Beppe Fenoglio e il racconto breve 8880631985

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Beppe Fenoglio e il racconto breve
 8880631985

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1999

Luca Bufano

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e 1] racconto breve

Longo Editore Ravenna

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https://archive.org/details/beppefenoglioeil0000bufa

Alla pubblicazione di questo volume hanno dato un generoso sostegno

COMUNE DI ALBA FONDAZIONE PIERA, PIETRO E GIOVANNI FERRERO ASSOCIAZIONE CIRCOLO FENOGLIO ’96

(CS), Luca Bufano

Beppe Fenoglio e il racconto breve

L’interprete

Collana diretta da Aldo Scaglione della New York University, New York

For Carmen, and for Michele Ulysses, born at seven months with the seventh chapter

Luca Bufano

Beppe Fenoglio e 1] racconto breve Prefazione di Giovanni Falaschi

LONGO EDITORE RAVENNA

ISBN 88-8063-198-5 Questo volume è stampato su carta «Palatina» Fabriano

© Copyright 1999 A. Longo Editore snc Via P. Costa, 33 - 48100 Ravenna

Tel. 0544.217.026 Fax 0544.217.554 e-mail: [email protected] www.longo-editore.it All rights reserved Printed in Italy

L’opera di Fenoglio, contenuta in poche centinaia di pagine e culminante nel tagliente crinale di Una questione privata, è come la parte emersa di un iceberg, che presuppone un blocco interiore sommerso. Italo Calvino, Uno scrittore senza eredi

If a writer of prose knows enough about what he is writing about, he may omit things that he knows and the reader, if

the writer is writing truly enough, will have a feeling of those things as strongly as though the writer had stated them. The dignity of movement of an iceberg is due to only one-eight of it being above the water. Ernest Hemingway, Death in the Afternoon

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Prefazione

«Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n'era per cento carnevali»; con quello che segue nel testo di Fenoglio: uniformi mirabolanti, i nomi di battaglia che la gente legge come i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti, partigiane sculettanti, curiosità mista a paura nei borghesi... Un inizio di periodo famosissimo, di cui si ignorava finora la fonte e che invece sicuramente deriva da Boule de suif, il racconto di Maupassant noto certamente per il tema ma non altrettanto presente ai critici (a quanto pare: a tutti noi studiosi di Fenoglio) nei suoi aspetti minuti e particolari. Siamo a Rouen, nel 1870: le truppe francesi volte negli amari passi di fuga attraversano la città, incalzate dalle truppe prussiane; disordine, provvisorietà, voler salvare la pelle a tutti i costi

sono evidenti nei volti e in quel che resta delle divise regolari. Cambiati i soggetti (i francesi che scappano diventano in Fenoglio i partigiani che arrivano) e volto il dolore in baldanza, l’aspetto selvaggio della sfilata militare resta lo stesso. La fonte francese, riconosciuta da Bufano, sposta un po’ l’attenzione da quelle inglesi, finora super-privilegiate nell’ambito della ricerca della cultura letteraria di Fenoglio; così si complica il quadro e viene confermata l’intuizione di Giuseppe De Robertis sulle letture dei “buoni” francesi (che poi lo stesso De Robertis usasse il suo suggerimento in tacita polemica con la letteratura americana, che a quanto pare

gli sembrava essere troppo invadente, in nome dell’ormai trascurata letteratura francese, è una cosa che in questa sede ci riguarda poco).

Paolo Spriano ha raccontato dell’esaltazione di Pavese poche ore prima di morire (se ben ricordo il suo libro aneddotico di memorie): avrebbe potuto anche essere confusa con uno stato di felicità. In realtà lo scrittore si era liberato del peso di prendere una decisione definitiva, e si sentiva,

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Giovanni Falaschi

diciamo così, più leggero. Bufano ricostruisce invece un breve periodo precedente quella morte, e che potremmo chiamare il periodo del congedo; lo fa mettendo insieme notizie sui saluti che Pavese manda ai colleghi scrittori e sulle visite ad altri colleghi e agli amici stretti. Insomma, ci fu un viaggiare di Pavese per gli ultimi definitivi incontri. La ricostruzione è già di per sé curiosa e interessante, ma non è extravagante: con Fenoglio c’entra, perché Bufano afferma che quasi certamente, in quell’estate del

1950, Pavese andò a trovare anche lui. E da qui egli parte per ricostruire il rapporto fra i due scrittori langaroli, acquisendo notizie sconosciute 0 facendo ipotesi molto plausibili, come per esempio quella che i Racconti della guerra civile capitarono alla Einaudi sul tavolo di Pavese (anche a istanza di Antonicelli?), mentre finora si parlava solo di Vittorini e un po’ meno di Calvino. Ed era poco noto — anche se non inedito — l’invio dei primi racconti fenogliani ad Antonicelli per le edizioni De Silva, così come a Bompiani e a Mondadori. Inoltre, il rapporto con Pavese era stato suggerito da molti critici, ma si restava all’interno della categoria della conterraneità, che vuol dire tutto e niente. Bufano ha il merito di aver

affrontato la questione stando coi piedi per terra. Così, per esempio, il tanto rammentato pezzo su «Middle West e Piemonte» viene riconsiderato attentamente e senza forzature nelle sue consonanze fenogliane. La derivazione da Maupassant, estesa ai rapporti Maupassant-Fenoglio, e l’incontro probabile di quest’ultimo con Pavese nell’estate del 1950, sono due indagini particolari che ho scelto a caso in questo ricco libro per dare al lettore l’idea di quello che può trovare in due capitoli sui Ventitre giorni; e sono sufficienti ad aprire una finestra sull’interesse indiscutibile che riveste ogni nucleo compositivo. Il quadro d’insieme è altrettanto ricco e denso di novità. Ma andiamo per ordine cominciando dalla citazione hemingwayana posta in esergo. Essa sta ad indicare la grande massa di spinte creative di cui emerge poco in superficie, come accade per l’iceberg. Già Calvino, alla metà degli anni Cinquanta, se non ancora prima, aveva tematizzato il contenuto di questa citazione facendo di Hemingway il simbolo degli scrittori che bruciano nei loro personaggi iperattivi il proprio dramma interiore, una specie di negazione della psiche nell’azione. Dunque Calvino interpretò Hemingway secondo Hemingway, occultando lui stesso la citazione. Questa fortuna nascosta della fonte americana in un grande scrittore italiano come Calvino, la si ricorda qui solo per dimostrare quanto sia densa di significati psicologici e letterari l’epigrafe scelta da Bufano, come a dire che quel gran fare e rifare di Fenoglio, il suo progettare libri di racconti senza esser riuscito a pubblicarne più di uno, quell’armeggiare condotto con grande

Prefazione

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sapienza compositiva e con altrettanta disarmante sprovvedutezza editoriale, rimandano alle mille pulsioni che solo la morte avrebbe potuto annientare (cita Bufano dal Diario di Fenoglio: «ci sarà sempre un racconto che vorrò fare ancora, ma ci sarà anche il giorno che non potrò più vivere»). Questo libro è una ricognizione filologica e storico-critica sull’intero campo delle narrazioni brevi. Dopo l’edizione critica ad opera del gruppo pavese di Maria Corti e la ricostruzione di Dante Isella si poteva presumere di sapere ormai tutto sui racconti. E invece la ricostruzione di Bufano è inedita e minuziosa, con acquisizioni di dati precisi che francamente attraggono l’attenzione del lettore incuriosito che vuol sapere dove si va a parare, e inoltre offrono sempre elementi sconosciuti e insperati. È una messa a punto dei problemi che dimostra come ancora sia irrisolta la questione dei racconti. Quindi il valore del libro sta proprio nelle scoperte, e nei dubbi che semina, nonché nelle proposte che fa. In questo consiste la sua concretezza. E così ci sono novità, anche relativamente ai Ventitre giorni della città di Alba: quelle relative al racconto eponimo sono costituite dalla fonte di cui si è detto; e quelle relative alla raccolta sono più di una: per esempio, circa i due racconti che la vulgata diceva esser derivati dalla Paga del sabato a istanza di Vittorini, le cose andarono un po’ diversamente. E ancora più complesso è il problema di Un giorno di fuoco, libro garzantiano che Fenoglio non aveva mai progettato di pubblicare in quel modo, come si sapeva, mentre non ci era ben noto il suo arrabattarsi intorno ai racconti soprattutto verso la fine della sua vita. (La cosa più commovente di questo Fenoglio è il fatto che, nonostante la tremenda fatica che durava nel licenziare una pagina che lo lasciasse soddisfatto, si permettesse di fare progetti e abbandonarli seguendo l’impulso creativo che lo faceva puntare come un proiettile sul bersaglio, come diceva di se stesso con un linguaggio in cui si deve riconoscere non solo l’ex-partigiano, ma la sua etica della milizia). Racconti del parentado, i cosiddetti Frammenti di romanzo che forse non sono tali, e il mistero delle sue ultime volontà. Usando tutta la docu-

mentazione disponibile e anche trovando qualcosa di inedito e interessante, come

il lettore vedrà, Bufano ricostruisce bene anche gli ultimi

anni dello scrittore e arriva a proporre, sulle tracce di un perduto progetto di edizione dei propri racconti consegnato a un amico da Fenoglio ormai morente, l’indice del volume che ci manca. Una proposta editoriale, come punto di arrivo di una ricognizione, non mi sembra una cosa da poco. Soprattutto se, come si è già detto, questa viene dopo ben due edizioni

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Giovanni Falaschi

delle opere. Bufano recupera anche pezzi finora male interpretati o non assunti dagli editori nel novero degli originali. Devo confessare che non solo la scrittura, ma l’impianto del libro e il modo che Bufano tiene nell’argomentare mi piace molto. La conoscenza dell’inglese e, direi, anche la pragmaticità della cultura americana certamente gli giovano, perché danno al suo lavoro la concretezza di cui si è detto sopra, fatta di notizie, documenti anche apparentemente poco rilevanti ma che riportati come i singoli tasselli in un vero puzzle dimostrano la loro forza argomentativa. A questo si aggiunga una dote personale di Bufano, che consiste nello scrivere pianamente e gradevolmente, insomma nel saper raccontare, e nell’andare avanti avendo in mente un disegno preciso, onestamente scoprendo di fronte al lettore tutte le carte di cui dispone. Perciò lo ringrazio di avermi fatto leggere questo libro in anteprima. Giovanni Falaschi

Introduzione

Ci sarà sempre un racconto che vorrò fare ancora, ma ci sarà anche il giorno che non potrò più vivere. Diario, [XIV]

Beppe Fenoglio morì all'ospedale delle Molinette di Torino nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963. Due anni dopo il filosofo Pietro Chiodi, che di Fenoglio era stato insegnante ed intimo amico, volle ricordare le ultime ore del suo antico allievo liceale nella convinzione che quella «breve storia» gettasse luce «non solo sull’uomo ma sullo scrittore».! È dal commosso ma lucido scritto di Chiodi che questo studio ha preso l’avvio. La malattia aveva colto lo scrittore albese nel pieno della maturità, proprio quando, dopo un lungo e difficile tirocinio, cominciava a ricevere i primi riconoscimenti, ad avere le prime gratificazioni. Inizialmente gli era stata diagnosticata una forma d’asma e lui, come un personaggio della sua Malora, si era ritirato a Bossolasco, nelle alte Langhe, con la

speranza che l’aria fine e salubre lo avrebbe curato. Quando poi era apparsa chiara la gravità del male, venne deciso il suo ricovero, prima in una clinica di Bra, poi, dopo una parentesi trascorsa a casa, a Torino,

dove i medici poterono solo constatare lo stadio terminale della malattia. Il giorno seguente il ricovero alle Molinette gli venne praticata la tracheotomia, più per alleviargli il dolore che non nel tentativo estremo di salvarlo. Persa la parola, ma rimasto cosciente e quasi impassibile di fronte al suo destino, Fenoglio chiese un taccuino sui cui poter scrivere per comunicare. Scrisse così molti biglietti: alla moglie Luciana e alla figlia, al fratello, ai genitori, all'amico teologo Don Bussi, allo stesso Chiodi; e dette disposizioni per il funerale, che volle «di ultimo grado, senza soste,

! Fenoglio scrittore civile, in «La cultura», III, gennaio 1965, pp. 1-7; poi in Fenoglio inedito, Asti, Quaderni dell’Istituto «Nuovi Incontri», 1968, pp. 39- 44, da dove cito.

Introduzione

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fiori e discorsi»? fedele anche in questo a un credo letterario quasi ascetico, alieno da qualsiasi forma di mondanità. Sono brevi e amorevoli frasi, citate spesso nei profili biografici dello scrittore, a testimonianza di quel suo singolare carattere in cui l’aspro rigore e il riserbo si sposavano a un'estrema tenerezza. Ma solo nel ricordo di Chiodi, tra molte acute 0s-

servazioni, si legge che in uno di quegli ultimi biglietti Fenoglio «stabili l’ordine con cui desiderava che i suoi racconti venissero ripubblicati».* Questo dato mi è parso sorprendente. Fenoglio lasciava infatti numerosi manoscritti incompleti, quasi tutti anepigrafi: le due redazioni di quello che sarebbe poi divenuto // partigiano Johnny e le tre redazioni di Una questione privata, romanzi oggi considerati tra le espressioni più alte, non solo della letteratura sulla Resistenza, ma dell’intero Novecento ita-

liano;* eppoi testi teatrali, favole, racconti fantastici, epigrammi...una gran quantità di materiale la cui classificazione e pubblicazione avrebbero suscitato annose polemiche. Eppure, in punto di morte, Fenoglio si preoccupa solo dei racconti: testi finiti, quasi tutti dotati di titolo e, per lo meno ventuno di essi, già licenziati per la stampa.° Ho cercato quel biglietto presso la vedova di Pietro Chiodi, il Fondo Fenoglio di Alba e l'Archivio Einaudi. Volevo conoscerne il testo, per-

2 Cfr. Franco Vaccaneo, Beppe Fenoglio. Le opere, i giorni, i luoghi: una biografia per immagini, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1994, p. 199. 3 Fenoglio scrittore civile cit., p. 40. 4 Si vedano, ad esempio, i giudizi di Geno Pampaloni (La nuova letteratura, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento, vol. IX, Milano, Garzanti, 1969, pp. 864-66,

poi, con alcune aggiunte, Beppe Fenoglio, in Storia della Letteratura Italiana. Il Novecento, Il, Milano, Garzanti, 1987, pp. 559-63), Giorgio Bàrberi Squarotti (Fenoglio, in Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano, Mursia, 1978, pp. 365-73), Gina

Lagorio (Fenoglio, Firenze, La Nuova Italia, 1970, ora, con aggiornamento bibliografico, Venezia, Marsilio, 1998), Gian Luigi Beccaria (La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Milano, Serra e Riva, 1984, p. 13, e il recente Fenoglio, un classico del nostro secolo, in Atti del convegno Beppe Fenoglio 1922-1997. Alba 15 marzo 1997, Milano, Electa, 1998, pp. 9-17).

9 Ai dodici racconti inclusi nella prima raccolta del 1952 e ai cinque nuovi Racconti

del parentado (uno, Pioggia e la sposa, è ripreso con alcune varianti da / ventitre giorni

della città di Alba), di cui Fenoglio arrivò a correggere le bozze, si dovranno aggiungere quattro racconti pubblicati dall’autore su riviste o in volumi miscellanei. Essi sono: //

gorgo («Il Caffè», 9, dicembre 1954, p. 17); J/ padrone paga male («Il Caffè», 7-8, lu-

glio-agosto 1959, pp. 18-22); Lo scambio dei prigionieri («Palatina», 12, ottobre-dicem-

bre 1959, pp. 40-45) e L’erba brilla al sole (in Il secondo Risorgimento, Torino, Piemonte artistico e culturale, 1961, pp. 105-117). Per altri testi brevi pubblicati in vita, ma non

appartenenti al genere racconto, cfr. le Conclusioni a questo studio.

Introduzione

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ché, se è vero che esso indicava un nuovo ordine di raccolta, quell’ultima volontà testamentaria non era stata ascoltata, dato che i racconti di F enoglio sono sempre stati ristampati nel vecchio ordine o in raccolte inventate di volta in volta dagli editori. Se in vita egli aveva infatti dovuto subire non poche imposizioni da parte di quest’ultimi, la pubblicazione dei racconti

inediti secondo criteri arbitrari cominciò subito dopo la morte. Nell’aprile del 1963 Garzanti si affrettava a dare alle stampe, sotto il titolo Un giorno di fuoco, un volume ibrido contenente la terza redazione di Una questione privata e dodici racconti di diversa origine: i sei Racconti del

parentado, un capitolo della prima redazione di Primavera di bellezza (I premilitari), due racconti di argomento partigiano (Golia e Il padrone paga male) e tre di argomento «langhiano» (// signor podestà, Ferragosto e L'addio). Quindici anni dopo, i curatori dell’edizione critica decidevano di riprodurre quell’ordine anziché isolare i Racconti del parentado sotto il titolo scelto e ribadito più volte dall’autore. Nella stessa edizione, quattro racconti inediti erano inseriti tra le appendici ai testi o in sezioni improprie;° altri tre racconti rimanevano addirittura esclusi, mentre veniva pubblicato in posizione di rilievo un testo di dubbia origine, poi rivelatosi un grossolano falso.” Troppo sbrigativamente classificati «materiale narrativo pertinente all’attività di Fenoglio traduttore»,8 venivano inoltre omessi alcuni interessanti testi appartenenti a quella che l’autore stesso, in una lettera a Giulio Einaudi, definisce «una terna di racconti

fantastici». Un’inversione di tendenza si sarebbe registrata soltanto nel 1992 con la pubblicazione, a cura di Dante Isella, dei Romanzi e racconti di Beppe Fenoglio (primo volume della einaudiana «Biblioteca della Pléiade»), in cui le raccolte d’autore venivano finalmente separate dal magma degli inediti e ai primi sei racconti di Un giorno di fuoco veniva restituito, sia

6 Cfr. qui: il cap. II, per [War cant be put into a book]; il cap. VI per Dopo pioggia; il cap. VII per [La prigionia di Sceriffo] e [L'ora della messa grande]. 7 Si tratta, com’è ormai noto, del racconto A//a /Janga, che apre la sezione Racconti

sparsi editi e inediti delle Opere (III, pp. 5-6). I racconti esclusi sono: L'erba brilla al sole cit.; La profezia di Pablo, nella versione apparsa sulla rivista albese «i 4 Soli», XII, 56, maggio-agosto, 1968 (ora in appendice agli Atti del convegno «Beppe Fenoglio 19221997» cit., pp. 58-63), e un racconto anepigrafo, probabilmente l’ultimo scritto da Fenoglio, contenuto nel quaderno VIII del Fondo di Alba e da me intitolato La grande pioggia (il testo è stato pubblicato da Gino Rizzo in appendice a Editi e inediti di Beppe Fenoglio, «Giornale storico della letteratura italiana», 505, 1982, pp. 124-7).

8 Cfr. la Nota ai testi, in Opere, III, p. 514.

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pur aggiunto tra parentesi, il titolo originale. Altri diciotto testi brevi venivano inclusi nella sezione finale denominata Gli altri racconti, poi pubblicati separatamente col titolo Diciotto racconti .9 La meritoria «Pléiade» raccoglieva i testi narrativi fenogliani secondo un ordinamento più fedele alla volontà dell’autore, mentre un solido apparato critico contribuiva a sciogliere gli ultimi dubbi sulla cronologia delle opere, confutando il merito e il metodo delle varie posizioni espresse. Per molti anni il dibattito sulla datazione del Partigiano Johnny — autentica querelle definita da un critico, con ragione, «noiosa» e «deprimente»! — aveva circoscritto l’interesse degli studiosi. L’oltranza metodologica di alcuni, oltreché precludere l’esplorazione di zone contigue dell’opera fenogliana, alimentava un dilemma apparentemente insanabile: contro chi, adducendo prove tangibili, sosteneva che il capolavoro fenogliano fosse il punto d’arrivo di una decennale esperienza narrativa, Maria Corti continuava ad affermare il valore archetipico dell’opera collocandone la prima redazione agli inizi della carriera dello scrittore, in una fase addirittura precedente i Racconti della guerra civile. E non si trattava, com’è stato sostenuto, del riflesso di una supposta «divaricazione endemica» della cultura letteraria italiana «tra l’approccio filologicovariantistico» e una non meglio precisata «lettura di gusto».!! Non erano certo ascrivibili a impressionistici commentari la dettagliata interpretazione di rilevanti autografi offerta da Eugenio Corsini, le lettere e l’emblematica terminologia citate da Roberto Bigazzi, le analisi delle varianti proposte da Eduardo Saccone, o le preziose testimonianze raccolte da Gina Lagorio e da Francesco De Nicola.!? A coloro che avevano costruito la propria tesi sul confronto testuale di alcuni episodi comuni ai Racconti della guerra civile e alle due redazioni del Partigiano Johnny,

? Torino, Einaudi, 1995.

!0 Cfr. Gian Luigi Beccaria, La guerra e gli asfodeli cit., p. 10. Ro

p.

Maria Antonietta Grignani, Beppe Fenoglio, Firenze, Le Monnier,

1981,

: 12 Cfr., nell’ordine, Ricerche sul fondo Fenoglio, in «Sigma», 26, giugno 1970, pp. 3-17; La cronologia dei Partigiani di Fenoglio, in «Studi e problemi di critica testuale» vol. XXI, 1980, pp. 85-122, ora in Fenoglio: personaggi e narratori, Roma, Salerno, 1983, pp. 87-153; Tutto Fenoglio: questioni di cronologia, con qualche appunto di si ca e filologia a proposito del «Partigiano Johnny», in «Modern Language Notes», vol.

95, 1981, pp. 162-204, ora in Fenoglio. I testi, l'opera, Torino, Einaudi, 1988, pp. 3-52;

Ipotesi per il Partigiano Johnny, in «Il Ponte», 2, 1969, pp. 267-73; Introduzione a Fenoglio, Bari, Laterza, 1989, pp. 14-19.

Introduzione

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e, sottovalutando il diverso specifico dei generi, affermavano la seriorità dei primi, Isella faceva notare come «le simiglianze riscontrate» potessero «essere interpretate sia in rapporto di derivazione, sia non meno bene ipotizzando una loro comune discendenza da un unico antigrafo andato perduto».!3 E significativamente aggiungeva: «Una seconda osservazione riguarda l’uso improprio dei procedimenti della critica delle varianti che si fa quando, confrontando tra loro due lezioni diverse di uno stesso testo (anzi, due espressioni diverse di uno stesso episodio), ci si spinge a portare su di loro un giudizio qualitativo in termini di acquisto o di perdita, di maggiore o minor valore, e sulla base di questo giudizio, legato alla propria sensibilità, al proprio gusto, a fattori tutti della sfera soggettiva, si ritiene di poter stabilire con sicurezza un mutamento orientato dell’elaborazione, un preciso vettore correttorio».!4 L’avere ipotizzato l’esistenza di un «avantesto» di cui Fenoglio avrebbe fatto uso «in tempi diversi e per finalità diverse», ciò che Isella definisce «il vero Ur di tutti i libri resistenziali»,!9 è stata una felice intuizione del critico, comprovata appena due anni dopo, quando Lorenzo Mondo riportava alla luce un manoscritto fenogliano molto simile a quello prefigurato: i quattro taccuini contenenti gli Appunti del partigiano «Beppe». Effettivamente, era stata la stessa Corti a raccogliere la testimonianza della madre di Fenoglio riguardo ai taccuini o quaderni nei quali, subito dopo la guerra, egli «prese a scrivere furiosamente per qual-

che anno»,!° ma il grande abbaglio del filologo è stato quello di identificare il contenuto di quei quaderni nella prima redazione del Partigiano Johnny. La pubblicazione di Appunti partigiani, nell’ottobre del 1994, ha finalmente mostrato quale fosse lo stadio della narrativa fenogliana negli anni 1946-47, e la distanza che separa quel primo germinale momento, che potremmo chiamare del «partigiano Beppe», dal grande periodo creativo 1956-1959 in cui prese forma il ciclo di Johnny, dello studente, dell’allievo ufficiale e del partigiano. Appunti partigiani pone dunque fine alla sterile querelle e permette alla critica di voltare pagina, di guardare

13 Itinerario fenogliano, in Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti, Torino, Einaudi, 1992, p. 1407.

14 Ibid., p. 1408. 15 Ibid., p. 1409.

16 Cfr. La composizione del «Partigiano Johnny» alla luce del Fondo Fenoglio, in

Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 369-70.

