La verità del falso. Studi in onore di Cesare G. De Michelis 8867284495, 9788867284498

Il vero e il falso sono inestricabilmente intrecciati in molti campi della comunicazione umana. Ma non si tratta di oppo

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La verità del falso. Studi in onore di Cesare G. De Michelis
 8867284495, 9788867284498

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I libri di Viella 199

La verità del falso Studi in onore di Cesare G. De Michelis

a cura di Gabriella Catalano, Marina Ciccarini, Nicoletta Marcialis

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Copyright © 2015 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: luglio 2015 Prima edizione digitale in formato pdf: novembre 2015 ISBN 978-88-6728-527-3 (ebook-pdf)

Questo volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.

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libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Premessa

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Luca Bevilacqua Mistificazione e menzogna in Baudelaire: una lettura de Le Mauvais Vitrier

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Mario Caramitti Il Placido Don: espellere Šolochov dalla storia letteraria?

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Antonio Carile «Famosa scripta». L’uso politico della diffamazione nelle biografie imperiali a Costantinopoli Nuova Roma

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Valerio Casadio «Sappiamo dire molte menzogne simili al vero». Il dettato delle Muse e le origini dello “statuto” del falso nella letteratura greca antica

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Gabriella Catalano Meteore del plagio: Goethe e La Guzla di Mérimée

57

Carmine Chiodo Un falsario seicentesco delle lettere politiche e storiche di Traiano Boccalini: Gregorio Leti

67

Francesca Chiusaroli Il grafema, il segno grafico e le “scritture brevi” per la realizzazione del falso

75

Paolo D’Angelo «Dell’inventato, che è quanto dire, del falso». Manzoni e l’immaginazione come specie della falsità

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La verità del falso

Marina Formica Un falso Oriente. Da Gemelli Careri all’Abate Vella

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Andrea Gareffi La più perfetta delle lontananze

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Daniele Garrone Chi ha scritto la Bibbia ebraica? A saperlo…

125

Donatella Gavrilovich Lo strano caso della nevrastenia del regista Vsevolod Mejerchol’d. Un’autobiografia “a regola d’arte”

135

Tonino Griffero Falsi sentimenti (atmosferici)? Autentico e inautentico nella sfera emozionale

143

Daniela Guardamagna Apocrifi e falsi shakespeariani

151

Michael Hagemeister The Protocols of the Elders of Zion – a Forgery?

163

Raffaele Manica Una congiuntura editoriale degli anni Settanta

173

Elisabetta Marino Quando la finzione diventa racconto: Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman di Mary Shelley

185

Reinhard Markner Gerd Heidemann and the Correspondence between Mussolini and Churchill: a Prelude to the Hitler Diaries Scandal

193

Diane Ponterotto Maneuvering between Truth and Falsehood: Hedging Strategies in Political Interviews

203

Franco Salvatori e Alessandro Ricci Cartografia e mistificazione della realtà geografica. La “rappresentazione addomesticata” come fattore d’identità

221

Patrizia Serafin «…ne qua subaerato mendosum tinniat auro?». La verità e il suono del falso

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Premessa di Gabriella Catalano, Marina Ciccarini, Nicoletta Marcialis

1. La verità del falso Cosa mai potrebbero avere in comune il falso e la verità? È semplicemente una coppia di opposti che si escludono a vicenda, difformi negli intenti e nella sostanza? O verità e falsità hanno più punti in comune di quanto si possa a prima vista ipotizzare considerando l’una l’immediata negazione dell’altra? Solo da questi pochi quesiti è chiaro che il provocatorio ossimoro di una verità del falso appartiene a qualsiasi studio che ha come oggetto i meccanismi e gli esiti della contraffazione. Se il vero, che sembra imporsi come indiscusso, è il rovescio del falso, la loro giustapposizione ha come effetto immediato la distanza, così che la verità appare improvvisamente quale assai discutibile principio di identificazione. È del tutto evidente quanto l’era digitale, alla quale siamo ormai avvezzi, abbia aumentato a dismisura le occasioni di falsificazione, assolutamente immediate, a portata di mano, invitanti. Da qui la ragione dell’odierna congiuntura tanto favorevole a ricerche, convegni e saggi sul tema e da qui l’esigenza di inoltrarsi in sempre nuove domande e percorsi. Come si sa, il plagio ha mietuto vittime fra studiosi, scrittori e politici, è divenuto una pratica tanto diffusa in ambito universitario da rendere necessari chiarimenti pubblici circa i confini esistenti fra autorialità e bene comune, si è autoeletto a formula di successo rendendo famosi scrittori in erba, disinvolti navigatori nel mondo del web. Un problema ovviamente complesso, da approfondire e da spiegare, ancora più problematico poi se si allarga la cerchia e si pensa a insigni scrittori accusati di plagio (per esempio Brecht) che hanno ricusato ogni condanna appellandosi all’arbitrio creativo, caparbiamente libero di attingere da ogni dove: a essere rivendicato può essere

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Gabriella Catalano, Marina Ciccarini, Nicoletta Marcialis

l’impegno didattico della ripetizione, il gesto della riscrittura e del montaggio, ma anche l’originalità di una pratica della falsificazione, dove acume critico e dialogo con voci altrui possano risultare concretamente vincenti contrastando in fieri ogni astratta individualità creatrice. Proprio a cospetto di tali rivendicazioni autoriali si rende sempre più necessario parlare, studiare, interrogarsi sulle mutevoli identità della falsificazione. Per affrontare il falso bisogna, come si è detto, interrogarsi sulla verità. Perché in fin dei conti falsificare implica una sostituzione di identità che da un lato si confronta con momenti strutturali (cioè identificativi) di un’opera e dall’altro pone al centro il problema della distanza. Distanza che permette la riproduzione ma che diventa altresì rivelatrice della non identità. Come ha affermato con sapienza di connaisseur Federico Zeri, il falsario immetterà sempre nell’oggetto falsificato un dettaglio rivelatore che lo profila, seppure in maniera nascosta, come appartenente a un’epoca diversa. A insinuarsi, nello spazio ristretto di una copia il cui scopo è la conformità totale con l’originale, è la disparità storica, funzionante come inconsapevole traccia di un divario incolmabile da qualsiasi perfezione imitativa. Perciò, chi è professionalmente investito del ruolo di smascherare il falso, sarà tenuto a smontare l’oggetto, a scrutarlo fin nei dettagli esercitando quel metodo prossimo all’autopsia che, fin dagli albori settecenteschi, ha fatto da trait d’union fra la scienza della natura (si pensi all’Histoire naturelle di Buffon) e la nascita della storia dell’arte (il pensiero va, ovviamente, a Winckelmann). Solo un’osservazione perspicace o una lettura ripetuta e riflessiva consentirà di scorgere quegli elementi rivelatori che rendono palese l’inganno. Tuttavia, se si parte dal presupposto che il falso ha a che fare con la verità, non si potrà né dovrà ridurre il senso della ricerca a una mera caccia alle fonti veritiere o a un’azione più o meno eclatante di smascheramento. A essere chiamati in causa sono l’attenzione dello studioso e dell’interprete, la sua esperienza e la sua conoscenza, la sua mente e i suoi occhi. Implicitamente, ma in maniera rigorosa e responsabile, a essere coinvolti sono la filologia e l’atto critico in generale, inclini per vocazione a definire lo statuto dell’opera individuandolo nei canoni e nei generi, nella tradizione e nell’intertestualità, nella funzione dell’autore, nelle condizioni di nascita e accoglienza alla quale sarà destinata. Insomma, l’esercizio che ogni falso esige e impone al critico come all’interprete è in fin dei conti quello della comparazione, gesto primario di qualsiasi esegesi. La pratica del paragone renderà immediatamente palese come il falso implichi un orizzonte metodologico e tematico quanto mai eterogeneo e

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vasto, obbligando il critico a confrontarsi con una molteplicità di forme (dalle manipolazioni alle copie, dai travestimenti ai plagi e ai pastiche) che impediscono qualsiasi approccio normativo o rigidamente unitario. Perché in ognuna di queste occasioni il metodo della falsificazione sarà differente e in maniera diversa lo stesso prototipo, oggetto di imitazione, manifesterà le proprie sembianze, rivelate in maniera più o meno subdola. Basti pensare ai numerosi casi in cui a essere falsa è la copia di un originale inesistente. Anche qui – valgano, uno per tutti, i canti di Ossian di cui si è invaghita mezza Europa in quel Settecento così prodigo di avventurieri come di falsari – ci si appella a un archetipo astratto che agisce attraverso i criteri elementari della tipizzazione, dell’accumulazione e della ridondanza. Poiché il falso, è bene tenerlo sempre presente, si inscrive in prima istanza – lo si attui per motivi ideologici, politici o economici – nell’orizzonte di attesa dei fruitori, nel loro gusto che si attesta e cambia col tempo, determinando le scelte del falsario, ma anche l’intrusione della sua mano estranea all’atto primario della creazione. Tutto ciò sia che il prototipo sia esistente o no. In entrambi i casi il falso si confronta con prodotti canonici, gioca con le aspettative, riempie vuoti lasciati nei testi o nelle curve della storia, sfruttando l’onda di un successo e l’accoglienza del pubblico. Così, più che opposti, vero e falso appaiono contigui, paradossalmente uniformi, come suggella ogni letteratura che non può che essere prodotto della finzione. È perciò che lo studio dei falsi, o di una fenomenologia del falso, richiede allo stesso tempo attenzione filologica e fantasia, passione per il dettaglio e immersione in quella sottile dialettica oppositiva e integrativa insieme che unisce il falso alla verità. [GC] 2. Cesare De Michelis e il manoscritto inesistente Falso e verità sono davvero inestricabilmente intrecciati in molti campi della comunicazione umana e non solo: si pensi, ad esempio, alle capacità mimetiche di alcuni insetti che si fingono fiori o foglie per catturare le loro prede o per sfuggire ai predatori. Tra gli esseri umani una delle alterazioni del vero più significativa e frequente è la menzogna. Ne esistono vari tipi e sfumature, tante quante la fantasia umana ha saputo inventarne, ma tutte hanno al loro interno uno specifico e particolare “vero” che ne palesa la reale funzione. Tra alcuni casi archetipici possiamo annoverare la falsa gentilezza, o menzogna “pie-

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tosa”; la menzogna per vanità, che nasconde un senso di inferiorità; infine la calunnia, cioè la menzogna come volontà di nuocere. Quest’ultimo caso è di particolare interesse perché, nella falsa accusa, la volontà di colpire equivale ad una mirata e subdola aggressione, e l’unica difesa possibile consiste nel rapido svelamento della “vera” motivazione in essa nascosta. Per le calunnie molto ingegnose questa difesa può essere difficile, e questo è esattamente il caso dei cosiddetti Protocolli dei savi di Sion (Protokoly sionskich mudrecov) di cui si è occupato Cesare G. De Michelis – al quale sono dedicati gli scritti raccolti in questo volume –, che ha tracciato la complessa e intricata genealogia di un «manoscritto inesistente», cioè di uno degli apocrifi più celebri del XX secolo.1 Lo studioso, con le armi della filologia e della riflessione critica, ha messo ordine nella vasta letteratura sull’argomento e, sulla base del testo e della sua tradizione, ha svelato una storia intessuta di molteplici falsi e mistificazioni, di versioni romanzesche e discordanti, motivati da antisemitismo e giudeofobia. I Protocolli dei savi di Sion è (o sarebbe, come si vedrà) documento segreto risalente forse al 1897, forse proveniente dalla Cancelleria Centrale di Sion e contenente – in 22 o 27 paragrafi (a seconda delle redazioni) – il piano di conquista del mondo da parte dell’«Empio Israele». I Protocolli sarebbero stati redatti in francese nel corso di un Congresso tenuto a Basilea dall’Alliance Israélite Universelle e poi tradotti in russo, lingua nella quale furono in seguito fatti circolare divenendo un caso internazionale, fonte di forti sentimenti antisemiti e di paura nei confronti del «complotto giudaico-massonico». «E perché mai avrebbe dovuto esistere un originale francese dei PSM (Protokoly sionskich mudrecov)?» scrive De Michelis, «Perché dei russi, sia pure spie, sia pure residenti a Parigi, nel redigere un falso destinato a circolare in Russia avrebbero dovuto usare il francese? Un “manoscritto ritrovato” che può essere divulgato solo in traduzione è invece il procedimento più ovvio per accreditare un falso».2 1. Tra i numerosi saggi dedicati dallo studioso all’argomento cfr. C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. I “Protocolli dei savi di Sion”: un apocrifo del XX secolo, Venezia 1998 (trad. ingl. The Non-existent Manuscript. A Study of the “Protocols of the Sages of Zion”, Lincoln-London 2004; trad. russa “Protokoly sionskich mudrecov”: nesuščestvujuščij manuskript, ili podlog veka, Minsk-Moskva 2006); Id., La giudeofobia in Russia, Torino 2001; Id., Il manoscritto inesistente: la storia e gli archivi, in Vero e falso. L’uso politico della storia, a cura di M. Caffiero e M. Procaccia, Roma 2008, pp. 103-115. 2. De Michelis, Il manoscritto inesistente, p. 113.

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In questo caso, inoltre, lo svelamento del falso – e di conseguenza, del vero che vi è annidato – è complicato dal fatto che il manoscritto, benché nel corso degli anni più d’uno avesse dubitato della sua “autenticità”, è stato da molti ritenuto comunque “veridico”, in quanto testimonianza dei reali progetti dei “Savi di Sion” e della congiura ebraica per la conquista del mondo.3 De Michelis ha ripercorso le vie tortuose intraprese dal “manoscritto inesistente”, dalla sua origine sino alla notorietà internazionale: dalla storia dei presunti autori4 alle testimonianze di chi asserisce di aver visto l’originale francese, vergato su carta giallastra con un’enorme macchia di inchiostro azzurro sulla prima pagina (la principessa Radziwiłłowa), a quelle di chi afferma che Sergej Aleksandrovič Nilus gli avrebbe mostrato il testo dei Protocolli (il Conte Armand Simon-Marie Blanquet du Chayla), agli studi testuali più tardi nei quali il dubbio che il famoso manoscritto sia davvero inesistente emerge con sempre maggiore chiarezza. In ogni caso è proprio il testo russo – la pretesa traduzione di un altrettanto preteso originale francese – a rivelare il vero che si cela nel falso. Cesare De Michelis, con un’analisi storica e filologica di questo testo e delle sue filiazioni, dimostra che l’originale dei Protocolli è stato scritto in un russo fortemente permeato di ucrainismi, probabilmente proveniente dall’ambiente dei Černosotency, i Centoneri, un’organizzazione reazionaria e antisemita – a cui si diceva appartenesse anche Nicola II –, attiva in Russia intorno al 1905. In questo modo, oltre cent’anni dopo il loro essere concepiti come falso documento, grazie ad un lavoro filologico e storico-testuale accurato e minuzioso, i Protocolli dei savi di Sion hanno mostrato il loro “vero” volto, quello della menzogna per odio e per paura: una delle tante possibili declinazioni della verità nel falso. [MC] 3. Ibidem, p. 99: «i PSM sarebbero “veridici”, al di là della loro “autenticità”, perché rispecchierebbero la vera natura dell’ebraismo e dei suoi fini che, Protocolli o non protocolli, sarebbe veramente quella indicata dai PSM […]». 4. Ibidem, p. 102: «Per esaminare compiutamente il rapporto “vero-falso” nella concezione dei PSM bisogna ripercorrere anche la storia delle storie dei loro presunti autori. La “semisfera” entro cui vanno letti è definita dalla “questione dell’autore”, come nesso decisivo tra l’universo del reale e quello dell’immaginario (belletristika, fiction); ricostruire chi sia stato indicato quale autore dei PSM significa seguire i sentieri delle potenzialità narratologiche dei PSM e dunque intenderne l’anomala durata di fruizione».

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3. Cronaca del convegno Che cosa è esattamente un falso? I contributi presentati a questo convegno hanno messo in luce la molteplicità di fenomeni diversi cui questa etichetta può applicarsi. Di base, sintetizza Michael Hagemeister, «we call an object a forgery when its origin is different from what we are led to believe» (p. 168). Archetipo di questo tipo di falso è per gli storici la donazione di Costantino. Falsi siffatti, ci ricorda Marina Formica, «intessono in modo talmente fitto la storia occidentale da costituire una sorta di filo rosso di quell’oggetto magmatico e sfuggente che convenzionalmente definiamo identità, al punto che, agli occhi dello storico, la costruzione di documenti artificiosi appare spesso più significativa e interessante delle fonti autentiche» (p. 97). Falsi documenti, false lettere, falsi diari, falsi viaggiatori (Gemelli Careri, Gregorio Leti): a volte si tratta di modificare gli equilibri geopolitici, più spesso e più prosaicamente di procurarsi un illecito guadagno – «retrodatare, confermare o semplicemente inventare fondazioni, diritti di possesso di terre, privilegi fiscali, esenzioni giurisdizionali» (p. 98). E non solo nel passato: Reinhard Markner ricostruisce nel dettaglio la losca vicenda della corrispondenza (falsa) tra Mussolini e Churchill, un “giallo” che precede di pochi anni il più noto scandalo dei falsi diari di Hitler. Ma la falsificazione/manipolazione della verità può riguardare il contenuto del documento stesso, che in sé non è contraffatto: come ci ha raccontato Antonio Carile, il più importante strumento di lotta politica a Bisanzio era quello della diffamazione: il documento non è falso, ma dice falsità, con lo scopo preciso di alterare i fatti a vantaggio di qualcosa e più spesso di qualcuno, in genere l’autore stesso dello scritto. Parimenti “falsate”, ma non “false”, sono le carte geografiche oggetto della relazione di Franco Salvatori e Alessandro Ricci, sulla «rappresentazione addomesticata» come fattore d’identità. La narrazione può essere falsata dall’invenzione di fatti inesistenti come dall’alterazione e dall’omissione di quelli reali: la nevrastenia di Mejerchol’d, ci racconta Donatella Gavrilovich, è piegata a dimostrare l’influsso nefasto di un padre “capitalista” sulla psiche del figlio, che invece nella sua autobiografia non tace i risvolti “ormonali” del proprio malessere. La “falsità” si misura dunque con il criterio delle sue intenzioni. Quanto è falsa la moneta barbara che imita modelli bizantini, ma che non mente sul suo peso in oro? È più o meno falsa della moneta svalutata che esce dalla zecca di Stato con una quantità di metallo prezioso infe-

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riore al dovuto? Patrizia Serafin ha spiegato come per un numismatico il sintagma “moneta falsa” non abbia un significato unico e ben definibile, e come esistano molte diverse tipologie di monete false – il falso antico, il falso cinquecentesco, il falso moderno – contraddistinte da una varietà di “intenzioni del falso”. Il criterio dell’intenzione è fondamentale quando dal campo delle discipline storiche ci si sposti sulla letteratura: come si chiede Valerio Casadio nel suo intervento sulla polemica tra l’epica tradizionale ed Esiodo, la nascita della narrativa non consiste forse nell’intenzione di plasmare pseudea simili al vero? “Falsi”, del resto, sono anche, quasi sempre, i discorsi che gli storici mettono in bocca ai personaggi delle loro narrazioni. Il falso “verosimile” costituisce il ponte tra la storia e la letteratura, e avalla la teoria della contiguità tra le due: se la verità non è la serie casuale di fenomeni che si offrono alla nostra osservazione, ma risiede nella loro ratio profonda, chi “inventi” una verità superiore, noumenica, starà dicendo falsità? Ovvero: il verosimile è più vero del vero? E dunque: la letteratura è superiore alla storia? e la storia è letteratura? Si tratta di un tema molto vicino al festeggiato, autore di un saggio che si interroga su realismo socialista, veridicità e letteratura russa antica mettendo a confronto lo Statuto del Congresso del 1934, in cui il realismo socialista viene adottato come dottrina, e la caratteristica sinsemia della letteratura antico-russa, contraddistinta dalla compresenza, su due livelli distinti (spirituale e storico) ma armonizzanti tra loro, di valori semantici attinenti al vero assoluto e alla bassa realtà fenomenica. Chiunque si occupi di cultura russa sa bene come l’esistenza di due diversi termini per indicare la verità, istina e pravda, corrisponda a una tradizionale contrapposizione tra ciò che l’uomo sa e crede vero, e ciò che invece è “vero” in senso assoluto. Ma forse l’uomo moderno ha perso la fede nell’assoluto, e, come spiega Tonino Griffero, tende a considerare “vere” le proprie sensazioni e le atmosfere del suo vivere quotidiano: «è difficile, come vedremo, poter considerare un errore la “prima impressione” atmosferica, e quindi largamente insoddisfacente parlare di sentimenti (d’ora innanzi atmosfere) illusori, pseudosentimenti e sentimenti falsi» (pp. 144-145). Dalla filosofia alla letteratura, ritroviamo il tema trattato da Luca Bevilacqua, che utilizza «l’esprit de mystification» per interpretare tanto un testo concreto, quanto in generale la poetica di Baudelaire, ovvero «il senso dell’antinomia tra “vero” e “falso”: autenticità dell’espressione (o del sentimento) e menzogna. Naturalezza e artificio» (pp. 17-18).

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Ma esiste, per i letterati, una particolare declinazione del concetto di falso: il plagio. Lo tratta, in un contributo che tocca da vicino uno dei temi più importanti nella produzione scientifica del festeggiato, Michael Hagemeister. Lo studioso nega che i Protocolli dei Savi di Sion si possano definire «a forgery», preferendo considerarli «a piece of fiction created through plagiarism» (p. 168). Il plagio – questo concetto così indissolubilmente legato alla modernità – costituisce, ci dice Hagemeister, l’esatto contrario del falso: mentre il falsario si sforza di nascondere la diversità tra il suo lavoro e l’originale, il plagiario tenta di mascherarne la somiglianza. Non sempre, tuttavia, questo è vero: alla letteratura d’arte appartiene più spesso quel tipo di plagio che Goethe definisce uno «scherzo serio»: Gabriella Catalano ci ha illustrato come, conscio della mistificazione ordita da Mérimée con La Guzla, Goethe veda nell’esercizio di falsario del giovane scrittore francese un modo di intendere la soggettività creatrice, istanza individuale eppure collettiva, espressione di un singolo autore ma anche di un intero popolo, elevato a originale e originario genio letterario. Addentrandosi nella dimensione ludica che la letteratura permette ai suoi cultori, la dicotomia vero/falso (originale/plagio) si sfalda in un caleidoscopio di copie, imitazioni, pastiche e ammiccamenti di vario genere: al dibattito su autorialità, interpolazioni e contaminazioni sono infatti dedicati i contributi di tutti gli italianisti presenti, da Andrea Gareffi a Raffaele Manica a Carmine Chiodo. Una dimensione ludica e dunque “disimpegnata” contro cui si sono levate diverse voci, ricordate qui da Paolo D’Angelo: complice la volontà di opporsi alle parole d’ordine del postmoderno, identificato con il disimpegno, l’approccio ludico alla letteratura, la perdita di contatto con la realtà o addirittura la sua negazione, non si contano più le prese di posizione di scrittori a favore della non fiction, di registi a favore del documentario, di artisti visual a favore di un’arte di reportage o di denuncia, e le condanne di un’arte disimpegnata, cioè impegnata a fare quello che ha sempre fatto, cioè inventare (p. 88).

Nel suo denso contributo, che problematizza il rapporto tra verità, falsità e finzione, D’Angelo si concentra sulla “fame di realtà”, sulla tesi – di portata generale – che «intende la “finzione” come un tipo di “falsità”, che equipara l’immaginato al falso, e insomma nega alla finzione uno spazio terzo, alternativo tanto alla verità che al falso» (p. 87). «Ma veramente – si chiede – la finzione ha fatto il suo tempo, o non resta vero piuttosto il con-

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trario, e cioè che, come diceva Nietzsche, noi abbiamo l’arte proprio per non morire a causa della verità» (p. 88). E siamo così tornati alla superiorità della letteratura sulla storia! Nessuno ricorderebbe l’innocuo scoop giornalistico di cui ha raccontato Elisabetta Marino se non fosse finito “in letteratura”, sulle pagine di Mary Shelley… Il discorso sull’autorialità può essere declinato in vari modi, non necessariamente ludici e salottieri: dell’Autorialità (con la a maiuscola) ha parlato Daniele Garrone a proposito delle Sacre Scritture, ricordando come la filologia sacra sia la madre di tutte le filologie, e sottolineando tuttavia come oggi essa “vada a scuola” dalla filologia non sacra. All’estensione della sacralità a testi che sacri non sono è dedicato l’intervento di Daniela Guardamagna su apocrifi e falsi shakespeariani: parlare di apocrifi shakespeariani presuppone infatti una “visione sacrale” di Shakespeare: «il bardo della mitologia romantica, ispirato dal suo stesso Genio e dalla Natura – che sa rispecchiare come nessun altro – sarebbe immediatamente riconoscibile per la perfezione dei versi, la potenza della struttura drammaturgica, la complessità psicologica e la funzionalità scenica dei personaggi» (p. 151). Mario Caramitti ha toccato, con il suo discorso sul Placido Don e sulla discussa autorialità di Michail Šolochov, uno dei punti più dolenti e problematici della letteratura sovietica. Ma, sia pure affrontato da angolazioni così differenti e indagato in ambiti così diversi, il discorso sul falso che si è snodato in questo convegno, tra storia e letteratura, filosofia e geografia, numismatica e linguistica – vanno infatti ancora ricordati gli interventi di Francesca Chiusaroli sul superamento della visione eurocentrica del grafema e quello di Diane Ponterotto sulle strategie retoriche di Obama «between truth and falsehood» (p. 201) – ha presto rivelato tratti comuni ben più rilevanti delle pur esistenti settorialità disciplinari: tutti gli intervenuti si sono mostrati consapevoli della problematicità intrinseca del concetto di falso, tutti hanno tenuto a sottolineare la necessaria distinzione tra mentalità degli antichi e mondo moderno, il problema dell’autorialità, il rapporto copia/imitazione, tutti infine hanno individuato negli strumenti filologici dell’indagine la stella polare che può condurre in porto lo studioso attraverso la foresta delle mistificazioni. [NM]

Luca Bevilacqua Mistificazione e menzogna in Baudelaire: una lettura de Le Mauvais Vitrier

All’interno dello Spleen de Paris molti poemetti hanno la struttura e lo stile di un breve racconto. La prosa poetica di Baudelaire sembra in questi casi abbandonare – almeno apparentemente – ogni lirismo (i «mouvements lyriques de l’âme», Baudelaire 1975: 275-276), per concentrarsi sull’esposizione di un aneddoto, di una breve favola, oppure sul resoconto di fatti insoliti o imprevisti, secondo un modello che si richiama in maniera esplicita a Edgar Poe. Il caso de Le Mauvais Vitrier si presenta, in tal senso, più complesso. Anzitutto il testo può essere suddiviso idealmente in due parti. Nella prima è esposto l’argomento generale, ovvero il misterioso manifestarsi, in alcuni individui, di comportamenti improvvisi e inaspettati che sembrano contraddire del tutto l’indole apparentemente quieta, «contemplativa» e poco propensa all’azione di queste persone. La seconda parte del poemetto vuole invece offrire una testimonianza diretta, da parte di chi scrive, di come si sia verificato in lui tale singolare fenomeno. Viene dunque raccontata una breve storia, la cui premessa implicita è che il soggetto scrivente ritiene di appartenere alla schiera di quei tipi «indolenti» e «sognatori» a cui può capitare, quasi loro malgrado, di compiere un’azione che contraddice completamente la propria natura. Circa a metà del testo, come a separare queste due parti, si trova una parentesi tonda sul cui contenuto vorremmo qui focalizzare l’attenzione. Infatti essa contiene, a dispetto del carattere apparentemente secondario che di norma pertiene a quanto è esposto fra parentesi, un importante spunto su cui soffermarsi. Sia perché esso può offrire una chiave decisiva per interpretare l’intero testo, sia perché il tema che ne scaturisce – ovvero «l’esprit de mystification» – può estendersi in generale alla poetica di Baudelaire, chiarendo il senso dell’antinomia tra

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Luca Bevilacqua

“vero” e “falso”: autenticità dell’espressione (o del sentimento) e menzogna. Naturalezza e artificio. Per comodità, ai fini dell’analisi, riportiamo il testo completo: Le Mauvais Vitrier Il y a des natures purement contemplatives et tout à fait impropres à l’action, qui cependant, sous une impulsion mystérieuse et inconnue, agissent quelquefois avec une rapidité dont elles se seraient crues elles-mêmes incapables. Tel qui, craignant de trouver chez son concierge une nouvelle chagrinante, rôde lâchement une heure devant sa porte sans oser rentrer, tel qui garde quinze jours une lettre sans la décacheter, ou ne se résigne qu’au bout de six mois à opérer une démarche nécessaire depuis un an, se sentent quelquefois brusquement précipités vers l’action par une force irrésistible, comme la flèche d’un arc. Le moraliste et le médecin, qui prétendent tout savoir, ne peuvent pas expliquer d’où vient si subitement une si folle énergie à ces âmes paresseuses et voluptueuses, et comment, incapables d’accomplir les choses les plus simples et les plus nécessaires, elles trouvent à une certaine minute un courage de luxe pour exécuter les actes les plus absurdes et souvent même les plus dangereux. Un de mes amis, le plus inoffensif rêveur qui ait existé, a mis une fois le feu à une forêt pour voir, disait-il, si le feu prenait avec autant de facilité qu’on l’affirme généralement. Dix fois de suite, l’expérience manqua; mais, à la onzième, elle réussit beaucoup trop bien. Un autre allumera un cigare à côté d’un tonneau de poudre, pour voir, pour savoir, pour tenter la destinée, pour se contraindre lui-même à faire preuve d’énergie, pour faire le joueur, pour connaître les plaisirs de l’anxiété, pour rien, par caprice, par désœuvrement. C’est une espèce d’énergie qui jaillit de l’ennui et de la rêverie; et ceux en qui elle se manifeste si inopinément sont, en général, comme je l’ai dit, les plus indolents et les plus rêveurs des êtres. Un autre, timide à ce point qu’il baisse les yeux même devant les regards des hommes, à ce point qu’il lui faut rassembler toute sa pauvre volonté pour entrer dans un café ou passer devant le bureau d’un théâtre, où les contrôleurs lui paraissent investis de la majesté de Minos, d’Éaque et de Rhadamante, sautera brusquement au cou d’un vieillard qui passe à côté de lui et l’embrassera avec enthousiasme devant la foule étonnée. Pourquoi? Parce que… parce que cette physionomie lui était irrésistiblement sympathique? Peut-être; mais il est plus légitime de supposer que lui-même il ne sait pas pourquoi. J’ai été plus d’une fois victime de ces crises et de ces élans, qui nous autorisent à croire que des Démons malicieux se glissent en nous et nous font accomplir, à notre insu, leurs plus absurdes volontés.

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Un matin je m’étais levé maussade, triste, fatigué d’oisiveté, et poussé, me semblait-il, à faire quelque chose de grand, une action d’éclat; et j’ouvris la fenêtre, hélas! (Observez, je vous prie, que l’esprit de mystification qui, chez quelques personnes, n’est pas le résultat d’un travail ou d’une combinaison, mais d’une inspiration fortuite, participe beaucoup, ne fût-ce que par l’ardeur du désir, de cette humeur, hystérique selon les médecins, satanique selon ceux qui pensent un peu mieux que les médecins, qui nous pousse sans résistance vers une foule d’actions dangereuses ou inconvenantes). La première personne que j’aperçus dans la rue, ce fut un vitrier dont le cri perçant, discordant, monta jusqu’à moi à travers la lourde et sale atmosphère parisienne. Il me serait d’ailleurs impossible de dire pourquoi je fus pris à l’égard de ce pauvre homme d’une haine aussi soudaine que despotique. “- Hé! hé!” et je lui criai de monter. Cependant je réfléchissais, non sans quelque gaieté, que, la chambre étant au sixième étage et l’escalier fort étroit, l’homme devait éprouver quelque peine à opérer son ascension et accrocher en maint endroit les angles de sa fragile marchandise. Enfin il parut: j’examinai curieusement toutes ses vitres, et je lui dis: “Comment? vous n’avez pas de verres de couleur? des verres roses, rouges, bleus, des vitres magiques, des vitres de paradis? Impudent que vous êtes! vous osez vous promener dans des quartiers pauvres, et vous n’avez pas même de vitres qui fassent voir la vie en beau!”. Et je le poussai vivement vers l’escalier, où il trébucha en grognant.  Je m’approchai du balcon et je me saisis d’un petit pot de fleurs, et quand l’homme reparut au débouché de la porte, je laissai tomber perpendiculairement mon engin de guerre sur le rebord postérieur de ses crochets; et le choc le renversant, il acheva de briser sous son dos toute sa pauvre fortune ambulatoire qui rendit le bruit éclatant d’un palais de cristal crevé par la foudre. Et, ivre de ma folie, le lui criai furieusement: “La vie en beau! la vie en beau!”. Ces plaisanteries nerveuses ne sont pas sans péril, et on peut souvent les payer cher. Mais qu’importe l’éternité de la damnation à qui a trouvé dans une seconde l’infini de la jouissance? (Baudelaire 1975: 285-287)

Ciò che colpisce, a una prima lettura, è il tono saggistico, assolutamente antilirico della prima parte. Del resto già Paul Claudel, citato da Jacques Rivière, diceva che la lingua di Baudelaire è fondata su una singolare miscela «du style racinien et du style journaliste de son temps» (Rivière 1974: 15). L’incipit impersonale («Il y a des natures purement contemplatives…») potrebbe essere quello di un saggio breve, di carattere filosofico o psicologico. E anche se poco dopo è chiamato in causa direttamente l’io

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che scrive («Un de mes amis…»), il registro permane neutro e asciutto: prossimo a quello che Barthes chiamerà il «grado zero», che sarebbe poi tipico – a livello soltanto teorico – delle scritture giornalistiche (Barthes 1953). Uno stile, quello de Le Mauvais Vitrier, che risulta dunque spoglio delle figure retoriche o degli accenti enfatici che troviamo in quasi tutti gli altri componimenti de Lo Spleen de Paris. Come in un articolo scientifico di carattere divulgativo, vengono descritti alcuni casi al fine di illustrare il problema generale. In quest’ottica, anche quando si ha il passaggio effettivo alla prima persona («J’ai été plus d’une fois victime de ces crises…»), si direbbe che l’estensore dell’articolo voglia portare se stesso come esempio non tanto per raccontare o esorcizzare un’esperienza personale, ma per fornire una testimonianza diretta e di prima mano riguardo a un fenomeno che «le moraliste et le médecin, qui prétendent tout savoir, ne peuvent pas expliquer». Un fenomeno dunque inspiegabile, se non a patto di ipotizzare la presenza di forze sovrannaturali, giacché quelle crisi e quegli slanci «nous autorisent à croire que des Démons malicieux se glissent en nous et nous font accomplir, à notre insu, leurs plus absurdes volontés». Lasciando per il momento da parte quest’ultimo aspetto, legato a quella sfera del demoniaco o del satanico che è una costante in Baudelaire (peraltro ampiamente indagata dalla critica), sembra più opportuno concentrarci, nella prospettiva del nostro convegno, sul tema della «mistificazione» che emerge all’interno della parentesi tonda inserita a metà del testo. Anzitutto essa ribadisce e rafforza il tono pseudo-giornalistico e divulgativo che troviamo nella prima parte. E se in apparenza si pone, in quanto parentesi, come una nota marginale rispetto all’argomento, comprendiamo al contrario che essa intende offrire una precisazione fondamentale, come dimostra il richiamo garbato ma diretto al lettore: «Observez, je vous prie…» (notiamo che “osservare” è un verbo tipico della scienza). Ciò che segue si rivela in effetti decisivo per cogliere il senso dell’aneddoto narrato nella seconda parte del testo. Ed è proprio alla luce di quanto accade fra il protagonista e il vetraio che comprendiamo cosa intenda Baudelaire con l’espressione «esprit de mystification». Espressione che in prima battuta, specie se riferita agli strani comportamenti descritti fin lì, risulta poco comprensibile, rivelando un vero punto di resistenza del testo. Ma procediamo con ordine. Anzitutto conviene adesso precisare che emerge chiaramente una figura di mistificatore all’interno de Le Mauvais Vitrier, e questi è proprio il protagonista, ovvero colui che decide, in preda a una sorta di raptus, di scagliarsi contro il vetraio ambulante. La realtà

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che emerge dal racconto smentisce e ribalta il titolo: non è certo il «vitrier» a essere «mauvais». Egli non ha alcuna colpa nel fatto di vendere vetri trasparenti. La colpa che il narratore gli imputa appare pretestuosa, frutto appunto di una mistificazione, ovvero di uno stravolgimento delle circostanze e delle responsabilità. L’accusa di non disporre di «verres de couleur […] qui fassent voir la vie en beau», accusa a cui segue un’assurda e violenta punizione, è un gesto di aggressione intriso di gratuità e sadismo. Ma ciò che intende dire il contenuto della parentesi è che quel moto spontaneo e irrefrenabile che spinge il soggetto non solo ad aggredire, ma a costruire una versione falsata della realtà per giustificare il suo comportamento corrisponde a un impeto che il soggetto vive suo malgrado: come una forza estranea. Detto in altri termini, ne Le Mauvais Vitrier Baudelaire riformula e problematizza la questione legata alle coppie antitetiche bene/male e vero/ falso, sottraendole alla concezione per cui, in entrambi i casi, la realizzazione di una via rispetto all’altra è frutto di un libero esercizio della volontà. Proprio all’opposto, questa almeno è la tesi di fondo, alcuni individui compiono il male o dicono il falso, non per loro scelta, ma perché vittime di uno stato psicologico di cui non sono responsabili. La causa ultima è – rileggiamo – un «humeur, hystérique selon les médecins, satanique selon ceux qui pensent un peu mieux que les médecins». Secondo Arnaldo Pizzorusso, che ha dedicato un importante studio al Mauvais Vitrier, questo «humeur» all’origine della perversione descritta non solo qui, ma in diversi altri luoghi dell’opera, è per Baudelaire precisamente l’«umor nero» della medicina medievale, che «svela così l’appartenenza al fondo organico dell’essere» (Pizzorusso 1970). In una lettera a Flaubert del 26 giugno 1860, dunque non lontana dalla data di composizione del poemetto (pubblicato nel 1862), Baudelaire racconta di certi stati nei quali si sente preda di «une force méchante extérieure à lui» (Labarthe 2000: 98). Questo genere di testimonianze dirette, di cui l’epistolario è ricco, e una più generale propensione di Baudelaire a presentarsi agli occhi del pubblico come un dandy eccentrico, capace di commettere le azioni più turpi e ciniche solo per il gusto di ricavare, da tale gratuità, un momentaneo piacere, hanno contribuito al malinteso alquanto frequente per cui un testo quale Le Mauvais Vitrier viene letto alla stregua di una confessione. Eppure, viene da osservare, siamo qui al cuore del problema insito nella «mistificazione». Perché proprio il poemetto che stiamo considerando rappresenta esso stesso un caso palese di mistificazio-

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ne, nella misura in cui, a livello generale, una certa pratica del falso (della finzione) appartiene all’arte e alla poesia. Ma più in particolare, perché tutto ciò che in esso è racchiuso – a livello di stile e contenuti – rivela una volontà dell’autore di creare effetti di illusione e travisamento in chi legge. E questo proprio a partire dal fatto centrale per cui viene offerta come confessione autobiografica una narrazione che, con ogni evidenza, è frutto invece dell’invenzione poetica. Pare quasi superfluo ricordare le parole di Hugo Friedrich in proposito: Les Fleurs du Mal [ma il concetto si può estendere a Le Spleen de Paris] non sono una lirica di confessione, non sono un diario di situazioni private, nonostante tutto quello che vi si può essere inserito della sofferenza di un uomo isolato, infelice, malato […]. Nessun fatto biografico è individuabile nella sua singolare tematica. (Friedrich 1958: 37)

Eppure bisogna annotare che Sartre, nel suo celebre saggio, sembra cadere nel tranello, citando Le Mauvais Vitrier come esempio di situazione in cui Baudelaire è riuscito a ingannare momentaneamente la sua lucidità per cedere a quegli atti istantanei che risultano inutili se non distruttivi, ma che pure evidenziano la gratuità che il poeta percepisce angosciosamente in seno alla propria esistenza. In altri termini, il testo è preso da Sartre alla lettera, come se fosse una testimonianza limpida e diretta, e non rielaborazione letteraria che sfocia nell’esatto opposto: ambiguità e obliquità dei registri (scientifico/privato) e dei generi (poesia lirica/racconto breve). Questo perché evidentemente Sartre ha più interesse, per partito preso, a interrogare l’autore – l’uomo – che non la sua opera. Il tema del falso è del resto una questione fondamentale già a partire da Les Fleurs du Mal. Si ricorderà infatti che nella poesia liminare Au Lecteur è sancito un inatteso patto di fratellanza tra il poeta e il lettore della sua raccolta, uniti – per così dire – all’insegna del falso, giacché entrambi «ipocriti» (ipocrita, dal greco ὑποκρίνομαι,  fingere): «Hypocrite lecteur, mon semblable, – mon frère!». In più di un caso Baudelaire fa, all’interno della sua opera, un elogio palese del falso: della maschera e della menzogna, riconducibili tutti a una pratica dell’artificio la quale è, a sua volta, segno distintivo di quella che egli ritiene essere la “regina” di tutte le facoltà umane: l’immaginazione (Baudelaire 1976: 619-623). Per fare solo qualche esempio, a questo tema è certamente da ricondurre il paragrafo Eloge du maquillage del Peintre de la vie moderne. Così come la figura di Don Giovanni, ingannatore per an-

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tonomasia, che risplende di luce tragica in una poesia memorabile, anche per gli echi danteschi, quale Don Juan aux enfers. Ma più di tutte appare emblematica la poesia intitolata L’Amour du mensonge, di cui riportiamo i versi conclusivi: Mais ne suffit-il pas que tu sois l’apparence, Pour réjouir un cœur qui fuit la vérité? Qu’importe ta bêtise ou ton indifférence? Masque ou décor, salut ! J’adore ta beauté.

Il «cuore che rifugge la verità» è immagine certo significativa, che aiuta a mettere a fuoco – ribadiamo – non tanto il carattere di Baudelaire, né il suo personale rapporto con l’esperienza o con le donne (il che equivale a un piano di lettura assai superficiale), ma la sua poetica. Che in tal senso muove, sul piano storico-letterario, dalle esperienze romantiche, tuttavia per superarle: in ragione del fatto che la poesia deve puntare a esprimere non una presunta autenticità individuale, ma semmai ciò che, a partire dal dato contingente, si rivela universale e atemporale: «l’éternel et l’immuable» (Baudelaire 1976: 695). Per tornare a Le Mauvais Vitrier, l’ipotesi è che «l’esprit de mystification» vada qui inteso non solo come una sorta di crisi transitoria e imprevedibile: un automatismo involontario che spinge il soggetto ad alterare i fatti proponendo una versione falsata della realtà allo scopo di occultare ciò che altrimenti risulterebbe moralmente riprovevole (la malvagità gratuita, il sadismo, la perversione). In tal senso un suggerimento importante ci viene dalla definizione del termine «mystification» che rinveniamo sul dizionario Robert. La parola è attestata dalla metà del Settecento col significato di «tromperie», inganno. Il verbo «mystifier» può essere sinonimo di «mentir». Ma più precisamente significa: «Tromper quelqu’un en abusant de sa crédulité, et pour s’amuser à ses dépens». Quest’ultimo punto (in cui è evidente un tratto sadico: il soggetto trae piacere dall’ingannare l’altro) è ben palese nel racconto del Mauvais Vitrier, quando il protagonista adesca il vetraio e lo costringe a raggiungere il suo appartamento col pretesto di un possibile acquisto («je réfléchissais, non sans quelque gaieté, que, la chambre étant au sixième étage et l’escalier fort étroit, l’homme devait éprouver quelque peine à opérer son ascension»). E del resto l’argomentazione filantropica che sorregge l’accusa riguardo ai vetri trasparenti, è anch’essa falsa e pretestuosa. In una parola, il narratore parla e agisce palesemente in malafede, all’interno di

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una zona perciò assai ambigua.1 Resta infatti il dubbio se egli avrebbe potuto, essendo pienamente cosciente di ciò che stava accadendo, interrompere e modificare il proprio comportamento. Ma se consideriamo, al di là dell’aneddoto, il poemetto nella sua completezza, comprendiamo che il testo è interamente costruito – come si accennava – su di un codice ambiguo, il cui scopo preciso è ingannare in certa misura il lettore. Siamo infatti all’interno dell’ambito della poesia (sebbene la prosa poetica sia manifestamente un genere ibrido); l’autore – Baudelaire – è un poeta; eppure fin dall’inizio il testo simula, e perciò finge, mette in scena, un discorso giornalistico o pseudo-scientifico. Abbiamo cioè un falso, che si autodenuncia nel momento in cui, partendo da una visione lucida e razionale, viene considerato saggio e ragionevole riferirsi all’irrazionalismo, ai Demoni o all’intervento diretto di Satana. Nella seconda parte del poemetto troviamo una confessione che, in realtà, è una falsa confessione: una storia inventata. Nulla sembra vero o credibile ne Le Mauvais Vitrier, men che mai i casi esposti nella prima parte come esempi della tesi da sostenere. E dunque? Siamo portati a ritenere che l’«esprit de mystification», ben lungi dal manifestarsi come crisi occasionale, sia proprio da intendersi come «résultat d’un travail ou d’une combinaison», ovvero l’esatto contrario di ciò che il testo apparentemente afferma. Il che non si spiega se non in ragione del fatto che Baudelaire ha deciso di spostare il problema morale (l’inganno, la cattiva azione) all’interno della sfera estetica. Come per la sua raccolta poetica, il Male è divenuto, da realtà propria e inalienabile della condizione umana, un tema su cui l’artista fonda ed elabora la sua creazione. L’oggetto illusorio, creato mediante l’artificio e ricorrendo perciò al falso, alle astuzie stilistiche, alla scrittura che si aliena e si traveste, obbedisce a un imperativo invisibile, secondo il quale ogni forma di malafede e di menzogna – dunque di peccato – è remissibile in nome di una verità più alta. Che è compito del lettore ricercare al di là delle apparenze o, per dirla con Nietzsche, al di là del bene e del male. Quanto al mistificatore, al malato descritto dal poemetto, che oscilla pericolosamente tra il “vorrei controllarmi” e il “non-posso controllarmi”, egli può riscattarsi proprio divenendo artista. Colui per il quale la menzogna non è più un accidente, ma un metodo. 1. Oltre a ciò, notiamo che il protagonista del racconto imputa implicitamente al vetraio di non essere un mistificatore. Infatti se questi vendesse vetri colorati, offrirebbe ai suoi acquirenti la possibilità di vedere una realtà falsata: resa più bella grazie allo schermo del colore.

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Bibliografia Barthes 1953 = R. Barthes, Le Degré zéro de l’écriture, Paris 1953 Baudelaire 1975 = Ch. Baudelaire, Oeuvres complètes, a cura di C. Pichois, vol. I, Paris 1975 Baudelaire 1976 = Ch. Baudelaire, Oeuvres complètes, a cura di C. Pichois, vol. II, Paris 1976 Friedrich 1958 = H. Friedrich, La lirica moderna, Milano 1958 Labarthe 2000 = P. Labarthe, Petits poèmes en prose de Charles Baudelaire, Paris 2000 Pizzorusso 1971 = A. Pizzorusso, Le Mauvais Vitrier: l’“impulso sconosciuto”, in A. Pizzorusso, Da Montaigne a Baudelaire, Roma 1971 Rivière 1944 = J. Rivière, Études, Paris 1944 Sartre 1947 = J.-P. Sartre, Baudelaire, Paris 1947

Mario Caramitti Il Placido Don: espellere Šolochov dalla storia letteraria?

In un dibattito sull’autorialità, interpolazioni, contaminazioni, modalità, tempi e termini possono essere analizzati e valutati da ogni angolazione, con gli esiti più vari. Ma c’è un luogo d’entropia, di stasi concettuale, che si configura di norma come la più indelebile delle etichette: il nome dell’autore. Una volta che si è fissato, niente, apparentemente, lo potrà più rimuovere. È un meccanismo tipico della tradizione letteraria e culturale: quando una categoria, una definizione, un’ipotesi invalsa e assolutamente non documentata si consolida, diventa parte di un repertorio canonico e da lì influenza in eterno la recezione. Basti pensare a Omero, Platone, Shakespeare: quale terremoto scuoterebbe la storia della cultura tutta se qualcuno iniziasse a chiamare, citare, definire secondo categorie completamente diverse, pur solo nominalmente. Con il Placido Don (Tichij Don), pubblicato tra il 1928 e il 1940, che è valso a Michail Šolochov il premio Nobel, le cose stanno messe in modo molto simile. Un grande libro, geniale, che però ancora non può diventare un classico, soprattutto a livello mondiale. Perché è altamente diseguale, in termini di coerenza d’intreccio e qualità stilistica. Ed è così vistosamente diseguale perché è frutto, probabilmente, di decine di contributi autoriali. È il più grande giallo della letteratura russa del Novecento. Senza alcuna pretesa di esaustività o innovatività, ci si concentrerà sul tentativo di dire con chiarezza quanto evidente, con l’azzardo esplicito, sempre a fini di trasparenza complessiva, di dire anche quando ciò che è evidente non regge integralmente l’onere della prova scientifica. Perché non dire, in ossequio al ragionevole dubbio, comporta l’onere ben maggiore di lasciare cittadinanza a quanto palesemente falso.

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Il taglio sarà trasversale, per isolare le evidenze a diversi livelli: fattuale, filologico, artistico, ideologico, morale, etico, e giuridico. Con un obiettivo aggiuntivo che è anche il presupposto dell’analisi: liberare l’ormai pressoché secolare dibattito dalle strumentalizzazioni extraletterarie che quasi per intero lo costituiscono. 1. Fattuale Un giorno del 1927 un giovanotto di ventitré anni del Sud della Russia, che non ha finito le scuole superiori, si presenta all’editore Moskovskij rabočij con un manoscritto di mille pagine, che avrebbe scritto in poco più di un anno. Desta in eguale misura entusiasmo e perplessità, e conseguentemente la pubblicazione subito programmata altrettanto prontamente si arresta. Allora Šolochov si rivolge al noto scrittore Aleksandr Serafimovič, già suo protettore, che inizia a pubblicare il Placido Don sulla rivista «Oktjabr’». Segue comunque l’edizione in volume, e un immediato grande successo. Al successo fa subito seguito una diffusa sensazione di incongruità e generale imbarazzo. Šolochov inizia a girare per gli ambienti letterari di Mosca, parla in pubblico, e dimostra un’inadeguatezza culturale sconcertante. Iniziano a diffondersi voci via via più insistenti: molti hanno riconosciuto nel libro l’opera, a loro nota, dello scrittore cosacco Fёdor Krjukov, morto nel 1920 a Rostov, per tifo o fucilato dai rossi. Le voci hanno un fondamento ben concreto: molti, nel villaggio cosacco di Vёšenskaja, dove risiede Šolochov e dove è ambientato il romanzo, possono testimoniare che il libro di uno scrittore bianco, morto nella guerra civile, è stato ritrovato e messo a disposizione di Šolochov, forse dal cognato. Le voci sono sempre più circostanziate e inclementi. E qui ci dovremmo fermare. Giudicare obiettivamente in questioni di autorialità contestata si può solo nella dimensione sincronica, quando la prospettiva del tempo, dei falsi assiomi, degli stereotipi storico-letterari non ha alterato irrimediabilmente il quadro. Invece no. Una commissione letteraria di partito deve essere convocata nel 1929, la commissione sancisce la paternità di Šolochov, e da allora la comunità scientifica internazionale deve accettare il giudizio di una commissione nominata da Stalin. Il quale avrebbe dato una sua personale benedizione al libro. Si citano finanche le sue parole, un vero: «Questo libro s’ha da

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fare».1 In ossequio al mito dell’intuito letterario di Stalin, al di sopra dei dogmi del realismo socialista, perfuso di spirito imperiale. Molto più faticosamente Šolochov porta a termine l’opera: tre anni per il terzo libro, sei anni per il quarto. Nel 1940 la pubblicazione è ultimata. Šolochov diventa il più grande scrittore sovietico vivente. E vive a lungo, beandosi del suo successo, e scrivendo pochissimo. A dire la verità, salvo Terre vergini dissodate (Podnjataja celina), un romanzo infinitamente inferiore, in parte coevo (1932-1959) agli ultimi due libri del Placido Don, non scrive praticamente più niente fino alla morte. Nel 1974 esce anonimo a Parigi un libro di Irina MedvedevaTomaševskaja (D. 1974), moglie del celebre russista Jurij Tomaševskij, che ripropone, con grande clamore in Occidente – la prefazione è di Solženicyn – il problema dell’autorialità, escludendo Šolochov e proponendo l’attribuzione a Krjukov. Da quel momento il dibattito esplode, con intensità di toni e quantità di contributi tale da farne un testo sul testo, un dedalo di passione, mistificazione, condivisione che arriva alla stilizzazione,2 dotato di dignità letteraria propria. Grande scalpore ha fatto all’inizio degli anni Ottanta il tentativo dello slavista norvegese Geir Kjetsaa e di altri tre russisti scandinavi (Kjetsaa et al. 1984) – in Occidente! qui sta il bello – di dimostrare con un’analisi computerizzata la paternità di Šolochov. Si tratta in realtà di un’analisi rozza e rudimentale, condotta con metodologia informatica oggi risibile, e soprattutto basata su dati di input e parametri palesemente squilibrati a favore di Šolochov. Gli esiti della ricerca sono stati totalmente ribaltati da studiosi come Aksёnova e Vertel (Aksёnova, Vertel’ 1991), e Aleksej Nekljudov (Nekljudov 2010). L’ultimo colpo di scena avviene alla fine degli anni Novanta: i manoscritti dei primi due libri del Placido Don, quelli al centro dei massimi dubbi, vengono prima miracolosamente scoperti, poi acquisiti dal giornalista Lev Kolodnyj (Kolodnyj 1995), poi dall’Istituto di Letteratura Mondiale, e infine nel 2011 pubblicati integralmente in trascrizione (Šolochov 2011). È la prova finale, da parte del partito di Šolochov, della sua autorialità. Oltre 1. Tra le versioni più o meno leggendarie, molti (Kuznecov 2001) riferiscono di un colloquio tra Stalin e Gor’kij concluso con le parole del dittatore: «Il terzo libro del Placido Don sarà pubblicato» (Tret’ju knigu Tichogo Dona pečatat’ budem). 2. Tra i casi più clamorosi di contagio creativo il recente “giallo filologico” di Dmitrij Bykov (Bykov 2012).

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alle terrificanti carenze ortografiche dell’estensore, questi manoscritti in realtà testimoniano soltanto che Šolochov ha copiato di suo pugno il testo,3 verosimilmente per presentarlo alla commissione del 1929, apportandovi delle modifiche molto marginali. 2. Filologico Nell’impossibilità di dare conto con una qualche completezza di un numero così considerevole di analisi testuali, si andrà dritti alla somma, a una ricognizione di raccordo delle argomentazioni, delle deduzioni e delle testimonianze, che conduce a un esito in realtà trasparente e di assoluta evidenza. Diversamente applicata, e anche diversamente governata in base al grado di imparzialità scientifica, l’indagine filologica conduce comunque con estrema sicurezza al rigetto della paternità di Šolochov. Tra i tantissimi contributi che propendono per questa lettura, ricordiamo almeno quelli di Roj Medvedev (Medvedev 1977), già in epoca sovietica, dello storico Andrej Venkov (Venkov 2000), che ha fornito una mole impressionante di dati fattuali, dei coniugi Makarov (Makarov, Makarova 2000) e, tra i più originali e attenti alle problematiche stilistiche, quelli del russista israeliano Zeev Bar-Sella (Bar-Sella 1996) e del filologo Andrej Černov (Černov 2010). Le argomentazioni che smentiscono l’autorialità di Šolochov sono in alcuni casi extratestuali, ma rilevantissime: testimonianze recentemente acquisite di redattori della casa editrice Moskovskij rabočij,4 presso la quale nessuno considerava Šolochov autore del libro; la sua giovane età, del tutto inadeguata alla descrizione evidentemente di prima mano degli eventi bellici della Prima guerra mondiale e della guerra civile, a cui Šolochov non ha mai partecipato; il suo livello culturale del tutto incommensurabile con quello, finissimo, dell’autore. Ancora più fondanti, però, sono le argomentazioni di natura strettamente testuale: un numero impressionante di palesi errori di copiatura, non spiegabili altrimenti se non pensando che Šolochov non capiva quello che legge3. Per la verità almeno un terzo dei manoscritti è costituito da belle copie trascritte dalla moglie, dalla cognata e dal cognato di Šolochov: evidente l’ironia che può aver suscitato questo insolito laboratorio letterario familiare. 4. La versione più estesa del racconto del redattore Aleksandr Il’skij è riportata dai coniugi Makarov (Makarov, Makarova 2000).

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va. In molti casi questi errori evidenziano la trascrizione da un testo scritto con ortografia prerivoluzionaria, e sono dovuti alla cattiva interpretazione di una lettera, la jat’, non più in uso. Incongruità del profilo psicologico dei personaggi, inspiegabilmente modificato e trasformato da un luogo all’altro del libro. Linee d’intreccio che si perdono, si insabbiano, e poi improvvisamente riemergono. Clamorosi errori di lettura o di collocazione di toponimi e riferimenti storici, che dimostrano che Šolochov non aveva nessun chiaro orientamento nel contesto storico-culturale di cui scriveva. Dall’altra parte gli argomenti dei difensori di Šolochov si possono riassumere essenzialmente nell’autobiografismo e nel riconoscimento dei prototipi dei personaggi, e si fondano entrambi sull’accettazione acritica delle testimonianze dello stesso Šolochov (Ermolaev 1982; Suchich 1999; Kuznecov 2005). Dalla prova principe, il manoscritto, sempre più spesso esibito negli ultimi anni come evidenza ultima e incontrovertibile, si evince soltanto che Šolochov è intervenuto personalmente nella collazione e nell’integrazione di versioni differenti, mentre risultano rafforzati dall’evidenza documentale i dubbi sui suoi ingiustificabili refusi. Dimostrata l’impossibilità dell’attribuzione a Šolochov, moltissimi studiosi si concentrano sul ben più difficile compito dell’attribuzione a Fёdor Krjukov, da molti data per certa o altamente probabile, ma con una significativa dose di arbitrio e forzatura (Mezencev 1998; Makarov, Makarova 2001). In effetti il problema filologico immediatamente implicato dalla sottrazione della paternità a Šolochov è di complessità sconcertante. Il romanzo va inteso come labirinto e/o somma di interpolazioni. Zeev Bar-Sella è convinto non ci sia un vero antigrafo, ma che Šolochov avesse a disposizione diverse varianti del manoscritto originario, che compilava e integrava a piacimento. L’eventuale ricostruzione della fonte primaria da cui ha preso le mosse Šolochov va da subito intesa come una delle sfide più improbe a cui possa sottoporsi un filologo moderno, estendibile, verosimilmente, a generazioni intere di filologi. Ma già oggi, a tutti gli effetti, staccare i primi due libri e pubblicarli autonomamente, scegliendo il miglior testimone tra la miriade di redazioni, ulteriormente poi modificate dalla censura sovietica, è un’ipotesi del tutto plausibile e praticabile. 3. Artistico I primi due libri del Placido Don sono un prodigio di densità estetica e intensità emotiva che strega il lettore. Calamita l’attenzione. Avvince con

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la storia d’amore travolgente, quasi animale e incanta con la melodia di fondo di una prosa altamente ritmata. L’impianto metaforico è travalicante, onnipresente, continuamente interconnesso con la natura, l’altro grande protagonista del romanzo: nelle descrizioni la natura selvaggia del Don si anima, prende vita, diventa un fantasmagorico teatro antropomorfo, e più spesso zoomorfo. La brutalità, la spietatezza, una qualche primigenia naturalezza e ineluttabilità della violenza sono il sale essenziale che rende epica in sé la narrazione degli eventi della guerra civile. Tutto questo, ripeto, per circa metà del testo. Nell’altra, fondamentalmente il terzo e il quarto libro, tutto diventa piatto, ordinario, banale, scontato, ripetitivo. La linea della guerra, ormai prevalente, è nella maggioranza dei casi puro giornalismo, affrettate corrispondenze dal fronte, elenchi di spostamenti di truppe. Per uno studioso di letteratura il vero discrimine, il fondamentale parametro di giudizio non può che essere la qualità stilistica, l’intensità, l’originalità, la pregnanza, insomma il “peso” della parola. Nel caso del Placido Don la valutazione è immediata, sin scontata: non si tratta di un poeta che sta schiacciando la gola alla propria canzone, siamo davanti non a un libro, ma quantomeno a due, radicalmente diversi e alternativi. Il grande difetto della stragrande maggioranza dei contributi al dibattito sull’autorialità è che, mancando prove materiali, si prova sempre a cercare prove in subordine, di tipo testuale, e quindi ci si concentra su singoli luoghi, passi, linee d’intreccio, senza mai analizzare gli strati contrapposti del libro dal punto di vista esclusivamente stilistico e narratologico. Ossessivamente si cerca di dimostrare chi sia il vero autore, dimenticando che l’unica evidenza che abbiamo è che i libri sono non meno di due. 4. Ideologico Che senso aveva per uno scrittore proletario, qual è Šolochov dal primo momento, senza ripensamenti, senza tormenti interiori, immaginarsi un testo che simpatizza apertamente per i bianchi? Nel paradosso ideologico del Placido Don dobbiamo immaginare davvero un libro bianco preso prigioniero dai rossi, che una mente clemente e oculata, che molti identificano in Serafimovič, ha deciso di non annientare, ma di salvare e far passare dalla propria parte.

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Da qui il paradosso di un libro ideologicamente del tutto eterodosso che, riempito di citazioni di Lenin e Stalin, di brani apologetici, di personaggi accessori di sana fede bolscevica viene a incarnare quello spirito di tolstoianesimo novecentesco, vera aspirazione nascosta del realismo socialista, che mai nessuno scrittore sovietico ha saputo neanche lontanamente imitare. La gestione ideologica del libro è un filo conduttore ininterrotto della sua vita testuale – con interpolazioni e integrazioni di ogni sorta – e della sua vita extratestuale, perché è evidente che il premio Nobel del 1965 e la campagna antišocholoviana avviata da Solženicyn nel 1974, subito dopo l’emigrazione, segnano due momenti ben diversi nell’andamento della guerra fredda, che dobbiamo cominciare a intendere come veramente guerreggiata, e che si è conclusa con la capitolazione senza condizioni dell’Unione Sovietica. Ecco allora che negli anni della perestrojka si apre in Russia, per la prima e unica volta, un reale dibattito, e le argomentazioni a favore di un antigrafo cominciano a pesare in maniera preponderante.5 Ma poi tutto è di nuovo, radicalmente, cambiato. Con l’avvento di Putin, Šolochov torna a essere il classico moderno unico e imprescindibile. Escono fuori i manoscritti. Putin, si dice, ha cacciato quasi di tasca propria i 50.000 dollari per comprarli. Šolochov ritorna a essere divinizzato e assolutamente intoccabile. Un grande boss dell’ufficialità letteraria, massima autorialità šocholoviana, Feliks Kuznecov (Kuznecov 2005), torna a riempire di slogan quella che dovrebbe essere analisi critica, e usa termini come «sacrilegio» verso chi nega l’autorialità, e definisce il dibattito intorno alla paternità di Šolochov «la falsificazione del secolo». Non c’è da stupirsi: un libro pieno di spirito selvaggiamente russo e patriottico che è nello stesso tempo simbolo e incarnazione letteraria dell’Unione Sovietica. Cosa mai potrebbe meglio servire alla politica culturale di Putin, fondata integralmente sul sincretismo tra il patriottismo sciovinista di matrice prerivoluzionaria e l’orgoglio di appartenere ancora alla superpotenza sovietica? Politica portata avanti all’inizio con oculatezza, insidiosa, strisciante, con mezzi mediatici molto moderni, ma che negli ultimi anni, una volta raggiunto l’assoluto consenso acritico, fondato il nuovo partito unico, è 5. Ci si era persino rivolti al grande pubblico con il documentario in dodici puntate di Aleksandr Zajac e Viktor Pravdjuk, La verità vale di più (Istina dorože), trasmesso dalla TV pubblica tra il 1990 e il 1992.

