Water grabbing. Guerre nascoste per l'acqua nel XXI secolo 8830724025, 9788830724020

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Water grabbing. Guerre nascoste per l'acqua nel XXI secolo
 8830724025, 9788830724020

Table of contents :
PREFAZIONE
1. UN MONDO D’ACQUA
Dimock a secco
Crisi sistemica
Un neologismo utile
L’acqua sul pianeta sta diventando sempre più scarsa
Lo sguardo geografico
Fattore demografico
Fattore anidride carbonica
Impronta idrica
Lo sguardo economico
I dividendi della scarsità
Lo sguardo politico
2. LA GEOGRAFIA IDRICA DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO
Emergenza nel Montana
Il 2020 è vicino
Il lungo addio dei ghiacci eterni
Miami. Oppure Singapore, Venezia…
La neve, il ghiaccio e la pioggia, il serbatoio d’acqua che ogni anno si rinnova(va)
Si scioglie l’Himalaya
«… poi il vento gira e non cade una goccia»
Sete mediorientale
Bangladesh, un mix letale
3. IL NESSO ENERGIA-ACQUA
King Coal
Acqua-energia: un nesso spesso dimenticato
L’interruttore della crisi idrica
Una goccia d’acqua per la luce
Energie non convenzionali
«Non convenzionali»
Biocarburanti
Un mondo di dighe
4. LA SETE DELL’AGRICOLTURA E DELL’ALLEVAMENTO
Competizione crescente
Sul banco degli imputati: lo spreco…
… e il sovraconsumo
Land grabbing è water grabbing
Acqua virtuale
Swaziland, la dittatura della canna da zucchero
India, agricoltura in crisi
L’ultimo pesce nel fiume
5. LE NUOVE GUERRE PER L’ACQUA
La chimera del diritto internazionale all’acqua
I riconoscimenti e i limiti della Risoluzione per il diritto umano all’acqua
Acqua divisa o condivisa?
Brahmaputra, la sfida dei giganti d’Asia
Acqua Santa
Conflitti e migrazioni
6. L’ACQUA È DONNA
Verso un diritto umano (e delle donne) ai servizi igienico-sanitari
Dalle comunità locali alle sedi internazionali: il ruolo delle donne
7. L’ACQUA È POP(OLARE)
Il ritorno all’acqua pubblica
L’acqua contesa tra gli arbitrati internazionali
8. ACQUA, BENE COMUNE
La logica dei Beni Comuni
Il post-referendum
La grande sete del 2017
Massimizzazione dei profitti vs beni comuni
Quali soluzioni?
Verso un mondo di beni comuni
CONCLUSIONI
Un manifesto circolare
RINGRAZIAMENTI
INSERTO FOTOGRAFICO

Citation preview

WATER GRABBING

Emanuele Bompan è giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, ambiente, energia. Scrive per varie testate come La Stampa e BioEcoGeo . È direttore responsabile del magazine Renewable Matter . Ha vinto per quattro volte l’European Journalism Center IDR Grant ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015 in occasione dell’Earth Day Italy. Ha svolto reportage in 75 paesi. Ha pubblicato Che cos’è l’economia circolare (con Ilaria Brambilla, Edizioni Ambiente). Marirosa Iannelli è specializzata in cooperazione internazionale e water management. Ricercatrice presso la London School of Economics con un progetto su cambiamenti climatici e governance delle risorse tra Africa e Sudamerica, segue come esperta le Conferenze Onu e il lavoro della Commissione europea su ambiente e desertificazione. Collabora con l’ong Cospe e altre organizzazioni come progettista ambientale.

Collana «Cittadini sul pianeta» Diretta da Francesco Gesualdi Centro nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico (6ª ed. 2011) Elvira Corona, Lavorare senza padroni. Viaggio nelle imprese «recuperadas» d’Argentina (2ª ed. 2014) Sandro Bozzolo, Un sindaco fuori del comune. La democrazia partecipativa esiste. Storia di Antanas Mockus, Supercittadino di Bogotá Christoph Baker, Elogio dell’esuberanza e altri pensieri in libertà Alberto Zoratti - Monica Di Sisto, I signori della green economy. Neocapitalismo tinto di verde e movimenti glocali di resistenza Maria Teresa De Nardis, Guida ai detersivi bioallegri e a un’igiene sostenibile (3ª ed. 2013) Alex Zanotelli - Paolo Bertezzolo, Di nuovo in piedi, costruttori di pace! Serge Latouche, Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (3ª ed. 2014) Alberto Zoratti - Monica Di Sisto - Marco Bersani, Nelle mani dei mercati. Perché il Ttip va fermato Elvira Corona, L’acqua liberata. Bloccate le megadighe in Patagonia: una storia di successo. Viaggio nel Cile del cambiamento Gaël Giraud, Transizione ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia José Bové - Gilles Luneau, L’alimentazione in ostaggio. Le mani delle multinazionali su quel che mangiamo Rob Hopkins, L’ecologia di ogni giorno. Terra, cibo comunità. La Transizione, un nuovo modo di stare al mondo Vandana Shiva, La terra ha i suoi diritti. La mia lotta di donna per un mondo più giusto Emanuele Bompan - Marirosa Iannelli, Water grabbing. I conflitti nascosti per l’acqua nel XXI secolo

I diritti e il creato, i beni comuni, la giustizia e la pace, un’economia dal volto umano. Sono le vie alla felicità che questa collana batte,

proponendo analisi testimonianze.

e

denunce,

prospettive,

strumenti

e

EMANUELE BOMPAN MARIROSA IANNELLI

WATER GRABBING I conflitti nascosti per l’acqua nel XXI secolo Prefazione di Gianfranco Bologna

Immagine di copertina di S Copertina di Z ADV © EMI - Editrice missionaria italiana, 2018 Via Bernini Buri, 99 - 37132 Verona Tel. 045 975119 www.emi.it [email protected] ISBN 978-88-307-2420-4 Anche in edizione cartacea ISBN 978-88-307-2402-0

PREFAZIONE

di Gianfranco Bologna *

Stiamo gestendo il nostro mondo in maniera fortemente insostenibile, dal punto di vista ambientale, economico e sociale. La conoscenza di una situazione così oggettivamente grave, che dovrebbe essere al primo punto dell’agenda dei leader mondiali, comincia per fortuna a essere sempre più diffusa, anche se non si traduce automaticamente in consapevolezza forte e in azioni mirate a modificare lo status quo . Agli inizi del 2018, in occasione del World Economic Forum di Davos, l’evento annuale che riunisce nella cittadina delle Alpi svizzere le figure internazionali preminenti del mondo politico, istituzionale, economico, finanziario e dell’impresa, Oxfam ha pubblicato, come di consueto negli ultimi anni, un nuovo rapporto sulle disuguaglianze mondiali, causate da un sistema economico sempre più iniquo. 1 Il rapporto indica che nel 2017 si è prodotto, nel mondo, il maggior incremento del numero di miliardari nella storia: uno ogni due giorni. Oggi ne sono registrati 2.043. Nove su dieci sono uomini. Essi hanno visto lo scorso anno un aumento rilevante della loro ricchezza, per 762 miliardi di dollari. Una cifra che sarebbe da sola sufficiente a eliminare la povertà estrema nel mondo per ben sette volte. L’82% della crescita della ricchezza globale è andato, lo scorso anno, all’1% della popolazione mondiale, mentre il 50% non ha osservato alcun tipo di miglioramento. 42 individui detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,7 miliardi di persone. Come Oxfam ricorda, un salario accettabile e un lavoro decente sono fondamentali per por fine all’attuale grave crisi di disuguaglianza. L’intollerabile situazione di sperequazione crescente s’incrocia con lo stato di salute della biosfera del nostro meraviglioso pianeta,

l’unico, nell’intero universo, che sappiamo contenere il fenomeno vita. Allo stato attuale siamo in accelerata rotta di collisione con i chiari limiti biofisici della Terra nel sopportare ancora una crescita umana materiale e quantitativa palesemente intollerabile. Il danno che stiamo provocando alla biosfera, e quindi agli ecosistemi marini, d’acqua dolce e terrestri, da cui dipendono lo sviluppo e il benessere delle società umane, è tale che negli ultimi 50-60 anni abbiamo eroso le strutture, i processi, le funzioni e i servizi degli ecosistemi a una velocità che non conosce paragoni nella storia umana. Il sistema Terra non è mai stato così «debole» da quando sono comparse le moderne società umane. 2 Tutto ciò sta conducendo a una forte limitazione delle opzioni di cui l’umanità può disporre per il suo futuro. Se trattata in modo adeguato, con una umanità capace di vivere armonicamente con la biosfera – la sfera della vita –, questa risulta estremamente efficace quando si tratta di generare resilienza a scala planetaria. 3 È quindi la nostra migliore alleata e miglior polizza assicurativa contro gli shock causati dai cambiamenti ambientali globali, siano essi di origine naturale o umana. Non è un caso che la comunità scientifica internazionale che studia il Sistema Terra si stia interrogando sull’ufficializzazione di un nuovo periodo geologico nella classificazione dei 4,6 miliardi di anni di storia del nostro Pianeta. Un periodo definito Antropocene, per sottolineare gli straordinari e profondi effetti negativi causati dalla nostra specie sulla Terra. La comunità scientifica che si occupa del Sistema Terra e di Sostenibilità Globale 4 sostiene, con una documentazione imponente, che l’impatto umano sui sistemi naturali produce effetti simili a quelli dovuti alle grandi forze geofisiche e persino astrofisiche (come i grandi meteoriti) che hanno plasmato il nostro pianeta. Numerosi sono ormai i programmi di ricerca, i libri e le nuove riviste scientifiche appositamente dedicati all’Antropocene. Disponiamo di studi, analisi e approfondimenti che consentono di conoscere sempre meglio l’entità dei problemi che abbiamo creato e che individuano anche proposte di soluzione, molte già attivamente praticate in diverse parti del mondo.

Questo ottimo volume di Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli costituisce un affascinante affresco della drammatica situazione dovuta all’accaparramento di una risorsa indispensabile per l’esistenza dell’umanità come di tutti gli esseri viventi: l’acqua. Si tratta di una vera e propria inchiesta, puntuale e documentata, condotta con uno spirito di indagine serio e approfondito, che ci dimostra come il preoccupante fenomeno del land grabbing , come fu definito qualche anno fa, si sia ormai esteso, anche se in forme diverse, alla risorsa acqua. Il land grabbing ha visto sinora coinvolti più di 30 milioni di ettari di terreni, in particolare nell’Africa subsahariana, accaparrati da imprese private, specialmente di Cina ed Emirati Arabi Uniti, allo scopo di soddisfare il fabbisogno alimentare interno e per una maggiore disponibilità di prodotti derivati da biomassa forestale o agricola, come i biocarburanti. Il water grabbing , come gli autori illustrano con chia rezza, riguarda l’agire di forti poteri economici in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o a intere nazioni. Gli effetti sono generalmente devastanti, soprattutto nel Sud del mondo. L’acqua non ha sostituti, e poiché non possiamo trasportarla per il mondo in quantità significative, la sua gestione a livello locale o regionale è di importanza vitale. L’analisi svolta da Marirosa ed Emanuele ci aiuta a comprendere sempre di più la considerazione economica, sociale e giuridica del bene comune e la fondamentale importanza che la cura dei beni comuni ha nel limitare le forti pressioni che esercitiamo sui sistemi naturali. E la pressione che stiamo esercitando sul nostro pianeta, compreso il complesso e delicato ciclo dell’acqua, può pervenire a pericolose soglie di saturazione. Per questo è necessario acquisire la coscienza che non possiamo superare i «confini planetari» indicati in questi anni dalla comunità scientifica. Varcarli comporta il raggiungimento di punti critici, di soglie che ancora abbiamo difficoltà a indicare con esattezza perché, nonostante gli straordinari progressi fatti, la comprensione del Sistema Terra è ancora molto incompleta. È però molto importante che siano stati tracciati diversi e significativi guardrail. Non rispettarli sarebbe pura follia. Rispettarli

vuol dire non raggiungere quei punti critici e applicare al nostro sviluppo percorsi di sostenibilità. Gli studiosi hanno fatto lo sforzo di misurare le dimensioni di uno «spazio operativo e sicuro» (SOS) per l’umanità indicando i «confini planetari» entro cui muoverci. 5 Tali confini riguardano 9 problemi planetari causati dalla pressione umana, tra loro strettamente connessi e interdipendenti: il cambiamento climatico; la perdita della biodiversità e quindi dell’integrità biosferica; l’acidificazione degli oceani; la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera; la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo; l’utilizzo globale di acqua; i cambiamenti nell’utilizzo del suolo; la diffusione di aerosol atmosferici; l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici. Per quattro di questi – cambiamento climatico, perdita di biodiversità, modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo, modificazioni dell’uso dei suoli – ci troviamo già oltre il limite segnalato dagli scienziati. Sull’utilizzo globale di acqua è in corso un interessante dibattito sui confini che possono essere individuati per mantenerci in uno spazio operativo e sicuro. Complessivamente, i nove confini planetari possono essere visti come parte integrante di un cerchio, e in tal modo si disegna appunto lo «spazio operativo e sicuro» per l’umanità. Il dibattito scientifico e le applicazioni pratiche del concetto di confini planetari si sono andati ampliando in sede di politica internazionale, incrociandosi con le riflessioni di carattere sociale. Si inseriscono qui le analisi di Kate Raworth, l’economista che ha delineato un approccio affascinante e innovativo: l’«economia della ciambella». 6 Il benessere umano dipende, infatti, oltre che dal mantenimento dell’uso delle risorse in un buono stato naturale complessivo che non deve oltrepassare certe soglie, anche e in egual misura dalla necessità dei singoli di soddisfare i bisogni essenziali a una vita dignitosa. Le norme internazionali hanno sempre sostenuto il diritto morale dell’individuo a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Quindi, come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, una sorta di «tetto» oltre cui il degrado ambientale diviene

pericoloso per l’intera umanità, l’economia della ciambella ci indica l’esistenza di un confine interno al prelievo di risorse, un «livello sociale di base» (una sorta di «pavimento») sotto il quale la deprivazione umana è inaccettabile. In questa importante riflessione sono specificate 11 priorità sociali: cibo; acqua; assistenza sanitaria; reddito; istruzione; energia; lavoro; diritto di espressione; parità di genere; equità sociale; networking e resilienza agli shock. Esse rappresentano una base sociale esemplificativa (il «pavimento») e vanno incrociate con i confini planetari (il «tetto») del nostro SOS che, a questo punto, oltre a essere «sicuro» è anche «giusto». Si viene così a formare, tra i diritti di base (il «pavimento sociale») e i confini planetari (i «tetti ambientali»), una corona circolare a forma di ciambella: sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità. Il Wwf ha elaborato un agile Manifesto SOS che propone alla sottoscrizione di imprese e organizzazioni della società civile, della cultura e dell’istruzione, per l’impegno in azioni che ci consentano di restare nell’SOS. 7 Oggi l’Agenda 2030 e i 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile in essa declinati, approvati dalle Nazioni Unite nel 2015, costituiscono un punto di riferimento molto importante per le politiche di sostenibilità in tutto il mondo. Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile, anche in ordine alla concretizzazione dell’Agenda 2030. Ma che cosa significa muoversi entro lo spazio operativo sicuro ed equo per l’umanità? Le grandi sfide da affrontare con urgenza riguardano la comprensione delle modalità sociali ed economiche che pos sano rispettare le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali. Nel concreto, limitare in maniera responsabile e consapevole la crescita della popolazione, i livelli dei flussi dell’energia e delle materie prime e quindi i nostri consumi – dunque modificare in profondità i nostri modelli di produzione e consumo. Il libro di Bompan e Iannelli ci fornisce un importante contributo per meglio abbracciare questa sfida e avviare percorsi di soluzione.

1 * Direttore scientifico del Wwf Italia e Segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei / Club di Roma Italia. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui Manuale di sostenibilità (Edizioni Ambiente) e, per l’Emi, Italia capace di futuro . Oxfam International, Ricompensare il lavoro, non la ricchezza , 2018 (http://bit.ly/2n24A3c). 2 Johan Rockström e Mattias Klum, Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari , Edizioni Ambiente, Milano 2016. 3 La resilienza è la capacità che un sistema ha di assorbire un disturbo e di riorganizzarsi, in modo da mantenere le stesse funzioni, struttura, identità e feedback del sistema stesso. Esiste un autorevole network internazionale dei maggiori centri di ricerca sul tema, la Resilience Alliance (www.resalliance.org); importante anche lo Stockholm Resilience Center (www.stockholmresilience.org), membro della Alliance. 4 Si veda il grande programma internazionale di ricerca «Future Earth: Research for Global Sustainability » (www.futureearth.org) e www.anthropocene.info. 5 Johan Rockström et al. , «A safe operating space for humanity», in Nature , 461, 24/9/2009, pp. 472-475 (http://bit.ly/2l7YLCn); Will Steffen et al. , 2015, «Planetary boundaries: Guiding human development on a chan-ging planet», in Science , 347, 13/3/2015 (Doi:10.1126/science.1259855). 6 Kate Raworth, L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo , Edizioni Ambiente, Milano 2017. 7 www.wwf.it/manifestosos.

