A nuova luce. Cinema muto italiano [Vol. 1] 8849116780, 9788849116786

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A nuova luce. Cinema muto italiano [Vol. 1]
 8849116780, 9788849116786

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A NUOVA LUCE: CINEMA MUTO ITALIANO. I Michele Canosa

Dopo un lungo periodo di oblio, alla fine degli anni Settanta abbiamo assisti­ to a un impulso verso gli studi sul cinema muto, in particolare sul “cinema dei primi tempi” (Congresso F1AF di Brigthon, 1978) e, forse per coinciden­ za, sul cinema muto italiano (Brunetta 1978, Bernardini 1980, Martinelli 1980). Queste indagini, storiche e fìlmografìche, per lo più di ordine sistema­

tico e generale, hanno condotto a un allargamento e approfondimento del­ l’oggetto in questione (cinema muto italiano) e, nel contempo, hanno con­

sentito una revisione dei metodi e degli strumenti della ricerca (storica, filolo­

gica, estetica). Tuttavia, proprio questi studi hanno rivelato, o enfatizzato, un difetto: semplicemente la scarsità di film del patrimonio nazionale d’epoca,

ampiamente perduto o deteriorato, comunque inaccessibile. D’altra parte, a partire dagli stessi anni, ha avuto corso uno sviluppo del movimento cinctecario, sia sul piano della politica di acquisizione o conserva­ zione del patrimonio della nostra cinematografia (anche presso archivi stra­

nieri, per esempio la Collezione Desmet, presso il Filmmuscum di Amster­ dam), sia sul piano del ripristino e della valorizzazione di tale patrimonio (so­ prattutto le Mostre di Pordenone, Bologna, Pesaro, “CinéMémoire” di Pari­ gi... senza dimenticare le pionieristiche rassegne di Rapallo, Ancona o i re­ centi convegni di Torino). Ne è conseguito il recupero di una parte significa­

tiva di film muti italiani fin lì ritenuti perduti e il restauro di film pur noti ma che giacevano in condizioni tristi o, comunque, divulgati in versioni inat­

tendibili. Tutto questo ha suscitato una nuova coscienza filologica relativa al cinema muto italiano, ha dato luogo a qualche analisi di circostanza e comunque par­ ziale di singoli film (vedi le pubblicazioni delle Mostre menzionate) ma, in ef­ fetti, non ha prodotto una autentica verifica delle coordinate della storiografìa

attcstata, né una certificazione dei dati (a volte mere congetture, se non pre­ giudizi) e, ancor meno, nessun eventuale ripensamento o riassestamento ri­

spetto alla storia del cinema italiano. Ora, in considerazione delle condizioni che si sono venute determinando

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quanto a fonti, strumenti e metodi di indagine, in considerazione di autenti­

che scoperte, oltre che di film, di cineasti (Febo Mari — non solo quello di Ce­ nere - c D’Ambra c Gallone c Campogalliani e Almirantc...), di generi (il Fantastico o il Comico, per cs.), di case di produzione (Film d’Arte Italiana o Rodolfi Film), di interpreti c così via, abbiamo ritenuto a questo punto matu­ ra una prima riconsidcrazione della produzione italiana, del periodo cosiddet­

to “muto”. Di qui il titolo: “A nuova luce”. Riferito al cinema muto italiano, il doppio senso, - diciamo pure - il dop­ pio fondo di questa titolazione ci pare sufficientemente perspicuo: 1) in questi ultimi ventanni sono riemersi dal buio numerosi film muti

italiani e, restaurati, sono tornati visibili, cioè conoscono di nuovo la luce del­

lo schermo; 2) questi stessi film, ma anche quelli già noti, si offrono alla luce dcll’interprctazione, a eventuali nuove interpretazioni. Da un lato i film, dall’altro l’interpretazione, con i vari metodi ad essi (film) applicati. Si è trattato, si

tratta di restituire centralità ai film. Ecco: partire o ripartire dai film per arri­ vare al cinema: questo il proponimento, comunque il voto.

La seconda parte del titolo — “cinema muto italiano” — a sua volta trattiene un’ambiguità. Più d’una. Termine a termine: Cinema — questa locuzione non è univoca, dato che finisce per indicare un

corpus (o forse solo un elenco) di film (muti italiani) c, insieme, una istituzio­ ne: il cinema, in un senso complesso, “totale” - cinema/fibn. Muto - è aggettivo periodizzante, designa per convenzione un periodo (1905-1931) c, insieme, marca una differenza, persino una opposizione — muto vs sonoro {parlato). Italiano - è aggettivo localizzante, designa un Paese c, insieme, rinvia a una identità nazionale, a una presunta peculiarità di caratteri originali, a una “italianità” del cinema (muto, in questo caso). Qui (cinema muto) “italiano”

si distinguerebbe e persino si opporrebbe, in particolare, a (cinema muto)

“americano” - italiano vs americano. Sottaciute, c adesso nominate, tali ambiguità non sono state sciolte. No­ minarle, poi, non è risolverle. Né del resto era l’intendimento. Piuttosto indi­

ca una esigenza: l’oggetto (cinema muto italiano) non è dato ma occorre cir­ coscriverlo, definirlo, insomma produrlo. Ecco un compito a venire, per ora è

un altro voto. Partire dai film: non vuol dire fare dei film delle entità individuali conchiusc, ermetiche, autosuffìcicnti, dei testi-monadi. Anzi. Ci pare che in gran parte dei

contributi che qui presentiamo — pur secondo una pluralità d’impostazioni e prospettive differenti - i film appaiano piuttosto come campi', campi di forze, luoghi permeabili, esemplari impuri, esercizi intertestuali, relais di espressioni culturali “alte” o di espressioni infraculturali, condensatori di imagery dissemina­

ta altrove o moltiplicatori di rappresentazioni precostituite. Di qui la conferma -

Il

non sempre esplicita — della utilità della ricerca iconografica, nonché del suo me­ todo (iconologia). Soprattutto allorché non si lascia accattivate dalle tentazioni

di una discendenza diretta dai testi (letterari) o dalla traduzione meccanica.

/promessi sposi, classico della letteratura, film Ambrosio. Certo — come di­ rebbe Gian Piero Brunetta - in principio fitit traductio. Ma con un movimen­ to di ritorno o circolare, le immagini fotografiche tolte dal film servono da

corredo all’edizione Hocpii del romanzo di Manzoni. Bell’esempio di strate­ gia integrata dell’industria culturale italiana negli anni Dicci (v. De Berti). Oppure Saturnino Farandola, un altro titolo da allegare al genere Fantastico/Meraviglioso che pareva assente dal cinema nostrano. Il film è tratto dalle

straordinarissime avventure di Robida. Ma più che dal testo, il film di Fabre trae la sua figurazione dalle illustrazioni. Le quali qui sono fonti iconografi­

che ma funzionano anche come notazioni di messinscena. Il pattern è l’illu­ strazione. Il modo di rappresentazione di Saturnino Farandola presenta anco­ ra un assetto “attrazionalc-mostrativo” e solo debolmente “lineare-narrativo”.

Un film, insomma, incerto tra due modi di rappresentazione: “primitivo", “istituzionale” (v. COSTA). Siamo entrati nel territorio di una storia delle for­

me. (A GAUDREAULT, che infra s’impegna a cercare il suo bonimenteur nelle sale italiane dei primi anni dispiace l’espressione "cinema primitivo” e, del re­ sto, anche “primitivo”.) Questa incertezza tra due modi di rappresentazione contrassegna il cinema italiano ancora alla vigilia della Grande Guerra. Per

esempio, Cabiria o Pinocchio, per fare due esempi disparati, o La donna nuda

(v. BOSCHI). Incertezza che arriva almeno fino ai primi anni del Venti (v.

SORLIN). Tuttavia, occorre chiedersi se le categorie “primitivo" (mostrativo-attrazionalc) e “istituzionale” (primato dell’integrazione narrativa), quali for­

mulati da Noel Burch, siano cogenti per il cinema italiano in argomento.

Intanto Burch, nel suo Lucernario dell’infinito (ed. fr. 1990), su quasi 300 titoli cita solo tre film italiani: Amor pedestre, l’inevitabile Cabiria e il perduto Sperduto nel buio. Ma questa circostanza è solo una difficoltà, non un impedi­

mento a trasferire le sue categorie al cinema italiano degli anni Dieci/Vcnti. Anzi, dovrebbe indurre ad allargare ad altre cinematografie il suo metodo comparativo. Probabilmente - immaginiamo - sotto questo rispetto, il nostro cinema risulterebbe per ampi tratti attardato sul MRP (modo di rappresenta­

zione primitivo). Eppure, non dobbiamo sottovalutare gli effetti della igno­ ranza dovuta a negligenza o, più innocentemente, alle difficoltà di accesso ai film. Barry Salt, nel suo Film Style and Technology (1983) stimava di scarso peso l’apporto italiano allo “sviluppo del linguaggio cinematografico”; poi,

prende visione di 200 film italiani ante 1921, li raffronta con 2500 film dello stesso periodo ma di altri paesi, quindi cambia decisamente opinione (cfr. la

sua analisi stilistica del “Cinema italiano dalla nascita alla Grande Guerra”, in Sperduto nel buio, a cura di R. Renzi et alii, Bologna, Cappelli, 1991). Dopo tutto, e questo che intendiamo con “centralità dei film”.

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“Attrazionale” non coincide con “primitivo” ovvero arcaico o - in una pro­ spettiva evoluzionistica - anacronistico. Come ciascuno sa — c nessuno me­

glio di Burch - cinema delle attrazioni è quello di Ejzcnstcjn c dei Feks. In Italia, un cinema delle attrazioni viene proposto dall’antitradizione futurista (v. LISTA). Di qui il recupero e l’esaltazione della figura di Fregoli (v. BERNAR­ DINI), “i films interessanti di viaggi, caccic, guerre, ccc.” (Manifesto dell’ll

settembre 1916), del circo - del forzuto c del comico circense (v. Giti) -, del teatro delle Varietà, della paralettcratura seriale e del feuilleton (persino Campogalliani, v. MARTINELLI). L’altra via attrazionale cerca invece referenze nelle

forme espressive plastico-figurative e musicali, nobili o “basse”, non narrative

o a tenue gradiente narrativo: la pantomima (v. MOSCONI), certi eccessi del melodramma pucciniano (v. VlTTADELLO) o mascagniano (v. VACCARINO),

ma anche la sceneggiata o piuttosto la canzone partenopea (v. Redi), l’isteria del figurativismo floreale (v. L. RENZI) c i cascami dell’Art Nouveau all’ombra

del Vesuvio (v. DE M1RO D’AJETA), le cartoline viventi del Bel Paese (v.

Blom), i siti celebri c i giardini all’italiana (v. BERTOZZl). E ancora: l’onirismo prefreudiano (v. JOST), il film de fiamille (v. ODIN) e persino la talassomachia,

che i cineasti americani vengono ad apprendere dagli artigiani italiani (v. MO­ SCIO). Per non dire delle Dive italiane, carni e sembianze splendenti: l’eroti­ smo dell’attrazione (qui, fatale)... E dovremmo aggiungere — proposta: — la poesia tardosimbolista italiana: una poesia che offende il naturalismo, il

dramma populista, il chiaro narrare (e la buona novella) - o almeno, pur den­ tro un andamento narrativo c un modo di rappresentazione istituzionale, fre­ sale e “verticalizza” il corso piano del racconto. (Rapsodia satanica su tutti, ma

quanti sono da contare?) Certo, non e un tratto solo italiano: per la Russia, pensiamo a Evgcnij Baucr; per la Germania, al Robert Reinert di Opium o a

certi film bianchi del cinema nordico, per la Francia pensiamo a Dclluc, a

Dulac, a Epstein, a L’Hcrbicr, a Gancc... alla “prima avanguardia francese”. In Italia però il suo nome è legione. Diva-film o cinema in frac, film dannun­

ziani o simbolisti o decadentisti o “bizantini”: questo cinema, da sempre con­ siderato tardo, è invece la nostra avanguardia. Ipotesi da verificare. Terzo vo­ to, per ora. In ultimo, insieme ai testi, ci sono il sangue, le ossa e i capelli, l’intellettualità c l’inventiva di chi il cinema italiano lo ha fatto o lo ha man­

cato, ne ha scritto o, di quel cinema, è stato spettatore (v. BRUNETTA, MARTI­

NELLI, de Miro d’Ajeta, Pistoia, Redi, Welle). Anche di questo converrà riparlare. Quarto voto, e altro oggetto di ricerca a venire.

FERDINANDO MARTINI, CONVITATO DI PIETRA DEL CINEMA ITALIANO

Gian Piero Brunetta Università di Padova

Perché eccellenza ci deve essere bisogno di ricorrere sempre a terzi o a quarti e di sparpagliare per le Films un utile certo sicuro, importante c che più importante diverrà quando la guerra volgerà al suo termine? Insomma io mi son detto, per­ ché dato che Ferdinando Martini non è alieno dal porre il suo nome come presi­ dente di una società che con scopi artistici mirasse alla nobilitazione del cinema­ tografo in Italia, perché ripeto non si può imbastire da noi un grosso affare senza immischiarci altri nella direzione del caso?

Così scrive a Martini, agli inizi del 1916, Giovacchino Forzano, proponendo­ gli di entrare in un'impresa di creazione da zero di una casa di produzione ci­ nematografica per lo sfruttamento di soggetti forniti dallo stesso Martini il cui prestigio e il cui carisma culturale appare al proponente tutt’altro che in­ feriore a quello di altri scrittori che in quegli anni hanno contribuito alla le­

gittimazione culturale del cinema. Forzano pensa a Martini - che conosce,

ammira e frequenta da diversi anni - sia come garante (o testimonial diremmo ora) di una operazione culturale di alto profilo, ma più di tutto come a una sorta di fonte miracolosa c inesauribile di soggetti c idee originali per il cine­

ma e sulla base di questa convinzione cerca di esercitare nei suoi confronti

tutti gli argomenti seduttivi più efficaci. Bisogna però premettere che Forzano ha già coinvolto Martini facendo­

gli assumere nel 1913 la presidenza di un concorso indetto da Cincs di cui

già si conosceva l’esistenza grazie al carteggio Verga-contessa Dina di Sordcvolo:

Ho ricevuto pure il programma di un concorso con L. 50.000 di Premio, presi­ dente della commissione Martini, nientemeno. Capisco ch’è un crucco per tirar soggetti che mancano alle rappresentazioni enormi... Speriamo che questo ci aiu­ ti a collocare anche i vostri1.

1 G. Raya, foga e il cinema, Roma, 1984, p. 46.

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“Ferdinando Martini, chi era costui?”, si domanderanno non pochi tra i po­

chi lettori di queste note. Nato nel 1841 e morto nel 1928, Ferdinando Mar­ tini è stato brillante saggista, scrittore, autore di teatro, fondatore di giornali importanti (Il Fanfulla della Domenica e La Domenica letteraria, Il Giornale dei bambini), ma anche politico, deputato della sinistra liberale c senatore,

ministro dell’istruzione c delle colonie (1915), dopo esser stato commissario dcH’Eritrca. Le sue lettere, i suoi diari, le sue note teatrali, di cui è tuttora am­ mirevole lo stile e il senso di ironia, sono ancor oggi una fonte straordinaria per la comprensione della storia politica c culturale a cavallo del secolo. La microstoria che intendiamo ricostruire, per molti aspetti è straordina­

ria, perche, oltre ad inserirsi perfettamente nel tessuto dei rapporti tra intel­ lettuali, scrittori c cinema nei primi decenni del Novecento, ci consente di il­ luminare alcuni meccanismi tipici della macchina produttiva italiana finora non documentabili in maniera così esemplare. E di riportare alla luce alcuni aspetti inediti della prima fase ormai abbastanza esplorata della storia dcll’“attrazione fatale” degli intellettuali europei nei confronti del cinema2. Da ulti­

mo, ma non con un ruolo di semplice comparsa, Martini si inserisce in modo

discreto nella folta schiera di intellettuali e scrittori attratti dalla luce dei Lu­ mière. Seguendone la cometa a qualche anno di distanza dalia sua apparizione molti intellettuali, provenienti da tutta Europa, una volta che il cinema co­

mincia a insediarsi stabilmente nelle città, si recano in ordine sparso a rendere omaggio alla neonata forma di spettacolo.

Non tutti però portano doni: la maggior parte viene soprattutto per rice­

verli, perché vede nel cinema una sorta di terra promessa, quando non è at­

tratta dai miraggi di favolosi e facili guadagni. Per vere c proprie schiere di in­ tellettuali italiani, tedeschi c francesi anzitutto, c poi spagnoli, inglesi, austria­

ci, russi, svedesi e danesi, il cinema diventa anche una sorta di piazza e merca­

to più allargato e redditizio in cui poter esporre le proprie mercanzie e tentar di venderle nel modo migliore. Hofmannsthal c Artaud, Bracco c Krauss, Apollinaire e Schnitzler, Majakowskij c D’Annunzio, Benavente, Blasco Iba­ nez, Pirandello e Verga, Colette, c decine di altri scrittori (in Italia Ferdinan­ do Martini si aggiunge a una schiera in cui spiccano, oltre a quelli già citati, i

nomi di Matilde Serao, Roberto Bracco, Salvatore di Giacomo, Lucio D’Am­ bra, Nino Oxilia, Nino Martoglio3) si accostano in ordine sparso per offrire al miglior offerente i prodotti del proprio orto, c per partecipare, a tutti gli cf-

* Per questo aspetto rinvio al mio “Identità e radici culturali”, in G.P. Brunetta (a cura di). Storia del cinema mondiale. L'Etmfa,Tomn, vol. I, 1999, pp. 26-32. 3 Su Martoglio e sugli intellettuali siciliani rinvio ai molti contributi di Sarah Zappulla

Muscarà c in particolare al volume curato con Enzo Zappulla, Martoglio cineasta, Roma,

1995.

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facci» alla creazione di un’opera a cui riconoscere ai più presto una dignità non inferiore rispetto a quella letteraria.

Romanzieri» poeti» uomini di teatro vengono reclutati in massa dal primo cinema alla ricerca di nobilitazione culturale e legittimazione artistica. Alcune voci di intellettuali europei che hanno sposato la causa cinemato­

grafica si stagliano nettamente e ci aiutano a fissarne alcuni geni e caratteri di­ stintivi. Vi sono scrittori che rispondono al richiamo delle sirene cinemato­ grafiche perché si sentono chiamati da forti ragioni ideali» culturali e creative:

Sarebbe strano - dirà Apollinaire in una conferenza tenuta al Vieux Colombier nel 1917 - che in un’epoca in cui l’arte popolare per eccellenza» il cinema» è un libro d’immagini» i poeti non avessero tentato di comporre delle immagini per gli spiriti meditativi... e si può prevedere un giorno in cui essendo il cinema e il fo­ nografo diventate le sole forme d’impressione in uso i poeti avranno una libertà fino ad oggi sconosciuta4.

Gabriele d’Annunzio, che scrive nel 1914 le didascalie di Cabiria accettando la paternità completa dell’opera» già dal 1910 ha ceduto in Francia i diritti

della Nave e di cinque altre opere» di cui Ricciotto Canudo curerà la riduzio­ ne per lo schermo (o come dirà D’Annunzio stesso la “deformazione”). Con la sua mossa, D’Annunzio, oltre ad offrirsi come garante sul piano internazio­

nale della qualità del prodotto dell’itala e di Pastronc, le conferisce un mar­ chio di legittimità artistica e culturale che modifica in modo sostanziale l’e­ quilibrio dei rapporti tra cinema e letteratura in Italia e in altri paesi. Verga sia pure mimetizzando al massimo il suo contributo — cede, a partire dal 1909» i diritti di varie opere (“L’importante è che paghino”)5. Gozzano, nello stesso anno» rivendica invece la piena paternità del lavoro per il cinema: ... ho accettato con piacere di rivelare le mie fantasie in una pellicola vertigino­ sa... ogni pellicola col suo quadro favoloso e il suo commento in versi mi è cara come il mio lavoro letterario e non esiterò a firmarla e a tutelarla come i miei vo­ lumi di prosa c poesia...6

E Capuana vede nella cessione di alcuni diritti l’occasione per raddrizzare le

4 G. Apollinaire, wL’Esprit nouveau et les poètes”. Celebre conferenza tenuta al Vieux-Colombier (Parigi) e riportata dal Mercure de France dell* 1 gennaio 1918. 5 La bibliografia sui rapporti tra Verga e il cinema è piuttosto nutrita. Mi limito a ricorda­ re gli studi pionieristici di G. Raya, in particolare il già citato Verga e il cinema, e tra i tanti al­ meno un lavoro di S. Zappulla Muscarà, “Giovanni Verga e il cinema muto**, in AAW, Rilet­ tura di Verga, Assisi, 1986» pp. 157-179. Buono anche il saggio di C. Riccardi, in G. Verga, Due sceneggiature inedite, Milano, 1995.

6 G. Casella, “Poesia e cinematografo. Conversando con G. Gozzano**» La vita cinemato­ grafica, a. I, 1910, n. 2.

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non floride economic: "Pare che i mici affari si mettano discretamente e il

miracolo lo dovrò in parte a San Cinematografo!”7. Pensando a D’Annunzio, Forzano ritiene che quella di Martini sia una fir­

ma così autorevole e prestigiosa da poter automaticamente garantire il succes­ so di qualsiasi prodotto venga presentato a suo nome. Ferdinando Martini non è dunque tra i primi a rispondere ai richiami delle

sirene cinematografiche, ma neppure tra gli ultimi. Non sappiamo se voglia ri­ vendicare da subito la paternità dei suoi soggetti come abbiamo visto fare a Gozzano fin dal primo momento o voglia piuttosto negarla come hanno fatto

molti altri. Certo la presidenza del concorso indetto dalla Cines gli ha consen­ tito un incontro ravvicinato con questa nuova forma di spettacolo e di scrittu­ ra e, in un certo senso, quando metterà mano alla prima sceneggiatura non lo

farà del tutto all’oscuro dei modelli e dei modi di scrittura e narrazione. Uno dei motivi non secondari del fascino di questo caso di rapporti tra ci­ nema e intellettuali è dato dalla sua presenza implicita forte, dai suoi molti si­ lenzi, che ci permettono di osservare e immaginare una gamma di risposte e reazioni alle esche e ai richiami di Forzano in forma di gradatio, che va dalla

cortese attenzione, al rifiuto, all’atteggiamento possibilista, al disappunto, al-

l’insofFcrcnza, al sospetto di poter essere imbrogliato (“eccellenza... che cosa teme se le condizioni le vanno?”), alla delusione, al non celato rimprovero nei confronti del giovane e alle sue responsabilità ncll’averlo coinvolto in questa

avventura. Martini non esprime giudizi, né profezie, né lancia invettive nei confronti del cinema, eppure bastano le poche lettere fortunosamente ritrova­ te per sollecitarci a interrogare il suo silenzio o per notare il senso di understa­

tement con cui dissimula la delusione per i ritardi, la mancanza di serietà e di parola, gli appuntamenti mancati ecc... Le risposte che conosciamo al mo­

mento le troviamo soprattutto nelle pagine di Come li ho conosciuti, un libro di ricordi di Forzano pubblicato dall’ERI nel 1956: in questo libro sono ri­ portate oltre che delle lunghe citazioni di lettere anche ampi stralci di sceneg­ giatura della Canzone delle rose. Questo caso è per molti aspetti simile e quasi coevo a quello del grande re­

gista André Antoine, soprattutto per il modo in cui viene abbordato con cir­ cospezione, circuito e convinto poco alla volta e per altri è eccezionale ed è forse tra i più rappresentativi della curva gaussiana delle illusioni e disillusioni

rappresentate dal cinema per molti intellettuali coinvolti dal primo decennio del secolo nella macchina produttiva di cui oggi grazie ad una serie di contri­ buti recenti si è potuto ricostruire il tessuto e le caratteristiche comuni sul

piano internazionale.

7 In una lettera a Verga del 7 marzo 1914 riportata da S. Zappulla Muscarà. Letteratura

teatro cinema, Catania, 1984, p. 266.

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Le prime mosse effettuare nei confronti di intellettuali di grande prestigio mirano a non ferirne l’onorabilità con una proposta che possa sembrare loro culturalmente degradante e disonorevole. Anzitutto bisogna far in modo di

trovare buone ragioni culturali o patriottiche che agiscano da richiamo, per­ ché il miraggio dell’oro a portata di mano senza grandi fatiche è una ragione dominante, necessaria ma non sufficiente a spiegare la grande migrazione di decine e decine di personalità di primo e secondo piano della cultura, del tea­ tro e della letteratura europea. In ogni caso vi sono lettere — come quella del

30 agosto del 1920 - in cui si sottolinea con forza la sproporzione tra tempo

investito e guadagni ottenibili: Eccellenza. Dunque guardiamo quale sarebbe il danno emergente e il lucro ces­ sante: il succinto schema di lavoro consisterebbe in un paio di paginettc scritte a macchina, se lei erede che dovrebbero costarle non le dico 5 mila lire di lavoro, ma nemmeno cinque centesimi dei nostri valutati al cambio svizzero... Nella peggiore delle ipotesi dato che l’affare andasse a monte, resterebbe sempre un la­ voro di non più di mezz’ora (glielo garantisco) in cambio di 5 mila lire (cinque altri affari si prospettano). Il piccolo insieme di lettere a nostra disposizione e le pagine del libro di For­ zano con le risposte di Martini e vari altri documenti ci consente di far luce

su un episodio del tutto sconosciuto delia storia del primo cinema italiano e

della nascita dell’industria culturale di un cinema concepito ancora come un

prodotto artigianale, in cui con procedimenti illusionistici possano scaturire dallo stesso colpo di bacchetta magica dei capitali, una casa di produzione, dei distributori, uno sceneggiatore, un regista, un musicista per dar vita a un film di sicuro successo. Ferdinando Martini è il convitato di pietra, di cui possiamo, più per abdu­

zione che per deduzione — immaginare risposte e comportamenti, signorile distacco, ma anche curiosità e incoraggiamento al giovane ammiratore Forza­

no, e poi in progressione fastidio, delusione, insofferenza, reazioni di rigetto, distacco ironico e forse, lasciando da parte il suo signorile aplomb, qualche in­ vettiva liberatoria... Il corpus di lettere di Forzano ci offre comunque la pos­

sibilità di lavorare sugli indizi, sugli atti mancati, su una serie di realtà virtuali disegnate nel corso di alcuni anni da Forzano stesso, che ci aiutano a capire e confermare soprattutto le caratteristiche di fragilità e improvvisazione della prima avventura capitalistica del cinema italiano. A mano a mano che si procede nella lettura delle lettere ci si accorge che, vinte le prime resistenze, Martini ha accettato di collaborate più per simpatia

e amicizia che per ragioni economiche e ha fornito più d’un soggetto e d’una sceneggiatura senza ottenerne mai, nel breve e medio periodo, né il successo di pubblico né i vantaggi economici sperati. Nelle lettere prende anche vita una folla di personaggi che come ectoplasmi si materializzano c dileguano: da

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Comandini del Commissariato di Propaganda a Pietro Mascagni al “macstrct-

to di terz’ordinc Luporini”, a Puccini, dai produttori che vanno dal “monoco­ lato Jesurum” al conte Trissino che “con o senza sciatica mi pare insista sover­ chiamente nel piluccare svanziche ai veneziani giudei", al conte Broglio (“se il

conte Broglio ha la barba lunga pure non l’ha abbastanza per ravvolgermi dentro”), ai registi Cariucci e Caramba. Questi personaggi in apparenza sem­ brano assumere un ruolo importante nella produzione, regia e distribuzione dei film e invece vengono meno alla parola data, si sottraggono agli impegni

economici, violano i patti, rinviano sine die gli appuntamenti presi, fingono

di essere caduti in malintesi o attribuiscono agli altri colpe loro, svaniscono nel nulla in un gioco di inganni e illusioni che si protrae per alcuni anni. Sia pure mediante pochissimi tocchi il discorso di Forzano disegna perfettamente un ambiente la cui affidabilità economica e professionale e la cui limpidezza morale appaiono come pressoché nulle e spiega altrettanto bene le ragioni del

rapido affondamento, dopo la fine della guerra mondiale, della macchina produttiva del cinema italiano. A un certo punto delle memorie Forzano ri­ porta anche un breve discorso dal tono profetico sul cinema di Martini in oc­

casione del loro ultimo incontro il cui nucleo centrale è questo:

Il cinematografo è veramente l’industria dcH’awenire. Soltanto avrà bisogno di industriali seri, e si ricordi: sarà sempre un mezzo grande per far vedere quello che la nostra Italia ha dato al mondo. Rispetto a tutti gli epistolari e i documenti consultabili sui rapporti tra i lette­ rati italiani (e non solo italiani) e il cinema, il compatto insieme di lettere di

Forzano a Martini scritte tra il 1916 e il 1922 aiuta a mettere a fuoco, in mo­

do esemplare, un modello produttivo cinematografico che vediamo continua­ re a vivere ancor oggi. Un modello fondato sull’improvvisazione, sull’idea del­

l’azzardo o del gioco delle tre carte, sull’inesistenza di investimenti e più di

tutto sulla speranza di vedere fiorire come nel Campo dei Miracoli di Pinoc­ chio l’albero capace di moltiplicare per mille le poche monete d’oro seminate

ai suoi piedi. Forse è sufficiente limitarsi a questo punto a riportare ampi stralci di que­ ste lettere - soffermandoci in particolare su quella citata all’inizio che contie­ ne il maggior numero di elementi significativi - per capire su quali basi si

fondi non tanto il rapporto tra Forzano seduttore e Martini quanto in senso più ampio l’identità e le basi costruite sulle sabbie mobili della prima indu­ stria cinematografica italiana:

Qui a Viareggio c’è da sfruttare un teatro di posa già naturalmente pronto quasi; io una esperienza buona in materia ce l’ho, si tratta di avere due buoni soggetti del Martini e di farli seduta stante. Occorrono i capitali. Orbene si tratta di trovare 100 persone che versino duemila lire ciascuna. Con ducentomila lire di capitale si può impiantare, agendo con giu­

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dizio, un’azienda che iniziando il commercio di due film di Martini può essere destinata a fiorire splendidamente. Deve essere così difficile in questi momenti in cui tanta gente non sa come im­ piegare il denaro trovare da collocare azioni da duemila lire Tuna? Io ho modo di collocarne alquante, se ella per questo scopo artistico d'un cinematografo d’arte potesse senza fastidio o disturbo aiutarmi nella collocazione di queste azioni e vo­ lesse, io le preparerei un progettino chiaro, concreto e pratico, che la persuade­ rebbe subito della bontà della speculazione. Le due film si dovrebbero girare subi­ to ora a primavera e averle pronte in pochi mesi, sì che prima della fine dell’anno si potrebbe smerciare. Eccellenza, se la cosa non presenta per lei gravi difficoltà, ci pensi sopra perché si tratta di uno scherzo che può apportare a lei varie decine di migliaia di lire all’anno e a me pure un buon utile e agli azionisti un buon frutto del capitale impiegato. Forzano investe con grande sicurezza nell'intellettuale e politico Martini, im­

maginando che la semplice evocazione del suo nome abbia il potere magico

di attirare i capitali e i pubblici. Qualche mese dopo, in risposta a una lettera di Martini in cui si avanzano dei dubbi sulla consistenza dei compensi venti­ lati da Forzano, il giovane commediografo che per mettere su l’impresa ha ri­ dimensionato non poco i suoi obiettivi di raccolta di denaro, così puntualizza

la nuova situazione: Come ella sa ho trovato 30 mila lire, ma ne occorrono il doppio e le troverei se non fossi immobilizzato in questo servizio militare territoriale... C’è bisogno che ella faccia rappresentare una film. Rappresentata la prima le richieste pioveranno ed ella potrà sempre farne una al mese. Questo è matematico. Bisogna considera­ re che il soggetto di Madre lontana può da un momento all’altro essere svalutato da avvenimenti politici che nessuno può prevedere... In questa situazione dato che il soggetto è d’attualità, dato che di films Ella ne può lare a sacchi, dato che in otto giorni Ella può soddisfare qualunque richiesta, dato che una volta eseguita la film ella avrebbe richieste a volontà, perche non fa ora Ella un sacrificio? Cioè Ella offre al Comandini la film senza compenso il che costituirebbe un bel gesto prima di tutto, e sicuramente una prossima conclusio­ ne di ottimi affari appena la film fosse proiettata... Se invece ella non crede di scendere... in questa determinazione allora aspettiamo e io posso scrivere a Jcsurum per chiedergli se la Dominante vuol stare in società per la Madre..,

N questo punto, in una lettera successiva ancora del 1916 in cui sono evidenti le difficoltà non solo a realizzare un film di propaganda di guerra, ma semplice­

mente a procurarsi della pellicola vergine, abbiamo per la prima volta un con­

tatto diretto con Martini attraverso una citazione fattane da Forzano: “Come vuole che le richieste di nuove film vengano quando non ci sono pellicole?”. Le risposte di Forzano sono ancora molto sicure: vi sono sì degli ostacoli, i

progetti vanno ridimensionati, ma il nome di Martini può agire come sicuro richiamo:

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Molte case hanno scorte di pellicole, ma non ne cedono e le case stesse amano la­ vorare intorno a soggetti che non abbiano relazione con la guerra. Perciò io dice­ vo: se una società (di cui avevo già 30 mila lire) nuova, non ha pellicola vergine; se le esistenti temono di azzardare capitali in film di guerra, dato che è necessario sia risaputo che S.E. Martini si diverte a scrivere film, perché quando questa cosa sarà risaputa le offerte pioveranno sicuramente: dato che miglior occasione per far correre tale notizia non vi sarebbe offerta dai Commissariato di Propaganda, così io le avevo proposto quanto le scrissi. Ma creda, dopo aver tutto calcolato Le garantisco che Madre lontana fatta, o anche non appena la notizia sarà apparsa sui giornali, le offerte pioveranno. So quello che dico... Dal libro di ricordi di Forzano possiamo estrarre una divertente parodia scrit­

ta da Martini di una canzone allora in voga a proposito della sorte di Madre

lontana9 . Nella landa sconosciuta ove il gaucho già s’accampa una madre s’è perduta s’è perduta nella pampa Ah! Qual sorte! In suoni fiochi chiama chiama e par che gema Sciagurata par che invochi Deh! portatemi al cinéma.

Son lontana dai miei figli Veggo vedovi i forzieri il cinéma è sui giacigli solo e ricco di pensieri E così concludeva la lettera a Forzano: “Caro Forzano, farò presto una corsa a Viareggio, intanto lei dia un occhiata verso la marina, guardi se scorge una

madre lontana e poi mi sappia dire se si avvicina”. Qualche tempo dopo, riprendendo quasi al punto in cui aveva lasciato il filo del discorso, Martini scrive ancora:

Sì, non v’è dubbio, quella madre è lontana, ma il guaio non sta tanto nella lonta­ nanza, quanto nella sua irresolutezza. Ogni poco promette di partire, si fa aspet­ tare e non arriva mai. È vero che ben costruita nel torso le mancano gli arti infe­

riori per cominciare a camminare. L’ultima volta che ne sentii parlare mi dissero che glieli avrebbero fatti entro 24 ore, e che avrebbero potuto camminare, anzi lanciarsi sollecitamente. Quei signo­ ri della società mi hanno fatto venire una terza volta a Roma, anche questa terza volta inutilmente. Poco tempo dopo, in occasione dell’uscita di un libretto d’opera di Forzano

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che s’intitola Sua Eccellenza Belzebù, Martini cerca di perorare la causa della sua Madre ormai così lontana da dover essere data per dispersa: Nuovi successi, nuove felicitazioni. Poiché ella è ormai in relazione con Belzebù, vegga se mediante la costui intromissione si riesca a sapere che diavolo pensi e faccia quella Società, c perché quella madre sia ognor più lontana dall’obiettivo fotografico.

Nelle lettere successive del 1917 si entra in una fase nuova: un primo film -

che non è Madre lontana, bensì La canzone dei fiori — è stato finalmente rea­ lizzato, ma subito si presentano difficoltà enormi per poterlo vedere da parte di Martini stesso. 11 film col titolo di La canzone delle rose, prodotto dalla Silentium Film c diretto da Ugo Gracci, uscirà poi nelle sale nel 1919.

Di questo film possediamo, grazie al testo di Forzano del 1956, ampi stralci della sceneggiatura, scelti con cura per dimostrare “con quale moder­ nismo Martini si occupava di sceneggiature cinematografiche già nel film muto, c come in qualche particolare veniva incontro a certi piccoli odierni gusti del pubblico”. Con ogni probabilità Forzano sta pensando alle seguenti due scene:

Scena 7 Altro angolo di campagna. Fiumicello tra le folte rive. Anche qui pecore che pa­ scolano. Alcune pastorelle che vengono in riva al fiume nel punto più frondoso guardano intorno come per assicurasi che da nessuna parte possano essere vedute. Quindi ridendo cominciano a spogliarsi. Scena 8 Si vedranno nell’acqua tuffate sino a tutto il petto, agitanti le braccia nude, gio­ conde come najadi.

“Come vedete - chiosa Forzano - già allora Martini prevedeva il successo di certe csibizioncclle moderne”. C’è un secondo gruppo di lettere, scritte a partire dal giugno 1917, in cui — proprio a causa dei ritardi dovuti anche alla decisione di avere musiche origi­

nali scritte da un grande autore — Puccini o Mascagni -, l’attenzione viene quasi esclusivamente concentrata sulla musica c sui rapporti tra musica scritta per il film e musica affidata alla libera esecuzione dei pianisti e delle orchestri­ ne in ogni proiezione.

Dunque qui si corre il rischio di avere la musica della Canzone dei fiori quando la pellicola vedrà festeggiato il suo centenario. E le dirò io avevo sempre contato co­ me ultima ratio di rivolgermi a Mascagni. Puccini non dice di no. Ma capisco che per lo scrupolo che mette in tutte le sue note egli darebbe un’importanza alla cosa che lo porterebbe c ci porterebbe alle Kalende...

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Martini scrive una bella lettera a Forzano ricordandogli il suo diploma musi­

cale e invitandolo a comporre lui direttamente un tema per il film, o a cercar­ lo in certa poesia del Seicento.

Forzano - che non intende farlo - a questo punto assume un tono pedagogizzante nei confronti del suo maestro e dopo averlo pregato di intercedere

per lui con Mascagni con cui ha rotto a causa di Lodoletta (“quello non è un uomo ma una bestia feroce”) gli spiega i problemi dei rapporti tra musica e film, senza però rispondergli sulle ragioni per cui lui non vuole direttamente

ideare un tema musicale. Così scrive il 29 giugno 1917:

Per la musica di tutta la film debbo dirle quanto segue: generalmente la musica che accompagna le films è imposta dalla casa che vende il film ai diretti... esploitatori (brrrrr); costoro nei cinematografi o nei teatri si rimettono a loro volta al maestro o che suona il piano o che dirige l’orchestrina; quando però nel caso del Cristo o della reginetta delle Rose la musica è stata espressamente scritta per la film allora la casa editrice della film stessa noleggia anche lo spartito della musica espressamente scritta... Insomma ella chieda a quei signori: dove e come hanno idea di lanciare la prima volta lo spettacolo. Se sono di parere di fissare loro precisamente la musica da accompagnare la film, oppure se tranne per il pezzo d’obbligo “oh mio dolce ardore” lasceranno liberi gli acquirenti. Se la film fosse eseguita per la prima volta in un teatro di una città importante al­ lora ella deve imporre che la musica sia da lei approvata e consigliata e in questo caso io verrei ove fosse necessario... Tanto per scrupolo Le dico che Mascagni è a Roma in via Po 21... Quanto a Puccini sollecitato da Forzano per lettera a collaborare — dopo una pantagruelica cena con Martini a base di caciucco - risponde con dei versi

osceni, che invitano a produrre la musica mangiando un bel pò * di “fagioli pcsciatini”. Nell’ultimo gruppo di lettere - che riguardano il periodo 1918-1922 - c

che sono decisamente meno interessanti, spesso telegrafiche, per molti versi allusive per altri sfuggenti, si accenna ad altri soggetti (La vita di Dante, Lastedio di Firenze, I Medici}, presumibilmente mai scritti su cui i dati sono piut­ tosto nebulosi e il contributo stesso di Martini appare difficile da definire. Le cose — in ogni caso — non sono andate affatto bene. L’ultima lettera di Marti­

ni a Forzano è scritta proprio a proposito del fallimento del progetto sull’/lftedio di Firenze ed è ancora riportata nel volume di ricordi: Caro Forzano, deir/tott/r# non ho saputo più nulla. Temo che in quella società cinematografica siano rappresentati ambedue i partiti della Firenze cinquecentesca. I Piagnoni che lacrimano sui quattrini da mettere fuori e gli Arrabbiati per le mie pretese eccessive.

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In una situazione di crisi sempre più catastrofica che colpisce il cinema ita­ liano dalla fine della guerra, Martini non è né il genio della lampada, non ha poteri magici, né miracolistici, né terapeutici. È entrato Forse di contragge­

nio in questa avventura e a questo punto non possiamo neppure più imma­ ginare le sue reazioni allo scomposto agitarsi con risultati quasi sempre nega­

tivi di Forzano. O possiamo forse vederlo sorridere allontanandosi in punta di piedi, quasi a voler andare a raggiungere la sua Madre lontana senza assistere al naufragio di una cinematografia da cui non ha tratto nessuno dei vantaggi prospettati e verso cui però non avverte alcun senso di colpa o responsabilità nell’aver con­

tribuito al suo affondamento. *

* Questo saggio è stato reso possibile grazie al lungp lavoro di ricerca compiuto da Andrea Greco, che mi ha fornito i materiali e consentito di conoscere più da vicino la straordinaria e affascinante figura intellettuale di Ferdinando Martini.