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ritornata a usare retorica, slogan, stilemi sempre più crudi, brutali, integralmente neosovietici. Šolochov è sacro e basta, intoccabile e basta. Un esempio solo, in sé aberrante, delirante, e soprattutto tragicomico, ma altamente rappresentativo. Nel 2011 uno dei popolarizzatori di Šolochov, lo scrittore Aleksandr Stručkov, cura, per conto del Meždunarodnyj Šolochovskij Komitet (un Comitato Internazionale Sholochoviano, voluto e sponsorizzato dal “cosacco” Viktor Černomyrdin e dai suoi eredi), una sontuosa edizione fuori commercio del romanzo basata sul testo “non corrotto dai redattori” dei manoscritti, e decide di intitolarla Il romanzo Tichij Don è la Sindone della lingua russa (Roman Tichij Don – plaščanica russkogo jazyka). Il più clamoroso, scientificamente dimostrato dei falsi, nel quale il paganesimo cattolico continua a imporre la fede, è preso come modello della sacrale autenticità di Šolochov. 5. Morale Chi era Šolochov? Per noi slavisti occidentali è sempre stato un personaggio ripugnante, quello che, divenuto un boss dell’apparato del Partito, membro del Comitato centrale, partecipa con accanimento al linciaggio mediatico di Sinjavskij e Daniel’ nel 1965 e sottoscrive la lettera degli scrittori contro Sacharov e Solženicyn nel 1973. Eppure la figura stessa di Šolochov merita di essere liberata da strati e strati di critiche esagerate fino alla calunnia, di agiografia in salsa marxista o in salsa oscurantista, dai cumuli di menzogne di cui inzeppava tutta la sua memorialistica. Perché in gioco c’è una seconda partita. Chi era veramente Šolochov: un fantoccio, un guscio vuoto da riempire di gloria imperitura, un project, come si direbbe oggi, dietro il quale si nascondono decine di scrittori e redattori sovietici (Bar-Sella 2005)? Oppure, comunque, un vero scrittore, che caparbiamente convive e lotta con l’onere del plagio, un personaggio in qualche modo tragico, quasi un Enrico IV di Pirandello, che fa proprio, in ogni modo, quello che ha rubato, lo integra senza distruggerlo troppo, ed è l’autore della maggioranza delle porzioni di testo non ascrivibili all’anonimo? Tra un responso e l’altro, la differenza è grande. E al giudizio morale non sfuggono, naturalmente, neanche gli interpreti. Il Placido Don, per via del suo mistero, ha un magnetismo incontenibile, una capacità devastante di contagiare chiunque ne scriva. E nessuno, vi assicuro, nessuno, io per primo, ne scrive in modo imparziale e obiettivo. Una vera,

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questa volta sì, “sindrome del Placido Don”. E peggio ancora: nessuno scrive “del” Placido Don. Tutti gli studiosi, tutti gli interpreti, scrivono “dentro” Il Placido Don, approfittano dell’instabilità del terreno testuale e si sentono autorizzati, quasi in dovere di inserirsi a loro volta nel “macrotesto del Placido Don”, che è una specie di corona – sterminata ormai – di ulteriori apocrifi, che si innestano sul primo strato apocrifo che circonda l’antigrafo. 6. Etico Tutto quanto detto finora si inquadra non soltanto in un ambito storicoletterario e di critica del testo. Chi scrive del Placido Don si sente sempre investito di un dovere superiore, una vocazione trascinante, che sta a metà tra quella del prete che battezza e del lettore di gialli che vuole scoprire l’assassino. Ma fuori, e anche dentro gli scherzi, un vero dovere etico si pone: liberare l’antigrafo, disimprigionare l’idea originaria dalle infarraginature, dalle impalcature ideologiche che lo soffocano, da tutto quanto ha vistosamente limitato la freschezza e l’intensità originaria. Ridare vita all’Ur-Don. Molti degli interpreti si sono assunti un altro, più impegnativo, e forse più nobile dovere etico: restituire a Fёdor Krjukov l’autorialità che gli sarebbe stata sottratta. Assieme alla vita. Io non ho, in merito all’opera di Krjukov, le competenze necessarie per formulare un giudizio. Come ho detto, non tutte le argomentazioni a favore dell’attribuzione a Krjukov mi sono sembrate convincenti. Ma se qualcuno riuscisse a renderla considerevolmente attendibile, avrebbe compiuto uno straordinario gesto, tanto etico quanto filologico. 7. Giuridico Il piano giuridico è, naturalmente, quanto di più lontano dalle mie competenze. E nulla c’è di più inadatto di un tribunale a giudicare obiettivamente in un caso di plagio. Perché la creazione letteraria si fonda su leggi proprie, del tutto alternative a quelle dei codici. Ma facciamo comunque qualche ipotesi, pure speculazioni, per inquadrare, almeno in qualche misura, il problema da un punto di vista che non è certo inattuale, qualora si volesse intervenire sul più sacro, “cambiare il nome”.

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L’ipotesi non è solo nella patetica tirata racchiusa tra queste quattro pagine. Lo slavista tedesco Wolfgang Kasack, per esempio, già nel 1986 ha inserito il libro in un suo famoso repertorio della letteratura russa del Novecento in questi termini: «Dal 1928 al 1940 si è pubblicato sotto il nome di Šolochov il romanzo in quattro libri Il placido Don». E nell’utilissimo sito dei coniugi Makarov,6 che riassume le loro decennali ricerche e lo stato della questione, il testo del romanzo appare senza nome dell’autore, affiancato alle opere di Šolochov e a quelle di Krjukov. Kasack, certamente, ci riporta all’inizio della perestrojka, quando sembrava che in Russia tutto potesse cambiare. Anche i nomi, quindi. Poi si è scoperto che tutto cambiava, alla scuola del Gattopardo, perché nulla cambiasse. Ma altrove, nell’Europa dell’Est, gli atti giuridici delle dittature sono stati radicalmente sovvertiti, le proprietà immobiliari, per esempio, sono state restituite ai loro proprietari d’anteguerra. E nel clima di neoguerra fredda che, ahimè, va instaurandosi a vista d’occhio, perché non ipotizzare una causa degli eredi di Krjukov presso un arbitrato internazionale mirata a rivendicare i diritti d’autore? O perché dovrebbe temere le azioni legali degli eredi di Šolochov un editore europeo che pubblicasse il nucleo originario, l’Ur-Don, espunto di tutte le interpolazioni, in modo anonimo, e senza pagare i diritti d’autore? Un primo passo è quello che può fare ciascuno studioso, e che faccio io oggi: citare sempre il libro come anonimo, e introdurre sistematicamente il concetto dell’esistenza totalmente indipendente e svincolata dell’antigrafo, cui si potrebbe assegnare il titolo “provvisorio” di Ur-Don. Bibliografia Aksёnova, Vertel’ 1991 = L.Z. Aksёnova, E.V. Vertel’, O skandinavskoj versii avtorstva Tichogo Dona, in «Voprosy literatury», febbraio 1991, pp. 68-81 Bar-Sella 1996 = Z. Bar-Sella (V. Nazarov), Tichij Don protiv Šolochova, in Zagadki i tajny Tichogo Dona. Itogi nezavisimych issledovanij Tichogo Dona. 1974-1994, a cura di G.M. Porfir’ev, Samara 1996, pp. 119-182 Bar-Sella 1998 = Z. Bar-Sella (V. Nazarov), Zapiski pokojnika (Tichij Don: tekstologija chronologii), 6. Tichij Don: Nerešënnaja zagadka russkoj literatury XX veka, .

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Bar-Sella 2005 = Z. Bar-Sella (V. Nazarov), Literaturnyj Kotlovan. Proekt “Pisatel Šolochov”, Moskva 2005 Bykov 2012 = D.L. Bykov, Iks, Moskva 2012 Černov 2010 = A.Ju. Černov, Strjamja Tichogo Dona. K voprosu o kraže vorovannogo vozducha. Samorazoblačenie Šolochova. Zametki tekstologa, in Zagadki i tajny Tichogo Dona. Dvenadcat’ let poiskov i nachodov, a cura di A.G. Makarov, S.E. Makarova, Moskva 2010, pp. 78-108 D. 1974 = D. (I.N. Medvedeva-Tomaševskaja), Stremja Tichogo Dona, Paris 1974 Ermolaev 1982 = H. Ermolaev, Mikhail Sholokhov and his art, Princeton 1982 Kasack 1986 = W. Kasack, Lexikon der russischen Literatur ab 1917, München 1986 Kjetsaa et al. 1984 = G. Kjetsaa, S. Gustavsson, B. Beckman, S. Gil, The Authorship of “The Quiet Don”, Oslo-Atlantic Highlands (NJ) 1984 Kolodnyj 1995 = L.E. Kolodnyj, Kto napisal Tichij Don. Chronika odnogo poiska, Moskva 1995 Kuznecov 2001 = F.F. Kuznecov, Kniga na stoletie operedivšaja vremja, in «Zavtra», 20 febbraio 2001 Kuznecov 2005 = F.F. Kuznecov, Tichij Don: sud’ba i pravda velikogo romana, Moskva 2005 Makarov, Makarova 2000 = A.G. Makarov, S.E. Makarova, Vokrug Tichogo Dona: ot mifotvorčestva k poisku istiny, Moskva 2000 Makarov, Makarova 2001 =A.G. Makarov, S.E. Makarova, Cvetok-Tatarnik. V poiskach avtora Tichogo Dona: ot Michaila Šolokova k Fёdoru Krjukovu, Moskva 2001 Makarov, Makarova 2010 =Zagadki i tajny Tichogo Dona. Dvenadcat’ let poiskov i nachodov, a cura di A.G. Makarov e S.E. Makarova, Moskva 2010 Medvedev 1977 = R. Medvedev, Problems in the Literary Biography of Mikhail Sholokhov, Cambridge-New York 1977 Mezencev 1998 = M.T. Mezencev, Sud’ba romanov, Samara 1998 Nekljudov 2010 = A.V. Nekljudov, O knige G. Ch’ietso i dr. “Kto napisal Tichij Don?”, in Zagadki i tajny Tichogo Dona. Dvenadcat’ let poiskov i nachodov, a cura di A.G. Makarov e S.E. Makarova, Moskva 2010, pp. 131-141 Porfir’ev 1996 = Zagadki i tajny Tichogo Dona. Itogi nezavisimych issledovanij Tichogo Dona. 1974-1994, a cura di G.M. Porfir’ev, Samara 1996 Šolochov 2011 = M.A. Šolochov, Tichij Don. Dinamičeskaja transkripcija rukopisi, a cura di G.N. Voroncova et al., Moskva 2011 Suchich 1999 = S.I. Suchich, Spory ob avtorstve Tichogo Dona. Iz lekcij po speckursu “Problemy tvorčestva Šolochova”, Nižnij Novgorod 1999 Venkov 2000 = A.V. Venkov, Tichij Don: istočnikovaja baza i problema avtorstva, Rostov-na-Donu 2000

Antonio Carile «Famosa scripta». L’uso politico della diffamazione nelle biografie imperiali a Costantinopoli Nuova Roma

Nel 1886, in piena età imperialistica, Theodor Mommsen affermava: «la Roma un tempo sicura in se stessa era divenuta una vecchia signora, che trepidava per la sicurezza della staccionata del suo giardino» (Mommsen 1886: 601). Negava dunque la qualità di impero alla vasilìa romano-orientale, che in effetti non rientrava nella tipologia espansionistica del Reich germanico, ridotta com’era a un frammento dell’impero romano dopo la slavizzazione della Penisola balcanica e l’arabizzazione dell’Egitto e del Crescente Fertile fra VI e VII secolo, dopo la perdita dell’Africa settentrionale nel VII secolo, e dopo il progressivo assorbimento della Anatolia a opera dei turchi, selgiucchidi e poi ottomani, dal 1071 al 1453. Si direbbe anzi che l’ironica immagine venisse suggerita al Mommsen del Reich guglielmino dalla mitica frontiera francese che i dirigenti tedeschi pensarono di aggirare aggredendo il neutrale Belgio: avrebbero così conquistato in breve la Francia e messo le mani sul Congo, la ricca colonia mineraria del re del Belgio. Le cose andarono altrimenti, come Luciano Canfora ha mostrato nel suo suggestivo e magistrale 1914 (Canfora 2014). Ma se la qualità imperiale della vasilìa era allora in discussione – mentre ora dopo Münkler (Münkler 2005) e dopo la monumentale silloge da lui ispirata Imperien und Reiche (Gehler, Rollinger 2014) sembra fuori discussione, almeno per un paio di parametri della classificazione Münkler –, certa era la qualità di monarchia assoluta con pretesa di investitura divina al fine della cristianizzazione e della pace universale.1 Il controllo esercitato 1. «La pace, essendo il prodotto necessario della monarchia universale e conseguentemente del monoteismo, entra nell’essenza stessa dell’Impero Romano. Il monoteismo e l’universalismo del Cristianesimo d’altra parte postulano anch’essi la pace come elemento

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sugli intellettuali, che vivevano delle provvidenze imperiali, aristocratiche o ecclesiastiche, era assoluto: bastava una critica verbale, un mugugno riportato a chi di dovere per provocare arresti, fustigazioni ed esili. Se una critica viene rivolta a un imperatore significa che la sua dinastia è estinta e la critica compiace il regnante di turno. A imperatori e aristocratici importanti si rivolgono encomi solenni, in prosa e in versi, compensati un nomisma a riga.2 I più brillanti eseguono su commissione lògoi basilikoì in occasioni speciali: in una lingua il più lontano possibile da quella parlata, decifrabile solo da persone di alta cultura, svolgono in modo paludato i temi politici del momento. Ci si arrischia però anche a comporre libelli infamanti ai danni di concorrenti a cariche e titoli remunerativi e prestigiosi, e persino contro la persona imperiale: si tratta di testi che circolano entro l’ambiente vicino al governo, composti da senatori, eunuchi di palazzo, generali, prelati. Qualche prelato particolarmente aggressivo, come Giovanni Crisostomo, arcivescovo di Costantinopoli, oserà attaccare in chiesa, durante le sue prediche, la stessa imperatrice Aelia Eudoxia Augusta († 404), conferendole il titolo di nuova Jezebel, di Erodiade e di belva, insulti che finirà per scontare con l’esilio in un paesino armeno (Carile 2008). essenziale del Cristianesimo stesso» (Farina s.d.: 129). Al contrario, Troianos vede un contrasto ideale fra la prassi bellica giustinianea per l’affermazione dell’imperium romanum e la pace (Troianos s.d.: 162) mentre durante l’espansione imperialista di età macedonica viene introdotto il concetto di “guerra giusta” (cfr. Epanagogè, 2.2 in Zepos 1931: 240). Capizzi ha ben illustrato come la guerra sia per Giustiniano e per l’ideologia imperiale il mezzo per ristabilire la pace turbata nella sede territoriale della Pax Romana, così da salvare l’impero da devastazioni e frantumazioni «che ne minacciavano le premesse vitali» (Capizzi s.d.: 152). Si vedano le illuminate pagine di Assmann (Assmann 2002: 73-107); in generale l’intera opera illustra i fondamenti ideologico-religiosi della pacificazione universale. L’editing italiano è piuttosto mendoso. La pacificazione universale è un tema di ideologia politica che risale al Medio Regno egiziano. Il faraone è shtp – t3wj, shtp M3M3 t cioè nel primo titolo “pacificatore” nel senso territoriale del termine, dopo la soppressione del nemico, mentre nel secondo titolo è facitore della pace con l’imposizione dell’ordine Ma’at; egli gode anche del terzo titolo t3wj.r st equivalente a cosmosystatos, cfr. Carile 2002: 87. Cfr. anche Grimal 1986; Heim 1991: 281; Calandra 2014. 2. Cito ad esempio il panegirico per Giustino II di Flavio Crescono Corippo, di cui sono disponibili due edizioni critiche (Corippo 1976 e 1981). Sulla famiglia africana dei Cresconii cfr. Durliat 1981: 71-72 (castrum di Ain Ksar fra cui figura un Crescon(ius) e il Geminius Cresconius che nel V secolo figura in quattro documenti di acquisto nelle Tablettes Albertini, cfr. Ruggini 1995: 437, nota 582). Ma nella stessa categoria rientrano le storie “eroiche” dell’XI-XII secolo (cfr. Neville 2012).

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Il bell’eunuco arabo Samonàs – a quanto si diceva troppo intimo di Leone VI – che aveva fatto fortuna smascherando una congiura ai danni dell’imperatore nell’896, quando vuole vendicarsi dei Ducas fa pervenire al generale in odor di ribellione una lettera menzognera, in cui lo mette in guardia dalla intenzione di Leone VI di farlo accecare (Carile 1998: 130).3 In seguito, nel 911, Leone VI deporrà Samonàs dalle sue cariche a seguito di un libello che questi aveva scritto al fine di danneggiare un altro eunuco, Costantino, favorito dell’imperatore. Michele Psello, il poligrafo dell’XI secolo (nasce nel 1018, muore tra il 1078 e il 1096) che tanto ottenne dai favori di Costantino IX Monomaco (1042-1055) – «senza alcun risparmio mi rese onore, e mi esaltò ponendomi ben al di sopra di tutti gli altri» (Psello 1984: VI, 24) – elabora, dopo la fine della dinastia macedonica e quando regnavano i Ducas (1059-1078), la teoria che l’encomio ha finalità letterarie diverse rispetto alla storia: è chiaro che in questa occasione io non sto componendo un elogio e mi sono invece impegnato a narrare con obiettività storica le vite degli imperatori, come potrei trasgredire ai compiti precipui della storia e obbedire a quelli dell’encomio, quasi dimenticassi qual è il genere in cui mi cimento o tradissi la mia disciplina? […] Prima di pormi a quest’opera io composi in suo onore molte e lusinghiere allocuzioni e il pubblico era stupito di quelle lodi iperboliche, eppure il mio elogio non era in malafede; ma ciò dagli altri non era compreso. (Psello 1984: VI, 25) 3. Gregorio, agiografo di san Basilio, segue i criteri e le finalità propri di Samonàs nelle contese del ceto dirigente: Gregorio infatti nel 912, un anno dopo la fine del potere di fatto di Samonàs, vivente il santo Basilio, parteggia per Costantino Ducas, doméstikos ton scholòn (carica di XVI° rango, II° nell’ordine di precedenza degli strateghi), caduto nel 912 nel corso di una congiura militare contro il minore Costantino VII Porfirogenito. Figlio del generale fortunato e perciò sospetto Andronico Ducas, Costantino Ducas si era conciliato l’odio dell’eunuco, poiché aveva catturato Samonàs, in fuga dopo l’attentato subito da Leone VI nel 902, e l’aveva riconsegnato a Leone VI. L’imperatore mantenne il suo favore all’eunuco e tentò di indurre Costantino a giurare in Senato che Samonàs non era fuggito, ma si era recato a venerare la croce di Sirichàs: Costantino invece lo denunciò al Senato come fuggitivo a Melitene, sua patria. Dopo questo episodio Leone VI dimise con risentimento Costantino Ducas e nominò invece Samonàs patrizio e parakoimòmenos, cariche da cui verrà deposto nel 911, a seguito di un libello composto al fine di danneggiare un altro eunuco favorito dell’imperatore. Samonàs, con una lettera menzognera in cui lo mette in guardia dalla intenzione di Leone VI di farlo accecare, provoca la fuga di Andronico Ducas in campo arabo nel 906.

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Di fatto però le vite degli imperatori nella sua Chronographia si diffondono con particolari piccanti o ridicoli sui costumi privati degli imperatori e delle imperatrici anteriori ai Ducas e forniscono scarse notizie di interesse politico. Descritto da Attaliata suo contemporaneo come «il monaco Michele hypértimos a capo degli affari, originario di Nicomedia […] uomo sgradevole e arrogante e per niente grato delle onorevoli beneficenze dell’imperatore» (Ataliates 2002: 212) Psello ci fornisce il modello del sistema diffamatorio. Se si eccettuano le autorappresentazioni iperboliche della propria intelligenza, arte retorica, filosofia, e dichiarazione di partecipazione agli affari di Stato, Michele Psello si compiace piuttosto di diffamare, rappresentando i suoi imperatori come crapuloni, incontinenti, succubi delle adulazioni più smaccate, sperperatori di denaro pubblico, maniaci delle costruzioni più costose e delle manomissioni paesaggistiche alla ricerca del bello, superstiziosi e però anche molto devoti: una volta ch’ebbe il potere – dice del suo protettore Costantino IX Monomaco – […] non osservò nell’usarlo né continenza né cautela […] si dedicò immediatamente a versar fuori dalle casse il denaro, tanto da non lasciare nel loro fondo neanche una goccia […] a un sol squillo di tromba, tutti egli promosse alle cariche più eccelse. Cosicché in quel primo periodo continuava ad ammannire cerimonie e feste, e la Città intera era in visibilio […] per poco non aprì il senato al popolo ambulante e merciaiuolo. (Psello 1984: VI, 29)

Ritratti sconcertanti da parte di un arrivista che era entrato nella famiglia dei Ducas su impulso di Costantino IX Monomaco, di cui era a suo dire un protégé molto ammirato: perché era stato introdotto in quel clan aristocratico? Che mansioni doveva svolgere oltre a divenire il maestro del futuro Michele VII Ducas? Con particolare gusto si dilunga sul ménage a trois tra Costantino IX, sua moglie, l’imperatrice Zoe, erede della dinastia macedonica, e la sua amante del cuore Maria Sclerena (Psello 1984: VI, 58-59), fornendo dettagli sulla sistemazione pratica del trio: Nell’assegnazione degli alloggi l’imperatore ebbe, dei tre, quello centrale, mentre le due dame si installarono ciascuna in uno dei corpi laterali […] e l’imperatrice [Zoe] non andava a far visita all’imperatore senza prima essersi sincerata ch’egli fosse solo e che l’amante non si trovasse nelle vicinanze. (Psello 1984: VI, 63)

Psello esprime la sua meraviglia:

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Io non so se mai altra dinastia fu diletta a Dio come questa delle due imperatrici [Zoe e la sorella Teodora] e stupisco a pensare come, pur essendo il lignaggio loro radicato e sviluppato nel delitto e nel sangue, pure la pianta che ne germinò abbia avuto una tal fioritura. (Psello 1984: VI, 1)

Egli si riferisce all’assassinio di Romano III Argiro, primo marito di Zoe, operato su istigazione di lei, che la sera stessa della sua morte sposò il secondo marito Michele IV, ma soprattutto si riferisce al fondatore della dinastia Basilio, illustratosi con l’assassinio del cesare Bardas, zio di Michele III, e poi dello stesso Michele III. Di Zoe e della sorella dichiara la mania per il denaro: «[Zoe] non amava né possedere né accumulare, ma far scorrere [il denaro] in altrui mani» (Psello 1984: VI, 62), Teodora invece «passava giornate a contare la sua sterminata raccolta di monete d’oro per la quale aveva fatto forgiare apposite casse di bronzo» (ibidem). «Così fu che il denaro accumulato con molto sudore e fatica dall’imperatore Basilio [II, zio delle due imperatrici] nelle casse imperiali era adesso a disposizione dell’allegro svago di quelle dame» (Psello 1984: VI, 63). Ma neppure il grande Basilio II (976-1025), «di carattere ruvido e aspro», «che brillò sopra tutti i monarchi, inestimabile, cara ricchezza dell’impero romano» (Psello 1984: V, 22) che segnò l’apogeo dell’impero bizantino con la sottomissione della Bulgaria e l’annessione del regno di Armenia viene risparmiato: Nei primi tempi, senza farne mistero, egli si abbandonava infatti al vino, amava frequentemente [thamà era: non oso tradurre, come una gentile signora ha fatto in anni recenti, «copulatore instancabile»], non pensava che a dar banchetti e dividendosi fra gli ozi regali e il riposo assaporava quanto più poteva i vantaggi dell’essere a un tempo giovane e imperatore. (Psello 1984: IV, 13)

Questo dunque il modello diffamatorio praticato da Michele Psello. Ma un esempio ancor più significativo di distorsione della verità abbiamo nella vita di Basilio I, il trisavolo di Basilio II e il nonno di Costantino VII Porfirogenito, di cui quest’ultimo commissionò la vita prima a Genesio e poi a un altro storico anonimo, da poco pubblicato in edizione critica da Ševčenko (Ševčenko 2011).4 Costantino VII non era probabilmente rimasto 4. Questa composizione commissionata da Costantino VII non viene ricordata da Magdalino, che ricorda solo la prima composizione commissionata da Costantino, quella dello storico Genesio (Magdalino 2013: 192-193). Noto che l’edizione condotta da

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soddisfatto del modo in cui la carriera di Basilio I veniva presentata da Genesio e commissionò un’altra biografia, cui appose una premessa personale. L’origine macedone, dunque piuttosto ignobile, di Basilio viene dal nipote ammantata di una presunta origine armena e della discendenza dagli Arsacidi. Era stata questa un’invenzione di Fozio, che aveva fatto comparire nella biblioteca imperiale una genealogia da lui composta «in lettere alessandrine», cioè in onciale non più in uso e su vecchie pergamene in cui la famiglia di Basilio veniva indicata di origine regale: questa falsificazione era a sostegno dell’immagine dello sconcertante personaggio salito al trono nell’867, dopo aver assassinato prima il cesare Bardas, zio dell’imperatore, al cospetto dello stesso Michele III, e diciotto mesi dopo lo stesso Michele III, da cui era stato cooptato all’impero. Questo sostegno al neoimperatore valse a Fozio la carica di rettore dell’università, quella di maestro dei figli di Basilio, fra cui Leone VI, e il reintegro nella posizione di patriarca di Costantinopoli. La vita di Basilio è un’opera di propaganda a favore del nuovo imperatore, nella quale si correggono tutte le versioni poco onorevoli che avevano punteggiato la sua carriera. Mentre Basilio, povero in canna, si era distinto per la sua abilità di cavallerizzo e domatore di cavalli, e come tale era stato notato da Michele III, il bios sostiene che Basilio trovò rifugio in un monastero di San Diomede, nel quale il santo stesso apparve in sogno all’igumeno inducendolo a farlo entrare, e che in quel luogo egli ebbe a conoscere un parente dell’imperatore amico dei monaci, Teofilizis Paideuomenos. Data la sua piccola statura, costui desiderava al proprio seguito uomini alti, belli e forti e Basilio fu fatto entrare nel suo entourage con il ruolo di protostrator, cioè palafreniere. Seguendo il suo padrone nel Peloponneso venne a contatto con la ricchissima vedova Danielis, presso la quale restò “ammalato” per alquanto tempo, mentre il suo padrone rientrava a Costantinopoli. Quando infine si ristabilì Danielis gli donò trenta schiavi e molto oro, contando sul suo futuro destino. A tale scopo gli chiese di diventare fratello spirituale del proprio figlio Giovanni, cioè di creare un legame personale comune fra gli aristocratici di Bisanzio. Strana sorte per un palafreniere, che le promette di renderla signora di tutto il Peloponneso se la sua sorte l’avesse condotto abbastanza in alto. Al suo ritorno si distinse a un banchetto del cesare Bardas vincendo alla lotta un campione bulgaro. Dunque la stessa vita ufficiale non può ignorare che Basilio era un palafreniere, che aveva avuto una conoscenza ravvicinata Ševčenko (Ševčenko 2011) su un’edizione manoscritta di De Boor non consente raffronti fra i due editori (lo stesso Ševčenko e De Boor).

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con la dama Danielis e che si distingueva come lottatore. Divenuto famoso per questa sua abilità, Basilio domò un cavallo dell’imperatore Michele III saltandogli in groppa dal suo stesso cavallo. Michele III lo accolse pertanto fra i suoi stratores e ben presto lo promosse protostrator. Finì per nominarlo patrizio e gli diede in moglie Eudocia Ingerina, «che vinceva tutte le altre dame in nobiltà, in bellezza e modestia». In realtà si trattava dell’amante dell’imperatore, incinta (probabilmente del futuro Leone VI) e Basilio si prestò alla copertura della tresca, mandando la propria moglie, madre di tre figli, in monastero. Il bios rettifica e presenta in modo anodino questi passaggi, non omettendo di descrivere lo svenimento della imperatrice Teodora, madre di Michele III, quando vide Basilio, svenimento dovuto alla previsione che quell’uomo avrebbe distrutto la loro famiglia. Intanto l’arroganza dello zio dell’imperatore, il cesare Bardas, viene sottolineata a ogni occasione, così come i tentativi di nuocere a Basilio. In piena revisione dei fatti il bios afferma che Basilio nel timore di un colpo di mano del cesare Bardas contro Michele III, il 21 aprile 866 uccide lo zio davanti all’imperatore. L’imperatore adotta Basilio e al ritorno della spedizione militare in cui Basilio si distingue gli conferisce il titolo di magistros, il 26 maggio dello stesso anno incorona Basilio co-imperatore, perché Michele III non vuole occuparsi degli affari e vuole dedicarsi ai suoi privati piaceri. Fino a questo punto il bios è una rettifica dei pettegolezzi che circolavano su Basilio, il cui comportamento non avrebbe avuto nulla di irregolare e anzi sarebbe stato accompagnato da presagi di santi e di monaci santi (Pinto 1983: 19-47) che gli preconizzano l’impero, fino allo svenimento di Teodora l’imperatrice madre che prevede la fine della sua famiglia e della dinastia. A questo punto inizia il libello diffamatorio ai danni di Michele III, con accuse di ogni genere, dall’indolenza e indifferenza per la gestione del governo, al gareggiare nell’ippodromo del suo palazzo di San Mamante alla guida del carro da corsa, alla crapula, all’eccessivo uso di vino, fino al divertimento di compiere atti sacrileghi, prendersi gioco di riti e preti travestendo mimi e buffoni per compiere delle parodie, e giungere addirittura a molestare una processione guidata dal patriarca Ignazio contrapponendogli una processione guidata dal buffone Groullos travestito da patriarca e seguito da dodici finti metropoliti. Ignazio, resosi conto della situazione, pregò Dio con le lacrime di por fine a tale blasfemia, facendo morire i colpevoli. Michele III avrebbe perfino insultato la pia Teodora, restauratrice del culto delle immagini, convocandola a un banchetto nel Crisotriclinio

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dove avrebbe trovato Groullos travestito da patriarca che la accolse volgendole il fondo schiena e dedicandole un rumore sconveniente. Teodora allora avrebbe sentenziato che Dio aveva ritratto la sua mano da Michele e si sarebbe rifugiata in lutto nelle sue stanze. Strano comportamento da parte di Michele queste messinscene sacrileghe, tenuto conto dei suoi primi anni di regno, quando si occupò della missione morava di Cirillo e si adoperò per la conversione della Bulgaria. Infine, il 23-24 settembre 867, Basilio penetrò nottetempo nel cubicolo imperiale, trovando Michele in stato di atonia etilica e lo uccise senza che neppure si accorgesse di passare dal sonno alla morte: eutanasia imperiale con anestetico. Leone VI, che mostra aperta freddezza verso il padre ufficialmente commemorato e loda invece la virtù di sua madre, risolvendo la questione del matrimonio di comodo con la frase «il migliore per la migliore», tace spudoratamente sui fatti imbarazzanti e criminosi nell’elogio funebre di Basilio I (Vogt, Hausherr 1935) Nel giorno stesso in cui Basilio assunse il potere supremo furono annunciate nella capitale grandi vittorie e il riscatto di prigionieri: «era come se Dio volesse significare il cambiamento in meglio degli affari dei Romani». La propaganda imperiale pro Basilio giunge al punto che la santa Irene di Crisobalantou predice le uccisioni del cesare Bardas e di Michele III (Rosenqvist 1986: 48-52).5 Informa sua sorella, moglie del cesare: Stai attenta a te stessa. Per volontà di Dio e sua inscrutabile decisione, come è solito prendere, il cesare tuo marito e mio cognato cadrà presto vittima di un complotto. Non molto dopo anche suo nipote l’imperatore Michele stesso subirà la stessa sorte a causa delle sue empie e illegali azioni: essendosi preso gioco del divino anche lui sarà giocato. Ma tu devi stare attenta a non far conoscere a nessuno questo e non devi prevenire nessuno della tua famiglia perché non intervenga contro l’uomo che deve prendere lo scettro dell’impero. Anche se egli sarà colpevole di omicidio, egli è adorno di superiorità pia e imperiale e Dio è perciò compiaciuto di lui e il nemico non lo vincerà. (Rosenqvist 1986: 50)6 5. Il testo risale al 989, anche se è ambientato ai tempi di Michele III (842-867). Regnava Basilio II e dunque non ci si poteva permettere di infrangere le formalità dinastiche con verità sgradevoli e pericolose per l’estensore. 6. Il passo ripete due analoghe apparizioni attribuite con la medesima funzione a san Nicola (cfr. Carile 2004). Sulla famiglia Gouberios (Rosenqvist 1986: nota 153) non vengono riportate testimonianze in Kazhdan, Ronchey 1997, che evidenziano un’alta società di

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La macchina propagandistica bizantina è efficiente e la storia degli imperatori scritta dopo la loro morte rivela incredibili scelleratezze. Curiosa la sorte dello stesso Basilio I. Nell’886, dopo aver tentato di sbarazzarsi di Leone VI, figlio di Eudocia Ingerina e forse di Michele III, ma ufficialmente suo figlio, muore durante una partita di caccia: un cervo gigantesco lo incorna, e lo trascina via per venti chilometri. Il corpo viene trovato da Stiliano Zautzes, padre dell’amante di Leone VI, e sua futura moglie Zoe Zautsina. Quel cervo doveva essere ben robusto per trasportare tanto lontano un uomo di eccezionale statura e peso come Basilio I. Leone insignirà il futuro suocero del titolo di basileopator. Uno dei primi atti pubblici di Leone VI fu di celebrare una solenne traslazione delle spoglie di Michele III nel mausoleo imperiale dei Santi Apostoli. Anche attraverso le finzioni delle fonti, le diffamazioni di storie e libelli, sembra tralucere qualche elemento di verità che consente di prendere le distanze dai testi traditi. Forse è ora di togliere dai nostri manuali il titolo di Ubriacone conferito a Michele III. Bibliografia Assmann 2002 = J. Assmann, Potere e salvezza. Teologia politica nell’antico Egitto, in Israele e in Europa, Torino 20022 Ataliates 2002 = M. Ataliates, Historia, a cura di I. Pérez Martín, Madrid 2002 Calandra 2014 = E. Calandra, Culti divini e culti regali tra Alessandro e i Tolomei, in Apoteosi da uomini a dei. Il mausoleo di Adriano, a cura di L. Abbondanza, F. Coarelli, E. Lo Sardo, Roma 2014, pp. 68-77 Canfora 2014 = L. Canfora, 1914, Palermo 20142 Capizzi s.d. = C. Capizzi, La ‘Pax Romana’ e Giustiniano, in Concezioni della pace, a cura di P. Catalano, P. Siniscalco, Roma s.d. (ma posteriore al 1993), pp. 139-160 Carile 1998 = A. Carile, Gerarchie e caste, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, XIV Settimana di Studio del intriganti, che non recedono dall’omicidio politico, ma evidenziano altresì un ceto aristocratico irrequieto, facilmente sospettato dall’imperatore. Irene è cognata del cesare Bardas, zio materno di Michele III, che viene ricordato nel bios come «persona di nessun valore, che si struggeva di invidia e godeva nelle rapine e negli assassini» (cap. 3) cioè artefice della politica di eliminazione fisica e di confisca dei beni della nobiltà iconoclastica a favore di quella iconodula. Fatto che agli occhi dell’agiografo giustifica il suo assassinio a opera di Basilio, futuro fondatore della dinastia macedonica.

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Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 3-9 aprile 1997), Spoleto 1998, pp. 123-176 Carile 2002 = A. Carile, La sacralità rituale dei basileis bizantini, in “Per me reges regnant”. La regalità sacra nell’Europa medievale, a cura di F. Cardini, M. Saltarelli, Siena 2002, pp. 53-96 Carile 2004 = A. Carile, Phobo kradainomenos. La paura dell’imperatore, in «Siculorum Gymnasium», 57 (2004), Atti del VI Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Studi Bizantini, pp. 5-14. Carile 2008 = A. Carile, Chiesa e potere nel IV-V secolo a Costantinopoli: san Giovanni Crisostomo e la corte, in Paolo tra Tarso e Antiochia. Archeologia / Storia / Religione, Atti dell’XI Simposio Paolino, a cura di L. Padovese, Roma 2008, pp. 219-234 Corippus 1976 = Flavius Cresconius Corippus, In laudem Iustini Augusti minoris libri IV, a cura di A. Cameron, Bristol 1976 Corippus 1981 = Corippe (Flavius Cresconius Corippus), Eloge de l’empereur Justin II, a cura di S. Antes, Paris 1981 Durliat 1981 = J. Durliat, Les dédicaces d’ouvrages de défense dans l’Afrique byzantine, Roma 1981 Farina s.d. = R. Farina, Concezioni della pace: a proposito di Costantino il Grande ed Eusebio di Cesarea, in Concezioni della pace, a cura di P. Catalano, P. Siniscalco, Roma s.d. (ma posteriore al 1993), pp. 123-132 Gehler, Rollinger 2014 = Imperien und Reiche in der Weltgeschichte. Epochenübergreifende und globalhistorische Vergleiche, a cura di M. Gehler e R. Rollinger, voll. I-II, Wiesbaden 2014 Grimal 1986 = N. Grimal, Les termes de la propagande royale égyptienne. De la XIXe dynastie à la conquete d’Alexandre, Paris 1986 Heim 1991 = F. Heim, Virtus. Idéologie politique et croyances religieuses au IVe siècle, Berne-Frankfurt am Main-New York-Paris 1991 Kazhdan, Ronchey 1997 = A.P. Kazhdan, S. Ronchey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’XI alla fine del XII secolo, Palermo 1997 Magdalino 2013 = P. Magdalino, Knowledge in Authority and Authorised History: The Imperial Intellectual Programme of Leo VI and Constantine VII, in Authority in Byzantium, a cura di P. Armstrong, Ashgate 2013 Mommsen 1886 = Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, vol. III, Leipzig 1886 Münkler 2005 = H. Münkler, Imperien. Die Logik der Weltherrschaft. Vom alten Rom bis zu den Vereinigten Staaten, Berlin 2005 (trad. it. Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti, Bologna 2008) Neville 2012 = L. Neville, Heroes and Romans in Twelfth-Century Byzantium. The Material for History of Nikephoros Bryennios, Cambridge 2012 Pinto 1983 = Presagi di gloria nella “Vita di Basilio” di Costantino VII Porfirogenito, a cura di E. Pinto, Messina 1983

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Valerio Casadio «Sappiamo dire molte menzogne simili al vero». Il dettato delle Muse e le origini dello “statuto” del falso nella letteratura greca antica

La sorprendente affermazione «sappiamo dire molte menzogne simili al vero» (ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα)1 è pronunciata, al v. 27 della Teogonia esiodea, dalle Muse, indiscusse ispiratrici del racconto epico, che anzi l’aedo di norma invoca, invitandole a cantare o a narrare, esse stesse in prima persona, come nei celeberrimi incipit di Iliade («μῆνιν ἄειδε θεά», Cantami, o dea) e Odissea («ἔννεπε, Μοῦσα», Narrami o Musa). Soprattutto esse sono garanti della veridicità della narrazione: significativo è il preludio del cosiddetto “Catalogo delle navi” del secondo libro dell’Iliade. Accingendosi a elencare i capi degli Achei e i contingenti che questi rispettivamente hanno guidato contro Troia, ai versi 484 e sgg., il poeta si rivolge alle Muse, chiedendo loro di raccontare, in quanto dee, dunque presenti e consapevoli di ogni cosa:2 «ἔσπετε νῦν μοι Μοῦσαι Ὀλύμπια δώματ’ ἔχουσαι·/ ὑμεῖς γὰρ θεαί ἐστε πάρεστέ τε ἴστέ τε πάντα». «Noi mortali invece», aggiunge, «ascoltiamo soltanto la fama e nulla sappiamo» (ἡμεῖς δὲ κλέος οἶον ἀκούομεν οὐδέ τι ἴδμεν). L’affermazione esiodea sembra invece equiparare la conoscenza delle Muse, in cui il poeta dell’Iliade ripone assoluta fiducia, all’abilità dell’astuto Odisseo, che «nel dire plasmava molte menzogne simili al vero» (ἴσκε ψεύδεα πολλὰ λέγων ἐτύμοισιν ὁμοῖα, Od. 19.203). Questi infatti, ritornato alla sua Itaca, falso mendico nel suo palazzo, memore forse dei motivati avvertimenti dell’ombra di Agamennone di non fidarsi nemmeno della propria moglie (cfr. Od. 11.441 e sgg.), non potendo ulte1. Così Arrighetti 1984: 67, più propriamente «uguali», quindi «indistinguibili dal vero». 2. Cfr. Vernant 2007.

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riormente resistere alle insistenti richieste di Penelope circa la sua identità, elabora per se stesso un’accattivante biografia, che suscita le lacrime dell’inconsapevole consorte alla notizia che chi le parla avrebbe ospitato a Creta proprio Odisseo. Orbene, se esaminiamo i due versi in questione nell’originale greco, perfetta è la corrispondenza, nel luogo esiodeo e in quello omerico, dell’enunciato, secondo le “regole” della dizione formulare, con le necessarie varianti richieste dal contesto (a partire dalle più elementari quali singolare/plurale, prima persona/terza persona, presente/imperfetto). Agli identici «ψεύδεα πολλὰ […] ἐτύμοισιν ὁμοῖα» (molte menzogne simili – o meglio, come si è detto – uguali alle verità), che occupano per di più identica posizione nel verso, sono associati, ancora in identica posizione un «λέγειν» (dire) che alterna con «λέγων» (dicendo): potremmo parlare per l’appunto di «formula declinata».3 Non troppo diversamente per «ἴδμεν» (sappiamo), alternativo rispetto a «ἴσκε» (una forma rara di un verbo altrettanto raro, generalmente frainteso – come testimoniano anche la scoliografia e la lessicografia4 – pure da celebri autori di età ellenistica, quali Teocrito e Apollonio Rodio, che, forse proprio sulla base del passo odissiaco, lo intesero come un verbo di dire,5 ma che più correttamente significa “plasmava”):6 in quest’ultimo caso 3. Così, secondo la consolidata terminologia elaborata da Parry 1928a e 1928b sulla base di indagini sistematiche sulla dizione omerica (testi confluiti in Parry 1971), dagli studiosi successivi estese all’intera dizione epica, in particolare al corpus esiodeo, cfr. Edwards 1971. Il fatto che i due versi, quello omerico e quello esiodeo, si conformino alle modalità della dizione formulare non esclude peraltro uno specifico contatto, o anche, come io credo, una voluta “allusione” di Esiodo al luogo omerico: vedi, per un analogo caso di allusione “necessaria” (cfr. Bonanno 1990), Casadio 1995-96: 24. A un’ineludibile connessione tra i due luoghi pensava già Pucci 2007: 61. 4. Cfr., oltre agli scholia ad loc. cit., Phot. ι 211 Th. «ἴσκειν· λέγειν· παλαιὸν τὸ λεξίδιον», Suda ι 642 A. «ἴσκεν · ὡς τὸ “ἴσκε ψεύδεα πολλὰ λέγων”. καὶ ἴσκειν, εἰκάζειν», ma sopratutto Schol. A Il. 16.41 «ἴσκοντες: ὅτι τὸ ἴσκοντες ἀνάλογόν ἐστι τῷ κατὰ διαίρεσιν ἐΐσκοντες, ὁμοιοῦντες· “ἔϊκτο δὲ θέσκελον αὐτῷ” (Il. 23.107). ἡ δὲ ἀναφορὰ πρὸς τοὺς ἀπεκδεξαμένους τὸ “ἴσκεν ψεύδεα πολλὰ λέγων ἐτύμοισιν” (Od.19.203). τὸ γὰρ “ἴσκεν” ὑπολαμβάνουσι κεῖσθαι ἀντὶ τοῦ ἔλεγεν, οὐκ ὀρθῶς», nonché EM 476. 39-40 «ἴσκεν: ἴσκεν ψεύδεα πολλὰ λέγων ἐτύμοισιν ὁμοῖα. τινὲς βούλονται τὸ ἔλεγε σημαίνειν· ἄλλοι δὲ, ἤϊσκεν εἴκαζεν καὶ ὡμοίου· τὸ γὰρ ὅλον, πολλὰ ψευδῆ λέγων εἴκαζεν, ὥστε ὅμοια εἶναι ἀληθέσιν». 5. Così Theocr. 22.167, Apoll. Rh. 1.834, 2.240 et 1196, 3.555, 396, 439, 484, 938, 4.92, 410,1586: poi anche Lycophr. 574. Ma già Od. 22.31, un passo già ritenuto sospetto da Aristarco (così schol. ad loc.), per cui si veda Fernández-Galiano, Heubeck, Privitera 1986: 42 e sgg., 208 e sgg. 6. Così intendo, sulla scorta di Chantraine 1999: 354: «imaginer, inventer».

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dunque a quella metrica si aggiunge, più che una rispondenza semantica, una fonica, ancora una volta secondo una casistica ben nota agli studiosi della formularità omerica.7 Le Muse esiodee peraltro aggiungono (v. 28): «sappiamo, quando vogliamo, raccontare il vero» (ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι), un effetto “spiazzante” rimarcato dagli studiosi, che a lungo si sono interrogati sul significato della contrapposizione,8 ma anche della contiguità, quasi dell’“indifferenza” delle due azioni delle Muse. Di recente Pietro Pucci vi ha visto un’«ambivalenza glaciale», che non sorprenderebbe il poeta «che non si chiede se esse eviteranno di dire a lui le menzogne simili alla verità».9 Quel «quando vogliamo», tuttavia, più che l’indifferenza della scelta, a mio avviso sottolinea piuttosto l’eccezionalità di una poesia veritiera, e forse anche la sua novità, sottintendendo che è quella di cui il poeta si appresta ad assumere le insegne e la modalità. Infatti così prosegue (vv. 29 e sgg.): «Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, e come scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito, dopo averlo staccato, meraviglioso; e m’ispirarono il canto divino, perché cantassi gli eventi futuri e quelli passati» (ὣς ἔφασαν κοῦραι μεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι / καί μοι σκῆπτρον ἔδον δάφνης ἐριθηλέος ὄζον / δρέψασαι, θηητόν· ἐνέπνευσαν δέ μοι αὐδὴν / θέσπιν, ἵνα κλείοιμι τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα). Quel «τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα» (gli eventi futuri e quelli passati) è peraltro formula abbreviata (“decurtata”, col linguaggio tecnico della formularità), che sintetizza quella più ampia «τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα», che viene poco oltre attribuita alle Muse stesse «che al Zeus padre inneggiando rallegrano la grande mente nell’Olimpo, narrando gli eventi presenti, quelli futuri e quelli passati, con voce concorde, e instancabile e dolce scorre il canto dalle loro bocche» (vv. 36 e sgg.: ταὶ Διὶ πατρὶ / ὑμνεῦσαι τέρπουσι μέγαν νόον ἐντὸς Ὀλύμπου, / εἴρουσαι τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, / φωνῇ ὁμηρεῦσαι, τῶν δ’ ἀκάματος ῥέει αὐδὴ / ἐκ στομάτων ἡδεῖα). Si tratta di due formule, che sanciscono l’identità della poesia “veritiera” delle Muse e quella del poeta, che da loro ha ricevuto tale peculiare investitura. È una poesia che ha le precise caratteristiche della mantica, dono parimenti divino, in questo caso di Apollo. La conoscenza del passato, del pre7. Cfr. Marzullo 1970: 38-39. 8. Una rassegna delle diverse posizioni in Pucci 2007: 60-65, cui rinviamo. 9. Pucci 2007: 19-20. Pucci 2013: 328-329, partendo da questa affermazione, azzarda che così Esiodo, poeta ispirato dalle Muse, potrebbe così rivendicare a sé la capacità di creare qualcosa «che si approssima in sommo grado alla realtà».

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sente e del futuro è quella di «Calcante, figlio di Testore, il migliore tra gli indovini, che conosceva il passato, il presente e il futuro» (Il. 1.69 e sgg.: Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, / ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα). Le Muse ispirano dunque in Esiodo un «canto divino» (θέσπιν ἀοιδήν, un’espressione ancora una volta tradizionale, o meglio odissiaca),10 ma diverso rispetto a quello, più consueto, individuato come ammaliatore e “falso”: una contrapposizione che porta a una prospettiva nuova proprio dal punto di vista del poeta, perché, come si è visto, l’aedo omerico non dubita mai che le Muse non dicano il vero. Evidentemente Esiodo rivendica la propria singolare ispirazione nei confronti dell’epos tradizionale e della sua costitutiva mistione di vero e di falso. Non è un caso che ancora Odisseo, narratore delle sue “veraci” avventure presso i Feaci (i cosiddetti «ἀπόλογοι»), fosse paragonato da Alcinoo, re di quel mitico popolo, a un aedo, poiché aveva elaborato il suo racconto con arte sapiente, l’arte sapiente del costruttore, come sottolinea l’uso dell’avverbio «ἐπισταμένως» (Od. 11.368: «μῦθον δ’ ὡς ὅτ’ ἀοιδὸς ἐπισταμένως κατέλεξας»),11 aveva bellezza nelle parole e dentro saggi pensieri (v. 367: «σοὶ δ’ ἔπι μὲν μορφὴ ἐπέων, ἔνι δὲ φρένες ἐσθλαί»), non era certo assimilabile a un ciurmatore o a un furfante (vv. 364 e sgg.: «ὦ Ὀδυσεῦ, τὸ μὲν οὔ τί σ’ ἐΐσκομεν εἰσορόωντες / ἠπεροπῆά τ’ ἔμεν καὶ ἐπίκλοπον»), e tanto meno a uno di quei «costruttori di false avventure, di cui nessuno saprebbe nulla» (v. 366: «ψεύδεά τ’ ἀρτύνοντας, ὅθεν κέ τις οὐδὲν ἴδοιτο»). Sono dunque valutazioni estetiche (la «μορφὴ ἐπέων», bellezza nelle parole) ed intellettuali (le «φρένες ἐσθλαί» , i saggi pensieri), che distinguono Odisseo dai millantatori e fanno sì che il figlio di Laerte riesca a plasmare con arte dei «ψεύδεα» che possano dirsi «ἐτύμοισιν ὁμοῖα», cioè che abbiano le “caratteristiche” della verità. Sono quelle qualità che il più tardo Teognide (I 713 e sgg.) associa alla proverbiale loquela del vecchio Nestore, in un elenco di “valori d’antàn” che vengono contrapposti, senza speranza, alla nuova etica della ricchezza:12 «nemmeno se tu plasmassi menzogne simili alla verità, avendo la lingua fluente del divino Nestore» (οὐδ’ 10. Cfr. Od. 1.328, 8.498. In Od. 17.385 incontriamo la variatio «θέσπιν ἀοιδόν», che sposta l’epiteto all’aedo. 11. Un’arte di cui sembra ricordarsi Archiloco nel fr. 1 W2. «εἰμὶ δ’ ἐγὼ θεράπων μὲν Ἐνυαλίοιο ἄνακτος / καὶ Μουσν ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος». 12. L’«essere ricchi» è la nuova universale «virtù» privilegiata delle massa (vv. 609 e sgg.: «Πλήθει δ’ ἀνθρώπων ἀρετὴ μία γίνεται ἥδε, / πλουτεῖν· τῶν δ’ ἄλλων οὐδὲν ἄρ’ ἦν ὄφελος»).

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εἰ ψεύδεα μὲν ποιοῖς ἐτύμοισιν ὁμοῖα, / γλῶσσαν ἔχων ἀγαθὴν Νέστορος ἀντιθέου), una vera e propria allusione al passo omerico, in cui «ποιοῖς» appare esegesi dell’omerico «ἴσκε», e «ψεύδεα […] ἐτύμοισιν ὁμοῖα» esprime una capacità affabulatoria pari a quella dell’antico aedo. Tale sintagma ricorre ancora rarissime volte ed è sempre connesso con la citazione del luogo odissiaco, come in Dionigi di Alicarnasso (de Lysia 18,6.19), in cui l’abilità dell’oratore attico è paragonata a quella di Odisseo, un’abilità tale da impedire che nei suoi racconti si possa distinguere qualche tratto che sia «ψευδὲς ἢ ἀπίθανον» (falso o non convincente). L’espressione in Strabone (I 2.9) è esemplificativa dell’arte stessa di Omero, che nella narrazione a fatti veri aggiunge molte “falsità” allo scopo di abbellirla.13 Ma è Plutarco nel De gloria Atheniensium (347e) a cogliere tutta la valenza estetica del verso omerico: «La grazia e la dignità dell’arte poetica consisteva nel racconto di fatti, congrui con quelli (realmente) avvenuti, come diceva Omero» (καὶ γὰρ ἡ ποιητικὴ χάριν ἔσχε καὶ τιμὴν τοῖς πεπραγμένοις ἐοικότα λέγειν, ὡς Ὅμηρος ἔφη). Segue l’esplicita citazione di Od. 19.203. Alle origini dell’osservazione plutarchea non può non esserci la concettualizzazione di Aristotele, che in Poetica (1451a 36) arriva alla conclusione che «da ciò che si è detto è chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza o necessità» (φανερὸν δὲ ἐκ τῶν εἰρημένων καὶ ὅτι οὐ τὸ τὰ γενόμενα λέγειν, τοῦτο ποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλ’ οἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον). È l’elaborazione del concetto di «εἰκός», del verosimile, come fondamento della poesia. La chiara ascendenza aristotelica si unisce peraltro all’altrettanto evidente allusione a un luogo pindarico (Ol. I 28 e sgg.), che ai «racconti adorni di menzogne» (δεδαιδαλμένοι ψεύδεσι ποικίλοις […] μῦθοι) attribuisce quella «grazia» (χάρις) che procura loro «dignità» (τιμά) «e fa sì che pure l’incredibile sia spesso credibile» (καὶ ἄπιστον ἐμήσατο πιστόν ἔμμεναι τὸ πολλάκις). Una tesi che sembra riecheggiata da Callimaco (HIov.65): «Possa io mentire, se dico cose che riuscirebbero a convincere chi mi ascolta» (ψευδοίμην, ἀίοντος ἅ κεν πεπίθοιεν ἀκουήν). Entrambi i poeti del resto stanno mettendo in discussione i «ψεύδεα» di miti più noti e tradizionali (quello di 13. Cfr. Strabo I 2.9: «ὁ ποιητὴς ἐφρόντισε πολὺ μέρος τἀληθοῦς, ἐν δ’ ἐτίθει καὶ ψεῦδος […] οὕτως ἐκεῖνος ταῖς  ἀληθέσι περιπετείαις προσεπετίθει μῦθον, ἡδύνων καὶ κοσμῶν τὴν φράσιν». Viene citato, nel prosieguo Od. 19.203, un verso che Polieno (Stratagemata 1.11,4) ricorda in una rassegna delle abilità di Odisseo.

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Pelope, Pindaro, quello dell’attribuzione dei poteri a Zeus, Callimaco) e a quelli contrappongono le loro inventiones. Tornando a Plutarco, si direbbe che proprio la chiave interpretativa dello Stagirita gli consenta di indicare da che cosa siano determinate la «grazia» e la «dignità» evidenziate da Pindaro: per l’appunto dall’«εἰκός», la verosimiglianza. Non potremo non aggiungere che è sorprendente che secoli prima l’epos omerico avesse posto le basilari premesse di questa “verità”, e che Esiodo, per vis polemica, et malgré lui, ne fosse giunto alla lucida individuazione, a partire da quella poesia che riteneva ben diversa dalla sua. Bibliografia Arrighetti 1984 = G. Arrighetti, Esiodo. Teogonia, Milano 1984 Bonanno 1990 = M.G. Bonanno, L’allusione necessaria. Ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina, Roma 1990 Casadio 1995-96 = V. Casadio, Note ad HVen. 1-33, in «Museum Criticum», XXX-XXXI (1995-1996), pp.19-36 Chantraine 1999 = P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Paris 19992 Edwards 1971 = G.P. Edwards, The Language of Hesiod in its Traditional Context, Oxford 1971 Fernández-Galiano, Heubeck, Privitera 1986 = Omero. Odissea, a cura di M. Fernández-Galiano, A. Heubeck, G. Privitera, vol. VI, Libri XXI-XXIV, Milano 1986 Marzullo 1952 = B. Marzullo, Il problema omerico, Milano-Napoli 19702 Parry 1928a = M. Parry, L’épithète traditionnelle dans Homère, Paris 1928 Parry 1928b = M. Parry, Les formules set la métrique d’Homère, Paris 1928 Parry 1971 = The Making of Homeric Verse. The collected Papers of Milman Parry, a cura di A. Parry, Oxford 1971 Pucci 2007 = P. Pucci, Inno alle Muse (Esiodo, Teogonia, 1-115), Pisa-Roma 2007 Pucci 2013 = G. Pucci, C’erano una volta le Muse, in Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, a cura di P. D’Angelo, L. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco, Milano 2013, pp. 326-355 Vernant 2007 = J.P Vernant, Aspects mythiques de la mémoire, in J.P. Vernant, Oeuvres, vol. I, Paris 2007, pp. 337-435

Gabriella Catalano Meteore del plagio: Goethe e La Guzla di Mérimée

La Guzla, opera poco conosciuta di Prosper Mérimée, è per Goethe uno «scherzo serio» (Goethe 1897-1919: I, 41, ii, 313; IV, 49, 283), esattamente come il famosissimo Faust. Per il grande autore tedesco l’identità composita della seconda parte del suo dramma non è così lontana dall’ambivalenza della raccolta di ballate balcaniche pubblicata nel 1827 dall’allora ventiquattrenne scrittore francese e svelata dallo scrittore tedesco come traduzione di un originale inesistente. Ma è solo una coincidenza se la formula di «scherzo serio» viene adottata per testi tanto diversi fra loro, un’opera propria e una traduzione fasulla di canti popolari? Per rispondere a questa domanda occorre sorvolare il cielo del plagio, per usare di nuovo un’espressione goethiana, titolo del saggio Meteore des literarischen Himmels, pubblicato nel 1820 nei quaderni di morfologia. Primo fra tutti, in una recensione apparsa poco dopo la pubblicazione del testo nel 1827 nella rivista «Über Kunst und Alterthum» (Goethe 18971919: I, 41, ii, 313-314)1 Goethe rivela pubblicamente la mistificazione ordita da Mérimée (cfr. Yovanovitsch 1911: 455-471) che, richiamandosi con il titolo La Guzla a uno strumento a corda diffuso fra i bardi delle zone balcaniche, mette insieme una scelta di testi, provenienti dall’ancora sconosciuto mondo della poesia illirica, secondo quanto il sottotitolo non manca di precisare con ogni oggettiva chiarezza: Choix de Poésies illyriques, recueilles dans la Dalmatie, la Bosnie, la Croatie et l’Herzégowina.2 1. L’unico saggio dedicato specificamente a Goethe e a La Guzla di Mérimée è di L. Geiger (Geiger 1894). 2. La raccolta esce nel 1827 a Strasburgo. La ristampa del 1994 a cura di Antonia Fonyi è l’unica che ripubblica l’opera autonomamente nell’edizione del 1840.

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Ma l’attenzione di Goethe va ben al di là della scoperta di frode, in fondo di secondaria importanza. Piuttosto, nell’esercizio di falsario di Mérimée, l’anziano scrittore scorge un modo di intendere la soggettività creatrice, intesa in epoca romantica sia come istanza individuale sia come dimensione collettiva, espressione di un singolo autore ma anche di un intero popolo, elevato a originale e originario genio letterario. L’appropriazione dell’estraneo, lontano o esotico, rivela il doppio volto dell’autore romantico, disposto a celarsi dietro la voce collettiva del popolo, ma anche pronto ad appropriarsi di quella voce in vista della propria capacità creativa (cfr. Matuschek 2011). Il lettore Goethe si fa subito interprete di questa duplicità di piani: ammira il talento di chi, attraverso la simulazione di testi popolari immaginari, è riuscito a imitare una tipologia letteraria mettendo l’accento sulla sua ambivalenza, che la realizzazione del falso espone nella forma di una mistificazione nascosta. Attraverso l’imitazione o finzione mitica, come è stato scritto (cfr. Kohler 2009: 191), Mérimée ha riprodotto una passione vera: da Ossian in avanti il gusto del naturale, incontaminato e selvaggio, supera i confini dell’autentico invaghendosi di false traduzioni e originali di pura invenzione (cfr. Reulecke 2012). Un esempio ovviamente noto al futuro autore della Carmen che, poco prima di ideare La Guzla, si era sperimentato in un’operazione analoga pubblicando con discreto successo il Théatre de Clara Gazul, alcune pièce di ambiente spagnolo scritte da un’attrice ignota – perché di invenzione. A quest’opera Mérimée si richiama in maniera esplicita quando, due anni dopo, fa giungere a Weimar il volume de La Guzla ancora fresco di stampa: il dono all’ormai notissimo poeta di Weimar è corredato da una dedica dal gusto rivelatore: «A son Excellence Monsieur le comte de Goethe Hommage de l’auteur du Théatre de Clara Gazul aout 27 1827» (Ruppert 1958: 229). Nella duplicità anagrammatica di Gazul e Guzla, lo scrittore tedesco non tarda a individuare l’autore del Théatre de Clara Gazul che, con quel segno autografo, siglava di propria mano il falso. Del resto l’autodenuncia fa parte del gioco ordito da Mérimée: dopo la morte di Goethe, nella nuova edizione del 1840, racconterà lui stesso il modo in cui la millantata raccolta di autentici testi balcanici è stata progettata, realizzata e portata all’attenzione del pubblico (Mérimée 1994: 19-20). A ben vedere, quando il giovane Mérimée sceglie di rivelarsi a Goethe, non fa che alimentare la valenza ironica della sua operazione, come del resto lo scrittore tedesco afferma ripensando pochi anni dopo al significato di quell’opera. Così Goethe:

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A queste poesie non mancano certo tutti i motivi dell’orrido, cimiteri, bivi notturni, fantasmi e vampiri, solo che tutte queste spiacevolezze non toccano l’intimo del poeta, egli le tratta piuttosto da una lontananza oggettiva e quasi con ironia. Si muove assolutamente come un poeta che si diverte a fare per una volta un tentativo del genere. (Goethe 1897-1919: V, 7, 247-248)

Nell’eccesso Goethe individua una forma di distanza oggettivante che si traduce in ironia dando voce a quell’inclinazione sperimentale di Mérimée che, agli occhi dello scrittore tedesco, indica una vitalità nuova nonché un’indole poetica autentica. L’autenticità del falso è costruita da Mérimée con tutta la dovizia del caso. Se ogni falso ha bisogno di attestare la propria autenticità, l’autore de La Guzla (che si propone curatore e traduttore) puntella il suo lavoro con citazioni di versi originali, fornisce spiegazioni sulla tradizione di leggende e costumi, rinvia a opere di approfondimento, connotando così, a diversi livelli, l’attendibilità dei testi tradotti. La conoscenza delle fonti viene garantita attraverso la testimonianza di un contatto diretto con un cantore, tal Hyacinte Maglanovich, di cui si narra la biografia e che serve a concretizzare un’identità autoriale, certificata finanche da un ritratto posto in prima pagina. Così la tipicità di quel testimone esemplare ribadisce ed espone ciò che la descrizione suggerisce attraverso una fisiognomica connotata in senso topografico: la forma orientaleggiante del volto, le folte sopracciglia nere, gli occhi alla cinese, il naso aquilino (infiammato dall’uso di liquori forti, come si osserva nel testo), i lunghi mustacchi bianchi (Mérimée 1994: 25). Infine lo stesso curatore della raccolta testimonia con la propria esperienza di vita la scelta della pubblicazione: visto che si è fatto intermediario presso i posteri e i connazionali di componimenti altrui, preservati dalla dimenticanza e recuperati stabilmente all’attualità, adatta a se stesso una vita ad hoc, la cui genealogia balcanica torna utile a comprovare, con il proprio stesso sangue, la provenienza morlacca per parte di madre (Mérimée 1994: 21). In questo modo il testimone oculare, che ha potuto apprezzare il gioco melodico di quei canti recitati col caratteristico suono nasale della voce, indossa l’abito di novello etnologo, che registra sul campo i testi, li trascrive riportando anche brevi frammenti: la forma incompiuta sta ad attestare più di altre l’evento della scoperta. Il tutto è accompagnato da uno spettro tematico ribadito nella forma di ricorrenze tipologiche: padri uccisi dai figli, vendette, sangue, presagi e profezie, lotte religiose fra cristiani e musulmani, visioni e vampiri. L’atmosfera di violenza e brutalità

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è espressione del colore locale, come afferma Mérimée, che adotta consapevolmente l’ideologia romantica del selvaggio, necessaria a evocare una perduta vicinanza alla natura. A Goethe, come si è visto, non sfugge la profusione di immagini desunte dalla letteratura dell’orrore. Ma le chiese notturne, i cimiteri, gli spettri e i vampiri sono per lui la prova di come Mérimée abbia adottato una prassi del riuso assolutamente al passo con i tempi. In altre parole, a destare interesse è una questione di metodo. Nel pubblicare il proprio commento, Goethe è infatti attratto dall’arguzia del testo non meno che dalla sua problematicità. Riconosce l’ingegno dell’invenzione e il talento dell’autore, ma principalmente gli preme mostrare quanto l’imitazione possa rivelarsi variegata oltre che produttiva, specchio fedele della fortuna di un testo, di un genere o di una corrente di pensiero. Più che all’azione dello smascheramento, l’autore del Faust è interessato a indagare l’orizzonte di attesa da cui il falso di Mérimée deriva la propria esistenza: la Guzla sfrutta un genere in voga che solo di recente ha guadagnato l’attenzione dei francesi, disposti ad apprezzare i canti popolari della Grecia moderna di cui si era fatto mediatore Charles-Claude Fauriel. Da poco la Francia, rileva Goethe con grande interesse, era divenuta propensa a recepire i prodotti letterari delle altre nazioni (Goethe 1897-1919: I, 41, ii, 313). Un’inclinazione foriera di altri inizi e soprattutto indispensabile per costruire la rete di relazioni fra lingue e letterature, alla base di quell’idea di Weltliteratur che si va delineando negli stessi anni nelle pagine della rivista «Über Kunst und Alterthum» in cui compare la recensione su La Guzla. Nell’eterogeneità che il periodico mette in campo si può certamente vedere l’espressione di un andamento dialogico, sintomo di un’apertura programmatica, caldeggiata dal suo autore. I criteri gerarchici di filiazione del moderno dall’antico, espressione della fase classica, vengono sostituiti dall’ottica dichiaratamente orizzontale di uno scambio permanente. Così i saggi e le recensioni sulla poesia serba, boema, neogreca o cinese appaiono accanto a scritti e recensioni che prendono in considerazione il passato germanico, dai Nibelunghi alla collezione di pittura tardo gotica dei fratelli Boisserée, mentre l’attenzione rivolta alla ricezione della propria opera in ambito europeo non trascura il momento dell’autoriflessione: nel quadro di «Über Kunst und Alterthum» compaiono in anteprima alcune lettere con Schiller (il carteggio verrà pubblicato alla stregua di un’opera da Goethe stesso) e viene persino riproposto il saggio sul duomo di Strasburgo che aveva segnato, mezzo secolo prima, l’ideologia del genio originale.

