ANALISI DEI SIGNIFICATI

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ANALISI DEI SIGNIFICATI

Table of contents :
ANALISI DEI SIGNIFICATI
PREMESSA
note
I. LA SCOPERTA DELLE OPERAZIONI COSTITUTIVE
1.1 Semantica e cibernetica
1.2 La scienza dei significati
1.3 L'errore dei filosofi
1.4 Osservati e categorie
1.5 L'attenzione e la memoria
note
II. LE CATEGORIE ATOMICHE
2.1 Memoria strutturale e riassuntiva
2.2 La verbità, la sostantività e l'aggettività
2.3 Forme e contenuti
2.4 Desinenze e posizione della parola nella frase
2.5 Forma morfemica e forma tematica
note
III. LE CATEGORIE ELEMENTARI DI COMBINAZIONE
3.1 Combinazione, metamorfizzazione ed inserimento
3.2 Il singolare ed i sinsolarizzatori
3.3 Il correlatore e le correlazioni
3.4 Il soggetto e l'oggettivo
3.5 Il plurale ed il duale.
3.6 L'operazione e l'avverso
3.7 I momenti non combinabili
note
IV. LE CATEGORIE ELEMENTARI DI MORFO—INSERIMENTO
4.1 I verbi elementati
4.2 Inizio, fine e derivati sostantivali dei verbi
4.3 Spaziale, temporale e derivati aggettivali dei verbi
4.4 Modo, mezzo, sostanza ed accidente
45 Diverso, uguale, quanto e quale
4.6 La tabella 'standard' delle categorie elementari
note
V. VARIAZIONI FORMALI ED ETIMOLOGICHE
5.1 Le equivalenze
5.2 Omonimi e sfumature semantiche omonime
5.3 I diali
5.4 Le variazioni formali
5.5 Le variazioni etimologiche
5.6 Gli astratti
5.7 Il formalismo
5.8 Le variazioni formali dei verbi
5.9 I verbi servili
5.10 Le modalità
note
VI. LE NOVAZIONI SEMANTICHE
6.1 Articoli e pronomi
6.2 Novazioni semantiche di derivati delle categorie elementari di combinazione
6.3 I fondamenti dell'aritmetica
6.4 Novazioni semantiche di derivati delle categorie elementari di morfo-inserimento
note
VII. I SINGOLARIZZATORI
7.1 Assunzione delle categorie atomiche come riferimenti e riferiti
7.2 I singolarizzatori completi delle categorie atomiche
7.3 I singolarizzatori dei verbi elementari
7.4 Cause ed effetti
7.5 Leggi deterministiche e teleologiche
7.6 Determinismo, libertà e probabilismo
7.7 Schemi esplicativi derivanti dalle cause e dagli effetti
7.8 Le leggi sociali
7.9 Cronaca e storia
7.10 Singolarizzatori derivanti dal confronto
7.11 I termini tecnici della semantica
note
VIII. LE CORRELAZIONI
8.1 Le correlazioni intraproposizìonali ed interproposizionali
8.2 Le categorie sintattiche
8.3 Morfologia, sintassi e logica
8.4 I casi e le preposizioni
8.5 Le preposizioni superiori
8.6 Differente uso delle preposizioni nelle varie lingue
8.7 Le congiunzioni elementari di coordinazione
8.8 Il subordinatore implicito
8.9 I coordinatori superiori primari
8.10 I coordinatori superiori derivati
8.11 I subotdinatori binari di combinazione
8.12 I subordinatori soggettivali ed oggettivanti
8.13 I subordinatori ternari
8.14 Il subordinatore quinario
CONGIUNZIONI SUBORDINANTI
note
IX. GLI OSSERVATI
9.1 Presenziati specifici e generici
9.2 Categorizzazione tematica soggettivale ed oggettivale
9.3 Osservare, vivere, avere sensazioni
9.4 Esistere ed essere consapevole
9.5 Il fisico
9.6 Lo psichico
9.7 Il lessico psichico
9.8 L'osservazione estetica
9.9 La cinematica
note

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ANALISI DEI SIGNIFICATI GIUSEPPE VACCARINO ARMANDO ARMANDO EDITORE - ROMA © 1981 Editore Armando Armando Via della Gensola 60-61 - Roma

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PREMESSA La semantica, nel senso da mie inteso, è la scienza che analizza le operazioni costitutive dei significati ed in particolare quelle mentali. Essa perciò ha il compito di occuparsi delle singole parole e delle loro correlazioni, ma deve anche intervenire in specifici campi, ad esempio quelli della logica, della matematica, ecc. quando ci si occupa dei cosiddetti « fondamenti ». Infatti si tratta in tutti i casi di significati da analizzare con un metodo che deve essere univoco se effettivamente in grado di descrivere come si svolge l'attività mentale. Le ricerche a cui ho avuto la fortuna di potermi dedicare, mi hanno sollecitato con prospettive sempre più stimolanti ad allargare continuamente l'ambito delle indagini, suggerendomi anche criteri di verifica con i quali ho potuto procedere a revisioni e perfezionamenti in anni di lavoro paziente, ma esaltante. Ancora oggi ho parecchie incertezze, ma il nucleo delle conclusioni a cui giungo mi sembra sufficientemente solido. So, per altro, che ad un certo punto è utile una pausa per fare un bilancio dei risultati e sottoporli al giudizio altrui. Ho capito che era venuto il momento di scrivere soprattutto rendendomi conto dell'interesse degli studenti. Essi infatti non solo seguono le mie lezioni con evidente partecipazione, ma mi intrattengono con discussioni, richieste di chiarimenti, suggerimenti. In questi colloqui ho potuto effettuare un collaudo delle mie analisi, riscontrando che sono perfettamente convincenti per chi ha acquistato un minimo di dimestichezza con ricerche del tipo. Invero la certezza di essere capiti si ha solo quando l'interlocutore diviene un collaboratore. Allora scompare definitivamente il dubbio di essere vittima di illusioni, credo presente in tutti coloro che hanno avuto la sorte di poter esporre vedute originali. E qualche collaboratore comincio ad averlo. Ho portato a termine un primo grosso volume sulle operazioni costitutive dei significati e sto lavorando ad un secondo, riguardante le relazioni consecutive ed i fondamenti operativi della logica. Purtroppo incontro difficoltà forse insuperabili per la pubblicazione. Gli editori dicono che la stampa di un trattato di tale mole richiede un notevole impegno finanziario, non copribile in alcun modo dai ricavi. Bisognerebbe ottenere un finanziamento, ma inutilmente mi sono rivolto a Centri, Enti, 2

Università, ecc. Forse occorrono amicizie potenti, forse bisogna passare attraverso la via della politica, forse non so presentarmi con il necessario prestigio; ma probabilmente gioca soprattutto la difficoltà che sempre e dovunque hanno incontrato le idee nuove a farsi strada solo per il fatto di essere nuove. Ho ritenuto opportuno accennare a questi particolari volendo difendermi dall'accusa di non darmi abbastanza da fare per rendere noti i risultati delle mie ricerche, ma anche per ringraziare l'Editore Giuseppe Carbone di Messina, che qualche anno fa si è assunto l'onere di pubblicare un libro in cui espongo alcuni dei principali risultati a cui sono pervenuto1. Considero ancora valido nelle grandi linee quanto in esso è scritto, ma revisioni, in alcuni casi consistenti, appaiono ora inevitabili. Il presente volume riprende sotto una differente prospettiva i concetti fondamentali esposti in quel libro nell'intento di presentarli in una forma più semplice, anche se non propriamente divulgativa. Per quanto tralascio o semplicemente accenno devo rimandare al futuro trattato. Per questo mio nuovo lavoro sono grato oltre che all'Editore Armando Armando anche all'amico Vittorio Somenzi. Ringrazio altresì tutti coloro che mi hanno aiutato con osservazioni e suggerimenti, in particolare A. A. Gurnari e C. È. Menga nonchè A. Laganà, che si è assunto l'onere di correggere le bozze.

note 1 Giuseppe Vaccarino, La chimica della mente. La semantica ricondotta alle operazioni costitutive dei significati. Messina, Carbone Editore, 1977.

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I. LA SCOPERTA DELLE OPERAZIONI COSTITUTIVE 1.1 Semantica e cibernetica Poiché parlando della mia semantica spesso la qualifico come « operativa », è opportuno avvertire che non si tratta dell'operazionismo di P. W. Bridgman, fisico e Premio Nobel per le sue ricerche sperimentali. Mi riferisco invece alle tesi della Scuola Italiana, facente capo a Silvio Ceccato. Innegabilmente l'etichetta « operativa » può perciò provocare confusione e sarebbe senz'altro opportuno accantonarla se non risultasse particolarmente efficace per caratterizzare il metodo di cui mi avvalgo. D'altra parte posso assicurare che non sì tratta affatto di un furto! Il termine fu proposto in modo del tutto indipendente da Ceccato nell'immediato dopoguerra. Allora egli curava insieme con Vittorio Somenzi e con me la pubblicazione della rivista Methodos, che avevamo fondato dopo la breve esperienza di Sigma 1. Eravamo perciò in continuo contatto personale ed epistolare, Ceccato mi aveva dato da leggere un suo manoscritto in cui cominciava a parlare appunto di « operazionismo », proponendo una distinzione, che poi lasciò cadere, tra operazioni trasformative ed apportative. Allora era ancora difficile ricevere libri e riviste dall'estero, ma cominciava ad arrivare qualcosa. In una pubblicazione straniera, giuntami per vie traverse, trovai un breve cenno del punto di vista di Bridgman, presentato appunto come « operazionismo ». Preoccupato perciò che il termine fosse stato già accaparrato da altri, segnalai a Ceccato la cattiva notizia. Egli allora riuscì a procurarsi, credo tramite Padre Gemelli, una copia di The Logic of Modern Physics, tradotto poi nel 1952 da Vittorio Somenzi, e mi comunicò, se mal non ricordo con un telegramma, di stare tranquillo perché Bridgman era solo un empirista. L'operazionismo di Bridgman riconduce appunto concetti come quelli di « spazio » e di « tempo " alle operazioni di misura con il regolo e l'orologio, cioè all'impiego pratico che di essi fa la fisica. Talvolta viene associato con le vedute del secondo Wittgenstein, secondo le quali i significati di tutte le parole corrispondono semplicemente al loro uso nel parlare quotidiano e 4

non è scientifico tentare di andare oltre. Si tratta di un punto di vista programmaticamente antisemantico, secondo il quale i significati non dovrebbero essere definiti ma solo adoperati, quasi non fosse affare nostro occuparci della loro costituzione. Bridgman e Wittgenstein non dicono a chi bisogna affidarli per competenza, ma il filosofo realista ha dato da tempo la possibile risposta, invocando di volta in volta un Dio creatore, uno spirito dialettico artefice di tutto, una Natura in cui tutto è dato, ecc. L'impegno operazionista, nel senso della Scuola Italiana, impone, giusto all'opposto, la ricerca delle operazioni costitutive di tutti i significati, distinguendo, tra l'altro, i mentali, dai fisici e dagli psichici. I limiti di Bridgman sono appunto quelli dell'empirista, traviato dal pregiudizio che la validità scientifica sia limitata al fisico. Perciò quando si imbatte in contenuti palesemente non tali, che tuttavia sono universalmente accettati e perciò sarebbe follia voler sopprimere (ad esempio, quelli della matematica) non è in grado di proporre alcuna analisi. Brideman talvolta ammette esplicitamente la liceità di operazioni mentali pur non occupandosi di esse, talvolta sembra assumere una posizione behaviorista, ad esempio, quando caratterizza i costrutti non fisici usando l'espressione infelice « operazioni carta-e-matita ». Ceccato adoperò il termine « operazionismo » fin dall'inizio delle sue ricerche, ma in modo ancora piuttosto vago. Allora avevo delle simpatie per le tesi neo-positiviste, pur ritenendo che dovessero essere filosoficamente precedute da una teoria della conoscenza o « metaconoscenza », attingente a spunti di tipo idealista e perfino esistenzialista, alla quale assegnavo il compito di chiarire e descrivere le esigenze conducenti alla scelta del metodo scientifico come il solo accettabile. Pubblicai la mia teoria in varie puntate sulla rivista Sigma, difendendola dagli amichevoli, ma tuttavia violenti attacchi di Ceccato. In verità egli era ancora alla ricerca di una strada sua, proponendo vedute senza dubbio brillanti, in parte suggerite da un'attenta lettura di H. Dingler, ma non tuttavia fino al punto di soddisfarmi. Le divergenze ci portavano a discussioni accanite ma stimolanti, credo non solo per me. Qualche volta venivano rese ancora più vivaci dalla presenza di altri interlocutori. Ricordo le violenze verbali di Ceccato contro F. Gonseth, che tuttavia in qualche modo rientrava nelle sue grazie per aver parlato della logica come « fisica dell'oggetto qualunque ». Gonseth, Ceccato e Somenzi erano venuti insieme in Sicilia a passare le vacanze presso di me. Da quell'incontro nacque, tra l'altro, l'idea di fondare la rivista Methodos come organo del nostro gruppo, che allora si chiamava « Centro Italiano di 5

Metodologia ed Analisi del Linguaggio ». Subito dopo concordai con. I. Bochefiski, che avevo conosciuto ad Amsterdam nel 1948 in occasione del Congresso Internazionale di Filosofia, di ospitare una sezione autonoma di logica simbolica. Potemmo così contare fin dai primi numeri sulla collaborazione di nomi illustri, che certamente diedero lustro alla nostra giovanile iniziativa. Confesso che allora avevo ancora un profondo rispetto per la logica simbolica, che studiavo accanitamente, attendendomi da essa grandi cose, mentre Ceccato la considerava con distaccata ironia. Pubblicai su Methodos qualche lavoro proponendo un'impostazione della logica in chiave operativa, ma secondo Ceccato restavo sempre troppo legato ad un modulo a suo avviso erroneo. Tra l'altro ad un mio articolo sull'« Origine delle classi » fece seguire un contro articolo in cui manifestava il suo dissenso. Dopo qualche anno egli sentì il bisogno di andare via dall'Italia, anche perché irritato per il modo con cui era stato estromesso dall'Università di Milano ove, a quanto ho capito, suscitava troppe gelosie. Egli soggiornò in Francia, in Inghilterra ed in Germania e per forza di cose i nostri contatti, anche epistolari, rallentarono. D'altra parte io ero costretto da esigenze familiari a dedicare la maggior parte delle mie giornate ad attività mercantili avvilenti e defatiganti. Ci voleva proprio tutta la mia passione per non abbandonare completamente gli studi! Tra l'altro non avevo potuto neanche utilizzare }a libera docenza in Filosofia della Scienza, che avevo preso con Vittorio Somenzi nel 1955. Solo nel 1970, chiusa definitivamente ogni mia attività extra-scientifica, ho potuto chiedere un incarico universitario. Con Ceccato continuavo a vedermi tutte le estati, dato che egli aveva preso l'abitudine di passare le vacanze nell'Isola di Vulcano, proprio di fronte a Milazzo, ove io abitavo; ma non avevo avuto modo di rendermi conto dell'evoluzione delle sue vedute. Perciò per me fu una vera rivelazione la lettura della premessa (intitolata « Modificazioni ed innovazioni ») al secondo volume della sua raccolta di scritti Un tecnico fra i filosofi2. Ebbi subito la precisa sensazione che egli avesse trovato la chiave che permetteva di affrontare in modo concreto anche i miei problemi, cioè la chiave appunto | « operativa » nel senso in cui adopero la parola in queste pagine. 'Non potevo avere il dubbio di essere plagiato dai personali rapporti di amicizia: infatti fino ad allora avevo trovato le sue vedute solo intelligenti, mentre ora mi sembravano geniali. Non sono riuscito mai a capire esattamente attraverso quali stimoli e ripensamenti 6

egli 'sia pervenuto alla scoperta del « mentale » e del metodo con cui può essere affrontata la sua analisi. L'ho intrattenuto più volte sull'argomento, ma a distanza di tempo egli stesso non è stato in grado di ricostruire l'evoluzione del suo pensiero. Comunque fece il grande passo durante la permanenza a Parigi. Devo però anche aggiungere che già leggendo quelle pagine ebbi l'impressione che la genialità dell'impostazione non fosse accompagnata da uno svolgimento tecnico sufficientemente fecondo. Capii che era indispensabile una partenza più ricca di quella costituita dai momenti di « attenzione pura », da lui indicati come una successione di « S » associate in coppie, alla loro volta associabili con altre « S » od altre coppie. Mi misi subito a cercarla è presto ebbi la sensazione di aver imboccato una strada migliore. Riuscivo infatti a proporre un sistema di formule corrispondenti in modo soddisfacente a quello parole ricondotte alle tradizionali categorie grammaticali. I dubbi non mancavano, ma potevo procedere sia pure proponendo spesso soluzioni provvisorie da rivedere poi nei successivi sviluppi. Un po' per volta riuscii ad individuare con certezza i significati corrispondenti alle formule più semplici. Si trattava allora di passare da esse alle derivate, considerandole tutte come « costrutti » ed insieme « operazioni », in quanto semantizzanti dinamismi riconducibili a momenti dell'attenzione ritmicamente applicata ed interrotta. Venni a disporre allora di un criterio di analisi in linea di principio estendibile a tutto il lessico nonché alle correlazioni sintattiche. Senza dubbio sul piano metodologico mi furono utili gli studi universitari di chimica. Si trattava infatti di formulare una chimica della mente avvalentesi di criteri esplicativi poggianti non solo sugli specifici contenuti, ma anche sulle forme dei vari costrutti, in quanto riconducibili a prototipi. Mi rendevo conto che certi derivati sono « verbi », « sostantivi », « preposizioni », ecc. allo stesso modo come per i chimici i composti caratterizzati da un —OH sono alcooli o quelli aventi un —COOH sono acidi. Ero convinto che Ceccato dovesse accogliere con entusiasmo la mia innovazione e che lavorando insieme avremmo raggiunto in breve importanti traguardi. Invece purtroppo egli si fermò, credo, alla prima pagina del manoscritto che gli mandai, dichiarando inaccettabile l'intervento dei momenti dell'« attenzione interrotta », che a mio avviso dovevano essere introdotti accanto a quelli dell'« attenzione attiva » per descrivere le operazioni mentali. Inutilmente insistetti, sottolineando che, in definitiva, il successo di una teoria scientifica dipende in larga parte 7

dalla sua portata euristica e che io con la mia partenza binaria (tra l'altro parallela a quella dei calcolatori aritMetici e logici) riuscivo ad approntare una formulistica adeguata all'analisi del vocabolario e della grammatica, nonché in grado di fissare i fondamenti di discipline come la logica e la matematica. Successivamente le divergenze tra i nostri punti di vista si accentuarono. Ceccato puntò infatti sulla cibernetica, sia pure differenziando la sua (« logonica ») da quella tradizionale (« bionica »). Egli voleva suscitare interesse e curiosità in un vasto pubblico parlando di macchine pensanti; ma era guidato anche da intenti validi sul piano scientifico. In sostanza riteneva di potersi difendere attraverso la cibernetica gli attacchi dei fisicalisti, secondo i quali « il mentale » non è suscettibile di indagine scientifica, dato che quanto viene asserito su di esso non è verificabile con l'osservazione. Egli anzitutto obiettava che la scienza non è data dal tipo di 'oggetti di cui ci si occupa ed in particolare non si limita affatto a quelli naturalistici. È invece un modo di procedere, un metodo che si 'articola in vari criteri, tra i quali fondamentale quello della ripetibilità. Tra l'altro in tal modo distingueva la scienza dalla storia sollevando 'di conseguenza le reazioni di coloro che invece attribuivano a questa disciplina, meglio ancora se trasfigurata in « dialettica », il compito di somma artefice di tutto ciò che riguarda l'uomo. Vero è che anche i linguisti strutturalisti avevano dato, in definitiva, la priorità al sincronico rispetto al diacronico, ma si trattava di distinzioni non del tutto chiare sul piano metodologico. Egli affermava invece senza possibilità di equivoci che la scienza si occupa del ripetibile, la storia invece dell'irripetibile, tale perché ancorato ad un momento temporale e ad un posto. Di conseguenza poteva opporre agli avversari che lo studio delle operazioni mentali si rende scientifico se le analisi proposte risultano ripetibili nel senso che chi torna a considerarle le ritrova valide e coloro che si occupano di esse concordano nel sentire che sono fatte in un certo modo. Tuttavia per ritorcere le critiche dei fisicalisti contro le loro stesse premesse, Ceccato ritenne che oltre a questa verifica primaria di tipo introspettivo, se ne dovesse dare un'altra indiretta di tipo fisico. Egli pensava, d'accordo con Somenzi, che se le operazioni mentali sono adeguatamente analizzate, devono poter essere effettuate invece che con l'organo costituito dal cervello e dai centri nervosi superiori, da congegni artificiali, sia pure limitandosi a modelli ridotti. Si trattava insomma di costruire una macchina pensante, della quale tentò anche una 8

realizzazione (« Adamo II »). Su questo terreno smisi di seguirlo. Egli si avvalse della collaborazione di ingegneri come E. Maretti e R. Beltrame. Non avevo alcuna competenza di tipo tecnico, ma ero anche convinto che la difficoltà di fondo non fosse quella di approntare una macchina, in quanto non sarebbe mancato lo specialista in grado di costruirla se si fosse saputo con precisione cosa farle fare. Era dalla semantica che bisognava partire, non dalla cibernetica. Ceccato continuava a proporre analisi senza dubbio acute, ma a mio avviso insufficienti e sotto certi aspetti arbitrarie. Tuttavia tenevo sempre presenti le sue affermazioni e cercavo, quando mi sembravano particolarmente brillanti, di tradurle nelle mie formule. Qualche volta si mostravano devianti, ma più spesso mi erano utili. Man mano che procedevo mi rendevo conto che quella verifica, della quale egli tanto giustamente si preoccupava, veniva data nel modo più semplice e convincente dall'organizzazione del sistema stesso. Constatavo che non era possibile procedere nelle interpretazioni semantiche con assoluto anarchismo: bisognava invece cercare formule di un certo tipo in corrispondenza di parole di un certo tipo. La individuazione veniva così localizzata in ambiti ben precisi, determinati da criteri di coerenza, cioè era 'pilotata da un sostrato teoretico. Ad esempio, il significato di una congiunzione come « e » o di una preposizione come « di » doveva essere ricondotto ad una formula avente la particolare forma di « correlatore ». Le « strutture » del mio sistema non avevano però nulla a che fare con quelle ontologizzate, allora di gran moda tra i filosofi, fondate sull'errore di considerare le relazioni come un'organizzazione primaria, in quanto tale da essere lasciata inanalizzata, determinante i significati dei relazionati. Gli strutturalisti in definitiva proponevano un'ennesima versione della « realtà » filosofica tradizionale e quindi effettuavano implicitamente una rinuncia all'analisi delle operazioni costitutive dei significati. Secondo il mio punto di vista il semanticista invece deve trovare come costruiamo i significati operando mentalmente e non già considerare come essi possano provenire da pretese relazioni che li precedano. Il mio sistema si adeguava perfettamente a quest'obbligo ed al pari di quello della chimica si estrinsecava in una progressiva articolazione passando dai costrutti più semplici ai meno semplici, secondo criteri esattamente definiti. Una volta fissato il modo di ottenere le formule e precisate le interpretazioni semantiche fondamentali, esso procedeva da 9

solo conducendo a soluzioni talvolta insperate ed inattese. Fu proprio il sistema a farmi constatare che la grammatica tradizionale era molto più solida di quanto sospettassi e gli strutturalisti credessero. Ovviamente si imponeva qua e là qualche ritocco, ma le vecchie categorie grammaticali e sintattiche sostanzialmente venivano ritrovate. Oggi sono convinto che esse costituiscono una delle più importanti eredità che abbiamo ricevuto dagli antichi. Di conseguenza trovo gratuite e presuntuose quelle moderne e modernissime teorie che con disinvoltura sfornano classificazioni su classificazioni puntando su nuove nomenclature con la pretesa che debbano essere considerate « scientifiche » per una loro misteriosa virtù etimologica. Invero il fisicalista e l'ontologista ritengono che i significati ci siano dati, cosicché all'uomo spetterebbe solo il compito di proporre le parole meglio adatte per coglierli come oggetti da conoscere nella loro interezza. In questo senso i fabbricanti di terminologie fondate su neologismi commettono l'errore di Eraclito e dei presocratici in genere di ritenere che i nomi appartengano per natura alle cose, cosicché fissando quelli « giusti », perverremmo alla automatica conoscenza dei « veri » denominati..Tale ancestrale teoria, dichiarata a gran voce assurda a partire da Democrito ed Aristotele, affiora subdolamente in queste modernissime ricerche. La strada che deve essere percorsa da chi vuole procedere con una metodologia scientifica è giusto quella inversa. Bisogna partire dall'analisi dei significati per rendersi conto di come sono costituiti e quindi passare da essi alle parole. Il neologismo è lecito solo in quei rari casi in cui la lingua corrente non ci dia la parola adatta.

1.2 La scienza dei significati Riflettendo sull'analisi dei significati alla luce del metodo operativo, mi rendevo conto che delle vecchie simpatie giovanili, il neopositivismo, la filosofia analitica, ecc. restava valido solo il concetto che: i problemi filosofici devono essere ricondotti a problemi linguistici e le disquisizioni di molti famosi pensatori, viste in questa chiave, diventano allora formulazioni prive di senso (sinnlos); da intendersi come diverse dalle « false », le quali hanno ancora un senso. Ma Ceccato aveva ragione di radicalizzare per un verso questa formula, considerando genericamente metafore irriducibili le espressioni non corrispondenti a significati operativamente costituiti, e per l'altro di restringerla, opponendo al Circolo di Vienna che oltre che del fisico e del tautologico bisogna tenere conto del « mentale ». Sotto questo profilo egli trovava che Kant, con il suo « sintetico a priori », aveva visto giusto pur non avendo tentato vere e 10

proprie analisi. Ora mi accorgevo anch'io che, appena si trattava di procedere costruttivamente, i neo-positivisti nonostante il loro preteso rigore, non facevano alcun serio passo in avanti rispetto alla tradizione. Infatti finivano per presentare anch'essi una filosofia fondata sulla « conoscenza » di dati inanalizzati ed inanalizzabili. Arrivai alla conclusione che sul piano tecnico la filosofia in genere aveva semplicemente tentato di privilegiare di volta in volta certe parole, considerandole depositarie di significati primari, tali per una loro intrinseca virtù destinata a restare misteriosa. Questa era la funzione da sempre assegnata a « essere », « realtà », « verità », '« esistenza », « concetto », ecc. Si erano scritti tanti libri, ma sistematicamente veniva trascurato giusto l'essenziale, cioè l'obbligo di definire anzitutto il significato di termini del genere senza indulgere a metafore irriducibili. Dicevo a me stesso che bisognava piuttosto proclamare una democrazia delle parole, escludendo che possano essercene di privilegiate in partenza e da essere perciò trattate alla stregua di assiomi rivelatici dagli dei. A tale scopo si richiedeva un criterio in grado di analizzare i significati, tutti i significati, posti sullo stesso piano 'di dignità. La semantica doveva diventare il capitolo principale della linguistica e fondersi con una filosofia non più distinta dalla scienza sul piano metodologico. Auspicavo come traguardo una disciplina nuova nel contenuto, sebbene battezzata da tempo3, da istituzionalizzare attraverso il contributo collegiale di tutti gli interessati, così come era avvenuto per le scienze naturalistiche. Se alle mie ricerche volevo dare un'etichetta, essa non era la cibernetica, ma la semantica. Intanto mi rendevo conto che gli stessi linguisti andavano con una certa ansia alla ricerca di una chiave per penetrare nel mondo dei significati e di solito confessavano onestamente di non sapere neanche in quale direzione procedere. G. Mounin4 si era perfino reso conto che le' vedute di Ceccato portavano appunto ad una semantica, nonostante collaterali apprezzamenti negativi e la confusione dell'antifilosofia ceccatiana con le correnti filosofiche « dominanti nel pensiero italiano tra il 1900 ed il 1943 », vale a dire l'idealismo di B. Croce e G. Gentile. Capivo perfettamente che per introdurre una semantica dovevo in qualche modo separare i significati dalle parole, formulandoli in modo adeguato con una simbologia precipua. L'analisi sarebbe stata accettabile se tale sistema avesse effettivamente corrisposto alle soluzioni presentate dalle varie lingue, anche quelle tipologicamente lontane dall'italiana. Mi rendevo conto che le lingue possono avvalersi di modi espressivi diversi, 11

ma che in ogni caso si adeguano ad un modello unico del mentale, sempre lo stesso almeno per gli aspetti fondamentali. Notavo che passando da una lingua all'altra si riscontra: a) la maggior parte delle parole hanno un corrispettivo univoco, ma può cambiare la loro forma trovante riscontro negli affissi morfemici. Lingue come l'italiana sono ricche di morfemi, altre come la cinese quasi prive, ma anche in esse le parole hanno sempre una forma oltre che un contenuto; b) in generale i termini linguistici hanno un significato perfettamente corrispondente passando da una lingua all'altra, ma può cambiare il modo di usarli. Ad esempio (cfr. 8.6) le preposizioni coincidono sul piano costitutivo dei significati, ma può essere diversa la logica con cui le varie lingue si avvalgono dell'una piuttosto che dell'altra; c) di conseguenza risultava inaccettabile l'ipotesi di Sapir-Whorf secondo la quale ogni lingua sarebbe caratterizzata da una metafisica interiore già al livello del significato delle singole parole e perciò comporterebbe 'una visione del mondo peculiare. Giusto all'opposto a me risultava che il modello di operazioni mentali a cui ero pervenuto sottostava a tutte le lingue di cui avevo qualche conoscenza e per quelle esotiche, tipo la hopi, a quanto riuscivo a capire, era in definitiva la stessa cosa. Che poi le parole di una lingua fossero diverse da quelle di un'altra era un'ovvietà e non occorreva certo ricorrere all'« arbitrarietà del segno » di F. de Saussure per ammetterlo; ma tutto ciò riguardava i significanti e non già i significati. Il problema era decidere se i significati sottostanti alle varie lingue fossero effettivamente diversi in modo sistematico. Non avevo dubbi che su questo punto quanto era stato affermato da W. von Humboldt a B. L. Whorf era gratuito anche perché non ci si era avvalsi di un'effettiva analisi semantica. Mi rendevo anche conto che N. Chomsky aveva intuito come stanno le cose distinguendo un livello « profondo » da quello « superficiale », ma sbagliava nel ritenere che fossero entrambi linguistici. Il « profondo » era dato invece dalle operazioni costitutive dei significati, era una « mente » da essere raffigurata come un collettivo di dinamismi e non già come quella sorta di vaso, pieno di « idee » bell'e fatte, immaginato da Descartes. Ovviamente l'etichetta « semantica » avrebbe finito con il servire a ben poco se non avesse corrisposto ad una metodologia in grado di svolgere effettivamente le analisi dei significati e di svolgerle in termini tali da riuscire comprensibili a tutti. Ero convinto della validità dell'affermazione di Ceccato che quanto per la sua oscurità si considera alla portata solo di pochi eletti, spesso non significa nulla. Tutti impariamo fin dai primi anni un numero sterminato di nozioni, anche di tipo logico, matematico, ecc. 12

senza nessuna fatica. Sarebbe ben strano che innanzi ad altre ci fossero barriere insuperabili per i più. Ad esempio, è inammissibile che per descrivere lo spazio ed il tempo come « realmente » sono bisognerebbe avvalersi di complicate formule per le quali si finisce con il dire che si tratta di algoritmi privi di un vero e proprio significato intuitivo. Ero grato a Ceccato per avermi fatto capire che affermazioni del genere sono l'antitesi di ogni scienza e che perciò nelle mie ricerche dovevo cercare l'evidente, se non addirittura l'ovvio. Sono stato accusato anch'io di essere oscuro, ma non tanto dagli studenti, cioè dalle uniche persone che effettivamente si sono occupate delle mie vedute, quanto da amici e conoscenti, i quali sfogliando il mio libro La chimica della mente pretendevano di capire di colpo, senza neanche darsi la pena di leggere dall'inizio. Ho l'impressione che di solito sono i simboli da me adoperati a provocare difficoltà in chi semplicemente scorre le pagine. Invero molte persone hanno una curiosa fobia per le formule, ritenendo che siano « difficili » per una intrinseca natura maligna. Bisogna ammettere che talvolta esse vengano proposte soprattutto per fare sfoggio di rigorismo e magari dare l'impressione di una profondità concettuale non ottenibile con le parole correnti; ma in moltissimi casi hanno la funzione di rendere l'esposizione più stringata e quindi meglio dominabile. Si pensi alla chimica, che senza la sua simbologia sarebbe praticamente inesprimibile. Aggiungo che nel caso della mia semantica non è possibile fare a meno di simboli ad hoc per un motivo di fondo. Infatti per analizzare i significati in riferimento alle loro operazioni costitutive e vedere quindi a quali parole corrispondono mettendoli a confronto, bisogna poterli esprimere prescindendo dalle parole, cioè dando direttamente un'indicazione di tali operazioni. Se usassimo le stesse parole i cui significati sono da definire, correremmo continuamente il rischio del diallele, cioè di cadere nel circolo vizioso di avvalerci del definiendum per esprimere il definiens. È poi ovvio che per descrivere il criterio con cui tale simbologia viene usata dobbiamo avvalerci di una lingua corrente come l'italiana; ma essa interviene solo strumentalmente per parlare della lingua che si sta riconducendo all'analisi semantica, cioè come metalingua. Ad analisi effettuate, tutte le parole italiane e le loro connessioni sintattiche devono essere traducibili nella nuova simbologia, esprimente direttamente le operazioni mentali. Del resto anche Ceccato ha sentito l'esigenza di introdurre segni come i suoi « S » per indicare i significati in termini meccanizzabili sotto il profilo 13

cibernetico. Purtroppo egli non riesce ad avvalersi di tale simbologia in modo sistematico, ma ciò non dipende dal fatto che si tratta di « simboli », ma dall'essere questi simboli inadeguati a formulare una teoria esauriente. In conclusione, sono convinto che le mie formule non siano affatto oscure e di conseguenza le difficoltà presentate dalla mia semantica non siano maggiori di quelle di qualsiasi altra disciplina. In tutti i campi c'è una gerarchia di nozioni: bisogna prima aver imparato alcune cose per poterne capire altre che le presuppongono; ma procedendo sistematicamente ogni difficoltà scompare. Per una laurea in chimica occorrono quattro o cinque anni perché i composti di cui bisogna occuparsi sono numerosi. Lo studente potrà trovarsi in difficoltà a tenere in mente tutto ciò che gli si insegna, ma non certamente a capire. Lo stesso accade per la mia semantica, che non a caso ho presentato come una « chimica della mente », dato che anche le parole da analizzare sono numerosissime. Poiché bisogna soffermarsi sulle analisi per metterle a confronto e collegarle, chi non è abituato a studiare e vorrebbe solo leggere testi ameni si trova in difficoltà.