TALES OF CINEMATIC CUSTOMS:

EARLY ITALIAN CINEMA LITERATURE,

RECEPTION AND HISTORIOGRAPHY

John P. Welle University of Notre Dame, USA

The term “cinema literature”, “film literature”, or “cinema scritto”, has tradi­

tionally been used to describe “serious” or noteworthy film books, primarily

histories, but also works of theory and criticism; and in the Italian context, the film trade press and culturally-oriented film magazines. The contempo­ rary international journal Film History, for example, has recently devoted an

issue to cinema literature, in which film scholars testify to the importance of such classic works as Munsterberg’s The Photoplay, Kracaucr’s From Caligari

to Hitler: A Psychological History of German Film, or Sadoul’s Histoire du cistè­ rna mondiale. This paper, however, uses the term “cinema literature" with a slightly different emphasis. I would like to call attention to a marginal and forgotten work of popular Italian film writing, or cinema literature, a work of film fiction: namely, Le novelle del cinematografo by Yarro (Giulio Piccini) pu­

blished by Bemporad in 1910. My title, “Talcs of Cinematic Customs”, stems

from and pays homage to a film novel by Enrico Roma published in 1919, La repubblica del silenzio: racconto di costumi cinematografici. The second part

of my title, “Early Italian Cinema Literature, Reception, and Historio­ graphy”, signals my intention to read Piccini’s stories within the critical fra­

mework of cultural reception and film and literary historiography. What is cultural reception? In his book, Early Cinema in Russia and Its Cultural Reception, Yuri Tsvian has attempted to reconstruct the response to early cinema of the educated Russian public. Like Tsvian, I am interested in

what he calls “reflective rather than reactive response”1. He posits as reflective

“a response that is active, creative, interventionist, or even aggressive”1 2. In de­ scribing how cultural reception works, he writes:

At the input we have a simple moving image, at the output we get a “reception text” - The task of those who take up the study of cultural reception is quite si­

1 Y. Tsvian, Early Ciurma in Russia and Its Cultural Reception, trans.: A. Bodger, Chicago and London. University of Chicago Press, 1991, p. I. 1 Ibid.

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milar to that of the Rorschach psychologist: to summarize and interpret the re­ current associations and fixed ideas that each culture reads into the “moving smudges” of early cinema3.

The 1993 re-edition of Gualtiero Fabbris film novella, Al cinematografo (1907), edited by Sergio Raffaelli and published by the Associazione italiana

per le ricerche di storia del cinema, provides important material for the study of early cinema and its cultural reception. In addition to shedding light on film audiences, film genres, and various discourses circulating at the time, Al

cinematografo provides insights into the origins of Italian film journalism. Pie­

tro Tonini, who sponsored the novellas publication, was the proprietor of a cinema and the editor of one of Italy s first film journals. Gualtiero Fabbri, the author, was one of Italy’s first film journalists and film critics4.

A work of similar interest, but very different in its mode of address, Le novelle del cinematografo by Yarro (Giulio Piccini) points to the confluence of early cine­

ma and popular literature. This volume, which, to my knowledge, has never been re-issued after its initial printing in 1910, consists of five short stories: "Al

cinematografo: un delitto in un baule”; "Nuovi quadri cinematografici”; "Una lettera perduta al cinematografo”; "Cinematografisti fra i cannibali: o come si può diventar milionari al cinematografo”; and "Il mistero del manoscritto”56 . In the second edition of Teodoro Rovito’s volume, Letterati e giornalisti

italiani contemporanei: Dizionario Bio-Bibliografìccfi, published in 1922, wc find the following entry:

Piccini. Giulio {Jarro). Ingegno vivace, versatilissimo, fu uno dei più popolari scrittori nostri. Luigi Capuana scrisse di lui: “Chi lo conosce da vicino può dire che tra lo scrittore e il brioso parlatore in conversazione non c’è nessuna differen­ za. Le macchiette ch’egli schizza, ragionando con amici, i motti arguti che gli sfuggono di bocca hanno lo stesso valore di quelli da lui profusi nei suoi libri. Questi infatti sembrano parlati; ma non si leggono, si stanno ad ascoltare, e il go­ dimento che ne risulta è simile a quello che si proverebbe udendoli dalla stessa voce del narratore”. Nato a Volterra da ragguardevole famiglia, si dette agli studi classici; prese quindi a scrivere sui giornali e sulle riviste con lo pseudonimo di Jarro (jarro è un aggettivo della lingua spaglinola che corrisponde all’italiano gar­ rulo ed al francese bavard) ed ottenne presto fama di romanziere, di critico e di umorista originale7.

3 Op. cit„ pp. 2-3. 4 See Raffaeli i s postface, **Un pioniere”, in G. Fabbri, Al cinematografo. ed. S. Raffaelli,

Roma, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema, 1993, pp. 53-66. 5 Jarro (G. Piccini), Le novelle del cinematografo. Firenze, R. Bemporad & Figlio Editori, 1910. 6 T. Rovi to. Letterati e giornalisti italiani contemporanei: Dizionario Bio-Bibliografico. 2nd. ed., Napoli, Teodoro Rovito Ed., 1922. 7 Op. cit., p. 311.

27 Armed with this information» it is now time to sample for ourselves a few

emblematic passages of Yarro’s “pagine allegre”.

The following “merry pages” arc culled from the fourth talc in the volu­ me, “Cinematografisti fra i cannibali: come si può diventar milionari al cine­ matografo”. Il proprietario della famosa Casa di riproduzioni cinematografiche Mathé si la­ mentava un giorno co' suoi artisti: tutto, diceva, era bello, appropriato in certe riproduzioni; si superavano difficoltà d’ogni maniera; il Cinematografo insegnava, insegnava più che i Trattati di Geografìa, che i viaggi, i Trattati di Storia Naturale; vi faceva conoscere la fauna, la flora de’ più remoti paesi; vi rivelava le meraviglie della astronomia: la etnografia dei popoli più lontani, delle regioni meno cono­ sciute, non è più un mistero, grazie al Cinematografo, per milioni di persone; ma... ma.... soggiungeva, io vorrei ormai qualche cosa di assolutamente nuovo, che nessuno abbia tentato, qualche cosa di una originalità da colpire le masse, co­ me oggi si dice8.

In this passage, we note a number of discourses and references to elements of

Italian film culture circa 1910. First, the French company Pathé, which toge­

ther with Gaumont, had dominated Italian screens in the early decades, beco­ mes “Mathé” in Piccinis caricature. Secondly, the film company or “Casa di

riproduzioni” invented by Piccini has had to overcome “difficoltà di ogni ma­ niera”. This reference reflects the struggles of the film industry in Italy, which

overcame a major crisis in 1908-19099. It can also be read as a reference to im­ provements in film technology, the solving of practical problems involving the

cinematic apparatus. Thirdly, Piccinis vocabulary fits the pattern established by Sergio Raffaeli! regarding the development of film terminology10. In fact, the word “film” docs not occur in these talcs. Instead, Piccini speaks of “ripro­ duzioni”. The personnel in the film company arc referred to generically as “ar­

tisti”. Finally, the desire to produce a film, or “una riproduzione”, to be more accurate, “qualche cosa di assolutamente nuovo... da colpire le masse, come

oggi si dice” reflects the industrial nature of the film business, as well as the ci­ nema’s emerging status as an emblem of modernity. But now let us return to Piccini s talc.

Il proprietario della Casa Mathé entrò nel suo studio; sedette dinanzi al suo ban­ co; l’artista sedette in faccia a lui. - Dunque parla!

8 Jarro, Op. cit., p. 125. 9 See A. Bernardini, “La crisi del 1908-09”, in Cinema muto italiano: industria e organiz­ zazione dello spettacolo 19051190% Bari, Laterza, 1981, pp. 159-223.

10 Sec S. Raffaeli!, Cinema film regia: saggi per una storia linguistica italiana del cinema ita­ liano. Roma, Bulzoni, 1978.

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- Che ne direbbe di una serie di quadri cinematografici intitolati: Un cinemato­ grafista fra i cannìbale. - E i cannibali dove sono? - Andrò a trovarli... - Come? - Intendo andare a Balakua: una regione alla quale ebbe in mira di avvicinarsi lo Stamlcy, molto lontana dalle Stamley Falls: ivi si trova la più feroce razza di can­ nibali... Sono una popolazione di nani, di aspetto orrido, fortissimi; nel loro pae­ se vi è un caldo tropicale, non hanno mai pioggie; vi abbondano le ricchezze di ogni genere... Non si sa come que’ selvaggi, di una atrocità, di una efferatezza in­ domabili, dispongano di un terribile esplodente, che uccide a grandi distanze... Hanno uno stomaco robustissimo. Uno di essi divorò un missionario (carne fred­ da) e stette benissimo; divorò poi l’articolo di uno de’ nostri giornali letterari do­ menicali e morì d’indigestione11. Here, Piccinis tongue-in-cheek references to exoticism, to regrettable We­ stern colonial attitudes regarding Africans, to their wealth of “ogni genere”

awaiting exploitation, to rhe British explorer Lord Stanley, and to the "mis­ sionario, carne fredda” devoured by the cannibal, all speak for themselves. These discourses reflect the wider social and cultural framework in which the

early cinema was received and which, in turn, it made its own new place in a changing popular culture. In addition to illuminating the cultural reception of the cinema in Giolittian Italy circa 1910, this talc can be read from an historiographical stand­

point. “Cinematografisti fra i cannibali” reflects the importance of the docu­

mentary and travel film genre. Moreover, Piccinis story of “Cinematografisti

fra i cannibali” also touches on the topic of ethnography and cinema. Gian Piero Brunetta, for example, describes a documentary film on Africa made in the same year by Luca Comerio:

Il tricolore... sventola molto nel documentario di Luca Comerio del 1910 sulle cacce in Uganda del barone Francherò: [...] Lo spirito nazionalistico (...) illumi­ na lo sguardo di molti operatori-reporters che usano la macchina da presa come arto, penna e macchina da scrivere e ora guardano ai soggetti esotici con la curio­ sità di un entomologo, ora usano l’obicttivo come un mirino e comunicano [...] il senso esaltante della loro avventura di cacciatori di immagini11 12.

Furthermore, Piccinis joke about the article in a Sunday literary supplement

- he doesn’t say which one - giving indigestion to the cannibal merits em­ phasis. “Il pubblico borghese ha fame del nuovo giornalismo”, Giovanni Ra-

11 Jarro, Op. cit., pp. 126-27. 12 G.P. Brunetta. “L'ora d'Africa del cinema italiano", in Lora d'Africa del cinema italiano, eds. G.P. Brunetta and J. Gili, Rivista di studi storici. Rovereto, 1990, p. 10.

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gone writes13. Changes in print culture, journalism, literary genres, and the reading public in Italy between the late nineteenth and early twentieth centu­

ries determine the parameters of popular literary culture. “E la carta, insieme al ferro”, Ragone asserts, “a segnare il passaggio all’industrializzazione ”14. “Una manipolazione degli ambiti”, according to Ragone, constituted a

winning formula, a recipe for best sellers, in Italian popular literature as early as 1870 and 1880. “Attraverso il tessuto Icttcrario-giornalistico ... i più diver­ si ambiti diventano, con tranquilla moderazione, consumabili13. Before the

popular film novel, therefore, and before popular Alm Action, nineteenthcentury Italian novelists depicted the world of the theatre, the opera, the mu­ sic hall, the caffi-concerto, and the circus16. By 1910, Piccini himself had al­

ready published nine novels with Treves, among which we And such titles as Attori, cantanti, concertisti, acrobati’. Sul palcoscenico e in platea’. Amore d’arti­ sta; Il naso di Ermete Novelli’, Viaggio umoristico nei teatri17. By the same date,

he had already published the novel, Mime e ballerine, with Bemporad, a text which had gone into a fifth edition by the time Le novelle del cinematografo

appeared in print. As is well known, Edmondo De Amicis was a master at concocting best-selling Action organized around different “ambiti". His volu­ me, Cinematografo cerebrale, however, which appeared in 1909, has little or

nothing to do with the cinema. Piccini s talcs, by contrast, carry forward and adapt a successful formula of popular literature of the nineteenth century. In the process of rcAccting the

new, incipient, twentieth-century world or “ambito” of the cinema, they pro­ vide evidence of cultural reception. Let us now return to Piccini’s “novelle” to

briefly touch on other issues of relevance to Alm and literary historiography.

Four of Piccini’s five talcs arc comic treatments of the detective genre. In the interest of brevity, I will provide only a few samples with minimal inter­ pretive comment. The title of the Arst talc, “Al cinematografo: Un delitto in un baule”, is it­ self an emblem of Piccini’s work as a whole. It combines the world of the ci­ nema, “la manipolazione di un ambito”, in Ragonc’s terms, “al cinematogra­ fo”, with a crime and detective story, “un delitto in un baule”. Piccini sets the

scene as follows.

u G. Ragone, “La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell’edito­ ria italiana (1845-1925)”, in Letteratura italiana, voi. Il, “Produzione e consumo”, Torino,

Einaudi, 1983, pp. 714-15M Op cit., p. 754, n. 12. 15 Op. cit., p. 727. 16 For a brief discussion of Edoardo Boutet’s theatre novel. Quidam. // romanzo della scena, published in 1904, see M. Schino, Profilo del teatro italiano: dalXValXXsecolo, Roma, Carocci Editore, 1995, pp. 119-121. 17 Rovito, Op. cit., p. 311.

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Al grande Cinematografo Lux-Ars. da giorni, attirava migliaia di spettatori la ri­ produzione, in vari quadri, di un atroce delitto. Si diceva da alcuni, era, in parte, almeno in certi ragguagli, una cosa fantastica. Ma la gente ne parlava, uscita dalle rappresentazioni e si infervorava in raffronti, commentava quella serie di scene, che facevano rabbrividire, suscitavano paragoni con quanto era stato propalato sul delitto recente1’.

We jump ahead in the narrative to meet the detective of the first story. L’uomo di piccola statura che aveva attraversato la sala nel momento in cui si era udito il grido, appena fu tornata la luce, si dette a scrutare nel gruppo delle don­ ne. Tutte parlavano fra loro con eccitazione, appassionate del fatto. Egli, però, ne squadrava le fisionomie, ad una ad una, ne riteneva, ne classificava i tratti nella sua mente, un archivio in cui avevano posto i lineamenti di centinaia di persone e non ne sgarrava una, quando gli occorrea di ricordarsene. Era costui il famoso Ispettore della polizia Adamo Berne, conosciuto popolarmente col no­ mignolo di “Saetuzza”18 19.

In the second tale, “Nuovi quadri cinematografici , **

Piccini provides the de­

tective framework in this manner.

Il proprietario del Cinematografo // Meraviglioso. che riceveva spesso visite di principi reali a’ suoi “grandiosi” spettacoli: l’aggettivo è del proprietario; ebbe oc­ casione di conoscere uno tra i più celebrati Ispettori della Polizia negli Stati Uniti, Teofilo Meredith20. The third story, “Una lettera perduta al cinematografo , **

does not feature a fa­

mous detective. It belongs to the same genre, however, as it involves a myste­ rious woman, a lost letter, an unsolved crime, the police, and problems of mi­ staken identity. The fourth story, which we have already mentioned, “Cinematografisti fra

i cannibali , **

also features a detective. After a series of misadventures remini­

scent of Saturnino Farandola21, the vast fortune acquired by the “Cinemato­ ** grafista

will be lost unless an heir can be found.

Si cercarono nella grande città, ov'era nato, gli credi della sua immensa fortuna... a chi sarebbero andati i milioni lasciati dal Cinematografista?... Fu incaricato delle ricerche il giovane Ispettore della polizia Gaspare Obritti22. A film historian, Tom Gunning, in a series of articles on the origins of the de-

18 Jarro, Op. cir.. p. 4. 19 Op. cit.. p. 7. 20 Op. eir.. p. 61. 21 See A. Costa, “Il mondo rigirato: Saturnino versus Phileas Fogg”, in Cabiria e il suo tempo, cds. P. Berretto and G. Rondol ino, Torino, Editrice II Castoro, 1998, pp. 295-310. 22 Jarro, Op. cit.. p. 139.

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tcctivc genre in cinema, analyzes many of the same elements that are present here: physiognomy, the mental archive, mistaken identity, disguise23 2526 24 . Another film historian, Monica Dall’Asta, provides the following historical analysis:

Nell’autunno 1908, con l’uscita della serie incentrata sul detective Nick Carter (cinque film di un rullo diretti da Victorin Jasset per la francese Éclair nel bien­ nio 1908-1909) il principio di realtà viene definitivamente surclassato da quello di finzione e gli schermi europei si affollano di personaggi di pura fantasia, detec­ tive c banditi, pirati c avventurieri già noti al pubblico per le loro imprese roman­ zesche24.

A literary historian, Graziella Pagliano, provides the following account of the origins of the detective genre in Italian literature: In Italia il poliziesco inizia ufficialmente nel 1929 con la collana mondadoriana di colore giallo che darà il nome al genere. In precedenza tuttavia se ne erano tra­ dotti in collane letterarie (Wallace, Van Dine, Christie) e già nel 1900-1908 la Domenica del corriere pubblicava a puntate le avventure di Sherlock Holmes e di Arsenio Lupin25. The same Sunday literary supplement, it would appear, the Domenica del cor­

riere., whose articles may have been the very ones that gave the fatal indige­ stion to the cannibal in Piccinis talc, emerges from literary historiography as one of the likely written sources of the detectives and police inspectors featu­

red in Le novelle del cinematografo. On the other hand, the detective work of film scholars, Aldo Bernardini and Vittorio Martinelli, no doubt the equals in every way of Sherlock Hol­

mes himself, provides ample evidence of numerous celluloide detectives. Ber­ nardini’s filmography, between 1906 and 1910, lists such titles as: // delitto del magistrato-, Un rivale di Sherlock Holmes’, Il delitto del servo', La Mano Nera,

also known as I delitti della Mano Nera in America-, Il piccolo Sherlock Holmes', and II poliziotto1** . By 1910, Italian film comics had taken up the genre. An­

dré Deed, for example, made II delitto di Cretinetti and Cretinetti poliziotto in

23 See T. Gunning, “Attractions, Detection, Disguise: Zigomar, Jasset, and the History of Film Genres”, Griffithiana, vol. 47, May 1993» pp. 111-135; and “Tracing the Individual Body: Photography, Detectives, and Early Cinema”, in Cinema and the Invention ofModern Life, eds. L Charney and V.R. Schwartz, Berkeley, University of California Press, 1995» pp. 15-45. 24 M. Dall’Asta, “La diffusione del film a episodi in Europa”, in Storia del cinema mondia­ le, vol. I, “L’Europa: Miti, luoghi, divi”, ed. G.P. Brunetta, Torino, Einaudi, 1999. p. 277. 25 G. Pagliano. // mondo narrato: Scritti di sociologia della letteratura moderna e contempora­ nca, Napoli. Liguori, 1985» p. 178. 26 A. Bernardini, // cinema muto italiano: i film dei primi anni. 1905-1909, Roma, Nuova

ERI, 1996; and // cinema muto italiano 1910: i film dei primi anni. 1910, Roma, Nuova ERI,

1996.

32

the same year as Piccini’s Novelle del cinematografo. In 1911, Marcel Fabre

stars in Robinet detective17. As I have tried to demonstrate in this paper, Piccini’s talcs of cinematic cu­ stoms stand at the intersection between the nineteenth and the twentieth centuries, between popular literature and early cinema. They reveal the matri­

ces in which early cinema was received in Italy. They also pose questions of historiographical interest. While film and literary historians have devoted considerable attention to the literary/cultural elite, including such figures as

D’Annunzio, Pirandello, Gozzano, Verga, Marinetti, Canudo, and Luciani, very little work has yet been done on cinema and popular literature. Moreo­

ver, “cinc-lcttcrati” of the silent period, minor intellectuals who once enjoyed considerable popularity, such as Lucio D’Ambra27 28, Enrico Roma, Umberto Fracchia, and Ettore Vco, not to mention Giulio Piccini, beckon as potential sources of insight into the cultural history of early Italian cinema.

Writing in 1966, Pierre Lcprohon praised the high quality and abundant

quantity of Italian cinema literature. He noted that in Italy “the cinema at­

tracted the attention of the elite at a much earlier stage”29. He also claimed with enthusiasm that “No other country can boast as large an output of cine­ ma literature * ’30. What has been missing, however, from the canon of Italian

cinema literature as it has been constructed over the past sixty years is an at­ tention to popular writing about film.

In closing, one of Antonio Gramsci’s many observations on intellectuals comes to mind: “È vero che una determinata epoca c una determinata civiltà sono meglio rappresentate dalla media degli intellettuali e quindi dagli intel­

lettuali mediocri”31.

27 A. Bernardini and V. Martinelli, // cinema muto italiano 1911. seconda parte: i film degli

anni doro, Roma, Nuova ERI, 1996. a See A. Meneghelli, “Lucio d'Ambra: ipotesi per un’indagine isocronica". Fotogenia, nn. 4/5,1997/1998, pp. 175-90. ** P. Leprohon, The Italian Cinema, trans.: R. Greaves and O. Stallybrass, New York,

Praeger, 1972, p. 15. » Ibid. M A. Gramsci. Quaderni del carcere, ed. V. Germano, voi. Il, Torino, Einaudi, 1977, p.

875.

IL FANTASTICO, ANZI.

MATERIALI PER UN REPERTORIO ICONOGRAFICO Antonio Cosca Università di Bologna

Nell’ultimo decennio, grazie soprattutto al lavoro di cineteche c rassegne spe­ cializzate, si è fatta strada la consapevolezza, anche presso gli storici stranieri,

che il cinema muto italiano non possa essere ridotto a soli cinema epico e “di­ va film". Kristin Thompson, in un articolo sulla rassegna “I giorni di Cabiria" (Torino, ottobre 1997), ne sottolineava l’importanza in quanto aveva permes­ so di farsi un’idea della gamma del cinema muto italiano al di fuori dai soliti

stereotipi. E metteva al primo posto, tra le numerose “scoperte”, le Straordi­ narissime avventure di Saturnino Farandola (Ambrosio, 1914) di Marcel Fabrc1. In realtà si tratta di un film visibile da tempo, molto prima delle at­

tuali stagioni di filologia espansa &dei restauri generalizzati. Anche senza risa­

lire al pionieristico “Invito al cinema retrospettivo” di Luigi Rognoni, in un numero di Bianco e Nero anni Cinquanta1 2, basti ricordare una mostra pesare­ se anni Novanta in cui il serial dcll’Ambrosio veniva messo in una posizione di rilievo nell’ambito dei film “innovativi, dimenticati, sottovalutati” del pe­

riodo del muto3. E tuttavia non c’è da stupirsi che Saturnino possa essere defi­ nito una scoperta. Perché ci sia recupero di memoria storica, occorre che, parallelo al lavoro di conservazione, restauro, programmazione di film noti c

ignoti della storia del cinema, ci sia un lavoro di messa in prospettiva, di pro­ duzione discorsiva capace di dar conto delle relazioni tra la logica interna all’i1 Cfr. K. Thompson, “Colloque: I giorni di Cabiria: La grande stagione del cinema muto torinese, Turin, octobre 1997**» Domitor Bulletin deLidiion, vol. XII, n. 1, janvier 1998, pp. 13-14. 2 Cfr. L Rognoni, “Cinema muco a Venezia. Inviro al cinema retrospettivo’*. Bianco e Ne­ ro, nn. 7-8, luglio-agosto 1952, pp. 91-94. 3 S. Parigi (a cura di), 100 anni di nuovo cinema italiano. Film innovativi, dimenticati, sot­ tovalutati, Roma, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, 1994 (“Periodo muto”, pp. 9-52). Nel catalogo curato da Parigi, oltre a un’ampia citazione dell’articolo di Rognoni sopracitato, viene riprodotto anche un contributo di grande interesse di Juan Gabriel Tharras, “Saturnino Farandola, un film da rivedere”. Va ricordato inoltre che il film di Fabre era stato presentato, nella versione attualmente visibile, a Bologna nel dicembre del 1988, quando “Il cinema ritrovato” era ancora una sezione della “Mostra Intemazionale del Cinema Libero”.

34

stituzionc cinematografica e il sistema delle forme e dei significati prodotti in una determinata epoca. Tra gli scopi del presente convegno c’è appunto quel­ lo di favorire lo sviluppo di una pratica di lettura e di interpretazione (anche

al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti del muto italiano), senza la quale il lavoro di restauro resta lettera morta, mera pratica archivistica, certo

importante, ma da sola incapace di acquisire alla nostra memoria storica le produzioni del passato. Nell’intervento che segue4, cercherò di fissare alcuni punti sulla presenza del fantastico, nell’accezione più ampia possibile del termine5, nel cinema

muto italiano. Naturalmente non c’è alcuna pretesa di esaustività, ma sempli­

cemente il tentativo di definire possibili percorsi di ricerca, in parte già abba­ stanza delineati e in parte ancora da tracciare con maggior precisione, tenen­ do conto soprattutto di quei film che sono stati recuperati e restaurati o co­ munque resi visibili in copie attendibili negli ultimi anni (molti certamente, ma pur sempre troppo pochi per avere un quadro, se non completo, almeno

sufficientemente ampio).

Da “Saturnino"a “L’uomo meccanico"

Se il Saturnino dcH’Ambrosio non può essere considerato un vero e proprio recupero, diverso è il caso di Malombra (Cines, 1917) di Carmine Gallone, presentato in versione restituita alla sua integrità, dopo un lungo oblio, al “Cinema ritrovato” di Bologna nel 1991. Abbandonandosi un po’ al piacere del gioco cinefilo, il film di Gallone potrebbe essere definito una sorta di in­ cunabolo italiano di Rebecca (1940) di Hitchcock esattamente come Malom­

bra (1942) di Soldati può sembrare un tentativo di remake italiano dello stes­ so. Dico questo perché sono convinto che il film di Gallone si collochi su

uno standard qualitativo e linguistico paragonabile alle (o addirittura in anti­ cipo sulle) più significative manifestazioni internazionali del genere gotico. 4 Questo testo unifica e sintetizza, con integrazioni e aggiornamenti, il mio intervento, dal titolo “Cinema fantastico", al workshop internazionale “A nuova luce", svoltosi a Bolo* gna. nell’ambito di “Il cinema ritrovato”, il 26-29 giugno 1997 e la mia introduzione al Con­ vegno dallo stesso titolo del 12-13 novembre 1999. Complementare al presente testo è quello dedicato a Maciste all'infèrno che appare nell'appendice di questo volume. 5 Uso quindi il termine secondo una prospettiva trasversale, interessata più ai meccanismi di funzionamento del genere che a una rigida definizione e contestualizzazione storica. Quin­ di, per dare qualche riferimento, intendo per fantastico sia il fantastico “per partito preso” che il fantastico “istituzionale” della classificazione di Caillois, il quale, come è noto, spaziava tra diversi mezzi espressivi (letteratura, pittura ecc.) e diverse epoche. Cfr. R. Caillois, Nel more delfantastico (1965), Milano, Feltrinelli, 1984. Per quanto riguarda in modo specifico il cine­ ma, mi riferisco alla gamma molto ampia di accezioni di J.-L. Leutrat, Vie des fàntòmes. Le fantastique au cinema, Paris, Cahiers du Cinéma, 1995.

35

Che si tratti di awcnturoso-fantastico {Saturnino) o di gotico {Malombra),

questi e molti altri recuperi degli ultimi anni inducono, se non a ridisegnare, quanto meno a rivisitare la mappa dei generi del cinema muto italiano. Non c’è da aspettarsi nessun colpo di scena clamoroso, ma per lo meno qualche aggiustamento o integrazione del quadro storico tramandato. Inoltre, dovreb­

be ormai essere adeguatamente storicizzata quella tradizione critico-interpre­ tativa che ha accordato un primato quasi assoluto alla “vocazione” realistica e pedagogica del nostro cinema, trascurando altre tendenze pur presenti e vita­ li. È vero, come scriveva Contini nella prefazione a Italia magica, che si è soli­

ti “assegnare alla brume del Settentrione e alle fate morgane deU’Orientc il

monopolio della sensibilità magica in letteratura”6. E se nella nostra letteratu­ ra novecentesca è capitato, come nel caso degli scrittori antologizzati da Con­

tini, che si sia spesso adottata la soluzione di “isolare l’eccezione attraverso il filtro dell’ironia”7*, è anche vero che un’analoga soluzione si trova in varie ma­ nifestazioni del nostro fantastico cinematografico. Grazie all’apporto di vari

comici francesi formatisi per lo più all’epoca delle crescenti fortune di Méliès, il fantastico italiano risulta spesso ibridato con il burlesque, dal già citato Sa­ turnino di Marcel Fabrc a L’uomo meccanico (1921) di André Deed.

Naturalmente, accanto a questa soluzione, c’è anche quella “scria”, rappre­

sentata ad esempio da Malombra, di indagare, nelle forme mutuate dal ro­

manzo c adattate al nuovo mezzo, emozioni c comportamenti provocati dal­ l’irruzione dello straordinario c del soprannaturale (o supposto tale) nella vita

quotidiana. Come ha scritto Vittore Branca, Antonio Fogazzaro non era stato né il primo né l’unico a seguire, con Malombra, una vena spiritistica, metapsi­ chica c parapsicologica: era stato preceduto da Tarchetti {Racconti fantastici,

1869) c da De Marchi {Due anime in un corpo, 1878) e sarà seguito da altri narratori, sia pure con caratterizzazioni diverse, come Capuana {Profumo), Zcna {Apostolo) c, in chiave grottesca, Pirandello (//fu Mattia Pascal) *.

Il riferimento a Fogazzaro ci serve a ricordare che esiste un retroterra cul­ turale c letterario cui il cinema italiano può attingere, come del resto dimo­

stra un precoce tentativo della Cincs di avviare trattative con lo scrittore vi­ centino per assicurarsi la sua collaborazione9. Il fatto stesso che Branca defini­ sca l’ava nella quale Marina di Malombra si identifica “una nuova Pia de’ To-

lomci” ci rinvia significativamente a padre Dante. Del resto, Cesare Garboli

ha recentemente definito il canto dantesco del Conte Ugolino il “primo dei

6 Cfr. Italia magica. Racconti surreali novecenteschi scelti e presentati da Gianfranco Contini,

Torino, Einaudi, 1988, p. 5 (si tratta dell’edizione italiana di Italie magique, uscita in Francia

nel 1946). 7 Ibid. * Cfr. V. Branca, “Introduzione", in A. Fogazzaro, Malombra, Milano, Rizzoli, 1982. p. XI. 9 Cfr. A. Costa, “Malombra sullo schermo: da Gallone a Soldati”, in Filologia veneta, IV,

1994. pp. 231-250.

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romanzi gotici”1011 . E Pia de' Tolomei (Cines, 1908) di Cascrini c II conte Ugoli­

no (Itala Film, 1909) di Pastrano sono da ricordare tra i primi titoli “dante­

schi” del cinema italiano. Né va dimenticato che II conte Ugolino (1949) è un titolo significativo della filmografìa di Riccardo Freda: i cultori del genere amano citarlo come uno degli incunaboli dell’horror all’italiana (c non sarà forse per togliergli di dosso quella patina di noia scolastica, capace di intristire qualsiasi riferimento dantesco, che i distributori lo hanno messo in circolazio­ ne con un secondo titolo, Il cavaliere di ferród). Esistono quindi due componenti della via italiana al cinema fantastico c gotico. La prima legata a quello che viene abitualmente definito l’“intcrnazionalismo” del cinema italiano degli anni Dieci, che favorisce una grande circo­

lazione di tecnici, attori, modelli letterari e iconografici. La seconda, invece, legata ai caratteri originali della tradizione culturale nazionale. A questo proposito ci sono due osservazioni da fare. La prima riguarda il fatto che le espressioni forti, meglio riconoscibili e universalmente riconosciu­

te, del genere fantastico appartengono ad altre culture, ad altre tradizioni. Nel

nostro Paese le manifestazioni cinematografiche del fantastico presentano

spesso l’aspetto dei forestierismi, degli imprestiti o, tuffai più, degli ibridi. Quanto a questi ultimi, la commistione non è solo tra modelli autoctoni c modelli di importazione. Accade, cioè, che la manifestazione del genere, pur

ampiamente attcstata, non avviene quasi mai allo stato puro, ma all’interno dei caratteri dominanti di altri generi: basterebbe ricordare la presenza del fantastico all’interno del peplum e del genere epico-cavalleresco (che ha le sue

nobili ascendenze letterarie) o, ancor meglio, la particolare caratterizzazione che alcune articolazioni del “fantastico” (gotico, horror, metafisico-religioso) acquistano in quel genere a sé (o sottogcncre) rappresentato dai film di ispira­ zione dantesca. Seconda osservazione: la (vera o supposta, poco importa) ano­

malia rispetto ai tratti dominanti predispone il “fantastico” a rimozione o, quanto meno, a emarginazione, ma allo stesso tempo lo carica di un poten­

ziale trasgressivo.

In principio era Méliès

Per tratteggiare questo rapido (c inevitabilmente schematico) repertorio, farò ricorso a una classica tipologia del fantastico, quella di René Prédal, che ho già ampiamente utilizzato nei mici studi su Mèliès”. Riferimento per varie

ragioni inevitabile, quello al “mago di Montreuil”, in quanto il trucco è la

10 C. Garboli, “Inferno il racconto dell’odio", la Repubblica, 31 agosto 2000, p. 44.

11 Cfr. R. Prédal, Le Cinema fantattique, Paris, Scghers, 1970, pp. 8-10: cfr. anche A. Co­ sta, La morale del giocattolo. Saggio tu Georges Mélih, Bologna, Clueb, I9892, pp. 136-142.

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premessa, la prc-condizionc che caratterizza in senso fantastico lo stesso dis­ positivo cinematografico e che costituisce la base tecnica di quel gioco di apparizioni/sparizioni c metamorfosi in cui consiste buona parte delle manife­ stazioni del genere. Si potrebbe, a questo punto, ricordare che l’idea di metamorfosi attraversa un testo di D’Annunzio sul cinema, con tanto di riferimenti ad Ovidio c pro­

messe di immenioni nella mitologia classica12*. Ma per la nostra tipologia con­ tano molto di più Fregoli e Segundo de Chomón, opportunamente collocati lungo la linea Méliès, che le estemporanee elucubrazioni dell’immaginifico. Certo, Fregoli c le varianti del Fregoligraph rispetto al Cinématographc dei fratelli Lumière restano un fatto isolato nella storia del cinema primitivo ita­ liano. Per quanto interessante, non c’è nell’esperienza di Fregoli né la consa­ pevolezza del medium che ha invece Méliès, né un originale apporto tecnico, mentre gli aspetti più geniali della sua arte vanno ricondotti al suo “trasformi­

smo”: si tratta pur sempre di uno dei topoi più “trafficati” del carattere degli italiani, da Agostino Dcpretis a Mussolini o, quanto meno, da Alberto Sordi a Carlo Verdone. Tutt’altro è il discorso da fare su Segundo de Chomón15,

personaggio di spicco di quella schiera di tecnici c artisti (André Deed, Ferdi­ nand Guillaume c Marcel Fabrc, tra gli altri), ingaggiati dalla nascente indu­

stria cinematografica italiana, che daranno contributi decisivi alla caratterizza­ zione del genere mcraviglioso-fantastico, che peraltro si sviluppa anche grazie ai suoi legami con tradizioni non necessariamente cinematografiche.

La prima voce della rubrica di Prédal riguarda il “fantastico espressionista” con precisi riferimenti storico-culturali al cinema tedesco. Difficile trovare tracce di “caligarismo” nel cinema italiano degli anni Venti, anche se, nel con­

testo della forzata emigrazione di cineasti italiani, è possibile registrare episo­ dici influssi, da mettere comunque a carico del già citato “internazionalismo” del nostro cinema muto. Tale è appunto il caso di Der Traum der Zalavie (1923), un capitolo tedesco della serie di Za-la-Mort che Emilio Ghionc girò in Germania con Fern Andra, già protagonista di Genuine (1919) di Robert Wicnc. Inevitabili, con tali premesse, esiti di caligarismo in questo film in

cui, secondo Martinelli, il personaggio di Za-la-Mort acquista “ancor più ter­ rificante risalto” grazie appunto al “tocco di gotico teutonico” di cui esso è

12 G. d’Annunzio, “Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come arre di trasfigurazione" (1914), in P. Cherchi Usai (a cura di), Giovanni Pasrrone. Gli anni d’o­ ro del cinema a Torino, Torino, Utet, 1986, pp. 113-122. u Su Segundo de Chomón, cfr. l'imponente repertorio filmografia» di J.G. Tharrats, Los 500 films de Segundo de Chomón, Zaragoza, Prensas Universitarias de Zaragoza, 1988: si veda inoltre il sintetico contributo di J.M. Minguet Batllori, Segundo de Chomon beyond the cinema ofattractions 1904-1912, Barcelona, Filmoteca de la Generalitat de Catalunya, 1999. Manca ancora uno studio approfondito sulla attività e sull'influenza di Chomón in Italia.

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permeato14. Si potrebbe, inoltre, ricordare che già negli anni Dieci, per esem­ pio nella sequenza finale di Thais (Novissima Film, 1917) di Anton Giulio Bragaglia e Riccardo Cassano, si registra un interessante tentativo di risolvere

in termini sccnografico-pittorici (con il contributo di Trampolini) il pathos autodistruttivo della protagonista. Un caso di pre-caligarismo, si potrebbe di­

re, anche se altri sono gli obicttivi e le fonti di questo progetto espressivo, pur

sempre imparentato con il modernismo. La seconda voce della rubrica di Prèda! definisce il “fantastico onirico”, quello cioè che giustifica nel contesto di un sogno le manifestazioni dello

straordinario. Va subito detto che quello del sogno è l’espediente più usato dal cinema muto italiano che offre un vasto repertorio di sequenze oniriche. Ciò vale pcr film che appartengono a pieno titolo al genere fantastico: tale è il

caso di Kalidaa, storia di una mummia (Tiber Film, 1917) di Augusto Geni­ na, recentemente recuperato, sul quale tornerò. Ma vale anche per film di ge­ nere propagandistico come Mariute (Caesar Film/Bcrtini Film, 1918) o La guerra e il sogno di Monti (Itala Film, 1917): in quest’ultimo, è il sogno del bambino che motiva una sorta di “ricostruzione futurista dell’universo” con

pupazzi che ricordano vagamente le invenzioni di Fortunato Dcpcro. Paradossalmente è proprio questa contestualizzazione onirica (fatta per lo

più secondo la concezione per così dire corrente e popolare di sogno) che ren­

de poco pertinente una tipologia di “fantastico psicanalitico” (terza voce della rubrica di Predai), almeno nel senso di cosciente assunzione di modelli psica­ nalitici nella elaborazione di storie e di mondi fantastici. Ciò non significa che non sia possibile procedere a interpretazioni psicanalitiche di queste o al­

tre sequenze oniriche (da Mariute a II Fauno), ma non diversamente da quan­

to si può fare con qualsiasi film * 5. Certo il materiale non manca, nemmeno nel cinema muto italiano, soprattutto se si passa alla voce contigua (la quarta) dello schema di Predai, quella relativa al “fantastico sadico”. Devo assoluta­

mente citare, a questo proposito, una sequenza di La nave (Ambrosio-Zanotta, 1921) di Gabricllino d’Annunzio e Mario Roncoroni, che dovrebbe fare la gioia degli studiosi di iconografia dannunziana: quella in cui Basiliola (una crudelissima Ida Rubinstein) infierisce a colpi di frecce sui giovani corpi nudi

dei prigionieri ammassati in una buca, in una sorta di iperbolica replica del

tema iconografico del martirio di San Sebastiano.

Quanto al “fantastico leggendario” che secondo Prédal coincide con il “meraviglioso” (“clementi straordinari che evolvono in un universo a sua volta

straordinario”16), esso può a pieno titolo essere rappresentato da Pinocchio 14 Cfr. V. Martinelli, “Cineasti italiani in Germania tra le due guerre”, in Idem, Cinema italiano in Europa 1907-1929, Roma, Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cine­ ma, 1992. p. 157. 15 Si veda al proposito rintcrvcnlo di Francois Jose in questo stesso volume. 16 Predai, Op. cit.9 p. 9.

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(Cincs, 1911) di Giulio Antamoro, traduzione cinematografica della più ori­

ginale e significativa espressione del fantastico leggendario nella letteratura italiana moderna. Se Pietro Citati ha potuto (a ragione) scrivere che “forse Pinocchio è so­ prattutto una voce”*7, non c’è dubbio che Antamoro e Guillaume ne hanno

fatto soprattutto un corpo, e un corpo burlesque, rendendolo disponibile a ogni

trasformismo, a ogni metamorfosi, compresa naturalmente quella in ragazzo per bene. E appunto in questa scissione, realizzata con la tecnica mélèsiana

della doppia esposizione, tra l’immagine del ragazzino imborghesito e il corpo morto del burattino “appoggiato ad una seggiola, col capo girato su una par­ te”, il film ripropone, aggiornandola a un nuovo immaginario, la figura di un

personaggio “completamente ribelle e completamente conformista”, come è stato appunto definito Pinocchio (ancora da Citati17 18). Il fantastico “mitico” e “mostruoso” (sesta c settima voce della rubrica di Prèdal) spesso si intrecciano c si confondono. Diavoli c diavoletti arrivano al cinema italiano da disparate fonti, letterarie c non: si va da // diavolo zoppo

(Ambrosio, 1909) di Luigi Maggi, derivato dal romanzo omonimo di AlainRené Lesage, a Rapsodia satanica (Cincs, 1917) di Nino Oxilia, in cui la vi­

sualizzazione fìlmica del poema di Fausto Maria Martini sembra ispirata dalla

stessa tradizione iconografica alla quale più tardi attingerà Murnau per Faust (1926). Da notare che il film di Maggi riprende dal delizioso testo di Lesage, oltre al titolo, solo la situazione di partenza e due episodi, quello della puni­ zione dell’ingrata Tomasa (cap. VI) e quella del salvataggio della bella Scrafìna (capp. XI e XII)19. Ciò che interessa è quindi solo l’aspetto fantastico-avven­

turoso, che resta del tutto esteriore rispetto al senso del romanzo. Quanto alla situazione di partenza, nel romanzo di Lesage, Asmodco, “demone della lus­

suria”, porta lo studente Leandro sulla torre di S. Salvador c lì, grazie ai suoi diabolici poteri, scoperchia le case di Madrid c gli fa vedere gli interni, non­

ostante il buio, “come se fosse mezzogiorno”. Il film invece risolve il tutto con l’artificio della lente magica (come dice la didascalia, “Dall’alto della torre il diavolo zoppo c Leandro vedono con la lente magica cosa succede dentro le

case di Madrid”). Viene quindi ripreso un artificio ben noto al cinema dei

primi tempi, quello della visione tramite uno strumento ottico, che tanta par­ te ha avuto sia nel sistema delle attrazioni, sia nelle prime articolazioni di una sintassi filmica. E a Mèliès rinvia il trucco del diavolo “miniaturizzato” dentro l’ampolla c quello del volo notturno sopra i tetti di Madrid.