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Attraverso il piano orizzontale delle connessioni, la rivista elargisce al lettore la pluralità di prospettive come strumento di accesso alla comprensione dell’esistente. L’ottica dell’interazione prevale anche laddove – o, per meglio dire, soprattutto dove – al centro è posta una letteratura nazionale, la quale può affermarsi e diffondersi solo in un orizzonte universale attraverso traduzioni, riscritture, rifacimenti e persino falsi: in tal modo, ed è questo il senso del continuo passaggio dai due estremi del particolare e dell’universale, l’individualità del caratteristico e la circolarità degli scambi potranno definitivamente coincidere. Tutto ciò viene teorizzato da Goethe in concomitanza con la recensione a La Guzla di Mérimée, la quale è di svariati anni posteriore alla prima fase di recupero della poesia popolare. L’Europa intera può ormai attingere liberamente a quei canti come a un inesauribile repertorio di temi, immagini e melodie (il pensiero va ovviamente a Ossian di cui Werther si era eletto interprete in prima persona). Ma per Goethe riprendere il tema della poesia popolare è anche un modo per riandare con il pensiero alla sua stessa opera: la storia della cultura, come lo scrittore di Weimar teorizza, si costituisce a partire da percorsi individuali che diventano collettivi. Negli anni giovanili, sulla scia di Herder, lui stesso aveva raccolto Volkslieder contribuendo anche con una traduzione, il Klaggesang von der edeln Frauen des Asan Aga. Si tratta in realtà della traduzione di una traduzione: la Canzone dolente della nobile sposa d’Asan Aga era stata resa nota per la prima volta in versione italiana nel fortunato libro dell’abate Alberto Fortis, uscito a Venezia nel 1774, Viaggio in Dalmazia, riapparso l’anno successivo a Berna nella traduzione di Clemens August Werthes. Del resto l’opera di Fortis, che forniva ogni sorta di notizie sui costumi dei morlacchi sui paesaggi e la fauna marina dei luoghi, aveva suscitato grande interesse in tutta Europa, da Jacob Grimm a Nicolò Tommaseo, da Walter Scott a Charles Nodier, fondatore in Francia dell’immagine romantica dell’Illiria. Per quanto riguarda Goethe, la canzone comparirà, oltre che nella raccolta di Herder, anche nelle poesie sparse, a testimonianza dell’avvenuta assimilazione al corpus autoriale. Quando perciò il discorso sulla poesia serba viene ripreso nel contesto mutato degli anni Venti (Goethe aveva già pubblicato la sua raccolta di poesie rivolte all’oriente, il West-östlicher Divan, accompagnata da un’ampia storia culturale di quelle terre lontane), il ritorno è confortato da una diversa consapevolezza della presenza e della necessità di una mediazione critica: l’ascolto della poesia, per quanto ingenua nelle sue origini, non può prescindere dall’intera comunità dei fruitori, lontani nel

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tempo e nello spazio. Insomma, come sempre avviene nell’opera del grande scrittore tedesco, il ritorno a un testo o a un tema – in questo caso il genere della poesia primitiva – è segnato da una trasformazione che delinea insieme la differenza dell’oggetto e del contesto: lo sguardo verso lo stesso contenuto ne modifica la forma. Anche in questa occasione – e a buona ragione – il metodo adottato è quello morfologico che, notoriamente, non riguarda solo l’ambito scientifico, ma coinvolge il discorso culturale nel suo insieme, come ha colto Vladimir Propp ponendo a esergo della prefazione, nonché di vari capitoli, della Morfologia della fiaba alcune citazioni tratte dagli scritti goethiani sulla morfologia (Hauschild 2009: 156). Il carattere interdisciplinare corrisponde alla creazione di una nuova coscienza della costruzione del sapere e lo stesso metodo morfologico transita negli scritti goethiani dalla scienza alla letteratura, dalla critica letteraria all’interpretazione di opere visive. Non è quindi un caso se in un saggio del 1825, dedicato alle poesie serbe, alle traduzioni di Jacob Grimm e di Therese von Jacob (pubblicate sotto lo pseudonimo di Talvj), nonché alla grammatica serba di Vuk Stefanović Karadžić, Goethe fornisca un catalogo di motivi ricorrenti, ben 55 per la precisione (Goethe 1897-1919: I, 41, 143-144), proponendo in nuce uno studio funzionale della poesia popolare: la raccolta dei dati (non è marginale l’insistenza sulla quantità e sulla varietà del repertorio di cui parla Goethe) è prova della sussistenza tipologica che indica il doppio transito fra una molteplicità ridotta all’esistenza del prototipo e la produttività del modello nelle sue infinite trasformazioni. La morfologia collega il contributo individuale a quello collettivo, il carattere locale alla trasmissione storica, la letteratura nazionale allo scambio sovranazionale, l’origine agli esiti a venire. La vita di quei testi fa sì che la loro esistenza primaria non possa prescindere dalle svariate forme di ripresa. In questo quadro si colloca per Goethe il falso di Mérimée. Che, per quanto falso, ha prima di tutto, come ogni copia o imitazione, una funzione pedagogica: quando alla fine della recensione de La Guzla Goethe tira in ballo, a titolo di esemplificazione, le medaglie di Giovanni da Cavino, accuratissime copie di manufatti antichi, ricorda come quelle imitazioni possano tornare utili al collezionista che potrà affinare il proprio senso degli originali. Lo sguardo dell’esperto si esercita nella comparazione, come Goethe aveva appreso nel corso del soggiorno romano quando, a cospetto di tanti preziosi originali, assolutamente inediti nel suo paese d’oltralpe, aveva preso a collezionare copie in gesso dei capolavori antichi veduti in

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giro per la capitale del mondo. D’altronde nelle pagine di «Über Kunst und Alterthum» il tema della copia e della riproduzione costituisce un vero e proprio sottotesto (Bohnenkamp 1999: 946): il rapporto fra le arti e le forme avviene all’orizzonte di una duplicazione che declina le differenze più che attestare le identità. Nello stesso tempo, agli albori dell’epoca della serialità, l’originale perde i suoi connotati di appartenenza: l’appropriazione esprime l’identità che si nutre dell’elaborazione collettiva della conoscenza. Se le prime opere teatrali del romanticismo francese erano dei falsi costruiti appositamente da Mérimée o se i canti de La Guzla verranno tradotti da Puškin in russo, ciò significa che la circolazione di un modello va al di là della sua provenienza. Goethe individua in Mérimée il divertissement della riscrittura. Per produrre un falso occorre talento, anzi forza e genialità: ad affermarsi è la negazione di sé in favore dell’altro,3 il principio di un’appropriazione estrema in cui la maschera prende il posto del volto. Siamo negli anni in cui Goethe attende alla conclusione del secondo Faust, del suo grande scherzo serio che non pubblicherà mai in vita destinandolo alla lettura dei posteri. Quando, nella recensione de La Guzla, il nuovo tentativo di falso è posto in relazione con la fama acquisita dallo scrittore francese con le pièce spagnole, Goethe parla di un procedimento attinente in genere alla produzione di falsi e alla letteratura di consumo: l’autore è indotto a pubblicare una seconda parte – o una seconda opera – per alimentare e proseguire il successo della prima. Forse, scrivendo queste parole, Goethe pensa anche al suo Faust. Certo è che qui non aveva dato alcuna importanza a distinguere ciò che era proprio da quanto poteva appartenere agli altri: ormai sapeva, come aveva argomentato nel suo scritto sulle Meteore del cielo letterario, che la trasmissione del sapere conosce il criterio della priorità solo all’interno della catena delle ripetizioni.4 È espressione del filisteismo dei tedeschi, scrive in un colloquio con Eckermann nel 1828 (Goethe 1897-1919: V, 6, 358), volere a tutti i costi riconoscere la paternità di un verso; non è importante stabilire se un distico appartenga a Schiller o a lui, determinante è che esista. Al patrimonio della conoscenza appartiene la libertà con la quale il singolo accede al sapere, se 3. L. Charles-Wurtz interpreta la raccolta di testi appartenenti a un mondo straniero in chiave metapoetica come espressione della posizione di estraneità propria del poeta moderno (Cfr. Charles-Wurtz 1999). 4. A.K. Reulecke ha avvicinato lo scritto goethiano sul plagio nel campo della comunicazione scientifica come una teoria del discorso avant la lettre (Reulecke 2013: 56).

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ne fa interprete o lo propaga. Il contributo individuale sta nella ricerca della verità dell’oggetto e nel desiderio della diffusione. Così la celebre espressione con cui Goethe definisce la sua opera come quella di un essere collettivo va intesa come una nuova visione della letteratura e della funzione autoriale, che suggella la prassi della circolazione dei testi (Goethe 1897-1919: V, 8, 131). È questa empiria letteraria che Goethe ammira in fin dei conti in Mérimée: i suoi testi balcanici implicano la pratica estesa del discorso che, dal canto suo, modula la necessità produttiva del cambiamento. Insomma, le meteore dei plagi sono per Goethe scherzi assai seri. Bibliografia Bohnenkamp 1999 = A. Bohnenkamp, “Den Wechseltausch zu befördern”. Goethes Entwurf einer Weltliteratur, in J.W. Goethe, Ästhetische Schriften 18241832. Über Kunst und Altertum V-VI, a cura di A. Bohnenkamp, in Sämtliche Werke, Briefe, Tagebücher und Gespräche, a cura di F. Apel et al., sez. I, 22 Frankfurt am Main 1999, pp. 937-964 Geiger 1894 = L. Geiger, Goethe und Mérimée, in «Goethe Jahrbuch», 25 (1894), pp. 290-291 Goethe 1897-1919 = J.W. Goethe, Goethes Werke, Weimar 1897-1919 Hauschild 2009 = C. Hauschild, Vladimir Propp: Morphologie des Märchens, in Russische Proto-Narratologie. Texte in kommentierter Übersetzungen, a cura di W. Schmid, Berlin 2009, pp. 131-161 Kohler 2009 = G.-B. Kohler, Fingierter Mythos, gefälschter Kommentar: Techniken der Simulation in Prosper Mérimées “La Guzla”, in «Zeitschrift für Slawistik», LIV/2 (2009), pp. 187-223 Matuschek 2011 = S. Matuschek, Dichtender Nationalgeist. Vom Spiel zum Ernst literarischer Anonymität, in Anonymität und Autorschaft: zur Literatur- und Rechtsgeschichte der Namenlosigkeit, a cura di S. Pabst, Berlin 2011, pp. 235-247 Mérimée 1827 = P. Mérimée, La Guzla ou Choix de poésies illyriques recueillies dans la Dalmatie, la Bosnie, la Croatie et l’Herzégovine, Strasbourg 1827 Mérimée 1994 = P. Mérimée, La Guzla ou Choix de poésies illyriques recueillies dans la Dalmatie, la Bosnie, la Croatie et l’Herzégovine, a cura di A. Fonyi, Paris 1994 Reulecke 2012 = A.-K. Reulecke, Prekäre Ursprünge – James Macphersons Übersetzung ohne Original, in Das Spiel mit der Wahrheit – Fälschungen in der Literatur, Film und Kunst, a cura di B. Potthast, Berlin 2012, pp. 11-23

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Reulecke 2013 = A.-K. Reulecke, Die Emergenz von Wissen und das Plagiat in Goethes wissenschaftstheoretischen Schriften, in «Zeitschrift für Medienund Kulturforschung», 1 (2013), pp. 43-58 Ruppert 1958 = H. Ruppert, Goethes Bibliothek. Katalog, Weimar 1958 Yovanovitch 1911 = V.M. Yovanovitch, “La Guzla” von Prosper Mérimée. Étude d’histoire romantique, Paris 1911 Charles-Wurtz 1999 = L. Charles-Wurtz, Le lyrisme de “La Guzla”, in Prosper Mérimée, écrivain, archéologue, historien, a cura di A. Fonyi, Ginevra 1999, pp. 99-110

Carmine Chiodo Un falsario seicentesco delle lettere politiche e storiche di Traiano Boccalini: Gregorio Leti

In ogni epoca sono esistiti i falsari, i manipolatori degli epistolari, dei manoscritti, persone che hanno pubblicato come fossero loro gli scritti altrui. Ma tra i falsificatori alcuni non nascondono di essere tali: è a questa categoria che appartiene il milanese Gregorio Leti (1630-1701), giudicato da Curzio Malaparte «il più grande pamphlétaire italiano».1 Gli studi moderni riconoscono a Gregorio Leti una totale mancanza di scrupoli, spudorate menzogne, tentativi di estorsione, clamorose falsificazioni. Recenti ritrovamenti di alcune sue lettere autografe confermano e accentuano il cliché di “avventuriero della penna”, dal comportamento spregiudicato e truffaldino, ai danni, ad esempio, di Cosimo III dei Medici. La sua vita è intessuta di leggende, quale quella secondo cui prima di convertirsi al calvinismo sarebbe stato frate. Giunto piccolissimo con i genitori in Calabria nel 1632, quando il padre assume l’incarico di comandante della città di Amantea, Gregorio studia, per volontà della madre ormai vedova, dai padri gesuiti di Cosenza (Mirto 1985: 53-55). Il forte desiderio di indipendenza e di libertà derivano quasi certamente al futuro poligrafo dalla vita cui è costretto, dapprima nel collegio e in seguito presso suo zio Nicolò, fratello maggiore del padre e vescovo di Acquapendente dal 1655. Mal sopportando la bacchettoneria dei preti e i loro metodi, Gregorio abbandona il collegio, poi lo zio, e infine l’Italia: convertitosi al calvinismo, passa da Ginevra alla Francia, dall’Inghilterra all’Olanda, 1. Cfr. «La conquista dello Stato», 15 novembre 1925. Si tratta della presentazione di un brano del Leti sui Costumi delle principali nazioni d’Europa, ripreso dal libello dal titolo L’ambasciata di Rando ai Romani, di cui Ferrari raccomandava agli allievi la lettura, esortandoli a leggere o, meglio, ad abbeverarsi alla ribellistica dell’eterodosso pensatore (cfr. Ferrari 1862: 696).

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ovunque incorrendo nelle ire dei governanti a causa della sua penna eccessivamente avventurosa e disinvolta. Fu protestante e ci tenne a farlo sapere, a costo di doversi allontanare dalla corte di Luigi XIV e di rinunziare a qualche pingue vantaggio materiale. Fu protestante in quanto il protestantesimo lo esentava dal fastidio di rispettare un bagaglio di istituzioni, cerimonie, regole disciplinari che gli era inviso: a interessargli era poter pensare, scrivere, e sbertucciare, a suo gusto. Le sue satire sulla curia e sugli spagnoli, spesso collage di pasquinate e altro materiale preesistente, non sono di ispirazione calvinista, ma piuttosto aconfessionale e libertina, nel senso di un liberalismo antidogmatico e razionalista di sapore europeo. A Ginevra sposa la figlia di un celebre medico calvinista, e in questa città prende stabile dimora verso il 1660: a quel tempo Ginevra era rifugio di tutti i perseguitati per cause religiose, e di conseguenza libera fucina di tutti gli scritti contro i persecutori. Da lì Leti comincia a inondare l’Europa di volumi dal taglio scandalistico, scritti con un linguaggio semplice e diretto: pezzi di cronaca e satire, biografie e pamphlet politici, tutti densi di rivelazioni sensazionali riguardo le corti europee, in particolare quella romana. L’ultimo periodo della sua vita lo vede in Olanda: vecchio, gravato dal peso di un centinaio e più di volumi e «volumacci» (Ferrari 1862: 670) e non mai però cadente abbastanza da rinunziare alla sua penna indiavolata, al suo pubblico, ai suoi indescrivibili pasticci di ciarle, di satire, di pettegolezzi, di elogi smaccati. La spregiudicata propensione a servirsi di testi altrui non arretra davanti a vere e proprie contraffazioni: dopo la pubblicazione de Le lettere italiane di Fra Paolo Sarpi […] (Verona, ma Ginevra, 1673), di cui si attribuisce la paternità, Leti manipola in modo ancora più eclatante le lettere di Traiano Boccalini (Castellana, ma Ginevra, 1678), presentate come opera del figlio dello stesso Boccalini, Rodolfo, e trasferite in uno “stile storico” nel volume La Bilancia politica di tutte le opere di Traiano Boccalini […] Parte terza contenente alcune lettere politiche del medesimo auttore ricuorate, ristabilite e raccomodate dalla diligenza e cura di Gregorio Leti.2 Già gli studiosi del passato (mi limito solo a ricordare i nomi del Beneducci e del Belloni) ritennero il Leti un bugiardo: delle quaranta lettere 2. Castellana, per Giovanni Hermano Widerhold, MDCCXXVIII. D’ora in avanti citeremo le lettere sempre da questa edizione. Castellana non è altro che la piccola borgata di Chatelaine alle porte di Ginevra.

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storiche e politiche di «codesto ciurmatore» (Spini 1980: 121), pubblicate sotto il nome del Boccalini, affermavano essere false la VI, la X, la XIII e la XV. In realtà quasi tutte le lettere sono alterate, o raffazzonate, o ampliate, con meccanismi di contraffazione abbastanza ben individuabili. Correda il volume una lettera dello stampatore ginevrino Johann Herman Widerhold o che a lui viene comunque qui attribuita (mentre è probabile che estensore della lettera sia lo stesso Leti). Widerhold dichiara di aver trovato un manoscritto di Boccalini su Tacito e di avere intenzione di pubblicarlo; sapendo il Leti in possesso di lettere del Boccalini, gli chiede di poterle avere a corredo del volume. È noto che le opere di Boccalini circolavano tantissimo ai tempi e il nome dell’autore era tenuto in sommo rispetto in fatto di politica e di letteratura, quindi il Leti si mostra d’accordo con lo stampatore nel ripubblicare anche La pietra del paragone politico, senz’altro la più «concettosa e misteriosa» (Lettera dello stampatore, in Leti 1678: 2) opera del politologo marchigiano, composta in età matura, e nella «quale la sua penna aveva già fatto le maggiori prove del suo valore» (ibidem). Egli manifesta inoltre allo stampatore il proposito d’aggiungere al volume un compendio delle prime due centurie dei Ragguagli di Parnaso. Particolare degno di nota, lo stampatore supplica il Leti di fargli avere quelle lettere scritte in modo pulito e chiaro. Sullo stato di conservazione delle lettere la risposta di Leti si dilunga: le dovrà ritrovare tra il suo moltissimo materiale e una volta ritrovate le dovrà aggiustare, in quanto sicuramente logorate dal tempo, dalla pioggia che hanno «sofferto nel tempo dei miei viaggi» (ibidem), per cui «difficil cosa sarà d’investigarne il senso» (ibidem). Per di più, molte pagine sono del tutto cancellate, «a segno che converrà cercare un senso corrispondente à quel paio che si può leggere» (ibidem). Ma ciò che più importa, e preoccupa Leti, è il fatto che «tra le lettere del Signor Traiano Boccalini se ne trovano molte del Signor Ridolfo suo figliuolo» (ibidem), e siccome in molte lettere «manca la sottoscrizione» (ibidem) non è possibile distinguere quelle che sono di Boccalini o di suo figlio, poiché le lettere dell’uno e dell’altro sono mescolate e confuse insieme. Il Leti promette di intervenire sulle parti cancellate, riparandole: «dimane a sera subito che sarò di ritorno darò principio a cercarle, e trovate le copierò di mia mano, per ripararci col mio a quel tanto chè scancellato» (Risposta allo stampatore, in Leti 1678: 6); non mancherà, «quando l’averò posto all’ordine dovuto» (ibidem), di consegnare le lettere al mercante librario e stampatore ginevrino.

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Leggendo attentamente la lettera di risposta del Leti allo stampatore (ovvero probabilmente a se stesso) si comprende come egli fosse convinto del fatto che molti non avrebbero creduto che quelle lettere fossero del Boccalini: «so che molti crederanno per certo che tali lettere non sono state mai del Boccalini e in fatti vi sarà nel mezzo un gran miscuglio del mio, e fuori sette lettere che posso testimoniare con sicurezza, che sono del signor Traiano, le altre sono del figlio o mie» (ibidem), dice il buon Leti. Comunque, a ogni modo, «per torre ogni confusione si pubblicheranno tutte sotto il nome del signor Boccalini» (ibidem). Il Leti si scusa se col suo stile sconcio inquinerà la purissima penna di Traiano e si scusa ancora se aggiungerà nelle lettere qualche cosa di suo che non intaccherà la gran virtù del Boccalini. In realtà, si nota la bravura, la disinvoltura del manipolatore che ha molta familiarità con la materia dei Ragguagli di Parnaso, con le opere, il pensiero e lo stile del loro autore. Nello stesso tempo, il raffazzonatore Leti accompagna l’opera di Boccalini con lettere che contengono allusioni e fatti, avvenimenti, cerimonie che rinviano a un’epoca in cui questi era già morto da qualche tempo. Il Boccalini muore infatti nel 1613, e quindi non avrebbe certo potuto dare a un certo Signor Muzio Pasti notizie dell’apostasia di Marc’Antonio de Dominis (cfr. Lettera III), né scrivere all’ex arcivescovo scappato a Londra nel 1613 (Lettera XII), o fornire una lunga descrizione di un’adunanza dell’Accademia degli Umoristi romani che disputavano sui vantaggi delle letture (Lettera XVII), né ancora nominare Urbano VIII (Lettera V), eletto papa nel 1623, o lodare il cavalier Marino per il suo Adone (Lettera VII), stampato in quello stesso anno. Alcune di queste lettere sono lunghi e noiosi sproloqui moralistici o retorici, pieni di sentenze latine, estranei affatto alle circostanze di luogo e di tempo in cui furono scritte. Il Leti ha voluto allestire una raccolta di trattatelli diversi l’uno dall’altro. Così la Lettera VI – lo notavano già gli studiosi del passato – compendia le biografie dantesche del Boccaccio e del Bruni; la Lettera XIII la vita del Petrarca scritta dallo stesso Leonardo Bruni Aretino; la XX è in gran parte la vita del Marino scritta dal Baiacca; in altre lettere il Leti immette o innesta il «succhio dei duecento ragguagli» (Ferrari 1862: 124). Questa «famigerata falsificazione» (Ferrari 1862: 124) del Leti mostra da un lato l’importanza della «funzione Boccalini» (ibidem) nella cultura del Seicento italiano, quale modello di una tagliente e sarcastica critica al potere, e dall’altro il metodo di scrittura e di falsificazione di Gregorio Leti, autore di ben oltre cento volumi, di cui alcuni in latino. Egli scriveva e manipolava con facilità, rimaneggiava, rabberciava, mescolava, fondeva

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e poi faceva stampare a suo nome. Altre volte pubblicava traduzioni, lettere, documenti, mettendo di suo solo la prefazione e il titolo: il Vaticano languente, per esempio, risulta formato da satire e pasquinate sulla sede vacante di Clemente X, dove si esalta Innocenzo XI e si inneggia all’elezione del Doge Alvise Centorini nell’agosto del 1676; satire e pasquinate che si trovavano in un manoscritto romano e in uno veneziano, che il raffazzonatore poi fuse e ampliò di quasi due terzi, come egli stesso racconta. Presente in varie lettere è la nota politica: nella Lettera XIV si commenta la solenne decisione del destinatario di vestire alla francese per sottolineare la sua avversione agli spagnoli; nella Lettera XVI gli spagnoli sono accusati di essere «né providenti né modesti» e di disprezzare la «dottrina» (Lettera XVI, in Leti 1678: 381); invece nella Lettera XVII si leggono altre pungenti allusioni agli spagnoli. Questo fervore nei confronti della corte di Francia sta ampiamente a significare che le lettere non sono del Boccalini ma del Leti, che è dalla parte della Francia e sferza la Spagna, la quale ha perduto l’Olanda per aver voluto troppo opprimerla, spogliandola dei suoi antichi privilegi. Siamo nel 1678, vale a dire alla vigilia di quel processo che esilierà per sempre il Leti dal suo comodo rifugio ginevrino, e non è una coincidenza casuale che in quei frangenti il «residente» (l’agente diplomatico) francese abbia usato tutta la sua autorità per giovare allo scrittore e avventuriero italiano, il quale cercava appoggi, protezioni e simpatie in terra di Francia. Importante la Lettera VII indirizzata al Marino, che allora si trovava in Francia. Viene lodato il nobile «decoro» del poema del Marino, il cui ornamento è «fastoso» e la dicitura grave ma non «altiera», vezzosa ma non «molle», dolce «ma non languente» (Lettera VII, in Leti 1678: 101). Non solo, si dice anche della politica culturale adottata dai principi, in questo caso Francesco I, che protesse e introdusse in Francia le scienze per far vedere «al mondo esser necessaria la vicendevole corrispondenza tra la forma e l’ingegno, tra il valore e il sapere, […] tra li principi, e i poeti, tra gli scrittori e le penne» (ibidem). Ciò mentre in Italia i principi hanno riempito le loro corti di «rondoni neri che garriscono senza arte» (Lettera XI, in Leti 1678: 161) e non seguono la politica culturale dei Reali Borboni i quali ricompensano solo chi ne è veramente degno, facendo così fiorire le belle lettere. Alcune lettere sono zeppe di notizie e riferimenti letterari, come per esempio la Lettera IX, dove viene ulteriormente ribadito che i veri amici delle Muse sono Giulio Cortese, il Marino, il Preti, l’Achillini, contro cui si sono scagliati letterati mediocri e invidiosi. E non esistono solo mediocri

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poeti e letterati, ma pure teologi e filosofi: la filosofia è corteggiata da «filosofastri» (Lettera IX, in Leti 1678: 148) e i teologi hanno nel capo «titoli vani» (ibidem) per cui è impossibile che essi sollevino gli occhi al cielo per penetrare non gli «arcani nascosti» (ibidem ) ma quelli superficiali, e poi ancora gli avvocati che non sanno mettersi «in testa un testo» (ibidem). Infine, anche la medicina è «corrotta», «guasta» come la politica che è tutta «sregolata, e cieca» in quanto i principi non chiamano nei loro «consigli» dei consiglieri «di merito» (ibidem). Tutti parlano di Tacito o di Machiavelli senza però comprenderli. Non manca il tema della giustizia, dei giudici. Ovviamente vengono vituperati i giudici disonesti ed esaltati quelli integri, puliti e onesti, compianti quando muoiono. Nella Lettera X si parla delle gabelle imposte da Filippo III alla città di Napoli e si stigmatizza il fatto che si vendano le cariche. Tutto si vende: gli «offici della corte» (Lettera X, in Leti 1678: 158) e anche il sole, onde «ebbe ragione di dir Pasquino a Martorio “Mi scaldo prima che il sole si venda”» (ibidem). Vengono trattati anche i temi dell’ipocrisia, dell’avarizia, dell’ambizione: tre elementi che formano un triumvirato che «bruttamente tiranneggiando la veridica penna de’ letterati, ha proscritto i migliori autori dell’istorie e delle cose pubbliche» (ibidem). Molto presente nelle lettere è il tema della corte, luogo in cui si esercita l’astuzia per l’attribuzione delle cariche: nelle corti «la vostra strada d’avanzarsi agli onori è quella di sapersi guadagnare la grazia del Ministro prima, e del Principe, né questo si può fare senza conformarsi alla vita dell’uno, e dell’altro» (Lettera XX, in Leti 1678: 401), per cui la prima cosa che deve fare un cortigiano è quella di saper trattare con principi e ministri, deve conoscere i loro costumi e ancora deve dimostrare di agire per pura inclinazione, non per interesse, senza «scordarsi che i suoi andamenti sono osservati dagli altri» (ibidem), i quali spesso si oppongono per invidia alle sue inclinazioni. Considerazioni e concetti che si leggono in molta satira secentesca e non solo di questo secolo, cui il Leti aggiunge considerazioni che servono ad “allungare il brodo”. Nella Lettera XVII viene spiegato il significato che, nelle diverse epoche, ha avuto il nome della corte: i turchi e i persiani, per esempio, chiamarono le corti col nome di «Porta», quasi che con questa «voce tutti i magnati & altri di minor sfera, fossero invitati a portarsi nella corte», luogo di invidia, di magagne e di raggiri, dove ancora i rapporti tra le persone sono basati sull’ipocrisia e sulla doppiezza; un luogo, quindi, come viene detto allegoricamente, ove non risplende il «sole», la luce, ma il buio e l’ambiguità, la disonestà, la simulazione (temi

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cari pure alla poesia satirica); altre volte invece «corte» ha il significato di «Restretto del Principe con la famiglia, con i suoi consiglieri, e officiali principali» (Lettera XVII, in Leti 1678: 391). Nelle lettere ricorrono vari nomi di principi, tra cui Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino e «serenissimo principe de’ litterati moderni» (Lettera XXI, in Leti 1678: 451), oppure ancora sono nominati vari papi, o vescovi che abbandonano la religione cattolica per quella calvinista. In quanto ai destinatari cui sono indirizzate, di alcuni si hanno notizie certe, di altri poche e insicure, di altri ancora non si sa nulla (potrebbero essere stati inventati dal Leti): sono letterati o personaggi di secondaria importanza come Cesare Campana, o più noti, come il già citato Marc’Antonio De Dominis, vescovo di Spalato. In sostanza, il Leti fu un ottimo poligrafo; era amico di vari principi e politici non solo italiani, e conosceva assai bene il panorama politico, anche europeo. Ci ha lasciato giudizi storici importanti, in quanto profondo conoscitore delle cose politiche e letterarie del suo tempo. Seppe sfruttare queste conoscenze per avere favori, mostrando di saper scegliere gli argomenti e gli autori da manipolare o saccheggiare. Abile a capire i gusti del pubblico, Gregorio Leti puntò efficacemente su Traiano Boccalini e legò così il suo nome a quello del grande politologo marchigiano. Certo, quest’ultimo è superiore al Leti. Ma il suo “editore” rivela non trascurabili doti di giornalista politico e una forte inclinazione verso la satira, uno spirito libero e libertino, scapigliato a suo modo, dalla penna facile e «punzecchiante» (Spini 1980: 118) ancorché non finemente raffinata e ironica come quella di Traiano Boccalini. Bibliografia Ferrari 1862 = G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862 (rielaborazione di G. Ferrari, Histoire de la raison d’état, Paris 1860) Leti 1678 = La Bilancia politica di tutte le opere di Traiano Boccalini […] Parte terza contenente alcune lettere politiche del medesimo auttore ricuorate, ristabilite e raccomodate dalla diligenza e cura di Gregorio Leti […], Castellana [Ginevra] 1678 Mirto 1985 = A. Mirto, Gregorio Leti e il suo soggiorno in Calabria, in «Calabria letteraria», XXXIII/1-2-3 (1985), pp. 53-55 Spini 1980 = G. Spini, Alcuni appunti sui libertini italiani, in Il libertinismo in Europa, a cura di S. Bertelli, Milano-Napoli 1980, pp. 117-124

Francesca Chiusaroli Il grafema, il segno grafico e le “scritture brevi” per la realizzazione del falso

In language study, it’s useful to have a term for a basic “letter” – the “A-ness” – which you can see in all of the A-shapes. That term is grapheme. David Crystal

Il presente contributo propone una riflessione su alcune dinamiche relative alle scritture improntate alla realizzazione del “falso”, osservando le tecniche di composizione di forme imitative di scritture ordinarie, corrette o standard, volte ad attivare meccanismi di inganno dell’occhio (trompe l’oeil) a scopo di deformazione, distorsione, alterazione, manipolazione, manomissione, stravolgimento, travisamento e infine di contraffazione e falsificazione di un testo o prodotto. In particolare saranno oggetto di questo excursus segni grafici riguardanti l’unità “lettera” nella scrittura alfabetica, mentre nel finale si mostreranno alcuni esemplari (anche celebri) di segni contraffatti, soprattutto loghi e insegne, che esplicitano le medesime strategie al livello di immagine – tutti casi dove l’unità “segno” diviene elemento di base per la composizione di forme derivate che, differenziandosi dal modello, in qualche misura lo richiamano, determinando l’effetto del riconoscimento e la necessaria variazione. Le considerazioni presentate intendono valutare l’accezione di “segno grafico” e le corrispondenze con la critica nozione teorica di “grafema”, quale risulta dal dibattito innescato con l’adozione in linguistica del tecnicismo recepito dalla teoresi strutturalista novecentesca a partire da Pulgram (1951):

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I linguisti che si sono interessati alla scrittura hanno coniato il termine di grafema (fin dagli anni Cinquanta) per analogia a fonema e hanno dato il nome di grafemica allo studio della scrittura come sistema di unità distintive. Tuttavia il concetto di grafema non è chiaro. In molti lavori, e non solo dei meno rigorosi, grafema si trova usato semplicemente per indicare una lettera dell’alfabeto. Se è così, non si vede il bisogno di usare un nuovo termine per designare un’unità che già siamo abituati a distinguere da secoli. L’unica funzione del termine sarebbe allora quella di conferire una connotazione scientifica, “strutturalista”. (Cardona 1981: 28-29)

La teoria della scrittura di Giorgio Raimondo Cardona (Cardona 1981, 1986 e 2006) costituisce il punto di riferimento teorico della presente indagine, per la rilevanza, tutt’oggi, delle idee espresse e, non secondariamente, per il legame personale e intellettuale intrattenuto dall’autore con Cesare De Michelis, a cui ho l’onore di dedicare questo contributo. La vaghezza riscontrata nella prospettiva convenzionale strutturalista, l’inevitabile connotazione europeo-alfabeto-centrica delle analisi, i limiti derivanti dalla valenza sinonimica – dunque metodologicamente irrilevante – assegnata a “grafema” rispetto a “lettera alfabetica”, la ben nota impraticabilità, in molti casi, della corrispondenza tra piano fonico e grafico e, per altri versi, la dichiarata dipendenza dal piano fonologico nell’organizzazione e nello sviluppo dei sistemi grafici ( da ): queste debolezze della definizione tradizionale (cfr. ad esempio Gelb 1952; Harris 1986) impongono la necessità di ridurre le generalizzazioni concentrando l’attenzione sugli elementi dello specifico sistema scrittorio, osservato in chiave etnografica (Cardona 1981 e 2006; Mancini, Turchetta 2014). Come pure appare con evidenza la necessità di mantenere il collegamento con lo specifico prodotto testuale, poiché irrinunciabile è la dipendenza della forma del singolo segno grafico rispetto al segno linguistico indicato (Harris 2000). Sulla base del contesto si organizza, infatti, come vedremo, l’estensione della varietà delle forme dei segni, si strutturano le reciproche somiglianze e differenze, si decide l’alternabilità. Da tali premesse muove l’ipotesi che la riflessione sul segno grafico e la dicotomia “grafo”/“grafema” possano trovare una dimensione applicativa nella nozione di “scritture brevi”, secondo la definizione elaborata da Chiusaroli e Zanzotto (Chiusaroli, Zanzotto 2012) e ora contenuta in (cfr. anche Chiusaroli 2014): L’etichetta “scritture brevi” è proposta come categoria concettuale e metalinguistica per la classificazione di forme grafiche come abbreviazioni, acro-

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nimi, sigle, punteggiatura, segni, icone, indici e simboli, elementi figurativi, espressioni testuali e codici visivi per i quali risulti dirimente il principio della “brevità” connesso al criterio dell’“economia”. In particolare sono comprese nella categoria “scritture brevi” tutte le manifestazioni grafiche che, nella dimensione sintagmatica, si sottraggono al principio della linearità del significante, alterano le regole morfotattiche convenzionali della lingua scritta, e intervengono nella costruzione del messaggio nei termini di “riduzione, contenimento, sintesi” indotti dai supporti e dai contesti. La categoria ha applicazione nella sincronia e nella diacronia linguistica, nei sistemi standard e non standard, negli ambiti generali e specialistici.

La definizione riportata mira a considerare una nozione di unità grafica minima di volta in volta adattabile al sistema linguistico, scrittorio e anche, come vedremo, alle relative condizioni testuali, verificando l’inclusione in un’unica categoria concettuale, metalinguistica (Chiusaroli 2012), di elementi della scrittura che vanno dal singolo tratto al carattere complesso (Frutiger 1978-81; Noordzij 1985). Muovendo da tali premesse, proprio la resa del “falso” può fornire una peculiare condizione per l’indagine sulla nozione di unità distintiva del segno grafico, a motivo del continuum generato tra le forme (grafemi?), ovvero la possibilità materiale dell’interscambio e della sostituzione tra i segni secondo limiti posti soltanto dal contesto e, talora, indipendentemente dal valore attribuito convenzionalmente ai segni stessi. È dunque sul piano concreto, della “figura” (nel senso classico, varroniano, del termine), che lettere diverse possono modificarsi, unificarsi e/o differenziarsi, essere rimaneggiate e, al limite, mutuamente interscambiate per l’espressione di una medesima funzione, persino eludendo in tal modo i parametri della discretezza, anzi sfruttando a scopo evocativo il potenziale di ambiguità annesso alla somiglianza e non coincidenza delle forme. La definizione di “allografo”, in quanto elemento grafico concreto direttamente deducibile dalla nozione strutturalista di grafema, appare dunque inadeguata, in quanto difficile è circoscrivere i confini tra i segni scritti per la loro variabilità espressiva e applicativa, per le relazioni inattese col modello astrattamente codificato, per le pressoché infinite manifestazioni formali: «L’elemento grafico è ancora una unità astratta: esso sarà reso percepibile da grafismi tracciati in qualche modo su un supporto, che dovranno essere distinti e tipizzati, cioè ripetibili in forme ogni volta riconoscibili» (Cardona 1981: 27). Uno sguardo alla tradizione alfabetica latina mostra come la

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cristallizzazione dei segni grafici promossa nelle singole lingue con l’introduzione della stampa non sia mai stata (Martin 1988), né tanto meno oggi può essere, sufficiente a garantire una rigida sorveglianza nella gamma delle realizzazioni e nella codifica delle forme possibili, tanto più in quanto gli strumenti elettronici hanno mostrato di poter ampliare la possibilità delle rese dei grafi nelle più varie e immaginabili varianti, e a tal punto da includere nelle varietà anche le riproduzioni della scrittura a mano. La molteplicità delle versioni si riscontra nel ricco assortimento di font accessibili dal programma di scrittura (fig. 1), e anche nelle pratiche del lettering nel type design (), tecniche di generazione e riproduzione di segni che proseguono l’eredità degli stili grafici storicamente attestati, innanzi tutto nella tipografia, a partire dalle macrodistinzioni tra maiuscolo e minuscolo e di seguito tra stampatello e corsivo. Accanto al valore stabilizzato delle lettere appaiono dunque le più diverse realizzazioni concrete catalogate dalla paleografia (Cencetti 1997) e dalla calligrafia (Ascoli 2012), con le note applicazioni nei vari contesti figurativi delle diverse epoche, come il fumetto, il calligramma nella poesia visuale, i giochi figurativi (Catricalà 2012; Massin 1993; Sbrilli, De Pirro 2010). Il riconoscimento è consentito evidentemente sulla base della competenza dei segni (fig. 2), cioè postulando la conoscenza condivisa di una comune “immagine mentale”, secondo una prospettiva che consente di applicare la nozione saussuriana di segno anche all’unità grafica, unione di significato e

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Fig. 3

significante, astratti quanto interdipendenti, depositati nella partecipata conoscenza, realizzati concretamente nell’atto pratico della scrittura. La scrittura elettronica arriva peraltro a configurare tecnicamente modalità di imitazione della grafia “a mano” espressamente a scopo di crittografia (Singh 1999), come si può ad esempio osservare nel cosiddetto test captcha (fig. 3), la sequenza di caratteri a scopo anti-spam, scrittura dai connotati distorti e confusi che impegnano il lettore alla decifrazione, pena l’impossibilità di accedere a un sito o a un servizio in rete. Alla specificità dei font – che dalla macchina (ad esempio lo scanner) possono essere uniformati e letti – si aggiunge in questo caso un’ulteriore dimensione legata alla percezione fisica del segno, quale peculiare abilità attribuita specificamente all’essere umano, così che la prova di lettura del codice captcha equivale a una variante del test di Turing, proprio a partire dall’indecifrabilità robotizzata. Ma non è sempre necessario deformare il segno per ottenere un effetto di inganno dell’occhio. Muovono ad esempio dalla forma convenzionale del font, e dunque dalla nozione astratta del segno, alcuni espedienti riconducibili alla gestione il più possibile personalizzata dei nomi account e soprattutto delle password, procedimenti richiesti per evitare l’esposizione ai ben noti rischi dell’hackeraggio in rete. Il punto di partenza è la tipica richiesta, da parte del sistema, di fornire una stringa (password) di un numero minimo caratteri, che dovrà contenere almeno tot caratteri in lettere maiuscole (da A a Z), almeno tot caratteri

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appartenenti ai numeri di base (da 0 a 9), eventualmente almeno un carattere non alfabetico (ad esempio !,$,#,%). Il tutto in maniera che il codice risulti unico, non già esistente, soprattutto imprevedibile, non deducibile attraverso gli strumenti statistici. Malgrado l’auspicata originalità, l’effetto comprovato (Burnett, Kleiman 2006) è, paradossalmente, l’abitudine di scegliere password fatte di sequenze predicibili e comuni, spesso camuffando con grafie simili la scrittura di una parola nota (nome, formula, data di nascita ecc.), scegliendo la via della tecnica mnemonica rispetto all’invenzione da zero, così vanificando la ricercata oscurità in favore di un inevitabile effetto di trasparenza (). Analoga pratica, in versione solo “esteticamente” criptata, usata soprattutto a fini ludici, si ritrova nelle popolari strategie di creazione del nickname per gli account di posta elettronica e soprattutto per i social network. Tali sono le occasioni, particolarmente diffuse tra gli utenti delle giovani generazioni, in cui ad esempio spesso il maiuscolo si alterna al minuscolo, e soprattutto, per il caso che ci interessa, il numerale o il segno di punteggiatura o il diacritico possono essere adottati per la forma, ovvero per la somiglianza “esterna” con il carattere alfabetico corrispondente (), fino a creare soluzioni grafiche volutamente equivocabili (si pensi, su Twitter, ad account fake come @casalegglo per @casaleggio, o @Apple_lT rispetto a @Apple_it, entrambi con percepita come una maiuscola). La pratica è nota all’informatica con il termine tecnico di leet, per cui la rete ha anche strutturato sistemi di conversione, o traduzione automatica (), evidentemente basati sulla fissazione di corrispondenze regolari, come dimostra il correlato sostantivo leetspeak, che attesta l’operazione di “riduzione” (in senso etimologico da reductio, Chiusaroli 2001) della varietà delle produzioni nel codice fissato, convenzionale (fig. 4). La somiglianza per figura autorizza la costruzione di forme grafiche artefatte, ovvero “falsificate”, costituite di segni simili volti a non pregiudicare in assoluto la comprensione del testo, bensì soltanto a mascherare la resa. Simile procedimento si inserisce nella prospettiva del trattamento dei refusi nella lettura. È nota infatti la difficoltà pratica di intercettare errori tipografici o di digitazione a motivo della prevalente considerazione “gestaltica” della parola come forma grafica complessiva e generale, per cui il significante e il significato si deducono più propriamente dal contesto e

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Fig. 4

dalla memoria visiva della scrittura che non dall’effettiva sequenza ordinata dei caratteri (Lee, Rayner, Pollatsek 2001). Su tali condizioni di automatismo della percezione si giocano, ad esempio, esperimenti di riproduzione di una stringa testuale scritta per mezzo di serie di microvariazioni grafiche (fig. 5). Maiuscole e minuscole, caratteri affini dal punto di vista del significante, alternanze tra segni alfabetici, numerali, speciali, varietà di spaziature, costruiscono un elenco di frasi “seriali” e irripetibili che hanno la peculiarità di non impedire mai la leggibilità del testo. In molti casi, lì dove la variante è formalmente “minima”, è difficile, all’inverso, notare l’errore: trattamenti del refuso che mettono in campo il calcolo delle probabilità e il dato statistico, insieme ai principi della teoria dell’informazione (Chiusaroli, Zanzotto 2012). Non è un caso che il refuso sia tra i procedimenti più ricorrenti individuabili nelle pratiche di contraffazione dei loghi, notoriamente per i più famosi marchi commerciali (Houplain 2013), dove, ad esempio, la sostituzione di due grafemi distinti ma formalmente simili consente contemporaneamente di richiamare o evocare il nome noto, evitando accortamente di riprodurlo come tale (fig. 6). Diremo a questo punto che grafismi e grafemi dovranno avere come caratteristica una natura grafica identitaria di base, un tratto materiale di riconoscibilità, qualcosa che permane al di là della variazione, un sema co-

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Fig. 7

mune rispetto al quale il procedimento alterativo può muoversi per derive e slittamenti, tra i due estremi dell’identificazione e della differenziazione. Tali spostamenti possono avere come risultato la stessa mescolanza tra segni diversi per convenzione e per funzione, la loro scambiabilità. Il peculiare equilibrio tra il “nuovo” e il “noto”, ovvero la resa informativa collocata nell’universo delle conoscenze, modalità proprie agli interventi creativi osservabili nel visual design e nei linguaggi delle arti (Gombrich 2008 e 2011; Catricalà 2008; Rak, Catricalà 2013; Zingale 2013; Falcinelli 2014), determinano per altro comunemente l’attivazione di meccanismi di elaborazione/trasformazione delle strutture grafiche prototipiche (fig.7) secondo (ma anche, a volte, oltre) i limiti concessi per la riconoscibilità. Ai fini della teoria integrata della scrittura richiamata da Cardona risulteranno utilmente collocabili nella prospettiva di “scritture brevi” strategie di sostituzione di caratteri con immagini di segni non alfabetici (fig. 8), così come sono funzionali all’invenzione artistica procedimenti di manipolazione delle lettere attraverso meccanismi di variazione rispetto all’asse immaginario del modello codificato – rotazioni, rovesciamenti, inversioni, inclinazioni, disposizioni non standard (fig. 9) – ancora con effetti sul piano della discretezza (fig. 10). Anche in tali casi il risultato atteso non intende pregiudicare la lettura, garantita dalla collocazione nel sistema testuale specifico, ma conferire al segno un valore semiotico aggiuntivo rispetto alla proposta originale.

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Fig. 8

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Fig. 9

In conclusione, la proliferazione delle manifestazioni possibili illustra una densa rete di forme adiacenti, priva di soluzioni di continuità, alla base del ricambio, mentre le frontiere della scrittura digitale e del trattamento automatico della lingua naturale offrono strumenti alla tesi universalista per il dominio sulle forme, il monitoraggio nella produzione e nella ricezione, la concreta prevedibilità e controllabilità degli esiti, eventualmente a tal punto da azzerare le ipotizzate differenze. La questione di distinguere un segno “falso” da uno “vero” fornisce utili argomenti alla riflessione sul grafema, indirizzando l’interesse sull’attivazione di modalità di riconoscimento di uno specifico segno come un grafismo proprio del sistema o, al contrario, come un sostituto “non pertinente”. Le tecniche adottate per operare modificazioni con effetto straniante, ingannevole, sono di fatto le stesse che accompagnano costantemente la

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storia e la pratica della scrittura. Ciò che cambia è la posizione “giuridica”, o il potenziale di legalità dell’operazione, il fatto che l’azione non sia incidentale o giocosa o consentita, ma al contrario illegale, non autorizzata. Ma questa è un’altra storia. Bibliografia Ascoli 2012 = F. Ascoli, Dalla cancelleresca all’inglese. L’avventura della calligrafia in Italia dal Cinquecento ad oggi, Alessandria 2012 Burnett, Kleiman 2006 = M. Burnett, D. Kleiman, Perfect passwords: selection, protection, authentication, Rockland (MA) 2006 (trad. it. La password perfetta: trucchi, segreti e tecniche per creare password efficaci e sicure, Milano 2006) Cardona 1981 = G.R. Cardona, Antropologia della scrittura, Torino 1981 Cardona 1986 = G.R. Cardona, Storia universale della scrittura, Milano 1986 Cardona 2006 = G.R. Cardona, I linguaggi del sapere, a cura di C. Bologna, Roma-Bari 20063 Catricalà 2008 = M. Catricalà, Marchi “di moda” italiani; un’indagine mirata tra il 1900 e il 1950, in Visioni di moda, a cura di A. Mascio, Milano 2008, pp. 39-57 Catricalà 2012 = M. Catricalà, Voci, ideofoni e balloon: gli spazi fonico-uditivi del fumetto, in Comunicazione e ambiente. Orientare le risorse, Aiutare a capire, Stimolare ad agire, Ispirare il cambiamento, a cura di A. Manco, Napoli 2012 Cencetti 1997 = G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1997 Chiusaroli 2001 = F. Chiusaroli, Una trafila secentesca di reductio, in Dal ‘paradigma’ alla parola. Riflessioni sul metalinguaggio della linguistica, Atti del Convegno (Udine-Gorizia, 10-11 febbraio 1999), a cura di V. Orioles, Roma 2001, pp. 33-51 Chiusaroli 2012 = F. Chiusaroli, Scritture brevi oggi. Tra convenzione e sistema, in Scritture brevi di oggi, a cura di F. Chiusaroli, F.M. Zanzotto, «Quaderni di Linguistica Zero», 1 (2012), pp. 4-44 Chiusaroli 2014 = F. Chiusaroli, Scritture Brevi di Twitter. Note di grammatica e di terminologia, in Metalinguaggio. Storia e statuto dei costrutti della linguistica, a cura di V. Orioles, R. Bombi, M. Brazzo, vol. I, Roma 2014, pp. 435-448 Chiusaroli, Zanzotto 2012 = F. Chiusaroli, F.M. Zanzotto, Informatività e scritture brevi del web, in Scritture brevi nelle lingue moderne, a cura di F. Chiusaroli, F.M. Zanzotto, «Quaderni di Linguistica Zero», 2 (2012), pp. 3-20

Il grafema, il segno grafico e le “scritture brevi”

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Paolo D’Angelo «Dell’inventato, che è quanto dire, del falso». Manzoni e l’immaginazione come specie della falsità

Credo di dovere l’invito – graditissimo – a partecipare a questa raccolta di scritti in onore di Cesare De Michelis, oltre che, beninteso, alla cortesia delle curatrici, al fatto di aver progettato, qualche anno fa, un numero monografico della «Rivista di Estetica» interamente dedicato al problema della falsificazione. In quel fascicolo, con l’aiuto di studiosi delle singole discipline, cercavo di analizzare lo statuto di falsi e contraffazioni in ambito pittorico, letterario, cinematografico, architettonico, ma anche archeologico, e ripercorrevo il nutrito dibattito che intorno alla nozione di falso si è sviluppato soprattutto nel campo della filosofia analitica, a partire da Nelson Goodman, fino ai lavori più recenti di Dutton, Levinson e Sagoff (D’Angelo 2006). Qui, però, non mi occuperò di falsi d’arte e di falsari, di copie, repliche, pastiche, intendo invece concentrarmi su di una tesi di portata generale, quella che intende la “finzione” come un tipo di “falsità”, che equipara l’immaginato al falso, e insomma nega alla finzione uno spazio terzo, alternativo tanto alla verità che al falso. Questa tesi si è ripresentata più volte nel corso della storia dell’estetica occidentale, e nelle teorie letterarie di varie epoche. Indubbiamente, poi, essa sembra godere di un avvio prestigiosissimo, potendo rimontare agli inizi stessi della riflessione occidentale sull’arte e la poesia, e fregiarsi del nome di Platone, presso il quale, pur con numerose oscillazioni e ambiguità (cfr. Halliwell 2009) la parola pseudos e i suoi derivati coprono spesso, senza distinzione, l’ambito dell’invenzione artistica e quello della falsità e della menzogna. I poeti mentono, cioè dicono cose non vere, per esempio circa gli dei e le loro abitudini, e l’operare dell’artista figurativo dista di due gradi dalla verità, giacché egli copia gli oggetti reali, che a loro volta sono copie dei modelli ideali. La condanna platonica della mimesi poeti-

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ca poggia proprio sulla convinzione che l’immaginazione artistica non sia distinguibile dal falso, ma ne sia solo una sottospecie. A grande distanza da Platone, questa idea si ripresenta nella tradizione cristiana, e la percorre emergendo ripetutamente, sia agli inizi della dottrina, per esempio nelle lamentazioni di Agostino, nelle Confessioni, circa il tempo perduto in gioventù andando dietro agli inganni e le menzogne dei poeti, sia molto più tardi, per esempio nelle polemiche contro il teatro e il romanzo dei moralisti francesi del diciassettesimo secolo, da Bossuet a Nicole. L’idea che la finzione non sia sostanzialmente null’altro che un tipo di falsità, però, non è mai tramontata e ha avuto un inaspettato revival nelle discussioni letterarie degli ultimi anni. Complice la volontà di opporsi alle parole d’ordine del postmoderno, identificato con il disimpegno, l’approccio ludico alla letteratura, la perdita di contatto con la realtà o addirittura la sua negazione, non si contano più le prese di posizione di scrittori a favore della non fiction, di registi a favore del documentario, di artisti visual a favore di un’arte di reportage o di denuncia, e le condanne di un’arte disimpegnata, ovvero impegnata a fare quello che ha sempre fatto, cioè inventare (cfr. Donnarumma 2014). Ma veramente la finzione ha fatto il suo tempo, o non resta vero piuttosto il contrario, e cioè che, come diceva Nietzsche, noi abbiamo l’arte proprio per non morire a causa della verità? Non mancano, nella storia dell’estetica, autorevoli difese dello spazio dell’invenzione o finzione, dalla classica affermazione di Aristotele (Aristotele 1998: 1451, b 5-9) circa la superiorità della poesia sulla storia, giacché la prima racconta quello che può accadere, l’universale, mentre la seconda è limitata all’accaduto, al particolare, fino alle chiarificazioni di un filosofo come John Searle sullo statuto logico della fiction (Searle 1975). Qui, però, vorrei prendere un’altra strada. Non dimostrare, filosoficamente, che la finzione svolge un ruolo centrale nell’organizzazione delle nostre capacità cognitive ed emotive, e che con tutta probabilità è in questi paraggi che si radica la necessità dell’attività artistica (cfr. D’Angelo 2011) ma facendo vedere, in un caso concreto, come il rifiuto della dimensione immaginativa porti di fatto a una completa esautorazione dell’esperienza estetica e a un rifiuto dell’arte. Il caso è quello del nostro maggior romanziere dell’Ottocento, intendo ovviamente dire Alessandro Manzoni: vorrei mostrare, per rapidi accenni (cfr. D’Angelo 2013) come Manzoni sia stato condotto al silenzio (artistico) dalle sue opinioni teo-

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riche circa lo statuto della letteratura di invenzione, e in particolare dalla convinzione che si ricava dalla frase che ho scelto come titolo: «dell’inventato, che è quanto dire, del falso». La frase si trova nella Lettera sul Romanticismo, scritta nel 1823 anche se pubblicata, come è noto, solo molti anni dopo. Manzoni si chiede che cosa significhi “vero” con riferimento alle opere di immaginazione, e si risponde: «Il senso ovvio e generico [della parola “vero”] non può essere applicato ad esse, nelle quali ognuno è d’accordo che vi debba essere dell’inventato, che è quanto dire, del falso» (Manzoni 1981: 185). Fin dall’inizio, ossia fin da quando Manzoni comincia a riflettere sul rapporto tra immaginazione e realtà, egli abbraccia la tesi che equipara finzione e falsità, invenzione e inganno. Anche nella Lettre à Monsieur Chauvet, scritta due anni prima, è detto in termini tali da non permettere dubbi che l’interesse della poesia consiste nella verità di quel che narra, e che l’essenza, cioè il compito proprio della poesia non consiste nell’inventare dei fatti. L’invenzione è facile e povera, e, ben lungi dall’essere il requisito fondamentale per chi vuol fare poesia, si rivela una capacità priva di particolare pregio e alla portata di chiunque. Non so se sto per dire qualcosa che contraddice le idee accreditate: ma credo di dire una verità assai semplice affermando che l’essenza della poesia non consiste nell’inventare dei fatti. Questo genere di invenzione è quanto di più facile e di più insignificante esista nel lavoro della mente, e richiede ben poca riflessione e persino ben poca immaginazione. Perciò creazioni di questo genere si moltiplicano più che mai; mentre tutti i grandi monumenti poetici hanno a base avvenimenti tratti dalla storia, o – che in questo caso è poi lo stesso – da ciò che un tempo è stato considerato come storia. (Manzoni 1981: 109)

“Storia” è una parola che in Manzoni vale quanto “verità” o “realtà”. E il rapporto tra storia e invenzione è difficile, in Manzoni, fin dai suoi primi scritti teorici, e non, come talora si crede, solo in una fase più tarda, quella che è testimoniata dal discorso Del romanzo storico e, in genere de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Non solo, infatti, si può dimostrare che persino quest’ultimo scritto, pubblicato soltanto nel 1850, rispecchia in realtà opinioni e pensieri elaborati molti anni prima, addirittura immediatamente dopo la pubblicazione dell’edizione ventisettana del romanzo, ma già nelle riflessioni che accompagnano la stesura della prima tragedia, il Conte di Carmagnola, Manzoni mostra di avvertire come problematico

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il rapporto tra invenzione e realtà, tra letteratura e storia. La decisione di accompagnare la tragedia con un breve regesto di Notizie storiche, e più ancora quella di separare, nel paratesto dell’opera, personaggi “ideali” e personaggi “storici” (una distinzione, come è noto, che doveva provocare le uniche critiche di Goethe a un’opera per il resto molto ammirata) ne sono inequivocabile testimonianza. Già a quest’altezza cronologica, infatti, Manzoni è convinto che la fonte della poeticità non può essere altro che la veridicità storica, come spiegherà nella Lettre: «un fatto che non è esistito e che si vorrebbe dare come causa o come conseguenza di altri fatti reali e conosciuti, non possiede neppure verità poetica» (Manzoni 1981: 111). Ci si può chiedere che cosa resti allora alla poesia in una prospettiva come questa. Ed è nella risposta a questa domanda che si chiariscono le uniche differenze tra la posizione iniziale di Manzoni e quella che verrà abbracciata nel Discorso del romanzo storico. Infatti per il Manzoni delle tragedie, della Lettre à M. Chauvet e, a fortiori, del romanzo, alla poesia resta ancora un ruolo di “integrazione” della storia, e soprattutto di “supplenza” rispetto a una storiografia manchevole. Per quanto riguarda il primo aspetto, quello che vede nella poesia un’integrazione della storia, ciò che Manzoni ha in mente è il fatto che la poesia può dare tutte quelle circostanze che restano precluse alla storiografia, ovvero il lato interiore, psicologico, sentimentale e morale dei protagonisti degli avvenimenti storici. Ma, si potrà dire, se al poeta si toglie quel che lo distingue dallo storico, e cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? La poesia, sì, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno: ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi con i quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e la loro volontà su altre passioni e su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, in una parola, hanno rivelato la loro personalità, tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia. (Manzoni 1981: 111-112)

In una lettera a Fauriel, Manzoni dirà che si tratta di approfittare della storia senza mettersi in concorrenza con lei, cioè appunto di colorirla e integrarla con quello sguardo all’intimità dei personaggi che, consentito al poeta, resta proibito allo storico che voglia mantenersi tale.

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Questo primo aspetto in forza del quale la poesia si presenta con la funzione di integrare la storia e arricchirla è piuttosto noto e facilmente comprensibile anche in base ai nostri odierni parametri. Meno facile ci risulta comprendere l’altro aspetto, quello per cui la poesia finisce per supplire alle carenze della storiografia e offrire un modello alternativo di storia. La storiografia delle Annales, la microstoria e la storia della mentalità ci hanno ormai abituato a una storiografia che non si limita affatto ai grandi avvenimenti, ma scende fin nel dettaglio della vita quotidiana anche di persone comuni e di bassa condizione. All’inizio dell’Ottocento, le cose erano ancora profondamente diverse, e per questo ci risulta più difficile comprendere come Manzoni abbia potuto pensare, sia pure per un breve periodo della sua vita, sostanzialmente coincidente con l’elaborazione del Fermo e Lucia e poi la revisione che porta alla edizione del Ventisette, di fornire con il suo romanzo un modello diverso di fare storiografia. Eppure, è evidente che quando Manzoni decide di abbandonare la tragedia storica per il romanzo, lo fa perché è convinto che la prima ponga ancora troppi vincoli alla verità storica, vincoli dai quali invece il romanzo può affrancarsi. Nella tragedia, infatti, i protagonisti sono personaggi storici famosi, con la conseguenza che il poeta deve per forza allontanarsi dai fatti storicamente accertati per creare un intreccio artisticamente plausibile. Così si finisce nel paradosso che tanto nel Conte di Carmagnola quanto (soprattutto) nell’Adelchi, è proprio il protagonista la figura più lontana dalla plausibilità storica: Carmagnola era probabilmente un soldataccio, pronto a tutte le astuzie, e Adelchi, lungi dall’essere un mite e devoto amante della pace pronto a porgere l’altra guancia era, con tutta probabilità, un principe ambizioso amante della conquista e legato al potere. Il romanzo consente di rovesciare questa situazione, perché nel romanzo storico i protagonisti sono personaggi di fantasia (Renzo, Lucia, Don Abbondio), mentre lo sfondo della vicenda e i personaggi di contorno (il Cardinal Federigo, Antonio Ferrer, il protofisico Ludovico Settala) sono pienamente storici e agiscono in accordo con quel che la storia ci ha tramandato di loro. Il romanzo, dunque, è un’altra storia, cioè è una storia “altra”, un tipo diverso di storiografia, che lascia posto agli umili, al quotidiano, alla descrizione della vita di tutti i giorni, cioè precisamente a quello che la grande storia, l’histoire-bataille, la storiografia événementielle relega in secondo piano, anzi non tratta affatto. Non per nulla la tentazione di scrivere un romanzo storico è presente, in quegli stessi anni, anche presso gli storici francesi che Manzoni frequenta nei

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suoi soggiorni parigini (Augustin Thierry, Fauriel) e come pure in quelli con i quali non ha rapporti diretti, come Jules Michelet. Insomma, lungi dall’essere quello che è diventato per noi contemporanei, cioè un sottogenere pericolosamente vicino al fantasy, il romanzo storico poteva apparire all’epoca di Manzoni un altro modo di fare storiografia, un «sistema di invenzione di fatti per sviluppare costumi storici» (Manzoni 1986: 227).1 Al punto che il poeta Lamartine, dopo la lettura del romanzo, poteva esortare Manzoni ad abbandonare la letteratura per darsi integralmente alla storia: Non vi muoverò che un solo rimprovero, ed è di non aver creato il genere nel quale intendete esercitare un talento tanto bello e potente. Un’altra volta, fatelo. Uscite fuori dal romanzo storico, dateci della storia in un genere nuovo. Voi potete farlo: voi lo avete fatto, il vostro terzo volume non è altro che questo. (Manzoni 1986)2

Lamartine è entusiasta delle parti storiche del romanzo, e incoraggia Manzoni a farsi storiografo in senso pieno. Negli stessi anni, Goethe vedrà la cosa in modo diametralmente opposto. Come già aveva fatto per la prima tragedia, criticherà la mescolanza di storia e poesia nei Promessi Sposi, ma la criticherà vedendo in essi un eccesso di storia che finisce per danneggiare la poesia. Attraverso i Colloqui di Goethe con Eckermann possiamo seguire quasi dal vivo il passaggio dalla più calda approvazione al disappunto cui il grande poeta va incontro durante la lettura del romanzo: Il romanzo di Manzoni sopravanza tutto quel che io conosco in questo genere. Non ho bisogno di dirle che quel che è intimo, tutto ciò che proviene dall’animo del poeta, è assolutamente perfetto, e che quel che è esteriore, tutte le descrizioni di luoghi e simili non la cede di un capello alle grandi qualità intime. […]. L’impressione nella lettura è tale, che si passa continuamente dalla emozione alla meraviglia, e dalla meraviglia di nuovo all’emozione, così che non ci si allontana mai da nessuno di questi grandi effetti. Pensavo, più in alto di così non ci si può spingere. In questo romanzo si vede per la prima volta chi è Manzoni. Qui il suo animo intero viene a manifestarsi, quell’animo che nelle sue opere drammatiche non ha avuto la possibilità di dispiegarsi. Le dicevo che in questo romanzo lo storico viene in aiuto al poeta, ma ora trovo che lo storico ha giocato un brutto tiro al poeta, perché il signor Manzoni si spoglia della veste del poeta e per un buon tratto ci sta dinanzi come nudo 1. L’espressione è usata da Manzoni in una lettera a Fauriel del 29 gennaio 1821. 2. Lettera di de Lamartine a Manzoni del 29 ottobre 1827.