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Introduzione

anche alle «zone» inesplorate dell’opera fenogliana: il piccolo, prezioso libro ha collocato l’ultimo tassello mancante al puzz/e che dal 1968 aveva intrattenuto critici ansiosi di soddisfare un robusto «appetito semiologico»;!7 annoiato altri, che vedono nella critica un esercizio di i qualità e valore propriamente morale. come Fenoglio di statura la è a Non ancora pienamente riconosciut dalla sia a dall’editori sia incompreso autore di racconti, genere spesso ha breve racconto il che privilegiata posizione la a è critica, né riconosciut occupato nella carriera dello scrittore. Del resto sono mancati e mancano gli stessi presupposti per tali riconoscimenti: il corpus dei racconti fenogliani rimane frammentato e incompleto, mentre «l’ottimo principio del-

l’ultima volontà dell’autore», che si è voluto rispettare nella definizione dei singoli testi,!8 attende ancora di essere applicato all’organizzazione delle raccolte di racconti (come se l’ordinamento di un libro di racconti non fosse parte integrante della forma stabilita dal suo artefice). Il presente studio ambisce a colmare alcune di queste lacune. Un aiuto imprescindibile per la ricostruzione dell’itinerario creativo fenogliano ci viene offerto dall’epistolario. Nel 1989 Francesco De Nicola si augurava che i carteggi fenogliani potessero quanto prima essere raccolti e debitamente resi pubblici.!? Delle lettere conoscevamo infatti soltanto alcuni brani, citati dai vari studiosi a sostegno delle rispettive tesi e in contesti tali da rendere il loro significato suscettibile di interpre-

tazioni opposte.?® Ma il legittimo appello di De Nicola è rimasto, purtroppo, inascoltato. Chi non si è voluto accontentare dei pochi e insufficenti frammenti di corrispondenza disponibili ha dovuto perciò cercare gli originali negli archivi e altrove (una fatica, del resto, ampiamente ricompensata). La storia dei racconti qui di seguito proposta è in gran parte basata su una lettura integrale della corrispondenza tra Fenoglio e i suoi interlocutori delle case editrici Einaudi e Garzanti, che ringrazio per avermene cortesemente permesso la consultazione. Fra gli altri, segnalo subito un documento di grande importanza. In una lettera del 29 novembre 1961 ad

17 Nella Premessa all’edizione critica delle Opere, Maria Corti definiva i testi portati alle luce «pasto prelibatissimo per qualsiasi appetito semiologico» (I. 1, p. X).

18 Cfr. la Premessa di Dante Isella a Romanzi e racconti CIESDIENIIE !9 Cfr. Francesco De Nicola, Introduzione a Fenoglio cit., p. 8. 20 Cfr., ad esempio, Maria Antonietta Grignani, La parola a Fenoglio, in «Belfagor», 3, maggio 1982, pp. 337-48, e le relative repliche di Saccone e Bigazzi, /bid., pp. 348-53.

Introduzione

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Attilio Bertolucci, il quale dirigeva una nuova collana di letteratura per Garzanti e si era rivolto allo scrittore albese proponendogli di pubblicare una raccolta completa dei suoi racconti, Fenoglio rispondeva entusiasta:

[la raccolta] mi va molto a sangue e me la vedo bene articolata davanti agli occhi. All’incirca così: RACCONTI DELLA GUERRA CIVILE: I 23 giorni della città di Alba L’andata Il trucco Gli inizi del partigiano Raul Il vecchio Blister Un altro muro. RACCONTI DEL DOPOGUERRA: Ettore va al lavoro L’acqua verde Nove Lune.

RACCONTI DEL PARENTADO: I tre e forse quattro racconti cui accenno più sopra. UN RACCONTO La Malora.

LUNGO:

Fenoglio, dunque, stimolato da Bertolucci, ma anche da altri felici esempi di raccolte di autori contemporanei apparse sul finire degli anni cinquanta,?! già nel 1961 aveva elaborato il progetto di una raccolta completa dei suoi racconti («la splendida, affascinante, organica proposta dell’amico Bertolucci», come la definisce in una lettera successiva a Livio Garzanti). Di questo primo schema vale sottolineare due aspetti significativi: la riproposta di titoli precedentemente bocciati dagli editori (Racconti della guerra civile, Racconti del parentado) accanto a uno nuovo

21 È questo un periodo particolarmente fortunato per il racconto italiano: nel 1959 la silloge di Italo Calvino (/ racconti, Torino, Einaudi, 1958) e quella di Romano Bilenchi (Racconti, Firenze, Vallecchi, 1958) vincevano ex-aequo il Premio Bagutta, mentre il

Premio Strega veniva assegnato a Dino Buzzati per i suoi Sessanta racconti (Milano,

Mondadori,

1958).

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Introduzione

(Racconti del dopoguerra); la tripartizione del libro che riflette tre fasi di un'esistenza e tre fasi di una decennale attività scrittoria. Purtroppo non ci è dato di conoscere il contenuto del biglietto nel quale, secondo la testimonianza di Pietro Chiodi, poco prima di morire Fenoglio stabilì l'ordinamento dei suoi racconti. E tuttavia lecito supporre che quell’ordine sviluppasse lo schema abbozzato quattordici mesi prima nella lettera a Bertolucci. Quell’affascinante libro, a cui lo scrittore

dedicò le sue ultime energie, non era allora possibile: i diritti sui racconti erano infatti divisi tra due editori, le cui posizioni, in occasione della

vertenza sui Racconti del parentado, si erano dimostrate inconciliabili? Essendo riuscito a bloccare la nuova raccolta einaudiana, ma non potendo a sua volta riproporre i testi editi nel 1952, Garzanti aveva tutto l’interesse a pubblicare i racconti inediti prima della scadenza del contratto quinquennale sottoscritto dall’autore nel 1959. Ciò spiegherebbe la dubbia composizione del volume dato alle stampe nell’aprile del 1963, e forse anche la scomparsa di quell’ultimo biglietto. Non ho ritrovato il prezioso documento, ma l’insuccesso della ricerca, nonché distogliermi dall’argomento, ha stimolato ancor più il mio interesse: l’amore e la lunga fedeltà dello scrittore verso la narrazione breve, gli esiti esemplari da lui ottenuti in questo difficile genere letterario, meritavano uno studio particolare.

22 Su questa vicenda cfr. più avanti il cap. VI. i Avvertenza — Con l’eccezione di Appunti partigiani (Torino, Einaudi, 1994), tutte le citazioni da testi fenogliani sono tratte da Beppe Fenoglio, Opere, edizione critica diretta

da Maria Corti, voll. 3 in 5 tomi, Torino, Einaudi, 1978. Per i riferimenti alle singole

opere ho adottato le seguenti sigle: AP = Appunti partigiani; RGC = Racconti della gQuer-

ra civile, PS= La paga del sabato; VGA = I ventitre giorni della città di Alba: IP = Il

paese; RP = Racconti del parentado;, UrPJ = Ur Partigiano Johnny; PJ1, PJ2 = prima e seconda redazione del Partigiano Johnny; PdB1, PdB2 = prima e seconda redazione di Primavera di bellezza; FR = Frammenti di romanzo; OP1, QP2, QP3 = prima, seconda e terza redazione di Una questione privata.

i La punta dell'iceberg: il racconto breve come genere letterario

Di ogni opera d’arte possiamo dire che è determinata essenzialmente da tre fattori: dall’epoca della sua produzione, dal luogo, dalle peculiarità del suo creatore. Ciò vale in modo

particolare per la novella. Erich Auerbach, La tecnica di composizione della novella

1. In coerente polemica con la critica positivistica, l’estetica crociana negava l’esistenza dei «generi», nonché la legittimità dell’indagine sulle cosiddette «fonti» o precedenti di un’opera letteraria. «Affascinati, infine, da questa idea dei generi», scriveva nel 1902 il filosofo napoletano, «si sono visti storici della letteratura e dell’arte pretendere di fare la storia non delle singole ed effettive opere letterarie e artistiche, ma di quelle vuote fantasime che sono i loro generi, e ritrarre, invece dell’evoluzione

dello spirito artistico, l'evoluzione dei generi»! Come avrebbe spiegato Mario Fubini esprimendo un articolato dissenso, Croce vedeva il valore della poesia e dell’arte «minacciato dalla mentalità scientifica imperante», perciò, da quelle classificazioni che «in effetto» negavano la poesia, voleva rifarsi «all’unica e indivisibile poesia, all’attività estetica nella sua purezza». E almeno in Italia, per circa mezzo secolo, la sua lezione trovò un vasto consenso. Alla perentoria condanna fece infatti seguito il silenzio pressoché totale della critica sulla questione dei «generi», tanto che lo stesso Croce, tornando nel 1943 sull’argomento, poteva commentare con soddisfatto sarcasmo:

! Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1958, p. 43 (prima edizione Palermo, Sandron, 1902). 2 Cfr. Mario Fubini, Genesi e storia dei generi letterari (1948), in Critica e poesia, Bari, Laterza, 1956, p. 244.

Capitolo primo

DO.

I «generi letterari» si sono riuniti a congresso in Lione sulla fine del maggio scorso, la qual cosa non avrebbero osato fare in Italia, perché qui accadde loro, una quarantina di anni fa, un infortunio da cui non si sono più rialzati.

Dopo qualche timido movimento,* i generi si sarebbero «rialzati» negli anni settanta, in pieno clima strutturalista, principalmente con gli studi ad essi dedicati da Maria Corti e Cesare Segre, cui ha fatto seguito, novant'anni dopo la sua pubblicazione in Francia, la traduzione italiana della fondamentale opera di Ferdinand Brunetière L'’évolution des genres dans l’histoire de la littérature.ì La definizione della Corti, secondo la quale il genere letterario sarebbe «il luogo dove un’opera entra in una complessa rete di relazioni con altre opere», mi sembra tutt’oggi valida;” tuttavia, sia la Corti che Segre affrontavano lo studio dei generi in una prospettiva esplicitamente semiotica, riprendendo per lo più teorizzazioni francesi e anglosassoni, e alimentando un dibattito spesso viziato da un’inevitabile confusione terminologica. Allestivano repertori analitici d’indubbia perizia e acutezza, ma facendoli poi rifluire in un giudizio complessivo non sempre convincente. Già negli anni ottanta De Meijer aveva così riassunto i limiti di quegli studi: Si dirà forse che [...] è impossibile conciliare la posizione dello storico e quella del teorico, o, secondo la formulazione di Segre, la posizione di chi

3 I «generi letterari» a congresso, in Pagine sparse, Bari, Laterza, 1960 (pr. ed. 1943), vol. III, p. 70. Per un quadro esauriente del dibattito critico sui generi, esteso agli interventi stranieri, cfr. Pieter De Meijer, La questione dei generi, in Letteratura italiaSO

da Alberto Asor Rosa, vol. IV, L’interpretazione, Torino, Einaudi, 1985, pp.

4 Cfr. Luciano Anceschi, Dei generi letterari (1956), in Progetto di una sistematica dell’arte, Milano, Bompiani, 1962, pp. 65-73. Ma già nel 1945, in una Nota a Benedetto

Croce apparsa sulla rivista «Uomo», Anceschi aveva difeso l’utilità del discorso critico sui generi sostenendo che «essi non impongono alcuna legge se non per gli sciocchi e i pedanti, che è un’altra specie di sciocchi» (cfr. Mario Fubini, Op. cit., p. 151). 5 Dei due autori si vedano rispettivamente, Generi letterari e codificazioni, in Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, pp. 149-82 e Le strutture

narrative e la storia, in Semiotica, storia e cultura, Padova, Liviana, 1977, pp. 25-37; di

Cesare Segre cfr. inoltre la voce

Einaudi, 1979, pp. 564-85. @

Generi dell’Enciclopedia Einaudi, vol. VI, Torino

6 Trad. it., L'evoluzione dei generi nella storia della letteratura, Parma,

80.

? Cfr. Maria Corti, Generi letterari e codificazioni cit., p. 156.

8 Cfr. Pieter De Meijer, Op. cit., pp. 250-1.

i

Pratiche

i

Il racconto breve come genere letterario

23

mira «a una descrizione empirica dei generi secondo il loro sviluppo attraverso il tempo» e la posizione di chi cerca di «definire ex novo, con criteri coe-

renti, delle categorie tali da esaurire tutto l’assieme della produzione letteraria» (Generi cit., p. 572). Ma a noi sembra che solo la combinazione di queste due problematiche possa portare a una visione più soddisfacente dei generi letterari e che allo stato attuale degli studi non è opportuno aspirare a sistemazioni più o meno ingegnose.?

E concludeva sottolineando la necessità di «tornare a riflettere sulle coordinate più elementari delle distinzioni generiche».!° È esattamente quanto mi propongo di fare in queste note introduttive a uno studio su Fenoglio autore di racconti. Messe da parte le aspirazioni ad una suggestiva quanto illusoria pianificazione tipologica della letteratura, abbandonate le totalizzanti «mappe» dei generi passati e presenti, già rivelatesi

«grossolane semplificazioni»,!!

mi sembra opportuno provare a traccia-

re le coordinate di un genere, quale il racconto breve, generalmente trascurato dalla storiografia letteraria e ancor privo di una chiara definizio-

ne.!2 E in ciò seguo Fubini (il cui studio ha resistito egregiamente alla temperie semiotico-strutturalista), laddove spiega in quale misura sia legittimo l’uso nella critica dei generi letterari: «legittimo se il genere non è considerato più che un mezzo o uno strumento, la cui funzione si esaurisce nel richiamare alla mente quelle nozioni che sono necessarie per determinare e fissare il nostro giudizio, e se è richiesto dallo sviluppo del discorso critico e risponde alle esigenze del critico di fronte a quell’opera determinata e in quelle particolari condizioni storiche».!3 Suggerimento, come è facile vedere, disatteso dalla critica strutturalista, che ha spesso fatto del discorso teorico sui generi (e sulla narrativa in generale) un fine

? Ibid., p. 258.

10 /bid.

!l Ibid., p. 266. De Meijer si riferisce qui alle incongruenze di alcune «mappe» elaborate dalla critica più recente, e in particolare, citando un rilievo di A. Fowler (Kinds of Literature. An Introduction to the Theory of Genres and Modes, Oxford, 1982, pp. 246-

51), a quella proposta da Paul Hernadi in Entertaining commitments: a reception theory of literary genres, «Poetics», 2-3, 1981, pp. 195-211. 12 Elvio Guagnini, in un recente studio ricco di interessanti spunti e voci bibliografiche,

definisce il racconto, così come lo era stato il romanzo tra Sette e Ottocento, «un’etichet-

ta in attesa di sistemazione» (cfr. // racconto breve italiano del Novecento, in La Nouvelle Romane.

Italia-France-Espana, Amsterdam/Atlanta,

13 Mario Fubini, Op. cit., p. 148.

Rodopi, 1993, pp. 115-31).

24

Capitolo primo

anziché uno strumento d’indagine, relegando così il testo letterario al ruolo triste e disdicevole del convitato di pietra. 2. «Novella» o «racconto»? Alcuni anni fa Enzo Siciliano poneva questa domanda nell’introduzione a una nuova antologia di racconti italiani contemporanei.!* Non si trattava di un problema ozioso. Già Pirandello, agli inizi della sua attività di narratore, e in un periodo di grande rinascita del genere breve, si era proposto di «fissare una buona volta il senso ondeggiante dei termini novella, romanzo, racconto», € CIÒ IN di-

retta polemica coi «nostri critici» i quali, secondo il giovane scrittore agrigentino, se ne erano «così malamente appropriati».!° In realtà le conclusioni di quel breve articolo non raggiungevano l’obiettivo proposto, è tuttavia interessante lo sforzo, la volontà del giovane Pirandello di far chiarezza su una questione per lui non marginale. Oggi, a un secolo di distanza, i due termini continuano ad essere usati come sinonimi, sia nella maggioranza dei manuali di storia della letteratura, sia nei rari e pur pregevoli studi dedicati al racconto breve italiano.! È un fatto, però, che a partire dagli anni ’40 il termine novella abbia ceduto definitivamente il posto a quello di racconto per indicare la forma breve del narrare. Certo, diciamo ancor oggi le novelle di Verga e le novelle di Pirandello, perché così i due grandi scrittori siciliani hanno voluto chiamare le loro opere brevi; con qualche esitazione diciamo le novelle di Tozzi,!” ma ci riferiamo ai racconti di Svevo e ai racconti di Bontem-

14 Racconti italiani del Novecento, a cura di Enzo Siciliano, Milano, Mondadori, 1983.

!5 L’articolo di Pirandello, dal titolo Romanzo, Racconto, Novella, venne pubblicato nel 1897 sulla rivista catanese «Le Grazie»; si può leggere ora in Gabriella Finocchiaro Chimirri, Inediti e archetipi di Luigi Capuana, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 145-8. 16 Oltre allo studio citato di Elvio Guagnini, cfr. Guido Guglielmi, Esiti novecenteschi della novella italiana, in La novella italiana. Atti del convegno di Caprarola. 19-24 settembre 1988, Roma, Salerno, 1989, pp. 607-24, e Pieter De Meijer, La forma breve del narrare, in Letteratura italiana, vol. III, La forma del testo, t. II, La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 782-91. Ricca di spunti interessanti, anche la prefazione scritta da Alberto Moravia a Racconti italiani, a cura di Giovanni Carocci, Milano, Lerici, 1958, poi, col titolo Racconto e romanzo, in L'uomo come fine e altri saggi, Milano, Bompiani, 1964,

pp. 273-8. 17 La prima raccolta di narrazioni brevi dello scrittore senese (Giovani, Milano, Fratelli Treves, 1920), apparsa pochi mesi dopo la sua morte, recava il sottotitolo di Novelle; altre volte, però, a questo termine si è preferito quello di racconti, come in L 'immagine e altri racconti, illustrati da Ottone Rosai, Firenze, Vallecchi, 1946, oppure in Nuovi racconti, a cura di Glauco Tozzi, Firenze, Vallecchi, 1960.

Il racconto breve come genere letterario

25

pelli, per far i nomi di due autori pressoché contemporanei, e non direm-

mo mai le novelle di Calvino, o le novelle di Pavese, o le novelle di Fenoglio. Non si tratta, ripeto, di un problema ozioso: i termini novella e racconto indicano due forme alquanto diverse di narrazioni brevi, ciascuna con una storia e con caratteristiche proprie. Cercare di far chiarezza su questo punto, di fissare quel «senso ondeggiante» di cui parlava Pirandello, può facilitare la conoscenza di un genere che, se considerato «minore» da certi critici e direttori editoriali, tale non è stato per alcuni importanti scrittori contemporanei: tra questi, con gli ovvi distinguo, Pirandello e Fenoglio. La risposta che Siciliano dava all’interrogativo qui sopra ricordato, partiva da un dato storico per giungere, sull’esempio di un precedente saggio di Moravia,!8 all’individuazione di una «mera differenza strutturale». Se il termine novella, egli scriveva, «trattiene in sé una lieve eco di classicità (i nostri classici scrivevano novelle, Boccaccio, Sacchetti, Sercambi, Bandello e, a suo modo, persino l’ Ariosto)», racconto, invece,

«è parola che ci accompagna verso gli orizzonti della narrativa post-romantica e novecentesca». Novella e racconto sarebbero, pertanto, il prodotto artistico di determinati periodi storici, di due visioni del mondo, di due incompatibili ideologie letterarie: La gente nova e i subiti guadagni, quella gente elaborò la novella, oggetto di festoso scambio orale da mettere in parallelo allo scambio in denaro contro merce. Il racconto, no. Il racconto schiude il campo del narrare al puro scorrere dell’esistere, come volesse scandirne, per un attimo, in brevi seg-

menti narrativi, lo sgocciolio del tempo, i mutamenti, 0, per dirla con un’espressione che si è poi caricata di molteplici significati, /a tranche de vie.!?

Certo, anche alla novella non sono a volte estranei toni scuri o di tragedia: «non è novella soltanto un caustico rutilare di beffe, o lo scoccare del riso quale catarsi dell’esistenza più bruta», ricordava Siciliano citan-

do ad esempio il lutto di madonna Beritola in Boccaccio e la storia della Giulia di Gazuolo in Bandello; ma anche queste storie di delirio e d’angoscia sarebbero pur sempre novelle. La differenza ultima, secondo il

critico, nascerebbe da una qualità intrinseca della prosa, identificata in una tonalità, in un «colore del suono narrativo», «quasi fosse il racconto

18 Cfr. Racconto e romanzo, in L'uomo come fine e altri saggi cit., pp. 273-8.

19 Op. cit., p. XII.

Capitolo primo

26

più aperto a cogliere, della vita, la modalità e il fibrillare impalpabile

d’una memoria, 0 la luce accecante dell’accadere intesa come manifestazione inattingibile dell’esistere». L’opera breve moderna, insomma, Si

sgancerebbe dal modello della novella classica nella rinuncia al caso «esemplare», all’intento moralistico, al concetto edificante, per limitarsi

a fissare «un trasparente dato esistenziale»?

3. Uno iato storico e temporale separa le due forme narrative. La novella toscana, la novella «secondo lo stile italiano», divenuta nel corso del Cinquecento principale modello del rinascente teatro, si esaurisce poco a poco cedendo il terreno al romanzesco, al narrare «lungo». Tra la fine del Settecento e il principio dell'Ottocento, il genere breve, persa la vivacità e la versatilità che lo avevano contraddistinto, diviene «prigioniero di un quadro moralistico», che trova la sua espressione più emblematica nel grande successo delle Novelle morali di Francesco Soave (mentre sconosciute o incomprese rimanevano per lungo tempo le Operette di Leopardi).?! Quando, nella seconda metà dell’Ottocento, si verificherà una grande ripresa del genere,?2 ciò avverrà su basi nuove, con caratteristiche mutuate piuttosto da esempi stranieri che non dalla tradizione «alta» della novella italiana. Se Boccaccio, Sacchetti, Bandello erano stati i maestri della novella, Poe, Maupassant e Cechov saranno i maestri del racconto.