1.3 L'errore dei filosofi Tuttavia a questo punto bisogna confessare che una difficoltà, una grossa difficoltà, c'è; ma essa non riguarda lo sviluppo tecnico delle mie formule, bensì le premesse. Ne parlo tenendo conto delle reazioni degli studenti a cui mi rivolgo. Essi in generale restano insoddisfatti innanzi alle disquisizioni della filosofia tradizionale e desiderano un'alternativa più scientifica, meglio adeguata alla « concreta realtà » — per usare uno slogan poco felice ma purtroppo corrente. Non sapendo dove cercarla si rivolgono alla psicologia, alla sociologia e magari alla politica. Alcuni di questi giovani, quelli che hanno un'autentica esigenza speculativa, afferrano immediatamente l'importanza della strada che ad essi offro; si rendono conto che se la filosofia vuol salvarsi dalla morte, da cui secondo gli stessi professori della materia è minacciata a breve scadenza, almeno nel suo aspetto di gnoseologia vanamente camuffato in epistemologia, deve trovare il modo di evolvere avvalendosi di una metodologia scientifica. Cioè quel che occorre non è una « filosofia della scienza », ma una « scienza della filosofia ». Quando io riconduco questa scienza alla semantica, quasi senza eccezione li trovo consenzienti. Altri purtroppo 14

non afferrano neanche il problema e finiscono per confessare di non capire, non già le formule, ma che importanza possa avere la ricerca dei significati. Talvolta si tratta di ragazzi intelligenti, che se si fossero dedicati a studi di tipo tecnico, ad esempio l'ingegneria, avrebbero potuto profittare, ma mancano di interesse per quelle indagini a cui in fondo bene o male si è dedicata la filosofia di tutti i tempi. Credo perciò che la mia semantica sia assolutamente alla portata di tutti, ma che per comprendere i suoi motivi di fondo bisogna essere un po' nati filosofi: e dico questo anche se sistematicamente combatto la filosofia. Sotto questo profilo trovo della massima importanza la critica di Ceccato alla filosofia del conoscere. I limiti del presente libro non mi permettono di indugiare su questo punto, dato che intendo occuparmi soprattutto delle analisi in senso costruttivo sul piano tecnico. Del resto egli ha scritto abbondantemente sull'argomento ed io stesso me ne sono occupato in un volumetto5. Tuttavia un breve accenno è indispensabile. Coloro che non capiscono l'utilità di un'analisi dei significati, ritenendo che si tratti di un'esigenza suggerita da una presa di posizione filosofica, in quanto tale necessariamente sterile, in effetti, senza saperlo, sono essi stessi filosofi, filosofi di quella specie popolare e rozza denominata « realista ». In sostanza si pensa che quando si vede, ad esempio, un foglio posto davanti, i fogli siano due, l'originale nella « realtà » fisica e una copia nella mente. Avremmo una diretta cognizione della copia che è dentro di noi e da essa verremmo a « conoscere » come è fatto l'originale. Questa posizione, sia nel senso del realismo ingenuo (naive) che di quello più o meno critico, è minata da una contraddizione di base, della quale ci si è resi conto fin dall'antichità. Dubbi circa la validità di questo « raddoppio conoscitivo » li ebbe forse Socrate, affiorano certamente in Platone, sebbene tosto ricacciati6; emergono nel cosiddetto « aporeticismo » di Gorgia da Lentini, prendono corpo nell'empirismo soggettivistico dei Cirenaici, assumono chiara espressione negli Scettici, ma purtroppo con una connotazione solo destruens; riappaiono nel famoso « dubbio » di R. Descartes, nelle « idee » di J. Locke; si esplicitano in modo particolarmente evidente nell'esse est percipî di G. Berkeley e nel conseguente scetticismo di D. Hume. La posizione critica verso il « raddoppio » culmina nella filosofia di I. Kant. Egli infatti si rese conto che esso non riguarda solo il mondo sensibile, ma anche quello categoriale, cioè invisibile, al quale la filosofia tradizionale aveva attribuito una « realtà ontologica » seguendo soprattutto Platone. Purtroppo Kant non fu 15

adeguatamente compreso. Ad esempio, gli Idealisti tornano a ritenere che basti abolire la « realtà » del fisico per fare cadere il problema del raddoppio. G. W. F. Hegel ebbe la giusta esigenza di uscire dall'innegabile strettoia delle dodici categorie kantiane, ma finì per restaurare il realismo come ontologismo, formulando una sorta di teologia in cui il ruolo di principio generatore di tutto il mondo viene affidato alla « dialettica ». A suo avviso si partirebbe da un misterioso « essere » iniziale, che in modo altrettanto misterioso si ritroverebbe accanto il « non essere », dato che possedendo la massima estensione deve avere contenuto nullo e perciò subito si nega per il solo fatto di porsi. Ma due contraddittori non possono coesistere e perciò « essere » e « non essere » si medierebbero dialetticamente generando come terza entità il « divenire ». Si passerebbe quindi ad un nuovo contraddittorio, ad una nuova mediazione e così Via, costituendo tutto il mondo come una serie di triadi, che storicamente risentono di quelle neoplatoniche. Che senso ha questa sorta di « operazionismo » affidato allo Spirito? Anzitutto anche l'uomo della strada è in grado di obiettare che due termini contraddittori si annullano, perché il secondo distrugge il primo. Contraddicendosi non resta alcunché, mentre per Hegel si genera il mondo7. La verità è che Kant capì che sotto il raddoppio conoscitivo c'è la contraddizione. Hegel, che motteggia su di lui per la paura che prova innanzi alle antinomie, in sostanza non afferrò la difficoltà di fondo del tradizionale problema del conoscere e paradossalmente assunse proprio la contraddizione come formula generatrice universale. Il suo « Spirito » passando da contraddizione a contraddizione lascerebbe dietro tutte le cose in una sorta di scia presentantesi come « storia » e così finisce per essere un surrogato di quella somma « realtà » identificata da sempre con Dio e richiedente un credo quia absurdum alla Tertulliano. Hegel preferirebbe il credo ut intelligam di Santo Anselmo quando ritiene di poter proclamare la « razionalità del reale », deducendola dal fatto che anche il mondo fisico verrebbe costruito dialetticamente e sarebbe descrivibile come « scienza dell'idea nel suo alienarsi da sé ». Sta di fatto che, a parte l'insostenibilità dell'impostazione di fondo, nei testi di Hegel non ho trovato mai, non dico una analisi, ma neanche un semplice spunto avente interesse per la semantica. Le tesi della Scuola Operativa Italiana possono essere considerate come un ritorno a Kant. Alla loro base c'è la critica del raddoppio conoscitivo inteso nel senso più ampio, sia per gli osservati, che per i non osservabili. Tale 16

critica si riconduce alla semplice constatazione, di cui, ad esempio, già lo scettico Sesto Empirico parla ripetutamente, che se il « conoscere » riguarda la copia dal lato dell'uomo e solo essa — in quanto l'originale è fatalmente separato-, non possiamo in nessun modo mettere a confronto copia ed originale, anzi non abbiamo alcun diritto di parlare di un originale come di una « realtà » indipendente a sé stante. Sotto questo profilo perfino il pensiero del grande Kant è inadeguato. Egli considera infatti la « realtà » dell'originale piuttosto come inconoscibile che come contraddittoria, parlando di un « noumeno »8 necessariamente separato dalla sfera del « fenomeno », che è la sola a cui partecipiamo. Forse su questo punto è più acuto Berkeley, anche se finì poi, da religioso, con il salvare la « realtà » esterna, attribuendola ad un « Dio » che incessantemente percepirebbe il mondo. A parte questa curiosa conclusione, secondo la quale il foglio sotto i miei occhi scomparirebbe quando smetto di guardarlo se non ci fosse Dio che fortunatamente continua a fissarlo, c'è in Berkeley l'intuizione dell'attività costitutiva come modo di operare che ottiene gli osservati. La sua posizione è, limitatamente alla premessa filosofica, vicina a quella operativa, sia pure solo per quel che riguarda gli osservati. È essenziale invece considerare anche le operazioni mentali indipendenti dal meccanismo dei sensi. Ceccato ha chiamato « categorie » i costrutti di questo tipo, in omaggio a Kant, che adopera il termine, introdotto da Aristotele e prima ancora dai Pitagorici (ma in senso diverso). La necessità di ammettere una sfera di « significati invisibili » era stata riconosciuta dai filosofi probabilmente già fin dai tempi di Parmenide ed Eraclito, quando parlavano dell'« essere » e del « logos »; ma a tali significati si era attribuita una « realtà », cioè l'indipendenza dalle operazioni mentali costitutive, sia pure di natura diversa da quella fisica, anzi considerandola di solito fondamento anche di essa. Probabilmente Parmenide ritenne che per il sostrato comune di tutte le cose, in quanto invisibile, non ci fosse doxa, cioè l'illusorio raddoppio, e perciò si potesse dire che è in senso assoluto, cioè è l'« essere che è e non è possibile che non sia ». Forse egli legava la contraddizione del conoscere con la duplice localizzazione dentro e fuori l'uomo della stessa cosa e gli sembrava che essa fosse limitata agli osservati. Per l'invisibile, in quanto sprovvisto di un posto, il fuori ed il dentro dovevano coincidere. Purtroppo non si rese conto che l'invisibile, come il visibile, deve essere ottenuto in qualche modo. Di conseguenza I'« essere » finì per diventare una sorta di sostanza imponderabile, fungente da « realtà» primaria. Quando Platone duplicò il mondo in fisico (considerandolo illusorio o comunque inferiore come la doxa parmenidea) ed iperuranio, caratterizzò 17

con l'« essere », visto come genere primo, le « idee » che ritiene siano ubicate in quest'ultimo. A suo avviso ha esistenza primaria non, ad esempio, un certo cavallo, ma un'invisibile cavallinità, vale a dire l'« idea » di cavallo, di tutti i possibili cavalli, aggiungendo che essa è eterna, incorruttibile e di natura divina. In definitivà la credenza nel doppio « reale » da « conoscere » si spezzò così in quella di oggetti osservabili e di invisibili entità ontologiche, di cui l'uomo avrebbe cognizione invece che con la percezione sensibile (aisthesis) con una sorta di intuizione intellettiva (noesis). La polemica tra empiristi e razionalisti in sostanza proviene dal diverso punto di vista di coloro che sostengono la priorità dell'una piuttosto che dell'altra forma di « realtà ». Platone è a favore dell'invisibile, che pone come modello od archetipo del visibile fabbricato successivamente dal Demiurgo, invece Aristotele opta per il visibile, ritenendo che in esso sia contenuto l'invisibile come « forma » della « materia ». Oggi là scienza sa benissimo che per ottenere l'osservato è primario il funzionamento dei sensi. Ben pochi si chiedono se è veramente reale un colore sapendo che è ottenuto solo dai particolari occhi degli uomini e delle scimmie. Ma già H. von Helmbholtz si domandava che senso ha parlare di una realtà esterna la cui immagine passi all'interno di chi viene a conoscerla, quando sul piano fisico hanno luogo solo certi impulsi sui nervi sensori e la loro trasmissione al cervello. Particolare interesse hanno le ricerche di J. von Uexkiill, le quali fanno vedere che ogni specie vivente si costruisce un particolare mondo esterno relativo ai precipui organi sensori. I grandi occhi poliedrici della mosca danno osservati certamente diversi da quelli del cane, che invece vede pochissimo. Viceversa quest'animale ha un mondo di odori molto ricco. Come rispondere alla domanda: qual è la realtà? Quella dell'uomo, anche se il suo senso dell'olfatto non può competere con quello del cane? Di un metafisico super-uomo che percepisca un metaforico « tutto »? 'Il realista crede che sotto le svariate rappresentazioni sensibili delle varie specie viventi vi sia l'esistenza univoca di certe cose. Ma anche senza insistere sulla contraddittorietà di affermazioni del genere e sul loro inevitabile carattere dogmatico, sta di fatto che tali pretese cose « reali » non ci interesserebbero né direttamente né indirettamente, non avendo nulla a che fare con quelle fenomeniche con cui siamo in rapporto. Il noumeno kantiano è un trascendente che potrà sedurre magari il religioso, ma non interessa la scienza, che può e deve occuparsi solo di quanto è suscettibile 18

di indagine. Resta dunque assodato che l'analisi semantica delle parole designanti osservati non può prescindere dalle operazioni sensorie che li costituiscono. Ma, come vedremo nelle pagine seguenti, bisogna rivolgersi anzitutto alle parole di tipo categoriale di cui abbiamo fatto cenno, tenendo costantemente presente che i loro significati devono essere costituiti mentalmente e non già trovati come realtà ontologiche in qualche platonico iperuranio. Se ne deve convincere anche il matematico che di fatto oggi è forse il più tenace assertore di metafisiche « realtà » del genere. Si parla, ad esempio, di « numeri irrazionali », che sarebbero da ottenere introducendo contraddittoriamente tutti gli inottenibili decimali corrispondenti a radicali come √2; di « numeri trascendenti » come preteso risultato di serie aperte e convergenti verso limiti non corrispondenti ad alcun numero, ecc. È lecito parlare di « infiniti numeri » solo nel senso che per quanto si vada avanti è sempre possibile aggiungere un successivo, ma è una, metafora irriducibile l'« insieme infinito » di « tutti » i numeri naturali, considerato come una realtà ontologica, primo gradino degli infiniti transfiniti di G. Cantor. L'errore che viene commesso in casi del genere è quello di scambiare operazioni certamente proponibili, in quanto ricondotte ad una regola che consente di poter sempre procedere secondo un modulo ripetitivo, con un punto di arrivo per definizione non ottenibile. Le critiche che rivolgo alla matematica non riguardano i suoi aspetti tecnici, che ne consentono l'applicazione, risultando essi operativi sul piano consecutivo del calcolo, ma le considerazioni filosofiche con cui si è tentato di fissare i suoi fondamenti. Per la verità non sono mancate le prese di posizione contro il platonismo che così spesso la caratterizza nella versione istituzionalizzata, ma le critiche sollevate, anche quelle degli Intuizionisti (L. E. J. Brouwer ed H. Weyl), sono insufficienti. In sostanza la matematica che funziona è quella dei calcolatori, macchine che non presuppongono di certo realtà ontologiche od infinite operazioni. Il matematico deve diventare semanticista se vuole capire il significato dell'« uno », del « due », dello « zero », del « punto », delle « figure geometriche », ecc. Darò un cenno di qualcuno di questi costrutti per fare vedere che appartengono alla sfera categoriale, cioè fanno parte dell'unico sistema delle operazioni mentali, descrivente i significati di tutte le parole.

1.4 Osservati e categorie 19

Bisogna porre alla base della semantica un criterio per distinguere i significati di tipo osservativo da quelli di tipo categoriale. Concetto fondamentale è che i primi contengono i presenziati, mentre i secondi ne prescindono. Con questo neologismo, introdotto da Ceccato, uno dei pochissimi di cui mi avvalgo, intendo i momenti attenzionali applicati al funzionamento degli organi sensori, da essere considerati come una sorta di atomi dei costrutti osservativi. Gli organi sensori per quel che riguarda il loro sostrato fisico si trovano in continua interazione con stimoli esterni, anch'essi fisici, ma quando non prestiamo attenzione al loro funzionamento si comportano come tutte le cose fuori del nostro corpo: il sole che scalda la terra, il vento che piega i rami degli alberi, la corrente che rende incandescente il filamento della lampadina, ecc. Si hanno i presenziati solo quando l'attenzione .si rivolge al loro funzionamento spezzandone il dinamismo in una serie di momenti, ai quali tra l'altro si può assegnare una certa durata, anche misurabile. Perciò non sentiamo il contatto dei vestiti e delle scarpe se non vi prestiamo attenzione, ci sfugge un rumore non troppo forte quando abbiamo la mente rivolta ad altro, non ci rendiamo conto di un gesto se la nostra attenzione viene sviata, come accade con i trucchi dei prestigiatori, ecc. Il realistà crede che le cose fisiche osservate siano entità di per sé fatte e poste davanti a noi con una loro fisionomia globale intrinseca. Invece i sensi ci danno come punti di partenza presenziati come « duro », « molle », « caldo », « freddo » per il tatto, « luce », « buio », « chiaro », « scuro », « rosso », « verde » ed altri colori per la vista, i sapori, gli odori, ecc. Effettuando analisi di tipo consecutivo riguardanti il funzionamento fisico degli organi sensori, i presenziati si possono limitare ad un trentina, in quanto gli altri provengono da associazioni. Allo stesso modo i costituenti del mondo fisico, pur così vario nei suoi aspetti, si riconducono ai novantadue elementi della chimica, anzi in pratica ad una decina, essendo gli altri presenti in quantità trascurabile. Ceccato mi ha fatto notare che sul piano costitutivo i presenziati sono di numero imprecisabile. Egli ha ragione solo in prima approssimazione perché come vedremo sia pure di sfuggita (9.5), le analisi semantiche di tipo consecutivo riguardanti le cose fisiche si ripercuotono sul costitutivo arricchendolo. Come diciamo che l'osservato « acqua » pur ricondotto di volta in volta a presenziati diversi è fisicamente sempre una combinazione di « ossigeno » ed « idrogeno », possiamo dire che « violetto » si riconduce a « rosso » più « azzurro ». In questo senso si parla di colori fondamentali e derivati. Per altro al semanticista interessano fino ad un certo punto ricerche del genere, le quali richiedono tecniche non di sua competenza. Egli deve solo tener presente che un 20

osservato viene costituito mentalmente partendo da presenziati e che in questa elaborazione intervengono necessariamente delle categorie. Come vedremo nel Cap. IX, le categorie sono infatti indispensabili per ricondurre i presenziati a costrutti unitari sia sotto il profilo contenutistico che formale. Chi è portato dall'equivoco fisicalista a ritenere vera e profonda « realtà » solo quella delle cose fisiche, resterà sorpreso a sentire che sono categoriali i significati di parole come « materia », « corpo”, « sostanza », « oggetto », « spazio », « tempo », ecc. Uno dei contributi più importanti dati da Ceccato alla semantica è appunto il riconoscimento che moltissime parole ritenute spesso provviste di significato osservativo, designano invece categorie, ma che alla base degli osservati e delle categorie è sempre da porre il meccanismo attenzionale costitutivo. L'unica differenza è la presenza o l'assenza di presenziati. Come abbiamo detto, l'attenzione frammenta in momenti il funzionamento degli organi sensori, ottenendo così i presenziati. Essa è l'essere vigili, ma non nell'attesa di alcunché che può sopravvenire, bensì nel senso che teniamo i momenti in cui si estrinseca. In tal modo « caldo », « freddo », « rosso », « duro », ecc. diventano dei prius non ulteriormente decomponibili rispetto all'analisi semantica, ma che tuttavia possono essere oggetto di indagine da parte di ricerche di tipo naturalistico. Ad esempio, si potrà studiare l'occhio per spiegare la formazione dei colori ed eventualmente quali di essi devono essere considerati primari. Dobbiamo domandarci cosa accade con i significati categoriali ed in particolare come possono essere definiti senza dogmatizzare parole filosofiche, che verrebbero così privilegiate per una intrinseca virtù. Da qualche tempo i semanticisti tentano appunto di effettuare in vari modi la combinazione di certi significati, considerati primari, con metodi che ‘ricordano la characteristica universalis di G.W. Leibniz, per passare da essi ad altri derivati (analisi componenziale). Ma non si può dire che abbiano riportato tangibili successi, anche limitatamente a settori particolari come quelli delle abitazioni, dei mobili, dei gradi militari, ecc. Appena si voglia allargare il campo, resta oscuro perché si debba partire da certi termini piuttosto che da altri, a parte la riserva di fondo sulla liceità di termini per loro natura primari. La risposta da dare è che nel mondo categoriale non vi sono diverse specie di « atomi », paralleli ai diversi presenziati, cioè non 21

disponiamo di organi mentali distinti collegati con distinte funzioni estrinsecantisi in un certo numero di significati categoriali irriducibili. In sostanza la filosofia tradizionale ha ritenuto, giusto all'opposto, che ci fosse un arresto a certe parole alle quali perciò spetterebbe il compito di spiegare tutte le altre (p. 17); ma a parte il resto, è mancato qualsiasi accordo sul loro numero e sulla loro scelta. Forse solo il verbo « essere » è stato costantemente invocato, da Parmenide ai nostri giorni, trasfigurandolo in una misteriosa essenza permeante l'intima natura di ogni cosa. Il fatto che non si abbiano « atomi » del mentale, viene spiegato da Ceccato riconducendo le categorie ad un'attenzione pura che, parlando con una certa metaforicità, si applica a se stessa e non già al funzionamento di organi sensori. Si tratta di stati di vigilanza o se si vuole di consapevolezza, che si estrinsecano anch'essi in momenti isolati. Come abbiamo accennato, egli usa indicare un momento attenzionale puro con il segno « S ». A suo avviso il più semplice costrutto è dato dall'associazione di due « S », cioè da:

e corrisponde al significato della parola « cosa ». Seguirebbero « cosa » più l'attenzione pura e l'attenzione pura più « cosa », cioè:

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da essere interpretati rispettivamente come i significati di « soggetto » e di « oggetto ». A livello di quattro momenti si avrebbero:

Il primo costrutto (« cosa » preceduta e seguita dal momento di attenzione pura) corrisponderebbe a « singolare »; il secondo ad « individuo » (attenzione a cui segue il « soggetto »); il terzo (« cosa » a cui segue « cosa ») a « mantenimento ». Non rientra certamente negli scopi che mi prefiggo scrivendo questo libro criticare le vedute di Ceccato, anche perché, in ogni caso, so benissimo di essere fortemente in debito nei suoi riguardi; ma è necessario evitare fraintendimenti. Il lettore tenga perciò presente che, giunti al riconoscimento del meccanismo attenzionale come responsabile dell'attività mentale costituiva dei significati corrispondenti alle parole, le soluzioni da me prospettate, delle quali parlo nelle pagine seguenti, si distinguono nettamente dalle sue. In sostanza, mentre egli ritiene che il mondo categoriale sia da ricondurre a momenti attenzionali « SSSSSSS... » variamente associati in base ad un ordine di precedenza, trovo più vantaggioso fare riferimento a tre diversi tipi di collegamento. Precisamente, a mio avviso, si ha che: a) due momenti elementari susseguentisi possono essere associati in un momento complesso; b) un momento può essere abbandonato in modo da restare disgiunto mentre il successivo procede; c) il momento successivo può essere reso aggiuntivo al precedente. Per rendere concomitanti questi tre meccanismi in costrutti attenzionali omogenei, mi avvalgo di due accorgimenti: 1) faccio intervenire accanto ai 23

momenti dell'attenzione attiva, che indico con «—», anche quelli dell'attenzione interrotta, che indico con «°»; 2) mi avvalgo di una memoria strutturale, che indico con un tratto sopra il rigo, la quale ha la funzione di tenere insieme momenti «—» ed « ° » susseguentisi. Con tale accorgimento il caso a), cioè quello in cui due «—» sono associati nonostante l'interruzione, si rappresenta con:

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Il caso b) si rappresenta invece ammettendo che l'attenzione interrotta «°» non sia una semplice frattura tra i due «—» (in quanto tale riconducibile, come fa Ceccato, allo sfondo costituito dal foglio di carta), ma un momento positivo che la memoria strutturale vincola con il primo «-», facendo quindi seguire disgiunto il secondo. Si ha cioè il costrutto:

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Il caso c) del momento aggiuntivo si rappresenta allora con:

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cioè con un «—» che perviene ad un momento «—» staccato in quanto associato con l'attenzione «°». Per Ceccato l'attenzione interrotta è solo mancanza, negatività, destinata a non avere alcuna funzione. A mio avviso, invece, deve essere considerata positivamente alla stessa stregua di quella attiva. Analogamente bisogna ammettere, ad esempio, che « buio » sia un presenziato diverso da « luce », da essere introdotto positivamente e non già come assenza. Questa soluzione mi è suggerita non tanto da considerazioni riguardanti direttamente l'attenzione, quanto dai vantaggi che offre nello sviluppo della teoria. I costrutti categoriali pertanto, a mio avviso, si riconducono ad una successione di momenti «—°—°—°—...» variamente strutturati. Indico i «—» anche con la lettera « a » ed i « °» con la lettera « b », Un criterio; in definitiva molto semplice, per stabilire se il significato di una parola è da cercare nella sfera categoriale od in quella osservativa, è quello di chiedersi se e quali presenziati intervengono. Quando parliamo, ad esempio, di « materia », del designato della parola « materia » ben inteso e non di altre come « ferro », « legno », « carta », ecc., categorizzate come materiali, sono presenti un colore, un sapore, un caldo o freddo, un duro o molle, un peso? Poiché la risposta è negativa si deduce che abbiamo a che fare con una categoria. Il suo significato deve essere allora ricondotto ad operazioni in cui non interviene il funzionamento di alcun senso, ma vengono strutturati momenti di attenzione pura. Un secondo criterio spesso comodo è quello di considerare la possibilità od impossibilità di applicare alla stessa situazione significati incompatibili. Quando si tratta di categorie è possibile; quando ci si rivolge ad osservati od anche solo a presenziati non lo è. Ad esempio, se un oggetto è giallo, non possiamo affermare anche che è rosso. Possiamo invece dire che la stessa figura geometrica è un quadrato od un rombo cambiando il gioco attenzionale costitutivo; che una traccia è un segmento, una linea o un angolo piatto a seconda di come viene categorizzata sovrapponendo operazioni mentali. In casi del genere si costruiscono categorie diverse (quadrato, rombo, segmento, linea, angolo piatto) e quindi si applicano ad osservati, come tracce di inchiostro, di gesso, ecc. Possiamo infine dire che le categorie sono dinamismi, attività, ecc. coincidenti con i risultati, i quali perciò scompaiono quando l'attenzione si 30

interrompe. Sono ben diverse le operazioni riguardanti il mondo naturalistico nel quale, come vedremo (9.5), dagli osservati si passa alle cose fisiche o psichiche. In esso infatti quando l'operare si arresta resta un risultato, da tenere distinto dalla trasformazione da cui proviene, la quale in generale comporta la scomparsa degli ingredienti o della situazione di partenza. Ad esempio, quando smetto di scrivere resta la traccia d'inchiostro sulla carta. La mente è l'insieme dei dinamismi costitutivi che, in quanto distinguibili uno dall'altro e ripetibili, vengono a coincidere con i significati delle espressioni linguistiche adoperate in corrispondenza quando parliamo. L'ostacolo maggiore che rende difficile a molti il riconoscimento delle categorie proviene da un errore, riconducibile nella tradizione filosofica ad Aristotele. Secondo la Stagirita i significati categoriali non sono una realtà ontologica del tipo delle « idee » di Platone, ma neanche costrutti mentali, dato che egli è un realista. A suo avviso devono essere considerati come « forme » che la mente tira fuori da una pretesa realtà primaria, da lui chiamata « sinolo », nella quale sarebbero fusi con i « contenuti ». Ancora oggi, soprattutto da parte degli psicologi, si ammette una misteriosa facoltà di questo tipo, chiamata « astrazione », nel senso che « trae da... ». La semantica operativa porta ad una vera e propria rivoluzione copernicana che giusto rovescia il punto di vista aristotelico: le categorie non vengono ricavate dal « fisico » per essere rese « mentali », ma vengono costituite mentalmente per essere poi eventualmente applicate al « fisico ». Se il realista, in questo caso empirista, dovesse avere ragione nel ritenere che esse siano « forme » in partenza associate con « contenuti », e la mente altro non facesse che violentare il sinolo per astrarle come entità inanalizzabili, non si capirebbe, tra l'altro, come sia possibile applicare il secondo criterio di cui sopra abbiamo fatto cenno. Da bambino mi colpì la vignetta in cui un tizio si domandava come mai tutte le salite viste dall'alto sembrano discese. Mi faceva sorridere come una stramberia e non mi domandavo certamente se nella « realtà » esista effettivamente la salita o piuttosto la discesa. Eppure il sostenitore dell'astrazione dovrebbe pur prendere una decisione del genere. Analogamente per chi vede astratto tutto ciò che è mentale sarebbe un ben difficile problema spiegare come mai Via Manzoni inizia da Piazza Cavour per chi si sposta verso il Duomo ed invece finisce per chi cammina in senso opposto. Cosa direbbe se mostrandogli due copie della Divina Commedia prima gli si facesse notare che sono uguali perché vi è 31

stampato lo stesso testo e dopo diverse perché cambia l'editore, il commento o una ha la copertina sgualcita? Ceccato sottolinea l'interesse teoretico per le figure alternanti. Cosa risponderebbe il realista alla domanda se in quella famosa di Rubin è « reale » la forma del vaso o quella dei due profili umani? La soluzione è sempre la stessa: inizio e fine, uguale e diverso; distinto e -sfondo, ecc., sono costrutti mentali indipendenti dal funzionamento dei sensi e perciò applicabili spesso indifferentemente alla stessa situazione fisica. Le categorie non si astraggono, ma si applicano. Vedremo al § 5.6 come deve essere inteso operativamente l'astratto in contrapposizione al concreto.