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storico. Questo succede nella descrizione della guerra, della carestia e della pestilenza, cose che già di per se stesse sono di carattere respingente e che nei dettagli circostanziati di una rappresentazione aridamente cronachistica diventano insopportabili […]. Se Manzoni avesse avuto vicino un amico che lo consigliava, avrebbe potuto ben facilmente evitare questo errore. Ma egli aveva, come storico, un rispetto troppo grande per la realtà. Questo accade già nelle sue opere drammatiche, dove però aiuta il fatto che egli fornisce la materia storica superflua sotto forma di note. In questo caso però non si è saputo aiutare così e non è riuscito a staccarsi dalla materia storica. Ciò è molto strano, perché appena tornano in campo i personaggi del romanzo, il poeta torna in piena gloria e costringe anche noi a tornare all’usuale ammirazione. (Eckermann 1981: 243-244)

Le osservazioni di Goethe suscitarono in Manzoni una reazione profonda, perché da esse fu spinto a riconsiderare la questione dei rapporti tra storia e poesia, che torna ad avvertire problematica. Solo che Manzoni ben presto prenderà una via antitetica a quella suggerita da Goethe: la soluzione, per lui, non sta nell’“alleggerire” le parti storiche e curarsi meno della verità dei fatti accaduti; sta esattamente nel contrario, ossia nell’abbracciare definitivamente la storia come il solo genere accettabile, e nel relegare la letteratura di invenzione e l’immaginazione nel passato, in un’infanzia dell’umanità della quale i tempi progrediti rendono impossibile il ritorno. Gli anni che vanno dal 1828 al 1832 videro Manzoni arrovellarsi attorno alla questione, fino a ritenere insostenibile il ricorso all’arte e alla poesia. È del tutto probabile che il Discorso del romanzo storico (che, come abbiamo visto, verrà pubblicato solo quasi vent’anni dopo) sia stato steso in gran parte in questo torno di tempo; di sicuro furono elaborate in quegli anni le idee a cui quel testo dà voce. Manzoni arriva a pensare che il romanzo storico sia un paradosso, un ircocervo, una sintesi impossibile. Infatti questo genere letterario o confonde invenzione e realtà storica, e allora rende un cattivo servizio alla realtà storica, o le mantiene distinte, e allora compromette il suo valore estetico. Scrivere un romanzo storico è un compito assurdo, perché non si può dare una forma unitaria a due materie inconciliabili come la verità e la finzione. Sarebbe come voler mescolare acqua e olio e pretendere di alimentare con questo miscuglio una lucerna, come mettere sullo stesso piano un manoscritto e gli scarabocchi che vi facesse sopra un ragazzo. La serietà della storia non tollera i ghiribizzi della poesia, le divagazioni dell’immaginazione.

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Nonostante i ripetuti tentativi da parte della critica di minimizzare la portata delle affermazioni di Manzoni, a partire dalla interpretazione di De Sanctis, secondo la quale il Discorso del romanzo storico sarebbe solo un’involuzione senile, la tesi manzoniana che equipara invenzione e falsità finisce per avere conseguenze letali per la poesia stessa. Manzoni approda a posizioni che ne fanno, a pieno diritto, un teorico della morte dell’arte, un’idea che, negli stessi anni in cui Manzoni scriveva il romanzo, veniva potentemente elaborata nella filosofia di Hegel. Anche nel caso di Manzoni, come in quello di Hegel, quella della morte dell’arte è una tesi che va letta in prospettiva storica. I tempi antichi, le età primitive, sono quelle della indistinzione di poesia e storia, ma di una indistinzione che è tale perché i popoli considerano la poesia e l’invenzione come storia vera; man mano che avanza la civiltà, diventa però sempre più avvertita l’esigenza di sapere che cosa è fatto positivo e che cosa, invece, è immaginazione, fino ad arrivare al mondo contemporaneo, che è il mondo della scienza e della storia che si avvia a divenire scienza, e nel quale l’incertezza sulla verità degli episodi che ci vengono presentati è diventata intollerabile. Quanto più i lettori progrediscono in cultura, tanto meno ameranno trastullarsi con vuote fantasie e cercheranno il solido terreno della storiografia. Mentre in Hegel l’arte muore a favore della filosofia, in Manzoni si dissolve a vantaggio della storiografia. C’è un passaggio, nel Discorso del romanzo storico, in cui questo stato di cose diventa chiarissimo attraverso una similitudine: Poiché il romanzo storico prende come parte della sua materia quella che è la propria e natural materia della storia, bisogna bene che, per questa parte, sia messo a paragone con essa. Non è per cagione del titolo, né della forma, né dell’assunto dell’opera, che della verità storica non si può far nulla di bono, se non rappresentarla più distintamente che si può: è per la natura della verità storica. Anche l’alchimia aveva il suo intento, diverso in parte da quello della chimica: non le mancava altro, che d’ottenerlo; anch’essa supponeva che ci dovessero essere i mezzi adattati a quell’intento: non le mancava altro, che di trovarli. E nulla è stato più a proposito che l’opporle gli esperimenti e i raziocinii della chimica, in quanto lavoravano tutt’e dua sui metalli. E si veda come sarebbe parso strano se quella avesse risposto: codesto andrà bene per la chimica; ma io mi chiamo l’alchimia. (Manzoni 1981: 215)

Il paragone è chiarissimo: l’alchimia sta alla chimica come il romanzo storico sta alla storiografia. Dunque la letteratura di invenzione (oggi diremmo la fiction) è come una falsa scienza, propaga menzogne invece di verità.

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L’immaginazione è inganno, errore, falsità. L’assimilazione di invenzione e falsità porta coerentemente alla dissoluzione della forma artistica, che non ha, a questo punto, letteralmente più ragione di esistere. E se qualcuno pensa che questa sia un’interpretazione troppo estrema, sarà bene ricordargli che era proprio Manzoni il primo a pensarla così. In una lettera del 1829 (due anni appena dopo aver dato alle stampe i Promessi Sposi) scriveva: debbo confessarle schiettamente, che da quelle pubblicazioni in poi, le mie idee sono andate oltre assai nella buona o cattiva strada in cui ero entrato; e che se quella poté parer licenza, le mie opinioni attuali, in questo particolare, tendono affatto all’anarchia, per non dire alla distruzione dell’arte medesima. (Manzoni 1986: 536-537)3

Bibliografia Aristotele 1998 = Aristotele, Poetica, a cura di G. Paduano, Bari 1998 D’Angelo 2006 = Falsi, contraffazioni e finzioni, numero monografico della «Rivista di Estetica», a cura di P. D’Angelo, XLVI/1 (2006) D’Angelo 2011 = P. D’Angelo, Estetica, Roma-Bari 2011 D’Angelo 2013 = P. D’Angelo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia, Bologna 2013 Donnarumma 2014 = R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna 2014 Eckermann 1981 = J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, vol. I, Insel 1981 Halliwell 2009 = S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Palermo 2009 Manzoni 1981 = A. Manzoni, Lettera sul Romanticismo al Marchese Cesare D’Azeglio, in A. Manzoni, Scritti di teoria letteraria, Milano 1981, pp. 155-191 Manzoni 1986 = A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, vol. I, Milano 1986 Searle 1975 = J. Searle, The Logical Status of Fiction, in «New Literary History», VI/2 (1975), pp. 149-162

3. Lettera di Manzoni a F. Guicciardini, 16 febbraio 1829.

Marina Formica Un falso Oriente. Da Gemelli Careri all’Abate Vella

Falsità, bugia, artifizio, inganno, invenzione, simulazione, contraffazione, sofisticazione, mendacio, balla, truffa, fandonia…: già la ricchezza e l’abbondanza quantitativa dei sinonimi della lingua italiana sul tema del presente Colloquio paiono costituire, da sole, un primo indizio dell’importanza di un fenomeno ancora lungi dall’essere stato adeguatamente e analiticamente indagato in tutta la sua complessità storica, giuridica, sociale, culturale in senso lato; un fenomeno che, come ha indicato Derrida nella sua fortunata Histoire du mensonge (Derrida 2005), ci induce a svolgere talmente all’indietro la pellicola del tempo da arrivare addirittura al mito, alla favola. Non si tratta infatti solo di esaminare alcuni importanti falsi storici e i rispettivi agenti della costruzione artificiosa per decostruirli o, al limite, d’ipotizzare una contro-storia, ossia la storia delle falsità e delle menzogne che hanno segnato lo sviluppo dell’Occidente e delle sue verità (esemplare, su tutti, il caso della falsa credenza che spinse Colombo sulla rotta delle Americhe, foriero d’insospettate conoscenze), quanto di gettare, in tal modo, nuova luce sulla storia di un’intera epoca, sulle sue intime sfaccettature e peculiarità. Ebrei che vogliono dominare il mondo, massoni che tirano le fila delle rivoluzioni, ambiguità gesuitiche e invenzione di nemici intessono in modo talmente fitto la storia occidentale da costituire una sorta di filo rosso di quell’oggetto magmatico e sfuggente che convenzionalmente definiamo identità, al punto che, agli occhi dello storico, la costruzione di documenti artificiosi appare spesso più significativa e interessante delle fonti autentiche.1 Dalla Donazione di Costantino alle false 1. È appunto in tale direzione che si pone il fondamentale lavoro di Cesare De Michelis (De Michelis 1998).

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Decretali pseudo-isidoriane, si staglia infatti, come sta dimostrando Paolo Preto, un’«imponente mole dei falsi documenti confezionati, per lo più nei monasteri, per retrodatare, confermare o semplicemente inventare fondazioni, diritti di possesso di terre, privilegi fiscali, esenzioni giurisdizionali» (Preto 2006: 11), mole che ha condizionato profondamente la storia, per lo meno del mondo occidentale. È dunque in questo contesto che, lungi dal ragionare sui labili confini, semantici e ontologici, che attraversano i concetti di menzogna e di falso, tenterò di fornire qualche piccolo spunto su un secolo apparentemente quanto mai propizio ai grandi mentitori, il Settecento: il secolo che vide affermarsi personaggi come il conte de Saint-Germain, il “principe d’Albania” Stiepan Zannovich, il cavaliere d’Eon, il Beaumarchais, Casanova, e che, più specificamente, a seguito del mutamento dei rapporti internazionali tra Oriente e Occidente determinatosi a seguito della sconfitta ottomana del 1683, fornì inediti spazi e significati a false rappresentazioni dell’Oriente.2 Allora, sullo sfondo di una civiltà, quella europea, che sembrava improvvisamente ritrovare le ragioni della propria identità, il desiderio di conoscenza e la volontà di comunicare confluirono nei racconti di esperienze eccezionali, ora affrontate con perigliose navigazioni ora con gli altrettanti tortuosi meandri dell’immaginazione.3 E appare emblematico il fatto che il XVIII secolo si aprisse con la pubblicazione delle Mille e una notte di Antoine Galland:4 la raccolta di racconti, apparsa tra il 1704 e il 1717, proponeva la fantasiosa rielaborazione di un mondo lontano, in cui prendeva forma un tipo umano pur sempre statico geograficamente e storicamente ma comunque diverso rispetto alle rappresentazioni precedenti. Mentre i sentimenti di paura e di disprezzo di pochi anni avanti lasciavano il posto a una sorta d’inconfessabile invidia, il topos del musulmano pigro, indolente e lussurioso iniziava gradualmente a soppiantare quello del guerriero efferato e crudele, e iniziava a insinuarsi un’inesprimibile attrazione 2. Non è questa la sede per affrontare il vivace dibattito sul concetto di orientalismo sviluppatosi negli ultimi trent’anni, a seguito di Said 1991. Mi limito perlomeno a rinviare a Lewis 1995; Buruma, Margalit 2004; Lewis 2005; Irwin 2008. All’interno della bibliografia costituitasi sul problema, cfr. inoltre Hentsch 1988; Im Lichte 1995; Grosrichard 1988; Sardar 1999; Lockman 2004. 3. Cfr. in proposito le suggestive osservazioni di Valéry 1953: 8. 4. Cfr. Irwin 2009; Milito 1994; Ghazoul 1996; Chraїbi 1997; Sallis 1999; Marzolph, Van Leeuwen 2004; Gabrieli 2006. Sulla letteratura settecentesca legata alla fortunata raccolta, si vedano invece Larzul 1996; Perrin 2004.

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verso un mondo misterioso, sensuale e dunque, per ciò stesso, affascinante: quell’attrazione da cui, di lì a poco, sarebbe scaturito l’interesse verso l’opera buffa, verso le roboanti sonorità turchesche, le turqueries.5 Ma, essendo le periodizzazioni, talora, una lente deformante del passato,6 non è certo possibile ricondurre solo a un successo editoriale, pur formidabile, la causa della trasformazione. Andrà piuttosto ricordato come il secolo precedente, il Seicento, oltre a essere stato un periodo lungo di guerre tra società dilaniate da rivalità religiose o tra potenze che miravano alla conquista di mercati globali, fosse stato pure un tempo di aperture, di scambi, di progressi scientifico-intellettuali. Un’età di viaggi. E non era stato frutto della casualità se, negli anni in cui la moda del Grand Tour aveva conosciuto un formidabile successo,7 l’odeporica si era affermata come genere a se stante, svincolandosi dalle esigenze utilitaristiche e pragmatiche che avevano animato i racconti precedenti.8 Imparando a misurarsi con altre velocità temporali, a cogliere usi e norme diverse e ad adattarsi a esse, a ricondurre l’ignoto nelle più tranquille acque del conosciuto,9 mercanti e diplomatici, scrittori professionisti e improvvisati avevano pertanto iniziato a misurarsi con le nuove esigenze di un pubblico nascente di lettori comuni, senza per questo indietreggiare dinanzi ai labili confini tra fantasia e realtà. Lo si può facilmente rilevare in quello che fu uno tra i bestseller più discussi tra fine Seicento e primo Settecento, il Giro del mondo di Gianfrancesco Gemelli Careri, le cui commistioni di realismo e immaginazione appaiono tali da fare presagire, appunto, inedite sensibilità verso un Oriente sempre meno indefinito e comunque passibile di deformazioni strumentalizzanti. L’opera, pubblicata tra il 1699 e il 1700, riscosse immediatamente un incredibile successo, al punto che la ricchezza enciclopedica delle informazioni offerte finì quasi per schiacciare la pressoché coeva Bibliothèque orien5. Thompson 2006. Più in generale: Méchoulan et al. 2001. 6. Ricuperati 1994: 9-106. 7. Moryson 1617. Sul Grand Tour esiste ormai una letteratura imponente. Mi limito a segnalare: De Seta 1982, 1992 e 2001; Brilli 1995; Wilton, Bignamini 1997; Chaney 1998. 8. Guglielminetti 1967; Luzzana Caraci 1991; Cardona 1986; Doiron 1995; Wolfzettel 1996. Utili elementi di natura quantitativa emergono dalla lettura di Boucher de La Richarderie 1806. 9. Lockhart, Morozzo della Rocca, Tiepolo 1973: 68; Perocco 1985 e 2008; Yerasimos 1991.

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tale di Barthélemy d’Herbelot (1697), monumentale lavoro sulla cultura e sulla letteratura araba, turca e persiana ispirato alle Vite di Plutarco.10 Ciò non toglie che fin dalla sua prima edizione non mancassero dubbi e polemiche sull’autenticità del racconto di un viaggio durato cinque anni, cinque mesi e ventuno giorni – un viaggio che diceva avere toccato l’Egitto e la Persia, l’Indostan e la Cina, la Russia e le Filippine, fino a giungere in Messico –, così come sulla sincerità del suo stesso autore, riuscito a ottenere l’imprimatur dalle autorità civili e religiose del Regno appena un mese dopo il suo ritorno a Napoli: una tempestività sospetta, così come ambigua risultava finanche la scrittura, segnata dalla sovrapposizione di un duplice registro stilistico, che al giornale di viaggio vero e proprio affiancava la riflessione più meditata, redatta dopo il ritorno in patria, sui paesi visitati. C’era stato infatti chi, rimarcando il ruolo decisivo, nella stesura, di Matteo Egizio – l’archeologo napoletano direttore della Biblioteca Reale –, aveva dubitato della possibilità di fare uscire in tempi tanto ristretti un’opera tanto poderosa;11 chi, sottolineando la discrasia tra la lunga peregrinazione e le oggettive condizioni di vita materiale del “pellegrino” – alla vigilia della partenza rimasto senza impiego –, aveva ipotizzato un’attività di agente segreto di qualche influente potenza (il re di Napoli? il papa?) interessata a tessere oscure trame nelle terre lontane d’Oriente;12 chi, ancora, ricordando le cattive condizioni finanziarie e di salute dello scrittore giurista (che nel 1687, alla battaglia di Mohács, aveva combattuto contro il Turco), era giunto ad avanzare sospetti finanche sul suo allontanamento dalla città partenopea.13 Le ripetute inesattezze nelle descrizioni avevano alimentato le accuse di plagio da Ramusio, da Carletti, da della Valle, da Leclerc, da Tavernier 10. La Bibliothèque orientale ou Dictionnaire universal contenant génèralement tout ce qui regarde la connaissance des peuples de l’Orient fu pubblicata postuma, nel 1687, grazie ad Antoine Galland (Laurens 1978; Gunny 1996: 45-54). 11. Sul ruolo giocato nella stesura dell’opera dal conte Matteo Egizio – noto revisore di testi altrui, oltre che celebre letterato della Napoli tardo-secentesca – si soffermò a lungo Magnaghi 1900. Un’ampia ricostruzione delle vicende interpretative del Giro si trova nell’Introduzione di Mozzillo 1993. 12. Ricordo in proposito che Gemelli Careri, giurista di Radicena (attuale Taurianova), venne arrestato a Costantinopoli mentre stava visitando alcuni navigli proprio perché sospetto di spionaggio: la sua liberazione avvenne solo grazie agli uffici del console francese; circa le spiegazioni addotte dall’autore alla sua partenza, va rimarcato che egli parla di «ingiuste persecuzioni» e di «non dovuti oltraggi» quali uniche cause di viaggio (Gemelli Careri 1728). 13. Ghirlanda 1899; Magnaghi 1900; Amuso Maccarrone 2000; Negro Spina 2001.

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– opere esplicitamente citate nel Giro –, obiezioni rimarcate da alcune missive di due gesuiti francesi, Parrenin e du Halde, che avevano presentato Gemelli come un vero e proprio millantatore, un falsario, reo di avere raccontato un Oriente immaginario e del tutto irreale.14 Nonostante ciò, appare indubitabile come, nell’età in cui le missioni gesuitiche conferivano un’inedita importanza all’Oriente – con tutti i conseguenti spostamenti di attenzione dall’Impero ottomano alla Cina –, a prescindere dall’intrinseca veridicità dell’esperienza di viaggio narrata – e, anzi, a dispetto di questa –, il Giro esprimesse più puntuali forme di attenzione verso la diversità in tutte le sue intrinseche sfaccettature, nella consapevolezza che non fosse giusto biasimare i costumi diversi dai propri. Mentre però le posizioni etnocentriche venivano via via abbandonate e la tolleranza verso l’Altro, il distante barbaròs, lasciava spazio al desiderio di una conoscenza più piena, coraggiosa nel denunciare limiti e crimini dei processi di acculturazione europea nelle Americhe,15 dinanzi al Turco invisibili e insormontabili barriere sembravano comunque mantenere ancora tutta la loro tenacia, sia per resistenze di natura ideologico-culturale sia, forse, per valutazioni strategiche volte ad aggirare le barriere censorie di chi non avrebbe mai concesso licenza di stampa a opere restie a partecipare alla strategia di demonizzazione del nemico. Non si tratta solo del fatto che Gemelli avesse riproposto in tutte le sue valenze etniche e politiche uno tra i motivi centrali delle relazioni degli ambasciatori veneti cinque-secenteschi, quello del dispotismo sultanale – anticipando così alcuni tratti della discussione filosofica e politologica del secolo illuminato16 –, quanto, piuttosto, del fatto che egli avesse comunque 14. Ancora nelle Curiosités de la littérature tradotte dall’inglese da T.B. Bertin Careri era ritratto come «gentilhomme napolitain, étant retenu chez lui par une maladie chronique, s’amusa à composer un voyage autour du monde, et donna des descriptions des pays et des caractères de peuples, qu’il n’avait jamais vus» (cit. in Carlino 1993: xxxvii). Un esame delle accuse rivolte all’opera si trova in Mozzillo 1993: 80 e sgg. Dopo le “difese” di Clavigero 1780, cfr. Sen 1949: xxii-xxvi; De Vegas 1955: 417-451, e la voce “Giovanni Francesco Gemelli Careri” redatta da P. Doria in DBI 2000: 42-45. 15. Landucci 1972. 16. «Or l’imperator ottomano è l’unico padrone di quanto si trova negli amplissimi suoi Stati, e domini. A lui appartengono tutte le cittadi, terre, castella, i poderi, l’ereditadi, le armi, le vittuaglie e sino gli stessi uomini. Nessun altro possiede cosa alcuna, fuorché per la sua pura liberalità, la quale egli è in suo potere di rivocare; eccetto i beni, che per legati pii son destinati alle moschee, o ad altri usi, per utilità dei poveri, degli infermi, e dei viandanti. Di qui nasce, che cadauno dei suoi sudditi, per meritarne la grazia, s’ingegna ciecamente

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continuato a condannare indiscriminatamente la religione del «falso profeta, e legislatore» Maometto e del suo «perfidissimo apostata», Sergio Monaco, reo di avere costruito «una religione, tutta adattata a’ piaceri del senso, e alle voluttà del corpo […] per trarre magior numero d’ignoranti popoli all’indegno partito» (Gemelli Careri 1728: 252).17 Quel riconoscimento di dignità, civile e antropologica, che era stato riservato agli indigeni di terre remote nel caso dei turchi si era quindi trasformato in una sdegnosa presa di distanza: essi erano considerati esseri inferiori, per lo meno da un punto di vista religioso se non etnico o culturale.18 Quanto di convinzione o, al contrario, di dissimulazione ci fosse in queste pagine è certo difficile stabilirlo. In ogni caso, la sottolineatura di tali persistenze ai fini del consolidamento d’immagini consolidate del Turco acquista ben più significative valenze laddove si consideri la circolazione amplissima del testo. Ben sette furono le edizioni italiane tra il 1699 e il 1728 e a queste si unirono diverse traduzioni, in versione integrale e parziale, in francese e in inglese, oltre che in tedesco e in russo,19 circolazione rimarcata dalla sua presenza nelle biblioteche dei più autorevoli membri della république des lettres (de Brosses, Raynal, Voltaire) e dai riconoscimenti di chi (Prévost) non avrebbe esitato a inserire Gemelli nel novero dei viaggiatori illuminati, assegnandogli il merito di avere contribuito a sprovincializzare la letteratura di viaggio in lingua italiana.20 La natura fortemente correlata dell’intreccio inestricabile tra dimensione immaginaria e dimensione reale che segna il Giro del mondo sarebbe comunque letteralmente esplosa, per così dire, proprio nell’età più interessata al voyage: il Settecento. ubbidirgli; tanto più che siffatta ubbidienza vien comandata dal loro falso Profeta, architetto di sì gran monarchia; ed essi giudicano di andare in paradiso, se muoiono eseguendo i comandi, o per comandamento del loro principe» (Gemelli Careri 1728: 264). 17. Tali caratteri perdureranno anche nella letteratura settecentesca più matura e illuminata, in cui «la condanna della Turchia simbolo di ferocia, primitività, incapacità di ordinato governo e più definitiva e assoluta che non quella dell’Oriente in generale» (Preto 1975: 494). 18. Irwin 2008: 81. 19. In particolare: Voyage du tour du Monde, traduit de l’Italien de Gemelli Careri, par L.M.N., Paris 1719 (17272); A Voyage round the World, London 1732 (17442, 17522). Tra le riproposizioni parziali, cfr. invece Prèvost 1746-61: XX; Bérenger 1788. 20. Prèvost 1746-61: XI, 465. Ricordo che nella prefazione al secondo volume del Giro, era lo stesso Matteo Egizio a sottolineare i benefici derivanti dal testo ai membri della “repubblica delle lettere”.

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Nonostante gli apporti della cultura illuministica e i nuovi dibattiti sulle scienze dell’uomo o il fatto che le animate discussioni sull’origine naturale delle razze umane e sui relativi criteri di distinzione stessero confluendo in nuovi approcci metodologici (Linneo), e in approfondimenti naturalistico-antropologici su questioni fino ad allora ritenute di esclusiva pertinenza teologico-culturale (Buffon, Condillac),21 anche nel secolo illuminato i resoconti dei viaggiatori settecenteschi finirono infatti spesso con l’essere impiegati per meglio argomentare i dibattiti sui confini tra storia sacra e storia profana, tanto da divenire uno sterminato repertorio di notizie e suggestioni a cui attingere per riflettere su quell’Occidente incapace – o impossibilitato – a parlare più direttamente di sé. Il caso delle Lettres persanes di Montesquieu, tagliente atto di accusa dei costumi europei, lo dimostra eloquentemente. A seguito delle anticipazioni di quel controverso romanzo pseudo-epistolare a sfondo orientale rappresentato dall’Esploratore turco di Giovanni Paolo Marana (1684), sarebbero state proprio esse, infatti, a inaugurare la finzione dei falsi viaggiatori orientali che, nel visitare l’Europa, rimanevano esterrefatti dei suoi usi, delle sue contraddizioni: in un contesto ironico e dissacrante, alla corruzione e alla vacuità del Vecchio Continente venivano opposti, in contrasto, l’equilibrio e la probità delle società orientali.22 All’interno di un complesso gioco di specchi tra il Sé e l’Altro,23 l’esigenza di avvicinarsi direttamente alle società orientali, senza deleghe alla tradizione, comunque coesisterà, nel Settecento, con l’affiorare di pervasive atmosfere oniriche, in cui l’immaginazione si trasfonde nell’osservazione realistica, segno manifesto della complessità di un secolo che, forse più di altri, sfugge a ogni facile etichetta, non accettando semplificative identificazioni con il trionfo della Dea Ragione e dei suoi miti. Lo si può evidenziare, certo da angolature diverse, dallo Zadig e dal Candide di Voltaire, dal Rasselas di Samuel Johnson, dall’Almoran and Hamet di Hawkesworth, testi appunto differenti e pur tuttavia esplicativi di valutazioni che, dalle analisi degli oggetti analizzati, finivano con l’investire polemicamente una storiografia accusata di essere eurocentrica e 21. Duchet 1976 e 1977; Moravia 1978; Laurens 1978; Ricuperati 1982; Gunny 1996. Più in generale: Guagnini 2003; Bertrand 2004; Dilani 1997. 22. Tra le varie edizioni, cfr. Montesquieu 2008. Sull’Esploratore turco, pure studiato, cfr. Roscioni 1992; l’edizione di riferimento è Almansi, Warren 1968-73. 23. In proposito mi permetto appunto di rinviare a Formica 2012, a cui molte di queste pagine sono fortemente debitrici.

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chiusa in se stessa, oltre che lontana dai problemi del presente.24 Ma è forse il caso, ormai ben noto, dell’«arabica impostura» dell’abate Vella, che, più di altri, può offrire materiali di riflessione sul problema che qui ci sta più a cuore. In un contesto accesissimo di risentimenti e dibattiti dalla marcata rilevanza sociale, la costruzione di un eccezionale falso sulla storia della Sicilia islamica venne infatti animata da precise valutazioni politico-economiche, oltre che culturali, valutazioni poi legittimate dal conferimento all’abate maltese della prima cattedra (1785) di arabo presso l’università di Palermo.25 Quanto, dietro a tali scritture e orchestrazioni, vi fosse della sopravvivenza di forme dissimulatorie vetuste è questione destinata a restare aperta ancora per molto, almeno finché la sensibilità verso le innumerevoli sfaccettature legate al falso si tradurrà in analisi precise e insieme di ampio respiro, capaci d’intrecciare sia le specificità delle diverse forme di convivenza tra foro interno e foro esterno sia del ruolo condizionante delle reti censorie e degli apparati di controllo. E, per l’appunto, è in questo stesso alveo problematico che, in conclusione, mi sembra che possa essere ricondotto un altro personaggio del XVIII secolo, certo di ben diverso spessore dal precedente: Filippo Buonarroti. Non è infatti irrilevante che neppure il giovane rivoluzionario riuscisse a sottrarsi alla tentazione di spacciare come vere, tradotte dall’arabo, alcune minacciose profezie del «celebre sceicco Mansur», il condottiero della rivolta cecena e inguscia contro i russi da cui venivano fatti dipendere i destini dell’Europa e della Mezzaluna insieme.26 All’interno di un’appassionata tensione utopica, a cui non erano certo estranei riecheggiamenti di temi cari a Mably e Morelly, il ricorso alla tecnica dissimulatoria venne da lui consapevolmente impiegato per additare al lettore della «Gazzetta universale» di Firenze l’imminenza dell’avvento di una società egalitaria: secondo quanto si poteva leggere in alcune false corrispondenze da Costantinopoli pubblicate tra il 1785 e il 1786 e poi confluite nella celebre La riforma dell’Alcorano, di lì a 27 anni, nell’anno 1190 dell’era di Egira, sarebbe infatti avvenuta, nel mondo, la grande rigenera24. Cfr. Brilli 2009; Irwin 2009: X. 25. Preto 2006: 24-30; Freller 2001. Alle sue vicende si sono ispirati diversi artisti e scrittori (cfr. tra gli altri Sciascia 1963); nel 2002 è uscito inoltre un film per la regia di E. Greco. 26. Buonarroti 1992, ma cfr. anche la più recente edizione Buonarroti 1993. Si veda inoltre Venturi 1996. A livello letterario, anche di recente vi sono stati casi di riproposizione delle vicende di questo affascinante e misterioso personaggio, cfr. Vitale 2006.

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zione dell’umanità; debellati i vizi, si sarebbe potuta finalmente realizzare la comunione dei beni e la tolleranza, religiosa e politica, tra gli uomini.27 Neppure un personaggio del calibro, intellettuale e politico, del grande teorico della Rivoluzione, sfuggiva alla tentazione di ricorrere all’Impero della Mezzaluna per meglio porre in luce quelle considerazioni e quei progetti relativi al Sé che il presente non gli consentiva ancora di esternare appieno. E, ancora una volta, la finzione diveniva lo strumento, lo specchio di contraddizioni e aspirazioni latenti, quelle tensioni, insomma, che, di lì a poco, si sarebbero manifestate in tutta la loro drammaticità. Bibliografia Almansi, Warren 1968-73 = G. Almansi, A. Warren, L’“Esploratore turco” di G. P. Marana, in «Studi Secenteschi», IX (1968), pp. 159-257; X (1969), pp. 243-288; XI (1970), pp. 75-165; XII (1971), pp. 325-365; XIII (1972), pp. 275-291; XIV (1973), pp. 253-283 Amuso Maccarrone 2000 = A. Amuso Maccarrone, Gianfrancesco Gemelli-Careri. L’Ulisse del XVII secolo. Biografia scientifica di un grande di Calabria, Roma 2000 Bérenger 1788 = J.-P. Bérenger, Collection des voyages autour du monde, vol. II, Lausanne 1788 Bertrand 2004 = La culture du voyage. Pratiques et discours de la Renaissance à l’aube du XXe siècle, a cura di G. Bertrand, Paris 2004 Boucher de La Richarderie 1806 = G. Boucher de La Richarderie, Bibliothèque universelle des voyages, ou Notice complète et raisonnée de tous les voyages anciens et modernes dans les différentes parties du monde, publiés tant en langue française qu’en langues étrangères, classes par ordre de pays dans leur série chronologique; avec des extraits plus o moins rapides des voyages les plus estimés de chaque pays, et des jugemens motives sur les relations anciennes qui ont les plus de celebrité, 6 voll., Paris 1806 Brilli 1995 = A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour, Bologna 1995 Brilli 2009 = A. Brilli, Il viaggio in Oriente, Bologna 2009 Buonarroti 1992 = F. Buonarroti, La riforma dell’Alcorano, a cura di A. Galante Garrone, F. Venturi, Palermo 1992 Buonarroti 1993 = F. Buonarroti, La riforma dell’Alcorano, ovvero Storia ragionata di sceic Mansour nuovo legislatore de’ turchi, e sedicente profeta (1786), a cura di M.A. Morelli Timpanaro, Pisa 1993 27. Buonarroti 1992: 45 e sgg.

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Marina Formica

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Un falso Oriente. Da Gemelli Careri all’Abate Vella

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Andrea Gareffi La più perfetta delle lontananze

L’Essere è ciò che è più vicino. Eppure questa vicinanza resta per l’uomo ciò che è più lontano Martin Heidegger, Segnavia

Jaufré Rudel, nella composizione forse più nota, Lanquan li jorn, su cinquantadue versi impiega, sempre in clausola, per quattordici volte la formula de lonh; sia come amor de lonh (I, 4; II, 9; III, 16; V, 30; VI, 37 e 39; VII, 44 e 46); sia come differente pericope (I, 2; II, 11; III, 18; IV, 23 e 25; V, 32). In questo secondo caso, l’amore di lontano si espande cosmicamente, non è soltanto l’amore per una donna. La formula non celava una qualunque Melisenda in una qualunque parte del mondo; l’amore in poesia non si adegua a un’entità individuata. Aveva altre ambizioni la formula, rivelava di come la poesia evochi ciò che manca. La poesia è causa formale della conoscenza di ciò che appartiene a un altro mondo che si annida dentro il mondo reale. Se nella lingua scegliere una parola significa rifiutare tutte le altre, nella poesia ogni parola non finisce di evocare quelle non dette. Nel linguaggio referenziale ci si accontenta di una descrizione, nel linguaggio connotativo della poesia si aspira a evocare qualcosa che non si saprebbe dire altrimenti che per le vie traverse della poesia. La poesia cerca, violando grammatica sintassi e lingua, qualcosa di indicibile; indicibile, se non nella prammatica oscurità dei versi. Jaufré in Lanquan li jorn induce la collimazione di amore e lontano, di un amore per ciò che non c’è, e che si compirà nel futuro:

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Be·m parra joys quan li guerra, Per amor Dieu, l’alberc de lonh; E, s’a·lieys platz, albergaray,

(«certamente vedrò in volto la mia gioia quando, per amore di Dio, le chiederò di accogliermi nel suo albergo lontano», Rudel 1950: 52-53). Le sei poesie di Jaufré parlano del loro stesso fondamento, chiamano forzatamente in causa Dio, l’amore di Dio, l’amore lontano per eccellenza, talmente lontano che qualcuno lo ha scoperto così vicino da sentirlo dentro di sé. Sono poesie specchio, poesie sulla poesia, sul suo fondamento nell’essere; sono la dichiarazione di una ben ragionata ars poetica. In No sap chantar, la seconda strofa non lascia dubbi: Nulhs hom no·s meravilh de mi, S’ieu am so que ja no·m veira, Que·l cor joi d’autr’amor non ha Mas de cela qu’ieu anc no vi,

(«Nessuno si meravigli di me, se sono preso d’amore per ciò che non mi vedrà mai; poiché il mio cuore non esulta per altro amore se non di quella che io non vidi mai. Né di alcun’altra gioia tanto gioisce, mentre io non so qual bene me ne verrà», Rudel 1950: 40-41). La quarta strofa porta il compimento: Anc tan suau no m’adurmi Mos esperitz tost no fos la, Ni tan d’ira non ac de sa Mos cors ades no fos aqui; Mais quan mi resvelh al mati Totz mos bos sabers mi desva, a. a.,

(«non mi sono mai abbandonato al sonno così soavemente, senza che là non corresse subito lo spirito mio; né tanto dolore mi prese di qua, senza che non ci fosse immediatamente il mio cuore; ma quando mi sveglio al mattino ogni dolcezza goduta mi svanisce», Rudel 1950: 42-43). Quan lo rossinhols ripete della necessità del sogno, la forma di espressione che più si avvicina a quella della poesia: D’aquest’ amor suy cossiros Velhan e pueys somnhan dormen, Quar lai ay joy meravelhos, Per qu’ieu la jau jauzitz jauzen,

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(«di quest’amore io sono desideroso nella veglia e poi nei sogni che mi porta il sonno: e lì infatti è il mio gaudio indicibile, poiché ne gioisco con ebbrezza che è data e ricevuta», Rudel 1950: 70-71), dove «jau jauzitz jauzen» (fidando sulla trascrizione neumatica del Beck, pur compromessa dalle critiche del Sesini, si ha in tempo di 3/4 una melodia che ignora le rime dei verso, con unica nota bianca il si che incomincia la sequenza: si, re-do /, si-la si do-si / la sol), segnala una mimetica attrazione reciprocamente discendente. Avvicinandosi alla sua fine, la poesia aspira al ritorno nella sua Causa prima: E qui sai rema deleytos E Dieu non siec en Betleen No sai cum ja mais sia pros Ni cum ja venh’ a guerimen,

(«Ma chi resta qui tra i piaceri e non segue Dio in Betlemme, non so davvero come possa mai rivelare la sua virtù e giungere a salvamento», Rudel 1950: 72-73). La poesia aspira a un linguaggio sovrumano, per questo fatalmente vìola le leggi del linguaggio umano; ambisce un linguaggio che tenga il tutto in tutto, dove ogni parola si amplia in verticale secondo armonici impensat; il linguaggio mortale azzarda l’immortale. La conoscenza che attraversa la poesia non è poi così diversa dalla conoscenza del mistico. Da qui l’accostamento non forse peregrino con la celebre sintesi di Paolo: «videmus enim nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem conoscam, sicut et cognitus sum» (poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto, 1 Corinzi 13,12). Secondo una diversa tradizione, nel racconto di Ovidio la mortale Sémele quando vide faccia a faccia l’immortale Zeus, andò in cenere, «arsit» (Ovidio 2005: III, v. 309). La leggenda di Jaufré e Melisenda, che nacque sulle ceneri dell’amore di lontano, manipolava, inventava, eppure anche questa era una forma di interpretazione, la più fedele tra l’altro al registro poetico, se rispondeva a un’invenzione con altre invenzioni. Nelle Vite delli più celebri et antichi primi poeti provenzali, più ampiamente che altrove prendeva fondamento la leggenda Di Giusfredo Rudello:

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il Poeta avendo inteso parlare da molti Pelegrini, che venivano dalla terra Santa, delle virtù della Contessa di Tripoli, e della sua dottrina, se ne innamorò. In lode della quale fece di molto belle Canzoni. E sendo stato nel suo cuor punto di vederla […], messesi sul mare in habito di Pelegrino, e nel viaggio fu assalito da una grieve malattia, talmente che quelli della Nave, pensandosi che fosse morto, lo volevano gettare in mare. […]. Sendo la Contessa venuta nella Nave, prese il Pelegrino per la mano, e cogniosciuto che questa era la Contessa, incontinenti, appresso li dolci e gratiosi accoglimenti, recuperò gli spiriti e migratiandola di questa sua venuta, per la quale gli haveva ricoverata la vita, le disse: “Illustrissima e virtuosa Principessa, io non piangerò più la morte, hora che. E non potendo più finire il suo proposito […] rese lo spirito nelle mani della Contessa, la quale lo fece mettere in riccha e honorata sepultura di Porfido, facendoli sculpire alcun versi in lingua Arabica, che fu nell’anno 1162. (de Nostredame 1575: 23-24)

Quindi proseguiva: il suo compagno, chiamato Bertrando d’Allamannone, che fu Canonico di Silvisana raccontò alla Contessa le virtù del Poeta e la causa della sua venuta, alla quale fece un dono di tutta la Poesia e Romanze ch’el Poeta aveva fatto in sua lode, et ella le fece transcrivere in lettere d’oro. (de Nostredame 1575: 24-25)

E concludeva mestamente: «dicesi ch’ella haveva sposato il Conte di Tripoli, il che fu causa della perdita di Hierusalem, la quale Saladino tolse alli Christiani» (de Nostredame 1575: 25). Ma tra le composizioni a lui attribuite, è un’altra la poesia fatidica di Jaufré, Quan lo rius de la fontana, specialmente nella sua strofa IV: De dezir mos cors non fina Vas celha ren qu’ieu plus am; E cre que volers m’engana Si cobezeza la·m tol: Que plus es ponhens qu’espina La dolors que ab joi sana; Don ja non vuolh qu’om m’en planha,

qui ancora nella traduzione in prosa di Mario Casella: incessantemente il mio cuore si volge verso la cosa che io più amo, e credo che la volontà m’inganni se il desiderio di cose assenti mi strappa alla sua diretta contemplazione; poiché guarisce con la gioia il dolore che punge più di una spina; ond’io non voglio affatto che di ciò nessuno mi compianga (Rudel 1950: 48-49)

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che nel Commento credeva di individuare una polarità nell’io del poeta, che specchierebbe se stesso nella donna, con grave detrimento di lei, l’oggetto (celha ren) verso il quale si volge il poeta è quell’altro se stesso nel quale si ama e si contempla in immagine. Questa immagine svanisce, non appena all’amore, che liricamente contempla se stesso, subentra la cupidigia (cobezeza): il desiderio di un bene non attualmente posseduto (Rudel 1950: 79)

dove risuonava l’eco di quello che Spitzer aveva chiamato «il paradosso amoroso», che oppone castità e desiderio. Si poteva fare di meglio che ridurre la donna comunque: o immagine idealizzata e inattingibile, o preda da conquidere. Ossia considerare la poesia come necessaria forma di conoscenza: necessaria, cioè insostituibile forma di una conoscenza non altrimenti accessibile. In questa strofa si tratta di una poesia che prende coscienza di sé, che dice della sua strategia peculiare di una peculiare conoscenza: è la poesia che si riflette in se stessa, e la poesia è la donna, l’immagine femminile dalla quale dipende l’io che questo tragitto incomincia a conoscere. Nella Presentazione che dà di Jaufré Aurelio Roncaglia, nell’antologia di testi Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, si assommavano curiose interpretazione dell’amor de lonh, forse proiezioni, rispecchiamenti dell’io degli esegeti, le contraddittorie interpretazioni che di questo tema sono state date, in senso biografico-realistico da un lato (identificazione dell’amata lontana con la contessa di Tripoli, secondo l’antica “vida” provenzale di cui G. Paris ha mostrato l’inconsistenza storica; con Eleonora d’Aquitania, secondo un’ipotesi del Monaci, oggi ripresa da S. Santangelo e da R. Lejeune), in senso allegorico-religioso dall’altro (con la Vergine Maria, secondo l’Appel; con la Terra Santa, secondo G. Frank; con Gerusalemme Celeste, secondo il Robertson), non tengono conto che si tratta anzitutto di un topos letterario, per il quale basterà citare Properzio I, 6, 27: «multi longinquo periere in amore libenter»: un topos accolto quale motivo lirico, senza implicazioni allegoriche in più altri testi medievali. (Roncaglia 1961: 277)

Ma Properzio diceva tutt’altro, indirizzandosi al giovane Tullo, che aveva abbracciato la carriera militare e politica, e dovendo per questo partire per terre lontane. Properzio confessava di voler restare abbracciato a Cinzia, la sua donna; di voler militare nella milizia d’amore; «multi longinquo periere in amore libenter, / in quorum numero me quoque terra tegat», vv. 27-8; che nella traduzione di Luca Canali dice, «molti già perirono consunti da un lungo amore, / nel novero d’essi anche me la terra ricopra»

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(Properzio 1987: 77); in quella di Robero Gazich, «molti in un lungo amore s’estinsero, senza rimpianti, / insieme a loro anche me la terra ricopra» (Properzio 1993: 41); in quella di Paolo Fedeli, «molti sono morti contenti in un amore a lungo protratto, / possa con essi la terra coprire anche me!» (Properzio 1988: 13); e in quella di Giuseppe Lipparini, «molti perirono già felici per un lungo amore: / e fra loro la terra copra pure anche me» (Properzio 1945: 15). Properzio asserisce qualcosa di perfettamente contrario all’amore di lontano, elogia una scelta a un di presso simile a quella di Ariosto, quando ricusa di accompagnare il Cardinale Ippolito nelle fredde «contrade d’Ostericche, in Ungheria» (Ariosto 1551: XLIV, 78, 6), preferendo restare tra le braccia calde dell’Alessandra Benucci. Un passo letterario nasce per forza da una contingenza individuata, e per forza si disloca in una necessità universale; ma guai a percorrere il cammino opposto, riducendo un significato cosmico a un pettegolezzo. La leggenda di Jaufré non andava in cerca di fatterelli privati, risaliva dai pochi versi rimasti a una congerie di interpretazioni romanzesche, non erano pettegolezzi, ma storie, scenari immaginati, decifrazioni ancora letterarie. Ma Gaston Paris ricusa la leggenda tramandata dalle Vidas, perché inconsistente; la leggenda, nella sua desultiorietà (a seconda delle redazioni: una volta il poeta e la donna si incontrano sulla spiaggia di Tripoli, un’altra nella reggia di lei, un’altra in un albergo di Tripoli, più frequentemente sulla nave), ricrea. Jaufré non parla mai di Melisenda, non pensa a Melisenda; i suoi versi pensano se stessi, cercano lì il loro senso. La leggenda è letteratura, che sarà pur fragile, ma mai inconsistente. Che cosa voleva dunque dire la storia di Jaufré e Melisenda? Si può ammettere con facilità che il severo filologo si confini nei documenti, ma la leggenda è essa pure una tessitura di documenti. Il sanguigno Carducci, esperto d’amori non sempre legali, talvolta gloriosi, come con la regina Margherita, quindi comprovato intenditore, nondimeno sapeva fare il professore che indaga le fonti di prima mano, e con tutta la diligenza degli Amici pedanti, ai quali fu ascritto fin dalla giovinezza, i fondatori del metodo storico, gli esploratori di archivi, i neopositivisti. Carducci avrebbe ripreso in anni tardi e immalinconiti la storia dell’amore impossibile nel suo proprio Jaufré Rudel, compreso poi in Rime e ritmi, l’ultima raccolta. E non trascura di ripensare la leggenda; le leggende sono parte non ultima della decifrazione di un mito (parola, questa,

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che Carducci mal sopporta): non si fondano sull’esistenza reale dei personaggi che ne sono protagonisti, si fondano nell’anima mundi. Le leggende sono preambolo e conseguenza della poesia, la quale neppur essa si fonda sull’esattezza microscopica del tempo degli orologi, ma sul conflitto antinomico, posto da Rilke nei Neue Gedichte, tra la meridiana dell’Angelo, L’Ange du Méridien, la Sonnenuhr, e le nostre ore, «unsere Stunden»: il tempo degli immortali e quello dei mortali; mentre lo «specchio intervallo di tempo», come nei Sonetti ad Orfeo (Rilke 1995: 141),1 rivolge la poesia in se stessa in analogia con l’essere nella sua eterna rivoluzione; il cerchio delle forme che si trasformano. Poesie e leggende si fondano sulla ricerca inconclusa dei significati, si propagano in significati sempre nuovi. Carducci, nella conferenza dell’8 aprile 1888, intitolata a un verso del Triumphus Cupidinis, IV, v. 52, di Petrarca, Giaufré Rudel, ch’usò la vela e ‘l remo (Carducci tace, e di proposito, come la frase prosegue nel verso successivo: «a cercar la sua morte»), ricorda come la leggenda abbia avuto fin dal principio e anche ai suoi tempi notevoli affezionati: due trovatori, Petrarca per l’appunto, due suoi commentatori, Alessandro Vellutello e Giovanni Andrea Gesualdo, due filosofi, Agostino Nifo nei Trattati e Mario Equicola nel Libro di natura d’amore, Giovanni Nostradamus, fratello del Nostradamus più noto, ma eccellente biografo dei principali poeti provenzali, Ugo di San Cesario, loro grande catalogatore, il padre della filologia romanza, Federico Diez, due dei suoi allievi migliori, Edmund Stengel e Albert Stimming, il filologo romanzo Ermann Suchier. Ne ricavava la considerazione che la leggenda dell’amore e la poesia d’amore sono il principio della civiltà. Nella poesia che Carducci avrebbe poi composto, affidandosi anch’egli alla leggenda e non alle sei poesie rimaste di Jaufré, non arrivava tuttavia a lasciarla irradiare. Il componimento di Carducci si concludeva e con le ultime parole del poeta morente e con le ultime considerazioni dell’autore, sciaguratamente romantiche di un romanticismo italiano, e non tedesco. Jaufré affida alla bocca di Melisenda il suo ultimo sospiro, una mezza specie di quello che Pico della Mirandola nell’undicesima Conclusione aveva chiamato, traslitterando dall’ebraico, «binsica»: la morte di bacio; 1. Ibidem: «specchi, nessuno mai coscientemente / ha descritto la vostra vera essenza. / Voi, intervalli di tempo, crivelli / fitti d’innumerevoli buchi».

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ma niente, se non patetismo, di quanto aveva immaginato Pico: l’ascesa ai cieli della conoscenza. Ed or, Melisenda, accomando A un bacio lo spirto che muor La donna su ‘l pallido amante Chinossi recandolo al seno, Tre volte la bocca tremante Co ‘l bacio d’amore baciò, E il sole dal cielo sereno Calando ridente ne l’onda L’effusa di lei chioma bionda Su ‘l morto poeta irraggiò.

È da pensarci che i poeti riscrivano la leggenda e trascurino quella strofa risolutiva di Jaufré. Heinrich Heine mette in scena una sorta di ekphfrasis, una fantasmagoria di tappezzerie dipinte dove il poeta e la donna si ritrovano nell’incontro nefario, che allo stesso tempo era stato il primo e l’ultimo, «zum ersten / und zum lette», come scrive nel Romancero, Geoffroy Rudèl und Melisande von Tripoli, vv. 13-14, disgiungendo in due versi la pericope che sancisce la disgiunzione nel per sempre della morte. Il primo e l’ultimo riecheggerebbero l’antinomia, ma fallendola, se si trascura il permanere solo possibile, quello della poesia. Vinceva ancora il plaisir des tombeaux. La princesse lointane, dramma in versi in quattro atti di Edmond Rostand, andato in scena al Théâtre de la Renaissance a Parigi il 5 aprile del 1895 (dove nella parte di Mélissinde è Sarah Bernhardt, direttrice del teatro; Jaufré, Lucien Guitry, il suo amante), toccava un culmine in fatto di patetismo. Disperdendo completamente il senso profondo della strofa fatidica di Jaufré e gran parte del significato della leggenda. Bertrand D’Allamanon, l’amico fidato che accompagna Jaufré nel suo viaggio per nave, viene inviato a terra, per invitare Mélissinde a raggiungere sulla nave il poeta che muore. Mélissinde si innamora inopinatamente di Bertrand, e tira in lungo. Ma alla fine se ne persuade, raggiunge la nave; non appena vede Jaufré ormai morente, ripudia altrettanto inopinatamente Bertrand e si vota a quell’altro. La confusa aggiunta di Rostand non sembra che possa giovare alla di per sé già intricata leggenda. I nessi sono questi: Mélissinde e Jeaufré – Mélissinde offre una compicciata spiegazione di come mai sia adesso lì con lui, ben s’intende tacendo della sbandata per

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Bertrand, «mais puisque vous voulez connaître l’Inconnue, / puisque vous m’appelez, prince, je suis venue» (Ronstad 1895: 91). Bertrand – dopo essere stato spregiato, chiede sbigottito a Mélissinde che cosa mai diventerà lui, forse in cuor suo sperando di diventarne il consolatore: «Bertrand: Et moi, que deviendrais-je…? Mélissinde: Allez, avec ces hommes, / combattre pour la Croix» (Rostand 1985: 95), con grave contraddizione con quanto tramandavano le Vidas circa la presa di Gerusalemme per colpa di lei. Jaufré – che ne sarà di Jaufré? Frère Trophime, che lo assiste negli ultimi spasimi di agonia, quando ancora bacia sulle labbra Melisenda, sentenzia asseverativamente un alessandrino assonanzato con la sua arsi in sesta: «celui qui meurt d’amour est sûr de son salut» (Rostand 1985: 94). Melisenda – trascorsa di colpo da verginella a vedovella, prende una risoluta decisione allitterante: «Je prendrai le sentier qui monte au MontCarmel» (Rostand 1985: 97). La morale della storia – spetta a Mélissinde, vero factotum, ma mai adombramento della poesia, rivelare quale sia il sugo di tutta la storia. Rivolta a Jaufré, che muore, lo conforta: «Tu me verras toujours, sans ombre a ma lumière, / pour la première fois, toujours pour la première» (Rostand 1985: 96). Non già che voglia dire, resterò nel per sempre della poesia così come sono qui ora: sulla tua morte fondi la mia immortalità, ciò che doveva essere il vero sugo della strofa di Jaufré. No, ella lo rasserena dicendogli che in fondo in fondo non è poi tutto questo gran danno, se lui muore: l’ha vista bella e giovane, non la vedrà invecchiare. Così si comprende almeno il perché di quella aggiunta torbidiccia di lei e Bertrand, Mélissinde è quel che si dice, una civetta. Strano modo di celebrare il per sempre della morte, anche se in questo caso La princesse aveva ragione, se a quel che pare non ha goduto di nessuna trascendenza. Troppo facile ragionevolezza chiudere la storia nella morte, mettendo a repentaglio la sopravvivenza della poesia. Ma anche Hemingway, in Morte nel pomeriggio, si abbandonava al ragionamento e finiva per sancire un’amara verità, che la morte dura di più della vita. Il paragone con una fleur di Baudelaire, intitolata A une passante, riapre per fortuna tutta la questione. Il protagonista della poesia, che si identifica obbligatoriamente nel poeta, è comunemente seduto a un tavolino all’aperto in un caffè di Parigi, quando per un istante incontra lo sguardo di una donna che a sua volta lo guarda, e poi va via:

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Un éclair… puis la nuit! Fugitive beauté Dont le regard m’a fait soudainement renaître, Ne te verrais-je plus que dans l’éternité? Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!

che così traduceva Raboni: Un lampo… e poi il buio! – Bellezza fuggitiva Che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte, Non ti vedrò più dunque che al di là della vita, Che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai? (Baudelaire 1996: 191)

Baudelaire non ne muore come Jaufré, si risveglia anzi da una vita che senza amore era come la morte; è da quel lampo che nasce la necessità della poesia, della poesia che conosce attraverso una forma che ferma il tempo. Baudelaire tocca felicemente l’insolubile paradosso che fonda la poesia come intersezione di due tempi incalcolabili, l’istante e l’eternità. Nell’éclair, il lampo, riappare l’Augenblick, il batter d’occhio, di Goethe: l’istante, che perverrà infine alla risoluta rifinitura di Montale nella Bufera, dove compare la formula perfetta: «eternità d’istante», che, mediante sinalefe sonora, dice e disdice: «eternità distante». Eternità de lonh. Benjamin commentava secondando l’interpretazione di Baudelaire poeta cittadino: «l’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo quanto all’ultimo sguardo. È un congedo per sempre, che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto» (Benjamin 2006: 101). Se avesse ragione Benjamin, Rostand e Baudelaire immaginerebbero la stessa impossibilità di travolgere il tempo degli orologi. Ma non è così: Baudelaire sa che l’istante della poesia oltrepassa lui, lei e il tempo. Da quell’istante parte una corrente, un flusso, la catena inarrestabile di un moto che Bergson di lì a poco avrebbe posto al centro della sua riflessione. Il moto dell’evoluzione creatrice, dell’essere che crea e distrugge per creare. Petrarca, incominciava la Parte seconda del Canzoniere, quella che accoglie i versi in morte di Laura, quando Laura era ancora viva. Santagata (Petrarca 2004: 1055) lo spiega attraverso questioni che riguardano la conversione di Petrarca e adeguazioni alla costruzione calendariale del Canzoniere: il sei di aprile è il giorno in cui Petrarca incontra Laura, come testimonia il sonetto 211, Voglia mi sprona, nei versi:

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mille trecento ventisette, a punto su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, nel laberinto entrai, né veggio ond’esca

ed è il giorno a cui risale il sonetto d’apertura, Voi ch’ascoltate, e quello in cui si celebra la morte di Cristo; la canzone 264, I’ vo pensando, che inizia la Parte seconda, cade il 25 dicembre, giorno della nascita di Cristo. Un calendario sacro e amoroso, dove Laura e Cristo, la donna divinizzata e il Dio fattosi uomo ne sono ciascuno il reciproco riflesso antinomico. Guardando a controprova il rovescio parodico, nella Mandragola, atto primo, scena prima, Callimaco riporta al servo Siro quel che gli ha detto Cammillo Calfucci: E nominò Madonna Lucrezia, moglie di Messer Nicia Calfucci, alla quale e’ dette tanta laude e di bellezze e di costumi, che fece restare stupidi qualunche di noi; e in me destò tanto desiderio di vederla che io, lasciato ogni altra deliberazione, né pensando più alle guerre o alla pace d’Italia, mi mossi a venire qui; dove arrivato, ho trovato la fama di Madonna Lucrezia essere minore assai che la verità, il che occorre rarissime volte, e sommi acceso in tanto desiderio d’essere seco, che io non truovo loco.

Nella Clizia, atto secondo, scena terza, Nicomaco dice a Sofronia del miracolo compiuto da frate Timoteo: «Non sai tu che per le sue orazioni monna Lucrezia di messer Nicia Calfucci, che era sterile, ingravidò?», e Sofronia risponde: «Gran miracolo, un frate fare ingravidare una donna! Miracolo sarebbe se una monaca la facessi ingravidare ella!». Machiavelli nella Mandragola parodia passione morte e resurrezione di Cristo, attraverso la passione amorosa di Lucrezia, la fine della sua verginità, la resurrezione della sua femminilità. La bestemmia era a un soffio dal sacro. Con fervore Petrarca, con sarcasmo Machiavelli, entrambi derivano dalla tradizione classica il presupposto dell’originaria contaminazione tra passato e memoria, tra morte e vita che opera nella letteratura. Dante aveva spiegato già tutto molto chiaramente, almeno in due luoghi, e dava infine un nome alla donna lontana. Il primo passo sta nella Vita nuova, XLI: e dissi allora uno sonetto, lo quale narra del mio stato, e manda’lo a loro co lo precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite a intender. Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico ove va lo mio pensero, nominandolo

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per lo nome d’alcuno suo effetto. Ne la seconda dico perché va là suso, cioè chi lo fa così andare. Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso; e chiamolo allora ‘spirito peregrino’, acciò che spiritualmente va là suso, e sì come peregrino lo quale è fuori de la sua patria, vi stae. Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitade, che io non lo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale ne la qualitade di costei in grado che lo mio intelletto no lo puote comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s’abbia a quelle benedette anime sì come l’occhio debole a lo sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica. Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare de la mia donna, però ch’io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico ‘donne mie care’, a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo.

Il secondo nel Convivio, 2, 12: e sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori della ‘ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta; non forse sanza divino imperio, io, che cercava di consolarme, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. Ed imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volontieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti; sì che in picciolo tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore alla vertù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare della proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre cose: però che della donna di cu’ io m’innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente poetare; né li uditori erano tanto bene disposti che avessero sì leggiere le [non] fittizie parole apprese; né sarebbe data [per] loro fede alla sentenza vera come alla fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima [dirò] del cielo, secondo l’ordine trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo e a littera esponendo; ché, volta [la] parola fittizia di quello ch’ella suona in

La più perfetta delle lontananze

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quello ch’ella ‘ntende, per la passata esposizione questa sentenza fia sufficientemente palese.

La donna lontana è l’immagine della filosofia, è la speciale filosofia riflessa nelle immagini, è la conoscenza attraverso la poesia. Conoscenza secondo analogia, conoscenza per intuizione, conoscenza allusiva di ciò che non cade sotto il controllo della ragione, conoscenza metafisica di ciò che è nascosto, lontano, ma non morto. In una delle sue poesie meno riuscite, Leopardi si immedesima in Consalvo, che è Jaufré, il quale al postutto non era dunque morto, se adesso sotto le mentite spoglie di Consalvo abita Leopardi. Consalvo tiene per unica sua consolazione l’affidarsi morendo a Elvira, anch’essa rosa non colta. L’io della ragione precipita nell’abisso del suo contrario, il tu sentimentale, figurato, della poesia. Cosa che varrà anche per il tu di Montale, che sia Annetta, Clizia o la Volpe. La fatidica strofa di Jaufré lo aveva detto per bene, in chiaro, da subito: la donna della poesia è la poesia, e non si può prendere alla lettera questa donna, appioppandole poi anche un nome: Silvia, Nerina, Lallage. Come non si deve mai nella vita prendere alla lettera una donna senza così mancarle di rispetto. C’era bisogno di un mondo copia, di un riflesso, dell’ombra, per demarcare la luce; dell’artificio poetico per accostarsi alla verità dell’essere, dove i mistici e i poeti confondono i loro linguaggi. Bibliografia Ariosto 1551 = Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Venezia 1551 Baudelaire 1996 = Ch. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni, G. Montessano, Milano 1996 Benjamin 2006 = W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire e Parigi, in Id., Angelus novus, Torino 2006 de Nostredame 1575 = Jean de Nostredame, Le vite delli piu celebri et antichi primi poeti provenzali che fiorirono nel tempo delli ré di Napoli, et conti di Provenza, li quali hanno insegnato a’ tutti il poetar vulgare. Raccolte dall’opere de diversi excellenti scrittori, ch’in quella lingua le scrissero, Lione 1575 Ovidio 2005 = Ovidio Publio Nasone, Le metamorfosi, trad. it. L. Romano, a cura di A. Ria, Torino 2005

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Petrarca 2004 = Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano 2004 Properzio 1945 = Sesto Properzio, Elegie, a cura di G. Lipparini, Bologna 1945 Properzio 1987 = Sesto Properzio, Elegie, trad. it. L. Canali, intr. di P. Fedeli, commento di R. Scarcia, Milano 1987 Properzio 1988 = Sesto Properzio, Elegie, a cura di P. Fedeli, Firenze 1988 Properzio 1993 = Sesto Properzio, Elegie, a cura di R. Gazich, Milano 1993 Rilke 1995 = R.M. Rilke, Poesie, a cura di G. Baioni, commento di A. Lavagetto, vol. II, Torino 1995 Roncaglia 1961 = A. Roncaglia, Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Milano 1961 Rostand 1895 = E. Rostand, La princesse lointane, Paris 1895 Rudel 1950 = Jaufré Rudel, Liriche, a cura di M. Casella, Firenze 1950

Daniele Garrone Chi ha scritto la Bibbia ebraica? A saperlo…

L’identificazione della provenienza e/o dell’autore di uno scritto anonimo o pseudonimo – condotta con criteri storici e filologici – è certamente una delle passioni di Cesare G. De Michelis, la cui attività di studioso e docente queste giornate di studio intendono onorare. La ricerca storicocritica intorno alla Bibbia è stata anch’essa, e lo è tuttora, mossa dall’intento di ricostruire la genesi degli scritti che la compongono nella sua forma attuale. De Michelis è anche attento e appassionato lettore della Bibbia. Riferendomi alla mia disciplina – lo studio della Bibbia ebraica nel quadro di una facoltà di teologia protestante – propongo alcune considerazioni sullo stato attuale della ricerca sugli “autori” degli scritti che compongono la Bibbia ebraica e sulla storia della sua composizione. La domanda “chi ha scritto la Bibbia” non è evidentemente appannaggio dei soli studiosi, come mostrano le tre risposte che seguono, formulate in ambito ecclesiastico e accessibili a un vasto pubblico. Chi ricorra a un motore di ricerca e investighi la rete, può incontrare, ad esempio, un quadro come il seguente, che non lascia adito a dubbi: L’autore principale e l’ispiratore di tutte le Scritture è Dio. […] Dio ha fatto da supervisore agli autori umani della Bibbia, in modo che, pur usando i loro propri stili e personalità, hanno trascritto esattamente ciò che Dio intendeva. La Bibbia non fu dettata da Dio, ma fu perfettamente guidata ed interamente ispirata da Lui. Umanamente parlando, la Bibbia fu scritta da circa quaranta uomini, di diversa provenienza, nel corso di 1.500 anni.1

Il testo prosegue poi con l’indicazione di autore e data di composizione per ogni libro della Bibbia. Il Pentateuco, ad esempio, sarebbe stato scritto da Mosè nel 1400 a.C.; il libro di Giosuè dal personaggio omonimo, 1. .

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nel 1350: Giudici, Ruth e Samuele sarebbero opera dei profeti Samuele, Nathan e Gad tra il 1000 e il 900; Geremia avrebbe scritto il suo libro e quelli dei Re intorno al 600. Allo stesso Isaia si dovrebbe tutto il suo libro, 66 capitoli,2 intorno al 700 e così via. Chi fa riferimento al Catechismo della Chiesa cattolica trova invece la seguente risposta: La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. (n. 105) Per la composizione dei Libri Sacri, Dio si scelse degli uomini, di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli stesso in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva. (n. 106)

Chi usa l’edizione Nuova Riveduta pubblicata dalla Società Biblica di Ginevra – assai diffusa in ambito protestante ed evangelico – sarebbe perentoriamente informato dalla prefazione che «le ricerche storiche e archeologiche evidenziano che i libri [dell’AT] sono stati composti tra il XV e il V secolo a.C.». In tutti e tre i casi, l’attribuzione della ispirazione delle Scritture a Dio, che ne sarebbe il vero autore, si combina con la necessità di riconoscere il carattere umano della produzione scritturale. È appunto di questo ultimo aspetto del problema che si occupano gli studi critici sulla Bibbia. L’approccio storico critico alla Bibbia ebraica, i cui prodromi moderni possono essere collocati nel XVIII secolo, mise in questione le attribuzioni e le datazioni tradizionali dei vari libri vigenti nella sinagoga come nella chiesa. Nel caso del Pentateuco – ad esempio – apparve chiaro non soltanto che Mosè non poteva aver scritto il racconto della sua morte (Deut 34),3 ma che non era plausibile che un solo autore avesse composto un’opera contenente materiali disparati e, soprattutto, numerosi doppioni, ripetizioni e anche tensioni tra le sue varie parti. Si sviluppò così progressivamente – non senza ipotesi alternative – il modello per l’origine del Pentateuco che, con qualche variazione, è stato in auge fino all’ultimo quarto del XX secolo. Esso è legato in particolare al nome di Julius Wellhausen (1844-1918) e comunemente 2. Compresi quindi quei passi in cui si menziona per nome il sovrano achemenide Ciro, salito al potere nel 539 (44,28; 45,1.13). 3. Problema facilmente risolvibile attribuendo questa sola pagina a una mano successiva.