Alle loro opere guarderà, chiunque, in Europa come nelle Americhe, si vorrà cimentare con questa forma narrativa. In Spagna e America Latina si chiamerà cuento, in Francia conte, nel Nord America short story; in

Italia il termine novella continuerà a convivere con quello emergente di racconto. Perché? Non c’è dubbio che la scelta del giovane Pirandello di chiamare novelle le sue narrazioni brevi abbia contribuito in modo determinante al prolungato uso novecentesco della parola, e la risposta al nostro interrogativo, perciò, potrebbe trovarsi proprio nell’articolo qui sopra citato, dove lo scrittore siciliano propone una distinzione fra novella,

20 Ibid., p. XIII. 2! Cfr. Pieter De Meijer, La forma breve del narrare cit., p. 782.

dl Secondo De Meijer, con la novellistica rusticale prima e i racconti degli scapigliati e dei veristi poi, nascerebbe «un duplice movimento che si può chiamare /a liberazione del racconto breve», consistente «in un movimento qualitativo in cui il racconto breve si libera da incorniciamento e commenti moralistici, e in un movimento quantitativo, un aumento della produzione che ha un carattere quasi esplosivo» (Ibid.).

Il racconto breve come genere letterario

27

romanzo e racconto nei seguenti termini: la prima coglierebbe la favola

sinteticamente, il secondo

analiticamente, mentre il racconto, breve o

lungo, sarebbe un testo narrato esplicitamente dall’autore o da un personaggio che parli in prima persona; e come esempio di racconto vengono citate le Confessioni d’un ottuagenario di Ippolito Nievo. Richiamandosi poi al Dizionario estetico del Tommaseo, Pirandello afferma che la novella, al pari della tragedia classica, «condensa in piccolo spazio i fatti, i sentimenti che la natura presenta o dilatati o dispersi».23 In effetti, 1’osservazione è interessante per ciò che riguarda alcune caratteristiche della «novella moderna», ma è evidente che Pirandello, di fronte ai significati

«ondeggianti» dei termini, sceglie per racconto quello meramente etimologico; e così facendo segue la lezione dell’amato Tommaseo. Nella voce Racconto, Novella del suo Dizionario dei sinonimi, il filologo dalmata aveva infatti proposto la stessa definizione affermando, tra l’altro, che «il conte de’ francesi corrisponde piuttosto alla novella», e aggiungendo una sottile distinzione tra // racconto e Un racconto: Ognun sa che si può fare seriamente il racconto di casi gravi avvenuti a noi o ad altri, per darne contezza a chi si deve e a chi importa. Questo è più propriamente i/ racconto. Ma quando diciamo fare, scrivere, stampare un racconto senza epiteto, intendiamo per lo più nel senso prossimo alla novella. Mentre nella precedente voce del dizionario, Storia, Romanzo, Novel-

la, quest’ultima veniva definita una «non lunga narrazione di fatto vero 0 verosimile, come quelle del Boccaccio o del Soave, narrata per dilettare e ammaestrare». Per lo più nel senso prossimo non significa coincidenza di significati, e del resto Tommaseo — geloso custode della tradizione illustre italiana, ma anche osservatore sensibile del gusto letterario — era già in grado di intuire che il racconto moderno avrebbe abbandonato il carattere dilettevole o edificante proprio della novella. Nondimeno insiste sull’uso del termine novella. Se anche Pirandello, dunque, decide di chiamare novelle le sue opere brevi, mentre di fatto rinuncia ad ogni scopo didattico-morale, lo fa per collegarsi a una tradizione «alta», per nobilitare il genere prescelto, così a lui congeniale. La si chiami novella o lo si chiami racconto, anche in Italia la grande diffusione del genere breve nei primi decenni del Novecento, quando il boom della stampa periodica e delle riviste specializzate farà di esso un

23 Romanzo, Racconto, Novella cit., p. 147.

Capitolo primo

28

prodotto letterario molto richiesto,7* avverrà in gran parte per impulso dei tre autori stranieri qui sopra menzionati. E non si tratterà di deplorevoli prestiti o di una rinuncia del proprio patrimonio, poiché, come ha affermato Viktor Sklovskij, «la tradizione dello scrittore dipende da un certo deposito comune di norme letterarie che, esattamente come quello dell’inventore, è costituito dalla somma delle possibilità tecniche del suo tempo».2S Poe, Maupassant, Cechov offrono al narratore breve contemporaneo nuove possibilità tecniche, e solo impadronendosi di tali possibilità questi potrà dominare la tecnica del racconto, per trasformarlo e migliorarlo, per illuminarlo con il tocco peculiare della propria personalità creativa. La lezione dei tre grandi artisti del genere breve, e particolarmente quella del francese, come vedremo, sarà ben presente al primo Fenoglio. 4. Come ho detto sopra, è mia intenzione, se non di proporre una definizione globale del racconto, di individuare alcune caratteristiche fondamentali del genere, di tracciare alcune coordinate, per meglio capire l’opera

di un narratore «breve» tra i più dotati del nostro secolo.?6 a) Il racconto è la narrazione di un fatto, di un solo fatto, che riveste una certa importanza. L'importanza del fatto è relativa al tipo di azione, fisica o psicologica che si verifica, ma deve risultare convincente per il lettore. Se il fatto che costituisce il soggetto del racconto è privo di una qualche importanza, se non si verifica un qualsiasi tipo d’azione, si avrà un bozzetto, una scena, un frammento, ma non un racconto. Un bambino

che va a scuola non è di per sé materia per un racconto, ma se mentre va

24 Su questo aspetto, cfr. Gino Tellini, Il problema della novella, in La tela di fumo.

Saggio su Tozzi novelliere, Pisa, Nistri-Lischi, 1972, pp. 15-43. 25 Cfr. La costruzione del racconto e del romanzo, in Una teoria della prosa, Milano, Garzanti, 1974, p. 103.

26 Quasi del tutto inesistente in Italia (con le rare eccezioni citate), la bibliografia sul racconto breve è invece abbondante nelle letterature di lingua inglese e spagnola. Nelle note che seguono ho avuto presenti, sviluppandone liberamente alcune idee, i seguenti testi: Graham Greene, The novelist and the short story (from Ways of escape, 1980), in The portable Greene, edited by Philip Stratford, New York, Penguin, 1997, pp. 489-93; Horacio Quiroga, Los “Irucos” del perfecto cuentista y otros escritos, Buenos Aires,

Alianza Editorial, 1993; Juan Bosch, Apuntes sobre el arte de escribir cuentos (1958), in Cuentos escritos en el exilio, Santo Domingo, Alfa y Omega, 1982, pp. 9-35; Julio Cortazar,

Del cuento breve y sus alrededores, in Ultimo round, Ciudad de Mexico, Siglo XXI Editores, 1969, pp. 35-45.

Il racconto breve come genere letterario

29

a scuola, come avviene in un’opera breve di Bilenchi, il bambino incon-

tra un uomo in preda a un’ira omicida e con ingenuità e tenerezza riconduce questi alla ragione, allora si ha luogo a un buon racconto.27 La scelta del tema, dunque, è già una parte essenziale della tecnica del racconto, e la tecnica è preponderante in questo genere letterario. Lo scrittore se ne impossessa attraverso un lungo apprendistato e, negli autori di maggior valore, si sposa con una naturale predisposizione al narrare «breve». Leone Piccioni, in un interessante saggio degli anni cinquanta che ripercorreva l’intero arco della narrativa italiana, da Boccaccio a Gadda,

alla luce del binomio narrare lungo/narrare breve, parlava di Moravia come di un raro esempio di scrittore italiano che nasce con la vocazione del «narratore lungo», e indicava nella più diffusa vocazione al «narrar breve» un ostacolo alla costante e inappagata aspirazione al romanzo da parte della narrativa italiana.28 Lo stesso Moravia, del resto, era piena-

mente cosciente di quali fossero le sue qualità primarie di narratore. In una lettera del novembre 1947 a Nicola Chiaromonte, il prolifico ro-

manziere scriveva: Ti manderò da Roma dove mi recherò per alcuni giorni i libri che mi chiedi e forse anche una novella nuova. E terribilmente difficile scrivere delle buone novelle. E poi a me ogni volta che incomincio una novella mi viene

fuori un romanzo.?? Esattamente l’opposto accadeva a Beppe Fenoglio, narratore dalla sicura vocazione «breve», il quale, più d’una volta trasformò in racconti un tentativo di romanzo. Al caso noto di PS, romanzo da cui ricavò due racconti entrati poi a far parte della raccolta VGA, si dovrà aggiungere quello dei cosiddetti Frammenti di romanzo, opera incompiuta degli anni 195960, recentemente riproposta da Dante Isella in forma di romanzo col titolo L’imboscata:3° come cercherò di dimostrare, lo scrittore avrebbe pro-

27 Cfr. Il bambino, in Romano Bilenchi, Racconti, Firenze, Vallecchi, 1958, pp. 107-

(Sx 28 Cfr. Leone Piccioni, La narrativa italiana tra romanzo e racconti, Milano, Mondadori, 1959, pp. 31-3. 29 Questa e altre lettere di Moravia a Nicola Chiaromonte, recentemente rinvenute

nel fondo manoscritti della Beinecke Library presso la Yale University di New Haven, sono state pubblicate, accompagnate da una Nota di Marcello Simonetta, in «Nuovi Argomenti», 7, aprile-giugno 1996, pp. 52-60.

30 Torino, Einaudi, 1992.

30

Capitolo primo

babilmente deciso di abbandonare il romanzo, già in una fase avanzata d’elaborazione, per ricavarne una seconda raccolta di racconti sul tema

della guerra civile.3!

b) Nel romanzo prevale l’analisi, nel racconto la sintesi. Ma non si può dire che il racconto sia un romanzo in sintesi, né che un genere sia superiore all’altro. Paragonare le dieci o venti pagine di un racconto breve alle duecento o trecento pagine di un romanzo è una leggerezza. Calvino scrisse il suo primo romanzo in poco più di un mese, ma impiegò tre anni a scrivere il suo primo libro di racconti. Riprendendo un interessante spunto di Leone Piccioni, si potrebbe dire che la differenza fondamentale tra un genere e l’altro risieda nella direzione: quella del romanzo è orizzontale, quella del racconto, verticale;3° oppure, tentando una metafora agricola, che la prosa del romanzo è estensiva, mentre quella del racconto è inten-

siva. Anche per questo l’autore di racconti esercita uno stretto controllo sui suoi personaggi e sul loro destino. Se agli autori di romanzi, come essi amano ripetere, accade spesso che i propri personaggi si ribellino e agiscano secondo il proprio istinto dando origine a sviluppi e a conclusioni impreviste, nel racconto la situazione è differente: l’autore è il padre padrone dei suoi personaggi e non può tollerare ribellioni. Quando Fenoglio si siede a scrivere quel racconto esemplare che è Un giorno di fuoco, sa già perfettamente quali saranno tutti i movimenti di Pietro Gallesio; così come il pilota di un volo commerciale, al momento

del

decollo, sa perfettamente quali saranno la sua rotta e il punto d’atterraggio. Questa necessità dell’autore di dominare i propri personaggi si traduce in tensione, ovvero in intensità. L'intensità di un racconto non è una

conseguenza obbligata della sua dimensione breve, bensì il frutto della volontà dell’autore che esercita una vigilanza costante sulle proprie emozioni, e anche questo esercizio richiede una tecnica. Ha scritto Marcel Prevost che Maupassant componeva i suoi racconti seguendo un metodo rigoroso:

31 Cfr. il cap. VII. 32 «La narrativa breve si svol ge, appunto, verticalmente, la misura narrativa lunga è

rivolta orizzontalmente». Ovviamente, aggiunge Piccioni, «non è necessario nell’un caso che lo scavo sia solamente sotterraneo [...] perché la componente di memoria può librarsi verso l’alto dei cieli, con tendenza egualmente verticale; non è, nell’altro caso, allo stes-

so modo necessario che la definizione di orizzontale presuma in sé il limite di una incapacità di spessore o di approfondimento» (Op. cit., PAS)!

Il racconto breve come genere letterario

31

on sait qu’il ne prenait la plume que quand la composition préalable était achevée dans son cerveau. Alors il se dictait à lui-méme, pour ainsi dire, un

texte à peu près définitif. [...] Or l’excellence de la composition apparait mieux dans le conte, que l’oeil et la mémoire du lecteur reflètent d’un seul coup.33

Lo stesso Maupassant, che così poco amava dissertare sulla sua opera ed enunciare teorie, in un breve commento accennò all’importanza di questa autodisciplina: Il lavoro continuo e la conoscenza profonda del mestiere, se ci assiste la lucidità, il vigore, la forma, e se felicemente e pienamente il soggetto si accorda con le tendenze del nostro spirito, possono propiziare la nascita dell’opera breve unica e perfetta.34

Mentre Cechov, in una lettera al critico Aleksey Suvorin, il quale lo aveva accusato di essere troppo «oggettivo» nei suoi racconti, indifferente al discernimento del bene e del male e privo d’ideali, si difendeva indicando nel rispetto delle condizioni imposte dalla tecnica del racconto una necessità ineludibile: Certo che sarebbe piacevole poter combinare l’arte con un sermone, ma per me personalmente è estremamente difficile, se non impossibile, dovendo rispettare le condizioni impostemi dalla tecnica. Per descrivere un ladro di cavalli in settecento righe devo costantemente pensare al loro modo e con la loro sensibilità, altrimenti, se introduco la soggettività, l’immagine diviene sfocata e il racconto non sarà compatto come tutti i racconti devono essere.35

c) Il riferimento di Cechov alla «compattezza» rinvia a un’altra necessità del racconto: quella della soppressione spietata di tutto ciò che non è

33 Les contes de Maupassant, in Contes choisis, Paris, Editions Albin Michel, 1965,

NILO: i 34 Cfr. l’Introduzione di Edda Melon a Guy de Maupassant, La casa Tellier, Firenze, Sansoni, 1965, p. XII. 35 La lettera è citata in Ann Charters, The Story and its Writer, Boston, St. Martins

Press, 1990, p. 718: «Of course it would be pleasant to combine art with a sermon, but for me personally it is extremely difficult and almost impossible, owing to the conditions of technique. You see, to depict horse-thieves in seven hundred lines I must all the time speak and think in their tone and feel in their spirit, otherwise, ifIintroduce subjectivity, the image becomes blurred and the story will not be as compact as all short stories ought to be».

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Capitolo primo

strettamente necessario all’enunciazione del fatto. Il fatto narrato è colto nella sua essenza, nelle linee più pure dell’azione; tutti i ricorsi narrativi del romanzo, la più piccola digressione, il più ingenuo ornamento, hanno l’effetto di allentare la tensione e di indebolire l’opera breve. Se i personaggi di un romanzo possono discorrere a lungo su di un determinato quadro che non ha alcuna funzione nell’intreccio, nel racconto quel quadro non sarà neppure menzionato. Romano Bilenchi, che negli anni ’30 e ’40 scrisse alcuni tra i più bei racconti italiani del Novecento, amava ripetere che il segreto del vero autore di racconti poteva essere così riassunto: «tutto mettere e molto togliere».38 Ovviamente lo scrittore doveva avere la piena consapevolezza di ciò che «toglieva» e l’abilità di lasciarne l’eco, o una traccia sottile, nella scrittura: la parte omessa avrebbe così

avuto l’effetto di rafforzare il racconto e il lettore avrebbe avuto la sensazione di «leggere» oltre il breve enunciato. Anche quella di Bilenchi era una lezione mutuata da Cechov: «Quando scrivo», aveva spiegato lo scrittore russo nella lettera a Suvorin, «mi affido interamente al lettore perché aggiunga da sé gli elementi soggettivi che necessariamente mancano al racconto». Questa, che potremmo chiamare «tecnica dell’omissione», è

una caratteristica primaria del racconto contemporaneo; peculiare cifra stilistica di colui che negli anni venti e trenta il racconto avrebbe rinnovato profondamente creando un modello per tanti scrittori della generazione di Beppe Fenoglio: Ernest Hemingway. In Death in the Afternoon, romanzo-saggio, dove il tema è costituito dalla scrittura non meno che dalla tauromachia, l’autore dei Quarantanove racconti affermava: If a writer of prose knows enough about what he is writing about, he may omit things that he knows and the reader, if the writer is writing truly enough, will have a feeling ofthose things as strongly as though the writer had stated them. The dignity of movement of an iceberg is due to only one-eight of it

being above the water.37

La metafora dell’iceberg illustra perfettamente il racconto breve moderno. La sua dimensione apparente, la sua compattezza, nascondono dimensioni profonde: il non detto che avrà eguale importanza ai fini di una

36 Ricordo delle lunghe conversazioni avute con Bilenchi nel 1980 e ’81. Cfr. Luca Bufano, / suoi doni, in Bilenchi per noi. Atti del convegno di studi (Firenze, 23-24 maggio 1991), Firenze, Vallecchi, 1992, pp. 237-43. 37 Ernest Hemingway, Death in the Afternoon, New York, Scribner*s, 1932 pali02a

Il racconto breve come genere letterario

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piena intelligenza della storia; e tanto più se nella dimensione del non detto risiede quel secondo termine del parallelo il quale, secondo Sklovskij, rappresenta un fondamentale artificio del racconto.38 Esemplare, da questo punto di vista, è The Short Happy Life of Francis Macomber, ma pensiamo anche a Gli inizi del partigiano Raoul, dove la vita del giovane protagonista è colta in un momento cruciale: il suo ingresso in una formazione partigiana. La forza del racconto di Fenoglio risiede principalmente nel parallelo Sergio/Raoul, nel contrasto fra la vita del giovane studente di buona famiglia e quella del neopartigiano. E la prima è quasi del tutto taciuta. Corrado Alvaro, ottimo narratore breve, nel 1947 annotava

nel suo diario il seguente pensiero: Per la composizione di racconti brevi, trovare il momento culminante d’una vita, che lascia scoprire il passato e indovinare il futuro.3?

E esattamente quanto avviene nei migliori racconti: di una vita colgono un momento di crisi, o un frammento, ma un frammento capace di riflettere un’intera esistenza. d) Intensità, sintesi, omissione. Questi fattori fanno del racconto moderno un formidabile congegno destinato a compiere la sua missione narrativa con la massima economia di mezzi e ad un ritmo incalzante. Più che il numero delle pagine, ciò che differenzia il racconto breve dal racconto lungo (la nouvelle dei francesi e la novella, o novelette, degli angloamericani) è il suo ritmo da corsa a cronometro. E il ritmo è stabilito nell’incipit. L'inizio di un buon racconto è come lo scoccare di una freccia dall’arco: se questo è ben puntato la freccia raggiungerà diretta il bersaglio, ma la più piccola deviazione glielo farà mancare. In alcuni casi, come in The Cask of Amontillado, The Killers, Andato al comando e Il trucco#° il «fatto», il nucleo del racconto, viene sottratto all’attenzione del lettore, mantenuto nel fondo della narrazione, per rivelarglielo solo nel finale; in altri, come in La signora col cagnolino, la maggior parte dei Racconti romani, I ventitré giorni della città di Alba,4! il «fatto» viene affrontato immediatamente. In entrambi i casi la prima frase cattura l’at-

38 Cfr. Viktor Sklovskij, La costruzione del racconto e del romanzo cit., pp. 98-106. 39 Corrado Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano, Bompiani,

1959, p. 408. 40 Rispettivamente di Poe, Hemingway, Calvino e Fenoglio.

41 Rispettivamente di Cechov, Moravia e Fenoglio.

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tenzione del lettore e la preoccupazione dell’autore è di non lasciarla cadere fino alla fine. Egli s'impegna giocoforza a mantenere il livello di tutta la narrazione all’altezza di quella prima frase: Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla lista ma gli sparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grande fatto prima della guerra d’Abissinia.

È difficile abbandonare la lettura dopo un inizio simile. L’unità d’effetto di cui aveva parlato Poe nel suo celebre articolo dedicato alla teoria

della short story, trova un’espressione compiuta in Un giorno di fuoco.4? e) Per divenire «libro», dopo la fase propria di composizione, un certo numero di racconti ha bisogno di un lavoro che potremmo chiamare di organizzazione o compilazione. A differenza del romanzo dove il testo finito coincide col libro, il racconto deve infatti appartenere a un insieme di racconti, ovvero a una raccolta. La raccolta può essere organizzata attorno a un comune sfondo geografico, come i Racconti romani di Moravia, le Novelle della Pescara di D° Annunzio, le Cinque storie

ferraresi di Bassani, Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro 0 Winesburg, Ohio di Sherwood Aderson; ad una qualità comune, come / racconti puerili di Francesco Chiesa, / racconti vecchi di Bontempelli, / racconti impossibili di Tommaso Landolfi, / racconti ambigui di Enzo Siciliano, o gli stessi Racconti barbari di Fenoglio (come sappiamo, era questo il titolo di lavoro della prima raccolta, suggerito da Elio Vittorini e cambiato all’ultimo momento, per volontà dell’editore, in / ventitre giorni della città di Alba), oppure può dipendere da una cornice: l’archetipo, ovviamente, è il Decamerone, ma non mancano esempi contemporanei, come Il sistema periodico di Primo Levi (dove ad ogni elemento naturale corrisponde un racconto), il Si//labario di Parise o // castello dei destini incrociati di Calvino. Gli autori di racconti dedicano molto tempo all’organizzazione della raccolta, e anche quando essa sembra essere informata a un principio di occasionalità, com'è il caso delle raccolte con titoli, per così dire, numerici (/ venti racconti di Gianna Manzini, / 60 racconti di Dino 42 L'articolo di Poe, scritto nel 1847 per il Godey3 Lady Book, si può leggere in The

Story and its Writer cit., pp. 703-5.

Il racconto breve come genere letterario

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Buzzati, i 75 racconti di Corrado Alvaro), in realtà risponde a un ordine accuratamente studiato dall’autore per ottenere un determinato effetto, e non può considerarsi un semplice accostamento di testi. Nel caso, infine, delle raccolte complete d’autore (Tutti i racconti, I

racconti, o semplicemente Racconti), il disegno può avere un significato nascosto. E noto, ad esempio, come Pirandello avesse progettato un’edizione finale delle sue Nove/le per un anno composta di 365 racconti (tanti quanti i giorni dell’anno) e divisa in 24 volumi (le ventiquattro ore del giorno? il doppio dei mesi dell’anno?). L'intenzione era quella di creare un microcosmo di frammenti, un’opera vasta che non avesse principio né fine, più atta del romanzo a rappresentare la complessa realtà dell’uomo contemporaneo. Da parte sua anche Fenoglio, negli ultimi mesi di vita, ideò una raccolta completa dei suoi racconti, divisa in tre gruppi corrispondenti ad altrettante fasi dell’esistenza: / racconti della guerra civile, I racconti del dopoguerra e I racconti del parentado. Ma quell’ultima volontà testamentaria è rimasta, a tutt'oggi, inesaudita.

Il.

Il dilemma del reduce: «War can

be put into a book»

Sognavamo nelle notti feroci Sogni densi e violenti Sognati con anima e corpo: Tornare; mangiare; raccontare. Finché suonava breve sommesso Il comando dell’alba: «Wstawac»;

E si spezzava in petto il cuore. Ora abbiamo ritrovato la casa, Il nostro ventre è sazio, Abbiamo finito di raccontare. È tempo. Presto udremo ancora Il comando straniero: «Wstawac».

Primo Levi scriveva questi versi, poi scelti come epigrafe per La tregua, nel gennaio del 1946, durante il suo difficile reinserimento nell’Italia disastrata dalla guerra. Nei mesi successivi, di getto, con mano ferma, avrebbe steso Se questo è uomo, l’alta testimonianza della sua discesa nell’inferno di Auschwitz. Il «noi» di quei versi non è un retorico plurale maiestatis, né la loro conclusione è il monito pessimistico di colui che ha visto e sa; è veramente il poeta che si fa interprete del bisogno quasi fisiologico del reduce di «raccontare», di ricordare per capire, di parlare per liberarsi dagli incubi che gli

Capitolo secondo

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agitano il sonno, di rievocare la sua esperienza per continuare a Vi-

vere.!