1. UN MONDO D’ACQUA

L’acqua comprende bene la civiltà; bagna il mio piede, ma graziosamente, rilassa la mia vita, ma argutamente, non è sconcertata, non ha il cuore rotto: ben usata, agghinda la gioia, la adorna, raddoppia la gioia: utilizzata male, lei distruggerà, in tempo e misura perfetti con un volto di piacere dorato elegantemente, distruggerà. Ralph Waldo Emerson L’auto è ferma sulla strada. In lontananza le idrovore sono protette da un cordone di agenti di sicurezza privati. «Scusate, possiamo avvicinarci?». La domanda agli agenti è posta con cortesia. Duecento chili strizzati dentro un giaccone nero e pantaloni a tasconi, occhiali Oakley fuori misura, incutono pur sempre timore. «Niente giornalisti, non c’è niente da vedere. È solo acqua». Rimaniamo in disparte scattando qualche foto come possiamo. Quella non è solo acqua, ma un mix di agenti chimici, sabbia usata per l’estrazione di gas. È il 2009, Obama si è insediato da qualche mese alla Casa Bianca, nel paese c’è euforia. Il luogo è Dimock, Pennsylvania, e la scena che abbiamo sotto gli occhi è uno dei primi incidenti legati all’estrazione di gas da scisti argillosi, attraverso una tecnica chiamata fracking, ovvero fratturazione idraulica delle rocce, con l’uso di sabbia e agenti chimici, per liberare il gas intrappolato della roccia. S’inietta questo liquido a tutta potenza e si attende che

il gas fuoriesca. All’epoca la tecnologia era sperimentale, e c’era d’attendersi che presto si sarebbe verificato qualche incidente. Mi trovavo nella zona con la fotografa Giada Connestari per un lavoro – uno dei primissimi reportage – su quel nuovo boom energetico, i cui echi non erano ancora arrivati in Europa. Ma per gli ambientalisti americani era già una nuova frontiera della lotta per preservare le acque e la natura. Marirosa l’avrei conosciuta solo nel 2015 alla Conferenza sul Clima di Parigi: dal nostro incontro sarebbe scaturita la prima opera di documentazione italiana sul tema dell’accaparramento delle risorse idriche a livello globale. Dimock a secco Nei pressi di Carter Road, una strada ombreggiata da ampli aceri argentei, la compagnia estrattiva Cabot Oil and Gas aveva commesso una serie di gravi errori durante le operazioni di fracking, riversando decine di ettolitri di fluidi contenenti agenti chimici, necessari per la fratturazione delle rocce, dentro la falda acquifera. Contaminandola, a insaputa degli abitanti. Sulle prime nessuno sembrava prestare troppa attenzione alle operazioni di fracking. Tutti rilasciavano interviste ed era possibile assistere, di soppiatto, alle operazioni di fratturazione. Ma lentamente la protesta nasceva. Inizialmente a livello locale, con la gente esasperata dal traffico dei camion sulle piccole strade di campagna e dall’invasione di centinaia di tecnici e operai con le loro trivelle in quella che un tempo era una tranquilla zona rurale, improvvisamente diventata uno dei principali reservoir di estrazione di gas naturale. Di sicuro nessuna delle decine di persone intervistate in quei giorni pensava che il boom dello shale gas avrebbe sottratto loro l’acqua per sempre. Nei mesi successivi, la popolazione della zona iniziò a soffrire di attacchi di vomito, nausea e sanguinamento copioso: il fluido di fratturazione aveva contaminato la falda raggiungendo le tubature delle abitazioni di Dimock. Gli abitanti, che già usavano acqua dalle taniche per gli usi alimentari, si ritrovarono costretti a comprare ogni giorno centinaia di litri d’acqua per lavarsi, dopo che era divenuto chiaro che i malesseri erano causati dalla

contaminazione, anche solo attraverso contatto. Nonostante la Pennsylvania sia uno degli stati più ricchi di risorse idriche, in una delle nazioni più tecnologicamente avanzate del pianeta, gli abitanti di Dimock erano rimasti a secco. La loro acqua era stata sottratta per scopi estrattivi, in uno schema finito male. Era il primo caso di accaparramento idrico che finiva in un nostro articolo. Per oltre otto anni alcune famiglie hanno tentato, inutilmente fino ad oggi, di ricevere una compensazione stimata intorno ai 4,24 milioni di dollari per i danni fisici ed economici dovuti alla contaminazione e all’importazione forzata dell’acqua in cisterna per continuare a vivere una vita quasi normale. Sono tornato più volte in Pennsylvania e in altre regioni dove il fracking si è diffuso come tecnica estrattiva, dal Texas al North Dakota, diventando in breve tempo uno dei principali nemici dell’ambientalismo Usa, insieme ai grandi oleodotti e gasdotti necessari a sostenere questo boom. Cabot Oil and Gas, che ha sempre rifiutato di rilasciare un’intervista all’autore, a eccezione di una breve dichiarazione per email nel 2009, ha sempre evitato di assumersi la piena responsabilità dell’accaduto. Tornando nel 2017 a Dimock per vedere cosa fosse cambiato, trovai le case ancora circondate da cartelli con la scritta «Fermate il fracking» e «Ridateci la nostra acqua». Parlando con gli abitanti di Carter Road ho rivissuto una scena familiare, già vista in altri paesi del mondo, durante gli anni da inviato specializzato in ambiente e sviluppo: il senso di disperazione per la sottrazione della linfa vitale, l’acqua. Serva essa a lavarsi, a bere, per l’agricoltura, per il bestiame o anche solo per giocare, nella nostra quotidianità diamo per scontata la presenza dell’H 2 O, particella chimica fondamentale per la nostra esistenza. Quando esce dal rubinetto, quando scorre nel torrente vicino a casa, dalla fontana dei giardini o dallo scarico del water. È scontato trovarla al supermercato o nel pozzo artesiano in giardino. È sempre controllata, disponibile, pronta per noi. Chi ha meno di vent’anni ed è cresciuto in un paese industrializzato, molto probabilmente non ha mai esperito quella sensazione di privazione. L’acqua è un diritto e una necessità che precede qualsiasi altro diritto e necessità. Si dice che si possa rimanere nel deserto senza mangiare per due settimane. Eppure, con ventiquattro ore senz’acqua le speranze di

vita si riducono al minimo. La bocca si secca, la ptialina si stampa sulle gengive, la gola diventa stretta, soffocando quasi il respiro. Il cervello perde lucidità. La sete acuta è un’esperienza terribile. Non importa che si tratti degli operai e dei pensionati di uno dei paesi più ricchi al mondo o di agricoltori del bacino dell’Omo, di pastori sudafricani o di pescatori vietnamiti. Il senso di disperazione e preoccupazione, la rabbia, l’impotenza nei loro occhi è la stessa. La sete di un uomo rimasto senz’acqua per sé, per l’agricoltura, per il suo bestiame, è un urlo silenzioso. Le chiare, fresche e dolci acque cantate dal Petrarca sono l’elemento fondamentale, per noi e per tutti i regni naturali, elemento di purificazione e di prosperità. Per molti poeti è un elemento ultraterreno, vista la sua centralità nella produzione della vita. Essa è divinità, è bios , è ordine. Crisi sistemica Nel corso di dieci anni in giro per il mondo, entrambi gli autori di questo libro abbiamo accumulato decine di storie come quella della Pennsylvania, storie di ingiustizia, di spreco, di cattiva gestione, di sopraffazione e strapotere, di stupidità e avidità umana. Tutte storie riconducibili all’accaparramento idrico. Dalla guerra delle dighe sul Mekong alla privatizzazione in Bolivia, dalla crisi idrica californiana al depauperamento delle riserve idriche italiane, dalla contaminazione del Golfo del Messico durante l’incidente della Deepwater Horizon all’accaparramento dell’acqua da parte dell’industria del carbone in Sudafrica. Reportage dopo reportage, si è palesato in maniera sempre più consistente un tema di geopolitica spesso troppo trascurato: il controllo delle risorse idriche. Le guerre del XXI secolo si stanno già combattendo per l’acqua, e la lotta per l’accaparramento del petrolio blu diventerà il leitmotiv di innumerevoli tensioni politiche, che si riproporranno ogni estate, ogni stagione secca, in tante aree geografiche del pianeta, spesso simultaneamente. Si trova poco tra le pagine dei giornali, e i libri in biblioteca scarseggiano. Eppure quella dell’acqua è ormai una crisi sistemica: il superamento di uno dei nove limiti del pianeta raccontati

dall’ecologista Johan Rockstöm e dallo Stockholm Resilience Center. 8 L’acqua è scarsa e tutti hanno iniziato la corsa per accaparrarsela. Questo libro vuole essere una testimonianza che mette insieme scienza e indagine giornalistica, storie di esseri umani e grandi scenari internazionali. Un tentativo di documentare una grande trasformazione politica, sociale e ambientale. Un allarme: siamo entrati nell’era del water grabbing. Un neologismo utile Con l’espressione neologistica water grabbing , «accaparramento dell’acqua», ci si riferisce a situazioni in cui attori potenti sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o intere nazioni, la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse e quegli 9 stessi ecosistemi che sono depredati. Gli effetti dell’accaparramento sono devastanti. Famiglie scacciate dai loro villaggi per fare spazio a megadighe, privatizzazione delle fonti, controllo forzato per progetti di agrobusiness di larga scala, inquinamento dell’acqua per scopi industriali che beneficiano pochi e danneggiano gli ecosistemi, controllo delle fonti idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo. Nel cosiddetto Sud nel mondo, ma anche in alcuni paesi industrializzati, da bene comune liberamente accessibile l’acqua si trasforma in bene privato o controllato da chi detiene il potere. Sotto la spinta della domanda crescente, dovuta all’aumento di popolazione e alla crescita industriale dei paesi in via di sviluppo e sotto la morsa del cambiamento climatico, sempre più visibile nella quotidianità, l’acqua diventa fonte di conflitto, bene scarso che è fondamentale accaparrarsi a spese del vicino, a discapito anche di donne e bambine che si occupano della sua raccolta giornaliera sottraendo tempo all’istruzione e al lavoro. La geografia del water grabbing interessa ampie fasce del pianeta, le zone equatoriali, i grandi bacini idrici dell’Asia, il Medio Oriente, l’America meridionale, l’area mediterranea, le zone desertiche di America settentrionale e Australia.

Oggi abitiamo un mondo dove sempre più abitanti anelano a un benessere diffuso, fondato sulla tradizionale economia lineare «estrai-consuma-dismetti». Abbiamo lavastoviglie, robot, automobili, consumiamo frutta esotica e carni in abbondanza, ci nutriamo di superfood come la quinoa o le bacche di goji senza sapere realmente quali sono gli impatti complessi di questo stile di vita. Inneggiamo al veganesimo od osanniamo i biocarburanti, ma non sempre comprendiamo l’eterogenesi degli effetti dei consumi di massa, anche quando sembrano virtuosi, come nel caso del consumo di soia o della quinoa. 10 In ogni caso, abbiamo adottato a modello uno stile di vita che richiede un grande impiego di questa risorsa vitale, fondamentale per ogni ambito della nostra esistenza, dall’agricoltura alla vita domestica, dal divertimento all’allevamento. La civiltà umana si è estesa in deserti, un tempo inabitati, controllando l’acqua, arrivando a costruire città come Dubai o Las Vegas, in luoghi considerati inospitali, grazie all’ingegneria idrica, coltivando non grani poveri ma rigogliosi alberi da frutto e vegetali, un tempo rintracciabili solo nelle grandi pianure lacustri. Con l’avvento della diffusione dell’acqua per uso sanitario si è ridotto grandemente il numero di malattie e batteri nelle aree urbane, sostenendo così un allungamento della vita media e un generale miglioramento della qualità della vita degli esseri umani. Per il benessere e la salute abbiamo realizzato fognature di cui si hanno le prime tracce nella capitale assira di Ninive e nella Roma di Tarquinio Prisco (che costruì la Cloaca maxima ) e che poi si diffondono con la nascita delle grandi città europee nel XVII secolo. Le condotte idrauliche sono la più importante invenzione ingegneristica dell’uomo. 11 Altro che il motore o il telefono. L’ingegneria idraulica ha permesso alle città e ai territori antropizzati di essere un corpo in grado di modificare le proprie arterie – avete mai pensato ai fiumi come i vasi sanguigni del pianeta, di cui l’acqua è linfa vitale? – e di strutturare la propria esistenza controllando il regime dell’acqua, domandola e ponendola sotto il proprio controllo. L’uomo è diventato sapiens imbrigliando l’acqua, piegandola al suo volere, domandola per il suo benessere. Oggi, popolazioni locali, governi regionali e nazionali, industrie e multinazionali sentono che questo controllo diffuso e condiviso, dato

dalla sovrabbondanza della risorsa, si sta dissipando. Dietro la scarsità si celano tre macrofenomeni: forte impennata demografica, cambiamento climatico, crescita dei consumi, in particolar modo quelli alimentari. La sicurezza dell’«acqua facile» viene meno, ci riempie di dubbi e di paure. Da bene pubblico e comune lo si vuole trasformare, in quanto scarso, in merce, assegnandogli un prezzo variabile stabilito dal mercato. E a fronte di questo nuovo mondo fondato sulla scarsità, invece che trovare strategie condivise, transnazionali, non rimane che accanirsi per controllare le risorse idriche e sottometterle al proprio favore. Gli attori che vedono il mondo in quest’ottica di appropriazione sono tanti e molteplici: i governi, le imprese senza scrupoli, la finanza. Colpevole anche l’ignavia di chi non vuole vedere e agire. Così, chiunque – quando si disinteressa della provenienza dell’acqua necessaria a ogni ambito della sua vita – diviene inconsapevolmente partecipe del water grabbing. L’acqua sul pianeta sta diventando sempre più scarsa La Terra vista dallo spazio – si pensi alla famosa foto dell’astronauta Nasa dell’Apollo 17 , Eugene A. Cernan – è un’affascinante sfera marmorea blu. Il pianeta Terra è ricoperto da 1.390 milioni di chilometri cubici d’acqua, di cui il 97,5% salata, presente nei mari e negli oceani. Solo il 2,5% di essa è dolce, in gran parte sotto forma di ghiaccio nelle calotte polari. Gli esseri umani ne hanno a disposizione solo 93.000 chilometri cubici, pari a circa lo 0,5% del totale. Di quest’acqua, solo una parte è potabile o non contaminata, spesso distribuita in maniera diseguale tra aree del pianeta. 12 Gran parte dell’acqua è disponibile in regioni poco densamente abitate come il bacino del Rio delle Amazzoni, le foreste settentrionali del Canada, la Groenlandia e l’Alaska. Le grandi pianure della Pampa, dell’Indo, le città costiere del Mediterraneo e del Mar Cinese, caratterizzate da una densità di popolazione elevatissima, sono sfornite di accessi garantiti a risorse consistenti. E anche dove ci sarebbe abbondanza per tutti, l’uomo spesso limita l’accesso e il diritto all’acqua ai suoi simili per ragioni politiche o commerciali.

Quando un bene primario scarseggia, la tensione politica tende ad aumentare. La fiducia nei confronti del vicino viene meno. L’istinto di preservazione e l’interesse economico particolare, che sia di un individuo, di un’impresa o di una nazione, prende il sopravvento sulla ragione. Eppure l’acqua non ha frontiere, geograficamente è un fenomeno globale, e come tale deve essere affrontata, in maniera sinergica e transnazionale. Ma la natura dell’uomo non è squisitamente cooperativa. Ancora pratica un’alterità, distinguendo in base alla pelle, al passaporto, al credo e alla cultura. La territorialità rimane un elemento determinante, sancito dalle frontiere geografiche tra gli stati e dall’impossibilità storica di riconoscerci come facenti tutti parte di un’unica specie, quella umana, su un unico pianeta, la Terra. Lo sguardo geografico Per comprendere meglio il fenomeno di accaparramento dell’acqua bisogna fare una classica operazione da geografi (professione in Italia poco riconosciuta, ma fondamentale) e comprendere i macrofenomeni a scala globale che stanno trasformando il pianeta e riducendo la disponibilità idrica locale. Dobbiamo cercare di collegare in maniera complessa e organica tutti gli elementi del puzzle. Perché, quando si ragiona a scala globale su fenomeni naturali che intersecano quelli antropici, bisogna prepararsi a una dose di mal di testa e tenere sempre pronta una penna per unire tutti i punti di una figura complessa. Cercheremo di semplificare fin dove possibile per accompagnare il lettore. Iniziamo. Con l’aumento dei consumi idrici e della popolazione, la disponibilità pro capite a livello globale è passata dai 9.000 metri cubi d’acqua potabile/anno che erano a disposizione negli anni Novanta ai 7.800 della prima decade del XXI secolo, e si prevede che, nel 2020, scenderà ancora: a poco più di 5.000 metri cubi, circa l’equivalente di due piscine olimpioniche. C’è però un problema di distribuzione a livello planetario. Se in Italia nel 1962 ogni cittadino aveva a disposizione 3.587 metri cubi d’acqua, nel 2018 questa disponibilità è scesa a meno di 3.000. Una riduzione minima, se comparata al Ruanda, passato da 3.114

metri cubi a 837, e alla Siria: da 1463 metri cubi a circa 300. La regione più colpita è l’Asia, che, secondo l’analista indiano Brahma Chellaney, «con tre quinti della popolazione mondiale e il ritmo di crescita più serrato, ha meno acqua dolce di qualsiasi altro continente». 13 Contemporaneamente, nei prossimi vent’anni la domanda di acqua crescerà di circa il 40% rispetto a oggi, con picchi di oltre il 50% nei paesi in via di sviluppo. 14 Ed ecco la prima vertigine data da queste due tendenze discordanti: meno acqua a persona, e un consumo in crescita. Continuiamo. Dal punto di vista sanitario, non ha accesso all’acqua potabile un miliardo di persone, mentre più del doppio non ha accesso a servizi igienico-sanitari di base. Con gravissime conseguenze sulla salute. La diarrea uccide annualmente 1,9 milioni di bambini. 15 Un disastro equivalente a dodici Boeing 747 pieni di passeggeri caduti per incidente. Al giorno. E sebbene lentamente i numeri migliorino – nel 2017 ci sono stati meno morti per igiene, in percentuale, che negli ultimi cento anni –, l’evolversi delle trasformazioni ambientali globali potrebbe invertire questo trend positivo e già offre importanti avvisaglie, di cui il peggioramento dell’Indice della fame nel 2017 è la più eclatante. 16 Per capire questo contesto, fatto di domanda accresciuta e scarsità della materia prima, come un classico dilemma economico, bisogna andare a cercare i fattori globali sotto cui ricondurre il problema. Identificato lo scenario, nei prossimi capitoli vedremo invece, a piccola scala, le molteplici declinazioni che il water grabbing sta prendendo. Fattore demografico Il primo fattore è squisitamente demografico. Dal 1950, quando sulla Terra eravamo meno di 2,5 miliardi, la popolazione ha raggiunto la cifra impressionante di 7,5 miliardi di persone nel 2017, anche se rispetto agli anni Cinquanta il tasso di crescita si è dimezzato. In ogni caso, saremo 9,7 miliardi nel 2050 e 11,2 miliardi alla fine del glorioso XXI secolo (allora il tasso di natalità sarà ai minimi), salvo catastrofi e pandemie. 17 Fino al 2050 l’aumento di popolazione sarà la prima causa di scarsità idrica del pianeta,

superando gli impatti dei cambiamenti climatici con una correlazione diretta e misurabile, per di più predicibile grazie ai modelli probabilistici impiegati dagli studiosi di global change studies , la branca della ricerca che si occupa di trasformazioni complesse a livello globale. 18 L’aumento della popolazione, e di conseguenza dei consumi alimentari, ha visto nel secolo scorso una crescita del consumo idrico di 12,8 volte, un aumento delle aree irrigate di ben sette volte, la perdita di un terzo del suolo arabile negli ultimi quarant’anni. Ciò ha comportato un’alterazione radicale della superficie del pianeta, rendendo antropizzata, cioè modificata dall’uomo, quasi il 50% della sua area, 19 con una riduzione di un quarto delle specie di uccelli e mammiferi (oggi estinti o in via di estinzione). L’aumento di popolazione metterà sotto stress idrico in particolare le megalopoli e le grandi aree urbane. 20 Come successo nel 20142016 a São Paulo, in Brasile, le megalopoli sprovviste di piani di resilienza idrica potranno incorrere nel razionamento prolungato dell’acqua a causa di un’elevata domanda pro capite e di un’elevata concentrazione di consumo. Roma, la capitale d’Italia, nel 2017 ha rischiato un razionamento prolungato a causa di una pessima gestione del bacino del Lago di Bracciano (era sceso di tre metri rispetto allo «zero idrometrico», cioè la quota normale di riferimento) e dell’assenza di un piano di efficientamento di tubature e distribuzione. A essere particolarmente esposte sono le città nelle aree montane, in particolare le Ande, che dipendono esclusivamente dalle acque di superficie. 21 Stesso rischio per tutte le città che dipendono da fonti e bacini lontani – come Los Angeles, alimentata dall’invaso della Hoover Dam in Nevada, sito a oltre duecento chilometri dalle ville di Hollywood. Nei centri urbani dei paesi in via di sviluppo, il numero degli abitanti esposti a una carenza idrica prolungata aumenterà di sette volte, passando dagli attuali 150 milioni di cittadini che faticano ad avere accesso all’acqua per alimentazione e igiene, fino ad oltre un miliardo. Nelle città lo stress sarà dovuto alla pressione demografica e al peggioramento dei consumi – a meno che non si verifichi un fenomeno di ritorno alle campagne come sta accadendo, peraltro, in alcuni paesi europei e in Usa. Minore impatto avranno agenti