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noto come “ipotesi documentaria” o “teoria delle fonti”. L’idea di fondo di questo modello è che il Pentateuco che noi leggiamo sia il risultato della compilazione di quattro documenti originariamente indipendenti e diacronicamente distinti: una fonte “Jahvista” (J), prodotta nel regno di Giuda nel IX secolo a.e.v. (ma alcuni arrivarono anche a ipotizzare una collocazione anteriore, all’epoca del regno di Salomone); una fonte “Elohista” (E), prodotta nel regno del Nord nell’VIII secolo; il libro del Deuteronomio, collegato alla riforma religiosa del re Giosia (2 Re 22-23), ultimo quarto del VII secolo, e infine uno scritto “Sacerdotale” (P), di epoca esilica (dal 587 a.e.v.) o posteriore. In particolare va notato che le tre fonti J, E e P erano considerate scritti continuativi (cioè comprendenti ciascuno varie epoche della storia biblica, come i patriarchi, l’esodo, la marcia nel deserto ecc.) e paralleli. L’integrazione di fonti di questa natura spiegherebbe la presenza di doppioni: ad esempio, il patto divino con Abramo è raccontato due volte perché era contenuto sia nella fonte E (Gen 15) sia nella fonte P (Gen 17). Questo breve, del tutto sommario!,4 richiamo alla celebre teoria documentaria mi permette di introdurre il primo dei punti su cui voglio soffermarmi. Se il Pentateuco fosse sorto nel modo appena descritto, sarebbe già stata disponibile nel IX secolo (e per alcuni addirittura già nel X!) un’opera di notevole ampiezza, diciamo decine e decine degli attuali capitoli del Pentateuco. Oggi, ma non cinquant’anni fa, sorge immediata una domanda: come si colloca questa supposizione sullo sfondo di quello che sappiamo della scrittura e della produzione di scritti in epoca biblica? Se – per quel che riguarda l’Egitto, la Siria (Ebla) e la Mesopotamia – gli scavi archeologici hanno portato alla luce, negli ultimi due secoli, intere biblioteche e numerose iscrizioni, i reperti per quello che riguarda l’area interessata dalla Bibbia ebraica sono assolutamente scarsi; poche iscrizioni, e certamente non dell’ampiezza di opere letterarie. Una ragione della scarsezza di reperti scritti è certamente quella della deperibilità dei materiali (cuoio e papiro). Tuttavia, gli studi epigrafici convergono nel ritenere che la scrittura cominci a diffondersi nell’area a partire dal IX secolo. L’esistenza di ambienti istituzionali in cui sia radicata una attività scribale del livello necessario a produrre testi letterari porta oggi gli studiosi ad abbassare sensibilmente la redazione degli scritti e delle collezioni letterarie della Bibbia ebraica.5 4. Per una buona panoramica della storia delle ricerca e del suo stato attuale, cfr. Giuntoli 2008; Römer 2007b; Nihan, Römer 2007. 5. Cfr. Schniedewind 2004 per datazioni più antiche. Gli studiosi propendono oggi per l’VIII secolo a.e.v. come l’epoca più antica in cui è pensabile la produzione di scritti

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Da quello che sappiamo dell’antico vicino Oriente, diffusione della scrittura non significava affatto alfabetizzazione diffusa. Al contrario, l’attività non solo scrittoria, ma anche la lettura dei testi, erano appannaggio di ristrette élite. La distanza tra questa produzione di testi e ciò che noi modernamente intendiamo come attività autoriale va adeguatamente colta per formulare ipotesi plausibili sulla formazione dei testi della Bibbia ebraica. Se vogliamo capire la produzione della Bibbia ebraica, dobbiamo familiarizzarci con la cultura scribale che l’ha prodotta. Era la cultura di un’élite letteraria. Gli scribi che hanno realizzato la Bibbia erano scrittori professionisti affiliati al tempio di Gerusalemme. Svolgevano la loro professione in un’epoca in cui commercio di libri e pubblico di lettori non avevano alcuna consistenza. Gli scribi scrivevano per gli scribi. Per il vasto pubblico, i libri della Bibbia erano icone di un complesso di conoscenze a cui si poteva accedere soltanto grazie all’istruzione orale offerta da esperti religiosi. Il testo della Bibbia ebraica non faceva parte della cultura popolare. La Bibbia nacque e veniva studiata nel laboratorio scribale del tempio. Nella sua essenza di fondo, era un libro del clero. (van der Toorn 2007: 2)

Alcuni elementi di questa sintetica conclusione possono essere e sono oggetto di discussione (cfr. in particolare Davies 2013: 39-42). La citazione, tuttavia, è emblematica della prospettiva che caratterizza la ricerca recente: per ipotizzare “autori” dei vari scritti biblici, bisogna formulare ipotesi plausibili sugli ambienti scribali che li possono aver redatti, tramandati, modificati. Accanto al tempio, anche la corte doveva essere un luogo di produzione scribale professionale. Così, ad esempio, è ragionevole collocare in epoca neo-assira, al tempo del re Giosia (ca. 640-609) la produzione del primo strato del libro del Deuteronomio, che mostra di essere modellato sui trattati neo-assiri di vassallaggio, la cui conoscenza è perfettamente plausibile tra gli scribi di corte di Gerusalemme. Più dibattuta è la questione dell’esistenza e della diffusione di scuole nell’Israele biblico, fortemente sostenuta da Lemaire. Si può, almeno a partire da un certa epoca (persiana avanzata, ellenistica) parlare della diffusione di biblioteche private? dell’entità di quelli biblici. Un riscontro interessante è dato dalla statistica delle iscrizioni paleo-ebraiche (da Schmid 2008: 44): X sec. = 4; IX sec. = 18; 1a metà VIII = 16; 2a metà VIII = 129; 1a metà VII = 50; 2a metà VII = 52; Inizio VI = 65. Non dev’essere un caso che vengono associati a “libri” figure di profeti a partire dall’VIII secolo: ad esempio di Elia non ci è stato tramandato alcun libro. Convergono con questo i risultati delle indagini storiografiche e archeologiche sulla effettiva dimensione statuale di Israele e Giuda.

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Non va sottovalutato il carattere anonimo o pseudoepigrafico della letteratura veterotestamentaria. Ciò che si produceva era in gran parte – o si voleva che apparisse come – letteratura tradizionale, con intenti didattici o normativi. La riproduzione del patrimonio ricevuto poteva comprendere e in un certo senso implicava lo sviluppo del testo tramandato, per adattarlo al mutare delle situazioni e per svilupparne le linee. Potremo dire che la trasmissione del testo ne incorporava anche in certa misura il commento. Questo è il modello che oggi si sta imponendo per l’analisi dei libri dei profeti cosiddetti scrittori, cioè quelli (Isaia, Geremia, Ezechiele e i Dodici o Minori) che la tradizione ha collegato alla figura dei profeti omonimi. Se l’attribuzione tradizionale può suggerire che essi siano stati appunto “scrittori” – a differenza di altre figure come quella di Elia, a cui non è collegato alcuno scritto – ma sarebbe forse meglio parlare di profeti “scritti”, dei quali cioè ambienti scribali hanno trasmesso le parole pronunciate oralmente unitamente agli sviluppi letterari che queste parole hanno avuto durante il processo di trasmissione e riscrittura. Un altro problema è quello del rapporto tra scrittura e oralità, nelle due direzioni. Il primo aspetto è quello del rapporto tra tradizioni orali (quanto largamente diffuse e quanto estese nel tempo) e la loro eventuale trascrizione; il secondo è quello del rapporto tra i testi scritti e la loro eventuale recitazione. Si tratta cioè di ricostruire, da un lato, la preistoria dei testi e, dall’altro, la loro funzione e rilevanza al di fuori della loro conservazione e rielaborazione all’interno degli ambienti scribali. Sebbene la letteratura biblica ebraica non fosse autoriale nel senso che noi oggi diamo al termine, e anzi avesse un forte interesse tradizionale, a cui spesso la pseudoepigrafia faceva da puntello (quello che ora scriviamo non è nato ora, ma è antico, ci è giunto e da questo deriva la sua autorevolezza), è però chiaro che gli scritti che abbiamo ora nella Bibbia ebraica hanno profili – e quindi interessi – “ideologici” assai marcati e talora concorrenti tra loro. Un esempio è quello dei testi in cui compare il problema dell’esogamia: fortemente avversata in alcune pagine (in almeno uno strato del Deuteronomio e della letteratura cosiddetta deuteronomistica; nei libri di Esdra e Nehemia; in alcune parti del libro dei Numeri), essa appare del tutto aproblematica in altri, come nel libro di Ester, in quello di Ruth, in Num 12, nella storia di Giuseppe (Gen 37-50). Un altro esempio può essere la figura di Mosè, quasi assente nella letteratura profetica e sapienziale, predominante invece nel Pentateuco. Quest’ultimo, non a caso, si conclude con la morte di Mosè e con la sottolineatura della sua incomparabilità

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e della esplicita subordinazione della profezia al mediatore per eccellenza (Deut 34, 10-12).6 Oppure, ancora, i libri delle Cronache non sono una semplice riscrittura dei libri dei Re, ma presentano una propria autonoma concezione dell’identità di Israele e del suo culto. Infine, ma molti altri casi simili si potrebbero indicare, un documento di sapienza tradizionale, come il libro dei Proverbi, compare accanto alle riflessioni individuali di un “filosofo” come l’autore dell’Ecclesiaste o Qohelet. Quelli che precedono non sono che alcuni esempi della natura plurale di quella che poi è diventata la Bibbia ebraica che conosciamo: essa comprende testi assai diversificati e talora in tensione tra loro. Questi testi di origine e impostazione diverse sono poi stati riuniti in un unico complesso, di cui sono chiare le linee editoriali: all’inizio la Torah, il nostro Pentateuco, una sorta di vertice della collezione; poi i Profeti, divisi nella tradizione ebraica in “anteriori” (che corrispondono ai libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re delle nostre edizioni correnti) e “posteriori” (Isaia, Geremia, Ezechiele e i Dodici), evidentemente interpretati come una sorta di commento alla Torah di Dio mediata da Mosè, attualizzato nella storia di Israele; infine gli Scritti (Salmi, Giobbe, Proverbi, Ruth, Cantico, Ecclesiaste, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra e Nehemia, Cronache). Questa struttura “discendente” traspare chiaramente dagli incipit ed explicit di ognuna delle sue tre sezioni. Della conclusione del Deuteronomio si è già detto; si vedano ancora Gios 1, 7-9,7 dove l’intera storia successiva è programmaticamente posta sotto la legge di Mosè; Mal 3,22-24, al termine dell’ultimo libro profetico,8 che ribadisce che fino al «giorno del Signore» preceduto dal ritorno di Elia redivivo rimane centrale la legge di Mosè e 6. È molto probabile che il Pentateuco abbia superato un progetto concorrente di scritto fondativo, un “Esateuco” che abbracciava anche il libro di Giosuè e che si concludeva non con la morte di Mosè, ma con una solenne alleanza di esclusività cultuale al termine della suddivisione delle terra promessa tra le 12 tribù di Israele (Gios 24). Esso si sarebbe configurato come una sorta di “storia della promessa divina”, da Abramo (Gen 12) al suo compimento. 7. «Tu dunque [Giosuè] sii forte e molto coraggioso, per osservare e mettere in pratica tutta la legge che ti ha prescritto Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, e così avrai successo in ogni tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; così porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo» (vers. CEI). 8. «Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull’Oreb precetti e norme per tutto Israele. Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio» (vers. CEI).

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non ulteriore profezia; infine, il prologo del Salterio (Sal 1 e 2) che ne fanno una sorta di “compagno in preghiera” per un popolo che si attiene alla Torah (Sal 1) e attende fiducioso il regno messianico (Sal 2). Questa organizzazione editoriale è però un punto di approdo. Da un lato, è giocoforza pensare che la compresenza di materiali eterogenei nella Bibbia sia il risultato di una sorta di compromesso, di un agreement tra posizioni diverse. Dall’altro, mi sembra difficile pensare che i testi eterogenei siano stati tutti prodotti e tramandati fin dai loro inizi negli stessi ambienti. La ricerca storico-critica ha sempre ragionato in questi termini e ipotizzato autori, scuole, redattori. Così, ad esempio, von Rad ha parlato dello Jahvista come di un teologo di epoca salomonica, ipotizzando che l’esistenza di una corte come quella che la Bibbia attribuisce a Salomone e l’atmosfera “illuminata” che lo stesso von Rad le attribuiva, fossero l’ambiente adatto alla scrittura di una storia nazionale da Abramo alla “conquista” del paese in cui ora il regno davidico-salomonico dispiegava il suo successo. Noth ha spiegato la redazione dei libri da Giosuè a Re, ispirata alle categorie teologiche del Deuteronomio, a un autore – e non semplice compilatore – che riflette sulla catastrofe nazionale rappresentata dall’invasione neo-babilonese, dalla presa di Gerusalemme, dalla distruzione del Tempio e dalla fine del regno davidico (597-585 a.e.v.). Duhm ha ipotizzato che quelli che egli aveva individuato come quattro “canti del Servitore di Yhwh” siano esistiti prima in forma indipendente e poi inseriti nel testo del profeta Isaia dove c’era spazio, a margine o tra i paragrafi. Se paragoniamo queste ipotesi con l’interrogazione sullo sviluppo della scrittura in Israele nel I millennio a.e.v., sulla presenza e diffusione e di ambienti scribali, di scuole ed eventuali biblioteche che è da alcuni decenni al centro dell’attenzione degli studiosi, il quadro è destinato a cambiare e sorgono nuovi interrogativi. È del tutto improbabile che un’opera dell’ampiezza di quella descritta da von Rad possa esser stata prodotta già nel X secolo; bisogna chiedersi da dove provenissero e dove fossero disponibili i materiali di cui l’autore deuteronomista si è servito per la sua opera; basta osservare il facsimile di un manoscritto biblico di Qumran, come il rotolo A di Isaia, per comprendere che l’inserimento di porzioni di testo poteva avvenire solo nel corso di una riscrittura completa dell’intero testo. In particolare, a proposito dello sviluppo dei testi profetici, ma non solo, è stata introdotto il termine di Fortschreibung, di difficile traduzione. L’idea è che gli scribi abbiano sviluppato i testi nel corso della loro trasmissione, e quindi copiatura, che abbiano proseguito la composizione e

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non sia siano limitati semplicemente a copiare i testi, magari con qualche glossa di lieve entità. Sorge allora la domanda: quante riscritture è possibile plausibilmente postulare per un manoscritto? Con quale frequenza? La ricerca delle origini dei testi biblici è complicata da un fatto che spesso sfugge. Mentre nel caso dell’Egitto e delle culture mesopotamiche gli studiosi possono contare (seppur solo da meno di due secoli) sul ritrovamento di cospicue biblioteche, con reperti letterari a partire dal III millennio a.e.v. e talora con diverse attestazioni di uno stesso testo, nulla di tutto questo è finora dato per il mondo della Bibbia. Basti pensare che lo studio critico della Bibbia ebraica è basato sull’edizione diplomatica di un manoscritto degli inizi dell’XI secolo e.v. La situazione è mutata con la scoperta, a Qumran, di manoscritti biblici del II e I secolo a.e.v. Si tratta delle più antiche attestazioni di testi biblici in ebraico finora note. In alcuni casi, il testo (non vocalizzato; le vocali furono introdotte nell’alto medioevo) è del tutto prossimo a quello masoretico; in altri casi il testo ebraico (ad esempio Geremia) è più prossimo a quello della versione greca detta dei Settanta, il che dimostra come minimo che ancora alla fine del I millennio a.e.v. il testo biblico non era stabilizzato, ma ne circolavano forme diverse. Le problematiche a cui ho (troppo!) sommariamente fatto cenno con la speranza di essere in sintonia con gli interessi del festeggiato, mostrano come sia oggi imprescindibile, per un approccio storico-critico alla Bibbia ebraica, tener conto delle condizioni “materiali” della produzione letteraria in Israele e Giuda dal IX secolo a.e.v. all’epoca ellenistica; ragionare in dialogo con gli studiosi di epigrafia e di storia dell’area siro-palestinese, con gli assiriologi e gli egittologi per evitare ipotesi, magari suggestive, ma poco plausibili. Bibliografia Carr 2005 = D.M. Carr, Writing on the Tablet of the Heart. Origins of Scripture and Literature, Oxford 2005 Carr 2011 = D.M. Carr, The Formation of the Hebrew Bible: A New Reconstruction, Oxford 2011 Davies 1995 = G.I. Davies, Where there Schools in ancient Israel?, in Wisdom in ancient Israel. Essays in honor of J.A. Emerton, a cura di J. Day, R.P. Gordon, H.G.M. Williamson, Cambridge 1995, pp. 199-211 Davies 1998 = P.R. Davies, Scribes and Schools. The canonization of the Hebrew Scriptures, Louisville 1998

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Donatella Gavrilovich Lo strano caso della nevrastenia del regista Vsevolod Mejerchol’d. Un’autobiografia “a regola d’arte”

Con la caduta del muro di Berlino e l’apertura degli archivi criptati, la diffusione online dei documenti e, soprattutto, la ripresa degli studi filologici in Russia sul teatro ottocentesco e sovietico molte delle nostre certezze sono venute meno. I saggi teorici, le memorie e le biografie dei protagonisti della splendida stagione teatrale tra fine XIX secolo e il primo ventennio del Novecento, che furono pubblicati in URSS durante il periodo del cosiddetto “disgelo”, avevano in realtà subito pesanti interventi censori al fine di modificare la nostra comprensione dei fatti. Per lunghi decenni personalità di rilievo, che avevano contribuito alla nascita della regia e segnato il percorso della storia del teatro a livello mondiale, rimasero relegate in persistenti “zone d’ombra” dalle quali ancora oggi con grande difficoltà si tenta di farle uscire. Questa riluttanza ad accettare un cambio di rotta negli studi sul teatro russo-sovietico, in atto ormai da vent’anni sia in Russia e sia negli Stati Uniti, caratterizza in modo particolare l’ambito degli storici del teatro del nostro paese (Gavrilovich 2014). In Italia affermare, ad esempio, che Savva Mamontov1 sia stato l’ideatore della moderna figura di regista nonché il maestro di suo nipote Kon1. Savva Mamontov (Jalutorovsk 1841-Mosca 1918) fu il primo regista russo, maestro di suo nipote Konstantin Stanislavskij. Mecenate, cantante, scrittore, scultore dilettante e azionista delle ferrovie statali, egli proveniva da una ricca famiglia di commercianti siberiani, che nel 1848 si trasferirono a Mosca. Nel 1859 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza e dal 1862 cominciò a viaggiare per affari in Medio Oriente e per studiare canto in Europa. Nel 1873 fondò il Circolo artistico che ebbe sede presso la sua casa di Mosca e la tenuta di Abramcevo, dove si incontravano i maggiori esponenti delle arti figurative, della musica e del canto dando vita dal 1878 alle prime rappresentazioni domestiche sperimentali. Nel 1885 fondò la Častnaja Russkaja Opera Mamontova (Opera Privata Russa

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stantin Stanislavskij, considerato tuttora attore e regista “autodidatta”, è preso quasi per un atto blasfemo. Eppure così non sembra alla statunitense Olga Hadley che nel 2010 ha pubblicato Mamontov’s Private Opera: The Search for Modernism in Russian Theater. La studiosa ha dimostrato con documenti di prima mano che ruolo, in realtà, abbia avuto Mamontov nell’ideazione della regia teatrale2 e come essa sia stata da lui stesso trasmessa direttamente a Konstantin Stanislavskij per poi giungere, grazie agli scenografi registi del suo circolo artistico, a Sergej Djagilev e Vsevolod Mejerchol’d (Hadley 2010: 171-207). Nel novembre 2011, quale segnale tangibile di un cambiamento o, per meglio dire, quale atto conclusivo di una serie di fasi preparatorie nel consueto rituale russo-sovietico di “riabilitazione” di personalità colpite da passata damnatio memoriae, fu inaugurata a Mosca la mostra Savva Mamontov. Konstantin Stanislavskij. Paralleli…3 Organizzata dal Teatro d’Arte di Mosca “A.P. Čechov”, dal Museo del Teatro d’Arte di Mosca e dall’Archivio Principale del Dipartimento della città di Mosca, essa coronava la riscoperta della figura di Mamontov come regista e ne diffondeva l’opera mediante articoli, trasmissioni televisive, addirittura registrate e messe online tra il 2007 e il 2013.4 A un’analoga conclusione era arrivata la scrivente già in un articolo edito nel 1983, con il quale si concludeva un’iniziale attività di ricerca, poi ripresa e approfondita attraverso una serie di pubblicazioni, l’ultima delle quali è datata 2011 (Gavrilovich 2011: 56-62). In questo volume, dedicato di Mamontov). Rischiosi investimenti lo condussero al crollo finanziario nel 1900. La sua presenza nella vita teatrale e artistica russa fu richiesta costantemente da Stanislavskij, in modo particolare tra il 1904 e il 1908, nel periodo di sperimentazione simbolista. Nel 1907 Albert Carré, direttore dell’Opéra Comique di Parigi, chiese il suo aiuto per mettere in scena l’opera Sneguročka (Fiocco di neve) di Rimskij-Korsakov (cfr. Kopšcer 1975; Arezon 1995; Bachrevskij 2000). 2. Nel paragrafo Mamontov as stage director (Hadley 2010: 132-143) è sostenuto e più volte evidenziato il ruolo fondamentale dell’imprenditore siberiano nell’ideazione della moderna regia in Russia. 3. Cfr. , , . 4. Le trasmissioni televisive e gli articoli pubblicati su riviste online, dedicati a Mamontov in occasione del centenario dalla morte, sono stati lo strumento per divulgare il “nuovo” profilo di questa illustre personalità conosciuta solo come industriale e mecenate (Stukalova 2013, ). Il suo ruolo di regista e di drammaturgo è stato messo in luce, ad esempio, nella trasmissione Iosif, titolo della pièce scritta e allestita a Mosca da Mamontov nell’ambito delle messinscene domestiche il 29 dicembre 1880 (, ).

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all’attività del regista-scenografo Aleksandr Golovin, sono stati ricostruiti gli spettacoli allestiti con il regista Vsevolod Mejerchol’d presso i Teatri Imperiali di San Pietroburgo dal 1908 al 1917. Pur riconoscendo un ruolo importante a Golovin, in Italia persiste ancora la convinzione che l’unico artefice degli allestimenti sia stato solo il regista di Penza. In realtà, già dagli anni Settanta in poi gli storici russi dell’arte e di decorazione teatrale avevano narrato con dovizia una “storia” ben diversa, portando a supporto della loro tesi una messe di documenti che sono stati via via editi. Ma la tradizione italiana degli studi teatrali, così fortemente ancorata e dipendente dalla letteratura e dalla drammaturgia, avviluppata nella dimensione tutta ottocentesca del “grande attore”, tende a sottovalutare l’apporto di altre discipline come contributo all’analisi storico-critica dello spettacolo. È questo è un limite. Bisogna aggiungere inoltre che le nostre conoscenze teatrali sono ancora fondate sulle “verità” diffuse in Occidente soprattutto durante il periodo sovietico e che di esse, anche se può apparire incredibile, ci si continua a fidare. Pur non ignorando la possibilità di manipolazioni e tagli da parte della censura sovietica, si tende a non cambiare le proprie convinzioni su quanto è stato detto e scritto. Il caso di Vsevolod Mejerchol’d è esemplare. Del camaleontico regista sembra si sappia ormai tutto, considerando la poderosa quantità di volumi prodotti. Eppure il team dei colleghi russi che dagli anni Novanta sta lavorando al recupero di documenti occultati, dispersi, censurati, organizzandoli in una serie di volumi, intitolati Nasledie (Eredità) e ancora in corso di pubblicazione (Mejerchol’d 1998, 2006 e 2010), sembra essere convinto del contrario, ovvero che del famoso regista russo sappiamo ancora e soltanto quello “che dovevamo sapere”. Nel primo volume furono stampate integralmente per la prima volta anche le tre autobiografie del regista5 redatte nel 1906, 1913 e 1921 (Mejerchol’d 1998: 25-40, 43-60),6 prive di tagli e di manomissioni. Il lavoro compiuto dai 5. Le tre autobiografie sono state tradotte e pubblicate per la prima volta in italiano dalla scrivente (Gavrilovich 2012). 6. La prima autobiografia fu pubblicata in Slovar’ sceničeskich dejatelej (Dizionario delle personalità della scena), edito dalla rivista «Teatr i Iskusstvo» a San Pietroburgo nel 1906. La seconda Avtobiografija (Autobiografia) fu scritta da Mejerchol’d nel 1913 su richiesta dell’editore Semёn Vengerov, che stava progettando di realizzare una sorta di dizionario biografico degli artisti, ma fu pubblicata solo nel 1993 con modifiche e poi nel 1998 nella versione originale. Ed infine la terza, Biografičeskie dannye (Informazioni biografiche), che Mejerchol’d stese nell’estate del 1921, per presentarla alla commissione

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filologi mirava a restituire alla testimonianza scritta, manipolata dalla censura, la sua integrità originale fornendo agli studiosi un accurato supporto di informazioni e di spiegazioni. L’acquisizione di questa enorme mole di materiali (di cui il terzo tomo del 2010 di circa 700 pagine completa il solo periodo da maggio a dicembre 1905!) è destinata a ridisegnare le nostre conoscenze “preconfezionate” sul regista Mejerchol’d. Un piccolo esempio circoscritto è quello relativo alla sua nevrastenia. Essa ha rappresentato uno dei tratti peculiari di Mejerchol’d e dei personaggi da lui interpretati, tanto da diventare quasi un eponimo. Su questo argomento tutti e tre i biografi sovietici, Nikolaj Volkov (Volkov 1929), Aleksandr Gladkov (Gladkov 1979) e Kostantin Rudnickij (Rudnickij 1969 e 1981), concordano nell’affermare che essa fu causata dal conflittuale rapporto con il padre. Ma solo Rudnickij, nella sua prima biografia documentaria e atipica, tradotta in inglese con il titolo Meyerhold the Director (Rudnickij 1981) e diffusa in tutto il mondo, rimarcò i danni causati nello sviluppo psicologico del giovane regista dal pessimo rapporto avuto con il padre, l’industriale Emil Mejergol’d. Costui fu descritto da Rudnickij come «il despota della famiglia che trattava in modo sprezzante e senza complimenti la madre, bigamo, samodur, sempre pronto a mollare un ceffone […] il padre infuse nel figlio un sentimento misto di paura e di ostilità» (Rudnickij 1969: 7). A differenza di quanto affermato dall’influente biografo sovietico universalmente ritenuto “fonte autorevole”, Mejerchol’d stesso scrisse nell’autobiografia sia del 1913 (Mejerchol’d 1998: 25-26) sia del 1921 (Mejerchol’d 1998: 44) che fu il padre a introdurre la musica e il teatro nella sua vita, non la madre, da lui rimproverata per il fatto che ai figli «distribuiva appena delle carezze, ma queste non erano più di quelle che dava a tutti coloro che erano indifesi e poveri». Rudnickij voleva ricostruire il carattere di Mejerchol’d mediante un approccio di tipo psicoanalitico, alquanto superficiale, che lo portò a sostituirsi del tutto al regista nell’esprimere idee e sentimenti. Le sue “riflessioni”, purtroppo, hanno acquistato in Occidente la dignità e l’autorevolezza di fonti documentarie. E giustamente la slavista Claudia Pieralli commenta che «si tratta di una liceità piuttosto azzardata che il narratore si concede, moscovita del Partito Comunista a seguito della delibera sul controllo, il monitoraggio e la čistka da effettuare tra le file degli iscritti al partito con lo scopo di eliminare i kulaki (contadini ricchi) e i piccoli borghesi che vi si erano infiltrati.

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ma l’effetto risulta pienamente credibile e noi “ci fidiamo” della parola dell’autore, che risulta essere una parola autorevole» (Pieralli 2004: 236). Che bisogno c’era di forzare i fatti e di interpretarli in modo così difforme dalla realtà? Eppure gli scritti autobiografici del regista furono nelle mani di Rudnickij così come in quelle degli altri due biografi sovietici. La questione ovviamente non era “metodologica”, ma politica. Il fine che Rudnickij, come per altri versi Gladkov, si poneva era di ricondurre la figura di Mejerchol’d nei parametri dell’ortodossia comunista. Dopo la riabilitazione del regista avvenuta il 26 novembre 1955, il compito dei biografi fu quello di ricostruire il personaggio Mejerchol’d in modo da giustificare scelte e comportamenti “errati”. La selezione del materiale da utilizzare nella narrazione della vita del regista dipendeva, dunque, da fini ricostruttivi ben precisi: apologetici e politici. E, dunque, che funzione poteva avere il padre capitalista, imprenditore arricchito e per di più tedesco, luterano e bigamo nella formazione del giovane regista sovietico? La nevrastenia, dato negativo, doveva trasformarsi in dato positivo ed essere giustificata non solo come ribellione interiore ma, soprattutto, sociale e politica del figlio vessato dall’autorità del padre-padrone. Quindi era naturale che ogni altra motivazione doveva essere eliminata, anche se in Biografičeskie dannye, scritto nel 1921, Mejerchol’d affermava tutt’altro. La nevrastenia insorse a causa del suo amore adolescenziale, corrisposto, per un’operaia della fabbrica paterna e delle profonde sofferenze patite per questo rapporto amoroso, che non poteva essere accettato dalla sua famiglia a causa delle convenzioni vigenti nella società dell’epoca. Il regista, ormai quarantasettenne, si soffermava sulla decisione da lui presa di interrompere definitivamente la relazione con la giovane donna, spiegando le conseguenze che tale fatto ebbe per il successivo sviluppo della sua vita privata. Le parti, tagliate dalla censura nel testo autobiografico apparso in appendice alla raccolta di scritti di Mejerchold curata da A. Fevral’skij (Fevral’skij 1968: 308-315) e poi di nuovo inserite e finalmente pubblicate vent’anni dopo (Mejerchol’d 1998: 45-46) sono le seguenti: E per questo motivo il periodo della pubertà fu non solo penoso ma tragico. In che senso? Dovevo legare il mio destino alla signorina dei salotti aristocratici, contro i quali perfino un Čackij è un nano? Sotto l’influenza delle pagine lette di Pisarev, Černiševskij, Dobroljubov noi pronunciavano stupefacenti monologhi.

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Ma fu un’operaia della fabbrica, una contadina del rione di Bessonovsk, che destò la mia carne, quella di cui seguivo le orme per tre verste nel sobborgo sia con la pioggia, sia con il freddo. E qui mi arresto. Non si può raccontare in cinque righe quel gran dramma che si svolse nella mia vita in questo periodo adolescenziale e, di sicuro, non è necessario alla Commissione per l’epurazione del partito venirne a conoscenza. Eppure una sola cosa c’è da dire, perché (ora che ho quarantasette anni, posso affermarlo con sicurezza) è qui, qui, e non mediante i libri (e neanche, forse, attraverso le conversazioni con Kavelin)7 che maturò e si rafforzò in me la fede nella peculiarità dell’altra classe, l’amore verso il suo fascino salutare, la ricerca di avvicinarsi a essa a tutti i costi. E bisogna dire un’altra cosa: accadde nella vita del giovane un episodio tragico che mantenne puro il giovinetto colà, dove molte potevano essere le tentazioni alla profanazione. Di per sé fu un passo importantissimo e un passo giusto, ma la possibilità che si profilava con chiarezza di unirsi attraverso il sesso al nuovo ambiente sociale fu abbattuta in modo catastrofico: la rottura con l’operaia in quei giorni d’amore intenso e corrisposto per un quinquennio straziante danneggiò la psiche sofferente di colui che sotto l’influenza della droga del geniale Dostoevskij fece un passo tragico dietro l’altro. Gli psichiatri, ai quali mi rivolsi, non capivano nulla, ricevevano l’onorario e mi prescrivevano il bromo. Ma il mio cervello ardeva […]. Mi rallegravo del fatto che la mia nutrice era contenta, mentre l’operaia abbandonata da me in modo onesto per tutta la vita suscitò in me una riflessione che periodicamente si accendeva nel mio cervello: “Ah, l’inimicizia delle due classi! Perché sono due mondi?”.

Nel 1998, quando l’autobiografia fu pubblicata integralmente, i curatori del primo tomo della serie Nasledie non diedero alcuna spiegazione circa le motivazioni che avevano spinto il collegio redazionale a effettuare i tagli sopra riportati. Scrissero soltanto (Mejerchol’d 1998: 50) che quello stesso documento era stato appena citato nella monografia di Volkov, mentre per merito di Fevral’skij era stato edito «parzialmente» nel numero IV della rivista «Teatral’aja žizn’» nel 1965 e «con non grandi tagli» nella prima raccolta di scritti del regista (Fevral’skij 1968: 310). Per quanto riguarda la storia d’amore con l’operaia, i curatori di Nasledie (Mejerchol’d 1998: 46) annotarono genericamente che il regista si era dilungato nell’autobiografia a spiegare le cause scatenanti della sua nevrastenia; poi anche loro hanno preferito disquisire sull’influenza esercitata sull’ir7. Le poche notizie che abbiamo su Kavelin ce le fornisce lo stesso Mejerchol’d nell’autobiografia del 1913 (Mejerchol’d 1998: 26). Quando stava frequentando la sesta classe, il padre decise di affiancargli stabilmente un precettore, Kavelin, che poi fu deportato per aver preso parte al movimento operaio.

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requieto adolescente dai romanzi di Dostoevskij. A tale proposito essi citarono Gladkov che «operando sui ricordi di Mejerchol’d» (Mejerchol’d 1998: 50-51, nota 5), aveva attribuito la causa della malattia alla lettura della prima raccolta di opere di Dostoevskij, edite sulla rivista «Niva» dal 1893. Salvifica fu dunque secondo Gladkov (Gladkov 1979: 37-39) la relazione amorosa con Ol’ga Munt,8 sua futura moglie (ma questa deduzione sarebbe incomprensibile se non si tiene conto di quanto scritto dallo stesso Mejerchol’d!). Il biografo ritrae Munt come una sorta di “donna angelicata” giacché aiutò il giovane a uscire dall’impasse e a prendere coscienza della situazione, maturando quelle decisioni che cambiarono totalmente la sua vita. Per quanto riguarda la nevrastenia, Volkov (Volkov 1929: 32-36) non trattò questa tematica in modo approfondito; egli ne parlò solo per spiegare il motivo del viaggio a Riga, compiuto da Mejerchol’d subito dopo la morte del padre, e grazie al quale il giovane ebbe l’opportunità di ascoltare per la prima volta la musica di Wagner. Di Rudnickij e dell’interpretazione data alle vicissitudini familiari occorse al giovane e alle ripercussioni psicologiche che esse causarono è stato già ampiamente scritto sopra. In conclusione, pur essendone tutti i biografi perfettamente a conoscenza, nessuno ha voluto prendere in considerazione o spiegare quanto narrato da Mejerchol’d in quel passo del suo dattiloscritto: anche se nessuno ha mai negato la veridicità del racconto. Per il fatto stesso che questo passo della sua autobiografia è stato ignorato dai biografi, tagliato dai curatori della prima edizione degli scritti e finalmente pubblicato nel 1998, anche se privo di qualsiasi rimando esplicativo, esso è stato portato come piccolo esempio di una questione spinosa e complessa. La manipolazione dei documenti e, dunque, la trasmissione “certificata” di tante false verità costruite “a regola d’arte” costituisce oggi la questione di fondo degli studi sul teatro russo-sovietico. Nell’ex Unione Sovietica la responsabilità dell’occultamento o della trasmissione falsificata di documenti e di fatti relativi all’attività artistica dei protagonisti della scena russa del periodo in esame è dovuta principalmente a motivi politici e ideologici. Certamente più difficile da spiegare e da comprendere è quanto accaduto in Occidente e, in particolare, in Italia durante gli anni Settanta e Ottanta, quando l’accesso ai documenti era possibile e le pubblicazioni sul teatro russo avevano già chiaramente indicato dove e che cosa ricercare 8. Ol’ga Michajlovna Munt (1874-1940) fu la prima moglie di Mejerchol’d.

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oppure di cosa dubitare. Ma qui non si vuole discutere della responsabilità dei singoli, quanto dell’eredità culturale a noi trasmessa e del peso che tutto ciò ha significato e significa relativamente alla conoscenza di uno dei momenti più importanti della storia del teatro mondiale. Bibliografia Arezon 1995 = E. Arezon, Savva Mamontov, Moskva 1995 Bachrevskij 2000 = V. Bachrevskij, Savva Mamontov, Moskva 2000 Gavrilovich 2011 = D. Gavrilovich, Nel segno del colore e del corpo. Il registascenografo Aleksandr Golovin. Sperimentazione e riforma nella scena russa dal 1878 al 1917, Roma 2011 Gavrilovich 2012 = D. Gavrilovich, Vsevolod Mejerchol’d. Le autobiografie inedite 1906-1913-1921, Roma 2012 Gavrilovich 2014 = D. Gavrilovich, Lux In Arcana. La “verità del falso” negli studi sul teatro russo, in Culture del Teatro moderno e contemporaneo. Per Angela Paladini Volterra, a cura di P. Benigni, Roma 2014, pp. 129-137 Gladkov 1979 = A. Gladkov, Gody učenija Vsevoloda Mejerchol’da, Saratov 1979 Haldey 2010 = O. Haldey, Mamontov’s Private Opera. The Search for Modernism in Russian Theater, Bloomington 2010 Kopšcer 1975 = M. Kopšcer, Savva Mamontov, Moskva 1975 Mejerchol’d 1968 = V. Mejerchol’d, Stat’i. Pism’a. Reči. Besedy (1891-1917), a cura di A. Fevral’skij, B. Rostockij, vol. I, Moskva 1968, pp. 56-57 Mejerchol’d 1998 = V. Mejerchol’d, Nasledie 1. Avtobiografičeskie materialy. Dokumenty 1891-1903, a cura di O. Fel’dman, saggio introduttivo di B. Zingerman, Moskva 1998 Mejerchol’d 2006 = V. Mejerchol’d, Nasledie 2. Tovariščestvo Novoj Dramy. Sozdanie studii na Povarskoj. Leto 1903-Vesna 1905, a cura di O. Fel’dman, Moskva 2006 Mejerchol’d 2010 = V. Mejerchol’d, Nasledie 3. Studija na Povarskoj. Maj-Dekabr’ 1905, a cura di O. Fel’dman, Moskva 2010 Pieralli 2004 = C. Pieralli, Arte e formazione del giovane Mejerchol’d nello sguardo biografico di K.L. Rudnickij, in «Europa Orientalis», 23 (2004), pp. 231-251 Rudnickij 1969 = K. Rudnickij, Režisser Mejerchol’d, Moskva 1969 (trad. ingl. Meyerhold, the Director, a cura di S. Schultze, Ann Arbor 1981) Rudnickij 1981 = K. Rudnickij, Mejerchol’d, Moskva 1981 Stukalova 2013 = O. Stukalova, Fenomen Savvy Mamontova, in «Iniciativy XXI veka» (2013), Volkov 1929 = N. Volkov, Mejerchol’d, Moskva-Leningrad 1929

Tonino Griffero Falsi sentimenti (atmosferici)? Autentico e inautentico nella sfera emozionale

1. Atmosfere: ci si può sbagliare nel percepirle? Alla sfera patemica risultano largamente inadeguati, sotto il profilo fenomenologico ed estetologico, tanto il riduzionismo cognitivista quanto l’emozionalismo ingenuo. E allora, prescindendo da estenuanti e sempre un po’ inconcludenti demarcazioni tra sentimenti, emozioni, passioni e tonalità d’animo – stati certamente di diversa durata, intensità, dinamicità e orientamento –, ma capitalizzando la vaghezza semantica di questa costellazione lessicale, consideriamo qui i sentimenti come delle totalità gestaltiche, irriducibili a processi fisiologici e neurobiologici (estranei al vissuto in prima persona) e scomponibili solo artificialmente ed ex post. O, meglio, come delle Stimmungen o atmosfere (cfr. Griffero 2010), come sentimenti relativamente “oggettivi” in quanto effusi nello spazio (vissuto e predimensionale). «“Avete dolori, cara mamma?”. “Credo che ci sia del dolore da qualche parte nella stanza”, dichiarò la signora Gradgrind, “ma non potrei dire con sicurezza che ce l’ho io”». Ci piace immaginare che quest’idea di Dickens (tratta da Hard Times) possa essere estesa a tutti i sentimenti atmosferici: condizioni esterne in larga parte indipendenti dal soggetto, vaghe e tuttavia altamente invasive e attive in quanto vere e proprie «quasi-cose» (cfr. Griffero 2013), che non condizioni privatissime e ineffabili che l’uomo “possederebbe” e potrebbe quindi in linea di principio anche controllare. Ma occorre anzitutto ridimensionare tre pregiudizi millenari (cfr. Schmitz 1969): a) quello psicologistico, mettendo cioè in dubbio l’esistenza di un mondo interno, controllabile perché separato da quello esterno; b) quello riduzionistico, sostenendo che la realtà “incontrata” non consiste

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anzitutto di fatti e/o dati quantificabili, in elementi atomici o loro eventuali costellazioni, ma di “situazioni” caotico-molteplici affettivamente connotate; infine c) quello introiezionistico, valorizzando l’idea che l’affettivo, lungi dall’essere circoscritto al corpo fisico e alla mente del soggetto, tonalizza invece il nostro intero mondo circostante (si pensi all’euforia dello stadio o di un party ecc.) ben prima di contagiare il nostro Leib (corpo vissuto e non fisico-anatomico). Si tratta, in breve, di risalire dall’introiezione dell’affettivo, attestabile e dominante nella nostra cultura fin dall’Odissea, alla concezione greca più arcaica dei sentimenti come forze demoniche e proprio-corporee incontrollabili (thymos), non ancora segregate in una finzionale sfera psichica privata (psyché). E di chiedersi, di conseguenza, se tale concezione arcaica non fornisca una spiegazione più adeguata dell’autorità (o se si vuole autorevolezza) con cui la sfera affettiva ci aggredisce. Si può – ecco il punto − legittimamente parlare di false atmosfere e/o di atmosfere false? Intanto, le due espressioni non coincidono affatto, visto che secondo la pragmatica linguistica le “false atmosfere” non sono neppure atmosfere, mentre le “atmosfere false” sono atmosfere inautentiche. Ma soprattutto, mentre ci si può ovviamente sbagliare, generando ad esempio un’atmosfera indesiderata (l’autorevolezza sentita come comica), non è agevole spiegare come ci si possa sbagliare nel percepire un’atmosfera. Ci si sbaglia, infatti, quando se ne è inconsapevolmente contagiati, o non sarebbe forse proprio questo il modo più giusto di “sentirla”? Ci si sbaglia, forse, nel resisterle, o proprio il fatto di contrastarla dimostrerebbe la corretta percezione della sua alterità? Ci si sbaglia forse nel declinarla soggettivamente, o la risonanza soggettiva non proverebbe proprio la sua efficacia coinvolgente? Forse ci si sbaglia quando la si rileva senza provarla o, magari, quando neppure la si percepisce? La fenomenologia atmosferica andrebbe qui debitamente articolata, nel senso che, se l’atmosfera prototipica è quella inaspettatamente incontrata in un ambiente esterno e che, pur se inintenzionalmente generata, riorienta completamente la situazione emotiva del percipiente, risultando del tutto refrattaria a qualsiasi (più o meno consapevole) tentativo di adattamento proiettivo, talvolta si percepisce però anche un’atmosfera senza esserne coinvolti, si può avere uno stato d’animo, magari in seguito a un’anomala condizione psicofisica, che impedisce finanche la rilevazione dell’atmosfera antagonistica e delle sue nuance, oppure percepire in modo assolutamente idiosincratico una certa atmosfera. Quali che siano le differenziazioni, è difficile, come vedremo, poter considerare un errore la “prima impressione”

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atmosferica, e quindi largamente insoddisfacente parlare di sentimenti (d’ora innanzi atmosfere) illusori, pseudosentimenti e sentimenti falsi. 2. Esistono false (inautentiche) atmosfere? Se si potesse attribuire al sentimento (in terza persona) una “certa” razionalità, ad esempio valutarne la conformità o meno a uno stato del mondo rappresentabile, affermando ad esempio che posso sentire che p, anche sapendo che non-p, il nostro problema neppure si porrebbe. Ma quando si passa da una verità-legittimità parametrata sull’adeguatezza pseudorappresentazionale e fisicalistica di terza persona all’autenticità patemico-fenomenologica, il discorso diviene assai più complesso. In che senso, infatti, potremmo dire che un sentimento atmosferico non è vero? 1) Potremmo distinguere le atmosfere simulate da quelle involontariamente vissute e vere in quanto resistenti a ogni tentativo di annullamento o modifica. Ma per la sua efficacia sullo spettatore, che se ne sente rapito, e persino, pur senza abbracciare del tutto Stanislavskij, sull’attore che lo mette in scena ‒ più che emozione in autentica, espressione inautentica di un’emozione (Demmerling 2009: 10) ‒ tale sentimento non sarà comunque “vero” (in un certo senso della parola)? 2) Più facile dichiarare inautentiche le atmosfere indotte farmacologicamente, ma si ricorre anche in questo caso a una valutazione solo in terza persona e debitrice di una controversa distinzione assiologica tra naturale e artificiale: chi è sotto l’effetto di un euforizzante non crede affatto di illudersi nel sentire positivo l’atmosferico che lo circonda! 3) All’idea che siano false le atmosfere che, pur avendo effetti pratici e mentali, non sono oggetto di un’esperienza intersoggettiva è facile obiettare il ricorso a un parametro puramente statistico (che infatti non inficia neppure la certezza kantiana del bello) e inadeguato all’atmosfera sentita personalmente. 4) Sostenere che sono false le atmosfere che sentiamo solo perché sentite da altri prima di noi sottovaluta il carattere potentemente contagioso dell’espressività irradiata dagli altri, e responsabile più di quanto si riconosca di molti comportamenti collettivi. 5) E se inautentiche fossero le atmosfere incoerenti con la biografia del percipiente e con la situazione cui egli reagisce? L’ipotesi è fragilissima, costretta a definire vere solo le atmosfere che confermano l’esistente

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(affettivo), laddove pare più verosimile che un sentimento atmosferico sia tanto più vero quanto più contrasta il comportamento abituale del soggetto, vincendone così ogni auto- ed etero-censura. L’atmosfera erotizzante ancorché ludico-finzionale del flirt, ad esempio, è inautentica perché fin da principio la si sa superficiale e priva di effetti reali come accettazione o rifiuto, oppure è autentica, un po’ come il sublime, proprio quando mantiene irrisolto il contrasto tra avance e convenzione finzionale? 6) Potremmo poi ritenere false (o irrazionali) le atmosfere che ci ingannano, come esemplarmente nel caso delle fobie o in quello assai più comune in cui, ad esempio, si è disgustati da ciò che invece sarebbe meglio temere, si scambia una patologia per malumore o si maschera con un sentimento socialmente permesso quello invece socialmente stigmatizzato ecc. Ma anche qui parlare di sentimenti (atmosferici) inappropriati e inadatti presuppone inevitabilmente una fondazione cognitiva, per noi quindi ininfluente o fuorviante, della percezione affettiva. Che sia una datità esterna fisicalisticamente concepita, un oggetto formale-intenzionale determinato (ma sempre in terza persona) o un valore trascendente il vissuto, l’elemento a cui ci si appella in tali casi fornisce sempre una giustificazione (cognitiva, intenzionale o assiologica) estranea alla situazione patemica. L’emendabilità di un’atmosfera, praticabile solo entro i limiti del senso comune per la costituzionale e feconda vaghezza di tale sentimento spazializzato (vaghezza de re più che de dicto, quindi), la cui petulante messa a fuoco fisicalistica sarebbe anzi patologica, non la rende necessariamente più falsa o più irrazionale di quelle successive e più analitiche. 7) False potrebbero essere le atmosfere inadatte a generare i comportamenti corrispondenti. Ma è davvero falsa quell’atmosfera che, ad esempio, amo e tuttavia sfuggo, o non miro piuttosto proprio a non esaurirla, a differirla per intensificarne la qualità o anche solo per evitarne le conseguenze socialmente stigmatizzate? L’incoerenza, comunque, non riguarda propriamente il sentimento atmosferico in sé, bensì solo i comportamenti che ne conseguono, tanto che all’efficacia patemica subentra qui quella pragmatica. 8) Va poi per la maggiore l’idea che siano inautentici i sentimenti (anche atmosferici) oggetto di manipolazione intenzionale e/o sentiti solo perché attesi e socialmente normati. In primis le atmosfere suggerite da qualcosa di immaginato e di non strettamente reale, e per le quali si potrebbe parlare di atmosfere make-believe (parafrasando Walton 1993) o quasiatmosfere (parafrasando Mulligan 2006): si tratta di sentimenti indotti, ad esempio, dal condizionamento sociale (letture, aspettative ecc.) e quindi

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nel loro valore solo controfattuale (“come-se”) maggiormente subordinati alla volontà, anche correttiva. La paura sentita al cinema, in breve, non sarebbe una vera paura perché meno intensa di quella reale. Si tratterebbe di un’imitazione schematica dell’emozione reale (Vendrell 2008: 103) e il cui esito è meno duraturo, solo superficialmente “corrispondente” alla tipologia di reazione attesa, spesso accompagnata da qualche tonalità contrastante (tristezza e piacere dell’atmosfera di Pompei!), patemica magari solo su base genericamente riflessiva (l’atmosfera comunque triste del funerale di un estraneo a seguito di una riflessione sulla caducità dell’esistenza). In breve, l’atmosfera finzionale parrebbe, parafrasando Walton, del tutto parassitaria rispetto al sentimento di prim’ordine (reale). Per quanto indubbia, la differenza quanto-qualitativa delle atmosfere finzionali non vale però sempre. Proprio perché più astratte, esse si rivelano non di rado le più intense, basti pensare a come l’atmosfera di diffidenza dello sciovinismo proliferi proprio grazie a una cognizione astratta dell’alterità, a come l’atmosfera di un pomeriggio dai Guermantes sia ben più vera di quella annoiata ancorché realissima vissuta a casa dei coniugi Rossi, a come l’atmosfera di terrore (o quasi-terrore) al cinema possa perfino rivelarsi meno intensa se trasferita nella vita reale, donde magari la sottovalutazione di un pericolo. Certo, l’atmosfera finzionale possiede una minore forza motivazionale, presuppone una credenza con riserva: se l’atmosfera di un film horror difficilmente mi spinge ad abbandonare repentinamente la sala – ma gli affetti finzionali meriterebbero ben altre indagini −, resta tuttavia, in quanto spazio tonalizzato, non trasformabile a piacimento, presentandosi quindi come non banalmente inautentica. 9) Anche l’ipotesi che siano false le atmosfere prive di un oggetto specifico, o che possono averne uno qualsiasi pur che soddisfi il desiderio proiettivo del percipiente, mostra presto la corda. Non sente forse veramente un’atmosfera favorevole l’entusiasta che interpreta proiettivamente tutto ciò che gli accade? E tanto meno inautentici sono i sentimenti atmosferici che proviamo al posto di coloro che invece non li provano: è il caso, davvero emblematico, della comunque inibente vergogna vicaria (cfr. Griffero 2012 e 2013: 89-108). 10) Certamente non false sono le atmosfere generate dalla prima impressione involontaria solo perché messe in dubbio da un più analitico processo percettivo. Si può certo disinnescare una certa atmosfera, ad esempio, lasciando l’ambiente che ne è pervaso in favore di un altro, ma solo e sempre ex post. E comunque l’intensificarsi o affievolirsi di un’atmosfera non ren-

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de affatto falsa (o viceversa) la sua percezione iniziale, se non altro perché quest’ultima resta il punto di partenza di qualsiasi variazione affettiva. 11) Non sono certo false neppure le atmosfere sentite solo per effetto di una certa tradizione, quanto meno se si corporizzano nella vita sensibile del percipiente. L’atmosfera di inquietudine dei boschi esisterebbe anche in una tradizione priva di fiabe, essendo sopravveniente a qualia specifici ma decisamente transculturali (ombrosità, umidità, rumori misteriosi, perdita dell’orientamento ecc.) e impenetrabile rispetto a qualsiasi rassicurazione cognitiva: come l’illusione di Müller-Lyer non è modificata da ciò che si sa, un’atmosfera proprio-corporalmente provata, come il rosso di sera ad esempio, continua a essere sentita così-e-così (come serena e benaugurante) quand’anche la si sapesse causata in larga misura dall’inquinamento! 12) Né regge l’ipotesi, infine, che siano false le atmosfere non del tutto coscienti, percepite perifericamente rispetto a quanto è percettivamente messo a fuoco. E questo perché, essendo per definizione periferiche (non tetiche) e condizione di possibilità di percezioni focali (e finanche di giudizi o atti motivati), le atmosfere si incarnano comunque nel sentire proprio-corporeo, influenzando più di quanto si ammetta la sfera dei pensieri e delle motivazioni. In qualità di sfondo inaggirabile ancorché inconsapevole, l’atmosfera determina infatti non solo la nostra tonalità emotiva qui e ora, ma sopravvive talvolta a lungo e riemerge di tanto in tanto (carsicamente), manifestandosi indirettamente nel momento in cui si esprime un giudizio cognitivamente inesplicabile o si assiste a un evento sproporzionato rispetto alla sua causa e quindi altrimenti incomprensibile. Che riguardi le disposizioni atmosferiche, le proto-atmosfere o le atmosfere situazionali – parafrasando definizioni dei sentimenti proposte, rispettivamente, da Wollheim, Elster e Nussbaum −, l’esistenza e quindi verità dei sentimenti atmosferici è comunque tutt’altro che inficiata dall’inconsapevolezza del percipiente. Il minimo che si possa dire, in conclusione, è che non è affatto agevole stabilire che cosa significhi attribuire verità o falsità agli stati affettivi (privati e atmosferici). 3. Elogio dell’inflazionismo (patemico) Non resta allora che ridimensionare l’appello enfatico all’autenticità. A un parametro, cioè, magari utile nella cura di sé e nelle interazioni sociali, ma, esattamente come il ragionamento causale e genetico − che

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confonde il senso dell’affetto con la sua mera collocazione neurale −, assai poco pertinente a un’analisi fenomenologica orientata a descrivere l’apparenza qua talis. Non inautentico perché artificialmente generato o perché attutito dall’allontanamento, perché incapace di egemonizzare la nostra situazione o perché susciti reazioni relativamente differenziate, il sentimento atmosferico, tanto sovrasoggettivo quanto la lingua nonostante gli idioletti, risulta inautentico, in ultima analisi, solo se si assume la prospettiva extrafenomenologica dell’adaequatio e della terza persona. La soluzione sta dunque, a nostro parere, solo nell’inflazionismo affettivo (cui si è alluso già sopra). Certo, in senso proprio esiste solo l’atmosfera in atto, estranea a valutazioni in terza persona come l’intenzione di chi la genera o la sua forma sociale idealtipica. Ci sembra dunque più produttivo interessarsi della qualità e intensità, piuttosto che dell’“autenticità”, dei sentimenti atmosferici, in altri termini della loro certezza soggettiva (certo non epistemicamente valutata)1 nel quadro dell’essere dinamico che li prova (Vendrell Ferran 2008: 108). Una certezza, questa, che non può tradursi in un sapere, esattamente come per Wittgenstein è privo di senso dire “io so di avere dolori”, ma che esclude altresì il bisogno di prove ulteriori, potendo contare su una “meità” (un me) presoggettiva (anteriore all’io) e costituita da fatti assolutamente soggettivi e quindi esclusi per principio dalla catena, costretta al regresso all’infinito, delle autoattribuzioni: la più completa delle descrizioni della mia persona (maschio, adulto, italiano ecc.) non dice infatti ancora che sia proprio io la persona così descritta (Schmitz 2009: 49-55). Vissuti soggettivamente e perfino in contrasto con la propria Stimmung pregressa, i sentimenti atmosferici esistono in senso proprio, e in questo senso sono dunque sempre veri, quando il nostro corpo vissuto è aggredito dalla loro autorità quasi-cosale (Griffero 2014), cominciando eventualmente a essere messi in dubbio o contrastati tramite diversivi (mi1. Molte le possibili spiegazioni dell’infallibilità dell’“io sento”: identità (eccezionale) di senziente sente e sentito (Henrich); identità ottenuta attraverso l’attribuzione di predicati sempre più adeguati al soggetto senziente (Tugendhat); speciale modalità autoattributiva (Perry); performatività e non referenzialità dell’espressione “io” (Anscombe); referenzialità diretta dell’io rispetto alla persona e alle sue caratteristiche psicofisiche (Strawson); rigorosa indessicalità del pronome personale “io” (Lailach-Hennrich); coincidenza del credere e del contesto di legittimazione di tale credere (Ryle); ma soprattutto l’implicita familiarità con sé anteriore a ogni catena di autoattribuzioni (Frank e Schmitz) ed estranea a criteri esterni alla prima persona (Rorty).

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surabilità cognitiva e corrispondentistica) solo ex post. In quanto prima impressione di un sentimento tanto esterno e spazializzato da essere indipendente e refrattario alle proiezioni soggettive, l’atmosfera non è affatto inautentica, quanto meno inizialmente. Anche in questo caso il logos arriva infatti troppo tardi e non può far altro che riconoscere che non siamo padroni neppure in quella sfera (l’affettività) che si suppone (erroneamente) sia “casa nostra”. Bibliografia Demmerling 2009 = C. Demmerling, Echte und unechte Gefühle. Mit einem Kommentar zur Debatte über Neuro-Perfektionierung, in «Information Philosophie», 4 (2011), pp. 7-15 Griffero 2010 = T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Roma-Bari 2010 (trad. ingl. Atmospheres. Aesthetics of emotional spaces, Farnham 2014) Griffero 2012 = T. Griffero, Vergognarsi di, per, con… Le atmosfere della vergogna, in La vergogna/The shame, a cura di E. Antonelli, M. Rotili, Milano 2012, pp. 161-190 Griffero 2013 = T. Griffero, Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Milano 2013 Griffero 2014 = T. Griffero, Who’s Afraid of Atmospheres (And of Their Authority)?, in «Lebenswelt», IV/1, pp. 193-213, Mulligan 2006 = K. Mulligan, Was sind und was sollen die unechte Gefühle?, in Das Autentische. Zur Konstruktion von Wahrheit in der säkularen Welt, a cura di U. Amrein, Zürich 2006, pp. 225-242 Schmitz 1969 = H. Schmitz, System der Philosophie, Bd. III.2, Der Gefühlsraum, Bonn 1969 Schmitz 2009 = H. Schmitz, Nuova Fenomenologia. Un’introduzione, trad. it. di T. Griffero, Milano 2011 Vendrell Ferran 2008 = I. Vendrell Ferran, Die Emotionen. Gefühle in der realistischen Phänomenologie, Berlin 2008 Walton 1993 = K.L. Walton, Mimesis as a make-believe. On the foundations of the representational arts, Cambridge (MA)-London 1993

Daniela Guardamagna Apocrifi e falsi shakespeariani

Il concetto sacrale di testo apocrifo applica il termine a Shakespeare per analogia con i testi affiancati alle sacre scritture della tradizione giudaico-cristiana e parte da una visione appunto sacrale di Shakespeare: il bardo della mitologia romantica, ispirato dal suo stesso Genio e dalla Natura – che sa rispecchiare come nessun altro –, sarebbe immediatamente riconoscibile per la perfezione dei versi, la potenza della struttura drammaturgica, la complessità psicologica e la funzionalità scenica dei personaggi. Le discussioni sul tema, dai primi decenni del Settecento ma ancora fino a Novecento inoltrato, sono costellate di dichiarazioni apodittiche “di gusto” in cui anche grandi critici cedono alla tentazione di dichiarare che qualcosa è “degno” o “indegno” di Shakespeare. In tempi recenti due fenomeni tipici degli studi sul periodo, e sul teatro, ridimensionano la compattezza di un canone che veniva sostanzialmente identificato con il First Folio (cioè la prima raccolta di testi shakespeariani, pubblicata nel 1623, sette anni dopo la morte dell’autore). Da un lato l’attenzione recente dei critici si concentra sull’inevitabile deformazione del testo teatrale nella resa scenica e nella trasmissione (“canovaccio”, “partitura” per la rappresentazione, che si trasforma per sua natura, oltre che nel passaggio dal manoscritto autoriale al copista e poi giù giù a testo per la compagnia): ogni dramma avrebbe molte versioni, tutte ugualmente canoniche o non canoniche, palinsesto modificabile di sera in sera a seconda dell’occasione e del pubblico; testo riscrivibile e riscritto dallo stesso Shakespeare, come nelle affascinanti ipotesi secondo cui alcuni in quarto (per esempio quello di Hamlet o del King Lear, che presentano alcune variazioni rispetto ai testi del First Folio), sarebbero più attenti al dato letterario/simbolico e quelli del Folio si concentrerebbero su soluzioni scenicamente interessanti (cfr. Taylor

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2009). L’altra motivazione che si oppone ai tentativi di individuare l’Unico Testo autoriale è la recente consapevolezza di quanto diffusa fosse la pratica della collaborazione, anche in Shakespeare. Il concetto ottocentesco di uno «Shakespeare-as-Jesus», «dwelling amongst but not of humanity» (Knight 1839-[46]), propone di nuovo – con un’ingenuità che sarà denunciata da molti – il modello sacrale di Autore che non collabora e non si fonde con il sottobosco dei suoi simili/dissimili. Il modello recente, invece, privilegia l’immagine di un autore consapevole della realtà scenica del suo tempo, che scrive puntando all’efficacia della rappresentazione, per un attore e una compagnia specifici, modellando il testo ad esempio sulla presenza di un clown terragno come William Kempe o aereo come Robert Armin, di boy-actors più o meno esperti per interpretare le parti femminili, di un attore stonato come Burbage (stonato e un po’ sovrappeso: per cui il pallido prence Amleto diventa «fat» e «scant of breath», grasso e a corto di fiato). Inoltre, la nostra conoscenza di Shakespeare e la nostra ammirazione per lui dipendono soprattutto dai grandi testi tramandatici dal First Folio, e l’immagine che ne deriviamo si modifica relativamente poco se all’elenco di opere come Hamlet, King Lear, Othello, Macbeth, Antony and Cleopatra e così via aggiungiamo o togliamo il Pericles o The Two Noble Kinsmen, che non sono presenti nel First Folio, e saranno inseriti soltanto in seguito nel canone. D’altro canto, in un momento in cui la filologia shakespeariana è giunta ad analisi estremamente sofisticate, è rilevante anche per l’interpretazione dei drammi, oltre che per la conoscenza complessiva dell’autore, sapere ad esempio se la Tempest sia l’Ultimo Testo lasciato alla posterità dal drammaturgo, con addio all’arte e abbandono del suo Grande Mestiere; o se (come è effettivamente avvenuto, e come è acclarato da qualche decennio) dopo la Tempest Shakespeare si sia accinto, da grande artigiano qual era, alla produzione di drammi particolarmente adatti a incontrare il favore del pubblico, scegliendo tematiche e collaboratori che gli garantissero il successo. 1. Il punto sugli apocrifi: una breve sintesi All’origine dell’esistenza degli apocrifi è la pubblicazione già nei primi anni del Seicento di edizioni più o meno piratesche di testi in quarto che portano sul frontespizio l’attribuzione a Shakespeare, con il nome per

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esteso o con varie sigle (W.S. o W.Sh.). La motivazione più ovvia è il desiderio di editori disonesti di lucrare sul nome prestigioso, che già in quegli anni poteva indurre all’acquisto della copia più facilmente di quello di un autore meno noto: si trattava quindi dei primi falsi shakespeariani con motivazioni bassamente economiche. Questi testi apocrifi non sono raccolti dai curatori del First Folio, Heminges e Condell, ma saranno invece inclusi nella seconda ristampa del terzo Folio, datata 1664, mantenuti nel quarto Folio (1685) e poi variamente inclusi o esclusi nelle edizioni critiche che si susseguono dai primi del Settecento, naturalmente fino ad oggi. Del tutto sinteticamente,1 diciamo che rispetto al canone iniziale si è giunti alla certezza sulla paternità shakespeariana per pochi testi fra quelli discussi nei secoli: il Pericles, assente nel First Folio, è ormai considerato ovunque testo autoriale, con la collaborazione (soprattutto per i primi due atti) di George Wilkins; lo stesso per The Two Noble Kinsmen, quasi certamente scritto insieme a John Fletcher. Infine sono attribuite in modo quasi unanime alla mano shakespeariana alcune pagine del Sir Thomas More (ma si tratta di poche decine di versi). Questo è il punto di arrivo di un dibattito iniziato quattro secoli fa, e non ancora completamente definito in tutti i suoi rebbi, anche se su molte opere la critica è ormai giunta a considerazioni condivise. Fondamentale, per la prima analisi esaustiva e criticamente agguerrita sulla questione, è Tucker Brooke 1908; un atteggiamento altrettanto analiticamente esteso contraddistinguerà, anni dopo, l’Oxford Textual Companion su Shakespeare (Wells-Taylor 19972), che lavora nuovamente su una visione complessiva del corpus shakespeariano; dei quattordici testi analizzati con grande cura da Tucker Brooke, e dei quattro successivi aggiuntisi nel XX secolo, tutti sono oggi considerati spuri, esclusi tre casi per cui – con diverso livello di unanimità critica – si prende in esame l’ipotesi della collaborazione, e in un ultimo caso del tutto particolare, a cui accenniamo nelle prime righe del paragrafo successivo. I tre drammi in cui a fine Novecento si giunge a ipotizzare la parziale collaborazione di Shakespeare sono: l’Arden of Feversham (pubblicato nel 1592), grande tragedia domestica anonima di notevole fama2 in cui Shakespeare avrebbe inserito 1. Per una trattazione aggiornata sul tema si rimanda ai testi citati nei cenni bibliografici. 2. Memorabile la messinscena di Carmelo Bene, come sempre riscritta e reinterpretata, nel 1968.