Fu innanzitutto questo bisogno, e la rinata «libertà di parlare», come avrebbe osservato Italo Calvino in quel fondamentale capitolo di storia della letteratura italiana che è la Prefazione all’edizione 1964 del Sentiero dei nidi di ragno,” a provocare l’esplosione narrativa dell’immediato dopoguerra. I reduci della guerra partigiana, in particolare, tornavano a casa vittoriosi e, nella coscienza di molti di essi, il bisogno di raccontare

diventava un dovere: la loro testimonianza come continuazione della lotta, come contributo alla costruzione di una società nuova.

Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani — che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano — non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, 0

gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problema-

tico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del primo romanzo.3

Gli anni tra il 1945 e il 1948, sono dunque gli anni dei «memoralisti», il cui proposito dichiarato è quello di offrire un «documento» in rapporto diretto con la realtà storica da essi vissuta,4 ma anche del cosiddetto «racconto partigiano», che appare regolarmente nelle terze pagine dei nuovi quotidiani a tiratura nazionale, così come su periodici locali, su riviste

! In quello stesso periodo, ma con ben altro tono (il tono cinico e ironico comune a gran parte dell’epistolario), Cesare Pavese, la cui posizione ai vertici della casa editrice Einaudi conferiva un luogo privilegiato d’osservazione, osservava con fastidio come «la guerra e la mezza-rivoluzione» avessero reso «canora e feconda la gente» (lettera a Maria Cristina Pinelli dell’11 febbraio 1947; cfr. Cesare Pavese, Lettere 1926-1950, vol. II, a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1966, p. 112). 2 Ora in Italo Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, Milano, Mondadori, 1991, pp. 1185-1204.

3 Ibid., p. 1185. 4

n

l «Questo libro non è un romanzo, né, una storia. romanzata. È- un documentario storico, nel senso che personaggi, fatti ed emozioni sono effettivamente stati», scriveva Pietro Chiodi nella prefazione al suo Banditi, pubblicato dalla sezione Anpi di Alba nel x

1946; poi Torino, Einaudi, 1975.

Il dilemma del reduce

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letterarie militanti e nelle pubblicazioni dell’ Associazione nazionale par-

tigiani d’Italia” Gli autori dei racconti sono quasi sempre poco più che

ventenni e impegnati politicamente; sorpresi dai tragici eventi storici dell’ottobre °43, avevano aderito con spontaneità giovanile alla lotta contro il nazi-fascismo, vivendo un’esperienza insieme drammatica e rivelatoria che ora erano ansiosi di rievocare. Il modulo narrativo del racconto serviva perfettamente questa loro esigenza: permetteva di esprimere il carattere episodico, per singole azioni, proprio della guerriglia, piuttosto che una difficile, se non impossibile, visione globale del conflitto. Sono gli anni di quello che potremmo definire il «neorealismo spontaneo», ancora sganciato cioè, o per lo meno non direttamente influenzato, dalla politica culturale dei partiti di sinistra;* eppure, con rare eccezioni (e sono le eccezioni che contano: le opere che continuiamo a leggere a mezzo secolo di distanza), prevale già in questi racconti una visione acritica della Resistenza, l’affermazione costante della giustezza della causa che inevitabilmente ne indeboliscono l’effetto drammatico. «La retorica, il commento sentimentale ai fatti» costituiscono, secondo il Falaschi, l’in-

sidia maggiore dei racconti partigiani;” un intento celebrativo che finisce per stemperare la lezione di stile appresa dagli autori americani attraverso la mediazione della celebre antologia vittoriniana.$ 2. Dicevamo delle eccezioni: principalmente Italo Calvino e Beppe Fenoglio. Se è vero quanto affermava il primo nel 1964, che «il neorealismo non fu una scuola» ma «un’insieme di voci, in gran parte periferiche», appartengono ad essi, e soprattutto a Fenoglio, le voci più potenti e libere di quella breve stagione letteraria. Entrambi, fin dall’inizio della loro carriera di scrittori, dimostrano una sostanziale diversità rispetto alle

S Cfr. Giovanni Falaschi, La Resistenza nella narrativa italiana, Torino, Einaudi,

1976; particolarmente il capitolo terzo, dove il racconto viene definito «il prodotto più tipico di tutta la letteratura partigiana» (p. 54). 6 Solo dopo il 1948, secondo Falaschi, si avrà «una formulazione abbastanza precisa del realismo nella letteratura e nell’arte e dei compiti pedagocici di scrittori e artisti»

(/bid., p. 55). ? Ibid., p. 63. 8 Cfr. Americana. Raccolta di narratori, a cura di Elio Vittorini, Milano, Bompiani,

1942. Com'è noto, il volume vide la luce, con alcune modifiche, dopo una lunga querelle con la censura fascista; restituito al suo formato originale, venne ristampato più volte nel dopoguerra ed è oggi disponibile in una nuova edizione a cura di Claudio Gorlier e Giuseppe Zaccaria (Milano, Tascabili Bompiani, 1984).

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linee prevalenti, e tra loro un’affinità ideale, sul piano del gusto e del credo letterario se non su quello propriamente espressivo. Leggiamo ancora dalla Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno: Cominciava appena allora il tentativo d’una «direzione politica» dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’«eroe positivo», di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. [...] La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: «Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe.?

La narrativa resistenziale subordinata a un progetto politico, secondo Calvino, non solo tradiva lo specifico letterario, ma anche quello che era

stato l’autentico spirito della lotta partigiana: Ci pareva allora, a pochi mesi dalla Liberazione, che tutti parlassero della Resistenza in modo sbagliato, che una retorica che s’andava creando ne nascondesse la vera essenza, il suo carattere primario.!0

Calvino, non si dimentichi, scrive la prefazione un anno dopo la mor-

te di Fenoglio e il suo giudizio è nutrito dalla lezione di umanità e stile dell’amico scomparso; a lui rivolge un alto e sentito elogio: [...] fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant'anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo

ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata.

Con una punta di rimpianto, Calvino confessava infine che era al libro

di Fenoglio, visto come compimento letterario di una generazione, e non

al suo, che avrebbe voluto scrivere la prefazione.

° Op. cit., p. 1193.

10.Op: citp 1197;

Il dilemma del reduce

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3. Diversamente da Calvino, Fenoglio non ha lasciato saggi o articoli teorici, ma in alcune sue opere non è difficile scorgere il fastidio provato dallo scrittore per il dilagare di cronache e di diari all’indomani della Liberazione, per una forma narrativa piattamente autobiografica. Nel lungo testo in lingua inglese rinvenuto tra le carte dello scrittore e pubblicato dai curatori delle Opere con il titolo di Ur Partigiano Johnny, si legge il seguente dialogo tra il comandante Marino e Johnny: — May I draw a portrait of you, — he asked. — A pencilled or a written one? — A written one. I°m jottling a book on us and our things. That does strike you? — Not at all. I personally know dozens of us picking up such flowers, voyaging with a block just like yours in their knapsacks. — Really? — Marino gasped, at a loss for the first time. —I can quote you at least ten of them only in North”s army. As soon as the war ends, there will be no other concern for them than editors.!!

Tutti quei diari e racconti, secondo Johnny, avrebbero nascosto la vera essenza, la condizione precaria e atipica propria della vicenda partigiana; non solo, ma colui che in futuro sarebbe stato chiamato a scrivere il grande libro sull’epopea resistenziale, quasi Johnny volesse dare ad esso un carattere messianico, non avrebbe trovato alcun aiuto in quei libri, dunque «minori» e apocrifi, neppure come semplice riferimento: — And... and who will emport the laurel? Who will have written the book of books on us? Johnny sighed: — Nobody of you, nobody of us. The book of books on us will be written by a man is yet unborn, the woman will bear him in womb is not yet more than a baby now, growing in the midsts of our reports ... Marino flapped a puzzled, disheartened hand upon the rich cover of his secret book. — That’s sad —. He ceased flapping and fixed on the book a desperate but contained look. — And, say, Johnny ... won’t our work aid him to his aim? — Quite not, in my naked opinion. The man will simply see and transfer. 2.

ll Opere, I. 1, p. 243.

1? /bid.

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A questo brano di UrP./, ben noto alla critica fenogliana, NI collega un

altro interessante testo, quasi del tutto trascurato, in cul l’autore, sia pure

indirettamente, espone le sue idee riguardo alla narrativa resistenziale. Benché privo di titolo, si tratta di un racconto finito, non riconosciuto come tale dai curatori delle Opere e relegato in una sezione di Frammenti in appendice a un volume già di per sé fin troppo eterogeneo. 3 Se la recente scoperta e pubblicazione di AP ha aperto una finestra sul primo e più oscuro periodo dell’attività di Fenoglio scrittore, rivelandoci «il vero Ur» dei suoi «libri resistenziali»,!4 agli Appunti questo singolare racconto servirà da perfetta introduzione. Per il tema affrontato e la citazione da un testo di Walt Whitman che lo riassume efficacemente, potrebbe intitolarsi War cant be put into a book, e come tale entrare a far parte della raccolta ideale dei Racconti di Beppe Fenoglio, preferibilmente in chiu-

sura della prima sezione dedicata alla guerra civile.!° Lo stile del racconto è quello maturo, dal tono riflessivo e melanconico, dell’ultimo Fenoglio, e ciò, già di per sé, ci farebbe propendere per una datazione tarda; ma un altro dato ci permette di fissare il termine post quem. Bianca De Maria, che per prima ne dette notizia al convegno di Alba del 1973, descriveva i quattro fogli dattiloscritti di mm. 295x230, «simili per formato e scrittura a quelli usati per le favole dedicate da Fenoglio alla sua bambina verso il ’60».!9 Poiché la figlia Margherita nasce il 9 gennaio 1961, è molto probabile che il racconto risalga appunto a quell’anno o al successivo, l’ultimo della breve parabola creativa di Fenoglio. Il tempo storico, come già in AP e nella maggior parte dei racconti di guerra, è l’inverno 1944-45, il periodo più drammatico di tutta l’esperienza resistenziale e quello che maggiormente incise sullo scrittore.!? L’aspetto più interessante di questo breve testo narrativo è che entrambi i personaggi si presentano come una proiezione del ben noto

13 È il volume primo, tomo terzo delle Opere, curato da Maria Antonietta Grignani,

contenente le due redazioni di Primavera di Bellezza, i cosiddetti Frammenti di romanzo e le tre redazioni di Una questione privata. Il testo del racconto, designato con la sigla

[a], si trova alle pp. 2281-86; nelle citazioni che seguono indicherò il numero del capoverso.

14 Cfr. Itinerario fenogliano, in Beppe Fenoglio, Romanzi e racconti cit., p. 1409. !5 Cfr. le Conclusioni al presente studio. 16 Cfr. Le due redazioni del «Partigiano Johnny»: rapporti interni e datazione, in «Nuovi Argomenti», 35-36, 1973, p. 165. !7 Per il rapporto tra vicende biografiche e testi resistenziali in Fenoglio, cfr. Francesco De Nicola, Fenoglio partigiano e scrittore, Roma, Argileto, 1976.

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Johnny-Fenoglio, colto in due fasi distinte del suo sviluppo umano: il maturo partigiano senza nome che racconta in prima persona, nella vita professore d’inglese e amico di Fulvia Pagani, e il più giovane Jerry, anglofilo, scrittore principiante, che torna al presidio di Mango dopo essere stato aggregato per la sua conoscenza della lingua alla missione inglese e muore subito dopo nel combattimento di Valdivilla. È come se un Johnny ormai quarantenne tornasse al tempo della guerra per incontrare il suo io giovanile e, con tenerezza e incredulità, si divertisse a osservarlo «così frenetico e absorbed nel vortice dei suoi compagni, avventati, estroversi

e comunitari anche nell’ozio» (5). L'incipit, come avviene nei migliori racconti di Fenoglio, introduce immediatamente il tema cogliendo il protagonista in azione: Sapevo che il mio compagno Jerry scriveva della guerra. Troppe volte l’avevo adocchiato intento a scrivere, freneticamente, seduto ai piedi d’un

albero o appoggiato a un muricciolo: talvolta scriveva fino a buio, orientandosi verso l’ultima luce solare.

Nel dialogo citato di UrPJ l’attività di scrivere e prendere appunti durante la guerra viene giudicata con ironia da Johnny, paragonata all’azione di cogliere fiori nel fuoco della battaglia: «I personally know dozens of us picking up such flowers, voyaging with a block just like yours in their knapsacks». Sviluppando in racconto il contenuto di quel dialogo, Fenoglio riprende la stessa similitudine e ne cita l’origine: Lo vedevo scrivere e non dubitavo quando me ne convinsi mi venne subito buono, il colonnello): «...to pick some vo, proprio non potevo, ascriverglielo

che scriveva della guerra. Ricordo che in mente una frase di Lawrence (quello flowers...» ma conclusi che non potea frivolezza. (3)

In una lettera datata 15 agosto 1926, posta come avvertenza al testo della sua opera maestra, T. E. Lawrence così scriveva: «[the book] does not pretend to be impartial. I was fighting for my hand, upon my own midden. Please take it as a personal narrative pieced out of memory. I could not make proper notes: indeed it would have been a breach of my

duty to the Arabs if/ had picked such flowers while they fought».!8 E qui 18 The Seven Pillars of Wisdom. A Triumph, London, Doubleday, Doran & Company, 1935. In questo contesto l'affermazione di Lawrence, come ha osservato Edoardo Saccone, «è chiaramente dispregiativa: [...] to pick such flowers sarebbe stato un lusso estetizzante,

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basti appena ricordare come la lettura dei Seven Pillars of Wisdom abbia influenzato le scelte narrative di Fenoglio nella seconda metà degli anni cinquanta, fornendogli, per riprendere una sua metafora, «le quattro marce» necessarie al romanziere, o per lo meno la coscienza di esse.!? Spinto dalla curiosità il partigiano narratore decide di avvicinare Jerry e interrogarlo sulla sua segreta attività: — — — —

Scrivi della guerra, ch, Jerry? Appunti, — disse in fretta. Appunti della guerra, — insinuai i0. Naturale, — disse lui un po” ostilmente.

Aveva afferrato il tono vagamente ironico che io usavo e stranamente, To)

non riuscivo a correggerlo. Mi provai dunque a renderlo perlomeno simpaticamente ironico, visto che non riuscivo a voltarlo su una non sforzata serietà. — E... ti vengono bene? — domandai, stupidamente. — Questo non si può dire, di appunti. Sono soltanto appunti. (9)

La riservatezza di Jerry, il pudore che egli manifesta nel parlare della propria attività di scrittore sono caratteristiche ben note dell’uomo Fenoglio, né altri poteva avergli ispirato la figura del giovane partigiano anglofilo che se stesso. L’insistenza dell’autore sulla parola «appunti», inoltre, ci rimanda senz’altro agli Appunti partigiani del partigiano Beppe, vergati anch’essi con «scrittura molto regolare e netta» su «quadernetti numerati», del tutto simili a quelli che l’esecutrice delle ultime volontà di

Jerry consegnerà al partigiano narratore; così come ci rimanda all’«inseparabile libretto d’appunti» sul quale Fenoglio, secondo la testimonianza del generale Piero Ghiacci, annotava «le sue sensazioni sulle vicende partigiane».?! Per lo scrittore, sempre così poco incline a parlare della

mentre ben altro era in gioco». Cfr. La questione dell’«Ur Partigiano Johnny», in «Belfagor», 30 settembre 1981, p. 578; poi, col titolo Un romanzo in lingua impossibile, in Fenoglio. I testi, l’opera cit., pp. 53-96; il brano citato è a p. 66. !9 Scriveva il 9 giugno 1953 in una lettera a Elio Vittorini: «Le posso dire sin d’ora che il mio secondo libro sarà ancora di racconti (molto probabilmente non posseggo ancora, se mai lo possederò, il fondo del romanziere. Non conosco le quattro marce, per esprimermi con termine automobilistico». Sull’influenza di T.E. Lawrence nell’opera di Fenoglio, oltre al citato saggio di Edoardo Saccone, cfr. Bruce Merry, More on Fenoglio: an unpublished novel in English and an English source, «Italica», 1, 1972, pp. 3-17. 20 Vedi la riproduzione fotografica di alcune pagine del manoscritto in AP, pp. 81-2. 2! Con Fenoglio nelle Langhe partigiane, comunicazione tenuta al convegno di studi

svoltosi ad Alba il 7-8 aprile 1973. La comunicazione di Ghiacci (l’affabile “Pierre” di

PJ), non venne inclusa negli Ati pubblicati dalla rivista «Nuovi Argomenti» (n.s., 35-36,

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sua più autentica passione, è questo un argomento troppo delicato, e lo sforzo costante di allontanarsi dal dato autobiografico viene qui accentuato descrivendo Jerry con caratteristiche fisiche opposte alle proprie: «[un ragazzo] di bassa statura, la testa un po’ grossa e con capelli biondi

troppo rari e troppo fini, il torace un po” striminzito e le cosce proporzionalmente troppo sviluppate...» (5). Il narratore comprende fin troppo bene l'ambizioso progetto del giovane Jerry; la sua esperienza, però, gli sug-

gerisce una conclusione apparentemente amara: Mi sentii toccato e per un minuto aspirai dalla Craven A. — Sai, — dissi poi, — che ha scritto Walt Whitman della guerra? Lui si

riferiva alla guerra di Secessione, ma naturalmente vale per tutte le guerre. La curiosità ardeva nel suo viso quasi scancellato dal buio. — War cant be put into a book, — citai in inglese. — Questo è vero, verissimo, — disse con una sorta di disperazione. — Me ne sto accorgendo. E come svuotare il mare con un secchiellino. (9)

La citazione, inesatta, è dalla raccolta di appunti e impressioni sulla guerra civile americana Specimen days, di cui una scelta si trovava nel-

l’edizione Cardinal del Whitman reader posseduta da Fenoglio:?? Future years will never know the seething hell and the black infernal background of countless minor scenes and interiors, not the official surfacecourteousness of the Generals, not the few great battles of the Secession war;

and it is best they should not — the real war will never get in the books.?3 Ma se la guerra, nella totalità delle sue manifestazioni, con tutti i suoi episodi di crudeltà e di coraggio, di odio e di solidarietà umana, non può essere descritta in un libro, è anche vero che gran parte dell’opera di Fenoglio rappresenta una solenne sfida a questo principio. Forse il «libro grosso» di cui parlava lo scrittore nella lettera a Calvino del 21 gennaio

settembre-dicembre 1973, pp. 95-288); alcuni brani sono citati da Francesco De Nicola (Fenoglio partigiano e scrittore cit., pp. 75, 102, 112, 139, 165 n.), e da Franco Vaccaneo,

Op. cit., pp. 56, 80 e 138). 22 New York, 1955. Cfr. l’elenco dei testi angloamericani presenti nel Fondo Fenoglio di Alba in Mark Pietralunga, Beppe Fenoglio and English Literature: A Study of the Writer as Translator, Berkeley, University of California Press, 1987, p. 171. 23 Cito da The Portable Walt Whitman, edited by Mark Van Doren, New York, Penguin

Books, 1977, p. 483.

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Capitolo secondo

19574 l’affascinante insieme P4B-PJ-UrPJ, voleva essere proprio quel libro impossibile, «the book of books» sulla guerra partigiana. E forse la pervenuta consapevolezza che «war can’t be put into a book» è all’origine del senso di insoddisfazione provato da Fenoglio verso il proprio lavoro, della sofferta rinuncia a procedere con la pubblicazione, e del conseguente ritorno alla più agevole, a lui congeniale, forma breve del narrare. 4. Un altro passo del dialogo citato di UrPJ viene ripreso nel racconto quando Jerry dichiara di voler scrivere un’opera che abbia un valore intrinseco, trascendente il dato cronachistico; mentre il partigiano narratore ripete la previsione di Johnny sulle future mode editoriali: — Lo fai per la stampa, spero? — ripresi. — Spero — rispose con una sorta di non-speranza. — Gli editori saranno tutti per questo genere di letteratura. E... sarà una cosa puramente documentaria, o qualcosa che varrà... decisamente sul piano artistico? — Spero... sul piano artistico, — rispose con quel suo tono di non-speranza. — Come documentario, non varrebbe nemmeno la pena che me li portassi dietro —. (11)

Dopo mesi di vita selvaggia, in cui le uniche parole possibili erano «terra, sangue e fuoco e carne» (12), il narratore prova piacere a sviluppare una conversazione dal tono «decisamente letterario» col giovane partigiano; ma Jerry reagisce con indignazione quando il suo work in progress viene definito un «diario»: — — — —

Da dove principia, il tuo diario? Non è un diario! — disse di scatto. Quello che è. Da dove comincia? Dal principio. Dal «mio» principio. (13)

Se non è ancora sicuro di come definire i suoi «appunti», Jerry sa con certezza quello che i suoi «appunti» non vogliono essere: un diario, un

racconto documentario o autobiografico. Più tardi, alla mensa, è Jerry ad

24 Cfr. il testo della lettera, riprodotto più avanti, p. 134.

Il dilemma del reduce

47

avvicinare l’amico per dirgli che aveva dato disposizione, nel caso fosse rimasto ucciso, che «tutti i quadernetti» venissero consegnati a lui.25 Subito dopo mi lasciò. L’avevano aggregato alla missione inglese, ma non ci rimase più di una settimana. Scriveva un buon inglese e lo parlava

discretamente, ma assolutamente non lo riceveva. Dopo una settimana il mag-

giore Hope, stufo piuttosto avvilito, esperienza presso plotone di Diego.

di scrivergli domande su carta, me lo rimandò indietro. Era ma lo rianimai facilmente. — Scrivi, — gli dissi, — la tua la missione inglese in tono umoristico, — e lo destinai al (19)

Anche in questo caso, come Francesco De Nicola ha dimostrato su altri testi fenogliani, la realtà storica e biografica servono da semplice supporto a «una narrazione che si vale di una sua sufficiente autonomia»..29 Fenoglio stesso, infatti, successivamente allo scontro di Valdivilla, ser-

vì in alcune occasioni da ufficiale di collegamento con la missione inglese guidata dal maggiore Hope, e ne scrisse in tono, se non «umoristico», certamente disincantato. Nel racconto Jerry non avrà questa possibilità:

25 Una simile precauzione di fronte alla possibilità di morire in un’azione di guerra, dettata dal timore di scomparire «senza senso e senza eredità», aveva manifestato l’allievo ufficiale Beppe Fenoglio, nella primavera del °43, in una lettera all’amico Cesare “Rhine” Bertolino: «Aspetta, Rhine. tra una settimana parto per le manovre di guerra. Tu sai che spesso vi si verificano incidenti anche gravi. Ogni manovra di guerra ha avuto le sue vittime. Pochissime, ma ci sono state. Penso di non essere destinato a crepare in manovra, sento tuttavia il bisogno, quasi il dovere di contemplare questa eventualità. Sai che sono assegnato a un’arma quale il mortaio eminentemente rischiosa. Aggiungo che noi mortaisti dovremo

subire il fuoco concentrato delle mitragliatrici. Non ho voluto,

non ho osato accennare a questa possibilità, davanti

a mia madre, che oggi, 30 marzo

o meglio a questa probabilità di incidenti

[1943], è venuta a trovarmi. Non ho paura,

Rhine, prospetto semplicemente una possibilità. Nel caso mi succedesse qualcosa, ho lasciato per te una lettera sigillatissima che ti verrà recapitata infallibilmente. Ma solo nel caso che mi succeda qualcosa. Una lettera brevissima, che ti affida un’unica e non penosa incombenza. A campo felicemente concluso, ti riscriverò e allora tu, Rhine, questa pagina dettata non da un qualsiasi timore, ma dalla intima necessità di non scomparire, se così fosse destino, senza senso e senza eredità, anche se minime, di cuore e di mente. State sempre bene, tu e Anna. So che devi molto ad Anna. E so che lo sai e sei felice di riconoscerlo. Felice te. Forse te la sei meritata questa umana felicità. Beppe». 26 Fenoglio partigiano e scrittore cit., p. 113. 27 In URP), la battaglia di Valdivilla precede, e non segue, l’esperienza di Johnny

presso la missione inglese.