17 R Citati, // male assoluto. Nel cuore del romanzo deU'Ottocento, Milano, Mondadori,

2000, p. 382. '• Ibid. 19 Cfr. A.-R. Lesage, // diavolo zoppo, a cura di I. Landò!lì. Roma, Fazi Editore, 1996.

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Ma il fantastico mitico c mostruoso trova la sua manifestazione più origi­

nale nel repertorio dantesco: nella sua versione cinematografica esso diventa il

punto di incontro tra tradizione autoctona e “internazionalismo” del cinema

muto. Tanto nell’Inferno (Milano Films, 1911) di Padovan e Bettolini quanto in Maciste all'inferno (Fert-Pittaluga, 1926) di Guido Brignone, le principali invenzioni figurative sono ampiamente tributarie delle incisioni di Gustave

Dorè. Realizzate nel 1861, le incisioni dantesche di Dorè avevano avuto una grandissima diffusione perchè erano, come scrive Mattalia, “profondamente

narrative nel senso popolare della parola (...) con quel tanto di naif” che per­ mette di “sconfinare nell’onirico"20. Il fantastico futurista è ugualmente presente in vari film che, non a caso,

fanno parte di quelle produzioni che, utilizzando artisti e tecnici stranieri, so­ no particolarmente propense a quell’intcrnazionalismo cui ci siamo già più volte riferiti. È d’obbligo, al proposito, citare varie sequenze del Saturnino Fa­

randola, le cui invenzioni sono in perfetta sintonia, quando non sono in anti­ cipo, con l’iconografia futurista21. Oltre tutto, nella scena finale della vita feli­

ce nell’isola in cui convivono pariteticamente uomini e scimmie, è possibile vedere un significativo esempio di quel “fantastico ipotetico” (penultima voce della rubrica di Prèdal). Ma senz’altro il film che si spinge più avanti nella direzione di un fantasti­ co futurista è Luomo meccanico (Milano Films, 1921). La perfida Mado, de­ gna collega delle eroine dei serial francesi e americani; l’invenzione di un dis­

positivo di visione a distanza (una sorta di televisione); il “robot” (l’uomo meccanico), dotato di un doppio con il quale entra in conflitto: questi e altri

sono gli elementi che qualificano questo film, recuperato nel ’92 dalla Cine­ teca di Bologna, nella direzione dell’immaginario fantascientifico, in netto

anticipo sulle più celebri invenzioni di L’Inhumaine di L’Hcrbicr e Metropolis di Lang. Ma nel film di André Deed le invenzioni futuriste convivono, come accadeva nel cinema dei primi tempi (ancora Mèliès!), con il burlesque (vedi le performances acrobatico-catastrofìchc di Dced-Crctinctti). In altri film, l’iconografia futurista può convivere con l’esotismo orienta­

leggiante come capita nel già citato Saturnino Farandola o in Filibus (Corona Films, 1915) di Mario Roncoroni. In quest’ultimo, c’è l’attrazione futuristica del dirigibile sul quale vive la misteriosa protagonista (Cristina Ruspoli): da qui Filibus si cala per compiere le sue imprese, vestendo, di volta in volta, i

x D. Mattalia in: Dante Alighieri, La Divina Commedia, illustrata da Gustave Dorè, voi. I, Inferno, Milano, Rizzoli, 1980, p. LXVIII. -* Cfr. A. Costa, “Il mondo rigirato: Saturnino versus Phileas Fog”, in P Berretto e G. Rondo! ino (a cura di), Cabiria e il suo tempo, Torino-Milano, Museo Nazionale del ci nenia-Il

Castoro, 1998, pp. 295-310.

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panni della baronessa Troixmond, di un ladro alla Fantòmas e del conte de la

Brivc. E c’è l’attrazione esotica della statua del “gatto egizio”, i cui occhi — due preziosi diamanti — sono misteriosamente trafugati. Del resto l’esotismo è una componente essenziale del cinema fantastico-avventuroso che può essere ben rappresentato da II gioiello di Khama (Cines, 1918) di Amleto Palermi e,

soprattutto, dal già citato Kalida’a di Genina. Il film di Genina mette in scena uno scienziato, una sorta di dottor Frankenstein, che fa esperimenti per ridare la vita ai morti, e un archeologo, una sorta di Indiana Jones ante litteram, che riporta alla luce da una tomba egizia una mummia perfettamente conservata e del tutto somigliante alla sua fidanzata da poco morta. Nonostante una cer­

ta povertà di mezzi, il film si fa apprezzare per gli effetti di grande eleganza e

efficacia, soprattutto nella resa di un clima onirico (anche qui viene usato l’e­ spediente del sogno per giustificare gli eventi straordinari narrati). Nella se­ quenza in cui Kalida’a rievoca la propria morte, c’è una suggestiva fusione tra il linearismo della pittura vascolare alla quale è ispirata la scenografia c i mo­

vimenti flessuosi dei veli delle danzatrici durante il rito funebre. Lucio D’Ambra, riferendosi alla sua collaborazione con Genina per La signorina Ci­ clone (1916), ha parlato di “giuoco libero e poetico della fantasia” e di “aerea trasfigurazione della realtà in qualcosa d’immateriale c di fiabesco”22, defini­

zioni che si adatterebbero anche a questa sequenza di Kalida’a. Eccoci, infine, all’ultima voce del repertorio di Prédal, il “fantastico parap­

sicologico”. Esso è rappresentato dal già citato Malombra, che costituisce una tappa importante non solo nell’arte della messa in scena fìlmica di Gallone,

ma anche uno dei più significativi esempi di fantastico-gotico legato a una tradizione letteraria tanto significativa, quanto misconosciuta c rimossa. La copia restaurata di questo film, da mettere tra i più importanti recuperi degli ultimi anni, ha permesso di valutare appieno, al di là degli “eccessi” della Be­ rcili che potrebbero farlo rientrare nei soliti stereotipi del “diva film”, il note­ vole grado di maturazione linguistica e espressiva raggiunta dal nostro cine­ ma, nella direzione di un affrancamento dal modello del cinema primitivo dal

quale gran parte del fantastico degli anni Dieci ancora dipende.

Una stagione all’inferno Si potrebbe recuperare a questo proposito una distinzione, fatta da vari stu­

diosi, tra il meraviglioso c il fantastico. Gérard Lennc, ad esempio, oppone il

meraviglioso al fantastico, pur stabilendo tra i due un rapporto per così dire genetico: “il regno del meraviglioso contiene in gestazione quello che diventerà

~ L D'Ambra. Gli anni della feluca, a cura di G. Grazzini, Roma, Lucarini, 1989, p. 174.

42

ilfantastico”1*. Nel contesto del cinema muto italiano, la caratterizzazione del meraviglioso oscilla tra l’apporto delle tecnologie e del repertorio iconografico del cinema féerique e burlesque (che risale a Méliès e arriva da noi attraverso i

contributi di Deed, Chomón, Fabre e altri) c l’integrazione nella tradizione storico-mitologica e epico-cavalleresca. È, anzi, possibile stabilire un legame tra la grande fortuna del peplum, come chiamano i francesi il genere cpicostorico-mitologico, c la prevalenza del meraviglioso. Secondo Gérard Lenne,

“il peplum non è solo la branca più riuscita del meraviglioso”, ma è anche la più popolare24. L’originalità del peplum consiste in una capacità di collcgarsi,

a un tempo, a una tradizone storico-letteraria (l’antichità greco-latina c le sue rievocazioni recenti e meno recenti) c di sfruttare tutte le risorse tecnico-arti­

gianali del nuovo mezzo espressivo (oltre che della scenotecnica teatrale). In questo ambito, anche grazie a una sorta di contiguità tra tradizione greco-lati­ na (storia c mitologia classica) e tradizione ebraico-cristiana, gli clementi fan­ tastico-soprannaturali risultano in qualche modo storicizzati c metabolizzati, senza che inneschino quei processi che stanno alla base del fantastico nelle ac­

cezioni comunemente in uso nel cinema. In continuità con questo tipo di tradizione è il recupero di quello che co­ stituisce un capitolo a parte della cultura (e del cinema) del nostro Paese: l’immaginario dantesco. Dante (ma bisognerebbe dire piuttosto l’Inferno)

rappresenta una vera c propria riserva di fantastico cui attinge a larghe mani il

cinema italiano, trovando i materiali per quella che Brunetta ha in più occa­ sioni chiamato la conversione fìlmica della “biblioteca dell’italiano”. Ed è ap­

punto nel comune riferimento a una iconografia dantesca che possono convi­ vere c procedere paralleli i riferimenti “alti” dell’Inferno della Milano Films c

le pratiche “basse” di Maciste all’inferno di Brignonc. L’inferno della Milano Films viene, a ragione, indicato da Aldo Bernardini, in un saggio esemplare, come l’atto fondativo del lungometraggio in Italia.

Esso occupa una posizione di rilievo non solo per i vari aspetti iconografici, narrativi e ideologici, ma anche per alcune caratteristiche della sua produzio­ ne c distribuzione25. La copia studiata da Bernardini è quella della Cineteca Nazionale di Roma. Mi è stato possibile visionare, nel corso di un’originale

rassegna tenutasi a Ravenna nel ’9S26, una copia inglese, proveniente dal Na­ tional Film and Television Archive di Londra, di una durata di quattro minu­ ti supcriore a quella della Cineteca Nazionale. Essa presenta non solo gli cpi-

25 G. Lenne, Le Cinema fantastique et set mythologies, Paris, Editions du Cerf, 1970, p. 93. 24 Op. cit., p. 97. 25 Cfr. A. Bernardini, “’Clnfirno della Milano-Films”, Bianco e Nero. a. XLVI, 2 aprile-giu­

gno 1985, pp. 91-1 11. 26 Cfr. gli Atti del relativo convegno, G. Casadio (a cura di). Dante nel cinema, Ravenna, Longo Editore, 1996.

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sodi mancanti nella copia romana, ma anche l’immagine del monumento a Dante di Trento, collocata però all’inizio e non alla fine, come risulta invece nella lista dei quadri pubblicata da Bernardini. Tra le scene assenti nella copia

della Cineteca Nazionale particolarmente significativa è quella dell’incontro con Farinata (pur nei limiti dell’impianto illustrativo) che riesce a dare un ri­ lievo drammatico al dialogo tra Dante c il fiero ghibellino, con l’intermezzo non meno drammatico dell’intervento di Cavalcante Cavalcanti. Il film è ancora ampiamente debitore di tutto un repertorio di trucchi e di

un uso ancora “primitivo” dcH’"attrazionc” c dcH’“illustrazionc” (le didascalie,

che fanno largo uso di citazioni e parafrasi di versi danteschi, anticipano sem­ pre il soggetto della inquadratura successiva). E tuttavia quello che risulta as­ solutamente innovativo è il contesto in cui tali procedimenti si collocano. Pri­

vilegiando le riprese in scenari naturali (Bernardini ha fornito una mappa det­

tagliata dei luoghi di ripresa27) viene posta una ipoteca per così dire naturali­ sta c le poche ambientazioni scenografiche di tipo teatrale (alla Méliès, per in­ tenderci, come ad esempio quella dell’incontro con i ladri morsi dai serpenti) si confondono nel clima visionario del film con quelle “dal vero”.

Prendiamo, ad esempio, la scena del poeta provenzale Bcrtran de Born che

vaga tenendo per i capelli la propria testa staccata dal corpo (“’I capo tronco tcnca per le chiome, / pesol con mano a guisa di lanterna”). Il film riprende

in questo caso una delle più tipiche invenzioni mélièsiane, quello di un perso­ naggio con la testa staccata dal corpo. Ma qui è utilizzata con effetti dramma­ tici e orrorifici: per quanto debitrice della relativa incisione di Dorè, essa ac­ quista forza e suggestione del tutto cinematografiche. Lo stesso procedimento

sarà poi utilizzato, ma con effetti comici, in Maciste all'inferno, nella scena in cui un diavolo si riaggiusta la testa che gli era stata staccata da un ceffone di

Maciste. Il cinema primitivo fornisce una sorta di correlativo oggettivo dell’univer­ so visionario di Dante c, allo stesso tempo, lo mette nel circolo del nuovo im­ maginario nato dallo sviluppo degli spettacoli ottici e culminato nel cinema­ tografo. Con la realizzazione dell’Inferno della Milano Films il cinema italiano

non solo inaugura la stagione del lungometraggio, ma dimostra anche la ca­ pacità di annettere il patrimonio iconografico del cinema delle attrazioni alla propria tradizione culturale adattandolo, sia pure attraverso la mediazione delie incisioni di Dorè, alle esigenze di una koinè cinematografica (il film, co­

me è noto, ebbe una vastissima fortuna anche all’estero). 17 Cfr. Bernardini, “^Inferno della Milano-Films”, cit., p. 98: “... l’entrata nell’inferno, per esempio, avviene tra le cime rocciose e le nuvole autentiche della Grigna meridionale (presso il canalone Porta), riprese nelle loro grigie tonalità autunnali; i corsi d’acqua e i laghetti pre­ senti sono stati trovati a Mondello, sul lago di Como e ad Arenzano, presso Genova, mentre altre scene (il lago di pece bollente della quinta bolgia o lo scenario petroso in cui si muovono gli ipocriti) sono stati creati utilizzando il letto disseccato del torrente Serenza, a Carinate *'.

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Un altro degli aspetti degni di nota dcH’/w/frw della Milano Films è quel valore politico di cui esso viene caricato attraverso l'immagine del monumen­

to a Dante di Trento (nel 1911 ancora “terra irredenta”), eliminata all’epoca dalla censura italiana (è questa la ragione della sua assenza nella copia conser­ vata in Italia28). Basterebbe questo semplice aspetto, anche al di là di tutto ciò

che il poema dantesco poteva significare nella coscienza linguistico-culturalc

dell’italiano medio, per dare una coloritura particolare al repertorio iconogra­ fico del film, del tutto compatibile con l’iconografìa fantastico-orrorifìca del cinema dei primi tempi e, al tempo stesso, ad essa non del tutto assimilabile.

a /W.

LERÉVEEST UNEVIE Francois Jost Università de la Sorbonne Nouvclle, Paris

Commc fai cu l’occasion de le dire aillcurs, le reve occupc, dans le cinéma des débuts, unc place centrale parcc qu’il est le lieu où s’obscrvc au mieux le déclin d’un monde millénairc et l’avèncmcnt progressif des idécs qui vont régner sur le XXtsièclc *.

En effet, contrairemcnt à ce qu’on dir souvent, si la

psychanalysc et le cinéma naisscnt la meme anncc, on ne saurait y voir autre chose qu’un hasard des calendricrs. Le cinéma est bicn trop ancré dans Ics

croyanccs populaircs pour fairc écho à (’invention geniale d’un médccin autrichien, lui-méme d’aillcurs fortement marqué par des siècles d’oniromancie. Dans ce contcxtc et jusque dans Ics années Dix, le reve, n’est qu’unc vision

parmi d’autres, et le cinéma recourt d’aillcurs courammcnt aux memes prece­ des — la surimprcssion — pour signifier aussi bicn l’hallucination, (’apparition

que le songe. Prochcs de la voyancc, tous ccs phénomènes sont plutót des vi­ sions que des récits, si l’on admet quclqucs exceptions rcmarquablcs, Une ex­ cursion incohérente (Pathe, 1909) ou quclqucs films de Méliès. Dans Ics annécs Dix, la narrativisation du reve se généralisc à l’instar de l’évolution formelle du récit filmique et sc posent des questions nouvcllcs:

quelle relation entreticnt ce récit nocturne avee le récit global qui l’accucillc ? à quoi scrt-il? Questions qui engagcnt aussi bicn unc nouvellc théoric du reve qu’unc interrogation sur la narration cllc-mcmc. De ce point de vuc, trois

films italiens cspacés de quclqucs mois nous retiennent particulièrcmcnt: La guerra e il sogno di Monti (15.4.1917), Il Fauno (16.12.1917), Mariute (17.5.1918). Les trois préscntcnt, en effet, des reves de grande amplitude et

d’un traitement remarquablc. Néanmoins, au-dclà de cctte similitude, ils relèvcnt d’unc pensée différcnciéc du reve. Il Fauno racontc l’histoirc d’unc femme qui songe que la statue d’un faune

s’animc et qu’ellc vit avee lui un “amour premier”, commc le dit le carton. Le monde du reve rcjoint le sicn. Loin de se déroulcr sur unc autre scène, il se

1 E Jost, Le Tempsd’un regard, Paris, Méridicns Klincksicck, 1998.

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mele à la réalité au point que la jcune femme révcilléc se blottit contrc ce co­

usin de Galatéc. En cela, ce film prolonge la conception populaire du réve

qui voit dans cclui-ci un ótre doué d’cxistencc materiche venant visiter le re­ veur (qu’on pense aussi aux visions des saints dans la peinture du Trecento, qui sc tiennent au pied du lit). Un plan magnifique recourt d’ailleurs au thea­ tre d’ombres pour rcpréscntcr cc passage du monde vigile à I’univcrs de la

nuit, procède qui est lui-meme hcrité du siede precedent et que Ion trouvait dévcloppé, de fa^on similaire, dans Une excursion incohérente.

Sur cc plan, La guerra e il sogno di Momì, commc Mariute, bicn qu’ils

soient quasimcnt contemporains d’// Fauno, appartiennent à une autre epo­ que. Dans les deux cas, en effet, le réve est cngcndré par le récit des horrcurs

du front qui a vivement impressionné le dormeur; ce n’est plus la visitation

de quclquc cousin d’incubc ou de succube, mais le fruit du travail de l’inconscicnt du reveur qui restructure à sa manière Ics bribes du quotidicn. L’objct de la symbolisation varie d’ailleurs en fonction de la source du reve: à l’enfant

le désir d’un jouet si parfait qu’il prcndrait vie; à la femme l’angoissc d’etre la victimc du désir bestiai de l’homme (elle est violée). Solidairc d’unc concep­

tion nouvcllc scion laqucllc le reve s’ancrc dans la vie du reveur au lieu de lui ette extérieur, ccs films basculcnt done dans le XX * sièclc. Du meme coup, un film fondò sur Ics croyances populaircs de l’oniromancie parafa datò. N’cst-cc

pas ce que ressent d’ailleurs un critique de l’époquc quand il dédarc à propos d 7/ Fauno'. Non sappiamo di dove quell’ingenua fanciulla (...] tragga tutti gli elementi del suo sogno, che appartengono a una vita che l’autore non ci fa sapere ch’ella abbia né vista, né conosciuta2.

Dix ans auparavant cc manque d’ancragc dans le récl n’aurait gène personne. En cc qui concerne l’csthétiquc cinématographiquc, en revanche, Ics reves de La guerra e il sogno di Monti et de Mariute sont diamétralcmcnt opposés,

en cc sens qu’ils cxemplifìent les deux póles entre lesquels oscillcnt tout le cinéma de l’époquc: l’invcntion vs la vie3. D’un còté, un trucage, à la lettre mervcillcux - pour rcprcndre le mot de Antonio Costa à propos de

Saturnino4 — (’animation d’une armée de pantins de bois qui n’a rien à envicr à la magic des images de synthèsc. Le sentiment d’émcrvcillcmcnt naìt d’un “jc sais bicn mais quand meme” poussé à sa limite. Le plaisir vicnt ici, commc

disait Metz, de la “croyancc en la réalité, mcrvcillcuse ou comiquc des évènc-

2 Pier da Castello. La vita cinematografica.Tonno, 22.30.1917. ì Cfr. F. Jost, “Logique des genres cinématographiques”, in La nascita dei generi cinemato­ grafici, a cura di L. Quaresima, A Raengo e L. Vichi, Udine, Forum, 1999. 4 A. Costa, “Il Mondo rigirato: Saturnino versus Phileas Fogg”, in Cabiria e il suo tempo, a cura di P. Berretto e G. Rondolino, Milano, Editrice II Castoro, 1998.

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mcnts represents, intérct pour Ie tour de force done le cinéma est capable”5.

Tout autre est Ie pole de la vic sur Icquel se situc Mariute. Lc spectateur nc sait plus très bicn, à voir ce film, cc qu’il sait ct, pcut-ctre meme, nc sait-il pas

très bicn ct cc qu’il croie. Pour démclcr la situation complexe qu’il met cn sce­

ne Mariute requiert un arret prolongé. “Cosa è A/. cit., p. 131.

52

cond qui lui est narratio authentic^. Mexemplum est, en effet, “un ròcit bref

donnò commc vòridique et destinò à ètte insòrò dans un discours (en gònòral un sermon) pour convaincrc un auditoire par unc lc4rr//w Frizzi Vita e opere di un ciarlatano, a cura di A. BERGONZINI, Milano, Silvana Editoriale,

1979. “Ultimissime”, La cinematografia italiana ed estera, n. 143» 20 dicembre 1912, p. 2659. BerTOUNI, G., Italia II: Ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia, Istituto veneto di arti grafiche editore, 1912, pp. 161, 166. SCAPIN, “Vita Cinematografica Milanese (li. Cinematografo galeotto)”, La Cine-Fono. Rivista Fono-Cinematografica, Napoli, 09.01.1913» p. 8. “Grande Tournée del ballo ‘Excelsior’”, Giornale Excelsior, n. 6, 1914. Rcproduit dans Notiziario nn. 25-26-27, Musco Nazionale del Cinema, “Documenti”: n. 13» Torino, 1974, p. 16. Nipponohon onpu monku zenshiì, Tokyo, 1917, pp. 339-340. Ciré dans KOMATSU, H., LODEN E, Iris. Revue de thforie de l’image et du son, “Le bonimenteur de vues animées”, Paris/lowa City, n. 22, Automnc 1996, pp. 41-42. Origine, organizzazione e attività dell’istituto Luce, Roma, 1934, pp. 48, 51-52.

Tesi di laurea FRANCESCHINI, G., La dimensione sonora nel cinema muto (Tesi di laurea in Cinema­ tografia documentaria), Università degli studi di Bologna, a.a. 1994-1995, p. VI, 16. Sur le rólc narratif de l’accompagnemcnt musical (chants), voir pp. 32-33» 54-55»

90-92.

Films

Saturnino Farandola, Marcel Fabre (Italie, 1914). Il Fauno, Febo Mari (Italie, 1917). La vela incantata, Gianfranco Mingozzi (Italie, 1982). Nitrato d’argento, Marco Ferreri (France/Hongric/Italic, 1996).

“I PROMESSI SPOSI” ILLUSTRATI CON LE TAVOLE CINEMATOGRAFICHE AMBROSIO

Raffaele De Berti Università cattolica, Milano

/precedenti nell’uso dell’illustrazione

Nel 1913 l’editore Treves di Milano pubblica una lussuosa edizione del Quo

* Vadis? di Sienkiewicz, illustrata da ben 78 immagini tratte dall’omonimo film della Cincs diretto da Enrico Guazzoni.

Sulla copertina del libro, sotto il titolo, si riporta la scritta: “Edizione cine­ matografica”. Il cinema fa così il suo ingresso trionfale, attraverso un libro

molto popolare e in una collana di un editore prestigioso, tra le fonti icono­ grafiche da utilizzare per illustrare i romanzi. Lc immagini del Quo Vadis? (chiamate significativamente “quadri”) sono molto curate graficamente, stam­ pate su carta patinata e molte di esse occupano una pagina intera del volume.

Lc tavole, pur tratte dal film, non mostrano scarti significativi rispetto a una

tradizione classica dell’illustrazione, che ha come referente principale la pittu­ ra. Inoltre, una serie di ritratti dei singoli personaggi in posa conferma lo stretto rapporto con la tradizione della pittura accademica dell’ottocento. La ragione di una proposta sostanzialmente tradizionale è dovuta al fatto che an­

che lo stesso film ha come modelli iconografici di riferimento i quadri di Jean-Léon Gérómc, diffusi attraverso varie forme di materiale illustrativo, co­

me fotoincisioni e cartoline postali2.

L’aspetto interessante e innovativo contenuto nell’esempio di questa edi­ zione illustrata del Quo Vadis? è la conferma, fin dall’inizio degli anni Dicci,

1 Quo Vadis? ha un grande successo dì pubblico e conta numerose edizioni italiane, dopo la prima pubblicazione avvenuta nel 1897 in appendice nel Corriere di Napoli. 1 fratelli Treves di Milano inseriscono il romanzo nella collana “Romanzi e racconti illustrati per le famiglie"

e presentano due edizioni: una al costo di 3 lire e un’altra di lusso a 6 lire. 1 Per approfondire l’argomento sui rapporti fra il film Quo Vadis? e l’iconografia preceden­ te a partire dalla pittura di Jean-Leon Géróme si rimanda al documentatissimo intervento di Ivo Blom, “Quo Vadis? From Academic Painting to Early Italian Cinema and Everything in Between", al convegno // cinema e le altre arti, 21-25 marzo 2000, Udine. Atti di prossima pubblicazione.

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del pieno inserimento del cinema nel circuito dell’industria culturale italiana,

con tutto il gioco di rimandi intertestuali e intermediali3 che questo compor­ ta. Se già dai suoi primi esordi il cinema attinge immediatamente al grande

“serbatoio” della letteratura, deU’immaginario popolare e dall’iconografia più varia4, a sua volta, ben presto diventa fonte utilizzabile da altre forme espressi­

ve dcll’industria culturale. Si è in presenza di un Russo assolutamente circola­ re di testi e immagini che passano attraverso i diversi media, che forniscono un nutrimento vitale a ogni nuovo organismo, ma di cui non è sempre facile stabilire l’esatta origine, perche la diffusione avviene anche per trasmissioni e passaggi intermedi; ad esempio, come si è visto prima, dalla pittura al cinema

attraverso le stampe popolari o quant’altro come in un grande bazar culturale, dove si azzerano anche i confini tra “alto” e “basso”5. L’interrogativo su cui ci si vuole soffermare è quello di capire quanto il ci­ nema conservi o modifichi il precedente immaginario e quale ruolo svolga nella nascente industria culturale italiana e nei suoi processi di modernizza­

zione. Per questa ragione si vuole indagare sull’uso strumentale del cinema da parte dell’editoria, limitandosi a un piccolo caso esemplare come quello dei

Promessi sposi di Alessandro Manzoni, pubblicato da Hocpii nel 1915 e illu­ strato con "24 tavole cinematografiche del film Ambrosio”. Prima di passare all’analisi è necessario ricordare che nel periodo fra fine

Ottocento e i primi del Novecento si diffonde la pratica di utilizzare le foto­ grafìe per illustrare romanzi e racconti. Soprattutto nel periodo 1908-1913 si ha un grande impiego di fotografìe in libri e periodici, anche se è sempre pre­ valente l’impiego del disegno almeno fino agli anni Venti6. Non stupisce

nemmeno che sia Treves il primo editore a pubblicare un libro ampiamente illustrato con immagini tratte da un film di successo come Quo Vadis? Infatti, Treves, sempre attento a ogni innovazione tecnologica, nel 1885 su\VIllustra­

zione Italiana stampa la prima immagine fotografica italiana. Sempre $u\\'Illu­ strazione Italiana nel 1898 vengono pubblicate le fotografìe scattate da Luca

5 Senza entrare nel merito del complesso dibattito teorico su questi termini, si rimanda per approfondimenti sulle diverse accezioni in cui sono utilizzati a R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, New vocabularies in Film Semiotics. Structuralism, Post-structuralism and Be­ yond, 1992; tr. it.: Semiologia del cinema e delldudiovisivo, Milano, Bompiani, 1999. Qui i termini sono usati nel senso più ampio possibile di rimandi e influenze reciproche fra i testi non solo all'interno di uno stesso medium, ma, soprattutto, in relazione a media diversi. 4 Sul tema dell'immaginario precedente al cinema si veda in particolare G.R Brunetta, // viaggio deU’icononauta, Venezia, Marsilio, 1997. 5 Nell'immensa bibliografia sul rapporto fra cultura “alta” e cultura “bassa” o popolare ri­ mando in particolare ai testi di Alberto Abruzzese, Umberto Eco, e soprattutto a F. Colombo, La cultura sottile. Milano, Bompiani, 1998. 6 Grande successo riscuote Luigi Barzini con il suo libro di viaggio La metà del mondo vi­ sta da un’automobile. Da Pechino a Parigi in 60giorni, pubblicato proprio da Hoepli nel 1908 e illustrato da fotografìe.

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Comcrio durante la rivolta popolare repressa dai soldati del generale Bava

Bcccaris. Alla novità tecnica non si accompagna una scelta di soggetti moder­ ni come avviene contemporaneamente in America, ma si privilegiano imma­

gini tradizionali e i ritratti delle varie personalità. Le stesse fotografìe di Co­ mcrio

sono ancora legate alla retorica di immagini accademiche e descrittive: lungi dal soffermarsi sulla rivolta dei 37.000 famigerati sovversivi, esse sono piuttosto in­ gombre di facciate monumentali, di porticati e scorci adatti a una guida illustrata della città, tanto che verranno trasformate negli anni persino in cartoline!7. L’uso di un’innovazione tecnica come la fotografìa in senso conservatore e tra­ dizionale si spiega con la consueta diffidenza iniziale da parte del pubblico

medio verso le novità. Semplificando si può dire che un cambiamento tecno­ logico passa più facilmente attraverso contenuti già noti. Il caso del Quo Vadis? rientra perfettamente nella logica sopra esposta. Il

film, pur ne) fasto della messa in scena, ha chiari riferimenti, come si è detto, alla precedente tradizione iconografica c la scelta delle illustrazioni fotografi­

che tratte dalla pellicola c utilizzate per il libro è assolutamente nel solco della tradizione. Non a caso si è dato molto spazio ai ritratti dei personaggi e vi è una netta predominanza di tavole fotografiche molto statiche, simili a dipinti. Lc innovazioni sono nell’uso della fonte cinematografica e nel numero consi­

derevole d’immagini presentate per l’illustrazione, più che nella scelta del rap­ presentato. Infine, i destinatari: l’edizione, per la sua elegante rilegatura c l’al­

to prezzo di vendita, si rivolge a un pubblico alto borghese.

“Ipromessi sposi" e l'industria culturale

Nel 1913 escono quasi contemporaneamente due riduzioni cinematografiche dei Promessi sposi edite da due case di produzione torinesi; una della Pasquali, diretta da Ubaldo Maria Del Colle, e l’altra dcll’Ambrosio per la regia di

Elcutcrio Rodolfi8. Non si tratta dei primi casi di riduzione cinematografica

del celebre romanzo di Manzoni: nel 1908 si registra una versione prodotta

7 S. Piaggi, “L’introduzione della fotografìa nella stampa a Milano. L'illustrazione Italiana”, in E Colombo (a cura di). Libri, giornali e rioltre a Milano, Milano, AlM-Abitarc

Segesta, 1998, p. 62. * Tra gli interpreti di quest’ultima ci sono Gigetta Morano (Lucia) e Voller Buzzi (Renzo). Come scrivono Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli: “Le due riduzioni dei Promessi sposi, realizzate e distribuite contemporaneamente, nel 1913, costituirono il primo caso di diretta concorrenza tra le due società torinesi [...]. La Pasquali riuscì a uscire con il suo film più di due mesi prima deU’Ambrosio, in Italia come negli Stati Uniti”. Cfr. // cinema muto italiano 1913. Bianco & Nero, numero speciale, (seconda parte) 1994, p. 169.

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da Luca Comcrio con la regia di Mario Morais e nel 1911 è Ugo Falena per la Film d’Arte Italiana a cimentarsi con il “monumento” della nostra letteratura

nazionale /promessi sposi rappresentano non solo un punto di riferimento per la cul­ tura alta, ma sono un testo diffuso fra un pubblico di massa, grazie alle ridu­

zioni nelle più diverse forme espressive: dalla sua uscita nella versione definiti­

va del 1840 fino ai giorni nostri si possono trovare riduzioni per il teatro, per la musica lirica, per il cinema, per i fotoromanzi, per i fumetti, per la televi­ sione ccc. Come scrive Gianfranco Bettetini, I 25 lettori-modello auspicati dal Manzoni si sono così trasformati in molti mi­ lioni di consumatori, impegnati ai diversi livelli della pluralità di accostamenti consentiti dal romanzo9.

Per altro è lo stesso autore a contribuire in modo decisivo al destino di diffu­ sione del romanzo nelle forme produttive più popolari. Infatti, dopo la prima

edizione del 1827 Manzoni progetta l’edizione illustrata del romanzo, intuen­ do il ruolo decisivo che possono avere le immagini nel successo dei Promessi sposi presso un vasto pubblico10. Dopo varie contrattazioni, compresa una fal­ lita con il pittore Hayez, Manzoni si accorda con Francesco Gonin per la rea­

lizzazione di una versione illustrata con la nuova tecnica della xilografia. Tra il 1840 e il 1842 esce a dispense, presso gli stampatori Guglielmini e Redaelli, l’edizione curata direttamente da Manzoni e ampiamente illustrata dalle xilo­

grafìe di Gonin e in numero minimo da altri artisti come Massimo d *Azeglio. Gonin lavora su precise indicazioni di Manzoni, che decide il soggetto da

rappresentare e la sua collocazione all’interno delle pagine del libro. Dal pun­

to di vista economico l’operazione, finanziata dallo stesso Manzoni, si rivela un fallimento anche per le scarse tutele sul diritto d’autore, ma rimane un punto di riferimento fondamentale per il rapporto fra testo e immagine nelle

tante edizioni illustrate dei Promessi sposi stampate nel corso degli anni.

9 G. Bettetini, “Cronaca del 'matrimonio' tra l'industria culturale e i Promessi sposi", in G. Manetti (a cura di). Leggere i “Promessi sposi”, Milano, Bompiani, 1989, p. 255. Nello stesso volume si rimanda, tra i numerosi interventi, anche a quelli di O. Calabrese, “L’iconologia della monaca di Monza", e di E Casetti, “La pagina come schermo. La dimensione visiva nei Promessi sposi". Per un'ampia trattazione sulla storia dei rapporti fra il libro di Manzoni e l'industria cul­ turale italiana si veda G. Bettetini, A. Grasso, L. Tettamanzi, Le mille e una volta dei "Promessi

sposi", Torino, Nuova Eri. 1990. 10 Sul molo di Manzoni all’interno della nascente industria culturale di massa, anche in relazione alla battaglia sul diritto d’autore che contrappose lo scrittore milanese alla casa edi­ trice Le Monnier, si rimanda a E Colombo, La cultura sottile, Milano, Bompiani, 1998. Il ci­ tato testo di Colombo mi è stato di costante riferimento per capire l’evoluzione dell'industria culturale italiana fra Ottocento e primi del Novecento.

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All'edizione illustrata da Gonin, soprattutto dopo la morte di Manzoni nel 1873, seguono diverse ristampe con nuove illustrazioni realizzate da pittori come Giacomo Campi nel 1895 per Hocpii o Carlo Chiostri nel 1898 per

Paravia. In generale non si aggiunge molto a un’iconografìa ormai abbastanza consolidata e che si diffonde anche a livello di spettacoli di burattini, che en­

tusiasmano un pubblico popolare con la storia di Renzo e Lucia. Tra la fine dell’ottocento e i primi del Novecento circolano anche numerose edizioni ri­

dotte del romanzo realizzate da piccole case editrici, come la Società Editoria­ le Milanese, che contribuiscono alla diffusione capillare presso tutti gli strati

sociali dei Promessi sposi. La novità è rappresentata dal lavoro fatto dal pittore divisionista Gaetano Prcviati, che con 228 vignette e 13 tavole in eliotipia il­ lustra l’edizione Hocpii del 190011. Si è in presenza di un’interpretazione dai toni forti ed inquietanti in completa rottura con quella di Gonin, ormai dive­ nuta una sorta di stereotipo di riferimento a livello di tutti i tipi di forme

espressive. Il successo di questa edizione è scarso e Hoepli, nel 1904, stampa una seconda versione dei Promessi sposi illustrata da Campi. Nel 1910 esce

dall’editore Nerbini di Firenze un’edizione a dispense, illustrata con 40 tavole

di Tancredi Scarpelli, che riscuote grandi favori di pubblico. Qui dominano le caratteristiche tipiche dell’illustrazione popolare... enfatizzazio­ ne delle manifestazioni di sentimenti e affetti, secondo una logica tutta fumetti­ stica: se la situazione è allegra si legge felicità negli occhi di tutti... se Lucia è tri­ ste, non c’è parte del suo corpo che non denoti smarrimento e abbandono11 12.

Per chiudere il discorso sui precedenti figurativi rispetto all’edizione illustrata

con le immagini del film Ambrosio, si possono ricordare le serie di cartoline postali di fine Ottocento del pittore lecchcse Giovan Battista Todeschini edite dai fratelli Stopparti e quelle del 1910 di Vincenzo Polli per Signorelli, dove prevale la centralità del ritratto dei singoli personaggi rispetto al luogo e allo svolgersi dell’azione.

Dalfilm Ambrosio al libro Hoepli

Nel 1914 Hoepli pubblica nella sua biblioteca classica l’ennesima ristampa dei Promessi sposi illustrata da Campi e curata da Alfonso Cerquetti, ma l’an­ no dopo esce l’edizione con le 24 tavole cinematografiche Ambrosio, curata

sempre da Cerquetti, che rappresenta un netto distacco rispetto ai disegni di Campi: forse l’intenzione è di fare una pubblicazione più popolare, sfruttan­

11 Per ulteriori informazioni si rimanda ad AAW, Manzoni il suo e il nostro tempo, Mila­ no, Electa, 1985. 12 Bettetini, Grasso, Tettamanzi, Op. cit., p. 60.

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do il grande successo di pubblico che il cinema sta riscuotendo in quegli an­ ni. Il film di Rodolfi ha sicuramente come referenti iconografici soprattutto due delle versioni illustrate: quella classica di Gonin c quella più recente di

Tancredi Scarpelli pubblicata da Ncrbini. Non stupisce che Hocpii utilizzi il cinema come fonte per le immagini, vi­

sta l’attenzione che l’editore presta sia al cinematografo, sia ad ogni innova­ zione in campo tipografico. Infatti nel 1907 pubblica uno dei primi manuali sulla nuova arte, scritto da G. Re, // cinematografo e i suoi accessori, e almeno fino al 1912 collabora per la casa editrice milanese Adolfo Padovan, autore

insieme a Bettolini delf/w/£rrtou della Milano Films.

Questa edizione dei Promessi sposi riscuote un buon successo presso i letto­ ri, visto il numero di ristampe effettuate e probabilmente nelle intenzioni del­ l’editore doveva rappresentare l’inizio di una nuova collana caratterizzata dall’utilizzo d’immagini dei film, collana che, invece, non ebbe seguito. Le ragio­ ni dell’interruzione non sono note, ma potrebbero dipendere dall’inizio della

guerra, dalla successiva crisi del cinema italiano c dalle nuove leggi sul diritto d’autore.

Un primo rapido esame delle tavole riprodotte dal film ci mostra sicura­ mente l’influenza dell’iconografia classica manzoniana del Gonin c quella più popolare di Tancredi Scarpelli, ma anche alcune differenze particolarmente si­ gnificative soprattutto rispetto a Gonin con cui si tenterà uno stretto con­ fronto.

La prima c più evidente differenza è nella totale assenza di ritratti dei per­ sonaggi, così presenti, invece, in tutte le versioni illustrate precedenti. Non

solo mancano i ritratti, fatto che si potrebbe anche spiegare per la particolari­ tà dell’immagine cinematografica, ma non ci sono nemmeno figure intere

isolate dei singoli personaggi come, ad esempio, nel caso del Quo Vadis? È bene soffermarsi su questo aspetto che rappresenta uno scarto notevole rispetto alla tradizione dell’illustrazione dei libri. L’uso delle immagini del

film Quo Vadis? da parte di Treves si colloca nel segno di una continuità ri­ spetto a un immaginario iconografico già consolidato c anche le loro modali­

tà di presentazione rientrano perfettamente nella tradizione, con l’alternanza

di ritratti dei personaggi e scene di massa molto statiche simili a dipinti. Altra indicazione interessante viene dalle brevi didascalie poste a commento delle tavole. Pur riprendendo direttamente le parole del libro, si tratta quasi sempre

di frasi esplicative di quanto viene mostrato, come ad esempio, “Festa orga­ nizzata da Tigcllino per compensare Nerone del suo mancato viaggio in Elia­ de” (p. 197)u. Anche quando si commenta un’azione si lascia poco spazio al-

13 L'Inferno, realizzato nel 1911 dalla Milano Films, è il primo lungometraggio del cinema italiano. M E. Sienkiewicz, Quo VadùLTKvcs, Milano, 1913, p. 26.