1.5 L'attenzione e la memoria Ai singoli « S » di Ceccato od ai miei «—» ed « ° » singolarmente presi non corrispondono operazioni costitutive di contenuti. Sono infatti il punto di partenza, insieme con la memoria, per spiegare la costituzione di tutti i significati categoriali. A questo punto il realista si illuderà forse di poter liquidare senza fatica l'analisi operativa con una semplice accusa di petitio principii, chiedendo magari con una punta di ironia qual è il significato di « attenzione » e di « memoria ». Se gli capitasse tra le mani il manoscritto del mio trattato od anche una copia di La chimica della mente, troverebbe che mi azzardo addirittura a proporre formule descrittive del significato di queste parole, cioè presento come definiendum quanto nel contempo adopero come definiens. A critiche del genere è da rispondere anzitutto che, quando propongo costrutti mentali ricondotti ad associazioni di momenti attenzionali effettuate dalla memoria, uso le parole correnti « attenzione » e « memoria » od i segni ideografici «—» ed « ° » sul piano strumentale per comunicare il mio pensiero, allo stesso modo come ho adoperato tutte le altre parole-presenti in queste pagine, i cui significati non sono ancora definiti, dato che non ho effettuato alcuna analisi operativa. Da sempre, pur non disponendo di una semantica, l'uomo si è inteso con i suoi simili parlando, perché si avvale dei significati effettuando in modo inconsapevole le operazioni mentali costitutive. In definitiva l'analisi semantica si propone di farci conoscere quanto facciamo inconsapevolmente. Essa si rivolge alla lingua prendendola come oggetto di studio, allo stesso modo come il chimico si rivolge ai corpi fisici per analizzarli. Il chimico come tutte le altre persone adopera l'acqua per bere, lavarsi la faccia, ecc., cioè strumentalmente, ma contemporaneamente la 32

descrive come una combinazione di ossigeno e di idrogeno senza perciò cadere in alcun circolo vizioso. Analogamente il semanticista adopera come metalingua la lingua corrente e contemporaneamente effettua la sua analisi riconducendola a lingua oggetto. Si hanno perciò due livelli, anche se le parole dell'uno coincidono con quelle dell'altro dal punto di vista fonetico e grafico. È comunque opportuno che la lingua, ricondotta ad analisi, venga espressa in modo diverso e possibilmente con una simbologia che dia conto della struttura, così come fa il chimico dando la formula « H2O ». Sotto questo profilo sono preziose le notazioni simboliche di cui mi avvalgo. In conclusione, le parole « attenzione » e « memoria », così come le ho adoperate per affermare che con esse si descrivono le operazioni mentali costitutive dei significati, sono della metalingua. Le formule che propongo sono invece espressioni della lingua. Non c'è alcun circolo vizioso perché lingua e metalingua sono su due livelli logici diversi, un po' come lo sono nelle costruzioni sintattiche le proposizioni principali e subordinate. La petitio principii si ha quando i due livelli vengono ignorati. Questo è il concetto di fondo della teoria dei tipi di B. Russell, ma reso operativo nel senso che i « tipi » sono solo due e non già una gerarchia risalente all'infinito. Infatti i livelli non dipendono da una differenza ontologica dei costrutti, assurda perché essi sono costituiti sempre con operazioni dello stesso tipo, ma dalla possibilità di considerare lo stesso costrutto in due modi diversi, a seconda che semplicemente si adoperi o si analizzi. Partendo dai momenti «—» ed « °» tenuti insieme dalla memoria, si finisce per proporre una sorta di assiomatica, che però non è quella deduttiva a cui sono così affezionati i logici ed i matematici. Questa ultima fa naufragio navigando tra Scilla e Cariddi, cioè una partenza inanalizzata ricondotta a pretesi assiomi suggeriti dalla solita « realtà » da conoscere, oppure una arbitraria, fissata da assiomi convenzionali suggeriti dal gusto del ricercatore, sia pure con i vincoli della coerenza, sufficienza ed indipendenza. Nel primo caso si cade nell'ontologismo, nel secondo si contravviene al principio dell'univocità (p. 141). La mia semantica si avvale invece di operazioni costruttive che partono dal più semplice per passare al più complesso, tale in quanto sul piano costitutivo proviene dal primo. Analogamente nessuno presenta come una deduzione assiomatica i costrutti di cui si serve la chimica, quando ad esempio descrive l'acqua come una combinazione di ossigeno ed idrogeno. Nella mia trattazione i 33

momenti «—» ed « °» restano inanalizzati allo stesso modo come lo restano gli atomi di ossigeno e di idrogeno. Per decomporre e ricomporre ; corpi materiali e vedere come sono fatti, il procedimento della chimica è pienamente sufficiente. Ma questo non vuol dire affatto che i suoi atomi siano « realtà primarie » inanalizzabili, opera di Dio o della Natura, innanzi al cui mistero dobbiamo arrestarci riconoscendo umilmente la nostra limitazione. Infatti gli atomi furono ricondotti anch'essi a costrutti, da essere descritti mediante altri costituenti rispetto ad essi primari, effettuando ricerche di altro tipo, che storicamente presero le mosse dalla scoperta della radioattività. Ci si illuse che i costituenti dell'atomo potessero essere due, tre, una trentina, poi un numero maggiore, ma sempre chiuso. Ancora oggi si parla di enigmatici quarks come di misteriose e strane pseudoparticelle primarie in senso assoluto, pur trovando che debbono perciò possedere requisiti contraddittori. Argomenti del genere esulano dal campo della semantica: basti dire che, per un principio metodologico fondamentale della scienza, è sbagliato ritenere che ad un certo punto ci si imbatta in un arresto definitivo, quello auspicato appunto dal fisico quando tenta di scoprire le « vere » particelle primarie costituenti una « realtà », che non potrebbe non essere quella contraddittoria del raddoppio conoscitivo. Presumibilmente, tutte le volte che ci si avvale di una tecnica nuova, effettuando operazioni differenti dalle precedenti, ad esempio impiegando un ciclotrone più potente, si ottengono nuove particelle. In altre parole, è scientificamente sbagliato cercare un punto di partenza o di arrivo assoluti e definitivi, cioè tentare la individuazione di una arché. Possiamo semplicemente delimitare gli ambiti relativi a certe operazioni costitutive. Come quello della chimica classica è determinato dagli atomi, quello dei significati di cui si occupa la mia semantica si riconduce ai momenti «—” ed « °» ed ai presenziati. Si noti che la partenza dai momenti « — » ed «°» per i costrutti categoriali è parallela a quella dai presenziati per ottenere gli osservativi. Per il semanticista, « rosso » è primario, ma ciò non toglie che con un adeguato criterio di ricerca si possa spiegare come l'occhio ottenga questo colore e tentativi di spiegazione non sono mancati (teoria tricromatica di YoungHelmholtz, dei colori opposti di Hering, ecc.). Nessuno vieta che si possa introdurre un ambito fenomenico per descrivere come è costituita l'attenzione pura; ad esempio cercando fenomeni biologici ad essa corrispondenti. Il concetto da non dimenticare è che per la scienza non può esserci alcun arresto di principio. Anche se l'indagine dovesse battere il passo per millenni, non sarebbe mai possibile affermare che sia stata 34

scoperta la « verità » o si sia giunti al limite a cui deve arrestarsi la nostra conoscenza della « realtà ». Per negare che la ricerca possa riprendere dovremmo ricevere da parte di qualche benigna divinità l'esplicito avvertimento di non affaticarci inutilmente, essendo giunti al confine del nostro sapere. Non ha senso la vecchia, poetica aspirazione a capire « il tutto ». Alla ricerca scientifica interessa solo fornire descrizioni e spiegazioni che in modo coerente e verificabile esauriscano un certo campo ed abbiano funzione euristica, cioè permettano di prevedere aspetti nuovi, da verificare indipendentemente. Qualunque teoria, se ed in quanto valida, in linea di principio può essere sostituita da altre avvalentisi di premesse più economiche ed in grado di fornire descrizioni più convincenti. Perciò anche l'analisi dei significati da parte di una qualsiasi semantica non può aspirare alla « scoperta » di quali essi « effettivamente sono »; può semplicemente estrinsecarsi nella proposta di soluzioni più o meno soddisfacenti e virtualmente sempre provvisorie. Questa non è affatto una carenza od una limitazione; è una forza, la grande forza della scienza.

note 1 La rivista Sigma, diretta da Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino, fu pubblicata a Roma dalla Casa Editrice Partenia negli anni 1947-8. Methiodos fù pubblicata a Milano dal 1949 al 1956 dalla Casa Editrice La Fiaccola, dal 1957 al 1962 da Feltrinelli, nel 1963 a Padova da Marsilio. Si prevede che riprenderà le pubblicazioni al più presto a cura dell'editore Giuseppe Carbone di Messina. 2 SILVIO Ceccato, Un tecnico fra i filosofi. II. Come non filosofare, Padova: Marsilio Editori, 1966. 3 Il termine « semantica » fu introdotto da M. Bréal in un articolo pubblicato nel 1883. , su 4 GEORGES MounIN, Clefs pour la sémantique, Paris, Editions Seghers, sa, (trad. it. di M. Spapa, Guida alla semantica, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 160). 5 GrusePPE VAccaARINO, L'errore dei filosofi, D'Anna Editore: MessinaFirenze, 1974.

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6 Cfr. ad esempio: PLATONE, Parmenide, 133d e sgg. 7 Il procedimento di Hegel, assurdo sul piano costitutivo, potrebbe corrispondere sotto certi aspetti ad una relazione consecutiva che viene presentata dalla mia logica, di cui faccio un brevissimo cenno in 8.3. Risulta precisamente che le categorie atomiche « sostantività» ed « aggettività» (2.2.) sono incompatibili, ma in quanto speculari e non già perché contraddittorie. Facendo poi intervenire la terza categoria atomica, cioè la « verbità », si sovrappone un rapporto ternario di mediazione. In generale la coppia di quanto è disgiunto (forma sostantivale) e di quanto congiunto (forma aggettivale) sfocia sul piano relazionale consecutivo in un passaggio dinamico (forma verbale). 8 Kant afferma che il « noumeno » deve essere inteso in senso negativo come « concetto limite » per circoscrivere le pretese della sensibilità ed è oggetto del puro pensiero dell'intelletto (Critica della ragion pura, An. Trasc., Libro II, Cap. II).

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II. LE CATEGORIE ATOMICHE 2.1 Memoria strutturale e riassuntiva Possiamo rappresentare la base della vita cosciente come una serie di momenti «—°—°—°—...» che si articolano in operazioni mentali quando vengono tenuti insieme con quel meccanismo che, in senso lato, può essere ricondotto all'accennata memoria strutturale. Il fatto che, in sostanza, indichiamo sia l'attenzione attiva che la memoria con un segno «—>», sia pure nell'un caso sul rigo, nell'altro sopra, forse non è casuale. Infatti lo « stare attenti » si riconduce ad un tenere memorizzando e viceversa il mantenere nella « memoria » a focalizzare l'attenzione. Perciò non è da escludere un meccanismo costitutivo monistico. Ceccato afferma che con il segno «—» sopra gli « S » intende solo fissare l'ordine di precedenza tra i momenti attenzionali e mi ha criticato per l'introduzione della « memoria strutturale » notando che, dovendo essere onnipresente, perde ogni funzione esplicativa. Tuttavia continuo a ritenere che nel mio sistema sia utile e forse indispensabile distinguere il meccanismo mnemonico da quello attenzionale per spiegare il diverso modo con cui l'interruzione « °» può essere associata. Essa infatti può essere legata o con un solo «——» antecedente o susseguente o con due. Vedremo che un «—» può essere anche legato con due « ° » uno prima ed uno dopo. Invece di invocare diversi modi con cui l'« attenzione sopra il rigo » può tenere insieme, mi sembra preferibile introdurre un meccanismo che leghi in svariati modi, cioè quello tradizionalmente inteso come mnemonico. D'altra parte per lo svolgimento tecnico della teoria delle operazioni mentali, in pratica non è indispensabile indugiare sul significato da attribuire ai segni «—» sul rigo o sopra il rigo, così come per la vecchia chimica non era indispensabile precisare cosa effettivamente si intendesse per « atomo », tanto è vero che essa fu costruita sulla base di una « ipotesi atomica » piuttosto che di una « teoria ». Si tenga presente che nelle pagine seguenti, per motivi unicamente tipografici, invece di adoperare il tratto sopra il rigo, mi avvalgo di parentesi per indicare la funzione strutturante della memoria. Ad esempio:

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L'ultimo costrutto con la simbologia del tratto sopra il rigo, di cui mi sono avvalso in La chimica della mente, si rappresenterebbe:

Le due notazioni devono essere considerate equivalenti ed intercambiabili. I costrutti provenienti dalla strutturazione dei momenti attenzionali partono e terminano con dei «—» e perciò si riconducono a successioni con numero dispari di momenti, come quella di tre «— °— » di cinque «—° ——°—», sette «—°— °— °_», ecc. Tali momenti variamente strutturati, vengono tenuti insieme in un unico costrutto complesso costitutivo di una categoria. Le categorie, una volta ottenute, restano isolate una dall'altra e sono individuabili appunto perché i loro momenti costitutivi hanno un «—» iniziale ed uno finale. Di conseguenza prima e dopo ognuna di esse vi è un « ° » che separa. Ad esempio, in «——°{(—°)—} °—» troviamo tre momenti «—°—» associati in un unico momento complesso, essendo legati prima un «—» con un « °» nel momento «(— °)» e dopo questo momento con un ulteriore «—». L'operazione si risolve in un costrutto isolantesi nel flusso della consapevolezza perché staccato dagli « °» che precedono e seguono la strutturazione. Un concetto fondamentale è che al di là di un certo numero, che si aggira intorno al sette, i momenti non sono associabili, cioè la strutturazione si spezza. Gli psicologi sanno appunto che, superato un numero di quest'ordine di grandezza di oggetti da tenere insieme, l'attenzione perde la presa. Segue che per costrutti più complicati, un gruppo di momenti 38

deve intervenire senza che vengano introspettivamente distinti. Diciamo allora che si applica una memoria riassuntiva, la quale tiene gli ingredienti più strettamente di quanto faccia la strutturale, tanto che finiscono per essere presi unitariamente. È verosimile che la memoria riassuntiva sia sempre attiva al di sopra dei sette momenti, ma possa intervenire anche a livelli più bassi, assumendo come unità inanalizzate le categorie derivanti dai tre momenti «— °—» e dai cinque «— °— °—» quando non interessa tenere presente la loro costituzione, ma solo prenderle come ingredienti di costituiti più complessi. Anzi è da presumere che quando, come correntemente accade, non effettuiamo alcuna analisi semantica delle parole in quanto semplicemente usiamo la lingua, lasciamo i significati inanalizzati appunto perché li rendiamo unitari con la memoria riassuntiva. Poiché così facendo perdiamo la consapevolezza delle operazioni costitutive, non sappiamo come siano effettuate pur essendo attività nostra. Dobbiamo di conseguenza ammettere che le operazioni abbiano luogo anche senza che ce ne rendiamo conto. In questo senso parlo di una memoria inconscio— riassuntiva. L'opposizione alla sfera consapevole di quella inconscia è stata resa celebre da S. Freud, ma nel senso che a noi interessa trova qualche spunto anche nel pensiero, filosofico (ad esempio, in J. G. Fichte). Del resto effettuiamo inconsapevolmente anche moltissime operazioni fisiche riguardanti il nostro corpo, come la respirazione, il battito cardiaco, ecc. Possiamo pertanto dire che la memoria riassuntiva concorre a trasferire i significati dalla sfera in cui almeno virtualmente è possibile renderci di essi consapevoli con l'analisi semantica, in quella inconscia associata con l'uso strumentale della lingua. L'analisi semantica ha la funzione di trasferire i significati dalla sfera inconsapevole in cui sono solo usati a quella in cui è possibile descrivere come sono fatti1. A tale scopo è sempre possibile effettuare una scomposizione dei costrutti anche al di sopra del limite anzidetto, ma bisogna allora soffermarsi su di essi, procedere su un pezzo alla volta in modo laborioso e metodico per vedere com'è costituito. Invece al di sotto dei sette momenti l'analisi è immediata: si può dire, grosso modo, che corrisponde ad una intuizione invece che ad un ragionamento. La funzione della memoria riassuntiva si rende chiara pensando ai numeri. Se passiamo dall'« uno » ai successivi, fino al « sette » od « otto » teniamo 39

in mente le varie unità introspettivamente tutte distinte. Andando oltre, questa capacità si perde. Ad esempio, il nove ci si presenta come la combinazione di tre pezzi unitari di tre elementi ciascuno.

2.2 La verbità, la sostantività e l'aggettività I momenti derivati più semplici, sotto molti aspetti considerabili primari alla stessa stregua degli. «— » ed «°» perché spesso riassunti, sono i quattro seguenti:

I primi due sono binari, i secondi ternari. Il quadrato, il triangolo, il cerchio e l'asterisco sono gli unici segni convenzionali di cui mi avvalgo per indicare momenti attenzionali superiori agli «—» ed «°» (momenti complessi). Dai tre momenti «— °— » provengono tre categorie, che chiamo « atomiche », dai cinque «— °— °_» ventisei categorie, che chiamo « elementari »; dai sette «— °— °— °—» duecentosettantanove categorie che costituiscono il sistema minimo. Seguo il concetto che tutti i costrutti fino a sette momenti di base corrispondono a parole presenti nella lingua corrente, cioè hanno un corrispettivo semantico, mentre quelli superiori possono restare inutilizzati. Se infatti non ci fossero operazioni mentali disponibili, per così dire accantonate, non sarebbe possibile introdurre neologismi. Di contro è inverosimile 'che non vengano tenuti da conto costrutti più semplici per avvalersi di altri in cui essi siano contenuti. Credo che si cerchi in generale di adoperare significati il più possibile estesi2 in quanto è superfluo introdurre contenuti particolari aggiuntivi quando non si corre il rischio di cadere in equivoci. Ad esempio, riconduco « costituente » ad un costrutto del sistema minimo in cui sono presenti i significati di « sostanza » e di « mezzo » (5.5), perché in tutti i casi si tratta di quel che serve per ottenere una certa sostanza, sia essa un minerale, una vivanda, un farmaco, ecc. Perciò è pleonastico introdurre ulteriori dettagli. L'impiego sistematico delle categorie atomiche, elementari e di quelle del sistema minimo come significati da parte di tutte le lingue è forse connesso con il fatto che per mantenersi entro il limite di strutturabilità vengono prese come unità 40

riassunte e quindi non analizzate solo esse e non già associazioni qualsiasi di momenti nella costituzione di costrutti più complessi. In tal modo i significati più semplici diventano, per così dire, « molecole » del mentale e quelli superiori provengono unicamente dalla loro elaborazione, non già da strutturazioni indipendenti dei momenti «—» ed «°» susseguentisi. Segue che in definitiva tutti i costrutti devono trovare la base di un'interpretazione semantica nelle categorie atomiche. Esse corrispondono alle tre operazioni di cui abbiamo parlato a p. 31 descrivendo il meccanismo attenzionale e tenendo presenti le convenzioni di cui sopra si indicano:

È comodo usare i simboli « v », « s » e « g ». I primi sono le iniziali. Per l'aggettività non si può adoperare « a », avendo convenuto di indicare con questa lettera l'attenzione «—». Indichiamo invece le categorie elementari, cioè le 26 provenienti dai cinque momenti «—°—°—» con i numeri a partire da (4). In pratica è indispensabile una duplice simbologia, cioè quella con lettere alfabetiche o numeri e quella con i segni « — », « ° » « ◯ », « ⬜ », « ⧍ », « * ». Infatti i simboli del primo tipo ci permettono di enunciare le operazioni in riferimento ai costituenti; quelli del secondo danno le formule strutturali, cioè mostrano anche visivamente i costrutti ottenuti evidenziando, come fa la chimica, le loro forme oltre che i contenuti. Le formule strutturali sono indispensabili per poter analizzare adeguatamente i significati. Tuttavia, per esigenze tipografiche, cercheremo di farne a meno quando è possibile, limitandoci a dare le operazioni costitutive con le indicazioni letterali—numeriche. È consigliabile però che il lettore le ricavi per conto suo. Sono arrivato alla interpretazione semantica delle tre categorie atomiche dopo lunghe riflessioni e svariati tentativi. Mi resi subito conto che la « v », in quanto passaggio da un momento «—» ad un altro scavalcando l'interruzione « °», comporta un dinamismo del tipo di quello che caratterizza i verbi. Ad esempio, quando si dice « addormentarsi » si ha il passaggio dallo « stare sveglio » al « prendere sonno », separati in partenza da una frattura, ma congiunti in arrivo in un'unità dinamica. Mi sono accorto che per descrivere passaggi del genere spesso non si richiede 41

che sia fissato il contenuto del momento di partenza, perché sul piano semantico serve solo quello di arrivo. Ad esempio, chi dice « annerire » si riferisce all'introduzione del presenziato « nero », lasciando indietro un precedente momento attenzionale, che può essere indifferentemente « bianco », « giallo », « verde », ecc., e perciò corrisponde ad un momento puro «—». In certi casi può essere indispensabile fissare anche il primo momento, ma spesso non è così. Pertanto quando diciamo « annerire », il significato viene dato da un costrutto misto categoriale—presenziale nel quale in luogo del momento finale «—» della categoria atomica « v » si ha il presenziato « nero », cioè il momento a cui si perviene con il passaggio: (— ° nero) = ANNERIRE

Il problema che si pone è allora l'interpretazione semantica non dei suoi derivati, ma della « v » stessa. C'è un verbo più semplice di tutti gli altri, un capostipite della famiglia dei verbi? Per un certo tempo mi sembrò che la « v » potesse corrispondere a « separare » e magari a « distinguere », perché appunto mediante l'interruzione centrale si disgiunge il primo dal secondo «—». Ma poi mi avvidi che per lo stesso motivo il significato avrebbe potuto essere « congiungere », Infatti effettuando il passaggio dal primo al secondo «—» si elimina la frattura « ° ». E perché allora escludere che potesse trattersi piuttosto di « passare » o più semplicemente di « svolgere »? In verità tutti e tre i verbi: « separare », « congiungere » e « svolgere » sembravano essere ugualmente adatti e perciò la « v » non poteva corrispondere ad uno di essi. Evidentemente doveva trattarsi di un dinamismo, sprovvisto di uno specifico contenuto, da porre a monte di tutti i verbi. Mi resi anche conto che se i segni « —°— » venivano inevitabilmente tracciati sulla carta secondo un ordine spazio—temporale, questo era un fenomeno fisico, riguardante il mio corpo, la penna e la carta; ma sul piano semantico quei segni dovevano avere un significato categoriale così semplice da precedere qualsiasi costrutto corrispondente ad un significato corrente, compresi quelli delle categorie di « spazio » e di « tempo ». Mi sovvenni del logos di Eraclito, concepito dall'oscuro efesio come invisibile principio del fluire, determinante il panta rei del mondo visibile. I latini traducevano « logos » con « verbum », che significa « parola » e « pensiero », ma che non a caso finì per designare semplicemente il nostro verbo. Capii che in partenza non poteva essere posto un particolare verbo come « separare », « congiungere » o « svolgere »: doveva trovarsi non un certo verbo, ma il verbo, ovviamente non in quanto categoria grammaticale, che è una forma presupponente la presenza concomitante di contenuti specifici che la posseggano, bensì 42

un'astratta VERBITÀ. La soluzione giusta era allora quella di fare corrispondere la « v » ai morfemi italiani —ARE, —ERE, —IRE, da essere intesi ovviamente non nel senso fisicalista, ma per la funzione da essi assolta quando indicano che il tema a cui sono attaccati diventa quello di un verbo? Ad esempio, non si è in questo caso per la desinenza —ARE di parole come « perpendicolare », « funicolare », ecc. L'interpretazione delle « s » e « g » come SOSTANTIVITÀ ed AGGETTIVITÀ fu conseguenziale. Come non si poteva attribuire un privilegio genetico ad un particolare verbo, così era per un sostantivo, fosse pure « cosa » nel senso di Ceccato (p. 30). In partenza deve esserci un'astrazione, in grado di fungere da forma per tutti i sostantivi ed avente appunto tale forma come contenuto. Mi sembrò del tutto chiaro che i sostantivi in genere sono tali perché comportano contenuti considerati definiti, cioè attenzionalmente chiusi. Il loro significato, in quanto costituito, viene lasciato indietro, cioè reso disgiunto da un momento «— » ulteriore (attenzione pura prosegùente). Nel caso limite della « s » si ha pertanto la sostantività, il cui contenuto è semplicemente un «—». Viceversa la « g » doveva corrispondere alla « aggettività » in quanto si rende aggiuntivo un «—». In essa si ha appunto un momento di attenzione pura pervenente ad un secondo «—» staccato e da essere ripreso. Mi sono perciò convinto che «( °) = 1 » indica nel senso più ampio il momento sostantivale, cioè il caso limite in cui contenuto è solo un «—» attenzionalmente abbandonato in quanto interrotto dalla « °» con cui è legato, mentre «(°—)= A » indica il momento aggettivale primario. Se dico « giallo » come sostantivo, il presenziato diviene una parola in quanto si considera appunto costituito e separato dal prosieguo, cioè diventa « {giallo °)—} ». Se invece si rende aggettivo, ad esempio in quanto aggiunta per « fiore », viene ricondotto attenzionalmente ad un momento da essere ripreso pervenendo ad esso. Cioè sarà: « { (° giallo)} ». Più in generale si può affermare che le tre categorie atomiche sul piano costitutivo sono contenuti derivanti dalla strutturazione dei momenti «—° —». Applicate poi ad altri costrutti, danno a questi la loro forma, che diventa allora la forma grammaticale dei verbi, dei sostantivi e degli aggettivi. Cioè sono rispetto a sé stessi contenuti, forme rispetto ad altri costrutti. Ma i contenuti dei costrutti superiori devono nascere anch'essi da quelli delle categorie atomiche, le quali perciò vengono ad avere due funzioni semantiche da tenere distinte.

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2.3 Forme e contenuti A questo proposito deve essere sottolineato il concetto fondamentale che tutti i significati corrispondenti a parole posseggono sia un contenuto che una forma. Chiamo la loro associazione « sinolo » (p. 33) in omaggio ad Aristotele. Egli credeva nel raddoppio conoscitivo ed era un empirista, ma ciò nonostante ha avuto geniali intuizioni. Ovviamente troviamo l'associazione del contenuto con la forma, di cui parla, non certo nella « realtà », bensì nella sfera dei significati. Quando diciamo, ad esempio, « autore », « separatore », « motore », ecc. abbiamo in queste parole una parte precipua inerente all'aspetto contenutistico del significato ed una corrispondente a quello formale dato dal morfema —TORE, che essendo uguale per tutte, deve avere la stessa costituzione. I contenuti delle varie parole sono di solito presenti in tutte le lingue, mentre la forma corrispondente a —TORE è tipica della lingua italiana (p. 18). In altre può essercene una corrispondente, ma può anche mancare. Tuttavia una forma c'è sempre, Analogamente in parole come « operazione », « intuizione », « destinazione », ecc. il morfema —ZIONE costituisce la loro forma comune; in « casseruola », « tavola », « parola », ecc. si ha il morfema —OLA, ecc. Compito dell'analisi semantica è trovare i contenuti e le forme delle parole delle varie lingue in corrispondenza delle sottostanti operazioni mentali, da essere considerate come modello univoco a cui tutte le lingue si riferiscono. Riflettendo sui significati attribuibili a questi morfemi è facile rendersi conto che —TORE corrisponde alla categorizzazione con un « soggetto », —ZIONE con un'« operazione », ——OLA ha una funzione strumentale. Infatti « casseruola » ci fornisce il mezzo per cucinare, « parola » per parlare e così via. Vedremo che « soggetto », « operazione »), « mezzo », ecc. sono categorie elementari. Risulta allora che alle operazioni costitutive del contenuto, che possono essere anche osservative (ad esempio, per « tavola ») ne sono associate altre unicamente categoriali che danno la forma. Il significato di tutte le parole nasce da due componenti ben distinte ed in questo senso esso possiede una parte contenutistica ed una formale. La formale è sempre categoriale; la contenutistica osservativa od anch'essa categoriale. Nelle soluzioni linguistiche semantizzanti le operazioni mentali, la componente formale del significato può corrispondere ad una desinenza, come nelle parole 44

esemplificate, ma anche a prefissi ed infissi. Come abbiamo accennato, può anche non essere esplicitata da affissi, ma ciò nonostante è presente. Vi sono lingue, come l'italiana, ricche di desinenze con funzione morfemica, altre più povere, come la cinese, l'inglese, ecc. Mi sono però convinto che in tutti i casi si ha sempre una forma nel livello mentale e quindi anche in quello linguistico, anche se non esplicita. Possiamo dire che tale forma è affissale (in particolare desinenziale quando il morfema segue il tema) se corrisponde ad una parte della parola impegnata semanticamente con una ben individuata operazione costitutiva; altrimenti si ha una forma neutra. Questo è il caso di parole come « modo », « corpo », « cosa », « vero », « alto », ecc. Passando da una lingua ad un'altra possono cambiare le forme, da affissali possono diventare anche neutre e viceversa, ma i contenuti coincidono, salvo casi eccezionali. Ad esempio, all'italiano « parola » corrispondono l'inglese « word », il francese « mot », il tedesco « Wort », che hanno forma neutra. Sotto questo profilo, come detto a p. 18, l'ipotesi di Sapir-Whorf può tutt'al più essere accettata nel senso che ogni lingua ha precipue soluzioni formali. I contenuti però non cambiano e poiché sono essi in definitiva a costituire l'aspetto primario dei significati, dobbiamo concludere che tutti gli uomini, qualunque sia la loro lingua, effettuano uguali operazioni mentali. Essi sono in grado di intendersi, mediante la traduzione, appunto perché mettono a confronto il diverso modo di esprimere gli stessi significati. Aristotele ha avuto oltre all'intuizione del sinolo anche quella della tradizionale gerarchia delle sostanze in « prime » e « seconde », da essere intesa nel senso che quanto è « contenuto » in un gradino più alto diviene « forma » rispetto a quello più basso. Questa veduta, ripresa in chiave operativa è importante: riferendoci ad essa possiamo infatti dire che le tre categorie atomiche e le ventisei elementari sono « contenuti » in quanto ricondotte alle loro operazioni costitutive ed intervenienti in operazioni costitutive di categorie superiori, ma diventano « forme » morfemiche se applicate ad altre categorie. Ad esempio, il contenuto della categoria elementare corrispondente al sostantivo « soggetto », che si ottiene (3.4) combinando la « sostantività» con la « verbità », assume in italiano la forma morfemica neutra. La desinenza —ETTO spesso riguarda uno pseudoparticipio passato3, ma non può avere questa funzione per « soggetto », almeno nel senso di cui sopra. Si ha poi che quest'operazione mentale diviene anche la forma di altri costrutti, precisamente quella che in italiano corrisponde al morfema —TORE. Pertanto il significato di una parola come « separatore » corrisponde al sinolo in cui sono associati il 45

contenuto del verbo « separare » e la forma data da « SOGGETTO), Si tratta appunto del « separare » effettuato da .una persona o cosa viste come capaci di attività di un certo tipo. Dobbiamo attenderci che le categorie atomiche « v », « s » e « g » diano le forme più semplici ed in particolare che le « s » e « g » intervengano nei sinoli in corrispondenza delle forme neutre sostantivali ed aggettivali. Le ventisei categorie elementari sono anch'esse contenuti che fungono da forme per.altri costrutti, ma devono alla loro volta ricevere una forma morfemica, desinenziale o neutra. Ad esempio, in aggiunta al contenuto della parola « soggetto » deve intervenire anche la « s » per introdurre la forma neutra del sinolo (3.4). Le tre categorie atomiche invece non devono ricevere alcuna forma perché hanno intrinseca quella che chiamo forma tematica (2.5), per la quale sono in astratto « verbità », « sostantività » ed « aggettività », cioè contenuti coincidenti con le forme di « verbo », « sostantivo » ed « aggettivo ». Vale a dire il loro contenuto, in quanto in un certo modo costituito, è anche una forma potenziale che si esplicita in attuale quando concretamente diventa forma di altri costrutti. Anche su questo punto troviamo uno spunto nella concezione aristotelica di « potenza » (dynamis) ed « atto » (enérgheia). È da tenere presente che possono esserci affissi metaforici, i quali fanno pensare a forme corrispondenti a desinenze o prefissi mentre invece sono neutre. Non sempre la possibilità di mettere in evidenza le metafore morfemiche è immediata: in certi casi viene suggerita solo da esigenze interne del sistema delle formule. Ad esempio, le desinenze —IO, —IA sono il morfema di un collettivo in « argenteria ); hanno una funzione strumentale in « sedia », modale in « criterio ), ecc. Tra queste varie soluzioni sussiste una parentela spiegabile tenendo presenti le operazioni costitutive del « plurale » (da cui proviene il collettivo), del « mezzo e del « modo », che provengono tutte, come vedremo, dalla sostantività « s » iterata; ma la desinenza —IA può essere presente anche in parole di forma morfemica nèutra. Ritengo che questo sia il caso del sostantivo « materia ». Infatti il sistema delle formule a cui pervengo offre un costrutto caratterizzato dai contenuti di « sostanza » e « quantità » (p. 85) che dobbiamo ritenere corrisponda al designato della parola e tale costrutto, in virtù delle sue operazioni costitutive, ha forma morfemica neutra. Il parlante ha forse ritenuto che, come per « argenteria », anche ora si abbia un collettivo, 46

cioè si indichi l'insieme di terra, acqua, legno, marmo, ecc. come conseguenza del solito errore fisicalista (p. 28), ma passando al profondo, alla sfera mentale, risulta che non ci si avvale di presenziati e perciò si prescinde dagli specifici osservati. Anche nel caso sopra accennato di « soggetto », la desinenza «—ETTO » è un affisso metaforico, essendo la parola di forma neutra. Dobbiamo perciò tenere presente che la forma di un sinolo non corrisponde a suoni, ma alla funzione semantica da essi assolta, che spesso è univoca, ma non sempre.

