforzi alleati: nel corso di novembre giunsero 6 divisioni francesi e 5 britanniche ben provviste di artiglieria. Il generale Foch, che rimase in Italia fino al 23 novembre, rifiutò di impiegarle subito in combattimento, facendo osservare, non senza ragione, che Cadorna era stato travolto perché non aveva riserve adeguate; questo ruolo spettava ora alle divisioni alleate, che sarebbero entrate in azione per contenere uno sfondamento e impedire un nuovo crollo del fronte italiano. Lo sfondamento non ci fu, e quindi in dicembre 2 divisioni francesi entrarono in linea tra il Grappa e il Piave e 3 divisioni inglesi sul Montello, al centro del fronte del Piave, due settori cruciali in novembre, ma che erano diventati tranquilli. L'apporto diretto degli alleati alla battaglia d'arresto fu quindi secondario, ma quello indiretto fu essenziale, perché la loro presenza permise a Diaz di mandare in linea tutte le unità italiane che si rendevano disponibili. Sbagliano quindi gli anglofrancesi a scrivere che furono le loro truppe a salvare gli italiani (tutta 530

la nostra guerra è vista oltralpe con la superficialità vagamente razzista che noi riserviamo a turchi e bulgari), così come gli italiani a dimenticare l'aiuto decisivo avuto dagli alleati quando più serviva (52). La prosecuzione dell'offensiva non era facile neanche per gli austro- tedeschi. Le artiglierie pesanti e le bombarde, di difficile trasporto, erano rimaste indietro (quelle tedesche furono trasferite direttamente da Caporetto al fronte francese); i rifornimenti attraverso la pianura veneta furono facilitati dalla disponibilità dei grandi depositi italiani, ma quelli per le divisioni che attaccavano il Grappa rimasero precari. L'alto morale delle truppe che puntavano alla vittoria decisiva non era sufficiente, gli attacchi non potevano contare sulla sorpresa né su una netta superiorità di fuoco e di uomini. A Caporetto tutto era andato nel migliore dei modi, sul Grappa riemergevano i contrasti tra i generali sulle direttrici di attacco e le incomprensioni e rivalità tra alleati: i tedeschi davano la colpa degli insuccessi agli austriaci, che ritorcevano le accuse. La battaglia d'arresto si combatté sul Piave, sul Grappa e sull'altopiano d'Asiago. Sul Piave la superiorità nemica era schiacciante, gran parte della quattordicesima armata gravitava sul tratto settentrionale del fiume, allo sbocco in pianura, mentre dal Montello al mare si concentravano la prima e seconda armata austriache provenienti dal fronte dell'Isonzo. Le posizioni italiane erano improvvisate, ma il fiume ingrossato dalle piogge autunnali costituiva di per sé un forte ostacolo. I tentativi di forzamento delle divisioni tedesche della quattordicesima armata all'altezza dei ponti di Vidor fallirono rapidamente; nelle settimane seguenti gli austriaci attaccarono ripetutamente più a sud, con successi parziali presto annullati dai contrattacchi. La sponda destra del fiume rimase tutta in mani italiane. La battaglia fu più lunga e dura sul Grappa, un massiccio che sbarra il terreno tra il Piave e il Brenta per una ventina di chilometri in linea d'aria, con una profondità minima sul versante sud (dalla vetta di 1775 metri si scende subito sulla pianura di Bassano) e invece un'articolazione in più catene 531

montuose a nord, in direzione di Feltre, presidiate dalle truppe italiane. Il massiccio non era fortificato, ma l'anno prima, quando sembrava che la Strafexpedition dovesse dilagare, erano state costruite una stretta camionabile dalla pianura alla vetta, una carrareccia, due teleferiche e un impianto di sollevamento dell'acqua. La difesa era affidata alla quarta armata con una cinquantina di battaglioni (poi rincalzati con quanto si rendeva disponibile), ad attaccare era la quattordicesima armata, poi rafforzata con truppe austriache. La battaglia infuriò per un mese e mezzo con un susseguirsi di attacchi e contrattacchi accaniti e gravi perdite da entrambe le parti, in cui le truppe italiane ressero alla pari lo scontro con le divisioni tedesche e austriache vittoriose a Caporetto. La pressione offensiva fu esercitata prima sulle pendici orientali del massiccio (il 22 novembre i tedeschi conquistarono il monte Tomba e la dorsale del Monfenera, l'ultima prima della pianura, ma la difesa si mantenne subito sotto), poi al centro, dove però gli italiani conservarono le posizioni dominanti, infine sul versante occidentale: anche qui gli austriaci si affacciarono sulla pianura, ma non furono in grado di sfondare. A fine dicembre l'offensiva si arrestò per l'esaurimento delle truppe e la partenza delle divisioni tedesche per il fronte occidentale. La battaglia si chiuse il 30 con la riconquista della dorsale Tomba- Monfenera grazie a un attacco francese condotto con un'accuratissima preparazione d'artiglieria. Sull'altopiano d'Asiago l'offensiva diretta dal maresciallo Conrad (53) portò all'occupazione di buona parte dell'altopiano, ma, come già nel 1916, non riuscì a sfondare verso la pianura. In dicembre gli attacchi austriaci furono rivolti contro il saliente avanzato delle Melette, tra Asiago e il Brenta, che fu conquistato con violenti combattimenti. La linea italiana venne così a saldarsi dal ciglio meridionale dell'altopiano d'Asiago con le posizioni del Grappa al di là del Brenta. - "Il nuovo Comando supremo". 532

Diaz viene spesso considerato un comandante in capo di minore personalità rispetto a Cadorna, più fortunato che capace di imporsi. Un confronto non può fermarsi alle differenze di personalità, pur evidenti (basti pensare allo stile più sobrio di Diaz e alla sua capacità di avere buoni rapporti con gli esponenti politici), ma va ricondotto all'evoluzione della guerra: in tutti gli eserciti gli alti comandi del 1917-1918 erano più efficienti di quelli di due anni prima, perché erano in mano a generali più giovani, che avevano una conoscenza diretta della guerra di trincea e ne comprendevano la complessità e le esigenze. Già poco elastico di suo, Cadorna aveva 65 anni al momento dell'intervento: era stato in grado di afferrare le dimensioni del conflitto, ma il terribile sforzo di dominare gli avvenimenti gli aveva impedito di coglierne la complessità, per esempio di avere un'idea meno astratta dei soldati. Diaz aveva 11 anni di meno e un'esperienza diretta della guerra sul Carso, non è sorprendente che avesse una concezione più moderna e realistica della condotta della guerra. A Caporetto sia Cadorna che Badoglio non erano stati all'altezza della situazione, ma Badoglio aveva 46 anni, sapeva imparare e adattarsi, mentre Cadorna continuava a ripetere sempre le stesse accuse al governo e ai soldati. Dire che ci vogliono generali giovani per vincere le battaglie è ovviamente troppo facile (anche se si potrebbero portare non poche prove a conforto); si tenga però presente che i generali al fronte sono sottoposti a un logorio molto maggiore di un professore o di un ingegnere per le continue novità da affrontare, le terribili responsabilità (non è da tutti mandare a morire i propri soldati senza tormenti interni), le condizioni stressanti di vita. Le centinaia di siluramenti effettuati da Cadorna, non senza palesi ingiustizie, facevano sì che nel 1918 i generali italiani avessero in media poco più di 50 anni e i colonnelli tra i 40 e i 50: un ringiovanimento drastico e in complesso positivo (54). 533

Il nuovo Comando supremo (che in gennaio si trasferì da Padova ad Abano) fu più efficiente perché così voleva l'evoluzione della guerra, ma anche per merito di Diaz. Costui non era meno sicuro di sé di Cadorna, non esitò a silurare generali e colonnelli, né, come vedremo, a rivendicare la sua autorità dinanzi al governo. Aveva però un diverso stile di comando, che lo avvicina a un generale come Eisenhower più che al modello "napoleonicò di troppi comandanti; ossia non era un accentratore, sapeva organizzare bene il suo comando (non per nulla la sua carriera prebellica si era svolta soprattutto negli uffici dello stato maggiore dell'esercito) e dare fiducia ai suoi collaboratori. Cadorna aveva accentrato nelle sue mani troppo potere, mettendosi in condizione di non poter controllare i dettagli dei suoi piani e l'esecuzione dei suoi ordini; Diaz riorganizzò gli uffici del Comando supremo, attribuendo a ognuno responsabilità concrete e definite e favorendo lo sviluppo di uno spirito di squadra. Potenziò in particolare l'Ufficio informazioni retto dal colonnello Odoardo Marchetti, che ebbe i mezzi e la fiducia per diventare un elemento decisivo nella pianificazione delle operazioni. L'Ufficio operazioni retto dal colonnello Ugo Cavallero (55) assicurò poi il controllo effettivo di quanto accadeva al fronte, grazie anche a una rete di ufficiali di collegamento con il fronte, come non era riuscito a Cadorna (56). Particolarmente felice fu la collaborazione tra Diaz e il sottocapo Badoglio. Dell'altro sottocapo, il generale Giardino, che si era occupato inizialmente delle operazioni, Diaz si era liberato in febbraio mandandolo a sostituire Cadorna nel Consiglio di guerra interalleato di Versailles (poi lo richiamò per affidargli la quarta armata). Badoglio fu il braccio destro di Diaz cui assicurava il buon funzionamento del Comando supremo con intelligenza e operosità; si può criticare la sua carriera prima e dopo, ma non disconoscere la sua attività come sottocapo nel 19171919 (57). Diaz lo ricambiò impedendo che, come Cadorna e Capello, fosse messo a disposizione della commissione 534

d'inchiesta su Caporetto costituita nel gennaio 1918 e più tardi, come abbiamo già detto, ottenendo che dalla relazione della commissione fossero stralciate le pagine sulle sue responsabilità nella sconfitta. Diaz si occupò di persona dei rapporti con il re, il governo e gli ambienti politici. Con Vittorio Emanuele, che Cadorna aveva tenuto a distanza, Diaz aveva contatti frequenti, si recava a pranzo da lui due volte alla settimana e gli faceva visita anche più spesso quando c'erano novità. Con Orlando si incontrava tre o quattro volte al mese, a Roma o al Comando supremo, ora aperto ai politici. Diaz aveva accolto senza obiezioni la costituzione di un comitato di guerra di sette ministri, in cui i capi di stato maggiore dell'esercito e della marina avevano soltanto voto consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi nella capitale, ministri e uomini politici influenti, in particolare il ministro del Tesoro Nitti, senza intromettersi nei contrasti politici, ma per illustrare le esigenze e l'operato dell'esercito. Diaz riconosceva la necessità di un'ampia collaborazione con il governo e le forze politiche, anche per migliorare l'immagine del Comando supremo, ma non accettava ingerenze nella sua sfera di responsabilità, con un'interpretazione più elastica, ma non meno netta di quella di Cadorna sulla distinzione di campo tra potere politico e potere militare. Anche con gli alleati franco- britannici Diaz sviluppò buoni rapporti, ma difese l'autonomia del fronte italiano e rifiutò le ingerenze francesi. - "La ristrutturazione dell'esercito". Nei primi mesi del 1918 l'esercito venne riorganizzato con il ricupero degli sbandati di Caporetto e l'afflusso di cannoni e materiali che l'industria produceva a pieno ritmo. Cominciavano però a scarseggiare gli uomini per le perdite del 1917 e l'impossibilità di trarre nuove reclute dal paese: la classe 1899 era stata immessa nei reparti alla fine del 1917, come unica riserva restavano i 260 mila giovani della classe 1900, arruolati nel 1918 ma non inviati al fronte 535

prima della fine delle ostilità. Dopo la battaglia del giugno 1918 non fu possibile ripianare tutte le perdite, tanto che la forza al fronte subì una leggera diminuzione. Più dei dati quantitativi vanno rilevati i progressi qualitativi. Sul piano organizzativo fu innanzi tutto sancita l'inscindibilità della divisione. Abbiamo già visto come negli anni precedenti per ovviare alla scarsezza di artiglierie si fosse addivenuti a una scissione di fatto delle divisioni sull'Isonzo e sul Carso: i reggimenti di artiglieria restavano stabilmente al fronte (dove avevano perdite e fatiche sopportabili), mentre le brigate di fanteria (che avevano perdite molto maggiori) si alternavano in trincea. Gli inconvenienti di questo sistema erano drammaticamente emersi nella ritirata, come abbiamo sottolineato; ma erano evidenti anche nelle battaglie offensive, per la mancanza di affiatamento tra le fanterie e l'artiglieria leggera che doveva sostenerle da vicino. Fu quindi stabilito che la divisione era da considerare inscindibile, come era regola negli altri eserciti (58). Diaz e Badoglio cercarono di migliorare l'addestramento della fanteria, con discreti risultati, e continuarono a svilupparne l'armamento. Nel 1915 un reggimento contava 3000 fucili e 2 mitragliatrici, nel 1918 era sceso a 2600 uomini e 81 ufficiali, ma aveva 3 compagnie mitragliatrici, 12 sezioni di pistole mitragliatrici, 3 sezioni di lanciabombe Stokes da 76, una sezione di 12 lanciafiamme, un reparto cannoncini da 37 millimetri, un plotone d'assalto, con un forte incremento della distribuzione di bombe a mano e da fucile. A fine 1918 furono sperimentati i primi moschetti automatici, mentre la produzione in serie di carri armati Renault doveva iniziare nella primavera 1919. Furono riorganizzati i reparti d'assalto (ne diciamo più avanti) e distribuiti tre milioni di più efficaci maschere antigas inglesi. L'aviazione fu potenziata fino a conseguire il dominio del cielo. I maggiori progressi si ebbero per l'artiglieria: nel giugno 1918 il totale dei pezzi era ancora inferiore all'ottobre 1917, ma erano migliorati l'addestramento, le tecniche d'impiego, l'intensità del 536

fuoco, in modo da garantire maggiore protezione alla fanteria (59). Le bombarde erano state quasi tutte abbandonate nel corso della ritirata, ma la produzione degli stabilimenti industriali ne permise il rinnovamento, basato sui tipi da 58 e da 240 millimetri. L'aspetto più noto dell'opera di Diaz e Badoglio fu la nuova attenzione verso i soldati, così trascurati da Cadorna. Il miglioramento delle condizioni di vita in trincea divenne un obbligo per i comandi di tutti i livelli: turni più brevi in prima linea, contenimento delle perdite nei periodi tranquilli, distribuzione regolare di un rancio più curato (la razione fu riportata a 3580 calorie), apprestamento di ricoveri adeguati. Alle unità che scendevano dal fronte furono assicurati un riposo effettivo, alloggiamenti confortevoli, possibilità di svago con lo sviluppo delle Case del soldato, spacci cooperativi e l'organizzazione di spettacoli e manifestazioni sportive (60). Vennero riorganizzati i reparti di marcia che accoglievano e inquadravano gli uomini provenienti dal paese e destinati al fronte. Fu poi disposto in termini tassativi che i feriti e i malati ricuperati dagli ospedali dovevano rientrare ai reparti di origine, invece di essere destinati dove capitava (è davvero incredibile che Cadorna non avesse colto l'importanza morale di questo provvedimento di costo zero). Cadorna aveva concesso una sola licenza invernale di 15 giorni, che non veniva sempre rispettata: un'altra dimostrazione di insensibilità, se si pensa che nel 1917 i soldati francesi protestavano perché avevano soltanto tre licenze di 10 giorni. Diaz diede una seconda licenza di 10 giorni, s'impegnò perché i turni fossero garantiti e concesse licenze agricole ed esoneri parziali per le classi più anziane. Inoltre il ministro del Tesoro Nitti inventò una polizza gratuita di assicurazione di 500 lire per i soldati, di 1000 per i graduati. Si è già detto, in altro capitolo, della grossa novità rappresentata dagli ufficiali P. Aggiungiamo che la necessità della propaganda tra le truppe era così sentita, che molte armate avevano già cominciato a organizzarla per 537

conto proprio, prima che nel febbraio 1918 Badoglio desse vita al servizio P e lo imponesse a tutto l'esercito. Gli ufficiali P non dovevano occuparsi soltanto di sviluppare una propaganda moderna, ma anche di migliorare l'assistenza alle truppe e di controllarne il morale, con rapporti periodici che andavano direttamente al Comando supremo. Venivano cioè a costituire una struttura parallela alla gerarchia di comando, che forniva al Comando supremo informazioni di prima mano e una possibilità di controllo della gestione delle truppe da parte dei comandanti al fronte. E' certamente esagerato paragonare gli ufficiali P ai commissari politici della Rivoluzione francese e poi di quella sovietica, l'autorità della gerarchia di comando non fu mai messa in dubbio; erano uno strumento subordinato, ma duttile e attivo, con cui Diaz e Badoglio si assicuravano l'effettiva applicazione delle loro direttive (61). -------------------------------------------------------Tabella 6. "Forza e dislocazione dell'esercito al 15 giugno 1918" (62). Settima armata delle Giudicarie, dallo Stelvio al Garda (gen. Giulio Tassoni): 6 divisioni, con 84 battaglioni (fanteria, bersaglieri, alpini, d'assalto, di marcia, di milizia territoriale) e 962 bocche da fuoco (pesanti, medie e da campagna, contraerei e bombarde); Prima armata del Trentino, dal Garda alla val d'Astico (gen. Guglielmo Pecori Giraldi): 9 divisioni, con 152 battaglioni e 1.604 bocche da fuoco; Sesta armata dell'Altopiano, dall'Astico al Brenta (gen. Luca Montuori): 10 divisioni (di cui 3 inglesi e 2 francesi), con 129 battaglioni e 1428 bocche da fuoco; Quarta armata del Grappa, dal Brenta al Piave (gen. Gaetano Giardino): 8 divisioni, con 120 battaglioni e 1027 bocche da fuoco; 538

Ottava armata del Montello, primo tratto del Piave (gen. Giuseppe Pennella): 4 divisioni, con 66 battaglioni e 768 bocche da fuoco; Terza armata del Piave, tratto principale del Piave (duca d'Aosta): 7 divisioni, con 130 battaglioni e 1274 bocche da fuoco; Nona armata di riserva, pianura veneta (gen. Paolo Morrone): 12 divisioni (di cui una d'assalto e una cecoslovacca), con 138 battaglioni e 567 bocche da fuoco. Forze dislocate all'estero: un corpo d'armata in Francia con 2 divisioni e 35000 uomini, 68000 uomini in Albania, 33000 in Macedonia, 36000 in Libia e 3000 nel Dodecaneso. -------------------------------------------------------Dopo un disastro delle dimensioni di Caporetto, era comprensibile che Diaz non avesse fretta di riprendere l'offensiva prima di avere completato la riorganizzazione dell'esercito. Il 28 gennaio 1918 lanciò un forte attacco sul lembo orientale dell'altopiano d'Asiago per dare profondità a posizioni precarie, ma soprattutto per dimostrare la ritrovata volontà offensiva dell'esercito. In tre giorni di duri combattimenti, bene appoggiati dall'artiglieria, i battaglioni italiani conquistarono il monte Valbella, il Col del Rosso e il Col d'Ecchele. Fu l'unico combattimento di medie dimensioni fino a giugno. Sul monte Pasubio e sul Piave ci furono attacchi e contrattacchi settoriali, ma Diaz pose fine alle azioni locali senza obiettivi importanti. In aprile 4 divisioni francesi e 2 britanniche furono richiamate sul fronte francese dove i tedeschi erano passati all'offensiva. Per sottolineare la compattezza dell'Intesa, 2 divisioni francesi e 3 inglesi rimasero sul fronte italiano, mentre 2 divisioni italiane (il secondo corpo del generale Albricci) passarono sul fronte francese (insieme a 60000 lavoratori militarizzati), dove si comportarono bene. 539

Lo schieramento dell'esercito venne ritoccato in base a due criteri: armate più piccole e costituzione di una forte riserva nelle mani del Comando supremo. In giugno c'erano 50 divisioni con circa 700 battaglioni di fanteria, 5650 pezzi d'artiglieria e 1570 bombarde, più 3 divisioni inglesi, 2 francesi e una cecoslovacca (costituita da volontari tratti dai prigionieri austriaci). Con qualche approssimazione, due milioni di soldati italiani al fronte, di cui un milione e mezzo combattenti, e 175 mila all'estero. - "Gli arditi". La fama degli arditi richiede una trattazione a parte. Nel corso del conflitto tutti gli eserciti promossero la formazione di unità selezionate e addestrate per le azioni offensive, con notevoli differenze. Per esempio gli austriaci nel 1917-1918 riunivano i migliori combattenti delle loro divisioni in compagnie e battaglioni di "Sturmtruppen", truppe d'assalto, che dovevano ridare nerbo agli attacchi della fanteria. Gli arditi italiani furono invece costituiti come unità indipendenti, con un addestramento specifico e un forte spirito di corpo. Il primo reparto d'assalto nacque nell'estate 1917 all'interno della seconda armata di Capello, agli ordini del maggiore Giuseppe Bassi (63). Questi riunì nel campo di Sdricca di Manzano un migliaio di soldati e li sottopose a una preparazione accuratissima: molta ginnastica, molto addestramento al corpo a corpo e al combattimento con abbondanza di munizioni, continue esercitazioni a fuoco in condizioni realistiche. Gli arditi (così furono subito battezzati) dovevano acquisire l'automatismo dei gesti offensivi, la massima rapidità di movimenti, una fiducia in se stessi che ne incoraggiava l'iniziativa. Lo sviluppo di un forte spirito di corpo fu favorito con una serie di piccoli privilegi: una divisa più pratica (giubba aperta e maglione invece della giubba regolamentare con il duro colletto chiuso), le fiamme nere sul bavero come distintivo della specialità, una disciplina meno formale, piccoli vantaggi nel 540

vitto, nel soldo, nelle licenze, l'esenzione dai massacranti turni in trincea, la distribuzione del pugnale che esaltava il coraggio e la ricerca del corpo a corpo. Nel corso della battaglia della Bainsizza gli arditi fecero le loro prime prove con successi esaltanti: il 19 agosto nel forzamento dell'Isonzo, il 4 settembre sul San Gabriele gli assalti condotti di sorpresa, senza preparazione di artiglieria, penetrarono in profondità nelle linee austriache, anche se non furono sfruttati appieno perché non poterono essere sostenuti tempestivamente dalla fanteria di rincalzo, più lenta e quindi arrestata dall'artiglieria nemica. Questi successi diedero agli arditi immediata fama e indussero Capello e Cadorna a ordinare la costituzione di nuovi reparti d'assalto, una ventina, che però non avevano completato l'addestramento prima di Caporetto. Nella battaglia d'arresto di novembre-dicembre questi reparti assottigliati dalla ritirata furono buttati nella mischia senza riguardo alle loro caratteristiche. Poi il Comando supremo dispose la riorganizzazione di 21 reparti, in linea di massima uno per ogni corpo d'armata. Nell'estate 1918 i reparti (o battaglioni) d'assalto erano 26 con una forza media di 600 uomini, più 7 reparti di marcia e 4 all'estero (2 in Francia con il secondo corpo d'armata, uno in Albania e uno in Macedonia). Secondo le direttive emanate, gli arditi dovevano essere di regola tenuti in riserva per poter curare il loro particolare addestramento, per poi venire impiegati per azioni locali di qualche rilievo, per aprire la via a offensive in piena regola e per contrattacchi tempestivi. Lo straordinario successo degli arditi e il mito che li circondò richiedono alcune precisazioni. Sul piano militare, i reparti d'assalto furono uno strumento di straordinaria efficacia per gli assalti brevi: ogni qualvolta vennero impiegati con il favore della sorpresa e un'accurata preparazione riuscirono a penetrare rapidamente nelle linee austriache. Quando però mancava la sorpresa o il contrattacco era lanciato fuori tempo, venivano massacrati come la fanteria. Il loro limite di fondo era quella stessa 541

leggerezza che permetteva la rapidità dei loro assalti: le bombe a mano, i pugnali e i moschetti di cui erano dotati non fornivano la potenza di fuoco necessaria per spingere in profondità l'attacco e per difendere le posizioni raggiunte senza il concorso dei battaglioni di fanteria, raramente in grado di procedere con pari rapidità. I reparti d'assalto, in sostanza, erano uno strumento efficace, ma delicato, da impiegare con oculatezza; e invece vennero spesso sacrificati in attacchi impossibili o in azioni difensive per cui non avevano i mezzi, anche se l'alto morale permetteva loro di affrontare perdite elevate. Sul piano dell'immagine, gli arditi ebbero grande e immediato successo perché rappresentavano un combattente di nuovo tipo, che faceva la guerra con entusiasmo ed efficacia. Il fante in trincea significava una guerra lunga, sporca, cruenta, l'ardito invece correva all'attacco spavaldo e leggero, sicuro di vincere, un guerriero giovane e moderno di un'efficienza rassicurante per un paese stanco di guerra. Gli giovava anche la fama di combattente terribile, con un pugnale assetato di sangue; gli venivano perdonati gesti di esuberanza e insofferenza, veniva anche accettata la voce che molti arditi avessero un fosco passato e una innata tendenza alla violenza. Si trattava quasi sempre di esagerazioni, l'ardito era un soldato più addestrato e motivato, ma non diverso dagli altri; contava però l'immagine di efficienza e ferocia che ne aumentava il mito. Questa fama poteva ritorcersi contro di loro, non pochi reparti d'assalto furono massacrati perché i comandi affidavano loro compiti superiori alle loro forze. Anche il Comando supremo ne sopravvalutò le possibilità, creando in giugno 2 divisioni d'assalto (ognuna con 6 reparti d'assalto, 4 battaglioni bersaglieri, 12 pezzi da montagna someggiati e uno squadrone di cavalleria). Nella battaglia di giugno e in quella di Vittorio Veneto queste divisioni non brillarono perché non impiegate nelle migliori condizioni, ma anche perché erano troppo leggere. Gli arditi erano 542

straordinari negli assalti brevi, uno sfondamento di maggiori dimensioni richiedeva un'altra organizzazione. Nel dopoguerra i reparti d'assalto furono sciolti e la loro eredità dispersa. Rimase il mito, utilizzato e logorato nelle lotte politiche e poi dal regime fascista (64). * LA VITTORIA DELL'INTESA. - "Le offensive tedesche della primavera 1918". Dopo l'intervento degli Stati Uniti e il fallimento delle speranze riposte nella guerra sottomarina a oltranza, alla Germania restava un'unica carta, quella vittoria decisiva sulle armate anglofrancesi che era mancata sulla Marna e a Verdun. Era una corsa contro il tempo, perché nel corso del 1918 sarebbe entrato in campo il nuovo esercito americano e perché all'interno dello stato tedesco (e ancor più in quello austroungarico) si moltiplicavano segnali preoccupanti di cedimento. Tuttavia all'inizio del 1918 Ludendorff (il vero comandante supremo tedesco) aveva un paio di buone carte da giocare: una leggera superiorità numerica, oltre 200 divisioni contro 180 anglofrancesi (nel 1917 le divisioni tedesche in Francia erano 130, l'aumento era dovuto soprattutto alla fine della guerra a est) e la nuova organizzazione della battaglia offensiva che aveva dato così brillanti successi a Caporetto, rilanciata su scala più grande. Contava perciò di realizzare una serie decisiva di sfondamenti in profondità, fino al crollo degli anglofrancesi. Costoro si aspettavano l'attacco, ma (come Cadorna nell'ottobre 1917) pensavano che non avrebbe avuto maggiore successo dei tanti che avevano sferrato. I tedeschi attaccarono all'alba del 21 marzo il fronte britannico tra Arras e Saint Quentin, con un breve e violento bombardamento di 6000 cannoni, largo impiego di gas e il favore di una fitta nebbia. Gli inglesi riuscirono a mantenere le posizioni dinanzi ad Arras, ma i tedeschi travolsero 65 543

chilometri di fronte più a sud e dilagarono in profondità, fecero a pezzi la quinta armata britannica e avanzarono di oltre 60 chilometri in una settimana. Ai primi di aprile la penetrazione si arrestò dinanzi all'importante nodo di Amiens. Gli inglesi avevano perso 300 mila uomini (tra cui 80000 prigionieri) e un migliaio di cannoni, i tedeschi avevano vinto una grossa battaglia, non però realizzato lo sfondamento decisivo. Si discute ancora oggi se Ludendorff abbia sbagliato a dedicare troppe forze contro Arras (agli ordini del generale von Below, il vincitore di Caporetto) anziché avanzare subito più a sud. La realtà è che i nuovi metodi di attacco garantivano grossi successi iniziali; e infatti le prime linee britanniche furono conquistate di slancio con il favore della sorpresa, poi andarono in crisi l'organizzazione di comando e i sistemi di comunicazione della quinta armata. Se non che la spinta offensiva tedesca diminuiva con il logorio dei combattimenti, mentre affluivano le riserve anglofrancesi; dopo la prima settimana la difensiva riprese il sopravvento, gli attacchi tedeschi divennero sempre più costosi e poveri di risultati. L'offensiva di Ludendorff aveva guadagnato molto più terreno che tutte quelle precedenti, ma non aveva rovesciato la dura logica della guerra di posizione. L'immediata conseguenza fu la creazione di un comando unico del fronte francese. Tutti i tentativi precedenti erano falliti, anche il Consiglio supremo di guerra installato a Versailles nel novembre 1917 (dove l'Italia fu rappresentata da Cadorna, poi Giardino, infine Di Robilant) aveva consentito una razionalizzazione dei rifornimenti, ma non aveva toccato l'autorità e l'autonomia dei comandanti del fronte occidentale, Haig per gli inglesi e Pétain per i francesi. Dinanzi alla minacciosa avanzata tedesca, il 26 marzo il generale Foch assunse compiti di coordinamento, poi il 14 aprile fu nominato comandante in capo delle forze alleate in Francia. Ciò facilitò la distribuzione delle riserve, con il frammischiamento di divisioni francesi e inglesi, e l'ingresso in linea delle prime truppe americane, che 544

soltanto più tardi furono riunite in un'armata agli ordini di Pershing. Il 9 aprile Ludendorff tornò all'attacco nelle Fiandre, lungo il fiume Lys. Era un'offensiva meno preparata, ebbe un successo iniziale imprevisto (40 chilometri di fronte travolti), poi si arenò prima di raggiungere risultati decisivi. Quindi il 21 aprile, sempre con il favore della sorpresa, le divisioni tedesche attaccarono tra Reims e Soissons, sulle alture dello Chemin des Dames, già teatro di tanti combattimenti. Il successo iniziale fu travolgente, in quattro giorni i tedeschi fecero 65000 prigionieri e arrivarono sulla Marna, a poche decine di chilometri da Parigi. Qui furono bloccati dall'afflusso delle riserve. In definitiva, le tre offensive di Ludendorff conseguirono ogni volta straordinari successi iniziali e inflissero gravi perdite alle già assottigliate forze anglofrancesi, ma si risolsero in un'estensione del fronte senza conseguenze strategiche e logorarono le migliori divisioni tedesche che non potevano ormai essere sostituite o rinnovate (65). - "L'offensiva austriaca del 15 giugno". La crisi dell'Impero austroungarico che si era andata delineando nel 1917 continuò ad aggravarsi nel 1918: gran parte della popolazione era alla fame, si moltiplicavano gli scioperi di protesta, crescevano le spinte nazionaliste (come dimostrava la formazione sul fronte italiano di unità cecoslovacche reclutate tra i prigionieri). Il primo febbraio 1918 le navi dislocate a Cattaro si ribellarono, si verificarono anche rivolte in alcuni depositi militari dell'interno. I ripetuti sondaggi di pace promossi dall'imperatore Carlo si arenarono subito dinanzi all'intransigenza dei nemici e dell'alleato tedesco. L'unica via rimaneva la vittoria sul campo, poiché l'esercito continuava a dare piena fiducia e nel 1918 poteva, per la prima volta, essere concentrato quasi tutto sul fronte italiano. 545

La grande offensiva del giugno 1918 fu quindi preparata con la convinzione che non poteva e non doveva fallire. Le 58 divisioni (una forza equivalente a quella italiana) erano organizzate nel gruppo d'armate del Tirolo del maresciallo Conrad, con la decima armata dallo Stelvio all'Astico e la undicesima sull'altopiano di Asiago, e nel gruppo d'armate del Piave del maresciallo Boroevich con la sesta armata e la quinta "Isonzoarmee" (nata dalla fusione della prima e della seconda armata dell'Isonzo). I contrasti tra i comandanti e la certezza del successo fecero sì che l'offensiva in preparazione per giugno non fosse concentrata in una sola direzione, ma estesa dall'altopiano di Asiago al mare, più un attacco preliminare sul Tonale. I nuovi metodi offensivi tedeschi erano stati recepiti soltanto in parte, per l'impiego dell'artiglieria più che per la riorganizzazione e l'addestramento della fanteria. Scarseggiavano i viveri, ma non le armi e le munizioni; e le truppe erano galvanizzate dalla promessa della vittoria decisiva e del bottino. Nei mesi precedenti Diaz aveva rifiutato gli inviti francesi a lanciare attacchi che non avrebbero apportato alcun vantaggio al fronte occidentale, visto che tutte le forze austriache erano già vincolate dalla preparazione della grande offensiva (66). Il servizio informazioni italiano funzionava bene e non lasciava dubbi sulle intenzioni del nemico, giunse addirittura a fornire dati concreti sulla data degli attacchi, vanificando l'effetto della sorpresa. La lezione di Caporetto era stata appresa, Diaz tenne a sua disposizione una grossa riserva di divisioni efficienti, preferendo correre qualche rischio con una minore densità delle forze in prima linea per conservare la possibilità di tamponare gli sfondamenti, tanto più che la forma del fronte a semicerchio dall'altopiano di Asiago al mare consentiva il pronto intervento delle riserve dislocate nella pianura veneta. La grande offensiva austriaca ebbe un prologo infelice sul Tonale. Qui le posizioni italiane erano state migliorate a fine maggio con una brillante azione dei battaglioni alpini della quinta divisione. Gli austriaci attaccarono il 13 giugno 546

convinti di sfondare in Valcamonica e poi scendere in pianura, ma conquistarono due cime e poi furono fermati (67). Il 15 giugno l'offensiva scattò dall'altopiano d'Asiago al mare. Sull'altopiano il generale Roberto Segre, comandante dell'artiglieria della sesta armata, sviluppò un efficace tiro di contropreparazione prima ancora dell'attacco austriaco. Le divisioni inglesi e francesi persero le prime linee e le riconquistarono con immediati contrattacchi. Gli austriaci riuscirono invece a impadronirsi delle posizioni dei cosiddetti "tre monti", il Valbella, il Col del Rosso e il Col d'Ecchele, e le mantennero contro tutti i contrattacchi, ma non proseguirono oltre. I "tre monti" furono riconquistati a fine giugno. L'offensiva fallita sull'altopiano registrò un successo iniziale sul Grappa, grazie anche a una fitta nebbia. La zona centrale del massiccio era stata potentemente fortificata e le posizioni antistanti furono mantenute con lievi arretramenti. Il nono corpo d'armata del generale Emilio De Bono (il futuro gerarca fascista) che difendeva il versante sul Brenta fu invece sfondato in profondità, fin quasi alla pianura. Il pronto intervento delle artiglierie della sesta armata, dall'altro versante del fiume, bloccò però l'afflusso dei rincalzi austriaci; e la situazione fu ristabilita dai contrattacchi portati con grande tempismo e efficacia dal nono reparto d'assalto del maggiore Giovanni Messe (nel 1943 sarà l'ultimo maresciallo italiano). Il maresciallo Conrad dovette riconoscere il sostanziale fallimento di tutti gli attacchi delle sue armate, che pagò con l'esonero. Gli unici successi di rilievo furono conseguiti dagli austriaci sul Piave, dove occuparono l'altura del Montello presidiata dall'ottava armata e una fascia di qualche chilometro dalle Grave di Papadopoli al mare contro la terza armata. Il fiume in piena rappresentava un ostacolo difficile, gli austriaci dovevano prima traversarlo con barche e barconi, poi alimentare la loro offensiva su passerelle e ponti di barche; in compenso il sistema difensivo italiano era meno forte e continuo che su un terreno normale. La battaglia 547