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l’inferenza del lettore per collcgarc immagine e testo: "Improvvisamente due

braccia poderose liberarono Licia dalle ardenti carezze del giovane...” (p. 58)'\ Inoltre, a scanso di qualsiasi possibile equivoco, tutte le didascalie sono accompagnate dall’indicazione della pagina del libro a cui si riferisce l’imma­ gineNei Prometti sposi della Hocpii si nota, rispetto al Quo Vadis?, la totale as­ senza di ritratti dei personaggi, una scelta d’immagini molto meno statiche dove i personaggi appaiono come fotografati a loro insaputa durante lo svol­

gimento di una scena, e non come se fossero in posa. Le didascalie, poste a commento delle singole immagini, confermano la sensazione di voler offrire al lettore non spiegazioni didascaliche, ma richiami a un testo già noto di cui si colgono “al volo” brevi battute di un’azione in pieno svolgimento. Ad esem­ pio la scena dell’incontro iniziale fra i Bravi e Abbondio e commentata come segue: “Vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vede­ re...” (p. 7). Naturalmente permangono anche didascalie più tradizionali e

l’uso d’indicare la pagina del libro a cui immagine e battuta si riferiscono, ma gli elementi innovativi mi paiono molto significativi di un processo evolutivo

in atto sull’introduzione e l’uso dell’immagine nella rete comunicativa. In definitiva nei due anni che passano fra l’edizione del Quo Vadis? e quel­

la dei Promessi sposi si può notare come nel primo caso il cinema è usato nello

stesso modo di qualsiasi altra possibile fonte d’immagine (in particolare la pittura e il disegno), mentre nel secondo caso l’introduzione del cinema co­ mincia a modificare i rapporti fra testo e immagine, valorizzando maggior­ mente il potere evocativo dell’immagine rispetto a quello esplicativo. Se il

merito di Treves è di riconoscere con il suo gesto editoriale piena dignità al ci­ nema a entrare a far parte delle arti illustrative per i libri, Hoepli fa un altro passo in avanti, intuendo il portato innovativo che il cinema introduce nel circuito della nascente moderna industria culturale italiana. L’immagine oltre

ad avere sempre più spazio può rivolgersi a un lettore-spettatore ormai abi­ tuato a convivere e a “crescere” in una cultura figurativa che non limiti la sua

funzione al solo aspetto illustrativo di tipo didascalico-pcdagogico. In questa

direzione l’edizione dei Promessi sposi per la scelta di alcune immagini del film Ambrosio rappresenta un piccolo punto di svolta. Passiamo ora a vedere più in dettaglio come le illustrazioni tratte dal film dcll’Ambrosio si collocano in relazione alla precedente tradizione iconografica

dei Promessi sposi\ che rimane sempre viva. In particolare vediamo il confron­ to con l’edizione illustrata da Gonin. La prima osservazione sul libro del 1840 è che su indicazioni dello stesso Manzoni le immagini di Gonin non presentano didascalie, perché inserite nel

testo scritto di cui sono la rappresentazione visiva. Si è in presenza di un testo

15 Op. cit., p. 8.

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in cui parole e immagini sono perfettamente amalgamate e procedono di pari

passo. Invece, l’edizione Hocpii del 1915 ha solo 24 tavole cinematografiche del film Ambrosio e perciò la funzione delle immagini non è tanto di costrui­

re un romanzo visivo che proceda in stretto parallelo con quello scritto, ma d’illustrazione e richiamo memoriale delle situazioni narrativamente più coin­ volgenti. Per inciso le “tavole cinematografiche" sono poste diverse pagine do­ po rispetto alle situazioni che rappresentano e potrebbero funzionare da ricor­ do visivo di quanto letto in precedenza. Data questa prima sostanziale diffe­

renza si riscontrano fra le due edizioni numerosi elementi comuni a livello iconografico, che denotano come il film si sia ispirato ai personaggi e alle sce­ ne disegnate da Gonin, la cui opera, nonostante l’insuccesso commerciale, pervade tutta una produzione d’immagini sui Promessi sposi circolante a livel­

lo popolare come, ad esempio, le numerose edizioni ridotte del romanzo. In­ credibili sono, ad esempio, le somiglianze di scene come quella della notte popolata da incubi di Don Abbondio dopo le minacce dei Bravi e del Griso

che deruba Don Rodrigo malato di peste. All’interno del comune riferimento iconografico non mancano, però, alcuni scarti significativi, che segnalano co­ me l’introduzione del cinema nell’illustrazione per i libri non comporti solo una ripresa degli elementi figurativi tradizionali, ma una trasformazione che porterà nel corso degli anni all’uso sempre più frequente dell’immagine foto­ grafica rispetto al disegno. Il primo elemento innovativo nell’edizione Hoepli, come si è detto, è dato dalla totale scomparsa dei ritratti dei personaggi, che affollano, invece, secon­

do la consuetudine ottocentesca, il lavoro di Gonin. Inoltre, buona parte dei

disegni di Gonin sono incentrati su pochi personaggi, mentre i fotogrammi Ambrosio illustrano situazioni e ambienti di maggior respiro narrativo. Lc scene tratte dal film mostrano una profondità di campo tale da creare più pia­

ni dell’azione perfettamente a fuoco. Il lettorc/spcttatorc si trova nella posi­ zione ideale di un osservatore che assiste in diretta allo svolgersi di un’azione. Non a caso spesso lo sguardo dei personaggi è rivolto verso un fuori campo,

che appare come un voler chiamare direttamente in causa il lettorc/spcttatorc per coinvolgerlo in quanto accade. A ulteriore dimostrazione di una maggior attenzione della versione Hoepli-Ambrosio alla vicenda complessiva e alla sua

ambientazione, rispetto allo studio sui singoli personaggi che prevale nei dise­ gni di Gonin, c’è la totale assenza d’immagini della Monaca di Monza e del

lungo “flash-back” sul passato di Fra Cristoforo. In conclusione si può dire che dal confronto fra le due edizioni emerge una continuità indiscutibile a livello dell’iconografìa dei personaggi e delle si­

tuazioni più note, ma si osserva, almeno a livello embrionale, lo scarto che comporta il passaggio dall’illustrazione con il disegno a mano a quella foto-

grafica-cincmatografica, con una maggior focalizzazione sulla rappresentazio­ ne dell’azione complessiva rispetto ai singoli personaggi.

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A chiudere il flusso continuo e circolare dei prodotti dell'industria cultura­

le che si rimandano e s’influenzano l’un l’altro in un costante rapporto inter­ mediale è la notevole produzione di cartoline postali. Le cartoline, immesse sul mercato direttamente dalla società Ambrosio, sono illustrate con scene del film, molte delle quali identiche a quelle usate per il libro. Il cerchio, dunque, si chiude: i disegni di Gonin creano una tradizione iconografica che si diffon­ de in vari campi fra cui il cinema, il quale a sua volta metabolizza le immagini rimandandole, con qualche variante, nel flusso circolatorio “alto” dei libri il­

lustrati e in quello "basso” delle cartoline. Si può, forse, ipotizzare, volendo riportare ad osservazioni più generali le

conclusioni, che il cinema negli anni Dieci comincia a svolgere una sorta di funzione cerniera, di terreno comune d’incontro, fra un consumo che si rivol­

ge a un pubblico borghese più colto e un pubblico popolare, facendo con­ temporaneamente da punto di confluenza e da cassa di risonanza di tradizioni

letterarie e iconografiche diverse e diffuse nelle varie forme espressive.

UN INTELLETTUALE E LA SUA RIVISTA: TOMASO MONICELLI E “IN PENOMBRA”

Marco Pistoia Università di Firenze

Profilo di Monicelli. Prima parte

Con il nome Penombra nel novembre del 1917 esce a Roma una nuova rivista di arte cinematografica. Ideatore c direttore è un giovane intellettuale di un certo prestigio, Tomaso Monicelli, che prima di affrontare questa nuova esperienza si è

distinto in molteplici vesti: giornalista, scrittore, critico teatrale, drammaturgo, corrispondente di guerra, ideatore di una rivista di cultura c di una collana lettera­ ria. Nato il 10 febbraio 1883 a Ostiglia, nella provincia di Mantova, Monicelli compie studi irregolari. A causa di disagiate condizioni familiari interrompe dopo la quinta ginnasio gli studi classici c s’iscrive all’istituto Tecnico per Ragionieri. Abbandonati anche questi studi s’impiega presso la Casa editrice Vallardi, nell’amministrazionc, dedicandosi anche all’organizzazione sindacale degli impiegati. Licenziato, invia un testo su Felice Cavallotti, scrittore e politico mono in duello,

al concorso per il miglior anicolo commemorativo, bandito dall’editore Aliprandi. Vincitore è proprio l’anicolo del giovane ostigliese, che in tal modo può inizia­ re varie collaborazioni giornalistiche, tra cui quella con La Provincia di Mantova.

Impiegato dall’cditore Treves, sempre con funzioni amministrative, è invitato da Costantino Dell’Oro, segretario di Giuseppe Treves, a collaborare al Secolo XX. Collabora anche alla Riviera Ligure^ che Angelo Silvio Novaro alimenta con i pro­ venti del suo Olio Sasso, c a LAvanguardia Socialista di Arturo Labriola. È qui che

Monicelli alimenta il suo spirito caustico con corsivi firmati “L’homme qui rit”. Socialista romantico e umanitario, nel 1905 Enrico Ferri lo impiega a\\'Avanti!.

dove presto assume la funzione di caporedattore e di vice responsabile della rubri­ ca teatrale. Scrive articoli di fondo, critiche letterarie c teatrali c per la vis polemica

c lo spirito battagliero viene accostato a Edoardo Scarfoglio.

Nel 1906 data l’esordio come drammaturgo: La sorella minore è allestito dalla Compagnia Stabile Romana di Edoardo Boutct al Teatro Argentina di Roma1. Esordio significativo, dal momento che la Compagnia di Boutct - da

1 Per le recensioni alle opere teatrali di Monicelli vedi in particolare Cronache teatrali di

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tempo autorevole critico teatrale e, prima delPavventura con la Stabile, titolare

su Avanti! — si prospetta come uno dei segni del rinnovamento della scena e, soprattutto, della drammatuigia italiana. D’altra parte, intorno al 1905 tra i due vi era stato anche un significativo passaggio di consegne come responsabili

della critica teatrale sull’organo socialista: allorché Bouree inizia a pensare alla

formazione della sua Compagnia Monicelli, già suo vice, gli subentra. Monicelli sembra all’inizio degno rappresentante dell’ultima generazione di dram­ maturghi, in una fase coeva alle prime affermazioni del teatro di D’Annunzio,

ma modellata anche sull’opera di Ibsen, che da alcuni anni stava affermandosi

in Italia. Tra i sostenitori del giovane drammaturgo vi è Ricciotto Canudo, che lo gradisce accanto a Butti, a Corredini c al prediletto D’Annunzio, preferen­

doli ai realisti del tipo di Salvatore Di Giacomo e Sem Bcnelli2. Alla fase iniziale della sua molteplice attività appartiene anche la collabora­

zione a La Scena di prosa, sulle cui pagine firma, nel 1908, interventi militan­ ti. Nel 1906 una commissione presieduta da Benedetto Croce aveva assegnato

a Monicelli il Premio Giacosa per // viandante. Si tratta di un’opera che pre­ senta tutti gli elementi tipici della sua breve e non ampia produzione teatrale: una struttura da pièce bien fatte. molti personaggi le cui azioni attraversano un lungo arco temporale, un dramma che progressivamente insorge e si afferma,

temi e ambienti popolari, ispirati a una precisa osservazione di modi di vita e

Giovanni Pozza (1886-1913), a cura di G.A. Cibouo, Vicenza, Neri Pozza, 1971, articoli ap­ parsi sul Corriere della Sera e riguardanti // viafidante (25 aprile 1907) e Prima dell'amore (30 gennaio 1908). Su Monicelli schizza un breve ma preciso ritratto Silvio D'Amico in // teatro italiano, Mi­ lano, Treves, 1937 (2 * ed.), nel quale parla di 'estrema violenza delle (...) prose politiche di , ** M. definendolo un “bello e ricco ingegno, che il giornalismo si portò via dai paesi dell’arte, per un viaggio finora senza ritorno ** (p. 63). Sempre D *Amico ricordò lo scrittore su L'Idea Nazionale, in un brano che ora si può leggere in La vita del teatro. Cronache, polemiche e note varie. I: 1914-1921. Gli anni di guerra e della crisi, a cura di A. D’Amico, con la collaborazio­ ne di L. Vito, prefaz. di G. Prosperi, Roma, Bulzoni, 1994. Su //Marzocco Giuseppe Lipparini aveva recensito Aia Madama. Per ricostruire l’iter umano e intellettuale di Monicelli assai utili sono le testimonianze di Mario Corsi, Mario Missiroli, Arturo Labriola, Silvio D’Amico, Lorenzo Gigli e Mario Boreilini raccolte in Gli Ostigliesi in memoria di Tomaso Monicelli, in occasione delle onoranze tribu­ tategli a Ostiglia il 14-15 ottobre 1950. a cura della Società C. Colombo di Ostiglia, Verona, Officine Grafiche Mondadori, 1950. Infine un breve contributo biografico-critico è quello di A. Fiocco, “Tomaso Monicelli”, in Enciclopedia dello Spettacolo, voi. VII, Roma, Le Maschere, 1954. * Per avere un’idea generazionale dei drammaturghi coevi a Monicelli riportiamo i dati anagrafici di alcuni di loro: G. An tona Traversi (1861-1939); S. Be nel li (1877-1949); C. Bertolazzi (1870-1916); R. Bracco (1862-1943); E.A. Butti (1868-1912); E. Cavacchioli (18851954); L. Chiarelli (1884-1947); S. Lopez (1867-1951 ); EM. Martini (1886-1931 ); E.L Morselli (1882-1921); D. Niccodcmi (1874-1934); M. Praga (1862-1929); Rosso di San Se­ condo (1887-1956); R. Simoni (1875-1952).

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comportamenti della propria terra con, tuttavia, l’idea di far loro assumere

anche una valenza generale. Entro un sostrato ideologico socialista e venato di un qualche afflato religioso, l’universo drammaturgico di Monicclli può esse­ re meglio esemplificato da quella che, forse, è la sua opera più riuscita,

L’esodo, dramma in quattro atti messo in scena per la prima volta il 27 no­ vembre 1908 al Teatro Manzoni di Milano dalla compagnia Calabresi-Severi

(Oreste Calabresi, Elisa Severi, Emma Sanipoli, Amedeo Chiantoni, Uberto Paimarini, Pierino Rosa e Ruggero Lupi). Patrizio Salcnto è un anziano pa­ triarca di una numerosa famiglia di Ostiglia sul Po. Venata, come tutta la produzione dell’autore, di un forte alone malinconi­

co, L’esodo esce in volume nel 1913 e reca in apertura un’interessante e rivela­ trice dedica dell’autore all’amico Roberto Forges Davanzali, come Corradini

figura significativa di quello e del successivo periodo:

Sul bel lago Cercsio, un’estate che mi pare lontanissima, nacque L’Esodo, e tu gli fosti padrino. Il ricordo m’è dolce. M’è dolce come quel tempo della nostra inti­ mità vissuta in solitudine d’acque e di montagne coi nostri pensieri malinconici. Venivamo da Bisanzio socialista con l’amaro in bocca e ci volgevamo a nuovi orizzonti, assetati di chiara luce, di fresca libertà. Gli anni finiti ci tornavano al cuore col fascino della bella prima giovinezza. L’Esodo nacque da questa nostalgia di passato e, nella sua lagrimosa vicenda, è il tramonto della vecchia Italia agricola provinciale patriarcale che noi rivedemmo e salutammo un’ultima volta a confor­

to degli anni avvenire. Perciò, raccogliendo l’onesta fatica di quel mio facile tem­ po, metto il tuo caro nome a fronte dell’opera mia più cara. La diversa fortuna ci ha disgiunti. Ma noi c’intendiamo come allora, meglio d’allora, ché i nostri cuori fedeli ci rimandano l’eco d’una vita più profonda. Addio. Un testo che agisce da sintesi efficace di una storia personale e di una rete di

rapporti. A Porto Cercsio Monicclli aveva acquistato una villa, frequentata da amici quali Forges Davanzali c Guido Gozzano. Nella dedica de L’esodo Mo­ nicclli parla di strade disgiunte. In realtà è proprio sulle colonne de L’Idea Na­

zionale che, in qualche modo, i loro destini si ricongiungono. Forges Davan­ zali riprende, infatti, la direzione del giornale nel 1914 (per tenerla fino al 1918) c poco dopo Monicclli si distingue su quelle pagine come corrispon­

dente di guerra. Inizialmente concepito da Forges Davanzali c da Corradini come settimanale di poche pagine, L’Idea Nazionale diviene influente quoti­ diano in conseguenza dell’affermazione del Partito Nazionalista Italiano, di

cui i due sono esponenti di spicco. Il mito della Grande Guerra5 trova in loro

’ Delle preferenze di Canudo parla Mario Verdone nella parte introduttiva di R. Canudo, L'officina delle immagini, Roma, Edizioni di Bianco e Nero, 1966. Ma di Canudo si deve oggi

considerare l'edizione integrale della sua opera critica e teorica: L'Usine aux images, edition in­ tégrale établie par J.-P. Morel, presentation et annexes J.-P. Morel, avec la participation de G.

Dotoli, Paris, Séguier, 1995.

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esponenti decisi e le fasi belliche sono raccontate da Monicelli con stile sicu­

ro. Poco prima di questa fase Monicelli era tornato a Ostiglia, vinto, come tutti gli esponenti della propria famiglia, dalla nostalgia.

Siamo all’inizio degli anni Dieci e nel luogo natio egli conosce un giova­ ne tipografo, in futuro uno dei maggiori editori italiani, Arnoldo Mondado­ ri. Questi sposa la sorella di Monicelli, Andreina, c con Tomaso inizia la sua

vera e propria attività di editore, pubblicando una collana di racconti per ra­ gazzi, La lampada, per la quale Monicelli scrive Nudino e Stellina (1913).

Prima con la sigla La Scolastica, quindi con il proprio nome, Mondadori

pubblica quasi tutte le opere di Monicelli del periodo: Aia Madama (1912), raccolta di racconti, L'esodo, Il viandante (1913), Signori, signore, signorine... (1913), brevi commedie, Le novelle del mio paese (1920), Crepuscolo (1920), raccolta di racconti. Questo fertile c lungo periodo, che sul versante della promozione culturale culmina con l’ideazione di In Penombra, è accompa­

gnato anche dalla breve ma significativa stagione di un’altra rivista di cultu­ ra, // viandante. Monicelli la fonda a Milano nel 1909, come settimanale di

otto pagine in edicola la domenica. Priva di particolari proclami la rivista ri­

specchia sul piano ideologico la fase socialista del suo direttore, che vi pub­

blica articoli su Proudhon c Sorci c di Arturo Labriola. Escono versi di Goz­ zano, interventi sullo stato del teatro italiano, racconti di Térésah — futura collaboratrice di In Penombra — versi di Guelfo Civinini, articoli di Gian Pie­ tro Lucini, un’inchiesta sull’immigrazione a Milano e sui dormitori, un commento sulla funzione educatrice del cinema, una rubrica di Edoardo

Boutet sulla vita teatrale al Teatro Argentina.

Di questi anni, forse i più significativi dell’iter monicelliano, resi densi dal successo teatrale, dall’attività intellettuale e dai progetti, sono alcune lettere4

che Monicelli scrive a Boutct c a Stanis Manca, autorevole critico teatrale del­ la Tribuna. Nelle poche lettere rivolte a Manca (tra il 1906 c il 1908) il deno­

minatore comune è costituito dai ringraziamenti per la buona accoglienza ri­ servata alle prime prove drammaturgiche, ma in una, datata 3 gennaio 1906, si ricava anche una dichiarazione d’intenti. Annunciando al critico le prossi­

me prove de La sorella minore, Monicelli scrive: “Non ho saputo scoprire niente di nuovo, ma fare — almeno questa fu l’intenzione — un lavoro esclusi­ vamente di teatro". Dunque, almeno come atteggiamento, Monicelli intende partecipare al rinnovamento della drammaturgia italiana c il riscontro positivo che Manca riserva all’opera prima, documentato anche dai ripetuti ringraziamenti dello

scrittore, pare confermarlo. La pièce, come si è detto, esordisce al Teatro Ar-

4 Tutti gli autografi di Monicelli citati sono depositati presso la Biblioteca del Burcardo, Roma.

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gcntina con la Compagnia diretta da Boutet, verso il quale nelle non molte lettere a lui indirizzate (tra il 1906 e il 1911) si rileva l’attaccamento del gio­ vane drammaturgo al maturo critico e promotore di una riforma della scena

italiana. In una lettera non datata - ma, visto il riferimento in essa contenuto,

scritta intorno al 1907 — Monicclli esprime la sua gioia per la permanenza di Boutet alla Stabile Romana:

Mio caro Boutet, come vedete sono qui... in villa (a Fano, Villa S. Biagio] a lavorare. Godo infini­ tamente nel sapere che voi rimanete [o rimarrete] [...] come vero nostro direttore artistico, preposto al repertorio. Voi siete l’anima di quel teatro a cui avete dato vita. Andandovene voi tutto sarebbe finito ... Lanciato dal critico de Le Cronache Drammatiche come uno dei nuovi autori,

Monicclli mostra di condividerne appieno le idee innovative e la funzione di direttore artistico, ruolo che anche successivamente difenderà contro gli attac­ chi destabilizzanti che causeranno l’abbandono di Boutet. È ovviamente a lui

in particolare che Monicclli sottopone i propri copioni, manifestando una certa trepidazione per il giudizio, come si ricava da un passo di una lettera da­ tata 20 gennaio 1908 e su carta intestata ddl'AitantU, probabilmente in riferi­ mento alla stesura de L’esodo-, Caro professore, eccovi il copione. Se lo leggerete subito saprò lunedì per il vostro responso? [...] Vogliatemi bene e credetemi vostro affezionatissimo, Tom Monicclli

Passano pochi anni e la fortuna critica del nuovo drammaturgo si attenua

molto e anche l’avventura della prima rivista da lui ideata e diretta termina dopo solo un anno. Monicclli abbandona la produzione teatrale e si rivolge verso quella narrativa, riprendendo appieno l’attività giornalistica sulle colon­ ne de L’Idea Nazionale. Proprio la fase legata all’organo dei nazionalisti sem­ bra costituire l’indice maggiore di quello che riteniamo un insieme di parteci­ pazione e distacco, di Monicclli, alle avventure politiche e culturali di un cer­

to rilievo, cui si intreccia la sua parabola. Espressione di un’élite culturale, l’organo dei nazionalisti recupera la stagione e l’umore delle riviste fiorentine

d’inizio secolo, Leonardo, Hermes, Il Regno, in particolare quest’ultima in quanto creatura dello stesso Corradini, che costituisce l’artefice principale della formazione del gruppo nazionalista e del suo organo. La combinazione di impegno culturale e impegno politico e, in particolare, l’idea di far uscire

la letteratura e la cultura dalle loro strette maglie, rappresenta il comune dise­ gno e, dunque, la non totale ma sostanziale continuità - soprattutto se letta dal punto di vista della costante corradiniana - tra l’esperienza primonovccentesca e quella prebellica. Quell’incrocio di nazionalismo e di sindacalismo

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socialista, di sorciismo c proudhonismo, con qualche eco dannunziana, costi­

tuisce un terreno analogo all’esperienza de // viandante e a quella, pressoché coeva, del movimento nazionalista. Benché più giovane di Corradini, anche

Monicelli partecipa al clima della generazione degli anni Ottanta dell’Ottoccnto, quella che cresce con l’idea di una incombente senescenza o di una stridente combinazione di gioventù c vecchiaia, ovvero di una gioventù vissu­

ta in una fase declinante. Era stata proprio una delle citate riviste primonoveccntesche, Hermes, a riflettere su questa aporia, sintetizzata nel titolo di un ar­

ticolo, Senescit iuventus *. Ma se questa apparente dicotomia può essere uno dei segni di un’epoca di crisi, che di solito, come afferma Ernst Robert Cur­ tius5 6, partorisce la figura del senex puer, il secolo nascente è anche quello che sancisce il mito della fanciullezza, a ben guardare legato anche alla figura ri­ chiamata da Curtius. Cos’altro è il dannunziano “fanciullo delicato c forte” se

non una delle più eclatanti espressioni - non solo artistiche — di questo mito7*? Riferito all’universo del teatro, il fanciullo dannunziano è proprio un senexpuer, un’arte antica quanto il mondo, che deve soccombere a causa della sua condizione senescente e rinascere bambina. Così il motivo canudiano del pubblico che, con l’avvento del cinema, torna bambino c, in generale, il cine­ ma come nuova espressione del meraviglioso *. Ma per quanto concerne l’area artistica L’Idea Nazionale diviene anche il

terreno d’incontro di Monicelli con un giovane critico, pressoché coetaneo, Silvio D’Amico, che prima come vice di Domenico Oliva, quindi come tito­ lare della rubrica teatrale, lega tutta la prima e fondamentale fase della sua produzione critica e teorica a quelle colonne. È su L’Idea Nazionale che D’A­ mico, fin dall’inizio, propone le prime linee per un rinnovamento della scena e della drammaturgia italiana, a esempio proponendo di far nascere, nel

1914, un Teatro d’Artc al Teatro Argentina. E sulle pagine di In Penombra

D’Amico sarà autore di un articolo sul cinema dal contenuto solo apparente­ mente paradossale9.

5 Cfr. M. Maffi, “Senescit iuventus”, Hermes, n. 4, maggio-giugno 1904. 6 Per la disamina di Curtius vedi Letteratura europea e Medioevo latino, a cura di R. Anto­ nelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992; la figura del puer senex è anche al centro della trattazio­ ne junghiana, poi ripresa da James Hillman in Puer aeternus, Milano, Adelphi, 1999 (che rac­ coglie due saggi: // tradimento e Senex e Puer, a cui ci riferiamo, scritto nel 1967). 7 D’Annunzio usa l'espressione citata nel lungo articolo scritto sul Corriere della Sera dopo l'uscita di Cabiria (“Del cinematografo considerato come strumento di liberazione e come ar­ te di trasfigurazione”), che si può leggere in Giovanni Pastrone. Gli anni d’oro del cinema a To­ rino, a cura di R Cherchi Usai, Torino, Utet, 1986, pp. 115-122. Sul tema vedi almeno V. Va­ lentini, Un fanciullo delicato e pòrte. Il cinema di Gabriele D’Annunzio, Roma. Biblioteca del Vascello, 1995. * La trattazione canudiana sul tema si può leggere nel già citato L’Usine aux isnages. 9 S. d’Amico, “Il cinematografo non esiste". In Penombra, a. I, n. 4, settembre 1918.

139

Quando inizia la stagione della sua rivista di cinema Monicelli ha dunque

trentaquattro anni e già una lunga militanza culturale alle spalle. In mancanza

- almeno per ora - di altra documentazione si può ritenere che l’ideazione della rivista risieda essenzialmente in due fattori, oltre che nella curiosità e vi­ vacità intellettuale di Monicelli: l’evoluzione del cinema e il rilievo interna­

zionale assunto da tempo dal cinema italiano, l’uscita di due riviste d’arte quali Apollon e L'Arte Muta. Un testimone del periodo declinante del muto,

Eugenio Ferdinando Palmieri, così inserisce l’uscita della rivista nel contesto

del tempo: È la stagione dei pornografi sovversivi, dei viveurs cocainomani, delle ragazze che

si danno per un “ciondolo d’or”, delle orge tabarinesche, degli scettici e delle luci blu, dei rampolli che si uccidono per Anna Fougcz. Pitigrilli scrive Mammiferi di lusso. I commendatori cantano alle dattilografe: “straziami ma di baci saziami”. Il pezzo forte di ogni romanzo è la descrizione di una garsonnière. Mario Mariani chiama “sorelline” le prostitute. È l’ora di In Penombra * rivista intellettuale e voluttuosa10.

‘7// Penombra”linee di una rivista colta

Sormontato da un Arlecchino e un Pulcinella — ritratti probabilmente da Ser­ gio Tofano, uno dei principali illustratori della rivista - mentre reggono una

grande maschera solare senza bocca c con due bende nere agli occhi, l’articolo con cui Monicelli presenta il primo numero assoluto (quello con la testata Pe­ nombra) non fa proclami né dichiarazioni troppo esplicite. È, nella sostanza, un bel racconto dal vero, un brano che potrebbe far parte di un’antologia di letterati al cinema. Letto fra le righe esso rivela più di uno spunto interessan­

te. Tutta la prima parte è consacrata al ricordo, alla memoria di sé bambino

che scopre la magia della lanterna magica: Mio nonno vendeva sale e tabacchi in un grigio borgo della Padania. A me fanciulletto di pochi anni la bottega angusta, umida, ingombra di merce pareva un meraviglioso emporio di cui s’inorgogliva in cospetto dei cari compagni il mio cuore superbo. Tanto la prediligevo che ne feci il campo di giochi d’una torma di miei coetanei, con solenne fastidio degli avventori [...]. Così avvenne che la mia protervia fosse premiata e io m’avessi dal nonno amorevole un dilettissimo dono Una grande lanterna magica mi trasse in un angolo appartato e buio della bottega con la torma silenziosa dei cari compagni, trasecolando gli avventori e della so-

10 E.E Palmieri, Vecchio cinema italiano* a cura di P. Micalizzi, Venezia, Neri Pozza, 1994, p. 164.

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prawenuta pace c del novel gioco che li stimolava ad ammirare. Sullo schermo bianco d’un tovagliolo disteso passavano graziose olandesine con alti zoccoli e grandissime cuffie trascinando barchette sopra un mare violaceo. Poi veniva un corteggio di cani ingualdrappati che recavano su un trono dorato un imperatore scimmione. E bambinello dalle trecce sciolte che giravano a tondo» tenendo con una mano lo strascico delle vesti gemmate. E un grande orso triste con la grossa moglie occhialuta e i figliuoli orsacchiotti di primo pelo» che se n’andavano a pas­ seggio agghindati a festa con enormi ombrelli aperti al sole. E» dolce nella memo­ ria» un cerchio di maialini rosei intorno a una tavola imbandita» coi tovagliolini appesi al collo e la forchettina in una zampa11. Naturalmente questo spettacolo fantastico c mutevole suscita nel piccolo Mo­ nicclli e nei suoi compagni le più ricorrenti sensazioni infantili e gli effetti di fascinazione e di paura che avvincono il pubblico dei bambini:

Ogni quadretto ci strappava sussulti di sorpresa e grida di giubilo ché l’eccitata fantasia puerile tremava ed esultava alla vista di quel favoloso mondo sorgente dal piccolo bianco quadrato di luce» nell’angolo appartato e buio dell’umile bottega

Finito il gioco la piccola compagnia si scioglieva, godendosi ognuno nel suo cuo­ re la sua piccola paura. Prendevamo sonno col capo sotto le coperte, sognavamo portentose storie di bimbi e di bestie proiettate sullo schermo del mondo da una lanterna magica che toccava il ciclo. E tutte le vane apparenze della vita reale era­ no abolite» tutto veramente appariva incantesimo e magia.

Ma come - e ancor più - era accaduto con i pensieri intorno a Lesodo, anche stavolta il mondo adulto agisce come indice di corruzione del tempo» come

produttore di noia e di malinconia. A ben guardare Tumore - rispetto a quel­ la dedica del 1913 - appare ulteriormente cambiato» poiché Tetà adulta non è

più foriera di nuovi orizzonti» ma angusta» senza grandi prospettive, soprat­ tutto rispetto alle infinite possibilità dischiuse dall’infanzia:

Ora con gli anni seri sono venute le parole serie, le terribili parole determinate e precise, c lo sconfinato mondo della fanciullezza s’è ristretto dentro i confini della conoscenza. Di quanto il mondo degli adulti è più piccolo del mondo dei fanciulli! Le nostre gioie e le nostre pene di bimbi facevano parte dell'epos selvaggio d’un’umanità giovane e barbara che popolava l’aria e la terra di geni favorevoli c di orribili mostri, che si spandeva per le strade erbose seguendo il corso delle stelle ... I fantasmi dei bimbi vaniscono come questi soli d’autunno, come la cara giova­ nezza, come la bellezza delle belle donne. Alla sognata età dei giocattoli succede l'età della dominante ragione: tutto diventa problema di comprensione e di intel­ ligenza in cui esercitiamo i nostri nervi disfatti dall'analisi» la nostra volontà ma­ lata di dubbio [...]. La noia è la funesta mania dell'uomo [...]. Scoprite in cia­ scun uomo il fondo del suo disagio, della fastidiosa malinconia che ci prende a

11 T. Monicclli, “Preludio", Penombra, a. 1, n. 1, novembre-dicembre 1917 (e così per i brani seguenti).

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mezzo d'ogni opera, di tutto l’inesprcsso e l’ambiguo che affiora la nostra co­ scienza e riconoscerete la noia, quesr’infaticabilc logoratrice dello spirito.

Parole piuttosto forti, che forse celano un riferimento personale. Siamo negli ultimi mesi di una terribile guerra c Monicelli forse riflette una fase di sban­

damento che poteva cogliere un intellettuale non così “vociano” come alcuni suoi compagni di strada (Papini e Prezzoli ni, Corradini e Forges Davanzali),

non così portato a aderire pienamente a eventi che lo colgono malinconico adulto. Torna in questi passaggi - e soprattutto nei successivi che citeremo il mito della fanciullezza, ma come tensione verso * come arduo recupero c non come idea di qualcosa che sarà. E vi torna legandosi al cinema, alla sua facoltà

di esprimere fineffabile, di rompere il dominio della parola come forma di adulta conoscenza ma anche di groviglio inestricabile di pensieri. Il cinema ri­

porta l’umanità alla sua condizione fanciullesca, rappresenta un interruzione al flusso della vita adulta:

I monotoni giorni prodotti in ornamento di pensieri e in vertigini di parole ri­ piombano sul cuore delfuomo con sorda eco di sepolcro. Intorno a lui non è che la parola: la parola che determina, distingue, definisce, cataloga, conchiude; che soverchia il respiro, il gesto, il moto; che scema il passo e stronca il volo. Rompe­ re l’impedimento, sconfinare nell’armonioso silenzio, in una solitudine senz’eco ove lo spirito possa godere il suo vagabondaggio, illudere la sterile vita con favo­ lose finzioni può forse uccidere la noia o almeno saziarla di sì vasti orizzonti ch’el­ la si sciolga in sopportabile pena. L’uomo va cercando quest’illusione d’una vita favolosa e muta nascente da un’ombra di sogno pel suo dilettoso riposo: il cinematografo. Tornano con esso le facili storie, le paurose avventure, le fantasie romanzesche in uno svariare infinito di luoghi, di tempi, di climi. L’uomo [...] cammina nella finzione dello schermo attraverso gli spazi e i tempi. Si può vedere in alcuni passaggi di quest’ultimo brano un’idea di cinema un po’ ingenua e, soprattutto, una dominante valenza, consolatoria, di fabbrica dei sogni c delle illusioni e non una forma di pensiero, come taluni avevano

già notato (Canudo, Del lue, Mùnstcrbcrg, ma anche un autore come Grif­ fith). Ma se da un lato questo atteggiamento appare legato, nel 1917, al mo­ mento contingente, a un tragico contesto, rispetto al quale si pensa di rifu­ giarsi nel mondo dei sogni, da un altro lato esso rivela la percezione delle grandi possibilità del cinema come sovvertitore dei quotidiani canoni spazio­ temporali, inserendosi in modo omogeneo in una linea che anche altri aveva­

no percorso. Per lo più Monicelli coglie un aspetto non ovvio delfessenza del

cinema, ovvero il suo sembrare un’arte senza tempo: Il cinematografo è la libertà sopra ogni legge che ci affranca dal mondo finito dei nostri sensi, che debella la miserevole realtà conchiusa in un ciclo mortale di an­ ni: è foggi, è il ieri, è il domani, è il sempre: è l’eterna poesia di tutte le illusioni.

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E il cinema, continua Monicelli, è anche espressione di due elementi fonda­

mentali della vita: l’amore e la bellezza. Riguardo al primo esso si lega al tema della fanciullezza, anzi è con questa condizione intimamente legato, tanto che il richiamo va, come già per Pascoli, al personaggio platonico, Cebes Tebano, che per primo aveva individuato questa condizione umana. In quanto abitato

da un fanciullino, il cinema è assenza di logos, come la poesia per l’autore di Myricae, manifestazione panica che libera lo spirito umano da una funzione razionalmente ordinatrice, secondo quanto Monicelli esprime in uno dei bra­

ni citati. Ma all’amore il cinema garantisce anche l’immortalità: L’amore è il fanciullino panico di cui novella Cebes tebano, il quale vive nel cuore dell’uomo, e resta piccolo mentre questi si fa grande, col suo riso canterino, col suo nomade istinto di rapsodo che crea ad ogni passo armonie in un silenzio di stelle. [...] Solo nel cinematografo riprende il suo ufficio fatale al centro della vita che gli gira attorno vorticosa. Il cinematografo ci seduce e ci diverte per ciò ap­ punto che risolleva la vita a un palpito inconsueto. È una necessità fondamentale

del nostro spirito che l’arte in ogni sua espressione sia della vita una trasformazio­ ne avventurata, non una riproduzione esatta. E il cinematografo, com’è illimitato nella sua capacità trasformatricc, ha una virtù riproduttiva indefinita: supera la stessa morte. L’infinita riproducibilità - almeno potenziale - della pellicola fìssa oltre la

morte quel che è già accaduto ma che, grazie al cinema, continuamente ri-ac-

cade. “Trasformazione avventurata” e non riproduzione mimetica, il cinema

ha davvero questa come una componente quintesscnzialc. L’altro tema su cui Monicelli si sofferma, quello della bellezza, fa riferi­

mento alla figura dell’attrice della scena muta, posta a confronto con quella del teatro. Sulla scena parlata si lamenta la scarsità di donne belle, mentre il

cinema sta da tempo facendo leva sulle qualità estetiche delle attrici. L’idea di Monicelli non si fonda su nomi concreti, ma del resto gli esempi, nel 1917,

non mancavano per rendere generalizzabile la tesi. La funzione della donna cinematografica e, in particolare, la ricerca dcH’intcrprctc ideale dell’arte nuo­

va, era stato uno dei temi con cui Apollon aveva esordito12. Su tutte si decanta la bellezza di Lyda Borelli: la celebrano, tra i molti, Fausto Maria Martini (“la donna bella”, “una visione di bellezza”), dolendosi che nel 1918 ella si sposi e abbandoni le scene, e Vincenzo Cardarelli. Quando Silvio D’Amico recensi­ sce su L'Idea Nazionale una serata al teatro Valle di Roma in onore dcil’attricc,

che recita in Maternità di Roberto Bracco, non è molto indulgente sull’inter­ pretazione, ma non può fare a meno di lodarne “le stupende qualità esteriori (...) affermate con una prepotenza irrompente e irresistibile”13, qualità che il

12 Cfr. A. Piccioli. “Colei che attendiamo", Apollon, a. I. n. 2, 1 marzo 1916. ,J D'Amico. La vita tie! teatro, cit., p. 37. L’articolo originale, datato 11 febbraio 1915. s’intitola “In onore di Lyda Borelli, al Valle".

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cinema può mettere ulteriormente in rilievo. E proprio sul primo numero di

Penombra Fausto Maria Martini le dedica un lungo articolo14. Con le premesse indicate da Monicclli una nuova rivista d’arte cinemato­ grafica può essere compagna di strada e promotrice di un cinema che sappia corrispondere a un insieme equilibrato di “realtà e fantasia”, con un suo speci­ fico legato alle proprie vaste potenzialità e a un determinato canone di bellez­ za e di recitazione. D’altronde Monicclli non intende conferire alla propria ri­

vista “nessun compito didascalico o moralizzatore”, ma farne una guida per il

lettore nei meandri della produzione cinematografica, farne

l’anima solerte che dimostra al pubblico il paziente sforzo onde s'esprime in ani­ mata visione di figure e di luoghi la vicenda imaginata dall’autore, volta in suc­ cessione di quadri dal pittore, dal decoratore, dallo scenografo, finché ricostruita e fusa davanti all’obbiettivo si proietti sullo schermo.