2.4 Desinenze e posizione della parola nella frase Quando la forme sono neutre un'indicazione supplementare può essere data dalla posizione della parola nella frase. In senso primario la posizione ha una funzione sintattica, cioè riguarda il legame di due significati mediante un correlatore (3.3), mentre gli affissi (prefissi, suffissi ed in certe lingue anche infissi) hanno funzione morfemica, cioè corrispondono alle « forme » dei sinoli. Ma poiché il parlante non ha avuto un'esplicita cognizione delle operazioni mentali sottostanti, qualche volta nelle soluzioni linguistiche si attribuisce alla posizione una funzione direttamente od indirettamente morfemica ed a quella affissale invece sintattica. Le lingue posizionali, come la cinese, affidano spesso al posto della parola nella frase la funzione morfemica oltre che la sintattica. Ad esempio, « ta » a seconda della posizione corrisponde al nostro verbo « Ingrandire », al sostantivo « grandezza » o all'aggettivo « grande ». Escludo che a livello delle operazioni mentali il cinese manchi di una morfologia. È da pensare invece che per i sinoli sostantivali ed aggettivali si avvalga essenzialmente di forme neutre e le indichi linguisticamente con la posizione invece che con una modificazione della parola. Perciò non è affatto vero che in tale lingua la sintassi assorba la morfologia, nel senso che, ad esempio, la posizione porti ad un attributo e non esista l'aggettivo « grande ». Dobbiamo invece ritenere che quando « ta » diviene sintatticamente attributo, assuma concomitantemente la forma di un aggettivo neutro. Segue che la posizione viene a simbolizzare due cose insieme: una forma grammaticale ed una correlazione sintattica. Così procedendo si ricorre in sostanza ad un principio di economia: ‘in quanto l'attributo deve già essere necessariamente in senso morfologico un aggettivo, basta che venga fissata la funzione sintattica perché implicitamente sia indicata anche la forma morfologica dell'aggettivo. 47

Analogamente non è da pensare che l'inglese sia privo di morfologia nel caso di parole come « dog ». Quando dalla posizione nella frase risulta che la parola è il sostantivo corrispondente all'italiano « cane », il costrutto assume nel profondo la forma morfemica neutra del sostantivo; quando invece si ha il verbo « to dog » con il significato di « pedinare », viene introdotta la forma del verbo data dalla categoria atomica « v ». Così pure in inglese od in tedesco l'aggettivo viene posto obbligatoriamente prima del sostantivo correlato. In tal modo ha luogo una semantizzazione sintattica in quanto si attribuisce alla prima parola la funzione di attributo, ma si indica concomitantemente anche che l'attributo assume la forma di un aggettivo. Cioè per essere usato sintatticamente come attributo, deve essere provvisto di una forma aggettivale con intervento di un'operazione mentale distinta. Il tedesco in casi del genere trova opportuno avvalersi altresì di un'indicazione supplementare scrivendo l'aggettivo—attributo con l'iniziale minuscola ed il sostantivo con la maiuscola. Vedremo che a livello delle operazioni mentali la funzione di attributo viene data dall'intervento di speciali costrutti a tre momenti, i « correlatori » di cui sopra si faceva cenno; la forma di aggettivo, quando è neutra, richiede invece la forma data dalla categoria atomica « g ». È frequentissima, soprattutto nelle cosiddette lingue flessive, la soluzione opposta che affida ad affissi ed in particolare a desinenze una funzione sintattica invece che morfologica. In casi del genere le desinenze indicano correlazioni e non già forme di correlati. Ad esempio, in latino « equi », in virtù della desinenza « i » attribuita al tema « equ—», significa che « cavallo » interviene nella correlazione del « genitivo », di solito resa in italiano dall'uso della preposizione « di ». In casi del genere i suffissi non sono morfemi e perciò li chiamo sintattemi. Essi sono frequenti anche in lingue come l'italiana. Ad esempio, dobbiamo considerare tali le desinenze dei verbi nei tempi finiti. Abbiamo motivo di credere che, passando nella coniugazione da una « persona » ad un'altra, non si abbia alcun mutamento di forma a livello delle operazioni mentali. Ne è prova il fatto che l'inglese non distingue con suffissi le varie persone (a parte la terza singolare contrassegnata dalla desinenza —s)4. Si ha, pertanto, che quando l'italiano distingue, ad esempio, nel presente indicativo, « leggO », « leggI », « leggE », ecc., con le vocali finali «—O », «—I », «—E », ecc., non intende mutare in qualche modo la forma del presente indicativo, ma vuole solo indicare il soggetto correlato sottinteso, che nel primo caso è « io », nel secondo « tu », nel terzo « egli », ecc. Cioè non si tratta di morfemi che diano differenti forme aggiuntive al contenuto del verbo 48

all'indicativo presente, ma di sintattemi, che lasciando fermi forma e contenuto, indicano una correlazione: cioè riguardano la sintassi e non la morfologia.

2.5 Forma morfemica e forma tematica Abbiamo anticipato (p. 48) che le categorie hanno una forma tematica consustanziale con il contenuto, cioè, per così dire, genetica, che deve essere distinta da quella morfemica, la quale si introduce successivamente ed indipendentemente con un'operazione ulteriore quando si passa al sinolo. Questo concetto risulterà chiaro quando descriveremo i vari costrutti dando le loro formule strutturali. Vedremo allora che, a cominciare dalle 26 categorie elementari, se ci limitiamo a considerarle come « contenuti », senza fare intervenire la forma morfemica aggiuntiva, è effettuabile una classificazione in base a certi prototipi di strutture. Precisamente troveremo: 1) costrutti in cui si ha un momento «—» di attenzione pura proseguente, come quello presente nella sostantività, oppure un momento sostantivale « » caratterizzante od entrambi. Essi hanno una forma tematica sostantivale

2) costrutti in cui si ha un momento «—» di attenzione pura pervenente, come quello presente nell'aggettività oppure un momento aggettivale « A » caratterizzante od entrambi. Essi hanno forma te. matica aggettivale.

3) costrutti ternari con un momento « °» centrale, che hanno la forma tematica di verbi. Queste forme tematiche sono quelle delle tre categorie atomiche, estese a costrutti superiori. Ma non sono le sole. Troviamo anche:

4) costrutti ternari con un momento «—— ) centrale, ai quali attribuiamo la forma tematica di correlatori.

5) costrutti ternari con un momento «(°——)= *» centrale per i quali diciamo che hanno la forma tematica di singolarizzatori.

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6) le forme tematiche degli articoli e dei pronomi, che sono collegate, come vedremo, con quelle dei correlatori e dei singolarizzatori.

Le forme tematiche hanno il carattere potenziale di cui si faceva cenno, nel senso che quando i costrutti che le posseggono vengono adoperati per morfemizzarne altri, la forma morfemica che si introduce è determinata da esse. Ad esempio, il costrutto corrispondente a « SOGGETTO » dà la forma morfemica sostantivale —TORE, perché ha una particolare forma tematica di sostantivo, precisamente quella dei sostantivi soggettivali. Ripetiamo che per ottenere la forma morfemica occorre un'ulteriore operazione aggiuntiva a quella costitutiva del contenuto; la forma tematica nasce invece con il contenuto, cioè è primaria. Il « contenuto » prima di assumere una forma morfemica è già di tipo sostantivale, aggettivale, verbale, ha il carattere di correlatore, singolarizzatore, pronome od articolo. Quando un costrutto che, in quanto tale possiede la sua forma tematica, acquista una forma morfemica, sia essa desinenziale o neutra, può accadere: 1) che la forma acquistata sia di tipo diverso da quella tematica, ad esempio che questa sia di sostantivo e si passi ad un verbo;

2) che la stessa forma, ad esempio, quella sostantivale, sia tematica ed anche morfemica.

Sono arrivato alla conclusione che anche nel secondo caso bisogna effettuare un'ulteriore operazione che dia una forma morfemica aggiuntiva, anche se neutra. Le due forme, la tematica e la morfemica vengono a coincidere sovrapponendosi solo per costrutti particolari come gli articoli, i pronomi, le preposizioni, le congiunzioni ed i verbi all'infinito. Si tratta dei casi in cui non si hanno « parole » vere e proprie. Possiamo infatti ritenere che siano da considerare parole solo i costrutti corrispondenti a sinoli, cioè provvisti di un contenuto (con la sua forma tematica) ed anche di una forma morfemica, mentre quelli aventi solo forma tematica possono essere considerati genericamente espressioni. Da sempre ci si è resi conto che una congiunzione come « e », una preposizione come « da », un articolo come « il », ecc., non sono parole 50

come le altre5. È però mancata la consapevolezza che si distinguono da quelle vere e proprie per non avere una forma morfemica aggiunta alla tematica. Di solito si parla di « parole » anche per i pronomi, ma non in tutti i casi con una precisa convinzione. Si considerano senz'altro « parole » quelli che hanno per omonimi aggettivi avverbiali, come « stesso », « quanto », « tutti », ecc., probabilmente perché vengono confusi con essi e questi aggettivi hanno una forma morfemica; ma si resta perplessi innanzi ad « io », « chi », « il quale », ecc. che sono solo pronomi. Daremo la definizione operativa di « parola » (p. 161) respingendo le tesi di coloro che vorrebbero abbandonare il suo uso tecnico. Costoro, rendendosi conto che non è riconducibile ad una soluzione fisicalista, ritengono a torto che perciò non sia scientificamente valido. Le parole corrispondono pertanto ai sinoli, cioè ai costrutti aventi una forma morfemica, sia essa desinenziale o neutra. Ad esempio, come vedremo, il significato di « fine » corrisponde ad un costrutto che nasce come sostantivo, cioè ha forma tematica sostantivale. Lo indichiamo con il numero d'ordine (13), che perciò corrisponde al contenuto con la sua forma tematica intrinseca. ‘Per significare che ci riferiamo al solo tema, cioè al contenuto sprovvisto di forma morfemica (7.11), usiamo indicare tra parentesi il morfema se la forma è desinenziale, tutta la parola se è neutra. Scriviamo perciò, ad esempio, « oggett(ivo) » essendo —IVO il morfema aggiunto al tema « oggett— », mentre scriviamo « (fine) = (13) », trattandosi di una parola con forma neutra. Per passare da «(fine)» alla parola corrente « fine », in quanto tale da scrivere senza parentesi, si deve ottenere il costrutto corrispondente a «(13) + forma morfemica neutra ». Le forme morfemiche neutre sostantivali si ottengono spesso inserendo il tema in luogo del secondo «—» della sostantività « s », cioè si ‘riconducono al tema preceduto dal momento «⬜». Sarà perciò: FINE = (⬜(13))

Se invece vogliamo ottenere il verbo « finire », dobbiamo effettuare l'operazione costitutiva del morfema —IRE inserendo nella verbità « v » (p. 43): FINIRE = (—°(13)

Per passare all'aggettivo « finale » dobbiamo dare alla (13) la forma aggettivale in —ALE, che si ottiene ponendo il tema al posto del primo «—» dell'aggettività « g »: 51

FINALE = ((13) ⧍)

Si potrebbe ritenere che per il sostantivo « fine » non occorra effettuare alcuna operazione aggiuntiva, avendo la (13) già la forma tematica di sostantivo. Invece deve avere sempre luogo una seconda opèrazione corrispondente alla forma morfemica. È evidente che essa è indispensabile quando tale forma corrisponde ad una desinenza, ad esempio, per passare dalla (13) al sostantivo « finitezza », avente il morfema —EZZA; ma abbiamo motivo di ritenere che intervenga anche quando la forma morfemica è neutra, come accade nel caso di « fine ». Pertanto dobbiamo non solo mutare « fin(it—ezza)» in « finitezza », ma anche «(fine)» in « fine ».

note 1 Quando la filosofia analitica presume di ricondurre i significati all'uso delle parole, considera curiosamente come esigenza scientifica la rinuncia ad una importantissima indagine, la sola che possa, tra l'altro, condurre la battaglia decisiva contro le metafore irriducibili. 2 Questo è un aspetto del criterio metodologico della scienza, di cui frequentemente ci avvaliamo (cfr. pp. Sn, 140, 206), che possiamo denominare principio dell'economia. Esso è stato formulato esplicitamente da E. Mach ed anticipato dal « rasoio di Ockham ». 3 Uso la dizione « pseudoparticipio » per le parole che hanno la forma morfemica participiale al presente ed al passato, eventualmente anche sostantivata, ma che non sono participi veri e propri mancando il verbo corrispondente. Participio è « assoggettato » e « soggetto » è uno pseudo participio allo stesso modo come « marcio » è pseudoparticipio rispetto a « marcito » che deriva dal verbo « marcire ». Però lo pseudoparticipio, presente in frasi come « soggetto a malattie », non deve essere confuso con il sostantivo omonimo usato nel linguaggio filosofico al quale qui ci riferiamo (cfr. p. 64). 4 È un concetto generale che quando varie lingue presentano differenti soluzioni, è la più povera a corrispondere alle operazioni mentali. Vale infatti il principio di economia in base al quale scompare quanto è ridondante e perciò inutile, ma l'indispensabile non può essere toccato. 5 I logici medioevali li chiamavano « termini sincategorematici », mentre 52

chiamavano « termini semantici » le parole vere e proprie. Analogamente i grammatici cinesi distinguono le parole « vuote » dalle « piene ». L'analisi operativa che presento mostra che in tutti i casi si ha un rapporto semantico tra espressioni linguistiche ed operazioni mentali e che queste sono sempre svolte con un unico meccanismo, quello mnemonico— attenzionale. Cioè anche i termini sincategorematici hanno un contenuto.

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III. LE CATEGORIE ELEMENTARI DI COMBINAZIONE 3.1 Combinazione, metamorfizzazione ed inserimento Passando ai costrutti provenienti dai cinque momenti «-°- °- », si hanno le ventisei categorie elementari. Esse potrebbero essere ottenute indipendentemente dalle tre atomiche introducendo criteri atti a stabilire autonomamente quali siano le strutturazioni possibili, ma mi sono reso conto che, viceversa, tutti i costrutti inerenti ai livelli superiori devono essere riconducibili ad associazioni di altri più semplici e quindi, in definitiva, alle tre categorie atomiche. Bisogna perciò partire dalle « v », « s » e « g » prese a coppie e, in base a regole ben precise, passare a momenti superiori. Segue che non tutte le combinazioni graficamente possibili corrispondono a costrutti validi. Ad esempio, si potrebbero proporre: {-(°-°)-} ({-(°-°)}-) (-{(°-°)-})

ma è accettabile solo il primo costrutto, perché il solo che, in base alle operazioni che tosto definiremo, si ottiene a partire dalle categorie atomiche: precisamente corrisponde, come vedremo, alla « verbità» combinata con se stessa. Perciò per definire le categorie superiori in genere bisogna fissare le operazioni con cui provengono dalle inferiori, a partire dalle tre atomiche. Diciamo subito che esse sono: 1) la combinazione, che indichiamo con il segno « X » 2) la metamorfizzazione, che indichiamo con il segno « » 3) l'inserimento, che indichiamo con il segno « & ».

I costrutti mentali di tipo categoriale, per quanto possano essere complicati, si riconducono in tutti i casi alle « v », « s » e « g » associate nei vari modi possibili con le tre operazioni « X », « » ed «&») (criterio di costruibilità). In quanto all'interpretazione semantica delle formule, importante non è solo la corrispondenza con parole dei singoli costrutti, ma anche quella 54

solidale di gruppi di parole, appartenenti ad una certa categoria grammaticale, con gruppi di formule caratterizzate da una certa forma tematica. Ad esempio: a) i costrutti aventi le forme di verbi, dati dal sistema, devono per le loro caratteristiche formali, corrispondere ai tradizionali « tempi » « modi », « aspetti », ecc., tenendo presente ovviamente le svariate soluzioni offerte dalle varie lingue. Pertanto oltre al « congiuntivo » dobbiamo trovare l'« ottativo », oltre ai « tempi » devono essere descrivibili e spiegabili gli aspetti « perfettivo », « imperfettivo » e « continuativo », di cui l'italiano non si avvale, ma che sono presenti in altre lingue;

b) le formule dei « correlatori » devono potersi classificare per numero e caratteristiche in modo da corrispondere ai tradizionali « casi », nonché alle « preposizioni » ed alle « congiunzioni », distinguendo quelle di « coordinazione » da quelle di « subordinazione »;

c) tutti i pronomi devono avere una forma comune e devono potersi dividere in « dimostrativi », « relativi », « personali », ecc., così come fa la grammatica quando li elenca.

Queste differenze devono risultare in modo immediato ed automatico: cioè dobbiamo ritrovare le soluzioni tradizionali descritte con formule riconducibili ad una classificazione isomorfa. Il metodo presuppone che la grammatica tradizionale sia nel giusto, almeno nelle sue linee essenziali, ma costituisce anche una conferma della sua validità, dato che i suoi assunti vengono ritrovati effettuando autonomamente un'analisi effettiva dei significati, come quella da me proposta. Ci occupiamo anzitutto dei costrutti ottenuti con l'operazione di combinazione, sebbene le altre due siano più semplici. Diciamo infatti che una categoria si metamorfizza in un'altra quando prende il posto del primo «—» di quest'altra; che si inserisce quando si introduce al posto dell'ultimo. Ad esempio, risulta immediatamente che metamorfizzando la « verbità » nella « sostantività », cioè effettuando l'operazione « v s », si ha il costrutto « {(◯°)} », che inserendo, cioè effettuando l'operazione « s&v » si ha «(⬜◯)». 55

La combinazione richiede invece una disgregazione e ricomposizione di entrambi i costituenti. Per effettuarla bisogna eliminare in entrambi la strutturazione al livello più alto (e solo essa), mettere insieme i momenti attenzionali in base ai criteri che esporremo e quindi ricostituire un costrutto unitario. 'Con questa operazione si ottengono otto categorie elementari che contrassegniamo con i numeri crescenti da (4) ad (11); con la metamorfizzazione nove categorie corrispondenti ai numeri da (12) a (20), con l'inserimento altre nove categorie che nell'ordine vanno da (21) a (29). Il lettore deve fare lo sforzo di ricordare le corrispondenze tra questi numeri, le operazioni costitutive e le relative parole correnti scaturenti dall'interpretazione semantica. Per sua comodità a p. 82 è riportata una tabella riepilogativa. Il numero d'ordine che assegniamo ad ogni costrutto deriva dal criterio classificatorio adottato per la compilazione di tale tabella.

3.2 Il singolare ed i sinsolarizzatori L'operazione di combinazione si effettua scrivendo anzitutto i due costrutti da combinare uno dopo l'altro e quindi eliminando in entrambi il momento superiore della memoria strutturale sia esso indicato da parentesi o dal tratto orizzontale sopra il rigo. Per il passo successivo bisogna distinguere tre casi. Ci occupiamo anzitutto di quello in cui risultano adiacenti due momenti «—». Ad esempio, siamo in questa situazione quando combiniamo la verbità con se stessa: (-°-) X (-°-)→ -°--°-

Da questa fase intermedia si deve passare all'ottenimento del costrutto « vxv ». Esso, come in generale tutti i costrutti mentali, deve provenire da una strutturazione della successione di momenti primari «—°—°—°—...».. Sopra si presentano due «—» adiacenti è polehe non figura tra di essi un'interruzione « ° », dobbiamo ritenere che si rendano uno solo, cioè si passi da «— —» a «—», 'cosicché la successione si riconduce a «—°—°—». L'operazione di combinazione procede ripristinando le due memorizzazioni di partenza, che furono tolte, nell'ordine in cui erano nei costrutti iniziali. Nel caso della « vxv » si avevano due memorizzazione ternarie, che dobbiamo in. trodurre nuovamente. Associando i primi tre momenti e dopo gli altri oppure prima gli ultimi tre, si avrebbero i costrutti:

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{(—°—)—°}=(◯°—) {—°(—°—)}=(—°◯)

Ci si rende conto immediatamente che il primo corrisponde alla formula strutturale della metamorfizzazione « vv », il secondo a quella dell'inserimento « v&v ». La combinazione « v xv » deve ovviamente dare un terzo costrutto differente. A tale scopo introduciamo la regola generale che quando nella combinazione ci si imbatte in due momenti «-—» adiacenti, il momento «—» in cui si fondono, si rende centrale in un momento ternario. Pertanto nel caso esemplificato si passa da «-°-°-» a «(°- °)- » ripristinando così una delle due memorizzazioni ternarie dei « v » si partenza. L'altra si riottiene subito dopo, associando i tre momenti «-», «(°- °)»,«->» nell'unico momento complesso « {-(°- °)-} ». Così procedendo, invece del momento ternario tipico dei due « Vv », caratterizzato da un'interruzione « ° » centrale, si ha un momento ternario di altra natura, in cui un «—» viene isolato tra due interruzioni. Nel costrutto globale l'attenzione anzitutto si applica, poi si interrompe, riprende, si interrompe di nuovo, isolando così il «— » centrale; infine prosegue. Non ho alcun dubbio che questa sia l'operazione costitutiva del SINGOLARE, connessa con l'isolare, nel senso che il «—» centrale resta disgiunto da entrambe le parti. Il gioco attenzionale riguarda i momenti «-» puri, dato che il « singolare » è una categoria, ma possiamo appoggiarci ad una esemplificazione in termini visivi. Ad esempio, vedo un libro sul tavolo come singolare (e potrei vederlo categorizzato diversamente) perché attenzionalmente lo isolo come un unico momento posto tra due interruzioni. L'occhio si rivolge al:tavolo, pone una frattura, si applica dando luogo ai momenti presenziali, pone una seconda frattura e prosegue passando nuovamente al tavolo. Come detto al 2.2, per indicare il momento «(°-°)» propongo lo specifico simbolo « * ». Contrassegnando il costrutto con il numero d'ordine (4), possiamo rappresentare l'intera operazione costitutiva con i passaggi:

Otteniamo così il tema « singol(are) ». Per passare al sinolo, cioè al designato della parola « singolare », occorre introdurre il morfema -ARE1. Che tale tema corrisponda alla combinazione di due verbità è perfettamente convincente. Infatti la « v » comporta un passaggio attenzionale effettuato attraverso un'interruzione. Sovrapponendo un secondo passaggio del genere ciò che si introduce con il primo viene 57

lasciato indietro e perciò resta isolato da entrambi i lati. Ritengo che ISOLARE sia appunto il verbo della (4) SINGOL(ARE), da ottenersi perciò inserendo la (4) in « v »:

La (4) è un costrutto importante, caratterizzato da una forma tematica precipua, ma non ha una funzione grammaticale. Infatti non viene effettuata alcuna operazione aggiuntiva per passare da un costrutto categoriale od osservativo, ad esempio dal semplice « libro », ad esso stesso reso singolare. I linguisti dicono in questo senso che, al contrario di quanto accade per il « plurale », il singolare non è marcato. Probabilmente questa differenza è collegata con il fatto che nessun costrutto può essere attenzionalmente isolato tra due «°» nel senso che con nessuna operazione è possibile ottenere:

ove « K » è un simbolo formale con cui indichiamo un costrutto qualsiasi (5.7). Né la combinazione, né la metamorfizzazione, né l'inserimento ci permettono di spezzare il momento «*» per introdurre un qualche costituito al posto del «—» centrale. La (4) è Importante invece perché metamorfizzando ed inserendo in essa si ottengono costrutti del tipo:

Hanno forme del genere i significati di quelle parole che sul piano consecutivo spesso vengono chiamati termini relativi. Sono tali non solo coppie di parole come « padre » e « figlio », ma anche, sia pure in senso alquanto diverso, « generale » e « particolare », « classe » ed « esemplare », « legge » e « fenomeno », ecc. In tutti questi casi si ha l'assunzione di un costrutto come paradigma o riferimento e di un altro come riferito, rispettivamente metamorfizzando ed inserendo nella (4). Ad esempio, 58

consideriamo « cavallo » un generale categorizzando il costituito osservativo come riferimento per tutti i cavalli. Ogni cavallo, in quanto riferito, viene categorizzato come particolare. Sia il « generale » che il « particolare » sono singolari, il primo perché è il modello unico, il secondo perché scaturisce dallo specifico confronto effettuato. Ovviamente « generale » e « particolare » sono categorie (7.1) che si applicano ad altre categorie o ad osservati. Prescindendo dalle particolari soluzioni, tutti i costrutti tipo « K1 4» sono riferimenti, cioè qualcosa di simile alle « idee » che Platone poneva nel mondo iperuranio, ovviamente tenendo presente che non si tratta di realtà ontologiche ma di operazioni mentali; tutti i «4&K2 » sono riferiti. Quando sono concomitanti « riferimento » e « riferito » in costrutti tipo « K1 4&K2 » dico che si ha un singolarizzatore completo. Parleremo in seguito dei costrutti di questa specie. Ho ritenuto opportuno accennare già ora ad essi per sottolineare che la (4) ha una forma tematica precipua, geneticamente diversa da quella dei verbi, dei sostantivi e degli aggettivi. La parola « singolare » corrisponde al sostantivo «16&4» o all'aggettivo «4 29», ma se ci limitiamo al tema (4) corrispondente a « singol(are) », dobbiamo proporre una categoria grammaticale sfuggita alla classificazione tradizionale. Chiamo appunto « singolarizzatori » tutti i costrutti ternari con un «*» centrale, cioè i derivati di morfoinserimento della (4) SINGOL(ARE). 2 Possiamo dire che le correlazioni ed i termini relativi, provenienti dai sin — golarizzatori Si distinguono dalle morfemizzazioni date dalle altre categorie ele— mentari perché la (9) e la (4) si applicano concomitantemente a due costrutti attraverso una metamorfizzazione ed un inserimento. Invece nel dare una forma, cioè ottenere i sinoli, le altre categorie elementari si applicano ad un solo costrutto. Ovviamente sono le forme della (4) e della (9) che comportano tale particolare modo di operare. Però, come vedremo (5.3), è possibile concomitantemente ‘metamorfizzare ed inserire due costrutti in categorie atomiche ed anche elementari diverse dalla (4) e (9); si hanno allora delle variazioni etimologiche che chiamo « diali ».

3.3 Il correlatore e le correlazioni

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Un altro caso di forma tematica sfuggita alla grammatica tradizionale è quello corrispondente alla combinazione della « s » con la « g », che contrassegniamo con il numero (9) e facciamo corrispondere al tema CORRELA(TORE). Anche ora si ha l'incontro di due «—» e l'associazione in uno solo da rendere centrale in un momento ternario, ma si ottiene un costrutto con una diversa fisionomia: precisamente si ha un «—» che congiunge il momento sostantivale «⬜» con quello aggettivale «△». I passaggi sono:

Anche questa categoria è estremamente importante. Se la (4) sta alla base dei termini relativi e dei singolarizzatori in genere, la (9) CORRELA(TORE) ed i suoi derivati rendono possibile il passaggio dai costrutti isolati, corrispondenti a singoli termini linguistici, a loro associazioni, che sono il corrispettivo mentale delle proposizioni e dei periodi (in generale « frasi »), cioè di quanto è argomento della sintassi. Vedremo che appunto dalla (9) derivano i « casi » delle lingue flessive, le « preposizioni » e le « congiunzioni », cioè tutti i costrutti che in quanto hanno la funzione di tenerne insieme altri due in virtù di un momento ternario con un «—» centrale, sono operativamente correlatori. Possiamo dire che mentre i verbi sono caratterizzati dall'interruzione « °» e perciò comportano un dinamismo, i correlatori, in quanto aventi un «—» centrale comportano un legame statico. I singolarizzatori sono in una posizione intermedia, dato che separano con le due « °» e congiungono con il «—», distinguendo un riferimento ed un riferito ma anche ponendoli in connessione. Alle correlazioni linguistiche costituenti le frasi (proposizioni e periodi) nella sfera mentale corrisponde un pensiero. Infatti « pensare » vuol dire « correlare », come ha affermato Ceccato, pur non avendo proposto specifici costrutti in grado di spiegare come ciò possa avvenire in virtù della loro forma. A mio avviso se un qualsiasi costrutto « K1 » si metamorfizza nella (9) ed un « K2» si inserisce, questi due costrutti vengono associati in un pensiero e linguisticamente in un sintagma, che diviene proposizione quando il primo ha la forma di sostantivo (soggetto) ed il secondo di verbo (predicato). Per evidenziare i correlati « K1» e « K2» conviene scriverli più in basso rispetto al correlatore da cui sono tenuti 60

insieme:

In lingue come l'italiana la (9) è un correlatore implicito, cioè non corrispondente ad alcun simbolo linguistico, ma solo alla giustapposizione dei correlati nella frase. Però è chiaro che quando diciamo, ad esempio, « libro rilegato » effettuiamo mentalmente un'operazione con cui viene associato « rilegato » con « libro », così come effettuiamo un'operazione per dire « libro di scienza ». In questo secondo caso si ha il correlatore esplicito espresso in italiano dalla preposizione « di », che come vedremo, è un immediato derivato della (9). Le correlazioni esplicite sul piano linguistico sono da ricondurre alla presenza di un costrutto che corrisponde ad una « preposizione » o alla flessione di un « caso » quando si costituisce un sintagma od una proposizione; una « congiunzione » quando si ottiene un « periodo ». Sul piano delle operazioni mentali sottostanti, come vedremo, si ha sempre un correlatore derivante dalla (9). Esso corrisponde alle « preposizioni » od ai « casi » quando si ottiene per metamorfizzazione od inserimento (od entrambe) nella (9) di categorie atomiche od elementari; corrisponde a « congiunzioni » di coordinazione o di subordinazione quando si effettua invece una combinazione. Vedremo quali sono i costrutti dell'uno e dell'altro tipo. Notiamo intanto che le esplicitazioni espresse da « casi » in lingue come la latina, la greca, la tedesca, ecc. corrispondono a desinenze, che perciò devono essere intese come sintattemi (p. 51). La parola corrente « correlatore » corrisponde al contenuto della (9) ed ha la forma tematica dei correlatori, ma è un sostantivo morfemico in — TORE, che come accennato si ottiene metamorfizzando nella categoria del « soggetto ». Poiché contrassegniamo questa categoria con il numero d'ordine (7), sarà: « CORRELATORE = 9 7 ». Ovviamente la funzione sintattica di correlare corrisponde al tema (9) e non al sostantivo «997 », che si ritroverà, come tutti gli altri sostantivi, sempre tra i correlati.

3.4 Il soggetto e l'oggettivo La (6) OGGETTIIVO) e la (7) (SOGGETTO) sono due categorie ottenute 61

anch'esse con la combinazione « X »; ma hanno forma tematica rispettivamente di aggettivo e di sostantivo. Possiamo occuparcene subito perché siamo ancora nel caso di due «—» adiacenti che si fondono in uno centrale all'interno di un momento ternario complesso. Ma ora uno degli altri due momenti è l'interruzione « °». Precisamente risulta:

La (6) ha forma tematica di aggettivo essendo caratterizzata dall'attenzione pervenente «—» e dal momento « ⧍ », la (7) di sostantivo per la presenza del momento di attenzione pura proseguente e di quello sostantivale «⬜ ». Mi si concederà senza difficoltà che la (6) corrisponda al significato del tema OGGETT(IVO). Infatti comporta l'attenzione «—» che si rivolge al momento « ⧍ », in quanto tale da essere acquisito attribuendolo ad un precedente costituito, ma che al contrario di quanto accade per la « g », non viene immediatamente strutturato con l'attenzione pervenente, bensì ripreso attraverso il distacco « ° ». È da ritenersi che sia stata appunto la forma del momento attenzionale dell'« oggettivo », cioè «(°—⧍)», ad aver suggerito al realista l'« esistenza » di oggetti fatti per conto loro. Essi sono stati visti distaccati ed indipendenti nel senso del raddoppio conoscitivo, cioè come « realtà » autonoma, mentre invece sono ottenuti con una fisionomia del genere attraverso la loro operazione costitutiva. Il momento « ⧍ » a cui si perviene con un «—» attraverso il distacco «°» comporta un « davanti », una « presenza », ecc. Esso spesso, ma non necessariamente, categorizza presenziati organizzati in osservati. È da notare, infine che la (6) corrisponde ad « oggett(ivo) » e non ad « oggetto » perché ha forma tematica aggettivale. Per passare dal tema alla parola, cioè ottenere il sinolo bisogna introdurre la forma corrispondente al morfema —IVO, che viene data dalla metamorfizzazione nell'aggettività « g ». Cioè è: OGGETTIVO = 6 g). Invece la parola « oggetto » corrisponde al sostantivo neutro Ottenuto per inserimento nella « s ». Cioè: **OGGETTO = s&6**

La (7) è caratterizzata dal momento sostantivale « (⬜—°)». Consideriamo appunto qualcosa SOGGETTO quando lo vediamo come un costituito, cioè 62

un « s », da cui parte il dinamismo « v » diventando suo agire. Poiché si tratta di una categoria, può essere applicato oltre che ad esseri umani o viventi anche a cose fisiche qualsiasi se considerate responsabili di un'attività da esse proveniente. Appunto in riferimento a questa fisionomia si è introdotto il soggetto sintattico, che ovviamente non corrisponde alla (7), ma ad una correlazione tramite la (9), in cui primo correlato è un sostantivo al quale fa seguito come secondo un verbo (predicato). Le forme di questi due correlati, la prima sostantivale e la seconda di verbo, corrispondono appunto nell'ordine ai due costituenti della (7), cioè alla sostantività che si combina con la verbità. Ovviamente alla (7) (SOGGETTO) non dobbiamo attribuire un contenuto privilegiato, magari responsabile dell'attività mentale. Si tratta di una categoria come tutte le altre da essere ricondotta anche essa ad operazioni costitutive. Provengono dall'errore filosofico del raddoppio conoscitivo non solo le tradizionali soluzioni realiste—oggettivistiche, ma anche quelle di tipo soggettivistico o solipsistico, che per altro spesso confondono il « soggetto » con l'« io ». Anche Kant tentava di spiegare il mentale con un « io penso ». Successivamente J. G. Fichte invocò una generica attività costitutiva attribuendola all'opera dell'« io », assunto come prius inanalizzabile. Si noti che prima di Kant il soggetto filosofico veniva visto come passivo ricettore « assoggettato » alla realtà esterna. Si ammetteva infatti che suo unico compito fosse quello di acquisire il « doppio » ‘esterno delle cose, fisico od ontologico, per portarlo all'interno. L'« assoggettato » si mutò un « soggetto » attivo, corrispondente ad « sxv », quando da ricettore passò ad artefice, ma purtroppo fu allora considerato esso stesso prius. Con questa interpretazione è legato il fatto, di cui abbiamo fatto cenno a p. 47, che alla parola dobbiamo attribuire una forma neutra e non di pseudoparticipio passato. Cioè —ETTO non è in questo caso un morfema e risulta: **SOGGETTO = s&7**

La (4) SINGOL(ARE) e la (9) CORRELA(TORE) nei riguardi degli altri costrutti assolvono ad una funzione affatto particolare, precisamente effettuano il confronto tra termini relativi e pongono le correlazioni sintattiche. Invece la (6) e la (7), come le altre categorie elementari di cui ci occuperemo, effettuano morfemizzazioni, cioè danno agli altri costrutti forme estrinsecantisi in affissi2. Abbiamo detto che la metamorfizzazione nella 63

(7) introduce il morfema —TORE. È da ritenersi che quella nella (6) corrisponda a morfemi tipo —ISMO, —ISMA, ecc. (ad esempio, « opportunista », « fascista », ecc.). L'Inserimento nella (7) allora porta ai corrispondenti morfemi sostantivali (ad esempio, « opportunismo », « fascismo, ecc.). Vedremo che verosimilmente l'inserimento nella (6) e nella (7) interviene anche per dare una forma tematica ai presenziati, in quanto resi distaccati ed inerenti ad oggetti oppure acquisiti come sensazioni.