(conosciuta anche come battaglia del Solstizio) ebbe caratteristiche analoghe lungo tutto il corso del Piave: le truppe italiane ne difesero male il passaggio e furono rapidamente sopraffatte, ma il successivo intervento dell'artiglieria e dell'aviazione distrusse o danneggiò i ponti gittati dagli austriaci, la cui progressione si esaurì presto. Le riserve italiane affluirono in buon numero e con sufficiente tempestività, ma furono impiegate a piccoli lotti e con molta confusione. Riuscirono comunque a contenere gli austriaci, dopo alcuni giorni di viva preoccupazione, ma non a impedire che si ritirassero in relativo buon ordine. Le posizioni che costoro avevano mantenuto sulla destra del Piave vennero presto riconquistate (68). Il generale Pennella, comandante dell'ottava armata, fu silurato e sostituito da Caviglia (69). I limiti di efficienza che abbiamo indicato non impedirono che la grande offensiva austriaca si chiudesse con un pieno successo italiano, che acquista rilievo dal confronto con le battaglie sul fronte francese. L'ultimo sforzo dell'esercito austroungarico non aveva conseguito alcun risultato, malgrado il buon comportamento delle truppe. L'autorità del nuovo Comando supremo italiano ne uscì rafforzata, così come il morale dell'esercito. Le perdite furono di 86600 italiani (morti, feriti e dispersi) e 118 mila austro- ungarici, che ebbero pure 24000 malati (manca il dato parallelo per gli italiani). - "Il crollo tedesco". Il 15 luglio Ludendorff tornò all'offensiva a destra e a sinistra di Reims. Questa volta però gli alleati si aspettavano l'attacco, contennero la penetrazione tedesca, poi contrattaccarono, riprendendo buona parte del terreno perso due mesi e mezzo prima. Nella battaglia ebbe una parte onorevole il secondo corpo d'armata italiano. In agosto gli alleati passarono all'offensiva; l'entrata in linea di sempre nuove divisioni americane dava loro una crescente superiorità sulle forze tedesche che nelle 548

battaglie da marzo a luglio avevano avuto perdite non più rimpiazzabili. L'8 agosto inglesi, canadesi e australiani attaccarono sulla Somme con 456 carri armati e travolsero il fronte tedesco; dopo due giorni furono fermati dall'accorrere delle riserve. Il successo dell'attacco era stato così pieno che Ludendorff poi scrisse: «L'8 agosto fu la giornata nera dell'esercito tedesco nella storia della guerra [...]. Essa dimostrò in modo indiscutibile il declino della nostra potenza di combattimento». Nei tre mesi seguenti la pressione degli alleati continuò senza soste, con una serie di attacchi lanciati su fronti ristretti a distanza di pochi giorni. Soltanto gli americani spendevano senza risparmio le vite dei loro soldati; francesi e britannici si limitavano a sfondare un tratto di fronte con largo impiego di artiglieria, aviazione e carri armati, si fermavano non appena la difesa tedesca si irrigidiva e poco dopo riprendevano l'offensiva in un altro settore. I progressi erano lenti, governi e stati maggiori dell'Intesa erano convinti che la Germania avrebbe resistito fino alla primavera 1919. La vittoria finale fu anticipata dagli altri fronti. Il 15 settembre le forze alleate di Salonicco attaccarono e in due settimane costrinsero la Bulgaria ad arrendersi; si apriva la via a una progressione verso i territori austro- ungarici, comunque non rapida né facile. In Medio Oriente i britannici tra novembre e dicembre 1917 erano avanzati dall'Egitto fino a Gerusalemme. Nel settembre 1918 travolsero le difese turche, poi occuparono Damasco e raggiunsero Aleppo. Il 31 ottobre la Turchia capitolò. Pochi giorni prima anche l'esercito italiano era passato all'offensiva, il 4 novembre l'Austria-Ungheria si arrese, aprendo la via a un'avanzata alleata verso la Baviera. Per tutto il mese d'ottobre l'imperatore, il governo e l'alto comando della Germania, pur avendo chiaro che la guerra era completamente persa, anche se l'esercito reggeva ancora, continuarono a rifiutare di accettare una pace che sarebbe stata durissima, una resa senza condizioni a nemici assetati di vendetta. Poi dovettero cedere dinanzi al collasso 549

del paese, che sembrava sull'orlo della rivoluzione, alla ribellione degli equipaggi della marina da guerra, all'impossibilità di fermare l'avanzata delle armate alleate. L'11 novembre un nuovo governo accettò di firmare l'armistizio prima che l'esercito e il fronte interno crollassero. L'imperatore aveva già abdicato (70). La morte non aveva finito di mietere, nell'inverno 19181919 l'epidemia dell'influenza "spagnola" fece milioni di morti. - "Vittorio Veneto". Diaz fece subito intendere che non intendeva compromettere la vittoria di giugno con un'offensiva di esito incerto. Aveva una buona ragione dalla sua, la mancanza di complementi: gli restava come riserva soltanto la classe 1900, che non intendeva impiegare prima dell'offensiva risolutiva prevista per la primavera 1919. Aveva buon gioco anche di fronte alle insistenti richieste degli alleati di un atteggiamento più aggressivo, perché poteva far notare che non aveva avuto alcun vantaggio dall'arrivo di due milioni di soldati americani, concentrati sul fronte francese. Se non che in settembre si vennero moltiplicando i segnali dell'imminente collasso dell'Impero austroungarico. Le armate schierate in Italia non davano segni di cedimento, ma la situazione alle loro spalle andava peggiorando giorno dopo giorno: crescevano le manifestazioni popolari e le rivolte armate, i movimenti nazionali preparavano la spartizione dell'Impero. Il presidente Orlando fece presente a Diaz che un'offensiva diventava indilazionabile dinanzi al rischio di un collasso austroungarico che avrebbe diminuito la vittoria italiana; poiché Diaz resisteva alle pressioni, Orlando cominciò a pensare di sostituirlo. Fu buona sorte che i drammatici tentativi austriaci di arrivare al più presto alla fine della guerra non avessero successo, per la stessa difficoltà di accettare la sconfitta in tutta la sua irrimediabile gravità che abbiamo visto per i tedeschi. 550

In ottobre Diaz si decise a preparare un'offensiva attraverso il Piave, in direzione di Vittorio Veneto. Il ruolo principale fu affidato all'ottava armata di Caviglia, cui furono affiancate due piccole armate di nuova costituzione, a sinistra la dodicesima agli ordini del generale francese Jean- César Graziani con 3 divisioni italiane e una francese, a destra la decima affidata al generale inglese Frederick Cavan con 2 divisioni inglesi e 2 italiane (71). Le forze contrapposte si equivalevano (con una certa superiorità italiana in artiglieria e aviazione): da parte italiana 57 divisioni (di cui 3 inglesi, 2 francesi, 1 cecoslovacca) e 4 divisioni di cavalleria, per un totale di 704 battaglioni, circa 7700 pezzi d'artiglieria, 1200 bombarde e 638 aerei. Da parte austriaca 58 divisioni, 688 battaglioni, circa 6000 pezzi e 1000 bombarde. La dislocazione delle forze italiane garantiva una forte superiorità sul Piave, non però sul Grappa. Il momento dell'offensiva era sbagliato, perché nell'ultima settimana di ottobre la piena autunnale del Piave raggiunse il massimo. Non era però possibile attendere ancora, a costo di cambiare i piani. Il 24 ottobre iniziarono così gli attacchi sul Grappa, previsti come secondari e quindi insufficientemente preparati, ma ora portati a fondo contro posizioni ben difese, quindi con gravi perdite e scarsi successi. Gli austriaci si batterono con grande energia e ripetuti contrattacchi. In cinque giorni di scontri furiosi gli italiani ebbero 5000 morti, 20000 feriti, 3000 prigionieri, con guadagni territoriali minori. Il 26 la piena del Piave accennò a diminuire, la sera fu iniziato il passaggio del fiume. Furono costituite tre piccole teste di ponte, nei pressi di Valdobbiadene, nella piana di Sernaglia e al di là delle Grave di Papadopoli. Non furono però intaccate le posizioni di resistenza austriache, un paio di chilometri oltre il greto del fiume; e il 27 quasi tutti i ponti furono rotti dal fuoco dell'artiglieria e dalla piena del Piave. La difficile situazione fu sbloccata il 28, quando parte delle forze di Caviglia riuscirono a passare le Grave di Papadopoli 551

per poi risalire il fiume, aprendo la via al grosso dell'ottava armata. Dopo il 29 ottobre la situazione cominciò a precipitare. Fino a quel momento i reparti austriaci in linea si erano battuti bene. Alle loro spalle si andavano però moltiplicando le unità che rifiutavano di salire al fronte, poi le unità che partivano di loro iniziativa per le loro terre di origine (a cominciare da quelle ungheresi, fino a quel momento tra le migliori dell'Impero); infine la disgregazione divenne generale. L'avanzata dell'ottava armata nella pianura veneta incontrò una resistenza decrescente, poi le unità italiane marciarono rapidamente su tutto il fronte in quella che divenne presto una corsa contro il tempo per raggiungere obiettivi significativi prima della fine delle ostilità, tra truppe austriache in rotta che cercavano soltanto di raggiungere le loro case, lasciando centinaia di migliaia di prigionieri. Quando il governo austriaco si decise a chiedere un armistizio, le trattative furono condotte in modo da non fermare i successi delle forze italiane, che il 3 novembre entrarono in Trento e Trieste. Lo stesso giorno fu firmato a Villa Giusti, presso Padova, l'armistizio che poneva fine alle ostilità alle ore 15.00 del 4 novembre (72). Tra le ultime gesta della guerra si ebbe nella notte sul primo novembre l'affondamento nel porto di Pola della corazzata "Viribus Unitis" a opera degli ufficiali di marina Rossetti e Paolucci, i quali ignoravano che la nave era ormai passata a far parte della flotta del nascente stato jugoslavo. Il "bollettino della vittorià emanato da Diaz il 4 novembre fu riprodotto in migliaia di lapidi e imparato a memoria da due generazioni di studenti. Oggi è dimenticato, salvo le ultime righe entrate tra le frasi fatte usate anche dai cronisti di calcio. In quel momento aveva però un'importanza incalcolabile. Come ha scritto Isnenghi, "si trattava infatti di porre il sigillo delle parole - "scripta manent" - dettando una lettura della situazione e dei fatti, che, di per sé, non parlavano a tutti in maniera evidente ed univoca. Di fronte agli italiani e agli austro- ungarici, agli 552

alleati e agli avversari, ai popoli e agli Stati, occorreva sancire solennemente di chi fosse la vittoria, pur se le trattative di armistizio si svolgevano a Villa Giusti, cioè alle porte di Padova, all'interno del territorio nazionale occupato da truppe nemiche sia pure oramai in ritirata, ma ancora nettamente al di qua e non al di là delle Alpi [...]. Si è dato in realtà più volte nella storia delle guerre e delle battaglie che una vittoria sia stata assegnata dal fatto stesso di "riconoscersi" vincitori. Ecco a che cosa serve, anche, il proclama del 4 novembre: a riconoscersi vincitori, a rendere chiaro e leggibile a tutti il senso degli avvenimenti, a mettere ordine fra le cose attribuendo e mettendo agli atti il ruolo degli uni e degli altri. Abbiamo vinto "noi". "Loro" si ritirano, hanno perso" (73). Il "bollettino della vittorià fa parte della storia e della memoria della guerra, quindi ne diamo il testo: "La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S. M. il Re - Duce Supremo - l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse, ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca ed un reggimento americano contro 73 divisioni austro- ungariche, è finita. La fulminea arditissima avanzata del 29° Corpo d'armata su Trento, sbarrando la via della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della Settima armata e ad oriente da quelle della Prima, Sesta e Quarta, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della Dodicesima, dell'Ottava, della Decima armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura S. A. R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta Terza armata, anelante di 553

ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito austroungarico è annientato: esso ha subìto perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiale e i depositi; ha lasciato finora nelle nostre mani circa 300.000 prigionieri con interi stati maggiori e non meno di 5.000 cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Firmato: Diaz". La battaglia di Vittorio Veneto non fu la vittoria napoleonica che proclama l'agiografia nazionale. I combattimenti sul Grappa terminarono senza vinti né vincitori (date le circostanze, non è scorretto che entrambi i contendenti li considerino un loro successo), il forzamento del Piave fu condotto con bravura ed efficacia, ma il suo sfruttamento in profondità fu permesso non dalla manovra di Caviglia, bensì dal collasso dell'esercito austroungarico. Ricordando ciò non intendiamo togliere alcunché al prestigio di Diaz, Badoglio e degli altri comandanti italiani. La prima guerra mondiale fu una guerra di logoramento che non lasciava spazio a manovre napoleoniche. Anche i successi offensivi degli alleati tra agosto e novembre 1918 sul fronte francese furono permessi dalla loro netta superiorità di forze, ma prima ancora dalla crisi dell'esercito tedesco ormai esausto, privo di riserve e di rifornimenti essenziali. Un'altra vittoria dovuta al logoramento del nemico più che alla genialità dei generali o al valore delle truppe. Vittorio Veneto costituisce la giusta conclusione di una guerra di logoramento. Il maggiore merito di Diaz non fu l'efficacia della manovra di sfondamento, ma di avere portato l'esercito italiano alla battaglia ultima in condizioni decisamente migliori di quelle del nemico. Naturalmente non bisogna dimenticare che l'Austria-Ungheria aveva 554

combattuto su più fronti e che aveva avuto le perdite maggiori contro i russi; mentre dietro a Diaz c'erano un paese che non aveva conosciuto le divisioni profonde e le sofferenze dell'Impero austroungarico, e alleati potenti per risorse economiche. Molte questioni relative all'efficienza dell'esercito e al consenso dei soldati rimangono aperte alla discussione e alla ricerca. Ci sembra però indiscutibile che nel 1918 l'esercito italiano raggiunse il più alto livello di forza e risultati della sua storia, come organizzazione, addestramento, comando. Una riprova è data dal fatto che non risultano apprezzabili differenze di efficacia tra le divisioni italiane, quelle austriache nemiche e quelle francesi e inglesi alleate impiegate in Italia (e che anche le divisioni tedesche trionfatrici a Caporetto erano state battute nel novembre- dicembre 1917 sul Grappa). Nel 1940, dopo diciotto anni di una dittatura che poneva al primo posto la ricerca di potenza bellica, i rapporti di forza saranno disastrosamente cambiati. - "Un bilancio delle perdite del conflitto". I dati complessivi sui caduti dei maggiori eserciti sono abbastanza sicuri, anche se tra tutte le tabelle che abbiamo visto non ce ne sono due uguali in tutti i particolari. Germania - 1.800.000 Francia - 1.350.000 Austria-Ungheria - 1.300.000 Gran Bretagna - 750.000 Italia - 650.000 Stati Uniti - 100.000 Australia - 60.000 Canada - 60.000 Belgio - 50.000 India - 50.000 Nuova Zelanda -16.000 555

Per la Russia i dati oscillano tra 1 milione 700 mila e 2 milioni 500 mila morti. Per i paesi balcanici sono pure largamente approssimativi, per la difficoltà di separare le perdite degli eserciti da quelle civili (per le quali il calcolo è ancora più complesso; come tenere conto del massacro degli armeni condotto dai turchi?). Romania: 300-350.000 Turchia: 300-350.000 Serbia: 300-350.000 Bulgaria: 100.000 Il totale di 10 milioni di morti è approssimativo e non comprende le vittime civili. Secondo un altro approccio, i caduti italiani furono il 10,3 per cento degli uomini mobilitati e il 7,5 per cento di tutti i maschi tra 15 e 49 anni, rispetto al 16,8 e 13,3 della Francia, al 15,4 e 12,5 della Germania, all'11,8 e 6,3 della Gran Bretagna (74).

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NOTE AL CAPITOLO 7. 1. E' l'espressione scelta come concetto- guida e come titolo da Ruggiero Romano per il suo saggio "Il Paese Italia", Roma, Donzelli, 1992. 2. Mario Isnenghi, "La tragedia necessaria. Da Caporetto all'Otto settembre", Bologna, Il Mulino, 1999. 3. R. Serra, "Scritti letterari, morali e politici", cit. 4. E non solo per propaganda, si veda Gian Luigi Gatti, zDopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande Guerra: propaganda, assistenza, vigilanzaz, Edizioni goriziane, Gorizia, 2000. 5. "Relazione" del capo Centro di collegamento P del decimo corpo d'armata, tenente Lombardo Radice, in M. Isnenghi, "Giornali di trincea", cit., p. p. 57-58. 6. G. Lombardo Radice, "Relazione", cit. 7. Giuseppe Lombardo Radice, "Dopo Caporetto", in Id., "Nuovi saggi di propaganda pedagogica", Torino, Paravia, 1922, p. p. 28-29. 8. "Perché vinceremo", «L'Astico», n. 13, 9 maggio 1918; e anche in Piero Jahier, "1918. L'Astico giornale delle trincee". "1919 Il Nuovo Contadino", antologia e saggio introduttivo a cura di Mario Isnenghi, Padova, Edizioni del Rinoceronte, 1964, p. 98. 9. Perché vinceremo, in P. Jahier, 1918. "1918. L'Astico giornale delle trincee", cit., p. p. 99-101. 10. Gioacchino Volpe, "Fra storia e politica", Roma, De Alberti, 1924; Giovanni Belardelli, "Il mito della "nuova 557

Italià. Gioacchino Volpe tra guerra e fascismo", Roma- Bari, Laterza, 1988. 11. M. Isnenghi, "Giornali di trincea", cit., p. 80. 12. «Volontà», n. 5-6, 20 novembre 1918, p. 1. 13. "1 confini d'Italia", «Bollettino del soldato», 1919, n. 1, p. 3. 14. «Vigilate... et resistite fortes in fide. Svegliarino mensile per i chierici padovani soldati», aprile 1917-dicembre 1918. 15. Ministero delle Terre liberate, "Censimento generale dei profughi", Roma, 1919. 16. Giuseppe Del Bianco, "La guerra e il Friuli", 4 voli., Udine, Del Bianco, 1939. 17. Mario Bernardi, "Di qua e di là dal Piave. Da Caporetto a Vittorio Veneto", Milano, Mursia, 1989; Lucio Fabi (a cura di), "La gente e la guerra", 2 voli. ("Saggi- Documenti"), Udine, Extralito, 1990; Camillo Pavan, "Grande Guerra e popolazione civile", vol. 1, "Caporetto. Storia, testimonianze, itinerari", Treviso, Pavan, 1997. 18. Gustavo Corni, "L'occupazione austro- germanica del Veneto nel 1917-1918: sindaci, preti, austriacanti, patrioti", «Rivista di storia contemporanea», luglio 1989, n. 3; Id., "La società veneto- friulana durante l'occupazione militare austro- germanica 1917-1918", in Gustavo Corni, Eugenio Bucciol, Angelo Schwarz, "Inediti della Grande Guerra. Immagini dell'invasione austro- germanica in Friuli e nel Veneto orientale", a cura di Bruno Callegher e Adriano Molli, Trieste, B&M Fachin, 1990. 19. Milano, s. d. [ma 1919]; conf. G. Corni, "L'occupazione austro- germanica", cit., p. p. 380-384. 558

20. G. Corni, "L'occupazione austro- germanica", cit., p. 383. 21. U. Ojetti, "Lettere alla moglie", cit., p. 631. 22. G. Corni, "L'occupazione austro- germanica", cit., p. 381. 23. Conf. il montaggio di materiali d'epoca, comprendente anche la riproduzione di pagine ed articoli da «Slovenec» il quotidiano del Partito popolare sloveno, di Lubiana - e dall'«Eco del litorale» - organo degli italiani d'Austria - in C. Pavan, "Caporetto", cit., p. p. 50-51 e p. p. 174-211. 24. Antonio Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918", 3 voli.,presentazione di Gabriele De Rosa, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1991. 25. Rimando alla "Presentazione" di G. De Rosa e alla "Introduzione generale" del curatore A. Scotta, "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., per le informazioni sui vescovi le cui lettere del tempo di guerra sono riportate nei tre volumi dell'opera: in particolare, quelle del Pellizzo occupano l'intero primo volume, quelle del vescovo Longhin rientrano nel secondo. 26. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. 296. 27. Personaggio e opera vengono analiticamente ripercorsi attraverso lo studio delle sue due visite pastorali: si veda Antonio Lazzarini (a cura di), "La visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1912-1921)", 2 voli.,Roma, Edizioni di storia e letteratura, vol. 1, 1973 e vol. 2, 1975; Liliana Billanovich Vitale (a cura di), "La seconda visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1921559

1923)", 2 voli., Roma, Edizioni di storia e letteratura, 19811983. 28. Luigi Urettini, "La diocesi del papa. Dieci anni di corrispondenza di Pio Decimo con il Vescovo di Treviso A. G. Longhin", «Venetica. Rivista di storia delle Venezie», 7 (gennaio- giugno 1987). 29. Paolo Gaspari, "Grande guerra e ribellione contadina. Chiesa e Stato, possidenti e contadini in Veneto e Friuli (1866-1921)", Udine, Gaspari, 1996; Id., "Le lotte agrarie in Veneto, Friuli e Pianura Padana dopo la Grande Guerra", Udine, Gaspari, 1997. 30. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 2, "Appendice", p. p. 169-171. L'autodifesa di Rodolfi, non bella, è nella lettera n. 31 del 5 settembre, p. p. 135-136. 31. Vicenza, Rumor, 1931. 32. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 2, p. 160. 33. Christine Mayerhofer, "L'amministrazione militare austroungarica nei territori italiani occupati 1917-18", a cura di Arturo Toso, Udine, Pellegrini, 1985 [ed. orig. "Die Österreichisch- ungarische Militärverwaltung in den besetzen Gebieten Italiens", Wien, 1970]; G. Corni, "L'occupazione austro- germanica", cit. 34. Nicolo dè Claricini Dornpacher, "La mia opera di sindaco di Moimacco durante l'anno dell'occupazione straniera", Padova, 1919, p. 4. Questo autore è ricordato da G. Corni in "L'occupazione austro- germanica", cit., p. 382. 35. Si tratta di Bindo Chiurlo, che nel 1930 rende pubblici, scrivendo nell'"Introduzione", i "Verbali della Giunta 560

Comunale di Udine durante l'occupazione austriaca del 1918", Udine, 1930, p. 11. Conf. G. Corni, "L'occupazione austro- germanica", cit., p. 385. 36. G. Corni, Inoccupazione austro- germanica, cit., p. p. 381-382. 37. G. Corni, "L'occupazione austro- germanica", cit., p. 381. 38. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 2, p. 441. 39. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 2, p. 441. 40. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. 161. 41. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. 171. 42. Ancora nella lettera n. 208, del 31 ottobre 1918, «la carneficina inutile continuerà purtroppo, a meno intervenga un provvido armistizio» e, nonostante i nostri si battano più del previsto, «sul Grappa l'azione ha fatto fiasco completo: "una resistenza adamantina impedisce qualunque progresso"», in A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. p. 433-434. 43. Lettera n. 210, Padova, 9 novembre 1918, in A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. p. 438-440. 44. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. p. 208-209.

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45. A. Scotta (a cura di), "I vescovi veneti e la Santa Sede", cit., vol. 1, p. 210. 46. Lodovico Ciganotto, "L'invasione austroungarica a Motta di Livenza e nei dintorni", Motta di Livenza, Pezzutti, 1922. E' una delle molte testimonianze di cui è intessuta la rivisitazione di M. Bernardi, "Di qua e di là dal Piave", cit., che riporta il passo a p. 40. 47. In attesa che diventi un libro, si veda per ora la tesi di dottorato discussa da Daniele Ceschin, "Per una storia dei profughi friulani e veneti durante la Grande Guerra (19161920"), rel. Bruna Bianchi, 2004. 48. G. Corni, E. Bucciol, A. Schwarz, "Inediti della Grande Guerra", cit, riporta una scelta di fotografie scattate nelle zone occupate dai fotografi ufficiali dell'esercito austroungarico, tra le molte migliaia conservate al Kriegsarchiv di Vienna. Un'altra scelta dallo stesso archivio fotografico del nemico di allora è offerta dallo stesso Bucciol in "Il Veneto nell'obiettivo austroungarico. L'occupazione nel 1917-18 nelle foto dell'Archivio di guerra di Vienna", introduzione di Mario Isnenghi, Treviso, Canova, 1992. 49. Filippo Tommaso Marinetti, "L'alcova Romanzo vissuto", Milano, Vitagliano, 1921.

d'acciaio.

50. F. T. Marinetti, "L'alcova d'acciaio", cit., p. 15. 51. Armando Diaz, nato a Napoli nel 1861, sottotenente d'artiglieria nel 1882, aveva svolto buona parte della sua carriera presso lo stato maggiore dell'esercito e il ministero. Aveva comandato bene un reggimento in Libia, poi era tornato a Roma come capo della segreteria del capo di stato maggiore Pollio e poi di Cadorna; dal giugno 1916 all'aprile 1917 aveva comandato la 49esima divisione sul Carso, poi il ventitreesimo corpo d'armata. Tenne il 562

comando dell'esercito fino al novembre 1919. Fu ministro della Guerra nel primo governo Mussolini, cui garantì l'appoggio dell'esercito, fino all'aprile 1924. Duca della Vittoria nel 1921, maresciallo d'Italia nel 1924, morì nel 1928. 52. Le divisioni francesi contavano 130 mila uomini nel dicembre 1917 e 45000 nell'aprile 1918, quelle inglesi 110 mila e 80000 alle stesse date. 53. Il maresciallo Conrad era stato esonerato nel febbraio 1917 dal comando dell'esercito austroungarico (passato al generale Arthur Arz von Straussemburg) e aveva assunto il comando del gruppo di armate del Tirolo, che con la decima e undicesima armata aveva la responsabilità del fronte alpino dal confine svizzero alla Carnia e, dopo Caporetto, fino al Grappa. Fu allontanato da questo comando nel luglio 1918, dopo il fallimento dell'offensiva austriaca. 54. Un confronto con la seconda guerra mondiale è impietoso: la selezione fu così scarsa, che nel 1943 i generali italiani erano quasi tutti oltre i 60 anni, molto più vecchi di quelli tedeschi, inglesi, russi e americani. Non è per questo che perdemmo la guerra, ma tra le cause del crollo dell'8 settembre 1943 c'è anche il collasso fisico e morale di comandanti troppo anziani. 55. Ugo Cavallero, nato nel Monferrato nel 1880, capitano nel 1915, generale di brigata nel 1919, lasciò il servizio attivo nel 1920. Fu direttore generale della Pirelli, sottosegretario alla Guerra dal 1925 al 1928, poi presidente dell'Ansaldo. Capo di stato maggiore generale dalla fine del 1940 all'inizio del 1943, maresciallo d'Italia, si suicidò all'indomani dell'8 settembre 1943. 56. Collaboratore di Cavallero all'Ufficio operazioni era il maggiore di complemento Ferruccio Parri, poi antifascista, dirigente della guerra partigiana e del Partito d'azione, 563

presidente del Consiglio nel 1945, fondatore dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, senatore a vita. Al Comando supremo prestava servizio un altro maggiore di complemento di grande avvenire, Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica nel 1955-1962. Tra gli ufficiali effettivi che fecero carriera ricordiamo i colonnelli Pietro Pintor, Pietro Gazzera, Alberto Pariani. 57. Il che non significa avallare i tentativi successivi di Badoglio di presentarsi come il vincitore di Vittorio Veneto: aveva fatto bene il sottocapo, ma il capo era Diaz. 58. La divisione italiana rimase comunque su 4 reggimenti di fanteria (12 battaglioni) e uno solo di artiglieria, come quella austriaca, mentre tedeschi, francesi e inglesi erano passati alla divisione su 3 reggimenti di fanteria (9 battaglioni) e uno (talora due) reggimenti di artiglieria, con una maggiore potenza di fuoco a parità di battaglioni. 59. Il totale dei proietti impiegati fu di 3,3 milioni nel 1915, 7,9 nel 1916, 16,5 nel 1917 e 14,0 nel 1918. In quest'ultimo anno il fuoco d'artiglieria fu assai più intenso, se si tiene conto che furono combattute soltanto due grandi battaglie relativamente brevi. 60. Meno ricordate, ma importanti le osterie sorte nelle retrovie, le case chiuse pubbliche e la prostituzione non regolamentata; conf. E. Franzina, "Il tempo libero dalla guerra", cit.; Id., "Casini di guerra", cit.; Antonio Sema, "Soldati e prostitute. Il caso della terza armata", Valdagno, Rossato, 1999. 61. Si veda G. L. Gatti, op. cit. 62. Fonte: Ufficio storico dell'esercito, "Relazione ufficiale", vol. 5, t. 1, cit., p. p. 320-344. Non sono compresi i reparti del genio e di cavalleria. Questi dati presentano leggere 564

variazioni rispetto ad altre fonti autorevoli, a seconda dei criteri di calcolo. Per esempio, il totale di 700 battaglioni che diamo nel testo non comprende i battaglioni di marcia e quelli di milizia territoriale al fronte, che invece sono conteggiati nella tabella. Così l'artiglieria contava 3086 pezzi leggeri, 2408 medi e 145 pesanti, ma la nostra tabella tiene conto anche di 1578 bombarde e 600 cannoni antiaerei. I dati sulle forze all'estero si riferiscono alla data del 10 luglio 1918: Ufficio storico dell'esercito, "Relazione ufficiale", vol. 5, t. 2 bis, cit., p. 330. 63. Conf. G. Rochat, "Gli arditi della grande guerra", cit. La mancanza di documentazione archivistica e di pubblicazioni ufficiali, nonché il carattere agiografico della memorialistica sugli arditi rendono difficile una ricostruzione precisa delle loro vicende. Alcuni dei dati che diamo sono quindi approssimativi. 64. Rinviamo a G. Rochat, "Gli arditi della grande guerra", cit. 65. Torniamo a sottolineare i punti di contatto tra queste battaglie e quella di dimensioni minori di Caporetto. I tedeschi attaccarono ogni volta con il vantaggio della sorpresa e (salvo sullo Chemin des Dames) di una fitta nebbia, dopo un bombardamento violentissimo di poche ore con largo impiego di gas, travolgendo le prime linee con facilità e poi spingendo in profondità agili colonne di truppe bene addestrate e armate, che agivano di iniziativa senza perdere i collegamenti. Gli anglofrancesi, come gli italiani, sottovalutarono ogni volta l'offensiva pur prevedibile e si fecero cogliere di sorpresa; i loro comandi si dimostrarono incapaci di fronteggiare una situazione imprevista, anche perché il bombardamento tedesco faceva saltare i collegamenti. E ogni volta gli attaccanti ebbero colpi di fortuna: ponti non distrutti a tempo, posizioni forti abbandonate, reparti fuori posto. Se gli anglofrancesi avessero studiato Caporetto (ma neppure gli italiani lo 565

fecero) avrebbero affrontato i tedeschi in condizioni migliori. Dopo i travolgenti successi iniziali intervengono però differenze sostanziali con la battaglia di Caporetto: sul fronte occidentale c'erano le riserve necessarie per tamponare le penetrazioni tedesche. E gli anglofrancesi non diedero la colpa delle sconfitte alle loro truppe. 66. Dopo la battaglia del 15 giugno, due divisioni austriache furono trasferite sul fronte francese. 67. Un altro prologo fu l'affondamento della corazzata "Szent Istvàn" il 10 giugno compiuto dal mas del comandante Luigi Rizzo dinanzi all'isola di Premuda. 68. La resistenza sul Piave diede origine alla più nota canzone della guerra italiana, "La leggenda del Piave", con il famoso ritornello: «Il Piave mormorò: non passa lo straniero!». E' l'unica tra le canzoni più diffuse che abbia un autore, E. A. Mario, che la compose nell'estate 1918 (se ne vedano le vicende e le varianti in A. Virgilio Savona e Michele L. Straniero, "Canti della grande guerra", cit., p. p. 331), l'unica tra le canzoni "ufficialì presenti in tutte le cerimonie che ebbe grande successo tra i combattenti e i reduci (conf. M. Isnenghi, "Le guerre degli italiani", cit., p. p. 97-99, e Fortunato Minniti, "Il Piave", Bologna, Il Mulino, 2000). Le altre canzoni più note della guerra non hanno un solo autore, perché nascono direttamente dai soldati, che le cantavano con infinite varianti, anche quelle proibite. 69. Enrico Caviglia, nato a Finalmarina nel 1862, ufficiale d'artiglieria e di stato maggiore, colonnello nel 1914, passò tutta la guerra al fronte, salendo dal comando di una brigata a quello dell'ottava armata. Ministro della Guerra dal gennaio al giugno 1919, generale d'esercito e poi maresciallo, appoggiò il regime fascista con qualche distacco, anche per l'acre rivalità con Badoglio.