Capitolo secondo

48

Lo rividi morto, insieme a cinque altri, sulla strada di Valdivilla, verso le

tre del pomeriggio del 25 febbraio. Gli diedi appena uno sguardo, notai che l’avevano spogliato delle scarpe di foca inglesi: non più, perché dovetti correre a trattenere Diego che voleva uccidersi. Se ne dava tutta la colpa. Era andato per fare un’imboscata e l’aveva subita. E aveva perduto sei uomini, primo dei quali Jerry.

5. L’accenno alla battaglia di Valdivilla, dove Jerry trova la morte «insieme a cinque altri» partigiani, è per molti versi interessante. Il combattimento ebbe luogo realmente il 24 febbraio 1945 e, stando al personale

Foglio notizie del Corpo Volontari Libertà redatto il 28 maggio 1945,°3 il partigiano «Beppe» vi prese parte insieme ai suoi compagni del distaccamento di Mango guidati dal tenente Ghiacci. In sintesi, il tentativo di tendere un’imboscata alla retroguardia di un reparto fascista in azione di rallestramento si volse in una controimboscata che costò la vita a cinque partigiani, tra i quali Giovanni Balbo detto «Pinin», padre di Piero «Poli» (il mitico comandante Nord di P./), e Dario Scaglione detto «Tarzan».2? Qualunque sia stato il ruolo effettivo del partigiano Beppe nel combattimento, è certo che, di tutta la vicenda storica della Resistenza nelle Langhe,

è questo l’episodio che più di ogni altro si impresse nella mente dello scrittore: il ricordo di Valdivilla lo accompagnò sempre, motivo di riflessione sulla fenomenologia della guerra e fonte di numerosi spunti narra-

tivi.30 Il testo fenogliano in cui lo scontro di Valdivilla viene rievocato nella sua interezza, e con un insolito scrupolo di fedeltà al dato storico, è il

racconto L'erba brilla al sole, del quale mi occuperò per esteso nel cap.

28 Il documento, controfirmato da Ercole Varese e dal maggiore Mauri, è riprodotto in appendice al primo volume delle Opere (1.1, pp. 373-4). La presenza di Fenoglio a

Valdivilla, confermata in modo circostanziato dal generale Piero Ghiacci nella sua comunicazione al convegno di Alba del 1973, è invece messa in dubbio da alcuni dei sopravvissuti allo scontro; fra questi, l’ex-partigiano Franco Geraci, intervistato da Guido Chiesa durante la lavorazione del documentario Una questione privata: vita di Beppe Fenoglio, trasmesso da Rai 3 il 10 aprile 1998. 29 Cfr. Enrico Martini Mauri, Con la libertà e per la libertà, Torino, SET, 1947, p. 195 e Francesco De Nicola, Op. cit., p. 154. 9 Ugo Cerrato ricorda di essersi recato più volte a Valdivilla, nel dopoguerra, in compagnia dello scrittore. Di uno di questi sopralluoghi esiste anche una documentazione fotografica, ora in Franco Vaccaneo, Op. cit., pp. 56 e 77.

Il dilemma del reduce

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VII; mi soffermo qui sulle altre occorrenze.3! Dopo un breve accenno in

Raffica a lato, ultimo dei Racconti della guerra civile?? il primo signifi-

cativo riferimento a Valdivilla si trova in PS, testo inviato in lettura a

Italo Calvino sul finire dell’estate del 1950 e pubblicato postumo nel

1969.33 Nell’ottavo capitolo del romanzo Ettore si reca a Valdivilla in

compagnia di altri ex-partigiani per assistere allo scoprimento di un cippo dedicato ai caduti di quella battaglia. Il protagonista mantiene un atteggiamento distaccato e critico, tutt’altro che incline a toni celebrativi:

C'è solo più un discorso che voglio ascoltare, e questo discorso me lo faccio io, c’è solo una lezione che voglio tenere a mente, e mi odio se penso che l’avevo già imparata bene e poi col tempo me la sono dimenticata. Non finire sottoterra. Per nessun motivo. Non finire sottoterra. Né in galera.34

Ed ecco come Ettore rievoca l’episodio: Quel giorno maledetto noi marciavamo per questa strada, [...] andavamo per fare un’imboscata alla repubblica e lei invece ce l’ha fatta a noi. Tant'è vero che le prime raffiche le han fatte loro. Da quella curva là. Io ero in testa alla nostra colonna con due altri. Questi due sono subito morti nella mitraglia, io invece per miracolo non sono stato toccato e son saltato via dalla strada e mi sono cacciato in una specie di tombino che c’era accanto alla

strada ai piedi di questa ripa.55

31 Molto probabilmente lo scrittore aveva affrontato il tema di Valdivilla già in AP, sul cui frontespizio figura la data «44-45», ma la seconda parte del testo, «a meno che un ritrovamento miracoloso permetta di reintegrarla, è andata perduta e gli Appunti coprono soltanto, sia pure senza soluzioni di continuità, il novembre e dicembre 1944» (cfr. 1/n-

troduzione di Lorenzo Mondo, p. VIII). Poiché la narrazione si interrompe con parola

tronca alla fine del quarto taccuino, e siamo alla re che i taccuini del partigiano «Beppe» fossero lasciati dall’anglofilo Jerry. 32 Cfr. Opere, II, p. 107. Il brano, in cui Max in salvo il compagno Luis, colpito al ginocchio

vigilia di Natale del °44, è lecito suppororiginalmente almeno sei, quanti quelli ricorda come a Valdivilla aveva portato da un proiettile fascista, rimane presso-

ché invariato nella nuova versione del racconto, che diverrà Un altro muro in VGA (cfr.

ibid., p. 304). 33 Cfr. la Nota di Maria Corti a Beppe Fenoglio, La paga del sabato, Torino, Einaudi, 1969, pp. 143-47. Sulla vicenda editoriale di PS, cfr. il cap. V. 34 Opere, II, p. 202.

35 Ibid., p. 201.

Capitolo secondo

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Entrambe le redazioni di P./ si concludono con una descrizione dettagliata del combattimento di Valdivilla, che però ha esiti rispettivamente diversi per il destino del protagonista. In P//, scritto quando era ancora vivo il progetto del «libro grosso» formato dall’insieme PdB-PJ-UrP), Johnny sopravvive alla battaglia: [...] si sentì bene come non più da secoli, e la gioia era doppia per sapere che anche Pierre stava bene come non più da secoli. Ma, più avanti, Pierre s’aggrottò e disse a Johnny che era stato un pasticcio. — ma andava fatto, —

disse Johnny, guardando il cupo, ma non ostile cielo.39 A quel punto Johnny e Pierre ignorano la tragica fine di Tarzan e Set, e il primo capitolo di UrPJ («secondo» nel manoscritto) si apre infatti, senza apparente soluzione di continuità, con la descrizione della morte dei due partigiani. Subito dopo Johnny si prepara a raggiungere la missione inglese, «feeling like the lover going to meet at last his lady-love».37 Il mancante «capitolo primo» di UrP/, perciò, altro non sarebbe che il cinquantaseiesimo ed ultimo di P//, regolarmente distrutto dall’autore

dopo averlo tradotto in italiano.38 Trasformatosi in eroe tragico, a cui non può essere concesso il privilegio di partecipare alla gioia della liberazione, il protagonista di P/2 muore invece a Valdivilla. Il contenuto del cosiddetto UrPJ viene così eliminato e la logica conclusione storica del romanzo drasticamente anticipata: Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico...

Due mesi dopo la guerra era finita.3° La decisione di sacrificare UrP.J è inequivocabilmente presa nell’estate del 1958, come si evince dalla lettera che Fenoglio scrive a Livio Garzanti il 12 settembre di quell’anno, dove la «seconda parte» del «libro grosso» (la prima essendo costituita da P4B/) viene così riassunta: prima esperienza partigiana di Johnny in una formazione comunista 36 Ibid., 1.2, p. 924. 37 Ibid., 1.1, p. 5. 38 Che questo fosse il metodo di lavoro di Fenoglio lo proverebbe, oltretutto, il fatto che di nessun testo, capitolo o frammento, ci è pervenuta la duplice versione inglese e italiana. 39 Opere, 1.2, p. 1203.

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passaggio di Johnny alle formazioni badogliane le grandi speranze dell’estate 1944 e la conquista della Città disfatta partigiana della Città e rotta sulle colline incontrastato dominio delle forze nazifasciste e sbandamento totale dei partigiani (messaggio del generale Alexander) Il tragico inverno 1944-45 rimbandamento dei partigiani e ripresa di contatto bellico coi fascisti alla vigilia dell’arrivo della missione inglese, per la quale Johnny è designato ufficiale di collegamento, Johnny cade nello scontro di Valdivilla (tardo febbraio 1945) Valdivilla è l’ultima sconfitta partigiana, l’ultima vittoria fascista.

Successivamente, per ragioni che possiamo solo provare a immaginare (stanchezza per le continue discussioni con l’editore? Il senso d’insoddisfazione sempre incombente?), l’autore deciderà di anticipare ulteriormente la morte di Johnny a uno dei primi episodi della Resistenza, utilizzando alcuni capitoli di PJ/ e P/2, e sancendo quindi la rinuncia al «libro grosso» sul quinquennio 1940-45. Nasceva così il PdB che conosciamo, dato alle stampe nella primavera del 1959; opera di per sé notevole, profondamente originale nel panorama letterario di allora, ma che appena lascia intravedere l’enorme lavoro di Fenoglio, il «grande stile» e il potente respiro epico del libro sacrificato. Ancora un riferimento a Valdivilla si trova nel racconto [Ciao, old lion], appartenente allo stesso periodo creativo di [War can t be put into a book]: un’esperienza narrativa dell’ultimo Fenoglio pressoché sconosciu-

ta.4° Due ex-partigiani, Jimmy e Nick, si incontrano in un bar di Alba vent’anni dopo la guerra per scoprire con imbarazzo che una barriera si è alzata tra loro, che più niente hanno in comune nella vita oltre al ricordo della guerra, e il ricordo si focalizza su un singolo episodio: — Ah certo. Come allora. Certo che avevi una gran gamba. Allora. Mi ricordo come ci tirasti a Valdivilla ad agganciare la retroguardia di quella colonna fascista. Io credo che marciavi ai nove all’ora. Io avevo la bava alla bocca.

40 I] dattiloscritto di questo interessante racconto, anch'esso privo di titolo, è stato

rinvenuto nel Fondo Fenoglio di Alba da Piera Tomasoni e pubblicato per la prima volta in Opere (III, pp. 117-24), contrassegnato dall’ordinale [IX bis]. Successivamente Dante Isella lo ha incluso nel volume da lui curato (Romanzi e racconti cit., pp. 1363-70) dotandolo di un titolo, [Ciao, 0/d lion], e apportandovi alcune correzioni. Citerò da quest’ultima edizione, accogliendone il titolo e la lezione testuale.

Capitolo secondo

DI

— Anch’io, — ammise Nick. Guardò in terra per un attimo e poi riaccennò col pollice ai due baristi. Questi nemmeno si sognano le cose che abbiamo fatto noi. Potremmo inchiodarli fino a stasera soltanto col racconto di Valdivilla.— Fissò Nick d’improvviso, col volto di chi propone un quiz. — Dimmi quando è successo. — Venticinque febbraio 19434! — rispose pronto Nick. — La prima raffica, la loro, quella che fulminò Set, partì alle 12,15. — Io non ho mai capito, — disse adagio Jimmy, — come quella raffica prese Set e non te. Era per te, quella raffica, tutta per te. Non ho mai capito come l’hai schivata. Non dirmi che l’hai vista. — Non l’ho vista, — disse Nick. — Ma l’ho sentita. L'ho sentita nascere.4?

Oltre ai riferimenti presenti nell’opera narrativa, alla battaglia di Valdivilla è legato un raro scritto commemorativo, indice di un Fenoglio sconosciuto, la cui lettura avrebbe sorpreso gli indignati recensori di VGA che nel 1952 accusarono lo scrittore di voler infangare la memoria della Resistenza.43 Si tratta di una mozione rivolta alle autorità albesi, scritta da Fenoglio nell’immediato dopoguerra, affinché venisse intitolata una strada della città al partigiano Tarzan: Il 24 febbraio 45 a Valdivilla, Tarzan l’hanno fucilato. Si sente dire, ne hanno fucilati tanti, disgraziati che non sapevano perché in un modo o in un altro ricevevano quella mezza dozzina di colpi nella schiena e nel petto. Infelici, non uomini ma stracci. Ma Tarzan non fu un disgraziato e seppe perché, fu il bel soldato che ha voluto e saputo farsi fucilare. Il giorno della liberazione della nostra cara città, alcuni commilitoni di Tarzan, corsero a una strada e all’angolo di essa impetuosamente scrissero: Corso Dario Scaglione (Tarzan). Taluni, molti avranno pensato che quei ragazzi abbiano trasceso. Io dico che hanno fatto poco. [...] io dico che Tarzan merita di essere innalzato e accolto tra le memorie a noi sacre e alla sua me-

moria può essere ben cantato l’Inno del Piave e sulla sua croce il pesante

elmo dei caduti in ogni tempo e in ogni patria.44

4! La battaglia, come si è detto, ebbe luogo in realtà il 24 febbraio 1945. ? Romanzi e racconti cit., p. 1367.

43 Cfr. Paolo Briganti, L'alba di Fenoglio. Cronache di un debutto letterario, «Studi e problemi di critica testuale», 29, ottobre 1984, 44 Il manoscritto, contenuto nel Quaderno V da Gino Rizzo in appendice allo studio Editi e storico della letteratura italiana», 505, 1982, pp.

pp. 123-49. del Fondo Fenoglio, è stato riprodotto inediti di Beppe Fenoglio, «Giornale 123-4.

Il dilemma del reduce

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E non si dovrà considerare questo singolare testo uno sfogo emotivo, «a caldo»: ancora a sette anni di distanza dall’episodio, quando Einaudi pubblica le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Fenoglio si rivolgeva a Calvino perché venisse inclusa nella prossima ristampa del volume, la lettera del suo «indimenticabile compagno d’ar-

mi Dario Scaglione».

Ma il combattimento di Valdivilla rappresenta per Fenoglio un motivo di riflessione che trascende l’episodio in sé. Il tema dell’imboscata che si trasforma in controimboscata, forse per il suo potere di cogliere l’imprevedibilità, la casualità, l'improvviso volgere degli eventi propri della guerra, ricorre spesso nella narrativa di Fenoglio e costituisce l’argomento centrale del romanzo non finito, recentemente riproposto da

Dante Isella col titolo L'imboscata.4 Qui il partigiano «Milton», che lo scrittore, in una lettera a Livio Garzanti, definisce «un’altra faccia, più dura, del sentimentale e snob Johnny», prepara un agguato a un ufficiale delle forze repubblichine, ma il suo piano viene scoperto dai fascisti e Milton finisce col subire a sua volta l’imboscata dove incontra la morte. Secondo

l’autore, il libro, «anziché consistere in una cavalcata

1943-

1945», si sarebbe dovuto concentrare «in un unico episodio» nel quale avrebbe cercato «di far confluire tutti gli elementi e gli aspetti della guerra civile».47 E anche questa è un’indicazione illuminante lo sforzo di Fenoglio di concentrare nei singoli racconti un vasto materiale narrativo, secondo un modello che ci riconduce alla suggestiva metafora dell’iceberg. 6. Nella prima redazione pervenutaci di P4B, che anticipa l’inizio del romanzo all’incerto periodo di attesa vissuto da Johnny prima di ricevere la cartolina di chiamata alle armi, si legge questo brano significativo:

45 Lettera del 29 maggio 1952. Accogliendo la richiesta di Fenoglio, il testo dell’ultimo biglietto di Dario Scaglione venne incluso nella nuova edizione del volume einaudiano, apparsa nell’ottobre dello stesso anno: «Carissimi Genitori, vi mando l’ulti-

mo saluto prima di essere fucilato; un grosso bacio a tutti papà mamma Marco Adelina e al mio nipotino Franco. Ciao Dario» (p. 338). Similmente, nel racconto L'erba brilla al sole, il partigiano Maté scrive prima di essere fucilato: «Carissimi genitori, carissimo

Attilio e carissima Piera...» (cit., p. 117). 46 Per la vicenda di questo affascinante testo cfr. il cap. VII.

47 Lettera del 10 marzo 1959 a Livio Garzanti.

Capitolo secondo

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Pensava che presto sarebbe partito soldato ed ogni giorno, ogni momento della sua vita sotto le armi avrebbe acerbamente rimpianto anche una sola di quelle tante ore di libertà che adesso non sapeva fecondare. Poteva benissimo morire come Italo Morra per una bomba aerea, o cadere sul fronte russo come Bosca, e non avrebbe lasciato niente di sé, nemmeno un racconto.88

La preoccupazione principale di Johnny, in quell’attimo eterno fuori del tempo, è questa. Il protagonista ha già fatto la sua scelta di vita, ha già incontrato la sua vocazione di narratore, ma non considera i suoi primi lavori (le riduzioni teatrali, il tentativo di romanzo fantastico-sentimentale, i raccontini dati in lettura alla sua amata professoressa d’inglese?), una degna testimonianza: se fosse morto in guerra non avrebbe lasciato niente di sé, nemmeno un racconto. In [War cant be put into a book] Jerry diviene la sesta vittima di Valdivilla e quello che lascia di sé sono i «sei quadernetti» nelle mani del partigiano narratore. Non diversamente, se il partigiano Beppe fosse morto quel giorno a Valdivilla, ciò che avrebbe lasciato al mondo di sé sarebbero stati gli inseparabili libretti d’appunti, nei quali, secondo Piero Ghiacci, Fenoglio era solito annotare le sue

sensazioni sulle vicende partigiane.4 [War cant be put into a book] è dunque un importante episodio dell’autobiografia letteraria di Fenoglio: una riflessione in forma di racconto sul suo tirocinio di scrittore di guerra, una pagina non insignificante della sua faticosa ricerca di un genere attraverso cui dare voce a una esuberante vena narrativa.

48 Opere, 1.3, p.1319. 49 Comunicazione cit. (cfr. Francesco De Nicola, Fenoglio partigiano e scrittore cit.,

p. 165 n.).

II.

Lo scrittore in cerca di un genere. Da «Appunti partigiani» ai «Racconti della guerra civile»

1. Più che negli studi liceali, compiuti in Alba sotto la guida d’insegnanti d’eccezione, o in quelli universitari, iniziati a Torino nell’autunno del 1940 e interrotti due anni dopo dalla chiamata alle armi, anche Beppe Fenoglio, come molti altri suoi coetanei, visse con la guerra partigiana l’esperienza più alta e formativa. La Resistenza divenne il centro della sua vita, l’evento che lo rivelò a se stesso determinando il suo destino di uomo e di scrittore. Nella celebre ultima lettera di Giaime Pintor, autenti-

co testamento di una generazione di giovani intellettuali cresciuta all’ombra del fascismo, troviamo un efficace commento a questo fenomeno: La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale [...]. Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà la «generazione perduta», che ha visto infrante le proprie «carriere»; nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà la

nuova esperienza.) Prima di partire per il servizio militare Beppe Fenoglio era un insicuro studente di lettere con la segreta ambizione di diventare scrittore. Credeva nella superiorità del lavoro creativo su quello critico? e sappiamo

! Il sangue d'Europa (1939-43), Torino, Einaudi, 1950, p. 246.

2 «La più pensosa disquisizione critica non vale il più microscopico briciolo di poesia vera», così scriveva Fenoglio nell’autunno del 1940 in una lettera inviata all’amico Giovanni Drago, il quale, come lui, si accingeva a iniziare gli studi universitari a Torino.

56

Capitolo terzo

che già negli anni del liceo aveva cominciato a far leggere alla sua amata professoressa d’inglese alcuni «racconti».3 L’unico reperto di quella che possiamo chiamare la preistoria dello scrittore, però, il cosiddetto Quaderno Bonalumi, ci offre una sequenza di frammenti che non possono ancora definirsi racconti. Frutto immaturo di una sentimentaleggiante «aura poetica», intessuto di forzate metafore d’evidente origine scolastica, il breve testo rievoca una contrastata storia d’amore sullo sfondo di un paesaggio fantastico (anche se a tratti non è difficile riconoscervi Alba lambita dal fiume Tanaro); un paesaggio, come l’ha definito il curatore della prima pubblicazione, «da Louisiana Story, fatto di corsi d’acqua, di greti, di golene, apparentemente in sintonia, ma solo apparentemente, con il mondo evocato da Pavese nella serie dei suoi primi racconti»> Dopo la Liberazione il partigiano Beppe tornò a casa uomo e scrittore diverso da quello partito. Ma la sua arte non maturò per un’ispirazione improvvisa, frutto diretto dell’esperienza: fu l’esito sofferto di una lunga ricerca, fatta di intense e protratte letture, di innumerevoli prove e di una

dedizione totale. L’immagine di un Fenoglio che non appena deposto il fucile della guerra partigiana prende «fuoriosamente a scrivere», componendo «una specie di cronaca a sfondo autobiografico in cinquantasei capitoli», dalla quale in seguito avrebbe estratto blocchi o sequenze narrative o microracconti, a seconda delle esigenze, è apparentemente suggestiva ma oggettivamente fuorviante. Non tiene conto, oltretutto, del

La lettera, un prezioso e raro documento sugli orientamenti culturali dello scrittore da giovane, è stata pubblicata da Mark Pietralunga in Beppe Fenoglio and English Literature cit., pp. 219-20. 3 Cfr. Maria Luisa Marchiaro, Così ricordo Beppe Fenoglio, in «La Gazzetta d’Alba», 7 febbraio 1983.

4 Si tratta di brani narrativi scritti su un vecchio quaderno da scuola elementare che la madre dello scrittore regalò a Giovanni Bonalumi nel 1967, e da questi parzialmente pubblicati, insieme a Una scheda per Beppe Fenoglio, su «Paragone», 283, 1969, pp. 105-15. Il testo integrale è riprodotto in Opere, III, pp. 173-96. 5 Una scheda per Beppe Fenoglio cit., pp. 105-6. Nello stesso paragrafo, il Bonalumi sottolineava così il distacco dallo stile pavesiano: «Nessun tentativo di miticizzazione in Fenoglio: semmai nei testi citati, un tentativo, tutt'altro che nuovo, d’impronta impressionistica, di fondere su un piano naturalistico, personaggi e natura dentro lo stesso gioco di luci e ombre». 6 Cfr. Maria Corti, La composizione del «Partigiano Johnny» alla luce del Fondo Fenoglio cit., p. 369. Non c’è dubbio che Fenoglio abbia cercato di fissare «a caldo» il ricordo della sua esperienza partigiana in una sorta di «libro mastro», ma non per questo si dovrà individuare tale opera in PJ/.

