Aegyptiaca et Coptica: Studi in onore di Sergio Pernigotti 9781407308357, 9781407338217

A collection of papers in honour of Sergio Pernigotti.

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Aegyptiaca et Coptica: Studi in onore di Sergio Pernigotti
 9781407308357, 9781407338217

Table of contents :
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Opening Quotation
INDICE
LE PUBBLICAZIONI DI SERGIO PERNIGOTTI
ICONOGRAFIA DEL “PATECO SU COCCODRILLI” SU UNA GEMMA MAGICA
ABITANTI DELLA COLCHIDE IN EGITTO? I PERCORSI DI UN ERRORE DI LETTURA
TRA BOLOGNA E PISA UNA LETTERA INEDITA DEL CARDINALE MEZZOFANTI A IPPOLITO ROSELLINI
UN’INSOLITA FIGURA DI “CONCUBINA” IN TERRACOTTA: LA SUONATRICE DI TAMBURO
GIOVANNI LUIGI MINGARELLI E IL «PRIMO TENTENNARE PER VIE NUOVE»: GLI STUDI COPTI A BOLOGNA NELLA SECONDA METÀ DEL XVIII SECOLO E LA NUOVA STAGIONE DEI CARATTERI TIPOGRAFICI COPTI
UN’ANTICA TEORIA DELLA SUCCESSIONE PATRIARCALE IN ALESSANDRIA
NOTE SU BES LE SCULTURE DEL MUSEO EGIZIO DI FIRENZE E DEL METROPOLITAN MUSEUM OF ART
UN INNO AD ARENSNUFI A FILE E LA NATURA DEL DIO NEL CONTESTO DELL’ISOLA
IL SEREKH STORIA DI UN SEGNO MILLENARIA
TROIS DOCUMENTS COPTES DE L’ISTITUTO PAPIROLOGICO G. VITELLI DE FLORENCE
I SANTI CAVALIERI NELLA PITTURA MONASTICA COPTA
PERSONNAGES REPRÉSENTÉS AVEC LES ATTRIBUTS DE LEUR FONCTION DANS LES SOURCES DE LA TROISIÈME PÉRIODE INTERMÉDIAIRE ET DE LA BASSE ÉPOQUE
DES STELES ET DES FEMMES DANS LE DELTA ORIENTAL A PROPOS DE QUELQUES STELES DEMOTIQUES FUNERAIRES
A PARTIRE DA IT. “MARRA”
L’ARCHITETTURA EGIZIANA DELLE ORIGINI (CA. 4500-2200 A.C.): PROPOSTE PER UN’ARCHEOLOGIA COGNITIVA DELL’ANTICO EGITTO
RIFLESSIONI SULL’URBANISTICA DI BAKCHIAS
THE LOST TOMB OF PTAHMES
NOTA SU UN POGGIATESTA DI UNA COLLEZIONE PRIVATA
ICONOGRAFIA, RELIGIONE E IDEOLOGIA A KERMA, ALTA NUBIA, 2000-1400 A.C.
TESTI E DOCUMENTI AMMINISTRATIVI DEL TEMPIO DI NARMUTHIS
THROUGH CHANGE AND TRADITION: THE RISE OF THEBES DURING THE SECOND INTERMEDIATE PERIOD
TRADIZIONI COPTE SUI TRE GIOVANI DI BABILONIA
ZAWIET EL-MAYETIN NEGLI ARCHIVI VARILLE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO (E ALTRI RICORDI)
IL PITTORE PELAGIO PALAGI E L’EGITTOLOGIA “IN MINIATURA”: AMULETI, SCARABEI E PLACCHETTE DELLA TERZA COLLEZIONE NIZZOLI
L’IMPEGNO ITALIANO NEL FAYYUM TRA ARCHEOLOGIA, SALVAGUARDIA E SVILUPPO
NOTE DA RILEGGERE
Λόγιμα ἱερὰ λογίμῳ Κυρίῳ
A PROPOSITO DI ALCUNI TESTI E MONUMENTI DEL TERZO PERIODO INTERMEDIO E DELL’EPOCA TARDA
ROME AND PTOLEMAIC EGYPT: INITIAL CONTACTS
THE TURIN STATUE OF THE SERVANT OF NEITH WENNEFER

Citation preview

BAR S2264 2011

Aegyptiaca et Coptica Studi in onore di Sergio Pernigotti

BUZI, PICCHI & ZECCHI (a cura di)

a cura di

P. Buzi D. Picchi M. Zecchi

AEGYPTIACA ET COPTICA

B A R

BAR International Series 2264 2011

Aegyptiaca et Coptica Studi in onore di Sergio Pernigotti

a cura di

P. Buzi D. Picchi M. Zecchi

BAR International Series 2264 2011

Published in 2016 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 2264 Aegyptiaca et Coptica © The editors and contributors severally and the Publisher 2011 Statua a nome di Uahibra, XXVI dinastia (inv.n. MCABo_EG 1820) © Museo Civico Archeologico, Bologna

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The authors' moral rights under the 1988 UK Copyright, Designs and Patents Act are hereby expressly asserted. All rights reserved. No part of this work may be copied, reproduced, stored, sold, distributed, scanned, saved in any form of digital format or transmitted in any form digitally, without the written permission of the Publisher.

ISBN 9781407308357 paperback ISBN 9781407338217 e-format DOI https://doi.org/10.30861/9781407308357 A catalogue record for this book is available from the British Library BAR Publishing is the trading name of British Archaeological Reports (Oxford) Ltd. British Archaeological Reports was first incorporated in 1974 to publish the BAR Series, International and British. In 1992 Hadrian Books Ltd became part of the BAR group. This volume was originally published by Archaeopress in conjunction with British Archaeological Reports (Oxford) Ltd / Hadrian Books Ltd, the Series principal publisher, in 2011. This present volume is published by BAR Publishing, 2016.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti… Una vita così intensamente dedicata all’Egittologia, quale è quella di Sergio Pernigotti, merita di essere celebrata, soprattutto perché il suo sviluppo narrativo, tutt’altro che esaurito, continua a fluire in sempre nuovi percorsi di ricerca e di curiosità scientifica in chi è venuto a contatto con essa. Con riconoscenza per esserne parte.

Bologna-Roma, marzo 2011 Paola Buzi, Daniela Picchi, Marco Zecchi

N.B: Pur nella sostanziale uniformità delle norme bibliografiche adottate, gli autori sono stati lasciati liberi di utilizzare nei singoli contributi prassi abbreviative e redazionali peculiari delle proprie tradizioni linguistico-culturali; la medesima libertà è stata accordata per le modalità di citazione dei nomi degli dèi.

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

INDICE Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti…

i

Bibliografia di Sergio Pernigotti

v

Alessia Amenta Iconografia del “pateco su coccodrilli” su una gemma magica

1

Guido Bastianini Abitanti della Colchide in Egitto? I percorsi di un errore di lettura

15

Marilina Betrò Tra Bologna e Pisa. Una lettera inedita del cardinale Mezzofanti a Ippolito Rosellini

21

Edda Bresciani Un’insolita figura di “concubina” in terracotta: la suonatrice di tamburo

27

Paola Buzi Giovanni Luigi Mingarelli e il «primo tentennare per vie nuove»: gli studi copti a Bologna nella seconda metà del XVIII secolo e la nuova stagione dei caratteri tipografici copti

33

Alberto Camplani Un’antica teoria della successione patriarcale in Alessandria

59

Giuseppina Capriotti Vittozzi Note su Bes. Le sculture del Museo Egizio di Firenze e del Metropolitan Museum of Art

69

Emanuele M. Ciampini Un inno ad Arensnufi a File e la natura del dio nel contesto dell’isola

85

Silvio Curto Il Serekh. Storia di un segno millenaria

103

Alain Delattre Trois documents coptes de l’Istituto Papirologico G. Vitelli de Florence

117

Loretta Del Francia Barocas I santi cavalieri nella pittura monastica copta

125

Herman De Meulenaere Personnages représentés avec les attributs de leur fonction dans les sources de la troisième période intermédiaire et de la Basse Époque

151

Didier Devauchelle - Ghislaine Widmer Des stèles et des femmes dans le Delta oriental. A propos de quelques stèles démotiques funéraires

155

Sergio Donadoni A partire da it.“marra”

169

Rodolfo Fattovich L’architettura egiziana delle origini (ca. 4500-2200 a.C.): proposte per un’archeologia cognitiva dell’Antico Egitto

171

Enrico Giorgi Riflessioni sull’urbanistica di Bakchias

183

iii

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Christian Greco The lost tomb of Ptahmes

195

Maria Cristina Guidotti Nota su un poggiatesta di una collezione privata

205

Andrea Manzo Iconografia, religione e ideologia a Kerma, Alta Nubia, 2000-1400 a.C.

209

Angiolo Menchetti Testi e documenti amministrativi dal tempio di Narmuthis Gianluca Miniaci Through change and tradition: the rise of Thebes during the Second Intermediate Period

225 235

Tito Orlandi Tradizioni copte sui “Tre Giovani di Babilonia”

251

Patrizia Piacentini Zawiet el-Mayetin negli Archivi Varille dell’Università degli Studi di Milano (e altri ricordi)

261

Daniela Picchi Il pittore Pelagio Palagi e l’egittologia “in miniatura”: amuleti, scarabei e placchette della terza collezione Nizzoli

277

Rosanna Pirelli L’impegno italiano nel Fayyum tra archeologia, salvaguardia e sviluppo

303

Gloria Rosati Note da rileggere

309

Silvia Strassi ȁȩȖȚȝĮ ÚİȡÀ ȜȠȖȓȝz Ȁȣȡȓz

321

Günter Vittmann A proposito di alcuni testi e monumenti del Terzo Periodo Intermedio e dell’Epoca Tarda

335

Richard Westall Rome and Ptolemaic Egypt: initial contacts

349

Marco Zecchi The Turin Statue of the servant of Neith Wennefer

361

iv

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

LE PUBBLICAZIONI DI SERGIO PERNIGOTTI 1

Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 22, 253-265.

(a cura di P. Buzi – D. Picchi – M. Zecchi) 1974

1968

Ricerche su personaggi egiziani di epoca etiopica e saitica. Aegyptus 54, 141-156.

Il generale Potasimto e la sua famiglia. Studi Classici e Orientali 17, 251-264. Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 17, 237-250.

1975

1970

Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 24, 85-92.

Una statua di Pakhraf (Cairo J.E. 37121). Rivista degli Studi Orientali 44, 259-271.

Recensione a T. Orlandi, Papiri copti di contenuto teologico, Wien 1974. Aegyptus 55, 329-330.

1971

Recensione a T. Orlandi, Lettere di S. Paolo in coptoossirinchita, Milano 1974. Aegyptus 55, 331-333.

Monumenti egiziani al Museo dell’Opera della Primaziale di Pisa. Studi Classici e Orientali (19701971), 19-20, 123-134.

Stele cristiane da Sakinya nel Museo di Torino. Oriens Antiquus 14, 21-55. Un nuovo testo giuridico in ieratico “anormale”. Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale 75, 73-95.

Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 19-20 (1970-1971), 386-393. Una stele funeraria copta. Oriens Antiquus 10, 53-56.

1976

Un papiro demotico di epoca saitica nel Kunsthistorisches Museum di Vienna (Inv. n. 3853), in Oriens Antiquus 10, 177-182.

Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 25, 66-74.

1972

Recensione a F. De Cenival, Cautionnements démotiques du début de l’époque ptolémaïque, Paris 1973. Aegyptus 56, 308-310.

Due sacerdoti egiziani di epoca tarda. Studi Classici e Orientali 21, 304-313.

Recensione a C.J. Gardberg, Late Nubian Sites, Helsinki 1970. Aegyptus 56, 312-313.

Il vocabolario demotico. In Textes et langages de l’Egypte pharaonique I, 203-208. Le Caire.

Recensione a The Literature of Ancient Egypt. An Anthology of Stories, Instructions and Poetry, New Haven and London 1972. Aegyptus 56, 306-308.

Notizia preliminare su alcuni blocchi di Assuan. Studi Classici e Orientali 21, 314-320.

Recensione a T. Orlandi, A. Campagnano, Vite dei monaci Phif e Longino, Milano 1976. Aegyptus 56, 311312.

Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 21, 370-379.

Recensione a T.G.H. James, Corpus of Hieroglyphic Inscriptions in the Brooklyn Museum, Brooklyn 1974. Oriens Antiquus 15, 166-167.

Recensione a Kunst und Geschichte Nubiens in Christlicher Zeit, Recklinghausen 1970. Aegyptus 52, 211-214. 1973

Tre statue egiziane nel Museo Civico di Bologna. Il Carrobbio 2, 309-316.

Nota ad alcuni ostraka demotici della collezione pisana. Studi Classici e Orientali 22, 172-174.

1977 I “coni funerari” del Museo Civico di Bologna. Il Carrobbio 3, 331-336.

1 Questo elenco non comprende la messe di articoli di alta divulgazione che Sergio Pernigotti ha pubblicato in note riviste specializzate, quali Archeo, Il Mondo dell’Archeologia e Pharaon.

v

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

I documenti giuridici del cosiddetto “archivio di Scenute”: problemi di papirologia copta nell’Egitto bizantino e arabo. Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina, Ravenna, 281-291.

Recensione a E.A.E. Reymond, Embalmers’ Archives from Hawara, Oxford 1973. Oriens Antiquus 17, 157160. Recensione a I. Rosellini, Monumenti dell’Egitto e della Nubia, I-III, Genève 1975 (reprint). Oriens Antiquus 17, 323.

I sarcofagi, gli usciabti e i canopi di Ciannehebu. In La tomba di Ciennehebu, capo della flotta del re, 43-64. Pisa.

Recensione a J. Assmann, Ägyptische Hymnen und Gebete, Zurich 1975. Aegyptus 58, 289-290.

Ostraka demotici da Ossirinco. Studi Classici e Orientali 27, 43-72.

Ostraka demotici da Ossirinco. Egitto e Vicino Oriente 1, 67-73.

Recensione a Nur el-Din, The Demotic Ostraka in the National Museum of Antiquities at Leiden, Leiden 1974. Oriens Antiquus 16, 162-168.

Testi demotici minori. Enchoria 8, 159-163. Tre stele cristiane dall’Egitto. Epigraphica 40, 122-128.

Recensione a M. Valloggia, Recherche sur les “Messagers” (WPWTYW) dans les sources égyptiens profanes. Aegyptus 57, 248-252.

Un ostrakon demotico della collezione pisana. In Book of 50th Anniversary of Archaeological Studies in Cairo University, 35-42. Cairo 1978.

Recensione a H. Beinlich, Studien zu den “Geographischen Inschriften” (10.-14. O. Aeg. Gau), Bonn 1976. Aegyptus 57, 252-254.

1979 Un frammento di papiro copto. Aegyptus 57, 96-100. Ancora sulla stele Firenze 1639 (2507). Egitto e Vicino Oriente 2, 21-37.

Un frammento di statua saitica nel Museo Civico di Bologna. Studi Classici e Orientali 26, 271-276.

Documenti di cultura scolastica nell’Antico Egitto. Antiqua 12, 7-18.

Un mattone con iscrizione magica nel Museo Civico di Bologna. Oriens Antiquus 16, 35-40.

Il codice copto. Nuovi papiri magici in copto, greco e aramaico, Studi Classici e Orientali 29, 1-34, 36-39. 1978 Nota. Scarabeo della tomba CV 1. In O. Pancrazzi, Cavallino I. Scavi e ricerche 1964-1967, 227-229. Galatina 1979.

Addendum a Ciennehebu. Aegyptus 58, 102-105. A proposito del cono funerario Corpus n. 488. Egitto e Vicino Oriente 1, 119-123.

Ostraka demotici da Ossirinco. Egitto e Vicino Oriente 2, 80-85.

A proposito di Sais e delle sue divinità. Studi Classici e Orientali 28, 223-235.

Recensione a C. Aldred, Akhenaton. Il faraone del sole, Roma 1979. Antiqua 14, 102-104.

I blocchi decorati e iscritti. In E. Bresciani, S. Pernigotti (a cura di), Assuan, 153-313. Pisa 1978.

Recensione a H.D. Schneider, Shabtis, Leiden 1977. Bibliotheca Orientalis 36, 315-317.

I graffiti copti. In E. Bresciani, S. Pernigotti (a cura di), Assuan, 146. Pisa. La statuaria egiziana del Museo Civico di Bologna. Annali della Scuola Normale Superiore, serie II, vol. 8, 323-333.

Recensione a G.M. Browne, Michigan Coptic Texts, Barcelona 1979. Aegyptus 59, 196-198.

Le statue egiziane del Museo Civico di Bologna: due schede di Catalogo. Il Carrobbio 4, 385-392.

Recensione a T. Orlandi (et alii), Passione e miracoli di S. Mercurio, Milano 1976. Quattro omelie copte, Milano 1977. Il dossier copto del martire Psote, Milano 1978. Aegyptus 59 (1979), 293-295.

Recensione a E. Acquaro, Amuleti egiziani ed egittizzanti del Museo Nazionale di Cagliari, Roma 1977. Aegyptus 58, 291-292.

Un frammento di papiro copto. Nuovi papiri magici in copto, greco e aramaico, Studi Classici e Orientali 29, 35.

vi

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

1980

1982

Bende di mummia con il “Libro dei Morti” da Saqqara. Egitto e Vicino Oriente 3, 99-115.

La collezione egiziana. In Il Museo Civico Archeologico di Bologna, 116-147. Bologna 1982.

Il funzionario menfita Padipep. Il Carrobbio 6, 183-189.

Le collezioni egittologiche pisane. In Atti del Convegno: Ippolito Rosellini, passato e presente di una disciplina, 63-74. Pisa.

La statuaria egiziana nel Civico Museo Archeologico di Bologna. Bologna.

(con D. Amaldi) Pagine di un codice copto-arabo nel Museo Nazionale di S. Matteo a Pisa. Pisa.

Ostraka demotici da Ossirinco. Egitto e Vicino Oriente 3, 116 ss.

Recensione a E. Boswinkel, P.W. Pestman, Textes grecs, démotiques et bilingues, Lugdunum Batavorum 1978. Aegyptus 62, 268-272.

Un frammento di statua egiziana da Rimini. Atti e Memorie della Deputazione di Storia patria per le province di Romagna, nuova serie, 29-30 (1978-1979), 19-24.

Recensione a T. Orlandi, Eudoxia and the Holy Sepulchre, Milano 1980. Aegyptus 62, 272-273.

Un ostrakon copto da Saqqara. Egitto e Vicino Oriente 3, 167-173.

Recensione a T. Orlandi, Omelie copte, Torino 1981. Aegyptus 62, 272-274.Un nuovo sacerdote renep da Saqqara. Egitto e Vicino Oriente 5, 9-17.

1981 Recensione a W.F. Reinecke (ed.), First International Congress of Egyptology - Acts, Berlin 1979. Aegyptus 62, 265-268.

Copti, in Enciclopedia Europea Garzanti, s.v. Documenti relativi alle imposte fondiarie nell’Egitto di età saitica. Orientalia Lovanienia Periodica 12, 135-145.

1983 Due papiri demotici di età persiana. In E. Bresciani, G. Susini, G. Geraci (a cura di) Scritti in onore di Orolina Montevecchi, 283-294. Bologna.

Frammenti del Nuovo Testamento in copto nella Papyrurussammlung di Vienna, in Papyrus Erzherzog Rainer (P. Rainer Cent.), 185-187. Wien 1983.

Frammenti copti a Pisa. Egitto e Vicino Oriente 4, 223231.

I sarcofagi, i mattoni magici, il frammento di statua. Le bene di mummia. In E. Bresciani (et alii), La tomba di Boccori, I. La galleria di Padineit, 51-102. Pisa.

In margine al dossier di Hapuseneb. Egitto e Vicino Oriente 4, 171-179.

(con E. Bresciani e M.C. Betrò), Ostraka demotici da Narmuti, I (1-33). Pisa.

I papiri egiziani del Museo Civico di Bologna. Il Carrobbio 7, 341-346. La benda di mummia con il “Libro dei Morti” del Museo Civico di Bologna. Egitto e Vicino Oriente 4, 125-141.

Recensione a M.C. Guidotti, Arte e società nell’Antico Egitto, Bologna 1983. Aegyptus 63, 300-303.

L’iscrizione egiziana di S. Stefano: pagine di storia antica e moderna. Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna, nuova serie, 31-32 (1980-1981), 1-28.

Recensione a N. Santoro, La stele dell’anno 400, Bologna 1982. Aegyptus 63, 300-303. Una rappresentazione religiosa egiziana su uno scarabeo con iscrizione fenicia. In Atti del I Congresso Internazionale di Studi Fenici e Punici II, 583-587. Roma.

Osservazioni sulla tipologia delle stele copte. Il XVIII Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina, 239253. Ravenna.

Una tavoletta lignea con testo magico in copto. Egitto e Vicino Oriente 6, 75-92.

Ostraka demotici da Ossirinco. Egitto e Vicino Oriente 4, 186-191. (con E. Bresciani, G. Susini, G. Geraci, a cura di), Scritti in onore di Orsolina Montevecchi. Bologna.

vii

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

1984

Recensione Ramadan el-Sayed, La déesse Neith de Saîs, 2 voll., Le Caire 1982, Bibliotheca Orientalis 62, 52-57.

Dagli archivi demotici del Fayyum. In Atti del XVII Congresso Internazionale di Papirologia, 727-732. Napoli.

Saitica II. Egitto e Vicino Oriente 8, 7-18. Tra alimentazione e religione nell’Antico Egitto: un animale “maledetto”. In L’alimentazione nell’Antichità, 149-166. Parma.

Il “copto” degli ostraka di Medinet Madi. In Atti del XVII Congresso Internazionale di Papirologia, 787-791. Napoli. Materiali egiziani. In S. Settis (a cura di), Camposanto monumentale di Pisa. Le Antichità, II, 47-59. Modena.

1986 Ancora sull’iscrizione egiziana di S. Stefano. In Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna, nuova serie, 35, 37-45.

Recensione a E. Hornung, O. Keel, Studien zu Altägyptischen Lebenslehren, Göttingen 1979. Oriens Antiquus 23, 135-139.

Sulle tracce della scrittura: l’Antico Egitto. In G. Cardona (a cura di), Sulle tracce della scrittura, 25-45. Bologna.

Recensione a B. Jaeger, Essai de classification et datation des scarabées Menkheperre, Fribourg 1982. Rivista di Studi Fenici 12, 210-213.

1987 Recensione a J.M. Kruchten, Le décret d’Horemheb, Bruxelles 1981. Aegyptus 64, 270-273.

Antico Egitto. Bibliografia. In Enciclopedia Europea Garzanti, XIII, s.v.

Recensione a T.O. Lambdin, Introduction to Sahidic Coptic, Mercer Univ. Press 1983. Aegyptus 64, 284-286.

Giambattista Brocchi ad Assuan. Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 1, 47-62.

Recensione a E.A.E. Reymond, From Ancient Egyptian Hermetic Writings, Wien 1977. Oriens Antiquus 23, 132135.

Gli usciabti di Tsentahe, detta Tsamtek. Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 1, 1-5. I monumenti egiziani ritrovati in Italia: aspetti di una problematica. In Gli interscambi culturali e socioeconomici fra l’Africa settentrionale e l’Europa mediterranea. Atti del Congresso I, 249-259. Napoli.

Saitica I. Egitto e Vicino Oriente 7, 23-40. Schede catalografiche. In Dalla stanza delle Antichità al Museo Civico. Catalogo della mostra, 152, 167-168, 200202. Bologna. 1985

L’avventura egiziana di Giambattista Brocchi. In Atti del Convegno: l’opera scientifica di G.B. Brocchi, 103-124. Bassano del Grappa.

Il “Libro dei Morti” su bende di mummia (= Saqqara II, 1). Pisa.

(con E. Acquaro), Studi di Egittologia e Antichità puniche 1. Pisa.

I papiri copti dell’Università Cattolica di Milano, I. Aegyptus 65, 67-105.

1988

I più antichi rapporti tra l’Egitto e i Greci (secoli VII-IV a. C.). In Egitto e società antica, 75-91. Milano.

Fenici ed Egiziani. In S. Moscati (a cura di), I Fenici, 522-531. Milano.

Le storie di 45 stele egiziane. Bologna incontri XVI, fascicolo 5, 33-34.

I papiri copti dell’Università Cattolica di Milano, II Aegyptus 68 (1988), 177-190.

Personaggi di epoca tarda negli usciabti del Museo di Bologna. In S.F. Bondì, S. Pernigotti, F. Serra, A. Vivian (a cura di), Studi in onore di E. Bresciani, 403-412. Pisa.

Leggere i geroglifici. Bologna. L’opera egittologica di Giovanni Kminek-Szedlo. Studi di Egittologia e Antichità Puniche 2, 53-71.

Recensione a D. Devauchelle, Ostraka démotique du Musée du Louvre, T. I, 1-2, Le Caire 1983. Bibliotheca Orientalis 42, 593-596.

Per un capitolo di storia economica dell’Egitto antico: l’età saitica. In Stato, economia, lavoro nel Vicino Oriente Antico, 79-83. Milano. viii

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Recensione a A.R. Mandrioli Bizzarri, La collezione di gemme del Museo Civico Archeologico di Bologna, Bologna 1987. Rivista di Studi Fenici XVI (1988), 265268.

(con E. Acquaro), Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 8. Pisa. Testo magico In R. Pintaudi, P.J. Sijpesteijn, Tavolette lignee e cerate da varie collezioni, 59-69, n. 13. Firenze.

(con E. Acquaro), Studi di Egittologia e Antichità Puniche 2. Pisa. 1991 (con E. Acquaro), Studi di Egittologia e Antichità Puniche 3. Pisa.

(a cura di), Aegyptiaca Bononiensia 1. Pisa.

Una tavola per offerte nel Museo di Reggio Emilia. Studi di Egittologia e Antichità Puniche 3, 1-11.

Amalia Nizzoli e le sue “Memorie sull’Egitto”. Aegyptiaca Bononiensia 1, 3-84.

Una “Vita” di Ippolito Rosellini. In Discussions in Egyptology 11, 43-51.

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Il generale Amasis e la spedizione nubiana di Psammetico II. OCNUS 3, 137-142.

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(et alii) Museo Civico Archeologico di Bologna. La collezione egiziana. Milano.

(con E. Acquaro) Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 14. Pisa.

Qualche osservazione in tema di coni funerari. OCNUS 2, 129-138.

Un blocco di Horiraa? Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 14, 1-5.

(con E. Acquaro) Studi di Egittologia e Antichità Puniche 13. Pisa.

x

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

1996

preliminare della campagna di scavo del 1996, 53-6. Pisa-Roma.

(a cura di) Amalia Nizzoli, Memorie sull’Egitto. Napoli. Bakchias IV: due frammenti di scultura. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di), Bakchias IV. Rapporto preliminare della campagna di scavo del 1996, 63-67. Pisa-Roma.

Dei e templi nell’Antico Egitto. Imola. (con Mario Capasso, a cura di), Bakchias III. Rapporto preliminare della campagna di scavo del 1995. Pisa.

Egitto. Viaggio nella terra dei faraoni (= Monografie di Archeo) Roma.

Bakchias III, 1995. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di), Bakchias III. Rapporto preliminare della campagna di scavo del 1995, 3-7. Pisa.

(con M. Capasso), Excavation at Bakchias (Fayyum). Imola.

(con M. Capasso), Due ostraka da Bakchias. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di), Bakchias III. Rapporto preliminare della campagna di scavo del 1995, 79-81. Pisa.

Il papiro egiziano della Biblioteca Estense di Modena. Studi di Egittologia e di Antichità puniche 16, 1-3.

Introduzione alla papirologia copta. In Atti del V seminario internazionale di papirologia, 257-264. Lecce.

La Missione Archeologica Congiunta delle Università di Bologna e di Lecce a Kom Umm el-Atl (Fayyum Egitto). Terza Campagna - ottobre 1995. Rapporto preliminare. OCNUS 4, 275-279.

La “legione straniera” nell’Egitto della XXVI dinastia. In Alle soglie della classicità. Il Mediterraneo tra tradizione e innovazione I, 355-363. Pisa - Roma.

(con P. Mattazzi), La placchetta con triade di divinità egiziane del Museo di Cagliari: per una riconsiderazione. OCNUS 4 (1996) [1997], 125-136.

Les rapports entre les Grecs et l’Egypte à l’Époque Saîte: les aspects juridiques et institutionnels. Méditerranées 6/7, 87-101.

La topografia del Fayyum nei suoi aspetti archeologici. Papyrologica Lupiensia 5, 237-247. One Hundred Years after the First Excavation at Bakchias. In S. Pernigotti, M. Capasso, Excavation at Bakchias (Fayyum), 4-12. Imola.

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Recensione a R. Pintaudi, P. J. Sijpesteijn, Ostraka greci da Narmouthis (OGN 1), Pisa 1993. OCNUS 4 (1996), 286-291.

Tre anni di scavi a Bakchias. In Atti del II Convegno Nazionale di Egittologia e Papirologia, 25-33. Siracusa.

(con E. Acquaro), Studi di Egittologia e di Antichità puniche 16. Pisa. Tre Sobek del Fayyum. Simblos 2, 165-174.

1997 Ancora su Deir Abu Lifa. Papyrologica Lupiensia 5, 251258.

1998

A proposito di un libro e di una recensione. Studi di Egittologia e di Antichità puniche 16, 61-71.

(con Mario Capasso, a cura di), Bakchias V. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1997. PisaRoma.

(con M. Capasso, a cura di), Bakchias IV. Rapporto preliminare della campagna di scavo del 1996. PisaRoma.

Bakchias V, 1997. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di) Bakchias V. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1997, 3-6. Pisa-Roma.

Bakchias IV, 1996. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di), Bakchias IV. Rapporto preliminare della campagna di scavo del 1996, 3-6. Pisa-Roma.

Claudia Dolzani e il Fayyum: tra storia e archeologia. Quattro anni di scavi a Bakchias. In Incontro di Egittologia in memoria di Claudia Dolzani, 11-20. Trieste 1997 [1998].

Bakchias IV: le iscrizioni geroglifiche. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di), Bakchias IV. Rapporto

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Gli scavi della missione archeologica congiunta delle Università di Bologna e di Lecce in Egitto. Quarta campagna, ottobre 1996. OCNUS 5, 273-274.

Five Seasons at Bakchias. Egyptian Archaeology 14, 2627. Frammenti da Bakchias. OCNUS 6, 77-81.

Il rilievo di Hormin nel Museo Civico Archeologico di Bologna. In L’impero ramesside, 143-150. Roma.

I geroglifici come sistema del mondo. In W. Tega (a cura di), Le origini della modernità I, 15-30. Firenze.

Il sacerdote menfita Kanefer. OCNUS 5, 181-185. I Greci nell’Egitto della XXVI dinastia. Imola. (con M. Capasso), La missione archeologica a Kom Umm el-Atl (Bakchias). In Missioni Archeologiche Italiane, 41-44. Roma.

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La storiografia In A.M. Donadoni Roveri, F. Tiradritti (a cura di), Kemet. Alle sorgenti del tempo, 61-64. Milano.

La collezione egiziana del Museo Civico Archeologico di Bologna. Ricerche di Egittologia e di Antichità copte 1, 27-38.

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Problemi della topografia di Bakchias. In Atti del Convegno Internazionale: Archeologia e Papiri nel Fayyum, 197-210. Siracusa.

La magia del quotidiano nell’Egitto copto: introduzione. Ricerche di Egittologia e di Antichità copte 1, 77-94.

Recensione a E.A. Arslan (et alii), Iside. Il mito, il mistero, la magia. OCNUS 5, 287-291.

Qualche osservazione sugli ostraka di Medinet Madi. Papyrologica Lupiensia 7, 117-130.

Recensione a M.R.M. Hasitzka, Ein neues Archiv koptischer Ostraka, Wien 1995. Aegyptus 76, 189-191.

(con P. Davoli), Ricerche di Egittologia e di Antichità copte 1. Imola.

Recensione D.W. Young, Coptic Manuscripts from the White Monastery, Wien 1993. Aegyptus 76, 191-192.

(con E. Acquaro), Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 18. Pisa-Roma.

Statua di personaggio anonimo. In A.M. Donadoni Roveri, F. Tiradritti (a cura di), 273. Kemet. Alle sorgenti del tempo. Milano.

Una nuova iscrizione geroglifica da Bakchias. Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 18, 1-5. Una nuova iscrizione geroglifica da Bakchias. In S. Pernigotti, M. Capasso, P. Davoli (a cura di), Bakchias VI. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1998, 87-91. Pisa-Roma.

(con E. Acquaro), Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 17. Pisa-Roma. Una testimonianza del Cristianesimo a Bakchias ? Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 17, 21-25. Un frammento di raffigurazione religiosa egiziana da Bakchias. Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 17 , 9-14.

Un frammento di raffigurazione religiosa egiziana da Bakchias. In S. Pernigotti, M. Capasso, P. Davoli (a cura di), Bakchias VI. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1998, 81-86. Pisa-Roma.

Un ostrakon copto in collezione privata. Studi di Egittologia e di Antichità Puniche 17, 15-19.

2000 (con M. Capasso e P. Davoli, a cura di), Bakchias VII. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1999. Imola.

1999 (con M. Capasso e P. Davoli), Bakchias VI. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1998. PisaRoma.

Bakchias VII, 1999. In S. Pernigotti, M. Capasso, P. Davoli (a cura di), Bakchias VII. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1999, 7-14. Imola.

Bakchias VI, 1998. In S. Pernigotti, M. Capasso, P. Davoli (a cura di), Bakchias VI. Rapporto preliminare della Campagna di Scavo del 1998, 7-16. Pisa-Roma

Bakchias: il sito e gli scavi precedenti. In Sergio Pernigotti (a cura di), Gli dèi di Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia xii

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 5), 41-57. Imola.

Recensione a Tefnin (ed.), La peinture égyptienne, un monde de signes à préserver, Bruxelles 1997. Aegytpus 78, 205-207.

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(con P. Davoli) Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 2. Imola.

(a cura di) Gli dèi di Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 5). Imola.

Testi della magia copta. Imola. Tre Sobek del Fayyum. In Sergio Pernigotti (a cura di), Gli dèi di Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 10), 81-88. Imola.

Gli dèi di Bakchias: note introduttive. In Sergio Pernigotti (a cura di), Gli dèi di Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 5), 11-29. Imola.

2001

Il papiro egiziano del Museo Archeologico di Pavia inv. Eg. 5. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 2, 107-110.

J.-F. Champollion e una stele del Museo di Pavia. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 3 (2001), 2127.

In margine al Papiro Bologna KS 3170. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 2, 103-106.

I rapporti tra i Greci e l’Egitto in età saitica: gli aspetti giuridici e istituzionali. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 3, 29-44.

I templi di Bakchias. In Sergio Pernigotti (a cura di), Gli dèi di Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 5), 71-80. Imola.

(con M. Capasso), Gli scavi a Kom Umm el-Atl (Bakchias). In M. Casini (a cura di), Cento anni in Egitto, 87-97. Milano. La morte degli dèi nei papiri copti dell’Università Cattolica di Milano. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 3, 127-133.

La collezione di antichità egizie, in Luigi Malaspina di Sannazzaro, 1754-1835. Cultura e Collezionismo in Lombardia tra Sette e Ottocento. Atti del Convegno, 555565. Milano 2000.

La nuova stagione dell’archeologia egiziana. In Treccani. Il libro dell’anno 2001, 211-230. Roma.

La topografia del Fayyum nei suoi aspetti archeologici. In Sergio Pernigotti (a cura di), Gli dèi di Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 5), 31-40. Imola.

La più antica storia d’Egitto e le origini della storiografia. In Storiografia locale e storiografia universale. Forme di acquisizione del sapere storico nella cultura antica, 2339. Como.

Monete in bronzo della prima età araba dal Fayyum, Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 2, 113-117

Prefazione a P. Davoli, Saft el-Henna. Storia e archeologia di una città del Delta orientale (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 6). Imola.

(con P. Davoli) Per un’archeologia e una storia regionale dell’Antico Egitto: un progetto per il Fayyum. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 2, 125-131.

Prefazione a M. Zecchi, Geografia religiosa del Fayyum (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 7). Imola.

Problemi della topografia di Bakchias. In Sergio Pernigotti (a cura di), Gli Bakchias e altri studi sul Fayyum di età tolemaica e romana (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 10), 59-70. Imola.

(con P. Davoli), Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 3, Imola. Stratificazioni toponomastiche nel Fayyum. In S. Pernigotti, M. Capasso (a cura di), Studium atque Urbanitas. Miscellanea in onore di S. Daris, 333-348. Lecce.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

(con M. Capasso, a cura di) Studium atque Urbanitas. Miscellanea in onore di S. Daris. Lecce.

2003 A proposito di Bakchias. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 5 (2003), 107-113.

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Petamenophis: un funzionario della XXVI dinastia tra Siracusa e l’Egitto. Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 5, 59-74.

La concezione di dio e degli dei nella religione egizia. Credereoggi 129, 69-78.

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Varia da Bakchias. In S. Pernigotti, M. Capasso, P. Davoli (a cura di), Bakchias IX. Rapporto di scavo della campagna di scavo del 2001, 81-85. Imola.

Petamenophis: un funzionario della XXVI dinastia tra l’Egitto e Siracusa. In La Sicilia antica nei rapporti con l’Egitto, Siracusa, 49-66. Napoli.

2004 Preface in M. Zecchi, Hieroglyphic Inscriptions from the Fayyum, 7-11. Imola.

Due frammenti hathorici da Bakchias. Fayyum Studies 1, 13-15.

(con P. Davoli), Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte 4. Imola.

Due ostraka scolastici in demotico da Bakchias. In Archeologia Pisana, 333-336. Pisa-Roma.

Tre papiri ieratici della collezione di Lecce (PUL I 1-3). Papyrologica Lupiensia 10, 217-223.

(con Marco Zecchi), Fayyum Studies 1. Bologna. Introduzione all’Egittologia. Bologna. (a cura di) L’Egitto Antico. Imola. xiv

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

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Bakchias. In Enciclopedia Archeologica. Africa, 233-234. Roma. Behbeit el-Hagarah. In Enciclopedia Archeologica. Africa, 219. Roma.

La letteratura. In S. Pernigotti (a cura di), L’Egitto Antico, 107-132. Imola. La storia. In S. Pernigotti (a cura di), L’Egitto Antico, 1556. Imola.

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Le città tolemaico-romane di Bakchias e Soknopaiou Nesos nel Fayyum (Egitto). In M.T. Guaitoli, N. Marchetti, D. Scagliarini (a cura di), Scoprire. Scavi del Dipartimento di Archeologia, Catalogo della mostra, 177-188. Bologna.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

il malocchio, proteggere la persona o anche la sua casa, assicurare un sonno sereno o profetico, così come augurare un cattivo riposo.7

ICONOGRAFIA DEL “PATECO SU COCCODRILLI” SU UNA GEMMA MAGICA Alessia Amenta

La produzione delle gemme magiche si estende dal I al V sec. d.C. e si riallaccia inequivocabilmente all’ambiente della magia egiziana,8 che ebbe grande fama e diffusione in tutto l’impero. Su questi amuleti si ritrovano però, oltre ad alcune divinità egiziane, anche alcune greco-romane e vicino-orientali, insieme a figure del Giudaismo e di religioni che ad esso si riconnettono, come lo Gnosticismo; diffuse sono anche iconografie a carattere astrologico.9 Per utilizzare le stesse parole della Sfameni: «Non ha senso, quindi, chiedersi se una gemma sia egiziana, greca, romana o giudaica semplicemente in base ad iconografia o ad iscrizioni, dal momento che questi elementi coesistono, frammisti in un mélange indissolubile. I soggetti egiziani, con l’autorità che deriva loro da una tradizione antichissima, insieme alle speculazioni religiose a cui fanno riferimento, si inseriscono, quindi, in un contesto culturale nuovo, dove confluiscono elementi appartenenti a tradizioni diverse, in un processo di integrazione ed interazione di cui non è da ricercare tanto l’origine prima, quanto gli specifici modi di attuazione».10

Abstract In the Walters Art Museum of Baltimore is a magical gem with an image of Pataikos on crocodiles. This iconography makes this gem an unicum in the production of magical amulets. The presence of Pataikos and of a pantheistic trigram on the recto, together with voces magicae on the verso, offers interesting hints and information on magic in the Late antiquity.

«Un dio, e gli Egiziani ne erano consapevoli, è ben più della forma in cui si manifesta. Per quanto siano numerosi i modi in cui si cerca di avvicinarsi a lui, egli rimane 1 inafferrabile.»

Nel Walters Art Museum di Baltimora si conserva una gemma in ematite (Inv. 42.872)2 che, allo stato della mia ricerca, può definirsi un unicum.3 Si tratterebbe dell’unica incisione di un pateco, per la precisione di un “pateco su coccodrilli”,4 nella vasta produzione gemmaria “magica”5 (Fig. 1).

A tali immagini, che si ritrovano sul dritto (recto) della gemma, si accompagnano iscrizioni di diverso genere sul rovescio (verso): i cosiddetti charakteres, ovvero segni grafici con valenza magica, le voces magicae, cioè parole magiche che derivano da teonimi di tradizione ebraica ed egiziana o da anagrammi di parole greche o latine, e i logoi magici, espressioni magiche. Tali nomi e formulazioni rientrano nel panorama ideologico del coevo e cospicuo materiale papiraceo, che permette di scandagliare ed interpretare le diverse simbologie e terminologie, e che costituisce un vero e proprio “commento” per il valore e l’utilizzo di questi amuleti. Lo studio delle gemme magiche non può quindi prescindere in particolare da quello della letteratura magica greca.11

Con “gemma magica” si intende più frequentemente un amuleto piccolo in pietra, intagliato su tutti e due i lati, talvolta anche sullo spessore, montato il più delle volte in metallo su anello o collana per essere indossato. La sua valenza magica era consacrata dall’immagine e dal testo incisi. La pietra stessa aveva di per sé già un preciso valore in un determinato contesto, quale ad esempio l’ematite del nostro esemplare, specificatamente efficace in ambito medico.6 Questi oggetti venivano consacrati da maghi o sacerdoti, così da appropriarsi di tutta la loro efficacia. Essi venivano utilizzati per richiedere una guarigione e un parto sereno, un qualche favore presso gli dèi, trarre presagi, ottenere un successo o il potere, per risolvere questioni amorose, scacciare essere pericolosi o

L’origine di tale commistione di simbologie, teonimi e parole potrebbe verosimilmente ascriversi alla cultura alessandrina, in cui la magia egizia si fuse con quella ellenistico-romana e vicino-orientale, grazie anche ai Caldei e ai maghi giudei.12 Non è questa la sede per approfondire questo tema assai complesso, cui si rimanda con i due volumi della Sylloge Gemmarum Gnosticarum, curati da Attilio Mastrocinque,



Ringrazio vivamente il prof. Attilio Mastrocinque per interessanti commenti e l’aiuto nella lettura del verso della gemma. 1 Dunand, Zivie-Coche 2003, 64. 2 Bonner 1950, 294-295, n° 251, Pl. XII. 3 L’autrice sta preparando il corpus dei patechi delle collezioni italiane, parallelamente all’indagine della figura del Grande Nano dei testi magici, cfr. Amenta 2005b. 4 Györy 2001, 2740. 5 Si preferisce la definizione “magica”, piuttosto che “gnostica” per tale produzione, cfr. Sfameni Gasparro 2000, 1-35. Per le pubblicazioni fondamentali per questa tipologia di oggetti, cfr. Bonner 1950; Delatte, Derchain 1964; più recentemente, Mastrocinque 2003 (nel suo lavoro egli utilizza ancora la denominazione “gemme gnostiche” in ossequio alla tradizione secolare, che risale alla seconda metà del XVI secolo). 6 Raven 1988, 237-242; Aufrère 1991; Vlad Borrelli 1998, 155-165.

7

Per una presentazione di questa tipologia di oggetti, cfr. Nagy 2002. Kákosy 1989; Eschweiler 1994; Pinch 1994; David 2002; Koenig 2002; Koenig 2004. 9 Lancellotti 2003a, 115-124. 10 Sfameni 2002, 225-242 (citazione a pagina 242). 11 Smith 1979, 129-136; Schwartz 1981, 485-489. Per i papiri magici, cfr. Preisendanz 19732; Betz 19922; Eschweiler 1994, 277 ss. 12 Mastrocinque 2003b, 72 ss.; cfr. inoltre, McBride 2000, 42-59. 8

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che focalizza e approfondisce tutte le questioni inerenti, corredate da una ricca bibliografia.13

dei testi magici egiziani: un nano “dal volto grande”, un nano-gigante, paradosso che sottende il Signore Universale, antitesi che identifica l’Uno».22

L’iconografia sulla nostra gemma di Baltimora presenta un’interessante sintesi di motivi tipicamente egiziani con iscrizioni magiche del sincretismo tardo-antico.14

La nascita e diffusione di questo nano anonimo corre parallela, ma con molti punti di contatto, con quella di Bes, il dio nano che divenne assai popolare nel Nuovo Regno e si diffuse fino in Epoca Romana.23 Anche in questo caso siamo in ambito magico “popolare” e davanti a un dio-fanciullo, protettore in particolare del parto, della maternità, della “soglia”, e comunque efficace contro ogni pericolo in genere.24 Di notevole interesse per quanto riguarda il rapporto tra queste due divinità è l’attestazione di statuine amuleto che raffigurano il dio Bes sulle spalle di un nano-pateco o più semplicemente di un nano.25

Il recto è quasi interamente occupato da una figura complessa, convenzionalmente chiamata “pateco su coccodrilli”, iconografia diffusa in età faraonica, già prima dell’Età di Amarna, e che diventa particolarmente elaborata dall’Età Tarda.15 Con Pateco si intende un essere divino, anonimo, nano, che si diffuse in Egitto a partire dal Nuovo Regno, e maggiormente dall’Età Ramesside, per divenire assai popolare nel Terzo Periodo Intermedio e in Età GrecoRomana.16 Esso non compare menzionato in nessun testo, né rientra in un mito o iconografia ufficiale. Il suo stesso nome, convenzionalmente adottato dagli egittologi, è mutuato da un passo di Erodoto (III, 37): «Cambise … Così entrò anche nel santuario di Efesto17 e derise molto la sua statua: la statua di Efesto infatti è molto simile ai Pateci della Fenicia, che, viaggiando, i Fenici portano sulle prore delle loro triremi. Per chi non li ha visti, do questa indicazione: sono fatti a immagine dei pigmei»18 (Fig. 2).

Un dio-nano è indiscutibilmente un dio-bambino, che celebra il momento della nascita e dell’eterna rigenerazione, della vittoria sulla caducità della condizione umana e di tutti i suoi pericoli; un dio in divenire, immortalato nel momento di massima spinta verso la nuova vita. Sotto questo aspetto il dio-nano presenta molti legami con Horo fanciullo, che giace moribondo per il morso di uno scorpione, ma che è capace di risollevarsi grazie alla forza della parola magica.

Il Pateco compare come amuleto di piccole dimensioni,19 generalmente con un anello di sospensione, da indossare per scongiurare malattie e pericoli in vita, ma anche dopo la morte, come testimonierebbero le sue numerose attestazioni in corredi funerari. Alcuni esemplari potrebbero essere interpretati come sigillo-amuleto, presentando la base piatta con iscrizioni, da imprimere verosimilmente sulla persona da guarire, invocandone la guarigione o una qualche protezione.20

Proprio questa immagine di Horo si riallaccia infatti alla tipologia assai diffusa dell’amuleto Pateco, raffigurato su due coccodrilli con due coltelli/serpenti tra le mani e nella bocca. Tale iconografia richiama l’immagine del cosiddetto Shed il Salvatore, che compare dall’Età di Amarna fino alla XXV dinastia, e alla quale si affianca quella di “Horo su coccodrilli”26 e la nuova divinità di “Khonsu fanciullo”, su cui si plasmerà quella di Harpocrate.27 Queste figure di un dio-fanciullo ebbero

Esso presenta diverse tipologie e numerosi attributi che lo ricollegano a divinità giovani, creatrici, rigeneratrici, come Ptah, Sokari, Osiri, Min, Horo, Thoth, Amon-Ra, Atum, Nefertem.21

22

Amenta 2005a, 21. Ringrazio Hedvig Györy per interessanti commenti al riguardo. Sono rare però le attestazioni di Bes nei papiri magici greci, cfr. Bortolani, 2008, 105, n. 2. Per la figura di Bes, cfr. Delpech-Laborie 1941, 252254; Jesi 1958, 171-183; Jesi 1963, 237-255; Wilson 1975, 77-103; Romano 1980, 39-56; Mussini 1989, 345-362; Malaise 1990, 423-436; Volokhine 1994, 81-95. 24 La figura di Bes diventa anche un elemento decorativo significativo per poggiatesta e letti, come protettore del parto e della nascita, del sonno e del risveglio, e quindi della morte e della rinascita. Per Bes e i poggiatesta, cfr. Perraud 1998, 161-174; Perraud 2002, 309-326; Perraud (inedito). Per Bes come elemento decorativo di mobilio, cfr. Werbrouck 1939, 78-82; Koltsida 2006, 165-174. Per l’assimilazione della testa con il sole nel poggiatesta, cfr. Hellinkx 2001, 61-95. 25 Bulté ritiene che Bes e Pateco siano immagini della stessa divinità proprio sulla base di queste statuine: essi, insieme, sono garanti della nascita del sole e quindi beneauguranti per una serena maternità e protettori del parto; cfr. Bulté 1987-1997, 386, n. 21, e Pl. iii-vi. 26 Il più antico esemplare è conservato al Cairo (CG 9430) e si data alla XXII dinastia; cfr. Sternberg el-Hotabi 1987, 25-70. Cfr. inoltre, Seele 1947, 43-53; Sternberg el Hotabi 1987; Quaegebeur 1987, 187; Ritner 1989, 103-116; Bosticco 1995, 189-206; Sternberg el Hotabi 1999; Quack 2006c, 107-109. 27 Forgeau 2002, 6-23. Le prime attestazioni di Harpocrate compaiono durante la XXI dinastia e sono frutto di una speculazione dei sacerdoti tebani, cfr. Koenig 1987, 257 (a). Per quanto riguarda più specificatamente il fiorire, a partire dall’Epoca Libica, di diversi culti legati alla figura di un dio-fanciullo nudo, definiti più generalmente tutti 23

«Il dio nascosto e anonimo celato in questa iconografia complessa si riferirebbe alla figura del “Grande Nano” 13 Mastrocinque 2003a; si tratta della raccolta delle gemme nelle opere degli Antiquari dei secoli XVII-XVIII. 14 Sfameni Gasparro 2002, 243-269. 15 Non esiste ancora un corpus di patechi completo delle collezioni sparse per il mondo e non è possibile conoscere tutte le sue varianti. Per una presentazione dell’evoluzione di questo amuleto, cfr. Györy 2002, 491-502; Györy 2003a, 58-68. 16 Dasen 1993, 84 ss.; Györy 2004, 55-68; Amenta 2005a, 17-36. 17 Efesto si identifica con il dio egiziano Ptah di Menfi. 18 Traduzione di A. Fraschetti, da Asheri 1990. 19 Sono rari gli esempi che superano i 10 cm di altezza. 20 Györy 1998-1999, 35-52. 21 A seguito dello studio e pubblicazione dei 75 patechi di Berlino, Matzker identifica per l’amuleto Pateco dieci tratti distintivi e, in base alle relative varianti, stabilisce otto tipologie, cfr. Matzker 1990. Amenta non concorda con tale tipologia nello studio per un corpus di patechi delle collezioni italiane, riconoscendo soltanto quattro tipologie, cfr. Amenta 2005b.

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particolare fortuna come vincitori su forze malefiche personificate in coccodrilli, scorpioni e animali pericolosi, diventando amuleti efficaci in ambito medicomagico; il loro carattere bellicoso è comunque dominante.

tridimensionale di “Pateco su coccodrilli”, secondo il modo di rappresentare tipicamente egizio. Ciò significa che quello che occupa i fianchi della figura è posto invece ai suoi due lati (le due divinità femminili), quello che è sopra la testa è visto di piatto sopra di essa (lo scarabeo), e ciò che è dietro la figura del nano compare al di sopra del nano stesso (la dea alata); e infine i due coccodrilli, che avvolgerebbero l’intera base della composizione, sono invece distesi per tutta la lunghezza della composizione.

Anche Bes si ricollega all’iconografia degli “Harpocrati”,28 del dio-nano e di Horo-fanciullo “sui coccodrilli”. Sui cosiddetti “Cippi di Horo” esso compare sotto forma di grande maschera, con barba e dall’aspetto senile, posta sopra la testa del giovane dio, che la indosserebbe come arma potente per sconfiggere gli animali pericolosi: è di fatto “il bambino che si trasforma in anziano”! Si potrebbe dunque intendere questa composizione iconografica come un’efficace allusione al ciclo solare, al suo rinnovamento eterno attraverso la continua trasformazione del dio sole-bambino all’alba (identificato con il giovane Horo) nel sole-anziano al tramonto (identificato con Bes). 29

Sulla gemma la rappresentazione del “Pateco su coccodrilli” presenta però alcune varianti rispetto alla composizione propria di un amuleto: le due divinità femminili non hanno le braccia stese lungo i fianchi, ma presentano un braccio piegato verso il nano, per sottolineare il loro valore di figure tutelari, e stringono nell’altra mano il simbolo ankh, in quanto dispensatrici di vita. Questi gesti si riallacciano alla classica composizione di età faraonica in cui il sovrano è davanti ad una, o al centro tra due divinità, in un rapporto reciproco di do ut des.

Per meglio presentare l’iconografia della nostra gemma si consideri un bel esemplare di “pateco su coccodrilli” dal Museo del Louvre in faïence, databile all’Età Tarda su base iconografica.30 La figura è quella di un nano, nudo, in posizione stante frontale, con calotta e scarabeo tridimensionale sulla testa, due serpentelli tra i denti, le braccia piegate e le mani al petto con due coltelli, due falchi di prospetto sulle spalle,31 due coccodrilli affrontati per il muso sotto i piedi. Ai due lati del nano sono due figure divine femminili stanti e di profilo, Isi alla sinistra e Nefti alla destra. La parte posteriore del nano è coperta per tutta l’altezza da una figura femminile nuda, stante e di prospetto, ma con il volto di profilo rivolto a destra, parrucca striata tripartita e collana larga al collo; le braccia sono aperte e distese con due lunghe ali che toccano in basso; sulla testa è un grande disco solare con al centro la piuma Maat32 (Figg. 3 e 4).

Una seconda variante è la rappresentazione del volto della dea alata, che appare di prospetto e non di profilo, così come si ritrova generalmente nelle stele magiche della tipologia “Horo su coccodrilli”, in cui una grande maschera del dio Bes campeggia nella parte superiore della stele.34 La parte inferiore della gemma di Baltimora, al di sotto dei due coccodrilli, è occupata da un’iscrizione in geroglifico, con i segni orientati verso destra, su due righe orizzontali. È lecito ipotizzare che si tratti del nome dell’essere divino rappresentato, come si dichiara nella seconda riga di testo:

La Györy intende la figura di “Pateco su coccodrilli” come un “monogramma teologico” per il dio creatore Ptah, cui si riconnetterebbe il cielo, personificato dallo scarabeo che il nano porta sulla testa, e la terra, identificata nelle due figure ctonie dei coccodrilli sotto i piedi.33

rn n nb.i (?) / nfr (?) «(è) il nome del mio (?) / buon (?) Signore/dio»

Senza esempi di amuleti con tale iconografia, non sarebbe certo facile comprendere la composizione rappresentata sulla gemma in questione (Fig. 5): si tratta infatti della trasposizione bidimensionale di un amuleto

L’ultimo segno non è ben leggibile, ma potrebbe trattarsi di una divinità accovacciata con copricapo non meglio identificabile, da leggere come suffisso di prima persona singolare o come l’aggettivo nefer.

come “Harpocrati”, cfr. Yoyotte 1986 e 1988; Bulté 1987-1997, 382. Per la figura del dio fanciullo sul fiore di loto, cfr. Quaegebeur 1991, 113-121. 28 Sulle gemme magiche compare la figura di Harpocrate che emerge dalla testa di Bes o dal corpo senza testa di Bes. 29 Koenig 1998, 663 ss. Per quanto riguarda il legame tra Bes e il dio sole alla sera, cfr. el-Aguizy 1987, 53-60; Sternberg el-Hotabi 2003, 6578; Malaise 1990, 705 ss. 30 Inv. E 11202 (alt. cm 8,5; larg. cm 7,3; spess. cm 3,1). 31 Györy 2003b, 11-29. 32 Il “Pateco su coccodrilli” in questione apparterrebbe al tipo II di Matzker e al gruppo II di Amenta. 33 Györy 2001, 39-40.

Conoscere il nome della divinità significa appropriarsi delle sue potenzialità per scongiurare ogni pericolo. Ecco dunque che l’amuleto diventa uno strumento potente nella mani di chi lo avrebbe indossato.

34 Meeks 1991. Interessante ritrovare un esempio di “Pateco su coccodrilli” che presenta proprio una grande maschera del dio Bes al di sopra della testa della dea femminile alata (Torino, Inv. 595).

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

uno stesso essere superiore celeste, di connotazione solare, del quale rappresenterebbero il nome segreto.43

Il nome divino occupa il primo rigo di testo e si compone di tre segni geroglifici, più precisamente (fiore di loto – leone – ariete). Tale sequenza si ritrova su diverse tipologie di amuleto di Età Tarda, quali i patechi, i cosiddetti Cippi di Horo, gli ipocefali35 e relativa formula del Capitolo 162 del Libro dei Morti,36 gli scarabei, i papiri magici, e appunto le gemme magiche. È importante però sottolineare il fatto che, sia sulle gemme, sia sui papiri, questa sequenza di segni può comparire accompagnata dalla sua resa fonetica σερφουθμουισρω (srpt = fiore di loto, mAi = leone, sr = ariete), abbreviata anche in μουισρω.

è stato soggetto a Più nel dettaglio, il trigramma diverse interpretazioni, e la sua lettura su base acrofonica generalmente accettata è quella di Atum.44 I tre momenti del corso solare sono espressi dal disco iAX = alba, dallo scarabeo xpr = sole zenitale , e dall’uomo con bastone wr = tramonto.45 Una qualche perplessità suscita il primo binomio, poiché lo scarabeo dovrebbe essere identificato con il sole che sorge e non il disco solare.46 i tre momenti solari Nel secondo trigramma sono invece così rappresentati: il loto all’alba, il leone allo zenith47 e l’ariete alla sera. Anche in questa grafia si riconosce un dio unico, che riunisce le tre forme del sole universale.48

La Ryhiner lo definisce un “trigramma panteistico”, (disco insieme con un altro gruppo di tre segni, solare – scarabeo – uomo anziano), altrettanto diffuso, ma che non è invece presente sulle gemme magiche.37

Di recente David Klotz legge quest’ultimo trigramma come Khepri, ripensando di conseguenza all’interpretazione di entrambi i trigrammi, quando essi compaiono insieme su di uno stesso oggetto: essi alluderebbero dunque al dio Sole nei suoi due aspetti principali di sole diurno e notturno, personificati in Khepri e Atum.49 Koenig era già arrivato a conclusioni simili: «Cette trimorphie se semplifie en une bimorphie soulignant les deux aspects les plus opposés du soleil».50

La questione è assai articolata e si riallaccia al procedere dell’ermeneutica dei segni geroglifici,38 e parallelamente alla speculazione sull’Uno che diventa assai raffinata dall’Età Ramesside: «… it developed an entirely new terminology that made it possibile to conceive of the diversity of deities as the colorful reflection of a hidden unity. It worshiped the unity as the hidden god, the deus absconditus et ineffabilis, the «sacred ba of gods and men» whose names, symbols, emanations, manifestations, shadows, and images were the various deities».39

Anche la nostra gemma sembrerebbe dunque celebrare proprio questo doppio aspetto del Sole: sul recto quello diurno di Khepri, mentre sul verso quello notturno di Atum.

Si assiste di fatto ad una filosofia della scrittura, che utilizza i segni geroglifici come elementi speculativi, nel nostro caso in relazione ad una divinità superiore.40 Yoyotte al riguardo parla di “grafie teologiche”, attraverso le quali si materializzerebbero nei segni geroglifici le caratteristiche di una divinità con tutte le speculazioni relative.41 Punto di partenza per i due “trigrammi panteistici” in questione è il principio in base al quale il movimento del sole nel cielo viene scomposto in tre fasi: alba, mezzogiorno e tramonto.42 I due trigrammi in questione dovrebbero dunque riferirsi ad

Il rovescio della gemma presenta infatti una lunga iscrizione continua di parole magiche, che sottende un logos incentrato sulle nozioni di tenebra e divinità che risiede nell’oscurità.51 Sono appunto le formule che il mago recita per rendere efficace la gemma.52 Il testo 43 Quack nega l’interpretazione dei due trigrammi panteistici come crittografia acrofonica per Atum, cfr. Quack 2006a, 182 e nota 45. 44 Ryhiner ne dà anche una interpretazione letteraria = “il sole che è diventato un vecchio”, e una simbolica = “il dio sole nella sua tripla manifestazione”; cfr. Ryhiner 1977, 131-133; e inoltre, Koenig 1992, 125. Su un pateco del Louvre Koenig rintraccia una variazione di questa grafia , da intendersi letterariamente come “il sole che è diventato bambino”, cfr. Koenig 1998, 663. 45 Gli amuleti che presentano una loro definizione attraverso questo trigramma vengono interpretati dalla Györy come trasposizione tridimensionale di un “monogramma teologico” per il dio Ra, in quanto egli stesso nel pChester Beatty XI si definisce come Khepri (il sole che sorge = lo scarabeo sulla testa del nano), Ra (il sole a mezzogiorno = la figura stessa del nano) e Atum (il sole che tramonta = iscrizione sulla base); cfr. Györy 2001, 40, n. 112. 46 Per la questione, cfr. Koenig 2009, 316. 47 Koenig 2009, 316, n. 35. 48 Ryhiner ne dà una interpretazione fonetica su base acrofonica = “il primogenito, il più anziano”, una letteraria = “loto – leone – ariete”, e una simbolica = “il sole universale nei suoi tre aspetti”; cfr. Ryhiner 1977, 135-136; e inoltre, Koenig 1992, 125. 49 Klotz 2010, 73 ss. 50 Koenig 1998, 664. 51 Si ringrazia il prof. Attilio Mastrocinque per l’aiuto prezioso nella lettura del testo. 52 Bakowska 2003, 13-16.

35 Varga 1961, 235-247; Varga 1998. Cfr. inoltre, Gee 2001, 325-334; Varga 2002 61-84. 36 Questa formula si diffonde a partire dalla XXI dinastia, periodo in cui si assiste ad un grande fermento speculativo, cfr. Yoyotte 1977, 194202. 37 Ryhiner 1977. La Ryhiner recupera la più antica attestazione di questi segni nel Papiro Berlino 3031, proveniente da Tebe e datato paleograficamente alla XXI dinastia; elenca inoltre una serie di documenti che attestano i trigrammi in questione (pagine 127-128). 38 Koenig 1992, 127 ss. Cfr. inoltre Sternberg el Hotabi 1994, con particolare riferimento all’utilizzo di “pseudo-geroglifici” in ambito magico. L’argomento “crittografia” ha un’ampia letteratura (cfr. nota 37). 39 Assmann 2001, 241. 40 Per l’uso della crittografia nell’antico Egitto, cfr. Drioton 1933, 1-50; Drioton 1935, 1-20; Clère 1938, 35-58; Drioton 1940, 305-427; Drioton 1942, 99-134; Drioton 1943, 319-349; Gutbub 1953, 57-101; Yoyotte 1955, 81-89; Jaeger 1982; Sliwa 1984, 65-67; Betrò 1989, 37-54; Étienne-Fart 1994, 133-142. 41 Yoyotte 1955, 89. 42 Anche la giornata risulta suddivisa in tre parti, cfr. Koenig 2009, 316 ss.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

corre tutto intorno ad un grande scarabeo centrale ed è circondato da un uroboro. Così recita: Iabèzebyth,53 Bophobibôth,54 Nouphi,55 Ouar,56 Phôzaxazôth,57 Chenophinyth,58 Bakaxichych Batêtophôth Bainchôôôch, Semesilam (Fig. 6).

Un’ulteriore riflessione permette di approfondire la figura di questo grande dio, relativamente al suo nome di σερφουθμουισρω, che compare così scritto per esteso, attribuito a diversi esseri divini “pantei”, quali il Pateco, Tithoes(-panteo),65 il cosiddetto “Bes-panteo”,64 66 l’Acefalo, le divinità ibride delle gemme magiche e dei papiri magici (come ad esempio lo scarabeo-nano panteo), le diverse figure di nano su statue guaritrici.67

Il riferimento ad una divinità solare nel suo aspetto notturno è espresso in particolare dalle tre voces Bakaxichych Batêtophôth Bainchôôôch, che fanno parte del logos ben noto cych chybachych bachachych Bachaxichych bazabachych Badêtophôth Bainchôôôch, riferito a divinità solari nel loro aspetto notturno.59 L’ultima parola in particolare, Bainchôôôch, deriverebbe da ba “anima”, inkh “vivente” e khoo(o)kh “tenebra”, vale a dire “anima vivente delle tenebre”.60 Essa aveva anche un importante valore simbolico in quanto legata alla sequenza numerica 3663, che sembrerebbe assumere un valore mistico nei papiri magici.61

Il possessore di questa gemma si rivolge dunque, chiamandolo per nome, ad un dio grande, celeste, garante di eterna rigenerazione nella sua valenza solare, efficace contro malanni e pericoli, così come evoca l’immagine del “Pateco su coccodrilli” vincitore.63

Tali iconografie tradiscono tutte speculazioni su un “grande dio”,68 universale, dal duplice aspetto solare e osiriano, che la teologia tebana della XXI dinastia andava già maturando e che culminerà nella creazione di iconografie articolate sulle gemme magiche.69 Niwiński utilizza al riguardo la definizione di “monoteismo polimorfico”.70 Anche Quack parla di “divinità polimorfiche”,71 con riferimento ad esseri divini che presentano un volto ben determinato (Bes, Amon, scarabeo, Tithoes, Anubi, …), affiancato da più teste e con numerosi attributi, con ali e coda di uccello, un corpo composto da parti umane e parti animali, itifallico; esso poggia i piedi più frequentemente su alcuni animali, inseriti all’interno di un serpente che si morde la coda (ouroboros), o sul dorso di un leone.72 Sono divinità creatrici e distruttrici, guerriere, apotropaiche, onniscienti, come testimonierebbe in particolare l’iconografia di “Bes polimorfico” con il corpo cosparso di occhi.73 Era il mago, di volta in volta, a dare a questi esseri ibridi, più generalmente anonimi, il nome che giudicava più appropriato a seconda delle occasioni.74

53 Nome composto da IHWE (la forma Iabè è tipica dei Samaritani, cfr. Jacoby 1930, 274, n. 3) e Zebyth, probabile variante di Zebub, che forma il nome Beel Zebub. Iabèzebyth è invocato nei testi magici, anche di carattere defissorio, spesso in formule esorcistiche, cfr. Preisendanz 19732, III, 449; IV, 1795; VII, 419; cfr. inoltre Bonner 1950, n. 287; Mastrocinque 2006, § 62. 54 Teonimo in -ôth. 55 Equivale all’egiziano nefer “bello, buono”. 56 Probabile variante dell’egiziano ouêr “grande”. 57 La vox comincia con una possibile variante dell’egiziano phôza “sano”, che compare frequentemente nei testi magici, ed è desinente come i teonimi ebraici in -ôth. Cfr. inoltre Merkelbach , Totti 1991, 57 e 61. 58 Vox non interpretata. 59 Chych è una resa greca della parola egiziana khy “tenebra”. Tutte e sette le voces della nostra gemma si riferirebbero ad un sistema settenario della fase notturna del ciclo solare; cfr. per ulteriore commento, Mastrocinque 2003b, 112. 60 Dall’egiziano bA n kk.w “anima del dio primordiale dell’oscurità”, così come viene chiamata la notte nel Libro della vacca celeste, cfr. Quack 2006a, 175. 61 Bonner 1930, 6-9; per una più recente teoria al riguardo, cfr. Brashear 1989, 123-124. 62 Per una esauriente digressione su questa vox, cfr. Lancellotti 2000, 248-254. 63 Sulle gemme magiche si ritrova un’altra sequenza a carattere solare che rappresenterebbe i tre aspetti del ciclo del sole, secondo il modo egiziano: in alto uno scarabeo, al centro la fenice e sotto le sue zampe il coccodrillo, cfr. Nàgy 2002, 162 ss. Inoltre, Koenig recupererebbe sulle gemme Abrasax un terzo “trigramma panteistico” legato al ciclo solare, rappresentato dalla figura del gallo anguipede, composto appunto di tre elementi: testa di gallo (sole all’alba), busto di uomo con abbigliamento militare (sole a mezzogiorno), e due piedi anguipedi/serpentiformi (sole al tramonto), cfr. Koenig 2009, 311-325; l’iconografia richiama immediatamente una divinità forte e vittoriosa sul nemico, di fatto anonima, talvolta accompagnata dal nome generico di Iao e Abrasax,

cfr. Cosentino 2003, 269-275. Per l’iconografia del gallo anguipede, cfr. inoltre Philonenko 1979, 298-303. 64 von Bissing 1939; Delatte, Derchain 1964, 126 ss.; Bakowska 2001, 11-14; Lancellotti 2003b, 232-234; Quack 2006, 175-190. 65 σερφουθμουισρω si ritrova nella stele Cairo JE 64938 apposto alla sfinge Tithoes, che appare con due teste congiunte, di ariete e di leone, e con un fiore di loto come corona; questi tre attributi sono appunto i tre simboli che scrivono il trigramma srpt-mAi-sr; tale iconografia si può mettere in parallelo con quella di una gemma magica di Parigi (Bibliothèque Nationale de France, Cabinet des Médailles, Inv. 2170), che presenta un essere divino, chiamato Tithoes sul verso, rappresentato sul recto come una figura umana a doppia testa, di ariete e di leone, con sopra un fiore di loto, cfr. Kaper 2003, 310-311 (S15); 89-90 (Fig. 2) e 221-222 (M12); per una recente interpretazione della figura come Acefalo, cfr. Bortolani 2008, 123 ss. Per la figura di Tithoes, cfr. Sauneron 1960, 269-287; Kákosy 1964, 9-16; Kaper 2003. Per Tithoes(panteo) in particolare, cfr. Kaper 2003, 86. 66 Preisendanz 1926; Meeks, 1991, 5-15; Berlandini 1993, 29-37; Bortolani 2008, 105-126. 67 Kákosy 1999. 68 L’“Uno (anonimo) che si fa Milioni”, da non confondersi con l’espressione “dio grande”, che generalmente accompagna molte divinità egiziane e non una in particolare. 69 Per andare più a ritroso nel tempo, si consideri la speculazione sottesa all’essere divino, dalla connotazione solare, che è rappresentato nel cosiddetto Libro delle Due Vie e che porta il nome di pesedj “Lo splendente” (sarcofago di Sepi, Cairo CG 28083, XII din.); è evidente in questo caso una crittografia per la parola pesedj “nove”, e quindi per l’Enneade (pesedjet). Per riflessioni al riguardo, cfr. Ciampini 2003b, 36 ss. Per il Libro delle Due Vie, cfr. Hermsen 1991. 70 Niwiński 1987-1988, 89-106. 71 Quack 2006, 176. 72 Quaegebeur 1985, 131-143. 73 Kákosy 2002, 278. Il passo per diventare anche divinità oracolare è breve, cfr. Bortolani 2008, 111. 74 Kaper 2003, 93.

Anche l’ultima vox, Semesilam, possiede una forte connotazione solare, in base alla sua stessa etimologia di “sole eterno”. L’espressione si ritrova comunemente in papiri e gemme magiche associata a divinità superiori, di cui si sottolinea la valenza solare.62

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Più comunemente essi vengono definiti in letteratura come “pantei” e “Pantheos” la loro rappresentazione.75 Il fatto che più frequentemente il volto principale sia quello di Bes, fa sì che spesso tali figure siano più generalmente indicate come “Bes-panteo”. Difficile dare un’identità certa a queste figure, a cui solo talvolta è apposto un qualche nome, e comunque per una stessa figura ne compaiono diversi.

Non è questa però la sede per entrare più nel dettaglio dell’argomento, rimandando al volume di Kaper per lo stato della questione.81 Per tornare alla nostra gemma, il nome dell’essere divino, personificato nel “pateco su coccodrilli”, evocato dal trigramma geroglifico sul recto, è nascosto all’interno dell’uroboro. Già il fatto che il testo sia continuo, e quindi non facilmente leggibile, allude al “mistero” dell’essere invocato, dai “milioni di nomi” e dalle “milioni di forme”.

Anche l’appellativo di “panteo” continua a suscitare polemiche tra gli studiosi, che sono per la maggior parte esitanti nel riconoscere una qualche forma di panteismo nella religione egizia di età faraonica. “La molteplicità delle apparenze non coincide con la totalità. La fusione con il tutto di uno specifico essere divino, non è né ricercata né realizzata in un sistema aperto come quello del pensiero egiziano, che d’altra parte non considera il «tutto» come appartenente alla sfera del divino. … Infine, gli dei cosmici non si confondo con gli elementi che metaforicamente rappresentano”.76

L’iscrizione posta all’interno dell’uroboro, il serpente che si morde la coda, richiama immediatamente il mondo egizio e la speculazione su un grande dio solare, dal “nome potente” e dalla funzione cosmocratica.82 Tale serpente è un’immagine antica della religione faraonica,83 simbolo di eterna rigenerazione, il confine tra ciò che esiste e che è, e ciò che non esiste e che non è, limite spazio-temporale tra il cosmo ordinato e il caos.84

La definizione di “immagine paniconica” è stata suggerita da Meeks,77 e ripresa dalla Zivie-Coche,78 contrapposta a quella di “panteista”, proprio per esprimere questa concezione propria egiziana, che contempla la raffigurazione di esseri divini dalle molteplici varianti e variabili, che proverebbero a definire la loro natura, ma che mai arrivano a descriverne la completezza.

La presenza dello scarabeo al centro della gemma e circondato dal serpente evoca immediatamente un’altra figura divina, frutto della speculazione tarda, quale l’Acefalo, le cui prime attestazioni sembrerebbero risalire al Nuovo Regno.85 Il suo nome compare proprio come “cuore circondato dal serpente”.86 Appare comunque chiaro, dalle diverse attestazioni dell’uroboro su gemme e papiri magici, come anche su statue guaritrici,87 che esso assuma valenze diverse, alcune più strettamente legate a tradizioni egiziane antiche, altre invece frutto di speculazioni successive: «È la sua polifunzionalità simbolica che lo (l’uroboro) rendeva idoneo a entrare a pieno titolo nell’ideologia magica, uno dei cui tratti peculiari è proprio la volontà di «potenziare» tramite nuove associazioni e identificazioni personaggi, teonimi e simboli tradizionali». 88

Una delle fonti principali al riguardo è il Papiro Magico Brooklyn 47.218.156, in cui due diverse immagini del cosiddetto “Bes-panteo” risultano accompagnate eccezionalmente da un testo: il dio rappresentato personificherebbe i numerosi ba del dio grande e universale, nascosto, Amon-Ra.79 «He (the so-called Pantheos) embodied the plurality of deities who were explained as the bas, the manifestations of power, of the hidden, single god. This is entirely in the spirit of the Ramesside theology of transcendence and demonstrates not only that its concepts remained alive until the end of Egyptian paganism, but that they had penetrated to the lower levels of popular piety and religion in Egypt».80

A seguito delle nostre riflessioni appare evidente l’osmosi tra le diverse speculazioni su un “dio grande” nel tardo-antico. Le gemme magiche risultano altrettanto eloquenti quanto i papiri magici assommando alla forza della parola anche quella dell’immagine. La creazione di nuove iconografie si accompagna al continuo amalgamarsi di ideologie e speculazioni. Ne sono risultato l’accostamento di immagini “tradizionali” a voces magicae, frutto di ambienti diversi, nella tendenza a caricare l’immagine divina rappresentata di poteri

75

Mastrocinque riconosce il Pantheos come un essere divino di ispirazione egiziana, influenzato dalla mitologia fenicia e dal pensiero filosofico e cosmogonico greco; cfr. Mastrocinque 2003b, 74 ss. Cfr. inoltre Ciampini 2003a, 227-229; Sfameni 2003, 229-232. 76 Dunand, Zivie-Coche 2003, 41-42. 77 Meeks 1986, 171-191. 78 Dunand, Zivie-Coche 2003, 43. 79 Sauneron 1970. Nella recensione, Kákosy 1972, 28-29, si ipotizza un’origine regale del papiro. Recentemente anche Quack ha inteso il papiro come un testo di teologia reale, in cui il faraone stesso apparirebbe come l’incarnazione dei ba di Amon-Ra; egli ha ritrovato inoltre un parallelo al testo del Papiro Magico di Brooklyn nel Papiro Carlsberg 475 della collezione di Copenhagen; cfr. Quack 2006b, 3952. 80 Assmann 2001, 244.

81

Kaper 2003, 91 ss. Lancellotti 2003b, 234. 83 Esso compare per la prima volta raffigurato sul secondo tabernacolo, parete esterna destra, di Tutankhamon, come un serpente che si morde la coda, avvolgendo la testa e i piedi di un essere mummiforme; cfr. Piankoff 1949, 113-116. 84 Per l’uroboro e le statue magiche, cfr. Kákosy 1995a, 123-129. 85 Berlandini 1993, 30 ss. 86 Delatte, Derchain 1964, 43, e 46-49, e 53-54. Cfr. inoltre Papiro Magico V, 155, in cui l’Acefalo afferma che il suo nome è un cuore (= scarabeo) circondato dal serpente; cfr. Betz 19922, 103. 87 Kákosy 1995b, 123-129. 88 Lancellotti 2003c, 71-85, qui in particolare 85. 82

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Gemma magica Walters Art Museum, Baltimora, recto (Inv. 42.872)

Fig. 2: Pateco Musei Vaticani (Inv. MV 18873) 12

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 3: Pateco Louvre, recto (Inv. E11202)

Fig. 4: Pateco Louvre, verso (Inv. E11202) 13

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 5: Gemma magica Walters Art Museum, Baltimora, recto (Inv. 42.872). Disegno di L. Di Blasi

Fig. 6: Gemma magica Walters Art Museum, Baltimora, verso (Inv. 42.872) 14

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Nel prosieguo del racconto, il lord inglese e il mercante greco si accordano e, insieme al dotto tedesco, entrano nella tomba promessa: là, dentro un triplice sarcofago, trovano una mummia che, subito sbendata, rivela il corpo di una giovane donna ancora bellissima. Un rotolo di papiro, posto tra il fianco e il braccio della donna, attira l’attenzione degli scopritori; l’egittologo comincia a svolgerlo e si accorge subito che non si tratta di un consueto esemplare del Libro dei Morti, ma di qualcosa di molto diverso e assolutamente eccezionale: è la storia della giovane donna bellissima deposta in quella sepoltura. Dopo tre anni di studio, Rumphius riesce a pubblicare il testo di quel papiro, ed è questo testo che Gautier dichiara di presentare ora, tradotto in francese. L’espediente narrativo del documento ritrovato, da cui si ricava la storia che viene poi raccontata, è comune ancora oggi nella letteratura romanzesca (basti pensare al Nome della rosa di Umberto Eco), né era certo una novità al momento in cui Gautier scriveva; sarebbe interessante, ma non è mio proposito ora approfondire quest’aspetto, né intendo seguire, nel racconto fascinoso di Gautier, la storia della donna bellissima, Tahoser, e del suo infelice amore per l’ebreo Poeri: arriveremmo fino al prodigioso passaggio del Mar Rosso …

ABITANTI DELLA COLCHIDE IN EGITTO? I PERCORSI DI UN ERRORE DI LETTURA Guido Bastianini

Abstract The history of the term coacuvtai, which in the early papyrological publications was wrongly read as colcuvtai, is here presented and duscussed. This begins with a passage from the Roman de la Momie by Théophile Gautier to end with its Italian translation, in which this term is meant as ‘inhabitants of the Colchid’.

« Je devine que vous êtes des savants, et non de simples voyageurs, et que de vulgaires curiosités ne sauraient vous séduire, continua-t-il en parlant un anglais beaucoup moins mélangé de grec, d’arabe et d’italien. Je vous révélerai une tombe qui jusqu’ici a échappé aux investigations des chercheurs, et que nul ne connaît hors moi ; c’est un trésor que j’ai précieusement gardé pour quelqu’un qui en fût digne. – Et à qui vous le ferez payer fort cher, dit le lord en souriant. – Ma franchise m’empêche de contredire Votre Seigneurie : j’espère retirer un bon prix de ma découverte ; chacun vit, en ce monde, de sa petite industrie : je déterre des Pharaons, et je les vends aux étrangers. Le Pharaon se fait rare, au train dont on y va; il n’y en a pas pour tout le monde. L’article est demandé, et l’on n’en fabrique plus depuis longtemps. – En effet, dit le savant, il y a quelques siècles que les colchytes, les paraschistes et les tarischeutes ont fermé boutique, et que les Memnonia, tranquilles quartiers des morts, ont été désertés par les vivants. » Le Grec, en entendant ces paroles, jeta sur l’Allemand un regard oblique ; mais, jugeant au délabrement de ses habits qu’il n’avait pas voix délibérative au chapitre, il continua à prendre le lord pour unique interlocuteur.

Vorrei soffermarmi, piuttosto, su un minimo dettaglio del testo di Gautier, che ho citato in apertura. Abbiamo già visto come, intervenendo nella conversazione, Rumphius faccia sfoggio delle sue competenze di egittologo, citando varie categorie di addetti alle pratiche della mummificazione: colchytes, paraschistes e tarischeutes (sic). In effetti, Gautier si era ben documentato per affrontare la stesura di questo romanzo: lo attesta l’autore stesso, nella dedica iniziale a Ernest Feydeau: Je vous dédie ce livre, qui vous revient de droit ; en m’ouvrant votre érudition et votre bibliothèque, vous m’avez fait croire que j’étais savant et que je connaissais assez l’antique Égypte pour la décrire … L’histoire est de vous, le roman est de moi ; et je n’ai eu qu’à réunir par mon style, comme par un ciment de mosaïque, les pierres précieuses que vous m’apportiez. Ernest Feydeau, amico di Gautier e anche di Flaubert, padre – soltanto putativo, a quanto sembra – di Georges (il commediografo), fu autore di romanzi ed ebbe interessi in campo archeologico ed egittologico: pubblicò, tra il 1857 e il 1861, una Histoire générale des usages funèbres et des sépultures des peuples anciens, in tre volumi; dal materiale relativo all’Egitto antico Gautier avrà potuto attingere ampiamente, anche prima della pubblicazione, grazie alla sua frequentazione con l’autore. D’altra parte, lo stesso Gautier aveva già affrontato, nella sua narrativa, argomenti di ambientazione egiziana: il lungo racconto Une nuit de Cléopatre era apparso a puntate su La Presse nel 1838.

È, questo, un brano tratto dal Prologue del Roman de la momie di Théophile Gautier, pubblicato a puntate sul Moniteur Universel nel 1857 e poi in volume nel successivo 1858. La scena è ambientata all’imboccatura della Valle dei Re: il greco che propone agli altri due personaggi di rivelare loro l’ubicazione di una tomba ancora inviolata è Argyropoulos, imprenditore di scavi, mercante e fabbricante di antichità; l’interlocutore diretto di Argyropoulos è il giovane Lord Evandale, appassionato di egittologia, mentre il savant tedesco, che interviene dottamente nella conversazione, è il più anziano dottor Rumphius, egittologo.

Nel passo sopra citato del Roman de la momie, comunque, Gautier scrive colchytes e tarischeutes: 15

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

avrebbe dovuto scrivere, invece, coachytes e taricheutes. Queste due minime mende di scrittura sono però di natura radicalmente diversa: tarischeutes invece di taricheutes, con quella ‘esse’ di troppo, è semplicemente, forse, un banale errore,1 indotto (si può pensare) dalla vicinanza del termine paraschistes, mentre, per quanto riguarda colchytes, non si può parlare propriamente di errore; in effetti, al momento in cui Gautier scriveva, la forma colchytes, con ‘elle’ al posto di ‘a’, era comunemente accettata e corrente nel mondo dei dotti.2

colcuvth‡, era impossibile riconoscervi una base radicale greca. Pochi anni dopo, nel 1826, Amedeo Peyron pubblicava i suoi Papyri Graeci Regii Taurinensis Musei Aegyptii: qui, proprio nel primo papiro edito nel volume (P.Tor. 1),9 al r. 21 della col. I, Peyron leggeva ancora colcutwn, e al r. 22 della col. VIII il participio era trascritto come colcutounta‡; anche in altri quattro papiri della raccolta (P.Tor. 2, P.Tor. 3, P.Tor. 4, P.Tor. 11)10 ogni volta Peyron leggeva col- invece di coa-. Pur ammettendone l’origine dalla medesima radice egiziana indicata da Young, Peyron11 riconduceva il termine all’ambito funerario: Colcuvtai dicti sunt ab involvendo cadavere, quod rite medicatum, sed nudum acceperant a Taricheutis.

Il termine francese colchites, usato da Gautier, riproduce il greco colcuvtai: questa parola, altrimenti sconosciuta, fece la sua prima apparizione pubblica e cominciò a entrare, in questa forma, nel patrimonio lessicale della lingua greca, quando comparve in una edizione a stampa del 1823. In quell’anno, Thomas Young pubblicò An account of some recent discoveries in hieroglyphical literature and Egyptian antiquities, including the author’s original alphabet as extended by M. Champollion, with a translation of five unpublished Greek and Egyptian manuscripts: in questo volume, dal titolo (come allora si usava) sesquipedale, Young3 forniva il testo di un papiro greco, acquistato in Egitto da George F. Grey nel 1820, del quale lo stesso Grey gli aveva messo a disposizione un facsimile a mano;4 in questo papiro, tre volte compariva il termine in questione, due volte al nom. sing. COLCUTH’ (rr. 3 e 40), una volta al gen. plur. COLCUTWN (r. 16). Nel dare la traduzione in inglese di questo testo,5 Young rendeva il termine colcuvth‡ con “Dresser”, proponendone questa giustificazione:6 The epithet, which I have conjecturally translated ‘Dresser’ was at first supposed to mean Brazier, and was read Chalchytes: but the Parisian registry7 has distinctly Cholchytes: which may possibly be a derivate of DCHOLH or JOLH,8 to dress, to put on, and may have been applied to some of the Hierostolistai, or Tire men, of the Temple. In effetti, stante una lettura

La frittata ormai era fatta: la lettura colcuvth‡ (con conseguente etimologia egiziana) s’impone, grazie alla mancata evidenza, nelle testimonianze, della lettura a dove si continuava a leggere l. Nel 1830, Caspar J. Ch. Reuvens pubblica a Leida le sue Lettres à M. Letronne: nella Troisième lettre, dando notizia di un papiro greco conservato appunto a Leida, Reuvens parla di cholchytes.12 Questo medesimo papiro fu poi pubblicato nel 1843 in Papyri Graeci Musei Antiquarii Publici Lugduni-Batavi da Conradus Leemans come ‘Papyrus Leidensis M’:13 qui, al r. 4 e poi al r. 14, la parola veniva ancora trascritta con lambda e non con alpha; e Leemans discuteva ancora sull’etimo egiziano del termine, proponendo nuove ipotesi.14 Come dicevo, quindi, nel 1857, quando scriveva il suo Roman de la Momie, Gautier era pienamente giustificato nel parlare di colchytes: questa era la forma allora corrente. Perché s’imponga la lezione giusta coacuvth‡, dobbiamo aspettare ancora un po’ di tempo. Nel 1865, Charles M. W. Brunet de Presle riuscì finalmente a pubblicare l’edizione di quei papiri greci del Louvre, che Jean Antoine Letronne (scomparso nel 1848) aveva trascritto nel 1828, ma dei quali non aveva potuto sistemare il commento. In quel volume15 erano compresi ben sette

1 Nel corso del Roman de la momie si notano altri errori di scrittura (o meglio, forse, di stampa): particolarmente evidente è quello rilevabile verso la fine del cap. XV, dove è stampato monarque invece di nomarque. 2 Al più, Gautier avrebbe potuto scrivere cholchites, con grafia più aderente al supposto originale greco: così, per esempio, avevano scritto – come vedremo – Young (in inglese) e poi Reuvens (in francese). 3 Young 1823, 145-146. 4 Il papiro fu poi pubblicato da Kenyon nel 1893 (P.Lond. I 3, 44-48), poi da Mitteis nel 1912 (M. Chr. 129) e infine da Wilcken nel 1937 (UPZ II.2 175 a) [P.Choach.Survey 12 B]: si tratta della versione greca di un contratto demotico, il cui originale è conservato a Berlino, P.Berol.dem. 3119 (P.Lesestücke II.1, 18-24) [P.Choach.Survey 12 A]. Vedi anche P.Bibl.Nat.dem. 218 [P.Choach.Survey 13], tradotto già da Young, 72-75 e citato anche da Kenyon, 44. 5 Young 1823, 69-71. 6 Young 1823, 76. 7 È il cosiddetto ‘Papiro Casati’ (dal nome del viaggiatore che l’aveva acquistato, insieme ad altri pezzi greci e demotici, nel 1822): di questo papiro (insieme al P.Bibl.Nat.dem. 218) aveva subito dato notizia Jean Antoine Saint-Martin nel Journal des Savans del settembre 1822, 556560. Il documento fu pubblicato integralmente nel 1865 da Brunet de Presle (P.Paris 5) e poi da Wilcken nel 1937 (UPZ II.2 180 a) [P.Choach.Survey 54 A]. Su questo papiro, vedi infra, nota 16. 8 Il lemma è reperibile in Crum 1939, 769 (dove è tradotto swathe, clothe, cover).

9 Questo papiro fu poi ripubblicato da Wilcken nel 1935 (UPZ II.1 162) e più recentemente da Pestman nel 1992 (P.Tor.Choach. 12) [P.Choach.Survey 48]. 10 Anche questi furono ripubblicati da Wilcken: P.Tor. 2 nel 1935 (UPZ II.1 160), gli altri tre nel 1937 (UPZ II.2 170a, 171, 189); Pestman li ha poi ripresi tutti nel 1992 (rispettivamente P.Tor.Choach. 11, 8 A, 9, 3) [P.Choach.Survey 42, 25 A, 26, 57]. 11 Peyron 1826-1827, 82. 12 Reuvens 1830, 26. 13 Questo papiro contiene la copia parziale del parigino ‘Papiro Casati’ (cfr. supra, nota 7); fu poi ripubblicato da Wilcken nel 1937 (UPZ II.2 180 b) [P.Choach.Survey 54 B]. 14 Leemans 1843, 38. 15 Il titolo completo suona Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Impériale et autres bibliothèques, publiés par l’Institut Impérial de France, faisant suite aux Notices et extraits lus au Comité établi dans l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. Tome dixhuitième, seconde partie, Paris, Imprimerie Impériale, 1865.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

papiri (P.Paris 5, 6, 7, 14, 15, 16, 66)16 dove compariva la parola in questione: in tutti, seguendo Letronne, Brunet de Presle leggeva col-, meno che in P.Paris 66, dove l’evidenza della grafia obbligava a una trascrizione coacuvtai (r. 34)17. E nella nota sottostante, Brunet de Presle spiegava: M. Peyron avait lu coacuvtai. Nous avons dit plus haut que quelques personnes pensent qu’il faut lire partout dans les papyrus coacuvth‡ au lieu de colcuvth‡.

et qu’il faut rétablir coacuvth‡, mot qui, à la vérité, ne se trouve pas ailleurs, mais qui est formé selon les lois de l’étymologie grecque et signifierait : «celui qui verse des libations funèbres.» L’autore qui citato senza nome è Edward Hincks e la rivista, il cui titolo è riportato in francese, è la Dublin University Review. La posizione di Hinks non sembra aver avuto gran seguito, sul momento.21 Ma Brunet de Presle prosegue ancora: Cette opinion nouvelle a été mentionnée par M. Ideler (Hermapion,22 p. 70), qui l’adopte. «Nullus dubito,» ditil, «quin pro colcuvth‡ legendum sit coacuvth‡.» Je dois dire que l’inspection attentive des papyrus, comme on pourra le vérifier sur nos fac-simile, me paraît laisser la question paléographique douteuse, tant la confusion entre l’alpha et le lambda est facile quand on n’est pas guidé par le sens. Dopo essersi soffermato sul plausibile significato della parola, anche tenendo presente l’equivalente demotico, Brunet de Presle conclude: En résumé, si j’avais à me prononcer, je crois que j’adopterais, avec M. Ideler, la lecture coacuvth‡ ; mais ici j’ai dû me conformer aux transcriptions de M. Letronne, tout en faisant mes réserves et en appelant l’attention des savants sur un point qui demande à être examiné de plus près.

Chi rimanesse stupito da questa menzione di Peyron, può trovarne una spiegazione nell’introduzione stessa al testo del papiro,18 dove Brunet de Presle informa che M. Peyron … avait transcrit ce papyrus à Livourne, en 1826. In effetti, questo P.Paris 66 faceva parte della collezione Salt, acquistata da Carlo X: celle-ci renfermait plus de trente papyrus grecs, dont Champollion donna, dans son rapport au duc de Doudeauville,19 daté de Livourne, 1826, une notice succincte, mais fort exacte, pour le peu de temps qu’il avait pu consacrer à cet objet, en déhors de ses études habituelles (P.Paris, p. 12). Insomma, in quell’anno 1826 sia Champollion sia Peyron avevano visto a Livorno questi papiri;20 e Peyron, nel (futuro) P.Paris 66, aveva letto coacuvtai – proprio nello stesso anno 1826 in cui era comparsa la sua edizione dei papiri di Torino. Malgrado l’evidenza della lettura coa- invece di col- in questo papiro parigino, sia Peyron, sia Letronne poi, ritennero forse che si trattasse di un errore …

I tempi sono dunque maturi per il pieno riconoscimento del termine coacuvth‡. Come punto d’arrivo della querelle, si può citare quanto afferma, nel 1879, Eugène Revillout:23 Les termes coacuth‡ et au féminin coacuti‡ (Pap. XI. de Turin) équivalent pleinement à la tournure coa‡ ‡pendou‡a, qui est usitée pour indiquer l’emploi des jumelles du sérapeum,24 dans les papyrus de la même époque. Tous les hellénistes sont maintenant d’accord sur ce point. Ajoutons que ces expressions sont rendues en démotique25 par le mot équivalent: himoou (jeteurs d’eau, libateurs), s’appliquant aux femmes comme aux hommes. E si può aggiungere che la lettura coa- (con alpha, non con lambda), già evidente in P.Par. 66, 34, è ulteriormente confermata dal verso di P.Tor. 4 (UPZ II.2 171), dove – nella parte superiore destra – è perfettamente leggibile, isolata, la parola coacuvåtai‡, con alpha chiarissimo. Nessun editore aveva dato conto della presenza di questa notazione (né Peyron, né Wilcken): dobbiamo arrivare al 1992, alla riedizione di Pieter Willem Pestman in P.Tor.Choach. 9!26

Ma ritorniamo alla nota di Brunet de Presle: il passo a cui l’autore rinvia (nous avons dit plus haut) si trova alle pagine 157-159, nel commento a un passo del r. 5 di P.Paris 5 (tw'n ejk tw''n Memnoneivwn colcutw'n), dove l’autore si diffonde sulla storia delle interpretazioni di questa parola: non cita Young, ma ricorda la presa di posizione di Peyron nel commento a P.Tor. 1 e precisa che cette opinion a été suivie par M. Letronne et par la plupart des hellénistes qui se sont occupés des textes tirés des papyrus. Ma prosegue: Cependant des doutes se sont élevés sur l’exactitude de cette lecture. L’auteur d’une dissertation intitulée The enchorial language of Egypt, insérée dans le n° 4 de la Revue de l’université de Dublin (Dublin, 1833), cherche à établir que ce mot a été mal lu, 16 Sono stati tutti ripubblicati da Wilcken: P.Paris 15 e 66 nel 1935 in UPZ II.1, rispettivamente i nn. 161 (P.Tor. Choach. 11 bis) e 157, gli altri nel 1937 in UPZ II.2, rispettivamente i nn. 180 a, 187, 190, 170 B (P.Tor.Choach. 8 B), 185. Nella rassegna dei P.Choach.Survey, questi papiri parigini figurano nell’ordine come nn. 54 A, 23, 74, 25 B, 44, 19; P.Paris 66 non è compreso. 17 Brunet de Presle 1865, 380. Cfr., nel fascicolo di Planches annesso al volume, la n° XLIV: nella sequenza coacutai si vede bene il primo alpha, di forma corsiva triangolare aperta a destra. Si vedano in proposito le osservazioni di Wilcken in UPZ II.1 157 (riedizione di P.Paris 66), nota ai rr. 33-34, 21. 18 Brunet de Presle, 378. 19 Il visconte Ambroise-Polycarpe de la Rochefoucauld, duca di Doudeauville (1765-1841), fu ministre de la maison du roi dal 1824 al 1827. 20 Champollion si era appunto recato a Livorno per visionare la collezione Salt, arrivata nella città toscana; e là si sarà incontrato con Peyron.

21 Si tenga presente che l’articolo di Hincks, nel suo complesso, fu fortemente criticato da Henry Tattam. 22 Il titolo completo di quest’opera di Julis Ludwig Ideler è Hermapion, sive Rudimenta Hieroglyphicae veterum Aegyptiorum Literaturae, pubblicata a Lipsia, in due tomi (1836-1841). 23 Revillout 1879, 85 n. 1. 24 Si tratta delle divdumai che compaiono nei documenti dell’archivio di Tolomeo, figlio di Glaucia, kavtoco‡ nel Grande Serapeo di Menfi: si veda la riedizione di tutti i testi documentari di quest’archivio a opera di Wilcken in UPZ I 2-105, 104-451. 25 Per le testimonianze in demotico, vedi Revillout 1880, 110-111; 114115; 119; 138-143. Cfr. ora P.Choach.Survey, 425-427. 26 Si veda, a questo punto, la sinossi della storia di colcuvth‡/coacuvth‡ tracciata da Pestman in P.Tor.Choach., xxii-xxiii e in P.Choach.Survey, 425-426.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

L’errore di lettura, che ha dato origine a questo fraintendimento durato così a lungo, è del tutto giustificabile: in certe scritture non librarie di Epoca Tolemaica, un alpha può ben presentare la sacca a sinistra schiacciata quasi come un tratto singolo, per cui si presta a essere preso per lambda, se la parola in cui figura non è di immediata leggibilità o comprensibilità. Come ulteriore esempio di un errore identico, posso citare il caso della nomarciva ¦Acoavpio‡ in P.Petr. III 88, 4: ¦Acoavpio‡ è frutto di una rilettura di Smyly,27 mentre nella prima edizione di questo testo – P.Petr. II 39(a) – Mahaffy aveva trascritto ¦Acovlpio‡.28 ¦Acovapi‡,29 in effetti, è un buon nome egiziano in trascrizione greca, dal significato trasparente (“vive Apis”), come dimostrano le occorrenze in demotico.30

liliacee con bei fiori di color violaceo porporino, ma possono essere anche gli abitanti della Colchide, come appunto la dotta nota chiarisce. L’errore è divertente; e fa sorridere non tanto l’idea che abitanti della Colchide potessero arrivare in Egitto, quanto piuttosto l’idea che nell’Egitto antico si facessero venire da così lontano gli addetti a una pratica del tutto tipica di quella civiltà. Ma si sa che gli errori sono come le ciliegie, uno tira l’altro.

Bibliografia Bingen J. 1964. Papyrologica: P. Oxy. 2191, P. Heid. 244, P. Petrie II 39(a). Chronique d’Égypte 39, 167-173.

Ma torniamo ai nostri coacuvtai (addetti al culto funerario), non più colcuvtai (addetti alle pratiche della mummificazione). Il termine rimane comunque attestato soltanto nei documenti in greco provenienti dall’Egitto, e sarebbe vano cercarlo nel patrimonio lessicale dei testi letterari raccolto nel TLG: è dunque una delle non poche parole greche usate per designare realtà tipicamente egiziane.

Brunet de Presle Ch.M.W. 1865. Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Impériale et autres bibliothèques, publiés par l’Institut Impérial de France, faisant suite aux Notices et extraits lus au Comité établi dans l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, Tome dix-huitième, seconde partie. Paris, Imprimerie Impériale. Clarysse W. 1997a. Nomarchs and toparchs in the third century Fayum. In C. Basile, A. Di Natale (a cura di), Archeologia e papiri nel Fayyum. Storia della ricerca, problemi e prospettive. Atti del convegno internazionale, Siracusa 24-25 maggio 1996, 69-75. Siracusa, Istituto Internazionale del Papiro.

A questo punto, il paziente lettore che mi avesse seguito fin qui potrebbe chiedersi: ma che c’entrano gli abitanti della Colchide, menzionati nel titolo di questo sproloquio? È presto detto. Qualche anno fa, mi è capitata in mano appunto un’edizione in italiano del Roman de la momie di Gautier, n. 71 della Biblioteca Economica Newton (1995). Qui31 la battuta di Rumphius nel brano del Prologo, che ho citato in apertura, viene così tradotta: “«In effetti», disse lo studioso, «i colchici, i paraschisti e i taricheuti hanno chiuso bottega da qualche secolo e i Memnonia, tranquilli quartieri dei morti, sono stati disertati dai vivi»”. Si nota subito che il termine ‘colchici’ è stampato normalmente, in tondo, mentre ‘paraschisti’ e ‘taricheuti’ sono stampati in corsivo; questa distinzione non compare nell’originale francese: ma evidentemente nella traduzione si è voluto distinguere il primo termine, considerato di lessico italiano, dagli altri due, sentiti come stranieri. Si può capire bene il motivo di questa distinzione, leggendo la nota a piè di pagina, con la quale chi ha curato la traduzione spiega la parola ‘colchici’: «Abitanti della Colchide. Incaricati del rituale liturgico e della lettura delle formule, svolgevano funzioni di sorveglianti delle tombe». È chiaro dunque quel che è successo: i colchytes del testo originale francese sono diventati in italiano non già ‘colchiti’, bensì (come per correzione automatica da computer) ‘colchici’, e in italiano i colchici sono sì delle piante

Clarysse W. 1997b. Greek Accents on Egyptian Names. Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 119, 177-184. Crum W.E. 1939. A Coptic Dictionary. Oxford, Clarendon Press. Gautier Th. 1995. Il romanzo della mummia; Una notte di Cleopatra; Arria Marcella. Cura e traduzione di Laura Aga-Rossi. Roma, Biblioteca Economica Newton Compton. Leemans C. 1843. Papyri Graeci Musei Antiquarii Publici Lugduni-Batavi. Lugduni Batavorum, apud Hazenberg & socios. Lüddeckens E. 1981. Demotisches Namenbuch, Band I, Lieferung 2. Wiesbaden, Reichert. Peyron A. 1826-1827. Papyri Graeci, Regii Taurinensis Musei Aegyptii editi atque illustrati ab Amedeo Peyron ... Pars prima et altera. Taurini, Typographia Regia. Reuvens J.Ch. 1830. Lettres a M. Letronne sur les papyrus bilingues et grecs, et sur quelques autres monuments gréco-égyptiens du Musée d’antiquités de l’Université de Leide par C.J.C. Reuvens ... Leiden, chez S. et J. Luchtmans.

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Cfr. Bingen 1964, 173. La nomarchia di Achoapis è ora ben attestata nella documentazione papirologica: si veda PUG III 114 (SB XVI 12979). Cfr. Clarysse 1997a. 29 Trascrivo il nome come proparossitono, seguendo i dettami di Clarysse 1997b. 30 Lüddeckens 1981, 103, 110. 31 Gautier 1965, 23. 28

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Revillout E. 1879. Une famille de paraschistes ou taricheutes thébains. Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Alterthumskunde 17, 83-92.

Young Th. 1823. An account of some recent discoveries in hieroglyphical literature and Egyptian antiquities, including the author’s original alphabet as extended by M. Champollion, with a translation of five unpublished Greek and Egyptian manuscripts. London, John Murray.

Revillout E. 1880. Taricheutes et choachytes. Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Alterthumskunde 18, 70-80, 103-120 (pl. I bis-IV), 136-148.

APPENDICE

Concordanze delle edizioni dei papiri con menzione dei χοαχύται: P.Leid. M P.Lond. I 3 P.Paris 5 P.Paris 6 P.Paris 7 P.Paris 14 P.Paris 15 P.Paris 16 P.Paris 66 P.Tor. 1 P.Tor. 2 P.Tor. 3 P.Tor. 4 P.Tor. 11

UPZ II.2 180 b UPZ II.2 175 a UPZ II.2 180 a UPZ II.2 187 UPZ II.2 190 UPZ II.2 170 B UPZ II.1 161 UPZ II.2 185 UPZ II.1 157 UPZ II.1 162 UPZ II.1 160 UPZ II.2 170 A UPZ II.2 171 UPZ II.2 189

P.Tor.Choach. 8 B P.Tor.Choach. 11 bis P.Tor.Choach. 12 P.Tor.Choach. 11 P.Tor.Choach. 8 A P.Tor.Choach. 9 P.Tor.Choach. 3

[P.Choach.Survey 54 B] [P.Choach.Survey 12 B] [P.Choach.Survey 54 A] [P.Choach.Survey 23] [P.Choach.Survey 74] [P.Choach.Survey 25 B] [P.Choach.Survey 44] [P.Choach.Survey 19] [P.Choach.Survey 48] [P.Choach.Survey 42] [P.Choach.Survey 25 A] [P.Choach.Survey 26] [P.Choach.Survey 57]

(113a) (146a) (113a) (127/26a) (98a) (126a) (119a) (c. 134a) (241a?) (117a) (119a) (126a) (126a) (112/11a)

Le sigle delle edizioni di papiri greci sono quelle elencate in Checklist of Editions of Greek and Latin Papyri, Ostraca and Tablets, reperibile on line all’indirizzo: [http://scriptorium.lib.duke.edu/papyrus/text/clist.html]

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

La lettera (Ms. BUP 294.3, 21) è stata acquistata nel 2006, con altri autografi, dalla Biblioteca Universitaria di Pisa: si tratta in totale di 73 lettere e scritti vari, di cui 43 di autori diversi a Ippolito Rosellini, una lettera dello stesso Ippolito alla moglie Zenobia Cherubini, una minuta di lettera al Granduca di Toscana Leopoldo II, scritta a due mani da J.-F. Champollion e Rosellini, 5 lettere a Zenobia di Richard Carl Lepsius4 ed una alla madre di costei, Cecile Cherubini, da parte del politico francese Matthieu Louis Molé. Le restanti 22 lettere sono dirette a Ferdinando Rosellini, fratello di Ippolito, botanico e naturalista. Colgo qui con piacere l’occasione per ringraziare la direttrice della Biblioteca Universitaria di Pisa, Alessandra Pesante, per avermi affidato in studio la lettera che qui pubblico, insieme alle altre relative a Ippolito Rosellini e Zenobia.

TRA BOLOGNA E PISA UNA LETTERA INEDITA DEL CARDINALE MEZZOFANTI A IPPOLITO ROSELLINI Marilina Betrò

Abstract This article presents a letter of the Cardinal Giuseppe Gaspare Mezzofanti, professor of Semitic languages at the University of Bologna, to Ippolito Rosellini, who studied in Bologna for a three-year period, before obtaining his position at the University of Pisa. In the letter, dated 15 January 1825, Cardinal Mezzofanti congratulates Rosellini on the beginning of his academic career.

Prima dell’acquisto del 2006, la Biblioteca Universitaria di Pisa non possedeva altre lettere di Mezzofanti a Rosellini né al momento se ne conoscono conservate altrove; sono invece note diverse lettere dell’allievo pisano al Maestro: segnalate dapprima da Gabrieli,5 sono poi state pubblicate da Maria Pia Cesaretti.6

Nel 1821, appena laureato in Teologia all’Università di Pisa, il futuro egittologo Ippolito Rosellini lasciava la città natia per un periodo di perfezionamento e studio dell’ebraico e dell’arabo a Bologna,1 sotto il magistero del celebre poliglotta Giuseppe Gaspare Mezzofanti.2 Secondo la proposta fatta al Granduca di Toscana Ferdinando III da uno degli illustri docenti di Rosellini, Pietro Bagnoli, e immediatamente approvata dal Granduca, il giovanissimo e assai promettente studioso era destinato a occupare a Pisa la cattedra di Lingue Orientali rimasta vuota dal 1819, in seguito alla morte di Cesare Malanima: il triennio bolognese doveva permettere a Rosellini di affinare le proprie conoscenze e prepararsi all’importante compito. E così fu: il giovane pisano tornò nell’autunno 1824 a Pisa per ricoprirvi la cattedra di Lingue Orientali, rispondendo alle aspettative dei suoi mentori e del Granduca oltre ogni immaginazione e divenendo, di lì a poco, uno dei fondatori della nuova scienza egittologica, insieme al maestro e amico Jean-Francois Champollion.3

All’importante soggiorno bolognese risalgono probabilmente i primi interessi egittologici di Rosellini ma mancano attestazioni in questo senso: bisogna attendere il 1825, con Rosellini ormai di nuovo a Pisa, per averne prova concreta nella lettera con cui descrive all’amico Luigi Ungarelli7 l’incontro con il già grande Champollion e, soprattutto, nella pubblicazione del libretto dedicato alla spiegazione del Précis du système hiéroglyphique dello studioso francese, nel frattempo apparso a Parigi nel 1824.8 E tuttavia è difficile immaginare, come osserva Maria Pia Cesaretti, che l’ambiente che lo circondava, soprattutto nell’ambito della Scuola del Mezzofanti, fosse rimasto estraneo all’eco suscitata dalla Lettre à M. Dacier di J.-F. Champollion, letta dinanzi all’Academie des Inscriptions et Belles-Lettres il 27 settembre 1822.9 Va tra l’altro notato, in aggiunta a quanto ella dice a questo proposito, che il poliglotta Mezzofanti aveva appreso giovanissimo anche nozioni di copto10 – all’epoca ancora non oggetto di insegnamento universitario – grazie al bolognese Giovanni Luigi Mingarelli, insigne studioso di patristica e orientalista.11 Né Mezzofanti, del resto, doveva aver

Il percorso da Pisa a Bologna unisce il destino accademico di Sergio Pernigotti a quello di Ippolito Rosellini: a Pisa Pernigotti ha studiato Egittologia con Edda Bresciani e ha poi tenuto per alcuni anni il corso di Lingua e letteratura copta, per recarsi infine a Bologna, dove ha finora insegnato Egittologia e creato una scuola di giovani studiosi: mi è perciò gradito dedicargli qui la lettera inedita con cui il futuro cardinale Mezzofanti da Bologna scriveva al suo ex allievo, neo-professore a Pisa, per rallegrarsi dell’inizio dei suoi corsi (Figg. 1 e 2).

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Lepsius venne a Pisa nel 1836, per un semestre di intensi studi egittologici sotto la guida di Rosellini, frequentandone assiduamente la casa e la famiglia: Bresciani 2000, 58-61 in particolare; Betrò 2010c, 24 e 230 (schede nn. 196-198). 5 Gabrieli 1925, li-lii, 85. 6 Cesaretti 1984, 195-209. 7 Gabrieli 1925, ix e nota 2. 8 Rosellini 1825, 200-218. 9 Cesaretti 1991, 77. 10 Russel 1859, 19 e nota 1. 11 Singolare e pionieristica figura di ricercatore egli stesso, Mingarelli ne aveva intrapreso da solo lo studio nel 1784, allo scopo di fornire un elenco dei sessanta manoscritti copti conservati nella raccolta Naniana della Biblioteca Marciana, dei cui codici greci stava allora preparando il catalogo. Nel 1785 era riuscito effettivamente nell’intento, dando alle

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Sui rapporti di Rosellini con Bologna cfr. Cesaretti 1991, 69-82. Il celebre linguista poliglotta (1774-1849) fu professore di Lingua Araba, Greca e di Lingue Orientali nell’Università di Bologna dal 1797, bibliotecario dell’Istituto delle Scienze della stessa città e, dal 1833, custode della Vaticana. Nel 1838 divenne cardinale. Su di lui si vedano la biografia di Charles William Russel 1828 e Pasti 2006. 3 Per l’ormai ampia bibliografia su Rosellini si rimanda ai due recenti cataloghi delle omonime mostre: Betrò 2010a e Betrò 2010b. 2

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limitato il suo interesse per l’antico Egitto al solo copto, visto che la sua prima dissertazione pubblica all’Università di Bologna, purtroppo perduta, tenuta il 27 giugno 1804, pochi mesi dopo che gli era stato conferito l’incarico di insegnamento delle Lingue Orientali, aveva per soggetto “Gli Obelischi Egiziani”.12 Tuttavia, seppure questi suoi interessi alimentarono probabilmente curiosità e dibattiti nella cerchia dei suoi allievi circa la nuova teoria sui geroglifici di Champollion, non pare che Rosellini avesse appreso da lui i primi rudimenti di copto: nella lettera che gli scriveva da Parigi l’8 marzo 1827, mentre, quando esponeva al suo Maestro bolognese quanto andava apprendendo nei corsi d’arabo con il De Sacy, richiamava esplicitamente i «lucidi principi che in questa bellissima lingua ho ricevuti da Lei», nulla di simile diceva parlando del copto, il cui studio costituiva all’epoca la sua occupazione principale”, limitandosi a descrivere i risultati raggiunti da Champollion nell’analisi di quella lingua e dei suoi dialetti.13

pianta toscana da lei nudrita ed allevata, che fiorirà e porterà frutti a sua maggiore gloria […]»15 Da parte sua, il Cardinale non fu mai avaro nell’elargire elogi calorosi all’allievo, proclamandone apertamente in più d’una occasione il non comune talento, l’acuta intelligenza e la volontà d’apprendimento vivissima. La sua lettera al Granduca dell’8 settembre 1824, per informarlo degli ottimi risultati raggiunti da Rosellini al termine del suo triennio di studi, così si esprime a suo riguardo, con il più lusinghiero dei giudizi: «[…] in questo ultimo anno ha gareggiato seco medesimo, raddoppiando l’impegno, e il fervore degli anni precedenti. Né solamente ha atteso ad istruire se stesso, ma si è fatto abile ad ammaestrare gli altri … ed io con giubbilo ricorderò di avere avuto tra’ miei uditori uno che con insigne lode manterrà e propagherà in Italia l’Orientale Erudizione […]».16

Quando Mezzofanti scriveva all’ex-allievo la lettera qui pubblicata, tutto ciò era però ancora da venire: la missiva da Bologna è infatti datata al 15 [gennaio] del 1825. L’omissione del mese nella data in fondo alla lettera è di per sé indicativa – il quindici del mese coincide infatti con il quindicesimo giorno del nuovo anno – ed è confermata dal timbro sulla busta, che riporta la data del 2 febbraio.

Parole lungimiranti, che mostrano, oltretutto, come la proposta della Spedizione fatta di lì a poco da Rosellini al Granduca non nascesse nel vuoto e dal nulla ma fosse preceduta dal riconoscimento già ampio, e nelle più alte sfere, delle qualità e dei meriti del giovane studioso e da precise aspettative nei suoi confronti. L’inizio dei corsi da cui prende spunto la lettera di Mezzofanti è quello delle lezioni di ebraico17 e di arabo,18 inaugurate a Pisa da Rosellini nell’autunno 1824 e tenute per due anni accademici consecutivi, il 1824-1825 e il 1825-1826. I testi delle lezioni e gli appunti preparatori sono conservati tra i manoscritti del Fondo Rosellini nella Biblioteca Universitaria di Pisa.19 Essi includono l’elenco della ristretta cerchia di studenti che li seguiva: sei uditori per ebraico nel primo anno, divenuti otto nel secondo, ed uno, l’inglese «Henrico Webster di Bedford», per arabo. Il loro numero è eloquente spiegazione delle parole generose e sensibili con cui nella lettera il Maestro bolognese lo rincuora per i pochi ardimentosi interessati allo studio delle «lingue orientali». Ma l’ebraico e l’arabo sono destinati a cedere sempre più il posto, negli interessi del giovane e brillante professore universitario, all’Egitto, che con ascesa incalzante va delineandosi all’orizzonte di Rosellini: già nel 1825 il Granduca crea per lui una cattedra di Antichità egizie, prima in Europa e nel mondo; la primavera e l’inizio dell’estate 1826 sono assorbite dalle ore esaltanti passate con Champollion a Livorno, nell’esame dei pezzi egiziani appartenuti al console Salt e acquistati dal re di Francia; in quello stesso anno è deciso e concesso dal Granduca il congedo dall’insegnamento a Pisa per trascorrere un anno a Parigi, dove lo studio della nascente egittologia, con il nuovo Maestro e amico, pur affiancato dall’arabo, avrà la parte

Occasione per la breve lettera è l’esordio di Ippolito Rosellini sulla cattedra di Lingue Orientali dell’ateneo pisano, notizia di cui si rallegra chi ne era stato professore e “principalissimo fondamento” dei suoi studi, come lo stesso egittologo gli scriverà in una lettera da Livorno del 27 aprile 1826,14 qui come altrove non mancando di riconoscere l’enorme debito formativo nei confronti del Mezzofanti. Lo stesso Leopoldo II, scrivendo all’erudita bolognese il 24 luglio 1824, aveva sottolineato con accenti di viva e sincera ammirazione l’importante ruolo che egli aveva rivestito nella formazione orientalistica del giovane pisano: «[…] se potremo vantare un profondo Erudito nelle Lingue nell’Abate Rosellini, sarà questi una

stampe l’Aegyptiorum codicum reliquiae Venetiis in Bibliotheca Naniana asservatae in due fascicoli, che offriva, oltre alla lista dei manoscritti, molti commenti ai passi identificati. Su Mingarelli di veda anche l’articolo di Paola Buzi in questo stesso volume. 12 Russel 1859, 38. 13 Cesaretti 1984, 207. 14 La lettera è citata da Russel 1828, 121, nota b, ma non compare tra quelle conservate attualmente nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, elencate da Gabrieli e poi pubblicate da Cesaretti. Dove essa sia attualmente mi è purtroppo ignoto e non si può che rimpiangere di non averne il testo intero: da quanto cita Russel e dalla data e luogo della lettera si può dedurre che Rosellini vi informasse il maestro bolognese delle sue entusiasmanti giornate con Champollion sui monumenti della collezione Salt. Il passo citato da Russel è il seguente: «…Mi faccio un dovere di darle queste nuove nella persuasione che le saranno gradite, per la bontà sua nel prendere tanta parte alli studi miei, de’ quali Ella è stata principalissimo fondamento».

15

Russel 1828, 120-121, nota b. Cesaretti 1984, 206. 17 Vivian 1982, 11-20. 18 Amaldi 1982, 21-24. 19 Mss. BUP 291 e 292. Cfr. Vivian 1982, 11, 18 e nota 1. 16

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del leone; nel 1828 la Spedizione congiunta francotoscana partirà per l’Egitto.

Bibliografia Amaldi D. 1982. Ippolito Rosellini professore di Arabo a Pisa. In Atti del Convegno Ippolito Rosellini: passato e presente di una disciplina, Pisa 30-31 maggio 1982, 2124. Pisa, Giardini.

Ai rallegramenti e auguri per l’inizio della carriera accademica, Mezzofanti fa partecipe chi gli era ormai «collega» delle novità della sua vita universitaria a Bologna: le soddisfazioni tratte da nuovi studenti promettenti ed entusiasti, il carico sempre crescente delle lezioni (pur avendo di molto ridotto quelle private) e il tempo che non basta agli impegni e men che mai a intrattenere rapporti epistolari regolari, il piacere inatteso e tanto più gradito che gli ha dato la recente nomina ad Accademico della Crusca.20

Bresciani E. 2000. Il richiamo della piramide. J.F. Champollion e I. Rosellini in Egitto. In E. Bresciani (a cura di), La Piramide e la Torre, 58-61. Pisa, Pacini. Betrò M. (a cura di) 2010a, Lungo il Nilo. Ippolito Rosellini e la spedizione Franco-Toscana in Egitto (1828-1829) (Catalogo della mostra, Pisa, Palazzo Blu, 28 aprile-25 giugno 2010), 24 e 230 (schede nn. 196198). Firenze, Giunti.

Riporto qui la trascrizione della lettera: Sig. Professore preg.mo

Betrò M. 2010b. Ippolito Rosellini and the Dawn of Egyptology. Original Drawings and Manuscripts of the Franco – Tuscan Expedition to Egypt (1828-1829) from the Biblioteca Universitaria di Pisa. Cairo.

Benché non ne dubitassi, pure intesi con piacere grandissimo il felice cominciamento da Lei dato alle Sue lezioni al quale il seguito corrisponderà certamente. Se pochi si dedicano a questi studi, non è meraviglia, perché pochi vorranno vincere le difficoltà che appresentano. Quest’anno ho alcuni scolari che promettono assai, e pare che non sentano né fatica né molestia, tale è l’ardore col quale si sono messi all’impresa. Ho diminuito il numero delle particolari lezioni, ma tuttavia non mi rimane tempo che basti ai miei impegni, e già lo avrà arguito dal mio ritardo a scriverle. È stata per me una sorpresa il sentirmi nominato Accademico della Crusca, ma una sorpresa gradita, e favore singolarissimo, che tanto apprezzo, quanto stimo e amo il bellissimo idioma dove lì vi suona. Ben so di non meritare un tanto onore, ma ciò stesso mi rende vié più grato all’Animo Generoso che me lo ha conferito e mi duole di non potere dimostrare la molta mia riconoscenza. La prego di fare il mio distinto ossequio al Sig. Can.o Samuelli,21 il quale spero che mi perdonerà lo scarso mio scrivere, attribuendolo a difetto non di volontà ma di tempo. Vo cercando di redimere questo tempo desiderando di non parere inofficioso verso quegli che gentilmente si ricordano di me. Attendo nuove notizie dei Suoi studi e intanto mi confermo con verace stima

Betrò M. 2010c. Tra l’Arno e il Nilo: Ippolito Rosellini e l’Egittologia. In M. Betrò (a cura di), Lungo il Nilo. Ippolito Rosellini e la spedizione Franco-Toscana in Egitto (1828-1829) (Catalogo della mostra, Pisa, Palazzo Blu, 28 aprile-25 giugno 2010), 11-24. Firenze, Giunti. Cesaretti M.P. 1984. La corrispondenza di Ippolito Rosellini col cardinale Giuseppe Mezzofanti. Deputazione di storia patria per le province di Romagna 35, 195-209. Cesaretti M.P. 1991. Ippolito Rosellini e Bologna. In C. Morigi Govi, S. Curto, S. Pernigotti (a cura di), L’Egitto fuori dell’Egitto, Dalla riscoperta all’Egittologia. Atti del Convegno Internazionale Bologna 26-29 marzo 1990, 6982. Bologna, Clueb. Gabrieli G. 1925. Ippolito Rosellini e il suo Giornale della Spedizione Letteraria Toscana in Egitto negli anni 1828-1829. Roma, Tipografia Befani [ristampa anastatica: Pisa 1994]. Parodi S. (a cura di) 1983. Accademia della Crusca. Catalogo degli accademici dalla fondazione. Firenze, Presso l’Accademia.

Bologna, 15 del 1825 Suo dev.mo ed aff.mo Servitore P. Giuseppe Mezzofanti

Pasti F. 2006. Un poliglotta in biblioteca. Giuseppe Mezzofanti (1774-1849) a Bologna nell’età della restaurazione. Bologna, Patron.

20 I verbali dell’Accademia della Crusca mostrano che Giuseppe Mezzofanti fu nominato Socio corrispondente nella seduta del 14 dicembre 1824 (i riferimenti, resi disponibili con ricerca on-line sul sito dell’Accademia sono Diario I, 95, 96, 480, 483, 493; cfr. anche Parodi 1983). La notizia era dunque fresca quando scriveva a Rosellini. 21 Si tratta del Canonico Claudio Samuelli, professore di Sacra Scrittura all’Università di Pisa, che a Bologna era stato allievo di Mezzofanti e compagno di studi di Rosellini e di Celestino Cavedoni (Cesaretti 1991, 75-76). Dal 1843 alla morte nel 1854 fu Vescovo di Montepulciano. Scrisse anche un libello in difesa dei Monumenti di Rosellini (Saggio di critica biblica applicata ad un fallo dell’istoria sacra) stampato a Pisa presso Niccolò Capurro.

Rosellini I. 1825. Il sistema geroglifico del Signor Cavaliere Champollion il minore, dichiarato ed esposto alla intelligenza di tutti. Nuovo Giornale dei Letterati, tomo XI, n. 24, 200-218. Russel Ch.W. 1828. The Life Of Cardinal Mezzofanti: With An Introductory Memoir Of Eminent Linguists,

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Ancient And Modern. London, Longman, Brown and co. [traduzione italiana ampliata: Bologna 1859]. Vivian A. 1982. Ippolito Rosellini e l’insegnamento dell’ebraico a Pisa. In Atti del Convegno Ippolito Rosellini: passato e presente di una disciplina, Pisa 3031 maggio 1982, 11-20. Pisa, Giardini.

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FIGURE

Fig. 1: Recto della lettera BUP MS. 294.3. 21 (per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Pisa)

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Fig. 2: Verso della lettera BUP MS. 294.3. 21 (per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Pisa)

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I piedi della donna poggiano su un rialzo a sezione trapezoidale; il parallelo con numerose altre statuette di questo genere, anche di tipologia più complessa, mostra che l’occupante va considerata sdraiata, infatti questa placca con rialzo dal lato dei piedi va considerata, io credo, una semplificazione di un letto, e, il rialzo una sponda dal lato dei piedi. Insomma, la donna è distesa sopra una specie di dormeuse, ma utilizzando il lato libero per la testa; tanto più che talvolta questa placca per la figura femminile, con o senza figlioletti e spesso girata sul fianco con il capo su un poggiatesta, è stata fabbricata in un unico pezzo con un mobile-letto, fornito spesso di spalliere posteriori e laterali, issato su gambe e su base più o meno elaborata.5

UN’INSOLITA FIGURA DI “CONCUBINA” IN TERRACOTTA: LA SUONATRICE DI TAMBURO Edda Bresciani

Abstract Publication of a pottery female figurine with drum of the late Ramesside period, with discussion of this typology of objects.

Le “concubine” come è ben noto sono attestate a partire dal Medio Regno in faïence, in legno, in pietra, e dal Nuovo Regno per lo più in terracotta del tipo su placca con o senza figli, e poi per l’Epoca Tarda, con la figura femminile in pietra su placca o su letto, egualmente con o senza figli.

In una collezione privata è conservato un esempio singolare della tipologia di oggetti tradizionalmente noti nella letteratura egittologica come “concubine del defunto”, o, con Chr. Desroches Noblecourt, come “amantes fecondées”1 o, secondo i suggerimenti più recenti, come “fertility figurines” con carattere votivo2 oppure rituale protettivo, apotropaico.3

Le “concubine” in pietra da Naucrati, di Epoca Saitica, appoggiate e costruite insieme coi letti, formano una serie particolare, serie alla quale appartiene credo anche il pezzo citato in nota 5; da notare il carattere funerario per la “concubina” in calcare, stesa su letto alto di gambe, che ha la testa su un poggiatesta, e presso i piedi, vicino al rialzo, una figura di dolente, probabilmente una figlia.6 Ma di grande importanza per l’interpretazione funeraria sessuale delle “concubine” (o almeno della maggior parte di esse…) un esemplare di tipo eccezionale, in calcare, appartenente a un privato, che mostra una donna abbracciata ad una mummia oviforme,7 sopra un letto con gambe e modanature e che porta scolpita sulla sponda una figura di Bes; è da datare forse all’Epoca Saitica, e potrebbe provenire dall’area di Naucrati; purtroppo non se ne conosce la collocazione attuale (Fig. 4).

L’attuale proprietario (residente in Svizzera) del reperto – che qui pubblico nella Miscellanea in onore di Sergio Pernigotti – crede ch’esso provenga dall’area tebana (dove il suo bisnonno esercitò come medico), senza saper dare altri particolari (Figg. 1-3). Si tratta di una placca di terracotta rossastra non particolarmente depurata, sulla quale spicca in altorilievo la figura di una donna, nuda e con larga parrucca, la quale tiene fra le mani un tamburo del tipo “a barilotto” con le due estremità segnate da un doppio cordolo rilevato; il tamburo non sembra essere sostenuto da lacci di tracolla. Sulle gambe e sul fondo della placca si vedono poche tracce di colore rosso e di ingubbiatura bianca. La placca è alta cm 17,5, larga cm 6-6,50 con uno spessore di cm 1, e di cm 3 alla sponda.

Per la “concubina” su placca di terracotta che qui pubblico, ho già notato che la donna è una suonatrice di tamburo a barilotto,8 una tamburina.

La figura della donna è modellata a stampo;4 la placca non è rettangolare, ma va restringendosi verso l’alto fino a coincidere con la linea arrotondata della parrucca che incornicia il viso della donna; il volto è caratterizzato dagli occhi ravvicinati e dalla bocca sorridente. Il corpo è nudo, i seni piccoli in forte rilievo plastico, il solco inguinale ampio, le cosce sono bene e armoniosamente sviluppate, le gambe snelle, i piedi sono uniti. Le orecchie, grandi, hanno il lobo ornato da orecchini rotondi.

5

Metropolitan Museum 15.2.8; esposta nel Kelsey Museum nella mostra Women and Gender in Ancient Egypt, nel 1997; è in calcare dipinto (71.2.174), probabilmente da Naucrati come altri esemplari simili in pietra. Cfr. anche Cairo 9435, coi colori e la decorazione a fiori dello schienale stupendamente conservati. 6 Petrie 1886, Tav. xix, Fig. 7; calcare. Da confrontare con il pezzo policromo nel Museo del Cairo JE 65836 (9437) con letto su alti piedi, nel quale il rialzo dal lato dei piedi è una vera spalliera. Ma anche le iscrizioni che si trovano su figurine del Medio Regno indicano una collocazione funeraria (Berlino 14517, in calcare: una preghiera rivolta alla madre defunta della dedicante che voglia favorire la fertilità della figlia vivente: «Sia concessa fertilità alla tua figlia Seh»; Louvre E.8000: «Un’offerta funeraria per il ka di Khonsu figlia di Tita»). 7 In calcare; proprietà di un privato negli anni Cinquanta del Novecento, a mia conoscenza è rimasta inedita; la forma oviforme del defunto potrebbe collegarsi allo scarabeo-uovo vegetante pubblicato da Michaīlidès 1950-1951, 173-174, Pl. XXIII. (involto di tela, pieno di terra e semi di orzo). 8 Cfr. per esempio Manniche 1975 e Manniche 1991.

1

Desroches Noblecourt 1995, 99 e, prima, Desroches Noblecourt 1953, 7-47. 2 Pinch 1983, 405-414 e Pinch 1993, 198-225. Anche Stevens 2007. Sui letti votivi, vedi in ultimo Del Vesco 2010. 3 Tooley 1991, 101-111; Quirke 1998; Waraksa 2008 e Waraksa 2009; Teeter 2010. 4 La parte superiore di una matrice in terracotta di “concubina” con figlioletto, è conservata nel Pelizaeus Museum; inedita, acquisto 1983.

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architrave di Baltimora (n. 22.97)14 la serie comprende l’arpista, la tamburina, la suonatrice di lira e la suonatrice di liuto (parzialmente conservata). Il contesto è sempre un concertino per rallegrare il defunto.

Il tamburello (“round frame drum”) – ma ne esisteva anche la forma rettangolare – era frequentemente raffigurato in rilievi e pitture dal Nuovo Regno, in scene di feste, di processioni, di banchetti, uno strumento di ritmo gioioso, anche connesso esplicitamente con vino ed ebbrezza, legato a Bes e a divinità femminili come Hathor e Mut. In Epoca Tarda e Greco-Romana lo troviamo suonato dalle stesse divinità; è anche possibile che la forma rotonda avesse un nesso simbolico con la forma del disco solare e del suo potere vitale.

Nonostante il legittimo tentativo di fare più ampio e variegato il significato e la funzione delle figurine di donna nuda – con figli o senza, sdraiate o non su letti, di fianco o supine, di legno “a paletta” o realistiche in terracotta o in pietra, con o senza attributi musicali – databili attraverso il Medio, durante il Nuovo Regno e l’Epoca Tarda, mi sembra che la denominazione di “concubine del defunto” possa continuare ad essere impiegata convenzionalmente nel significato generale di augurio di piacere e di fertilità, in quanto destinate a facilitare il recupero del potere sessuale e dei piaceri terrestri del morto nel quadro della resurrezione, sia o no il destinatario vivo o morto, uomo o donna. Ma mi pare innegabile lo scopo per il defunto, di risvegliarne il ka per ottenere la revirilizzazione e le funzioni procreatrici maschili attraverso una compagna virtuale, o per la defunta, assicurarle la virtuale capacità generatrice.

Il tamburo “a barilotto” è attestato per lo più da suonatori maschi, in ambito militare, e se ne sostiene la provenienza nubiana durante il Nuovo Regno. Ma è invece provato che il tamburo a barilotto esisteva e poteva essere suonato da una donna anche già nella XIIXIII dinastia, come mostrato da una figurina in pietra di donna, accovacciata, con particolari dipinti in nero, la quale tiene fra le mani appoggiato sulle ginocchia un tamburo a barilotto.9 Ma anche fra la speciale produzione di figurine “concubine” femminili in terracotta del Medio Regno e di provenienza da Kom Zumran-Naucrati nel Delta, si trova una donna con tamburo a rocchetto10 (Fig. 5) ed altre donne con altri strumenti musicali.11 Va credo attenuata la proposta che soltanto a partire dall’epoca di Chepenupet III12 si trovi attestato il tamburo suonato da donna, probabilmente sotto l’influenza della Nubia.

A conclusione vorrei dire due parole sull’atteggiamento degli antichi egiziani verso il sesso: fecondità femminile e potenza sessuale maschile erano per gli egiziani antichi elementi fondamentali della vita e anche della morte. In questo intreccio di amore e morte, chiudo ricordando una scena a dir poco inattesa, in una tomba d’Epoca tardoTolemaica di el-Salamuni15 nel Medio Egitto, dove il dio dei morti Anubi si accoppia con una donna (che si può ritenere la titolare della tomba) sopra un letto con decorazioni e con un alto cuscino a rotolo con nappa (Fig. 7).

Queste osservazioni cronologiche fanno sì che una datazione alla tarda Epoca Ramesside sia suggerita dallo stile della figura per la “concubina suonatrice di tamburo” qui pubblicata, mentre non ci sono ragioni per opporsi alla provenienza tebana indicata dal proprietario del pezzo.

Bibliografia In Epoca post-Saitica, nel IV secolo a.C., la suonatrice di tamburo figura in rilievi, in una serie fissa di musici davanti al defunto, che vede al primo posto l’arpista cieco – che esalta le gioie dell’ebbrezza – seguito dalla suonatrice di tamburo a barilotto. Nel rilievo Tigrane Pacha nel Museo di Alessandria (n. 380) (Fig. 6) seguono alla tamburina due donne che battono a ritmo le mani, nel rilievo di Cleveland la tamburina è seguita da una suonatrice di lira rivolta indietro,13 nel frammento di

Barguet P. 1949-1950. Karnak-Nord IV. Fouilles conduits par Cl. Robichon; rapport de P. Barguet et J. Leclant. Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale. Bothmer B. 1960. Egyptian Sculpture of the Late Period 700 B.C. to A.D. 100. Brooklyn, The Brooklyn Museum. Del Vesco P. 2010, Letti votivi e culti domestici. Tracce archeologiche di credenze religiose nell’Egitto del Terzo Periodo Intermedio (Monografie di EVO, III). Pisa, Edizioni Plus.

9

Pelizaeus Museum, acquisto 1984. Esposta nella Mostra di Barcellona del 1998; cfr. Flamarion 1998, n. 185. 10 Gardner 1888, Tav. XV, Fig. 7. La denominazione “a rocchetto” descrive il fatto che il tamburo si stringe verso il centro. 11 Berlin 13244, forse suona un liuto, è data come di provenienza ignota (Hornemann 1966, IV, n. 902) ma è certamente da Kom Zumran come la statuina in nota 13. Lo stesso vale anche per la statuina dello stesso tipo, che tiene un sistro (Hornemann, 1966, IV, n. 901). 12 Ziegler 1977, 209; l’autrice cita Barguet 1949-1950, 131, Pl. 114, dove la donna suona il tamburo ritmando la danza di giovani tra papiri e uccelli e il rilievo del Cleveland Museum, della XXX dinastia. 13 Bothmer 1960, n. 82, Fig. 203 (Cleveland Museum, da tomba Eliopoli di Hapi-iw, XXX dinastia ).

Desroches Noblecourt Ch. 1953. “Concubines du mort” et mères de famille au Moyen Empire. À propos d’une

14

Bothmer 1960, n. 87. Kanawati 1999, Pl. 42. La posa ricorda quella di gruppi erotici, per esempio è molto simile a quello del Brooklyn Museum (Number: 58.13).

15

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

supplique pour une naissance. Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale 53, 7-47. Desroches Noblecourt Ch. 1995. Amours et fureurs de La Lointaine: Clés pour la compréhension de symboles égyptiens. Paris. Flamarion E. 1998. Cleopatra, el mito y la realidad. Barcelona, Grupo zeta. Gardner E.A. 1888. Naukratis II. London, Egypt Exploration Fund. Hornemann B. 1966. Types of ancient Egyptian statuary. IV. Kobenhavn, Munksgaard. Kanawati N. 1999. Sohag in Upper Egypt. A glorious history. Cairo, Prism. Manniche L. 1975. Ancient Egyptian Instruments. Berlin, Deutscher Kunstverlag.

Musical

Manniche L. 1991. Music and Musicians in Ancient Egypt. London, British Museum Press. MichaƯlidès G. 1950-1951. Considerations sur la religion égyptienne, en marge d’une collection inédite. Bulletin de l’Institut d’Égypte, 173-174, Pl. XXIII. Petrie F.F. 1886. Naucrati. London, Trubner and Company. Pinch G. 1983. Childbirth and female figurines at Deir elMedina and el-‘Amarna. Orientalia 52, 405-414. Pinch G. 1993. Votive Offerings to Hathor. Oxford, Griffith Institute, Ashmolean Museum. Stevens A. 2007. Private Religion at Amarna. The Material Evidence. Oxford, BAR Publishing. Tooley A. 1991. Child’s toy or ritual object? Göttingen Miszellen 123, 101-111. Quirke S. 1998, Figures of clay: toys or ritual objects? In S. Quirke (ed.), Lahun Studies. Reigate, SIA. Waraksa E. 2008. Female Figurines (Pharaonic Period). In UCLA Encyclopedia of Egyptology. Los Angeles, [http://escholarship.org/uc/item/4dg0d57b]. Waraksa E. 2009. Female figurines from the Mut Precinct: Context and ritual function. Fribourg, Academic Press; Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht. Teeter E. 2010, Baked Clay Figurines and Votive Beds from Medinet Habu, Chicago, The Oriental Institute. Ziegler Ch. 1977. Tambours conservés au Musée du Louvre. Revue d’Égyptologie 29, 209. 29

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: La tamburina, vista anteriore (collezione privata, Svizzera)

Fig. 2: La tamburina, vista posteriore (collezione privata, Svizzera) 30

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 3: La tamburina, vista laterale sinistra (collezione privata, Svizzera)

Fig. 4: La concubina abbraccia Osiri-uovo vegetante (collezione privata) (disegno di G.G.)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 5: Suonatrice di tamburo a rocchetto, Naukrati (da Gardner 1888, Tav. XV, Fig. 7)

Fig. 6: Rilievo “Tigrane Pacha”, Alessandria, n. 380

Fig. 7: Scena dipinta, necropoli di el-Salamuni (da Kanawati 1999, Pl. 42)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

comprendente un certo numero di antichità egizie2 o i lungimiranti acquisti del pittore e collezionista Pelagio Palagi,3 che riuscì a entrare in possesso di molti degli oggetti riportati dall’Egitto da Giuseppe Nizzoli, cancelliere del governo austriaco ad Alessandria tra il 1818 e il 1828.4 Queste collezioni costituiranno, come è noto, il nucleo storico della sezione egiziana del Museo Civico Archeologico di Bologna,5 arricchito poi da altre donazioni minori, tra le quali meritano una seppure breve menzione quelle di altri due bolognesi: il medico Giuseppe Ferlini6 e l’economista Federico Amici.7

GIOVANNI LUIGI MINGARELLI E IL «PRIMO TENTENNARE PER VIE NUOVE»: GLI STUDI COPTI A BOLOGNA NELLA SECONDA METÀ DEL XVIII SECOLO E LA NUOVA STAGIONE DEI CARATTERI TIPOGRAFICI COPTI Paola Buzi

Assai meno noto, ma di certo non meno importante, fu il ruolo svolto da Bologna nello sviluppo degli studi copti: all’ombra delle due torri, nell’ultimo quarto del XVIII secolo Giovanni Luigi Mingarelli (Grizzana 1722 Bologna 1793) si preparava a dare il suo significativo contributo al progredire di una disciplina che in quegli anni stava producendo in Italia risultati sorprendenti e per certi versi insperati.

Abstract If the contribution of Bologna to the foundation of modern Egyptology is widely recognized, much less known is its role in the origin of Coptic Studies. This article is devoted to the figure of the abbot Giovanni Luigi Mingarelli, who is the author of the first catalogue of Coptic manuscripts. Inedited documents, letters and papers belonging to him and related to his studies in the field of Egyptian Christianity are here presented for the first time, with a special attention to the project of realization of a CopticLatin dictionary and the creation of a new Coptic type font.

A Mingarelli, studioso di grande determinazione, di solide competenze filologiche, e di felici intuizioni, si deve più di una conquista: dalla pubblicazione di quello che può essere definito il primo catalogo ragionato di manoscritti copti, al progetto di un mai realizzato dizionario copto, fino all’iniziativa di commissionare la realizzazione di un set di caratteri copti in una città che era del tutto priva di una tradizione editoriale nelle lingue orientali, aspetto niente affatto trascurabile quest’ultimo, che fa di Mingarelli non solo un erudito, ma anche un uomo pratico, capace di porsi dei problemi concreti e, soprattutto, di risolverli.

All’alba del Cinquecento, un ardimentoso bolognese, Ludovico de Varthema (Bologna 1470 ca. – Bologna 1517), della cui vita purtroppo assai poco ci è noto, intraprese un viaggio che era allora ben più di un azzardo, riuscendo a raggiungere Alessandria e il Cairo – e da lì poi l’Etiopia, la Mecca e persino l’India – e riportandone notizie tanto preziose quanto attendibili. L’Itinerario de Ludouico de Varthema Bolognese nello Egitto, nella Surria, nella Arabia deserta e felice, nella Persia, nella India e nella Etiopia1 può essere considerato, a ragione, il primo esempio del ben noto interesse, dapprima di stampo economico-antropologico e solo in un secondo momento più propriamente scientifico, di Bologna per l’Egitto, un interesse destinato ad aumentare nei secoli successivi, tanto da fare della città felsinea uno dei più importanti poli del collezionismo egittologico.

Le pagine che seguono si soffermeranno in particolare su questi due ultimi aspetti della ricerca mingarelliana, poiché, a fronte della grande fama di cui ha goduto e tuttora gode l’edizione dei frammenti copti Naniani, sia l’impresa dei caratteri tipografici copti sia quella della progettazione di un dizionario sono quasi del tutto sconosciuti persino ai coptologi.

2 Su Ferdinando Cospi (Bologna 1606 – Bologna 1686) e il Museo Cospiano, confluito dapprima nell’Istituto delle Scienze di Palazzo Poggi e successivamente nel Museo Civico Archeologico di Bologna, di cui costituisce uno dei nuclei storici, cfr. Picchi 2004a, 51-86 e l’ampia bibliografia ivi citata. Su Ulisse Aldovrandi (Bologna 1522 – Bologna 1605) e Luigi Ferdinando Marsili (Bologna 1658 – Bologna 1730) cfr. Brizzolara 1984a, 119-124; Scappini, Torricelli 1993; Simili 2001; Gualandi 1984, 131-143; Brizzolara 1984b, 619-638; Brizzolara 2002, 49-53; Picchi 2004b, 21-33 e Picchi 2010. 3 Sulla poliedrica figura di Pelagio Palagi (Bologna 1775 – Torino 1860) cfr. Palagi 1976; Picchi 2006, 179-193 e Picchi 2009, 35-40, plates xvii-xxi. 4 Per l’attività politica e collezionistica di Giuseppe Nizzoli (Bologna ? – Salonicco 1858) cfr. Daris 2005. Per un profilo della consorte di Nizzoli, Amalia, parimenti importante per la storia dell’egittologia di quegli anni, cfr. Pernigotti 1991, 3-84 e Pernigotti 1996. 5 Cfr. ancora una volta Picchi 2004, 51-86. 6 Bologna 1797 – Bologna 1870. Ferlini 1936; Ferlini 1937; Mormino 1957, 119-124; Fagioli Vercellone 1996; Cesaretti 1987-1990, 169-200. 7 Pernigotti 1997, 19-20. Federico Amici fu responsabile del primo censimento dell’Egitto, effettuato nel 1882.

Basterà qui ricordare l’impegno con cui i bolognesi Ulisse Aldrovandi, Ferdinando Cospi, Ferdinando Marsili si adoperarono nella costituzione di un museo pubblico 1 de Varthema 1508. L’Itinerario de Ludouico de Varthema Bolognese… fu pubblicato la prima volta a Roma nel 1510 (ad instatia de Lodouico de Henricis da Corneto Vicetino). A tale prima edizione, ristampata sempre a Roma nel 1517, ne seguirono molte altre sia italiane (Venezia 1518, 1535, 1563, 1589, ecc.; Milano 1519, 1523, 1525, ecc.) che straniere (tra le altre si segnalano: Augusta 1515; Strasburgo 1516; Lipsia 1610, 1615, ecc.; Siviglia 1520, Lione 1556; Anversa 1563, Utrecht 1615, 1655), fino ad arrivare alle più moderne riedizioni. Non mancarono, nel tempo, neppure traduzioni in latino dell’Itinerario (Milano 1511, ad opera di Archangelus Madrignanus; Norimberga 1610; Francoforte 1611, ecc.). Sul de Varthema (o di Varthema) e la fortuna della sua opera cfr. Bacchi della Lega 1918; Fantini 1929, 256-259; Luzio 1949, 511-514; Ragazzi 1956, 766-769; Tedeschi 1980, 273-280; Martínez d’Alòs-Moner 2010, 1038.

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dell’ordine, Mingarelli iniziò un sopralluogo delle canoniche che erano sotto la sua amministrazione, giungendo così fino a Venezia, dove colse l’occasione «per iscorrere colà diverse Biblioteche, e rivedere quella de’ Signori Nani, li cui Codici Greci, mandatigli poco prima a Bologna, veniva egli allora egregiamente illustrando».12

Le pergamene Naniane e i rapporti con il “circolo Borgiano” Sarebbe del tutto superfluo ripercorrere in questa sede le ben note tappe biografiche di Mingarelli, da altri già efficacemente tratteggiate;8 gioverà qui schizzarne solo alcuni tratti, come il profondo e radicato amore per la filologia classica,9 disciplina che spicca nella sua personalità dal sapere enciclopedico, e che tanto più lo distingue quanto più si considera che, dopo la felice stagione rinascimentale, l’Italia dovrà attendere la metà dell’Ottocento per vedere rifondato un nuovo, scientifico interesse per le lingue classiche.10

Quando, nel 1784, Mingarelli ricevette dal collezionista veneziano Jacopo (o Giacomo) Nani una scatola contenente diciassette frammenti di manoscritti pergamenacei in lingua copta perché ne facesse un elenco da aggiungere in calce al lavoro sulle pergamene greche,13 Mingarelli aveva 62 anni e nessuna idea della struttura della lingua copta. Non per questo si perse d’animo; prese anzi immediatamente contatto con tutti coloro che potessero aiutarlo in quella nuova impresa.14

Fu del resto tale inclinazione ad attirare l’attenzione di Domenico Passionei, prefetto della Biblioteca Vaticana, che affidò a Mingarelli l’incarico di realizzare un catalogo ragionato della sua collezione privata di autori classici, e quella dello storico e latinista Giovanni Crisostomo Trombelli, abate generale dell’ordine dei Canonici Regolari Renani o del Santissimo Salvatore,11 che lo volle dapprima come segretario e poi, dal 1764, come titolare della cattedra di Letteratura Greca all’Archiginnasio. Nel 1776, assurto al ruolo di generale

È ben noto che sul finire del XVIII secolo gli studi copti vivevano a Roma un momento di straordinaria attività, grazie soprattutto al circolo intellettuale che gravitava attorno al cardinale Stefano Borgia,15 che dapprima con la collaborazione di Tūki e Giorgi16 e poi, soprattutto, con quella dei danesi Münter17 e Zoega,18 aveva saputo rinverdire, e far sensibilmente progredire, la tradizione coptologica romana risalente ai tempi di Kircher.19 A ciò

8 Cfr. Cavalieri 1817 e, soprattutto, Motta 1996, 315-395, a cui si deve un documentato profilo di Mingarelli, con particolare attenzione alla sua attività in seno all’ordine dei Canonici Regolari di San Salvatore, nonché un elenco completo delle opere da questi edite e un’ampia bibliografia relativa allo studioso bolognese. Tale censimento non tiene conto, tuttavia, delle missive da questi inviate al cardinale Stefano Borgia, oggi conservate presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, sotto le segnature Borg. Lat. 285 e Borg. Lat. 286. Cfr. inoltre Loschiavo 1990, 28-29. Si segnala che Cavalieri riporta che il conte Fantuzzi, nelle sue Notizie degli Scrittori Bolognesi non riuscì a scrivere compiutamente la vita di Mingarelli «come sperava si sarebbe fatto in Roma, ove erano stati spediti da Bologna tutti i materiali». Tale dato tuttavia non corrisponde a verità dal momento che a tutt’oggi molte delle carte di Mingarelli, relative alle questioni più varie, si trovano a Bologna. Cfr. Cavalieri 1817, 2 e Fantuzzi 1781-1794, 149-156. Quanto all’opera di Cavalieri essa non è che parte di un più vasto progetto di 200 biografie di italiani illustri dal titolo Biblioteca degli uomini illustri nelle scienze o nelle arti i quali appartengono alla congregazione Renana de’ Canonici Regolari del SS. Salvatore formata con l’ordine stesso con cui sono stati disposti i loro Articoli compilata da D. Prospero Cavalieri. Tale opera è conservata in forma manoscritta presso l’Archivio di San Pietro in Vincoli e venne in parte edita a Velletri nel 1836. Cfr. Samaritani 2006, 95-111. 9 Si ricordano, tra le sue opere più significative, Didymi Alexandrini de Trinitate libri tres e graeco in latinum conversi, et notis illustrati, Bononiae, apud Laelium a Vulpe, 1769, Epiphanii monachi, et presbiteri de vita Sanctissimae Deipareae liber. D. Iohannes Aloysius Mingarellius […] ex ms.cod. Naniano exscripsit, e Graeco latine redditit, et brevibus scholiis illustravit, Romae, apud Benedictum Francesium, 1774 e soprattutto Codices Graeci manuscripti apud Nanios patricios venetos asservati, Bononiae, apud Laelium a Vulpe, 1784. 10 Cfr. Gervasoni 1929; Curione 1941 e Canfora 1989. In particolare per l’insegnamento del greco in Italia, cfr. Tosi 2005, 122.128. 11 La Congregazione del Santissimo Salvatore deve il suo nome all’omonima abbazia bolognese sede dell’ordine. L’abbazia nacque a sua volta, nel 1419, dall’unione dei Canonici “Renani” (così chiamati dalla loro originaria sede di S. Maria di Reno) con i Canonici di Sant’ Ambrogio di Gubbio. Gli attuali Canonici Regolari Lateranensi riuniscono, dal 1823 e dopo le soppressioni napoleoniche, la Congregazione Lateranense e quella Renana o del Santissimo Salvatore. La loro sede centrale, in cui risiede l’abate generale, è a Roma, presso la Basilica di San Pietro in Vincoli. Cfr. Escobar 1951-1953, I, 11. Per la momentanea soppressione dell’ordine cfr. nota 84 (Appendice II).

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Cavalieri 1817, 43. Si tratta dei già menzionati Codices Graeci manuscripti apud Nanios patricios venetos asservati. Nella prefazione alle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ Mingarelli afferma: «aegyptia haec Fragmenta Venetiis Bononiam mihi transmissa sunt, ut de illis in extremo graecorum Nanianae bibliothecae codicum, qui tunc imprimebatur, Elencho aliquid dicerem». Cfr. Migarelli 1785, 3. 14 Si veda in merito la corrispondenza intercorsa con Nani l’Appendice II. 15 Buzi 2009, 16-75. 16  Antonio Agostino Giorgi (San Mauro di Romagna 1711 – Roma 1797) fu professore di lingue orientali alla Sapienza e bibliotecario della Biblioteca Angelica, molto vicino al conterraneo cardinal Lambertini, futuro Benedetto XIV. Cfr. Fontani 1798; Grigioni 1912; Pollini 1978. 17 Friederik Münter (1761-1830) giunse a Roma nel 1784, dopo aver dapprima soggiornato a Venezia, Firenze e Bologna. A Roma frequentò inizialmente soprattutto l’ambiente degli artisti tedeschi (tra cui Angelica Kaufmann). Non appena entrò in contatto con il Borgia, questi gli fornì una grammatica copta e gli prospettò il progetto di studio del suo fondo di manoscritti. Stefano Borgia definiva Münter «il mio unigenito Copto» (dalla lettera di S. Borgia a Münter, datata 18 marzo 1787, Borg. Lat. 285, ff. 92-93). Per un profilo dei maggiori studiosi che frequentarono la casa di Stefano Borgia, interessandosi delle più diverse discipline cfr. Orsatti 1996, 13-28. Per conoscere i nomi di chi collaborò all’allestimento museale di Palazzo Borgia a Velletri e allo sviluppo delle ricerche scientifiche, cfr. anche il ms. Borg. Lat. 895, consistente in una raccolta, divisa per argomenti, redatta dallo stesso cardinale, di documenti e articoli di studiosi che citano o illustrano alcuni “monumenti” del Museo Borgiano di Velletri. 18 Il nome dello studioso danese Zoega è attestato in forme diverse nei vari documenti che lo riguardano. Egli stesso si firma indifferentemente Georg, George, Jörgen, Georgius e, nel caso di missive indirizzate a personalità italiane, Giorgio; parimenti per il suo cognome viene utilizzata variabilmente tanto la forma Zoega quanto la più tradizionale Zoëga. Si segnala inoltre che nell’iscrizione sepolcrale incisa sulla sua tomba, situata a Roma, all’interno della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, poco distante da piazza di Spagna, si legge: IOHAN GEORG ZOEGA. 19  Nell’ambito della sterminata bibliografia relativa al poliedrico studioso gesuita si vedano soprattutto Godwin 1979; Rivosecchi 1982; Casciato, Ianniello 1986; Vercellone, Bertinetto 2007; Todaro 2009. 13

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che accadeva a Roma, deve poi aggiungersi l’esperienza isolata, e forse proprio per questo ancor più eccezionale, di Tommaso Valperga, abate di Caluso, che sotto lo pseudonimo di Didymus Taurinensis nel 1783 aveva realizzato una grammatica copta dal titolo Didymi Taurinensis Literaturæ Copticæ rudimentum.20

«Nel 1780 diè il nostro Abate l’ultima mano all’indice ragionato dei Codici Greci Naniani, lavoro pieno di belle e pellegrine notizie dedotte dai medesimi codici […]. La stampa di quest’Opera, che forma in tutto un grosso volume in quarto, fu cominciata in Bologna nel 1781 a spese de’ Signori Nani, e già stava per compiersi, quando nel fine del mese di Febbrajo dell’anno 1784 venne di Venezia diretto al nostro Abate altro convoglio di nuovi codici da aggiungersi alli già impressi. Ma che? Apertasi prestamente la cassetta ove eran riposti, mentre pensava di rinvenirvi Codici Greci, con grande sua meraviglia e sorpresa non vi trovò, che sessanta Pergamene Egiziane antichissime. L’ignoranza totale di questa lingua, la mancanza de’ mezzi per apprenderla, l’età sua avanzata, l’abbattimento infine, in cui tuttavia trovavasi per la morte del P. Abate Trombelli poco prima accaduta, lasciarono qualche tempo indeciso il nostro Abate sul partito, a cui in proposito avesse dovuto appigliarsi. Fattosi tuttavia coraggio e provvedutosi del Prodromo di Kircher, della Grammatica del Tukio, e del Rudimento di Valperga, volle tentare di addomesticarsi in qualche modo anche colla lingua Egizia, non con altra vista però, se non che di poter dare con esattezza l’Elenco di quelle Pergamene sul fine del Volume de’ Codici Greci Naniani. Con questo intendimento dunque egli fece prontamente fare sulle Pergamente istesse i bolcioni e le madri dell’Alfabeto Egizio, e gettarne il carattere da quel medesimo Francesco Barattini, di cui alcuni anni prima si era parimenti servito per li caratteri greci. Quindi egli mandò un saggio di questi nuovi caratteri all’Abate Valperga Caluso a Torino, a Gio. Bernardo de’ Rossi, a Monsig. Stefano Borgia, ed al P. Agostino Giorgi […]. Per animarlo maggiormente mandogli subito il Padre Giorgi gli Atti di S. Coluto da lui illustrati, e non guari dopo Monsig. Borgia gli fece tenere il Lessico di La Croze da valersene finché avesse avuta occasione di procurarselo d’Inghilterra».25

Erano quelli gli anni in cui cominciavano a giungere in Europa i primi manoscritti provenienti dalla Biblioteca del Monastero Bianco. Stefano Borgia fu il primo ad entrarne in possesso, affidando a Zoega la loro catalogazione. Mentre lo studioso danese era ancora intento alla realizzazione del suo Catalogus,21 altri frammenti della medesima provenienza vennero acquisiti da George Baldwin, che li affidò a Woide,22 e da Jacopo Nani, che a sua volta li inviò appunto a Mingarelli.23 Nel momento in cui ricevette il plico contenente i frammenti copti, lo studioso bolognese non seppe nascondere il suo iniziale scoramento di fronte ad un materiale per lui tanto nuovo: «aperta arcula obstupui: graecas putabam, aegyptias reperi. Quid facerem? qui in Aegyptia lingua hospes plane essem atque adeo ἀναλφάβετος, ut ne figuras quidam Aegyptiarum litterarum noscerem? Tentandum aliquid statui, quamvis magistro, duce, grammatica, Lexico, omni demum presidio destitutus. Kircheri Prodromum, Illustrissimi Praesulis Tukii grammaticam, et doctissimi Valpergae sub Didymi Taurinensis nomine latentis Rudimentum, quod forte fortuna Parmae nuper editum fuerat mihi comparavi: Borgiana vero S. Coluthi Acta Velitris asservata, et ab eruditissimo viro Augustino Giorgi edita atque illustrata nuper acceperam: tum in Aegyptiae linguae studium totis viribus ausus sum, etsi provectae iam, imo senili aetati parum actum id videretur».24 Alla testimonianza diretta di Mingarelli, si aggiunge quella di uno dei suoi più attenti biografi, Prospero Cavalieri, che descrive con giusta enfasi il momento dell’arrivo dei frammenti copti a Bologna:

Ma l’impresa assunse presto proporzioni maggiori del previsto tanto da portare Mingarelli alla decisione di pubblicare i frammenti copti separatamente da quelli greci. Videro così la luce i primi due fascicoli delle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ:

20 Valperga 1783. Tommaso Valperga di Caluso (Torino 1737 - Torino 1815) entrò a Napoli nel 1761 nell’ordine di S. Filippo Neri e vi rimase fino al 1769, quando fece ritorno a Torino. Grazie alla sua ampia cultura, seppe circondarsi delle personalità più importanti dell’ambiente scientifico e letterario piemontese; ben nota è la sua amicizia con Vittorio Alfieri, che al Valperga dedicò il Saul. Dal 1783 al 1801 ricoprì la carica di segretario perpetuo dell’Accademia delle Scienze e fu anche direttore della specola astronomica. Donò alla Biblioteca Universitaria la sua ricca collezione di manoscritti ebraici e arabi e di incunaboli. Cfr. Breme 1815; Saluzzo 1815; Boucheron 1836; Cerruti 1988. La sua opera verrà in qualche modo proseguita da Amedeo Peyron (Torino 1785 - Torino 1870) che erediterà la cattedra di Lingue Orientali. 21 Zoega 1810. 22 Si tratta dei mss. ora conservati presso il Department of Oriental Books della Boldeian Library of Oxford. 23 I manoscritti Naniani sono oggi conservati presso la Biblioteca Marciana di Venezia. Seguirono altri acquisti ad opera di Curzon, Tattam, Quatrèmere, ecc. Cfr. Emmel 1992 e Emmel 2004, I, 20-22. 24 Mingarelli 1785, iii.