Scorrendo l’elenco dei redattori e dei collaboratori della rivista — infoltito do­ po il passaggio dalla denominazione Penombra a quella In Penombra — posso­ no colpire alcuni nomi che all’epoca godevano già di un certo prestigio o che

lo avranno poco dopo. La lista può essere suddivisa in alcune sezioni: 1) letterati e scrittori come Antonio Baldini, Sem Benclli, Roberto Bracco, Luigi Chiarelli, Guelfo Civinini, Lucio d’Ambra, Salvatore di Giacomo, Ros­

so di San Secondo, Guido da Verona, Umberto Fracchia, Fausto Maria Mar­ tini, Marino Moretti, Dario Niccodcmi, Luigi Pirandello, Fausto Salvatori, Térésah, Trilussa, Ettore Vco, Luciano Zuccoli, ovvero una buona parte del

più accreditato teatro italiano del tempo (Benclli, Bracco, Chiarelli, Rosso di San Secondo, Martini, Niccodcmi, Pirandello - ancora lontano dall’afFermazionc internazionale, ma già oggetto di numerosi apprezzamenti - Zuccoli),

nomi che talora hanno già visto le loro opere trasposte dall’arte muta, scriven­ do essi stessi soggetti per il cinema; Baldini e Fracchia venivano dall’esperien­ za nella rivista Lirica, ideata con Onofri, Savarcsc, Rosso di San Secondo e Cardarelli, indine alla prosa d’arte prima che questa sia difesa dal gruppo de

La Ronda, fondata nel 1919 e di cui Baldini sarà uno dei perni. Tra prima, durante e dopo l’esperienza della rivista di Monicclli, Fracchia - che dal nu­

mero 2 di In Penombra risulta uno dei tre redattori “ufficiali”, accanto a Ma­ rio Corsi e a Ettore Vco, caporedattore — è redattore de L’Idea Nazionale, criti­ co teatrale del Corriere della Sera, direttore di Comoedia e di Novella, fondato­

re, nel 1925» de La Fiera Letteraria. Sicuramente è la fase legata a L'Idea Na­ zionale quella che determina maggiormente la scelta di una parte dell’équipe di In Penombra, tanto che lo stesso Vco è, nel quotidiano nazionalista, capo

cronista e D’Amico critico teatrale, all’interno di una terza pagina che si awa-

14 EM. Martini, “Un poeta per l’arte di Lyda", Penombra, a. I, n. 1. novembre-dicembre 1917.

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leva anche det contributi di Achille Campanile, Orio Vergani e Alberto Cecchi. In più casi i collaboratori di In Penombra sono più o meno coetanei di Monicelli e nel caso di Benelli, Civinini e Martini anche, come si è visto,

membri di quel gruppo di “nuovi drammaturghi” di inizio secolo. 2) Critici teatrali come Diego Angeli (su // Giornate ditaHa), Ettore Cozzani (su // Secolo XX), Giovanni Diotallevi (su Gazzetta Letteraria), Pasquale

Parisi (su Gazzetta Letteraria, anche redattore de // Mattino c collaboratore de L’Arte Muta), Giuseppe Meoni (su Gazzetta Letteraria). 3) Attrici come Francesca Bertini c Diana Karennc, emerse come grandi

attrici e dive del cinema, rispetto alla generazione di grandi attori di teatro

che avevano intrapreso il passaggio all'arte muta, attrici che si ritiene abbiano svolto un ruolo di coautori, di direttori artistici nei film che le vedevano protagoniste. 4) Pittori e illustratori come Cipriano Efisio Oppo, Tofano, Dudovich,

Depero, più (Tofano) o meno legati anche al teatro e al cinema, magari in

ambito futurista (Dcpero). 5) Uomini di teatro (ma anche di cinema) come Ugo Falena, Rino Alessi, critico e drammaturgo, Paolo Giordani, direttore della Società italiana del

Teatro Drammatico. 6) Registi come Gallone, Genina, Guazzoni, D’Ambra, Anton Giulio Bragaglia15, che sono chiamati a scrivere riflessioni teoriche c dichiarazioni di

poetica, caso ancora assai raro sulle riviste italiane del periodo. Questo ricco e variegato insieme di autori compone una rivista in cui ma­ gistrale è l'equilibrio fra testi e illustrazioni. Quasi sempre la successione degli

articoli è strutturata nel modo seguente: uno o più contributi sia sulla confi­ gurazione generale che su alcuni particolari elementi del linguaggio cinema­

tografico c le sue varie relazioni (cinema c teatro, cinema e storia, cinema e musica); uno o più racconti; un ritratto d’artista, in particolare rivolto alle at­ trici; il contributo di un regista sulla propria attività; la rubrica di Ettore Veo16 su ciò che si fa c ciò che si dice nel cinema; una memoria diretta (a es.

l’articolo di Falena sui primordi del cinema in Italia17, quello di Chiarelli sul

15 I contributi dei registi sono neH'ordinc: C. Gallone. “L’arte di inscenare”. In Penombra, a. I, n. 1, giugno 1918; A. Genina, “Ruggero Ruggeri fa del cinematografo”, In Penombra, a. I, n. 5. ottobre 1918; E. Guazzoni, "Mi confesserò”, In Penombra, a. I, n. 2, luglio 1918; A.G. (fragaglia, “L’arcoscenico del mio cinematografo", In Penombra, a. IL n. 1, gennaio 1919; per quanto riguarda D’Ambra, autore di due articoli, il riferimento principale va alla pubblicazione del suo notevole scenario de “Le mogli e le arance”. Penombra, a. 1, n. 1. novembre-dicembe 1917. corrispondente a circa metà di un film oggi perduto. 16 La rubrica s'intitola “11 mondo che gira e il mondo che si gira” e raccoglie notizie e

commenti sul mondo del cinema e. talora, anche su quello del teatro. 17 U. Falena, “Si cominciò a girare un po’ d’arte”. Penombra, a. I. n. 1. novembre-dicem­ bre 1917.

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Teatro Argentina18) o rivolta a importanti figure dell’ambiente teatrale e cine­ matografico (Antoine19, Virginia Marini20). Le copertine hanno una succes­ sione non univoca quanto a gusto pittorico, ma rispondono alla varietà di provenienza e di stile dei molteplici illustratori. Si passa così da un’opera di Depero, che riproduce una delle figure ideate per i suoi balli plastici futuristi,

a una di Oppo, che raffigura una dama e un cavaliere d’impronta settecente­

sca, secondo una robusta maniera classica tipica del pittore. Tra i due “estre­

mi”, ecco le copertine di Sto, nelle quali l’apparente elemento classicheggian­ te è sopravanzato da segni decorativi vicini a un còte Art Nouveau. Infine una

di Orha, incline alla moderna grafica pubblicitaria della moda, a uno stile che

si potrebbe accostare ai disegni di René Gruau per le campagne di Christian Dior.

Profilo di Monicelli. Seconda parte

Vediamo ora in sintesi il rimanente percorso di Monicelli dopo gli anni Die­

ci: dal 1920 al 1921, conclusa anche la stagione della rivista di cinema, è di­ rettore de L'Idea Nazionale, succedendo a Corredini; quindi è chiamato a di­ rigere // Giornale di Roma, poi 11 Tempo, infine // Resto del Carlino, che lascia

nel 1925, dopo un attacco contro il governo per il delitto Matteotti. Nel 1926, Monicelli è consigliere d’amministrazione della Società Anoni­ ma Suvini Zerboni, presieduta da Luigi Zerboni, che nel 1924 aveva ceduto il suo pacchetto azionario di maggioranza alla Banca Commerciale Italiana. In

tal modo i proprietari della Suvini Zerboni erano divenuti anche amministra­

tori della S.I.A.E., evoluzione della società fondata da Marco Praga. Un ruolo autorevole, rimarcato l’anno successivo allorché Monicelli è chiamato ad assu­

mere la direzione artistica o supervisione dell’istituto Nazionale per la rappre­ sentazione dei drammi dannunziani, che il Vate era riuscito a far fondare do­ po che nel 1926 lo stato aveva varato la pubblicazione della sua Opera omnia

in 44 volumi, per i tipi di Arnoldo Mondadori, impresa nata dopo la creazio­ ne di un Istituto Nazionale per la edizione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio. Nella direzione artistica delle rappresentazioni dannunziane Monicel­ li è in compagnia di Vincenzo Morello (il celebre Rastignac), in veste di diret­

tore generale, c dell’amico Giovacchino Forzano, che cura le regie, mentre il governo è rappresentato da Giuseppe Bottai, futuro direttore di Primato. Ma questo incarico - reso prestigioso anche dal fatto che sembra venuto su indi-

,a L Chiarelli, “Li resurrezione deirArgentina *. Luigi Chiarelli parla di Chiarelli Luigi”, hi *Penombra a. I, n. 4. settembre 1918. 19 U. Falena, “Antoine c il teatro muto”, hi Penombra * a. I, n. 7, dicembre 1918. x P. Giordani, “Alla scuola di Virginia Marini”, hi Penombra * a. 1, n. 1, giugno 1918.

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cazionc dello stesso D'Annunzio - appare anche l’ultimo segno di un valore ufficialmente riconosciuto. Poco dopo, infatti, i dati accertati su Monicclli at­

tcstano una parabola sostanzialmente discendente, almeno riguardo la funzio­ ne non più influente neH’cstablishmcnt culturale dell’epoca fascista: nel 1929 pubblica da Bemporad // viaggio di Ulisse, romanzo per ragazzi, seguito nel

1930 da //piccolo viandante, di nuovo destinato alla citata collana mondadoriana per giovani lettori. Gli anni Trenta sono segnati dall’attività di tradutto­ re - a esempio di Candide di Voltaire c di Dominique di Fromcntin - c dall’i­ deazione di una nuova rivista. Nel 1937 esce infatti, per le edizioni Tummi-

nelli, Storia, rotocalco illustrato che avvia un fortunato filone. Ma se assai lunga sarà la vita della rivista - fino a fiochi mesi fa disponibile con la testata Storia illustrata - breve la direzione di Monicelli, cui subentra Leo Longanesi, dopo la chiusura della sua Omnibus. Nessun altra sembra in seguito essere at­ tività di rilievo, fino alla morte avvenuta nel 1946, per suicidio. Conclusione assai amara, ma in fondo non del tutto inaspettata, di un percorso svolto

sempre con un sottotono degno di miglior fortuna.

L’EUROPA, NAPOLI, L’AMERICA: CASCAMI DELL’ART NOUVEAU NEL CINEMA DI ELVIRA NOTARI

Ester Carla de Miro d’Ajeta Università di Genova

In memoria di Enza Troianelli, prima studiosa del cinema di Elvira Notari

Alla fine del secolo scorso, Napoli, assieme a Milano, era il maggior referente per l’Europa in Italia. Intensi erano i rapporti di ogni genere soprattutto con Parigi, e il francese era, dopo il dialetto, la seconda lingua parlata dalle classi

colte. Assieme alla lingua, Napoli aveva importato dalla Francia alcuni carat­ teri della Belle Epoque che includevano abitudini sociali (il café chantant, la musica, i balli, il culto dell’arte, della cucina e della bella vita - la figura del

gagà derivava direttamente da uno stereotipo francese) e gerarchie di valori, ma soprattutto un certo gusto liberty che aveva influenzato l’architettura, l’ar­

redamento e la moda. Dalla Germania Napoli aveva invece mutuato un grande interesse per la modernità, c quindi per la tecnica c la meccanica, che ben si sposavano con una certa mentalità industriosa e artigianale che andava gradatamente trasfor­

mandosi per confluire in un’imprenditoria d’avanguardia, anche se ancora le­ gata al modello ottocentesco dell’azienda a conduzione familiare. Ma il carattere che in modo del tutto particolare recepiva c trasformava in qualcosa di tipicamente napoletano le idee di fondo dell’Art Nouveau era il

forte sentimento della natura, c quindi la costituzione di un linguaggio (lette­ rario, musicale, pittorico, architettonico) in cui la partecipazione continuamente ricorrente e incontrastata del sole, del mare, del paesaggio e della vege­

tazione nelle vicende umane diventava personificazione - in molti casi retori­ ca - di forze della natura alle quali l’uomo non riusciva in alcun modo a sot­ trarsi. Tale spirito pervadeva la letteratura dialettale (Ferdinando Russo, Salva­

tore Di Giacomo, Ernesto Muralo) c confluiva nella musica c nei testi delle canzoni che in quel periodo costituivano un tessuto culturale comune, capace

di coniugare un certo sentimento popolare con la sensibilità già decadente delle classi più colte.

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E se il bisogno di rassicurazione di fronte al radicale mutamento della so­ cietà indotto dalla rivoluzione industriale spingeva il gusto nordeuropeo ad inseguire e ricreare l’eleganza e la leggerezza delle forme naturali riproducen­ dole con materiali inorganici e pesanti (il cemento e la pietra delle facciate) o

addirittura artificiali (un esempio per tutti le strutture, le insegne e le balau­

stre floreali in ghisa del mètro parigino disegnate da Hector Guimard), a Na­ poli quest’ansia di rifugio nel mondo naturale trovava un’immediata corri­

spondenza nella realtà circostante, nel gusto ancora ottocentesco dei giardini e del paesaggio e in un atavico senso panico di comunione con una natura in­ cantevole, materna e solidale. E se l’immaginario nordico tendeva a trasfigu­ rare le scoperte della scienza e della tecnica umanizzandole (si vedano le fasci­

nose personificazioni femminili di Alphonse Mucha che rappresentano in chiave antropomorfica l’energia elettrica o le onde herzianc), il disagio gene­ rato dalla nuova organizzazione tecnologica nel tessuto sociale napoletano provocava invece un bisogno di guardare indietro, verso una tradizione fami­

liare, affettiva e sentimentale ipotizzata come “naturale”, ma in realtà regressi­

va e paralizzante rispetto alle nuove prospettive della modernità. Nella società napoletana, lembo estremo della civiltà industriale europea, agli inizi del Novecento la frattura tra borghesia e proletariato non si faceva

ancora sentire in modo netto come nelle capitali del nord, e l’aristocrazia go­ deva ancora dei suoi privilegi, anche se con il presentimento della loro fine

imminente e senza appello. Di qui una filosofia del vivere alla giornata, senza prospettive future e con l’eterno rimpianto di un “paradiso perduto” che non può in nessun modo ritornare. Oppure la ricerca di un “altrove” in grado di

offrire migliori condizioni di sopravvivenza (forse anche di ricchezza), ma al prezzo di un distacco radicale da qucll’//«W/c6e (il familiare, il noto, il ma­ terno, il centro del mondo in una visione infantile della vita) che è per la fra­ gilità dell’infanzia fonte di sicurezza e di godimento, ma, se sopravvalutato nella vita adulta, diventa motivo di castrazione e di arresto dello sviluppo in­

dividuale. La piccola borghesia, stretta dall'impellente bisogno di sopravvivere, e non

eccessivamente vincolata dai modelli culturali delle classi più agiate, è quella che reagisce più positivamente al cambiamento, diventando in questo mo­ mento storico la forza trainante di uno sviluppo tecnico ed economico che procede a sbalzi e a strattoni, proiettata nel futuro dalle possibilità offerte dal­ l’industria e dal commercio, e al tempo stesso risucchiata all’indictro dal biso­

gno di ancorarsi a nebulose tradizioni ideali e sentimentali che, lungi dall’appagare i bisogni dell’immaginario, lo permeano di un’esasperata ed estenuata

“nostalgia dell’impossibile”. Il cinema di Elvira Notari rappresenta il tipico prodotto di tale condizione

socio-culturale: nasce da un’azienda a conduzione familiare il cui centro pro­ pulsore è Elvira, moglie, madre e maestra (anche di recitazione oltre che mac-

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sera elementare), personaggio di grande energia e di media cultura, che dirige e modella in funzione delle esigenze produttive marito e figli, creando un’im­

presa via via sempre più complessa e durevole nel tempo, che poggia sulle so­ lide basi delle capacità fotografiche di Nicola, il marito cui è affidato anche il compito della contabilità. In termini attuali si potrebbe dire che nel cinema

dei Notati \'hardware è sotto il controllo di Nicola mentre al software provve­

de Elvira, se non fosse che tutto l’impianto dell’azienda poggia su un’assegna­ zione di ruoli che è opera di Elvira e che costituisce per lei una specie di anti­

camera della vera e propria messinscena cinematografica. La "regia" di Elvira Notati è quindi prima di tutto un organizzazione del lavoro a seconda delle competenze e delle possibilità di ciascuno dei familiari, e in questo senso la sua attività assomiglia da un lato a quella del “cineasta” francese, che si occupa di tutti gli aspetti della realizzazione cinematografica,

dall’ideazione del soggetto alle riprese e al montaggio, e dall’altro a quella del “director” americano, che è essenzialmente un coordinatore di esigenze filmi­

che e capacità individuali. C’è poi la componente creativa vera e propria, che spinge Elvira ad inven­ tare le storie, scrivere le sceneggiature, scegliere gli attori e dirigere le riprese, e queste sono funzioni che non può delegare a nessuno, perché nascono da una sua personale visione delle cose e della realtà circostante, che non è estranea alle esigenze del pubblico e alle loro richieste. La concretezza e la solidità del

lavoro di Elvira nasce proprio dall’immediato feed-back che una città come Napoli consente alla realizzatrice, e che pian piano si estende oltre i confini del territorio e della nazione. Il suo pubblico non corrisponde, infatti, alla po­ polazione della penisola ma si estende a macchia di leopardo ovunque la cul­ tura napoletana e il dialetto abbiano un significato immediato, ovunque nel mondo sia possibile far appello al demone dell’appartenenza e stabilire i vin­ coli della familiarità. Elvira aveva iniziato colorando con l’anilina i film fotogramma per foto­

gramma, e la sua dimestichezza con il supporto materiale del cinema l’aveva portata persino, in Fantasia 'e surdato, ad intervenire direttamente sulla pelli­

cola con un graffio, per rinforzare il lampo di un temporale nella scena in cui Gennariello, il figlio buono ed eroico accusato di aver ucciso il fratello, sta

per essere condotto in carcere sotto una pioggia scrosciante. (La Notati antici­ pava così di cinquantanni la tecnica dello scratching, molto usata nell’ambito del cinema underground americano da Stan Brackage, uno dei maggiori speri­ mentatori del cinema.) È proprio lo stretto legame con la “manifattura” della pellicola a creare la

solidità artigianale del cinema di Elvira, non molto lontana da un lavoro di cucito, che implica anch’esso un’estetica e un disegno tecnico del taglio e del­

la forma, che agli inizi del secolo cominciano a tendere sempre più ad una geometria della struttura. Non dimentichiamo che, tra le “meraviglie” della

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tecnica, nasce in questi anni anche la macchina da cucire, supporto essenziale

ad una pratica prevalentemente femminile che si rifà anch’essa a modelli d’ol­ tralpe, parigini in questo caso, i quali mutuano a loro volta dall’Art Nouveau linee e disegni.

Tuttavia l’elemento stilistico più evidente nel cinema di Elvira Notari, an­

che nell’opinione dei suoi contemporanci, & stato all’unanimità il "realismo”, e cioè il suo modo tutto particolare di eleggere a materia di rappresentazione

gli scorci dei vicoli, la miseria, i volti quotidiani delle persone che gravitavano ncirambicntc napoletano dell’epoca, caratteristica specifica che, confrontata con l’immagine ancora soltanto ideale di un’Italia evoluta ed unita, "disturba­

va” rispetto all’estetica veicolata dai film prodotti, secondo un’allocuzione dia­ lettale, “nell’altra Italia”, ossia al di sopra di Roma. E in effetti, benché pre­ miata per una volta a Genova, Elvira non si spinse mai per l’ambicntazione delle sue storie oltre la capitale. Ma quello che i critici dell’epoca consideravano un limite era in realtà una

cifra stilistica che non solo non temeva, ma addirittura ignorava il confronto

con altre produzioni cinematografiche, e che, al di là del “realismo”, si regge­

va su una forte struttura narrativa, quella del melodramma. Naturalmente qui la musica operistica era sostituita dalla canzone napoletana e la grande orche­ stra, da pochi strumenti estremamente familiari: il pianoforte nel migliore dei casi, o la chitarra e il mandolino, più maneggevoli e leggeri, cui si aggiungeva

naturalmente l’ingrediente più importante, e cioè la voce, inevitabilmente le­

gata al dialetto. In pratica, i “prodotti” confezionati dalla Dora Film erano il frutto di una cultura circoscritta che, se da un lato guardava ai modelli nordici, prendeva da essi ciò che più si adattava alla riproduzione di un microcosmo familiare, arcinoto (Heimlich, secondo una terminologia di tipo psicanalitico), il cui

successo s’imperniava su un meccanismo di identificazione da parte del pub­ blico e il cui territorio ignorava i confini europei per spingersi molto al di là, sino a portare conforto ai figli lontani, sparsi per il mondo alla ricerca di lavo­ ro, emigrati soprattutto in America. Il modello del cinema di Elvira si confi­

gura così come prototipo profondamente matriarcale, le cui intenzioni conso­ latorie fanno appello al puer, all’eterno bambino che, gettato nell’ostilità àc\\'Unheimlich (ciò che è lontano e diverso, il territorio straniero), ha biso­ gno di intrattenere un legame insieme di lontananza e nostalgia con il fami­

liare, il materno, rappresentato in questo caso da Napoli e dal suo dialetto, ol­ tre che dalle immancabili figure materne che appaiono in ciascun film. Ed è interessante notare come queste madri siano insieme potenti e sconfìtte, ogni

volta perno immobile e dolente di un’azione che non possono in alcun modo condividere, ferite beanti a loro volta in attesa di essere lenite da una consola­

zione che mai si verifica e soprattutto che non è mai sufficiente.

Parlavo prima anche di un “elemento di disturbo” rispetto a un “ordine”

151

intellettuale, insito nel cinema della Notati, legato, a mio avviso, più che al­ l’uso di elementi realistici, alla sua struttura melodrammatica. “Attenzione a non sbagliare, - dice pressappoco Charles Nodier, citato da Peter Brooks in L’estetica del melodramma, un testo molto utile ad una rivisitazione della strut­

tura melodrammatica, che presiede all’opera di autori apparentemente molto

lontani l’uno dall’altro, come Visconti, Matarazzo o Fassbinder - non era co­ sa da poco il melodramma, era la morale della rivoluzione”’. È facile per noi oggi fare dell’ironia sugli elementi melodrammatici che ca­

ratterizzano gran parte del cinema di questo periodo, ma, se andiamo all’ori­ gine settecentesca del melodramma, ci accorgiamo che la sua forte carica emotiva e trascinante nasce essenzialmente dal suo essere una forma dramma­ tica che si ribella al “non detto”, che cioè porta alla superficie alcune “verità”

che la civiltà aristocratica delle buone maniere tendeva ad occultare: il melo­ dramma porta alla luce i figli illegittimi, le donne sedotte ed emarginate dalla società, i sentimenti che non hanno cittadinanza nel contesto dcll’ufFicialità,

in altri termini, tutte quelle “irregolarità”, asimmetrie, ombre c “miserie” di cui è ordito il tessuto dell’esistcre. In questo senso il melodramma è la voce violenta c dirompente — c per certi versi impudica, se non addirittura oscena - di una classe - quella popolare c piccoloborghcsc - confinata dall’aristocra­ zia ai margini della scena sociale, che emerge dopo la Rivoluzione francese e

trova in un tipo di musica accessibile ed esplicita la forma in grado di nobili­

tare e diffondere la sua protesta. Non è lecito quindi pensare alla forma melo­ drammatica senza tener presente la funzione importantissima della musica,

che ne è parte integrante. Persino la figura retorica del tableau (ossia l’arresto totale dell’azione per sottolineare i momenti emotivamente più salienti: la ri­ velazione di un segreto, un’agnizione, un qualsiasi elemento che sovverte im­

provvisamente il corso degli eventi) che è tipica del melodramma, non si spie­ ga se non pensando al valore della pausa, del silenzio, all’interno dell’esecu­ zione musicale. Si è parlato in questa sede della dilatazione del tempo cinematografico nel­ le riprese che avevano per oggetto le dive, della loro ieratica immobilità che obbliga all’arresto anche la macchina da presa: questo tipo di ripresa che in­ duce alla contemplazione serve a sottolineare uno stato d’animo e deriva pro­

prio dall’estetica del melodramma c dall’uso del tableau, sua figura retorica fondamentale. Ma, benché proprio la Rivoluzione francese dia origine ai primi fermenti femministi, la cultura meridionale napoletana rimane ancorata, come abbia­

mo visto, agli schemi di un matriarcato sempre alleato o sostitutivo del pa­ triarcato dominante.

1 Non si dimentichi che il melodramma nasce nel Settecento come forma d’arte in cui la

borghesia si riconosce nella sua forma più eroica.

152

Non a caso nei film di Nocari la madre, attorno alla quale si sviluppa ogni volta la vicenda, è, con un’eterna sofferenza dipinta sul viso, sempre al centro dell’azione in cui il figlio “cattivo” cerca di liberarsi di lei con una violenza

proporzionata all’entità del vincolo, mentre il figlio “buono" paga il prezzo

della propria devozione con l’arresto del suo sviluppo all’adolescenza, con la rinuncia ad una propria vita sessuale e sentimentale; in tale dinamica la don­ na più giovane1 2* si configura quasi sempre come minaccia della solidità fami­ liare, come votata al futile e alla perdita, benché giustificata maternamente

nel caso in cui appare relegata al ruolo infantile di "picccrclla”. Il finale quasi sempre tragico, tuttavia, è segno di un’impossibilità di esistere, di un’asfissia

esistenziale indotta proprio da un’organizzazione matriarcale vicaria del pa­

triarcato. I cascami dell’Art Nouveau che caratterizzano i film di Elvira Notari e che rappresentano comunque un tentativo di coniugare il passato con il presente, la tecnica con la natura, si coagulano comunque prevalentemente attorno ai personaggi femminili, spesso messi a contatto con il paesaggio, gli animali, la

vegetazione, i fiori, veri o falsi che siano. Questi elementi spesso entrano an­

che nelle didascalie, la cui scrittura lineare dev’essere apparsa ad Elvira come un’interruzione del ritmo visivo, visto che spesso ha sentito la necessità di in­ tegrarla con disegni che esprimono iconicamente il concetto verbale: sempre

in Fantasia 'e surdato, un Cupido alla maniera di Méliès accanto alla scritta

che parla del primo incontro d’amore di Giggi, un serpente quando si allude alla malvagità della seconda amante Rosa, le scale quando questa viene caccia­ ta, una fontanella per rievocare la Fontana di Trevi, limoni in un giardino per suggerire un’epoca felice, una mano adunca per indicare l’artiglio del dolore, il Vesuvio ornato da putti per un’immagine trionfale e nostalgica di Napoli. E in quest’esigenza di non interruzione, di continuità del linguaggio per imma­ gini Elvira mostra di avvertire prematuramente quell’idea che sarà poi alla ba­

se delle prime teorie del cinema: la concezione di un flusso ininterrotto di im­

magini5, capace di comunicare esclusivamente attraverso di esse, e quindi in grado di superare le barriere della lingua e di configurarsi come linguaggio universale e sovranazionalc. Nel film appena citato c’è inoltre un palese desiderio di diffondere all’este­

1 Le analisi femministe degli anni Settanta (vedi ad es. gli studi di Girla Lonzi) avevano delineato con molta chiarezza la capacità eversiva della donna in età fertile, vista spesso come minaccia nella letteratura, nel teatro e nel cinema, perché ancora in grado di sovvertire l'ordi­ ne patriarcale ribellandosi al ruolo assegnatole. E con altrettanta lucidità avevano individuato nella donna anziana la custode dell'ordine, ricompensata con un'autorità proporzionata al suo

rigore. J L’idea troverà la sua realizzazione più compiuta molto più tardi ne L'ultimo uomo di

Murnau, del 1924.

153

ro immagini di Roma c di altre città italiane innanzitutto per venire incontro al bisogno degli emigrati: l’esile storia d’amore è in realtà un pretesto per rac­ contare il “battesimo del fuoco” di Gcnnaricllo c dei suoi commilitoni duran­

te la prima guerra mondiale, che occupa tutta la seconda parte del film. La

nostalgia dei soldati, provenienti da varie regioni d’Italia e connotati ciascuno dal proprio dialetto, fa appello qui a quella del potenziale pubblico di emigra­ ti, per i quali la lontananza aveva un significato molto più decisivo che ai no­

stri giorni. Anche in questo caso, la Notari anticipa una caratteristica che ver­

rà salutata come grande novità nel cinema di Alessandro Blasetti: i molti dia­ letti parlati dai garibaldini in I860. il film forse più riuscito del regista che

nel 1934 celebrava l’unità d’Italia. Anche a proposito di questo film, del re­ sto, si parlò di anticipazione del Neorealismo. Ma ciò che a mio avviso acco­

muna maggiormente il cinema della Notari ad un certo spirito neorealista è forse la profonda convinzione che, parlando del proprio microcosmo sociale

con sincerità e senza riserve, si possa sfiorare quella dimensione umana che appartiene alla profondità di ciascuno, ed è in grado di travalicare i confini geografici per raggiungere anche il pubblico d’oltrcoceano. Molti anni dopo la Notati, anche il cinema di Rossellini percorse il mondo partendo da analo­

ghe premesse. Molto ancora si può dire di questo cinema4, ma per concludere vorrei sot­

tolineare l’impressione più viva ed immediata che esso induce, c che potrebbe essere ben sintetizzata da un verso di Keats: Consider the world a vale of soul making, then you will know the use of the world5.

Ecco, credo che Elvira Notari abbia saputo cinematograficamente “fare ani­ ma” con i materiali più modesti della sua “valle”, fare anima nel senso più semplice del restituire il gusto e i fermenti di un’epoca e di un luogo, ma an­

che nel senso del mantenere viva la vita dcU’immaginazione creando una ma­ terna e insieme mercuriale rete narrativa che è stata capace di unire, ovunque si trovassero, i suoi interlocutori da una parte all’altra dell’oceano.

4 Come testimonia del resto l’interessantissimo libro di Giuliana Bruno sul cinema di E.

Notari: Rovine con vista. Rosenberg & Sellier, 1995. 5 “Provate a considerare il mondo una valle per fare anima, e capirete la funzione del

mondo”.

IL CANTO SILENZIOSO. DIVISMO E OPERA LIRICA NEL CINEMA MUTO ITALIANO

Èva Vittadcllo Università di Padova

Che il cinema muto non sia mai stato muto è ormai un’acquisizione pacifica non solo degli esperti del settore ma di tutti coloro che hanno avuto modo di assistere alla proiezione di un film muto. E sappiamo che il numero dei “pro­

fani” che hanno partecipato ai Festival di Bologna c Pordenone è sorprenden­ temente numeroso. Ad ogni titolo è sempre associato il nome di un pianista o

di un’orchestra, c nella coscienza di chi si reca a vedere un film muto è intrin­ secamente connessa l’idea di un evento composto da immagini c musica. E

questo, se vogliamo, è uno dei traguardi più grandi di quella sorta di “rivolu­ zione copernicana” che a partire dagli anni Ottanta ha visto riscoprire c re­

staurare centinaia di pellicole dimenticate o trascurate c restituirle al loro an­

tico splendore, processo che ha — appunto — integrato nell’esibizione l’accom­ pagnamento musicale quale parte indispensabile di una corretta ricostruzione

filologica. Il mio intervento darà dunque per scontato questo tipo di acquisi­ zione e cercherà invece di indagare un tema più specifico quello cioè delle qualità altrimenti musicali del cinema muto ed in particolare il suo rapporto con l’opera lirica. Il risultato che mi prefiggo è di suggerire la metafora del ci­ nema muto come opera senza canto o meglio, come un tipo di canto silenzio­

so, dove tale aggettivo, come abbiamo premesso, si riferisce alle qualità non vocali di questo canto c non implica assolutamente una qualche deficienza musicale1.

Il cinema muto italiano vanta con l’opera una lunga serie di affinità stori­ che ed espressive che lo pongono in una posizione del tutto unica e particola­

re rispetto le altre cinematografie. La sua filogenesi rivela infatti una serie di contributi, di vario tipo, da parte di tutta la cultura nazionale: eppure, se non

1 “Contrairement à un cliché répandu a posteriori, le cinéma n’a jamais été muet. Dès la fin du dix-neuvième siede, le septième art parlait, chantait, et s’intéressait à l’opéra ...". B.

Villien, “Opéra et cinéma: le suspense continu", Cinéma et Opént, mai 1987, Opént, n. 98,

Cinéma, n. 360, p. 42.

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mancano gli studi sul rapporto che lo legano alle altre forme d’arte, manca quasi del tutto una letteratura che si occupi dei contributi che pure gli dovet­ tero derivare dall’opera.

Come può l’opera non rientrare, anche solo per ipotesi, in un panorama del cinema muto che lo descrive come fagocitante tutte le esperienze culturali

italiane? Non era stata l’opera, e non lo era ancora, una delle forme artistiche più alte e rappresentative della nazione? Non aveva forse già svolto attraverso le opere di Verdi un ruolo di mediatrice della storia nazionale, e non sensibilizza­ va adesso, con le opere di Puccini, a storie d’amore complesse e tormentate? Ma cerchiamo di tracciare con ordine le lince generali di questo rapporto.

Cominciamo innanzi tutto dalle due categorie di spazio e tempo, ovvero dalla cronotopicità come primo elemento di contatto. Non a caso il cinema muove i suoi primi passi quando l’opera vive i suoi ultimi splendori e, ancora,

sono proprio i teatri lirici ad ospitare il nuovo intrattenimento. Prima di con­ quistarsi una sede stabile ed esclusiva, infatti, lo spettacolo cinematografico

viene proiettato nei teatri che si prestano naturalmente come i più ovvi locali disponibili; e anche quando ci saranno le sale cinematografiche, si ricorrerà

sempre ai teatri per gli avvenimenti speciali, vuoi perché forniti dello spazio necessario all’orchestra, vuoi perché con questa contiguità si voleva rivendica­

re la medesima dignità artistica delle opere che qui si rappresentavano: basti pensare a La caduta di Troia o a Quo Vadis? o a Cabiria (la cui “prima” fu al teatro Vittorio Emanuele di Torino ma poi venne presentato in contempora­ nea al Teatro Lirico di Milano e al (Sostanzi di Roma). È significativo che questa attitudine alla grandiosità e il fatto di essere coin­ volto in processi produttivi ed artistici irrimediabilmente dispendiosi, sia un precetto che deriva al cinema direttamente dall’opera ed il modello più vicino

a questo tipo di produzione fu proprio Giuseppe Verdi. Nelle sue opere, in­ fatti, la tematica storica costituisce sempre lo sfondo cruciale su cui si svilup­

pa l’intreccio degli eventi ed i personaggi sono strumenti che servono a valo­ rizzare un messaggio ideologico ben preciso: quello dell’obbedienza al padre, obbedienza che ha il suo corrispettivo, a livello macroscopico, nella fedeltà ed abnegazione verso la Patria. Questa tematica si traduceva poi nella messinsce­ na grandiosa in quanto tendenza connaturata alla capacità e alle finalità arti­ stiche del nostro cinema2 riscopre nelle trame storiche, nel movimento gran­

2 “Ce n’est done pas par hasard que Charles Pathé, exportant en Italie le film d'ari et créant sa filiale EA.I. (Film d'Arre Italiana), va puiser à des sources d’inspiration spécifiques. (...) L’Opéra ayant déjà, en Italie, familiarisé le public avee une certaine representation scénique de l’Histoire et popularisé certains thèmes traditionneles de l’Unité National: l’Antiquité romaine, l’imperialisme africain, l’exotisme romantique, la malédiction romantique, les gran-

des passions vénéncuscs ct mortcllcs, etc., qui constituent un indiscutablc ct fertile terrain culture! sur Icqucl se dcvcloppcnt ensuite des variations plus ou moins mélodramatiques, hé-

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dioso delle masse, nello sfarzo della scenografia il proprio lasciapassare per la conquista di quello stesso pubblico borghese che pensava di trovare solo a tea­ tro un divertissement adatto alla propria classe.

Sorge allora spontanea e plausibile l’ipotesi che le impressionanti evocazio­ ni storiche dei nostri primi film non facessero che tradurre per lo schermo vi­ cende che da anni l’opera rappresentava, come se la Marcia Trionfale dcll’/lzda, ormai patrimonio italiano di tutte le classi, fosse lo strumento ideale per guidare ed introdurre lo spettatore in uno spettacolo assolutamente diverso,

mediando la novità della proiezione di immagini con la familiarità delle cate­ gorie rappresentative dell’opera.

Quando, poi, il cinema, grazie alle invenzioni tecniche, può contare su una lunghezza maggiore, allora il cinema riesce a imitare anche nella durata,

la grandiosità dell’opera c le storie possono complicarsi, diversificarsi, attinge­ re a più modelli ed ispirazioni. Da questo momento prende avvio una produ­ zione cinematografica che invece di fare capo al modello storico di Verdi, ri­

cava dall’opera romantica dell’ottocento un tipo di storia patetica c passiona­ le c soprattutto individua nelle opere di Puccini l’idea del personaggio femmi­ nile come motivo centrale ed acccntratore della vicenda... ed è subito Diva. Il fenomeno del divismo era nato nell’ottocento per definire un ruolo

femminile che, all’interno dello spettacolo, esigeva tutte le attenzioni, tutti gli applausi, tutti gli onori. Il Tommaseo, nel suo Dizionario dei sinonimi, commenta così il termine: “Dei chiamavano Ì latini que’ ch’è credevano di natura divina; divi gli ascritti

al numero degli dei. Gli imperatori erano divi, non dei”. Dunque — possiamo aggiungere noi - le imperatrici della scena non potevano che essere Dive, ed erano appunto loro a determinare, grazie anche ad una produzione patetica

capace di stabilire con il pubblico una grande affinità emotiva, il successo o l’insuccesso della rappresentazione. Tutto ciò precede c poi confluisce nel filo­

ne del divismo cinematografico. I grandi drammi romantici vengono stru­ mentalizzati dall’interpretazione di Dive quali Francesca Bertini, Lyda Sorelli,

Pina Mcnichelli capaci di entusiasmare i pubblici di tutti i paesi, non più gra­

zie all'abilità canora delle loro cabalette ma con la fluidità magnetica dei loro corpi: il nuovo messaggio affascina soprattutto la vista ma l’estasi degli spetta­ tori è talmente completa che il richiamo di queste sirene diventa udibile... Non dimentichiamo poi che la presenza di almeno un pianista, intonava musicalmente la scena c, in secondo luogo, che le vicende di molti di questi film erano talmente simili (quando non erano proprio traduzioni) a quelle di

molti melodrammi, che un pubblico che conviveva con entrambe le forme

roiqucs, cxaltécs, frémissantcs”. M. Oms, “Une csthétique d’opéra”, Les Cahiers de la Cinématbiqtte, nn. 26-27, Automnc 1978, pp. 132-133.

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era portato inconsciamente ad associare le romanze tematicamente affini alle scene che vedeva svolgersi sullo schermo. Forse non è azzardato sostenere che le Dive del cinema muto si specializza­ rono in una serie di intrecci fatali proprio per esibire i sussulti del corpo: lo sbarrare gli occhi, il mordersi le labbra, le mani nervose, il passo ondeggiante e fatale... ecco, sono queste le abilità delle nostre Dive, i loro acuti migliori.

Se questo tipo di recitazione oggi ci può apparire ridicola, o comunque lontana dal nostro gusto, aveva allora un suo fondamento e si appoggiava ad un tipo di recitazione ottocentesco che appunto raccomandava gesti enfatici e

caricati. Non dimentichiamo inoltre che nel 1854 Alamanno Morelli pubbli­ cava il suo Prontuario delle pose sceniche in cui veniva rigidamente codificata una corrispondenza tra un certo tipo di sentimento e il gesto che lo doveva esprimere, e a questo manuale indifferentemente attinsero sia gli attori del teatro lirico, sia, infine, quelli del cinematografo.

La recitazione era, per le Dive del cinema, l’equivalente dell’espressione ca­ nora delle primedonne dell’opera. Grande critico dell’epoca, ecco cosa scrive Sebastiano Luciani nel suo

L’Antiteatro'.

Bisogna aggiungere che nella stessa maniera che all’attore drammatico si deve ri­ chiedere una voce che sia non solo di timbro gradevole, ma omogenea e di ugual potenza espressiva in tutti i suoi registri, dal secondo si deve richiedere una ma­ schera non solo espressiva in sé, ma capace di riflettere senza transizioni brusche, e come per via di modulazioni visive i sentimenti più opposti. Ecco in cosa consiste la misteriosa parola fotogenia che molti non riescono a definire. Tuttavia l’arte del­ l’attore cinematografico è in questa che possiamo dire musicalità di espressione *. Quanto qui si riferisce all’attore drammatico, possiamo altresì riferirlo al can­

tante d’opera. — Luciani aggiunge:

Infine vi è un dinamismo sottile, e, diciamo così più musicale: quello del volto umano che si trasfigura ai più lievi moti dell’anima. L’espressione silenziosa del volto, come notava Noverre, — “Le visage est Porgane de la scine niuetre" — avver­ sando nella pantomima l’uso della maschera, è mille volte più animata, più viva, più precisa di quella che risulta dal discorso più veemente. Occorre un certo tem­ po per annunciare il proprio pensiero; non occorre alla fisionomia per esprimere lo stesso pensiero con uguale energia. È un lampo che parte dal cuore, brilla negli occhi e spande la sua luce su tutti i tratti4.

Non dimentichiamo poi che, a differenza di tutte le altre cinematografie, e

soprattutto di quella americana, il cinema italiano si basava su una concezio­ ne piuttosto statica degli avvenimenti e, come abbiamo accennato, spesso c

* S. Luciani. L'Antiteatro. // cinematografo come arte, Roma, La Voce, 1928, p. 34. 4 Op. cit., p. 75.

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volentieri attingeva al repertorio drammatico dell’ottocento: le Dive si pone­ vano nei confronti di queste storie alla stregua delle cantanti, solo che doveva­ no esplicitare attraverso i movimenti del corpo, e non con il canto, l’intreccio.