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alcune scene fra le più potenti; l’Edward III, considerato un apocrifo fino agli anni Ottanta del Novecento, ormai quasi unanimemente inserito nel canone per quanto riguarda le cosiddette “Countess scenes”; il caso diversissimo del Mucedorus (prima edizione 1598), bizzarro fenomeno in cui un testo di valore drammaturgico piuttosto scarso ha un travolgente successo di pubblico: poche voci isolate, tuttavia non smentite,3 ipotizzano che Shakespeare abbia inserito nel testo circa duecento versi per una ripresa del play al Globe nel 1609. 2. Riscritture e falsi: due casi Infine, c’è la vicenda complessa e affascinante del perduto Cardenio, che in ambito anglistico sta ricevendo grande attenzione, di cui parleremo brevemente e che dà luogo a quello che è stato considerato il primo falso importante a cui si accenna in questa breve relazione. Messo in scena nel 1613 (è quindi uno dei drammi che seguono la Tempest), da documentazioni d’epoca sappiamo che è stato rappresentato in quell’anno, e che si trattava di una collaborazione fra Shakespeare e John Fletcher. Del testo non è rimasto nulla: ne abbiamo soltanto il nome in documenti d’epoca, e si tratta quindi del mitico testo perduto la cui resurrezione è stata più volte ipotizzata. Sappiamo inoltre che il nome Cardenio, e parte del plot, sono derivati dal Quijote cervantino, con modalità che ora non è il caso di riferire. Nel primo Settecento, il critico shakespeariano e drammaturgo di non eccelso livello Lewis Theobald sostiene di aver ritrovato ben tre manoscritti di un’opera shakespeariana inedita, che identifica con il Cardenio e che non mostrerà mai al pubblico: mettendola in scena al Drury Lane nel 1727, e pubblicandola nel 1728, Theobald fa conoscere al mondo il suo Double Falshood; Or, The Distrest Lovers. Certamente molto di questo testo è dovuto a Theobald, che vanta nel prologo la grandezza naturale e «wild», non doma, di Shakespeare (Theobald 2010: 182-183), lontana dalle pedisseque e rigide regole dell’ordine neoclassico; tuttavia Theobald effettua molte normalizzazioni sia nei versi sia nella struttura del testo. Di questi ultimi mesi è la teoria, oggi generalmente accettata, che l’autore settecentesco fosse venuto in possesso di un manoscritto effettivamente prodotto da Shakespeare e Fletcher, probabilmente rielaborato da un autore 3. Cfr. Jackson 1963; Wells, Taylor 1997.

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di poco successivo, forse Philip Massinger, e che lo abbia a sua volta molto disinvoltamente rielaborato: per cui il titolo Double Falsehood, doppia falsità, getterebbe una luce interessante sull’operazione. Su quest’opera la critica ha molto dibattuto, e sta ancora dibattendo; meno indagata, invece, è quella che viene definita concordemente dai critici un hoax, insieme una truffa e una beffa, della fine del Settecento: il Vortigern and Rowena di William-Henry Ireland, mostrato al pubblico nel 1794 e messo in scena il 2 aprile 1796; a questo play è dedicata la parte finale di questa relazione. È opportuno ricordare che in tutto il Settecento era già vivissima la bardolatria, e che sono moltissime le messe in scena shakespeariane per le quali un forte interesse di pubblico e critica era garantito; mentre era molto meno facile essere rappresentati e pubblicati per gli autori contemporanei. Jeffrey Kahan, che ha dedicato un volumetto al caso Ireland, ci fa notare quanto il favore del pubblico e delle compagnie fosse sbilanciato in favore dei testi consacrati dalla tradizione, e quanto più facile fosse rappresentare un testo shakespeariano, fortemente modificato per adattarlo al gusto del pubblico, piuttosto che il testo di un nuovo drammaturgo. Della bardolatria faceva parte anche il fortissimo interesse per le trouvailles shakespeariane o pseudo-shakespeariane: com’è noto, di Shakespeare non ci è rimasto nulla di scritto, soltanto una firma apposta al testamento. Il collezionista Samuel Ireland, nella seconda metà del Settecento, dedica la sua vita alla ricerca di materiale shakespeariano. Suo figlio, William-Henry Ireland, decide di elaborare una complessa truffa che – secondo alcuni – aveva soprattutto lo scopo di renderlo finalmente interessante agli occhi di suo padre. Dopo essersi esercitato lungamente a produrre fogli anticati e inchiostri che apparissero vecchi di secoli, nel 1794 Ireland dichiara al padre di essere venuto in possesso (con modalità rocambolesche che qui non citeremo) di un antico baule che contiene qualcosa di inestimabile: alcune lettere per mano di Shakespeare, tra cui una alla moglie Anne Hathaway, accompagnata da un ricciolo dei suoi pochi capelli, e una alla regina Elisabetta. Incoraggiato dal successo di questi primi ritrovamenti, Ireland jr sostiene di aver ritrovato parti di un manoscritto dell’Amleto, uno completo del King Lear, e infine quella che dovrebbe essere la trouvaille più preziosa: un’opera inedita di Shakespeare, appunto il Vortigern and Rowena. Sorprendentemente, quando il manoscritto viene mostrato ad alcuni esperti dell’epoca, parecchi fra loro, tra cui alcuni poeti laureati e il grande biografo James Boswell, si genuflettono e dichiarano la loro convinzione

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della sua autenticità; Boswell dichiara addirittura di poter, ora, morire felice (Schoenbaum 1970: 150), cosa che peraltro accadrà pochi mesi dopo. Il dramma si occupa di tematiche molto in voga nel periodo shakespeariano, cioè la materia di Bretagna: questa, mai trattata da Shakespeare, è stata argomento di molti drammi di suoi contemporanei, e il testo è desunto da fonti che possono aver incoraggiato la stima di autenticità, perché Shakespeare se ne servì lungo tutta la sua carriera: si tratta delle Chronicles of England, Scotland and Ireland di Raphael Holinshed, fonte dei drammi storici e del Macbeth, e della Historia Regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth, di cui Shakespeare si servì per il King Lear e il Cymbeline. I due Ireland (il padre inconsapevole e il figlio falsario) cercano variamente il conforto degli esperti per l’autenticità del manoscritto, e decidono di tentare il favore del pubblico, non senza elaborati mercanteggiamenti per scegliere la soluzione che dia più visibilità alla preziosa trouvaille. Infine, una messinscena di Vortigern and Rowena è organizzata al Drury Lane, uno dei due teatri con patente regale al tempo, il cui actor-manager (una funzione che corrisponde più o meno a quella del capocomico italiano) era il grande attore shakespeariano John Philip Kemble. Tuttavia, immediatamente prima della messinscena del dramma, lo stimato critico e curatore shakespeariano Edmond Malone riesce a far pubblicare un grosso volume nel quale si intende dimostrare che il Vortigern è appunto una truffa. L’opinione pubblica si divide in due fazioni, una che crede alla paternità shakespeariana, una che la discute: certamente l’opinione di Malone ha molto peso. Ma al play non è data la possibilità di parlare per se stesso: Philip Kemble non crede che l’opera sia shakespeariana, e recita il ruolo di Vortigern senza nessuna partecipazione. Sua sorella, la grande attrice Sarah Siddons, che avrebbe dovuto interpretare Rowena, si ritira pochi giorni prima della messinscena. I primi due atti sono ascoltati “rispettosamente”; ma, come spesso avveniva all’epoca, il pubblico si divide, ed è presente in sala una claque organizzata, ostile al dramma e favorevole a Malone; quando Kemble pronuncia la pericolosa anche se piuttosto efficace battuta «when this solemn mockery is ended» (quando questa solenne buffonata sarà finita, V.ii.61), gli spettatori assoldati da Malone cominciano a fischiare, a disturbare la recita, e riescono a determinare l’insuccesso del play.

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In seguito, Ireland confesserà (Ireland 1796) di aver falsificato il dramma, scritto da lui stesso. Molti non credono nemmeno a questa versione, e accusano il padre di aver partecipato all’inganno con tutta la famiglia. Venendo brevemente all’oggetto, il dramma è essenzialmente un pastiche di testi shakespeariani, con il protagonista usurpatore Vortigern chiaramente modellato sul personaggio di Macbeth; va detto, in favore di Ireland, che conosceva bene il suo Shakespeare; il testo, infatti, contiene decine di spezzoni di frasi soprattutto dal Macbeth e dal Lear, ma anche da Hamlet, da Henry V, dal Julius Caesar (riportiamo alcuni esempi nella tabella a seguire). Inoltre molte situazioni sono prese di peso dai testi del Bardo: Vortigern si chiede se assassinare il re – risolvendo peraltro assai rapidamente i suoi dubbi – con precise evocazioni dei monologhi dell’usurpatore Macbeth; la moglie abbandonata di Vortigern impazzisce tra i fiori citando letteralmente Lear e Ofelia; Vortigern sconfitto chiede di essere ucciso da un servo come Cassio e Bruto, e la figlia di Vortigern si traveste da ragazzo come Viola nella Twelfth Night e Innogen nel Cymbeline; c’è anche un Fool, che è però del tutto insignificante, senza nessuna delle durezze perturbanti dei fool shakespeariani. I suoi versi, privi delle oscenità che una platea settecentesca non avrebbe gradito, risultano assai insipidi, oltre che banali dal punto di vista puramente metrico, e ovviamente privi dell’impatto “scoronante” che contribuisce a rendere indimenticabile il ruolo del fool nel Lear. Nel complesso il dramma, nonostante qualche buona battuta e un discreto uso del blank verse, risulta inevitabilmente scialbo. Tabella 1. Alcuni echi shakespeariani nel Vortigern and Rowena SITUAZIONE

VORTIGERN AND ROWENA

SHAKESPEARE

Vortigern e Macbeth contem- There was a time when e’en plano l’idea dell’assassinio: the thought of murder / Would have congeal’d my very mass of blood… (I.iii.5-6) And, as a tree, on the approaching storm, / E’en so my very frame would shake and tremble… (I.iii.6-7)

My thought, whose murther yet is but fantastical, / Shakes so my single state of man… And make my seated heart knock at my ribs, / Against the use of nature? (Macbeth, I.iii.135-137)

Ancora, per la battuta prece- There was a time when e’en dente: the thought of murder / Would have congeal’d my very mass of blood… (I.iii.6-7)

There was a time my senses would have cool’d / To hear a night-shriek… (Macbeth, V.v.10-11)

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SITUAZIONE

VORTIGERN AND ROWENA

SHAKESPEARE

Vortigern e Macbeth, mentre But now I stand not at the act progettano l’assassinio, ricor- itself, / Which breaks all bonds dano il fatto che il re è loro of hospitality (I.iii.9-10) ospite:

He’s here in double trust: / First, as I am his kinsman and his subject […] / Then, as his host, who should against the murderer shut the door… (Macbeth, I.vii.12-15)

Entrambi ricordano i favori ri- To me, the King hath ever been cevuti dal re: most kind; / Yea, even lavish of his princely favours (I.iii.1011)

He’s honoured me of late, and I have bought / Golden opinions from all sorts of people… (Macbeth, I.vii.32-33)

Un re promette ulteriori bene- As a sure earnest of our future fici: bounty… (IV.vi.53)

ROSS: And, for an earnest of a a greater honour… (Macbeth, I.iii.102-103)

Vortigern invoca la notte per commettere l’assassinio:

VORTIGERN: Come then black night, and hood the world in darkness / […] That pity may not turn them from their purpose (I.iii.43-45)

LADY MACBETH: Come, thick night, and pall thee in the dunnest smoke of hell, / That my keen knife see not the wound it makes… (Macbeth, I.v.50-54) MACBETH: Come, seeling night, / Scarf up the tender eye of pitiful day… (Macbeth, III.ii.46-50)

Vortigern e Macbeth hanno uc- VORTIGERN: O sleep, thou ciso il re nel sonno: nourisher of man and babe! / Soother of every sorrow, that can’st bury / The care-distracted mind in sweet oblivion… (I.iv.6-8)

MACBETH: Sleep, that knits up the ravelled sleave of care, / The death of each day’s life, sore labor’s bath, / Balm of hurt minds, great nature’s second course, / Chief nourisher in life’s feast… (Macbeth, II.ii.34-37)

Rowena dubita della propria ROWENA: capacità di sedurre il re, come But should I fail? (IV.v.34) Macbeth dubitava della sua di ucciderlo; entrambi sono rassicurati dal complice, rispettivamente Horsus e Lady Macbeth:

MACBETH: If we should fail? (Macbeth, I.vii.59)

Aurelius, figlio del re, descrive AURELIUS: il suo assassinio, e così lo spet- Murder most foul hath ta’en tro di re Amleto il proprio: him. (II.i.22)

GHOST: Murder most foul, as in the best it is… (Hamlet, I.v.27-28)

La parola «deed» è una parola chiave ripetuta più volte nel Macbeth, per riferirsi all’omicidio di Duncan:

MACBETH: I’ve done the deed! (Macbeth, II.ii.14)

MESSENGER: Vortigern hath done the deed. (II.i.32)

Apocrifi e falsi shakespeariani

SITUAZIONE

VORTIGERN AND ROWENA

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SHAKESPEARE

Edmunda, la moglie ripudiata di And have I need of these vile Vortigern, si produce in un pasti- rags: off! Off! (III.vi.55) che che evoca insieme la follia di Lear e di Ofelia: Your arm, sweet maid […] good night, sweet, good night! (III.vi.67)

Off, off, you lendings! Come. Unbutton here. (King Lear, III. iv.104-105)

Vortigern e Macbeth sono incol- VORTIGERN: leriti alla notizia dell’approssi- Wherefore dost tremble thus, marsi del nemico e insultano il paper-faced knave! (V.ii.69) pallido messaggero:

MACBETH: The devil damn thee black, thou cream-faced loon! (Macbeth, V.iii.11)

Come Bruto e Cassio, Vortigern si fa uccidere da un servo:

VORTIGERN: Hold here my sword, / And but one friendly office render me; flinch not, strike deep and home; here lies my heart. (IV.x.25-27)

CASSIUS: Come hither, sirrah. / In Parthia did I take thee prisoner. / […] Now be a free man, and with this good sword / That ran through Caesar’s bowels, search this bosom. (Julius Caesar, V.iii.34-40)

C’è anche un’eco di Iago nelle VORTIGERN: I will not, ultime battute di Vortigern, il boy… […] I would not answer quale dichiara che, sconfitto, ought. (V.iii.87-89) non profferirà verbo:

IAGO: Demand me nothing. What you know, you know. From this time forth I never will speak word. (Othello, V.ii.303-304)

Ophelia: … Good night, ladies, good night. Sweet ladies, goodnight, goodnight. (Hamlet, IV.v.72-73)

Questi sono alcuni esempi, ma potremmo continuare. È certamente ingiusto accostare il giovane Ireland a Shakespeare, in quanto in ogni verso sarebbe facile mettere in evidenza la sua diffusa verbosità contro la fulminante sintesi delle frasi shakespeariane; ma non è questo il nostro scopo. Piuttosto, è palese che – a diciassette anni – il giovane falsario conosceva profondamente il suo Shakespeare; questa può essere una parziale scusante per coloro che, leggendo Vortigern and Rowena, hanno sentito un’eco pregnante di molte frasi note e hanno quindi accettato l’ipotesi della paternità. Un’ultima riflessione va però aggiunta, e a mio avviso deve in qualche misura intervenire nella nostra valutazione del “fenomeno Ireland”, mitigando la propensione a farci gioco di alcune scelte che ci appaiono imperdonabilmente lontane dallo spirito dei testi shakespeariani come li conosciamo. Tutto il Settecento metteva in scena uno Shakespeare normalizzato, privato della sua “barbarie”, rispettoso del decorum neoclassico (per

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cui i personaggi nobili non pronunciano battute oscene o comiche, come invece fanno ampiamente principi e re shakespeariani, e in cui i personaggi delle classi inferiori parlano in una prosa spoglia di gioielli stilistici, diversamente da quanto avviene in Shakespeare, che regala ad esempio al servo/mostro Caliban uno dei monologhi più lirici e poetici della Tempest). La commistione di tragico e comico, una caratteristica tipica non solo di Shakespeare ma di molti grandi autori elisabettiani e giacomiani, è cancellata come inopportuno segno di un tempo lontano ispirato dalla Natura, ma non levigato dalla sapienza dell’arte. Dopo la Restaurazione nel 1660, la maggioranza dei drammi shakespeariani sono rappresentati per decenni negli adattamenti “addomesticanti” di autori più vicini al gusto del pubblico neoclassico, come Dryden, Davenant o D’Urfey: questo vale per l’Antony and Cleopatra, per il Macbeth, per il Cymbeline, ma il caso più clamoroso è quello del Lear, che verrà rappresentato per un secolo e mezzo nell’intollerabile versione di Nahum Tate, con un assurdo lieto fine che vede Cordelia sposa di Edgar e felice regnante per vari decenni, e con l’abolizione del Fool, cancellato come troppo sboccato e inelegante: il personaggio verrà reinserito sulle scene soltanto nella coraggiosa messinscena di William Macready, che data addirittura al 1838. Insomma, lo Shakespeare che veniva rappresentato sui palcoscenici settecenteschi era lontano dallo Shakespeare che noi conosciamo forse non quanto il Vortigern and Rowena, ma certamente non era lo “Shakespeare nostro contemporaneo” che ha coinvolto e travolto il pubblico per quattro secoli. Il falsario William-Henry Ireland era in realtà poco più colpevole di snaturare l’opera di Shakespeare di quanto non siano stati, con le loro versioni neoclassiche, autori osannati dal pubblico e dalla critica come i grandi actor-manager John Philip Kemble o David Garrick. Bibliografia bibliografia primaria

Ireland 1794 = W.H. Ireland, Vortigern and Rowena, 1794, Theobald 2010 = L. Theobald, Double Falsehood, or, The Distressed Lovers, a cura di B. Hammond, London 2010

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altri testi di william-henry ireland

Ireland 1796 = W.H. Ireland, An Authentic Account of the Shaksperian Manuscripts, &c, London 1796. Anche in W.H. Ireland, An Authentic Account of the Shaksperian Manuscripts, &c, a cura di J. Lynch, London 1796, Ireland 1874 = W.H. Ireland, The Confessions of William-Henry Ireland, Containing the Particulars of His Fabrication of the Shakespeare Manuscripts; Together with Anecdotes and Opinions of Many Distinguished Persons in the Literary, Political, and Theatrical World, New York 18742 bibliografia secondaria

Grebanier 1965 = B. Grebanier, The Great Shakespeare Forgery, New York-London 1965 Guardamagna 2012 = D. Guardamagna, About Apocrypha, in Memoria di Shakespeare, a cura di R. Colombo, D. Guardamagna, vol. 8, On Authorship, Roma 2012, pp. 25-46 Harazsti 1934 = Z. Harazsti, The Shakespeare Forgeries of William Henry Ireland, Boston 1934 Jackson 1963 = M.P. Jackson, Material Toward an Edition of Arden of Faversham, unpublished B. Litt. thesis, Oxford 1963 Jowett 2007 = J. Jowett, Shakespeare Supplemented, in The Shakespeare Apocrypha, a cura di D.A. Brooks, A. Thompson, Lampeter 2007, pp. 39-73 Kahan 1998 = J. Kahan, Reforging Shakespeare: The Story of a Theatrical Scandal, Bethlehem-London 1998. Knight 1839-[46] = Ch. Knight, The Pictorial Edition of the Works of Shakspere, 8 voll., London 1839-[46] Lynch 2004 = J. Lynch, William Henry Ireland’s Authentic Forgeries, in «Princeton University Library Chronicle», LXVI /1 (2004), pp. 76-96 Mair 1938 = J. Mair, The Fourth Forger, London 1938 Pierce 2004 = P. Pierce, The Great Shakespeare Fraud: The Strange, True Story of William-Henry Ireland, Stroud 2004 Proudfoot 2001 = R. Proudfoot, Shakespeare: Text, Stage & Canon, London 2001 Proudfoot 2005 = R. Proudfoot, Is There, and Should There Be, a Shakespeare Apocrypha?, in In the Footsteps of William Shakespeare, a cura di C. Jansohn, Münster 2005, pp. 49-71 Schoenbaum 1970 = S. Schoenbaum, Shakespeare’s Lives, Oxford 1970 (dedicati al caso Ireland i capitoli 8-11, pp. 135-167) Schoenbaum 1981 = S. Schoenbaum, Shakespeare Forgeries: Ireland and Collier, in William Shakespeare: Records and Images, London 1981, pp. 117-154

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Schoenbaum 1985 = S. Schoenbaum, The Ireland Forgeries: An Unpublished Contemporary Account, in Shakespeare and Others, Washington 1985, pp. 144-153 Stewart 2010 = D. Stewart, The Boy Who Would Be Shakespeare: A Tale of Forgery and Folly, Boston 2010 Taylor 2009 = G. Taylor, “King Lear”. The Date and Authorship of the Folio Version, in The Division of the Kingdoms. Shakespeare’s Two Versions of “King Lear”, a cura di G. Taylor e M. Warren, Oxford 20092, pp. 351-451 Tucker Brooke 1908 = The Shakespeare Apocrypha: Being a Collection of Fourteen Plays Which Have Been Ascribed to Shakespeare, a cura di C.F. Tucker Brooke, Oxford 1908 Wells, Taylor 1997 = S. Wells, G. Taylor, William Shakespeare: The Oxford Textual Companion, Oxford 19972

Michael Hagemeister The Protocols of the Elders of Zion – a Forgery?*

Something is not a fake because of its internal properties, but by virtue of a claim of identity. Thus forgeries are first of all a pragmatic problem. Umberto Eco, The Limits of Interpretation

There are books which one does not have to read in order to know what they say and what they represent. This holds true for the Bible, the Quran or for Karl Marx’s Capital and Charles Darwin’s The Origin of Species – works central for a religion or an ideology. It also holds true for an anonymous 60-page manuscript which has become known as The Protocols of the Elders of Zion. One need not have read it in order to know that it represents the plan of a worldwide Jewish conspiracy or a malicious, anti-Semitic pamphlet. Why, then, waste one’s time reading a work said to be nothing but a blatant forgery – a most dangerous one at that, serving as it does as a «license to murder» (Grobman 2011) or as a «warrant for genocide» (Cohn 1967). But is that actually the case? The Protocols appear to be the literal transcript of one or several speeches given by an anonymous Jew at a meeting of undefined people (probably Jews) at an undisclosed location at an unknown point in time. The speaker outlines in great detail the secret methods and goals of a century-old Jewish-Masonic conspiracy against the entire non-Jewish world. The aim of the Jewish conspirators is the establishment – in the guise of legality – of a perfectly organized patriarchal dictatorship with a king from * This paper was presented at the conference La verità del falso. Convegno internazionale in onore di Cesare G. De Michelis on May 9th, 2014.The style of the presentation has been maintained.

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the House of David at its helm. This world leader is described as a charismatic father-figure, a model of virtue, self-command and reason. Admired by the masses (both Jew and non-Jew), he is almost idolized. A benevolent despot, the Jewish king will rule over a harmonious, united and pacified world. The “new society”, described in the Protocols, will be a unified, peaceful totalitarian welfare state with socialist features. There will be no unemployment, the production of articles of luxury will be reduced, as they corrupt morals, and drunkenness will be prohibited by law. It will be an empire in which the vast majority of people, being completely controlled and manipulated, live in dull happiness and peace. In order to establish this empire of peace and security, sacrifices do, of course, have to be made, but, as the speaker declares: «the result justifies the means» (World 1972: 19). We shall contrive to prove that we are benefactors who have restored to the rent and mangled earth the true good and also freedom of the person, and therewith we shall enable it to be enjoyed in peace and quiet, with proper dignity of relations, on the condition, of course, of strict observance of the laws established by us. […] Our authority will be glorious because it will be all-powerful […]. Our authority will be the crown of order, and in that is included the whole happiness of man. (World 1972: 85)

It is remarkable that the text of the Protocols is completely devoid of the old, traditional accusations against Jews such as deicide, the murder of Jesus, well poisoning, host desecration, ritual murder, racial pollution or blood defilement. Instead, there is talk of law and order, monopoly on violence, state finance and fiscal policy, national economics, the gold standard, higher education and mass media – topics which dominated public discourse at the end of the 19th century and are still relevant today. Looking at the earliest editions of the so-called Protocols, it is striking that the text was published under a variety of different titles from the very beginning. The earliest known publication appeared in summer 1903 in an obscure Petersburg newspaper with the title Programme for the Conquest of the World by the Jews (Programa zavoevan’ja mira evrejami). The most influential edition of the Protocols which was first published in 1905 has the title Protocols of the sessions of the Elders of Zion (Protokoly sobranij Sionskich mudrecov). It was with this title that the text was later distributed worldwide. But – and this is important –, it is readily apparent that this title, aimed to emphasize the text’s authenticity, does not fit the text in the slightest.

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First, we are not dealing with actual minutes at all: the place and time of the conventions are not given, neither are the identities of speaker and writer. Secondly, we can also hardly speak of sessions of “the Elders of Zion”, given that those “Elders of Zion” never figure in the text itself. There are merely a few passages in which the speaker refers to «our elders» (naši mudrecy), implying that neither he himself nor the supposedly addressed audience are encompassed by this term. Therefore, the title Protocols must be an addition by subsequent promoters and interpreters of the text and, moreover, is misleading. We should consequently separate the text from its title. I will continue to speak of the Protocols only for the sake of convenience. But what is this text that we are dealing with? 1. The Protocols – a negative utopia We have seen that the goal of the Jewish conspirators as depicted in the Protocols is the establishment of a worldwide totalitarian welfare dictatorship. The Jewish king will unite mankind in one great brotherhood and bestow upon it an abundance of material goods. For this great service the non-Jews will accept him and worship him as benefactor. This, however, corresponds to a recurring theme of the famous dystopias in 19th and 20th century Russian literature. For instance, we encounter it in Dostoevskij’s famous Grand Inquisitor, who – like the speaker of the Protocols – deems the majority of human beings weak, immature, and despicable and relieves them from the burden of freedom in exchange for bread and security (Poliakov 1980: 69-78; Skuratovskij 2001: 193-204). The Jewish emperor of the Protocols bears similarities to the Antichrist as sketched by Vladimir Solov’ëv in his Short Story of the Antichrist (Hagemeister 2000 and 2010). Solov’ëv’s Antichrist is a charismatic superman, exemplary in virtue and erudition. After coming to power and subordinating the entire world with the help of the «mighty brotherhood of the Freemasons» (Solov’ëv 1914: 203), he does not establish a terror regime; rather, he founds a global monarchy and thus grants his version of eternal peace by providing «the most basic of all equalities – the equality of universal satiation» (Solov’ëv 1914: 205). Solov’ëv’s Antichrist describes himself as «benefactor» (blagodetel’). In the same vein, the Protocols’ Jewish conspirators see themselves as «benefactors» (blagodeteli), bringing eternal peace and order to the

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world. And even in Evgenij Zamjatin’s famous novel We, the vision of a totalitarian “One-State”, the all-powerful ruler is introduced as «benefactor» (blagodetel’). It is remarkable how rarely the Protocols with their vision of leader cult and mass propaganda, universal surveillance and total subordination, denunciation, control of the legal apparatus, censoring of the press and aspiration to world domination has being read as an anticipation of the modern police state and related to the totalitarian systems of the 20th century. This has only happened on a few occasions, e.g. in the work of Hannah Arendt, who in her famous Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft points to the «strangely modern elements» and the «extraordinary actuality» of the Protocols which «in their manner touch on every important issue of the time» (Arendt 1955: 570-571). One can read into the Protocols the fear of a dawning modern-totalitarian age, fear of the consequences of industrialisation, globalisation and all-encompassing surveillance. The Jewish conspirators then appear as the all-powerful representatives and agents of modernity and become the objects of hatred for modernity’s opponents and losers. In the late 19th century Russia the political, economic and social transformations of the day were to a large extent interpreted with the help of religious categories: as a foreboding of an imminent eschatological catastrophe and as evidence of the work of the Antichrist and his allies. Doomsday scenarios and the fear of revolution received special treatment in the subculture of Russian Judeophobia: the pre-modern or anti-modern consciousness regarded Jews and Masons – proclaimed to be agents and beneficiaries of progress and enlightenment – as agents and carriers of the Antichrist. 2. The Protocols – an apocalypse This reveals a further possible way of reading the Protocols: the Jewish world kingdom of the Protocols can be seen as a diabolical perversion of the Kingdom of God, where the Jewish king bears the features of the Antichrist, the false messiah of the Jews, who instead of the Heavenly Jerusalem is promising the paradise on earth. The Protocols, then, turn into a text of revelation, an apocalypse, and this is exactly the way it was treated by Sergej Nilus (1862-1929), the most successful editor and commentator of the Protocols in pre-revolutionary Russia.

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In his commentary, Nilus interpreted the Protocols within the framework of his own Christian-apocalyptic worldview – as the unveiling of the hidden strategy of the Satanic forces of darkness and their worldly allies in their unremitting struggle against the Divine forces of light, a struggle which seemed to have entered its final stage at the beginning of the 20th century (Hagemeister 2012a). 3. The Protocols – an “open text” As we have seen, the work with the misleading title Protocols of the Elders of Zion is an “open text” (in the sense of Umberto Eco), i.e. open to multiple different readings (which, of course, does not mean “any” reading). The anti-Jewish interpretation is only one of several, albeit the most widespread. But there are other interpretations: British and American conspirologists have explained time and again that the Protocols are not connected to a Jewish conspiracy, but developed from the secret society of the Illuminati (Introvigne 2005: 67-68). In the international bestseller The Holy Blood and the Holy Grail, which clearly inspired Dan Brown’s blockbuster novel The Da Vinci Code, the Protocols form part of the global conspiracy of a secret order, the Prieuré de Sion, whose prominent members (including Isaac Newton, Victor Hugo and Claude Debussy) are secretly attempting to bring the Merovingian dynasty – descendants of Jesus and Mary Magdalene – back to power (Baigent, Leigh, Lincoln 1982: 198-203). For Julius Evola, the Protocols engendered the dream of the «Regnum» – the recreation of the old European supranational Holy Kingdom (Evola 1937). And Aleksandr Dugin, the leading conspiracy theorist in post-Soviet Russia, expressed – following Evola – the opinion that the second part of the Protocols, describing the foundation of a sacred monarchy and a caste system, carries the «hallmark of a traditional Aryan mentality» (Dugin 1996: 71). 4. The Protocols – a forgery? In order to escape the labyrinth of possible interpretations and speculations and to regain some solid ground, we need to return to the question of the text’s making. Almost universally, the Protocols have been referred to as a forgery.

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Strictly speaking, the Protocols are not a forgery, but rather are plagiarized to a considerable extent, namely from Maurice Joly’s Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu, a brilliant satire on the despotic régime of Napoleon III published in 1864. Joly’s book had almost nothing to do with the Jews but a lot with Machiavellism (De Michelis 1997). This is one of the reasons why the Protocols often seem to forecast twentieth-century authoritarianism. Plagiarism and forgery is not the same thing. While the plagiarist attempts to disguise the similarities between his work and the original, the forger tries to hide any incongruities between his work and the item with which it is to be identified. We call an object a forgery when its origin is different from what we are led to believe (Eco 1990: 181-182). Origin here refers to the time, place and circumstances under which the object was created as well as the person(s) who created it. However, the text of the Protocols does not contain any indication as to who authored it when, where and for what purpose. Even the authenticityinducing designation Protocols is not part of the text but has its origins, as we have seen, with later publishers. The idea that the text is supposedly a verbatim transcript of a speech delivered at secret sessions of a group of Jewish and Masonic conspirators is only apparent from its paratexts – from the headings, introductions and commentaries of the Protocols’ various publications. These however, derive from completely different authors and vary considerably with regard to the time and place attributed to the original penning of the Protocols (ranging from Solomon’s Jerusalem to the first Zionist Congress in Basel 1897). They also differ with regard to the supposed actors: there is talk, as we have seen, not only of Jews and Masons, but also of a diverse number of lodges, the Illuminati, the Prieuré de Sion and others. The Protocols’ text is, therefore, a piece of fiction created through plagiarism and cannot itself be regarded as a forgery, given that the misleading information of representing an authentic speech at the sessions of Jewish conspirators is not contained within it, but is one of several – if admittedly the most widespread – contextual attributions. The only way to then prove the fallacy of this attribution is by revealing the text’s true origin and the intentions of its author. This was precisely the avenue taken by most of those who wished to debunk the Protocols by attempting to reveal the true author and his agenda. And, indeed, shortly after the Protocols’ arrival in the West in the early 1920s, their progenitors were presented as Pëtr Račkovskij, head of the

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foreign branch of the tsarist secret police, the infamous Ochrana, in Paris, and his collaborator Matvej Golovinskij (Protocols 1921; du Chayla 1921). These creators of a French proto-text were characterized as cunning secret agents, fanatical anti-Semites, and sinister reactionaries. And this story has lost little of its currency today: Will Eisner’s graphic novel The Plot and, most recently, Umberto Eco’s Il cimitero di Praga are still based on it. Over time, this attribution evolved into a detailed and coherent narrative which became canonical thanks to the famous trial against the Protocols that took place in Berne in the mid-1930s. Unfortunately, however, it is not based on any credible evidence whatsoever and most of the claims connected with it are demonstrably false (Hagemeister 2012b). This was, in fact, already apparent to the Berne trial’s chief protagonists: Boris Nikolaevskij, an eminent historian and one of the coordinators on the side of the Jewish plaintiffs, freely admitted that it was a political trial and not so much concerned with historical accuracy as with the fight against antiSemitism (Hagemeister 2011: 244). The myth of the Jewish conspiracy was responded to with a counter-myth, a conspiracy of perfidious secret agents and anti-Semites, which is no less fanciful than the one it aims to oppose. All we know for sure is that the text which became known as the Protocols was – as Cesare De Michelis has shown (De Michelis 1998) – written in Russia between April 1902 and August 1903 by an unknown author (or several authors). In all likelihood, there never was a French original it was translated from. Nor has any evidence come to light connecting the Protocols to an agency of the tsarist government (Ruud, Stepanov 1999: 203-224). We have, therefore, to return to the text itself and we must not give up searching for the author and his intentions. The moment we know who created them and with what purpose, the Protocols would lose their mythical aura and deceiving power and would be reduced to what they actually are: a work of poor writing and little imagination. Bibliography Arendt 1955 = H. Arendt, Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, Frankfurt am Main 1955 Baigent, Leigh, Lincoln 1982 = M. Baigent, R. Leigh, H. Lincoln, The Holy Blood and the Holy Grail, London 199016

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Cohn 1967 = N. Cohn, Warrant for Genocide. The Myth of the Jewish WorldConspiracy and the Protocols of the Elders of Zion, London 1967 De Michelis 1997 = C.G. De Michelis, Machiavellismo e antimachiavellismo nei “Protocolli dei savi di Sion”, in «Magisterium», I (1997), pp. 643-655 De Michelis 1998 = C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. I “Protocolli dei savi di Sion”: un apocrifo del XX secolo, Venezia 1998 (translated into English as The Non-Existent Manuscript: A Study of the ‘Protocols of the Sages of Zion’, Lincoln 2004) du Chayla 1921 = A. du Chayla, Serge Alexandrovitch Nilus et les “Protocoles des Sages de Sion” (1909–1920), in «La Tribune Juive», May 14, 1921, pp. 3-4 Dugin 1996 = A. Dugin, Krestovyj pochod solntsa, in «Milyj angel», II (1996), pp. 52-80 Eco 1990 = U. Eco, The Limits of Interpretation, Bloomington 1990 Evola 1937 = “Arthos” (J. Evola), Studi sui “Protocolli” ebraici. Trasformazioni del “Regnum”, in «La Vita Italiana», XXV (1937), pp. 535-544 Grobman 2011 = A. Grobman, License to Murder. The Enduring Threat of the Protocols of the Elders of Zion, New York 2011 Hagemeister 2000 = M. Hagemeister, Vladimir Solov’ev and Sergej Nilus: Apocalypticism and Judeophobia, in Vladimir Solov’ev: Reconciler and Polemicist. Selected Papers of the International Vladimir Solov’ev Conference held at the University of Nijmegen, the Netherlands, in September 1998, ed. by W. van den Bercken, M. de Courten, E. van der Zweerde, Leuven 2000, pp. 287-296 Hagemeister 2010 = M. Hagemeister, Trilogie der Apokalypse – Vladimir Solov’ev, Serafim von Sarov und Sergej Nilus über das Kommen des Antichrist und das Ende der Weltgeschichte, in Antichrist. Konstruktionen von Feindbildern, ed. by W. Brandes, F. Schmieder, Berlin 2010, pp. 255-275 Hagemeister 2011 = M. Hagemeister, The Protocols of the Elders of Zion in Court. The Bern trials, 1933–1937, in The Global Impact of The Protocols of the Elders of Zion: A century-old myth, ed. by E. Webman, London-New York 2011, pp. 241-253 Hagemeister 2012a = M. Hagemeister, “The Antichrist as an Imminent Political Possibility”. Sergei Nilus and the Apocalyptical Reading of The Protocols of the Elders of Zion, in The Paranoid Apocalypse: A Hundred-Year Retrospective on “The Protocols of the Elders of Zion”, ed. by R. Landes, S.T. Katz, New York 2012, pp. 79-91 Hagemeister 2012b = M. Hagemeister, Zur Frühgeschichte der Protokolle der Weisen von Zion I: Im Reich der Legenden, in Die Fiktion von der jüdischen Weltverschwörung. Zu Text und Kontext der “Protokolle der Weisen von Zion”, ed. by E. Horn, M. Hagemeister, Göttingen 2012, pp. 140-160

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Introvigne 2005 = M. Introvigne, Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità sulle due società segrete del Codice da Vinci e di Angeli e demoni, Casale Monferrato 2005 Poliakov 1980 = L. Poliakov, La causalité diabolique. Essai sur l’origine des persécutions, Paris 1980 Protocols 1921 = “Protocols Forged in Paris” Says Princess Radziwill in an Exclusive Interview with Isaac Landman, in «American Hebrew and Jewish Messenger», February 25, 1921 Ruud, Stepanov 1999 = Ch. Ruud, S. Stepanov, Fontanka 16. The Tsar’s Secret Police, Montreal 1999 Skuratovskij 2001 = V. Skuratovskij, Problema avtorstva “Protokolov sionskich mudrecov”, Kiev 2001 Solov’ëv 1914 = V.S. Solov’ ëv, Sobranie sočinenij, ed. by S.M. Solov’ëv, Ė.L. Radlov, vol. 10, Sankt-Peterburg s.a. [19142] World 1972 = World Conquest Through World Government. Protocols of the Learned Elders of Zion, transl. from the Russian of Sergyei A. Nilus by Victor E. Marsden, Chulmleigh 197285

Raffaele Manica Una congiuntura editoriale degli anni Settanta

La seguente nota informativa è svolta da un punto di vista né teorico né storico, ma come una semplice cronaca, per di più su un arco di tempo piuttosto ristretto, per come delineato dai fatti stessi presi in esame. Ma in questo breve arco di tempo è verificabile come i motivi di contesto siano decisivi per scrutare l’articolarsi della congiuntura editoriale alla quale si farà riferimento. Da un lato i libri, dall’altro il contesto, appunto, che si declina con la rivolta sociale e studentesca e con le fiamme della tragedia politica più alta dell’Italia repubblicana; e che si interpreta con la scienza nuovamente approdata nelle università, la semiotica. Contesto assai sintomatico, in interferenza e in osmosi con gli accadimenti editoriali. Il Trattato di semiotica generale di Umberto Eco è del 1975. Che cosa ci era dunque, nella testa di quegli anni? Si perdoni il calco dal grande De Sanctis, ma proprio: che ci era nella testa di quegli anni? A Roma, per ripeterne una, già altrove raccontata in pari modo, c’era la lampada Osram, il luogo, a Termini, di tutti gli appuntamenti di chi si muoveva con l’abbonamento “intera rete”. Alla lampada Osram, luogo di tutti gli appuntamenti, la cosa più facile era non incontrarsi per affollamento di gente. La lampada Osram era il totem della gioventù che aveva sempre sulla bocca l’Antiedipo di Deleuze e Guattari, che doveva far finta di averlo letto per bene. Ci si incontravano esemplari della specie ora non estinta ma assimilata del fricchettone, la parte non violenta del Settantasette, il dandismo povero che mostrava ricca la propria povertà. Tra eros e rock spuntavano le stelle a cinque punte cerchiate accanto alle mani coscienti del dominio retorico, traccianti sui muri come gli spray fossero fuochi d’artificio «Asor Rosa sei palindromo» o, con melanconia soldatesca, al monumento al bersagliere di Porta Pia, sotto l’incisione «Nulla resiste al bersagliere» aggiungendo

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«Tranne Rosalba». Non erano più gli anni di Porci con le ali. Gli anni erano quelli di Boccalone di Palandri nelle edizioni dell’Erba Voglio, dov’era uscito un saggio su Zenone e il tentativo di fermare il tempo, La freccia ferma, di Elvio Fachinelli; gli anni registravano la sintassi avvolta da fumi erbacei del giovane Tondelli di Altri libertini; si sintonizzavano su Io sono un autarchico ed Ecce Bombo di Nanni Moretti. Di Carmelo Samonà uscì da Einaudi nel durissimo anno Settantotto Fratelli, che era un romanzo smilzo e denso sulla non comunicazione per causa della varietà dei codici con cui comunicare. A guardarlo adesso, a ricordarne il titolo, sembra una relazione di realismo linguistico su quegli anni. E poi, fondale degli anni Settanta, il Gramsci detogliattizzato, per fragmenta, di Gerratana. E tutto il resto. Il fondale, dentro il quale ci fu una ripresa della letteratura, Castelporziano e una famosa antologia, Il pubblico della poesia, per esempio e segnale. La ripresa della letteratura, quasi una risposta al piombo degli anni. Un intreccio: le pistole di Moravia, in La vita interiore, da Bompiani sempre nel durissimo anno Settantotto, non si incepparono più. Una cinquantina d’anni dopo aver fatto cilecca negli Indifferenti, spararono. Lo sfondo è quello degli anni che scorrono dalla corruzione internazionale siglata enigmisticamente come «Antelope Cobbler» e dalla morte di Pasolini (autunno 1975) al caso Moro, passando per la scomparsa di Mao ma anche per l’invenzione del fine calembour della «non-sfiducia». Si immagina più per lo spirito di Eco (autore un decennio prima, 1963, di un prototipo del genere, con una sezione del Diario minimo) che per quello di Moravia, i due autori di punta, escono presso Bompiani tre volumi legati da un unico filo, quello stesso che tira le maglie del presente convegno: Le interviste impossibili (finito di stampare nel maggio 1975); Quasi come (sottotitolo: parodia come letteratura / letteratura come parodia; finito di stampare nel marzo 1976) e curato da due Guidi, come nello Stilnovo del Dugento, Almansi e Fink; Antologia apocrifa di Paolo Vita-Finzi (finito di stampare nell’aprile 1978), davvero, come recitava lo strillo di copertina, «un classico della parodia letteraria», già variamente pubblicato ma che alle serie del 1927, del 1933, del 1961 ne aggiungeva ora un’ultima datata 1976. Le interviste impossibili era una prima raccolta, antologica, di interviste radiofoniche, alla quale avrebbe fatto seguito una seconda, Nuove interviste impossibili, nel 1976, prima di un’edizione completa assai più tarda, 2006 (Le interviste impossibili. Ottantadue incontri d’autore messi in onda da Radio Rai. 1974-1975, a cura di Lorenzo Pavolini, Radio RaiDonzelli).

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Come nacquero Le interviste impossibili? L’estate del 1974, come tutte le sue consorelle, fu ovviamente calda anch’essa. Alle tre del pomeriggio, per tutto luglio e tutto agosto, sforando un po’ in settembre, chi ce la faceva a non abbandonarsi al sonno pomeridiano poteva accendere la radio sul Secondo Programma, dal lunedì al venerdì, e partecipare del buon uso dei mezzi di comunicazione. Gli scrittori italiani incontravano i personaggi del passato e li intervistavano. Il fatto più incredibile è che quelle interviste erano vere (o falso vere, come il «tu» di Montale, sul quale il poeta stesso si era soffermato sulla soglia di Satura, 1971). L’intervistatore di turno scriveva una sorta di saggio-articolo in una forma dialogica probabile fino al paradosso: tra i più assidui Manganelli – che trovava il genere assai congeniale, si impadroniva di un’idea del personaggio e via: arrivò a quota dodici, prontamente raccogliendole in A e B –, Sanguineti, Eco, Arbasino, Sermonti, Ceronetti; ma anche Malerba, Nelo Risi, Sciascia e tanti altri ancora. Di fronte, Tutankhamon, Pitagora, Muzio Scevola, Ponzio Pilato, fino a Gaudí, i fratelli Lumière, Mata Hari: che parlavano con ironica, rovesciata verosimiglianza, attraverso le voci del teatro italiano di prosa, un elenco strepitoso (per esempio: Calvino-Sermonti e l’uomo di Neanderthal-Bonacelli; Sanguineti e Francesca da Rimini-Laura Betti; Eco e Beatrice-Isabella Del Bianco; Manganelli e Fregoli-Paolo Poli; e Carmelo Bene che fa Attila e Jack lo Squartatore per Ceronetti e Dostoevskij per Del Buono. Bene, che aveva scoperto la radio, già disprezzata, interpretò quindici intervistati, Paolo Bonacelli otto). Divertimento tale da far chiedere perché, fin allora, molti scrittori si fossero rifiutati di scrivere per la radio; e lascia il rammarico di aver perduto, tra rifiuti e temporaggiamenti, Pasolini e Celestino V, Garboli e Virgilio, Parise e Tolstoj, Testori e Caravaggio; e, tra copioni non realizzati e proposte arrivate fuori tempo massimo, Pagliarani e Belli, Siciliano e Verdi, Montanelli e Mussolini, Andreotti e Pio IX. Il prototipo fu firmato da Sermonti (Marco Aurelio-Bene) che, un ventennio dopo, spiegherà: volevo «inventarmi un intervistatore che compendiasse un bel repertorio di quei luoghi comuni di giornata che nel comune sentire configura la “spregiudicatezza”: insomma un fesso. E per l’intervistato servirmi di materiali autentici montandoli un po’ a “capocchia”, e di quando in quando parodizzandoli. In tutti i casi l’intervistato mi è molto più simpatico di me che lo intervistavo» (Pavolini 2006: xvi). Uno dei temi ricorrenti è che occorre spesso spiegare all’intervistato che cosa sia un’intervista e quegli accidenti della cronaca contemporanea che di tanto in tanto cadono nel discorso: «acrobazie mentali» (si disse

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pubblicando la prima scelta di interviste); un commedione sfaccettato sui controversi rapporti tra passato e presente, su come ci immaginiamo gli altri e su come gli altri probabilmente non sono: eppure non proprio una commedia degli equivoci. Sempre inaugurata dalla cerimoniosità di chi non sa come rivolgersi all’ospite. La domanda delle domande: che cos’è un’intervista? Ecco La Capria a Tacito-Romolo Valli: «È un mezzo, questo, che noi usiamo per delegare a uomini autorevoli o ritenuti tali il compito di avere delle opinioni. In tal modo il volgo si sente autorizzato a non averne, coltivando così la propria inclinazione all’indifferenza» (Pavolini 2006: 138). Su che cosa sia un’intervista e che cosa un intervistatore, Sanguineti costruì tutto l’incontro con un sofistico Socrate, senza riuscire a intervistarlo. Socrate: «Ce la facciamo, sì, carissimo, l’intervista. Ma tu chi sei però? Sei un intervistatore?». Sanguineti: «Ecco, intervistatore, veramente, propriamente, no». Socrate: «Che peccato, ragazzo! Come puoi tu, infatti, farmi un’intervista, se non sei un intervistatore?». Sono infatti i vasai a fare i vasi e non il contrario e «l’intervistatore, ragazzo mio, è l’intervista che lo fa» (Pavolini 2006: 43). Fino alla cicuta: Socrate muore unico uomo a non essere mai stato intervistato. Calvino non volle essere lui a intervistare l’uomo di Neanderthal, premettendo in un fuori campo che «tra l’intervistatore e l’intervistato, mi sarebbe venuto caso mai più da identificarmi con l’intervistato che con l’intervistatore» (Pavolini 2006: 3). Un genere dentro il genere. Invece con Montezuma Calvino prestò la voce, lasciando intravedere pagine di Collezione di sabbia e di Sotto il sole giaguaro. E questo è un altro punto: siccome le accoppiate erano scelte dagli scrittori, ripercorrerle consente di cogliere punti altrove risonanti. Arbasino: “Professore! Ho letto le sue poesie, finalmente! […] sapevo che tanti critici illustri e moderni di cui tutti ci fidiamo molto, come Contini, come Pasolini… […] insomma, la consideravano uno straordinario sperimentatore europeo: impressionistico, espressionistico, simbolistico, strutturalistico, fonico, timbrico, onomatopeico, materico, poveristico e pop! […] e invece, professore, mi sembra proprio… […] mi sembra che veramente lei sia un poeta tutto di uccellini e di rondinini e di galline che fanno l’ovino e di cip cip e ciap ciap”. Pascoli: “Bella scoperta!”. (Pavolini 2006: 596-597)

In questo incontro con Pascoli e in quelli con Puccini e D’Annunzio di Arbasino, per esempio, si vedono i materiali che segneranno il passaggio dall’edizione Feltrinelli (1964) all’edizione Einaudi (1977) di Certi ro-

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manzi; Portoghesi, alle prese con Bernini e Borromini, continua a guardare la Roma barocca; Ceronetti inventa una metafisica del cibo e del corpo conversando con Pellegrino Artusi; Manganelli è sempre alle prese con la fenomenologia della morte – parli con la medium Eusapia Paladino o con Nostradamus –, come nelle sue paludi e notti definitive; con Monti o con Freud, Sanguineti intervista sempre grandi macchine retoriche. Il colpo di scena, quando c’è. Nella modernità il Picasso-Tino Carraro di Castellaneta è all’altezza della sua fama. «Me gusta vivir come un eremita» (Pavolini 2006: 692): vabbe’, ma di lusso; un artista miliardario, il primo; il cui capolavoro vero è la vita, e al quale perfino i nazisti non hanno torto un capello; un artista che anziché compiacere il mercato, se ne è fatto inseguire. Mentre è intervistato, Picasso comincia a disegnare, rispondendo a domande sentite infinite volte. Ride al ricordo di quella volta che si fece pagare una paloma con un’automobile; è imbarazzato e ironico quando gli si ricorda che Stalin mandò indietro il ritratto donatogli in quanto troppo picassiano. Disegna ancora, e dice che, se non pittore, avrebbe voluto essere un saltimbanco. È qui che l’intervistatore – Picasso continua a disegnare – affonda un colpo durissimo. «Lei ha meravigliato, ha lasciato un segno profondo, anche se doveva essere più severo con se stesso, questo dovrebbe ammetterlo, distruggere e non solo creare, questa è l’impronta del genio, a mio avviso… (Si ode un rumore di carta stracciata) Che cosa fa? Ma è impazzito? Perché straccia il foglio?». Picasso: [ridendo] «Erano scarabocchi, niente, tanto… mentre ablava, mentre si parlava…». Castellaneta: «Ma era il mio ritratto! Lei non ha il diritto di… senta, venga qui, signor Picasso… Señor!… Ehi, Señor!… Ehi, Señor!» (Pavolini 2006: 700). Così è revocata l’ardua sentenza dei posteri, così è complicato l’intervistare. E perfino al passato si possono perdere occasioni: per troppo parlare o per la supponenza di chi non ha altro merito se non di venir dopo. Del resto, in sé, non è gran merito neanche venir prima. È Vita-Finzi, in coda all’introduzione all’Antologia apocrifa, a definire Quasi come, il volume curato da Guido Almansi e Guido Fink, «probabilmente il primo saggio apparso nel mondo di parodistica comparata» (VitaFinzi 1978: 20). E Vita-Finzi in persona, citato dall’edizione del 1961, è presente in Quasi come, nell’atto di parodiare Montale: Non acque chiare, non freschezza d’erba, per me non succo di stillanti pomi;

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il sole e il sale la mia vita acerba han prosciugato come pietra pomice. Tale è la traforata foiba carsica strinata ancora dalla fiamma stigia: in grigia mescolanza di cinigia spenti si annullano gli anni riarsi. (Almansi, Fink 1976: 167-168; Vita-Finzi 1978: 170)

Eccetera eccetera. Ma almeno, di Vita-Finzi, abbondantemente trascritto da Almansi e Fink, si vorranno riportare altri due esempi. Il primo è quello di un Gozzano aggiornato, e passato dai suoi «dagherrotipi» a Picasso e perfino a Burri grazie alla Pronipote di Nonna Speranza. L’esordio dell’originale, L’amica di Nonna Speranza, nei Colloqui, è nella mente di tutti: Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone I fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!) il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici, le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, i dagherrotipi: figure sognanti in perplessità, il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chermisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta! (Gozzano 1973: 155-156)

E Vita-Finzi, con non pochi colpi di genio: Il living-room col balcone, i quadri a stracci di Burri, il muro a rettangoli azzurri con qualche trapezio arancione, l’irta scultura in lamiera che geme sbilenca a ogni passo, il molto falso Picasso della seconda maniera, la stampa barocca col cupio dissolvi fra teschi ed ossami, gli sgabelletti un po’ grami, le seggiole a semicupio,

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le basse acquattate poltrone che sembrano strani batraci, i nuovi libri un po’ audaci nello scaffale d’ottone, Miller… Gênet… Peyrefitte… il bar dai liquori lucenti, immobili sull’attenti come soldati in garritte, la grassa esotica pianta ch’è tutta spine all’intorno… Mio cuore, ritorno, ritorno nel milnovecentosessanta! (Vita-Finzi 1978: 196-197)

L’aggiornamento culturale di Gozzano prosegue per tutto il rifacimento del poemetto. Basti, dopo i quadri a stracci di Burri e il molto falso Picasso, l’apertura della seconda sezione, con i richiami alle nuove dee dell’universo del romanzo e del cinema: Oggi alla sala in gran fretta irrompono i fratellini: hanno sfilato il bikini d’una ridente ninfetta e quel trofeo molto egregio mostrano fieri alla madre che a tali imprese leggiadre li crebbe in eletto collegio. Giunta è frattanto Lolita con la cugina Brigitta; bella è ciascuna e diritta qual rosa appena fiorita. Ha l’una florido il seno come l’attrice famosa Che in ogni plaga più ascosa acclamano l’anglo e il normanno. Pubere appena da poco, più fine è l’altra e men bella: forse in ardita novella l’avrebbe cantata Nabókov. (Vita-Finzi 1978: 197)

Proseguendo con gli studi che hanno fatto dell’una la Regina del Mambo e dell’altra Miss Canavese, tra Elvis e Paul Anka, mentre non manca la malandrina osservazione sulla fresca moda delle donne in calzoni: «Entrambe il fiore più raro celano in fogge virili: / guizzano i glutei gentili nel pantalone corsaro» (Vita-Finzi 1978: 197). Del Vita-Finzi scelto da Almansi e Fink va segnalato anche il dotto commento dello pseudo-Praz alla Vispa Teresa, ovvero Teresa, la carne e il diavolo, soprattutto se si ha ricordo delle memorabili pagine sui falsari dell’autentico Praz in Mnemosyne. Soprattutto, però: pare, è stata messa in giro voce che, delle cinquanta parodie contenute nell’Antologia apocrifa, una sia un testo originale, talmente particolare da riuscire ad essere parodia di se stesso. Lo dice lo stesso Vita-Finzi:

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Dei trenta e più scritti che formano la prima serie, uno è autentico: ricopiato tale e quale, senza mutare una virgola o un a capo, da uno dei libri fondamentali del celebre suo Autore. Manco a farlo apposta, un critico giustamente pregiato, dopo aver detto un mondo di bene dell’Antologia, ha trovato che proprio quel brano mostra troppo facilmente i suoi artifici. È la vecchia storia attribuita, oltre che a cento altri, anche a Charlie Chaplin e secondo la quale il celebre attore, presentatosi in incognito come imitatore di Charlot, fu trovato sguaiato, esagerato, falso. (Vita-Finzi 1978: 9)

Un testo non del parodiatore, ma di un inconsapevole parodiato, produttore di parodie in proprio. Non so quale sia questo testo, e se l’ho saputo l’ho dimenticato. Per la verità, mi piacerebbe dire che il fatto non sia vero, ma non si può più dopo l’articolo di Sergio Romano sul «Corriere della Sera» (11 marzo 2012), dove si legge: «Il testo che piacque maggiormente ai suoi recensori fu quello che portava la firma del filosofo  Giovanni Gentile e terminava con un periodo turgidamente barocco lungo dodici righe. L’autore incassò gli applausi, ma confessò che il suo Gentile non era apocrifo e che quel testo era opera originale del maestro». Aggiungiamo, per la cronaca, che il testo di Gentile appare fin dall’edizione Formiggini del 1927, quando il filosofo “prestato alla politica”, come si dice, ha già emanato la sua riforma (1923) e stilato il manifesto (1925). In ogni caso, «il dado Maggi delle Muse» (Vita-Finzi 1978: 7) (come l’Antologia apocrifa fu definita da Orio Vergani) è una rassegna delle declinazioni di quanto lo stile possa significare in letteratura; e di quanto lo stile, per poter essere parodiato, deve avere un riconoscibile contenuto, un carattere anche se viziato. Cosa che differenzia, per Vita-Finzi, la parodia e il pastiche da scherzi più facili e superficiali, che è la differenza che separa, dice l’introduzione all’Antologia, il Parnaso dal «Travaso», il famoso giornale umoristico e un po’ goliardico che, nato con l’inizio del secolo scorso, ha protratto le sue uscite fino alla metà degli anni Sessanta. Perché il pastiche non sia un calco insipido, occorre una piccola trovata caricaturale, un nucleo d’ispirazione. Ma poi occorre controllare sui testi la somiglianza col modello, con pazienza da restauratore di francobolli antichi. Per certe pennellate da nulla l’antólogo ha dovuto scovare vecchie edizioni esaurite, leggere tesi di laurea in tedesco, sorbirsi articoli polverosi di giornali tarmolati. (Vita-Finzi 1978: 12)

Così l’autore confessava nel 1933. Col tempo, «il dado Maggi» fu trasformato da un recensore nel «Noschese della letteratura», definizione

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ugualmente impropria, se il mezzo del quale si serviva Noschese, la neonata televisione, era in balia del controllore politico, diversamente dal mezzo di Vita-Finzi, la pagina scritta, storicamente marginale in Italia e dunque da consentire, con la maggior libertà, anche maggior efficacia nel trattamento. Di quanto Vita-Finzi fosse preso sul serio già prima del 1933 testimoniano due aneddoti: Lucio d’Ambra adottò il titolo suggeritogli dall’Antologia apocrifa; e Trilussa arrivò a suggerire «un mutamento metrico importante» (Vita-Finzi 1978: 11) per la parodia che lo riguardava. L’intuizione era che la parodia di quel livello fosse una forma condensata di critica letteraria, parassitaria almeno quanto lo è la critica stessa secondo la vulgata. Ma un’intuizione di gran rilievo viene come conseguenza di un altro aneddoto raccontato da Vita-Finzi. L’aneddoto è questo, e arriva dalla «Fiera letteraria» del 9 settembre 1928: È noto che Ferdinando Martini negli ultimi tempi della sua vita leggeva pochissimi libri. Tuttavia una sera se ne mise a sfogliare uno, attratto dal titolo che diceva Antologia apocrifa. Cominciò a scorrerlo, e ogni tanto sorrideva soddisfatto. “Le interessa molto, maestro?” interruppe Giovacchino Forzano, ospite silenzioso nei momenti di lettura, così rari, di Martini. “Moltissimo. Chi è questo Paolo Vita-Finzi? Ha scritto alcune imitazioni di scrittori che mi sembrano davvero riuscite. A esempio questa di Luigi Pirandello: mi pare così bella che non l’ho neanche letta”. (Vita-Finzi 1978: 12)

Ora, Vita-Finzi non lo dice, ma in questo aneddoto assistiamo alla nascita di una parodia della lettura come conseguenza della parodia della scrittura e all’inveramento della figura del lettore come ipocrita lettore: e non drammaticamente, come nel celebre verso di Baudelaire che ci accoglie sulla soglia delle Fleurs du mal, ma in maniera borghese, molto italiana e piuttosto salottiera (nel senso buono, direbbe un famoso comico). Da Luciano Folgore, Poeti controluce, usciti l’anno della marcia, nel 1922, dal Campitelli di Foligno, si inaugura forse, nel Novecento italiano, il gusto della parodia, che non è solo dunque il lato ludico della neoavanguardia. E si arriva per esempio a Giampaolo Dossena, T’odio empia vacca, che riprendeva una rubrica su «Tuttolibri» de «La Stampa», dove, come è chiarissimo dal titolo del volumetto, si rovesciavano poesie appartenenti sempre al canone scolastico strettissimo e assai memorizzato un tempo: sottotitolo della stampa in volume (1994), con omaggio a Ivan Illic, «dileggio e descolarizzazione» (Dossena 1994). Tra gli esempi di

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rovesciamento: «L’eccellente visibilità alle ravviate pianure perdurando il clima secco, cala», o, dello stesso autore, che è anche il medesimo evocato nel titolo del libretto, «L’erba onde ritraevi il tuo grosso piedone»; o, da altro autore, «La modellista è in metropolitana», che però si fa remoto rispetto a «La donzelletta vien dalla campagna». O si prendano anche, di Michele Serra, i Quarantaquattro falsi (1991) usciti inizialmente sul settimanale satirico «Cuore» (lo stesso settimanale di «Arrestato Ugo Tognazzi. È lui il capo delle Brigate rosse», titolo al quale l’anziana signora fece seguire il sùbito commento: «Lo sapevo. So’ sempre gli stessi, sempre loro!»). Però è soprattutto sulla scia degli esperimenti dell’Oulipo e in particolare degli Esercizi di stile di Queneau (tradotti da Eco per Einaudi nel 1983, ma con un’anticipazione proprio in Quasi come) e sulla base della moda linguistico-semiotica trionfante nell’editoria, nella pubblicistica e nell’università (ne sono trafitti anche gli Scritti corsari di Pasolini), che prende il largo la serrata e viziosa disamina dei due Guidi, dove la brillantezza si accompagna disinvoltamente col gergo, diciamo così, scientifico. L’umorismo dotto richiede al lettore un doppio passo, non consente una prima lettura anche solo superficiale come le Interviste impossibili e spesso anche l’Antologia apocrifa. Quasi come è il più datato, e perciò stesso il più climatico dei tre libri della nostra congiuntura editoriale. Almansi e Fink, benché in chiave eterodossa, si fanno forti delle metodiche in corso e di un sentire che latamente si può ancora chiamare ideologico, benché riluttante, in apparenza, all’ideologia. La partizione del territorio del falso è identificata in quattro zone che non sarebbero state le stesse in un altro momento: «il Falso perverso, il Falso consacrante, il Falso innocente, il Falso sperimentale» (Almansi, Fink 1976). Non è difficile sentire gli echi (e la consistenza) delle filosofie della liberazione post-sessantotto, nella consueta mistura di Marcuse e Laing, sostanzialmente due categorie interpretative che muovono da Marx e Freud e ne sono l’aggiornamento in chiave di liberazione dei costumi, anche negli studi. Un crinale che solo tra Sessantotto e Settantesette sarebbe stato praticabile, anche considerati i temperamenti dei due autori, Almansi e Fink, fisiologicamente portati all’eterodossia ma pur sempre entro la giurisdizione vigente. Né è arduo scorgere entro la nominazione della loro quattro categorie l’omaggio al maestro allora da tutti ritenuto un cardine della modernità e del pensiero libertino, da Moravia a Barthes, ovvero il marchese de Sade.