«Per la qual cosa, vedendo egli andarsi ingrandendo quell’opera più di quello convenir potesse ad un’Appendice, stabilì non solo di pubblicarla separatamente dai Codici Greci Naniani, ma con l’altri consigli, principalmente di Carlo Woide, e di Giacomo Giorgio Adler, ai quali aveva inviato 25 Cavalieri 1817, 52-54. Presso la Biblioteca Universitaria di Bologna (Coll. Raro D 3), nel “fondo Mingarelli” si conserva una copia del Lexicon Aegyptiaco-Latinum ex veteribus illius linguae monumentis summo studio collectum et elaboratum... di Marthurin Veyssiere de la Croze, su cui sono vistose annotazioni di pugno di Mingarelli. Si tratta probabilmente della copia personale che questi ottenne da Oxford e che sostituì quella inizialmente avuta in prestito da Stefano Borgia.

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alcuni fogli della detta Versione, si determinò di dividerla in due parti».26

assai probabile, dunque, che essi siano andati perduti ai tempi dell’occupazione francese.

Comincia così per Mingarelli una fase di proficui scambi epistolari, che testimoniano di un’atmosfera di contatti internazionali particolarmente intensi e fruttuosi. «I Münter, gli Adler, gli Heeren, li Zoega, gli Schow, ed altri molti illustri Letterati», scrive Cavalieri, «sperimentarono più volte quanto vengo ora dicendo della singolar gentilezza, ed urbanità somma del nostro Abate».27 È bene ricordare, del resto, che se a Zoega spetta l’intuizione di aver compreso il ruolo di Shenute come autore della letteratura copta, fu Mingarelli28 il primo a pubblicare frammenti di opere dell’archimandrita del Monastero Bianco.

Durante la preparazione dell’incompiuto terzo fascicolo, Mingarelli scrive più volte a Stefano Borgia, come attestano alcune lettere conservate presso la Biblioteca Apostolica Vaticana: «Due favori vorrei chiedere, purché non sia per arrecarle troppo incomodo. Nella Versione Tebaica del capo nono di Daniele publicata dal Sig. Münter, due volte, cioè nel versetto 6, e nell’8vo si legge: ⲉⲣⲱⲟⲩ, cioè Reges: li Rè: ma in quel dialetto vuol dirsi ⲣⲱⲟⲩ: vorrei sapere se nella pergamena che à (sic) nel suo museo Borgiano, dice veramente ⲉⲣⲱⲟⲩ, oppure ⲣⲱⲟⲩ: poiché se ivi fosse veramente scritto ⲉⲣⲱⲟⲩ due volte, non dubiterei più che si potesse scrivere così ancora. L’altro favore è il seguente. Nell’altra settimana mi venne dall’Egitto un nuovo fragmento egiziano, che è un pezzo di Omilia: vi mancano le prime quattro membrane. Semmai tralli Fragmenti Borgiani, o Woideani si trovassero queste quattro carte segnate coi numeri 1, 2, 3, 4 in lettere egizie o greche che vogliamo chiamarle, sarebbe cosa assai opportuna. Onde mi fò ardito di supplicarla a veder se sono fralle sue. Ho già tradotto in latino tutto il suddetto Fragmento di omilia in Mattheum, per mio divertimento: vi sono 3, o quattro parole nuove, delle quali il sicuro significato si saprà quando escano alla luce altri fragmenti, od opuscoli, in cui si trovino [...]. Bologna 7 Febbraio 1787».35

Qualche anno più tardi, nel 1790, Nani mandò a Mingarelli i frammenti di altri 14 fogli (di cui 9 in pergamena e 5 in carta), che avrebbero dovuto vedere la luce sotto forma del terzo fascicolo delle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ.29 Tale fascicolo non fu però mai portato a termine a causa della scomparsa del bolognese. Esistono tuttavia alcune incomplete prove di stampa, un esemplare delle quali è conservato presso la Sezione Manoscritti e Libri antichi della Biblioteca Universitaria di Bologna30. Si tratta di fogli non rifilati,31 su cui Mingarelli annota, di suo pugno, le correzioni da apportare. Questi primi fogli stampati vennero «trasmessi di mano in mano privatamente agli amici del nostro Abate»,32 prima che questi cominciasse a star male a causa di «gravi flussioni di capo».33 A una diversa fase di avanzamento del lavoro appartengono le bozze, parimenti non rifiliate, conservate a Venezia.34 Presso la Biblioteca Universitaria di Bologna si conserva inoltre la versione manoscritta del terzo fascicolo (Fig. 1).

«Il Sig. cav. Nani brama che io stampi alcuni fragmenti tebaidi della sua biblioteca. Io non ho ancora risoluto di farlo: e prima di risolvere vengo a supplicarla di una grazia. Sappia che il Sig. Schow mi regalò le copie di alcuni de’ fragmenti del Museo di Vostra Eminenza. Prego dunque Vostra Eminenza a dirmi se le dispiacerebbe che io li pubblicassi insieme coi suddetti Naniani, non essendo di dovere che io li stampi senza il consentimento di quello cui tanto devo, e che è il padrone degli originali [...]. Bologna 29 gennaio 1791».36

Resta un mistero su cosa sia avvenuto a questo ultimo gruppo di frammenti copti, dal momento che non fecero mai ritorno a Venezia e neppure si trovano a Bologna. È 26

Cavalieri 1817, 55. Jacob Georg Christian Adler (1756-1834) arrivò a Roma con lo scopo di perfezionare lo studio delle lingue orientali, su incarico di O.H. Guldberg, ministro degli Affari Esteri danese. Conobbe Stefano Borgia grazie a Giuseppe Garampi. Il suo interesse per il copto dipendeva essenzialmente dalla volontà di servirsene per arrivare alla decifrazione del geroglifico. Tra le sue opere più notevoli è il Novi Testamenti versiones Syaricae illustratae a Jacobo Georgico Cristiano Adler…Volscorum Velitris, et Arcadum Romae socius, Hafniae 1789. L’opera venne dedicata a Borgia e Garampi. 27 Cavalieri, 1817, 69. 28 Mingarelli 1785, nn. 4, 5, 6 e 14; Giorgi 1789, clxv-clxviii. 29 Mingarelli 1790 (?); Teza 1892, 488-502; Lucchesi 2002, 261-277 e qui soprattutto 261-265. 30 Capsula 2947 bis. 31 È già stato fatto notare che le pagine X-XV sono stampate in sequenza erronea. Cfr. Cavalieri 1817; Motta 1996, 335. 32 Cavalieri 1817, 72. 33 Cavalieri, 1817, 72. Annota anche il Cavalieri: «Egli per ciò si era sottoposto, benché di malavoglia, al parere di alcuni Medici, che lo avevano consigliato a far uso della parrucca, mentre trovavasi del tutto privo di capelli». Aggiunge anche «spesso aver ricordo a pronte sanguigne e copiose». Cavalieri 1817, 74. 34 Teza 1892, 491; Lucchesi 2002, 265-266. Il terzo fascicolo degli Aegyptiorum codicum reliquiae è conservato, al pari dei primi due, in un volume rilegato con segnatura Cons. Mss. Marc. 9.

Quest’ultimo riferimento trova puntuale riscontro in alcune trascrizioni di testi copti che, pur essendo conservate nel “fondo Mingarelli” della Biblioteca Universitaria di Bologna, chiaramente non sono di suo pugno e che trovano invece confronto nella grafia, regolare e tondeggiante di Schow (Fig. 2). Ad ulteriore conferma si aggiungono poi le carte di Zoega conservate presso la Biblioteca Reale di Copenaghen. Tra queste, in una piccola cartella cartacea si legge: Index fragmentorum Copticorum Musei Borgiani, quorum exemplaria Revmo Abb. Mingarelli data sunt (a Nicolao Schow), sotto la quale si elencano i diciassette frammenti dati in prestito all’abate bolognese.37 35

Borg. Lat. 285, f. 83. Borg. Lat. 286, f. 81. 37 Ny Kgl. Saml. 357 b, fol., I 2° (kps 2). 36

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Da parte sua, il Borgia mostrava pari stima nei confronti di Mingarelli, come dimostra il fatto che il prefetto della Propaganda Fide in più occasioni inviò al bolognese copie inedite delle trascrizioni di Zoega, volumi di sua proprietà, nonché un buon numero di missive, avvalendosi della sua consulenza per le questioni più varie, dall’epigrafia alla letteratura, dalla filologia classica alla teologia:

Mingarelli aveva rifilato i margini così da renderlo simile ad una rubrica, lo studioso bolognese annotava parole, ma anche sintagmi nominali e verbali con relativa traduzione latina o italiana (e talvolta greca), numerandoli progressivamente (Figg. 3a-b). Così per esempio alla lettera ⲙ si legge: ⲙⲛⲥⲁ, post ⲙⲁⲁϫⲉ, auricula ⲙⲏⲏⲛⲉ, quotidie ⲙⲧϣⲏⲣⲉϣⲏⲙ, adolescentia ⲡⲙⲥϩⲥⲛⲁⲩ, δεύτερον …

«Finché avrò bisogno, io avrò sempre ricorso a Bologna, e a chi in Bologna docet come Voi, il mio caro P. Abate. Siatemi dunque generoso de’ vostri lumi».38 La stretta collaborazione con altri orientalisti e il rispetto da questi nutrito nei confronti di Mingarelli appare del resto evidente anche dall’elogio funebre dedicato all’amico da poco scomparso che Agostino Giorgi inserisce nella prefazione del suo De miraculis Sancti Coluthi et reliquis actorum Sancti Panesniv martyrum thebaica fragmenta.39 Un’amicizia e una stima, queste, ampiamente corrisposte da Mingarelli, che, nell’introduzione alle sue Reliquiae celebra il «doctissimum Virum Augustinum Giorgium»,40 le lettere ricevute «a carissimo viro Voideo»41 e il «pereruditum studiosissimumque adolescentem Jacobum Adlerum».42

ma anche: 44 ⲙ ⲣⲱⲙⲉ, 19. viri ⲧⲉⲛⲁⲙⲟⲣⲉ, cingeris, sarai cinta … Parimenti alla lettera ⲡ si trova: ⲡⲉⲧⲁⲩ, ille ⲡⲉⲗϭⲉ, panniculus rudis ⲧⲁⲡⲣⲟ, os meum, la mia bocca ⲡⲱϩⲧ, effundere, versare …

Un progetto poco noto: la realizzazione di un dizionario copto Se lo straordinario impegno di Mingarelli nello studio del copto è cosa ben nota, assai meno conosciuto è il suo progetto di realizzazione di un dizionario copto-latino. La testimonianza di Cavalieri su questo specifico aspetto della ricerca mingarelliana è finora infatti, a quanto sembra, rimasta del tutto inosservata:

ma anche: ⲉϥⲡⲟⲥⲉ,

ardere

ⲁϥⲡⲱⲧ ⲉⲃⲟⲗ ϩⲁϫⲱⲟⲩ, ⲛⲧⲉⲣⲉ

ⲡⲟⲩⲱ

corse loro incontro vedi Tuki p. 297

ⲧⲁϩⲉ ⲛⲉⲥⲛⲏⲩ,



«Erano già alcuni anni, da che andava radunando voci Memfitiche, e Tebaiche colla idea di dare un giorno alla luce o un’Appendice al Lessico di De La Croze, o pur qualche nuovo lessico […] ritrovandosi egli molto innanzi in detto lavoro, non cessava di far premure agli amici perché volessero essergli liberali di frammenti e fogli antichi Egiziani, che si trovassero possedere, onde poter trarre dai medesimi nuove voci, con cui arricchire, e migliorare il suo Lessico».43

Lo stesso genere di lavoro Mingarelli compiva sui frammenti Naniani, da cui estrapolava termini e locuzioni, come attesta un gruppo di otto fogli rilegati, anch’essi conservati presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, su cui Mingarelli aveva annotato termini tratti da un frammento che avrebbe dovuto vedere la luce con il terzo fascicolo delle Ægyptiorum Reliquiæ. Su di essi si legge l’intestazione: Membrana omni ex parte lacera, longa uncias ferme novem, lata olim uncias saltem quinquem, charactere elegantissimo exarata fuit saeculo fortasse octavo, aut multo ante. Posterior manus eos numeros addidit, quos parentesi inclusi.45

Nonostante il progetto non sia mai stato portato a termine, ancora una volta a causa della scomparsa dello studioso, nella Biblioteca Universitaria di Bologna rimangono tracce dello stato avanzato di tale lavoro: su un grande quaderno dalla copertina rigida, a cui

Il fatto che Mingarelli prendesse nota anche di brevi frasi di senso compiuto potrebbe suggerire che accarezzasse l’idea di realizzare, prima o poi, anche una grammatica

38

Cavalieri 1817, 46. Giorgi 1793, ccxcviii-cccvi. 40 Mingarelli 1875, 4. 41 Mingarelli 1875, 5. 42 Mingarelli 1875, 6. 43 Cavalieri 1817, 70. 39

44 Si rispetta la differenza di modulo utilizzata da Mingarelli nelle sue trascrizioni. 45 2947 bis. Cfr. Motta 1996, 362-363.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

della lingua copta. Ma questa è un’ipotesi a cui sarà difficile riuscire a trovare conferma.

fondazione della Sacra Congregatio de Propaganda Fide, nel 1622, Roma aveva visto nascere due tipografie ufficiali con questa specializzazione: la Tipografia del Popolo Romano,50 istituita nel 1561 per iniziativa di Pio IV e ceduta al Comune dopo il primo biennio di attività, e la Stamperia Vaticana, fondata da Sisto V nel 1587 e destinata a operare in modo autonomo fino al 1609, quando venne fusa con la Tipografia Apostolica Vaticana e con la Stamperia Camerale.51

L’ideazione e la realizzazione dei caratteri tipografici copti ad opera di Francesco Barattini e l’eredità della tradizione tipografica “esotica” romana di Giovanni Battista Bodoni Accanto alla progettazione di un dizionario, l’altra grande impresa di Mingarelli, questa volta compiutamente portata a termine ma parimenti negletta, è senza dubbio l’aver dato incarico al fidato tipografo Francesco Barattini di realizzare dei caratteri a stampa dell’alfabeto copto, impresa tanto più significativa, se si considera che Bologna non aveva una tradizione editoriale nelle lingue orientali, diversamente da altre città della Penisola, come Milano,46 Padova,47 Firenze – che vantava una delle più antiche case editrici dotate di caratteri orientali, la Tipografia Medicea Orientale –48 e naturalmente Roma.

Nel 1622 nasceva, infine, la Sacra Congregatio de Propaganda Fide a cui veniva a affiancato, nel 1627, il Collegio Urbano, che a sua volta poteva contare sui prodotti editoriali della Tipografia Poliglotta, creata l’anno precedente, per istruire il clero missionario e produrre libri nelle lingue delle terre di missione. Dapprima collocata presso la Salita del Grillo, la Poliglotta venne trasferita, nel 1643, nell’insula di Piazza di Spagna ove rimase fino al 1909, quando venne fusa anch’essa con la Tipografia Vaticana.52

Proprio a Roma, pochi decenni prima che Francesco Barattini ricevesse dal Mingarelli l’incarico di realizzare i caratteri tipografici copti per la stampa delle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ, stava avvenendo una piccola rivoluzione grazie all’arrivo di uno dei più talentuosi tipografi di tutti i tempi: Giovanni Battista Bodoni.49

È in questo clima che vengono effettuati i primi esperimenti di stampa con caratteri copti, di cui costituisce un chiaro esempio l’Alphabetum Cophtum sive Aegyptiacus, uno specimen di caratteri copti, stampato su otto pagine in ottavo, acquistato negli anni ’80 del Novecento dalla Beinecke Library, convincentemente datato da Emmel tra il 1629 e il 1630.53 Le prime opere stampate con tali caratteri furono il Prodromus coptus sive aegyptiacus…54 e la Lingua aegyptiaca restituta di Kircher, editi rispettivamente nel 1636 e nel 1643. Quei caratteri, tuttavia, dovevano essere divenuti quasi del tutto inservibili a giudicare da quanto riferiscono i biografi di Giovanni Battista Bodoni, il quale, dopo il suo arrivo a Roma fu notato e immediatamente preso a ben volere sia da Giuseppe Spinelli, Prefetto della Propaganda Fide, sia dall’abate Costantino Ruggeri, soprintendente alla Stamperia della medesima

È questo, paradossalmente, un capitolo della storia della stampa ben più noto agli storici del libro che non ai coptologi e agli orientalisti. Quando nel 1758 Giovanni Battista Bodoni, appena diciottenne e con alle spalle la sola esperienza professionale maturata a Saluzzo, nella bottega paterna, giunse a Roma, ove sarebbe rimasto fino al 1766, la città, come è ben noto, aveva già una lunga tradizione nell’editoria delle lingue orientali. Prima ancora della 46

Tiraboschi 1833, 544. Nel 1684 venne fondata a Padova dal cardinal Gregorio Barbarigo la Tipografia del Seminario. 48 La Tipografia Medicea Orientale era stata fondata a Roma nel 1584, su progetto del cardinal Ferdinando de’ Medici, per essere trasferita, tre anni più tardi, quando questi divenne granduca di Toscana, dapprima a Pisa, nel Palazzo Granducale, e poi a Firenze. Sequestrata con tutte le sue attrezzature da Napoleone, tornò ad essere attiva a Firenze nel 1816. Cfr. Tinto 1987, 85. Per i caratteri copti della Tipografia Medicea Orientale cfr. ancora una volta Tinto 1987, 51. Fu Jean Cavaillon, che aveva sostituito lo scomparso Robert Granjon (1545-1588) nella creazione dei punzoni, a realizzare per la Medicea il “carattere egiziano grande”, il “carattere egiziano medio” e il “carattere egiziano piccolo”. Sulla Tipografia Medicea Orientale cfr. inoltre Korolewskij 1924 (bozze di stampa conservate presso la Biblioteca Apostolica Vaticana) e Jones 1994, 88-108. Sull’attività tipografica di Granjon a Roma cfr. Vervliet 1967b; Vervliet 1981 e Barberi 1990, 6. 49 Per le vicende biografiche di Bodoni cfr. Passerini 1804; De Lama 1816; Barbera 1913; Samek Ludovici 1940, 526-531; Bodoni 1959; Samek Ludovici 1964a, 333-338; Samek Ludovici 1964b, 20-29; Farinelli 1990; Tozzi 2008. Sugli aspetti tecnici dell’arte di Bodoni cfr. Samek Ludovici 1965b, 5-22; Samek Ludovici 1990a, 180-196; Samek Ludovici 1990b, 112-115 e Chappell, Bringhurst 1999, 192-194. Sul suo rapporto con la Congregazione de Propaganda Fide cfr. Pizzuto 1940-1941, 213-214; Ciavarella 1959; Tozzi 2008, e soprattutto Samek Ludovici 1965a, 141-157. Assai interessante, per approfondire i rapporti intrattenuti da Bodoni con Valperga di Caluso è Cerruti 1988. 47

50

La Tipografia del Popolo Romano, che ebbe circa trent’anni di vita, fu diretta inizialmente da Paolo Manuzio e finanziata da una gabella sul vino forestiero, detta “dello Studio” proprio in virtù della sua finalità. Cfr. Barberi 1942; Barberi 1990, 27-28. 51 Primo direttore della Tipografia Vaticana fu Domenico Vasa. 52 Tinto 1973, 280-303. Vennero immediatamente assunti alla Poliglotta Giovanni Battista Sottile e Stefano Paolini, che in quanto allievi di Giovanni Battista Raimondi, avevano già maturato una certa esperienza nella composizione di caratteri di lingue “esotiche” presso la Tipografia Medicea Orientale. Si noti che Stefano Paolini lavora nel frattempo anche alla Stamperia Vaticana, a sottolineare i forti legami tra le due stamperie romane. Lo scopo voleva anche essere quello di competere con la fervente parallela attività editoriale dei protestanti. 53 Per le ragioni di tale datazione e un’accurata descrizione dell’Alphabetum, cfr. Emmel 1987, 97-104. 54 Il titolo completo dell’opera è Prodromus in quo cum linguae Coptae, sive Aegyptiacae, quondam Pharaonicae, origo, aetas, vicissitudo, inclinatio; tum hieroglyphicae literaturae instauratio…ita novae quoque et insolita methodo exhibentur, Romae, Typographia Congregationis de Propaganda Fide, 1636. Il volume, che comprende una dedica dell’autore al card. Francesco Barberini e alcuni componimenti poetici dedicati a Kircher scritti in siriaco, arabo, armeno, copto, ebraico ed etiopico, tutti tradotti in latino, è la prima edizione della prima grammatica copta realizzata in Occidente e il primo libro in cui compaiono caratteri tipografici copti.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

sottolinea Samek Ludovici,60 il ruolo svolto da Bodoni nella composizione dell’Alphabetum Tibetanum61 di Agostino Giorgi, stampato nel 1762, ma pubblicato solo l’anno successivo: i documenti d’archivio della Congregazione dimostrano che il vero compositore fu un anziano tipografo, Alessandro Giardoni, mentre l’ancor giovane Bodoni si limitò all’apparato decorativo, che pure non cela il suo talento in crescita.

congregazione, tanto da essere nominato “compositore di lingue esotiche”.55 Contrariamente a quanto di solito si crede, tuttavia, il primo incarico affidato a Bodoni fu semplicemente quello di riordinare i caratteri orientali già posseduti dalla Congregazione ma resi ormai inutilizzabili dalla ruggine e dall’incuria. Lo stesso Bodoni ricorda che, nel 1759, il cardinal Spinelli aveva chiesto a Clemente XIII il permesso di trasferire presso la sede della Congregazione i caratteri fatti eseguire da Sisto V (1585-1590).56 Così l’episodio viene descritto dal De Lama, biografo di Bodoni, il quale sottolinea che a Roma, come già a Firenze, fino a quel momento ci si fosse affidati per la realizzazione di caratteri orientali soprattutto ad artigiani francesi:57

Un ruolo secondario Bodoni esercitò anche nella realizzazione del cosiddetto “Messale copto-arabo”, più propriamente Euchologium copto-arabicum, curato da Tūki, e consistente in tre volumi (due volumi di Pontificale, editi tra il 1761 e il 1762 ed un volume di Rituale, pubblicato l’anno successivo). Di tali volumi si conservano, presso la Biblioteca Nazionale Braidese di Milano e la Palatina di Parma, anche le prove di stampa (in secondo stato) dei frontespizi, su uno dei quali si legge: ROMAE. EXCUDEBAT J. B. BODONUS SALUTENSIS MDCCLXII.62

«[…] il Ruggeri cominciò a sperare che per esso [Bodoni] potrebbe finalmente uno de’ suoi più accarezzati desideri porre ad effetto quello cioè di ripulire e nel proprio lor luogo riporre i punzoni di que’ tanti caratteri orientali che Sisto V, chiamati di Francia i rinomati incisori Garamond e Le Bè58 aveva fatti da loro formare con grandissima spesa, onde servirsene a prò delle Missioni, punzoni pregevolissimi che in quella Stamperia giacevano da lunghissimo tempo confusi ed inutili. Appalesò dunque questo suo pensiero al giovine Saluzzese che, quantunque poco fosse esperto in siffatte cose applicò pronta la mano al lavoro, e per virtù d’impegno cavò la ruggine dai punzoni, con esatta squadra separò gli alfabeti di grandezza diversa e tutti li ripose appresso in bene ordinate scansie: dalla quale laboriosa fatica si risvegliarono senza dubbio in sua mente le prime idee dello incidere e fondere caratteri».59

Nonostante il precoce talento di Bodoni, tali frontespizi non vennero composti tipograficamente, ma per xilografia, come era ancora in uso fare. La “firma” del Saluzzese in calce ai frontespizi non è, dunque, da intendersi come prova della paternità della composizione dell’opera intera, quanto piuttosto come segno della stima di cui questi godeva già da giovanissimo e che di lì a poco gli sarebbe valsa l’incarico della vera e propria progettazione dei nuovi caratteri copti. Analogamente marginale fu il ruolo di Bodoni nella realizzazione, nel 1764, della Theotokia di Tūki, una silloge liturgica in onore della Vergine, per la quale realizzò, a quanto pare, ancora una volta, l’apparato decorativo. Il fraintendimento sul ruolo svolto da Bodoni nella realizzazione di tali opere librarie si deve in parte anche alla vedova del maestro, Margherita Dall’Aglio, che in ogni modo tentò di enfatizzare la precocità del talento del marito.

Il compito di Bodoni è quindi, in un primo momento, solo quello di mettere ordine tra i caratteri orientali già esistenti. È da ridimensionare, dunque, come ben

È tra il 1764 e il 1766, anno in cui Bodoni lascia definitivamente Roma, che deve essere avvenuta la gestazione e la realizzazione di un nuovo set di caratteri copti, anche a seguito delle lezioni di lingue orientali che, su stimolo del Ruggeri, egli aveva seguito presso la Sapienza:

55 «[…] l’abate Costantino Ruggeri […] subito allacciato dalle sue maniere schiette e vivaci, e in lui discoprendo non comunale talento e cognizioni di molto all’età sua superiori, lo presentò al cardinale Spinelli […] e conseguì che fosse ammesso per compositore». Passerini 1804, 9. 56 Nel 1782 Bodoni scrisse una Memoria da inviare a Parigi in risposta ad una richiesta dell’Académie Royale des Sciences che intendeva censire le varie getterie attive in Europa. Tale Memoria, il cui manoscritto di 28 pagine è conservato presso la Bibliothèque Nationale de France, è edita da Brun 1940-1941, 112-119. Cfr. Samek Ludovici 1965a, 142. Sulla politica di riordino e ripristino dei vecchi caratteri cfr. anche la Relazione dell’origine regolamento e stato presente della Stamperia di Propaganda, estratta dai decreti della S. Congregazione, dalle Memorie di Mons. Ingoli e da altri documenti autentici, per opera dell’abate Costantino Ruggeri soprintendente della Stamperia medesima, e presentata all’Emo Sig. Card. Spinelli nell’anno 1759 (Cartella Stamperia cc. 110-136). 57 Si pensi ai caratteri Granjon-Cavaillon della Tipografia Medicea Orientale. 58 In corsivo nel testo. 59 De Lama 1816, 5-6. Sullo stesso episodio cfr. anche Passerini, 1804, 16.

60 Samek Ludovici 1965a, 150-153. A questo proposito Samek Ludovici fa opportunamente notare che «excudere è termine proprio degli incisori non dei tipografi». Cfr. Samek Ludovici 1965a, 145. Va osservato, inoltre, che, sebbene Pizzuto avvalli il suddetto fraintendimento, non manca poi di precisare che «dal 1766 – quando riuscì nel felice intaglio d’un fregio – egli non abbandonò più il cesello e iniziò da quel giorno la sua attività di punzonista», lasciando intendere che prima di allora la sua attività in seno alla Propaganda Fide fosse di altro genere. Cfr. Pizzuto 1940-1941, 213. 61 Alphabetum Tibetanum missionum apostolicarum commodo editum: Præmissa est disquisitio qua de vario litterarum ac regionis nomine, gentis origine, moribus, ... ecclesiæ patres refutantur, Romæ 1762. 62 Per gli altri frontespizi su cui compare il nome di Bodoni cfr. Samek Ludovici 1965a, 145.

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«L’abate Costantino Ruggeri […] consigliò il nostro Bodoni ad apprender le lingue orientali per passarlo poi a compositor delle lingue esotiche, giacché a quei tempi altro non v’era che un vecchio cadente che atto fosse a tali lavori».63

Principe Primogenito di Parma… Inscrizioni esotiche a caratteri novellamente incisi e infusi:65 «Ecc.mo e Rev.mo Principe, Ricordevole mai sempre, che la celebratissima Tipografia della S.C. di Propaganda fu la felice Scuola, e direi quasi la mia Atene, ove appresi già i primi elementi della letteratura esotica, ho voluto passare al Pubblico questa mia obbligazione in fine di una Prefazione apposta a una serie di nuovi Caratteri di lingue straniere, che vengo di mettere in luce. […] Vostra Eminenza dotata di tanto sapere, e avvezza a proteggere ogni arte utile all’ingrandimento della Religione e delle Lettere, ravviserà agevolmente il pregio del Libro, che Le umilio ossequiosamente, come umilierolle in appresso il rimanente de’ Caratteri esotici, che sto preparando».

Barbera, a poco più di un secolo di distanza, riprende quasi esattamente le parole di Passerini, per aggiungere: «Non occorrono molte lezioni a un tipografo intelligente per mettersi in grado di comporre correttamente l’arabo, il copto, il tibetano, l’ebraico. Il padre Curci diceva che quattro o cinque lezioni gli erano bastate per metter in grado operai destinati alla composizione di sue scritture bibliche, di comporre discretamente l’ebraico, e non molte più debbono essere bastate al Bodoni, cui l’intelligenza non faceva certo difetto, per essere in grado di applicarsi in Propaganda alla composizione del messale arabo-copto del padre Giorgi, procuratore generale degli Agostiniani, […] e che forse era quello stesso padre Giorgi protettore del Casanova e suo consigliere nei primi tempi del suo soggiorno a Roma. Il messale arabocopto fu composto con tanta perfezione da quel giovane ventiduenne, che il soprintendente volle che si stampasse a piè di pagina nel frontispizio: Romae excudebat Johannes Baptista Bodonus salutentis».64

Poco oltre Bodoni, nel manifestare l’intenzione di fornire Parma di caratteri orientali, cita le altre città Europee che ne sono dotate, per soffermarsi poi su Roma e sulla Sacra Congregatio de Propaganda Fide «a cui niuno potrà mai contendere la copia di tanti esotici bellissimi caratteri, quali avuti dall’antica Vaticana, dalla Medicea, dalla Savariana, e quali recentemente gettati per saggio suggerimento di chi a quella con tanta commendazione presiede. […] Quivi apparai il poco ch’io so; quivi nacquero in me le prime idee dell’incidere e del gettare; quivi si accese in me l’inclinazione per questo genere di caratteri e di studio».66

L’attività di Bodoni presso la Propaganda Fide deve dunque essersi sviluppata in due stadi: in un primo momento vi fu una sorta di apprendistato in cui il giovane saluzzese, torcoliere e incisore di caratteri lignei, si limita a ripulire i caratteri “esotici” già esistenti ed ereditati dalla stagione tipografica di Sisto V, assistendo contemporaneamente alla composizione di alcuni volumi di Tūki (Euchologium, Alphabetum Tibetanum, Theotokia) di cui altri erano tuttavia responsabili e che, almeno in parte devono essere stati realizzati per xilografia; successivamente, forte anche delle nozioni di lingue orientali apprese presso la Sapienza, le responsabilità di Bodoni aumentano, fino ad arrivare alla realizzazione dei caratteri orientali suoi propri, caratterizzati da una nuova sobria eleganza, che è poi firma più evidente di ogni creazione bodoniana.

E ancora, da una minuta priva di data inviata a un anonimo prelato della Propaganda Fide, si apprende: «[…] Io dunque sono dispostissimo a formare Ponzoni, Madri, Caratteri, quanti se ne vorranno, non solo per le lingue più usuali, ma per tutte, e quante le Esotiche, e meno tra noi praticate. Basterà, che mi si additino precisamente la qualità, il numero, la forma de’ Caratteri di qualsivoglia genere, e impegno l’onor mio a provedere (sic) la Stamperia a dovizia di tutto ciò, che possa costì mancare […]»67 Anche dopo la sua partenza, Bodoni rimase in buoni rapporti con l’ambiente romano e in particolare con Antonio Fulgoni che per più di cinque decenni fu stampatore della Propaganda Fide.68

Nel 1774 la realizzazione dei caratteri “esotici”, tra cui quelli copti, doveva essere ormai compiuta, a giudicare da quel che Bodoni scrive nella dedica che accompagna il suo dono Pel solenne battesimo di S.A.R. Ludovico

65

Impresso nella R. Stamperia di Parma, 1774 il giorno 18 di aprile. Bodoni 1959, 10-11. 67 Bodoni 1959, 12. Per i caratteri tipografici di cui era dotata la Propaganda Fide, prima e dopo l’attività di Bodoni, cfr. i seguenti documenti: Inventario de madri, ponsoni de caratteri, fregi a figure diuerse in rame ... poste nel Collegio Vrbano de Propaganda Fide, 2 Octobre 1676 (Arch. Stamperia I, ff. 468–472) e Inventario generale della Stamperia della Sacra Congregazione de Propaganda Fine. Fatto nell’ Anno 1768 (Arch. Stamperia II, ff. 697–781). 68 «[…] la memoria dell’ottimo mio amico Fulgoni mi starà impressa eternamente nella mente» scrive Bodoni in una lettera senza data inviata all’abate Cancellieri. Cfr. Bodoni 1959, 16. E ancora, in una lettera del 22 marzo 1806, Francesco Cancellieri, nel richiedere a Bodoni i suoi 66

63

Passerini 1804, 9. Barbera 1913, 22-23. Anche Barbera, come si vede, cade nell’errore di considerare Bodoni il principale compositore delle opere copto-arabe prodotte tra il 1762 e il 1764. L’autore tuttavia si contraddice quando afferma, poco oltre: «Deposto il bulino del silografo, si mise con meravigliosa tranquillità e pazienza alla ripulitura dei punzoni, e poi a separare e distinguere i caratteri gli uni dagli altri, e finalmente a disporli perfettamente ordinati nelle rispettive casse». Evidentemente fino ad allora Bodoni aveva inciso caratteri lignei. Sulla erronea definizione del “Messale” cfr. supra. 64

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I caratteri del Bodoni dovevano, con tutta probabilità, essere tra quelli che vennero sequestrati alla Tipografia Poliglotta nel periodo della Repubblica Romana (17981799), come documenta l’accorata lettera che Zoega indirizza il 25 ottobre 1799 al cardinal Borgia, allora in esilio proprio a causa di quei rivolgimenti politici:

somigliano a quelli utilizzati da Münter e Zoega, tanto da poter ipotizzare che proprio di questi si servissero i collaboratori del Borgia (Figg. 4a-b e 5a-b). 71 In generale i caratteri di Bodoni sembrano rispettare la “filosofia” di quelli coniati nel XVII, ma risultano più alleggeriti ed eleganti e certamente sono di modulo inferiore.

«Non le dico quanta consolazione m’abbia recata la Sua del 12, dopo tanti mesi d’interrotto carteggio. […] Tetri sono stati i mesi passati, per tutti gia (sic), ma particolarmente per me, che tagliato fuori dalla patria, privo d’ogni sostegno qui, e mancante fin da nove mesi delle mie cambiali, per poco più che durasse l’assedio non avrei saputo come mantenere la mia numerosa ed inferma famiglia. […] Parmi d’essere di molti anni invecchiato, né altro che una vita regolatissima tanto nel vitto quanto nell’applicazione conserva questa debole mia machina in uno stato tollerabile. […] La vita solitaria, a cui in questi ultimi anni più che mai mi sono dato, fa bensì che sempre sia frai libri, ma leggendo soltanto, non studiando, combinando, componendo come in altri tempi. Il fatale destino del mio libro sugli obelischi che dopo avermi costato tanta fatica è stato sequestrato, e si può dire morto prima che nato, m’ha alquanto scoraggiato di nuove imprese. […] Intanto si sequestrarono i caratteri copti, e dopo tutti passi fatti da Ricci per riacquistarli per Roma, restano ancora sospesi, e fino al ritorno di V.E. non torneranno facilmente in attività. […]».69

Chiudendo questa lunga digressione sulle vicende tipografiche romane e tornando a quelle bolognesi, è significativo che, quando nel 1784 Francesco Barattini72 ricevette da Mingarelli l’incarico di incidere i tipi dell’alfabeto copto allo scopo di pubblicare le Ægyptiorum Codicum Reliquiæ, furono proprio i caratteri bodoniani che prese a modello. Era quello un momento particolarmente felice per l’editoria bolognese e per gli artigiani dei caratteri a stampa.73 Dalla metà del XVIII secolo infatti, abbandonati gli svolazzi dei decenni precedenti, si mirò ad una sobrietà generale, tanto che Bologna produsse risultati che se «non arrivarono a quelli di Bodoni, superarono i prodotti della grande maggioranza dei tipografi delle altre città».74 Tra le case editrici più importanti della città si distingueva senz’altro quella di Lelio (1685-1749) e Petronio Della Volpe (1721-1794).75 Nata, nel 1720, dall’intraprendenza di Lelio e di altri cinque soci che la rilevarono dai beni di Giulio Borzaghi attraverso la vedova di questi, la stamperia divenne poi proprietà del solo Della Volpe che, trasferendola in via Altabella, ne fece un’azienda assai fiorente, anche grazie alla fama ottenuta, nel 1736, per il rifacimento in ottave del Bertoldo di Giulio Cesare Croce. Fu per il resto specializzata soprattutto in opere scientifiche e in pubblicistica occasionale, quest’ultima commissionata per lo più da istituzioni ecclesiastiche. L’essere stata incorporata, nel 1778, nell’Istituto delle Scienze (ossia nell’Ateneo Bolognese), perdendo così la sua autonomia fisica, unitamente al fatto che i prezzi di vendita vennero da allora imposti dallo stesso Istituto e al divieto di distribuzione dei prodotti librari al di fuori dell’ateneo, non giovarono al benessere dell’azienda, che presto si riempì di debiti a causa dei numerosi invenduti.76

A questo proposito, occorre sottolineare come sia il Manuale Tipografico70 di Bodoni, uscito postumo nel 1818, sia la raccolta di alfabeti bodoniani inediti pubblicata da Books nel 1929 contengano alcuni set di caratteri copti; questi ultimi, in particolare, molto ormai celebri caratteri latini, scrive: «Io ho l’onore di presiedere alla Stamperia di Propaganda, che si glorierà sempre di averla avuta nel suo seno […]. Quanto godrei di farmi il merito, che fusse arricchita, sotto la mia direzione, de’ Ponzoni e delle Madri di un Silvio, della Filosofia, di un Garamoncino, e di un Testino bodoniano! Anche l’E.mo S.r Cardinal Antonellli […] godrebbe di farne acquisto. L’ottimo nostro S.r Fulgoni, prima di chiudere gli occhi, e dopo 52 anni di servigio, prestato alla S.C., smania di aver la consolazione di veder provvista la Stamperia di questo preziosissimo capitale […]». Bodoni 1959, 19. Da questa epistola si deduce che la stamperia della Congregatio de Propaganda Fide faceva uso anche di altri caratteri bodoniani e non solo di quelli da questi realizzati per le lingue orientali. 69 Borg. Lat. 288, ff. 348-349. 70 Bodoni 1818. Va rammentato che nel 1771 Bodoni aveva già realizzato un Saggio Tipografico, embrione del Manuale Tipografico del 1788, che non comprendeva tuttavia alcun carattere orientale e che lo stesso Bodoni considerava un traguardo provvisorio, visto quanto scrive poco prima della sua morte, non celando il suo antagonismo con i tipografi francesi e inglesi: «Spero tra pochi mesi di pubblicare il mio Manuale Tipografico, che ridurrà alla stessa condizione della statua di Loth tutti i barbassori e satrapi della Senna e del Tamigi». Bodoni 1818, 16. Lasciato incompleto, il Manuale Tipografico venne completato dalla vedova, Margherita Dall’Aglio, nel 1818 e stampato in non più di 300 copie. Esso comprende 665 alfabeti (inclusi gli orientali) e 1330 vignette.

71 Bodoni 1818, 83-84: particolarmente vicini ai glifi copti del Catalogus di Zoega sono i caratteri cofti elaborati “sul Testo”; Brooks 1929, 7-8. 72 Francesco Barattini (Bologna 1730 – Bologna post 1771) fu incisore di metalli, sigilli e caratteri tipografici e medaglista. È noto per la calligraficità dei suoi rilievi poco aggettanti. 73 Sorbelli 1929. 74 Sorbelli 1929, 163. 75 Tavoni 1986, 61-65. 76 I libri prodotti dopo il 1778 recano, oltre alla consueta indicazione Ex typographia Laeli a Vulpe, anche la formula Instituti Scientiarum typographi. Per la dettagliata storia della tipografia della Volpe, cfr. Bortoletti, Serra 1979, v-xlviii. Durante la gestione di Petronio Dalla Volpe, vennero tirate 500 copie del Claustro, tiratura appropriata ideale per i libri d’arte, «l’invenduto fu però enorme: rimasero nei depositi 372 copie slegate e senza rami». Eppure «l’edizione è bellissima, frutto di una calcografia che dà il meglio di sé – i rami sono di Giovanni Fabbri; l’impaginazione è ariosa, i caratteri di Francesco Barattini sono fra i suoi migliori; il formato, atlantico (indicato nei documenti come “folio

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Quel che qui conta sottolineare, tuttavia, è che i Della Volpe furono incisori e fonditori di caratteri in proprio, i primi in assoluto a Bologna, e fornitori degli altri tipografi attivi nella città felsinea e nello Stato Pontificio dal 1750 al 1794 circa. Il dato è assai importante, soprattutto se si considera che nell’Europa di quegli anni erano attive in tutto non più di sessanta fonderie.

Bologna il giorno il 17 maggio 1784; cita poi i nomi di tutti coloro che prima di Mingarelli si erano dedicati allo studio della lingua egiziana e a cui l’abate bolognese era in qualche modo debitore, da Nani a Tūki, da Borgia a Giorgi, da Valperga di Caluso a Woide e De Rossi, fino all’«amico fonditore e incisore di tipi, Bodoni» (ⲡⲁϣⲃ ⲭⲱⲛⲉⲩⲧⲏⲥ ⲁⲩⲱ ⲣⲫⲱⲧϩ ⲛⲧⲩⲡⲟⲥ ⲡⲃⲟⲇⲱⲛⲓ).

Artigiano dell’incisione presso i Della Volpe era, come si è detto, Francesco Barattini il cui lavoro era ben noto anche a Bodoni, che lo cita nella sua Notizia intorno a vari incisori di caratteri e sopra alcune getterie d’Italia.77 Le Mostre de’ caratteri intagliati da Francesco Barattini bolognese a tutto l’anno 1757 testimoniano sia la precoce attività di produzione di punzoni da parte dei Della Volpe, da datarsi almeno al 1756, sia la maestria del Barattini, a cui si deve la realizzazione dei caratteri con cui vennero stampate molte opere di Mingarelli, tra cui il Dydimus Alexandrinus e il De Trinitate.78

La dimestichezza con cui Mingarelli maneggia il copto e la perizia con cui Barattini cura la mise en page della Mostra nonché la nitidezza dei suoi nuovi caratteri ben illustrano gli eccezionali progressi che, sul finire del Settecento, compivano gli studi copti nel capoluogo emiliano, fino ad allora rimasto escluso da qualunque interesse per l’Oriente cristiano. E, se non è da escludere che la ricognizione dei materiali rimasti in deposito, ormai per più di due secoli, presso le canoniche un tempo dipendenti da S. Salvatore possa rivelare qualche altra sorpresa sulle attività di ricerca di Mingarelli, è certo che quel poco che sappiamo del molto che egli realizzò o ebbe in animo di realizzare rappresenta ben più che «un tentennar per vie nuove» – espressione con cui, con grande modestia, Mingarelli stesso definisce i suoi studi sulla lingua copta – ma piuttosto un avanzare a passi sicuri e decisi verso la moderna coptologia.

Non stupisce dunque che Mingarelli si sia rivolto direttamente al Barattini per commissionargli un set di caratteri copti: «Franciscus interim Barattinus Aegyptias omnes literas ea forma quam in membranis habent, meo jussu ab ipsomet scuptas, cusas, fusasque pro impressione paraverat, earumque Specimen Junio edidit, homo cuiuslibet quidem litteraturae expers, mirum tamen in modum accuratus».79 L’esito di tale magistrale lavoro è rappresentato dalla Mostra dei caratteri egiziani intagliati da Francesco Barattini80 consistente in un breve testo tratto da uno dei frammenti Naniani e una sorta di colofone composto in copto da Mingarelli, e successivamente inserito nella prefazione alle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ (Fig. 6).81

APPENDICE I ELENCO DELLE BIBLIOTECHE E DEGLI ARCHIVI ITALIANI IN CUI SI CONSERVANO CARTE RELATIVE A GIOVANNI LUIGI MINGARELLI

In tale colofone Francesco Barattini,82 che parla in prima persona come un moderno copista, dichiara di aver completato la fusione dei tipi copti (ⲛⲧⲩⲡⲟⲥ) a

Lettere, per lo più inedite, inviate e ricevute da Mingarelli, insieme a numerosi e vari documenti relativi alle sue molte attività, sono conservate presso le seguenti biblioteche: Bergamo, Biblioteca Angelo Mai: Fondo Pietro Antonio Serassi, 67 R 1 (3): due lettere di Mingarelli inviate all’abate Serassi (16/7/1760 e s.d.)

reale”), testimonia la volontà di gareggiare con la grande produzione del settore». Tavoni 1991, 305-318. Alla morte di Petronio, sua sorella Maria Caterina, in qualità di erede universale, fece stilare un inventario del patrimonio in suo possesso (comprendente una stamperia, una getteria e una libreria) per poi cederlo allo stampatore Giambattista Sassi, dopo aver tentato invano di venderlo all’Istituto delle Scienze. Molti degli antichi rami che Della Volpe aveva collezionato e prodotto vennero acquistati da Bodoni. 77 Paris, Bibliothèque Nationale de France, Ms. ital. 222. 78 Barattini lavorò per tutta la vita presso i Della Volpe e, alla morte di Petronio, contribuì a farne valutare il patrimonio punzonistico in vista della vendita della casa editrice. 79 Mingarelli 1785, ivi. 80 Biblioteca Universitaria di Bologna, A.5.Tab.1.N.2.230/8. 81 Mingarelli 1785, iv; Lucchesi 2002, 261, nota 4. Si noti che l’idea di realizzare un testo celebrativo in copto non era del tutto nuova, essendo già stata utilizzata da Kircher per la compilazione di un breve testo in onore di Nicolas-Claude Fabry de Peiresc nell’ambito del volumetto commemorativo a questi dedicato dalla romana Accademia degli Umoristi, contenente encomî in forma poetica redatti in circa 40 lingue orientali. Cfr. Monumentum Romanum 1638, f. 95 e Bausi in corso di stampa. 82 Il testo copto dice esplicitamente «il mio amico…».

Bologna, Archivio di Stato: Demaniali 201 2648, 202 2649, 203 2650, 213 2660, 218 2665, 174 2621: atti e documenti vari relativi soprattutto alle direttive date da Mingarelli in qualità di procuratore generale e poi di abate generale nell’ambito dell’amministrazione dei beni. Bologna, Biblioteca Universitaria:

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

San Pietro in Vincoli,85 spiccano due cartelle, rispettivamente denominate Mingarelli – Carteggio 1764-1793. Litterae receptae et annotatae ab ipso num. 52-60. Aliae litterae receptae 61-6486 e Mingarelli – Carteggio 1764-1791. (Minervino – Schow) numeri 3850,87 contenenti numerose missive, per la gran parte inedite, ricevute dall’abate bolognese in più di trent’anni di diversificata attività di ricerca e di rapporti epistolari intrattenuti con studiosi di varia nazionalità e specializzazione.

Sezione manoscritti e libri antichi, 2947 e 2947 bis: bozze di stampa, lettere, appunti. Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio: lettera inviata a un ignoto e manifesto dedicatorio in suo onore. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana: Borg. Lat. 285 e Borg. Lat. 286: numerose epistole inviate al cardinal Borgia.

Nell’ambito del ricco carteggio, si selezionano qui i passi più significativi delle lettere ricevute da Jacopo Nani,88 Charles Woide89 e Niels Iversen Schow,90 che ben illustrano l’attività di ricerca di Mingarelli in ambito coptologico.

Roma, Archivio della Curia Generalizia dei Canonici Regolari Lateranensi a San Pietro in Vincoli: Fondo “Mingarelli”: centinaia di lettere, alcune delle quali annotate, inviate al bolognese dai più diversi studiosi.

Fascicolo 40: la corrispondenza con G. Nani Le lettere di Nani, caratterizzate da un italiano ruvido e talvolta difficoltoso, sono di particolare interesse, sia perché mostrano l’assiduità dei rapporti epistolari tra il collezionista veneziano e il prelato bolognese, sia perché attestano che la realizzazione del catalogo dei manoscritti copti era sovvenzionata direttamente dal Nani, che con regolarità provvedeva a far pervenire all’autore gli opportuni finanziamenti. Non meno significativa la

Venezia, Biblioteca Marciana Ufficio Manoscritti: Lettere di Giovanni Luigi Mingarelli si trovano nei seguenti codici: 1) It. X, 169 (= 6571): Lettere autografe scritte al P. Bernardo Maria De Rubeis, volume primo. Due lettere del Mingarelli, al n. 88 (2 fogli) del 24 giugno 1763; al n. 89 (2 fogli) del 7 luglio 1763; 2) It. X, 400 (= 10124): Lettere autografe. Una lettera del Mingarelli (1 foglio), senza nome del destinatario, ma con ringraziamenti anche al conte Florio Primicerio, per un passo di san Basilio che i due gli hanno suggerito, Bologna 22 agosto 1769. Ad esse devono aggiungersi le bozze non rifilate del terzo fascicolo delle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ (Cons. Mss. Marc. 9). 83

85 Ringrazio sentitamente P. Francesco Gualtieri e Chiara Di Meo, responsabili dell’Archivio di San Pietro in Vincoli, per avere agevolato le mie ricerche con estrema disponibilità e competenza. Per un elenco completo delle “carte Mingarelli” conservate a San Pietro in Vincoli si veda di nuovo Motta 1994, 315-395, nonché i cataloghi a stampa dell’Archivio medesimo (catalogo delle persone e catalogo dei fondi, organizzato per città) a cura di P. Emilio Dunoyer, del Collegio San Vittore, Roma. Si rammenta che Mingarelli visse a San Pietro in Vincoli dal 1754 al 1760 e poi, di nuovo, dal 1773 al 1776. Le carte di Mingarelli sono suddivise in fascicoli, in base al mittente. 86 Segnatura: 502.8, A 996, ID 1612. 87 Segnatura: 502.8, A 994, ID 1608. 88 Su Giacomo Nani (1725-1987) cfr. Nani Mocenigo, 1793; Blason Berton 1972, 49-52; Del Negro 1977. 89 Tra le opere più significative di Woide (1725-1790) si rammentano: Lexicon Aegyptiaco-Latinum ex veteribus illius linguae monumentis summo studio collectum et elaboratum a Maturino Veyssiere La Croze. Quod in compendium redegit ... Christianus Scholtz ... Notulas quasdam, et indices adjecit Carolus Godofredus Woide, Oxonii, e Typographeo Clarendoniano, 1775 e Appendix ad editionem Noui Testamenti Graeci e codice ms. Alexandrino a Carolo Godofredo Woide descripti, in qua continentur Fragmenta Noui Testamenti juxta interpretationem dialecti superioris Ægypti quae Thebaidica vel Sahidica appellatur, e codicibus Oxoniensibus maxima ex parte desumpta, cum dissertatione de versione Bibliorum Ægyptiaca quibus subijcitur codicis Vaticani collatio, Oxonii, e typographeo Clarendoniano, 1799. 90 Tra le opere più celebri di Schow si rammentano: Charta papyracea graece scripta Musei Borgiani Velitris qua series incolarum Ptolemaidis Arsinoiticae in aggeribus et fossis operantium exhibetur. Edita a Nicolao Schow ... cum adnotatione critica et paleographica in textum chartae, Romae, apud Antonium Fulgonium,1788; Hesychii Lexicon ex codice ms. Bibliothecae d. Marci restitutum et ab omnibus Musuri correctionibus repurgatum siue Supplementa ad editionem Hesychii Albertinam. Auctore N. Schow, Lipsiae, in officina Weidmannia, 1792 e Ioannis Laurentii philadelphiensis Lydi opusculum De mensibus ex codicibus manuscriptis Biblioth. Barberin. et Vatic. et fragmentum De terrae motibus ex cod. Bibl. Angelicae Rom. Graece edidit ... Nicolaus Schow, Lipsiae, in Libraria Weidmannia, 1794.

APPENDICE II I MATERIALI INEDITI CONSERVATI PRESSO L’ARCHIVIO DEI CANONICI REGOLARI LATERANENSI A SAN PIETRO IN VINCOLI

Tra i molti materiali documentari relativi all’attività scientifica di Mingarelli trasferiti da Bologna a Roma dopo la soppressione della abbazia del Santissimo Salvatore84 e attualmente conservati nell’Archivio della Curia Generalizia dei Canonici Regolari Lateranensi a

83 Ringrazio sentitamente Susy Marcon, curatore della Biblioteca Marciana, Ufficio Manoscritti, per le preziose informazioni. 84 L’ex abbazia, oggi chiesa, del Santissimo Salvatore sorge tuttora a Bologna nella sua originaria posizione, in via Cesare Battisti 16, ma privata dell’originario convento, un tempo sede centrale dell’ordine dei Canonici Renani, che fu soppresso dalle leggi napoleoniche nel 1796, con conseguente confisca dei beni.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

testimonianza dei rapporti intercorsi tra Mingarelli e Simone Assemani (1752-1821), che tali carte mettono chiaramente in luce.91

che rende sempre maggior onore al di lei nome […]. 23 Aprile 1795.

Nell’Archivio di San Pietro in Vincoli, tuttavia, sono conservate esclusivamente lettere del Nani datate al 1785, ovvero alla fase iniziale del lavoro di Mingarelli sui manoscritti copti. Si è portati a credere che il resto della corrispondenza debba essere andato perduto, non trovandosi neppure nel “fondo Mingarelli” conservato presso la sezione manoscritti e stampe antiche della Biblioteca Universitaria di Bologna.92

Ho piacere che pervenuti siano a sua Em.a i denari secondo il dovere spediti. Ho egualmente fatto ricuperare dal Rev.mo Abbate Moason le due copie delle Cose Egizie, delle quali l’una fu anche indirizzata per Brescia. Siccome poi ho […] ammirato l’infinita pazienza e virtù sua nell’avere così bene appreso una Lingua affatto nuova, ho potuto ancora vedere nelle traduzioni apposte l’argomento e la esposizione di quello di cui vi si tratta. Ma forse queste traduzioni ed esposizioni erano superflue in que’ primi fogli del Libro in cui esse mancano e non possono perciò essere desiderate dagli uomini dotti.

Ieri riceveva dal Corriere li cinque esemplari che ella si compiacque mandarmi. L’uno di questi sara (sic) diretto a Brescia, gli altri donati alla Libreria di S. Marco […]. Ven.a 4 Giug. 1784.

Il Sig. Abbate Assemani qui esistente in Venezia travaglia al Catalogo dei 40, o 50 Mss. Orientali che formano parte dei nostri Mss.; e siccome è qualche tempo che mi attende; mi lascia credere che non sia essere trovato immensevole un tale travaglio. 6 maggio 1785.

Per accrescere, se si poteua, l’infinita riputazione che ognuno possedeva al rispettabile nome di Vs. Em.a non vi 93 volea […] che il ricapito dei monumenta egizj. Nuovi tali caratteri agli occhi suoi, non vene allontana per questo; ma ripescando per tutto quelle traccie (sic) che dai predecessori eruditissimi viri erano state mostrate,94 si fa un piacer di riunirle, confrontarle ed emendarle. Tutto diviene grande nelle mani sue […]. Padua 10 Luglio 1784.95 Il Sig. Tomaso Botti a cui ho fatta vedere la lettera di S. Em.a mi ha risposto che a quest’ora dovrebbe essere 96 seguito il pagamento in di lei mani, – avendo egli fatto scrivere nel libro della Posta il denaro che le è stato indirizzato. Ho ricevuto il frontespizio con la Prefazione

Mi sono rallegrato assai nel veder continuare la venerabile opera sua […] del secondo Fascicolo egizio. Io desidero che la Fortuna si presti favorevole nel poter unificare quei cenni che ella fa nel principio dei medesimi. 28 maggio 1785 Non mi sovviene che abbia pregato Vs. Em.a voler fare avere al Rev.mo Biago in S. Romualdo di Roma due copie del celebre libro suo sopra i Mss. copti. Il che se non lo avessi fatto prego ora Vs. Em.a a volergliene fare avere. Come poi la pregherei spedire a Ven.a qualche numero affinché io li possi regalare […]. 1 luglio 1785.

91 Tra le più significative opere di S. Assemani si rammentano: Saggio sull’origine culto letteratura e costumi degli arabi avanti il pseudoprofeta Maometto dell’abate Simone Assemani, Padova, Stamperia del seminario, 1787; Globus caelestis Cufico-Arabicus Veliterni musei Borgiani a Simone Assemano ... illustratus praemissa ejusdem De Arabum astronomia dissertatione et adjectis duabus epistolis cl. Josephi Toaldi ..., Patavii, typis Seminarii, 1790; Catalogo de’ codici manoscritti orientali della Biblioteca Naniana compilato dall’abate Simone Assemani ... Vi s’aggiunge l’illustrazione delle monete cufiche del Museo Naniano. Parte prima [-quarta], Padova, Stamperia del Seminario, 1787-1792; Trattato intorno al santo sacrificio della messa dell’abate Simone Assemani, Padova, Stamperia del seminario, 1803 e Discorso inaugurale alla cattedra di lingue orientali nella Regia Università di Padova detto nel giorno 20 di dicembre 1807 dal professor Simone Assemani ... Padova, Stamperia del seminario, 1808. 92 Si segnala, tuttavia, che un censimento completo delle carte conservate nelle canoniche bolognesi a suo tempo dipendenti dall’abbazia del Santissimo Salvatore non è ancora stato effettuato. Tale indagine potrebbe condurre al recupero di materiale attualmente dato per disperso. Al momento del mio sopralluogo presso l’Archivio di San Pietro in Vincoli (giugno 2010), P. Gualtieri era sul punto di recarsi a Bologna per verificare almeno, in parte, l’entità di tali fondi documentari. Per una breve storia dell’acquisizione da parte dello Stato Italiano del fondo dei Canonici Renani, cfr. Motta 1994, 342-343. 93 Lettura incerta. 94 Lettura incerta. 95 Nella medesima lettera Nani precisa di avere raccomandato in Alessandria di cercare di acquistare altre pergamene, aggiungendo: tutto che la buona sorte vorrà mi presentarne tutto sarà a lei indirizzato […]. 96 Lettura incerta.

Il 18 luglio, di ritorno in Ven.a dalla villeggiatura, Nani trova le copie richieste e se ne compiace, tanto da ringraziarlo nuovamente in una lettera datata 30 luglio, in cui aggiunge: […] Prima di Dicembre o Gennaro non aspetto alcuna notizia di Cose Egizie. Se queste giungessero e non fossero molte, il titolo di Appendice sarebbe molto opportuno. Il Sig.re Abbate Assemani, nipote del famoso Monsignor di Roma, tra i Mss. Orientali della Famiglia che egli rivede ed onora ha trovato li due segnati coi numeri 15, e 16 scritti il primo tutto in Egizio eccettuando qualche piccolo scritto arabo nel principio di qualche capo , – e il secondo sebbene intieramente egizio, lo trova poi intieramente tradotto in Arabo. Egli ha commentato il secondo attesa la versione Arabica […] e lascia a lei la cura […] di ragionare del 15°. Se aggradisce questo cattivo regalo fattole dall’Abb. Assemani egli la prega di 44

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

favorirlo d’un alfabeto Saidico […] Ho poi ricevuto dei fogli giunti oggidì […]. 5 agosto 1785.

di Propaganda, e le piacerà forse. Avevo già cominciato a servirla per le cose Coptiche, anche con grandissimo agradimento del nostro Cardinale ma senza il titolo latino trovo grandissima difficoltà nel trovare i pezzi; Ella dunque mi mandi subito il titolo latino, che ordinariamente ho messo avanti a ognun pezzo, e sarà promptamente servita. Tutta la Raccolta dei frammenti Borgiani è dal Sig.re Zoega disposta e ordinata facendo quei titoli latini, da lui messi sopra ognun pezzo, senza i quali in un numero così considerevole i pezzi difficilmente si ritrovano. Il cardinale anche mi ha indicato, che per la sua notizia vorrebbe un elencho di frammenti consegnati da me a V.S.R. Ella avrà dunque la bontà di mandarmi una copia di tutti quei titoli latini [...]. Dovotiss. Obbligatissimo servitore N. Schow Roma 6 marzo 1791

Pare a me poi averle spedito un’altro (sic) codice in foglio, in Pergamena, egiziano, benissimo commentato, di cui non mi pare che m’abbia mai fatto cenno. 28 97 agosto 1785. Tornato dalla campagna trovo oggi in Casa l’involto con le 50 copie de’ Fascicoli Egizj che Vs. Em.a ha avuto la bontà di spedire. Io conserverò la di Lei lettera come nei Comandi […]. Se ne verranno altri dall’egitto (sic) gliele farò tosto avere. 26 ottobre 1875. Mi sono pervenuti due Fogli dalla di lei gentilezza e favore speditemi, e gliene rendo infinitamente grazie. L’Abbate Assemani a cui li ho fatto vedere e (sic) restato molto contento, e parmi che egli fosse desideroso a scriverle egli medesimo […]. 27 settembre 1875.

[…] Il Sig.re Zoega la riverisce rispettuosamente, sta occupatissimo, e possiamo sperare cose grandi. Ho dato parte alla Sua Em.a delle carte mie Coptiche a Lei consegnate, e la cosa fù (sic) molto aggradita da Lui, avrebbe certamente gran piacere di vederle comunicate col pubblico. Vorrei che il P. Giorgi avesse il Suo gusto e criterio, e lasciasse fuori tutto il superfluo, li risparmierebbe molta fatica, e le spese sue sarebbero più utili […]. Continui a volermi sempre bene, ed io mi confermo con rispetto e ossequio. Nicc. Schow Roma d. 12. della Repub. 91

M’è pervenuto l’ultimo Foglio che Vs. Em.a si è compiaciuto di mandarmi. Avendo fatto legare in buona forma li due Fascicoli ho fatto a ognuno di esse premettere li due Frontespicj e prefazioni all’uno e all’altro premesse affinché ogni persona conosca il loro valore, e onore si renderà a chi le ha così virtuosamente illustrate. Desidero che la Fortuna secondi i voti miei onde maggior fama si cresca all’Illustre persona sua a cui intanto mi onoro di dichiararmi devotissimo. 8 ottobre.

Ho ricevuto la lettera mandatami col forestiero che stava alla mia locanda, e Le son per questa, come per mille altre cose, infinitamente obbligato. La lettera era del Sig.re Roberto Holmes, dove intorno all’affare Coptico mi scrive così: Cum enim quaerat de me Clarissimus Abbas Mingarellius de Versione Coptica N.T. per Woidum meum, si remansisset in vivis, absolvenda, habeo opus, ut quaeram aliquid ex praeti Clarendoniani ministris ut Abbati satisfaciam […]. Dunque dopo la morte di Woide si troverà forse della difficoltà per avere una copia di alcuni dei frammenti Coptici; ma questo, come spero, vedremo fra poco dalla lettera di Holmes. […] Nella lettera, che Holmes Le scriverà, chiuderà forse una lettera per me, ma non sapendo il mio indirizzo per questo mese. Ella si conservi per il bene della letteratura Coptica, e creda, che io conserverò sempre le sue grazie ed i suoi lavori in una viva memoria. Mi dichiaro con sentimenti di gratitudine e di rispetto, Devotissimo ed obbligatiss. Servitore Niccolò Schow Firenze 23 Ottobre 9099

Fascicolo 50: la corrispondenza con N.I. Schow Buona parte della corrispondenza intercorsa tra Schow e Mingarelli è relativa all’opera di quest’ultimo su Pindaro, di cui Schow appare particolarmente ammirato. Trova posto tuttavia anche un’ampia discussione sul copto, mostrando lo studioso danese di essere perfettamente al corrente di ciò che avviene nel “circolo culturale” Borgiano. Particolarmente interessanti in questo senso sono i riferimenti al lavoro di Zoega, che in quel momento lavorava alacremente alla realizzazione del catalogo dei manoscritti copti Borgiani. Ho ricevuto la Sua lettera di 19 Fevr. e la ringrazio cordialmente, Le procurerò tanto presto come mi sarà possibile, forse per mezzo del Em. Card. Borgia, il quale La riverisce distintamente, un esemplare delle mie Epistulae criticae etc.98 che al principio di questa settimana sono uscite. Il libretto fa onore alla Stamperia

99

Nel post scriptum Schow aggiunge: Il mio indirizzo a Firenze: Nella via Larga n.o 1508 vicino alla libreria pubblica Marucelliana dal Sigre Gaspero Mariani.

97

Sullo stesso argomento le missive del 5, 9 e 27 settembre 1785. Schow si riferisce alle sue Epistolae criticae una ad C. G. Heynium altera ad Th. Chr. Tychsenium ..., Romæ, Fulgonius, 1790. 98

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Viro Celeberrimo, Doctissimo D. Iohannis Aloysio Mingarellio S.P.D. Carolus Woide

Fascicolo 58: la corrispondenza con C. Woide Quello con Woide è forse il più formale tra i rapporti epistolari intrattenuti da Mingarelli. Non mancano tuttavia, anche in questo caso, motivi d’interesse, come l’attestazione della fama di cui godeva l’abate bolognese anche al di là delle Alpi e gli stretti rapporti intercorsi tra stimati studiosi di varia nazionalità.

Accepi in inizio Februarii munus Tuum […] Fasciculum Aegyptiorum Codicum e Bibliotheca Naniana a Te editum. Citius Tibi, Vir Doctissime gratia Tuo rarissimo dono debitas egissem, si citius ad celeberrimum de Rossi scribere potuissem, cujus epistola hasce literas meas includo […].

Viro Celeberrimo, Doctissimo Abbati et D. Iohannis Aloysio Mingarelli S.P.D. Carolus Woide

Quae e Marco et Iohanne edidisti maxima ex parte habeo. Contuli mea cum Tuis. Interdum differunt codices in iis lectionibus, quorum utraque potest defendi: interdum alterunter lapsus esse videtur. Recte Tuum Scribam interdum corregis. Erravit enim alinquando. Mihi etiam pag. XIX c XX.2 in voce errasse videtur. Nam meus legit ⲁϥϫⲟⲩⲥⲟⲩ, quod recte scriptum existimo, cum ⲟⲩ affixum sit frequens, cui ⲥ post vocalem preponitur, quod exemplis probatur in Grammatica Aegyptiaca Scholtzii, vel mea: meam appello, quia omnia, quae Dialectum Superioris Aegypti spectant mea sunt […] Vale et me Tuae Amicitiae et favori commendatum habe.

Litteras Tuas humanissimas, Vir Doctissime, tradidit mihi Fredericus Commerele, Mercator Londinensis. Idem et responsum meum et libros quos desiderabas, tibi Bononiam mittere pollicitus est. Accipies Wilkinsii St. T. Copticum et Pentateuchum Copticum; nihil enim praeter Pentateuchum edidit Wilkinsius. Habebis etiam Grammaticam Aegyptiacam Reverendi Scholtzii ab Universitate Oxoniensi meis auspiciis editam. Pars Sahidica mea est, in Parte Coptica alia addidi, alia breviavi, alia omisi, alia correxi. Adiunxi his libris Lexicon La Crozii Aegyptiacum, Doctissimo D. de Rossi destinatum, qui illud magnopere desiderabat. Addidi etiam Tua cum venia literas ad Virum hunc estimatissimum, cui vitam, vires et sanitatem ad opus suum egregium perficiendum toto pectore, cum omnibus eruditis, exapto.

Dabam Londini in Museo Britannico die 18 Maji 1786.

APPENDICE III ELENCO COMPLETO DELLE PUBBLICAZIONI DI GIOVANNI LUIGI MINGARELLI100

Fragmenta N.T. Sahidica qua N. Tti tertiam partem efficiunt, iam ante tres et quod excurrit annos, emenda paraveram. Sed editionem eorundem quidam Universitatis Oxoniensis circumstantia impediverunt. Removebuntur tamen brevi ut spero haec impedimenta et opus hoc tandem prodibit.

1. Marci Marini Brixiani ... Annotationes literales in Psalmos nova versione ab ipsomet illustratos nunc primum editae opera, et studio D. Joannis Aloysii Mingarelli ..., qui etiam auctoris vitam, scriptorumque de ipso testimonia, & Hebraeorum Canticorum explicationem addidit, Bononiæ, apud Thomam Colli ex typographia Sancti Thomae Aquinatis, 1748-1750.101

Mactus sum nuper opportune quadraginta circiter alia fragmenta ex Aegypto Superiori inter quae etiam quaedam N.T. partes comprehenduntur, quas operi huic interseram. Si Tuum opus prodierit […] et si tua fragmenta mihi desunt, iis mea adaugebo: si ea iam habeam, conferam ea cum meis. Doctissimus Adlerus ea, quae ipse collegit, amicissime, humanissimeque, mihi obtulit.

2. Hebraeorum sex canticorum explanatio. Auctore D. Joanne Aloysio Mingarellio canonico regulari S. Saluatoris ..., Bononiæ, apud Hieronymum Corciolani & H.H. Colli ex typographia S. Thomae Aquinatis, 1750.

Brevi prodibit editio N.T. e codice Alexandrino. […] Librum, Mysteria literarum Graecarum, quam Lacrozius saepe citavit, Universitatis Oxoniensis Biblioteca servat. Habeo ejus Apographum, an idem sit cum Reverendiss. Tuckii Libro quem ego nondum vidi affermare non possum. Vale.

3. Paulini Mediolanensi de benedictionibus patriarcharum libellus…, in Opuscula veterum patrum latinorum… II, parti I e II, Bononiæ, 100

Per un elenco dei principali autori che menzionano Mingarelli e le sue opere, cfr. Motta 1994, 336-341. Nell’occhietto si legge: Annotationum literalium in Psalmos pars prima [secunda].

Dabam Londinii in Museo Britannico die 30 Decemb. 1784.

101

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Canonici Regulares S. Salvatoris, Hieronymum Corciolanum, 1951.

apud

12. Incerti Græci poetæ jambi in sermoses Sanctorum Patrum seu de scriptoribus asceticis ex Cod. ms. Bibliothecæ Nanianæ Sæc. XV nunc primum editi, in latinam linguam conversi, et notis illustrati, in Anectoda letteraria ex mss. codicibus eruta, Romæ, apud Gregorium Settarium II, s.d. (ma 1773).

4. Anecdotorum fasciculus, sive S. Paulini Nolani, anonymi scriptoris, Alani Magni, ac Theophilacti opuscula aliquot. D. Johannes Aloysius Mingarellius..., Romæ, sumptibus Venantii Monaldini bibliopolæ in via Cursus, ex typographia Johannis Zempel prope montem Jordanum, 1756.

13. Mingarellius procurator generalis canonicorum regularium S. Salvatoris ex ms. codice naniano exscripsit, e graeco latine reddidit, & brevibus scholiis illustravit, Romæ, apud Benedictum Francesium, 1774.

5. Sopra un’opera inedita di un antico Teologo Greco Anonimo, lettera di d. Gio. Luigi Mingarelli canonico regolare di s. Salvatore ... in Nuova Raccolta di opuscoli scientifici e Filologici XI, Venezia 1763.

14. Epiphanii monachi, et presbyteri de Vita Sanctissimæ Deiparæ liber…, in Anecdota Litteraria ex Mss. codici bus eruta III, 1774, 2994.

6. De Apocrypho Thomae Evangelio...epistola, in Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici XII, Venezia 1764, 73-155 (con traduzione di J.B. Cotelier).

15. Graeci codices manu scripti apud Nanios patricios Venetos asservati, Bononiæ, typis Laelii a Vulpe, 1784.

7. Veterum testimonia de Didymo Alexandrino Coeco ex quibus tres libri de trinitate nuper detecti eidem asseruntur Ferdinandus Mingarellus... collegit atque animaduersiones adiecit, Romæ 1764.

16. Aegyptiorum Codicum Reliquiæ Venetiis in bibliotheca Naniana asservatæ, fasciculus primus et alter, Bononiæ, typis Laelii a Vulpe, 1785.103

8. Additamentum tres libri de trinitate Didymo Coeco asserti antea, nunc a nonnullis cujusdam scrupulis liberantur. Francisco Paulo de Smitmer amico optimo Ferdinandus Mingarellius ..., Romæ 1764 (opuscolo da ritenersi parte dell’opera precedente).

17. D. Johannes Alysius Mingarellius Guazulio suo, Thebaicarum quarumdarum vocum interpretatio, in Sanctorum Patrum Basilii Magni et Johannis Chrysostomi homiliæ selectæ, D. Josephus Guazzugli denuo edendas curavit…, Bononiæ, typis Laelii a Vulpe, 1786.

9. Didymi Alexandrini De Trinitate libri tres nunc primum ex Passioneiano codice Graece editi, Latine conversi, ac notis illustrati a D. Joanne Aloysio Mingarellio, Bononiæ, typis Laelii a Vulpe, 1769.

18. Mostra di caratteri egiziani intagliati da Francesco Barattini bolognese ed ordinati dal reverendissimo padre ex-generale Mingarelli per la stampa di alcuni manoscritti, dai quali fedelmente sono stati copiati, s.d, s.l.

10. De quodam S. Patris nostri Gregorii Thaumaturgi sermone in omnes martyres necdum edito epistola D. Ioannis Aloysii Mingarellii abbatis ex ordine canonicorum regularium S. Augustini congregat. Rhenanæ S. Salvatoris & Graecarum litterarum in Bononiensi archigymnasio lectoris publici ad Aegidium Mingerellium fratrem..., Bononiæ, typis Laelii a Vulpe instituti scientiarum typographi, 1770.

Bibliografia Bacchi della Lega A. 1918. Lodovico de Varthema, viaggiatore bolognese del sec. 16. Bologna, Stabilimenti Poligrafici Riuniti. Barbera P. 1913. Giovanni Battista Bodoni. Genova, A.F. Formiggini. Barberi F. 1942. Paolo Manuzio e la Stamperia del Popolo Romano (1561-1570). Con documenti inediti.

11. De Pindari odis coniecturæ d. Ioannis Aloysii Mingarelli, Bononiæ, typis Laelii a Vulpe, 1772.102

103 Le bozze di stampa del fasciculus tertius, consistenti in 64 pagine non rifilate e corredate da annotazioni e correzioni di pugno di Mingarelli, sono conservate, come si è detto, nella capsula 2947 bis della Biblioteca Universitaria di Bologna. Esse riguardano i frammenti Naniani XVIII-XX. Le bozze del medesimo fascicolo, ma ad uno stadio diverso, si trovano presso la Biblioteca Marciana di Venezia.

102

Nell’occhietto si legge: Francisci Petrarchæ Epistola ad fratrem, a vetusto codice nunc primum edita, ad lucem aliquam iis afferendam, quæ superius diximus capite primo.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in Onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Il manoscritto del mai pubblicato terzo fascicolo delle Ægyptiorum Codicum Reliquiæ (per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Bologna)

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Fig. 2: Trascrizione di un frammento copto Borgiano ad opera di Schow, con annotazione dei suggerimenti di lettura di Zoega (per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Bologna)

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Fig. 3a: Il quaderno su cui Mingarelli appuntava lemmi per il futuro dizionario copto (lettera ) (per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Bologna)

Fig. 3b: Particolare della pagina dedicata ai lemmi che iniziano con la lettera (per gentile concessione della Biblioteca Universitaria di Bologna)

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Fig. 4a e 4b: I caratteri bodoniani copti comparsi sul Manuale Tipografico del 1818

Fig. 5a e 5b: I caratteri bodoniani copti usati da Münter e Zoega (da H.C. Brooks, Saggio di caratteri di Giambattista Bodoni sinora non pubblicati, Firenze 1929, 7-8)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in Onore di Sergio Pernigotti

Fig. 6: Mostra dei caratteri egiziani intagliati da Francesco Barattini (da G. Caterzani, Catalogo Ragionato dei libri a stampa pubblicati in Bologna dai Tipografi Lelio e Petronio della Volpe…, Bologna 1979)

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UN’ANTICA TEORIA DELLA SUCCESSIONE PATRIARCALE IN ALESSANDRIA

῏Ηλθόν ποτέ τινες αἱρετικοὶ πρὸς τὸν ἀββᾶν Ποιμένα͵ καὶ ἤρξαντο καταλαλεῖν τοῦ ἀρχιεπισκόπου Ἀλεξανδρείας͵ ὡς ὅτι παρὰ πρεσβυτέρων ἔχει τὴν χειροτονίαν. Ὁ δὲ γέρων σιωπήσας ἐφώνησε τὸν ἀδελφὸν αὐτοῦ͵ καὶ εἶπε· Παράθες τὴν τράπεζαν͵ καὶ ποίησον αὐτοῖς φαγεῖν͵ καὶ πέμψον αὐτοὺς μετ΄ εἰρήνης.

Alberto Camplani

«Una volta andarono da abba Poimen degli eretici che cominciarono a parlar male dell’arcivescovo di Alessandria, per la ragione che riceve l’imposizione delle mani da presbiteri. L’anziano, dopo aver taciuto, chiamò il suo fratello e gli disse: “Prepara la tavola e falli mangiare, e poi rimandali in pace”».

Abstract The contribution discusses two historiographical witnesses about the early history of the patriarchate of Alexandria. The first is a very famous passage from the Annales by Eutychius of Alexandria (X cent. CE), the second, which is part of a still inedited church history preserved in Ethiopic, is probably to be dated between the end of the fourth century and the beginning of the sixth CE, thus corroborating the antiquity of the information. What is outlined in the two passages is a theory of the ancient patriarchal election and consecration which can be summarized in the following points: 1) Mark the evangelist establishes twelve priests and seven deacons, thus giving rise to the early, autocratic clerical college of Alexandria; 2) according to the original custom, the candidate, nominated by the community of Alexandria in the number of the priests, is consecrated by the presbyterial college itself, in the presence of the corpse of the deceased bishop; 3) under Peter of Alexandria (300-311 CE) or Alexander (312-328 CE) there is the reform of the system, according to which bishops are allowed to intervene in the consecration of the candidate; 4) one of the two texts claims that this ancient custom should not be considered an improper attribution of episcopal powers to priests, that they have reserved to themselves by an act of arrogance, but rather a necessity derived from a concrete historical situation, namely the lack of bishops in Egypt; it should be noted that, according to the two texts, the first bishops in Egypt were elected by Demetrius (180-232 CE). The first question that arises about this theory is that of its historicity. We can express the problem in this way: what is verifiable in the texts? what is dictated by ideology or symbolic representation? The contribution is divided in the following points: 1) a comparison between this theory and the historical information about the election of the bishop of Alexandria; 2) the theoretical distinction between election and consecration of the Patriarch and its heuristic value; 3) the symbolic meaning of certain elements of the theory (which doesn’t mean that we must dismiss their historicity, at least on some occasions), i.e. the presence of the corpse of the predecessor, the number of priests and deacons, and the lack of bishops; 4) the apologetic devices put in place in defence of the patriarchal consacrations effected by priests, without bishops; 5) ancient parallels to the liturgy of the patriarchal consecration and the liturgical function of priests.

(Apophthegmata patrum, Abba Poimen 77, PG 65, 341B).

Abba Poimen rimane indifferente di fronte all’accusa degli eretici, in quanto ritiene che questioni di gerarchia e di gestione delle diocesi non debbano preoccupare o turbare l’animo di chi ha intrapreso lo stile di vita monastico. Diverso è l’atteggiamento dello storico moderno, che ha il dovere di domandarsi se l’apophthegma abbia una corrispondenza con la realtà istituzionale della chiesa egiziana dell’epoca di redazione degli Apophthegmata, o non sia invece una costruzione eresiologia, e se gli eretici di cui il testo parla possano essere identificati con uno dei movimenti che agitavano il panorama religioso del IV-V secolo d.C. in Egitto, oppure se siano il prodotto di una finzione letteraria. Alla fine di questo contributo offriremo un’ipotesi circa la realtà storica riflessa dal detto e proporremo un nome per gli interlocutori di Poimen. Il nostro percorso attraverserà una serie di importanti questioni di storia istituzionale alessandrina, che mi è capitato più volte di discutere con Sergio Pernigotti e con i suoi allievi in quelle magnifiche serate trascorse sulle rive del lago Qarun, in occasione delle campagne di scavi a Backhias (Fayyum) nel 2006 e nel 2009, che hanno lasciato in me, semplice ospite della missione dell’Università di Bologna, un ricordo indelebile: ricordo di momenti in cui l’accoglienza umana si coniugava armonicamente con il dibattito scientifico.1 1. Due testimonianze sull’antico sistema di successione patriarcale Fino ad oggi, la notizia più sviluppata a proposito del sistema di elezione e consacrazione del patriarca alessandrino è quella molto tarda conservata in un’opera attribuita al patriarca melchita di Alessandria, Sa‘īd ibn Batrīq, noto anche come Eutichio (X sec. d.C.), e probabilmente appartenente ad una redazione più tarda rispetto a quella originaria, identificata da M. Breydy.2

1

In questo senso il presente contributo si pone in continuità con quello che ho pubblicato per gli atti di un convegno organizzato da Sergio Pernigotti presso l’Università di Bologna: Camplani 2008, 149-165. 2 La recensione più vicina all’originale è edita in Breydy 1985.

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Essa si presenta nella traduzione di B. Pirone in questa forma:3

Un altro passo riguardante la consacrazione del vescovo di Alessandria, già noto attraverso un testo agiografico etiopico del XIII sec., è stato ricollocato da Alessandro Bausi, a seguito di una scoperta di eccezionale portata per la storia del cristianesimo egiziano, nell’ambito di un’antica storia dell’episcopato di Alessandria, che, per quanto ricca di stratificazioni, può essere collocata tra IV e V secolo.4 Si tratta del testo storiografico che in questi anni ho proposto di chiamare per convenzione HEpA («Historia Episcopatus Alexandriae»), ma che Cirillo di Alessandria qualifica semplicemente con l’espressione «ecclesiastica historia».5 Esso, pur non essendo noto se non nelle sue articolazioni maggiori, può essere concepito come un misto di documentazione d’archivio di carattere ecclesiastico e civile, di brevi raccordi storiografici e di pezzi di polemica e propaganda religiosa.6 Redatto probabilmente nel periodo che va dall’episcopato di Pietro II a quello di Teofilo, anche se non si possono escludere aggiunte successive, esso è stato ricostruito in modo parziale dalla critica moderna, la quale ne ha riconosciuto le tracce, più o meno cospicue, in alcune opere storiografiche e canoniche. Tra queste si devono segnalare il Codex veronensis LX(58);7 alcuni passi della Historia ecclesiastica di Sozomeno a proposito della vita di Atanasio e della vicenda di Pietro di Alessandria e Melizio di Licopoli;8 l’introduzione alla traduzione latina

«IX.4 (...) L’evangelista Marco nominò assieme al patriarca Anania altri dodici preti che lo affiancassero /nel suo ministero/ e che alla morte del patriarca nominassero, al suo posto, uno dei dodici, ponendo, gli altri undici, le loro mani sulla sua testa, benedicendolo e consacrandolo patriarca. Loro compito era poi quello di scegliere un uomo di provate virtù e ordinarlo sacerdote con loro al posto di colui che era stato fatto patriarca perché fossero sempre in numero di dodici. I dodici preti di Alessandria continuarono ad eleggere, seguendo tale norma, il patriarca, scegliendolo tra i dodici sacerdoti, fino al tempo di Alessandro, patriarca di Alessandria, che fu uno dei Trecentodiciotto. Costui infatti proibì ai sacerdoti di eleggere il patriarca e ordinò altresì che alla morte del patriarca si riunissero i vescovi ed eleggessero il patriarca. Dispose pure che alla morte del patriarca eleggessero un uomo di provate virtù di non importa qual paese, o uno dei dodici sacerdoti o un altro che ne fosse stato trovato degno, e che costui consacrassero patriarca. Fu così interrotta l’antica norma che ad eleggere il patriarca fossero i sacerdoti, e l’elezione passò ai vescovi. Quanto a coloro che chiedono perché mai il patriarca di Alessandria sia stato chiamato “Bābā”, noi rispondiamo: “Bābā” significa “nonno”. Ora dal tempo in cui Anania fu fatto patriarca di Alessandria dall’evangelista Marco al tempo di Demetrio, patriarca di Alessandria, che è stato l’undicesimo patriarca /di tale sede/, non ci fu mai, nella provincia dell’Egitto, alcun vescovo, né i patriarchi che lo avevano preceduto avevano mai usato consacrare dei vescovi. Ma una volta divenuto patriarca, Demetrio consacrò tre vescovi e fu lui, in verità, il primo patriarca a consacrare i vescovi».

4

Bausi 2006, 43-70. Munier 1974, 162. 6 Sono intervenuto a più riprese in questi anni su questa storia, derivata dagli archivi della cancelleria episcopale alessandrina, sotto la spinta delle scoperte del collega A. Bausi. In un primo momento avevo abbreviato l’opera con la sigla SEpA («Storia dell’Episcopato di Alessandria»), eccessivamente connotata dalla lingua italiana. La sigla HEpA presenta il vantaggio di adattarsi al latino, al francese e all’inglese. Si vedano Camplani 2004, 147-185; Camplani 2006a, 117164; Camplani 2006b, 8-42; Camplani 2007, 417-424; Camplani 2009, 138-156. 7 Qui di seguito elenco i testi del Codex veronensis LX sulla cui origine alessandrina il consenso degli studiosi è unanime: 1. una notizia relativa all’organizzazione del Concilio di Nicea (325), seguìta originariamente dal simbolo del Concilio di Nicea e dai suoi venti canoni: simbolo e canoni, in realtà, assumono nel codice veronese la forma della nota traduzione latina detta «di Ceciliano», diversa da quella originaria, riportata nelle risposte di Cirillo di Alessandria e di Attico di Costantinopoli alla richiesta della chiesa cartaginese del 419, che ci sono fatte conoscere da altri codici; 9. la lettera del Concilio di Nicea ai vescovi d’Egitto (senza il paragrafo finale riguardante la questione pasquale); 10. una notizia sul Concilio di Serdica; 19. Lettera di Atanasio (da Serdica) al clero di Alessandria e della Parembole; 20. Lettera del concilio occidentale di Serdica alle chiese della Mareotide (con lista episcopale); 21. Lettera di Atanasio (da Serdica) al clero e al popolo della Mareotide (con lista episcopale); 22. Vita di Atanasio (senza titolo, la cosiddetta «Historia acephala»: Martin 1985); 24. Lettera dell’imperatore Costantino sul concilio di Nicea alla Chiesa di Alessandria; 25. Lettera dell’imperatore Costantino contro Ario; 26. La lettera di quattro vescovi martiri a Melizio di Licopoli, una breve narrazione intermedia, e la lettera di Pietro di Alessandria alla comunità della metropoli, mediante la quale Melizio di Licopoli è temporaneamente scomunicato. Su questi ultimi testi (n. 26) si veda Kettler 1936, 159-163; mentre sull’insieme del codice si veda l’edizione di Turner 1939, 634-636 (si tratta del «Tomi prioris fasciculi alterius pars quarta»: Supplementum Nicaeno-alexandrinum sive Conciliorum Nicaeni et Serdicensis Sylloge a Theodosio Diacono [Carthaginensi] adservata secundum codicem unicum veronensem bibliothecae capitularis LX (58) saec. VII-VIII); Telfer 1943, 169-246. 8 H.e. I,15. Sulla relazione tra Sozomeno e Historia acephala si veda Martin 1985, 25-27. 5

Il testo presenta dapprima quella che doveva essere l’usanza primitiva di elezione e consacrazione del patriarca, tutta interna alla cerchia presbiterale alessandrina, per poi descrivere la riforma, consistente nella formazione di un nuovo elettorato attivo (i vescovi) e nell’allargamento dell’elettorato passivo dal solo gruppo di presbiteri di Alessandria ai chierici di tutto l’Egitto, e infine aprire uno sviluppo a proposito del termine papas, che l’autore fa curiosamente derivare dal greco pappos (“nonno”). Proprio all’interno di questo excursus secondario l’autore accenna al fatto che fino al tempo di Demetrio non vi erano vescovi in Egitto, con l’eccezione di quello di Alessandria, e che fu Demetrio il primo a ordinare vescovi nella regione, seguito poi da Eracla. 3

Pirone 1987, 158-159; l’edizione critica del passo è in Cheikho 1906, 95-96.

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del Martyrium Petri Alexandrini9 redatta dall’agiografo Guarimpoto, attivo a Napoli nella seconda metà del IX secolo, il quale afferma di aver conosciuto un «libellus» contenente non solo le vicende atanasiane, ma anche altro materiale connesso con il periodo di Pietro;10 un testo agiografico etiopico edito nel 1980, The Martyrdom of St. Peter Archbishop of Alexandria,11 il quale commemora Pietro di Alessandria dichiarando esplicitamente di trarre il suo materiale da un «sinodico della legge» della chiesa alessandrina; infine la fonte (inedita) da cui tale testo agiografico trae le sue citazioni, cioè l’opera veicolata dal manoscritto etiopico recentemente analizzato da A. Bausi, il cui significato storico fondamentale, una volta che venga edita, tradotta e commentata,12 è da individuarsi non solo nel fatto di presentare il parallelo etiopico alla poco perspicua versione latina dei documenti del Codex veronensis LX, ma anche nell’offrire testi narrativi, liste episcopali, documenti ecclesiastici non noti. Il passo che prenderemo in considerazione, come ho detto, è uno dei pochi già editi, in quanto pubblicato da Getatchew Haile. Esso appartiene a una sezione della HEpA di cui non conosciamo la cronologia esatta, in quanto né Sozomeno, né altre fonti la citano o la parafrasono fornendoci un terminus ante quem. Tuttavia, se anche essa non risultasse contemporanea alla sezione nota a Sozomeno e Cirillo di Alessandria, cosa ancora tutta da dimostrare, ritengo certo che la redazione di questo passo difficilmente possa superare l’inizio del VI sec. d.C. Si tratta dunque di un testo molto più antico degli Annali di Eutichio. Esso si presenta come segue, secondo la traduzione gentilmente offertami da A. Bausi:13

«1 Māriqos evangelista entrò in ’Aleksendyā il settimo anno di Nērones; ordinò 12 presbiteri e sette diaconi, e dette loro questa regola, dopo che fosse morto il vescovo di ’Elaksenderyā: 2 i presbiteri si riuniranno e porranno le loro mani, nella fede del Signore, su colui che, tra di loro, tutti avranno eletto, e così facendo lo ordineranno loro vescovo, in presenza del cadavere del vescovo morto. 3 Questa dottrina è rimasta quindi per i vescovi che ordinano tra i presbiteri, da’Aniyānos fino al beato PēΓros, che è il sedicesimo vescovo di ’Elaksenderyā. 4 Ciò avvenne dunque, non perché si preferisse deliberare che i presbiteri – e non era stata accordata (tale prerogativa) – ma poiché anzi, all’opposto, non era ancora stato ordinato un vescovo in ogni regione. 5 Dopo il beato PēΓros, fu disposto che l’ordinazione degli ordinati avvenisse da parte dei vescovi». Le due notizie, come qualsiasi lettore può facilmente constatare, sono confrontabili, ma diversa è la temperie ideologica in cui sono nate. In Eutichio prevale la dimensione antiquaria, mentre nel testo etiopico emerge con forza un problema ecclesiologico che cercheremo di evidenziare. Prima, tuttavia, conviene fermarsi sugli elementi fondamentali del testo e studiarne la coerenza interna. Esso presenta l’istituzione dell’episcopato, le sue regole di elezione e consacrazione, la riforma di queste, fino al tempo di Pietro e Alessandro di Alessandria. Quella che viene delineata è una teoria dell’elezione e consacrazione patriarcale che può essere sintetizzata in pochi princìpi: 1) Marco istituisce dodici presbiteri e sette diaconi, dando origine in questo modo all’autocratico collegio clericale primitivo;

9

Su cui si veda Devos 1958, 151-187. Il testo di Guarimpoto, diviso in due parti («pars prior» = Bibliotheca Hagiographica Latina 6692; «pars altera» = Bibliotheca Hagiographica Latina 6693) è edito in Patrologia Graeca 18, 453-460 e in Bibliotheca Casinensis seu Codicum manuscriptorum qui in tabulario Casinensi asservantur, vol. III, Montecassino 1887, nella sezione intitolata «Florilegium cassinense», 187-191. 11 Haile 1980, 85-92. 12 Ritengo probabile che quando questi studi in onore di Sergio Pernigotti vedranno la luce, il volume curato da A. Bausi e dal sottoscritto sarà anch’esso in fase avanzata di stampa. 13 Eccone la traduzione inglese (tra parantesi graffe sono segnalate le interpolazioni): «The story in the Synodicon of the law is like this: Mark the Evangelist came to Alexandria on the seventh year of the reign of Nero and appointed Anianus bishop, twelve priests and seven deacons, and gave them this order: “When the bishop of Alexandria dies, the priests shall come together and, in the faith of Our Lord Jesus Christ, lay their hands on the one have unanimously elected from among themselves. They shall appoint a bishop like this while the corpse of the deseased bishop is still there”. These instructions had been applied to those who were appointed bishop among the priests from Anianus sequentially to the blessed Peter the Archbishop {who redeemed the five hundred captives from Marmarica, that is}, the sixteenth bishop of Alexandria. It was so arranged so that priests may not be appointed out of love of governorship or by a gift; bishops were not appointed in all contries by partitioning [regions] either. But after the blessed Peter, it was ordered unto the bishops that he who is appointed {[on the line] from Anianus (who was the first after Mark the Evangelist, who was the light and teacher for all Egypt and the people of Ethiopia)} be the head and the leader {of the religion of God and Our Saviour Jesus Christ for all the saints who are called in Egypt [and in Ethiopia]}». 10

2) secondo l’usanza originaria, il candidato, designato dalla comunità alessandrina nel numero dei presbiteri, viene consacrato dal collegio presbiterale stesso, alla presenza del cadavere del vescovo deceduto; 3) la riforma vera e propria del sistema di ordinazione, che permette ai vescovi l’intervento nella consacrazione, avviene dopo Pietro, cioè, probabilmente, con Alessandro; 4) l’usanza antica non deve essere considerata un’attribuzione indebita di potere episcopale ai presbiteri, che essi avrebbero riservato a se stessi con un atto di superbia, quanto piuttosto una necessità derivata da una situazione storica concreta, cioè la mancanza di vescovi in Egitto. A questo proposito va rilevato che i primi vescovi in Egitto, secondo Eutiche, la Storia dei patriarchi e la HEpA stessa, sarebbero stati ordinati da Demetrio.

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letterale del passo di Eutichio; oppure che abbiano continuato a presenziare alla liturgia, ma in posizione subordinata. Torneremo su questa seconda ipotesi.

2. Lettura critica delle testimonianze La prima questione che sorge nei confronti di siffatta teoria è quella relativa alla sua storicità. Possiamo esprimerla in questo modo: quanto vi è di verificabile nelle affermazioni del testo? quanto è invece simbolico o dettato dall’ideologia? Quale è l’intento fondamentale di questo passo e quanto esso ne altera il valore storico? Il nostro percorso può essere sintetizzato nelle seguenti tappe:

Il IV secolo è anche il momento in cui la struttura della Chiesa egiziana entra nella sua fase classica. Come è noto soprattutto grazie agli studi di E. Wipszycka,15 ciò che costituisce un carattere di reale originalità del cristianesimo egiziano, rispetto alle altre regioni della cristianità, è la forma della gerarchia, la quale vede due soli protagonisti, il vescovo di Alessandria, da una parte, e i vescovi delle circa cento diocesi dall’altra, senza alcuna struttura intermedia. Balza agli occhi la mancanza di metropoliti: tutti i vescovi sono direttamente sottoposti all’autorità del vescovo di Alessandria, come afferma anche il VI canone del Concilio di Nicea (325). La conseguenza più vistosa del potere autocratico del vescovo di Alessandria e dell’assenza di strutture metropolitane intermedie è il sistema particolare di elezione dei vescovi nelle singole diocesi: tutti i vescovi devono essere consacrati personalmente dal vescovo di Alessandria. In alcuni casi il vescovo di Alessandria può rifiutare il candidato proposto dalla diocesi e sceglierne un altro che egli ritenga più idoneo. Lo strapotere del vescovo di Alessandria può giungere sino a creare nuove sedi e a togliere lo statuto di sede episcopale a una città, come accade ad esempio sotto Teofilo (385-412). Dunque, le nostre testimonianze devono essere lette sullo sfondo di questa configurazione monarchica della chiesa egiziana.

1) un confronto tra questo testo e le notizie sparse a proposito dell’elezione del vescovo di Alessandria; 2) la distinzione teorica tra elezione e consacrazione del patriarca; 3) il significato simbolico di alcuni elementi del testo (il che non esclude di per sé la loro storicità, almeno in alcune occasioni): la presenza del cadavere del predecessore; il numero dei presbiteri e dei diaconi; 4) i meccanismi apologetici messi in atto: il cadavere del predecessore e l’assenza di vescovi in Egitto; 5) la storia riflessa nel testo: la liturgia di consacrazione. Di fronte a testi che parlano di elezione e consacrazione episcopale, non possiamo evitare di porre alcune osservazioni preliminari, per delimitare l’ambito istituzionale in cui questa ricerca si muove. Diremo subito che al termine della fase specifica che stiamo studiando si pone il caso di Atanasio (328-373), che manifesta due novità dirompenti rispetto all’antico sistema di consacrazione proposto dai passi in questione: 1) egli è esterno al gruppo dei presbiteri, in quanto, da semplice diacono, è designato da Alessandro, prima di morire, come futuro vescovo, ed è quindi appoggiato da numerosi vescovi egiziani; 2) sebbene siano oscure le vicende dei mesi che portano alla sua elezione, egli è probabilmente consacrato da questi stessi vescovi, non sappiamo se alla presenza dei presbiteri alessandrini, o escludendoli.14

2.1 Paralleli alle testimonianze e loro significato Il testo è direttamente confrontabile con una serie di notizie su cui da lungo tempo la storiografia si è soffermata16 e che recentemente E. Wipszycka ha sintetizzato e rivisto criticamente nell’ambito di uno studio volto a ricostruire il passaggio dal sistema presbiterale a quello episcopale in Egitto.17 Qui basti menzionarne rapidamente gli elementi fondamentali, che possono in qualche modo illuminare i due testi al centro della nostra attenzione. Il Martyrium Marci, un testo formatosi per strati successivi tra IV e VI sec., al § 5,18 pur prevedendo una gerarchia simile a quella proposta dalla HEpA (presbiteri – diaconi), presenta numeri diversi: Marco ordina Aniano vescovo e quindi tre presbiteri, Mileas, Sabino e Cerdone, sette diaconi e altre undici persone per il servizio della chiesa. Due dei tre presbiteri menzionati nominalmente (Mileas / Milios e Cerdone) diventeranno poi patriarchi. La notizia appare una combinazione di fonti ed esigenze diverse: alla

Atanasio, pertanto, si pone al termine di un doppio processo, consistente da una parte nell’allargamento dell’elettorato passivo, d’ora in poi non più riservato alla stretta cerchia dei presbiteri alessandrini, ma comprensivo del clero egiziano nel suo insieme (benché una prevalenza di candidati di origine alessandrina sia ovvia); dall’altro nell’estensione progressiva dell’elettorato attivo ai vescovi d’Egitto, probabilmente verificatosi già nel corso del III secolo, ma che a partire da questo momento riceve una sua traduzione in termini liturgici, cioè la partecipazione dei vescovi egiziani alla sua consacrazione. Che fine fanno i presbiteri in questo nuovo sistema? Possiamo supporre che siano stati esclusi, secondo quanto farebbe supporre un’interpretazione 14

15

Se ne veda una sintesi in Wipszycka 2007, 331-349. Particolarmente famosi sono gli articoli di W. Telfer in proposito: Telfer 1949,117-130; Telfer 1955, 227-237. 17 Wipszycka 2006, 71-90. 18 Bovon, Callahan 2006, 569-586. Rimangono di riferimento i due testi greci editi in Patrologia Graeca 115, 164-169 (Parisinus gr. 881) e in Acta sanctorum aprilis, III, Anvers 1675, xlvi-xlvii; Paris 1866, xxxviixl (Vaticanus gr. 866). 16

Martin 1996, 321-339.

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tradizione secondo cui 11 presbiteri (12 compreso il nuovo patriarca) e 7 diaconi avrebbero costituito il collegio clericale primitivo si è unita l’esigenza di menzionare qualche nome dei personaggi destinati a garantire il futuro della chiesa alessandrina. Gerolamo, da parte sua, accenna all’usanza della consacrazione presbiterale nel contesto di un discorso a lui caro circa la pari dignità del presbitero e del vescovo: Ep. 146 a Evangelo, scritta dopo il 385. Qui afferma che fino ad Eracla e Dionigi i presbiteri «nominabant» uno fra di loro vescovo di Alessandria.19 Il termine è stato da alcuni interpretato in riferimento alla mera elezione del vescovo (cioè alla designazione del candidato), mentre da altri, più criticamente avvertiti, come E. Wipszycka, è stata riferita sia all’elezione sia alla vera e propria consacrazione episcopale. Un discorso simile, anch’esso molto attento all’evoluzione del diritto ecclesiastico, troviamo in una lettera (II,3) di Severo di Antiochia: «E il vescovo della città famosa per la sua fede ortodossa, cioè la città degli Alessandrini, usava essere stabilito da presbiteri; ma in tempi più recenti, in accordo con le norme canoniche invalse ovunque, la solenne istituzione del vescovo viene compiuta dalle mani dei vescovi»,20 anche se il vescovo non dà indicazioni cronologiche precise circa l’epoca della riforma. D’altra parte, né lui né Gerolamo aggiungono dettagli sul numero dei presbiteri e dei diaconi. Di tali indicazioni è carente anche la testimonianza di Liberato di Cartagine, esperto di cose alessandrine, che ha però il merito di aggiungere alcuni particolari sulla cerimonia di investitura del nuovo patriarca:21 «Consuetudo quidem est Alexandriae illum qui defuncto succedit, excubias super defuncti corpus agere manumque eius dextram capiti suo inponere et sepulto manibus suis accipere collo suo beati Marci pallium et tunc legitime sedere».22 Questo rapido e incompleto giro di orizzonte sulle notizie comparabili con i due testi ci permette di affermare che la tradizione circa l’elezione e la consacrazione del vescovo da parte di presbiteri alessandrini è confortata da autorevoli testimonianze, le quali tuttavia non fanno riferimento a constatazioni autoptiche, ma a notizie che gli autori che le riferiscono hanno conosciuto in maniera incerta. Acquista notevole rilievo critico il fatto che Gerolamo ritenga che la fine di questo sistema sia da datarsi all’episcopato di Eracla e Dionigi, momento in cui effettivamente l’episcopato d’Egitto comincia ad affermarsi autorevolmente sulla scena del cristianesimo della regione. D’altra parte non si deve trascurare, a proposito della testimonianza di Liberato, che il dettaglio sconcertante della presenza del cadavere e dell’imposizione della mano del vescovo morto sia accostato all’uso, molto più verisimile, di ricevere e vestire il pallio del predecessore, che in qualche modo potrebbe in alcuni casi

aver giocato una doppia funzione simbolica: simboleggiare la salma e di conseguenza la trasmissione “fisica” del carisma episcopale. 2.2 Elezione e consacrazione Il testo della HEpA (a differenza di quello di Eutichio) sembra aver presente la distinzione tra «elezione» (proposta e scelta del candidato più adatto) e «consacrazione» di un vescovo (l’atto religioso con cui il candidato designato riceve un’investitura, comportante anche una comunicazione di carisma). Quest’ultima è realizzata con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri, ma non coincide con la scelta del candidato, anche se quest’ultima è limitata all’interno della cerchia presbiterale e dunque non del tutto libera. L’altro termine significativo è infatti «tutti»: se non si può negare un suo riferimento ristretto ai dodici presbiteri e ai sette diaconi poco prima menzionati, tuttavia appare assai probabile, confrontando il passo con altri testi canonico-liturgici tra IV e VI secolo, il suo riferimento alla comunità alessandrina nel suo insieme. Dunque emerge un sistema a due stadi: un presbitero eletto dalla comunità nella cerchia presbiterale (naturalmente anche per influenza dei presbiteri stessi) e poi consacrato dai presbiteri stessi, senza intervento di un vescovo esterno. L’unico legame con l’autorità episcopale è garantito dal cadavere del predecessore. Se distinguiamo tra consacrazione ed elezione di un presbitero, possiamo anche comprendere l’evoluzione istituzionale alessandrina. Come osservato da A. Martin, la questione è estremamente complessa, forse più articolata di quanto le fonti antiche non facciano trapelare.23 Infatti è del tutto ovvio che nel momento in cui Demetrio (per primo?) comincia a diffondere la rete degli episcopati strutturati secondo il modello del monoepiscopato, si crea un corpo episcopale completamente dipendente dal vescovo della metropoli, che tuttavia legittimamente intende far sentire la propria voce nel momento in cui si verifica il trapasso da un patriarca all’altro. In altri termini, una tendenza a far pressione sull’elezione del vescovo di Alessandria dev’essersi verificata quasi da subito da parte di vescovi in tutto dipendenti dalla metropoli, forse sotto Demetrio, e poi, in maniera crescente, sotto Eracla, Dionigi, Massimo e Teona. Ciò può aver comportato in qualche caso anche un’occasionale partecipazione alla liturgia da parte di qualche vescovo. La riforma di cui parlano HEpA ed Eutichio dev’essere consistita nella sanzione formale e liturgica di uno stato di cose già esistente, riforma probabilmente accelerata dalla crisi meliziana, su cui torneremo. Dunque, ritengo possibile mettere d’accordo le fonti antiche, in particolare Gerolamo da una parte, Eutichio e la HEpA dall’altra, per dire che in un primo tempo, quando i vescovi egiziani

19

Hilberg, Reiter 1918. Brooks 1903, vol. I, 237 (textus), 213 (trad.). 21 Esse non mancano di richiamare le scene finali del Martyrium Petri alexandrini, cfr. Camplani 2009, 138-156. 22 Schwartz 1936, 98-141. 20

23

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Martin 1996, 338.

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hanno cominciato ad assumere un certo peso, il loro parere è stato ascoltato nel momento della scelta del candidato, e forse essi potrebbero essersi aggiunti come elettori alla comunità alessandrina e ai presbiteri (Gerolamo). Questa fase per noi oscura ha avuto una svolta con la riforma del sistema di ordinazione, o da parte di Pietro o da parte di Alessandro (Eutichio e HEpA), la quale avrebbe comportato o l’aggiungersi costante dei vescovi ai presbiteri nel corso della liturgia di consacrazione, o la completa sostituzione dei vescovi ai presbiteri.

istituzionali che al tempo di Pietro o di Alessandro porteranno alla riforma del sistema di ordinazione. Cosa sappiamo circa la presenza di vescovi egiziani nel III sec.? In effetti non abbiamo alcuna testimonianza in proposito prima di Demetrio. A partire da Demetrio, sia Eutichio, sia la HEpA, sia la Historia patriarcharum in arabo,26 attestano la formazione di corpo episcopale egiziano. Secondo la perduta Apologia per Origene scritta da Eusebio e Panfilo, riassunta da Fozio, Demetrio avrebbe convocato un concilio di vescovi di incerta provenienza per condannare Origene:27 «A causa di ciò l’amicizia di Demetrio si converte in odio e i suoi elogi in biasimo: si riunisce contro Origene un sinodo di vescovi e di qualche presbitero. Questo, come dice Panfilo, decreta che Origene sia bandito da Alessandria, che non possa né soggiornarvi né insegnare; che tuttavia non sia privato dell’onore della condizione di presbitero. Ma Demetrio, assieme ad alcuni vescovi egiziani, lo dichiarò privo della condizione di presbitero, essendo la sentenza stata sottoscritta da coloro che erano d’accordo con lui».

2.3 Elementi simbolici Fermiamoci brevemente sul simbolismo del passo della HEpA. Sembra chiara l’ispirazione biblica dei numeri proposti per presbiteri e diaconi: 12 e 7 non possono non richiamare gli episodi narrati in Atti 6, in cui i Dodici decidono di istituire i Sette, che devono dedicare la loro opera al servizio della comunità. In effetti il numero dei presbiteri dipendenti dalla diocesi di Alessandria non è comparabile con questi numeri, fin dal III secolo, come hanno dimostrato gli studi di A. Martin.24 È chiaro che in questo punto il testo sta ricostruendo un quadro ideale della comunità primitiva.

In questa discussa testimonianza,28 la prima riunione sembra essere menzionata come se si trattasse di un vero e proprio sinodo: probabilmente Demetrio fa giungere nella città vescovi di altre regioni per dare maggiore autorità alla sua decisione. A questi si uniscono forse i presbiteri alessandrini. La decisione di Demetrio, secondo una notizia di Gerolamo, viene accolta da molte chiese, compresa quella di Roma, ma non da quelle di Palestina, Arabia, Fenicia e Achaia.29 A questo primo sinodo segue una riunione di vescovi locali. Si tratta della prima riunione di vescovi egiziani che sia attestata. Se Demetrio è stato il primo a eleggere vescovi in Egitto, dobbiamo ammettere che tale riunione seguirebbe di poco la nomina dei primi vescovi nella khôra egiziana, il che, pur non impossibile, non è del tutto verosimile. Ma, nonostante questo, grosso modo possiamo ammettere come storico il dato della formazione di un episcopato nel periodo in cui si colloca l’ufficio episcopale di Demetrio.

Il secondo elemento con forte valenza simbolica è la presenza del cadavere del predecessore. Al di là della possibilità che questa usanza possa essere stata realizzata in alcune occasioni tra IV e VI secolo, o che possa essere stata trasformata nel rituale del passaggio di qualche elemento del vestiario liturgico dal vescovo deceduto al candidato alla successione, qui interessa rilevare il suo sicuro significato simbolico: esso riveste la funzione di conferire autorità episcopale all’ordinazione condotta esclusivamente da presbiteri, che evidentemente viene percepita come non del tutto autonoma e completa.25 Secondo un fine suggerimento di Claudia Rapp in occasione di un seminario alla Hebrew University di Gerusalemme nel giugno 2010, il testo presenta come un’investitura episcopale quella che in realtà è un’elezione e una consacrazione presbiterale.

Constatata la sostanziale storicità di quanto affermato dal testo a proposito dei vescovi egiziani, dobbiamo domandarci perché esso proponga quest’affermazione. La frase circa l’assenza di vescovi in Egitto, secondo la

2.4 Elementi apologetici È ora di penetrare nel cuore dell’ideologia del testo. Esso afferma, a parziale giustificazione del fatto che siano dei presbiteri a ordinare un vescovo, l’assenza di vescovi egiziani che possano rispondere a questa funzione. Eutichio dice la stessa cosa, pur non stabilendo, a differenza della HEpA, una correlazione di causa ed effetto tra questa carenza e la forma peculiare dell’ordinazione patriarcale. Solo con l’istituzione di nuovi vescovi, che i testi (Eutichio e HEpA) datano a partire da Demetrio, si porranno quelle condizioni 24 25

26

Evetts 1904, 99-214, in particolare 154. Fozio, Bibliotheca 118; Henry 1962-1991, t. 2. 28 Nautin 1977, 105: «On remarquera cependant que la mention de Pamphile vient seulement dans la deuxième phrase. La première: «Un concile d’évêques et de quelques prêtres se réunit contre Origène», est une conjecture de Photius en ce qu’elle ne mentionne que des évêque et des prêtres: il suppose, d’après le droit ecclésiastique de son temps, que le prêtre Origène n’a pu être jugé que par des clercs d’un rang supérieur ou égal au sien. Mais à l’époque d’Origène, cette règle n’était pas encore en vigueur. Paul de Samosate, vers 265, sera jugé, tout évêque qu’il fut, par des prêtres et des diacres en présence des fidèles, et il en sera encore ainsi pendant longtemps». 29 Ep. 33,5. 27

Martin 1996, 205-214. Si veda in proposito Blaudeau in corso di stampa.

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nuova traduzione di A. Bausi, vuole rispondere a un’obiezione critica cruciale nell’ideologia del redattore: com’è possibile che dei presbiteri ordinino un vescovo, il quale è gerarchicamente e spiritualmente a loro superiore? Si tratta di un’obiezione anacrononistica se rapportata al periodo in cui si presume che questi patriarchi siano vissuti (I-III sec. d.C.), ma acquista senso e spessore nel momento in cui il testo comincia a essere composto, cioè a partire dal IV secolo, quando la consacrazione del vescovo viene percepita in tutta la sua dimensione anche religiosa di atto che può essere compiuto soltanto da colleghi di ministero, come afferma il Concilio di Nicea (canone IV) assieme a una pletora di testimonianze patristiche e canoniche.30 Come abbiamo già visto, Severo di Antiochia, all’inizio del VI secolo, è ben consapevole dei mutamenti istituzionali che in tutto l’universo cristiano hanno reso obbligatoria l’usanza della consacrazione di un vescovo da parte di suoi colleghi, e non di uno solo, ma di una pluralità.

Non rimane a questo punto che cercare paralleli che rendano per lo meno plausibile questa seconda ipotesi di evoluzione. 2.5 La liturgia comparazione

consacrazione: elementi

di

Possiamo verificare questa ipotesi sulla base di qualche testo canonico. Si deve rilevare che gli strati più antichi della Traditio apostolica, letta anche in Egitto, e dei testi egiziani che ne dipendono (come i Canoni di Ippolito), sembrano potersi interpretare nel senso che a un sistema di consacrazione presbiteriale se ne è sostituito uno di carattere episcopale. Si veda il testo della versione latina nella recente traduzione inglese di P.F. Bradshaw:31 «§ 2. Let him be ordained bishop who has been chosen by all the people, and when he has been named and accepted by all, let him assemble the people together with the prebytery and those bishops who are present, on the Lord’s day. When all give consent, let them lay hands on him, and let the presbytery stand by, being still. And let all keep silence, praying in the heart for the descent of the Spirit; from whom let one of the bishops present, being asked by all, laying [his] hand on him who is being ordained bishop, pray, saying thus». L’opinione di E.C. Ratcliff che «discernible between the lines of the several versions of Apostolic Tradition, there are signs which can be taken as indicating that, in its original form, the direction instructed the prebyters to conduct the proceedings»,32 è stata accolta da Bradshaw, che si domanda «In particular, does its reading “one of the bishops and presbyters” really betoken a fourth-century attempt to assimilate the presbyterate as closely as possible to the episcopate; or does it rather signal the fact that, in the text of the Apostolic Tradition which its author had inherited, there was no mention at all of other bishops at the ordination but only of presbyters, and so he felt it necessary, in the light of the actual practice of his day, to insert some reference to them here, alongside the presbyters, just as in the traditions underlying the later versions and translations other hands would judge it right to recast the text more drastically at this point and also to record the active involvement of other bishops earlier in the section?», cui risponde: «If it seems barely credible that the Apostolic Tradition could have envisaged an ordination of a bishop conducted entirely by presbyters, it should be remembered that in fact this document is the earliest supposed witness to the practice of involving other bishops in the proceedings».33

Ora, se poniamo insieme questa affermazione assieme al simbolo del cadavere del predecessore, ci troviamo di fronte ad un’articolata giustificazione apologetica della consacrazione patriarcale condotta da presbiteri: essa è presbiterale, secondo il testo, per mancanza di vescovi egiziani, e tuttavia tale fatto è in qualche modo ovviato dalla salma del vescovo deceduto che garantisce, almeno simbolicamente, la trasmissione dell’autorità episcopale. Il fatto che l’assenza dei vescovi costituisca un elemento importante dell’atteggiamento apologetico spinge a guardare con attenzione la ripetuta affermazione che Demetrio sarebbe stato il primo a ordinare vescovi in Egitto: certo è che non ne sono attestati prima di lui; ma nello stesso tempo, va rilevato che tale assenza di vescovi prima del primo vescovo dotato di contorni storici precisi (Demetrio) è molto ben armonizzata con le argomentazioni apologetiche del testo, e dunque deve essere sorvegliata criticamente nella ricerca futura. Quello che in questa sede interessa di più è che tale giustificazione e le modalità con le quali viene condotta spingono lo storico a dare credito all’esistenza di quest’usanza liturgica: per un lunghissimo periodo, oltre ad esercitare un’influenza diretta sulla scelta del candidato al patriarcato, i presbiteri alessandrini hanno anche consacrato il nuovo vescovo; a questa fase ne segue un’altra in cui sono i vescovi, in primo luogo, a ordinare il patriarca; tra le due si pongono probabilmente fasi di passaggio, che vedono implicati occasionalmente i vescovi egiziani nella scelta e nella consacrazione del candidato. Ma, come abbiamo già visto, possiamo a immaginare due possibili evoluzioni dopo la riforma: la prima consiste nell’esclusione dei presbiteri o in un loro ruolo di mero servizio nella cerimonia di investitura episcopale; la seconda ammette un intervento dei presbiteri, in posizione di subordinazione ma non escludendo una loro partecipazione alla kheirotonia, nel senso che impongono le mani, rimanendo in silenzio.

31

Bradshaw, Johnson, Phillips 2002, 23-24. Ratcliff 1966, 269. 33 Bradshaw 1989, 335-338, in particolare 336-337. 32

30

di

Ad es. Constitutiones apostolicae VIII 47.

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Tornando al nostro apophthegma, da cui abbiamo preso le mosse, queste pagine dovrebbero aver chiarito il contesto del detto e forse anche l’identità degli accusatori: essi potrebbero infatti essere individuati nei meliziani, attestati ancora tra V e VI secolo in Egitto.36 Rimane da risolvere un problema cronologico: perché esso parla di questa kheirotonia come di un uso corrente, databile dunque al V secolo, quando la partecipazione dei presbiteri alla consacrazione patriarcale doveva essere stata riformata da tempo, certo prima di Atanasio? Potremmo rispondere che la testimonianza è viziata da arcaismo e che riflette una polemica meliziana stereotipata, ormai senza più ragione di essere. Tuttavia, per pura ipotesi, potremmo anche supporre che tale testimonianza conservi traccia del fatto che ancora nel V secolo i presbiteri continuassero a partecipare alla liturgia di consacrazione episcopale, sebbene in posizione subordinata, forse imponendo anch’essi le mani, ma in silenzio, come propone appunto la Traditio apostolica.

3. Conclusioni Ritengo che lo sfondo storico-liturgico in cui collocare l’antica usanza liturgica alessandrina sia quello che, a seguito dell’affermarsi del monoepiscopato all’interno del collegio presbiterale, prevede una ordinazione da parte di questo stesso collegio, senza porsi anacronisticamente problemi relativi all’autorità episcopale, alla trasmissione del carisma, alla presenza dello Spirito Santo. I due motivi dell’assenza di vescovi e della presenza nella liturgia della salma del predecessore, accompagnata dall’uso di indossarne i paramenti, sono aggiunte più tarde, la prima di carattere puramente ideologico, la seconda forse occasionalmente realizzata, destinate a rendere compatibile tale antica consacrazione, probabilmente molto diffusa nel Mediterraneo orientale, con la nuova ortoprassi che si va affermando tra III e IV secolo e che prevede la necessità che un vescovo sia ordinato da colleghi di pari dignità. Il potere dei presbiteri alessandrini ha segnato profondamente le relazioni tra Alessandria e il cristianesimo d’Egitto proprio in virtù del rapporto di dipendenza dei vescovi della khôra dalla sede episcopale alessandrina nel suo complesso. Un vescovo egiziano doveva avvertire un senso di subordinazione non solo nei confronti del patriarca, ma anche dei suoi collaboratori. Dobbiamo infatti domandarci: se i presbiteri consacravano il patriarca, è così fuori luogo ipotizzare che intervenissero anche nella consacrazione dei vescovi egiziani, collaborando con il patriarca nella cerimonia della loro investitura? Ma se questo è vero, non si creava una situazione di potenziale conflitto tra i vescovi eletti nelle diocesi egiziane e i presbiteri alessandrini, e dunque il patriarcato nel suo complesso?

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Non per nulla, la forma autocratica del potere ecclesiastico alessandrino è stata contestata, durante la persecuzione di Diocleziano (a partire dal 303 d.C.), da un movimento scismatico iniziato da un vescovo della Tebaide, Melizio di Licopoli,34 uno di quei vescovi della khôra che dovevano avvertire come un peso il rapporto di subordinazione nei confronti non solo del vescovo di Alessandria, ma che del suo entourage.35 Non per nulla, una delle prime azioni di Melizio è stata la “separazione”, o temporanea o definitiva, dei presbiteri alessandrini dalla loro stessa comunità. Tali presbiteri, stando alle parole di una lettera di Pietro stesso, avevano acquisito durante la persecuzione un potere quasi episcopale: episkopein (tradotto in latino con visitare) è il termine più ricorrente a loro proposito nei testi preservati dal Codex Veronensis LX. Allontanarli vuol dire per Melizio dare ai presbiteri alessandrini il posto che dovrebbe loro competere, cioè un mero ruolo di servizio.

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34

La trattazione più ampia è in Martin 1996, 219-319. Sul personale che lavorava nella cancelleria episcopale e presso la sede vera e propria si veda Wipszycka 107-112.

35

36

66

Si veda Camplani 1990, 313-351; Hauben 1998, 329-349.

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

NOTE SU BES LE SCULTURE DEL MUSEO EGIZIO DI FIRENZE E DEL METROPOLITAN MUSEUM OF ART *

1. Introduzione Un’ampia bibliografia2 può essere raccolta a proposito di questa enigmatica figura, da un lato ben riconoscibile, dall’altro sfuggente a semplici catalogazioni. Se un personaggio dai mostruosi tratti “besoidi”3 si affaccia dalla documentazione magica egiziana fin dal Medio Regno, le attestazioni si vanno moltiplicando fino ad avere una diffusione amplissima dal I millennio, diffusione che va ben oltre la Terra del Nilo coinvolgendo le sponde del Mediterraneo. In questo moltiplicarsi delle testimonianze, si vanno specializzando alcuni tipi iconografici che permettono agli studiosi di orientarsi al fine di datare gli oggetti, restando tuttavia, il più delle volte, all’interno di ampi archi temporali, a meno che i contesti di provenienza possano fornire dati più precisi. Le attestazioni iconografiche sono tanto ampie quanto varie,4 e vanno da minuscoli oggetti da toletta e amuleti da indossare, fino a decorazioni di mobilio, pitture e rilievi templari, sculture anche di proporzioni colossali.

Giuseppina Capriotti Vittozzi

Abstract The deity usually identified with Bes can be called with other names and figures similar to Bes can actually be identified with other gods. The personality of this peculiar deity is complex and, above all in the Late Period, he is a sort of mask, hiding or revealing other divine forms. The popularity of the god in Mediterranean area is linked to the issue of his identity. In this respect, in the regions where he is present, as for example in the Punic world, there is no certain attestation of his name. The figure of Bes spread well beyond Egypt, both alone or as a double image, particularly with architectonic functions in the temple precincts. This study presents two interesting sculptures, one of the Metropolitan Museum of Art of New York and the other of the Museo Egizio in Florence. Very likely they were part of two couples of gods. If the figure was used as an architectonic support, the deity, besides his traditional role of protector of childhood and of the feminine world, was also a divine manifestation and a supporter of the sky.

Se le indagini archeologiche hanno restituito tanta ampiezza di documentazione iconografica, altrettanto avare sono state con quella epigrafica o paleografica: il nome di questo personaggio divino non compare certo con la stessa frequenza dell’immagine e anzi dobbiamo riscontrare, per quanto riguarda il nome, una certa varietà, al punto che si può ritenere la denominazione Bes come una sorta di convenzione, l’indicazione cioè di una certa forma fisica, per l’appunto “besoide”; con questo non si intende certo dire che Bes non esiste, ma che quando siamo di fronte ad un’immagine priva di nome, la sua identità non può essere data per certa. Un caso indicativo e apparentemente paradossale è quello della documentazione in ambiente fenicio-punico: la figura divina in forma di Bes vi ebbe un’ampia e importante diffusione, alla quale non fa riscontro alcuna presenza tra gli antroponimi teofori o altra attestazione epigrafica certa.5

La figura di Bes, per la sua complessità, peculiarità e diffusione nel Mediterraneo, occupa da anni l’interesse degli studiosi e non solo in ambito strettamente egittologico. Ho avuto recentemente occasione1 di raccogliere nuovi dati e considerazioni che spero saranno gradite al professor Sergio Pernigotti, il quale con le sue linee di ricerca ha arricchito alla conoscenza del mondo magico-religioso egizio e del contributo dato dall’Egitto, in questo ambito, alle culture del Mediterraneo.

A partire dagli studi di M. Malaise,6 le connotazioni religiose della figura, così come i lati oscuri, sono stati ampiamente indagati da importanti ricerche cui si può far riferimento, tentando di analizzare alcuni elementi che sembrano interessanti per la comprensione della divulgazione dell’immagine “besoide” in Egitto e nel Mediterraneo.

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Ringrazio M.C. Guidotti, direttrice del Museo Egizio di Firenze e C. Roehrig, curatrice nel Department of Egyptian Art del Metropolitan Museum of Art, per l’amichevole sostegno alle mie ricerche. Sono grata alla direzione dei due musei per aver gentilmente concesso le foto delle rispettive sculture. Grazie inoltre a P. Buzi e a F. Contardi per aver agevolato la ricerca bibliografica e alla dott. C. Moro per aver offerto indicazioni. Quando questo studio stava per essere consegnato per la stampa, sono venuta a conoscenza della pubblicazione recentissima di un lavoro di K. Parlasca (Parlasca 2010) che tuttavia non ho potuto prendere in considerazione. 1 A proposito della realizzazione del Dizionario Enciclopedico della Civiltà Fenicia e Punica diretto da P. Xella nell’ambito della commessa “Mediterraneo fenicio” nell’Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico (ISCIMA – CNR).

Possiamo qui considerare in sintesi i vari aspetti risultanti dalla bibliografia esistente.

2 Non si intende qui, certamente, trattare l’argomento in maniera esauriente, ma solo sottolineare alcuni aspetti alla luce di studi recenti. 3 Sull’uso di questo termine: Volokhine 1994. 4 Esaminate inizialmente da Romano 1989 e recentemente da Toro Rueda 2006 e Velázquez Brieva 2007. 5 Sul problema: Garbati 2008, 85, nota 56. Ringrazio P. Xella per aver discusso con me questi aspetti documentari. 6 Malaise 1989; Malaise 1990.

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a. Un combattente, un protettore

immagini di nani le cui caratteristiche si confondono, a tratti, con quelle dell’infanzia,17 la cui appartenenza all’ambito solare è resa esplicita talvolta dalla presenza del cosiddetto trigramma18 e dello scarabeo. Di particolare interesse sono le osservazioni di D. Meeks riguardo al Rituale delle quattro sfere dove si citano quattro effigi eliopolitane come “il piccolo, il bs, il basso, il nano”.19 Il potenziale rappresentativo del nano, come figura dalla statura vicina all’infanzia, simile ad un neonato per le proporzioni degli arti e il rapporto testa/corpo, ma al contempo nella piena maturità, è d’altra parte bene espresso dall’immagine del gigantesco nano solare che conosciamo da alcuni testi dal Nuovo Regno all’Epoca Tarda.20

È chiara la capacità apotropaica del personaggio che si esplica sia nella tutela della rinascita solare che nel corso del parto, sia in ambiente regale che privato;7 le sue capacità di agguerrito protettore si riconoscono per il ghigno spaventoso e per alcuni attributi, tra questi le armi e gli aspetti leonini. In Egitto, il nome della figura dai chiari tratti apotropaici, che si trova dal Medio Regno, indica il ruolo di combattente (aHA) che si manifesta ancora nell’iconografia tarda, nella quale il personaggio brandisce un lungo coltello o una spada; lo stesso atteggiamento del viso aggrottato e minaccioso, che generalmente mostra la lingua, ha la funzione di spaventare il nemico. M. Malaise pone il nome bs in relazione con bsA “proteggere”.8 Anche il nome HAy, che può essergli attribuito,9 potrebbe esprimere lo stesso concetto.10 Se la sua presenza sulle stele magiche definite di Horo sui coccodrilli è ben conosciuta, uno studio di J. Berlandini11 ha significativamente riconosciuto una rara iconografia nella quale Bes funge da auriga sul carro del dio Shed lanciato all’attacco.

D’altra parte, è stata osservata la coincidenza del nome con il termine bsi, che indica lo spuntare del sole all’orizzonte,21 a sottolineare il nesso tra la divinità e il sole fanciullo, tenendo conto, come sottolineato da Kákosy, che molteplici possibilità interpretative del nome possono rinviare a dotti giochi di parole in ambiente sacerdotale.22 c. Danzatore e bevitore Il nesso con la femminilità e l’erotismo è certamente espresso dalla sua presenza nella cerchia di Hathor e dal suo ruolo nel mito della Dea Lontana:23 questo personaggio difforme danza e suona insieme a scimmie nell’accompagnare la dea che torna e dunque la piena; chiaro è anche il suo legame con l’ubriachezza e il vino24 mentre la sua figura si può confondere con quella del greco sileno.

b. Un nano, un bambino La figura è strettamente legata al fanciullo solare, che accompagna e tutela, fino – in certi casi – a scambiarsi di ruolo con lui. Il nome bs è stato messo da D. Meeks12 in relazione con un essere piccolo, addirittura con un prematuro e Volokhine ha aggiunto un’osservazione che rileva la presenza, su alcune figurine, di un ombelico sporgente e rossastro, come un cordone ombelicale appena tagliato.13 Il nesso tra questa figura difforme e l’infanzia è stato messo chiaramente in luce da molteplici studi,14 così come il suo legame con la femminilità, l’erotismo, la fecondità. Il nesso con la donna e il parto doveva essere veramente importante se accompagnò, come prescrizione magico-terapeutica, numerose figurine ritrovate nel Mediterraneo nord-occidentale in tombe femminili.15

Nomi diversi (iHty, Hyt, HAy, HAti ecc.), che si trovano attestati in Epoca Greco-Romana insieme a bs, sono stati messi in relazione allo stesso aHA o a HAi “ballare” in riferimento al frequente atteggiamento danzante del personaggio.25 L’appartenenza alla cerchia della Dea Lontana inserisce questa figura in un immaginario africano che ben si riflette in una categoria di figurine destinate alla protezione della maternità,26 dove la troviamo in compagnia di scimmie, donne nubiane, personaggi musicanti e felini.

D’altra parte, la relazione tra questo personaggio e l’infanzia è evidente per la sua presenza accanto a Horo bambino16 e per la vicinanza, in Epoca Tarda, ad altre figurine difformi chiamate generalmente Patechi,

17 Ad es. British Museum, inv. 11211; Dasen 1993, tav. 12.2. Anche tra le terrecotte greco-romane si può trovare il nano con il ricciolo dell’infanzia: ad es. Breccia 1934, 39 n. 209, Tav. LXXXVII, 454; Fischer 1994, 219 n. 410, tav. 41. Per altri casi: Capriotti Vittozzi 2003, 148 nota 65. 18 Koenig 1992. 19 Meeks 1992, 424. 20 Koenig 1981, 69-72; Sauneron 1970, 23 (4.9) dove si cita “l’homme d’un million [de coudées qu]i a sept visages sur un seul [cou] ; avec une face de Bès... »; Meeks 1992, 427-428; Berlandini 1995, 22-25 con bibliografia precedente. 21 Erman, Grapow 1982, I 475; Meeks 1980, 122 n. 77.1312; Malaise 1990, 691-692. 22 Kákosy 1981; Malaise 1990, 692. Sull’etimologia del nome, è recentemente intervenuto Takács 2002. 23 Si veda ad es. la presenza nel tempio di Hathor a File: Daumas 1968. 24 Capriotti Vittozzi 2006b; Capriotti Vittozzi 2008a. 25 Malaise 1990, 683. 26 Bulté 1991.

7 Bulté 1991; Bresciani 1992; Frankfurter 1998, 125-126; Capriotti Vittozzi 2003, con bibliografia precedente. 8 Malaise 1990, 692. 9 Per i vari nomi, si veda Malaise 1990, 682-684. 10 Erman, Grapow 1982, III, 10, 17; Meeks 1981, 236 n. 78.2543. 11 Berlandini 1998. 12 Meeks 1992. 13 Volokhine 1994, 88 nota 43. 14 Malaise 1990; Bulté 1991; Meeks 1992; Volokhine 1994; Dasen 1993; Quaegebeur 1999; Capriotti Vittozzi 2003; Malaise 2004; Capriotti Vittozzi 2006a. 15 Ad es. Capriotti 1999a, 28-30. 16 Capriotti Vittozzi 2003 con bibliografia precedente.

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maschera: un pregevole bronzetto conservato a Berlino36 ci mostra una figura nuda, infantile, caratterizzata dal tipico ricciolo dell’infanzia, il cui viso si cela dietro la maschera di Bes.37 Un altro caso è dato da una scultura in grovacca al British Museum:38 il corpo atletico del personaggio abbigliato di un gonnellino pieghettato risponde alla ideale raffigurazione egizia del corpo maschile, mentre il viso è quello di Bes; non è chiaro se in origine, vicino a questa figura, ce ne fosse un’altra, visto che protende il braccio sinistro, ora spezzato, di lato. Anche la presenza del viso di Bes sulle stele di Horo sui coccodrilli potrebbe essere rapportata ad una maschera. Infine, un caso un po’ diverso, visto che raffigura un ambito più propriamente umano, può forse essere individuato fra gli uomini che pigiano l’uva nella scena di vendemmia raffigurata nella tomba di Petosiri a Tuna el-Gebel: uno solo di questi mostra un viso frontale che fa pensare ad una maschera di Bes/sileno.39 Un’ulteriore osservazione richiede una serie di figure nelle quali, in maniera più o meno spiccata, la demarcazione della barba assume la forma di una sorta di cordoncino o addirittura di largo nastro; esempio considerevole è la statua del Vaticano, nella quale il combinarsi di tale fettuccia con le grandi sopracciglia crea un “effetto maschera”, come se parte del viso emergesse da sotto un apparato finalizzato a conferire un aspetto non precisamente umano.40

d. Maschera e/o acefalo? Un certa documentazione iconografica attesta fin dall’Antico Regno figure che sembrerebbero mascherate e di aspetto “besoide”, che si muovono in ambiti rituali.27 Un interessante e complesso studio di D. Meeks28 pone in relazione la maschera con l’assenza di testa: l’acefalia di Osiris è connessa al periodo di invisibilità di un astro, sia esso il sole o la luna; anche per l’essere umano esiste un periodo di “eclissi” che è quello riservato ai riti dell’imbalsamazione, alla fine dei quali la maschera rappresenta una nuova testa per il defunto. L’ipocefalo, quasi una sorta di nimbo, posto a protezione della testa e finalizzato a rivitalizzare il defunto, porta un testo (Libro dei Morti, 162) che si rivolge ad una figura misteriosa e innominabile, identificata attraverso il trigramma che segna anche Pateco o Bes.29 Infine, il dio acefalo (akephalos theos) che si trova nei testi magici greco-egizi lascia intravedere Osiris mostrando connessioni con Bes.30 L’oracolo di Bes conosciuto ad Abido in Epoca Romana, all’interno dell’antico tempio di Sethi I, è certamente connesso con l’akephalos theos.31 2. Quale identità? L’appartenenza di Bes ad un ambito liminale, fanciullo/non fanciullo – addirittura “prematuro” per D. Meeks – lo colloca all’interno del ciclo solare di prenascita/nascita/morte/preparazione della rinascita che tanto spesso nell’Epoca Tarda viene espresso dal nesso tra il fanciullo solare e Osiris – il quale presenta egli stesso un aspetto infantile – che trova la sua ragione nel percorso di rinascita giornaliera del sole e nel rinnovellarsi annuale della piena: al riguardo, si prenda in considerazione, ad esempio, lo pseudo obelisco ligneo al Louvre, contenente un feto umano, un tempo accompagnato da una figura di Osiris,32 oppure le figurazioni della porta di Adriano a File, dove nel disco sull’orizzonte stanno insieme Osiris e il fanciullo solare,33 o il culto di Osiris nel tempio di Opet presso quello di Khonsu a Karnak.34 La mostruosa figura “besoide” potrebbe appartenere dunque a un “non ancora” che è promessa di nuova vita, come la prima luce dell’alba.35 Questa immagine difforme cela dunque dell’altro e al contempo rappresenta il segno di una misteriosa presenza: siamo di fronte, in conclusione, ad un personaggio dall’identità incerta e/o molteplice, o almeno difficilmente definibile. Al riguardo, vanno citati alcuni casi in cui, sicuramente, il viso “besoide” rappresenta una

A riflettere questa situazione complicata, resta il problema del nome: ne conosciamo diversi e quello con il quale generalmente lo indichiamo – Bes – è solo in qualche caso attestato. Se gli studi di D. Meeks hanno messo in luce l’antichità del termine bs a indicare un essere piccolo, legato alla vita neonatale, è verosimile che le altre osservazioni avanzate sul significato di questo nome abbiano un senso nell’ambito dei giochi di parole che, in ambiente templare, erano ben lungi dall’essere oziosi ma miravano a chiamare in esistenza aspetti differenti. Nella sua diffusione nel Mediterraneo, conosciamo l’immagine di Bes ma, il più delle volte, non il suo nome. D’altra parte, è nota una serie di figure divine, raccolte da M. Malaise,41 che mostrano il viso “besoide” insieme a caratteristiche fisiche e attributi divini diversi e portano un nome che si riferisce ad altre entità divine (Soped, Horo, Nefertem, Reshef). A queste, si può aggiungere uno straordinario bronzetto – decorato in oro, elettro e argento – al Metropolitan Museum, il quale raffigura un personaggio – “besoide” mentre l’iscrizione lo identifica 36

Roeder 1956, 109 § 155, tav. 15 lmn. Per altri casi che potrebbero essere analoghi, si veda Malaise 1990, 708-709, 712-714. 38 EA 47973. Walker, Higgs 2000, 244 cat. iv.17. 39 Capriotti Vittozzi 2008a. Per il caso di un danzatore su un affresco isiaco da Ercolano: Malaise 2004, 287-288. 40 Museo Gregoriano Egizio, inv. n. 22842; Botti, Romanelli 1951, 119-120, n. 190, inv. n. 46, Tav. LXXXI; Capriotti Vittozzi 2006a, 5557 con bibliografia precedente. 41 Malaise 1990, 708-709, 712-714. Si veda anche Frankfurter 1998, 125.

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Volokhine 1994. 28 Meeks 1991. 29 Ryhiner 1977; Meeks 1991, 10-11. 30 Berlandini 1993; Bortolani 2008. 31 Dunand 1997; Rutherford 2003, 180; Bortolani 2008, 110. 32 Al riguardo: Meeks 1992, 428-429, con altri dati interessanti riguardanti Abido. 33 Desroches-Noblecourt 1999, 66; Capriotti Vittozzi 2009, 63. 34 Degardin 1985; Capriotti Vittozzi 2009, 70-71. 35 Malaise 2004, 271.

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come Horo Ashakhet.42 Un’ulteriore indicazione ci giunge dalla documentazione copta di ambito magico, laddove una rozza e sommaria figura unisce il nome di Cristo a quello di Bes.43

3. Aspetti e immagini del culto La sempre maggiore importanza della figura “besoide” si esprime attraverso le immagini di grandi proporzioni che ci sono rimaste dal periodo tardo all’epoca romana.

Infine, vanno considerate le cosiddette figure di Bes Panteo ben attestate dall’Epoca Tarda:44 un essere ibrido, caratterizzato da varie teste e attributi animali, mostrante un viso “besoide”. Il papiro magico di Brooklyn lo definisce, tra l’altro, “Bes dai sette visi”, ma lo designa anche con il cosiddetto trigramma:45 M. Malaise conclude proponendo di identificare l’essere come “une hypostase manifestant la toute-puissance des dieux solaires”.46 A proposito di una preziosa immagine di Bes Panteo al Louvre in bronzo decorato d’oro,47 L. Kákosy ha ricordato come il nome di bs sia assonante con il termine che indica una figura segreta48 ma anche con quello che indica la fiamma,49 a ribadire l’importanza dell’equivocità dei nomi. Sul bronzetto del Louvre, che porta il nome di Haroeris, un’iscrizione connette la figura con il fuoco, quale disco fiammeggiante che si leva nelle tenebre, fenice di fuoco, figura gigantesca di un milione di cubiti.

La statua rinvenuta da A. Mariette nel tempio di Nectanebo II presso il Serapeo di Menfi, oggi al Louvre,51 è di proporzioni notevoli, impressionante per i grandi occhi che dovevano essere inseriti in un materiale che li rendeva vividi, interessante per la sua collocazione presso il Serapeo: si ricorda qui come l’inno iscritto sul Bes Panteo del Louvre lo definisca “toreau, qui procrée et enfante la vie” (nella traduzione di Kákosy ).52 Recenti ricerche nell’oasi di Bahariya, rese note da Z. Hawass, hanno messo in luce un tempio nel quale la statua di culto di grandi proporzioni ha le forme di Bes.53 Il tempio è stato datato ad Epoca Greca ma è stata riconosciuta una frequentazione fino al IV sec. d.C. Appena fuori dal tempio, collegato a questo da un passaggio, si trova un pozzo accessibile attraverso una scalinata che, secondo Z. Hawass, poteva essere utilizzato per fini terapeutici.

Dopo questo breve excursus, si giunge quindi ad intuire che, in particolare dall’Epoca Tarda, dietro la figura “besoide” si possono celare le sembianze misteriose e innominabili di una divinità solare, che in quest’epoca raccoglie in sé gli aspetti della nascita e della rinascita, del soccorso e della protezione, dalla struttura cosmica alla dimensione domestica, capace infine di esprimersi attraverso oracoli. Ci si può chiedere, al riguardo, in quale rapporto siano il personaggio famigliare protettore dell’ambito domestico e questa elaborazione complessa, non solo a livello teologico ma anche per quanto concerne il rapporto tra pietà personale e culto pubblico.

Sia la statua da Saqqara che questa da Bahariya, pur nella evidente diversità dello stile, fanno riferimento ad uno stesso modello iconografico: la figura stante è nuda, solo una cintura sui fianchi, le zampe di una spoglia felina sulle spalle e sulle cosce, sul petto una piccola protome animale pertinente probabilmente alla stessa spoglia. Caratteristiche simili si ritrovano ancora in immagini di ambiente romano, come la statuetta al Barracco54 e quella oggi a Cambridge,55 pur nella diversità del tipo seduto rispetto a quello stante, a dimostrare l’importanza di un modello che doveva essere ben conosciuto in Egitto.56 È interessante notare come, in ambienti non lontani da quelli che ospitavano l’immagine di Saqqara e quella di Bahariya, abbiamo luoghi di culto dove Bes giocava un ruolo particolarissimo. Sempre a Saqqara, all’interno dell’Anubieion, conosciamo le cosiddette “stanze di Bes”,57 nelle quali grandi immagini della divinità sono raffigurate sulle pareti, affiancate da figure femminili nude di dimensioni più piccole. Nella stessa area sono state rinvenute numerose figurine classificabili come “erotica”.58

Dell’identità e dell’importanza di questa difforme figura ci perviene qualche frammento attraverso la sua sopravvivenza, quale sorta di spirito beffardo e pericoloso, nell’Egitto post-faraonico fino ai racconti popolari del periodo moderno e contemporaneo.50

42 Roger Fund, 1929 (29.2.3). Hill 2007, 195-196 fig. 86, 210. Si veda anche la scheda presente nel sito del museo: [http://www.metmuseum.org/works_of_art/collection_database/] 43 Pap. Schott-Reinhardt: Kropp 1930, tav. iii; ripreso da Pernigotti 2004 a proposito di un ostrakon da Bakchias. 44 Per la storia degli studi e il significato di questa figura: Kaper 2003, 91-104. 45 Sauneron 1970,15 e 27 nota bb, fig. 3; Malaise 1990, 719, 721; Berlandini 1993, 32. 46 Malaise 1990, 721. 47 E 11554. 48 Su questo, si veda precedentemente Kákosy 2002 e successivamente Kaper 2003, 93, nota 55 con bibliografia precedente. 49 Kákosy 2002, 277; Wb I, 474 e 476. 50 Meeks 1971, 54-55; Kákosy 1981; Kákosy 1990, 176; Frankfurter 1998, 128-131; Zaki 2008, 222-223. Sulla figura di Bes fuori dall’Egitto nella tarda antichità, si veda Mastrocinque 2005.

51 Louvre inv. n. N 437; alt. 92 cm; largh. 62 cm; prof. 28.5 cm. Lauer, Picard 1955, 9, fig. 5; Boreux 1932, 168, tav. XIX; Tran Tam Tinh 1986, I, 99 n.16b; II, 76; Romano 1989, 840-842, cat. n. 292. 52 Kákosy 2002, 279. 53 Hawass 2000. 54 Inv. n. 60; Sist 1996, 94-95; Capriotti Vittozzi 2006a, 64. 55 Fitzwilliam Museum, GR.1.1818; Vassilika 1998, 106-107 n. 51; Willems, Clarysse 2000, 290, n. 224; Capriotti Vittozzi 2006a, 64-65. 56 Per la discussione sul tipo: Capriotti Vittozzi 2006a. Al riguardo, si veda anche una pregevole statuetta a Berlino SM 22200 (l’oggetto è visibile in Velázquez Brieva 2005, Fig. 28). 57 Quibell 1907, 12-15. 58 Derchain 1981; Fischer 1998.

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A Bahariya, in una delle cappelle di Ain-el-Muftellah, resta la parte inferiore di alcune figure di Bes che dovevano essere alte almeno 4 m, insieme alle estremità di figure femminili: A. Fakhry ha datato il complesso alla XXVI dinastia.59 Nella stessa oasi, un graffito raffigurante Bes (Fig. 1) si trova nel complesso delle sepolture degli ibis a Qarat el-Faragi, dove è stato rinvenuto anche il frammento di una statua di Bes.60 S. Aufrère, mettendo in relazione l’edificio di Ain-elMuftellah con quello di Saqqara, ha supposto che avesse una funzione oracolare rilevando, nelle vicinanze, l’esistenza di un Aphrodision legato al culto di AfroditeHathor.61

colonne dal capitello hathorico. La lampada del British Museum, così come quella con l’immagine di Atena, presenta anche due leoni accovacciati ai lati dell’ingresso del naos. Ad attestare una datazione all’Epoca Tolemaica o Romana di questi oggetti, vanno considerati i dati iconografici – ad esempio la figura di Atena e quella di Isis – e il frontone arrotondato, tipico dell’ambiente egizio,70 che si trova sulla lampada del British Museum, sulla stele di Hannover e sulla lucerna isiaca. Per rintracciare la funzione architettonica di Bes in ambito egiziano, si può notare la sua presenza sui capitelli di alcuni mammisi di Epoca Tolemaica e Romana,71 nella decorazione della parte anteriore del tempio di Mut a Karnak, dove è rappresentato in un rilievo piuttosto alto e di grandi proporzioni sulle colonne del portico antistante il pilone,72 oppure le figure di Bes quale musico danzante sulle colonne dei propilei del tempio di Hathor a File. 73

Per quanto riguarda l’esistenza o meno di un culto specifico rivolto a Bes in Egitto, sul quale M. Malaise esprimeva giusta cautela ancora nel 2004,62 sembra ora possibile ragionare in questi termini: se è verosimile, ma non certo, che la statua di Saqqara sia stata oggetto di uno specifico culto, conosciamo quello a una figura “besoide” nel caso citato di Bahariya mentre, a Roma, abbiamo la ragionevole certezza che la statua in Vaticano, raffigurante Bes seduto indossante una spoglia leonina e una bulla sul petto, fosse un simulacro di culto.63

Una placchetta fittile a Boston74 (Fig. 2) propone qualcosa di analogo rispetto agli oggetti fin qui citati, pur presentando aspetti diversi: in un modellato dettagliato e di buona qualità, essa mostra una figura femminile nuda, stante, le braccia lungo i fianchi e le mani aperte appoggiate sulle cosce, la parrucca corta e tondeggiante, all’interno di un naos il cui architrave è sostenuto da due colonne su leoni stelofori e desinenti in alto con protomi di Bes emergenti da un capitello campaniforme. La figura femminile, dalla silhouette abbondante e dall’ampia fossetta ombelicale, risponde bene all’iconografia corrente in Egitto nell’Epoca Tarda e soprattutto in quella Tolemaica, così come le teste di Bes: queste ultime sono caratterizzate da un’acconciatura che scende a punta sulla fronte, ricalcando la linea delle ampie arcate sopraccigliari, per poi risalire in una sorta di voluta in corrispondenza delle orecchie, quasi a creare l’andamento di un copricapo a bicorno, come si può notare anche nel graffito di Bahariya (Fig. 1).75 L’iconografia dei leoni, invece, non è propriamente egizia, a partire dall’aspetto minaccioso delle fauci digrignanti che rimandano ad un ambiente levantino; va comunque notata la presenza dei felini che si ritrova anche sui manufatti precedentemente citati. Particolarissima è la presenza di Bes come busto emergente da un elemento floreale campaniforme che sembra avvicinarlo ancora una volta al fanciullo solare che nasce dal loto.76 La placchetta di Boston è stata messa in relazione da W.A. Ward77 con una serie di altri

4. Figure in coppia e funzione architettonica Qualche anno fa, una singolare coppia di figure di Bes, collocate nel giardino di piazza Vittorio a Roma, mi suggeriva la possibilità di supporre l’esistenza, nell’Urbe, di un sacello la cui fronte fosse caratterizzata da due Bes in funzione di pilastro, analogamente a quanto attestato da alcune fonti iconografiche dall’Epoca TolemaicoRomana: una steletta calcarea ad Hannover64 e tre lampade.65 Tali testimonianze ci mostrano figure “besoidi” stanti, in un caso danzanti, poste a sostenere l’architrave di un sacello, inquadrando una divinità femminile: nel caso di una lampada, si tratterebbe di Atena,66 nell’altro probabilmente di Isis per l’abito annodato sul petto, e in quest’ultimo caso le due figure architettoniche sono danzanti;67 una delle lampade68 e la stele di Hannover mostrano invece una figura completamente nuda, dalla parrucca corta e tondeggiante, che ragionevolmente M. Malaise propone di identificare con una forma di Isis-Afrodite;69 la stele presenta un ulteriore carattere figurativo negli elementi architettonici, mostrando alle due estremità della fronte del sacello due 59

70 Sull’uso del frontone arrotondato, si veda Gilbert 1942 e Pensabene 1993, 133-135. 71 Arnold 1999, 301. 72 PM II, 256, pianta XXV, colonne b-d, incastonate negli intercolumni; Jéquier 1924, Tav. V, 4 (riferibile alla colonna d in PM). 73 Daumas 1968. 74 Museum of Fine Arts 1990.605. Ward 1996; Uehlinger 1997, 116, fig. 27; Velázquez Brieva 2007, 50, Tav. XV.3. 75 Fakhry II, 29, Fig. 12. 76 Per Bes sul bocciolo, si veda Doetsch-Amberger 1991 e Malaise 2004, 272. Per un’altra applicazione insolita dell’immagine di un busto divino sorgente dal fiore di loto (in questo caso Osiris-Api), si veda Grenier 1990, 16-17, con bibliografia precedente. 77 Ward 1996.

Fakhry 1942-1950, I, 165-168. Fakhry 1942-1950, II, 28-29, 38. 61 Aufrère 1998, 26; Aufrère 2001, 26-27. Su questo Aphrodision, si veda Wagner 1987, 199-200. 62 Malaise 2004, 279-280. 63 Si veda nota 40. 64 Kestner-Museum inv. n. 1935.200.705; Bissing 1931, 18; Malaise 1990, 686. 65 Parlasca 1994, 406; Tran Tam Tinh 1986, I, 100 n. 22; 102 n. 48 a-b; II, 77 n. 22; 81 n. 48a. 66 Tran Tam Tinh 1986, I, 100 n. 22; II, 77 n. 22. 67 Tran Tam Tinh 1986, I, 102 n. 48 a-b; II, 81 n. 48a. 68 British Museum, EA 16025; Parlasca 1994, 406. 69 Malaise 2004, 276-277. 60

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manufatti già studiati da A. Mazar78 e identificati come una produzione di ambiente fenicio: il carattere comune è quello di presentare una figura femminile nuda e stante, nel medesimo atteggiamento già descritto, talvolta accompagnata da una figura minore, inquadrata all’interno di un naos caratterizzato da due colonne dal capitello campaniforme e, talvolta, dalla presenza di leoni, anche come acroteri. Il rinvenimento di tali oggetti nel Levante e a Menfi, nel quartiere identificato come quello degli stranieri,79 ha rafforzato la convinzione degli studiosi che la figura femminile vada identificata con una divinità levantina, forse Astarte. W.A. Ward, sulla base del lavoro di A. Mazar, che tra l’altro ha pubblicato un simile oggetto rinvenuto a Tell Qasile in uno strato datato al X sec. a.C.,80 stabilisce una datazione della placchetta di Boston al Terzo Periodo Intermedio, e precisamente all’VIII sec. a.C.81 In realtà, in base a criteri stilistici riguardanti il corpo femminile e le teste di Bes, sembrerebbe forse più opportuna una datazione più bassa e più vicina alla lampada del British.82 Tra le immagini studiate da Mazar e da Ward e le altre precedentemente citate e probabilmente più recenti, esistono comunque una continuità e un nesso ineludibile. Se è possibile l’appartenenza del motivo della figura femminile nuda nel naos all’ambiente levantino, va tuttavia riconosciuto un suo sviluppo nell’ambiente egizio. Certamente la figura risponde a criteri stilistici egizi, soprattutto in alcuni esemplari, anche se nella tradizione nilotica non è normale una divinità totalmente priva di attributi. Quanto alla sua frontalità, che Ward definisce non egizia,83 vanno ricordate, ad esempio, le stele di Horo sui coccodrilli; inoltre, la figura femminile nel naos va percepita come riproduzione di un’immagine di culto che si manifesta, e dunque in maniera diversa dalle figure di divinità, viste di profilo, che interagiscono con altre all’interno di un programma decorativo templare. Va inoltre ricordata una figura femminile nuda frontale che, pur levantina in origine, fu acquisita abbastanza precocemente, e con caratteristiche hathoriche, in ambiente egizio: Qadesh. Le stele del Nuovo Regno ci hanno restituito l’immagine della dea, caratterizzata da parrucca hathorica, stante su un leone, mentre, le braccia aperte, regge fiori di loto e serpenti.84 Un genere di oggetti completamente diverso, ma che sembra presentare comunque delle analogie, è quello dei “letti rituali”, sorta di modelli decorati spesso da una figura femminile nuda, frontale, su una barchetta di papiro, affiancata da due vitellini, la scena inquadrata da due figure di Bes, stanti anch’esse o danzanti (Figg. 45); anche questa immagine femminile tiene le braccia aperte a reggere (o scuotere?) delle piante acquatiche; talvolta è seduta a suonare un liuto; gli oggetti sono stati datati tra la XXII e la XXIV dinastia.85 R. Stadelmann ha posto in relazione la figura con Qadesh e dunque con

Hathor.86 P. Del Vesco ha recentemente ripreso l’argomento marcando il carattere hathorico dei manufatti.87 Giova notare che Ch. Desroches-Noblecourt ha riconosciuto nel vitellino traghettato una figura della giovane divinità solare.88 Queste sui letti e quelle sulle placchette sono chiaramente immagini diverse inserite in contesti differenti, e tuttavia sembrano avere tratti in comune, in particolare trattandosi di figure femminili nude e frontali, inquadrate da due immagini di Bes. Ci si può chiedere se siano sviluppi su un filo conduttore unico che, pur nella sua espressione egizia, rinvii comunque a motivi orientali la cui presenza in Egitto è ben conosciuta, insieme alla frequentazione di genti levantine. D’altra parte, sembra opportuno mettere in relazione questo genere di immagini con quelle delle cosiddette stanze di Bes a Saqqara,89 forse un Aphrodision, e anche con la cappella di Ain-elMuftellah.90 Le figure di Bes affiancanti immagini femminili sono ben comprensibili alla luce del ruolo di Bes come protettore della maternità e dell’infanzia; queste piccole immagini di naos, tuttavia, con la frequente presenza di leoni, spinge a riflettere ancora su due aspetti che coinvolgono sia Bes che i grandi felini, peraltro legati tra loro: l’affiancare l’ingresso del sacello indicherebbe anche qui un ruolo di protezione da parte della figura “besoide” ma sembra riverberare su questa, al tempo stesso, la funzione dei leoni dell’orizzonte, come segnacolo del luogo dell’epifania divina.91 In una sorta di gioco delle parti, vanno rilevati anche i casi in cui sono due leoni ad affiancare Bes, suggerendo la sua identificazione con la divinità solare.92 Infine, è riconoscibile un ruolo della figura “besoide” come sostegno del cielo: la presenza di un viso di Bes, rispondente all’iconografia ben diffusa in Epoca Tarda, Tolemaica e Romana, su un amuleto a forma di poggiatesta, ha suggerito a K. Konrad una riflessione su questa funzione, della quale si può vedere una conferma nelle sculture innalzate come pilastri, in quell’immagine viva del cosmo che era il tempio.93 Il ruolo di sostegno si riflette su vari tipi di oggetti, come ad esempio una

86 Stadelmann 1985. Su una figura simile, in ambiente levantino, si veda ad esempio un avorio di Nimrud (Iraq Museum, IM 65315): Gubel 1985, 196-197, Fig. 9. 87 Del Vesco 2006. 88 Desroches-Noblecourt 1953. 89 Si veda nota 57. 90 Si veda note 59 e 61. 91 Capriotti Vittozzi 2006c. Per quanto riguarda questa funzione di Bes, si veda anche Malaise 2004, 273-274, dove si cita il caso di due figure affiancanti la triade isiaca. Quanto a identificare come Bes due figure ai lati della dea sul cosiddetto rilievo di Ariccia (Agus 1983) va ricordato che, ad un’osservazione minuziosa, solo una delle due è barbata, mentre l’altra sembra rispondere meglio alla figura di Pateco (Capriotti Vittozzi 2006a, 72), confermando una vicinanza tra i due personaggi difformi. 92 Malaise 1990, 709; Fakhry 1942-1950, II, 38, tav. XXI.E. 93 Konrad 2007. Su Bes come Shu, e dunque come pilastro, si veda anche Malaise 1989, 55, Malaise 1990, 715-716; Malaise 2004, 276278. Riguardo a Bes sui poggiatesta si veda Perraud 1998.