La Diva si poneva di fronte la macchina da presa e per alcuni minuti ese­ guiva le sue variazioni gestuali sul tema (amore, odio, rabbia, gelosia ccc.) allo stesso modo in cui la cantante lirica eseguiva le sue arie/romanze. In termini di economia del tessuto narrativo non c’è nessuna differenza:

tra una Donna Elvira che nel Don Giovanni freme di rabbia cantando “Ah chi mi dice mai quel barbaro dov’è” e la protagonista di Storia di una donna che dedica molte scene ad esplicitare il suo desiderio di vendetta, cambia solo il tipo di canto, sonoro l’uno, gestuale l’altro. Tra una Manon che rimpiange l’amore sensuale di Des Grieux — “In quelle trine morbide” — e la contessa

Natka in Tigre Reale che si strugge al ricordo dell’amante perduto, non c’è

differenza qualitativa: entrambe le espressioni interrompono la narrazione per focalizzare un sentimento, in questo caso un impulso erotico, cliché tipico della Diva... Il fatto è che le strutture temporali del cinema muto italiano sono diretta­ mente ricalcate su quelle del teatro d’opera, dove il tempo dei numeri chiusi

risulta contrapporsi continuamente al tempo della storia. Come scrive Dal-

haus:

Quell’attimo che nella realtà trascorrerebbe in un baleno può nell’opera, sostenu­ to dalla musica, dilatarsi in un rituale; addirittura, la ritualizzazionc dell’attimo è, insieme con la pluralità simultanea dei discorsi nei brani concertati, una delle pe­ culiarità caratterizzanti del genere operistico5. Dunque, proprio per l’inserzione dei numeri chiusi delle Dive, il cinema mu­ to condivide con l’opera una concezione del tempo inconcepibile nel teatro o nel cinema sonoro dove il parlato obbliga la narrazione ad essere aderente allo

scorrere del tempo. Nel cinema muto, invece, queste lunghissime pause dedi­

cate all’interpretazione divistica rappresentano una sospensione della dimen­ sione temporale c dei rapporti effettivi tra i personaggi: ed ecco dunque che si trasformano in rito dove la Diva è appunto la sacerdotessa capace - auspici il

buio della sala c la magia della musica - di trasportare lo spettatore in un’altra dimensione, non più regolata dalle leggi spazio-temporali ma dalla legge di

natura, dal linguaggio del corpo. Se nella lontananza del palcoscenico, la cantante lirica poteva contare in un’espansione del canto che pervadeva la sala intera e avvicinava il pubblico, al cinematografo lo stesso ruolo viene assolto dal Primo Piano, equivalente virtuosistico degli acuti del soprano. Negli atti esteriori, nella profondità dello

5 C. Dalhaus, “Le strutture temporali ne! teatro d'opera", in La drammaturgia musicale, a

cura di L. Bianconi, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 184.

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sguardo c dei bellissimi volti delle nostre Dive si racchiude la nuova formula melodrammatica. Peter Brooks ci viene in aiuto quando, al di là delle specifiche differenze, riesce ad individuare un concetto globale delle diverse forme melodrammati­

che esistenti c lo definisce immaginazione melodrammatica nel senso di “una generale tendenza all'eccesso come modo di accentuare la drammaticità della rappresentazione”6. L’immaginazione melodrammatica andrebbe cioè ricerca­

ta in tutto un insieme di espressioni culturali di vario tipo (letterario, artistico c spettacolare) che hanno in comune la caratteristica di catturare l’attenzione in maniera forte, esagerata, attraverso espedienti particolari a cui è affidato il compito di rendere la situazione ricercatamente drammatica o patetica. Pro­ prio perché hanno in comune questa forte tendenza all’eccesso c alla dram­ matizzazione, cinema muto c opera possono dirsi concretizzazioni diverse del­

la medesima immaginazione melodrammatica - anche se nell’opera si espri­ me attraverso il canto, nel cinema muto attraverso il gesto. Il gesto, dunque, mezzo melodrammatico per eccellenza, è capace di rive­

lare pensieri, sentimenti, emozioni, al pari di altri mezzi come la parola orale (teatro), cantata (opera) o scritta (cinema muto). In generale, come ha scritto Emilio Sala nel fondamentale L’opera senza canto’. “La somatizzazione è sul

versante del rendere visibile, ciò che la sonorizzazione è su quello del rendere

udibile”7. Nel cinema muto la somatizzazione della parola viene interpretata

dalle movenze delle nostre Dive e ogni gesto è verbo, da ognuna di esse co­ niugato in maniera diversa ma sempre in modo da risultare perfettamente leggibile: basti pensare che per Lyda Borclli si creò addirittura quello di “bo-

rellcggiarc”... Se le modalità e le caratteristiche di questo tipo di recitazione fanno dun­ que parte di un generale concetto di espressione melodrammatica, rimane pe­ rò da risalire alle fonti ispiratrici di questo travaglio tutto al femminile. Una

volta definita l’essenza della formula recitativa della Diva restano cioè da veri­ ficare le coordinate culturali contemporance della rappresentazione muliebre.

E a questo punto non possiamo che fare i nomi di Giacomo Puccini c Ga­ briele d’Annunzio. Grazie alla diffusione del cinematografo, si andò universalizzando una for­

mula femminile che faceva proprie le caratteristiche delle eroine dannunziane e puccinianc. Puccini, infatti, è colui che fa convergere nell’opera lirica due

caratteristiche, quella del sentimentalismo c àc\\’attenzione alfemminile che so­ no gli ingredienti principali dei film delle Dive. In Catastrofi sentimentali,

Daniele Martino ha parlato di una sindrome pucciniana, ovvero di un

6 P. Brooks, L'immaginazione melodrammatica, Parma, Pratiche Editrice, 1985, p. 5.

7 E. Sala, L'opera senza canto. Il melo romantico e {’invenzione della colonna sonora, Venezia, Marsilio, 1995, p. 18.

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intreccio perfetto e perverso di sentimenti, di conflitti, di sofferenze e di catarsi che preesiste alla drammaturgia pucciniana e che sopravvive, in forme nuove, an­ che dopo Puccini89 .

Avvalendoci di questa definizione non possiamo che constatare come sia pro­

prio questa sindrome pucciniana a sovrintendere a questo nuovo filone cine­ matografico: le storie interpretate dalle Dive ricercano l’effetto drammatico c il consenso patetico del pubblico proprio allo stesso modo delle contempora­ nee sorelle della scena lirica, definendo una stretta relazione tra le eroine pucciniane e quelle dello schermo cinematografico. Ma negli stessi anni, un'altra figura della cultura italiana si interessava al

femminino come elemento dominante della propria espressione artistica: Ga­ briele d’Annunzio, naturalmente. Tra Puccini e d’Annunzio non ci fu mai

collaborazione diretta - cosa che invece avvenne per esempio tra Mascagni e

D’Annunzio, a testimoniare l’interesse del Vate per l’opera - e questo per il fatto che, come disse Luigi Baldacci, Puccini non avrebbe mai accettato il do­ no di un libretto ‘‘impacchettato” di un D’Annunzio’, ovvero non avrebbe

mai rinunciato a se stesso per mettersi a disposizione di un testo, essendo per lui la sua musica preesistente a tutto il resto. Eppure questo mancato incontro avvenne lo stesso nella figura delle nostre Dive, nel loro incarnare i due diver­ si modelli della donna vittima c della donna carnefice. - Dualità da sempre

presente nelle opere di Puccini come in quelle di D’Annunzio anche se, il più delle volte, il primo sembra preferire una donna dolce e remissiva, mentre il

secondo ama piuttosto la donna volitiva ed indipendente. — Una figura, quel­ la della Diva, inserita in una cornice decadente assolutamente dannunziana

ma con dei tocchi sentimentali e psicologici che D'Annunzio, nonostante le sue velleità di scrivere romanzi psicologici, non riuscì mai a raggiungere.

Quando andiamo ad applicare il concetto di “sindrome pucciniana” al mondo del cinema muto, lo facciamo dunque in ragione dell’interesse di

Puccini per un’eroina, per un’interprete femminile attorno alla quale far

ruotare l’intera vicenda; e ben nove opere, sulle dodici che Puccini scrisse, portano un titolo a) femminile10! Se Mosco Carnet, il più grande studioso

di Puccini, interpreta freudianamente questo interesse, sostenendo che fosse determinato da una “mancata risoluzione del vincolo infantile con la ma­

8 D. Martino» Catastrofi sentimentali. Puccini e la sindrome pucciniana > Torino, EDT, 1993, “Introduzione*. 9 L Baldacci, La musica in italiano. Libretti d'opera delTOttocento^ Milano, Rizzoli, 1997, p. 173. 10 A parte l’Edgar (1889). il Gianni Schicchi e il Tabarro ( 1918) - in cui comunque spicca­ no i personaggi femminili di Anna, Magonza, Lauretta e Giorgetta - abbiamo Le Villi (1884), Manon Lescaut (1893). Ut Bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), Ut fanciulla del West ( 1910), La Rondine (1917), Suor Angelica (1918), Turundot ( 1926).

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dre”11, resta comunque ferma e indiscutibile la centralità della donna, tanto più interessante se la mettiamo a confronto con la centralità della figura maschile, ed in special modo paterna, delle opere di Verdi. Nelle opere di Verdi l’amore non era mai fine a se stesso ma era un mecca­ nismo drammatico che permetteva di portare in scena ben altre tematiche, quella soprattutto del contrasto tra volontà paterna c filiale. È con Puccini

che l’amore trionfa nella sua assolutezza, che diventa l’unico scopo di vita, unica certezza che dà però senso ad un soffrire comunque ineluttabile. L’uni­ verso femminile, a cui è affidato il compito di dirigere le schermaglie amoro­ se, diventa così, luogo di rappresentazione privilegiato c ne vengono messi a fuoco i sentimenti in tutte le sfumature: sentimenti di amante ma anche di

madre, di confidente e di nemica, di schiava e padrona. La tesi drammaturgi­ ca di Puccini si articola sempre, infatti, in due polarità femminili opposte,

che possono convivere nella stessa persona o sdoppiarsi: in Manon la cortigia­ na amante del lusso convive con l'amante appassionata di uno studente pove­ ro; nella ingenua Mimi riaffiorano spesso tratti civettuoli, mentre la dolce Anna ha nella Sirena di Magonza la sua rivale; e la bruna Tosca ha nell’Attavanti il modello antagonista di “bellezza diversa”; fino all’esemplare cristalliz­

zazione di questi due modelli opposti in Liù, incarnazione perfetta della don­ na remissiva; e in Turandot, colei che sceglie sempre. La medesima duplicità emerge nelle eroine dei film muti, dove, al pari,

esse possono incarnare personalità diverse oppure sdoppiarsi. In Tigre Reale

la contessa Natka (Pina Mcnichelli) è all’inizio una donna tutta d’un pezzo, cortcggiatissima dagli uomini ma nei loro confronti terribilmente algida. Non fa eccezione il suo atteggiamento verso Giorgio La Fedita che di lei si è

innamorato fin dal primo istante. Dopo che lui ha accettato di rispondere al

rebus della sua lettera, gli rivela il motivo della sua incapacità ad amare. Ma questa storia non ci ricorda forse qualcosa? Non è forse la stessa vicenda di

Turandot? Turandot narra appunto la storia di una spietata principessa che, per ven­ dicare l’onta subita da una sua antenata, punisce gli uomini che la vogliono sposare, proponendo loro tre enigmi difficilissimi che se non risolti ne decre­

tano la morte. Ma il principe Calaf, che di lei si è innamorato fin da subito, riesce, risolvendo gli enigmi e grazie ad un bacio sensuale, a far comprendere

alla principessa l’intensità del suo sentimento. Contemporaneamente il sacri­ ficio di Liù che per aiutare Calaf si uccide, dimostrano a Turandot la grande

potenza dell’amore. In Tigre Reale è la contessa Natka a risolvere in sé la duplice vicenda

11 M. Carncr, Giacomo Puccini. A Critical Biography, London, Gerald Duckworth & Co., 1958; tr. it.: Giacomo Puccini. Biografìa critica, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 378.

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Liù/Turandot: la metamorfosi che la vede trasformarsi da donna crudele e senza scrupoli (comportamento da imputarsi anche per lei ad un’esperienza terribile) in essere devoto all’uomo che ama e capace per lui di qualsiasi sacri­

ficio, è mulatti mutandis assai simile all’opera pucciniana. Questo confronto mette in luce un’affinità (che è indiscutibilmente sor­

prendente) c, piuttosto che stabilire una relazione di causa-effetto, mira sem­

plicemente a sottolineare come tra queste arti circolasse una sorta di aria co­ mune che caratterizzava in maniera forte soprattutto la definizione del perso­

naggio femminile. La stessa ambientazione esotica - espediente che ha in D’Annunzio un altro grande cultore - è ad esempio il sintomo della moda di

quegli anni - e Russia o Cina che sia serve ad impreziosire e mitizzare l’appa­

rizione della donna. Ne II Fauno, opera intrisa di simbolismo ed estetismo, lo sdoppiamento si rivela palese anche nei nomi: Fede (Nietta Mordcglia) rappresenta l’amore puro e assoluto mentre Femmina (Elena Makowska) quello sensuale. Lo scontro tra questi due tipi di amore (che rimandano ad un’incarnazione fem­ minile opposta) costituisce lo sfondo morale della vicenda o, come si dice nel prologo, “il canto deil'amor primo”. Nc II quadro di Osvaldo Mars la pace

della contessa Anna Maria (Mercedes Brignonc) viene sconvolta da un qua­ dro che la ritrae nelle vesti di Salomè, sdoppiamento neU’Arte che minaccia di

rovinare la sua reputazione nella società mondana che frequenta. In Marnati

Poupée la protagonista Susanne di Montalto è una madre tenerissima, vera­ mente inoffensiva, che giunge ad uccidere la donna che le ha sottratto il ma­ rito. In lei convivono la più assoluta purezza e la più profonda determinazio­ ne. Essa è come la Minnie de La Fanciulla del West, capace dei sentimenti più

nobili e puri ma senza comprensione per una rivale12. Ma Maman Poupée è soprattutto madre e la preoccupazione più grande dopo l’assassinio è: “I bam­ bini, no, no, non posso più toccarli con queste mani”.

12 “Chi è Maman Poupée? Una mite creatura d'amore, di bontà, d'innocenza, bimba tra i bimbi suoi c i loro balocchi e i loro giuochi, anima serena, pura, ingenua, ridente, chiara, in­ capace di male e di cattivi pensieri, felice nella sua casa e fidente nei suoi affetti, ma incom­ presa dal marito che, o per celia o per vezzo, la chiama Maman Poupée. Ed ella va gloriosa quasi e compiaciuta di questo suo nomignoletto. Ma un giorno, ecco il dolore morde e arti­ glia il suo cuore. Una femmina scaltra e viziosa irretisce il marito. La donna si risveglia allora, scossa violentemente dal suo dolce sogno, volge i chiari occhi intorno a sé e vede con orrore e disgusto la bruttura che insozza il suo ideale, vede il vizio perfido e ingannevole che insidia la sua felicità e nella disperazione avviene il trasfiguramento e il trasmutamento. Il sorriso sfiori­

sce nelle lacrime amare della delusione patita. Eppure nessuna cattiveria passa nel suo animo buono, nessun desiderio di male lo agita: in lei c’è ancora una speranza c c'è ancora tutta la sua fede. Ma allora che anche quest’ultime dileguano, di fronte alla insolente provocazione della rivale, dalla sua coscienza turbata, repentinamente si sprigiona una volontà di difésa ad oltranza c la volontà si concreta in un gesto micidiale. Magnifico trapasso psicologico balzan­ te dalle profondità dell'istinto umano che arma inconsciamente la timida mano per la propria

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Ed è in proprio in Puccini che la figura materna appare per la prima volta nell’opera come parte integrante della femminilità: Suor Angelica1^ è una ma * dre che dopo aver appreso della morte del figliolctto si prepara una pozione

d’erbe velenose c si toglie la vita; Madama Butterfly è una madre che si ucci­

de per dare un futuro al figlio14; ne La fanciulla del West il pensiero della ma­ dre lontana non dà pace ai minatori15. Ma madre tenerissima è anche Francesca Bertini nc La Piovra, in cui si narrano le vicende di una donna vittima di un uomo fatale per colpa del qua­

le divorzierà dal marito, perderà il figlioletto, sarà coinvolta in uno scandalo.

Mirabili sono le sequenze in cui si dispera sulla culla vuota o quando rende le braccia nel buio invocando il bambino c nessuno le risponde salvo la camerie­ ra che cerca di calmarne il dolore. E Pina Menichelli, in Storia di una donna,

è una madre che vuole vendicarsi dell’uomo che l’ha sedotta c abbandonata costringendola così a separarsi dal frutto scandaloso del loro amore... Madre, nel più alto senso della parola (e unicamente madre), è Rosalia (Eleonora Du­

se) in Cenere, costretta dalla miseria ad affidare al padre naturale il figlio, quando questi - dopo averla ritrovata c capito il gesto d'amore celato dietro

quello che sembrava un abbandono - vuole presentarle la promessa sposa, ella fugge per non mostrarsi nella sua povertà. Anche Histoire d’un Pierrot è la sto­ ria di una maternità, perché Pierrot è interpretato da Francesca Bertini e non c’è nulla che possa farlo dimenticare: la stessa Diva è ritratta, prima che inizi

la vicenda vera e propria, mentre smette gli abiti femminili per indossare quelli di Pierrot. Ultimo elemento d’analisi — ma sarebbero ancora molti i punti interessanti

da toccare - e la fiorealità. Simbolo del legame tra le eroine di D’Annunzio, Puccini e le Dive del muto sono i fiori che ne fanno risaltare la bellezza o che

servono da paragone, che impreziosiscono i giardini e le case, le barche, i coc­ chi, che nc adornano le esistenze. Stereotipo figurativo fin de siede, essi ven­ gono a tradurre iconograficamente la femminilità ed è per questo che sono onnipresenti in quelle produzioni che ad essa inneggiano. I fiori vengono a disegnare una mappa tutta femminile del sentimento amoroso, definendo at­

mosfere da sogno, quasi sospese nel tempo. In quanto attributo stesso della

difesa quasi inconsapevole". Da La rivista cinematografica, Torino» n. 3» 10 febbraio 1920, in V. Martinelli, "Il cinema muto italiano 1920. 1 film del dopoguerra". Bianco e Nero, a. XLI, nn. 4-6, luglio-dicembre 1980, alla voce "Marnati Poupée". 15 Veramente straziante la romanza in cui deplora la morte del piccolo: "Senza mamma, o bimbo, tu sei morto. / Le tue labbra scoloriron fredde, le chiudesti, o bimbo, gli occhi belli". 14 "Tu, tu piccolo Iddio! / Amore, amore mio, fior di giglio e rosa. / Non saperlo mai / per te, per i tuoi puri occhi, muor Butterfly / perché tu possa andare / di Ih dal mare / senza che ti

rimorda ai dì maturi, / il materno abbandono". 15 "La mia mamma... che farh ! s’io non tomo, *s io

non torno? / Quanto piangerà!".

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femminilità, non c’è eroina la cui presenza non venga accompagnata da fiori

o paragoni floreali. Se la protagonista dannunziana del Piacene dissemina il pavimento di rose,

quelle pucciniane fanno arretrante: Butterfly vuole che tutto il giardino “olezzi” nella casa; Mimi ricama fiori o li guarda fiorire ; Tosca depone fiori davanti alla

statua della Madonna; Minnie trascorre le sue giornate tra paesaggi fioriti; Ed­ mondo parla di Manon in termini floreali; Calaf, di Turandot, sente il profumo. Lo stesso dicasi per l’apparizione delle Dive, sempre circonfuse da un tri­

pudio di fiori come le donne dei simbolisti, la cui bellezza diviene tutt’uno con quella del paesaggio, e a seconda del tipo di flora che le sta attorno si im­

pregna di messaggi, presagi, rivelazioni. In Carnevalesca la vicenda è narrata

addirittura in termini floreali in un “iridescente bouquet di quattro carnevali”16. In Malombra la presenza della protagpnista è continuamente se­ gnalata da composizioni floreali: la barca in cui, mollemente sdraiata, si lascia andare sul lago ne protegge la femminilità tramite un’imbottitura di fiori; i

giardini tra cui passeggia sono adornati di gemme; e anche le stanze in cui si muove sembrano spandere effluvi di odori mentre Marina (Lyda Borelli), ve­

stita di nero, spicca continuamente tra il candore floreale che la circonda e che ne mette a fuoco, per contrasto, la tenebrosità. In Madame Tallien la san­ guinosa vicenda della Rivoluzione Francese è temperata dai tripudi floreali

che fanno da sfondo alla divinizzazione di Teresa (Lyda Borelli). In Storia di una donna, l’avvenenza di Pina Menichelli è celebrata, durante il carnevale, da una lunghissima apoteosi di fiori, in cui la Diva sorride e si schermisce. In­

fine, in Rapsodia satanica, la primavera è simbolo della riconquistata giovinez­ za di Alba (Lyda Borelli): ed ecco continue danze c serti intrecciati: ora il fiore

diventa simbolo dell’amore, ora della gelosia, ora della morte. Ma in fondo, quest’associazione ossessiva della donna al fiore, non signifi­

ca forse che la donna è Natura? E Natura proprio nel senso dannunziano do­ ve Ermione si trasforma a poco a poco e assume le forme aulenti del bosco.

Natura è infatti, come ha proposto Luigi Baldacci, la donna pucciniana: L’intuizione pucciniana è tutta appoggiata sulla donna, che può essere madre, co­ me Cio-Cio-San, come Giorgetta o come Suor Angelica, ma è comunque natura, cioè libertà, cioè magma che si sottrae a qualunque forma ideologizzante17.

Altrettanto Natura sono certo le nostre Dive, sempre circondate di fiori per

metterne a proprio agio l’essenza, personificazioni di un istinto vitale al di là del Bene e del Male.

16 Da una presentazione dell*epoca. Vedi V. Martinelli, “Il cinema muto italiano 1918. 1 film della grande guerra”. Bianco c Ncrot numero speciale, a. L, nn. 1 e 2, 1989, alla voce

“Carnevalesca". 17 Baldacci. Op. cir., p. 144.

LE DIVE DEL MUTO. MODELLI DI FEMMINILITÀ E ICONOGRAFIA

Lisetta Renzi Ricercatrice, Bologna

Per cominciare un po' di storia: le prime dive Il divismo non nasce col cinema. Fenomeni divistici esistevano già nell’anti­

chità e, fin dall’ottocento, l’appellativo “diva” veniva usato per esaltare le at­

trici di teatro e le cantanti dell’opera lirica. Nel corso del secolo, poi, le usan­

ze divistiche si diffusero sempre più, culminando, fra Otto e Novecento, negli atteggiamenti delle due grandi protagonistc del teatro europeo di quegli anni: Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse. La prima amava essere stravagante ed anticonvcnzionale: fumava il sigaro,

portava al guinzaglio un coccodrillo, dormiva in una bara. La seconda si mo­ strava intenzionalmente semplice e disadorna nell’abbigliamento: appariva

struccata, non si tingeva i capelli ormai grigi, vestiva di bianco o di nero, as­ sumendo atteggiamenti di tormentosa sofferenza nei suoi alteri silenzi. Nonostante questi illustri precedenti si dovettero però aspettare circa quindici anni, dopo la nascita del cinema, per vedere i primi divi dello scher­

mo. Nascosti dal trucco pesante, ripresi da lontano e presenti in film troppo brevi perché il pubblico vi si potesse affezionare, gli attori del cinema erano di

solito anonimi. I primi a diventare popolari furono così non gli attori, ma i personaggi che essi interpretavano, quali, in Inghilterra, il sergente maggiore Chart c, in Francia, Fantomas o Nick Carter. Quest’ultimo talmente amato dal pubblico femminile che la casa di produzione Eclair di Parigi, produttrice della sua se­ rie, riceveva numerosissime lettere di ammiratrici indirizzate a suo nome.

Negli Stati Uniti, invece, gli attori cominciarono lentamente ad essere ri­ conosciuti in base ai ruoli da loro più spesso interpretati c alle case di produ­

zione: Mary Pickford divenne così famosa come “Little Mary”, Florence La­ wrence come la “Biograph Girl”, Florence Turner come la “Vitagraph Girl”.

L’avvento del lungometraggio, negli anni Dicci, c l’introduzione dei piani ravvicinati favoriscono la valorizzazione degli interpreti, i quali finiscono per diventare, agli occhi degli spettatori, l’elemento centrale di un film. Queste

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nuove tecniche, unitamente alle campagne pubblicitarie che i produttori, vi­

sto il successo di pubblico riscosso dai singoli attori, cominciano ad organiz­ zare, danno il contribuito definitivo alla nascita del divismo cinematografico. Nel 1913, con Ma lamor mio non muore!, un dramma mondano girato da

Mario Caserini per la Gloria di Torino, nasce la prima vera diva cinematogra­

fica italiana, Lyda Borelli, seguita dopo breve tempo da Francesca Bertini, l'altra grande diva italiana che si distinguerà subito dalia recitazione “floreale" della prima per il maggiore eclettismo della vena e dei ruoli interpretati: dalle più consuete donne fatali d’ispirazione dannunziana, fino al personaggio ma­

schile di Histoire d’un Pierrot c alla napoletana e popolaresca Assunta Spina. Nel frattempo, attorno alle due figure più famose - da Brunetta definite “le teste di serie del divismo del cinema muto italiano"1 - si crea un ampio gruppo di dive: dalla sprezzante e sensuale Pina Menichclli fino, per citarne

alcune, a Italia Almirante Manzini, Rina de Liguoro, Maria Jacobini, Hespe­ ria, Diana Karennc, Leda Gys, Maria Carmi, Soava Gallone, Elcna Sangro, Carmen Boni. Nel corso degli anni Dieci avviene quello che Morin definisce il passaggio

dall’“era della diva per il film" a quella del “film prodotto in funzione della

diva"1 2: i produttori fanno uscire serie di film basate tutte sulla stessa protago­ nista, quali la serie Pina Fabbri della Milano Films c la serie Lyda Borelli della Gloria; e le attrici, affermatesi ormai come figure centrali della cinematogra­

fia, diventano così importanti c determinanti per la riuscita di un film da

creare, come Francesca Bertini, le proprie case di produzione. Ben presto le dive cominciano anche ad influenzare la moda ed il costu­ me, proponendo nuovi comportamenti ed un canone di bellezza cui unifor­ marsi. Come nel caso della bionda Lyda Borelli che, con la sua figura alta, ab­ bastanza sottile per l’epoca, serpentina, diffuse a tal punto la moda delle die­ te, dei capelli ossigenati c dei contorcimenti sinuosi che, per descrivere il fe­ nomeno, si coniò il termine “borellismo”.

Una vita inimitabile Fin dai tempi di Ma l’amor mio non muore! Lyda Borelli appare come la diva per eccellenza del cosiddetto “cinema in frac”, un genere che, secondo un modello d’ispirazione dannunziana, presenta un mondo di aristocratici, csteti e donne fatali dediti a passioni distruttive c proibite, e che, unitamente ai

grandi kolossal storici, finisce per prevalere sulle correnti più realistiche e po­

1 G.P Brunetta, Storia del cittema italiano 1895-1945, Roma, Editori Riuniti, 1979. 2 E. Morin, 1 divi, Milano, Mondadori, 1963.

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polari, ben rappresentate nel nostro cinema da film quali Assunta Spina e

Sperduti nel buio. Poste al centro di drammi mondani che, conformemente al gusto dannun­ ziano, esaltano gli “individui d’eccezione”, le dive del muto, come le “Dame d’oro” dell’aristocrazia romana ritratte da D’Annunzio nelle sue Cronache

mondane, conducono una vita “inimitabile” all’insegna del lusso c dcU’cccczionalità. Lc loro dimore sono sontuose, la recitazione liberty c scenografica (la Bertini con il capo all’indietro c la mano sul fianco o reggendosi il mento, la Borclli le mani convulse nei capelli o abbracciata ad un tronco), i loro desi­ deri cercano di essere raffinati e stravaganti: in II processo Clemenceau al mari­ to, stupito per la “stranezza d’idee” della moglie, Iza Clemenceau, interpretata da Francesca Bertini, domanda: “Vorrei bere del latte fresco in una coppa

d’argento”.

Di loro, le protagonistc del “cinema isterico”, Salvador Dall racconta: ... ricordo quelle donne dal passo vacillante e convulso, le loro mani di naufraghc dell’amore che andavano accarezzando le pareti lungo i corridoi, aggrappan­ dosi alle tende e alle piante, quelle donne la cui scollatura scivolava in continua­ zione dalle più nude spalle dello schermo, in una notte senza fine, fra cipressi e scalinate marmoree. In quell’epoca critica c turbolenta dell’erotismo, le palme c le magnolie venivano letteralmente prese a morsi, strappate coi denti da queste don­ ne il cui aspetto fragile e pre-tubercolare non escludeva tuttavia forme audace­ mente modellate da una giovinezza precoce c febbricitante *. In carrozza, in macchina, ai balli, all’Opcra, circondate da adoratori, le dive del

muto indossano grandi cappelli piumati, pellicce, abiti da sera di lamé coperti di brillanti, oppure neri e scollati sulla schiena, c sui quali spesso risalta una col­ lana di perle lunghissima che anticipa quella, poi famosa, di Louise Brooks. Co­

me la collana con cui gioca la duchessa di La Donna nuda o la marchesa di Ma­

man Poupée, come quella, portata larga c un po’ all’indietro di Mercedes Brignonc in II quadro dì Osvaldo Mars\ o quelle indossate da Lyda Borclli in Ma­

lombra, o da Francesca Bertini in La Piovra, dove una lunghissima collana, por­ tata questa volta, a tracolla, attraversa la schiena nuda della diva.

Atmosfere orientaleggianti Coperte di gioielli, sacerdotesse “dell’amore e della morte” travestite - come Lyda Borclli in Rapsodia satanica — da baiadere discinte, oppure identiche — come la protagonista de II quadro di Osvaldo Mars — ad un ritratto di Salomè, le dive si muovono su uno sfondo da bric-à-brac orientaleggiante che ha i suoi

* Riportato da G.C. Castello, Il divismo, Roma, ERI, 1957, p. 17.

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modelli “alti” nell’orientalismo ottocentesco - dal Baiti ture di Ingres fino alla garsonnière di Andrea Sperelli nel Piacere dannunziano - c dove, fra enormi

tendaggi, tavolini arabi, vasi cinesi, tappezzerie damascate, letti e divani co­ perti di pelli e pellicce, cuscini e bracieri, vige c trionfa la felicità dei sensi. Il tipo femminile è quello della tentatrice esotica, quello delle Velléda, del­

le Salambó, delle Scmiramidi, delle Clcopatrc celebrate per tutto il corso dcll’Ottoccnto da Chautcaubriand, Flaubert, Gauthier, Swinburne e tanti altri ancora; delle Salomè fin de siècle raffigurate ed esaltate da Moreau, Huy-

smans, Laforgue, Mallarmé, Klimt e portate sulla scena da Oscar Wildc con un ruolo originariamente creato per Sarah Bernhardt, poi pezzo forte in Italia

di Lyda Borelli. L’atmosfera è quella del Mediorientc magico c barbarico della Bisanzio simbolista c decadente, quella di un harem o di un serraglio patriarcale dove si liberano le forze pulsionali c gli istinti, abbandonandosi ad una regressione nel proprio lato primordiale e selvaggio in compagnia di donne che, esotiche

e sensuali, di tale lato di sé di fatto sono la proiezione.

Un’atmosfera permeata di un dannunzianesimo penetrato, scrive Brunetta,

anche nel “sistema degli oggetti”:

Appaiono i letti, i divani, gli specchi, certe medicine [...] che hanno soprattutto il potere di far respirare al pubblico borghese l'atmosfera proibita dei paradisi ar­ tificiali4*. Proiettandosi con la fantasia in mondi lontani, si realizzano infatti i propri desideri di evasione dal quotidiano, si soddisfa quel “bisogno del sogno”,

qucH’“aspirazionc ad cscir fuori dalla realità mediocre” nel soddifacimento dei quali, diceva D’Annunzio, consiste una delle principali funzioni dell’arte c della letteratura.

Divina come un antico idolo

Antitesi del quotidiano, la diva è “l’idolo” che, scrive Morin, “si contrappone alla donna sempre presente, all’amica, alla sorella”9. Il suo volto innaturalmente bianco, dai grandi occhi cerchiati di nero, ri­

propone una truccatura, che, osserva sempre Morin, come quella teatrale “differenzia l’attore dall’umanità profana [...] lo investe di una personalità sa­ cra c ieratica”6; quel “maquillage” in cui, scriveva Baudelaire, il bianco della

polvere di riso “accosta immediatamente l’essere umano alla statua, cioè ad un

4 Brunetta, Op. cit., p. 98. 9 Morin, Op. cit., p. 14. 6 Op. cit, pp. 42-43.

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essere divino e superiore”, mentre “il bordo nero fa lo sguardo più profondo e

singolare, dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infi­ nito”7. Avvolte da un atmosfera mitica e favolosa, le dive acquistano così una cari­

ca simbolica che, se da un lato soddisfa il gusto piccolo borghese ed i bisogni di evasione del pubblico, dall’altro recupera un repertorio di vicende e di im­ magini provenienti dalla tradizione artistica e letteraria, capace di dare alla nuova arte una legittimazione culturale. Seduttrici e femme fatale alla maniera dannunziana, ma anche donne-an­ gelo, pallide fanciulle sofferenti, donne-natura o dee della primavera, esse fan­ no infatti rivivere nei loro volti e nei loro gesti i tipi femminili ereditati dalla

letteratura, dalle arti figurative, dal mito; nelle loro vicende, un cinema, “nato

- scrive Edgar Morin - come spettacolo plebeo”, ripropone “i temi del ro­ manzo d’appendice e del melodramma, nei quali si ritrovano, in una dimen­ sione quasi fantastica, gli archetipi primi dell’immaginario”8. Al di là della varietà delle vicende raccontate dietro questi tipi si nasconde

quasi sempre lo stesso archetipo femminile originario, quello di una Gran

Madre primordiale, immagine di una natura allo stesso tempo benevola e ter­ ribile, e con la quale la donna in virtù delle sue capacità di procreazione fin dalla preistoria è stata identificata. Dietro la maschera dei personaggi riappare il volto molteplice ed ambiguo di un “Eterno femminino” che, mostratosi nei secoli sorridente e minaccioso, benevolo e terribile, sembra essere tornato per rifulgere nel firmamento dello spettacolo attraverso il corpo della diva.

La donna-natura

Come se fossero delle creature mitiche magicamente in armonia con il mon­ do e con la vita, o delle antiche “divinità delle piante, dei boschi e degli ani­ mali” — le dee primordiali vicine, scrive Neumann, ad una “natura umana sel­ vaggia e primitiva” che convivono “con gli animali da caccia e con le belve fe­

roci e con le piante selvatiche”9 — le dive del nostro cinema muto amano con­ fondersi con la natura e circondarsi di piante, fiori, animali. Lyda Borelli, in La donna nuda, abbraccia un tronco o si siede fra gli albe­

ri; Francesca Bertini, in II processo Clemenceau, giace distesa su un prato o si aggrappata ai rami; Susanne Armcllc, La signorina Ciclone, si circonda di “40 gatti” e “50 cani” che, da lei tenuti al guinzaglio, le ruotano attorno.

7 Ch. Baudelaire, Elogio del trucco, in Scritti sull arte, Torino, Einaudi, 1981, p.

304. 8 Morin, Op. cit., p. 18. 9 E. Neumann, La Grande Madre, Roma, Astrolabio, 1981, p. 276.

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Particolarmente frequente ed intenso è, poi, il rapporto con i fiori che, in

continuazione sparsi, sfogliati e annusati, vengono persino mangiati: France­ sca Bertini, in II processo Clemenceau, ne annusa mazzi interi; Pina Mcnichelli, in Storia di una donna, li dispone nei vasi, e poi, sorridendo ammiccante, ne addenta uno; Lyda Borclli, al centro della festa, li sparge sulla corte di Carne­ valesca’, in Rapsodia satanica li sistema, li sfoglia, li mangia; in Malombra, or­ mai folle, nc riempie le stanze, se li strofina al viso, c distesa in barca, mentre addenta ghirlande, viene ricoperta dai fiori lanciati dalle barche vicine. Vengono in mente le Elaine, le Lady of Shallot, le Ofclic folli o morenti,

tra i fiori, sull'acqua, ritratte dai pittori preraffaelliti; oppure le seduttrici dan­ nunziane: nel Piacere Elena Muti, come Lyda Borclli, sfoglia crudelmente le

rose alla fine dei convegni d’amore, se nc lascia ricoprire in stanze inondate di fiori c, afferrato con forza un mazzo, vi affonda la faccia aspirando “inebria­ ta”; Maria Ferres, come Pina Mcnichelli, corre ad annusare i lilla c nc recide

“coi denti una cima [...] tenendola in bocca, fuor delle labbra”10. Circondata da piante c animali, sommersa di fiori, il rapporto segreto del­

la diva con la natura si manifesta anche in vestiti ed ornamenti che, come nel­ le antiche figure del mito, da Dafne alla Medusa, alla Sfinge, quasi la trasfor­

mano in una creatura duplice, allo stesso tempo umana c vegetale, oppure umana e animale. I vestiti ricoperti di fiori, le collane e le corone di fiori che in Carnevalesca rendono Lyda Borclli simile alla Primavera del Botticelli o ad un quadro di Alma Tadema. Le pellicce, i boa di struzzo ed i pennacchi di

piume di ricche seduttrici: i cappelli piumati usati da Iza Clemenceau, il co­ pricapo con penne di pavone disposte a raggiera indossato da Lyda Borelli in Carnevalesca, quello di Pina Mcnichelli in // Fuoco, che la rende simile a un gufo.

Dee della Primavera Concorde con la natura, fiore tra i fiori, circondata da animali, capita che

nella diva si rifletta la gioia di una natura materna, quasi rousseauiana, dove regnano il sole, la giovinezza c l’innocenza.

La sua è la gioiosa spensieratezza di Soava Gallone in Maman Poupée che, mamma-bambina, salta, gioca col cerchio, fa il girotondo; quella dcll’“indiavolata” Signorina Ciclone, una scatenata americana che, prcannunciando le sbarazzine “simpatiche ragazze” del cinema degli anni Trenta, non sta mai fer­

ma, pena l’annoiarsi mortalmente, balla, sgambetta, svolazza, fra l’ammirazio­ ne dei sette miliardari innamorati di lei; quella di Francesca Bertini in II pro­

cesso Clemenceau, che ben presto rivela, si legge nelle didascalie, un “tempera-

10 G. d’Annunzio, Il Piacere, Milano, “I Meridiani”, Mondadori, pp. 9-10, 72.

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mento follemente inquieto", un"infantile ingenuità", l’“adorabile inquietudi­ ne d’un passero". La spontaneità di una donna dominata dall’“istinto” che persino Moebius, il teorico de L’inferiorità mentale della donna, in anni non lontani da quelli di cui si tratta, finiva per trovare seducente:

Ora, l’istinto rende la donna simigliarne alle bestie, sempre dipendente da in­ fluenze estrinseche, sicura di sé c gaia. In essa s’agita la singoiar forza dell'istinto, che la rende veramente mirabile e attraente". Ma sono anche “le donne, i fiori, il bosco, il mare, tutte quelle cose libere e

inconsapevoli che - scriveva D’Annunzio nel Trionfo della morte a proposito del protagonista del romanzo - respiravano la voluttà della vita intorno a lui”12; il sole, l’amore, le “anime spensierate”, i balli e le gite in barca delle al­ legre comitive di Assunta Spina; i “fiori, le feste” dell’aprile, le barche coperte

di ghirlande di Malombra; l'esuberanza, la “gioia della primavera” della prima parte di Carnevalesca o di Rapsodia satanica, con bambini che corrono felici,

spiagge assolate, giardini pieni di fiori, scherzi e girotondi; in una mistica del naturale e del primitivo, in una regressione nell'istintuale, nella quale l'uomo

moderno, entrando in un contatto più stretto con una natura da cui si è al­ lontanato, sembra ritrovare una condizione di unità con il mondo circostan­ te, una felicità originaria.

Sante madri e angeli delfocolare

In alcune di queste figure femminili incarnazioni di una natura vitale e bene­ vola, in quanto madre originaria creatrice, è possibile ritrovare l’aspetto soc­

correvole e protettivo delle antiche dee madri; l’ideale di una femminilità in­ dulgente e consolatrice, dolce c comprensiva, nella quale l’immagine archeti­ pica della donna come madre-vaso contenitore, che anche dopo la nascita

continua a dare sicurezza, scaldare e proteggere il figlio (spesso all’interno del­ la casa, simbolo a sua volta di protezione e contenimento), si realizza nella fi­ gura moderna della moglie-mamma, angelo del focolare. “Rinata Gran Dea” che, scrive Leslie Fiedler, “nella sua forma borghese ap­

pare, in modo sconcertante, (...) non simbolo di passione insaziabile o di fer­ tilità, ma salvatrice e mediatrice”13, questa figura femminile rigenera l’anima

dell'uomo e ne diventa l’angelo tutelare. Espressione di un principio femmi­

nile che, nella sua funzione di vittima salvatrice adombra persino la figura del

" RJ. Moebius, L’inferiorità mentale della donna, Torino, Einaudi, 1979, p. 9. 12 G. d’Annunzio, Trionfo della morte, Milano, “1 Meridiani”, Mondadori, p. 799. B L Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Milano, Longanesi, 1983, p. 71.

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Cristo, dia diventa una sona di Madonna terrena che perdona e redime il suo compagno, una madre indine al conforto e al sacrificio.

Maria, la protagonista de II miracolo-, malata, sotto l'immagine di una san­

ta con gigli, spinge il suo uomo alla conversione; Assunta Spina, la donna “fa­ talmente peccatrice", in un "generoso andito di redenzione”, sullo sfondo di una Madonna con Bambino, si accusa delle colpe del fidanzato, assassino e sfregiatore; Pina Mcnichclli, nella veste di una donna perduta in La storia di una donna, abbracciando la figlia si redime e perdona il suo seduttore.