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70. Al momento della resa l'esercito tedesco era ancora schierato sul territorio francese e belga. La propaganda oltranzista e poi nazista ne trasse pretesto per sostenere che l'esercito era stato abbattuto non dal nemico, ma dal tradimento interno di socialisti, democratici ed ebrei. Anche per questo nel 1944-1945 gli alleati si prefissero l'occupazione totale della Germania e i russi arrivarono a Berlino. 71. La creazione di queste due armate è stata criticata, perché dava alla presenza anglofrancese un rilievo superiore al suo peso reale. Diaz intendeva probabilmente coltivare i suoi rapporti con gli alleati e forse dimostrare la sua autonomia nei confronti del governo, che non fu consultato (come sarebbe stato doveroso per i risvolti politici della nomina di due generali alleati al comando di armate italiane). 72. Si veda Giuliano Lenci, "Le giornate di Villa Giusti. Storia di un armistizio", Padova, Il Poligrafo, 1998. 73. M. Isnenghi, "Le guerre degli italiani", cit., p. p. 62-63. La tempestività e solennità del bollettino del 4 novembre valevano anche a rivendicare il ruolo dell'esercito. Sono citati i nomi del re, del duca d'Aosta, di Diaz, manca ogni riferimento al governo, al paese, alla marina. 74. Dati citati in John Horne, "La società britannica e la prima guerra mondiale", «Ricerche storiche», 1991, n. 3, p. 580. ***

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8. LA GUERRA DOPO LA GUERRA. DAGLI ARMISTIZI ALLA PACE. - "Gli armistizi". La lunga serie degli armistizi e dei successivi trattati di pace si apre fra Russia e Germania a Brest- Litovsk, rispettivamente nel dicembre 1917 e nel marzo 1918: un precedente cronologico e logico, ancora in piena guerra, dei crudi regolamenti di conti e delle paci punitive che caratterizzeranno l'uscita dalla guerra e il riposizionamento di popoli e stati nel primo dopoguerra. La nuova Russia dei soviet sacrifica infatti sull'altare della pace necessaria vaste porzioni della vecchia Russia zarista, in Polonia, Finlandia, Curlandia, Livonia, Estonia, Ucraina, perdendo un terzo della popolazione, un terzo delle ferrovie e circa tre quarti della produzione di materiali strategici come ferro e carbone, oltre a dover corrispondere un'altissima indennità di guerra. E' un trattato di vecchio stampo, in cui la volontà delle popolazioni non esiste, contano solo i rapporti di forza e le convenienze politiche immediate; mentre la Germania, adottando questi comportamenti, non fa che aderire alla sua natura imperiale e, quasi, alla caricatura di stato militarista e prevaricatore che la propaganda dell'Intesa le ha stampato addosso, la Russia delle speranze rivoluzionarie di rifare "ex novo" il mondo paga questo esorbitante pegno al passato pur di lasciarsi la guerra alle spalle e impegnarsi per intero nel suo "nuovo iniziò. E anche in questo Brest- Litovsk suona preannuncio di quanto avverrà circa un anno dopo alla conferenza per la pace: quando pure, alla forte discontinuità politica e istituzionale con cui si presentano i vinti - che sono a questo punto i due ex Imperi centrali - si contrappone l'arcigna determinazione dei vincitori di ignorare le trasformazioni avvenute e in corso e di inchiodare la Germania e ciò che resta dell'Austria al loro passato come eredi e rappresentanti a 568

pieno titolo, in assoluta continuità, dei due imperi autoritari cui si imputa di aver voluto la guerra. A guerra ancora in corso e sulla scia della Russia, è costretta a cessare in anticipo le ostilità, nell'aprile 1918 (pace di Bucarest), anche la Romania, che già dal 1916 s'era ridotta a controllare solo una parte del territorio nazionale. E' questo l'ultimo segno in controtendenza, rispetto al successivo moltiplicarsi dei segni di crisi nella tenuta complessiva del blocco austro- germanico. Militarmente, le truppe dell'Intesa muovono all'attacco del fronte meridionale degli Imperi centrali, costringendo alla resa a discrezione prima la Bulgaria (29 settembre); poi l'Impero ottomano, rimasto separato dai suoi alleati, per l'interruzione del corridoio di terra e il blocco per mare, e roso di suo da una antica crisi di consunzione che precede le operazioni militari: anche la Turchia è costretta alla resa (30 ottobre). A quel punto si è ormai dispiegato da una settimana il contrattacco su tutta la linea degli italiani atteso e maturato dalla battaglia del Solstizio - che porta, con lo sfondamento delle linee nemiche a Vittorio Veneto, alla veloce rioccupazione dei territori abbandonati e invasi nei giorni di Caporetto e - alle 15 di domenica 3 novembre all'entrata vittoriosa a Trieste e a Trento, città simbolo della guerra e del Risorgimento che si compie. E' un mese, quell'ottobre 1918, decisivo nella storia di diversi popoli europei; e di tali e così straordinarie accelerazioni storiche che al suo inizio non risulta prevedibile molto di quanto sarà ormai realtà alla fine. I giorni, poi, a cavallo tra fine ottobre e il 4 novembre costituiscono per i contendenti una vera lotta contro il tempo, che si combatte sul filo dei giorni e delle ore (1). La duplice monarchia - squassata dalla fame e da una attività disgregativa a opera dei nuovi soggetti nazionali che accentua e legittima gli episodi di indisciplina e di rivolta nella flotta e nell'esercito - è andata via via moltiplicando i segni di una disponibilità a trattare separatamente dalla Germania, mentre l'alleata fa di tutto per evitare o ritardare questo abbandono che la lascerebbe sola contro tutti e che, 569

in particolare, aprirebbe alle truppe italiane e alleate la via della Germania attraverso l'Austria. Nonostante tutto, il capo della commissione incaricata di avviare trattative di armistizio con l'Italia si illude ancora il 6 ottobre che esso possa lasciare Trieste all'Austria e prevedere il semplice abbandono dei territori occupati dopo Caporetto, con il ripristino del confine precedente. Il generale Weber von Webenau non doveva essere il solo a coltivare queste "illusionì, ma - come scrive Ludwig Jedlicka - «era completamente fuori della realtà» (2). E' vero del resto che, ancora in vista della metà di ottobre, neppure il Comando supremo italiano appare del tutto consapevole di quanto sta per avvenire ed anzi tenderebbe a dilazionare l'offensiva e la vittoria finale alla primavera successiva. Fra le due esitazioni - a darsi per vinta l'Austria, a impegnare battaglia l'Italia - è il Comando supremo italiano che si risolve infine a rompere gli indugi e ad attaccare dal Grappa e dal Piave, su pressione delle autorità politiche italiane e, da Parigi, del Consiglio interalleato. Chiesto e ottenuto prima di questa battaglia risolutiva, l'armistizio sarebbe valso a evitare all'Austria lo smacco della riprova sul campo della sua impossibilità a reggere la volontà di rivincita della rivale meno temuta e più odiata. Ovvio l'interesse antitetico del patriottismo italiano, che non vuole attendere la fine della guerra con gli austriaci in casa e vive in stato di ebbrezza i giorni di riscatto e di rivalsa che si concludono vittoriosamente con l'ammissione di sconfitta da parte del "nemico storicò: la richiesta di un armistizio (il 29 ottobre, quando l'avanzata italiana dal Grappa e dal Piave è in atto da giorni e la rotta non appare più militarmente arginabile) e la firma a Villa Giusti, alle porte di Padova, la città in cui ha sede il Comando supremo italiano, alle ore 18 di domenica 3 novembre. Da quel momento, secondo l'accordo delle due commissioni armistiziali guidate dal generale Badoglio e dal generale Weber von Webenau, decorrono le 24 ore al termine delle quali si ritiene che tutti i reparti possano essere stati informati dell'avvenuta firma dell'armistizio e le armi possano e debbano materialmente 570

tacere: formalmente la guerra sul fronte italiano finisce quindi alle 15 invece che alle 18 del giorno 4, "abbuonando" le tre ore di lavoro che avevano condotto alla firma. In realtà, forse tentando di forzare la situazione, il generale Arz von Straussenburg emana un ordine anticipato di cessare il fuoco già alle 1.20 del 3; il 2 il nuovo governo ungherese ha deciso di far parte per se stesso ordinando la ritirata ai suoi; e si conoscono in più settori del fronte iniziative di singoli reparti imperiali di anticipare localmente l'ora di entrata in vigore di un armistizio che tutti sanno ormai inevitabile e imminente. Non mancano infine tracce documentarie e fra i sudditi dell'Impero morente corrono da subito voci che i ben 400 mila prigionieri degli ultimi giorni e ore della guerra si spieghino non solo con il collasso generale dell'esercito e la confusione dell'ultimo momento, ma con la scelta della disperazione: la prigionia in Italia piuttosto che la fame in patria, un orientamento a cui non sarebbero state estranee le stesse autorità, in particolare quelle del Tirolo, la regione più immediatamente esposta a rischi di devastazione e saccheggio da parte delle proprie truppe in ritirata. Impossibile, come si vede, disgiungere la dimensione militare della rotta da quella generale delle condizioni materiali e mentali dei vari popoli, che indirizzano l'antico agglomerato imperiale allo sfacelo, sancito, prima e dopo l'ammissione della disfatta militare, dalla disfatta politica espressa con la disintegrazione istituzionale, il profilarsi di nuove forme di governo e con l'abdicazione dell'ultimo imperatore, Carlo d'Asburgo (11 novembre). Da due giorni, a quel punto, ha anche abdicato il Kaiser Guglielmo Secondo, dopo avere invano tentato di smentire se stesso e di invertire il corso delle cose risolvendosi a promesse di democratizzazione, che non risultano credibili e che non possono arginare né il dilagare delle rivolte militari, nella flotta e nell'esercito; né la crescita di un'opposizione radicale alla guerra e ai responsabili della guerra che punteggia tutto il territorio dell'Impero attizzando il fuoco della rivoluzione consiliare e "soviettista" sin a Berlino; né 571

infine la proclamazione di una repubblica con alla testa i capi della socialdemocrazia, impegnati nel difficile compito di governare contro la destra sconfitta e contro le aspirazioni rivoluzionarie della sinistra estrema, che fa capo agli "spartachisti" di Liebknecht e Rosa Luxemburg. Fra i primi obbligati atti politici dei nuovi governanti, dopo l'abdicazione e la fuga all'estero degli Hohenzollern (9 novembre), la firma dell'armistizio di Rhetondes (11 novembre), che segna la capitolazione della Germania. - "La smobilitazione". Nel novembre 1918 l'esercito mobilitato contava 2 milioni 132 mila 800 uomini e 82800 ufficiali, divisi in 51 divisioni di fanteria e 4 di cavalleria sul fronte italiano fino al Brennero, con punte in Tirolo, e all'Istria (poi verrà occupata parte della Dalmazia), 2 divisioni in Francia, 3 in Albania, una di forza doppia avanzante da Salonicco, più le truppe in Libia e reparti minori nelle isole del Dodecaneso, in Siria e Palestina, a Murmansk e nella Siberia orientale. E' più difficile calcolare la forza complessiva alle armi; non abbiamo cifre dettagliate sulle truppe dislocate nel paese, sui ricoverati in ospedale, sui prigionieri, ma le fonti ufficiali danno un totale di 3760 mila uomini e 150 mila ufficiali (3). Prima della fine dell'anno vennero congedate le 11 classi più anziane (1874-1884), i giovani della classe 1900 (non ancora immessi nei reparti, saranno richiamati un anno più tardi) e aliquote di soldati in condizioni particolari (gli inabili e tracomatosi, i provenienti dalle province già invase fino alla classe 1895, inoltre gli esonerati ritenuti necessari alla ripresa, come i funzionari delle amministrazioni pubbliche, imprenditori, sindaci e segretari comunali, eccetera). In tutto circa 1400 mila uomini. Tra gennaio e marzo 1919 vennero rimandate a casa altre tre classi (18851887) e continuarono i congedamenti anticipati di categorie particolari. Poi la smobilitazione venne interrotta, quando erano alle armi oltre un milione e mezzo di uomini. Le cause erano diverse: da una parte il governo Orlando intendeva 572

affrontare da una posizione di forza le trattative di Parigi e il confronto con i nazionalismi jugoslavi, dall'altra si temevano le ripercussioni sull'ordine pubblico del ritorno a casa di troppi reduci che non avrebbero trovato subito lavoro. Fu subito palese l'incapacità dell'amministrazione militare di gestire la smobilitazione con il respiro necessario. L'indennità concessa ai congedati era ben misera: 100 lire per il primo anno di guerra, 50 per gli anni successivi, più 50 lire ai sottufficiali (il massimo per chi avesse fatto tutta la guerra era meno dello stipendio mensile di un sottotenente di prima nomina). Inoltre la conservazione del sussidio alle famiglie per 90 giorni e un pacco vestiario con cui si intendeva eliminare gli stock di tessuti residuati; ma i calcoli erano sbagliati, quando gli stock si esaurirono il pacco vestiario fu sostituito da una somma in denaro male accolta perché di valore inferiore. Resistenze a una sollecita smobilitazione venivano poi da altre parti. La ricostruzione delle terre liberate era stata affidata all'esercito, dando origine a una struttura amministrativa in parte benefica, ma improvvisata, incontrollata e caotica, che tendeva a difendere e protrarre il suo ruolo. Anche la liquidazione degli enormi depositi di materiale bellico fu affidata a commissioni militari (sotto la direzione del sottosegretario Ettore Conti, magnate dell'industria idroelettrica); l'intento dichiarato era di favorire la ripresa economica, con la cessione rapida di questi materiali in deroga alle norme della contabilità pubblica. Il risultato fu il saccheggio dei depositi senza vantaggio per l'erario, con una corruzione diffusa duramente condannata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta per le spese di guerra. Un trattamento di assoluto privilegio fu riservato agli ufficiali di complemento: indennità di smobilitazione relativamente cospicue, la possibilità di congedamenti anticipati, ma anche il mantenimento in servizio a domanda, per gli studenti universitari il trasferimento nelle sedi richieste ove attendere al proseguimento degli studi senza obblighi di servizio, pur conservando lo stipendio. Al primo 573

luglio 1919 erano alle armi 110 mila ufficiali e 1578 mila soldati, di cui 876 mila in unità ancora mobilitate, per lo più nel Triveneto, ma con 29000 uomini in Dalmazia, 54000 in Albania, 27500 in Macedonia e Bulgaria, 72000 in Libia (le cui guarnigioni erano state raddoppiate per fumosi propositi di riconquista presto rientrati), 2000 in Russia e 9000 tra Egeo e Medio Oriente, con una serie di piccole teste di ponte senza avvenire sulla costa turca. Nel paese c'erano oltre 600 mila soldati di cui lo stesso ministero sapeva ben poco, dispersi com'erano in una miriade di enti, comandi, depositi e magazzini di utilità in gran parte dubbia. Una situazione insostenibile, anche sotto il profilo finanziario, che la stampa denunciava con crescente durezza. Salendo al governo a fine giugno 1919, Nitti si proponeva in primo luogo la liquidazione della pesante eredità bellica. Il primo luglio fu abolita la censura sulla stampa, dando la stura a vivacissime polemiche contro la guerra e Cadorna, cui diede alimento la pubblicazione ai primi di agosto della relazione della Commissione d'inchiesta su Caporetto. Grazie a un accordo diretto con Diaz (che designò come ministro della Guerra nel governo Nitti il generale Albricci di sua fiducia) la smobilitazione conobbe un'accelerazione decisiva. In due mesi venne congedato un milione di uomini, poi venne sciolta la rete di comandi e strutture create per la guerra. A fine dicembre restavano alle armi circa 500 mila uomini, con 36000 ufficiali di complemento e oltre 20000 di carriera. Nella primavera 1920 l'esercito scese a circa 300 mila uomini, poco più della forza prebellica; a fine anno venne congedata la classe 1899, l'ultima di quelle che avevano combattuto in trincea. Era stato completato anche il congedamento degli ufficiali di complemento ed era iniziata la riduzione di quelli di carriera in soprannumero. Nitti si assunse anche la liquidazione di un'altra pesante eredità della guerra con il decreto di amnistia del 2 settembre 1919, ingiustamente noto come amnistia ai disertori. La fine del conflitto lasciava uno straordinario cumulo di processi ancora aperti, 470 mila per renitenza in 574

gran parte a emigrati che non erano rientrati in patria per la guerra, ma anche 50000 verso militari alle armi. Inoltre su 210 mila processi conclusi con una condanna, si avevano circa 60000 militari in carcere e 150 mila che dovevano entrarvi per scontare le pene fino a sette anni sospese per la durata delle ostilità (costoro avevano continuato a combattere dopo la condanna). Il governo Orlando aveva emanato nel febbraio 1919 un'amnistia per i reati più lievi, riscattati con buona condotta, ferite, promozioni o medaglie, sulla cui applicazione non abbiamo dati, comunque del tutto insufficiente dinanzi alle dimensioni del problema. Il decreto del 2 settembre, preparato dal ministro guardasigilli Mortara con la collaborazione di Diaz e Albricci, concedeva l'amnistia per tutte le condanne fino a dieci anni e una riduzione per quelle superiori, salvo che per alcuni reati infamanti come la diserzione armata o con passaggio al nemico. Per i renitenti e latitanti il godimento dell'amnistia era condizionato alla presentazione entro tre mesi. Il decreto risolse la grande maggioranza dei casi; rimasero in carcere circa 20000 uomini, sui quali non abbiamo notizia alcuna, ossia non sappiamo quali reati avessero commesso (oltre ai casi di diserzione), quali condanne dovessero scontare, in che condizioni vivessero, se e quando tornassero a vita civile. Il sistema carcerario militare è rimasto, fino a pochi decenni fa, forse il settore più buio e dimenticato di tutta la società italiana (4). Le accuse che negli anni seguenti le destre rivolsero a Nitti per la cosiddetta «amnistia ai disertori» erano ingiustificate, poiché i veri disertori ne erano esclusi. In realtà l'amnistia, quali ne fossero i limiti tecnici, liquidava una delle più difficili eredità della guerra e contribuiva alla chiusura della fase di più dure polemiche. Nei giorni seguenti al decreto di amnistia un ampio dibattito parlamentare ricompattava il fronte delle forze nazionali sulle conclusioni di Nitti (5):

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"Tutti hanno riconosciuto [...] che la grande massa degli italiani, che la nostra gente, in questa terribile impresa, la quale ha deciso della nostra salvezza e del nostro avvenire, è stata pari al suo compito e che il nostro esercito ha compiuto grandiosamente le sue gesta. Ora, questo a noi basta. Che errori di uomini vi siano stati, che colpe vi siano state, oserei dire che è indifferente alla nazione. Accerteremo le responsabilità: ma constatiamo che l'impresa è riuscita [...]. La verità è che abbiamo vinto, e che la vittoria ha sanato tutto [...]. Varie sono le formule della morale, ma la morale del mondo in fondo è una sola: chi vince ha ragione". - "La conferenza della pace". All'aprirsi della conferenza della pace (18 gennaio 1919) che si svolge nei pressi di Parigi, così come in Francia e in vista dell'occupazione e della difesa di Parigi si sono svolte le operazioni centrali del conflitto, marcandone sin dal principio i caratteri - esiste un'opzione ideologica sul senso della guerra e della pace che prende nome dai celebri «quattordici punti» del presidente degli Stati Uniti Wilson. Esposti in un messaggio al Congresso del gennaio 1918, essi erano apparsi aperti, innovativi e lungimiranti, il segno di un'era nuova nei rapporti internazionali, almeno sino a quando la guerra era in corso, la partita aperta, e i «quattordici punti» spendibili dall'Intesa come insegna ed emblema di una guerra giusta, di una visione che legittimava tutte le possibili attese di rinnovamento nella vita collettiva dei popoli e persino, nel frattempo, parole d'ordine lusinghiere quali «guerra alla guerra» o «ultima guerra». Assai più, dunque, di un'operazione di cosmesi propagandistica ben riuscita a uso esterno, piuttosto l'autorappresentazione compiaciuta della propria buona causa e di un'intima diversità dagli avversari. Nelle settimane che seguono gli ultimi colpi di cannone, mentre il mondo assapora ancora quasi incredulo la fine della spaventosa ecatombe, si fa più che mai intenso il senso 576

aurorale di un ricominciamento assoluto, che doveva essere ben diffuso se, in Italia, non vi si sottraggono uomini di mondo come Albertini e quotidiani della classe dirigente come il «Corriere della Sera»: «Usciamo da una notte spaventosa e ci illumina l'aurora di un'era nuova per l'umanità». Il quadro valoriale entro cui si collocano "I doveri di quest'ora" - come titola austeramente il direttore del foglio milanese il 14 novembre 1918 - è all'incirca quello liberaldemocratico di una Società delle Nazioni garantita e protetta dai nobili e ben intenzionati vincitori dell'appena concluso duello ideologico: rinuncia alla diplomazia segreta, libertà di navigazione dei mari, eliminazione delle barriere economiche, rispetto generalizzato del principio di nazionalità e così via. Ciascuno degli attori e commentatori può riprenderli con maggiore entusiasmo o prudenza, ma sono appunto i più applauditi fra i «quattordici punti» a veicolare anche fra le classi dirigenti l'attesa e il sogno del nuovo, mentre il favore delle moltitudini è loro conteso dal mito crescente della Rivoluzione d'ottobre. Si può dire anzi che la forza propositiva e il potenziale mitopoietico insiti nelle due forme nascenti di "internazionale dei popolì - che fanno capo a due inediti paesi guida, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica - si estendano dai vincitori ai vinti e anche a questi promettano spazio e diritti. A un anno di distanza e a conflitto concluso - quando governanti e diplomatici danno il cambio ai militari e sembra venuto il momento di renderli operativi - i «quattordici punti» tendono rapidamente a scadere a manifesto ideologico di ardua traducibilità politica. Trascorrono i mesi di trattativa, ognuno dei rappresentanti fa la spola fra la sede della conferenza internazionale e la propria capitale, esposto ai colpi e ai contraccolpi dei mutevoli rapporti di forza e di mal conciliabili sollecitazioni e attese (6); e quei princìpi, apparsi appena ieri così nobili e alti, vengono trasformandosi, agli occhi di diversi uomini di governo e di partito della vecchia Europa, nelle pretese di un moralismo ideologizzante che, mentre da una parte pretende di sottoporre i bisogni della politica a vincoli di 577

principio, dall'altra copre semplicemente l'entrata in campo con propensioni egemoniche di una nuova grande potenza. L'intermittente controspinta isolazionista provvederà a smorzare per il momento, almeno in parte, questo nuovo ruolo di comando esercitato dagli Stati Uniti nelle cose europee; ma intanto il principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli, tanto in sintonia con le asserzioni ideologiche e propagandistiche dei governi e dei popoli dell'Intesa, entra pesantemente in conflitto con i trattati segreti e con le attese concrete che avevano condotto alle scelte di schieramento dei singoli paesi nel 1914 o dopo. E, a parte queste contraddizioni di fatto, che cosa vuol dire in effetti essere "popolo" e sentirsi "nazione"? Entro quali dimensioni può esprimersi una tale soggettività collettiva? Ancora nel gennaio 1919 - mentre la conferenza della pace sta per prendere le mosse - il presidente degli Stati Uniti è accolto a Roma e a Milano da una enorme folla festante, nella quale si confondono e uniscono pieni di speranza borghesi e proletari, che vedono in Wilson il profeta di una nuova socialità fraterna e democratica di liberi popoli, senza più oppressi né oppressori. Un mito unificante, che dà corpo e legittimità sia alla pace sia alla guerra che è valsa a renderla possibile. Dopo soli tre mesi, proprio agli occhi di gran parte dei cittadini italiani, Wilson precipita da quel suo piedistallo "super partes" di "presidente dei popolì, rientrando d'un tratto nei limiti di una figura di politico venuto da tanto lontano, a guerra inoltrata e però con le pretese di dettare legge, ignorando i trattati, i bisogni e le attese di quelli che intanto si sono svenati per combattere e vincere. E' in particolare l'opinione aizzata dal movimento nazionalista, dagli irredentisti giuliani e dalmati, da D'Annunzio e da Mussolini, a propagandare l'immagine della «vittoria mutilata» e dell'Italia pugnalata alla schiena dai suoi ex alleati, già immemori di quanto era stato invocato e prezioso l'intervento dell'Italia nel 1915 e di come il crollo dell'Austria sul fronte italiano costituisca un "prius" logico 578

e cronologico di quello della Germania sul fronte anglofranco-americano. Malumori e riserve non erano mancati neanche nei mesi precedenti, durante le riunioni del Consiglio interalleato, ma il punto di rottura - che vede bruscamente franare anche presso il grande pubblico l'immagine innovatrice e protettiva di quell'uomo "diversò venuto da oltre Atlantico si ha nell'aprile del 1919, quando Wilson si ribadisce non vincolato dal Patto di Londra, che in caso di vittoria attribuiva parte del litorale e delle isole dalmate all'Italia. E' chiaro che questa attribuzione è diventata meno limpida e più complicata adesso, per la nascita della Jugoslavia. D'altra parte, chi come Wilson non accetta la diplomazia segreta e dichiara di volere l'autodeterminazione dei popoli dovrebbe allora riconoscere l'italianità di Fiume, che il Patto attribuiva ai croati, ma che il voto dei cittadini fiumani, già nel dicembre del 1918, ha annesso idealmente all'Italia. Se dunque opportunisti e contraddittori risultavano i rappresentanti dell'Italia alla conferenza di pace nel pretendere il rispetto contemporaneo di due princìpi antitetici, nella stessa contraddizione cadeva l'uomo simbolo del principio nazionale nell'opporsi comunque alle richieste italiane, sia in un caso che nell'altro. Per giunta, Wilson decide di rivolgere un suo personale appello direttamente al popolo italiano, scavalcando i ministri, con atteggiamento certo irrituale e difficile da accettare per dei rappresentanti ufficiali di uno stato indipendente non presidenziale. Orlando e la delegazione italiana scelgono di sottolineare l'anomalia di quel gesto presidenzialista e populista contrapponendovi un gesto altrettanto forte e inconsueto: lasciano la conferenza e ritornano a Roma, dove il presidente del Consiglio pone la questione di fiducia e la ottiene a grande maggioranza alla Camera e all'unanimità al Senato. Intanto, però, passando sopra l'assenza della delegazione italiana - anzi, mettendola cinicamente a frutto - gli altri si sono spartiti il bottino delle colonie strappate alla Germania, tagliando fuori l'Italia. E' un comportamento a tal punto ispirato alla crudezza degli 579

interessi e dei rapporti di forza da costituire un "vulnus" gravissimo al rapporto fra gli alleati sul piano internazionale e, sul piano interno, da condurre nel giugno alla crisi del governo di Orlando, apparso all'opinione pubblica italiana un ingenuo che si è fatto giocare, compromettendo non solo gli interessi, ma l'immagine stessa degli italiani sempre più furbi degli altri. Il nuovo governo Nitti si troverà a fronteggiare l'istantaneo, devastante diffondersi dell'immagine- parola d'ordine della "vittoria mutilata", con i politici liberali nello scomodo ruolo di coloro che vanno perdendo al tavolo della pace i risultati e il prestigio che il popolo italiano s'era guadagnato spargendo senza risparmio nelle trincee il suo sangue, anche a vantaggio degli ingrati alleati. Il primo frutto di questo clima velenoso e arroventato da un groviglio di complessi e di aspirazioni è, nel settembre, l'"impresa di Fiume": cioè, per impulso e guida di D'Annunzio, una sorta di riedizione del clima antistituzionale del «maggio radioso», questa volta addirittura con ammutinamento di reparti dell'esercito e accorrere di volontari da ogni parte della penisola, per compiere quella che verrà chiamata la «marcia di Ronchi». Scopo dell'impresa, affermare e difendere concretamente, insieme alla cittadinanza fiumana, l'italianità della città istriana, contestata da coloro che, violando i propri stessi princìpi di autodeterminazione pur di nuocere all'Italia, osano anteporre agli italiani gli slavi. L'irredentismo giuliano e dalmata - che la guerra e il dopoguerra stanno celermente staccando dalle tradizionali matrici repubblicane e libertarie e sospingendo verso i nazionalisti e l'imperialismo adriatico - unisce nella concitata rivendicazione dell'Istria e della Dalmazia motivi etnici, culturali e storici, di per sé non incompatibili con i princìpi dell'autodeterminazione dei popoli (anche se di ardua applicazione, vista la compresenza territoriale accanto agli italiani delle città costiere di croati e sloveni, che diventano maggioranza nell'entroterra), a motivazioni di potenza: la sicurezza militare dell'Adriatico visto come un "mare 580

internò italiano che non può ammettere nemici, neppure potenziali, sull'altra sponda. No, quindi, sin dal principio alla nascente Jugoslavia, creatura artificiosa di chi, ai danni dell'Italia, vuole sostituire qualcuno all'Austria come ostacolo al suo naturale fiorire ed espandersi, sulle orme di Venezia, al confine orientale. - "La nuova carta politica". Assunto il caso di Fiume a riprova della assoluta impossibilità di far coincidere, sempre e comunque, le frontiere statali con quelle nazionali e le propensioni degli abitanti con gli interessi geopolitici degli stati, torniamo a Versailles per sintetizzare gli assetti imposti ai vinti dai governanti delle potenze uscite vincitrici dal più grande conflitto mai combattuto (dieci milioni di morti). Anzitutto, va segnalato il carattere di "tribunale delle nazioni" fatto assumere alla conferenza per volontà, in particolare, di Lloyd George e di Georges Clemenceau, in un contesto in cui si assommano e confondono il sollievo per lo scampato pericolo, l'intenzione punitiva nei confronti della Germania e il "moralismo"ideologico. Poiché l'Impero austroungarico si è dissolto (7) e l'Austria che ne deriva, con i suoi poco più di sei milioni di abitanti, ha cessato di essere una potenza, il carico maggiore di responsabilità nell'avere voluto, programmato e condotto con precipua crudeltà la guerra viene fatto gravare sulla Germania. Che anche l'Impero prussiano si sia dissolto non esime, agli occhi dei vincitori, la Germania postimperiale che ne è uscita dal pagare per intero il fio delle colpe tedesche. Monarchica o repubblicana che sia, la Germania ha conservato tali potenzialità complessive da apparire comunque per il futuro la principale antagonista continentale del Regno Unito e la solita scomoda dirimpettaia della Francia. Il Trattato di Versailles che la concerne (giugno 1919) - il primo e il più rilevante di una serie di trattati chiamati nel corso di vari mesi tra il 1919 e il 1920 a definire la nuova carta politica dell'Europa - appare, come è, al nuovo 581

governo e al popolo tedesco un "Diktat" cui per il momento non si è in grado di sottrarsi, e non il frutto di una negoziazione. In una cornice ideologica di criminalizzazione complessiva, in forza della quale la Germania viene definita l'unica responsabile della guerra e deve impegnarsi a rifondere danni pubblici e privati per una cifra tanto esorbitante da risultare, alla fin fine, astratta, irrealizzabile e di valore sostanzialmente simbolico, la Germania deve dare alla Francia le terre di confine contese dell'Alsazia e Lorena; lasciare per un quindicennio la zona industriale della Saar in usufrutto alla stessa Francia; restituire le terre invase nel Belgio, con rettifiche dei confini a favore di quest'ultimo nonché della Danimarca; rendere tutte le terre polacche, di occupazione recente e antica; cedere integralmente il proprio impero coloniale, che comprende possedimenti in Asia e in Africa, i quali passano rispettivamente a Giappone e Inghilterra, e in subordine a Francia, Belgio e Portogallo. Niente ottiene invece l'Italia, che prende anche per questo a coltivare sensi di vittimismo e di rancore. La riduzione delle forze militari, la cessione della flotta all'Inghilterra (evitata con l'autoaffondamento) e la smilitarizzazione della Renania completano i paragrafi di un "trattato" giugulatorio e non negoziato, che dovrebbe garantire la pace (in realtà l'egemonia anglofrancese) per un congruo periodo. Se era stata propagandistica, prima della guerra, l'asserzione di una Germania stretta d'assedio e soffocata, privata del suo "spazio vitale", adesso, per lo spirito e le condizioni del Trattato di Versailles, essa diviene una sorta di profezia avverata, che promette ritorsioni per il futuro. Il Trattato di Saint- Germain nel settembre 1919 - destinato, più di quello di Versailles, a prolungare i suoi effetti nel tempo - e quello del Trianon nel giugno del 1920 regolano i rapporti con il fu Impero austroungarico, o meglio con i nuovi soggetti nazionali e statuali liberati dall'implosione di quella logorata struttura plurinazionale. Al primo, in particolare, è interessata da protagonista l'Italia. L'Austria che residua è una piccola repubblica piena di nostalgie e di 582

complessi - con una grande testa, la città di Vienna, e un corpo minuscolo - che corrisponde più o meno a quelli che erano stati i territori abitati dai cittadini dell'Impero di lingua tedesca, cui però si fa obbligo di non unirsi in un unico stato con i ben più numerosi tedeschi della vicina Germania. Provvederà Hitler, nel 1938, a magnetizzare e assorbire la vicina come Marca orientale del nuovo Reich, così come la consistente minoranza di tre milioni di tedeschi rimasti inglobati in uno dei nuovi stati nati dai trattati di pace, la Repubblica cecoslovacca, fungerà anch'essa da spinta al revisionismo rispetto a quella nuova carta politica d'Europa: pretesto, nel 1938, per l'invasione nazista della Cecoslovacchia. Accanto al Regno d'Ungheria, ormai autonomo, gli strateghi del dopoguerra contribuiscono anche a dar vita alla Jugoslavia, che aggiunge al preesistente Regno di Serbia il Montenegro e le regioni abitate da slavi prima appartenenti all'impero danubiano. L'acquisizione all'Italia di Trento e Trieste va in realtà oltre le città simbolo dell'irredentismo e comporta l'inglobamento all'interno dei confini, sia a Gorizia e nel Goriziano sia nella stessa città giuliana, di non irrilevanti minoranze slave: in particolare sloveni nell'area goriziana e triestina, e croati più a sud, dall'Istria alla Dalmazia, il cui possesso dà luogo a un contenzioso al limite dello scontro militare che si prolunga al di là del Patto di Londra e del Trattato di Saint-Germain. Ma mentre le aree orientali presentano davvero insediamenti a macchie di leopardo che rendono oggettivamente ardua l'attribuzione dei territori a questa o quella nazionalità - si tratta comunque di un mosaico plurietnico -, assai più limpida parrebbe la situazione al confine settentrionale. Qui il confine al Brennero e l'inglobamento nel Regno d'Italia di una città come Bozen - la si chiami pure Bolzano - e ancor più delle valli del Sud- Tirolo - pur ribattezzato Alto Adige - non ha visibilmente a che fare con il principio nazionale e con l'autodeterminazione dei popoli. Il carattere ibrido della guerra italiana si manifesta anche nel carattere ibrido della pace, pur se l'Italia del tempo si trova sicuramente in 583

numerosa compagnia e nessun paese o statista si può dire esca coerente e innocente da Versailles. E' chiaro comunque che queste terre dove si parla tedesco e di sentimenti tutt'altro che filoitaliani vengono prese per diritto di conquista - cioè secondo i criteri che appaiono normali e sottratti a qualunque giudizio di moralità ai nazionalisti e più in generale ai realisti della politica - e non per niente l'idealizzazione della "guerra del '15' nomina sempre la liberazione di Trento e Trieste e tace pudicamente l'occupazione di quella terza e pur non minore città. Completiamo il panorama dei rimescolamenti politici e territoriali cui la conferenza di pace sottopone l'Europa del dopo conflitto ricordando il sorgere della Repubblica di Polonia, che fruisce anche della restituzione di spazi venuti in possesso della Russia e della Germania e alla quale viene assicurato uno sbocco sul Mar Baltico mediante quel corridoio di Danzica destinato a diventare un pomo della discordia non molti anni dopo, in vista della nuova guerra europea. Dalla fine della Russia zarista e dall'annullamento della pace imposta dalla Germania alla Russia sovietica a Brest-Litovsk nascono, nell'estremo Nord, le repubbliche di Lituania, di Lettonia, di Estonia e di Finlandia. Scendendo verso la penisola balcanica, le acquisizioni territoriali ampliano la Romania con la Transilvania; la Jugoslavia e la Grecia con parti della Macedonia. Fra i perdenti - che pagano invece pegno cedendo territori - sono la Bulgaria, cui viene tolto ogni sbocco sul Mare Egeo; e soprattutto l'Impero ottomano. Infatti il Trattato di Sèvres ne opera lo smembramento, dando origine a nuovi piccoli stati sotto mandato inglese (Irak, Transgiordania, Palestina) o francese (Siria e Libano). Le isole del Dodecaneso vengono confermate all'Italia. Qualche anno dopo il Trattato di Losanna (1923), dopo la cacciata del sultano e la fine della monarchia, correggerà in parte i danni inflitti alla Turchia. L'aprile 1919 vede anche l'esordio ufficiale della Società delle Nazioni, destinata - nelle attese utopiche del suo padre spirituale, il presidente Wilson - a superare per sempre la 584

guerra nei rapporti internazionali, grazie a un sistema di arbitrati e di regole di dissuasione. In realtà, il tentativo nasce monco poiché sin dal principio non sono ammesse nella Società delle Nazioni né l'Unione Sovietica né la Germania; gli Stati Uniti stessi finiranno per non farne parte, quando nel 1920 il presidente democratico perde le elezioni e i vincitori repubblicani restaurano l'isolazionismo. * LA DISCUSSIONE SULLA GUERRA. - "L'inchiesta su Caporetto". L'inchiesta su Caporetto appartiene al dopoguerra per una parte dei lavori della Commissione e soprattutto per l'esacerbata discussione, in parlamento, tra le forze politiche e nella stampa, che segue la pubblicazione della relazione finale nell'estate 1919. La decisione politica di promuovere un'inchiesta, la natura e i compiti della Commissione, il decreto istitutivo (12 gennaio 1918), la prima seduta (febbraio), l'effettivo decollo dei lavori a partire da marzo ricadono ancora nel periodo della guerra e dell'incertezza sui suoi esiti. Nell'anno e mezzo in cui si svolgono i circa 1000 interrogatori a opera dei sette commissari - in maggioranza militari e sotto la presidenza di un generale, il senatore Carlo Caneva - il contesto esterno si trasforma radicalmente: dalla probabile imminente sconfitta, alla resistenza, alla vittoria incipiente e poi raggiunta, infine al dopoguerra con i nuovi problemi di schieramento. Tutto ciò non può non influire sulla piega che prendono i lavori e poi sull'uso pubblico dei dati raccolti. Il condizionamento del resto è nelle cose, come rileva lo studioso che ultimamente ha ripercorso criticamente l'imponente materiale radunato e l'uso che ne viene fatto.