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Mazar 1982; Mazar 1985. Petrie 1909, Tav. XXXV.10. 80 Ward 1996, 9 nota 9. 81 Ward 1996, 11 e 18. 82 Si veda nota 68. 83 Ward 1996, 15-16. 84 Romeo 1998. 85 Del Vesco 2006. 79

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scultura in porfido, sostenente un busto hathorico, a Villa Torlonia.94

piume. Sulla porzione di spalle restante, non vediamo segni della spoglia ferina che spesso troviamo nelle immagini di Epoca Tarda. Il taglio operato sulla figura non dovrebbe essere originario, visto che ha asportato parte della barba, e potrebbe essere servito a regolarizzare una frattura; sembra meno probabile che si fosse fatto ricorso a due blocchi per comporre l’immagine stessa; non si è comunque in grado di definire se si trattasse in origine di una figura intera o invece di un busto, come nella placchetta di Boston. La scultura è databile forse all’Epoca Tolemaica, o è comunque poco più antica. Essa proviene da Bubasti, dove sembra chiaro il nesso della figura “besoide” con Bastet, aspetto benevolo della Dea Lontana.

Il ricorrere di figure “besoidi” in coppia, in funzione architettonica ma concettualmente destinate a inquadrare – segnando e proteggendo – il luogo della manifestazione divina, accompagna dunque l’esistenza di figure di Bes che dovevano per se stesse essere oggetto di culto, come ad esempio la figura di Saqqara o quella di Bahariya, fino al Bes vaticano.95 5. Le sculture raffiguranti Bes al Metropolitan Museum of Art e al Museo Egizio di Firenze Due pregevoli sculture raffiguranti Bes, rispettivamente a New York e a Firenze, nelle quali sembra riconoscibile una funzione architettonica, andrebbero ad arricchire la documentazione riguardante questo aspetto della figura, pur essendoci pervenute ambedue in un unico esemplare.

5.2 Bes a Firenze La figura fiorentina (Fig. 7)97 ha proporzioni un po’ maggiori ed è conservata fin quasi all’inguine; pur nella diversità, presenta aspetti in comune con la protome di New York. Le caratteristiche fisionomiche della grande testa sono le stesse: le ampie sopracciglia a cordolo che nascono da una doppia piega, gli occhi dalla sezione obliqua, il piccolo naso schiacciato dalle larghe narici, la barba che si stacca con una netta demarcazione dalle guance e si allarga in simmetrici riccioli segnati da lievi incisioni, i denti numerosi, la lingua estroflessa e tuttavia contenuta nel labbro inferiore. Intorno a quest’ultimo, sono stati praticati dei piccoli fori, che sembrerebbero destinati a sostenere un’applicazione in altro materiale. Indubbiamente diversa la capigliatura, che qui si definisce per brevi ciocche che scompostamente circondano la fronte. In questo caso resta il corpo brevilineo e carnoso, nudo, attraversato solo da una cintura sull’addome; le braccia, spezzate all’altezza delle spalle, erano comunque staccate dal torso, probabilmente solo le mani si congiungevano alle cosce. La superficie calcarea è usurata e nelle parti meno esposte si può osservare una patina color crema che potrebbe contenere residui di pittura. Sulla sommità del capo, resta un profondo incavo parallelepipedo, che doveva servire come alloggiamento per un coronamento sovrastante. Se da un punto di vista iconografico questa scultura si pone in un genere ben conosciuto, da un punto di vista stilistico presenta caratteristiche inusuali nella morbidezza e nella ricchezza del modellato che in qualche modo la differenziano dalla tradizione di forte geometrismo che investe la testa del Metropolitan. Aspetti inusuali sono indubbiamente le ciocche di capelli, che risentono dell’arte ellenistica e romana, l’insistenza sull’arricciarsi morbido della barba, i fori lungo il bordo della lingua.

5.1 Bes al Metropolitan Museum of Art La scultura (Figg. 6-7),96 in un bel calcare bianco e compatto, ci presenta il viso di Bes ed essa è tagliata nettamente poco sopra il limite della barba, in modo che mancano i riccioli finali delle ciocche centrali; anche il retro è tagliato verticalmente e questa definizione posteriore della figura potrebbe dipendere dall’aderenza di questo lato ad un elemento strutturale. Il viso mostruoso è lavorato con maestria, volumi e linee formati con un gusto fluido e geometrico insieme: le guance emergono, con il naso largo e appiattito, dalla demarcazione netta della barba che fa da contrappunto alle pieghe delle ampie arcate sopraccigliari, mentre i grandi occhi hanno una sezione obliqua, lasciando immaginare che la figura fosse realizzata per essere posta in alto, rispetto a chi la guardava, creando una forma di soggezione nel visitatore. Le ciocche della barba sono calligraficamente percorse da lievi incisioni mentre la bocca, nel suo ghigno ferino, mostra un numero non umano di denti e la lingua estroflessa sembra comunque restare contenuta all’interno delle labbra. Le sopracciglia sono due grossi cordoli lisci che partendo dalla radice del naso, segnata da due pieghe, disegnano la forma di un ampio calice. Sulla fronte, tra le sopracciglia, una sorta di capigliatura si definisce in una punta per proseguire in due linee simmetriche e sinuose che, anche in questo caso, ricordano una feluca a bicorno, come nel caso del già citato graffito di Bahariya e dei due capitelli figurati nella placchetta di Boston. Sul capo rimane la parte bassa del coronamento che doveva essere composto da alte

Una importante particolarità della scultura fiorentina sta nel fatto che si tratta di una figura bifronte, lavorata

94

Da Porto: Tran Tam Tinh 1986, I, 99 n. 17; II, 76 n. 17; Malaise 2004, 281-282 con bibliografia precedente. Per altre figure con funzione di sostegno, anche di lampade o manici di sistro: Tran Tam Tinh 1986, I, 100 n. 20a, 25a, 26f; II, 76-78 n. 20a, 25a, 26f; Malaise 2004, 288289. 95 Si veda nota 63. 96 Rogers Fund 23.2.35. Alt. 39.5 cm; largh. 52 cm; prof. 21.5 cm. Frankfurter 1998, 128.

97 Inv. n. 448, alt. 75 cm. Per la presenza della vetrina non è stato possibile verificare le altre misure.

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simmetricamente in due facce simili.98 Tale caratteristica, da un lato, è spiegabile con una funzione architettonica, in quanto un’immagine di culto sarebbe stata solo frontale, dall’altro rinvia al valore stesso della doppia frontalità che, tipico dell’hathorica Bat, si ritrova in una figura di nano nel cap. 164 del Libro dei Morti, così come nella decorazione della tomba di Pedubasti99 a Dakhla in Epoca Romana. D. Meeks, a proposito di Bes, sottolinea la sua relazione con il dio definito “dai due visi” che è, dal Nuovo Regno, divinità solare.100

6. Coppie di figure “besoidi” fuori dall’Egitto Come già rilevato, la diffusione di Bes fuori dall’Egitto è tanto ampia quanto equivoca nei significati, da quella avvenuta precocemente in ambiente levantino alla successiva nel mondo romano. A complicare ulteriormente un quadro problematico, si può citare un caso di difficile interpretazione, il quale tuttavia può essere esemplificativo dell’estrema versatilità della figura di Bes: immagini dipinte in maniera piuttosto rozza e tuttavia abbastanza dettagliata su un pithos da Kuntillet ‘Ajrud, nella parte settentrionale della penisola sinaitica in un contesto databile all’VIII sec. a.C., ci hanno restituito due figure “besoidi”, una minore dell’altra (Fig. 8); ambedue presentano la classica silhouette dalle ginocchia valghe e tra le gambe pende un’appendice che potrebbe essere la solita coda, avendo la figura più piccola i seni segnati con due piccoli cerchi a identificarla, forse, come femminile. Dai tratti stilistici piuttosto simili, una figura seduta suona lì vicino una sorta di arpa. Intorno si vedono altre immagini, attribuibili ad altre mani, la più leggibile e di buona qualità mostrante una vacca con il suo vitellino. Ciò che ha suscitato un ampio dibattito è il fatto che, sopra le figure “besoidi”, si trova l’iscrizione dei nomi di Yahweh e Asherah: sulla possibilità di attribuire l’iscrizione ai disegni esiste un dibattito tanto ampio quanto controverso.107

Della scultura fiorentina non si conosce la provenienza ed è pervenuta nella collezione con la spedizione francotoscana. 5.3 Caratteristiche delle due figure Pur nelle diversità, le due sculture fanno capo ad unico modello che fu molto popolare nell’Egitto tolemaico e romano e che è caratterizzato dalla nudità, attraversata solo da una cintura e talvolta da una spoglia ferina, da analoghe caratteristiche del viso, da un alto coronamento: oltre alle statue da Saqqara e da Bahariya, o una pregevole statuetta a Berlino,101 si possono ricordare le immagini su piccole stele che conosciamo per quest’epoca, ad esempio una steletta al Louvre,102 un’altra con ben quattro figure di Bes al British Museum,103 una al Museo Barracco.104 Il tipo presenta aspetti ricorrenti e qualche variante, la più importante delle quali è la spoglia ferina che spesso porta sulle spalle mentre una testa animale ricade sul petto: questo genere giunse fino a Roma, dove sono state ritrovate diverse figure di Bes.105 Dalla documentazione in nostro possesso, dalle statue di Piazza Vittorio106 alle fonti iconografiche, possiamo supporre che la spoglia fosse spesso assente laddove Bes riveste una funzione architettonica, così come nelle figure di New York e Firenze. Dove si possa reperire l’Urbild di questo tipo non è dato al momento di sapere, possiamo tuttavia osservare che, nello sviluppo del tipo iconografico, la scultura del Metropolitan si inserisce pienamente, a partire dal peculiare andamento a “bicorno” della capigliatura in rapporto alle orecchie; se ne discosta un po’, invece, la figura fiorentina, maggiormente informata dal gusto ellenistico.

Riguardo ad una documentazione archeologica dai contorni più solidi ma non per questo meno enigmatica, come quella della Sardegna di cultura punica, G. Garbati ha recentemente riconosciuto alle figure “besoidi” una funzione di “indicatore morfologico”108 definendole altrove come “immagini in prestito”,109 a sottolineare la difficoltà di identificazione dell’immagine con una divinità specifica in ambiente fenicio-punico.110 Lo stesso G. Garbati111 ha posto l’accento sull’esistenza in Sardegna di statue singole e in coppia, a chiarire l’acquisizione, in ambiente di tradizione punica, di modi conosciuti dall’Egitto a Roma. Interessante, peraltro, in Sardegna, la presenza di queste figure in siti di culti terapeutici,112 che da un lato rimarcherebbe l’insistenza di divinità di origine egizia presso fonti salutari,113 dall’altro confermerebbe la funzione protettiva e soccorrevole del personaggio come rivelerebbe anche il ritrovamento di un pozzo presso in tempio di Bes a Bahariya, forse finalizzato a riti di sanatio.114

98 Non è stato possibile verificare con precisione la faccia che, nell’attuale collocazione museale, è rivolta verso il muro: tuttavia essa appare più appiattita. 99 Fakhry 1982, 74, Tav. 31a. 100 Meeks 1992, 424 e 427.Su Bes bifronte, si veda anche Jesi 1963. 101 SM 22200. 102 E 11138. 103 EA 1178. 104 Inv. n. 304; Sist 1996, 93. 105 Capriotti Vittozzi 2006a. 106 Capriotti Vittozzi 1999b.

107

Per un quadro dei dati e del dibattito: Merlo 1994; Uehlinger 1997, 142-149; Oggiano 2005, 128-136. 108 Garbati 2009. 109 Garbati 2008, 85-88. 110 Garbati 2008, 48-49. Su questo punto, si veda anche Peri 2009. 111 Garbati 2009. 112 Garbati 2008, 48-49; Garbati 2009. 113 Susini 1965-1966; Capriotti Vittozzi 1999a 149-150; Capriotti Vittozzi 2008b. 114 Hawass 2000.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Quanto alle immagini in coppia, grande importanza riveste un recente studio di A. Hermary115 che è tornato sulla gigantesca scultura “besoide” dall’agorà di Amathonte116 proponendo una nuova datazione alla seconda metà del IV secolo a.C., tra la fine dell’Epoca Classica e l’inizio dell’Ellenismo, e presentando il ritrovamento, nella stessa agorà, di un frammento di statua analoga a quella conosciuta. Hermary si pone dunque, giustamente, l’interrogativo su una possibile funzione architettonica di questi colossi, probabilmente in relazione con la figura di Eracle.117 Al riguardo, ricorda il rinvenimento a Biblo, da parte di M. Dunand, di un edificio di culto davanti al quale stavano sculture colossali, tra le quali due stanti in stile egittizzante.

femminile oltre che di sostegno del cielo e probabile segno di epifania; le due pregevoli immagini del Metropolitan Museum e del Museo Egizio di Firenze costituiscono importanti testimonianze dello sviluppo iconografico di questa figura difforme e allo stesso tempo andrebbero ad arricchire il dossier delle sculture con funzione architettonica; l’importante presenza di queste figure in ambienti egiziani fortemente frequentati da genti levantine, come Menfi o Bahariya,120 costituisce un notevole indicatore per la comprensione della sua diffusione in ambito fenicio-punico;

Da aggiungere al dossier delle sculture in coppia dalle caratteristiche egittizzanti, andrebbe considerata una statua al museo di Beyrut, recentemente studiata da P. Xella118 e I. Oggiano:119 quest’ultima, pur in modo problematico, ha proposto l’identificazione dell’immagine con il dedicante. Ciò che rende interessante questa scultura nell’ambito qui trattato è il fatto che l’iscrizione posta tra le gambe della figura ci informa che era parte di una coppia, oltre che essere dedicata al “Dio Santo”, probabilmente di Sarepta. Pur trattandosi di un caso piuttosto diverso, va comunque rilevata una certa difformità della figura fisica brevilinea e corpulenta, insieme alla presenza qualificante di un gonnellino egizio decorato, che comunque non è del tipo generalmente attribuito a Bes, quando non è nudo. Ci si può dunque chiedere come e quanto l’uso di sculture in coppia affiancanti degli ingressi e l’immagine “besoide” possano aver interagito.

la diffusione della figura “besoide” fuori dall’Egitto, e in particolare a Cipro o in un ambiente di tradizione punica come la Sardegna, fino a Roma, presenta da un lato scelte funzionali simili – dal simulacro di culto alle sculture architettoniche – dall’altro un’analoga difficoltà ad individuare l’identità del dio che si cela sotto la maschera, pur notandosi una specializzazione negli aspetti solari e nell’ambito dei culti legati alla generazione e al rinnovamento della vita e dunque con funzione terapeutica.

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7. Conclusioni I materiali e i dati qui presi in considerazione ci conducono ad alcune conclusioni che possono essere così sintetizzate:

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la documentazione egiziana dell’Epoca Tarda e di quella Tolemaica e Romana ci indicano da un lato la specializzazione della figura di Bes come protettore e insieme il suo essere forma/maschera di una divinità dalle caratteristiche solari; la stessa documentazione egiziana, che va gradualmente ampliandosi, mostra contemporaneamente sia un culto diretto ad immagini di questo tipo, sia la loro presenza come elementi architettonici con una funzione comunque ben conosciuta di accompagnamento di una divinità

Berlandini J. 1993. L’“acéphale” et le rituel de revirilisation. Oudheidkundige Mededelingen vit het Rijksmuseum van Oudheden 73, 29-41.

115

Hermary 2007. 116 Oggi al Museo di Istanbul: Mus. Arch. 3317. Sul personaggio: Tassignon 2009. Su Bes a Cipro, si veda anche Wilson 1975. 117 Sulla relazione tra Eracle e la figura di Bes: Bisi 1980; TzavellasBonnet 1985. 118 Xella 2006. 119 Oggiano 2005. Ringrazio l’autrice per avermi permesso di leggere il dattiloscritto.

Berlandini J. 1998. Bès en aurige dans le char du dieu120

77

Bresciani 1987, 160; Aufrère 1998, 32-33; Gubel 2009, 336-337.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Bes in un graffito a Qarat el-Faragi (da Fakhry 1942-1950, II, 29 fig. 12)

Fig. 2: Boston, Museum of Fine Arts, 1990.605 (da Ward 1996, tav. II)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Figg. 3-4: Due esempi di decorazione di letti votive (immagini riprodotte da Stadelmann1985, 266 Abb. 1-2)

Figg. 5-6: New York, Metropolitan Museum of Art, Roger Fund 23.2.35: testa di Bes. Bes Capital, Rogers Fund, 1923. Courtesy of the Metropolitan Museum of Art)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 7: Firenze, Museo Egizio, inv. 448 (per gentile concessione del Museo Egizio di Firenze)

Fig. 8: Pithos da Kuntillet ‘Ajrud: le figure “besoidi” (da Oggiano 2005, 129)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

(metà sud) sono Arensnufi e Tefnet (Fig. 1); chiude la composizione, alle due estremità del basamento, una doppia rappresentazione di Tiberio in atto di adorazione.3 L’impostazione di queste due scene sottolinea il parallelismo e la funzione del sovrano, ritratto come adorante; in questo modo, l’agire regale viene precisato in termini di venerazione nei confronti di un mondo divino celebrato come effettivo protagonista dello scenario mitico e rituale della zona di File.

UN INNO AD ARENSNUFI A FILE E LA NATURA DEL DIO NEL CONTESTO DELL’ISOLA Emanuele M. Ciampini

Abstract New edition with philological commentary of the Arensnouphis hymn in his temple at Philae (temp. Tiberius); the text is presented in connection with the mythological context of the Eye of the Sun and the theology of the Nubian region.

Le iscrizioni del basamento, metà meridionale La decorazione della metà meridionale del basamento è focalizzata sull’icona della coppia divina di Arensnufi e Tefnet, qui evocativa di un aspetto “meridionale” del Mito della Dea Lontana (cfr. infra). Fulcro dell’intera composizione è l’inno rivolto al dio, cui la critica egittologica ha da tempo prestato la sua attenzione: i testi della scena – comprensivi delle didascalie della coppia divina – sono stati citati in parte da Junker nel suo lavoro sul mito di Hathor-Tefnet (1911), mentre Daressy ha édito l’inno e la frame inscription superiore (1917); il testo dell’inno, con apparato critico e correzioni alle letture di Daressy, è stato poi studiato da Chassinat 19661968, II, 681-683; diversi passi sono citati ancora nel lavoro di Winter su Arensnufi (1973). Infine, lo studio della Inconnu-Bocquillon (2001) ha presentato i testi in traduzione e commento, con un apparato critico sulla figura di Arensnufi.

Gli ultimi secoli della cultura faraonica costituiscono un campo di ricerca nel quale lo studioso cui è dedicata questa raccolta molto si è prodigato: si spera pertanto di fargli gradito omaggio con queste pagine su un tema dell’Egitto tardo che si colloca nella regione liminare del confine meridionale, tra terra e acqua, e tra umano e divino. Nel corso del rilevamento epigrafico condotto dalla Missione Archeologica Italiana al tempio di Hathor a File (novembre 2006),1 sono state effettuate anche alcune verifiche e collazioni di testi già (parzialmente) editi, e il cui contenuto può essere – in vari modi – integrato nello scenario dell’isola che ospita lo straordinario complesso di edifici sacri. Una fondazione di particolare interesse per definire la tradizione religiosa dell’isola, è il tempio di Arensnufi: edificato all’estremità meridionale del dromos segnato dai due colonnati che delimitano l’area antistante il Primo Pilone, il sacello del dio è prossimo cronologicamente al santuario di Hathor, con il quale presenta anche diverse analogie cultuali. Allo stato attuale, l’edificio è conservato pressoché solo in pianta, mentre l’alzato è gravemente compromesso: gran parte del programma decorativo si dispone pertanto sul muro che delimita, a nord e a est, il sacello.2 La fondazione del tempio risale alla prima metà dell’Epoca Tolemaica, quando si assiste a una fioritura architettonica nell’isola che interessa non solo il santuario di Iside, ma anche altri edifici sacri (templi di Hathor e di Imhotep); successivamente (Epoca di Tiberio), il muro che delimita il santuario fu decorato con scene e testi che ci restituiscono un insieme teologico e cultuale coerente.

La frame inscription superiore – Al di sopra della scena corre un testo orizzontale con una sintetica definizione teologica (monografia) di Arensnufi in rapporto con Shu, e del suo santuario a File (Figg. 2a-c). Bibliografia: Daressy 1917, 76; Inconnu-Bocquillon 2001, 98 (parziale). →

sxn nfr n tfnt i m knst Xr-HAt.s r iw-wab Sw wr smsw sA ra nfr Hr nb Swty wr(ty) TAw n anx srq anx n Hr-nb m xnS.f nxy aA mH ib n it.f iry-Hms-nfr nTr aA nb iw-wab xw.f sA.f mr.f nsw-bit nb-tAwy Awtq[rtr …]

Lungo il basamento del muro est di delimitazione del tempio si dispongono due scene speculari, con al centro : a una macchia di papiri che spunta da un segno sinistra (metà nord) sono Osiride e Iside, mentre a destra 1 La missione, diretta dal prof. Alessandro Roccati, è stata condotta sotto la supervisione di Shazli Ali Abd el-Azim, in rappresentanza del Supreme Council of Antiquities. 2 Porter, Moss 1939, 210-211; pianta a 204 (B).

3

La

figura

del

sovrano

è

accompagnata .

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dai

cartigli:

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

«Il buon compagno di Tefnet,(a) colui che viene da Kanset davanti a lei all’Abaton,(b) Shu, l’antico,(c) il primogenito, figlio di Ra, dal bel volto,(d) signore delle due grandi piume soffio di vita, respiro con il cui aroma ognuno può vivere,(e) protettore eccelso, beneamato di suo padre, Arensnufi, dio eccelso signore dell’Abaton; possa egli proteggere suo figlio, che egli ama, il re di Alto e Basso Egitto, signore delle Due Terre Autokr[ator …]».

Arensnufi è Tefnet leontocefala, con disco solare ( ) sulla testa; la mano sinistra impugna un bastone-wAD, mentre la destra impugnava probabilmente il segno-anx. La coppia divina è accompagnata da due didascalie in colonne verticali (Fig. 3). Bibliografia: Inconnu-Bocquillon 2001, 98. ↓← (1) (2)

Note (a) Il rapporto che si stringe tra Arensnufi – qui ipostasi di Shu – e Tefnet viene definito con un lessico simile a quello che, già nel Medio Regno, era stato usato per definire il rapporto tra Shu, concepito come Vita, e Tefnet, identificata con la Maat: de Buck 1938, 145 (Shu snw n mAat «compagno di Maat»), cfr. anche Altenmüller 1975, 214 e n. 12. Il termine sxn ha una forte pregnanza mitologica, sottolineando il legame che si stringe tra le due divinità, cfr. Inconnu-Bocquillon 2001, 220-221. (b) Enunciato che definisce la natura di Arensnufi, compagno di Tefnet, nel momento in cui la dea torna in Egitto: Junker 1911, 40; nello stesso tempo, l’intera sequenza può essere considerata un prologo per l’eziologia del nome divino presente nell’inno, Winter 1973, 243. Il percorso divino si riassume qui nei due estremi: Kenset (regione del sud-est, dai confini non sempre chiari nelle fonti: Žabkar 1975, 24-35; il suo legame con Arensnufi è qui eccezionale: InconnuBocquillon 2001, 167) e l’Abaton di Biga, dove Tefnet si trasforma in Hathor. (c) Sull’accezione di wr in rapporto con Shu, primogenito del creatore Ra, cfr. Ciampini 2006a. (d) Epiteto che mette in evidenza la natura immanente (nfr, nell’accezione di «presente») del dio: Volokhine 2000, 100-101 (con materiale relativo all’entità divina nfr Hr): il buon compagno si palesa pienamente nel momento in cui il corteo divino di Tefnet arriva a Biga; la sequenza si applica a Shu, ma anche ad Amon di Opet, cfr. infra, nota (m). (e) Il passo costituisce una conferma della natura di Arensnufi quale aspetto di Shu, tradizionalmente considerato come il soffio di cui vive il cosmo; tale accezione del dio come forza vitale trova un chiaro antecedente nell’identificazione di Shu con la Vita: de Buck 1938, 32 (Testi dei Sarcofagi, formula 80, cfr. anche Bickel 1994).

(3)

(1)

Dd-mdw in iry-Hms-nf nTr aA (2) nb iAt wabt Sw sA ra (3) i m tA-sti Recitazione: Arensnufi, dio eccelso, signore dell’Abaton; Shu, figlio di Ra, colui che viene dalla terra di Nubia.(f) ↓← (1) (2) (3)

(1)

Dd-mdw in tfnt sAt ra (2) Hrt-ib iw wab (3) irt ra Hrt-tp m HAt.f Recitazione: Tefnet, figlia di Ra che risiede nell’Abaton; occhio di Ra, l’ureo sulla sua fronte.(g) Note La didascalia fornisce un’importante precisazione circa la natura di Arensnufi in associazione con Shu; questa giustapposizione è frequente nei templi nubiani, cfr. Dakka: Roeder 1930, I, 333, § 729; vanno segnalate anche formazioni inverse, che confermano una natura di Arensnufi quale aspetto di Shu: Sw sA ra iry-Hms-nfr nTr aA nb iw wab sxn nfr Hwt-Hr «Shu, figlio di Ra, Arensnufi, dio eccelso, signore dell’Abaton, buon compagno di Hathor» (Roeder 1930, I, 220, § 490). L’espressione «buon compagno di Hathor» è un interessante parallelo per la frame inscription di File precedentemente analizzata; per il confronto tra Shu e Arensnufi a File e Dakka cfr. infra. (g) Anche la didascalia di Tefnet, nella sua semplicità, offre un esempio di rielaborazione del modello (f)

La coppia divina – Arensnufi e Tefnet, seduti in trono, sono raffigurati all’estremità settentrionale della composizione (Fig. 1): il dio è antropomorfo, con corta parrucca sulla quale è una corona solare ( ); nella mano sinistra stringe il bastone-wAs, mentre la destra, persa, stringeva probabilmente un segno-anx. Alle spalle di 86

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

dottrinale: l’epiteto «occhio di Ra, l’ureo sulla sua fronte» richiama il modello iconografico di Upset, ipostasi dell’occhio solare connessa con il fuoco e rappresentata come una figura femminile con ureo sulla testa. Questa precisazione di Tefnet richiama alcune formulazioni relative a Upset (Dakka: tfnt sAt ra Hrt-ib iAt wabt wpst wrt nbt snmt irt ra Hnwt nTrw nb «Tefnet, figlia di Ra, che risiede nell’Abaton, Upset la grande, signora di Biga, occhio di Ra, sovrana di tutti gli dei»: Roeder 1930, I, 138, § 306; wpst nbt nbit nbt snmt nbt pt [Hnw]t nTrw «Upset, signora della fiamma, signora di Biga, signora del cielo, [sovrana] degli dei»: op.cit., I, 180, § 414, cfr. anche 273, § 605) e Sekhmet (sxmt aAt nbt nsrt tfnt m smnt sxnt Hna sn.s swAD bA «Sekhmet l’eccelsa, signora della fiamma, Tefnet in Biga, colei che si unisce con suo fratello Suadj-ba [per questa lettura: Junker 1917, 7; interpretato da InconnuBocquillon 2001, 147, come un epiteto di Shu da connettere al ruolo del dio nella protezione della gamba di Osiride a Edfu]»: Roeder 1930, I, 266, § 591; fraseologia analoga a Debod: Roeder 1911-1912, I, 58, § 151; per il termine sxn cfr. supra, nota [a]).

(18)

(19) (20)

(1)

iAw n.k mDAi nfr nb pwnt ir.n.k xprw.k m spAt […] nTrwy m fA (3) a TA nTrw iw.k m (4) nHsi nb pwnt m xprw.k n (5) ddwn st.k xnw [wAst] ra nb (6) m imn TA nTrw hr ib.f m Hr.k (7) nfr ir.tw n.k s[Hnt] m-Xnw n st (8) irt Hr mn.tw [Hr] wpt.k iw.k (9) wAD.tw [wn.tw m]-Xnw n snmt (10) iw.k sxr [xftw] nb (11) n it wsir mwt.k Ast m rn.k (12) pfy n ddwn iw.k n iry (13) n Hms nfr [m-Xnw] snmt (14) m rn.k pfy n iry-Hms-nfr nb iw!-[wab] (15) Htp Hr.k nfr n nsw-bit [nb-tAwy] Awtkrtr (16) sA ra nb xaw tbrys [anx Dt] mr Ast (17) anx wDA snb m Hr HqA.n.f tAw (18) di.k n.f rsy m iAw n Hr.f (19) mHtt m hnw n bAw.f imnt iAbt n.f (20) m hy tA nb Hr swAS […] ir.n.k wn.f m HqA anxw Dt nHH (2)

L’inno - Il testo recitato dal sovrano è scritto davanti alla coppia divina in colonne verticali (Figg. 4a-b). Bibliografia: Daressy 1917 (non corretto), 76-77; Chassinat 1966-1968, II, 681-683; Inconnu-Bocquillon 2001, 98-99. ↓→

«Lode a te, bel Medjai, signore di Punt!(h) Tu che ti sei manifestato in [questo] distretto dei due dei(i) come Quello dal braccio levato,(j) maschio degli dei, essendo tu il Nubiano, il signore di Punt,(k) nella tua manifestazione di Dedun;(l) il tuo luogo di sosta è [Tebe], per sempre, in quanto Amon, maschio degli dei,(m) dal cuore contento per il tuo volto perfetto;(n) è fatta per te la [cappella] in (quel) luogo, mentre l’Occhio di Horo è saldo [sulla] tua fronte;(o) Tu sei rinvigorito, essendo in Senmet;(p) tu abbatti tutti i [nemici] di (tuo) padre Osiride e di tua madre Iside in questo tuo nome di Dedun;(q) Tu sei il buon compagno (r) in Senmet in questo tuo nome di Arensnufi, signore dell’Abaton!(s) Sia benevolo il tuo bel volto(t) per il re di Alto e Basso Egitto, [signore delle Due Terre] Autokrator, il figlio di Ra, signore delle corone Tiberio [che viva in eterno], che Iside ama, sia concessa vita, prosperità e salute come Horo; egli ha preso il comando di tutte le terre che tu gli concedi(u) il sud loda il suo volto, il nord acclama la sua potenza, l’ovest e l’est gli appartengono in esultanza,(w) ogni terra rende lode […]; Tu lo hai fatto essere il sovrano dei viventi, in eterno e per sempre!».

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Note (h) L’epiteto mDAy nfr (Leitz 2001, III, 475: conosciuto solo per Arensnufi) può essere confrontato con mDAy nfr m pwnt (ibid.) epiteto di Amon e Min (Epoca Greco-Romana); l’affinità formale tra le due formule potrebbe essere motivata dalla successiva menzione di Amon nella sua forma primordiale. Il legame tra mDAy e pwnt è stato letto alla luce di una competenza specifica di divinità quali Min di Copto, dispensatore di essenze e prodotti esotici: Inconnu-Bocquillon 2001, 168; Chassinat 1966-1968, II, 683-686. Questa competenza è propria anche di Dedun, citato subito dopo nell’inno. (i) Integrazione del dimostrativo secondo InconnuBoquillon 2001, 99 (2); la spAt nTrwy potrebbe qui indicare la regione della prima cateratta come sede specifica della coppia divina di Shu (nel suo aspetto di Arensnufi, cfr. infra) e Tefnet; per i nTrwy identificati con Shu e Tefnet: pap. Bremner Rhind 28.9-29.1: Faulkner 1938, 41. (j) Epiteto riconducibile alla figura di Min e, nello stesso tempo, al creatore tebano, cfr. Erman, Grapow 1971, I, 572 (11-12); Leitz 2002, III, 187-188; il braccio levato può essere un tratto assimilabile con la funzione protettiva di Horo. (k) La ripetizione dell’epiteto nb pwnt istituisce un parallelismo formale tra mDAy e nHsy: privi ormai di connotazioni geografiche rigorose, i due termini sono qui impiegati come sinonimi per mettere in risalto la natura meridionale del dio (per un legame di mDAy con le popolazioni del deserto orientale di Nubia cfr. infra). L’insistenza sul legame di Arensnufi con Punt può essere letto alla luce del rituale come espressione del suo rapporto con l’incenso, cfr. Herbin 1984, 118 (42). (l) Divinità delle terre meridionali associata con Shu, e qui sentita come aspetto di Min: Inconnu-Bocquillon 2001, 99 (7); 169; il suo culto è attestato in santuari nubiani, ma non in Egitto: Otto 1975. La sua presenza nell’inno, unitamente all’epiteto nHsy, può essere una caratterizzazione importante nella percezione di Arensnufi come divinità legata con la Nubia. (m) Il riferimento ad Amon, giustificato dalla presenza di Tebe, è parallelo a quello di Min citato alle coll. 2-3, nota (j); il legame con la figura fecondatrice e creatrice si specializza nel contesto tebano nella figura di Amon di Opet: Sethe 1929, §§ 24-29, Taf. V (= Firchow 1957, 72, § 87b): imn ipt kA fA a wtT nTrw (sinonimo qui di TA nTrw) nfr Hr nb Swty «Amon di Opet, il toro dal braccio levato, che genera gli dei, dal bel volto, signore della doppia piuma»: è qui evidente la sovrapposizione con l’elemento della doppia piuma come tratto proprio di Shu; per nfr Hr cfr. supra, nota (d). (n) Per la corretta lettura del passo cfr. Chassinat 19661968, II, 682 (5). (o) Il passo ha un’evidente connotazione liturgica, incentrata sull’Occhio di Horo che tradizionalmente è connesso con i processi di rinnovamento e rigenerazione della divinità; per la sua associazione con l’incenso cfr. infra; questo passaggio può costituire il termine di un climax che porta all’associazione di

Arensnufi con Horo in qualità di protettore di Osiride e Iside. (p) Zaki 2009, 249, traduce: «tu es dans (le sanctuaire de) Senmet». (q) L’identificazione di Arensnufi con Dedun può essere interpretata come una lettura in chiave regale del dio: già nel tempio di Semna (Nuovo Regno), Dedun è celebrato come patrono della regalità in Nubia: Caminos 1998, I, 77; pl. 39, coll. 14-18. Questa connotazione regale sovrappone il carattere del dio con Horo, campione della coppia divina che lo ha generato; per il ruolo di Arensnufi, protettore di Osiride a File, cfr. Inconnu-Bocquillon 2001, 163, n. 136. (r) Per iry n Hms «Hausgenossin»: Erman, Grapow 1971, I, 105 (10). (s) Restituzione già in Inconnu-Bocquillon 2001, 99 (11); la costruzione teologica di Arensnufi rielabora il toponimo Senmet in Abaton, denominazione che meglio si adatta alla natura del luogo come scenario divino; questa attenzione nei confronti dell’isola di Biga, dalla forte pregnanza mitica e cultuale, evidenzia il suo legame con Arensnufi, «buon compagno» dell’Occhio di Ra al suo ritorno in Egitto, cfr. infra. (t) La fraseologia con cui si apre l’ultima sezione dell’inno riprende i passi precedenti, cfr. note (d) e (m). (u) Il passo mette in evidenza il carattere regale di Arensnufi, che concede al sovrano il potere su tutte le terre, cfr. quanto detto in rapporto con Dedun, nota (q). (w) La formulazione con i quattro punti cardinali definisce il carattere di Arensnufi come patrono della regalità; da File, egli concede al re il potere universale su tutte le terre. Il tempio di Arensnufi a File L’inno ad Arensnufi costituisce una testimonianza preziosa circa la definizione del dio all’interno di una tradizione ricca e complessa come quella della regione di File; come notato da studi precedenti,4 il culto del dio non sembra affermarsi a nord della regione di confine, acquisendo quel carattere liminare che può essere considerato sostanziale nella sua natura. La stessa posizione del tempio nell’area sacra di File confermerebbe questa connotazione, trovandosi all’estremità meridionale dell’ampio dromos chiuso a nord dal tempio di Iside: una posizione determinante per il carattere di Arensnufi, e che forse richiama alcune evidenze dalla vicina isola di Elefantina. L’impianto dell’edificio, come anche il suo orientamento, sono allo stesso modo indici della natura divina che lo abita; un’entità ricondotta alle tradizioni meridionali – indipendentemente da una sua effettiva origine nubiana – e la cui presenza sull’isola è funzionale al suo rapporto con l’Occhio di Ra che torna in Egitto dalle terre d’Africa.

4

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Winter 1973, 247-248.

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(DADAw), ma fortemente legato con l’area sacra di Biga (iAt wabt / iw wab), di cui è signore.

Fulcro mitico della fondazione sacra è l’isola di Biga, cui si rivolge l’ingresso del tempio; quest’area si configura come una delle più complesse creazioni della dottrina locale: sede di un reliquario di Osiride, e nello stesso tempo scenario della trasformazione di Tefnet (aspetto terribile dell’occhio del sole nella quale coesistono ipostasi connesse con il fuoco e la distruzione) in Hathor. Non stupisce quindi che sempre verso Biga sia orientato anche il tempio di Hathor, edificato a File subito a est del tempio di Iside: la presenza della dea pacificata in questo tempio si localizza nel vestibolo augusteo, riproposizione architettonica della macchia di papiri nel quale si manifesta usualmente la dea.5 Questa prossimità concettuale dei due edifici sacri dell’isola trova conferma in altri fattori: dall’affinità cronologica della loro edificazione – entrambi sono fondazioni tolemaiche cui si sono sovrapposte aggiunte di Epoca Romana – alle similitudini nella pianta, al loro posizionarsi nell’area esterna al settore più propriamente dedicato al culto isiaco. A queste peculiarità della struttura si possono aggiungere alcuni particolari nel programma decorativo che confermano l’importanza attribuita all’evento mitico di Biga come momento determinante per la rigenerazione del cosmo (cfr. infra).

La decorazione del basamento contenimento, parete est

del

muro

di

La scena dell’adorazione di Arensnufi e Tefnet fa parte di un sistema decorativo più complesso che trova il suo fulcro nel papireto al centro della parete (cfr. supra e Fig. 1); l’elemento vegetale, evocativo di Hathor, può essere considerato anche rappresentativo della stessa isola di Biga, scenario prediletto della manifestazione hathorica al suo arrivo in Egitto. La centralità dell’elemento vegetale sembra essere un tratto caratterizzante della locale dottrina, come dimostrerebbe anche la scena della piena sulla parete nord della Porta di Adriano (Fig. 5): qui l’icona evoca un diverso processo di trasformazione, incentrato sulla natura di Osiride come manifestazione del potere vitale della piena.9 Il tema della rinascita può essere dunque interpretato come il trait d’union tra concezioni e modelli divini diversi, legati a un contesto territoriale unico e particolare come la zona di File: da un lato è Tefnet, Occhio di Ra che a Biga si trasforma in Hathor, dall’altra è Osiride, la cui rinascita si realizza nella piena del Nilo.

Un ultimo aspetto dell’edificio sacro può essere qui precisato: come notato precedentemente, il tempio di Arensnufi va a occupare un settore specifico del dromos di File, e più precisamente la sua estremità meridionale. In questo modo, l’area cultuale del dio si colloca alla “testa” del dromos stesso, una zona d’accoglienza orientata verso Biga; la fondazione tolemaica del tempio occupava un settore privo di strutture preesistenti, e pertanto la scelta del sito rispondeva a esigenze dettate dalla natura della stessa divinità.6 La fondazione del tempio, datata a Tolemeo V, è ricordata da una delle quattro iscrizioni dedicatorie in greco conosciute a File, e nella quale si commemora un ampliamento della struttura all’epoca di Tolemeo VI;7 la posizione di questo edificio, che come abbiamo visto, rispetta un forte legame con Biga, definisce anche una connotazione del dio, preposto a una zona d’accoglienza; la conferma di questa interpretazione si può trovare nella stele di Elefantina, datata al regno di Tolemeo II (ma la cui collocazione attuale potrebbe essere frutto di un intervento di Epoca Romana), con una scena di culto ad Arensnufi: qui il dio porta gli epiteti: nb iAt wabt nTr aA Hry-ib DADAw «signore dell’Abaton, dio eccelso che risiede nel DADAw», cioè un edificio cultuale identificato con una cappella eretta nell’area antistante l’accesso al tempio.8 La didascalia della stele di Elefantina è istruttiva perché distingue con precisione le competenze di un dio come Arensnufi, ospite temporaneo in una struttura d’accesso al tempio

Questa giustapposizione di tematiche è sentita come elaborazione dottrinale unitaria dai decoratori del tempio di Arensnufi, che anzi mettono in evidenza il parallelismo degli eventi divini nel loro rapportarsi con Biga; la macchia di papiri – sentita come ambiente liminare nel quale la potenza divina si manifesta – è al centro della decorazione del basamento, elemento comune a due coppie divine che si fanno così segno di rinnovamento e trasformazione: a sud (destra) sono Arensnufi e Tefnet; a nord (sinistra) è la coppia formata da Osiride (in veste regale, non mummiforme) e Iside, le cui didascalie recitano:10 (1) wsir wn-nfr (2) nTr aA nb iAt wabt (3) sxm S

s nb iw rq «Osiride Unnefer, dio eccelso, signore dell’Abaton, immagine venerabile, signore di File»; (1) Ast di anx nbt (2) iw wab […] (3) iAt (!) rq irt ra nbt pt […] «Iside, colei che dà vita, signora dell’isola pura, […] di File, Occhio di Ra, signora del cielo». Elemento comune nella titolatura delle due divinità maschili è il rapporto con la iAt wabt, che diventa così il centro nevralgico della dottrina di File. All’arrivo dell’inondazione da sud, segno del rinnovamento della vita, la forza rigenerante di Osiride si manifesta come ba che si posa sulla macchia di papiri: bA Sps n wsir xnty imnt «ba venerabile di Osiride Khentimenti».11 Il sostrato mitico è così determinante per l’interpretazione della decorazione e, più in generale, dell’intero edificio sacro; il legame con Biga dove Tefnet si trasforma nell’aspetto positivo e vitale dell’Occhio di Ra collega il tempio di

5

Le caratteristiche del vestibolo di Hathor saranno oggetto di un prossimo studio da parte dello scrivente. 6 Heany 1985, 220-222 e fig. 3. 7 Bernand 1969, I, 116-121 (11). 8 Jaritz 1980, 26-27, Abb.10 e n.142; per il valore di DADAw come punto di sosta (/ arrivo) delle processioni davanti al tempio cfr. anche Erman, Grapow 1971, V, 532 (7).

9 Per questo aspetto specifico della dottrina di File cfr. Ciampini 2009, 174-178. 10 Testi collazionati con l’originale. 11 Junker 1913, 59.

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Arensnufi con il sacello di Hathor, luogo dove la dea, ormai appagata, viene accolta insieme con il corteo, di cui fa parte lo stesso Arensnufi; nello stesso tempo, il dio si collega anche alla teologia di Osiride a File.

Elementi della teologia di Arensnufi L’inno ad Arensnufi a File, inserito in un contesto che pone in risalto la funzione di Biga come sede divina, fornisce un quadro sintetico della sua natura complessa, frutto di un processo speculativo che coinvolge un quadro mitico ampio; l’ampiezza di questo fenomeno può essere riconosciuto anche dai suoi limiti geografici ben più estesi della zona di File, comprendenti vari centri della Dodekaschoenos. L’intera regione viene così a configurarsi come un classico esempio di sacred landscape, paesaggio umano e insieme divino, nel quale le località interagiscono tra di loro a livello rituale e mitopoietico, dando vita a una fitta rete di richiami e rimandi che hanno per oggetto un complesso mondo divino. In questo senso, non deve stupire la possibilità di verificare una serie di corrispondenze con alcuni templi di area nubiana, cronologicamente prossimi agli interventi del primo periodo imperiale a File, e per questo segno di un più ampio programma politico e religioso.

Il rapporto tra le due coppie divine riproposte nella decorazione del basamento si presta anche ad alcune precisazioni di carattere topografico: nel rispetto del corso della piena, Arensnufi e Tefnet occupano la metà sud della scena, mentre quella nord ospita Osiride e Iside; se gli dei del sud evocano la forza terribile del sole, quelli settentrionali forniscono una rilettura della potenza divina dal carattere spiccatamente positivo e vitale. Degna d’attenzione è la mancanza di Hathor, nella quale si personifica l’aspetto benevolo dell’occhio del sole: tuttavia, proprio la macchia di papiri può essere considerata segno della sua presenza in una fase immediatamente precedente alla piena manifestazione che si realizza nel vestibolo del suo tempio;12 a conferma di questa lettura, si può ricordare che la facciata del pronaos del tempio di Hathor a File ripropone una simile scansione nord-sud, con la figura di Hathor a sud che va a sostituire Tefnet che occupa la stessa posizione nel tempio di Arensnufi.13

a – Le origini di Arensnufi Un primo aspetto da definire è l’origine di questa figura divina: tema lungamente discusso dalla critica,15 che si è cimentata con la documentazione relativa a una figura divina tipica di un determinato contesto geografico e mitico; questo materiale si è sedimentato nel corso di un lungo processo speculativo che ha seguito linee di sviluppo estremamente fluide, eppure rigorosamente coerenti. Una questione centrale è costituita dalla possibile origine nubiana (o, secondo una teoria ancora più puntuale, meroitica) del dio; questo legame con le terre meridionali troverebbe conferma nella presenza di Arensnufi nel pantheon di santuari meroitici con una posizione predominante, come Mussawarat es-Sufra.16 Certo determinante, per il suo rapporto con il meridione, è il ruolo che Arensnufi svolge nel ritorno di HathorTefnet in Egitto, ma questa connotazione mitica e rituale può rispondere, almeno in parte, a un legame privilegiato con quella regione che è scenario del passaggio dalla furiosa Tefnet alla benevola Hathor. Questo legame con il mito è determinante nella tradizione templare di Epoca Romana, come può confermare l’inno di File; tuttavia, già il Epoca Tolemaica dimostra come la natura del dio sia stata oggetto di una particolare attenzione, probabile segno dell’affermazione di un culto sempre più sentito come parte integrante di una data realtà.

L’associazione tra i due ambiti divini, esemplificati dalla coppie riproposte nella decorazione del basamento, si fonda su un contesto territoriale comune: l’isola di Biga; qui le potenzialità divine si realizzano nella loro pienezza, attraverso modi diversi, eppure accomunati da un segno eloquente, cioè la piena del Nilo. L’analisi degli epiteti delle quattro divinità raffigurate sul basamento possono essere, a tale riguardo, decisamente istruttive: Metà sud Metà nord

Arensnufi Tefnet Osiride Iside

nb iAt wabt Hrt-ib iw wab nb iAt wabt nb iw rq nbt iw wab [nbt] iw-rq

Alla forma iAt wabt – definizione di un’area sacra connessa con una reliquia osiriaca –, comune ad Arensnufi e Osiride, corrisponde un iw wab impiegato per Tefnet e Iside; nello stesso tempo, tutti gli dei sono concepiti come signori (nb) dell’area sacra a ovest di File, a eccezione di Tefnet, divinità ospite (Hrt-ib);14 questa precisazione relativa alla dea che incarna l’Occhio di Ra può essere confrontata con la menzione di Kenset nella frame inscription superiore: la dea, accompagnata da Arensnufi (sxn nfr), arriva a Biga da questa terra del sud-est, e va a istallarsi sull’isola di cui è signore lo stesso Arensnufi, e nella quale coesiste la famiglia osiriaca.

Il legame con il sud troverebbe alcuni riscontri con i riferimenti alle processioni che muovono dalla terra di Nubia e che procedono verso nord sino a File, dove viene reso omaggio a Iside: la menzione dei «battelli di 15 Vedi da ultimo: Hoffmann 1995, 2838-2839; Inconnu-Bocquillon 2001, 158-171; Zaki 2009, 248-249; per la bibliografia precedente: Leitz 2002, I, 409. 16 Hintze 1993, 246-248; va qui segnalato il legame con il sud espresso dall’epiteto mAi rsy; questo stesso titolo è però portato anche da altre figure connesse con le regioni meridionali, come Thot di Pnubs.

12

La macchia di papiro assolverebbe qui una funzione analoga alla falsa porta nella cella del tempio: Murname 1985. 13 Cfr. supra, n. 5. 14 Va notato che sia Osiride che Iside sono chiamati nb / nbt iw-rq, epiteto che li connette esplicitamente a File.

90

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↓→

Herakle» in un’iscrizione greca datata al regno di Tolemeo IX17 è stata interpretata come una testimonianza di quelle processioni che avevano tra i protagonisti lo stesso Arensnufi, e potrebbe essere collegata anche con un epigramma di Età Augustea che commemora il trasporto di sacelli e immagini sacre dalla Nubia a File.18 La provenienza nubiana di questi spostamenti rituali spiegherebbe anche la posizione del tempio all’estremità meridionale del dromos, monumentalizzazione di una struttura per l’arrivo di una processione che si muove via fiume. Questa connotazione del rituale è importante per cominciare a precisare i rapporti tra il dio e File; l’isola è infatti segno di un limes che ha diversi livelli interpretativi, derivati dalle personalità divine sulle quali si focalizza l’attenzione.

(1)

«Possa tu apparire, possa tu apparire Arensnufi, dio eccelso signore dell’Abaton, sovrano dell’Enneade; possa tu contemplare il disco solare quando risplende, unendosi con i suoi raggi». La formulazione del testo collega la divinità solare con Arensnufi nella forma del disco, segno della sua presenza in terra e del forte legame del dio con la luce solare; ma ancora più indicativo di questo rapporto può essere l’epiteto attribuibile a Ra:

b – Il carattere solare Se Iside è l’indiscussa signora dell’area sacra, più complessa è invece la funzione di Arensnufi: certo significativo è il suo santuario, concepito come parte integrante del paesaggio sacro dell’isola; tuttavia, nella decorazione del basamento che abbiamo precedentemente analizzato, né il dio, né tantomeno la sua compagna Tefnet sono accompagnati da epiteti che li connettano in qualche modo con File.19 Piuttosto, è l’isola di Biga e il suo Abaton ad essere considerati il fulcro topografico del loro culto; e proprio nella scena del basamento del suo tempio a File, il rapporto di Arensnufi e Tefnet con l’Abaton di Biga è precisato in modo chiaro: il dio ne è signore (nb), mentre la dea ne è ospite (Hrt-ib) (cfr. supra). Questa definizione a File trova numerosi riscontri in area nubiana, come dimostrano diversi esempi a Dakka20 e Kalabsha.21

(3)

«che si compiace del suo occhio». Questo passaggio verso l’evento mitico centrale, il ritorno dell’occhio divino, si fa pretesto per una scena di giubilo che coinvolge tutto il paese, e che può essere, in senso traslato, immagine della gioia apportata dalla piena:

(4) (5)

«l’esultanza si diffonde in questa terra, il giubilo è nelle Rive di Horo,24 il cuore degli abitanti dell’orizzonte esulta, mentre Ra splende e tramonta».

Questo legame con lo scenario dei più complessi eventi mitici della regione (rinascita di Osiride e appagamento dell’Occhio di Ra), esplicito anche nella stele di Elefantina,22 è confermato anche da un testo, coevo all’inno di File, e inciso all’estremità ovest del muro nord di contenimento del tempio di Arensnufi;23 qui il riferimento a Biga viene riletto anche alla luce della forte connotazione solare acquisita dal dio:

La terra – intesa come scenario umano – gioisce insieme con gli abitanti dell’orizzonte per una vitalità nuova, che coincide con il ripristino di uno stato di equilibrio: il ritorno dell’occhio divino, così come anche il rinnovarsi della piena e la resurrezione di Osiride che si manifesta nella forma del figlio; a questo scenario si accompagna, in un passo purtroppo mutilo, il probabile riferimento alla repressione di Apopi: un richiamo all’icona di arpionatore e difensione del sole propria di Onuri-Shu. A completamento di questo quadro si ha una ripresa dell’incipit del canto, indirizzato questa volta a Shu, controparte di Arensnufi e, ancora una volta, figura esplicitamente connessa con Ra:

17

Bernand A. 1969, 267 (39). Bernand É. 1969, 127-138 (158). Strabone ricorda che gli Etiopi adorano figure divine identificate con nomi greci, e tra la quali è Herakle: Chassinat 1966-1968, II, 683. 19 Si ricordi che, nella stessa decorazione, sia Osiride che Iside sono legati esplicitamente a File. 20 Roeder 1930, 150, § 339; 265-266, § 590; 310, § 666; 339-340, § 747. 21 Gauthier 1911-1912, I, 329. 22 Cfr. supra e nota 8. 23 Porter, Moss 1939, 210 (49) (Epoca di Tiberio); testo collazionato con l’originale. 18

24 Espressione indicante l’Egitto con una forte connotazione sacrale: Hoffmann, Minas-Nerpel, Peiffer 2009, 97-98; stessa grafia per tAw nel testo dell’inno, col. 17.

91

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rappresentativo di un modello religioso legato a un determinato contesto territoriale.27

(6)

La questione relativa alla natura di Arensnufi, certo spinosa, risponde a una tendenza conosciuta dalla tradizione egiziana tarda, che porta alla definizione di personalità che si specializzano in momenti mitici e rituali ben precisi; la mitopoiesi attiva un processo di individuazione degli aspetti divini più rappresentativi, ed è in grado di trasporli a un livello di personalizzazione assoluta: il processo attivo su Shu è quindi parallelo a quanto possiamo riconoscere, ad esempio, nelle figure di Shentait e Merkhetes presenti nel rituale di Khoiak.28 Una testimonianza indiretta di questo processo si può riconoscere anche nel Mito dell’Occhio di Ra, dove a Shu, presente nella versione demotica, corrisponde, nel testo greco, Arensnufi;29 quest’ultima fonte fornisce così un utile testimone per riconoscere non solo l’avvenuta personalizzazione dell’epiteto in entità autonoma, ma anche la sua perfetta sovrapponibilità con il modello d’origine.

«Appaia Shu, figlio di Ra, per unirsi al suo ba, mentre i suoi raggi si diffondono nel suo corpo». In contenuto di questo testo fornisce una serie di indicazioni circa il carattere di Arensnufi in rapporto con il contesto solare, dominato da Ra; i riferimenti all’esultanza del creato sono perfettamente integrati con la tradizione della Dea Lontana, segno dei processi di rinnovamento che si realizzano al passaggio dell’anno con l’arrivo della piena. La personalità del dio si delinea dunque all’interno di un contesto mitico e commemorativo preciso: mitico, perché il suo agire si inserisce all’interno di una vicenda che vede come protagonisti entità di natura solare; e commemorativo, perché i fatti del mito vengono attualizzati attraverso eventi astronomici e naturali: la levata di Sirio, il passaggio dell’anno e la piena del Nilo. Questi dati richiamano, ancora una volta, lo scenario prediletto di Arensnufi, quell’isola di Biga dove egli si fa iry n Hms nfr (coll. 12-13 e nota [r]) di Tefnet; il valore dell’epiteto acquista qui un’accezione interessante, facendosi espressione di un contesto territoriale preciso (l’isola) nel quale il carattere del dio si realizza completamente.

c – Arensnufi e Shu nella vicenda dell’Occhio di Ra Di questa sovrapponibilità però abbiamo già segnalato alcune evidenze (cfr. supra, nota [f]); e può essere quindi utile tornare su questo tema, mettendo in evidenza una serie di fonti che consentano di definire meglio queste sovrapposizioni. Tra gli edifici sacri a sud di File che maggiormente offrono spunti di riflessione, il tempio di Dakka occupa una posizione privilegiata: non solo i dati religiosi, ma anche quelli culturali conferiscono a questo santuario un carattere unico; parte dell’edificio è frutto di un doppio intervento (meroitico e tolemaico) che può dirsi rappresentativo di un confronto che va a operare su una figura divina importante come Shu, assimilata e specializzata nel contesto nubiano in rapporto con la vicenda mitica dell’Occhio di Ra. In questa prospettiva, la presunta origine meroitica di Arensnufi può piuttosto essere interpretata come il segno di una riuscita assimilazione dell’aspetto divino di matrice egiziana a sud di File, dove viene rielaborato in forme rispondenti a tradizioni locali; e qui la concezione del suo nome, con le oscillazioni grafiche e semantiche poste in luce dalla critica, può essere un utile indicatore della complessità di un processo che si dirige, non senza incertezze, verso la forma di iry-Hms-nfr. La connotazione guerriera o protettrice del dio si sovrapporrebbe dunque al carattere di Shu come garante di quella Maat che, già nella dottrina del Medio Regno, viene identificata con Tefnet (cfr. supra).

Questo scenario di una teofania dalle molteplici sfaccettature vede la giustapposizione della figura divina di riferimento (Shu) e della sua ipostasi mitica, Arensnufi, da considerare controparte di un altro aspetto di Shu, quell’Onuri che sembra riproporre la natura principale in rapporto con l’Occhio di Ra.25 La complessità di questo rapporto era certo ben presente ai decoratori delle strutture sorte, tra l’Epoca Tolemaica e Romana, in area nubiana: File, come anche altri santuari più meridionali, sono testimoni preziosi per dimostrare non solo la profondità della speculazione relativa alla vicenda mitica, ma anche della coerenza di un complesso di edifici sacri che segnano, alle porte dell’Egitto, un sacred landscape fondamentale per la vita nel cosmo. Questo profondo legame con Shu si combina con la questione delle origini di Arensnufi; analizzato come personificazione di un epiteto di Shu, o ancora personalità divina autonoma e distinta dal suo modello, il dio è stato connesso con le terre a sud della I cateratta, sino a farne una divinità guerriera legata alla tradizione meroitica.26 La situazione è probabilmente più ben articolata, e il carattere del dio può meglio essere definito alla luce di una diffusione geografica che è certo significativa: è infatti ormai dato assodato che il suo culto non superi a nord l’area della I cateratta, divenendo così

25 Il legame tra Onuri e Arensnufi in rapporto con la natura principale di Shu è già stato definito in Junker 1917, 7-8. 26 Esemplari possono essere considerati i lavori di Winter (1973) e Hofmann (da ultimo: 1995, 2838-2839); si ricordi qui il passo relativo alla sconfitta di Apopi.

27 Cfr. da ultimo Zaki 2009, 248-249; un atteggiamento prudente sul tema delle origini di Arensnufi, maggiormente legato alla tradizione egiziana, è seguito da Žabkar 1975, 84-96. 28 Cauville 1981. 29 Ciampini 2006b, 109.

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Sekhmet.36 A fronte di queste figure nelle quali si personifica la potenza dell’occhio del sole nel suo aspetto terribile, è Hathor, cui si lega Shu-Arensnufi, cfr. sopra, nota (f): in questo modo, il complesso mondo divino viene sistematizzato in un contesto regionale di confronto come la Bassa Nubia, dove l’evento naturale della piena è stato rielaborato nel rispetto di apporti settentrionali e meridionali, organicamente e coerentemente organizzati tra loro.37

La decorazione di Dakka – soprattutto nella cosiddetta cappella di Ergamene – dà vita a una concezione complessa del dio, con un singolare slittamento dei caratteri di Shu verso Arensnufi: il risultato, come notato nell’analisi dell’inno di File, è un serrato gioco di corrispondenze tra di loro, segno della vivacità di una tradizione che dominava il paesaggio cultuale a sud della I cateratta.30 Quella che può però essere considerata la formulazione più esplicita per questo gioco si riconosce negli epiteti attribuiti ad Arensnufi e Shu in due scene della stessa cappella; il primo è chiamato: iry-Hms-nfr nTr aA nb iAt wabt sxm Sps xnt iw-rq mAi rsy nxt xpS.f «Arensnufi, dio eccelso, signore dell’Abaton, immagine venerabile di fronte a File, leone meridionale, la cui forza è potente»;31 il secondo è invece: Sw sA ra nTr aA nb iw wab sxm Sps xnt snmt «Shu, figlio di Ra, dio eccelso, signore dell’Abaton, immagine venerabile di fronte a Biga»;32 una formulazione forse simile, ma frammentaria e molto più sintetica, compare anche nel Tempio del Leone a Mussawarat es-Sufra: iry-Hms-nfr nTr aA nb iAt-[wabt ...] snmt «Arensnufi, dio eccelso signore dell’Aba[ton …] Biga», integrando nella lacuna, diversamente dall’editore del testo: [Sw … xnt? ].33

A dimostrazione della raffinatezza dei decoratori dei santuari nubiani si può qui citare, a solo titolo di esempio, la contrapposizione tra Shu-Arensnufi e Sekhmet-Tefnet nel tempio di Debod; il primo è: Sw sA ra iry-Hms-nfr m iAt wabt sxn nfr n Hwt-Hr SAa Hna ra «Shu, figlio di Ra, Arensnufi nell’Abaton, buon compagno di Hathor, che ha dato inizio con Ra»; la seconda (leontocefala) è presentata come: sxmt aAt nbt nsrt tfnt m snmt sxnt Hna sn.s swAD bA «Sekhmet, l’eccelsa, signora della fiamma, Tefnet in Biga, che si stringe in un abbraccio con suo fratello Suadj-ba».38 Da questi pochi esempi appare chiara l’importanza di questi edifici sacri nell’area liminare a sud di File, dove il confronto culturale opera anche a livello teologico, dimostrando una ricettività e una capacità speculativa di indubbio spessore.

Le due divinità, accomunate dal dominio sull’Abaton, vengono però distinte nello loro immagini cultuali poste rispettivamente davanti a File (Arensnufi) e a Biga (Shu); anche questa indicazione topografica acquisisce una connotazione importante in rapporto con due figure divine che si legano all’Abaton (interpretabile come località sacra per eccellenza della regione), pur fronteggiandosi specularmente dalle due isole che segnano concretamente il paesaggio. Questa distinzione dipende dal carattere della figura femminile che costituisce il fulcro mitico e cultuale di questa serie di concezioni, cioè l’occhio divino; la serie di entità che ricadono in questo aspetto della potenza solare domina concretamente la dottrina della zona e, più in generale, dell’intero paese, come dimostrano le varie tradizioni relative al viaggio della dea verso nord.

d – Il rapporto con Amon Questo forte legame con Biga come scenario di teofania permette di istituire anche un collegamento con la figura di Amon che appare, nell’inno, con la sua connotazione primordiale e creatrice; come notato dalla critica,39 Amon di Biga ha chiare origini tebane, e gioca un ruolo nei confronti di Osiride che può essere assimilato a Horo, protettore di suo padre: in questa funzione appare, ad esempio, anche nel testo del decreto riportato sulla Porta di Adriano a File, dove si può ipotizzare un riferimento alla nascita di Osiride a Tebe;40 similmente, a Debod Amon-Ra è: nb nst tAwy xnty snmt kA gm st m iAt wabt «signore di Napata, che presiede a Biga, il toro che trova posto nell’Abaton».41 Questa notazione di Amon di Napata come toro a Biga è importante perché evoca la figura del creatore tebano celebrato in veste di toro (cfr. infra); nello stesso tempo questa specifica iconografia divina rimanda alle espressioni iT(-n)-kA e xnp-kA, quali designazioni della piena del Nilo che si manifesta in forma di toro.42

La complessità dottrinale dell’Occhio di Ra è confermata anche dalla serie di divinità che con essa si identificano: i due modelli di riferimento – Tefnet e Hathor – si articolano in personificazioni che si radunano in corteo nel viaggio verso nord; sul basamento del muro di contenimento a File, come precedentemente visto, un ruolo dominante è attribuito a Tefnet, icona ferina dell’occhio solare. A Dakka la dea è nbt snmt «signora di Biga»34 e Hrt-ib iw-wab «che risiede nell’Abaton»;35 in questa zona si presenta anche in ipostasi connesse con la potenza distruttrice del fuoco, come Upset, o nella stessa

Questi livelli interpretativi della natura di Amon necessitano di una più puntuale messa a fuoco, perché 36

Roeder 1930, 153, § 349, passim; 266, § 591, passim. Cfr.. la presenza a Dakka di Amon di Napata criocefalo: imn n npt nTr aA xnty tA-sti: Roeder1930, 139, § 309. 38 Roeder 1911-1912, 57-58, §§ 150-151. 39 Guermeur 2005, 473-475. 40 Junker 1913, 8-9; un testo liturgico tebano di Epoca Romana conferma la nascita del dio a Opet: Herbin 2003. 41 Roeder 1911-1912, 61, § 159. 42 Aufrère 2000, 169-170 (g). 37

30

Cfr. ad esempio Roeder 1930, 150, § 339; 182, § 418; 183, § 419. Roeder 1930, 339-340, § 747. 32 Roeder 1930, 342, § 754; per Shu-Arensnufi cfr. anche InconnuBocquillon 2001, 162-165. 33 Hintze 1993, 83 e Abb.33; 247. 34 Roeder 1930, 150, § 340, passim. 35 Roeder 1930, 153, § 349, passim. 31

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e – Arensnufi e l’occhio di Horo

sono proprio i diversi apporti dottrinali a delineare un quadro d’insieme organico e coerente. I tratti tebani di Amon appaiono evidenti anche nell’inno ad Arensnufi: giunto a Tebe, il dio assume delle forti connotazioni locali, divenendo TA nTrw, «maschio degli dei» (col. 6); l’epiteto appartiene alla più classica tradizione tebana, almeno dal Nuovo Regno, come potrebbe confermare il testo del Rituale Giornaliero: nTr TA nTrw pAtw tAwy Dsr a imn-ra nb Swty «dio maschio degli dei primordiali delle Due Terre, dal braccio che domina, Amon-Ra signore delle due piume»;43 TA nTrw è inoltre attribuito ad Arensnufi all’inizio dell’inno, insieme con fA a, «quello dal braccio levato» (coll. 2-3); questa serie di caratterizzazioni del dio rimanda certo a un contesto tebano – nel quale si inserisce anche la natura creatrice e fecondatrice di Min44 – ma nello stesso tempo precisa in modo circostanziato il suo carattere in rapporto con Osiride. Nella dottrina tebana di Epoca Romana le liturgie celebrate a Medinet Habu prevedono l’azione dell’erede e successore Horo che si reca ogni dieci giorni al sepolcro divino per svolgervi l’offerta; una fonte rituale lo chiama: Hr fA-a ity xnty-ipt.f nsw-nTrw Hry-nst.f di tp.f m wAst tp hrw-10 «Horo, quello dal braccio levato, il sovrano, colui che presiede al suo santuario, il re degli dei, colui che è sul suo trono, che si mostra a Tebe ogni dieci giorni»,45 e ancora sA.k Hr m nsw-nTrw Hr st n.k mw tp hrw 10 «tuo figlio Horo, come re degli dei, ti offre una libagione ogni dieci giorni».46

Il carattere meridionale di Arensnufi troverebbe un’ulteriore conferma in un passo dell’inno in cui si menziona l’occhio di Horo, saldo sulla sua fronte (col. 8): un rapido accenno inserito all’interno di un quadro liturgico incentrato su richiami di modello meridionali e orientali (mDAy, nHsy, fA a, nb pwnt, ddwn) che attribuiscono ad Arensnufi competenze su regioni lontane, legate però all’Egitto per i loro prodotti aromatici. Questo aspetto della natura del dio e i suoi modelli di riferimento – Min e Horo – sono oggetto di un’analisi della Inconnu-Bocquillon, che definisce un complesso apparato cultuale al cui interno inserire questa specializzazione del «Buon Compagno» di Tefnet.50 Il collegamento può essere interpretato certo come il frutto di una speculazione teologica che tra l’Epoca Tolemaica e quella Romana coinvolge gli attori del mito solare; nel santuario di File, però, questo richiamo all’occhio di Horo come elemento legato fisicamente (Hr wpt.k) ad Arensnufi può essere letto come specifica caratterizzazione di un’entità che naturalmente viene associata con le terre del sud-est, dove si producono essenze aromatiche come l’incenso, e nello stesso tempo scenario del mito dell’Occhio di Ra. Questa interpretazione del passo conferisce alla irt Hr una connotazione paragonabile all’Occhio Lontano (Hrt) che viene riportato in Egitto;51 in questo modo l’inno si configura come il prodotto di una dottrina che ha elaborato una serie di tradizioni relative all’immagine dell’occhio divino, organizzandole in un sistema organico: di questo sistema è partecipe Arensnufi, che nella sua associazione con Horo acquisisce anche l’occhio risanato (wDAt) quale segno di un nuovo status di equilibrio e di potenza.

Ma i rapporti tra il contesto rituale tebano e l’area di Biga non si esauriscono qui: la stessa scansione liturgica dei dieci giorni – determinante nella pratica tebana – è conosciuta anche nella prescrizione rituale dell’Abaton: (il tempo che Iside passa a Biga) r ir(t) qbHw im.f tp hrw 10 nb «per compiere una libagione là (= Abaton), ogni decade».47 Nel contesto dell’Abaton il rituale svolge il ruolo di motore che attiva il processo rigenerativo di Osiride che appare come nuova piena; questa concezione torna anche nel rituale tebano, nel quale l’offerta della decade ha lo scopo di far uscire Osiride dal sarcofago come inondazione.48 In questo modo, la resurrezione del dio è garantita da un mondo divino che è in grado di interagire in quello scenario che è, nello stesso tempo, reliquiario osiriaco e sorgente della piena. Il contesto permette così di spiegare la connessione tra Arensnufi e Amon, a sua volta divinità preposta alla piena già nella dottrina tebana del Nuovo Regno.49

Il legame tra l’occhio di Horo e l’incenso è il tema di una testo del tempio di Arensnufi a File, datato alla prima fase dell’edificio, e formato da varie unità compositive unite insieme;52 l’ultima sezione di questo componimento costituisce la rielaborazione di un modello rituale ben conosciuto, e pone l’accento sul rapporto tra l’occhio di Horo, l’inondazione, l’offerta di vino e Arensnufi.53 La presenza dell’occhio di Horo, segno del rinnovamento del dio, appartiene a un contesto cultuale d’ampio respiro, ma qui sembra prendere un’accezione particolare: il suo conferimento ad Arensnufi, che se ne adorna la fronte, può evocare un rinnovamento e una presenza divina accompagnata dall’incenso, segno effettivo del processo di divinizzazione. Gli effetti dell’occhio di Horo sulla fronte di Arensnufi sono descritti in modo più diffuso nella terza parte dell’inno all’incenso (coll. 4-6): i campi fioriscono e la piena si esalta, mentre l’occhio di Horo vene riempito di vino dal re; in questo modo si aprono le porte del cielo, della terra

43

Papiro di Berlino 3055,V.3: Moret 1988, 67. Cfr. la serie di osservazioni di Chassinat 1966-1968, II, 683-685. Papiro Wien 3865, ll.3-4: Herbin 1984, 107; parallelo in papiro Vaticano 38608, 30 (testo III del manoscritto, liturgia parallela alla fonte precedente): Herbin 2003, 80-81. 46 l.29: Herbin 1984, 109. 47 Junker 1913, 23; per i riferimenti a questa liturgia a File: 23-24. 48 Cfr. supra, nota 40. 49 Ciampini 2009, 171-174. 44 45

50

Inconnu-Bocquillon 2001, 168-169, con bibliografia. Inconnu-Bocquillon 2001, 170-171. 52 Žabkar 1992. 53 Col. 5: Žabkar 1992, 236-237. 51

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Il legame con il sud e l’Occhio di Ra, e nel contempo la sua localizzazione a Biga, attribuiscono al dio anche una funzione apotropaica: la natura di protettore di Osiride e Iside si combina con una sua forte connotazione regale, rendendolo un baluardo al confine meridionale dell’Egitto. In questo modo, la collocazione del suo santuario all’estremità meridionale del dromos di File vuole evocare anche il carattere protettivo e guardiano del dio che vi è ospitato. Reso effettivo dall’occhio di Horo, saldo sulla sua fronte (mn.tw Hr wpt.f), Arensnufi è concretamente mDAy, termine interpretabile anche come «guardiano» di una zona di confine; in questa posizione d’accesso a File, il tempio è affine alla stele di Elefantina citata nel corso dell’analisi dell’inno: un segno del potere romano che saremmo tentati di interpretare come una rielaborazione dei classici signa imperii, e che trova la sua collocazione ideale alla porta meridionale del paese. Qui il re viene legittimato da un dio che concorre attivamente non solo alla difesa delle regioni liminari, ma anche alla rievocazione di un fatto mitico come il ritorno dell’Occhio di Ra; questa natura evocativa, infine, permette di delineare un ulteriore tratto di Arensnufi, garante di quei processi di rinnovamento ciclico che si manifestano nella piena e nel passaggio dell’anno.

e della piena (qbHw); quest’ultimo termine, cui Žabkar presta una certa attenzione,54 designa la piena come liquidi che trasudano dal corpo di Osiride: è qui ovvio il rimando all’Abaton come reliquiario del dio da cui sgorga l’acqua rinnovata della piena. L’aspetto che sembra delinearsi in tutta la sua rilevanza è la centralità del fatto fisico della piena come segno di questo rinnovamento: la comparsa della nuova acqua può essere considerata un sinonimo di questa pienezza del dio, arricchito dall’occhio di Horo; e ancora una volta il contesto ideale di questa complessa costruzione teologica è Biga, il cui Abaton si delinea sempre più come un ricettacolo di Vita da associare a Osiride e allo stesso Arensnufi come aspetto di Shu e di Horo. Osservazioni conclusive L’analisi del componimento innico nel tempio di Arensnufi a File è stato presupposto per un approccio che, ben lontano dal voler essere esaustivo, ha mostrato la ricchezza e la complessità di una speculazione che si delinea nell’area a sud della prima cateratta, e che si appoggia a figure divine specifiche, capaci di offrire chiavi di lettura molteplici delle dinamiche di rinnovamento del cosmo. Il rigore con cui l’inno celebra la natura del dio si fonda su tradizioni antiche, riorganizzate nel contesto regionale secondo uno schema unitario e coerente; il peso attribuito all’Occhio di Ra come focus di un sacred landscape permette di istituire una serie di collegamenti con altri santuari di area nubiana (Dakka, Debod, Kalabsha, Dendur), delineando così una specifica tradizione basso-nubiana che necessita di un’analisi rigorosa.

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In tale contesto, Arensnufi costituisce un modello importante per definire i tratti di questa tradizione: il suo profondo radicamento nel territorio, come dimostrano i santuari nei quali la sua figura svolge un ruolo di primo piano nella vicenda mitica dell’Occhio di Ra, può essere considerato il frutto di una riflessione che opera in uno scenario cultuale unitario. Qui le singole entità si fanno funzionali al sacred landscape, e dove possibile si specializzano per mezzo di forme specifiche; la questione del nome iry-Hms-nfr nelle forme conosciute da Winter (1973: epiteto vs. nome divino autonomo ed effettivo) può essere testimone di un procedimento non certo isolato, come dimostrano i casi di Shentait e Merkhetes citati precedentemente, e che va letto alla luce di una speculazione che opera all’interno di un mondo divino per sua stessa natura estremamente duttile. La riprova di questo processo si ha nello stesso inno ad Arensnufi, sorta di compendio dottrinale che ripropone sinteticamente tutte quelle figure divine che contribuiscono a delinearne il carattere.

54

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FIGURE

Fig. 1: Tempio di Arensnufi, muro di contenimento, est: le due scene centrali (foto Lovera)

Fig. 2a: La frame inscription superiore (foto Lovera)

Fig. 2b: La frame inscription superiore (foto Lovera)

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Fig. 2b: La frame inscription superiore (foto Lovera)

Fig. 3: Arensnufi e Tefnet (foto Lovera)

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Fig. 4a: Il testo dell’inno ad Arensnufi (foto Lovera)

Fig. 4b: Il testo dell’inno ad Arensnufi (foto Lovera)

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Fig. 5: Porta di Adriano a File, parete nord: il ba di Osiride e la piena (foto Lovera)

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Riscontro ancora tra grafemi. Da una parte, in Sumeria, due: uno di essi raffigura la facciata di un edificio scompartita in cinque elementi verticali; l’altro un ingresso di edificio, incorniciato da architrave su lunghi stipiti e chiuso talora con una stuoia arrotolata in alto su un rullo.

IL SEREKH STORIA DI UN SEGNO MILLENARIA Silvio Curto

Abstract

Ambedue convogliano la voce È (sic), “casa, dimora”, e altre analoghe.7

In this article the author outlines a history of the serekh, one of the most important element of royal ideology and identity. Its iconography and meaning are here discussed.

Il soggetto schematizzato nel primo grafema si ritrova dispiegato in immagini coeve di facciata di palazzo composita, con tre lesene alte e larghe e intercalati due ingressi, spesso sormontati da finestre chiuse con grata. Il secondo grafema fa capo a uno di tali ingressi (Fig. 2). Inoltre, tale facciata si ritrova iterata quale modulo, a formazione di parete fiancale modanata dello stesso palazzo – probabilmente sacro, in quanto lo affiancano nelle immagini, personaggi in apparente atto di culto (Fig. 3).8

I Fase La preparazione nel 1964 di un corso di Storia della Scrittura per il Politecnico di Torino1 ci condusse ad un’ipotesi: l’invenzione della scrittura sumerica – la più antica nel mondo – si colloca agli inizi del IV millennio; l’invenzione dell’egizia alla fine dello stesso millennio.2 È quindi probabile che gli Egizi abbiano conosciuto la scrittura sumerica, che abbiano apprezzato quel mezzo di comunicazione integrativo della parola, poiché capace di trasmettere il messaggio, preciso e a distanza di tempo e di spazio. Che abbiano per sé quindi costruito un mezzo simile, ma perfezionato. La scrittura sumerica è figurativa e ideografica; l’egizia pure figurativa ma logografica.

A fronte, nell’Egitto troviamo un grafema identico al primo sumerico suindicato, che convoglia la voce serekh, “insegna”;9 inoltre una figura di fiancata di edificio modanata, analoga alla sumerica, incisa su un avorio del Neolitico10 e un gran numero di edifici serbatici dal tempo, che descriveremo più oltre. Qui subito, ci interessa presentare una rielaborazione del serekh, a insegna contenente il primo nome del sovrano quale protetto dal dio falcone Horus – il cosiddetto Horus-name. Insegna per noi documentata la prima volta da una stele assai bella del re cosiddetto Serpente della I dinastia (Fig. 4).11

Più tardi incontrammo una conferma a quell’ipotesi: la cassa grafica sumerica contiene un grafema a fiore stellato (Fig. 1) significante dingir, “dio” e voci analoghe.3 Lo stesso grafema compare sulla mazza da guerra in pietra cerimoniale del re “Scorpione” o Serkhe, e sul recto e verso della Tavolozza di Narmer.4 Stando al contesto figurativo indica “il re”; scomparve di poi dalla cassa egizia, onde ne ignoriamo la valenza vocale.5

Insegna più precisamente composita: un riquadro contenente il nome del re, sormontato dal falco di Horus, e innestato su una facciata di palazzo con i due ingressi canonici.

Accompagnò tale riscontro l’annotazione di statuette e decori vascolari egizi arcaici, evidentemente imitati dai sumerici, così come sul recto della Tavolozza di Narmer le figure di due animali fantastici a lungo collo.6

Il tutto si dovrà leggere secondo la norma grafica egizia che ritrae la cosa tridimensionale non in prospettiva,

Su questo quadro ricadde di poi un altro riscontro, ad apertura della “storia breve” che qui presentiamo all’amico Sergio Pernigotti, poiché studioso dell’antico a tutto campo, contro le troppe, miopi specializzazioni oggi di moda.

1

7 8

 Labat 1969, 148.  Per queste strutture sumeriche e – come vedremo – egizie arcaiche,

siamo largamente debitori d’informazione a una nostra allieva, Porta 1989, 98 ss.; in particolare in Tav. xxvi. Per documentazione più estesa sumerica cfr. Heinrich 1957. 9  Gardiner 1959, 72, e in Sign-list, O33, srx, “banner”, che in base a citazioni di contesto nel Coincise Dictionnary del Faulkner, tradurremo, precisandone il significato per il caso presente, in “insegna”. 10  Vandier 1952, Fig. 373. 11  Vandier 1952, Fig. 482. Una migliore fotografia in Porta 1989, Tav. , e XXIX. Era chiamato “Serpente” in quanto il nome è scritto traslitterato Uazi, Ouadji e così via, ma per lettura erronea che fa capo al , waD, in Ranke 1935, 74, n. 14, senza tener conto del fatto che ivi funge da complemento fonetico. Lo scriba inteso ad il grafema

 Curto 1965.  Questa data – avvertiamo – ricorre ribassata in testi più recenti, ad es.

2

Kramer 1968, xix.  Labat 1969, 48. 4  Vandier 1952, 595 ss., fig. 391, 392, 393. La Tavolozza è meglio leggibile in Lange, Hirmer 1955, Tavv. 4 e 5. 5  Curto 1967, 15 ss. Per la sua rarità tale grafema non è registrato da Gardiner, nella (classica!) Sign-list egiziana. 6  Cfr. Curto 2001a, 35 e 47 ss.

abbreviare la grafia del nome, avrebbe quindi omesso questo, e non il . Semmai, per appunto, potremmo far capo al nome , ADA , o “Aza”, in Ranke 1935, 4, n. 20. Più prudente comunque la rinunzia a leggere il grafema di Anthes 1958, 79 ss.

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bensì in proiezione ortogonale. Pertanto il riquadro sovrastante la facciata di palazzo raffigura la pianta dell’edificio retrostante, “ribaltata” dietro la facciata del medesimo. A sua volta, il nome del re nel riquadro indica l’abitante del palazzo.

appaiono compatte (Fig. 6) – evidentemente per intimo proposito di partecipazione col re-dio quale ancora e chiaramente ci attesta il più recente Racconto di Sinuhe.14 Vanno inoltre annotate alcune altre caratteristiche di tali mastabe: quella reale è corredata da un tempio funerario con stele al nome del titolare; quella privata di un luogo di culto situato sulla parete orientale, sulla sinistra, spesso addoppiato sulla destra situato entro una nicchia a serekh della modanata, o applicato sulla compatta; segnato con una rozza stele, o una tabella in pietra, o un pannello ligneo recante l’immagine e le qualifiche e nome del titolare della mastaba stessa.

Va notato il duplice ingresso, allusivo a quell’abitante, poiché non certo funzionale, bensì protocollare, come dimostrano i templi delle Piramidi di Cheope e Chefren, con due ingressi che immettono sui lati di un atrio traverso, aperto al centro su percorso assiale. Inoltre la frase nel racconto di Sinuhe «torna in Egitto, che tu riveda la Residenza, che tu baci la terra presso la duplice grande porta», nonché un fenomeno lessicale; nella lingua egiziana arcaica, il nome comune si declina in singolare, duale e plurale, e il duale ricorre in antico e fu poi serbato nelle espressioni relative al sovrano neb.ta.ui, “Signore delle Due Terre”; neb.ti, “Le Due Signore”, titolo del suo secondo nome; Sekhem.ti, “Le Due Potenti”, ossia la corona dell’Alto Egitto, bianca, a bulbo, e quella del Basso Egitto, rossa a modio. Inoltre nelle sacre, “Le due porte del Cielo”, “I due grandi dèi di Eliopoli”.12

Fra questi segnacoli c’interessa in particolare, per discorso a venire, la tabella: è scompartita in un pannello istoriato tra ali per lo più anepigrafi spianate in sottosquadro, così da poterle inserire nella parete laterizia in sottostrato. E reca inciso sul pannello il ritratto del titolare con le sue qualifiche e il nome, assiso dinanzi a una tavola monopode su cui posano dei pani e una brocca di birra, nel gesto di prenderne possesso. Sotto la tavola spesso corre la scritta “pani 1000, vesti 1000, boccali di birra 1000, gazzelle 1000 …”. Pane e birra sono gli alimenti di base degli egizi e “alimenti” per antonomasia; “1000” significa pure, come per noi, “in gran quantità”; le gazzelle valgono a “carne in piedi” per alimento.

II Fase Il grafema sumerico a facciata di palazzo e la relativa struttura edilizia prese piede – come s’è visto – nell’Egitto arcaico. Ivi il grafema fu pure tradotto in insegna di nome regale. Successivamente il grafema e l’insegna perdurarono sino alla fine dell’Epoca Romana; invece la struttura edilizia venne meno durante la III dinastia.

Tabella, ancora, che però è stata anche ritrovata in alcune mastabe, calata entro il massiccio murario e invisibile al passer-by, dunque ancora una volta, per un proposito intimo, ma qui di affermare la propria personalità.15 Tabella, infine, spesso pregevole per armonica composizione di scrittura e figura – che per gli egizi erano una cosa sola: vedi alcune conservate nel Museo Egizio di Torino (Figg. 7a e 7b), nel Barracco di Roma, nel Pushkin di Mosca e nella Gliptoteca di Copenaghen.16

Più precisamente si apprestarono, per ciascun sovrano delle dinastie I e II, due edifici sepolcrali parallelepipedi, con le pareti maggiori rivolte a oriente e occidente – mastabe nella nostra nomenclatura, in mattone: uno ad Abido, compatto; l’altro a Saqqara, modanato.

III Fase La modanatura consta di nicchie profonde a doppio sguancio, che riproducono un ingresso e finestra sovrastante, fra due larghe lesene a tutt’altezza.

Zoser, primo sovrano della III dinastia, ha voluto il sepolcro a piramide in pietra; altrettanto faranno i suoi successori sino a fine Medio Regno.

Il meglio noto di tali binomi sepolcrali s’intitola alla regina Merneith, madre o consorte di Udimu, terzo sovrano della I dinastia (Fig. 5).13

A sua volta Cheope, capostipite della IV dinastia, provvede ai suoi fedeli mastabe in pietra; e in pietra saranno costruite quasi tutte le mastabe di poi. Si invera in tal modo l’Egitto che un geniale critico dell’arte, Gerhard Evers, chiamò «der Staat aus dem Stein».

Nel contempo, e ancora durante la III dinastia, anche i privati si apprestano mastabe in mattone, per lo più compatte, talune però con la parete orientale modanata, oppure con una cappella interna, aperta verso oriente, con la parete di fondo modanata; alcune infine modanate interamente come le reali, ma “incamiciate” così che

14 15

12  Per i templi delle Piramidi cfr. Rinaldi 1983, 57. La frase nel Racconto di Sinuhe da Bresciani 1996, 176. La forma del duale nella lingua egizia dell’Antico Regno venne primamente ravvisata da Faulkner 1925. 13  Curto 1984a, Tavv. 7 e 8. Newberry, Wainwright 1914, 148 ss.

 Curto 1984a, Tavv. 9-14.  Per l’innesto della tabella in parete cfr. Curto 1984a, Tav. 46. Circa

“tabella” e non “stele”; “prende possesso” e non “si ciba”; “intimo proposito” e non “prassi magica”, come nei manuali si ripete, cfr. Curto 1957, 1 ss. 16  Curto 1963, Tav. 111; Careddu 1985, 3; Hodiash, Berlev 1982, 41; Jorgensen 1996, 32, n. 3.

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Per costruire piramidi e mastabe, la tecnica si affina: con gli utensili del Neolitico già si potevano apprestare le arenarie e i calcari destinati alle murature. Per fornire i graniti ai laboratori di sarcofagi e statue, si inventano il trapano a manovella – visibile nei grafemi Gardiner, Sign-list O24 e 25 – e la sega da marmo.17 Siamo dunque in un tempo nuovo, in cui la nostra storia si biforca: su un ramo troviamo la modanatura a serekh sopravvivente; sull’altro il singolo serekh invece trionfante – rispettivamente nei termini sottoindicati.

vi entra incontra una tavola in pietra con su incise figure di pani e di una brocca di birra; quindi una statua pure in pietra del titolare del sepolcro in piedi o assiso. Alle spalle di questa campeggia, scolpito sulla parete di fondo in un solo blocco, o costruito, un serekh monumentale – o, nella parlata dei musei, falsaporta – innovato: sopra l’ingresso chiuso con una stuoia arrotolata in alto su un rullo, nella finestra è raffigurata, quasi vi fosse inserita, la tabella antica – a ben dimostrarla con un accorgimento: un breve tratto delle ali è reso visibile in sottosquadro tra i lati del pannello istoriato e quelli della finestra – chi non avvertito può credere che si tratti di due feritoie, cieche come l’ingresso sottostante.

A) La modanatura edilizia, faticosa ad eseguirsi in pietra, ancora compare soltanto nel recinto della Piramide di Zoser e sulla parete di fondo di qualche cappella di mastaba per il resto compatta. Perdura invece quale decorazione incisa sulle pareti dei sarcofagi rettangolari dell’Antico e ancora del Medio Regno.

Inoltre ricorrono, incise sulla cornice di tale falsaporta, tre frasi, che suonano: «Dono e grazie del re e di Osiride [o Anubi, o altro dio patrono di necropoli]: esce la voce [ossia ordinativo] di pane e birra in ogni giorno e in ogni festa dell’anno per lui, N. [qualifiche e nome del titolare della mastaba]» – variante sintattica: «l’uscita dell’ordinativo per lui di pane e birra …».

Vedi quello di Micerino (Fig. 8), riprodotto a disegno prima che si perdesse in mare, e uno coevo di un dignitario, Ra-ur conservato al Cairo; dell’epoca successiva, uno a Torino di altro dignitario, Ibu, e uno a Bologna, del Medio Regno, in legno decorato a colore (Fig. 9).18 Cimelio raro, questo, in quanto il suolo dell’Egitto non accoglie alberi con radici profonde e legno buono; di conseguenza, gli egiziani in antico importarono, per trarne manufatti e navi, i cedri dal Libano, ma i loro successori dovunque trovassero simili manufatti ne fecero legna da ardere.

Testi afferenti ci informano che l’uscita è dalle dispense reali; la valenza “pane e birra” già qui si è chiarita. «Dono e grazie del re e di Osiride; si diparta egli sulle vie belle dell’Occidente, in pace, in pace presso gli dèi della Terra Grande [la necropoli], N.».

Col Nuovo Regno tale modanatura cessa, sostituendosi ai sarcofagi rettangolari gli osiriformi.19 Da notare nella suddetta modanatura una innovazione, più frequente a partire dalla VI dinastia: il serekh privilegiato per il culto appare assai più grande degli altri, quale non era nel modello edilizio.

«Dono del re e di Osiride: è sepolto egli nella necropoli nel Deserto Occidentale, quale un onorato presso il Dio Grande, N.».20 In sintesi, l’insegna regale del serekh fa da supporto al registro delle elargizioni regali al titolare, col pasto festivo, una degna sepoltura e sepolcro – quali attestate in più chiare lettere, ancora nel Racconto di Sinuhe del Medio Regno.

Per di più reca spesso, inseriti sull’architrave, gli Occhi di Horus, occhi umani con il solco lacrimale del falco – segno che il riferimento del titolare del sepolcro al sovrano e per esso al dio solare, sta cedendo a diretto verso il dio, nella speranza di risvegliarsi un giorno al suo sorgere – speranza manifesta più tardi nei Testi dei Sarcofagi.

A chiusura di questo paragrafo possiamo apprezzare l’abilità con cui il progettista del nuovo serekh inserì nell’antico la tabella, certo a richiesta di committenti desiderosi di affermare se stessi in autonomia, non meno che in appartenenza alla cerchia regale. E ancora possiamo ammirare la duttilità con cui quel progettista seppe tradurre la struttura massiva dell’antico serekh a nicchia in mattone, nello schema lineare adatto alla pietra. Sì che non a caso uno di questi serekhfalsaporta, di un sacerdote ritualista, Medu-nofer e della sua consorte Nehu-ka, addetta al re, IV dinastia, da Giza,

B) Sull’altro ramo della nostra storia troviamo il serekh presente in tutte le mastabe in pietra della IV, V e VI dinastia, entro un contesto preciso, progettato sicuramente da Hemiunu, architetto di Cheope. Mastabe compatte, corredate di una cappella, affiancata e più tardi ricevuta entro il massiccio, aperta a oriente. Chi 17

 Vandier 1952. Tracce della lavorazione con trapano e telaio furono ravvisate e rese note da Preti 1988, 64 ss., e da Curto 1963, 73, Tav. xxv. 18  Cfr. Porta 1989, Tav. XLVII e XLVIII; Lange, Hirmer 1955, Tav. 49; Curto 1984b, 98 e scheda; Kminek-Szedlo 1895, n. 1959, e Curto 1961, 69, n. 8. 19  “Osiriformi” e non “momiformi” come chiamati comunemente: cfr. Curto 2007-2008, 34 ss.

20

  “Falsa-porta” ricalcando l’inglese false-door – ma in buon italiano “finta porta”. Per le tre frasi cfr. in Curto 1963, 70, fig. 23, una cornice sulla quale corrono – caso raro – tutte tre le formule ivi però mutile; 67, fig. 21; una falsaporta con la prima frase integra; per la traduzione, già dibattuta, della stessa, Curto 1958, 47 ss. 105

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poi a Torino, meritò pubblicazione per gli storici dell’intera storia dell’arte antica, prima ancora che per gli egittologi (Fig. 10).21

Ne riemergono reminiscenze nei Tempi Tardi: in una stele in legno a Berlino – un pastiche fra serekh e portale di tempio, ammirevole tuttavia come recupero di cultura e pertanto datato all’Epoca Saitica. In un blocco parietale (Fig. 14) dell’Osireion di Karnak dedicato dalle Divine Adoratrici Amenardis e Shepenupet fra 716 e 712 a.C., e in altra stele nel Museo di Bologna anepigrafe – provenienza probabile da un Serapeo (Fig. 15).25

In pratica, l’intero apparato sopradescritto serviva a una periodica offerta di cibarie, alla statua del titolare del sepolcro quasi fosse vivente – una simile offerta si presentava alla statua del sovrano nel suo tempio funerario, e a quella del dio nel suo sacrario.

Di questi cimeli, quelli di Karnak e Bologna si distinguono per confronto con l’architettura egizia, che è tutta saldamente materica – salvo alcuni esperimenti di spazialità compiuti nell’Epoca Thutmoside.26 Proiettano infatti un trompe l’oeil su più ingressi a camere in infilata; posava probabilmente dinanzi ad esse una statuetta del dio, quasi presente sulla soglia del suo tempio – come ci suggerisce una stele del Museo Egizio di Napoli dedicata ad Arpocrate.27

Ci informa di tanto, e integra la notizia contenuta nelle formule sul serekh già citato, una cosiddetta da noi Scena d’Ispezione estesa su parete della cappella. Rappresenta infatti il titolare che in dignità, in piedi da fermo o assiso come nella statua, attende il figlio maggiore che, insieme con familiari e servitori, gli apporta cibarie e tovagliame. Una duplice didascalia descrive: «Vedere [ossia, qui, “osservare, ispezionare”] la cosa sigillata portata fuori dalla casa reale [consistente] di …» [segue elenco di lini e unguenti]; e «Vedere l’uscita della voce portata fuori della casa reale, [consistente] di … [segue elenco di cibarie]».

Chiosa Completiamo la nostra “breve storia” con un’informazione: il nostro lettore non si meravigli se leggerà o sentirà dire che «la falsaporta è la porta del sepolcro, o dell’aldilà, e il defunto è ritratto nella statua nel passo d’uscita nel nostro mondo, per ricevere le offerte, evocato dal sacerdote».

IV Fase Durante la V dinastia la motivazione primaria del serekhfalsaporta viene meno: la sua netta struttura iniziale talora si contamina per citazioni figurative, incise sui margini – così ad esempio in una, peraltro in tal modo impreziosita, conservata a Bologna (Fig. 11).22 O addirittura si dimentica per traduzione ad ingresso sormontato da cornice a gola, magari chiuso con battenti (Fig. 12). Esemplari di tal nuova versione e di grande pregio artistico si conservano a Berlino e Vienna.23

Descrizione elaborata all’inizio del secolo scorso, sulla scia dello spiritismo allora di moda, per traduzione della prima frase sul serekh sopracitata, quale significante: «Dono e grazie del re e di Osiride: l’uscita alla voce [del sacerdote celebrante l’offerta] di lui [il defunto] ogni giorno …, N». Inoltre basata sulla presenza nel tempo, soltanto di statue in pietra del titolare, in piede con le braccia stese lungo i fianci a impugnare due rulli, la gamba sinistra divaricata a portare avanti il piede, sì che poteva pure sembrare in cammino.

In seguito, durante il Medio Regno, nei sepolcri fatti rupestri, la memoria del titolare è affidata per lo più a una stele centinata o rettangolare, con l’immagine di lui seduto a tavola carica di cibarie, onorato dal figlio maggiore. Rare stele ripetono in formato minore il serekh-falsaporta nella versione recente suindicata: vedi una a Torino di un governatore di provincia Uah-ka (Fig. 13).24

Nuovi documenti ci condussero poi a tradurre la formula così come già indicato, e nuovi reperti archeologici, insieme con critica dell’arte innovata, a rintracciare la seguente vicenda: gli egizi ritrassero il titolare del sepolcro nella scena d’ispezione, assiso o in piedi, quale al vero. Quando in piedi evidentemente pure da fermo, col braccio destro disteso lungo il fianco a impugnare una clava (versione tridimensionale del grafema Gardiner, Sign-list S42, kherp, “autorità”) e il sinistro proteso a impugnare un lungo bastone da passeggio, a ulteriore appoggio della persona, gravante sulla gamba destra e stabilizzata sulla sinistra divaricata in avanti. Ripeterono – gli Egizi – tale figura fedelmente nel legno; intesero poi tradurla nella durevole pietra, e quindi a bloccarla entro un parallelepipedo ideale, dapprima in statua con il braccio sinistro ripiegato sul petto a calcare il bastone

Su tutte queste lapidi, tuttavia, permane la frase «Dono e grazie del re e di Osiride: l’uscita della voce …» ma si tratta ormai di una giaculatoria augurale a recitarsi dal passer-by – «perché più utile a chi la fa, che non per colui per il quale è fatta, è la preghiera a favore del defunto» – così in alcuni epitafi. V Fase Nel Nuovo Regno, per quanto a nostra conoscenza, il serekh-falsaporta scompare. 21

 Adami 1924, Fig. 23; Curto 1963, 78, fig. 32, Tav. XXV.  Kminek-Szedlo 1895, n. 1902 e Curto 1961, 66, n. 4. 23  Schäfer, Andrae 1942, Taf. 222; Satzinger 1994, 96. 24  Curto 1984b, 101 e scheda.

25  Schäfer , Andrae 1942, 449; Donadoni 1999, 81; Curto 1961, 93, n. 86, Tav. 42. 26  Kminek-Szedlo 1895, n. 1902 e Curto 1999, 37. 27  Cantilena, Rubino 1989, 104-105, n. 11, 2.

22

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lungo il corpo, e infine nel modello definitivo già qui descritto, con clava e bastone ridotti a rulli nei pugni (Figg. 16 e 17).28

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28

 Per la lettura della formula cfr. la nota 20. Per la statua, Curto 1975, 55 ss. e Curto 1995, 239 ss. Ristampa di ambedue gli articoli in Curto 2001b, 275 ss., 437 ss. 107

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

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 FIGURE

Fig. 1: Il grafema a fiore stellato, sumerico ed egizio

Fig. 2: I grafemi sumerico ed egizio a facciata di palazzo. Il grafema sumerico d’ingresso nella facciata

Fig. 3: Immagini sumeriche di facciata e fiancata di palazzo

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Fig. 4: Il serekh-insegna col nome-Horus in stele del “re Serpente”; disegno tratto da Vigneau 1935, 4

Fig. 5: La mastaba modanata della regina Merneith, I dinastia (da Curto 1989, 18, n. 7)

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Fig. 6: Mastaba “incamiciata”, II dinastia, Giza (da Curto 1989, 21, n. 14.2)

Figg. 7a e 7b: Tabella dell’“addetto al re” Ither e suo inserimento nella muratura della mastaba, IV dinastia, da Giza (per gentile concessione del Museo Egizio di Torino)

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. Fig. 8: Il sarcofago di Micerino (da Donadoni Roveri, Tiradritti 1998)

Fig. 9: Il sarcofago della “signora di casa” Ibi, Medio Regno (per gentile concessione del Museo Civico Archeologico di Bologna

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Fig. 10: Serekh-falsaporta di Medu-nofer, “sacerdote lettore”; V-VI dinastia; da Giza (da Curto 1989, 22, n. 15)

Fig. 11: Serekh-falsaporta del “fiduciario del re” Sa-meri e della madre sua, “fiduciaria del re” Khenutes, V-VI dinastia (per gentile concessione del Museo Civico Archeologico di Bologna)

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Fig. 12: Schemi dei serekh-falsaporta, IV dinastia e V-VI dinastia (da Curto 1989, 22, nn. 15-16)

Fig. 13: Stele a serekh dell’“Ispettore dei lavori” Hor-nekht, Medio Regno, da Gau el-Kebir (da Curto 1989, 22, n. 16)

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Fig. 14: Stele a trompe-l’oeil nell’Osireion di Karnak, XXV dinastia

Fig. 15: Stele da Serapeo, Epoca Tarda (per gentile concessione del Museo Civico Archeologico di Bologna)

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Fig. 16: Il titolare del sepolcro, ritratto in piedi da fermo, al vero, nella Scena d’Ispezione; mastaba di Nisut-nofer a Giza, IV-V dinastia (da Curto 1989, 26, n. 22)

Fig. 17: Il titolare di sepolcro in piedi da fermo, al vero, in statua in legno del “governatore di provincia” Shemes, XI dinastia, Asjut (per gentile concessione della Fondazione Museo Antichità Egizie di Torino)

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structure et les expressions sont très proches de celles du papyrus florentin. Ces deux contrats proviennent du nome Hermopolite et on peut les dater des VIe-VIIe siècles ; la même datation et vraisemblablement la même provenance peuvent être attribuées à notre document.

TROIS DOCUMENTS COPTES DE L’ISTITUTO PAPIROLOGICO G. VITELLI DE FLORENCE Alain Delattre

PSI Inv. C 20 8,9 x 24,8 cm Nome Hermopolite VIe-VIIe siècles

Abstract Edition of three Coptic documentary texts from the Istituto Papirologico G. Vitelli (Florence). 1) A location of land, which shows affinities with two papyri from the Rylands Collection. 2) A sale on delivery: a monastery borrows money from a deacon and is ready to repay it, with interests, in dates of the next crop. 3) An account of fishes, with interesting lexicographical features.

Les marges sont conservées à gauche et en bas. On peut estimer à environ 10 cm la lacune à droite, ce qui donnerait une largeur totale de 35 cm, comme pour les textes parallèles (P.Ryl.Copt. 158 et 159). L’écriture est cursive et peu appliquée.

1. 2. 3. 4.

La collection de l’Istituto Papirologico G. Vitelli contient un grand nombre de textes coptes documentaires, inédits pour la plupart.1 Je propose ici l’édition de deux papyrus, qui portent trois textes des VIe-VIIIe siècles : un contrat de prêt hermopolite (1), un contrat de vente à terme de dattes (2) et un compte de poissons (3).2

[ [ [ [

-

]....[ ] . ⲛⲥⲁ ⲛⲉⲩⲉⲣⲏⲩ [ ]ⲇⲓⲁⲫⲁⲓⲣⲓⲥⲑⲁⲓ ⲉ[ ] . [ . ] . . . [ . . . . . ] ⲉϥϭⲟⲣϭ ⲉⲃⲟⲗ ⲛ[ .

] ] ]

].[ ⲁⲣⲧⲏⲥ ⲛⲓⲙ[ ] 5. . ⲡ̣ϩⲟ̣ⲓ ⲙⲛ ⲧⲉϩⲣⲱⲧ̣ ⲙⲛ ⲡⲓⲟⲙ ⲙⲛ ⲛⲉϭⲁⲧⲉ ⲙⲛ ⲫⲓⲗⲁⲥⲧⲏⲣⲓⲟⲛ ⲙⲛ ⲡⲙⲁ ⲛⲟ[ ] 6. ⲡⲙⲁ ⲛⲁⲡⲁ ⲙⲏⲛⲁ ⲡⲥⲁ ⲛⲧⲁⲣⲓⲭⲛ ⲧⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ϩⲛ ⲛⲁⲧⲉϥⲛⲟⲟⲩⲉ ⲉⲓ[ ⲡⲙⲁⲛ-] 7. ⲉⲥⲱⲟⲩ ⲧⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲙⲟⲩ ⲛⲙⲛⲧⲥⲛⲟⲟⲩⲥ ⲙⲡϣⲱⲙ ⲙⲟⲩ ⲛⲙⲛⲧⲏ ⲗ̣[ ] 8. ⲙ̅ⲡⲉⲓⲧⲁⲁⲥ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲉⲓϣⲁⲛⲕⲁ ⲟⲩϩⲁⲙⲟⲟⲩ ⲉⲃⲟⲗ ⲙⲡⲉⲓⲧⲁⲁⲩ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲧⲁⲧⲓ[ ] 9. ⲧⲁⲧⲓ ⲑⲁⲙⲟⲟⲩ ⲉϫⲱ ⲡϫⲱⲱⲗⲉ ⲁ̣ⲥⲇⲟⲕⲉ ⲧⲁϫⲓ ⲛⲧⲟⲟⲧⲕ ⲙⲡⲁⲃⲉⲕⲉ ⲕⲛⲧⲉⲛ[ ] 10. ⲛⲁⲧⲓ ϩⲓ ⲡⲧⲓⲙⲉ ⲧⲁϫⲓ ϩⲱⲱⲧ ⲧⲁⲧⲓ ⲛⲥⲩⲛⲏⲑ̣ⲉ̣ⲓ̣ⲁ ⲟⲩⲗⲁϩⲏ ⲛⲣⲡ ⲁⲥ ⲟⲩⲉ̣ⲓ̣ ⲛⲙⲣⲓⲥ ⲧⲁⲓⲟⲩ[ ] 11. ⲉϥϭⲟⲣϭ ⲧⲁϫⲓ ⲙⲛⲧⲥⲛⲟⲟⲩⲥⲉ ⲛⲕⲁⲇⲟⲩⲥ ⲛⲏⲣⲡ ⲙⲛ ⲟⲩⲕⲟⲧ ⲛⲉⲗⲟⲟⲗⲉ ⲉⲧⲥⲉⲧⲓⲟϩⲉ [ ] 12. ⲟⲩⲓ̈ⲉ ⲛⲁⲕ ϣⲁⲛⲧⲓϫⲱⲕ ⲡ̣ⲭⲣⲱⲛⲟⲥ ⲛⲧⲁⲙⲓⲥⲑⲱⲓⲥ ⲉⲃⲟⲗ ⲉⲓⲕⲓⲛⲇⲏⲛⲉⲩⲉ ⲙⲛ ⲧⲁϩⲉⲡ[ⲟⲥⲧⲁⲥⲓⲥ ⲧⲏⲣⲥ ] 13. + ⲁⲛⲟⲕ ⲡⲉⲧⲣⲟⲥ ⲡⲛⲟⲙⲓⲕ(ⲟⲥ) ⲛⲧⲁϥⲕⲱⲣϣⲧ ⲁⲓⲥϩⲁⲓ ϩⲁⲣⲟϥ ϫⲛ ⲙ̣ . ⲛ̣ⲟⲓ ⲛⲥϩⲁⲓ̣ + (2e m.) ⲙⲏⲛⲁ ⲡ[ ] 14. ⲧⲓⲟ ⲙⲙⲉⲧⲣⲉ ⲉⲧⲉⲓⲙⲓⲥⲑ(ⲱⲥⲓⲥ) ⲛⲧⲁⲓ̈ⲥⲱⲧⲙ ϩⲓⲧⲛ ⲡⲉⲧⲥⲙⲓⲛⲉ ⲙⲙⲟⲥ + [ ] 15. (3e m.) + ⲁⲛⲟⲕ ⲡⲁⲩⲗⲉ ⲇⲓⲁⲕⲱⲛ ⲡϣⲏ ⲛⲡⲙⲁⲕⲁⲣⲓⲟⲥ ⲁⲛ̣ⲁⲧ ̣ ⲟ̣ⲗⲉ̣ ⲧⲓ̈ⲱ ⲙⲛⲧⲣⲉ +

1. Contrat de location (Pl. I) Le début du contrat et sa partie droite manquent. Le texte conservé commence par une description de la propriété louée, qui comprend notamment du matériel agricole, un four, des pressoirs... (l. 4-6). Le locataire s’engage à irriguer les terrains à ses frais, avec ses propres bêtes (l. 6-7) ; les pénalités en cas de non respect des clauses sont exposées ensuite (l. 8). La rémunération du locataire est mentionnée, ainsi que les différents produits agricoles que le contractant devra donner au propriétaire (l. 10-11) ; le locataire engage enfin sa responsabilité financière pour la durée du bail (l. 12). Le document se termine par la souscription du notaire qui a rédigé le contrat et celles des témoins (l. 1315).

3 lire ⲇⲓⲁⲫⲉⲣⲉⲥⲑⲁⲓ (διαφέρεσθαι) 14 ⲉⲧⲉⲓⲙⲓⲥⲑ pap.

Le contrat de location prévoit donc différentes obligations réciproques : le locataire recevra un salaire, mais il devra aussi verser au propriétaire une part des récoltes et lui payer sans doute un loyer. Cette dernière clause n’est pas conservée, mais on la trouve dans deux textes parallèles, P.Ryl.Copt. 158 et 159,3 dont la

« ... 2 ... une année (?) après l’autre... 3 ... qui dépendent de... 4 ... muni de tout équipement... 5 le champ et le pressoir et la presse et les potiers (ou maçons) et le hilastèrion et le ... 6 et le lieu d’apa Mèna, le vendeur de salaisons, je vais les irriguer avec mon bétail... 7 berger(s) (?), je vais leur donner de l’eau douze fois l’été et quinze fois (l’hiver)... 8 (si) je ne la leur ai pas donnée, et si j’ai laissé une portion d’eau et que je ne les leur ai pas donnés, je donnerai... 9 je donnerai la portion d’eau sur les récoltes. Il a été convenu que je prendrai de toi mon salaire... 10 ... au village (?) ; je prendrai moi-même et je donnerai les contributions coutumières : un lahè de vin vieux, un de moût,

1 Seuls deux textes ont été publiés dans Donadoni 1968 (= SB Kopt. I, 283-284). 2 Je remercie vivement M.G. Bastianini, directeur de l’Institut, de m’avoir autorisé à publier ces documents et de m’en avoir fourni des images digitales. Les originaux ont été consultés lors d’un séjour à Florence en 2006. 3 La particularité de P.Ryl.Copt. 158 et 159 est de prévoir un loyer composé d’un montant en argent et d’une part des récoltes (cf. Richter 2009, 451). Ces deux documents sont en cours de réédition par

S. Richter, qui a bien voulu me communiquer son travail ; je l’en remercie vivement. Pour l’aspect légal de la formule des l. 40-41 de P.Ryl.Copt. 158, cf. Amelotti, Zingale 19852, 73.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

cinquante... plat(s) 11 complet(s). Je prendrai douze kadoi de vin et un panier de raisins par sétiohé... 12 comme un paysan (?) pour toi. Jusqu’à ce que j’accomplisse le temps de ma location, je serai responsable sur toute ma fortune... 13 † Moi, Pétros, le nomikos, il me l’a demandé et j’ai écrit pour lui puisqu’il ne sait pas écrire. † Mèna ... 14 je suis témoin de ce contrat de location et j’ai entendu ce qui a été fixé. 15 † Moi, Paulé, le diacre, le fils du défunt Anatolé, je suis témoin. † »

10 ⲛⲥⲩⲛⲏⲑ̣ⲉ̣ⲓ̣ⲁ Les συνήθειαι sont, dans le contexte, des contributions coutumières (cf. Worp 2001 ; Förster 2002, 777-778). Dans P.Ryl.Copt. 158, 37-38, elles consistent en un kération et demi pour un porc, un lahè de vin vieux, un de moût, un diskarion complet, vingt fromages, la quantité nécessaire de pain et d’huile ; dans P.Ryl.Copt. 159, 16-17, elles comprennent deux lahès de vin vieux, cinquante fromages, cinquante paires de pains, deux diskaria complets, une xeste d’huile, un porc de deux kératia. 11 ⲉϥϭⲟⲣϭ La comparaison avec P.Ryl.Copt. 158, 37-38 et 159, 16 (ⲟⲩⲇⲓⲥⲕⲁⲣⲓⲟⲛ | ⲉϥϭ̣ⲟ̣ⲣ̣ϭ ⲉⲃⲟⲗ) suggère qu’il s’agit dans notre document aussi d’un δισκάριον qui est complet (“ standard ” ou “ bien rempli ”) ; cf. aussi SB XVIII 13586, 13-14 : δισκάριον | ἓν ἐξηρτισμένον.

2 ] . ⲛⲥⲁ ⲛⲉⲩⲉⲣⲏⲩ On peut comparer l’expression à celle que l’on trouve dans SB Kopt. III 1401 (contrat de location ; Hermopolis, VIIIe siècle), 3 : [ⲧⲓϩⲟⲙⲟⲗⲟⲅⲉⲓ ⲉⲓⲙⲓⲥⲑⲟⲩ ⲛⲏⲧⲛ ⲉⲡⲉⲭⲣⲟⲛⲟⲥ ⲛ...]ⲧⲉ ⲛⲣⲟⲙⲡⲉ ⲛⲥⲁ ⲛⲉⲩⲉⲣⲏⲩ « je reconnais vous louer... pour une période de... années, l’une après l’autre » (cf. Richter 2002, 127-130).

12 ⲟⲩⲓ̈ⲉ ⲛⲁⲕ Il faut sans doute voir dans ⲟⲩⲓ̈ⲉ une forme de ⲟⲩⲟⲉⲓⲉ, “ paysan ”. 12 ϣⲁⲛⲧⲓϫⲱⲕ ⲡ̣ⲭⲣⲱⲛⲟⲥ ⲛⲧⲁⲙⲓⲥⲑⲱⲓⲥ ⲉⲃⲟⲗ On trouve la même expression dans P.Ryl.Copt. 163, 3 (cf. aussi P.Laur. V 193, 4).

3 ]ⲇⲓⲁⲫⲁⲓⲣⲓⲥⲑⲁⲓ ⲉ[ Le verbe διαφέρεσθαι, “ appartenir ”, est courant dans les contrats de location (cf. p. ex. P.Ryl.Copt. 158, 6). Il s’agit ici d’une mention des droits qui sont attachés aux biens loués.

13 ⲡⲛⲟⲙⲓⲕ(ⲟⲥ) Le νομικός, “ notaire ”, rédige fréquemment les actes privés (cf. Förster 2002, 545-546).

4 ⲉϥϭⲟⲣϭ ⲉⲃⲟⲗ Dans un contrat parallèle, l’expression désigne les diskaria, “ plats ” (cf. P.Ryl.Copt. 158, 37-38) ; ce même usage se retrouve à la l. 11 de notre document. Mais à la l. 4, il doit s’agir plutôt d’une manière de désigner le matériel qui appartient aux biens loués (cf. sans doute P.Ryl.Copt. 170, 2).

2. Contrat de vente à terme de dattes (Pl. II) Une communauté monastique s’engage à fournir des dattes en échange d’une somme d’argent que lui prête apa Aarôn, diacre dans la ville d’Assiout. Ce contrat de vente à terme 4 est intéressant à plus d’un titre. L’identité du débiteur d’abord, que l’on peut déduire du verso : il s’agit d’un monastère d’apa Johannès, qui se situait selon toute vraisemblance dans les environs de la ville d’Assiout, dont est originaire apa Aarôn. Par comparaison avec des textes parallèles,5 on peut estimer que le texte commençait par la mention du dikaion, c’est-à-dire la personnalité juridique du monastère, représenté sans doute par le supérieur et l’ensemble des frères (l. 1). Il faut probablement identifier ce monastère avec la petra d’apa Johannès, située dans les environs d’Assiout et attestée dans quelques textes coptes (cf. Kahle 1954, 24).

4 ⲛ[ . ]ⲁⲣⲧⲏⲥ ⲛⲓⲙ Il faut sans doute lire ici le mot ἐξάρτυσις, “ équipement ”. Le terme est courant dans les contrats de location grecs (cf. p. ex. P.Alex. 32, 10 ; P.Lond. III 994, 12 ; SPP XX 218, 15) ; il désigne l’équipement d’une installation hydraulique. On trouve deux occurrences du mot dans les documents coptes : P.Teshlot 8, 7 (Richter 2000, 135) et P.Ryl. Copt. 158, 20, où se lit la variante ⲛ̣ⲉⲝⲁⲣⲧⲏ̣[ⲥ]ⲓ̣ⲥ. 5 ⲛⲉϭⲁⲧⲉ Il est difficile de définir ce que signifie ici le pluriel du mot ⲉⲕⲱⲧ, “ maçon, potier ”. La ligne mentionne divers lieux qui dépendent des terrains qui font l’objet de la location ; il faut peut-être comprendre qu’il s’agit de fours à potiers ou plus généralement d’ateliers. 5 ⲡⲙⲁ ⲛⲟ[ On peut envisager de restituer ⲡⲙⲁ ⲛⲟⲩⲱϩ “ entrepôt ” (cf. Crum 1939, 507b). 6 ⲧⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ϩⲛ ⲛⲁⲧⲉϥⲛⲟⲟⲩⲉ La formule se lit dans P.Ryl.Copt. 158, 32-33, ainsi que dans le contrat grec P.Grenf. I 58, 7-9. Une séquence similaire se lit dans une lettre copte relative à de l’irrigation (P.Turner 55, 4 : ϯⲛⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲧⲁⲧⲥⲟⲟⲩ ϩⲛ ⲛⲁⲧⲃ̣[ⲛⲟⲟⲩⲉ]).

De nombreux prêts et ventes à terme impliquent des membres du clergé ou des institutions religieuses 6. Le monastère est ici en relation avec un diacre d’Assiout, qui n’est vraisemblablement pas un moine du monastère (on voit mal pourquoi le fait n’aurait pas été indiqué). On trouve une situation similaire dans P.Bal. 102 et 103.7 Dans le premier document, le monastère d’apa Apollô de Bala’izah emprunte à un shaliou du nom d’apa Amrou la somme de 8 sous d’or, destinés à payer les taxes, et s’engage à rendre 6 sous en lentilles et 2 sous en lentilles ou en miel lors des récoltes suivantes. Dans le second,

7 ⲉⲥⲱⲟⲩ Dans P.Ryl.Copt. 158, 32-33, le locataire s’engage à irriguer les terrains avec son bétail, en prenant en charge les frais de nourriture de celui-ci et les salaires des bergers (ⲙⲛ [ⲛⲁⲃ]ⲉ̣[ⲕⲉ] ⲁ̣[ⲙⲏ]ⲟⲩ) ; c’est sans doute la fin du mot ⲙⲁⲛⲉⲥⲱⲟⲩ, “ berger, pasteur ”, qu’il faut lire ici. 7 ⲧⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲙⲟⲩ ⲛⲙⲛⲧⲥⲛⲟⲟⲩⲥ ⲙⲡϣⲱⲙ ⲙⲟⲩ ⲛⲙⲛⲧⲏ ⲗ[ La même expression se lit dans P.Ryl.Copt. 159, 10-11 : ⲧ̣ⲉ̣[ⲡⲣ]ⲱ ⲙⲉⲛ ⲧⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲛⲙⲟⲩ ⲛⲙⲛⲧⲏ ⲁⲩⲱ ⲡϣⲱⲙ ⲧⲁⲕⲱⲧⲉ ⲉⲣⲟⲟⲩ ⲛⲙⲟⲩ ⲛ|ⲙⲛⲧⲥⲛⲟⲟⲩⲥ « l’hiver, je les irriguerai quinze fois, et l’été, douze fois » (cf. aussi P.Ryl.Copt. 158, 33). Le ⲗ à la fin de la ligne ne s’explique pas aisément : on devrait trouver la mention de l’hiver (ⲛⲧⲉⲡⲣⲱ).

4 Sur les ventes à terme, qui s’apparentent souvent à des contrats de prêt, cf. Bagnall 1977, 85-96. 5 Cf. p. ex. P.Bal. 103, 1-4 : + ⲡⲇⲓⲕⲉⲟⲛ ⲛⲡⲙⲟⲛⲟ(ⲥ)ⲧ(ⲏⲣⲓⲟⲛ) ⲉⲧⲟⲩⲁⲁⲃ ⲛⲁⲡⲁ ⲁⲡⲟⲗⲱ | ϩⲛ̅ ⲡⲛⲟⲙⲟⲥ ⲛⲥⲃⲉϩⲧ ⲧⲡⲟⲗⲓⲥ ϩⲓⲧⲟⲟⲧ ⲁⲛⲟⲕ ⲡ|ϣⲁ ⲡⲓⲉⲗ(ⲁ)ⲭ(ⲓⲥⲧⲟⲥ) ⲛⲡⲣⲉ(ⲥⲃⲩⲧⲉⲣⲟⲥ) ⲁⲩⲱ ⲡⲉⲡⲣⲟ(ⲉⲥⲧⲱⲥ) ⲙⲛ̅ ⲡⲥⲉⲉⲡⲉ ⲛⲉⲛⲟ|ϭ ⲛϣⲏⲣⲉ ⲧⲏⲣⲟⲩ ⲙⲡⲙⲟ(ⲛⲁⲥ)ⲧ(ⲏⲣⲓⲟⲛ), « † Le dikaion du saint monastère d’apa Apollô dans le nome de la ville de Sbeht, représenté par Pcha, l’humble prêtre et proestôs, et le reste de tous les grands fils du monastère ». 6 Sur le sujet, cf. Markiewicz 2009. 7 T. Markiewicz estimait que les créditeurs de ces deux documents étaient des moines (Markiewicz 2009, 183) ; je ne vois pas ce qui peut suggérer cette interprétation dans le texte.

8 ϩⲁⲙⲟⲟⲩ Le terme désigne apparemment une portion d’eau (cf. P.Ryl.Copt. 159, 10, voir n. 6). Il s’agit sans doute de la quantité d’eau nécessaire à l’irrigation des champs. 9 ⲁ̣ⲥⲇⲟⲕⲉ Sur l’usage du verbe δοκεῖν, cf. Förster 2000, 206-207. 9 ⲧⲁϫⲓ ⲛⲧⲟⲟⲧⲕ ⲙⲡⲁⲃⲉⲕⲉ ⲕⲛⲧⲉⲛ[ Le locataire devra payer un loyer, mais il recevra également un salaire (cf. aussi P.Ryl.Copt. 159, 8). On lit ensuite la séquence ⲕⲛⲧⲉⲛ[, d’interprétation difficile. Il s’agit sans doute d’une explication de ce qui constituera le salaire. On peut penser à l’unité de poids grecque κεντηνάριον. 10 ⲛⲁⲧⲓ ϩⲓ ⲡⲧⲓⲙⲉ Le sens exact de la formule est difficile à déterminer.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

apa Ammôné prête un sou d’or au monastère, qui le lui remboursera en versant 10 artabes de blé l’année d’après.

10

Les raisons pour lesquelles le monastère d’apa Jean de notre texte emprunte la faible somme d’un sou d’or n’est pas expliquée clairement (l. 7 : “ nous l’avons dépensé pour notre monastère ”) ; il s’agit peut-être du paiement de taxes, comme dans P.Bal. 102. Le contrat pourrait indiquer que le monastère, contraint d’emprunter de l’argent et d’engager ses récoltes futures, éprouvait des difficultés financières. C’est l’interprétation que l’on donne traditionnellement au sujet de P.Bal. 102 ; cependant, le regretté T. Markiewicz a récemment remis cette explication en cause.8 Le manque d’argent liquide n’implique en effet pas automatiquement un problème financier. Si le texte ne prouve pas que le monastère était en proie à des difficultés financières, il le suggère néanmoins.

15

v.

ⲙⲡⲟⲟⲩ ⲉⲧⲉ ⲥⲟⲩ ϣⲟⲙⲛⲧ̅ [ⲛ]ⲉ̣ⲙ̣ϣ̣[ⲓⲣ] ⲛ̅ⲧⲓⲣⲟⲙⲡⲉ ⲧⲁⲓ ⲧⲣⲓⲥⲕⲁⲓⲇⲉⲕⲁⲧⲏⲥ ⲓ(ⲛ)ⲇ(ⲓⲕⲧⲓⲱⲛ) γί(νεται) χρυ(σοῦ) νό(μισμα) α ⲡⲁⲓ̈ ⲟⲩⲛ ⲧⲛϣⲟⲟⲡ ϩⲉⲧⲟⲓⲙⲟⲥ ⲧⲛ̇ⲧⲁⲁϥ ⲛⲁⲕ ⲛ̇ⲃⲛ̅ⲛⲉ ϩⲙ̅ ⲡⲟⲩⲱϣ ⲙⲡⲛⲟⲩⲧⲉ ⲙⲡⲕⲁⲓⲣⲟⲥ ⲙⲡⲃⲏⲛⲉ ϩⲛ̅ ⲧϫⲏⲣⲉ ⲛ̅ⲇⲉⲥⲥⲁⲣⲁⲥⲕⲁⲓⲇⲉⲕⲁⲧⲏⲥ ⲓ(ⲛ)ⲇ(ⲓⲕⲧⲓⲱⲛ) ⲙⲡϣⲁⲁⲣ ⲉϥⲁⲛⲟⲩϩⲉ ϩⲙ̇ ⲡⲡ̣ⲉⲣⲓⲡⲟⲗⲩⲥ [ . . ] ⲛ̇ⲧⲟⲓ̈ⲡⲉ ⲉⲩⲁϭⲱⲗ ⲃⲛ̅ⲛⲉ ⲙ̅ⲙⲟⲥ ⲁ̣ⲩⲱ ⲧⲛ̇ⲧⲓ ⲥⲛⲁⲩ ⲛⲉⲣⲧⲟϥ ⲛⲃⲛ͞ⲛⲉ ⲛ̣ⲁⲕ ⲉϫⲱ ⲡϣⲁⲁⲣ ⲉϥⲁⲛⲟⲩϩⲉ ϩⲁ ϩⲙ ⲡⲙⲟⲛ(ⲁⲥ)ⲧ(ⲏⲣⲓⲟⲛ) ⲛⲁⲡⲁ ⲓⲱϩⲁⲛⲛⲏⲥ +

-

5 ⲙⲙⲟⲕ le premier ⲙ est écrit sur un ⲛ 14 ⲡⲡ̣ⲉⲣⲓⲡⲟⲗⲩⲥ le début de la séquence (ⲡⲡⲉ) a été réécrit sur ⲡⲥⲉ

« ... et le reste des pieux frères du même monastère, nous écrivons à apa Aarôn, le diacre, originaire de la ville de Sioout. Comme je te l’ai demandé, tu nous as donné un holokottinos en or ; nous l’avons dépensé pour notre monastère aujourd’hui, le trois de Mécheir de cette année, la treizième de l’indiction, total : 1 nomisma d’or. Cet argent, donc, nous sommes prêts à te le rendre en dattes, par la volonté de Dieu, à la saison des dattes lors de la récolte de la quatorzième année de l’indiction, au prix qui est fixé dans ... avec l’oipé avec laquelle on collecte les dattes, et nous te donnerons deux artabes de dattes en plus du prix qui est fixé ... (endossement au verso) ... dans le monastère d’apa Johannès. † »

Un détail de notre document me semble important à ce propos : la quantité de dattes que le monastère s’engage à livrer n’est pas encore fixée au moment du contrat. La séquence de la l. 14 précise apparemment qu’elle sera déterminée au prix du marché (cf. le commentaire infra) ; la suite du texte mentionne explicitement une quantité de deux artabes de dattes à payer en plus (l. 16-17), que l’on ne peut expliquer que comme des intérêts. La présence d’intérêts dans les contrats impliquant des religieux a déjà été jugée vraisemblable par T. Markiewicz ;9 elle est désormais attestée au monastère de Baouît10 et dans notre document.

13 ϩⲛ̅ ⲧϫⲏⲣⲉ ⲛ̅ⲇⲉⲥⲥⲁⲣⲁⲥⲕⲁⲓⲇⲉⲕⲁⲧⲏⲥ ⲓ(ⲛ)ⲇ(ⲓⲕⲧⲓⲱⲛ). Le mot ϫⲏⲣⲉ désigne ici le moment où les dattes sont récoltées (cf. Crum 1939, 782a : “ season of threshing ” ; P.Bal. 103, 8 et la note 9 à la page 506 ; cf. aussi P.Bal. 117, 6-7 ; P.Lond. IV 1593, 4-5).

PSI Inv. CNR C 127 17 x 14,5 cm Moyenne-Égypte Nome Lycopolite VIIIe siècle

14 ⲉϥⲁⲛⲟⲩϩⲉ Le verbe ⲛⲟⲩϩⲉ “ séparer ” (au futur ; = ⲉϥⲛⲁ-) est ici utilisé dans une acception particulière, sans doute “ déterminer, fixer ”. On trouve dans P.Bal. 102, 24 une expression similaire, ⲡⲣⲟⲥ ⲡϣⲁⲁⲣ ⲉⲧⲁⲥⲱⲗⲡ, traduite par l’éditeur “ according to the price which shall be determined ”. P.E. Kahle a repris les usages du verbe ⲥⲱⲗⲡ, littéralement “ break, cut off ”, dans les documents coptes (Kahle 1954, 498-500) ; il apparaît que le verbe a parfois le sens de “ déterminer, convenir ”. Un phénomène similaire se rencontre dans notre texte avec ⲛⲟⲩϩⲉ.

Le fragment de papyrus est de couleur beige et de forme rectangulaire. Il porte 17 lignes d’écriture parallèles aux fibres au recto et 1 ligne perpendiculaire aux fibres au verso. Le début et la fin du document manquent.

14 ⲡⲡ̣ⲉⲣⲓⲡⲟⲗⲩⲥ Il faut vraisemblablement voir dans la séquence la préposition περί suivie du mot πόλις. Il existe une toparchie Περὶ Πόλιν dans le nome Hermopolite, mais l’expression renvoie peut-être plus simplement aux alentours de la ville d’Assiout, dont le diacre apa Aarôn est originaire.

L’écriture est bilinéaire et posée, assez ornementée. On peut la dater du e VIII siècle. Le papyrus a été réutilisé pour un compte de poissons (3), noté au verso, sous le résumé.

15 [ . . ] ⲛ̇ⲧⲟⲓ̈ⲡⲉ On peut songer à compléter la lacune en restituant un ϩ de grandes dimensions ([ϩ]ⲛ̇ ⲧⲟⲓ̈ⲡⲉ, “ avec la (mesure) oipé... ”).

5

[ ].[ ]. ⲙⲛ ⲡⲥⲉⲉⲡⲉ ⲛⲛⲉⲙⲁⲓ[ⲛⲟ]ⲩⲧⲉ ⲛ̇ⲥⲛⲏⲩ ⲙⲡⲉⲓⲙⲟⲛ(ⲁⲥ)ⲧ(ⲏⲣⲓⲟⲛ) ⲛⲟⲩⲱⲧ ⲉⲛⲥϩⲁⲓ̈ ⲛ̇ⲛⲁⲡⲁ ⲁⲁⲣⲱⲛ ⲡⲇⲓⲁⲕⲱⲛ ⲡⲣⲙ̅ ⲧⲡⲟⲗⲓⲥ ⲥⲓⲟⲟⲩⲧ ϫⲉ ⲉⲡⲓⲇⲏ ⲛⲧⲁⲓ̈ⲡⲁⲣⲁⲕⲁⲗⲉⲓ ⲙⲙⲟⲕ ⲁⲕⲧⲓ ⲟⲩϩⲟⲗⲟⲕⲟⲧⲧⲛ̇ ⲛ̇ⲟⲩⲃ ⲛⲁⲛ ⲁⲛϫⲟϥ ⲉⲃⲟⲗ ⲉⲡϩⲱϥ ⲙⲡⲉⲛⲙⲟⲛ(ⲁⲥ)ⲧ(ⲏⲣⲓⲟⲛ)

3. Compte de poissons (Pl. III) Le papyrus porte les restes d’un compte de poissons.11 Il a été écrit au verso du contrat de vente à terme (2), sous l’endossement. Comme le contrat a été remis au créditeur, le diacre Aarôn de la ville Lycopolis (Assiout),

8

Markiewicz 2009, 183-184. Markiewicz 2009, 191. 10 Benaissa 2010. 9

11

Sur les poissons dans l’Égypte copte, cf. van Neer, Wouters, Rutschowscaya, Delattre, Dixneuf, Desender, Poblome 2007.

119

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

2 ϘϨϘϴϤϘ Le terme ϘϨϘǼȆϘ est la traduction copte du poisson ȡȕȡĮȝȓȢ (tilapia nilotica) dans le glossaire de Dioscore, l.411 (Bell, Crum 1925 ; cf. Crum 1939, 56b ). Le mot vient de l’égyptien ims’k3 (cf. Dévaud 1929, 6-7 ; Westendorf 1965-1977, 36 ; D’Arcy Wentworth Thompson 1928, 24).

on peut imaginer que le document a été réutilisé dans cette ville. Il n’y a pas, à ma connaissance, de texte parallèle dans la documentation copte, mais on trouve un compte de poissons inédit, bilingue grec-copte, dans la collection de Duke University.12

2 ϨϰϐϢϐ϶ Le substantif ϐϢϐ϶ n’est pas repris dans les dictionnaires ; on trouve dans P.Bal. 322, 7 la séquence ϤϮϦ ϪϰϐҕϢϐ϶, traduite “ Kol for my eye ”. P. Kahle commente : “ it seems extremely probable that ϤϮϦ is the Arabic Kohl with which the eye is ornamented ”. Dans notre texte, il n’est pas possible d’interpréter ϰϐϢϐ϶ comme “ mon œil ”. Le mot sert à définir ou compléter le ϘϨϘϴϤϘ “ tilapia ” ; il s’agit visiblement d’un terme relatif aux poissons. Dans P.Bal. 322, 7, on peut se demander si la séquence ne doit pas plutôt se lire ϤϮϦ[(Ϧϐ)Ϡ(ϮϪ)] ϪϰϐҕϢϐ϶ “ kollathon de ... ”.

Le texte présente un intérêt lexicographique : on y trouve de nouvelles attestations de mots rares (ϘϨϘϴϤϘ /ϘϨϘǼȆϘ, ϤϞϦ), ainsi que quelques mots qui n’étaient pas encore enregistrés dans les dictionnaires (ϐϢϐ϶, ϴЀ϶Ǿ).

4 Ϫſ . Ȅ . . Il faut sans doute lire ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϐ) ϪȄϢϲ “ kollatha de salaisons (ou de sauce de poisson) ”.

PSI Inv. CNR C 127 17 x 14,5 cm Moyenne-Égypte Lycopolis ? VIIIe siècle

5 ϤϞϦ Le mot était connu par une scala (cf. Kircher 1643, 171 ; Crum, 1939, 102a ; Westendorf 1965-1977, 508 ; Bishai 1964, 41). Le texte de Florence fournit la première attestation de ce mot en sahidique. 8 ϲϘ ϘǾϰϮϤϘ La forme ϲϘ doit être rapprochée du poisson ϲϞϢ, alestes dentex (Crum 1939, 287 ; Loret 1892, 29 ; Gaillard 1923, 118). Le poisson est ici défini comme ϘǾϰϮϤϘ, “ léger, mince ”, sans doute “ conservé fin ”, comme dans P.Got. 3, 7 (ǞNjǛǏljǡǙǟ ǕǏǚǞǙ˸).

Le fragment de papyrus est de couleur beige et de forme rectangulaire. Il porte 11 lignes d’écriture perpendiculaires aux fibres. La fin du document manque.

9 ϴЀ϶Ǿ Le mot ϴЀ϶Ǿ signifie “ ce qui est pur, pureté ” (cf. Crum, 1939, 366b-367a) ; le contexte invite ici à y voir un nom de poisson, inconnu jusqu’à présent.

L’écriture est bilinéaire et posée. On peut la dater du VIIIe siècle.

5

10

+ ϺϐϪϐϦЀϨϐ ϨϰǼϞҕ Ϫҕϐϰϐ ϼϐſϞ(Ϧ) ϰϤϮϨϢϴ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϐ) ϪϘϨϘϴϤϘ ϨϰϐϢϐ϶ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϐ) ϪϦϐϒϞϴҕ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϐ) Ϫſ . Ȅ . . ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϮϪ) ϪϤϞϦ + ϐϰϐ ϨϐϠϢϐϴҕ ϰǾǼϞϲϘ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϮϪ) ϪϘҕϨϘϴҕϤϘ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϮϪ) ϪϲϘ ϘǾϰϮϤϘ ϤϮϦ (Ϧϐ)Ϡ(ϐ) ϪϴЀ϶Ǿ + ϰϤϸϲϢҕϴҕ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϮϪ/ϐ) ϪϘϨϘϴϤϘ [ ϤϮϦ(Ϧϐ)Ϡ(ϮϪ/ϐ) ϪϲϘ ϘǾϰϮϤϘ[ -

ϖ ϖ ϖ ϐ

Bibliographie Amelotti M., Migliardi Zingale L. 19852. Le costituzioni giustinianee nei papiri e nelle epigrafi. Milano.

ϐ ϐ ϒ ] ] -

Bagnall R.S. 1977. Price in ‘Sales on Delivery’. Greek, Roman and Byzantine Studies 18, 85-96. Bell H.I., Crum W.E. 1925. A Greek-Coptic Glossary. Aegyptus 6, 177-226.

1 ϼϐſϞ pap. 2-5 ; 7-11 ϤϮϦϠ pap.

Benaissa A. 2010. A Usurious Monk from the Apa Apollo Monastery at Bawit. Chronique d’Égypte, sous presse.

« † La dépense du fils d’apa Chaèl (?), le comte Kollatha de tilapia... 4 Kollatha de labes 4 Kollatha de ... 4 Kollatha de kèl 1 † apa Matthaios, son fils Kollathon de tilapia 1 Kollathon d’alestes conservé fin 1 Kollatha de... 2 † Le maître kollathon/a de tilapia... Kollathon/a d’alestes conservé fin ... »

Crum W.E. 1939. A Coptic Dictionary. Oxford. Donadoni S. 1968. Due lettere copte da Antinoe. Journal of Egyptian Archaeology 54, 239-242. Bishai W. 1964. Coptic Lexical Influence on Egyptian Arabic. Journal of Near Eastern Studies 23, 39-47. D’Arcy Wentworth Thompson 1928. On Egyptian FishNames Used by Greek Writers. Journal of Egyptian Archaeology 14, 22-33.

1 ϺϐϪϐϦЀϨϐ Le compte ne commence pas par un titre, mais directement par une entrée (cf. p. ex. P.Ryl.Copt. 257, 1).

Dévaud E. 1929. Études de lexicographie égyptienne et copte. Kemi 2, 3-18.

1 ϼϐſϞ(Ϧ) La lecture est difficile ; on trouve le nom Chaèl abrégé dans CPR XII 32, 18.

Förster H. 2002, Wörterbuch der griechischen Wörter in den koptischen documentarischen Texten. Berlin.

12

P.Duk. inv. 771, dont l’édition est préparée par F. Morelli et N. Gonis ; cf. Morelli, Schmelz 2002, 136-137.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Gaillard Cl. 1923. Recherches sur les poissons représentés dans quelques tombeaux égyptiens de l’Ancien Empire avec la collaboration pour la nomenclature égyptienne, copte et arabe de V. Loret et Ch. Kuentz (Mémoires de l’Institut Français d’Archéologie Orientale 51), Le Caire. Kahle P.E. 1954. Bala’izah. Coptic Texts from Deir elBala’izah in Upper Egypt. London. Kircher A. 1643. Lingua aegyptiaca restituta. Romae. Loret V. 1892. Notes sur la Faune pharaonique. Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde 30, 24-30. Markiewicz T. 2009. The Church, Clerics, Monks and Credit in the Papyri. In A. Boud’hors, J. Clackson, C. Louis, P. Sijpesteijn (éd.), Monastic Estates in Late Antique and Early Islamic Egypt. Ostraca, Papyri, and Essays in Memory of Sarah Clackson (P. Clackson), 178204. Cincinnati. Morelli F., Schmelz G. 2002. Gli ostraca di Akoris n. 19 e n. 20 e la produzione di ǔǙ˸ǠNj nell’area del tempio Ovest. Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 139, 127-137. Neer W. van, Wouters W., Rutschowscaya M.-H., Delattre A., Dixneuf D., Desender K., Poblome J. 2007. Salted fish products from the Coptic monastery at Bawit, Egypt: evidence from the bones and texts. In H. Hüster Plogmann (ed.), The Role of Fish in Ancient Time. Proceedings of the 13th Meeting of the ICAZ Fish Remains Working Group, 147-159. Rahden, Westphalie. Richter T.S. 2000. Spätkoptische Rechtsurkunden neu bearbeitet (II): die Rechtsurkunden des Teschlot-Archivs. Journal of Juristic Papyrology 30, 95-148. Richter T.S. 2002. Koptische Mietverträge über Gebäude und Teile von Gebäuden. Journal of Juristic Papyrology 32, 113-168. Richter T.S. 2009. Die koptischen Paginae von P.Yale Inv. 1804. Mit einem Anhang zu den koptischen Pachturkunden, Archiv für Papyrusforschung 55 [= Festschrift für Günther Poethke zum 70. Geburtstag (P.Poethke)], 426-453. Westendorf W. 1976-1977. Koptisches Handwörterbuch. Heidelberg. Worp K.A. 2001. Deliveries for ıȣȞȒșİȚĮ in Byzantine Papyri. In T. Gagos, R.S. Bagnall (eds.), Essays and Texts in Honor of J. David Thomas, 51-68. Oakville.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE 1

Contrat de location, PSI Inv. C 20. VIe-VIIe siècles, Nome Hermopolite

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE II

Contrat de vente à terme de dattes, PSI Inv. CNR C 127. VIIIe siècle, Moyenne-Égypte, Nome Lycopolite

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE III

Compte de poissons, PSI Inv. CNR C 127. VIIIe siècle, Moyenne-Égypte, Lycopolis ?

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Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

anche dell’insieme dei documenti riferibili anche alle altre attestazioni. In tutto l’insieme documentario sono illustrati una trentina di santi, nell’ordine alfabetico: Abiou/Abonas, Aganistos, Apater e Irene, Apoli, Ascla, Basilide, Behnam e Sara, Besamone, Ciriaco e Giulitta, Claudio Stratelate, Eusebio, Febamone, Filoteo, Giacomo l’Interciso, Giorgio, Giovanni di Ashmun Tanah, Giovanni e Simeone, Giulio di Aqfahs, Giusto, Isacco di Tifre, Isidoro, Ischirione, Macario, figlio di Basilide, Mena, Mercurio, Orione, Pakene o Patene, Piqosh, Sabino, Sisinnio, Teodoro l’Orientale, Teodoro Stratelate, Tolomeo, Vittore Stratelate. I santi in questione sono tutti accomunati dal fatto di essere santi martiri. I testi che ne tramandano la fisionomia sono quelli che normalmente si riferiscono a coloro che hanno subito il martirio.

I SANTI CAVALIERI NELLA PITTURA MONASTICA COPTA Loretta Del Francia Barocas

Abstract The equestrian saints are broadly represented in Coptic art, to such an extent to be considered one of its distinctive features. They can be found in different media of expression, but above all in the monastic painting. Among the thirty-four personalities of martyrs here identified as equestrian saints, only six are not represented in the monasteries. The history of the evidence of these martyrs reveals that at first some of them are represented standing, or as horsemen receiving the crown in Paradise, at the same time as horsemen engaged in struggle against an enemy belonging to the forces of the evil. Later on, in the Islamic period, they are represented mainly as horsemen in rich military equipment, inspired by different sources, sometimes by a mixture of them, corresponding to the uniforms of the armies acting in Egypt, Roman, Byzantine, Egyptian Muslim, Turkish. Some of the martyrs represented in the first period are subsequently abandoned, some others emerge only in the Ottoman period, but there are many as Theodore Stratelates, Claudius, Victor, Sisinnius, who benefit from a solid continuity. The most meaningful complex is the one of the paintings of 1232/1233 in the Monastery of St. Anthony, where with the image of the saint is commonly represented his church, and scenes of his passion and miracles. Another important evidence, the most recent, dating to 1712/1713, can be found in the paintings of the Monastery of St. Paul. As revealed by their standard position in the monastery, these equestrian saints play the main role of protecting the monasteries and the churches and the Church itself from its great enemies: Diocletian and Julian. The most typical character to understand the value the Copts attributed to the images, is that of St. Mercurius. In fact it is his image in a wall painting to kill, for divine command, the impious emperor Julian.

All’indomani della fine delle persecuzioni, la Chiesa avviò un’operazione di raccolta degli atti dei processi che si erano svolti e di messa a punto di calendari. Si ritiene che in Alessandria abbia avuto sede una scuola di agiografi, che curò la redazione in greco delle vicende connesse con il martirio, dapprima in una forma sobria e concisa, successivamente in una maggiore estensione e con abbondanza di particolari. È una letteratura di grande interesse, che soltanto di recente ha trovato presso gli studiosi l’attenzione che merita. Il numero di manoscritti che sono giunti a noi sull’argomento è veramente notevole, costituendo gran parte della produzione letteraria dell’Egitto cristiano. Dal greco poi, molti testi furono tradotti in copto, seguendo l’orientamento del paese, che promosse un vasto programma di traduzione di testi religiosi in copto, anche per il fondamentale impulso di Shenute e l’apporto dello Scriptorium del monastero Bianco. Nell’opera di traduzione, molti testi subirono adattamenti: una visione copta di tali vicende prese corpo probabilmente con maggiore evidenza. Alcuni testi furono redatti in copto e solo in questa lingua ci sono pervenuti. Con l’occupazione islamica del paese si fece strada l’uso della lingua araba, finché, nel momento in cui divenne prevalente, anche la Chiesa copta se ne avvalse. Nella prima metà del XIII sec. fu avviata in Alessandria la redazione del Sinassario, elenco dei santi venerati ciascun giorno dell’anno, diviso in due parti, per il primo e per il secondo semestre. Successivamente anche la Chiesa etiopica, tributaria di quella copta, si dotò di un suo Sinassario, in ge’ez, dapprima sulla falsariga di quello copto-arabo, e probabilmente elaborato nel Monastero di S. Antonio, poi in una traduzione più libera, che incorpora il portato di testi siriaci e lascia uno spazio maggiore a varianti locali. Il ricorso alla consultazione del Sinassario etiopico è utile quando non sia possibile reperire notizie in quello coptoarabo di alcuni personaggi, che non vi figurano. Inoltre alcune vicende riguardanti santi anche molto noti ed alcuni miracoli loro attribuiti si trovano solo nel Sinassario etiopico, che diventa quindi indispensabile strumento per la comprensione di alcune immagini tramandate in Egitto.

La produzione figurativa dell’Egitto copto tramanda numerose immagini di santi cavalieri.* La presente indagine si propone di chiarire la fisionomia di tale attestazione, quali personalità siano viste in questo aspetto, quali sono le trasformazioni che subiscono attraverso i tempi, quali rapporti si possono rilevare con i testi relativi. In questa sede si tratterà in particolare della pittura delle fondazioni monastiche, tenendo conto però

                                                             *

 Si anticipano qui i risultati di una trattazione monografica di maggiore ampiezza, di prossima pubblicazione.

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Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

La nostra conoscenza della materia concernente i testi poggia su alcune opere cui conviene qui rinviare, data l’estensione e la varietà delle fonti con cui abbiamo a che fare. E.C. Amélineau (1890) pubblica gli atti dei martiri della Chiesa copta, a partire dai dati offerti dal Sinassario copto-arabo e con l’attenzione portata ai luoghi del martirio e del culto; individua il costituirsi di cicli, in cui sono accomunate le vicende di alcuni personaggi. H. Delehaye, Bollandista, pubblica uno studio fondamentale (1922) sui martiri d’Egitto, sulla base del Martirologium Hieronymianum e del Sinassario copto-arabo. Prende in considerazione le fonti in greco, in copto, in arabo. Uno degli intenti del suo lavoro, che si inserisce nella meritoria opera dei Bollandisti per la conoscenza delle figure dei santi in tutto il mondo cristiano e che trova spazio nel periodico Analecta Bollandiana, è quello di dirimere, nel contesto dei racconti tramandati, quanto vi sia di storicamente accaduto e quali personaggi siano realmente esistiti. L’approccio conduce ad un giudizio estremamente negativo di questa letteratura.

pari si individuano cicli; illustra altresì diverse figure di santi. La sua opera rivela l’intento di collocare questa produzione in una prospettiva diacronica, entro i limiti, che egli fissa tra il IV e il IX secolo. Traccia dunque la sua storia attraverso i secoli, argomentando la ricostruzione con esempi di testi di passioni e di encomi, a partire dal IV-V sec. Da questo profilo diacronico, mai prima delineato, scaturiscono diversi elementi di interesse, come quello della collocazione di molti testi entro le aree cronologiche identificate, il costituirsi di cicli, quali più, quali meno noti, alcuni dei quali testimoniati solo nel mondo copto, che spesso documenta questi accostamenti anche nella produzione figurativa. Mette in rilievo anche l’importanza acquisita dallo scenario di Antiochia, con la quale Alessandria vuole intrattenere un rapporto. Propone l’individuazione di alcuni cicli: l’antico ciclo di Antiochia, cui appartengono i santi militari Claudio e Vittore, nonché Cosma e Damiano; il ciclo dei Teodori, con i santi militari Teodoro l’Orientale e Teodoro Stratelate; il ciclo di Basilide con Eusebio, Ter e Erai, Macario, Giusto, Apoli, Besamone; il ciclo di Giulio di Aqfahs, che raggruppa i santi di cui trascrisse le passioni, fra cui i santi militari Giovanni e Simeone. Indica poi, al di fuori della collocazione in cicli, l’esistenza di passioni di redazione tarda e tipicamente copte, fra cui quelle dei santi militari Filoteo, Isacco di Tifre, Iule e Tolomeo, Piqosh.

Tuttavia, molti elementi da lui posti in luce rimangono ancor oggi condivisi: la dipendenza delle passioni copte da quelle greche, l’esistenza di una scuola di agiografi in Alessandria, l’individuazione di racconti, che egli chiama passioni epiche, che narrano in maniera ripetitiva lo svolgimento di questi martirii, con un tracciato di episodi, che vengono riferiti a questo o a quel protagonista, con scarsi adattamenti e poche varianti, questo non solo a proposito di figure che si suppone siano di origine egiziana, ma anche per martiri provenienti da altre aree del mondo cristiano. Fra le annotazioni che più interessano, per il nostro argomento, è quella che l’Egitto testimonia una grande predilezione per i santi cavalieri. I. Balestri e H. Hyvernat pubblicano (1955) gli atti dei martiri per il Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium. Hyvernat aveva già studiato (1886-1887) i manoscritti copti della Biblioteca Vaticana e del Museo Borgiano. De Lacy O’Leary pubblica un’opera sui santi d’Egitto (1937), con un’introduzione seguita da un catalogo alfabetico. Egli sottolinea gli elementi comuni a molte passioni, che ritiene possano essere degli stessi autori e traccia una connessione di figure di santi con culti precedenti, nonché una loro sopravvivenza nel mondo islamico. Th. Baumeister ha il merito di aver posto in luce la specificità egiziana di alcuni elementi, che solo nel mondo copto è possibile rilevare. La sua opera, Martyr invictus (1972), che nasce nel clima di ricerche basilari nel campo della religione egiziana, è utile per comprendere come alcuni elementi, che vanno a definire quello che egli chiama koptischer Konsens, siano caratteri tipici dell’Egitto, ad esempio quello della vita che spesso morti reiterate non valgono a spengere, ma che più volte si rinnova. Questo porta a credere che, pur riconoscendo una filiazione dalle passioni greche, si vada poi a costruire una visione che eredita tratti della tradizione egiziana. T. Orlandi, la cui analisi ho fin qui ripercorso (1992), tratta nella Coptic Encyclopedia dell’agiografia copta, della letteratura e dei cicli che in essa trovano posto, della letteratura omiletica, in cui del

Nell’illustrazione degli encomi, produzioni che sono attribuite ad un autore, quale effettivo, quale fittizio, si ripropone la prospettiva diacronica, disegnandone i caratteri nei vari periodi. Quelli di sicura attribuzione e riferiti a santi militari sono l’encomio su Claudio e Giorgio di Costantino, vescovo di Assiut, su Mena di Giovanni di Alessandria, i due di Febamone di Shmin e di Isacco di Antinoe. Anche le redazioni di miracoli sono conservate, ad esempio quelli dei santi militari Febamone, Mena, Mercurio e Vittore. Al culto dei santi in Egitto, dai Bizantini agli Abbassidi, è dedicato lo studio di A. Papaconstantinou (2001), che si prefigge di analizzare due tipi di fonti: i papiri documentari e le fonti epigrafiche, dando vita ad un’opera che costituisce un ottimo strumento di ricerca. Va rilevato che le campagne di restauro condotte nelle pitture delle fondazioni monastiche, vasto programma tutt’ora in corso, hanno rivelato iscrizioni di grande interesse, in quanto menzionano santi fino ad oggi sconosciuti e riportano i nomi degli esecutori, nonché quelli dei committenti, talvolta gruppi di committenti, che si assunsero l’onere dell’esecuzione, nella speranza di una ricompensa nei cieli. È dunque auspicabile che, in aggiunta alle ottime pubblicazioni specificamente dedicate a tali restauri, veda presto la luce un corpus di epigrafia copta dedicato al periodo islamico, una pagina estremamente significativa della civiltà copta. Dai testi che riportano i racconti delle passioni dei martiri e dagli studi dedicati all’agiografia copta emerge che nelle cosiddette passioni epiche le vicende riportate si articolano in un susseguirsi di episodi spesso analoghi, o

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Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

addirittura identici, che rispettano una sequenza prestabilita. Il nucleo centrale del racconto è costituito dalla vocazione del personaggio a esplicitare la sua fede cristiana, dall’invito a recedere da parte di un alto funzionario preposto a ciò, di norma un governatore, quando non addirittura dall’imperatore stesso. Al fermo rifiuto opposto, talvolta con i toni della sfida e del disprezzo nei confronti della religione del potere, segue un giudizio davanti ad un tribunale e la condanna a subire torture, onde ottenere un atto di adorazione alle divinità.

Nelle passioni greche, poi latine del periodo delle crociate sono stati identificati testi che illustrano per il santo: conceptio, nativitas, vita, miracula, martyrium, cui si accompagnano homeliae, laudationes, sermones. Questo corrisponde alla natura dei testi sui martiri in questione. Vengono elaborati perché ne sia data edificante lettura nel dies natalis del santo, il giorno in cui ha subito la morte definitiva, meglio se nel santuario a lui dedicato, o in una chiesa, cappella, fondazione monastica a suo nome, secondo la promessa che viene pronunciata dal Cristo stesso al martire per incoraggiamento. In quel giorno, nel suo topos, luogo di culto, una pienezza di benedizioni scenderà su ciascun visitatore che intenzionalmente vi si rechi. Sono quindi una base importante per la liturgia del giorno, cui corrispondono, sul piano figurativo, le icone, soprattutto le icone vitae, che si compongono di un riquadro centrale con la grande immagine del santo e tutt’intorno, a mo’ di cornice, una serie di quadretti laterali illustranti la vita, la passione, i miracoli del santo. Se ne veda un raro esempio nella grande icona di S. Mercurio, nella chiesa del Monastero omonimo nel Vecchio Cairo (Fig. 1).1 Il popolo desideroso di ottenere i benefici promessi si reca al santuario, comunque al luogo di culto intitolato, per assistere alla liturgia del giorno e per ripercorrere con gli officianti le vicende del santo. Se ne invoca dunque la protezione, specialmente se nel luogo si trovano il corpo o reliquie del santo. Oggetti o immagini del santo portati con sé per porli a contatto con tali resti santi, si caricheranno, nella convinzione popolare, di poteri benefici. Si vengono a creare, per taluni personaggi, luoghi di pellegrinaggio, basti per tutti l’esempio di S. Mena, il santo più famoso in Egitto come autore di miracoli, per il quale viene edificato in Karm Abu Mina nel Mariut un complesso tripartito, consistente nella chiesa sulla tomba ipogea, nella grande basilica, e nel battistero, che divenne il cuore del centro di pellegrinaggio più celebre dell’Egitto cristiano.

Le torture sono numerose e sempre più terribili. Dopo aver subito questi trattamenti, il protagonista viene gettato in carcere, dove, per intervento divino viene risanato e incoraggiato a proseguire con fermezza il suo cammino di testimonianza. A volte vengono adoperate lusinghe di ricchezze ed onori, che il protagonista può fingere di accettare, allo scopo di distruggere gli idoli e convertire gli allibiti spettatori. Lo scenario in cui si svolgono le prove è infatti sempre più ampio, onde accogliere il maggior numero possibile di testimoni, fino a giungere al teatro cittadino. Visto infine inutile ogni tentativo di convincimento, il giudice ha due vie: o inviare il personaggio ad un altro tribunale, o all’imperatore in persona, oppure procedere all’esecuzione. Il santo viene messo a morte. Per gli agiografi copti, però, non finisce qui. Per taluni personaggi, si riferisce che, per intervento divino vengono riportati in vita, ancorché dallo stato di ceneri disperse al vento, per poter poi affrontare una nuova esecuzione. Si adopera talvolta, dopo la serie di estenuanti prove, l’espressione di «stanco della morte». Da ultimo, avviene l’esecuzione finale. La forma preferita è la decapitazione, talvolta però il santo viene annegato nel Nilo, pratica che per l’egittologo è densa di significati. Il corpo viene poi reclamato da un familiare, o attendente, o fedele. Miracolosamente diviene candido ed emana un soave odore. Avviene che il luogo di sepoltura rimanga per qualche tempo segreto. Verrà miracolosamente rivelato dal santo stesso che lo comunica in sogno o si renderà manifesto dal fatto che si verificano sul luogo eventi miracolosi. La sepoltura avverrà in un ambiente dedicato, che può essere un semplice tetrapylon, o cappella, ma che poi lascerà il luogo ad un vero e proprio santuario. Questo è il nucleo essenziale del racconto agiografico nel mondo copto. Ogni fase dei crudeli trattamenti subiti dal protagonista e dei successivi risanamenti è accompagnata da conversioni, degli esecutori, degli astanti, dei seguaci del santo, a decine, a centinaia, colpiti non solo dai prodigi, ma dal suo indomito coraggio. È invece singolare che governatori e sovrani non siano impressionati più di tanto da queste clamorose resurrezioni, che vengono ritenute opere di magia. Attorno alla passione del santo vengono poi a delinearsi testi di diversa natura, che, per quanto ci risulta, non vengono elaborati per tutti i martiri, ma soltanto per quelli più insigni, il cui culto è maggiormente praticato.

Il portato dei testi costituisce un insieme in parte coincidente, in parte divergente rispetto a quello delle immagini. Queste rispecchiano e parzialmente integrano quanto dai testi ci viene trasmesso, affiancando il percorso delle trasformazioni che nel tempo si verificano, echeggiando la costante fortuna di alcuni personaggi, come pure la diversa fortuna di alcuni di essi attraverso i secoli. Infatti, pur tenendo conto delle lacune della documentazione, che successivi studi o scoperte potranno colmare, si osserva che alcuni martiri sono presenti soltanto nelle più antiche attestazioni figurate, altri per contro emergono soltanto nelle più tardive. Molto resta ancora da fare nello studio di questa così interessante materia: vi è ancora un cospicuo materiale inedito sia nel campo dei manoscritti, sia nel campo delle icone. Da questi studi potranno certamente emergere dati nuovi, come dai restauri delle pitture monastiche, che hanno permesso di aggiungere al dossier voci nuove,2 tuttavia il quadro che oggi ci risulta presenta una grande coerenza

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 Skalova, Gabra 2001, n. 11.  Bolman 2002 e Bolman 2008; Lyster 2008.

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ed eloquenza. La storia degli studi nel campo delle rappresentazioni è molto più magra rispetto a quella dei testi. Ha pesato probabilmente il preconcetto, ancor oggi vigente nel campo degli studi copti, che alle immagini vada assegnato un ruolo secondario e generalizzata è l’incapacità di leggerle in modo corretto. Pochi studi possiamo dunque citare al riguardo: si tratta di brevi articoli, il cui contributo, dunque è di breve respiro. Alle pubblicazioni relative alla pittura monastica, a partire da quelle del Leroy e del van Moorsel per giungere a quelle della Bolman e del Lyster, attingiamo invece elementi significativi, di cui è necessario tener conto.

rimane anonimo, non identificato, non identificabile. Per quanto risulta dall’insieme della documentazione i santi maggiormente raffigurati sono Giorgio, Mercurio, Teodoro Stratelate. Grande è anche l’incidenza delle rappresentazioni di Mena, ma soltanto in parte rientrano nell’iconografia del santo cavaliere; è presente e molto diffusa anche l’iconografia del santo come figura giovanile stante, in posa di orante, fra due cammelli che si dispongono accovacciati ai suoi piedi. Sono spesso rappresentati Claudio, Vittore, Sisinnio. Più rare le altre figure. Vi sono infine martiri che sono rappresentati, come cavalieri, almeno a quanto mi risulta, una sola volta: Aganistos, Ascla, Orione, Piqosh, Sabino.