Figure buone e materne, i cui contorni si confondono con quelli di una santa, il loro è l'ardore di sacrificio di una Mater dolorosa', l'amore per il figlio negato di

Francesca Bertini in La Piovnr, la dedizione della madre del protagpnisra di Addio giovinezza! che amorosamente prepara le valigie al figlio e ne piange la partenza; oppure quella della “santa madre” di Pierre Clemenceau, totalmente dedita al fi­ glio, da lei cresciuto, a furia di “sacrifici”, lavorando in una modesta sartoria. 1 caratteri della madre servizievole, parsimoniosa, vestita in modo dimesso,

si ritrovano in più giovani mogli o fidanzatine, veri e propri angeli del focola­ re. La timida Edith di Malombra, occupata nel ricamo; Tea, la borghese mo­ glie segreta del principe di Carnevalesca, intenta a cucire cuffiette e vestitini

per i suoi futuri bambini; Marna» Poupée seduta davanti al focolare, insieme

ai suoi figli; Lolette, in La donna nuda, una Lyda Borelli pronta a trasformar­ si, per il suo uomo, in “amorosa infermiera”, e che, parsimoniosa, porta più volte gli stessi vestiti, alternando un castigato abito nero con colletto bianco, a gonne, camicette e sciarpine, oppure che, indossato un grembiule sopra l’a­

bito da sera, tutta spettinata, si mostra intenta a montare le uova; Dorina, in Addio giovinezza!, la sartina in cardigan c grembiule, sempre occupata a rifare letti, cucire e adornare di fiori la stanza del suo innamorato, da lei adorato a

tal punto da spingerla a baciarne i calzini appena rammendati. Moderna Penelope, ella è colei che un uomo, sempre lontano e magari af­

fascinato da un'altra donna, può al suo ritorno ritrovare a casa ad aspettarlo. Sono i casi di Dorina, di Lolette o, in Maman Poupée, di Suzette, le vestali del

focolare che tristi e silenziose aspettano il ritorno dei loro uomini e che maga­ ri, come Lolette o Maria de // miracolo, si ammalano per il dispiacere di essere trascurate, o come Suzette e Dorina, tradite, pregano la rivale, di solito fatale e seducente, di lasciargli l’amato: “Per voi - dice Dorina a Elena Sangro - è

solo un capriccio, a me spezza il cuore”.

Fanciulle malate, donne morenti

Fanciulle inclini al sacrificio, malate, tristi, sofferenti, nelle loro vicende si ripe­

te il vecchio modello di una donna che esiste in funzione dell’uomo e che per lui può persino morire. Come Ofelia che impazzisce per Amleto; Giulietta che

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si suicida per la supposta morte di Romeo; la Lady of Shallot e l’Elaine di Tennyson che. innamorate non ricambiate di Lancillotto, navigano, una folle, l’altra cadavere, sul fiume che porta a Camclot; l’Ermengarda di Manzoni che,

abbandonata, muore in convento di crepacuore; la Madama Butterfly di Puc­ cini che non sopravvive all’abbandono: tutte donne che tendono spontanea­

mente alla sofferenza c al sacrificio, c per le quali valgono le parole pronuncia­ te da Elsa nel Lohengrin: “Voglio perdermi in te fino ad annullarmi. Solo allo­ ra, quando mi avrai assorbito completamente, potrò essere felice!”14. Donne pallide, con gli occhi cerchiati di nero, adagiate con i capelli sciolti su lenzuola più bianche della loro pelle: Elena, in L’uomo meccanico, vestita di bianco, in un letto; Pina Menichelli morente, in Storia di una donna-, France­ sca Bertini distesa con i capelli sciolti in 11 processo Clemenceau, oppure, in La Piovra., inquadrata a letto, malata, anche lei vestita di bianco, su lenzuola can­

dide. Il modello, ancora una volta, può essere quello dannunziano:

Ella era adagiata su i guanciali, pallida come la sua camicia, quasi esanime. Incon­ trai subito i suoi occhi, perché erano volti alla porta in attesa di me. 1 suoi occhi mi sembrarono più larghi, più profondi, più cavi, cerchiati d’un maggior cerchio d’ombra15. Si è nell'ambito di quello che Bram Dijkstra, nel suo Idoli di perversità, ha de­ finito “il Culto dell’invalidità”16: una visione della donna che associa la ma­ lattia alla purezza, lo spirito di abnegazione alla santità, e che vede nella debo­ lezza della donna, contrapposta alla forza del maschio, il carattere proprio

della vera femminilità. L’influenza di tale concezione nel corso dcll’Ottocento era stata così forte

che essere pallide, fragili e malate era diventata quasi una moda, e, al di là della celebrazione letteraria, anche “nella vita d’ogni giorno — scrive Mario Praz, a proposito del gusto per bellezze deboli e insidiate dalla malattia - si

poneva ogni studio dalle belle alla moda per apparire adorne di quegli adora­ bili difetti”17. Essere deboli c morenti divenne allora persino segno di fascino e di eleganza: Sarah Bernhardt si faceva fotografare distesa in una bara e, ci dice sempre Dijkstra, essere chiamate (naturalmente in francese) invalides era

considerato un complimento. Il modello è quello di una donna in cui, come nelle stilizzate dame pro­

venzali, nelle sante anoressiche del Medioevo, o nelle esangui fanciulle preraf-

*'■ 15 16 17 soni,

Riportato da B. Dijkstra, Idoli di perversità, Milano, Garzanti, 1988, p. 20. G. d’Annunzio, L’Innocente, Milano, “I Meridiani”, Mondadori, 1988, p. 410. Dijkstra, Op. cit., cap. II. M. Praz, La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, San­ 1988, p. 47.

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facilito, lo spirito trionfa attraverso l’annullamento del corpo; l’ideale è quello

di un tipo di bellezza che di terreno ha ben poco e sulla quale aleggia un sen * tore di morte. Nella morte la donna sembra trascendere l’aspetto terreno e, annullata nel­ la sua realtà concreta, avvicinarsi ad una purezza ideale, divenendo una crea­ tura fragile ed esangue. Persino le donne fatali e le peccatrici, morendo, si circonfondono di un’aura di bontà quasi angelica. La bontà che emana dalle seduttrici di La sto­

ria di una donna e de //processo Clemenceau, che nella morte trovano la loro unica possibile redenzione. La purezza di Isotta, ‘Tawelenatrice, l’omicida"

descritta da D’Annunzio, trasfiguratasi “per la virtù della morte in un essere di luce e di gioia scevro d’ogni impura brama, libero d’ogni basso vincolo”18,

la tentatrice wagneriana interpretata anche da Francesca Bertini nel 1909 che, arrendendosi all’amore, abbandona il suo mantello da femme fittale, decorato con il disegno di un serpente, e vestita, come una pura fanciulla, di una tuni­ ca bianca, muore insieme a Tristano.

Dall’angelo al demone Pura fanciulla sofferente, madre consolatrice, ingenuo passerotto, la femmini­ lità può però nascondere anche un aspetto inquietante, la natura rivelare un aspetto oscuro. Come si legge in una didascalia del Processo Clemenceau', lo

“stesso aroma che inebria di delizie può nascondere un veleno mortale”. Nei film del muto italiano alle madri c agli angeli del focolare fin qui in­

contrati continuamente si contrappongono seduttrici mondane e libertine. In

Addio giovinezza! Elena, davanti ad uno specchio o dalla sarta a provare un abito da sera, si oppone con la sua vanità all'umiltà di Dorina, a casa, in grembiule, a far le faccende. Nel Processo Clemenceau, Iza con il suo “lusso scandaloso” e i “costosi capricci” si pone come l’antitesi della “santa madre”

del marito. Mentre infatti quest’ultima, vestita di scuro con un fazzoletto in testa con­ tinua, anche nell’agiatezza, a cucire, rammendare e curare il figlio, Iza si an­ noia nella “pace” della vita familiare, si indebita e tratta il proprio bambino

solamente come un “bel giocattolo, animato”. E, costretta dalle circostanze ad

abbandonare la sua occupazione casalinga preferita (rimirarsi in uno spec­ chio!) per dedicarsi ai lavori domestici, indossa un paio di guanti poiché per

le sue mani “di perlacea trasparenza” e per i suoi piedi ha la cura propria delle

“grandi cortigiane". Nelle loro vicende rivive il vecchio dualismo fra Èva e Maria, ovvero fra

18 D’Annunzio, Trionfo della morte, cit., pp. 986-87.

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una visione della donna come eterea fonte di salvezza, mediatrice fra l'uomo e Dio, secondo un modello che, da Maria alle donne angelicale dello Stil Novo,

arriva fino alla moderna donna-angelo, e l’antica concezione della donna co­

me tentatrice sensuale e maliarda, come donna fatale all’uomo proprio in vir­ tù del suo potere di seduzione. Ci si trova pertanto di fronte ad una figura femminile non più disposta al­

la modestia e all’altruismo delle madri consolatrici, ma chiusa in se stessa e nella sua vanità, e per la quale gli uomini si indebitano, firmano "cambiali per somme favolose", muoiono in duello; ad una femminilità attirante c minac­

ciosa, il cui fascino fatale porta alla rovina. Espressione di una natura che, non dominata completamente dall’uomo, crea ma anche distrugge, dietro di lei si nasconde il fantasma di una Gran

Madre primordiale che, allo stesso tempo benevola c crudele, come lei affa­ scina c annienta. "L’Archetipo del Femminile - scrive infatti Neumann -

non è solo quello che dà e protegge la vita, ma, come contenitore è anche quello che trattiene e riprende, divinità al tempo stesso della vita c della

morte . Il tipo è quello, ricorrente nella cultura occidentale, della tentatrice sen­ suale e distruttiva, di una donna pericolosa per l’uomo proprio in virtù del suo potere di seduzione. Bella, affascinante, crudele, bramata e odiata, ella è

la personificazione della sessualità, l’emblema dell’amore carnale, della passio­ ne e dell’istinto, di un’area dell’anima dove non regnano più la ragione e la

luce dell’intelletto, ma l’irrazionalità e le pulsioni istintuali.

La seduttrice: la posa, il sorriso, lo sguardo, le chiome

La madre benevola diviene una madre divorante la cui centralità blocca la ri­ cerca di indipendenza del figlio. Si chiami Èva, Circe o Lorde}', ella è colei che, come negli antichi miti e nelle fiabe, cerca di imprigionare l’uomo, una tentatrice avvolgente che, munita di reti, lacci, artigli o tentacoli, attira ed im­ prigiona in una presa soffocante e mortale. La sua posa è quella ammiccante, con la mano sul fianco tipica di France­ sca Bertini, quella di Lyda Borelli, con gii occhi socchiusi, mordendosi il lab­

bro, i capelli sciolti e il capo arrovesciato all'indietro, in segno di abbandono sensuale. Il sorriso è quello invitante delle donne-demoni di Maciste aU’bifer-

no', gli occhi sono quelli obliqui di Elena Sangro in Addio giovinezza! o di

Francesca Bertini in // processo Clemenceau', il “sorriso attirante” e gli sguardi voluttuosi di Elena Muti, la seduttrice del Piacere dannunziano:

19 Neumann, Op. cit., p. 53.

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Ella tenendo il capo sollevato, anzi piegato indietro un poco, guardava il giovine furtivamente, di fra le palpebre socchiuse, con uno di quegli indescrivibili sguardi della donna, che paiono assorbire e quasi direi bevete dall’uom preferito tutto ciò che in lei ha destata quella istintiva esaltazion sessuale da cui ha principio la pas * sione. 1 lunghissimi cigli velavano l'iride inclinata all'angolo dell'orbita; e il bian­ co nuotava come in una luce liquida, un po’ azzurra; e un tremolio quasi imper­ cettibile moveva la palpebra inferiore20. I capelli sciolti, lunghi ed awolgcnti che le dive esibiscono nei momenti di seduzione, sono quelli tipici delle femme fatale della fin de siede, quasi pronti a trasformarsi nelle serpi che sibilano sul capo della Medusa: il “bel serpente nero” di Maria Ferres in II Piacere, i capelli di Stépbana di Catullc Mendès

che, una volta sciolti, colano giù “come rivoli scuri lungo il suo corpo”; la ca­ pigliatura di un’ignota che ossessiona il protagonista di Le Rouet des brumes di

Rodenbach, inanellata intorno “alle tempie, immensa, greve, matassa tumul­ tuosa, serpe ipnotizzata”; oppure quella che, in Laus Veneris di Swinburne, il

poeta si trova improvvisamente stretta intorno al collo. L’abbraccio è quello della dannunziana Elena Muti che, avvicinatasi ad An­ drea Sperelli, lo allaccia “con i suoi capelli” o fa “prigione il collo di lui fra le sue

braccia”; quello pericoloso e seducente in cui Iza Clemenceau, protendendo le braccia dal letto, cerca di attrarre il marito riluttante; quello di Elena Sangro in Maciste all'inferno, che, avvinghiatasi a Maciste, con un bacio lo trasforma in un diavolo e, incatenatolo ad una roccia, esclama: “Mio, mio, per sempre!”.

Donne fittali

Avviluppanti ed insidiose, a tali seduttrici è impossibile resistere. Le loro mo­ venze e i loro sguardi sono allusivi c voluttuosi, l’effetto che producono è

quello del vino, delle droghe e dei veleni. 11 loro fascino è quello di Iza Cle­ menceau che, si scrive nelle didascalie, “rende schiavi gli uomini facendo per­

dere il controllo della volontà”, un “fascino fatale” a proposito del quale leg­ giamo che “come il frutto di loto che faceva dimenticare agli stranieri la loro patria, così il fulgore della sua bellezza sradicava dagli uomini i giuramenti d’amicizia”.

Di fronte ad una tale figura femminile il mondo “virile” della creatività e dell’azione e della solidarietà maschile viene abbandonato. In Tristano e Isotta,

Tristano per seguire Isotta dimentica la sua spada; nel Processo Clemenceau, Pierre, invano avvertito da una indovina di non lasciarsi “affascinare dal ma­

gico sortilegio” della “presenza seduttrice” di Iza, cade, invece, completamen-

20 D’Annunzio, Il Piacere, cit., p. 60.

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tc nella sua rete, permettendo che il ricordo di lei annulli le sue "capacità creative”; in Addio giovinezza!, lo sguardo obliquo di Elena insidia Mario pro­ prio nel momento in cui lui si dedica al lancio del giavellotto; in Maciste al­ l'inferno, Proserpina allontana Maciste dal suo destino eroico con un bacio che lo tramuta in un diavolo dall’aspetto a metà fra quello di un selvaggio se­ minudo con un gonnellino di paglia c quello di un animale con tanto di cor­

na, coda ed artigli. La tentatrice distoglie l’artista e l’eroe dall’opera e dall’azione e istigandolo all’ozio gli preclude il cammino verso la gloria e lentamente, magari compia­ cendosene, lo distrugge. La sua vanità distruttiva ricorda quella delle donne

del Piacere dannunziano, che con "gran dolcezza” amano dire a se stesse: In ciascuna lettera ch’egli mi scrive è forse la più pura fiamma del suo intelletto a cui mi riscalderò io sola; in ciascuna carezza egli perde una parte della sua volontà e della sua forza; e i suoi più alti sogni di gloria cadono nelle pieghe della mia ve­ ste, ne’ cerchi che segna il mio respiro!21

Il tipo è quello di una femminilità attirante e allo stesso tempo minacciosa,

che seduce l’uomo per rovinarlo e distruggerlo. Quello di una Madre Terribile che si reincarna nei secoli fino a giungere alle femmes fatales dell’Otto e del Novecento: la diabolica Carmen di Mériméc; il “Vampire” di Baudelaire; la

Cleopatra di Gauthier; la Belle Dame sans merci di Keats; la Dolores di Swinburne; la fredda e provocante Conchita, \'allumeuse di Pierre Louys; la

Turandot di Puccini; le numerose Salomè della fin de siede artistica c lettera­

ria; oppure le donne dipinte da Audrey Beardsley armate, come la Venere di Sacher-Masoch, di frustino. Donne superbe e sprezzanti che, come Pina Mcnichelli di La storia di una donna, rifiutandoli e irridendoli portano gli uomini alla disperazione; che co­ me Francesca Bertini, in La Piovra, e Lyda Borclli, in Carnevalesca, Malombra

e Rapsodia satanica uccidono o spingono al suicidio. Figure inquietanti munite, come la Proserpina di Maciste all'inferno, di

unghie lunghe come artigli, oppure armate di pistola, di pugnale o di sciabo­ la, tali seduttrici rivelano allora una natura sanguinaria, mentre i loro capelli sciolti e serpentini, così come la testa di diavolo, simile alla testa digrignante di una Gorgone, che chiude la gonna-parco di Proserpina, evocano un fanta­

sma terribile, quello di Medusa, la Gorgone la cui “testa mozzata e orripilan­ te” ha, secondo le parole di Freud, una "interpretazione [...] ovvia”:

Decapitare = evirare. Il terrore della Medusa è dunque terrore dell’evirazione le­ gato alla vista di qualcosa. Da numerose analisi apprendiamo che ciò si verifica quando a un bambino, il quale fino a quel momento non voleva credere alla mi­ naccia dell'evirazione, capita di vedere un genitale femminile. Si tratta verosimil-

21 Op. cit., p. 103.

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mente di un genitale circondato da peli di una donna adulta, essenzialmente di quello della madre22.

Donne dominatrici c sanguinarie cui spesso si accompagnano uomini rappre­ sentati come deboli e sottomessi. Ridotto all’impotenza da una figura che an­ nienta ciò che abbraccia, il maschio viene infatti dominato anche attraverso le carezze da una donna già novecentesca che, non rispettando più la tradiziona­

le divisione dei ruoli, ha assunto l’iniziativa sessuale. Assunta Spina, benché respinta, si ostina ad abbracciare e baciare il fidan­

zato geloso; Elcna, in Addio giovinezza!, adocchia Mario per prima, lo segue, chiede di lui e poi lo va a conoscere; Proserpina avvinghia c bacia il riluttante Maciste. Una inversione dei ruoli interpretata come segno di debolezza ma­ schile, come infatti diceva il dannunziano Giorgio Aurispa, sgomento di fron­

te al “dominio sensuale” di Ippolita Sanzio: “A poco a poco ella mi ha effemi­ na to”23. L’immagine di Maciste sdraiato sulle ginocchia di Proserpina, mentre lei lo

accarezza e dall’alto lo guarda vittoriosa, ripropone, insieme alla paura di una

donna nuova, il modello antichissimo di un figlio-amante soffocato da una madre distruttiva: Attis, Adone, Tammuz, Osiride, gli dei giovinetti delle reli­ gioni misteriche24; la condizione di debolezza di chi, ascoltato il richiamo del

femminile, ha ceduto al suo fascino fatale e, avendo dimenticato il mondo

“virile” deH'azione, è rimasto intrappolato nel giardino di Circe. Il rapporto uomo-donna diviene allora una battaglia fra i sessi, una lotta

fra identità e annullamento dove alla fine la luce deve vincere sul buio ed i propri fantasmi inquietanti devono essere sconfitti. Nei film del nostro cine­ ma muto generalmente l’aspetto rassicurante prevale c se le seduttrici non

escono di scena spontaneamente o muoiono di morte naturale, vengono alla fine abbandonate o uccise per permettere all’artista o all’eroe di tornare alla vita, all’opera c alla vittoria. Come nell’Odissea, alla fine il principio maschile sfugge ai tranelli di quel­

lo femminile, e l’Uomo forte, il Superuomo di massa, come un “Ulisside” dannunziano, dopo aver ascoltato c conosciuto a fondo il canto delle sirene,

riprende la sua strada.

22 S. Freud, La testa della Medusa, in Opere, Torino, Boringhieri, 1978, pp. 415-

416. 23 D’Annunzio, Trionfo della morte, cit. 24 Cfr. V.E. Neumann, Storia delle origini, Roma, Astrolabio, 1981, p. 48.

LEOPOLDO FREGOLI, “CINEMATOGRAFISTA”

Aldo Bernardini Scorico del cinema

Le incursioni nel cinema di Leopoldo Fregoli (Roma, 1867 - Viareggio, 1936) sono da moki anni ben note a chi si occupa del periodo delle origini: sia per­ ché lo stesso Fregoli ne ha parlato nelle sue memorie1, sia perché altri (pochi in realtà) ne hanno poi scritto in maniera più o meno occasionale (Mario Corsi,

Olderico Tegani, Mario Verdone, Nohain e Caradec, ecc.). Io stesso ho cercato

di sintetizzare tutte le informazioni utili a mettere in luce i particolari contri­ buti dati da Fregoli al cinema delle origini nel primo volume della trilogia pubblicata da Laterza all’inizio degli anni Ottanta. Darò quindi per note le ca­

ratteristiche dcH’originalc “mestiere” di trasformista che Fregoli aveva in certa misura inventato e portato alla perfezione e al successo nei teatri di tutto il

mondo. Penso sia utile invece, in questa occasione, accennare ad alcuni pro­

blemi storiografici non risolti relativi appunto al pioniere italiano e soprattutto ai film che egli ci ha lasciato: anche perché alcune acquisizioni recenti hanno arricchito il quadro in cui si è svolta la sua attività cinematografica.

Ricordo soltanto alcuni dati essenziali della biografia artistica di Fregoli. Dopo il debutto come trasformista (cioè come “mago del travestimento”) al caffè-concerto Esedra di Roma nel 1890, aveva presto raggiunto la notorietà

con una serie di tournees in tutto il mondo. L’incontro con Louis Lumière, durante uno spettacolo al teatro Celestin di Lione, e il recupero di un esem­

plare del Cinématographe risalgono, a quanto sembra, al 18971 2*. Fregoli ebbe l’idea di utilizzare proiezioni cinematografiche per rendere più interessanti i

propri spettacoli (doveva essere davvero diffìcile per lui mantenere desto l’in-

tcresse del pubblico esibendosi praticamente da solo per quasi due ore sul pal-

1 Pubblicate a puntate prima sulla Tribuna Illustrata di Roma dal 20 dicembre 1902, poi sul mensile Scenario tra il 1934 e il 1935 (pare, questa volta, con la mediazione dello scrittore Mario Corsi), poi nel 1936 raccolte nel volume Fregoli raccontato da Fregoli. Le memorie del mago del trasformismo (edito da Rizzoli). 2 Data più probabile, ma controversa: nell’edizione delle memorie del 1902 Fregoli indi­

cava il 1895 (data ripresa da vari biografi successivi), per Corsi (in un articolo su Cinema nel 1936) era il 1896: ma per l’autobiografìa raccolta in volume era il 1897.

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cosccnico di un teatro). Del resto molti altri artisti del varietà lo stavano già

facendo in quei mesi, in Italia e all’estero; pochi però avevano il privilegio di poter disporre di un apparecchio per la ripresa e per la proiezione com’era

quello lanciato nel 1895 dai Lumière. Ed ecco dunque che dalla prima idea ne nasceva un’altra: quella di realizzare in proprio dei filmati, da affiancare a

quelli del normale repertorio Lumière fatti circolare dai primi distributori che cominciavano allora ad affacciarsi a questo nuovo mercato. L’idea di Fregoli era quella di utilizzare la “fotografia animata” per svelare al pubblico i trucchi del suo mestiere, facendo vedere in azione i suoi aiutanti dietro le quinte. Ma

i suoi film avrebbero raggiunto anche un altro scopo: quello di contribuire ad

allargare la fama e il prestigio del trasformista anche presso tutti quei pubblici

che non frequentavano i locali in cui egli teneva i propri spettacoli, ma che cominciavano allora ad affollare i primi locali specializzati. La moltiplicazione della propria immagine resa allora possibile dal cinematografo corrispondeva del resto perfettamente aH’“estetica” che ispirava le esibizioni del trasformista,

impegnato a sorprendere continuamente il pubblico con la velocità dei trave­ stimenti assunti, in scena e “dietro la scena”. E la velocità, il ritmo, la sorpre­

sa, il continuo cambiamento erano alla base del nuovo linguaggio del cinema­ tografo: soprattutto se pensiamo che allora era già entrato in attività un altro grande protagonista di quello stesso mondo di illusionisti, maghi e prestigia­

tori di cui faceva parte Fregoli, Georges Méliès. Da una costola del Cinématographe nasceva quindi allora il Fregoligraph, le cui proiezioni si distingue­ vano da quelle effettuate con l’apparecchio originale soprattutto per certi or­ namenti (serie di lampadine colorate) che abbellivano lo schermo, o per la

particolare grandezza dello stesso (che arrivava anche a 20 metri).

L’impresa del Fregoligraph assunse ben presto una autonomia dal circuito degli spettacoli dal vivo del trasformista, di cui solo in alcuni casi diventava una componente: sembra che la gestisse direttamente il segretario dell’artista,

Virgilio Crescenzi, che si appoggiava a compagnie specializzate (la Ideal Company della ditta Malignani nel 18983, la compagnia di varietà diretta da un certo Migliore nel 1899, la compagnia di Lilly Poupée e del prof. Fournier

nel 1900). Nelle sue memorie, Fregoli ricorda molti episodi ed esperimenti compiuti

nel corso della sua attività di “cinematografista”: per molti anni gli storici hanno dovuto dare credito solo alle sue dichiarazioni per valutare i risultati della sua singolare esperienza. Ma negli ultimi decenni il ritrovamento presso la Cineteca Nazionale di un gruppo di film (provenienti, credo, da un colle­ zionista in contatto con gli credi del trasformista) mi ha consentito di effet-5

5 Nd maggio 1899 La Gazzetta di Treviso dava notizia di una causa intentata (e persa) da Fregoli a un suo imitatore, un trasformista che lavorava per la Ideal Co., tale Areally.

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tuarc una scric di riscontri c di capire meglio le caratteristiche, i pregi e i limi­

ti del lavoro fatto da Fregoli con il cinema. Si tratta di una trentina di copie originali di pellicole, tutte delle lunghezza

standard usata nei primi anni dal Cinematographe (16/17 metri ciascuna) e con le caratteristiche perforazioni rotonde (una per ogni lato del fotogram­ ma), tipiche dell’apparecchio Lumière. Tra queste pellicole c’crano anche dei film (senza o con Fregoli) inclusi nel listino ufficiale della Casa di Lione; e il fatto conferma come nelle proiezioni effettuate durante gli spettacoli Fregoli

alternasse film suoi e film di repertorio. I rapporti tra Fregoli e i Lumière do­ vevano essere rimasti attivi anche dopo la cessione dell’apparecchio. In quello stesso anno 1897, infatti, i Lumière pubblicavano almeno tre film dove Fre­

goli era riconoscibile o era addirittura l’interprete principale: si esibiva da solo

in una Danza serpentina (film n. 765 del Catalogo Lumière); era un giocatore di carte che faceva scherzi in Partie de cartes (film n. 764 del Catalogo Lumiè­ re); e si faceva riconoscere tra le personalità presenti al Lancement du Varese à Livoume (Il varo della Varese a Livorno - film Lumière n. 629, girato proba­

bilmente dal fotografo romano Francesco Felicetti). Forse in questo primo

gruppo di film — dove non sembra che Fregoli fosse coinvolto come realizza­ tore - va fatto rientrare anche Pere cotte, una scena di strada, in esterni, dove l’attore si esibisce in una rapidissima mangiata (film questo, come Partie de

cartes, compreso nel gruppo ritrovato alla Cineteca Nazionale)45 .

Prima di soffermarci sulle caratteristiche dei film che sembrano girati ef­ fettivamente da Fregoli, vediamo di chiarire alcuni dati cronologici e alcune

notizie che possono aiutarci almeno a inquadrare nel tempo la sua attività realizzativa. Di ritorno da una tournée in Sudamerica, conclusa in Messico, Fregoli de­

buttava col suo spettacolo al Teatro Valle di Roma il 18 dicembre 1897, dove

le repliche proseguivano fino a metà gennaio. Da Roma la compagnia passava al Gran Circo delle Varietà di Napoli, dove esordiva il 15 gennaio 1898: ed è nello spettacolo della terza sera, il 17 gennaio, che vennero per la prima volta segnalate dalla stampa proiezioni di film: c’era cioè - secondo quanto scriveva

un testimone5 — un “cinematografo” con il quale Fregoli “ha spiegato il meto­ do di lui ‘Fregoli dietro le scene’6 ed il pubblico rise moltissimo”. Fregoli par­

tiva poi per il Nord Italia; ma nei programmi cinematografici di un altro lo-

4 Fregoli collaborerà con i Lumière anche in anni successivi: prese pane, per esempio, co­ me attore nel 1901 a un film a soggetto girato a Roma, La Poupée (film Lumière nn. 11041106). 5 Sul Corriere di Napoli, Napoli, 18 gennaio 1898. 4 In altre occasioni lo stesso film - che, anche in base a quanto scrive nelle sue memorie, dovrebbe essere il primo girato personalmente dal trasformista - veniva citato con il titolo

Fregoli dietro le quinte-, mentre sulla scatola in cui l’originale veniva conservato a Roma il tito­ lo era Segreto per vestirti (con aiuto).

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calc di varietà napoletano, il Salone Margherita, tra marzo e aprile la stampa segnalava la proiezione proprio dei primi titoli che abbiamo appena citato co­ me compresi nel repertorio Lumière: Fregoli nella danza serpentina e Partie de cartes (ribattezzato sulla scatola che lo conteneva Fregoli ed il suo gobbetto)’. film che, partendo, il trasformista potrebbe aver lasciato a Napoli, dato che

negli spettacoli al Nord non risultavano tracce di proiezioni. In agosto arriva­ va poi una notizia da Londra: all’Alhambra Fregoli aveva ottenuto un grande successo con una macchina di sua invenzione, il Fregoligraph; e in effetti nel catalogo della produzione del pioniere inglese Robert William Paul compari­ va nello stesso anno il titolo Fregoli the Protean Artiste, un film di 400 piedi

(quasi 122 metri): forse lo stesso che in Italia venne intitolato Maestri di mu­

sica, in cui il nostro interpreta vari compositori direttori d’orchestra (Rossini, Wagner, Verdi, Mascagni). Il 14 settembre 1898 prendeva quindi il via in Ita­ lia lo sfruttamento del Fregoligraph, portato nei teatri dalla Ideal Company (a

cominciare dal Teatro Tosi-Borghi di Ferrara) — a volte con Fregoli, a volte senza di lui - per tutta la seconda metà del 1898 c lungo tutto l’arco del 1899 (nel 1900, infatti, non risultano più sulla stampa citazioni di nuovi titoli at­

tribuiti al trasformista, come avveniva invece ancora nel corso del 1899).

Sembra dunque ragionevole pensare che l’attività rcalizzativa di Fregoli si sia svolta soprattutto nel periodo che va dal dicembre 1897 alla fine del 1899.

1 film peraltro non consentono di precisare né luoghi né date di realizzazione: si svolgono o nell’ambiente chiuso di un palcoscenico o in ambienti reali piuttosto anonimi, privi di riscontri paesaggistici significativi. Alcuni potreb­

bero essere stati realizzati con l’aiuto del già citato Paul (il quale però utilizza­ va una propria cinepresa c pellicola con perforazione Edison incompatibile

con quella del Cinématographe): non esistono testimonianze precise sui colla­ boratori di Fregoli; c non sappiamo tuttora quanto sia attendibile la notizia7 dell’apporto che gli avrebbe assicurato un giovane fotografo milanese chiama­

to Luca Comerio, allora ventenne. Tenendo conto dello stile della confezione, quelli che semplificando pos­ siamo chiamare “i film di Fregoli” (o perché lui ne è l’interprete, o perché ri­

entrano nel gruppo arrivato e conservato alla Cineteca Nazionale) potrebbero comunque essere stati girati in luoghi c tempi diversi, in epoca anteriore al 1900 c - tra copie esistenti c titoli citati all’epoca - sono circa una trentina.

Fregoli si accostò al cinema da uomo di teatro: per lui contava soprattutto quello che la sua macchina da presa inquadrava, non il modo migliore di rap­ presentarla; egli non aveva cioè la consapevolezza del mezzo che aveva invece un altro “artista” proveniente dal suo stesso ambiente che stava allora lavoran­ do in Francia: Georges Méliès. D’altra parte Fregoli non aveva alcuna intcn-

7 Riproposta anche recentemente (nel 1997) dal compianto Roberto Chiti nel suo Dizio­ nario dei registi del cinema muto italiano.

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zionc di diventare l’emulo del grande mago-illusionista francese, le sue ambi­ zioni erano molto più modeste e il cinema restò per lui un’esperienza occasio­ nale. I film di Fregoli sono per lo più composti di un’unica inquadratura, ripre­ sa da una macchina fìssa. Ma le situazioni in cui avvengono le riprese sono

molto diverse. Un primo gruppo di film risulta girato sul palcoscenico di un teatro, pro­ babilmente sempre lo stesso, riconoscibile dalle caratteristiche degli arredi

(dalla carta da parati alle tende). La cinepresa è collocata frontalmente e la vi­ suale copre il palcoscenico in rutta la sua lunghezza. Fregoli vi si muove come

se si trovasse davanti al pubblico, verso il quale si inchinano alla fine sia lui sia i suoi aiutanti, come per ricevere gli applausi (per esempio, nella scene intito­ late Fregoli al restaurant e Fregoli barbiere). È in questo ambiente che si svol­ gono anche i due film più interessanti della serie: Fregoli dietro le scene e Fre­ goli prestigiatore. La copia del primo comporta una serie di problemi, perché vi si riscontra un goffo, ma significativo tentativo di montaggio (la ripetizione

del gesto di Fregoli che si alza dalla sedia per correre sul palcoscenico): una

manipolazione che dovrebbe essere studiata da un tecnico per verificare l’epo­

ca in cui fu eseguita8; quella del secondo è apprezzabile solo nell’originale, in quanto vi risulta un sorprendente, audacissimo uso espressivo del colore, ag­

giunto a mano probabilmente fotogramma per fotogramma9.

[Segue proiezione dei film citati.]

Il palcoscenico non è riconoscibile come tale in un altro gruppo di film ambientati in interni (le varie versioni di Burla al marito), dove c’è una più

scoperta intenzione narrativa che richiama la pochade (nel gioco tra moglie, marito e amante) e dove la cinepresa è più vicina ai personaggi in campo, per consentire allo spettatore di apprezzarne il gioco mimico: si ha qui l’impres­ sione di trovarsi di fronte a “prove di scena”, spontanee e improvvisate, dove

sulla pellicola rimangono registrate anche le pause che precedono e che se­

guono l’azione vera e propria: sono film che probabilmente non sono mai entrati nelle normali programmazioni, ma che testimoniano i tentativi di messa in scena di Fregoli, che riprendeva spunti dal repertorio utilizzato nei suoi spettacoli teatrali.

* Nell'attuale versione del film, trasferita su supporto ininfiammabile a Bois d'Arcy, la parte della sequenza che conteneva questa interessante manipolazione è scomparsa; voglio sperare che l’originale sia ancora conservato e che quel particolare sia ancora verificabile: se

fosse andato davvero distrutto, la perdita sarebbe grave e irrimediabile. 9 L’ho documentato in due fotogrammi originali pubblicati nel primo dei miei volumi La­ terza (ili. nn. 31 e 32). Spero che quell'originale possa essere presto stampato - come sarebbe staio necessario fare subito - a colori.

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[Segue proiezione dei film citaci.) Rimane a parte, in questa serie di film esplicitamente teatrali, il titolo più

famoso di Fregoli, Maestri eli musica-, come ho già detto, la sua origine po­

trebbe essere inglese; ma l’idea e l’esecuzione nascono invece da un preciso

modello Lumière (due “vues à transformation”1011 del 1898, che prendevano il titolo dai nomi dei personaggi imitati, da Pasteur ad Alexandre Dumas); a

meno che, viceversa, non sia stato l’operatore Lumière a prendere l’idea dal film di Fregoli. La cinepresa qui è ancora più ravvicinata, ed è proprio il fatto

di aver ristretto l’inquadratura sul leggio e sul corpo dell’attore a consentire il gioco del montaggio per sostituzione che rende il film sorprendente e interes­

sante (almeno agli occhi dell’ignaro spettatore di fine secolo). [Segue proiezione del film citato.]

Altri film sono invece girati all’aperto, in città (il già citato Pere cotte. Fre­ goli bianco e nero), in un giardino pubblico {Fregoli soldato) o in un’area peri­ ferica {Fregoli in campagna).

[Segue proiezione di Fregoli in campagna.}

All’aperto, nel giardino di una abitazione, sono girati anche i due film de­ dicati all’attore Ermete Novelli e alla sua famiglia: il primo con una intenzio­ ne narrativa (Novelli, sfogliando il giornale, commenta con le espressioni del

viso le varie notizie: ma degli inserti che dovevano illustrare le notizie nella

copia che ci è arrivata rimangono solo le giunte); il secondo invece vuol essere ed è solo un giocoso, amatoriale quadretto familiare. [Segue proiezione dei film citati.]

Un ultimo gruppo di film è di incerta identificazione: il trasformista non vi risulta riconoscibile. Si tratta di due spezzoni ambientati nelle acque di un laghetto, dove una barca si rovescia con tutti i suoi occupanti (titolo sulla sca­

tola: Bagni di mare); e all’interno di un teatro di varietà, con sullo sfondo del­

le ballerine in prova e spettatori scamiciati che vanno e vengono davanti alla cinepresa (titolo sulla scatola: Margherita").

Confrontando questi gruppi di film conservati con i titoli che con molta

parsimonia si trovano citati nelle cronache d’epoca degli spettacoli del Frego-

10 Film nn. 968/969 del Catalogo Lumière. 11 Potrebbe dunque essere l'immagine dell'interno del Salone Margherita di Napoli? La questione resta aperta.

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ligraph, risultano altri titoli che sembrano non corrispondere alle copie in no­

stro possesso (//sogno di Fregoli, per esempio, citato in uno spettacolo a Trevi­ so nel 1898), c altri che — ricorrenti nelle locandine del 1900 c degli anni suc­

cessivi - rimangono, almeno per ora, misteriosi e indecifrabili12: potrebbero

anche doversi attribuire ai tanti imitatori che tentarono di emulare le imprese anche cinematografiche del maestro del trasformismo13, ma in un'epoca in cui ormai l’avvio industriale del cinema aveva tagliato fuori dal mercato espe­ rienze tutto sommato dilettantistiche come quelle di Fregoli. Nel 1907, infi­ ne, nelle programmazioni di una sala veronese era citato il film Fregoli e le sue trasformazioni (di cui non sappiamo nulla: ne ho però individuato una copia

di circa 3/400 metri presso un collezionista di Buenos Aires): è probabile co­ munque che non si tratti di una antologia dei film di Fregoli, quanto piutto­ sto della trascrizione cinematografica della commedia omonima dedicata al

trasformista da Eduardo Scarpetta (che risulta messa in scena per la prima volta a Napoli nel 1898). La riduzione del metraggio a 15/17 metri - che costituisce una conferma

del fatto che tutti questi film siano stati girati con un apparecchio Lumière di prima generazione - risulta un limite invalicabile per Fregoli, spiega la som­ marietà delle idee narrative che egli cerca di svolgere: anche se in queste copie non risulta alcuna indicazione in proposito, sembra verosimile il racconto di

Fregoli sui suoi tentativi di allungare il metraggio attaccando in qualche mo­ do una inquadratura all’altra. cricnza cinematografica di Fregoli mi sembra che, nel complesso, rap­ presenti comunque un capitolo molto interessante nella storia del cinema pri­

mitivo italiano (periodo nel quale in Italia solo qualche esercente girava delle attualità), capitolo che varrebbe la pena di approfondire ulteriormente. La condizione sine qua non è però il riordino c la piena visibilità dei materiali fìl­

mici rimasti, che ho qui potuto presentare in una edizione video quasi clan­ destina. Concludo rilevando che - a quanto finora sappiamo - il Fregoligraph re­

stò in circolazione per alcuni anni: l’ultima segnalazione nota risale al maggio

del 1907, quando era ancora presente nel programma dello spettacolo di Fre­ goli al Teatro Costanzi di Roma.

12 Ricorrono, per esempio, titoli come Elettro-Fregoli, Fregoli collocato. Fregoli eclissato. I} Nel 1901 si esibiva un certo Frizzo, con il suo bravo Frizzograph; nel 1904 poi una “trasformista eccentrica” donna, certa Fatima Miris, realizzò in proprio un film che proiettava durante le sue esibizioni (era, p.e., al Politeama Ariosto di Reggio Emilia il 16 giugno); e nel 1908 comparve un certo Fremo con il suo Fremograph.

ANDRÉ DEED EN ITALIE

Jean A. Giti Università Paris I

André Deed a été actif des deux cótés des Alpcs. Pcrsonnalité dominante de l’univcrs comiquc des annccs Dix, Deed est un pcrsonnagc intrigant partagé cntre ses multiples surnoms ou noms de scène, qu’il s’agisse de Boircau, de

Bconccllo, de Cretinetti ou de Gribouillc, scion un usage, du moins cn Fran­

ce, aussi peu rigoureux que porteur de situations comiqucs insolitcs. André Deed a séjourné trois fois en Italie, d’abord de 1909 à 1911 à l’itala

Film de Turin où il apparali dans 93 films. Il connait unc formidable popula-

rité. Son nom — Cretinetti — est unc invention sémantique remarquable. Rcntré en France, il tourne pour Pathé de 1912 à 1914. Dans un contexte de ra-

lentisscment de la production, il repart en Italie au printemps 1915 où il travaille à nouveau pour l’itala. Il met cn scène cinq films doni Cretinetti e gli

stivali del brasiliano (1916) dans lequcl il se rcnouvcllc cn passant au long métrage avee unc oeuvre de près d’unc hcurc de projection. Mobilisé, Deed rcntre cn France cn 1917, sa filmographie nc comporte aucun titre de 1917 à 1919. Après la guerre, c’cst à nouveau cn Italie qu’il recommence à travaillcr. Il signe quatte films au début des annécs Vingt, notamment L’uomo meccanico, long métrage de science-fiction produit par la Milano Films en

1921. Cette communication a pour but d’édaircr Ics conditions de ccs séjours ct

d’examincr la nature des films mis en scène dans Ics studios italicns.

Lc nom d’André Deed est, scion les journalistes, les critiques, Ics historicns qui le citcnt, le nom de scène d’André Chapuis (sic) ou d’André de Chapais (re~sic). Il s’appelle cn fait, comme nous l’apprenncnt les dossiers de l’état-ci-

vil du Havre conscrvés aux Archives municipalcs de la ville, Henri Chapais ou, pour ette plus précis, Henri André Augustin Chapais: André n’est done que son second prénom. Il est né le 22 févricr 1879.