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"Ma com'era possibile indagare liberamente su Caporetto se l'ex ministro dell'Interno di quei giorni era salito alla Presidenza del consiglio e se l'ex ministro della Guerra assieme all'ex comandante di un corpo d'armata sfondato sull'Isonzo erano stati promossi a vicecomandanti supremi? Il timore del governo, e in subordine dei militari, era che le forze politiche che si erano opposte alla guerra potessero riprendere libertà d'azione sotto le vesti di un'inchiesta" (8). La necessità di salvare comunque Orlando, Badoglio e Giardino è dunque inscritta nel codice genetico della Commissione. Non manca poi tutta una ragnatela di interessi di categoria, d'arma, di carriera e di immagine di singoli comandanti di vario rango, sospettosi e inquieti nei confronti di chiunque intenda sottoporre a giudizio il loro operato alla testa dei singoli reparti. Tutto ciò non incrementa lo spirito di collaborazione nei confronti di un organo di inchiesta che - per quanto tarato all'origine poiché composto da fautori della guerra - nasce comunque da una nomina politica ed esprime la scelta di rompere l'interdizione della sfera militare ai non militari. Con tutti i filtri e le mediazioni del caso, è il paese che vuoi sapere che cosa è veramente accaduto il 24 ottobre. Un'espressione del clima di apriorismo e di potenziale incriminazione diffusa presente nell'aria alla fine del 1917, quando l'ipotesi dell'inchiesta prende forma, si può ancora rintracciare nella presenza, fra i componenti, dell'avvocato generale al Tribunale supremo militare: una figura che può suonare intimidatoria e comunque ingombrante per coloro che in sua presenza vengono chiamati a dire ciò che sanno sui vari momenti della rotta. Anche se questa presenza sembrerebbe poter incanalare i lavori nel senso aperto dal comunicato di Cadorna il 28 ottobre - l'accusa ai soldati di cedimento colpevole - proprio Cadorna e il comportamento di Cadorna si possono invece alla fine considerare messi sotto accusa dalla Commissione. E con lui, implicitamente, quel transpartitico partito della guerra, culminato nei furori autoritari e nella sindrome repressiva del fronte interno, 586

che nel suo appoggio al "generalissimo" era arrivato a coltivare propositi di dittatura militare. Per contro, il senso politico della relazione finale dell'estate del 1919 sarà la discolpa dei neutralisti, cioè di coloro che, nell'immediatezza delle reazioni, erano stati additati come gli artefici oggettivi e persino volontari della propagazione del "virus" protestatario e quindi del collasso della seconda armata. Dalla documentazione diretta non emerge un'opera organizzata e preordinata di uomini e forze tesi alla "disfatta". Al termine dell'interrogatorio di 100 generali, 400 ufficiali, 80 sottufficiali, circa 200 soldati e un'ottantina di civili, l'inchiesta riporta invece l'attenzione sul comportamento dei comandi, avviando così una lettura relativamente meno inquietante della sconfitta in chiave tecnica e militare, e non sociale e politica. - "Conflitti della memoria". La pubblicazione dei risultati dell'indagine agisce da moltiplicatore in uno scontro polemico già puntigliosamente in atto. Giolittiani, socialisti, cattolici, con i rispettivi gruppi parlamentari, giornali e circoli di opinione, la interpretano come una liberatoria ufficiale rispetto ai sospetti e ai giudizi malevoli che li hanno accompagnati da quando gli esordi della guerra europea hanno radicalizzato le scelte e inasprito le divisioni. Risulta ora caduto un monopolio del patriottismo spintosi sino alla diffamazione e al ricatto. I diritti di cittadinanza e i quarti di nobiltà politica non potranno più derivare dal fatto di essersi accalorati per l'intervento prima o durante il «maggio radioso». Si pongono le premesse di un ripristino della normale dialettica politica. In quegli stessi mesi, tuttavia, l'atmosfera torna a surriscaldarsi, come abbiamo visto, per l'andamento delle trattative di pace. Se viene meno o risulta ormai spuntato un motivo di agitazione e di ricatto - le presunte responsabilità degli ex neutralisti in ordine a Caporetto - il composito ex partito della guerra può tentare di 587

riorganizzare le proprie file cogliendone e impugnandone contestualmente un altro, altrettanto recriminatorio, oltranzista e intrinsecamente delegittimante nei confronti degli avversari del momento. Solo che la nuova raffigurazione dello "straniero internò - il "rinunciatario", che si suppone disposto a svendere il sangue dei fratelli non coincide sempre con quella precedente del "disfattista". Il primo dopoguerra vede infatti scomporsi immediatamente l'ex fronte interventista, e le sinergie che si erano potute creare in azione nel 1918, anche fra mezzi socialisti e mezzi nazionalisti uniti nella resistenza, si dimostrano obsolete già nel corso del 1919. Lo stesso Bissolati - da punto di raccordo che era stato e messaggero di amor di patria presso il popolo in grigioverde - ridiventa subito agli occhi dei nazionalisti e protofascisti un infiltrato, o quanto meno un debole, da additare al ludibrio per difetto di energia e di "Realpolitik"; per analoghe ragioni - l'idea di nazione, il problema dei confini, la politica adriatica - viene emarginato un altro campione dell'interventismo democratico come Salvemini. Degli uomini simbolo dell'interventismo non nazionalista restano attivi e legittimati solo i morti, da Battisti a Corridoni, caduti per la patria sulla cui tomba si avviano da subito operazioni di confisca e interessate sacralizzazioni. Al di là delle icone più popolari del martirologio in via di radicamento, un terreno di elezione delle autorappresentazioni in conflitto e della pluralità di memorie allo stato nascente si rivela più in generale, e sin da subito, quello dei morti: cinque o seicentomila, la cifra oscilla, ma il lutto appare comunque immanente allo scontro, sia fra chi elegge quei caduti a pegno della vittoria, testimoni umili ed eroici di una fraternità fattasi finalmente unanime, sia fra chi li piange come vittime coatte di uno sciagurato macello imposto dai governi ai popoli. Di chi sono, a chi appartengono quei morti? E in che rapporto si possono o debbono mettere con essi coloro che hanno attraversato i combattimenti uscendone vivi? E i familiari? Le comunità di origine dei caduti? Le forze associative e 588

politiche? I processi mentali che si avviano quando le armi hanno appena cessato di uccidere vedono entrare in azione una molteplicità di soggetti privati e pubblici, aventi variamente titolo nel profilare il senso di quelle vite e di quelle morti (9). Nella lotta politica d'ogni giorno i morti in guerra diventano immediata occasione, per le diverse forze politiche, di rinfacciarsi vicendevolmente oblii e tradimenti, rispetto a tutto quel sangue versato. Neanche i monumenti funebri collettivi eretti a memoria a partire dal 1919 in moltissime piazze di piccoli e grandi comuni d'Italia possono sottrarsi alla guerra dei significati e alle contrapposizioni interpretative che riempiono il dopoguerra. Ora che diverse situazioni locali e la storia di singoli monumenti ai caduti sono state esplorate (10) siamo meglio in grado di apprezzare quanto contino, pur nell'ambito di un linguaggio altamente formalizzato, la geografia amministrativa e il gioco delle appartenenze nell'orientare un comitato promotore, un concorso, un artista, una giuria, il pubblico stesso delle inaugurazioni e della vita quotidiana: ora nel senso del gesto eroico del guerriero, ora in quello della mestizia di vittime. A partire comunque da un alto grado di eufemismo e di sublimazione dei lati più crudi del reale quello stesso che impone in Italia la parola "cadutì in luogo di altre più nette - le retoriche comunicative prescelte discendono non tanto dall'atto creativo, quanto - in una fenomenologia artistica largamente seriale - dalla messa in sintonia con una serie di spinte e bisogni di una committenza localizzata. Se l'"habitat" è saturo di spiriti nazionalistici prevarrà la retorica dell'eroico, la positura del maschio in armi potrà essere improntata alla fierezza dell'impresa e quella della figura femminile, che sia l'"Italia" o la "Madre", nobilmente atteggiata nel senso orgoglioso dell'offerta. Se il sito in cui cresce l'iniziativa e cui è destinata l'effigie vede egemone la cultura tradizionale, pregna di elementi cristiani - come avviene in tanti comuni rurali - o comunque intrecciarsi linee e inflessioni diverse, saranno piuttosto la retorica del sacrificio e lo strazio della 589

carne ferita e del venir meno agli affetti a improntare di sé la forma scultorea. Le scritte nel bronzo o nel marmo risentono pure - nella scelta dell'epigrafista e del testo - di rialzi di senso, alti e sonanti, in stile dannunziano, "Per la più grande Italia", ovvero di riferimenti comunitari locali e di toni umanamente più semplici e dimessi. Tutto questo contenzioso nel definire l'immagine dei morti e quindi il senso che i vivi attribuiscono alla guerra non resta sempre confinato nelle carte d'archivio, balza anzi spesso in vista, anima i dibattiti in Consiglio comunale e nella stampa, divenendo espressione e motore di spiriti bellicisti o pacifisti: o, se non propriamente pacifisti, non abbastanza compresi e partecipi della vittoria agli occhi di autorità ufficiali o di fazioni politiche. Il racconto della guerra che la comunità locale finanzia ed erige non prende forma, in effetti, quale espressione di autonomia; i prefetti vigilano, intervengono, controllano, ricevono e mandano sollecitazioni, verso chi non fa, o fa tardi, o fa male, in questa complessa operazione di elaborazione del lutto e di intervento sulla memoria collettiva. Essi rappresentano un anello essenziale di una catena che sarebbe comunque infondato ridurre a una semplice catena di comando che, da Roma, faccia giungere i voleri del potere centrale sino in periferia. Non è così, potremmo anzi spingerci a dire, adottando una terminologia di uso odierno, che lo Stato abbia un ruolo sussidiario; la guerra in realtà è stata il frutto e ha a sua volta sviluppato forme di coinvolgimento e di partecipazione di raggio e grado tanto elevati da dar luogo spontaneamente e diffusamente al bisogno di ricordare e alla volontà di rendere onore. Spesso, quindi, i comitati promotori "in loco" nascono su iniziativa di privati o di gruppi di ex combattenti o di familiari di caduti, che solo in un secondo momento ottengono l'appoggio dell'amministrazione. La germinazione mimetica di monumenti ai caduti che costella in qualche anno, quasi per intero, l'Italia non si può dunque restringere a frutto obbligato di una programmazione esterna, ma deriva dall'accettazione diffusa di una forma 590

pubblica di rappresentazione della guerra attraverso quel minimo comune denominatore essenzializzato ed estremo che è la morte, la morte di tanti giovani e meno giovani figli, mariti, padri e fratelli: una narrazione pietosa che - se non è neppur essa tale da disarmare il perdurante confronto rancoroso fra coloro che hanno voluto la guerra e coloro che vi sono stati obbligati - può attutirne le asprezze nella contemplazione di un comune destino. La centralità del "mito dei caduti" nell'immaginario europeo deve molto alla riflessione di uno storico come George Mosse (11). Un'opera più recente di spiriti postmoderni scarsamente interessata ai moventi, agli scopi e ai risultati di quel conflitto, e quindi alle divisioni che si prolungano nella fenomenologia del monumento - l'ha di recente ripensata mettendo gli accenti per intero sulla dimensione apolitica, esistenziale e corale del lutto e del cordoglio dei vivi, reso di massa dalle caratteristiche di massa della stessa morte in guerra (12). Non mancano tuttavia all'epoca conati di dissociazione da questa pur variegata corrente pietosa di commozione universale. A parte l'ondata esecratoria di carattere verbale e le sue ricadute politiche e sindacali, sono stati riportati alla luce - utilizzando come fonte soprattutto i piccoli giornali socialisti di periferia diversi testi di lapidi controcorrente, pensate, realizzate, messe a dimora, e subito però sequestrate o divelte, nei microcosmi "rossi" più separati ed estremi (13). Questi lacerti convulsi che - sottraendosi a ogni ipotesi di comunione nazionale e misconoscendo le rielaborazioni del poi e gli esiti vittoriosi del sacrificio - pretenderebbero di tenere in vita le differenze, riproponendo lo scandalo della violenza e la sopraffazione sanguinosa come l'essenza di un sopruso subito e mai voluto dai popoli, urtano infatti subito contro uno sbarramento multiplo: le autorità locali, seppure con gradi diversi di solerzia; i prefetti, da sempre deputati al controllo di compatibilità delle scelte della periferia rispetto agli orientamenti del potere centrale; e il movimento extralegale degli squadristi, un contropotere territoriale di fatto impegnato, fra il 1919 e il 1922, a 591

surrogare brutalmente, con l'intervento d'autorità dell'azione diretta, eventuali ritardi o disfunzioni e atteggiamenti minimizzatori o dilatori delle istituzioni pubbliche. Quel racconto pubblico d'opposizione della grande esperienza collettiva appena attraversata rimane dunque una potenzialità abortita sul nascere. Tanto più in quanto, alla doppia censura di legittimità - quella istituzionale e quella del "partito della guerrà restato in armi e che si va travasando nel movimento fascista - vanno saldandosi forme di autocensura a fondo partecipativo, che contribuiscono progressivamente anch'esse a inibire i lati più crudi e dissonanti della memoria. I superstiti, ricordando i commilitoni morti e le proprie stesse fatiche e ferite, sono essi stessi in molti casi renitenti, al di là delle opzioni e divisioni politiche trascorse e attuali, a liquidare tanto sacrificio senza alcun conforto. Occorre - per la pace stessa dei vivi, e non solo per la memoria dei morti - che la guerra abbia avuto un senso e si componga in un racconto legittimato e accettabile. - "Il mito postumo". Non è solo grazie a questi normali meccanismi di adattamento della memoria individuale e generazionale - a mano a mano che il tempo scorre, la giovinezza si allontana e la guerra finisce per intrecciarsi inscindibilmente con quella stagione della propria stessa vita - che un mito postumo della Grande Guerra socialmente diffuso prende piede e si afferma, molto al di là degli originari connotati politici delle minoranze fautrici dell'entrata in guerra. Entrano in gioco anche circostanze e sviluppi esterni, che definiscono i quadri sociali della memoria legittima (14). Pesa assai, ovviamente, il sormontare della cultura nazional- fascista, favorita dall'andata al potere di un uomo di punta e al tempo stesso di raccordo delle diverse storie d'Italia e "Italie in cammino" (15) quale Mussolini. Uomo di sinistra trasfigurato dalla guerra e passato a condurre una "rivoluzione nazionalè, egli è il simbolo esplicito di un 592

superamento delle pregiudiziali internazionaliste e di classe in nome della ricomposizione della nazione: l'"Italia di Vittorio Veneto". I processi di riordino della memoria decollano comunque prima che il fascismo vada al potere e, a maggior ragione, prima che esso si trasformi in un regime a partito unico. Abbiamo appena fatto riferimento a due dei grandi campi di espressione e dei meccanismi generativi della memoria e del culto della Grande Guerra, intesi, oltre che a placare l'angoscia dei superstiti, a farne un mito di rifondazione di quella "nuova Italia" a cui indirizzano le proprie speranze in molti: l'imponente fenomeno dei monumenti ai caduti, che prende avvio già nel 1919 e trova alimento promuovendone sempre nuovi esemplari e assumendoli poi come luoghi rituali di raccolta e di celebrazione; e il nuovo associazionismo, inusitato fenomeno societario capillare e di massa, degli ex combattenti e delle organizzazioni similari di vedove e orfani (16). La memoria di bronzo e di marmo, serialmente moltiplicata in città e paesi dell'intera penisola, e la nuova sociabilità combattentistica avranno rituali e luoghi di culto, date canoniche da celebrare (24 maggio, 4 novembre) nelle piazze cittadine presidiate dai monumenti o, con i pellegrinaggi collettivi e privati di un inedito turismo della memoria nazionalpopolare, nei luoghi della guerra al fronte: cime di monti, trincee, fiumi (è il caso del Piave) sacri alla patria. Tale "sacralità", nell'ambito di una religione civile peraltro sostenuta e pregna di forme di supporto di natura confessionale, non si esprime solo in spontanee forme di reverenza mentale o di mistica dei luoghi, ma trova via via anche assetti normativi con il riconoscimento giuridico di "zona sacra" (Ortigara, Cengio, Pasubio, Grappa e altre). Trattandosi spesso di località di montagna, la natura stessa vi garantisce una più lunga permanenza dei segni della guerra: trincee, camminamenti, gallerie, depositi, postazioni, feritoie, segni dei bombardamenti, armi, elmi, scatolame, tutto un immenso e pietoso tritume e "bric- àbrac" di residuati di guerra, fra cui recuperanti e semplici 593

escursionisti continueranno per decenni a rinvenire anche resti umani. La visita a questi luoghi della memoria si intreccia prepotentemente, fra le due guerre - ma il fenomeno continuerà a lungo anche nel secondo dopoguerra e non si può dire esaurito - alle motivazioni naturalistiche e sportive che già da decenni portavano arrampicatori e semplici escursionisti alla scoperta delle Dolomiti e più in generale delle Alpi. La rete dei rifugi del Cai - per collocazione, frequentazioni e forme di sociabilità - era del resto già prima della guerra aperta a suggestioni irredentiste. La guerra combattuta sulle Alpi, così diversa da quella delle grandi pianure orientali e occidentali e così tipica del fronte italo- austriaco, incrementa e moltiplica, con la risorsa straordinaria di una inobliabile complicità generazionale, esperienze e pratiche sociali già avviate. Quest'ansia di riconoscimento dei territori più impervi della patria, di percorrere e visitare di persona i luoghi sin qui semisconosciuti resi d'improvviso di nominazione quotidiana da tre anni e mezzo di guerra e da molti più anni di ripensamento e commemorazioni, trova appoggio nelle nuove e nazionalmente intonate guide del Cai. I fortunati volumi dedicati da Antonio Berti alle Dolomiti entrano proprio allora nei sacchi da montagna per accompagnare i vecchi e nuovi fedeli dell'Alpe in queste forme attualizzate di un "viaggio in Italia" - ai confini d'Italia - fra natura e storia: una storia in atto, che ha appena cessato di esser cronaca, e che chi sale quelle vette puntando al vessillo tricolore di quei rifugi, talvolta appena risorti dalle rovine, ha spesso contribuito di persona a fare; ma l'impatto fra natura e storia, l'idillio dei pascoli e l'orrore degli abissi, continuerà ad esercitare le sue suggestioni anche per le generazioni dei figli e dei nipoti della generazione che ha "fatto la guerra". Giovano anche, a perpetuare il ricordo smorzandone i lati più oscuri, i cori e i canti alpini, tutto un repertorio di canti popolari nati o rinati nel 1915-1918, che avranno e mantengono a tutt'oggi una parte notevole nel trasformare il dramma e la storia in favola o narrazione comune (17). 594

Anche altri incentivi e itinerari guidati della memoria nazionalpopolare incentrati sulla partecipazione alla guerra e alla vittoria si collocano prima della scansione dell'ottobre 1922, oppure prendono origine prima e poi la valicano in continuità, senza che il passaggio dal liberalismo al fascismo appaia tale da snaturarne le forme. Una invenzione di particolare rilievo e di comprovata tenuta nel tempo è il Milite ignoto, la cui salma viene collocata al Vittoriano il 4 novembre 1921, quando presidente del Consiglio è per la prima volta un socialista riformista, Bonomi, e ministro della Guerra non solo un civile in luogo di un militare, ma un liberaldemocratico interventista e combattente, Gasparotto. Lo si segnala perché questa formula di governo - che si può considerare la meno lontana dalle attese dell'interventismo democratico - riesce a pensare e a realizzare anche in Italia un simbolo potente e funzionale, capace di imporre se non l'uguale plauso unanime, almeno il rispetto silenzioso di tutte le parti che si contendono nel dopoguerra il diritto di fissare la vera interpretazione della guerra appena conclusa (18). Il cerimoniale messo a punto è coinvolgente e coreograficamente studiato. Una commissione mista di militari e civili esplora le undici zone di combattimento più emblematiche - dal San Michele al Pasubio, dal Grappa al Montello - sino a raccogliere altrettante salme, sfuggite finora alle ricerche e prive di qualunque possibilità di identificazione (19). La madre di uno dei tanti dispersi chiamata a rappresentare tutte le madri d'Italia, e che però è non a caso una donna del popolo, e di Trieste - presceglie una salma fra le undici di caduti senza nome raccolte nei vari punti del fronte e depositate nel Duomo di Aquileia. Il lento viaggio dell'eletto, da Aquileia a Roma, in treno, su una carrozza scoperta che rende visibile il feretro - con ripetute soste diurne e notturne, e con larghissima partecipazione di pubblico in ogni stazione - vuol rappresentare un ritorno emblematico dalla zona di guerra; e però, poiché la meta ultima è Roma, porta dentro di sé, oltre alle innumerevoli tradotte militari andate e venute 595

verso e dal fronte, i viaggi ottocenteschi, costitutivi della nazione, in direzione di Roma. Quella che ha per protagonista l'ignoto figlio del popolo morto per la patria è dunque una duplice operazione simbolica: di esposizione, schermato dalla bara, del corpo senza nome, che come tale è di tutti, e di rinnovata segnatura del territorio nazionale. Una volta inumato quel corpo del popolo alla base del monumento in onore del sovrano fondatore dello Stato, questo non sarà più il Vittoriano, diventa l'Altare della patria (20). I riformisti Bonomi e Gasparotto, in quel novembre del 1921, possono ritenere di avere portato a buon fine - con il massimo di partecipazione consentito dalle circostanze - un rito corale di cordoglio nazionalpopolare, pacificando le memorie in conflitto: chiudendo il dopoguerra più irto di contrapposizioni frontali e mettendo a dimora un simbolo permanente a carattere universale. L'altro grande appiglio per la memoria, i parchi e i viali della Rimembranza, è anch'esso volto a una rielaborazione consolatoria della morte di massa, che, attutendo il trauma, mantenga compresenti i morti ai vivi. L'uomo guida di questo ponderoso progetto è un sottosegretario del primo governo Mussolini (21) e tuttavia non si può dire che la riconciliazione delle memorie promossa sotto l'egida del patriottismo democratico- riformista del governo Bonomi spinga più a fondo lo sforzo di compenetrazione e adotti forme di comunicazione più democratiche rispetto a ciò che prende così avvio sotto l'egida nazional- fascista. Il soldato sconosciuto è uno e tutti ad un tempo; ma i parchi e i viali donano un nome e una pianta a ciascuno. E il luogo del ricordo non è un magniloquente e lontano monumento nella capitale; sono - come disegno generale, in notevole misura poi effettivamente attuato - tanti piccoli o grandi giardini dei morti quanti sono i comuni italiani, ciascuno con tante giovani piante messe a dimora, quante ne occorrono perché a ciascun caduto ne sia dedicata nominativamente una, con la data di nascita e la data e il luogo della morte (22). La forma della memoria, pur ricalcando le matrici funebri, appare più umana, comunicativa e affettuosa: 596

nazionalmente diffusa, incentivata e garantita dallo Stato, e però distribuita in forma territoriale, costruita su scala comunitaria e affidata alle cure pietose del luogo natio. Quel reclutamento su base territoriale che è pratica militare solo per gli alpini, trova così postuma estensione ai morti di tutte le armi, riportati al paese e ricomposti, almeno simbolicamente, nel luogo da cui erano partiti da vivi. La vitalità maggiore del linguaggio dei parchi e dei viali si esprime anche nel fatto che le giovani piante vengono affidate ai giovanissimi scolari del luogo. E' un modo, anche, per alludere al futuro e alle guerre del futuro, in un inalvearsi e succedersi delle generazioni della patria, nello spazio e nel tempo. Un'altra forma preminente in cui va a sfociare la memoria del conflitto è quella dei grandi ossari. Destinati ad accogliere diverse decine di migliaia di morti, queste imperiose strutture in pietra o in cemento armato, da Oslavia ad Asiago, caratterizzano gli anni del partito- Stato, di un regime ormai saldo e sicuro della propria autorità, e ne derivano ed esprimono gli assoluti. Nulla più a che fare - in questi solenni archi trionfali e costruzioni massicce e grandeggianti - con l'anarchia dei piccoli e provvisori cimiteri delle origini, a ridosso delle linee, £ neppure con le prime, fantasiose e spontanee espressioni del ricordo, come sul colle di Sant'Elia, ai primordi di quello che diventerà poi il sacrario di Redipuglia (23). - "L'evoluzione degli studi". Ancora alla sfera della memoria - ma più sul versante privato che sul versante pubblico - pertengono i vari sottogeneri della memorialistica: non ancora storiografia, preziosi materiali però per la storiografia futura. Fra i sottogeneri più fiorenti si distingue infatti sin dal primissimo dopoguerra quello incentrato sulle piccole pubblicazioni locali a ricordo di singoli combattenti scomparsi, volute da familiari e amici, commiste di brani di 597

diario, lettere dal fronte, testi aurorali di natura letteraria e altri documenti e testimonianze. Da una parte esso rientra a pieno titolo nella elaborazione consolatoria del lutto, dall'altra precostituisce la base documentaria prescelta circa un decennio dopo da uno storico ed ex combattente come Adolfo Omodeo per restaurare sui testi la verità segreta della guerra voluta o virilmente accettata, nei cuori e nelle menti di quella borghesia intellettuale da cui provengono gli ufficiali di complemento. "Momenti della vita di guerra" esce a puntate sulla «Critica» ed è parte di quella resistenza liberale dall'interno del fascismo vincitore che si stringe intorno a Croce e che si legittima, anche, testimoniando attraverso la fedeltà alla guerra del 1915 il permanere di un patriottismo non coincidente con la cultura nazional- fascista. In volume, l'opera di Omodeo esce da Laterza nel 1935. A Gramsci in carcere non ne sfugge il rilievo e neanche il carattere tutto e dichiaratamente squilibrato a favore del punto di vista, dei sentimenti civici e delle autorappresentazioni dei figli della borghesia. Senza tornare a insistere su ciò che non c'è - il popolo dei soldati semplici e le ragioni dei non rassegnati - si deve riconoscere la tenuta di quel libro per quello che esso vuol essere. E se la storiografia degli ultimi decenni ha voluto ricercare gli approcci e le testimonianze della "scrittura popolare", ammettere le ragioni, negli anni trenta, di questa "scrittura borghese" della guerra. Anch'essa a suo modo controcorrente, perché nostalgica di una visione risorgimentale e liberaldemocratica e di una borghesia che non sono quelle che hanno prevalso. Il lutto pervade perciò intimamente l'opera dell'ex ufficiale di artiglieria, e non solo per le tessere funebri di cui è costituita. Analogamente si arrovellano su un lutto, privato e pubblico, che pure ha a che fare con il sormontare della nuova, irriconoscibile generazione dei giovani fascisti, i "Colloqui con mio fratello" di Giani Stuparich (24), in cui il superstite dei due volontari triestini cerca compenso alla sua solitudine colloquiando con l'ombra di Carlo, suicida fra i granatieri di Monte Cengio nell'estrema resistenza alla Strafexpedition. Il nome 598

dell'autore di "Guerra del '15" e di "Ritorneranno" ci porta a sottolineare il grande rilievo della letteratura di guerra nello scrutinare il senso dell'evento e nel dar forma alla memoria. E' un processo di accumulo continuato - diari, memorie, romanzi, racconti - che non conosce soste e che procederà per decenni: un tema narrativo di lunga durata, una esplorazione di sé e un ricupero di stagioni di vita che assicurano in più casi esiti d'arte, ma che soprattutto esprimono e tengono vivo un rapporto profondo con quei "Giorni di guerra nelle Trincee" della "Guerra del '15" a "Vent'anni" (25), per nominare solo alcuni dei più rappresentativi fra tutti quei "Giornali di guerra e di prigionia" (26). Per tornare a una pubblicistica più contingente e polemica e più concentrata a ridosso degli avvenimenti militari, un altro sottogenere dilagante, prima ancora che i cannoni tacciano, sono i memoriali e contromemoriali, gli attacchi "ad personam", gli abbozzi saggistici dei generali. Cadorna, Capello, molti in particolare fra coloro che hanno qualche cosa da recriminare o conti da rendere o ritorsioni da compiere, dedicano questi anni del "dopò - che sono anche per molti di loro gli anni di una definitiva messa a riposo al ripensamento di questa fase suprema della loro vita e della loro carriera. Non mancano tuttavia i lavori di carattere più pacato e problematico che, pur rientrando nella visione dei militari, fuoriescono dalla dimensione personalistica e controversistica. Sono, sui tempi lunghi, i lavori a carattere ufficiale di riordino dei documenti e di narrazione degli avvenimenti allestiti nel corso dei decenni, arrivando cioè anche a valicare il limite del 1945, presso l'Ufficio storico dell'esercito (27). Ma negli anni venti o subito dopo, e in forma anche meno ufficiale, escono lavori di spessore sulle vicende dell'ultimo anno di guerra, come quelli del generale Addano Alberti (28) e i diversi volumi del "Saggio critico sulla nostra guerra" del generale Bencivenga (29). Quest'ultimo è un ex ufficiale di carriera, già giovanissimo capo della segreteria di Cadorna al Comando supremo, e 599

poi doppiamente in disgrazia, sul piano militare, perché allontanato dal vertice per volontà di Cadorna, e sul piano politico perché antifascista: scrive infatti le sue sobrie e professionali pagine mentre si trova al confino, condizione che non gli permette di trovare un editore vero, ma solo modeste tipografie per la sua opera in più volumi, destinata perciò alla semiclandestinità. Non un ex militare di carriera dello stato maggiore, ma un ex ufficiale degli alpini e uno studioso universitario è quel Pieri che si afferma, fra le due guerre e dopo, come il massimo storico militare in Italia; in lui l'attaccamento esistenziale e la cura delle memorie (30) trova appoggio in uno specialismo - raro fra i "laici" (31) che è appunto la storia militare. Gli consente di scrivere via via saggi analitici e più avanti volumi di sintesi - come la raccolta di Omodeo e come i testi memorialistici valorizzati da pregi letterari - destinati prima a fare da sobrio controcanto fattuale alla "vulgata" nazional- fascista e poi, dopo il 1945, a continuare a proporsi come punto di riferimento degli studi sulla guerra del 1915-1918 in chiave tecnica e di non dismessi spiriti risorgimentali (32). L'operazione editoriale di più largo impegno documentario e forza diffusionale, fra gli anni venti e trenta, si può considerare la «Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra del mondo, diretta da Angelo Gatti». Le relazioni dell'editore Mondadori e del direttore - già critico militare del «Corriere della Sera» e storico del Comando supremo - le assicurano una sorta di ufficialità e un carattere di autorappresentazione della classe dirigente prefascista o "ralliée" al regime. Vi pubblicano i propri libri di memoria e spaccati di vita governativa o di partito Salandra (33), Meda (34) Alberto Malatesta (35), Ernesto Vercesi (36) e numerosi altri. Il regime di Mussolini non incentiva del resto gli studi, relativamente a quel suo mito di fondazione, quanto piuttosto gli atteggiamenti di rispetto acritico e religioso. Ogni epoca tende a rileggere con la propria ottica ciò che la precede; e tanto più aspira a farlo il fascismo, per le sue 600

affermazioni di rottura rispetto alla società prefascista e per il nesso di filiazione e di rappresentanza storica che si riconosce rispetto alla mobilitazione interventista, ai miti "trincerocratici" e all'"Italia di Vittorio Veneto". E tuttavia, fra tanta proliferazione di memoria e organizzazione della memoria e fra tanto protagonismo scolastico, oratorio, commemorativo e rituale della Grande Guerra fra i reduci e i loro figli Ballila, si stenterebbe negli anni venti e trenta ad additare una vera e propria storiografia fascista di quella grande esperienza civile e militare. A misurarsi con essa, in una serie di volumi rilevanti, è soprattutto Volpe: in sede accademica, un eminente storico del Medioevo, ma - come intellettuale militante, non pago di questo specialismo - teso a narrare la guerra come gigantesca prova affrontata e vinta da un popolo italiano entratovi per volontà di minoranze illuminate, ma ancora con le scorie delle varie resistenze e politiche di parte, e uscitone ritemprato, meno frammentato e meno agnostico: più nazione e più Stato (37). Il revisionismo che i lettori di Volpe - i quali appartengono a tutte le fasce d'età, stante quel suo vigoroso zelo civico di intellettuale impegnato nella educazione nazionale dell'italiano - apprendono dalle sue numerose pagine innerva comunque l'Italia in camicia nera in un processo evolutivo che non nasce nel marzo 1919; e dove coerentemente al percorso politico personale dello storico, già liberale nazionale e nel 1918 fra gli addetti al servizio P (38) - non c'è meno continuità che rottura. Come mettono in luce i due contrapposti e contemporanei profili di Volpe e di Croce - "L'Italia in cammino" e la "Storia d'Italia" (39) è però una lettura diversa della formazione e degli itinerari della società nazionale e dello stato liberale, tale comunque da rendere lo storico fascista più sensibile del filosofo antifascista al problema, avviato ma irrisolvibile dal socialismo, della nazionalizzazione delle masse. In quest'opera Volpe accetta anche lui una periodizzazione della storia d'Italia che si arresta nel 1915 alle soglie della guerra, come di nuovo farà anni dopo in un'opera di sintesi più complessa e matura, "Italia moderna" (1943-1952). Vi si 601

misura intanto in altre opere, raccogliendo materiali e fornendo grandi quadri interpretativi sia sull'anno che precede l'entrata in guerra (40), sia su Caporetto e sull'anno fra Caporetto e Vittorio Veneto (41), ma rinunciando lui pure ad affrontare di petto - se non in forma pedagogico-narrativa, per un pubblico giovanile (42) - gli anni centrali del conflitto. Volpe stesso, pur forte della sua posizione di uomo interno e fedele alla guerra, alla vittoria e al regime, talvolta suscita i malumori di chi, come Mussolini, inclinerebbe a maggior reticenza sui punti cruciali, Caporetto "in primis". Il secondo dopoguerra toglie plausibilità ai finalismi nazional- fascisti di Volpe, mentre può restituirla in parte a quelli nazional- democratici di Pieri. Si rovesciano in qualche modo le parti. Nei vent'anni che seguono la caduta del fascismo, mentre il vecchio Volpe coltiva orgogliosamente la propria fedeltà al passato e a se stesso, grazie anche alla casa editrice omonima di famiglia (43), non si può dire però che neppure i lavori di Pieri godano di una grande circolazione. La già citata raccolta di saggi "La prima guerra mondiale 1914-1918" esce nel 1947 a cura della sua facoltà universitaria, il Magistero torinese, poi perdurando la ricerca dell'opera da parte dei tecnici presso l'Ufficio storico dell'esercito (1986) e ora presso un piccolo editore specializzato del Friuli. La sintesi "Storia della prima guerra mondiale" gode di una maggiore visibilità editoriale uscendo presso Einaudi, ma solo nel 1965. Intanto, in assenza di opere nuove, per vent'anni nell'uso comune una scolastica è succeduta all'altra; e la guerra risorgimentale e di libertà per Trento e Trieste torna a orientare manuali, discorsi pubblici e senso comune, in luogo delle visioni meno idealizzanti e maggiormente intonate alla "Realpolitik" dell'interesse nazionale, espansionismo non escluso, divenute impresentabili con il venir meno del fascismo e dei suoi orizzonti politicomilitari. Pur non investendo direttamente la guerra dei soldati, già un libro di Paolo Spriano nel 1960 apre a interessi nuovi: 602