Immagini di santi cavalieri pervadono tutti i campi di espressione dell’arte copta: pittura parietale, manoscritti illustrati, icone, rilievo in pietra, in legno, in avorio e osso, ceramica dipinta e a stampo, produzione tessile, bronzi. In questa sede si studierà la documentazione relativa alla pittura monastica, come l’attestazione più significativa in cui si percepisce meglio la storia di queste immagini, nel loro nascere e nel loro divenire. Si apprezzerebbe del pari nelle icone, la cui documentazione rimane ancor oggi preziosa, ma tale patrimonio ricchissimo e multiforme è stato depauperato per motivi diversi e delle icone più antiche sono conservate scarse testimonianze. Dal 1700 in poi, data dalla quale cominciano ad essere conservate e a divenire più numerose e, per il nostro assunto, più significative, alcune trasformazioni sono già in atto; ne cogliamo quindi non tanto il divenire, quanto i risultati. Di qualità più modesta, le illustrazioni di manoscritti, che però possono presentare una maggiore aderenza al dettato dei testi. Il rilievo annovera nicchie e lastre in pietra di utilizzazione architettonica, parti di mobili in avorio, una pisside anch’essa in avorio, rilievi lignei, come pannelli di porte e di iconostasi. In ceramica sono le ampolle di S. Mena, in cui rara, ma presente è l’immagine del santo come cavaliere, una lampada in ceramica. Rara l’incidenza nella produzione in bronzo. Il tessuto comprende diversi esemplari appartenenti alle fasi più recenti della produzione. Si segnala una categoria di tessuti di uso liturgico, in lino con ricami in seta, talvolta con iscrizioni in arabo: negli esemplari di questo tipo compaiono uno o due santi cavalieri che trafiggono un serpente o un drago: si tratta per lo più di S. Giorgio e di S. Teodoro Stratelate. Nelle immagini, l’identità dei santi cavalieri è segnalata spesso dalle iscrizioni che portano il loro nome e la loro qualifica, preceduti dall’appellativo aghios, qualche volta apa, qualche volta entrambi. In mancanza, sono gli elementi di contesto a renderli riconoscibili, spesso con molta chiarezza. Il problema dell’identificazione rimane quando siano assenti gli uni e gli altri elementi, oppure quando, in un clima di condivisione di incombenze e di attributi, che talvolta si rileva anche in altri ambiti, resti solo l’iscrizione a permettere l’identificazione. Se manca, non è possibile stabilire di quale santo si tratti. Una certa importanza è rivestita anche dagli abbinamenti e dagli accostamenti che gli artisti operano fra i santi cavalieri. Ma infine bisogna ammettere che un nutrito stuolo di essi

La pittura parietale si attesta soprattutto nelle chiese delle fondazioni monastiche, dove l’immagine del santo cavaliere si fa gradualmente strada, fino a divenire presenza indispensabile. Il periodo più antico di attestazione è probabilmente da collocarsi al V-VII secolo. Nel sito monastico dei Kellia, sede di un monachesimo di matrice eremitica, la presenza di un santo cavaliere si rileva, ad esempio, nel Kom 306, ambiente 5 dei Qusur ar-Rubaiyat. Che si tratti di un santo cavaliere non vi sono dubbi: porta infatti la lunga asta che è l’attributo più usuale di tali personaggi. Si discerne la presenza di alcune figure di contesto e dietro il cavaliere vi è traccia di un altro cavallo. Si segnala in altri ambienti del complesso la presenza di altre figure di cavalieri. La pittura è datata alla fine del VII sec.3 Nel convento dell’Apa Geremia di Saqqara, al momento della scoperta, sono state segnalate figure di santi cavalieri, di cui però non ci sono pervenute illustrazioni. Furono rinvenute in diversi ambienti e talvolta sono accompagnate da iscrizioni. Quelle che è stato possibile identificare con certezza rappresentano Teodoro Stratelate, che figura, ad esempio, nell’ambiente 1772S, il cortile del pulpito, e nel 1735, dove si dice che uccide un serpente o un drago e un’iscrizione porta il suo nome.4 Le pitture sono datate fra il VII e il X secolo. Ma il primo insieme documentario di una certa ampiezza che la pittura monastica ci abbia conservato, in qualche caso solo a livello di fotografie e di acquerelli eseguiti al momento del rinvenimento, mentre le pitture, liberate dalla sabbia, rapidamente cadevano in disfacimento, è quello del monastero di Bawit. Qui dobbiamo segnalare due aspetti interessanti: le pitture delle cappelle di Bawit documentano la presenza di un gran numero di santi di ogni estrazione. Alcuni di loro sono santi monaci, altri santi militari. Questi ultimi, fra cui sono comprese figure ben note, sono mostrati in teorie di personaggi stanti, in abbigliamento militare e in atteggiamento di oranti o con l’asta crociata, come si osserva, ad esempio, nella cappella XVI, parete Nord,5 altri, fra cui sono personaggi

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 Rassart-Debergh 1993, 96, fig. 34.  Quibell 1912, 7-8 e 21. 5  Clédat 1999, figg. 144-145. 4

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meno noti, sono mostrati a cavallo, con le mani levate nel gesto dell’orante (Fig. 2) o con l’asta crociata, come si può osservare sulla parete Ovest della medesima cappella.6 Le pitture di questa cappella sono dunque molto significative per comprendere il fenomeno del passaggio delle rappresentazioni dei santi da personaggi stanti a cavalieri. Si può osservare inoltre che di norma essi sono rappresentati in un giardino paradisiaco, dove ostendono una corona trionfale che racchiude la croce, ricevono, da mano celeste, le corone del martirio o per altri meriti, rendono omaggio ai padri del convento, Apollo, Phib e Anup, convergendo in dimensione ridotta verso la loro cattedra, come illustra una bella lunetta dipinta, che è stata distaccata ed è oggi conservata nel Museo Copto del Cairo.7 In questo più antico periodo di attestazione (V-VII secolo), le connotazioni delle rappresentazioni sono quindi molto scarne. Dato il cattivo stato di conservazione di tali pitture, molte figure di cavalieri rimangono anonime: fra queste i santi cavalieri della cappella XXVI, in cui le figure meglio conservate sono dotate di asta crociata e mostrano la croce trionfale; la parete Nord di questa cappella porta una lunetta dipinta, in cui verso un cavaliere di dimensioni maggiori e in atteggiamento di orante avanza un cavaliere minore con asta crociata e croce trionfale. Anche nella cappella LI, un grande ambiente, probabilmente un oratorio, erano raffigurati santi cavalieri, in abiti sfarzosi, in processione intercalata da un personaggio stante, dal nimbo quadrato.

Porta nella sinistra uno scudo ovale, con al centro un motivo cruciforme, nella destra una lunga lancia, che affonda nel petto di una donna seminuda, che sta cadendo a terra sul dorso: la scena presenta molti altri personaggi: in alto a destra una giovane con ali e parte inferiore del corpo serpentiforme; al disotto, un centauro; sulla sinistra in alto, solo parzialmente conservato, un bambino e poi un leopardo, una civetta, un coccodrillo, e, secondo l’interpretazione del Perdrizet, che ha dedicato a questo dipinto uno studio,9 un malocchio trafitto da un pugnale e attaccato con la coda da uno scorpione, da due serpenti e da un ibis con il lungo becco. L’ambientazione presenta sul piano di calpestio e sullo sfondo, piante con bacche rosse; sulla destra, una pianta con fiore a campanula è uguale a quelle presenti nella rappresentazione di Febamone, che si trovava dal lato opposto della nicchia. Permangono iscrizioni in copto, che lasciano identificare i personaggi. La donna colpita a terra è definita con il nome di Alabasdria, quella più giovane in alto a destra come la figlia di Alabasdria. La rappresentazione è ispirata al racconto delle vicende del santo. Alabasdria è una maga, capace di trasformarsi assumendo sembianze diverse e per uccidere i bambini. La sorella del santo, che ne aveva dati alla luce sei e tutti le erano stati uccisi, quando le è ucciso anche un neonato, il settimo, chiama in aiuto il fratello Sisinnio, che costringerà la maga a riportare in vita i piccoli: per far questo richiederà del latte della madre. Il racconto ci permette di ricostruire il significato della scena, ma l’artista introduce liberamente gli elementi di contesto, che richiamano il mondo della magia nera. Era necessario dedicare qualche parola a questa rappresentazione, perché apre un nuovo capitolo relativo ai santi cavalieri. Anche Febamone era un santo autore di miracoli di guarigione, ma non se ne trasmette il ricordo qui, mentre Sisinnio è rappresentato come un cavaliere impegnato nella lotta contro il male, qui impersonato da una donna autrice di pratiche magiche, per la salvezza dei bambini. Da questo momento in poi si moltiplicano le immagini di santi in combattimento contro il male. I nomi di santi cavalieri conservati a Bawit sono quelli da Abonas, Sabino, Orione, Ascla, nella cappella LI,10 Febamone e Sisinnio nella cappella XVII. Anche dagli scavi delle chiese sono emerse immagini di santi militari: S. Giorgio figura stante in una pittura su fusto di colonna, dal colonnato Nord della chiesa Nord, mentre su una colonna del colonnato Sud della medesima chiesa, si conserva la parte inferiore di un’immagine di santo cavaliere su cavallo bianco, mentre con la sua lunga lancia trafigge un serpente.11 L’interesse della figura risiede nella sua elevata qualità artistica, nel fatto che, nella mia opinione, è fra le più antiche immagini di questo schema, nel fatto che occupi una sede inconsueta, cioè compaia sul fusto di colonna di una

Si segnalano poi le splendide figure rappresentate nelle vele angolari della cappella XVII, che probabilmente è quella in cui il livello qualitativo delle pitture è più alto. Sulla parete Ovest di questa medesima cappella8 sono infatti le due figure più belle e significative di questo monastero: S. Febamone e S. Sisinnio. S. Febamone (Fig. 3), identificato come il santo di Awsim, incede su un cavallo bianco verso destra: indossa un mantello rosa fermato da una fibula, su una tunica con bande decorate sulla spalla e sui polsi; porta sul capo un piccolo diadema, il volto è di prospetto; tiene con la destra l’asta crociata e alza nella sinistra una corona ingioiellata, un’altra corona, più piccola, come un anello ingioiellato, gli è offerta da un angelo, l’angelo del Signore, come segnala l’iscrizione, che scende in volo verso di lui, portando anch’egli un’asta. Siamo in presenza della più antica redazione del motivo: nelle figurazioni più tarde sarà la mano divina a porgere l’anello, spesso dagli angoli superiori della rappresentazione. Il santo procede in un giardino paradisiaco: sul piano di calpestio e intorno alla sua figura sono piante con campanule floreali. Su questa stessa parete era la rappresentazione di S. Sisinnio (Fig. 4): non è più conservata e dalla fotografia eseguita al momento della scoperta, risulta acefala. Il santo avanza su un cavallo chiaro riccamente bardato; è vestito con un ricco abito: un mantello portato su una tunica corta, con clavi e orbiculi, pantaloni terminanti con una banda decorata; in vita è una cintura rossa annodata a fiocco.

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 Perdrizet 1922.  Nella stessa cappella i santi militari rappresentati stanti sulla parete nord portano i nomi di: Vittore, Febamone, Giorgio, Ciriaco, Epimaco, Nahru, Antoino (sic, forse Antonino), Giulio il Kometaresios, Kureu e Alli. È interessante che ciascun nome sia preceduto dai titoli o aghios apa. Clédat 1999, 158-159, figg.144-145. 11  Clédat 1999, figg. 191-193. 10

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 Clédat 1999, figg. 138, 139,141.  Gabra, Eaton-Krauss, 2008, 87, n. 1290. 8  Clédat 1999, figg. 102-104. 7

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chiesa. Con le pitture di Bawit ci è tramandato quindi il più antico complesso di immagini di cavalieri nella pittura monastica, dove si colgono le premesse degli sviluppi futuri.

miglior sorte, perché alcune sono state distaccate e si trovano nel Museo Copto del Cairo (Fig. 5).16 Sulla parete occidentale, a destra dell’ingresso e sulla parete settentrionale della navata furono rinvenute fra l’altro figure di santi cavalieri. Di alcuni di essi è perduta la parte superiore, in una teoria procedente verso destra.17 Sembra sovrapporsi ad esse un quadretto di dimensioni minori, ben conservato, in cui figura un santo cavaliere, che avanza verso destra.18

Le ricerche svolte nel 1899 da Grenfell e Hunt e nel 1933 da Anti e Bagnani nel sito di Umm el Breigat/Tebtynis hanno portato in luce materiali che dovettero essere considerati di scarso interesse, essendo obiettivo principale la ricerca dei papiri. Si tratta invece di pitture da fondazioni monastiche che rivestono un grande valore anche dal punto di vista artistico. Dai quaderni di Grenfell e Hunt, C.C. Walters trasse le notizie da lui pubblicate, con le illustrazioni delle pitture rinvenute.12 Le notizie riportate possono essere interpretate con una certa attendibilità, sulla base dell’esperienza delle ricerche presenti. Una volta stabilito che le immagini dei santi cavalieri possono essere collocate di norma nel khurus, oppure nell’area di ingresso di una chiesa, potremo dare un senso alla localizzazione di esse; dopo la descrizione della composizione delle pitture dell’abside, si parla infatti delle pitture conservate «in the west wall of the second room».13 Si tratta, a mio avviso, della parete occidentale del khurus. Qui è rappresentato S. Teodoro Stratelate, riconoscibile per la presenza del drago, dei due giovani che gli sono stati offerti in sacrificio, e della loro madre, che supplica il santo per la loro salvezza. Particolarmente imponente è la figura del drago, che si erge davanti al cavallo e che il santo è obbligato a trafiggere puntando la lancia, in modo inusuale, verso l’alto. L’altra pittura estremamente frammentaria di santo cavaliere che risulta anonimo, può essere letta perché nel quaderno è annotato il nome di S. Sisinnio. Tale è, a mio avviso, l’identità del cavaliere. Quanto rimane14 è la parte inferiore di un cavallo nero. Al di sotto è un essere a testa e busto umani e lunghissimo corpo di serpente. Al di sopra del capo è la scritta Mastema, il demonio in persona. Il santo sembra dominarlo tenendolo al laccio. Le pitture sono molto simili, possibilmente eseguite dal medesimo artista. Alla destra della pittura è l’iscrizione copta, che in parte è visibile nella fotografia e che è stata completamente trascritta all’inizio del quaderno. La riporto qui per intero, ricca com’è di dati preziosi:15 «Signore Gesù Cristo, benedici e custodisci la vita del nostro fratello Papas, figlio di Mercurio, poiché ha donato a questo Arcangelo attraverso le sue fatiche, così che il mio Signore Gesù Cristo possa dargli le sue ricompense centuplicate nella Gerusalemme Celeste, la città di tutti i giusti. Amen. Così sia. A.M. 669», il che fornisce la data del 953 d.C. In altra parte del quaderno è riportato il nome dell’arcangelo Michele e il Walters ipotizza a buon diritto che a lui fosse intitolato il monastero. Vi sono anche altre immagini di santi cavalieri in lotta contro esseri del male, ma sono in cattivo stato di conservazione. Le pitture rinvenute dalla missione italiana, con la direzione sul campo di G. Bagnani, hanno avuto per noi

Intorno all’anno mille sono collocabili le pitture rinvenute nel Monastero dell’arcangelo Gabriele a Naqlun, nel Fayyum. Un’iscrizione di fondazione ed una commemorativa della visita del vescovo Giacomo di Atfil che porta la data del 1033 fanno assegnare queste pitture all’inizio del millennio. Lo schema cui si ispira la decorazione pittorica presenta tratti di originalità, così pure la scelta dei cavalieri rappresentati. Essi sono raffigurati nel nartece, dove si trovano due santi affrontati; altri figurano sulla parete settentrionale della navata sinistra, dove un santo cavaliere avanza verso l’arcangelo Gabriele, titolare del monastero; seguono poi altri due santi contrapposti. Si riconoscono Mercurio, Teodoro, probabilmente Giorgio e Claudio, ma vi è anche una rappresentazione unica di Piqosh, il cui nome, secondo il Gardiner significa il nubiano (Fig. 6).19 In queste pitture si attesta l’uso di raffigurare al disotto delle zampe del cavallo la rappresentazione miniaturizzata di un santuario cupolato. È il caso appunto di Piqosh, che con la lunga lancia colpisce un piccolo personaggio barbuto, mentre una figura si para di fronte al suo cavallo tendendo il braccio destro. Vi è naturalmente il riferimento ad un testo illustrante le sue vicende, in uno schema che anticipa soluzioni successive. I santi cavalieri fanno ormai parte regolarmente del programma pittorico delle chiese delle fondazioni monastiche e si tende a collocarli in sedi fisse. Questo contribuisce a localizzarli meglio, come avrebbe dovuto accadere nel caso del materiale di Umm el Breigat, presentato da C.C. Walters, senza tener conto di questi schemi fissi di distribuzione delle immagini. È l’ambiente d’ingresso, sia esso nartece, sia parte dell’aula, navata o campata che sia, vicino all’ingresso a ospitare tali rappresentazioni. Quando, in epoca islamica, le chiese prevedranno l’introduzione del khurus, sarà immancabile la presenza sulle sue pareti di santi cavalieri. È quel che si osserva nella chiesa del Monastero dei Martiri di Esna, il Deir es-Shuada, dove sebbene alcune pitture siano fortemente danneggiate, si rileva la presenza di tre santi cavalieri proprio nel khurus, l’ambiente separato da una parete trasversale in cui si aprono due ingressi, che immette nel presbiterio che consta di due santuari. Nella

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 Coptic Art, 23, n. 3963.  Per uno di loro è superstite un “drago” rosso, ma non è certamente S. Giorgio, come riteneva il Bagnani (Bagnani 1933, 128), perché il santo non è mai rappresentato nell’episodio del drago nella pittura monastica. Si trattava invece probabilmente di S. Teodoro Stratelate, il santo maggiormente rappresentato nei monasteri. 18  Bagnani 1933, 128, fig. 15. 19  Gardiner 1936. 17

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 Walters 1989, 191-208, Pls. XVI-XXIX, 1.  Walters 1989, 193. 14  Walters 1989, 195, Pl. XIX. 15  Walters 1989, 205. 13

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parete di destra del khurus, è un’immagine di S. Claudio Stratelate, di cui si conserva anche il nome: Klatios. La figura di S. Claudio è particolarmente ben conservata, perché al momento dell’intervento della missione archeologica francese, nel 1967, era coperta da uno strato di intonaco. Sulla parete di fronte si trova un altro santo cavaliere che non è possibile identificare a causa dello stato di conservazione; infine sulla parete trasversale di accesso al khurus, fra i due ingressi, è un’immagine di Teodoro Stratelate. Accanto alla figura, al di fuori dell’inquadratura entro la quale è racchiusa, è un’iscrizione che riportava il nome dell’esecutore e la data di esecuzione. Il nome è perduto, la data è lacunosa, ma la lettura può oscillare fra l’846 AM (1129-1130 d.C.) e l’896 AM (1179-1180 d.C.). Notizie di visitatori, che poterono osservare il monumento prima che raggiungesse lo stato attuale di deterioramento, riportano che un’altra immagine di cavaliere si trovava sulla parete di fondo dell’aula, quella opposta al presbiterio. I cavalieri del Deir es-Shuada sono piuttosto rigidi negli atteggiamenti, abbigliati in maniera lussuosa con abiti e corazze minutamente decorati alla maniera islamica. Claudio riceve da due mani celesti due corone; il campo da cui esse fuoriescono è connotato da tre stelle, ad indicazione della Trinità; sul capo porta un corona; con la lunga lancia colpisce una persona seduta a terra, che è quasi del tutto perduta in lacuna. La possiamo identificare grazie al confronto con l’immagine del santo raffigurata nella chiesa del monastero di S. Antonio, nel deserto orientale: si tratta dell’imperatore Diocleziano. In un convento intitolato ai martiri, come questo di Esna, l’immagine di Diocleziano vinto è molto appropriata. Nuovo è il fatto che di abbatterlo si incarichi Claudio. I santi cavalieri del khurus sono per la Chiesa copta quelli di maggior prestigio, perché è l’ambiente di accesso alla parte più sacra della chiesa. Nel monastero di S. Antonio, nel khurus sono raffigurati S. Mercurio e S. Giorgio, anche se quest’ultimo era già stato raffigurato nella prima campata della chiesa. Il posto occupato da S. Claudio e la sua parte nell’abbattere il nemico principale dei martiri parla quindi del suo prestigio nell’area che è considerata teatro delle sue vicende terrene, del suo martirio e della sua sepoltura, almeno in un primo momento, insieme con Vittore.

l’identificazione con Romano, il padre del santo. Vittore è rappresentato nel khurus, in un ambiente che presenta immagini di santi guaritori (Fig. 7). Anch’egli è dotato di questi poteri, emanando da un piede effluvi salutari nel suo dies natalis. La datazione proposta per queste pitture, che appartengono al secondo strato, sarebbe l’VIII-IX secolo. Nella chiesa di S. Macario, haikal di Beniamino, si trovano, sulla parete Ovest, due santi cavalieri convergenti l’uno verso l’altro. Quello di sinistra è ben conservato. Si tratta di S. Claudio che porta una corona sui lunghi capelli bruni e regge una lunga lancia. Il corpo del cavallo è scuro, tutto percorso da grandi disegni chiari. La parte inferiore del dipinto è perduta. Il cavaliere di fronte, in atteggiamento di orante, è S. Mena. Anch’egli è rappresentato a cavallo, infatti si distinguono chiaramente parti del corpo del cavallo nell’immagine più antica. Il disegno di ricostruzione che viene spesso riprodotto, rappresenta invece erroneamente la figura come stante.20 Fra i due cavalieri è una grande croce e nello sfondo è un tendaggio retto da anelli molto distanti. (Fig. 8). Questo dipinto introduce schemi che vedremo pienamente sviluppati nel monastero di S. Antonio. Queste pitture si datano all’XI-XII secolo. Altri santi cavalieri sono raffigurati nella cappella dedicata all’arcangelo Michele, all’ultimo piano del qasr. L’accostamento all’arcangelo e il posto che occupano nell’estremo luogo di difesa è di per sé significativo e conferma che essi sono visti come difensori in armi del monastero. Si tratta di S. Basilide e della sua famiglia: con Basilide sono rappresentati Eusebio, Macario, Giusto, Apoli e Theoclia. Le pitture furono eseguite da un monaco etiope di nome Takla, nel 1517. I santi hanno abbigliamenti diversi: alcuni portano corazza con gonnellino in cuoio, un altro è avvolto in un ampio mantello. La qualità di queste pitture è elevata, gli atteggiamenti mossi, la cromia vivace. Ma è nella chiesa del monastero di S. Antonio nel deserto Orientale che trova posto il ciclo più coerente ed oggi, dopo i restauri terminati nel 2000, più eloquente della pittura monastica copta. Qui il pittore Teodoro con i suoi collaboratori eseguì nel 1232-1233 un ciclo pittorico che corre a mo’ di fregio continuo a mezza altezza sulle pareti nell’aula della chiesa e nella cappella laterale, nonché sulla cupola antistante il santuario centrale. La presenza di santi cavalieri si rileva nella campata di ingresso e nel khurus, come punto di arrivo di un processo di regolamentazione di cui abbiamo disegnato il divenire. Qui giungono a maturazione e massima espressione gli spunti che abbiamo sottolineato nelle fondazioni precedenti: l’abbinamento dei santi a due a due sullo sfondo di tendaggi e divisi da personaggi che svolgono la funzione di palafrenieri, mentre nel S. Macario erano divisi da croci; l’annotazione del santuario cupolato nella vegetazione e dei personaggi connessi con i miracoli del santo. Questo aspetto in particolare viene qui enfatizzato

La testimonianza offerta dalle pitture dei monasteri dello Wadi Natrun, il monastero dei Siriani e di S. Macario, è particolarmente importante. Nella chiesa della Vergine del monastero dei Siriani i restauri recentemente condotti e tutt’ora in corso hanno restituito tracce, poi largamente integrate, di splendide immagini di santi cavalieri, di cui due sono abbinati ed affrontati, il terzo, che è il solo di cui si conservi il nome è S. Vittore. Egli sembra dirigere la lunga lancia verso una persona seduta a terra, di fronte al suo cavallo. Apre un interrogativo il fatto che questa immagine non sia di dimensioni così minute, come di norma gli esseri che rappresentano il male e che il suo volto sia ispirato ad una nobile tristezza. È una figura regale, in cui ipoteticamente si propone di riconoscere Diocleziano o Romano. Di gran lunga preferibile è

                                                             20

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 Leroy 1982, disegno contro pagina 22 e Pl. IV.

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e per la prima volta nella pittura monastica si illustrano elementi della vita che precede la nascita del santo, qualche momento delle torture subite, un personaggio che trascrisse e tramandò le vicende della passione e i miracoli compiuti. L’immagine quindi non è più evocatrice di significati di per sé, ma vuole dare un insegnamento anche attraverso la citazione degli elementi di contesto di maggior spessore semantico e anche di maggiore espressività. Come i racconti della vita, delle passioni e dei miracoli andavano assumendo maggiore sovrabbondanza di particolari, nell’intento di colpire, commuovere e stupire, così all’immagine del santo si accompagnano scene e personaggi connessi con le sue vicende. Il tutto concorre a costituire, come è stato detto, una sorta di immagine dell’aldilà dei beati, di cui fanno parte, nell’ambiente aperto a tutti, i santi che operarono nelle lotte di questo mondo, cioè gli esponenti dell’azione, poi, in una sorta di progressione nell’appressarsi a Dio, gli esponenti del monachesimo cenobitico ed eremitico, fino a giungere al santo titolare, e a S. Paolo, poi ai patriarchi, fra cui Atanasio e a S. Marco, evangelizzatore dell’Egitto. Nel santuario principale è la Vergine Maria, di cui nella cappella laterale si sottolinea il ruolo di mediatrice, con il piccolo; al disopra è l’ immagine del Cristo in maestà, mentre il Cristo Pantocrator sovrasta nella cupola. Come nelle pitture precedenti, troviamo il consueto accostamento di santi monaci e santi militari; fra questi ultimi, si introducono figure nuove: ad esempio Giovanni e Teodoro l’Orientale, che i copti venerano e che vogliono porre in connessione con il suo omonimo Teodoro Stratelate. Questi è mostrato nell’atto di uccidere il drago, salvando così i due figli della vedova straniera che gli erano destinati in sacrificio. I santi che uccidono il drago sono di norma S. Teodoro e S. Giorgio, ma qui S. Giorgio non è mostrato in quella guisa, lasciando pensare che l’uccisione del drago, ritenuta un’aggiunta tardiva in entrambi i casi, sia stata attribuita a S. Teodoro per primo. È della seconda metà del secolo (prima del 1267) la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, che riporta il racconto della principessa salvata dal drago da S. Giorgio. Era quindi noto pochi decenni dopo e presto divenne, anche in Egitto, nel dominio delle icone, fra gli episodi più illustrati. Come già accennato, non ve ne sono, però, esempi, a quanto mi risulta, nella pittura monastica.

Qualche annotazione sulle rappresentazioni di questi santi, allo scopo di sottolineare, con l’aiuto delle iscrizioni, tradotte e studiate da B.A. Pearson,21 le particolarità di maggior rilievo (in parentesi i riferimenti ai santi nella pubblicazione curata dalla Bolman): Teodoro l’Orientale (N18): avanza verso destra alla fine della parete Sud, presso l’angolo con la parete Ovest. La figura e l’iscrizione relativa sono state danneggiate dall’apertura di una porta. Un medaglione con l’immagine del Cristo si conserva al disopra delle teste dei cavalli di Teodoro l’Orientale e Claudio. Claudio (N 19, Fig. 4.12). Il santo avanza verso sinistra, in direzione di Teodoro l’Orientale; è mostrato nell’atto di uccidere Diocleziano, qualificato dall’iscrizione «il re Diocleziano», come sempre è denominato nei testi copti. Il re stringe in mano un rotolo, che a mio parere può essere non tanto l’ordine di adorare gli dei, ma il testo dell’Editto di persecuzione. La rappresentazione evoca quella del monastero dei martiri di Esna, sopra considerata. L’analogia ha permesso di identificare la piccola figura trafitta dal santo, che nella pittura di Esna è quasi completamente perduta. Al di sotto delle zampe anteriori del cavallo è un edificio cupolato, sulla cui facciata è scritto, secondo l’interpretazione del Pearson, «l’altare degli idoli» (Fig. 9). Vittore (N 20, Fig. 4.14). Il santo avanza verso destra, incontro a S. Mena, con il quale è abbinato. Non compie alcuna azione: tiene nella destra una croce, vista sullo sfondo del suo petto. Porta sul capo una corona. Due corone sono protese verso di lui da due mani divine, poste agli angoli superiori della rappresentazione. Un poco al di sotto, in parallelo, scendono due grandi fasci di luce, entro ciascuno dei quali è la scritta «la corona». Al di sotto del cavallo è un edificio a tre cupole, con una torre da cui emana fumo, in corrispondenza di una fornace situata al piano terra ed entro la quale è la figurina a mezzo busto del santo in atteggiamento di orante. L’iscrizione indica l’edificio come «il bagno», cioè il bagno nella cui fornace, accesa per riscaldare l’acqua, il santo venne gettato. Ancora in tema di torture, sulla sinistra, il santo, il cui capo è perduto in lacuna, a braccia legate dietro il dorso, subisce un supplizio, legato ad una macina circolare in pietra. Mena (N 21, Fig. 4.6). Un palafreniere accosta il muso del cavallo scuro di Vittore a quello del cavallo chiaro di Mena (Fig. 4.14). Il santo è rappresentato in modo simile a Vittore, nella fisionomia, nell’espressione, nel fastoso abbigliamento e nell’atteggiamento. Anche la presenza delle corone e dei fasci di luce con scritta accomuna le due immagini.22 Una grande lacuna nella parete interessa una parte della persona del santo e del corpo del cavallo. Al di sotto è un edificio che rappresenta il suo santuario, con una lampada pendente sotto un arco in mattoni.

Nello studio curato da E. Bolman, la prima campata della chiesa, quella d’ingresso, porta la sigla N. I santi cavalieri che vi sono rappresentati sono: Teodoro l’Orientale, Claudio, Vittore, Mena, Teodoro Stratelate, Sisinnio, Giorgio, Febamone. Il khurus porta la sigla K: vi sono rappresentati Mercurio e Giorgio. Questo mostra che ci troviamo nel clima dell’ascesa della venerazione di Giorgio, che pur non essendo un santo egiziano, tende a divenire, in prosieguo di tempo, il più venerato, non solo in Egitto, ma anche in tutto il mondo cristiano, soprattutto nell’area orientale.

                                                             21

 Pearson 2002, 217-239.  Nel racconto della passione di S. Mena, il Cristo gli promette tre corone: una per aver praticato il celibato, una per essersi ritirato in luoghi selvaggi, la terza per il martirio.

22

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Verso di esso, un grande cammello a fauci aperte, si lamenta percosso con un frustino da un cammelliere; dietro il cammelliere, è una femmina nell’atto di allattare un piccolo cammello. Il particolare certamente evoca il trasporto delle spoglie del santo a dorso di cammello e la vicenda del rifiuto del cammello a proseguire, ma anche il fatto che il santo è considerato patrono dei cammellieri. Teodoro Stratelate (N 22, Fig. 4.8), è raffigurato sulla terminazione della parete Ovest, mentre procede verso destra, sul suo cavallo bianco. Ha volto grave e autorevole, capelli scuri, baffi e barba a punta, tratti ricorrenti nelle sue immagini. Porta sul capo la corona; è riccamente abbigliato con abito militare di ispirazione islamica; anche il cavallo ha una ricca bardatura con pendenti, la coda composta a treccia a due ciocche e annodata. In alto a sinistra sono le due mani divine, l’una con una corona, l’altra nel gesto della parola, cui corrisponde un testo esortativo che inizia con «Oh Teodoro, colui del quale …» ma è poi troppo lacunoso per essere comprensibile. Il santo trafigge con la sua lunga lancia un serpente, le cui spire si annodano a cuore e le cui fauci si aprono verso i due figli della vedova che gli sono stati offerti in sacrificio. La madre è rappresentata in piedi dinanzi al cavallo, mentre, capelli sciolti, lunga tunica celeste e sciarpa bianca, supplica il santo per la vita dei suoi figli. È una delle pitture più felici del complesso. La donna è rappresentata sull’angolo Nord-Ovest della sala, già sulla parete Nord, che è quella di ingresso. Le altre iscrizioni qualificano il “drakon” e fornivano il nome degli altri personaggi della scena. Il racconto illustra l’episodio del passaggio del santo per la città di Euchaita e del salvataggio dei due giovani dal drago (Fig. 10).

Giorgio (N 25, Fig. 6.1 e 7.22), procede verso destra, all’incontro con Febamone. La figura è quella di un giovane imberbe, in ricchi abiti militari, sul suo cavallo bianco, con gualdrappa decorata con motivi islamici. Alla sella è fissata una spada. Dietro la persona è uno scudo. Il santo orienta in verticale la sua lancia su un piccolo personaggio barbuto, stante, che regge un grosso candeliere. Una grande chiesa, connotata con diversi particolari è anche definita dall’iscrizione. Un’altra iscrizione, riferita al piccolo personaggio, lo lascia identificare come «l’ebreo che rubò il [vasellame] del …». Si tratta dell’illustrazione del terzo dei miracoli postumi del santo. L’ebreo, mago e ladro, che aveva sottratto alcuni oggetti dalla chiesa di S. Giorgio, fu punito dal santo, ma finì poi per convertirsi, ricevendo il battesimo, con tutta la sua famiglia, nel santuario di S. Giorgio. Febamone (N 26, Fig. 6.1 e 7.23) procede verso sinistra ed occupa l’estremità della parete Nord, dove molte iscrizioni si sono conservate, lasciando identificare i numerosi personaggi che ne accompagnano la figura. Il santo procede su di un magnifico cavallo bianco a criniera intrecciata e con gualdrappa percorsa da rigature in cui sono iscrizioni in arabo; ha capelli neri, su cui poggia un piccolo diadema, baffi e barba a punta; è in abito militare e trafigge con la lunga lancia l’occhio di un personaggio, rappresentato al di sotto, con in capo un turbante e con un ginocchio a terra. Vi è poi una grande chiesa con portale spalancato e fra le chiese di Giorgio e di Febamone, una famigliola, costituita da padre, madre, con piccolo in braccio, che indicano il santo con il braccio alzato e il dito puntato. Questo è anche l’atteggiamento della donna, raffigurata dietro il sovrapporsi di due zampe dei cavalli, al di sotto dei loro musi. Il Pearson legge le seguenti iscrizioni: il santo è definito di Ausim; la figura fra i due cavalli è sua madre; la famigliola è quella del ragazzino che il santo guarì quando era ancora uno scolaro; il personaggio trafitto è definito il centurione. La chiesa è indicata come appartenente a Febamone. La scena illustra, centurione a parte, uno dei miracoli che il santo compì ancora giovinetto, essendo chiaramente predestinato a divenire martire del Cristo.

Sisinnio, (N 23, Fig. 4.8) avanza verso destra, all’incontro di S. Giovanni, il cavaliere che gli viene abbinato. I due santi figurano sulla porta di accesso, il cui ampliamento ha quasi totalmente distrutto l’immagine di Giovanni e in gran parte quella di Sisinnio e dei cavalli. Sisinnio ha un volto severo, con capelli neri, baffi e barba a punta. Porta la kalawta, copricapo a punta dell’aristocrazia militare egiziana, su cui è stata apposta una piccola croce. Con la lunga lancia trafigge un essere anguiforme, di cui si vedono, sotto le zampe del cavallo, tracce di spire intrecciate. Il mantello rosso si apre dietro la sua persona ed è portato su un abbigliamento militare. Anche la gualdrappa del cavallo è riccamente decorata. Giovanni (N 24) è il nome del santo abbinato a S. Sisinnio. Ipoteticamente è stato identificato, nella pubblicazione curata dalla Bolman, con Giovanni di Eraclea. L’iscrizione recita «Giovanni (abbreviato), dei fratelli (? ) di Hnes…». Il piccolo personaggio al di sotto del cavallo è definito «Eutichio» e sotto «Eutichio il duca». Questi elementi hanno condotto ad un riesame da parte di A. Sadek,23 il quale esprime il convincimento, che mi sembra condivisibile, che si tratti di Giovanni di Ashmun Tanah.

Giorgio (K 8, Fig. 7.31 e 25, p. 243; Fig. 6.24). È ripetuta nel khurus l’immagine di Giorgio, con volto giovanile imberbe e ricco abbigliamento da cavaliere bizantino. Le mani divine al di sopra, sono l’una con corona, l’altra nel gesto della parola, come erano raffigurate nell’altra immagine del santo. La lunga lancia del santo, attraversando in diagonale l’immagine, trafigge il volto di un personaggio indicato come Euchius, il soldato malvagio. Questi è il generale di Diocleziano, indicato come distruttore di chiese, a partire da quella di Giorgio, nel nono miracolo postumo del santo. Sta infatti tendendo un bastone contro la lampada della chiesa.24 Sulla chiesa

                                                             24

 Si può dare quindi un significato all’immagine analoga, che compare in un pannello ligneo del XIII secolo nella chiesa di S. Sergio e Bacco, nel Vecchio Cairo, che non era mai stata interpretata. Se ne trova una

                                                             23

 Sadek 2007.

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di S. Giorgio al disotto è il nome di Elena, la madre di Costantino, che secondo quanto trasmesso dall’encomio a nome di Teodoto di Ancyra, si recò con suo figlio a venerare la cappella di S. Giorgio a Diospolis. L’imperatore, istruito in sogno dal santo, ne fece ampliare ed abbellire la costruzione. Sulla parete adiacente del khurus è rappresentato il supplizio di S. Giorgio, alla presenza del suo servitore Pasicrate, che, secondo il racconto, aveva voluto seguirlo e aveva scritto il resoconto della sua passione. La scena è divisa in tre riquadri, in registri sovrapposti, echeggiando lo schema delle icone vitae. In quello superiore è Giorgio fra due servitori, in quello centrale il servitore Pasicrate, con l’iscrizione «Pasicrate che scrive», in quello più in basso, due torturatori in atto di fustigare il santo. L’iscrizione dice: «i torturatori che percuotono Giorgio». Si adopera per torturatore il termine latino, quaestionarius, usato nella forma copta anche nel racconto del martirio (Fig. 11).

il particolare dell’arma grondante del sangue del nemico ucciso. Per la spada supplementare fornita dall’angelo, il santo sarà denominato Abu Sefein, il padrone delle due spade. Fu una delle figure più venerate in Egitto. Gli fu dedicato un monastero nel quartiere omonimo del Vecchio Cairo, che va ricordato perché è straordinariamente ricco di icone raffiguranti santi cavalieri. Una serie di icone rappresenta il santo con le due spade incrociate al di sopra del capo. Una delle più celebri, eseguita da Yuhanna el Armani nel 1772, è posta sopra il tabernacolo dove, nella chiesa del monastero, sono conservate le sue reliquie (Fig. 13). Il monastero di S. Antonio con il ciclo delle pitture teodoriane, è la più alta ed eloquente attestazione della venerazione dei santi militari in ambito monastico. Ognuno dei santi è chiamato a rivestire un significato. Quello che risulta più singolare, in rapporto agli sviluppi futuri, è il ruolo assegnato a S. Giorgio, che qui, per ben due volte è considerato protettore degli edifici sacri da furti e da distruzioni. Nell’illustrare l’abbigliamento e l’armamento dei santi, si osserva una pluralità di fonti. Il modello principale è quello del cavaliere bizantino, ma sono anche presenti elementi del cavaliere romano, in riferimento al tempo in cui si svolsero gli eventi ed echi del mondo coevo. I sultani Ayyubidi, infatti, per il fatto che la loro guardia del corpo era costituita da mamluk turchi, adottarono un abbigliamento che echeggiava la moda turca. Di splendidi tessuti sono fatti i loro abiti, con bande decorate ai bordi, mantelli a minuti motivi, corazze a scaglie, sciarpe con nodo sul petto, alti stivali. Solo i santi che non sono rappresentati in combattimento, come Vittore, portano le calzature a babbuccia. Splendidi tessuti fitti di motivi decorativi e rigature entro le quali si leggono iscrizioni arabe sono adottati anche come gualdrappe dei cavalli. Questi sono una presenza non secondaria nell’iconografia del santo cavaliere. Sono bellissimi, robusti animali; portano la criniera sciolta o intrecciata, la coda intrecciata e annodata, finimenti sovrabbondanti, con particolari inconsueti, come la correggia di cuoio con pendaglini che si avvolge più volte attorno alla criniera del cavallo di Mercurio nel khurus, annodandosi poi sotto il suo orecchio destro. Ma la caratteristica che rende unici i dipinti dei santi militari del S. Antonio è l’evocazione degli episodi narrati nei testi delle passioni e dei miracoli, con un sottile filo conduttore: i grandi nemici della Chiesa, Diocleziano e Giuliano, vengono uccisi, altri minori personaggi sono convertiti e, a mio avviso, sono qui illustrati anche per questo: la Chiesa si difende dai grandi nemici, accoglie e perdona i peccatori pentiti.

Mercurio (K 3-K 4, Fig. 7.19) è l’immagine situata sulla parete opposta del khurus, una delle più felici del complesso pittorico. È rappresentato è un riquadro, ai cui lati sono, sulla sinistra due servitori, di cui uno tiene un’asta con una piccola bandiera bianca; portano un cappello a punta con una crocetta; dall’altro lato, entro un edificio cupolato con croce, in cui sono inquadrate le figure di Basilio e di Gregorio, che tendono la mano, indicando il santo. Al di sotto è un grande riquadro con iscrizione dedicatoria, che porta il nome dei due donatori di questa immagine del santo, sui quali è invocata la benedizione e la ricompensa del Signore. Sotto il pannello è la data: 949 dell’era dei martiri, corrispondente al 1232/1233. Nel riquadro centrale, il santo avanza sul suo cavallo nero, in ricco abito militare; la gualdrappa del cavallo ha un ricco disegno a medaglioni contenenti rosacee e delle righe con iscrizione araba. La rappresentazione evoca molti particolari della vicenda trasmessa dai testi. Dall’alto a destra scende in volo un angelo e porge al santo una grande spada, che egli già impugna; l’altra spada è nel fodero e l’impugnatura sporge dietro il dorso del cavallo, dove è anche un arco composito. Il santo dirige la lunga lancia sul capo coronato dell’imperatore Giuliano l’apostata, che, disarcionato, la spada in mano, piega un ginocchio a terra. Di seguito è la scena dell’uccisione del nonno del santo da parte dei cannibali a testa di cane. Le iscrizioni indicano i personaggi, segnalando perfino i nomi dei due cannibali. (Fig. 12). Nel racconto, essi saranno successivamente convertiti. La storia di Mercurio, martire sotto Decio (249 d.C.) è singolare, in quanto, per un miracolo postumo, sarà la sua immagine ad uccidere Giuliano, durante una spedizione dell’imperatore contro i Persiani (362 d.C.). Basilio, infatti, che, con gli altri vescovi aveva pregato perché il mondo fosse liberato dal nemico del Signore, noterà la scomparsa della figura dalla parete su cui era dipinta e poi il suo rientro, ma con

                                                                                                 bella illustrazione in Gabra, Eaton-Krauss 2008, fig. 148. Le connotazioni del santo e del soldato corrispondono, nel rilievo, al racconto dell’episodio.

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Un lungo intervallo di tempo divide le pitture del monastero di S. Antonio da quella che può considerarsi l’attestazione più tarda di un ciclo ricco e coerente di rappresentazioni di santi cavalieri in ambito monastico: si trova nel Monastero di S. Paolo, sempre nel deserto orientale, a non molta distanza da quello di S. Antonio. Le pitture del Monastero di S. Paolo sono state oggetto di restauri da parte dello stesso gruppo di restauratori che

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curarono le precedenti. Al termine dei restauri, nel 2005, si ebbe una visione del tutto nuova delle pitture, restituite al loro splendore e si dette vita ad una pubblicazione di impianto simile a quella edita per il S. Antonio da E.S. Bolman. Lo studio sul S. Paolo è stato curato da W. Lyster, con contributi della stessa Bolman, G. Gabra e diversi altri studiosi. Le pitture con i santi cavalieri sono situate in una parte di più recente costruzione del monastero e sono datate dall’iscrizione di fondazione, all’A.M.1429, cioè al 1712/13. Appartengono dunque all’epoca ottomana (1517-1798), che segnò un periodo di ripresa dei copti da uno stato di oppressione e indigenza.

epigrafica è ampia e contiene testi in copto e in arabo, che incorniciano le aree decorate e indicano l’identità dei personaggi. Nell’indagare circa la possibile fonte di ispirazione di tali pitture, il Lyster ricorda che nella Storia dei Patriarchi della Chiesa di Alessandria è un passo che potrebbe essere significativo per quanto concerne la teoria dei cavalieri nella cupola. Vi si tramanda un miracolo accaduto al tempo del patriarca Cirillo III (1216-1243). Ecco che in una chiesa apparve una figura in trono, nella cupola sopra l’altare, durante la celebrazione, e apparvero sulla cupola cavalieri a cavallo, come le pitture dei santi che sono nelle chiese, ed essi giravano attorno alla cupola e le code dei loro cavalli sibilavano e tutte le persone poterono testimoniarlo. Quando essi raggiunsero il trono, si inchinarono in ossequio e passavano e continuavano ad ossequiare fino al momento della comunione, quando essi se ne andarono.27 La riflessione non è inutile, perché questo del S. Paolo è l’unico esempio di una teoria di cavalieri in una cupola.

Quando alcuni di loro divennero funzionari dell’amministrazione, con la carica di arconti, in buoni rapporti con i militari, acquistarono maggiori ricchezze e prestigio. Fra loro era anche colui che, lasciando poi la carica, sarebbe divenuto patriarca, con il nome di Giovanni XVI (1676-1718). Con il potente appoggio economico e politico dei suoi antichi colleghi, egli poté condurre lavori di restauri, rifacimenti e ampliamenti in chiese d’Egitto, fra cui anche nel Monastero di S. Paolo. Qui egli fece riparare alcune pareti e la torre, costruire un mulino ed ampliare la chiesa sotterranea, con l’aggiunta di ambienti coperti da tre cupole. Nel 1705, il patriarca si recò al monastero in visita ufficiale, con un seguito di cui facevano parte alcuni dei più grandi arconti del tempo, fra cui Jirjis Abu Mansur al Tukhi. Essi donarono alla chiesa, che in quell’occasione il patriarca consacrò, due schermi lignei per haikal, con ventisei icone che li sormontavano. Furono anche donati dei manoscritti. Nell’A.M. 1426 (1709-1710) avvenne una grande inondazione. Due o tre anni dopo, i monaci cominciarono a progettare e a preparare l’esecuzione del programma pittorico nei nuovi ambienti. Secondo una testimonianza del gesuita Cl. Sicard, che visitò il monastero nel 1716, le pitture, che molto lo impressionarono, e non favorevolmente, sarebbero state eseguite tre anni prima, e la data concorda con quella dell’epigrafe, e da un solo monaco, cosa che non è stata creduta. Questi dichiarò al gesuita che non aveva mai imparato a dipingere e che aveva attinto i coloranti dai pigmenti minerali, che aveva potuto reperire nelle vicinanze.25 Sappiamo poi che un altro monaco, di nome ‘Abd al-Sayyd al-Mallawani, proveniente dal monastero di S. Antonio, e divenuto poi patriarca con il nome di Giovanni XVII, collaborò all’esecuzione del programma pittorico delle parti di nuova costruzione. Le ricerche condotte nella biblioteca del monastero da G. Gabra26 hanno portato al rinvenimento di un manoscritto copiato da questo monaco nel 1715: si tratta di una Salmodia (MS 368) l’insieme dei canti e degli inni da cantarsi tre volte al giorno in preparazione alla liturgia. I disegni di questo quaderno e soprattutto la caratteristica grafia della lettera sigma, con un punto all’interno, elementi che richiamano entrambi quanto si osserva nelle pitture, hanno fatto ipotizzare che non soltanto della parte epigrafica egli si sia occupato, ma che abbia collaborato anche alla parte pittorica. È soltanto un’ipotesi. La parte

Nel monastero di S. Paolo i santi cavalieri sono raffigurati, infatti, sulle pareti della scala che porta alla chiesa sotterranea, sulla cupola del nartece (Fig. 14), sulla parete Ovest della navata Nord al di sopra dell’ingresso ad arco al nartece. Accanto alla porta di entrata del XVIII sec. furono raffigurati, nel primo pannello a fondo giallo, Vittore; di fronte alla porta sulla parete Nord, su fondo verde Teodoro Stratelate e su fondo giallo, nel pannello contiguo, Giorgio. Nella cupola al di sopra, la chiave di volta racchiude un motivo geometrico a sette stelle presente anche sui manoscritti conservati nel monastero, per esempio una redazione copto-araba delle sette Teotochie (1775) contornato da un’iscrizione; nella corona circolare, tutt’intorno, su fondo giallo ocra, una teoria di santi cavalieri: si distinguono Ischirione di Qalin, Giacomo il Persiano, l’Interciso, Mena il Miracoloso, Giulio di Aqfahs, Abadir con Ira’i sua sorella, Isidoro. I cavalli procedono di profilo a destra; busti e volti di santi sono rivolti verso lo spettatore, nello schema rilevato nel S. Antonio. Non molte tuttavia sono le analogie che legano i due cicli. Le maggiori si rilevano per i santi che occupano la parete Nord della scala: Teodoro e Giorgio. Per loro, i temi illustrati e gli schemi iconografici richiamano le formulazioni del S. Antonio. Teodoro uccide il drago, mentre la vedova alza le braccia, parandosi davanti al suo cavallo; Giorgio difende un edificio sacro con cupole e croci da un avversario puntandogli la lunga lancia in verticale: il richiamo è al tema dell’ebreo che rubò il vasellame dalla chiesa, quale illustrato nel S. Antonio. Il parallelo consente di interpretare la rappresentazione, che è qui lacunosa. Quanto a Vittore, la sua immagine non presenta alcun elemento di contesto. I dipinti della cupola del nartece sono ispirati ad una marcata originalità. Fra le personalità rappresentate, soltanto Mena è fortemente radicato nella tradizione, ma

                                                             25 26

                                                            

 Gabra 2008, 95-105.  Gabra 2008, 95-105.

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 Lyster 2008, 222.

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qui è rappresentato in maniera diversa rispetto agli schemi iconografici usuali: al di sotto del cavallo sono infatti raffigurati tre mostri marini dai lunghi colli, denti scoperti e corpi maculati (Fig. 15). Si evoca il miracolo dell’assalto dei mostri marini alla nave che trasportava il corpo di Mena: nel racconto, che è tramandato da un encomio della Pierpont Morgan Library n. 590, da altri codici e dal Sinassario etiopico,28 dal corpo emanarono fiamme che respinsero i mostri, finché, al ripetersi più volte del fenomeno, essi si inchinarono in omaggio al santo. Qui essi sono semplicemente rappresentati sotto il cavallo: nondimeno la raffigurazione è un unicum di grande interesse. Gli altri santi nella cupola non sono mai stati rappresentati in precedenza, per quanto mi risulta, nelle fondazioni monastiche, almeno come santi cavalieri. Giulio di Aqfahs è infatti presente a Bawit, nella cappella XVII, ma entro una teoria di santi martiri stanti, seppure armati.29 Per contro essi sono tutti rappresentati nelle icone coeve; sappiamo e possiamo verificare che le pitture del S. Paolo costituiscono fonte di ispirazione per una nuova generazione di pittori di icone,30 che dettero vita ad opere straordinarie, solo di recente valorizzate nelle ricerche del settore. Dopo un lungo periodo di interruzione, durato dal 1461 al 1703, fu ripresa con Giovani XVI la produzione del myron, l’olio santo indispensabile per la piena utilizzazione delle icone nella liturgia. Sotto il suo successore, Giovanni XVII, quel ‘Abd al-Sayyid al-Mallawani, che aveva lavorato alle pitture del S. Paolo, una visita al monastero fu fatta nel 1732 dal patriarca stesso e dal suo seguito, per la solenne consacrazione della nuova chiesa dell’arcangelo Michele e di S. Giovanni Battista nel monastero. Della spedizione faceva parte quell’Ibrahim el-Nasikh, che è fra i più celebri pittori di icone del suo tempo e che, per un certo periodo, svolse la sua attività insieme con l’altrettanto celebre e fecondo pittore Yuhanna el-Armani.31 Nel 1742 essi dipinsero insieme la prima icona. In questo periodo, quindi, le pitture delle fondazioni monastiche procederanno di pari passo con quelle delle icone. Spesso i confronti che si possono instaurare contribuiscono a chiarire non solo il significato delle rappresentazioni, ma anche alcuni aspetti meno conosciuti delle tradizioni scritte e orali che si riferiscono a questi santi. Ibrahim elNasikh era uno scriba: molte delle sue icone portano iscrizioni esplicative, che naturalmente costituiscono un contributo prezioso all’interpretazione.32 Fra i santi che sono rappresentati nella cupola del nartece e che in precedenza non erano presenti nella pittura monastica, figura Ischirione di Qalin. Si evoca il miracolo della guarigione del gregge di cammelli sterili. Il cammelliere aveva fatto il voto, in caso di guarigione, di donare alla chiesa del santo, miracolosamente trasportata in volo dalla città di Qalin nel delta, i primogeniti di ogni femmina. Qui i giovani cammelli sono raffigurati al di

sotto del cavallo del santo, mentre l’immagine del cammelliere che è di fronte al cavallo richiama un disegno del quaderno di Salmodie copiato da ’Abd alSayyid.33 Giacomo l’Interciso è raffigurato senza elementi di accompagno: è privo dei piedi , segno che si ritiene evocatore dello smembramento subìto per ordine del re di Persia, per aver abbandonato la religione dei padri. In una splendida icona di Yuhanna el-Armani (ca. 1742-1783), conservata nella chiesa della Vergine alMu’allaqa nel Vecchio Cairo, il santo è rappresentato come cavaliere, mentre il suo corpo smembrato è fra le zampe del cavallo.34 Dopo Mena è rappresentato Giulio di Aqfahs, in una iconografia che i pittori di icone non ci hanno tramandato. Il santo qui porta la lancia crociata con la quale trafigge una sorta di drago. Nel quaderno di Abd el-Sayyed era rappresentato in modo simile un grosso pesce. La bellissima icona che rappresenta S. Giulio, dipinta da Ibrahim el-Nasikh, nell’ A.M. 1473 (1757), conservata nella chiesa di S. Mercurio nel monastero omonimo nel Vecchio Cairo, lo raffigura mentre lo accompagnano il figlio ed il fratello nella sua opera di raccolta delle reliquie e delle passioni dei santi. I santi di cui furono trascritte le passioni sono elencati sui fogli mostrati dal fratello e dal figlio. Tre leggii con tre libri aperti sono rappresentati al di sotto del cavallo del santo: portano i nomi di coloro di cui egli stesso si prese cura (Fig. 16). Il dettato dell’icona non corrisponde, però, a quanto è trasmesso dalle fonti agiografiche. È stato osservato che questo repertorio corrisponde invece a quello dei santi maggiormente venerati e le cui reliquie si conservano nelle chiese del Vecchio Cairo.35 L’immagine successiva è quella d S. Isidoro (Fig. 17). Egli è accompagnato da un cane, rappresentato sotto la parte posteriore del cavallo. L’immagine, che risulta di per sé enigmatica, trova la spiegazione da un’icona appartenente al periodo in cui Ibrahim al-Nasikh e Yuhanna al-Armani lavorarono insieme nella stessa bottega: fu eseguita nell’A.M. 1461 (1744-1745) ed è conservata al Cairo, nella chiesa di S. Mena a Fumm al-Khalig. Rappresenta il santo e i suoi familiari, martiri anche loro. L’iscrizione araba posta al di sopra del piccolo cane recita «il cane che (Isidoro) fece parlare»;36 il miracolo è probabilmente da porsi in relazione con quello della caduta degli idoli. Infine Ciriaco e Giulitta sono rappresentati al di sopra dell’arco che mette in comunicazione il nartece con la navata Nord. È un’immagine unica del santo, rappresentato qui come cavaliere37 mentre trafigge con l’asta crociata un drago posto sotto il suo cavallo. Dinnanzi a lui è Giulitta, sua madre, che apre le mani sul petto nel gesto di preghiera più volte ripetuto in queste pitture. La singolarità sta nel fatto che Ciriaco affrontò il martirio a tre anni, incoraggiando la madre a testimoniare del pari la sua fede. È il più giovane dei santi cavalieri. Anche Apoli, nel qasr del monastero di S. Macario era di qualche anno maggiore di lui. La giovinezza di questi

                                                            

                                                            

28

33

 Drescher 1946, 140-143; The Great Saint Mena 2003, 134. 29  Clédat 1999, 159, fig. 145. 30  Lyster 2008, 273. 31  Lyster 2008, 267-273. 32  Swanson 2008, 56-57.

 Lyster 2008, fig. 12.1; Swanson 2008, 43-59.  Lyster 2008, fig. 12.52, 273. 35  Skalova-Gabra 2001, 230-231. 36  Lyster 2008, fig. 12.49, 270. 37  Lyster 2008, fig. 12.26, 251. 34

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Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

martiri mostra che rappresentarli come cavalieri equivaleva a promuoverli a combattenti e difensori in armi, quale che fosse la loro fisionomia e il loro stato nel mondo di quaggiù. La venerazione di S. Mercurio nel monastero è attestata dal fatto che nel 1781 vi fu edificata una chiesa dedicata al santo. È situata parzialmente al di sopra della chiesa sotterranea, con la quale è collegata da una scala che discende al livello inferiore.

Allo stato attuale delle ricerche, non è facilmente collocabile, un’immagine di cavaliere emersa dai restauri delle pitture del Monastero Rosso, durante le campagne del 2006 e 2007. Qui un saggio di pulitura lasciò emergere all’estremità Nord della parete della chiesa, presso il muro di fronte al santuario, il muso di un cavallo e una mano divina che porge una corona. Al di sopra è una lunga iscrizione di donatore, che, al momento della notizia data dalla Bolman sulle campagne del 20062007,39 era allo studio da parte di P. Dilley. Il santo raffigurato è un certo Aganistos, il nome del dedicante è Paolo il Diacono.

Le pitture dei cavalieri del monastero di S. Paolo presentano una visione originale sia nella loro collocazione sia nelle scelte iconografiche e stilistiche, nel senso che essi presidiano i luoghi di ingresso, ma non erano mai stati raffigurati in una cupola. La scelta dei personaggi è innovativa, in quanto illustra personalità mai presenti nelle fondazioni monastiche precedenti; nello stesso tempo denota saldi legami con alcuni aspetti della visione tradizionale. Ciò è particolarmente evidente nel caso di S. Giorgio che il mondo delle icone, più aperto a suggestioni eterogenee provenienti dalle culture più disparate, presenta in modo diverso. S. Giorgio è per i monaci copti colui che difende gli edifici sacri da intrusioni sacrileghe e da distruzioni; così è illustrato nel S. Antonio e nel S. Paolo. Lo troviamo anche difensore del S. Sepolcro, dotato della caratteristica bandiera bianca con croce rossa. Per noi invece S. Giorgio evoca subito la lotta contro il drago o come male assoluto o come quel tal drago che uscito dal lago doveva divorare la principessa che gli era stata offerta in sacrificio, come recita il più famoso dei martirologi occidentali, la Legenda aurea. In Egitto si sono conservate numerose icone di questo soggetto (Fig. 18). Tuttavia un altro santo era per i copti l’uccisore del drago, S. Teodoro Stratelate. In virtù di questa comunanza di funzioni, i due santi vengono accostati fino ad essere rappresentati in maniera perfettamente analoga, distinguibili ormai solo per il fatto che Teodoro cavalca un cavallo nero, Giorgio uno bianco. Abbinati, vegliano sulla Vergine Maria, presentandosi nello stesso spazio semantico degli arcangeli Michele e Gabriele, associati a loro, talvolta accostati anche agli eremiti Paolo e Antonio. Testimonianza di questi abbinamenti sono i tessuti liturgici e le icone. Ma per quel che attiene alla pittura monastica, non è rappresentazione comune. Va qui ricordato un dipinto di Akhmim, che, secondo quanto mi sembra possibile ipotizzare, parrebbe ispirato alle icone. Nell’area di Akhmim, infatti, in epoca ottomana, è attivo un pittore dalle caratteristiche stilistiche molto definite. Questi produce numerose icone, ma nello stesso stile sono realizzate, ad esempio, le pitture del monastero di S. Tommaso l’eremita presso Akhmim. Qui, nella cupola che sovrasta l’altare, al di sotto dell’immagine della Vergine in trono, sono raffigurati entro due arcate, mentre con la lunga lancia uccidono un drago, S. Teodoro, sul cavallo nero e S. Giorgio, sul cavallo bianco.38 È un’immagine che addita soluzioni nuove, più rispondenti a quelle che si rilevano nella coeva produzione di icone.

Anche da ciò si evince che la pittura monastica è tutt’ora una pagina aperta, che il programma di restauri in svolgimento renderà più densa e ricca di contenuti, perché è lecito immaginare, dal percorso sopra delineato, che ogni fondazione, a partire da una certa data, si sia proposta di includere nel proprio programma pittorico immagini di santi cavalieri, in particolare quando la collocazione in un’area lontana dal consorzio civile e dalla vita animata della valle, l’abbia resa più esposta agli attacchi e alle feroci razzie di forze ostili, nomadi, governanti musulmani intransigenti, eserciti di occupazione. La protezione dei santi cavalieri era invocata per i luoghi e per le persone, come ad abundantiam testimoniano le pitture; resta tuttavia centrale il tema dell’abbattimento del nemico del cristiano e della Chiesa, impersonato soprattutto da Diocleziano e da Giuliano. La testimonianza della pittura monastica getta luce su figure di santi che appartengono alla più pura tradizione egiziana, ma accoglie anche altre personalità che provengono da aree esterne. Abbiamo osservato come sia la figura di Teodoro Stratelate ad essere illustrata con maggior frequenza in ambito monastico (Tabella 1); abbiamo rilevato l’emergere di Giorgio, figura che sarà particolarmente enfatizzata, per diversi aspetti, soprattutto attraverso la testimonianza delle icone.40 Non vi è tuttavia figura e vicenda che illustri meglio di quella di Mercurio le convinzioni e la mentalità egiziana circa il valore e la potenza delle immagini, se si poté raccontare che ad uccidere l’iniquo Giuliano fu un’immagine di S. Mercurio, una pittura parietale, dapprima scomparsa, per eseguire il suo compito, poi tornata al suo posto con la lancia bagnata di sangue e che spargeva sangue a terra. Nel periodo di attestazione più tardo, l’epoca ottomana, corrispondente ad un momento di grande creatività, si vedono emergere, con le pitture del S. Paolo, figure nuove, legate ad altre aree culturali. Il linguaggio del cristianesimo copto appare nutrito da formulazioni diverse e lascia percepire di essere attraversato da suggestioni provenienti dall’Armenia, dalla Siria, dall’Etiopia, senza perdere la sua peculiare fisionomia, che la pittura delle fondazioni monastiche illustra con straordinaria eloquenza. Bibliografia

                                                             39

                                                             38

40

 Coptic Art, 121.

137

 Bolman 2008, 314, fig. 25.6.  Meinardus 2003, 33-37.

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139

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

TAVOLA L’attestazione dei santi cavalieri nella produzione figurativa. Sono indicati in grassetto i santi presenti nella pittura monastica. I numeri sulla terza colonna designano le fondazioni monastiche. Nome/nomi del martire

Rappresentati nei monasteri n.

Dies natalis

Abonas

3

Aganistos

8

Apater e Irene

28 Tut (25 Settembre)

10

Apoli

1 Misra (25 luglio)

7

Ascla

21 Tubah

3

Basilide

11 Tut (8 Settembre)

7

Behnam e Sara

14 Kihak (10 Dicembre)

Besamon Ciriaco e Giulitta

15 Abib (9 Luglio)

10

Claudio Stratelate

11 Bau’nah (5 Giugno)

6, 7, 9

Eusebio

23 Amshir (17 Febbraio)

7

Febamone

27 Tubah (22 gennaio)

3, 9

Filoteo

16 Tubah (11 Gennaio)

Giacomo l’Interciso

27 Hatur (23 Novembre)

10

Giorgio

23 Baramudah

9, 10, 11

Giovanni di Ashmun Tanah

10 Misra (3 Aprile)

9

Giovanni e Simeone

11 Abib (5 Luglio)

Giulio di Aqfahs

22 Tut (19 Settembre)

10

Giusto

10 Amshir (4 febbraio)

7

Isacco di Tifre

6 Bashuns (1 Maggio) 306

Isidoro

19 Bashuns (14 Maggio)

10

7 Misra (31 Luglio) Ischirione

7 Bau’nah (14 giugno)

10

Macario, figlio di Basilide

22 Abib (16 Luglio)

7

Mena

15 Hatur (11 Novembre)

7, 9, 10

Mercurio

25 Hatur (21 Novembre)

5, 9

140

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Orione

3

Pakene o Patene

3

Piqosh

5

Sabino

3

Sisinnio

28 Baramudah (21 Aprile)

3, 4, 9

Teodoro l’Orientale

12 Tubah (7 Gennaio)

9

Teodoro Stratelate

20 Abib (14 Luglio)

2, 4, 5, 6, 9, 10, 11

Tolomeo

11 Kihak (7 Dicembre)

Vittore Stratelate

27 Baramudah (22 Aprile)

1, 2, 3, 4, 5, 6, 7

Santo/Santi anonimi

Elenco dei monasteri in cui sono attestati:

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

7, 9, 10

Kellia Saqqara Bawit Tebtynis Naqlun Deir es-Shuada - Esna Wadi Natrun Monastero Rosso S. Antonio S. Paolo S. Tommaso l’eremita

141

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Icona vitae di S. Mercurio, Vecchio Cairo, Chiesa di S. Mercurio (da Skalova, Gabra 2001)

Fig. 2: Santi cavalieri e Ama Ascla, Bawit, cappella XVI (da Clédat 1999)

142

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 3: S. Febamone, Bawit, cappella XVII (da Clédat 1904)

Fig. 4: S. Sisinnio, Bawit, cappella XVII (da Clédat 1904)

143

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 5: Santi cavalieri, Tebtynis, Il Cairo, Museo Copto (da Coptic Art 1993)

Fig. 6: S. Piqosh, Naqlun, Monastero dell’Arcangelo Gabriele (foto M. Cappozzo).

144

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 7: S. Vittore e santi cavalieri e guaritori, Wadi Natrun, Monastero dei Siriani, Chiesa della Vergine, khurus (foto L. Del Francia Barocas)

Fig. 8: S. Claudio e S. Mena, Wadi Natrun, Monastero di S. Macario, haikal di Beniamino (da Leroy 1982)

145

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 9: S. Claudio, Chiesa del Monastero di S. Antonio (da Bolman 2002)

Fig. 10: S. Teodoro e S. Sisinnio, Chiesa del Monastero di S. Antonio (da Bolman 2002)

146

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 11: S. Giorgio, Chiesa del Monastero di S. Antonio, khurus (da Bolman 2002)

Fig. 12: S. Mercurio, Chiesa del Monastero di S. Antonio, khurus (da Bolman 2002)

147

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 13: Icona di S. Mercurio, Yuhanna al Armani, 1772. Il Cairo, Chiesa del Monastero di S. Mercurio, Tabernacolo sulle reliquie del santo (foto V. Peruzzi)

Fig. 14: Santi cavalieri, Monastero di S. Paolo, cupola del nartece (van Moorsel 2002)

148

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 15: S. Mena e i mostri marini, Monastero di S. Paolo, cupola del nartece (Lyster 2008)

Fig. 16: S. Giulio di Aqfahs, icona di Ibrahim al Nasih, 1757. Il Cairo, Chiesa del Monastero di S. Mercurio

149

Aegyptiaca et Orientalia. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 17: S. Isidoro e il cane parlante. Monastero di S. Paolo, cupola del nartece (Lyster 2008)

Fig. 18: S. Giorgio che uccide il drago e salva la principessa, Icona del 1753. Il Cairo, Chiesa della Vergine Al Damshiriah (Atalla 1998)

150

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

En réalité, il n’assume que le rôle d’un intermédiaire entre le souverain et la divinité, ayant à charge de surveiller et de protéger la donation.6

PERSONNAGES REPRÉSENTÉS AVEC LES ATTRIBUTS DE LEUR FONCTION DANS LES SOURCES DE LA TROISIÈME PÉRIODE INTERMÉDIAIRE ET DE LA BASSE ÉPOQUE

2. Brooklyn 67.1187 Dans le cintre de cette stèle de donation, datée de l’an 22 du règne de Chéchonq III, est représenté un homme qui joue de la double flûte.

Herman De Meulenaere

Selon l’inscription, il s’agit du “ flûtiste (wDny) de Horpakhered, Ankhhorpakhered ”. Comme sur la stèle précédente, ce musicien est sans doute l’employé du temple au soin duquel le grand des Mâ Hornakht a confié son don d’un terrain de 10 aroures au dieu Harpocrate de Mendès. Le vocable (wDny), dérivé de wDn “ flûte ”, s’ajoute au vocabulaire absent du Wörterbuch.

Abstract This study presents some steles and other objects of the Third Intermediate Period and Late Period with images of people, above all musicians, portrayed with iconographic attributes which are indicative of their real functions.

3. Stèle de Bouto8 Datée de l’an 38 du règne de Chéchonq V, cette stèle de donation s’apparente aux deux précedentes par la présence, à droite du tableau qui orne le cintre, du personnage qui aura la responsabilité de veiller sur le champ de 10 aroures que le chef des Libou Tefnakht offre à Horus de Pé. C’est le “ chef des chanteurs (mr Hsyw) d’Horus de Pé, Hor ”, qui est assis sur un fauteuil en jouant du luth.

Lorsqu’un personnage se fait représenter en sculpture ou en relief, il arrive qu’il manifeste son rang ou sa fonction par un attribut particulier. Ainsi, certaines catégories de hauts dignitaires administratifs ou religieux, tels que les vizirs1 ou les grands-prêtres de Ptah à Memphis,2 se distinguent par un habillement qui leur est propre. Les personnes qui appartenaient à des classes sociales moins élevées ne jouissent pas de ce privilège. S’ils désirent indiquer la profession qu’elles ont exercée, elles n’ont d’autre choix que de se faire représenter avec un attribut qui la caractérise.3 Le phénomène a attiré l’attention de B. van de Walle qui lui a consacré une communication aux “Journées des Orientalistes belges”, publiée dans les actes de cette réunion.4 Dans les années qui nous en séparent, la documentation qu’il avait réunie à propos de la Troisième Période Intermédiaire et de la Basse Époque s’est accrue par plusieurs nouveaux exemples à tel point qu’il nous paraît souhaitable d’en présenter un relevé aussi complet que possible et d’en tirer en passant quelques conclusions.

Ces trois stèles de donation semblent indiquer qu’à la Troisième Période Intermédiaire les musiciens constituaient, au sein du personnel laïc des temples, la classe privilégiée pour assumer la responsabilité des tenures. Ajoutons-y, comme preuve supplémentaire, la stèle Le Caire JE 85647 du règne de Chéchonq V.9 Dans le cintre, un musicien jouant de la lyre se tient debout devant la déesse Sekhmet. Nous ignorons malheureusement son nom et son titre, perdus à tout jamais dans les quatre ou cinq premières lignes de l’inscription intentionnellement effacées. 4. Le Caire RT 11/1/25/110 L’unique face décorée de ce pyramidion, sans doute originaire de Bubastis, figure un personnage debout rendant hommage au dieu Osiris assis. Dans la légende qui l’accompagne, il est défini comme “ le danseur en chef (Hry Tnf), Horihotep ”. Il porte sur son épaule gauche une ménat qui nous autorise à croire que cet attribut est une insigne caractéristique de sa fonction de danseurmusicien. La scène nous invite à réexaminer la stèle de donation Brooklyn 67.119, datée de l’an 15 du roi Chéchonq V.11 Un grand chef des Libou y offre un terrain de dix aroures à Sekhmet et à Heka. Son récipiendaire est un “ danseur en chef (Hry Tnf) de Sekhmet ”. Il est

Les occupations évoquées dans ces représentations sont de nature variée mais les musiciens prédominent. Nous traiterons de ceux-ci en premier lieu en terminant avec un aperçu des illustrations relatives à d’autres fonctions A. Musiciens 1. Paris, Louvre E. 80995 Tenant dans ses mains deux vases, le roi Osorkon Ier offre un terrain à la déesse Hathor. Selon le texte gravé en-dessous de la scène, le “ chanteur en chef (Hry Hsy) d’Hathor, Pairnoubet ” reçoit le don; de petite taille, il est assis aux pieds du roi sur un tabouret et joue de la harpe.

6

Pour cet usage, voir De Meulenaere 1990, 73. Kitchen 1969-70, 59-63; Jansen-Winkeln 2007, 198-199. 8 Yoyotte 1961, 152, pl. I, 1; Jansen-Winkeln 2007, 273. 9 Abd el-Mohsen Bakir 1943, 75-81; Jansen-Winkeln 2007, 275; Spencer 2008, 27. 10 Quaegebeur, Rammant-Peeters 1982, 179-205; Jansen-Winkeln 2007, 422. 11 Kitchen 1969-70, 64-65; Jansen-Winkeln 2007, 274; Spencer 2008, 27. 7

1

Helck, Otto, Westendorf 1986, I, coll. 230-231 (Amtstracht). Helck, Otto, Westendorf 1986, II, coll. 1257 (Hohenpriester von Memphis). 3 Helck, Otto, Westendorf 1986, I, coll. 229-230 (Amtsinsignien) 4 van de Walle 1986, 59-63. 5 Cattaui 1888, 84, pl. 25; Jansen-Winkeln 2007, 59-60. 2

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représenté à la suite du donateur et porte, selon l’éditeur de la stèle, une épaisse tresse de cheveux derrière la tête. Cependant, la gravure du tableau est si négligée qu’on peut fort bien s’imaginer qu’au lieu d’une tresse de cheveux ce personnage a suspendu une ménat à son épaule. Cette interprétation concorderait parfaitement avec la fonction qui lui est attribuée dans l’inscription. Dans le même contexte, la stèle Londres, University College 14534, datée de l’an 22 du roi Chéchonq V, se recommande à notre attention.12 Son cintre représente un personnage debout, levant de la main droite un sistre et tenant de la main gauche une ménat. Derrière lui, une courte légende verticale, se rapportant à la scène, pose problème. Contrairement à ceux qui ont essayé de la comprendre, nous n’hésitons pas à traduire “ jouer de la ménat en fête pour apaiser la Dorée ”. Cela signifie que nous supposons l’existence d’un verbe mni “ jouer de la ménat ” et que nous interprétons le signe mal identifiable qui a embarrassé les traducteurs précédents comme le hiéroglyphe substantif Hb “ fête ”.13

se joignant à

assis sur un tabouret en jouant de la harpe; sur la seconde, il se tient debout avec une cithare, posée sur un support. B. Autres Fonctions Pareillement aux musiciens, bien d’autres hommes et femmes ont tenu à faire aux dieux l’hommage de l’exercice de leur profession. Nous avons relevé les exemples suivants. 1. Prêtre horaire en chef (Hry imy-wnwt).18 La stèle Genève 23473, datée de l’an 21 du roi Ouipout II, fait état du don d’un champ de cinq aroures au dieu Harpocrate de Mendès par un grand chef libyen. Le “ prêtre horaire en chef d’Harpocrate, Gemnefhorbak ” en est le récipiendaire. Il est représenté à petite échelle devant le donateur en tenant de la main droite son “ bâton horoscopique ”.19 En rendant hommage à Atoum et à RêHorakhty, le “ prêtre horaire en chef d’Osiris à Abydos, Penbou ” figure à deux reprises sur la stèle Florence 2502 avec l’instrument dont il se sert pour observer les astres.20

pour former le

5. Paris, Louvre E. 131514 Cette célèbre stèle en bois de la Troisième Période Intermédiaire, maintes fois citée, représente le “ chanteur d’Amon qui réside à Thèbes (Hsy n Imn Hry-ib WAst), Djedkhonsouioufankh ” jouant de la harpe à genoux devant le dieu Rê-Horakhty assis.

2. Prêtre nourricier (xnmty) La stèle ÄS 40 du Musée de Munich est décorée d’une scène exceptionnelle. Face à Osiris, Isis et Nephthys, “ le prêtre nourricier de Néferhotep-l’enfant, Padinéferhotep ” tient dans ses bras le nouveau-né, emmitouflé dans une grande cape.21

6. Le Caire JE 6575615 Vraisemblablement à la 25e dynastie, le même thème est évoqué sur la stèle en bois du “ chef des chanteurs d’Amon (mr Hsyw n ‘Imn), Horoudja ”, qui, assis sur un tabouret, joue de la harpe devant le dieu Rê-Horakhty debout.

3. Choachyte (wAH mw) Une stèle du Musée de York montre “ le choachyte Petamon ” avec une situle qui lui pend au bras.22 Pour une raison qui nous échappe, “ le choachyte Irthorrou ”, qui porte sur les épaules deux jarres attachées à un morceau de bois, occupe une place dans le cintre de la stèle Le Caire CG 22022 dont il n’est pas le propriétaire.23

7. Paris, Louvre E. 1471916 Ce magnifique bronze d’époque kouchite montre, sur les côtés droit et gauche du siège sur lequel la déesse Ouadjet est assise, un homme qui tient à deux mains une trompette dont il joue respectivement devant la déesse et devant Horus de Pé. Une inscription sur le dos du siège le définit comme “ le joueur de trompette (Dd m Snb), Paenpé ”.

4. Brasseur (atx xsy) Sur une stèle originaire d’Héliopolis, “ le brasseur de la Demeure de Rê, Pentioufankh ”, accompagné de son épouse, se présente devant la triade osirienne en transportant sur l’épaule gauche une grande jarre et en tenant de la main droite un coffret rectangulaire contenant divers récipients de boissons.24

8. Paris, Louvre AF 11682 et Le Caire JE 6315717 Sur ces deux stèles, trouvées à Tanis et appartenant probablement à l’époque ptolémaïque, on voit le “ chef des chanteurs (mr Hsyw) d’Amon-Rê, le seigneur du Trône du Double Pays, Horoudja ”, devant la triade thébaine (Amon, Mout, Khonsou). Sur la première, il est

5. Magasinier (Sna yt) À tout point de vue semblable à la précédente et provenant du même site, la stèle Le Caire JE 89859 met en scène “ le magasinier de la Demeure de Rê, Tchamensety ”, levant son bras gauche pour maintenir sur sa tête un grand plateau, chargé d’un amas de pains.25

12

18

13

19

Stewart 1983, 4-5, pl. 5; Jansen-Winkeln 2007, 291-292. À tort, croyons-nous, Stewart 1983, 5 se prononce en faveur de sA “protection” et Jansen-Winkeln 2007, 292 en faveur de iAbi “main gauche”. 14 Saleh 2007, 218 (avec bibliographie antérieure). 15 Saleh 2007, 197 (avec bibliographie antérieure). 16 Vandier 1967, 11-17; Fischer 1988, 108. 17 Zivie-Coche 2004, 46-50.

Sur ce titre, voir en particulier Khaled Daoud 1993, 261-264. Chappaz 1982, 71-81; Jansen-Winkeln 2007, 370-371. 20 Bosticco 1972, III, pl. 11; van de Walle 1986, 61. 21 Collombert 1997, 34-40. 22 Sharpe1837-1855, pl. 57; van de Walle 1986, 61-62. 23 Ahmed bey Kamal 1905, 23-24, pl. VIII. 24 Drioton 1937-1938, 231-45; van de Walle 1986, 61. 25 Essam El-Banna 1985, 247-253, pl. I et II.

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leur genre d’occupation d’une façon tout à fait identique. En effet, chacun porte sur la tête un plateau chargé de petits gâteaux (?) rectangulaires et d’un objet indéfinissable en forme de croissant lunaire. Malgré cette similitude, les deux hommes ne semblent pas exercer la même fonction. Le premier est un Hry a(t) n pr Imn, le second un sDm-aS n aH(t) n Imn.33 Ces indications peu précises nous permettent tout au plus de supposer qu’ils étaient l’un et l’autre chargés d’approvisionner les magasins du temple d’Amon à Karnak. La troisième stèle est encore plus embarrassante malgré son état de conservation remarquable. Vendue aux enchères publiques à New York, chez Sotheby’s, le 10 décembre 1999, n° 230, elle montre un homme debout adorant Rê-Horakhty et soulevant de la main gauche un vase à onguent (?) bouché qui repose sur son épaule.34 Son nom Djedhorioufankh est précédé d’un titre que nous sommes tentés de lire Hry angr sans en comprendre la signification. Attendons de l’aide pour franchir ce fâcheux obstacle.

6. Portier ( iry-aA) Selon la stèle Athènes 32, le roi Tefnakht, en l’an 8 de son règne, remit au “ portier de Neith, Irefaâenneith ” un champ de dix aroures, destiné au temple de Neith à Sais.26 Le récipiendaire du don occupe, à deux reprises, une place discrète dans le cintre de la stèle, muni des attributs caractéristiques de sa fonction: un balai qui pend à son bras gauche et un bâton fourchu dans sa main gauche servant à immobiliser les serpents. Ce sont deux charges habituellement effectuées par des portiers. En tant que balayeurs, ceux-ci sont aussi désignés par l’appellation kAwty, comme le montre le cercueil Leyde M 24.27 La relation étroite entre les balayeurs et les gardiens des portes est parfaitement illustrée par le cercueil Londres, British Museum 6682 dont le propriétaire est alternativement qualifié de Hry kswty et de Hry iry-aA du temple de Rê.28 7. Carrier (bAy) Sur certaines stèles du Sérapéum, des carriers de l’OsirisApis maintiennent une houe sur l’épaule.29 8. Porteuse de vase à libation (Hsyt ?) Cette occupation, réservée à des dames, n’est pas renseignée au Wörterbuch. Deux témoignages nous paraissent étayer son existence. Le premier est fourni par rend la stèle Hanovre 1973.10 sur laquelle une hommage au dieu Rê-Horakhty, une situle suspendue à son bras droit.30 C’est pareillement avec un vase à s’incline devant le dieu libation au bras qu’une autre Amon et la déesse Mout sur une stèle vendue aux enchères publiques à Londres, chez Christie’s, le 25 avril 2001, n° 389. Dans les deux cas on a reconnu dans ces dames des chanteuses, sans qu’on se soit demandé pourquoi celles-ci préfèrent se faire représenter avec un objet de culte plutôt qu’avec un instrument de musique. Remarquons, en outre, que contrairement à l’orthographe habituelle de Hsyt “ chanteuse ” le terme est suivi du sur la stèle londonienne. On est donc déterminatif amené à croire qu’il dérive non de Hsi “ chanter ” mais du vase Hs avec omission de la désinence de dépendance -y et de la finale -t du féminin: Hs(yt) “ porteuse de vase à libation ”. Bref, à notre avis, ces deux dames préfigurent les choachytes féminins de l’époque ptolémaïque.

Bibliographie Abd el-Mohsen Bakir 1943. A Donation Stela of the Twenty-Second Dynasty. Annales du Service des Antiquités d’Égypte 43, 75-81. Ahmed bey Kamal 1905. Catalogue général des antiquités égyptiennes du Musée du Caire. Stèles ptolémaïques et romaines. Le Caire. Bosticco S. 1972. Museo archeologico di Firenze, Le stele egiziane di epoca tarda III. Roma, Istituto Poligrafico dello Stato. Capart J. 1940. Lexicographie et Archéologie. Chronique d’Égypte 15, 247-248. Chappaz J.-L. 1982. Une stèle de donation de l’An 21 de Ioupout II au Musée d’art et d’histoire. Genava 30, 7181. Cattaui A. 1888. Rapport dur une mission dans la HauteÉgypte (août-décembre 1886). Revue Égyptologique 5, 78-85, pl. 17-21.

Avant de terminer, nous souhaitons attirer l’attention sur trois documents qui font partie du dossier examiné ici sans que nous ayons réussi à leur trouver une place adéquate. Il s’agit d’abord des deux stèles thébaines, Londres, British Museum 3589631 et Le Caire JE 37691,32 respectivement de la Troisième Période Intermédiaire et de la 25e/26e dynastie, sur lesquelles deux personnes, devant les divinités qu’elles révèrent, mettent en évidence

Collombert Ph. 1997. Hout-sekhem et le septième nome de Haute-Égypte II. Les stèles tardives. Revue d’Égyptologie 48 (1997), 15-70, pl. I-VII. Dawson W., Gray P.H.K. 1968. Catalogue of Egyptian Antiquities in the British Museum I. Mummies and Human Remains. London, British Museum Press.

26

Ramadan El-Sayed 1975, 37-53; Jansen-Winkeln 2007, 372-373; van de Walle 1986, 62. 27 Capart 1940, 247-248; van de Walle 1986, 62. 28 Dawson, Gray 1968, 14, n. 7. 29 Malinine, Posener, Vercoutter 1968, n. 127 (pl. XXV), 128 (pl. XXXVI), 138 (pl. XXXVIII), 159 et 160 (pl. XLIV). 30 Munro (no date), 8. 31 Saleh 2007, 161; Jansen-Winkeln 2007, 107. 32 El-Leithy 2004, 57-63.

33

Notre lecture du titre diffère de celle qui a été proposée par van de Walle 1986, 61. 34 Selon le catalogue de vente, il s’agirait plutôt d’un vase à libation.

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croit les légendes démotiques. La première, vêtue d’une longue robe avec encolure, porte une perruque courte, alors que la deuxième est momiforme et coiffée de la perruque tripartite. Cette dernière, comme parfois les quatre Fils d’Horus, tient dans ses mains une pièce morceau de tissu, ce qui est inhabituel dans la représentation des défunts momifiés. On notera également une certaine hésitation de la part du graveur, puisqu’il semble avoir commencé à tracer le pan d’une robe longue, avant d’opter pour un corps de momie. De la même manière, la première femme fait le geste d’adoration, alors qu’elle est censée faire une offrande d’encens – le pot à encens paraît suspendu dans le vide. Enfin, entre les deux personnages se dresse une table d’offrandes approvisionnée (aiguière d’où s’échappe de l’eau, grand pain(?) ovale et volatile aux ailes déployées, le tout surmonté de fleurs de lotus).

DES STELES ET DES FEMMES DANS LE DELTA ORIENTAL A PROPOS DE QUELQUES STELES DEMOTIQUES FUNERAIRES Didier Devauchelle - Ghislaine Widmer *

Abstract Publication of a new Demotic stela kept in a private collection (stela Lugano 1) possibly originating from Eastern Delta and related to a group of funerary documents said to come from Tell Nebesheh. This paper also deals with the frequent occurrence of female names in the aforesaid corpus.

L’inscription démotique semble être due à deux mains différentes : les deux premières lignes désigneraient les défuntes représentées dans la scène et la troisième, sans indication de la filiation, serait un ajout postérieur.

Sergio Pernigotti avait attiré l’attention, en 1978, sur deux petites stèles funéraires démotiques à l’iconographie originale, qui semblaient provenir d’une région du Delta peu documentée et pour laquelle un seul parallèle était alors connu.1 Trente ans plus tard, une quatrième pièce est rattachée à cet ensemble.2 Le hasard nous a permis d’en retrouver un exemple supplémentaire, élargissant ainsi le corpus de ces monuments qui s’avère être plus important et plus varié qu’on ne l’a soupçonné jusqu’ici. L’occasion de ces Studi nous a semblé idéale pour publier la stèle Lugano 1 et ainsi proposer de nouvelles pistes de recherche autour d’un ensemble qui reste difficile à délimiter.3

1. @w.t-@r &a-mtr(?) ms &a-… 2. @w.t-@r &a-@r ms GyrA(?) 3. @wt-@r &A-Htr.t(?) 1. L’Hathor Tameter(?) [Tamêt],4 qu’a mise au monde Ta… 2. L’Hathor Tahor [Taôr],5 qu’a mise au monde Gyra(?)6 3. L’Hathor Taheteret(?) [Thatrês].7 Pour l’étude de la scène figurée, voir plus loin dans cet article.

La stèle Lugano 1 (Pl. I, II et VI)

Les stèles démotiques dites du Delta oriental

Cette stèle cintrée en calcaire (36,4 x 24 cm) représente deux défuntes(?) debout face à Osiris. Elle ne comporte qu’un seul registre à l’intérieur duquel ont été gravés dans le creux le disque solaire ailé, les personnages et les légendes écrites en démotique (3 lignes).

Dans le cadre de la publication de la stèle Lugano 1, il nous a semblé utile de rassembler les monuments comparables et d’essayer d’établir des critères de classification qui demeurent, bien entendu, provisoires, puisque le corpus est loin d’être complet. Pour ce faire, nous avons dû nous contenter de photographies d’origines diverses et de plus ou moins bonne qualité ; il n’a donc pas été possible de réaliser de véritables facsimilés. Les dessins qui illustrent ce travail – à l’exception de ceux reproduisant les stèles de Bologne –, sont dûs au talent de Martyne Bocquet, dessinatrice dans notre équipe de recherche, et sont avant tout destinés à mettre en évidence les particularités iconographiques de ces stèles. C’est la raison pour laquelle ils ne comportent pas toujours les inscriptions hiéroglyphiques ou

Un disque solaire ailé, orné de deux uræi retombants, épouse le cintre et surmonte toute la scène – noter la raie verticale qui divise la pierre en deux parties égales. Osiris, coiffé de la couronne-atef et portant le sceptreheka et le flagellum, y est représenté gainé et assis. Les deux figures qui lui font face sont des femmes, si l’on en *

Université Lille 3 / HALMA-IPEL UMR 8164. Pernigotti 1978 et Pernigotti 1994, 42-43 et Pl. XVIII-XIX. 2 Moje 2008. 3 Nous tenons à remercier tout particulièrement Martyne Bocquet qui a réalisé presque tous les dessins de cet article et Camille De Visscher, doctorante en égyptologie à l’Université de Lille 3, qui nous a généreusement fait profiter de sa base de données sur les stèles funéraires tardives. Notre reconnaissance va également à Olivier Perdu, à Valérie Daubenfeld et à Mélanie Cressent pour leur aide ponctuelle dans la finalisation de ce travail. Le Professeur Edda Bresciani nous a aimablement indiqué le lieu de conservation et le numéro d’inventaire de la stèle 1.3. 1

4 Cf. Lüddeckens et alii 1980-2000, 1189. À rapprocher de Pa-mtr [Pamêthis], cf. Lüddeckens et alii 1980-2000, 375. 5 Cf. Lüddeckens et alii 1980-2000, 1205. 6 À rapprocher de Kelês, mais qui est un anthroponyme masculin, cf. Preisigke 1922, 170 et aussi de &A-gyl, attesté dans ce corpus, sur la stèle 1.1. ? 7 Cf. Lüddeckens et alii 1980-2000, 1080.

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[démotique : &A-Hnw.t-ii.ti] au lieu de @p-iw, ce qui convient mieux pour un anthroponyme féminin. Lire &AHs(.t) au lieu de &A-Is.t, lecture également confirmée par le démotique.

démotiques, qui sont indiquées simplement par des grisés.8 La difficulté a été de trouver des critères pertinents pour lier ces documents entre eux. L’élément le plus caractéristique de ces stèles nous a semblé être la représentation de défunt(s) momiforme(s) sans divinité (Anubis ou Hathor, par exemple) qui les accompagne. À partir de cette singularité, nous avons constitué trois groupes, le premier rassemblant des défunts momiformes face à Osiris et devant une table d’offrandes (Pl. III-IV), le deuxième comportant le défunt momiforme seul, tourné vers la droite, devant une table d’offrandes (Pl. V) et le troisième, dans lequel deux personnages sont représentés face à Osiris, l’un, en costume des vivants, l’autre, momiforme (Pl. VI).

1.2. Stèle Bologne Eg. 3341 [26 x 18 cm], voir Pl. III. Bibliographie : Moje 2008, 185-188 qui rassemble les références antérieures. Inscriptions : une ligne de démotique. Anthroponymes : …(?), qu’a enfanté(e) Taânkh(?) [Taünchis] ; Tjaidjy [Sisois/Titois], qu’a enfanté(e) Taoush(?). 1.3. Stèle Milan Castello Sforzesco E 2001.01.02 [22,4 x 19,5 cm], voir Pl. III. Bibliographie : Moje 2008, 190-192 qui rassemble les références antérieures. Ajouter Bresciani 1999, 156, n° 64. Inscriptions : une colonne d’hiéroglyphes et six lignes de démotique. Anthroponymes : l’Osiris Ânkh [Ônchis], qu’a enfanté(e) Takhera(?) ; l’Osiris Tanakhet(ou) [Tanechatis], qu’a enfantée Sedjemeni ; l’Osiris Tanoua [Tanous], qu’a enfantée Herbastet ; l’Osiris Taererou [Taroou], qu’a enfantée Tanoua [Tanous] ; l’Osiris Bastetirsekh, qu’a enfantée Tanakhet(ou) [Tanechatis] et l’Osiris Geret(?), qu’a enfanté(e) Tanakhet(ou) [Tanechatis].

Groupe 1 : une ou deux figure(s) momiforme(s) devant Osiris, avec table d’offrandes approvisionnée ou non 1.1. Stèle Drouot 2003/1 n° 336 [49,2 x 34,5 cm], voir Pl. III et IV. Bibliographie : Moje 2008, 192-195. Inscriptions : sept colonnes d’hiéroglyphes et deux lignes de démotique. Anthroponymes : l’Osiris Payeftjaou(emâouy)khonsou, qu’a enfanté Henoutiiti ; l’Osiris Tagyl, qu’a enfantée Tahes(yt). La photographie publiée Pl. IV permet d’améliorer plusieurs lectures proposées par J. Moje. Voici une copie normalisée des légendes hiéroglyphiques du registre iconographique :

Au-dessus d’Osiris

1.4. Stèle Ancient Orient Museum Tokyo [44 cm de haut], voir Pl. III. Bibliographie : Suzuzi-Hori 1990, 127, n° 74.9 Inscriptions : six colonnes d’hiéroglyphes et deux lignes de démotique. Anthroponymes : l’Osiris … P(a)dikhonsou [Petechôns], surnommé Hornakht(?), qu’a enfanté Ta.... Osiris et le défunt sont accompagnés de légendes hiéroglyphiques. Voici la traduction que nous proposons pour celle qui surmonte la représentation d’Osiris, malheureusement peu caractéristique d’un lieu ou d’une région : “Paroles dites par Osiris, qui est à la tête de l’Occident, le grand dieu, maître d’Abydos(?), Ounnefer, gouverneur de Busiris(?), le grand souverain-ity dans la nécropole” (Dd-mdw i(n) Wsir xnty Imntt nTr aA nb AbDw(?) Wn-nfr HqA +dw(?) ity aA m Xrt-nTr). Au-dessus du défunt, son nom, précédé de l’appellation “Osiris” et de titres difficiles à lire sur la seule photographie publiée – ceux-ci sont peut-être en relation avec le culte de Bastet –, est qualifié de pn mAa-xrw. Dans la version démotique, cette locution est apparemment rendue par la périphrase iw=f mAa-xrw m-bAH Wsir Dt (ligne 2), rappelant ainsi d’autres documents du Delta.10 La première ligne de l’inscription démotique n’est pas déchiffrable sur la photographie publiée ; on ne reconnaît que l’anthroponyme PA-di-#nsw suivi de Dd.Ti n=f (“surnommé”).

Au-dessus des défunts

Au-dessus d’Osiris : xnty, dans l’épithète d’Osiris, n’est pas écrit avec le signe de la barque, mais avec la représentation stylisée des (cinq) aiguières rangées dans leur support. Au-dessus des défunts : l’absence de a.wy dans l’écriture hiéroglyphique du nom PA(y)=f-TAw-(m-a.wy)-#nsw n’est pas isolée et n’autorise aucune conclusion sur l’ordre de rédaction des inscriptions de la stèle. Lire @nw.t-ii.tw 8 En ce qui concerne la bibliographie, nous renvoyons à la dernière édition du document, quand celle-ci a rassemblé la bibliographie antérieure.

9

Nous tenons à remercier ici Flavie Deglin, doctorante en égyptologie, qui a eu la gentillesse de nous traduire les commentaires en japonais. 10 Voir Moje 2008, 194-195.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

1.5. Stèle CGC 31107 [26 x 16 cm] Bibliographie : Spiegelberg 1904, 39 et Pl. VIII ; Abdalla 1992, 997, n° 253. Inscriptions : deux lignes de démotique. Anthroponymes : l’Osiris Taimenenipy [Tamennôpis], qu’a enfantée Tasherethor(?) [Senuris]. Stèle cintrée assez fruste, fortement endommagée dans sa partie supérieure, sur laquelle on devine un personnage momiforme face à Osiris debout ; aucune table d’offrandes ne semble avoir été gravée. Sous la représentation, deux lignes de démotique mentionnent le nom de la défunte et sa filiation.

Anthroponymes : l’Osiris Âshaikhy [Asuchis], qu’a enfanté Tashay [Tasais].12 2.2. Stèle Marché 2001/3 [16,5 x 15,2 cm], voir Pl. V. Bibliographie : aucune – stèle vue chez un antiquaire en 2001.13 Inscriptions : deux lignes de démotique. Anthroponymes : l’Osiris Ta(en)iset [Taêsis],14 qu’a enfantée Tjaienimou [Thamous/Samôs].15

1.6. Stèle Drouot 2003/2 n° 714 [48,5 x 22,5 cm], voir Pl. IV. Bibliographie : Catalogue Drouot 2003/2, 181, n° 714. Inscriptions : trois lignes de démotique. Anthroponymes : Paheter(?) [Phatrês], qu’a mis au monde …(?). Le nom du second défunt est illisible. Il s’agit de la seule stèle du corpus à présenter un double registre, comportant deux scènes semblables – noter qu’Osiris est vêtu d’une gaine à résille. Le tracé général, tant des figures que des inscriptions, est très fruste. On devine les traces de deux lignes de démotique sous le premier registre – se terminant peut-être avec la mention m-bAH Wsir Sa(?) Dt(?) (“devant Osiris pour(?) l’éternité(?)”) – et une seule ligne, sous le second.

Groupe 3 : figure momiforme précédée d’un personnage en train d’officier/d’adorer Osiris, avec ou sans table d’offrandes

2.3. Stèle Drouot 2003/2 n° 547 [22,3 x 19,7 cm], voir Pl. V. Bibliographie : citée par Moje 2008, 204. Inscriptions : trois lignes de démotique. Anthroponymes : l’Osiris … (fils de?) Ousirnakht(?) [Osarnakhthis] qu’a enfanté Takhaâs [Tikas].

3.1. Stèle Lugano 1 [36,4 x 24 cm], voir Pl. I, II et VI. Bibliographie : publiée dans cet article. Inscriptions : trois lignes de démotique. Anthroponymes : l’Hathor Tameter(?) [Tamêt], qu’a mise au monde Ta… ; l’Hathor Tahor [Taôr], qu’a mise au monde Gyra(?) ; l’Hathor Taheteret(?) [Thatrês].

1.7. Stèle Marché 2001/1 [dimensions inconnues], vue dans le commerce en 2001. Bibliographie : aucune. Inscriptions : deux lignes et une légende en démotique. Anthroponymes : l’Osiris Naout, qu’a enfanté(e) Isetouret [Esoêris] (Wsir NAwti ms Is.t-wry). Il n’est pas possible de déterminer si l’anthroponyme Naout se rapporte à un homme ou à une femme.11 Stèle cintrée, avec disque solaire ailé et deux uræi retombants, comportant un personnage momiforme, coiffé d’une perruque tripartite assez inhabituelle, devant Osiris assis. Le dieu, légendé “Osiris” (en démotique!), est coiffé de la couronne-atef et tient dans ses mains le sceptre-heka et le flagellum. Sa gaine est quadrillée, tout comme celle du défunt. Aucune table d’offrandes ne les sépare. Le style n’est pas conventionnel, au contraire de la gravure du démotique, qui présente une main claire et classique. La scène occupe presque tout l’espace de la stèle, comme sur les stèles du groupe 2.

3.2. Stèle hiéroglyphique RC 1728 [25 cm de haut], voir Pl. VI. Bibliographie : Schwappach-Shirriff 2004, 24.16 Inscriptions : cinq colonnes d’hiéroglyphes. Anthroponymes : l’Osiris Djedher(pa)mai(?), qu’a enfanté Nephthys(?) ; l’Osiris Nephthys(?) (Wsir +d-Hr(pA)-mAi(?)17 ms Nb.t-Hw.t(?) ;18 Wsir Nb.t-Hw.t(?)). Cette stèle est la seule de l’ensemble étudié ici à ne pas comporter d’inscription démotique – l’éditeur du catalogue l’avait d’ailleurs datée de la Troisième Période Intermédiaire, mais son iconographie, très comparable à nos documents, nous incite à lui attribuer une date plus récente (fin de l’époque ptolémaïque ou début de la période romaine). À noter toutefois qu’Osiris est représenté debout et non assis (cf. la stèle 1.5.). Sur la photographie publiée, l’inscription hiéroglyphique est difficilement lisible. En dehors de la légende du dieu (“Osiris”), on croit deviner le nom du fils, suivi de celui de sa mère. Si tel est bien le cas, la question se pose de

Groupe 2 : figure momiforme, tournée vers la droite, devant une table d’offrandes approvisionnée, avec ou sans piliers encadrant la scène

12

Pour la lecture Ta-Sy au lieu de Ta-pA-Sy, voir infra note 19. Nous remercions son ancien propriétaire qui nous a permis d’en prendre une photographie. 14 Pour la lecture &A-Is.t ou &A-n-Is.t, comparer avec Pa(en)iset, pour lequel voir Widmer 2010, note w. 15 Tjaienimou est rarement attesté comme nom de femme, cf. Lüddeckens et alii, 1980-2000, 1348-1349. 16 Nous remercions O. Perdu d’avoir attiré notre attention sur ce document. 17 Sur cette formation onomastique, voir Quaegebeur 1977 et Vernus 1980, 128. 18 Pour cet anthroponyme qui ne semble pas attesté de manière assurée à l’époque tardive, cf. Ranke 1935, 189, 1 et Quaegebeur 1991, 116. 13

2.1. Stèle Bologne Eg. 3342 [24 x 17 cm], voir Pl. V. Bibliographie : Moje 2008, 188-189. Inscriptions : une ligne de démotique. 11 Peut-être avons-nous ici une variante de NAti (cf. Lüddeckens et alii, 627), nom qui n’est attesté jusqu’ici que pour des hommes, mais que l’on a rapproché d’un anthroponyme féminin nabatéen.

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savoir pourquoi le fils est représenté en officiant et sa mère, momiforme, alors que tous les deux semblent décédés, puisqu’introduits par l’épithète “Osiris”.

hiéroglyphiques ; les titres sont très rares. Trois de nos stèles portent également des textes hiéroglyphiques, gravés en colonnes bien délimitées, qui s’insèrent parfaitement dans le registre iconographique. Au contraire, le démotique occupe différentes positions, dans les espaces libres de la scène ou sous celle-ci, et pourrait avoir été gravé dans un second temps. Du fait de l’absence de formules funéraires, les inscriptions semblent servir de légendes à l’image.

3.3. Stèle Marché 2001/2 [dimensions inconnues], vue dans le commerce en 2001. Bibliographie : aucune. Inscriptions : une ligne de démotique. Anthroponymes : l’Osiris Hor [Hôros], fils de(?) Paimen [Pamoun(is)], qu’a enfanté Tanefershay [Tephersais/Tnaphersais] (Wsir @r sA(?) Pa-Imn ms &A-nfr-Sy).19 Stèle cintrée avec disque ailé (sans pennes) et deux uræi retombants, l’un coiffé de la couronne rouge, l’autre de la couronne blanche, surmontant la scène. Un personnage vêtu d’un long pagne noué à la taille présente le bras à encens au dieu Osiris assis et paré de ses attributs traditionnels. Derrière l’officiant se tient une figure momiforme. L’inscription démotique, plutôt soignée, comme la stèle dans son ensemble, a été gravée sous le registre iconographique et ne mentionne qu’un seul défunt.

˗ présence ou non d’une table d’offrandes approvisionnée – sauf pour le document 1.2. Celle-ci revêt la forme d’un bassin ou d’un T. Les aliments représentés varient, mais on mentionnera principalement : a) un vase surmonté de fleurs de lotus ; b) l’alignement de pains ronds ; c) la figuration d’un volatile non troussé (cf. stèles 2.1. et 3.1.). À noter la similarité assez frappante entre l’agencement de la table d’offrandes de la stèle 2.1. et celui de la stèle JE 45702, provenant de Xoïs.21 Les femmes du corpus

Remarques iconographiques L’un des intérêts de ces modestes monuments funéraires est le nombre de femmes qui sont directement ou indirectement évoquées. En effet, sur treize stèles, quelque dix défuntes apparaissent, seules ou accompagnées, à égalité de nombre avec les hommes. Par ailleurs, le manque de parallèles et de documents contenant des anthroponymes féminins, en particulier pour ce qui est du Delta, complique la tâche, puisque certains noms attestés jusqu’ici uniquement pour des hommes pourraient aussi avoir été portés par des femmes – par exemple Asuchis ou Na(ou)t. Quant à la filiation, elle est essentiellement matrilinéaire – fournissant presque vingt noms de mères – répondant ainsi à une tradition bien attestée dans la documentation funéraire depuis le 1er millénaire.22

Dans son article, Jan Moje (2008, 204-205) a regroupé un certain nombre de particularités qui, combinées, semblent “typiques” des stèles funéraires dites de Tell Nebesheh. Comme le corpus a pu être augmenté et que d’autres monuments viendront sans doute encore l’enrichir, il serait imprudent d’établir des critères définitifs. Aussi proposons-nous simplement de souligner des tendances générales, car, si ces stèles proviennent bien de la même nécropole, elles présentent des variations assez importantes entre elles : ˗ stèles cintrées en calcaire, de dimensions souvent modestes (à partir de 16 cm, mais pouvant atteindre 49 cm de haut) ; un disque ailé – avec ou sans indication des pennes – épousant le cintre et généralement décoré d’uræi retombants, occupe la partie supérieure du registre figuré.

Une autre difficulté doit être soulignée : quel est le lien entre les personnages représentés et les noms mentionnés? Notons tout d’abord que les momies de femmes ne se distinguent pas de celles des hommes. Sur la stèle 1.1., les deux momies semblent correspondre aux deux personnes mentionnées dans les textes hiéroglyphique et démotique – un homme et une femme ; il en va de même pour les défunts représentés seuls, devant leur table d’offrandes. En revanche, sur la stèle 1.3., deux momies sont représentées, alors que six noms sont mentionnés – peut-être le mari, accompagné de ses deux épouses et de trois enfants issus de deux mariages. Dans le document 3.1., les personnages, identifiés par une légende hiéroglyphique, sont tous deux qualifiés

˗ représentation momiforme du défunt, avec perruque tripartite – à différencier de celle de la stèle Kôm el-Hisn 1.20 ˗ Osiris, quand il est figuré, est généralement représenté assis, coiffé de la couronne-atef et tenant le sceptre-heka et le flagellum ; les quelques variantes où le dieu est debout ne sont peut-être pas significatives. ˗ inscription démotique succincte contenant le nom et la filiation (maternelle) du ou des défunt(s) – à l’exception de la stèle 3.2., qui ne préserve que des légendes

21

Wildung 1977, Pl. XIX. Cf. Caminos 1992, 344-345 et Caminos 1993, 108-109 et 120, note 17. Nous ne partageons donc pas l’avis exprimé par J. Moje (2008, 185, 187 et 196) sur la particularité de la filiation matrilinéaire dans les stèles du Delta ; en effet, celle-ci nous semble plutôt relever de la tradition funéraire bien attestée sur papyrus ou bandelettes de l’époque tardive.

19

22

Lüddeckens et alii, 2000, 1069. Cet exemple vient confirmer la lecture proposée initialement par S. Pernigotti sur la stèle Bologne Eg. 3342, mais corrigée à tort par J. Moje, où il faut bien lire Ta-Sy et non Ta-pA-Sy – la forme du S(A) est très semblable dans les deux stèles. 20 Voir infra note 24.

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d’“Osiris”, mais seul le second – la femme (?) – est représenté momiforme. L’homme, qui la précède, est vêtu d’un long pagne et se présente devant Osiris les bras levés en adoration.

Conclusion Nous avons essayé, par ce rapide survol, d’attirer l’attention sur un ensemble de stèles funéraires démotiques qui semblent pouvoir être rapprochées et dont la provenance pourrait être le Delta oriental, voire la région de Nebesheh. Toutefois, dans la mesure où d’autres monuments – conservés dans des magasins de site, des collections privées ou publiques ou bien encore à exhumer – viendront sans doute enrichir ce corpus, celuici reste ouvert. Pour ces mêmes raisons et par mesure de précaution, nous conserverons la date qui leur est traditionnellement attribuée (1er siècle av. J.-C. – 1er siècle apr. J.-C.).

La stèle 3.3. est encore plus intéressante : un seul défunt est mentionné dans l’inscription démotique, alors que deux personnages sont représentés. Avons-nous ici un officiant – à nouveau vêtu d’un long pagne – accompagnant le défunt momiforme ou bien la représentation de deux états du défunt, l’un sous la forme “vivante”, l’autre sous forme de momie ?23 On pourra comparer avec un document provenant du Delta occidental, la stèle Kôm el-Hisn 1.24 Sous le disque ailé, cinq personnages sont représentés devant un Osiris assis ; les deux premiers lui présentent un vase, alors que les trois suivants sont figurés sous forme de momies, sans perruque tripartite. Le long texte démotique, nettement séparé du registre iconographique, énumère bien cinq “Osiris”, deux hommes – qualifiés de rnp, titre du prêtre spécifique de la région de Kôm el-Hisn – et trois femmes, appartenant vraisemblablement à la même famille ; leur filiation remonte jusqu’aux grands-mères, sans mentionner aucun grand-père. Le problème se pose aussi pour la stèle Lugano 1 (= document 3.1.). Si l’on en croit les légendes démotiques principales, il s’agirait de deux femmes défuntes – désignées comme des “Hathor” et non des “Osiris”, ce qui est unique pour l’instant dans ce corpus ; la première, en costume des vivants et dont le ventre et la poitrine sont bien marqués, porte une perruque courte et fait l’offrande de l’encens, tandis que la deuxième est momiforme, mais tient entre ses mains une pièce de tissus. Aucun lien de parenté ne semble les unir : aurionsnous ici le cas d’une femme officiante, défunte ou non au moment de la gravure de la stèle ? L’adjonction du nom d’une troisième femme, également qualifiée d’“Hathor”, mais par une main différente, n’apporte pas de réponse à cette question.

Malgré l’aspect un peu fruste de plusieurs de ces stèles, elles démontrent presque toutes une qualité certaine dans la réalisation des scènes et dans la gravure du démotique et des hiéroglyphes. Elles présentent malheureusement peu de critères internes permettant de privilégier une provenance ou une autre – nous n’y rencontrons pour ainsi dire aucun titre ni toponyme spécifique, ni même d’anthroponyme que l’on pourrait rattacher à un lieu ou à un culte. De fait, le seul élément qui autorise un rapprochement avec Nebesheh est la provenance indiquée par les vendeurs de certains de nos monuments (1.2., 1.3. et 2.1.). Malheureusement, les découvertes archéologiques faites sur ce Tell révèlent peu ou pas de traces de nécropoles de l’époque gréco-romaine.25 On peut alors se demander si ces stèles ne proviendraient pas d’un site qui pas été encore précisément localisé, pas nécessairement à Tell Nebesheh, ni même à proximité immédiate de ce site. Prenons le cas des stèles dites de Kôm Abou Billou : parmi les centaines de documents connus à ce jour, deux ou trois types particulièrement célèbres font souvent oublier la variété iconographique qu’elles attestent et c’est uniquement la découverte de monuments atypiques in situ qui permet de les attribuer à cette nécropole. Il convient donc de s’interroger sur la pertinence des critères iconographiques dans la délimitation de notre corpus. Aussi, des stèles démotiques dites provenir plus généralement du Delta ou d’autres sites que Nebesheh pourraient appartenir à l’ensemble étudié ici. Bien qu’elles ne conservent pas de représentation de personnage momiforme, deux d’entre elles rappellent, par leur modelé et leur style, les monuments dits de Nebesheh :

On peut donc se demander si la présence de tant de femmes dans ce corpus est uniquement due au hasard de la préservation. De plus, dans trois, voire quatre de nos stèles (1.5., 2.2, 3.1. et, peut-être 1.7.), les femmes apparaissent seules, c’est-à-dire sans époux ni fils. Tant que le contexte archéologique restera inconnu, rien ne permettra d’affirmer que ces stèles ne proviennent pas de tombes familiales : elles pourraient appartenir à une mère, une épouse ou une fille morte prématurément et n’apporteraient donc aucun témoignage particulier sur la situation des femmes dans la région à l’époque grécoromaine.

˗ la stèle Sotheby New York 16.6.2000 n° 34, apparue, comme d’autres, sur le marché dans les années 2000 et 25 Voir, en dernier lieu, Leclère 2008, 495-496, qui envisage que « les membres de la population d’Imet à l’époque lagide et romaine se soient fait inhumer sur un autre site à proximité, pour des raisons tenant peutêtre à l’occupation complète de la zone funéraire par les tombes antérieures et au manque de place ». Pour la documentation écrite dite provenir de ce site, voir aussi Razanajao 2006 et la base de données Trismegistos, sous “ Imet (Tell Nebesha) ”.

23

Cette hypothèse nous a été suggérée par C. De Visscher. On ne peut totalement exclure la représentation d’un fils effectuant le culte funéraire pour son père défunt. 24 Cf. Menu 1974, revue par Devauchelle 1985 et mentionnée par Moje 2008, 200-201. La longue inscription démotique confirme la provenance indiquée par les vendeurs.

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publiée par M. Depauw en 2001, qui avait lui-même déjà noté la similitude iconographique avec les stèles de Bologne (1.2. et 2.1.).26 Le nom du personnage qui présente l’encens et fait une libation au dieu des morts n’est pas introduit par l’épithète “Osiris”, mais peut-être par un titre (“celui qui connaît le ciel”), qui reste sans parallèle. Une autre solution serait de considérer Rx-p.t comme un anthroponyme, suivi de la filiation parternelle et maternelle, mais un tel nom n’est pas connu par ailleurs.

Bresciani E. 1999. Stele con testo funerario in demotico. In F. Tiradritti (a cura di), Sesh. Lingue e scritture nell’Antico Egitto. Milano, Electa. Caminos R. A. 1992. On Ancient Egyptian Mummy Bandage. Orientalia 61, 337-353. Caminos R. A. 1993. A Passport to the Beyond : Papyrus British Museum 10194. In E.E. Kormisheva (ed.), Ancient Egypt and Kush. In Memoriam Mikhail A. Korostovtsev, 104-123. Moscou, Nauka Oriental Literature Publishers.

˗ la stèle Catalogue Drouot 2003/2, 138 n° 546 et Catalogue Drouot 2004, 124 n° 583 (mentionnée par Moje 2008, 204), dont certains détails rappellent les documents 1.1., 1.4., ainsi que Sotheby New York 16.6.2000 n° 34 évoqué ci-dessus. Elle comporte, dans son registre principal, des légendes hiéroglyphiques, ainsi qu’une ligne de démotique en dessous de celui-ci. En revanche, le disque solaire est séparé de la scène par le signe du ciel et une représentation d’Anubis effectuant la momification s’insère entre Osiris et le défunt en adoration. En outre, une inscription grecque semble avoir été ajoutée postérieurement.

Catalogue Drouot 2003/1. Catalogue de vente Archéologie, Drouot-Montaigne 17 mars – 18 mars 2003. Paris, Piasa S.A. Catalogue Drouot 2003/2. Catalogue de vente Archéologie, Drouot-Montaigne 1er octobre – 2 octobre 2003. Paris, Piasa S.A. Catalogue Drouot 2004. Catalogue de vente Archéologie, Drouot-Richelieu 28 septembre – 29 septembre 2004. Paris, Piasa S.A.

Que penser alors de la représentation de la table d’offrandes sur la stèle JE 45702 provenant de Xoïs – un volatile posé au-dessus d’un assortiment de pains –27 qui rappelle étrangement celle de la stèle Bologne Eg. 3342 (= document 2.1.) ? L’explication d’un atelier commun pourrait être avancée, mais les témoignages parvenus jusqu’à nous ne sont pas assez significatifs et nombreux : il est toujours d’actualité de publier des “ testi minori demotici ”!

Depauw M. 2001. A Demotic Stela of an Astronomer. Enchoria 27, 1-2 et Pl. 1. Devauchelle D. 1985. À propos de deux stèles démotiques provenant de Kom el-Hisn. Revue d’Égyptologie 36, 170-172. Leclère Fr. 2008. Les villes de Basse Égypte au Ier millénaire av. J.-C. (Bibliothèque d’Étude 144). Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale.

Addendum Lüddeckens E. et alii 1980-2000. Demotisches Namenbuch I, 1-17. Wiesbaden, Dr. Ludwig Reichert.

Helmut Brandl, que nous avons rencontré en juin 2010 à Lille lors d’une Journée d’études, a aimablement mis à notre disposition la photographie d’une stèle conservée au Sharkeya National Museum, aujourd’hui fermé (Inv. 1538 (900) ; signalée aussi par Moje 2008, 183 et 204). Celle-ci (33 cm de haut), d’un style plutôt fruste, se rattache au groupe 2 de notre classification. Une inscription démotique de dieux lignes est gravée à hauteur des têtes d’Osiris et du défunt momiforme ; un oiseau vivant est posé au-dessus des pains de la table d’offrandes. Nous remercions très sincèrement M.I. Bakr e H. Brandl de nous avoir permis de citer ce document.

Lüddeckens E. et alii 2000. Demotisches Namenbuch I, 18. Wiesbaden, Dr. Ludwig Reichert. Menu B. 1974. Une stèle démotique inédite. Revue d’Égyptologie 26, 66-72. Menu B. 1978. Stèle Kôm el-Hisn n°2. Revue d’Égyptologie 28, 158-160. Moje J. 2008. Die demotischen Stelen aus der Gegend von Hussaniya / Tell Nebesheh. The Journal of Egyptian Archaeology 94, 183-208. Pernigotti S. 1978. In S. Pernigotti, L. Criscuolo, Testi demotici minori. Enchoria 8, 1, 159-161 et Pl. 2-5.

Bibliographie Abdalla A. 1992. Graeco-Roman Funerary Stelae from Upper Egypt. Liverpool, Liverpool University Press.

26 27

Pernigotti S. 1994. Una nuova collezione egiziana al Museo Civico Archeologico di Bologna (Monographie di SEAP - Series Minor 6). Pisa, Giardini.

Voir aussi Moje 2008, 202, qui la rattache à Tanis. Voir supra, note 21.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE I

3.1. Stèle Lugano 1 © G. Naessens HALMA-IPEL UMR 8164

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PLANCHE II

3.1. Stèle Lugano 1 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Planche III Groupe 1 : une ou deux figure(s) momiforme(s) devant Osiris, avec table d’offrandes approvisionnée ou non

1.1. Stèle Drouot 2003/1 n° 336 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

1.2. Stèle Bologne Museo Civico Archeologico Eg. 3341, d’après Pernigotti 1978, Pl. 3

1.3. Stèle Milan Castello Sforzesco E 2001.01.02 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

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1.4. Stèle Ancient Orient Museum Tokyo © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE IV

11. Stèle Drouot 2003/1 n° 336 © O. Perdu

. 1.6. Stèle Drouot 2003/2 n° 714 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE V Groupe 2 : figure momiforme, tournée vers la droite, devant une table d’offrandes approvisionnée, avec ou sans piliers encadrant la scène

2.1. Stèle Bologne Museo Civico Archeologico Eg. 3342 d’après Pernigotti 1978, Pl. 5

2.2. Stèle Marché 2001/3 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

2.3. Stèle Drouot 2003/2 n° 547 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

PLANCHE VI Groupe 3 : figure momiforme précédée d’un personnage en train d’officier/d’adorer Osiris, avec ou sans table d’offrandes

3.1. Stèle Lugano 1 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

3.2. Stèle hiéroglyphique RC 1728 © M. Bocquet HALMA-IPEL UMR 8164

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

A PARTIRE DA IT. “MARRA”

assai maggior vigore, e anch’esso fondamentalmente usato a coprire il seme gettato più che a tracciare il solco. In tutto questo, può lasciar perplessi la scomparsa di una parola che dovrebbe esser saldamente garantita dal suo valore, a fianco, come segno geroglifico. Ma si può, alla domanda, rispondere che i nomi di specifici attrezzi possono essere sostituiti da quasi sinonimi man mano che se ne perfezioni la struttura e la forma o se ne specializzi l’uso. Il latino ensis ha lasciato la scena davanti a spada, sciabola, scimitarra o altro, così come libra non ha figliato in bilancia o stadera, e non è scomparsa nella pratica solo mutando il significato. Si può qui, così, ricordare che Petrie, nella sua relazione nota che c’è stata, nel tempo, una evoluzione tra due modelli di zappa.

Sergio Donadoni

Abstract Starting from the Italian word “marra” and through the Egyptian hieroglyph representing a hoe and which had the phonetic value of “mr” – even though other words were used to denote the instrument – this article presents a reassessment of the expression “t3-mry”, used by ancient Egyptians to indicate their own country.

A questo punto non so resistere alla tentazione di abbandonare per una volta (e, credo, per la prima) la mia ferma regola, la quale vuole che tutte le ipotesi ragionevoli siano legittime, ma legittimo non è adoperarle come base per costruirvene sopra una seconda. Se me lo permetto qui una volta tanto, spero risulti, alla fine, comprensibile.

Ho avuto, qualche tempo fa, da occuparmi del termine “marra”, che indica una particolare forma di zappa, usata con particolari funzioni. Il lemma nel dizionario me ne indicava anche l’etimologia: è – assai diretta – dal latino marra, un raro termine, noto da scrittori di cose agrarie (Columella).

Che gli Egiziani avessero assai caro il loro paese è ben provato da molti testi: dalla nostalgia del Sinuhe invecchiato, allo sguardo con cui Wenamun segue gli uccelli che a stormo volano verso il suo paese lontano, dalle poesie in onore delle città come Menfi o Tebe, dal vanto con cui si dà notizia, in qualche autobiografia, della propria città natale.

Invecchiata così la parola di quasi due millennii, mi è venuta voglia di saperne ancora di più. E mi sono rivolto alla gentilezza e alla sapienza del collega e amico Lazzeroni, che mi ha dato una dotta ed ampia risposta, dicendomi in particolare che la parola «sembra prelatina (“mediterranea”, si dice, ma “mediterraneo” è concetto vago, in cui si mette un po’ di tutto)» e ricorda «Esichio ha μαρρόν · ἐργάλειον σιδεροῦν…», «potrebbe trattarsi di un termine preindoeuropeo assunto indipendentemente dal latino e dal greco» e, infine «nel dizionario etimologico di Battisti e Alessio1 trovo un rinvio all’assiro marru “zappa”. Ma non sono in grado di controllare».

Malgrado tutto questo, l’antico e duraturo termine con cui si definisce l’Egitto (oltre al consueto t3 pn “Questo Paese”) come t3 mry “Paese amato” mi ha sempre avuto un tono di retorica un po’ elementare: «Non fa uopo di scienza e dottrina – Per sentir della Patria l’amore» si cantava negli asili ottocenteschi: da bambini. È evidente che t3 mry, quale che sia la sua traduzione letterale vuol dire subito “Egitto” come realtà geografica: le parole significano quel che di fatto indicano, e non quello che dà l’analisi della loro genesi. “Desiderare”, “considerare” non sono – certo – parole astrologiche, ma termini di concreto uso concretamente altro. Ma se vogliamo insistere nel giocare sul significato letterale del nome, una volta scoperto un mr non connesso con l’“amore” ma con la “zappa”, t3 mry meglio vorrebbe dire la “Terra zappata”, e cioè “coltivata”, in confronto con il deserto a cui si oppone. Il nome dell’Egitto come kmt “la Nera” in contrapposizione con dSrt “la Rossa” vale come un t3 mry inteso come luogo della attività agricola, in contrapposto alla sterilità del deserto, dove non si zappa. Ben altra caratterizzazione, questa, che non la definizione sentimentale. Sarà vero?

Davanti a un quadro così ampio, e così antico, mi è parso quasi obbligatorio di richiamare come il geroglifico della zappa si legga mr, anche se «for unknown reasons» come giustamente dice Gardiner (Sign List). Trarre la conclusione che in egiziano in qualche momento il termine *mr, (con tanto di asterisco) abbia avuto il valore “mediterraneo” di “zappa” mi sembra praticamente sicuro, e tale da fornire l’opportuna “reason” al Gardiner. Il termine in egiziano storico non c’è, e “zappa” si dice in vario modo, e in modi in parte scalati nel tempo (iknw, Hnn, xbsyt, sd3mt). Si tratta di un attrezzo tutto sommato non frequentissimo nelle figurazioni e nei testi: Petrie,2 Montet,3 Vandier,4 Eggebrecht5 ne sottolineano l’uso parallelo a quello dell’aratro, che, a sua volta, è una specie di zappa di dimensione maggiore e trainata con

È con questa domanda che dedico queste poche pagine all’amico Pernigotti, unendomi ai suoi discepoli e ai suoi compagni nell’augurio di una lunga attività.

1

Battisti, Alessio 1950-1957, s.v. “marra”. Petrie 1917, 18 ss. 3 Montet 1925, 184. 4 Vandier 1964, 11. 5 Eggebrecht 1975, II, 124, s.v. “Hacke”. 2

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Bibliografia Battisti C., Alessio G. 1950-1957. Dizionario etimologico italiano. Firenze. Eggebrecht Wiesbaden.

A.

1975.

Lexikon

der

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Montet P. 1925. Les scènes de la vie privée dans les tombeaux égyptiens de l’ancien empire. Strasbourg. Petrie,W.M.F. 1917. Tools and Weapons (British School of Archaeology 30). London. Vandier J. 1964. Manuel d’archéologie égyptienne IV. Paris.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

L’ARCHITETTURA EGIZIANA DELLE ORIGINI (CA. 4500-2200 A.C.): PROPOSTE PER UN’ARCHEOLOGIA COGNITIVA DELL’ANTICO EGITTO

per definizione pacchetti di informazione sui processi mentali che l’hanno prodotta e stanno alla base dei modelli culturali resi espliciti dalle fonti testuali e iconografiche.

Rodolfo Fattovich

Per una più chiara (almeno spero) esposizione del mio argomento, dopo una breve definizione dell’archeologia cognitiva, cercherò di 1) suggerire alcuni aspetti generali del pensiero degli antichi Egiziani che potrebbero essere rilevati sia nella cultura materiale sia nelle fonti testuali ed iconografiche, 2) evidenziare l’eventuale contributo di un’analisi dell’architettura all’archeologia cognitiva e 3) esaminare come caso di studio l’architettura egiziana delle origini, dal Periodo Neolitico alla fine dell’Antico Regno. Va subito precisato che non voglio giungere ad asserzioni definitive, ma solo suggerire la possibilità di esaminare la civiltà egiziana anche da punti di vista diversi da quelli consolidati nella tradizione degli studi egittologici.

Abstract In this short article, dedicated to my friend Sergio Pernigotti, I will deal with the possibility of analysing the Egyptian archaeological sources through cognitive archaeology, which aims at reconstructing the ways of thinking of ancient people on the basis of the material evidence. In this respect, the most ancient Egyptian architecture is here analysed.

Introduzione

1. L’archeologia cognitiva: una definizione

In questo breve lavoro, che dedico con molto piacere all’amico Sergio Pernigotti, cercherò di presentare alcuni riflessioni sulla possibilità di esaminare la documentazione archeologica egiziana dal punto di vista dell’archeologia cognitiva, il cui scopo è ricostruire il “modo di pensare” delle popolazioni antiche in base alle evidenze materiali da esse lasciate.1 A tale scopo verrà esaminata come caso di studio la più antica architettura egiziana.

L’archeologia cognitiva può essere definita come l’indirizzo teorico che cerca di ricostruire in base alle evidenze materiali il modo con cui la realtà esterna veniva percepita e organizzata concettualmente nella mente degli esseri umani antichi generando un’immagine del mondo che a sua volta forniva uno schema generale di comportamento a livello sia individuale sia collettivo.4 Sotto questo aspetto l’archeologia cognitiva trova un parallelo nelle indagini linguistiche che cercano di definire le categorie descrittive dell’ambiente esterno elaborate dalle singole popolazioni e le modalità con cui i modelli linguistici riflettono questa realtà e strutturano la sua conoscenza.5

Sono del tutto consapevole che molti colleghi abituati ad un’impostazione umanistica nello studio della storia e cultura dell’Egitto antico considereranno il mio tentativo velleitario, in quanto apparentemente non vi è nulla di più sfuggente all’indagine archeologica (e non solo archeologica) del pensiero, che svanisce nell’attimo stesso in cui viene formulato, oppure irrilevante, data la ricchezza di fonti testuali che permette di ricostruire in modo dettagliato i modelli culturali che hanno caratterizzato la società egiziana e le sue trasformazioni nel corso del tempo.2 A mio avviso, tuttavia, l’esame della cultura materiale può fornire indicazioni su aspetti del pensiero degli antichi Egiziani, che possono sfuggire all’analisi delle fonti testuali e iconografiche. La cultura materiale, infatti, è l’espressione concreta (potremmo dire la materializzazione) dei processi mentali che hanno generato tutte le manifestazioni della vita quotidiana di una popolazione, dalla manifattura di oggetti alle relazioni sociali ed economiche all’interno di un gruppo umano e tra gruppi diversi, ecologiche con l’ambiente naturale circostante e metafisiche con il mondo sopranaturale.3 La cultura materiale, pertanto, contiene

Oggetto di studio dell’archeologia cognitiva sono le cosiddette mappe cognitive, che corrispondono all’insieme di conoscenze e modelli interpretativi mediante i quali i singoli individui percepiscono, interpretano e modificano la realtà esterna.6 Le mappe cognitive sono il risultato di processi neuro-biologici e possono mutare per effetto della plasticità del cervello umano.7 La loro trasmissione avviene essenzialmente mediante l’apprendimento in età infantile e giovanile.8 Nella misura in cui queste mappe sono condivise da altri membri di un gruppo umano esse generano modelli di comportamento che regolano il modo con cui i singoli individui interagiscono tra loro e con l’ambiente circostante e distinguono ciascun gruppo dagli altri gruppi umani.9

4

Renfrew, Bahn 2004, 393-428. Si veda ad esempio Cardona 1985a, 1985b. 6 Renfrew 1994. 7 Changeux 1983, 2002 8 Tomasello 1999; Wexler 2006. 9 Renfrew, Bahn 2004, 393-395.

1

5

Si veda Renfrew 1982, 2007; Renfrew, Zubrow 1994; Renfrew, Scarre 1998; Renfrew, Bahn 2004, 393-428; Davies 1989; Mithen 1999; Lewis-Williams 2002, Lewis, Williams, Pearce 2005; Gabora 2008. 2 Si veda ad esempio Kemp 2006. 3 DeMarrais 2004; Renfrew 2004; Bovin 2008.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Periodo Neolitico ad Epoca Copta.13 Conosciamo quindi in modo abbastanza dettagliato come gli abitanti della bassa Valle del Nilo vivevano, cosa pensavano e a quali malattie e traumi erano esposti. Molto poco si sa invece dei processi mentali che caratterizzavano il pensiero degli antichi Egiziani.14

Le mappe cognitive possono essere ricostruite mediante l’analisi dei manufatti ed ecofatti utilizzati dalle singole popolazioni nell’ambito delle principali categorie di comportamento umano, quali ad esempio progettazione (ossia le procedure codificate per perseguire un determinato scopo), pianificazione (ossia l’organizzazione dello spazio e del tempo per lo svolgimento di attività specifiche), misurazione (ossia l’uso di unità di misura e strumenti per misurare), relazioni sociali (ossia l’organizzazione dei comportamenti interpersonali), relazioni ecologiche (ossia le modalità di interazione con l’ambiente naturale) e relazioni con il sopranaturale (ossia le procedure per mediare tra la realtà umana e quella trascendentale).10 Ovviamente, nel caso di società letterate a livello statale, come l’Egitto, questo tipo di indagine deve essere integrato con l’analisi dei documenti testuali ed iconografici.11

A mio avviso, un esame sia pure superficiale della documentazione disponibile permette di riconoscere almeno due tipi di processi mentali che molto probabilmente costituivano le fondamenta di tutti gli aspetti della cultura egiziana antica: conoscenza empirica della realtà e uso di metafore. Innanzi tutto, il pensiero egiziano sembra essere stato caratterizzato da una notevole capacità di osservazione dell’ambiente circostante, con conseguente conoscenza empirica degli elementi che lo componevano, come si può dedurre ad esempio dalla scrittura e dall’arte. I segni geroglifici, indipendentemente dal loro uso fonetico o come determinativo, rappresentano in modo preciso, anche se schematico, tutti gli elementi che componevano la realtà nota agli Egiziani, dal paesaggio agli animali, corpo umano e oggetti di uso quotidiano.15 L’arte a sua volta, nonostante le convenzioni stilistiche ad essa peculiari,16 mostra una grande attenzione per i dettagli, soprattutto nelle raffigurazioni di piante ed animali che possono spesso essere identificati con una discreta precisione.17 Essi pertanto presuppongono un sistema di classificazione mentale abbastanza sofisticato che costituiva il sostrato su cui erano organizzate tutte le mappe cognitive della popolazione e che solo in parte veniva espressa dal linguaggio.18

Va tenuto comunque presente che la ricostruzione delle mappe cognitive non corrisponde necessariamente alla ricostruzione ed interpretazione degli aspetti “non materiali” delle società antiche (ad es. ideologia, religione, magia, filosofia, ecc.) deducibili dalle fonti testuali ed iconografiche. La prima cerca di contribuire all’identificazione degli “schemi mentali” che stavano alla base dei processi culturali12 e di conseguenza cerca di capire “come pensavano” i membri di una popolazione antica. La seconda cerca di delineare le elaborazioni intellettuali che i processi culturali hanno prodotto all’interno di una comunità nel corso della sua storia e definire così ‘cosa pensavano’ i membri di una comunità antica.

L’altro processo mentale fondamentale del pensiero egiziano sembra essere stata l’attitudine all’uso di metafore. Questo processo, che riflette un modo non lineare di operare del cervello umano,19 ha senza dubbio favorito lo sviluppo di un sistema simbolico estremamente complesso, quale ad esempio la religione, con cui gli Egiziani interpretavano la loro realtà e su cui basavano il loro comportamento.20

Questi due tipi di indagine, tuttavia, non sono in contrapposizione tra loro. Al contrario, rappresentano due livelli di indagine di uno stesso processo, che può essere delineato in modo estremamente semplificato come segue: 1) La percezione dell’ambiente viene trasformata nel cervello in forme di conoscenza del mondo esterno. 2) La conoscenza così acquisita viene trasmessa entro il gruppo umano in forma simbolica, mediante il linguaggio parlato e scritto, i manufatti e le raffigurazioni iconiche. 3) I simboli elaborati vengono associati tra loro in sistemi più articolati ed astratti, quali la magia, la religione, la scienza e l’ideologia, che nel loro insieme costituiscono l’immagine del mondo propria di ciascuna popolazione.

Questi processi non operavano separatamente, ma si integravano tra loro caratterizzando il pensiero egiziano con un miscuglio di conoscenze empiriche ed interpretazioni metaforiche, come appare evidente ad esempio dalla medicina.21 In particolare, la concatenazione di processi mentali che hanno portato alla trasformazione di un’osservazione empirica in simbolo religioso inserito in un più ampio contesto mitico è bene

2. Come pensavano gli Egiziani antichi La ricchissima documentazione archeologica, testuale, iconografica e antropologica messa in luce in Egitto ha permesso di ricostruire praticamente tutti gli aspetti della civiltà egiziana ed il suo sviluppo dalle origini nel

13 Assmann 1996; Bard 1999, 2008a; Shaw 2000; Redford 2001; Aufderheide 2003; Kemp 2006; Wilkinson 2007; Wendrich 2010. 14 Kemp 2006; Kemp, Rose 1991; Rossi C. 2006. 15 Gardiner 1957, 438-548; Kemp 2005. 16 Robins 1994. 17 Si veda ad esempio Beaux 1990. 18 Cardona 1985; Bloch 1998; Ingold 2000a. 19 Edelman 2006. 20 Morenz 1962; Schafer 1991; Hornung 2002. 21 Ghalioungui 1961, 1983; Leca 1983; Estes 1989; Halioua 2005.

10

Renfrew 1994; Renfrew, Bahn 2004, 393-428. Si veda ad esempio Kemp 2005. 12 Handwerker 2009. 11

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esemplificato dall’identificazione della stella Sirio con Horus nei Testi delle Piramidi, come ha messo in evidenza Nathalie Beaux.22

a) Unità di misura dello spazio, superficie e peso, per definire le categorie astratte con cui venivano progettati i monumenti.

3. Architettura ed archeologia cognitiva

b) Procedure tecniche usate nella costruzione, per definire le modalità con cui la messa in opera delle strutture architettoniche veniva pianificata.

L’architettura costituisce un campo di indagine particolarmente promettente per l’archeologia cognitiva,23 in quanto essa presenta le seguenti caratteristiche:

c) Configurazione esterna ed interna delle strutture architettoniche, per definire come lo spazio veniva percepito e delimitato.

1. L’architettura si realizza mediante due distinte sequenze consecutive, ma strettamente correlate, di processi mentali complessi: a) progettazione; b) costruzione.

d) Localizzazione topografica delle strutture architettoniche (isolate, agglomerati, abitati pianificati), per definire come lo spazio veniva organizzato simbolicamente e come lo spazio artificiale veniva percepito.

La progettazione richiede la definizione 1) dello scopo (o funzione) per cui la struttura architettonica viene costruita (civile, religioso, funerario); 2) dello stile ossia delle caratteristiche formali della struttura; 3) delle procedure necessarie per la messa in opera della struttura (scelta dei materiali e delle tecniche di costruzione). La progettazione di una struttura architettonica pertanto implica: a) l’applicazione delle conoscenze empiriche e del sistema simbolico che esprime la “visione del mondo” della popolazione; b) la creatività, ossia la capacità di proporre soluzioni nuove ai problemi da parte dei singoli architetti.

e) Funzione e/o significato simbolico delle singole strutture e dei complessi di strutture, per definire il loro modello culturale di riferimento. 4. L’architettura egiziana delle origini 4.1 Evidenze La documentazione archeologica egiziana permette di seguire lo sviluppo dell’architettura funeraria ed in misura minore religiosa e civile dall’inizio del Periodo Predinastico (ca. 4500 a.C.) alla fine dell’Antico Regno (ca. 2200 a.C.). In questa sede non presenterò tutta la documentazione disponibile in quanto vi sono numerose opere che la riassumono in modo esauriente.26 Mi limiterò soltanto a descrivere gli elementi essenziali che potrebbero essere utili al mio discorso.

La costruzione richiede la soluzione di problemi di statica ed equilibrio mediante l’applicazione di 1) categorie astratte per la misurazione di superfici, volumi e pesi; 2) tecniche adeguate per la realizzazione materiale della struttura architettonica. Essa pertanto implica un sistema simbolico di misurazione e pianificazione delle procedure tecniche, entrambe basate su una conoscenza empirica della realtà.

A. Architettura funeraria

2. L’architettura esprime, sia nella configurazione delle singole strutture sia nella loro disposizione, le modalità con cui lo spazio viene percepito (asimmetrico/simmetrico), organizzato (aperto/chiuso) ed usato (attività svolte) dalle diverse popolazioni.24

Le tombe predinastiche, pur presentando una notevole variabilità nella forma e dimensione delle fosse, possono essere ricondotte a cinque tipi principali: 1) fosse circolari; 2) fosse ovali semplici o con una nicchia; 3) fosse rettangolari semplici; 4) fosse rettangolari con una nicchia o talvolta con due vani e una scala di accesso; 5) fosse grossolane triangolari semplici. Le dimensioni delle fosse variano tra meno di 1 x 0,7 x 0,7 m e più di 3 x 2,5 x 2,5 m. È possibile che le fosse circolari, ovali e rettangolari riproducessero schematicamente la forma delle abitazioni e che il passaggio progressivo da fosse rotondeggianti a fosse rettangolari rifletta quello da capanne circolari di legno o canne ad abitazioni rettangolari in fango.27

3. L’architettura crea uno spazio artificiale, sia determinando dei pieni (spazio delimitato all’interno delle strutture) e dei vuoti (spazio esterno delimitato dalla disposizione delle strutture) sia fornendo punti di riferimento nel paesaggio. Questo viene a sua volta percepito e genera ulteriori mappe cognitive nei membri della popolazione.25 Dal punto di vista dell’archeologia cognitiva l’analisi dell’architettura implica l’identificazione dei seguenti elementi:

Le tombe badariane sono fosse circolari od ovali, talvolta con una nicchia, e molto raramente rettangolari. Le tombe

22

Beaux 1994. Arnheim 1977; Kent 1990a; Ingold 2000b. 24 Hall 1966; Arnheim 1977; Norberg-Schulz 1982; Krier 1982; Kent 1990b. 25 Arnheim 1977; Lynch 1964; Rossi A. 1978. 23

26 Ad esempio Vandier 1952, 1953, 1954, 1955; Badawy 1954; Lehner 1997; Bard 1999, 2008a; Arnold 2003. 27 Badawy 1954, 26; Grisnell 1978.

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di Naqada I sono normalmente circolari od ovali, raramente rettangolari. Le tombe di Naqada II e Naqada III sono quasi sempre fosse rettangolari con strutture sempre più complesse.

B. Architettura religiosa L’architettura religiosa di Epoca Predinastica e Protodinastica è ancora quasi del tutto ignota. Tracce di strutture cultuali sono state messe in luce a Hierakonpolis. La prima, databile a Naqada II/III, consisteva in una cinta a pianta parabolica che delimitava un’area attraverso la quale si accedeva ad un edificio presumibilmente rettangolare con copertura a botte.30 La seconda, databile tra Naqada III e la II o III dinastia, è una piattaforma quadrangolare ad angoli arrotondati, chiusa da un muro di sostegno a gradini in blocchi di arenaria. Piattaforme simili sono state segnalate anche ad Heliopolis e Tell el Yahudiya nel Basso Egitto.31

In Epoca Arcaica (I-II dinastia, ca. 3100-2700 a.C.), le tombe dei sovrani e dell’elite hanno sempre una pianta rettangolare con sovrastruttura in mattoni crudi. Le tombe reali, pur variando per dimensioni e complessità, riproducono tutte uno stesso modello con una camera sepolcrale rettangolare costruita sotto il livello del suolo ed una sovrastruttura composta da una piattaforma in mattoni crudi che riproduceva un edificio. Ad Abido esse erano associate a strutture rettangolari con pareti a nicchie che verisimilmente riproducevano la cinta esterna dei palazzi reali.28 Le tombe dei nobili presentavano caratteristiche simili a quelle dei sovrani, ma con dimensioni minori. Le tombe degli artigiani e della servitù, che circondavano le sepolture reali, non differivano sostanzialmente da quelle predinastiche eccetto per l’introduzione di una falsa porta all’estremità meridionale della facciata ad est.

Ugualmente scarse sono le evidenze di templi sicuramente databili all’Epoca Arcaica (I-II dinastia). In base ad alcune raffigurazioni di tempietti su piccole tavole d’avorio della I dinastia, sembra che gli edifici di culto fossero a pianta rettangolare.32 Ciò sembra confermato dalle tracce di edifici religiosi a pianta rettangolare di questo periodo messe in luce ad Elefantina, Abido e forse Medamud.33

Nell’Antico Regno (ca. 2700-2200 a.C.) le tombe reali furono caratterizzate da una sovrastruttura monumentale a forma di piramide che presenta un aumento di dimensioni e volume fino alla IV dinastia ed una successiva riduzione nella V e VI dinastia. Nella III dinastia le piramidi vennero costruite con blocchi di pietra disposti su più ordini che davano loro l’aspetto di una serie di gradini. Nella IV dinastia esse assunsero definitivamente una forma piramidale a facce piane e vennero costruite con blocchi massicci ricoperti esternamente da un rivestimento sottile di calcare o talvolta di granito. Nella V e VI dinastia le piramidi vennero costruite con un nucleo centrale di pietrisco e ghiaia rivestito di calcare. A ciascuna piramide era associato un complesso per il rituale ed il culto funerario del sovrano, che comprendeva un tempio “a valle”, una “via sacra” ed un tempio funerario addossato alla piramide.29 Durante tutto l’Antico Regno le tombe dei funzionari avevano una sovrastruttura a “mastaba” ed erano usualmente localizzate in prossimità delle necropoli reali. Nella III dinastia esse erano costruite in mattoni crudi e presentavano pianta rettangolare a sporgenze e rientranze, con due nicchie sulla facciata est. Le camere sepolcrali erano poste alla base di un pozzo scavato nel basamento di roccia. Nella IV dinastia queste tombe vennero costruite in pietra ed ingrandite. L’interno delle tombe era suddiviso in vari locali per il culto funerario del defunto, che vennero estesi nella V e VI dinastia. Nello stesso periodo vennero anche scavate tombe rupestri.

Le evidenze archeologiche di edifici di culto dell’Antico Regno comprendono il “Tempio della Sfinge” a Giza, il tempio Solare di Neuserre’ ad Abu-Gurab e i templi funerari dei sovrano. Si tratta sempre di strutture a pianta rettangolare con più vani.34 Nella IV, V e VI dinastia i templi funerari consistevano in un recinto rettangolare che delimitava un cortile circondato ai lati da un porticato coperto, da cui si accedeva a cinque cappelle adiacenti con le statue del sovrano nel santuario. Una “via sacra” collegava il tempio funerario al cosiddetto tempio a valle in cui venivano eseguiti i rituali del funerale del sovrano. C. Architettura civile Tracce di abitati databili ad Epoca Predinastica (V-IV millennio a.C.) sono state individuate a Merimde, El’Omari e Maadi nel Basso Egitto; Badari, Hamamiya, Mostagedda, Matmar, Mahasna, Abido, Zuwaidah (Naqada), Adaima e Hierakonpolis nell’Alto Egitto. L’evidenza archeologica, benché ancora molto scarsa, sembra suggerire un progressivo passaggio da abitazioni circolari od ovali a forme rettangolari nel corso del IV millennio a.C.35 A Merimde (V-IV millennio a.C.) nel Delta sudoccidentale del Nilo, le abitazioni comprendevano piccole strutture ovali, in parte scavate nel suolo e in parte 30

Friedman 1996. Badawy 1954, 24. 32 Badawy 1954, 33-36; Kemp 2006. 33 Badawy 1954, 33-36; Kemp 2006, 112-115. 34 Badawy 1954, 68-121; Lehner 1997. 35 Mydant-Reynes 2003, 237-273. 31

28 29

O’Connor 2009. Lehner 1997.

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costruite con blocchi irregolari di fango e capanne ovali costruite con pali e rivestite di argilla. Le capanne sembrano essere state allineate su due file che delimitavano una strada ad andamento semicircolare. Abitazioni simili a quelle di Merimde sono state segnalate anche ad El-’Omari. A Maadi (IV millennio a.C.) le abitazioni comprendevano semplici ripari ovali, costruiti con pali e rivestiti di argilla, strutture circolari scavate nel suolo, cui si accedeva mediante una scalinata molto rozza con gradini di pietra, e probabilmente con una copertura a cupola, capanne rettangolari con pareti di fango prive di ripartizioni interne.

cinte murarie in mattoni crudi che non forniscono alcuna indicazione precisa sulla pianta del loro perimetro. Ad Abido, sembra che l’insediamento, di cui non ci è pervenuta alcuna traccia delle abitazioni, fosse circondato da un muro di cinta approssimativamente rettangolare. Resti di abitazioni di sacerdoti databili alla IV dinastia sono state messe in luce, infine, presso il tempio a valle di Snofru a Dahshur e Micerino a Giza, e presso la tomba della regina Khentkaues a Giza.38 A Dahshur, le case erano state costruite all’interno del recinto del tempio a valle e avevano una pianta rettangolare con tre o più vani. Le case erano tutte addossate l’una sull’altra lungo una “strada” a L. Le abitazioni entro il tempio a valle di Micerino presentano ugualmente pianta rettangolare. Le più semplici consistono in due soli vani. Quelle più complesse presentano invece un’articolazione maggiore, con più vani comunicanti tra loro. Le case sembrano essere state costruite in fasi successive senza alcuna pianificazione. Le abitazioni costruite presso la tomba della regina Khentkaues a Giza presentano invece una distribuzione ben definita che suggerisce una vera pianificazione. Esse erano allineate entro due mura di cinta con perimetro a L e consistevano di due tipi principali, che formavano quartieri distinti: a) case disposte a schiera, a pianta rettangolare con più vani intercomunicanti disposti secondo un ordine regolare, con l’entrata lungo una stessa via; b) abitazioni di dimensioni maggiori anch’esse articolate in più vani. Infine, lunghe camerate rettangolari per gli operai impiegati nella costruzione delle piramidi sono state scoperte a Giza.39

Ad Hamamiya, presso Badari, è stato messo in luce un villaggio databile a Naqada I e II con capanne circolari, disposte senza un ordine preciso. A Mahasna, presso Abido, e ad Abido sono stati scoperti i resti di alcune capanne a pianta rettangolare della fase di Naqada II. Esse avevano pianta rettangolare, con pareti sorrette da pali di legno. A Zuwaida (Naqada), sono stati messi in luce resti di alcune strutture in mattoni crudi a pianta rettangolare e suddivise internamente in vani distinti, databili a Naqada II-III. Una di esse, databile a Naqada III, era di dimensioni imponenti, con un lato lungo circa 50 m e potrebbe essere stata un muro di cinta. A Hierakonpolis sono stati messi in luce i resti di due capanne semisotterranee a pianta rettangolare. Un modello di capanna rettangolare, databile al periodo di Naqada II, suggerisce che le abitazioni avevano un tetto piatto e presentavano una sola entrata e due piccole finestre sulla parte posteriore. A sua volta una capanna circolare incisa su una tavoletta d’avorio della I dinastia suggerisce che questo tipo di abitazioni avessero un tetto a cupola.

4.2 Interpretazione A mio avviso, l’esame dell’architettura egiziana delle origini permette di individuare alcuni elementi che potrebbero essere utili per ricostruire, almeno in parte, il pensiero degli antichi Egiziani. Le osservazioni qui presentate vanno considerate comunque come semplici proposte. Esse richiedono infatti un’indagine molto più accurata prima di giungere a conclusioni abbastanza sicure, in base alle quali formulare delle ipotesi da verificare con studi ulteriori.

Resti di insediamenti urbani di Epoca Arcaica sono stati individuati finora soltanto a el-Kab e Hierakonpolis nell’Alto Egitto e forse a Heliopolis nel Basso Egitto.36 Nessuno di questi insediamenti però è stato scavato in maniera sufficientemente estesa da fornire un quadro preciso della loro planimetria. Alcune raffigurazioni di “città” su tavolette della dinastia 0 e dalla I dinastia suggeriscono che gli insediamenti di questa epoca fossero delimitati da un muro di cinta a perimetro quadrato con corpi aggettanti. Ciò sembra confermato dai resti un muro di cinta a perimetro rotondeggiante, che delimitava esternamente l’abitato di el-Kab e quelli di mura di cinta a perimetro approssimativamente rettangolare, che ugualmente delimitavano gli insediamenti a Hierakonpolis e Heliopolis. Gli scavi condotti a Hierakonpolis hanno messo in luce le tracce di alcune abitazioni a pianta rettangolare, suddivise in due o tre vani, che erano addossate le une alle altre.

A. Unità di misura dello spazio e del peso Nella progettazione e costruzione delle strutture architettoniche l’uso di unità di misura convenzionali dello spazio e del peso era essenziale per calcolare la superficie ed altezza dei monumenti e per risolvere i problemi di statica delle strutture ed implicava necessariamente l’esistenza di mappe cognitive ben definite.

Tracce di cinte murarie dell’Antico Regno sono state scoperte ad Elefantina, Abido, ed Edfu.37 Ad Elefantina ed Edfu sono stati individuati soltanto pochi tratti delle

A partire dall’Epoca Arcaica gli Egiziani usavano come unità di misura spaziale il cubito, di cui esistono

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Uphill 1988; Davoli 1994; Bard 2008b. Davoli 1994.

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Davoli 1994; Bard 2008a, 2008b. Bard 2008a, 144-148.

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numerosi esempi databili ad epoche diverse. Questo era suddiviso in sei o stette “palmi”, corrispondenti rispettivamente al “piccolo cubito” e al “cubito reale”, a loro volta divisi in quattro “dita”. Il cubito corrispondeva a circa 52 cm, ma la sua lunghezza è variata, sia pure in misura quasi impercettibile nel corso del tempo. In Epoca Arcaica un cubito corrispondeva a circa 51.89-53.18 cm, mentre nell’Antico Regno esso corrispondeva a circa 52.3-52.5 cm.40

elementari di statica mediante l’uso dei materiali immediatamente disponibili. L’uso del mattone crudo come materiale da costruzione nel periodo di Naqada II e l’affermarsi di strutture architettoniche in mattoni con dimensioni sempre maggiori nel periodo di Naqada III e in Epoca Arcaica richiese molto probabilmente la soluzione di problemi relativamente più complessi di statica e regolarità delle proporzioni degli edifici e di conseguenza una progettazione mediante mappe cognitive più complesse, ma basate ancora su semplici osservazioni empiriche.

Noi non sappiamo con sicurezza quando questa unità di misura venne definitivamente adottata. È probabile che essa sia emersa progressivamente da un uso empirico dell’avambraccio, cui il cubito corrispondeva idealmente, quale mezzo per misurare la lunghezza. È possibile tuttavia che la capacità di misurare lo spazio mediante unità discrete sia emersa nella fase di Naqada II, quando si diffuse l’uso di mattoni crudi come materiale da costruzione. Infatti, i mattoni usati nelle tombe databili a Naqada II e III avevano dimensioni relativamente fisse di circa 27,94 cm x 11,43 cm x 7,62 cm.41 Essi pertanto suggeriscono l’esistenza di un modello mentale in grado di percepire e suddividere lo spazio mediante segmenti lineari uniformi. A sua volta, ciò potrebbe venire messo in relazione con l’affermarsi nel periodo di Naqada II di strutture funerarie ed abitative rettangolari che richiedevano una certa regolarità nelle loro proporzioni.

L’uso definitivo della pietra come materiale da costruzione per l’architettura funeraria a partire dagli inizi dell’Antico Regno segnò una nuova evoluzione nelle mappe cognitive dei costruttori egiziani. La messa in opera di monumenti in pietra di grandi dimensioni richiese infatti l’elaborazione di soluzioni tecniche per la statica e l’esatta proporzione delle strutture molto più complesse di quelle per gli edifici e tombe in mattoni crudi. Essa implicò pertanto la rielaborazione delle mappe cognitive precedenti in un modello mentale più articolato ed astratto. In particolare, la costruzione delle piramidi della IV dinastia presupponeva una accurata conoscenza empirica dell’ambiente, una capacità di calcolo matematico, una precisa conoscenza astronomica, e capacità organizzative. Essa infatti richiedeva: a) la scelta di un luogo con condizioni di terreno adatte a sostenere il monumento; b) il taglio e trasporto dei blocchi di granito necessari alla sua costruzione; c) l’orientamento astronomico della struttura in funzione del suo significato simbolico; d) il calcolo preciso dell’inclinazione; d) la messa in opera finale del monumento.44

È anche probabile che nelle fasi di Naqada II e III siano state introdotte unità di misura del peso. In cinque tombe della necropoli di Naqada sono stati infatti raccolti altrettanti blocchetti di calcare grossolanamente sagomati con peso rispettivamente di 7690, 4230, 3990, 2830 e 590 grammi, che potrebbero essere stati usati come pesi in quanto multipli di un’unità media di 12,82 grammi, molto vicina al quella usata in età faraonica.42

C. Percezione ed organizzazione dello spazio B. Tecniche di costruzione L’evidenza disponibile sembra suggerire un progressivo mutamento nella percezione ed organizzazione dello spazio nel corso del periodo predinastico.

Fino agli inizi dell’Antico Regno, la messa in opera delle strutture architettoniche si basò essenzialmente sull’uso di materiali leggeri (legno, fango, mattoni crudi) e di tecniche semplici di costruzione.43

Nel periodo naqadiano si assiste al progressivo passaggio da forme circolari a forme rettangolari sia nell’architettura funeraria sia in quella religiosa e civile. La sostituzione di una forma con l’altra tuttavia non fu immediata. Nella necropoli di Naga ed Der infatti tombe a fossa circolare od ovale, che verisimilmente riproducevano abitazioni rotonde, continuarono ad essere usate fino alla fase di Naqada III.45 Strutture a pianta rettangolare apparvero nella fase di Naqada I e si imposero progressivamente a partire dalla fase di Naqada II, fino a diventare dominanti in Epoca Arcaica.

Le strutture più antiche, almeno fino alle fasi di Naqada II e III, erano costruite mediante pali di legno infissi nel suolo che sostenevano talvolta pareti di fango o semplicemente stuoie, oppure con pareti interamente di fango o fatte con blocchetti irregolari dello stesso materiale. Nella fase di Naqada I, le pareti presentavano una base in fango che cementava blocchi irregolari di pietra, su cui erano infissi i pali di sostegno. Esse pertanto implicavano mappe cognitive semplici per la progettazione, basate su una conoscenza empirica della realtà circostante e finalizzate alla soluzione di problemi

Ciò potrebbe suggerire un passaggio progressivo da una concezione dello spazio asimmetrico ed aperto, espresso

40

Clarke, Engelbach 1990, 63; Arnold 2003, 61; Rossi C. 2006, 59-60. Petrie 1896, 54. Petrie 1896, 54. 43 Porta 1989. 41 42

44 45

176

Lehner 1997; Verner 2002; Rossi C. 2006. Fattovich 1988.

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piramidi a Giza.48 Va notata, tuttavia, una differenza sostanziale tra l’organizzazione spaziale dei villaggi predinastici, come ad esempio ad Hamamiya, e quella degli insediamenti urbani di età storica, come ad esempio la ‘città’ nel tempio a valle di Micerino. Nei primi infatti sembra che le capanne fossero distanziate le une dalle altre, mantenendo così una separazione percettibile tra gli individui. Nel secondo caso, le abitazioni appaiono addossate le une alle altre, con maggiore contiguità tra gli abitanti, suggerendo così una diversa percezione dello spazio e delle relazioni sociali.

dalle forme rotonde, ad una concezione dello spazio simmetrico e chiuso, espresso dalle forme rettangolari. Va anche notato che, in base ad alcune raffigurazioni pervenuteci, le capanne circolari avevano molto probabilmente una copertura a cupola emisferica che accentuava una possibile percezione di uno spazio in espansione. Le abitazioni a pianta rettangolare invece avevano una copertura con tetto piatto che accentuava la percezione di uno spazio chiuso. Solo gli edifici di culto sembrano aver mantenuto fino ad Epoca Arcaica una copertura a botte che forse simboleggiava una concezione dello spazio sacro in espansione.