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Ne risulta un libro sadiano sì, ma anche un po’ sadico nei confronti del lettore, avvolto da una rete che quasi lo immobilizza, perché quando tutte le possibilità sono dispiegate nel campo di forze nessuna riesce a essere veramente praticabile. Né, estrapolando dalle parole premesse al saggio-antologia, la demarcazione delle quattro categorie di Falso si fa chiara: essa sembra essere in sostanza, piuttosto che una caratterizzazione di metodo, una caratterizzazione di comodo, per organizzare i capitoli del volume secondo le affinità più o meno evidenti tra i testi presi in esame e considerati nelle loro pieghe secondo i dettami di una soggettività di gusto che proprio non riesce a nascondersi sotto l’apparato teorico. Per fortuna, si direbbe. E basta così: come Vita-Finzi «diffidiamo degli scherzi tirati troppo in lungo» (Vita-Finzi 1978: 17). Perfino dei nostri. Bibliografia Almansi, Fink 1976 = G. Almansi, G. Fink, Quasi come, Milano 1976 Dossena 1994 = G. Dossena, T’odio empia vacca. Dileggio e descolarizzazione, Milano 1994 Gozzano 1973 = G. Gozzano, Poesie, revisione testuale, introduzione e commento di E. Sanguineti, Torino 1973 Pavolini 2006 = Le interviste impossibili. Ottantadue incontri d’autore messi in onda da Radio Rai (1974-1975), edizione integrale a cura di L. Pavolini, con una Intervista sulle interviste a A. Camilleri, Roma 2006 Vita-Finzi 1978 = P. Vita-Finzi, Antologia apocrifa, Milano 1978

Elisabetta Marino Quando la finzione diventa racconto: Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman di Mary Shelley

Questo studio si propone di indagare un noto caso di hoax, una falsa notizia, diffusasi in Francia e Inghilterra nell’estate del 1826, relativa al miracoloso ritorno alla vita di Roger Dodsworth, un gentiluomo inglese rimasto intrappolato nel ghiaccio per 166 anni a seguito di una valanga. Confortata dall’opinione autorevole di eruditi e intellettuali di rilievo (complici divertiti della burla), ritenuta quindi plausibile anche dai meno creduli, questa notizia inventata accese un intenso dibattito letterario e scatenò una disputa fra testate giornalistiche rivali che, per incrementare le vendite, cominciarono a sfidarsi proponendo esiti sempre più fantasiosi della curiosa vicenda. Anche Mary Shelley contribuì ad arricchire la complessa tessitura della storia con una narrazione tra il saggio e il racconto, Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman, opera cui la critica non sembra aver prestato la dovuta attenzione. Come si tenterà di porre in evidenza, lungi dal costituire una variazione nostalgica sul tema della morte e della resurrezione (interpretazione che vede concordi quasi tutti gli studiosi che si sono occupati del testo), la narrazione si configura come una satira pungente nei confronti della società contemporanea alla scrittrice, oltre a offrire significativi spunti di riflessione sulla Storia come maestra, e sulla sordità dei suoi allievi a seguirne i preziosi suggerimenti. Il caso di Roger Dodsworth ha inizio il 28 giugno 1826, con la pubblicazione sulla seconda pagina del «Journal du Commerce de Lyon» della notizia concernente il ritrovamento di un giovane, perfettamente conservato nei ghiacci di una caverna situata alle pendici del monte San Gottardo. Il dott. James Hotham, autore dello straordinario rinvenimento, aveva ordinato che il corpo fosse liberato dalla sua prigione, spogliato dei vestiti e immerso in acqua prima fredda e successivamente tiepida; il processo

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di rianimazione si era poi felicemente concluso sotto le calde coperte di un letto. Tornato in pieno possesso delle sue facoltà fisiche e mentali (pur lamentando un certo irrigidimento delle articolazioni), l’uomo aveva rivelato la sua identità, sostenendo di essere figlio di un noto antiquario, la cui morte improvvisa, avvenuta nel 1660, lo aveva persuaso a incamminarsi dall’Italia (dove si trovava) alla volta dell’Inghilterra, per prendere possesso dell’eredità (cfr. Robinson 1975: 21). A Lione era ancora viva la memoria di un falso medico, un ciarlatano di nome Mantaccini, che vantava la capacità di resuscitare i morti con il suo prodigioso baume de vie (cfr. Forbes 1845: 78-80); è forse questa la ragione per cui la burla di Roger Dodsworth ebbe origine proprio in questa città (cfr. Robinson 1975: 21), per poi passare rapidamente in Inghilterra, dove la storia si arricchì di particolari sempre più bizzarri. La notizia fu inizialmente tradotta dal francese e divulgata dal «New Times» il 4 luglio 1826; il giorno seguente venne riproposta dal «Morning Chronicle» e dal «Sun». L’8 luglio appariva con qualche variazione significativa sul «Manchester Guardian» e sullo «Scotsman», mentre il settimanale conservatore «John Bull» contribuiva alla diffusione dell’hoax con la pubblicazione del 9 luglio. Lo «Scotsman» aveva fatto intuire la natura scherzosa dell’articolo, suggerendo il bagno nel latte di giumenta quale rimedio portentoso per i problemi alle giunture e indicando il 1 aprile (April fool’s day) o un inverosimile 31 febbraio come date del ritrovamento. Dalle pagine del «Sun» (22 luglio), il celebre giornalista William Cobbett aveva poi diffuso una lettera in cui corroborava la storia di Dodsworth citando il caso analogo di un gentiluomo del Westmorland caduto in acqua mentre pattinava su una superficie gelata e riportato in vita grazie all’intervento fortuito di alcuni pescatori (cfr. Robinson 1975: 22). Lo scrittore Theodore Hook, fondatore del «John Bull», aveva concluso il suo resoconto degli eventi con uno scoop in grado di accendere la curiosità anche dei lettori meno attenti, spinti a un improbabile pellegrinaggio mattutino con l’intento di scorgere la celebrità del momento: Roger Dodsworth avrebbe trovato dimora a Londra, a St. James’s Place, presso l’abitazione dello scrittore Samuel Rogers. Nelle parole di Hook, «he may be seen at a bow window looking into the Green Park every morning after breakfast – he still looks very dead, and pretty miserable; but he is worth looking at» (Hook 1826: 223). Dato che Hook aveva allusivamente indicato l’appartenenza del defunto resuscitato al partito Whig (a lui ostile), il poeta Thomas Moore, sotto lo pseudonimo di Laudator Temporis Acti, si era affrettato a controbattere dalle pagine del «Times» (14 luglio)

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con un componimento, nel quale la lealtà del «good−obsolete man, / who has never of Locke or Voltaire been a reader» (Moore 1833: 700) ai Tory era invece chiaramente dimostrata. Considerata l’attenzione rivolta a questa singolare figura, non sorprende che una serie di tre lettere, presumibilmente firmate da Roger Dodsworth in persona, sia apparsa sul «John Bull» a partire dal 3 settembre (cfr. Robinson 1975: 24). Scritte in un linguaggio altisonante e colmo di arcaismi, illustravano con dovizia di particolari i progressi di Dodsworth, intento alla lettura di una storia d’Inghilterra che gli avrebbe consentito di comprendere e di adeguarsi ai cambiamenti sociali e politici della sua madrepatria. Dodsworth raccontava poi di aver partecipato a un matrimonio ebraico, caratterizzato da danze folli e sfrenate, e di esser stato scambiato per un trafugatore di cadaveri mentre si dirigeva, in carrozza, verso casa, con l’amico e ospite Samuel Rogers assopito al suo fianco (la battuta salace era diretta all’aspetto emaciato di quest’ultimo). La burla stava cominciando a mostrare la trama e i lettori a perdere interesse, quand’ecco che il «New Monthly Magazine» pubblicò un’altra lettera «from the gentleman preserved in ice» (Dodsworth 1826: 453) all’inizio di novembre.1 Ad essa fece eco una replica sdegnata del presunto “vero” Roger Dodsworth sul «John Bull», nella quale Theodore Hook (sotto le mentite spoglie del gentiluomo resuscitato) difendeva la sua proficua esclusiva tacciando paradossalmente di falsità il periodico rivale. Con tutta probabilità, Mary Shelley scrisse il suo Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman nel settembre 1826, inviandolo immediatamente a Cyrus Redding, direttore del «New Monthly Magazine», perché lo valutasse. La necessità economica (trasformatasi in urgenza dopo la morte di Percy Shelley), la premura di comporre in fretta un testo facile da vendere, l’avevano forse spinta a partecipare all’hoax, pur animata da intenti molto diversi che non la semplice elaborazione giocosa sulla falsa notizia. Fu solo nel 1863, tuttavia, che Redding decise di inserire la narrativa in un suo libro di memorie intitolato Yesterday and To-day, specificando che la scrittrice − che lui stimava come «one of those of her sex who did it honour by her talents and agreeable manners» (Redding 1863: 150) − gli aveva 1. L’aspetto più significativo di questa lettera è costituito dall’aspra critica verso i costumi corrotti, il decadimento della morale, la «dull sameness» (Dodsworth 1826: 457) di chi si uniforma ciecamente alle mode, l’incapacità degli attori di recitare in modo espressivo.

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proposto la storia parecchi anni prima «for a particular purpose» (ibidem), ossia la pubblicazione sulla sua rinomata rivista. Come Charles Robinson non manca di notare (cfr. Robinson 1975: 26-27), tra le numerose fonti che possono aver influito sul talento creativo dell’autrice merita di essere menzionata la leggenda dei Sette Dormienti di Efeso (di fatto citata nel testo),2 la storia di Nourjahad e della beffa ordita ai suoi danni,3 e il racconto Rip Van Winkle (1819) di Washington Irving, legato al tema del sonno prolungato e del risveglio in un’altra epoca,4 argomento già affrontato peraltro da Mary Shelley nella sua narrazione incompiuta dal titolo Valerius, the Reanimated Roman (1819). Come anticipato all’inizio di questo studio, i pochi critici che si sono misurati con Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman si sono spesso limitati a osservare lo stretto rapporto esistente tra la storia e la biografia della scrittrice (caratteristica pressoché costante nell’esegesi dei suoi lavori, considerati anche i natali illustri e l’unione con Percy Shelley). Solo per ricordare uno tra gli esempi più recenti, nel saggio che Elena Anastasaki ha dedicato al racconto si legge che, a seguito dei numerosi lutti che avevano funestato la sua esistenza, Mary Shelley «had had, ever since she could remember, the ardent desire to bring a loved one back to life, starting with her mother, Mary Wollstonecraft, who died shortly after giving birth to her» (Anastasaki 2006-07: 27). Dopo aver rammentato anche la morte dei suoi primi tre figli5 e il tragico naufragio del consorte, Anastasaki conclude affermando che «it is not surprising then that from her first literary attempt, Frankenstein (1818), the theme of reanimation is to be found at the heart of her work» (Anastasaki 2006-07: 28). Questo concentrarsi su una lettura in chiave meramente biografica è stato, tuttavia, messo in discussione da alcuni tra gli esperti di maggiore spessore dell’opera di Mary Shelley. Betty Bennett ha tentato di sottolineare l’impegno politico e la profonda responsabilità sociale avvertita 2. «The story of the Seven Sleepers rests on a miraculous interposition − they slept» (Robinson 1976: 44). 3. Il protagonista di The History of Nourajhad (1767), romanzo di Frances Sheridan, viene burlato dal sultano Schemzeddin che lo induce a credere di essere immortale e di dormire ogni volta per numerosi anni. Mary Shelley fa riferimento a Nourajhad nella novella Matilda (1959) e nel racconto dal titolo The Mortal Immortal, in cui vengono nominati anche i Sette Dormienti (Robinson 1976: 219). 4. Per un ulteriore approfondimento, si consulti anche Shaw 2001: 71. 5. Dopo la morte della prima figlia, avvenuta poco dopo la nascita, anche William e Clara Everina si erano entrambi spenti in tenera età, durante il primo soggiorno in Italia.

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dall’autrice, asserendo che, lungi dall’essere un pallido rispecchiamento delle sue vicissitudini personali, «her major works [were] designed to address civil and domestic politics» (Bennet 1996: xlix). Abbracciando tale interpretazione, Graham Allen ha posto in rilievo i limiti di quello che lo studioso ha definito «biographism», capace di determinare una pericolosa cecità nei confronti dei tratti più sofisticati della narrativa di Mary Shelley, «[a certain] blindness to the political and, it must be said, philosophical dimensions of [her] works» (Allen 2009-10: 21). Altro aspetto non adeguatamente valutato, oscurato dalla consueta raffigurazione della scrittrice come vedova dolente, madre sconsolata di una prole dal destino infausto, è il suo piglio ironico e la spiccata inclinazione alla satira. Come evidenziato da A.A. Markley, «her wit and ability as a humorist» (Markley 1997: 98) non sono stati né pienamente riconosciuti né indagati a sufficienza dalla critica. L’umorismo graffiante dell’autrice costituisce, invece, un ottimo punto di partenza per l’analisi di Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman, la cui trama inizia a dipanarsi ripercorrendo gli eventi legati al ritrovamento del corpo (che ricalcano quelli resi noti dall’hoax), per poi proseguire con un ipotetico dialogo tra il gentiluomo resuscitato e il dott. Hotham, concludendosi infine con la possibile morte dell’ossimorico «youthful antique» (Robinson 1976: 44), incapace di adattarsi al mutamento dei tempi, appena 12 giorni dopo il suo ritorno alla vita. L’ambiente intellettuale e antiquario dei primi decenni dell’Ottocento è descritto in modo sarcastico e disincantato da Mary Shelley; invece di essere mossa da un autentico interessamento per il vissuto di Dodsworth, testimone prezioso di epoche remote, la «antiquarian society» (Robinson 1976: 43) pare invece sostenuta da un’estrema superficialità di intenti, dalla semplice bramosia di aggiungere alle proprie nutrite collezioni chissà quali tesori provenienti dal passato (possibilmente contenendo le spese): The antiquarian society had eaten their way to several votes for medals, and had already begun, in idea, to consider what prices it could afford to offer for Mr. Dodsworth’s old clothes, and to conjecture what treasures in the way of pamphlet, old song, or autographic letter his pockets might contain. (Robinson 1976: 43)

La critica nei confronti dell’interesse economico, come motore poco nobile di molte azioni umane, è poi intuibile dall’insistenza, da parte della scrittrice, sulle ragioni che avevano spinto Dodsworth a tornare in Inghilterra: prendere possesso della cospicua eredità paterna, pensiero che

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solleticava ancora l’immaginazione del «reanimated Englishman» al suo risveglio. Come Mary Shelley acutamente sottolineava, tuttavia, un ritorno delle proprietà dei Dodsworth al legittimo erede a distanza di così tanti anni era a dir poco inverosimile: «how short lived are human views!» (Robinson 1976: 45), chiosava quindi con malcelata disillusione, consapevole di quanto effimere siano molte tra le nostre più segrete aspirazioni. La riflessione sarcastica sulla situazione politica contemporanea è, tuttavia, l’elemento maggiormente provocatorio e stimolante nel testo. In quanto donna, legata quindi alla sola dimensione domestica, secondo la dottrina delle separate spheres,6 l’autrice sapeva di non poter esprimere liberamente le proprie opinioni su una materia della quale si supponeva non possedesse la benché minima nozione. Impiegando lo stesso stratagemma utilizzato in Valerius, the Reanimated Roman (racconto nel quale, attraverso le parole di un console romano misteriosamente destatosi dal sonno della morte, incoraggiava gli italiani a riscoprire i valori antichi, liberandosi dal giogo straniero), così anche in Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman Mary Shelley si serviva della trama fantastica e della prospettiva di straniamento del suo personaggio per insinuarsi nella sfera politica, e dileggiare velatamente la Corona. Alla domanda di Dodsworth sullo stato del suo «poor, distracted country» (Robinson 1976: 45), il dott. Hotham replicava stizzito, negando l’esistenza di una serie di problemi che, di fatto, come ogni lettore dell’epoca ben sapeva, costituivano una grave preoccupazione per la nazione: «People talk of starving manufacturers, bankruptcies, and the fall of the Joint Stock Companies − excrescences these, excrescences which will attach temselves to a state of full health. England, in fact, was never in a more prosperous condition» (Robinson 1976: 45-46). Il contegno disdicevole, l’avidità e le rinomate stravaganze del sovrano Giorgio IV (noto per gli sprechi di denaro pubblico) erano poi completamente ignorati dal conservatore Hotham. Al contrario, approfittando dell’inesperienza e dell’ingenuità di Dodsworth, il medico poteva tratteggiare un quadro del regnante dai toni encomiastici, un ritratto di equilibrio, magnanimità e perfezione che avrebbe sicuramente suscitato 6. Codificata in epoca vittoriana grazie agli scritti di John Ruskin e del poeta Coventry Patmore (cui è ascrivibile la creazione della figura femminile come angel in the house, dal titolo di un suo celeberrimo componimento), la dottrina delle sfere separate assegnava all’uomo il dominio sulla realtà esterna, relegando per consuetudine le donne all’ambiente intimo e familiare.

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l’ilarità di qualsiasi contemporaneo, tanto era ampio il divario esistente tra la descrizione e la realtà: the king, God bless him, spares immense sums from his privy purse for the relief of his subjects, and his example has been imitated by all the aristocracy and wealth of England. […] I am happy to say that the prejudices that so unhappily and so unwarrantably possessed the English people with regard to his Majesty are now […] exchanged for dutiful love and such reverence as his talents, virtues, and paternal care deserve. (Robinson 1976: 46)

Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman è anche un testo che offre considerazioni profonde sul valore educativo della Storia. Seguendo l’insegnamento di suo padre, William Godwin, nel saggio Of History and Romance (1797), Mary Shelley considerava la Storia come uno strumento d’istruzione attivo e lungimirante, volto a promuovere una gestione intelligente e consapevole del presente e del futuro. Come Rachel Woolley ha osservato, riferendosi alle narrazioni che la scrittrice scelse di ambientare in epoche lontane, «the presence of the past is not commemorative, but functional» (Woolley 2001: 91). Ed ecco che il racconto presenta una lunga digressione sul tema della metempsicosi e sul vantaggio che governanti, statisti, ma anche gli uomini comuni potrebbero derivare dalla memoria delle esperienze vissute nelle vite passate. I ricordi (la Storia individuale) avrebbero infatti il compito di fungere da monito o da sprone: the humble would be exalted, and the noble and the proud would feel their stars and honours dwindle into baubles and child’s play when they called to mind the lowly stations they had once occupied. If philosophical novels were in fashion, we conceive an excellent one might be written on the development of the same mind in various stations, in different periods of the world’s history. (Robinson 1976: 49)

Forse Cyrus Redding aveva compreso le vere intenzioni della scrittrice, al di là della semplice rielaborazione della burla di Roger Dodsworth; con tutta probabilità, l’editore aveva quindi preferito scartare il testo di Mary Shelley per non esporsi al biasimo di chi reputava le donne inadatte a cimentarsi con la satira e con la politica. Nonostante la fortuna instabile del racconto e l’oblio che ha per lunghi anni attutito il suono delle sue parole, Roger Dodsworth, the Reanimated Englishman costituisce ancora oggi un’importante testimonianza di come, nel tentativo di “rianimare”, di infondere nuova vita a una società fiaccata, corrotta e assopita, l’autrice si sia sagacemente servita persino del “falso” per giungere alla verità.

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Bibliografia Allen 2009-10 = G. Allen, Reanimation or Reversibility in Valerius: The Reanimated Roman. A Response to Elena Anastasaki, in «Connotations», XIX/1-3 (2009-2010), pp. 21-33 Anastasaki 2006-07 = E. Anastasaki, The Trials and Tribulations of the revenants: Narrative Techniques and the Fragmented Hero in Mary Shelley and Théophile Gautier, in «Connotations», XVI/1-3 (2006-2007), pp. 26-46 Bennet 1996 = “Introduction”. The Novels and Selected Works of Mary Shelley, a cura di B. Bennett, London 1996, pp. xiii-lxx Forbes 1845 = W. Forbes, Physic and Physicians: a Medical Sketch Book. Part II, Philadelphia 1845 Godwin 1797= W. Godwin, Of History and Romance, 1797, Hook 1826 = Th. Hook, s.tit., in «John Bull», 9 luglio 1826 Markley 1997 = A.A. Markley, ‘Laughing That I May Not Weep’: Mary Shelley’s Short Fiction and Her Novels, in «Keats-Shelley Journal», 46 (1997), pp. 97-124 Moore 1833 = T. Moore, The Works of Thomas Moore, Esq, Accurately Printed from the Last Original Editions, Leipsic 1833 Dodsworth 1826 = R. Dodsworth, Letter from the Gentleman Preserved in Ice, in «New Monthly Magazine», LXVII/17 (1826), pp. 453-458 Redding 1863 = C. Redding, Yesterday and To-day, vol. I, London 1863 Robinson 1975 = C. Robinson, Mary Shelley and the Roger Dodsworth Hoax, in «Keats-Shelley Journal», 24 (1975), pp. 20-28 Robinson 1976 = Mary Shelley: Collected Tales and Stories with Original Engravings, a cura di C. Robinson, London 1976 Shaw 2001 = S. Shaw, Time Travel and Archaeology: Two Stories of Reanimation by Mary Shelley, in Outside Archaeology: Material Culture and Poetic Imagination, a cura di C. Finn, M. Henig, Oxford 2001, pp. 67-72 Woolley 2001 = R. Woolley, Reanimating Scenes of History: the Treatment of Italy in the Writings of Mary Shelley, 2001,

Reinhard Markner Gerd Heidemann and the Correspondence between Mussolini and Churchill: a Prelude to the Hitler Diaries Scandal

On April 29, 1945, SS Obergruppenführer Karl Wolff, acting military commander of the German forces in Italy, agreed to a cessation of hostilities south of the Alps, taking effect on May 2. This result of complicated negotiations, codenamed Operation Sunrise, was the only such agreement reached prior to the unconditional surren der of the Reich (see Dulles 1966; Wolff 2008). An American witness, writing shortly after the event, pointed out that Wolff had been one of «the two outstanding figures who were responsible for issuing the orders for the cessation of hostilities», incurring «considerable personal risk» by acting «against specific instructions from Field Marshal Kesselring and without the consent of the temporary commander of the Army Group, General Schultz».1 In mid-August of 1978, Wolff was back in Northern Italy. He was revisiting the theatre of his own operations as Supreme SS and Police Leader, from the time of Mussolini’s arrest and subsequent liberation to the very day when he accepted defeat. Wolff was accompanied by Gerd Heidemann of «Stern», the Hamburg-based magazine, which at the time was selling close to two million copies every week. The former SS general and the battle-hardened reporter had become acquainted on board the Carin II, Hermann Göring’s former yacht, which Heidemann had acquired five years earlier. Now they were on a mission to collect material for a planned article series on Clara Petacci’s fateful love affair with Benito Mussolini (see Mussolini 2011). This subject had been covered by «Stern» before. Nonetheless, following a visit to Inge Feltrinelli and her magnificent villa on Lake Garda, Erich Kuby, one of the magazine’s most prominent au1. G[ero] v[on] [Schulze-]Gaevernitz to [Lyman Lewis] Lemnitzer, May 15, 1945, in Allen Dulles Papers, Princeton University Library, Digital files series 4D.

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thors, insisted on giving it a fresh treatment. He pursuaded Henri Nannen, «Stern»’s founding and still omnipotent editor, to provide the necessary resources, Heidemann, who had a reputation of being a most tenacious researcher, being among them. On August 19 Heidemann and Wolff drove up a mountain-road northeast of Bozen to meet Franz Spögler, a man who had been Wolff’s subordinate since the autumn of 1943. Heidemann noted that Spögler, now a successful hotel owner, was «evidently glad to meet his former superior». «With his burly figure», he continued, «and a skull like that of a Tyrolean peasant with its somewhat gnome-like facial features and slightly bulging, bloodshot eyes, he did not exactly match the description of what in the SS would have been known as a Nordic type».2 Born in 1915, Spögler had opted for Germany when the Tyroleans south of the border that had been decided upon at Versailles were given the poisoned choice between becoming assimilated Italians or leaving their Heimat for good. In the late summer of 1940 he took part in a short training course at Sonthofen in southern Bavaria. His grades were less than excellent and he was deemed unfit for a party career.3 Spögler became a German citizen, was drafted into the Wehrmacht and eventually joined the ranks of the SS. The details are unknown, as his personal file is missing. The Italian-language skills of the younger generation of South Tyroleans were much in demand after the upheavals of the summer of 1943. Sent back to Italy, Spögler was given a delicate assignment: his task was to look after Clara Petacci, who had moved from Rome to Gardone to be close to her lover. Spögler told Heidemann and Wolff how one day, a year into his assignment, he had witnessed a tumultuous confrontation between Claretta and Mussolini’s wife Rachele. This story he had told before when submitting, along with Otto Skorzeny, to what British reporter Richard Collier called «some of the longest interviews in the history of documentary research» (Collier 1971: 393). Spögler gave an equally dramatic account of how he was captured by partisans, en route from Milan to Gardone, in a little village halfway between Bergamo and Como, and how he managed to escape by jumping out of the window during only his second night in confinement.4 2. Heidemann Archive, Hamburg. Gerd Heidemann has been exceptionally forthcoming in granting access to his vast collection. 3. Bundesarchiv, Berlin: PK L 367 (1027). 4. Spögler later came into British custody. Information provided by «Deutsche Dienststelle» in Berlin (July 4, 2014).

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The conversations were continued on the following days. Guided by Spögler, his German guests inspected a remote little hut a twenty-minute drive from his hotel which he said was meant to become a hiding place for Mussolini and his mistress. Going there had been Claretta’s idea, he explained (see Trivelli 1950; Un progetto 1950). Spögler further claimed that Mussolini himself, out of gratitude for his loyal services, had recommended him for promotion from Obersturmführer to Hauptsturmführer. He also told the true story of how he had been wrongly accused, in 1950, of having murdered Mussolini’s driver, Aldo Gasperini (see L’arresto 1950; Ghirotti 1950b; van Bergh 1950). He insisted that there had been a connection between this misguided investigation and a personal letter to Churchill which the Duce had entrusted to him on April 24, 1945 in Milan. His mission, according to Spögler, would have been to reach the British vice-consulate in Lugano. But then Mussolini had changed his mind and dropped the idea. It seems that Spögler failed to mention that the letter and the story accompanying it had already been published, in 1956, in the weekly magazine «Epoca» (Spoegler 1956). Having whetted the appetite of his guests, he presented them with further letters: photocopies of Mussolini’s correspondence with King Victor Emmanuel III, with Clara Petacci, and Pope Pius XII. There was more, he said, stashed away somewhere in East Germany. He also revealed that the Germans had wiretapped Mussolini’s phone conversations ever since he had relocated to the North. Many of the transcripts had survived, Spögler said. Heidemann was thrilled. Little did he imagine that Spögler had already sold some of those transcripts, only five years earlier, to an Italian journalist, Ricciotti Lazzero (see Lazzero 1994: 69). And little did he realise that he was being lured into the quagmire of one of Italy’s most convoluted conspiracy theories. Back in Hamburg, Heidemann found that Rachele Mussolini had in fact mentioned her late husband’s correspondence with Churchill in her memoirs, as recorded by a French journalist (see Mussolini 1973: 22829). He immediately informed Henri Nannen of Spögler’s secret cache of documents. Nannen said he was interested, but Heidemann would have to vouch for their authenticity. Erich Kuby was understandably intrigued, too, and it was arranged for him to meet the man in person at the next available opportunity. Thus, in late March of 1979, Heidemann went to Northern Italy again, while Kuby and his assistant researcher, Wolfgang Eitel, came up from Rome. Before their arrival, Heidemann conferred with two former Sicherheitsdienst agents, Ludwig Fenzl and Walter Segna. Both warned

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him of Spögler’s unreliability. When he met him in Salò, Spögler showed him further photocopies of historical autographs: two letters written by the King and some written by Mussolini to Marshal Rodolfo Graziani and to Clara Petacci. This was not what Heidemann wanted to see, however. He had repeatedly urged Spögler to come up with a full list of the documents available for purchase, but this turned out to be more difficult than expected. His sources in East Germany, two former SS men, were afraid that their past might be uncovered, Spögler explained. Heidemann was getting unnerved. When introduced to Kuby, Spögler was as affable and talkative as ever. Together, they went to inspect Villa Fiordaliso, Clara Petacci’s former residence in Gardone. Weirdly inspired by the genius loci, Kuby pressed Spögler to admit that his relationship with Mussolini’s mistress had not been a purely professional one. Spögler did not comply but kept laughing at the idea, which Kuby took as confirmation. Enthralled by the encounter with Spögler, Kuby immediately wrote to the deputy editor-in-chief of «Stern», Victor Schuller, that he had been shown «new and highly significant materials», namely the phone transcripts. He believed them to be authentic, whereas he was doubtful with regard to the correspondence between Mussolini and Churchill.5 Two days later, Heidemann and Spögler met alone in the centre of Bozen. Spögler had brought a few samples of the phone transcripts. In all, he said, there were about 700 tapped conversations, 450 of which were «important and interesting». He calculated that if he charged 350 marks for each of these, the overall sum would be 157,000 marks. Heidemann at first refused outright. After some haggling, however, it was agreed that in Hamburg he should ask for 40,000 marks. Concerning the letters, Spögler had not yet made up his mind, but he was thinking of charging up to 200,000 marks. Heidemann made it plain that «Stern» would be much more interested in obtaining original letters rather than photocopies. Spögler promised to once again consult with his sources. At long last, Spögler came up with a list of all the letters and documents concerned: nine letters by Mussolini to Churchill, from May 1939 to April 1945; twelve by Churchill to Mussolini, from March 1940 to March 1945, including the draft of an agreement to be struck between Britain and Italy. In addition, four letters by Mussolini to Graziani, one to Nicola Bombacci, 5. Kuby to Schuller, March 28, 1979, Heidemann Archive.

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one to the German ambassador Rudolf Rahn, all dating from 1944 and 1945; one to General Giovanni Messe, undated but obviously written prior to his capitulation in Tunisia; one letter to Claretta, and three by her, one of them being an appeal for clemency for Count Galeazzo Ciano; two letters by Mussolini’s daughter Edda Ciano and other documents concerning the death sentence against her husband; two letters by Mussolini to Victor Emmanuel, and two by the king to Mussolini, as well as to others, such as Marshal Badoglio; various letters by Dino Grandi, and one by Italo Balbo, written shortly before his death; and finally, one letter by Dulles to General Raffaele Cadorna regarding Mussolini’s fate in the event of his capture.6 Meanwhile, Erich Kuby was beginning to think in ever more grander terms about his project. He now envisioned it as a series of no fewer than seventeen instalments, provisionally entitled Claretta, Adolf, and the Buffoon [Hanswurst] of Salò. It was to become his critical contribution to the so-called “Hitler wave” sweeping over Germany, later also to be published in book form. Its premise would be that Hitler had been in love with Mussolini, and that he had held an affection for him comparable only to the one he had reserved for Albert Speer, his architect and armaments minister. Both Wolff’s testimony and Spögler’s documents were destined to be important elements of the story. He would have been prepared to strip naked on Milan’s piazza del Duomo, Kuby wrote in a report on his project, if that had been required to gain Spögler’s confidence.7 No such dramatic action was necessary. Instead of winning over Spögler, who preferred dealing with Heidemann, Kuby alienated Wolfgang Eitel, Henri Nannen, and Heidemann. He failed to meet all of his contractual obligations, never wrote a single article on the subject, left the magazine for good, and eventually sold his voluminous manuscript Verrat auf deutsch, which focused on Italy’s exploitation at the hands of her German occupiers rather than on Hitler’s infatuation with Mussolini, to an independent publishing company instead (Kuby 1982). In the meantime, Heidemann was on the fateful trail of the Hitler diaries. Procuring them for Gruner & Jahr, the publishers of «Stern», ultimately proved to be his undoing. At first, however, it looked very much like the most lucrative assignment of his career. Heidemann was paid a substantial commission for every volume he obtained, and there were 6. Heidemann Archive. 7. Ibidem.

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many of them. This windfall enabled him to pursue a deal with Spögler. In early February 1982, Heidemann met with him in northern Tyrol and purchased, for 40,000 marks, half of the Churchill-Mussolini material along with a selection of the phone transcripts. Immediately afterwards, he drove on to Stuttgart to collect another volume of the Hitler diaries for 200,000 marks. Now that he had finally obtained at least some of the documents, Heidemann had a closer look at them for the first time. The letters were evidence, it seemed, of Churchill’s willingness to bribe and appease Mussolini by offering him territorial gains, particularly at the expense of France, in order to prevent Italy’s entry into the war on the side of Germany. Earlier, Heidemann and Kuby had paid a visit to F.W. Deakin, Churchill’s former secretary and the author of The Brutal Friendship, a detailed study of the relationship between Hitler and Mussolini (Deakin 1962). After an inspection of a few samples, Deakin had voiced doubts concerning Churchill’s signature. He thought the letters might be forgeries authored by Mussolini’s secret service (see Deakin 1986). Seeking further professional advice, Heidemann now conferred with David Irving, the best-selling historian who had been one of his guests on board the Carin II. As a man known for his critical stance towards Churchill, Irving might perhaps have been expected to be less sceptical, but he was equally unconvinced by what he saw. In his view, the Chartwell letterhead was «hopelessly wrong». He also spotted that both Churchill and Mussolini had made the same spelling mistakes (Irving 2000). This was obviously highly disappointing for Heidemann. He had spent a large sum of his own money on these papers and was not quite prepared to accept that they were all forgeries. When examining the documents himself, Heidemann found that at least one letter could apparently be authenticated. On May 16, 1940, Churchill, then newly elected as Prime Minister, had made a last appeal to Mussolini not to enter the war alongside Germany. Across what he sensed to be a «swiftly-widening gulf» he sent a few «words of goodwill» to the «chief of the Italian nation» and its «law-giver», indicating that Britain would not declare war against Italy and warning of the dire consequences for both countries if Mussolini decided otherwise (DDI 1960: 365-366). A draft of this message could be found at the Public Record Office in London. If Heidemann had enquired in Rome, the handwritten draft of Mussolini’s terse reply, kept at the Archivio Centrale dello Stato, might also have come to his attention. Here, the Duce pointed out

Gerd Heidemann and the Correspondence between Mussolini and Churchill

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that Italy was bound by its contractual obligations towards other powers in much the same way that Britain was (DDI 1960: 389-390). This brief exchange between the two statesmen was not only authentic, it was no secret at all. Churchill himself had very publicly quoted from it in December 1940, in a broadcast addressed to the Italian people (Text 1940). It was further attested to by Ciano’s diary, first published in 1946. While not questioning Mussolini’s reasoning in principle, his foreign minister and son-in-law had thought the reply to Churchill «needlessly harsh» (Gibson 1946: 252). After the war, both communications were duly published in the official collections of diplomatic documents. The wording was nearly identical, yet what Heidemann had in hand was still not the real thing. The forger gave himself away by leaving out a number of lines, presumably because they were missing in the source he was relying on. He also added one last sentence, which made for a rather nonsensical conclusion to Churchill’s missive: «May God give you wisdom in this solemn appeal».8 Not only did Heidemann fail to see these inconsistencies, he also remained blissfully unaware of the fact that the materials now in his possession had first surfaced during a forgery scandal back in 1954, involving Italy’s former Prime Minister Alcide De Gasperi as well as the world-famous author of the Don Camillo and Peppone saga, Giovannino Guareschi (see Franzinelli 2014 and 2015). At the time, the German press, most notably «Der Spiegel», had taken note of the scandal (see Aus Mussolinis 1954), but when Heidemann dealt with Spögler, twenty-five years had since passed and no one he talked to seemed to remember the affair. Consequently, he did not realise that he had spent his money on documents commonly regarded as fakes, many of which had long been published. In fact, the matter had been virtually settled as early as October 1953, when Italian Foreign Office expert Mario Toscano inspected a sample of the documents at a meeting with the owners in Ascona. This came at the request of publisher Arnoldo Mondadori, to whom the materials had been offered for sale. Toscano was rather surprised to find that what he was presented with were photographic reproductions of typewritten letters only, bearing signatures of a striking similarity to one another. He only noted a few suspicious details, but those few were damning enough: Badoglio would not have used a Chief of Staff letterhead in July 1943, years after his 8. Heidemann Archive.

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resignation from that position, and under no circumstances would British diplomats have devised the «scheme» of an Anglo-Italian agreement.9 The latter mistake clearly hinted at an Italian forger, schema being the Italian word for draft. Heidemann knew nothing of these findings, but he refrained from making use of the letters as long as their authenticity was in doubt, even though he was pressured by Werner Maser, the well-known though controversial Hitler biographer, to publish them in a jointly-written book. His employers, on the other hand, finally went ahead with the Hitler diaries. To the astonishment of the whole world, the slim volumes were presented to the public during a press conference on April 25, 1983, only to be conclusively proven to be forgeries some ten days later, on the basis of an examination of the paper and binding materials. Trying to deflect at least some of the accusations levelled against himself, Nannen pressed charges against Heidemann. Kuby, too, turned against his former colleague, citing the negotiations with Spögler as evidence for Heidemann’s inability to keep a critical distance from the peddlers of Nazi memorabilia (Kuby 1983: 127-130). After a lengthy trial, Heidemann was found guilty of embezzling part of the money that Gruner and Jahr, the publishers of «Stern», had paid for the acquisition of the fake diaries. He was sentenced to four years and eight months in prison, two more than the forger himself, the sly Konrad Kujau. There are strong reasons to believe that this amounted to a miscarriage of justice (see Koch 1990: 553-569). Following his release from prison in September 1989, a few months after Spögler’s death (see Deceduto 1989), the former star reporter retired from journalism. Heidemann never made use of the Italian “documents” he had paid such a steep price for. Thus, the Germans were spared a publication similar to Arrigo Petacco’s book Dear Benito, caro Winston, in which the spurious materials of the nineteen-fifties were discussed at length by an author feigning an open mind while in fact being fully aware of the facts (Petacco 1985). At least the Hitler diaries scandal and the painful embarrassment that it caused had the salutory effect that there has been utter silence on the subject of Hitler the diarist ever since. The Italian public, by contrast, is still being subjected to a continuous barrage of conspiracy theories concerning the MussoliniChurchill correspondence, and much to the astonishment and dismay of sober observers from abroad (see Woller 2001; Moseley 2004: 341-349) 9. Archivio De Gasperi: no. 137.

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this has not purely been a fringe phenomenon. Most notably Renzo De Felice’s pronouncements on the matter, made shortly before his death in a book-length interview, came as a surprise to those who believed that serious scholarship and reckless theorising were things far apart (see De Felice 1995: 144-148). It goes without saying that there is little hope that the conspiracy-theory mongering will come to an end soon, given that it is quite impossible to prove the non-existence of something. But perhaps it is a good sign that the chase after the carteggio fantomatico has recently become the subject of second-rate mystery novels (Quilici 2005; Paratico 2010). As a piece of historical fiction that was once taken up by some rather shady forgers and fraudsters, the giallo genre is where the MussoliniChurchill correspondence rightly deserves an afterlife.

Bibliography Collier 1971 = R. Collier, Duce! The Rise and Fall of Benito Mussolini, London 1971 (translated into Italian as Duce! Duce! Ascesa e caduta di Benito Mussolini, Milano 1971) DDI 1960 = I Documenti diplomatici italiani, ser. 9, vol. 4, Roma 1960 De Felice 1995 = R. De Felice, Rosso e nero, Milano 1995 Deakin 1962 = F.W. Deakin, The Brutal Friendship. Mussolini, Hitler and the Fall of Italian Fascism, London 1962 Deakin 1986 = F.W. Deakin, È tutto falso: parola di Winston!, in «Storia illustrata», June 1986, pp. 9-18 Deceduto 1989 = Deceduto a Bolzano l’“autista di Mussolini”, in «Stampa Sera», July 10, 1989 Dulles 1966 = A.[W.] Dulles, The Secret Surrender, New York 1966 Festorazzi 2013 = R. Festorazzi, Mistero Churchill. Settembre 1945: che cosa cercava sul Lario lo statista inglese? Perché si celava dietro l’identità del colonnello Warden?, Varese 2013 Franzinelli 2014 = M. Franzinelli, Bombardate Roma! Guareschi contro De Gasperi: uno scandalo della storia repubblicana, Milano 2014 Franzinelli 2015 = M. Franzinelli, L’arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Churchill-Mussolini, Milano 2015 Ghirotti 1950a = G. Gh[irotti], L’ambigua figura dello Sploeger aleggia sulla fosca vicenda, in «La Nuova Stampa», July 7, 1950 Ghirotti 1950b = G. Ghirotti, Il fiduciario di Claretta prosciolto dalle accuse, in «Nuova Stampa Sera», November 28, 1950

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Gibson 1946 = The Ciano Diaries, 1939-1943, ed. by H. Gibson, New York 1946 Irving 2000 = D. Irving, Letter to the Editor, in «The Times», February 3, 2000 Koch 1990 = P.F. Koch, Der Fund. Die Skandale des “Stern”. Gerd Heidemann und die Hitler-Tagebücher, Hamburg 1990 Kuby 1982 = E. Kuby, Verrat auf deutsch. Wie das Dritte Reich Italien ruinierte, Hamburg 1982 (translated into Italian as Il tradimento tedesco. Come il Terzo Reich portò l’Italia alla rovina, Milano 1983) Kuby 1983 = E. Kuby, Der Fall “Stern” und die Folgen, Hamburg 1983 L’arresto 1950 = L’arresto del confidente della Petacci, in «Nuova Stampa Sera», June 14, 1950 Lazzero 1994 = R. Lazzero, Il sacco d’Italia. Razzie e stragi tedesche nella Repubblica di Salò, Milano 1994 Moseley 2004 = R. Moseley, Mussolini: The Last 600 Days of Il Duce, Dallas 2004 (translated into Italian as Mussolini. I giorni di Salò, Torino 2006) Mussolini 1973 = R. Mussolini, Mussolini sans masque, propos recuellis par Albert Zarca, Paris 1973 Mussolini 2011 = B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci, 19431945, Milano 2011 Paratico 2010 = A. Paratico, Ben, Milano 2010 Petacco 1985 = A. Petacco, Dear Benito, caro Winston. Verità e misteri del carteggio Churchill-Mussolini, Milano 1985 Quilici 2005 = F. Quilici, La fenice del Bajkal, Milano 2005 Aus Mussolinis 1954 = Aus Mussolinis Aktentasche, in «Der Spiegel», June 2, 1954, pp. 24-26 Spoegler 1956 = F. Spoegler (and A. Mondadori), L’ultima lettera di Mussolini a Churchill, in «Epoca», March 11, 1956, pp. 32-35 Text 1940 = Text of Churchill’s Appeal to the Italian People to Overthrow Mussolini, in «The New York Times», December 24, 1940 Trivelli 1950 = G. Trivelli, Un capitano alto atesino organizzò la fuga di Mussolini, in «Alto Adige», March 21, 1950 Un drammatico 1951 = Un drammatico racconto sul carteggio Mussolini-Churchill, in «La Nuova Stampa», December 13, 1951 Un progetto 1950 = Un progetto di fuga dell’ex-duce abbandonato all’ultimo momento, in «La Nuova Stampa», March 26, 1950 van Bergh 1950 = H. van Bergh, Weltgeschichte – geraubt am Gardasee, in «Quick», September 17, 1950 Wolff 2008 = K. Wolff, Mit Wissen Hitlers. Meine Geheimverhandlungen über eine Teilkapitulation in Italien 1945, Stegen am Ammersee 2008 Woller 2001 = H. Woller, Churchill und Mussolini. Offene Konfrontation und geheime Kooperation?, in «Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte», 49 (2001), pp. 563-594

Diane Ponterotto Maneuvering between Truth and Falsehood: Hedging Strategies in Political Interviews

1. Introduction The purpose of this study is the analysis of hedging strategies employed by the current President of the United States in the interviews conducted for two TV programmes: CBS Sixty Minutes Overtime, held on Friday December 9, 2011,1 and NBC Meet the Press, held on September 7, 2014,2 focusing on the political problems surrounding the contemporary role of the American presidency. It shall be seen that the interviews are heavily characterized by multiple forms of hedging strategies. By means of a critical analysis of the range of strategies present in the texts, it will be argued that intense hedging is used by the President as a self-protection strategy in the face of the interviewer’s request for specific commitment on controversial issues. The term “self-protection” is here intended both in a personal and political way, as protection of the personal position of a political figure in power and as the protection of the American government’s official position vis-a-vis highly-charged social and political issues, including past and potential military scenarios. 1.1. Hedging Hedging can be defined as a rhetorical device which serves to “blurr” the speaker’s commitment to the truth of the proposition conveyed (Prince, 1. . 2. .

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Frader, Bosk 1982). Hedges, thus characterized by a note of indetermination (Hübler 1983), permit speakers to maneuver between certainty and uncertainty, to leave open the possibility for future modifications and to evade the necessity of full commitment to the assertions put forward. In fact when the category hedge first emerged in a 1972 study by George Lakoff, it was defined in terms of “fuzziness”. Lakoff noted that in natural language processing, concepts do not necessarily have sharp boundaries but are often vaguely defined. He suggested that in English there are expressions that modify the category membership of a predicate or noun phrase to «make things fuzzier or less fuzzy» (Lakoff 1972: 195). Thus hedges serve to avoid an either/or condition in ascertaining the veracity of the truth conditions of facts or events. Utterances need not be either true, false or nonsense but by means of hedging can encode attenuated interpretations, as if to suggest “perhaps true”, “not exactly false”, “both true and false”, “true to a certain degree”, “true or false within the limits determined by subjective or personal knowledge”, etc. Subsequently, a hedge came to be considered not merely a form or set of forms but a discourse strategy, activated by recourse to numerous lexico-grammatical devices. In order to give an idea of the vast range of the devices which can be used for hedging purposes, we present the following chart adapted from Fraser (Fraser 2010) which succinctly summarizes categories of hedges with relevant examples. Table 1. Categories and examples of typical hedging devices (extracted and adapted from Fraser 2010) CATEGORY

EXAMPLE

Impersonal pronouns

One just doesn’t do that.

Concessive conjunctions (although, though, while, whereas, even though, even if…)

Even though you dislike the beach, it’s worth going for the view.

Hedged performative

I must ask you to sit down.

Indirect Speech Acts

Could you speak a little louder.

Introductory phrases (I believe, to our knowledge, it is our view that, we feel that…)

I believe that he is here.

Modal adverbs (perhaps, possibly, probably, practically, presumably, apparently)

I can possibly do that.

Maneuvering between Truth and Falsehood

CATEGORY

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EXAMPLE

Modal adjectives (possible, probable, un/ likely…)

It is possible that there is no water in the well.

Modal noun (assumption, claim, possibility, estimate, suggestion…)

His assumption is that you are going to go…

Modal verbs (might, can, would, could…)

John might leave now.

Epistemic verbs (seem, appear, believe, assume, suggest, think…)

It seems that no one wants to go…

Negation

Didn’t Harry leave? [I think Harry left]; I don’t think I’m going. vs. I’m not going. [Former hedges the meaning of latter]

Reversal tag

He’s coming, isn’t he?

Parenthetic construction

The picnic is here, I guess.

If clause

If true, we’re in deep trouble.

Agentless Passive

Many of the troops were injured. (by Ø)

Conditional subordinators (as long as, so long as, assuming that, given that…)

Unless the strike has been called off, there will be no trains tomorrow.

Progressive form

I am hoping you will come.

Tentative Inference

The mountains should be visible from here.

Conditional clause implying permission (if you don’t mind my saying so, if I may say so)

If you don’t mind me saying so, your slip is showing.

Conditional clause as a metalinguistic comment (if that’s the right word…)

His style is lurid, if that’s the right word.

Conditional clause expressing uncertainty about the extralinguistic knowledge required for a correct interpretation of the utterance (if I’m correct, in case you don’t remember)

Chomsky views cannot be reconciled with Piaget, if I understand him correctly.

Metalinguistic comment such as (strictly speaking, so to say, exactly, almost, just about, if you will)

He has an idea, a hypothesis, if you will, that you may find interesting.

It was also argued that it is context which determines the hedged quality of an utterance thereby rendering almost any linguistic item a potential candidate for this function. Clemen for example notes: Hedges are determined by context, the colloquial situation and the speaker’s/ writer’s intention, plus the background knowledge of the interlocutors. Hedging cannot be deduced only from the combination of the individual clausal

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elements plus the relevant illocution. Hedges function in a particular context. (Clemen 1997: 237)

1.2. Functions of hedging In order to understand the linguistic representation of the complex discourse strategy labeled hedging3 in political interview texts, we will refer to only some of the many scholars who have discussed its polysemous and polypragmatic nature in English discourse (see Hyland 1998: 158). Fraser (Fraser 2010) lists a number of functions of hedging in English discourse: • • • • • • • •

to accomplish politeness, both positive and negative; to mitigate; to provide some degree of self-protection; to appear modest; to conceal the truth; to be apologetic; to seem less powerful; to avoid confrontation; to avoid responsibility for a fact or an act.

Fraser also suggests however that this multifunctional list can be recategorized according to two macro-functions, which are: • •

to mitigate an undesirable effect on the hearer, thereby rendering the message (more) polite; to avoid providing the information which is expected or required in the speaker’s contribution, thereby creating vagueness and/or evasion.

In fact in his analysis of the press conferences of President Bush, Fraser (Fraser 2010) found several evasion strategies which could be assigned to the function of hedging since the discursive effect, and probably intention, was to avoid full commitment in responses to questions on highly-charged 3. The interest in hedging in English discourse and the significance and complexity of this question in linguistics is evident when we note the publication in 1997 of a specific research guide. See Schroeder, Zimmer 1997: 249-271. Hedging has been of continued interest in English linguistics as testified by more recent studies. See Hyland, Bondi 2006; Alonso, Alonso, Mariñas 2012: 47-64.

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issues, like the suspicion of torture of Iraqi war prisoners or the highly-debated question of homosexuality in the armed forces. The failure to adequately answer this type of question was identified by Fraser in the following strategies: • • • • •

outright refusal to answer; delegating the answer to the words or actions of another political actor; self-reformulation; narrowing down the scope of the original question sequence so that the answer detracts from the complexity of the issue posed; stating that the question had been previously asked and answered, or ignoring the question altogether.

Another important reference point for hedging categories is found in

Martín (Martín 2003) who identified four basic strategies (Indetermination,

Camouflage, Subjectivisation and Depersonalisation), which all exploit specific yet multiple lexico-grammatical linguistic devices. Since we shall be using mainly this taxonomy for our analysis of the Obama interviews, we would like to summarize the salient features of these strategies by adapting the description found in Alonso, Alonso, Mariñas 2012: 52-53. a) Strategy of indetermination, thus endowing the proposition with a certain shade of lesser qualitative and quantitative explicitness, vagueness and uncertainty. This strategy includes performers of epistemic modality: • • • • •

Modal verbs expressing possibility (may/might/ can); Verbs of cognition, like seem to, appear to; Epistemic verbs drawing on the probability of the proposition or hypothesis expressed being true, like to assume or to suggest; Modal adverbs (probably, possibly), modal nouns (suggestion, possibility); Modal adjectives (probable, possible).

The indetermination strategy also includes approximators (usually, approximately, generally, frequently), which, by qualifying the statement according to frequency, quantity, degree or time, communicate the speaker’s hesitance to clarify her/his full commitment to the proposition.

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b) Strategy of camouflage. This refers to the intention to minimize the force of a statement. The significance of the message is hidden and negative reactions to the message are avoided. This strategy is activated by the addition of lexical devices having a commenting or metalinguistic effect like the use of certain adverbs: really, actually, in fact, generally speaking, etc. c) Strategy of subjectivisation. When speakers use first person pronouns (see Salager-Meyer 1994) followed by verbs of cognition (I believe, I think, we feel), they highlight the subjective quality of the statement, which is thus projected as open to doubt and therefore non-binding. Hearers/readers are in this way warranted to freely express disagreement if deemed the case. Other lexical devices which perform the same function are: to our knowledge, in our view, in my experience. For the subjectivisation strategy, as noted by Alonso, Alonso, Mariñas (Alonso, Alonso, Mariñas 2012), Salager-Meyer (Salager-Meyer 1994) also identifies adjectives and adverbial expressions which encode the emotional involvement of the speaker. These adjective phrases are labeled «emotionally-charged intensifiers». Examples given are extremely interesting, particularly important, etc. d) Strategy of depersonalisation. With this strategy speakers hide themselves so to speak behind an impersonal or non-identified subject. This strategy can be activated by using a range of impersonal constructions: passive voice as in (Conclusions were drawn…) or by preceding the verb with a non-human subject (The data suggest…) or qualifying the statement with non generalizing phrases (for example, in this case, as far as this group of subjects is concerned). In this way, speakers do not assume full responsibility for their affirmations. It is also important to remember that hedging strategies may include compounded linguistic devices. This serves to increase the illocutionary force of the mitigated statement. Examples from Salager-Meyer (SalagerMeyer 1995): • • • •

Modal with hedging verb: It would appear that… Hedging verb with hedging adverb/adjective: It seems reasonable that… Double hedges: It may suggest that this probably indicates… Treble hedges: It seems reasonable to assume that…

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Quadruple hedges: It would seem somewhat unlikely that… or It may appear somewhat speculative that…

Thus, we can suggest that truth value can be regulated on a sort of continuum which moves from objective non-attenuated declarations to statements with increasing degrees of mitigation. For example we can note the difference between a non-hedged statement like He’s the murderer and a hedged version like It would appear that he is the murderer. Then we can note the difference between It would appear that he is the murderer and the greater intensity of It seems reasonable to assume that he is the murderer. We also refer to the hedging devices identified in Ponterotto (Ponterotto 2014) which focused primarily on hesitation strategies in discourse, a phenomenon which was argued to serve two communicative purposes: first, as a cognitive device used as “a pause to think” in order to organize thought and plan a successful response strategy and secondly, as an affective device, used to avoid excessive assertiveness in response, thereby leaving open options for the interpretation of propositions. Finally we refer to the study by Partington (Partington 2003: 237-243) who suggests that hedging is only one of the many evasion strategies in political rhetoric which include bald on-record refusal to answer, claims of ignorance, refusal to speculate, stating the answer is well-known and claiming that the question has been answered already (see also Fraser 2010). A similar position can be found in Taweel et al. 2011, who have argued that avoidance tends to be the most common hedging strategy characterizing spoken political discourse. 2. Aim of the study The aim of this study on spoken political discourse is to identify hedging strategies in two lengthy interviews of President Obama, the first dating 2011 during the a CBS TV transmission entitled Meet the Press Overtime, conducted by journalist Steve Kroft and the second dating 2014 during the NBC TV programme entitled Sixty Minutes conducted by journalist Chuck Todd. We shall attempt to describe the discourse strategies President Obama employs when confronted with highly-charged political and social issues. In keeping with the theme of this volume, we shall focus on

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hedging in these presidential interviews as a strategy of non-commitment permitting a subtle maneuvering between truth and falsehood in order to defend political decisions and actions. An example (1) of the evasion of fully-committed answers to difficult questions typical of presidential interviews follows: (1) Steve Kroft: You say that you rallied the country, but these poll numbers show otherwise. They show that 75% thinks the country’s on the wrong track. And it shows that actually 54% don’t feel that you have the same priorities as they do. President Obama: Steve, here’s the thing. As long as [the] unemployment rate is too high and people are feeling under the gun – – day in, day out – – because their bills are going up and their wages and incomes aren’t, or they’re out of a job, they’re gonna feel unsatisfied. I mean there’s no secret to this.

3. Hedging in the Obama corpus President Obama is normally considered an able orator with significant rhetorical expertise. In both the interviews observed for this study, the questions posed by the interviewer focused on highly-charged issues in American politics both domestic and foreign. It is obvious that the questions were a serious challenge and required an attentive discursive response strategy in order to defend the Obama administration’s choices, praise its successes, justify its failures, and instill a positive perspective in an extremely critical electorate. This format of presidential interviewing on American TV is a routinized script which, in studies working within a discourse-analytic framework, is held to be based on “face-threatening questions” and consequently responses aimed at “saving face”, following theoretical insights by Brown and Levinson (Brown, Levinson 1978). 3.1. Lexico-grammatical devices The analysis revealed recourse on the part of Obama to the entire range of hedging strategies open to speakers. As far as the classic lexicogrammatical devices are concerned, the corpus presented the recurrent use of “kind of”: That you’ve just kind of played it by the numbers; of “actually”: there was actually a good article written a while back; of “if-

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clauses”: If there is a serious proposal out there;4 of concessive conjunctions: As long as [the] unemployment rate is too high, and of epistemic verbs: we have, I believe, a broad-based coalition internationally and regionally to be able to deal with the problem. There were also instances of double hedges: I think, would be a profound mistake. As an example of the use of intensifying adverbs to express emotional involvement, we can cite: Well look, we’ve gone through an incredibly difficult time in this country. 3.2. Discourse strategies We now give examples from the corpus of instances of the four strategies proposed by Martín 2003, which seem to be particularly salient in these texts. a) Strategy of indetermination Indetermination is evident in the use of verbs of cognition seem to and verbs of volition in conditional clauses (whether or not I was willing) as in example (2). It is particularly prominent in double hedges like the combination of the modal adjective possible with the epistemic verb I think in segment (3): (2) Steve Kroft: You’ve spent a lot of time – – your staff and the Democratic National Committee – – going after Mitt Romney, but the person that now seems to be definitely on the move is [former House Speaker] Newt Gingrich. President Obama: Well, first of all, we haven’t spent a lot of money going after anybody. We’ve spent a lot of money building grassroots support and rebuilding the incredible infrastructure we had back in 2008. But I’ll tell you, Steve, whoever the Republican nominee is, they all seem to have the same philosophy. You were talking earlier about whether or not I was willing to compromise, because Republicans seemed prepared to compromise on deficit reduction. (3) Steve Kroft: With the unemployment [rate at] 8.6 [percent], you still got soft consumer demand. You’ve got no business investment, there’s still a fairly steady downturn in housing prices. Do you know something that these 29% don’t know? I mean, do you see some hope? Do you think that things are 4. In the audio tape of this interview this “if” is given heavy stress by Obama indicating that hedges can be doubly marked also by prosodic signals.

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gonna get better? Do you think that you might have the unemployment rate down to 8% by the time the election rolls around? President Obama: I think it’s possible. But, you know, I’m not in the job of prognosticating on the economy. I’m in the job of putting in place the tools that allow the economy to thrive and Americans to succeed.

b) Strategy of camouflage Segments (4) and (5) below reveal how the use of adverbs like really, actually serve to comment metalinguistically on the facts and thereby minimize the full import of the statement: (4) Steve Kroft: There is this appearance that you did not really engage yourself during the deficit reduction negotiations that were taking place with the [Joint] Special [Committee on Deficit Reduction]. President Obama: Well, we, before they even met, we put out a very specific plan. Here’s how to get, not just $1.2 or $1.5 trillion of deficit reduction. Here’s how we can get $3.5 trillion of deficit reduction. This would actually stabilize our debt. (5) Steve Kroft: It seems to be all the compromising is being done by you. President Obama: …So, I’ve got no problem with that. What is going to really solve the deficit over the long term and not just the short term, [is if] we Democrats agree to make some modifications on entitlements so that they are sustainable and stronger over the long term.

c) Strategy of subjectivisation Obama makes frequent recourse to epistemic verbs along with the first person pronoun (I think, I believe) to mitigate his positions in presidential decisions: (6) Steve Kroft: Since the midterm election, you’ve made an effort at bipartisanship. It hasn’t turned out that way… President Obama: I think that when I came into office in 2008, it was my firm belief that at such an important moment in our history, there was no reason why Democrats and Republicans couldn’t put some of the ideological baggage aside… (7) Chuck Todd: Thanks for doing this. We start with a very basic question. Are you preparing the country to go back to war?

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President Obama: And the good news is that because of American leadership, we have I believe, a broad-based coalition internationally and regionally to be able to deal with the problem.

d) Strategy of depersonalisation Depersonalization and consequent shifting of responsibility to unidentified actors is performed in the President’s responses by recurrent recourse to generic subjects people, impersonal constructions: it’s…, the impersonal pronoun you and the inclusive pronoun we: (8) Chuck Todd: You think that sends a national message? President Obama: I think what it does is to send a message to Republicans that people want to get stuff done. (9) Chuck Todd: I’m just curious. You know, when they address you like that and they behead an American, I mean, does it – what – how does that impact you? President Obama: Well – – you know, when you – – it’s not so much how it affects me personally. It’s thinking about the parents of and family members – – of these folks who were affected. That never goes away. And you understand that, you know, the way to vindicate the love and concern that these families have, is to make sure we’ve got a good policy, a smart policy, that prevents these kinds of things from happening in the future.

3.3. Hesitation strategies The following examples reveal the hesitation strategy used to garner time to weigh the question and calculate an adequate answer. Hesitation emerges through the use of many strategies which can be moreover simultaneously present. For instance, in response to the challenge that the polls reveal an approval rate by Republican voters of only 7%, Obama maneuvers around the admission of his unpopularity with a hesitation strategy encoded in pauses, repairs (self corrections) like yeah no, I mean, in introductory phrases I understand, I mean, along with the subjectivisation strategy of epistemic verbs I think, and strategy of camouflage (actually). (10) Steve Kroft: They don’t like you much better. It’s only 7% approval rating. President Obama: Yeah, no, I understand. But I think that they like the ideas that we put forward. I mean, the interesting thing is the majority of Republi-

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cans actually think we should have a balanced approach to deficit reduction, including tax increases for the wealthy. The majority of Republicans do think that we should make investments in roads and bridges and improving our airports and investing in basic research and medical research.

Other examples of hesitation follow: (11) Chuck Todd: This is asking congress for a vote, an authorization of your strategy. What does this mean? President Obama: Well, I-I-I I’m confident that I have the authorization that I need to protect the America people. (12) Chuck Todd: Do you need to rotate-do you need to rotate some fresh ideas, some new people in here? President Obama: Well, I no, Actually, my folks are doing very well… (13) Chuck Todd: Was that bad intelligence or your misjudgment? President Obama: Keep – – keep – – keep in mind I wasn’t specifically referring to ISIL. I’ve said that, regionally, there were a whole series of organizations that were focused primarily locally. Weren’t focused on homeland, because I think a lot of us, when we think about terrorism, the model is Osama bin Laden and 9/11. And the point that I was – –

3.4. Evasion strategies Among the evasion strategies suggested by Partington (Partington 2003), we find examples in our corpus of the refusal to speculate: I’m not in the job of prognosticating on the economy; claiming that the question has been answered already: I wasn’t specifically referring to ISIL. I’ve said that, regionally there were a whole series of organizations that were focused primarily locally; stating the answer is well-known: there’s no secret to this. We also find several examples of response refusal, which Obama activates by rejecting or critiquing the premises or facts underlying the question. An example is: (14) Steve Kroft: I’m not saying this as fact, and hindsight is always 20-20. But there’s [a] general perception that the stimulus was not enough. That it really didn’t work. That… President Obama: Let me stop you there, Steve. First of all, there’s not a general perception that the stimulus didn’t work. You’ve got John McCain’s former economist and a whole series of prominent economists, who say that

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it created or saved three millions jobs and prevented us from going into a great depression. That works. So that’s not true…

3.5. A “cautious” rhetorical style However, rather than searching for quantitative evidence of the categories held by other scholars to characterize hedging in discourse, we decided to assume a qualitative perspective on the texts in order to identify discursive strategies specific to the rhetorical style of President Obama. In these press interviews, Obama is definitely cautious. This “cautious” style seems to be characterized by three salient interlinked strategies, heretofore unidentified as such in the literature,5 and which, for the purposes of this discussion, have been labeled as: • • •

Reformulating the interviewer’s question; Expanding the scope of the original question sequence by adding other questions/scenarios/problems; Referring to future events/consequences/verifications.

Here we report segments illustrating Obama’s use of these strategies. a) Reformulating the interviewer’s question Obama consistently reformulates the interviewer’s question, which permits him to avoid answering the original challenge and give lengthy responses to his own questions, as in segment (15): (15) Steve Kroft: And they hold you equally accountable with the Congress… President Obama: And the question next year is gonna be – – and this is how democracy’s supposed to work – – do they see a more compelling vision coming out from the other side? Do they think that cutting taxes further, including on the wealthy, cutting taxes on corporations, gutting regulations? Do we think that that is gonna be somehow more successful? Rolling back Wall Street reform? You know, rolling back clean air and clean water laws?

5. Although “reformulation” has been suggested by some authors (Fraser 1995; Partington 2003; Clayman 1992), their description of the strategy does not exactly coincide with that proposed here. Moreover, in Fraser’s 1995 analysis of hedging strategies in former President Bush’s responses, reformulation was linked to a “narrowing” rather than to an “extension” of the scope of the original question.

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b) Expanding the scope of the original question sequence by adding other questions/scenarios/problems Moreover, reformulation is performed by listing related issues which render complexity to the original question thereby shifting focus from failures to accomplishments, as in the following: (16) Steve Kroft: I mean, nobody, if you look at the poll numbers, nobody’s particularly happy with you… How do you explain it? You think it’s just the economy? President Obama: Absolutely, it is just the economy. I think, you know, if you ask people if we’ve done the right moves in a difficult situation around foreign policy. Have we gone after Al Qaeda? Have we ended the war in Iraq, as promised? Have we prepared for a reasonable transition in Afghanistan? Have we restored respect around the world?…

c) Referring to future events/consequences/verifications Even more significant is the fact that reformulation and expansion are often couched in future time constructions, as in the following examples: (17) Chuck Todd: Middle America is not feeling a boom President Obama: Absolutely and that shows that we’ve still got more work to do. (18) Steve Kroft: Tell me, what do you consider your major accomplishments?… President Obama: Well we’re not done yet. I’ve got five more years of stuff to do.

This strategy is particularly evident when Obama is obliged to maneuver out of the question regarding his unpopularity in the opinion polls: (19) Steve Kroft: I mean, nobody, if you look at the poll numbers, nobody’s particularly happy with you… How do you explain it? You think it’s just the economy? President Obama: But what I think is gonna be important, not just next year but over the next five years is the American people looking at the choices we face because we are at a crossroads.