esogeni come gli effetti del cambiamento climatico. Fanno eccezione le aree ad altissima vulnerabilità, come Miami, Dacca, Lagos, Los Angeles, Hanoi, New York, Dubai, Venezia, dove gli effetti diretti delle mutazioni ambientali (innalzamento delle acque, siccità prolungata, salinizzazione degli acquiferi) avranno un peso superiore all’effetto demografico, influenzando gravemente la disponibilità idrica e le infrastrutture, costringendo in molti casi alla ricollocazione di ampie fette della popolazione. 22 Ciò detto, a essere impattate saranno soprattutto le zone rurali, dove si pagherà il prezzo più alto del cambiamento climatico a causa della mancanza di risorse per infrastrutture di adattamento e per la priorità data ai centri urbani e periurbani. Fattore anidride carbonica La seconda causa viene da un nemico invisibile: l’eccessivo accumulo di anidride carbonica (CO2 ) nell’atmosfera. Oggi abbiamo superato la soglia delle 400 parti per milione di anidride carbonica, 23 un limite mai sorpassato da centinaia di migliaia di anni, raggiunto in soli 150 anni di emissioni di gas climalteranti legate all’ampio sfruttamento di combustibili fossili, come petrolio, gas e carbone. 24 Quando oggi parliamo di acqua, non possiamo non considerare le complesse dinamiche del cambiamento climatico che la scienza continua ad affinare con modelli e studi sempre più accurati, e soprattutto dettagliati. Se fino a pochi anni fa i modelli predittivi avevano una risoluzione geografica molto elevata (macroaree), oggi sempre di più si arriva a definire a livello locale impatti e trasformazioni potenziali in ogni ambito, dall’acidificazione dei mari alle temperature medie, dall’innalzamento delle acque all’uso del suolo. I dati mostrano, innegabilmente, una variazione epocale del clima, che avrà come principali conseguenze l’aumento delle temperature medie, la trasformazione dei fenomeni meteorologici riguardanti piovosità e innevamento, e una variazione dell’acidità dei suoli e degli oceani. 25 A cascata, queste trasformazioni incideranno sulla biodiversità e sui comportamenti di specie terrestri e marine di piante e animali, muteranno correnti marine e modelli stagionali, trasfigureranno attività economiche e la forma di vari insediamenti

umani, e infine riconfigureranno completamente la disponibilità e i consumi idrici sul medio e lungo termine. 26 Secondo uno studio della Banca Mondiale, gli impatti del cambiamento climatico si manifesteranno innanzitutto attraverso il ciclo dell’acqua, con conseguenze che potrebbero essere grandi e irregolari in tutto il mondo. 27 I rischi climatici correlati all’acqua si manifestano attraverso la sicurezza alimentare, l’energia, l’urbanizzazione e l’ambiente. Data la complessità sia su scala temporale sia geografica, dovuta a un numero elevato di variabili, la sfida dei modellisti per capire con certezza quali fenomeni si verificheranno, dove e quando, è tutt’altro che banale. Rendendo non sempre semplice l’attuazione di politiche di adattamento alle trasformazioni che i cambiamenti climatici ci imporranno. Personalizzate per ogni luogo, per ogni ecosistema, per ogni bioma. 28 Gli strumenti per rallentare gli effetti del cambiamento climatico sono molteplici e anche in questo caso multiscalari. A livello internazionale, lo strumento chiave è l’Accordo di Parigi, il principale documento, nel suo genere, sul clima, firmato nel 2015 da 196 paesi e che chiede agli stati firmatari di limitare il riscaldamento globale «ben al di sotto» dei 2 ºC. Si applicherà dal 2020, con l’obiettivo a lungo termine di proseguire gli sforzi per limitare il riscaldamento a 1,5 °C. Per fare ciò, i paesi sottoscrittori hanno presentato piani d’azione nazionali in materia di clima finalizzati a ridurre le rispettive emissioni, piani che dovranno essere aggiornati ogni cinque anni. La Ue e gli altri paesi sviluppati forniranno finanziamenti (definiti «finanza climatica») per aiutare i paesi in via di sviluppo sia a ridurre le emissioni sia a diventare più resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici. 29 Eppure, a tre anni di distanza dalle grandi celebrazioni dell’Accordo di Parigi, tra i selfie di Arnold Schwarzenegger e le occhiaie dei delegati per le interminabili negoziazioni, analizzando le traiettorie di sviluppo del pianeta, la direzione intrapresa non è ancora sufficiente. Durante la Conferenza di Bonn del 2017, 30 la sensazione diffusa dei delegati, corroborata dal dietrofront degli Stati Uniti voluto da un presidente che nega l’esistenza stessa del fenomeno scientifico, era quella di un ritardo pazzesco sulla tabella di marcia ideale per salvare il pianeta. Altro che due gradi: le chance che l’aumento di

temperatura del pianeta rientri in questo limite sono del 5%. L’obiettivo di non superare il grado e mezzo ha una probabilità di essere raggiunto irrisoria: appena l’1%. L’ipotesi realistica, secondo il modello elaborato dall’Università di Washington, è che l’aumento si attesti attorno ai 3,2 gradi. 31 In ogni caso, anche agendo con rapidità, limitando l’uso di fonti fossili come petrolio e carbone, molti degli effetti in corso avranno comunque impatti importanti. 32 Da qui al 2100 l’intensità di anidride carbonica (le emissioni collegate ai consumi pari a un punto di prodotto interno lordo) continuerà a scendere grazie alla crescita delle energie rinnovabili, auto elettriche e risparmio energetico (attorno agli anni Duemila ha iniziato a rallentare nella maggior parte dei paesi del mondo) ma non abbastanza da invertire la rotta. Il Pil mondiale salirà, secondo le stime, dell’1,8% l’anno, l’intensità di anidride carbonica calerà presumibilmente dell’1,9%. Mentre questi due effetti tenderanno ad annullarsi a vicenda, la popolazione continuerà a crescere, spingendo in maniera irrimediabile sui confini planetari, vanificando ogni sforzo. Tra gli effetti più allarmanti del cambiamento del clima, il primo e più importante è la trasformazione del ciclo dell’acqua e dei fenomeni meteo. Siccità, inondazioni e alterazioni nel regime pluviale renderanno più difficile alimentare fiumi e ricaricare le falde acquifere. Sarà minore l’innevamento mentre – e lo vedremo meglio nel capitolo 3 – si scioglieranno ghiacciai, permafrost e calotte polari. L’aumento di temperatura avrà conseguenze rilevanti nei consumi idrici legati all’agricoltura: maggiore il caldo, più alto sarà il prelievo idrico necessario, maggiore sarà la richiesta di energia per raffrescamento e pompe idriche, con conseguente maggiore consumo di acqua per le centrali termoelettriche idrovore, lasciando invece meno acqua per gli impianti idroelettrici, che dovranno essere sacrificati per sostenere l’agricoltura. Infine l’innalzamento del livello dei mari, legato allo scioglimento dei ghiacci, darà luogo a fenomeni di subsidenza e di infiltrazione dell’acqua salata nelle falde acquifere più vicine alla costa, come sta già accadendo in Bangladesh, a cui dedicheremo un approfondimento nel capitolo seguente.

Impronta idrica Il terzo macrofenomeno da analizzare è l’impatto id rico degli abitanti del pianeta, ovvero la quantità di acqua dolce utilizzata nella produzione di alimenti e beni consumati e quella usata per uso igienico e personale. Nel mondo occidentale il consumo idrico pro capite è cresciuto a dismisura. Un cittadino americano utilizza 1.280 metri cubi all’anno, un europeo circa 700. Solo nei paesi meno sviluppati è crollato. Un africano consuma in media appena 185 metri cubi. Nel Sahel le famiglie consumano anche meno di 10 litri di acqua al giorno. Se paesi come Usa e Ue devono adottare comportamenti più ecosostenibili da un punto di vista idrico, preoccupa l’aumento nei paesi di nuova industrializzazione. In Cina la domanda di acqua è cresciuta da 550 miliardi di metri cubi (di cui 114 per l’industria) a 657 (di cui quasi un terzo per la produzione industriale) e raggiungerà quota 743 miliardi nel 2020. 33 La National Development and Reform Commission cinese, l’organo governativo che sovraintende allo sviluppo della nazione, a inizio 2017 si è data come obiettivo di limitare a 670 miliardi di metri cubici fino al 2020. 34 Un annuncio repentino e inatteso che ha mostrato il timore del governo cinese di non riuscire a coprire la gigantesca domanda. Scarsità vuol dire instabilità, e la parola instabilità terrorizza il Partito comunista e il suo leader Xi Jinping. Numerose zone critiche del paese sono affette da scarsità idrica. 35 Attualmente, undici province su trentuno sono sotto questa soglia, con la capitale, Pechino, che ha a disposizione per i suoi abitanti solo 145 metri cubi e deve ricorrere continuamente a misure di emergenza. Dietro le cifre ci sono comportamenti familiari. La scelta tra vegetali e carne, il tipo di energia impiegata, la doccia, la piscina, i tessuti dei vestiti. A livello mondiale il 70% dell’acqua è usato per nutrirci (agricoltura e allevamento), il 22% per produrre materia e oggetti, mentre all’uso domestico è riservato il restante 8%. 36 Scegliere tra la carne di pollo e quella di vitello, tra le mandorle, il mango e il melone, tra il latte di soia e il latte di vacca (spoiler alert: il primo è molto più impattante!) spesso fa una differenza radicale sul consumo d’acqua di ciascuno. 37 Quando si va al supermercato, s’ignora quanta acqua è stata necessaria per produrre gli alimenti che tutti i

giorni sono sulla tavola. Non nascondiamoci dietro un dito: il nostro modo di mangiare e di consumare è alla base del forte squilibrio idrico del pianeta. L’obesità oggi interessa ben 600 milioni di persone. Oltre due miliardi sono in sovrappeso. Ben quarantuno milioni sono bambini con meno di 5 anni. 38 Un sovraconsumo d’acqua non necessario, che potrebbe benissimo essere evitato, come vedremo nel capitolo 4. Lo sguardo economico Sarà il XXI secolo davvero il secolo del water grabbing? La tesi di questo libro è dimostrare come una serie di indicatori e di fenomeni rivelino un crescente interesse economico e politico intorno a una risorsa naturale strategica a molteplici livelli, interessando lo scacchiere internazionale e le piazze affari. Questa complessa interazione di interessi va a configurare una serie di hot spot dove il tema idrico diventerà un elemento conteso tra diversi attori politici ed economici, siano essi regioni, stati o grandi corporation. Secondo le Nazioni Unite, il 47% della popolazione vivrà entro il 2030 in aree a elevato stress idrico, con una conseguente competizione sia intraurbana sia intraregionale e internazionale per ottenere il controllo sulla risorsa. 39 Per gli attori politici ed economici che hanno interesse a tutelare le fonti di approvvigionamento idrico per i propri affari – agrobusiness, industria del beverage , società di servizi, amministrazioni centrali –, i prossimi anni saranno critici per acquisire fonti, ottenere permessi di estrazione a lungo termine e realizzare infrastrutture necessarie di resilienza produttiva. Anche ad ogni costo, adottando tattiche scorrette o vere e proprie pratiche di accaparramento, non disdegnando interventi politici e militari. È stato così anche per il petrolio, sebbene le guerre per l’oro nero sembrino un lontano ricordo, nonostante le ferite ancora aperte in Medio Oriente. Vale la pena, però, di ricordare che il petrolio ha ben due sostituti fossili e una serie di fonti rinnovabili che lo possono rendere superfluo, o quantomeno non primario. Ad oggi, l’acqua non ha nessun sostituto, né organico né sintetico.

Gli appetiti economici su questa materia prima crescono di anno in anno. Basta vedere l’insano mercato dell’acqua in bottiglia per capire gli interessi privati: questo bene comune nel 2015 è stato confezionato e venduto per un totale di 170 miliardi di dollari. 40 Il valore globale del mercato raggiungerà con buona probabilità i 250 miliardi di euro l’anno entro il 2020, crescendo annualmente del 10%, guidato soprattutto dal Nord America e da alcuni paesi europei come l’Italia e la Gran Bretagna, che da sola spende 3 miliardi di euro per sorseggiare acqua minerale o purificata. 41 Un litro d’acqua in bottiglia purificata di bassa qualità (niente fonti alpine oligominerali) costa circa 560 volte più dell’acqua del rubinetto. 42 La cosa più ironica è che spesso si tratta della stessa che esce dal rubinetto. Basta entrare nel market di una qualsiasi area di servizio americana e prendere una bottiglia d’acqua marchio Aquafina, una sussidiaria di PepsiCo, per scoprire che non si acquista nemmeno acqua di fonte oligominerale: sull’etichetta, ovviamente in caratteri piccolissimi, si può trovare la scritta «acqua pubblica imbottigliata». La legge obbliga le compagnie a dire quando s’imbottiglia la stessa «acqua del sindaco». Ma nessuno se ne accorge, grazie a caratteri di stampa con dimensioni vicine allo zero, e il business dell’acqua lievita ogni anno. Intanto, brand sempre più cool e sofisticati si affacciano sul mercato, dall’acqua con vitamine a quella aromatizzata, da quella proveniente da fonti esotiche a quella con la bottiglia di design. Come Fiji Water, che importa acqua dalle isole Figi, o l’acqua Hint, all’aroma di cetriolo, «che aiuta a dimagrire», o l’oligominerale leggermente frizzante romana Nepi, fino alla francesissima Evian, venduta come «l’acqua delle modelle», oppure la ricercatissima acqua cinese Tibet, vendutissima a Pechino, e l’hawaiana Waiakea («imbottigliata in un terroir vulcanico unico»), passando ovviamente per la celeberrima Perrier, la prima brandwater mai creata. E infine la svizzera Nestlé Waters (una divisione di Nestlé Corp.), che da sola detiene 51 brand di acqua in bottiglia, inclusi Panna, San Pellegrino, Deer Park e Nestlé Pure Life, tutti promossi come «la chiave per una vita sana naturale, alternativa alle bibite gassate», come recita il sito di Ibwa, la lobby delle industrie dell’acqua in bottiglia. 43 E via un turbinio di pubblicità con modelle, alpinisti famosi e particelle per promuovere un modello di vita

leggero e orientato al benessere, a patto di consumare acqua in bottiglia. Perché tanto interesse a un marketing così aggressivo? Facciamo un salto in Michigan, Stati Uniti, dove nel 2017 la svizzera Nestlé Water ha firmato uno dei contratti più redditizi di sempre. Secondo la rivista Fortune , Nestlé Water pagherà ogni anno 200 dollari per estrarre 400 milioni di litri l’anno dalla fonte di Evart, Michigan. Insoddisfatta, ha chiesto di aumentare il prelievo d’acqua del 60% senza pagare nessuna quota aggiuntiva, al fine di imbottigliare 4,8 milioni di bottiglie d’acqua al giorno. 44 La compagnia ha dichiarato nel 2016 profitti per 4,5 miliardi nel solo Nord America. Sottraendo acqua pregiata destinata agli abitanti dello stato. Certo, tutto avviene legalmente. Ma soprattutto non pagandola nulla, dato che i residenti come le compagnie non pagano l’acqua prelevata a volume, se estratta con proprie tecnologie, ma solo un irrisorio permesso autorizzativo di estrazione. Non basta. Se per fare il vino serve l’uva, per fare la birra serve soprattutto tantissima acqua. E così per le bibite gassate. Oggi i processi di consolidamento hanno portato alla creazione di megaconglomerati del beverage come il gruppo AB-InBev, CocaCola, Pepsi e Danone. Le due compagnie americane, PepsiCo e Coca-Cola Co, si stima controllino rispettivamente il 20% e il 40% del mercato delle bibite gassate, con una penetrazione nel mercato dell’acqua in bottiglia sempre crescente, vista la ricerca di bevande meno caloriche. 45 In India, Coca-Cola controlla da sola il 95% del mercato dei soft drinks. Per fare mezzo litro di Coca-Cola sono necessari dai 150 ai 300 litri d’acqua, di cui il 99,7% necessario per la produzione, l’imbottigliamento e la distribuzione. 46 Considerando che vengono vendute quasi due miliardi di porzioni da 0,33 litri al giorno, significa che l’impronta idrica complessiva si assesta sui 75 miliardi di litri/giorno, usando una stima molto prudente (150 litri di impronta idrica per mezzo litro di bevanda). AB-InBev, che include il mega colosso SabMiller, acquisito nel 2016 per oltre 110 miliardi di euro, è il maggior produttore di birra al mondo per quantità prodotta, con quasi 45 miliardi di euro di profitti nel 2016. 47 Rappresenta da solo una quota di mercato superiore al 30%, con ben oltre 500 marchi. 48

Quanto pesa in numero di bottiglie di birra il colosso controllato dalla finanziaria brasiliana Capital 3G? Nessuno lo sa con esattezza. La compagnia non ha mai risposto a una richiesta degli autori inviata all’ufficio stampa per la realizzazione di questo libro. Solo in Italia la quasi totalità dei marchi è in mano al gruppo AB-InBev, a eccezione dei microbirrifici e dei brand Forst/Menabrea, Carslberg/Poretti e Pedavena/Castello. Ma AB-InBev punta ancora più in alto. Non solo si vuole espandere controllando anche le microbirrerie di successo, potenziali competitor nella distribuzione. Secondo indiscrezioni, la multinazionale avrebbe come obiettivo, per il 2025, l’assalto direttamente ad Atlanta: acquisire il gruppo Coca-Cola, diventando così il più grande conglomerato di beverage al mondo. I dividendi della scarsità Accanto al mondo delle bevande c’è il segmento delle società di servizi, dette anche utility dell’acqua. Sebbene l’ondata di privatizzazioni che ha interessato gli anni Novanta del secolo scorso stia lentamente decelerando, per molte grandi società l’acqua rimane un business lucrativo. A fare da padroni assoluti per dimensioni sono le due utility francesi Veolia (24,39 miliardi di euro di reddito) e Suez (15 miliardi), seguite da United Utilities (1,9 miliardi di euro) e Thames Water (con solo 670 milioni di euro). 49 La rimunicipalizzazione di tante grandi città – come si leggerà nel capitolo 6 – ha certo rallentato il processo di privatizzazione fortemente voluto da queste utility. Persino Parigi, quartier generale di Veolia e Suez, nel 2014 ha deciso di rimunicipalizzare le società di gestione del servizio idrico integrato. Al posto dei privati sono arrivate società pubbliche come la lombarda Cap e la parigina Eau de Paris. Eppure lo scenario rimane poco definito, con il diritto all’acqua scarsamente applicato. Allargando ancora il campo, gli investitori guardano in particolare, sul lungo termine, all’acqua come un bene rifugio su cui investire, in particolare legato alle infrastrutture per l’agrobusiness. Secondo un report interno di Kleinwort Benson Investors, un noto asset manager con sede a Dublino specializzato in risorse naturali, gli investitori in quote azionarie che stanno cercando operazioni

finanziarie a lungo periodo «devono considerare seriamente di investire in azioni legate ad acqua e agrobusiness. Le performance di queste azioni sono state eccellenti negli ultimi dieci anni, ma – cosa più importante – la domanda crescente di soluzioni per ovviare alla scarsità di questa fonte rimane fortemente salda». Si stima infatti che al 2030 verranno fatti oltre 22.000 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture per soddisfare la crescente necessità d’acqua, la principale spesa infrastrutturale dei prossimi anni. 50 La Fao ha calcolato che nei soli paesi in via di sviluppo saranno necessari oltre 9.200 miliardi di dollari di investimenti per l’agricoltura entro il 2050. Per questa ragione è in crescita il numero di fondi specializzati che offrono un’esposizione diversificata alle azioni legate all’acqua, offrendo cioè molteplici strumenti finanziari, dai collaterali ai futures. 51 La Cina, con il 20% della popolazione e meno del 7% delle risorse idriche mondiali, è la piazza affari dove più che altrove si tratta questo tipo di azioni. Tra gli investitori finanziari citati nel report figurano grandi nomi come Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Citigroup, Ubs, Deutsche Bank, Credit Suisse, Barclays Bank, Blackstone Group, Allianz. 52 In Usa, il magnate e finanziere Thomas Boone Pickens possiede più diritti per l’estrazione idrica di qualsiasi altro americano, con un diritto al prelievo sull’acquifero Ogallala, il più grande del Nord America, per 220 miliardi di litri d’acqua l’anno. Per gli investitori il trend è iniziato ed è uno di quelli di lunga durata. Sono investimenti che si svilupperanno nel lunghissimo periodo, spiega Todd Millay, analista specializzato di Forbes , ma che già oggi attirano l’attenzione di grandi portfolio e vedono importanti opportunità in una molteplicità di segmenti, dalle pompe alle tubature, dalle utility al settore del beverage . Si sa, nel mondo della finanza socialmente irresponsabile, investire in un bene scarso, altamente richiesto, su lungo periodo pagherà dividendi importanti. Lo sguardo politico Se da un lato il mondo corporativo si attrezza facendo investimenti finanziari e di sviluppo, anche la politica guarda alle infrastrutture per l’acqua come una sorta di nuova fortificazione per proteggersi da

possibili siccità prolungate e allo stesso tempo come arma di assalto contro paesi limitrofi. Le grandi infrastrutture idriche diventano una strategia politica di controllo. Dighe, invasi, canali di digressione, sbarramenti, quando posizionati al confine, sono dispositivi di potere. La condivisione di acqua può diventare un ricatto, una leva, così come una strategia per preservare la propria ricchezza idrica a discapito di un altro stato o un’altra regione. Nel 2010 l’Assemblea generale delle Nazioni Uni te ha approvato una risoluzione che garantisce l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari tra i diritti umani fondamentali. La storica risoluzione, su mozione presentata da Evo Morales Ayma, presidente della Bolivia, e da una trentina di altri paesi, sancisce che «l’acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sono un diritto umano essenziale per il pieno godimento del diritto alla vita e di tutti gli altri diritti umani». Eppure oggi questo diritto – sancito anche da papa Francesco del 2015 con l’enciclica Laudato si’ 53 – non è tutelato attivamente dagli stati membri. Così come non viene rispettato il trattato delle Nazioni Unite sulle acque transfrontaliere per mitigare i rischi di conflitto legati all’acqua, firmato, a oggi, solo da 39 stati. Usa e Cina rimangono sordi agli appelli della società civile a supportare il documento legale. Numerose economie in rapida crescita si trovano in condizioni di stress idrico, con il pericolo che ciò possa rallentare lo sviluppo economico, mentre altre economie già sviluppate, come la Spagna, la Corea del Sud e l’Australia, sono esposte gravemente (e totalmente impreparate) a scenari di scarsità idrica. Innumerevoli le aree di frizione di cui parleremo in questo libro: la valle del Nilo e dell’Omo, l’Amu Darya in Asia Centrale, il Tigri-Eufrate, il Mekong, il Brahmaputra, la Colombia, le tensioni tra Palestina e Israele, le continue scaramucce tra Messico e Stati Uniti, o conflitti regionali come quello tra Trentino e Veneto in Italia o tra Utah e Nevada in Usa. La questione del water grabbing però rimane lontana dai grandi tavoli di discussione, così come è successo per il tema del cambiamento climatico, che per oltre trent’anni è rimasto ignorato prima che la comunità internazionale agisse, e con molte incertezze. Ci auguriamo che questo libro sia uno dei tanti tasselli per attivare la

discussione e fomentare sempre di più la ricerca su questo tema. Intanto, buona lettura.