"Torino operaia nella grande guerra (1914-1918)" (44). Il decennio vede anche la pubblicazione di inediti variamente rilevanti di personaggi pubblici da noi già ricordati quali Albertini, Orlando, Martini, Sonnino, Salandra, Malagodi. Valore di preannuncio si può dare, in particolare, al già ricordato "Caporetto. Dal diario di guerra inedito, maggiodicembre 1917", testimonianza di prim'ordine dello storico del Comando supremo Gatti, fatto conoscere nel 1964 da Monticone, che già nel 1955 si era adoperato a restituire a Caporetto i caratteri di una sconfitta militare (45). Un cambiamento globale di prospettiva prende corpo nella seconda metà degli anni sessanta (46). L'interesse per la Grande Guerra, in se stessa e come passaggio storico alla società di massa e al fascismo (47), risorge con una nuova generazione di studiosi, che non è più composta di ex combattenti e a cui non riesce congeniale riviverla e raccontarla con attitudine da reduce o da erede, né dell'interventismo democratico, né di quello nazionalista. Si sente piuttosto stimolata a interrogare con animo nuovo e con differenti attese gli esclusi - tanto da Omodeo (48) quanto da Volpe - e cioè le ragioni, i sentimenti e persino i comportamenti primordiali e irriflessi, di semplice paura e non solo di natura politica, dei neutralisti del 1914-1915, e poi dei renitenti, degli autolesionisti, dei disertori, degli ammutinati. E" ciò che restituisce piena visibilità, senza più reticenze o rimozioni, a Caporetto, come ipotetico esito di una dissociazione di classe e comunque come nuovo centro di riferimento e angolo di visuale innovativo da cui far luce sullo spessore profondo e sulla vita quotidiana di quei milioni di uomini trascinati a fare quel che, spontaneamente, non avrebbero mai voluto. I libri di quella stagione di studio si chiamano quindi "I vinti di Caporetto", di Mario Isnenghi (1967); "Plotone d'esecuzione", di Enzo Forcella e Alberto Monticone (1968), nel quale il saggio del giornalista arriva lampantemente a chiamarsi "Apologia della paura", mentre quello dello storico - che non è fuori luogo indicare come il futuro presidente nazionale 603

dell'Azione cattolica - squaderna i documenti processuali dei tribunali militari, con l'inquietante e sin qui pochissimo conosciuta casistica della protesta e dei "crimini" di guerra; di questo gruppo di libri "contrò, seppur diversamente intonati, di un "fronte" di nuovi autori, fa parte a pieno titolo anche una raccolta di colorite e urlanti "Lettere al re" (1973) (49) recuperate da Renato Monteleone in archivio e a suo tempo inviate a Roma da un pulviscolo di dissenzienti delle più diverse provenienze geografiche, sociali e politiche. Cronologicamente coevi, non vanno però ascritti alla temperie della nuova storiografia del dissenso i lavori di minuzioso scavo analitico di Brunello Vigezzi, che si arrestano alle soglie dell'entrata in guerra dell'Italia (50), o la "Storia politica della Grande Guerra 1915-1918" (1969) di Piero Melograni, che ha il pregio di ritentare la via della sintesi equilibrata e fattuale, in chiave neomoderata. Questo libro farà la sua strada ed è tuttora utilmente consultabile, ma lo si può ritenere avulso dalla via maestra degli studi degli ultimi trent'anni. In quell'anno 1967 il ripensamento complessivo, a partire dalla fine, si avvia anche grazie ad altre due pubblicazioni: i verbali dei "Comitati segreti sulla condotta della guerra (giugnodicembre 1917") presso l'Archivio storico della Camera e "L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (19191925)" (51) di Giorgio Rochat, che sposta in avanti lo sguardo, ma contribuisce anche a illuminare a ritroso la vita militare e che viene aperto dalla prefazione di Pieri, quasi per un tacito passaggio delle consegne. Gli anni settanta e ottanta non producono sintesi, poiché i nuovi approcci e le nuove domande hanno bisogno, prima di potervi eventualmente ritornare, di riaprire tutta una serie di cantieri di carattere analitico. Isnenghi documenta con "Il mito della grande guerra" (1970) il protagonismo degli intellettuali nell'evocare e spingere alla guerra nelle riviste e nei libri di età giolittiana; li ritrova poi come addetti al morale e alla propaganda nei "Giornali di trincea" (1977) dell'anno sospeso fra la rotta e la vittoria. Tre appuntamenti 604

pubblici di natura collettiva scandiscono il parallelo e non unilineare procedere della ricerca, confermando l'acquisita centralità storiografica della prima guerra mondiale e testimoniando anche l'evolversi di tematiche, metodologie e priorità: i convegni di Vittorio Veneto (1978) (52); di Rimini (1982) (53); e di Rovereto (1985) (54). Al terzo di questi incontri sono presenti - oltre che la gran parte degli esponenti della nuova storiografia, ormai accreditata da vent'anni di lavoro - anche due studiosi di lingua inglese, Paul Fussell ed Eric Leed, le cui opere, allora appena tradotte, esercitano una notevole suggestione in Italia benché ignorino del tutto il fronte italiano (55). E' uno dei segni del disinteresse che trapela per la prima guerra mondiale in quanto capitolo della storia d'Italia, e della propensione invece ad adibirla a palestra metodologica e a usi di laboratorio per la montante storia sociale, la storia delle donne, le riflessioni sulla modernità, i meccanismi identitari, la psicologia di massa, l'epistolografia popolare e quant'altro. La dilatazione delle fonti e la problematizzazione del senso del lavoro storico trova nel raduno trentino del 1985 un'espressione precipua anche perché alle dimensioni sovranazionali e alla deterritorializzazione incrementate dai relatori che vengono dall'estero si accompagna all'altro capo della scala spaziale - il gusto minimalista del ritrovamento e dello studio filologicamente amoroso per la "scrittura popolare": lettere, soprattutto, di semplici uomini e donne, qualche volta diari e memorie di militari e civili travolti dalla guerra, ignari il più delle volte di politica. Fra i ricuperanti di questi micromondi individuali o comunitari va scemando, accanto all'interesse per i bisogni degli stati, anche quello per le dinamiche politiche rivoluzionarie, mentre si accampa come centrale la dolente umanità di quei milioni di "fuori storia". Non è senza significato che proprio Rovereto - nel 1915-1918 seconda città italiana del Trentino irredento, compreso nel grande impero della Mitteleuropa - sia così ridiventata negli ultimi vent'anni un luogo di ripensamento e di riepilogo non solo di quella guerra, ma 605

dei rapporti fra centro e periferia, nel sottinteso tendenziale della crisi degli stati nazionali e di una propensione semmai per una società delle autonomie, senza stato. Certo, ha cessato di rappresentarsi come la città di Damiano Chiesa, così come Trento ha scelto di liberarsi del manto di sacralità nazionale a lungo espresso dal nome incombente di Cesare Battisti. E così, fatalmente, mentre ciò che resta delle umili carte dei 60000 italiani d'Austria partiti per la guerra con la divisa austroungarica prendeva la via del Castello del Buon Consiglio, per esservi consegnato agli archivi accanto ai documenti del martire dell'irredentismo e degli altri orgogliosi artefici della storia delle élites, il Museo stesso, nato e diretto per decenni nell'aura battistiana, mutava nome; e, al posto di quell'obsoleto, se non provocatorio, Museo del Risorgimento, fatto proprio dagli antifascisti con l'aggiunta «e della lotta per la libertà», si trasformava in un sobrio e agnostico Museo storico in Trento (56). Due, negli anni novanta, i frutti più alti del disincanto, sopraggiunto o sovrapposto alla precedente reinterpretazione critica da sinistra. "Nell'Officina della guerra" Antonio Gibelli (1991) prosegue e mette a frutto per suo conto, privilegiando le fonti psichiatriche, le ricerche sulle "trasformazioni del mondo mentale". Dalla storiografia della protesta mutua l'interesse alla follia di guerra, medicalmente accertabile o simulata, ma, più che le implicazioni politiche degli istinti di insofferenza e insubordinazione mette al centro il soggetto ferito dalla prevaricante mostruosità della macchina militare. Il "privato" e il "moderno" - due luoghi d'interesse centrali negli indirizzi generali della storiografia - entrano così in fertile circuito nel devastante impatto dei combattenti con la prima guerra di macchine e di massa. L'altra opera incisiva, capace di restituire visibilità e peso a una dimensione umana tradizionalmente rimossa, è "Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra" di Giovanna Procacci (1993). La studiosa - dieci anni prima animatrice degli studi sul conflitto sociale culminati nel convegno di Rimini e attenta ora a rivendicare la forza rivelativa delle 606

nuove fonti dell'epistolografia popolare - rinnova e radicalizza l'obiezione di coscienza a quei meccanismi coercitivi dello Stato che, per volontà di prototipi dell'autoritarismo quali Cadorna e Sonnino, si assolutizzano a carico dei prigionieri italiani: i quali sono condannati a morire in 100 mila, mimetizzati in seguito fra i 600 mila caduti, e cioè in proporzioni drammaticamente maggiori dei prigionieri di guerra di altri paesi. Questo non tanto perché gli stessi austriaci soffrono la fame, assediati come sono dal blocco dell'Intesa, quanto perché (è questa comunque la motivazione prioritaria per l'autrice) le autorità italiane non intervengono come potrebbero a loro favore. E se non lo fanno non è, come si potrebbe pensare, per inettitudine organizzativa, quanto piuttosto per volontà politica. Questa classe dirigente conservatrice diffida infatti profondamente dei suoi stessi concittadini ed è portata a scorgere in ogni soldato semplice un potenziale disertore, al quale è dunque opportuno parlare con l'aspro linguaggio dei fatti, facendo capire che darsi prigionieri non è affatto un comodo modo per salvare la pelle. Libro forse unilaterale, ma sinistro e potente. Siamo giunti al nostro tempo, in cui molti segni indicano che l'interesse per il tema è tutt'altro che esaurito. Un altro apprezzabile capitolo di "storia culturale europea" arriva dalla storiografia anglosassone, con "Il lutto e la memoria" di Jay Winter (1995). Il grande tema - affrontato con riferimenti inglesi, francesi e tedeschi - sono i tempi e le forme di elaborazione, tra i vivi, dell'angoscia per la morte di dieci milioni di persone: una carneficina inaudita nella quale le individualità sembrano sparire inghiottite nell'indistinto, ma a ognuna delle quali corrispondono in realtà madri e padri, mogli, fidanzate, figli, amici, vicini di casa, compaesani, tutta una tipologia umana coinvolta in varia misura negli affetti e impegnata a tenere in vita il ricordo del proprio morto e a darsi un senso della perdita. A uno spazio meno vasto e indeterminato ci riporta il nuovo lavoro di Gibelli, "La grande guerra degli italiani" (57), nel quale l'autore sceglie di misurarsi con la sintesi (58), 607

portandovi tutta la sua passione competente per i tentativi di sottrazione e di fuga - dalla guerra, dalla politica e dalla storia - di quella povera umanità derelitta e offesa, ma riequilibrando, come indica già il titolo, la visione complessiva delle posizioni e dei comportamenti. Proprio a questo intento di riequilibrio fra realtà e immaginario, disciplina e insubordinazione, minoranze e maggioranze, illusioni e disincanti, Stato e società, hanno ispirato i propri interventi nel dibattito storiografico i due autori del presente volume. I quali - dopo essere stati personalmente all'origine del ripensamento sul finire degli anni sessanta hanno poi spesso e coscientemente scelto di agire qualche volta da freno rispetto a quelle che sono loro apparse delle possibili destoricizzanti derive fuori dello spazio e del tempo, dimentiche dei significati attribuibili a se stessi e agli eventi dagli uomini e dalle donne di allora. Quanto poi, a loro volta, siano riusciti nell'intento di operare una sintesi non regressiva, ma pienamente all'altezza della ricca e variegata ricerca analitica degli ultimi decenni, lo valuteranno i lettori.

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NOTE AL CAPITOLO 8. 1. Generale di brigata Adriano Alberti, "L'Italia e la fine della guerra mondiale", Roma, Libreria dello Stato, 1924; G. Lenci, "Le giornate di Villa Giusti", cit. 2. Ludwig Jedlicka, "L'armistizio di Villa Giusti nella storiografia austriaca", atti del Primo convegno storico italo- austriaco (Innsbruck, 1-4 ottobre 1971), «Storia e politica», luglio- settembre 1973, n. 3, p. 378. 3. Conf. Giorgio Rochat, "L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini", Bari, Laterza, 1967 (da cui dipendiamo per tutte le notizie seguenti) e Vincenzo Gallinari, "L'esercito italiano nel primo dopoguerra 1918-1920", Roma, Ufficio storico dell'esercito, 1980. 4. Sul sistema carcerario militare abbiamo soltanto le denunce socialiste prima e dopo la prima guerra mondiale, ma nessuno studio, né siamo finora riusciti a trovare dati e notizie nelle nostre ricerche; sappiamo soltanto che nel 1940 erano ancora detenuti molti dei condannati della Grande Guerra (conf. Giorgio Rochat, "La giustizia militare nella guerra italiana 1940-1943", «Rivista di storia contemporanea», 1991, n. 4). Nel secondo dopoguerra non ha suscitato maggiore interesse la carcerazione come obiettori di coscienza di un gran numero di testimoni di Geova. Soltanto la condanna di obiettori radicali e cattolici, negli anni sessanta, ha attirato l'attenzione dei mass media sulle carceri militari. 5 Atti parlamentari, Discussioni della Camera, 13 settembre 1919, p. p. 2115-2116. Conf. G. Rochat, "L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini", cit. Rinviamo a questo volume per l'illustrazione del dibattito del dopoguerra sulla riorganizzazione dell'esercito, il più ampio e vivace della storia nazionale.

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6. Luigi Aldrovandi Marescotti Ambasciatore d'Italia, "Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario (19141919)", Milano, Mondadori, 1936; Silvio Crespi, "Alla difesa d'Italia in guerra e a Versailles (Diario 1917-1919)", Milano, Mondadori, 1938. 7. Le premesse in Leo Valiani, "La dissoluzione dell'AustriaUngheria", Milano, Il Saggiatore, 1966. 8. N. Labanca, "Caporetto", cit, p. 89. 9. George L. Mosse, "Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti", Roma- Bari, Laterza, 1990. 10. Renato Monteleone, Pino Sarasini, "I monumenti italiani ai caduti della Grande Guerra", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit, p. p. 631-662; Gianni Isola (a cura di), "La memoria pia. I monumenti ai caduti della prima guerra mondiale nell'area trentino- tirolese", Trento, Università degli studi, 1997; "Monumenti della grande guerra. Progetti e realizzazioni in Trentino 1916-1935", catalogo a cura di Patrizia Marchesoni e Massimo Martignoni, Trento, Museo storico, 1998. 11. G. Mosse, "Le guerre mondiali", cit. 12. Jay Winter, "Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea", Bologna, Il Mulino, 1998. 13. Gianni Isola, "Guerra al regno della guerra! Storia della lega proletaria mutilati, invalidi, reduci, orfani e vedove di guerra 1918-1924", Firenze, Le Lettere, 1990; Ezio Maria Simini, "Lapidi e donne della grande guerra in Veneto: Schio e Magrè 1916-17", «Venetica», 12 (luglio- dicembre 1989). 14 Maurice Halbwachs, "Les cadres sociaux de la mémoire", Paris, Alcan- Puf, 1925; Id., "La memoria 610

collettiva", a cura di Paolo Jedlowski, Milano, Unicopli, 1989. 15. Il riferimento è al titolo di Gioacchino Volpe, "L'Italia in cammino" (1927), ripubblicata a cura di Giovanni Belardelli, Roma- Bari, Laterza, 1991; e a M. Isnenghi, "L'Italia del fascio", cit. 16. Giovanni Sabbatucci, "I combattenti nel primo dopoguerra", Bari, Laterza, 1974; G. Isola, "Guerra al regno della guerra!", cit. 17. "Ta- pum. Canzoni in grigioverde commentate, armonizzate, illustrate da Salsa, Piccinelli, Bazzi", Roma, Piccinelli, s. d.; Quinto Antonelli, "Dai canti di guerra ai cori della montagna", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit, p. p. 427-442. 18. Vito Labita, "Il Milite ignoto: dalle trincee all'Altare della patria", in Sergio Bertelli, Cristiano Grottanelli (a cura di), "Gli occhi di Alessandro", Firenze, Ponte alle Grazie, 1990. 19. Ho avuto la possibilità di leggere lo studio inedito del tenente colonnello Lorenzo Cadeddu, che ringrazio, intitolato "La leggenda del Milite ignoto" e ricco di particolari sulle procedure. 20. Bruno Tobia, "Il Vittoriano", in M. Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria", cit., vol. 1, p. p. 243-254. 21. Dario Lupi, "Parchi e viali della Rimembranza", Firenze, Bemporad, 1923; Claudio Canal, "La retorica della morte. I monumenti ai caduti della Grande Guerra", «Rivista di storia contemporanea», 1982, n. 4. 22. M. Isnenghi, "L'Italia in piazza", cit. 611

23. Patrizia Dogliani, "Redipuglia", in M. Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita", cit., p. p. 375-390; Laura Safred, Lucio Fabi, Fabio Todero, "Redipuglia. Storia arte memoria", Monfalcone, Centro culturale pubblico polivalente del Monfalconese, 1996. 24. G. Stuparich, "Colloqui con mio fratello", cit. 25. Sono, rispettivamente, le rielaborazioni dell'esperienza di guerra nei libri di Giovanni Comisso (1930) Carlo Salsa (1924), Giani Stuparich (1931) e Corrado Alvaro (1930). 26. Si vedano le opere di Gadda citate alla nota 5, cap. 4. 27. Ufficio storico dell'esercito, "Relazione ufficiale", cit. 28. A. Alberti, "L'Italia e la fine della guerra mondiale", cit. 29. 5 voli.,Roma, 1930-1938, attualmente in corso di ristampa presso l'editore Gaspari di Udine. 30. Piero Pieri, "La nostra guerra tra le Tofane", Trieste, Lint, 1996 [prima ed. 1927]. 31. Un'altra eccezione è Novello Papafava dei Carraresi, "Da Caporetto a Vittorio Veneto", Torino, Gobetti, 1925, nato in ambito salveminiano. 32. P. Pieri, "La prima guerra mondiale 1914-1918", cit. 33. A. Salandra, "L'intervento", cit.

"La

neutralità

italiana",

cit;

Id.,

34. F. Meda, "I cattolici italiani", cit. 35. Alberto Malatesta, "I socialisti italiani durante la guerra", Milano, Mondadori, 1926. 612

36. Ernesto Vercesi, "Il Vaticano, l'Italia e la guerra", Milano, Mondadori, 1925. 37. G. Volpe, "Ottobre 1917", cit.; Id., "Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915)", Milano, Ispi, 1940. 38. G. Belardelli, "Il mito della "nuova Italia", cit. 39. Bari, Laterza, 1928. 40. G. Volpe, "Il popolo italiano", cit. 41. G. Volpe, "Ottobre 1917", cit. 42. Come nel manuale ufficiale "I fatti degli Italiani e dell'Italia, "letture storiche" per le scuole italiane all'estero (quinta elementare e professionali), prefazione di Piero Parini, Milano, Mondadori, 1932; o nel fortunato "La storia degli Italiani e dell'Italia", Milano, Treves, 1933, più volte ristampato. 43. Gioacchino Volpe, "Italia moderna", 3 voli., Firenze, Sansoni, 1973. 44. Torino, Einaudi. 45. A. Monticone, "La battaglia di Caporetto", cit. (ristampa Udine, Gaspari, 1999 con un""Introduzione alla seconda edizione" dell'autore). 46. Una rassegna su "La prima guerra mondiale nella storiografia italiana dell'ultimo venticinquennio" è offerta da Paolo Alatri, «Belfagor», 1972, n. 5; una periodizzazione globale dei tempi e delle scelte della storiografia, sino alla metà degli anni settanta, è nella rassegna ragionata di G. Rochat, "L'Italia nella prima guerra mondiale", cit.

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47. Come nei saggi raccolti da Nicola Tranfaglia in "Dallo stato liberale al regime fascista", Milano, Feltrinelli, 1973. 48. "Momenti di vita di guerra" viene riproposto presso Einaudi proprio nel 1968 - di nuovo e diversamente controcorrente rispetto agli orientamenti circostanti - con un saggio simpatetico di Alessandro Galante Garrone, lui stesso nipote dei due personaggi simbolo della raccolta, i fratelli Garrone. 49. Roma, Editori Riuniti. 50. B. Vigezzi, "L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale", vol. 1, "L'Italia neutrale", cit.; Id., "Da Giolitti a Salandra", cit. 51. Bari, Laterza. 52. Mario Isnenghi (a cura di), "Operai e contadini nella grande guerra", Bologna, Cappelli, 1982. Le relazioni presentate al convegno si ampliano in più casi in libri, come con i saggi militari di Piero Del Negro, raccolti in "Esercito, stato, societa", Bologna, Cappelli, 1979; il volume sui cappellani militari e sui preti- soldati di R. Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra", cit.; e quello sulla classe operaia di A. Camarda, S. Peli, "L'altro esercito", cit. 53. G. Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia", cit. 54. D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit. 55. P. Fussell, "La grande guerra e la memoria moderna", cit.; E. J. Leed, "Terra di nessuno", cit. 56. Tali processi trasformativi, distesi nel tempo, si leggono bene attraverso le due riviste «Materiali di lavoro», di Rovereto, e il «Bollettino» - con le varie denominazioni 614

assunte - del Museo di Trento, oltre che nel vasto indotto convegnistico, pubblicistico ed espositivo. 57. Milano, Sansoni, 1998. 58. Ancor più a un vasto disegno di sintesi ha ispirato la propria esposizione N. Tranfaglia, "La prima guerra mondiale e il fascismo", cit. ***

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NOTE BIBLIOGRAFICHE DI MARIO ISNENGHI. - "Memorialistica e letteratura". Il lettore, giunto a questo punto del volume, s'è già accorto dei continui cambiamenti di approccio e documentazione che i due autori hanno creduto di poter infliggergli: la scommessa e la speranza di originalità e completezza dell'opera sono appunto affidate alla loro consapevole diversità di priorità e di competenze e però anche alla compatibilità o complementarità dimostrata da ormai trent'anni d'intensa frequentazione amicale. Dei risultati dirà chi legge, per noi due sia la divisione dei compiti, sia la realizzazione e il montaggio sono fluiti con naturalezza. Al termine, ci siamo anche distribuite le parti per offrire non una bibliografia sistematica, ma dei percorsi di lettura che possano contemporaneamente valere da motivazione delle nostre scelte e da suggerimento. Da "I vinti di Caporetto" (1967) e da "Il mito della grande guerra" (1970), e prima ancora dalla semi clandestina antologia dei due giornali di Piero Jahier, «L'Astico» e «Il Nuovo contadino» (1964), Mario Isnenghi - cioè chi scrive, visto che a questo punto la soggettività non può non essere distinta - ha usato la memorialistica e la narrativa come fonti privilegiate per accedere al mondo della Grande Guerra. In principio, del resto, c'era stata una tesi di laurea in letteratura e non in storia. Dunque, gli intellettuali e più in particolare gli uomini di lettere, i piccoli e grandi letterati fattisi, spesso da inizio secolo, banditori della guerra; e poi militanti dell'intervento, ufficiali di complemento, oratori e persuasori in cura d'anime: perciò Jahier, "Con me e con gli alpini" e «L'Astico. Giornale delle trincee», che cercava almeno legittimazioni umanitarie, in luogo dei disinibiti ardori guerrieri di tanti altri, diversi per il resto fra loro, quanto potevano esserlo D'Annunzio, Marinetti, e i guastatori neomalthusiani di «Lacerba» Papini e Soffici, ma uniti nel volere assolutamente andare e mandare al fuoco. Poco i filosofi, pochissimo i poeti e assai più le figure piccole 616

e medie che non le figure artisticamente maggiori, per motivazioni che ho argomentato nelle accompagnatorie delle edizioni recenti di "Il mito della grande guerra" e nella introduzione alla antologia di poeti della guerra curata da Andrea Cortellessa ("Le notti chiare erano tutte un'alba", Milano, Bruno Mondadori, 1998). Non ho mai abbandonato questi temi e il confronto con quegli anni e testi mi ha sempre accompagnato nel tempo. Mai però avevo dovuto farne una rilettura sistematica, come in questa occasione di ricostruzione storica complessiva, con le aggiunte e i riorientamenti del caso. In sintesi: per prima cosa - e questo è ovvio - ho preso in considerazione i testi del periodo, di natura analoga a quelli da me studiati sin da principio, che sono stati pubblicati nel frattempo. Secondo, e di non minore rilievo, conosciamo ora - perché è stata nel frattempo reperita, studiata e data alle stampe - la trama segreta della corrispondenza, e quindi i risvolti intimi, le contraddizioni private degli uomini pubblici. Qui per esempio risulta essenziale il controcanto a se stessi eseguito in lettere e diari da protagonisti come Boine, Papini, Prezzolini. Terzo: in un discorso via via ampliatosi dalle aspettative di guerra e dal "servizio militare" degli uomini di lettere a una ricostruzione complessiva del conflitto, i diari e le memorie dei politici non erano più subordinati a gerarchie improprie, anzi dovevano per forza risalire dalle note al testo e starvi, e anche a maggior ragione di certi letterati, da protagonisti. Nelle pagine di questo lavoro ritornano quindi quanto prima, e non poteva essere altrimenti, Stuparich, Salsa, Frescura, Suckert (Malaparte), Comisso e altri, come loro, testimoni dell'ora e tramiti della memoria; ma vengono chiamati in causa assai più di prima personaggi come Martini (scrittore lui pure, ma non è per questo), Fortunato, e il vissuto - per quanto, via via, lo lasciano filtrare o lo raccontano e lo mettono in posa - di personaggi e politici quali Sonnino, Battisti, Bissolati, Salandra, Salvemini, Mussolini; e via seguitando, con rese e significati ben diversi, s'intende, a seconda del quando, come, con quali intendimenti nasce ciascuno dei 617

testi. Preziosa e particolarissima, proprio per questo, la raccolta confidenziale di interviste a futura memoria realizzata dal giornalista moderato Olindo Malagodi, dove passano ripetutamente tutti i maggiori personaggi ("Conversazioni della guerra 1914-1919", 2 voli.,a cura di Brunello Vigezzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960). Nei capitoli o paragrafi scritti da me, il lettore potrà quindi spesso vedere i processi esterni accompagnati in filigrana da dialettiche interiori delle soggettività in causa. Quelle dei potenti, ma anche talvolta dei senza nome. La compresenza delle dinamiche soggettive trova l'acme, naturalmente, nella trattazione di Caporetto, realtà largamente "virtuale", dove l'intreccio dei fatti e dell'immaginario è costitutivo dell'evento. Ma non è che tali intrecci non fossero entrati in azione nel «maggio radioso» e non rappresentino - guerra durante - ciò che sostiene o fa vacillare gli uomini anche nella vita quotidiana in trincea. Nel dare spazio al simbolico e all'immateriale, l'autore sa di proseguire sulla via delle fonti da lui privilegiate sin dalle origini; ma lo può fare con più sicurezza, da una parte, perché la fiducia e l'interesse per queste dinamiche e fonti si sono nel frattempo affermati, addirittura sino a vanificare, in non pochi, la stessa pregnanza oggettiva dei fatti e la centralità della storia politica; e dall'altra perché non intendendo affatto, per suo conto, precipitare nell'individualistico e nell'irrelato e poiché aspirerebbe a comprendere, ma a non restare vittima dei vari e antitetici sogni di allora - si è sentito in quest'occasione le spalle coperte dalla concretezza e dalla sicura fattualità del coautore. Noi, qui, si è fatta - si è inteso fare - storia generale, di una società e di uno Stato, coinvolti in un drammatico conflitto dei popoli della vecchia Europa. Non si è messo l'individualismo - di massa o meno - in ballottaggio con lo Stato. Anzi. Da questo punto di vista, il libro è consapevolmente controcorrente. Ci si troverà più "politica" e più "Stato" di quanto i più, oggi, non ce ne vorrebbero probabilmente trovare. 618