Le necropoli suggeriscono un uso simile dello spazio. Nelle necropoli predinastiche le tombe sono in genere distanziate tra loro, anche se la successione di sepolture ha prodotto un notevole ammassamento in aree relativamente ristrette. L’evidenza da Naqada e Naga ed Der mostra che nel periodo di Naqada II le tombe dell’elite venivano raggruppate in aree distinte, sottolineando così anche fisicamente una separazione sociale all’interno della comunità. In Epoca Arcaica e nell’Antico Regno le tombe dei nobili sono disposte in modo ordinato e vicine l’una all’altra presso la tomba del sovrano.

Nella fase di Naqada II e ancora più Naqada III, insieme all’affermarsi di strutture a pianta rettangolare, si è progressivamente imposto anche un uso segmentato dello spazio domestico e successivamente cultuale, espresso dalle ripartizioni interne delle strutture stesse. Ciò è chiaramente rilevabile nella suddivisione in vani delle tombe predinastiche a fossa rettangolare a partire dalla fase di Naqada II. Ciò potrebbe far supporre l’emergere in questa fase di un uso domestico dello spazio che riflette una concezione più pianificata delle attività quotidiane e delle stesse relazioni interpersonali all’interno della società a livello sia familiare sia di comunità.46

Infine, le dimensioni imponenti dei palazzi reali, almeno alla fine della II dinastia, e delle tombe dei sovrani di Epoca Arcaica e dell’Antico Regno, che si distinguevano chiaramente nel paesaggio circostante, molto probabilmente avevano lo scopo di rendere percettibile l’esistenza del re. In tal modo, questi monumenti contribuivano a formare un modello mentale della società focalizzato sul potere centrale del sovrano che altrimenti era inaccessibile alla maggior parte della popolazione, inserendo l’immagine del re nel paesaggio naturale e creando forse un’identificazione tra il monumento ed il re.

A sua volta, l’esistenza di cinte murarie attorno agli insediamenti potrebbe suggerire una concezione simile di spazio urbano delimitato e ripartito in unità funzionali distinte, in contrapposizione forse allo spazio aperto rurale in quanto dagli inizi della I dinastia non si hanno evidenze sicure di conflitti all’interno dello stato egiziano. Infine, l’uso di inserire gli edifici di culto in un’area delimitata da un recinto, attestato dagli inizi della I dinastia, suggerisce l’emergere di una percezione nettamente distinta tra spazio profano all’esterno del recinto e spazio sacro all’interno di esso.

E. Significato simbolico delle strutture architettoniche D. Disposizione delle strutture architettoniche

L’architettura funeraria e religiosa riflettono sistemi simbolici molto complessi che ancora in parte ci sfuggono, soprattutto per le epoche più antiche.49 La documentazione funeraria mostra che fino alla fine della II Dinastia le tombe dei sovrani e dei privati riproducevano simbolicamente le abitazioni. Solo nell’Antico Regno, con la costruzione delle piramidi, si assiste ad una netta separazione simbolica tra le tombe reali e quelle dei privati. Ciò fa supporre che fin dalle origini l’ideologia funeraria egiziana si basasse essenzialmente su una concezione dell’al di là come continuazione della realtà sociale dei viventi. Tale ideologia è confermata per il Periodo Predinastico dalle differenze rilevabili nella quantità e qualità dei corredi funerari e dall’emergere nella fase di Naqada II di cimiteri principeschi.50 A partire dall’Antico Regno essa

Le scarsissime tracce di insediamenti predinastici fanno supporre che essi consistessero in semplici agglomerati di abitazioni senza un ordine preciso. Pertanto la distanza tra le singole abitazioni, quale si può rilevare ad esempio ad Hamamiya, potrebbe riflettere la percezione dello spazio interpersonale delle popolazioni predinastiche piuttosto che una forma di pianificazione ben definita.47 Soltanto l’insediamento di Merimde, dove le capanne sembrano essere allineate lungo una strada, potrebbe indicare una concezione embrionale di pianificazione dello spazio abitativo. Ugualmente, gli abitati di Epoca Arcaica e dell’Antico Regno non sembrano essere stati pianificati, almeno fino alla IV dinastia, quando apparvero le cosiddette città delle

48

Bard 2008a, 144-148 Kemp 2006. 50 Fattovich 1982; Bard 1994.

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Kent 1990a. 47 Hall 1966.

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è messa in evidenza dai rilievi e dai testi che li accompagnano nelle tombe dei nobili. Questi infatti avevano la duplice funzione di attestare il prestigio del defunto davanti ai viventi e di trasferire nell’al di là tutto il complesso sistema di relazioni interpersonali che aveva caratterizzato la sua vita.51

un sistema più ampio ed articolato di relazioni interpersonali. Al tempo stesso, apparvero unità di misura dello spazio e del peso che suggeriscono l’emergere di una capacità di calcolo astratto. Infine, la presenza di aree cimiteriali separate per l’elite suggerisce l’emergere di una concezione gerarchica dello spazio sociale. Purtroppo non vi sono tracce precise del modo con cui erano distribuite le abitazioni negli insediamenti.

Fin dalla I dinastia inoltre le tombe dei sovrani erano circondate da tombe di “privati”, inizialmente membri della famiglia reale o forse della servitù, e successivamente da quelle dei nobili. Queste ultime nell’Antico Regno formavano una vera e propria città attorno alle piramidi nella necropoli di Giza. Questa situazione molto probabilmente riflette una più complessa ed astratta concezione dell’al di là, secondo la quale i defunti si trasformavano in stelle ed il re regnava come stella su di essi. Tale concezione del resto è bene attestata nei Testi delle Piramidi.52

Nel Predinastico Finale (Naqada III), databile tra il 3300 ed il 3100 a.C. circa, le strutture in mattoni crudi a pianta rettangolare con ripartizioni interne divennero dominanti, suggerendo una definitiva percezione dello spazio simmetrico, chiuso e segmentato. Gli insediamenti vennero circondati da una cinta muraria. Le tombe dei sovrani (dinastia 0) inoltre avevano dimensioni molto maggiori di quelle dei privati, suggerendo l’imporsi di un uso del monumento quale simbolo percettibile del re e mezzo per creare un modello mentale della società focalizzato sulla figura del faraone. Esse erano inoltre localizzate in aree circoscritte, confermando una percezione ed uso gerarchico dello spazio. La presenza di tombe di privati disposte presso le sepolture reali potrebbe suggerire l’emergere di una concezione stellare dell’al di là.

La piramide, infine, è il monumento funerario più ricco di valenze simboliche. Essa infatti da un lato esprimeva fisicamente la presenza ed il potere del sovrano, dall’altro riassumeva molto probabilmente la concezione del suo destino dopo la morte.

In Epoca Arcaica (I-II dinastia), databile tra il 3100 ed il 2700 a.C. circa, si affermò una architettura civile e funeraria monumentale collegata alla figura del sovrano (palazzi, tombe), che suggerisce un più preciso uso del monumento come simbolo percettibile del re per rafforzare un modello mentale della società incentrato sulla sua figura. Gli insediamenti urbani erano circondati da mura, che in questo periodo potrebbero avere avuto significato simbolico, con funzione di delimitare uno spazio sociale organizzato piuttosto che di difesa da attacchi esterni. Ugualmente, venne verisimilmente introdotto l’uso di circondare il palazzo reale con un recinto monumentale, che suggerisce l’accentuarsi di una percezione gerarchica dello spazio e del re come figura isolata dal resto della popolazione. Al tempo stesso, l’evidenza da Hierakonpolis indica che le abitazioni urbane erano addossate le une alle altre, suggerendo una riduzione dello spazio personale all’interno della comunità ed una percezione di maggior coesione nei rapporti interpersonali.

5. Conclusione Benché la documentazione esaminata sia molto frammentaria e le osservazioni fatte siano ancora in larga misura speculative, sembra possibile delineare in base all’evidenza architettonica alcuni aspetti dei modelli mentali degli Egiziani antichi e le loro possibili trasformazioni tra il Predinastico e l’Antico Regno. Nel Predinastico Iniziale (Merimde, Badariano, Naqada I), databile tra il 4500 ed il 3800 a.C. circa, predominano strutture a pianta circolare, che sembrano suggerire una percezione dello spazio asimmetrico ed aperto. Le abitazioni erano disposte distanziate le une dalle altre, suggerendo un uso dello spazio quale mezzo per isolare i membri della comunità e quindi una percezione dei rapporti personali come interazione tra individui o nuclei autonomi. Soltanto, l’apparente allineamento delle capanne a Merimde potrebbe indicare una forma embrionale di organizzazione spaziale pianificata. Nel Predinastico Medio (Naqada II, Maadi, el-Omari), databile tra il 3800 ed il 3300 a.C. circa, si affermarono le strutture a pianta rettangolare, che sostituirono progressivamente quelle circolari, suggerendo una percezione dello spazio simmetrico e chiuso. In questo stesso periodo appare anche una ripartizione interna delle strutture, che suggerisce: 1) un uso segmentato dello spazio ed una sua percezione come spazio non più omogeneo, ma divisibile in unità separate; 2) una percezione delle singole attività come schemi di comportamento distinti, ma al tempo stesso integrati, in 51 52

Nell’Antico Regno (IV-VI dinastia), databile tra il 2700 ed il 2300 a.C. circa, si affermò definitivamente un’architettura funeraria monumentale in pietra collegata al re, che raggiunse la sua massima espressione con le piramidi della IV dinastia. Queste costituivano un elemento artificiale inserito nel paesaggio, che presumibilmente serviva ad imporre una precisa percezione fisica dello Stato incentrato sulla figura del sovrano. Questi monumenti inoltre attestano il consolidarsi di mappe cognitive articolate che rendevano possibile calcoli astratti e di un sistema simbolico molto sofisticato, almeno a livello palatino. Nella IV dinastia apparvero anche i primi esempi di abitati pianificati, che

Barocas 1978, 1982. Si veda ad esempio Fattovich 1987.

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suggeriscono l’emergere di un modello mentale di organizzazione razionale dello spazio.

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Il progressivo sviluppo di concezioni diverse dello spazio, basate su mappe cognitive sempre più articolate, rilevabile almeno in apparenza nell’architettura egiziana delle origini, può essere messo in relazione al processo di formazione dello stato nella bassa Valle del Nilo.

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L’affermarsi di una percezione dello spazio chiuso, simmetrico e segmentato, unitamente alla capacità di una sua misurazione astratta, nella fase di Naqada II riflette verisimilmente l’emergere di società complesse, con una prima forma di organizzazione centralizzata alla metà del IV millennio a.C. La segmentazione e gerarchizzazione dello spazio, che a sua volta richiede una percezione dello spazio simmetrico e chiuso, sembra infatti essere tipica di società a potere centralizzato.53

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A sua volta, l’emergere di un’architettura monumentale quale simbolo percettibile della figura del sovrano e di un’organizzazione sempre più razionale dello spazio è da mettersi sicuramente in relazione all’instaurarsi e successivo consolidarsi dello stato faraonico in Epoca Arcaica e nell’Antico Regno.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

della regione.

RIFLESSIONI SULL’URBANISTICA DI BAKCHIAS

Naturalmente tanti aspetti restano ancora incompresi e in molti casi le nuove indagini hanno indicato ulteriori direzioni di ricerca, piuttosto che giungere a conclusioni definitive, come è normale che accada in un moderno progetto di archeologia. Credo sia infatti ben noto che le attuali caratteristiche della ricerca archeologica hanno certamente aumentato la capacità di discernimento dei dati, anche grazie al continuo dialogo con colleghi di altre discipline. Tuttavia tali nuovi requisiti ci permettono più spesso di apprezzare con maggiore profondità di campo la complessità della stratificazione urbana, piuttosto che di comprenderne definitivamente i contorni in maniera netta.

Enrico Giorgi

Abstract New data from the excavations at Bakchias from 1993 to the present, directed by Sergio Pernigotti, have emerged. These have led to new hypothesis on its town-planning and a revaluation of new ones, which were inadequate.

Com’è ben noto agli studiosi dell’antico Fayyum, gli scavi della Missione Archeologica diretta da Sergio Pernigotti a Bakchias hanno avuto inizio nel 1993 e sono ancora oggi in corso. La Missione Archeologica dell’Università di Bologna, che ha lavorato in questi anni nel sito, ha subito vari cambiamenti: da Missione congiunta con l’Università di Lecce, è divenuta dal 2005 di pertinenza del solo Ateneo bolognese, mentre recentemente altri istituti di ricerca, come il Dipartimento di Studi Storici-Religiosi dell’Università la Sapienza di Roma e il Centro Papirologico “Medea Norsa” dell’Università di Trieste, sono entrati attivamente a far parte del progetto.

La possibilità di disporre di tante competenze specialistiche si riverbera spesso anche sul lavoro più propriamente archeologico, e tanto più in una disciplina come l’egittologia cui spetta l’arduo compito di dover abbracciare la millenaria storia dell’Egitto antico. La restrizione degli studi a specifiche conoscenze settoriali, tipico delle ultime generazioni di archeologi, comporta tuttavia una maggiore difficoltà a ritrovare la visione d’insieme. In questo senso il ruolo dei maestri, che si sono formati nella coscienza ampia della disciplina, ma che hanno anche coltivato una certa sensibilità nei confronti delle metodologie più moderne e innovative, risulta spesso decisivo.

Inoltre, dal 1999, le ricerche condotte a Bakchias, un tempo inserite nell’ambito delle attività dell’Istituto di Storia Antica, sono rientrate nel novero degli scavi del Dipartimento di Archeologia.1 Non è tuttavia mai cambiata la Direzione della Missione bolognese e perciò a questa si devono i principali risultati, diretta conseguenza delle scelte che hanno ispirato la filosofia del lavoro e la ragione delle ricerche.

Nel caso di Bakchias il dialogo con specialisti di altri settori ha sempre caratterizzato le ricerche, così come la sensibilità verso un tipo di indagine sul campo che fosse prettamente archeologica.2 Un contributo decisivo alla comprensione dell’urbanistica di Bakchias è certamente giunto dagli scavi nel settore centrale della città (1996-2006) dove si sviluppa la complessa sequenza stratigrafica delle aree sacre di Epoca Ellenistica e Romana (Figg. 1-4).3 Da queste indagini sono giunte alcune importanti novità che ci autorizzano a ipotizzare livelli di frequentazione ben più

Nel corso di un così ampio lasso di tempo il numero e la qualità di informazioni di cui eravamo inizialmente in possesso, ha subito un progresso tale, da ridisegnare la parabola storica di questo antico abitato del Fayyum e da farlo apparire ora come un tassello importante nella storia

2

La Direzione della Missione ha sempre mostrato attenzione al rigore dell’indagine stratigrafica, allo studio dei reperti, alla documentazione topografica e a tutti gli aspetti che caratterizzano un moderno scavo archeologico. Per questa ragione la direzione dello scavo è stata affidata a studiosi con competenze specifiche come Patrizia Piacentini, Paola Davoli, Cristian Tassinari, Paola Buzi e chi scrive. Ciò non toglie che ancora molta strada si potrebbe fare, ad esempio per lo studio dei reperti ceramici, negli ultimi anni curato soprattutto da Anna Morini. Lo studio della cultura materiale è forse uno degli aspetti più sottovalutati dell’archeologia del Fayyum. Della documentazione dello scavo si sono occupati tra gli altri Nicoletta Vullo, Paolo Campagnoli, Carlotta Franceschelli. Tra i referenti per gli aspetti topografici, infine, voglio ricordare ad esempio gli amici del DICAM (già DISTART) della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna e in particolare Gabriele Bitelli e Luca Vittuari. Molti altri hanno contribuito e a tal riguardo si rimanda alle varie relazioni preliminari. Per una sintesi si vedano da ultime: Pernigotti, Franceschelli, Tassinari 2006, 281-302; Pernigotti 2009, 181-194; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2010. Per quanto riguarda la visione d’insieme, credo sia invece sufficiente rimandare ad alcuni recenti e significativi interventi: Si veda da ultimo Pernigotti 2005a con bibliografia relativa. 3 Per una sintesi si rimanda a Tassinari 2006, 133-151 e a Rossetti 2008.

1 Chi scrive ha avuto l’opportunità di partecipare alle Missioni del 1997 e del 2000 a Bakchias, oltre che alle campagne del 2000 e del 2001 svolte nella vicina Soknopaiou Nesos. Dal 2007 ho avuto la possibilità di tornare a far parte del team che lavora sul campo a Bakchias come direttore dello scavo, grazie all’invito del direttore della Missione, allora anche direttore del mio Dipartimento. In questo lasso di tempo, che mi ha visto crescere e maturare sul piano umano e professionale, le varie esperienze egiziane hanno scandito il percorso e anzi credo che per molti versi abbiano contribuito a renderlo più completo. Il confronto con l’archeologia di questa particolare regione, soprattutto con i molti amici e colleghi con cui ho avuto modo di confrontarmi, ha costituito una occasione di arricchimento culturale e personale. Tra questi voglio ricordare soprattutto Paola Buzi, oltre a Sandro De Maria, Paolo Campagnoli, Flavia Ippolito, Giuseppe Lepore, Anna Morini, Ilaria Rossetti, Mariangela Tocci, Valentina Gasperini, Anna Rita Parente, Marco Zecchi, Cristian Tassinari, Paola Davoli. Un ringraziamento particolare è d’obbligo nei confronti di Sergio Pernigotti, per la fiducia e il confronto sincero di cui ha voluto farmi onore e che spero vorrà rinnovarmi in futuro.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

antichi rispetto all’impianto della città tolemaica.4 Le ricerche più recenti (2005-2008), sul lato meridionale dell’abitato disposto sul ciglio dell’antico canale fossile, hanno permesso di delineare con maggiore precisione alcuni aspetti legati soprattutto all’economia (il granaio)5 e alla vita quotidiana (i bagni)6 della città romana (Figg. 1-2); mentre le indagini nel kom sud (2006-2009) hanno gettato nuova luce sulle ultime fasi di vita della città di Epoca Tardo-antica e Altomedievale, soprattutto grazie allo scavo degli edifici ecclesiastici copti riutilizzati nella fase islamica (Fig. 1).7

Il primo problema da porsi credo sia, ovviamente, quello della genesi dell’abitato. Nella vecchia tradizione degli studi, Bakchias è stata a lungo considerata un villaggio minore del Fayyum, che mostrava in superficie soprattutto i resti delle fasi tarde. Proprio i lavori coordinati da Sergio Pernigotti hanno invece contribuito a rivedere questa valutazione, facendo emergere i contorni di un importante abitato di Epoca Tolemaica e Romana, che traeva forza dalla sua posizione marginale. Bakchias, infatti, si sviluppò presso il canale che delimitava a nordest l’area coltivata rispetto al deserto,12 sul crocevia delle strade per Arsinoe (la città principale della regione) da un lato e per Menfi dall’altro. L’idea comunemente accettata è appunto quella di una fondazione o di una rifondazione del periodo della seconda bonifica, promossa da Tolemeo II (280 a.C.),13 in un’area già insediata in precedenza, forse da mettere in relazione con la prima bonifica inaugurata nel Medio Regno da Amenemhat III.14 Sul piano archeologico questi due momenti sono però circostanziati in maniera differente. L’impianto tolemaico, infatti, ha una sua evidenza urbanistica e si configura con quartieri abitativi che si sviluppano in maniera abbastanza regolare lungo le vie principali e attorno all’area templare. Nonostante le superfetazioni delle epoche successive e gli sbancamenti per recuperare il sebbakh degli anni Venti del secolo scorso,15 la sua fisionomia può ancora essere ricostruita planimetricamente, e molti edifici, quando non sono stati datati grazie agli scavi stratigrafici, sono riconoscibili, almeno in via ipotetica, in base all’analisi dei materiali edilizi.16 La presenza di una fase anteriore, che mi pare tragga forza da tante considerazioni storiche, topografiche e toponomastiche,17 è meno evidente sul piano archeologico, come è normale che sia in un sito pluristratificato che ha avuto il suo maggiore sviluppo nelle fasi successive. I resti tuttavia esistono e non sono rappresentati solo da reperti legati al culto18 ma anche da un contesto indagato stratigraficamente: la fornace per ceramica tagliata dal tempio A, che ha conservato un’anfora fenicia di fabbricazione tiria databile al VII-VI secolo a.C. (Fig. 3).19

Per concludere questa rapida disamina, possiamo ricordare che una delle ultime campagne di scavo (2009) è tornata a indagare l’area del cosiddetto quartiere settentrionale caratterizzato da una spessa e ben conservata stratigrafia urbana, dove si trovano la porta della strada per Menfi e l’abitazione (detta casa VIII) già individuate nei primi anni di scavo (1993-1995).8 Proprio nell’area circostante la casa VIII sono state riportate in luce nuove strutture e numerosissimi reperti che testimoniano l’evoluzione dell’abitato dalla genesi all’abbandono.9 Le numerose sintesi su vari aspetti dello scavo di Bakchias, a cui si è già fatto cenno, mi esimono dal tracciare un quadro esaustivo della storia della città alla luce delle ultime indagini e mi permettono, invece, di concentrare l’attenzione su alcune questioni che mi paiono stimolanti e indicative per l’indirizzo delle ricerche future. Non si vogliono, dunque, presentare in questa sede conclusioni definitive, a cui non potrei comunque ambire da solo, se non altro per i limiti culturali imposti dalla mia esperienza, digiuna di egittologia in senso stretto.10 D’altro canto si è già detto del delicato rapporto che sussiste tra conoscenze specifiche e ampia ricostruzione dell’antichità nell’archeologia moderna.11 Queste righe vogliono dunque essere solo un contributo di riflessioni sul tema dell’urbanistica di Bakchias, a partire da alcune considerazioni di carattere eminentemente archeologico e topografico.

Quest’ultimo dato è ovviamente molto significativo ma si fonda sulla datazione dell’anfora, anch’essa un reperto mobile. Ne consegue che l’interpretazione generale del quadro archeologico, pur ampiamente condivisibile,

4 Si tratta dei resti di attività artigianale di Epoca pre-Tolemaica presso l’angolo settentrionale del tempio A dedicato a Soknobkonneus. Cfr. Tassinari 2004, 57-67. 5 Tassinari 2009. 6 Giorgi 2007, 47-92; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2009, 11-51. 7 Buzi 2007a; 93-103; Giorgi 2007, 82-91; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2009, 51-89. 8 Pernigotti 2005a, 45-56, con bibliografia. 9 Pernigotti, Giorgi, Buzi in corso di stampa. 10 Il mio coinvolgimento nell’impresa è legato alle mie competenze di topografo antichista e alla mia esperienza di scavo archeologico maturata soprattutto nell’ambito delle ricerche del Dipartimento di Archeologia di Bologna dal 1988 a oggi. Esso si giustifica poi tenendo conto dell’oggetto della ricerca, che è essenzialmente di ambito ellenistico-romano, pur con tutte le caratteristiche che rendono l’Egitto un caso affatto particolare. 11 A tal proposito credo sia utile consultare gli Atti della tavola rotonda sul ruolo delle moderne metodologie nella formazione dell’archeologo, con contributi di Daniele Manacorda, Giuseppe Sassatelli, Andrea Augenti e Stefano Campana, in Giorgi 2009.

12

Morini 2007, 111-120. Pernigotti 2007, 23-25. Pernigotti 2005b, 35-72. I dati archeologici riferibili all’Epoca preTolemaica sono però più recenti (al massimo VIII-VII a.C.). 15 Si tratta del prezioso terreno fertilizzante derivato dal disgregarsi degli antichi muri in argilla cruda. 16 Campagnoli, Giorgi 2002, 47-91; Giorgi 2004, 49-55. 17 Su questo tema e sulla presenza di un villaggio pre-tolemaico denominato Kemur/Ghenut poi occultato dalla Bakchias tolemaica si veda Pernigotti 2005b, 37-72; Pernigotti 2007, 13-26. 18 Si tratta di un frammento della testa di una statua in pietra databile al Nuovo Regno o all’Epoca Tarda; di una statua acefala (con iscrizione erasa) di un personaggio maschile inginocchiato databile al più tardi al regno di Psammetico II; di una statua acefala con iscrizione geroglifica di un personaggio di nome Padibastet databile al regno di Psammetico II; cfr. Pernigotti 2005a, 99. 19 Tassinari 2004, 57-67. 13 14

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necessita di qualche cautela, anche se l’ipotesi di un primo insediamento o almeno una prima frequentazione dell’area in Epoca pre-Tolemaica, qualunque fosse la sua consistenza, sembra certamente l’ipotesi più credibile. Come già detto, essa trae la sua forza da una serie notevole di indizi, anche archeologici, ma soprattutto dal fatto che questi si inquadrano bene nell’ambito di una più ampia ricostruzione storica. A ben vedere il discorso non è tuttavia concluso, poiché queste considerazioni riguardano le fasi precedenti la genesi di Bakchias e ne costituiscono, per così dire, il terreno fertile su cui la città affondò le proprie radici. Per parlare di genesi dell’abitato dobbiamo considerare anche l’ampio lasso di tempo che portò alla seconda bonifica, verosimilmente nel quadro di una regione che aveva bisogno di una riqualificazione.

secondo momento di forte ricostruzione e revisione dello spazio abitato debba essere collocato in questa fase. Ancora una volta l’argomento presenta già precedenti trattazioni approfondite22 e possiamo quindi concentrarci solo su alcune questioni che mi sembra possano meritare una parziale riconsiderazione. Dal punto di vista delle dinamiche di sviluppo urbano è ben noto che gli abitati del Fayyum si caratterizzano per il forte accrescimento dei piani d’uso, favorito dal riporto di sabbia eolica, ma anche dallo sviluppo di un deposito continuo che ricorda quello tipico di tanti centri medievali.23 Oggi abbiamo perso in gran parte la possibilità di apprezzare appieno questa fisionomia di città in crescita verticale, che invece dovette colpire alcuni dei primi viaggiatori, come è evidente dall’impressione che fecero le ‘case-torri’ a Grenfell e Hunt (1896) o dal confronto con i disegni di alcuni degli altri siti visitati da Belzoni (1819).24 Gli edifici del quartiere settentrionale di Bakchias sono quelli che meglio conservano questo aspetto.25 Qui si osservano due fasi edilizie principali: un impianto della prima Epoca Tolemaica e un accrescimento di Epoca Romana alto imperiale, con i vecchi piani terra che diventano cantine.

Ancora una volta ci muoviamo in ambiti poco chiari e in corso di studio, perciò dobbiamo continuare a procedere cautamente con la consapevolezza di avanzare ipotesi che dovranno poi essere verificate più a fondo. Anche in questo caso ritengo che si possano tuttavia delineare alcune direzioni di ricerca. Alla luce delle ultime indagini, i cui dettagli più significativi sono però ancora inediti, non sembra del tutto inopportuno ipotizzare che l’intervento di Tolemeo II si imposti su un abitato ellenistico preesistente, forse già da qualche decennio. Oltre al fatto che in varie zone della città si intravvedono fasi che parrebbero anticipare le costruzioni di pieno III secolo a.C., l’elemento più consistente a sostegno di questa tesi credo nasca da una considerazione di carattere urbanistico. Il grande tempio A in mattoni crudi, dedicato a Soknobkonneus, è probabilmente riferibile alle prime fasi dell’Epoca Tolemaica20 e ha rappresentato a lungo l’elemento caratterizzante l’impianto urbano (Figg. 2-4). Per questa ragione penso che debba rientrare nella progettazione della città voluta da quello che viene considerato il suo fondatore, Tolemeo II artefice della seconda bonifica (280 a.C.). Tuttavia è evidente che la sua fabbrica andò a modificare una situazione precedente, rappresentata dalle costruzioni conservate in diagonale a sud-est del tempio A, sotto il pilone del tempio C, oltre che sopra la fornace di cui si è detto (Fig. 3).21 Almeno le strutture con andamento diagonale sembrerebbero riferibili a una fase antica, con edifici di una certa importanza di un’Epoca Tolemaica precedente il 280 a.C. L’orientamento dei canali della seconda bonifica, infatti, condizionò necessariamente quello dell’impianto urbano e comportò la sovrapposizione alle strutture preesistenti che potevano avere un diverso andamento.

In Epoca Tarda si assiste al parziale insabbiamento, al rialzamento ulteriore dei piani d’uso e spesso all’impianto di strutture posticce (recinti lignei per il ricovero degli animali e altre costruzioni con materiali di riutilizzo).26 Non è un caso che in questa fase, e cioè in Età Augustea, nell’ambito della costituzione della nuova provincia romana, venga ridisegnata completamente anche la fisionomia della principale area sacra della città, con la costruzione del tempio in pietra C, ruotato di novanta gradi rispetto all’edificio precedente (il tempio A la cui fronte viene inglobata dal cortile del nuovo tempio. Fig. 3). Pur rispettando l’andamento ortogonale delle altre costruzioni di questa parte centrale della città, esso attua un importante cambiamento nella gerarchia dei percorsi interni all’abitato: il dromos di ingresso all’edificio di culto principale si allinea con quelli degli altri templi D ed E (Fig. 4).27 A questo punto tutte le 22

Tassinari 2006; Pernigotti 2005a. Sull’urbanistica del Fayyum si rimanda in generale a Davoli 1998 con bibliografia relativa. 24 Pernigotti 2005a, 38. Belzoni purtroppo non visitò Bakchias, ma a lui dobbiamo tante altre vedute che possono rappresentare un ottimo confronto. Interessante in tal senso il disegno di Soknopaiou Nesos che è stato utile per comprendere l’urbanistica dell’abitato antico (De Maria, Campagnoli, Giorgi, Lepore 2006, 25, Fig. 5). 25 Significativi a tal proposito, oltre ai vecchi scavi, le strutture riportate in luce nell’ultima campagna 2009: Pernigotti, Giorgi, Buzi in corso di stampa. 26 Pernigotti, Giorgi, Buzi in corso di stampa. 27 Sul portale del tempio A si veda Franceschelli, Tassinari 2006. Il tempio E di seconda fase viene forse realizzato contemporaneamente al tempio C. Lo stesso orientamento è anche del piccolo tempio B che va certamente riferito alla prima Epoca Tolemaica. Resta da capire se esso rappresenta una fase intermedia tra le strutture oblique precedenti la rifondazione di Tolemeo II e la costruzione del tempio C o se esso non possa essere stato contemporaneo al tempio A e appartenere dunque alla medesima macro-fase della rifondazione del 280 a.C. Non entro qui nel merito della complessa questione del riconoscimento delle divinità venerate nei vari templi. Com’è ben noto, infatti, esiste un importante 23

Partendo da queste considerazioni si può approfondire qualche ulteriore argomento relativo alle fasi di sviluppo urbanistico successive e, in particolare, a quelle di Epoca Romana alto imperiale. Mi pare evidente, infatti, che il 20

Rossetti 2008. Tassinari 2006, 133-151. Non credo si possa del tutto escludere che le fornaci in questione possano rientrare nelle strutture di servizio all’area templare precedente, come aree di produzione di oggetti per il culto.

21

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

principali vie processionali prendevano le mosse dall’area antistante il canale e procedevano parallelamente verso nord-est.28 Una generale riqualificazione dell’area urbana affacciata sul canale mi pare emerga anche da altri importanti edifici impiantati in questa zona per sfruttare in vario modo il corso d’acqua. Si tratta dei bagni e del granaio, che testimoniano, nello stesso periodo ma in maniera differente, la crescita economica della città (in rapporto alla coltivazione e al commercio del grano che da qui raggiungeva il porto di Alessandria) e l’attecchire di un modello di vita tipico della romanità (come dimostrano i bagni che rispecchiano una tipologia edilizia tipicamente romana).29

successivamente. In effetti i materiali edilizi sono compatibili con quelli del tempio A, mentre alcune riprese sono fatte con mattoni che parrebbero di Età Romana. Tra queste, sembra particolarmente significativa la foderatura interna del corridoio di servizio ai tre vani verso est, che pare riadattare questo spazio dopo la realizzazione del cassone di fondazione del cortile del tempio C, costruito appunto in Età Romana (Figg. 3, 11). Potrebbe dunque trattarsi di ambienti connessi alla prima fase di uso del tempio A (III a.C.), successivamente abbandonati (forse nel II a.C.) e quindi rimaneggiati e poi coperti dal pavimento del corsile del tempio C (Età Romana). Tuttavia i segnali più evidenti, a favore della nuova tesi, mi paiono emergere dalla lettura dell’archeologia degli elevati. Innanzitutto le possenti murature perimetrali del tempio A presentano sequenze orizzontali di buche pontaie, a una distanza paragonabile all’altezza d’uomo tra una fila e l’altra, secondo quella che mi sembra la consuetudine tipica delle impalcature dipendenti (appoggiate alla struttura in costruzione; Figg. 5-6).30 Esse sono ben evidenti anche nella parte meridionale della fronte del tempio, dove si conserva bene il paramento originale (Fig. 10). Questo significa che si tratta di muri in elevato che presuppongono un livello di calpestio originariamente molto più basso dell’attuale. Inoltre la soglia sulla fronte principale del tempio A, di accesso all’attuale piano d’uso, insiste su una spessa sottofondazione realizzata con blocchi di pietra calcare fossilifera appena sbozzata, a cui si sovrappongono gli ultimi filari di blocchetti bugnati di un calcare differente e del tutto analoghi a quelli usati per le fondazioni del vicino tempio C di Epoca Romana (uno presenta anche un segno di cava. Figg. 7-8, 12).31 Ne consegue che il piano di calpestio del tempio A fu adeguato all’altezza del tempio C quando venne costruito quest’ultimo (Fig. 8). Non si può escludere che il rialzamento del piano d’uso del tempio A fosse già stato effettuato anche in precedenza (ad esempio nel corso del II a.C. quando fu realizzato anche il suo pilone di ingresso), come è già stato ipotizzato sulla base di considerazioni stratigrafiche al momento dello scavo. In questo senso il diverso tipo di pietra calcare utilizzato nella sottofondazione del portale principale può essere una conferma. Tuttavia l’area venne completamente ridisegnata e le quote vennero certamente uniformate con l’impianto del tempio C. Dunque possiamo semplificare in questo modo gli impianti delle principali strutture templari di questa area sacra: una prima fase edilizia poco conservata esisteva prima della (ri)fondazione di Bakchias (cioè prima del 280 a.C.); al tempo della seconda bonifica fu costruito il grande tempio A e posteriormente si trovava il tempio B (dal 280 a.C.; Fig. 9); in Epoca Romana fu costruito il tempio C, il tempio A

Sino a questo punto le considerazioni espresse, pur con qualche semplificazione, sono all’incirca in linea con le ipotesi degli studi precedenti. Credo, tuttavia si debba prendere in considerazione anche un’ulteriore possibilità: che la grande mole del tempio A in mattoni crudi, come appare oggi dopo gli sterri per le cave di sebbakh, sia ciò che resta dell’elevato del tempio costruito da Tolemeo II, il cui piano d’uso doveva essere, almeno all’esterno, più basso di quello conservato attualmente e forse non troppo diverso rispetto a quello del vicino tempio B (Figg. 5-9). Perciò si può supporre che i due edifici, se non furono contemporanei, almeno convissero. Le ragioni che mi spingono a questa considerazione nascono da una mia personale difficoltà nel comprendere la complessa sequenza di fasi e stratigrafie dell’ipotesi precedente, che mi pare comporti un ritmo sin troppo sostenuto di costruzioni e ricostruzioni soprattutto nelle fasi iniziali. Gli elementi a sostegno di questa nuova tesi sono pochi e certo opinabili, ma comunque non privi di fondamento archeologico. Un primo dato deriva dalla revisione dei rapporti stratigrafici che intercorrono tra la fronte del tempio A e la sequenza dei tre vani rettangolari accessibili da est (vani b, a, c), davanti all’angolo meridionale dell’edificio templare (Str. XXXIV; Figg. 3, 10). Il vano centrale e quello meridionale sono stati tagliati e non presentano più rapporti di contiguità con il tempio (vani a, b; Fig. 3). In precedenza si è ritenuto che il taglio fosse dovuto alla fondazione del Tempio A, con una quota di calpestio originaria poco sotto quella l’attuale. Tuttavia il vano più settentrionale, che fa parte del medesimo corpo di fabbrica, presenta la parete nord integra, che arriva ad appoggiarsi alla fronte del tempio (vano c; Figg. 3, 10). Perciò mi chiedo se non dobbiamo pensare che in origine tutte queste strutture si appoggiassero al tempio e siano state tagliate papiro di Epoca Romana (BGU XIII 2215) che ricorda l’esistenza a Bakchias di due templi loghima dove si veneravano due divinità coccodrillo, Soknobkonneus e Soknobraisis. A proposito di queste questioni e del pantheon di Bakchias si vedano Pernigotti 2000; Rossetti in corso di stampa e il contributo di Silvia Strassi in questo stesso volume. 28 Oltre ai motivi cultuali, sarebbe interessante verificare se questo cambiamento sia anche da mettere in relazione con la viabilità in entrata e uscita dall’abitato. Non si può infatti negare che l’impatto scenografico maggiore avveniva provenendo dalla riva meridionale del canale e procedendo a nord verso la via per Menfi. 29 Tassinari 2007, 27-44; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2009; Tassinari 2009.

30

Giorgi 1998, 57-76. A giudicare dal rialzamento del pavimento si decise tenere in uso il tempio precedente spendendo risorse in questa direzione e forse attuando anche altri interventi edilizi oggi non più visibili sugli elevati. Resta il problema dello strano riutilizzo di un edificio tanto importante che verrebbe declassato a struttura di servizio. Significative riflessioni su alcune particolari strutture di servizio a questi tipi di templi si trovano in Rossetti in corso di stampa. 31

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

era stato rialzato mentre il tempio B risultò interrato (Età Augustea).

ecclesiastico del kom sud. Ricerche di Egittologia e Antichità copte 9, 93-103.

In conclusione vorrei affrontare brevemente il tema dell’abbandono di Bakchias e dello sviluppo dell’insediamento a sud del canale fossile in Età Tardoantica e Altomedievale. Le ricerche più recenti hanno aggiunto, infatti, importanti informazioni rispetto a quanto già sapevamo in proposito.32 In questo senso è fondamentale la comprensione dell’area del kom sud, dove si trovano i resti più consistenti delle fasi tarde. Questi resti, tra l’altro, sono esposti a un progressivo e continuo degrado, per la vicinanza al moderno villaggio di Gorein e per l’aggressione stringente da parte dell’umidità e della vegetazione spontanea, causate dall’attuale rimessa a coltura dell’area circostante. Com’è ben noto la denominazione del kom sud non rende giustizia all’area che in realtà è pianeggiante e presenta le poche strutture antiche superstiti già alla luce del sole o appena sotto il piano di campagna.33 Già dall’analisi topografica dell’area emerge una forma regolare dell’abitato al cui interno si distinguono almeno tre fasi edilizie principali: un primo impianto (forse di Epoca tardo-Romana); un probabile complesso monastico copto con due chiese; una fase di riutilizzo fortemente caratterizzata in senso produttivo che rimanda all’ambito culturale islamico.34 Lo spostamento del baricentro da nord verso sud segue il regresso del sistema di canalizzazione e ha determinato le sorti dello stesso villaggio attuale, disposto lungo il moderno canale ancora più a meridione del kom sud. Nonostante la dinamica sia ora invertita, per l’espandersi dell’area coltivata a scapito del deserto, la tutela che il Supreme Council of Antiquities attua nei confronti dell’area archeologica impedisce l’espansione sopra all’area archeologica.35 La logica di economia del vivere che ha determinato tutti questi cambiamenti è legata al rapporto tra aree desertiche, aree coltivate e presenza di materiali da riutilizzare per i nuovi edifici. Proprio in base a questa dinamica l’antico abitato ellenistico romano è stato progressivamente abbandonato man mano che progrediva la desertificazione circostante, divenendo luogo per bivacchi e ricovero delle greggi e cava di prestito per la costruzione degli edifici copti, proprio a scapito degli antichi templi ormai in disuso.36

Buzi P. 2007b. Bakchias tardo-antica: la chiesa del kom sud. In L’artigianato nell’Egitto antico. Atti dell’XI Convegno nazionale di Egittologia e papirologia, Chianciano 29-31 gennaio 2007 (Aegyptus 87), 377-392. Buzi P. 2008. Insediamenti cristiani a nord del Birket Qarun (Fayyum) il caso di al-Kanā’is. Ocnus 16, 107112. Buzi P. 2009a. Un ostrakon copto (B05/D2-63/58) proveniente dal thesauros di Bakchias. In C. Tassinari, Il thesauros di Bakchias. Rapporto definitivo (Archeologia e Storia della Civiltà Egiziana e del Vicino Oriente antico. Materiali e studi 17), 157-160 Imola, La Mandragora. Buzi P. 2009b. Insediamenti cristiani non monastici nel Fayyum tra letteratura e archeologia: conoscenze acquisite e questioni aperte. In R. Farioli Campanati, I. Baldini (a cura di), Atti del Convegno Internazionale: Ideologia e cultura artistica tra Adriatico e Mediterraneo Orientale (IV-X secolo): il ruolo dell’autorità ecclesiastica alla luce di nuovi scavi e ricerche. Dipartimento di Archeologia, Bologna-Ravenna, 26-29 novembre 2007, 199-206. Bologna, Ante Quem. Campagnoli P., Giorgi E. 2002. L’edilizia in argilla cruda e le tecniche edilizie di Bakchias. Note sul rilievo, l’interpretazione e la conservazione. Ricerche di Egittologia e Antichità Copte 4, 47-91. Davoli P. 1998. L’archeologia urbana del Fayyum in età ellenistica e romana. Napoli, Generoso Procaccini. De Maria S., Campagnoli P., Giorgi E., Lepore G. 2005. Topografia e urbanistica di Soknopaiou Nesos. Fayyum Studies 2, 23-90. Franceschelli C., Tassinari C. 2006. Bakchias X (2002). Esempi di architettura monumentale di età ellenistica: i portali del tempio A. Fayyum Studies 2, 95-113. Giorgi E. 1998. I materiali da costruzione e le tecniche edilizie del tempio di Soknobkonneus. In S. Pernigotti, M. Capasso, Bakchias V, 57-76. Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali.

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Giorgi E. 2004. Il rilievo planimetrico di Bakchias. Fayyum Studies 1, 49-55.

32 Per le fasi tarde si veda in generale Buzi 2007a, 93-103; Buzi 2007b, 377-392; Buzi 2008, 107-112; Buzi 2009a, 157-160; Buzi 2009b, 199206. 33 Giorgi 2007, 82-91, con bibliografia. Si ricorda che il toponimo kom designa normalmente un’altura. 34 Buzi 2007a, 93-103; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2009; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2010; Pernigotti, Giorgi, Buzi in corso di stampa. 35 Ma non è così per il cimitero moderno che lambisce il kom sud e per le piste che lo attraversano. 36 Si ricorda che nella costruzione di una delle chiese copte furono utilizzati blocchi lapidei probabilmente provenienti dal tempio C. Cfr. Giorgi 2008, 85-92; Pernigotti, Giorgi, Buzi 2009.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Fotografia aerea dell’area archeologica di Bakchias (da Google Earth)

Fig. 2: Planimetria della parte del kom nord e del kom sud affacciati sull’antico canale

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Fig. 3: L’area sacra centrale con i templi A, B, C

Fig. 4: L’area dei Templi A, C, E

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Fig. 5: La mole dei templi B (a sinistra) e A (a destra): si notino le sequenze orizzontali di buche pontaie

Fig. 6: Prospetto esterno del perimetrale nord-occidentale del tempio A con le buche pontaie

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Fig. 7: La sottofondazione in pietra della porta del tempio A in mattoni crudi che rialza il pavimento alla quota del tempio C in pietra

Fig. 8: La soglia soprelevata del tempio A (a sinistra sullo sfondo) con i blocchi in pietra del livello di fondazione del tempio C (al centro)

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Fig. 9: L’angolo orientale del tempio A (a destra) e il tempio B (al centro sullo sfondo)

Fig. 10: I vani antistanti l’angolo meridionale del tempio A con la parte del vano più settentrionale (c) che si appoggia alla facciata del tempio (dove si notano anche le buche pontaie e forse i resti di un solaio ligneo appena sotto la fila superiore)

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Fig. 11: Particolare della rifoderatura interna con mattoni romani del corridoio tra i vani antistanti il tempio A e il cassone di fondazione del cortile del tempio C

Fig. 12: Particolare dei blocchi grezzi di calcare fossilifero su cui insistono i blocchetti bugnati del portale di ingresso al tempio A (si nota il segno di cava)

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Antiquities was founded in 1818. In 1821 a few Egyptian antiquities from the university collection, which had been on show in the Theatrum Anatomicum, came to the museum.2 In 1826 Reuvens, the first director of the museum, was able to buy the mummy and coffins of Anchhor from Rottiers.3 In the same year he acquired more pieces from the De Lescluze collection at an auction of Egyptian antiquities. The acquisition of the entire collection was a prolonged affair and it was not until 1828 that Reuvens was able to buy the final lot.4 In 1827 an important addition was made to these pieces. The collection of Mrs. Cimba, the widow of Dr. Cimba, Henry Salt’s personal physician, was acquired in Livorno. The core of the Egyptian collection was bought in 1828 from Giovanni d’Anastasi, the son of a Greek merchant, who served as consul general in Egypt for Norway and Sweden, and like so many diplomats started dealing in antiquities as a profitable commercial side-line.

THE LOST TOMB OF PTAHMES Christian Greco Abstract Lists of the monuments of Ptahmes, mayor of Memphis during the reign of Ramses II, have already been compiled by Porter and Moss, Kitchen, Berlandini, Malek, van Dijk and Franke. Nevertheless, the recent rediscovery of his tomb forces us once more to reexamine the corpus of monuments ascribed to Ptahmes and kept at the National Museum of Antiquities in Leiden. The careful examination of the titles and the systematic study of the iconography allow us to identify some joins. We can start by proposing some general hypotheses concerning the context to which our disiecta membra in Leiden originally belonged. Awaiting the publication of the recently discovered tomb this modest contribution presents some preliminary conclusions about the original location of the Leiden reliefs.

The provenance of his antiquities is not always clear, but he worked with a number of local agents. However, Anastasi seems to have shared quite often in the objects excavated by orders of Salt or Drovetti, as it is clear from the considerable number of highly similar objects in present-day museum collections originating from these sources. After the death of Reuvens in 1835, the days of the great acquisitions were over. The focus now shifted to the consolidation, administration and publication of the collections. The statues, wall reliefs and exquisite objects continued to intrigue and fascinate the scholars. It was only in 1975 that an expedition was set out to rediscover the archaeological context of these treasures. The National Museum of Antiquities started a joint mission with the Egypt Exploration Society from London (19751998), later continued as a joint venture between the Leiden Museum and Leiden University (1999-present). The Expedition was fortunate enough to discover, during the first season, the long-lost tomb of Horemheb, commander-in-chief of Tutankhamun. Since then many important tombs have been discovered and excavated.5

The research activity of Professor Pernigotti has always carefully combined the systematic study of philological sources with archaeological fieldwork. In doing so he has shown, in a wonderful manner, how essential it is to make use of different disciplines in a complementary way in order to build a humanarum scientiarum aedificium.   His scientific work has given dignity to archaeology, never considered by Professor Pernigotti a pars levior litterarum.1 His wide scientific production not only testifies his profound erudition and elegance but also remains a source of inspiration and an indispensable tool for anyone who studies the multiform and complex ancient Egyptian civilization.

These monuments have yielded an enormous amount of new material for the study of almost all branches of Egyptology. The expedition has acquired a wealth of information on the history, art, architecture and religion of the period between the Amarna Age and the rise of the 19th Dynasty. The development of the New Kingdom necropolis at Saqqara with its various types of tombs, their special distribution and their use over time is becoming clearer. We are now able to draw the first conclusions on the mechanisms which determined the spatial organization of the cemetery as a whole and the construction of individual tombs in particular.6 The monuments preserved in the National Museum of

The formation of the Egyptian collection at the National Museum of Antiquities in Leiden The research activity of the National Museum of Antiquities in Leiden has been focused for decades on the archaeological re-contextualization of the important monuments present in its collection. Philology and archaeology are indispensable tools and the combined efforts of scholars of both disciplines have enormously increased our knowledge of the monuments housed in the Museum. As it is well known the National Museum of

                                                            

                                                            

1  I use here the words pronounced by Prof. dr. C. Reuvens, first director of the National Museum of Antiquities in Leiden, on 24th October 1818, during his inaugural lecture in the auditorium of the university in the presence of the rector, trustees, professors, city council and students. In his lecture De laudibus archaeologiae Reuvens pleaded for a worthy place for archaeology beside history and philology in the “large building of humanities”, see Halbertsma 2003, 5.

2

 Halbertsma 2003, 98.  Raven 2005, 23. 4  Raven 2005, 23. 5  For an overview of the discoveries and bibliographical indications see the website: [www.saqqara.nl]. 6  Raven 2005, 9. 3

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Antiquities can now be studied within the cultural context in which they functioned in Antiquity.7

PtH), treasury superintendent (imy-r pr HD), overseer of works (imy-r kA.w.t m mn.w nb n Hm=f), general in chief in the estate of Ptah (imy-r mSa wr m pr PtH), vigilant administrator of the Lord of the two lands (xrp rs-tp n nb tA.w.y), mayor (HAty-a wr) in Memphis (m inb(w) HD; m Hw.t kA PtH), seal bearer of the King of Lower Egypt (xtmw bity), sole companion (smr waty), eyes of the King of Upper Egypt and ears of the King of Lower Egypt (irtj.w.y n nsw.t, anx.w.y bity), chief of secrets of the temple of Ptah (Hry sStA.w n Hw.t PtH).

The joint Expedition of the National Museum of Antiquities and the Egypt Exploration Society was soon followed in the field by French, Egyptian, Japanese and Australian missions.8 The Titles of Ptahmes: the mayor of Memphis

The two seated statues (Figg. 3-4) preserved in Leiden10 have only a single column of text on the kilts, where the titles of royal scribe and steward can be read.

The recent discovery of the tomb of Ptahmes in Saqqara by a team of Cairo University is the impetus for the following brief considerations. As it has been stated above, our knowledge of the Memphite necropolis in the New Kingdom has tremendously increased in the last decades as the result of new fieldwork. Beside continued archaeological activity, the study of the monuments preserved in different museums’ collections and of those recorded earlier but unpublished, as well as the analysis of archive material, is necessary in the attempt to reconstruct the corpus of a tomb whose reliefs, pillars, statues have been scattered all around the world. This modest contribution aims at reconsidering once more the Ptahmes material preserved at the National Museum of Antiquities in Leiden. We can start by proposing some general hypotheses concerning the context to which our disiecta membra in Leiden originally belonged. Awaiting the publication of the recently discovered tomb we will present here some preliminary conclusions about the original location of the Leiden reliefs.

In order to determine the identity of this Ptahmes, it is necessary to analyze the titulary presented above and to examine its distinctive features. Certainly the function of governor of Memphis is the most important that our Ptahmes had during his life. The responsibilities of mayors during the New Kingdom were wide ranging but the titulary seldom throws light on the Memphite mayor’s full scope of duties. Reading the titles of Ptahmes, we learn that he was responsible for administering the Estate of Ptah, supervising the king’s building activities, provisioning and defending the temple. Among the few attested and identified mayors of Memphis during the New Kingdom, only Amenhotep Huy and Ptahmes, both of the reign of Ramses II, adopt a different titulary. They use the title HAty-a wr next to the usual HAty-a. Before the toponym we find the preposition m as a substitute for the more common genitival n. They use a variety of designations for the city of Memphis and its quarters beside Mn Nfr.11 These distinctive titles have enabled scholars to identify the disiecta membra of the tomb, scattered around the world.

Ptahmes was a very popular name at Memphis during the Ramessid period. In most of the extant monuments of our high official there are no indications of parentage, so that the only way to identify him is a careful study of his titles. In the four pillars (Fig. 1) and the relief (Fig. 2) preserved in Leiden9 the titles of Ptahmes are as follows: royal scribe (sS nsw.t), noble and count (iry-pa.t, HAty-a), steward of (the domain of) Ptah (imy-r pr PtH), steward of the Lord of truth (imy-r pr n nb mAa.t), high steward in the domain of Ptah (imy-r pr wr m pr PtH, or simply n

Since the nineteenth century, when agents of the European diplomats were active in Saqqara and successful in retrieving reliefs of astonishing quality, the memory of the exact location of the tomb of Ptahmes was lost. Thanks to a photograph taken by Arthur Rhoné in 1885, the scholars had knowledge of part of a wall still in situ at the end of the nineteenth century. This relief depicts Ptahmes travelling on a boat in the Egyptian marshes, in a typical scene of fishing and fowling.12 The three columns of text visible in the photograph are of particular interest. Here we can read the following titles: noble and count (iry-pa.t, HAty-a), royal scribe (sS nsw.t), high steward in the dominion of Ptah (imy-r pr wr m pr PtH), high steward of the temple of Ramses II within the dominion of Ptah (imy-r pr wr m tA Hw.t Ramss mry Imn m pr PtH), mayor (HAty-a wr) in Memphis (m inb(w) HD), general in chief in the estate of Ptah (imy-r mSa wr m pr PtH), overseer of the granaries of the Lord of eternity

                                                            

7  The expedition has focused in the last decade on the study of the interaction between the cultural purveyor and space and/or material culture, which can be defined, using a term borrowed from linguistics, pragmatics. The 2001-2004 excavation programme of the RMO and the University of Leiden as accepted for co-financing by the Netherlands organization for Scientific Research (NWO) was entitled: The ‘pragmatics’ of the funerary symbolism of the New Kingdom (ca. 15501050 B.C.) upper class as reflected in the necropolis at Saqqara. The new application for the seasons 2007-2010, which likewise resulted in a NWO grant, was entitled: The ‘pragmatics’of the New Kingdom (ca. 1550-1050 B.C.) upper class necropolis eastwards of the line of tombs of Horemheb and Meryneith at Saqqara, see Raven, van Walsem, Aston, Horáçková, Warner, 2007, 29. 8  Missions working at Saqqara include the Mission Archéologique Française du Bubasteion (directed by A.P. Zivie), the Waseda University excavations (dir. S. Yoshimura and N. Kawai), the mission of Cairo University (dir. O. el-Aguizy), the Australian Centre for Egyptology Expedition (dir. N. Kanawati and B. Ockinga) and the Supreme Council of Antiquities research (dir. Z. Hawass) carried out in the Teti Pyramid area, see Raven 2010, 250. 9  The inventory number of the pillars is AP 51 and of the relief AP 54.

                                                             10

 The inventory number of the two statues is respectively AST 7 and AST 8. 11  Málek 1987, 136. 12  Berlandini 1982, pl. VII

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(imy-r Snw.t.y n nb nHH).13 The analysis of these titles confirms the correspondence with the titulary present in the Leiden pillars, statues and relief and gives some further indication for the exact dating. Ptahmes’date is in fact indicated by his function as imy r pr wr m tA Hw.t Ra mss mry Imn m pr PtH.14 This title is attested not only on the so called Rhoné wall but also on relief Cairo JE 4874 and on a pyramidion seen and documented by Lepsius.15 The temple mentioned in these inscriptions is probably the same as the Memphite memorial temple of Ramses II called tA Hw.t Ramss(w) mry Imn Xnm mAa.t n.t PtH, the building of which is described on the statue of the Memphite mayor Amenhotep Huy. It is likely that Ptahmes succeeded him in office, probably directly and during the reign of Rameses II. His career may have started under Sethi I because of his title imy-r pr m Hw.tnTr Ax stXy mry PtH m pr PtH, on the pyramidion recorded by Lepsius.16 The evolution of the spelling of the name of Ramses, from Ramss on the Rhoné wall to Ramssw in relief Cairo JE 4874 seems to suggest a date in the earlier part of the reign of this pharaoh.17

daughters mentioned on the statue was called Nafi, and that his son was chief wab priest, was the reason why the Italian scholar believed that this statue belonged to the same Ptahmes of the Florence and Leiden reliefs. This hypothesis was accepted in Leiden27 and confirmed by the fact that the statue could be dated to the same period,28 and that it had arrived to the museum as part of the collection Anastasi, together with relief AP 54 and the four pillars in 1829. A careful analysis of the titles has shown that the cubic statue belonged to a royal scribe and steward, a contemporary of the mayor of Memphis Ptahmes. Hence we are dealing with distinct officials active in Memphis during the reign of Ramses II, and buried in the New Kingdom necropolis of Saqqara.29 Already in 1989, van Dijk30 was able to prove that the relief preserved in Leiden (inventory number AP 54) and the block of the Liebieghaus in Frankfurt (inventory number IN 1643) are a direct join. The upper register of the two adjoining reliefs consists of three scenes. On the upper left corner, almost entirely preserved on the block in Frankfurt, we see Ptahmes and his wife Inehyt in front of a pile of offerings, while they are adoring a god, now missing, who was probably Osiris. The second scene, completely visible on the Leiden relief, depicts Ptahmes kneeling in front of a seated Ra Horakhty. The upper left corner of the Leiden relief shows only the beginning of the third scene: the Hathor cow on a boat.

Lists of the monuments of Ptahmes have already been compiled by Porter and Moss,18 Kitchen,19 Berlandini,20 Malek,21 van Dijk22 and Franke.23 Nevertheless, the recent re-discovery of his tomb forces us once more to reexamine the corpus of monuments ascribed to Ptahmes and kept at the National Museum of Antiquities in Leiden. Relief AP 54 has proven to be of particular interest. It gives, in fact, besides the titles discussed above, the names of part of the family of Ptahmes. We are able to read the names of his wife, the lady of the house Inehyt, and of two of his sons and three of his daughters. His sons are Usi, chief wab priest in the house of Ptah and Iia, wab priest of Ptah. His daughters are called Tamit, Mery(t)-Ptah and Nafi. On a relief (Fig. 5) of the Museo Egizio in Florence24 and belonging to Ptahmes, the deceased is represented seated, together with his wife, while he receives offerings from his family. One of his daughters is called Nafi, as on the relief in Leiden.25 In the attempt to trace the genealogy of Ptahmes, Schiaparelli in 1887 published as parallel the Leiden relief AP 54. He noticed, moreover, that a cubic statue preserved at the National Museum of Antiquities in Leiden26 belonged as well to a Ptahmes, who had the titles sS nsw.t and imy-r pr. The fact that one of the

The second register consists of four scenes. On the lower left corner, preserved in Frankfurt, we see Ptahmes who worships Osiris, represented standing in a shrine. The second scene, preserved for two thirds in Frankfurt and for the remaining part in Leiden, is divided in two halves. On the lower section we see Ptahmes kneeling and adoring Ra Horakhty who is seated in a boat. In the upper part we see a small lower Egyptian shrine, a falcon, with its wings spread, which emerges from a square basin and the mH.t wr.t cow on a pedestal. Above the back of the cow a large wDA.t eye is portrayed. All these elements are typical of the vignette of BD 71. The text of the corresponding chapter is not written on the reliefs. In New Kingdom Theban Tombs, we encounter this vignette without the corresponding chapter of the Book of the Dead, as it is the case in the tomb of Ptahmes.31 Three columns of hieroglyphs complete the scene and contain a hymn to Re Horakhty, described as the rising sun, in the shape of a divine falcon who rises from the darkness beside mH.t wr.t. This text is thematically linked to the vignette represented and confirms once more that the Leiden and Frankfurt reliefs belong together.

                                                             13

 Berlandini 1982, fig. 1.  Málek 1987, 134. 15  Lepsius 1897, Text I, 15. 16  Málek 1987, 134-135. 17  van Dijk 1989, 53. 18  Porter and Moss 1978, 713-715. 19  Kitchen 1980, 171-180. 20  Berlandini 1982, 85-103. 21  Málek 1987, 117-137. 22  van Dijk 1989, 47-54. 23 Franke 1993, 159-172. 24  The relief has inventory number 2557. I would like to thank dr. M.C. Guidotti for allowing me to present here the relief preserved in Florence. 25  Schiaparelli 1887, 326 26  The statue has inventory number AST 23. 14

                                                             27

 Schneider and Raven, in the catalogue of the collection, mention the statue as part of the corpus of Ptahmes, see Schneider, Raven 1981, 99. 28  A cartouche of pharaoh Ramses II is visible on the right shoulder of the statue. 29  Greco 2010, 38. 30  van Dijk 1989, 48. 31  Saleh 1984, 37 and following.

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Franke had noticed, describing the block of the Liebieghaus,32 the presence of a small head on the lower edge of the relief. He had the brilliant intuition that this head could belong to a figure depicted on a block preserved in Cairo museum (TR 25/6/24/6), where the tomb owner, who supervises the work in the marshes, is represented (Fig. 6). On the upper register of the Cairo relief there are two seated men who are preparing dead birds and making them ready for consumption. The scene is fragmentary, but it is possible to restore it by comparing it with the lower register. Above the heads of the men there was originally a pole from which a row of dead birds where hanging, waiting to be cleaned and cut. On the right edge the lower bodies of two men are visible. They are carrying a pole from which six dead birds are hanging. Franke had understood that the head carved on the block preserved in the Liebieghaus could belong to one of those figures. He could not prove it, though, since he did not have the exact measures and could thus not know whether the two fragments would match.33 It is now possible to test this hypothesis thanks to a drawing and observations made by Prof. Dr. G.T. Martin.34 The Cairo block is about 59 cm high and 76 wide.35 Putting the Frankfurt and Cairo museum reliefs next to each other, it is possible to notice that the proportions match, and that very possibly the head depicted on the edge of the Liebieghaus block belongs to the standing man who carries the pole from which six dead birds hang on the Cairo fragment. Superimposing the two images (Fig. 7),36 one can clearly see not only that the proportions of the head fit perfectly but also that the few lines in front of it belong to the upper part of one of the dead birds hanging from a pole, situated above the two seated figures who are preparing a food offering. It can now be asserted with certainty that the Cairo and Frankfurt blocks belong together. On the lower register of relief Cairo TR 25/6/24/6 a fragmentary scene is depicted, where papyrus plants and a flying bird are visible. This kind of representation resembles the scene of fishing and fowling pictured on the so-called Rhoné block, mentioned above. It is very likely that block TR 25/6/24/6 was located above this wall. We are now able to reconstruct a whole section of the tomb of Ptahmes. On the lower part was located the so called relief Rhoné, still in situ. Above it there was the block now preserved in the Cairo museum. We have proved that this relief belongs to the corpus of the tomb of Ptahmes. This is also confirmed by the few hieroglyphs depicted on it. They give some general titles, iry-pa.t, sS nsw.t, imy-r pr PtH,

that refer to the owner of the tomb. It is interesting to notice that on the lower register the wab priest and sS Hw.t nTr n PtH is mentioned. His name is Ptahmes, and his titles correspond to those of the grandson of the owner of our tomb. He is mentioned also on the Rhoné wall.37 Above the Cairo relief was situated the block now housed in the Liebieghaus, and we know that the Leiden relief is its direct join. The general height of the wall so reconstructed is about 309 cm. It should, then, be excluded that it belonged to one of the western chapels.38 The dimensions and the kind of representation depicted with scenes of ‘daily’ life would suggest that these blocks were part of the eastern section of the northern wall of the tomb.39 The Florence block 2557 does not belong to this scene.40 It was probably located in one of the western chapels. These preliminary data are an attempt to reconstruct the disiecta membra from the tomb of Ptahmes. The rediscovery of the tomb gives finally the opportunity to study and understand the complete iconography of this remarkable monument belonging to one of the most important officials of Memphis during the reign of Ramses II.

Bibliography Berlandini J. 1982. Monuments de la chapelle funéraire du gouverneur Ptahmès. Bulletin de l’Institut Français d’Archeologie Orientale 82, 85-103. Dijk J. van 1989. Two blocks from the tomb of Ptahmose, mayor of Memphis and High Steward in the Domain of Ptah. Göttinger Miszellen 113, 47-54. Franke D. 1993. Reliefblock aus dem Grab des Ptahmose in Saqqara. In E. Bayer-Niemeier, B. Borg, G. Burkard, V. Droste zu Hülshoff von, D. Franke, B. Gessler-Löhr, D. Polz, H. Roeder, B. Schlick-Nolte, S. Seidlmayer, K.J. Seyfried, H.J. Thissen, Liebieghaus-Museum Alter Plastik. Ägyptische Bildwerke. III. Skulptur, Malerei, Papyri und Särge, 159-172. Melsungen, Verlag Gutemberg. Greco C. 2010. Het verloren graf van Ptahmes. Archeologie Magazine 4, 34-38.

                                                             37

 Berlandini 1982, 94.  J. Málek (see Málek 1987, 134) suggested that the reliefs from Leiden and Frankfurt were originally placed in one of the western chapels after considering the outward direction of writing in the bandeau texts, the westward orientation of the tomb owner in scenes before gods and the eastward-facing tomb owner and wife seated in offering scenes. Considering the fact, though, that the relief of the Liebighaus is a join of the Cairo block and that this one was located above the Rhoné wall, reaching a height of 309 cm, we should exclude this hypothesis. No chapel would have been so high. 39  Franke 1993, 172. 40  J. Málek had suggested that the Florence block 2257 was part of the same wall where the Frankfurt and Leiden reliefs were inserted, thinking that the Florence block was located at the eastern end, while the Frankfurt relief was at the western end.

                                                            

38

32

 Franke 1993, 171.  Franke 1993, 171. 34  I would like here to express my sincere gratitude to prof. dr. G.T. Martin, who was so extremely kind to share with me the information he had about the relief. He sent me the drawing he had made of relief Cairo TR 25/6/24/6 and allowed me to publish it. Without his precious help it would not have been possible to test Franke’s theory and to reconnect one of the disiecta membra of the tomb of Ptahmes. 35  The measures have been taken by prof. dr. G.T. Martin, who has informed me that the relief is mounted in a frame. 36  I would like to thank H. Kik and M. Duindam for their help. Their computer skills have been very precious. Without their help it would not have been possible to test Franke’s theory. 33

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Halbertsma R.B. 2003. Scholars, Travellers and Trade. The pioneer years of the National Museum of Antiquities in Leiden 1818-1840. London and New York, Routledge. Kitchen K.A. 1980. Ramesside Inscriptions, Historical and Biographical III. Oxford, B.H. Blackwell. Lepsius C.R. 1897. Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien I. Leipzig. Malek J. 1987. The Saqqara Statue of Ptahmose, Mayor of the Memphite Suburbs. Revue d’Égyptologie 38, 117137. Porter B., Moss R.L.B., Malek J. 1978. Topographical Bibliography of Ancient Egyptian Hieroglyphic Texts, Reliefs, and Paintings. III Memphis, 2. Saqqara to Dahshur. Oxford. Raven M.J., Taconis W.K. 2005. Egyptian Mummies. Turnhout, Brepols Publishers. Raven M.J., van Walsem R., Aston B.G., Horáçková L., Warner N. 2007. Preliminary Report on the Leiden Excavations at Saqqara, Season 2007: the Tomb of Ptahemwia. Jaarbericht van het Vooraziatisch-Egyptisch Genootschap Ex Oriente Lux 40, 19-39. Raven M.J. 2010. Book of the Dead documents from the New Kingdom necropolis at Saqqara. British Museum Studies in Ancient Egypt and Sudan 15, 249-65. Saleh M. 1984. Das Totenbuch in den thebanischen Beamtengräbern des Neuen Reiches: Texte und Vignetten. Mainz am Rhein, Ph. Von Zabern. Schiaparelli E. 1887. Museo Archeologico di Firenze: Antichità Egizie. Roma, Tipografia della Reale Accedemia dei Lincei. Schneider H.D., Raven M.J. 1981. De Egyptische Oudheid. ’s-Gravenhage, Staatsuitgeverij. Tawfik S. 1991. Recently excavated Ramesside Tombs at Saqqara. 1. Architecture. Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts für Ägyptische Altertumskunde in Kairo 47, 403-409. 

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FIGURES

Fig. 1: four pillars from the tomb of Ptahmes preserved in Leiden, inventory number AP 51

Fig. 2: relief from the tomb of Ptahmes preserved in Leiden, inventory number AP 54

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Fig. 3: Seated statue of Ptahmes preserved in Leiden, inventory number AST 7

Fig. 4: Seated statue of Ptahmes preserved in Leiden, inventory number AST 8

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Fig. 5: Relief from the tomb of Ptahmes, preserved in Florence, inventory number 2557 (courtesy of Museo Egizio in Florence)

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Fig. 6: Drawing of the relief preserved in Frankfurt (published in Franke D. 1993. Reliefblock aus dem Grab des Ptahmose in Saqqara. In E. Bayer-Niemeier, B. Borg, G. Burkard, V. Droste zu Hülshoff von, D. Franke, B. GesslerLöhr, D. Polz, H. Roeder, B. Schlick-Nolte, S. Seidlmayer, K.J. Seyfried, H. J. Thissen, Liebieghaus-Museum Alter Plastik. Ägyptische Bildwerke. Band III. Skulptur, Malerei, Papyri und Särge, p. 162) and drawing made by prof. dr. G.T. Martin of relief Cairo TR 25/6/24/6 (courtesy of prof. dr. G. T. Martin)

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Fig. 7: Drawing of the relief preserved in Frankfurt (IN 1643) and the relief in Cairo (TR 25/6/24/6) digitally superimposed (image digitally realised by H. Kik and M. Duindam)

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oggetti sono in genere figure apotropaiche, come le immagini di Bes e Toeris, demoni preposti alla protezione del sonno e dell’intimità famigliare. Con valore magico e protettivo per la testa del dormiente o del defunto, dalla XVIII dinastia compaiono anche gli amuleti a forma di poggiatesta, del tipo però con base, fusto e cuscino, di solito in faïence o in ematite, che rimangono molto diffusi anche quando in Epoca Tarda scompaiono i poggiatesta di questa tipologia e restano solo quelli a blocco. A conferma della funzione di protezione del sonno troviamo due frammenti di poggiatesta a forma di blocco, proprio di Epoca Tarda, che presentano una rara decorazione con l’immagine della dea Neith raffigurata in atto di scagliare le frecce del “buon sonno”.4 È da ricordare infine il legame della forma dei poggiatesta a blocco con il segno geroglifico akhet, ovvero con l’orizzonte simbolo della rinascita del sole, e quindi propiziatorio per la resurrezione del defunto: la testa del defunto viene assimilata al sole stesso, e questo simbolismo è attestato già dalla fine dell’Antico Regno.5

NOTA SU UN POGGIATESTA DI UNA COLLEZIONE PRIVATA Maria Cristina Guidotti

Abstract Publication of a wooden head-rest of a private collection. The object can be dated to the XXV-XXVI dynasties and presents a decoration which combines the palace-facade design with floral motives.

Sono ormai alcuni anni che accarezzavo l’idea di scrivere una nota su un poggiatesta che aveva attirato la mia attenzione, in occasione di un lavoro di notifica legato alle mie attività istituzionali. Si tratta di un poggiatesta in legno chiaro, alto 18,2 cm, largo 12,5 cm e profondo 9 cm; è frammentato in due pezzi, riuniti mediante dei perni di legno che sono visibili sul fianco destro dell’oggetto. Il poggiatesta si presenta a forma approssimativamente di parallelepipedo, con la superficie superiore incavata, piuttosto consunta, che attesterebbe l’uso prolungato dell’oggetto. La caratteristica che ha attirato la mia attenzione è la particolare decorazione scolpita in bassorilievo sulla superficie anteriore del poggiatesta, costituita da linee in rilievo e un motivo floreale ripetuto cinque volte (Fig.1).

Tornando al nostro poggiatesta vorrei fare alcune riflessioni sulla decorazione che compare sulla superficie anteriore, che, come ho accennato, mi ha colpito in modo particolare e che suggerisce la datazione dell’oggetto: anche se il tipo a blocco è presente infatti fin dall’Antico Regno, la forma di questo poggiatesta, con i fianchi diritti e stretti e la presenza della decorazione che si riferisce a elementi architettonici, ci riporta all’Epoca Tarda. È evidente che l’artigiano ha voluto raffigurare su questo oggetto una decorazione a “facciata di palazzo”, che compare frequentemente soprattutto su stele e sarcofagi sia dell’Antico che del Medio Regno; inoltre il motivo floreale presente sul poggiatesta si trova spesso abbinato a questo tipo di decorazione, in particolare sui sarcofagi in pietra dell’Antico Regno e su quelli in legno riccamente dipinto del Medio Regno. Ci troviamo dunque di fronte a un caso di ripresa di motivi antichi caratteristico dell’Epoca Tarda e in particolare della XXV e della XXVI dinastia. La dominazione della valle del Nilo da parte dei “faraoni neri” della XXV dinastia fu infatti un periodo di recupero del passato, una vera e propria riscoperta dell’antico: il desiderio dei sovrani nubiani di riallacciarsi alla tradizione della civiltà faraonica era un modo per proclamare una presunta legittimità al trono, e caratterizzò tutto il periodo di questa dinastia e in seguito anche della XXVI dinastia, portando alla nascita di quel movimento culturale identificato come “Rinascimento Faraonico”.6 Anche nell’arte, che in questo periodo riprende gli stili e le iconografie dell’Antico e del Medio Regno, la ricerca dell’arcaismo divenne diffusa forma espressiva nella decorazione dei monumenti, soprattutto di quelli funerari.

Il poggiatesta appartiene alla tipologia cosiddetta a blocco,1 costituita appunto da un unico blocco di forma approssimativamente trapezoidale, di solito in legno, terracotta o calcare; oggetti di questo tipo compaiono già all’inizio dell’Antico Regno e continuano ad essere presenti nel Medio Regno, ma solo in calcare. Durante il Nuovo Regno la tipologia si arricchisce di decorazioni varie,2 e in Epoca Tarda rimane praticamente come unico tipo di poggiatesta attestato, soprattutto in pietra, con decorazioni incise o in rilievo, anche di carattere architettonico.3 Come è noto il poggiatesta veniva usato dagli antichi egiziani durante il sonno, per assicurare una corretta posizione del corpo, con benefici per la colonna vertebrale; ancora oggi alcune popolazioni africane utilizzano per dormire dei poggiatesta della tipologia a blocco. È noto anche che questo tipo di oggetto ha assunto a partire dal Primo Periodo Intermedio un particolare significato di protezione per il sonno, sia del vivente che del defunto; il nome geroglifico con il quale veniva indicato il poggiatesta è ripreso infatti dal verbo wres, che significa “passare il tempo a vegliare”, proteggendo così il dormiente. Le figure che arricchiscono dunque la decorazione di questo tipo di

Il motivo floreale che troviamo sul poggiatesta della presente nota è stato dunque ripreso, insieme alla

1

4

2

5

Cfr. Costa 1988, 40. Costa 1988, 45. 3 Costa 1988, 45-46.

Daressy 1910. Cfr. Hellinckx 2001, 77-80. 6 Cfr. Tiradritti 2009.

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“facciata di palazzo”, dalle decorazioni dell’Antico e del Medio Regno, e compare spesso durante la XXV dinastia; un esempio fra tutti è la decorazione della prima corte della famosa tomba del Governatore dell’Egitto Meridionale Montuemhat a Tebe Ovest, che presenta le pareti decorate con questo motivo, in grandi dimensioni. Pertanto darei per sicura la datazione alla XXV-XXVI dinastia del nostro poggiatesta, che costituisce così una ulteriore testimonianza del cosiddetto “Rinascimento Faraonico”. Il poggiatesta si trova attualmente riunito mediante un paletto di metallo ad un altro oggetto non pertinente: si tratta di una maschera di sarcofago in legno chiaro, alta 26,8 cm, larga 12,5 cm e con uno spessore massimo di circa 8 cm. Anche se la presente nota non è dedicata a questo oggetto, esso merita comunque un breve commento, data la bellezza incontestabile del reperto. La maschera presenta la superficie posteriore piana per essere applicata sul coperchio di un sarcofago mediante diversi perni di legno, visibili sia sul volto che sulla parrucca; la parte conservata doveva probabilmente essere assemblata sui lati agli altri pezzi del coperchio, completando così la parrucca della maschera (Figg. 2 e 3). L’oggetto non presenta tracce di pittura: è possibile che il sarcofago cui apparteneva sia rimasto incompiuto, fatto che si nota soprattutto nel trattamento degli occhi, non finiti. Il confronto con un sarcofago del museo del Cairo7 e la particolare conformazione della bocca suggeriscono una datazione alla fine della XVIII dinastia, quando il ritorno all’arte classica risente ancora di alcune caratteristiche dell’arte amarniana.

Bibliografia Costa B. 1988. Preparazione per un corpus dei poggiatesta nell’antico Egitto: classificazione tipologica. Egitto e Vicino Oriente 11, 39-50. Daressy M.G. 1909. Cercueils des cachettes royales. Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale. Daressy M.G. 1910. Neith, protectrice du sommeil. Annales du Service des Antiquités Egyptiennes 10, 177179. Tiradritti F. 2009. Il Rinascimento Faraonico: progredire senza rinnegare il passato. In M.C. Guidotti, F. Tiradritti (a cura di) Rinascimento Faraonico. La XXV dinastia nel Museo Egizio di Firenze (Guide alle Raccolte Egizie d’Italia 2), 7-13. Montepulciano, Tipografia Madonna della Querce. Hellinckx B.R. 2001. The symbolic assimilation of head and sun as expressed by headrests. Studien zur Altägyptischen Kultur 29, 61-95. 7

Daressy 1909, Tav. XXIV n.61023.

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FIGURE

Fig. 1: Il motivo floreale del poggiatesta

Fig. 2: Visione frontale della maschera attualmente assemblata al frammento di poggiatesta

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Fig. 3: Visione laterale della maschera attualmente assemblata al frammento di poggiatesta

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anche nelle vicende storiche e culturali dell’Egitto, in particolare tra l’inizio del Medio Regno e quello del Nuovo Regno, sono stati recentemente evidenziati non solo grazie alle indagini archeologiche della Missione Svizzera a Kerma,4 a Sud della Terza Cataratta, ma anche grazie alla scoperta di un nuovo testo geroglifico a El Kab, che menziona un intervento militare diretto dei Nubiani di Kush in Alto Egitto, alla fine del Secondo Periodo Intermedio.5 Tale testo offre un’ulteriore conferma dell’aggressività e della potenza di Kush nel Secondo Periodo Intermedio, fenomeno nell’ambito del quale va probabilmente inquadrata l’alleanza tra i re di Kush e i re Hyksos, che si può intravedere dietro alcuni passi nella tavoletta Carnarvon6 e nelle stele di Kamose,7 e ben rappresenta quanto questa intesa potesse generare un reale pericolo per i principi tebani. Conferma indiretta dell’estensione dell’influenza almeno culturale di Kerma verso Sud hanno poi fornito le recenti indagini condotte nell’area della Quarta Cataratta,8 il rinvenimento di materiali Kerma nel delta del Gash, ai confini tra Sudan e Eritrea,9 e le stesse dinamiche dei contatti marittimi tra l’Egitto e la remota terra di Punt, la cui intensificazione nel Medio Regno e agli inizi del Nuovo Regno potrebbe essere stata favorita proprio dalla necessità di evitare l’intermediazione di un potente stato alto-nubiano lungo le piste che collegavano Egitto ed entroterra africano risalendo la valle del Nilo.10

ICONOGRAFIA, RELIGIONE E IDEOLOGIA A KERMA, ALTA NUBIA, 2000-1400 A.C.1 Andrea Manzo

Abstract This paper deals with decorations made of ivory or bone, mica, and faïence decorating funerary beds, caps, and temples in Kerma, the capital of the kingdom of Kush, and dating to Classic Kerma times (ca. 1750-1500 BC). The iconographies characterizing these decorations are mainly animalistic but some vegetal elements occur as well. Although most of these iconographies were rooted in the Nubian local traditions, several may have been originated in Egypt, where they were used mainly to decorate objects, such as amulets and magic ivory blades, used in the popular religion. These iconographies may have been adopted in the court milieu at Kerma when the Egyptians living in Lower Nubia became a component of the kingdom of Kush. Other iconographies may be related to Early Dynastic Egypt and to the AGroup art. This may result from a reference to the symbols of the A-Group rulers on the part of the king of Kush. These remarks seem to confirm that the religion and myth of the state in Kerma-Kush had a very complicated origin. This can be understood only as part of the process leading Kush to be an important regional power. Some remarks on the possible use by the Egyptians of some symbols of the Kerma kingship after the conquest of Upper Nubia at the beginning of the New Kingdom are also put forward.

Nonostante il suo rilievo nel panorama politico dell’Africa nord-orientale tra la fine del III e la metà del II millennio a.C., la cultura Kerma e il regno di Kush non hanno finora restituito testi scritti, che pure dovevano esserci: una stele di Kamose suggerisce infatti che intorno al 1600 a.C. la cancelleria del regno di Kush scambiasse missive con quella dei sovrani Hyksos.11 In ogni caso, la mancanza di testi scritti ci priva della possibilità di accedere direttamente a molti aspetti relativi alla storia politica, all’amministrazione, alla religione e ideologia del regno nubiano.

Introduzione

L’unica possibilità per ipotizzare delle ricostruzioni plausibili di tali aspetti della cultura del regno di Kush resta quindi legata allo studio di resti materiali, seguendo la via magistralmente tracciata da Ch. Bonnet proprio per lo studio della religione,12 sforzo cui ho tentato di contribuire attraverso l’esame dello sviluppo delle strutture sacre di Kerma, la capitale del regno.13 Relativamente alle problematiche inerenti alla ricostruzione della religione di Kerma, un ulteriore aspetto che ha recentemente offerto proficui spunti di

La cultura Kerma si sviluppò tra la metà del III e la metà del II millennio a.C. in Alta Nubia2 ed è l’espressione archeologica del potentato di Kush, menzionato dalle fonti egiziane a partire dall’inizio del Medio Regno.3 L’importanza della cultura Kerma e del regno di Kush nella storia dell’Africa nord-orientale e la loro centralità 1 Questo articolo fa seguito a un primo studio sulla ricostruzione di aspetti della religione di Kerma e del ruolo sociale e politico che essa assunse presentato nel corso del terzo Colloquio di Egittologia e Antichità Copte, tenutosi a Bologna il 30 e 31 maggio 2007 (cfr. Manzo 2008). Di quel colloquio, come pure di quelli che lo precedettero e seguirono fu promotore ed animatore il Prof. Sergio Pernigotti, cui mi onoro di dedicare questo contributo. È per me un grande piacere dedicare al Prof. Pernigotti un articolo che sviluppi ulteriormente un tema il cui studio ho avviato in una simile occasione, perché credo che i Colloqui bolognesi ben rappresentino per la varietà di temi ed approcci, per la libertà e ricchezza del dibattito la sua apertura mentale e curiosità di studioso. I Colloqui sono inoltre sempre animati da un’ampia schiera di giovani colleghi, indubbio indizio dell’attenzione sempre dedicata dal Prof. Pernigotti allo sviluppo dei nostri studi oltre che della proficuità del suo magistero. 2 Si vedano in generale Gratien 1978 e Bonnet 2000. 3 Manzo 1999, 21; Zibelius 1972, 165-169.

4 Per cui si rimanda ai rapporti pubblicati periodicamente su Genava n.s. e, inoltre, a Bonnet 1986; Bonnet 1990; Bonnet 2000; Bonnet 2004, Bonnet; Valbelle 2005. 5 Davies 2003a. 6 Gardiner 1916. 7 Habachi 1972, Hammad 1955. 8 Kołosowska, Mahmoud el-Tayeb, Paner 2003. 9 Fattovich 1991, Manzo 1997. 10 Manzo 2010. 11 Hammad 1955, 207, Fig. 15, linea 19. 12 Bonnet 1990b, 89. 13 Manzo 2008.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

riflessione è rappresentato dallo studio delle decorazioni dipinte, rinvenute da Reisner nelle cappelle funerarie K II e K XI,14 indagate e studiate sistematicamente da Bonnet,15 e delle sculture a tutto tondo in pietra invetriata, rivenute presso il tumulo K III.16

tecnologiche e di gusto cui avrebbero contribuito i contatti con le popolazioni locali.25 Anche più recentemente il carattere locale e, anzi, l’africanità di molte di queste decorazioni è stata da più parti sottolineata, pur rilevando la presenza di alcuni soggetti egiziani tra cui, in particolare, la dea ippopotamo Taweret.26

Credo che un progresso ulteriore in questi studi possa derivare dall’esame di alcune decorazioni figurate a soggetto prevalentemente animalistico in avorio di ippopotamo e elefante o in osso, in pietra invetriata e mica il cui contesto di rinvenimento e collocazione originaria possono lasciar intuire come i soggetti raffigurati possedessero una valenza religiosa17 e, come cercherò di evidenziare, ideologica. In effetti, la valenza religiosa delle figurazioni in avorio e pietra invetriata è immediatamente evidente se si considera che erano apposte rispettivamente sulle testiere dei letti funerari degli aristocratici del Kerma Classico (1700-1500 a.C. circa), dove erano applicate in incisioni appositamente modellate,18 e sulle facciate delle cappelle funerarie dei sovrani di Kush.19 Decisamente probabile è che anche gli ornamenti in mica, originariamente fissati a cappelli o copricapi in cuoio,20 avessero un significato simile, visto che, come si vedrà, riproducono molti dei soggetti rappresentati anche in avorio e pietra invetriata. In tutti questi diversi ambiti le figurazioni erano accostate l’una all’altra, sovente disposte in diversi registri, ciascuno dei quali è spesso dedicato a una singola specie animale.

Oggi noi sappiamo che gli oggetti qui studiati sono espressione di una cultura nubiana. Restano però da spiegare le circostanze da cui queste produzioni sono scaturite e le modalità attraverso cui alcune iconografie sono state condivise dalla cultura egiziana e da quella nubiana. Non andrà trascurato da questo punto di vista il fatto che solo alcune iconografie tra le tante potenzialmente disponibili sono state condivise con l’Egitto. Spiegare adeguatamente la questione, credo, potrà essere illuminante sia per quanto concerne la comprensione dei meccanismi attraverso i quali questa condivisione si realizzò, sia per chiarire eventuali meccanismi di selezione operativi in ambito nubiano e le motivazioni ad essi sottese. I soggetti I soggetti attestati nelle produzioni qui esaminate sono i seguenti: Ape in volo: riprodotta da placchette in osso o avorio,27 richiamerebbero il geroglifico biti, “sovrano del Basso Egitto”.28

La tecnica di lavorazione di tutti questi oggetti suggerisce che fossero prodotti localmente,21 nonostante per le incrostazioni in avorio non manchino assonanze con produzioni vicino-orientali piuttosto che egiziane.22 Nel caso della mica, l’uso di questo materiale pare invece una peculiarità nubiana e più specificamente di Kerma, dove pure sono state raccolte lastre di mica non ancora lavorate, mentre la sua utilizzazione in Egitto resta sporadica.23

Aquila bicefala (Fig. 1a): potrebbe trattarsi di un essere mitico del folklore di Kush, anche se non mancano possibili confronti in ambito vicino-orientale,29 è riprodotto esclusivamente in mica.30 Asino (Fig. 2a): soggetto riprodotto in avorio o osso,31 potrebbe rappresentare un elemento tanto di origine locale quanto derivato dall’Egitto, dove è ampiamente attestato iconograficamente.32

La somiglianza di molte delle iconografie rappresentate in tali manufatti con quelle egiziane è stata evidenziata fin dall’epoca della scoperta degli oggetti qui discussi.24 Lo stesso Reisner però notava come alcuni soggetti non trovassero riscontro in Egitto e ne spiegava la presenza a Kerma con la necessità di adattarsi al contesto nubiano di quella che ipotizzava essere stata una comunità egiziana nel cuore dell’Africa. Nella ricostruzione di Reisner, infatti, gli artigiani egiziani di Kerma si dovevano confrontare con materiali e condizioni che avrebbero evidentemente favorito l’emergere di peculiarità

Avvoltoio in volo (Fig. 2b): soggetto popolarissimo tra quelli rappresentati dalle placchette in avorio che decoravano i letti33 e quasi sempre, come accade ad esempio nei casi meglio conservati documentati dal tumulo funerario K III, posizionato nel registro superiore, è motivo con possibili antecedenti egiziani.34

14

Reisner 1923a, 124, Pl. 4, 2, 263-264, Pl. 19. Bonnet 2000, 65-102. 16 Reisner 1923b, 51; Bonnet 2000, 135-138. 17 Come evidenziato anche da Bonnet 1990b, 89; Wenig 1978, 38. 18 Reisner 1923b, 265-266; Curran 1990. 19 Reisner 1923a, 128-129, 139-140. 20 Reisner 1923b, 272, Bonnet 1990, 219, n. 282. 21 Reisner 1923b, 51, 135, 265, 272. 22 Curran 1990; si veda anche Reisner 1923b, 265-266. 23 Andrews 1990, 48; Reisner 1923b, 275-276. 24 Si veda ad esempio Reisner 1923b, 4 e, più recentemente, Bonnet 1990b, 89. 15

25

Reisner 1923b, 5, 18. Reisner 1923b, 275; Bonnet 1990b, 91; Kendall 1997, 57, 92. 27 Reisner 1923b, 268. 28 Kendall 1997, 93. 29 Reisner 1923b, 275. 30 Reisner 1923b, 273, Pl. 59, 2; Kendall 1997, 93; Wenig 1978, 152, n. 57. 31 Reisner 1923b, 268, Pl. 54, 1. 32 Osborn, Osbornová 1998, 132-136. 33 Reisner 1923b, 268, Pl. 55, 2; Kendall 1997, 92, 97, nn. 27-28. 34 Bonnet (ed.) 1990, 213-214, n. 265. 26

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Bovino o toro (Fig. 1b): si tratta di un soggetto di diffusione piuttosto generalizzata sia in ambito egiziano35 sia in quello nubiano, per il quale si segnalano le figurazioni dipinte della cappella K XI,36 riprodotto esclusivamente da placchette di mica.37

volo era anche riprodotto da amuleti in pasta smaltata blu56 e in pietra.57 Gazzella in corsa (Fig. 2g): motivo riprodotto da placchette in avorio e osso,58 potrebbe derivare da contatti con l’ambito vicino-orientale,59 vista l’assenza di questa particolare iconografia nel contesto egiziano, dove pure le rappresentazioni di gazzelle sono note.60

Capre selvatiche o stambecchi con corna a sciabola, araldicamente affiancati all’“albero sacro” (Figg. 1c e Fig. 2c): rappresentano un’iconografia riprodotta in osso o avorio38 e di probabile derivazione vicino-orientale,39 anche se rappresentazioni di questa specie certo non mancano in Egitto.40 Alcune placchette in mica comprendono figurazioni di capridi con corna lunghe ed arcuate e potrebbero essere state accostate a elementi vegetali sempre in mica per formare scene simili a quelle rappresentate dalle figurine in osso o avorio.41

Giraffa (Figg. 1e e 2h): motivo non egiziano,61 vista la rarità delle figurazioni di giraffe nell’arte di epoca dinastica,62 era riprodotto in placchette di mica decoranti originariamente dei copricapi63 e di osso e avorio da letti funerari,64 come nel caso di un oggetto dal tumulo K X.65 A Kerma la giraffa era anche ampiamente rappresentata nelle pitture della cappella K XI66 e nel repertorio decorativo inciso sulle uova di struzzo.67

Coccodrillo (Fig. 2d): riprodotto da placchette in osso o avorio,42 è un motivo di possibile derivazione egiziana.43 Si tratta, insieme all’ippopotamo, dell’unico animale selvatico riprodotto anche da piccole statuette in argilla,44 da statue in pietra invetriata,45 da un amuleto in oro,46 inciso su uova di struzzo,47 inciso o a rilievo su vasi con beccuccio databili dal Kerma antico al Kerma classico48 e raffigurato anche nelle pitture della cappella K XI.49

Giraffa alata (Figg. 1f e 2i): essere mitico del folklore di Kush,68 riprodotto da placchette sia in osso o avorio69 sia in mica,70 non trova riscontro in Egitto.71 Iena (Fig. 2l): è iconografia riprodotta da placchette in avorio o osso.72 Potrebbe essere un motivo di derivazione egiziana73 come pure un’elaborazione locale.74

Elefante (Fig. 2e): è un motivo riprodotto in incrostazioni in osso o avorio provenienti da K 1043, tomba sussidiaria di K X e da K XVd,50 connesso all’ambiente alto-nubiano e probabilmente non relazionabile all’Egitto coevo,51 vista anche la rarità delle rappresentazioni di elefanti di Epoca Dinastica.52

Ippopotamo stante con coltello (Figg. 1g e 2m): iconografia simile a quella della dea ippopotamo Taweret, adornava i letti anche in Egitto, ed è indubbiamente un motivo di derivazione egiziana.75 Tale motivo ha grande fortuna a Kerma nella produzione di placchette sia in osso e avorio76 sia in mica.77 Non mancano comunque varianti iconografiche locali, come i casi in cui Taweret sembra vestire la tipica gonna lunga nubiana.78 La variante alata della dea attestata a Kerma non ha poi riscontro in Egitto.79 Amuleti rappresentanti l’ippopotamo stante, secondo l’iconografia di Taweret,

Falco in volo (Figg. 1d e 2f): è un motivo di probabile derivazione egiziana riprodotto in avorio o osso da un piccolo numero di placchette dal tumulo K X53 e forse in mica dalle placchette che ornavano un copricapo di un sacrificato dal tumulo KIII.54 Forse sempre falchi sono rappresentati da placchette di mica considerate da Reisner come figurazioni di corvi.55 A Kerma, il falco ma non in

56

Bonnet 1990, 187, n. 164. Reisner 1923b, 129, Pl. 44, 3. Reisner 1923b, 268, Pl. 56, 2; Kendall 1997, 92, 97, n. 26. 59 Curran 1990. 60 Arnold 1995, 10-11, n. 3-4; Osborn, Osbornová 1998, 175-180. 61 Curran 1990. 62 Osborn, Osbornová 1998, 148-151. 63 Reisner 1923b, 273, Pl. 58, 1. 64 Reisner 1923b, 268, Pl. 54, 1; Kendall 1997, 92. 65 Bonnet 1990, 218, n. 278; Wenig 1978, 151, n. 55. 66 Bonnet 2000, 76, 83, Figg. 58-61, 70; Chaix 2000, 165, Fig. 118, a. 67 Bonnet 1993, 8, Fig. 11; Chaix 2000, 165, Fig. 118, b. 68 Kendall 1997, 93. 69 Reisner 1923b, Pl. 55, 2; Kendall 1997, 94, n. 19. 70 Reisner 1923b, 273, Pl. 58, 1, 3, Pl. 60, 2, 3. 71 Bonnet 1990, 214, n. 266; Wildung 1997, 102, n. 103. 72 Reisner 1923b, 268; Kendall 1997, 92, 96, n. 25; Wenig 1978, 148, n. 48. 73 Osborn, Osbornová 1998, 97-104. 74 Curran 1990. 75 Curran 1990; Bonnet 1990, 217, n. 276; O’Connor 1993, 137, n. 47; Osborn, Osbornová 1998, 146-147; Wenig 1978, 146-147, n. 45, 46. 76 Reisner 1923b, 268, Pl. 54, 4, Pl. 55, 1-2, Pl. 56, 2; Bonnet 1990, 223, n. 293; Kendall 1997, 94, n. 20. 77 Reisner 1923b, 273, Pl. 57, 2, 6-7. 78 Kendall 1997, 92. 79 Bonnet (ed.) 1990, 214, 217, n. 266, 276; Wildung 1997, 102, n. 103. 57 58

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Osborn, Osbornová 1998, 194-196. Bonnet 2000, 76, 85, 88, 91, Figg. 57, 62-64, 66-67; Chaix 2000, 171173, Figg. 125-127. 37 Reisner 1923b, 273, Pl. 58, 2. 38 Reisner 1923b, Pl. 56, 2. 39 Curran 1990. 40 Osborn, Osbornová 1998, 180-192. 41 Reisner 1923b, 273, Pl. 58, 1. 42 Reisner 1923b, 268, Pl. 56, 1. 43 Curran 1990; Bonnet 1990, 222, n. 290. 44 Bonnet 1990, 167, n. 84. 45 Bonnet 2000, 135, Fig. 98. 46 Reisner 1923b, 129. 47 Bonnet 1993, 8, Fig. 11; Chaix 2000, 168, Fig. 121. 48 Welsby, Anderson 2004, 88, n. 70; Wildung 1997, 96, 98, n. 97. 49 Bonnet 2000, 85, Fig. 62; Chaix 2000, 168. 50 Reisner 1923b, 268, Pl. 55, 1, 6, Pl. 56, 1; Bonnet 1990, 219, n. 283; Kendall 1997, 94, n. 18. 51 Kendall 1997, 92; Curran 1990. 52 Osborn, Osbornová 1998, 125-130. 53 Reisner 1923b, Pl. 55, 1, 10; Curran 1990; Bonnet 1990, 221, n. 287; Kendall 1997, 95, n. 23. 54 Wenig 1978, 151, n. 54. 55 Reisner 1923b, 273. 36

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sono egualmente ampiamente attestati a Kerma.80 A conferma della centralità dell’ippopotamo nell’immaginario religioso nubiano, questa è insieme al coccodrillo l’unica specie selvatica rappresentata dalle numerose statuette in argilla rinvenute nell’abitato di Kerma,81 era riprodotta da statuette in faïence82 e pietra,83 ampiamente rappresentata nel programma decorativo dipinto nella cappella K XI84 e, insieme al leone, era parte del programma decorativo in faïence della facciata principale della cappella K II.85 In particolare, le statue e statuette di ippopotami in faïence rinvenute a Kerma erano sia importate sia prodotte localmente.86 In Egitto, oggetti analoghi erano spesso parte del corredo funerario in relazione a simbologie collegate alla rinascita e alla rigenerazione connessa all’acqua.87 A Kerma una connessione anche funzionale della rappresentazione di questo animale con l’uso di liquidi è evidente in alcune brocche in ceramica rossa lucida con beccuccio a forma di testa di ippopotamo del Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa).88

alla stessa cappella, mentre sfingi erano riprodotte in alcuni amuleti rinvenuti a Kerma.96 Leoni stanti in una posizione che richiama quella dei due leoni sulla facciata della cappella K II ornavano anche alcuni sigilli rinvenuti sempre a Kerma97 e probabilmente di produzione locale.98 Infine, anche uno dei pochi vasi ceramici con decorazione figurata dipinta provenienti da Kerma reca la rappresentazione di un uomo attaccato da due leoni.99 Ottarda (Figg. 1i e 2n): si tratta di un motivo non egiziano100 riprodotto da placchette in avorio o osso101 e di mica,102 produzione in cui potrebbe anche essere attestata un’originale figurazione di ottarda bicefala, forse connessa alla già descritta rappresentazione bicefala dell’aquila. Pellicano (Fig. 1l): soggetto piuttosto infrequente in ambito egiziano, riprodotto a Kerma da placchette di mica,103 è rappresentato anche nella decorazione dipinta della cappella K XI.104

Leone (Figg. 1h e Fig. 3a): rappresentato stante nell’atto di avanzare è riprodotto da formelle in pasta smaltata blu di grandi dimensioni che ornavano la facciata della cappella K II in cui si apriva la porta d’ingresso89 e anche da placchette in rame ornanti la testiera di un letto della tomba K 334.90 L’iconografia ha antecedenti sia in ambito egiziano, dove il leone, certo in pose diverse da questa, è stato ampiamente rappresentato fin dalle epoche più antiche, spesso come simbolo del sovrano e, in particolare, delle sue virtù militari,91 sia in quello vicinoorientale.92 In seguito, nello stesso Sudan, il leone fu centrale nell’ambito della cultura meroitica.93 A Kerma, teste di leone sono talora utilizzate, secondo uno schema che non ha riscontri altrove, come terminazione anche per motivi vegetali a palmetta in mica rinvenuti nel tumulo K X e nel tumulo K XVI.94 Da notare che le due figure stanti di leone che ornavano la facciata principale della cappella K II erano anche affiancate da statue a tutto tondo sempre in pietra invetriata di leoni accucciati e/o criosfingi rinvenute presso il tumulo K III,95 connesso

Rana o rospo stilizzato o pelle animale (Fig. 2o): riprodotto da placchette in osso ed avorio, è un motivo dall’interpretazione dibattuta tanto da non essere considerato da Reisner tra quelli zoomorfi.105 Rinoceronte (Fig. 2p): è un soggetto riprodotto da placchette in osso o avorio106 e probabilmente di origine locale,107 vista anche l’approssimazione che caratterizza rappresentazioni di questo animale nell’arte egiziana e che rivela la scarsa dimestichezza che con esso si aveva in Egitto.108 Rosetta a sei petali (Figg. 1m e 2q): è un motivo riprodotto in osso o avorio109 e associato a decorazioni prevalentemente geometriche nelle sepolture sussidiarie del tumulo K XVI, che potrebbero rappresentare la prima fase di sviluppo di questo tipo di ornamentazioni.110 Anche alcuni elementi decorativi in mica potrebbero essere stati originariamente composti in modo da formare rosette di questo tipo.111 È un motivo ben noto nell’arte egiziana protodinastica.112

80

Reisner 1923b, 128, Pl. 43, 2. Ferrero 1990, 133; Bonnet 1990, 167, n. 83, 84. 82 Reisner 1923b, 173. 83 Reisner 1923b, 128, Pl. 44, 2, 8. 84 Bonnet 2000, 72, 76, Figg. 53-55, 69; Chaix 2000, 164, Fig. 117. 85 Bonnet 1990, 209, 251. 86 Bonnet 1990, 212, n. 260. 87 Arnold 1995, 33, n. 35; Malek 2003, 128. 88 Kendall 1997, 88-89, n. 9. 89 Reisner 1923a, 122-134, 1923b, 152, Fig. 181, Bonnet 1990, 209, n. 251; Kendall 1997, 92; Wildung 1997, 100-101, n. 101. 90 Reisner 1923b, 204; Bonnet 1990, 216, n. 272; Wenig 1978, 150, n. 52. 91 Si veda ad es. Arnold 1995, 17, n. 13; Binder 2008, 56-57; Osborn, Osbornová 1998, 113-119. 92 Bonnet 1990, 209, n. 251. 93 Si veda ad es. Wenig 1978, 90. 94 Reisner 1923b, 273, Pl. 56, 4; Bonnet 1990, 220, n. 284; Wenig 1978, 152, n. 56. 95 Reisner 1923b, 51, Pl. 37, 3 per il corpo di felino e Pl. 37, 4 per la testa di ariete; Bonnet 1990, 212, n. 259; Wenig 1978, 149, n. 51, Wildung 1997, 102-103, n. 104. Kendall 1997, 93 suggerisce che i due frammenti siano pertinenti alla medesima statua. 81

96

Reisner 1923b, 128, Pl. 44, 20-21. Reisner 1923b, 75, Fig. 168, n. 77-79. 98 Gratien 2004, 78-79. 99 Wenig 1978, Fig. 17. 100 Curran 1990. 101 Reisner 1923b, 268, Pl. 54, 1, Pl. 55, 1, 11; Bonnet 1990, 219, n. 282, Wenig 1978, 148, n. 49; Kendall 1997, 95, n. 21. 102 Reisner 1923b, 273, Pl. 59, 1. 103 Reinser 1923b, Pl. 57, 3. 104 Bonnet 2000, 85, Fig. 62; Chaix 2000, 169, Fig. 122. 105 Reisner 1923b, 268-270, Pl. 55, 2; Kendall 1997, 97, n. 29. 106 Reisner 1923b, 268, Pl. 55, 2; Kendall 1997, 92. 107 Curran 1990. 108 Osborn, Osbornová 1998, 138-141. 109 Reisner 1923b, 268, Pl. 55, 2. 110 Curran 1990. 111 Reisner 1923b, 273, Pl. 57. 112 Bénédite 1918, 10-11. 97

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Scorpione (Fig. 1n): si tratta di un soggetto noto nell’Egitto protodinastico e nella Bassa Nubia coeva,113 è riprodotto da placchette in faïence forse applicate al vestiario,114 da amuleti115 e anche da sculture di più grandi dimensioni, come quelle i cui frammenti sono stati rinvenuti presso il tumulo K III.116

repertorio egiziano dove però l’iconografia attestata a Kerma non è così tipica.133

Stambecco o antilope (Fig. 2r): è un soggetto riprodotto stante o in corsa da placchette in osso o avorio,117 e non è un’iconografia tipicamente egiziana,118 anche se figurazioni di tali animali non mancano nei repertori egiziani.119 In particolare, in Egitto, il soggetto dello stambecco era diffusamente riprodotto pur se con iconografie diverse120 e ne esiste una possibile attestazione anche a Kerma nelle scene dipinte nella cappella K XI.121

Molti dei soggetti rappresentati negli oggetti qui presi in esame (elefante, giraffa, giraffa alata, ottarda, pellicano, rinoceronte, struzzo e pulcino di struzzo, forse aquila bicefala e gazzella in corsa), dunque, sono probabilmente espressione originale della cultura dell’Alta Nubia nella prima metà del II millennio a.C. Simili conclusioni sulla sostanziale originalità del repertorio figurativo a Kerma sono state recentemente proposte da Török in uno studio delle decorazioni pittoriche della cappella K XI.134 Come altrettanto correttamente notato, però, alcune iconografie rappresentate negli oggetti qui studiati sembrano suggerire che nel corso del Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa) nella capitale del regno di Kush andassero diffondendosi anche elementi figurativi e, probabilmente, idee connesse alla religione egiziana.135 È stato altresì evidenziato come alcune di queste iconografie di origine egiziana si riferiscano in particolare all’ambito della religiosità popolare, in cui le forme divine si caratterizzano per l’aspetto completamente zoomorfo, mentre nell’ambito della religiosità ufficiale predominano le forme antropomorfa e quella ibrida a corpo umano e testa animale.136 Per questo, tali rappresentazioni e simboli ricorrono nelle produzioni amuletiche egiziane o nelle figurazioni sulle lame magiche, come nel caso della tartaruga,137 dell’ippopotamo,138 dell’ippopotamo stanteTaweret,139 del coccodrillo,140 del leone stante,141 della rana o rospo142 e dello scorpione.143 In Egitto, solo in sporadici casi tali temi si affacciano nell’ambito dell’arte ufficiale, direttamente connessa con la manifestazione della regalità,144 come nel caso delle due dee Taweret affrontate araldicamente su una lama di ascia cerimoniale dell’inizio del Medio Regno145 e della medesima divinità che orna il lato di un trono di una statua di sovrano della XVII dinastia ora nelle collezioni del British Museum.146

L’arte di Kerma tra elaborazioni locali e Egitto contemporaneo

Struzzo e pulcino di struzzo (Figg. 1o e s-t): lo struzzo è riprodotto in avorio o osso122 ed è un motivo non egiziano.123 I pulcini sono riprodotti sia in avorio124 sia in mica.125 Da notare che lo struzzo potrebbe essere stato riprodotto schematicamente anche da alcuni vasi zoomorfi del Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa).126 Tartaruga (Fig. 2u): è un motivo di possibile derivazione egiziana127 riprodotto da placchette in avorio.128 Uccello rekhyt (Fig. 1p): soggetto diffuso in Egitto129 e riprodotto a Kerma da placchette di mica.130 Forse allo stesso soggetto vanno anche attribuite altre placchette in mica riproducenti uccelli crestati con le ali spiegate dietro la schiena o in posizione di riposo e nell’atto di frugarsi le piume ritenute da Reisner upupa o faraone.131 Volpe (Fig. 2v): si tratta di un soggetto riprodotto da placchette in osso o avorio132 e potrebbe derivare dal

113

Wenig 1978, 155; Williams 1986, Pl. 95. Wildung 1997, 101, n. 102; Welsby, Anderson 2004, 86-87, n. 65; Wenig 1978, 154-155, n. 60. 115 Reisner 1923b, 131, Pl. 44, 2, 19. 116 Reisner 1923b, 51, Pl. 37, 4; Bonnet 1990, 211, n. 257. 117 Reisner 1923b, 268, Pl. 55, 1, 3, Pl. 56, 2; Kendall 1997, 92, 96, n. 24; Wenig 1978, 147, n. 47. 118 Curran 1990. 119 Vedi ad es. Arnold 1995, 8-9, n. 2; Osborn, Osbornová 1998, 180185. 120 Arnold 1995, 13, n. 6-7. 121 Bonnet 2000, 85, Fig. 64; Chaix 2000, 166-167, Fig. 120. 122 Reisner 1923b, 268, Pl. 54, 1; Kendall 1997, 92, 95, n. 22. 123 Curran 1990; Bonnet 1990, 222, n. 289. 124 Reisner 1923b, 268, Pl. 55, 1, 7; Bonnet 1990, 220, n. 285; Wenig 1978, 149, n. 50. 125 Reisner 1923b, 273, Pl. 58, 2, 1. 126 Wenig 1978, 156, n. 63. 127 Vedi ad es. Arnold 1995, 34-35, n. 37, 38. 128 Reisner 1923b, 268, Pl. 56, 1; Curran 1990; Bonnet 1990, 222, n. 291. 129 Gardiner 1947, 100-101; Nibbi 1987, 79-81, Fig. 5. 130 Reisner 1923b, 273, Pl. 57, 1, 4. 131 Reisner 1923b, 273, Pl. 56, 3, Pl. 58, 2, 1, Pl. 59, 1. 132 Reisner 1923b, 268, Pl. 54, 1, Pl. 55, 1, 5. 114

133

Osborn, Osbornová 1998, 68-74. Török 2008, 19. 135 Kendall 1997, 92. 136 Malek 2003, 126; si veda anche Arnold 1995, 62. 137 Andrews 1994, 10, 36, Fig. 67, g; Arnold 1995, 34-35, nn. 36, 38; Bourriau 1988, 116, n. 105; Wildung 1984, 94, n. 84. 138 Bourriau 1988, 119-120, n. 111, 120-121, n. 112, 156, n. 176, Wildung 1984, 166, 168, n. 145. 139 Bourriau 1988, 156, n. 176; per amuleti rappresentanti Taweret datati dall’Antico Regno inoltrato in poi si veda Andrews 1994, 10, 12, 40-41. 140 Arnold 1995, 35, n. 38; Bourriau 1988, 115-118, 156, n. 103-104, 109, 176; Wilkinson 1971, Fig. 33, c, h, i, Wildung 1984, 166, 168, n. 145; per il ricorrere del coccodrillo anche nelle produzioni amuletiche si veda Andrews 1994, 10, 36-37. 141 Bourriau 1988, 115, n. 103. 142 Andrews 1994, 63; Arnold 1995, 34-35, nn. 37-38; Bourriau 1988, 120-121, n. 112; Wilkinson 1971, Fig. 33, c, h, i. 143 Andrews 1994, 10, 36. 144 Si vedano anche le considerazioni sulle iconografie attestate sulle lame magiche di Bisi 1965, 194. 145 Bourriau 1988, 163, n. 190. 146 EA 871. 134

213

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

La circolazione di amuleti o di oggetti utilizzati nell’ambito di pratiche magiche come le lame magiche147 potrebbe dunque aver rivestito un qualche rilievo nell’adozione di molti motivi animalistici a Kerma. Significativamente, alcuni di questi oggetti egiziani sono stati rinvenuti nella capitale del regno di Kush. Tra essi spicca una lama magica della XII o XIII dinastia rinvenuta nel corridoio sacrificale del tumulo K III insieme a altri frammenti di un oggetto simile, mentre un’altra lama magica era riutilizzata per produrre l’impugnatura di una daga dal tumulo K 1096.148 La lama magica più completa dal tumulo K III è decorata con rappresentazioni di una testa di leone, una tartaruga, forse un coccodrillo, il genio Aha, Taweret, un ureo e forse una testa di volpe149 e potrebbe aver costituito una fonte di ispirazione per gli artigiani locali, visto che la tartaruga, il coccodrillo e Taweret sono soggetti ampiamente attestati negli oggetti qui studiati.150 Peraltro, anche creature alate fantastiche, come felini dal collo allungato, specie di serpopardi alati,151 riprodotte talora sulle lame magiche potrebbero aver fornito ispirazione per la creazione di soggetti tipici del repertorio di Kerma come la giraffa alata.152 Va rilevato come a Kerma i serpopardi potrebbero essere stati trasfigurati nelle giraffe forse anche in ragione della somiglianza del mantello maculato di felini da preda come i leopardi con quello delle giraffe. Altri soggetti rappresentati sulle lame magiche che possono aver esercitato una certa influenza sulle decorazioni in osso o avorio e mica sono gli esseri alati mitici, che possono aver contribuito alla creazione di soggetti tipici di Kerma come la giraffa alata.

cimitero principesco del Gruppo A a Qustul L, come su uno dei ben noti brucia-aromi in pietra.155 D’altro canto, la stessa disposizione delle teorie di animali che ornavano i letti funerari di Kerma sembra discostarsi da quanto attestato in opere di soggetto assimilabile dell’Egitto dinastico156 e, con la rigorosa distinzione in registri, rammenta invece alcune espressioni dell’arte animalistica del Periodo Protodinastico,157 come ben evidente in oggetti come pettini,158 manici di coltelli,159 cucchiai160 e altri oggetti in avorio.161 La stessa disposizione degli animali in lunghe teorie su più registri sovrapposti caratterizza anche la coeva “tavolozza del tributo libico”.162 Non mancano esempi di soggetti animalistici anche nel cimitero del Gruppo A di Qustul L, come ben evidenziato da un vaso dipinto rappresentate, insieme ad altri soggetti zoomorfi e fitomorfi che non hanno riscontro a Kerma, delle giraffe araldicamente affrontate,163 che richiamano alcuni dei motivi rappresentati negli oggetti qui studiati, quali le capre o stambecchi affrontati con elemento vegetale centrale. Un altro vaso da Qustul L è caratterizzato da una decorazione che consiste nella rappresentazione di un banda di scorpioni.164 Indubbiamente però, nell’ambito del Gruppo A, il confronto più appropriato per in nostri oggetti è rappresentato dalla ben nota mazza di Sayala, di probabile produzione egiziana,165 la cui impugnatura è decorata dalla rappresentazione su più registri di teorie di animali che si discostano dagli esempi di Kerma solo per il fatto di non presentare ripetizioni di animali della medesima specie.

Antecedenti nubiani ed egiziani dell’arte di Kerma Va infine rilevato che alcuni dei soggetti delle decorazioni rinvenute a Kerma che non sono presenti nel repertorio egiziano contemporaneo trovano invece riscontro proprio nel repertorio egiziano predinastico e del Gruppo A: questo è il caso dell’elefante,166 le cui figurazioni a Kerma potrebbero però essere anche uno sviluppo locale e indipendente originatosi dai contatti con tale animale presente nei territori a sud del regno di Kush. Anche gli animali mitici alati delle decorazioni rinvenute a Kerma sono stati accostati a animali mitici dell’arte protodinastica egiziana167 ma, come precedentemente evidenziato, bisogna considerare che animali mitici alati sono raffigurati anche sulle lame magiche egiziane del Medio Regno, repertorio in cui sono considerati, appunto, delle possibili sopravvivenze nell’ambito delle

Come notato precedentemente, alcuni dei soggetti che caratterizzano i manufatti qui descritti sono parte del repertorio dell’arte egiziana e nubiana fin da epoche antichissime. Un esempio specifico è rappresentato dalla rosetta a sei petali, conosciuta in Egitto fin dalla fase di Naqada III, ovvero da oggetti d’arte delle dinastie 0 e 1, e verosimilmente derivata dal contesto vicino-orientale, dove è attestata nella cultura di Uruk e origina poi il segno dingir del cuneiforme.153 La rosetta, vista la sua associazione in alcuni contesti con le figure dei sovrani, è stata anche interpretata come un simbolo reale, che nel geroglifico arcaico poteva essere utilizzato come alternativa per esprimere la parola Hrw, Horo.154 In Nubia questo simbolo compare in fasi grosso modo coeve con i più antichi esempi egiziani su alcuni oggetti rinvenuti nel

155

Williams 1986, Fig. 55, Pl. 34. Si veda ad es. Arnold 1995, 27, n. 25. 157 Williams 1986, 184. 158 Arnold 1995, 8, n. 1; Vandier 1952, Fig. 365. 159 Bénédite 1918; Vandier 1952, Figg. 361-364. 160 Vandier 1952, Fig. 367. 161 Vandier 1952, Figg. 371-373. 162 Vandier 1952, Fig. 388. 163 Williams 1986, Pl. 88-89, 91-92. 164 Williams 1986, Pl. 95. 165 Firth 1927, 205, Fig. 8; Török 2009, 43-44. 166 Bonnet 1990, 219, n. 283. 167 Bonnet 1990, 214, n. 266. 156

147

Wildung 1984, 90. Reisner 1923a, 140, 1923b, 260-261; Bonnet 1990, 210-211, n. 254. 149 Bonnet 1990, 210-211, n. 254. 150 Come sottolineato anche in Bonnet 1990, 222, n. 291. 151 Wildung 1984, 90; Bourriau 1988, 115, n. 103. 152 Bonnet 1990, 214, n. 266. 153 Curto 1967, 22-24; Watrin 2004-2005, 76. 154 Bénédite 1918, 10-11; Loprieno 1995, 20. 148

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

manifestazioni antichissimi.168

religiose

popolari

di

elementi

che ornavano i copricapi in gran parte sovrapponibili a quelli rappresentati sulle testiere dei letti, tale considerazione va verosimilmente estesa anche a questi. Peraltro i copricapi con ornamenti di mica erano associati solo a poche e, evidentemente, selezionate inumazioni e sarebbero potuti essere delle insegne di rango. Conseguentemente, la loro decorazione poteva essere connessa a concetti ideologico-religiosi che giustificassero e legittimassero il ruolo di chi li indossava. La medesima considerazione va evidentemente estesa anche alle formelle di faïence che decoravano la facciata principale della cappella K II nel cimitero di Kerma: si trattava infatti di una cappella connessa al culto funerario reale,177 non tanto quindi alla manifestazione del compianto privato, quanto piuttosto allo svolgimento di cerimonie pubbliche e probabilmente destinate a essere viste da molti, come suggerisce l’acclarata centralità delle terrazze sopraelevate nella liturgia.178 Strutture di questo tipo, quindi, avevano grande importanza nella trasmissione di messaggi relativi all’ideologia dello stato e difficilmente il loro apparato decorativo sarebbe stato concepito indipendentemente da tale funzione.

Arte e ideologia a Kerma In assenza di altre esplicite indicazioni e di testi associati, il significato degli oggetti qui studiati può essere evidentemente solo ipotizzato sulla base dei contesti di rinvenimento e, dunque, delle loro associazioni con altri oggetti e con le strutture architettoniche. Reisner rimarcava come le figure animali in pietra invetriata provenissero dal tumulo K III della necropoli169 o dalla facciata della cappella K II, sempre nella necropoli,170 le incrostazioni zoomorfe in avorio o osso171 come pure gli ornamenti in mica172 dai tumuli da III a XVI. Si tratta dunque del settore della necropoli del Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa) dove si concentrano le strutture più monumentali, probabilmente connesse alla sepoltura di principi e aristocratici se non dei sovrani di Kush.173 Le incrostazioni in osso e avorio adornavano dunque le testiere dei letti funerari rinvenuti in sepolture aristocratiche. Se un significato apotropaico può essere proposto sulla base della già notata aderenza di alcuni dei soggetti rappresentati dalle placchette in avorio e mica con quelli riprodotti da amuleti e oggetti egiziani destinati alle pratiche magiche,174 non si può però escludere che queste rappresentazioni possedessero anche altre connotazioni. La presenza dei letti funerari caratterizza infatti solo le tombe più ricche e i letti stessi sono probabilmente da considerarsi insegne di rango.175 Da un certo momento in poi i letti vengono ulteriormente impreziositi proprio dalle decorazioni animalistiche di cui si sta parlando. È inoltre stato evidenziato attraverso osservazioni archeologiche che l’esposizione del defunto sul letto ha costituito, almeno nel caso dei sovrani, una parte importante delle cerimonie funebri e che sul letto il corpo del sovrano di Kush lasciava la cappella funeraria e raggiungeva processionalmente la camera funeraria approntata nel tumulo.176 Alla luce della centralità del letto nelle cerimonie funerarie che costituivano con ogni verosimiglianza un momento importante nella manifestazione della regalità di Kush, appare quindi evidente che la scelta dei soggetti che ne costituivano la decorazione non doveva essere lasciata al caso né rappresentare una manifestazione della religiosità individuale, ma doveva piuttosto inserirsi armonicamente in una precisa architettura religiosa connessa al potere. Essendo i soggetti rappresentati negli ornamenti di mica

Una conferma del fatto che questi oggetti riflettono un ben preciso programma comunicativo e, evidentemente, un messaggio ideologico-religioso può essere poi individuata nel numero dei soggetti rappresentati, tutto sommato limitato, nella standardizzazione delle loro iconografie e nel fatto che, benché sia possibile individuare delle mutuazioni dalla coeva arte egiziana, queste non siano però generalizzate ma selettive, limitate cioè ad alcuni soggetti. Altri soggetti ben noti nell’Egitto del Medio Regno e del Secondo Periodo Intermedio, come ad esempio il porcospino, diffusamente attestato nelle produzioni amuletiche e di statuette destinate ai contesti tombali probabilmente per il suo valore protettivo per il defunto contro i pericoli, spesso serpentiformi, dell’oltretomba,179 o come i piccoli roditori, rappresentati da altri amuleti forse funerari,180 sono assenti dai repertori animalistici di Kerma. D’altro canto, dalle decorazioni qui studiate sono anche esclusi soggetti in queste fasi squisitamente nubiani, come la criosfinge e l’ariete, che, come suggeriscono tra l’altro la statua frammentaria in faïence dal tumulo K III181 e alcuni vasi con ornamentazione zoomorfa,182 pure dovevano rivestire una qualche importanza nel panorama religioso di Kerma. Inoltre, nel caso degli ornamenti in osso o avorio dei letti funerari, l’esistenza di un preciso messaggio sotteso a tali decorazioni è evidenziato dal fatto che l’accostamento tra i vari soggetti sembra rispondere a una ben precisa sintassi. Una prima regola sembra favorire

168

Bisi 1965, 182, 184, 194. Reisner 1923b, 7. 170 Reisner 1923b, 51. 171 Reisner 1923b, 10, 18. 172 Reisner 1923b, 10, 18. 173 Bonnet 1990a, 83, 2000, 20-21. 174 Bonnet 1990, 222, n. 291. 175 Kendall 1997, 92. 176 Bonnet 2000, 107, 111; Török 2008, 17. 169

177

Bonnet 2000, 112. Bonnet 2000, 111; Manzo 2008, 180, 182. 179 Malek 2003, 127; si veda anche Bourriau 1988, 118, n. 110. 180 Arnold 1995, 21-22, n. 18. 181 Wenig 1978, 145-146, n. 44. 182 Wenig 1978, 157, n. 65. 178

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

l’accostamento nello stesso registro di animali della stessa specie, analogamente a quanto notato nei manici eburnei di coltelli dell’Egitto protodinastico.183 Inoltre, una certa regolarità negli accostamenti dei soggetti su tre registri sovrapposti è stata già notata dal Reisner: il registro superiore è sempre occupato da uccelli in volo e, in un unico caso, da antilopi o stambecchi, le figure di Taweret ricorrono solo nel registro intermedio, sostituite talora da avvoltoi in volo o da struzzi, mentre il registro inferiore è occupato dagli animali terricoli o anche da uccelli ma mai in volo.184 L’esistenza di regole compositive ben definite è stata peraltro anche suggerita per i copricapi su cui erano applicati gli ornamenti in mica.185

richiamo all’Egitto nell’ambito delle manifestazioni dell’ideologia dell’aristocrazia di Kerma che si evince da questo studio non è causale né tantomeno isolato. Ho evidenziato altrove come, contestualmente a queste produzioni, anche nell’ambito dell’architettura templare vengano diffusamente adottati elementi (come il pilone e la volta) e decorazioni (come il disco solare alato) egiziani che pure vengono poi accostati e elementi della tradizione locale e inseriti in una sintassi originale.190 L’adozione di alcuni elementi egiziani potrebbe quindi essere un tratto programmatico delle manifestazioni della regalità e dell’ideologia ad essa connessa nella fase del Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa), quando, come già sottolineato nelle righe introduttive di questo contributo, lo stato di Kush raggiunse la sua massima espansione arrivando a controllare la Bassa Nubia, divenuta nel corso del Medio Regno parte integrante dello stato egiziano, e a minacciare attraverso l’alleanza con gli Hyksos e profonde incursioni, come quella descritta dall’iscrizione rinvenuta a El Kab, lo stesso Alto Egitto. In tale fase, l’uso di simbologie e elementi derivanti dal contesto egiziano nell’arte e nell’architettura di Kerma potrebbe essere interpretato analogamente alla deposizione di statue egiziane nei tumuli reali di Kush,191 ovvero come una manifestazione dell’estendersi del potere del sovrano di Kush, ma potrebbe anche aver costituito l’espressione figurativa di un nuovo articolato ideologico che potesse essere inclusivo ed efficace anche verso i nuovi sudditi basso-nubiani di origine egiziana.

Il significato di questi accostamenti ricorrenti, definibili come una vera e propria sintassi, resta per noi oscuro. La regolare disposizione degli animali in registri composti in genere da soggetti appartenenti alla stessa specie, la simmetria di alcuni motivi, come quello dei caprini araldicamente disposti ai lati dell’“albero sacro”, richiamano forse i concetti di ordine ed equilibrio cosmico, certo connessi al ruolo reale, che sono stati proposti per spiegare il senso di alcune opere con analoghe caratteristiche dell’arte protodinastica egiziana186 e che secondo alcuni studiosi sarebbero stati condivisi dalle culture nubiane ed egiziana.187 Da notare che simili concetti sono stati proposti da Ch. Bonnet per spiegare il senso generale della decorazione pittorica della cappella K XI a Kerma, che secondo l’archeologo svizzero richiamerebbe le figurazioni del succedersi ordinato dei cicli stagionali, attestate in monumenti reali egiziani a partire dalla V dinastia.188 Coerente con questa ipotesi interpretativa è anche l’accostamento delle stesse decorazioni pittoriche della cappella K XI con le teorie di animali tipiche dell’arte protodinastica egiziana e del Gruppo A e con l’ideologia ad esse sottesa, connessa verosimilmente al controllo da parte del sovrano delle forze caotiche naturali, secondo quanto recentemente suggerito da L. Török, che invece tende a ridimensionare la possibilità di richiami espliciti ai monumenti reali egiziani dell’Antico e del Medio Regno.189

Da questo punto di vista, è probabilmente significativo che i tratti iconografici di origine egiziana che abbiamo potuto individuare nelle produzioni in faïence, osso o avorio e mica sembrino derivare più dalle manifestazioni popolari o quotidiane della religione egiziana, come gli amuleti e le lame magiche, piuttosto che da quelle ufficiali delle decorazioni templari e della statuaria. Quelle popolari dovettero infatti essere le manifestazioni della religiosità egiziana con cui i nubiani di Kush entrarono prima e più direttamente in contatto attraverso i residenti egiziani in Bassa Nubia. Conseguentemente, l’uso di un linguaggio iconografico derivante da queste manifestazioni di religiosità era evidentemente più funzionale alla trasmissione di un messaggio che proprio a questi egiziani radicatisi in Bassa Nubia si rivolgeva. A tale proposito, è probabilmente altrettanto significativo che tra le poche rappresentazioni di una divinità egiziana da Kerma vada annoverata quella di una dea bucefala intronizzata, identificabile con Hathor menfita, riprodotta su un lisciatoio per ceramica in pietra del Kerma Medio (2000-1750 a.C. circa).192 Questo è anche tra i più antichi esempi di rappresentazione della Hathor menfita come dea a corpo umano e testa bovina, un’iconografia che entra a far parte del repertorio dell’arte ufficiale egiziana solo nel corso del Nuovo Regno.193 È quindi ipotizzabile che la figurazione rinvenuta a Kerma rifletta una modalità

Indubbiamente, a livello delle singole iconografie, i motivi sono stati selezionati attingendo a diversi repertori disponibili, ivi compreso, naturalmente, quello locale alto-nubiano. Come già sottolineato, però, anche l’origine e le caratteristiche di questi motivi non devono essere state casuali ma piuttosto frutto di una selezione. Si è precedentemente sottolineato che alcuni dei soggetti attestati nelle produzioni di Kerma qui esaminate trovano riscontro nelle decorazioni delle lame magiche egiziane, che possono poi anche aver ispirato la genesi di altri soggetti puramente locali, come le giraffe alate. Il 183

Bénédite 1918, 225. Reisner 1923b, 267. Bonnet 1990, 219, n. 282. 186 O’Connor 2002, 21-22. 187 Török 2008, 22; Williams 2006-2007, 409-410. 188 Bonnet 2000, 100-102. 189 Török 2008, 22-23, 2009, 151. 184 185

190

Manzo 2008, 174-176, Valbelle 2004, 182-183. Bonnet 1990b, 89. 193 Berlandini 1983, 41-42, 47-49. 191 192

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

di rappresentazione della dea allora ancora confinata all’ambito della religiosità popolare, proprio quello di cui erano anche espressione gli amuleti e le lame magiche, che abbiamo individuato come importanti vettori delle iconografie mutuate dall’Egitto nell’arte di Kush. Nel quadro di questi elementi egiziani, di matrice però magico-popolare piuttosto che improntati alle espressioni ufficiali e monumentali della religione faraonica, innestati in un repertorio originale e con molti tratti locali e composti secondo una sintassi egualmente locale, vanno probabilmente anche inserite le analogie iconografiche e, nel caso delle produzioni di incrostazioni in osso o avorio, anche tecnologiche tra l’arte di Kerma e quella vicino-orientale. Tali somiglianze potrebbero essere infatti ricondotte ai contatti politici, diplomatici e verosimilmente economici che il regno di Kush nella fase del Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa) intratteneva con i sovrani Hyksos194 e per il loro tramite, appunto, con il Vicino Oriente.

simbolo utilizzato dai più antichi sovrani di quella regione inserendolo nel repertorio iconografico che esprimeva il nuovo status raggiunto da Kush può apparire ardita e difficilmente difendibile se si considerano i 1300 anni che dividono gli oggetti qui studiati da quelli del cimitero reale del Gruppo A a Qustul L. Non ci troviamo però dinnanzi a un elemento isolato. Il motivo riprodotto su un sigillo a timbro di tipologia squisitamente nubiana, che compare a partire dal Kerma Antico (2400-2000 a.C. circa) ed è attestata anche nel Kerma Medio (2000-1750 a.C. circa),196 rinvenuto in un edificio in prossimità di una delle porte della capitale di Kush,197 attesta l’uso, in un ambito amministrativo evidentemente connesso alla sfera d’azione regale come il controllo dei beni in transito, dell’antichissimo simbolo della facciata di palazzo o serekh (Fig. 4a). Come noto, tale simbolo è attestato sia nel Protodinastico egiziano sia nel Gruppo A bassonubiano.198 Più specificamente, la tipologia della facciata del palazzo riprodotta dal sigillo di Kerma appare particolarmente significativa perché è chiaramente riconducibile a quella peculiare delle rappresentazioni del Gruppo A (Fig. 4, b) che, come evidenziato da B.B. Williams,199 si caratterizza rispetto a quella protodinastica egiziana per non presentare una distinzione tra degli elementi orizzontali sopra montanti verticali, ma piuttosto per la raffigurazione di segmenti orizzontali che si raccordano direttamente a quelli verticali. Non credo sia poi casuale che anche in una delle rare figurazioni del sovrano di Kush che ci sia giunta, databile al Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa), su una stele anepigrafe di Buhen, esso si caratterizzi per una tiara che richiama la corona bianca dei re dell’Alto Egitto,200 ovvero per un elemento già ampiamente attestato proprio nel repertorio iconografico associato alle manifestazioni della regalità del Gruppo A.201 In questo caso, però, è evidente che, a causa della continuità nell’uso della corona bianca nell’iconografia dei sovrani egiziani, non si può escludere che questa insegna sia un tratto arrivato a Kerma insieme a altri elementi egiziani più recenti.202 Come già notato,203 inoltre, la stessa struttura interrata delle tombe dei principi di Kush nel Kerma Classico (1750-1500 a.C. circa), che si caratterizza per un lungo corridoio a metà del quale si apre una camera funeraria laterale, richiama quella utilizzata proprio per i principi di Qustul L. Alcune delle tombe principesce del Gruppo A a Qustul L, infine, presentavano le caratteristiche depressioni agli angoli della camera funeraria connesse alla presenza di un letto funerario che, come più volte ricordato, caratterizzò mille anni più tardi anche le sepolture degli aristocratici di Kerma.204

Come sottolineato in precedenza, però, molte delle stesse creature animali riprodotte dagli intagli in avorio e mica e da oggetti in faïence rinvenuti a Kerma e rappresentate sulle lame magiche e dagli amuleti del Medio Regno erano già attestate nell’arte protodinastica e del Gruppo A basso-nubiano. Si potrebbe quindi ipotizzare di trovarsi dinnanzi a quelle che in Egitto erano sopravvivenze di motivi iconografici antichissimi e relegati nella sfera della religiosità popolare e non attestati nelle manifestazioni religiose ufficiali connesse alla regalità, che sarebbero stati adottati a Kerma, magari reinterpretandoli alla luce della cultura e dell’ambiente locale oltre che delle necessità ideologiche di uno stato composito e molto articolato in piena espansione. L’analogia con l’arte protodinastica potrebbe inoltre estendersi all’uso compositivo attestato a Kerma di accostare in un unico registro animali appartenenti alla stessa specie, cosa che non è però tipica del repertorio decorativo delle lame magiche. Va infatti rilevato che anche alcuni tratti iconografici delle produzioni qui esaminate non trovano riscontro nelle decorazioni degli oggetti usati nella sfera religiosa e magica dell’Egitto contemporaneo: essi sembrano piuttosto rifarsi direttamente a antecedenti identificabili nell’arte protodinastica egiziana e del Gruppo A. Tra essi va certamente enumerata la rosetta a sei petali. Come precedentemente evidenziato, questo motivo compare non solo nell’arte protodinastica egiziana ma anche in quella del Gruppo A nubiano, in contesti legati alla manifestazione della regalità, come nel caso della decorazione di uno dei brucia-aromi del cimitero di Qustul L. Proprio la diffusione in ambedue i contesti della rosetta su monumenti reali attesta un uso consapevole di questo simbolo in ambito nubiano.195

196

Bonnet 1990, 152, 172, 174, n. 22, 104, 109. Bonnet 1997, 98, Fig. 3. 198 Williams 1986, 147. 199 Williams 1986, 144, 2006-2007, 403. 200 Smith 1976, 84, Pl. LVIII, 4; Welsby, Anderson 2004, 100-101, n. 74; Williams 2006-2007, 404. 201 Williams 1986, 142, 163. 202 Török 2009, 108-109. 203 Williams 1986, 184, 1991, 75. 204 Williams 2006-2007, 402. 197

L’ipotesi che i principi di Kerma nel momento in cui assumevano il controllo della Bassa Nubia abbiano voluto effettuare un volontario e esplicito richiamo a un 194 195

Curran 1990. Török 2009, 43.

217

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Nonostante tutti questi elementi apparentemente concordi, la possibilità di un voluto richiamo da parte dei sovrani di Kush di quelli che furono insegne e simboli dei più antichi sovrani nubiani sepolti a Qustul L, benché possibile, resta però da esplorare compiutamente, non solo a causa della distanza cronologica che divide i due episodi, ma anche per la difficoltà a individuare una modalità di trasmissione plausibile per i tratti precedentemente descritti.

città pre-viceregale209 sia forse nelle figurazioni dipinte della cappella K XI.210 Da notare che la finora insospettata persistenza della tipologia del tempio circolare in Epoca Vicereale e fino ad Epoca Napatea apre tutta una serie di possibilità interpretative per oggetti rimasti di difficile lettura come il cosiddetto “omphalos di Napata”, una rappresentazione miniaturizzata proprio di un tempietto circolare, forse utilizzato come naos per un’immagine divina.211

È stato già autorevolmente suggerito che le origini della religione di Kerma fossero lontane nello spazio fino al Sahara e all’Egitto e nel tempo fino al Neolitico, a quando, ad esempio, nell’arte rupestre dell’Africa nordorientale possiamo far risalire le figurazioni dei caprovini con disco tra le corna che poi troviamo a Kerma sacrificati nelle tombe fin dall’epoca del Kerma Medio (2000-1750 a.C. circa).205 Credo che anche le considerazioni sopra esposte lascino perlomeno intuire quella che deve essere stata la complessità dell’impianto ideologico-religioso a Kerma e dei suoi sviluppi, da mettere evidentemente in relazione al progressivo articolarsi della struttura statuale di Kush, all’estendersi del territorio che questa controllava e delle relazioni di varia natura che essa intratteneva.

Riguardo più specificamente agli oggetti e alle iconografie qui studiati, può essere interessante che tra le tante possibili soluzioni a disposizione per una rappresentazione da affiancare ai cartigli reali di Thutmosi I e Thutmosi III nelle iscrizioni di confine che delimitavano il vicereame egiziano in Nubia apposte a Kurgus, tra la Quarta e la Quinta Cataratta, gli artisti egiziani abbiano scelto di rappresentare dei leoni stanti nell’atto di incedere212 (Fig. 3b). Infatti, da un punto di vista iconografico, i leoni di Kurgus sono sovrapponibili ai leoni in faïence che ornavano la facciata della cappella funeraria di un re di Kush e simili ai leoni in rame ornanti la testiera di un letto della tomba K 334 descritti in precedenza (Fig. 1h). Alla luce di quanto accennato sopra sulla rilevanza ideologico-religiosa dell’ariete a Kerma, non credo sia poi casuale che questa figurazione del sovrano egiziano come leone, che usa la stessa iconografia usata solo pochi anni prima dal re di Kush, sia anche affiancata a corredo delle stesse iscrizioni di confine da due rappresentazioni di Amun criocefalo intronizzato, da annoverarsi tra le più antiche manifestazioni della predilezione per la forma criocefala di Amun in Alta Nubia.213

L’eredità di Kush: persistenze iconografiche nella Nubia viceregale Ci si può infine domandare se l’apparato ideologicoreligioso di Kerma di cui le produzioni qui studiate sono state una manifestazione sia stato completamente spazzato via dalla conquista egiziana del Nuovo Regno o se sia possibile individuarne delle persistenze.

D’altro canto, la stessa scelta dello Hajar El-Merowe, una rupe in granito, per apporre le iscrizioni di confine non è casuale, essendo probabilmente tale prominenza rocciosa un tradizionale marcatore territoriale per le popolazioni locali, come testimoniato dalle opere di arte rupestre in stile locale cui si sovrappongono le figurazioni e i testi Tali figurazioni rupestri sono faraonici.214 prevalentemente connesse al mondo pastorale e abbondanti sono le figurazioni di bovini. Ancora una volta la scelta egiziana di affiancare ai testi geroglifici e alle figurazioni dell’Amun criocefalo e dei leoni rappresentanti i sovrani dei tori, appropriatamente identificati dalle iscrizioni come Imn-ra kA-mwt.f,215 potrebbe non essere stata casuale. In relazione alla presenza di opere di arte rupestre più antiche dei testi geroglifici e delle figurazioni che li accompagnano, è stato notato che ci potremmo trovare dinnanzi a un’appropriazione attraverso l’apposizione delle iscrizioni sulla rupe di un marcatore territoriale che doveva essere stato percepito come tale anche dalle

Tale problematica non è nuova. In particolare, un caso ampiamente studiato di persistenza in Epoca Vicereale è quella relativa all’affermazione nella stessa Nubia e poi anche in Egitto della forma criocefala del dio Amun, fenomeno cui potrebbero aver contribuito, appunto, concetti, iconografie e tradizioni radicate nell’immaginario religioso nubiano fin da epoche anteriori all’espansione egiziana dell’inizio del Nuovo Regno.206 Tracce della riutilizzazione consapevole e probabilmente pianificata di tipologie architettoniche pre-viceregali in ambito religioso sono d’altra parte state evidenziate recentemente in alcune caratteristiche del tempio del Nuovo Regno a Dukki Gel,207 presso Kerma, e dal rinvenimento in prossimità del medesimo tempio egiziano di un tempio circolare di tipologia locale,208 attestata sia archeologicamente nel quartiere sacro della

209

Bonnet 2004, 138-139, Fig. 104 e 2007, 191-192. Bonnet 2000, 107-109, Fig. 68. Steindorff 1938, 150, Wenig 1978, 209-210, n. 131. 212 Davies 2001, 51-52, Figg. 6-7, Pl. XXXII 213 Davies 2001, 47, Figg. 3-4 ; Török 2009, 227.. 214 Davies 2001, 57, 2003b, 56-57. 215 Davies 2001, Figg. 3, 5. 210

205

211

Bonnet 1986, 45-46 e1990b, 90; Bonnet 1990, 155, n. 34. Si veda ancora Wenig 1978, 146; Bonnet 1986, 46; Kendall 1997, 76-77. 207 Manzo 2008, 178. 208 Bonnet 2007, 189-192. 206

218

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popolazioni locali.216 Alla luce di quanto sopra evidenziato, ovvero di quella che credo essere stata una accurata scelta dell’apparato figurativo da affiancare alle iscrizioni, si potrebbe anche ipotizzare che ciò sia avvenuto utilizzando sistematicamente un linguaggio iconograficamente vicino a quello usato dalle stesse popolazioni locali e, in particolare, dalle loro aristocrazie per esprimere specifici concetti ideologico-religiosi. Va poi rilevato che la scelta delle rappresentazioni da affiancare a testi di tale rilevanza politica ed ideologica non poteva certo essere casuale e deve scaturire da specifiche esigenze. In tal senso, l’utilizzazione di iconografie non nuove alla cultura alto-nubiana per la rappresentazione della divinità e del sovrano poteva in qualche modo agevolare la comprensione del messaggio da parte di fruitori senz’altro nella stragrande maggioranza dei casi incapaci di accedere ai testi geroglifici associati alle figurazioni. Simili meccanismi di appropriazione simbolica ma anche ispirati da una politica inclusiva verso i nuovi sudditi furono forse alla base della utilizzazione di altri luoghi sacri ai nubiani per la costruzione di santuari nel Nuovo Regno e, forse, anche della predilezione in alcune parti della Nubia della tipologia del tempio rupestre, da mettere in relazione proprio con la presenza di rupi o grotte considerate sacre dalle popolazioni locali.217

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Infine, se si accetta che i leoni delle stele di confine di Hajar El-Merowe rappresentino il sovrano egiziano simboleggiandone la forza e il valore guerriero usando però un’iconografia non estranea all’immaginario religioso e ideologico di Kush, va anche notato come sia forse significativo che la medesima iconografia del leone stante nell’atto di avanzare trovi riscontro nelle rappresentazioni del ciondolo mAi, usato verosimilmente come decorazione militare agli inizi del Nuovo Regno.218 Anche in questo caso, come in quello già ricordato dell’iconografia dell’Amun criocefalo, quindi, il contatto con la cultura Kerma potrebbe aver contribuito al successo di un’iconografia pure non ignota in ambito egiziano, rafforzandone e, forse, arricchendone il significato proprio in ragione delle sua centralità nella sfera religiosa e dell’ideologia regale di Kush.

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216

Davies 2003b, 57. Williams 2006-2007, 399, 405, si veda anche Török 2009, 128-129. 218 Binder 2008, 55-57, Fig. 4.14. 217

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Placchette figurate in mica, rame e faïence da Kerma, a) aquila bicefala, mica (da Reisner 1923b); b) bovino o toro, mica (da Reisner 1923b); c) capra selvatica o stambecco, mica (da Reisner 1923b); d) falco in volo, mica (da Reisner 1923b); e) giraffa, mica (da Reisner 1923b); f) giraffa alata, mica (da Reisner 1923b); g) ippopotamo stante con coltello, mica (da Reisner 1923b); h) leone, rame (riprodotto per gentile concessione di The Garstang Museum of Archaeology, School of Archaeology, Classics & Egyptology, University of Liverpool); i) ottarda, mica (da Reisner 1923b); l) pellicano, mica (da Reisner 1923b); m) rosetta a sei petali, mica (da Reisner 1923b); n) scorpione, faïence (da Reisner 1923b); o) pulcino di struzzo, mica (da Reisner 1923b); p) uccello rekhyt, mica (da Reisner 1923b)

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Fig. 2: Placchette figurate in osso o avorio da Kerma (da Reisner 1923b), a) asino; b) avvoltoio in volo; c) capra selvatica o stambecco; d) coccodrillo; e) elefante; f) falco in volo; g) gazzella in corsa; h) giraffa; i) giraffa alata; l) iena; m) ippopotamo stante con coltello; n) ottarda; o) rana o rospo stilizzato; p) rinoceronte; q) rosetta a sei petali; r) stambecco o antilope; s) struzzo; t) pulcino di struzzo; u) tartaruga; v) volpe

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Fig. 3: a) Ricostruzione di uno dei leoni in faïence che ornavano la facciata principale della cappella K II (riprodotto per gentile concessione del Museum of Fine Arts, Boston); b) Leone fatto dipingere a Kurgus-Hajar el-Merowe da Thutmosi III accanto alla sua iscrizione di confine (da Davies 2001, per gentile concessione di V.W. Davies). Non in scala

Fig. 4: a) Sigillo da Kerma con rappresentazione di facciata di palazzo (da Bonnet 1997, riprodotto per gentile concessione di Ch. Bonnet); b) Facciata di palazzo su un brucia-aromi rinvenuto nel cimitero reale del Gruppo A a Qustul L (da Williams 1986, per gentile concessione dell’Oriental Institute of Chicago). Non in scala

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

rendite del tempio (che erano sue nella misura di un quinto),2 ad esempio riscuotendo direttamente le decime in olio dai frantoi del villaggio, o impossessandosi di due arure di terreno già assegnate ad un altro (SB XVIII 13732 e 13733). La distribuzione delle rendite del tempio ai sacerdoti – dice Clemente Alessandrino, Stromata VI, 4, 37 – era responsabilità del prophetes; per godere di una rendita era necessario possedere una carica sacerdotale, e le cariche vacanti erano messe in vendita su sollecitazione del prophetes:

TESTI E DOCUMENTI AMMINISTRATIVI DEL TEMPIO DI NARMUTHIS * Angiolo Menchetti

Abstract Among the Demotic and Greek ostraka from Medinet Madi there are hundreds of texts relating to the administration of the local temple. In this paper a sample of eighteen of these texts is presented, arranged under three major headings: (i) the drafts for the petitions of the temple’s scribe Phatres; (ii) the agendas and (iii) the accounts of the temple’s personnel. However partial, this sample provides a concrete overview of the main organizational and economic aspects of the everyday life of the temple of Narmuthis under the Roman rule (2nd-3rd century A.D.).

«Nell’anno 17 (176/7 d.C.) nostro padre morì. Io consegnai a mio fratello la comune dichiarazione scritta e le disposizioni legali (ivi contenute), perché (tutto questo) lo tenesse a bada fino all’anno 29 (188/9). Io non so che cosa ha provocato le tante sofferenze che ho patito per colpa di Sokonopis. Dopo che (nostro) padre era morto e il prophetes, come è d’uso, aveva annunciato che era necessario che fosse messa in vendita la carica di mio padre, mio fratello non mi disse di segnalare la cosa assieme al prophetes, e (non me lo disse) neppure il prophetes». (Appendice, n.1: O.Narm. I 103)

Conosciamo gli affari del tempio di Narmuthis grazie agli ostraka demotici e greci trovati da Achille Vogliano dentro la seconda corte del tempio meridionale di Medinet Madi.1 I primi testi ad essere pubblicati furono cinque ostraka greci con annotazioni in demotico (SB XVIII 13730-13734), scritti da un sacerdote che si rivolgeva ai funzionari dell’amministrazione romana per denunciare l’ostilità del suo superiore:

Il prophetes di Narmuthis possedeva un sigillo personale in oro (hJ cru‡h' ‡fragiv‡), dal quale non si separò neppure in punto di morte (SB XVIII 13734 rr.10-11). Si trattava evidentemente di un oggetto prezioso e non soltanto per il materiale; è possibile che il prophetes avesse ricevuto il sigillo nel giorno della sua investitura, come segno distintivo della carica da lui assunta3 e come onorificenza propre à inspirer le respect et l’admiration de tous (DesrochesNoblecourt 1980, 172). Ma certamente il sigillo d’oro aveva anche una funzione pratica, oltre al significato simbolico, e valore legale se utilizzato, ad esempio, per autenticare un documento,4 oppure per stampigliare i beni di proprietà del tempio. Nel tempio di Narmuthis esisteva anche la : tA lA tA cosiddetta «stanza del sigillo» ( tba),5 dove erano i magazzini che servivano per conservare le provviste per il personale in servizio, gli strumenti e gli oggetti d’uso e anche ostraka scritti:6

«(...) il prophetes è nemico mio e di (mio) padre e insinuandolo mi accusò di aver abbandonato il tempio e i servizi religiosi, mentre la maggior parte degli altri sacerdoti, dei pastophoroi e delle altre persone del tempio sono obbligati a restarci. Questo dichiarò accusandomi. Più importante di tutto è noto anche a te, o illustre procuratore, che senza autorizzazione non è permesso a nessuno di abbandonare il tempio e di andare in barca ad Alessandria. Io indugiai dall’anno 23 al 30 (di Commodo, 182/3-189/190), non obbedendo agli strateghi e chiedendo di rispettare i (miei) diritti (?) e non fu fatto. Opportunamente in quel periodo venne qui Giuliano, l’ex-archiereus, il giorno 23 del mese di Payni dell’anno 30, e io presentai una petizione». (SB XVIII 13730 rr.15-30)

«Quando viene sera (prendi) 4 pani secchi, una misura-galt di olio profumato, i sali, le carni arrostite, un dolce-gal e i frutti di palma che sono

L’avversario dello scriba, il prophetes, era il sacerdote più alto nella gerarchia del tempio, e il più autorevole. L’autorità del prophetes si esercitava su tutto il personale del tempio (sacerdoti, pastophoroi e laici), sorvegliando e denunciando ai funzionari tutte le irregolarità: in questo caso l’abbandono del tempio e dei servizi religiosi. In altri testi si legge che il prophetes interveniva direttamente nella gestione delle

2

Recita il paragrafo 79 dello Gnomon dell'Idios Logos: «In ciascun santuario, dove è un naos, deve esserci un prophetes che riceve la quinta parte delle entrate» (Riccobono 1950, 60; 227). 3 Sono grato a E. Bresciani che a proposito del sigillo del prophetes segnala il testo demotico di P.Berlin 13588 (I a.C.) Col. II rr. 2-3, dove è detto che un sacerdote: «aveva inciso su un anello una figura rappresentante il cielo e una figura rappresentante la terra, col che voleva dire: “Io sono sacerdote di due templi (…)» (trad. Bresciani 1990, 989). 4 Cfr. infra O.Narm.dem. III 108 r.7 (App. n. 5). 5 Diversamente Gallo (1997, 133 nota 157) legge tA l(A)j tA qt.t: «la stanza della vacca-qt.t (?)». 6 L’ambiente non è stato identificato, ma si trattava probabilmente di uno degli annessi dei magazzini costruiti dentro la prima corte del tempio meridionale, si veda la pianta generale pubblicata da Bresciani et al. 2006, 59.

*

I testi pubblicati in questo articolo sono stati presentati al Prof. Sergio Pernigotti nel settembre 2008, in occasione del IV Colloquio di Egittologia e Antichità Copte di Bologna, dedicato a: Il tempio e il suo personale nell’Egitto antico. La trascrizione e il commento dei singoli testi sono pubblicati in appendice: nn. 1-11). 1 Bresciani 2003, 214-216.

225

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

nella stanza del sigillo. Mangia prima di andare a [TA]-rsj e porta a TS (la) roba e la verdura se (ne) tratti la vendita».7 (App. n.2: O.Narm.dem. II 71)

pagare a loro. E quando si recano fuori dal circondario perché c’è un altro lavoro per loro, mi costringono perciò a pagare un compenso per due razioni”». (App. n. 5: O.Narm.dem. III 104 rr. 4-7)

«Vai alla stanza del sigillo a portare queste carni arrostite che sono vecchie. Controlla il tuo magazzino che è sigillato».

«[...] Ci sono molti servizi di libagione nel villaggio [e accade che] uno (mi) ordina e uno (mi) batte perché io non faccia i conti, dopo che lui fa preparare 5 corone di dolce-gal14 davanti a loro e dell’incenso – variante – davanti a loro, che lo seguono e si ubriacano senza che qualcuno si opponga. Lui ha fatto un’altra [...] «Vai a [...] con gli ispettori delle imposte [...]». (App. n. 5: O.Narm.dem. III 105-107)

(App. n. 3: O.Narm.dem. II 57) «(Porta) a ¦A-rsj un po’ di inchiostro, una cinghia, questa grande tavoletta e anche questa lista, il giorno 21; e anche gli ostraka che sono nella stanza del sigillo, porta(li) a nord (scil.: a ¦A-rsj)». (App. n. 4: O.Narm.dem. II 56)

«È finita grazie a te l’ispezione di Petosiris, che ti ha consegnato un documento dicendo: “Horos lo certifichi con il sigillo per mano di Phatres” – che sono io (scil. Phatres figlio di Hormeinos, lo scriba del tempio) – e ha aggiunto: “Sia anche certificato con il sigillo da Petermuthis e (Horos) dica cosa io ho consegnato, quando vuole procedere [contro] l’ispezione”. Un’altra volta Petosiris è stato l’avversario di Horos (...)». (App. n. 5: O.Narm.dem. III 108 rr. 1-14)

Le petizione dello scriba Phatres Un gruppo consistente degli ostraka trovati dal Vogliano è costituito dalle minute dei documenti di uno scriba e contabile del tempio, chiamato Phatres.8 Questi era nato verosimilmente nella prima metà del II d.C. (il padre Hormeinos era un sacerdote del tempio, morto nell’anno 17 di Marco Aurelio)9 ed era ancora attivo durante il regno di Settimio Severo.10 Phatres è l’autore di oltre un centinaio di testi demotici, greci e bilingui;11 sue sono le minute di un lungo memoriale indirizzato allo stratego Philoxenos (O.Narm.dem. III 100-188); suoi sono il testo di SB XVIII 13730 citato sopra e quello dell’ostrakon inedito OMM 1504:

Lo scriba denuncia allo stratego che nel tempio ci sono persone che pretendono di essere pagate per servizi che non hanno mai svolto. Il servizio è indicato dal sostantivo Sms, che può significare una qualunque attività svolta a favore del tempio: ci sono i generici «servizi di lavoro retribuito dei sacerdoti»,15 e il più specifico Sms nA sX: il «servizio dei documenti», da intendersi probabilmente come un incarico amministrativo o di cancelleria da svolgersi presso l’archivio del tempio.16

Filoxevnou (l.: Filoxevnwi) ‡trathgw'i jAr‡i(noi?tou) Qemiv‡tou kai; Polevmwno‡ merivdwn para; Fatrh'‡ (l.: Fatrevou‡) JOrmeivnou (…) «A Philoxenos stratego del nòmo Arsinoite e delle merides di Themistes e di Polemon da parte di Phatres figlio di Hormeinos (…)». (OMM 1504 rr.1-5, 194-196 d.C.)12

Lo scriba Phatres nei suoi appunti fa più volte riferimento : i cosiddetti «servizi di agli Sms kS – libagione». La lettura delle parole è controversa,17 ma dai testi (Fig. 1) appare chiaro che si tratta di un servizio religioso, ovvero di una cerimonia di tipo conviviale celebrata dai sacerdoti, che si riunivano nel tempio per consumare vino o birra (e talvolta anche un pasto) in onore delle divinità (sono citati Osiride e Anubis) o dei sovrani, proseguendo l’antica consuetudine delle associazioni religiose di epoca tolemaica.18

«(...) i magistrati (della metropoli: nA a[rconte‡) fecero leggere la mia relazione davanti allo stratego (Philoxenos)13 quando questi era arrivato, dicendo(gli): lui (scil. lo scriba Phatres) si lamenta di questo: “Ci sono alcune persone fra quelle del tempio che fanno fare queste cose: mi fanno pagare un compenso in denaro per loro anche quando non prestano servizio e non c’è un compenso che io devo

14

Il sostantivo gal indica un tipo di dolce schiacciato contenente miele, cfr. Crum 1939, 810a: cwwle, «dolce schiacciato» simile al lavganon: «dolce schiacciato con farina, miele e olio». 15 O.Narm.dem. III 169 rr. 1-5: wAH=f TAj Sl nA Sms ir wpe nA wab: «lui riscosse il prezzo dei servizi di lavoro dei sacerdoti» (Menchetti 2005, 106). 16 Infra OMM 622 rr. 4-5 (App. n. 8). 17 Quack 2006/2007, 177 e Thissen 2009, 233 in particolare hanno sollevato dubbi sulla lettura Sms della parola demotica scritta ; Thissen 2009, 233 concorda con la lettura kS (Bresciani 1994a, 77) della parola scritta: , diversamente da Quack (2006/2007, 177) che pensa piuttosto ad una variante grafica del verbo swr: «bere» (cfr. Erichsen 1954, 415). 18 Cfr. de Cenival 1972, 179-182; Muszynski 1977; Bresciani 1994b.