8 Johan Rockström e Mattias Klum, Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari , Edizioni Ambiente, Milano 2015. 9 Jennifer Franco, Timothé Feodoroff, Sylvia Kay, Satoko Kishimoto, Gloria Pracucci, The Global Water Grab. A Primer , Transnational Institute, Amsterdam 2014 (http://bit.ly/2ALunR5). 10 La prima, responsabile di un crescente accaparramento di risorse idriche e di suolo; la seconda, responsabile dello sconvolgimento della sicurezza alimentare delle Ande a causa di una politica dei prezzi scellerata, dettata da un consumo modaiolo nel mondo occidentale. Si veda, per esempio: Emanuele Bompan, «Il boom della quinoa. Buona per la salute, non per le Ande», in Lastampa.it 27/5/2017 (http://bit.ly/2qXzLfi). 11 La Lombardia del Quattrocento disponeva di uno dei reticoli di canali più complessi dell’epoca. 12 Elizabeth Hunt Constance, Thirsty Planet: Strategies for Sustainable Water Management , Zed Books, London 2013. 13 Brahma Chellaney, Water, Peace, and War: Confronting the Global Water Crisis , Rowman & Littlefield, Lanham MD 2015. 14 AA.VV., Charting Our Water Future: Economic frameworks to inform decision-making , McKinsey Report, 2009 (http://bit.ly/2EtfS6I). 15 Michael Farthing, Mohammed A. Salam, Greger Lindberg, Petr Dite, Igor Khalif, Eduardo Salazar-Lindo, Balakrishnan S. Ramakrishna, et al. , «Acute Diarrhea in Adults and Children: A Global Perspective», in Journal of Clinical Gastroenterology 47, n. 1 (1/2013), p. 12. 16 Si veda International Food Policy Research Institute, 2017 Global Hunger Index (http://bit.ly/2CDDbKM). L’Indice della fame è uno strumento multistatistico per descrivere la situazione relativa alla fame nei diversi paesi del mondo. 17 Dati Banca Mondiale 2017. 18 Robert I. McDonald, Pamela Green, Deborah Balk, Balazs M. Fekete, Carmen Revenga, Megan Todd, and Mark Montgomery, «Urban growth, climate change, and freshwater availability», in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America , 108, n. 15 (4/12/2011), pp. 6312-6317. 19 Walter V. Reid, Harold A. Mooney, «The Millennium Ecosystem Assessment: testing the limits of interdisciplinary and multi-scale science», in Current Opinion in Environmental Sustainability , Sustainability science, 19, n. Supplement C (1/4/2016), pp. 40-46 (http://bit.ly/2D1hMyv). 20 W. Buytaert, B. De Bièvre, «Water for cities: The impact of climate change and demographic growth in the tropical Andes», in Water Resources Research 48, n. 8 (1/8/2012; http://bit.ly/2FpozjF). 21 Ibidem . 22 G. Darrel Jenerette, Larissa Larsen, «A global perspective on changing sustainable urban water supplies», in Global and Planetary Change 50, n. 3-4 (1/4/2006), pp. 202-211. 23 Le «Parti per milione» (ppm) sono una unità di misura adimensionale, che indica un rapporto tra quantità misurate omogenee di un milione a uno. In questo caso, dunque, significa che, preso un milione come unità di atmosfera, insieme all’O2 e ad altri gas presenti in atmosfera ci sono 400 parti di CO2 , una quantità tale da potenziare il cosiddetto effetto serra. 24 Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2013: The Physical Science Basis: Working Group I Contribution to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change , Cambridge University Press, 2014. 25 Ibidem . 26 Si veda in proposito anche Amitav Ghosh. La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile , Neri Pozza, Vicenza 2017. 27 World Bank Group, High and Dry: Climate Change, Water, and the Economy , World Bank, Washington DC 2016 (http://bit.ly/2CZQolp). 28 Con il termine bioma s’intende il complesso delle comunità animali e vegetali caratterizzanti una particolare area geografica del pianeta. I biomi vengono definiti in base al tipo di vegetazione dominante e la loro conformazione è relativa a clima, latitudine, altitudine e fenomeni atmosferici. 29 Emanuele Bompan, Sergio Ferraris (a cura di), Il mondo dopo Parigi , Edizioni Ambiente, Milano 2016. 30 Il convivio dell’Unfccc, la Convenzione Quadro Onu sui cambiamenti climatici, riunisce ogni anno tutti gli stati membri. 31 Adrian E. Raftery, Alec Zimmer, Dargan M.W. Frierson, Richard Startz, e Peiran Liu, «Less than 2 °C warming by 2100 Unlikely», in Nature Climate Change 7, n. 9 (1/9/2017), p. 637.

32 Gianni Silvestrini, Due gradi. Innovazioni radicali per vincere la sfida del clima e trasformare l’economia , Edizioni Ambiente, Milano 2016. 33 Dati Fao Aquastat, consultati il 12/9/2017. 34 Jiagui Chen, Macro-control and Economic Development in China , Routledge, London 2016. 35 Per la Banca Mondiale si dà «scarsità idrica» quando la quantità pro capite è inferiore a mille metri cubici. Si veda il report High and Dry , cit. 36 Dati Fao Aquastat, consultati il 12/9/2017. 37 Si veda su http://waterfootprint.org/en /resources/interactive-tools/product-gallery. 38 Dati Faostat, consultati il 12/9/2017. 39 AA.VV., Coping with water scarcity: An action framework for agriculture and food security , Fao Report, 2012. 40 Elizabeth Royte, Bottlemania: Big Business, Local Springs, and the Battle over America’s Drinking Water , Bloomsbury Publishing Usa, New York NY 2011. 41 AA.VV., Bottled Water Market (Still, Carbonated, Flavored, and Functional Bottled Water): Global Industry Perspective, Comprehensive Analysis, and Forecast, 2014-2020 , Zion Market Research, Sarasota FL 2017. 42 Royte, op. cit. 43 Si veda il sito www.bottledwater.org. 44 Si veda Julia Zorthian, «Nestlé Pays Only $200 to Take 130 Million Gallons of Michigan’s Water», in Fortune.com , 1 June 2017 (http://for.tn/2EEAFV6), consultato il 20/11/2017. 45 Si veda J.B. Maverick, «How much of the global beverage industry is controlled by Coca Cola and Pepsi?», in Investopedia , 4 June 2015 (http://bit.ly/2DaR3R6). 46 A. Ertug Ercin, Maite Martinez Aldaya, Arjen Y. Hoekstra, «Corporate Water Footprint Accounting and Impact Assessment: The Case of the Water Footprint of a Sugar-Containing Carbonated Beverage», Water Resources Management 25, n. 2 (1/1/2011), pp. 721-741. 47 Si veda www.ab-inbev.com, consultato il 20/11/2017. 48 Ibidem . 49 I dati finanziari sono rilevati al 2016 dagli annual report delle varie utility. 50 AA.VV., Agribusiness and Water: Compelling Sources of Growth for Global Equity Investor s , Kleinwort Benson Investors, Dublin 2012 (http://bit.ly/2D0SYU9). 51 I due fondi più importanti sono PowerShares Water Resources (sui listini si trova come Pho) e Guggenheim S&P Global Water (Cgw). Questi Etf (acronimo di Exchange Traded Fund, un termine con il quale s’identifica una particolare tipologia di fondo d’investimento) si concentrano su listini in paesi dove l’acqua è particolarmente scarsa, facendone degli investimenti di lungo termine particolarmente appetitosi per gli speculatori. 52 Ibidem . 53 L’enciclica del Papa «sulla cura della casa comune», uscita in vista della Conferenza di Parigi Cop21, ha una sezione dedicata precisamente alla «questione dell’acqua», tema, peraltro, che ritorna frequentemente e con forza lungo l’intero testo. «L’inquinamento dell’acqua colpisce in particolare i più poveri che non hanno la possibilità di comprare acqua imbottigliata, e l’innalzamento del livello del mare colpisce principalmente le popolazioni costiere impoverite che non hanno dove trasferirsi» (n. 48) è solo uno dei numerosi passaggi che si potrebbero citare (testo integrale: http://bit.ly/1d3Et3A).

2. LA GEOGRAFIA IDRICA DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Il mondo non è finito, è finito il mondo per come lo conosciamo – anche se non lo sappiamo ancora. Bill McKibben «Non torneranno mai più. I ghiacciai di questo parco sono destinati a sparire e rimanere un ricordo». Le parole di Sarah Edwards, ventisei anni, lentiggini e scarponi da guida alpina, colpiscono dritto al cuore. I suoi occhi guardano con malinconia – e forse anche una lacrima celata – le montagne intorno a sé, una corona massiccia che incornicia Passo Logan, cuore dell’immenso Glacier National Park. Quassù nel freddo Montana settentrionale, una delle zone più remote degli Stati Uniti, tra valli scavate da colossali mari di ghiaccio, che per migliaia di secoli hanno levigato la pietra e alimentato i bacini delle pianure fertili a nord, est e ovest, lungo le maestose Montagne Rocciose, sembra impossibile che i ghiacciai possano scomparire. Eppure mai nome fu più amaramente ironico di Glacier National Park: parco nazionale dei ghiacciai. Un secolo fa, quando Glacier venne creato, la mappa segnava oltre 150 ghiacciai su una superficie di 4.000 chilometri quadrati. Oggi ne rimangono venticinque. Nel 2030 non ne rimarrà alcuna traccia. «La traiettoria è segnata. La temperatura media della regione dei ghiacciai è di 1,5 gradi superiore alla temperatura media globale», racconta il glaciologo Daniel B. Fagre, ricercatore presso l’United States Geological Survey (Usgs), l’agenzia scientifica del governo statunitense che studia le masse di ghiaccio naturali. Da oltre vent’anni Daniel osserva ogni singolo movimento dei ghiacciai di questi territori, mappando e fotografando con cura ogni mutamento.

Non ci ha potuto accompagnare, ma, durante la visita a Glacier Park, la sua voce al telefono ci ha aiutato a interpretare questa lenta estinzione che per secoli ha caratterizzato le Montagne Rocciose settentrionali. Da Passo Logan, poco più di 2000 metri, nel cuore del Continental Divide, lo spartiacque che divide il bacino dei fiumi che finiscono nell’Oceano Atlantico (e Artico) da quelli che finiscono nel Pacifico, d’estate, fino agli anni Ottanta, le auto facevano la coda per vedere i ghiacciai. Oggi, nonostante la vista spazi a 360 gradi, non se ne avvista nemmeno uno. Tocca parcheggiare la mountain bike e mettersi gli scarponi con i ramponi per cercare di scorgerne uno e scattare qualche foto. «Nell’arco della nostra vita vedremo l’ultimo ghiacciaio sparire», aggiunge mesta la guida mentre in lontananza si vede il lago antistante Grinnell Glacier, uno dei preferiti dei turisti, essendo facilmente raggiungibile. Tiro fuori un documento stampato prima di iniziare l’ascesa. In una foto del 1911 in bianco e nero, il ghiacciaio ricopriva l’intero arco del monte omonimo. Oggi rimane solo un piccolo fazzoletto di ghiaccio. Quando il naturalista George Grinnell nel 1887 giunse su queste alture, descrisse «un mare di ghiaccio di quasi 300 metri di spessore», un gigante capace di togliere il fiato a un americano, che di ghiacciai ne aveva visti pochi. Oggi, al suo posto c’è un lago profondo 65 metri e il ghiaccio rimasto misura solo qualche decina di metri di spessore. L’imputato, per tutti gli scienziati e guide intervistate, è uno solo, il cambiamento climatico di origine antropica, con il suo bagaglio di conseguenze dirette e indirette, dall’aumento delle temperature ai depositi di fuliggine sui ghiacciai che, assorbendo più calore, accelerano i processi di fusione, passando infine per le mutazioni del regime idrico, piovoso e nevoso. «I dati Usgs mostrano che i giorni in cui la temperatura diurna supera i 32 Celsius sono triplicati dall’inizio del Novecento. L’estate dura il doppio di quanto durava un tempo», spiega Daniel Fagre. Quando, qualche giorno dopo, torniamo in cima a Logan Pass, la neve è già fusa: sono gli ultimi giorni di maggio. «Solitamente non ci si arriva prima di fine giugno», dice Sarah, scendendo di sella dalla mountain bike, avvolta nel sole caldo. Intorno a noi, decine di turisti si congratulano per l’ascesa di oltre mille metri sulla strada panoramica, ignorando che l’assenza di

neve, così benedetta per i ciclisti che hanno voluto affrontare la famosa Going-to-the-Sun Road, in realtà è una grave tragedia. Ovunque si osservano laghi e fiumi che placidi scorrono verso valle, un’immagine iconica che richiama decine di film americani. Camminando lungo il sentiero per Iceberg Lake, chia mato così per la presenza di blocchi di ghiaccio al suo interno, numerosi cartelli consigliano di munirsi di spray al peperoncino a lungo raggio, una cautela in caso di attacco da parte di grizzly o orsi neri. È facile avvistare puma o ghiottoni, quasi estinti per anni, nelle zone alpine, in prossimità della linea degli alberi. La fusione dei ghiacci e nuovi modelli climatici, però, stanno mettendo a repentaglio anche la biodiversità, sottraendo loro ecosistemi vitali. «Gli alberi, i pini in particolare (favoriti da temperature più miti), si spingono sempre più in alto, limitando la superficie dei pascoli, fondamentali per le specie animali come la capra delle nevi – racconta Fagre –. La neve invece è fondamentale per specie come i ghiottoni, per costruire i propri rifugi durante l’inverno, o per la lince, che sfrutta la neve come elemento di vantaggio durante la caccia». Emergenza nel Montana Temperature più alte stanno colpendo severamente le foreste dell’intera regione nordamericana. Il fenomeno sta causando un’invasione dello scarabeo del pino, che, grazie all’assenza di gelate, riesce ad avere due cicli di riproduzione invece di uno. Moltiplicandosi a dismisura, ha dato luogo a una piaga che sta devastando il Nord America, dalla Columbia Britannica al Colorado. Anche gli incendi sono alimentati dai cambiamenti climatici. Dappertutto nel parco sono visibili le tracce dei più recenti, e i dati mostrano come siano in aumento per numero e dimensione. Ma l’effetto più grave si sta avendo a valle, con il ciclo dell’acqua. Alle pendici delle Montagne Rocciose settentrionali, gli agricoltori di Montana e Wyoming e Alberta temono la siccità per la prima volta da quando l’uomo abita queste terre remote, un tempo attraversate dalle gloriose tribù native dei Piedi Neri e dei Dakota. L’aumento delle temperature ha cambiato il sistema di equilibrio idrico. Per Fagre il dato è certificato dalle ricerche dell’Usgs:

«Abbiamo meno neve in inverno, mentre si fonde con trenta giorni in anticipo, esponendo il ghiaccio ai raggi solari per un periodo prolungato. Questo ha conseguenze importanti sulla sicurezza idrica e su varie forme di vita alpine». Durante la visita nella regione, nel giugno 2017, è arrivata una notizia preoccupante: il governatore del Montana, Steve Bullock, dichiarava lo stato di emergenza nel quadrante nord-orientale, la prima volta nella storia dello stato nordamericano. 54 Durante una breve e affollata conferenza stampa, Bullock ha dichiarato che un mix di piogge limitate e fiumi privi d’acqua a causa di un inverno povero di neve hanno costretto lo stato, notoriamente ricchissimo d’acqua, ad attivare misure di emergenza per tutelare i coltivatori d’avena, grano e barbabietola da zucchero. La situazione si è presto estesa anche al Dakota del Nord, colpendo sia gli allevatori sia le operazioni di estrazione di petrolio da scisti argillosi (shale oil), considerato una delle fonti di energia più inquinanti del pianeta, viste le ingenti quantità di energia e acqua che esso richiede per essere estratto. Il 2020 è vicino Il cambiamento climatico è dunque una causa complessa del water grabbing, dove non è semplice né facile determinare gli agenti causali. Indubbiamente alla base del cambiamento c’è il settore energetico, in pratica l’industria petrolifera, che per anni ha fatto pressione per contrastare la scienza climatica. ExxonMobil – il gigante petrolifero americano – avrebbe ingannato per quattro decenni l’opinione pubblica sui rischi legati ai cambiamenti climatici; 55 mentre uno studio del 1968 dell’American Petroil Institute (Api) aveva già trovato una correlazione tra combustibili fossili e aumento della temperatura. 56 Oggi la scienza è chiara: le emissioni di gas climalteranti come anidride carbonica e metano sono alla base di una trasformazione delle temperature, dei regimi piovosi e nevosi, di un aumento della siccità e dell’acidificazione degli oceani, con una serie di diramazioni che vanno dalla perdita di biodiversità animale alla messa a rischio della sicurezza globale alimentare. A pagare le principali conseguenze sarà la geografia idrica del pianeta, scompigliando una

stabilità dei cicli rimasta inalterata per oltre undicimila anni. Gli effetti più palesi e violenti del cambiamento climatico sulla nostra quotidianità si scateneranno sotto forma di siccità, di tempeste, di innalzamento delle acque, di allagamenti, di salinizzazione delle falde acquifere. Dall’acqua sottratta all’agricoltura del Mekong a quella che ha allagato e continuerà ad allagare le ville di Miami, dalla siccità temuta dagli agricoltori del Veneto o dagli intoccabili del Bangladesh, i cambiamenti climatici sono a pieno titolo una delle cause madri del water grabbing. Si potrebbe anzi affermare che il cambiamento è il più grosso agente di appropriamento idrico al mondo. E rimane poco tempo per mitigare gli effetti del clima sulla geografia idrica. Dall’inizio del 2018 rimangono solo seicento giorni per invertire la rotta delle emissioni, sostiene un articolo di Nature scritto, tra gli altri, da Christiana Figueres (ex segretario della Convenzione Quadro Onu sui cambiamenti climatici), dal fisico Hans Joachim Schellnhuber e dal direttore dello Stockholm Resilience Centre, Johan Rockström. 57 Il 2020 sarà un anno cruciale per invertire il modello di industrializzazione e di consumo del pianeta, quando sarà validato per la prima volta il meccanismo sul clima dell ’Accordo di Parigi e si potrà capire se il mondo sta agendo o le emissioni continuano a salire. Il lungo addio dei ghiacci eterni L’ultima roccaforte della sfera del freddo era l’Antartide, dove fino a pochi anni fa sembrava prevalere una situazione bilanciata. Eppure, perfino nel più freddo e remoto dei continenti il cambiamento climatico sta lasciando l’impronta. Studi recenti hanno dimostrato come i ghiacciai dell’Antartide occidentale stiano perdendo spessore, assottigliandosi anche di diversi metri l’anno: in un decennio è raddoppiata la velocità di scorrimento verso il mare. 58 Se l’insieme dei ghiacci dell’Antartide occidentale subisse un collasso, ci sarebbe un aumento di cinque metri del livello del mare. La notizia del 2017 del distacco dell’immenso iceberg A68, dalla piattaforma di ghiaccio antartica Larsen C, un colosso di circa 1.000 miliardi di tonnellate con una superficie di 5.800 chilometri quadrati e uno

spessore di 200 metri, è una delle tante prove 59 che mostrano come l’eventualità di modificare il livello del mare in maniera significativa (tra 0,2 e 0,5 metri) sia «altamente probabile». 60 Stessa sorte per l’Artico. L’estensione dei ghiacci del Polo Nord ha raggiunto un nuovo record negativo invernale a inizio marzo 2017: solo 14,4 milioni di chilometri quadrati, l’estensione minima da trentotto anni a questa parte, da quando avvengono le rilevazioni satellitari. Le temperature sono salite di oltre 2,5 gradi sopra le medie. 61 L’estate artica è sempre più lunga e calda, mentre la calotta invernale fatica a ricrearsi. La brutta notizia è che il ritiro dei ghiacci aprirà inoltre la strada allo sfruttamento degli idrocarburi del Mar Glaciale Artico. Un’eventualità da scongiurare. Miami Beach, Florida, nota per le sue ville sfarzose e uno stile di vita tutt’altro che sostenibile, a prima vista sembrerebbe essere a rischio di nulla, se non di un eccesso di bella vita. Nemmeno per quanto concerne la sicurezza idrica, visti i 12 miliardi di euro di investimenti messi a budget per i prossimi vent’anni per ammodernare gli impianti idrici e i depuratori urbani. La città non è prossima ad aree montuose a rischio fusione dei ghiacciai e l’aumento di temperature medie legate al cambiamento climatico è notevolmente sotto la media nordamericana. Eppure, durante una visita nell’aprile 2017 in Florida, detta il «Sun State», è emersa una cruda verità: Miami rischia di diventare la prima metropoli occidentale a finire sotto l’acqua. I suoi edifici art déco, gli splendidi ristoranti italiani e cubani, gli hotel di gran stile come l’Eden Roc, stanno letteralmente affondando. Un disastro climatico che colpirà persino il gargantuesco resort di Donald Trump (da sempre un climascettico). Mar-a-Lago, un castello da 21 milioni di dollari, potrebbe finire entro il 2100 sotto un metro e mezzo d’acqua. Ciononostante, Trump ha deciso di tagliare 73 milioni di dollari dallo studio sulla protezione delle comunità costiere dagli impatti dei cambiamenti climatici. Miami. Oppure Singapore, Venezia… Ogni anno l’acqua lungo le spiagge di Miami sale di quasi un centimetro (il triplo dell’innalzamento medio globale delle acque) e,

con l’accelerazione della fusione della calotta artica, secondo le proiezioni si potrebbe arrivare a 1,8 metri d’innalzamento e a una fortissima esposizione a eventi catastrofici durante tempeste ed uragani. 62 Fenomeni già non infrequenti in quella regione, come ricordano le immagini dell’uragano del 1926, il più devastante della storia della città, o quelle recenti di Irma, nel 2017. «Ogni volta che si abbattono sulla città, tifoni del genere possono creare danni elevati. In futuro, senza precauzioni gli effetti potrebbero essere inimmaginabili», spiega Susanne Torriente, capo dei progetti di resilienza urbana della città di Miami. Chiacchierando con alcuni clienti di uno Starbucks di South Point Beach si incontrano subito cittadini preoccupati per gli scenari futuri della città. «Gli impatti del cambiamento climatico sono reali, noi ne siamo testimoni», spiega George Buff, un pensionato che abita nei pressi dell’Oleata River State Park, a nord della città, che ha recentemente investito oltre 40.000 dollari per rafforzare il suo sistema di tubazioni al fine di evitare infiltrazioni. «Chi ha qualche soldo oggi lo investe per mettere in sicurezza le case dal mare che avanza – racconta –. Basta un’alta marea un po’ fuori dalla norma, una tempesta tropicale o qualche mareggiata, e gli angoli delle strade si allagano». Come lui, decine di persone si stanno preparando in anticipo. Negli ultimi anni, sempre più spesso, i pompieri sono dovuti intervenire nei quartieri più vicini alla costa, tra Collins Avenue e Biscayne Boulevard, per gli allagamenti dopo un’alta marea o piogge particolarmente intense. Su YouTube spopolano i video di Suv sommersi, di garage intasati dall’acqua marina, di fondamenta di palazzine a due piani in finto art déco rovinate dalle infiltrazioni di acqua salmastra. A rischio, però, è soprattutto la sicurezza idrica della regione. L’acquifero Biscayne – da cui gran parte del sud-est della Florida preleva acqua potabile – è sempre più esposto all’intrusione di acqua salata in falda. Biscayne è un acquifero non confinato, o a superficie libera, di oltre 10.000 chilometri quadrati, delimitato solo inferiormente da uno strato di terreno impermeabile. Per questo le sue caratteristiche idrodinamiche sono condizionate esclusivamente dalla pressione atmosferica, fatto che lo rende esposto alle variazioni di pressione interne e a fattori esogeni, come le infiltrazioni

di acqua salata. E l’innalzamento del livello del mare rende questo pericolo una realtà concreta. Se Biscayne dovesse contaminarsi, l’unica soluzione sarebbero grandi potabilizzatori energivori e investimenti in infrastrutture da decine di miliardi di euro. Miami Beach sta provando a reagire. «Abbiamo creato un grande progetto, investendo 400 milioni di dollari – spiega Torriente –. Stiamo elevando le strade, dotando ogni via di pompe automatiche per drenare il sottosuolo di Miami, abbiamo rafforzato le dighe foranee per quasi 100 chilometri lungo la costa. La città deve reagire e intervenire con forza, altrimenti c’è il rischio di mettere in pericolo la popolazione». Da New York a Singapore, da Venezia a Chittagong, le aree potenzialmente colpite sono tantissime. 63 In Europa, un terzo della popolazione vive a 50 chilometri dalle coste, con l’Italia in prima fila tra le aree più esposte. Uno studio di Quaternary Science Reviews , che analizza i livelli del mare previsti per il 2100, registra quattro aree italiane a rischio: il Nord Adriatico, il Golfo di Taranto, il Golfo di Oristano e di Cagliari, la Piana di Fondi (Latina). In base alle previsioni, l’Italia di fine secolo sarà una penisola decisamente diversa da quella rappresentata dalle mappe, con fino a 5.500 chilometri quadrati di pianure costiere ormai sommersi. 64 Certo al fatto compiuto mancano ottanta anni. Eppure già da trentacinque conosciamo l’esistenza del cambiamento climatico, e ancora poco si muove. La neve, il ghiaccio e la pioggia, il serbatoio d’acqua che ogni anno si rinnova(va) In ogni storia o reportage che si scrive sul cambiamento climatico i ghiacciai si sono sempre rivelati essere l’elemento più visibile, la cartina di tornasole esplicita che ci fa dire «sta succedendo davvero». Eppure è un fenomeno con cui i lettori empatizzano, specie coloro che vivono vicino alle montagne. Le valli del Nepal prive di ghiacciai e di neve, visitate durante un lungo tour nella regione del Dolpo, nel nord-ovest del paese, per valutare gli effetti drastici del cambiamento climatico, hanno trovato facilmente spazio in riviste di settore e divulgative. Così è stato per le foto storiche

comparate dei ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, in Trentino-Alto Adige, o quelle di Glacier Park con cui abbiamo aperto il capitolo. Luca Mercalli, divulgatore scientifico e climatologo, raccoglie da anni le evidenze della fusione dei ghiacciai in Piemonte e Val d’Aosta. «Nell’insieme dell’Italia, l’estate 2017 ha visto una combinazione di calura e siccità di gravità sconosciuta fino a una quindicina di anni fa nei nostri climi, ma che ora sta diventando sempre più ricorrente per effetto del riscaldamento globale – spiega –. In base alle statistiche elaborate dal Cnr-Isac di Bologna, è stata la seconda estate più calda dal 1800 a livello nazionale dopo il caso estremo del 2003, con un eccesso termico medio di 2,5 °C, e la quarta più asciutta, con precipitazioni in difetto del 40%». Uno dei ghiacciai più impattati da questo scenario è quello del Ciardoney (Gran Paradiso). Le misure eseguite dalla Società Meteorologica Italiana nel Parco Nazionale del Gran Paradiso hanno rivelato che il ghiacciaio è stato completamente privato della pur abbondante neve dell’inverno 2016-17 (305-420 centimetri al 31 maggio 2017). Con impatti drammatici sia per il bilancio di massa 65 sia per le variazioni frontali, ovvero la ritirata della parte finale del ghiacciaio. 66 Comparato con le foto storiche pubblicate sulla rivista di meteorologia Nimbus , le immagini del 2017 sono sconvolgenti. Nel giro di trent’anni il ghiacciaio si è sensibilmente ritirato, perdendo oltre 30 metri di spessore e 400 metri di lunghezza. Sebbene alcuni dati siano stati riverificati, secondo lo stesso Ipcc il trend è confermato. I ghiacciai alpini nell’arco di un secolo hanno perso più della metà della superficie, spiega nei suoi lavori Claudio Smiraglia, uno dei più noti glaciologi italiani. 67 I ghiacci dell’Himalaya, chiamati anche il Terzo Polo perché rappresentano la terza grande concentrazione di ghiacci dopo l’Antartide e l’Artide, sono in forte ridimensionamento. Sono masse con centinaia di metri di spessore. Ma, nonostante tali dimensioni, negli ultimi cento anni hanno registrato una diminuzione del 5-10% della superficie totale, e c’è da attendersi un processo analogo – se non superiore – di fusione nell’arco dei prossimi trenta o quarant’anni. Si scioglie l’Himalaya

Il piccolo monomotore P-750 Xstol dell’improbabile linea aerea Kasthamandap atterra con un tonfo sulla pista di Dunai, Nepal. Più che pista di atterraggio si tratta di una spianata di polvere e pietre, lunga meno di 400 metri. Con Giada Connestari spostiamo le gabbie dei polli e diamo una mano a una signora ricoperta di rughe e bagagli a scendere dalla scaletta dell’aeroplano. I polmoni si riempiono dell’aria fredda, rarefatta, mentre lo sguardo si perde tra le cime infinite che fanno contrasto con un cielo blu cobalto. Riposiamo in un rifugio, dove ci offrono dahl, la tipica zuppa di lenticchie rosse, e carne di capra. La nostra guida, Pemba, la mattina dopo è pronta per condurci lungo i remoti sentieri del Dolpo, una delle regioni meno turistiche dell’Himalaya, visitata da meno di mille persone l’anno. La bellezza di queste terre, tra le ultime a essere rimaste inalterate, toglie il fiato. La vita sembra sospesa in un tempo del sogno, dove gli unici intrusi della modernità sono cellulari (usati solo per sentire mp3, dato che non c’è segnale, e si caricano con piccoli pannelli solari), le scarpe da trekking e le giacche Patagonia e Salewa. D’inverno, i villaggi, tra i più alti al mondo, tutti sopra i 3.500 metri, sono letteralmente sommersi dalla neve. Anche se da queste parti gli inverni durano sempre di meno, raccontano gli abitanti della zona. «Un tempo ci si barricava anche per quattro mesi in casa», racconta Tenzin del villaggio di Dho Tharap, 4.080 metri sul livello del mare. «Oggi in meno di due mesi la neve va via». Intorno a noi ci sono solo yak e vecchi stupa, qua si vive principalmente di commercio e di agricoltura. «È sempre più facile coltivare, il terreno non è più ghiacciato», dice Tenzin. Nemmeno nel più alto insediamento umano dell’Asia. Tenzin ha ragione: i dati satellitari mostrano che non solo i ghiacciai ma anche tutto il permafrost (il suolo perennemente gelato in profondità) si sta ritirando in tutta la regione. «Per trovare il freddo in estate bisogna andare sempre più in alto», commenta Pemba mentre percorriamo la strada per il Passo Numa-la verso l’incantevole Lago di Shey Poksundo. La neve non si vede da nessuna parte, nemmeno sui picchi di 6.000 metri, nonostante sia oramai novembre. Tra le vette dell’Himalaya lo zero termico varia tra i 3.200 metri in gennaio e i 5.500 in agosto. Ma, analizzando le temperature storiche e le proiezioni dei modelli degli effetti del cambiamento climatico

realizzati da Walter Immerzeel della Utrecht University, lo zero potrebbe salire di circa 800-1200 metri, rendendo perfettamente abitabili queste valli remote. Allo stesso tempo mettendo a rischio la sicurezza idrica delle valli e l’incolumità dei nepalesi. La fusione dei ghiacciai e del permafrost nelle remote valli himalayane, infatti, sebbene non costituisca un rischio diretto di sicurezza idrica, per molti si traduce in un aumento esponenziale di frane, valanghe e inondazioni. Per anni l’International Centre for Integrated Mountain Development (Icimod), un centro di ricerca con sede a Katmandu, ha studiato i potenziali impatti del cambiamento climatico sulla vita delle comunità montane. Nell’elegante palazzo coloniale nel tranquillo quartiere di Patan, Pradeep K. Mool, capo ricercatore di Icimod, offre a tutti i suoi ospiti una tazza di Nescafé e una copia di uno dei suoi ultimi report. Ovunque intorno alla sua scrivania fanno bella mostra mappe e stampe di analisi Gis (il sistema d’informazione geospaziale), foto di ghiacciai e laghi montani, oppure vecchie stampe di foto satellitari. Non si può lasciare il suo ufficio senza aver fatto scorta di materiale sulle ultime ricerche e indagini sui territori himalayani. Il suo preferito è un report del 2011 su un fenomeno poco conosciuto ma altamente pericoloso legato ai ghiacciai in via di fusione, il Glacial Lake Outburst Flood. «Oltre all’erosione e alle sempre più frequenti frane, che spesso danneggiano villaggi e sentieri – spiega Mool –, la dimensione di laghi originatisi sul fondo dei ghiacciai, per la rapida fusione di questi, può raggiungere dimensioni critiche, al punto che l’eccessiva pressione sulle pareti di ghiaccio, sempre più sottile, può a un certo punto letteralmente esplodere, liberando migliaia di metri cubi di acqua (in inglese outburst flood )». Mostra una foto del Lago Imja, sito a 5.100 metri, nella regione dell’Everest. Questo lago è tra tutti il più a rischio esondazione. Sebbene sia solo uno degli oltre 1.600 laghi nati all’interno di un ghiacciaio, Imja è considerato il più pericoloso. Qualora la pressione riuscisse a rompere la morena, potrebbe rilasciare acqua, fango e rocce per l’intera lunghezza della valle fino a 60 chilometri di distanza. Travolgendo campi, abitazioni e pascoli, distruggendo terra fertile con uno strato di 15 metri di detriti. Nel 1953, quando l’esploratore Sir Edmund Hillary raggiunse queste terre, il Lago Imja

non esisteva. Oggi è uno di quelli maggiormente in crescita, con una larghezza di tre chilometri. 68 Al punto che all’inizio del 2017 una squadra di cento uomini, mandati dal governo di Katmandu, ha iniziato le operazioni per drenare l’acqua del ghiacciaio. Un lavoro che presto si renderà necessario per una dozzina di altri laghi e molti di più negli anni a venire. Prima che avvenga un’altra tragedia come quella del 1994 in Bhutan, nei pressi del Lago Lugge Tsho, quando venti persone persero la vita per la piena e l’economia di un’intera valle fu messa in ginocchio, costringendo le centinaia di sopravvissuti a riiniziare da zero altrove. A valle, invece, il problema si chiama irrigazione. Se effettivamente 5.500 ghiacciai nell’area himalayana e dell’Hindu Kush vedessero una riduzione dei volumi del ghiaccio tra il 70% e il 99% entro il 2100, 69 questo comporterà gravi conseguenze sia per le aree aride come il Ladakh, la cui agricoltura dipende integralmente dallo scioglimento primaverile delle nevi, sia per l’approvvigionamento di grandi bacini come il Brahmaputra, dove, secondo il geografo Walter Immerzeel, oltre 60 milioni di persone potrebbero essere a rischio per insicurezza alimentare. 70 Certo le zone umide ricevono importanti quantità d’acqua dai monsoni, quindi bacini come Indo e Gange saranno meno esposti allo scioglimento dei ghiacciai. Ma per le zone aride questo potrebbe significare una trasformazione epocale dell’agricoltura. Oltre un sesto della popolazione fa affidamento sulle acque di scioglimento dei ghiacciai e dei nevai per l’approvvigionamento idrico. Un tema che ha suscitato l’interesse degli esperti di difesa che guardano in maniera sempre più preoccupata al cambiamento climatico come elemento di destabilizzazione politica. In un report della Cia si legge che la fusione dei ghiacciai sarà una delle principali cause di scarsità idrica, destinata ad «aumentare la destabilizzazione politica ed esacerbare tensioni regionali e minare la solidità di alcuni stati». 71 Un tema che era già emerso nel 2010 durante un’intervista nell’ufficio di K Street, a Washington, con l’ex direttore della Cia, James Woolsey. «Il cambiamento climatico e le questioni idriche sono principalmente una questione di stabilità mondiale. Le crisi generano terrorismo, despoti, crisi prolungate. Mitigazione del clima significa sicurezza». Oggi, sempre più questo tipo di analisi entra nelle stanze dei