- "Immagini della guerra". Sin qui, si è fatto riferimento a fonti privilegiate, ma si è anche espressa un'opzione di scrittura più generale, dandone sinteticamente le chiavi. Nelle brevi sezioni a tema che seguono, il tratto sarà funzionale, diciamo di servizio al lettore, più che di autointerpretazione. Il carattere tradizionale dei vertici militari e politici della guerra italiana non prevederebbe, a rigore, uno spazio per l'immagine. E' tuttavia uno dei settori in cui la necessaria modernizzazione delle forme di guerra costringerà anche i più sospettosi a venire almeno parzialmente a patti con le nuove tecniche - in questo caso le tecniche della visione - e con la possibilità di trasformare in un'occasione e in un'arma strumenti che non erano stati a disposizione nelle guerre precedenti. Del resto, se il cinema ha solo pochi anni di vita, è già più attempata la fotografia: il Risorgimento stesso è stato fotografato in più momenti e situazioni. Nel 1914-1918 lo sviluppo degli apparecchi fotografici è anzi tale da consentirne la moltiplicazione; e questo, se da una parte rappresenta una risorsa per una diffusione potenzialmente illimitata del moltiplicatore visivo, dall'altra - e proprio per questo - moltiplica anche le preoccupazioni e le esigenze di controllo da parte di chi, per formazione e per ruolo, si sforza di governare e di sottomettere l'insieme delle cose, annullando o riducendo al minimo i margini di autonomia dei singoli soggetti. Occorre tenere presente che, in origine, Cadorna stenta persino ad accogliere in linea i giornalisti, che non comunicano con le immagini, ma solo con la parola scritta; dovrà adattarvisi, trasformando il rifiuto preconcetto in una informazione regolamentata e controllata dalla censura e dall'autocensura di corrispondenti di guerra scelti oculatamente "ad hoc", abbastanza docilmente disponibili a funzionare all'interno della macchina militare (Glauco Licata, "Storia e linguaggio dei corrispondenti di guerra", Milano, Miano, 1972). Anche i fotografi vengono così ammessi, e ancor più sottoposti a controllo poiché non mantengono lo statuto di 619

civili come i corrispondenti di guerra, ma sono essi stessi militari, i quali svolgono un servizio specifico che rimanda alla loro professione, passata o futura. Il Comando supremo ha esso stesso le sue sezioni specializzate di militarifotografi. Producono immagini di buona fattura tecnica, lavorando all'interno degli apparati, sottoposti a forme di controllo e di censura alla fonte che sono, ovviamente, anche più stringenti di quelle sulle corrispondenze scritte degli inviati dei giornali. La legge di funzionamento di questa diffidente e riduttiva visione ufficiale è anzitutto la reticenza, sino al vero e proprio occultamento della morte, sia ricevuta che data. La violenza può essere allusa attraverso la visualizzazione delle armi o dei fori lasciati dai proiettili sul terreno, ma va sottaciuta nei suoi effetti devastanti sui corpi. E una normativa che vale anche per il cinema in tempo di guerra. Ne risultano immagini asettiche, evasive, qualche volta frivole, tutt'al più curiose dell'episodio, non di rado edificanti: rade immagini di prima linea e una quotidianità militare ridotta ai suoi lati curiosi e rassicuranti, colta nelle pause di riposo o nella fatica di spingere un cannone. Armi, gruppi, esercizi sportivi, tempo libero, visite ufficiali, cerimonie. Un recente lavoro d'assieme, che riassume la normativa, le condizioni e lo spirito del lavoro dei fotografi appartenenti alle sezioni specifiche dell'esercito italiano, è quello di Lucio Fabi, "La prima guerra mondiale 1915-1918", comparso nella collana degli Editori Riuniti diretta da Giovanni De Luna e Diego Mormorio (1998). Oggi - rivisitando quelle migliaia e migliaia di fotografie e di pellicole - potremmo coglierne il lato migliore proprio in quella sorta di sospensione della drammaticità del combattimento che porta a privilegiare la vita quotidiana, la socialità del soldato dietro le quinte; allora si trattava di sfocare proprio ciò che era di per sé il vero centro, la guerra e l'uccidere e il morire in guerra. Il comandamento del «non uccidere», violato nella prassi, si piglia questa patetica rivalsa omissiva. La censura esclude di far vedere al paese quanto di violento e di macabro sta accadendo al fronte. Occorre tuttavia aggiungere che la 620

reticenza e una volontaria eufemizzazione degli aspetti più sinistri della vita di guerra si riscontrano anche nella corrispondenza privata con le famiglie, e che tali atteggiamenti sono attribuibili non solo alla consapevolezza che la censura vigila e blocca le lettere troppo realistiche, ma anche a spontanei meccanismi di protezione affettuosa nei confronti dei destinatari: è meglio se i civili non sanno tutto. La costruzione di una doppia realtà - una crudamente materiale mimetizzata e una, meno intollerabile, recitata a fini di comunicazione sociale - si può quindi considerare una linea di tendenza generale sia pubblica sia privata, le cui motivazioni si sovrappongono. Le immagini prodotte in zona di guerra vanno ad alimentare un mercato dell'immaginario espresso soprattutto nei periodici illustrati, che vogliono intrattenere con le "figurè della guerra e al tempo stesso subiscono e condividono gli atteggiamenti censori e protettivi nei confronti di un pubblico più o meno scopertamente infantilizzato. Come negli articoli, sull'informazione critica prevalgono perciò l'effetto di colore, l'aneddoto, il diversivo. Fra le imprese editoriali di questa cronaca visiva o di superficiale storia illustrata ricordiamo almeno "La guerra delle nazioni", una fortunata opera a puntate pubblicata in più volumi durante la guerra a Milano da un grande editore come Treves, tradizionalmente interessato alla divulgazione, destinata a entrare stabilmente nelle case di molte famiglie italiane. E" probabilmente anche per questo - meno morte e più aneddotica e più colore possibile - che la copertura filmica e fotografica della guerra in montagna sopravanza quella della guerra sul Carso. Il grande operatore Luca Comerio ci ha lasciato straordinarie immagini di guerra in alta montagna, in particolare ai 3.000 metri dell'Adamello, dove quello che si vede non sono i combattimenti, ma il lavoro e la bravura umana in condizioni d'eccezione, con creste innevate e scorci paesistici di grande effetto. Esiste oggi in videocassetta presso il Museo della guerra di Rovereto un film di montaggio - "Su tutte le vette è pace" - in cui Jervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (i quali già nel 1995 621

avevano realizzato, sui militari trentini nell'esercito austroungarico, "Prigionieri nella guerra 1914-1918", prodotto dai Musei di Trento e di Rovereto) rielaborano creativamente una duplice serie di immagini coeve, scattate sulle stesse creste da sconosciuti operatori austro- ungarici e da Comerio. Si possono distinguere, fra gli altri, frammenti di documentari - oggi conservati alla cineteca di Koblenz e al Museo della guerra di Vienna - con simulazioni di attacchi sulla neve e di cattura di presunti nemici (qualche particolare, sfuggendo alla messa in scena dell'azione, rivela allo spettatore la finzione, poiché assalitori e assaliti appartengono allo stesso esercito). Tornando alle immagini fotografiche e a raccolte reperibili che ne possano dare un'idea, ne segnalo due splendidi esemplari recenti: "I giorni della guerra sull'Adamello Kriegstage am Adamello", a cura di Gianfranco Porta, Brescia, Grafo, 1996, con immagini scattate da fotografi delle due parti, e "Panorami della Grande Guerra sul fronte dallo Stelvio al Garda", di Mauro Passarin e Glauco Viazzi, Vicenza, Museo del Risorgimento e della Resistenza, 1998, con bellissime immagini tratte dall'archivio del generale Pecori Giraldi, opera della sezione fotografica del Comando supremo. Nel secondo caso le immagini, a uso interno, hanno caratteristiche tecniche di scrupolosa esattezza nei dettagli a distanza, dovendo servire a scopi militari. Non mancano tuttavia i casi in cui documento ed estetizzazione della guerra si danno la mano e gli alpini, come in letteratura, la fanno da padroni per la stessa ragione che in letteratura, ossia perché la loro guerra rimane più "umanà e rappresentabile di quella sporca e sanguinosa della fanteria nelle trincee e negli assalti del Carso. Oggi i due repertori fotografici ufficiali via via costituitisi negli anni di guerra - quello italiano e quello austroungarico -, ispirati a criteri ed espressione di livelli tecnici non dissimili, sono conservati e accessibili (Museo del Risorgimento di Roma, Museo della guerra di Vienna) e divulgati, per scampoli e campioni, da mostre locali e dai relativi cataloghi. 622

Da segnalare il doppio e parallelo discorso visivo potenzialmente ricostruibile confrontando immagini italiane e austriache, altrettanto ufficiali, ma orientate in modo opposto, per esempio per visualizzare il Friuli e il Veneto occupati (Gustavo Corni, Eugenio Bucciol, Angelo Schwarz, "Inediti della Grande Guerra. Immagini dell'invasione austro-germanica in Friuli e nel Veneto orientale", a cura di Bruno Callegher e Adriano Molli, Trieste, B&M Fachin, 1990). Qualche volta riemergono anche - magari dagli archivi del laboratorio commerciale di un ex fotografo militare immagini meno ufficiali, sfuggite al visto di censura perché non destinate alla pubblicazione, ma scattate dagli stessi fotografi del Comando supremo per spirito professionale o come promemoria personale. Altre volte si possono reperire foto scattate da amatori dotati di apparecchio privato. Si può vedere qualche morto in più, qualche scorcio troppo reale per prestarsi all'uso pubblico immediato. Lo stesso Vittorio Emanuele era un fotografo appassionato e andava vistosamente in giro nelle sue frequenti visite automobilistiche in zona di guerra munito del suo apparecchio personale. Ha compilato anche una serie di album della guerra per il principino Umberto, da cui è nata qualche anno fa una mostra a Venezia, palazzo Fortuny, con relativo catalogo ("Vittorio Emanuele Terzo. Album di guerra 1915-1918", a cura di Michele Falzone del Barbaro, Alinari, 1989). Anche le immagini fotografiche di cui è corredato il presente volume derivano dall'iniziativa personale di un ufficiale di complemento, il tenente del Genio Renzo Monti, addetto al comando del ventiduesimo corpo d'armata e in condizione di seguire da vicino i lavori di costruzione di nuove strade e gallerie nelle immediate adiacenze delle linee, nella parte centro- meridionale dell'altipiano dei Sette comuni. L'album che ne è derivato, messo insieme dallo stesso ufficiale autore anche delle didascalie e della datazione, comprende oltre trecento immagini ed è conservato nella Biblioteca del Comune di Asiago. 623

Al dominio dell'immagine appartengono anche i manifesti, le cartoline e i giornali illustrati per le truppe. Sono, più che mai, visualizzazioni volutamente e coscienziosamente di parte, nate per corroborare "noi", e parodizzare o esecrare "loro". Possono, appunto, entrare in gioco generi e stili differenti, la "lingua" è comune, ma alle "parole" è lecito suonare diverse, come diversa è la statura degli artisti e illustratori coinvolti, che comprendono comunque i professionisti più affermati. Rimandano alla cartellonistica anche i giornali di guerra, il cui maggior successo si colloca nell'ultimo anno del conflitto. Sono altrettanto belli e visivamente efficaci «La Ghirba» o anche, diversamente, «Il Montello» o il «San Marco», ma la riedizione integrale in volume (Mondadori, 1965) ha consolidato la maggior visibilità della «Tradotta», resa memorabile già dal fatto di essere stato il giornale della terza armata, sponsorizzato dal duca d'Aosta e realizzato dagli uomini del «Corriere della Sera» (conf. per l'insieme del fenomeno Mario Isnenghi, "Giornali di trincea 1915-1918", Torino, Einaudi, 1977). L'industria della cartolina di propaganda - a suo modo un capitolo dell'industria culturale oltre che un mobile e capillare strumento di diffusione degli stereotipi - è un fenomeno frondoso e ramificato, in cui entrano in gioco enti pubblici e interessi privati, comitati patriottici, aziende commerciali, tecnici dell'illustrazione, cartellonisti, pubblicitari, pittori. Rimandiamo ai volumi di Nicola Della Volpe pubblicati presso l'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito ("Esercito e propaganda nella Grande Guerra", Roma, 1989); ai cataloghi delle numerose mostre di cartoline, fra cui quelle di Rovereto (Lamberto Pignotti, "Figure d'assalto. Le cartoline della Grande Guerra. Dalla collezione del Museo storico italiano della guerra di Rovereto", Rovereto, Museo storico italiano della guerra, 1985), Vicenza ("Messaggi dal fronte. Mille cartoline della Grande Guerra", a cura di Giampietro Berti, Milano, Electa, 1988), Gorizia ("L'arma della persuasione. Parole ed immagini di propaganda nella Grande Guerra", a 624

cura di Maria Masau Dan e Donatella Porcedda, Gorizia, Edizioni della Laguna, 1991). Il cinema, anch'esso, un pò"è costretto dalla normativa, un pò"è condizionato dalle esigenze produttive, dal peso dei "generì e da quelle che a buon diritto ritiene essere le attese di evasione e divertimento del grande pubblico, a scegliere la guerra come semplice sfondo di normali intrecci amorosi, preferibilmente romanzeschi e adulterini, magari con la contestualizzazione occasionale di qualche volonterosa didascalia patriottica; è quella, per il cinema italiano, la grande stagione del muto e della esplosione del fenomeno divistico, da Francesca Bertini a Lyda Borelli. Uno storico del cinema come Gian Piero Brunetta - dedicandovi la terza edizione della rassegna «Lampi di guerra» ("Morire tra le braccia di Lyda Borelli", Asiago, agosto 1999) - ha mostrato, produzione e ricezione dei film alla mano, che anche qui l'immaginario, questa volta cinematografico, assicura vie di fuga dalla realtà. Successo ottengono anche pellicole che sottopongono il presente a un trattamento eroicomico e parodistico, come nel fortunato "Maciste alpino" (1916), dove un nerboruto attore tratto dallo strada - Bartolomeo Pagano, un ex scaricatore di porto genovese destinato ad affermarsi proverbialmente come amato divo plebeo delizia pubblici di bocca buona, infantili o infantilizzati, liquidando i «mangiasego» o «crucchi» a suon di pedate nel sedere. E' l'equivalente cinematografico delle pagine più corrive di un giornale illustrato per le truppe come «La Tradotta». Lontanissime sono ancora pellicole di ripensamento critiche e riflessive come "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Lewis Milestone (1931) o il capolavoro di Jean Renoir "La grande illusione" (1937). La cinematografia italiana fra le due guerre - dove la critica della guerra non è consentita darà la favola consociativa e paesana di "Scarpe al sole" di Marco Elter (1935), dal fortunato libro alpino di Paolo Monelli. Bisognerà attendere il secondo dopoguerra avanzato per un'aspra rivisitazione critica: per via di commedia che volge al tragico in "La grande guerra" di 625

Mario Monicelli, con le maschere dell'italiano di Gassman e Sordi (1959), e senz'altro per via tragica con "Uomini contro" di Francesco Rosi (1970), libera ed esasperata interpretazione del Lussu di "Un anno sull'Altipiano", con il ribelle Ottolenghi- Volontè trasformato in protagonista. Diverso e in chiave più elegiaca, "I recuperanti" che Ermanno Olmi gira nel 1974 su soggetto di Mario Rigoni Stern. Stanley Kubrick è l'autore di un duro film ambientato nelle mattanze della Somme, con Kirk Douglas, "Orizzonti di gloria" (1957); e di nuovo a una ambientazione francese rimanda l'originale film di Bernard Tavernier "La vie et rien d'autre" (1989), che pone con "pietas" ed energia critica il problema della elaborazione del lutto e delle forme pubbliche della memoria, a Verdun e negli altri luoghi dell'eccidio europeo. Ulteriori notizie si reperiscono nei vari volumi della "Storia del cinema italiano" di Gian Piero Brunetta pubblicata in più edizioni a partire dal 1979 presso gli Editori Riuniti. - "I luoghi". Tradizionalmente i luoghi della memoria sono i musei, anche se, come vedremo subito, una caratteristica vitale di questa grande memoria collettiva è proprio quella di avere innovato e ampliato l'oggetto stesso della memoria e del "bene" museale, quindi anche i soggetti e i luoghi di conservazione ed esposizione. Non è infrequente, ancor oggi, visitare piccoli e anche minuscoli musei paesani della prima guerra mondiale che espongono più o meno ordinatamente reperti di varia natura (armi, divise, fotografie, volantini e così via) basandosi sul volontariato di qualche appassionato locale. Di ben altra statura, naturalmente, le maggiori istituzioni museali specificamente dedicate alla guerra, come il Museo della guerra nel castello veneziano di Rovereto (specializzato in armi, non solo di questo conflitto); o che per la loro collocazione e per le vicende che vi hanno dato nascita non 626

possono non attribuire uno spazio privilegiato alla prima guerra mondiale: come avviene per il Museo di Gorizia, a Palazzo Attems; e per il Museo storico in Trento, che la recente asettica ridenominazione non può comunque sradicare dalle sue origini irredentiste e battistiane, avendo sede nel Castello del Buon Consiglio, dove Battisti fu processato e impiccato dagli austriaci, ed essendo stato fortemente voluto e poi a lungo gestito dai suoi familiari ed eredi. Tutt'e tre queste sedi museali "tradizionalì hanno saputo via via ripensare criticamente le proprie funzioni, non solo nel senso delle tecniche espositive, ma anche accompagnando e rielaborando in forma attiva le politiche culturali e le visioni storiografiche che si sono via via succedute. I due musei trentini si legano, in particolare, all'attività di scoperta e di valorizzazione dei documenti della "scrittura popolare". Anche i migliori musei della guerra in Italia rimangono comunque indietro rispetto alle concezioni e all'efficacia dei migliori musei all'estero. La vitalità della Grande Guerra si misura anche dal fatto che - a distanza di più di ottant'anni - una diffusa memoria collettiva continua a sostenere l'interesse e a rendere tuttora diversamente partecipata la stessa storiografia. Poiché proprio la "memoria", individuale e collettiva, e i suoi meccanismi genetici ed elaborativi sono attualmente fra i grandi temi della storiografia e una delle più redditizie aree di incontro fra storia e scienze sociali (psicologia, sociologia, antropologia) e fra storia e letteratura, storia e linguistica, ecco come la storia del primo conflitto mondiale ha brillantemente superato la crisi della storia politica. Nell'offrirsi come naturale laboratorio, fra l'altro, per la storia della memoria e la geologia dell'immaginario, la prima guerra mondiale ha riscoperto per forza di cose i suoi stretti rapporti con il territorio in cui a suo tempo si combatté. Il censimento delle manifestazioni d'ogni natura, oltre che delle pubblicazioni, ribadisce, di anniversario in anniversario, ma anche nell'ordinario, la portata del radicamento veneto- friulano- giuliano della guerra: ovverosia in quello che si usa chiamare oggi il Nord-Est. I 627

luoghi della guerra sono questi, dal Carso al Piave, dal Cadore al Grappa, da Gorizia al Pasubio. Luoghi materiali trasformatisi in luoghi mentali, che perdurano grazie a quei punti di appoggio concreti. Monti, fiumi, città e cittadine legati a questo o quello scontro particolare oppure ai tempi lunghi della guerra di posizione. Nella geografia più ampia dei luoghi territoriali, si incastra poi tutta una casistica di microluoghi che rimandano all'eccezionalità e all'ordinarietà della guerra: un forte, una trincea, un sistema di camminamenti, gallerie, postazioni o depositi; e poi strade, segni dei colpi, frantumi materiali di vita militare (dai corpi che ancora non tanto raramente riemergono a proiettili inesplosi, gavette, scatolame, baionette, elmi e quant'altro). Per decenni, dopo la guerra, questi residuati allora in proporzioni imponenti - animarono le ricerche dei "ricuperanti". Nella congiuntura degli anni ottantanovanta, i processi di "ricupero" del territorio della guerra hanno trovato altre motivazioni, diverse ma convergenti: c'è il gusto diffuso per la storia locale; si è propagata la cultura dell'ambientalismo e l'amore della natura suggerisce atteggiamenti di attenzione e di rispetto e tecniche di preservazione non dissimili per questa natura tutt'altro che "incontaminatà, anzi impregnata di storia; anche l'archeologia industriale ci mette del suo, introducendo l'idea che non solo le opere d'arte meritino conservazione e restauri. Sono poi numerosi gli esperti locali, e anche qualche professionista di storia militare, che ambiscono a saper tutto su quella certa quota, battaglia, arma o reparto e che animano i circuiti di una microeditoria specializzata cui non manca un pubblico appassionato e competente e di un turismo militare indotto. Più in generale, è ancora diffusa la "pietas" per tanta morte, ancora presente per più segni, che porta a riattare e a visitare decine di antichi cimiteri italiani, austriaci, ungheresi, bosniaci, turchi, inglesi, con l'aiuto di associazioni, enti e privati. Rimane vivo e trova nuove ragioni d'essere un turismo di guerra decollato, specie sulle Dolomiti, fin dagli anni venti e oggi rivitalizzato e incrementabile dall'ecologia, dal "trekking", 628

magari ricalcando le strade e i sentieri costruiti dagli austriaci o dagli italiani per farvi passare truppe e armamenti e che oggi - ribattezzati «sentieri della pace» ottengono finanziamenti locali, ma anche transnazionali ed europei nel nome appunto della ritrovata amicizia fra i popoli. In questo quadro di motivazioni e di spinte diverse, ma convergenti, si stanno creando negli ultimi anni promettenti sinergie fra studiosi universitari, cultori del "genius loci" e amministratori locali, grazie alle quali vengono progettati e muovono i primi passi i "musei all'aperto" della Grande Guerra. Lo spazio stesso della guerra e della vita militare, articolato nei suoi diversi momenti e funzioni, diventa qui oggetto di interesse e di una cura che non richiede solo interventi di carattere libresco, ma mobilita necessariamente competenze di varia natura. Chi scrive si è occupato - come museo all'aperto - dell'altopiano di Asiago, ma processi di valorizzazione non dissimile sono avvenuti e avvengono anche nel Carso monfalconese (molto attivo, qui, Lucio Fabi), nel Goriziano, a Cortina e in altre località che hanno conservato tracce rilevanti della guerra di montagna (qui va ricordata l'opera di Glauco Viazzi). Tutto ciò - almeno dal punto di vista delle amministrazioni all'insegna di un'idea non meno interessata, ma più evoluta di "mercatò e nell'intento di alimentare il turismo culturale, cioè una branca specifica dell'industria della vacanza. Diverse sono le vedute e le motivazioni degli studiosi, ma se la letteratura poté e può tuttora trovare sostegno in premi letterari legati alle virtù di una spiaggia o di un'acqua minerale non c'è ragione di dolersi che oggi gli amministratori abbiano non di rado individuato nella Grande Guerra e nei suoi luoghi compresi nel rispettivo territorio un motivo d'interesse diffuso. Tanto più che - al di là del motivo pratico che li spinge - possono essi pure, in quanto abitanti radicati nei luoghi, sentirsi partecipi della medesima curiosità, affezione, rispetto che sollecitano gli altri, nativi e visitatori. Svariati i risultati concreti, mentre si fa strada l'idea- guida che amplia il concetto di "bene 629

culturale": sono nel loro complesso i "luoghi" a dover essere protetti, sottoposti a manutenzione e resi fruibili da un pubblico guidato e consapevole. L'intervento può consistere nel salvataggio di un forte (da anni era già visitabile il ben conservato Forte Belvedere di Lavarone, ora è stato reso agibile il ben più diruto Forte Luserna, anch'esso una delle prime opere di difesa austriache nei pressi dell'allora confine di stato). Oppure nel recupero e nella tabulazione di un percorso (il sentiero denominato della Pace dura centinaia di chilometri: scendendo dall'Austria attraversa il Trentino, arrivava a Luserna e ora, grazie agli ultimi lavori, prosegue per parecchi altri chilometri attraverso i monti dei Sette comuni scendendo poi ad Asiago). O ancora in interventi di restauro come quelli che anni fa, a opera dell'esercito, avevano reso agibile e riconoscibile l'intero percorso delle trincee italiane e austriache dell'Ortigara e negli ultimi anni - grazie all'accresciuta sensibilità sin qui descritta - hanno restituito il complesso trincerato dello Zebio e lasciano sperare il recupero di Campo Gallina, la «città della guerra» - fitta di strade, depositi, acquedotto, cisterne, teleferiche, ospedale, chiesa e così via - costruita dagli austro- ungarici immediatamente alle spalle delle prime linee proiettate verso il cuore dell'altopiano di Asiago. Oltre a interventi e norme di tutela di carattere provinciale e regionale, esiste ora una legge nazionale "ad hoc" di cui si è occupato in particolare lo storico e senatore Alberto Monticone. Fra le modalità generative della memoria gioca poi una parte non secondaria la letteratura di guerra e, anche qui, tutto l'indotto critico che ne deriva e ne può derivare. Bisogna stare attenti, perché Disneyland in questi casi è sempre in agguato, ma si può ricordare che oggi il turismo culturale propone anche itinerari e parchi letterari legati alla presenza di singoli scrittori. Ora, è evidente che la memoria della guerra si è nutrita qui della presenza di scrittori come i due fratelli Giani e Carlo Stuparich, Lussu, Gadda, Monelli, Frescura; poco più giù, verso Bassano, Hemingway e più tardi - sul piano della elaborazione 630

narrativa della memoria dei luoghi - Rigoni Stern. Dall'altra parte, hanno avuto a che fare e hanno scritto della guerra in altopiano Musil, il regista- scrittore Luis Trenker, Fritz Weber. Sono già disponibili diversi studi (Giovanni Cecchin, "Con Hemingway e Dos Passos sui campi di battaglia italiani della Grande Guerra", Milano, Mursia, 1980; Fabio Todero, "Carlo e Giani Stuparich. Itinerari della Grande Guerra sulle tracce dei due volontari triestini", Trieste, Lint, 1997; Fabio Todero, "Pagine della Grande Guerra. Scrittori in grigioverde", Milano, Mursia, 1999; Paolo Pozzato, Giovanni Nicolli, "Mito e antimito. Un anno sull'Altipiano con Emilio Lussu e le brigate Sassari", Bassano, Ghedina e Tassotti, 1991) che si sono industriati di seguire analiticamente gli spostamenti di un autore, quand'era soldato, e di metterli a confronto con le pagine in cui i luoghi e gli avvenimenti verranno poi narrati. - "I monumenti". Solo alcune aggiunte a quanto già detto nel testo. Mancano a tutt'oggi una rilevazione e uno studio complessivi del fenomeno dei monumenti ai caduti. Il tema interessa attualmente molto ed è sotto i ferri di studiosi di vari paesi, in particolare di quelli coinvolti a suo tempo nella guerra. Le coordinate generali in chiave di storia culturale si rifanno prima di tutto alle opere di George Mosse, a partire specificamente dall'esperienza tedesca. Annette Becker e gli studiosi che fanno capo alle iniziative e agli stimoli dell'Historial de la Première Guerre mondiale di Péronne (Amiens) - nel cuore della Somme e nato primariamente per ricordare e analizzare quella gigantesca e moderna battaglia di uomini e di macchine sul fronte occidentale hanno prodotto diversi studi sulla fenomenologia cimiteriale e monumentale, in particolare in Francia. Jay Winter ha rilanciato di recente le grandi tematiche dell'elaborazione del lutto per la morte individuale e di massa, in un quadro internazionale e comparativo basato prevalentemente sul territorio e la casistica dell'Impero 631

britannico e degli Stati Uniti ("Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea", Bologna, Il Mulino, 1998). Per il caso italiano, periodizzazione del fenomeno, tempi e luoghi della storiografia: nelle linee generali, per i "Parchi e viali della Rimembranza" - bella e inventiva forma specifica di elaborazione del lutto, che intarsia natura, progetto politico ed educazione dei sentimenti - occorre sempre ripartire dal volume omonimo del suo ideatore politico, il sottosegretario nazionalista alla Pubblica Istruzione del primo governo Mussolini, Dario Lupi, che ne descrive analiticamente i mesi della programmazione e del decollo (Firenze, Bemporad, 1923). Per il Milite ignoto, i riferimenti di partenza sono il saggio di Vito Labita, "Il Milite ignoto: dalle trincee all'Altare della patria", in Sergio Bertelli, Cristiano Grottanelli (a cura di), "Gli occhi di Alessandro", Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, e quello di Bruno Tobia in M. Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria", cit., vol. 1, che segue tutto il percorso trasformativo che porta il "Vittoriano" a diventare "Altare della patria", proprio attraverso l'immissione nel simbolo regio di questa metafora del nuovo soggetto collettivo e cioè affermando e visualizzando l'avvenuta - come la chiama Mosse - "nazionalizzazione delle masse". I monumenti ai caduti di carattere più seriale si affrontano a livello di storia locale, lavorando sulle carte degli archivi comunali, sui committenti, i comitati promotori, le vicissitudini consiliari, concorsuali, pubblicistiche che accompagnano - nei diversi anni che di norma servono a portare a termine una di tali operazioni sulla memoria - la nascita e l'inaugurazione ufficiale del manufatto. Un punto di partenza della ricerca si ebbe con le riflessioni sul campione piemontese svolte da Claudio Canal in "La retorica della morte. I monumenti ai caduti della Grande Guerra", «Rivista di storia contemporanea», 1982, n. 4; Renato Monteleone e Pino Sarasini in "I monumenti italiani ai caduti della Grande Guerra", in D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit., ragionano di tale forma di elaborazione della memoria a partire da un campione 632

ligure; le ricognizioni d'area proseguono nel decennio successivo, e nel 1997 Gianni Isola e i suoi studenti propongono "La memoria pia", dove si censiscono e schedano "I monumenti ai caduti della prima guerra mondiale nell'area Trentino Tirolese" (Trento, Università degli studi). Ancor più di recente va segnalata una iniziativa di censimento e di studio in area romana e laziale: "La memoria perduta", a cura di Vittorio Vidotto, Bruno Tobia e Catherine Brice, Roma, Nuova Argos, 1998. Ai lavori di storia locale, che si presentano naturalmente dispersi - in riviste locali, pubblicazioni da anniversario, atti di convegni, tesi di laurea -, si aggiungono studi critici di storici dell'arte, dell'architettura e dell'arredo urbano, nei casi in cui il monumento sia opera di una personalità artistica di rilievo. Anche le monografie critiche o i cataloghi di mostre di singoli scultori si presentano perciò come una possibile fonte per il nostro tema ("Monumenti della grande guerra. Progetti e realizzazioni in Trentino 1916-1935", catalogo a cura di Patrizia Marchesoni e Massimo Martignoni, Trento, Museo storico, 1998). Talvolta è uno scandalo concorsuale a richiamare l'attenzione - allora della pubblicistica corrente, ora degli storici dell'arte - come nel complesso monumentale di Piazza Castello a Torino in onore del duca d'Aosta, quando Eugenio Baroni brucia sul filo di lana il grande Arturo Martini, pare su pressioni di Mussolini (Flavio Fergonzi, Maria Teresa Roberto, "La scultura monumentale negli anni del fascismo. Arturo Martini e il monumento al Duca d'Aosta", a cura di Paolo Fossati, Torino, Allemandi, 1992). Niente di inusuale, peraltro, se non fosse per la nota piccante che chiama in causa il duce, poiché da sempre - e non solo fra le due guerre - l'iconografia pubblica scatena conflitti locali e sovralocali di interessi, priorità e visioni, nei quali la dimensione prettamente artistica rappresenta solo una parte e, di norma, non quella essenziale. Per l'argomentazione di questa asserzione si rimanda a M. Isnenghi, "Le guerre degli italiani", cit. La periodizzazione e le varie fasi della monumentazione della guerra vengono 633

affrontate nei saggi di Patrizia Dogliani e in particolare in quello compreso in Mario Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria. Simboli e miti dell'Italia unita", Roma- Bari, Laterza, 1996, dove il discorso si incentra sull'ossario di Redipuglia e i tempi e significati della sua complessa parabola trasformativa. L'ambiziosa operazione sulla memoria codificata nel grande sacrario carsico è stata più volte affrontata anche da Lucio Fabi, nel corso dei suoi interventi sul Carso in quanto museo all'aperto della guerra (pubblicazioni, mostre fotografiche, cartine di percorsi organizzati e altro). Gli studi di Fabi e Dogliani si giovano anche del materiale informativo desunto dalle pubblicazioni ufficiali via via prodotte dagli uffici competenti per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa. Le pubblicazioni ufficiali si estendono a tutti gli altri sacrari, ossari e "zone sacre" - dal Montello ad Asiago, da Oslavia al Pasubio - che segnano negli anni trenta una fase decisiva della monumentalizzazione per volontà politica e intervento dello Stato. Naturalmente, benché la traiettoria storica fra le due guerre vada nel senso di una riorganizzazione dirigista e del grandioso, non tutti i segni e gli interventi precedenti, del tempo di guerra e del primo dopoguerra, sono stati cancellati dal sopraggiungere di nuove formalizzazioni della memoria pubblica o comunque perduti con il passare del tempo. La zona di guerra mantiene a tutt'oggi una complessa e variegata segnatura micromonumentale che disegna un reticolo di singoli luoghi ed eventi, i quali rimandano alla morte di singoli combattenti, alle azioni di determinati corpi e reparti, a una giornata o a un evento più memorabili: tutto ciò si è fatto memoria e permane visibile grazie all'intervento selettivo e alle cure estese nel tempo di familiari, compagni d'armi, associazioni di ex combattenti, che precedono e si accompagnano, senza venirne spente, alla programmazione statale della memoria nazional- fascista. Rientra nella sfera di interessi, è nello spirito dei nascenti musei all'aperto, censire e tener conto di questa complessa 634

e differenziata casistica semipubblico e privato.