3.5 Il plurale ed il duale. Per le quattro categorie rimanenti la combinazione si effettua in modo diverso. Infatti ora si ha l'incontro tra un momento elementare «—» ed uno complesso «⬜» o «⧍». In questo caso il momento «—» scompare, quello complesso prende il suo posto e si ripristinano nell'ordine iniziale le memorizzazioni di partenza. Combinando la « sostantività » e l'« aggettività » con sé stesse si ha:

Si noti che le successioni di momenti «⬜— ⬜—» e «—⧍ —⧍» sono impossibili perché comportano due «—» adiacenti. Bisogna eliminare quello isolato sovrapponendogli «⬜» o «⧍» e si passa così alla successione base «—°—°—». In quanto all'interpretazione semantica di questi due costrutti, si ha che il DU(ALE) consiste in una doppia aggiunta concomitante, cioè un'aggettività iterata per combinazione; il PLUR(ALE) in una disgiunzione iterata, cioè una duplice sostantività. Quando parliamo, ad esempio, di « cani » è perché vediamo « cane » e « cane », costituiti ognuno per conto suo e tenuti insieme con la combinazione in corrispondenza del momento categoriale «(⬜⬜)». Se parliamo di « due libri » è perché li vediamo associati. Tra l'altro dal « du(ale) » proviene la « coppia », mentre dal « plur(ale) » il « collettivo ». Pertanto il plurale di un sostantivo si ottiene sostituendo questo al posto dei momenti «—» dei due «⬜». Ad esempio, si otterrà « cani » combinando « cane s » con « cane s » in: ({(cane°) (cane°)}—) = cani

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Lingue come la malese ottengono ‘appunto il plurale ripetendo la parola al singolare. È da ammettere che gli aggettivi non si pluralizzino come risulta anche dalle soluzioni superficiali presentate da lingue come l'inglese. Sono arrivato alla conclusione che mentre il plurale si ottiene indirettamente dalla (8), combinando con se stesso un costrutto « K9s », se invece si metamorfizza ed inserisce nella (8), si hanno i collettivi. Precisamente risulta: (K s) x (K s) = ({(K °) (K °} —)= « K » al plurale K 8 = ({(K °)⬜}—)= collettivo morfemico di « K » 8&K = {(⬜⬜)K} = collettivo neutro di « K » In italiano i collettivi morfemici sono caratterizzati da desinenze tipo —IO, —IA (ad esempio, « loggia » = collettivo di portici, « villaggio = collettivo di case), tipo —AME, —UME (ad esempio, « marciume »), ecc. Esempi di collettivi neutri sono « bosco », « gregge », « flotta », ecc. Dobbiamo ritenere che quando si parte da un costituito e quindi lo si rende plurale, si abbia una modificazione di forma corrispondente ad un morfema. Se invece ci si pone in partenza in una situazione plurale per inserire un costituito, esso viene, per così dire, dissolto e cambia l'etimologia. Con un meccanismo analogo a quello con cui si ottiene il plurale, precisamente combinando « g&K » con « g&K », si deve ottenere il duale nelle lingue che, come il greco, lo distinguono dal plurale. Con la (11) sono legate altresì sul piano morfologico le forme ripetitive caratterizzate dal prefisso RI—. Ad esempio, si passa da « congiungere » a « ricongiungere ». Si tratta di un caso di variazione formale per dializzazione come vedremo al 5.4. La (11) ha poi fondamentale importanza nel mondo della matematica. Vedremo che interviene per passare dal numero « uno » al « due » e quindi ai successivi, come pure per determinare i significati di « aperto » e « chiuso », costrutti che, secondo la mia formulistica, stanno alla base della geometria. Verbo della (11) è: ** v&11 = RIPETERE**

3.6 L'operazione e l'avverso Le ultime due categorie elementari ottenute con la combinazione sono:

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La (5) è un ibrido di verbità e sostantività in quanto caratterizzata dal momento «( — ° ⬜) » nel quale il passaggio tipico dei verbi per la «°» centrale si rende sostantivale trasformandosi in un momento binario con l'attenzione pura proseguente. Ritengo che significato della parola « operazione » sia appunto l'attività mentale che introduce, mette, fa, ecc., cioè nel senso più ampio ottiene dinamicamente un costituito. Dobbiamo ammettere che il tema (5) OPERA (—) si completi nella parola « operazione » e non già nel verbo « operare », perché ha la forma tematica di sostantivo (2.5). Il verbo è: FARE = v&5. Il sostantivo « opera » è il derivato neutro del tema (5), cioè « OPERA = s&5 », da cui deriva: « OPERARE = v&(s&5). I derivati della (5) sono numerosi ed importanti. Frequente è anche il suo uso come forma morfemica. Ritengo infatti che per metamorfizzazione in essa si abbiano i morfemi —ZIONE, —SIONE, per inserimento gli —ANZA, —ENZA. In entrambi i casi si tratta di sostantivi (fa eccezione « abbastanza », che presumibilmente proviene ‘dall'aggettivazione di un precedente sostantivo). Saranno pertanto, ad esempio: UNIONE = 4 5, SOPPORTAZIONE = 6 5, AVVERSIONE = 10 5, DUPLICAZIONE = 11 5, CORRELAZIONE = 9 5, CORRISPONDENZA = 5&9, FREQUENZA = 5&11.

Dobbiamo ammettere che anche il tema di « operazione » richieda questa morfemizzazione e perciò sia: OPERAZIONE = 5 5

Il problema di spiegare come il negativo, la mancanza, l'assenza, ecc. si 66

ottengano con un fare di tipo particolare, che invece di introdurre toglie, viene risolto in modo convincente dalla (10). Infatti il suo momento caratteristico «(⧍ ° —)» comporta l'avversare in quanto è l'aggettività che nell'atto stesso în cui si aggiunge viene portata via dalla sopravveniente verbità. Sono arrivato alla conclusione che il « non » sia un derivato della (10), come vedremo al 6.2, ed il significato primario da attribuire al tema sia AVV(ERSO). Anche la (10), come la (11), dà variazioni formali per dializzazione. Si tratta ‘delle soluzioni negativanti—oppositive collegate in italiano con prefissi tipo DIS— (ad esempio, « disgiungere » come avverso di « congiungere »). Derivati in cui essa interviene direttamente od indirettamente sono quelli in IN— (ad esempio, « infinito », in quanto si riconduce a togliere « fine ») e quelli privativi in A— (ad esempio, « assente » come « presente » mancato). Con le (10) e (5) è collegata quella che chiamo regola del togliere e del mettere. Essa afferma che partendo da un costrutto di forma aggettivale e combinando con la verbità « v », si toglie la componente aggiuntiva del significato perché si forma il momento avversativo della (10): combinando invece « v » con un costrutto di forma sostantivale si mette qualcosa perché si forma il momento della (5). Sul piano formale si hanno le quattro possibilità:

Ad esempio, con la regola del togliere si ottiene « meno » da « più » (p. 80), « assente » da « presente » (p. 9In.), « contingente » da « necessario » (p. 110). Con la regola del mettere si ha « reazione » (p. 116). Nel caso limite in cui « K » si riduce al momento «—» si hanno rispettivamente la (10) AVV(ERSO) e la (5) OPERA(ZIONE).

3.7 I momenti non combinabili La combinazione « X » è l'unica delle tre operazioni costitutive che non può essere effettuata sempre. Si è infatti nell'impossibilità di condurla a compimento quando nella fase intermedia vengono a trovarsi adiacenti un momento «⧍» ed un momento «⬜» ovvero, più in generale, due qualsiasi momenti complessi. Essendo interni essi non possono essere 67

spezzati, dato che, come abbiamo detto, la combinazione si effettua togliendo solo la memorizzazione superiore dei due costrutti di partenza. In casi del genere deve ammettersi che, non avendo luogo l'operazione, i costrutti da combinare si dissolvano, dando come risultato l'attenzione interrotta « b ». Nell'ambito delle categorie elementari troviamo solo il caso: **g X s = ( —⧍) X ( ⬜— ) → — ⧍ ⬜ — → b**

Per questo motivo le categorie elementari di combinazione si riducono ad otto mentre quelle di metamorfizzazione ed inserimento sono nove.

note 1 Vedremo che tale morfema è dato dall'inserimento nella (16) (MODO) quando è sostantivale, dalla metamorfizzazione nella (29) QU(ALE) se aggettivale. Infatti corrisponde al modo di considerare un certo contenuto od alla qualità che gli si attribuisce (cfr. ad esempio « perpendicolare »). Pertanto saranno: **SINGOLARE (sostantivo) = 16&4 SINGOLARE (aggettivo) = 4 29**

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IV. LE CATEGORIE ELEMENTARI DI MORFO— INSERIMENTO 4.1 I verbi elementati Abbiamo detto che le operazioni di metamorfizzazione e di inserimento si effettuano in modo molto semplice, rispettivamente introducendo una categoria al posto del primo e dell'ultimo «—» di un'altra. Aggiungiamo che per effettuare le interpretazioni semantiche è consigliabile considerare questi costrutti a coppie di complementari, cioè una categoria di metamorfizzazione « K1 K2 » e la corrispondente di inserimento « K2&K1 ». Esse infatti sono connesse nel senso che i loro significati si integrano vicendevolmente1. Cominciamo con sei categorie che corrispondono ai verbi elementari nella duplice forma dell'infinito presente e passato. È del tutto evidente che si ha l'infinito presente quando il passaggio introduce un momento (ad esempio, il « nero » in « annerire »); si ha invece quello passato quando il passaggio lo abbandona. Perciò in generale per un costrutto qualsiasi « K » saranno: v&K = (—°K) = INFINITO PRESENTE

K v = (K °—) = INFINITO PASSATO

Le categorie elementari di cui ora ci occupiamo nascono come verbi in quanto hanno la forma tematica ternaria con la «°» centrale. Perciò non richiedono alcuna metamorfizzazione ulteriore per acquistarla. In generale per tutti i verbi all'infinito forma tematica e forma morfemica coincidono e corrispondono ‘entrambe alle desinenze morfemiche italiane —ARE, —ERE, —IRE. È quando si passa dall'infinito ai modi finiti che bisogna introdurre una forma morfemica aggiuntiva, distinta da quella tematica, ma sempre, come vedremo, ottenendo tre momenti con la « °» centrale. Le sei categorie corrispondenti ai tre verbi elementari sono:

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Ricordando quanto abbiamo detto a p. 43 circa l'interpretazione semantica della « v », risulta che i significati che sembravano essere primari sono appunto quelli dei verbi che ora troviamo nella sfera delle categorie elementari. Cioè essi sono i contenuti più semplici che si ottengono associando la « v » con « v », « s » e « g ». Risulta precisamente che il passaggio da un «—» ad un momento ulteriore superando la « °» centrale è uno SVOLGERE quando il momento di arrivo è ancora una verbità, cioè un momento che passa ulteriormente ad un altro « v »; è un SEPARARE quando si perviene alla sostantività « s », che contiene un «—» disgiunto e comporta perciò un costituito a sé stante: è un CONGIUNGERE quando si perviene all'aggettività « g », che è da aggiungersi al momento precedente facendo con esso un tutto uno.

4.2 Inizio, fine e derivati sostantivali dei verbi Di immediata interpretazione sono i due costrutti: (13) =v s = {(◯°)—} = (FINE)

(24) = s&v = (⬜◯) = INIZI(O)

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Nella (13) il passaggio della verbità viene disgiunto e perciò lasciato indietro concluso. Quando si parla di FINE si ha appunto un processo o stato visti come uno svolgimento troncato e quindi sul piano categoriale una « v » associata con l'interruzione « °» ed abbandonata quindi dall'attenzione pura proseguente. La (24) corrisponde invece al tema di INIZIO in quanto è il dinamismo « v » reso prosieguo del costituito « s ». La parola « fine » corrisponde al sinolo di forma neutra « s&13». Invece in « inizio » si ha la desinenza presumibilmente morfemica — O. Ritengo che in questo caso ed in generale in tutti quelli in cui si ha un sostantivo collegato con un verbo (ad esempio, « dubbio » e « dubitare », « noia » ed « annoiare »), ecc. ci si riferisca al derivato del verbo all'infinito presente che si ottiene metamorfizzando in « s » e che propongo di chiamare pseudosupino. Perciò presumibilmente, partendo dalla (24), si hanno: INIZIARE = v&24

INIZIO = (v&24) s

La metamoifizzazione nella (13) di un costrutto « K » porta a dargli la forma di un verbo all'infinito passato e successivamente reso sostantivo; l'inserimento nella (24) alla sostantivazione di un infinito presente. Si hanno allora: K 13 = (K v) s = ({(K °—)°—}—) GERUNDIO PASSATO

24&K = s&(v&K) = {⬜(—°K)} GERUNDIO PRESENTE

È noto che i gerundi sono derivati sostantivali dei verbi. Dalle formule date sopra risulta che il passato è legato con la, semanticità di « fine », il presente con quella di « inizio ». L'inserimento nella (13) e la metamorfizzazione nella (24) potrebbero corrispondere invece rispettivamente ai morfemi sostantivali in —URO, — URA, collegati con il participio futuro latino ed in —ANDO, —ENDO nel senso di pseudogerundi, legati con i gerundivi del latino. Non possiamo qui indugiare su queste analisi. Notiamo invece che se metamorfizziamo nella « s » un verbo all'infinito presente, come anticipato sopra, si ha:

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(v&K) s = ({— ° K) °}—)= PSEUDOSUPINO

Uso questo termine solo in quanto è utile dare un nome ai sostantivi verbali di questa forma ed il supino latino è un sostantivo verbale. In effetti esso ha però una funzione più sintattica che morfologica. Infatti richiede i sintattemi dell'accusativo o dell'ablativo, che l'italiano rende con preposizioni come « per » ed « a ». La quarta combinazione, cioè quella dell'inserimento in « s » del verbo all'infinito passato, corrisponde, a mio avviso, ai sostantivi italiani in — MENTO: s&(K°v = {⬜(K °—)} sostantivi in — MENTO

Ad esempio, SVOLGIMENTO è il sostantivo che si ottiene inserendo in « s » la (12) AVER SVOLTO, cioè: SVOLGIMENTO = s&12

4.3 Spaziale, temporale e derivati aggettivali dei verbi Una coppia di categorie elementari tra le più importanti è: (14) = v g = (◯⧍) = TEMPOR(ALE)

(27) = g&v = {—(°◯)} = SPAZI(ALE)

Esse hanno forma tematica aggettivale e perciò sono primarie rispetto a « tempo » e « spazio ». Quando si pensa a tutto quanto è stato scritto sui significati di queste due parole, a cominciare dalle controversie tra coloro che, come Newton, li considerano fisici e coloro che, influenzati da Kant, li riconducono invece ad « intuizioni », cioè grosso modo a qualcosa di mentale, può sembrare presuntuoso solo il fatto che ardisca darne una definizione. Eppure, una volta assodato che si tratta di categorie e non di osservati, dato che non sono riconducibili a specifici presenziati, le formule che propongo dovrebbero convincere tutti ed essere perfettamente comprensibili per la loro elementarità. 72

A mio avviso il « tempo » o meglio il « temporale » non è una sorta di fluido immateriale che scorre con velocità costante (secondo Newton) o variabile (secondo Einstein), magari in atto solo nel presente; non è neanche la somma degli istanti che si susseguono assiepati secondo la dimensione del continuo; è invece il passaggio « v » che si rende aggiuntivo acquistando la forma « g » dell'aggettività mediante una metamorfizzazione. In tal senso al momento «◯» segue il momento «⧍». Viceversa nello « spaziale », come mostra la (27), prima ci si pone nella situazione aggiuntiva « g » e poi si inserisce il passaggio « v ». Ad esempio, per applicare la categoria di « estensione » alla mia stanza o di « distanza » tra me € la parete, che sono derivate dalla (27), come vedremo ai 5.3 € 9.8, l'operazione di fondo da effettuare è quella di fissare la parete in modo da renderla aggiuntiva (cioè partire da « g ») per poi passare attenzionalmente da essa a me o da me ad essa introducendo « v ». Non solo « spaziale » e « spazio » sono categoriali, ma anche « estensione » e « distanza ». Quando esse sono rese visive vengono applicate ad osservati (1.4); vedrò però la parete della stanza di fronte a me ed il pavimento, non certo la « distanza ». Un errore commesso tradizionalmente è quello di considerare « spazio » e « tempo » non solo fisici, ma anche provvisti di una sorta di struttura atomica, i cui ingredienti primari sarebbero i « punti » e gli « istanti ». In tal modo si vorrebbe dare una spiegazione dei costrutti geometrici (ontologizzati in entità), facendoli nascere da punti assiepati in una, due o tre dimensioni. È invece PUNTO a provenire dalla (27), come è ISTANTE a provenire dalla (14). Non possiamo intrattenerci sui molti derivati della (14) e della (27). Ci limitiamo a citare: DURARE =v&14

LOCALIZZARE = v&27 da cui LUOGO = (v&27) s

Dobbiamo altresì fare notare che come dalla (13) (FINE) e dalla (24) INIZI(O) provengono i gerundi, così dalle (14) e (27) si hanno i participi: K 14 = (K v) g = {(K °—) ⧍} PARTICIPIO PASSATO

27&K = g & (v&K)= (—{°(— ° K)}) PARTICIPIO

73

PRESENTE

Infatti la metamorfizzazione di una « K » nella (14) corrisponde a quella del relativo verbo all'infinito passato « K v » nell'aggettività « g »; l'inserimento di « K » nella (27) a quello del relativo verbo all'infinito presente in « g ». Anche ora si ha un'altra coppia di derivati morfemici dei verbi all'infinito : (v&K) g = {C°K)⧍} DERIVATI IN —BILE ED —EVOLE

g&(K v) = (—{°(K °—)}) DERIVATI IN —MENTE

Essi sono i corrispettivi aggettivali degli pseudosupini e dei sostantivi in — MENTO di cui al 4.2. Ritengo che per ottenere, ad esempio, « svolgibile » bisogna metamorfizzare in « g » il verbo « svolgere » (infinito presente). Per ottenere « congiuntamente » bisogna inserire in « g » la (18) AVER CONGIUNTO. Cioè: SVOLGIBILE = 21 g CONGIUNTAMENTE = g&18

Correntemente gli aggettivi verbali in — MENTE vengono considerati avverbi. Vedremo che bisogna invece riservare questo termine alla categoria sintattica degli aggettivi correlati con verbi (8.2). Le parole isolate in —MENTE sono aggettivi provenienti da verbi in modo parallelo ai sostantivi in —MENTO. Non sono considerabili avverbi anche in senso morfologico perché non sarebbero suscettibili di una definizione. Infatti si parla di « avverbi » anche per parole sprovviste del morfema —MENTE e precisamente di forma neutra, come « fuori », « dentro », « invece », « ora », ecc., che per altro non derivano da temi di verbi (cfr. 8.5). 2 La parentela del morfema —IO—, —IA dei derivati modali e strumentali con quelli dei pseudosupini (p. 72) e dei collettivi (p. 66) si spiega notando che in definitiva si effettua sempre la metamorfizzazione in una « s », semplice oppure iterata. Nel caso dei « collettivi » si ha il rinforzo in « sxs » = (8) PLUR(ALE), in quello dei derivati modali e strumentali rispettivamente in « s s » = MODO ed « s&s » = (MEZZO). Si noti che nel caso degli pseudosupini la « i » fa parte del tema e morfemi sono solo «— o », «—a ». Ad esempio, è « inizi(o) », essendo verbo « iniziare ». 3 Nella nota di p. 47 abbiamo già accennato agli pseudoparticipi. Sono 74

arrivato alla conclusione che le forme aggettivali si riconducono a: 17&K = pseudoparticipio presente K 28 = pseudoparticipio passato.

Le varianti sostantivali, come accennato a p. 77, presumibilmente sono: K 26 = pseudoparticipio presente sostantivato 19&K = pseudoparticipio passato sostantivato.

In generale gli stessi morfemi quando sono sia aggettivali che sostantivali si riconducono a costrutti morfemizzanti speculari (Cfr. n. 4). Tali sono appunto le coppie (17)—(26) e (28)—(19). 4 Si ottiene il costrutto speculare di un altro invertendo l'ordine dei costituenti, cambiando la «©» in « &» e viceversa come per la complementarità (p. 70), ma anche mutando ogni « s » in « g » e viceversa. Perciò alla «(16) = s°s » corrisponde come speculare la « g&g », cioè la (29). Analogamente alla «(26) = s&g >» corrisponde come speculare la « sTg », cioè la (17), ecc. Attribuiamo alla specularità la prerogativa di porre in corrispondenza i morfemi sostantivali con gli stessi aggettivali perché è l'unica relazione consecutiva che collega sostantivi ed aggettivi. Le altre relazioni consecutive inerenti alle categorie sono la complementarità (p. 70) la mediazione (p. 23 n.) e l'associazione. Per la loro definizione ed il ruolo che posseggono nella semantica e nella logica dobbiamo rimandare al futuro trattato.

4.4 Modo, mezzo, sostanza ed accidente Un'altra coppia di categorie elementari, questa volta di forma tematica sostantivale, è: (16) = s s = ({(⬜—)°}—) = (MODO)

(29) = s&s = {⬜ (⬜—)} = (MEZZO)

La (16) è il costituito « s » che viene ricostituito metamorfizzando in « s ». Non potendo mutare radicalmente, essendo stato già fatto, assume il carattere di una variante, cioè diviene il MODO. Si ha invece il MEZZO 75

quando il secondo costituito « s » si inserisce. Ad esempio, « modo di parlare » è un « parlare » che assume un'ulteriore costituzione aggiuntiva e tuttavia disgiunta; un « mezzo per parlare », come potrebbe essere il telefono, non tocca il « parlare », ma lo integra inserendosi. Queste due categorie danno le forme corrispondenti ai morfemi —IO, —IA di cui abbiamo già parlato2. Ad esempio, « criterio » presumibilmente ha come contenuto la (25) (MEZZO), ma poi acquista il morfema IO modale, cosicché comporta entrambi i costrutti. Infatti nell'uso comune è un mezzo svolto in un certo modo. Descriveremo questo costrutto al 5.1. Unicamente strumentali sembrano invece essere i sostantivi in —AIO, — OIO come « serbatoio », « vassoio », « rasoio », ecc. I ‘morfemi modali o strumentali —IO, —IA, per la solita analogia con i collettivi e gli pseudosupini devono essere dati dalla metamorfizzazione nella (16) e nella (25). Le morfemizzazioni date invece da «16&K » sono l'aspetto sostantivale di quelle aggettivali di « K 29 », ove (29) è la categoria QU(ALE), come vedremo al 4.5. I morfemi corrispondenti a « 25&K » sembrano essere quelli in —ICE, —ALO, —INE, —IVA, ecc. quando hanno funzione strumentale. L'ultima coppia di categorie elementari con forma tematica sostantivale è: (19) = g s = ({—⧍) °}—) = (ACCIDENTE)

(26) = s&g = {⬜(—⧍)} = SOST(ANZA)

SOSTANZA è quanto si mantiene o conserva, cioè non subisce alcun mutamento di fondo. Corrisponde al costituito (sostantività « s ») in cui è inserita la « g », cosicché ha già ricevuto l'aggiunta, ogni possibile aggiunta, e deve quindi restare immutato. Si tratta dell'ousia di Aristotele, mentre la (19), cioè l'aggettività resa sostantività ed in tal modo disgiunta nel mentre si aggiunge, corrisponde al symbebechés, tradotto di solito nella parola ACCIDENTE. Questo termine ha acquistato nel.parlare comune il significato di evento inatteso spiacevole. Nel senso primario, adombrato nell'uso filosofico tradizionale, è l'aggiunta distaccata e perciò da essere considerata come sopravvenienza. Si ha perciò che mentre il verbo della (26) SOST(ANZA) è presumibilmente CONSERVARE, quello della (19) (ACCIDENTE) dovrebbe essere AGGIUNGERE, (cfr. 5.5), con cui sono legati SOPRAVVENIRE, ACCADERE, ecc. Abbiamo detto che il morfema —ANZA viene dato dall'inserimento nella (5) OPERA(ZIONE). Sarà perciò: 76

SOSTANZA = 5&26

In quanto alla parola « accidente », si potrebbe pensare ad una desinenza morfemica —ENTE, corrispondente ad uno pseudoparticipio presente sostantivato, che viene a corrispondere per considerazioni che qui non possiamo fare, alla metamorfizzazione nella (26). Se così fosse dovrebbe allora risultare ACCIDENTE = 19 26, cioè si dovrebbe pensare che la sopravvenienza, in quanto attuatasi, sul piano formale si traduca nell'acquisizione di un carattere sostanziale. Ma a parte l'inverosimiglianza che l'« accidente » possa avere la forma di « sostanza », nel sistema a cui pervengo si propone l'interpretazione semantica del costrutto « s&19 », che come tutti quelli ottenuti per inserimento in « s » ha forma neutra (p. 54). Non sono riuscito a trovarne nessuna convincente: perciò inclino a ritenere che sia: ACCIDENTE = s&19

Segue che —ENTE non è in questo caso un morfema. Il tema (19) assume perciò una forma neutra e deve essere indicato: (19) (ACCIDENTE). La metamorfizzazione nella (19), in quanto introduce « g » e dopo « s », corrisponde alla sostantivazione degli aggettivi ottenuti appunto per metamorfizzazione in « g ».. Essi sono quelli morfemici in —ALE, —ICO, — ERSO ecc. Analogamente l'inserimento nella (26) porta alla sostantivazione degli aggettivi ottenuti per inserimento in « g ». Per le variazioni formali corrispondenti a « 19&K » e « K 26 » rimandiamo al 4.5.

45 Diverso, uguale, quanto e quale Si hanno infine le seguenti due coppie di categorie con forma tematica aggettivale: (17) = s g = {(⬜—) ⧍} = DIV(ERSO)

(28) = g&s = (—{°(⬜—}) = UGU(ALE)

(20) = g g = {(—⧍)⧍} = QU(ANTO)

77

(29) = g&g = (—{°(—⧍}) = QU(ALE)

Le interpretazioni semantiche delle (17) e (28) sono le meno evidenti tra tutte quelle che propongo. Le accetto anche perché il sistema richiede che a livello delle categorie elementari sia presente il significato di « diverso » e di « uguale » e tale significato, per esclusione, non può che essere attribuito a questi due costrutti. Il ragionamento da fare è che diciamo, ad esempio, di due copie della Divina Commedia che sono uguali quando attenzionalmente prima aggiungiamo, cioè partiamo da « g » e poi inseriamo il costituito « s » categorizzante il poema. Avendo già aggiunto in partenza, il costituito « s » si sovrappone come già fatto e quindi « uguale ». Se invece vogliamo che le due copie siano diverse (p. 33) partiamo dal costituito « s » categorizzante una di esse. Effettuando allora un'aggiunta, cioè passando a « s g », si diversifica da « s ». Le (20) e (29) sono arricchimenti dell'aggettività. Si ha QU(ALE), cioè il tema con forma tematica aggettivale da cui si passa al sostantivo « qualità », quando la « g » contiene a sua volta una « g ». Se ce ne fosse una sola si tratterebbe della situazione categoriale limite di quelle in cui si rendono aggiuntivi aggettivi come « verde », « limpido », « sereno », ecc. Affinché l'aggettività trapassi a qualità l'aggiunta deve essere, per così dire, effettuata due volte concomitantemente, cioè la « g>» deve essere inserita in un'altra « g ». Se invece le due « g » sono disgiunte, cioè interviene la metamorfizzazione invece dell'inserimento, si hanno aggiunte associate nel prosieguo, che conducono alla situazione quantitativa. Si tenga presente che se invece le « g » fossero combinate si avrebbe la (11) DU(ALE) di cui ci siamo occupati al 3.5. Abbiamo detto che il verbo della (11) è « ripetere »; quelli della (20) QU(ANTO) e della (29) QU(ALE) sembrano essere rispettivamente ASSOCIARE e QUALIFICARE (5.5). Dai temi (17), (28), e (29) si passa ai sinoli metamorfizzando in « g ». In tal modo si introducono i morfemi —ALE ed —ERSO.. Perciò: DIVERSO = 17 g UGUALE = 28 g QUALE = 29 g

Invece il morfema —ANTO da aggiungere alla (20) è quello di uno pseudoparticipio ' presente aggettivale, che pare si ottenga per inserimento nella (17) DIV(ERSO)3. Cioè: QUANTO = 17&20

78

Le variazioni formali legate con la (29) sono: 29&K = morfemi aggettivali in —IO, —IA

K 29 = morfemi aggettivali in —OSO, —ESCO, —ARE, —ORE, ecc.

Si tratta della soluzione aggettivale delle forme ottenute per metamorfizzazione ed inserimento nella (16) (MODO) quando sono sostantivali. In generale, quando gli stessi morfemi sono sia sostantivali che aggettivali, corrispondono a categorie speculari4. Tali sono appunto la (29) QU(ALE) e la (16) (MODO). Analogamente, nel caso degli pseudoparticipi di cui alla nota 3, si ha la corrispondenza di cui si è fatto cenno perché la (17) è speculare con la (26) e la (28) con la (19). Dalla (20) devono derivare i morfemi quantitativi —ONE, —INO, —USTO, —ISSIMO, ecc., aventi funzione accrescitiva e diminutiva. È da ritenersi che la (20) intervenga attraverso i suoi derivati MOLTO e POCO. Questi sono costrutti piuttosto complicati perché richiedono un confronto (7.2), precisamente un singolarizzatore in cui «20 più» e «20 meno » intervengono come riferiti rispetto al « campione » assunto. Tenendo presente il concetto di « riferimento » e di « riferito » già introdotto a p. 59, saranno: (CAMPI(ONE) * (20 PIÙ) = (MOLTO)

(CAMPI(ONE) * (20 MENO) = (POCO)

Per la definizione di « campione » dobbiamo rimandare al 7.10. Diciamo intanto che il significato di PIÙ corrisponde all'aggettivo neutro (avverbiale) della (8) PLUR(ALE), nel senso che è il plurale aggiuntivo: PIÙ = g&8

Il « meno » è il « più» a cui si applica la regola del togliere (p. 68): (6&8) X v = MENO

La formula strutturale del costrutto mostra appunto che il momento avversativo della (10) toglie la (8) PLUR(ALE), la quale prende il posto del 79

momento «—» del « ⧍ ».