7

La frase è scritta sulla superficie concava del coccio: ir eJrmhvneu‡in significa letteralmente: «fare la negoziazione»; cfr. eJrmhneuv‡: «sensale, negoziatore, mediatore». 8 La presenza di uno scriba autore di più testi greci e bilingui era stata individuata da Vogliano (1953, 514) e confermata successivamente da Donadoni (1955, 82-83) e da Pernigotti (1998, 126). 9 O.Narm. I 103 r.1 (App. n. 1). 10 Menchetti 2005, 16-18. 11 Per un elenco dei testi attribuiti a Phatres figlio di Hormeinos cfr. Menchetti, Pintaudi 2009, 203 nota 5. 12 Una foto dell’ostrakon è pubblicata in Gallo 1997, xlviii fig 5. 13 Per l’identità dello stratego, cfr. O.Narm.dem. III 103 e III 176.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

OMM a CXXXV rr.3-5 b 1075+887 rr.12-14

c 1354 rr.8-9 d 968 rr.6-8 e 264 rr.3-5 f 667 rr.2-3 g 1000 rr.2-4

h 771 r.1 i 826 rr.2-4 j 804 r.2 e r.8 k 270 rr.10-11

nA wab Sbk n nt e=w kS n irp n bn-pw nA pA a.wj Lavgwn tj n=j in irp r kS m-sA Wsir e=w kS e=w wnm Xn H.t-ntr nA wab [...] e=w [kS] e=w wnm r wa Sms bn e=j kS (...) gA Sms kS m-sA pA Sms nA pr-aA.w Sms Inp

«loro fanno libagioni e consumano il pasto rituale nel tempio»; «i sacerdoti [...] che hanno [fatto libagioni] e mangiato per un servizio»; «io non farò libagioni (...) oppure un servizio di libagione dopo il servizio per i sovrani»; «il servizio per Anubis»;

m-ir kS Hnq

«io non [svolgerò il] servizio festivo, io non farò libagioni, [io non svolgerò il] servizio di libagione né quello del tempio»; «non fare libagioni di birra»;

pAe=k Sms kS ... pAe=k kS Sms kS ... nA.w Sms kS Sms kS

«il tuo servizio di libagione ... la tua libagione»; «il servizio di libagione ... i servizi di libagione»; «il servizio di libagione».

bn e=j [ir pA] Sms xa bn e=j kS [bn e=j ir pA] Sms kS irm pa rpaj

spesa di 16/20 oboli per l’olio profumato può considerarsi verosimile. Nello stesso periodo (II d.C.) la carne poteva costare circa 4 dracme al chilo, ma i tagli di qualità inferiore valevano circa la metà: 580 grammi per 8 oboli (Drexhage 1991, 55); per la nostra razione possiamo immaginare una spesa equivalente a quella per il pane, del valore di 4/5 oboli. Si può essere generosi aggiungendo un altro obolo per il costo del dolce e della frutta (ma un chilo di datteri costava molto meno di un obolo); minimo è anche il valore del sale, venduto a circa 6 oboli la misura (1 metron = 1/10 di artaba). In totale la nostra razione poteva valere dai 25 ai 31 oboli (Fig. 2), ma si tratta soltanto di valori indicativi; la cifra è di poco superiore alla spesa media giornaliera per il vitto calcolata sugli esempi di I-III secolo d.C. registrati in Drexhage 1991, 6-9 (Fig. 3):

«i sacerdoti di Sobek che hanno fatto libagioni di vino»; «quelli della casa di Lakon non hanno consegnato il vino per fare libagioni per Osiride»;

O.Narm.dem. II 71 rr. 2-6 (II-III d.C.) valore indicativo in oboli 4 pani 4 16/20 una misura (galt) di olio carne 4/5 sale un dolce-gal 1/2 frutti di palma valore totale approssimativo della razione

25/31

Fig. 2

Fig. 1: i «servizi di libagione» (Sms kS) citati negli ostraka di Medinet Madi19

P.Oxy. IV 736 (I sec.) P.Mich. II 127 (45/6) P.Mich. II 123 verso (45/7) P.Mich. II 128 I a (46/7) SB XVI 12515 (I sec.) SB XII 11004 (I-II sec.) P.IFAO III 37 (post 136) P.Mich. XI 619 (ca. 182) P.Oxy. XXIV 2423 (II-III sec.) P.Mert. II 87 (III sec.) spesa media per il vitto

Le agende di servizio e gli itinerari di lavoro del personale del tempio È interessante notare come i sacerdoti pretendessero una doppia razione (trofhv) se si allontanavano dai dintorni di Narmuthis per svolgere un lavoro.20 La razione stabilita nel testo di O.Narm.dem. II 71 (App. n. 2) comprendeva: quattro pani, carne, sale, un dolce, della frutta e una misura d’olio profumato. Si può tentare di stabilire, in maniera approssimativa, il valore dei beni elencati calcolandone il prezzo sulla media delle cifre fornite da Drexhage 1991, 2948. Se un pane costava un obolo, i quattro pani della razione valevano quattro oboli e rappresentavano probabilmente la razione minima giornaliera di pane. Più difficile è stabilire il valore dell’olio profumato contenuto nella misura-galt21 di cui ignoriamo la capacità; nel II-III d.C. il prezzo degli olî aromatici oscillava dalle 32 alle 12 dracme per kotyle, fino alle 2 dracme e 4 oboli per un hJmivlitron di olio di rose (P.Stras. 5 345; Drexhage 1991, 391). Tenuto conto del basso valore degli altri beni compresi nella razione, una

spesa media giornaliera in oboli 6 13 2,5 9,4 21 6,5 1 48 9,7 56 17,3

Fig. 3

I sacerdoti si allontanavano da Narmuthis su incarico degli amministratori del tempio e andavano negli altri villaggi dell’Arsinoite22 per consegnare o ritirare viveri, oggetti d’uso e beni; oppure per riscuotere crediti o pagare i conti del tempio. I servizi da svolgere e gli itinerari da percorrere erano annotati sugli ostraka23 e poi consegnati ai destinatari, che ritiravano ciascuno il proprio ordine scritto portandolo con sé fino a destinazione: «(Porta) a ¦A-rsj un po’ di inchiostro, una cinghia, questa grande tavoletta e anche questa lista, il

19 Bibliografia dei testi: (a), (d), (k) Menchetti 2005, 40-101: O.Narm.dem. III 164, 146 e 103; (c), (g) Menchetti 2008, 81-85 (testo n. 201) e 118-119 (testo n. 236); (f) Bresciani et al. 2009, 48; (h) Gallo 1997, 83: O.Narm.dem. II 80; (i) Bresciani 1994a, 75-78; (j) Menchetti 1999-2000, 148; (b), (e) inediti. 20 App. n.5: O.Narm.dem. III 104 rr.11-17. 21 Cfr. Erichsen 1954, 588; Crum 1939, 813a: calite.

22

Per un elenco dei toponimi demotici citati negli ostraka di Medinet Madi cfr. Gallo 1997, lxi-lxv. 23 Cfr. i testi di O.Narm.dem. II 45, 47-48, 50-51, 53, 56, 71-72, 82, 87, 89; OMM 444.1-7 (Menchetti 2007, 143); OMM 3, 8, 144, 155, 620, 761, 768, 835, 1000, 1103 e 1169 (editi in Menchetti 2008, 62-95).

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appellarsi al prefetto,27 ma più spesso capitava di dover andare nella metropoli dell’Arsinoite28 per presentarsi in udienza davanti allo stratego,29 o per intentare un’azione legale (OMM 1095).30

giorno 21; e anche gli ostraka che sono nella stanza del sigillo, porta(li) a nord (scil.: a ¦A-rsj)». (O.Narm.dem. II 56)24 «Vai a TA-rsj, oggi, e fai come (è scritto) negli ostraka che sono là». (App. n.6: O.Narm.dem. II 55)

Nelle controversie fra il personale del tempio erano coinvolti i sacerdoti del collegio dei presbyteroi, che in qualità di rappresentanti legali dei sacerdoti del tempio avevano la responsabilità di presentare ai funzionari le denunce e le petizioni (Gilliam 1947, 188). Il collegio di Narmuthis (come quello di Tebtynis)31 contava dieci sacerdoti, come si deduce dai testi seguenti:

«(Dal) giorno 1 al giorno 5 (a) Tosh. (Dal) giorno 6 al giorno 15: nel canale (per) dieci giorni. Altrimenti (kj-Dd): dal giorno 16 al giorno 25 a RaXa. I cinque giorni di festa (vai) al lago. Il giorno 10 di Tybi a Narmuthis.» (App. n.7: O.Narm.dem. II 45)

«(83): Ecco la copia del suo documento con la sottoscrizione: “Hermanon detto Muntes mi fece cercare (84) dicendo: “Dammi tu (lo) stipendio,32 quello (che serve per) fare una rettifica a favore di tuo figlio (in cui si dichiara) che lui non è mai stato a Narmuthis (e) che io non (85) lo farò registrare (come debitore)”. Il suddetto uomo (scil.: Hermanon) venne presso (?) i dieci sacerdoti (del collegio) dicendo: “Date a me (lo) stipendio e io non vi farò registrare (come debitori), dal momento che spetta a voi denunciare (il debitore)”. (I sacerdoti) gli risposero di restarsene là, (86) dicendo: “Noi lo denunceremo perché lo stipendio gli è stato dato”. (Hermanon) se ne andò e incaricò i (sacerdoti) di denunciare (il debitore)». (App. n. 9: O.Narm.dem. III 155-156 + O.Narm. 2006 s. N. d’Inv. + O.Narm.dem. III 157, II-III d.C.)33

«Non fissare i tuoi giorni (per) andare in giro (a svolgere) una corvée a PA-tbaA (o) una a Tosh, se sei nell’archivio, oppure (se presti) servizio con i documenti. Altrimenti: scambia una (corvée) con una (corvée) a Narmuthis dello stesso tipo (di quella) di Petbô». (App. n. 8: OMM 622) Da questi testi – cui si applica la generica definizione di note, o agende di servizio (Gallo 1997, xliv-xlv) – si comprende come fossero organizzati il lavoro e gli spostamenti dei sacerdoti: l’esempio migliore è quello di O.Narm.dem. II 45 (App. n. 7) che prevede un itinerario di trenta giorni diviso in cinque tappe. Si noterà che la terza parte dei giorni – «(dal) giorno 6 al giorno 15» – deve trascorrere «nel canale»: l’annotazione è curiosa e ci pare interessante perché verosimilmente allude ad una corvée di lavoro della durata di dieci giorni (dechvmero‡)25 per la manutenzione di uno dei canali che servivano il territorio di Narmuthis o dei villaggi vicini. È giusto che anche i sacerdoti di Narmuthis, come quelli degli altri villaggi,26 fossero obbligati dai funzionari dell’amministrazione romana a prestare la loro opera nelle corvées. Il «servizio pubblico obbligatorio» di lavoro è indicato nei testi demotici con il sostantivo Alt (cfr. alwt, Crum 1939, 6a), come nell’ostrakon OMM 622 (App. n. 8) là dove si fa questione di una corvèe nel villaggio di PA-tbaA e in quello di TS (Tosh), che è lo stesso menzionato nel testo n.7.

Conti e registrazioni Di norma spettava al collegio dei presbyteroi anche la responsabilità di presentare annualmente le dichiarazioni

27

Cfr. i testi di O.Narm. I 78 e 79+104 (post 152/3 d.C., Messeri, Pintaudi 2001, 263), e quello di O.Narm.Dem. III 136, dove è menzionato il prefetto (Gaivo‡ Kalouiv‡io‡) ’tatianov‡, in carica negli anni 170-175 d.C. 28 Negli ostraka greci di Medinet Madi la città è menzionata come PtolemaiÞ‡ Eujergevti‡ (OMM 1095.1: Menchetti, Pintaudi 2007, 241-242) o come mhtrovpoli‡ e povli‡ (O.Narm. I 47.3 e I 48.8-9: Messeri, Pintaudi 2001, 257). (non Nei testi demotici la città è indicata con il toponimo: Ra-xa altrimenti attestato, cfr. Bresciani, Giannotti, Menchetti 2009, 39-40), oppure semplicemente bk.t: «(la) città» (OMM 322.8: (Menchetti 2007, 144-145). 29 Cfr. supra SB XVIII 13730 rr. 6-7; O.Narm.Dem. III 103 e III 176.11-16, dove è menzionato lo stratego Philoxenos (194-196 d.C.). 30 Menchetti, Pintaudi 2007, 241-242. 31 P.Tebt. II 309.7 (116-117 d.C.). 32 Nel testo di O.Narm.dem. III 156 r.1 sta scritto il sostantivo demotico Xr.t (lett.: «cibo, alimenti», Erichsen 1954, 389) utilizzato nel significato di «rendita destinata al mantenimento di un sacerdote» (cfr. Daumas 1952, 189 (d)). 33 L’ostrakon O.Narm. 2006 s. N. d'Inv. è stato ritrovato nel 2006 durante la ripulitura della seconda corte del tempio meridionale di Medinet Madi (cfr. Bresciani et al. 2010). L’ostrakon è numerato in greco con la cifra pe: «85» e appartiene alla serie degli ostraka O.Narm.dem. III 100-188; più precisamente il testo si inserisce dopo gli ostraka O.Narm.dem. III 155-156 (numerati rispettivamente: pg «83» e pd «83») e prima di O.Narm.dem. III 156 (numerato p© «86»; Menchetti 2005, 94-96):

I sacerdoti erano obbligati ad allontanarsi da Narmuthis anche per esigenze diverse da quelle imposte dagli affari del tempio o dai funzionari dell’amministrazione. Poteva capitare, ad esempio, che un sacerdote dovesse andare fino ad Alessandria per testimoniare in un processo, o per 24

Testo n.4 dell’Appendice. Cfr. Youtie 1973, I, 70 e i certificati di dechvmero‡ citati in Sijpesteijn 1964, 32 (n. 176 = SB I 5746, 209 d.C.) e 38 (n. 275 = P.Fay. 289, 192 d.C.). Relativamente alle corvées di lavoro ai canali assegnate agli abitanti di Narmuthis si possono ricordare le quattro ricevute di penthemeros: BGU XIII 2258 (138 d.C.); P.Sijp. 42f (185 d.C.); P.Sijp. 42g (203 d.C.) e P.Sijp. 42h (223 d.C.), cfr. Duttenhöfer 2007, 284-286. 26 Cfr. Lewis 19972, 91 e 144-145. 25

228

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patrimoniali e i rendiconti del tempio ai funzionari competenti.34

dall’amministratore di una tenuta agricola (supra OMM 627). Le rendite e le donazioni finanziavano le spese grandi e piccole dei sacerdoti di Narmuthis:

Nel testo bilingue di O.Narm.Dem. III 164 e 177 si parla della consegna di alcune dichiarazioni fiscali (mhnuv‡ei‡) nell’ufficio del contabile (logi‡thvrion, ejklogi‡thv‡); nel testo dell’ostrakon OMM 622 si allude ad una probabile ispezione fiscale nel tempio di Narmuthis per controllare i registri delle riscossioni dei sacerdoti.35 Poiché i funzionari dell’amministrazione controllavano l’affidabilità dei rendiconti del tempio, era necessario che gli scribi del tempio tenessero aggiornati i registri contabili, annotando scrupolosamente tutte le rendite riscosse e le spese, anche le più minute. Centinaia sono perciò i conti e le registrazioni di beni e di denaro annotate in demotico, ma più spesso in greco, sugli ostraka di Medinet Madi: Rendite e donazioni del tempio di Narmuthis:

App. n.10: OMM 28 (II-III d.C.): registro di spese spese tasse per il tempio: e contributi: dracme oboli r.2 r.4 r.5

pani olio

48 12

12 (per le 32 imposte) pubbliche

r.6

dracme

11 (per gli) scassi (dei canali) orzo (per le) condotte d’acqua frumento (per le) irrigazioni

r.7 r.8

OMM 761 (II-III d.C.), rr. 1-4:36 r.9 r.10

e=f xpr e.ir=k Sm r PA-glg-(tA)-wr.t mj ir=w r.r=k hn 84 sw (...)

spese per lavori agricoli e sementi: dracme oboli dracme oboli

«Quando vai a Kerkethoeris fatti consegnare 84 hn di grano37 (...)» OMM 627 (ante 210/1 d.C.):38

22

dracme:

Hermias figlio di Eutuchos: 200 dracme; Dioskoros ginnasiarca: 22 ½ artabe di grano; Charmion amministratore: 50 artabe di grano.

200 405 900

percentuale di spesa:

62

29,19%

33 e 5 oboli totale: 212 dracme e 2 oboli 15,93%

60 16 12

3

16 12 116 e 3 oboli 54,86%

In questo registro le uniche spese quantificabili con una certa precisione sono quelle per il pane: quarantotto dracme e dodici oboli equivalevano infatti alla spesa per 300 pani, al prezzo di un obolo ciascuno (Drexhage 1991, 29). Diversamente per valutare l’effettiva entità delle spese per i lavori agricoli si può tenere conto del compenso medio giornaliero di un bracciante agricolo, che nel II-III d.C. riceveva dai 4 ai 12 oboli.43 Per quanto riguarda la spesa per l’acquisto di frumento e orzo si calcoli che con sedici dracme si potevano acquistare indicativamente 1 artaba di grano (al prezzo medio di 18 dracme per artaba)44 e 2 artabe di orzo, che valeva circa la metà del prezzo del frumento (cfr. Drexhage 1991, 26).

La misura di grano da riscuotere nel villaggio di Kerkethoeris (OMM 761) non era che la minima parte delle rendite alimentari destinate al personale del tempio. Anche i sacerdoti di Tebtynis riscuotevano contributi dai villaggi della merìs di Polemone (in totale 259 artabe di grano),39 e i sacerdoti di Soknopaiu Nesos da quelli della merìs di Herakleide (1025 artabe di grano, oltre ad un contributo di 900 dracme riscosso per la cura di due sacelli nel villagio di Nilopolis).40 Al tempio di Narmuthis spettavano inoltre le decime pagate dai frantoiani del villaggio, che consegnavano per l’illuminazione del tempio una kotyle di olio al giorno, l’equivalente in un anno di 304 dracme.41 In certe occasioni il vino per le libagioni dei sacerdoti e il grano per le razioni venivano offerti al tempio da persone devote,42 o da un magistrato della metropoli dell’Arsinoite e

Se l’orzo e il grano furono effettivamente acquistati come semente di certo si trattava di terreni non grandi, dal momento che i contratti di affitto per la coltivazione dei terreni dell’Arsinoite, nel II-III secolo d.C., prevedevano la semina di un minimo di 3 fino ad un massimo di 11 artabe di grano per arura, e di un minimo di 1 fino ad un massimo di 18 artabe di orzo per arura, in base alla qualità dei terreni (cfr. Drexhage 1991, 159-165).

34 Le dichiarazioni erano indirizzate allo stratego, al basilicogrammateus, al bibliophylax dell’archivio degli atti pubblici e al funzionario contabile (ejklogi‡thv‡), cfr. Gilliam 1947, 188 (nota 44) e 197. Sulle grafaiv iJerevwn kai; ceiri‡mouv cfr. in generale Gilliam 1947, 191-198; Battaglia 1984, 79-99; Burkhalter 1985, 123-134. 35 Menchetti 2006, 117. 36 Pubblicato in Menchetti 2008, 95 (testo n. 211). 37 Lo hn era una misura di capacità di circa 0,5 litri (Vleeming 1980: 1210/1); 84 hn corrispondono perciò a 47 litri, equivalenti alla misura di un’artaba e ¼ (circa 39 litri per artaba). Un’artaba di grano valeva nel II-III d.C. circa 18 dracme (cfr. Bowman 1986: 268; Rathbone 1991: 464). 38 Menchetti, Pintaudi 2007, 243-244. 39 P.Tebt. 258 (108 d.C.), cfr. Johnson 1936, 651-653. 40 SP XXII 183 (138 d.C.), cfr. Johnson 1936, 654-659. 41 Cfr. OMM 272 rr. 6-7 (Messeri, Pintaudi 2002: 235); una kotyle di olio nel II-III d.C. valeva circa 5 oboli (Drexhage 1991: 46);. 42 Cfr. supra Tabella 1: OMM 1075+887.

43 Cfr. Bowman 1986: 268; Rathbone 1991: 464; Drexhage 1991, 414-422 e 444. 44 Cfr. supra nota 37.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

APPENDICE App. n.11: OMM 347 (II-III d.C.), rr.1-7: registro di spese spese per il tempio: spese per il tasse e altre spese: personale: contributi: r.1 lino 150 per ciò 150 che ti spetta r.2 tasse e 150 per (il 450 contributi villaggio di) Mne r.3 rotoli di 30 per (...) 650 papiro r.4 acquisti 200 stipendio 200 dello scriba r.5 per te; 200 vestiti 55 r.5 r.6 legna 20 per i 50 per il 50 da sacerdoti faraone ardere r.7 in totale: 2345 (dracme) dracme: 400 655 200 1100 totale: 2355 percentuale 17% 28% 8% 47% di spesa:

TRASCRIZIONI DEI TESTI CITATI

(1) O.Narm. I 103 10,5 x 8,4 cm post 188/9 d.C. Tavola I Bibliografia: Pintaudi, Sijpesteijn 1993, 122-123; Messeri, Pintaudi 2001, 267; Bagnall 2005, 19-21; Menchetti, Pintaudi 2009, 208-210. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

d iz (e[tei) oJ path;r hJmw'n ejteleuvth‡en to; kuno;n ei\tw‡ kai; tou;‡ novmou‡ e[dwka tw'/ ajtelfw/' mou i{na aujto;n ejlazwv‡h/ a[cri tou' kq (e[tou‡) oujk e[knw tiv e[praxen polla; a} {a} e[paqon ajpo; ’wkwnwvpio‡ ajpé o{te oJ path;r ejteleuvth‡e kai; oJ profhvth‡ wJ‡ e[qo‡ ej‡12. tivn ejmhvnu‡i e; Vn th;n tavxin 13. tou' patrov‡ mou o{ti {ojfivli} 14. oJfivlei praqh'nai oJ ajtelfov15. ‡ mou oujk {ei} ei\pev moi ‡hma'16. ne meta; tou' profhvtou ou[17. te mh;n oJ profhvth‡

Con trenta dracme (OMM 347 r. 3) si potevano comprare circa sette rotoli di papiro (tovmo‡, cavrth‡), al prezzo medio di 4 dracme l’uno (Drexhage 1991, 385-388); di poco inferiore – ventiquattro dracme – è la spesa per i papiri registrata in un altro ostrakon greco (O.Narm. I 49 r. 6). Lo stipendio di uno scriba del tempio («il pane dello scriba» letteralmente, OMM 347 r.5) valeva 200 dracme, con le quali si potevano acquistare, nel II d.C., circa 16 ½ artabe di grano (al prezzo medio di 12 dracme per artaba, Drexhage 1991, 20), che erano sufficienti a coprire il fabbisogno di un anno.45 La cifra è inferiore alla media degli stipendi pagati agli scribi professionisti:46 dalle venti alle quaranta dracme al mese (SB XIV 11978 col. 2, 189 d.C.; BGU II 362 fr. 1, 215 d.C.).

2|| to; koino;n ei\do‡ kai; tou;‡ novmou‡ (Bagnall 2005, 20) 5-6|| tw'/ ajdelfw/' 6-7|| ejlazwv‡h/ (Messeri, Pintaudi 2001, 267), l. ejlattwv‡h/ (Bagnall 2005, 20-21) 7-8|| e[gnwn 9|| ’okonwvpio‡ 10|| ajféo{te 12|| ejmhvnu‡en 14|| ojfeivlei; ajdelfov‡ 15-16|| ‡hmh'nai (2) O.Narm.dem. II 71 8,5 x 6,8 cm II-III d.C. Tavola I Bibliografia: Gallo 1997, 69-70; Menchetti 2008, 75-76 (testo n. 195).

La spesa di 2345 dracme annotata sull’ostrakon OMM 347 (r. 7) è in difetto di dieci dracme sul totale calcolato di 2355 dracme; una cifra simile: 2981 dracme è registrata in O.Narm. I 61 r.15 come spesa per l’anno 29 di Commodo (188/9 d.C.). Entrambe le somme – equivalenti alla spesa media annuale di due famiglie di sei persone (nel II-III d.C., cfr. Drexhage 1991, 453) – sono di poco superiori alle 2000/2500 dracme di spesa annuale dichiarate dai sacerdoti del tempio di Tebtynis negli anni 108-145 d.C.47

superficie convessa 1. e.ir rhwj xpr 2. 4 ajq Sw 3. 1.t galt nHH stj 4. nA.w HmA nA.w qllj 5. gal irm nA.w DjD 6. bnj e nt Xn tA lA 7. tA tba(.t) wnm Sa m[tw=k] 8. tj rt Xn [TA_ 9. -rsj TAj nkt 10. (det.) sm r TS 11.

45

Se si calcola un consumo medio mensile di 1,16 artabe di grano (Drexhage 1991, 442). 46 Drexhage 1991, 427-428. 47 Cfr. Johnson 1936, 651 e P.Tebt. II 298. In due rendiconti del tempio di Tebtynis dei primi anni del II secolo d.C. (PSI X 1151 e 1152; Messeri 2000, 163-177) è registrata una spesa totale di 1744 dracme, 216 artabe di grano e 9 artabe di lenticchie.

superficie concava 12. e.ir=k ir eJrmhvne‡i\n/ 12|| eJrmhvneu‡in

230

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

(3) O.Narm.dem. II 57 8,7 x 6,3 cm II-III d.C. Tavola I Bibliografia: Gallo 1997, 48-49. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

7. 8. 9. 10. 11. 12.

mj Sm r tA lA tA tba.t in nA.w qll e ir is Snj r pAe=k (pr)-HD e nt tba

O.Narm.dem. III 106 1. q 2. wn wa ÅsHnŸ 3. wn wa Hwj 4. r tj bn e=j {e} 5. {e=j} ir ip.w 6. n.im=w in m-sA 7. Sa ir=f tj ir 5 8. qlm ga_ 9. l r.Hr=w 10. qp kj-Dd r.Hr_ 11. =w n nt e=w 12. mSj

(4) O.Narm.dem. II 56 9 x 5 cm II-III d.C. Tavola II Bibliografia: Gallo 1997, 69-70; Menchetti 2008, 73-74 (testo n. 194). 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

i© (rosso) wa Sm lA wa ml (det.) tAj pngs aA(.t) tAj wpe an r ¦A-rsj sw 21 irm nA.w blD e nte Xn tA lA tA tba e nt TAj r pA mHt (det.)

O.Narm.dem. III 107 1. i 2. m-sA=f 3. e=w txAj 4. bw ir rmt tj w_ 5. bA wAH=f ir=s k.t [ 6. ] an [...] n.im=k m-sA=f 7. mj-Sm […] e˚p ˚ ˚n˚ ˚ ˚a 8. irm nA ejpåiçthr˚h˚thv‡ 9. ir nA […]ati\ka‡/ 10. […] 11. tA […] 12. […]

(5) O.Narm.dem. III 104-108 (post 194/196 d.C.) Bibliografia: Menchetti 2005, 42-46; Quack 2006/2007, 177-178. O.Narm.dem. III 104 1. © 2. r ir nb 3. n.im=f m-sA 4. Sa ir nA a[rcw\n/ 5. tj aS pAe sDj 6. e ir.Hr pA ‡tr(athgov‡) (n) sp e {m} 7. mtw=f ij Dd Sa ir=f lm_ 8. j pAj wn hnA rmt 9. mtw=w Xn H.t-ntr Sa ir=w tj ir_ 10. =st tj ir=j tj tbA-Ht Xr.r=w 11. r bn e=st Sms r bn e Sk_ 12. l e tw=j tj n.im=f Xr.r=w in 13. e=f xpr e=w tj=w r bnr ejk profi‡Ýkovro˚åuç 14. r wn k.t bk.t Xn=w Sa ir(=w) tj 15. ir=j tj Skl n.im=s Xr 16. ejpi; tro17. phvn 2.t

9 x 8 cm

O.Narm.dem. III 108 13,6 x 10 cm 1. ia 2. wAH mtw=k 3. tA ejxevta‡i\‡/ 4. Peto‡i'ri‡ 5. e nt tj Dam 6. n=k Dd mj ir 7. ¡r tba=f r._ 8. tr.t PA-Htr 9. e nte inkj pAj wAHe=f 10. Dd=f an Dd mtw=w tba=f 11. Ha=f r.tr.t PA-tj_ 12. [Rn]mwtj.t e=f Dd pA nt 13. [e]=j tj=f e=f mr pt 14. \tA/ ejxevta‡i‡ (vacat) PA-tj-Wsir 15. [ir] xfti r ¡r kj sp sX 16. Xnnj r.r=f m-Ss sp-sn Sm-Xl 17. xpr wAH ¡r tj ir tAe=f 18. X.t hAj pAe=f h(b?) 19. nA dam

4|| a[rconte‡ 13|| ejk profi‡Ýkwvro˚åuç 16-17|| ejpi; trofhvn O.Narm.dem. III 105 1. h 2. [e=w ir m]tj e=w tj r HA(.t) 3. n.im]=j e=w Hwj n.im=j 4. ...] e.ir Hr=k (?) 5. ... t]w=j nAj Hrj 6. ... t]w=j nomhvn

... pt] m-sA=j ... Hr] pA Sms kS hrw ...] rstj nA aSA [nA] Sms kS {Xn} [X]n pA tmj [xpr]

8,4 x 6 cm

10 x 5 cm

8,6 x 8,3 cm

Tavola II

(6) O.Narm.dem. II 55 3,2 x 8 cm II-III d.C. Bibliografia: Gallo 1997, 45-47; Menchetti 2008, 77 (testo n. 197). 231

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

1. 2. 3. 4.

mj-Sm r TArsj r pA nw hrw e.ir=j (eri) r X nA.w blD e nt n.im=w an

8. Xn Niw.t-Rnn.t 9. e bn e tw_ 10. =j 4-5|| ajnqairev‡imon

(7) O.Narm.dem. II 45 11 x 5,5 cm II-III d.C. Tavola II Bibliografia: Gallo 1997, 23-24; Menchetti 2008, 88 (testo n. 205). 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

sw 1 Sa sw 5 TS sw 6 Sa sw 15 Xn pA jal hrw 10 kj-Dd sw 16 Sa sw 25 n Ra_ -xa sw 5 Hb r pA jm (dett.) sw 10 tp pr.t (det.) r Niw.t-Rnn.t

(8) OMM 622 10,5 x 9 cm II-III d.C. Bibliografia: Menchetti 2007, 147-148. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

O.Narm. 2006 s. N. d’Inv. 1. pe tw=j 2. nA.w ir parav3. grafin n.im_ 4. =f wAH=f nm 5. irm nm iw r (?) 6. {wab} wab 10 7. Dd mj n=j Xr.t 8. e bn e tw=j nA.w ir 9. paragravfin n.im=tn 10. n Dd pAe=tn ir mhnuv(ei)n 11. n.im=f Dd=w n=f ir 12. pAe=f xpr 13. n.im=w

Tavola II

m-ir wAH nAe=k hrw qtj 1.t Alt (det.) Hr PA-tba-aA 1.t Xn &S e.ir=k Xn tA s.t-sX g_ A pA Sms nA.w sX K.t-mt 1.t (Alt) w_ bA 1.t (Alt) Xn Niw.t-Rnn.t m-qtj PA_ tbAa an Hr nAj

9,4 x 8 cm

Tavola III

2-3; 9|| paragravfein O.Narm. III 157. 1. p" 2. Dd e=n 3. (r ir) mhnuv(ei)4. n n.im=f 5. n.im tj n=f Xr.t 6. wAH=f Sm n=f wAH=f 7. Hwj m-sA=w 8. Dd n.im ir mhnuv(ein){n.im} 9. n.im=f

(9) O.Narm.dem. III 155-156 + O.Narm. 2006 s. N. d’Inv. + O.Narm.dem. III 157 (II-III d.C.) Bibliografia: Menchetti 2005a, 94-96; Quack 2006/2007, 180; Bresciani et al. 2010. O.Narm.dem. III 155 1. pg 2. tw=s 3. X.t=f 4. pAe=f D_ 5. am 6. irm tAe=f uJpogra7. fhv 8. JErmanw'(n) 9. oJ kai; Munth‡ 10. tj ir=w ij 11. m-sA=j

7,4 x 6,6 cm

O.Narm.dem. III 156 1. pd 2. Dd mj Xr.t 3. (det.) tAe (ta) tj ir 4. wa ajnqaerev5. ‡imon xpr 6. Xr pAe=t Sr Dd pA_ 7. e=f48 xpr r nHH

7,3 x 7 cm

(10) OMM 28 8 x 4,9 cm II-III d.C. Bibliografia: Menchetti 208, 111 (testo n. 228). 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

7,4 x 6,3 cm

Tavola III

a a[rtou‡ (dr.) mh (ojboloi;) ib e[li˚eon (dr.) ib dhmo‡ivw‡ (dr.) lb (ojb.) ia ‡ci˚‡mouv‡ (dr.) x kriqh'‡ (dr.) i© ejpirw'n (dr.) ib (ojb.) g ‡i'to‡ (dr.) i© poti‡mouv‡ (dr.) ib c(alkou')

4|| e[laion 8|| ejpirrow'n 11|| sull’ostrakon: c ò (11) OMM 347 9,7 x 6 cm II-III d.C. Tavola III Bibliografia: Menchetti 208, 109-110 (testo n. 227). 1. 2. 3.

48

Quack (2006/2007, 180) propone di leggere pAe=f come una scrittura non etimologica della negazione bn pw=f, cfr. n-pAj=f citato in Erichsen 1954, 116.

232

Ss: 150; Xr pA nt r.r=k: 150; r (TA)-Mne (det.): 450; n tn Skl: 150; Dam: 30; Xr (...): 650; Sp:

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200; ajq (n) sX: 200; n=k: 200; Hbs: 55; xt (n) s_{tj} tj: 20; nA wab: 50; pA pr-aA (dett.): 50. N.im 2345 (...)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

The Second Intermediate Period defines a period of Egyptian history in which the country was no longer dominated by a single dynasty, but it was divided between two or more ruling families. The beginning of this period of disunity would roughly coincide with the loss of power of a weakened mid 13th dynasty and the rise of independent Canaanite rulers in the eastern fringes of the Delta. The whole period is characterized by the ever increasing presence of foreigners in the north of the country, corresponding to the 14th and 15th dynasties, and by the dichotomy Hyksos ruling the north/Egyptian ruling the south, Avaris/Itjtawy-Thebes. The end of the Second Intermediate Period coincides with a prolonged warfare period undertaken by the Theban kings of the 17th dynasty, which would result in the reunification of the country under the first king of the 18th dynasty, Ahmose.1 The identity to the 16th dynasty still remains unclear, Ryholt’s idea to convert the 16th dynasty from a series of minor foreign Delta rulers (the previous consensus) into a first Theban dynasty, preceding the 17th dynasty, is until now the most convincing.2 However, in this way the difference between the 16th and the 17th dynasties come down to a distinction between a “short” 17th dynasty and a “wide” 17th dynasty.3 Personally, I prefer to avoid the “16th dynasty” label and pinpoint the progressive rise of the Theban power as a phase of the 17th dynasty, namely the early 17th dynasty.

THROUGH CHANGE AND TRADITION: THE RISE OF THEBES DURING THE SECOND INTERMEDIATE PERIOD * Gianluca Miniaci

Abstract This article attempts a historical, archaeological and social analysis of the rule of Thebes at the end of the Second Intermediate Period, through the diachronic survey of the funerary culture. At the end of the Middle Kingdom, the northern tradition was still predominant all over Egypt, but in the period following, all strata of Egyptian society were subject to embryological changes and transformations involving mainly the middle class and the areas far from the centre of power. The apparent sudden rise of innovations, including the appearance of the rishi-coffin and new assemblages of funerary objects noticeable at the end of the Second Intermediate Period, seems to have originated from the progressive contact of the northern tradition practised by the ruling class of the late 13th dynasty with the local background culture of Thebes. .

The usual division of Egyptian history into dynasties as “power-blocks of time” inadequately expresses the historical processes and the cultural development of a period such as the Second Intermediate Period.4 Manetho’s division is in this case deceptive; one dynasty is not equivalent to a historical and cultural homogeneity.5 Is it possible that the 13th dynasty had the same cultural impact over different political areas, such as the centre/s of power or the marginal areas, during such an instable period? Does a chronological and cultural boundary really exist between the 13th and 17th dynasties? How much is the rise of the 17th dynasty, embodying the successful Theban model, independent from the northern dynasties and their traditions and material culture? The shift of power from Itjtawy to Thebes may, indeed, represent the historical key to decode the cultural movements during the Second Intermediate Period. However, the equivalence “ItjtawyThebes” is not necessarily immediate and it must be considered that territorial control could have taken ad interim by a more circuitous route, with multiple centres of rule subordinate to a sole administrative unity.6 Therefore, it remains impossible to understand the manner and the duration of this transitional phase; if there

We; the Alexandrians, the Antiocheans, the Seleucians, and the numerous rest of the Greeks of Egypt and Syria, and of Media, and Persia, and the many others. With our extensive territories, with the varied action of thoughtful adaptations. And the Common Greek Language we carried to the heart of Bactria, to the Indians. As if we were to talk of Lacedaemonians now! (In 200 BC, Costantino Kavafis)

Al professor Sergio Pernigotti che ha frugato nei secoli remoti traendone innumeri risultati

1 On the Second Intermediate Period see Beckerath 1964 and Ryholt 1997. 2 Ryholt 1997, 151-162. 3 Polz 2007, 6. 4 Quirke 2004a, 9 and Quirke 2007, 124. 5 Miniaci 2008. 6 See Quirke 2009, 114.

*

I would like to thank my professor Marilina Betrò who always provided invaluable advice and guidance every step of my way. I owe her for scholarly and emotional support. I am deeply indebted with Paul Whelan for editing my English any time I ask. I would like to thank also Paola Buzi, Daniela Picchi and Marco Zecchi who kindly invited me to contribute to this volume.

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was a real and consistent move of the palace away from the north to the south, whether it happened as a single event or several, with movements back and forth, that lasted for years or just a day, and may not have involved Thebes exclusively, but also other important southern sites like Abydos, before reaching Thebes (Fig. 1). Changes in burial customs and material culture can indeed reveal the role of the emerging Theban power centre, more than any dynastic label or political event can do, which strongly preserves the traditions of the Middle Kingdom drawn from its own historical background, but which also hide inside the seeds of localised innovations which were previously stifled by the predominant royal canons.7

written employing an incomplete hieroglyphs system, consisting in writing the hieroglyphic signs representing living creatures, mainly signs in the form of birds and snakes, deprived of a part of their body16 (Fig. 2). King Hor, following the Turin King list, can be dated to the early-mid 13th dynasty17 while Nubheteptikhered, whose burial is almost identical in style and assemblage to that of the king, would not be much later.18 Consequently, the funerary customs in use during the late Middle Kingdom, at least amongst the highest and royal class, remained roughly unchanged during the first part of the Second Intermediate Period. Nevertheless, in this first phase a scattering of minor changes in burial customs can be recognised in areas far from the power centres and in the lower, but not the lowest, level of society. That is to say, wherever the influence of centralised royal control was weakest and where there was sufficient wealth and cultural background to leave visible archaeological traces. Thebes’ culture, which was probably not completely overpowered by the influence of the northern royal-elite style, is the best witness to any modifications in the first phase of the Second Intermediate Period.

The first phase of the Second Intermediate Period groups together the co-existence of an Egyptian dynasty based at Itjtawy still ruling an extensive kingdom and the gradual appearance of a new major power centred in the Eastern Delta, with the main reference-city at Avaris/Tell elDaba.8 Far from the hypothesis of the violent arrival of newcomers,9 the presence of Syro-Palestinian occupations in the eastern fringes of the Delta, attested there since the early 12th dynasty, gradually fill a general vacuum in the north left by the 13th dynasty Egyptian kings who were steadily moving their focus of activity farther south.10 Meanwhile, Itjtawy continues to be the main political centre during the mid 13th dynasty, extending its power and influence as far as Upper Egypt, as evidenced by the autobiographical inscription on Horemkhauf’s stela found at Hierakonpolis.11 This phase can be reasonably approximated to the mid 13th dynasty and to the rise of the 14th dynasty/ies that ruled, or at least achieved some independence, in the eastern Delta.12 Leaving aside the situation of the Asiatic element, which clearly records the superimposition of a foreign culture onto a preexisting one,13 the break in the material culture is not great, while the political situation changes dramatically. Significantly, the burials of king Awibra Hor and the “king’s daughter” Nubheteptikhered, found by De Morgan at Dahshur in a chamber at the end of a shaft inside Amenemhat III’s funerary enclosure,14 continue unchanged the late Middle Kingdom funerary customs, as attested in the highest elite burials. Part of their funerary equipment, alongside the commonest items used for the burial, contain a set of royal insignia, sceptres, staves, maces, daggers, bows, arrows, and fails, for the identification of the deceased as Osiris as depicted in later sources evoking the Hour Vigil (“Stundenwache”),15 and the religious inscriptions are

The rock-cut tomb of the “accountant of the main enclosure” (sS n xnrt wr)19 Neferhotep, discovered in 1860 by Mariette along the slopes of Dra Abu el-Naga, at Thebes,20 represents a late Middle Kingdom burial of exceptional interest, as it may pinpoint the emergence of local features. Unfortunately more details about the findspot and the structure of the tomb are not provided. We might assume that the tomb was situated in the northern cemetery of Dra Abu el-Naga,21 or in the neighbourhood of the area surrounding the king Nubkheperra’s tomb,22 and that its typology belongs to the simplest form, such as a shaft with a single chamber,23 since there was no evidence of multiple depositions and the funerary equipment was sufficient for a single interment.24 The dating of the tomb can be defined more precisely, since the vizier Ankhu25 occurs on the two papyrus documents found amongst the grave goods. The vizier Ankhu is dated to the reign of Khendjer or immediately before by two stelae, Louvre C 11 and C 12, which belonged to the offering-chapel of Amenyseneb.26 The presence of two 16

Lacau 1913, 1-49; Miniaci 2010a, 113-134. Ryholt 1997, 218 and Beckerath 1964, 44-45. 18 Grajetzki 2007a, 48-50. 19 For this title see Quirke 1988, 83-105. 20 Mariette 1872, 6-7; Miniaci, Quirke 2008, 7-11. 21 For the topography of Dra Abu el-Naga and the history of the archaeological explorations carried out there, see G. Miniaci in Betrò, Del Vesco, Miniaci 2009, 14-33. 22 Winlock 1924, 233. 23 Miniaci, Quirke 2009, 362-367. 24 Miniaci, Quirke 2008, 18. 25 Franke 1984, 173 (d); Grajetzki 2000, 24-26. 26 Following the Turin King list, the position of Khendjer in the 13th dynasty is early, around the first half of the 13th dynasty, see Ryholt 1997, 73, see Catalogue of Attestations File 13/22. Photographs of the two stelae are published in Simpson 1974, pl. 80, and the inscriptions 17

7

See Bourriau 1991. Bietak 1984, 59-75; Bietak 1997, 100-110. 9 Bourriau 2003, 174-182. 10 Quirke 2007, 137. 11 Hayes 1947, 3-11. 12 O’Connor 1997, 48-56. 13 See Booth 2005. 14 De Morgan 1895, 91-102, 107-117, pl. 36. 15 Williams 1975/76, 41-59; Grajetzki 2004, 23-28. 8

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partly broken cartouches with the names of a king named Sobekhotep in the largest manuscript confirm a general dating of the papyri to the mid-13th dynasty.27 The burial of Neferhotep attests one of the first uses of the rishi coffin, a typology featured by an anthropoid shape and a feathered design, consisting of a huge pair of wings which cover the lid from the shoulder to the feet.28 Nevertheless, the rishi coffin of Neferhotep is only known from the brief mention in the publication of Mariette and it is absent from the Journal d’Entrée and the early museum guides of the Cairo Museum, presumably because it was too fragile to be moved out of the burial chamber.29 Moreover, alongside the presence of a rishi coffin, itself extraordinary at such an early period, other finds included the already quoted accountancy document written on two papyrus roll fragments – more commonly known as papyri Boulaq 18 – a wooden walking stick, a wooden headrest decorated with figures belonging to the iconographic repertoire found on the planed sections of hippopotamus tusks, a faïence hippopotamus, a gaming holder in the shape of a turtle with ivory hounds and jackal pieces, a wooden mace with piriform head, two writing implements, a hardwood tray with recesses cut for a mirror-handle, two calcite cosmetic vessels, a figured hippopotamus tusk, commonly known as a “magic wand”,30 and a rare double scarab31 (Fig. 3).

reflect the persistence of a southern tradition in positioning the body on its side as was the practice in older rectangular coffins; simultaneously, the headrest became the surface for the migration of birth imagery,34 in an unparalleled practice never attested in northern late Middle Kingdom burials, but which developed in the south and was introduced as a new regular feature in the later burials of the 18th dynasty at Thebes.35 The deposit of the mace still belongs to the northern rite of Osirification,36 while the writing equipment, papyri, as well as the gaming-set, which are consistent of the daily life elites’ equipment for a short journey from one part of their estate to the next, stress a different, through not incompatible, conception of the tomb, presumably rooted in the southern tradition, as the resting-place on a boat for the cyclical eternal solar journey.37 The second historical phase of the Second Intermediate Period groups the co-existence of a powerbase centred now in the south, with another in the north of the country in the hands of a powerful kingdom based in Avaris/Tell el-Daba.38 This phase corresponds to the obscure period when the late 13th dynasty is transforming into an early 17th dynasty (or 16th dynasty), absorbing the local southern traditions and developing their own cultural background but far from the northern Residence. The change of identity in the course of time would be unavoidable. The focus of this phase is Thebes; while in the north the late 14th/15th dynasty is reigning without any power rival in the Memphis-Fayyum area.

The combination of mixed elements from several different late Middle Kingdom burials in the grave goods of Neferhotep might reveal both the growing northern presence in the south and the emergence of a local tradition, which up to then had been much less visible, overshadowed perhaps by the predominant royal canons. The embalming practice developed during the late Middle Kingdom in the northern Residence area whereby the body of the deceased was laid on its back32 was now adopted at Thebes, but there it was combined with a new southern coffin type decorated with a feathered pattern. Moreover, Neferhotep burial testified the resumption of placing a headrest in an anthropoid coffin, while in general northern “court type burials” rejected their use as they were meaningless in such a coffin type.33 This may

At a certain point during the Second Intermediate Period, the proportion of burials recorded at Thebes increased notably, including high as well as middle-class officials: the “overseer of the marshland dwellers” Senebni and the “king’s ornament”, perhaps his wife, Khonsw,39 the “high steward” Khonswmes,40 the “overseer of the field” Ibia,41 the “general of the ruler’s crew” Hemenhetep,42 the 34 The iconographic transfer from one object category to another echoes the contemporary use of tusk imagery on scarabs and feeding-cups, see Keel 1991, 282-286 for single motifs on scarabs; a faïence feeding-cup from Lisht, New York MMA 44.4.4, has a series of figures as on the tusks, see Allen 2005, 30-31, n. 23. 35 Cf. the headrest inscribed for “doorkeeper and child of the Inner Palace”, Yuyu, reign of Hatshepsut, see James 1974, 90, n. 207, pls. IX, LII and Roehrig, Dreyfus, Keller 2006, 256-257, n. 190; headrest with figures of Bes and Taweret from Asasif tomb n. 37, dated by Hatshepsut scarab on a finger of the left hand of the mummified body in the same coffin, see Carnarvon, Carter 1912, 73, pl. 68 (37/21). 36 Willems 1997. 37 Miniaci, Quirke 2009. 38 Bietak 1996. 39 Coffins T10C (Senebni) and T6C (Khensw), following the attribution list in Willems 1988, 19-40, now in Cairo Museum, CG 28029 and CG 28028; see Berlev 1974, 106-113, pl. 26-28 (coffins + canopic chests). 40 Canopic chest in Cairo Museum, CG 4732, see Reisner 1967, 364365; Lüscher 1990, 57, 103. The Theban provenance remains uncertain, although highly likely, see Miniaci 2010d. 41 PM I2, 2, 654; Grajetzki 2000, 136, V.18. The incomplete hieroglyphs are still visible in the MMA photo archive. 42 Coffin T13C (case) in Chicago Nat. Hist. Museum A.105215, unpublished + the lid in Cairo Museum CG 28126, see PM I2, 2, 657 and Lacau 1903, II, 144-145, I, 79-80, pl. XVI. Also belonging to the

were discussed in Beckerath 1964, 47-49; Kitchen 1962, 159-160 and Bourriau 1988, 60-63. 27 For discussions see Scharff 1922, Beckerath 1959, 81-85, and Berlev 1962, 50-62. A summary is in Quirke 1990, 12-13. 28 See Miniaci 2010b; for single studies see Miniaci 2007a and 2007b, Betrò, Miniaci 2009. 29 Discrepancies between the 1872 description and the museum’s registers raise the possibility that Mariette misidentified the coffin type. However, Mariette insists on the presence of a rishi coffin in his general observations on the difficulty of distinguishing the date of Dra Abu alNaga burials, “le cercueil richi de la tombe de Nefer-hotep”, Mariette 1872, 7. 30 See Altenmüller 1965 and 1986. 31 The whole group, with the exclusion of the papyri fragments, has been recently published in Miniaci, Quirke 2009, 339-383. See also, Lilyquist 1979, 42. 32 See Bourriau 2001. 33 Summary in Williams 1975/76, 45.

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“king’s ornaments” Nubherredi43 and Nefnefert,44 the “wab-priests” Nemtyemsaf and Ikhet.45 In fact, it is impossible to supply any precise date for them, all ‘float’ somewhere within the late 13th or the early 17th dynasty. Nevertheless, they all represent the defined identity of a unitary and consistent material culture. Their coffins are similar to the style labelled by Willems as “deviant”, sharing a black background pattern, an arched lid with rectangular raised end-pieces, with representations of Isis and Nephthys on the short ends, a high number of text columns on the long sides, and dark green hieroglyphs painted on a light background (or yellow hieroglyphs on a dark background) using an incomplete system for representing the snake and bird signs (Fig. 4). The canopic boxes, whenever attested, match the coffins in style and colour scheme, and feature the same black background and recurrent incompleteness of the hieroglyphic signs; only the decorative theme changes slightly with the representation, not as rule, in the middle of each side of a recumbent jackal beneath stylised representations of plants and cloth46 This typology of coffins and chests did not last into the late 17th dynasty, since they are never attested at such a late period. Surprisingly, the incomplete hieroglyphs system, which developed in the north during the late 12th dynasty, is now widely attested at Thebes just with the appearance of this kind of black rectangular coffin.47 Probably, the presence of high official burials in the Theban necropolis represents the precise moment in which the royal court moved from the north to the south and became definitively established at Thebes.

staff inscribed with the name of king Sewahenra,48 the presence of which could provide a more precise dating for the entire group. Unfortunately, king Sewahenra is undated, although he is not included among the Turin Canon kings before Wahibra Ibia, and is not among the presumed continuous list of kings after Seqenenra Djehuty-aa. Moreover, all the attestations for this king are restricted to the Theban nome (Karnak, Deir el-Bahri, Gurna, Gebelein).49 Their limited geographical spread supports the view of a much contracted kingdom during the reign of Sewahenra, possibly when the royal court no longer controlled the north of the country and had moved to the south of Egypt. Moreover, the exterior inscriptions on Senebni’s coffin contain the Coffin Text spells 777785, which are previously unknown formulae attested exclusively on coffins from Upper Egyptian burials.50 As these spells have not been found farther north than Abydos and Thebes, they can reasonably pinpoint an advanced phase during the Second Intermediate Period when the Egyptian kingdom had contracted to just Upper Egypt. Contrary to this picture, the title borne by Senebni, “overseer of the marshland dwellers”,51 as suggested by Quirke, links his official activities directly with land east into the Delta, evoking “a shift in administrative and political focus from the Memphis-Fayyum region to the eastern Delta periphery” due to the unstable Second Intermediate Period situation along Egypt eastern borders.52 Furthermore, the coffin of Senebni is painted at the bottom with a palace façade pattern copying, on a more modest material, the decoration of the late Middle Kingdom hard stone sarcophagi found in elite burials in the northern cemeteries53 (Fig. 5). Thus, a limited Upper Egyptian kingdom and the title borne by an official who, according to his title,54 would have acted mainly in the north of the country, with a southern black and lid-arched

One of the key burials for this phase belongs to the “royal sealer” (xtmty bity), “king’s acquaintance” (rx nswt), “overseer of the marshland dwellers” (imy-r sxtjw) Senebni, which was found, in all probability still intact, in the Theban necropolis. Among his grave goods was a

48

Berlev 1974, 111, pl. 28. Ryholt 1997, 70-72, 359. 50 Grajetzki 1998, 29-38 and Grajetzki 2007a, 46. See discussion in Quirke 2005, 230-231. 51 For this title see Quirke 2004c, 70-71. See also Grajetzki 2009, 82-83. 52 Quirke 2004b, 184. 53 See Farag, Iskander 1971, 18-19, figg. 13-14, or Arnold 2002, pl. 19, 28, 65, 104-105, 111-3. According to Dieter Arnold the panelled sarcophagi pattern is not connected with the rank of its owner, but rather with a local tradition, deriving from the architecture of Djoser’s complex at Saqqara, Arnold 2002, 36. Dieter Arnold bases his thesis mainly on the plain style of Senusret sarcophagus found at Abydos; nevertheless, compare the recently found group of miniature royal sarcophagi of the University of Pennsylvania from South Abydos, whose panel pattern seems to derive from the Early Dynastic palacefaçade architecture, as inspired by the royal enclosure still standing at Abydos, Wegner 2010, 767-793. 54 Actually, there is another “overseer of the marshland dwellers” belonging to a late phase of the Second Intermediate Period, Qemau, known from an inscription curved in the rock during an expedition to the wadi Hammamat under the king Sobekemsaf Sekhemra Wadjkhaw, see Gasse 1987, 206-218. However, the position of Sobekemsaf Wadjkhaw in the Second Intermediate Period is still disputed and cannot be dated if not in a broad period from the late 13th to the 17th dynasty, see Vandersleyen 1993, 189-191 or Vandersleyen 1992, I, 631632. In conclusion, we do not have any sticking information that Qemau did belong to such a late phase that the Egyptian kings could not have the control of the eastern Delta. 49

“general of the ruler’s crew” Hemenhetep is a canopic box of the black typology inscribed for a man with the same name and title, see Lüscher 1990, 57-58, 101 (35), now in Cairo Museum CG 4731, Reisner 1967, 362-364. 43 Coffin T7C, now in Cairo Museum, CG 28030, see PM I2, 2, 657 and Lacau 1903, I, 79-81, pl. XVI (coffin), XXIII (mask), II, 87-88. The lid is in Chicago Nat. Hist. Museum recorded under the inventory number of Hemenhetep’s coffin A.105215, unpublished, and mistakenly recorded as part of the coffin of Hemenhetep. 44 Coffin T9NY, unpublished, see MMA 32.3.429. 45 The coffin of Nemtymsaf, T8NY, is unpublished, see MMA 32.3.428. The coffin of Ikhet, T6NY, is also unpublished, see MMA 32.3.430, but known from a photographic picture in Hayes 1959, I, 347-348, fig. 228. 46 Compare the pattern of vegetation in the box of Sesenebnef, Gautier, Jéquier 1902, 76-77, fig. 95-96, pl. xvi-xxv, probably the prototype of such decoration, see Lüscher 1990, 28-29, n. 69, pl. 6. 47 Note that the coffin of Renseneb, found by Carter and Carnarvon at Asasif, seems to belong to the black typology, see Carnarvon, Carter 1912, 51-88 and Miniaci 2009, 50-53; for further archaeological information from Griffith archives, see Miniaci 2010b. However, the equipment of Renseneb appears to have been acquired over a significant period of time, since the toilet box was made for a different person, while the mirror was produced explicitly for Renseneb, bearing on the handle his name and title, and lastly the coffin, inscribed with incomplete hieroglyphs, was probably produced only on his death, see Miniaci 2010a.

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coffin typology, but inspired by northern models, whilst being buried at Thebes, together create a considerable contradiction. This contradiction can be overcome if one accepts the intriguing hypothesis that Senebni could straddle exactly the transitional period when the royal residence moved from Itjtawy to Upper Egypt. In fact, although the inscribed formulae CT 777-785 reveal a new corpus that may indicate a southern ritual or tradition, they were drawn from elements of rites composed long before their appearance on these coffins.55 Moreover, the typology of the coffin, black with raised ends and vaulted lids, is not peculiar only to Thebes, as it seems, since at least one example is securely attested in the north of the country, at Saqqara, and probably dates, judging by the burial equipment, earlier than the Theban coffins.56

traditions is direct and without interruption, as the last coffin before Mentuhotep to have employed Coffin Texts on its insides belongs to the “chief lector” Sesenebnef, found at Lisht.62 The coffin of Mentuhotep still belongs to the Middle Kingdom tradition of the CT world, as its interior walls are the surfaces for the religious compositions deployed to regenerate the deceased, even if it uses new ritual words, since it includes the earliest copies of the chapters which will later merge into the Book of the Dead corpus.63 Also the ornamental hieroglyphic texts on Mentuhotep’s coffin shows how the change, generated from the pass of time and the geographical distance/new environment, begins to overlap the previous traditions. The external formulae written adopting the incomplete hieroglyphs system in an on-going northern tradition, employ an inconsistent method, representing complete some of the signs subjected, indeed, to the mutilation.64

The burial of queen Mentuhotep, although recorded only partially, may represent a slightly later stage in the attempt to reshape this second phase. The queen’s coffin was found at Thebes during the 19th century, but has since been lost. Fortunately, in 1832 John Gardner Wilkinson made a careful copy of the outside layout and the inner inscriptions.57 Judging by its main features, the coffin typology is that well attested at Thebes in concomitance with the appearance of the black58 rectangular typology, with arched lid, employing incomplete hieroglyphs for the external texts, and decorated with up to nine columns of hieroglyphs on the long and short sides, giving CT 777-784 formulas. Different from most coffins, the lid was shaped as a prwr shrine59 and the inner walls contained blocks of text spaced around the body, bearing three spells from the Coffin Text corpus, and the others being early versions of the Book of the Dead60 (Fig. 6). Thus, the tradition of inscribing religious formulae on the inner sides of rectangular coffins (re?)-appears again in southern Egypt after a period in which they were temporarily absent in the surviving sources.61 In this case the line of development which combines the northern (late Middle Kingdom) and southern (late 13th/early 17th dynasty)

The queen’s coffin is once again undated, but a canopic chest presented by the king Djehuty to a queen named Mentuhotep, was brought to light in the Theban necropolis.65 The queens referred to on the rectangular coffin and the canopic box seem to be the same person. Once again, king Djehuty’s position floats unanchored within the late 13th and early 17th dynasty.66 However, the shape of the canopic box, with an arched lid, raised endpieces, and the presence of incomplete hieroglyphs, places this object within the same material phase to which Senebni belongs. During the second phase, the northern tradition seems to have reached Thebes, together with its ruling class, now firmly established here, and begins to change in contact with an inevitably different background and culture. Unfortunately for this second phase no intact group has been preserved to understand better the real sequence in the development of the material culture and ritual practices. The third historical phase corresponds to a period of regeneration of Theban power when the city becomes the capital of a southern kingdom, opposite to the existing powerbase in the north of the country held by the Hyksos rulers. The end of this period is dominated by warfare between the late 17th dynasty kings (Seqenenra Djehutyaa,67 Kamose, and part of Ahmose’s reign68) and the

55

See Allen 1974, 186; discussion in Quirke 2005, 231. The coffin belonging to Hetepti was found undisturbed in a chamber off shaft (burial n. 41 in the Teti cemeteries at Saqqara), see Firth, Gunn 1926, 59, figg. 64-65, pl. 37. I am indebted to Wolfram Grajetzki who drew my attention to this burial. Perhaps also the coffin of the “royal sealer” and “treasurer” Amenhotep could have belonged to this black typology, in fact De Morgan records a “couleur sombre” for a piece of the lid, see De Morgan 1903, 70. 57 “A wooden sarcophagus of a queen in which are 10 hieratic tabletsGoorna, Thebes”, MS. Wilkinson dep. a. 17 Fol. 21v, Bodleian Library, University of Oxford, UK. 58 The background colour of Mentuhotep coffin is not recorded by Wilkinson. The color of the canopic box of king Djehuty is whitish, see Dodson 1994, 38-39, 148, pl. XI (cat. 24), and infra nota. 65. 59 Budge 1910, pl. 48. The lid appears also on the outer coffin of the steward Mentuhotep, see T1Be, in Steindorff 1896, 3-4. 60 Geisen 2004. 61 However, the lack of sources can be due to the chance survival of archaeological remains, having the Egyptians entrusted their religious texts to a highly vulnerable source category, such as linen shroud for example, but it can also reflect the scant frequency they appear in this period. 56

62

Gautier, Jéquier 1902, 76-77, figg. 95-96, pl. xvi-xxv. Quirke 2005, 223-224. 64 Miniaci 2010a, 126-127. 65 The canopic box of king Djehuty is currently in the Egyptian Museum Berlin, inv. no. ABM 1175, see Winlock 1924, 269-272, pl. 15. The description of the discovery, in 1822 along the Dra Abu el-Naga southern slopes, was given in Passalacqua 1826, 25, 154. However, the canopic box seems to have been reused as a toilet box at a later time because Passalacqua had found it with some Third Intermediate Period coffins, see discussion in Dodson 1994, 38-39 (cat. 24). 66 See for the attestations of this king Ryholt 1997, 259-260. 67 I prefer the reading of the Seqenenra Tao’s name as Seqenenra Djehuty-aa, which Parlebas convincingly demonstrates Djehuty-aa as plausible and meaningful in contrast to the meaningless Tao, see Parlebas 1975, 39-43. 63

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sovereigns of the 15th dynasty defending Avaris, perhaps involving only kings Apepi and Khamudi.69 Unfortunately, the royal sequence and the historical reconstruction of the 17th dynasty is certain only for the last two kings of the 17th dynasty, Seqenenra Djehuty-aa and Kamose, while the other preceding sovereigns float in an unanchored and forgotten time span within the late 13th-17th dynasties. Due to the results of 19th century digs, a consistent group of kings can be identified and clustered together sharing a common place of discovery (i.e. Dra Abu el-Naga, western Thebes) and an uniform material culture, Nubkheperra Intef, Sekhemra Wepmaat Intef, Sekhemra Heruhirmaat Intef, one of the king called Sobekemsaf,70 all of them perhaps belonging to timeline slightly preceding the end of the dynasty.71 Other kings remain not precisely identified or scattered through the dynasty. Only with this phase, the burial customs seem to change radically, as attested by the sudden spread, more than appearance, of a new kind of anthropoid coffin, commonly known in egyptological literature as rishi, and by the complete disappearance of elements typical of late Middle Kingdom funerary deposits, including Osirification regalia and items related to birthprotection.72 The break is more remarkable because, even if the anthropoid shape was already in use for coffins during the last part of the 12th dynasty, the rishi type stresses a completely different concept, being adopted for the first time without the common rectangular outer coffin and associated with an assemblage of funerary items considerably different from those of the previous tradition, including furniture, baskets and boxes, and an assortment of personal effects73 (Fig. 7). Nevertheless, the appearance of the rishi coffin model is not connected to the rise of the 17th dynasty,74 and it is not the mirror of the change in the funerary equipment. In fact, the burial customs reveal again the coexistence of innovation and tradition, and what seems at first sight a break in the material culture is indeed the logical consequence of a gradual process of transformation.75 However, it must be

taken into account that the depositions during the late Second Intermediate Period usually include a higher number of burials, often distributed diachronically over a time span of about one hundred years, from the late 17th dynasty to the mid 18th dynasty (reigns of HatshepsutTuthmosis III), which complicates a synchronic assessment and the separation of single deposits. At least three Theban private rishi coffins from the middle range of wealthier burials, relating to the mid to high, but not highest, officialdom, are earlier in date than any of the royal examples, and can be dated when Thebes was far from the power center (13th dynasty). The burial of the sS n xnrt wr “accountant of the Main Enclosure” Neferhotep, as already seen, attests a rishi coffin predating the first use of this kind of coffin back to the early-mid 13th dynasty, in an area far from the royal network of that time.76 The title borne by Neferhotep, “accountant of the Main Enclosure”, which is not attested before the reign of Senusret III and disappears at the same time as the reorganisation of state under Seqenenra,77 the presence in the accountancy papyri found in his tomb of two partly broken cartouches of a king named Sobekhotep and the name of the vizier Ankhu,78 and the recent reassessment of the whole burial assemblage,79 indicates a definitive late Middle Kingdom date. Unfortunately, as already stated, the coffin of Neferhotep was not recovered by Mariette and it is not possible to obtain any further information about his typology. An anonymous rishi coffin coming from Vassalli’s excavations at Dra Abu el-Naga north was associated with a scarab bearing a group of signs reading s-anx-kAra.80 The coffin does not seem to belong to a multiple burial since only three scarabs were associated to this burial. Following the datable categories of hieroglyph inscribed scarabs proposed by Quirke, phrase scarabs would be absent from the late Middle Kingdom scarab corpus, being typical of a later phase, beginning with the reigns of Hatshepsut-Tuthmosis III,81 when rishi coffins are sporadically if never attested. A plausible explanation would be to render the signs as the throne-name of an early-mid (?) 13th dynasty king.82 If so, it attests another Theban rishi coffin belonging to an early stage of the 13th dynasty.

68

The early 18th dynasty is really nothing more than a simple extension of late 17th dynasty culture. The following historical step in the material tradition would begin around the reigns of Hatshepsut and Tuthmosis III, Parkinson, Quirke 1992, 47-48, but also Polz 2007, 309-311. However, probably the rise of the 18th dynasty marks simply a deep removal of the royal family from the private tradition, while the kings customized one their own tradition, the privates and the other elite continue consistently the material development already begun in the last part of the 17th dynasty. 69 Vandersleyen 1971. 70 See Miniaci 2006. 71 See Winlock 1924, and now Miniaci 2010b. 72 See Miniaci, Quirke 2009 and Bourriau 1991. The set of objects relating to the Osirification would be partially re-included in some burials of the 26th dynasty, as noted in Grajetzki 2003, 115-116. See for instance, the burial of Tjanehebu fully published in Bresciani, Pernigotti, Giangeri Silvis 1977. 73 Smith 1992, 193-231. For the pottery see Seiler 2005. 74 See also historical perspectives in Miniaci 2010c. 75 See Miniaci 2010b. However, it must be taken also into account that the depositions during the late Second Intermediate Period usually include a higher number of burials, often distributed diachronically over a time span of about one hundred years, from the late 17th dynasty to the

mid 18th dynasty (reigns of Hatshepsut-Tuthmosis III), which complicates a synchronic assessment and the separation of single deposits, see Polz 2007, 237-239, 309-310. Grajetzki 2007b. 76 Miniaci, Quirke 2008. 77 Quirke 1988, 102. 78 Quirke 1990, 10-13. 79 Miniaci, Quirke 2009, 339-383. 80 Cairo Museum, JE 21385. On Vassalli excavations on behalf of Auguste Mariette, see Tiradritti 1994 and 2010. 81 Quirke 2004b, 174. 82 von Pilgrim 1996, 242, fig. 98, no. 82, 267, fig. 117. About the possibility for a Sekhemkara reading of the group, see discussion in Quirke 2004b, 175-176.

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Bibliography

The rishi coffin of the “overseer of the city” (imy-r niwt) Iuy found by Winlock during his excavations in the Asasif might be the third example of an earlier rishi coffin, preceding the Intef group. The wooden statue83 found with the coffin closely resembles in style and design another belonging to the “reporter in Thebes” (wHmw m WAst) Sobekemsaf,84 which is datable under Sobekhotep IV or shortly after.85 Moreover, a duck vase found amongst the grave goods of Iuy can be paralleled with a similar vase fragment coming from shaft tomb no. 907 at Lisht.86 This tomb, interested by at least two phases of occupation, one during the late 12th dynasty and another during the 13th dynasty, preserved typical late Middle Kingdom objects, such as ivory wands, a fertility figurine, and faïence statuettes of animals and a dwarf.87 Moreover, among the finds was a scarab of Merneferre Ay, one of the last kings of the 13th dynasty reigning all over the Egypt.88 According to Bourriau, vessels from shaft tomb 907 provide a tight synchronism with the pottery recorded at Tell el-Daba from strata E/3 to E/1, which dates to the late 13th dynasty. The Lisht group can provide a closer date parallel for the burial of Iuy and move its dating towards the mid 13th dynasty. The title bore by Iuy, “overseer of the city”, was usually combined with the regular title of “vizier” (TAty),89 but in this context it is not coupled with this title. This could indicate that the title of “overseer of the city” underwent a reclassification from how it was used in late Middle Kingdom and now no longer functioned on a national level, but reflected a position of localised authority restricted to within a province.90 Again, one of the earliest documented rishi coffins belonged to the local middle class far from the power centre. Unfortunately, this coffin was again found in fragments and was not recorded by the excavators. Concluding, what features the funerary culture of the last part of the Second Intermediate Period is not a sudden change, mirroring a new political class, but it is simply the result of a long embryological period of transformation and innovation, begun during the late Middle Kingdom in the Theban environment, despite for a long time being deeply influenced by the previous northern tradition practised by the ruling class of the late 13th dynasty. The change becomes more visible and widespread only when adopted by certain groups or individuals, e.g. the kings (late 17th dynasty), who have specific roles within the diffusion and standardisation of the innovation.

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Aegyptiaca et Coptica. Miscellanea in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: Dates, dynasties, and phases of the late Middle Kingdom - Second Intermediate Period arranged in a spatial/chronological layout

Fig. 2: On the left, a set of royal insignia found in the tomb of Sesenebnef at Lisht, from J.-E. Gautier, G. Jéquier, Mémoire sur les fouilles de Licht (1902), 78, fig. 97. On the right, inscribed columns and bands from the coffin of the king Awibra Hor found at Dahshur, from J. de Morgan, Fouilles à Dahchour (1895), 101, fig. 241

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Fig. 3: The funerary equipment of the “accountant of the main enclosure” Neferhotep - a) walking stick, JE 6157; b) mirror tray, JE 6142/CG 44102; c) headrest, JE 6143; d) holder in the form of a turtle with wooden hound and jackal gaming-pieces, JE 6146-6152/CG 44414; e) double scarab, JE 6153; f) mace with piriform head, JE 6154; g) hippopotamus birth tusk, JE 6155/CG 9437; h) shoulder jar, JE 6145/CG 18154; i) cylinder jar, JE 6144/CG 18079; j) writing implements, JE 6140-6141; k) faïence hippopotamus, JE 6156. © Egyptian Museum - Cairo. Photos by G. Miniaci/S. Quirke, drawings by P. Whelan

Fig. 4: Coffin of the “wab-priest” Ikhet, from W.C. Hayes, The Scepter of Egypt (1959), vol. I, fig. 228. Drawing by P. Whelan

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Aegyptiaca et Coptica. Miscellanea in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 5: Rectangular coffin of Senebni, CG 28029 © Egyptian Museum - Cairo. Photo by G. Miniaci

Fig. 6: Coffin of queen Mentuhotep, Ms. Wilkinson dep. a. 17, Fol.21v, Bodleian Library, University of Oxford, UK, from C. Geisen, Die Totentexte des verschollenen Sarges der Königin Mentuhotep (2004), pls. 1-4

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Fig. 7: From the left to the right, the rishi coffin of the “accountant of the treasurer” Amenhotep, TR 5.12.25.2 © Egyptian Museum, Cairo, photo by G. Miniaci; the anonymous rishi coffin, TR 22.11.16.1 © Egyptian Museum, Cairo, photo by G. Miniaci; the rishi coffin of the king Sekhemre Heruhirmaat Intef, E. 3020 © Museé du Louvre, Paris, drawing by G. Miniaci

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TRADIZIONI COPTE SUI TRE GIOVANI DI BABILONIA

Giovani di Babilonia, la cui storia si incontra nella prima parte (capitoli 1-4) del libro biblico intitolato a Daniele.3

Tito Orlandi

La prima opera (cc0392 e cc0928)4 è attribuita nei manoscritti oggi disponibili a Teofilo di Alessandria; la seconda (cc0110) è attribuita a Cirillo di Alessandria; la terza (cc0068) è attribuita alla fantomatica figura di Bacheo monaco e vescovo di Maiuma; una quarta opera (cc0902) è acefala e rientra solo lateralmente nell’indagine.

Abstract The biblical story of the Three Children from Babylon is treated in Coptic in a number of works, all of them pseudepigraph. This study aims at showing that it is only through a careful historical and textual analysis of every single work that transmits the story that it is possible to clearly understand the complex literary tradition leading to the production of the texts.

Queste opere hanno, per quanto ci riguarda, due caratteristiche in comune: (1) esse presuppongono delle saghe (testimoniate da quelli che chiamiamo cicli letterari);5 (2) esse rimandano a personaggi ed avvenimenti che a loro volta sono protagonisti di cicli letterari, formando un viluppo di testi che occorre districare e chiarire per ottenere una visione corretta di questa parte della letteratura copta. Il testo attribuito a Cirillo è il meno problematico, ma si richiama al ciclo teofiliano della costruzione di santuari. Quello attribuito a Teofilo mette in primo piano la figura di un archimandrita di nome Giovanni incaricato da Teofilo di recarsi a Babilonia; per essa entrano in gioco due diverse personalità, quella di Giovanni di Licopoli e quella di Giovanni il Nano (Kolobos). Quello attribuito a Bacheo rende per ciò stesso necessario approfondire la figura di questo monaco-vescovo, storicamente (crediamo) inesistente, comunque non altrimenti documentata, creata probabilmente intorno al VII secolo per motivi e su basi soltanto ipotizzabili. In esso è menzionata la figura del martire Giacomo Persiano (l’Interciso, o fatto a pezzi) la cui relazione con l’argomento principale è altrettanto poco comprensibile.

1. Una complicata questione letteraria Dovrebbe essere ormai noto a tutti coloro che frequentano i testi della letteratura in lingua copta, che la loro collocazione storica non può essere desunta dalle indicazioni fornite dai titoli che si trovano nei relativi manoscritti: essi per lo più riflettono quanto si voleva far sapere circa quei testi intorno al IX secolo;1 e nemmeno dalle dichiarazioni contenute al loro interno, prese alla lettera: esse sono spesso opera di redattori tardi. Occorre invece una paziente analisi storico-letteraria del contenuto delle singole unità testuali;2 dei rapporti reciproci fra le unità, che spesso in vari modi si rimandano dall’una all’altra; e della possibile collocazione cronologica del contenuto, tenendo conto di quanto conosciamo della storia della Chiesa copta, e conseguentemente dello sviluppo del suo pensiero teologico, spirituale, apologetico, agiografico; e sfruttando tutto ciò formulare un giudizio sull’espressione letteraria che tale sviluppo ha potuto determinare. Da questo giudizio potrà poi venire un’attribuzione d’autore, eventualmente coincidente con quella dei titoli, e una collocazione del testo in ambito cronologico.

Alle opere di cui abbiamo parlato finora ne vanno accostate altre, che in vari modi ad esse si riallacciano, e sono utili a districare l’ingarbugliata matassa. Procedendo in modo sistematico occorre prima di tutto esporre analiticamente la documentazione manoscritta, talora in condizioni oggi frammentarie.

Era opportuno fare questa premessa per introdurre il presente studio, che potrebbe apparire estemporaneo e di conseguenza privo di interesse per un’indagine seria. Contiamo di mostrare che non è così, ma che andando oltre certe apparenze di ambito limitato si possono riconoscere nei documenti aspetti capaci di illuminare lo sviluppo di un settore della cultura copta. La nostra indagine parte da un gruppo di opere che hanno come tema principale la commemorazione dei famosi Tre

1 2

3 Sulla tradizione liturgica (che qui non interessa direttamente) cfr. Muyser 1954, 1-15; van Esbroeck 1991, 2257-2259, riassume la situazione letteraria su basi erronee, cfr. infra. Per l’aspetto iconografico: Rassart-Debergh 1978, 430-455, e Rassart-Debergh 1991, 388-390. 4 Per i numeri della Clavis Coptica (cc...) e per la segnatura dei manoscritti cfr. la banca dati in linea del Corpus dei Manoscritti Copti Letterari = CMCL [http://cmcl.let.uniroma1.it]. 5 Cfr. Orlandi 1991, 666-668.

Cfr. Buzi 2005. Per la terminologia cfr. Orlandi 2008, 7-11.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

2. Rassegna delle unità codicologiche6

(b) in lingua copto-saidica

(a) in lingua copto-boairica7

MONB.NX (= CP.B64.1-6 (pagine 107-118); WK.09064-09065 [numerazione in lacuna]; IB.08.36-37 + IB.17.18 [numerazione in lacuna]). Gruppo di frammenti da una stessa unità codicologica, contenente cc0928: Teofilo di Alessandria, In tres pueros, versione differente da cc0392 (cfr. MACA.BT). Edito parzialmente da Amélineau 1894, (cfr. MACA.EH, 414425), e da Till 1938 (cfr. infra “Gli studi precedenti”).

MACA.BT (= Roma Vaticana, C62 ff. 143-165). Catalogo Hebbelynck, van Lantschoot 1937, 439-441.8 Contiene cc0392 = Teofilo di Alessandria, De consacratione ecclesiae trium puerorum, ed è pubblicato da de Vis 1922-1929, II, 121-157. Da notare che i ff. 156158 (MACA.BU) sono stati inseriti erroneamente, probabilmente da un rilegatore, antico o moderno, e contengono frammenti di cc0015 (Alessandro di Alessandria, In Petrum ep. Alexandriae) e di cc0527 (Passio Petri alexandrini).

MONB.OB (= IB.13.24-30 [pagine 5-6; 11-12; 33-34; 37-44]; CC.9233 [paginazione in lacuna]). Gruppo di frammenti da una stessa unità codicologica, contenente cc0068: Bacheo di Maiuma, In Tres Pueros Babyloniae. Edito da Zanetti 2004, 713-747 e da Munier 1916, n. 9233.

MACA.BV (= Roma Vaticana, C62 ff. 166-188). Catalogo Hebbelynck, van Lantschoot 1937, 441-442. Contiene cc0110 = Cirillo di Alessandria, Miracula trium puerorum, ed è pubblicato da de Vis 1922-1929, II, 158202.

DC.MS820D.1-10. Gruppo di fogli contigui, contenente il titolo e la parte iniziale di cc0928. Inedito. Il titolo è uguale a quello di cc0392 (cfr. MACA.BT); ma la versione del testo è così differente da giustificare l’identificazione di due unità testuali indipendenti.

MACA.ED (= RV C69 ff. 85-102). Catalogo Hebbelynck, van Lantschoot 1937, 520-522. Contiene cc0110 = Cirillo di Alessandria, Miracula trium puerorum; le sue varianti sono riportate in apparato da de Vis 1922-1929, II, 160-202.

3. Rassegna delle unità testuali9 Cc0068. Tràdito nell’unità codicologica MONB.OB,10 nella quale il titolo è in lacuna. L’attribuzione d’autore, Bacheo, si ricava dal contesto, ed il contenuto può essere definito un encomio dei Tre Giovani. I frammenti ci tramandano: (1) parte del prologo, con le lodi dei Tre Giovani, ed il riferimento ad essi di vari passi biblici. L’intenzione di Bacheo di visitare l’Egitto per recarsi al santuario di Giacomo Persiano e anche a quello dei Tre Giovani. Si parla poi dei viaggiatori persiani, da Symphora, che avevano chiesto all’autore di parlare dei Tre Giovani, dei quali avevano avuto una visione. (2) Parte di una unità narrativa sulle vicende dei Tre Giovani, che introduce le figure anomale del sacerdote Amisaros e della moglie di Nabucodonosor, Chalchione. (3) Parte di una unità narrativa col racconto di Iochonias sulla morte e sepoltura dei Tre Giovani e di Nabucodonosor. La lingua del testo sembra denotare un’epoca assai tarda per la sua composizione, circa all’VIII secolo, dunque un tardo sviluppo del ciclo di Bacheo.

MACA.EE (= Roma Vaticana, C69 ff. 103-129). Catalogo Hebbelynck, van Lantschoot 1937, 522. Contiene cc0902 = In tres pueros di attribuzione ignota; le sue varianti sono riportate in apparato da de Vis 19221929, II, 66-120. MACA.EH (= Roma Vaticana, C68 ff. 53-104). Catalogo Hebbelynck, van Lantschoot 1937, 503-505. Contiene cc0428 = Zaccaria di Shou, Vita Iohannis Nani, ed è pubblicato da Amélineau 1894, 316-410 (introduzione, liv-lxii). MACA.EM (= Cairo Coptic Mus. AbuMaqar.018018ADD; LU.1089.05-06; 6). Per la terminologia cfr. sopra, nota 2. Elenchiamo le unità strettamente pertinenti al tema; non includiamo per esempio quelle relative alla sola vita di Giovanni di Licopoli, oltre a due fogli che appartengono a una collezione privata. Cfr. Evelyn-White 1926, n. XII, 73. Un gruppo di frammenti da una stessa unità codicologica, contenenti cc0902 = In tres pueros di attribuzione ignota. Le sue varianti sono riportate in apparato da de Vis 1922-1929, II, 73-89.

Cc0110. Tràdito nei mss MACA.BV e MACA.ED (in cui manca il primo foglio). Il titolo attribuisce il testo a Cirillo di Alessandria, e lo classifica come encomio dei Tre Giovani, contenente la narrazione di miracoli dovuti al loro intervento. Si compone di una breve prologo laudativo; di una unità narrativa sulla leggenda delle tre 9

Non includiamo esplicitamente le vite di Giovanni di Licopoli, cc0415 e cc0500, né la passione di Giacomo Persiano, cc0278, per non allargare troppo l’indagine. 10 Zanetti 2004 cit. supra (cfr. MONB.OB) richiama l’attenzione sul testo arabo derivato da questa opera, che non ci è disponibile. Da quanto si ricava da Zanetti, si tratta comunque di una versione tipica del periodo arabo, che non sembra entrare nella nostra indagine.

6

Per la terminologia cfr. supra, nota 2. Elenchiamo le unità strettamente pertinenti al tema; per esempio non includiamo quelle relative alla sola vita di Giovanni di Licopoli. 7 Ma si noti che i testi derivano probabilmente da originali in coptosaidico. 8 Hebbelynck, van Lantschoot 1937.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

theta; di otto unità narrative, ciascuna riferita ad un miracolo. Non c’è una conclusione omiletica, cosa normale in questo genere letterario (miracula).

DC.MS820D conserva il titolo, uguale a quello di cc0392 (MACA.BT), ma la versione è molto diversa. Il contenuto lascia supporre una derivazione diretta da una unità testuale perduta, consistente nella relazione di Giovanni di Licopoli a Teofilo sul suo viaggio a Babilonia. Del nostro testo rimane l’inizio, con un prologo e la narrazione delle circostanze della costruzione del martyrion dei Tre Giovani; le relative visioni di Teofilo; la parte sull’invio di messi a Giovanni; l’incontro fra Giovanni e Teofilo; il viaggio di Giovanni a Gerusalemme (tutta la parte sul viaggio a Babilonia è in lacuna); il ritorno di Giovanni ad Alessandria.

Cc0392. Tràdito nel ms. MACA.BT. Il titolo coincide perfettamente con quello di cc0928. Il testo è attribuito a Teofilo di Alessandria, ed è classificato come discorso pronunciato in occasione dell’inaugurazione del santuario dei Tre Giovani. È costituito da quattro unità narrative, con un prologo ed una conclusione brevissimi e banali. Unità narrativa (1): Teofilo ha una serie divisioni celesti relative al suo progetto di costruire il martyrion dei Tre Giovani. Nell’ultima i Tre Giovani gli ordinano di chiamare Giovanni di Licopoli e mandarlo alla ricerca della loro tomba a Babilonia. Unità narrativa (2): lettera a Giovanni e incontro fra Teofilo e Giovanni. Unità narrativa (3): viaggio di Giovanni a Babilonia e sua relazione. Unità narrativa (4): consacrazione del santuario senza le reliquie dei santi, ma alla presenza miracolosa dei santi stessi.

4. Gli studi precedenti Noteremo preliminarmente che la confusione che si è formata in bibliografia verte soprattutto sul nome di Giovanni, che può identificare da una parte quello detto comunemente di Licopoli, e dall’altra quello detto comunemente Kolobos (il nano). È interessante il fatto che questa confusione sia già presente dall’antichità (cfr. infra). Da essa deriva la duplice attribuzione del viaggio a Gerusalemme e Babilonia ad ambedue i Giovanni, di cui si era accorto già Crum (Crum 1915, xvii).

Cc0428. Tràdito nel ms. MACA.EH. Il titolo attribuisce, credo correttamente, il testo al vescovo Zaccaria di Shou, e lo classifica come vita dell’archimandrita di Sceti Giovanni Kolobos (il nano). Nella nostra indagine rientra soltanto il brano (unità narrativa) che riporta la chiamata di Giovanni da parte di Teofilo ad Alessandria, e il viaggio a Babilonia alla ricerca della tomba dei Tre giovani. Esso è introdotto dalla interessante frase:

Il primo studio che ci interessa è quello di Amélineau, (Amélineau 1888-1895) nel quale sono pubblicati frammenti saidici della vita di Giovanni di Licopoli (Amélineau 1888-1895, II, 650-665). Nell’introduzione (Amélineau 1888-1895, II, 498-505) viene correttamente identificato il personaggio, noto anche nella tradizione greco-latina; e si indica il parallelismo di alcuni frammenti con l’Historia lausiaca di Palladio, e di altri con l’episodio dei disordini di Licopoli narrato anche nel Sinassario arabo (21 Hathor). Alla fine viene menzionato il titolo di cc0392, affermando che il Giovanni di Licopoli ivi menzionato deve essere in realtà Giovanni Kolobos. Questa affermazione era priva di fondamento (cfr. Crum 1915).

 Œ Œ() ź $ 

 ź ź   źź & ź '    (ed. Amélineau 1894, 382) e si conclude con la frase:

  ź ź Œ ź    źſ źſſź ź  *    (

źƀ    % ź(ź ( $ ) %  · Cc0902. Tràdito nei mss. MACA.EM e MACA.EE. Il ms. semi-completo, MACA.EM, manca del primo foglio, onde non abbiamo testimonianze dell’attribuzione e del titolo. Dall’analisi del contenuto, questa unità testuale si può supporre intitolata come encomio dei Tre Giovani, ed è costituita di quattro unità narrative, precedute da un prologo e seguite da una perorazione conclusiva. Prologo: verte soprattutto sull’incarnazione. Unità narrativa (1): situazione storica dei Tre Giovani, Daniele, e Nabucodonosor. Unità narrativa (2): excursus contro l’ubriachezza. Unità narrativa (3): Nabucodonosor, la statua, la fornace. Nabucodonosor convertito è sepolto presso i Tre Giovani. Unità narrativa (4): Baltasar, le tre parole, e Daniele. Conclusione: esortazioni; lunga invettiva contro Calcedonia.

Lo stesso Amélineau (Amélineau 1894, 316-410) pubblicò la vita boairica di Giovanni Kolobos (cc0428), e i frammenti saidici (Amélineau 1894, 414-425) di cc0928 (frammenti Borgia e Woide, MONB.NX), come testimoni dello stesso testo, pur notando le differenze redazionali. Quando Henri de Vis pubblicò una serie di testi dedicati ai Tre Giovani (de Vis 1922-1929, II, 58-2002, cfr. MACA.BT), rimase vittima dell’errore in cui era incorso Amélineau (Amélineau 1894, 59, n. 1). Nell’introduzione a cc0392 (pagine 121-124) imbroglia ulteriormente la questione, in modo che non mette conto qui di riferire nei particolari, ma che contribuì agli equivoci della successiva bibliografia. Più tardi Paul Peeters 1936, 359381), diede una prima sistemazione ai frammenti saidici della vita di Giovanni di Licopoli, riconoscendo che in realtà le vite sono due (cfr. infra) e che in una di esse (cc0415) tutta la prima parte era formata dalla traduzione

Cc0928. Tràdito nei mss. MONB.NX e DC.MS820D.110. È da notare che non è documentato che le due unità, fortemente frammentarie, contengano il medesimo testo, ma tutti gli indizi portano a questa conclusione. 253

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

di un lungo brano della Historia monachorum (CPG5620 cap. 1) e poi di un lungo brano della Historia Lausiaca (CPG6036 cap. 35). Peraltro, egli non si occupò della tradizione, estranea alle vite, del viaggio di Giovanni di Licopoli a Babilonia, e tanto meno dei rapporti fra le figure di Giovanni di Licopoli e Giovanni Kolobos. Walter Till (Till 1938, 230-239), pubblicò alcuni frammenti di cc0928 (MONB.NX), senza alcun approfondimento relativo alla confusione fra i due Giovanni.

segnala l’importanza della versione araba, ancora sostanzialmente inedita. Egli registra l’intrusione della figura di Giacomo Interciso ma non la approfondisce. 5. Le unità narrative Le unità narrative da prendere in considerazione per chiarire gli intricati rapporti intertestuali dei documenti che abbiamo sopra elencato possono essere divise in due gruppi ben distinti. Il primo si riferisce al viaggio di Giovanni di Licopoli (che in cc0428 diventa Giovanni Kolobos) a Babilonia, alla ricerca delle reliquie dei Tre Giovani; il secondo si riferisce alle gesta dei Tre Giovani, riprese ovviamente dalla narrazione biblica del libro di Daniele.

Dopo la guerra, fu Paul Devos a interessarsi delle vite di Giovanni di Licopoli, in una numerosa serie di studi, occasionati in verità dall’intenzione di approfondire i rapporti fra l’Historia Lausiaca e l’Historia monachorum, da un lato, e i frammenti copti da esse derivati, dall’altro. L’articolo che qui va considerato è Feuillets coptes nouveaux et anciens concernant S. Jean,11 nel quale è trattata la confusione fra i due Giovanni sia in un passo del Sinassario arabo (5 Amsir), sia (come lui crede) in cc0392, sia nella vita cc0500 (MONB.MO), senza peraltro offrire una spiegazione letterariamente fondata. Il tentativo di sistemazione nel nostro commento alla Storia della Chiesa di Alessandria12 è altrettanto insoddisfacente, in quanto ignora la figura di Giovanni di Licopoli.

Il viaggio di Giovanni di Licopoli su incarico di Teofilo A questo gruppo attribuiamo sette unità, che nell’insieme formano una successione narrativa completa e coerente, ma che appaiono in diversi modi nelle diverse unità testuali. (a) La leggenda delle tre theta.

La situazione esposta finora fu riassunta da Joseph-Marie Sauget13 nelle due voci «Giovanni Colobo» e «Giovanni di Licopoli» della Bibliotheca Sanctorum. Egli attribuisce al Colobo il viaggio a Babilonia, e nell’altra voce non ne parla per niente. A sua volta Paul Devos nella voce «John of Lykopolis» della Coptic Encyclopedia 14 non fa cenno della storia relativa ai Tre Giovani, e lo stesso accade per la voce «John Colobos» di Lucien Regnault.15

Chiamiamo così il complesso di episodi che appaiono in molte opere della letteratura copta al fine di caratterizzare l’intensa attività di costruzioni ecclesiastiche di Teofilo di Alessandria. Una prima testimonianza si trova nella Historia Ecclesiastica Coptica, cc0200, edita in CMCL [http://cmcl.let.uniroma1.it], paragrafi 006-0115-0116, e non sempre è esplicitamente menzionato l’episodio delle tre theta, che comunque abbiamo preso come etichetta del ciclo. Esso attribuisce le ricchezze necessarie all’attività di Teofilo al ritrovamento di un enorme tesoro in un tempio pagano in rovina, eventualmente caratterizzato da una iscrizione con tre theta, interpretate come theos, theodosios (l’imperatore), e theophilos (cfr. cc0110).

Anche M. van Esbroeck16 attribuisce tutti gli avvenimenti a Giovanni Kolobos, senza occuparsi dell’altro Giovanni. Egli tuttavia richiama l’attenzione su una storia parallela, di parte calcedonense, in armeno e georgiano17 che (aggiungiamo noi) ha degli echi in cc0098 attribuito a Bacheo, e a nostro avviso potrebbe aver suscitato in ambiente copto la volontà di creare una storia concorrente attribuita a personaggi cari alla tradizione copta.

Nelle opere che ci interessano troviamo un sottogruppo (a1), in cc0928, derivato direttamente dalla Historia Ecclesiastica copta (cc0200): all’epoca di Giuliano le reliquie di Giovanni Battista ed Eliseo a Gerusalemme sono salvate dalla distruzione. Dopo la morte di Giuliano sono portate ad Alessandria e poste da Atanasio nella basilica di S. Marco. Atanasio esprime la volontà di costruire un santuario per esse ma non riesce. Dopo Pietro e Timoteo, Teofilo ci riesce. In cc0392 si trova solo una breve allusione, e in cc0428 un breve riassunto. In cc0110 si trova invece il sottogruppo (a2): Teofilo, avendo fatto altri santuari, desidera costruire quello per i Tre Giovani. L’augustale di Alessandria Anatolio si ammala e muore. Teofilo, mentre accompagna il funerale con Cirillo, si imbatte in un tempio pagano e legge su una colonna del portale una iscrizione con tre theta, profeticamente interpretate come theos, theodosios,

Molto meno la critica si è occupata della figura di Bacheo e dell’opera che porta il suo nome, in lode dei Tre Giovani. Qui conviene segnalare la voce di Michel van Esbroeck citata sopra, la nostra voce «Bacheus»18 e il già citato articolo di Zanetti (cfr. MONB.OB).19 Dopo aver delineato la figura dei Tre Giovani e la loro fortuna in Egitto, Zanetti pubblicando alcuni frammenti di cc0098 11

Devos 1970, 153-187. Orlandi 1970, II, 102-104. 13 Sauget 1961, VII, coll. 666-669 e 818-822. 14 Devos 1991, V, 1363-1366. 15 Regnault 1991, V, 1359-1361. 16 van Esbroeck 1991, VII, 2257-2259. 17 Garitte 1959, 69-100; Garitte 1961, 91-108. 18 Orlandi 1991a, II, 324. 19 Zanetti 2004, 713-747. 12

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theophilos. La porta si apre, e si scoprono grandi ricchezze. Teodosio, avvertito, assegna le ricchezze a Teofilo per costruire chiese. Teofilo inizia a costruire il santuario dei Tre Giovani.

Si trova in cc0928 e in cc0392, in maniera sostanzialmente uguale. Giovanni ripassa per Gerusalemme, e torna ad Alessandria. Fa la sua relazione a Teofilo e gli riferisce il responso dei Tre Giovani.

(b) Le visioni di Teofilo.

(g) Avvenimenti miracolosi relativi alla consacrazione del santuario dei Tre Giovani.

Con questa unità si passa dalla generale attività edificatoria di Teofilo ai fatti relativi direttamente alla costruzione del santuario dei Tre Giovani. Essa è presente in cc0928 e cc0392. Teofilo, che desidera costruire il santuario dei Tre Giovani, ha tre visioni: prima Atanasio, poi un angelo, infine gli stessi Tre Giovani, che lo invitano a chiamare Giovanni di Licopoli.

Si trova in cc0392, parzialmente (a causa di una lacuna) in cc0928, in maniera sostanzialmente uguale, e in maniera riassunta in cc0428. Secondo le istruzioni, Teofilo prepara la consacrazione notturna, tenendo le lampade spente. Al momento culminante, giungono i Tre Giovani in una luce splendente, e accendono le fiaccole, e presiedono alla cerimonia. Teofilo manda la relazione di Giovanni in tutto l’Egitto, con l’ordine di celebrare i Tre Giovani.

(c) Invio di messaggeri a Giovanni e venuta ad Alessandria. Si trova in cc0928 in maniera più ampia, e in cc0392 in maniera abbreviata. Teofilo scrive una lunga lettera a Giovanni, e manda dei messaggeri a cercarlo. Giovanni ha una visione che gli rivela il loro arrivo, e va ad incontrarli sulla spiaggia. Avvengono vari miracoli, dopo i quali Giovanni va ad Alessandria, accolto con tutti gli onori da Teofilo, che gli chiede di recarsi a Babilonia e riportarne le reliquie dei Tre Giovani, scrivendo anche una dettagliata relazione del viaggio.

Le gesta dei Tre giovani A questo gruppo attribuiamo quattro unità narrative, tenendo presente che le due principali unità testuali sono state redatte in modo del tutto indipendente, e dunque indipendente e diversa è la forma in cui esse si presentano. (a) Rapporti fra i Tre Giovani, Daniele, e Nabucodonosor. Si trova in cc0902, e in maniera riassunta in cc0068: le abitudini schive e ascetiche di Daniele e dei Tre Giovani, nobili parenti, deportati a Babilonia, preoccupano i dignitari, ma conquistano la stima di Nabucodonosor.

(d) Il viaggio di Giovanni a Gerusalemme e a Babilonia. Si trova in cc0928 e in maniera riassunta in cc0392. Giovanni si reca prima a Gerusalemme, con varie peripezie, e visita le famose basiliche. Quindi con altre peripezie giunge a Babilonia. In cc0428 Giovanni, che in questo caso è Giovanni Kolobos, viaggia su una nuvola miracolosa, e va e viene direttamente fra Alessandria e Babilonia.

(b) La costruzione della statua e l’obbligo di venerarla. Si trova in cc0902 e cc0068: i Tre Giovani sono denunciati per il loro rifiuto, e invitati a venerarla con minacce. Cc0068 aggiunge il personaggio di Amisaros sacerdote, che intercede per i Tre Giovani. (c) La fornace e la miracolosa salvezza dei Tre Giovani. Si trova in cc0902 e in cc0068: i Tre Giovani sono protetti da Michele, e il fuoco della fornace brucia gli spettatori. Gli astanti sono convinti dal miracolo.

(e) Avvenimenti a Babilonia. Si trova in cc0392, in cc0928 nella parte finale (essendo quella precedente in lacuna), e in maniera riassunta in cc0428. Giovanni giunge al luogo della statua d’oro di Nabucodonosor. Invoca i grandi padri monaci che la distruggano, ma una voce dal cielo gli rivela che essa deve restare intatta come segno dell’empietà. Vede poi Babilonia, che giace sotto una coltre di fumo. Gli appaiono i Tre Giovani, che gli mostrano il luogo della fornace e della fossa dei leoni, e il palazzo di Nabucodonosor. Lo conducono anche alla loro tomba, in cui giace anche Nabucodonosor. Gli rivelano che non potrà asportare le loro reliquie, ma lo istruiscono su quanto Teofilo dovrà fare al momento della consacrazione, e promettono di essere presenti.

(d) Conversione di Nabucodonosor, morte e sepoltura dei Tre Giovani e poi di Nabucodonosor. Si trova in cc0902 e cc0068, che aggiunge un lungo episodio relativo alla moglie di Nabucodonosor, Chalchione, a cui i Tre Giovani interpretano un sogno. Dopo la morte dei Tre Giovani, Nabudonosor fa costruire tre letti d’oro su cui deporli nella tomba, ed un altro per sé. In effetti egli muore poco dopo ed è sepolto accanto ai Tre Giovani. Un fattore essenziale, che lega le unità narrative di là dalle notevoli differenze nei due testi principali, è rappresentato dagli episodi che non si trovano nella narrazione biblica: costruzione della fornace, conversione di Nabucodonosor, sepoltura dei Tre Giovani e di

(f) Ritorno di Giovanni ad Alessandria. 255

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Nabucodonosor. Mi sembra che ambedue i testi si rifacciano ad una tradizione che aveva amplificato gli avvenimenti narrati in Dan. 2-4.

Bacheo Personaggio fittizio della letteratura copta, a cui sono attribuite almeno due omelie (cc0067 e cc0068). Di lui si parla in un’omelia in lode della Croce attribuita a Cirillo di Gerusalemme25 e questo sembra essere il testo più antico in cui egli è menzionato. Secondo questo testo, Bacheo sarebbe stato un presbitero e archimandrita di un piccolo monastero presso Ascalona (Palestina), protagonista di un miracolo relativo alla Croce, a causa del quale un Samaritano, di nome Isaac, si sarebbe convertito al Cristianesimo. L’epoca in cui l’episodio sarebbe avvenuto è quella di Cirillo di Gerusalemme (m. 387).

Come giochi in questo contesto il fatto che nelle unità testuali non si faccia menzione del famoso (anche presso i copti) inno dei Tre Giovani (Dan. 3:26-45 e 52-90) non è dato giudicare. È comunque possibile che esso fosse almeno menzionato in lacuna. 6. Unità autoriali Teofilo

Dunque il personaggio di Bacheo fu collocato nel IV secolo; ma quanto è possibile supporre dell’omelia attribuita a Cirillo ci rimanda al VI secolo, epoca in cui inizia la costruzione dei cicli omelitici ed agiografici. È probabile che poco dopo (inizio del VII secolo?) Bacheo sia stato staccato dal ciclo di Cirillo per iniziare un ciclo dedicato a lui personalmente. Troviamo la documentazione di ciò nel titolo di una delle due omelie a lui attribuite, conservato in un frammento inedito e assai rovinato (Oslo, Biblioteca Universitaria 217) In esso Bacheo è diventato vescovo di Maiuma di Gaza, luogo particolarmente celebre all’epoca delle controversie calcedonensi, e vicino ad Ascalona; e di lui si dice esplicitamente: «che convertì Isaac il Samaritano...».

I creatori copti dei cicli letterari si impossessarono con passione della figura di Teofilo.20 Partendo dal dato storico e tradizionale dell’opera attiva di Teofilo nella distruzione di templi pagani, essi crearono intorno a questa fama una serie di opere romanzesche, sotto forma naturalmente di omelie. Per questo la sua leggenda (costruita del resto sulla base di alcune frasi degli storici ecclesiastici) parla della scoperta di grandi tesori nelle rovine di alcuni templi che egli aveva distrutto, con cui intraprende la costruzione o l’ornamento di chiese in onore di diversi santi (leggenda delle tre theta, cfr. supra). Abbiamo così: la visione relativa alla Chiesa della Sacra Famiglia al monte Kos (pervenuta solo in arabo, siriaco, etiopico);21 cc0392 sulla chiesa dei Tre Giovani di Babilonia (cfr. supra); un’omelia cc0391 sulla distruzione del Serapeum e sulla costruzione del Martyrion del Battista;22 un’omelia cc0397 attribuita forse a Cirillo, contenente una sua relazione sulla costruzione di una Chiesa in onore di Raffaele arcangelo nell’isola di Patres.23

Zaccaria di Shou Si può dare per accertato che lo Zaccaria vescovo di Shou, a cui in copto sono attribuite tre unità testuali (cc0428, cc0429, cc0430),26 coincida con lo Zaccaria che la Storia dei Patriarchi araba27 menziona come vescovo di Shou (greco: Khois; arabo: Saha), nominato dal patriarca Simone (689-701). La notizia più importante sulla sua vita, ricavata dall’omelia cc0429, riguarda l’aver assistito ad una delle due pestilenze che in quel periodo si verificarono in Basso Egitto, testimoniate dalla stessa Storia dei Patriarchi (PO V, 64 e 67). Il Sinassario arabo al 21 Amsir28 ne fa un monaco nel monastero detto di Giovanni Kolobos, probabilmente a causa dell’opera che lo riguarda, e ne conosce opere letterarie. Noi pensiamo che ci si possa fidare dell’attribuzione fornita per tutte e tre le unità testuali; probabilmente la lingua originale è stata il saidico, che ancora all’inizio dell’VIII secolo era la lingua letteraria prevalente, e siano state trasportate in boairico insieme con quasi tutti i testi di questo genere restituiti dalla biblioteca del monastero di S. Macario.

Cirillo Cirillo non ha conosciuto grande fortuna nella tradizione letteraria copta.24 Di là da alcuni pochi scritti teologici autentici, egli ha piuttosto vissuto di luce riflessa: un’omelia che gli viene attribuita, quella Sui miracoli dei Tre Giovani di Babilonia (cfr. supra), appartiene ad uno dei cicli teofiliani e dunque non lo riguarda intimamente. Anche l’Encomio di Atanasio cc0108, a lui attribuito, è strettamente legato al ciclo atanasiano, e il nome di Cirillo rappresenta un puro stratagemma.

25 Campagnano 1980, 84-100; per l’attribuzione a Cirillo cfr. ibid., 1014. 26 de Vis 1922-1929, II 3-4 fa grande confusione fra la vita di Giovanni Kolobos e gli apophthegmata patrum o «paradiso dei padri» ivi citati. 27 Evetts 1910, 45-46. 28 Forget 1905-1926, 505-6; cfr. O’Leary 1937, 283-285; Müller 1991, 2368-2369 dipende da de Vis.

20

Per la posizione in generale rispetto alla letteratura copta cfr. Orlandi 1965, 100-104. Cf. CPG 2628. 21 Cfr. CPG 2628. 22 Orlandi 1968, 295-304 e Orlandi 1969, 23-26. 23 Orlandi 1972, 211-233; Coquin 1994, 25-56 e Coquin 1997, 9-58. 24 Orlandi 2000, 554; Contra, Lucchesi 2004, 298-301 (appendice).

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in codici frammentari. Di una (cc0415) è pervenuto il titolo soltanto in parte, e l’eventuale attribuzione di autore rimane in lacuna; dell’altra (cc0500) neppure il titolo. Dovevano comunque essere ambedue nella forma di encomio, e almeno in una di esse Giovanni è fatto vivere incredibilmente fino al tempo di Marciano, mentre più realisticamente deve essere morto nel 394 a 90 anni. Da esse, più o meno direttamente, derivano le commemorazioni del sinassario arabo ed etiopico al 21 Hathor. Due gli elementi che qui interessano soprattutto: nelle vite non si parla della missione a Babilonia, che dunque deve essere stata immaginata dopo la loro composizione. La confusione con Giovanni Kolobos è invece molto antica, essendo Cassiano il primo documento. Un terzo elemento concerne i rapporti con Shenute, che sono di grande importanza per la storia culturale dell’Egitto cristiano, ma che qui possono essere soltanto accennati.

7. I personaggi I Tre Giovani A parte i testi di cui ci occupiamo, sui Tre Giovani in copto abbiamo solo cursorie allusioni, in opere dedicate ad altro argomento;29 e inoltre, la commemorazione contenuta nel Sinassario arabo alla data del 10 Bashons.30 Essa riassume, per quanto possiamo vedere, prima cc0902 (cfr. per esempio il fuoco che brucia gli spettatori) e poi cc0392 (viaggio di Giovanni). Dunque una prima parte riassume le unità narrative riferite alle gesta dei Tre Giovani, mentre una seconda quelle relative a Teofilo e Giovanni di Licopoli. Giacomo persiano Della documentazione relativa al martire Giacomo detto Persiano o intercisus (fatto a pezzi), il testo fondamentale è una Passione, tramandata in molte redazioni.31 Il testo più vicino all’originale (da intendersi quello composto primitivamente), secondo il Devos, è rappresentato dalla redazione siriaca;32 da questa sarebbe derivata una delle quattro redazioni greche, di cui le altre tre sarebbero rielaborazioni); e attraverso il greco, direttamente o indirettamente, le altre versioni orientali. In copto abbiamo: frammenti della Passione (cc0278) in saidico;33 il testo completo in boairico (Roma, Biblioteca Vaticana C059.001-029,34 e frammenti da un altro codice.35 Sembra che questi testi coincidano abbastanza bene. La festa era celebrata il giorno 27 Hathor. Tuttavia è importante notare come in appendice alla Passione tramandata nel ms. completo sia stato aggiunto un lungo brano relativo alla traslazione, per opera di Pietro Ibero, delle reliquie di Giacomo da Gerusalemme ad una località presso Ossirinco. Questo brano è storicamente interessante, ed è attribuibile alla fine del V secolo. Un altro testo nel quale si allude a questi avvenimenti è l’omelia attribuita a Bacheo, cc0068.

Giovanni Kolobos È personaggio ben identificato, ma poco rilevante nella tradizione copta, nella quale si è inserito probabilmente sulla scia dei suoi detti, raccolti negli Apophthegmata Patrum in numero addirittura di più di quaranta, senza che in essi si trovino informazioni atte a delinearne una biografia. Si può comunque assegnarlo al IV secolo. La vita in copto cc0428, scritta all’inizio del VII secolo da Zaccaria, vescovo di Shou, è appunto costruita su quei detti, di là dai quali l’autore appare non avere informazioni su di lui. Forse per questo, e per una pregressa confusione fra i due Giovanni, nel testo gli è attribuita la missione a Babilonia, che la tradizione più autorevole attribuiva a Giovanni di Licopoli. 8. Ricostruzione storico-letteraria Dopo quanto si è detto nelle sezioni precedenti, la ricostruzione del cammino letterario che ha portato alla produzione delle opere in questione è rapidamente riassumibile. Dovremo partire dal presupposto, parzialmente esposto all’inizio, che gli autori ignoti (salvo Zaccaria) dei testi che abbiamo esaminato, e che si suppone abbiano operato nella tarda, ma ancora produttiva, fase della letteratura copta, nel VII-VIII secolo, si ponessero uno scopo definibile liturgico in senso lato, cioè di fornire letture adatte alla celebrazione festiva dei santi cari alla tradizione copta, nei vari modi omiletici rimasti in uso; e peraltro non ritenevano di attribuire i testi al proprio nome, per motivi che abbiamo indicato altrove,36 ma a figure carismatiche di quella stessa tradizione.

Giovanni di Licopoli La fama internazionale di questo santo archimandrita è dovuta soprattutto ai capitoli a lui dedicati nella Historia monachorum e nella Historia lausiaca; è anche menzionato in Giovanni Cassiano IV 24.2-4, Sozomeno 4.28, e Rufino, HE 2.19.33. Invece è ignorato dagli Apophtegmata Patrum, a differenza di Giovanni Kolobos (cfr. infra). In copto è protagonista in due unità testuali, 29 Segnaliamo un breve estratto contenuto nel codice di excerpta MONB.LY (pagine 83-84 = Cairo IFAO 51), che non contiene nulla di interessante per questa indagine. 30 Forget 1905-1926, II, 111-112. 31 Devos 1953, 157-210. 32 Bedjan 1890-1897, 189-200. 33 Winstedt 1907, 315-316. 34 Balestri, Hyvernat 1907, 24-61. 35 Evelyn-White 1926, xiv.

Le unità testuali di cui ci occupiamo si riferiscono nel contenuto alla celebrazione delle figure dei Tre Giovani, di Giovanni di Licopoli, di Giovanni Kolobos, di 36

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Orlandi 1998, 117-147, qui soprattutto 146-147.

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Giacomo Interciso; nell’attribuzione d’autore a Teofilo, Cirillo, e Bacheo (Zaccaria è un caso a parte). Crediamo che il punto di partenza per delineare i rapporti fra un primo gruppo di opere, cc0392, cc0928, cc0428, e lateralmente cc0110, che coniugano l’interesse per i Tre Giovani, o meglio per il loro santuario, con il viaggio di Giovanni di Licopoli, sia un testo che non possediamo oggi materialmente, che comunque è stato anch’esso forgiato nell’epoca a cui abbiamo fatto riferimento sopra (VII-VIII sec.), e che è espressamente invocato in quelle opere: la relazione degli avvenimenti che lo stesso Giovanni avrebbe scritto su incarico esplicito di Teofilo. Di un tal genere letterario esiste un altro esempio, quello attribuito a Teofilo stesso (in cc0397) circa i miracoli ad opera di Raffaele arcangelo nell’isola di Patres, che purtroppo è frammentario tanto da non poterne trarre il dovuto vantaggio.

abbreviate. Che non sia successo il contrario è provato da parecchie allusioni rimaste, ad episodi tagliati. Più tardi si è voluto comporre un’ulteriore omelia sui miracoli relativi al santuario dei Tre Giovani (cc0110), che si è voluto introdurre di nuovo con la leggenda delle tre theta, derivata però da una fonte diversa da quella di cc0928. A questo punto (logico, non cronologico) si inserisce la confusione fra Giovanni di Licopoli e Giovanni Kolobos, che come abbiamo detto si trova già in Cassiano, e di cui è vittima, ma forse ben cosciente, Zaccaria di Shou. Egli, commemorando Giovanni Kolobos (cc0428), attribuisce a lui il miracoloso viaggio a Babilonia, tagliando accuratamente gli episodi (venuta di Giovanni da Licopoli, visita dei luoghi santi di Gerusalemme) che non concordavano con il suo intento. Infine, la tradizione che si occupava del culto dei Tre Giovani, ma non del santuario costruito da Teofilo, produce, più o meno parallelamente, almeno due unità testuali: cc0068 (attribuita a Bacheo) e cc0902. Esse sono interessanti per molti versi, ma ignorano o trascurano il viaggio e la relazione di Giovanni di Licopoli. Bacheo nasce in seno al ciclo di Cirillo di Gerusalemme, poi acquista una sua autonomia. Viene utilizzato, tramite una storia di pellegrini persiani, per formulare una tradizione sui Tre Giovani diversa da quella calcedonense.

È possibile supporre che tale relazione contenesse una parte circa la costruzione del santuario dei Tre Giovani, connessa con la leggenda delle tre theta, una parte circa il viaggio di Giovanni (la relazione vera e propria), e una parte circa la consacrazione del santuario. Nella prima e nella terza parte il narratore (colui che parlava in prima persona) era probabilmente lo stesso Teofilo, nella seconda Giovanni. Questa relazione, e il ciclo dei Tre Giovani che da essa si sviluppa, prende spunto sia dall’esistenza del loro santuario, molto famoso, ma la cui documentazione è troppo complicata per essere qui anche solo riassunta; sia dal sorgere in Oriente di leggende a proposito delle loro reliquie, come è testimoniato dai testi pubblicati dal Garitte (cit. supra, cfr. nota 17). La concorrenza delle due contrastanti tradizioni fu risolta mediante il risultato del viaggio di Giovanni: le reliquie restano in Persia, ma i Tre Giovani inaugurano personalmente il loro santuario di Alessandria. Ma il suo ricordo è presente nel ciclo di Bacheo (cc0098), che lega alla Persia il personaggio fittizio, tramite la particolare devozione per il martire Giacomo Persiano e l’introduzione di visitatori persiani.

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Da questa unità testuale («relazione di Giovanni di Licopoli») deriva, crediamo direttamente, cc0928, che aveva come scopo quello di trasformare il testo da narrazione pretesamente storica in omelia, da leggersi nella festa commemorativa della consacrazione del santuario, e fu attribuita a Teofilo nella ben nota qualità di edificatore di santuarii. Si noti che dal punto di vista storico, a parte la generale attività di Teofilo di pianificazione in grande di edilizia sacra, rispecchiata dalla leggenda delle tre theta, le redazioni greche della traslazione delle reliquie assegnano a Teofilo proprio la costruzione del santuario dei Tre Giovani.37

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Di cc0928 fu poi composta una versione differente, rappresentata da cc0392. In quest’ultima è stata tagliata la parte introduttiva derivata dalla leggenda delle tre theta, e molte parti della successiva narrazione sono state 37

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Cfr. Sinthern, 1908, 196-239 (qui soprattutto 199-201 e 205).

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Varille che avevo fatto acquistare all’Università degli Studi di Milano, molti documenti relativi agli scavi che l’egittologo francese aveva compuito a Zawiet el-Mayetin nel 1933 e agli studi che aveva dedicato in seguito alla località. Mi permetto di offrirne una breve presentazione al Professore che so quanto apprezza tanto le ricerche sul campo, quanto lo studio dei documenti inediti utili a scrivere nuove pagine di storia dell’Egittologia.

ZAWIET EL-MAYETIN NEGLI ARCHIVI VARILLE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO (E ALTRI RICORDI) Patrizia Piacentini

Abstract

Nel dicembre del 1932, Pierre Jouguet, allora direttore dell’Institut Français d’Archéologie Orientale di cui Varille era pensionnaire, affiancò quest’ultimo a Raymond Weill per continuare gli scavi a Kom elAhmar/Zawiet el-Mayetin. Iniziate nel 1911, le ricerche erano continuate nel 1912 e 1913,3 proseguite nel ’29 e ricominciate, appunto, nel 1933. Nel frattempo Pierre Lacau, direttore del Service des Antiquités,4 dopo un sopralluogo a Zawiet el-Mayetin il 26 febbraio 1927, aveva incaricato Hakim Effendi Abou-Seif, ispettore del Service di stanza a Minia, di eseguire scavi nella tomba di Ny-ankh-Pepy. Questi vennero eseguiti tra il 14 e il 23 marzo del medesimo anno. Visitata da Richard Lepsius e da lui indicata con il numero 14, la tomba si era salvata dalla distruzione perpetrata nella necropoli durante l’Ottocento per il recupero di materiale da costruzione grazie al fatto che era più profonda delle altre ed era stata riempita e sigillata da massi e detriti staccatisi dalla montagna dopo il crollo del soffitto. Nel rapporto preliminare stilato da Hakim Abou-Seif, e pubblicato da Varille,5 si legge che il pavimento della tomba si trovava sotto due metri di pietre e macerie, i soffitti erano distrutti e rimaneva soltanto la parte inferiore delle pareti, ove erano ancora visibili interessanti rilievi. Il lavoro dell’ispettore egiziano è menzionato anche nella lettera che Lacau inviò a Varille l’8 gennaio 1933 per concedergli l’autorizzazione allo scavo e allo studio di questa stessa tomba, e per invitarlo a esplorare anche le sepolture attigue. Tale lettera, rinvenuta negli archivi Varille, è oggi conservata a Milano (Fig. 3). Scrive Lacau:

This article presents some important unpublished documents related to the excavations carried out by the French Egyptologist A. Varille at the site of Zawiet elMayetin in 1933.

Sergio Pernigotti è sempre stato per me “Il Professore” da quando, negli anni Ottanta, scelsi di seguire i suoi corsi all’Università degli Studi di Bologna. Ricordo le sue brillanti lezioni, le severe e produttive esercitazioni, le visite al Museo Archeologico cittadino e le acute spiegazioni non solo sui singoli oggetti, ma anche sulla nascita della raccolta: e le collezioni “sorelle” e “cugine” della bolognese, grazie a quel Nizzoli e signora Amalia di cui parlava come di due amici1... Quindi, ci fu la scelta dell’argomento della tesi di laurea: io avrei voluto studiare l’oreficeria egizia; lui con garbo impose, per sua esperienza e mia fortuna, una ricerca sull’autobiografia di Uni. La menzione in questo testo del titolo allora poco studiato di HqAw Hwt spinse il Professore a suggerirmi di approfondirne il significato e la diffusione, tanto da farne una monografia. Per portare a termine questo lavoro, mi incitò ad andare in Egitto per un lungo periodo, al fine di studiare sul posto monumenti e siti. Fu allora che andai a Zawiet el-Mayetin per la prima volta, per esaminare le tombe degli HqAw Hwt là sepolti. Il sito mi sembrò subito di grandissimo interesse, con il suo affastellarsi di tombe dall’epoca preistorica a quella romana, la sua piccola piramide della III dinastia e i resti di edifici più tardi, fino alla scalinata e al grande muro romano. La vista del deserto, della Valle e del Nilo dall’alto della falesia era di una bellezza straordinaria, che andava ad accrescere il fascino della località (Fig. 1, a e b; Fig. 2, a e b). Quando in una lunga lettera descrissi questa mia visita al Professore, lui mi invitò a dedicarvi uno studio specifico. Lo svolsi e, per le ultime verifiche prima della pubblicazione, ebbi l’opportunità di tornare a Zawiet el-Maiyetin con lui, il 17 giugno 1993. Alla fine di quell’anno, il lavoro venne poi pubblicato nella Series Minor delle Monografie di SEAP, fondata e codiretta dallo stesso Pernigotti.2

«La tombe dont vous me parlez a été déblayée, il y a quelques années par notre Inspecteur Hakim Eff. Abou-Seif. Il avait préparé un rapport qui devait être remanié et n’a pas encore paru. Bien entendu, il ne nous ne donnera pas une description scientifique de la tombe, ni des représentations. Il serait donc intéressant que vous fassiez vous-même ce travail. Il serait plus intéressant encore que vous puissiez déblayer une partie au moins de la série des tombes de Lepsius. Les plafonds ont été exploités par les carriers entre 1860 et 1870. Mais la partie 3

Weill 1912a, 484-490; Weill 1913a, 132-135; Weill 1912b; Weill 1913b. 4 L’archivio privato di Pierre Lacau è stato recentemente messo a disposizione dell’Università degli Studi di Milano dagli eredi. Al suo interno non sono stati trovati per il momento riferimenti al sito di Zawiet el-Mayetin, ma la ricerca è ancora in corso e verrà estesa alla porzione del fondo Lacau conservata a Parigi. 5 Varille 1938, 5-6.

Meno di dieci anni dopo, nel gennaio 2002, per una fortunata coincidenza ritrovai, negli archivi di Alexandre 1

Si veda ad esempio Pernigotti 1994 e Pernigotti 1996. I tre studi qui citati sono stati tutti pubblicati in sedi dirette da S. Pernigotti: Piacentini 1989; Piacentini 1990; Piacentini 1993. 2

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inférieure de plusieurs des tombes peut être importante. J’avais signalé l’intérêt de ce travail à M. Weill, mais il est certain que le but de sa mission est tout autre. Pour la tombe nouvellement déblayée, les puits ont été vidés par notre Inspecteur; ils contenaient un petit mobilier de la VIe dynastie, les ouvertures des puits ayant été masquées par les blocs du plafond. Cela donnerait quelques espoir pour les autres tombes, même au point de vue des objets. Mais ce sont les scènes qui sont les parties intéressantes».

in seguito, per la pubblicazione della tomba di Ny-ankhPepy. Il taccuino sopra menzionato contiene la descrizione della tomba, riferimenti ai disegni di Lepsius, appunti sulle iscrizioni e testi scomparsi rispetto ai tempi dell’egittologo tedesco, paralleli con altre tombe di Saqqara e bibliografia relativa. Tra gli altri materiali si segnalano i calchi in carta delle iscrizioni e delle scene della tomba, oltre a un dossier, con intestazione in francese e in arabo, contenente una ricca documentazione sulla tomba 14, tra cui le fotografie originali montate per le tavole del volume ad essa dedicato da Varille, la pianta della tomba su carta millimetrata, in scala 1:80, con la localizzazione dei pozzi e relative misure, stampe e negativi di un centinaio di fotografie non inserite nella pubblicazione,10 con vedute della tomba e dello scavo (Figg. 5, a e b), con gli oggetti ritrovati o particolari dei rilievi.

Varille ricevette la lettera a Minia, dove già si trovava dal dicembre del ’32 con Raymond Weill. Dalla ricca documentazione ritrovata negli archivi oggi a Milano emerge il fatto che il giovane archeologo – allora solo ventiquattrenne ma già di vasta cultura e variegati interessi – si occupò del sito in tutti i suoi aspetti: dalla sua scoperta da parte dei Savants di Napoleone fino ai viaggiatori e archeologi ottocenteschi, dai rinvenimenti effettuati prima degli scavi scientifici fino allo studio delle decorazioni e delle iscrizioni delle tombe, alla lessicografia e alla storia religiosa dell’area.

L’archeologo si interessò in modo particolare alla scena incompiuta in cui sono raffigurati pittori e orefici al lavoro, oltre a un cinocefalo stante che ha sulle spalle un bastone cui sono attaccati due fardelli (Fig. 6, a e b). Oltre a fotografie e disegni, si riferisce a quest’ultimo particolare un appunto di Varille relativo a un ostrakon conservato ai Musées Royaux d'Art et d’Histoire – Musée du Cinquantenaire di Bruxelles (E. 6764), in cui compare una scena analoga.11 La cartella contiene inoltre appunti vari presi durante lo studio del sito e della tomba, in aggiunta alla lettera di Lacau sopra citata con il permesso di scavo, a una di Rosalind Moss del 22 novembre 1933, con riferimenti alla tomba e al sito nella Topographical Bibliography (Fig. 7) e ad almeno due di Victor Loret, maestro di Varille, risalenti al 1933 e al 1938 e relative a problematiche connesse con la località. I suggerimenti filologici e bibliografici inviati da Loret al suo scolaro il 19 gennaio del 1938 (Fig. 8) furono inseriti da quest’ultimo nel volume dedicato alla tomba. Si segnala infine la presenza del manoscritto di tale volume (Fig. 9), delle prime bozze e delle bozze finali, datate 26 aprile 1938, con numerose correzioni manoscritte di Varille e il «Bon à tirer» firmato.

Un taccuino utilizzato da Varille nel 1933 porta scritto di suo pugno sulla copertina «Notes │sur la tombe de Khnoumhotep │à Zaouiet el-Meitin │Lepsius - N° 14 │26-29 aug │1843» e in alto a destra «sarcoph[age]» (Fig. 4a); sul retro della copertina si legge «voir Prisse», oltre a un veloce appunto di lavoro relativo forse a un acquisto da effettuarsi al Cairo, in Kasr el-Nil. L’allusione a Prisse d’Avennes si riferisce al fatto che questi visitò il sito il 18 maggio 1843 e scrisse a Champollion per raccontargli le sue impressioni e commentare quanto aveva osservato.6 Altri appunti di Varille conservati nei suoi archivi, d’altra parte, fanno riferimento al soggiorno del Decifratore a Zawiet elMayetin, dal 20 al 22 ottobre 1828.7 Khnoumhotep è il secondo nome di Ny-ankh-Pepy, detto anche Hepy, titolare della tomba che venne numerata 14 da Lepsius, come si è visto sopra; quest’ultimo visitò il sito, appunto, tra il 26 e il 29 agosto 1843, lo descrisse e tracciò una pianta della necropoli rupestre.8 Copiò inoltre alcune scene e iscrizioni della tomba. Negli archivi Varille sono conservate le tavole dell’opera di Lepsius, nonché i disegni che, sulla base di esse e dei fac-simili e dei calchi effettuati dall’archeologo francese, vennero realizzati in Francia da Marcel Jacquemin. Questi era amico di Varille fin dagli anni universitari e restò sempre uno dei suoi più fedeli ammiratori.9

Nel 1933, Varille scavò, oltre alla tomba 14, una sepoltura ad essa attigua a Nord, cui Lepsius aveva attribuito il numero 15, disegnandone la pianta senza tuttavia descriverla né fornire indicazioni sulla sua eventuale decorazione. All’epoca dell’intervento di Varille, rimanevano soltanto le basi dei muri della tomba, la cui porta principale era stata chiusa da quattro massi probabilmente quando vennero scavati pozzi funerari in Epoca Tarda. Una grande quantità di detriti si trovava al suo interno, tra i quali l’archeologo francese rinvenne pochi oggetti, registrati nell’inventario Weill con i numeri 286-288, 290-293: quattro giare in terracotta rossa (almeno una delle quali è oggi al Museo del Cairo, JdE 60339); la parte superiore di un piccolo naos in calcare;

Negli archivi è stato inoltre ritovato moltissimo materiale documentario utilizzato da Varille sia durante gli scavi sia 6

Prisse d’Avennes 1844, 725-728. Champollion 1889, 438-455. 8 Lepsius 1852, 96; Lepsius 1849-1859, I, tav. 5; II, tav. 111; Lepsius 1904, II, 65-67; Varille, 1938, 2-4. 9 Jacquemin 1999, 17-25. 7

10 Alcune di queste fotografie furono utilizzate da Varille in un’altra pubblicazione: cfr. Robichon, Varille 1937, fotografie 45, 48. 11 Il parallelo non venne tuttavia citato da Varille, che descrive rapidamente il rilievo in Varille 1938, 19-20, tavv. X-XI.

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una maschera di mummia in legno dipinta di giallo; la parte superiore di una stele falsa-porta anepigrafe.12 Essi sono riprodotti in varie fotografie conservate negli archivi (Fig. 10, a e b); lo studio approfondito delle carte di Varille potrà forse permettere in futuro di localizzarli.

Bibliografia Champollion J.-F. 1889. Monuments de l’Égypte et de la Nubie. Notices Descriptives conformes aux manuscrits autographes rédigés sur les lieux II. Paris, Firmin Didot frères.

Quello che dovette essere, invece, il primo taccuino utilizzato da Varille all’inizio della missione del ’32-’33, ugualmente ritrovato negli archivi dell’archeologo oggi a Milano, contiene appunti di scavo sulla necropoli preistorica di Zawiet el-Mayetin «au sud de la pyramide et sous le monument», oltre ai disegni e alla descrizione degli oggetti ritrovati e alla loro posizione (Fig. 4, b). Seguono la copia delle iscrizioni della tomba di Nefersekheru, risalente al Nuovo Regno, l’elenco dei titoli di questo funzionario e i nomi dei membri della sua famiglia. Varille annotò anche le misure di tale tomba e abbozzò la pianta dei vari ambienti. Come l’archeologo ben sapeva, da quanto si deduce dalle sue annotazioni inedite, questa sepoltura era ben nota fin dall’Ottocento, ed era stata menzionata tra l’altro da Champollion, da Rosellini, dal conte Louis de Saint-Ferriol, da Lepsius, da Wilbour.13 Varille tuttavia non scavò né pubblicò mai in modo estensivo la tomba, che venne poi scavata, studiata e infine pubblicata da Jurgen Osing oltre mezzo secolo dopo, nel 1992.14

Jacquemin M. 1999. Alexandre Varille, un précurseur au bord du Nil. «Kyphi» 2, 17-25. Lepsius R. 1849-1859. Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien. Berlin, Zeller. Lepsius R. 1852. Briefe aus Aegypten, Aethiopien und der Halbinsel des Sinai. Berlin, von W. Hertz. Lepsius R. 1904. Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien. Text. Berlin, Zeller. Osing J. 1992. Das Grab des Nefersecheru in Zawyet Sultan (DAI/AK Arch. Ver. 88). Mainz am Rhein, Zabern. Pernigotti S. 1994. La collezione egiziana. Museo Civico Archeologico di Bologna. Milano, Leonardo Arte. Pernigotti S. 1996 (a cura di). Amalia Nizzoli, Memorie sull’Egitto e specialmente sui costumi delle donne orientali... (La memoria e l’antico 1). Napoli, Edizioni dell’Elleboro.

Negli archivi milanesi è conservata anche la copia del manoscritto di Louis de Saint-Ferriol relativa alla sua escursione a Zawiet el-Mayetin il 26 gennaio 1842, redatta di pugno da Paul Tresson per Varille, come questi ricorda nella sua opera dedicata alla tomba di Ny-ankhPepy.15

Piacentini P. 1989. Gli “Amministratori di proprietà” nell’Egitto del III millennio a.C. «SEAP» 6. Pisa, Giardini.

Infine, sono particolarmente importanti le carte di Varille relative agli oggetti ritrovati durante gli scavi nella località. Come si è accennato, queste potrebbero permettere di riconoscere oggetti conservati al Cairo o in musei francesi che non erano stati individuati nel corso delle ricerche da me compiute in passato.16 L’archeologo francese aveva infatti annotato con grande cura le modalità relative al “partage” degli oggetti tra l’Egitto e la Francia e alla spedizione a Parigi, da dove furono poi in parte smistati verso alcuni musei provinciali (Fig. 11).

Piacentini P. 1990. L’autobiografia di Uni, Principe e Governatore dell’Alto Egitto (Monografie di «SEAP», Series Minor 1). Pisa, Giardini.

In un prossimo futuro, si prevede la pubblicazione integrale dei materiali sopra descitti contenuti negli archivi Varille che, insieme con ulteriori ricognizioni nel sito e ricerche nei musei, porteranno alla riedizione ampliata del volume Zawiet el-Mayetin nel III millennio a.C.

Robichon Cl., Varille A. 1937. En Égypte. Paris, Paul Hartmann.

Piacentini P. 1993. Zawiet el-Mayetin nel III millennio a.C. (Monografie di SEAP, Series Minor 4). Pisa, Giardini. Prisse d’Avennes E. 1844. Lettre à M. ChampollionFigéac. «Revue Archéologique» 1, 725-728.

Varille A. 1938. La tombe de Ni-Ankh-Pepi à Zâouyet elMayetîn (Mémoires de l’Institut Français d’Archéologie Orientale 70). Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale. Weill R. 1912a. Fouilles à Tounah et à Zaouiét el-Maietin (Moyenne-Égypte). Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles Lettres 1912, 484-490.

12

Varille 1938, 8; Piacentini 1993, 63-64, 92, 97 nota 37. Per i testi di questi autori cfr. Piacentini 1993, 15-29. 14 Osing 1992. 15 Varille 1938, 39-42, pl. XX, in particolare 39. 16 Piacentini 1993, 75-98.

Weill R. 1912b. Catalogue sommaire des antiquités égyptiennes exposées au Musée Guimet provenant de l’expédition de M.R. Weill (Campagne de 1912). Paris.

13

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Weill R. 1913a. Rapport sur des fouilles en HauteÉgypte. Bulletin de la Société Française de Fouilles Archéologiques 3, 132-135. Weill R. 1913b. Catalogue des antiquités égyptiennes exposées au Musée des Arts Décoratifs et provenant de l’éxpedition de M.R. Weill (Campagne de 1913). Paris.

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FIGURE

Fig. 1a: Panorama di Kom el-Ahmar / Zawiet el-Mayetin

Fig. 1b: Veduta della piramide e del muro romano

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Fig. 2a: Parte della necropoli rupestre

Fig. 2b: La grande scalinata

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Fig. 3: Lettera di P. Lacau ad A. Varille con autorizzazione allo studio della tomba di Ni-ankh-Pepi, 8 gennaio 1933 © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Fig. 4a: Taccuino (n° 2, 1933) appartenuto ad A. Varille, con appunti sulla tomba di Ni-ankh-Pepi © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

Fig. 4b: Taccuino (n° 1, 1932-’33) appartenuto ad A. Varille, con appunti sugli scavi nella necropoli pre- e protostorica. © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Figg. 5a e 5b: Lo scavo della tomba 14, di Ny-ankh-pepy. Foto Varille, 1933 © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Fig. 6a: Bassorilievo con raffigurazione incompiuta di orefici e pittori al lavoro. Tomba 14 di Ni-ankh-Pepy, pilastro incastrato MN. Foto Varille, 1933 © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

Fig. 6b: Particolare di un foglio di appunti di Varille con disegno e misure della scena del pilastro incastrato MN, 1933. © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Fig. 7: Lettera di R. Moss ad A. Varille con informazioni su Zawiet el-Mayetin, 22 Novembre 1933 © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Fig. 8: Lettera di V. Loret ad A. Varille, 19 gennaio 1938 © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Fig. 9: Frontespizio del manoscritto di A. Varille, La tombe de Ni-Ankh-Pepi à Zâouyet el-Mayetîn, 1934 (poi pubblicato nel 1938). © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Figg. 10a. e 10b: Oggetti rinvenuti all’interno della tomba 15. Foto Varille, 1933 © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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Fig. 11: Appunti di A. Varille sugli oggetti rinvenuti durante gli scavi del 1933 e sul loro “partage” © Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano

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elementi formali e tematico-iconografici, e cioè dall’amore per i dettagli che si fondono a costituire un’opera antica, di qualsiasi tipo essa sia.2

IL PITTORE PELAGIO PALAGI E L’EGITTOLOGIA “IN MINIATURA”: AMULETI, SCARABEI E PLACCHETTE DELLA TERZA COLLEZIONE NIZZOLI

L’“effetto epifanico” dei molti capolavori, da cui deriva la fama delle raccolte palagiane, ha troppo spesso sbilanciato a favore delle sole opere “maggiori” questa interessante chiave interpretativa del collezionista bolognese, relegando in secondo piano una valutazione delle sue antichità che fosse comprensiva delle cosiddette opere “minori”, o per meglio dire “in miniatura”, terminologia che preferisco e applico in questo caso non solo alle riproduzioni in formato ridotto. Una lacuna da integrare, distogliendo l’attenzione dalle rarità e dalle eccellenze ripetutamente indagate, per approfondire lo studio dei tanti oggetti sino ad ora considerati numeri inventariali di una generica classe tipologica.

Daniela Picchi

Abstract The recent recovery of some sealing wax impressions has led to the identification of the most important group of scarabs, seals and plaques of the third Nizzoli collection, purchased in 1831 by Pelagio Palagi and now in the Museo Civico Archeologico of Bologna, his home town. These objects ‘in miniature’ are evidence of Palagi’s interest in artistic details, and were gathered on the antiquity market in Cairo by April 1826, at a time when it was still possible to buy excellent material. They are scarabs/amulets, mainly in faïence or steatite, of good aesthetic and documentary value, and often bearing the name of one of the most important kings of the New Kingdom or of the god Amon. These sealing wax impressions have been of key importance for the identification of the Nizzoli amulets, included in the Palagi collection.

Che il Palagi collezionista apprezzi il dettaglio anche nelle produzioni seriali, soprattutto se miniaturizzate, sembrano confermarlo i suoi acquisti sul mercato antiquario di inizi Ottocento, ricco di ogni genere di manufatti. Proprio le opere “in miniatura” sono un elemento ispiratore, un modello di riferimento per la produzione artistica palagiana che le reinterpreta e ricontestualizza. Quale esempio tra i tanti per soppesare la reale importanza di un collezionismo a tratti calligrafico del pittore bolognese, è sufficiente ricordarne l’ultima passione antiquaria, la numismatica, sintesi perfetta di cura per il particolare ed equilibrio compositivo. Le circa 40.000 monete e medaglie della sua raccolta,3 infatti, testimoniano in pochi centimetri di diametro un eccezionale concentrato iconograficotematico la cui infinita serie di varianti rinnova la serialità differenziandola. Ciò non bastasse, una visita al Palazzo Reale di Torino o al Castello di Racconigi (dove Palagi reinterpreta elementi decorativi e d’arredo delle civiltà passate nella sua produzione di ornatista e arredatore al servizio dei Savoia)4 aiuterebbe ancora una volta a coglierne il gusto per gli oggetti antichi di piccole dimensioni – chiavi, appliques, ecc. –, per i singoli elementi iconografici – palmette, greche, ecc. –, ancora una volta per i dettagli, non per questo meno significativi ai fini di un meditato processo creativo.5

«Dominio del mestiere, attento e lucido controllo razionale su ogni fase del processo creativo erano i principi che guidavano Palagi nel suo fare; i facili effetti, la casualità, la maniera sprezzata, l’abuso della sensuale piacevolezza dei colori, o, all’opposto, dell’algida perfezione del disegno, erano tutti espedienti o scorciatoie per conquistare facilmente il gusto dei committenti e del pubblico delle esposizioni, che non si incontrano nei suoi dipinti. Il processo creativo palagiano si realizzava infatti attraverso l’approfondimento isolato di ogni singolo elemento costitutivo dell’opera per giungere ad opportune scelte, che, alla fine, conducevano all’epifania dell’immagine pittorica».

2 La città di Bologna ha celebrato Pelagio Palagi nella duplice veste di “pittore” e di “collezionista” dedicandogli nell’arco di un ventennio importanti esposizioni temporanee, ai cui cataloghi si rimanda per una bibliografia approfondita e una presentazione a tutto tondo del personaggio; cfr. Bologna 1976 e Poppi 1996. Per un ulteriore aggiornamento bibliografico si rimanda anche a Bernardini 2004; Bernardini, Matteucci, Mampieri 2007. 3 Cfr. Panvini Rosati 1976; Rina La Guardia 1985, n. 529; Govi Morigi 1986, 101-102; Giovetti 2009. Colgo l’occasione per ringraziare il Direttore del Museo Civico Archeologico di Bologna, Paola Giovetti, a cui devo la conoscenza del Palagi collezionista numismatico, avendo lavorato assieme a lei al progetto di banca-dati informatizzata e di digitalizzazione immagini del Medagliere bolognese. 4 Cfr. Bandera Gregari 1976, 177-213; Colle 2004; Roncuzzi Roversi Monaco 2004. 5 In quest’ottica assumono un valore particolare anche le collezioni di antichità etrusco-italiche e romane del Palagi, considerate da sempre meno interessanti artisticamente delle sue altre raccolte archeologiche,

(Claudio Poppi, Pelagio Palagi Pittore)1

L’attenzione nei confronti di «ogni singolo elemento costitutivo dell’opera», di ogni seppur minimo dettaglio, come evidenziava Claudio Poppi in occasione dell’ultima grande mostra dedicata a Pelagio Palagi (Bologna 1775 – Torino 1860) dalla sua città natale, caratterizza l’intera produzione artistica a soggetto storico e mitologico di questo illustre pittore bolognese, del quale vale ancora la pena occuparsi. Lo stesso tipo di attenzione la ritroviamo nel Palagi collezionista, sedotto dall’amore per i singoli 1

Poppi 1996, 16.

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Tiepolo,10 che la venderà a lotti negli anni successivi. Il nucleo al quale appartengono questi amuleti, uno dei primi ad essere venduto dal Tiepolo, è descritto in un Catalogo di Antichità Egizie conservato anch’esso presso il Fondo Mss. Palagi,11 che risulta quasi totalmente «distratto» dal resto della collezione entro il dicembre 182512 e confluito nella raccolta del pittore bolognese tramite la probabile mediazione dell’amico Giuseppe Vallardi.13 La presenza degli amuleti «Nanni» tra i materiali di collezione palagiana, ora a Bologna, rende certo l’avvenuto passaggio di proprietà anche degli altri 74 esemplari Castiglioni.

La stessa collezione egiziana, formata dall’artista nell’arco di un ventennio6 e resa celebre da opere importanti quali i rilievi dalla tomba di Horemheb a Saqqara, conta oltre 1800 tra amuleti e scarabei sui 3109 oggetti acquisiti nel 1860 dal Municipio di Bologna e ora conservati presso il Museo Civico Archeologico della città felsinea.7 Si tratta di un numero davvero considerevole di piccolissimi manufatti, forse meno casuale di quanto lascerebbero presupporre i bassi costi e la facile reperibilità sul mercato antiquario del tempo di questa forma d’arte egiziana, ancora una volta liquidata troppo in fretta dalla tradizione degli studi con un generico “arte minore”.

Non si tratta di un caso isolato. «Li 24. maggio 1827» il ben noto mercante d’arte Antonio Sanquirico, molto attivo nel Lombardo-Veneto, invia a Palagi una serie di piccoli oggetti, tra i quali «2. Niccoli», «1. Corniuola» e «1. Scarabeo» dal costo di 26 Lire, specificando che «ciò che non piace con comodo li ritorna».14 Pochi mesi dopo, nel «Primo Conto del Sigr. Prof. Palaggi» redatto dal Sigr. Pio e Fratelli Sanquirico, che inizia con gli oggetti venduti al pittore a Milano in data 3 settembre 1827, compare «Un Filo di 24 Scarabei con Vetrina – £ 60».15 L’esperienza, destinata a ripetersi molte altre volte negli anni successivi, affina il gusto del Palagi per le varianti tipologiche, cromatiche e tecniche di esecuzione nel contatto diretto con sempre nuovi materiali, soprattutto quando egli diventa un referente privilegiato nel nord Italia per la vendita di antichità egiziane. Le indagini d’archivio in corso sulla storia di formazione della raccolta palagiana, pongono finalmente attenzione a questo tipo di informazioni, sino ad ora trascurate perché

La sensibilità di Palagi nei confronti di queste classi di materiali sembra manifestarsi presto e anticipare la passione numismatica, se uno dei primi acquisti di aegyptiaca del pittore bolognese, attribuibile molto probabilmente alla seconda metà degli anni ’20, include una ottantina di amuleti. Gli oggetti sono elencati e stimati in un documento conservato presso il Fondo Mss. Palagi della Biblioteca Civica dell’Archiginnasio a Bologna,8 un elenco che li riunisce per provenienza collezionistica; il gruppo maggiore, di 74 esemplari, è titolato «Antichi Egizj raccolti in Egitto dal Castiglioni e da esso portati a Milano», dove si trovava allora il Palagi, mentre i pochi restanti sono aggiunti a chiusura del documento come «Antichi Egizj già appartenenti al Museo Nanni di Venezia». Gli amuleti «Nanni» sono identificabili nel catalogo a stampa della Collezione di tutte le antichità che si conservano nel Museo Naniano di Venezia divisa per classi e in due parti, aggiuntevi le classi di tutte le medaglie,9 ceduta definitivamente nel 1821 da Antonio Nani, ultimo erede della famiglia Nani di San Trovaso, al suocero Gian Domenico Almorò

10 ASVe, Archivio Privato Tiepolo, I Consegna, Busta 109, “Convenzione Giudiziale, 17 Lugl.o 1821”, dove si dichiara che il Museo Naniano era già stato «accordato in pegno» da Antonio Nani al Tiepolo tramite una precedente Convenziona in data 2 Luglio 1817. 11 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 6. Il Catalogo, che raccoglie una sessantina circa di antichità – non solo egiziane –, elenca ai numeri Stima|Catalogo Stampa: «128|401… Due Amulati a tre figure di Divinità, o Genj a bassorilievo» e «127|368… Sei amulati di figura umana, quattro simili di figura d’animali, due Scarabei». Cfr. ASVe, Archivio Privato Tiepolo, I Consegna, Busta 109, varia, per il numero della Stima redatta ai fini della vendita della collezione; Driuzzo 1815, nn. 368 e 401, per il numero del Catalogo Stampa della collezione; Picchi 2009b, 38-39 e in particolare Pl. xx per le corrispondenze con gli attuali numeri di inventario della collezione bolognese. La recente individuazione di numerosi documenti d’archivio riguardanti il Museo Naniano e la sua dispersione, dei quali l’autrice pubblicherà a breve un rendiconto dettagliato, permette ora di integrare con qualche perfezionamento il contenuto di quest’ultimo articolo. 12 ASVe, Archivio Privato Tiepolo, I Consegna, Busta 109, minuta della “Nota consegnata al console Inglese lì 15 Xbre 1825 e relative note”. Questo documento e un foglietto ad esso correlato quale addenda, esplicitano gli oggetti esitati a quella data dal Museo Naniano. Tra questi è individuabile con sicurezza l’amuleto raffigurato in Driuzzo 1815, n. 401, che corrisponde a MCABo-EG 3708. 13 ASVe, Archivio Privato Tiepolo, I Consegna, Busta 109, minuta della “Lettera di Gian Domenico Almorò Tiepolo a Gaetano Cattaneo, 12 Ap.e 1825”, “Lettera di Gaetano Cattaneo a Gian Domenico Almorò Tiepolo, 20 Ap.le 1825”, minuta della “Lettera di Gian Domenico Almorò Tiepolo a Gaetano Cattaneo, 25 Ap.e 1825”, minuta della “Lettera di Gian Domenico Almorò Tiepolo a Giuseppe Vallardi, 28 Xbre 1828”. 14 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 3, lett. d10. 15 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 3, lett. a.

perché costituite in gran parte da oggetti di uso quotidiano, seriali e/o di piccole dimensioni – elementi ornamentali, parti di mobilio o di arredo, bronzetti votivi, ecc. –, spesso provenienti da scavo. In merito alla collezione etrusco-italica, cfr. Govi Morigi 1976; Tovoli 1984, 195 e relative schede; Dore 2009. In merito alla collezione romana, cfr. Scagliarini Corlaita 1976; Tovoli 1984, 195-197 e relative schede; Marchesi 2009. 6 La raccolta Palagi, come è noto, costituisce il nucleo principale della sezione egiziana bolognese, che impreziosisce per numero, qualità e rarità dei suoi materiali. Per maggiori dettagli e aggiornamenti su questa importante collezione privata dell’Ottocento, si rimanda a Picchi 2006, 179-183; Picchi 2009, 35-40, plates xvii-xxi; Picchi 2010. 7 Alla storia di formazione del Museo Civico Archeologico di Bologna è stata dedicata un’altra importante mostra cittadina, cfr. Govi Morigi, Sassatelli 1984 e anche Govi Morigi 2009. Per conoscerne meglio la collezione egiziana, la terza in Italia dopo Torino e Firenze, cfr. Pernigotti 1980; Bresciani 1985; Jaeger 1993; Govi Morigi, Pernigotti 1994; Picchi 2004a, 21-34; Picchi 2004b, 51-86; Picchi 2009c, 182-211. 8 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. e. Una ricevuta di pagamento per alcune antichità raccolte in Egitto, che «Giò Luigi Castiglioni» spedisce a Palagi in data 8 giugno 1825 (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. h1), non sembra contemplare gli amuleti elencati in questo documento; certo definisce un periodo di massima delle transazioni riguardanti gli oggetti raccolti dal Castiglioni in Egitto. 9 Driuzzo 1815, nn. 368 e 401. Cfr. anche Picchi 2010, 79-80, in a) NKS 357b fol., XIII, 3, 4, “Notizie di Gallerie”, nn. 1-8, e 89, in e) NKS 357b fol., XIII, 3, 4, “Notizie di Gallerie” n. 8, in relazione al n. 368; 90, in g) NKS 357b fol., XIII, 3, 4, “Notizie di Gallerie”, in relazione al n. 401.

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1824…, Alessandria d’Egitto 1827.20 Questi 451 oggetti “in miniatura”21 e quasi tutti i materiali pubblicati nel Catalogo Dettagliato, assieme agli «oggetti di Antichità ceduti all’Illo Sige Professore Pelagio Palagi crescenti dal Catalogo a stampa, e riscontrati all’atto della consegna fatta dietro la Nota dettagliata delle Casse»,22 saranno formalmente acquistati da Palagi nel 1831,23 confondendosi nel suo museo a centinaia di altri esemplari dello stesso tipo, di provenienza collezionistica quasi sempre diversa, in molti casi ancora incerta o ignota.

ritenute di scarso valore collezionistico. I documenti esaminati, in parte già noti, in parte inediti, delineano la tempistica di massima degli acquisti di amuleti, scarabei e placchette, a cominciare da quelli numericamente e/o qualitativamente significativi, e moltiplicano i referenti di un collezionista tanto attratto dalle antichità egiziane da porsi alla stregua di regnanti e uomini di stato nel creare una raccolta degna di un museo. E il suo museo milanese, allestito in una chiesa sconsacrata al numero 8 rosso di via Camperio presso casa Brioschi, avrà nel magazzino destinato alle antichità egiziane una doppia scaffalatura alla parete opposta all’ingresso, che espone al piano inferiore, a subitanea portata del visitatore e «disposti in parata ed in varie Classi tutti gli altri oggetti di minor volume, comprese le cose in legno, statuette, scarabei, Amuletti, Colanne, Papiri, … con sotto carta bianca distesa sul tavolato».16 Da queste parole, annotate sulla pianta espositiva del magazzino,17 scopriamo che il pittore usa sì il termine “minori”, ma parlando di oggetti di “minor volume”, un apprezzamento dimensionale, non qualitativo. Il quadro d’insieme che ne deriva, si arricchisce così di inattese sfumature, se non addirittura di quell’auspicato punto di vista meno preconcetto, che introduce a ulteriori ricerche e approfondimenti palagiani.

I documenti che attestano i prolungati contatti tra Nizzoli e Palagi ai fini della compravendita del 1831, non permettono di identificare nello specifico, se non in pochi casi, i manufatti descritti in modo davvero sommario all’«ARTICOLO X. AMULETI IN LAPIS LAZZOLI» e in quelli successivi, «ARTICOLO XI. AMULETI IN PIETRE DURE DIFFERENTI», «ARTICOLO XVII. TERRE COTTE, FIGURE, ED ANIMALI», «ARTICOLO XVIII EMBLEMI», della cui presenza attuale a Bologna non c’è comunque motivo di dubitare per riscontro tipologico e numerico.24 Diverso il caso dei manufatti elencati all’«ARTICOLO XIII. OGGETTI CUFICI» e all’«ARTICOLO XV. OGGETTI IN ORO», la cui rarità ne facilita l’identificazione, ma soprattutto di quelli elencati all’«ARTICOLO VIII. SCARABEI Con Geroglifici, e Cartouche» e all’«ARTICOLO IX. ANELLI IN BRONZO, E PIETRA». Il Fondo Mss. Palagi,25 infatti, ha restituito tre documenti inediti riconducibili alla terza collezione Nizzoli (Figg. 1-7)26 che conservano molte impronte su ceralacca di questi scarabei, amuleti-sigillo e placchette egiziani, già in sé di valenza formale e iconografico-epigrafica più evidenti.

Sempre alla metà degli anni ’20, sull’altra sponda del Mediterraneo, il cancelliere presso il consolato d’Austria in Egitto Giuseppe Nizzoli sta costituendo la sua terza e ultima collezione egiziana,18 che raggiunge i 1000 pezzi circa in meno di tre anni. Ne fanno parte 217 «SCARABEI con Geroglifici, e Cartouche», 7 «ANELLI IN BRONZO, E PIETRA», 26 «AMULETI IN LAPIS LAZZOLI», 80 «AMULETI IN PIETRE DURE DIFFERENTI», 5 «PIETRE INCISE», 13 «OGGETTI CUFICI»19, 7 «OGGETTI IN ORO», 64 «TERRE COTTE, FIGURE, ED ANIMALI» e 32 «EMBLEMI» classificati da Nizzoli agli ARTICOLI VIII-XI, XII, XV, XVII-XVIII del Catalogo Dettagliato della Raccolta di Antichità Egizie riunite da Giuseppe Nizzoli Cancelliere del Cons. Gen. d’Austria in Egitto dopo quella del

Ciascun documento, costituito da un bifolio, mostra sul recto una breve didascalia a inchiostro, che indica come 20

Si deve al Prof. Sergio Penigotti, a cui è dedicato con riconoscenza questo studio, la ristampa in anni recenti del Catalogo Dettagliato; cfr. Pernigotti 1991b, 46-79. 21 Va ricordato che molti altri articoli del Catalogo Dettagliato elencano oggetti appartenenti alle cosiddette “arti minori”. 22 Questa «Distinta degli oggetti di Antichità crescenti dal Catalogo» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c4), tra i vari oggetti elencati, contempla anche alcuni scarabei e amuleti riconducibili agli ARTICOLI VIII-XI del Catalogo Dettagliato. 23 Le 319 medaglie descritte agli ARTICOLI XXI-XXIII del Catalogo Dettagliato, «formando un ramo di Archeologia a parte sono state perciò distaccate dalla Collezione e altrimenti disposte», come è annotato in calce a una copia del catalogo (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c2), che servì da allegato al contratto di compravendita Palagi-Nizzoli. Le medaglie sono inviate separatamente a Palagi che ne seleziona solo 117 e rimanda a Trieste lo scarto in data 22 agosto 1832; cfr. la «Nota delle medaglie scelte dai Pacchi inviati dal Cave Nizzoli» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c11). 24 La difficoltà maggiore nell’identificarli deriva quasi sempre dalla descrizione troppo sommaria del Catalogo Dettagliato e dalla presenza nella collezione bolognese di più esemplari corrispondenti. 25 Cfr. Bonora, Scardovi 1979; Bonora 1987. Colgo l’occasione per ringraziare Pierangelo Bellettini, Direttore della Biblioteca Civica dell’Archiginnasio di Bologna, e il suo staff che, come sempre, hanno mostrato grande disponibilità nei confronti delle mie ricerche d’archivio. 26 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1-3.

16

In merito al museo di antichità egizie che Palagi allestisce a Milano, cfr. Picchi 2006, in particolare 181-183, Figg. 3-4. 17 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 3, lett. g7. 18 Giuseppe Nizzoli svolge parte della sua attività diplomatica in Egitto, dal 1817 al 1828, periodo durante il quale crea e vende tre importanti collezioni di antichità egiziane: la prima è acquistata da Ernst August Burghart nel 1821; la seconda dal Granduca di Toscana Leopoldo II nel 1824; la terza, alla quale si aggiungerà una ulteriore raccoltina, da Palagi nel 1831. Gli è accanto la giovane moglie Amalia Nizzoli, una donna di forte personalità, che lo aiuta nel reperimento delle antichità, coordinando per un breve periodo scavi nell’area di Saqqara. Per la carriera diplomatica e l’attività egittologica di Nizzoli si rimanda a Pernigotti 1991b, 46-79; Pernigotti 1991c; Daris 2005. Per conoscerne meglio la giovane consorte, cfr. Pernigotti 1991a, 3-84 e Pernigotti 1996. 19 Pur trattandosi di gettoni monetali o di pesi – gli studiosi ancora oggi non sono concordi al riguardo –, è molto probabile che Nizzoli li consideri una classe particolare di amuleti.

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ancora oggi conservati presso la sezione egiziana del Museo Archeologico. Nei pochi casi riscontrati di mancata trasmissione, è stato sino a ora impossibile determinare la tempistica e le circostanze precise della scomparsa, se non in termini generici di post e ante quem. In particolare, si lamenta la “perdita” di una placchetta in corniola incisa con il doppio cartiglio del faraone Nectanebo I (Tav. 1 e Fig. 2: nn. 8-9), assieme ad altre due o tre placchette (Tav. 2 e Fig. 5: nn. 45-47), che già Kminek-Szedlo non segnala all’interno del suo catalogo-inventario, così come il mancato riscontro nella collezione attuale di 5 scarabei (Tav. 2 e Fig. 5: nn. 55, 64, 74 e 83), di cui uno con montatura a castone d’anello (Tav. 2 e Fig. 5: nn. 48 e 56).

città di provenienza delle ceralacche, e di conseguenza degli oggetti che riproducono, il «Cairo». Segue la data di redazione, «23. aprile 1826» su due dei bifoli,27 «26. aprile 1826» sul terzo.28 Uno dei documenti datati 23 aprile, forse il primo ad essere compilato, sicuramente quello che concentra il maggior numero di impronte di scarabei a nome regale, è firmato «GNizzoli»,29 alla cui mano appartengono tutte le annotazioni. Le ceralacche sono disposte in sequenza piuttosto ordinata solo sulle carte interne di ogni documento, il cui verso è bianco. In numero complessivo di 188 per un totale di 174 oggetti, le ceralacche, che riproducono spesso entrambi i lati delle placchette e in rari casi lo stesso manufatto, si distribuiscono in modo difforme nei tre documenti: 34 impronte corrispondono a 27 oggetti in «Cairo 23. aprile 1826 / GNizzoli» = BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.1-3 (Tav. 1 e Figg. 1-3); 88 impronte corrispondono a 84 oggetti in «Cairo 23. aprile 1826» = BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.1-3 (Tav. 2 e Figg. 4-5); 66 impronte corrispondono a 65 oggetti in «Cairo 26. aprile 1826» = BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c3, c.1-3 (Tav. 3 e Figg. 67). Quasi tutte sono integre e leggibili, nonostante un craquelé diffuso, che la leggerezza del supporto cartaceo ha reso inevitabile, in particolare nelle ceralacche di dimensioni maggiori.

Proprio perché ogni ricerca d’archivio è per definizione un work in progress, è sembrato utile a chi scrive pubblicare in forma preliminare tutti i documenti riguardanti questo nucleo nizzoliano. Gli ARTICOLI VII-IX del Catalogo Dettagliato, che vi corrispondono, sono stati trascritti e commentati paragrafo per paragrafo, riassumendo in tavole sinottiche finali (Tavv. 1-3) i nuovi dati ottenuti grazie alla recente scoperta delle ceralacche. Si rimanda invece a una fase successiva la catalogazione dei materiali che credo debba far parte di uno studio complessivo da dedicarsi alla terza nizzoliana. Per quanto riguarda gli ARTICOLI X-XIII, XV e XVIIXVIII del Catalogo Dettagliato, dedicati alla restante parte degli amuleti e alle classi di materiali considerate affini, si è preferito trascrivere e commentare solo gli «AMULETI IN LAPIS LAZZOLI», gli «AMULETI IN PIETRE DURE DIFFERENTI», le «PIETRE INCISE», gli «OGGETTI CUFICI» e gli «OGGETTI IN ORO», per i quali è stata almeno possibile una valutazione di nucleo, quando non si è riusciti a identificarne le singole unità. L’esame dettagliato dell’«ARTICOLO XVII. TERRE COTTE, FIGURE, ED ANIMALI» e dell’«ARTICOLO XVIII. EMBLEMI» è rimandato invece ad una fase più avanzata della ricerca d’archivio, nella prospettiva di fornire dati più precisi.

Duplicando con precisione gran parte degli aegyptiaca elencati all’ARTICOLO VIII del Catalogo Dettagliato, limitandosi ovviamente a quelli con scene o geroglifici incisi alla base, queste impronte sono state fondamentali per integrare le sintetiche parole dedicate loro dal Nizzoli. Si potrebbe affermare a questo punto “certo non per scarso interesse”, ma perché oggetti presentati e offerti alla vendita tramite una documentazione allegata, addirittura precedente il catalogo a stampa del 1827. Le ceralacche, che equivalgono da sempre ai disegni nella diffusione di conoscenza della glittica antica, quindi, è possibile siano servite al Palagi per prendere visione di questo nucleo di materiali con anticipo rispetto alla data di acquisto e per farne una corretta stima economica, soprattutto in relazione all’alta percentuale di manufatti a nome regale.

Una raccolta dell’“Età dei Consoli” come questa, infatti, i cui materiali sono quasi sempre decontestualizzati da un punto di vista archeologico e hanno spesso perduto anche l’originaria identità di nucleo, passando di mano e confluendo in collezioni maggiori, va innanzitutto ricomposta, dettagliata in tutte le sue diverse classi di materiale, riconosciuta nei singoli manufatti, per capirne la natura, le caratteristiche di formazione e l’eredità trasmessa. In questo caso, solo una delle tante ereditate dalla collezione Palagi. Una riconsiderazione di tutte le sue anime – alcune ancora da definire o addirittura da scoprire –, partendo proprio dalla raccolta Nizzoli, alla quale è stato aggiunto un altro piccolo tassello di identità, rimane l’obiettivo finale della ricerca in corso.