Lo scrittore in cerca di un genere

97

periodo di forte disagio vissuto da Fenoglio durante il suo difficile reinse-

rimento nella vita civile; una sorta di sindrome del reduce, della quale

troviamo chiare tracce sia nell’opera narrativa che nelle testimonianze degli amici.

2. Giorgio Luti e Francesco De Nicola hanno dimostrato con precisi raffronti testuali l’influenza del racconto So/diers Home di Ernest Hemingway sui primi capitoli di PS, poi confluiti nel racconto Ettore va al lavoro.” Proprio in Soldiers Home, incluso da Vittorini nell’antologia Americana col titolo // ritorno del soldato Krebs, troviamo quello che potrebbe essere un ritratto fedele dell’ex partigiano Beppe nel difficile anno 1945-46: Durante questo tempo, letto, poi s’alzava e usciva a comprare qualche libro. leggere qualche libro sotto va a far passare l’ore più

era estate inoltrata, egli soleva starsene fin tardi a fuori a passeggiare per la città e andava dal libraio Poi tornava a casa a far colazione e si metteva a il portico, finch’era stanco. Usciva ancora e andacalde nella fresca penombra della stanza dove si

giocava a carte.3 I sintomi del disagio di Harold Krebs, l’inerzia, la noia, il senso d’estraneità e i conflitti domestici, sono gli stessi che manifesta Ettore nelle prime pagine, in gran parte autobiografiche, di PS. Oltretutto, anche lo scrittore albese, come già Hemingway e il suo personaggio, aveva un rapporto difficile con la madre, giudicata incapace di comprendere il suo stato d’animo, e i continui litigi e le disperate fughe da casa lo rendevano

inquieto e infelice.? Anche il giovane Hemingway, tornato a casa dalla guerra nel gennaio del 1919, aveva conosciuto il malessere del reduce e sperimentato lo stesso

7 Nella sua recensione a VGA, Giorgio Luti individuò per primo la “fonte” hemingwayana di Fenoglio: / giorni di Alba, «Il Mattino dell’Italia Centrale», 11 aprile 1953; poi, con alcune modifiche, in: L'ultima narrativa italiana, «Inventario», gennaio-

settembre della città Francesco in «Misure

1953. Di Luti si può anche leggere il recente Rileggendo i «Ventitre giorni di Alba», in Beppe Fenoglio oggi, Milano, Mursia, 1991, pp. 107-115. Di De Nicola, cfr. Hemingway e Fenoglio. La questione privata del dopoguerra, critiche», 1976, 19, pp. 65-75.

8 Cito dalla recente ristampa di Americana, Milano, Bompiani, 1984, p. 794.

9 Cfr. Marisa Fenoglio Faussone, Beppe Fenoglio, mio fratello, in Beppe Fenoglio oggi cit., pp. 287-91.

Capitolo terzo

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difficile rientro nella «normalità». In quel periodo, secondo la testimo-

nianza della sorella Marcelline, «Ernest didn’t seem to know what he

wanted to do with his life [...] He wasn't doing any writing at this time. He was still uninterested in going on with any formal education. He seemed to be at loose ends».!° Con parole molto simili Marisa Fenoglio ha descritto il comportamento del fratello Beppe, il quale, in un periodo in cui tutti «sapevano di doversi rimboccare le maniche» per far fronte alle asprezze economiche del dopoguerra, «tergiversava a frequentare seriamente la facoltà di lettere» e non sembrava deciso a intraprendere alcuna attività professionale tranne quella, incomprensibile ai suoi familiari, dello scrittore.!! Soldiers Home, insomma, dovette offrire a Fenoglio due lezioni che andavano ben oltre lo specifico spunto narrativo: la dimostrazione di come un racconto potesse condensare nella sua breve dimensione un’intera esistenza; la scoperta di come l’autentica arte narrativa trascendesse il dato storico e geografico per rappresentare verità universali. 3. Un’ulteriore indicazione del disagio vissuto da Fenoglio nell’immediato dopoguerra ci viene da una fonte giornalistica. In un articolointervista apparso sul «Corriere Albese» del 12 giugno 1952, in coincidenza con la pubblicazione di VGA, troviamo il seguente brano: Fenoglio ha conservato molti appunti, fisionomie, caratteri e personaggi di quei tempi. Dopo la liberazione, anch’egli confessa, durò fatica a «rientrare» nella normalità. Fu un lungo anno di crisi. Poi, di colpo, la personalità dell’uomo balzò prepotente. Gettò giù, a più riprese, racconti, episodi.!?

Anche questa testimonianza diretta sottolinea come il prodotto della prima prova narrativa di Fenoglio difficilmente possa identificarsi con PJ1, opera incompleta ma in sé omogenea, frutto di una potente ispirazione e di un lavoro ininterrotto. Diversamente, «racconti, episodi» scrit-

ti «a più riprese» possono ben dirsi i testi compresi nella sequenza

10 Marcelline Hemingway Sanford, At the Hemingways: A Family Portrait, Boston, Little Brown, 1962, pp. 192-3.

!! Cfr. Marisa Fenoglio, Casa Fenoglio, Palermo, Sellerio, 1995, pp. 99-100.

1? VIR [Vittorio Riolfo], Beppe Fenoglio e gli uomini al muro, in «Corriere Albese», 12 giugno 1952; ora in Fenoglio a Lecce. Atti dell'incontro di studio su Beppe Fenoglio, a cura di Gino Rizzo, Firenze, Olschki, 1984, pp. 100-3.

Lo scrittore in cerca di un genere

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AP-RGC.!? La stesura di AP, oltretutto, coincide con il termine di quel «lungo anno di crisi» ricordato da Fenoglio nel colloquio con Vittorio Riolfo: nell’Introduzione al prezioso libretto Lorenzo Mondo ha infatti dimostrato in modo ineccepibile come il testo degli appunti sia riconducibile a un periodo successivo alla seconda metà del 1946;!4 elaborazione narrativa di un’esperienza autobiografica scritta con propositi decisa-

mente letterari, tesa, ben al di là del suo valore testimoniale, a riassumere

il senso della violenza tra gli uomini e, contemporaneamente, alla ricerca di uno stile che tale senso potesse esprimere. AP rappresenta dunque un avanzato punto di partenza, l’espressione in nuce di una grande avventura umana e letteraria. 4. Come la maggior parte dei Racconti della guerra civile il tempo storico di AP è l’inverno 1944-45, il periodo più duro dell’intera esperienza resistenziale e quello che maggiormente si incise nella memoria dello scrittore. La narrazione ha inizio all’indomani della ritirata da Alba delle forze partigiane, 2 novembre 1944, e si conclude alla vigilia di Natale dello stesso anno, quando il testo, come ci informa Lorenzo Mondo,

«si interrompe, con parola spezzata, alla fine del quarto taccuino».!° In questo periodo si verificano due grandi rastrellamenti che disperdono le forze partigiane lasciando il protagonista, in fuga per le colline, senza un rifugio e privo di amici: «solo, solo di fronte all’inverno».!* Ovunque sentiamo le grida e il crepitare delle armi, ma non incontriamo mai una rappresentazione diretta della battaglia: non vediamo Castino assediata, «ma sul punto dove sappiamo che è c’è una volta di fumo, come su una grande stazione ferroviaria».!” La guerra si manifesta altresì nei suoi aspet-

13 Riproducendo il testo dell’articolo in appendice alla sua comunicazione al convegno di Lecce, Gino Rizzo affermava di aver controllato i numeri successivi del giornale albese senza trovarvi correzioni o smentite, e che il testo poteva perciò ritenersi «rispettoso di quanto dichiarato dallo stesso scrittore» (Gli estremi di una parabola narrativa: Il «Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, in Fenoglio a Lecce cit., p. 71). 14 Insieme ai quattro taccuini che contegono il testo in pulito, ne sono stati rinvenuti AP. In uno di questi si trova altri tre con prove e stesure parziali, chiaramente antecedenti che il protagonista di AP ragazza la Maria, Anna ad indirizzata lettera una di minuta la incontra a Santo Stefano Belbo in una domenica di vacanza partigiana, scritta a pochi giorni da un matrimonio che si celebrò il 29 aprile 1946. Cfr. l’Introduzione di Lorenzo

Mondo in AP, pp. IX-X. 15 AP, p.VII.

16 Ibid., p. 78. 17 Ibid., p. 45.

Capitolo terzo

60

ti più crudi, e talvolta banali: i pestaggi e le esecuzioni di spie 0 traditori, le rivalità tra schieramenti alleati, le liti infantili per un po’ di tabacco, Î goffi corteggiamenti delle staffette partigiane, e le avventure postribolari dei “guerrieri” più impazienti. 1 Nonostante la forma tronca del testo, AP ha una sua autonomia e coe-

renza stilistica. Accanto a episodi, situazioni e personaggi che troveranno un’espressione compiuta solo in RGC, vi compaiono già figure finite, attive in un serrato ritmo narrativo. Eppure, di fronte a questo singolare ritrovamento, una domanda sorge spontanea: Fenoglio ne avrebbe approvato la pubblicazione? Alcune caratteristiche del manoscritto — la presenza di una dedica,'!8 le varianti volte a occultare il dato autobiografico mediante l’uso di nomi fittizi,!” la stesura in bella copia suddivisa in capitoli — suggerirebbero una risposta affermativa. Non abbiamo però a disposizione alcuna prova esterna (documento, lettera o testimonianza) che confermi una tale volontà. Se consideriamo che, quando ebbe un’opera appena compiuta, il giovane Fenoglio non esitò a rivolgersi con insistenza a vari editori, ai maggiori editori italiani del momento,?® allora sembrerà più opportuno vedere in AP un esercizio ad uso personale, un modo di fare il punto sulle proprie capacità di scrittore, una tappa del difficile cammino in cerca di un genere. Per molti partigiani gli appunti presi a caldo durante la guerra civile servirono da supporto a una narrazione che prese poi la forma del racconto o del diario. Singolarmente, con AP, Fenoglio sembra voler fare degli appunti un genere a sé: rielabora le proprie annotazioni a distanza di tempo dai fatti vissuti mantenendo il presente storico, la prima persona narrativa, il proprio nome e le osservazioni e i commenti tipici di una forma estemporanea. La suddivisione in capitoli, inoltre, non coincide con il

racconto di un fatto, quanto piuttosto con una mera scansione temporale. Un capitolo può così contenere due o più fatti, oppure un fatto può estendersi per più d’un capitolo. Ma sono I’inventività del linguaggio e la graffiante sinteticità del dettato a gettare un ponte verso i primi riusciti racconti. C’è già in AP la mano dell’artista che punta all’essenziale, alle sensazioni più segrete che si agitano nell’animo, così come la rinuncia ad

18 Sulla prima pagina del manoscritto, sotto al nome dell’autore (Beppe) e al titolo (Appunti Partigiani / 44-45) si legge la seguente dedica: A tutti i caduti partigiani d'’Italia, poi corretta in: A tutti i partigiani d’Italia, morii e vivi.

19 Cfr. 1Appendice in AP, pp. 83-92. 20 Su questa vicenda, cfr. il cap. V.

Lo scrittore in cerca di un genere

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un piatto descrittivismo in favore di una rappresentazione espressionistica,

a tratti allucinata, della realtà. C’è lo stile, c’è il lessico, ci sono i temi.

Manca la tecnica.

5. La certezza della sequenza cronologica, la presenza in AP di motivi che diverranno temi di racconto in RGC, rendono pertinente un confronto testuale tra le due opere, sia pur limitato ad alcuni significativi episodi o particolari, teso a evidenziare l'acquisizione da parte di Fenoglio di una sicura tecnica narrativa. Nella valle di San Benedetto, sesto racconto di RGC, è l’unico testo

della raccolta a mantenere la prima persona narrativa e l’unico a non confluire in VGA. Queste caratteristiche, insieme all’accentuato autobiografismo, fanno propendere a credere che si tratti del primo ad essere stato scritto.2! Il racconto ha il suo nucleo generativo nel quinto capitolo di AP, dedicato alla cronaca del grande rastrellamento antipartigiano di no-

vembre.?? Qui Beppe, con i suoi compagni Piccàrd e Cervellino, si trova a Cascina della Langa e assiste impotente ai primi assalti tedeschi sui paesi vicini: Quando ci svegliamo è ancora troppo presto, ma nessuno protesta perché entra dalla finestra un fragore che è in cielo e sulle colline. Andiamo alla finestra a infilarci le scarpe, e Piccàrd dice che per lui la battaglia è intorno a Cravanzana. Io dico più lontano, Bossolasco e forse Murazzano. Piccàrd mi dà ragione e dice che allora è la nostra divisione gemella, quella del maggiore

Mauri, che oggi dà e piglia.?* Il fronte di attacco si sposta velocemente. Beppe e i suoi compagni abbandonano il loro rifugio e si dirigono verso Mango per unirsi al reparto di Cosmo (Piero Ghiacci) che ha l’incarico di sorvegliare l’ingresso della valle in direzione di Alba. Ma i fascisti e i loro alleati hanno ordito «una trappola mai vista»:

21 Il racconto, da ora in poi Ne/la valle, è stato pubblicato a cura di Maria Corti in «Strumenti critici», 10, 1969, pp. 361-80; quindi in Opere, II, pp. 75-93. 22 L'operazione, iniziata il 12 novembre 1944 e condotta dalle truppe nazifasciste con ingente spiegamento di forze, venne diretta particolarmente contro le formazioni Autonome in cui militava Fenoglio. Cfr. Diana Masera, Langa partigiana 1943-45, Parma, Guanda, 1971, pp. 131 sgg.

23 AP,p:43;

Capitolo terzo

62

Alle porte di Neive c’è un giocattolino di carro armato che muove le canne come una mosca le antenne, e alle canne fiammelle rossoblù. Cosmo dice che il gioco è fatto, che loro mettono le griglie alle Langhe che ne fanno uno

z00 e noi tutti dentro come le scimmie.?4 È difficile immaginare una scrittura più lontana dai toni partecipi e solenni tipici della contemporanea narrativa resistenziale. L'occhio del narratore segue le vicende con imparziale distacco, preferendo penetrare la dinamica dei fatti, piuttosto che fornirne una spiegazione ideologica. Al terzo giorno cade il presidio partigiano di Murazzano. E poi la volta di Castino, sede del comando di brigata e alla cui difesa gli uomini di Cosmo non hanno il tempo di accorrere. I partigiani superstiti, divisi in piccoli gruppi, si danno alla fuga. Comincia così quel tragico gioco al gatto e al topo in cui non ha più importanza se prendere una direzione 0 l’altra, quanto piuttosto l’abilità dei partigiani di nascondersi rapidamente, di sfuggire all’accerchiamento attraversando «le griglie» poste dal nemico, affidandosi alla conoscenza del terreno, all’aiuto degli abitanti e

alla fortuna. Sono questi i momenti che nelle opere postume, PJ e OP, ispireranno a Fenoglio le sue pagine più alte e più intensamente poetiche. In esse, secondo la testimonianza di Piero Ghiacci, la preoccupazione principale dello scrittore era quella di riuscire a trasmettere le sensazioni profonde dei personaggi: In particolare ci teneva che la fuga attraverso le maglie del rastrellamento portasse a sentire l’angoscia della sopravvivenza. «Ci metto anche qualche collina in più ma devo ottenere l’effetto incalzante e senza respiro del rastrel-

lamento».?5 Per il momento, in AP, «l’angoscia della sopravvivenza» risulta smorzata dal tono di spavalda ironia che non viene meno nei momenti più drammatici, nonché dai limiti della forma diaristica: Adesso che scrivo del grande rastrellamento di novembre continuo a non capircene niente, come non ne ho capito niente allora che l’ho buscato tutto. Né ricordo l’itinerario, tanto più che, i tre giorni che è durato, altro non è

stato che un marciare in tondo.26

24 Ibid., p. 46.

25 Comunicazione cit. di Piero Ghiacci al convegno di Alba del 1973 (cfr. Franco

Vaccaneo, Op. cit., p. 138).

26 AP, p. 46.

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Nella loro fuga, Beppe, Piccàrd e Cervellino incontrano prima il vec-

chio partigiano Blister (che diverrà protagonista del quinto racconto di RGC), poi il giovane Rirì, il quale, sentito che due divisioni di tedeschi battevano la valle «cespuglio per cespuglio», ha una trovata quanto mai singolare: Rubò da una stalla una coperta da buoi, trovò chissà dove un chilo di castagne bianche, poi ci condusse al camposanto di Feisoglio. Chiese se anche a noi quella là sembrava la tomba più sana, col nostro aiuto ne rimosse il pietrone, ci si calò e quando più non sporgeva che con la testa, ci disse che facevamo bene a sotterrarci con lui. Io dissi che noi si voleva crepare all’aria, sul ciglio delle colline, e calati giù tutto, Rirì, che adesso noi rimettiamo la

pietra e ti lasciamo un filo d’aria.?? Subito dopo, mentre Rirì giace vivo in una tomba del camposanto di Feisoglio, i tre amici in fuga provano «lo spavento degli spaventi» e il loro desiderio di «crepare all’aria» è quasi immediatamente soddisfatto: improvvisamente scorgono una pattuglia di tedeschi spuntare sulla vicina cresta del monte e per un momento i due gruppi rimangono interdetti, fissandosi «come conoscenze da un marciapiede all’altro, a vedere chi saluta per primo».?8 Mentre i tedeschi aprono il fuoco, i partigiani corrono a gambe levate e si tuffano nell’acqua gelida di un torrente senza ricevere un colpo, «che era come non bagnarsi nella pioggia». Ancora «un patema», dovuto all’incontro con un reparto di fascisti, e «la mattina dopo

tutto era finito». Ritorna la quiete sulle colline e i superstiti riflettono sull’accaduto. In chiusura di capitolo il partigiano Beppe invoca la forza superiore, l’amato lare che li ha salvati: Non fu abilità nostra, né che loro fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa.?9

6.Il passaggio da AP a Nella valle segna un notevole scarto sul piano della tecnica narrativa e su quello della capacità espressiva. Ciò che non troviamo nelle pagine scabre degli appunti, emerge con forza nel primo racconto mediante la scelta di un episodio simbolico che universalizza il

27 Ibid., pp. 47-8. 28 Jbid., p. 48. 29 Ibid., p. 49.

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tema della fuga e della lotta disperata per la sopravvivenza.?° Fenoglio recupera qui l’episodio del partigiano che si nasconde in una tomba del cimitero di Feisoglio, narrato nel quinto capitolo di AP, e, probabilmente, un episodio realmente accaduto durante l’accerchiamento di Mombarcaro nel marzo del 1944,3! alterandone però la cronologia e introducendo un finale che appartiene interamente alla finzione letteraria. L’azione è spostata al novembre 1944, subito dopo la battaglia di Alba, e il cimitero è quello di San Benedetto. Si faccia attenzione, però, che San Benedetto — il paese caro a Fenoglio, nel quale avrebbe ambientato la maggior parte dei racconti «parentali» — sorge nei pressi del fiume Belbo, ed è il Belbo che dà il nome alla valle circostante. Forse nella scelta di quel titolo agì una precisa reminiscenza letteraria: la poesia In the Valley of the Elwy dell’amato Gerard Manley Hopkins. È noto come l’amore di Fenoglio per la letteratura inglese fosse sbocciato assai presto, e come già negli anni del liceo egli avesse cominciato a tradurre dall’inglese testi teatrali e poesie. Gli studi di Bruce Merry, di

John Meddemmen e di Mark Pietralunga?? ci hanno rivelato dati preziosi su questo importante aspetto della personalità letteraria di Fenoglio, gettando le basi per un’interpretazione del suo stile così originale: «uno stile da splendido isolato, da artista senza maestri e senza allievi», come

Fenoglio stesso ebbe a definire la forma ardua e inimitabile dell’ Hopkins,33

30 Come ogni buon racconto, Nella valle può riassumersi in poche righe: per salvarsi da un rastrellamento fascista, un partigiano si nasconde nella tomba di un cimitero di alta collina mentre i suoi due compagni decidono di continuare la fuga nei boschi. Al termine del rastrellamento il partigiano riesce all’aria aperta e vede due bare con dentro i suoi

amici. 3! Cfr. Francesco De Nicola, Fenoglio partigiano e scrittore cit., pp. 68-73, che riporta interessanti testimonianze di Ettore Costa e della madre dello scrittore.

32 Cfr., di Bruce Merry, More on Fenoglio: an unpublished novel in English and an English source, «Italica», 1, 1972, pp. 1-17; di John Meddemmen, L ‘inglese come forma interna dell'italiano di Fenoglio, «Strumenti critici», 2, 1979, pp. 89-116, Documenting

a Mobile Polyglot Idiolect; Beppe Fenoglios «Ur partigiano Johnny» and Its Critical Edition, «Modern language Notes», 97, gennaio 1982, pp. 85-114, e Tentativi di scrittura

e riscrittura in Fenoglio, in Fenoglio a Lecce cit., pp. 133-147; di Mark Pietralunga, oltre al volume citato, Le traduzioni teatrali di B. Fenoglio, in Fenoglio a Lecce cit., pp. 119-132. 33 Il profilo critico di Hopkins scritto da Fenoglio nel 1951 si trova nella cartella 18 del Fondo Fenoglio di Alba ed è riprodotto in Mark Pietralunga, Beppe Fenoglio and English Literature cit., pp. 215-8. Il testo servì da introduzione alla pubblica lettura di otto liriche del poeta inglese (nella versione italiana di Beppe Fenoglio) che si tenne una sera del novembre del 1951 al Circolo Sociale di Alba. Così Vittorio Riolfo, nella sua

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la quale tuttavia non mancò di influenzare la sua propria ispirazione.3* L'incontro di Fenoglio con l’opera di Hopkins avvenne probabilmente proprio sui banchi del liceo Govone di Alba, dove il precoce studente veniva scoprendo la sua grande passione sotto la guida amorevole della professoressa Marchiaro. Fonte del rinnovato interesse che alcuni anni dopo lo avrebbe condotto alla stesura di un profilo critico del poeta inglese, e alla traduzione di un gruppo di otto poesie, dev’essere stata comunque l’edizione dell’opera in versi di Hopkins pubblicata da Guanda nel 1948.35 Una delle otto liriche che affascinarono lo scrittore albese è appunto /n the Valley of the Elwys.39 Di questa poesia, che rievoca con

recensione a VGA, ricordava quel magico evento: «Una sera dello scorso inverno, dinnanzi ad una ristretta cerchia di persone, vennero lette alcune poesie dell’inglese Hopkins tradotte da Fenoglio. Vi confesso che poche volte nella mia breve esistenza fui così preso dal fascino del bello. Fu uno stupore generale tra quei pochi fortunati presenti alla serata. Tanta era stata la raffinata sensibilità del traduttore, limpido e preciso, fedele nel far

rivivere la freschezza dell’originale ispirazione. Sono miracoli che soltanto dall’amore d’un animo sensibile per un altro a lui simile possono nascere» (Beppe Fenoglio e gli uomini al muro cit.). 34 Riguardo l’influenza del poeta gesuita inglese sul peculiare stile di Fenoglio, John Meddemmen ha scritto: «The stylistic pecularities of the language so called he strove to conserve from one stage of elaboration to another, in some cases (as with the multi-

element compound words he modelled on Hopkins) renouncing the tight economy of their expression only after polyglot oscillations from draft to draft: unsatisfactory solutions in Italian being removed and replaced with the original (English) model striven after still, though still elusive [Si sforzò di conservare le particolarità stilistiche del linguaggio da uno stadio d’elaborazione

all’altro, rinunciando

in alcuni casi (come per le parole

composte di più elementi che modellò su Hopkins) alla stretta economia espressiva soltanto dopo oscillazioni da una lingua all’altra da bozza a bozza: delle soluzioni insoddisfacenti in italiano venivano cancellate e sostituite con il modello originale (inglese) su cui dopo si arrabattava ancora, ma che rimaneva ancora elusivo]» (Documenting a Mobile Polyglot Idiolect cit., p. 96). 35 Cfr. Poesie di Gerard Manley Hopkins, trad. it. di Augusto Guidi, Parma, Guanda,

[1948] (per la datazione del libro cfr. Mark Pietralunga, Beppe Fenoglio and English Literature cit., p. 87). 36 Questo il testo della traduzione di Fenoglio: «Mi ricordo una casa dove tutti / Furon buoni con me, Dio sa, immeritevole: / Confortante odore spirava sin dalla soglia, / Tolto di fresco, penso, a un dolce bosco. / Aria cordiale incappucciava quella gente bennata, / Come ala materna la covata, / O miti notti i bocci nuovi di primavera: / Che

così fosse veniva naturale; e giusto, anche, appariva. / Belle le selve, l’acque, i prati, le forre e le convalli / E l’aria tutta che veste le cose che fanno questo mondo di Galles / Solo il nativo non vi corrisponde: / Dio, dell'anime amante, d'’esatte bilance oscillatore, / O completa la tua cara creatura là dove manca, / Tu principe potente e padre, anche, amoroso». Le altre poesie di Hopkins scelte da Fenoglio sono: Pied Beauty (Bellezza cangiante), The May Magnificat (Il magnificat di maggio), Peace (Pace); Spelt from

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accenti estatici e nostalgici l’ospitalità ricevuta dal poeta in un’amena località del Galles, il racconto di Fenoglio costituisce un’ironica antitesi: di fronte ai tre partigiani bisognosi d’aiuto «porte e finestre si chiudevano con colpi secchi come fucilate», mentre l’odore che qui spira è quello, assai meno «dolce» e «confortante», di una tomba.