4.6 La tabella 'standard' delle categorie elementari La numerazione che abbiamo dato alle categorie elementari da (4) a (29) come prosieguo delle tre atomiche corrisponde alla tabella di p. 82, che riepiloga le possibili associazioni di coppie di categorie atomiche con le tre operazioni « X », « » ed «&» nell'ordine. Troveremo ripetutamente nelle pagine seguenti tabelle del genere in cui si hanno nove costrutti derivanti da coppie di tre costituenti. Le chiamo tabelle standard. Esse sono caratterizzate dal presentare lungo la diagonale principale da sinistra a destra i tre derivati omogenei. Ad esempio, nella tabella di combinazione si hanno la « (4) SINGOL(ARE)=vXv », la «(8) PLUR(ALE)=sXs » e la «(11) DU(ALE) = gxg ». Lungo le diagonali da destra a sinistra troviamo: (5) OPERA(ZIONE) = v x s (6) OGGETT(IVO) = v x g (9) CORRELA(TORE) = s x g (7) (SOGGETTO) = sxv (10) AVV(ERSO) = g x v b = g x s

Esse sono nel rapporto di complementarità (p. 70n). Ritengo utile altresì riportare a p. 83 una tabella dei morfemi della lingua italiana. Di quasi tutti abbiamo fatto cenno nelle pagine precedenti o parleremo sommariamente nelle successive. Per notizie più approfondite devo rimandare al futuro trattato. In tale tabella con « Ts » indico le forme tematiche sostantivali, con « Ty quelle aggettivali. Tali forme devono essere distinte perché, come vedremo (5.6) le « T,» per metamorfizzazione in « s ». danno direttamente i sostantivi astratti, morfemizzati in italiano con le desinenze —TPA ed —EZZA, mentre le « T » richiedono una intermedia metamorfizzazione aggettivale.

80

note 81

1 Per i costrutti ottenuti con la combinazione si ha la complementarità invertendo semplicemente i termini. Cioè sono tali « K1 x K2» e « K2 x K1». Quando le « K » sono categorie superiori bisogna passare ai complementari anche per i costituenti fino al livello delle categorie atomiche. Nella definizione data sopra si suppone che le « K » siano appunto atomiche.

82

V. VARIAZIONI FORMALI ED ETIMOLOGICHE 5.1 Le equivalenze Nelle pagine seguenti mi limito a parlare di alcuni dei costrutti superiori più importanti e a dare un'idea del modo come l'analisi semantica si articola. Nel trattato da pubblicare sono però analizzate non solo tutte le 279 categorie del sistema minimo !, cioè i costrutti provenienti da sette «—» ed «°» (p. 41), ma anche molte altre superiori. È anzitutto da notare che, già a partire dal sistema' minimo, alla stessa operazione costitutiva può corrispondere una pluralità di contenuti, in quanto si hanno delle eguivalenze. Quali esse siano risulta da un semplice esame visivo delle formule strutturali. Senza tenere conto di tali equivalenze in moltissimi casi sarebbe impossibile dare un'adeguata interpretazione semantica. Consideriamo, ad esempio, la formula corrispondente a « criterio » di cui facevamo cenno a p. 75. Il tema è quello del costituito « s » che si rende « mezzo » mediante combinazione, cioè è « s x 25». Come risulta dalla formula strutturale data sotto, il costrutto corrisponde anche ad « 8&s ». Segue che « criterio » è il mezzo che permette di ottenere un « s » come collettivo (p. 66), cioè tutte le volte che di esso ci si avvale. Se valesse una tantum non avrebbe interesse. Cioè: s x 25 = 8&s = {(⬜⬜)(⬜—)} = CRITER(IO)

Il fatto che il « mezzo » per ottenere « s » tutte le volte che si applica è legato con il modo di adoperarlo, corrisponde al morfema —IO, dato appunto dalla metamorfizzazione nella (16) (MODO). Si ha in definitiva: criter(io) 16 = CRITERIO

Facciamo un altro esempio considerando i derivati della (20) QU(ANTO) e della (29) QU(ALE) per inserimento in « s ». Che significato hanno? Limitandoci a quest'aspetto della loro costituzione sarebbe difficile dirlo, dato che bisogna escludere l'interpretazione « quantità » e « qualità », trattandosi di sostantivi astratti, che come vedremo (5.6) si ottengono invece con la metamorfizzazione in « s ». La loro interpretazione si rende possibile notando che in entrambi i casi interviene concomitantemente la 83

(26) SOST(ANZA). Si ha appunto: s&20 = 26 x g = (⬜{(—⧍)⧍}) = MATERIA s&29 = 26&g = (⬜[—{°(—⧍)}]) = CORPO

Cioè l'inserimento della (20) QU(ANTO) in « s ».è equivalente alla combinazione della (26) SOST(ANZA) con « g », tenendo presente che l'operazione « X » sì effettua nei termini descritti a p. 65. Risulta allora che MATERIA è la substantia phaenomenorum, precisamente la (26) combinata con « g », comportante insieme una prospettiva quantitativa. La quantità è riconducibile ad una misura di peso se la « materia » è vista nel senso tecnico di « massa » fisica. Si noti che l'inserimento della (20) in « s » porta ad una forma neutra. Perciò non possiamo ammettere che in questo caso la desinenza —IA sia morfemica (p. 49). Se invece la « sost(anza) » interviene con una « g » inserita, si ha l'equivalenza con « s&29 » e troviamo il significato di CORPO. Possiamo dire che « materia » e « corpo » contengono entrambi la « sostanza », ma nel primo caso essa è resa quantitativa mediante la combinazione con « g », nel secondo qualitativa per inserimento di « g ». La « qualità » caratterizzante, il « corpo » può assumere particolari connotazioni, ad esempio quella di « FIG(URA) = 29xg » (6.4) delimitante un osservato. Si tratta di un arricchimento che di solito viene fatto, ma tuttavia non è essenziale. Infatti, tra l'altro, il costrutto deve anche corrispondere all'impiego della parola in casi come « corpo d'armata », « corpo di leggi », ecc. Analogamente « materia » deve riferirsi non solo ad una certa sostanza chimica ma anche ad una disciplina oggetto di studio, ad un argomento, ecc.

5.2 Omonimi e sfumature semantiche omonime Concetto fondamentale è che a meno di parole accidentalmente omonime c'è sempre un significato comune sottostante agli svariati usi, apparentemente diversi, di un certo termine. Ad esempio, sotto « corpo di ballo » e « corpo astrale » deve esserci un significato sufficientemente ampio e comprensivo da corrispondere ad entrambi, appunto quello di cui abbiamo parlato sopra. È possibile avvalersi sempre di tale significato, ma nulla vieta che esso di volta in volta venga arricchito con particolari contenuti pur lasciando fisso il termine linguistico semanticamente impegnato. Ad esempio con « corpo » può essere designato oltre al 84

costrutto di cui sopra anche un certo numero di derivati con particolari arricchimenti mediante metamorfizzazioni od inserimenti di altre categorie: si hanno allora quelle che chiamo sfumature semantiche omonime. Ad esempio, se vogliamo precisare che ci riferiamo alla « materia » ed al « corpo » caratterizzati dalla spazialità e perciò da tenere distinti da altri significati particolari come quelli inerenti a « materia prima » od a « corpo d'armata », basta inserire un « v » nei costrutti di p. 85, cioè vederli con una componente svolgimentale. Si hanno così: (s&20)&v = 26 x 27 = s &(DG)gv = (⬜{(—⧍)(°◯)}) = MATERIA spazializzata

(s&29)&v = 26&27 = s&(g&27) = {⬜(—[°{—(°◯)}]} = CORPO spazializzato

Risulta che l'inserimento di « v » porta a due equivalenze. La « materia » viene a corrispondere alla (26) SOST(ANZA) che si combina con la (27) SPAZI(ALE), ma anche all'inserimento in « s » dell'aggettivo diale « (DG)gv » che, come vedremo, corrisponde ad « esteso ». Cioè la materia diventando spazializzata, si rende estesa. Il « corpo » si riconduce all'inserimento dello « spazi(ale)» nella « sost(anza) », nonché a quello dell'aggettivo « g&27 » in « s ». Tale aggettivo (del tipo avverbiale), corrisponde al significato di « qui » (8.5). Le sfumature semantiche omonime che rendono la « materia » ed il « corpo » spaziali sono tra le più comuni. È perciò che, confondendo lo « spazio » con qualcosa di fisico, di solito i significati di queste parole vengono ricondotti ad osservati invece che a categorie. È da tenere presente che non si hanno mai sinonimi. Infatti per il principio di economia sarebbero inutili più parole aventi esattamente lo stesso significato: sussistono in tutti i casi differenze, sia pur minime, che devono essere evidenziate con un'analisi semantica adeguata. Troviamo invece omonimi, cioè significati diversi di parole uguali o, per meglio dire, apparentemente uguali, dato che coincidono solo i sostrati fisici sonori e grafici, Tale è, ad esempio, « germani », che può significare gli abitanti dell'antica Germania, ma anche i nati dagli stessi genitori. In molti casi non si tratta di omonimi veri e propri, bensì di sfumature semantiche omonime, cioè di parole che in definitiva hanno un significato comune se preso nella massima estensione. Ad esempio, è da ritenersi che dal tema RIFL(ESSO)=v 7 = 13xv (p. 123), provenga « RIFLESSIONE = 85

rifl(esso)?5» per semplice morfemizzazione, sia essa intesa come pensiero che come fenomeno inerente ad un raggio luminoso che cade su uno specchio, sia il RIFLESSO CONDIZIONATO nel senso di Pavlov, in quanto in tutti i casi si ha un dinamismo « v » che perviene ad un « soggetto » (V 7)» e concomitantemente dalla « fine » del suo esercitarsi ne parte un altro « (13xv) ». Anche l'aggettivo « CONDIZIONATO » comporta un unico significato di fondo sia quando ci riferiamo appunto al « riflesso » della psicologia che all'« aria condizionata » od all'essere vincolato da una « condizione ». Come vedremo (5.10) deriva dal volere impositivo in cui si inserisce il desiderativo.

5.3 I diali Chiamo « diali » i costrutti caratterizzati dall'equivalenza tra un'operazione di metamorfizzazione ed una di inserimento (cfr. p. 65 n). In quelli del sistema minimo sono compresenti due categorie elementari. Strutturalmente si riconducono a due categorie atomiche che si susseguono assumendo la forma di verbi quando l'interruzione «°» separa i due momenti, di sostantivi quando essa è aggregata al] primo momento e di aggettivi quando invece è aggregata al secondo. Indicandoli rispettivamente con «(DV)», «(DS)» e «(DG)», le loro forme sono: (DV) = (K1 ° K2)

(DS) = {K1°) K2}

(DG) = {K1 (° K2)}

Ad esempio, il costrutto « (DG)gv EST(ESO) », che interviene nella formula della materia spazializzata (p. 86), è un aggettivo diale del sistema minimo in cui si susseguono l'aggettività « g » e la verbità « v » e sono compresenti la (27) SPAZI(ALE) e la (20) QU(ANTO): (DG)gv = g 27 = 20&v = {(—⧍)(°◯)} = EST(ESO)

Possiamo appunto dire che il significato di « esteso » si riconduce al tema costituito dall'aggettività « g » assumente la forma di « spazi(ale)» nonché al passaggio « v » reso quantitativo per inserimento nella (20). 86

Alcuni verbi diali si adoperano spesso come ausiliari. Ma secondo le mie formule, a livello delle operazioni mentali in effetti essi sono assenti. Ad esempio, « essere » ed « avere » non intervengono nella formazione del passivo e dei tempi passati. Infatti se il passivo fosse dato da una correlazione con il verbo « essere », non si spiegherebbe come in latino si riconduca invece ad una flessione, in tedesco all'uso dell'ausiliare « werden » (corrispondente all'italiano « diventare »), ecc. Tutto ciò significa che, come vedremo al 5.8, in casi del genere si hanno soluzioni morfologiche e non già sintattiche, vale a dire verbi come « essere » od « avere » non sono ausiliari. I costrutti ad essi corrispondenti sono i verbi diali: (DV)vv = (12) aver svolto&v = v (21) svolgere — (◯°◯) = ESSERE

(DV)vg = (12) aver svolto&g = v (23) congiung. = {◯°(— ⧍)} = AVERE

L'ESSERE è uno stato dinamico. Quando dico, ad esempio: « l'obelisco è alto » ho svolto attenzionalmente e continuo a svolgere questa sua qualità: in questo senso «è». Nell'AVERE invece dinamica è solo la partenza. In quanto porta ad acquisire, appropriarsi, ecc., l'arrivo è dato dal « congiungere ». Il verbo diale omogeneo in « s » ha il significato di DIVENTARE (tedesco « werden »)2. Esso comporta una duplice separazione perché si è lasciato ciò che scompare nel mutamento, ma non si è ancora acquisito quanto è inerente al passaggio concluso. Ad esempio, la acqua che riscaldata diventa vapore, sul piano mentale resta separata sia dallo stato liquido che da quello aeriforme. Il diale omogeneo congiuntivo «(DV)gg » presumibilmente corrisponde a PERSISTERE. Il verbo svolgimentale separativo «(DV)sv » in quanto costituito da un « aver separato » (comportante un risultato) ed un prosieguo svolgimentale dovrebbe corrispondere al FARE nel senso dell'inglese « to do ». Il costrutto complementare cioè il diale in cui sono concomitanti « aver svolto » e « separare » potrebbe corrispondere a DISTINGUERE3. Il complementare di « avere », cioè il costrutto in cui sono compresenti « aver congiunto » e « svolgere », presumibilmente corrisponde a POSSEDERE. Il concetto è che il « posseduto » è congiunto in partenza e si conserva tale in ogni successivo 87

svolgere. Nell'« avere » invece si congiunge in arrivo come prosieguo di un « aver svolto ». Infine, quando sono concomitanti « aver separato » e « congiungere » ed « aver congiunto » e « separare », dovremmo avere rispettivamente i significati di METTERE e TOGLIERE. Questi nove verbi diali sono riepilogati nella seguente tabella standard (4.6). Si ricordi che in tutte queste tabelle sulla diagonale sinistra—destra si hanno i costrutti omogenei e lungo le tre da destra a sinistra le coppie di complementari. fig.021 Sono pervenuto alla conclusione che l'infinito passato dei verbi diali si ottiene non già invertendo i momenti, ma assumendo l'infinito presente come tema e metamorfizzando in « V ». Non importa se nella lingua corrente sia presente l'ausiliare « essere » O « avere », tanto non interviene nessuno dei due. Perciò: . (DV)vg v = (◯ °(—⧍)} °—) AVERE AVUTO

(DV)vv v = ((◯° ◯) °—) ESSERE STATO

« Essere stato » è l'infinito passato di « essere » senza distinguere se passivo od attivo. Non credo possa parlarsi di un passivo se non in opposizione ad un attivo (5.8), che in questo caso mancherebbe. È da escludersi che possano invece essere, ad esempio: (DV)vg = AVERE e (DV)gv= AVERE AVUTO, perché ci si troverebbe in difficoltà con i diali omogenei. Una soluzione del genere sarebbe ancora ammissibile con (DV)vv = ESSERE e (DV)ss = DIVENTARE per i quali manca il passato con l'ausiliare « avere », cosicché per quello con l'« essere » ci si potrebbe avvalere della forma intesa correntemente come passiva, ammettendo che tali verbi non abbiano un infinito passato attivo; ma non si saprebbe come venire fuori con verbi come (DV)gg = PERSISTERE. Infatti bisogna distinguere « aver persistito » da « essere persistito ». Tutto si rende chiaro tenendo presente che gli ausiliari « essere » ed « avere » in effetti non intervengono e perciò non è l'« essere » a fare il passivo4. La tabella standard dei diali aggettivali in cui è presente la (DG)gv EST(ESO), di cui abbiamo parlato sopra, è: fig.022

88

I tre diali omogenei sono (DG)vv PASS(ATO), (DG)ss SIM(ILE) e (DG)gg CONTEN(UTO). Il primo è il tema sia di PASSAGGIO che di PASSATO, cioè della dimensione temporale da mettere accanto a « presente » e « futuro ». Si tratta della categoria intervenente per dare la forma ai presenziati nelle situazioni cinematiche (9.9), che è il più semplice costrutto in cui sono associate la (14) TEMPOR(ALE) e la (27) SPAZI(ALE). Il « passato » ed il « passaggio » comportano appunto l'intervento di queste due categorie. Il secondo diale omogeneo corrisponde al significato di SIMILE perché ha come contenuto sia « uguale » che « diverso »; il terzo, in cui sono compresenti l'aspetto qualitativo ed il quantitativo, corrisponde al tema di CONTENUTO. Ad esempio, il contenuto di un serbatoio o di un libro sono da considerare sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo in riferimento a cosa c'è dentro. Passando alle tre coppie di diali eterogenei, si ha che la (DG)gv EST(ESO) è complementare della (DG)vg FUT(URO). Risulta che il « futuro » è come il (DG)vv PASS(ATO) anch'esso un derivato del « temporale », ma invece del passaggio « v » è inserita l'aggiunta « g ». Infatti è appunto l'aggiungentesi nel tempo5. Il diale temporale in cui è inserito « s », legato con la (28) UGU(ALE) ha il significato di ciò che resta uguale nel passaggio temporale, cioè del tema di VECCHIO. Di contro, NUOVO ha per tema il passaggio « v » in cui si inserisce la (17) DIV(ERSO). Si ha infine la coppia OMOGEN(EO)-ETEROGEN(EO). Queste due parole etimologicamente derivano da « genere », che è un costrutto di tipo diverso e più complesso di cui parleremo al 7.10; ma le analisi semantiche devono prescindere dalla prospettiva diacronica. Nessuno dicendo che due entità sono omogenee od eterogenee Va a pensare se appartengano o meno allo stesso genere; piuttosto nel primo caso connette una quantità con l'uguale, nel secondo una qualità con il diverso. Le formule proposte danno appunto questi significati. La tabella standard dei diali sostantivali è: fig.023 Il primo dei diali omogenei « (DS)vv », in cui sono concomitanti la (24) INIZI(O) e la (13) (FINE), ha il significato di (RITMO). Si segue appunto un ritmo, ad esempio, nel ballo, in una sinusoide, nel battito cardiaco, ecc., 89

quando la rottura non spezza la continuità, in quanto il passaggio « v » inserendosi in una fine diviene concomitantemente inizio. Vedremo che questo costrutto interviene nell'osservazione di tipo estetico (9.8), che effettua appunto una frammentazione ed una concomitante associazione di pezzi secondo un modulo ritmico; interviene anche per caratterizzare gli eventi quando vengono considerati storici (7.9). Il secondo diale omogeneo «(DS)ss », in cui sono concomitanti la (16) (MODO) e la (25) (MEZZO), corrisponde al tema di USO. Chi, ad esempio, usa il treno si avvale di un mezzo che gli consente di spostarsi in un certo modo. Il terzo diale omogeneo «(DS)gg », in cui sono presenti le (26) SOST(ANZA) e (19) (ACCIDENTE), è il significato di (FORMA). Quando parliamo della forma di un triangolo, di un verbo (ad esempio, se regolare od irregolare), di forma mentis, di qualcosa scritto in forma comprensibile od incomprensibile, di forma di un atleta, ecc., alludiamo ad una componente di base, come il triangolo, il verbo, l'atleta, ecc., cioè ad un aspetto sostanziale, che assume delle varianti, vale a dire un concomitante aspetto accidentale. Il triangolo può essere rettangolo, isoscele, scaleno pur restando sempre la stessa figura, l'atleta in buona o cattiva condizione fisica pur restando la stessa persona. In quanto agli altri diali sostantivali, notiamo brevemente che il tema di PROGRAMMA è il costituito « s » ricondotto all'inizio (« s 24 »), equivalente ad un passaggio « v » che deve svolgersi in un certo modo (« 16&v »). Di contro SCOPO ha per tema il costituito posto alla fine (« 13&s ») in quanto il passaggio « v » fornisce il mezzo per pervenirvi (« v725»). Il tema di CAUSA è qualcosa di aggiuntivo all'inizio (« g°24 »), equivalente alla sopravvenienza di un passaggio (« 19&v »). Nell'EFFETTO l'aggiunta « g » è alla fine (« 13&g ») ed il passaggio, in quanto determinato dalla causa, si mantiene senza possibilità di varianti, cioè si ha l'equivalenza con « v 26 ». Infine il tema di TUTTO si riconduce al costituito « Ss » reso sostanza (« s 26 »), che comporta anche il modo con cui può essere considerata qualsiasi aggiunta (« 16&g »). Di contro PARTE si riconduce a « g » resa mezzo (« g 25 ») perché ogni costituito diventi aggiuntivo (« 19&s ») per passare al tutto. Vedremo che questi costrutti vengono confermati dalla teoria dei singolarizzatori nella quale si ritrovano.

5.4 Le variazioni formali 90

In corrispondenza dei derivati di metamorfizzazione e di inserimento delle categorie elementari, troviamo due tipi di variazioni: chiamiamo variazioni formali i derivati in cui in una lingua come l'italiana cambia il morfema, ma resta immutato il tema; variazioni etimologiche i casi in cui cambia anche il tema, cioè si introduce una nuova etimologia. Ovviamente questa ‘distinzione è superficiale, cioè riguarda l'aspetto sonoro-grafico della lingua, perché al livello delle operazioni mentali non c'è differenza, trattandosi sempre di metamorfizzazioni od inserimenti. Spesso le vicende storiche delle singole parole possono spiegare perché si riscontri talvolta l'una talvolta l'altra soluzione. Riportiamo degli esempi di variazione formale, alcuni dei quali abbiamo già trovato nelle pagine precedenti. Possiamo » considerare insieme anche le morfemizzazioni di temi che foneticamente coincidono con le corrispondenti parole, essendo queste di forma neutra. AVVERSARE = v&10 TEMPO = s&14 = 24xg TEMPORALE = 14 g = v 20 FINE = s&13 FINALE = 13 g FINIRE = v&13 DIVERSIFICARE = v&17 = 22xg ACCIDENTALE = 19 g = g 17 MEZZO = s&25 MODO = s&16 SPAZIO = s&27 = 26&v SPAZIALE = 27 g UGUAGLIARE = v&28 = 23&s

La presenza di equivalenze spesso è importante per spiegare la semanticità correntemente attribuita a parole del genere. Ad esempio, SPAZIO corrisponde oltre che al sinolo di forma neutra avente per contenuto la (27) anche alla (26) in cui si inserisce « v ». Poiché la « sostanza ) viene spesso considerata come caratterizzante quanto è fisico, si spiega perché così spesso lo spazio venga considerato erroneamente come una « realtà » che si osserva. Come abbiamo accennato a p. 67 ed a p. 68, ha notevole interesse la variazione formale per dializzazione. Quando primo momento di un verbo diale è la (10) AVV(ERSO) si hanno le soluzioni negativanti-oppositive corrispondenti ai prefissi DIS-, S-, ecc. Ad esempio: 91

(DV)10/g = 10 23 = (10 v)&g = ({(-⧍°-)} °(-⧍)) = DISGIUNGERE

Fssa corrisponde ad « aver avversato », cioè a « 10°v » in cui si inserisce la « g » e concomitantemente all'« avv(erso)» che si metamorfizza nella (23) CONGIUNGERE. Se invece il primo momento è costituito dalla (11) DU(ALE), si hanno le forme ripetitive. Ad esempio: (DV)11/g = 11 23 = (11 v)&g = RICONGIUNGERE

5.5 Le variazioni etimologiche Notiamo anzitutto che molti verbi delle categorie elementari danno luogo a variazioni etimologiche. Si direbbe che il parlante, passando dai temi di forma sostantivale ed aggettivale ai verbi, spesso senta il bisogno di cambiare anche l'etimologia del tema. Diamo V'elenco dei verbi all'infinito di tale tipo derivanti dalle categorie elementari: ISOLARE = v&4 SUBIRE = v&6 AGIRE = v&7 RAGGRUPPARE = v&8 RIPETERE = v&11 DURARE = v&14 = 21 x g DETERMINARE = v&16 AGGIUNGERE = v&19 ASSOCIARE = v&20 = 23 x g ADOPERARE = v&25 = 22&s CONSERVARE = v&26 = 22&g LOCALIZZARE = v&27 = 23 &v

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AVER ISOLATO = 4 v AVER SUBITO = 6 v AVER AGITO = 7 v AVER RAGGRUPPATO = 8 v AVER RIPETUTO = 11 v AVER DURATO = 14 v = v 18 AVER DETERMINATO = 16 g = s 15 AVER AGGIUNTO = 19 v = g 15 AVER ASSOCIATO = 20 v = g 18 AVER ADOPERATO = 25 v = s Xx 15 AVER CONSERVATO = 26 v = s x 18 AVER LOCALIZZATO = 27 v

Un importante gruppo di derivati delle categorie elementari che danno luogo a variazioni etimologiche è anche quello dei costrutti « g&K », cioè degli aggettivi neutri avverbiali, dei quali parleremo al 8.5 in concomitanza con le corrispondenti preposizioni. Tra gli altri casi di variazioni etimologiche di derivati delle categorie elementari citiamo: PERSONA = 7 S COLLETTIVO = 8 s RAPPORTO = 9° VALORE = s&9 RELATIVO =9%g ASSOLUTO = g&9 CONTRASTO = s&10 COPPIA = s&11 TERMINE = 13 s = v 16 METODO = 16 s = s 16 INGREDIENTE = s&17 = 25 X g

93

RESTO = 19 s = g 16 MATERIA = s&20 = 26 x g = COMUNE = 20°g = g720 CORSO = 21 s DISTACCO = 22 s LEGAME = 23 s ORIGINE = 24 s GENESI = s&24 = 25&v TRAMITE = 25 s STRUMENTALE = 25 g = s x 17 COSTITUENTE = s&26 = 25&g ELEMENTO = s&28 = 26&s CORPO = s&29 = 26&g

Le interpretazioni proposte nella maggior parte dei casi sono immediate, ma su qualcuna è bene spendere qualche parola. VALORE è un derivato della (9) CORRELA(TORE) e non già alcunché imposto dogmaticamente da una sfera assiologica ontologizzata. Come dice Ceccato, qualcosa ha valore in quanto posto in una certa corrispondenza con altro. Una sigaretta avrà valore per chi fuma, sarà priva di interesse per gli altri. Aggiungiamo che il valore diviene positivo quando ciò a cui si applica si considera adatto o favorevole, negativo quando contrario. Questi significati corrispondono a costrutti della forma « g&K » che, come detto sopra, considereremo al 8.5. Si tratta appunto degli aggettivi avverbiali corrispondenti alle preposizioni -« pro » e « contro », che a mio avviso provengono dalla (5) e (10), tenendo anche conto della regola del mettere e del togliere (p. 68): « ADATTO = g&5», « CONTRO = g&10». Perciò: POSITIVO = (s&9) (g&5) NEGATIVO = (s&9) (g&10)

È da ritenersi altresì che per metamorfizzazione nella «(s&9) = VALORE » si abbiano i morfemi -EZZO, -EGGIO, -EGIO, ecc., che possono essere sia positivanti che negativanti (ad ‘esempio, « prezzo ), « pregio », « dileggio », ecc.); per metamorfizzazione in « positivo » e « negativo » quelli in UZZO, -UCCIO, -ETTINO, -ACCIO, -AGLIA, ecc. Se si parte dalla (9) e si aggiunge « g » si ha quanto è RELATIVO alla correlazione effettuata, perché fermo restando il correlatore può cambiare quanto si riferisce. Se viceversa è il correlatore che si rende aggiuntivo, si 94

ha ASSOLUTO perché viene introdotto un collegamento con alcunché che non si tocca più. Il significato di INGREDIENTE sembra essere quello del costituito « s ».in cui è inserita la (17) DIV(ERSO), in quanto si fa intervenire appunto per ottenere qualcosa d'altro. È presente in questo senso anche una componente strumentale data dall'equivalenza con «25xg ». Invece quello di COSTITUENTE proviene dalla (26) SOST(ANZA), ma ha anch'esso una componente strumentale data dall'equivalenza con «25&g ». Sembra che anche ELEMENTO sia un derivato della (26), ma in questo caso è presente la (28) UGU(ALE). Infatti è quanto resta uguale per i suoi caratteri sostanziali e perciò, tra l'altro, si può mettere alla base della descrizione in senso chimico delle cose fisiche. Il significato di RESTO è un derivato della (19) (ACCIDENTE) nel senso che è da aggiungersi, ma è tenuto ancora separato (la (19) è disgiunta essendo metamorfizzata in « s ») per integrare la « parte » nel « tutto »6. Troviamo anche assai frequentemente delle variazioni etimologiche per dializzazione passando a verbi in cui primo momento è una categoria atomica e secondo una elementare. In questo caso le peculiarità operative corrispondenti alle « v », « s » e « g » si dinamizzano come sfumature semantiche di tre verbi derivanti da quello immediato ottenuto per semplice inserimento in « v ». Si passa cioè da « v&K » ai tre diali «(DV)v/k », «(DV)s/k » e «(DV)g/K ». Ad esempio, dal verbo « v&5 = FARE » (inglese « to make ») se si accentua la semanticità svolgimentale si ha « ESERCITARE = (DV)v/5 = 12&5 », se quella separativa: «(DV)s/5 = 15&5 = OTTENERE », se la congiuntiva: «(DV)g/5 = ESEGUIRE ». Se partiamo da « finire », cioè dal verbo della (13), la variante svolgimentale è ESAURIRE, la separativa LIMITARE, la congiuntiva COMPIERE. In generale i diali «(DV)v/k » e «(DV)g/k » sul piano semantico sono più vicini in quanto entrambi comportano un tenere insieme, nell'un caso dinamico, nell'altro statico. Il «(DV) s/K » invece porta alla variante separativa7. Di frequente impiego sono anche i diali aventi come primo momento la (6) OGGETT(IVO) oppure la (7) (SOGGETTO) e come secondo una categoria elementare. Abbiamo visto che i verbi « v&6 » e « v&7» corrispondono 95

rispettivamente a SUBIRE ed AGIRE. Si hanno allora, loro tramite, le variazioni etimologiche comportanti una componente semantica passivante ed una attivante. Ad esempio si distinguono « comandare » ed « ubbidire » (5.9).

5.6 Gli astratti Un caso particolare di variazioni talvolta formali e talvolta etimologiche è quello della metamorfizzazione in « s » dei costrutti di forma aggettivale (tematica o morfemica). Essi corrispondono alle desinenze -ITÀ ed -EZZA, cioè ai sostantivi astratti. Dalle categorie elementari con forma tematica aggettivale si ha direttamente: OGGETTIVITÀ = 6 s, AVVERSITÀ = 10 s, DUALITÀ = 11 s, TEMPORALITÀ = 14 s = v 19, DIVERSITÀ = 17 s = s 19, QUANTITÀ = 20 s = g 19, SPAZIALITÀ = 27 s, IDENTITÀ = 28 s, QUALITÀ = 29 s.