del

monumento,

pubblico,

- "La scrittura popolare". Anche nel caso di quello che negli ultimi quindici- vent'anni si è convenuto di definire "scrittura popolare", diverse cose sono già state dette, proprio basandosi su questo tipo di documentazione prima inconsueto, nel corso del lavoro. Non resta qui che ribadire la vitalità e l'energia innovativa di questa accezione allargata di cultura e di fonte, che ha ammesso i semilletterati come testimoni, oltre che attori, di una guerra non per niente divenuta di massa; e con essi le loro donne, anche in coerenza con le indicazioni di quella florida branca della storiografia che è la storia delle donne e all'accresciuto interesse per la storia sociale e per le dinamiche dei sentimenti e delle soggettività. I due autori del volume sono del resto interni a tale movimento di recupero delle fonti popolari, che negli anni ottanta ha avuto una delle sue piccole capitali a Rovereto, attorno alla rivista «Materiali di lavoro», oggi scomparsa, e hanno partecipato ai seminari di lavoro annuali da cui è nata la Federazione degli archivi della scrittura popolare, nata e autodefinitasi tale proprio perché intesa a collegare tante piccole o meno piccole iniziative spontanee, oltre che a "federare" approcci metodologici differenti (cioè non solo storiografici, ma linguistici, antropologici, psicosociologici, letterari). I primi quaderni, con i diari o le memorie di militari - anche soldati semplici, era questo il bello e il nuovo dell'impresa - erano già stati reperiti nelle case contadine del Trentino quando «Materiali di lavoro», con l'aiuto di altre riviste di storia aperte a un rinnovamento degli strumenti di ricerca, promosse nel 1985 al Teatro Zandonai di Rovereto il memorabile convegno i cui materiali escono nel volume a cura di Diego Leoni e Camillo Zadra, "La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini", Bologna, Il Mulino, 1986, e che non scontava - per il fatto di voler allargarsi al piccolo, al popolare e all'anonimo - nessun tipo 635

di umiltà o provincialismo, visto che era riuscito ad affiancare come relatori ai maggiori studiosi italiani anche studiosi di successo provenienti dall'estero quali Paul Fussell ed Eric Leed. Nei successivi quindici anni si è accresciuto continuamente il numero dei testi di scrittura popolare ritrovati, oggi depositati e studiati presso il Museo storico in Trento. Mentre si affinavano le metodologie di lettura di tali testi, alcuni trovavano la via della pubblicazione, nelle edizioni di «Materiali di lavoro», del Museo di Trento, del Museo della guerra di Rovereto o con altre sigle e soluzioni editoriali. Gianluigi Fait si è affermato come il filologo maggiormente dedito e paziente e come abituale editore di questa nuova tipologia di fonti. Ricordiamo la collana «Scritture di guerra», da lui condiretta assieme a Quinto Antonelli e Diego Leoni, i cui volumi escono dal 1994 editi dai due musei associati di Rovereto e di Trento. Fuori dell'area trentina, ma non senza collegamenti di lavoro, vedono la luce anche il "Diario di guerra di un contadino toscano" di Giuseppe Capacci, a cura di Dante Priore, Firenze, Cultura, 1992, significativamente accompagnato da due note di un antropologo, Pietro Clemente, e di uno storico, Mario Isnenghi; e la collana «Fiori secchi», dedicata a «Testi e studi di scrittura popolare», diretta da Antonio Gibelli ma espressione della rete dei nascenti archivi della scrittura popolare, uscita in un primo tempo presso l'editore Marietti di Genova, in un secondo presso Paravia- Scriptorium di Torino. Il primo volume, "Scrivere per non morire", ha un titolo che è già una chiave interpretativa e l'autore, Federico Croci, vi pubblica e analizza le "Lettere dalla Grande Guerra del soldato bresciano Francesco Ferrari" (Genova, Marietti, 1992). Alla scrittura popolare e in particolare all'effusione della soggettività dell'uomo qualunque, in pace e in guerra - ma sovente, statistiche alla mano, si può constatare che avviene più spesso per raccontare una "proprià guerra - è anche dedicata la coeva e parallela impresa del giornalista636

scrittore Saverio Tutino: l'Archivio diaristico nazionale, con sede nell'Aretino, presso la Biblioteca comunale di Pieve Santo Stefano, che riceve ogni anno l'offerta di circa 150 diari inediti e che ne ha ormai assicurati alla propria particolarissima biblioteca oltre 4000. Diversi fra i migliori sono stati pubblicati nella collana «Diario italiano» dell'editore fiorentino Giunti (dal 1991) o presso altri editori. Naturalmente, le sinergie fra questo crescente interesse per l'uomo e la donna comuni - nella chiave anche di un vigoroso e oggi da non pochi apprezzato individualismo di massa - e la perdurante voga della storia locale, fanno sì che vengano pubblicati, più dispersivamente, molti altri testi su base locale, intessuti di pagine diaristiche, memorialistiche o epistolari. Fra i propulsori di questo tipo di studi e di attività editoriale sono alcuni dei più attivi istituti provinciali della rete collegata all'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, le cui riviste e i relativi quaderni e libri si sono spesso proficuamente misurati con questo tema e con queste fonti. Concludiamo precisando che, se l'interesse per la scrittura popolare si è affermato e diffuso in tempi relativamente recenti, sulla base di rivendicazioni critiche e di spinte non solo culturali, ma anche politiche, originariamente di sinistra (anche se oggi divenute di più ardua classificazione), ciò non vuoi dire che prima nessuno si fosse mai interessato di questo tipo di autori e di testi. Raccoglie testi di cultura "alta" e "bassa" l'antologia "Tutta la guerra", allestita fra il 1917 e il 1918 da Prezzolini nello spirito e nell'area di influenza del servizio P, originariamente pubblicata nel 1918, poi riedita nel 1920 e ristampata da Longanesi nel 1968. Le lettere selezionate dall'ex direttore della «Voce» nei mesi fra Caporetto e Vittorio Veneto hanno beninteso intonazione patriottica, ma ciò non toglie l'allargamento del concetto di documento e di fonte. All'incirca contemporanea, ma di taglio ben diverso, è la raccolta di testi epistolari di militari italiani allestita e studiata dal grande linguista austriaco Leo Spitzer, fruendo 637

del suo privilegiato osservatorio di censore (il volume, uscito a Bonn nel 1921, verrà tradotto presso Boringhieri solo nel 1976 con il titolo "Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918" a cura di Lorenzo Renzi). Nel 1920, anche un futuro vicesegretario nazionale del P. N.F., il "fiumano" Arturo Marpicati pubblica una raccolta saggistica intitolata, sulle orme di Pascoli e di Corradini, "La Proletaria. Saggi sulla psicologia delle masse combattenti", Firenze, Bemporad, 1920. Cesare Caravaglios, studiando "L'anima religiosa della guerra" (Milano, Mondadori, 1935) non ignora canti e testi vari, scritti e orali, espressione dell'impatto tra avvenimento e soggetti popolari. Alle "canzoni in grigioverde" è espressamente dedicato "Ta-pum", una raccolta a suo tempo famosa di canti più o meno popolari nati o rielaborati dalla Grande Guerra. Nel volumetto delle edizioni Piccinelli di Roma, senza data ma della metà degli anni trenta, esse vengono armonizzate da Piccinelli, commentate da Salsa e illustrate da Bazzi. Con gli epistolari borghesi degli ufficiali di complemento è invece costruito nei primi anni trenta quel monumento alla guerra partecipata e ben combattuta che è Adolfo Omodeo, "Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti 1915-1918" (nel 1935 Laterza, nel 1968 Einaudi, a cura di Alessandro Galante Garrone). Con altro spirito e diverso taglio interpretativo erano precocemente scrittura popolare anche le doloranti e polemiche "Lettere al re" (Roma, Editori Riuniti, 1974) reperite da Renato Monteleone fra i documenti di polizia e spedite a suo tempo da sgrammaticati e ignoti "uomini contrò da tutto l'arco politico (e apolitico) del rifiuto della guerra. ***

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NOTE BIBLIOGRAFICHE DI GIORGIO ROCHAT. [In queste note sono impiegate le seguenti abbreviazioni: I. G.M. = Prima guerra mondiale G. G. = Grande Guerra G. M. = Guerra mondiale Ussme = Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito Per contenere un testo già pesante, per le opere tradotte diamo soltanto l'edizione italiana, non quella originale. E non indichiamo le successive ristampe di un volume, ci limitiamo a inserire l'abbreviazione (rist.) che indica che il volume dovrebbe essere reperibile in libreria.] La produzione sulla prima guerra mondiale è di straordinarie dimensioni, migliaia di volumi di ogni tipo. Non intendo ripercorrerla, né presentarne una selezione esaustiva, né rendere conto delle mie letture su un arco di quarant'anni. Mi limito a citare i volumi (e gli articoli apparsi su riviste storiche di diffusione nazionale) che ho maggiormente utilizzato in quest'opera e che ritengo più utili per avviare letture e riflessioni sulla guerra italiana. Quindi cerco di tenere conto anche della reperibilità dei testi, in particolare privilegio gli studi più recenti e, fra le opere straniere, quelle tradotte. Ciò comporta una selezione drastica tra i testi disponibili, per molti aspetti dolorosa e (me ne rendo conto) soggettiva e discutibile. I libri sono fondamentali, ma la ricerca storica procede anche attraverso il confronto con altri studiosi. Vorrei ringraziare Andrea Curami, per la sua competenza in materia di industria bellica e armamenti e per il suo costante invito a ridiscutere le mie piccole certezze; Antonio Gibelli e Giovanna Procacci, con cui ho litigato per anni sul consenso- dissenso dei soldati; gli amici di Rovereto, Lucio Fabi, Alessandro Massignani e Antonio Sema, così ricchi di notizie e stimoli sugli uomini in trincea; Lucio Ceva, Piero Del Negro, Nicola Labanca, con cui ho diviso tanti anni di studi sull'esercito italiano; Nuto Revelli e Mario Rigoni 639

Stern, che mi hanno raccontato quanto grande sia il soldato italiano. Della mia amicizia con Mario Isnenghi basti dire che da trent'anni partiamo da basi diverse per arrivare alle stesse conclusioni, come in questo volume.

- "Studi bibliografici". Gli studi bibliografici non troppo invecchiati sono pochi e quasi tutti non facilmente reperibili. Cominciamo dalle rassegne generali: Paolo Alatri, "La I. G.M. nella storiografia italiana dell'ultimo venticinquennio", «Belfagor», 1972, n. 5, e 1973, n. 1; Giorgio Rochat, "L'Italia nella I. G.M. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca", Milano, Feltrinelli, 1976; Mario Isnenghi, "I. G.M.", in Nicola Tranfaglia (diretto da), "Il mondo contemporaneo", 10 voli., Firenze, La Nuova Italia, 19781981, vol. 1, "Storia d'Italia", a cura di Fabio Levi, Umberto Levra, N. Tranfaglia, t. 2. Per i problemi militari: Piero Pieri, "Nota bibliografica", in Id., "L'Italia nella I. G.M.", Torino, Einaudi, 1965 (rist.); Alberto Monticone, "La storiografia militare italiana e i suoi problemi", in "Atti del convegno nazionale di storia militare", Roma, Ministero della Difesa, 1969; Giorgio Rochat, "La I. G.M.", in Id. (a cura di), "La storiografia militare italiana negli ultimi vent'anni", Milano, Franco Angeli, 1985; Piero Del Negro (a cura di), "Guida alla storia militare italiana", Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997. Per un aggiornamento: Angelo D'Orsi, "La G. G. Ricerca storica e dibattito negli ultimi vent'anni", «Giano», 1989, n. 3, e 1990, n. 4; e Bruna Bianchi, "La G. G. nella storiografia italiana dell'ultimo decennio", «Ricerche storiche», 1991, n. 3. A chi voglia farsi un'idea della difficoltà di condurre studi comparati sul conflitto consigliamo Jürgen Rohwer (a cura di), "Neue Forschungen zum Ersten Weltkrieg. Literaturberichte und Bibliographien", Koblenz, Bernard & 640

Graefe Verlag, 1985: un volume che riunisce trentun contributi bibliografici sulle diverse guerre nazionali (per l'Italia scrive G. Rochat), non pochi dei quali sono interessanti e utili. L'insieme è però frastornante perché gli approcci sono troppo differenti. - "Eserciti e armamenti fino al 1914". Come introduzione consigliamo la brillante sintesi di un grosso specialista: Michael Howard, "La guerra e le armi nella storia d'Europa", Roma- Bari, Laterza, 1976, e per l'approfondimento di alcuni punti chiave Peter Paret, Nicola Labanca (a cura di), "Guerra e strategia nell'età contemporanea", Genova, Marietti, 1992. Uno strumento di consultazione utile, seppure disuguale: Andre Corvisier (a cura di), "Dictionnaire d'art et d'histoire militaires", Paris, Puf, 1988. L'evoluzione di eserciti e armamenti tra Otto e Novecento è trattata in molte opere generali, come Richard A. Preston, Sydney F. Wise, "Storia sociale della guerra", Milano, Mondadori, 1973; George W. F. Hallgarten, "Storia della corsa agli armamenti", Roma, Editori Riuniti, 1972; Arno J. Mayer, "Il potere dell'Ancien Régime fino alla I. G.M.", Roma- Bari, Laterza, 1982; William H. Mc Neill, "Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall'anno Mille", Milano, Feltrinelli, 1984; Daniel Pick, "La guerra nella cultura contemporanea", Roma- Bari, Laterza, 1993; John Keegan, "La grande storia della guerra", Milano, Mondadori, 1996 (traduzione scadente, come per molte opere storico- militari). L'elenco potrebbe continuare, soprattutto la storiografia angloamericana è ricca di opere in materia. L'unico studio comparato degli eserciti europei nell'OttoNovecento, che ha anche il pregio di non dimenticare l'Italia, è quello di John Gooch, "Soldati e borghesi nell'Europa moderna", Roma- Bari, Laterza, 1982. Sui singoli eserciti esistono contributi numerosi e diversi, dal classico studio di Gerhard Ritter, "I militari e la politica 641

nella Germania moderna", Torino, Einaudi, 1967, alla moderna "Histoire militaire de la France", di cui si veda il vol. 3, "De 1871 à 1940", a cura di Guy Pedroncini, Paris, Puf, 1992. Utili anche studi specifici, come Raoul Girardet, "La societé militaire de 1815 à nos jours", Paris, Perrin, 1998, e Gilbert Bodinier e al., "Histoire de l'officier français", Saint- Jean- d'Angely, Ed. Bordessoules, 1987. Della vasta produzione antimilitarista si può leggere ancora con profitto Karl Liebknecht, "Scritti politici", Milano, Feltrinelli, 1971, che non si limita a condannare l'istituzione militare, ma l'analizza lucidamente. Come prima informazione, Fabrizio Battistelli (a cura di), "Esercito e società borghese. L'istituzione militare moderna nell'analisi marxista", Roma, Savelli, 1976. Dedichiamo più attenzione all'esercito italiano. Come storie generali, abbiamo Giorgio Rochat, Giulio Massobrio, "Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943", Torino, Einaudi, 1978 (rist.); Lucio Ceva, "Le forze armate", Torino, Utet, 1981 (rist.); John Gooch, "Esercito, stato e società in Italia 1870-1915", Milano, Franco Angeli, 1994. Per un approfondimento si deve partire dagli atti del convegno di Spoleto del 1988, "Esercito e città dall'Unità agli anni Trenta", che per la prima volta inserì sistematicamente le vicende dell'esercito nel contesto sociale, culturale, economico: gli atti sono stati editi dalla Deputazione di storia patria per l'Umbria, Perugia, 1989. Elenchiamo i principali studi su aspetti e settori dell'esercito. Un'ampia presentazione dall'interno è offerta da Filippo Stefani, "La storia della dottrina e degli ordinamenti dell'esercito italiano", 5 voli.,Roma, Ussme, 1983-1989. Si vedano anche Fortunato Minniti, "Esercito e politica da Porta Pia alla Triplice Alleanza", Roma, Bonacci, 1984, e Giorgio Rochat, "L'esercito italiano in pace e in guerra", Milano, Rara, 1991. Sulla leva, lo studio fondamentale è di Piero Del Negro, "La leva militare in Italia dall'unità alla G. G.", in Id., "Esercito, stato, societa", Bologna, Cappelli, 1979. Sugli ufficiali, rinviamo ai contributi di Vincenzo Caciulli, "Il sistema delle scuole 642

militari in età liberale", «Ricerche storiche», 1993, n. 3, e "La paga di Marte: Assegni, spese e genere di vita degli ufficiali italiani prima della G. G.", «Rivista di storia contemporanea», 1993, n. 4 (anticipazioni di più ampie ricerche dell'autore che devono ancora trovare un editore). E poi Gian Luca Balestra, "Gli allievi della Scuola militare di Modena", «Ricerche storiche», 1993, n. 3. L'organizzazione dei servizi logistici, così importanti e sempre dimenticati, è affrontata da Ferruccio Botti, "La logistica dell'esercito italiano 1831-1981", 6 voli.,Roma, Ussme, 1991-1995. Sull'antimilitarismo popolare si può vedere Gianni Oliva, "Esercito, paese e movimento operaio. L'antimilitarismo dal 1861 all'età giolittiana", Milano, Franco Angeli, 1985. Sul riarmo nell'età giolittiana i numerosi lavori di Paolo Ferrari, raccolti nel volume "Verso la guerra. L'Italia nella corsa agli armamenti 1884-1918", Valdagno, Rossato, 2003. E poi Andrea Saccoman, "Il gen. Paolo Spingardi ministro della Guerra 1909-1914", Roma, Ussme, 1995. Ampia, documentata e stimolante la storia delle guerre coloniali di Angelo Del Boca, "Gli italiani in Africa orientale", 4 voli.,Roma- Bari, Laterza, 1976-1984; Angelo Del Boca, "Gli italiani in Libia", 2 voli, Roma- Bari, Laterza, 1986-1988. Del Boca è tornato più volte su questi temi, come nel convegno che ha organizzato a Piacenza nel 1996 per il centenario della battaglia di Adua (l'unico in tutta Italia) curandone poi gli atti: "Adua. Le ragioni di una sconfitta", Roma- Bari, Laterza, 1997. Ricordiamo infine di Nicola Labanca il solido studio "In marcia verso Adua", Torino, Einaudi, 1993, e l'opera complessiva "Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana", Bologna, Il Mulino, 2002. Gli studi sulla marina dedicano più attenzione alle navi e alle operazioni che alla politica navale e all'impostazione strategica. Segnaliamo Mariano Gabriele, Giuliano Friz, "La politica navale italiana dal 1885 al 1915", Roma, Ufficio storico della marina, 1982. Per un'ordinata rassegna dei testi disponibili rinviamo alle pagine di Alberto Santoni in 643

P. Del Negro (a cura di), "Guida alla storia militare italiana", cit. - "La guerra in Europa". Cosa si può segnalare dell'immensa produzione sulla guerra combattuta in Europa? Uno strumento indispensabile sono le storie generali, un genere trascurato dagli studiosi italiani. Per fortuna molte opere generali straniere sono state tradotte in italiano, troppe per poterle citare tutte. Il rischio che corrono è la tentazione della completezza: l'opera recente di Martin Gilbert, "La grande storia della I. G.M.", Milano, Mondadori, 1998, è così ricca di notizie da risultare dispersiva. A chi ha bisogno di una storia militare del conflitto consigliamo la vecchia (1930) opera di Basii H. Liddel Hart, "La I. G.M.", Milano, Rizzoli, 1968 (rist. Milano, Mondadori, 1998), che fornisce le fila dello svolgimento del conflitto in modo ordinato e chiaro, come si deve chiedere a un'opera d'insieme. Per un approccio sintetico si può vedere Keith Robbins, "La I. G.M.", Milano, Mondadori, 1987 (rist.). Queste opere (come tutte le storie generali che conosciamo) hanno in comune una scarsa attenzione alle vicende italiane: si occupano essenzialmente del fronte occidentale, più sbrigativamente di quello orientale, poi dedicano brevi capitoli ai teatri considerati minori come quello italoaustriaco, i Balcani, l'Impero turco. In parte è una salutare correzione dell'italocentrismo della nostra produzione, che praticamente ignora quello che accade sugli altri fronti (e infatti non comprende storie generali della guerra); in parte è una nuova dimostrazione di quello che possiamo chiamare "imperialismo culturalè della grandi potenze, non senza venature razziste (non è necessario richiamare gli stereotipi dell'italiano poco portato alla guerra). Il che ci porta a constatare la persistente mancanza di studi comparati sulla guerra combattuta: la dimensione nazionale continua a dominare le ricerche, in Italia come all'estero. Un confronto sistematico tra l'efficienza e le caratteristiche dei diversi 644

eserciti non è stato finora condotto, gli studi sulla guerra di trincea raramente la studiano dalle due parti. E" interessante notare come soltanto due filoni della vasta produzione straniera abbiano avuto un buon numero di traduzioni italiane: le storie generali citate e gli studi sulla cultura della guerra in senso lato: miti e memoria, mentalità e mutamenti. Sono contributi fondamentali e stimolanti, anche se non sempre facili da utilizzare senza mediazioni per la storia della guerra italiana. Si vedano Paul Fussell, "La G. G. e la memoria moderna", Bologna, Il Mulino, 1984; Eric J. Leed, "Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella I. G.M.", Bologna, Il Mulino, 1985; George L. Mosse, "Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti", Roma-Bari, Laterza, 1990; Jay Winter, "Il lutto e la memoria. La G. G. nella storia culturale europea", Bologna, Il Mulino, 1998. Mancano traduzioni della interessante produzione francese, di cui citiamo almeno i principali volumi di Jean-Jacques Becker, "Les Français dans la G. G.", Paris, Robert Laffont, 1980; "La France en guerre. La grande mutation", Bruxelles, Complexe, 1988; "L'Europe dans la G. G.", Paris, Belin, 1996. Merita di essere segnalata la rivista fiorentina «Ricerche storiche» che ha affrontato la dimensione internazionale del conflitto con due numeri monografici, "Studi recenti sulla I. G.M." (1991, n. 3) e "Grande Guerra e mutamento" (1997, n. 3). Quest'ultimo raccoglie gli atti del convegno dallo stesso titolo svoltosi a Trieste nel 1995 che per la prima volta (a ottant'anni dalla guerra!) metteva a confronto studiosi italiani e stranieri, con un dialogo molto utile, non ancora però una comparazione sistematica di esperienze parallele. Quanto sia difficile procedere su questa via attestano volumi di impianto internazionale come il già citato "Neue Forschungen zum Ersten Weltkrieg" e Wolfgang Michalka (a cura di), "Der Erste Weltkrieg", München, Piper, 1994. Dopo di che ci limitiamo a citare gli studi stranieri (non tradotti in Italia) verso i quali abbiamo un debito particolare perché hanno contribuito a sprovincializzare la nostra 645

visione del conflitto: Jules Maurin, "Armée, guerre, société. Soldats languedociens 1889-1918", Paris, Publications de la Sorbonne, 1982 (l'unico caso a noi noto di analisi sistematica di un campione geograficamente delimitato di combattenti, l'equivalente di due distretti militari italiani, visti nei loro rapporti con l'ambiente e nei loro percorsi nel conflitto); Guy Pedroncini, "Les mutineries de 1917", Paris, Puf, 1967 (analisi documentata degli ammutinamenti francesi); gli studi di Jean- Jacques Becker e dei suoi allievi sulla società e i comportamenti francesi; e infine Philippe Masson, "L'homme en guerre 1901-2001", Paris, Ed. du Rocher, 1997 (affascinante sintesi degli studi moderni sui combattenti). Resterebbero da citare alcune decine di volumi stranieri sulla guerra che abbiamo letto e le centinaia che purtroppo non conosciamo, un discorso troppo ampio per le nostre possibilità. - "La guerra italiana: le opere base". Non ripercorriamo la ricca produzione di studi e memorie sulla guerra, se ne può trovare un elenco ragionato negli studi bibliografici citati di Pieri, Alatri, Rochat. Ci limitiamo a ricordare le opere principali, cominciando da quelle dell'Ufficio storico dell'esercito (Ussme) che sono il punto di partenza di ogni ricerca. Negli anni venti l'Ufficio storico, debitamente potenziato, pubblicò due opere importanti, "Le grandi unità nella guerra italo- austriaca 1915-1918" (due volumi sull'organizzazione degli alti comandi fino a quelli di divisione, Roma, 1926) e "Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918" (11 volumi di notizie analitiche sulle unità di fanteria, bersaglieri e alpini, Roma, 1926-1931). E nel 1927 diede inizio alla pubblicazione della "Relazione ufficiale", come generalmente si indica (anche in questo volume) l'opera "L'esercito italiano nella G. G. 19131918", una ricostruzione dettagliata dei piani e delle operazioni dell'esercito mobilitato, ancora oggi base obbligata di ogni ricerca sui combattimenti (di insostituibile 646

utilità l'ampio apparato cartografico). La pubblicazione dei volumi si interruppe a metà degli anni trenta sul problema di Caporetto, tanto bruciante che il volume relativo poté uscire soltanto trent'anni più tardi. Gli ultimi dei 37 volumi della "Relazione ufficiale", quelli assai pregevoli del generale Alberto Rovighi sull'anno 1918, sono usciti negli anni ottanta. Per la vasta produzione dell'Ufficio storico dell'esercito sulla guerra (120 titoli, con molti studi di battaglie di vario livello) rinviamo a Oreste Bovio, "L'Ufficio storico dell'esercito. Un secolo di storiografia militare", Roma, Ussme, 1987. Segnaliamo in particolare le opere di F. Stefani, "La storia della dottrina e degli ordinamenti dell'esercito italiano", cit., e F. Botti, "La logistica dell'esercito italiano", cit. Avvertiamo infine che reperire nei cataloghi delle biblioteche le opere dell'Ufficio storico non è sempre facile, perché possono essere schedate sotto Ministero della Guerra o della Difesa, Stato maggiore o Corpo di stato maggiore, anche Ufficio storico, ma talora sotto Esercito italiano. Un altro volume di documentazione di base è Fulvio Zugaro (a cura di), "La forza dell'esercito. Statistica dello sforzo militare italiano nella G. M.", Roma, Ufficio statistico del ministero della Guerra, 1927. Abbiamo inoltre utilizzato due rari volumetti (grazie ad Andrea Curami) che forniscono elementi sull'organizzazione delle retrovie: "Evoluzione organica dell'esercito italiano prima e durante la G. G.", [Torino], Ufficio Organica della Scuola di guerra, 1920; "I rifornimenti dell'esercito mobilitato durante la guerra alla fronte italiana", Roma, Segreteria del ministero della Guerra, 1924. Veniamo alle opere più recenti. Manca una storia generale della guerra italiana che sia aggiornata, reperibile e sufficientemente completa (una lacuna che ci auguriamo di colmare con il presente volume). Possiamo segnalare Piero Pieri, "L'Italia nella I. G.M.", cit., una sintesi ancora utile per le operazioni militari; Piero Melograni, "Storia politica della G. G. 1915-1918", Bari, Laterza, 1969 (rist.), vivace e 647

ricca di notizie, ma di impianto tradizionale superato dalle nuove ricerche; Gianni Pieropan, "1914-1918. Storia della G. G.", Milano, Mursia, 1988, dettagliata cronaca delle operazioni; Nicola Tranfaglia, "La I. G.M. e il fascismo", Torino, Utet, 1995. Per una prima informazione sono disponibili alcuni volumetti sintetici, ma ricchi di spunti interessanti apparsi tra il 1972 e il 1975, di Antonio Gibelli, Mario Isnenghi, Giancarlo Lehner, Donella e Gianandrea Piccoli, Giorgio Porisini. Più recenti Mario Isnenghi, "La G. G.", Firenze, Giunti, 1993 (edito anche in Francia) e Luigi Tomassini, "L'Italia nella G. G.", Milano, La Fenice, 1995. Due opere d'insieme sono essenziali per lo studio della guerra combattuta: Piero Pieri, "La I. G.M. 1914-1918. Studi di storia militare", una raccolta di saggi uscita nel 1947 a Torino in condizioni precarie, ristampata dall'Ufficio storico dell'esercito, Roma, 1986, a cura di Giorgio Rochat; e Roberto Bencivenga, "Saggio critico sulla nostra guerra", 5 volumi apparsi nel 1930-1938 presso piccole tipografie romane (l'autore era reduce dal confino per antifascismo). Le due opere ripercorrono l'impostazione, le decisioni strategiche e la condotta operativa della guerra italiana con respiro e lucidità. Nel 1997 l'editore Gaspari di Udine ha iniziato la ristampa dei volumi di Bencivenga, cominciando con "La sorpresa strategica di Caporetto", e nel 1998 ha ristampato il volume di Pieri, con alcuni tagli. Dei tanti studi militari sulle operazioni ci limitiamo a citare quelli che abbiamo utilizzato maggiormente: Alberto Monticone, "La battaglia di Caporetto", Roma, Studium, 1955 (rist. Udine, Gaspari, 1999); Piero Pieri e Giorgio Rochat, "Pietro Badoglio", Torino, Utet, 1974 (i capitoli fino al 1918 sono di Pieri); Giorgio Rochat, "Gli arditi della G. G. Origini, battaglie e miti", Milano, Feltrinelli, 1980, poi Gorizia, Editrice goriziana, 19902; Piero Del Negro, "Le operazioni militari", nell'opera collettanea "Storia dell'altipiano dei Sette Comuni", Vicenza, Neri Pozza, 1994; Antonio Sema, "La G. G. sul fronte dell'Isonzo", 3 voli., Gorizia, Editrice goriziana, 1995-1997 (un'opera importante per l'accuratezza della ricostruzione dei 648

combattimenti con larga utilizzazione delle fonti austriache); Giorgio Longo, "Le battaglie dimenticate. La fanteria italiana nell'inferno carsico del S. Michele", Bassano del Grappa, Itinera, 2002, pregevole per la ricostruzione dei combattimenti e dell'impegno dei comandi per una maggiore efficienza offensiva. Due sole biografie di generali italiani meritano di essere ricordate: P. Pieri, G. Rochat, "Pietro Badoglio", cit., e Gianni Rocca, "Cadorna", Milano, Mondadori, 1985. Sintetiche informazioni si possono ricavare dalle voci del "Dizionario biografico degli italiani", Roma, Treccani, giunto però soltanto a un terzo del percorso. Come abbiamo premesso, queste note di bibliografìa non hanno alcuna pretesa di sistematicità e completezza, che il lettore potrà ricercare nelle opere citate nella sezione "Studi bibliografici". Intendiamo soltanto segnalare gli studi su cui ci siamo appoggiati in questo volume, quindi ne lasciamo da parte altri ottimi, anche di autori che stimiamo. Un elenco adeguato dovrebbe però comprendere un centinaio di opere. - "La trincea". L'approccio migliore è indubbiamente la lettura delle memorie dei combattenti, testimonianze "in presa direttà che hanno tuttora un forte impatto. Le più note (rinviamo alla sezione "Memorialistica e letteratura") sono oggi disponibili in edizioni relativamente economiche. Come passo successivo consigliamo Lucio Fabi, "Gente di trincea", Milano, Mursia, 1994, che unisce descrizione e analisi della guerra più atroce a un'ampia utilizzazione di studi e testimonianze di parte austriaca. Come terzo momento suggeriamo tre testi inglesi per la loro efficacia, ma anche per uscire subito dalla dimensione angustamente nazionale che ha portato troppi studiosi italiani ad attribuire gli orrori della trincea alla stupidità di Cadorna. Il saggio di John Keegan sulla battaglia della Somme (nel suo volume "Il volto della battaglia", Milano, 649

Mondadori, 1978, ristampa Milano, Il Saggiatore, 2001) è la documentazione articolata (e molto attenta ai fattori umani) della preparazione e poi del disastro della grande offensiva britannica del luglio 1916. Un altro grande storico, Michael Howard, nel saggio "Uomini di fronte al fuoco: la dottrina dell'offensiva nel 1914" (in "Guerra e strategia nell'età contemporanea", a cura di P. Paret e N. Labanca, cit.) studia la cultura militare prebellica e il suo fallimento, che lascia spazio soltanto alla guerra di logoramento attraverso i sanguinosi massacri degli attacchi ripetuti. Il terzo testo è un romanzo storico di Cecil Scott Forester, "Il generale", Milano, Mondadori, 1939 poi 1954, che ricostruisce le reazioni di un ufficiale di carriera dinanzi alla nuova realtà della trincea, in modo evidentemente non scientifico, ma più chiaro di molti libri di storia. Veniamo agli studi tecnici sulla trincea, per constatare che in Italia hanno avuto uno sviluppo assai scarso. Abbiamo citato nella sezione precedente ottimi lavori sulla strategia e la condotta delle operazioni; ma quasi nessuno ha finora studiato la vita e la tattica dei reparti minori, l'addestramento e l'articolazione di un battaglione, i tentativi di raggiungere una maggiore efficienza. Il panorama delle traduzioni è sconfortante: nel 1940 fu pubblicato un testo importante, G. C. Wynne, "La lezione tattica della G. M.", Milano, Mondadori, che però rimase isolato. Di Basil H. Liddel Hart, per fare un grosso nome, sono state tradotte le opere storiche, non quelle più tecniche, appena accennate nelle sue memorie "L'arte della guerra nel ventesimo secolo", Milano, Mondadori, 1971. Dobbiamo alla sua fama successiva e alla sua presenza come tenente a Caporetto la pubblicazione del volume di Erwin Rommel, "Le fanterie all'attacco", Milano, Longanesi, 1972, un'eccellente ricostruzione dei combattimenti di un battaglione tedesco. Non ci risulta molto di più. Da parte italiana registriamo un breve sviluppo del dibattito tecnico dopo la conclusione del conflitto e poi il disinteresse degli studiosi, salvo pochi spunti, per esempio Rochat sugli arditi e Sema sul fronte Isonzo, già citati. Eppure le possibilità di 650

indagine non mancano, in questi ultimi anni ho potuto arricchire notevolmente le mie conoscenze sulla guerra di trincea seguendo una quarantina di tesi di laurea di tenenti della Scuola di applicazione di Torino, ognuno dei quali ha ricostruito un anno di vita di una brigata di fanteria a partire dai suoi "Diari storici" (ringrazio i tenenti Roberto Gabrielli, Franco Del Favero e Patrizio Speranza per le notizie sulle brigate Lombardia, Casale e Sassari nell'anno 1915). L'attenzione degli studiosi italiani si è invece concentrata sul comportamento dei soldati tra obbedienza e rifiuto, a partire dal fortunato volume di Enzo Forcella e Alberto Monticone, "Plotone d'esecuzione. I processi della I. G.M.", Bari, Laterza, 1968 (rist.), da integrare con il recente volume di Irene Guerrini e Marco Pluviano, "Le fucilazioni sommarie della I. G.M.", Udine, Gaspari, 2004. Seguirono una serie di studi (non tutti altrettanto documentati) che nel clima polemico del Sessantotto e come reazione all'agiografia tradizionale riscoprivano gli elementi di dissenso presenti tra i soldati. Rinviamo alle rassegne citate di A. D'Orsi e B. Bianchi e ci limitiamo a ricordare i volumi di denuncia di Giovanna Procacci, "Soldati e prigionieri italiani nella G. G.", Roma, Editori Riuniti, 1993 (rist. Torino, Boringhieri, 2000) e "Dalla Rassegnazione alla rivolta", Roma, Bulzoni, 1999. La brutalità e spesso la stupidità della repressione è indiscutibile, così come la relativa frequenza tra i combattenti di casi di rifiuto individuale, consapevole o meno (sull'incidenza delle nevrosi belliche si veda il testo fondamentale di Antonio Gibelli, "L'officina della guerra", Torino, Bollati Boringhieri, 1991, rist., nonché Bruna Bianchi, "La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell'esercito italiano 1915-1918", Roma Bulzoni, 2001); tuttavia le denunce andrebbero inquadrate, un esercito di milioni di uomini non poteva essere tenuto in trincea soltanto con il terrore (conf. Giorgio Rochat, "L'efficienza dell'esercito italiano nella G. G.", in'Italia contemporaneà, 1997, n. 206, ora in Id., "Ufficiali e soldati. L'esercito italiano dalla I alla 651

II. G.M., Udine, Gaspari, 2000). Giudizi più articolati si hanno in L. Fabi, "Gente di trincea", cit., e nel volume di notevole respiro di Antonio Gibelli, "La G. G. degli italiani", Milano, Sansoni, 1998. Soprattutto utili sono gli studi stranieri sullo stesso tema, come John Fuller, "Troop Morale and Popular Culture in the British and Dominions Armies 1914-1918", Oxford, Clarendon Press, 1991; Ph. Masson, "L'homme en guerre", cit.; e Frédéric Rousseau, "La guerre censurée. Une histoire des combattants européens de 1418", Paris, Seuil, 1999, che illustrano la complessità delle motivazioni dei soldati. Ricordiamo ancora i fascicoli monografici sulla guerra di «Ricerche storiche», 1991, n. 3, e 1997, n. 3. Per alcuni aspetti della guerra di trincea possiamo rinviare a studi pregevoli. Per i cappellani si veda Roberto Morozzo della Rocca, "La fede e la guerra. Cappellani militari e pretisoldati 1915-1919", Roma, Studium, 1980; e poi Giorgio Rochat (a cura di), "La spada e la croce. I cappellani italiani nelle due guerre mondiali", Torre Pellice, Società di studi valdesi, 1995 (Mimmo Franzinelli ha approfondito il tema per i decenni successivi). Per i prigionieri, un tema così a lungo dimenticato, abbiamo ora l'ottima ricerca di Giovanna Procacci, "Soldati e prigionieri italiani nella G. G.", cit.; qualche spunto in Giorgio Rochat, "La prigionia di guerra", in Mario Isnenghi (a cura di), "I luoghi della memoria. Personaggi e date dell'Italia unita", Roma-Bari, Laterza, 1997. Uno sguardo più ampio in Annette Becker, "Les oubliés de la G. G. Populations occupées, déportés civils, prisonniers de guerre", Paris, Noêsis, 1998. Per l'impiego dei gas si veda Nevio Mantoan, "La guerra dei gas", Udine, Gaspari, 1999, e per un quadro generale l'ottimo studio di Olivier Leick, "La G. G. chimique", Paris, Puf, 1998. La vita nelle retrovie è un altro tema poco studiato, affrontato però nel convegno di Rovereto del 1985, D. Leoni, C. Zadra (a cura di), "La Grande Guerra", cit.; un contributo importante viene dal recente lavoro di Emilio Franzina, "Casini di guerra: Il tempo libero dalla trincea e i postriboli militari", Udine, Gaspari, 1999; si veda poi 652