dipartimenti della Difesa di tutto il mondo, sia per quanto concerne la messa in sicurezza delle infrastrutture militari sia per gli impatti politici derivati dall’instabilità climatica. «Gli effetti di queste migrazioni ambientali potrebbero essere spaventosi», afferma Grammenos Mastrojeni, coordinatore per l’Ambiente e la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari esteri, e autore del libro Effetto serra, effetto guerra . 72 «Si andrebbe verso un potenziale di migrazione di quasi un miliardo e mezzo di persone, principalmente provenienti da ecosistemi fragili e società fragili». Come le zone aride, le aree montuose, gli stati insulari e le zone costiere più vulnerabili: tutte regioni del pianeta esposte agli effetti perigliosi del cambiamento climatico. «… poi il vento gira e non cade una goccia» Insieme alle mutazioni del regime idrico legato a innevamento e fusione dei ghiacciai va conteggiato anche il fenomeno crescente delle siccità prolungate. Nello studio di riferimento di Kate Marvel e Céline Bonfils, climatologhe presso il Lawrence Livermore National Laboratory, tra i primi a dimostrare la trasformazione dei regimi delle precipitazioni a motivo del cambiamento climatico, emerge che le zone umide saranno ancora più umide e quelle secche ancora più aride, mentre le tempeste si spingeranno progressivamente lontano dall’equatore verso i poli a causa della modificazione della circolazione atmosferica. 73 Per distinguere gli effetti del cambiamento climatico da quelli classici di El Niño 74 (che solitamente aumenta la piovosità nelle aree meno piovose), hanno osservato la geografia delle tempeste: mentre El Niño tende a concentrare i fenomeni piovosi intorno all’equatore, sono i mutamenti del clima a spingere verso i poli le grandi masse di vapore acqueo. C’è dunque da aspettarsi maggiori rovesci nelle fasce superiori dei tropici, in particolare lungo le coste europee con una piovosità regolare. Ecco dunque l’origine delle «bombe d’acqua» rese celebri dai telegiornali. Indubbiamente un’atmosfera più calda aumenterà l’evaporazione – del 7% per ogni grado centigrado di aumento medio della temperatura globale. In generale si stima che per ogni grado di

aumento della temperatura media globale si ridurrà la disponibilità idrica del 20%. Dal punto di vista delle precipitazioni – sebbene non sia un dato sicuro –, il volume dei rovesci dovrebbe ridursi del 2% per ogni grado di riscaldamento in più in alcune regioni tropicali e latitudini medie, e aumentare in altre, soprattutto alle latitudini settentrionali. In questo modo le regioni aride subtropicali dovrebbero perdere un importante apporto idrico su scale temporali trentennali. 75 Il caso più eclatante è quello del Sud America. Il Brasile ha sofferto, tra il 2013 e il 2015, oltre due anni di siccità, con impatti importanti sull’economia del sud-est del paese. Anche gli stati confinanti, come la Bolivia, stanno risentendo in maniera prolungata gli effetti della siccità. La zona dove tuttavia la crisi idrica potrebbe peggiorare nei prossimi anni è la regione occidentale del Paraguay, già colpito da varie siccità negli ultimi anni, tra le più gravi dell’ultimo secolo. Dal 2008 al 2010, poi ancora nel 2012, 2013, 2016. Il Chaco paraguayano (la regione arida settentrionale) è un interessante punto di osservazione per capire gli impatti della trasformazione climatica: una zona, sempre più colpita dallo stress idrico e con rovesci piovosi limitati, che sta avendo impatti rilevanti sull’economia e la sicurezza alimentare delle popolazioni locali. Soprattutto tra le fasce più deboli: le popolazioni indigene. Che rischiano di diventare in futuro profughi del clima. «Qui tutti aspettano la pioggia – racconta Eladio Rojas, leader della comunità Nivaclé di Campo Loa, situata nel nord –. A volte si vedono i lampi da lontano. Poi il vento gira e da noi non cade nemmeno una goccia. Il tempo è cambiato e gli anziani non sono più in grado di prevedere le precipitazioni. Siamo appena in ottobre, e già entrambi i tajamares , i bacini idrici della comunità, sono prosciugati. Dipendiamo interamente dal trasporto d’acqua del Comune». E, nell’attesa, la gente beve l’acqua «color cioccolato», quella delle pozzanghere. «I bambini si ammalano, negli orti non cresce nulla. Gli uomini hanno smesso di andare a caccia perché nella foresta non si trova più selvaggina». La crisi idrica è peggiorata poi a causa dell’espansione dell’allevamento, direttamente proporzionale alla perdita del territorio delle popolazioni indigene. Che potrebbero rimanere senz’acqua, mentre i bovini delle grandi società di allevamento placano la sete

grazie all’acqua pompata dalle falde più profonde o importata da lontano, prima di essere macellati per i mercati delle grandi metropoli, che del Chaco non hanno mai sentito nemmeno il nome. Sete mediorientale Senza andare oltre oceano, anche in Europa la siccità sembra presentarsi di anno in anno più feroce e prolungata. In Italia il 2017 è stato, come abbiamo visto, un anno particolarmente severo. In alcuni casi, la carenza idrica che ha spinto a razionare l’acqua ha creato tensioni tra amministrazioni regionali, come accaduto tra Veneto e Trentino, due regioni tradizionalmente ricche d’acqua, che sono arrivate ai ferri corti nella fase più intensa della siccità, con Venezia che chiedeva a Trento di aprire i bacini idrici, bloccando di fatto la produzione di energia idroelettrica. In Estremadura, in Spagna, la siccità prolungata ha ridotto la produzione di grano e orzo del 50%; nella provincia di Valencia, oltre l’80% dei cereali sono andati perduti a causa della siccità, spingendo il paese ad aumentare l’import di cereali di oltre 1,3 milioni di tonnellate. In Grecia la produzione di olive da olio è crollata di oltre il 20% mentre anche in paesi come Scozia e Polonia si sono percepiti per la prima volta da anni gli effetti di un regime idrico ridotto. In Africa è il Sahel la regione più esposta alle crisi idriche indotte dal cambiamento climatico. 76 Prolungate siccità rischiano di esporre nei prossimi anni 250 milioni di africani a una penuria d’acqua. E nel 2040, secondo la Banca Mondiale, potrebbe deteriorarsi e divenire inservibile oltre il 40% della superficie dell’Africa subsahariana destinata alla coltivazione di cereali come grano e mais. Ma la situazione è grave già adesso. Negli ultimi anni, vari stati si sono alternati per il triste primato di scarsità d’acqua. Nell’emergenza del 2017, in Somalia, Kenya ed Etiopia 14,4 milioni di persone sono state esposte ad «acuta insicurezza alimentare» a causa della siccità. 77 E tanta sete. Anche il Medio Oriente sta già subendo importanti trasformazioni climatiche e ambientali. Una revisione degli impatti dell’area mediterranea orientale e del bacino del Tigri ed Eufrate (che nascono in Turchia e attraversano Siria e Iraq) mostra come si

verificherà uno degli aumenti di temperatura più importanti, tra 3,5 e 7 °C entro la fine del secolo, con una fortissima evapotraspirazione (la quantità d’acqua che dal terreno passa nell’aria allo stato di vapore per effetto congiunto della traspirazione, attraverso le piante, e dell’evaporazione, direttamente dal terreno). 78 Questo fenomeno, legato alla modifica dei regimi pluviali e nevali sulle montagne del Caucaso, insieme al megaprogetto turco di 15 dighe sui due fiumi, il Southeastern Anatolia Project (Güneydo gu Anadolu Projesi, meglio noto come Gap), porterà a gravi situazioni di nuova crisi tra Siria e Iraq, già fortemente destabilizzati dalla siccità e dalle guerre, vanificando gli sforzi di ricostruzione post-conflitto. 79 Bangladesh, un mix letale Tra tutte le aree geografiche del pianeta dove la sicurezza idrica è stata minata dal cambiamento climatico, la più drammatica è la regione bengalese. La Repubblica popolare del Bangladesh, circondata su tutti e tre i lati dall’India, è spesso percepita come un piccolo stato. Eppure nel 2016 aveva oltre 160 milioni di abitanti, quasi un terzo della popolazione dell’Unione europea, di cui 15 milioni nella sola capitale Dacca. Geograficamente, il paese è localizzato sulla fertile pianura del delta di Gange, Brahmaputra e Meghna, ed è soggetto alle annuali inondazioni di monsoni e cicloni. Da un punto di vista naturale potrebbe essere la Terra promessa: il terreno alluvionale depositato da questi fiumi ha creato alcune delle più fertili pianure di tutto il mondo, con grandi quantità d’acqua dolce disponibili e un suolo particolarmente ricco. Con l’India condivide ben cinquantotto fiumi transfrontalieri, questione politica non secondaria. A guardare la mappa idrologica si potrebbe pensare che l’acqua è l’ultimo dei problemi di questo paese, vessato da ingiustizia cronica, corruzione, sfruttamento minorile, contaminazione del suolo e dell’aria. Eppure è proprio l’acqua l’anello debole del Bangladesh. Innanzitutto, l’accesso all’acqua potabile è da sempre limitato da un gravissimo inquinamento dovuto all’industrializzazione incontrollata e all’abuso di fertilizzanti e pesticidi chimici vietati. La quantità di arsenico nelle falde acquifere è tale che ogni anno muoiono più di quarantatremila persone per cause riconducibili

all’assunzione di acqua da pozzi agricoli. Oltre 77 milioni di abitanti sono esposti a contaminazione in quella che l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito «il più grande caso di avvelenamento nella storia di una popolazione umana». 80 Il fiume Buriganga, che attraversa la capitale Dacca, è letteralmente morto, soffocato dagli scarichi industriali e agricoli incontrollati, dato che meno di un terzo delle imprese ha un impianto di trattamento degli scarichi. Persino l’industria farmaceutica scarica nelle acque del fiume elementi chimici di ogni tipo, inclusi antibiotici e antivirali. Le infrastrutture idriche sono inesistenti, in particolare i canali di scolo e le fogne. Una parte considerevole dell’acqua pompata per l’irrigazione o l’uso domestico va persa nei labirinti di tubature marce e non manutenute. In questo scenario deprimente – il Bangladesh è insieme a Nepal e Laos uno degli stati più poveri d’Asia –, ad aggravare le inondazioni sempre più frequenti, frequentissime soprattutto durante la stagione estiva caratterizzata dal «monsone di So», è l’aumento dei cicloni e delle tempeste tropicali, che dal Golfo del Bengala aggrediscono le aree costiere dello stato, e l’innalzamento dei livelli delle acque dei mari. Gli scienziati sono cauti nel creare una correlazione tra il cambiamento climatico e l’aumento di potenza delle tempeste. È un’incertezza che può irritare, ma la cautela della scienza impone sempre i piedi di piombo, prima che si generino allarmismi o pseudo-scienza. Ciò detto, gli studi Ipcc sottolineano come il riscaldamento antropogenico causerà, entro la fine del XXI secolo, cicloni tropicali più intensi del 2-11%. 81 In questo modo crescerà il potenziale distruttivo delle tempeste, con danni sempre più gravi. Non aumenteranno di numero, anzi potrebbero anche leggermente diminuire, ma avranno venti più intensi e soprattutto rovesci più abbondanti di quelli attuali, di circa il 10-15% nel raggio di cento chilometri dall’occhio del ciclone. 82 Certo è che già in questi anni, nel Golfo del Bengala, si susseguono cicloni sempre più forti, e sebbene non esista ancora una correlazione statistica certa si può affermare che, con buona probabilità, un aumento misurabile dell’intensità nella regione stia già avvenendo. Gli allagamenti sempre più frequenti dovuti all’intensificarsi delle piogge stanno mettendo a repentaglio la vita delle classi sociali più povere in particolare, di

coloro che abitano in baracche e tuguri non certo attrezzati contro le alluvioni. I giornali locali hanno riportato 156 morti nel solo mese di giugno 2017, altri quaranta, e decine di migliaia di abitazioni distrutte, nel mese di agosto. Ad accerchiare il paese arriva un altro fenomeno legato al cambiamento climatico: l’innalzamento del mare. La maggior parte del territorio bangladese è a meno di dodici metri sopra il livello del mare. Ipotizzando che il mare salga di un metro – una possibilità ritenuta probabile dagli scienziati –, il 50% dei terreni rimarrebbero inondati. 83 Non solo, la situazione va peggiorando. Le terre dei delta fluviali, infatti, diventano «più pesanti» poiché ogni anno 2,4 miliardi di tonnellate di sedimenti sono trasportati dall’Himalaya fino alla regione del Golfo. Sono il risultato dell’erosione delle acque: i sedimenti si compattano negli immensi delta fluviali, facendo sprofondare il suolo fertile. L’acqua sale, il terreno scende, aprendo le paratie alle onde degli uragani che potrebbero spingersi, in un futuro non lontano, per decine di chilometri all’interno della costa, salinizzando le falde e il suolo. 84 Le conseguenze di tale mix di effetti (erosione, subsidenza, aumento della piovosità e potenziale incremento della forza delle tempeste) sono esplosive. Innanzitutto la forte erosione di ampi tratti di terre emerse lungo i delta dei grandi bacini idrografici sta riducendo le terre fertili coltivabili, le quali hanno sempre meno acqua non contaminata o non salmastra a disposizione, aprendo il paese ad ulteriori scenari di insicurezza alimentare (oggi, oltre un quarto della popolazione non ha cibo sufficiente). A sud di Chittagong, la seconda città del Bangladesh, nota per essere il più grande cimitero di navi al mondo, l’isola di Kutubdia ha già perso centinaia di ettari di terreni su cui un tempo crescevano manghi, banani e vegetali vari. Gli agricoltori hanno iniziato ad abbandonare l’isola in cerca di altre terre. Molti altri diventeranno migranti climatici. Il fattore che spingerà più velocemente gli agricoltori a rilocalizzarsi è l’acqua. L’effetto congiunto di subsidenza, innalzamento del livello del mare e incremento dei fenomeni meteo catastrofici sta mettendo a serio rischio di infiltrazioni saline gli acquiferi, rendendo l’acqua inadatta per usi civili o agricoli. Non parliamo di depositi profondi, dato che si trovano solo a 30-120 metri di profondità, con la

superficie della falda compresa tra 1 e 3 metri sopra il livello del mare. L’aumento di salinità nell’acqua, conseguentemente, aumenterà la salinità dei suoli, rendendoli meno fertili. Questa concatenazione di effetti richiederà una crescente domanda d’acqua, la quale richiederà il pompaggio di quantità crescenti dagli acquiferi non contaminati dal sale, che contribuirà così ad accelerare la subsidenza. È un effetto perverso esponenziale. E in una terra dove i centimetri contano, per non essere invasi dal mare, anche una minima discesa del terreno costituisce una grave minaccia. Senza investimenti, il paese nel 2030 potrebbe vedere la domanda d’acqua superare le risorse disponibili di oltre il 21% durante la stagione secca, e questo potrebbe andare a inficiare drasticamente il settore agricolo, che è responsabile per oltre il 93% del prelievo idrico. Senza contare il settore industriale, che, sebbene impieghi una fetta minore, vedrà una crescita rilevante delle quantità estratte. Per l’agricoltura l’incremento si assesterà intorno al 46%, mentre per l’industria tessile necessiterà di una crescita del 109% (previsione al 2030), a motivo dello spostamento della forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale. L’80% dell’export – in stragrande maggioranza verso l’Europa – è composto dal tessile. Armani l’anno scorso ha ricevuto quasi 10 tonnellate di magliette e biancheria intima realizzate in una fabbrica della città portuale di Chittagong; H&M ha comprato tessile per quantità superiori a chiunque altro sul mercato. Ma nessuno fa nulla per sostenere il Bangladesh. Servono risorse importanti per aiutare il paese ad adattarsi al cambiamento climatico, agevolando la transizione verso una maggiore sostenibilità sociale e ambientale dei settori industriali. Così si potrà aiutare questo paese a uscire dalla grave crisi ambientale in cui versa.

54 Matt Weiser, «Crop Loss, Fishing Bans: Montana Becomes Epicenter of Drought in West» , in Water Deeply , 1 September 2017, consultato il 15/12/2017 (http://bit.ly/2eC9kYP). 55 Geoffrey Supran and Naomi Oreskes, «Assessing ExxonMobil’s climate change communications (1977-2014)», in Environmental Research Letters 12, n. 8 (23/8/2017; http://bit.ly/2xsTlUn). 56 Documento a uso interno di Api. Una copia digitale è stata ottenuta dagli autori. 57 Christiana Figueres, Hans Joachim Schellnhuber, Gail Whiteman, Johan Rockström, Anthony Hobley and Stefan Rahmstorf, «Three years to safeguard our climate», in Nature News 546, n. 7660 (29/6/2017), p. 593 (http://go.nature.com/2t1gwUD). 58 John Turner, Steve R. Colwell, Gareth J. Marshall, Tom A. Lachlan- Cope, Andrew M. Carleton, Phil D. Jones, Victor Lagun, Phil A. Reid, and Svetlana Iagovkina, «Antarctic climate change during the last 50 years», in

International Journal of Climatology 25, n. 3 (15/3/2005), pp. 279-294. 59 Il distacco della piattaforma A68 non ha alterato direttamente il livello marino, ma ha alterato l’equilibrio del flusso dei ghiacciai retrostanti da cui dipende l’aumento di livello. 60 Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2013: The Physical Science Basis: Working Group I Contribution to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, 2014. 61 « Another record low for Arctic sea ice maximum winter extent», in Arctic Sea Ice News and Analysis , 28/3/2016, consultato il 5/9/2017 (http://bit.ly/2EwekJ5). 62 Shimon Wdowinski, Ronald Bray, Ben P. Kirtman, Zhaohua Wu, «Increasing flooding hazard in coastal communities due to rising sea level: Case study of Miami Beach, Florida», in Ocean & Coastal Management 126, n. Supplement C (1/6/2016; http://bit.ly/2FnlvVu). 63 Intergovernmental Panel on Climate Change, cit. 64 F. Antonioli, M. Anzidei, A. Amorosi, V. Lo Presti, G. Mastronuzzi, G. Deiana, G. De Falco, et al. , «Sea-level rise and potential drowning of the Italian coastal plains: Flooding risk scenarios for 2100», in Quaternary Science Reviews 158, n. Supplement C (15/2/2017), pp. 29-43. 65 Circa -1,39 m di acqua equivalente nell’insieme del ghiacciaio. 66 12,5 m di regresso. 67 Nicoletta Cannone, Guglielmina Diolaiuti, Mauro Guglielmin, Claud io Smiraglia, «Accelerating Climate Change Impacts on Alpine Glacier Forefield Ecosystems in the European Alps», in Ecological Applications 18, n. 3 (1/4/2008), pp. 637-648. 68 Sudeep Thakuri, Franco Salerno, Tobias Bolch, Nicolas Guyennon, Gianni Tartari, «Factors controlling the accelerated expansion of Imja Lake, Mount Everest region, Nepal», in Annals of Glaciology 57, n. 71 (march 2016), pp. 245-257. 69 J.M. Shea, W.W. Immerzeel, P. Wagnon, C. Vincent, and S. Bajracharya, «Modelling glacier change in the Everest region, Nepal Himalaya», in The Cryosphere 9, n. 3 (27/5/2015), pp. 1105-1128. 70 Walter W. Immerzeel, Ludovicus P.H. van Beek, e Marc F.P. Bierkens, «Climate Change Will Affect the Asian Water Towers», in Science 328, n. 5984 (11/6/2010), pp. 1382-1385. 71 Halvard Buhaug, «Climate Change and Conflict: Taking Stock», in Peace Economics, Peace Science and Public Policy 22, n. 4 (2016), pp. 331-338. 72 Grammenos Mastrojeni, Effetto serra, effetto guer ra. Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea , Chiarelettere, Milano 2017. 73 Kate Marvel and Céline Bonfils , «Identifying external influences on global precipitation», in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America 110, n. 48 (26/11/2013), pp. 19301-19306. 74 In climatologia, El Niño è un fenomeno climatico periodico che provoca un forte riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e Orientale (America Latina) nei mesi di dicembre e gennaio in media ogni cinque anni, con un periodo statisticamente variabile fra i tre e i sette anni. 75 Elizabeth J. Kendon, Nigel M. Roberts, Hayley J. Fowler, Malcolm J. Roberts, Steven C. Chan and Catherine A. Senior, «Heavier summer downpours with climate change revealed by weather forecast resolution model», in Nature Climate Change 4, n. 7 (july 2014), p. 570. 76 «Increasing drought under global warming in observations and models», in Nature Climate Change (http://bit.ly/2rrgEdG), consultato il 2/9/2017. 77 Cfr. Tommaso Carboni, «Africa, nel Sahel a causa della siccità si prepara la più grande migrazione della storia», in Lastampa.it , 24/6/2017 (http://. bit.ly/2t5Tdf7) 78 Jason P. Evans, «21st century climate change in the Middle East», in Climatic Change 92, n. 3-4 (1/2/ 2009), pp. 417-432. 79 David Reed (ed.), Water, Security and U.S. Foreign Policy , Taylor & Francis, New York NY 2017. 80 J. Christopher States, Arsenic: Exposure Sources, Health Risks, and Mechanisms of Toxicity , Wiley, Indianapolis IN 2015. 81 Si veda il modello previsionale « Ipcc A1B scenario». 82 Susmita Dasgupta, Mainul Huq, Zahirul Huq Khan, Manjur Murshed Zahid Ahmed, Nandan Mukherjee, Malik Fida Khan, Kiran Pandey, «Cyclones in a Changing Climate: The Case of Bangladesh», in Climate and Development 6, n. 2 (3/4/2014), pp. 96-110 (http://bit.ly/2CZE2Jb). 83 Hugh Brammer, «Bangladesh’s dynamic coastal regions and sea-level rise», in Climate Risk Management 1, n. Supplement C (1/1/2014), pp. 51-62 (http://bit.ly/2FnUHEB). 84 P.G. Whitehead, E. Barbour, M.N. Futter, S. Sarkar, H. Rodda, J. Caesa r, D. Butterfield, et al. , «Impacts of Climate Change and Socio-Economic Scenarios on Flow and Water Quality of the Ganges, Brahmaputra and Meghna (GBM) River Systems: Low Flow and Flood Statistics», in Environmental Science: Processes & Impacts 17, n. 6 (10/6/2015), pp. 1057-1069 (http://rsc.li/2D0G0c1).