Per passare agli astratti da costrutti con tema sostantivale dobbiamo ottenere prima gli aggettivi « K g » e poi metamorfizzare in « s », vale a dire globalmente metamorfizzare nella (19). Si opera in tal modo anche con gli osservati. Si dice infatti, ad esempio, « cavallinità » e non già « cavallità » perché si parte da « cavallino ». Per le categorie elementari risulta: UNITÀ = (4 g) uno s (6.3) = 4 19, OPERATIVITÀ = (5 g) operativo s = 5 19, SOGGETTIVITÀ = (7 g) soggettivo s = 7 19, PLURALITA = (8 g) plurimo s = 8 19,

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RELATIVITÀ = (9 g) relativo s = 9 19, FINITEZZA = (13 g) finale s = 13°19, MODALITÀ = (16 g) modales = 16 19, ACCIDENTALITÀ = (19 g) accidentale s = 19 19, STRUMENTALITÀ = (25 g) strumentale s = 25 19, SOSTANZIALITÀ = (26 g) sostanziale s = 26 19

Sotto questo profilo la (4) SINGOL(ARE) e la (9) CORRELA(TORE) si comportano come le categorie con forma tematica sostantivale dato che, non avendo forma aggettivale, devono acquisirla. Il passaggio obbligato attraverso la forma aggettivale permette di dare una spiegazione dell'astrazione. Come ha notato Ceccato, non può essere accettata la tesi tradizionale che il pensiero tragga dalle cose fisiche visibili i loro contenuti invisibili rendendoli così astratti (p. 33). Se così fosse tutte le categorie dovrebbero avere la forma linguistica di sostantivi astratti. Invece, ad esempio, « tempo », sebbene non sia certo visibile, è un sostantivo concreto, mentre di contro « bianchezza » è astratto, sebbene il « bianco » sia visibile. Secondo Ceccato otteniamo un astratto quando riconduciamo un costrutto ai suoi momenti costitutivi invece di vederlo unitariamente. Ad esempio, parlando di « triangolarità » pensiamo piuttosto che al triangolo come figura, ai tre lati ed angoli in cui si risolve. Quest'interpretazione spiega, tra l'altro, perché viene spontaneo ricondurre le tre categorie atomiche a « verbità », « sostantività » ed « aggettività » piuttosto che a « verbo », « sostantivo » ed « aggettivo ». Esse infatti nascono come giustapposizione dei momenti attenzionali «—° —» indipendentemente dalle operazioni costitutive « X », « », « &». L'attenzione è rivolta ai momenti primari come se fossero disarticolati, nello stesso modo come quando si parla di « trinità » è rivolta alle tre unità disgiunte e susseguentisi. I Cristiani la invocano appunto per poter parlare di tre distinte Persone in un solo Dio. Sono pervenuto alla conclusione che la disgregazione, mediante cui sul piano costitutivo vengono tenuti distinti gli ingredienti, corrisponde al disgiungere un congiunto, cioè a dare a quanto in partenza è aggettivale la forma separante della metamorfizzazione in « s », che lascia indietro, 97

vincolato con il «°», alcunché di costituito. Si può allora dire non già che l'astrazione tiri fuori le categorie invisibili dalla « realtà » visibile, ma che lascia il contenuto del sinolo togliendogli la forma. C'è una certa metaforicità in quest'asserto perché in effetti ogni astratto ha la sua forma, quella appunto data dalla metamorfizzazione in « s », ma essa non è la originaria che caratterizzava il costrutto come un tutto uno congiunto (aggettivo). Si può dire, ad esempio, che « triangolarità » è il « triangolare » senza forma perché visto in riferimento ai pezzi (tre lati, tre angoli), ma reso sostantivo. Segue che i sostantivi concreti corrispondenti alle categorie grammaticali di « verbo », « sostantivo » ed « aggettivo » devono essere ottenuti dando una forma alle « v », « s » e « g ». Ricordando che è « (FORMA) = (DS)gg » (p. 92): VERBO = v (DS)gg = 14 26, SOSTANTIVO = s (DS)gg = 17 26, AGGETTIVO = g (DS)gg = 20 26

Si trova così tra l'altro che, come dicevano i grammatici seguendo Aristotele, nel verbo è presente il tempo (vox significativa cum tempore). La formula data sopra mostra appunto che corrisponde alla (14) TEMPOR(ALE) assumente la forma della (26) SOST(ANZA). Invece sul piano costitutivo la « verbità » precede il tempo. Parallelamente SOSTANTIVO si riconduce al « div(erso)» reso « sost(anza) » e AGGETTIVO alla sostanzializzazione della quantità. 8 Si noti che già « K » è il simbolo formale di un costrutto qualsiasi, vale a dire indica una categoria atomica, elementare, ecc., e se vogliamo anche un osservato. Il simbolo « s&K » invece indica formalmente solo i sostantivi ottenuti per inserimento in « s ». Occorre sempre un criterio per formalizzare che si traduce nella determinazione di un ambito. Quello di « K » è l'ambito di tutti i costrutti attenzionali-mnemonici comunque ottenuti, cioè il più ampio possibile. 9 Dai teoremi di Goedel deriva che il calcolo dei predicati del primo ordine è « indecidibile » se dal monadico si passa all'n.dico; quello dei predicati del secondo ordine « incompleto ». In questo senso si dice allora che non disponiamo di un linguaggio formalizzato abbastanza forte per esprimere l'aritmetica. 98

5.7 Il formalismo Se ammettiamo che l'astrazione toglie la forma, lasciando il contenuto del sinolo disarticolato, segue che se si toglie il contenuto lasciando la forma, si è sulla strada del formalismo. È da dire anzitutto che si passa dal meno al più concreto riducendo estensione del significato. Ad esempio, come detto a p. 96, è: GENESI = s&24 = 25&v = {⬜(⬜◯}

In costrutti di questo tipo le due operazioni non sono sullo stesso piano. La « s&24» è quella esplicitamente costitutiva nel senso che la « 24&v » può essere taciuta avvalendoci di una formula più semplice in cui la (24) INIZI(O) viene presa unitariamente per intervento della memoria inconscio-riassuntiva (p. 40): GENESI = s&24 = (⬜(24)

Risulta pertanto che la « 25&v » ha una funzione accessoria, nel senso che ci informa che nella « genesi » oltre all'« inizi(0) » inserito in « s » si ha il « mezzo » con cui al generato si dà vita, cioè nel senso più lato si inserisce « v ». Ma questo è un contenuto secondario che scompare quando si passa ad un livello di concretezza superiore. Giunto al livello di concretezza massimo, nel nostro caso quello corrispondente ad « s&24 », il costrutto viene a distinguersi solo per il contenuto, per altro assunto come un'unità non analizzata, da tutti gli altri aventi la forma di inserimento in « s », come s&20 = MATERIA, s&29 = CORPO, s&13 = FINE, ecc. Allora possiamo fare un ulteriore passo in avanti, passando ad una sorta di iperconcreto, cioè ad un sostantivo qualsiasi ottenuto per inserimento in « s ». Convenendo di indicare con « K » un costrutto qualsiasi (p. 59) si ottiene: s&K = (⬜K) = formalizzazione dei sostantivi di inserimento in « s ».

In tal modo si passa dal concreto al formale8. L'astratto, lungi dall'essere una sorta di formale, è invece un ipoconcreto. Il procedimento di cui abbiamo fatto cenno interessa tutti i campi in cui si formalizza come, ad esempio, quello della logica simbolica. In ogni caso 99

bisogna disporre di un preciso criterio per isolare le forme ed a tale scopo devono essere determinate le classi di significati effettivamente caratterizzati da una forma comune. Un simbolo che semantizzi la forma di un certo costrutto, in quanto tale, sarà solo simbolo di quella specifica forma e non potrà essere esteso automaticamente ad una classe se manca un criterio per costituirla come riferimento per esemplari, costituiti tutti con quella forma. Spesso l'ontologista non si preoccupa neanche di separare la forma dal contenuto, ma si limita ad usare come simboli, che chiama « formali », segni grafici differenti da quelli corrispondenti alle parole correnti. Continua così a rivolgersi al sinolo nella sua interezza, cioè anche al contenuto, ed il preteso simbolo formale di cui si avvale è semplicemente un ideogramma. Qualcosa del genere è accaduto nel tentativo di formalizzare l'aritmetica: non essendo possibile fissare una forma comune dei numeri, perché man mano che si procede a costituirli secondo la loro serie (6.3) oltre al contenuto cambia anche la forma di ognuno di essi, non sono possibili assiomi che riepiloghino le loro caratteristiche formali. Ad esempio, quelli di G. Peano sono ideogrammi che hanno per simbolizzati i numeri non perché in grado di descrivere come essi sono fatti, ma perché li presuppongono già costituiti e descritti. Per lo stesso motivo non è attuabile il programma di D. Hilbert, nonostante l'accorgimento di presentare i contenuti in una « metamatematica » di tipo costruttivistico. Perciò non occorre attendere i teoremi di K. Goedel per capire che il calcolo dei predicati non è in grado di fornire uno strumento formale per esprimere l'aritmetica9. Bisogna andare a monte della logica per trovare una spiegazione operativa di questa carenza. Infatti è la formalizzazione nel senso più immediato che non può essere applicata al campo numerico a meno che non si passi a relazioni consecutive.

5.8 Le variazioni formali dei verbi Abbiamo già detto che partendo dalle due forme dell'infinito presente e passato, per metamorfizzazione ed inserimento in « s » e « g » si passa ai sostantivi ed agli aggettivi verbali, tra cui i gerundi ed i participi. È da aggiungere che per metamorfizzazione ed inserimento nelle (12) e (21) si hanno anzitutto i tradizionali tempi dei modi finiti. Sono da tenere presente anche due casi più semplici: la metamorfizzazione dell'infinito presente « v&K » in « v », che dà un presente nel passato, vale a dire il tradizionale imperfetto e l'inserimento del verbo all'infinito passato « K v 100

» in « v » che dà il passato nel presente, vale a dire il passato prossimo. Si ha precisamente per un tema « K » qualsiasi: (v&K) v = {(- °K) °-} = IMPERFETTO v&(K v) = {-°(K °-)} = PASSATO PROSSIMO

Ad esempio: SEPARAVO = (v&s) v = 22 v = v x 15, HO SEPARATO = v&(s v) = v&15 = 22xv,

FINIVO = (v&13) v, HO FINITO = v&(13 v).

Il presente finito è un infinito presente nel presente, il passato remoto un infinito passato nel passato, il frapassato remoto l'infinito passato che assumendo la forma di « aver svolto » si articola in tre passaggi con cui si lascia « K », il trapassato prossimo Vinfinito presente che assume la forma di « aver svolto ». Esso si articola in un passaggio che introduce « K » seguito da altri due che lo lasciano indietro. In quanto ai due futuri, il semplice si ottiene inserendo nella (21) l'infinito presente, l'anferiore inserendo l'infinito passato. In questo senso esso è un passato futuro. Entrambi sono da considerare come degli iperpresenti. Le formule generali sono: v&(v&K) = 21&K = {—°(—°K)} = PRESENTE (K v) v = K 12 = {(K °—)°—} = PASSATO REMOTO (v&K) 12 = ({(—°K) °—} °—) = TRAPASSATO PROSSIMO (K v) 12 = ({(K °—) °—} °—)= TRAPASSATO REMOTO 21&(v&K) = (— ° {— °(—° K)}) = FUTURO SEMPLICE 21&(K v) = (— ° {—°(K °—)}) = FUTURO ANTERIORE

A mio avviso infinito presente passivo è il diale che si ottiene per inserimento nella (12) dell'infinito presente « v&K »; infinito passato passivo il diale che si ottiene per inserimento nella (12) dell'infinito passato « K v ». In tal modo la forma del verbo « v&K » o « K v » si 101

colloca all'interno del verbo «(DV)vv ESSERE », spiegando tra a l'altro perché molte lingue fanno intervenire appunto questo verbo come ausiliare. I due costrutti sono: 12&(v&K) = {◯°(—°K)} = INFINITO PRESENTE PASSIVO 12&(K v) = (◯ °(K °—))= INFINITO PASSATO PASSIVO

Dicevamo che il passivo è morfologico e non già sintattico, cioè non comporta alcuna correlazione né con l'« essere » né con altri verbi perché si riconduce ad una variazione formale. Per altro, vi sono lingue come la latina, che invece di un ausiliare fanno intervenire una flessione. Come abbiamo accennato a p. 90, per esserci un passivo si richiede un attivo distinto, dato che l'uso dell'ausiliare « essere ) invece dell'« avere » è una soluzione di livello superficiale. Saranno ad esempio: INIZIARE = v&24

AVER INIZIATO = 24 v

ESSERE INIZIATO = 12&(v&24)

ESSERE STATO INIZIATO = 12&(24 v)

Nel caso di un verbo diale sarà analogamente: METTERE = (DV)sg

AVER MESSO = (DV)sg v

ESSERE MESSO = 12&(DV)sg

ESSERE STATO MESSO = 12&((DV)sg v

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Come dicevamo « ESSERE STATO = (DV)vv v » non è passivo, dato che non si oppone ad « aver stato »: è solo l'infinito passato, che corrisponde a « (DV)vv v » e non già a «(DV)vv 21 ». Se le variazioni formali vengono effettuate invece che con la (21) con gli altri due verbi elementari, nel caso in cui intervengano le (23) CONGIUNGERE e (18) AVER CONGIUNTO si hanno le forme del medioriflessivo e del congiuntivo; nel caso in cui le (22) SEPARARE e (15) AVER SEPARATO quelle del condizionale e dell'ottativo (del greco e del sanscrito). Quest'ultimo deve essere inteso appunto come un « separativo », essendo quel che manca oggetto di un desiderio o di una preghiera. Per precisazioni dobbiamo rimandare al trattato. Vedremo che l'imperativo non è un modo come l'indicativo, il congiuntivo, ecc. perché deve essere ricondotto ad una correlazione di subordinazione insieme con l'interrogativo e l'esclamativo. Si tratta cioè di una soluzione sintattica e non già morfologica. In questo caso la grammatica corrente commette l'errore opposto di quello dei tempi composti e del passivo, che viceversa sono morfologici e non sintattici. Alla sfera delle variazioni formali dobbiamo ricondurre anche i cosiddetti aspetti del verbo (dal russo « vid »), cioè le forme perfettiva ed imperfettiva, presenti in lingue come la russa, e quella continuativa, che troviamo in inglese. Verosimilmente si tratta di verbi diali con intervento del « separare » (e si ha allora la forma perfettiva, cioè chiusa, in quanto lo svolgimento è portato a termine), del « congiungere » (e si ha allora la forma imperfettiva, in cui il passaggio è ancora da terminare), dello « svolgere » (e si ha allora la forma continuativa in quanto il passaggio è in corso). Per considerazioni suggerite dall'analisi delle relazioni consecutive tra le forme verbali, sulle quali qui non possiamo intrattenerci, dobbiamo ritenere che si abbia la forma continuativa al presente quando si metamorfizza nella (21) SVOLGERE, cioè si passa al diale «(DV)K/v. Ad esempio, l'inglese TO BE SEPARATING corrisponde a « 22 21 ». L'infinito passato sarà allora «{22 21) v » conformemente al criterio generale per tutti i diali. Analogamente si procede per gli infiniti nelle forme perfettiva ed imperfettiva. Ad esempio, «22 22» è la forma perfettiva di « separare », « 22 23 » ia imperfettiva. Riportiamo una tabella riepilogativa delle variazioni formali inerenti ai tre verbi eiementari SVOLGERE, SEPARARE, CONGIUNGERE. Esse corrispondono ai tempi dei modi indicativo, congiuntivo, ottativo, 103

condizionale ed agli infiniti medio—riflessivi, passivi, continuativi, perfettivi ed imperfettivi. Si tratta di 25 variazioni per ogni verbo, cioè di 75 costrutti. Per ottenere la combinatoria completa bisogna aggiungerne altri 3x3 = 9, ma essi in lingue come l'italiana corrispondono non più a variazioni formali, bensì a variazioni etimologiche, precisamente a verbi servili. fig.024 fig.025 10 Il « sapere » servile non deve essere confuso con il SAPERE DA CONOSCERE, che il tedesco traduce con « wissen ». Questo verbo presumibilmente corrisponde ad un soggetto ripetitivo, cioè al diale « (DV)7/7», associante « aver agito » ed « agire » (p. 98). 11 La concezione dei verbi servili come variazioni etimologiche da mettere accanto alle variazioni formali corrispondenti ai « tempi » ed ai « modi », trova riscontro nel fatto che in alcuni casi certe lingue ricorrono appunto a edurefgzioni con essi invece che a variazioni di forma. Ad esempio, l'inglese rende il significato del « futuro predicente » correlando con « to shall » e del « futuro volitivo » correlando con « to will ». 12 Poiché quasi tutte le modalità corrispondono a sostantivi astratti, presumibilmente si parte da un tema aggettivale per metamorfizzare quindi in « s ».

5.9 I verbi servili AI livello superficiale delle soluzioni linguistiche si considerano tali quei verbi che si correlano con altri all'infinito (ad esempio,« voler leggere »), mentre gli ausiliari, che però come si è detto non trovano corrispondenza in un effettivo uso sintattico, richiedono che il verbo associato assuma la forma di participio passato (ad esempio, « hanno letto »). Sono servili anzitutto i tradizionali « volere », « potere » e « dovere », ma per ognuno di essi dobbiamo distinguere le due varianti presenti in inglese e tedesco. Si hanno precisamente un VOLERE IMPOSITIVO (tedesco « wollen », inglese « to will ») ed un VOLERE DESIDERATIVO (tedesco « mögen », inglese « to shall »); un POTERE DA CAPACITÀ (tedesco « können », inglese « to can ») ed un POTERE DI SCELTA (tedesco « dürfen » ed inglese « to may »), un 104

DOVERE ETICO (comportante la necessità assoluta) ed uno che chiamiamo DISCIPLINARE, comportante l'opportunità e la convenienza (tedesco « sollen », inglese « to shall »). Sono servili anche verbi come SOLERE (« soler passeggiare »), PERMETTERE (nel senso di « lasciar fare », cioè dell'inglese « to let »), SAPERE (ad esempio, « saper pazientare », che il tedesco traduce con « können »10. Altri verbi servili cambiano da lingua a lingua. Ad esempio, troviamo in italiano « amare » in frasi come « amar leggere », in francese « andare » quando si dice « il allait sortir », ecc. La definizione corrente in definitiva afferma che il carattere servile ha una funzione sintattica in quanto si riferisce ad un certo modo di correlare. E potrebbe sembrare che esso sia legato con un uso metaforico semplicemente di livello superficiale, piuttosto che con aspetti costitutivi, dato che cambia da una lingua all'altra. È però da tenere presente che poiché certi verbi come « potere », « dovere » e « volere » sono servili in tutte le lingue (o per lo meno in molte), i loro significati devono avere qualche peculiarità strutturale per la quale necessariamente fungono da correlati con altri verbi. Credo appunto che bisogna distinguere i servili superficiali, attribuibili ad un uso linguistico contingente, sempre introducibile perché si tratta semplicemente di una correlazione, dai servili profondi, che vengono automaticamente correlati con altri verbi in quanto costituiti in un particolare modo. Sono arrivato alla conclusione che hanno tale carattere certi diali dei verbi elementari, imparentati con i costrutti che corrispondono alle forme dei tempi e dei modi, di cui abbiamo parlato al 5.8. Passando, ad esempio, da « leggere » a « leggerei », « leggerò », ecc. si ha una variazione formale; passando a « voglio leggere », « seppe leggere », ecc. in riferimento alle operazioni mentali si ha una soluzione analoga, che però a livello linguistico superficiale corrisponde ad una variazione etimologica. Le variazioni formali danno una forma che si fa corrispondere a desinenze; le etimologiche di questa specie introducono parole isolate, appunto i termini designatori dei verbi servili, ma c'è il vincolo che devono essere correlati con i verbi a cui si riferiscono. Vale a dire si isola l'operazione morfemizzante nel designato del verbo servile e ci si avvale della posizione assegnata sintatticamente ad esso per applicare la soluzione morfemica al verbo correlato. Per tale motivo il verbo morfemizzante, cioè quello servile, assume anche la funzione di portare le flessioni, cioè tutti gli aspetti formali, lasciando il correlato all'infinito. Si dice appunto « volle leggere » e non già « volere 105

lesse », perché « volere » dà in senso lato la forma a « leggere »11. Ciò premesso, come dicevamo, possiamo ricondurre i verbi servili alla combinazione mancante di cui si faceva cenno al paragrafo precedente, vale a dire alla metamorfizzazione degli infiniti passati negli infiniti presente. Si ha una tabella standard, la quale ci dice che servili effettivi sono i seguenti nove: fig.026 Seguendo, al solito, la diagonale da sinistra a destra si hanno i costrutti omogenei. Il SOLERE corrisponde allo « aver svolto » che si metamorfizza in « svolgere ». Chi suole fare, ad esempio, il pisolino pomeridiano appunto lo ha svolto e lo svolge. Il PERMETTERE in quanto non pone vincoli, divieti, opposizioni, ecc. lascia separata nel passato e nel presente l'attività di cui ci si occupa. Il SAPERE servile si riconduce invece al congiungere quanto è già congiunto. Lungo le diagonali da destra a sinistra troviamo le coppie degli altri servili. Precisamente si ha il DOVERE ETICO, quello che così spesso la filosofia fa provenire da un mondo assiologico di valori ontologizzati, quando partendo con « aver congiunto », cioè tenendo fisso quanto non può essere tolto e neanche reso oggetto di discussione, si metamorfizza nella (21) cioè nell'ulteriore svolgere. In tal modo si procede da un punto fisso ed intoccabile. Se invece i termini si invertono .ed è il « congiungere » finale che metamorfizza lo « aver svolto » ad esso conducente, si ha il DOVERE DISCIPLINARE. Il passaggio che introduce il « congiungere » può essere quello scaturente da leggi, regolamenti, imposizioni, ecc. alle quali non ci si può sottrarre, salvo subirne le conseguenze. Il POTERE DI SCELTA è quello che effettua un « congiungere » in una situazione in cui erano separate tutte le possibilità od alternative. Quando invece si passa da « aver congiunto » a « separare » si ha il POTERE DI CAPACITÀ: si ottiene qualcosa partendo dagli ingredienti, elementi, ecc. ed operando quindi in modo adeguato per separarli. Infine il VOLERE DESIDERATIVO è legato con il « separare » come l'ottativo (p. 104). Infatti l'oggetto ambito è lontano, difficilmente accessibile e chi desidera inserisce lo « svolgere » per accostarvisi. Di contro si ha il VOLERE IMPOSITIVO quando lo « aver svolto » iniziale, corrispondente ad esempio all'esercizio di un comando, si metamorfizza in un « separare » finale, in quanto può seguire o meno l'ubbidienza. 106

Dai verbi servili si hanno molti derivati. Ci limitiamo a trascriverne qualcuno: PROBABILE = solere g (p. 74), DESIDERIO = volere desiderativo 16 (p. 75), SPERANZA = 5& volere desiderativo (p. 68), COMANDARE = (DV)7/volere impositivo, UBBIDIRE = (DV)6/volere impositivo (p. 98), INTELLIGENZA = S&potere di capacità&9, DISCIPLINA = 25&dovere disciplinare (p. 76).

INTELLIGENZA è la capacità di porre rapporti. Perciò corrisponde al potere di capacità « 18 22 » in cui si inserisce la (9) CORRELA(TORE). Il morfema ENZA viene dato dall'inserimento nella (5).

5.10 Le modalità Aristotele parla delle quattro modalità: « possibile », « impossibile », « necessario » e « contingente ». La tradizione filosofica ha dato notevole rilievo a parole del genere, collegandole per altro con una « logica modale », ma non ha introdotto un criterio esplicito per delimitare il loro campo. In base al sistema delle mie formule si possono considerare modalità i derivati delle tre coppie di servili opposti, cioè dei due « volere », dei due « dovere » e dei due « potere ». Possiamo ritenere che uno dei due verbi venga metamorfizzato in « g) e l'altro quindi inserito, ottenendo un diale di forma aggettivale12 Poiché i due verbi si possono invertire segue che le modalità sono in coppie ed in tutto sei. In alcuni casi sono da aggiungere i derivati ottenuti con la regola del togliere (p. 68). Ad esempio, sono modalità {volere impositivo (° volere desiderativo)} = CONDIZIONA(MENTO) {volere desiderativo (° volere impositivo)} = VOL(ONTÀ)

Indicando brevemente con « V; » e « Va » i due « volere », con « D, » e « D, » i due « dovere », con « P.» e « P.» i due « potere », si definiscono le sei 107

modalità principali: (pag.110 o 155440 ndleo) fig.027 Si ha il BENE quando si parte dal « dovere etico », in quanto tale inattaccabile e ci si adegua ad esso inserendo quello disciplinare. Si può passare poi ad un comportamento (p. 128), un valore (p. 96), ecc. II MALE non è una modalità indipendente, ma assenza del « bene », come diceva Socrate. Si ottiene applicando la regola del togliere: (g&(DG) De/Dd) x v = MALE

Se si inverte, cioè l'etica segue la disciplina, si ha il tema della NECESSITÀ. Ad esempio, «è necessario combattere in guerra » perché il dovere etico segue quello disciplinare di ubbidire all'ordine di combattere. Applicando la regola del togliere ora si ha: (g& (DG) Dd/De)xv = CONTING(ENZA)

La tradizionale modalità della POSSIBILITÀ corrisponde al fare seguire il « potere di capacità » a quello di « scelta ». Con la regola del togliere si ottiene l'IMPOSSIBILITÀ. Invertendo; cioè considerando il « poter scegliere » avendone la « capacità » si ha il significato di LIBERTA. Come rileva anche Ceccato, non si sarebbe liberi se si avesse solo la capacità ma non la possibilità di scegliere. Per la tradizionale opposizione filosofica tra « libertà » e « determinismo » cfr. 7.5. Infine il significato di VOLONTÀ sembra provenire dal « volere desiderativo » in cui si inserisce « l'impositivo ». Chi manifesta la sua volontà comandando, ad esempio: « chiudi la porta », desidera che sia chiusa e lo impone. Partendo invece dal « volere impositivo » ed inserendo il « desiderativo », si è nel caso del CONDIZIONAMENTO, da essere inteso nel senso più lato (p. 87). Introducendo il morfema -ZIONE per metamorfizzazione nella (5) si ha: CONDIZIONE = ((12 22) g&(15 21)) 5

note 1 Come è detto in La chimica della mente, le categorie del sistema minimo 108

sono classificabili in otto gruppi, che presentano un'interessante analogia con quelli del sistema periodico degli elementi di Mendeleev. 2 Spesso per brevità tralascio le formule strutturali. Si consiglia al lettore di ricavarle per suo conto, essendo esse di validissimo aiuto per l'interpretazione semantica dei costrutti. 3 Come abbiamo accennato a p. 70, quando le « K » non sono categorie atomiche, per ottenere le complementari bisogna considerare le coppie a tutti i livelli. Cioè complementare di «15&v = (s v)&v » è « v (v&s)», vale a dire « v 22 ». In tal modo si ottiene la complementarità vera e propria (complementarità profonda). Si può anche fare riferimento ad una complementarità superficiale, che chiamiamo opposizione assumendo i costrutti solo all'ultimo livello. Si ha allora che opposto di « 15&v » È « v 15». Quando le « K » sono categorie atomiche la complementarità (profonda) coincide con l'opposizione. Per i costrutti del sistema minimo coincide in casi particolari. Ad esempio, « v X 8 = v X (s X s)» ha sia come complementare che come opposto « (s X s) X v » = «8 X s ». 4 Questo è uno dei punti in cui la soluzione che presento qui è diversa di quella esposta in La chimica della mente. 5 In quanto al PRESENTE, diciamo per inciso che in senso primario è derivato della (6) OGGETT(IVO). Sono appunto: PRESENZA = 5&6 (p. 68), PRESENTE = 17&6 (p. 79). In questo caso al morfema -ENTE deve essere attribuito il carattere di pseudoparticipio presente. Dalla (6) OGGETT(IVO) applicando la regola del togliere (p. 68) si avrà il tema: ASS(ENTE) = 6 x v. Possiamo passare dalla (17&6) PRESENIE alla stumatura semantica omonima in cui si particolarizza l'« essere presente » nel senso temporale, in modo da ritrovare il significato da mettere accanto a « passato » e « futuro ». A tale scopo bisogna metamorfizzare « v » nella « g X 6»: si ottiene allora come equivalente l'operazione « 14 X 6», cioè la presenza dell'oggettivo resa temporale: 14x6 = v (g x 6) = (◯{⧍(°—⧍)}) = PRES(ENTE) TEMPORALE Il costrutto « g X 6» è da interpretarsi probabilmente come la « forma » da dare ai « percepiti » (cfr. p. 225). 6 Quest'interpretazione diviene più chiara se ricondotta alla definizione 109

consecutiva, cioè alla considerazione delle relazioni che la « 19°s » ha con altri costrutti. Risulta infatti che è opposta con la « (DS) sg (TUTTO) » e si associa con la « (DS)gs (PARTE)» per intervento della « g°8 = 19 x s = (COMPOSTO)» (cfr. 6.4). Per considerazioni di questo tipo devo rimandare al trattato da pubblicare. Qui basti dire che bisogna porre accanto alla semantica del costitutivo anche una semantica del consecutivo, la quale è legata con la logica. 7 Questo concetto si estende anche a costrutti di altro tipo. Ad esempio per le « preposizioni » cfr. p. 198.

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VI. LE NOVAZIONI SEMANTICHE 6.1 Articoli e pronomi Le operazioni di metamorfizzazione e di inserimento lasciano immutato uno dei due costrutti su cui si opera dandogli una forma o cambiandogli la forma. Quando interviene la combinazione « x » si ha un mutamento più profondo, che sul piano linguistico superficiale trova riscontro in una novazione semantica. La combinazione con la (4) SINGOL(ARE) può condurre addirittura a forme tematiche diverse dalle cinque che abbiamo fin ora incontrato (verbo, sostantivo, aggettivo, correlatore e singolarizzatore), precisamente a quelle corrispondenti alle tradizionali categorie grammaticali degli articoli e dei pronomi. L'articolo determinativo IL e l'indeterminativo UN nascono applicando alla (4) la regola del mettere e del togliere. Ad esempio, si ha « il cane » quando introduciamo « cane » come singolare; si ha « un cane » quando la singolarità viene tolta rivolgendoci ad un esemplare qualsiasi di questa specie animale, che perciò resta indeterminato pur essendo uno solo. Le formule strutturali dei due costrutti mostrano che la nuova forma è un ibrido di quella del « singolarizzatore » e di quella del « correlatore »: v x 4 = {-(°-*)-} = IL 4xv = {-(*-°)-}= UN

Il momento centrale «—» spiega la funzione linguistica degli articoli, nel senso che sono considerabili come semicorrelatori. Essi legano infatti un solo costrutto, quello a cui si riferiscono, essendo l'altro implicitamente lo stesso singolare messo o tolto. Presumibilmente il costrutto a cui l'articolo si riferisce è adiacente al « °» del momento centrale: perciò si introduce per metamorfizzazione nel caso della « v x 4», per inserimento in quello della «4 x v ». L'articolo plurale I o GLI si ottiene con quell'operazione che in generale chiamo « plurisingolarizzazione », la quale interviene anche per il plurale di alcuni pronomi. Si tratta di iterare il singolare in modo da ottenere due momenti « * » collegati con un «—». Il concetto è che per gli articoli ed i pronomi il plurale che ad essi correntemente si attribuisce, non si ha mediante la combinazione del costrutto metamorfizzato in « s » con se stesso (p. 66), ma con un meccanismo diverso. Quando diciamo « i cani » o 111

« questi cani » solo « cane » viene metamorfizzato in « s » e combinato con la sua iterazione. Se lo fossero anche « il » e « questo », diventerebbero sostantivi perdendo la forma tematica di articolo o pronome e quindi la possibilità di intervenire con le loro specifiche funzioni. Del resto anche i linguisti sono convinti che, ad esempio, « noi » non sia affatto il plurale di « io ». La plurisingolarizzazione da me proposta come operazione mentale che viene effettuata in casi del genere, corrisponde nel caso più semplice, cioè quello della combinazione « 4 X 4», all'articolo plurale: ” 4x4= {-(*-*)-}=I, GLI, ecc.

Dalla (4) derivano anche i due pronomi elementari: s x 4 = {(⬜- *) -}= IL QUALE

4 x g = {-(*- ⧍)} = QUESTO

Il primo è il prototipo di quelli sostantivali chiamati correntemente pronomi relativi; il secondo degli aggettivali o dimostrativi. Tutti i pronomi sono correlatori trasformati però in un momento binario, caratterizzato da un «—» proseguente nei sostantivali, da un «—» pervenente negli aggettivali. Il momento ternario interno del correlatore spiega la funzione linguistica dei costrutti appartenenti a questa categoria grammaticale, che è quella dell'anafora e della catafora. Cioè i pronomi riprendono quanto è stato detto prima o rimandano a quanto segue. Si noti che questa funzione è logica e non già sintattica perché i pronomi intervengono come correlati rispetto a correlatori alla stessa stregua dei sostantivi, degli aggettivi, dei verbi, ecc. Ad esempio, in una frase come: « Carlo studia molto. Egli vuole apprendere rapidamente », il pronome personale « egli » è un correlato avente la funzione di soggetto sintattico della seconda proposizione, coordinato con la prima mediante il punto grammaticale (8.10). La memoria tiene presente unitariamente « Carlo studia molto » e lo riprende mediante il pronome « egli » come soggetto di « vuole apprendere rapidamente ». Le riprese od il rimando possono aver luogo anche indipendentemente da una correlazione. Basta infatti ricordarsi del contesto: le relazioni consecutive di tipo logico di cui ci si avvale fanno capire quale sia il riferimento legato con il pronome. Ovviamente la costituzione dei 112

pronomi isolati e delle correlazioni in cui intervengono è da ricondurre alla morfologia ed alla sintassi. Per porre relazioni consecutive con altri costrutti deve intervenire la logica. Ma così non è solo per i pronomi, bensì per tutti i correlati, i quali devono essere compatibili (9.6)1. I vari pronomi relativi derivano dalla metamorfizzazione di « v », « s », e « g » nella « s Xx 4»; i dimostrativi dall'inserimento nella «4 x g ». Gli altri si ottengono dalle categorie elementari direttamente con una combinazione. Ad esempio, i pronomi personali sono presumibilmente la combinazione con la (4) delle (5), (7) ed (8): 7x4=({(⬜-°)-*}-) 5x4=({(-°⬜-*}-) IO TU 8x4=({(⬜⬜)-*}-) EGLI, ESSO

Che IO sia il soggetto singolarizzato è fuori discussione; che EGLI ed ESSO siano una persona e cosa non determinata in quanto uno della pluralità è abbastanza chiaro. In questo senso i grammatici hanno appunto detto che la terza persona in effetti è la « non persona ». Dobbiamo ammettere, anche per esclusione, che il designato di TU sia la combinazione di « opera(zione)» con « singol(are) »: si passa così alla persona a cui direttamente ci si rivolge. Ricordiamo che la (5) è legata con la regola del mettere. Per i pronomi personali al plurale probabilmente la plurisingolarizzazione interviene solo nel caso di ESSI. Ritengo infatti che per NOI e VOI si abbia invece la combinazione di due categorie elementari tra di esse e quindi con il singolare. Precisamente: 8x(4x4)= ESSI

(7 x 5) x 4= NOI INCLUSIVO, cioè inclusivo del « tu » associando chi parla con chi ascolta. Si fondono « io » e « tu ».