Il collegamento tra i due testi può sembrare forzato, tuttavia, oltre alla somiglianza dei titoli, una curiosa coincidenza di date mi spinge a credere che sia esistito nella mente dello scrittore, egli consapevole o meno: il dattiloscritto con la traduzione di In the Valley of the Elwys reca la data 17 novembre 1951, che può rifersi sia al giorno dell’ultima revisione che a quello della conferenza su Hopkins tenuta al Circolo Sociale di Alba. Appena una settimana prima, con lettera datata 9 novembre 1951, Fenoglio comunicava a Calvino di voler escludere Ne//a valle dai Racconti barbari3? per sostituirlo con Gli inizi del partigiano Raoul. 7. Drasticamente eliminati particolari ed episodi collaterali, Nella valle comincia con il protagonista già calato nella tomba, immediatamente rivelando al lettore il fatto straordinario scelto come tema del racconto: Respiravo bene, non sentivo assolutamente nessun tanfo e la parete alla quale mi appoggiavo era asciutta. Una tomba sana, davvero la migliore del

cimitero di San Benedetto.38 Gli antefatti — l’inizio del rastrellamento, la battaglia di Castino, i pe-

ricoli scampati dai tre amici dopo l’incontro coi tedeschi, la rocambolesca fuga attraverso le acque gelide del torrente, il terrore degli abitanti che si traduce in diffidenza verso entrambi le parti in lotta, e infine la scelta della tomba entro cui nascondersi («Nell’angolo destro in fondo») — sono ricordati dal protagonista in un lungo flash back. Mentre la fine tragica dei due amici del protagonista, la situazione paradossale per cui lui è vivo nella tomba mentre loro giacciono morti all’aperto, è preannunciata al lettore per sottili accenni:

Sibyl s Leaves (Sillabato dalle foglie della Sibilla), The Starlight Night (La notte stellata); The Blessed Vîrgin Compared to the Air We Breathe (La Beata Vergine paragonata all’aria che respiriamo); e Nondum (stesso titolo). L’intero corpus delle traduzioni di Fenoglio sarà pubblicato prossimamente in un volume curato da Mark Pietralunga, che qui ringrazio per avermi fornito il testo di Nella valle dell’Elwys. 37 Com'è noto, era questo il titolo proposto da Vittorini per VGA.

38 Opere, II, p. 75.

Lo scrittore in cerca di un genere

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| Così ci eravamo separati da Bob, in un modo che se ci fossimo rivisti

vivi, ben difficilmente avremmo potuto tornare amici.3°

Nel chiuso della tomba egli dà ascolto ai suoi pensieri assillanti, ha le prime allucinazioni, cede poco a poco al terrore: Ora cominciava a farmi schifo anche respirare, mi pareva d’immettere nelle narici altra sostanza che l’aria. E i denti mi facevano male, me li sentivo

allentati nelle gengive, mi dicevo che era per via che avevo spezzato e masticato tante dure castagne bianche, eppure era più forte l’idea che fosse decadimento fisico, principio di corruzione.19

Gridando in modo isterico, tracciando una croce con una raffica del suo Thompson per allontanare l’ombra della morta di cui usurpa l’alloggio, riesce a fermarsi sull’orlo della follia. La prima persona narrativa

permette una riflessione a posteriori: Come potei addormentarmi, quando maggiore era la mia angoscia? Forse

il nostro corpo sente a volte pietà della nostra anima.4! AI risveglio, il protagonista sente stridere la ghiaia del vialetto: non si tratta di soldati tedeschi, ma del vecchio guardiano del cimitero che lo aiuterà a spostare la pietra tombale e quindi a riuscire all’aperto. Nel potente finale, ciò che l’autore ha mantenuto nel fondo della narrazione, sottraendolo alla visione del lettore, viene annunciato con un movimento dello sguardo che si abbassa come una cinepresa dal paesaggio circostante sulle due bare; lentamente, in modo inesorabile e, secondo la migliore tradizione del racconto iniziata da Poe, sorprendente: Guardai dapprima in alto, alle strade sulla cresta delle due colline. Erano deserte, vi correvano solo bianchi soffi di polvere incalzati dall’aria. Guardai più basso: oltre il cancelletto spalancato un carro cigolando tornava sù per la stradina del camposanto. [...] Sulla ghiaia passato il cancelletto c'erano due casse, bianche del colore del legno tagliato di fresco. Ogni forza mi venne meno, i polsi non mi ressero più [...].

39 Ibid., p. 84. 40 Ibid., p. 89. 41 Jbid., p. 98.

Capitolo terzo

Camminai sulla ghiaia verso le due casse ed il becchino mi seguiva dappresso e certo mi parlava, ma le sue parole si disfacevano prima d’entrare nelle mie orecchie.

Mi fermai tra le due casse. Le misurai con gli occhi e mi dissi che questo era Giorgio e che quello era Bob. Me lo dissi ad alta voce. M’inginocchiai, posai una mano sulla cassa di Giorgio e l’altra sulla cassa di Bob ed oltre il cancelletto guardai là dove finisce la valle di San Benedetto.4

8. Si vedano ora alcuni significativi raffronti testuali fra il quinto capitolo di AP e Nella valle:

Rubò da una stalla una coperta da buoi, trovò chissà dove un chilo

di castagne bianche, poi ci condusse al camposanto di Feisoglio. (AP, p. 47)

Questa era una scorta come un’altra, come il sacchetto di casta-

gne bianche, il bottiglione d’acqua, il lumino e la coperta che mi ero portato giù con me. (Nella valle, pp. 75-6)

sul

MI ricordai di come era il cielo

punto dove sappiamo che è c’è una volta di fumo, come su una grande stazione ferroviaria. [...] e sempre fumo sul paese, ma non più a cupola, ma in diciotto torri. Vuol dire che Castino è presa, i nostri spazzati dopo aver fatto anche troppo, e diciotto case bruciano. (AP, pp. 45-6)

alla fine della battaglia di Castino,

Castino non

si vede, ma

Cosmo ponza, poi dice che adesso ci sbanda tutti e che possiamo cominciare noi tre. Diciamo che sta bene, ma da che parte andiamo? Cosmo dice che così come stanno le cose, possiamo gettare un soldo in aria, e se vien testa andiamo a Nord, e a Sud se croce. (AP, p. 46)

42 Ibid., p. 93.

due giorni avanti. Da Castino si alzavano diciotto torri di fumo nero e il cielo sopra il paese era come il cielo sopra una grande stazione ferroviaria. (Nella valle, p. 76)

Fin dal principio, quando s’era trattato d’iniziare la ritirata, Bob ave-

va chiesto:— Da che parte andiamo? Era una domanda idiota, da uno

che vuol fare il normale nel pieno del più grande rastrellamento passato sulle Langhe. Gli avevo risposto io, senza pazienza: — Possiamo gettare un soldo in aria e se viene testa andiamo a nord e croce andiamo a sud. Cosa vuoi che conti più la parte da prendere? (Nella valle, p. 77)

Lo scrittore in cerca di un genere

Passando davanti a una cascina, vedemmo una giovane donna china a piangere su un fucile e una pesante borsetta di munizioni. Ci disse che era stato un partigiano a mollar lì quella brutta roba, e lei non sapeva dove nasconderla, e aveva

tutti i suoi uomini sotto il letame, e se arrivavano loro il meno che le avrebbero fatto le avrebbero bruciato il tetto. (AP, p. 47)

69 Poi arrivammo davanti a una cascina. Era come tutte le altre che avevamo passate, chiusa scura e muta come se la gente dentro fosse tutta morta, lunga rigida sul letto. Invece all’inferriata di una finestra a pianterreno si affacciò una donna e ci mandò una voce bassa ma violenta. Noi tre rimanemmo sulla strada a sentirla. Ci disse: — Guardate quel fucile e quella borsa sulla mia aia. E stato un partigiano a lasciarli li. Non per voi che siete suoi compagni, ma è stato vigliacco. È una brutta cosa pericolosa, io non so dove nasconderla, non so nemme-

no come prenderla in mano, ho paura che mi scoppi. Ho mio marito e mio suocero in un buco sottoterra. Se arrivano i tedeschi e mi trovano quegli affari sulla mia aia, il meno che mi fanno mi bruciano il tetto. Poi si mise a piangere, un pianto liscio e continuo come il getto d’una fontana. (Nella valle, p. 78)

Rispondono in molti che quasi tutti l’avevano il buco, ma ora non

serve più perché i tedeschi si portano avanti dei cani che annusano la terra metro per metro e si fermano e abbaiano al minimo odor di cristiano. / tedeschi scavano giusto, ti tirano per i capelli, e fanno sporgere quel po’di testa che basta a collocarci una rivoltellata, tanto sei già sottoterra. (AP, p. 46)

Camminavamo

ai piedi della

collina, avendo a destra, a cento

passi, il torrentaccio Belbo. E Cervellino mi dà del gomito, guardo insù e in cresta spuntano elmetti come funghi e poi tedeschi s’af-

To comincerei a pensare che non possono non trovarmi, il buco è mal nascosto, è una cosa ridicola come è mal nascosto, arrivano i tedeschi

e se ne accorgono subito, scavano giusto, infilano una mano nel buco, mi tirano sù per i capelli e mi fanno sporgere quel tanto di testa dove ci sta una rivoltellata, tanto io sono già sottoterra... (Nella valle, p. 79)

Andavamo a sud avendo alla destra il torrente Belbo e un po’ per stanchezza e un po’ per rassegnazione non facevamo molta attenzione intorno. Fu Bob che mi toccò col gomito perché mi voltassi a guar-

Capitolo terzo facciano a persona intera. Noi e loro stiamo un attimo a fissarci, come conoscenze da un marciapiede all’altro, a vedere chi saluta per primo. (AP, p. 48)

dare con lui. Dalla cresta della collina a sinistra spuntavano elmetti

come funghi. Poi i tedeschi si erano affacciati a persona intera, ma tenevano ancora le armi basse. Sia

noi che loro siamo stati un attimo a fissarci come conoscenti vaghi che da un marciapiede all’altro aguzzano gli occhi e non si decidono a salutare. (Nella valle, p. 80)

Ben diversamente dai raffronti VGA-PJ] proposti in passato, volti a dimostrare con vere acrobazie dialettiche la posteriorità dei primi racconti rispetto alla «grande cronaca», nei casi appena citati è evidente l’acquisto ottenuto, il passaggio da una forma originale ma a tratti disarmonica, a una più artisticamente matura. E altrettanto evidente che, a differenza

dei recuperi di VGA in PJI e P.J2,4 Fenoglio scrive Nella valle avendo di fronte a sé il testo di AP, essendo i recuperi, o autocitazioni che dir si

vogliano, rispettosi dell’archetipo finanche nella punteggiatura. Sul piano più propriamente «tecnico» (nel senso della tekné greca, di quella parte di artigianato imprescindibile al bagaglio di ogni artista), nel passaggio da AP a Nella valle si può rilevare: 1) l’impiego più frequente del discorso diretto; 2) la soppressione di personaggi e particolari non strettamente funzionali all’azione; 3) la presenza di un preciso disegno narrativo. Tutte caratteristiche proprie del racconto breve. La scelta del genere, insomma, permette a Fenoglio di affinare il proprio stile, di dominare la materia grezza dell’esperienza con l’esercizio di un’autentica disciplina narrativa.

43 Cfr. Maria Corti, Trittico per Fenoglio, in Metodi e fantasmi cit., pp. 15-39, e Bianca De Maria, Le due redazioni del «Partigiano Johnny»: rapporti interni e datazione, «Nuovi Argomenti», 35-36, 1973, pp. 132-167. Già prima di disporre dell’edizione critica Giovanni Falaschi aveva così stigmatizzato i limiti di tali approcci: «lo stile del racconto è molto diverso da quello del romanzo, sicché ogni raffronto che si stabilisce indicando la primogenitura di uno scritto rispetto all’altro dà un risultato forse reversibile» (La resistenza armata nella narrativa italiana cit., p. 188). 44 Il Falaschi non ha dubbi che in questi casi Fenoglio citi a memoria e spiega come lo scrittore albese sia stato «attratto continuamente da fatti partigiani scolpitisi indelebilmente in lui perché vissuti con una partecipazione anche e soprattutto fisica»

(/bid., p. 194).

IV.

La lezione di Maupassant: Alba come Rouen

1. / ventitre giorni della città di Alba,! forse l’opera breve più nota di Beppe Fenoglio, è il primo dei sette Racconti della guerra civile e quello che, contro la volontà dell’autore,? avrebbe fornito il titolo al suo primo libro pubblicato. Significativamente è anche quello che nel passaggio da RGC a VGA subisce il minor numero di interventi correttori,3 e, con la

sua già solida e peculiare cifra stilistica, può considerarsi una sorta di vetrina dell’arte narrativa fenogliana. In esso, come ha osservato Eduardo Saccone, si inaugura «quella dialettica tra snobismo e sentimentalismo che potrebbe, volendo, essere assunta ad emblema abbastanza consapevole dell’intera opera dello scrittore».* Giudicato in passato secondo criteri ispirati all’attualità storico-politica, conducenti a valutazioni critiche non sempre negative ma egualmente inopportune in un autore così alieno alle ragioni extra-letterarie del testo,° il racconto ha avuto però, fin dal suo primo apparire, estimatori

! Da ora in poi Ventitre giorni. Tutte le citazioni da Opere, II 2 Per la storia editoriale di VGA cfr. il cap. seguente.

3 Cfr. Maria Corti, La duplice storia dei «Ventitre giorni della città di Alba» di Beppe Fenoglio, in Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 375-91. 4 Eduardo Saccone, Inizi, anticipi e conclusioni di Beppe Fenoglio, in Conclusioni anticipate, Napoli, Liguori, 1988, p. 178. 5 Cfr. Giorgio Guazzotti,

Partigiani in Alba, «L'Unità»,

12 agosto

1952, e i due

successivi interventi apparsi anonimi sullo stesso giornale il 12 settembre e il 29 ottobre (nel secondo, ad esempio, si legge: «Fenoglio [...] esercita ad Alba il mestiere di procuratore presso una ditta vinicola. Noi non sappiamo se questo mestiere egli lo esercita onestamente, oppure vende del vino annacquato. Certo è che in fatto di racconti non

Capitolo quarto

72

d’eccezione. Da diverse angolazioni, Giuseppe De Robertis, Pietro Citati, Anna Banti, e più tardi Gianfranco Contini, ponevano in risalto il valo-

re dello stile e l’alta lezione d’umanità che scaturiva dalla pagina fenogliana:6 mentre Geno Pampaloni, in una delle prime recensioni a VGA, rilevava con entusiasmo le peculiarità tecnico-narrative dello scrittore esordiente:

Fatti e figure sono visti in un’aria lucida e netta, in un periodare personalissimo, che ha dello sprezzo giovanile e della sapiente ironia. Molti di questi racconti confinano con la trascrizione letteraria di scene di film, anche per il taglio, la tecnica delle sospensioni e della sorpresa, e per la minore importanza che assume la figura umana di fronte al rapido e silenzioso agganciarsi delle immagini dei fatti. A poco a poco si va dalla consueta etica del personaggio o della persona a un'etica della storia narrata. Ma allo stesso tempo, accanto a questa modernità tecnico-narrativa, i racconti del Fenoglio conservano molto anche della favola popolare; hanno il sapore tutto terrestre e contadino di chi, su un sottinteso stupore di fondo che investe tutta la vita, non si meraviglia invece di niente, e va brusco per la sua via.”

Osservando poi come alcuni racconti di particolare «schiettezza» (L’andata, Un altro muro, Ventitre giorni) avessero il pregio di «sgombrare il campo da molta retorica» e dovessero considerarsi tra le espressioni migliori della narrativa sulla recente guerra.

possiamo parlare di onestà: e questo libro lo dimostra»). Di valenza opposta, ma ugualmente fazioso, il giudizio di Davide Lajolo quando attribuisce all’opera di Fenoglio il significato di una «condanna di quell’Italia al potere che non ha voluto trarre le logiche conseguenze da una rivolta popolare che aveva per scopo di sostituire al fascismo una autentica democrazia»

(«La Gazzetta del Popolo», 21 novembre

1976; cfr. Giovanni

Grassano, La critica e Fenoglio, Bologna, Cappelli, 1978, p. 203). Per una rassegna delle

prime recensioni a VGA, cfr. Paolo Briganti, L'alba di Fenoglio cit. © Cfr. Giuseppe De Robertis, Fenoglio scrittore nuovo, «Il Tempo» (Milano), 6 dicembre 1952, poi in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, pp. 562-6 («Umano, infallibile, giusto, perché gli parlava dentro la pietas. L'uomo all’altezza dello scrittore: ed è cosa sopra tutte da pregiare», così concludeva De Robertis il suo intervento); Pietro Citati, 7re libri italiani, in «Journal de Genève», 21 dicembre 1952, e / ventitre giorni della città di Alba, in «Belfagor», 2, marzo 1953, pp. 243-44; Anna Banti, Scuola 0

accademia?

in «Paragone», 34, ottobre 1952, poi in Opinioni, Milano, Il Saggiatore,

1961, pp. 149-52; Gianfranco Contini, Beppe Fenoglio, in La letteratura dell’Italia unita, Firenze, Sansoni, 1968, p. 1012.

? Geno Pampaloni, Nuovi «Gettoni», in «L’Approdo Letterario», ottobre-dicembre 1952, p. 158.

La lezione di Maupassant: Alba come Rouen

73

I giudizi del De Robertis e del Contini, nella loro generale acutezza ed efficacia, sono particolarmente interessanti per singolari riferimenti a scrit-

tori francesi. Nella sua Letteratura dell’Italia unita, scriveva il secondo a

proposito di Ventitre giorni:

[Il racconto] prende nome da uno dei più memorabili episodi della Resi-

stenza nel 1944, la liberazione e il governo per alcune settimane, senz’aiuti stranieri, di Alba: è una trascrizione prettamente esistenziale, non agiografica, di probità flaubertiana (si pensa al referto sugli avvenimenti politici nell’Education sentimentale), tanto più meritoria per chi era stato fra gli attori dell’evento.8

Mentre il De Robertis (il quale, non si dimentichi, elaborava il suo giudizio “a caldo”, basandosi sulla sola lettura di VGA), dopo aver messo in guardia il pubblico dal cadere nel facile equivoco di pensare al giovane scrittore albese come «a un frutto comune di stagione, a un neorealista di qualità piuttosto andante», affermava: [Fenoglio] è scrittore con le sue carte in regola; e io non vi troverei nessuna traccia, intanto, di letteratura americana contemporanea; se mai buone let-

ture francesi del bell’Ottocento, dissuete oggi.”

Il critico non specificava quali fossero, secondo lui, gli autori «del bell’ottocento» ad aver influito nella formazione del Fenoglio, ma il rilievo è degno di nota, e, sebbene non abbia poi to alcun approfondimento, suscitò a suo tempo l’entusiasmo Calvino, che il 7 gennaio 1953 così scriveva al De Robertis:

francesi giovane suggeridi Italo

Sono contento che Lei sia un sostenitore di Fenoglio. Mi vanto d’essere stato io a scoprirlo e segnalarlo a Vittorini. E sono d’accordissimo con la Sua definizione: non neo ma integrale, e buon Ottocento.!9

8 Gianfranco Contini, Op. cit., p. 1012.

9 Giuseppe De Robertis, Op. cit., p. 562. !0 De Robertis dovette rispondere chiedendo informazioni sulla personalità dello scrittore albese, e Calvino tracciò per il cattedratico fiorentino questo interessante ritratto (lettera del 15 gennaio 1953): «Le rispondo sul Fenoglio. E, anche come persona, un tipo insolito nelle nostre lettere, anzi proprio il contrario del solito ragazzo di provincia letterato. È un commerciante di vermouth, non in proprio, ma per una ditta in cui svolge mansioni importanti; e deve saperci fare. È un tipo alto, magro, con una faccia da film

del West, un po’ brutale e accipigliata, caratteristiche accentuate da una triste affezione:

74

Capitolo quarto

2. Com'è noto, la critica crociana guardava con sospetto allo studio delle cosiddette «fonti» o precedenti di un’opera letteraria, mossa dalla convinzione che una tale attività finisse col disconoscere l’unità dell’opera, dissolvendo la sintesi in essa attuata dall’artista. Così il Fubini, in un

articolo dedicato a tale «vecchia questione», riassumeva la radicale negazione del filosofo napoletano: Se mi si dice che l’ Ariosto nella similitudine della rosa ha imitato Catullo,

che giovamento mi viene alla migliore comprensione di quelle ottave da questa notizia? Non potrei io piuttosto essere distratto dall’ascoltare la voce originale inconfondibile del poeta?!