Antonio Sema, "Soldati e prostitute. Il caso della terza armata", Valdagno, Rossato, 1999. Il volume di Beniamino Cadioli e Aldo Cecchi, "La posta militare nella I. G.M.", Roma, Us-sme, 1978, ha un taglio tecnico, ma i dati che riporta sullo straordinario sviluppo della corrispondenza da e per il fronte ci ricordano la grande importanza che aveva per i soldati mantenere il contatto con le famiglie. Molto rimane da studiare. Mancano ricerche sistematiche sull'organizzazione della sanità e le drammatiche vicende di milioni di feriti e ammalati. I rifornimenti al fronte sono stati considerati quasi soltanto per quanto riguarda gli armamenti, non per il vitto, l'equipaggiamento e i generi di conforto. Non abbiamo praticamente notizie sul gran numero di militari che rimasero nel paese e ben poche sul fronte interno. - "La guerra in montagna". La prima guerra mondiale si svolse prevalentemente su terreni pianeggianti; sui Carpazi e sulle montagne serbe si combatté duramente, ma per un solo inverno. Soltanto il fronte italiano era in gran parte montuoso, in generale tra i 1000 e i 2000 metri, ma con ampi settori in alta quota; e la guerra vi fu condotta per tre anni e mezzo, con battaglie decisive sull'altopiano di Asiago e poi sul Grappa. Questa particolare situazione ha avuto ripercussioni importanti sugli studi e sulla memorialistica. Un interventista convinto come Pieri poté ricostruire nel 1927 "La nostra guerra tra le Tofane" (Trieste, Lint, 1996) riservando agli austriaci il rispetto dovuto a un nemico tenace (senza le tristi demonizzazioni della guerra sull'Isonzo), con un'attenzione insolita agli aspetti tecnici dei combattimenti; e poi in successive edizioni poté integrare il volume con gli studi degli ex nemici, con i quali condusse un fitto dialogo e ricognizioni del terreno in contraddittorio. Queste caratteristiche si ritrovano in molte delle numerosissime opere dedicate alla guerra in montagna, anche se sono rare quelle che raggiungono il livello dello studio di Pieri. Una 653

sintesi ancora utile è Ildebrando Flores, "La guerra in alta montagna", Milano, Corbaccio, 1935. A distanza di tanti decenni la montagna continua a giocare un ruolo particolare nella produzione sulla Grande Guerra, che la distingue da quella (in complesso minore) dedicata ai combattimenti sul fronte dell'Isonzo. In primo luogo segnaliamo appunto il gran numero di testi che continuano a uscire sulla guerra in montagna, vivaci e generalmente di buon livello, con molta attenzione agli aspetti tecnici e all'azione dei piccoli reparti. Questa produzione ha radici essenzialmente nelle regioni montuose dalla Valcamonica al Friuli, dove la Grande Guerra ha lasciato tracce profonde nella memoria e nei luoghi (opere fortificate, strade e trincee in parte ben conservate perché scavate nella roccia e lontane dalle zone abitate). Un supporto decisivo viene da molti editori locali, come Rossato di Valdagno, Ghedina & Tassotti di Bassano, Gaspari di Udine, Athesia di Bolzano, Panorama di Trento e altri, che trovano in queste regioni distribuzione e vendite (ma non bisogna dimenticare la Mursia di Milano e l'Editrice goriziana); conta pure la presenza di musei dinamici come quelli di Trento, Rovereto e Gorizia (e altri minori capaci di rinnovarsi superando il reducismo) e di monumenti, sacrari e luoghi storici frequentati da appassionati alpinisti, oltre che da folle di turisti motorizzati. Va sottolineato inoltre l'impegno di non poche amministrazioni locali, che hanno colto l'interesse (anche turistico- economico) di una adeguata valorizzazione dei luoghi della guerra, spesso con il concorso delle autorità militari preposte alla custodia dei monumenti. Su questa via molto può insegnare quanto i francesi hanno realizzato a Verdun, Peronne e (per la seconda guerra mondiale) in Normandia (senza dimenticare il Consorzio polivalente di Monfalcone, impegnato nel ricupero del Carso e dei suoi monumenti insieme alle autorità locali e militari). Altra caratteristica della produzione sulla guerra in montagna è la consolidata collaborazione con studiosi e associazioni austriache (e quella iniziata con gli sloveni), sia pure con qualche rischio di un pacifismo superficiale che 654

condanna tutte le guerre azzerandone le radici e i valori. Un'altra caratteristica importante è il forte ruolo degli studiosi locali, radicati sul territorio e poco nelle università, con molti pregi di apertura e qualche chiusura, come lo scarso interesse per il problema del consenso dei soldati, che esisteva anche per gli alpini. Infine la settorializzazione degli studi, dedicati all'approfondimento di singoli combattimenti o posizioni chiave, con una pregevole capacità di reperire nuove fonti italiane e straniere, utilizzando gli archivi, la memoria e la conoscenza dei luoghi e delle opere della guerra. Il rischio di scadere al livello di guide turistiche troppo facili e commerciali è un piccolo prezzo da pagare alla vivacità e ricchezza di questa produzione. Le opere degne di citazione sono troppe, ci limitiamo a qualche esemplificazione, come Claudio Gattera, "Il Pasubio e la strada delle 52 gallerie", Valdagno, Rossato, 1995; Walther Schaumann, "La G. G. 1915-1918", 5 voli., Bassano, Ghedina & Tassotti, 1984; Luca Girotto, "La lunga trincea 1915-1918. Cronache della G. G.", Valdagno, Rossato, 1995; Viktor Schemfil, "1916-1918. La G. G. sul Pasubio", Milano, Mursia, 1985; Kurt Schneller, "Mancò un soffio. Diario inedito della Strafexpedition", Milano, Mursia, 1984. Autori come Gianni Pieropan e Luciano Viazzi hanno scritto troppi libri per poterli elencare; il secondo anima la "Società della guerra biancà, che pubblica la rivista annuale «Aquile in guerra». Manca lo spazio per ricordare altre decine di opere meritevoli. Un caso a parte, che citiamo perché documenta le dimensioni della linea difensiva costruita dinanzi al Canton Ticino nel timore di un'offensiva svizzero- tedesca, è il volumetto di Roberto Corbella, "La fortificazione della linea Cadorna tra Lago Maggiore e Ceresio", Varese, Macchione, 1998. - "Guerra navale e guerra aerea".

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Gli studi sulla guerra italiana nei mari e nei cieli sono forse il settore più arretrato, soprattutto per la limitatezza di orizzonti. Abbiamo buoni volumi sulle corazzate e gli incrociatori, sui caccia e le squadriglie della giovane aviazione, ma difettano gli studi sul ruolo della marina nella politica mediterranea, sull'apporto dell'aeronautica alla guerra combattuta, sull'industria bellica, sui rapporti e confronti internazionali. Una comparazione con quanto è stato realizzato dai francesi è deprimente. Manca tuttora una storia aggiornata della guerra navale italiana nel quadro di quella dell'Intesa. Abbiamo utilizzato soprattutto gli studi di Ezio Ferrante, "La G. G. in Adriatico", Roma, Ufficio storico della marina, 1987; Ezio Ferrante, "Il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel', Roma, Rivista marittima, 1989; Ezio Ferrante, "Il pensiero strategico navale in Italia", Roma, Rivista marittima, 1988. Un'accurata rassegna della produzione sulla marina italiana si può trovare nella sezione curata da Alberto Santoni in P. Del Negro (a cura di), "Guida alla storia militare italiana", cit. Da vedere il pregevole «Bollettino d'archivio dell'Ufficio storico della Marina Militare» che ha pubblicato alcuni studi utili anche come indicazione di nuove fonti. Manca pure una storia aggiornata della guerra aerea italiana. Bisogna rifarsi al volume di Giorgio Bompiani e Clemente Prepositi, "Le ali della guerra", Milano, Mondadori, 1931, aggiornandolo con gli ottimi contributi del volume di Paolo Ferrari (a cura di), "La guerra aerea 1915-1918", Valdagno, Rossato, 1994. Anche per l'aeronautica rinviamo alla "Guida alla storia militare italiana", cit., dove Andrea Curami conduce una ricognizione accurata e sistematica della produzione. Sull'opera precorritrice del più illustre teorico della guerra aerea si veda Giulio Douhet, "Scritti 1901-1915", a cura di Andrea Curami e Giorgio Rochat, Roma, Ufficio storico dell'aeronautica, 1993. - "L'industria per la guerra". 656

Lo studio che ci è stato più utile è Gerd Hardach, "La I. G.M. 1914-1918", Milano, Etas libri, 1982, perché riporta costantemente i vari aspetti della guerra economica alla loro dimensione internazionale. Per la mobilitazione industriale italiana abbiamo fatto riferimento in primo luogo ad Alberto Caracciolo (a cura di), "La formazione dell'Italia industriale", Bari, Laterza, 1969, e a Giovanna Procacci (a cura di), "Stato e classe operaia in Italia durante la I. G.M.", Milano, Franco Angeli, 1983. Inoltre Giorgio Mori, "Il capitalismo industriale in Italia", Roma, Editori Riuniti, 1977; Valerio Castronovo, "Giovanni Agnelli", Torino, Utet, 1971; Giorgio Porisini, "Il capitalismo italiano nella I. G.M.", Firenze, La Nuova Italia, 1975; Paride Rugafiori, "Ferdinando Maria Perrone", Torino, Utet, 1992; Andrea Curami, "L'Arnaldo e l'industria bellica", «Italia contemporanea», 195 (marzo 1994); Valerio Castronovo (a cura di), "L'Ansaldo e la G. G.", Roma- Bari, Laterza, 1997. Per una rassegna più ampia rinviamo alla sezione "Economia e guerra" curata da Michele Nones in P. Del Negro (a cura di), "Guida alla storia militare italiana", cit. Per altri aspetti del fronte interno si vedano Guido Melis, Storia dell'amministrazione italiana, Bologna, Il Mulino, 1996; Alessandro Camarda, Santo Peli, "L'altro esercito. La classe operaia durante la I. G.M.", Milano, Feltrinelli 1980; Maria Concetta Dentoni, "Annona e consenso in Italia 19141918", Milano, Franco Angeli, 1995; Alessandra Staderini, "Combattenti senza divisa. Roma nella G. G.", Bologna, Il Mulino, 1995; Piero Di Girolamo, "Produrre per combattere. Operai e mobilitazione industriale a Milano durante la G. G.", Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2002. La storiografia sulla mobilitazione industriale e la produzione bellica è più che soddisfacente, ma lascia aperto un problema, che Andrea Curami e Alessandro Massignani pongono nel loro volume "L'artiglieria italiana nella G. G.", Valdagno, Rossato, 1998: quanta parte degli armamenti prodotti arrivarono al fronte, quanti erano di buon livello 657

tecnico, quanti furono impiegati in modo adeguato? Sono problemi in parte ancora senza risposta. - "Il nemico e gli alleati". Abbiamo già detto che la produzione italiana pecca spesso di nazionalismo o provincialismo, perché ignora quanto accadeva sugli altri fronti e soprattutto trascura lo studio del nemico; tra i nostri maggiori studiosi militari soltanto Pieri conosceva bene la produzione austro- tedesca. Non che gli studi francesi, inglesi e tedeschi fossero molto più aperti, il confronto con i nemici è dovunque una conquista abbastanza recente. Una buona rassegna della produzione austriaca e ungherese, con particolare riferimento alla guerra sull'Isonzo, è data dalle "Note bibliografiche" di Alessandro Massignani pubblicate in appendice ai voli. 1 e 3 di A. Sema, "La G. G. sul fronte dell'Isonzo", cit. Una produzione di taglio tradizionale che va acquistando respiro e apertura, ancora poco conosciuta in Italia, malgrado l'aumento di traduzioni importanti. Le fonti austriache sono regolarmente utilizzate negli studi sulla guerra in montagna, meno in quelli più generali, con l'eccezione dei lavori recenti di Fabi e Sema. Tra le opere tradotte in Italia hanno avuto larga diffusione, per il taglio divulgativo, quelle di Fritz Weber, "La fine di un esercito. Tappe della disfatta", Milano, Mursia, 1965, e "Dal Monte Nero a Caporetto", Milano, Mursia, 1967. Meno noti, anche perché pubblicati da editori minori, ma più solidi sono altri studi, come Konrad Kraft von Dellmensingen, "1917. Lo sfondamento dell'Isonzo", Milano, Arcana, 1981 (opera edita nel 1926 dal generale tedesco che preparò l'offensiva); Ingomar Pust, "Il fronte di pietra", Milano, Arcana, 1985; Peter Schubert, Walter Schaumann, "Isonzo. Là dove morirono", Bassano, Ghedina & Tassotti, 1985; Peter Fiala, "1918. Il Piave. L'ultima offensiva della Duplice Monarchia", Milano, Arcana, 1987. 658

Ancora più rari gli studi italiani sull'esercito austriaco, che soltanto oggi sembra suscitare interesse: si vedano Enrico Acerbi, "Le truppe da montagna dell'esercito austroungarico nella G. G.", Valdagno, Rossato, 1993, e Alessandro Massignani, "Truppe d'assalto austriache nella I. G.M.", Valdagno, Rossato, 1995. Le ricerche più originali sono quelle condotte sui trentini nell'esercito asburgico dal gruppo di Rovereto che ha pubblicato dal 1978 al 1995 la rivista «Materiali di lavoro»: una straordinaria raccolta di decine di diari e memoriali di soldati analizzati con finezza sulla rivista e in alcuni volumi. Citiamo Diego Leoni, Camillo Zadra, "La città di legno. Profughi trentini in Austria", Trento, Temi, 1981; Fabrizio Rasera, Camillo Zadra, "La coscienza nazionale negli scritti dei soldati trentini 1914-1918", «Passato e presente», 14-15 (1987); Gianluigi Fait (a cura di), "Sui campi di Galizia. Gli italiani, l'Austria e il fronte orientale", Rovereto, Museo della guerra, 1997. Il riferimento principale per le vicende di Trieste e dei soldati triestini è l'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli e Venezia Giulia di Trieste e la sua rivista «Qualestoria». Da segnalare le ricerche di Marina Rossi, "I prigionieri dello Zar. Soldati italiani dell'esercito austroungarico nei lager della Russia 1914-1918", Milano, Mursia, 1997, e Id., "Irredenti giuliani al fronte russo", Udine, Del Bianco, 1999. Passiamo a un altro tema. Per le sorti degli austro- ungarici prigionieri in Italia si veda Alessandro Tortato, "La prigionia di guerra in Italia 1915-1919", Milano, Mursia, 2004. E poi per le vicende dei prigionieri cecoslovacchi che scelsero di combattere l'Austria in reparti organizzati dall'esercito italiano: Karel Pichlik e al., "I legionari cecoslovacchi", Trento, Museo storico, 1997; e Eugenio Bucciol, "Dalla Moldavia al Piave. I legionari cecoslovacchi sul fronte italiano", Portogruaro, Ediciclo, 1998. Un altro tema ancora, le truppe anglofrancesi scese in Italia nel 1917-1918, che ben poco interesse hanno finora suscitato in Italia e oltralpe, tanto che un brillante studio di 659

Patrick Facon sui francesi non ha ancora trovato un editore. Sugli inglesi sono apparsi recentemente due volumi: George H. Cassar, "The Forgotten Front. The British Campaign in Italy 1917-1918", Londra, Hambledon Press, 1998; e John Wilks, Eilen Wilks, "The British Army in Italy 1917-1918", Barnsley, Leo Cooper, 1998. Maggior fortuna hanno avuto i pochi americani, perché alcuni tra i volontari della Croce Rossa divennero scrittori famosi; se ne è occupato in particolare Giovanni Cecchin, "Con Hemingway e Dos Passos sui campi di battaglia italiani della G. G.", Milano, Mursia, 1980; Giovanni Cecchin (a cura di), "Americani sul Grappa", Asolo, Comunità pedemontana, 1984; Giovanni Cecchin, "La G. G. Cronache particolari", Bassano, Collezione Princeton, 1998. - "Il dopoguerra". Un ampio studio sulla smobilitazione, il dibattito politico e poi tecnico sulla guerra, la riorganizzazione dell'esercito e i rapporti tra governo e vertici militari: Giorgio Rochat, "L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini 19191925", Bari, Laterza, 1967. Sugli aspetti tecnici della smobilitazione si può vedere Vincenzo Gallinari, "L'esercito italiano nel primo dopoguerra 1918-1920", Roma, Ussme, 1980. Sulle organizzazioni combattentistiche: Giovanni Sabbatucci, "I combattenti nel primo dopoguerra", Bari, Laterza, 1974; Gianni Isola, "Guerra al regno della guerra! Storia della lega proletaria mutilati, invalidi, reduci, orfani e vedove di guerra 1918-1924", Firenze, Le Lettere, 1990. Dopo il 1924 il regime fascista assunse il controllo dell'Associazione nazionale combattenti, riducendola a strumento di organizzazione di un consenso passivo. Per avere un'idea della vitalità e del ruolo delle associazioni combattentistiche all'estero si veda Antoine Prost, "Les anciens combattants dans la societé francaise 1914-1939", 3 voli., Paris, Fondation nationale des Sciences politiques, 1977. 660

- "Gli archivi". La documentazione sulla guerra italiana è molto vasta, articolata e solo in parte utilizzata. Per chi voglia condurre ricerche settoriali, anche a livello di tesi di laurea, le vie possibili sono numerose e diverse. Naturalmente si può studiare la guerra sui libri e sui giornali, attraverso il cinema e la fotografia, con altre fonti particolari; le maggiori possibilità vengono però dalla gran quantità di carte conservate negli archivi, solo in parte già valorizzate. Il primo archivio è quello dell'Ufficio storico dell'esercito in via Lepanto 5, Roma (su cui incombe però un trasferimento in altra sede, con gravi problemi per la consultazione già limitata oggi dalla scarsità di spazi). Il fondo principale è costituito dai "Diari storici" dei comandi e delle unità mobilitate fino a livello di reggimenti, che offrono una cronistoria in presa diretta, giorno dopo giorno, della guerra combattuta. In tutto 11200 raccoglitori. Ce ne sono altre migliaia sull'organizzazione della guerra, più difficili da utilizzare perché disomogenei e meno ordinati (una descrizione sommaria in Antonio Brugioni, Maurizio Saporiti, "Manuale delle ricerche nell'Ufficio storico dello SME", Roma, Ussme, 1987). Gli archivi degli Uffici storici della marina e dell'aeronautica hanno sviluppo minore, indicazioni interessanti si possono trovare nel già citato «Bollettino d'archivio dell'Ufficio storico della Marina Militare». Per tutti gli altri aspetti della guerra (governo, forze politiche, propaganda, economia e produzione bellica, vita del paese, eccetera) la fonte principale è l'Archivio centrale dello Stato di Roma, che conserva i carteggi del governo e dei ministeri, di autorevoli personalità, di enti pubblici e parastatali. Il migliore archivio nazionale per ricchezza di fondi, organizzazione, competenza e disponibilità dei funzionari. Altri archivi noti e importanti sono quelli del ministero Affari esteri, del Senato, della Camera dei deputati. 661

Dopo di che si apre la caccia libera. Non abbiamo un inventario neppure sommario dei fondi sulla guerra esistenti in tutta Italia, possiamo dire soltanto che ce ne sono dappertutto, beninteso di ricchezza e interesse molto variabili, con sorprese positive e negative. Gli archivi di Stato presenti nei capoluoghi di provincia conservano le carte dei prefetti, della polizia, di molte istituzioni locali. I musei del Risorgimento hanno generalmente fondi diversi sulla guerra, quello centrale di Roma e quello di Milano sono di grandi dimensioni e varietà, con molti archivi privati di generali e personalità della politica. I musei della Grande Guerra hanno quasi sempre fondi archivistici di vario livello. Si possono trovare carteggi interessanti presso non poche biblioteche, gli archivi comunali (quando sono ordinati) riservano spesso piacevoli sorprese, sono ancora rintracciabili archivi privati di vario tipo. Gli stabilimenti industriali sogliono eliminare la documentazione superata, ma alcune grandi industrie (basti citare l'Ansaldo e la Fiat, le maggiori produttrici di armamenti) hanno riordinato e aperto al pubblico archivi di grande rilievo. Si può cercare presso i grandi ospedali, ma anche presso le scuole. Un elenco degli archivi possibili che rimane aperto. Una fonte straordinaria e fino a oggi praticamente inesplorata sono i distretti militari, i cui registri dovrebbero essere passati agli archivi di Stato (i controlli che abbiamo fatto sono positivi, ma preferiamo essere cauti, è probabile che una parte dei registri sia andata perduta). Se si considera che tutti i nati maschi erano registrati presso i distretti e che per quelli abili e arruolati erano compilate schede nominative che fissano le tappe principali della loro vita militare, si ha un'idea dell'interesse di questi archivi, che con uno spoglio lungo e faticoso (per fortuna esistono i computer) possono dare cifre precise e articolate sulle vicende dei soldati di un'area circoscritta e sul costo in vite umane della guerra. *** 662

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NOTE BIBLIOGRAFICHE ALLA NUOVA EDIZIONE. I titoli che seguono sono alcuni di quelli "grandeguerreschì resisi disponibili dopo l'uscita del nostro volume nel 2000 o anche immediatamente prima e troppo a ridosso perché potessero rientrare nelle letture che ne hanno accompagnato la genesi. Si ritiene di darne conto qui solo a mò di aggiornamento bibliografico. Essi non appaiono comunque tali da modificare l'impianto interpretativo né del volume in se stesso, né delle note bibliografiche personalizzate che lo accompagnavano e che qui sopra vengono riprodotte quali erano. Abbiamo avuto delle riedizioni importanti. Vi si è specializzato un editore friulano, il Gaspari di Udine, che, dopo Piero Pieri, "La prima guerra mondiale 1914-1918", riproposto già nel 1998 con una "Introduzione" di Giorgio Rochat, nel 1999 ha rimesso in circolazione "La battaglia di Caporetto" di Alberto Monticone, che non era più uscito dopo la prima edizione del lontano 1955, e ha dato a Rochat la possibilità di riunire in volume i suoi saggi su "Ufficiali e soldati" della prima e della seconda guerra mondiale (2000); soprattutto si è reso benemerito affrontando l'impresa di rendere finalmente agibili, via via, i cinque volumi del "Saggio critico sulla nostra guerra" che il generale Roberto Bencivenga, antifascista e confinato, scrisse e stampò quasi clandestinamente fra le due guerre. Il catalogo dello stesso Gaspari è però affollato e sfaccettato, una vera miniera per il nostro tema: dai "Casini di guerra", con cui uno storico fantasioso e erudito, Emilio Franzina, si misura innovativamente con uno spaccato rimosso di storia sociale, e cioè "Il tempo libero dalla trincea e i postriboli militari nel primo conflitto mondiale" (1999) alla monografia dedicata da Irene Guerrini e Marco Pluviano a "un mito dell'aviazione", l'"asso" più celebre dei cieli italiani, "Francesco Baracca una vita al volo" (2000). L'editore friulano ospita anche gli atti di due dei convegni internazionali animati, rispettivamente a Cortina e ad Asiago, nel 2001 e nel 2002, dalle motivazioni promiscue 664

che spesso sollecitano e rendono possibili le iniziative convegnistiche e le opere di molti autori che ne derivano: ricerca scientifica, certo, ma oggi particolarmente anche gli stimoli europeisti, la politica del turismo colto e dei "musei all'apertò, i bisogni e gli orgogli delle amministrazioni locali: "Una trincea chiamata Dolomiti", a cura di Emilio Franzina e "1916 - La Strafexpedition", a cura di Vittorio Corà e Paolo Pozzato, con "Prefazione" di Mario Rigoni Stern e "Introduzione" di Mario Isnenghi. Di un altro convegno - questo tenutosi a Bassano - ha pubblicato gli atti Angeli, Milano, 2001: "Al di qua e al di là del Piave. L'ultimo anno della Grande Guerra", a cura di Giampietro Berti e Piero Del Negro. Ricchi, questi incontri, di presenze mitteleuropee e, contemporaneamente, di quelle dignitose e appassionate figure di storici militari locali, extrauniversitari, che rappresentano una risorsa specifica, una vera e propria rendita di posizione della Grande Guerra, capace appunto di incrementare autori, lettori e editori, in un circolo attivo, dimostratosi, sin qui, inesauribile. Ecco p. es. "Uomini o colpevoli?", dove Luca De Clara e Lorenzo Cadeddu affrontano su materiali d'archivio il processo di Pradamano e altri processi militari, avallati da una "Prefazione" del maestro del genere, Alberto Monticone (Udine, Gaspari, 2001). Lo stesso colonnello Cadeddu ricostruisce meticolosamente le procedure che portano al ricupero delle salme e poi al rito del "Milite Ignotò in "La leggenda del soldato sconosciuto all'Altare della Patria", (Udine, 2001, "Prefazione" di Roberto Cartocci). Concludiamo l'antologica di questo editore nordestino tutt'altro che unico, ma tipico del genere - citando ancora la ricognizione di una giovane studiosa, Claudia De Marco, su "Il mito degli alpini" (2004) con due note di accompagnamento, una dell'attuale direttore de "L'Alpinò e una di Mario Isnenghi; e la scrupolosa e dura ricerca di Irene Guerrini e Marco Pluviano, "Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale", aperta da una "Prefazione" di Giorgio Rochat. 665

Esemplifichiamo ancora la tipologia di studiosi e editori "specializzatì in Grande Guerra, a cui si è fatto riferimento, nominandone uno, ufficiale di complemento degli Alpini e professore in un liceo di Bassano, che ha identificato una sua vena d'oro ricca di ritrovamenti e li va distribuendo in varie sedi locali: Paolo Pozzato bracca, individua, traduce spesso personalmente e introduce diari e memorie di alti ufficiali austroungarici e tedeschi, quasi mai entrati in circolazione da noi, valorizzandone in particolare i tormentosi interrogativi sul capovolgimento della loro guerra, da quasi vittoriosa in sconfitta disgregatrice, nell'ultimo anno, e quindi mirati sui momenti topici di Caporetto e di Vittorio Veneto. Ne cito qualcuno, anche qui in rappresentanza del genere: "Il "miracolo di Caporettò in particolare lo sfondamento di Plezzo", una densa memoria del vincitore, il generale austroungarico Alfred Krauss, che segue gli avvenimenti dal 17 settembre al 2 novembre 1917 (pubblicata a Monaco nel 1926, esce a cura di Enrico Cernigoi e Paolo Pozzato per le edizioni Guido Rossato, di Valdagno, nel 2000); Gen. Ernst Horsetzky (che è il comandante del ventiseiesimo Corpo d'Armata austroungarico durante la ritirata dal Grappa), "Le ultime quattro settimane di guerra (24 ottobre-21 novembre 1918"), a cura di Paolo Pozzato, Bassano, Itinera Progetti, 2000; le pagine politiche e militari del Tenente Colonnello Edmund Glaise Horstenau, nate nel primo dopoguerra e ancora animate dal bisogno di additare i "tradimentì nei confronti del cuore tedesco dell'Impero da parte di Ungheresi, Slavi e naturalmente Italiani, la cui vittoria viene sminuita ("Dal Piave al crollo", a cura di Paolo Pozzato, Bassano, Itinera Progetti, 2001). Nella collana "Diari e memorie della Grande Guerrà Pozzato si fa poi curatore di un composito volumetto - coedito dal Museo della Grande Guerra in Marmolada (2003) - "La montagna che esplode. Kaiserjäger e alpini sul Castelletto delle Tofane", in cui il più famoso episodio della guerra di mine viene ripercorso da Hans Schneeberger, allora sottotenente diciannovenne comandato a presidiare la cima destinata di 666

momento in momento a saltare; dal sottotenente italiano, Luigi Malvezzi, che l'11 luglio 1916 preme il detonatore che innesca la carica di 35000 chili; e dall'allora sottotenente, Piero Pieri, che ricostruirà da storico l'episodio e descrive qui l'assalto italiano seguito all'esplosione. Siamo fra la storia militare e la storia romanzata, ancorate a una precisa riconoscibilità di luoghi della memoria e della geografia, ripercorribili anche oggi in proprio, e dunque di fronte a un eccellente esempio di ciò che a tutt'oggi rivitalizza il nostro rapporto con quello straordinario cumulo di Storia e storie. E non c'è da meravigliarsi se trova precipua concentrazione nel Nord Est, fra le alte quote e la Pedemontana, visto che proprio qui la guerra fu combattuta, per cui più agevolmente la grande Storia - oggi disamata e tenuta in sospetto - si sposa e rende più appetibile in una moltitudine di vicende specifiche, storie locali e casi umani. Non sempre del resto la concentrazione nello spazio comporta un restringimento dello sguardo, come dimostra lo scrittore asiaghese Mario Rigoni Stern, il quale mantiene da sempre un rapporto stretto con gli avvenimenti, gli uomini, i luoghi della prima guerra mondiale, e non solo in chiave narrativa. Nel 2000 ha dato fondamento e lustro a una pubblicazione di matrice bancaria, raccogliendo "Testimonianze di soldati al fronte" che sono passati allora per quel microcosmo di cui egli si è fatto custode e interprete, in un ponderoso volume antologico, "1915-1918, la guerra sugli Altipiani", edito da Neri Pozza a Vicenza e aperto da parole simpatetiche di Carlo Azeglio Ciampi. Al nesso regione- nazione rimandano anche, con maggiore ampiezza, l'itinerario problematico "Tra mito della nazione e piccola patria 1866-1918" del giovane studioso bassanese Marco Mondini, che esplora i rapporti tra ufficiali e società locale nel volume "Veneto in armi", Gorizia, LEG, 2002 (si tratta della Libreria Editrice Goriziana, un'altra delle piccole case editrici del Triveneto specializzate nel ramo); e il numero monografico 2002 della rivista "Veneficà, dal titolo "L'Italia chiamò. Memoria militare e civile di una regione". 667

Fra le acquisizioni conoscitive notevoli di settori sin qui non abbastanza presi in considerazione - pur non essendovi potute essere in questo caso particolari ragioni di rimozione - è il lavoro di scavo archivistico dedicato da Barbara Bracco, con il titolo "Memoria e identità dell'Italia della Grande Guerra" (Milano, Unicopli, 2002) per ricuperare le carte disperse e il senso de "L'ufficio Storiografico della mobilitazione (1916-1926)": un comparto molto specifico della mobilitazione in cui, su impulso di Giovanni Borelli, intellettuali con la divisa, di rilievo, quali Gioacchino Volpe e Giuseppe Prezzolini, lavoravano sistematicamente a raccogliere alla fonte i documenti e le testimonianze del grandioso impegno collettivo, dall'economia all'antropologia, ai canti eccetera: gli "instant- book" firmati personalmente da Prezzolini nel 1918 e '19 derivano anche da questo lungimirante, ma poi non valorizzato accumulo di materiali per la storia futura della società italiana in guerra. Cambiando misura di scala, segnaliamo ancora una pubblicazione defilata, utile come mappa comparativa aggiornata sia della memoria e del discorso pubblico, sia degli studi sulla prima guerra mondiale nei vari paesi europei, che fornisce i testi di un incontro fiorentino nato a ridosso dell'80esimo anniversario a cura di Nicola Labanca con il titolo "Commemorare la Grande Guerra. Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia", "Quaderni Forum", a. 14°, n. 3-4, Firenze, 2000. Vi fanno rispettivamente il punto Annette Becker, Gerd Krumeich, Hew Strachan, Giorgio Rochat, Giovanna Procacci, Mario Isnenghi e lo stesso coordinatore Labanca. Ritroviamo Annette Becker assieme al suo abituale partner Stéphane Audoin- Rouzeau come autori di un libro che in Francia ha sollevato interesse e controversie, e che è stato poi tradotto da Einaudi con un saggio accompagnatorio di Antonio Gibelli, "1914-1918 Retrouver la guerre", Paris, Gallimard, 2000. Nella "universale vittimizzazioné che caratterizza spesso, e non solo in Francia, l'approccio attuale a quel conflitto, sofferto come un cataclisma sanguinoso, remoto nelle cause e 668

delusorio negli esiti, i due autori hanno cercato un punto di mediazione che li ha esposti a critiche da più parti. Di "vittime" della guerra, in una diversa accezione, si occupano anche due testi di giovani autori pubblicati di recente in Italia. Alessandro Tortato le ha poste al centro della sua ricerca d'archivio in quanto prigionieri, in "La prigionia di guerra in Italia 1915-1919", Milano, Mursia, 2004, che si affaccia anche sui modi e i tempi in cui i sudditi dell'Impero Austroungarico si mutano in neo- cittadini di diversa affiliazione nazionale e statuale; Lisa Bregantin, partendo dai morti e dal monumento ai Caduti di un paese del Padovano, uno fra i tanti, ragiona sui meccanismi della memoria che esaltano e, al tempo stesso, disindividualizzano quei poveri contadini- soldati "Caduti nell'oblio", Venezia, Istituto storico veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea, 2003 (tutt'e due i libri si aprono con una prefazione di Mario Isnenghi). L'antico e rinverdito tema degli umili, seguito attraverso le vicende di un piccolo monumento ai Caduti paesano, si presentava anche in un'altra pietosa espressione della grande Storia ripensata e umanizzata attraverso la microstoria: "Crodo e la Grande Guerra", scritto sul filo delle affabulazioni familiari e della memoria ritrovata dal più affermato storico del colonialismo italiano, Angelo del Boca, e pubblicato nel 2001 a Crodo, dal Centro Studi Piero Ginocchi. In tutt'altre dimensioni si colloca la vasta e articolata impresa della "Enzyklopädie Erster Weltkrieg", maturata in Germania e uscita finora in tedesco presso le edizioni di Ferdinand Schoning (2003), ma di cui già si annunciano traduzioni in altre lingue; i promotori e curatori del folto e compatto volume, Gerhard Hirschfeld, Gerd Krumeich, Irina Renz hanno chiamato a raccolta gli specialisti dei vari paesi allora in conflitto, dando finalmente conto di vicende, problemi e personaggi in una prospettiva europea e non autocentrata. Il volume comprende anche 600 pagine di "Lexicon", organizzato per voci firmate in ordine alfabetico. 669

Ci sembra - in riferimento a quelle sanguinose lacerazioni una forma di "europeismò più sobria e convincente di altre. Concludiamo l'aggiornamento bibliografico sull'ultimo quinquennio con un recente lavoro di Angelo Ventrone che, non solo si affaccia sul dopoguerra, ma stringe guerra e dopoguerra in un nesso di causalità molto netto e assertivo. Si intitola "La seduzione totalitaria" e ragiona di "Guerra, modernità, violenza politica", descrivendo con deplorazione il diffondersi di retoriche micidiali e minoritarismi baldanzosi e autoritari, a danno delle libertà e dei diritti (Roma, Donzelli, 2004).

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