With this maneuver, Obama manages to avoid response to the specific question by shifting attention from past actions and present popularity status to future scenarios. Even the use of the figurative expression we are at a crossroads encodes future time, so-to-speak, in that it signals decisions still to be made. Obviously, future scenarios escape judgment by the American electorate because they do not yet exist. Interestingly the segment reported in ex-

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ample (19) is immediately followed by another discourse segment (20) which also reactivates the other two identified strategies: Reformulating of the interviewer’s question and Expanding the scope of the original question sequence by adding other questions/scenarios/problems. In fact, he continues: (20) President Obama: …Do we want a society in which we have a tax code where everybody’s paying their fair share? Do we want a society in which we’re making sure that young people have the chance to get a great education with excellent teachers and are able to go to college without incurring huge debt? Do we want a society in which we’ve got the best science and the best research in the world, and the most innovative entrepreneurs? Or do we think that an economy in which you’re on your own and big corporations can write their own rules and we’re gutting regulations… Which one is more likely to help middle-class families and people trying to get in the middle class? And that’s the question that people are gonna be presented with.

Another example of this complex discursive movement, which combines reformulation, expansion and reference to the future, is found in the following segment: (21) Steve Kroft: Tell me, what do you consider your major accomplishments? If this is your last speech. What have you accomplished? President Obama: Well, we’re not done yet. I’ve got five more years of stuff to do. But not only saving this country from a great depression. Not only saving the auto industry. But putting in place a system in which we’re gonna start lowering health care costs and you’re never gonna go bankrupt because you get sick or somebody in your family gets sick. Making sure that we have reformed the financial system, so we never again have taxpayer-funded bailouts, and the system is more stable and secure. Making sure that we’ve got millions of kids out here who are able to go to college because we’ve expanded student loans and made college more affordable. Ending Don’t Ask, Don’t Tell. Decimating al Qaeda, including Bin Laden being taken off the field. Restoring America’s respect around the world. The issue here is not gonna be a list of accomplishments. …But, you know, but when it comes to the economy, we’ve got a lot more work to do. And we’re gonna keep on at it…

Here Obama does not respond precisely to the simple request of the interviewer to state his major accomplishment but uses the response time primarily to shift attention to the numerous tasks still to be accomplished, using an effective repetition sequence, which foregrounds -ing morphemes, thereby encoding activity in progress: not only saving…, making sure that…, ending…, decimating…, restoring… He also reformulates the

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question/problem: The issue here is not gonna be a list of accomplishments and refers to the future And we’re gonna keep on at it. 4. Conclusions This study attempted to describe the use of hedging strategies in spoken political discourse through an analysis of televised interviews of the US President Barack Obama. A close observation of the interview transcripts revealed the presence of numerous lexico-grammatical devices typically used in English discourse to perform the function of hedging. Hedging is defined as a rhetorical device serving to attenuate the illocutionary force of statements. By means of hedging strategies, speakers signal their “maybe” perspective, so-to-speak, which helps them to avoid taking complete responsibility for their affirmations. Thus, hedging can be considered a metalinguistic operation whereby speakers distance themselves from their own discourse and simultaneously convey the indeterminate status of the truth conditions implied in their utterances. The strategy is particularly salient in the genre of political interviews, especially when discussing highly-charged controversial social issues. As exemplified in the segments reported above, interviewers attempt to “nail down” responses and force interviewees into a “commitment” mode. Their questioning moves are therefore “face-threatening”, since they place the interviewee in a vulnerable position. When interviewers aggressively aim for straightforward, unambiguous and fully-committed answers to delicate questions, interviewees resort to face-saving discourse strategies featuring complex hedging devices. The study identified the specific hedging strategies most often activated by President Obama in these face-threatening dialogues. The President’s rhetorical style seems to feature three interrelated discourse moves: reformulating the interviewer’s question; expanding the scope of the original question sequence by adding other questions/scenarios/problems; referring to future events/consequences/verifications. It was suggested that Obama manages to avoid recognition of his apparent failures and to mitigate criticism of his presidential choices by shifting attention to the future as the place of verification of his success as President of the United States. We can suggest therefore that hedging is an effective discourse strategy activated by statesmen in powerful political positions, as exemplified in the

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presidential interviews of the present study, in order to maneuver between truth and falsehood and protect their personal and institutional status. Bibliography Alonso, Alonso, Mariñas 2012 = R. Alonso, M. Alonso, L. Mariñas, Hedging: An exploratory study of pragmatic transfer in nonnative English readers’ rhetorical preferences, in «Ibérica», 23 (2012), pp. 47-64 Brown, Levinson 1978 = P. Brown, S. Levinson, Politeness: Some Universals in Language Usage, Cambridge 1978 Clayman 1992 = S. Clayman, Footing in the achievement of neutrality: the case of news discourse, in Talk at Work, ed. by P. Drew, J. Heritage, Cambridge 1992, pp. 163-198 Clemen 1997 = G. Clemen, The concept of hedging: Origins, approaches and definitions, in Hedging and Discourse, ed. by H. Schroeder, R. Markkanen, Berlin 1997, pp. 80-97 Fraser 2010 = B. Fraser, Pragmatic competence: the case of hedging, in New Approaches to Hedging, ed. by G. Kaltenboeck, W. Mihatsch, S. Schneider, Bingley (UK) 2010, pp. 15-34 Hubler 1983 = A. Hubler, Understatements and Hedges, Amsterdam 1983 Hyland 1998 = K. Hyland, Hedging in Scientific Research, Amsterdam 1998 Hyland, Bondi 2006 = K. Hyland, M. Bondi, Academic Discourse across Disciplines, Bern 2006 Lakoff 1972 = G. Lakoff, Hedges: A study in meaning criteria and the logic of fuzzy concepts, in «CLS», 8 (1972), pp. 183-228 Martín 2003 = P. Martín Butragueño, The pragmatic rhetorical strategy of hedging in academic writing, in «VIAL-Vigo International Journal of Applied Linguistics», 0 (2003), pp. 57-72 Partington 2003 = A. Partington, The Linguistics of Political Argument: The Spindoctor and the Wolf-pack at the White House, London 2003 Ponterotto 2014 = D. Ponterotto, The risks of uncertainty: Hedging strategies in rape trial discourse, in «Language and Dialogue», IV/1 (2014), pp. 93111 Prince, Frader, Bosk 1982 = E. Prince, J. Frader, C. Bosk, On hedging in physician-physician discourse, in Linguistics and the Professions. Proceedings of the Second Annual Delaware Symposium on Language Studies, ed. by R. Di Pietro, Norwood 1982, pp. 83-97

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Salager-Meyer 1994 = F. Salager-Meyer, Hedges and textual communicative function in medical English written discourse, in «English for Specific Purposes», 13 (1994), pp. 149-170 Salager-Meyer 1995 = F. Salager-Meyer, “I think that perhaps you should”: A study of hedges in written scientific discourse, in «The Journal of TESOL France», II/2 (1995), pp. 127-143 Schroeder, Zimmer 1997 = H. Schroeder, D. Zimmer, Hedging research in pragmatics; A bibliographical research guide to hedging, in Hedging and discourse. Approaches to the analysis of a pragmatic phenomenon in academic texts, ed. by R. Markkanen, H. Schroeder, Berlin 1997, pp. 249-271 Taweel et al. 2011 = A. Taweel, W. Saidat, H. Rafayah, A. Saidat, Hedging in Political Discourse, in «The Linguistics Journal», V/1 (2011), pp. 170-196

Franco Salvatori e Alessandro Ricci* Cartografia e mistificazione della realtà geografica. La “rappresentazione addomesticata” come fattore d’identità

1. La carta come fattore falsificatore e mistificatorio La cartografia è di per sé falsa. Anzi, meglio: è bugiarda. La carta geografica, cioè, dice bugie, racconta storie non vere, false o falsificate (cfr. Boria 2007). Non tanto perché le narrazioni cartografiche non siano vere, ma perché nella “decostruzione cartografica” (Harley 1989) si rileva come siano detentrici di messaggi forti e dunque di “verità parziali”, nei loro silenzi (Harley 1988) e nelle evidenze dei segni rappresentati. Per sua natura ogni carta ha questa caratteristica, e si tratta di una proprietà che nessun avanzamento tecnologico, o di tecnica rappresentativa, potrà effettivamente mai superare. In questo contributo non si parlerà dei falsi in cartografia, che pure esistono e sono esistiti, ma del linguaggio mistificatorio della carta geografica, che è argomento a nostro parere più interessante ancora. Di esempi di falsi cartografici, di rilevante importanza, ce ne sono in effetti molteplici: basti pensare alla Mappa di Vinland (Seaver 2004), che avrebbe riprodotto, prima di Colombo, le coste americane (cfr. Skelton, Marston, Painter 1965). La veridicità di questa carta è stata messa in discussione alle sue basi dall’analisi chimica dei materiali utilizzati. Dagli studi è emerso infatti che conteneva l’anastasio, utilizzato solo dagli anni Venti del Novecento.1 * Sebbene nato da una riflessione comune, il contributo si deve per i paragrafi 1 e 4 a Franco Salvatori e per i paragrafi 2 e 3 ad Alessandro Ricci. 1. A questo proposito è interessante leggere come venne confutata tutta l’impalcatura sulla quale reggeva la precedente asserzione: «the presence of a yellow line containing anatase, closely associated with a stable carbon ink, indicates that the VM is a modern forgery» (Brown, Clark 2002: 3661).

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Un altro esempio è quello del Papiro di Artemidoro, che risalirebbe tra il I secolo a.C. e il I d.C. e che raffigurerebbe una parte della Spagna. Il papiro fu comprato nel 2004 dalla Compagnia di San Paolo di Torino, e valutazioni sulla sua autenticità furono fatte da Salvatore Settis (cfr. Settis 2008; Settis, Gallazzi 2006) e smentite poi da Luciano Canfora (Canfora 2008) su molti punti che in questa sede non è il caso di affrontare ma che hanno messo fortemente in discussione la sua autenticità. Una mappa che avrebbe potuto, tra le altre, “riscrivere” la storia è quella cinese del 1763 basata su una del 1418, che sarebbe stata utilizzata dal viaggiatore cinese Zheng He quasi 80 anni prima di Colombo (Dreyer 2007): anche in questo caso, il tentativo di attribuzione di una scoperta così rivoluzionaria è andato fallito per numerose incongruenze messe in luce da studiosi qualificati. Tra questi, Robert Finlay (Finlay 2004) liquidò gli studi di Menzies (Menzies 2003)2 in proposito dicendo – semplicemente – che andavano riscritti.3 Si provi rapidamente, ora, a proiettarsi nella realtà di qualche anno fa e a pensare ai muri della classe della propria scuola media o superiore: tutti ci siamo fissati (chi più, chi meno…) sulle carte che riproducevano porzioni del globo terracqueo, accettando quelle raffigurazioni come veritiere. Tutti noi abbiamo sempre ritenuto quelle carte credibili. Ma ci sbagliavamo, come già la cartografia critica ha bene messo in luce (cfr. Crampton, Krygier 2006). Il problema, in qualità di letterato più che di geografo, lo aveva posto in qualche modo anche Borges, che aveva colto il vero dilemma cartografico: vale a dire che è impossibile riprodurre una realtà con scala 1:1. In altre parole, non si possono rappresentare tutti gli elementi che compongono la Terra e che su di essa sono presenti. Bisogna, cioè, forzatamente operare una scelta su cosa rappresentare e cosa no. Tale scelta condizionerà l’occhio dell’osservatore, che così tenderà – grazie al grado di scientificità assunto ormai dalla rappresentazione cartografica – ad attribuirla come totalmente vera. Ogni carta geografica risponde, in maniera diversa, ai suoi 2. Affermando che «the fundamental assumption of the book – that Zhu Di dispatched the Ming fleets because he had a “grand plan”, a vision of charting the world and creating a maritime empire spanning the oceans (pp. 19-43) – is simply asserted by Menzies without a shred of proof» (Finlay 2004: 241). 3. «It is clear, however, that textbooks on that history need not be rewritten. The reasoning of 1421 is inexorably circular, its evidence spurious, its research derisory, its borrowings unacknowledged, its citations slipshod, and its assertions preposterous» (Finlay 2004: 242).

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tre requisiti fondamentali, che sono: l’approssimazione, la riduzione e la simbolizzazione (Boria 2007). La scelta del cartografo deve partire da queste tre caratteristiche: riguardo al tipo di proiezione da offrire, alla scala della rappresentazione e ai segni e i simboli da inserirvi (colore, morfologie, reti viarie ecc.). Tutto ciò viene concepito sulla base delle priorità del cartografo e che concernono il vero e proprio “progetto cartografico”, sia esso politico (Raffestin 1980; Pagnini 1985; Pelletier 2001), sociale o amministrativo (Valerio 1987). Le preferenze volute e impresse sulla carta avranno poi una diretta influenza sulla percezione del lettore, poiché nulla in cartografia è casuale. Ogni cartografo, perciò, di fronte all’opera che dovrà comporre, si pone un primissimo problema: cosa debbo rappresentare? E tale questione risponde a un’esigenza primaria: quali obiettivi mi sono prefissato per raggiungere tale obiettivo? Questo è un punto cruciale della cartografia, che la pone in diretto contatto con le dinamiche di potere, di gestione, ma anche di persuasione e di “mistificazione della realtà”, per l’appunto (Black 1997; Harley 2001; Woodward 1992). Intendiamo qui riportarvi alcuni esempi a supporto di queste riflessioni introduttive e che meglio ci riporteranno alla tesi di fondo, con la quale questo contributo è stato aperto: la carta geografica è sempre bugiarda. 2. Carte per l’“addomesticamento” della realtà Si rifletta sull’utilizzo del colore nelle carte politiche: esso non è mai impiegato casualmente. Nelle rappresentazioni imperialistiche inglesi, così come in epoca ottocentesca o d’inizio Novecento, i territori d’appartenenza coloniale venivano raffigurati con lo stesso colore della madrepatria, in un chiarissimo messaggio di natura geografico-politica, di immediata lettura per chi guardava quelle carte (Harley 2001). Si pensi poi alla scala, ad esempio: una leggera differenza fornisce una prospettiva totalmente diversa. L’Italia vista a scala europea ci mostrerà il nostro paese come parte di un contesto politico e socio-culturale molto più vasto, mentre a una scala un poco più ristretta l’attenzione si focalizzerà sul singolo Stato, “annullando” tutti gli altri (Boria 2007: 19). Anche la centratura di un planisfero, inoltre, ci dice molto della sua paternità e dell’attribuzione regionale o della falsificazione della visione che si vuole fornire: quelli concepiti e prodotti in Giappone, ad esempio (fig. 1),

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Fig. 1. Shintei - chikyu bankoku hozu, Anonimo, Kaei 6, 1853 (fonte: http://assemblymaneph.blogspot.it/2009/07/japanese-historical-world-maps.html).

non saranno centrati sul Nord Europa come nella proiezione di Mercatore, bensì sull’Asia cinese. Un caso ancor più evidente in tal senso è quello della upside down map (fig. 2): la realtà mondiale sembra qui rovesciata. “Sembra” rovesciata. Per un australiano, invece, il mondo è sostanzialmente visto in quei termini. A noi (europei) appare rovesciata, tanto da chiamarla upside down, perché siamo abituati a pensare il mondo con l’occhio di Mercatore, che aveva concepito la sua proiezione nel Cinquecento, all’epoca dell’apertura europea agli spazi globali, della conoscenza degli europei del mondo e della conseguente affermazione della cartografia prodotta nel vecchio continente. Il mondo, cioè, era eurocentrico (Hardt, Negri 2002: 85). E guarda caso, Mercatore concepì il suo planisfero, che noi riteniamo tra virgolette veritiero o più oggettivo, alla fine del Cinquecento, nei Paesi Bassi. La realtà mondiale, però, a pensarci bene, è profondamente egocentrica, proprio in quanto sferica: ogni punto sul globo, cioè, può essere considerato – senza temere smentite di sorta – il centro del mondo stesso. La carta di Mercatore pone al centro l’Europa. Ma ha anche un’altra caratteristica: distorce le reali dimensioni dei continenti, allungandoli ai poli e restringendoli nelle fasce equatoriali. Fu una scelta, questa, necessaria e fatta a vantaggio degli europei, che stabilivano così ancor di più la propria centralità. Tale visione si è stratificata nel corso dei secoli, anche se ci fu

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chi mise in discussione tutto ciò, ritenendo di dover dare preminenza alle reali dimensioni continentali più che alla loro forma. Arno Peters (Peters 1990), uno storico che negli anni Settanta, sull’onda lunga del processo di decolonizzazione, di affioramento degli Stati indipendenti del Terzo mondo, dell’affermazione stessa dei “Paesi non allineati” nel contesto della Guerra fredda, aveva elaborato un differente modello di rappresentazione planisferica, che non seguiva più le regole imposte da Mercatore ma che ribaltava quegli assunti. Nella proiezione che ne nacque e che rispondeva in modo differente al grande dilemma cartografico (riportare cioè su un piano la realtà tridimensionale), è possibile notare il tipo di impatto che ci offre questa carta, totalmente differente rispetto alle precedenti convenzioni: essa infatti fa emergere come centrali, nelle dinamiche di relazioni internazionali, in tutta la loro entità e potenza dimensionale, l’Africa e il Sud America, prima “ridimensionate” letteralmente dalla proiezione di Mercatore. Non è, questo, un messaggio politico fortissimo che, volendo aggiustare una “falsificazione”, tende a offrire un’ulteriore mistificazione, un’altra verità – anch’essa, ahinoi, parziale?

Fig. 2. Upside down map, Hema Maps Pty Ltd., 2003 (fonte: http://www.deceptology. com/2010/04/upside-down-world-map-shows-north-is-up.html).

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Entrambe le proiezioni, infatti, riportano la realtà mondiale da prospettive scientifiche diverse, ma ugualmente valide. Sono perciò tutte e due allo stesso tempo vere e false a metà, a seconda dei punti di vista che si assumono: perché ogni mappa, citando John Brian Harley (Harley 2001), non riproduce semplicemente una realtà topografica, ma la interpreta anche. 3. Alcune distorsioni per le identità nazionali La carta geografica, dunque, fornisce uno sguardo sul mondo, una sua idea e interpretazione, racchiudendo in sé un messaggio, talvolta simbolico, non solo per i segni in essa inseriti e per la proiezione adottata, come abbiamo visto, ma anche grazie anche alla posizione, al luogo e alla fase storica in cui viene concepita.

Fig. 3. Jan Van Doetecum, Leo Belgicus, 1598, Amsterdam, Rijksmuseum Library.

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Così valeva per il Leo Belgicus (Tooley 1963; cfr. fig. 3), che nei Paesi Bassi del Cinque e Seicento venne preso a simbolo dell’indipendenza olandese e di alcuni momenti topici della storia nazionale (Ehrenberg 2006). Si tratta di una rappresentazione cartografica zoomorfica molto diffusa (Leti 1690), soprattutto all’interno dei pamphlet storici che negli ottant’anni della guerra anti-spagnola avevano avuto larga diffusione tra la popolazione. Come sinteticamente hanno affermato Kagan e Schmidt, yet many other specimens demonstrate a provincial pride and local expression, in cartographic terms, of politics and place. More forthrightly, the multiple versions of the famous Leo Belgicus maps announced the political arrival of the Dutch Republic in the form of a heraldic lion superimposed on the outlines of the seven now-liberated provinces of the north. (Kagan, Schmidt 2007: 674)

Questo tipo di carta riproduce la realtà geografico-politica dei Paesi Bassi con le sembianze di un leone: l’obiettivo prioritario di molte di queste carte era far emergere appieno le istanze indipendentistiche contro il potere imperiale spagnolo, contribuendo così a costruire l’identità nazionale olandese come autonoma e indipendente dall’impero di Carlo V e poi Filippo II. L’idea di distorcere la realtà geografica dei Paesi Bassi fino a farla coincidere con un enorme leone derivava da due semplici considerazioni: quasi tutti gli stemmi araldici delle stesse province olandesi raffiguravano leoni e, poi, vi era un forte richiamo al coraggio di quest’animale (van der Heijden 2006).4 Ci si rifece anche a fonti inattaccabili per legittimare questa visione: da Guicciardini (Guicciardini 1567), che parlava nella sua Descrittione di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania Inferiore dell’assenza di timore del leone, che è «il più forte tra tutte le belve»,5 ai Commentarii di Giulio Cesare, nei quali si affermava che i Belgi sono i più forti di tutti. E poi allo stesso Carlo V, che aveva pensato di nominare quelle regioni come «il regno dei leoni». L’idea di raffigurare i Paesi Bassi nella forma di un leone nacque da Michael von Atzing detto “l’austriaco” (Michaele Aitsingero Austriaco) 4. Riprendendo von Aitzing: «io in realtà considero la sentenza di quel sapientissimo Salomone che riferisce che il leone non si è imbattuto nel timore di nessuno, ma sia il più forte delle belve; inoltre dai commentari di Giulio Cesare constato che i Belgi siano i più forti di tutti: non senza motivo mi sembrò opportuno applicare al Belgio la forma del leone» (von Aitzing 1583: lectorem prefatio, trad. mia). 5. Guicciardini 1547 riprende i Commentarii di Giulio Cesare, nei quali si afferma che i Belgi sono i più forti di tutti; ed infine riporta le dichiarazioni di Carlo V, che aveva pensato di nominare quelle regioni come «il regno dei leoni».

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alla fine del sedicesimo secolo. Originario di Obereitzing, nato nel 1530, von Aitzing fu astronomo, geografo e studioso delle lingue e della matematica, e dopo gli studi universitari affrontati a Vienna, per circa quarant’anni conobbe da vicino, viaggiandovi, la realtà dei Paesi Bassi e del Nord della Francia. Nel 1583 compose un’opera, oggi reperibile presso l’Università di Amsterdam, di oltre 520 pagine, nella quale la storia olandese dal 1509 al 1583 è raccontata non solo attraverso parole e tabelle che ne descrivono i momenti salienti, ma anche tramite incisioni assai suggestive, che ben compendiano la parte scritta. Nella ristampa aggiornata, di due anni successiva e di cui una copia è presente nell’archivio dello stesso Ateneo, compare la mappa con il Leo Belgicus.6 Per quale motivo von Aitzing avviò tale particolare e assai suggestiva raffigurazione, in un momento, come quello del 1583, nel quale si erano già mossi i primi ma fondamentali passi verso quell’indipendenza che le Province Unite raggiungeranno definitivamente con la Pace di Westfalia? Perché, pur mantenendo costante il riferimento al dominio spagnolo e all’imperatore, sommamente salutato nell’introduzione («cum privilegio caesareo»), nel 1579 le sette Province del Nord si erano dichiarate indipendenti, costituendo un primo abbozzo di Stato che vide poi l’ufficializzazione. Ma l’idea dell’assimilazione del leone alla configurazione olandese, molto più banalmente la si deve alla quantità di leoni presenti negli stemmi araldici delle province dei Paesi Bassi: nella mappa riportata da von Aitzing del 1585 si contano 17 Province e, tra queste, 13 con stemmi sui quali sono raffigurati leoni. Nelle intenzioni dell’autore, come esplicitato nell’introduzione alla mappa presente in alto a destra, vi è la neutralità dell’analisi storico-geografica, al fine di dare al lettore un quanto più oggettivo, puntuale e chiaro excursus storico delle diciassette province dei Paesi Bassi,7 dal 1559 al 1583 (nelle edizioni successive, sarà poi aggiornato). 6. Nell’immagine riportata da van der Heijden (van der Heijden 2006) pare esservi un refuso, poiché alla data della mia consultazione personale – agosto 2013 –, nella copia del 1583 da lui citata non è presente alcuna mappa, mentre lo è in quella del 1585. Si tratterebbe o di un trafugamento avvenuto in questi anni recenti (cioè dal 2006 al 2013), oppure, più probabilmente, di un errore dell’autore: quella che egli cita come la mappa del 1583 sembrerebbe in effetti essere – da alcuni particolari difficilmente equivocabili, riscontrabili evidentemente dal vivo – proprio quella del 1585, e non del 1583. 7. «Prometto che io non sarò un altro [che cattolico] mai, per grazia di Dio, tuttavia per questo i Cattolici non si aspettino che io in questo libro voglia violare gli uomini di una religione contraria (con quelli abbastanza accadde da parte dei padri del concilio di Trento,

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Il Leo Belgicus rappresentava dunque il potere olandese nascente, che in taluni casi rivolge lo sguardo aggressivo, feroce, contro la Spagna imperiale, in talaltri mostra la coda (e qui il riferimento è molto meno raffinato, se ci si riflette bene) all’Inghilterra, rivale nel Mare del Nord o rappresenta un momento di particolare prosperità a seguito di una tregua,8 come fu in quella dei dodici anni (Bestant voor 12 Jaer; vedi Clerici 2009), proprio come è riportato nella mappa del Leo Belgicus che la celebra. È una rappresentazione non solo geografica stricto sensu, ma falsificata, in quanto tra gli interstizi lasciati aperti dalle mappe sono stati inseriti elementi simbolici di enorme portata, tali da avere una diretta influenza su chi leggeva la carta. Dunque la falsificazione in questo caso è morfologica e metaforica, perché si raffigura una realtà con le sembianze di un leone. Lo stesso obiettivo, cioè di fornire un messaggio indipendentistico, può essere raggiunto anche con altri mezzi, sempre cartografici. Ad esempio, dando una posizione di estremo rilievo a una carta fortemente partigiana, attribuibile cioè a una parte in conflitto. È questo il caso, ben più attuale, dell’Eritrea dei giorni nostri (cfr. Ricci 2014). Nel Museo Regionale di Massawa, la seconda città eritrea, teatro di scontri durissimi nel 1990-1991 tra le forze etiopiche e quelle eritree (Iyob 1995), sono raccolti i simboli della nazionalità eritrea. Tre carri armati sono posti all’esterno del Museo stesso, a ricordare le battaglie combattute nella città. Poi, nelle prime sale, sono raccolti tutti i simboli dell’identità nazionale eritrea, a voler sottolineare la distinzione culturale con quella etiopica. Si passa perciò dai costumi tipici locali alle foto d’epoca della gente, dai reperti archeologici alle particolarità floreali e faunistiche, con il solo obiettivo di voler sottolineare l’appartenenza unica – di natura sia etnica sia storica – del popolo eritreo. né accada che io sia teologo della mia professione). Il lettore felice sappia che io intraprendo una descrizione del tutto topografia e storica del leone belgico nello stesso libro e in quel modo la eseguo, al quale lettore nella introduzione della carta del Leone, ho promesso che continuerò» (von Aitzing 1583: lectorem prefatio, trad. mia). 8. «Così quietando l’armi, riposeranno gli animi di tutti. E questa pace universale, essendo particolarmente in acconcio de’ Paesi bassi, potranno essi alleggieriti hormai dal peso di tante calamità, attendere a gli honesti, e soliti lor mistieri del mare, del traffico, e del campo. Et in questo numero di beni, si può aspettare, che quel popolo Holandese inspirato da Dio, e forse tra se per varie cagioni discordante, che suole essere il natural tarlo delle Repubbliche, spogliandosi a poco a poco con la pace, della fierezza militare, debba ritornare a’ i primi suoi fortunati principij» (Costa 1610: 44-45, cit. in Clerici 2009: 210-211).

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Fig. 4. Carta dell’«Operation Inner Massawa», Museo Regionale di Massawa, Eritrea

Nell’ultimo padiglione, infine, sono esposti gli emblemi della guerra d’indipendenza: armi, divise, poster propagandistici e di ricordo degli eroi caduti e immagini di donne, che ebbero un ruolo determinante nella vittoria finale. Tra le foto che ricordano i drammatici passaggi delle battaglie campeggiano, alla fine, un paio di carte militari, che plasticamente riproducono le battaglie focali dell’indipendenza contro l’Etiopia. Proprio all’ingresso del Museo, inoltre, come prima immagine che accoglie i visitatori, è posta una carta militare dell’operazione Fenkil (fig. 4) che portò gli eritrei alla presa di Massawa e che contribuì alla vittoria finale. Quello fu un momento cruciale per l’indipendenza finale. Con quell’operazione si riuscì a prendere definiti-

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vamente la strategica città costiera e, con essa, il suo porto, innescando la reazione aerea delle forze etiopiche, che lo bombardarono (Gessini 2011: 29). L’indipendenza fu ottenuta militarmente dunque, dopo le battaglie di Massawa, con la presa di Asmara, grazie principalmente all’azione dell’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF), che – dopo essere stato negli anni Ottanta «di gran lunga il fronte più attivo in Eritrea, avendo condotto le battaglie più dure e sanguinose» (Gessini 2011: 31-32) – portò a capo del governo uno dei suoi leader più influenti e attivi ai tempi della guerra, Isaias Afewerki (Iyob 1995: 140). Il fronte di liberazione popolare assunse poi, nel 1994, la dicitura di Peoples’s Front for Democracy and Justice (PFDJ). Almeno durante il periodo del governo provvisorio, tra il 1991 e il 1993, le relazioni tra Eritrea ed Etiopia rimasero buone: lo stesso porto di Massawa, che fu al centro di fondamentali battaglie tra i due paesi, fu dichiarato libero, anche al transito di beni destinati all’Etiopia, tanto che si sottolinea come l’«Ethiopia’s need for access to sea, which had been a major justification for its control over Eritrea, was met without recourse to violence» (Iyob 1995: 137). L’identità eritrea, come quella di molte altre nazioni, dunque, nasce anzitutto dal riconoscimento del proprio ambito culturale, etnico e anche folklorico, che deve mantenersi ben distinto, nei suoi tratti essenziali, da quello altrui, soprattutto quando si tratta di vecchi o attuali nemici. È un’identità che permea anche attraverso le carte geografiche, che rappresentano il simbolo più marcato ed evidente delle conquiste territoriali. Alla conquista di posizioni nevralgiche si associa quindi l’acquisizione di potere militare e poi politico: perché, come afferma Monique Pelletier, «le carte raccontano anche le vittorie e i progressi territoriali; allora diventano documenti di propaganda la cui diffusione è caldamente incoraggiata» (Pelletier 2001: 93). Ora la domanda è: è una carta falsa, questa? Non proprio. Qui è il messaggio a essere mistificatorio, del tutto parziale (nel senso più profondo del termine) e serve a rinvigorire l’idea nazionale: non a caso il suo posizionamento nel Museo, insieme alle altre – all’ingresso e alla fine dello stesso – è di primo piano, molto più rilevante rispetto a tutti gli altri simboli d’identità nazionale lì esposti. Il valore metaforico e mistificatorio dato alle carte, cioè, è altissimo. Quanto affermava la Pelletier sembra poter applicarsi, in modo perfettamente coincidente, al caso eritreo, proprio perché da strumenti per la strategia militare e per «i progressi territoriali» le carte hanno acquisito uno status di «documenti di propaganda», perciò non oggettivi, necessari

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alla «diffusione» dell’identità nazionale. La carta, un tempo serviva per gli avanzamenti bellici e l’attuazione delle strategie militari, oggi assolve a un’ulteriore funzione: quella che proprio in apertura è stata definita «simbolica», e che pure – forse – detiene una forza pari o addirittura superiore a quella originaria, tanto che la sua diffusione propagandistica, riprendendo la citazione della Pelletier, ne è «caldamente incoraggiata». 4. Conclusioni Il caso del Leo Belgicus e quello eritreo ci mostrano una distorsione cartografica della realtà in chiave fortemente nazionalistica. Sono narrazioni false in quanto parziali, soggettive, nazionalistiche. Ma non può essere altrimenti, perché si deve sempre operare una scelta. Per questo le carte devono essere lette criticamente, come fece Peters adottando una sua proiezione contro quella di Mercatore. Torniamo ora rapidamente a Mercatore, per provare a tracciare le fila del discorso fatto e avviare delle riflessioni conclusive. Ritorniamo di colpo all’immagine convenzionale del mondo che tutti abbiamo, e di cui abbiamo parlato prima, con l’Europa al centro. Quell’idea del mondo alterata, eurocentrica, che ha un nucleo centrale e una periferia, ha colpito anche sommi personaggi. Si provi a ricordare il primo discorso pubblico, appena eletto Papa, di Bergoglio. Egli disse, come prime parole: «Fratelli e sorelle, buonasera! Voi sapete che dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui», cioè nel centro del mondo cristiano-cattolico, aggiungiamo noi. Ecco. In quella «fine del mondo», rappresentata dall’Argentina e in quel «siamo qui», preceduto dall’avversativo «ma», si ritrova tutta la “bugia” del modello cartografico eurocentrico impostosi nel corso della modernità, che ha stabilito delle periferie e dei centri e che pure, ora lo sappiamo, è profondamente distorto, non veritiero, quindi falso, in quanto il mondo e la sua rappresentazione sono sempre “egocentrici”. La cartografia sembrerebbe essere un po’ come la realtà raccontata dal film Rashomon del 1950, in cui uno stesso fatto di cronaca – un brigante che uccide un samurai e ne stupra la moglie – viene raccontato da quattro voci diverse. Tre di esse sono coinvolte in prima persona nella vicenda e per questo raccontano storie false o solo parzialmente vere: nessuna di esse dice la

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verità, omettendo particolari e deformando i fatti reali. Sarà il quarto personaggio, un narratore esterno, a fornire la versione più attendibile della storia, quella più oggettiva, proprio in quanto meno coinvolto. Il film fa emergere le differenti e molteplici interpretazioni della verità e il rischio che sfocino poi nel relativismo più deleterio. Perché si tratta di interpretazioni, di visioni soggettive (che pongono la propria visione al centro, sono dunque “egocentriche”, per l’appunto) e coinvolte appieno nella vicenda. Ed esattamente come in cartografia, esse contribuiscono a mistificare, a falsificare la realtà. Attingiamo ancora da un altro ambito, quello dell’immensa opera shakespeariana, senza con ciò voler allontanarci troppo o addentarci in altri contesti. La carta, in quelli che Harley ha definito i «silenzi» (Harley 1988), nelle sue omissioni o nelle forzature interpretative, sarebbe come il linguaggio utilizzato da Iago nell’Otello. Questi, infatti, utilizzando subdolamente e attentamente le parole, la comunicazione verbale, fornisce una visione del tutto falsata della realtà pur partendo da dati oggettivi, per conseguire i propri fini. L’utilizzo distorto del linguaggio usato da Iago di fatto condurrà alla tragedia finale. In cartografia avviene lo stesso, poiché ogni cartografo persegue un progetto e utilizza i segni a proprio piacimento, in quella che potremmo definire la “tragedia cartografica”. Questa deriva proprio dalla soggettività interpretativa, dalla parzialità del messaggio lanciato, dalla falsità che è propria di ogni lessico cartografico. Ogni carta geografica, dunque, è bugiarda. Ogni rappresentazione cartografica è uno scorcio sul mondo che contribuisce alla cultura collettiva e alla conoscenza di esso. Dallo sguardo che avevamo da bambini, sulle carte sui muri della classe che credevamo vere, oggettive, però, la visione critica da elaborare è essenziale e necessaria proprio per non cadere nella tragedia. In Otello essa è innescata dall’incapacità di leggere il linguaggio mutevole e mistificatorio di Iago. Per quanto ci riguarda, saper leggere e interpretare i segni rappresentazione del mondo, è indispensabile per evitare di sprofondare nella “tragedia geografica”. Bibliografia Black 1997 = J. Black, Maps and Politics, Chicago 1997 Brown, Clark 2002 = K.L. Brown, R.J.H. Clark, Analysis of Pigmentary Materials on the Vinland Map and Tartar Relation by Raman Microprobe Spectroscopy, in «Analytical Chemistry», 74 (2002), pp. 3658-3661

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Canfora 2008 = L. Canfora, Il papiro di Artemidoro, Bari-Roma 2008 Clerici 2009 = A. Clerici, Ragion di Stato e politica internazionale. Guido Bentivoglio e altri interpreti italiani della Tregua dei Dodici Anni (1609), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2009), pp. 187-223 Crampton, Krygier 2006 = J.W. Crampton, J. Krygier, An Introduction to Critical Cartography, in «ACME: An International E-Journal for Critical Geographies», IV/1 (2006), pp. 11-33 Dreyer 2007 = E.L. Dreyer, Zheng He: China and the oceans in the early Ming dynasty. 1405-1433, New York 2007 Ehrenberg 2006 = R.E. Ehrenberg, Mapping of the World. An Illustrated History of Cartography, Washington 2006 Finlay 2004 = R. Finlay, How Not to (Re)Write World History: Gavin Menzies and the Chinese Discovery of America, in «Journal of World History», XV/2 (2004), pp. 229-242 Guicciardini 1567 = Ludovico Guicciardini, Descrittione di m. Lodouico Guicciardini patritio fiorentino, di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania inferiore: con piu carte di geographia del paese, & col ritratto naturale di piu terre principali: con amplissimo indice di tutte le cose piu memorabili, Anversa 1567 Hardt, Negri 2000 = M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (MA) 2000 (trad. it. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano 2002) Harley 1988 = J.B. Harley, Silences and secrecy: The hidden agenda of cartography in early Modern Europe, in «Imago Mundi», 40 (1988), pp. 57-76 Harley 1989 = J.B. Harley, Deconstructing the map, in «Cartographica», 26 (1989), pp. 1-20 Harley 2001 = J.B. Harley, The New Nature of Maps. Essays in the History of Cartography, Baltimore (MD) 2001 Iyob 1995 = R. Iyob, The Eritrean Struggle for Independence. Domination, resistance, nationalism 1941-1993, Cambridge (MA) 1995 Kagan, Schmidt 2007 = R.L. Kagan, B. Schmidt, Maps and the Early Modern State: Official Cartography, in The History of Cartography, a cura di E. Woodward, vol. III, Cartography in the European Renaissance, Chicago 2007 Leti 1690 = Gregorio Leti, Teatro belgico. O vero ritratti historici, chronologici, politici e geografici delle sette provincie unite, Amsterdam 1690 Menzies 2003 = G. Menzies, 1421: The Year China Discovered America, New York 2003 Pagnini 1985 = M.P. Pagnini, Geografia per il principe. Teoria e misura dello spazio geografico, Milano 1985 Pellettier 2001 = M. Pelletier, Carte e potere, in Segni e sogni della Terra. Il disegno del mondo dal mito di Atlante alla geografia delle reti, Novara 2001 Peters 1990 = A. Peters, Peters Atlas of the World, New York 1990

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Raffestin 1980 = C. Raffestin, Pour une geographie du pouvoir, Paris 1980 Ricci 2014 = A. Ricci, A historical and war cartography for national identity in Eritrea, in «Journal of Research and Didactics in Geography (J-READING)», I/3 (2014), pp. 65-69 Seaver 2004 = K. Seaver, Maps, Myths, and Men. The Story of the Vinland Map, Stanford 2004 Settis 2008 = S. Settis, Artemidoro, ecco perché quel papiro è autentico, in «La Repubblica», 13 marzo 2008 Settis, Gallazzi 2006 = Il papiro di Artemidoro: voci e sguardi dall’Egitto grecoromano, a cura di S. Settis, C. Gallazzi, Milano 2006 Skelton, Marston, Painter 1965 = R.A. Skelton, T.E. Marston, G.D. Painter, The Vinland Map and the Tartar Relation, New Haven 1965 Tooley 1963 = R.V. Tooley, Leo Belgicus. An Illustrated List, London 1963 Valerio 1987 = V. Valerio, Dalla cartografia di corte alla cartografia dei militari: aspetti culturali, tecnici e istituzionali, in Cartografia e istituzioni in età moderna, Genova 1987 van der Heijden 2006 = H.A.M. van der Heijden, Leo Belgicus. An Illustrated and Annotated Carto-bibliography, Alphen aan den Rijn 2006 von Aitzing 1583 = Michael von Aitzinger, De Leone Belgico, eiusque topographica atque historica descriptione liber, Coloniae Ubiorum 1583 Woodward 1992 = D. Woodward, The Power of Maps, New York 1992

Patrizia Serafin «…ne qua subaerato mendosum tinniat auro?». La verità e il suono del falso

Persio, dopo l’elogio dell’insegnamento di Cornuto e della dottrina stoica, soffermandosi sul concetto di libertà, chiede retoricamente al suo fittizio interlocutore se sappia riconoscere quale sia il retto vivere e se sappia distinguere il vero dal falso, così da non commettere l’errore di chi prende per buona una moneta che, invece, al suono risulti «mendace», perché l’oro è suberato (Sat. V, 106). Un prezioso volume (Jones 1990) compendia il contenuto e il significato di una ormai lontana mostra londinese, Fake? The Art of Deception, che, considerando una vasta gamma di oggetti, ripropone il vecchio problema del falso nei diversi settori dei manufatti artistici, con numerosi distinguo, poiché, come afferma il curatore nell’introduzione, «boundaries between truth and falsehood are hard to fix; what is fraudulent in one context is quintessentially genuine in another» (Jones 1990: 17). E se questo è vero in generale, lo è tanto più per la moneta e non solo o non tanto per i pareri discordi sull’autenticità, ma per l’essenza stessa della moneta che, dovendo adeguarsi sempre più e meglio alle diverse esigenze dello scambio da un canto, e essendo sempre più uno strumento della politica economica o semplicemente della politica dall’altro, è anche vittima dei diversi momenti e situazioni di cui spesso non resta alcuna o adeguata documentazione scritta. I contributi di A. Burnett, M. Jones, M. Price, pur mettendo in luce vari aspetti e riportando esempi noti ed eclatanti, dagli inevitabili dubbi all’identificazione di falsari noti in un’ampia casistica fino al XIX secolo, definito «the great age of faking» (Jones 1990: 161), non possono soffermarsi su problemi specifici. Nella moneta antica, a fronte della concretezza del documento in cui la distinzione potrebbe sembrare più che mai ovvia, il discrimine non è inve-

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ce così banale, ma non per l’obiettività del giudizio vero-falso, quanto per la sua interpretazione storica a volte controversa, né le fonti ci soccorrono per la sua definizione, che rimane nel campo delle interpretazioni.1 Così, a ben vedere, Persio nella satira quinta «tibi recto vivere talo ars dedit et veris speciem (veri specimen) dinoscere calles, ne qua subaerato mendosum tinniat auro?» (Sat. V, 106) non dà un giudizio di illegittimità della moneta stessa, ma si riferisce al fraintendimento che può generare il solo aspetto, senza una chiara verifica, quale il tintinnio che la moneta di metallo puro emette cadendo, rispetto a quello più cupo, meno argentino di una moneta esternamente d’oro, ma che nella sostanza è di rame.2 La testimonianza di Persio, che ama citare il subaerato come exemplum di qualcosa che non dice il vero (mendosum), è generica, anche se emblematica: l’autore non ha interesse alla moneta in sé e per sé, e alla sua origine statale o meno, ma alla sua essenza in rapporto alla capacità di discernimento che si richiede nel valutarla. Qualche anno dopo, Epitteto, come riferisce Arriano nei Discorsi (I, 20 e passim) dirà che la moneta si deve testare con vista, tatto, odore e suono: gettato un denario a terra se ne ascolta il suono, come un musicista. E così Quintiliano (Inst. XI.3.31) sentenzia che non si può definire a caso un uomo greco o barbaro perché gli uomini si riconoscono dal suono della voce, come il bronzo dal suo tintinnio. Passando dalla speculazione filologica alla concretezza del materiale, dalla quale si dovrebbe comprendere la natura dell’oggetto, ci si imbatte in una quantità di distinguo. Come si sa, la moneta antica era a valore reale;3 il falso antico, dunque, non poteva essere una semplice imitazione formale, ma una vera e 1. La bibliografia relativa ai falsi numismatici è amplissima e si incrementa di giorno in giorno, comprendendo una vastissima gamma di campioni, quasi ognuno un caso a sé, che piuttosto che in una trattazione di ordine generale, vanno studiati nel loro particolare, in rapporto al contesto storico ed economico. Una utile introduzione all’argomento era stata proposta da Martini 1987: 158-174. 2. La moneta suberata per definizione è costituita da un nucleo di metallo vile, normalmente rame, interamente ricoperto di una lamina di metallo prezioso, normalmente argento, talvolta oro. Tale tipo di adulterazione si riscontra per tutto l’arco della moneta antica (fino a che essa ha avuto un valore reale) con alcuni momenti di particolare incidenza. 3. Ancora nel VII secolo il vescovo Isidoro di Siviglia teorizzava «in numismate tria quaeruntur: metallum, figura et pondus» (Etymologiae XVI.18.12).

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propria sostituzione del contenuto metallico: si ricavava il guadagno “camuffando” un tondello di metallo vile o riducendone il fino. Presente anche nel mondo greco, la moneta suberata, di cui si è detto, ebbe il suo momento di massima emissione e diffusione a Roma nel I secolo a.C. confondendosi tra i denari di buon argento, in virtù del suo buon aspetto. Se attualmente le analisi fisiche non distruttive consentono di discriminare con buona attendibilità le monete di metallo nobile,4 in età antica non si poteva eseguire che una prova pratica per saggiarne l’interno:5 gettare la moneta a terra per ascoltarne il suono o praticare un’incisione fino a poterne ispezionare l’interno.6 Più che secolare è la querelle sull’origine privata (falso antico) o statale di tale moneta, nel cui ambito si devono distinguere gli esemplari ben “confezionati”, con consapevole e rigorosa tecnica metallurgica e quelli, evidentemente più artigianali e realmente falsi, che nella normale circolazione si sono insinuati con chiaro intento fraudolento, com’è fisiologico in ogni contesto monetario. Per i primi si può ipotizzare una provenienza statale, come un tipo di moneta fiduciaria emessa in periodo di difficoltà finanziarie quale fu, appunto, il I secolo a.C., dopo la disastrosa guerra sociale e nel periodo delle lotte intestine tra Mario e Silla. Ma, a prescindere dalla vexata quaestio,7 resta il fatto che tale moneta era evidentemente parte del circolante, assieme a esemplari di tutto argento, mostrando, così, di essere stata accettata e aver circolato al pari di moneta autentica. In buona sostanza, legali o illegali che fossero, queste monete evidentemente svolgevano il loro ruolo e in questo era la loro verità (e, si potrebbe dire, la loro utilità). 4. Con particolare attenzione ai diversi metodi applicati Mancini, Serafin 1976; Walker 1980; Carter, Serafin 1986; De Bernardi 2011. 5. La classica pietra di paragone consente, come è noto, solo il saggio dell’esterno. 6. Spesso le monete ne risultano oltraggiate perché sconciate nel loro aspetto da rotture che ne deturpano il tipo o fori, che possono essere anche fori di sospensione, per usare la moneta a fini diversi, cfr. Serafin 1993: 363-383; Pera 1993: 347-361. 7. Diversi studiosi (Lenormant 1807-08: 222; Mommsen 1865-75: II, 80; Lederer 1932: 24-26 e altri), propendendo per l’origine statale con diverse argomentazioni, rilevavano l’opportunità di distinguere nelle diverse situazioni ed emissioni. Crawford, invece, non aveva dubbi sull’origine privata (Crawford 1968). Ma cfr. le diverse considerazioni di Serafin 1968 e 1988 e di recente De Bernardi 2011, con convincente documentazione e bibliografia relativa.

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Falsificazione certa, sempre di denari repubblicani, fu, invece, la produzione di monete ottenute per fusione in forme da fondere ricavate da monete ufficiali (coniate): ne abbiamo un chiaro esempio dal ripostiglio di Lucoli (Devoto, Serafin 1993: 7-105; Crawford 1969: nota 164), che comprende, oltre a due suberati, 136 esemplari più o meno lacunosi e numerosissimi frammenti,8 il cui metallo è una pallida imitazione dell’argento, una lega di rame-stagno (65%-29%), con aggiunta di arsenico piombo e zinco in piccolissime percentuali, lega definita speculum perché usata per la produzione degli specchi romani per la sua iniziale brillantezza e la proprietà riflettente: la moneta appena fusa doveva apparire ingannevolmente argentea, prima che la circolazione e l’uso ne svelassero la vera essenza. Ma dopo due millenni di giacitura in terra, fenomeni elettrochimici e corrosivi hanno non solo obnubilato ogni brillantezza, ma provocato una sorta di “esplosione” delle monete, molte delle quali si sono spontaneamente frammentate; tale stato, tuttavia, assieme alla presenza di monete ancora integre non impedisce di valutare ed apprezzare il lavoro del falsario che ha anche provveduto ad antichizzare il suo prodotto, simulando con una limatura della superficie una sorta di usura d’uso naturale. Si tratta, dunque, certamente di un falso, che, a quanto è dato sapere, non ha partecipato della circolazione monetaria,9 ma rivela il tentativo dell’autore di far ottenere al falso la sua autenticazione, la sua verità. Nel mondo antico l’imitazione dei tipi non era necessariamente tendente a ingannare, ma spesso il tentativo da parte di una zecca (Autorità emittente/Stato) di accreditare sul mercato la propria moneta, a proprio nome, utilizzando tipi altrui, già noti ed affermati: così è per la moneta ateniese, imitata da oriente a occidente o per quella di Marsiglia, l’antica Μασσαλία, i cui tipi vengono imitati nelle regioni celtiche sempre meno pedissequamente, fino a divenire figure astratte, di difficile comprensione, ma certo riconoscibili per una circoscritta cerchia di utenti; tali monete non sono e non possono essere considerate false, perché denunciano la loro origine e non alterano fondamentalmente peso e fino, ma li adattano alle diverse esigenze (Pautasso 1966; Gorini 2014; Arslan 1991). È la verità dell’imitazione. 8. Da qui l’ipotesi di raccolta di frammenti argentei destinati alla fusione per farne suberati (Crawford 1974: 572). 9. Tra le raramente citate monete false o consunte in contesti di scavo, non sono ricordati esemplari o frammenti riconducibili a questa tipologia di falsi.

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Falsi d’epoca e pedisseque imitazioni delle autentiche sono, invece, le cinquecentesche trilline rinvenute in gran numero, assieme a monete coeve (Dalle Vegre, Vajna, Martini 1987: 174-177), perché occultate in emergenza, forse sotto la pressione di severi controlli, nella suggestione di una drammatica atmosfera ricostruita da Arslan, in cui chi deteneva tali monete si sarebbe sbarazzato delle monete false gettandole, probabilmente, in un vecchio pozzo romano; e le falsificazioni erano opera di signori di piccoli stati sovrani, puniti con la morte quando osarono imitare la moneta di Venezia (Arslan 1987: 58-60). Altra cosa, invece, è l’imitazione di monete antiche in epoche successive: dai veri e propri falsi ad uso “commerciale” (Dimitrov, Prokopov, Kolev 1997; Gorini, Mirnik, Chino 1991) alle riproduzioni “da amatore”. Nella amplissima bibliografia in proposito,10 un’utile messa a punto, promettente premessa ad ampliamenti e approfondimenti, fu una rubrica inaugurata nel «Bollettino di Numismatica» con un contributo di R. Martini (Martini 1987: 158-174) rimasto, però, senza alcun seguito, mentre diverse e sparse testimonianze si ritrovano in varie altre sedi. Tale il caso degli aurei etruschi, in cui il falso si distingue con un’accurata analisi metallografica (Devoto, Morandi 2000), dell’aes grave (Serafin 2004: 55-65), degli aurei di Julia Paula, sposa di Elagabalo (Gautier 2011), fino a una recente pubblicazione sugli antiquiores (prime monete papali), in cui un apposito capitolo è utilmente dedicato al problema (Fusconi 2012: 37-47): Fusconi descrive le più conosciute falsificazioni, opera di noti incisori di cui si conservano anche non pochi conii, nel loro genere vere opere d’arte: Cigoi (su cui cfr. Brunetti 1966) e Tardani. Molti esemplari falsi di loro produzione sono compresi nella famosa collezione reale (ora al Museo Nazionale Romano) e uno di questi fu dono di compleanno della Regina Elena al suo consorte, noto appassionato numismatico, nel 1900. Tardani, a completamento della sua raffinata e temeraria opera di falsario, poi, riuscì a fingere il ritrovamento nei pressi di Bracciano di un gruzzolo con un elevato numero di antiquiores, tutti opportunamente antichizzati con corrosioni e incrostazioni, che riuscirono a ingannare perfino commercianti numismatici, nonché l’esperto conservatore dei Musei Vaticani, che li acquistò. Le moderne analisi ottiche e metallografiche non erano ancora in uso e il suono non poteva venire in aiuto perché l’argento non era alte10. In parte raccolta in Jones 1990, che si arricchisce di giorno in giorno, anche con l’identificazione di falsi d’autore, come Cigoi, Becker ecc.

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rato: il costo dell’argento era ben compensato dal valore antiquario delle monete, ampiamente remunerativo per l’impegno profuso. Ovvero: la legittimazione del falso. Del tutto diversa la situazione per i falsi “cinquecenteschi” (per indicare il periodo di massima incidenza di un fenomeno iniziato prima e proseguito poi), in cui collezionisti, eruditi, inventori, incisori, imitatori e veri e propri falsari spesso non si distinguono. Ma soprattutto, non sempre sono chiare le finalità di certe operazioni. Accanto a veri e propri falsari, individuati ad esempio da Ligorio che non lesina loro invettive poiché eseguono queste operazioni per «ingordiggia» di guadagno, gravita in una colorita, vivace e popolosa piazza di Campo de’ Fiori una folla di procacciatori di nobili noti e meno noti collezionisti che non solo cercano il pezzo raro o non posseduto, ma anche l’imitazione della moneta mancante nella loro collezione (McCrory 1987: 115-129): così si spiegano i famosi “falsi del Cavino”, il celebre incisore patavino nella cui produzione, tuttavia, non è da escludersi un intento mistificatorio e fraudolento, anche se Ligorio non lo annovera tra i veri e propri falsari, di cui indica nomi e competenze.11 Da qui possono derivare gli esemplari rari e particolari che compaiono nell’ampia illustrazione del suo trattato, ma possono anche essere stati suggeriti da qualche erudito a un incisore dell’epoca (come sappiamo aver fatto Bembo con il Belli), oppure possono derivare dalla volontà di copiare o, piuttosto, restituire, una moneta antica non ben leggibile per il suo stato di conservazione e il cui tipo, quindi, viene mal ricostruito.12 La produzione di falsi non ha, dunque, conosciuto soste, nonostante le molte misure repressive adottate nel tempo, come ci è testimoniato dal Codex Justinianeus, alle gride spagnole, ai provvedimenti delle polizie di tutto il mondo e ai numerosi sequestri della nostra Guardia di Finanza, promotrice di una recente mostra itinerante che ha interessato diverse città d’Italia.13 11. Pafumi 2011. Una recente mostra di arte figurativa, ricordando il titolo della mostra londinese, si incentra sull’attività ben nota e abilità dei più conosciuti falsificatori, cfr. Loll 2014. 12. Non mancavano, tuttavia, nelle mani di attivi raccoglitori, assieme alle ignobili falsificazioni moderne di esemplari antichi, esemplari autentici che dovevano provenire dal sottosuolo urbano a seguito della fervida attività edilizia di quegli anni, cfr. Serafin, Molinari 2003 e AIIN 1989. 13. Il vero e il falso. La moneta, la banconota, la moneta elettronica: 2500 anni di storia del falso monetale. Ne resta documentazione in un breve ma articolato opuscolo curato dal Comune di Milano per l’esposizione allestita a Palazzo Reale dal 29 gennaio al 24 marzo 2013.

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Nell’ampia casistica ricordata, in particolare, è esemplare il caso del falso di carta-moneta a opera del catanese Paolo Ciulla, artista di grande talento, la cui perfetta riproduzione di 100 lire ingannò persino i funzionari della Banca d’Italia che scoprirono la falsificazione anche delle 500 lire solo quando, cercando il taglio da 100, trovarono nel “laboratorio” di Ciulla stesso le banconote da 500, recuperandole tutte.14 Ma viene da chiedersi: se erano così perfette da non essere notate, siamo così sicuri che siano state tutte recuperate? Talvolta la verità del falso è nella sua perfezione. Da questo rapido excursus risulta evidente come attento e diverso debba essere il nostro giudizio sul falso antico e sul falso moderno di moneta antica:15 dal punto di vista storico, il falso prodotto nell’antichità, oltre ad essere difficile da giudicare nelle sue diverse implicazioni, ha un valore documentario analogo a quello della moneta legale e talvolta anche di più, essendo specchio o sintomo di situazioni di difficoltà non sempre note o chiaramente descritte dalle fonti. Il falso moderno di moneta antica, escludendo il fine commerciale-utilitaristico, ha valore documentario dal punto di vista culturale, come volontà di ricezione dell’antico in un mondo alla riscoperta della sua storia: entrambe sono verità del falso. Il falso di moneta contemporanea, invece, è falso nella sua peggiore accezione e non altro.16 14. Ancora oggi, per le falsificazioni ben eseguite, devono essere utilizzati strumenti non banali, come riporta una recente notizia de «Il Corriere della Sera» del 23 settembre 2014: «Le banconote della scuola napoletana sono fatte talmente bene che alcuni apparecchi in dotazione ai negozianti non riescono a riconoscerle ed è necessaria la strumentazione in uso alla Banca d’Italia. “I tagli da 20 e da 50 euro sono le banconote più contraffatte perché circolano di più e la gente dedica poca attenzione” – chiarisce Letizia Radoni, capo del dipartimento circolazione monetaria della Banca d’Italia – “Bisognerebbe toccarli muoverli, guardarli: le caratteristiche di sicurezza di prima fascia metterebbero in condizione tutti di distinguere i biglietti falsi. La banca centrale europee e le banche centrali delle singole nazioni hanno voluto mettere in circolazione la seconda serie delle banconote proprio per rafforzare le caratteristiche di sicurezza”. L’evoluzione, la ricerca sono le armi che più vengono usate contro i falsari, si capisce anche dando uno sguardo ai padiglioni del museo della banconota che ripercorre più di cento anni di storia italiana attraverso l’esposizione di biglietti, bozzetti, esemplari di falsi, materiale e attrezzature di stampa». 15. W. Steiner, nella recensione alla mostra londinese, afferma: «The exhibition defines a fake as “anything made or altered with an intention to deceive”, but the motives for deception are as various as human psychology» (Steiner 1990). 16. Così era nel mondo antico come è nel mondo moderno. A testimonianza dei nostri giorni, riporto qui una notizia recente, tratta da «Il Giornale della Numismatica», 13 ottobre 2014: «euro falsi: siamo “i piu’ bravi” del mondo! I due quotidiani più importanti del nostro

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Bibliografia AIIN 1986 = La moneta nei contesti archeologici: esempi dagli scavi di Roma, Atti dell’Incontro di Studio (Roma, 1986), Roma 1989 Arslan 1987 = E.A. Arslan, Le trilline in fondo al pozzo, in Le collezioni dell’area milanese, in occasione della Mostra Filatelico-Numismatica (Milano, 20-21 giugno 1987), Milano 1987, pp. 58-60 Arslan 1991 = E.A. Arslan, I Transpadani, in Catalogo della Mostra a Venezia, I Celti. La prima Europa, Milano 1991, pp. 460-470 Brunetti 1966 = L. Brunetti, Opus monetale Cigoi, Bologna 1966 Carter, Serafin 1986 = G.F. Carter, P. Serafin, Die-link studies and the number of Augustan Quadrantes 5 b.C., in Actes du X Cóngres International de Numismatique (Bern, 1979), Louvain 1982, pp. 289-307 Cornaggia 1924 = G. Cornaggia, Un contemporaneo falsificatore di monete antiche, in «Rivista Italiana di Numismatica» (1924), pp. 37-46 Crawford 1968 = M.H. Crawford, Plated coins, false coins, in «The Numismatic Chronicle» (1968), pp. 55-59 Crawford 1969 = M.H. Crawford, Roman Republican Coin Hoards, London 1969 Crawford 1974 = M.H. Crawford, Roman Republican Coinage, Cambridge 1974 Dalle Vegre, Vajna, Martini 1987 = A. Dalle Vegre, E. Vajna, R. Martini, Milano, via Larga. Ripostiglio di monete e contraffazioni di zecche dell’Italia Settentrionale del XVI secolo, in «Bollettino di Numismatica», 8 (1987), pp. 174-177 De Bernardi 2010 = P. De Bernardi, Plated Coins, false coins?, in «Revue Numismatique» (2010), pp. 337-381 Devoto, Morandi 2000 = G. Devoto, M. Morandi, Un caso di falsificazione di monete d’oro etrusche, in «Bollettino di Numismatica», 34-35 (2000), pp. 292-304 Devoto, Serafin 1993 = G. Devoto, P. Serafin, Il ripostiglio di Lucoli (L’Aquila): il gruzzolo di un falsario di età repubblicana, in «Bollettino di Numismatica», 21 (1993), pp. 7-105 Dimitrov, Prokopov, Kolev 1997 = D. Dimitrov, I. Prokopov, B. Kolev, Modern Forgeries of Greek and Roman Coins, Sofia 1997 paese, “La Repubblica” e “Il Corriere della Sera”», hanno dedicato di recente, anche attraverso le edizioni online, ampi reportage al fenomeno della falsificazione di cartamoneta che, a quanto pare, vede proprio nell’Italia – in particolare nella città di Napoli e nel suo hinterland – le stamperie più attive e avanzate del pianeta. Ad esempio, il “Corriere” spiega nei dettagli come, nelle zone di Aversa, Giugliano, Afragola, Quarto e Pozzuoli operi il cosiddetto “Napoli group”, una vera e propria “scuola d’arte” che si è perfezionata a tal punto nella stampa di falsi euro da contribuire per oltre il 50% alla quantità di denaro contraffatto circolate nell’intera Unione Europea. Per parte sua, “La Repubblica” riporta ad esempio la notizia del sequestro di ben 17 milioni di euro in banconote false da 50 intercettate dalla Fiamme Gialle di Marcianise mentre venivano trasbordate da un camion ad un furgone nei pressi di un noto centro commerciale della zona. Anche in questo caso, i biglietti sono apparsi di ottima qualità».

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Fusconi 2012 = G. Fusconi, Gli Antiquiores romani. Le monete coniate dalla zecca di Roma da Adriano I (772-795) a Benedetto VII (975-983), Roma 2012 Gautier 2011 = G. Gautier, Le monnayage en or au nom de l’impératrice Julia Paula: faux, invention et fantaisie, in «Bulletin de la Société française de Numismatique», LXVI/7 (2011), pp. 197-201 Gorini, Mirnik, Chino 1991 = G. Gorini, I. Mirnik, E. Chino, I falsi del Meneghetti, in «Bollettino del Museo Civico di Padova», LXXX (1991), pp. 321-357 Gorini 2014 = G. Gorini, Nuove indagini sulle emissioni preromane dell’Italia settentrionale nell’età del ferro (IV-I sec a.C.), in Les Celtes et le Nord de l’Italie. Premier et Second Âges du fer, Actes du XXXVIe colloque international de l’AFEAF (Verona, 17-20 maggio 2012), Dijon 2014, pp. 475-482 Hill 1924 = G.F. Hill, Becker the Counterfeiter, London 1924 Jones 1990 = Fake? The art of Deception, a cura di M. Jones, London 1990 Lederer 1932 = Ph. Lederer, Die Staterprägung der Stadt Nagidos, Berlin 1932 Lenormant 1807-08 = Fr. Lenormant, La monnaie dans l’antiquité, Paris 18071808 Loll 2014 = C. Loll, Intent to deceive. Fakes and Forgeries in the Art World, Springfield 2014, Mancini, Serafin 1976 = C. Mancini, P. Serafin, Identification of ancient silver plated coins by means of neutron absorption, in «Archaeometry», 18 (1976), pp. 214-217 Martini 1987 = R. Martini, Falsificazioni monetali: note introduttive, in «Bollettino di Numismatica», 8 (1987), pp. 158-174 McCrory 1987 = M.A. McCrory, Domenico Compagni: Roman Medalist and Antiquities Dealer of the Cinquecento, in Italian Medals. Studies in the History of Art, a cura di G. Pollard, Washington 1987, pp. 115-129 Mommsen 1865-75 = Th. Mommsen, Histoire de la monnaie romaine, Paris 18651875 Pafumi 2011 = Pirro Ligorio. Libro dei pesi, delle misure e dei vasi antichi, a cura di S. Pafumi, Roma 2011 Pautasso 1966 = A. Pautasso, Le monete preromane dell’Italia settentrionale, Aosta 1966 Pera 1993 = R. Pera, La moneta come amuleto o talismano, in «Rivista Italiana di Numismatica», XCV (1993), pp. 347-361 Serafin 1968 = P. Serafin, Nota sull’argento suberato della repubblica romana, in «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica», 15 (1968), pp. 9-30 Serafin 1988 = P. Serafin, Ripensando ai suberati…, in «Rivista Italiana di Numismatica», XC (1988), pp. 131-139 Serafin 1989 = P. Serafin, Su alcune monete etrusche, in «Bollettino di Numismatica», 13 (1989), pp. 9-19 Serafin 1993 = P. Serafin, La moneta come ornamento: gioielli monetali antichi e moderni, in «Rivista Italiana di Numismatica», XCV (1993), pp. 363-383

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Serafin 2004 = P. Serafin, L’aes grave: quesiti storici e tecniche di analisi, in La moneta fusa nel mondo antico: quale alternativa alla coniazione?, Atti del Convegno, Arezzo, 19-22 settembre 2002, Milano 2004, pp. 55-65 Serafin, Molinari 2003 = P. Serafin, M.C. Molinari, Monete e Medaglie dal centro di Roma e dal suburbio nella letteratura numismatica dal XVII al XX secolo, in I territori di Roma, storie, popolazioni, geografie, Convegno di Studi delle Università romane, Roma, 2000, Roma 2003, pp. 257-272 Steiner 1990 = W. Steiner, In London, A Catalogue Of Fakes, in «The New York Times», 29 settembre 1990 Walker 1980 = D.R. Walker, The silver content of the Roman Republican Coinage, in Metallurgy in Numismatics, a cura di D.M. Metcalf, W.A. Oddy, London 1980, pp. 55-72

Finito di stampare nel mese di luglio 2015 dalla Grafica Editrice Romana s.r.l. Roma