(7 x 8) x 4= NOI ESCLUSIVO, cioè esclusivo del « tu » e quindi associante « io » ed « egli ».

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(5x 8) x 4= VOI cioè fusione di « tu » ed « egli »

I due « noi » vengono distinti da alcune lingue. Dalla plurisingolarizzazione di « io » potrebbe provenire il « noi di maestà », detto anche « di modestia ». Combinando « io », « tu », ed « egli » in un unico singolare, si ha: (7 Xx 5 Xx 8) x 4= SOCI(ALE)

Non credo che il significato di « sociale » possa essere dato dai soli pronomi allocutivi (« tu » e « voi »), come pretendono alcuni autori. Deve contenere infatti, oltre a coloro a cui ci si rivolge, anche « egli » ed « io ». Inoltre, accettando la formula proposta, possiamo fare interessanti considerazioni. Ci limitiamo qui a notare che isolando entro il « sociale » con un (4) intermedio i pronomi « egli », « tu », ed « io », si ha: (7 x 5 x 4) x (8 x 4) = noi inclusivo x egli = STRANI(ERO) (7 x 8 x 4) x (5 x 4) = noi esclusivo x tu = (CLASSE) SOCIALE (5x 8x4) x (7 x 4)= voi x io = (CAPO)

Gli sforzi per ripristinare sul piano consecutivo l'integrità del « sociale » eliminando la (4) intermedia portano rispettivamente alla soppressione dello « straniero » (internazionalismo), della « classe sociale » (socialismo) e del « capo » come « io » opposto a « voi » ( democrazia ). Non possiamo qui insistere ulteriormente sui pronomi. Basti dire che sono del tipo indefinito: 4 x 10 = NULLA 4 x 6 = QUALCOSA 4 x 11 = CHECCHE

In molti casi i pronomi precedono geneticamente gli aggettivi omonimi, i quali perciò si ottengono da essi mediante inserimento in « gp ». Ad esempio:

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QUESTO (agg.) = g&(7 x g) MIO = g&(7 x 4) QUALCHE = (g&(4 X 6)

Ma altre volte sono i pronomi a derivare dagli aggettivi. Ad esempio, dagli aggettivi « stesso » e « medesimo » (di cui al 6.4) si passa al pronomi omonimi combinando con (4). Ai pronomi si affida spessissimo la funzione dell'anafora e della catafora in riferimento a persone. Perciò oltre ai personali, troviamo in moltissimi casi anche la personalizzazione degli altri. È verosimile che essa si effettui metamorfizzando la (7) (SOGGETTO), dato che è « PERSONA = 7 s » (p. 95). Ad esempio: QUESTI = 7 (4 x g) questo CHI = 7 (s x 4) il quale QUALCUNO = 7 (4 x 6) qualcosa

Tutti i pronomi, come gli articoli, i verbi all'infinito, le preposizioni e le congiunzioni hanno una forma morfemica coincidente con la tematica.

6.2 Novazioni semantiche di derivati delle categorie elementari di combinazione Per combinazione con « v » della (5) OPERA(ZIONE) si hanno i costrutti: 5 x v = ({(- °⬜)-°} -)= STIM(OLO)

v x 5 = ({-°(-°⬜}-) = REA(ZIONE)

STIMOLO ha per tema il momento dell'« opera(zione) » che si tramuta in quello del « (soggetto) » e perciò agisce. Si ha infatti un momento ternario con un «—» centrale ed un successivo « ° », ma in cui invece di « ⬜ » vi è il momento ternario « (- ° ⬜) ». Non si deve pensare ad un'applicazione della regola del togliere perché il costrutto che si combina con « v » ha la forma di sostantivo e non già di aggettivo, come da essa è richiesto. Si applica invece la regola del mettere nel secondo caso, essendo la (5) con 115

forma tematica sostantivale. La REAZIONE ha appunto come significato l'introduzione di una operazione. Altri due costrutti di combinazione derivanti dalla (5) sono: 5 x s = PROD(OTTO) s x 5= RISULT(ATO)

Cioè « prodotto » ha per tema quanto segue l'operazione come costituito combinato, mentre « risultato » quanto si trova in partenza contenuto potenzialmente dentro l'operazione, nella quale perciò è implicito. Se il risultato viene ricondotto al diale con la (15) AVER SEPARATO si ha il LAVORARE, se a quello con la (18) AVER CONGIUNTO invece il GIOCARE. Si tratta di significati categoriali: la stessa attività si vede come lavorativa considerando il suo risultato persistente; svolta invece per gioco, se invece il risultato è tutt'uno con l'operare stesso (Ceccato). Per il bambino che gioca con la palla, quando smette non resta nulla; invece non è così per il professionista del calcio, che « lavora » tanto da ricevere uno stipendio, da conquistare fama o cadere in discredito, ecc. GIOCARE = (DV)(s x 5)/18 GIOCO = giocare s LAVORARE = (DV)(s x 5)/15 LAVORO = lavorare s

Possiamo aggiungere che se « lavorare » si inserisce in « giocare ) si ha il significato di SPORT, se viceversa « giocare » in « lavorare » quello di HOBBY. SPORT = s&(giocare&lavorare) HOBBY = s&(lavorare&giocare)

Dalla (6) OGGETTIVO), oltre alla «(6 x v) ASS(ENTE)» di cui abbiamo fatto cenno a p. 91 n.,, si ha il costrutto inverso « v X 6 » corrispondente al significato di FUN(ZIONE), a sua volta collegato con quello di ORG(ANO), che è un derivato del « soggetto ». Cioè: v x 6 =(-{°-(°- ⧍}}) = FUN(ZIONE) 7 x v =({(⬜-°)- °}-)= ORG(ANO)

L'interpretazione di queste due categorie è legata con la loro presenza nel subordinatore organo-funzione di cui al 8.14. Comunque è perfettamente accettabile che VORGANO sia caratterizzato da una duplice soggettività, dato che agisce come tale e concomitantemente influisce sulla funzione 116

subordinata. Nella «7 x v » si hanno appunto due momenti entrambi con la forma ternaria della (7), uno dentro l'altro. Parallelamente la FUNZIONE comporta -una duplice oggettività, una di per sé, l'altra determinata dall'organo. Dalla (8) derivano: 8 x v = DUBBI(O) v x 8 = (CERTO)

Nel « dubitare » si ha il momento «(⬜⬜)» del plurale che si muta in quello ternario del soggetto, come potrà controllare il lettore scrivendo la formula strutturale. Chi dubita si comporta appunto come più soggetti concomitanti, che nel loro « agire » interferiscono disturbandosi, cosicché non è possibile una decisione. Dal tema «8 X v » si passa al verbo DUBITARE e da esso allo pseudosupino DUBBIO. La « v x 8» introduce invece il momento del plurale, dando di conseguenza una sorta di conferma ricondotta alla pluralità di soluzioni concomitanti (in quanto tali uguali) invece che ad una ripetizione. Dalla (10) AVV(ERSO) derivano: 10 x v = (SEMPRE) v x 10 = (MAI)

Nel primo caso si toglie l'avverso e perciò si mantiene la situazione in atto. Nel secondo l'« avverso » resta presente impedendo l'attuarsi di altro. Se il lettore scrive la formula strutturale, nota che essa corrisponde a quella della (6) OGGETT(IVO) in cui però in luogo del « ⧍ » si ha il momento avversativo «(⧍°-)». Un esempio interessante di novazione semantica legata con la regola del togliere è data dalla « 11 x v », che corrisponde al designato di (FALSO). Di contro la « v x 11» corrisponde a (VERO). I due costrutti sono: v x 11=(-{°-(⧍⧍)})= (VERO) 11 x v=(-(⧍⧍)°-})= (FALSO)

La tradizionale concezione della filosofia del conoscere, che « vero » sia 117

l'adeguazione alla « realtà » precostituita attraverso il confronto tra essa e quanto viene prospettato come conosciuto come sua copia, è inaccettabile perché questo raddoppio è contraddittorio (p. 21). È vero, ad esempio, che nel porto c'è una nave non già perché veritas est adaequatio intellectus rei, come diceva San Tommaso, ma perché torno a vedere che è li, rendendo quel che vedo aggiuntivo per me che guardo. Cioè il « vero » deve essere ricondotto al ripetibile 0ggettivo. La « v x 11» è appunto costituita dal momento della (6) OGGETT(IVO) in cui invece del semplice « ⧍ » si ha il momento duale «(⧍⧍)». Il FALSO è da ricondurre all'impossibilità di ripetere, cioè a togliere la (11) per combinazione con « v ». La differenza tra « vero » e « reale » sembra essere solo morfemica. Cioè nell'un caso si ha l'aggettivo avverbiale di forma neutra per inserimento in « g », nell'altro la metamorfizzazione in « g », corrispondente al morfema -ALE: VERO = g&(v x 11) REALE = (v x 11) g

Un'altra coppia di derivati inversi che ci interessa richiamare è: (NON) = 10 x g CONTRADDITTOR(IO) = g x 10

È da sottolineare che la (10) ha un contenuto semantico più semplice di NON: per negare occorre che l'« avverso » abbia un'aggiunta, appunto l'avversato che deve seguire. In tal modo si passa da (⧍ °-) a, {(⧍°-)⧍}. Quando precede il momento aggettivale e segue l'avversativo, il significato è invece quello del togliere quanto concomitantemente è stato messo, cioè in definitiva di demolire costituendo: questo è appunto il CONTRADDITTORIO (p. 23). Si passa dal tema alla parola introducendo il morfema -IO, che quando è aggettivale viene dato dall'inserimento nella (29). Invece « non » come tutti gli aggettivi avverbiali ha forma neutra, cioè si ottiene con l'inserimento in « g ». Perciò: NON = g&(10 x g) CONTRADDITTORIO = 29&(g x 10)

6.3 I fondamenti dell'aritmetica Dalla (11) per combinazione con « g » si ottiene la coppia di costrutti: TRIALE COSTITUTIVO = 11 x g

118

TRIALE CONSECUTIVO = g x 11

I due « triali » consentono di passare da « due » a « tre » e da « secondo » a « terzo ». Combinando ancora con altri « g » si ottengono i numeri successivi. Essi sono perciò importanti per l'analisi semantica dei fondamenti dell'aritmetica. Più in generale possiamo dire che si ottiene il numero UNO dando alla (4) SINGOL(ARE) la forma « g » per metamorfizzazione, cioè rendendolo aggiuntivo; si passa poi al DUE combinando ancora con « g », cioè dando alla (4) la forma del « du(ale) » 2. Se invece si inserisce in « g » si hanno i corrispettivi ordinali. I costrutti sono: 4 g = {(-*-)⧍ } = UNO (4 g) x g= 4 11 = {(-*-)(⧍ ⧍ )} = DUE g&4= (- {°(- *—)}) = PRIMO 11&4= (-[⧍{°( *-)}]) = SECONDO

Ottenuto il « due » (od il « secondo ») si procede combinando ulteriormente con « g » e così via. In tal modo la (4) SINGOL(ARE) assume la forma del triale costitutivo. Per ulteriori combinazioni con « g>» sì passa agli analoghi costrutti più complessi. Cioè: TRE = 4 (11 x g) QUATTRO = 4 (11 x g) x g), ecc.

È possibile proporre come « forma » del « singolare » oltre al triale «11 x g » anche il « g x 11», ottenuto con l'operazione complementare. In entrambi i casi si hanno tre momenti aggettivali combinati che si susseguono. Parallelamente per ottenere il numero « tre » sul piano consecutivo del calcolo si può procedere oltre che in corrispondenza dell'operazione costitutiva diretta, cioè ottenendo «1-+1= 2» e quindi passando a «2+ 1», anche in modo indiretto, cioè ottenendo per conto suo il « 2» e quindi addizionandolo ad «1». Risulta allora che l'addizione «1 + 2» corrisponde alla costituzione tramite il triale consecutivo « g x 11», ottenendo «4 (g x 11)». Poiché operativamente i sinonimi non hanno senso (p. 87), ad ogni diversa operazione mentale deve corrispondere una interpretazione semantica diversa. Segue che dal punto di vista costitutivo si hanno due numeri « tre »: quello che in sede consecutiva si estrinseca 119

nell'addizione «2 + 1» e quello viceversa che corrisponde a «1 +2». Analogamente si hanno cinque diversi numeri quattro e così via. È da precisare che, in generale, per i costrutti mentali non vale la proprietà commutativa. Ad esempio, « s x v » è il significato della (7) (SOGGETTO), mentre « v x s » lo è della (5) OPERA(ZIONE). È perciò che dobbiamo distinguere anche i due triali « Il x g » e « g x 11». Ma per i costrutti numerici si ha una peculiarità nel senso che possiamo considerare le successioni di « g » combinate, che diano la forma alla (4), equivalenti sul piano consecutivo, quando hanno lo stesso numero di momenti. Sia chiaro che tali successioni non sono uguali, dato che corrispondono a differenti operazioni, ma interscambiabili per una relazione di tipo logico ponibile tra di essi. L'equivalenza è appunto una relazione della logica simbolica che viene indicata con il segno « ⬄». In questo senso è possibile usare indifferentemente i due diversi « tre », i cinque diversi « quattro », ecc. In altre parole la relazione di equivalenza logica porta sul piano costitutivo a « 4 (11 x g) ⬄ 4 (g x 11)» e sul piano consecutivo a «2+1 ⬄ 1+ 2». Equivalenze del genere estese a tutti i numeri permettono di effettuare il calcolo aritmetico ed in sostanza caratterizzano il mondo numerico rispetto a quello delle altre categorie mentali, per le quali la proprietà commutativa non vale. Possiamo cioè dire che per una serie di momenti aggettivali combinati « g X g X g X g...» nei quali si metamorfizza la (4) SINGOL(ARE) (o si inserisce se consideriamo gli ordinali), non ha importanza come essi siano strutturati, perché sul piano consecutivo tutti i risultati sono equivalenti. Fermandoci a cinque « g », si hanno equivalenze, ad esempio, come quella di «2+3» con «1+4», «3 + 2», ecc., con la conseguenza che sommando nei vari modi possibili, ma anche sottraendo o facendo le altre operazioni, il numero corrispondente ai « g ” strutturati è sempre lo stesso. Ritengo che molti matematici irrideranno ad una concezione del genere, dato che di solito non ammettono una soluzione operativa, in quanto credono nella « realtà » ontologica di enti, considerati « esistenti » in senso primario. Spero che prima o dopo anche in questo campo la metafisica ed .il fideismo siano abbandonati e si faccia autentica scienza. Lo spazio mi vieta di insistere sulle operazioni aritmetiche. Mi limito a dire che la sottrazione si effettua mediante l'unità sottrattiva, che corrisponde all'applicazione della regola del togliere ad «1». (4 g) x v= 4 10= {(-*-)(⧍ °-} =-1

I numeri razionoli negativi, correntemente concepiti anch'essi come « 120

realtà ontologiche », devono essere ricondotti ad operazioni che tolgono, costituite dall'applicazione iterata dell'unità sottrattiva. Ad esempio, il segno «-2» significa semplicemente che si applica due volte l'unità sottrattiva. Pertanto per effettuare una sottrazione come «3-2 » occorre: 1) combinare il costrutto corrispondente al numero « tre » due volte con l'unità sottrattiva, ma eliminando la (4) SINGOL(ARE) intermedia (quella del «-1»), dato che nel numero risultante deve esserci solo quella iniziale del numero « tre ». Allora applicando la prima volta l'unità sottrattiva si ha: tre x (10) AVV(ERSO) = ((-*-)[(⧍ ⧍ ) {⧍ (⧍ °-}])

2) introdurre una regola di semplificazione secondo la quale un momento «(A °-)» successivo ad un « A » porta alla demolizione di entrambi in quanto si ottiene la (g x 10) CONTRADDITTOR(IO). Sul piano costitutivo la « g x 10» è un costrutto avente il suo significato, ma su quello consecutivo comporta, come si è detto, non ottenere alcunché. Pertanto si ha la semplificazione: ((-*-)[(⧍ ⧍ ){⧍ (⧍ °-)}]) → {(-*-)(⧍ ⧍ )} = DUE

3) Bisogna quindi effettuare: due X (10) AVV(ERSO): ((-*-) {(⧍ ⧍ )(⧍ °-)})

ed estendendo la regola della semplificazione alla demolizione del secondo momento del « duale » si completa la sottrazione « 3-2 = 1 ». Segue che lo ZERO si ottiene combinando «4g » con la (10) e corrisponde a: (4 g) x 10 = 4 (g x 10)= (-*-) {⧍ (⧍ °—)}) = ZERO

Cioè viene dato dal « singol(are) » metamorfizzato nel costrutto corrispondente al significato di « contraddittor(io)». Esso perciò sul piano consecutivo è il non numero, che appunto non interviene né nelle addizioni né nelle sottrazioni, mentre in sede costitutiva è il numero contraddittorio, in cui l'« uno » è costituito e contemporaneamente demolito. L'aggancio operativo, di cui abbiamo esposto i concetti fondamentali, permette di costruire l'aritmetica abolendo i tradizionali ontologismi legati con i cosiddetti « numeri razionali », « irrazionali », « reali », « 121

trascendenti », ecc. Si tratta sempre di operazioni, che in certi casi danno un risultato numerico, in altri no. Qui non possiamo insistere sull'argomento.

6.4 Novazioni semantiche di derivati delle categorie elementari di morfo-inserimento Agli esempi che abbiamo dato di derivati delle categorie elementari di combinazione, ne facciamo seguire qualche altro riguardante le categorie di morfo-inserimento. I costrutti di questo tipo possono essere classificati in due gruppi: 1) quello dei costrutti che si ottengono solo con una combinazione « X », cioè senza equivalenze. Ad esempio: 27 x 8 = (GRANDE)

s x 19 = SEMPL(ICE)

28 x g = (STESSO)

29 x g = FIG(URA)

2) quello dei costrutti che si riconducono ad un'equivalenza tra un'operazione di combinazione ed una di metamorfizzazione oppure di inserimento. Questi ultimi li chiamo connettori. Essi hanno una grande importanza nella sfera consecutiva, della quale però non ci occupiamo in questo libro. Nei connettori sono le « v », « s » e « g » a metamorfizzarsi od inserirsi in categorie elementari. Invece i costrutti che abbiamo trovato come variazioni formali o novazioni etimologiche si riconducono all'inserimento od alla metamorfizzazione di una categoria elementare in una atomica anche quando si ha un'equivalenza con un'operazione di combinazione. Il significato che attribuisco alla «27 x g » proviene dalla mia convinzione che in senso primario parliamo di GRANDE quando lo spaziale viene reso aggiuntivo. Si ha un « molto grande », « poco grande », ecc., ad esempio, 122

anche nella valutazione della statura morale di un uomo, ma dobbiamo ammettere che si tratti di un uso metaforico della parola. Applicando la regola del togliere si ha: PICCOLO = (27 x g) x v

Il significato della s x 19 = SEMPL(ICE) è legato con quello della coppia di connettori: COMP(OSTO) = 19 x s = g 8 COMPL(ESSO) = s x 26 = 8&g

COMPOSTO ha per tema il connettore dato da «19 x s » cioè dall'operazione complementare di quella corrispondente al significato del tema di SEMPLICE, operazione che è equivalente a « g » che si metamorfizza nella (8) PLUR(ALE). Il « composto » si risolve appunto in un plurale in cui quanto è tenuto insieme ha carattere accidentale nel senso che si può spezzare ritrovando i componenti distinti. Viceversa il costrutto in cui il derivato della (8) per inserimento di « g » ha un'equivalenza con un derivato della « sost(anza)» corrisponde al tema di COMPLESSO. Infatti la (26) comporta permanenza e stabilità. È da aggiungere che mentre nel « composto » intervengono sia il « plurale » che l'« accidente », nel « semplice » è contenuta solo la (19) (ACCIDENTE). Tutte queste sono categorie. Pertanto in ogni caso la considerazione di alcunché come « semplice » a preferenza di « composto » o « complesso » non proviene da una sua natura fisica o ontologica, ma dal modo come si categorizza. Ad esempio, di solito si considera semplice quanto è indivisibile rispetto ad un certo tipo di procedimenti fisici, ma se se ne escogitano altri in grado invece di effettuare una frattura, la stessa cosa sarà categorizzata come composta. Così è accaduto per l'« atomo » e per i « corpuscoli subatomici » (p. 36). Aristotele criticava acutamente sia gli atomisti in quanto credevano nel necessario arresto a particelle ultime, sia Anassagora che ammetteva invece una divisibilità illimitata, fatta provenire anch'essa dalla natura intrinseca della « realtà ». La 28 x g (STESSO) È invece legata con la coppia di connettori: (ALTRO) = 17 x g= s 11 MEDES(IMO) = g x 28 = 11&s

L'italiano STESSO (e più ancora l'« ipse » latino) non effettua un 123

riferimento ad altro, mentre il designato di MEDESIMO (e del latino « idem ») comporta un duale nel senso che l'uguale è posto tra due cose. In pratica « stesso » e « medesimo » vengono sinonimizzati; ma mi' pare che la differenza di cui sopra risulti da un'attenta analisi. Mentre partendo dalla (11) DU(ALE) (ad esempio, una coppia di libri) ed inserendo « s », si ha un costituito che è medesimo dell'altro a qualche titolo, in quanto il costrutto equivale a « g X 28», se partiamo invece dal costituito « s » e lo rendiamo duale per metamorfizzazione nella (11), si introduce la semanticità della (17) DIV(ERSO) e si ottiene il significato del tema di ALTRO. Come una certa situazione si può spesso categorizzare indifferentemente « uguale » o « diversa » (p. 78), si può anche considerare indifferentemente « altra » o « medesima ». Anzi si può dire addirittura che una cosa è la medesima di un'altra. Cioè « altro » porta ad un'alterità, che in quanto tale introduce un « diverso », ma ciò non toglie che esso possa essere visto come il medesimo del primo sotto qualche aspetto. Dai temi (28) e (17) si hanno: UGUALE = 28 g, UGUAGLIARE = v&28, UGUAGLIANZA = 5&28, STESSO = g&(28 x g), MEDESIMO = (g x 23 == 11&s) g, IDENTITÀ = 28 s (p. 98) DIVERSO = 177g, DIFFERENZA = 5&17, DIVERSIFICARE = v&17, DIFFERENZIARE = v&(5&17), ALTRO = g&(17 x g= s 11)

Abbiamo trovato la « 28 s = IDENTITÀ » tra gli astratti provenienti direttamente da un costrutto con tema aggettivale. Il tradizionale principio di identità degli indiscernibili di W.G. Leibniz, accettato dalla logica simbolica, presuppone la « realtà » filosofica di cose che sarebbero 124

da identificare o meno a seconda che presentino o meno proprietà tutte le stesse. In un enunciato del genere resta ovviamente | misterioso come si possa trovare quali e quante siano « tutte ». Operativamente si effettua invece una novazione etimologica da « ugu(ale)» in « ident(ico) » attraverso l'astratto. Poiché con l'astrazione ci rivolgiamo agli elementi costitutivi, accantonando il costrutto preso unitariamente con la sua forma, quando si parla dell'identità si ha l'impressione di rivolgersi agli ingredienti delle cose messe a confronto, dal realista configurate come « proprietà ». Il principio enunciato da Leibniz perciò si riconduce non già ad un confronto tra « tutte » le proprietà « realmente » possedute dalle cose, ma all'uso dell'astratto, che fa pensare agli ingredienti visti come momenti disarticolati e perciò da confrontare analiticamente uno per uno. Queste considerazioni interessano il semanticista in quanto deve ammettere che Il tema « ident(-)» nasca nel sostantivo « identità » e da esso derivino perciò, ad esempio: IDENTIFICARE = v&(28 s) IDENTICO = (28 s) g = 28 17 >37», troviamo l'agente. L'italiano usa in entrambi i casi il « DA », ma altre lingue distinguono i due costrutti5.

179

Analogamente, quando si parte da una situazione congiuntiva e si passa ad una separativa si ha lo strumentale (ad esempio, « lavorava con le mani »); se ad una anch'essa congiuntiva il comitativo (ad esempio, « passeggiava con Maria »). L'italiano usa in entrambi i casi la preposizione « con », ma molte lingue distinguono i due diversi significati con preposizioni differenti. Infine la preposizione « DI », che parte da una sitUaziIONE separativa per congiungere, è una filiazione del « genitivo », ma questo « caso » si accontenta della congiunzione finale, tralasciando la partenza. Il latino ed il tedesco usano solo il sintattema del genitivo. L'italiano adopera pressoché indifferentemente il « di » ed una correlazione implicita attribuente a quanto viene congiunto una particolare desinenza. Dice, ad esempio, « statua di marmo » e « statua marmorea ). È interessante notare che, come accennato a p. 79, il morfema —EO (o se si preferisce OREO) con le sue varianti viene dato dall'inserimento nella (29) QU(ALE). Si ha perciò l'attribuzione della (29) QU(ALE) al correlatore e quindi una soluzione sintattica, quando si esplicita in « s 9&g = 16 Xx 29 », cioè ci si avvale del corrispettivo della preposizione « DI »; si ha una soluzione morfologica quando come correlatore resta la (9) e la (29) diviene forma del correlato inserendo in essa il tema di questo. Si deve perciò ammettere che non sempre sussiste una rigida differenziazione tra morfemi e sintattemi. La forma corrispondente al morfema -EO, in casi come quello esemplificato, mostra di essere equivalente ad una soluzione sintattica. Ricerche del genere rientrano nel campo della logica intraproposizionale.

8.5 Le preposizioni superiori Abbiamo detto che si passa alle preposizioni superiori partendo dai « casi » o dalle « semplici » ed inserendo una delle ventisei categorie elementari. In latino le preposizioni reggono solo i tre casi « accusativo », « dativo » ed « ablativo ». Perciò indicando le categorie atomiche con « Ka » e le elementari con « Ke », le preposizioni superiori di questa lingua corrispondono a « Ka 9 &K. ». Quando invece si hanno, come in tedesco, anche preposizioni che reggono il genitivo, bisogna inserire nel correlatore corrispondente, cioè in « s x 29 = — 9&g ». In lingue come l'italiana in cui le preposizioni superiori sono spesso legate con le semplici, si ha l'inserimento della « Ke » nella preposizione semplice associata. Ad 180

esempio, l'aggettivo avverbiale « invece » si trasforma nella preposizione « invece di » inserendolo nella preposizione semplice « di ». Sono pertanto: 120911 controllare (s 9&v)&Ke = s 9I&(v&Ke) = ({(⬜-)°} - {°(-°Ke)})= preposizioni superiori integrate con « A »

(s 9&v)&Ke = s 9I&(v&Ke) = ({(⬜-)°} - [°{-(°Ke)}]) = preposizioni superiori integrate con « DI »

Le preposizioni superiori non integrate con semplici potrebbero corrispondere all'inserimento della « Ke » semplicemente nella” (9), ma è più verosimile che intervenga invece la « v 9 = ACCUSATT(IVO). Spesso nelle grammatiche si legge che le preposizioni superiori in origine erano avverbi e che, in definitiva, ancora oggi sono legate con parole appartenenti a tale categoria grammaticale, essendo indifferente dire, ad esempio, « mangiare con voracità » e « mangiare voracemente ». Affermazioni del genere sono inesatte perché gli « avverbi » sono correlati aventi forma aggettivale e le « preposizioni » correlatori; ma nel riconoscimento di un collegamento c'è un fondo di giustezza. Infatti: 1) vengono usati sintatticamente come avverbi gli aggettivi ottenuti per inserimento in « g », che appunto perciò ‘chiamo « aggettivi avverbiali », sia che abbiano forma morfemica neutra che in -MENTE; 2) le categorie elementari « Ke » vengono mutate in aggettivi di questa forma quando intervengono nella costituzione dei correlatori corrispondenti alle preposizioni superiori. Infatti l'inserimento di una « Ke » nella (9) (o in un suo derivato) è equivalente alla combinazione di « s » (o di una « K s ») con l'aggettivo avverbiale « g&Ke »: 9&Ke = s X (g&Ke) = {⬜-(°Ke)}

Per tale motivo l'analisi semantica delle preposizioni superiori interessa oltre le categorie « Ke » anche i corrispondenti aggettivi avverbiali « g&Ke » con la loro specifica semanticità. Non abbiamo parlato a suo tempo (p. 95) di questi costrutti dovendo occuparcene ora. Infatti è opportuno metterli a confronto con le relative preposizioni. 181

Consideriamo prima i derivati dei verbi elementari ricordando che i loro derivati «(g&Ke)» sono: g&12= SVOLGIMENTALMENTE g&21 = SVOLGENTE g&15 = SEPARATAMENTE g&22= SEPARANTE g&18 = CONGIUNTAMENTE g&23 = CONGIUNGENTE

Combinando con la (13) questi derivati od effettuando l'operazione equivalente dell'inserimento delle « K » (cioè i verbi (12), (21), (15), (22), (18), (23)) nell'« accusat(ivo)» si passa a: FINO (o SINO) = 13 Xx (g&12) = v 9&12 VERSO = 13 x (g&21) = v 9&21 TRANNE (o FUORCHE) = 13 x (g&15) = v 9&15 SENZA = 13 x (g&22) = v 9&22 LUNGO = 13 X (g&18) = v 9&18 RASENTE = 13 x (g&23) = v 9&23

Inserendo nella (9) la (12) AVER SVOLTO si ha il « FINO » appunto nel senso di « fin dove si è svolto ». Analogamente inserendo la (15) AVER SEPARATO si ha TRANNE (o FUORCHE) ed inserendo la (18) AVER CONGIUNTO il LUNGO comportante appunto un dinamismo che si svolge congiuntamente (ad esempio, « camminava lungo il muro »), omonimo con l'aggettivo legato con « lunghezza » (p. 244). Analogamente nel caso dello « svolgente », cioè della combinazione della (13) con « g&21» e perciò dell'inserimento della (21) si ha VERSO, nel caso del « separante » SENZA ed in quello del « congiungente » RASENTE. Inoltre dai tre verbi all'infinito presente con il triplice arricchimento mediante « v », « s » e « g », si hanno derivati aggettivali di facile interpretazione, come « v (g&21) = (v g)&21 = 14&21 ». Essi sono riepilogati nella seguente tabella standard:

182

L'aggettivo avverbiale ATTRAVERSO richiede un duplice dinamismo « v », cioè iniziale e finale essendo lo « svolgere » in corso; ACCANTO ha la duplice separazione, corrispondente a « div(erso) » in cui si inserisce il « separare »; INSIEME la duplice aggiunta, sfo. ciante in una soluzione quantitativa. Lungo le diagonali da destra a sinistra troviamo anzitutto la coppia in cui in partenza si ha un dinamismo « v » e segue un « separare » e in partenza un costituito « s » a cui segue lo « svolgere ». Verosimilmente si ha nell'un caso ACCOSTO e nell'altro PRESSO. Se invece la soluzione dinamica è legata con quella congiuntiva dovremmo essere nel caso di INTORNO e CIRCA. Il passaggio « v » vincolato, onde con esso non ci si allontana, tipico dell'« intorno », sfocia in una dimensione temporale. Invece CIRCA ha un significato quantitativo, corrispondente ad « approssimativamente », « presso a poco », ecc. Infine la coppia di tipo statico, in quanto manca la « v », corrisponde a VICINO e LONTANO. Nel primo caso si ha una situazione costituita e quindi diversa in cui sopravviene il « congiungere », nel secondo una collegata (quantitativa) in cui sopravviene il « separare ». La corrispondente tabella standard delle preposizioni è:

Passando dalle preposizioni provenienti dai verbi elementari a quelle che derivano dalle altre « Ke », diamo anzitutto il seguente elenco degli aggettivi avverbiali e delle preposizioni corrispondenti:

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Nella grande maggioranza dei casi l'interpretazione semantica è immediata. Si ha così indirettamente un'importante verifica anche dell'interpretazione a suo tempo proposta per le 26 categorie elementari. Infatti la semanticità di queste categorie si trasferisce in quella dei derivati aggettivo-avverbiali e da questi costrutti passa alle preposizioni, il cui elenco ci è dato dalla grammatica. I significati di PRIMA e di DOPO sono collegati con quelli degli aggettivi omonimi derivanti rispettivamente dalla (4) e dalla (11). Bisogna però tenere presente che il costrutto «(g&4)» corrisponde in effetti al numero ordinale « primo ». Ritengo che metamorfizzando in esso la « g », si passi a PRIMA = 20&4, da cui si ottiene quindi il correlatore inserendo in DI = s 9&g >6