3. IL NESSO ENERGIA-ACQUA

L’acqua caduta dal vassoio non torna indietro. Proverbio cinese «Sai cosa significa essere vicini a una centrale elettrica? In Sudafrica significa essere vicini a un problema con l’acqua e la luce». Tiger ha quarantun anni, ma il suo viso ne dimostra almeno sessanta. Fuma sigarette rollate mentre sorseggia una bottiglia di succo preso in un minimarket intasato di merci cinesi d’importazione. Sullo sfondo si staglia la centrale a carbone, dove Tiger lavora come saldatore da quando di anni ne aveva la metà, la Duvha Power Plant, nei pressi di Emalahleni. Un nome appropriato per una città mineraria: in lingua nguni, come un truismo si chiama «il luogo del carbone». E di carbone se ne trova tantissimo: da oltre vent’anni è l’area mineraria da cui il Sudafrica estrae gran parte del combustibile fossile. La vita di Tiger e della sua famiglia sono in simbiosi con quella della centrale elettrica Duvha. Ogni giorno la vedono in azione, con la sua forza da 3.600 megawatt (MW). Sui cartelli c’è ben impresso il nome della proprietà: Eskom, l’utility elettrica nazionale, la più grande del Sudafrica. Nelle vicinanze si può attraversare – i controlli languono – la miniera di litantrace che nutre la produzione di energia e ricopre di una patina nera caliginosa il villaggio e i polmoni dei suoi abitanti, intasati di catarro e polvere. «Vedete i cavi dell’alta tensione e le tubature d’acqua? Sono per la centrale elettrica. Ma nel villaggio non abbiamo né elettricità né, tantomeno, acqua – spiega Tiger mentre prova a offrirci una delle sue sigarette, quasi fosse un rimedio all’aria caliginosa –. Centinaia di migliaia di litri al minuto sono usati per raffreddare le turbine che generano elettricità, venduta in Swaziland e Mozambico.

Per noi, il buio e tre litri e mezzo d’acqua al giorno portati con una cisterna». Nel villaggio informale, quasi cinquemila abitanti vivono accatastati a ridosso di un muro di carbone e una pozza d’acqua nera, aspettando ogni settimana che venga riempita la piccola cisterna comunitaria. «Spesso la gente litiga furiosamente per qualche litro in più», spiega Lucky, il vicino di Tiger, estraendo rapidamente un paio di sigarette dal pacchetto sotto gli occhi dell’amico. Anche per il suo nome («Fortunato») non è dato sapere se sia frutto d’invenzione o quello reale. «Un nome è un nome, forse dovremmo chiamarci Disgrazia per il fatto che viviamo qua. Il carbone sta rubando il nostro diritto all’acqua e all’aria, e anche alla libertà». King Coal Il Sudafrica, paese di Nelson Mandela e del Parco naturale Kruger, ultima riserva di leoni e rinoceronti, è una nazione fondata sul carbone (è la tredicesima per emissioni di CO 2 ). 85 King Coal , come lo chiamano gli anglosassoni, in questo paese ha una domanda idrica incomparabile con qualsiasi altro paese: circa il 10% del totale. Per l’estrazione sono necessari oltre 10.000 litri d’acqua per tonnellata estratta, mentre una centrale elettrica di grandi dimensioni come quella di Kusile, aperta nel 2018, nei pressi di Emalahleni, impiega 71 milioni di litri d’acqua al giorno. Una quantità simile a quella di Duvha, dove vivono Tiger e Lucky. Una follia, in un paese siccitoso come il Sudafrica, che riceve solo 490 millimetri di precipitazioni l’anno, e caratterizzato da forte scarsità idrica per l’uso domestico. «L’aridità è acuita dagli impatti sopra la media del climate change », spiega Stephen Law, direttore dell’Environmental Monitoring Group, un gruppo di analisi ambientale con sede a Città del Capo, mentre scaccia le mosche dalle sue mappe. Serve del tè caldo che rimane ignorato sul bordo del tavolo. Le sue informazioni di fatto lasciano allibiti. «Il 75% delle risorse è già completamente impiegato e non rimane acqua da usare. Secondo le nostre proiezioni, entro il 2030 il paese avrà un deficit idrico del 17%. Il che vuol dire che molte persone rimarranno senz’acqua, soprattutto i più poveri. Che senso ha tutto questo

carbone?», racconta mentre mostra mappe e ricerche. Tutto corrobora quanto affermato. Ma per le strade di Pretoria, sede del governo, nessuno sembra essere interessato ad accantonare il carbone, come hanno fatto paesi come l’Italia o la Francia. Il settore vale 22 miliardi di dollari, secondo i dati della Chamber of Mines, 86 la società di promozione delle imprese minerarie, e interessa tutti i gangli del potere, fino alla stessa famiglia dell’ex presidente Zuma. Per i cittadini sudafricani non si tratta solo di una questione di approvvigionamento. L’estensiva industria mineraria carbonifera, spesso composta da operazioni di piccole dimensioni, scarsamente controllate, ha impatti anche sulla salute attraverso la contaminazione dell’acqua. Spendendo qualche giorno negli slum di Emalahleni non ci vuole molto per raccogliere una collezione di storie disperate, di quelle che lasciano l’amaro in bocca. Basta camminare per le baraccopoli arroccate sulle vecchie miniere di carbone, spesso costellate di buchi neri dove si può intravedere la combustione dei filoni minerari esausti, che bruciano in alcuni casi da decenni, per incontrare famiglie tormentate da tumori, malattie respiratorie, problemi alla vista, malattie della pelle. Quasi tutti hanno un figlio, un nipote o un amico malato. Giovani, soprattutto. Willonah Noudo Kubeka ha trentatré anni, e da qua t tro è in dialisi. «Non bevo più acqua, solo succhi. L’acqua è insicura, qua», racconta mentre la visitiamo nella sua baracca, incastonata tra miniere di carbone a cielo aperto e depositi di vanadio, un elemento chimico moderatamente tossico, non protetti. L’acqua di Emalahleni è tossica sopra ogni livello di guardia. «Abbiamo misurato il pH delle acque che vengono scaricate fuori dalla miniera», spiega Rudolph Sambo, un giovane attivista di Emalahleni che lavora per creare consapevolezza dei rischi di salute legati all’acqua tra i minatori. Il risultato? Le acque sono fortemente acide, con un pH inferiore al 2,2. «Non si può bere, non si può coltivare, non ci si può nemmeno lavare. Chi lo fa rischia malattie della pelle, dei reni, del fegato». Dati medici non ce ne sono. Negli ospedali di Emalahleni i dottori intervistati parlano di malattie, ma preferiscono non dare cifre. Sebbene richieste più volte all’ufficio di Sanità del distretto di Nkangala, a oggi nessuna risposta è pervenuta.

«Per produrre energia ci rubano l’acqua e la vita», commenta malinconico Sambo, mentre passeggiamo intorno a un centro di depurazione, che scarica più reflui nell’ambiente circostante di quanti ne processi. Guarda il cellulare distrattamente, più come riflesso che per necessità. Si sofferma sullo schermo azzurrino solcato da una crepa. «Non avrei mai pensato che per caricare un cellulare ci avrebbero tolto l’acqua dai bicchieri e trattati come cavie». Acqua-energia: un nesso spesso dimenticato Quando guardiamo una lampadina elettrica, l’ultima cosa cui pensiamo è l’acqua. I due elementi apparen temente sembrano nemici: il pensiero di un cavo elettrico dentro una vasca d’acqua suscita paure motivate e razionali. Quando pensiamo agli impatti negativi delle energie fossili, immaginiamo subito aria inquinata, la catastrofe climatica, la dura vita dei minatori. L’acqua appare come un elemento secondario, che non desta preoccupazione e non mostra evidenti legami. Eppure acqua ed energia sono strettamente correlate. Il connubio delle due è fondamentale per lo sviluppo sociale ed economico. L’acqua è necessaria per ogni stadio della produzione energetica, dall’estrazione delle materie prime alla generazione di elettricità, così come l’energia è indispensabile per il trattamento delle acque e per i sistemi di pompaggio negli impianti di depurazione, nelle pompe per uso domestico, industriale, e ovviamente nell’agricoltura. 87 Questa interdipendenza ha implicazioni di grande r espiro per la sicurezza energetica e idrica. Usando troppa acqua per produrre energia si rischia di sottrarla, come nel caso del Sudafrica, a cittadini e agricoltori; usando troppa energia per sostenere la domanda di acqua, in particolare durante i periodi di siccità, si può incorrere in black-out, come accaduto in India, Brasile e California (e lo vedremo in dettaglio più avanti), e in emissioni crescenti, come nel caso del Qatar, che genera la quasi totalità dell’acqua da impianti di desalinizzazione altamente inquinanti e impattanti. Inseriamo anche un terzo fattore nell’equazione, ovvero il cambiamento climatico: con temperature medie più alte della norma servirà più energia per il raffrescamento e per il pompaggio dell’acqua. Ma se la domanda di

energia cresce, aumenta anche la domanda di acqua legata alla produzione elettrica. E allora non resta che cercare di garantirsi le fonti idriche, a qualunque costo, per evitare che le centrali energetiche, siano idroelettriche o termoelettriche e nucleari, si spengano per assenza d’acqua. L’interruttore della crisi idrica Atterrando nella calura del marzo del 2015 a São Paulo, si aveva l’impressione di entrare in un forno. Da un paio di mesi l’intera regione meridionale del Brasile era rimasta a corto d’acqua, strangolata da un caldo ben al di sopra della media. In città le temperature superavano costantemente i 40 °C. Bastava uscire dai confini urbani per vedere l’iconica immagine delle zolle di terra fratturate, in distese infinite di terreni aridi e incolti. Una siccità record, «mai vista prima», scrivevano i giornali brasiliani, così devastante da mettere in ginocchio buona parte dell’economia della regione. 88 Un terzo del raccolto di caffè Arabica del Minas Gerais, da dove proviene la metà del caffè brasiliano, era andato perduto, facendo schizzare i prezzi del 50%. La grande industria dell’allevamento nei mesi successivi soffrì ingenti perdite, con migliaia di capi morti di sete. Fu proprio l’industria della carne la prima a lanciare l’allarme. A fronte della scarsità d’acqua, molti allevatori, visti i prezzi bassi pretesi dalle macellerie e i costi stellari dell’acqua in cisterna, lasciarono morire il bestiame. Comprare e trasportare l’acqua dalle città era troppo oneroso. Non c’era nemmeno il tempo di macellare tutti gli animali, vista la moria fuori scala, e in tanti li lasciarono crepare nelle stalle, intasando l’aria con il terribile odore della putrefazione. Tuttavia l’impatto più forte si ebbe nel settore energetico. Durante il mese di gennaio, nel pieno dell’estate brasiliana, si susseguirono numerosi black-out. Almeno sei città rimasero al buio a causa della bassa produzione da fonti idroelettriche, una delle risorse energetiche principali della regione. Caldo e maggiore richiesta di acqua (con conseguente sforzo energetico delle pompe idrauliche) all’opposto contribuivano alla crescita della domanda di elettricità. La conseguenza? Aumento della produzione e dell’importazione di

energia derivata da fonti fossili dall’Argentina, con miliardi di euro persi a causa dello stop alla produzione in tantissime imprese, e il paese sull’orlo di una crisi di nervi. E di prezzi. Niente acqua, niente energia; la poca disponibile, a prezzi esosi. Nessun sistema industriale può sopravvivere a una crisi prolungata di questo tipo. Una tempesta perfetta ma isolata? Non proprio. Nel 2012, in India, 620 milioni di persone rimasero senza elettricità – parliamo dell’allora 10% della popolazione mondiale. 89 Anche qui si vennero a creare le condizioni per un potenziale disastro economico: monocolture con forte esigenza di acqua, aumento dell’energia impiegata per pompare le falde fino al fondo, temperature oltre la media, con conseguente innalzamento dell’uso dell’aria condizionata. Simultaneamente, le centrali idroelettriche, rimaste con fiumi ridotti a rigagnoli per il raffreddamento delle turbine, furono costrette a fermarsi. Risultato? Treni bloccati, uffici vuoti, negozi senza luce, aeroporti in tilt. 90 Per i giornali la responsabilità cadde tutta sulla rete di distribuzione elettrica, in particolare quella ad alta tensione Bina-Gwalior. Nessuno disse: consumiamo troppo, consumiamo male, non abbiamo abbastanza acqua. Scenario simile in California, dove ripetute siccità negli ultimi dieci anni (la più grave nel 2013), insieme alle riserve idriche ai minimi storici dal 1930 (a causa di città idrovore come Las Vegas e Los Angeles) hanno impattato fortemente sul settore agricolo e quello idroelettrico (una riduzione del 5% sul totale di tutta l’energia prodotta), e messo a rischio la sicurezza delle centrali nucleari per insufficienza idrica, portando a conseguenti razionamenti di acqua e di elettricità. Forse non quest’anno, 2018, ma in un giorno non lontano la capitale americana del divertimento e del gioco d’azzardo, Las Vegas, potrebbe rimanere, se il trend perdura, senza le sue luci scintillanti. 91 Basta una camminata lungo la Hoover Dam, il vertiginoso sbarramento idroelettrico al termine del Lago Mead, in Nevada, per vedere i segni della riduzione dei livelli di acqua, incisi nelle rocce degli argini. In Italia l’estate 2017 ha riservato tante brutte sorprese, con regioni come Trentino e Veneto ai ferri corti. Per regolarsi si è dovuti ricorrere al decreto legislativo 152 del 2006, che all’articolo 167 stabilisce che «dopo il potabile si deve pensare alle campagne e

solo in ultima istanza all’energia». Si sono così evitate lunghe diatribe tra chi tentava di difendere la propria autonomia energetica e chi proteggeva gli interessi degli agricoltori. Ma c’è da scommettere che la questione tornerà nei prossimi anni, e non è detto che il Trentino non inizi a puntare il dito contro l’agricoltura veneta, nota per le sue ampie sacche di inefficienza idrica. 92 Una goccia d’acqua per la luce L’acqua nel settore energetico è impiegata principalmente in quattro campi di produzione: quello idroelettrico, attraverso la realizzazione di dighe a bacino o run-of-river (ad acqua fluente); quello del carbone, sia nelle centrali termoelettriche sia nelle miniere; quello nucleare; e infine quello degli idrocarburi convenzionali e non convenzionali, come lo shale gas, il gas di scisto o le sabbie bituminose, un mix di sabbia e petrolio che richiede immense quantità di acqua o vapore per essere estratto e lavorato. L’idroelettrico oggi produce il 16,4% dell’energia mondiale, per un totale di 1.064 gigawatts (GW; un gi gawatt equivale a un miliardo di watt) installati al 2016, grazie a 57.000 dighe di varie dimensioni, da quelle colossali ai piccoli sbarramenti, più i nuovi impianti di «microidroelettrico». L’energia che sfrutta la forza dell’acqua costituisce il 71% circa del mix di energie rinnovabili e garantisce una quantità di emissioni complessive inferiori alle centrali a fonti fossili, ma con impatti complessivi non sempre positivi. 93 In Nord America, molte dighe costruite fino agli anni Ottanta sono oggi in fase di demolizione a causa dell’impatto che hanno sugli ambienti circostanti e su alcune specie animali, come il salmone. La lotta degli ambientalisti e conservazionisti a stelle e strisce ha portato i suoi frutti. I vecchi sistemi a invaso in alcuni casi sono stati sostituiti con dighe più moderne che non richiedono la realizzazione di bacini di larga scala. Ma nel resto del mondo la costruzione continua, a ritmi forsennati, specie in Sud America, Africa centrale e Sud-est asiatico, dove migliaia di dighe sono già state progettate senza eccessiva attenzione agli impatti ambientali e sociali e aspettano solo i finanziamenti necessari.