Après des débuts chcz Georges Méliès, il est engagé par Charles Pathé ct travaillc pour la firme au coq de 1906 à 1908. La célébrité d’André Deed s’établit grace au pcrsonnagc de Boircau. Boireau a mangé de l’ail cn particulier

remporte un très grand succès. Scion unc pratique courante qui consiste pour

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Ics productcurs italiens à recruiter en France des techniciens ou des artistes» le comédien est invité à venir travaillcr en Italie à la demande du directcur de l’itala Film, Giovanni Pastronc. Le productcur italien» après avoir hésité entre

Max Linder et André Deed, choisit cc dernier, le considérant plus connu que Linder en Italie (les films de Boi reau y sont diffusés sous le nom de Beoncelli» le petit ivrogne). Ayant sans doute rc$u des propositions financières substan-

tielles, Deed acceptc de partir pour Turin.

Le premier séjour en Italie (1909-1911)

Sur Ics conditions de l’arrivée en Italie de Deed, on pcut citer Ics declarations de Giovanni Pastronc à Georges Sadoul: Ai tempi in cui trovavo la soluzione a problemi meccanici, la sceneggiatura c gli attori cominciarono ad avere» nei film, un’importanza sempre maggiore, più grande perfino della tecnica dei nostri apparecchi. Anche questa volta ricorrem­ mo a personale fatto venire da Parigi. L’Itala Film fu la prima casa a mettere in cantiere una serie di comiche, che dovevano essere realizzate quasi sempre col me­ desimo attore, c col ritmo di una alla settimana. Per realizzare questo progetto, entrammo in trattative con i due migliori comici di Pathé: André Deed c Max Linder. I due rivali accettarono le nostre proposte. Fummo costretti a scegliere. Decidemmo di ricorrere alla collaborazione di André Deed, la cui fama era più solida e più vasta. Egli arrivò a Torino alla fine del 1908. André Deed, che presso Pathé si era battezzato Boireau, prese, da noi, il nome di Cretinetti per l’Italia, e di Gribouille per la Francia. Egli ottenne in breve tempo un formidabile successo internazionale. Il nostro rappresentante a Parigi, Paul Hodel, vendeva i suoi film a scatola chiusa. (...) André Deed fu anche uno dei migliori registi; dirigeva egli stesso i suoi film» talvolta con l’aiuto di suo fratello. Impostavamo insieme le sceneggiature, di cui spesso io ero l’autore. Gli fornivo altresì i trucchi, che furono una delle ragioni principali del suo successo. André Deed procurò molto denaro all’itala. I suoi film producevano immediata­ mente un utile netto del 70 o 80 per cento, mentre l’utile medio delle altre nostre pellicole non superava quasi mai il 25 o 30 per cento1.

Pendant son séjour de trois ans en Italie, André Deed tourne à un rythme endiablé meme s’il n’atteint pas Ics 52 films prévus par son contrat. Dans le ca­ talogue établi par Aldo Bernardini et Vittorio Martinelli, Il cinema muto ita­

liano, on trouve 28 films en 1909, 34 films en 1910, 31 films en 1911, soit

1 G. Sadoul, “La tecnica rivoluzionaria nella Cabiria di Pastrone", Cinema* nouvclle sè­ rie, n. 58, 15 mars 1951. Cet article, qui contieni les propos de Giovanni Pastrone, est partiellcment rcproduit dans “Omaggio a Giovanni Pastrone**, Centrofilm (Turin), n. 14, 1960, pp. 5-13.

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au total 93 films. Les films sont mis cn scène par divers “régisscurs” ou par Deed lui-mcme. Quant au role du frère, il est d’autant plus mystérieux que

fcxistencc de cc personnage est tout à fait incettarne: on n cn retrouve aucunc trace dans les archives municipales du Havre. L'Itala assigne à Deed un role de fédératcur du public avec (’intention déclaré d'en fairc un comédicn qui puissc convenir à tous Ics spcctatcurs. Unc affichc publieitaire indique:

Cretinetti è sempre il fine esecutore delle più comiche films; sempre corretto» ogni suo movimento suscita nel pubblico d’ogni gradazione e di ogni età» il più schietto senso di viva ilarità1 2.

Les films d’André Deed sont distributes cn France sous le nom de Gribouillc —

appelation qui depuis le XVI *"

sièclc scrt à designer un personnage naif ct

sot -, dans Ics pays de langue cspagnolc ou portugaisc sous cclui d’abord de

Sanchez puis de Toribio (Manoel de Oliveira et Luis Bunuel cn patient com­ mc d'un de leurs premiers souvenirs de spcctatcurs). Cretinetti est Foolshead

en Anglctcrrc, Muller cn Allcmagnc ct cn Autrichc, Glupyuskin cn Russie. Dans son ouvragc Cinema dell'Arte, Nino Frank, toujours très humoristique dans ses appreciations sur Ics protagonistcs du cinéma italien, évoque cn ccs termes le séjour d’André Deed à Turin “porte des Gaulcs”:

A l’entrée des Alpes apparait un homonculet tout de blanc vetu, petit tube sur le chef, badine à la main, qui arbore unc grimace avcnantc» un nez coquin» un jarret vircvoltant: de son vrai nom André de Chapais [//?], de son pscudonyme André Deed, de son sobriquet parisien Boireau, et qui devient» pour les Italicns, Creti­ netti - Monsieur Petit Crétin. Parlant du "marioncttismc d’André Deed” commc trait saillant du personna­ ge, Nino Frank — qui par aillcurs soulignc à tort le caractèrc stéréotypé du co­

stume de Cretinetti — ajoute: L’exccllent critique Mario Verdone va jusqu’à prononccr le mot surréalisme, avant la lettre. Il l’écrit à propos de certaines trouvailles d’André Deed, entre autre le gag à répétition des Six duels de M, Petit Crétin: des ouvriers transportant un tronc d’arbre intcrvicnnent continucllemcnt dans Taction, traversane le champ avec une impassibilité absoluc et dérangent décors ct personnages, sans que leur presence soit le moins du monde justifiée, - commc s’ils se trompaient de film. Invention destinée à faire pas mal de petits...3

Dans certains des films de Deed, procédé importé de chez Pathé, le nom de Tirala apparait dans Taction. A la fin de Come Cretinetti paga i debiti (avril

1 Cité par A. Bernardini, V. Martinelli, // cinema muto italiano 1911* Rome, Bianco e Ne­ ro, 1995, p. 118. 3 N. Frank, Cinema dellarte, Paris, André Bonne, 1951» p. 26.

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1909), Cretinetti, cn costume clair ct feutre mou, salut le public avant de disparaìtre. Il nc reste que le chapeau blanc qui tournoie sur lui-meme avant d’avanccr vers la cambra ct de l’cntourcr d’un ccrclc blanc. Du fond du ccrclc

apparali un point blanc qui grossit cn avan^ant vers l’objcctif: c’cst l’emblèmc de l’itala, unc jeune femme tenant un faisceau d’cclairs sous laqucllc est écrit

ITALA FILM TORINO. Dans Cretinetti ha rubato un tappeto (dicembre 1909), juché sur le toit d’un immcublc, Cretinetti dcploit triomphalcmcnt un tapis sur kqucl on peut lire: ITALA FILM, TORINO. Dans Cretinetti al cinematografo (févricr 1911), Cretinetti - habillé cn collégicn, costume marin, grand col blanc, pantalon long serre sur les mollets, bérci - s’intércssc aux affiches dcvant la facade d’un cinéma. A l’intéricur de la sallc, au balcon, le public est

filmé de face, on apcr^oit au fond la cabine de projection avee scs deux petitcs fcnctres ct sur le support du balcon on peut lire: CINEMA ITALA. Dans ccs annécs, André Deed tourne un de scs films Ics plus célèbres, Cre­

tinetti che bello! (octobre 1909). Emerveillés, Luigi Comcncini ct Alberto Lattuada - dont on connait l’intérct pour le patrimoinc - consacrent à Deed deux pages dans Cinema'. Allora i mimi furono i grandi maestri per essere quelli che meglio e prima degli altri vedevano offerta allo loro invenzione la più straordinaria forma di spettaco­ lo. [...] In questo regno della libertà e della anarchia il mimo si fa padrone del campo. In America, dopo Mack Sennett, la fioritura è splendida. L’Italia non è però da meno e le sue produzioni con Polidor e Cretinetti girano tutto il mondo. Cretinetti è senza dubbio di una assolutà originalità. [...] La purezza di Cretinetti sta nel concentrare la vis comica sulfimmagine.

Puis, parlant plus précisémcnt du film, ils ajoutent: Salvador Dall non avrebbe potuto immaginare niente di più surreale e divertente. Anche i grigi paesaggi di periferia, tanto frequenti nei suoi film, ci rivelano oggi un particolare senso poetico. Sperduti negli sfondi vasti e deserti, gli omettini di Cretinetti passano travolti in fughe straordinarie. Crediamo che nessun altro ab­ bia avuto, come Cretinetti, l’accorgimento di usare il campo lungo fino a fitte ap­ parire l’uomo nel giusto rapporto col mondo, piccolo, piccolissimo, invasato e sconvolto da strane, incomprensibili follie4.

Les raisons de [’interruption d’activité cn Italie soni mal connucs. Il scmblc que Deed ait rompu son contrai. Nostalgic de Paris? Quoi qu’il cn soit, à la fin de 1911 ou au début de 1912 est réalisé Ie dernier film, //sestuplo duello di

Cretinetti (il est annoncé dans Ciné-Journal le 6 janvicr comme unc prochainc sortie de l’itala sous le titre Le sextuple duel de Gribouille) ct Deed rentre cn France peu de temps après; il ramine avee lui sa partenaire ct compagne Far-

4 “Cretinetti", Cinema, n. 65, 10 mars 1939.

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falena, Valentina Frascaroli. Par la suite, Deed épouscra ccllc-ci en 1913 selon certaines sources, en 1918 selon d’autres (pour le Filmlexicon * le mariage est

célébré le 14 févricr 1918). Deed a aussi monté en Italie un spectacle qui me­ le théàtrc et cinéma, Ciné-Tbéàtre\ il le présente des son retour au Casino de Paris, probablcmcnt en févricr 1912 si Fon s’cn tiene à Particle d’E. Fouquct

paru le 1CT mars dans Le Cinéma5. Sur la nature de cc type de spectacle - dont on pcut rappclcr qu’il a été inauguré par Fregoli avee son Frcgoligraph - on pcut lire sous la piume de Marcel Lapierre:

André Deed (Gribouillc) créc à l’Edcn de Turin unc autre attraction. Après la projection d’un film joué par lui, il arrive sur la scène et se lance dans Ics péripéties d’unc pièce burlesque dans le style de ses films, c’cst à dire farcic d’incidents tels que douche, explosion, demolition de materiel, etc.6. Un article paru dans Le Film (n. 2, 6 mars 1916) donne d’autres précisions sur cc type de représcntation:

L’unique représcntation qu’André Deed a donnéc à l’Apollo a cu un énorme succès hicr soir. Gouvernante par amour et La Fete de Boireau sont deux pièccs mithéàtrales, mi-cinématographiqucs. Les passages de la représcntation scéniquc à la projection cinématographiquc sont admirablemcnt faits et M. André Deed est un comique aussi bon comédien qu’acrobate adroit. Madame Frascaroli est charmantc avee son gentil accent italien. Le public a été intércssé et bcaucoup amusé. On pcut rappclcr qu’en 1916, André Deed tourne en Italie; on peut done en

déduirc qu il continue scs alters et rctours et qu’il se produit à Paris (unc uni­

que représcntation) tout cn travaillant à Turin. Au début de 1912, le rctour cn France d’André Deed — désormais aurèole

par la célébrité - nc passe pas inapcr^u dans la presse profcssionncllc. Un cncart d’unc demi-page annoncc dans Ciné-Journal du 3 févricr 1912: “André

Deed le célèbrc comique international rcparaìtra édité par Pathé Frères dans Gribouille redevient Boireau ’. Le 10 févricr, c’cst la couvcrturc de l’hcbdoma-

dairc qui indique en grosses lettrcs barrant toute la page “Gribouille redevient

Boireau joué par André Deed édité par Pathé Frères” tandis qu’à l’intérieur unc plcinc page illustréc par unc photo du comédien annoncc “Certe scmainc chcz Pathé Frères André Deed le joyeux comique dans Gribouille redevient

Boireau". Le Bulletin Pathésalue le retour de l’cnfant prodiguc:

Nous avons la bonne fortune de préscntcr cotte scmainc un de nos plus ancicns et plus précicux collaborateurs, André Deed, le célèbrc comique international. Après une longue absence, Boireau * le joyeux, (’inimitable Boireau nous rcvient

5 E.L. Fouquec, Le Cinema* n. 1,

mars 1912. Cité par E. Toulet, 1895* n. 1, septembre

1986, pp. 12-13. 6 M. Lapierre, Les Cent Visages du cinéma* Paris, Grasser, 1948, p. 105.

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cnfin. C’est avec joic que Messieurs les cxploitants reverront sur l’écran sa figure hi larari te, ses gestes gauchcs, son sourire naif» scs jeux de physionomic cocasses qui font èlcvé au summum de la gioire. [...] L’on revient toujours à scs premieres amours, cc Andre Deed rcvicnc grossir (’extraordinaire plèiade d’artistes qui font I’univcrsellc rcnomméc des Établissemcnts Pathé Frères. Ccttc semainc, il sc fcra

de nouveau applaudir dans une scène désopilantc: Gribouille redevient Boireau7.

Le deuxième séjour en Italie (1915-1917)

Après trois annécs d’intense activité chez Pathé, le rythmc de la production

diminuc fortement au début de 1915. André Deed ct Valentina Frascaroli repartent en Italie au printemps, ils vont à nouveau travaillcr pour l’itala.

Sous le ticre “André Deed à lìtala Film”, Ciné-Journal public dans son numéro du 4 décembrc 1915 (Édition de Guerre): André Deed, qui avait rendu célèbrc dans le monde cnticr l’irrésistiblc type de Gribouille! est de retour de nouveau à l’itala Film, la grande maison iralienne qui l’avaic lancé, où il s’était conquis la renommée que vraiment et inutilcment scs nombreux imitateurs ont toujours chcrché à lui ravir et où il a recommcncé la sè­ rie de scs désopilants comiques. Le genre créé par Deed, le premier des comiques cinématographiques ne pouvait, cn effet, erre égalè; Gribouille érait l'idolc de routes les salles, où il mettaic cn joie petits ct grands, ct personne ne parvint jamais à amuscr et à fa ire rire commc lui avee sa mimique si dróle ct son esprit gamin. Le voici qui nous revient, nous verrons sous pcu, sur l’écran, son premier film Gribouille empoisonneur, un comique absolumcnt hilarant, et nous tenons de bonne source que ce n’est là que le prèlude d’unc sèrie qui va paraìtre règulièrcmcnt ct qui, commc prècèdemment, fcra faire sallcs combles aux heureux ct adroits exploitants qui s’assurcront les films de cet excellent artiste. Nous ne pouvons que nous félicitcr avec l’itala Film pour ccttc reprise. Avec Deed est revenue à l’itala Film, Valentina Frascaroli l’cspièglc gamine si sentimcntalcmcnt jolic ct si exccllcntc interprète dans tous ses roles, drames ct comè-

dies. Avec ccs deux vedettes, la troupe artistique de l’itala Film va se trouver formidablcmcnt rcnforcèc ct nous sommes persuadès que sous pcu on cn rcsscntira les effets sur le marche mondial. En Italic, Deed met cn scène cinq films qu il interprète seni ou avec sa partenai-

rc, Cretinetti avvelenatore (visa de censure septembre 1915, avec Valentina Fra­ scaroli), La paura degli aeromobili nemici (v.c. novembre 1915), La frusta di Cre­

tinetti (v.c. janvicr 1916, avec Valentina Frascaroli), Il metodo di Cretinetti per la

7 Bulletin Pathé* citè par H. Bousquet, Catalogue Patite des annto 1896 à 1914* Henri Bousquet èditeur, 4 volumes, 1993-1996.

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rigenerazione dell umanità (v.c. juin 1916, avcc Valentina Frascaroli). Il tourne

aussi un film plus ambitieux — Valentina Frascaroli n’y participc pas car clic

joue de son còte dans d’autres films, notamment dans Maciste alpino aux còtés

de Bartolomeo Pagano ou dans Tigre reale (1916) -, Cretinetti e gli stivali del brasiliano (v.c. déccmbre 1916), film qui est sans doute photographic, comme La paura degli aeromobili nemici, par Segundo de Chomón. Cc film témoigne

du souci de Deed de se rcnouvcler cn passant au long mctragc avee unc oeuvre

de 1120 metres (54 minutes de projection à 18 im/scc). On peut aussi remarquer son aptitude à tircr parti des référcnccs à l’actualité, Ics bombardements

aéricns, la régénération morale de l’humanité cn période de conflit.

A lire le catalogue de Bernardini ct Martinelli, on ne trouve pas beaucoup de rcnscigncmcnts sur ccs films. Presque ricn sur Cretinetti avvelenatore, pas grande chose sur La paura degli aeromobili nemici sinon la trame (“Cretinetti, sua moglie e gli invitati ad un matrimonio, presi dalla paura di un bombarda * mento aereo, nc combinano di tutti i colori”); une brève citation pour La fru­

sta di Cretinetti (“Divertentissima comica, nella quale André Deed, il popola­ rissimo brillante cinematografico, ha profuso in abbondanza il suo buon umore e le sue trovate”, Anonymc, La Stampa, Turin, 14 févricr 1916); la tra­

me (“Suggestionato da un conferenziere, Cretinetti tenta in tutti i modi di porre in atto la rigenerazione morale dei suoi simili: naturalmente ogni tenta­ tivo si risolverà in reazioni contrarie, che aumcntcrrano il caos”) ct unc cita­ tion (“Una vera ondata di sana ilarità si è scatenata alle trovate del simpatico comico nelle sua ultima creazione, edita dalla Itala Film”, Anonymc, La Stampa, 17 juin 1916) pour // metodo di Cretinetti per la rigenerazione delTu-

manità. Les informations sont plus abondantes pour Cretinetti e gli stivali del brasiliano. Il faut dire que le film abordc aux rives du long métrage, cc que nc manquent pas de souligncr Ics chroniqucurs. Ainsi, Bernardini et Martinelli rapporte cc tcxtc signé II rondone de La Vita Cinematografica (Turin, 7-15

avril 1917): Cretinetti e gli stivali del brasiliano sono un seguito stupefacente di trovate vera­ mente spiritose, e costituiscono un insieme strano, imprevisto, originale, buffo e sempre interessante. Una cosa nuova, il che - sotto il sole e nell’oscurità delle sale cinematografiche è tutto dire. In Cretinetti, l’ammirevole è che la buffoneria che dura per tanto tempo, riserbi sempre delle sorprese, delle situazioni impensate, e non affatichi mai l’attenzione dello spettatore. [...] Cretinetti e soci fanno ridere fino alle lagrime, fino allo spasi­ mo. E certo, la maggior parte delle loro azioni sono esagerazioni. Ma non sono americanate stupide di inverosimiglianza, le loro gesta. Sono piuttosto caricature di atteggiamenti e di modi di fitte del comune. [...] Un film riuscitissimo che vale infi­ nitamente più oro del suo peso e allarga audacemente l’orizzonte dell’arte muta. Dans son Vecchio cinema italiano, publié cn 1940 par l’éditcur Zanetti de Ve-

196

nisc, Eugenio Ferdinando Palmieri souligne I’im porta nee de la naissancc du

long métragc dans le domaine du film comique et cite un chroniqucur qui

note avec enthousiasme la réussitc de Deed: Noi salutiamo l'avvento di Cretinetti protagonista di un grande lavoro faceto co­ me un avvenimento di importanza storica, per le sorti del mondo cinematografi­ co per l'incremento del nostro buon umore, che - ahi noi - l’attuale guerra mi­ naccia in tutti i modi. Con Cretinetti egli stivali del brasiliano, l’eroe di tante buf­ fe c indimenticabili avventure, il protagonista di tanti episodi giocosi, fa il suo grande ingresso nel mondo dei divi del teatro cinematografico. E la sua figura già grandeggia nell’Olimpo del lungo metraggio. Cretinetti si esibisce a moi, ormai, come il Francesco Bertini, il Pino Menichelli, il Tino Kassay dell’attuale cinema­ tografia comica *.

Preuve d’une reputation qui ne s’émousse pas, lots de la sortie du film cn France, on pcut lire dans Filma (n. 9, 15-30 septembre 1917) sous le titre

"Un rival de Chariot” unc comparaison qui indique à quel point Deed est

pcr^u commc un créatcur de premier pian:

C’cst André Deed, doni Gribouille et les bottes du Brésilien va prochaincmcnt marquer une nouvellc creation. Certains mémes - et nous sommes de deux-là le préféreront à Charlie dont l’acrobatie et les gestcs mécaniques ne sont pas toujours des plus dróles ... Après Cretinetti e gli stivali del brasiliano, et alors meme que le succès du film pourrait donner à pcnscr que le comédien mctteur cn scène va poursuivre sa

carrière, l’activité de Deed s’interromp sans que fon cn connaissc claircmcnt

Ics raisons. Gian Piero Brunetta avance l’hypothèse de la concurrence américainc et du désintérct du public pour Ics productions nationalcs: In realtà il 1915 è la data oltre la quale il cinema comico viene spazzato dalla crisi economica c dalla concorrenza americana e fa, per primo, le spese della ristruttu­ razione dell’industria cinematografica che punta tutte le sue carte sui generi drammatici c sul divismo9. Brunetta parie aussi d’unc saturation du public vis à vis d’un genre qui n a pas su se rcnouvclcr, il évoque enfìn l’arrivéc cn Italie à partir de 1916 des

films de Charlie Chaplin et à partir de 1918 de ccux de Larry Semon, “Rido-

lini”. Unc information fournic par Ciné-Journal (n. 481, 2 novembre 1918)

* Artide cité par E.E Palmieri, Vecchio cinema italiano, Venise, Zanetti, 1940; nouvelie édition, Vicense, Neri Pozza, 1994, p. 127. 9 G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, 1895-1945, Rome, Editori Riuniti, 1979, p.

173.

197

donne à pcnscr que Deed est rcntré cn France cn 1917 sans doute parcc qu’il a été mobilisi et qu’il est blcssé ou malade (sa filmographie ne comporte aucun titre de 1917 à 1919):

Notre ami André Deed, alias Gribouillc, nous donne certe seinaine de meilleures notivclles de sa santé. Le doux solcil de Marseille l’incile au travail Sconfortane, après trois mois et demi d’hópital. La guerre peut finir - nous dit-il, non sans philosophic. Il va falloir fairc du film fran^ais: André Deed va rentrer cn lice ct avee lui la vicillc gaité purement franose. Bonne santé à Gribouillc!

Unc autre information, panie dans L'Echo du cinema (n. 353, 14 mars 1919)

dans la rubrique “Autour de l’Ecran” ct accompagnant unc photo d’André Deed, indique: Le désopilant comique qui, sous le nom de Boircau ct de Gribouillc a cxécuté tant de scènes amusantcs, s’est remis dès sa démobilisation à travailler dans fari qui lui est cher. Bonne chance de réussitc. Pendant la mobilisation de Deed, Valentina Frascaroli est restée cn Italie où elle tourne pour l’itala ct pour d’autres sociétés turinoiscs: cinq films cn 1917

(notamment Le due orfanelle di Torino de Giovanni Casalcggio ct La guerra e il sogno di Momi de Segundo de Chomón), sept films cn 1918 doni trois sous

la direction de Gero Zambuto.

Le troisième séjour en Italie (1920-1922) Quoi qu’il cn soit, c’cst à nouveau cn Italie que Deed recommence à travailler. Il rejoint son épousc ct signe quatre films au début des annécs Vingt, tous

interprétés avee Valentina Frascaroli. Il travaille d’abord unc nouvcllc fois pour l’itala Film à Turin avee //femminista (1920), puis il cnchaìnc avee des productions qui le voit séjourner à Milan ct à Rome: Il documento umano (prod. Photodrama, Milan, 1920), Cretinetti al buio (prod. UCI, Rome, id.),

et surtout L'uomo meccanico, long métrage de science-fiction produit par la Milano Films cn 1921. Dans le catalogue de Vittorio Martinelli, on nc trouve que de brèves fìchcs sur II documento umano ct // femminista — cc qui laissc dans l’inccrtitudc

quant à l’intérct supposé de ccs films. Rare lacune de l’ouvragc, Cretinetti al

buio est absent; quant à L'uomo meccanico, il est évidemment cvoqué plus longuement. De son còlè, Valentina Frascaroli tourne encore toute sculc, par cxcmplc cn 1920 dans I borghesi di Pont-Arcy d’Umberto Mozzato ct Emilio Vardannes, une production Itala Film tiré de la pièce de Victorien Sardou Les Bour­ geois de Pont-Arcy. Dans Le Cinema et l’Echo du cinéma réunis (n. 450 du 21

198

janvicr 1921) à la rubriquc “Nouvcllcs d’Italic”, le marquis Rodriguez noce à

propos du film:

L’intcrprétation de Valentina Frascaroli ct de Diana D’Amore est insuHìsantc. L’actcur Monnato [wr pour Mozzato] est le scul qui jouc bien. La mise cn scène ne présente ricn de nouveau, la photographic est très bonne. Dans la meme rubriquc, dans le numéro suivant (n. 45, 28 janvicr 1921), on pcut lire: “Milano Films, de Milan, préparc L’Homme mécanique, le grand ro­

man d’avcnturc d’André Deed”. Dans ccs annécs, Deed confirmc son ambition à se consacrcr au long métragc. Après les 1120 mètres (54 minutes de projection) de Cretinetti e gli sti­ vali del brasiliano, Il documento umano fait 2016 mètres (98 minutes) ct L’uo­ mo meccanico 1821 mètres (88 minutes). Déjà, dans // documento umano,

Deed montre son intérct pour Ics sujcts liés à la science cn mcttant cn scène l’histoirc d’un inventeur qui pour sauver le secret d’unc importante découvertc qu’il vicnt de fairc cn tatouc la formule sur le corps de sa petite fìllc. Ccllcci est cnlcvéc par Ics rivaux du savant qui chcrchcnt à s’emparer de sa décou-

verte. L’intcrvcntion d’un efficace protcctcur pcrmct de sauver la gamine ct de récupércr la formule. Un journalistc de La vita cinematografica marque son

enthousiasme: A Cretinetti sia gloria ed onor, poiché con questa film comica avventurosa ci ha fatto ridere di gusto e dimenticare le tasse, il caro-vita, il caro-tutto, la conferenza di Genova, i succhioni ed i bancarottieri della Banca di Sconto, le cambiali in scadenza e tanti altri guai della desolata epoca post-bellica!!10.

En 1921 André Deed tourne son film le plus ambitieux, L’uomo meccanico, dont il est à la fois l’autcur du sujct ct du scénario, le metteur cn

scène ct l’interprètc aux cótés de Valentina Frascaroli, Gabriel Moreau, Ma­ thilde Lambert ct Ferdinando Vivas-May. Le sujct, tout cn gardant unc di­

mension comiquc, rclèvc de la science fiction: il met cn scène un robot qui, tombé entre les mains d’unc bande de malfaiteurs, séme partout la tcrreur. Grace à faction du couragcux Saltarello (André Deed), un deuxième robot

est construit qui va parvenir, à Tissue d’un combat suivi à distance grace à une sorte d’écran de télévision, à détruirc le monstre malfaisant.

Il scmble que le film ait rcncontré des diffìcultés ct qu’il soit sorti dans unc version tronquée; cn effet, si le visa de censure date de novembre 1921, le film ne sort à Rome qu’cn octobre 1922 ct peut-étre encore plus tard dans

d’autres villcs. A la date du 15 aout 1923, on pcut lire dans La vita cinemato­ grafica de Turin:

10 G. Berna, Turin, 15 mai 1922, ciré par Martinelli, Il cinema muto italiano 1920, cit.. p.

100.

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Noi vediamo una quantità di episodi che, presi a sé, sono logicissimi, ben con­ dotti, ben inquadrati, ben animati, ma che messi insieme, sono farraginosi, stac­ cati, a volte senza capo né coda, con salti acrobatici, lacune incomprensibili. [...] Si capisce che il Aim, quando Ai girato, doveva essere ben diversa cosa; ora, come viene proiettato, si vede che fu sottoposto a dolorose vicende che lo tagliuzzaro­ no, per amputarlo ancora...11. Pcut-on espérer un jour rctrouver unc version plus complète de L’uomo mec­

*.canico Dans le n. 531 du 11 aoùt 1922 de Le Cinéma et l’Echo du cinéma réunis, à la rubrique “Nouvcllcs d’Italic”, on peut lire: “A Turin s’est fondéc la mai­

son 'Films André Deed’ avee de grands capitaux”. Ainsi, curicuscmcnt, cn cct été 22, Deed scmblc plein de projets. Pourtant, sans que l’on sachc cc qui s’est récllcmcnt passé - information infondéc ou au contrairc difficultés im-

prévucs dans la constitution de sa société de production -, Deed et Valentina

Frascaroli rentre cn France, cetre fois de fa^on définitivc.

Leur An de carrière aura la tristcssc de deux anciennes vedettes rcplongées peu à peu dans l’anonymat. On nc connati pas la date cxactc de la mori

d’André Deed, sans doute cn 1938. *

11 Ciré par Martinelli, Op. cit., p. 342-343. • Remerciements à Aldo Bernardini, Gian Piero Brunetta, Pierre Chassain, Gian Luca Fariurlìi, Vittorio Martinelli, Valentina Ruffin, Emmanuelle Toulet, Eva Vitradello.

UBALDO MARIA DEL COLLE: UN CAMPIONE DI ECLETTISMO

Riccardo Redi Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema

Sono più d’uno i personaggi del cinema muto che alternano la recitazione alla

regia e alcuni sono senz’altro notevoli, come Gustavo Serena, cui, oltre ai molti film interpretati, dobbiamo accreditare la direzione di Assunta Spina',

Carlo Campogalliani, atleta, attore, regista e produttore; Febo Mari, il corcgista di Cenere, Mario Bonnard, forse il più noto di tutti perché la sua carriera

giunge fino agli albori del neorealismo con Avanti cèposto e Campo de’ Fiori.

E non possiamo dimenticare Diana Karenne, attrice sensibilissima, ma anche

autrice dei propri film. Perché allora scegliere Ubaldo Maria Del Colle? In­ nanzitutto perché la sua carriera di regista è esemplare, in quanto lo si può as­ sumere come campione di qucll’eclettismo che caratterizza i cineasti italiani del periodo muto; in secondo luogo per una ragione pratica: della sua ampia filmografìa - forse 109 titoli1 - ci sono rimasti 16 film c un frammento. Sen­ za contare le sue brevi apparizioni come interprete ne La presa di Roma, 1’0-

dissea, V Inferno. Trattandosi di un attore che passa ben presto alla regia, si dovrà dire qual­ cosa sulla recitazione di quegli anni, spesso considerata solo all’interno di quel

fenomeno che è stato chiamato divismo. In un quadro che comprende tutta la gestualità dell’attore del muto non sono state abbastanza messe in evidenza le differenze tra i maggiori interpreti: Serena, Bonnard, Mari, Ghionc, Del Colle. Più che notare, ad esempio, che la recitazione di Emilio Ghionc non essere paragonata a quella di nessun altro, ne sono stati evidenziati i tratti sopra le righe - dimenticando quanto sia alta la sua interpretazione del perso­

naggio Caleno ne Gli ultimi giorni di Pompei. Quanto a Bonnard, che la critica attuale sembra aver dimenticato, è certa­

mente l’attore maggiormente dotato di quella caratteristica che i commenta­ tori dell’epoca chiamavano “signorilità”: cioè - se interpretiamo bene - ge­

stualità sobria, misurata, soprattutto elegante nella raffigurazione di personag­ gi nobili c dell’alta borghesia, così frequenti in quello che è stato chiamato ci-

1 R. Chiti, Dizionario dei regiai del cinema muto italiano, Roma, M.I.C.S., 1997.

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ncma-in-frac. Eppure Bonnard questa recitazione l’ha rinnegata in un famoso articolo pubblicato su II Dramma dcll’l ottobre 1933. dopo la riesumazione di Ma l’amor mio non muore! Condivideva, in quella confessione, il giudizio

sarcastico del pubblico per degli atteggiamenti che in quel momento appari­ vano ridicoli; ma di questi dava la colpa al gusto c al pubblico del 1913 * Noteremo appena che la recitazione maschile, specie in quegli attori che abbiamo citato, ha caratteristiche diverse da quella delle dive. Peter Delpcut ha loro dedicato un film di montaggio2 composto di scene brevi estratte da notissimi film (i cui titoli cita solo alla fine del suo lavoro, rendendo difficile

ai non specialisti l’identificazione dei brani) in cui sottolinea la loro recitazio­ ne esagitata, isterica, sopra le righe: insomma proprio quella cui accennava Bonnard nel suo articolo. Per sostenere la sua tesi, cioè della “diva dolorosa”, erede di un romanticismo nero fine secolo, ha scelto alcuni film e alcune tra

le attrici più note; ovviamente, scartandone altre che non avrebbero compro­ vato le sue asserzioni. Così, ad esempio, non ha potuto citare la composta e sofferta recitazione di Diana Karenne in Miss Dorothy, né il piglio realistica­

mente popolare di Francesca Bertini in Assunta Spina. In realtà neppure la re­ citazione delle dive può essere riassunta in un’unica formula. Come recita Del Colle, questo ex attore teatrale (era entrato ventenne nel 1903 nella compa­

gnia Fumagalli-Franchini)? Per la verità non l’abbiamo ravvisato nc La presa

di Roma (1905), c neppure nei più tardi l’Inferno c l’Odissea, prodotti dalla Milano Films nel 1911 ; lo stesso possiamo dire a proposito de La prigione in­ fuocata, che lo vede interprete c regista presso la Pasquali di Torino nel 1912. È qui, in questo periodo - per la Pasquali gira 49 film, prima di passare al­

la Savoia - che Del Colle prende dimestichezza con il mestiere c sembra di­ mostrare qualche intenzione. Se la serie Raffles il ladro misterioso, iniziata nel

1911, non dimostra nulla di più che una certa scioltezza nel raccontare una trama giallo-ironica (bisogna ricordare che l’originale cui si ispira è inglese, inventato da un parente ed emulo di Conan Doyle) c forse una certa compo­ stezza - o forse disimpegno - nella recitazione, il contemporanco L'uragano,

in cui figurano Lydia De Roberti, Alberto Capozzi, Annita D’Armcro, esibi­ sce qualche audacia: pur restando ancorato ai consueti temi (peccato, caduta, redenzione), il film affronta la vicenda con una certa spregiudicatezza; note­ vole la descrizione di una casa d’appuntamenti. E ciò doveva richiedere un certo coraggio, anche in un anno in cui non esisteva ancora la censura, se la

pubblicità della Pasquali narra che la povera Renata finisce suo malgrado a la­ vorare in una bisca, mentre il film mostra chiaramente un postribolo; come

del resto conferma una didascalia-confessione: “Sono stata in una casa di pia» cere . Alla Pasquali» Del Colle ha più volte [’occasione di dirigere Capozzi» che

2 Diva dolorosa, regia di Peter Delpcut, prod. Nederlands Filmmuscum, 1999.

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noi oggi possiamo vedere solo in due occasioni: Sui gradini del trono (1912) e

Il carabiniere (1913). Cominciamo dal secondo, che, a quanto viene riferito, è tratto da una commedia del teatro dialettale piemontese, scritta nel 1892 da Enrico Gemelli. Ma noteremo che, già nel 1907, lo stesso testo era stato por­ tato sullo schermo dalla Rossi & C. — ancora una ditta torinese — con il titolo // cuore più fòrte del dovere. Nella versione di Del Colle il cacciatore di frodo Francesco deve pagare una grossa multa e non è in grado di farlo; il carabinie­

re Moretti (Capozzi) deve sposarsi e sta per spedire a casa i suoi risparmi 300 lire — in vista delle nozze. Ma si impietosisce per i guai del bracconiere e paga Tammenda di tasca sua; dovrebbe rinviare gli sponsali, ma il maresciallo

fìnge di aver ritrovato la somma, lascia libero Francesco, e Moretti può partire con la fidanzata. Nobile gara di generosità, commozione del pubblico, grande successo e pacato consenso della critica, che ormai comincia ad accettare i

lungometraggi - il film è infatti di 931 mt. Ma il primo lungometraggio della Pasquali era stato l’anno precedente Sui gradini del trono - 1000 mt. -, improbabile dramma avventuroso che propo­ neva per la prima volta l’immaginario regno di Silistria (ritornerà in Mezza­ notte di Genina, 1915), ad opera di Renzo Chiosso, prolifico scrittore, autore drammatico, e soggettista di molti film muti. In questo caso non pecca di ori­

ginalità, poiché la trama si basa sulla perfetta somiglianza di due persone: il

principe Wladimiro (Capozzi) e il ballerino Chichito (ancora Capozzi). Fran­

camente questi centoni oggi appaiono indigesti, anche quando sono - come in questo caso — abbastanza avventurosi da reggere oltre un’ora di spettacolo. Del Colle aveva in realtà una certa abilità nel raccontare, senza perdere il filo né lasciar cadere l’attenzione: la critica del tempo accolse infatti il film con

grandi elogi, forse più generosi di quanto meritasse; ma ancor oggi dobbiamo dire che il film non dispiace. Prima di lasciare la Pasquali nel 1913» Del Colle ha modo di dirigere altri

film impegnativi: La vita tragica (un dramma talmente crudo da far urlare di indignazione il critico del quindicinale napoletano *,Cinema che non esita a paragonarlo al vituperato danese Afgrunden), I due sergenti, Jone o Gli ultimi giorni di Pompei *. Quest’ultimo titolo era il risultato di una contesa tra le più note case produttrici torinesi: Gloria, Ambrosio, Pasquali. Era stata la Gloria

ad annunciare per prima il film, provocando le ire di Arturo Ambrosio che già

nel 1909 aveva realizzato una prima versione del romanzo di Bulwer-Lytton, e l’immediato inizio di un film con lo stesso titolo per la regia di Eleutcrio Ro­ dolfi. Terza era venuta la Pasquali, che aveva affidato la regia a Enrico Vidali e

stava forzando i tempi, nella speranza di battere i rivali. Saggiamente la

5 A. Costagliola, “La vita tragica". Cinema, n. 30, 10 aprile 1912.

4 V. Martinelli, “Sotto il vulcano”, in R. Redi (a cura di), Gli ultimi giorni di Pompei, Na­ poli, Electa, 1994.

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Gloria5, su consiglio di Mario Cascrini, si ritirava dalla contesa, mentre Vidali entrava in conflitto con il suo produttore che lo sostituiva con Del Colle, uo­ mo pronto a tutte le esperienze, forse il più eclettico fra tutti i registi di un’e­

poca in cui si chiedeva loro di affrontare ogni genere. In vista di una causa per plagio o per illecita concorrenza, la Pasquali aggiungeva al titolo il nome Jone.,

che del resto era il nome dcllopcra di Petrella del 1858: partitura che poi ven­ ne spesso riesumata per accompagnare la visione del film nelle grandi prime. Dopo la Pasquali Del Colle passa alla Savoia - di questo periodo ci è rimasto solo // mitrerò di Jack Hilton — e quindi si sente maturo per affrontare la pro­ duzione. A Genova fonda la Riviera Film, poi la Genova Film, dirigendo alcu­ ne pellicole che secondo le cronache dovrebbero essere d’azione. Nel 1916 è alla Flcgrea di Roma, dove è incolpevole protagonista di un’altra vicenda giu­ diziaria67 , quella che riguarda Cavalleria rusticana. È accaduto che su questo ti­

tolo sono diversi ad accampare diritti; così, mentre la Tespi li ha acquistati da Giovanni Verga, autore della novella e del testo teatrale, la Flcgrea li ha acqui­

stati da Sonzogno e dai due librettisti dell’opera di Mascagni: Menasci e Targioni Tozzetti. Comunque Del Colle realizza la sua Cavalleria con Linda Pini, Ugo Gracci e Bianca Lorenzoni, film perduto, che non possiamo confrontare

con la Cavalleria diretta da Falena e interpretata da Gemma Bcllincioni, Silvia

Malinverni, Luigi Serventi, Bianca Virginia Camagni. Era un’epoca di dura concorrenza e gli stessi problemi dovevano sorgere nel 1917 per una - anzi due - riduzioni de / misteri di Parigi di Eugene Sue, an­ nunciate contemporaneamente dalla produzione Mègale e dalla Caesar di Giu­

seppe Barattolo. Come sappiamo la soluzione fu salomonica, in quanto ambe­ due i contendenti rinunciarono al titolo previsto, ripiegando il primo su II ventre di Parigi e l’altro su Parigi misteriosa. Sia il film di Del Colle che quello di Gustavo Serena sono andati perduti: perciò non sappiamo se avessero colto

l’aspetto “sociale” dei Misteri di Sue. Le critiche non sono abbastanza attendi­ bili, riferiscono poco sui contenuti dei film e, in genere, sembrano preferire la

pellicola di Del Colle; almeno a leggere gli esagerati elogi di Ugo Ugoletti sulla Cine-Gazzetta1“La sobrietà, l’efficacia drammatica, il talento e la signorilità di cui sono intessute tutte le creazioni di Ubaldo Maria del Colle ...”.

Nello stesso anno e per la stessa produzione, Del Colle firma un certo ‘O

sole mio, ispirato alla canzone di Giovanni Capurro ed Eduardo Di Capua: Giuseppe Lega lo definisce un piccolo gioiello cinematografico, mentre noi ci limitiamo a constatare che è il primo approccio del regista con la canzone na-

5 F. Soro, Splendori e miserie del eritema, Roma, Consalvo, 1935. 6 Film (Napoli), 31 marzo, 10 aprile, 15 maggio, 29 maggio 1916, citato in S. Zappulla Muscarà, “Contributi per una storia dei rapporti tra letteratura e cinema muto”, Rassegna del­ la lenentit