Il confronto delle impronte con il Catalogo Dettagliato edito dal Nizzoli nel 1827 e, a seguire, con il primo Catalogo di Antichità Egizie del Museo Civico di Bologna redatto da Giovanni Kminek-Szedlo nel 1895 e con l’attuale inventario informatizzato della collezione egiziana bolognese, ha assicurato l’identificazione degli scarabei, amuleti-sigillo e placchette iscritti del Nizzoli, evidenziando quali e quanti tra questi sono confluiti nelle collezioni civiche della città natale dell’artista e vi sono 27

BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1-2, c.1. BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c3, c.1. 29 BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.1. Sulla stessa carta sono riportati conteggi vari attinenti la vendita della terza collezione Nizzoli. 28

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Conclusioni Il rinvenimento in tempi recenti di alcune impronte su ceralacca ha permesso di identificare il nucleo più prestigioso degli scarabei, amuleti-sigillo e placchette della terza collezione Nizzoli, venduta nel 1831 al pittore bolognese Pelagio Palagi e ora conservata presso il Museo Civico Archeologico di Bologna, sua città natale. Questi oggetti “in miniatura”, che assieme a molti altri testimoniano la sensibilità del Palagi nei confronti del dettaglio in ogni forma d’arte, sia moderna che antica, furono raccolti sul mercato antiquario del Cairo entro l’aprile del 1826, periodo in cui era facile acquistare in Egitto eccellenze in ogni classe di materiali. Si tratta infatti di scarabei/amuleti prevalentemente in faïence o in steatite invetriata dai colori brillanti, spesso incisi alla base con i nomi dei più importanti sovrani del Nuovo Regno o del dio Amon, di notevole qualità esteticoformale e/o valenza documentaria. Da questo nucleo importante prende avvio il lavoro di identificazione di tutti gli amuleti Nizzoli, oramai confusi ai molti altri della collezione Palagi.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

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283

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

APPENDICE I

purpurino, pietra detta del paragone, ed altre della lunghezza di poll. 1 e mezzo, fino a 1 terzo di pollice.q

Catalogo Dettagliato della Raccolta di Antichità Egizie riunite da Giuseppe Nizzoli, Alessandria d’Egitto 1827 NOTE a) 1. MCABo-EG 2605. L’identificazione di questo scarabeo del cuore con quattordici linee di testo è certa perché la sua base corrisponde perfettamente alla ceralacca Nizzoli, BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.3, n. 32 (Tav. 1 e Fig. 3). Precise anche le note descrittive del Catalogo Dettagliato, che non avrebbero comunque permesso di riconoscerlo tra i due esemplari simili per dimensioni e materiale esistenti nella collezione Palagi. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2605 e, per il secondo esemplare, n. 2612, a cui attribuisce erroneamente 12 linee di testo. Entrambi sono da lui indicati come Palagi.

ARTICOLO VIII SCARABEI Con Geroglifici, e Cartouche 1. Uno scarabeo in pietra dura verde con 14 linee di geroglifici incisi dissotto, lungo poll. 2 e un terzo, largo poll. 1 e due terzi.a 2. Altro simile di pietra verde differente di un bel lavoro con 9 linee di geroglifici dissotto bene incise lungo poll. 2 e mezzo largo 1 e tre quarti.b 3. Altro simile in pietra dura eguale con 7 linee di geroglifici incisi dissotto, alto poll. 2 largo 1 e un terzo.c 4. Altro scarabeo di una pietra lucida non dura, ma bella ben lavorata con 9 linee di bei geroglifici bene incisi, ed interamente colorati in bianco, lungo poll. 2 e 2 linee, largo poll. 1 e mezzo.d 5. Altro scarabeo di radice di smeraldo tirata a lucido con 5 linee di geroglifici incisi dissotto, ed una linea incominciata, e non finita, lungo poll. 2 circa, e largo poll. 1 e un terzo.e 6. Altro simile in pietra dura verdastra con sei linee di geroglifici dipinti dissotto in colore giallo.f 7. Un scarabeo in porcellana turchina celeste del colore della radice di Cobalt con dissotto 12 linee di geroglifici superbamente scolpiti lungo poll. 2 e mezzo largo poll. 1 e tre quarti. Sono rarissimi i scarabei in porcellana di questa grandezza, e molto più rari con dei geroglifici incavati.g 8. Uno detto senza geroglifici.h 9 a 14. Sei scarabei di pietre dure differenti assai belle, ed interessanti, bene lavorati al naturale, senza geroglifici della lunghezza di poll. due e mezzo fino a poll. 1 e mezzo.i 15 a 164. Cento cinquanta scarabei tutti di pietre differenti bellissime, a diversi colori ottimamente conservati, con geroglifici al dissotto bene incisi. Se ne osservano molti fra questi che contengono incisioni rare, ed interessantissime.l 165 a 184. Venti fra scarabei, tavolette, ed altri emblemi a differenti colori ben conservati, aventi ciascuno un Cartouche.m 185. Un quadretto in pietra turchina con due Cartouche dissotto e tifone nel mezzo, ed un Cartouche dissopra colle piume laterali.n 186. Un amuleto con dissotto 2 Cartouche, ed 1 pesce di sopra in rilievo.o 187. Un pezzo in corniola quadrilungo con geroglifici, e 2 Cartouche.p 188 a 217. Trenta scarabei lavorati al naturale dissopra, e dissotto, meno cinque che dissotto, hanno geroglifici incisi, tutti in pietre dure rare differenti, cioè di verde antico lucido, ametista, smeraldo, corniola, granito, color

b) 2. MCABo-EG 2616. Anche questo secondo scarabeo del cuore con nove linee di testo alla base è stato identificato grazie alla ceralacca Nizzoli BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.3, n. 33 (Tav. 1 e Fig. 3). Le note descrittive del Catalogo Dettagliato, che corrispondono all’oggetto e a vari altri esemplari di collezione Palagi, non sarebbero state sufficienti ai fini di un suo riconoscimento sicuro. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2616, che lo attribuisce alla collezione Palagi. c) 3. MCABo-EG 2615. Molto simile per dimensioni e materiale ad altri due scarabei del cuore con sette line di testo, sempre appartenenti alla collezione Palagi, questo esemplare corrisponde alla ceralacca Nizzoli BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.3, n. 34 (Tav. 1 e Fig. 3). Cfr. Kmink-Szedlo 1895, n. 2615, che lo attribuisce alla collezione Palagi. d) 4. MCABo-EG 2610: identificazione incerta. Le ceralacche Nizzoli non tramandano l’impronta di questo scarabeo del cuore, così come di altri due scarabei dello stesso tipo elencati ai seguenti nn. 6 e 8. Non è ovviamente possibile escludere a priori l’esistenza di un ulteriore foglio di ceralacche, che non sarebbe poi confluito nel Fondo Mss, Palagi della Biblioteca Civica dell’Archiginnasio a Bologna, ma è anche possibile che Nizzoli non abbia ottenuto impronte da alcuni suoi oggetti per ragioni conservative. Le “9 linee di bei geroglifici bene incisi, ed interamente colorati in bianco” di questo esemplare avrebbero potuto danneggiarsi al contatto con la ceralacca riscaldata. La collezione Palagi conserva attualmente un unico scarabeo del cuore con tracce di bianco all’interno dei geroglifici incisi alla base, su 10 anziché su 9 linee come indicato da Nizzoli, ragion per cui l’identificazione dello scarabeo è solo ipotizzata. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2610, che lo attribuisce alla collezione Palagi. e) 5. MCABo-EG 2624. La collezione Palagi conserva alcuni scarabei del cuore privi del nome del defunto. La 284

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

ceralacca BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.3, n. 31 (Tav. 1 e Fig. 3) permette di identificare tra questi l’esemplare Nizzoli. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2624, che lo attribuisce alla collezione Palagi.

n) 185. MCABo-EG 448. La descrizione corrisponde a una placchetta rettangolare bombata a nome del faraone Thutmosi III e di un altro re, in steatite invetriata di colore verde, che le ceralacche BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.2, nn. 6-7, riproducono in ambo i lati (Tav. 1 e Fig. 2). Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 448, che lo attribuisce alla collezione Palagi; Jaeger 1993, n. 78, che lo identifica già come Nizzoli.

f) 6. MCABo-Fer. 3419. Anche di questo scarabeo del cuore non esiste impronta tra le ceralacche Nizzoli, forse perché il riempimento dei geroglifici con lo stucco colorato impedisce qualsiasi rilevazione del testo iscritto. L’oggetto, che corrisponde perfettamente per materiale e caratteristiche dell’iscrizione – quasi evanescente – alle note Nizzoli, ha perduto il numero di inventario attribuitogli dallo Kminek-Szedlo nel Catalogo di Antichità Egizie del 1895.

o) 186. MCABo-EG 533. Esiste un’unica placchetta bolognese corrispondente a questa descrizione con un pesce a rilievo su un lato e una scena con Bes alato sull’altro lato, dove alcuni elementi della composita figura divina potrebbero essere stati interpretati come cartigli. La placchetta è documentata tra le ceralacche Nizzoli, BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.2, n. 3 (Tav. 1 e Fig. 2). Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 533, che lo attribuisce alla collezione Palagi.

g) 7. MCABo-EG 2603. La descrizione corrisponde a un unicum della collezione bolognese, uno scarabeo del cuore con appiccagnolo a foro passante e 12 righe di testo incise alla base, in faïence di colore lapislazzuli. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2603, che lo attribuisce alla collezione Palagi; Catalogo Mostra Bologna 1990, n. 202; Picchi 2009a, n. 7.

p) 187. Due ceralacche, BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.2, nn. 8-9 (Tav. 1 e Fig. 2), che recano impressa la stessa placchetta con i primi due nomi del faraone Nectanebo I, entrambi racchiusi in cartiglio, sembrano corrispondere a questo oggetto Nizzoli, non conservato presso la collezione egiziana di Bologna e già assente nel Catalogo di Antichità Egizie di KminekSzedlo.

h) 8. MCABo-EG 2983: identificazione incerta. Tra i numerosi scarabei per reticella appartenenti alla collezione Palagi, questo è il più simile per dimensioni, colore e caratteristiche formali all’esemplare precedente, a cui rimanda Nizzoli. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2983, che lo attribuisce alla collezione Palagi.

q) 188 a 217. I venticinque scarabei privi di iscrizione alla base di cui Nizzoli evidenzia la raffinatezza di esecuzione «al naturale» e la varietà policroma delle pietre dure utilizzate, non sono riconoscibili tra i numerosi altri esemplari simili della collezione Palagi. Ritengo inoltre improbabile la presenza dei cinque esemplari iscritti alla base con geroglifici tra le ceralacche bolognesi, anche se non lo si può escludere in assoluto.

i) 9 a 14. La descrizione sommaria non permette di individuare questi sei scarabei tra i numerosi altri esemplari della collezione Palagi. l) 15 a 164. A questa voce sono quasi sicuramente riconducibili quasi tutti gli scarabei identificati tramite le ceralacche conservate in BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1-3 (Tavv. 2-3 e Figg. 4-7), escludendo gli esemplari con Cartouche da attribuire alla voce successiva e quelli descritti come esemplari unici da Nizzoli in altre voci dell’ARTICOLO VIII del Catalogo Dettagliato. La «Distinta degli oggetti di Antichità crescenti dal Catalogo» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c4), che integra il Catalogo Dettagliato, aggiunge al nucleo, e forse alle ceralacche, «3. Scarabei sul Numo dei 150», valutati da Nizzoli £ 9 milanesi.

ARTICOLO IX ANELLI IN BRONZO, E PIETRA 1. Un anello in bronzo avente nello scudetto uno sparviero inciso con un’Iside davanti.a 2. Altro anello in bronzo con alcuni geroglifici incisi sullo scudetto.b 3. Altro anello di bronzo semplice.c 4. Un anello in pietra corallina rossa bellissima rappresentante due anelli uniti assieme con sopra dello scudetto di ciascuno, un Cartouche pieno di geroglifici. Questo è un anello unico e molto raro.d 5. Uno scarabeo con geroglifici, incassato, e legato in argento, in forma d’anello.e 6 a 7. Altri due simili incassati in oro attorno con geroglifici scolpiti in pietre differenti bellissime, mancanti delle legature come anello, entro cui giravano mediante un perno. In uno di questi vi è un Cartouche sopra una sfinge.f

m) 165 a 184. Ritengo che i 20 scarabei contenenti un cartiglio menzionati a questa voce del Catalogo Dettagliato siano riprodotti nelle ceralacche di BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.2. Per la loro identificazione si rimanda alla successive Tav. 1 e Fig. 2, che ne riportano l’attuale numero di inventario, lo stesso indicato da Kminek-Szedlo nel Catalogo di Antichità Egizie del 1895, e l’eventuale bibliografia. La «Distinta degli oggetti di Antichità crescenti dal Catalogo» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c4), aggiunge al nucleo «1. Scarabeo fra i 20 con cartouche» valutato £ 3 milanesi. 285

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

NOTE

crescenti dal Catalogo» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c4).

a) 1. L’anello non è stato rintracciato tra i materiali di collezione Palagi a Bologna. ARTICOLO XI AMULETI IN PIETRE DURE DIFFERENTI

b) 2. MCABo-EG 3709. La descrizione potrebbe corrispondere a un anello, in argento ossidato molto simile al bronzo, individuato di recente tra materiali vari di collezione Palagi e mancante nello Catalogo di Antichità Egizie di Kminek-Szedlo. Inedito.

1 a 80. Ottanta amuleti in pietre dure, diverse bellissime e rare e di differenti colori: il lavoro di questi amuleti è minuto e bene eseguito, ed alcuni hanno inoltre dei geroglifici.a

c) 3. Nessun anello con queste caratteristiche è attualmente conservato presso la sezione egiziana del Museo Civico Archeologico di Bologna. Non si esclude che il monile, forse molto semplice e con caratteristiche non specificatamente egiziane, possa essere confluito in qualche altro nucleo di antichità palagiane.

NOTE a) 1 a 80. Anche in questo caso la descrizione assolutamente generica degli amuleti, così come le centinaia di esemplari che potrebbero corrispondervi nella collezione Palagi, rendono inutile qualsiasi tentativo di identificazione. La presentazione del nucleo fatta da Nizzoli risulta invece accattivante e apprezzabile ai fini di una sua futura vendita. Anche in questo caso la «Distinta degli oggetti di Antichità crescenti dal Catalogo» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 2, lett. c4) aggiunge agli esemplari computati nel Catalogo Dettagliato «1. Amuleto in pietra dura» valutato £ 3 milanesi.

d) 4. MCABo-EG 453. La descrizione corrisponde a uno splendido anello in diaspro rosso a doppio cartiglio del faraone Horemheb. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 453, che lo attribuisce alla collezione Palagi; Jaeger 1993, n. 102, che lo identifica già come Nizzoli. e) 5. Solo poche impronte su ceralacca del Nizzoli non trovano corrispondenza nei materiali di collezione Palagi oggi a Bologna, e tra queste una impronta di scarabeo o di placchetta ovale con montatura a castone, che ne ha impedito la buona qualità di dettaglio nella ceralacca, benchè ripetuta due volte, BCABo, Mss. Palagi, cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.3, nn. 48 e 56 (Tav. 2 e Fig. 5). Per tale ragione si preferisce lasciare in sospeso qualsiasi ipotesi riguardante questo anello.

ARTICOLO XII PIETRE INCISE 1 a 5. Cinque pezzi in pietra così detta del paragone con figure, e caratteri (che sembrano Greci) incisi in ambo le parti.a

f) 6. Identificazione incerta (Cfr. supra). 7. MCABo-EG 2456. La descrizione corrisponde a uno scarabeo a nome del faraone Thutmosis II, in steatite invetriata di colore verde con montatura in oro, riprodotto anche dalla ceralacca Nizzoli BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.3, n. 54 (Tav. 2 e Fig. 5). Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 2456, che lo attribuisce alla collezione Palagi; Jaeger 1993, n. 7, che lo identifica già come Nizzoli.

NOTE a) 1 a 5. Nizzoli descrive così cinque “amuleti magici”, o meglio “gemme magiche”, che devono celarsi tra quelle di collezione incerta del Museo Civico Archeologico di Bologna. Cfr. Mandrioli Bizzarri 1987, 129-136.

ARTICOLO X AMULETI IN LAPIS LAZZOLI

ARTICOLO XIII OGGETTI CUFICI

1 a 26. Ventisei Idoletti e Divinità differenti coi loro attributi in lapislazzuli.a

1 a 13. Tredici pezzi rotondi di vetro scritti internamente a caratteri cufici in rilievo.a

NOTE

NOTE

a) 1 a 26. Gli amuleti palagiani in lapislazzuli conservati attualmente a Bologna sono 68 e tra questi, benché non più identificabili, si trovano quasi per certo anche gli esemplari Nizzoli, incluso l’«Idoletto di Lapislazzoli» elencato nella «Distinta degli oggetti di Antichità

a) I gettoni di vetro raccolti da Nizzoli appartengono ad alcuni califfi fatimiti (X-XII secolo d.C.) di cui riportano il nome e la titolatura. Sono attualmente conservati presso il Medagliere del Museo Civico Archeologico di Bologna all’interno di un nucleo palagiano costituito da 29 286

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

esemplari dello stesso tipo, tra i quali risulta difficile identificare i tredici del Catalogo Dettagliato.

Nizzoli. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 3017, che attribuisce gli amuleti alla collezione Palagi; Govi Morigi, Pernigotti 1994, 111.

ARTICOLO XV OGGETTI IN ORO

g) 7. MCABo-EG 3061. Questo numero di inventario identifica l’unica lamina in oro con immagine del dio Thot a testa di ibis presente nella collezione bolognese. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 3061, che lo attribuisce alla collezione Palagi.

1. Un piccolo pettorale largo poll. 2 e alto 1 con geroglifici.a 2. Un rotolo somigliante ad un piccolo papiro di fina lastra d’oro lungo poll. uno e mezzo.b 3. Un così detto Occhio, in oro.c 4. Un gattino in lastra d’oro.d 5. Un’anima in figura d’uccello con viso umano ad ali stese tutta d’oro.e 6. I così detti quattro Elementi dorati a stucco sul legno, alti ciscuno, poll. 3 e mezzo.f 7. Un’Ibis in lastra d’oro.g

Nota alle Tavole: Tavv. 1-3: - all’interno di ogni bifolio le ceralacche sono state numerate in sequenza e, seguendo un andamento per quanto possibile regolare, riga per riga, che i campi di colore bianco e grigio alternati nelle tavole permettono di distinguere.

NOTE a) 1. MCABo-EG 3047. L’amuleto corrisponde a un unicum della collezione Palagi e dell’intera collezione bolognese. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 3047, che lo attribuisce alla collezione Palagi.

-

per ogni ceralacca si è indicata in una colonna dedicata la presenza reale e talvolta presunta da Nizzoli di Cartouche.

Tav. 4: - si è ritenuto utile riassumere in elenco i numeri di inventario che identificano presso il Museo Civico Archeologico di Bologna gli oggetti Nizzoli descritti e riconosciuti per le parti del Catalogo Dettagliato esaminate in questo articolo.

b) 2. MCABo-Pal. 298. L’amuleto, che anche in questo caso corrisponde a un unicum della collezione Palagi e dell’intera collezione bolognese, non compare in Kminek-Szedlo 1895. c) 3. MCABo-Pal. 401 (?). Questo pendente, costituito da una doppia lamina ad occhio udjat con foro passante trasversale, sembra identificabile con l’amuleto del Catalogo Dettagliato più di quanto non lo siano due lamine in oro decorate a sbalzo con occhio udjat, sempre appartenenti alla collezione Palagi (MCABo-EG 3052 e 3053). Cfr. Kmink-Szedlo 1895, nn. 3052-3053, che attribuisce le due lamine alla collezione Palagi, mentre non accenna al pendente figurato; Govi Morigi, Pernigotti 1994, 141. d) 4. La collezione bolognese non conserva alcun amuleto in oro a sembianze di gatto. Sorge il dubbio che Nizzoli confonda una piccolissima immagine della dea Hathor a testa vaccina (MCABo-EG 3059) con questo felino, ma si tratta di una ipotesi non dimostrabile. e) 5. MCABo-EG 3056. L’amuleto, costituito da due lamine lavorate a sbalzo e poi sovrapposte, rappresenta un altro unicum della collezione Palagi e dell’intera collezione bolognese. Cfr. Kminek-Szedlo 1895, n. 3056, che lo attribuisce alla collezione Palagi; Bologna 1990, n. 225; Govi Morigi, Pernigotti 1994, 141; Picchi 2009c, 207. f) 6. MCABo-EG 2017. Questo gruppo di geni funerari, figli di Horo, in cartonnage dorato di raffinata esecuzione, corrisponde perfettamente alla descrizione di 287

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav. 1: «Cairo 23. aprile 1826 / GNizzoli» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.1-3) Figg. 1-3 Ceralacca n. Lett. c1, c.2, r.1 1 2

Nizzoli Art.n.

MCABo Inv. n.

Bibliografia

VIII.15-164

Art. VIII.165-186 «con Cartouche» No

EG 2665

VIII.165-186

Si (1)

EG 2665

3

VIII.186

Si (2) (?)

EG 533 (?)

4

VIII.165-186

Si (1)

EG 504

5

VIII.165-186

Si (1)

EG 504

c1, c.2, r.2 6 7

VIII.185

Si (1)

EG 448

VIII.185

Si (2)

EG 448

8=9

VIII.187

Si (2)

Manca

Kminek-Szedlo n. 2665; Jaeger n. 113. Scarabeo a testa di ariete a nome di Shabaka (base) Kminek-Szedlo n. 2665; Jaeger n. 113. Scarabeo a testa di ariete a nome di Shabaka (dorso) Kminek-Szedlo n. 533. Placchetta inedita. Nizzoli vede 2 cartigli Kminek-Szedlo n. 504; Jaeger n. 83. Placchetta rettangolare a nome di Thutmosis IV Lato B Kminek-Szedlo n. 504; Jaeger n. 83. Placchetta rettangolare a nome di Thutmosis IV Lato A Kminek-Szedlo n. 448; Jaeger n. 78. Placchetta rettangolare a nome di Thutmosis III e altro re. Lato A Kminek-Szedlo n. 448; Jaeger n. 78. Placchetta rettangolare a nome di Thutmosis III e altro re. Lato B Kminek-Szedlo manca. Doppio cartiglio di Nectanebo I.

c1, c.2, r.3 10 11

VIII.165-186

Si (2)

EG 2501

VIII.165-186

Si (1)

EG 2498

12

VIII.165-186

Si (1)

EG 2475

13

VIII.15-164

No

EG 2573

14

VIII.165-186

Si (1)

EG 2507

c1, c.2, r.4 15 16

VIII.15-164

Si (?)

EG 522

VIII.15-164

No

EG 538

17

VIII.165-186

Si (1)

EG 2483

18

VIII.165-186

Si (1)

EG 2466

19

VIII.165-186

Si (1)

EG 2474

c1, c.2, r.5 20 21

VIII.165-186

Si (1)

EG 503

VIII.15-164

No

EG 503

22

VIII.165-186

Si (1)

EG 512

23

VIII.15-164

No

EG 512

24

VIII.165-186

Si (1)

EG 2526

c1, c.2, r.6 25 26

VIII.15-164

No

EG 526

Kminek-Szedlo n. 2507; Jaeger n. 43. Scarabeo a nome corrotto di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 522. Amuleto-sigillo figurato a cartiglio inedito Kminek-Szedlo n. 538. Amuleto-sigillo figurato a cartiglio inedito Kminek-Szedlo n. 2483. Jaeger n. 124. Scarabeo a nome di Thutmosis III. Scomparso da Bologna post 1895 Kminek-Szedlo n. 2466; Jaeger n. 27. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2474; Jaeger n. 28. Scarabeo a nome di Thutmosis III e Sety I Kminek-Szedlo n. 503; Jaeger n. 95. Placchetta rettangolare a nome di Amenhotep III. Lato A Kminek-Szedlo n. 503; Jaeger n. 95. Placchetta rettangolare a nome di Amenhotep III. Lato B Kminek-Szedlo n. 512; Jaeger n. 71. Placchetta ovale a nome di Thutmosis III. Lato A Kminek-Szedlo n. 512; Jaeger n. 71. Placchetta ovale a nome di Thutmosis III. Lato B Kminek-Szedlo n. 2526; Jaeger n. 88. Scarabeo a nome di Amenhotep III Kminek-Szedlo n. 526. Placchetta ovale inedita. Lato A

VIII.15-164

No

EG 526

Kminek-Szedlo n. 526. Placchetta ovale inedita. Lato B

27

VIII.165-186

Si (1)

EG 2546

Kminek-Szedlo n. 2546. Scarabeo inedito

28

VIII.165-186

Si (1)

EG 2459

29 = c2, c.3, n.43

VIII.165-186 (?)

Si (1) ?

EG 2461

30

VIII.15-164

No

EG 2562

Kminek-Szedlo n. 2459; Jaeger n. 1. Scarabeo a nome di Micerino Kminek-Szedlo n. 2461; Jaeger n. 14. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2562. Scarabeo inedito

c1, c.3, r.1 31 c1, c.3, r.2 32 c1, c.3, r.3 33 c1, c.3, r.4 34

VIII.4

No

EG 2624

Kminek-Szedlo n. 2624. Scarabeo del cuore inedito

VIII.1

No

EG 2605

Kminek-Szedlo n. 2605. Scarabeo del cuore inedito

VIII.2

No

EG 2616

Kminek-Szedlo n. 2616. Scarabeo del cuore inedito

VIII.3

No

EG 2615

Kminek-Szedlo n. 2615. Scarabeo del cuore inedito

288

Kminek-Szedlo n. 2501; Jaeger n. 55. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2498; Jaeger n. 17. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2475; Jaeger n. 117. Scarabeo a nome pseudo-regale Kminek-Szedlo n. 2573. Scarabeo inedito

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav. 2: «Cairo 23. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.1-3) Fig. 4 Ceralacca n. Lett. c2, c.2, r.1 1 2

Nizzoli Art.n.

MCABo Inv. n.

VIII.15-164

Art. VIII.165-186 «con Cartouche» No

EG 2970

Kminek-Szedlo n. 2970. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2587

Kminek-Szedlo n. 2587. Scarabeo inedito

3

VIII.15-164

No

EG 3007

Kminek-Szedlo n. 3007. Scarabeo inedito

4

VIII.15-164

No

EG 2991

Kminek-Szedlo n. 2991. Scarabeo inedito

5

VIII.15-164

No

EG 2675 1/2

c2, c.2, r.2 6 7

VIII.15-164

No

EG 2765

Kminek-Szedlo n. 2675 1/2; Jaeger n. 103. Scarabeo a nome di Sety I Kminek-Szedlo n. 2765. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2704

Kminek-Szedlo n. 2704. Scarabeo inedito

8

VIII.15-164

No

EG 2747

Kminek-Szedlo n. 2747. Scarabeo inedito

9

VIII.15-164

No

EG 520

Kminek-Szedlo n. 520. Placchetta quadrangolare inedita

c2, c.2, r.3 10 11

VIII.15-164

No

EG 3003

Kminek-Szedlo n. 3003. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2652

Kminek-Szedlo n. 2652. Scarabeo inedito

12

VIII.165-186

Si (?)

EG 2756

Kminek-Szedlo n. 2756. Scarabeo inedito

13

VIII.15-164

No

EG 2644

Kminek-Szedlo n. 2644. Scarabeo inedito

14

VIII.15-164

No

EG 2577

Kminek-Szedlo n. 2577. Scarabeo inedito

c2, c.2, r.4 15 16

VIII.15-164

No

EG 3032

Kminek-Szedlo n. 3032. Scaraboide inedito

VIII.15-164

No

EG 3009

Kminek-Szedlo n. 3009. Scarabeo inedito

17

VIII.15-164

No

EG 2670

18

VIII.15-164

No

EG 2645

Kminek-Szedlo n. 2670; Jaeger n. 114. Scarabeo a nome di Menibra Kminek-Szedlo n. 2645. Scarabeo inedito

19

VIII.15-164

No

EG 2481

c2, c.2, r.5 20 21

VIII.15-164

No

EG 2702

Kminek-Szedlo n. 2481; Jaeger n. 9. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2702. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

Fer 3386

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

22

VIII.15-164

No

EG 2974

Kminek-Szedlo n. 2974. Scarabeo inedito

23

VIII.15-164

No

EG 2578

Kminek-Szedlo n. 2578. Scarabeo inedito

24

VIII.15-164

No

EG 2571

Kminek-Szedlo n. 2571. Scarabeo inedito

c2, c.2, r.6 25 26

VIII.15-164

No

EG 2759

Kminek-Szedlo n. 2759. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2680

Kminek-Szedlo n. 2680. Scarabeo inedito

27

VIII.15-164

No

EG 542

28

VIII.15-164

No

EG 3018

Kminek-Szedlo n. 542. Amuleto-sigillo figurato a stele centinata con pesce a rilievo su un lato, inedito Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

29

VIII.15-164

No

EG 2721

Kminek-Szedlo n. 2721. Scarabeo inedito

30

VIII.15-164

No

EG 3000

Kminek-Szedlo n. 3000. Scarabeo inedito

c2, c.2, r.7 31 32

VIII.15-164

No

EG 2999

Kminek-Szedlo n. 2999. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

Fer 3387

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

33

VIII.15-164

No

EG 2727

Kminek-Szedlo n. 2727. Scarabeo inedito

34

VIII.15-164

No

EG 506

Kminek-Szedlo n. 506. Placchetta ovale inedita

35

VIII.15-164

No

EG 2774

Kminek-Szedlo n. 2774. Scarabeo inedito

289

Bibliografia

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav. 2: «Cairo 23. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.1-3) Figg. 4-5 Ceralacca n. Lett. c2, c.2, r.8 36 37

Nizzoli Art.n.

MCABo Inv. n.

VIII.15-164

Art. VIII.165-186 «con Cartouche» No

VIII.15-164

No

EG 2648

Kminek-Szedlo n. 2535; Jaeger n. 116. Scarabeo a nome di Ouahibra Kminek-Szedlo n. 2648. Scarabeo inedito

38

VIII.15-164

No

EG 3034

Kminek-Szedlo n. 3034. Scaraboide inedito

39

VIII.15-164

No

EG 506

Kminek-Szedlo n. 506. Placchetta ovale inedita

40

VIII.15-164

No

EG 2570

Kminek-Szedlo n. 2570. Scarabeo inedito

c2, c.3, r.1 41 42 = c3, c.3, n.65

VIII.15-164

No

EG 562 (?)

VIII.15-164

No

Fer 3390

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

43 = c1, c.2, n.29

VIII.165-186

Si (?)

EG 2461

44 = c3, c.2, n.27

VIII.15-164

No

EG 569

45

VIII.15-164

No

manca

Kminek-Szedlo n. 2461; Jaeger n. 14. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 569; Jaeger n. 65. Sigillo-amuleto figurato ad occhio udjat a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo manca. Placchetta quadrangolare (?)

46

VIII.15-164

No

manca

47

VIII.15-164

No

manca

48 = 56

VIII.15-164

No

(?)

c2, c.3, r.2 49 50

VIII.15-164

No

EG 525

Kminek-Szedlo n. 525. Placchetta rettangolare inedita

VIII.15-164

No

EG 2657

51

VIII.15-164

No

EG 2635

Kminek-Szedlo n. 2657; Jaeger n. 109. Scarabeo a nome di Ramesse X Kminek-Szedlo n. 2635. Scarabeo inedito

52 = c3, c.3, n.63

VIII.15-164

No

EG 3042

Kminek-Szedlo n. 3042. Scaraboide inedito

53

VIII.15-164

No

EG 553

Kminek-Szedlo n. 553. Sigillo-amuleto figurato ad anatra

54

VIII.165-186

Si (1)

EG 2456

55

VIII.15-164

No

(?)

Kminek-Szedlo n. 2456; Jaeger n. 7. Scarabeo a nome di Thutmosis II montato a castone d’anello Non rintracciato

56 = 48

VIII.15-164

No

(?)

Non rintracciato: castone di anello-sigillo

c2, c.3, r.3 57 58

VIII.15-164

No

EG 525

Kminek-Szedlo n. 525. Placchetta rettangolare inedita

VIII.15-164

No

EG 2752

Kminek-Szedlo n. 2752. Scarabeo inedito

59

VIII.15-164

No

EG 3020

Kminek-Szedlo n. 3020. Scarabeo inedito

60

VIII.15-164

No

Fer 3396

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

61

VIII.15-164

No

EG 2742

Kminek-Szedlo n. 2742. Scarabeo inedito

62

VIII.15-164

No

EG 2993

Kminek-Szedlo n. 2993. Scarabeo inedito

63

VIII.15-164

No

EG 2574

Kminek-Szedlo n. 2574. Scarabeo inedito

64

(?)

(?)

(?)

c2, c.3, r.4 65 66

VIII.15-164

No

EG 2662

Kminek-Szedlo n. 2662. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 3017

Kminek-Szedlo n. 3017. Scarabeo inedito

67

VIII.15-164

No

EG 2534

68

VIII.15-164

No

EG 2568

Kminek-Szedlo n. 2534; Jaeger n. 112. Scarabeo a nome di Shabaka Kminek-Szedlo n. 2568. Scarabeo inedito

69

VIII.15-164

Si (?)

EG 2975

Kminek-Szedlo n. 2975. Scarabeo inedito

70

VIII.15-164

No

EG 2496

Kminek-Szedlo n. 2496; Jaeger n. 56. Scarabeo a nome di Thutmosis III

EG 2535

290

Bibliografia

Kminek-Szedlo n. 562. Amuleto-sigillo figurato ad anatra

Kminek-Szedlo manca. Placchetta quadrangolare, molto probabilmente correlata a n. 47 Kminek-Szedlo manca. Placchetta quadrangolare, molto probabilmente correlata a n. 46 Non rintracciato: castone di anello-sigillo

Non rintracciato

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav. 2: «Cairo 23. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.1-3) Fig. 5 Ceralacca n. Lett. c2, c.3, r.5 71 72

Nizzoli Art.n.

MCABo Inv. n.

VIII.15-164

Art. VIII.165-186 «con Cartouche» No

EG 515

Kminek-Szedlo n. 515. Placchetta rettangolare inedita

VIII.15-164

No

EG 2505

73

VIII.15-164

No

EG 3001

Kminek-Szedlo n. 2505; Jaeger n. 42. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 3001. Scarabeo inedito

74

VIII.15-164

No

(?)

75

VIII.15-164

No

EG 2556

Kminek-Szedlo n. 2556. Scarabeo inedito

76

VIII.15-164

No

EG 2580

Kminek-Szedlo n. 2580. Scarabeo inedito

c2, c.3, r.6 77 78

VIII.15-164

No

EG 515

Kminek-Szedlo n. 515. Placchetta rettangolare inedita

VIII.15-164

No

EG 2540

Kminek-Szedlo n. 2540. Scarabeo inedito

79 = c2, c.3, n.88

VIII.15-164

No

Fer 3418

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

80

VIII.165-186

Si

EG 2547

Kminek-Szedlo n. 2547. Scarabeo inedito

81

VIII.15-164

No

Fer 3414

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

82

VIII.15-164

No

EG 2771

Kminek-Szedlo n. 2771. Scarabeo inedito

c2, c.3, r.7 83 84

VIII.15-164

No

(?)

VIII.15-164

No

EG 2778

Kminek-Szedlo n. 2778. Scarabeo inedito

85

VIII.165-186

Si (1) ?

EG 2649

Kminek-Szedlo n. 2649.

86

VIII.15-164

No

EG 3031

Kminek-Szedlo n. 3031. Scaraboide inedito

87

VIII.15-164

No

EG 2772

Kminek-Szedlo n. 2772. Scarabeo inedito

88 = c2, c.3, n.79

VIII.15-164

No

Fer 3418

Kminek-Szedlo n. 2709 (?). Scarabeo inedito

291

Bibliografia

Non rintracciato

Non rintracciato

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav 3: «Cairo 26. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c3, c.1-3) Fig. 6 Ceralacca n. Lett. c3, c.2, r.1 1 2

Nizzoli Art.n.

MCABo Inv. n.

VIII.15-164

Art. VIII.165-186 «con Cartouche» No

Bibliografia

EG 2678

Kminek-Szedlo n. 2678. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2557

Kminek-Szedlo n. 2557. Scarabeo inedito

3

VIII.15-164

No

EG 517

Kminek-Szedlo n. 517. Placchetta ovoidale inedita

4

VIII.165-186

Si (?)

EG 2650

Kminek-Szedlo n. 2650. Scarabeo inedito

5

VIII.15-164

No

EG 2658

Kminek-Szedlo n. 2658. Scarabeo inedito

6

VIII.15-164

No

EG 2728

Kminek-Szedlo n. 2728. Scarabeo inedito

c3, c.2, r.2 7 8

VIII.15-164

No

EG 2749

Kminek-Szedlo n. 2749. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2541

Kminek-Szedlo n. 2541. Scarabeo inedito

9

VIII.15-164

No

EG 3037

10

VIII.15-164 (?)

No

EG 2990

Kminek-Szedlo n. 3037. Amuleto-sigillo figurato a ciprea inedito Kminek-Szedlo n. 2990. Scarabeo inedito

11

VIII.15-164

No

EG 2972

Kminek-Szedlo n. 2972. Scarabeo inedito

12

VIII.15-164

No

EG 2737

Kminek-Szedlo n. 2737. Scarabeo inedito

c3, c.2, r.3 13 14

VIII.15-164

No

EG 2711

Kminek-Szedlo n. 2711. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2777

Kminek-Szedlo n. 2777. Scarabeo inedito

15

VIII.15-164

No

EG 2996

Kminek-Szedlo n. 2996. Scarabeo inedito

16

VIII.15-164

No

EG 2755

Kminek-Szedlo n. 2755. Scarabeo inedito

17

VIII.165-186

No

Fer 3386

Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

18

VIII.15-164

No

EG 2561

Kminek-Szedlo n. 2561. Scarabeo inedito

c3, c.2, r.4 19 20

VIII.15-164

No

EG 2784

Kminek-Szedlo n. 2784. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 3022

Kminek-Szedlo n. 3022. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2748

Kminek-Szedlo n. 2748. Scarabeo inedito

21 22

VIII.15-164

No

EG 2713

Kminek-Szedlo n. 2713. Scarabeo inedito

23

VIII.15-164

No

EG 2766

Kminek-Szedlo n. 2766. Scarabeo inedito

c3, c.2, r.5 24 25

VIII.15-164

No

EG 3045

Kminek-Szedlo n. 3045. Scaraboide inedito

VIII.15-164

No

EG 3040

Kminek-Szedlo n. 3040. Scaraboide inedito

26

VIII.15-164

No

EG 2977

Kminek-Szedlo n. 2977. Scarabeo inedito

27 = c2, c.3, n.44

VIII.15-164

No

EG 569

28

VIII.15-164

No

Fer 3409

Kminek-Szedlo n. 569; Jaeger n. 65. Amuleto-sigillo figurato a occhio udjat a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

29

VIII.15-164

No

EG 554

c3, c.2, r.6 30 31

VIII.15-164

No

EG 2773

Kminek-Szedlo n. 554. Amuleto-sigillo figurato a gatto inedito Kminek-Szedlo n. 2773. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 3041

Kminek-Szedlo n. 3041. Scaraboide inedito

32

VIII.15-164

No

EG 3046

Kminek-Szedlo n. 3046. Scaraboide inedito

33

VIII.15-164

No

EG 530

34

VIII.15-164

No

EG 2595

Kminek-Szedlo n. 530; Jaeger n. 73. Placchetta ovale a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2595. Scarabeo inedito

35

VIII.15-164

No

EG 2559

Kminek-Szedlo n. 2559. Scarabeo inedito

292

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav 3: «Cairo 26. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c3, c.1-3) Figg. 6-7 Ceralacca n. Lett. c3, c.2, r.7 36 37

Nizzoli Art.n.

MCABo Inv. n.

VIII.15-164

Art. VIII.165-186 «con Cartouche» No

EG 2732

Kminek-Szedlo n. 2732. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2992

Kminek-Szedlo n. 2992. Scarabeo inedito

38

VIII.15-164

No

EG 2457

39

VIII.15-164

No

EG 530

40

VIII.15-164

No

EG 2666

Kminek-Szedlo n. 2457; Jaeger n. 2. Scarabeo a nome di Amenemhat III Kminek-Szedlo n. 530; Jaeger n. 73. Placchetta ovale a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2666. Scarabeo inedito

c3, c.2, r.8 41 42

VIII.15-164

No

EG 2754

Kminek-Szedlo n. 2754. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2764

Kminek-Szedlo n. 2764. Scarabeo inedito

43

VIII.15-164

No

EG 2677

Kminek-Szedlo n. 2677. Scarabeo inedito

44

VIII.15-164

No

EG 2780

Kminek-Szedlo n. 2780. Scarabeo inedito

45

VIII.15-164

No

EG 2995

Kminek-Szedlo n. 2995. Scarabeo inedito

46

VIII.15-164

No

EG 2667

Kminek-Szedlo n. 2667. Scarabeo inedito

c3, c.2, r.9 47 48

VIII.15-164

No

EG 2707

Kminek-Szedlo n. 2707. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 3011

Kminek-Szedlo n. 3011. Scarabeo inedito

49

VIII.15-164

No

EG 2484

50

VIII.15-164

No

EG 2520

51

VIII.15-164

No

EG 2734

Kminek-Szedlo n. 2484; Jaeger n. 51. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 2520; Jaeger n. 4. Scarabeo a nome di Amenhotep Kminek-Szedlo n. 2734. Scarabeo inedito

52

VIII.15-164

No

EG 570

c3, c.3, r.1 53 54

VIII.15-164

No

EG 509

Kminek-Szedlo n. 570. Amuleto-sigillo figurato a nodo, inedito Kminek-Szedlo n. 509. Placchetta quadrangolare inedita

VIII.15-164

No

EG 2557

Kminek-Szedlo n. 2557. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2585

Kminek-Szedlo n. 2585. Scarabeo inedito

VIII.165-186

No

EG 2593

VIII.15-164

No

EG 518

VIII.15-164

No

EG 543

c3, c.3, r.4 59 60

VIII.15-164

No

EG 518

VIII.15-164

No

EG 563

c3, c.3, r.5 61 62

VIII.15-164

No

Fer 3391

Kminek-Szedlo n. 2593; Jaeger n. 110. Scarabeo a nome di un sovrano del Terzo Periodo Intermedio (?) Kminek-Szedlo n. 518; Jaeger n. 72. Placchetta rettangolare a nome di Thutmosis III. Lato B Kminek-Szedlo n. 543. Amuleto-sigillo a testa di negroide inedito Kminek-Szedlo n. 518; Jaeger n. 72. Placchetta rettangolare a nome di Thutmosis III. Lato A Kminek-Szedlo n. 563; Jaeger n. 64. Amuleto-sigillo figurato a gatto (?) a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 2532

c3, c.3, r.6 63 = c2, c.3, n.52 64

VIII.15-164

No

EG 3042

VIII.15-164

No

Ori 107

c3, c.3, r.7 65 = c2, c.3, n.42 66

VIII.15-164

No

Fer 3390

Kminek-Szedlo n. non identificato. Amuleto-sigillo figurato ad anatra inedito Kminek-Szedlo n. non identificato. Scarabeo inedito

VIII.15-164

No

EG 3021

Kminek-Szedlo n. 3021. Scarabeo inedito

c3, c.3, r.2 55 56 c3, c.3, r.3 57 58

293

Bibliografia

Kminek-Szedlo n. 2532; Jaeger n. 31. Scarabeo a nome di Thutmosis III Kminek-Szedlo n. 3042. Scaraboide inedito

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Tav. 4: elenco riassuntivo degli amuleti/scarabei/placchette della terza nizzoliana sino ad ora identificati MCABo-EG 448 MCABo-EG 453 MCABo-EG 503 MCABo-EG 504 MCABo-EG 506 MCABo-EG 509 MCABo-EG 512 MCABo-EG 515 MCABo-EG 517 MCABo-EG 518 MCABo-EG 520 MCABo-EG 522 MCABo-EG 525 MCABo-EG 526 MCABo-EG 530 MCABo-EG 533 MCABo-EG 538 MCABo-EG 542 MCABo-EG 543 MCABo-EG 553 MCABo-EG 554 MCABo-EG 562 (?) MCABo-EG 563 MCABo-EG 569 MCABo-EG 570 MCABo-EG 2017 MCABo-EG 2456 MCABo-EG 2457 MCABo-EG 2459 MCABo-EG 2461 MCABo-EG 2466 MCABo-EG 2474 MCABo-EG 2475 MCABo-EG 2481 MCABo-EG 2483 MCABo-EG 2484 MCABo-EG 2496 MCABo-EG 2498 MCABo-EG 2501 MCABo-EG 2505 MCABo-EG 2507 MCABo-EG 2520 MCABo-EG 2526 MCABo-EG 2532 MCABo-EG 2534 MCABo-EG 2535 MCABo-EG 2540 MCABo-EG 2541 MCABo-EG 2546 MCABo-EG 2547 MCABo-EG 2556 MCABo-EG 2557 MCABo-EG 2559 MCABo-EG 2561 MCABo-EG 2562 MCABo-EG 2568 MCABo-EG 2570 MCABo-EG 2571

MCABo-EG 2573 MCABo-EG 2574 MCABo-EG 2577 MCABo-EG 2578 MCABo-EG 2580 MCABo-EG 2585 MCABo-EG 2587 MCABo-EG 2593 MCABo-EG 2595 MCABo-EG 2603 MCABo-EG 2605 MCABo-EG 2610 (?) MCABo-EG 2615 MCABo-EG 2616 MCABo-EG 2624 MCABo-EG 2635 MCABo-EG 2644 MCABo-EG 2645 MCABo-EG 2648 MCABo-EG 2649 MCABo-EG 2650 MCABo-EG 2652 MCABo-EG 2657 MCABo-EG 2658 MCABo-EG 2662 MCABo-EG 2665 MCABo-EG 2666 MCABo-EG 2667 MCABo-EG 2670 MCABo-EG 2675 1/2 MCABo-EG 2677 MCABo-EG 2678 MCABo-EG 2680 MCABo-EG 2702 MCABo-EG 2704 MCABo-EG 2707 MCABo-EG 2711 MCABo-EG 2713 MCABo-EG 2721 MCABo-EG 2727 MCABo-EG 2728 MCABo-EG 2732 MCABo-EG 2734 MCABo-EG 2737 MCABo-EG 2742 MCABo-EG 2747 MCABo-EG 2748 MCABo-EG 2749 MCABo-EG 2752 MCABo-EG 2754 MCABo-EG 2755 MCABo-EG 2756 MCABo-EG 2759 MCABo-EG 2764 MCABo-EG 2765 MCABo-EG 2766 MCABo-EG 2771 MCABo-EG 2772

294

MCABo-EG 2773 MCABo-EG 2774 MCABo-EG 2777 MCABo-EG 2778 MCABo-EG 2780 MCABo-EG 2784 MCABo-EG 2970 MCABo-EG 2972 MCABo-EG 2974 MCABo-EG 2975 MCABo-EG 2977 MCABo-EG 2983 (?) MCABo-EG 2990 MCABo-EG 2991 MCABo-EG 2992 MCABo-EG 2993 MCABo-EG 2995 MCABo-EG 2996 MCABo-EG 2999 MCABo-EG 3000 MCABo-EG 3001 MCABo-EG 3003 MCABo-EG 3007 MCABo-EG 3009 MCABo-EG 3011 MCABo-EG 3017 MCABo-EG 3018 MCABo-EG 3020 MCABo-EG 3021 MCABo-EG 3022 MCABo-EG 3031 MCABo-EG 3032 MCABo-EG 3034 MCABo-EG 3037 MCABo-EG 3040 MCABo-EG 3041 MCABo-EG 3042 MCABo-EG 3045 MCABo-EG 3046 MCABo-EG 3047 MCABo-EG 3056 MCABo-EG 3061 MCABo-EG 3709 MCABo-Fer. 3386 MCABo-Fer. 3387 MCABo-Fer. 3390 MCABo-Fer. 3391 MCABo-Fer. 3396 MCABo-Fer. 3409 MCABo-Fer. 3414 MCABo-Fer. 3418 MCABo-Fer. 3419 MCABo-Pal. 298 MCABo-Pal. 401 (?). MCABo-Ori 107

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 1: «Cairo 23. aprile 1826 / GNizzoli» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.1)

295

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 2: «Cairo 23. aprile 1826 / GNizzoli» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.2) 296

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 3: «Cairo 23. aprile 1826 / GNizzoli» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c1, c.3)

297

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 4: «Cairo 23. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.2) 298

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 5: «Cairo 23. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c2, c.3) 299

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Fig. 6: «Cairo 26. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c3, c.2) 300

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Fig. 7: «Cairo 26. aprile 1826» (BCABo, Mss. Palagi, Cart. 31, fasc. 4, lett. c3, c.3) 301

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

dedicarvi le giuste energie, dopo aver lavorato all’assestamento e alla riorganizzazione delle attività del Centro stesso.2 Tra le principali motivazioni di questo meeting ci sono proprio la forte presenza e lo straordinario impegno dell’Italia nell’area, impegno che si esplica non solo nell’ambito della ricerca archeologica (sei delle nostre 22 missioni sono infatti concentrate nel Fayyum), ma anche in attività di sostegno all’economia e allo sviluppo, condotte dall’Ambasciata d’Italia, tramite l’Ufficio di Cooperazione allo Sviluppo e gli altri uffici ad esso collegati.

L’IMPEGNO ITALIANO NEL FAYYUM TRA ARCHEOLOGIA, SALVAGUARDIA E SVILUPPO Rosanna Pirelli

Abstract This article focuses on the archaeological activities of the Italian missions in the Fayyum. After a brief outline of the history of the Italian archaeological excavations in the region, the article presents a project, in collaboration with the Egyptian authorities, for the protection, exploitation and development, also on a touristic level, of the region. In this respect, a conference, organized by the Italian Archaeological Centre in Cairo, took place in the Fayyum in November 2010.

Ritengo dunque doveroso, prima di affrontare l’argomento centrale del mio contributo, presentare qualche breve cenno sulla presenza e l’attività italiana nella regione, proprio per rendere omaggio a tutti quegli studiosi e quegli esperti italiani che hanno dedicato nel passato il proprio lavoro a questa regione d’Egitto, e a tutti coloro che attualmente continuano a farlo.3 Dopo le brevi notizie riportate da Belzoni, che visitò il Fayyum nel 1819, le prime ricerche italiane nell’area sono legate soprattutto alla nascita della papirologia in Egitto, di cui i nostri studiosi sono stati tra i padri fondatori. A differenza delle ricerche condotte fino a quel momento, soprattutto dall’Egypt Exploration Society, che si erano concentrate unicamente sul rinvenimento di papiri, gli scavi italiani furono da subito caratterizzati da una notevole attenzione anche agli aspetti archeologici e topografici.

Quale attuale responsabile del Centro Archeologico Italiano al Cairo,1 sono lieta di poter consegnare questo mio contributo per il volume dedicato al Professor Sergio Pernigotti. Inizialmente avevo pensato di portare a compimento un articolo sul quale lavoravo da qualche tempo, poi ho creduto più giusto modificare i miei piani e mettere per iscritto tutte le idee, le riflessioni e i risultati di discussioni su un tema che certamente riflette più da vicino gli interessi del Professor Pernigotti: mi riferisco all’attività archeologica e alle ricerche, soprattutto italiane, nella regione del Fayyum. L’impegno del Professor Pernigotti e della missione da lui diretta a Bakchias data infatti dal 1993 e mi auguro dunque di fargli cosa gradita presentando in queste pagine la genesi e lo sviluppo del progetto che mi ha portato all’organizzazione del Colloquio Internazionale “Paesaggio naturale e paesaggio culturale nel Fayyum. Tutela e gestione dei siti di interesse ambientale e archeologico”.

Ad Achille Vogliano (Firenze 1881 – Milano 1953), dobbiamo non soltanto il rinvenimento dei papiri di Tebtynis, ma anche gli importanti risultati degli scavi di Medinet Madi (1935-1939), con la scoperta del tempio della XII dinastia, poi inglobato nel complesso cultuale di Epoca Tolemaica e Romana (Tempio A e B), il rinvenimento degli Inni di Isidoro e il fondamentale archivio di testi greci e demotici e greco-demotici su ostraka. Anche Evaristo Breccia (Offagna 1876 – Roma 1967), che diresse il Museo greco-romano di Alessandria tra il 1904 e il 1932 succedendo a Giuseppe Botti, dedicò una parte della propria ricerca al Fayyum. Scavò prima a Thedelphia (1912-1913), dove identificò il vero tempio di Pnepheros, praticamente intatto, con alcune delle sue porte in legno ancora al proprio posto; rinvenne e smontò (portandole ad Alessandria) strutture architettoniche, sculture ed epigrafi risalenti all’epoca della fondazione (Tolomeo II) e della vita del santuario, oltre a oggetti di uso quotidiano, pochi ostraka e un numero cospicuo di

Premesse L’idea di una messa a punto sulla situazione generale dei siti archeologici del Fayyum era nata già all’inizio del mio mandato (nel luglio 2008) presso il Centro Archeologico Italiano, ma ho potuto solo di recente 1 Il Centro Archeologico Italiano è stato inaugurato il 26 ottobre 2008, in occasione della visita di stato del Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, in Egitto. Non si tratta tuttavia della creazione di un ente del tutto nuovo, quanto di una nuova sistemazione della storica “Sezione archeologica”, fondata dalla compianta Carla Maria Burri. La sede e l’organizzazione amministrativa restano gli stessi, ma, secondo i progetti dell’Ambasciatore italiano Claudio Pacifico, si tratta anche di un primo passo verso la creazione di una nuova entità che in futuro potrà più autonomamente rappresentare la ricca e diversificata attività archeologica italiana in Egitto.

2 La mia presa di servizio è avvenuta un anno dopo il termine del mandato del mio predecessore, Maria Casini e, nonostante in quell’arco di tempo l’ordinaria amministrazione sia stata egregiamente portata avanti dalla signora Cecile Safwat, le manifestazioni culturali avevano subito – com’è naturale – una battuta d’arresto. 3 Sulla storia della ricerca italiana nel Fayyum, cfr. Casini 2001; sulle missioni attuali e i risultati recenti, Pirelli 2009 e 2010 (quest’ultimo di prossima uscita); per una storia generale dell’attività archeologica nel Fayyum, cfr. Davoli 1998.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

monete databili al IV secolo d.C., epoca del suo abbandono.

kom nord – di un nuovo tempio dedicato al dio Soknobraisis e un complesso termale.

Più a lungo, Breccia si dedicò a Tebtynis, dove lavorò a partire dal 1929, prima come direttore della missione papirologica e poi come collaboratore della missione archeologica italiana diretta da Carlo Anti. Quest’ultimo continuò a dirigere gli scavi fino al 1935, sebbene dal ’33, a causa dei suoi impegni accademici quale rettore dell’Università di Padova, l’attività sul campo fu affidata ad un suo collaboratore, Gilberto Bagnani.

Dal 2003 opera a Soknopaiou Nesos/Dime una missione dell’Università di Lecce diretta da Mario Capasso e Paola Davoli. La città visitata da Belzoni e Lepsius, fu scavata dalla Egypt Exploration Society, da Caton-Thompson e Gardner e dalla Michigan University nei primi decenni del 1900, per essere poi trascurata fino all’inizio dei lavori della missione italiana, che ha riportato alla luce il dromos e ha di recente terminato lo scavo del tempio tolemaico dedicato al dio Soknopaiou. La missione ha inoltre realizzato una pianta dettagliata della città ed ha intrapreso ricognizioni geomagnetiche e geoarcheologiche delle aree circostanti. Prosegue inoltre lo studio sistematico dei numerosi papiri e ostraka – demotici, greci e copti –, che il sito restituisce annualmente.

Il drammatico insorgere della II guerra mondiale portò ad una generale interruzione dell’attività archeologica, che però riprese nella regione nel 1966, ad opera della missione dell’Università di Pisa, diretta da Edda Bresciani, tuttora attivissima. Oltre a portare avanti gli scavi di Vogliano, la missione si è resa protagonista di un importante progetto di salvaguardia e valorizzazione dell’area di Medinet Madi e di Saqqara nord, in collaborazione con il Supreme Council of Antiquities, la cui seconda fase giunge in questi giorni a compimento: si tratta del progetto ISSEMM (Institutional Support to Supreme Council of Antiquities for Environmental Monitoring and Management of Cultural Heritage Sites: applications to Fayoum Oasis and North Saqqara Necropolis) finanziato dalla Cooperazione italiana, che ha ormai quasi completato l’istituzione del Parco archeologico-naturalistico di Medinet Madi-Wadi Rayan. Sempre nel Fayyum, Edda Bresciani ha lavorato a Kom Madi e Kom Medinet el-Nihas, e ha di recente portato a compimento il restauro conservativo della tomba del principe Wadj, nella necropoli del Medio Regno di Khelwa.

Una missione dell’Università di Siena a Qasr Qarun/ Dionysias, diretta da Emanuele Papi, ha intrapreso da due anni una ricognizione dettagliata del sito, con una serie di obiettivi che vanno dalla ricostruzione della topografia della città all’identificazione della sua struttura e organizzazione nel corso del tempo; per ampliare poi la propria indagine all’ambiente naturale circostante con particolare riferimento alle risorse idriche e all’individuazione delle attività produttive della città e della sua area. Claudio Gallazzi, dell’Università di Milano, dirige dal 1988 una missione congiunta con l’IFAO, che ha intrapreso uno scavo sistematico ed estensivo di Tebtynis, mettendo in sicurezza le strutture man mano riportate alla luce. Negli ultimi anni la missione sta concentrando il proprio intervento nella parte orientale del sito, e portando alla luce strutture e tombe di Epoca Bizantina.

La seconda missione (in quanto ad anzianità) completamente italiana che opera attualmente nel Fayyum, è quella dell’Università di Bologna diretta da Sergio Pernigotti, che lavora sul sito di Bakchias/Kom Umm el-Atl dal 1993. La cittadina fu erroneamente citata nel 1819 da Belzoni, che credette di identificarla nel sito di Dime; fu poi visitata da Petrie che ne diede una brevissima descrizione, e sottoposta a una prima serie di interventi di scavo nel 1896 da parte della Egypt Exploration Society, che vi cercava sostanzialmente il luogo di provenienza dei numerosi papiri, comparsi in quegli anni sul mercato antiquario. I lavori della missione attuale, in origine condotti insieme all’Università di Lecce e successivamente all’Università di Roma e al Centro papirologico “Medea Norsa” dell’Università di Trieste, ha ripreso e proseguito, con rigorosi metodi scientifici, i lavori iniziati dalla Egypt Exploration Society e ha dato l’avvio alla ricostruzione topografica della città, espandendo l’area di intervento anche al kom sud, dove, in tempi recenti, sono stati riportati alla luce un granaio di notevoli dimensioni e i resti di due monumenti cristiani, il secondo dei quali rappresenta un raro esempio di edificio ecclesiastico tardo-antico egiziano. A questi ultimi anni, risale anche il rinvenimento e lo scavo – nel

Altrettanto attiva è la presenza nel Fayyum della Cooperazione italiana non solo con programmi ambientali, ma anche con interventi di sostegno socioeconomico, miranti a guidare lo sviluppo della regione.4 L’International Organization for Migration, inoltre, sta mettendo a punto un progetto legato alle scuole alberghiere per un approccio più consapevole degli studenti locali al territorio, allo scopo di aumentare le loro possibilità di impiego nella propria terra (o all’estero) ed impedire il fenomeno, purtroppo molto consistente, dell’emigrazione clandestina.5 Una presenza di esperti del nostro paese così ampia e diversificata rappresenta a mio parere un punto di partenza importante, per affrontare questioni complesse i cui livelli di intervento non possono essere collocati solo sul piano della ricerca scientifica, ma devono invece sperare di intervenire in profondità per giungere a dare un 4 Per le attività dell’Ufficio di Cooperazione allo sviluppo dell’Ambasciata d’Italia in Egitto, cfr. il relativo sito [www.utlcairo.org]. 5 Per ulteriori notizie, cfr. [www.iom.int/jahia/jsp/index.jsp].

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

contributo fattivo ad un’area dell’Egitto che, sebbene di notevolissimo interesse, vive oggi un periodo di grande povertà e arretratezza.

affliggono la regione, le serie difficoltà economiche di un’area in cui il turismo stenta molto a decollare, e in cui il valore della terra è legato soprattutto a quello che può dare in termini di sfruttamento agricolo; dove, in altre parole, lo spazio concesso alla salvaguardia del patrimonio culturale è stretto tra le necessità di sostentamento e sopravvivenza della popolazione e i tentativi – finora non riusciti – di rilanciare la sua economia attraverso la trasformazione della regione in meta di un turismo di massa.

Mi è apparso in tal senso doveroso “sfruttare” proficuamente la lunga esperienza dei nostri studiosi e delle nostre istituzioni e creare in fase preliminare momenti di confronto sulla situazione complessiva di quest’area, partendo dal valore del suo patrimonio storico-culturale, per approdare ad un’analisi dei possibili interventi miranti alla sua salvaguardia e valorizzazione. Man mano che andavo avanti nei colloqui, mi confermavo nell’idea che tutto ciò non poteva essere condotto nella semplice ottica della identificazione, costituzione e salvaguardia di un patrimonio dedicato e destinato a pochi studiosi, ma doveva essere inserito in una più ampia visione che potesse accompagnare lo sviluppo culturale, sociale ed economico della regione nel suo complesso. Senza il coinvolgimento diretto di chi in una regione deve vivere e creare il proprio futuro, è infatti difficile concepire interventi efficaci e soprattutto duraturi, seppur in un campo così specifico quale la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio archeologico.

Tale realtà, peraltro già parzialmente emersa nel corso dei colloqui con gli esperti della Cooperazione allo sviluppo, imponeva la ricerca di soluzioni di ampio respiro e la ideazione di progetti che prevedessero interventi in fasi successive da distribuire nel medio e lungo termine. L’idea originaria si fonda infatti su interventi semplici ma concreti, concepiti per rendere più facilmente visitabile la regione e i suoi siti archeologici anche dal singolo turista/studioso/studente, tramite l’istituzione di “Punti di informazione” e la creazione di un percorso archeologico – riportato su ampi pannelli con la mappa della regione, collocati nei crocevia – che possa collegare virtualmente le singole aree di interesse. I “Punti d’informazione” dovrebbero fornire opuscoli generali sul Fayyum e più specifici sui singoli siti, questi ultimi redatti opportunamente dalle stesse missioni archeologiche che vi lavorano, allo scopo di dare il maggior numero di informazioni aggiornate e utili a capire non solo il significato e la funzione delle singole strutture, ma anche il valore complessivo di quel sito e della rete di siti in cui questo era, nelle diverse epoche della sua storia, inserito.

Progetto e discussioni Date le premesse, la complessità e, forse, l’ambizione del progetto, ho ritenuto importante allargare il più possibile le basi della discussione e coinvolgere anche altri enti e istituzioni egiziane ed internazionali. Allo stato attuale, il colloquio vanta il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia, del Supreme Council of Antiquities e del Governatorato del Fayyum, ed è finanziato principalmente dall’Istituto Italiano di Cultura, con la collaborazione dell’Ufficio di Cooperazione allo Sviluppo dell’Ambasciata d’Italia, del Programma italoegiziano per la Cooperazione Ambientale e dell’ufficio UNESCO del Cairo (sia dell’area culturale sia del Ecological and Earth Sciences Division), che hanno contribuito anche a redigerne il Concept Paper.

I “Punti d’informazione” dovrebbero recare inoltre nominativi e coordinate di un certo numero di persone, selezionate tra la comunità locale, che possano coadiuvare i turisti nel loro spostamento e nella individuazione dell’itinerario in base alle proprie esigenze, nonché prevedere nel tempo la costituzione di punti di ristoro con la possibilità di pernottamento. La ricostruzione di un Museo del Fayyum rappresenta a mio parere un altro elemento fondamentale di valorizzazione, ed il museo, peraltro già programmato dal Supreme Council of Antiquities, si andrebbe ad inserire proficuamente nel piano di sviluppo basato sul turismo archeologico che il Colloquio si prefigge, tra gli altri obiettivi, di contribuire a mettere a punto.

Inoltre, partendo dalla necessità di definire i contorni del ricchissimo patrimonio storico-archeologico della regione, sono stati coinvolti i direttori delle missioni straniere che hanno condotto o stanno ancora conducendo ricerche nell’area, i docenti della Facoltà di Archeologia dell’Università del Fayyum, e docenti di altre Università ed enti egiziani e internazionali che hanno dedicato i propri studi ad aspetti della regione o a problematiche ad essa connesse.

Infine, con la collaborazione di tutti gli enti coinvolti, il Centro archeologico intende farsi promotore e sostenitore della richiesta di inserimento del maggior numero dei siti nelle liste del Cultural Heritage dell’UNESCO, per i conseguenti vantaggi che potrebbe comportare in termini di salvaguardia dei siti e di possibilità di usufruire di fondi internazionali per la loro gestione.

Un grosso contributo alla comprensione dei problemi del Fayyum mi è stato fornito dalle autorità locali, in primo luogo dal Governatore e dai suoi consulenti, alcuni dei quali sono peraltro docenti della facoltà del Turismo dell’Università del Fayyum. I colloqui intercorsi con loro mi hanno aiutato a capire i motivi dei gravi problemi che

Nel corso dei colloqui, tuttavia, proprio quest’ultimo punto è apparso uno dei più difficili da realizzare 305

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

soprattutto per la complessità e la lunghezza delle procedure, che avrebbero potuto scoraggiare le autorità locali e bloccare l’inizio degli interventi. Inoltre sottoporre alla Tentative list dell’UNESCO un così ampio numero di siti avrebbe potuto seriamente compromettere l’accettazione di una parte di essi, mentre pensare di iscrivere tutta l’area del Fayyum nel suo insieme sarebbe stato sicuramente giudicato negativamente, sia per le dimensioni dell’area stessa sia per la sua situazione complessiva.

in Italia in seno alla commissione parlamentare per la costituzione di parchi archeologici. Raccogliendo dunque tutti questi stimoli, suggerimenti, contributi, sono giunta a concepire l’ossatura del Colloquio, ma anche le linee di un documento che è stato nel tempo ampiamente aggiornato, e che spero potrà essere la base per ulteriori approfondimenti, per portare, al termine del colloquio, alla firma congiunta di una Declaration, nella quale si definiranno in sintesi le necessità e si identificheranno la natura e le modalità di interventi futuri nella regione.

È stato in questa fase che, da ulteriori colloqui con gli esperti dell’Ufficio di Cooperazione, è emersa l’idea di prendere a modello il trattamento delle “aree protette”, così come concepite dalla legislazione italiana, con la creazione di parchi di interesse non solo archeologico ma anche naturalistico-ambientale. Una soluzione peraltro già sperimentata di recente in Egitto con un progetto pilota finanziato dalla Cooperazione, e realizzato con successo sotto la direzione scientifica congiunta di Edda Bresciani e di Zahi Hawass.

Il Colloquio Tra gli scopi primari del Colloquio resta la realizzazione di una mappa completa della situazione attuale dei siti archeologici – con un ampliamento ai siti di interesse naturalistico –, che costituisca la base per l’identificazione di chiare direttrici volte alla più efficace gestione di tutto il partrimonio, in una prospettiva di sviluppo socio-economico della regione.

Il progetto ISSEMM può infatti costituire – per l’ampiezza delle indagini e i risultati raggiunti – un punto di partenza e di riferimento per immaginare e quindi proporre ai nostri colleghi egiziani una strada da percorrere insieme per il futuro.

Pur permanendo sostanzialmente gli assunti originari, sulla base dei colloqui intercorsi e delle adesioni ricevute, le sessioni precedentemente stabilite sono state lievemente modificate, come segue:

Ciò apre dunque più ampi orizzonti, in cui non solo i siti archeologici, ma anche quelli di interesse naturalistico devono essere presi in considerazione, perché ciò che si cercherà di realizzare è proprio un sistema globale di valorizzazione e sviluppo dell’area, fondato sull’identificazione e la conoscenza delle proprie radici culturali e del proprio ambiente.

La I Sessione, IL FAYYUM OGGI, manterrà il suo precedente obiettivo, ossia quello di introdurre il pubblico alle condizioni generali della regione, alla sua situazione sociale ed economica, con una panoramica sulle attività e i progetti relativi all’ambiente e al patrimonio archeologico.

A tal scopo, un ulteriore confronto si è aperto con alcuni enti italiani che hanno già lavorato alla istituzione di parchi e/o hanno già realizzato progetti simili, e con i quali si potrebbe costruire non solo un dialogo, ma, ci si augura, anche la messa a punto di progetti congiunti e gemellaggi. Mi riferisco per esempio all’interessantissima esperienza dei Parchi della Val di Cornia,6 in Toscana, il cui direttore ha accettato di venirci a parlare della struttura da loro realizzata, e dell’impatto che questa ha avuto sulla realtà economica e sociale della regione. O alla realizzazione di master congiunti in tema di architettura del paesaggio, propostomi da una serie di esperti della Fondazione Paestum che hanno progettato aree espositive, percorsi e musei all’aperto, che ben si adatterebbero alla realtà dei siti del Fayyum.

La II Sessione, IL FAYYUM NEL PASSATO, costituirà la base indispensabile per una discussione approfondita su tutti i siti ad oggi riconoscibili, a partire da quelli contenenti le antichissime tracce faunistiche di mammiferi (lo Wadi el-Heitan, per esempio) fino alle prime testimonianze dell’attività umana nella zona, per giungere a quelli più consistentemente rilevabili, databili dal Neolitico fino al Periodo Greco-Romano; questi ultimi peraltro, in base alle più recenti indagini, stanno rivelando sempre più significative testimonianze delle successive fasi bizantina e islamica. La III Sessione, IL FAYYUM NEL FUTURO, è stata suddivisa in tre sottosettori: a) uno relativo alla gestione dei siti, con proposte di soluzioni per la loro salvaguardia e valorizzazione; b) il secondo che si concentrerà sull’importanza della riapertura di un museo del Fayyum, nel quale verrà presentato il progetto del Supreme Council of Antiquities, l’esperienza dell’UNESCO relativa al Museo della Nubia e i progetti per quello di Wadi Halfa; le proposte di studiosi di archeologia e storia dell’arte romana;

Un ulteriore contributo in tal senso verrà dal responsabile della Ecological and Earth Sciences Division dell’UNESCO, Mohamed al Awaah, e dall’intervento della professoressa Francesca Ghedini che sta lavorando 6 Il sistema dei Parchi della Val di Cornia, include 2 Parchi Archeologici, 4 Parchi Naturali, 3 Musei e 1 Centro di Documentazione, inclusi nell’area di cinque Comuni all’estremo sud della provincia di Livorno, di fronte all’isola d’Elba: cfr. [www.parchivaldicornia.it].

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

c) l’ultimo sottosettore sarà dedicato alla presentazione di proposte per lo sviluppo di un turismo culturale eco-sostenibile, sia da parte di istituzioni ed esperti locali, sia di studiosi ed esperti italiani.

creando link non solo con gli altri tipi di siti e località (legate per esempio ad un particolare artigianato locale), ma anche con indicazioni di centri di ristoro, punti di informazione, luoghi per il pernottamento;

La IV sessione sarà, come in precedenza, dedicata alla discussione di un documento che molti dei partecipanti hanno contribuito a definire e che ha come scopo finale la protezione e lo sviluppo del Fayyum nel suo insieme, da realizzare in tre fasi successive.

f.

Bozza aggiornata del documento Fase I – Affidata per lo più alle istituzioni archeologiche (egiziane, italiane, e di altri paesi coinvolti) in collaborazione la Cooperazione Italiana e l’UNESCO, prevede: a.

la definizione di percorsi virtuali che colleghino i siti, segnalati da pannelli descrittivi e indicatori di direzione (creati in collaborazione con le missioni archeologiche);

c.

l’istituzione di “Punti di informazione” lungo il percorso;

d.

la redazione di opuscoli informativi da distribuire nei “Punti di informazione”, da aggiornare in base alla nuove scoperte;

e.

7

a. controllare i flussi turistici in entrata nei vari siti; b. distribuire materiale informativo e assistere i visitatori; c. collegare la nuova realtà agli uffici per il turismo regionale e a quelli nazionali.

la creazione di una mappa generale dei siti archeologico-naturalistici del Fayyum, all’interno della quale selezionare, secondo una serie di criteri condivisi, i siti più significativi ed adatti a divenire meta di turismo culturale, ed intorno ai quali si potranno creare “fasce protette” o “aree di rispetto”, sull’esempio della legislazione italiana relative alle aree protette. A tal scopo potrebbe essere utile cominciare proprio dalla reale attivazione – sul modello del Wady el Heitan – dell’area protetta di Wadi el Qattrani a nord del Birqet Qarun. Tale area peraltro esiste già sulla carta, ed è provvista di un certo numero di rangers e di un responsabile7. Si potrebbe provvedere a renderne attiva la protezione con punti di controllo nelle piste di ingresso al Fayyum dal deserto, e la costruzione di percorsi/piste per auto che non danneggino i siti archeologici. La creazione di un “Punto di informazione” potrebbe completarne la fruibilità e consentirci in tempi brevi di realizzare un primo esempio concreto di quello che potrebbe divenire una realtà per tutti i siti selezionati.

b.

i corsi di formazione per le comunità locali, nell’ambito di un programma che l’IOM (International Organization of Migration) sta preparando, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione egiziano e il Governatorato del Fayyum, per le scuole superiori egiziane e che potrebbe prevedere, nell’ambito di nuovi curricula in corso di definizione, l’introduzione di alcune ore relative al patrimonio culturale. Giovani, formatisi nella scuola turistico-alberghiera del Fayyum, potrebbero in futuro collaborare a:

g.

la proposta, in collaborazione con lo SCA e l’EEAA, di iscrizione di una serie di siti nelle liste del World Heritage dell’UNESCO. Questo punto che risultava essere il primo del precedente documento, potrà divenire più facilmente realizzabile, una volta poste le basi di una più sicura e costante fruibilità dei siti;

h.

la prioritaria richiesta congiunta, da inoltrare ai Ministeri egiziani competenti, di facilitare il flusso di visitatori diretti al Fayyum, eliminando o riducendo gli ostacoli che oggi rallentano l’accesso alla regione dalle strade principali. In questo modo, si potrà evitare il ricorso all’accesso (non controllato) dal deserto;

Fase II – pertinente allo SCA e alle istituzioni locali, con la partecipazione attiva della comunità scientifica, nella quale si potrà realizzare un polo museale, quale fondamentale centro di studio ed esposizione dei materiali archeologici, ed intorno al quale si potrebbe costruire una parte importante dello sviluppo turistico della regione, ma anche della consapevolezza dei suoi abitanti. Per quanto riguarda questo punto non potranno che essere le istituzioni locali a prendere decisioni e provvedimenti, ma certamente la comunità scientifica e di esperti non si sottrarrà dall’impegno di contribuire con l’esperienza nata dal lavoro sul campo. Fase III – affidata per lo più agli enti turistici e governativi locali e nazionali, in collaborazione con gruppi di lavoro dell’UNESCO, che si dividerà in due principali momenti:

la realizzazione o completamento di un sito web, nel quale integrare tutto quanto è già presente nei database del Governatorato e nei siti delle missioni,

Hossam Kamel, Fayoum Protected Areas Manager.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Teorico, finalizzato a:

4) definizione dettagliata di ciò che si potrà realizzare nel corso delle vari fasi di sviluppo, con un presa in carico precisa dei compiti che ciascun partecipante si impegnerà a realizzare.

a. identificare il potenziale di un progetto ecoturistico, in base all’analisi dei bisogni della comunità; incoraggiare la sua partecipazione attraverso il sostegno di ricerche sull’eco-turismo per valutarne i limiti e le opportunità; istituire un web database di “buone pratiche” dell’eco-turismo; b. promuovere la conoscenza e (creare) opportunità di apprendimento per la partecipazione della comunità sia attraverso workshop-tirocini, sia attraverso l’elaborazione di materiale didattico, in difesa della comunità e della gestione ambientale, all’interno di un quadro per lo sviluppo appropriato alla regione; c. promuovere un sistema di conservazione basato sulla comunità, attraverso lo sviluppo di iniziative come la creazione di giardini botanici e riserve biologiche.

Sono fermamente convinta che, se i partecipanti vorranno tutti dare il proprio qualificato contributo, ognuno per la propria specifica area di competenza, sarà possibile dare vita a progetti dall’impatto più che positivo sulla regione. Per parte nostra, credo che potremo facilmente individuare, insieme ai nostri partner egiziani, nuove linee di intervento, non solo come archeologi ed esperti del passato di quest’area, ma anche come consapevoli operatori del recupero e della trasmissione di questo patrimonio alle generazioni future.

Bibliografia

Operativo, che pianifichi una rete formata dai singoli siti di interesse sia archeologico che ambientale, nei quali si cercherà di creare:

Casini M. (ed.) 2001. Cento Anni in Egitto: percorsi dell’archeologia italiana. Milano, Electa. Davoli P. 1998. L’Archeologia urbana nel Fayyum di età ellenistico-romana. Napoli, Generoso Procaccini.

1) B&B, attraverso la trasformazione di case locali in luoghi di ristoro, che possano provvedere a vitto e qualche alloggio (con la supervisione dell’UNESCO e in base a casi già esistenti in altre comunità egiziane); 2) Visitor Centres (sull’esempio di altri progetti simili, gia’ realizzati dalla Cooperazione); 3) piccole e controllate aree commerciali.

Pirelli R. (ed.) 2009. Ricerche Italiane e Scavi in Egitto III, Il Cairo. Pirelli R. (ed.) 2010. Ricerche Italiane e Scavi in Egitto IV, Il Cairo.

Questo punto è estremamente importante, perché attualmente la ricettività della regione è molto bassa e i punti di sosta e/o di ristoro si limitano a pochi grandi alberghi e a qualche “eco-lodge”, che non riescono però a far fronte all’accoglienza di tutte le categorie di visitatori. Conclusioni Il Colloquio si prefigge l’obiettivo di mettere in cantiere progetti realistici e semplici che, pur nell’ottica di tempi medio-lunghi per giungere a totale compimento, comportino già da subito una serie di impegni e di azioni concrete. Per questo, in relazione al documento, sarà fondamentale che, al momento della discussione e della firma, si saranno definiti con chiarezza i seguenti punti, che potranno renderne possibile l’operatività: 1) creazione di una lista il più possibile completa, nella quale i siti potranno essere collocati secondo una graduatoria; 2) definizione di priorità e criteri per la creazione della graduatoria stessa; 3) possibilità, dopo l’inserimento del primo gruppo di siti tra le aree protette, di accedere alla lista globale e attivare la stessa procedura per siti collocati in successione; 308

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In quanto alla «“seconda” Ahmes», ipotizzai allora che potesse trattarsi di un riferimento a una ‘gemella’, e non ho cambiato idea, o almeno non ho nessuna novità da suggerire. Non ho novità da proporre nemmeno per le grafie di nomi e dati seguenti, ma almeno ritengo di aver trovato due paralleli.

NOTE DA RILEGGERE Gloria Rosati

Short notes, corrections, interpretations concerning Middle Kingdom objects, mainly stelae: – stela located at Baroda, Museum and Picture Gallery; – fragment preserved in Rome, Museo Barracco; – stela located at Denderah; – stela CGC 20464 (+ Rovigo 12 and Hermitage 8729); – stela CGC 20344.

Il primo mi era sfuggito già allora: avevo citato per un confronto paleografico una stele della XVIII dinastia,3 e proprio lì sopra alla figura dell’offerente sta l’iscrizione: in~sn~sanx~rn.f.... Il termine sn, inteso ovviamente come «suo fratello» da Garstang, in realtà è scritto solamente con sn + n e determinativo maschile, senza possessivo. Il secondo confronto si trova nel volume a cura dell’Università di Pisa dedicato alle antichità egizie conservate in India. Una stele attribuita al tardo Medio Regno – Secondo Periodo Intermedio mi ha subito colpita: si tratta della stele del «sandal maker Hor».4

Penso che si consideri opportuno offrire a un festeggiato come il Prof. Pernigotti qualcosa che rispecchi i suoi interessi e che abbia, se non altro, quella ‘solidità’ data dall’impegno della ricerca. Spero che gradisca, in alternativa, qualche stralcio dai miei appunti: riletture, correzioni, materiale tenuto da parte, con note personali, ma nulla di concluso, o solo momentaneamente. Magari solo dati da cui partire per cercare ancora e oltre.

L’oggetto è interessante, sembra di buona qualità e, a parte la perdita di quasi tutta la pittura, anche ben conservato. Ne offro qui il mio disegno e le mie letture: «Offerta che il re fa e che fa Ptah, il Bello-diVolto, Signore di Ankh-taui: possa egli concedere un’invocazione di offerte di pane e birra, buoi e uccelli, vasi d’alabastro e stoffe, incenso e unguenti, offerte e vivande, ogni cosa buona e pura di cui vive il dio, al ka del calzolaio Horkhuef, che ripete la vita».

Si tratta in generale di stele, tutte databili al Medio Regno ‘ampio’, e conservate oggi in un molto ampio contesto geografico. 1) In India (Fig. 1)

Il calzolaio, che ritengo porti un nome finora noto per l’Antico Regno,5 è raffigurato al di sotto assieme a tre donne, e due lo abbracciano, in un atteggiamento molto affettuoso e notevole dal punto di vista iconografico. Ognuna ha la sua didascalia:

Mi sono interessata, alcuni anni fa, alla tipologia delle statuette private attribuibili al periodo del tardo Medio Regno – Secondo Periodo Intermedio. Quando ho avuto l’opportunità di studiarne alcune inedite, conservate proprio nel Museo Egizio di Firenze,1 di una in particolare mi è sembrato il caso di tenere a portata di mano e di ‘nota’ l’iscrizione, perché a mio parere ha qualcosa di poco usuale.

A sin. → «La sposa di lui, la musicista (Smayt) awy(.i?)-rdi(w?)-st».6 Al centro ← «La sorella, la signora della casa / Rn.f-rs(w)».7 A ds. ← «La sorella, la signora della casa / Nbw-Hr-S.s».8

Si tratta della statuetta di Gehuti-Ra,2 che potrebbe essere attribuibile piuttosto alla XVIII dinastia. Mi colpì allora una particolarità epigrafica sulla base della statuetta, ossia una grafia – diciamo – “difettiva” di «fratello » e di «sorella ». Nelle iscrizioni che sulla base della statuetta si riferiscono ai familiari del proprietario, viene nominata la «madre di lui», e un «Inenu che fa vivere il nome di loro». Sul lato successivo, sono nominati:

Ecco ancora due sorelle che, a differenza della moglie, non sono dette «di lui» (e nemmeno «di lei», cioè della moglie) sebbene sembri probabile che lo siano, e come 3

Garstang 1901, Pl. XXII, E 193. Stele a Baroda, Museum and Picture Gallery, inv. n. EG 92: BrescianiBetrò 2004, 80 (Plate), 247. La si direbbe di origine menfita, invece risulta acquistata a Luxor. 5 ¡r-xwj.f, Ranke 1935, 250, 11; da 251, 8 una serie di nomi analoghi formati su ¡ri invece che ¡r, come sulla stele: -i/j potrebbe essere in luogo di un determinativo? A proposito di revival, ricordo che anche l’onomastica riflette tendenze ‘arcaizzanti’: es. Rosati 1980, 22-23 nota 51. 6 Cfr. Ranke 1935, 57, 1. 7 Ranke 1935, 223,16 (+ Ranke 1952, 373): attestato come m., ma esistono bene i nomi femminili con rn.f: es. 223, 6, 10, 17; uno dei primi è segnalato in Franke 2007, 165 nota 61. Per l’atteggiamento della donna, cfr. Ramond 1977, Pl. IV. 8 Ranke 1935, 191, 23 (+ Ranke 1952, 368). 4

«La sorella Sen(.i?)-hotep», con determinativo femminile; «La ‘seconda’ Ahmes», con determinativo femminile; «Il fratello (sn, m.) Gehuti», con determinativo femminile; «Il fratello (sn, m.) Nebpet», con determinativo femminile.

1 2

Rosati 2006. Museo Egizio di Firenze, inv. n. 1787: Rosati 2006, 230-233.

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nell’esempio di Firenze il termine è scritto solo con il segno T 22, fonetico sn, qui con l’uscita -t e il determinativo femminile.

frattura restaurata, orizzontalmente in alto. Un’altra crepa orizzontale è presente nel frammento maggiore, in basso. La decorazione è eseguita mediante tecniche differenti. In alto è una porzione di listello orizzontale in rilievo, che separa e limita quel poco che resta dello spazio soprastante, il quale è comunque visibilmente più alto rispetto a quello sottostante, ossia il campo sottostante, decorato, è su un piano sbassato rispetto alla parte superiore.18 La parte decorata comprende in alto una iscrizione geroglifica incisa, che serve – come io credo – da didascalia per una figura di coppiere (al di sotto al centro), reso mediante incisione e leggerissimo rilievo entro incavo. A destra in basso è un altro elemento verticale, in rilievo entro leggerissimo incavo: simile al listello in alto, termina però con un apice un poco ingrossato e vagamente tondeggiante.

Nemmeno in questo caso so immaginare una qualche spiegazione plausibile, e non mi resta che continuare a tener da parte e di conto l’oggetto e la sua testimonianza. Anche perché, oltre a quanto già notato, ci sono due particolarità epigrafiche che mi invitano a cercarne confronti: una è l’incrocio delle “code” – letteralmente – dei segni D e f in Df(Aw) al r. 2 (oltre alla grafia ‘sintetica’ del termine), e poco prima il segno-Ss (in Ss~mnxt) che ha in più un piccolo elemento orizzontale al di sotto. Qualcosa di simile, almeno per l’‘incrocio’, si trova su una stele recentemente scoperta a Karnak,9 e in una già da tempo a New York.10 Altri confronti possibili li forniscono le stele a Vienna ÄS 97,11 ÄS 171,12 ÄS 204;13 quest’ultima anche per l’elemento sotto il segno-Ss, un semplice tratto orizzontale come lo si riscontra sulla stele, sempre a Vienna, ÄS 132.14 Incrocio, grafia Df(A)w e trattino sotto Ss sono anche sulla stele ÄS 91.15

Il coppiere al centro, volto a sinistra, è piegato in avanti nel gesto di versare da una brocca, che stringe con la mano sinistra per la parte più stretta, in basso, il contenuto liquido entro una coppa sorretta dalla mano destra. Pur nelle ridotte dimensioni, i particolari del viso sono ben disegnati; ha calotta liscia e una linea incisa alla base del collo; indossa un gonnellino con parte anteriore triangolare, il cui bordo interno e la cintura sono definiti da incisioni sottilissime.

Finora però il confronto più convincente e stimolante mi pare che sia quello con la stele a Mosca, Pushkin Museum of Fine Arts, I 1a 5608.16 È certo assai simile la decorazione delle lunette, con il segno-Sn collocato molto in basso; corrisponde pure la grafia di Ss , e vi è Df(A)w. Inoltre, nella parte figurata, si riscontrano analogie nella resa del profilo della testa maschile, come in quella della cintura del gonnellino con annodamento vistosamente all’in su, ed anche nei profili femminili, con la banda dell’acconciatura che taglia la resa del collare, sebbene nella stele di Mosca sui corpi femminili sia segnato il profilo dello stacco delle gambe dal fianco, che manca invece nella stele a Baroda. Insomma, la ben più articolata stele oggi a Mosca mi sembra che abbia elementi in comune e sia non troppo dissimile, in quanto alla mano dello scultore, da quella che oggi è a Baroda, e forse val la pena cercarne conferme.

Davanti alla coppa, all’estremità sinistra, è un elemento più o meno triangolare, lievemente stondato, che si percepisce in rilievo nonostante le scheggiature. A mio parere si tratta del naso di una figura maschile stante, e ritengo che l’elemento verticale in basso a destra sia la parte terminale, l’apice di un lungo bastone che lo stesso personaggio tenga con la mano sinistra, secondo una iconografia assai comune. La figuretta di un coppiere è ben testimoniata su stele o scene parietali nel Primo Periodo Intermedio e fino al primo Medio Regno.19 In questo caso si troverebbe fra il volto del personaggio principale, maschile, e l’apice del suo bastone: meno frequente di altre soluzioni, è però nota.20

2) A Roma (Fig. 2)

Al di sopra del coppiere, l’iscrizione geroglifica, che mantiene l’orientamento della figura, deve riferirsi a lui come didascalia, e ne restituisce il nome:

La collezione egizia del Museo Barracco comprende un frammentino che vorrei ricondurre ad una epoca diversa dalle datazioni proposte.17 Si tratta di una piccola porzione di un rilievo parietale o di una stele, ricomposta a sua volta da due frammenti, dei quali è ben visibile la

[i]n.t.f~ms~ir…f […(forse irty.f(y)…) «Antef nato da Irti.fi…(?)»

9

El-Enani 2008: Cairo JE 37515. MMA 63.154: Fischer 1996, 139. 11 Hein, Satzinger 1989, 4, 5-8 12 Hein, Satzinger 1989, 4, 124-128. 13 Hein, Satzinger 1989, 4, 162-167. 14 Hein, Satzinger 1989, 4, 34-38. 15 Hein, Satzinger 1993, 7, 12-16. 16 Hodjash, Berlev 1973, 5-11; Hodjash, Berlev 1982, n. 38. 17 Inv. n. 320: Sist 1996, 96; Careddu 1985, 42-43 n. 49. Misure: h. cm 13, largh. cm 10 max. Desidero ringraziare con molta cordialità la dr.ssa Maddalena Cima, che mi ha lasciato esaminare liberamente l’oggetto. 10

18 Cfr. nella stessa collezione la stele di Keti, attribuita all’inizio della XII din.: Sist 1996, 32-33; Careddu 1985, tav. 8. 19 Clère 1950, 23-26 e fig. 2; Fischer 1968, 110-111. Ancora in Kubisch 2000, 246 Abb. 1. Io stessa mi sono occupata di una stele, nota solo da una fotografia e mai rintracciata, forse dell’XI dinastia, nella quale era presente un piccolo coppiere: Rosati 1987. 20 Cfr. Vandier 1936, Pl. II,1; Dunham 1937, St. 3 Pl. III.1; St. 78, Pl. XXVIII.2 (=Hayes 1953, Fig. 83); sono addirittura due i piccoli personaggi nelle St. 73, Pl. XXVII.1, e St. 84, Pl. XXXII, e ancora in Fischer 1981, Fig. 3.

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Il nome si colloca naturalmente nel I Periodo Intermedio e fino al Medio Regno iniziale, anche se è ben noto fino al Nuovo Regno.21 Il matronimico non è perfettamente leggibile e comunque incompleto: per i primi due segni, due occhi mi sembrano più probabili di un occhio con un complemento fonetico r, anche se ne risulta un nome meno frequente come formazione,22 e con un suffisso di genere maschile in un nome femminile, che però non meraviglia più di tanto.23 L’espressione di filiazione è del tipo più antico,24 ed il segno-ms, in grafia derivata dalla ieratica, ha confronti nel primo Medio Regno.25

1: (lettura ←) «Offerta che [il re] fa e che fa Osiri, Signore di Busiri, Dio Grande Signore di Abido: 2: (lettura →) possa egli concedere un’invocazione di offerte di pane e birra, buoi e uccelli, migliaia di vasi d’alabastro e stoffe, ogni cosa […] // (lettura ↓←) Ded (oTjetj ?), giustificato».

Dunque per questo piccolo frammento mi sembra assai probabile una retrocessione a circa il 2000 a.C.: può trattarsi di un rilievo parietale, ma anche di una stele privata, e in questo caso di dimensioni non poco considerevoli.

Alcuni elementi consentono di proporre una datazione al Medio Regno e più precisamente alla sua fase iniziale, ma direi già alla XII dinastia, essendo presente il di.f nella formula d’offerta, ed essendoci l’epiteto mAa-xrw dopo il nome del destinatario.29

Per l’appunto la grafia del nome è proprio incerta: il segno superiore non è molto diverso dal d che è complemento fonetico di ©dw nel primo rigo, ma non so decidere fra la lettura ¨d(w) proposta o un §T.28

Perciò, sebbene l’iscrizione sia molto breve, si verrebbe ad arricchire il dossier delle stele che dimostrano una tendenza a sperimentare questa particolarità di lettura nel primo Medio Regno, tendenza che tende a decrescere in epoche successive: ad una indagine che ho avuto occasione di fare anni fa, escludendo i casi delle sole didascalie da leggersi in senso retrogrado, il Primo Periodo Intermedio brilla per questa tendenza, testimoniata dalla stele Torino Suppl. 1266 e da quella del Museo Civico di Asola.30 Includerei nel gruppo delle ‘avanguardie’ anche la stele di Firenze inv. 7592,31 che presenta non lettura bustrofedica, ma tre fasce orizzontali con iscrizioni divergenti e da leggersi dalla fascia più bassa a quella più alta! Comunque anche questa potrebbe già assegnarsi alla XII dinastia, come la stele di Dendera e come CGC 20407,32 che ha un solo rigo da leggersi all’opposto, mentre considererei più tarda, anche della XIII dinastia, la CGC 20073,33 un’altra stele con testo veramente bustrofedico.

3) A Dendera (Fig. 3) A voler essere entusiasti a tutti i costi, si potrebbe salutare un altro testo bustrofedico! Pochi anni fa è uscito un articolo ovviamente interessante, perché vi si descrivevano oggetti nuovi. Yahia El-Masry presentava stele o frammenti di stele databili all’Antico e Medio Regno e provenienti dai nòmi IV-V e VIII dell’Alto Egitto.26 Nel magazzino di Dendera è conservata la stele frammentaria che ci interessa qui.27 Rettangolare, altezza doppia della larghezza conservata, non si è perso molto della decorazione originaria: mancano alcune offerte sulla destra, pochi segni dell’iscrizione incisa in alto. Il campo è dominato dalla figura del destinatario, i cui particolari sono resi a quanto pare in parte in incavo e in parte in rilievo entro incavo. Posa tradizionale, lungo bastone nella sinistra e scettro tenuto orizzontalmente nella destra, capigliatura a riccioli resi da una ‘griglia’ di linee incise, collare molto sottile e gonnellino corto trapezoidale. Al di là del lungo bastone stava il cumulo di offerte, delle quali restano in alto parte di un coscio di bue e, sopra una sorta di canestro, tre delle forse quattro anfore vinarie tappate.

4) Al Cairo – 1: CGC 20464 (Tav. 1 e Fig. 4)

In alto è una fascia limitata da due listelli orizzontali, occupata da due righi paralleli di iscrizione, senza linea divisoria, entrambi orientati a destra, ma il secondo deve essere letto da sinistra a destra (la traduzione proposta nell’edizione segue i vari segni, ma chiaramente all’inverso), e probabilmente termina e si completa con il nome del destinatario scritto verticalmente, a mo’ di didascalia davanti al suo viso:

Ricevere la fotografia di questa stele dal Museo del Cairo è stata per me una grande gioia.34 Non ho mai nascosto una certa predilezione per alcuni prodotti diciamo… umili, per altri forse rozzi, risalenti al Medio Regno ed ai Periodi Intermedi ad esso prossimi. Questa foto mi consente di riconoscere un altro oggetto come prodotto di un anonimo scultore che già conosco, non proprio un artista: doveva lavorare in uno dei principali centri religiosi egizi, Abido, ed era costretto a cimentarsi forse

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Ranke 1935, 34, 1, in-it.f (+ Ranke 1952, 341); cfr. Fox 1977. Ranke 1935, 42, 14 ss. 23 Se ne trovano molti in Ranke 1935, passim, e si veda anche sopra alla nota 7. Rammento, per averlo incontrato di recente, il nome femminile Merirtifi, «io amo gli occhi di lui» (Ranke 1935, 155, 25). Recentissimo un esame dell’argomento per il tardo Medio Regno: Grajetzki 2010. 24 Schenkel 1962, 75; sulla maniera di introdurre il matronimico, Obsomer 1993 e da ultimo Postel 2009 e Rosati 2009. 25 Si vedano per esempio le stele dell’XI din. di Antef II e di Maati: Hayes 1953, 152-153. 26 El-Masry 2006. 27 El-Masry 2006, n. 2.1, 187-188, Fig. 6 e Pl. XXXI-B.

Nomi tutti ben noti: Ranke 1935, 401,3 e 402,1 e13; e 395,18 e 24. Bennett 1941, 26; Franke 2003, 46-47; Schenkel 1962, 76. 30 Rosati 2003a, 375-378. 31 Bosticco 1959, 26-27 n. 21. Altri esempi in Fischer 1986, 110 ss. 32 Lange-Schäfer 1908, 8. 33 Lange-Schäfer 1902, 87. 34 Ne sono molto riconoscente alla Direttrice del Museo, Wafaa ElSaddiq, ed alla sua collaboratrice Mrs. Hanane Gaber, ed al fotografo Sameh Abdel Mohsen, che ha eseguito un ottimo lavoro. La stele è pubblicata in Lange-Schäfer 1908, 62, ma, appunto, senza una figura. Le misure sono indicate come h. cm 22,5 x largh. 16,0. La provenienza è Abido.

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spesso e con fatica con incisioni di geroglifici su oggetti a carattere religioso-funerario, privi di pretese, da vendere ai tanti ‘pellegrini’ che arrivavano da tutte le parti dell’Egitto. Tali oggetti, come piccole stele e statuette, restituiscono per lo più nomi di persone qualsiasi, ed erano destinati – com’è noto – ad essere lasciati lì, presso il grande tempio di Osiride o vicino al percorso delle solenni processioni in suo onore, a beneficio di quanti vi erano appunto nominati.

1- «Offerta che il re fa e che fa Osiri, Signore di Abido, al ka di Wepwawet (?)38 nato da Nebudies; (e di) *Sehetep39 nato da Nebudies; (e) al ka di *Nebudies nata da *Senet,40 dotata di privilegio; 5- al ka di *Sebekhotep nato/a (?) da (?) *T?-beb(?); al ka di Disen41 nata da Peret;42 al ka di *Renseneb nato da Nebudies; al ka di Renseneb nato da Disen, dotato di privilegio; (e di) Renseneb nato da Sebek(?)-…43».

Il caso vuole che almeno su tre piccole stele che ci sono pervenute, due con provenienza sicura, lo scultore abbia lasciato il suo ‘marchio’: nella lunetta ha realizzato sempre la coppia di occhi-wDAt in una maniera peculiare, ossia con le appendici dell’occhio disposte all’inverso, il ‘ricciolo’ verso l’interno invece che verso l’esterno. Il primo esemplare in cui mi sono imbattuta è la stelina conservata al Museo dell’Accademia dei Concordi a Rovigo, pubblicata per la prima volta da C. Dolzani.35 (Tav. 2) In seguito l’ho riconosciuto nella altrettanto piccola stele dell’Hermitage di San Pietroburgo inv. n. 8729 (Fig. 5).36 Gli editori avevano ben sottolineato i legami familiari desumibili da quest’ultima stele con quelli di CGC 20464, ma solo la foto, che non era mai stata pubblicata, ha potuto confermare che lo scultore era lo stesso. Dunque, uno stesso scultore ha eseguito i modesti oggetti votivo-funerari per i nuclei familiari di Rovigo 12, e per il nucleo più largo attestato all’Hermitage e al Cairo: in nessuno dei casi ha migliorato la sua mano…

Il rigo 5 è il più problematico, sebbene si abbia il riscontro diretto nella stele A, rigo 3: lì il comunissimo nome Sebekhotep è inteso come femminile, in quanto sono letti irt. n i segni seguenti (con t in posizione scambiata rispetto a n). Sarebbe però l’unico caso, sulle tre stele, di un matronimico introdotto da iri invece che da msi. Nella stele A, rigo 7, risulta ancora figlia di Nebudies questa Beb, come leggono gli Editori, non considerando intenzionale un segno precedente che pare proprio un t, e che è presente anche nella stele B. Il problema è che qui, nella stele B, c’è anche un ms.n dopo Sebekhotep e prima dei tre segni che non sono diversi da quelli letti irt. n nella stele A! Dunque, o in A è stato dimenticato un ms/t.n prima di un nome non bene comprensibile, che finisce con -bb e riducibile appunto a bb; oppure il ms.n è di troppo in B, oppure è da leggere mst.n, con un grande segno-t tracciato almeno come un segno-r o quasi ir, vistosamente in contrasto con quello sottostante, che io credo intenzionale, qui come in A, 3 e 7.

Si confermano le altre particolarità epigrafiche, come il segno-c (S 29) tracciato quasi come una U rovesciata, il segno per ¤bk simile allo ieratico, la maniera di incidere il segno-ms (F 31). Rispetto alle steline di Rovigo e San Pietroburgo, questa del Cairo, più rozza e meno rifinita, che appare quasi ancora da regolarizzare, mostra inoltre zone abrase e consunte, ma una certa irregolarità nell’incisione si direbbe effettiva, originaria, a giudicare dai segni più o meno profondi, alcuni appena graffiti.

Insomma, questi oscuri personaggi, fra cui domina la gran madre Nebudies, non si svelano ancora completamente, almeno per il momento. Noto che il nome femminile Peret è anche nella stele di Rovigo, e c’è anche un Sebekhotep maschile. Ma sono nomi assai comuni nel tardo Medio Regno e anche nel Secondo Periodo Intermedio, quando la frequentazione del santuario di Abido continuò incessante, e il nostro scultore era al lavoro…

La lettura non è per nulla facile, e per ora temo di dover lasciare alcuni interrogativi non risolti, anche se i dati desumibili dalla stele in Russia (che per comodità chiamerò qui di seguito stele A, e stele B la CGC 20464) aiutano in parte la ricostruzione. La formula d’offerta è in entrambe brevissima, senza nemmeno la menzione di prtxrw.

5) Al Cairo – 2: CGC 20344 (Tav. 3) Mi trovo fra le cose tenute da parte qualche diapositiva di qualità molto mediocre, prese ormai molti anni fa al Museo del Cairo, in epoca (almeno per me) pre- o protodigitale. Essendo stata allora, all’epoca degli scatti,

Il nome di una madre ricorre con frequenza, come nella stele A, e concordo con la lettura Nbw-di.s.37 Nemmeno questa del Cairo è però dedicata a lei, o almeno i primi nomi che compaiono sono quelli di due suoi figli (segno con asterischi i personaggi presenti sia in A che in B):

38

Forse solo Wp-wAwt, Ranke 1935, 77,17. Ranke 1935, 317, 28, solo m.; Ranke 1952, 388. 40 Ranke 1935, 311, 12, anche qui senza il segno-sn, come in A. È vuoto lo spazio dove si aspetterebbe un determinativo. 41 Ranke 1935, 398, 3, come m. 42 Prob. Ranke 1935, 134, 17-19ss. Qualcosa è tracciato sotto il det. di plurale, ma non so come definirlo. 43 Forse il segno per ¤bk, come al rigo 5, è probabile, ma non posso proprio assicurare che sia lo stesso nome; se così fosse, sarebbe di genere femminile. 39

35

Dolzani 1969, 25 e tav. XII; poi Rosati 2003b. Sarà ripubblicata con il numero ACCE00134 nel Catalogo in preparazione a cura di S. Musso e S. Petacchi. 36 Bolshakov, Quirke 1999, 50-52. 37 Ranke 1935, 191,16, in luogo di xwj-sy-nb, 267, 8.

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ufficialmente autorizzata ad usarli,44 forse non è inutile renderne nota almeno una, quella di qualità un po’ più accettabile.

lunghe gambe, rosso, su cui sono due vasi (da birra ?) rossi con tappo rotondo nero, mentre a sinistra a mezz’aria è un’alta ara con tracce di una coppa (?). Davanti al viso della donna è la didascalia in verticale: nbt-pr~¨dt-Nbw, “la signora della casa Dedetnebu”.46

Mi è capitato di citare questa stele, di provenienza non documentata, solo per confronto stilistico,45 ed in effetti vi resta una minima parte delle iscrizioni, che potrebbero anche essere state intenzionalmente cancellate: vi rimane solo una didascalia.

Anche se la incontestabilità come criterio datante della presenza della coppia di occhi-wDAt nella parte superiore della stele può essersi leggermente indebolita di recente (ma essenzialmente a proposito dell’inizio della sua diffusione),47 nondimeno resta un elemento assai forte, assieme ad altri, per orientare la datazione verso la tarda XII dinastia e oltre. Manca qui l’appoggio di una iscrizione, ma indubbiamente quest’oggetto mostra analogie molto chiare con un numeroso gruppo di stele, prodotte in laboratori provinciali nella zona di ElRizeiqat – El-Gebelein.48 Oltre agli elementi caratteristici della decorazione, alcuni esemplari, come si è detto, presentano un contrasto di qualità tra la struttura, rifinita, e la decorazione, decisamente meno elegante, ma si dà anche il caso opposto: vien fatto di pensare a oggetti riusati o a pezzi di prova. Teniamo da parte anche questi, e cerchiamo ancora.

La stele, come mi è capitato di notare qualche volta fra quelle risalenti al tardo Medio Regno, mostra un contrasto netto tra l’accurata fattura strutturale e la decorazione. Si presenta in forma di facciata monumentale con un campo delimitato da toro semicircolare in rilievo, che inizia da poco sopra il limite inferiore, e a destra e a sinistra del quale restano due stretti spazi laterali; e un coronamento a gola egizia aggettante in alto. Questa stessa gola è decorata da nervature rese dalla sola pittura ma non completamente, solo pressappoco nei 4/6 centrali, dove si hanno due serie speculari rispetto ad un elemento centrale giallo, dall’esterno: rosso-nero-giallo-rosso. Il toro è segnato da tratti a X in nero, e la balza in basso nella superficie, che occupa tutta la larghezza, è suddivisa in rettangoli verticali con una sequenza non sempre chiara: da destra forse rosso-giallo-bianco (?)-giallo-rosso-nero-giallobianco (?)-rosso-giallo (?).

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La parte superiore del campo è dipinta di giallo e contiene una coppia di occhi-wDAt di cui i profili di sopracciglia, palpebre, il lungo ed elegante ‘ricciolo’ e il ‘mustacchio’ sono delineati in nero (ora in parte svanito), e ogni pupilla consiste di un grande disco nero, mentre gli angoli interno ed esterno di ogni occhio sono campiti in rosso.

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Al centro la decorazione, solo dipinta, è nettamente meno curata rispetto alla fattura del supporto. Una tradizionale coppia stante è volta a destra: l’uomo, quasi al centro, ha dimensioni maggiori, e un fisico sproporzionato con ampie spalle e gambe corte. Il nero della capigliatura corta è ben conservato, e così il profilo dell’occhio. Il corpo è invece delineato in rosso, e la pelle è dipinta di rosso; le braccia sono distese lungo, o meglio, accanto ai fianchi, che dovrebbero essere cinti da un gonnellino alto in vita, liscio. Dietro di lui resta poco di una figura femminile, solo l’acconciatura tripartita nera e l’occhio, ma del resto si può dire ben poco, ché forse solo per suggestione sembra di intuire il profilo del corpo con lunga tunica, e forse il braccio destro disteso. A destra restano oggetti e offerte distribuiti nello spazio: in basso un grande bacile rosso il cui contenuto (ombre scure) è ora assai poco leggibile: potrebbe trattarsi di un acquamanile, se è il beccuccio della brocca l’unico elemento conservato, in nero; sopra è un tavolino dalle

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44 Desidero ringraziare di nuovo l’allora (2002) Direttore del Museo del Cairo, Mamdouh Eldamaty, per avermi liberamente autorizzata a far uso della mia foto. 45 Rosati 2004, 333 nota 1.

46

Ranke 1935, 403,14. Franke 2003, 56. 48 Selim 2001; Rosati 2004. 47

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in Onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: stele a Baroda, Museum and Picture Gallery, inv. n. EG 92 (disegno di Gloria Rosati)

Fig. 2: frammento Museo Barracco inv. n. 320 (disegno di Gloria Rosati) 316

Aegyptiaca et Coptica. Studi in Onore di Sergio Pernigotti

Fig. 3: stele a Dendera (El-Masry 2006, n. 2.1) (disegno di Gloria Rosati)

Fig. 4: stele CGC 20464 (disegno di Gloria Rosati)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in Onore di Sergio Pernigotti

Fig. 5: stele Hermitage inv. 8729 (disegno di G.R.)

TAVOLE

Tav. 1: CGC 20464, foto di Sameh Abdel Mohsen, per gentile concessione dell’Egyptian Museum, Cairo

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in Onore di Sergio Pernigotti

Tav. 2: stele Rovigo n. 12 (foto di Gloria Rosati)

Tav. 3: CGC 20344, per gentile concessione dell’Egyptian Museum, Cairo (foto di Gloria Rosati)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

passati, sull’uso nei documenti dell’espressione λόγιμα ἱερά, che non ha trovato a tutt’oggi una sua collocazione storicamente contestualizzata. Una riflessione sulle fonti in cui è attestata farà sì, fra l’altro, che l’argomento non finisca con l’ingrossare la nutrita schiera dei “misteri” spesso evocati per giustificare ciò che non risulta immediatamente spiegabile, come capita talora in alcune opere divulgative sul mondo antico, e non solo.

Λόγιμα ἱερὰ λογίμῳ Κυρίῳ Silvia Strassi

Abstract The exact meaning of the expression λόγιμα ἱερά, attributed to some Egyptian temples in the Late Ptolemaic and Roman Period, has been widely debated. This study analyses in detail the papyrological examples of the expression, in order to reach a new definition of the value and meaning of this honorific epithet in the administration of Roman Egypt.

2. Status questionis Le pagine che aprono il dibattito sul valore da attribuire all’espressione λόγιμα ἱερά si debbono a Walter Otto,3 che all’inizio del Novecento si chiese se quest’epiteto, che in Epoca Romana si aggiunge alla tradizionale ripartizione dell’Epoca Ellenistica dei complessi templari in πρῶτα, δεύτερα, ἐλάσσονα ἱερά, fosse attribuito in maniera ufficiale a determinati templi, in ragione della loro grandezza e importanza, come si evincerebbe da alcuni documenti, o se debba essere inteso piuttosto solo come un’amplificazione esornativa nel contesto della citazione del santuario cui è riferito. Otto discute la questione lasciandola aperta, per le scarse testimonianze allora disponibili; nei suoi Nachträge pare però propendere per la seconda ipotesi,4 sulla base di testimonianze di Epoca Tolemaica, che nel frattempo si erano aggiunte: l’espressione compare infatti in un papiro della metà del II secolo a.C., dall’archivio dei κάτοχοι del Serapeo di Memphis, UPZ I 81 = MP³ 2476, col. IV ll. 12, in cui, di mano di Apollonios, è trascritto un brano di letteratura di tradizione greco-egizia con la narrazione del sogno di Nectanebo.5 Nel testo del papiro si legge: προσέταξεν κατὰ σπουδὴν γράψας εἰς τὰ λόγισμα (l. λόγιμα) ἰερὰ τὰ κατ’ Ἄγυπτον (sic) ἐπὶ τοὺς ἱερογλύφους. In questo passo di fatto l’attributo è riferito in generale ai templi importanti di tutto l’Egitto, come altrove in letteratura, per esempio in Hdt. II, 111, a proposito di una dedica di Sesostris a τὰ ἱρὰ πάντα τὰ λόγιμα. Il termine si ritrova anche in due iscrizioni di Epoca Tolemaica: l’una proviene da Elephantine ed è datata 115 a.C.,6 l’altra è la trilingue (geroglifico, demotico, greco), del 96 a.C., in cui è concesso il diritto d’asilo al tempio di Horus ad Athribis, citata da Otto;7 in entrambi i casi l’epiteto è

1. Premessa Il mio contributo in questa sede intende mantenere un impegno preso nel settembre 2008, in occasione del IV Colloquio di Egittologia e Antichità Copte, “Il tempio e il suo personale nell’Egitto antico”, con chi quell’incontro aveva promosso e realizzato, cui ora è dedicata questa Festschrift. Si era allora discusso dell’opportunità di esaminare le attestazioni di λόγιμα ἱερά tràdite dai papiri, in maniera che i dati delle fonti scritte potessero essere confrontati con le testimonianze archeologiche.1 Presento dunque questa γραφή delle testimonianze che ho raccolto,2 non come un punto d’arrivo, ma come invito e contributo allo sviluppo di nuove ricerche interdisciplinari, fra archeologia, egittologia e papirologia, sull’argomento. Se poi questa ricerca permetterà di mettere in luce anche solo in parte le specifiche caratteristiche istituzionali e le attività dei complessi templari cui era attribuito il titolo di λόγιμα, anche l’interpretazione e la contestualizzazione di documenti frammentari ritrovati presso i templi, penso ad esempio a quelli pertinenti l’“area sacra” di Bakchias, ma non solo, ne potrà beneficiare. La necessità di verificare che cosa si fosse inteso da parte di chi redigeva documenti ufficiali con questa definizione è emersa fin dai primi studi che poterono avvalersi delle fonti papirologiche, ma la questione venne lasciata in sospeso per il numero insufficiente di attestazioni allora disponibili, ed è stata ripresa solo in tempi recenti. Pare dunque giunto il momento di dedicarvisi, poiché la documentazione disponibile è aumentata e permette almeno qualche riflessione in più, rispetto ai tempi

3

Cfr. Otto 1905-1908, vol. II, 310-311 (Nachträge und Berichtigungen). Seguito, anche per quanto concerne l’Epoca Romana, dagli studiosi a lui contemporanei, come troviamo, ad esempio, in PSI IX 1039 (n. 52), 70 commento alle l. 1 e seguenti: «certamente una differenza d’importanza si è voluta indicare con πρωτολόγιμα rispetto a λόγιμα, ma dubitiamo anche noi che queste siano denominazioni ufficiali». 5 Cfr. Otto 1905-1908, vol. I, 18-19 e II, 310-311 (Nachträge und Berichtigungen). 6 Cfr. Bernand 1989, n. 244, VI, aprile 115 a.C., da Elephantine, l. 4: ἐν Ἐλεφαντίνηι ἱεροῦ δεδοξασμένου ἔ]τι ἐξ ἀρχαίων καὶ ὄντος τῶν πρώτων λο[γίμων ἱερῶν. 7 Cfr. OGIS II 761 = SB I 620 del 25 marzo 96 a.C., da Athribis (Delta), l l. 2-6: Πτολεμαίου τοῦ συγγενοῦς καὶ διοικητοῦ προσανενέγκαντος ἡμῖν πᾶσι μὲν τοῖς κατ’ Αἴγυπτον ἱεροῖς ἔτι ἀ̣πὸ τῶν προγόνων ἡμῶν μείζονα φιλάνθρωπα ἐπικεχωρῆσθαι, ἔνια δὲ τῶν ἐπισήμων καὶ ἄσυλα γεγονέναι, τὸ ἐν Ἀθ[ρίβ]ει τοῦ Ἀρκεντεχθαὶ τὸ μὲν πρῶτον καὶ λόγιμον ἀρχ[α]ιότατόν τε καὶ ἐνδοξότατον τῶν πλείστων ὑπάρχον τῶν μὲν ἄλλων τιμῶν τετευχέν{ι}αι. Cfr. Otto 1905-1908, I, 18-19 e II, 310-311 (Nachträge und Berichtigungen). 4

1 Cfr. Strassi 2010. Nel frattempo un primo utile censimento dei templi egiziani definiti λόγιμα è stato oggetto della tesi di specializzazione in Beni archeologici dell’Università di Bologna discussa da Ilaria Rossetti, “Il problema dei templi λόγιμα del Fayyum: l’aspetto archeologico”, nell’a.a. 2008-2009. 2 I testi sono elencati alla fine in ordine cronologico e i numeri di riferimento vengono citati di volta in volta fra parentesi.

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attribuito a complessi templari che si richiamano ad un’antica tradizione e che, prima di λόγιμα, vengono definiti πρῶτα, cioè di prima categoria, secondo la classificazione in uso nell’Epoca Tolemaica. Pare evidente che in questi casi il termine λόγιμα non implica requisiti peculiari dei templi, ma si giustifica, come riteneva anche Otto, con l’intento di sottolineare la grandezza e l’importanza dell’istituzione cui era riferito, senza alludere a precise prerogative ad essa ufficialmente attribuite, dal momento che la Rangordnung del tempio era già espressa chiaramente dall’attributo πρῶτα; lo stesso vale per la definizione di ἐπίσημα ἱερά, quando sia aggiunta a citazioni di πρῶτα ἱερά, come quelli cui era concesso, fra gli altri privilegi, il diritto d’asilo.8 Lo stesso vale verosimilmente per l’epiteto χαριτήσιον, che si trova in tre documenti di Epoca Romana, fra I e III secolo d.C. e non implica l’appartenenza dei templi ad una categoria gerarchicamente determinata.9

economica da essi rivestita, che secondo Wilcken potrebbe risalire a tempi precedenti l’Epoca Ellenistica,12 pare non aver lasciato traccia nei papiri di Epoca Romana, se non in qualche sporadica citazione. Di fatto, per quanto concerne i πρῶτα ἱερά, l’unica menzione di Epoca Romana si trova in BGU IV 1074 = SB XVI 13034= TM 16348, datato fra il 27 dicembre 273 e il 25 gennaio 274 d.C., che contiene il diploma di assunzione in un sinodo, da Oxyrhynchus, dove alle ll. 19-22 si legge: ἐγένετο ἐν τῇ λαμπρᾷ καὶ λαμπροτάτῃ Ὀξυρυγχειτῶν πόλει, ἀγῶνος ἀγομένου πρώτου ἱεροῦ εἰσελαστικοῦ οἰκουμενικοῦ πενταετηρικοῦ σκηνικοῦ γυμνικοῦ ἱππικοῦ ἰσοκαπιτωλίου . . . , formula ripetuta anche alle ll. 25 ss., conformemente allo stile ridondante del documento. Gli ἐλάσσονα ἱερά, denominazione sotto la quale sarebbero stati compresi da un certo punto in poi anche i santuari precedentemente definiti δεύτερα ἱερά, si trovano finora testimoniati soltanto in papiri di II e I secolo a.C., fra cui il più recente è datato 19 ottobre 52 a.C.13

In Epoca Tolemaica i templi erano dunque ripartiti in tre ordini, ben attestati nei documenti, dove sono indicati con α´, β´, γ´, rispettivamente πρῶτα, δεύτερα, ἐλάσσονα ἱερά; i δεύτερα ἱερά, sono presenti soltanto in documenti di III e II secolo a.C.10 Si è perciò ritenuto, anche se l’ipotesi non è dimostrata e nemmeno unanimemente condivisa, che nella tarda Epoca Tolemaica la tripartizione avesse lasciato posto a una bipartizione, per la quale restarono in uso i soli epiteti di πρῶτα ed ἐλάσσονα.11 Questa suddivisione dei templi in diverse categorie, a seconda dell’importanza religiosa, politica,

L’espressione λόγιμα ἱερά fa la sua comparsa in documenti ufficiali su papiro fra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C.14 ed è ancora attestata nel III secolo d.C.; ad essa si aggiungono i πρωτολόγιμα ἱερά in alcuni documenti, tutti di III secolo d.C.15 Si potrebbe ritenere che i templi πρωτολόγιμα avessero avuto un rango superiore a quelli, assai più numerosi, definiti semplicemente λόγιμα, ma poche testimonianze, di cui tre dall’Oxyrhynchites e una dall’Hermoupolites, concentrate nel periodo in cui quelle di λόγιμα ἱερά vanno scomparendo, fanno pensare a un uso volutamente ridondante del termine, in maniera conforme alla tendenza che si manifesta nello stile delle formule dei documenti coevi, piuttosto che all’introduzione di una nuova categoria corrispondente a una diversa organizzazione istituzionale.

8

È il caso di OGIS II 761. l. 4: ἔνια δὲ τῶν ἐπισήμων (sottinteso ἱερῶν) καὶ ἄσυλα γεγονέ[ν]αι; l’espressione si ritrova forse in un papiro dell’archivio di Zenone, PSI V 539 = TM 2161, un hypomnema di Phemennas, sacerdote di Isis, della metà del III sec. a.C. da Philadelphia; ll. 2: ἐξ ἐπισήμου [ἱεροῦ ... Non vi sono finora testimonianze per l’Epoca Romana. 9 P.Vind.Bosw. 1 = TM 13673. l. 3, post 87 d.C., denuncia di sacerdoti, da Niloupolis (Arsinoites); P.Lond. II 353 (n. 51) l. 8, 221 d.C. (23 agosto), da Soknopaiou Nesos, dichiarazione di sacerdoti; SB XVI 12785 (n. 50) l. 13, 220 d.C. (luglio-agosto?), da Soknopaiou Nesos, scritto d’accompagnamento ad una lista di sacerdoti e inventario templare; gli ultimi due sono citati anche da Otto 1905-1908, I, 19 e nota 1. Per i templi denominati χαριτήσια e la discussione su quest’epiteto, cfr. Harrauer-Sijpesteijn 1983, 27, commento a l. 13; Hoogendijk, Worp 2001, 48-51. 10 Un’isolata testimonianza di inizio III sec. d.C. è forse SB XVIII 13129 = TM 18340, una richiesta di autorizzazione alla circoncisione, del 207208 d.C. dall’Oxyrynchites, in cui alle ll. 11-13 si legge ... καὶ τῶν συν/ν̣άω ̣ ν θεῶν μεγίστων ἱε/ρῶν δευτέρω̣ν̣ . . . [ . ] . . [ . ]ο̣ν, il cui contesto è estremamente frammentario. In Sijpesteijn, Worp 1987, n. 50 Urkunde bezüglich Beschneidung, 49, commento alle ll. 13-14, il passo è commentato in questo modo: «Hinter δευτέρων in Z. 13 ist λογίμων zu erwarten, aber auch wieder nicht zu verifizieren. Aus Text Nr. 51, 6 (copia dello stesso documento) scheint hervorzugehen, daß hinter δευτέρων keine weitere Bestimmung der Heiligtümer folgte.» Attestazioni di δεύτερα λόγιμα ἱερά non esistono, com’è da aspettarsi, dato l’accostamento contraddittorio dei due attributi; troviamo invece λόγιμα ἱερά definiti πρῶτα in Epoca Tolemaica e attestazioni di πρωτολόγιμα ἱερά in Epoca Romana (Γραφή n. 42, n. 52, n. 53, n. 54). 11 Cfr. da ultimo Pfeiffer 2004, 154, e note 453 e 454; 196 e nota 668; secondo Pfeiffer la tripartizione potrebbe aver avuto, fra l’altro, carattere simbolico, dal momento che il numero tre in Egitto rappresenta la completezza. Sul passaggio dalla tripartizione gerarchica dei templi alla bipartizione in tarda Epoca Tolemaica e il problema di identificare gli ἐλάσσονα ἱερά con templi di secondo oppure di terz’ordine, cfr. Otto 1905-1908, I, 18-19 e II, 311 (Nachträge und Berichtigungen).

Le attestazioni di λόγιμα ἱερά sono riferite a templi, che si identificano spesso con importanti centri economici e religiosi dell’Arsinoites, la cui documentazione è stata oggetto di numerosi studi, anche recenti;16 nelle edizioni dei documenti si dà per lo più per scontato che l’epiteto λόγιμον si sia sostituito in Epoca Romana a quello di πρῶτον, che aveva qualificato i templi principali in Epoca Tolemaica. Nei numerosi papiri pubblicati nel corso degli anni le testimonianze di λόγιμα ἱερά si sono moltiplicate 12

Cfr. Wilcken 1912, 109 (edizione italiana, 225). L’ipotesi pare non aver ancora trovato definitiva conferma, secondo Pfeiffer 2004, 154, nota 453. 13 P.Bingen 47 = BGU XIX 2761 = TM 78027, una dichiarazione giurata di un allevatore di ibis, da Hermoupolis. 14 Allo stato attuale della documentazione, l’unica attestazione di I sec. d.C. presente nella DDBDP, è P.Tebt. II 302 (n. 1) del 71-72 d.C., una petizione al prefetto da Tebtynis, in cui la parola è frutto d’integrazione, per quanto del tutto plausibile: cfr. ll. 3-4: καὶ τῶν / [συννάων θεῶν ἱεροῦ λογίμου τοῦ ὄντος ἐν κώμῃ] Τεβτύνι τῆς Π[ολ]έμωνος μερίδος . . . 15 Cfr. Γραφή, numeri 42, 52, 53, 54. 16 Per la bibliografia rimando a Strassi 2010.

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e l’espressione è di regola tradotta con definizioni quali “di rango superiore”, ovvero “ersten Ranges”, oppure “first rank”, o ancora ‘di prim’ordine’, in alternativa a “famous”, “famosi”, in un’acritica ripetizione a catena,17 che da un lato perde di vista le ragioni che avevano indotto a questa interpretazione quanti per primi l’avevano proposta, dall’altro non chiarisce quali specifiche caratteristiche distinguessero questi templi dagli altri.18

3. ΛΟΓΙΜΑ ΙΕΡΑ Le due interpretazioni di λόγιμα ἱερά come templi ‘famosi’ o “di prima classe”, di fatto, non sono incompatibili con l’idea generale che i λόγιμα ἱερά fossero stati i templi che si distinguevano nella loro eccellenza rispetto a quelli che λόγιμα non erano, ma mentre la prima non implica valutazioni gerarchiche, la seconda lascia implicitamente intendere che a una prima classe faccia seguito almeno una seconda classe, se non una terza. A proposito della definizione dei λόγιμα ἱερά come “templi di prima classe” non è forse inutile precisare che il significato di λόγιμος non è quello di “primo” e nemmeno “di rango superiore”; la parola di per sé non esprime infatti alcun grado di comparazione, ma ha solo un senso generalmente onorifico, com’è testimoniato nelle fonti dall’età classica alla tarda antichità.22 Quale sia poi il significato più appropriato da attribuirle, lo si desume di volta in volta dal contesto in cui viene adoperata, senza dimenticare che etimologicamente deriva pur sempre da λέγειν, come tutta la serie di termini legati alla contabilità amministrativa, per nulla estranea alle istituzioni che rientrano nella sfera del “sacro”, e molto ben testimoniati nei papiri d’ogni epoca, quali, per citarne solo alcuni, λόγος, λογεία, λογευτήριον, λογευτής, λογοθέτης, λογοθεσία, λογιστήρια, λογιστής, λογογράφος.23

Che la distinzione in Epoca Romana, a differenza dell’Epoca Ellenistica, in cui vigeva una chiara gerarchia fra i diversi santuari, fosse semplicemente fra i λόγιμα ἱερά e gli altri, che non lo erano, è un’ipotesi avanzata nel 1947 da Jean Scherer, nella sua edizione dei papiri da Philadelphia; a proposito del passo di P.Phil. 1, in cui sono nominati gli ἱερεῖς λογίμων ἱερῶν, egli infatti attribuisce all’espressione un valore tecnico, a suo parere già presente nei casi in cui la si trova in Epoca Tolemaica, e pone il problema della distinzione fra i λόγιμα e i πρωτολόγιμα ἱερά, che fanno la loro comparsa a partire dal III d.C. La sua traduzione di P.Phil. 1. 27 è di fatti «prètres des temples de haut rang».19 Il problema di tentar di definire in maniera più precisa che cosa in realtà comportasse la qualifica λόγιμον per i templi cui era attribuita è stato chiaramente riproposto e formulato soltanto di recente, quando Sergio Pernigotti ha ipotizzato che possa essere stata una «mera qualificazione giuridica, che prescinde dall’aspetto esteriore, dalla ricchezza e dalla bellezza, anche, dei santuari che così venivano indicati»,20 riflettendo sul fatto che nel frammentario elenco di λόγιμα ἱερά della μερὶς Ἡρακλείδες dell’Arsinoites contenuto in BGU XIII 2215, del 113-114 d.C., ben due λόγιμα ἱερά risultano attribuiti alla κώμη Βακχιάς.21

La prima definizione dei λόγιμα ἱερά come templi di prima categoria si deve a Wilhelm Schubart, che nel 1919, nella prima edizione dello Gnomon dell’Idios Logos,24 traduce la disposizione contenuta nel paragrafo 87 «μοσχοσφραγισταὶ ἐξὸν (l. ἐκ τῶν) λ[ο]γίμων ἱερῶν δοκιμάζονται (Jungstiersiegler werden aus ansehnlichen [degni di considerazione] Heiligtümern durch Prüfung bestellt)», ma spiega in nota che «λόγιμα ἱερά sind die Tempel erster Klasse».25 La stessa valutazione, anche se in tono meno deciso, è accolta, nel commento allo stesso passo dello Gnomon dell’Idios Logos, da parte di UxkullGyllenband,26 che dal provvedimento per cui i μοσχοσφραγισταί devono essere messi alla prova e scelti solo dai λόγιμα ἱερά fa derivare, com’è ovvio, il fatto che questi ultimi debbano rappresentare una categoria di templi ben precisa. Di seguito però egli afferma, appellandosi all’autorità di Otto e di Wilcken,27 che le tre

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Si vedano ad esempio, fra gli altri, ‘first rank’ usato da Gilliam 1947, 184 e nota 15; ‘di rango superiore’: Capasso 2007, 84; ‘di prim’ordine’, ‘famosi’: Riccobono 1950, 62 (‘famosi’) e 230 (‘di prim’ordine’); ‘famous’: P.Tebt. II, passim; ‘ersten Ranges’: Jördens 2005, 51 e nota 43, in cui si rimanda però alla discussione nell’introduzione di BGU XII 2215: cfr. Brashear 1976, 7: «... logima hiera, that is, temples of the first class (but even this designation is an unclarified concept: UxkullGyllenband 1934, 81), for of the five temples which are known also from other sources, four belong without any doubt to this class». 18 Ne è ben conscia Jördens 2009, 338 e nota 34, in cui a proposito di privilegi fiscali attribuiti ad alcuni gruppi di sacerdoti osserva con ragione che «Die Zugehörigkeit zu dieser Gruppe privilegierter Priester ist möglicherweise mit der Bezeichnung als ἱερεῖς λογίμων ἱερῶν zu verbinden, deren genauer Sinn noch im Dunkeln liegt». 19 Cfr. P.Phil. 1 (n. 8), 12-14 e 27. 20 Cfr. Pernigotti 1998, 76-77. 21 Sulla storia e l’importanza di Bakchias esistono ormai numerosi contributi basati sui risultati ottenuti dalle missioni archeologiche là condotte a partire dal 1993 dalla missione congiunta delle Università di Bologna e di Lecce, prima, dalla sola Università di Bologna poi. Troppo lungo sarebbe enumerarle tutte, per cui rimando a Morini 2004, 2006, 2009 e, per ulteriore aggiornamento, al sito di Archaeogate: [http://www.archaeogate.org/], su cui vengono annunciate le pubblicazioni e le relazioni delle campagne di scavo. Che il documento ufficiale parzialmente conservato in BGU XIII 2215 (n. 4) nomini per Bakchias due λόγιμα ἱερά e 61 sacerdoti, esclusi minorenni e παστοφόροι, mentre a Karanis, che in quel periodo aveva avuto il suo massimo sviluppo economico, ne attribuisce uno soltanto, seppur con 54 sacerdoti, esclusi i minori, e 50 παστοφόροι, potrebbe spiegarsi con la

maggior antichità di fondazione di Bakchias e dei suoi templi (cfr. infra). 22 Cfr., ad esempio, Hdt. II, 111, citato sopra; in molteplici esempi si trova riferito a personaggi come attributo di rispetto, a partire dal III sec. d.C. nei documenti e negli autori, di cui basti citare, fra tutti, lo storico Procopio di Cesarea (VI sec. d.C.). 23 Una ricerca che verificasse la frequenza di tali termini in testi ritrovati in aree sacre o ad esse sicuramente riferibili porterebbe verosimilmente a risultati interessanti per l’organizzazione amministrativa dell’Egitto, tanto antico quanto greco e romano, ma in questa sede può soltanto venir suggerita. 24 BGU V 1210 (n. 17), datato post 149 d.C., dall’Arsinoites. 25 Cfr. Schubart 1919, 32. 26 Cfr. Uxkull-Gyllenband 1934, 80-81. 27 La citazione è Otto 1905-1908, I, 18; II, 310 ss. (Nachträge und Berichtigungen); Wilcken 1912, 109; ma entrambi non si riferiscono ad una classificazione dei templi in Epoca Romana, bensì alla tripartizione che essi ebbero in Epoca Tolemaica.

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classi in cui erano tradizionalmente ripartiti i templi in Egitto, in Epoca Romana vennero ridotte a due, e la conclusione che ne fa conseguire, per quanto in via ipotetica, è che i λόγιμα ἱερά possano essere considerati templi di prima categoria: «Man kann daran denken, unter den λόγιμα ἱερά Tempel erster Klasse zu sehen, obwohl sonstige Erwähnungen keinen festen Anhalt geben».28

norme di carattere amministrativo. In Epoca Ellenistica λόγιμον si accompagna a πρῶτον, che di per sé esprime un preciso ordine gerarchico, primo, che scompare con l’Epoca Romana, quand’era venuta ormai meno la classificazione dei templi nelle due o tre differenti categorie usate in Epoca Tolemaica, perché non più funzionale alla nuova amministrazione. La documentazione offerta dai papiri, vista cronologicamente, permette almeno in parte di chiarire il contesto storico in cui ciò è avvenuto e di precisare alcune prerogative attribuite ai λόγιμα ἱερά, le cui attestazioni si concentrano soprattutto intorno a determinati complessi templari dell’Arsinoites e nel II secolo d.C., area geografica e periodo storico dai quali, d’altra parte, sono arrivati fino a noi la maggior parte dei papiri.

Questa è rimasta l’interpretazione quasi unanimemente accolta da allora nelle edizioni dei numerosi papiri in cui l’espressione ricorre, nella sostanza non incompatibile con quanto nel complesso la documentazione scritta, anche quando la si possa considerare nel suo contesto archeologico, ci tramanda. Studi recenti, e non più tali, sull’amministrazione romana nelle province orientali e in particolare in Egitto, da sempre oggetto di studio privilegiato per l’abbondanza della documentazione scritta conservata, hanno in buona parte chiarito quali siano state le principali linee di governo, che improntarono la politica romana nei territori conquistati, fin dall’Epoca Augustea; in particolare, è risultata smorzata anche l’immagine di una totale, immediata e grossolana espropriazione da parte romana di tutte le risorse economiche appartenenti ai complessi templari, accompagnata dall’abolizione radicale e indistinta dei privilegi di quanti vi ruotavano intorno.29 Anche in quest’ambito il controllo era esercitato verosimilmente attraverso l’attribuzione di privilegi diversi a diversi gruppi e l’imposizione di regole, che ne permettessero la verifica e l’applicazione, espresse di volta in volta attraverso gli organi del governo provinciale, in Egitto con ordinanze ed editti del prefetto, cui la popolazione doveva attenersi.30 Le numerose e diverse dichiarazioni di status, che la documentazione papiracea ci ha tramandato testimoniano in maniera diretta l’attuarsi di tali procedure.

Che la designazione λόγιμον nel II secolo d.C. fosse attribuita istituzionalmente a un certo numero di templi, è testimoniato dall’uso che ne viene fatto nei documenti inviati dai sacerdoti degli stessi λόγιμα ἱερά allo στρατηγός, all’ Ἴδιος Λόγος, dall’epoca dell’imperatore Adriano allo ἀρχιερεύς e, in ultima istanza, al prefetto d’Egitto, ma trova conferma soprattutto negli atti ufficiali emanati a loro volta dai funzionari. Fra i documenti raccolti in base alla ricerca lessicale del termine λόγιμος accoppiato con ἱερόν e ἱερεύς nelle diverse forme della flessione,31 soltanto quattro sono di questo tipo; si tratta probabilmente di copie locali di documenti con disposizioni emanate in origine dagli uffici centrali dell’amministrazione e diffuse poi nella χώρα: BGU XIII 2215 (n. 4), una lista di templi, di provenienza arsinoitica, del 113-114 d.C.; P.Phil. 1 (n. 8), una raccolta di documenti ufficiali, con allegato un elenco di esenzioni fiscali, da Philadelphia, datata dopo il 119 d.C.; P.Kron. 4 e 5 (n. 12 e n. 13), del 135 d.C., da Tebtynis, in cui lo stratego ordina di presentare la documentazione concernente l’ εἰσκριτικόν; BGU V 1210 (n. 17), Gnomon dell’Idios Logos, da Theadelphia, datato dopo il 149 d.C., ma contenente disposizioni, che almeno in parte risalivano ad epoche precedenti.

Dall’epoca in cui vennero formulate le prime riflessioni sui λόγιμα ἱερά, la quantità dei papiri pubblicati è considerevolmente aumentata; se consideriamo diacronicamente l’uso degli attributi riferiti ai templi che vi troviamo, è ora possibile ipotizzare che, per un periodo limitato, circa dalla fine del I secolo d.C. alla prima parte del III secolo d.C., all’epiteto λόγιμον, usato da solo, che comunque fin dall’Epoca Ellenistica qualificava i templi insigniti di privilegi che li distinguevano da altri, fosse stato riconosciuto dalle autorità del governo provinciale un preciso valore istituzionale, cui corrispondevano

Il resto della documentazione consiste per lo più in documenti scritti da sacerdoti, talora in prima persona, uti singuli, altre volte attraverso rappresentanti, che si rivolgono ai funzionari per reclamare diritti loro spettanti in quanto appartenenti a templi qualificati come λόγιμα; questi testi da un lato confermano che essi erano esenti da un certo numero di liturgie, come si evince anche dalla disposizione del prefetto Gaius Vibius Maximus citata in P.Phil. 1 (n. 8), dall’altro lasciano intendere che i funzionari locali, anche nei confronti dei sacerdoti, talora non tenevano conto di privilegi ed esenzioni, per cui era necessario appellarsi all’autorità superiore per riuscire a farli riconoscere. Alcune petizioni di questo genere provengono da Tebtynis, altre da Soknopaiou Nesos; fra tutte basti citare BGU I 176 (n. 6), una petizione al

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La riflessione di Uxkull-Gyllenband continua a proposito dell’obbligo di sacrificare solo vitelli marchiati dai μοσχοσφραγισταί considerando «daß λόγιμα ἱερά verhältnismäßig bedeutend waren, und von der verwaltungstechnischen Seite wird man schon auf Grund der σύμβολα, die Julius Pardalas vorschrieb, annehmen dürfen, daß nicht in jedem kleinen Heiligtum ein μοσχοσφραγιστής amtieren sollte». 29 Basti citare i lavori di Capponi 2005 e Jördens 2009, con la bibliografia in essi contenuta. 30 Per la costituzione delle élites nell’Egitto romano è sufficiente richiamarsi allo studio pioneristico di Mélèze Modrzejewsky 1982; in particolare alla “casta” sacerdotale è dedicato il contributo di Bussi 2005.

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Cfr. la Γραφή, che conclude questo contributo.

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garantiti particolari benefici.35 La documentazione esaminata non lascia d’altronde capire né se il numero degli esenti corrispondesse, in qualche caso, in toto ai sacerdoti del tempio, né se riguardasse invece solo una parte di essi, e nemmeno se ci fossero stati cambiamenti nelle disposizioni emanate in merito nel corso del II secolo d.C. In P.Tebt. II 298 (n. 2), di inizio II secolo, una lista di sacerdoti, redatta per l’acquisizione delle cariche sacerdotali, sono nominati cinque πρεσβύτεροι ἱερεῖς λογίμου ἱεροῦ, ma nulla sappiamo sul numero totale dei sacerdoti di quel tempio; nella propria dichiarazione di censimento del 132-133 d.C., V.B.P. VI 169 (n. 10), un sacerdote da Tebtynis afferma invece di essere ἀπολύσιμος ἀπὸ ἀνδρῶν πεντήκοντα λογίμου [ἱεροῦ ... ; sempre da Tebtynis è conservata una denuncia di sei sacerdoti ἀπολύσιμοι, del 177-179 d.C. (P.Tebt. II 303, n. 28); da Tebtynis abbiamo anche una richiesta di circoncisione di fine II secolo d.C. (P.Tebt. II 293, n. 33), in cui compaiono tre sacerdoti, che dichiarano di far parte di un gruppo di quattro, appartenenti allo ἱερὸν λόγιμον ἀπολύσιμον: in questo caso non sono le persone, ma tutto il tempio a godere dell’esenzione, che parrebbe allora estesa in generale al personale che vi afferiva, fosse composto solo dai quattro sacerdoti citati oppure da altri non nominati. Non è dunque possibile stabilire se i cinquanta sacerdoti esenti del tempio λόγιμον di Tebtynis nel 107-108 d.C. corrispondessero a una cifra prestabilita, forse un numero massimo rimasto in vigore per un certo periodo o rispecchiassero solo la situazione del momento vicino alla redazione del documento.36 Lo stesso vale per altri siti: un documento del 178 d.C., concernente l’esonero dei sacerdoti dai lavori alle dighe, da Bakchias (P.Bacch. 21, n. 30) è presentato a nome di tre sacerdoti, che «insieme agli altri», appartengono al λόγιμον ἱερόν di Soknobraisis di Bakchias; una dichiarazione di esenzione da liturgie da Nabla, di fine II secolo d.C. (W.Chr. 102, n. 38), è fatta, come s’è visto, a nome dei due πρεσβύτεροι παστοφόρων ἱεροῦ λογίμου; in un elenco da Soknopaiou Nesos del 220 d.C. (BGU I 296, n. 49) sono citati “i cinque e gli altri sacerdoti” del tempio λόγιμον.

prefetto di età adrianea, dall’Arsinoites, in cui i sacerdoti, forse ventiquattro, reclamano l’esenzione dai lavori alle dighe in nome proprio della loro appartenenza ad uno ἱερόν λόγιμον. L’esenzione dalle tasse dei sacerdoti dei ἱερά λόγιμα è testimoniata anche in scritti di altro genere, in cui i sacerdoti si rivolgono alle autorità di governo e si autodefiniscono ἀπολύσιμοι, come ad esempio nella denuncia di sei di essi allo stratego contenuta in P.Tebt. II 303 (n. 28), del 177-179 d.C., e nella γραφὴ ἱερέων καὶ χειρισμοῦ di W. Chr. 102 (n. 38), del 194 d.C., in cui due πρεσβύτεροι παστοφόρων ἱεροῦ λογίμου di Nabla32 dichiarano di essere ἀπολύσιμοι τῆς λαογραφίας καὶ τῶν ἄλλων τελεσμάτων πάντων καὶ ἄσυλοι: la più esplicita e completa descrizione di privilegi concessi a un gruppo sacerdotale conservata dai papiri presi in esame in questa sede.33 In alcuni documenti da Tebtynis, Soknopaiou Nesos, o comunque dall’Arsinoites, a partire dalla metà e non oltre la fine del II secolo d.C., è citato il carattere λόγιμον del tempio in occasione della richiesta da parte di sacerdoti dell’autorizzazione a far circoncidere i figli, che in questo modo avevano accesso alla “casta” sacerdotale e ai privilegi ad essa connessi. Non è inverosimile ritenere che la procedura riguardasse solo i figli di sacerdoti appartenenti a λόγιμα ἱερά, in quanto appunto godevano di uno status privilegiato, che si trasmettevano da una generazione all’altra. Altri documenti in cui è nominata l’appartenenza a un tempio λόγιμον sono, oltre a liste compilate per scopi diversi, dichiarazioni di censimento, di morte, contratti fra privati, denunce. Appare chiaro che il qualificarsi come ἱερεὺς λογίμου ἱεροῦ fosse ragione di prestigio personale e riconoscimento sociale anche al di là dell’indispensabile uso “burocratico”, che ne doveva esser fatto per vedersi riconosciuti determinati diritti da parte delle autorità di governo. La documentazione raccolta, fra cui un elenco di esenzioni in calce alla copia di un editto di C. Vibius Maximus,34 porterebbe a ritenere che i sacerdoti dei λόγιμα ἱερά fossero, in quanto tali, ἀπολύσιμοι rispetto a una serie di tasse, da quella sulla persona ai lavori alle dighe, alla coltivazione coatta di terra pubblica.

A questo proposito va ricordata una petizione, di tardo II secolo d.C., anch’essa da Soknopaiou Nesos, PSI VIII 927 (n. 55), in cui i πράκτορες σιτικῶν dichiarano che nella κώμη si contano 60 uomini e 160 sacerdoti, dei quali 20 sono λόγιμοι, e che i rimanenti pagano l’imposta personale. Questa testimonianza si accompagna a quella non lontana nel tempo dello ἱερόν di Tebtynis, definito λόγιμον ἀπολύσιμον in P.Tebt. II 293 (n. 33), e a una lista da Bakchias del 204 d.C. (P.Bacch. 13, n. 56), in cui l’attributo λόγιμος viene riferito non al tempio, che non è direttamente nominato, ma al dio che vi era ospitato; in quest’ultimo caso è verosimile ritenere che chi scriveva, per inoltrare la documentazione alle autorità del νομός, avesse ritenuto che la qualificazione λόγιμος pertinente il

Alcuni papiri ci hanno però conservato delle cifre relative a gruppi di sacerdoti che godevano di determinati privilegi fiscali, il che fa pensare piuttosto che il numero delle persone esentate andasse di volta in volta determinato e certificato. L’esistenza delle liste templari, non testimoniate in Epoca Tolemaica, presenti però a partire da quella Augustea, sono la premessa per la distinzione delle diverse categorie di ἱερεῖς, cui erano

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Per Nabla, cfr.Trismegistos Geo ID: 1414. Secondo il paragrafo 82 dello Gnomon dell’Idios Logos, ai παστοφόροι non era lecito qualificarsi come sacerdoti; in questo caso però, forse in quanto πρεσβύτεροι (?), sembrano godere dei privilegi, che vediamo in altri testi accordati agli ἱερεῖς ἀπολύσιμοι. Due πρεσβύτεροι παστοφόρων sono citati anche in P.Kron. 1 (n. 9). 34 Cfr. P.Phil. 1 (n. 8), col. I, 26-27: εἰσὶ δὲ οἱ ἀπ[ολ]υόμενοι δημο[σίων / ἱερεῖς λογίμων ἱερῶν ... 33

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Si ricordi l’esenzione dalla coltivazione coatta della terra stabilita, o piuttosto ribadita, su loro esplicita richiesta, per i sacerdoti di Soknopaiou Nesos, dal prefetto C. Lusius Geta nel 54 d.C.: OGIS II 664. 6-8. 36 Cfr. in proposito anche Jördens 2009, 338.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Pela (Oxyrhynchites), dove ha sede il tempio;40 SB XX 15143 (n. 46), petizione di tre sacerdoti per l’esenzione da liturgie, datata dopo il 212 d.C., dall’Hermoupolites; PSI IX 1039 ( n. 52), rapporto di uno ἱεροψάλτης all’ ἀρχιπροφήτης di Oxyrhynchos, del 267-268 d.C. (?), da Teis (Oxyrhynchites), dove ha sede il tempio;41 P.Oxy. X 1256 (n. 53), lista di sacerdoti minorenni, del 17 marzo 282 d.C., da Laura (Kynopolites),42 sede del tempio; P.Oslo III 158 (n. 54), lettera ad un ἀρχιπροφήτης, della fine del III secolo d.C., da Oxyrhynchos. Nei documenti di III secolo d.C. appena citati i templi sono definiti πρωτολόγιμα e πρωτολόγιμα καὶ λόγιμα, a differenza di quanto si legge nei documenti coevi dall’Arsinoites. P.Oxy. XLIX 3473 (n. 22) di II secolo, in cui è attestato un tempio λόγιμον, non basta da solo a stabilire se i papiri di III secolo d.C. testimoniano un uso locale, tradizionalmente consolidato diverso da quello arsinoitico, o se il doppio attributo compaia appena dal III secolo d.C. in poi, in consonanza con i cambiamenti amministrativi avvenuti a partire dall’Età Severiana, che una volta recepiti, avrebbero influito anche sullo stile del linguaggio in uso negli uffici. Non pare comunque casuale che le testimonianze di λόγιμα ἱερά vadano progressivamente scemando dalla fine del II secolo d.C. fino a sparire dopo il primo ventennio del III secolo d.C.43

suo tempio andasse comunque ricordata, seppure attraverso la metafora allusiva. Questi documenti, in cui λόγιμος e ἀπολύσιμος appaiono interscambiabili, attribuiti come sono tanto alle persone, quanto all’istituzione, confermano la stretta connessione esistente fra l’esenzione da determinate imposte per i sacerdoti e la loro appartenenza a un λόγιμον ἱερόν. Secondo la testimonianza di PSI VIII 927 (n. 55), alla fine del II secolo d.C., il numero di λόγιμοι, ovvero ἀπολύσιμοι, non corrispondeva a quello complessivo dei sacerdoti presenti nel λόγιμον ἱερόν di Soknopaiou Nesos; d’altra parte la definizione coeva di ἱερὸν λόγιμον ἀπολύσιμον da Tebtynis potrebbe far ritenere che tutti i sacerdoti che vi afferivano fossero stati partecipi del beneficio attribuito al tempio, senza differenze ed esclusioni. La lista del 113-114 d.C., contenuta in BGU XIII 2215 (n. 4), lacunosa per quanto riguarda i numeri riferiti a Soknopaiou Nesos, enumera per Tebtynis quaranta sacerdoti, esclusi i minori d’età, e altrettanti παστοφόροι: dieci sacerdoti in meno rispetto ai cinquanta menzionati nella dichiarazione di censimento di vent’anni dopo (V.B.P. VI 169, n. 10). Anche se l’estrema lacunosità di BGU XIII 2215 (n. 4) non lascia capire a qual fine la lista dei templi fosse stata compilata, né di quante colonne potesse esser stato costituito il rotolo originario, non è del tutto inverosimile ritenere che l’elenco, conservato ora solo parzialmente, potesse esser stato allegato a uno o più documenti riguardanti obblighi ed esenzioni da imposte per categorie di sacerdoti, fra cui quelli dei λόγιμα ἱερά delle μερίδες Herakleides e Polemon dell’Arsinoites, elencati nel brano di testo conservato.37 Ancora una volta l’enumerare quanti appartenevano a determinate categorie privilegiate corrispondeva alla necessità di controllare periodicamente situazioni soggette a cambiamenti, dovuti tanto a ragioni naturali, come la crescita o la diminuzione della popolazione, quanto al fatto che talora le norme non erano destinate all’intera collettività, ma erano state emanate in risposta a esigenze espresse da singoli gruppi.38

Connesso ai λόγιμα ἱερά è l’uso dell’epiteto παραδόχιμοι, attestato per ἱερεῖς appartenenti a importanti complessi templari; lo testimoniano, fra la fine del I e il II secolo d.C., in tutto, finora, sei documenti dall’Arsinoites, di cui tre da Tebtynis e due da Soknopaiou Nesos, sedi di λόγιμα ἱερά.44 L’appellativo παραδόχιμος viene usato per sacerdoti con prerogative e incarichi in tutto corrispondenti a quelli dei λόγιμα ἱερά e le due espressioni, a definire il tempio λόγιμον e il sacerdote παραδόχιμος, sono presenti in un caso nello stesso documento. Ι sacerdoti παραδόχιμοι, di fatto, sono sottoposti all’ ἐπίκρισις, sono ἀπολύσιμοι e pagano l’ εἰσκριτικόν; lo si legge, ad esempio, in P.Tebt. II 298 verso (n. 2), alle ll. 9-12: γραφὴ ἱε[ρ]έων τοῦ ἑνδεκάτου ἔτους Αὐτ[ο]κράτορος Καίσαρος / Νέρουα Τραιανοῦ Σεβαστοῦ Γερμανικοῦ Δακικοῦ τῶν μὲν παραδοχίμω[ν] / [κα]ὶ ἐπικεκριμ[έ]νων ἀπολυσίμων ἀν[δρ]ῶν πεντήκοντα, ὧ̣ν̣ τ̣ὸ̣ / [κ]α[τ’] ἄνδρα; P.Tebt. II 611 recto, l. 8: ἀπὸ ἱερέων παραδοχίμων τῶν ἐπικε[κριμένων, e lo si ritrova nella copia di lettera circolare diretta agli στρατηγοί e ai βασιλικοὶ γραμματεῖς degli ἑπτὰ νομοί e dell’Arsinoites, parzialmente conservata in P.Aberd. 16 alle ll. 1-10: ἀν̣[τ]ίγραφον̣ ἐπιστολῆς. / Μάρκος Ἑρμογένης στρα(τηγοῖς) καὶ / β[α(σιλικοῖς) ζ´] νομῶν καὶ

Le attestazioni discusse fin qua provengono dall’Arsinoites, 23 da Tebtynis, 16 da Soknopaiou Nesos, 4 da Bakchias, distribuite dalla fine del I secolo d.C., da cui resta un solo papiro,39 al III secolo d.C. inoltrato; quelle di provenienza non arsinoitica, cinque in tutto, si collocano invece dopo la metà del II secolo d.C. Si tratta di P.Oxy. XLIX 3473 (n. 22), dichiarazione di beni, offerte e proprietà del tempio, datata 161-169 d.C., da

37

40

Si pensi ad esempio alla raccolta di documenti con l’elenco delle categorie esentate dalle imposte contenuto in P.Phil. 1 (n. 8), la cui ragion d’essere è la questione dell’esenzione dai tributi dei tessitori. Un’allusione alla tessitura si trova anche nella prima riga frammentaria di BGU XIII 2215 (n. 4), ma non permette alcuna ricostruzione utile a contestualizzarla. 38 Si pensi a OGIS II 664, del 54 d.C.; P.Phil. 1 (n. 8) e BGU I 250 = TM 9006 = W. Chr. 87, del 135-136 d.C., su cui vedi infra. 39 L’espressione λόγιμον ἱερόν a l. 4 di P.Tebt. II 302 (n. 1) è frutto, come s’è detto, di un’integrazione che non lascia dubbi.

Per Pela, cfr. Trismegistos GeoID: 2875. Per Teis, cfr. Trismegistos GeoID: 2907. Per Laura, nel Kynopolites cfr. Trismegistos GeoID: 3033. 43 Vedi anche supra. 44 P.Tebt. II 302. 2 (n. 1), del 71-72, da Tebtynis; P.Tebt. II 298. 10 (n. 2), del 107-108 d.C. (circa), da Tebtynis; SB VI 9066. 8 = TM 14091, del 138-161 d.C. da Soknopaiou Nesos; SB XXIV 15918. 39 = TM 9247, datato dopo il 180 d.C., da Soknopaiou Nesos; P.Aberd. 16. 5 = TM 9972, del 134 d.C. (circa) dall’Arsinoites; P.Tebt. II 611. 3 = TM 28484, del II sec. d.C., da Tebtynis. 41 42

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infatti a epoche ben precedenti la conquista romana;50 venne poi recepita nello Gnomon dell’Idios Logos, il cui redattore molto probabilmente aveva potuto attingere, almeno in materia sacrale, a testi della tradizione egiziana tradotti in greco, quali, ad esempio, il manuale conosciuto sotto il nome di Μοσχοσφραγιστικά.51 La riflessione di Jan Quaegebeur «s’il s’avèrait réalisable de montrer que cette partie du Gnomon de l’Idios Logos remonte à un texte de base égyptien, on parviendrait à mieux apprécier l’apport des activitès rédactionelles des prêtres ègyptiens à la jurisprudence de l’Égypte gréco-romaine»,52 è indotta dalla discussione sull’interpretazione corretta da dare ai cosiddetti ἱερατικοί o ἱεροὶ νόμοι, attestati in alcuni papiri, la cui elaborazione andrebbe attribuita a sacerdoti che operavano nel contesto delle biblioteche templari, in cui ne sarebbe stata curata la conservazione, la riproduzione e la traduzione: una serie di attività che prevedono la disponibilità di spazi e attrezzature adeguate, oltre al lavoro e alla dedizione di personale preparato ed esperto, che doveva perciò venire debitamente istruito. Il greco ἱερογραμματεύς, documentato dal III secolo a.C. al III secolo d.C. in papiri che provengono tutti da siti in cui sono presenti grossi complessi templari,53 traduce l’egiziano “scriba della casa della vita”,54 la struttura del complesso templare in cui si trovavano l’archivio, la biblioteca e lo scriptorium e che era istituzionalmente dedicata all’insegnamento dei livelli più alti. Anche se non esiste una prova diretta dell’elaborazione delle norme contenute nello Gnomon dell’Idios Logos concernenti il diritto sacrale dei templi egiziani da parte di un’équipe di sacerdoti, nulla è più verosimile del ritenere che rientrasse fra gli impegni dei λόγιμα ἱερά curare la tradizione e le traduzioni delle antiche regole da adattare al nuovo governo. La documentazione concernente gli ἱερογραμματεῖς testimonia il loro impegno nei controlli che andavano operati prima di procedere alla circoncisione dei candidati all’accesso alla classe sacerdotale, un incarico della massima responsabilità, il cui controllo in ultima istanza ricadeva sotto la giurisdizione, prima dell’ Ἴδιος Λόγος e, dall’Epoca di Adriano, dell’ ἀρχιερεύς, come quello dei μοσχοσφραγισταί, o ἱερομοσχοσφραγισταί,55 che

Ἀρσ̣ινοείτου χαίρε̣ι̣ν. / πολ[λο]ὶ ἱερεῖς καὶ πολλοὶ πρ[ο]/φῇτ̣α̣ι παρ[α]δ̣όχιμοι [ἐν]τυγχά/νουσ̣ί̣ μοι ὡ[ς ἐ]κ̣ τῶν ἱ̣ερ̣ ῶν νό/μων κ̣αὶ ὑπὸ τῶν κρ̣ατίστων / ἡγεμ̣όν̣ ων ἀφειμένοι λειτουρ/[γιῶν] χ̣ωρ̣ικῶν καὶ εἰς παυ̣-[ . . . . . . . ] . πρα . . [ . . . . ]ω̣ν̣ . [ 45 4. Conclusione Nell’ottica politica dell’amministrazione romana, che in Egitto, come altrove, tendeva a ottenere consenso attraverso la creazione di cosiddette élites locali privilegiate, alcuni benefici, di ordine prevalentemente fiscale, venivano concessi ai sacerdoti, che potevano venir riconosciuti a pieno titolo come membri di istituzioni templari di rilievo, che davano il loro contributo all’amministrazione della provincia attraverso un’attiva partecipazione alla gestione politica, economica e sociale del territorio in cui vivevano. La documentazione in nostro possesso lo conferma, anche in maniera indiretta: si pensi soltanto alle numerose feste che scandivano i diversi momenti dell’anno, e alle spese che l’organizzazione di tali eventi comportava;46 oppure si ricordi che il compito di misurare e studiare le piene del Nilo, in modo da poter calcolarne la portata, era una funzione rivestita in ambito sacerdotale.47 In proposito va citata almeno la festa celebrata nel mese di Ἐπείφ, che si svolgeva in ambito templare ed era connessa alla consultazione degli archivi, che contenevano i rotoli in cui erano registrati i livelli raggiunti dalle piene del fiume, strumenti indispensabili per confrontare quella presente con quelle degli anni precedenti.48 L’unica testimonianza esplicita di una responsabilità attribuita per legge ai λόγιμα ἱερά è quella, già citata sopra, del paragrafo 87 dello Gnomon dell’Idios Logos, in cui si stabiliva che la scelta dei μοσχοσφραγισταί, previa verifica della loro adeguatezza al compito, che consisteva nel distinguere quali fossero i vitelli da marchiare come adatti al sacrificio, dovesse essere di esclusiva pertinenza di questi templi. Questa norma è inserita nella parte dello Gnomon dedicata al diritto sacrale e si accompagna a quella, precedente, che vieta di sacrificare vitelli non marchiati (paragrafo 72).49

50 Le fonti dall’Antico Regno all’Epoca Romana sono raccolte e commentate in Känel 1984. 51 Passi di compilazioni, regolamenti, norme, leggi, codificazioni di origine più antica trascritti in ieratico, demotico e greco ci sono stati restituiti dai papiri di Epoca Ellenistica e Romana. Un primo bilancio, sempre valido, di queste testimonianze si trova in Quaegebeur 19801981, cui rimando per la citazione delle fonti letterarie e documentarie relative all’argomento. 52 Cfr. Quaegebeur 1980-1981, 235. 53 Le testimonianze della DDBDP sono in tutto diciotto, di cui quattordici di Epoca Romana, che si collocano prevalentemente fra il II e l’inizio del III secolo d.C. Di particolare interesse il documento demotico del 95-96 d.C. da Soknopaiou Nesos, pubblicato in Bresciani 1983. 54 Cfr. Quaegebeur 1980-1981, 233. 55 Questo titolo è attestato in tre papiri da Soknopaiou Nesos: P.Gen. I 32 = TM 13878, certificato greco con sottoscrizione in demotico per il sacrificio di un vitello, del 22 marzo 148 d.C.; P.Grenf. II 64 = TM 31938, certificato per il sacrificio di un vitello, del III secolo d.C.; W. Chr. 89 = TM 13879, certificato greco con sottoscrizione in demotico per il sacrificio di un vitello, del 5 marzo 149 d.C.; la DDBDP registra sette μοσχοσφραγισταί, che si collocano fra la metà del II secolo d.C. e

Che questa procedura fosse strettamente regolamentata è noto tanto dalle fonti letterarie (Erodoto, Plutarco, Clemente Alessandrino), quanto dai documenti; risaliva

45

L’autore della lettera va identificato presumibilmente con Quintius Marcius Hermogenes, praefectus classis Augustae Alexandrinae nel 134 d.C., ma quale funzione avesse ricoperto, in veste di titolare o meglio, forse, di sostituto, per scrivere questa circolare, non è chiaro. Si veda in proposito, oltre a P.Aberd. 16, 18, commento a l. 2, Kruse 2002, II, 770771 e nota 2178. 46 Basti citare Perpillou-Thomas 1993. 47 Cfr. Strassi 2010, 152, nota 59. 48 Cfr. Känel 1984, 137, con bibliografia. 49 Sono i paragrafi dal 71 al 97 dello Gnomon dell’Idios Logos: per il commento cfr. BGU V 1210 (n. 17), 1, 29-35 e BGU V 1210 (n. 17), 2, 77-98.