In tempi più recenti, quasi a voler celebrare la caduta di un antico tabù, si è fatto un diffuso ricorso allo studio delle fonti, a volte stabilendo

origini e derivazioni in funzione diminutiva, quasi fosse la «fonte» uno sconveniente cliché, e non la misura della complessità di un testo che simultaneamente riassume la cifra personale dell’artista e gli elementi a lui congeniali della tradizione, dei quali, come affermava T.S. Eliot in un fondamentale saggio, l’artista si impossessa poco a poco, con dedizione totale al suo lavoro e «con grande fatica».'? E dunque nel giudizio equilibrato del Fubini che troviamo un convincente approccio al problema:

una vegetazione di verruche e breve frasi dal giro inaspettato. risoluto, ed è stato comandante ma è uomo che rimugina dentro e in effetti lo è; ciò non toglie

escrescenze sulle guance e sul viso. Parla a scatti, con Non è certo timido (è chiaramente un uomo pratico e partigiano nei badogliani), né è tipo da darsi delle arie; e parla poco. Lo si direbbe un istintivo di poche letture — che a un certo momento lo si scopra traduttore di poeti

inglesi raffinati: John Donne, Hopkins, Eliot. Ora sta facendo un nuovo racconto, ma i

suoi affari e viaggi lo disturbano». Le lettere di Calvino a De Robertis sono conservate presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze (ringrazio Domenico De Robertis per avermene permesso la consultazione). Segnalata da Giovanni Falaschi, la lettera del 15 gennaio 1953 è stata citata da Gian Carlo Ferretti nella sua comunicazione al convegno di studi tenutosi a San Salvatore Monferrato nel settembre 1989 (cfr. Calvino lettore di Fenoglio, in Beppe Fenoglio oggi, a cura di Giovanna Ioli, Milano, Mursia, 1991, p. 253). !! Mario Fubini, A proposito di una vecchia questione: lo studio delle «fonti», in Critica e poesia. Saggi e discorsi di teoria letteraria cit., p. 65. 12 Scrive il critico e poeta americano in Tradition and the Individual Talent: «E tuttavia se la sola forma di tradizione, di trasmissione poetica, consistesse nel seguire le stesse strade della generazione precedente, con una cieca o timida adesione ai risultati ottenuti, la tradizione andrebbe senz'altro scoraggiata. Poiché ne abbiamo visti troppi di rivoletti perdersi nella sabbia, ed è vero che la novità è preferibile alla ripetizione. Ma il concetto di tradizione ha una portata molto più vasta. La tradizione non è un patrimonio

La lezione di Maupassant: Alba come Rouen

pas)

[Nel lavoro necessariamente mediato della critica], che può esercitarsi in vari modi, rientra pure quella che un tempo si disse ricerca delle fonti, 0 meglio quella ricerca, quando non si esaurisce in una aneddotica spicciola e mira piuttosto che ad analogie generiche di situazioni, a particolari concreti del linguaggio di un artista, rilevando incontri o riprese di immagini, di voci e di quegli elementi stilistici che sono i metri.!3

Nel caso della critica fenogliana non sono mancati studi meritevoli che hanno chiarito importanti aspetti della cultura letteraria dello scrittore e cercato di documentare, per dirla con Bruce Merry, «il preciso ammontare del suo prestito dalla letteratura anglo-americana»;!* ma non sono mancate neppure interpretazioni basate su quella «aneddotica spicciola» da cui metteva in guardia il Fubini, prive di riscontri precisi. Tuttavia, essendo gli autori dei primi studi quasi sempre italianisti anglo-americani, il loro interesse si è rivolto unicamente alla letteratura di lingua inglese. E se un tale orientamento poteva apparire giustificato dalla ben nota anglomania dello scrittore, si dovrà altresì constatare che ha avuto l’effetto di precludere altre direzioni di ricerca. Perché le letture di Fenoglio, è il caso di ricordarlo, non si limitavano agli amati classici della letteratura inglese, anche se da questi furono per lungo tempo dominate; così come le sue traduzioni, le quali, come ha osservato

John Meddemmen,

per Fenoglio erano «un tirocinio, un esercizio privato subordinato alle

sue ambizioni di scrittore in proprio»,!? non si limitarono alle traduzioni dall’inglese, anche se queste costituiscono di gran lunga la parte maggiore. Com’era normale per ogni piemontese colto nella prima metà del secolo, Fenoglio conosceva bene il francese, che probabilmente aveva studiato ancor prima di avvicinarsi all’inglese, e che, come dimostrano i

che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica». Cfr. la traduzione italiana di Alfredo Obertello: Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano, Bompiani, 1967, pp. 68-9. 13 Mario Fubini, Op. cit., pp. 64-5. Il brano così continuava: «Che il critico debba partire dalla visione dell’opera nella sua totalità, che essa o, se si vuole, l'impressione o

il sentimento che egli ne riceve, debba essere l’antecedente necessario di ogni suo ragionamento, sta bene, ma per giustificare la propria impressione, egli non può non scomporre, analizzando, quel che è uno, per tornare poi, come sappiamo, all’unità originaria». 14 Fenoglio e la letteratura anglo-americana, in «Nuovi Argomenti», NS. 35-36,

1973, pp. 245. Cfr., inoltre, gli studi citati di John Meddemmen e di Mark Pietralunga.

15 Cfr. Kenneth Grahame, // vento nei salici (The Wind in the Willows nella traduzio-

ne di Beppe Fenoglio), a cura di John Meddemmen, Torino, Einaudi, 1982, p. 207.

Capitolo quarto

76

quaderni d’appunti recentemente scoperti insieme al manoscritto di AP,)° aveva continuato a studiare anche dopo essere stato iniziato «to England and things English».!? Si ricorderà inoltre che nella sua qualità di procuratore della ditta vinicola Marengo & Figli di Alba, dove Fenoglio venne assunto nel 1947, egli curava regolarmente la corrispondenza con la Francia e più volte si recò nella Savoia francese per motivi di lavoro. In una pagina di diario dell’estate 1954, sotto la voce Julien Green, Fenoglio annotò: Letto il Journal 1929-1934 e incominciato il Journal 1935-1939. Green è uomo affascinante e come tale è molto spesso noioso. Green romanziere: a leggere nei Journaux gli accenni all’opera sua, le previsioni ed i commenti ci si fa una grande aspettativa. Il brano di «Pays Lointans» in appendice al Journal

1929-1934 la delude impietosamente.!8

Una lettura, quella di Green, certo non scontata per uno scrittore «ap-

partato e amateur-like» come egli amava definirsi.!? Mentre l’anno successivo, probabilmente su sollecitazione del professor Micheli, primario

dell’ospedale San Lazzaro di Alba e direttore della rivista d’arte «i 4 soli», Fenoglio eseguì la traduzione dal francese di tre articoli che testimoniano, com’è stato osservato, «interessi inattesi e inimmaginabili».29

Questi indizi, di per sé labili e frammentari, servono solo a introdurre la tesi che alcuni precisi riscontri testuali mi sembrano legittimare, e cioè che negli anni 1947-48, agli inizi della sua carriera di scrittore e nel momento in cui passava dalla forma fluida degli «appunti» a quella definita del racconto breve, Fenoglio dimostra di aver letto avidamente, assimilandone la lezione di tecnica e stile, l’opera di uno dei maestri del racconto contemporaneo, Guy de Maupassant, e in particolare i suoi Contes de

16 In uno di questi quaderni figurano «esercizi di lingua francese di mano fenogliana» (cfr. l’Appendice di Lorenzo Mondo in AP, p. 89). !7 «L'insegnante d’inglese stava emergendo dal piano inferiore, la donna che l’aveva ribattezzato Johnny e iniziato to England and things English» (PdB2,1.3, p. 1490).

18 Opere, III, p. 201.

!9 Cfr. Beppe Fenoglio, in Ritratti su misura, a cura di Elio Filippo Acrocca, Venezia, Sodalizio del Libro, 1960, p. 180.

20 Cfr. Gino Rizzo, // «Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, in Fenoglio a Lecce

cit., p. 85. Gli articoli che Fenoglio tradusse per «i 4 Soli» sono: Concezioni dello spaziotempo nella pittura futurista di Gino Severini e Umberto Lardera di Marcel Brion, apparsi sul numero marzo-aprile 1955; e, ancora di Severini, Significato delle prime ricerche astratte (1910-1920), apparso sul numero di maggio-giugno dello stesso anno.

La lezione di Maupassant: Alba come Rouen

ET:

guerre, 0 nella versione originale francese, o in una delle numerose traduzioni italiane pubblicate durante la prima guerra mondiale.2! 3. Come Fenoglio, anche Maupassant aveva vissuto, ventenne, la sua

esperienza di guerra, divenuta poi fonte costante d’ispirazione. Nel 1870, allo scoppiare del conflitto franco-prussiano, era stato arruolato nell’esercito ed aveva così assistito da vicino ai drammatici eventi che avrebbero segnato il destino della Francia contemporanea: la disfatta di Sedan, il crollo dell’impero, l’esperienza della Comune, la nascita della terza repubblica. Dieci anni più tardi, sotto l’egida di Zola, era apparso nel volume collettivo Les Soirées de Médan il suo primo vero racconto, Boule de suif, piccolo capolavoro di osservazione e di ironia ambientato in Normandia, tra Rouen e Tòtes, al tempo dell’invasione prussiana. Più vasta di quella di Fenoglio è l’opera dello scrittore francese, e più variegato il campionario dei temi affrontati negli oltre trecento racconti e nei sei romanzi; ma molte, e sorprendenti, sono le affinità. Per tutto l’arco

della sua breve e intensa carriera letteraria anche Maupassant sarebbe rimasto in gran parte legato ad alcuni temi originali e a un paesaggio privilegiato: la guerra e la dura esistenza dei contadini del nord, quei luoghi della Normandia che erano stati i luoghi cari della sua infanzia. Ha scritto a questo proposito un critico d’oltralpe: [Boule de suif] est a l’origine de la renommée de Maupassant prosateur, cette étude qui se situe en plein pays normand [...]. Et le dernier roman, dont il fit le projet et écrivit quelques pages avant de s’enfoncer dans la nuit de la folie, est cet Angé/us dont le début se place près de Rouen, à Sahurs — au

moment de l’invasion prussienne. Le vie littéraire de Maupassant s’ouvre et se ferme sur les mémes thèmes. Elle est elle-méme fermée, bouclée, comme

la plupart de ses Contes.??

21 Vedi, ad esempio, Guy de Maupassant,Le novelle della guerra, Firenze, Bemporad,

1915.Nella biblioteca del liceo «Govone» di Alba, inoltre, è conservato un volume di racconti dello scrittore francese: si tratta della raccolta Chiaror di luna, pubblicata dal-

l’editore Sonzogno nel 1926 e acquisita dall’istituto albese nel 1928; nell’elenco di «opere dello stesso autore» riprodotto in seconda pagina di copertina, appaiono sottolineati a matita, nel modo che era solito fare Fenoglio sui propri libri di autori inglesi (cfr. Mark Pietralunga, Op. cit., p. 171), i seguenti titoli: Versi, Boule de suif, La mano sinistra, Il vagabondo e Yvette. 22 M.-C. Bancquart, Introduction a Guy de Maupassant, Boule de suifet autres Contes normands, Paris, Garnier Frères, 1971, p. I

Capitolo quarto

78

L’attaccamento filiale di Maupassant alla Normandia, «une Normandie maternelle», com’è stato scritto,73 non è molto dissimile dall’attaccamento di Fenoglio alle Langhe.?4 Né dissimile è il loro modo frontale di aggredire la realtà, rinunciando ad ogni intervento diretto e cercando di rendere, del fatto narrato, l’essenza, il significato profondo. Entrambi osservatori formidabili, sempre attenti a registrare aneddoti, discorsi e tipi umani, rivelano nei loro racconti la simpatia per un certo moralismo popolare. Anche Maupassant, come lo scrittore albese, non amava dissertare sulle sue opere ed enunciare teorie, ma i suoi racconti brevi, spesso capolavori autentici di equilibrio e di originalità, dovettero offrire al giovane Fenoglio un seducente modello.?° Come si riflette dunque la lezione di Maupassant nei racconti di Fenoglio? Innanzitutto nelle peculiarità del dato tecnico-stilistico: la cura quasi ossessiva per la regia e il montaggio della narrazione, la tensione costante alla perfezione del disegno, un’indubbia passione per il ritmo e la fattura della frase, l’estrema concisione del dettato, e, almeno in una significativa istanza, il punto di vista di uno spettatore non coinvolto che osserva con distacco ironico e superiore il comportamento degli uomini sullo sfondo della storia.?f In secondo luogo nella scelta dei temi. Notevoli sono

le similarità, a questo livello, tra i racconti normanni

di

Maupassant e quelli langaroli di Fenoglio. Si pensi al tema del figlio illegittimo, che sembra quasi ossessionare lo scrittore francese, al modo in cui viene da questi trattato nel racconto Le Papa de Simon, che nelle raccolte cronologiche precede immediatamente Boule de suif?? e lo si confronti con il racconto Superino di Fenoglio, dove la figura del patrigno benevolo deriva da quella del racconto di Maupassant anche il nome proprio. E più in generale, si immagini con quale partecipazione Fenoglio

23 Ibid. 24 Si ricorderà l’invocazione finale del quinto capitolo di AP: «Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa» (p. 49). 25 Felice Campanello

ricorda che, durante una conversazione

avvenuta sul finire

degli anni quaranta al bar Savona di Alba, Fenoglio esclamò: «Se sapessi di diventare famoso come Maupassant, metterei una firma lunga da qui al Duomo!» (testimonianza da me raccolta 1’8 giugno 1997). 26 Per il racconto di Fenoglio, Roberto Bigazzi ha parlato di un «anonimo narratore, che appartiene all’ambiente di cui parla e che racconta, a distanza di tempo, i fatti di cui è stato testimone diretto» (Fenoglio: personaggi e narratori cit., p. 16). 27 Cfr. Guy de Maupassant,

74-82.

Contes et nouvelles, vol. I, Paris, Gallimard, 1974, pp.

La lezione di Maupassant: Alba come Rouen

113)

debba aver letto Pierre et Jean, quasi un lungo racconto sull’amore di due fratelli rivali, se è vero che Walter Fenoglio, fratello dello scrittore, in

una testimonianza avrebbe affermato di riconoscersi nel personaggio di

Giorgio Clerici, l’amato-odiato rivale di Milton in QP.28

Tra i molti raffronti possibili si è scelto qui il più significativo, quello tra le opere maestre dei due scrittori: quasi uno sguardo dall’alto sui rispettivi mondi, che tutto abbraccia e ne restituisce, sulla pagina, la sintesi Vitale.

4. In Boule de suif, un gruppo composito e rappresentativo di borghesi di Rouen fugge in seguito all’occupazione della città da parte delle truppe straniere. Al primo controllo la loro carrozza viene fatta bloccare da un ufficiale prussiano il quale pone come condizione per il proseguimento del viaggio che uno dei passeggeri, la prostituta Boule de suif, ceda alle sue voglie. La meschinità e l’ipocrisia dei borghesi vengono quindi smascherate per contrasto dall’inaspettata dignità della donna: prostituta sì, ma generosa e patriottica. Diversa è la fabula di Ventitre giorni, perfettamente riassunta nel celebre incipit («Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944») e interamente risolta in coralità. Protagonista del racconto è la città stessa, e nessun altro. Anche i nomi propri evocati sono unicamente quelli toponimici. Si hanno così «i partigiani», «i repubblicani», «i fascisti», «i capi», «i gerarchi», «le ragazze», «le maîtresses», «i borghesi», «la gente», «i cittadini»; e inoltre «il Comandante la Piazza», «il federale di tutto il Piemonte», «il parroco», «un prete della Curia», oppure «quel partigiano semplice» etc., ma nessuno di essi ha un volto, nonché un nome: solamente le loro azioni in funzione della città li descrivono. Quando, nel finale, il Comandante ordina la ritirata, e «arriva di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi

bambini delle elementari», la città appare ai partigiani nella sua personalità ferita; ed è l’unico momento di tutto il racconto in cui la potente ironia e il tono quasi burlesco del narratore hanno uno scarto cedendo alla pietas: Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la

testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura. (p. 19)

fra tema e simbolo, Ravenna, Longo, 28 Cfr. Maria Grazia Di Paolo, Beppe Fenoglio 1988, p. 52.

Capitolo quarto

80

L’analogia di Ventitre giorni con Boule de suif, a questo primo livello, è solo nello spunto iniziale: una città che in tempo di guerra vede alternarsi le forze occupanti (in Boule de suif escono le truppe francesi ed entrano quelle prussiane; in Ventitre giorni escono i fascisti ed entrano i partigiani). Eppure una comune sensibilità artistica e una congeniale visione del mondo permettono a Fenoglio di mutuare particolari concreti del linguaggio di Maupassant, assumendone lo stile e il ritmo della frase, le caratteristiche morali del narratore anonimo, la demistificante ironia

con cui viene descritto il comportamento umano in tempo di guerra. Si vedano gli antefatti all'occupazione delle rispettive città: La Guardia nazionale, che da

due mesi effettuava con grande prudenza ricognizioni nei boschi vicini, prendendo talvolta a fucilate le

sue stesse sentinelle e preparandosi alla battaglia se un coniglietto si muoveva tra i cespugli, era tornata al riparo. Le armi, le divise, tutto

l’equipaggiamento di morte col quale fino a ieri spargeva il terrore tra le pietre miliari delle strade maestre per tre miglia all’intorno, erano scomparsi all’improvviso. (Bou-

le de suif, p. 4)?? Gli ultimi soldati francesi avevano finalmente attraversato la Senna diretti a Pont-Audemer per Saint-Sever e Bourg-Achard; chiudeva la marcia, a piedi tra due ufficiali d'ordinanza, il generale, disperato, che non poteva tentare nulla con quei brandelli eterogenei, sperduto com’era anche lui nel grande sfacelo di un popolo abituato a vincere e disastrosamente sconfitto malgrado il suo valore leggendario. (Boule de suif, p. 4)

Ai primi d’ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare

il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline (non dormivano da settimane, tutte le notti

quelli scendevano a far bordello con le armi, erano esauriti gli stessi borghesi che pure non lasciavano più il letto), il presidio fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l’incolumità dell’esodo. I partigiani garantirono, e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò. (Ventitre giorni, p. 5) I repubblicani passarono il Tanaro con armi e bagagli, guardando indietro se i partigiani subentrati li seguivano un po’ troppo dappresso [...] Poi dalla città furon visti correre a cerchio verso un punto unico: era la truppa che si accalcava a consolare i suoi ufficiali che piangevano e mugolavano che si sentivano morire dalla vergogna. (Ventitre giorni, p. 5)

29 Questa, e tutte le seguenti citazioni, sono tratte da Guy de Maupassant, Racconti della

guerra franco-prussiana (traduzione di Gioia Zannino Angiolillo), Torino, Einaudi, 1968.

Due sole presenze pubbliche fuori di Alba Nel dicembre del 1953 Fenoglio si recò a Roma per partecipare al Convegno Nazionale dei Giovani Scrittori. La foto sopra, apparsa su «La Fiera Letteraria» del 24 gennaio 1954, lo ritrae fra Italo Calvino (primo a sinistra), Paride Rombi e Ugo Moretti. Per il racconto Ma il mio amore è Paco, pubblicato su «Paragone» nel giugno del 1962, a Fenoglio venne assegnato il Premio Alpi Apuane. Sia pure gravemente malato, Fenoglio volle recarsi alla sobria cerimonia che si tenne il 20 agosto al Pasquilio, in alta Versilia, e a cui parteciparono, fra gli altri, Anna Banti, Leonida

Repaci, Roberto Longhi, Giorgio Bassani e Pietro Del Giudice (riconoscibili accanto al busto marmoreo di Enrico Pea). Le foto che seguono, scattate dal carrarese Ilario Bessi, colgono in delicati contrasti lo stato d’animo dello scrittore; il malcelato dolore e un’ostentata soddisfazione.

La lezione di Maupassant: Alba come Rouen

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Nel racconto di Maupassant, le truppe francesi in rotta attraversano la città di Rouen all’incalzare dell’armata prussiana; in quello di Fenoglio sono i partigiani che percorrono da vincitori la via Maestra di Alba dopo la fuga ingloriosa dei fascisti. In entrambi i casi la singolare sfilata è vista con gli occhi di uno spettatore anonimo che ne sottolinea gli aspetti grotteschi: Non erano soldati ma orde allo sbaraglio. Gli uomini avevano la barba lunga e sporca, divise cenciose, e procedevano con un’andatura molle, senza bandiera, senza reggimento. Si vedevano soprattutto dei richiamati, persone pacifiche, tran-

quilli benestanti, curvi sotto il peso del fucile; ragazzi della premilitare facili alla paura e all’entusiasmo, pronti all’attacco quanto alla fuga; poi, in mezzo a loro, qua e là dei pantaloni rossi, residui di una divi-

sione decimata in una grande battaglia; artiglieri vestiti di scuro in fila con tutti quei fantaccini e, a volte, l’elmetto scintillante di un dragone dal passo appesantito che

seguiva a fatica la marcia più leggera dei fanti. Passavano anche, con espressioni da banditi, schiere di

Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n°era per cento carnevali. Fece impressione senza pari quel partigiano semplice che passò vestito con l’uniforme di gala di colonnello d’artiglieria con gli alamari neri e le bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio. Sfilarono i badogliani con su le spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, por-

tavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti al passaggio della corsa; lesse nomi romantici e formidabili, che anda-

vano da Rolando a Dinamite. (Ventitre giorni, p. 6)

franchi tiratori dalle denominazioni eroiche: «Vendicatori della sconfitta — Cittadini della tomba— Compagni della morte». (Bou/e de suif, p. 3)

La vanagloria dei superiori è messa in ridicolo con ferocia da Maupassant, con più sottile sarcasmo e ironia da Fenoglio, ma con eguale esito dissacratorio: I loro comandanti, ex negozianti di tessuti e granaglie, ex mercan-

ti di sego o di sapone, guerrieri di circostanza diventati ufficiali gra-

A proposito dei capi, i capi erano subito entrati in municipio per parlare col commissario prefettizio e poi, dietro invito dello stesso, si

Capitolo quarto

82 zie al loro denaro o alla lunghezza dei loro baffi, carichi di armi, di fla-

nella e di galloni, parlavano con voce

rimbombante,

discutevano

piani militari e sostenevano di reggere da soli, sulle loro spalle di fanfaroni, la Francia agonizzante. (Boule de suif, pp. 3-4)

presentarono al balcone, lentamente, per dare tutto il tempo ad un

usciere di stendere per loro un ricco drappo sulla ringhiera. [...] su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini, e poi in prima fila si vedeva un capo che su dei calzoncini corti come quelli di una ballerina portava un giubbone di pelliccia che da lontano sembrava ermellino ed un altro capo che aveva una divisa completa di gomma nera, con delle cerniere abbaglianti. ( Ventitre giorni, p. 7)

Le dure leggi dell’occupazione militare conducono inevitabilmente ad abusi e a disagi per la popolazione civile: A tutte le porte picchiavano piccoli distaccamenti che poi sparivano nelle case. Era l’occupazione dopo l’invasione. Cominciava per i vinti il dovere di mostrarsi gentili verso i vincitori. (Bou/e de suif,

p. 5)

Altri giravano con in mano un elenco degli ufficiali effettivi e di complemento della città, bussavano alle loro porte vestiti da partigiani e ne uscivano poi bardati da tenenti, capitani e colonnelli. [...] Quella prima notte d’occupazione passò bianca per civili e partigiani. Non si può chiudere occhio in una città conquistata ad un nemico che non è stato battuto. (Ventitre giorni, p. 8)

Ed ecco le preoccupazioni meschine dei borghesi, la maggior parte dei quali non manca di familiarizzare con i vincitori del momento: Poi era scesa sulla città una cal-

I borghesi nell’insonnia ricorda-

ma profonda, una silenziosa atte-

vano che la sera, nel primo buio,

sa grave di paura. Molti borghesi

quel pericolo era nell’aria e strana-

panciuti, infrolliti dal commercio,

mente deformava le case e le vie, rendeva la città a momenti irriconoscibile a chi c’era nato e cresciuto |