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vengono identificati con la figura del sacerdote-ouâb di Sekhmet, la cui tradizione era antica di duemilacinquecento anni.56 È evidente che le funzioni cui s’è accennato, per quanto sottoposte al controllo dell’autorità romana, non potevano che essere svolte da quanti ben conoscevano ed erano partecipi delle ritualità connesse alla tradizione, la cui messa in atto contribuiva anche ad esercitare una rigorosa forma di controllo della popolazione.

assecondare una convivenza senza fratture fra le diverse etnie che vi si trovano.59 Γραφή dei papiri egiziani con testimonianze di λόγιμα ἱερά60 1. *71-72 d.C., P.Tebt. II 302 = W. Chr. 368 = TM 13462, petizione al prefetto concernente il diritto di coltivare terre un tempo appartenute al tempio, da Tebtynis; l. 3-4: . . . καὶ τῶν / [συννάων θεῶν ἱεροῦ λογίμου τοῦ ὄντος ἐν κώμῃ] Τεβτύνι τῆς Π[ολ]έμωνος μερίδος.

A proposito del compito istituzionale attribuito ai μοσχοσφραγισταί, va ricordato che la norma che stabiliva l’obbligo di redigere un certificato, da consegnare a chi comprava l’animale destinato al sacrificio, per attestare che esso era stato esaminato e giudicato idoneo da chi di dovere, introdotta dall’Idios Logos Iulius Pardalas nel 122-123 d.C., rispondeva a un’esigenza espressa in una richiesta indirizzata allo stesso Idios Logos da parte dei μοσχοσφραγισταί di Soknopaiou Nesos.57 Fra le ragioni che avrebbero indotto la richiesta di questa misura protezionistica, quella di impedire a impostori di esercitare l’attività riservata a un gruppo scelto e nel contempo non incorrere in denunce da parte di sicofanti sembrano molto plausibili, tanto più che i μοσχοσφραγισταί dovevano essere istruiti e valutati nei λόγιμα ἱερά, ed erano tenuti a pagare una tassa calcolata del 10% sugli animali scelti per il sacrificio.58

2. ca. 107-108 d.C., P.Tebt. II 298 R + P.Tebt. II 298 V = W. Chr. 90 = TM 8862, lista di sacerdoti e relativi pagamenti per l’acquisizione di cariche sacerdotali, da Tebtynis; ll. 6-9 recto: . . . τῶν πέντε πρεσβ(υτέρων) ἱερέων ἱεροῦ λογίμου / Σοκνεβτύνεως τοῦ καὶ Κρόνου καὶ Ἴσ[ι]δος καὶ Σαρ[άπι]δος κ[αὶ Ἁρ]ποχρ[ά]του / καὶ τῶν συννάων θεῶν ὄντος ἐν κώμηι Τεβτύνι τῆς Π[ο]λέμωνος / μερίδος. 3. *109-117 d.C. (21 agosto), PSI X 1145 = TM 13857, contratto di cessione di un παστοφόριον, redatto nel γραφειῶν di Theogonis (Arsinoites); ll. 9-10: . . . τοῦ ἐν κώμῃ Τεπ[τύνει ἱεροῦ λογί]/[μου . . .

È una deduzione implicita ritenere che il centro di tutte queste funzioni istituzionalmente riconosciute fossero i λόγιμα ἱερά, anche perché in essi soltanto era presente la “casa della vita”, che custodiva gli strumenti indispensabili tanto alla formazione dei sacerdoti, quanto allo svolgimento corretto delle ritualità, grazie a un’antica tradizione, che era riuscita a sopravvivere e perpetuarsi attraverso più di un cambio di governo e di amministrazione.

4. 113-114 d.C., BGU XIII 2215 = TM 8745, lista di templi, dall’Arsinoites; I, 2: . . . ]υ̣̣ καὶ ἱερὰ λογ.ειμα̣ι61 λ[ι]μν̣αίου . . . 5. 115-119 d.C. (18 marzo), SB XVI 12833 = TM 14677, petizione a causa di un’ingiusta attribuzione di liturgia, da Soknopaiou Nesos; ll. 3-9: . . . παρὰ Ὀννώφρεως τοῦ Ὀν[ν]ώφρε/[ω]ς [ἱ]ερέως καὶ κωμαστοῦ πεντα/[φυ]λίας λογίμου ἱερεοῦ Σοκνοπαίου / [θεο]ῦ με̣γίστου κα̣ὶ Σοκνοπαιίος / [κ]α̣ὶ Ἴσιδος Νεφερσήνους κ[α]ὶ Σεράπ[ι]δος / [κ]αὶ Ἴσιδος Νεφέρμιδος καὶ τῶν συν/[ν]άων θεῶν μεγίστων.

Queste le ragioni per cui, a mio modo di vedere, un epiteto onorifico assunse nel periodo centrale dell’amministrazione romana in Egitto, che precedette le riforme severiane e la diffusione a macchia d’olio del cristianesimo, un significato istituzionale, che sanciva la collaborazione fra il governo provinciale e gruppi elitari di sacerdoti locali, che avevano sede in templi di tradizione millenaria. A fronte delle esenzioni dalla λαογραφία e da altri tributi, δημόσια, citati nei documenti e ai riconoscimenti di status, che ne confermavano il carattere di “casta”, i sacerdoti dei λόγιμα ἱερά contribuivano, grazie alla profonda conoscenza del territorio e alla capacità di penetrazione capillare anche fra la popolazione di lingua egiziana, alla gestione amministrativa, economica, sociale e politica di un paese, in cui non era di trascurabile importanza riuscire ad

6. 117-138 d.C. (oppure dopo), BGU I 176 = W. Chr. 83 = TM 8939, petizione al prefetto da parte di (24?) sacerdoti, che reclamano l’esenzione dai χωματικὰ ἔργα, dall’Arsinoites; l. 6: . . . ]κδ´ διὰ . . . [τὸ] εἶναι λόγιμ[ον τὸ ἱερὸν ἡμῶν. 7. post (?) 119 d.C. (giugno-agosto), BGU III 706 = TM 9305, dichiarazione di censimento, da Soknopaiou Nesos, ll. 4-6: . . . παρὰ Ἁρπαγάθ]ου τοῦ [Στο]τ̣οήτιος τοῦ 59

Si ricordino gli esempi citati in Bussi 2005, 348-353, fra cui spicca la funzione diplomatica svolta dal tempio di Philae nell’ambito dei rapporti romani con la Nubia. Il tempio di Isis a Philae, anche in mancanza di testimonianze documentarie in proposito, va senza dubbio annoverato fra quelli considerati λόγιμα. 60 L’elenco dei documenti si basa su una ricerca fatta attraverso http://www.papyri.info/navigator/ddbdpsearch (15 febbraio 2010). I papiri in cui il termine λόγιμος è completamente integrato, ancorché certo, sono preceduti da asterisco. 61 Da leggere verosimilmente λόγιμα: cfr. BGU XIII 2215, 9, commento a l. 2.

la fine del III o inizio IV secolo d.C., quattro da Ossirinco, tre dall’Arsinoites. 56 Cfr. P.Gen. II 32, che dà la traduzione in demotico del termine greco e Känel 1984, 157-158 (n. 73). 57 Cfr. BGU I 250 = TM 9006 = W. Chr. 87, del 135-136 d.C. 58 Le diverse possibilità sono valutate in Känel 1984, 272-273.

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Τεσενοῦφεως μ[ητρὸς . . . ἀπὸ κώμης Σοκ]νοπαίου Ν[ή]σου, ἱερέως δ´ φυλῆς ἱεροῦ / λο[γίμου . . .62

Ἡρακλείδο(υ) με[ρ]ίδος ἱ[εροῦ λογ]ίμου Νεφρ[έμμε]/[ως θεᾶ]ς με̣γί[στης. . . . . . ] . .

8. post 119 d.C. (4 agosto), P.Phil. 1 = TM 12713, insieme di documenti concernenti obblighi liturgici e relative esenzioni, fra cui quella stabilita da un διάταγμα del prefetto Gaius Vibius Maximus per i sacerdoti dei λόγιμα ἱερά, da Philadelphia (Arsinoites) del 103-107 d.C.; ll. 26-27: εἰσὶ δὲ οἱ ἀπ[ολ]υόμενοι δημο[σίων . . . ] / ἱερεῖς λογίμων ἱερῶν.

15. 147 d.C. (5 gennaio), P.Tebt. II 294 = W. Chr. 78 = TM 13457, copia di richiesta all’Idios Logos per l’acquisizione di incarico sacerdotale, da Tebtynis; ll. 4-7: . . . πα[ρὰ Πα]κήβκιος Μαρσισούχου [ἱ]ερέως ἀπολυσίμου /{ἀ[πὸ]} Σοκνεπτύνεως τ[ο]ῦ καὶ Κρόνου καὶ τῶν συννάων / [θεῶν μεγ]ίστων ἱεροῦ λογίμου τοῦ ὄντος ἐν κώμῃ Τε/[πτύνει τ]ῆς Πολέμωνος μερίδος τοῦ Ἀρσιν[ο]είτου νομοῦ.

9. 123 d.C. (giugno-agosto), P.Kron. 1 = SB VI 9394 = TM 11529, γραφὴ παστοφόρων, da Tebtynis, ll. 2-4: . . . τῶν β´ [π]ρε(σβυτέρων) παστοφόρω(ν) ἱερο(ῦ) λογίμο(υ) θεοῦ [Κρόνο]υ καὶ τῶν συννάων θεῶν κώμης Τεπτύν(εως) . . .

Ἴσιδος

16. 149 d.C. (26 aprile-25 maggio), W. Chr. 77 = TM 15155, documenti concernenti censo e circoncisione inviati da sacerdoti all’ ἀρχιερεύς da Soknopaiou Nesos; ll. 9-11: οἱ ὑπογεγραμμένοι ἱερεῖς τῆς πενταφυλ[ίας θ]εοῦ μεγίστου Σ[οκνο]παί/ου καὶ τῶν συννάων θεῶν ἱεροῦ λογίμου κώ[μ]ης Σοκνοπαίου Ν[ή]/σου.

10. 132-133 d.C., V.B.P. VI 169 = TM 15148, dichiarazione di censimento, da Tebtynis; ll 4-9: . . . ἀπὸ κώμ(ης) Τεβτύνεως ἱερέως ἀπολυ/[σίμου ἀ]πὸ ἀνδρῶν πεντήκοντα λογίμου / [ἱεροῦ τ]οῦ ἐν τῇ κώμ(ῃ) θεοῦ Σοκνεβτύνεως / [τοῦ καὶ] Κρόνου καὶ Ἴσιδος καὶ Σαραπιάδος καὶ / [Ἁρπο]χράτου καὶ τῶν συννάων θεῶν μεγίσ/[τω]ν.

17. post 149 d.C., BGU V 1210 = TM 9472, Gnomon dell’Idios Logos, da Theadelphia; l. 201: μ̣ο̣σχ̣ οσφραγ̣ιστ̣αὶ ἐξὸν λογ̣ίμω̣ν̣ ἱερῶν δοκιμάζοντ̣αι . . . 18. 151 d.C. (9 febbraio), P.Tebt. II 300 = TM 13460, dichiarazione di morte di un ἱερεὺς ἀπολύσιμος del λόγιμος ἱερός di Tebtynis, da Tebtynis; l. 4: . . . τοῦ ἐν Τεβτύνι λογίμου ἱερ[ο]ῦ. . . .

11. 133 d.C. (7 gennaio), P.Louvre I 2 = TM 11832, denuncia al prefetto per violazione di domicilio, da Soknopaiou Nesos; ll. 1-9: Τίτω[ι Φλαουίωι] Τ̣ι̣τ̣ι̣α̣νῶι / ἐπάρχωι Αἰγύπτου / παρὰ Σαταβοῦτος τοῦ / Σαταβοῦτος ἀπὸ Σ̣οκ̣νο̣ παίο(υ) / Νήσου Ἡρακλείδου μερίδο(ς) / τοῦ Ἀρ[σ]ινοείτο̣υ ἱερέως / λογίμων ἱερῶν δι[ὰ] τοῦ / υἱοῦ Στοτ[ο]ή̣τ̣ιο̣ς καὶ αὐτοῦ / ἱερέ̣ω̣ς . . .

19. ca. 156 d.C., P.Rain.Cent. 58 = TM 12868, richiesta di circoncisione, da Soknopaiou Nesos; ll. 4-5: . . . θεοῦ μεγάλου μεγάλ[ου καὶ τῶν συν]νάων θ[εῶν ‘Iε]/ροῦ λογίμου τοῦ ὄντ[ος ἐ]ν [κώμῃ Σο]κνο[παίου Νήσου] . . .

12. 135 d.C. (25 febbraio-26 marzo), P.Kron. 4 = SB VI 9479 a = TM 111561, ordine di presentare la documentazione riguardante l’ εἰσκριτικόν, da Tebtynis; ll. 1-5: Καλλίστρατος στρ(ατηγὸς) Ἀρσι(νοΐτου) Πολέμω(νος) / μερίδ(ος) / Κρονίωνι Χεῶτος τοῦ Μαρρέους τοῦ καὶ / Ἁρμιύσεως μητ(ρὸς) Ταορσενο(ύφεως) παστοφόρῳ ἱεροῦ λογίμου κώ(μης) Τεβτύνεως.

20. post 156 d.C. (26 febbraio-26 marzo), BGU XIII 2216 = TM 9627, verbale di procedura per circoncisione davanti all’ ἀρχιερεύς, da Soknopaiou Nesos; l. 9: . . . [τ]ῆς Σο[κ]νοπαίου [θεοῦ μεγάλου μεγάλου καὶ τῶν συννάων] θεῶν ἱε[ρ]οῦ λο[γ]ίμου τοῦ ὄντος . . . 21. 158 d.C. (24 agosto), SB XII 10883 = TM 14345, ricevuta di lista di sacerdoti e inventario del tempio, da Soknopaiou Nesos; ll. 13-14: . . . ἱεροῦ λογίμου κώμης Σοκνο(παίου) / Νήσ[ου] . . .63

13. 135 d.C. (25 febbraio-26 marzo), P.Kron. 5 = SB VI 9479 b = TM 11571, ordine di presentare la documentazione riguardante l’ εἰσκριτικόν, da Tebtynis; ll. 1-3: [Καλλίστρατος] σ̣τ̣ρ(̣ ατηγὸς) Ἀρσι(νοίτου) Πολ(έμωνος) μερίδος / [Ἁρφαῆσι Κρονίω]νος το(ῦ) Χεῶτο(ς) μ̣η̣τ(̣ ρὸς) / [Θεναπύγχεως] παστοφ(όρῳ) ἱερο(ῦ) λογ(ίμου) κώ(μης) Τεβτ(ύνεως).

22. 161-169 d.C., P.Oxy. XLIX 3473 = TM 15633, dichiarazione di beni, offerte e proprietà del tempio, da Oxyrhynchos; ll. 4-5: . . . ἱεροῦ λογίμου τοῦ / ὄντος ἐν τῇ α(ὐτῇ) Πέλα. 23. 164 d.C. (4 novembre), PSI X 1143 = TM 13855, contratto d’affitto di γῆ βασιλικὴ ἱερευτική, da Tebtynis; ll. 5-6: . . . ἱερεῖς τοῦ ἐν̣ [τῇ] κώμῃ Τεβτύνε[ι] λογίμου / ἱεροῦ . . .

14. 139 d.C. (4 ottobre), SB XVI 12685 = TM 14647, petizione all’Idios Logos per un contenzioso concernente prebende di sacerdoti, da Soknopaiou Nesos; ll. 64-68: [Κλαυ]δ̣ίῳ / [Ἰουλ]ιανῷ τῷ πρὸς τ̣[ῷ ἰδίῳ] λόγῳ παρὰ [Σ]τοτοήτι[ος τοῦ] / [Στο]τοήτιος καὶ τῶ̣ν̣ λοιπῶν ἱ[ερ]έων κώμης Σοκνοπα[ίου Νήσο]υ̣ / τ[ῆ]ς

24. 167 d.C. (4 novembre), P.Tebt. II 390 = Mitt. Chr. 251 = TM 13546, contratto di prestito garantito da ipoteca, da Tebtynis; ll. 9-10: . . . ἱερεῖς ἀπολύ(σιμοι) / [τοῦ ἐν τῇ α]ὐ̣τῇ ̣ κώμῃ λογίμου ἱεροῦ . . .

62

Sulle formule ἱεροῦ λογίμου τοῦ ὄντος ἐν κώμῃ in alternativa a ἱεροῦ λογίμου ἐν κώμῃ oppure τοῦ ἐν τῇ κώμῃ λογίμου ἱεροῦ cfr. Cowey-Kah 2007, 176, commento alle ll. 5-6 di BGU III 706.

63 Su questo testo bilingue greco-demotico, cfr. Crawford-Easterling 1969, 188.

329

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

25. post 168 d.C. (24 luglio), P.Tebt. II 304 = TM 13463, petizione riguardo a un assalto subito, da Tebtynis; ll. 15: Λογγίνῳ δεκαδάρχῃ Ἀρσινωίτου / παρὰ Πακήβκις Ὀννώφρεως ἀπὸ / κώμης Τεπτύνεως ἱερέως / ἀπολυσίμου τοῦ ἐν τῇ κώμῃ λογίμου / ἱεροῦ.

35. 189-190 d.C., P.Tebt. II 292 = W. Chr. 74 = TM 13455, richiesta di circoncisione, da Tebtynis; l. 5: . . . [ἱ]εροῦ λογίμου τοῦ ὄντος κώ(μῃ) Τεπτύ(νει) . . . 36. 190 d.C. (27 novembre-26 dicembre), P.Tebt. II 301 = TM 13461, dichiarazione di morte di un ἱερεύς del λόγιμος ἱερός di Tebtynis, da parte dei tutori, entrambi sacerdoti, l’uno dello stesso tempio, l’altro del tempio di Isis e Serapis della κώμη di Sobthis dell’Herakleopolites, da Tebtynis; ll. 6-8: . . . ἱερέως ἀπολυσίμου / τοῦ ἐ[ν κώ]μῃ Τεπτύνει λογίμου / [ἱερ]οῦ . . . ll. 10-11: . . . [ἱ]ερέως τοῦ αὐτοῦ / λ̣[ογίμο]υ ἱεροῦ.

26. 169-172 d.C., PSI XV 1529 = TM 13776, denuncia allo stratego, da Tebtynis; l. 3: . . . ἱερεῖ (l. ἱερέως) τοῦ ἐν Τεπτύνει ἱεροῦ λογίμου . . . 27. 171 d.C., P.Bacch. 3 = SB VI 9337 = TM 14155, lista con inventario del tempio; ll. 3-6: . . . πρε]σβ(υτέρου) ἱερέων Σοκ[νοβραίσεως θεοῦ] / [μεγίστου τῶν λ]ογίμων ἱερῶν τ̣[ῶν ὄντων ἐν κώμῃ (?)] / [Βακχιάδι. γραφὴ] ἱερέων καὶ χειρ[ισμοῦ . . .

37. 192-193 d.C., BGU XV 2470 = TM 9740, richiesta di permesso di circoncisione (?) all’ ἀρχιερεύς Ulpius Serenianus, dall’Arsinoites; l. 6: θεῶν ἱεροῦ λογίμου . . .

28. 177-179 d.C., P.Tebt. II 303 = Mitt. Chr. 53 = TM 13463, litis denuntiatio da parte di sei sacerdoti allo stratego, da Tebtynis; ll. 7-9: . . . τῶν ϛ´ δι’ αὐτῶν ἱερέων ἀπολυσίμων / ἱεροῦ λογίμου τοῦ ὄντος ἐν κώμῃ / Τεπτύνει τῆς Πολέμωνο[ς] μερίδος.

38. 194 d.C. (13 febbraio-28 agosto), P.Lond. II 345, P.113 = W. Chr. 102 = TM 11724, dichiarazione di sacerdoti esenti da liturgie, da Nabla (Arsinoites); ll. 1-5: Ἁρποκρατίωνι τῷ καὶ Ἱέρακι βασιλ(ικῷ) γρα(μματεῖ) Ἀρσινοείτου Ἡρακλείδου μερίδ(ος) / π[αρ]ὰ Π̣αλήμεως Ἀτρείους καὶ Εὐρήμονος Χράτου τῶν β´ πρεσβ(υτέρων) παστοφόρων / ἱεροῦ λογίμου τῆς ἐπὶ κώμης Νάβλας Ἴσιδος Ναναίας καὶ Σεράπιδος καὶ Ἁρπο/κράτου καὶ [Σ]ούχου θεῶν μεγίστων καὶ τῶν συννάων ἀπολυσί(μων) τῆς λαογρα(φίας) / καὶ τῶν ἄλλων τελεσμάτων πάντων καὶ ἀσύλων.

29. 177-180 d.C., BGU II 387 = TM 9144, elenco di sacerdoti e inventario di beni templari, da Soknopaiou Nesos; l. 9: . . . ἱερ]οῦ λογίμου . . . 30. 178 d.C. (4 agosto), P.Bacch. 21 = SB VI 9339 = TM 14157, inoltro di copie di documenti notificati concernenti l’esonero dei sacerdoti dai χωματικὰ ἔργα, da Bakchias; ll. 1-4: [Φλαυίῳ Ἀπολλωνίῳ στρα(τηγῷ) Ἀρσι(νοίτου) Ἡρακλ(είδου)] μερίδο̣ς / [παρὰ Σ]ισόειτος Ὀρσενο̣ύ̣φ[ε]ως καὶ Ὥ̣ρο̣υ Πετεύρεως καὶ / [Πετεύρε]ως Πετεύρεως [τ]ῶν γ´ σὺν ἑτέροις ἱερεῦσι ἱερο̣ῦ λογίμ[ου] / [Σοκνοβραί]σεως κώμη[ς] Βακχιάδ̣ος . . .

39. II secolo d.C., P.Oslo III 115 = TM 28910, frammento di contratto, da Tebtynis; l. 7: . . . κ̣αὶ οἱ σ̣ὺν αὐτο̣ῖς ἱερεῖς ἀπολύσιμοι τοῦ ἐν κώμῃ Τεπτύνι λογίμου ἱεροῦ . . . 40. II secolo d.C., SB I 5835 = TM 27757, contratto di vendita di proprietà immobiliare, dall’Arsinoites; ll. 4-7: . . . παρὰ Ἀρτέμειτος Ἀμ[μ]ων[ίου τοῦ] / Μεν̣[ε]λά[ο]υ ἱερ̣εί[α]ς Ὀσίρ[ι]δ[ος καὶ Ἴσ]ι/δ̣ος κ̣α̣ὶ̣ Ἁ̣ρποκράτου θ[εῶν μ]εγίσ/των λογίμου ἱεροῦ μητροπόλ(εως) . . .

31. 178 d.C. (?), P.Lund IV 6 = SB VI 9343 = TM 11880, frammento di registro, da Tebtynis oppure Akoris (Herakleopolites); l. 3: . . . ] . ἱεροῦ λογίμου . . . 32. *184-192 d.C., P.Bacch. 6 = SB VI 9335 = TM 14153, comunicazione di invio di γραφὴ ἱερέων καὶ χειρισμοῦ, da Bakchias; ll.6-7: [ἱερέων ἱεροῦ Σοκ]νοβραίσεως θεοῦ μεγάλου με(γάλου) / [λογίμου (?)] [κ]ώμη(ς) Βακχιάδος.

41. 202-203 d.C., PSI X 1147 = 13859, dichiarazione di censimento, da Tebtynis; ll. 2- 3: . . . ἱερέως ἀπολυσίμου [τοῦ ἐν] / [Τεπτύνει λογίμου ἱε]ροῦ θεοῦ μεγάλου Σεκνεπτύνεως τοῦ καὶ [ . . . 42. 205 d.C. (25 giugno-24 luglio), SB XVI 13030 = TM 16347, contratto di prestito di denaro, dall’Hermopolites; l. 2: . . . ἱε]ρ[εὺς] ἱ[ε]ρ[ῶ]ν πρωτολο[γίμων Ἀ]πόλλωνος καὶ Εἴσιδος . . .

33. ca. 187 d.C., P.Tebt. II 293 = W. Chr. 75 = TM 13456, dichiarazione giurata concernente circoncisione, da Tebtynis; ll. 1-7: παρὰ Κρονίωνος Πακήβκεως τοῦ Ἁρπο/κρατίωνος διαδόχου προφητείας καὶ / Μάρωνος Κρονίωνος τοῦ Ἁρποκρατίωνο[ς] / καὶ Μάρωνος Μάρωνος τοῦ Μαρεψήμεως / καὶ Πακήβκεως Κρονίωνος τοῦ Ψοίφεως / τῶν γ´ ἱερέων τῶν δ´ ἱεροῦ λογίμ[ο]υ ἀπο/λυσίμου κώμης Τεπτύνεως.

43. *206 d.C. (25 agosto), CPR XV 22 = TM 9906, conclusione di lettera accompagnatoria di γραφὴ ἱερέων, da Soknopaiou Nesos; l. 1: . . . συν[νά]ων [θεῶν ἱεροῦ λογίμου κώμης] / Σοκνοπα[ίου Νήσῳ64 . . .

34. ca. 187-190 d.C., SB VI 9458 = TM 27815, denuncia contro soprusi, da Tebtynis; ll. 1-4: παρὰ Κρονίωνος Πακήβκεως τοῦ Ἁρπο/κρατίωνος ἱερέως ἀπολυσίμου ἱεροῦ λο/γίμου κώμης Τεπτύνεως καὶ διαδόχου προ/φητείας τοῦ αὐτοῦ ἱεροῦ.

44. 210-211 d.C., P.Tebt. II 313 = W. Chr. 86 = TM 13473, ricevuta di bisso, bilingue (greco-demotico) da 64 Per la lettura ἱεροῦ λογίμου κώμης al posto di ἱεροῦ λογίμου ἐν κώμῃ: cfr. Cowey-Kah 2007, 176, commento alle ll. 5-6 di BGU III 706, ripreso in Hoogendijk-Worp, 2001, 48, nota 6.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

52. 267-268 d.C. (?),68 PSI IX 1039 = TM 17468, rapporto di uno ἱεροψάλτης all’ ἀρχιπροφήτης di Oxyrhynchos, da Teis (Oxyrhynchites); ll. 1-9: Αὐρηλίῳ Ὀσοράπι ἀρχιπροφή/τῃ καὶ πρωτοστολιστῆ τῶν ἐν / Ὀξ(υρύγχων) πόλ(ει) πρωτολογίμων καὶ λογί(μων) ἱερῷν / . παρὰ Αὐρηλίου Πετοσείριος, ἀπὸ κώμης / Τή[ε]ως, ἱεροψάλτου Ἄμμωνος καὶ Κρό/νου καὶ Ἥρας καὶ Ἡρακλέως καὶ Σαρά/πιδος καὶ τῶν συννάων θεῶν μεγ̣ίσ/[τ]ων ἱεροῦ λογίμου τοῦ ὄντος ἐν τῇ / αὐτῇ κώμῃ.

Tebtynis; ll. 7-12: . . . καὶ οἱ λοι/[πο]ὶ [ἱ]ερεῖς Ἡλίου καὶ Μνεύιδος ἀειζώων θεῶν / μεγ[ίστ]ων καὶ ἄλλων ἱερῶν Μάρωνι Πα/κ[ή]βκεως τοῦ καὶ Ζ[ωσ]ίμου ἱερεῖ ἱεροῦ λο/γίμου θεῶν κώμης Τεβτύνεως Πολέμω/νος μερίδο[ς] τ[ο]ῦ Ἀρσινοείτου νομοῦ . . . 45. 211-217 d.C. (27 aprile), SB XII 11159 = TM 14421, inizio di contratto, da Ptolemais Drymou (Arsinoites); ll. 10-11: . . . ἱερεὺς ἀπολύσιμος τοῦ ἐν / [Τεβτύνι]65 λ̣ογίμου ἱεροῦ . . .

53. 282 d.C. (17 marzo), P.Oxy. X 1256 = TM 21796, lista di sacerdoti minorenni, da Laura (Kynopolites); ll. 12-16: Αὐρήλιος. . . [ἱ]ερεὺς Ἀνούβςδος καὶ Λητοῦς / [καὶ] τῶν συννάων θεῶν μεγίστων / [οἷ]ς συνκαθίδρυται ναὸς θεοῦ Σεβαστοῦ / [Κα]ίσαρος ἱερῶν πρωτολογίμων / τῶν ὄντων ἐν Λαύρᾳ Κυνωνπολείτ(ου) . . .

46. post 212 d.C., SB XX 15143 = TM 23900, dall’Hermopolites, corrispondenza ufficiale con una petizione di tre sacerdoti al βασιλικὸς γραμματεύς dell’Hermopolites a causa di una ingiusta assegnazione di liturgie, l. 11: . . . [ὑ]πὲ̣ρ λογίμων ἱερῶν μηδ̣’ ε̣ἶν̣α̣ι . . . 47. 216 d.C. (7 aprile), BGU I 321 = Mitt. Chr.114 = TM 9053, petizione allo στρατηγός Aurelius Didymos da parte del sacerdote Aurelius Pakysis, per un furto di grano subito durante un suo soggiorno ad Alessandria, da Soknopaiou Nesos; ll. 2-4: . . . παρὰ Αὐρηλίου Πακύσεως Τεσενούφεως ἱερέως / καὶ στολιστοῦ ἱεροῦ λογίμου κώμης Σοκνοπαί/ου Νήσου τῆς Ἡρακλ(είδου) μερίδος . . .

54. *III secolo d.C. (ex.), P.Oslo III 158 = TM 31639, lettera ad un ἀρχιπροφήτης, da Oxyrhynchos; ll. 5-7: . . . ἀρχιπροφήτῃ / [καὶ πρωτοστολισ]τῇ τῶν ἐν Ὀξ(υρυγχιτῶν) πόλει / [πρωτολογ(ίμων) καὶ λογ(ίμων) ἱ]ερῶν χαίρειν.

ALLUSIONI 48. 216 d.C. (7 aprile), BGU I 322 = Mitt. Chr. 124 = TM 9054, petizione da parte del sacerdote Aurelius Pakysis al centurione Aurelius Calvisius Maximus, per un furto di grano subito durante un suo soggiorno ad Alessandria da Soknopaiou Nesos; ll. 3-4: . . . ἱερέως καὶ στολιστοῦ ἱεροῦ λογίμ[ου] κ[ώμης] / Σοκνοπαίου Νήσου . . .

55. post 186 d.C., PSI VIII 927 = TM 13819, abbozzo di petizione riguardante imposte, da Soknopaiou Nesos, ll. 5-8: . . . ἄνδρες ξ´ καὶ ἱερεῖς ἄνδρες ρξ´, ἐξ λόγι/μοι κ´ καὶ οἱ λοιποὶ ρμ´, τελοῦσι τά τε ἐπικεφά/λια τῆς κώμης ὡς μ . . ιναι αὐτοὺς ἀλειτουργή/τους.

49. 216 d.C. (7 aprile), P.Louvre I 3 = SB I 6 = TM 11842, denucia a causa di furto di grano, da Soknopaiou Nesos; ll. 1-4: Αὐρηλίῳ Καλβεισίῳ Μαξίμῳ (ἑκατοντάρ)χ(ῃ) / παρὰ Αὐρηλίου Πακύσεως Τεσενούφεως / ἱερέως καὶ στολιστοῦ ἱεροῦ λογίμου κώμης / Σοκνοπαίου Νήσου τῆς Ἡρακλ(είδου) μερίδος . . .

56. 204 d.C. (29 luglio), P.Bacch. 13 = SB VI 9324 = TM 14141, lettera di accompagnamento ad una γραφὴ ἱερέων καὶ χειρισμοῦ, da Bakchias, ll. 1-10: Κανώπῳ τῶι καὶ Ἀσκ[λ(ειπιάδῃ)] / βασιλ(ικῷ) γρα(μματεῖ) Ἀρ̣σι(νοίτου) Ἡρα(κλείδου) μερίδος / διαδεχ(ομένῳ) καὶ τὴν στρα(τηγίαν) / τῆς αὐ(τῆς) μερ̣ίδος / παρὰ Σισό̣ιτος Ὀρσε/νούφεως κα̣ὶ τῶν / λ̣ο̣ιπ(ῶν) ἱερέων θεοῦ Σο/κνοβραίσεως μεγά/λου μεγάλου λογίμο̣υ̣ / κώμης Βακχιάδος.

50. 220 d.C. (luglio-agosto), BGU I 296 = SB XVI 12785 = TM 47181, scritto accompagnatorio di un elenco di sacerdoti e un inventario templare, da Soknopaiou Nesos; ll. 11-15: . . . τῶν πέντε καὶ τῶν λοιπῶν ἱερέων / Σοκνοπαίου θεοῦ μεγάλου μεγάλου καὶ Σοκοπιαίιος / θεοῦ μεγίστου καὶ ἱεροῦ χαριτησίου̣ κ̣α̣ὶ Ἴσιδ[ο]ς Νεφρέ/μιδ[ο]ς καὶ Ἴσιδος Νεφορσήους καὶ τῶν συννάων / θεῶν ἱεροῦ λογίμου κώμης Σοκνοπαίου Νήσου.66

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51. *221 d.C. (23 agosto), P.Lond. II 353 = TM 11734, dichiarazione annuale di sacerdoti, da Soknopaiou Nesos; ll. 8-10: . . . καὶ ἱερ[οῦ χα]ριτησίου / [καὶ Ἴσιδος Νεφρέμιδος καὶ Ἴσι]δος Νεφορσήους καὶ τῶν συ[ννάω]ν θεῶν / [ἱεροῦ λογίμου ἐν κώμῃ] Σ[οκ]νοπαίου Νήσου κατεχω[ρίσαμεν67 . . .

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65

Meno probabilmente τοῦ ἐν [κώμῃ Τεβτύνι]: cfr. Hickey 2009, 73, nota 30. Cfr. Harrauer-Sijpesteijn 1983, 25-27. 67 Cfr. Cowey-Kah 2007, 176, commento alle ll. 5-6 di BGU III 706. 66

68 Per la possibilità di datare il documento al 216-217 d.C. si veda l’introduzione a PSI IX 1039, 70.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

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Le collezioni dei papiri sono citate con le sigle della Checklist of Editions of Greek, Latin, Demotic and Coptic Papyri, Ostraca and Tablets (editors J.D. Sosin, R.S. Bagnall, J. Cowey, M. Depauw, T.G. Wilfong, K.A. Worp, last updated 2008), consultabile in versione costantemente aggiornata al sito web: [http://odyssey.lib.duke.edu/papyrus/texts/clist.html].

Si tengano inoltre presenti le seguenti abbreviazioni: DDBDP = Duke Databank of Documentary Papyri: [http://www.papyri.info/navigator/ddbdpsearch]. TM = Trismegistos: An interdisciplinary portal of papyrological and epigraphical resources dealing with Egypt and the Nile valley between roughly 800 BC and AD 800: [http://www.trismegistos.org/index.html].

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

(b) «[Erhöre] meine Rede an diesem heutigen Tage. Möchtest du [ein Erbarmen fühlen mit] den Dienern, welche klagen, dass du (sie) verbannt hast nach der Oase».

A PROPOSITO DI ALCUNI TESTI E MONUMENTI DEL TERZO PERIODO INTERMEDIO E DELL’EPOCA TARDA* Günter Vittmann

(2) Breasted 1906, 318-319 (655): Abstract

(a) «(it is) the matter of these servants, against whom thou art wroth, who are in the oasis, whither they are banished». (b) «Thou shalt hearken to my voice on this day, and thou shalt [&relent\] toward the servants, whom thou hast banished to the oasis».

1. n# b#kw Twt in the “stela of banishment” does not mean “the quarrelsome servants” but “the servants of yours”. – 2. A parallel between the “stela of election” of Aspelta and Setne II. – 3. Notes on a recently published funerary stela of a priest from Saqqara. – 4. A bronze statuette of an Apis bull with Greek and Hieroglyphic inscription in Chantilly. – 5. A bronze statuette of an oxyrhynchus fish with Demotic inscription.

(3) Kees 1964, 45: “zänkische Diener” (L’autore non dà una traduzione coerente dei passi in questione ma discute il contenuto e il fondo storico del testo).

1. Due passi nella “stele degli esiliati” (4) Beckerath 1968, 12-13:

La cosiddetta “stele degli esiliati” (Louvre C 256), testimonianza importante per la storia della XXI Dinastia, è stata spesso studiata e discussa.1 Le linee 11 (a) e 15-16 (b) contengono due passi che, secondo la mia opinione, sino ad oggi non sono stati correttamente interpretati.

(a) «ist es die Angelegenheit der unruhestiftenden (?) Untertanen, gegen die Du erzürntest und die (nun) in der Oase sind, nach der man verbannt (?)».4 b) «Willst Du heute auf meine Stimme hören und willst Du [gnädig sein] mit diesen unruhestiftenden (?) Untertanen, die Du verbanntest in die Oase (...)?».

(Il Sommo Sacerdote di Amon si rivolge al suo dio invocandolo alla linea 11 come «mio buon signore»): 2 (a)

(5) Kammerzell, Sternberg 1986, 115-116: t# mdt n# b#kw Twt |.qnd=k r.r=sn ntj m wH#t t# ntj smn=tw r=s

(a) «(Ist es) die Angelegenheit deiner rebellischen5 Untertanen, denen du gezürnt hast und die sich (jetzt) in der Oase befinden, in der man (auf ewig) verweilt?». (b) «Wirst du heute auf meine Stimme hören und wirst du deine rebellischen Untertanen, die du in die Oase verbannt hast, begnadigen (...)?».

(b)

|w=k sDm n Xrw=| m p# hrw mtw=k &Htp\ r n# b#kw Twt |.X#o=k r wH#t

(6) Kruchten 1986, 139:

Di tali passi ho trovato pubblicate le seguenti traduzioni:3 (a) «cette affaire des gens querelleurs contre lesquels tu t’es fâché qui sont à l’Oasis est celle à laquelle on s’arrête».

(1) Brugsch 1878, 87: (a) «dieses Gerede der Leute betrifft eine Wehklage ob des Zornes, den du hegest gegen die, welche in der Oase weilen, in derjenigen welche du für sie bestimmt hast». *

Ringrazio gli editori per l’invito a partecipare a questo omaggio in onore di Sergio Pernigotti, nonché per la revisione del mio italiano. 1 Edizione di base: Beckerath 1968. Un’altra traduzione, assai libera, in tedesco è presentata da Kammerzell, Sternberg 1986, 112-117. Cfr. da ultimo Ritner 2009, 124-129 (trascrizione e traduzione). Il testo geroglifico si trova adesso anche in Jansen-Winkeln 2007, 72-74. 2 La disposizione originale dei gruppi geroglifici è stata leggermente modificata per facilitarne la lettura. 3 (1), (2), (4), (5) e (8) sono traduzioni del testo integrale.

4 Per una critica della parte finale di questa traduzione, cfr. Römer 1994, 196-197 e n. 238 (con rinvio a Kruchten 1986, 139). smn non significa «verbannen» ma si riferisce alla questione «ob man die Angelegenheit der in der Oase befindlichen Leute auf die Tagesordnung setzen könne» (196). 5 Stampato in corsivo dallo stesso traduttore per segnalare l’incertezza.

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(7) Winand 2003, 686-687 (h):

fosse davvero un verbo con il significato di «litigare, essere litigioso / ribelle», ci si aspetterebbe *n# b#kw ntj T(w)T(w), non n# b#kw Tt.

(b) «prêteras-tu attention à ma voix en ce jour et pardonneras-tu à ceux de tes serviteurs rebelles que tu as exilés dans une oasis ?»

Tutti questi problemi fonetici e sintattici si risolvono facilmente se si opta per un’analisi diversa.

(8) Lull 2006, 229:

fa venire in mente il pronome neo-egiziano Ora t|wy/ t|wt,10 che, infatti, può essere posto dietro , un sostantivo determinato o indeterminato per indicarne il possessore. Eccellenti esempi che illustrano questo uso sono b#kw s#wy (= sw) «servitori di lui»; p#y sx t|wy (= tw) «questo scriba tuo», wo Sms t|wy (= tw) «un tuo seguace»,11 n# |ry.w t|wt (= tw) «i compagni tuoi».12

(a) «¿es el asunto de los problemáticos súbditos contra los que tú te encolerizaste y que están en el oasis desde que se les destarrara (sic)?» b) «¿Tú quieres escuchar hoy de mi voz y tú quieres hacer la paz con los problemáticos súbditos que tú desterraste (16) hacia el oasis (…)?»

Per quanto riguarda la stele degli esiliati, possiamo dunque tradurre:

(9) Ritner 2009, 127-128:

(a) «L’affare dei servitori tuoi contro i quali tu ti sei adirato è quello per il quale è stata fissata (questa sessione)». (b) «Ascolterai oggi la mia voce e sarai propizio ai servitori tuoi che hai confinati all’Oasi?».13

(a) «is it the matter of the quarrelsome servants at whom you were angered and who are in the oasis in which people are confined?» (b) «Will you listen to my voice today and be forgiving toward the quarrelsome servants whom you banished (16) to the oasis (…)?».

I “servitori”, dunque, non sono caratterizzati come “litigiosi” o “ribelli” ma come servitori dello stesso Dio.

Il vocabolo che qui ci interessa specialmente e che ricorre in ambedue i passi con riferimento al sostantivo b#kw . Il Brugsch lo ha reso con «servitori» è «Wehklage» (a), «klagen» (b), mentre il Breasted semplicemente lo ha ignorato. Kees, nel tradurlo «zänkisch” («litigioso»), è stato il primo a collocarlo nel campo semantico di litigio e ribellione, interpretazione da allora generalmente accettata, come dimostrano le traduzioni «unruhestiftend(?)» («sobillatore») (4), «rebellisch(?)» (5), «querelleur» (6), «rebelle» (7), «problemático” (8), «quarrelsome» (9). Il Beckerath6 ha collegato espressamente al verbo TtTt «litigare», aderendo alla opinione di Wente,7 il quale ha sostenuto che le forme verbali TwTw e Tw (attestate ambedue nello stesso testo) fossero foneticamente sviluppate da un originario TtTt. Con il tempo è però divenuto chiaro che TtTt > TwTw (TT) è il precursore del demotico DDj > copto 'ź' «nemico».8 Ne risulta senza alcun dubbio

Istintivamente, tanto Kammerzell – Sternberg el-Hotabi (5) che Winand (7) hanno introdotto nella traduzione un pronome possessivo, malgrado che, secondo la loro come tradizionale ma erronea interpretazione di sostantivo/aggettivo, non ne esisterebbe la minima traccia nel testo. Il Römer14 crede che gli esiliati fossero probabilmente membri del Tempio di Amon giacchè sono denominati come servitori / b#kw «(des Gottes?)». Questo è certamente possibile ma si deve tener conto che b#k, come giustamente osservò lo stesso Römer in un altro luogo della sua opera,15 nei decreti oracolari, è di solito un termine usato per le persone affidate alla protezione del Dio. Ma non c’è niente di nuovo sotto il sole… Dopo aver elaborato la mia “nuova” idea, ho scoperto che gli editori del Wb avevano già sostenuto esattamente la stessa interpretazione. Wb V 241 segnala la grafia “D21”, e i Belegstellen, 241:2 (t|.wj «ein …… von dir»), in aggiunta a due esempi studiati da Gardiner 1912, indicano “Stele der Verbannten 11”.

poiché l’impossibilità di una identificazione con il suono [þ] non sarebbe certamente stato reso per mezzo di -tw geroglifico ma piuttosto con -T, come all’inizio della parola.9 A prescindere da ciò sarebbe difficile spiegare l’uso diretto di un verbo («essere litigioso») come aggettivo qualitativo («litigioso») in neo-egiziano, idioma nel quale la stele degli esiliati è redatta. Se dunque

10 Cfr. Wb V 241, 1-2 (tj.wj); Lesko 1989, 72 (t|wy «of yours, thine») con rinvio all’articolo fondamentale di Gardiner 1912. Vedi anche Erman 1933, 47-48 §109; ýerný, Israelit-Groll 1975, 17-19. 11 Per i tre passaggi citati, cfr. Gardiner 1912, 115-116, es. 1; 3; 8-9. 12 Papiro British Museum 10052, V 6, cfr. Peet 1930, Tav. XXVIII (trascrizione geroglifica), 148 (traduzione) e 162 (37) (commento). 13 Il testo continua così: mtw=tw |n.ß=w r Kmt «e saranno riportati in Egitto?». 14 Römer 1994, 456-457. 15 Römer 1994, 363 e n. 287. Cfr. adesso anche Payraudeau 2008, 305 con un esempio nuovo (Namert, padre di Sheshonq I, designato come p#y=k b#k sbq «il tuo servitore legittimo»).

6 Beckerath 1968, 20 (con approvazione esplicita della interpretazione del Kees). 7 Wente 1967, 40 (t). Per TtTt e TwTw / TT, cfr. anche Lesko 1989, 119-120. 8 Cfr. Meltzer 2003, che assume una convergenza fonetica e semantica di due lessemi originalmente differenti: TtTt «litigare» e DrDr «nemico». 9 Al contrario però T geroglifico, accanto al suo normale valore fonetico, può anche rappresentare [t] parlato.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Nelle schede del Wörterbuch digitalizzate dal Thesaurus Linguae Aegyptiae16 si trovano la copia manoscritta e la traduzione della linea 11 nonché della linea 15:

offra un certo parallelo, non per quanto riguarda il contenuto, il quale è abbastanza differente, ma per quanto concerne gli aspetti formali. Nella “stele dell’elezione” di Aspelta, re di Napata (593-568 a.C.; Cairo JE 48866),22 vengono descritte le opinioni di vari militari che fanno parte del concilio che si deve occupare della elezione del nuovo sovrano:

(a) «die Sache dieser deiner17 Diener, gegen die du zornig bist, und die in der Oase sind; diese wohin man verurtheilt ist». (b) «Du hörest zu meiner Stimme an diesem Tage und du – gegen diese deine18 Diener – welche du nach der Oase verbannt hast».

«Uno di loro disse al suo compagno: ‘Non c’è nessuno che lo23 conosca eccetto lo stesso Ra. Egli scaccia ogni male da lui in ogni posto dove si trova. Allora uno di loro disse al suo compagno: ‘Ra suole tramontare nell’occidente, egli suole (anche) coronarlo in mezzo di noi’. Allora uno di loro disse al suo compagno: ‘È vero. (Questo) è il lavoro di Ra da quando sorse il cielo e da quando sorse la coronazione del re (…). Ra è quello chi lo pone in questo paese (…). Allora uno di loro disse al suo compagno: “Re non suole entrare nel cielo mentre il suo trono è privo di un sovrano (…)”».

È strano che questa corretta analisi sia poi caduta, a quanto pare, del tutto nell’oblio.19 Può darsi che sia colpa , che fa pensare a una pronuncia [tdella grafia vocale-t] oppure [þ-vocale-t] mentre il pronome fu piuttosto pronunciato come [tnj] o qualcosa simile.

2. La stele della elezione di Aspelta e il racconto di Setna II Nel racconto di Setna II20 c’è un episodio in cui i tre sciamani di Kush, uno dopo l’altro, annunciano che cosa farebbero se le condizioni fossero più favorevoli (i corsivi sono miei).

Di particolare interesse non è soltanto il contenuto di questa discussione – il ruolo e l’importanza di Ra per l’elezione del re24 – ma anche il fatto che si descrive con introduzioni uniformi come ciascuno di questi uomini comunica la propria opinione ai suoi colleghi. Sotto questo aspetto, come si è detto sopra, c’è una cospicua ma finora, per quanto io ne sappia, inosservata somiglianza tra Setne II e la “stele dell’elezione”, somiglianza tanto più notevole che esempi ben paragonabili sembrano mancare nella letteratura egiziana.

«(…) uno di loro parlava ad alta voce e diceva tra l’altro: ‘Che Amon non trovi nessun male per me e il capo dell’Egitto non [mi] faccia punire! (Altrimenti) getterei la mia magia sull’Egitto sicché farei passare al popolo dell’Egitto tre giorni e tre notti senza vedere la luce, soltanto le tenebre’. Il secondo di loro disse tra l’altro: ‘Che Amon non trovi nessun male per me e il capo dell’Egitto non mi faccia punire! (Altrimenti) getterei la mia magia sull’Egitto, sicché farei portare il faraone dell’Egitto nella terra dei Nubiani e lo farei picchiare con una frusta, cinquecento colpi con il bastone, apertamente davanti al capo e lo farei riportare di nuovo in Egitto in sei ore’. ».21

3. Una iscrizione con date biografiche da Saqqara Recentemente è stata pubblicata la stele funeraria di un sacerdote sepolto a Saqqara ai tempi della XXVI dinastia.25 La stele (Saqqara 148), che è attualmente esposta nel nuovo “Imhotep Museum” a Saqqara, è di un certo interesse, dal momento che fornisce di nuovo26 le date esatte della nascita, durata di vita, morte e sepoltura del suo proprietario. Siccome l’autrice non offre né una fotografia, né un facsimile, né un testo in geroglifici standardizzati, sarà conveniente ristudiare questa iscrizione (Fig. 1):

Mi pare essere degno di considerazione che un altro documento, situato anch’esso in un contesto cuscitico, 16 [http://aaew2.bbaw.de/tla/index.html], DZA (= Digitales Zettelarchiv) 31.220.310 e 31.220.320. 17 «Deiner» è stato inserito dopo. 18 Inserito dopo. 19 Jansen-Winkeln 1996 non fece caso ai due esempi nella stele degli esiliati. t|wy (e varianti) non è altrimenti attestato secondo il corpus di testi che forma la base della sua grammatica. 20 Cfr. Bresciani 1990, 894-908; Ritner in Simpson 2003, 470-489 (ivi 476–477 n. 12 per #tê «shaman»); Hoffmann, Quack 2007, 118-137. Il passo tradotto si trova nella col. IV 3-8. Ho preso a modello la traduzione di Bresciani 1990, 901, ma con qualche modifica. 21 Passaggio omesso dallo scriba per distrazione ma ricostruibile sulla base delle linee 13-14 (cfr. Ritner in Simpson 2003, 480 e n. 23).

22

Testo geroglifico Grimal 1981, 21-35 e Tavv. V-VII. Ultima trascrizione e traduzione Ritner 2009, 449-455 (con ulteriore bibliografia). La traduzione di Kammerzell, Sternberg 1986, 117-123 è molto libera. Cfr. anche l’importante articolo Verhoeven 1998. Il passaggio citato si trova nelle linee 7-10. 23 Cioè il futuro re (Aspelta). 24 Cfr. Verhoeven 1998, 1491-1493. 25 Handoussa 2009. 26 Vedi infra il commentario.

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medesima persona fu scoperta insieme alla stele e pubblicata da Radwan28 nello stesso volume in cui apparve l’articolo di Handoussa. (c) Secondo Leida V 18, il figlio di Psamtjek si chiama anch’egli AIoH-wbn. Per AIoH-wbn, nome ben attestato ma non molto frequente, cfr. Ranke 1935, 12:16; Lüddeckens et al. 1980-2000, 57 e “Korrekturen und Nachträge”; Leahy 1999, 186 e 188 n. 4. La lettura Wbn-|oH di Radwan 2009, 174 è erronea. = onX-n-|t=s (Handoussa)? Tranne i luoghi (d) paralleli in Leida V 18 et V 19 tale nome non è noto, per cui si potrebbe pensare di interpretarlo piuttosto come onX-n-|t=s («Suo padre vive per lei»), cfr. Ranke 1935, 65:11; Selim 2004, 159-160 (Cairo JE 37425); elSayed 1983, 144 (Cairo JE 37011), ecc. Se si preferisce invece prendere la forma per buona si dovrà analizzarla come onX(t)-n-|t=s «Colei chi vive per suo padre». (e) Le stesse cifre in Leida V 18 e V 19.

Traduzione:

(f) Agosto 31, 544 a.C. S’intende nel contesto che la data si riferisce al regno di Amasi (570-526 a.C.). Le date in proposito erano già note anch’esse dalle stele Leida V 18 e V 19.

(1) «Anno 1, terzo mese della stagione shemu, giorno 1,a sotto la Maestà del Re di Alto e Basso Egitto Uhemibra, figlio di Ra, (2) Nechao: questo bel giorno di nascita del Padre del Dio Psamtjek,b generato (lett. fatto) da Iahuben,c (3) partorito da Anchenites.d

(g) wD# n onX, lett. «andare alla vita», eufemismo ben attestato per «morire», cfr. Wb I 401, 1.

La sua bella durata di vita: 65 anni, 10 mesi, 2 giorni.e Anno 27, quarto mese (4) della stagione peret, giorno 28:f il suo giorno del dipartirsi dalla vita.g

(h) Per il pr-nfr cfr. le ampie citazioni presso Handoussa 2009, 123 (d).29

Egli fu portato al per-neferh (5) e completò il suo tempo nel per-neferi sotto la supervisione di Anubij signore tella Terra Santa.

(i) Invece di skm=f oHow=f m pr-nfr xr-o n AInpw nb t#-Dsr le versioni parallele delle stele Leida V 18 e V 19 danno |r.n=f hrw 42 xr-o n AInpw ecc. In combinazione con la frase precedente soq.tw=f r pr-nfr, nelle schede del Berliner Wörterbuch,30 fu proposta la traduzione «er ward eingeführt in das Grab, nachdem er 42 Tage unter der Hand des Anubis verbracht hatte» (alternativamente: (…) «nachdem er verbrachte hatte 42 Tage unter den Händen des Anubis (d.h. nach 42tägiger Balsamierung)»). Per Saqqara 148, Handoussa 2009, 123 traduce «He was brought into the Per-nefer and after he completed his time in the per-nefer (…) he was dragged in peace to the beautiful West» ecc. È però preferibile analizzare skm=f e |r.n=f come costruzioni narrative independenti «egli compì, completò» e «fece», le forme sDm.n=f e sDm=f avendo spesso la funzione di esprimere il passato narrativo.31

(6) Fu trasportatok in pace al bell’occidente nell’anno 27, primo mese della stagione shemu, (7) giorno 29.l Il suo tempo nella necropoli è l’eternità,m la sua casa è durevole, e i suoi figli (8) fanno durare l’offerta funeraria per lui nella festa di Sokarin e ogni giorno».o

Annotazioni: (a) Novembre 19, 610 a.C. (b) Come sottolineato dalla Handoussa (2009, 124 n. 4), lo stesso personaggio possedette due altre stele funerarie oggi a Leida (V 18; V 19) che trasmettono, anch’esse, i dati biografici del proprietario. A differenza di Saqqara 148, i due esemplari di Leida sono mal conservati per il fatto che la scrittura vi era dipinta sopra ad inchiostro ed è sbiadita in vari luoghi.27 Una statua calcarea della

28

Radwan 2009, 173-174 e Tavv. 22-23. Cfr. anche Hannig 2003, 453 e Hannig 2006, 900 “Balsamierungsstätte”. 30 [http://aaew.bbaw.de/tla/], DZA 22.712.990 e DZA 22.713.000. 31 Jansen-Winkeln 1996, 438-442; Engsheden 2003, 129-137. Cfr. la traduzione di Boeser 1915, 5.

27

29

Cfr. Boeser 1915, 5-6 (con riproduzione dei testi geroglifici) e Tav. XV. Sono molto riconoscente a Maarten Raven, direttore della collezione egiziana del Rijksmuseum van Oudheden, per una collazione degli originali e delle copie fatte da Leemans e Boeser, conservate nell’archivio della collezione.

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(j) Altri testi designano l’imbalsamazione come «lavoro di Anubi».32

(o) La fine del testo (cioè quanto segue HH Dt) differisce nelle tre versioni:

(k) Il modo irregolare di scrivere sT# alfabeticamente sT, senza determinativo, appare in tutte e tre le stele. C’è da constatare che la frase sT#(w)=f m Htp r |mntt nfrt m H#.t-sp è più tipica degli epitaffi dei tori Api (per lo più nella forma sT# nTr pn r |mntt nfrt)33 che non per quelli di uomini. È questo un elemento importante che lega le stele di Psamtjek alle stele di Api. Il testo della stele funeraria di un Padre del Dio omonimo,34 invece, il quale offre anch’esso dati a proposito di durata di vita e sepoltura ecc., è costruito secondo uno schema diverso.

Saqqara 148, 7–8: pr=f mn xrdw=f (8) Hr srwD prt-Xrw n=f Leida V 18: Ø Leida V 19, 8: pr=f rwD xrdw=f mn dp t# Mentre Leida V 19 pone l’accento su stabilità e continuità di casa e discendenza,38 Saqqara 148 sottolinea che i propri figli effettueranno l’offerta funeraria per il deceduto, concetto estremamente noto nell’Antico Egitto. La posizione di n=f dopo l’oggetto diretto prt-Xrw, invece di *Hr srwD n=f prt-Xrw, pare strana, ma è probabilmente influenzata da construzioni come ad esempio m-Xt pr-Xrw n=f «dopo che gli era fatto l’offerta funeraria» (Sethe 1933, 189, l. 9); |X pr-Xrw n=f «che si faccia una offerta funaria per lui» (Libro dei Morti cap. 137A) 39, ecc.

(l) La differenza essenziale tra questa stele e le altre due conservate a Leida consiste nel fatto che Saqqara 148 indica esplicitamente il giorno preciso della inumazione (anno 27 , Pachons 29 = Ottobre 1, 544 a.C.), mentre le stele di Leida dicono, secondo le letture di Boeser e di Leemans,35 che il defunto «completò 42 giorni sotto la supervisione di Anubi». Se la lettura 42 è corretta, c’è una contraddizione nelle date, essendo lo spazio di tempo tra morte e sepoltura secondo Saqqara 148 solamente trentun giorni.36 I numerali sono ora mal conservati, ma almeno per Leida V 18 la lettura 42 sembra essere inevitabile: secondo la fotografia pubblicata dal Boeser nonché la collazione recente di Maarten Raven (cfr. nota 27), nelle righe 5-6, si può , il che è in favore della solita riconoscere ricostruzione. Per quanto riguarda il passo parallelo in Leida V 19, l. 5, tanto la fotografia – del resto eccellente – che l’originale non permettono alcuna decisione visto ). Comunque l’assai cattivo stato di conservazione ( sia, sussiste forse, per le ragioni sopra indicate (cioè la contraddizione tra le date), la possibilità che 42 sia semplicemente un errore invece di 32.37

4. Una statuetta del toro Api a Chantilly40 Pochi anni fa, in occasione di una visita alle collezioni di antichità del Musée Condé dello Château de Chantilly, vicino a Parigi, la mia attenzione fu colpita da una statuetta di Api in bronzo con un’iscrizione bilingue in geroglifici e in greco (Fig. 2). Dato il grande interesse di Sergio Pernigotti ai rapporti tra Greci ed Egiziani nell’Epoca pre-Tolemaica41 spero che una breve presentazione e discussione di questo oggetto ancora poco conosciuto42 gli sarà gradita. La statuetta, contrassegnata dal numero di inventario OA 1144, ha un’altezza di 8 cm e una larghezza di 10 cm e presenta le caratteristiche tipiche degli oggetti del genere:43 un triangolo sulla fronte, una collana di fiori di loto, una stuoia decorata sul dorso, uno scarabeo alato sulle spalle e un avvoltoio sul posteriore. Urèo e disco solare sono andati perduti.

(m) La frase oHow=f m xrt-nTr HH Dt col senso «il suo soggiorno nella necropoli sarà perenne» ricorre anche in Leida V 18 e V 19.

38

Non capisco perché Handoussa 2009, 124 (g), riferendosi alla versione di Leida V 18, è dell’opinione che «This use of mn is not attested to my knowledge» (ella traduce la frase in questione «his house remaining firm, his children are established(?) on earth» commentando ciò «It may be that the meaning is deeply rooted on earth»). 39 Cfr. Naville 1886, I, tav. CL, l.16. 40 Sono obbligato a Mme Nicole Garnier del Musée Condé per varie informazioni utili e specialmente per l’invio di immagini a colori che sono state fatte appositamente per me. 41 Cfr. Pernigotti 1993; Pernigotti 1999. 42 Per le indicazioni tecniche nonché una fotografia a colori della faccia sinistra cfr. Laugier 2002, 34 n. 30. Si veda inoltre il sito: [http://www.culture.gouv.fr/public/mistral/joconde_fr?ACTION=CHER CHER&FIELD_98=APTN&VALUE_98=%20156c%2033&DOM=All &REL_SPECIFIC=1] (consultato nel mese di maggio 2010). 43 Lo studio fondamentale è tuttora quello di Roeder 1956, 325-333. Vari esemplari sono descritti e illustrati da Steindorff 1946, 146-147 n. 635-640 e tav. 96; Felgenhauer s.a., 135-137 n. 47 e 67 tav. 6; Schott 1967; Brunner-Traut, Brunner 1981, 62 n. 476 e tav. 133 (bella foto a colori dello stesso oggetto: Brunner-Traut et al. 1984, 32 n. 18); Droste zu Hülshoff et al. 1991, 322-326 n. 205; Quémereuc 1992, 56-57 n. 27– 28; Schoske, Wildung 1993, 19 n. 8; 94-97 n. 65; Gubel 1995, 131 n. 152–154; Page-Gasser, Wiese 1997, 251-252 n. 166; Berlev, Hodjash 1998, 63–64 e tav. 88-90; Grenier 2002, 167-174, n. 350-360 e tav. 46– 47. Si vedano anche le descrizioni in Aubert, Aubert 2001, 283-288.

(n) Per la festa di Sokari, cfr. Smith 1993, 56-57 con cenni bibliografici. Nelle liste di feste, essa occupa un posto regolare sin dall’Antico Regno, cfr. Spalinger 1996.

32 Cfr. De Meulenaere 1962, 35 (19); Jansen-Winkeln 2001, 147; 149; 396, n. 25, testo (e), l. 19. 33 Cfr. Chassinat 1900, 11, n. XXXIX (= Malinine et alii 1968, n. 22), testo principale, l. 3; 13, n. XLI (= Vercoutter 1962, testo A), ll. 7–8; 18, n. LVII (= Malinine et alii 1968, n. 125), l. 2; p. , n. LXI (= Malinine et alii 1968, n. 192), ll. 2–3; 20, n. LXIII, l. 2; 21, n. LXIV, l. 3; 167, n. XC, l. 2; Chassinat 1901, 77, n. CXXXI (= Posener 1936, testo n. 5), l. 2; 78, n. CXXXII (= Vercoutter 1962, testo H), l. 2; Vercoutter 1962, testo K, l. 2. 34 Bosticco 1972, 26-28, n. 15, e Tav. 15 (Firenze 2551). 35 Vedi nota 27. Si noti che il collaboratore del Berliner Wörterbuch che scrisse le schede sopra citate (nota 30) ricorse a una «alte(n) Kopie Leemanns» (sic). 36 Per dati egiziani a proposito della durata delle varie fasi di sepoltura, cfr. Habachi 1947, 278-280; Vittmann 1984, 956-957; Shore 1992. 37 Questa era, infatti, la lettura di Habachi 1947, 264-265, nota 4.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Sul lato anteriore della base si trova un groviglio di tratti che non sembra essere né greco né geroglifico,44 ( ), ma alla fine della riga credo di poter riconoscere due segni deformi d| onX. Se questo è giusto, e la formula dedicatoria presuppone la presenza di tal gruppo, esso dovrebbe essere preceduto dal nome della divinità, in questo caso logicamente Op oppure Ws|r Op. Infatti, all’inizio si vede un “occhio” che potrebbe far parte di Ws|r, ma non si capisce perché proprio la parte con la denominazione della divinità rappresentata dalla statuetta dovesse essere mutilata o cancellata (Figg. 3ac).

più raramente, -ȣ devono essere “protette”, e dunque pronunciate.48 Altra peculiarità è l’uso del segno bilitterale o# – di forma assai irregolare e mal disegnato, ma non c’è altra spiegazione – invece di #: in una ben nota stele egiziopersiana da Saqqara49 il nome iranico Artama si scrive, tanto nel testo geroglifico quanto nella sezione demotica, #rtm, dunque con l’alef iniziale, come è di regola (la similarità dei nomi o#rtm / Artemon e #rtm «Artama» non è che casuale, si tratta naturalmente di realtà linguistiche del tutto diverse). La sostituzione grafica di # con o appare ripetutamente nell’Epoca Romana quando la distinzione fonetica tra i due fonemi svaniva,50 come nel demotico o#gothê «Agathe»,51 obro-Hmê «Abraham»,52 geroglifico on-t#-n-ynw-s «Antoninus».53 In demotico tardo, la grafia -.o# si usò sovente per indicare -ó, -ǀ finale come in ms.o#.t >

 «balia» e Smo.o# = Smo > $

«forestiero».54

Gli altri tre lati, incominciando dalla faccia destra, presentano il testo seguente: |

|

ԘȢijȒȞȧȟȪȣ ıԼȞț ijõ ȂȫIJțȡȣ45 «Io sono di Artemon figlio di Lysis». (o#rtm s# Rs) «Artem(on) figlio di Lys(is)». Il segno o# prende la direzione opposta, e t ha una forma assai corsiva (ieratico / demotico).

Comunque, stando a ciò che ci suggeriscono le numerose corrispondenze egiziano-aramaiche per i secoli anteriori, la differenza fonetica tra aleph e ayin era ancora valida, e la grafia o#rtm può spiegarsi semplicemente come inesattezza.

Il Bingen,46 probabilmente per ragioni epigrafiche, propone una datazione alla seconda metà del V secolo a.C. Dal punto di vista egittologico, questa proposta è perfettamente possibile e certamente più verosimile di una datazione alla Epoca Saitica, ma considerando la brevità della iscrizione da un lato e il tipo dell’oggetto – una offerta votiva di media qualità come ce ne sono tante – dall’altro è difficile essere più precisi.

La statuetta di Api a Chantilly si inserisce nelle fila di bronzi votivi donati dai Greci e altri stranieri (Fenici, Cari) a un santuario egiziano, probabilmente di Menfi / Saqqara.55 Conosciamo almeno due altri stranieri che dedicarono un bronzo di Api: il greco Sokydes56 e il Cario Paraeùm (vedi infra Car. 3). La presenza di un testo bilingue con lo stesso contenuto – non parliamo dunque di testi in due lingue che si completano l’un l’altro come “la divinità XY dà vita” (dj onX) in combinazione col nome del dedicante in una lingua straniera – costituisce una rara eccezione. Anche se prendiamo in considerazione altri oggetti come stele funerarie, statuine di pietra eccetera si nota una cospicua mancanza di attestazioni bilingui di nomi di persona.

Mentre è normale che la tipica formula «Io sono (...)» dei cosiddetti “oggetti parlanti”47 non abbia alcun equivalente nella versione geroglifica, quest’ultima sorprende per quanto riguarda la maniera di rendere i due nomi stranieri. Si noti soprattutto che in entrambi i casi le desinenze del nominativo greco (-ȦȞ, -ȚȢ) non hanno equivalente nel testo geroglifico, il che a prima vista pare anormale, se non erroneo, giacchè ci si aspetterrebbe piuttosto *#rtmn e *Rss. Le forme egiziane o#rtm e Rs riflettono però senza dubbio una perdita della consonante finale nella pronuncia attuale. Negli ostraca demotici detti di Ossirinco e altrove le trascrizioni -n# / -s# si usano parecchie volte per indicare che le desinenze greche -ȟ e,

Lasciando da parte le corrispondenze che si trovano su monumenti differenti come le testimonianze per il celebre Potasimto = P#-dj-sm#-t#wj57 abbiamo trovato le corrispondenze onomastiche dirette seguenti:

48

Cfr. da ultimo Zauzich 2008/2009, 153-155. Pubblicata per la prima volta da Mathieson et al. 1995. Cfr. anche Vittmann 2006, 566–568. 50 Cfr. Peust 1999, 102-103. 51 Cfr. Lüddeckens et alii 1980-2000, 96. 52 Papiro Magico Londra-Leida VIII 8. 53 Cfr. Beckerath 1999, 261 (molti esempi). 54 Cfr. Erichsen 1954, 178 e 510. Questo uso particolare del gruppo o# non è ancora stato chiaramente riconosciuto. 55 Cfr. Vittmann 2003 passim; Vittmann 2005. 56 Masson 1977, 61-63 e Tav. 2 ; Vittmann 2003, 231-232. 57 Cfr. Pernigotti 1968, Pernigotti 1999, 65-72; Haider 2001. 49

44 Bingen 2003, 677 (624) parla di una «dédicace hiéroglyphique plus ancienne volontairement mutilée». Un giudizio definitivo dovrà basarsi su un riesame dell’originale. 45 Come constatato dal Bingen, la prima lettera deve essere Ȃ, non Ȏ. Curiosamente, questa lettura corretta non è basata sull’epigrafia ma sulla corrispondenza geroglifica. 46 Bingen 2003, 677. 47 Sulle “iscrizioni parlanti” nel mondo antico cfr. Agostiniani 1982. Per le rarissime attestazioni in iscrizioni geroglifiche del Terzo Periodo Intermedio cfr. Jansen-Winkeln 1989.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

CG 9402.68 Del resto le informazioni genealogiche fornite dalle iscrizioni sono complementari: il testo fenicio enumera gli antenati maschi per cinque generazioni, mentre le iscrizioni egiziane si accontentano di menzionare la madre – persona determinante per la filiazione in un contesto magico –, la quale si chiama Cmrb|, nome di identificazione incerta, ma in ogni caso semitica.

(Le indicazioni aramaico, cario, egiziano, fenicio e greco si riferiscono esclusivamente alla scrittura utilizzata, non alla appartenenza linguistica del nome in questione. I nomi di origine non-egiziana sono provvisti del simbolo *. – Le fonti carie vanno citate con le solite abbreviazioni.) (#Xt#bw*), stele Aram. AOvBW = eg. funeraria Berlino 7707 (perdita di guerra).58

(PrT|*), naos di una statua Gr. 1 ȆȚȡĮʌȚĮ = eg. naofora(?), disperso.69 Il testo egiziano menziona inoltre il nome della madre, %#o(=w)-s-n-mw.t.

59

Car. 1: arlišĞ ursȤleĞ = eg. (AIrS* s# n #rskr*) «Arlissis figlio di Orsikles», stele funeraria M 7.60

Gr. 2 ԘȢijȒȞȧȟȡȣ (...) ijo(‫ )ף‬ȂȫIJțȡȣ = eg. (o#rtm* s# Rs*) «Artemon figlio di Lysis», bronzo di Api Musée Condé AO 1044, Chantilly, vedi supra.

(...) arlio[mĞ] = eg. (AIrS* [s#(?)] AIrym*) «Arlissis figlio di Arliomis», stele funeraria M 1.61 Car.

2:

arlišĞ

Si nota che, per quanto riguarda il greco, conosciamo una sola altra bilingue onomastica, purtroppo di limitata utilità, dal momento che l’unica vecchia copia disponibile non è controllabile sull’originale. Un terzo monumento, il rivestimento in bronzo per una statuetta oggi perduta,70 porta una iscrizione bilingue greca-egiziana, ma il donatore dell’oggetto che era destinato ij‫׭‬ț Ǿșȟվ ĭșȖįտȧț = AImn porta due nomi diversi: [Me]lanthios nella versione greca, Br in quella egiziana. Non si può escludere la possibilità che qui una certa vicinanza semantica (ȞȒȝį‫“ ؃‬nero”, Br “cieco”, un nome alquanto sparso nell’Epoca Tarda) giocasse un ruolo decisivo.

(Pr|m* p# Car. 3: paraeùm armonȤi = eg. wHm) «Paraeùm il traduttore», bronzo di Api dal Serapeum MY K.62 Car. 4: pdneít qýriĞȤi = eg. K#rr*), stele funeraria MY M.63

(P#-d|-nt s#

(PsmTk-owy-nt), Car. 5: psmškúneit = eg. stele funeraria MY F.64 Il testo egiziano menziona anche il padre (W#H-|b-ro-nb-qn), chi non appare nella versione caria. Può darsi che il padre si nasconda dietro un nome cario.65

5. Un pesce Ossirinco con iscrizione demotica Car. 6: šarkbiom = eg. cofanetto di serpente MY L.66

(Crkbym*), In una collezione privata di Monaco (di Baviera), e attualmente in fase di restauro, si trova una statuetta di bronzo raffigurante un “pesce Ossirinco” (mormyrus oxyrhynchus).71 La altezza è di 7,8 cm, la lunghezza di 13,5 cm, la larghezza della base di 1,5 cm. La testa del pesce è, come è tipico, coronata delle corna della vacca Hathor con disco solare ( ); dietro l’ornamento del capo è applicato un anello per appendere l’oggetto a una parete del tempio. Il corpo del pesce poggia su un pattino di slitta, il quale è un segno caratteristico del primo tipo principale dei bronzi di pesce Ossirinco,72 il secondo tipo

V#-HpCar. 7: IJamou IJanaiĞ = eg. |m=w s# V#[...], stele funeraria MY H.67 Il nome del proprietario appare in una forma abbreviata nel testo cario e nella forma completa in quello egiziano. (PoroStrt*), abbreviato Fen. PoLoCvRv = eg. (Por|*), cippo di Horo da Menfi / Mitrahine, Cairo

68 Cfr. Daressy 1903, 3-11 e Tavv. II-III. Per l’iscrizione fenicia sulla base (non illustrata dal Daressy), cfr. Donner, Röllig 1973, 64-65 n. 48; Röllig 2002, 12 n. 48 (datata 2.-1. Jh. v.Chr.). Secondo Sternberg-El Hotabi 1999, II 36, questa stele di Horo appartiene alla “Frühe Hochphase”, cioè al secolo da ca. 380-ca. 280 a.C. (cfr. nella stessa pubblicazione, I, 109-117). 69 Lacaze et alii 1984; Martin 1997; Vittmann 2003, 228-230. 70 Masson 1977, 53-57 e Tav. 2; Vittmann 2003, 230-231. 71 Ringrazio Alfred Grimm dello Staatliches Museum Ägyptischer Kunst München per aver portato alla mia conoscenza questo oggetto e avermi incoraggiato a pubblicarlo. Gli sono anche riconoscente per la comunicazione delle fotografie e delle misure. 72 Cfr. Steindorff 1946, 153 n. 697 e Tav. 103; Brunner-Traut, Brunner 1981, 66-67 n. 385 e tav. 134 (e Brunner-Traut et alii 1984, 30 n. 16); Pamminger s.a., 92 n. 59; Schoske, Wildung 1992, 82 n. 55; Quémereuc 1992, 53 n. 21; Gubel 1995, 138-139 n. 171; Ben-Tor 1997, 86-87 n. 80; Grenier 2002, 166 n. 348 e tav. 46; Albersmeier 2007, 204-206 (4.69). Una variante di questo tipo è la rappresentazione del pesce su una placca piatta, cfr. Christie’s 1999, 20-21 n. 28.

58

Cfr. Porten, Yardeni 1999, 254-255 (D20.3); Vittmann 2003, 107 Fig. 47. 59 L’inizio del secondo nome è scritto in modo equivoco con un (nr) che non di aleph, ma geroglifico che ha piuttosto l’aspetto di non c’è il minimo dubbio che debba essere inteso come tale; cfr. da ultimo Adiego 2007, 47. 60 Masson 1978, Tavv. VI e XXXV, n. 7; Adiego 2007, 47. 61 Masson 1978, Tavv. II e XXXI, n. 1; Adiego 2007, 41-42. I testi egiziani sono iscritti in cartelli rettangoli e accompagnano le figure dei due personaggi in questione. Lo spazio disponibile è in favore della sostistuzione [s#]. 62 Masson, Yoyotte 1956, 40-49 e Tavv. V-VII; Adiego 2007, 40-41. 63 Masson, Yoyotte 1956, 55-64 e Tav. VIII; Adiego 2007, 33. 64 Masson, Yoyotte 1956, 20-27 e Tav. II; Vittmann 2003, 167 Fig. 81; Adiego 2007, 38. 65 Cfr. Adiego 2007, 387 (Naria, a meno che si tratti di un titolo). 66 Masson, Yoyotte 1956, 49-54 e Tavv. V-VII; Adiego 2007, 32-33. 67 Masson,Yoyotte 1956, 31-35 e Tav. IVa; Adiego 2007, 40.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

essendo rappresentato dal pesce sovrastante due colonnette di papiro e un naos,73 a volte in combinazione con un adorante inginocchiato (Fig. 4).

della quale è menzionato più volte nelle iscrizioni dei bronzi di pesce79 e nelle fonti greche.80 Le statuette del pesce Ossirinco conservate a Monaco e Treviri sono fino adesso, a giudicare dalle pubblicazioni, le uniche ad esibire delle iscrizioni demotiche, ma anche di esemplari con testi geroglifici non se ne conoscono che pochi. Tuttavia, quando le iscrizioni sono applicate al lato inferiore del “pattino di slitta”, come è il caso della statuetta sopra studiata, questo dettaglio può facilmente passare inosservato.

(È forse un poco sorprendente che Roeder 1956, 411, a differenza delle statuette di Api, non ebbe che poco materiale a disposizione, così che non gli fu ancora possibile stabilirne i tipi principali). Sul lato inferiore del pattino è incisa una corta iscrizione demotica dedicatoria (Fig. 5):

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Or-s#-#s.t d|.t onX (n) P#-d|-ws|r «Horo, figlio di Isi, dà vita a Petosiri».

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Vista la mancanza di indizi affidabili, sarebbe anche qui difficile e problematico tentare una datazione su base paleografica. La maniera di scrivere gli elementi p# ( ) e d| ( ) nel nome del donatore lascia però pensare a una datazione pre-Tolemaica74 oppure, al più tardi, alla prima metà dell’Epoca Tolemaica. La grafia di Or-s#-#s.t

Agostiniani L. 1982. Le “iscrizioni parlanti” dell’Italia antica. Firenze, Olschki. Albersmeier S. (Hrsg.), Bestandskatalog Badisches München, Edition Minerva.

) col determinativo per divinità è una eccezione ( estremamente rara;75 il determinativo si riferisce forse alla combinazione nell’insieme.

Ägyptische Kunst. Museum Karlsruhe.

Aubert F., Aubert L. 2001. Bronzes et or Égyptiens. Paris, Cybèle.

L’associazione del pesce Ossirinco con Horo è qui attestata, per quanto ne sappiamo, per la prima volta.

von Beckerath J. 1968. Die „Stele der Verbannten“ im Museum des Louvre. Revue d’Égyptologie 20, 7-36.

Mentre i rapporti del mormyrus oxyrhynchus con Hathor sono ben noti,76 tanto dalla stessa iconografia (cfr. supra) quanto da fonti epigrafiche, non disponiamo di testimonianze esplicite per qualsiasi relazioni del pesce Ossirinco con Horo. È però lecito supporre una connessione indiretta con il mito di Osiri: secondo il Papiro Drammatico del Ramesseum, pesci e uccelli furono esortati a cercare le membra di Osiri.77

von Beckerath, J. 1999. Handbuch der ägyptischen Königsnamen (Münchner Ägyptologische Studien 49). Mainz, Ph. von Zabern. Ben-Tor D. 1997. The Immortals of Ancient Egypt. From the Abraham Guterman Collection of Ancient Egyptian Art. Jerusalem, The Israel Museum. Berlev O., Hodjash S. 1998. Catalogue of the Monuments of Ancient Egypt From the Museums of the Russian Federation, Ukraine, Bielorussia, Caucasus, Middle Asia and the Baltic States (Orbis Biblicus et Orientalis, Series Archaeologica 17). Fribourg, Academic Press – Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht.

Un altro bronzo di un pesce Ossirinco con iscrizione demotica conservato a Treviri fu pubblicato da Vleeming, che lo datò all’Epoca Tolemaica.78 Il ductus della scrittura è simile all’esemplare a Monaco; per caso vi appare anche il nome P#-d|-ws|r. La statuetta era dedicata a Toeri, una delle divinità principali di Ossirinco, il nome

Bingen J. 2003. Vedi Gauthier Ph. et al. 2003. Boeser P.A.A. 1915. Beschreibung der aegyptischen Sammlung des Niederländischen Reichsmuseums der Altertümer in Leiden (VII). Die Denkmäler der saïtischen, griechisch-römischen, und koptischen Zeit. Haag, Martinus Nihoff.

73

Cfr. Vleeming 2001, 248 n. 277 e tavola in fronte; Schoske, Wildung 1992, 154-155 n. 106; [http://www.barakatgalleryuae.com/– item%20pages/SculptureofanOxyrhynchusFishGodFZ167.html] (consultato nel mese di giugno 2010). Una variante con colonnette di papiro ma senza naos va pubblicato in Quémereuc 1992, 52 n. 20. 74 Cfr. ad esempio Lüddeckens et al. 1980-2000, 290 (p#-tj-|s.t, esempi 6; 7; 10). 75 Lüddeckens et al. 1980-2000, 834-835 (Hr-s#-|s.t) conosce un solo esempio (n. 51, dall’Epoca Romana!). Anche nell’uso come vero nome divino, Or-s#-#s.t è sempre scritto senza determinativo. 76 Cfr. Gamer-Wallert 1970, 91. 77 Scena quarta, cfr. Sethe 1928, 114-115 e 118-119; Gamer-Wallert 1970, 95. 78 Vleeming 2001, 248 n. 277 («prob. Ptolemaic») e tavola in fronte.

Bosticco S. 1972. Museo Archeologico di Firenze. Le stele egiziane di Epoca Tarda. Firenze, Istituto Poligrafico dello Stato. 79 80

342

A parte dal esemplare a Treviri, cfr. Aubert, Aubert 2001, 185 e 328. Per Toeri e i pesci sacri, cfr. Heinen 1991.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

FIGURE

Fig. 1: La Stele Saqqara 148

Fig. 2: Il toro Api del Musée Condé a Chantilly (disegno dell’autore)

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

Figg. 3a, 3b e 3c: Il toro Api del Musée Condé a Chantilly

Fig. 4: Pesce Ossirinco in bronzo conservato in una collezione privata di Monaco di Baviera

Fig. 5: Iscrizione demotica dedicatoria incisa sul pattino che sorregge il pesce Ossirinco 348

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

attention was focussed upon the Aegean world. There can be no doubt that in the alliance (societas) struck between the Egyptian monarch and the Romans it was the former who was effectively the more powerful of the two parties. Hence, the idea that Ptolemy II took the initiative in establishing diplomatic relations with the Romans is anachronistic and makes nonsense of what occurred at the time. As in the case of Livy’s reflections on Alexander the Great and the Romans (9.17-19),2 so here too patriotic constructions have skewed the historiographical record. In short, there is discernible need for a critical reassessment of the initial diplomatic contacts between the Egyptian monarch and the Romans.

ROME AND PTOLEMAIC EGYPT: INITIAL CONTACTS * Richard Westall

Abstract In 273 BCE, the Romans entered into an alliance with the Egyptian monarch Ptolemy II Philadelphus. Quellenforschung in the first section points to the surviving sources’ deriving from Fabius Pictor and Hieronymus of Cardia. Quellenkritik in the second section illustrates the Roman bias of the surviving sources. Considerations of Realpolitik in the third and final section strongly indicate that the initiative for this alliance came not from Ptolemy II, but rather from the Romans themselves in fear of an eventual return of Pyrrhus to the Italian peninsula.

I. The sources describing the establishment of diplomatic relations and an alliance between Rome and Ptolemaic Egypt are perhaps best divided into three categories. The basis for such a division is provided by the content of these sources. Three distinct moments are described, with overlap occurring only in one instance.

In 273 BCE, the Egyptian monarch Ptolemy II Philadelphus initiated diplomatic relations with the Romans by sending ambassadors to Rome. Thus modern authors on the basis of the ancient historiographical tradition.1 Various motivations have been adduced to explain this move on the part of the Egyptian monarch. However, never has anyone dared to question the most basic element informing the tradition as it survives, viz. the assertion that it was Ptolemy II who initiated the exchange of ambassadors. That is rather surprising for a number of reasons. Most obviously, all of the sources are heavily biased in favour of the Romans, likely under influence from the events that culminated with the disappearance of the Ptolemaic dynasty in the first century BCE. This bias renders the entire historiographical tradition highly suspect. Secondly, it would appear that all of the evidence for a Ptolemaic initiative ultimately derives from Fabius Pictor, who wrote an account of Roman history in Greek later in the third century BCE. Indeed, aside from Dionysius of Halicarnassus, who made direct use of Fabius Pictor in the original Greek, these surviving accounts in all likelihood derived their information from Fabius Pictor by way of Livy. Third, there are considerations of Realpolitik. Even though the Romans had proved capable of offering stalwart resistance to Pyrrhus, Ptolemy II stood foremost in a group of powerful monarchs whose

First, there are those sources concerned explicitly with the establishment of the alliance in 273 BCE (Eutr. 2.15; Liv. Per. 14; Dio fr. 41 [= Zonar. 8.6.11]). Secondly, one of the sources focusses upon the action taken in Alexandria by the three senators comprising the Roman embassy to Ptolemy II (Iust. 18.2.9). Third and last, there are those sources that focus upon how these three senators behaved subsequent to their returning to Rome (Dion. Hal. Ant. Rom. 20.14; Val. Max. 4.3.9; Dio fr. 41 [= Zonar. 8.6.11]). In view of the late and markedly derivative nature of the sources in question, such a division permits a better appreciation of the issues involved in establishing the relationship between literary representation and historical event. Classical Quellenforschung aims to establish a phylogenetic relationship between the various literary sources, so as to allow for the identification and discarding of those that are derivative and have nothing of value to contribute to a reconstruction of the historical event represented.3 In the present instance, application of this method is not feasible. Only one of the six sources involved – the passage by Valerius Maximus – unquestionably survives intact, and even this text has clearly been extensively re-fashioned to accommodate the orator’s needs. The other five sources come from historiographical works composed upon an epic scale, but survive only in epitomised versions that display a preference for the extremely laconic. Hence, they, too, are unreliable guides as to the detailed wording of what

* An especial note of gratitude is due to Professor Sergio Pernigotti for his timely invitation to publish work my work on C. Caesar of relevance to Ptolemaic Egypt. I would also like to thank Professor Susan M. Treggiari for looking at the present piece and sharing observations and queries that are useful as ever. Lastly, I would like to thank Dr. Paola Buzi for her encouragement and the kind invitation to submit this piece. 1 For detailed analysis accompanied by a thorough review of the previous literature, see Lampela 1998, 33-51. Cf. Huß 2001, 294; Hölbl 1994, 54 and 292. Nothing is added by subsequent, passing references in Siani-Davies 2001, 2; Ager 2003, 38; Forsythe 2005, 358; Marquaille 2008, 63; Adams 2008, 100.

2 For detailed literary and historical analysis, see Oakley 1998, 3.184261. For the historical context, now see also Humm 2006, 175-196. 3 Cf. Delz 1997, 51-72, for description of the related field of Textkritik. Surprisingly, Quellenforschung is never mentioned in the splendid tome of which this piece is a chapter and seems to have altogether disappeared from the arsenal of those engaged in Altertumswissenschaft.

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Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

their sources reported. The identification of sources must proceed rather on the basis of focus and the known practices of the authors in question.

Created at some point in the fourth or fifth century, or so it would seem, the periochae preserve the content if not the language of the original.7 It is, in fact, not inconceivable that Livy will have used both words – amicitia and societas – to describe the relationship formally established in 273 BC. It will be remembered that an ally was officially designated amicus atque socius populi Romani.

A) Alexandrian ambassadors in Rome Three of the six surviving sources (Eutropius, an anonymous periocha for Livy, and Cassius Dio) relate that Ptolemy II Philadelphus sent an embassy to Rome and that the Romans responded favourably to this diplomatic initiative in 273 BCE. From their nature and demonstrated practice, it would appear that these three sources all derive their information primarily, if not solely, from Livy. That, in turn, allows for the deduction that Livy wrote of the establishment of a formal alliance between the Egyptian monarch and the Romans.

The third source to make specific reference to the establishment of a formal agreement and diplomatic relations between Ptolemy II Philadelphus and the Romans is Cassius Dio. Writing his account of Roman history under the Severan dynasty, Dio composed a relatively detailed narrative.8 Unfortunately, at this juncture it survives only in excerpted form. Yet, what there is provides modern readers with the fullest vision of how this episode was treated by the ancients (Dio fr. 41):

Drawing upon Livy either directly or through an epitome, the courtier Eutropius composed a brief history of Rome in the late fourth century that extended from the city’s foundation to the reign of the emperor Valens.4 Providing a precise and accurate consular date (273 BCE) for the creation of a treaty,5 he writes in laconic fashion (Eutr. 2.15):

Καὶ ὁ Πτολεμαῖος ὁ τῆς Αἰγύπτου βασιλεύς, ὁ Φιλάδελφος ἐπικληθείς, ὡς τόν τε Πύρρον κακῶς ἀπηλλαχότα καὶ τοὺς Ῥωμαίους αὐξανομένους ἔμαθε, δῶρά τε αὐτοῖς ἔπεμψε καὶ ὁμολογίαν ἐποιήσατο. οἱ οὖν Ῥωμαῖοι ἡσθέντες ὅτι καίτοι διὰ πλείστου ὢν περὶ πολλοῦ σφᾶς ἐπεποίητο, πρέσβεις πρὸς αὐτὸν ἀνταπέστειλαν. ἐπειδή τε ἐκεῖνοι δῶρα παρ᾿ αὐτοῦ μεγαλοπρεπῆ λαβόντες ἐς τὸ δημόσιόν σφας ἀπέδειξαν, οὐκ ἐδέξαντο αὐτά.

C. Fabio Licinio C. Claudio Canina consulibus, anno urbis conditae quadringentesimo sexagesimo primo, legati Alexandrini a Ptolomaeo missi Romam venere et a Romanis amicitiam, quam petierant, obtinuerunt.

«Moreover, upon learning that Pyrrhus had been soundly defeated and that the Romans were increasing in power, the Egyptian king Ptolemy Philadelphus sent gifts to them and established an alliance. The Romans sent ambassadors to him in turn, since they were favourably impressed by his engaging in this action despite the great distance separating them. When those ambassadors received magnificent gifts from him and bequeathed them to the state, however, they refused to accept them».

«In the consulate of C. Fabius Licinius and C. Claudius Canina (AUC 461), envoys sent from Alexandria by Ptolemy came to Rome for the first time and received from the Romans the friendship that they sought». The term amicitia has occasioned needless doubt as to whether or not this relationship was formally defined.6 The relevant periocha for Livy employs another term, a synonym, that dispels any doubt. The Egyptian monarch entered into a formal alliance with the Romans (Liv. Per. 14):

Despite this passage’s brevity and its nature as an excerpt, it illustrates clearly how report was made of the arrival of Alexandrian representatives of Ptolemy II in Rome, the Senate’s decision to make an agreement (ὁμολογία) with the monarch, the despatch of Roman ambassadors to Egypt, and the commendable behaviour displayed by those ambassadors upon their return home.

Cum Ptolemaeo, Aegypti rege, societas iuncta est. «An alliance was established with Ptolemy, the king of Egypt».

Various questions supervene. Most pressing is that of whether the excerptor has preserved Dio’s original language. The extract in question comes from the tenthcentury collection De Legationibus ordered by the emperor Constantine VII Porphyrogenitus. Comparison of it with another branch of the indirect tradition, that

4

For the figure of Eutropius, see now Burgess 2001, 76-81. As regards Eutropius’ dependence upon Livy for his knowledge of Republican history, see Gensel 1907, 1523; cf. Bird 1983, xlv-xlvi. 5 For the trustworthiness of this date, see De Sanctis 1907/1923, 2.428 n. 1; pace Niese 1893-1903, 2.66 n. 2; Beloch 1904, 3.1.686 n.1. On the other hand, as remarked by Bird 1983, 81 n. 23, the ab urbe condita date is mistaken. It corresponds to 293 BCE, whereas 273 BCE requires AUC 481. For a brief listing of other errors of this sort, see Bird 1983, lv. 6 Gruen 1984, 62-63, provides the most eloquent case for those in doubt. For a complete listing of those who take this position, see Lampela 1998, 34 n. 35.

7 von Albrecht 1992, 682. For problems with the periochae and epitomes in general, see Brunt 1980, 477-494. 8 Barnes 1984, 240-255. Cf. Millar 1964, 28-32.

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transmitted by Zonaras, strongly suggests that Dio’s ipsissima verba have been preserved here.9

Lastly, there is the issue of language that implies a formal agreement between the Romans and the Egyptian monarch. Is the expression «agreement» (ὁμολογία) consonant with the claims of an informal relationship that have become fashionable in recent decades? Examination of the passages in which Dio makes use of this expression indicates that there he made no substantive differentiation between «agreement» (ὁμολογία) and «accords» (συνθῆκαι), the latter of which is often said to be the sign-post of a formal agreement or treaty.14 Hence, Dio’s language provides confirmation of the natural interpretation to be given to the evidence cited above indicating that Livy wrote of the Egyptian monarch as an amicus atque socius populi Romani.

However, as will shortly be seen in discussion of the Roman ambassadors’ behaviour once they were home again, Dio has considerably abbreviated his source. Omission of the ambassadors’ names seems to be the work of Dio himself, rather than an otherwise unattested epitomator mediating between his work and that of his Byzantine readers. If it be granted that the excerptor has maintained the language of Dio’s original, then there occurs the question of what source(s) lay behind this version. Did Dio derive his account here from Livy or from another author? No assistance is to be had from what survives of the proem, wherein Dio opens his Roman history with a grandiose claim, that may also serve as a caveat: «I have read virtually everything written by anybody on the history of Rome, but I have composed an account that is partial and includes only what I thought worthwhile».10 In the sequel, he only very rarely and sporadically specifies his sources of information.11

B) Roman ambassadors in Alexandria As regards the behaviour in Alexandria of the three Roman senators who were ambassadors to the court of Ptolemy II in the late 270s, in response to the Egyptian initiative as the Roman historiographical tradition would have it, only one source gives any explicit report. There survives the abbreviated testimony of Pompeius Trogus, who referred to that embassy en passant in the universal history that he composed during the principate of Augustus.15 Although this work has been transmitted only via the epitome made by Justin very late in the fourth century or early in the fifth,16 there does occur mention of the Roman embassy. Focussing upon the ambassadors’ actions in Alexandria, Pompeius Trogus as abbreviated by Justin provides us with an aspect not otherwise mentioned by the surviving sources (Iust. 18.2.9):

Hence, conjecture as regards the source(s) in this particular instance must rely upon what has been observed elsewhere for Dio’s narrative of the first third of the third century BCE. Agreement between Dio and Dionysius of Halicarnassus at various points would seem to indicate that the Severan author knew and used his Augustan predecessor.12 But there is even more evidence pointing to Dio’s making extensive use of Livy. For instance, Dio seems to rely upon Livy both for his account of various episodes of the war against Pyrrhus (280-275 BCE) and for his notice of the introduction of silver coinage to Rome (269 BCE).13

Nam missi a senatu Aegyptum legati cum ingentia sibi a Ptolomaeo rege missa munera sprevissent, interiectis diebus ad cenam invitatis aureae coronae missae sunt, quas illi ominis causa receptas postera die statuis regis inposuerunt.

Consequently, it would seem best to conclude that Dio offers readers a shortened version of what he found in Livy as regards the initial diplomatic relations between Rome and Egypt.

«Although the ambassadors sent to Egypt by the Senate refused the immense gifts that they had been offered by king Ptolemy, a few days later they accepted for the sake of good omen the golden crowns that were sent to them when they were invited to dinner and they placed them upon the king’s statues on the following day».

9

Zonar. 8.6.11: Καὶ Πτολεμαῖος δὲ ὁ Φιλάδελφος ὁ τῆς Αἰγύπτου βασιλεύς, τόν τε Πύρρον κακῶς ἀπηλλαχότα μαθὼν καὶ τοὺς ῾Ρωμαίους αὐξανομένους, δῶρά τε αὐτοῖς ἔπεμψε καὶ ὁμολογίαν ἐποιήσατο. Καὶ οἱ ῾Ρωμαῖοι ἐπὶ τούτῳ ἡσθέντες πρέσβεις πρὸς αὐτὸν ἀνταπέστειλαν· οἱ μεγαλοπρεπῆ δῶρα παρ᾿ ἐκείνου λαβόντες εἰς τὸ δημόσιον ταῦτα εἰσῆγον. ῾Η δὲ βουλὴ οὐ προσήκατο, ἀλλ᾿ εἴασεν αὐτοὺς ταῦτα ἔχειν. Much of the structure and vocabulary is identical. 10 Dio fr. 1.2: πάντα ὡς εἰπεῖν τὰ περὶ αὐτῶν τισι γεγραμμένα, συνέγραψα δὲ οὐ πάντα ἀλλ᾿ ὅσα ἐξέκρινα. The emendation is owed to Bekker. 11 Millar 1964, 34-35. For example, it is only in book 68 that Dio explicitly reports making use of Livy! 12 Schwartz 1899, 1693f. It is opportune to reflect upon how Plutarch contents himself with citing two sources for casualty figures: Hieronymus of Cardia and Dionysius of Halicarnassus. The admixture of primary and secondary sources is typical of ancient historiography, and should warn against assuming a concern to find original sources. 13 For the war against Pyrrhus, see especially Lévêque 1957, 73; Lefkowitz 1959, 166 n. 9, 167 n. 18. As for silver coinage at Rome (Liv. Per. 15; Zonar. 8.7), see Hof 2002, 136. This conclusion runs counter to the claim advanced by Schwartz 1899, 1694. However, that scholar’s views are based upon a consideration of the first decade of Dio as a whole and fail to look specifically at the period 300-265 BCE.

As transmitted, the passage is embedded within an account of Cineas’ failure to bestow Pyrrhus’ gifts upon the Romans that he met at Rome, and the Roman embassy to Alexandria is cited as another example with explicit reference to the theme of abstinentia that we shall soon see within the accounts dedicated to the Roman 14

Lampela 1998, 35-36; Bung 1950, 36 n. 3; Meltzer 1885, 18 n. 4 (non vidi). For the contrary view, see inter alios Schultheß 1935, 1158; Holleaux 1921, 63-75; Heuss 1933, 28 n.2; Gruen 1984, 62-63. 15 von Albrecht 1992, 686-687. 16 Syme 1988, 358-371.

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as it might provide rhetorical exempla.20 Paradoxically, it is his account and not that of his source that survives to provide us with what is the fullest description of the welcome accorded to the returning Roman ambassadors (Val. Max. 4.3.9):

ambassadors’ behaviour upon their returning home: huic continentiae Romanorum simile exemplum isdem ferme temporibus fuit (Iust. 18.2.8). The etiquette of hospitality required that the ambassadors accept the crowns, but they had deftly disposed of this embarrassing gift in suitable fashion on the following day, thus doing honour both to their host and themselves. Affording an exemplum for subsequent generations, Roman continence stands in marked contrast to Hellenic luxury.

Atque huic animi eius iudicio Q. Fabius Gurges N. Fabius Pictor Q. Ogulnius subscripserunt. Qui legati ad Ptolomaeum regem missi munera, quae ab eo privatim acceperant, in aerarium, et quidem prius quam ad senatum legationem referrent, detulerunt, scilicet de publico ministerio nihil cuiquam praeter laudem bene administrati officii accedere debere iudicantes. Iam illud humanitatis senatus et attentae maiorum disciplinae indicium est: data sunt enim legatis quae in aerarium reposuerant non solum patrum conscriptorum decreto sed etiam populi permissu; eaque legata quaestores prompta unicuique distribuerent. Ita in iisdem Ptolomaei liberalitas, legatorum abstinentia, senatus ac populi aequitas debitam probabilis facti portionem obtinuit.

Were it not for the fact that the Roman ambassadors are reported as having crowned images of Ptolemy II Philadelphus, the source of this exemplum might be sought within a Roman author. Both the verb sprevissent and the ambassadors’ diplomatic refusal of the golden crowns offered to them are redolent of the theme of abstinentia favoured by rhetorical and historiographical traditions at Rome. Livy had already published his account of the war with Pyrrhus and the events leading up to the first Punic war by the time that Trogus came to write his universal history, and his influence is possible.17 Moreover, if the absence of names be deemed an impediment, it is to be remembered that this is precisely the sort of impersonal historiography that was characteristic of the Origines of the elder Cato.18 But the ambiguous nature of the solution and the fact that this anecdote is situated in Alexandria rather than at Rome together point to the likelihood of a Greek author’s being its source. Indeed, known to have utilised Hieronymus of Cardia elsewhere in order to narrate in detail the events of the war against Pyrrhus, Trogus most probably did so in this instance as well.19

«Q. Fabius Gurges, N. Fabius Pictor, and Q. Ogulnius were in agreement with that man’s (i.e. L. Aemilius Paulus’) opinion. Having been sent as ambassadors to king Ptolemy, they deposited within the state treasury the gifts that they had personally received, even before they reported to the Senate on their embassy. Clearly they were of the opinion that the only profit that a person ought to draw from public service is praise for having performed the task well. Now here is proof of the humanity of the Senate and of the scrupulous discipline of our ancestors: what the ambassadors had deposited in the treasury was given to them not only by a decree of the Conscript Fathers but also with the People’s assent, and the quaestors took out and assigned these things to each of them as soon as the law had been passed Thus did the generosity of Ptolemy, the continence of the ambassadors, and the fairness of the Senate and People have their due share in a laudable act».

C) Roman ambassadors back in Rome Lastly, three of the sources (Valerius Maximus, Cassius Dio, and Dionysius of Halicarnassus) describe what happened upon the Roman ambassadors’ returning home from their mission to the court of Ptolemy II Philadelphus. From their nature and demonstrated practice, two items of importance emerge: Livy’s description of the initial diplomatic relations between Rome and Ptolemaic Egypt was elaborate, so as to fit the momentous nature of the occasion, and it derived from the work of Q. Fabius Pictor, the first native historian of ancient Rome. Writing at the height of the principate of Tiberius, Valerius Maximus was interested in history only in so far

The moral qualities of liberalitas, abstinentia, and aequitas/humanitas exemplified by this episode are what interest Valerius Maximus. He is not concerned about the truth of a particular moment in Roman history except to the extent that it can illustrate a general principle and thereby provides speakers with a potential exemplum.21

17 Particularly suggestive is the fact that both Trogus and Livy provide readers with a review of Carthaginian history prior to embarking upon a narration of the events of the first Punic war. Cf. Iust. 38.3.11. 18 Nepos, Cato 3.4; FRH 3 F 4.11 (= Plin. HN 8.11). Cf. FRH 3 F 4.7a (= Gell. 3.7.1-19); F 4.13 (= Gell. 10.24.7 = Macr. Sat. 1.4.26) for the expressions dictator Carthaginiensis and magister equitum rather than the proper names Hannibal and Maharbal. For the rationale informing this stance, see Conte 19923, 72; cf. Gruen 1992, 82. 19 Lévêque 1957, 58-59.

20 Val. Max. 1 praef.: Urbis Romae exterarumque gentium facta simul ac dicta memoratu digna ... ab illustribus electa auctoribus digerere constitui, ut documenta sumere volentibus longae inquisitionis labor absit. For an introduction to the subject, see now Bloomer 1992; Skidmore 1996; Wardle 1998. 21 Moreover, it is difficult to imagine any historian writing the anachronistic sentence with which this excerpt opens. It is worth remarking that the L. Aemilius Paulus in question was the general who defeated the Macedonian king Perseus in 168 BCE. If the claim be

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This exemplum appears within that section of his rhetorical handbook dedicated to the themes of abstinentia and continentia.

Roman history a brief account of the reception accorded to the Roman ambassadors upon their homecoming (fr. 41, see section I.A above). As we have had occasion to remark, Dio’s narrative differs fundamentally from those offered by Valerius Maximus and Dionysius of Halicarnassus in that these authors do furnish names for the three senators constituting the embassy. It would appear that Dio avoided unnecessary detail by abbreviating what he found within Livy and for that reason the ambassadors’ names are lacking.24

The question of the sources employed by Valerius Maximus is complicated in appearance, but in fact rather straightforward. He himself refers to «distinguished authors» in the preface to his work, furnishing citations of ten Latin and eleven Greek authors on occasion. These citations are not necessarily to be taken at face value. For example, the passages in which Valerius Maximus cites Coelius Antipater (1.7.6) and Plato (1.8.ext.1) derive from Cicero.22 Dissatisfied with such happenstance and misleading testimony, scholars have delved into the source question, producing a much more detailed list.

Dionysius of Halicarnassus is the third and last of the sources to describe the homecoming of the Roman ambassadors. As in the case of Dio, this description has not survived intact, but arrives by means of an excerpt that has perhaps compressed discursive treatment and simplified the author’s language. Still, the similarities to the accounts of Valerius Maximus and Cassius Dio are striking. According to the testimony of this excerpt, Dionysius of Halicarnassus wrote (Ant. Rom. 20.14):

However, claims of his extensive reliance upon such sources as Valerius Antias, Q. Aelius Tubero, and Diodorus Siculus are vitiated by a manifestly occasional use combined with a disregard for items of interest to those authors. Hence, despite both his own claims and many scholars’ desire to credit him with extensive reading, it appears that Valerius Maximus relied chiefly upon Cicero and Livy for rhetorical exempla relating to past generations.

Νουμέριος Φάβιος Πίκτωρ καὶ Κόιντος Φάβιος Μάξιμος καὶ Κόιντος Ὀγούλνιος πρὸς τὸν Φιλάδελφον Πτολεμαῖον πρεσβεύσαντες καὶ δωρεαῖς ἰδίαις τιμηθέντες ὑπ᾿ αὐτοῦ – ἦρχε δὲ τῆς Αἰγύπτου δεύτερος μετὰ τὸν Μακεδόνα Ἀλέξανδρον – ἐπειδὴ κατέπλευσαν εἰς τὴν πόλιν, τά τε ἄλλα ἀπήγγειλαν ὅσα διεπράξαντο κατὰ τὴν ἀποδημίαν καὶ τὰς δωρεὰς ἃς παρὰ τοῦ βασιλέως ἔλαβον εἰς τὸ δημόσιον ἀνήνεγκαν – οὓς ἡ βουλὴ πάντων ἀγασθεῖσα τῶν ἔργων οὐκ εἴασε δημοσιῶσαι τὰς βασιλικὰς χάριτας, ἀλλ᾿ εἰς τοὺς ἑαυτῶν οἴκους ἀπενέγκασθαι τιμὰς ἀρετῆς καὶ κόσμους ἐκγόνοις.

Although much has survived, nowhere within the Ciceronian corpus does there occur explicit reference to the Roman embassy to Ptolemy II. It might be thought that the lost speech De rege Alexandrino furnishes a promising context for the anecdote reported by Valerius Maximus, for in this work of the late 60s Cicero opposed the proposal of Roman annexation of Egypt.23 Roman awareness of Egyptian wealth and a desire to avoid its appropriation are consonant with the spirit of the anecdote. However, Valerius Maximus can be seen to have preferred Livy to Cicero as a source for knowledge of the “day of Eleusis”. Hence, Cicero is probably best excluded.

«Numerius Fabius Pictor, Quintus Fabius Maximus, and Quintus Ogulnius went upon an embassy to Ptolemy Philadelphus, and each of them was honoured by him with gifts. He was the second to rule Egypt after Alexander of Macedonia. When they sailed back to the city (i.e. Rome), they reported all that they had done during their voyage and placed within the state treasury the gifts that they had received from the king. Amazed at all of their actions, the Senate did not permit them to turn the king’s gifts over to the state, but rather take them away to their own houses as the rewards of their virtue and adornment for their descendants».

On the other hand, as we have already had occasion to see, Livy did mention the establishment of formal relations between Rome and Ptolemaic Egypt in the course of his narrative of the late 270s. It would have been easy and natural to include within that historical notice a report of the names and actions of the senators sent to Alexandria for that purpose. Even if possible contamination with other accounts – for example, those of Valerius Antias, Q. Ennius, or Q. Fabius Pictor – cannot be ruled out altogether, it would seem most likely that here, too, Livy was the source for the historical exemplum reported by Valerius Maximus.

The focus is upon the three ambassadors and their correct comportment in Rome and its reward. Like Valerius Maximus, albeit with a reversal of the two Fabii, Dionysius provides the names of the three senators who constituted the embassy to Alexandria. Moreover, both authors write of the king’s having made individual gifts to each of the three ambassadors (munera quae ab eo privatim acceperant; δωρεαῖς ἰδίαις τιμηθέντες ὑπ᾿

Writing not quite two centuries later, in the principate of Septimius Severus, Cassius Dio included within his allowed, it was Paulus who subscribed to the opinion of his predecessors. 22 Bloomer 1992, 62. 23 For the testimonia and fragments of this speech, see Crawford 19942, 43-56.

24

Cf. Millar 1964, 43, for Dio’s avoidance of detail in the narrative as well in speeches.

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αὐτοῦ; τὰς δωρεὰς ἃς παρὰ τοῦ βασιλέως ἔλαβον), without feeling the need to do as Dio and specify that these were «magnificent» (μεγαλοπρεπῆ) gifts. Unlike Valerius Maximus, however, the rectitude of the ambassadors is not voiced by the author, but rather emphasised by focalisation through the Senate, whose sentiments (ἀγασθεῖσα) and intentions (τιμὰς ἀρετῆς καὶ κόσμους ἐκγόνοις) are explicitly expressed.

the first two authors and the very likely use of Fabius Pictor by the third. Moreover, abbreviated and modified though the first two accounts are, they betray the existence of a larger tapestry, such as what might have been expected of Livy. Lastly, striking similarities between all three accounts indicate that Livy himself drew his information from the Roman history of Fabius Pictor.

But whence came the information for this narrative? Dionysius is known to have begun composing his account of Rome’s ancient history after the publication of Livy’s books dealing with that same period.25 Living and working in Rome, he cannot have avoided knowledge of his colleague’s work. Still, knowledge of a work does not signify its use. Dionysius covered the period between Rome’s foundation and the outbreak of the first Punic war in 20 books, whereas Livy dedicated 15 books to the same period. Moreover, there are many, irreconcilable differences of detail between the narratives of Dionysius and Livy. All of these differences constitute proof that Dionysius worked with the same sources available to Livy and arrived at a treatment that was substantially independent. Indeed, it will occasion no surprise that Dionysius rather frequently specifies his sources, but never mentions Livy. Instead, as was to be expected of someone seeking to cut new ground, the annalists loom large. Of these authors, many wrote initially in Greek: Q. Fabius Pictor, L. Cincius Alimentus, P. Cornelius Scipio, C. Acilius, and L. Postumius Albinus.

D) Livy, Fabius Pictor, and Hieronymus of Cardia The identification of the three sources that lie behind the six surviving accounts to deal with the establishment of diplomatic relations between Rome and Ptolemaic Egypt constitutes a step forward, for it permits a more precise appreciation of the historical reality described by the literary record. Too often the sources are cited indifferently, as if there were a democracy of truth. First, a restatement of the results obtained thus far. It would appear that Eutropius, the Livian periocha, Cassius Dio, and Valerius Maximus derive their information from Livy. In his turn, Livy as well as Dionysius of Halicarnassus would appear to draw upon Fabius Pictor. Only Pompeius Trogus, as represented by the epitome of Justin, seems to draw upon a non-Roman source, viz. Hieronymus of Cardia. These results permit us to assert without hesitation that the diplomatic exchange between Rome and Ptolemaic Egypt belongs to the realm of historical reality. Coming out of distinct and opposed historiographical traditions, Fabius Pictor and Hieronymus of Cardia together attest to there having been an exchange of ambassadors. Which is not to assert that the claim of an Egyptian initiative, to be found only within the Roman tradition as it survives, can pass uncontested. However, there is every reason to believe that Q. Fabius Maximus, N. Fabius Pictor, and Q. Ogulnius went upon an embassy to Ptolemy II Philadelphus in 273 BCE, so as to consolidate a formal alliance between the Lagid monarch and the Roman state.

Within this context, Dionysius’ concluding remark that the Egyptian monarch’s gifts to the ambassadors served as an adornment for those men’s descendants is highly suggestive. One of those descendants was the historian Q. Fabius Pictor, who composed a history of Rome in Greek towards the end of the third century BCE. Although no more than a surmise, his being the source for the information provided by Dionysius of Halicarnassus constitutes the most economic solution and is not without appeal.26 Indeed, it might also help to explain the odd fact that the order of the names of the two Fabii differs in Dionysius from that furnished by Valerius Maximus. N. Fabius Pictor (cos. 269) was the historian’s uncle, whereas Q. Fabius Maximus (cos. 292, 276) was a cousin. Artefacts are known to have accumulated stories, and the explanation of household adornments may well have stimulated Rome’s first native historian to write. Albeit not capable of formal demonstration, the vision is congenial.

It remains to examine the quality of the information deriving from the independent testimony of Fabius Pictor and Hieronymus of Cardia, so as to establish the likely course of events and motives for such an alliance. II.

To conclude this section, comparison of the accounts of Valerius Maximus, Cassius Dio, and Dionysius of Halicarnassus points towards the shared use of Livy by

The names of the individuals composing the Roman embassy to Alexandria provide insight into the ultimate source of information for Livy and those authors who subsequently wrote about this subject. Reflection upon the focalisation of these narratives can likewise prove remunerative. Written from the vantage-point of an

25

Dion. Hal. Ant. Rom. 1.7.2. It is to be remarked that Dionysius does elsewhere (1.6.2, however compare 1.7.3) explicitly claim to have read and used Fabius Pictor. Hence, pace Niese 1896, 481, we must agree with Lévêque 1957, 57 n. 3, that use of Livy as a basis for the narrative is a most problematic assumption. 26

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external focalisor,27 they are unanimous in their Roman bias, despite some differences in detail that may not be without consequence.

viewpoint to a public far wider than the circle of his peers in Rome and Latium.34 His work was a response to those critics who favoured Rome’s overt enemies as well as to those who dismissed Roman successes as due to the blind or mischievous operation of Fortuna/Tykhê. For example, Philinus had written a pro-Carthaginian history of the first Punic war and Hieronymus of Cardia had composed an account of the war between Pyrrhus and the Romans in which the element of chance was given a prominent role.35 By his reaction to such critics, however, Fabius Pictor went to the other extreme, merely substituting a Roman version of Tendenz for historical truth.36

Whether the setting for the narrative is Rome (before or after the embassy to Alexandria) or Alexandria (during the Roman embassy), there is a common thread in the form of a Roman-centered vision of historical reality. The Ptolemaic monarch seeks an alliance with the Romans because they had defeated Pyrrhus and were becoming an important power within the western half of the Mediterranean.28 The continence displayed by the Roman ambassadors in the face of the extravagant gifts made to them by the Ptolemaic monarch on more than one occasion is a sign of Roman virtue, serving to explain why the Romans achieved their pre-eminent position.29 The ambassadors are named for the sake of their individual commemoration by posterity, but it is their corporate behaviour that matters. As a group they represent the Roman state, and it was with that entity that Ptolemy II established an alliance. Both alliance and monarch receive mention because they serve as testimonials to the growing might of the Republic, whereas the gifts bestowed upon the ambassadors provide occasion for reflection upon those moral qualities that reputedly contributed to Roman might.

But the Rome-centered vision and consequent bias of our sources are not to be attributed solely to Fabius Pictor. As is perhaps most evident in the testimony of Valerius Maximus and Iustinus’ abridgement of Pompeius Trogus, subsequent authors re-elaborated this material to suit the needs of their own age. The Roman bias of our sources owes not a little to the progress of relations between Egypt and Rome that culminated with the end of the Ptolemaic dynasty.

This Rome-centered vision that translates into a Roman bias within the historiography is to be attributed in part to the chauvinism of Fabius Pictor. This bias was perceptible even to Polybius, whose Roman ties were strong and abiding.30 Polybius affirms that Fabius Pictor had «failed ... to report the truth as [he] ought to have done» and remarks that in so doing he had «behaved the way men do when they are in love» (Polyb. 1.14).31 Belonging to a patrician family that constituted one of the five gentes maiores of the middle Republic,32 Fabius Pictor had a strong sense of the Roman state as an appanage of noble families such as the Fabii. Engaged in the embassy to Delphi undertaken in the wake of the disaster at Cannae (216 BCE), Fabius Pictor may well have published his account of Roman history while the second Punic war was still being fought.33 In any case, he wrote this work in Greek so as to communicate a Roman

Initially the Ptolemaic monarchs’ wealth had represented the military power of which they might dispose. By dynastic accident and through the gradual growth of Roman might, that wealth had come to symbolize an effete, corrupt political system incapable of even maintaining domestic order. In 168, it fell to the Roman emissary Popilius Laenas to maintain equilibrium within the eastern Mediterrean and to prop up the tottering Ptolemaic monarchy that was on the point of succumbing to the victorious advance of the Seleucid monarch Antiochus IV Epiphanes.37 Subsequent rulers such as Physkon and Auletes – whose sobriquets speak volumes – did little to enhance their dynasty’s public image at Rome.38 Luxury and wealth tempted Roman intervention, inevitably leading to entanglement with M. Antonius and the country’s annexation by Octavian. Within this historical context the moralizing examples cited by Valerius Maximus and Iustinus (Pompeius Trogus) make eminent sense. Ingentia dona (Iust. 18.2.9) and liberalitas (Val. Max. 4.3.9) belong to the realm of the moralist or historical panegyrist.

27 For this useful concept, which was developed for narratological purposes, readers are referred to the lucid introduction provided by Bal 1985, 100-115. 28 Explicitly stated in Dio fr. 41 (ὡς τόν τε Πύρρον κακῶς ἀπηλλαχότα καὶ τοὺς Ῥωμαίους αὐξανομένους ἔμαθε), this perspective has not unnaturally proved congenial to many a modern student of Roman history, e.g. Forsythe 2005, 358. 29 It is worthwhile recalling that this conceit had previously been applied by the Greeks to themselves and to the Persians in order to explain the manifest changes of fortune that had occurred in the mid-sixth and early fifth centuries. Indeed, Herodotus closes his work with reference to this idea. 30 Cf. Dubuisson 1990, 233-243; Ziegler 1952, 1557f. 31 Polyb. 1.14.1-2: μὴ δεόντως ἡμῖν ἀπηγγελκέναι τὴν ἀλήθειαν . . . δοκοῦσι δέ μοι πεπονθέναι τι παραπλήσιον τοῖς ἐρῶσι. 32 Münzer 1999, 94-95. Overall, for this family in the early to midRepublic, see idem 1999, 48-93. 33 Frier 19992, 236-239; Alföldi 1965, 169-174; Latte and Hanell 1956, 176ff.

34 Most recent and judicious is the judgement of Beck and Walter 2001, 58-59; cf. Gruen 1992, 231. 35 For Philinus, see Polyb. 1.14; 3.8.1; Meister 1990, 143-144. As for Hieronymus of Cardia, aside from the incisive paragraphs of Meister 1990, 124-126, see the detailed study of Hornblower 1981. 36 Cf. Beck and Walter 2001, 1.133, suggesting that Fabius Pictor may be responsible for the highly partisan and misleading chronology situating the fall of Saguntum and Hannibal’s crossing of the Alps in one and the same year. Naturally, however, there is no reason to endorse the radical views advanced by Alföldi 1965, 123-175, as regards this author’s Tendenz. 37 Polyb. 29.27.1-10; Diod. 31.2; Cic. Phil. 8.23; Livy 45.12.3-8; Iust. 34.3.1-4; Vell. 1.10.1; Val. Max. 6.4.3; Plin. HN 34.24; Appian., Syr. 66; Plut. Mor. 202F; Porphyry, FGrHist 260 F 50. 38 Huß 2001, 600, 675; van Nuffelen 2009: 93-112, especially 98, 100, and 108. An attempt at remediation, partially successful, was undertaken by Siani-Davies 2001, 1-38.

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an embassy.42 Ethiopian and Indian women were amongst those paraded within the Dionysiac procession of 282, so as to illustrate the far-reaching nature of the power exercised by the Egyptian monarch.43 Although independent of one another, the latter item helps to interpret the former. The Hellenic belief that the god Dionysus had once passed triumphantly through India/Ethiopia provided an ideological reason for the Ptolemaic monarch to despatch an embassy to that distant region.44 Economic considerations will have strengthened this resolve, but the original impulse lay elsewhere. Confirmation is to be had from the epigraphic record for embassies sent by Asoka to the foremost of the epigonoi.45 Antiochus I, Ptolemy II, Antigonus Gonatas, and Alexander of Epirus received embassies from this ruler of a kingdom situated within the distant HinduKush, at the northeastern periphery of the Hellenistic world. In the desire to reinforce his position, or so it would seem, Asoka took the initiative in sending embassies abroad. Economic considerations were secondary, and the possibility of political gain was a prerequisite for the decision to undertake such a costly venture. Whether it was a matter of being able to claim close relations with the leading Hellenistic rulers or posing as the successor to Dionysus, prestige at the local level was the primary goal being sought. On that analysis, the putative parallel between Ptolemy II’s diplomacy in India and as regards Rome proves illusory.

Which is not to assert that descriptions of the embassy to Alexandria and its aftermath are complete invention. Rather, they display a comprehensible accentuation of a characteristic inherent in the narrative of this historical episode. It is in the re-elaboration of items such as the nature of the gifts and the Roman ambassadors’ attitude towards them, both in Alexandria and at Rome, that the tendency to exalt Rome can be most readily discerned and counterbalanced. Nevertheless, the recognition of this tendency to exalt Rome at the expense of the Ptolemaic monarchs gives rise to a fundamental question concerning the relationship between historical reality and its reflection within the sources. Did Ptolemy II Philadelphus initiate the exchange of diplomatic courtesies? Or was this, too, re-written to accommodate the new self-image being forged by the imperialist Rome of the middle and late Republic? Recognition of the Roman bias of the surviving sources calls into doubt the very narrative that has been traditionally accepted. III. There remains the perennial problem of why diplomatic relations were initiated that resulted in the first alliance between the Romans and the Ptolemaic monarch of Egypt. Naturally, each of the two parties will have had its own motivations, which need not have been identical. What mattered is that both contracting parties perceived the formal relationship of friendship as producing benefits. There has been much debate within modern scholarship as to the nature of these benefits, as well as concerning whether an alliance was actually formed.39 Oddly, however, this debate has been conducted without any attempt at a Realpolitik assessment of the situation.

An economic motivation has also been claimed by virtue of the Roman introduction of silver coinage imitating that of Ptolemaic Egypt. Again, however, the assertion does not withstand sustained scrutiny.46 The Ptolemaic coinage in question honoured Ptolemy II’s sister-wife Arsinoe II, but cannot have been issued prior to the institution of her cult in 271/270 and may well be significantly later in date. Since virtually the same control marks are used upon both this coinage and the didrachms issued by Rome, the two must be connected in some way. However, the time-lag between the formal establishment of amicitia and the emanation of coins belies the idea that there was a direct causal link between the two phenomena. Nor is there any other evidence to suggest even remotely that economic concerns lay behind the initial diplomatic relations between Rome and Egypt. Roman relations with Rhodes as of the late fourth century may well have abetted the Romans’ first approach to Ptolemy II,47 but the sending of a high-level embassy such as that of the Romans was most extraordinary and cannot be explained through hypothetical commercial

Virtually without exception scholars have accepted the ancient historiographical tradition that it was Ptolemy II who initiated the diplomatic exchange resulting in a formal treaty.40 Yet, in view of the likely derivation of this tradition from Fabius Pictor and its manifest bias in favour of the Romans, it seems legitimate to inquire whether events unfolded as reported. A chronological transposition that makes the Romans the ones to initiate diplomatic relations is an easy enough rectification of the historiographical record. Rooted in Realpolitik, such a correction would also provide a convincing solution as to why those relations were initiated. But first a brief review of those solutions proposed to date.

42

Plin. HN 6.58; Sol. 52.3. Kallixeinos of Rhodes FGrHist 304 F 2 (= Athen. Deipn. 200D201C) lines 32, 33; Dunand 1981, 18 and 24f.; Huß 2001, 304. Cf. Theocr. Idyll. 17.87 (cited below); Hunter 2003, 164-165 ad loc. 44 See Rice 1983, 82-99, but especially 83-84 for the complicated relationship between mythology (perhaps better understood as ancient history), recent history, and contemporary behaviour as represented by Dionsysus, Alexander the Great, and Ptolemy II respectively. 45 Schneider 1978. For a general appraisal, see Huß 2001, 301, Hölbl 1994, 57. 46 For what follows, see Gruen 1984, 674-675. 47 Thus Hauben 1983, 104-105 n. 21.

Proponents of an economic motivation for Ptolemy II have remarked the seeming parallel afforded by an Egyptian embassy sent to India.41 The astronomer Dionysius is recorded as having been sent to India upon

43

39

Again, for a review of the literature of this debate, see Lampela 1998, 48 n. 112. Sole exception in the twentieth century: Fraser 1967, 3. 41 Huß 2001, 301. 40

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was not sustainable over the long-term,54 they hoped that Ptolemy II might be able to exercise moral suasion over his erstwhile brother-in-law and convince Pyrrhus to confine his activities to the eastern side of the Adriatic. Since Arsinoe (and Ptolemy) seem to have financed Pyrrhus’ armed return to the Balkans, such a diplomatic line would have been particularly appropriate. Without approval from Alexandria, Pyrrhus might find himself in a quandary should he wish to repeat the Italian adventure yet a third time. As is the way with history, the alliance was not put to the test, for events overtook Pyrrhus while engaged in a campaign in the Peloponnese. Indeed, the silence that subsequently envelops this alliance furnishes confirmation that its purpose had ceased to exist with the opportune death of Pyrrhus.

contacts for which there exists no literary nor material evidence. Hence, the desperate search for allies. It has been confidently asserted that Ptolemy II was interested in the possibility of having the Romans as allies for an eventual armed conflict with Pyrrhus within the Aegean.48 That qualifies as Machiavellian, but can hardly suffice. Had such reasoning informed the decision of Ptolemy II, then Roman assistance should have been invoked in the first Syrian war (ca. 274-270 BCE) and the Chremonidean war (ca. 267-261 BCE), not to mention the second (ca. 260-255 BCE), third (ca. 246-237 BCE), and fourth (ca. 221-217 BCE) Syrian wars.49 Arsinoe would in fact seem to have subsidized the army with which her former brother-in-law Pyrrhus invaded Macedonia in 273.50 For her brother-spouse to have entered into an alliance with the Romans in that same year for the sake of concerted military action against Pyrrhus is unthinkable. Proof is to hand in the fact that the Romans did not send soldiers to take part in the conflict that followed Pyrrhus’ intervention in Macedonia. Ptolemy II would not appear to have been unduly concerned by the defeat of Antigonus Gonatas and the prospect of hegemony exercised over Macedonia and mainland Greece by Pyrrhus.51 None could have foretold the Epirote king’s imminent, inglorious end.52 Nonetheless, the court of Alexandria gave no signs of consternation at the course events were taking in the Balkans.

Corroboration may also come, it should be noted, from the fact that an alliance also existed between the Carthaginians and Ptolemy II.55 That alliance is perhaps best explained as a reaction to the Sicilian adventure of Pyrrhus. From a Realpolitik perspective, both the Romans and Carthaginians had far greater need of Ptolemy II than he did of them. It was his friendship with Pyrrhus that rendered him an important factor in western Mediterranean politics. *** Writing in praise of Ptolemy II Philadelphus towards 275 BCE,56 Theocritus evoked the monarch’s immense power through a listing of the geographical regions directly under his sway. The rhetorical device of a list in order impress the audience is extremely ancient, but no less effective nor true to life for that reason.57 The lines in question run thus (Theocr. Idyll. 17.82-92):

On the other hand, the very fact that the future cannot be known must be kept in mind. The Romans could not know that the Epirote king would soon be an inoffensive corpse. Instead, the successes that Pyrrhus was enjoying in Macedonia and mainland Greece gave promise of renewed warfare within Italy.53 It was reasonable to speculate that Pyrrhus would attack Rome again once he had secured his hold upon Macedonia. With augmented resources, he might well expect success where it had previously proved elusive. Such must have been the reflections of more than one senator in the period leading up to the alliance with Ptolemy II.

τρεῖς μέν οἱ πολίων ἑκατοντάδες ἐνδέδμηνται, τρεῖς δ᾿ ἄρα χιλιάδες τρισσαῖς ἐπὶ μυριάδεσσι, δοιαὶ δὲ τριάδες, μετὰ δέ σφισιν ἐννεάδες τρεῖς τῶν πάντων Πτολεμαῖος ἀγήνωρ ἐμβασιλεύει. καὶ μὴν Φοινίκας ἀποτέμνεται Ἀρραβίας τε καὶ Συρίας Λιβύας τε κελαινῶν τ᾿ Αἰθιοπήων, Παμφύλοισί τε πᾶσι καὶ αἰχμηταῖς Κιλίκεσσι σαμαίνει Λυκίοις τε φιλοπτολέμοισί τε Καρσί καὶ νάσοις Κυκλάδεσσιν, ἐπεί οἱ νᾶες ἀριστοί πόντον ἐπιπλώοντι, θάλασσα δὲ πᾶσα καὶ αἶα καὶ ποταμοὶ κελάδοντες ἀνάσσονται Πτολεμαίῳ.

From such a vantage-point, the attractiveness to the Romans of alliance with the Egyptian monarch emerges with startling clarity. Diplomatic relations serve as much to prevent disasters from occurring as to propel nations into active warfare. The good relations that Ptolemy II enjoyed with Pyrrhus were precisely why the Romans approached the Egyptian monarch in the wake of their victory over the Epirote ruler. Aware that their position

«There are 300 cities built [in Egypt] and then 3000 in addition to three times 10,000, and yet another two triads and lastly another three enneads: 54 For a detailed examination of this question as regards subsequent generations, see Brunt 1971. The theme of πολυανδρία was of no little interest to the ancients, precisely because of its intimate relationship to the question of military power. 55 Appian. Sic. 1; Huß 1979, 128-129; Ager 1996, 109-110. 56 Hunter 2003, 3-7; DNP 12/1 (2002) 360-364 s.v. “Theokritos” (R. Hunter), here 360. 57 Cf. Kirk 1985, 168-263, for discussion of the Achaean and Trojan catalogues to be found in Iliad. 2.

48

Lampela 1998, 48-49. For the little evidence that exists for Romans serving in the Ptolemaic army in the third century BCE, see Vollmer 1990, 23-27; cf. Peremans and Van’t Dack 1972, 666. 49 Cf. Gruen 1984, 676. 50 Tarn 1913, 445. 51 Cf. Gabbert 1997, 36. 52 Cf. Lévêque 1957, 606-626. 53 Cf. Iust. 25.4.2f.

357

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over all of these rules courageous Ptolemy. Moreover, he rules over part of Phoenicia and Arabia, Syria and Libya, and the dark-skinned Ethiopians; to all the Pamphylians and Cilician spearmen he gives orders, as well as to the Lycians and war-loving Carians and Cycladic isles, since their best ships sail the sea on his behalf, and the whole sea and earth and gurgling rivers obey Ptolemy».

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The third century was the golden age of the Ptolemaic dynasty, and this geographical evocation of power nicely represents that mental image that would have been present to those dealing in Realpolitik at the time.58 That a monarch such as Ptolemy II should have taken the initiative in opening diplomatic relations with the Romans is highly implausible, even though they had proved resilient in the face of Pyrrhus’ repeated campaigns in Magna Graecia.

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Recognition that the historiographical tradition for the initial diplomatic relations between the Romans and the Egyptian monarch derives ultimately from the history of Fabius Pictor, whose grandfather had participated in the embassy to Alexandria, is essential to recovery of the truth. Chauvinism lies at the root of a tradition that reverses the roles that then obtained. The monarch is depicted as taking the initiative, whereas in fact the Romans were in a weaker position and without anything of great value ardently desired by the Ptolemaic rulers of Egypt. Once it is seen that the initiative lay with the Romans, then another significance is assumed by the date of 273 BCE.

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Fearing lest Pyrrhus should return to the attack in Italy reinforced by his successes in Macedonia, the Romans approached Ptolemy II in the hope that the king might prevent such a scenario from taking place. Through his good relations with Pyrrhus and overall power, Ptolemy II was in a position to provide the Romans with such protection. It would appear that he had already done so for the Carthaginians, who had become his allies in similar circumstances just a couple years before. As fortune would have it, however, Pyrrhus died during a campaign in the Peloponnese in the following year, and the protection that Ptolemy might offer the Romans was never put to the test. The same chauvinism that colours the Roman historiographical tradition regarding Pyrrhus also affected the construction of the narrative relating to the initial contacts between Rome and Ptolemaic Egypt. Through a simple chronological transposition the respective roles were reversed, thereby anticipating the reversal of roles that was to inform the relationship from the infamous “day of Eleusis” onwards.

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58

Cf. Callim. Hymn. 4.165-170, with its conceit of sovereignty over the whole of what lies between the rising and the setting of the sun (μέχρις ὅπου περάτη τε καὶ ὁππόθεν ὠκέες ἵπποι Ἠέλιον φορέουσιν).

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  The line from right to left reads:

THE TURIN STATUE OF THE SERVANT OF NEITH WENNEFER

Htp-di-nswt n sbk Sdt Hr Hry-ib […] | di=f pr nb Hr xAwt=f ra nb […] nb Hr wdHw=f […] aHaw qA […] xr nswt Hst n kA imAx(y) xr ntr niwt=f nfr Hst ir(r) n nb=f | Hm nt imy-r rwyt wn-nfr sA Hm nt dd-bAstt(-iw=f)-anx mAa-xrw

Marco Zecchi Abstract

‘An offering which the king gives to Sobek of Shedet – Horus who resides in […] (a), so that he may give everything coming out on his altar, every day […], on his offering-table […] a long life […] with the royal favour for the ka of the revered one before the god of his city (b), good of praises, one who acts for his lord (c), the servant of Neith, overseer of the antechamber (d) Wennefer, son of the servant of Neith Djed-bastet(-iuef)ankh (e), true of voice’.

Publication of a kneeling statue in the Museum of Turin, now headless and rather damaged. Its fragmentary texts suggest that the monument, dedicated to Sobek-Horus of Shedet and Osiris-ity, was originally set up in the Fayyum. Its owner, Wennefer, is here bestowed with the titles of ‘servant of Neith and ‘overseer of the antechamber’. Wennefer is known thanks to other sources and was an important official of the reign of Nectanebo I.

The line from left to right reads: Among the objects in the collection of the Museum of Turin is an interesting fragmentary statue dated to the Late Period and belonging to the ‘servant of Neith’ and ‘overseer of the antechamber’ Wennefer (Cat. 3028). The monument is until so far unpublished, even though it has been described and mentioned by some scholars.1 The statue is carved in diorite, with a maximum preserved height of 35 cm. Despite the head, chest and arms are missing, it is a work of good quality. Wennefer is represented kneeling, wearing an unpleated and barely visible kilt and holding on his laps, between long fingered hands, a fragmentary structure, which, on its front, has six framed columns of writing. This has been differently described as a naos,2 as an ‘effiggie de divinitè’3 or as a ‘tavola da libazione’.4 But the remains of what once rested on the legs in front of the body suggests that, very likely, it was a basin. A stone bridge attaches this structure to the chest of the offerer. Wennefer’s legs are flexed under his thighs, while his articulated toes are splayed from the weight of his body. The statue rests on a thick, rectangular base, carrying a single framed row of encircling hieroglyphs. The back-pillar, which has broken off, bears three framed columns of text.

Htp-di-nswt n wsir ity Hry-ib tA-S ntr | […] wr (?) di=f prtxrw t Hnqt kAw Apdw mrHt mnxt xt nb(t) nfr(t) wab(t) bnr(t) anx ntr im qrst nfr(t) m-xt iAyt n kA imAx(y) xr ntrw tA-S Hsy xr ntr […] Hr […] | […] [imy-r rwy]t wn-nfr ir n nb(t) pr Sdt mAa-xrw ‘An offering which the king gives to Osiris the sovereign who resides in the land of the lake (f), god […] (g), so that he may give a voice offering in bread, beer, ox, fowl, unguent, linen and everything good and pure and pleasant on which a god lives, and a beautiful tomb after an old age (h) for the ka of the revered one before the gods of the land of the lake, the praised one before the god […] (i), [… overseer of the] antechamber Wennefer, engendered by the lady of the house Shedet (j), true of voice’. Notes: (a) To be read Hr Hry-ib Sdt, ‘Horus who resides in Shedet’. On the crocodile Sobek of Shedet and his syncretistic association with the falcon Horus, see: Zecchi 2010. (b) This god might be the crocodile god Sobek or Osiris of the Fayyum, both mentioned in the offering-formulas of the statue. (c) The reading and translation of this passage are uncertain. The signs for nfr Hst are not clearly visible. (d) On this title, see El-Sayed 1975, 99 note b; Grajetzki 2009, 94-96 and, above all, Buongarzone 1995, 45-63. (e) The name dd-bAstt-iw=f-anx occurs rather frequently in the sources of the Fayyum of the Late Period, above all of the last dynasty. The Demotic PChicago 17481 of the reign of Nectanebo I from Hawara mentions a hem-priest dd-bAstt-iw=f-anx son of a certain Maa-ra, besides three other dd-bAstt-iw=f-anx, sons of three different men (Hughes, Jasnow 1997, 10-11). The inscription of a wooden lid from a coffin said to come from the Fayyum mentions a certain dd-bAstt-iw=f-anx (Jorgensen 2001, 242-243). The ‘servant of Neith Horudja of the Thirtieth

The texts The base contains two offering-formulas in one horizontal framed line of hieroglyphs starting from the middle of the front side of the base in both directions and ending in the middle of the back side. The hieroglyph di of the offering-formulas and last signs for mAa-xrw, ‘true of voice’, are not repeated, since they are used for both directions.

                                                        

1  Orcurti 1882, 69 n. 13; Fabretti, Rossi, Lanzone 1882, 411; Porter, Moss 1978-1981, I, 794; Herbin 1979, 268-270; El-Sayed 1982, 452; Zecchi 1999, 71. 2  Orcurti 1882, 69; Porter, Moss 1978-1981, I, 794. 3  Herbin 1979, 268. 4  Fabretti, Rossi, Lanzone 1882, 411.

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  Dynasty buried at Hawara, and son of a woman called Shedet, had two sons, from two different women, both called dd-bAstt-iw=f-anx, who had a long list of religious titles, among which ‘hem-priest of Bastet who protects her father, who resides in the land of the lake’ and ‘hempriest of Neith (Petrie 1889, 8-9, 23, pl. IV). The father of the ‘major’ of the Fayyum and chief priest of the region Ankhruty of the Thirtieth Dynasty was called dd-bAsttiw=f-anx and had the title of ‘servant of Neith’, but he can hardly be identified with dd-bAstt-iw=f-anx father of Wennefer, since his wife was a certain Ta-shery-pa-iam (Petrie 1889, 22, pl. II). Another ‘servant of Neith’ ddbAstt-iw=f-anx son of Hor-udja and Men-ir-tis is attested in Spiegelberg 1928, 29-30, pl. 7a. See also the statue of the Thirtieth Dynasty Walter Arts Gallery 22.145 belonged to a certain dd-[…], who was ‘servant of Neith’ and ‘hem-priest of Bastet who protects her father’ (Josephson 1997, 7-8, figs. 6-7). (f) On this Osirian form, see: Zecchi 2006, 117-145. (g) Very likely to be restored wsir ity Hry-ib tA-S ntr | [aA wAd] wr, ‘Osiris the sovereign who resides in the land of the lake, [great] god, Great [Green]’. On wAd wr, ‘Great Green’, in this context personification of the Fayyum region, see Leitz 2002, 259 and Zecchi 2006, 127. (h) Written with two hieroglyphs of the tree, followed by one sign of a man leaning on a stick. (i) Possibly to restore Hry[-ib], ‘who resides in’, but the rest of the epithet is no longer readable. (j) The personal name Shedet (Ranke 1935, 331, 23) was very likely connected with a form of veneration of the cow goddess Shedet in the Fayyum. The coffin found at Hawara of the above-mentioned Ankhruty of the Thirtieth Dynasty preserves the image of the cow Shedet (Petrie 1889, pl. II). In this context, her name is followed by the determinative of the pr-nw surmounted by the bucranium. This, as suggested by Gutbub 1973, 482, would indicate that the goddess was a sort of personification of the temple of the main town of the Fayyum. However, the goddess’ name was very likely derived from the verb Sd, ‘to nourish, to bring up’. The inscription of the coffin seems to confirm the role of nurse of the deity towards the deceased: ‘I have nourished your limbs on the earth (Sd.n=i Haw=f tp tA). I have completed your body as (those of) the ancestors (ad.n=i dt=k m drtyw)’. Also in a text of the temple of Kom Ombo, the goddess Shedet, assimilated to Mehetweret, is connected to Sobek-Horus of Shedet (De Morgan 1895, no. 61). As stated above, another woman called Shedet is attested in the Fayyum of the Thirtieth Dynasty: she was the mother of the ‘servant of Neith’ Horudja.

[…] […] ‘[…]q […] sn r […] n […] (a) […] the clay seal (?) in my hands (b) […] every day, in all the feasts of revealing the face (c), […] for what I have done beautifully and rightly in front of the good god, […] overseer of the antechamber Wennefer, the true revered one […] […] (d)’ Notes: (a) Uncertain reading. (b) Or ‘the clay sealing with my hands’? The reading of this passage is unclear and remains hypothetical. For the noun sin, see, for example, Goyon 1972, 113 no. 268; Herbin 1994, 231. (c) Nothing is known with certainty about this festival. According to Kitchen 1999, 367 wn-Hr might be a term used to denote several once-monthly rites celebrated within the temple-precincts. For other attestations of this festival, see, for example, Chapter 145 of the ‘Book of the Dead’; De Morgan 1894, 150; Kitchen 1979, 532, 14; 623, 2. It is interesting to note that this festival is mentioned in another monument of Wennefer. In an unpublished statue of a private collection (Herbin 1979, 267, doc. A) the offering-formula is addressed to the god Ptah, so that he ‘may grant the snw-offerings in the day of the monthly festival, of the half-month festival and of the festival of revealing the face for the ka of…’. (d) In this line, only a sign for the seal is still discernable. Inscriptions in three framed columns of hieroglyphs on the back-pillar: […] Hm nt imy-r rwyt wn-nfr sA Hm nt dd-bAstt-iw=f-anx […] sn[…] (?) m-bAH=k Hr-rA n aq r bw dsr […] sin (?) m awy=f r sxpr […] pr m-bAH=k ra nb rn=i mn Hr=f n sk dt ‘[…] the servant of Neith, overseer of the antechamber Wennefer, son of the servant of Neith Djed-bastet-iuefankh, […] in front of you, at the entrance (?) of the one who enters the sacred place (a) […] clay seal (?) (b) in his hands to make exist […], coming out in front of you, every day. May my name be firm on it, never dying’. Notes:

Inscription in six framed columns of hieroglyphs on the front of the basin:

(a) Another problematic passage. The group before mbAH=k is unclear. There is an s, under which there are a nw-vase, another uncertain sign and a stroke. The uncertain sign might be another nw-vase, suggesting the reading snn=i. And indeed Herbin translates ‘… mon image (?) en ta presence, à l’acces de celui qui entre dans

[…] q […] sn r […] n […] […] sin m awy=i […] ra nb m Hb nb n wn-Hr […] n ir.n=i r nfr mAat ntr nfr xft […] imy-r rwyt wn-nfr imAx mAa 362

Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti

  5) Seal from Memphis10 belonging to the ‘servant of Neith and overseer of the granary (imy-r Snwt)’ Wennefer, son of Djed-bastet-iuef-ankh.

la place sacrée…’. For Hr-rA, ‘at the entrance’, see: Erman, Grapow 1926, II, 391, 13. The expression bw dsr, here written with the sign of the vase for incense followed by the signs of the knife and of the lion, may denote both a sanctuary or shrine where the god lives and a region in the netherworld: Herbin 1994, 104-105. (b) After the hieroglyphs of the knife and the lion (dsr), there is a mAa sign followed, perhaps, by the hieroglyph of the red crown. This seems to be followed by the noun sin, already occurring in the inscription on the front of the basin. The reading remains hypothetical.

6) Ushabtis of the Museo Civico Archeologico of Como no. 11 (unknown provenance)11 belonging to the ‘servant of Neith, overseer of the scribes of the great compound Wennefer, born of Shedet, true of voice’. It seems highly likely that the ushabits comes from Wennefer’s tomb, whose location remains unfortunately unknown. We cannot always be sure that people with the same name and titles, and mentioned on different sources, were identical. Also in this case, it is not certain whether the Wennefer of these six items should be identified with the Wennefer of the statue of Turin or whether they were two, or even more, different persons.12 Moreover, as a matter of fact, Wennefer was a rather common name in the Late Period. But a cross-comparison of the titles and inscriptions on these objects and the almost constant presence of the names of the father and mother, alone or together, give the impression that they all belonged to the same man. If so, Wennefer would be known thanks to at least seven documents, of which five are statues.

Some observations on the ‘servant of Neith’ Wennefer The Turin statue describes Wennefer as ‘servant of Neith’ and ‘overseer of the antechamber’ and offers some information on his family, giving titles and names of both his parents: the ‘servant of Neith’ Djed-bastet-iuef-ankh and the ‘lady of the house’ Shedet. There are other objects which might actually have belonged to the same Wennefer of the statue of Turin: 1) Base of a statue of a private collection (unknown provenance)5 with an offering-formula to Ptah ‘father of the gods’ (it ntrw) and belonging to the ‘revered one before the gods of Memphis and the gods of the land of the lake’ (imAx xr ntrw inb-Hd ntrw tA-S), the ‘royal herald’ (wHmw nswt), ‘servant of Neith’ Wennefer, son of Djed-bastet-iuef-ankh.

Wennefer is clearly datable, both on textual and arthistorical grounds. He was indeed active during the reign of Nectanebo I. Bothmer dated the statue of the Baltimore Museum of Arts to the Thirtieth Dynasty and the statue of Turin seems stylistically coherent with the same date.13 This date is also confirmed by the inscriptions of the statue of the Museum of Alessandria, that mention the throne name of Nectanebo I, the nswt-bit Kheper-ka-ra.

2) Lower portion of a granite naophoros statue of the Museum of Alessandria (n. 20959) (unknown provenace)6 belonging to the ‘overseer of the scribes of the great compound’ (imy-r sSw xnrt-wrt) Wennefer, son of the ‘servant of Neith’ Djed-bastet-iuef-ankh and of the ‘sistrum-player of Neith, the great, the god’s mother, who resides in the land of the lake’ (ir n iHyt n nt wrt mwt ntr Hry-ib tA-S) Shedet.7

Unfortunately, Wennefer’s five titles never appear all together on a single object and it is not possible to put his monuments in a chronological sequence. It is likely that these items were made during different periods of Wennefer’s life and that his titles reflect changes, different stages and functions in his professional life. Even though a reconstruction of Wennefer’s career is difficult, it is not impossible to obtain some information on his career path. Of the seven sources, only the provenance of the seal is known, having been discovered by Petrie at Memphis. But in the inscriptions of all the five statues, included that in Turin, Wennefer describes himself as a devotee of deities of the Fayyum region or of the city of Memphis, so that he must have spent part of

3) Upper portion of a limestone statue in the Baltimore Museum of Arts 51.257 (unknown provenance, but probably from Memphis)8 with remains of an adoration scene before the Apis bull and belonging to the ‘revered one before Apis-Sokar-Osiris, the great god, lord of the shetyt’ and ‘servant of Neith’ and ‘overseer of the scribes of the great compound’ Wennefer. 4) Fragment of a statue9 with an adoration scene with part of a deity with atef-crown, called ‘Osiris, the sovereign who resides in the land of the lake’ (wsir ity Hry-ib tA-S) and a man, the ‘overseer of the antechamber’ Wennefer.

                                                        

10  Petrie, Mackay, Wainwright 1910, 43, pl. 37 (42); Petrie 1917, 33, pl. LVIIIAD. See also Herbin 1979, 271 (doc. E); El-Sayed 1982, 452; Zecchi 1999, 71. 11  Ballerini 1909-1910, 226 no. 25; Guidotti, Leospo 1994, 85; El-Sayed 1982, 452; Zecchi 1999, 71. 12  Another unpublished statue quoted by Wild 1971, 109 and Herbin 1979, 271-272 (doc. F) mentions Djed-bastet-iuef-ankh and ‘my son, who makes live my name, the servant of Neith […]’, sA=i sanx rn=i Hmnt […]. Should we restore the son’s name with Wennefer? 13  Wennefer and his statue of Turin have been usually dated to the Thirtieth Dynasty: Bothmer 1960, 99; Porter, Moss 1978-1981, I, 794; El-Sayed 1982 452; Zecchi 1999, 71; Guidotti, Leospo 1994, 85; Porter, Moss, Malek 1999, 882. Herbin 1979, 267 suggested a date to the Twenty-sixth Dynasty.

                                                         5

 Unpublished, quoted by Herbin 1979, 267 (doc. A).  Unpublished, quoted by Herbin 1979, 267-268 (doc. B); Bothmer 1960, 99; Zecchi 1999, 71. 7  Based on a personal copy of the inscription of the statue. 8  Bothmer 1960, 99, pl. 75, fig. 195; El-Sayed 1982, 452; Zecchi 1999, 71; Porter, Moss, Malek 1999, 882. 9  Unpublished, quoted by Herbin 1979, 270-271 (doc. D). 6

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  his life in these two geographical areas.14 On the upper part of the pillar of the statue Baltimore 51.257, a man, very likely the owner of the monument, the ‘revered one before Apis-Sokar-Osiris, the great god, lord of the shetyt’ Wennefer, is depicted worshipping a bull with solar disc, which, very likely, should be identified with the Apis bull of Memphis. In addition, the statue of the private collection with an offering-formula to the god Ptah might come from the same locality. In this context Wennefer is called the ‘revered one before the gods of Memphis and the gods of the land of the lake’ (imAx xr ntrw inb-Hd ntrw tA-S), connecting himself in one single monument with deities representing the two areas where he was active and perhaps, from a geographical point of view, the final destination – Memphis – and starting point – the ‘land of the lake’ – of his official career. It is worth mentioning also the fact that, on this monument, Wennefer bears the titles of ‘royal herald’ and ‘servant of Neith’, which equally should refer to his presence both in the court circle and in the Fayyum region. Despite the fact that the statue of Turin has been regarded, without any apparent reason, as coming from Thebes,15 the offering-formulas addressed to two specific deities of the Fayyum, the main regional deity Sobek-Horus of Shedet and Osiris of the Fayyum, suggest that the object might have been dedicated to the temple of Shedet or that it comes from any other locality of the region. Wennefer must have been closely linked to the specific Osirian form of the Fayyum, since in another unpublished statue he is represented worshipping the god, with atef-crown and called ‘the sovereign who resides in the land of the lake’. It is also worthwhile to note, on a religious point of view, that the statue of Turin is the only surviving object of the Thirtieth Dynasty with an offering-formula addressed to Sobek of Shedet and that the crocodile god appears here, as in previous periods, in his syncretistic association with the falcon god Horus.16

in the land of the lake’. The cult of Neith was one of the most important in the Fayyum of the Late Period. The presence of the goddess in the region goes back at least to the Third Intermediate Period, when her priests started to make their appearance on local sources. The most ancient piece of evidence of the goddess in the region, however, is a royal monument, a wooden door discovered by Petrie at Kahun bearing cartouches and titles of king Osorkon I of the Twenty-second Dynasty, who is represented while offering to Neith and Horus.17 Her first known priest to be surely active in the Fayyum was a certain Sobekhotep, who was ‘servant of Neith and of the Restful of feet’, that is Sobek, known thanks to a statue of the University Art Gallery of Yale dated to the Twenty-fifth Dynasty.18 Very likely, Wennefer started his career has as a priest in the provincial Fayyum, inheriting his only priestly title from his father Djed-basetet-iuef-ankh. The fact that this man is constantly bestowed only with the title of ‘servant of Neith’ might suggest that he actually did not hold any other office. If this is the case, Wennefer must have had the opportunity of crossing social borders and of advancing to the highest positions in the state administration. Moreover, it is also possible that the title Hm nt had been in his family for some generations. But there is no way of knowing whether Wennefer held at the very beginning of his career one or more titles or whether he made first his reputation in the province of the Fayyum simply and only as a priest and then rose to higher offices. Anyhow, Wennefer never forgot to include in his known documents the title Hm nt, possibly because he never ceased to act as priest of the goddess, or perhaps because the title must have represented not only his origins but also an elite status. However, his monuments prove that Wennefer’s career was not restricted to the provincial Fayyum but that he also achieved a high position at the royal court. His string of titles also includes secretarial mansions and offices connected with the provisioning and the administration of the palace.

We have just few and vague information on Wennefer’s social background. His origins, however, must have been in the Fayyum. His genealogy shows that both his parents were connected with the clergy of Neith in this region, the father as Hm nt, and the mother Shedet as ‘sistrumplayer of Neith, the great, the god’s mother, who resides

Besides the statue of Turin, the title imy-r rwyt also occurs in a statue of a private collection. It is worthwhile to note that this title appears on two monuments mentioning deities of the Fayyum. Would this indicate that Wennefer held already this office in the first part of his career? Unfortunately, the evidence supplies no answer. The functions of the ‘overseer of the antechamber’, a title attested since the Old Kingdom and also translated as ‘overseer of the gateway’19 or ‘overseer

                                                        

14  The link between the city of Memhis and the Fayyum region goes back at least to the Fourt-Fifth Dynasties, when high-ranking dignitaries, such as for example the vizier Ka-nefer, held, among others, the title of ‘hem-priest of Sobek of Shedet’ (Zecchi 2010, 14-15). But if in these cases, they were important people linked to the Memphite court who obtained a religious office in the provincial priesthood of the main god of the Fayyum, in Wennefer’s case it was exactly the other way around, with a provincial priest who gained a high position at court. See also Amenemhat-ankh, contemporary of Amenemhat III and known thanks to his statue Louvre E 11053, who held religious titles connected both to Memphis and to Shedet (Zecchi 2010, 46). 15  Porter, Moss 1971-1984, I, 794. This information in not reported elsewhere. 16  Zecchi 2010, 145. On the connections between Sobek and Osiris, which go back to the Twelfth Dynasty, when the crocodile god started to be regarded as son of Osiris, see: Zecchi 2006; Zecchi 2010, 94, 100102. For other statues with offering-formulas dedicated to Sobek of Shedet and Osiris of the Fayyum, but dated to the Twenty-sixth Dynasty, see Zecchi 2010, 168.

                                                         17

 Cairo Museum JE 205244: Petrie 1891, 25; El-Sayed 1982, 401.  Statue 1930.490: Perdu 1988, 75-81; Jansen-Winkeln 2009, 393. Before Sobekhotep, another priest of Neith who might have been active in the Fayyum was e certain Hor-pa-sen of the reign of Sheshonq V, known thanks to the statue Louvre E 31 discovered at Memphis: ElSayed 1982, 400. For other ‘servants’ of Neith in the Fayyum, see Zecchi 1999, no. 9, 11, 188, 191, 194, 199, 227, 255, 291, 295, 298. In the region the titles ‘hem-priest of Neith’ (Hm-ntr nt), ‘second hempriest of Neith’ (Hm-ntr 2.nw nt) and ‘overseer of the singers of Neith’ (imy-r Hsw n nt) are also attested: Zecchi 1999, 104-105. See also Zecchi 2001, 76-78. 19  See, for example, Jones 2000, no. 612; Grajetzki 2009, 94-96. 18

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  of the law court’,20 remain uncertain. During the Middle Kingdom the title-holders were officials who later became influential men at court.21 After the Ramesside age, the title fell out of use, to be readopted by important officials from the Saitic period onwards.22 Very likely Wennefer, in his capacity of imy-r rwyt, had direct access to the king and responsibility in the organization of the private rooms of the palace. That Wennefer was a member of the upper echelons of the palace administration is confirmed by his title ‘royal herald’ (wHmw nswt), and, in this capacity, he had responsibilities between the inside and outside of the palace.23 In the course of his career he attained also the office of ‘overseer of the granary’ (imy-r Snwt). This appears on a seal from Memphis, and therefore it might suggest that Wennefer acquired this appointment at court, becoming involved in the provisioning of the palace. In the inscriptions of the statue of Alessandria, of the statue in Baltimore and of his only surviving ushabtis, Wennefer bears the title of imy-r sSw xnrt-wrt, ‘overseer of the scribes of the great compound’, which implied a control over one of the institutions that collected people who had to work for the state.24

Bibliography

Even though we cannot follow Wennefer’s career step by step, his titles reflect his wide range of duties and skills. Unfortunately, a reconstruction of the chronological sequence of his offices remains completely speculative and it is not even possible to ascertain whether the title of ‘servant of Neith’, which appears in all his documents, was just an early service in one of the priestly offices in his native region or whether it was held concurrently with his highest positions for his whole career. However, Wennefer must have been an outstanding figure of the reign of Nectanebo I and have possessed a certain degree of power. In the Fayyum of the Thirtieth Dynasty there were other interesting and influential men, such as the ‘servant of Neith’ Horudja son of Shedet and, above all, the mayor and chief priest Ankhruty, son of the ‘servant of Neith’ Djed-bastet-iuf-ankh. But, as far as we know, Wennefer is the man of the Fayyum of the Late Period who left more monuments than any other dignitaries or priests of the region. The high number of his objects might be explained not only with his importance but also with his long time spent in office. However, Wennefer is the only dignitary, during his time, who was able to go beyond the boundaries of his own region and become an active member of the Memphite elite pertaining to the royal palace.

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                                                         20

 Ward 1982, no. 236.  Grajetzki 2009, 94-96.  Buongarzone 1995, 60. 23  On this title: Valloggia 1976, 261-262; Quirke 2004, 32. For another ‘royal herald’ of the time of Nectanebo I, see Bothmer 1960, 93. 24  On this title, see Posener 1936, 8-9; Hayes 1955, 36-42 and De Meulenaere 1966, 16. See also Grajetzki 2009, 85-86. Likewise Wennefer, a certain Udjahor, buried at Ghiza and active in the Twentyseventh Dynasty, or later, was both ‘overseer of the scribes of the great compound’ and ‘royal herald’: Stammers 2009, 161.

Hayes, W.C. 1955. A Papyrus of the Late Middle Kingdom in the Brooklyn Museum. New York, Brooklyn Museum.

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 FIGURE

Fig. 1: The Turin statue of the servant of Neith Wennefer, left side. Courtesy of the Soprintendenza Archeologica, Torino

Fig. 2: The Turin statue of the servant of Neith Wennefer, right side. Courtesy of the Soprintendenza Archeologica, Torino 367

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Fig. 3: The Turin statue of the servant of Neith Wennefer, front view. Courtesy of the Soprintendenza Archeologica, Torino

Fig. 4: The Turin statue of the servant of Neith Wennefer, back view. Courtesy of the Soprintendenza Archeologica, Torino 368

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Fig. 5: The Turin statue of the servant of Neith Wennefer, top view. Courtesy of the Soprintendenza Archeologica, Torino

Fig. 6: Text on the base, from right to left

Fig. 7: Text on the base, from left to right

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Fig. 8: Text on the front of the basin

Fig. 9: Text on the back-pillar

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