Fortemente idrovora è anche la produzione energetica da fonti fossili (più nucleare), che si stima richiedere intorno ai 583 miliardi di metri cubi (mmc): il 15% del totale dell’acqua estratta a livello globale. Di questa ingente quantità, ben 66 mmc sono persi, non ritornano alla fonte di approvvigionamento dopo l’impiego. E il consumo è destinato a crescere. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, il prelievo dovrebbe aumentare al 2035 del 20% e il consumo dell’85%. Perché questa differenza tra le due cifre? Le nuove centrali termoelettriche prelevano meno acqua, ma ne consumano di più per unità di elettricità prodotta, gli impianti crescendo di dimensione. Il colosso di Kusile in Sudafrica ne è un esempio. Il nucleare ha impatti altrettanto importanti. I reattori impiegano l’acqua in due modalità: attraverso l’ebollizione 94 oppure attraverso la pressurizzazione, 95 entrambi necessitanti di un sistema di raffreddamento a fine ciclo. Quanta acqua viene persa durante il processo di raffreddamento? Circa la metà. Per questa ragione, globalmente, le centrali nucleari impiegano maggiori quantità di acqua per unità di energia prodotta rispetto alle centrali termoelettriche, poiché i reattori operano a temperature più basse, con turbine proporzionalmente meno efficienti. Per esempio, un reattore da cinque gigawatt di terza generazione prodotto da Toshiba-Westinghouse Electric Company sfrutta circa 500.000 metri cubi al giorno. A guidare il boom delle centrali nucleari, dopo il lento declino del nucleare europeo, fermato sia in Italia che in Germania, e l’alt americano a nuovi impianti, è la Cina. Ma il sogno nucleare di Pechino potrebbe essere rallentato proprio dall’acqua. Secondo Wen Bo, della Chinese National Geographic Society, due centrali su tre delle ventotto pianificate in territorio cinese si trovano in regioni a elevata scarsità idrica. 96 Una situazione che rende incerta la stabilità e la sicurezza degli impianti. La Francia, nota potenza nucleare, nel 2003, durante la peggiore siccità mai registrata, dovette bloccare oltre 4.000 MW di potenza generata da nucleare a causa della scarsità idrica. Ma le centrali a carbone non rischiano di meno, come dimostrato dalla crisi idrica californiana. Secondo il World Resources Institute, un istituto di ricerca internazionale specializzato in materie prime,

oltre il 50% delle più grandi centrali elettriche, a livello globale, rischiano di ridurre la produzione nei prossimi anni a causa di livelli estremamente elevati di stress idrico. Sempre in Cina, dove sono installati ben 804 gigawatt di termoelettrico, il 45% del totale mondiale, la rapida crescita delle centrali a carbone nelle province del nord-ovest ha accelerato la desertificazione della regione, costringendo al trasferimento milioni di persone. Il consumo di 3,4 miliardi di metri cubi d’acqua per produrre energia nelle aree più a rischio – la metà del totale del paese – equivale al fabbisogno di 186 milioni di cittadini cinesi. A breve si potrebbero costruire centrali che comporterebbero un consumo addizionale di 1,8 miliardi di metri cubi. 97 Fortunatamente, l’interesse per il carbone sta rallentando da parte del governo centrale, nonostante le pressioni dei tycoon del settore energetico, che premono per riaccelerare la costruzione di nuove centrali. Rimane da dimostrare che la Cina sia in grado di raggiungere l’obiettivo di fermare il consumo di carbone, nel 2020, a 4,2 miliardi di tonnellate. Energie non convenzionali Le riserve di fonti fossili, in particolare di petrolio, non sono destinate a esaurirsi a breve termine. Sebbene il petrolio a basse profondità, il carbone di superficie, i depositi di gas in pianura siano sempre più scarsi, la nuova abbondanza proviene da fonti non convenzionali, come le sabbie bituminose, i reservoir nelle profondità degli oceani, i giga-depositi di gas sui fondali marini sotto forma di idrati di metano o intrappolati in formazioni di scisti argillosi. Gli adepti del picco di Hubbert, una teoria sulla fine del petrolio fondata su calcoli delle riserve globali recuperabili, fino al 2010-12 ancora affermavano che si era raggiunto un tetto di produzione e lentamente ci si avviava verso un’epoca di grande scarsità di oro nero. Con l’avvento delle tecnologie estrattive degli ultimi anni, nate specialmente in Canada e Nord America, grazie alla capacità di estrazione di shale oil e gas e di sabbie bituminose, e con l’avvento di una nuova epoca di boom fossile, hanno dovuto ricredersi. Oggi gli idrocarburi sono tornati a scorrere a fiumi, con buona pace della lotta al cambiamento climatico. Il picco è diventato un ottovolante,

che sale e scende in base alle continue innovazioni e scoperte esplorative, con i mercati sempre più nervosi tra aumenti alla produzione in Arabia Saudita, prezzi instabili e politicamente rilevanti come mai, e nuovi e potenti attori nel settore esplorativo. 98 Una bonanza definita da Bill McKibben in maniera decisamente appropriata, durante un ritiro per giornalisti ambientalisti come lui organizzato dal Middlebury College a Big Sur, California: «Una bomba atomica al carbonio, capace di dichiarare game over al pianeta. Colleghi, la partita per il pianeta, per l’aria e per l’acqua, si gioca qua». Per capire meglio gli impatti di questi sistemi di estrazione non convenzionali bisogna recarsi in Nord America, uno degli avamposti della ricerca nelle tecnologie esplorative, che lentamente stanno espandendosi in tutto il mondo. Quando si sorvola Fort McMurray, nello stato dell’Alberta, Canada, si capisce subito che l’estrazione delle sabbie bituminose è un’operazione completamente diversa dai classici pozzi a pompa, resi famosi dall’immaginario cinematografico di pellicole come Il petroliere di Paul Thomas Anderson. Dal piccolo biposto, noleggiato con il supporto dell’organizzazione ambientalista Friends of The Earth, la prima cosa che si para davanti agli occhi, dopo essere decollati da Fort McMurray, sono le monumentali ciminiere della Suncor, colosso dell’energia canadese. Sotto l’aereo scorrono le Euclid, scavatrici senza eguali al mondo per potenza e dimensioni, che paiono uscite da Guerre stellari : una ruota è alta come due uomini. Le Euclid servono per trasportare le tar sands , in italiano sabbie bituminose, una poltiglia di terra e petrolio di cui questa area del mondo è particolarmente ricca. I nativi di queste zone, la tribù dei Cree, le usavano per rendere impermeabili le chiglie delle loro barche. Oggi sono distese infinite dove il petrolio non si pompa dal sottosuolo: si scava. Dappertutto il bosco lascia spazio a distese di terra nera, solcate dalle strade brulicanti di Euclid. I fiumi della zona sono prosciugati: l’acqua serve per abbattere le polveri, bagnare i tracciati e lavare il petrolio impuro. Nei pressi degli impianti sorgono immensi pozzi di accumulo, dove si fa decantare l’acqua contaminata prima di processarla per la depurazione. Un paesaggio in bianco e nero, con la neve più grigia che bianca e striature di greggio ovunque.

Più a sud s’intravede l’irregolare disegno geometrico dei pozzi detti in situ. Nonostante le miniere da scavo siano più appariscenti, la maggioranza del petrolio si trova sempre più spesso in questi depositi, localizzati a oltre 100 metri sotto il livello del suolo. Qui le sabbie bituminose vengono processate sotto terra, separando il petrolio con l’uso di acqua e scosse elettriche. Il sistema più diffuso è il Sagd: 99 s’inietta vapore a 240-250 °C, per centinaia di metri, al fine di sciogliere il greggio, che viene poi risucchiato in superficie. Il tutto usando ingenti quantità d’acqua. Ovunque si vedono sbuffi di vapore e laghi ghiacciati striati di nero. «Ogni giorno le compagnie consumano centinaia di migliaia di metri cubi per processare le oil sands », spiega Melina Laboucan-Massimo, un’attivista di Friends of The Earth, mentre guidiamo una Toyota Prius attraverso le aree minerarie per osservare da vicino gli impatti sui Cree. «Per ogni barile di petrolio “scavato” servono da due a quattro barili d’acqua, mentre per l’estrazione in situ la media sale a 4,8 barili». I depositi di decantazione della sola Fort McMurray occupano ben 200 chilometri quadrati. Servono a far depositare gli elementi tossici contenuti nelle acque di lavorazione, come benzene, arsenico, mercurio, piombo dei sistemi Sagd. «Tra i Cree c’è la paura costante che possano contaminare le acque del fiume Athabasca, di fatto sottratte dalle compagnie petrolifere senza chiedere il permesso alle popolazioni locali», con tinua Melina. Tant’è che in alcuni villaggi non si può più bere l’acqua e nemmeno farsi la doccia. L’acqua è troppo contaminata. Per molti rimane una condanna. «Il petrolio che viene dalla sabbia – racconta Roland Woodward, nativo delle First Nation di Fort McMurray – ha rovinato l’acqua e l’aria». Comunità come Fort McKay, un tempo prospere e felici, oggi hanno un’aria irrespirabile. «L’uomo bianco, ancora una volta, ci ha sottratto la terra. Non posso più mantenermi andando a caccia o raccogliendo piante – racconta Almer Herman, nativo Cree –. Il nostro territorio sta morendo». Ma il boom economico ha reso la gente cieca davanti all’accaparramento di acqua e terreni da parte delle grandi multinazionali del petrolio. Dal 2004 al 2015 il Canada è passato dalla dodicesima alla terza posizione nella classifica dei paesi più ricchi di petrolio, dietro solo a Venezuela e Arabia Saudita. Ora l’estrazione delle sabbie bituminose si sta estendendo anche in

Cina, proprio in quelle regioni dove l’acqua è più scarsa, come lo Xingjiang e la Mongolia Interna. Secondo China National Petroleum Corporation, ci sono oltre trenta miliardi di barili recuperabili dal sottosuolo. Sette punti di estrazione sono già attivi, ma la produzione è limitata a circa 20.000 barili al giorno. 100 Il boom deve ancora arrivare. «Non convenzionali» Le sabbie bituminose sono solo uno dei tanti prodotti della gamma non convenzionale di combustibili fossili, che include parecchi tipi di greggio: tight oil , petrolio da scisto, scisti bituminosi. Tutti hanno una caratteristica in comune: indicano petrolio difficilmente estraibile, che richiede quasi sempre l’uso di acqua, sabbia e agenti chimici per l’estrazione e la lavorazione. Milletrecento chilometri più a sud di Fort McMurray, le fiamme del gas illuminano la notte della Highway 85, sgangherata autostrada che attraversa lo stato americano del Dakota del Nord passando per la cittadina di Williston. Sono i fuochi dei gas flares , il metano sprigionato dai pozzi petroliferi. Troppo difficile da trasportare, il metano in eccesso viene bruciato in loco liberando quantità ingenti di anidride carbonica e metano. Qui, quello che conta si chiama shale oil, petrolio intrappolato negli scisti argillosi. Per estrarlo bisogna fratturare idraulicamente gli strati rocciosi, come si fa anche per lo shale gas. Si pompano acqua, sabbia e agenti chimici, e il petrolio fluisce verso l’alto. Il resto dei liquidi viene raccolto in bacini di decantazione immensi, prima di mandare le acque verso i sistemi di depurazione. La città simbolo di questa nuova corsa all’oro nero è Williston, sede del più grande giacimento sfruttato al mondo, quello di Bakken Shale, seguito dai reservoir Texas, Wyoming, Colorado, Oklahoma, California. Nel solo 2015 sono stati creati più posti di lavoro di quante anime vivano in questa landa sperduta. «Lavoro? Qui ce n’è persino troppo», racconta un ragazzone seduto accanto a me mentre l’aereo United arriva all’unico gate dell’aeroporto di Williston. «Questa dannata sbornia di petrolio che interessa il Bakken ha attirato disoccupati come mosche. Io guadagno 100.000 dollari

l’anno come camionista. Altro che il Klondike e le miniere. Il petrolio oggi vale più di ogni altra cosa. E ci sono un sacco di soldi da guadagnare, se lavori duro». Di acqua, nel Dakota del Nord, ce n’è in abbondanza. «Però molti allevatori hanno dovuto trasferirsi. La gente era sospettosa della carne proveniente dai dintorni di Williston – spiega un agricoltore –. Non sappiamo quale sia realmente la qualità dell’acqua. Meglio fare come me, vendere i terreni alle compagnie estrattive e andarsene». Anche in Sudafrica sta facendo capolino l’esplorazione dei combustibili non convenzionali. L’area interessata è il Karoo meridionale, una zona desertica nel cuore del paese, distante dalle province minerarie. Secondo i prospettori, sotto le rocce bruciate dal sole del Karoo si trovano sia importanti miniere di uranio, fondamentali per sostenere il rinnovato – e controverso – piano nucleare sudafricano, sia importanti risorse di gas di scisto. Una campagna ambientalista iniziata nel 2011, raccontata nel documentario Unearthed di Jolynn Minnaar, ha messo uno stop temporaneo allo sviluppo dell’estrazione di questo tipo di gas. Prosegue, invece, la prospezione su nucleare ed estrazione dell’uranio. Il governo dovrebbe investire oltre 60 miliardi di euro con la russa Rosatom per una nuova centrale, figlia di un accordo tra il presidente russo Vladimir Putin e la sua allora controparte sudafricana, Jacob Zuma. Per questa ragione le compagnie minerarie stanno facendo incetta di permessi nel Karoo. Abbiamo visto, dunque, come l’impatto sulle risorse idriche delle fonti non convenzionali sia duplice. Da un lato c’è il rischio che questo boom incontrollato possa mettere a rischio bacini idrici fondamentali per l’agricoltura e la biodiversità attraverso la contaminazione. Dall’altro c’è l’impatto del prelievo idrico, che in alcune regioni come Cina, Venezuela, ma anche Regno Unito o Polonia (in entrambi i paesi si trovano fonti fossili non convenzionali), può intaccare per oltre due punti percentuali l’intero bilancio idrico. Può sembrare una sciocchezza, ma quando l’acqua è limitata, ogni goccia è preziosa. Allora, largo alle rinnovabili? Non sempre: a breve si vedrà come, anche per le energie pulite, essere idrosostenibili non sia sempre facile.

Biocarburanti L’acqua è fondamentale innanzitutto per i biocar buranti, considerati un combustibile a basse emissioni. Prodotti come il biodiesel sono la principale causa di estrazione idrica per la produzione di energia primaria, ovvero una fonte di energia presente in natura e quindi non derivata dalla trasformazione di nessun’altra forma di energia. La quantità impiegata varia a seconda che si tratti di culture irrigue o no, delle tecnologie d’irrigazione impiegate e del clima regionale. Si stima che il 2% del totale dell’acqua usata per irrigare colture sia finalizzata ai biocarburanti. 101 «L’acqua che uso per il mais da trasformare in sciroppo (un importante ingrediente dell’industria alimentare) è la stessa quantità con cui si produce bioetanolo», chiosa John Appleseed mentre sale sul suo piccolo trattore John Deere in una mattina soleggiata nei pressi di Des Moines, Iowa, una delle capitali mondiali della produzione di mais, con oltre 2,5 miliardi di bushels 102 raccolti, la più alta quota tra tutti e cinquanta gli stati dell’Unione. Il 39% del mais dello stato diventa etanolo, contribuendo così per un terzo al totale dell’etanolo prodotto in Usa, il doppio di quanto s’impiega come foraggio per gli allevamenti. 103 La fonte di approvvigionamento idrico per le 87.000 fattorie dell’Iowa, come quella di John, è una sola: il fiume Mississippi, il colosso alimentato dal Lago Superiore, nella regione dei Grandi Laghi, una delle più ricche d’acqua al mondo. Eppure si coltivano mais e altre piante da biocarburanti anche in regioni siccitose. Come in Senegal, dove si sono sottratte terre preziose all’agricoltura per coltivare piante da biocarburanti, utilizzando importanti risorse idriche. La soluzione in questo settore è legata all’impiego degli scarti di produzione agricola per scopo alimentare, che andrebbero da un lato a preservare importanti superfici di suolo, dall’altro sarebbero inclusi nell’impronta idrica del prodotto alimentare coltivato. Non verrebbe però eliminata l’ingente quantità d’acqua necessaria per la trasformazione degli organismi vegetali, siano essi primari o di scarto, in biocarburanti. Le bioraffinerie richiedono quantità d’acqua superiori alle raffinerie chimiche di idrocarburi.

I dati mostrano che in California l’intera impronta idrica del biodiesel è quasi mille volte superiore a quella di un diesel tradizionale, con variazioni significative a seconda dell’area (più o meno siccitosa) dove viene coltivata la pianta da bioraffinare. Le più assetate sono il mais, la canna da zucchero e la palma da olio, mentre jatropha e pongamia possono crescere in terre più aride. 104 Nella transizione verso un futuro low carbon i biocarburanti nel settore aereo avranno un ruolo importante. Ma serve valutare correttamente l’impronta ecologica complessiva e operare soluzioni cogenti. Un mondo di dighe Nessun accesso. Permesso non garantito. Mail inevase. Area non raggiungibile per ragioni di sicurezza. Il personale di ambasciata che sconsiglia di avventurarsi nella regione. Non è semplice avere informazioni su cosa stia succedendo nella Valle dell’Omo, in Etiopia, a fine 2017. Le autorità etiopiche sono nervose e hanno vietato l’accesso alla zona. Le tensioni tra il governo centrale e le popolazioni dell’Oromia e della Regione dei Popoli del Sud hanno portato a un blocco della circolazione nell’area. Giornalisti inclusi. Anzi, soprattutto i giornalisti. Dietro i tumulti della regione si staglia la diga Gibe III, a oggi la più grande d’Etiopia. Con 240 metri di altezza, 630 metri di larghezza in cresta, un bacino lungo 150 chilometri per alimentare le turbine da 1.870 megawatt di capacità produttiva, la diga è un progetto infrastrutturale di quelli che possono cambiare il destino di un paese, fornendo energia per la nascente industria e acqua per progetti di agrobusiness di larga scala. Insieme alla «sorella maggiore», la Grand Ethiopian Renaissance Dam, da 6.400 megawatt, in costruzione lungo il Nilo Azzurro (e fonte di tensione con i governi egiziano e sudanese), Gibe III rappresenta il tassello più importante della strategia aggressiva di investimenti energetici di Addis Abeba. Con una crescita economica vicina al 10%, fortemente sostenuta dalla Cina, e una popolazione di oltre 100 milioni di persone, l’Etiopia punta a diventare un paese di nuova industrializzazione, transitando da un’economia fortemente rurale a una di industria e servizi. Un

obiettivo ambizioso ma raggiungibile, fortemente sostenuto dall’ex primo ministro Hailemariam Desalegn, successore di Meles Zenawi, colui che per primo vide nell’idroelettrico il futuro dello sviluppo del paese. La diga, inaugurata il 17 dicembre 2016, fa parte di un gruppo a cascata di cinque dighe, di cui quattro sul fiume Omo, due già in funzione (Gilgel Gibe I e Gibe II, 420 MW), una in fase di costruzione, Gibe IV (1.472 megawatt), e una pianificata, Gibe V (560 MW), tutte realizzate dal costruttore italiano Salini Impregilo. Ma, se da un lato la strategia idroelettrica etiope sosterrà lo sviluppo della nona economia africana, dall’altro non mancano le controversie. «La diga non è stata pianificata con sufficiente attenzione agli impatti sociali e ambientali», spiega Rudo Sanyanga, direttore per l’Africa di International Rivers, un’organizzazione specializzata nell’analisi dell’impatto dei grandi progetti idro elettrici. «Per garantire l’illuminazione nella capitale e nel ricco nord, il governo non ha tenuto completamente conto dell’impatto sulle popolazioni tribali che vivono da millenni lungo l’Omo». Sin dall’inizio della pianificazione di Gibe III, iniziata nel 2006, è risultato evidente che il progetto aveva una serie di implicazioni ambientali e finanziarie poco chiare. Persino la Banca Mondiale, la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la Banca Africana per lo Sviluppo hanno negli anni declinato il sostegno finanziario al progetto, costringendo il governo etiopico a finanziare direttamente l’opera con il supporto di un prestito cinese da 440 milioni di euro. Secondo le ricerche di tre organizzazioni, Rivers International, Re:Common e Survival International, la sola Gibe III ha cambiato la vita di almeno 400.000 persone insediate lungo il fiume Omo, in un tratto di centinaia di chilometri a valle dell’invaso fino al bacino del Lago Turkana. 105 Le cause? La trasformazione del regime fluviale ha portato allo stop delle esondazioni alluvionali, fondamentali per l’agricoltura tradizionale, e il blocco degli elementi nutrienti portati dalla corrente dell’Omo ha reso meno fertili i terreni, mentre la realizzazione di una serie di megaprogetti di agrobusiness sta trasformando il territorio e la cultura delle comunità etniche locali, costringendole in alcuni casi al trasferimento.

Per la Joint Lenders Fact Finding, la missione di valutazione degli organismi finanziatori voluta nel 2009 dai costruttori, «gli impatti diretti imputabili al progetto erano minimi». L’effetto complessivo dell’invaso sulle popolazioni a monte della diga, continua il testo, sarebbe stato «di lieve entità, coinvolgendo solo 58 nuclei familiari rurali preventivamente consultati». Salini Impregilo, contattata durante la realizzazione di questo libro e per una serie di articoli giornalistici, non ha mai risposto alle numerose mail inviate per un commento. Nei piani del governo, però, non c’è solo elettricità. Essendo Gibe III una diga muraria a volta, ciò ha com portato la creazione di un imponente bacino idrico di quattordici milioni di metri cubi, in fase di riempimento. Che fare di tutta quest’acqua «ammaestrata» dalla diga, in una regione a prevalenza di agricoltura non irrigua? La risposta sembra essere: monocolture di larga scala, possibilmente destinate a biocarburanti. La prima a salire sul treno è stata la Sugar Corporation, la nazionalizzata etiope specializzata nella produzione di zucchero raffinato ed etanolo, con il progetto Omo-Kuraz Sugar, 175.000 ettari di piantagioni commerciali dissetate dall’invaso della Gibe III, per l’export verso Europa e Cina. Da qui usciranno annualmente 1,3 milioni di tonnellate di zucchero e oltre 130.000 metri cubi di etanolo. Per le popolazioni locali la «rivoluzione» «ha portato trasferimenti forzati, confische e perdita dei terreni, 106 comunità separate e lavori usuranti», commenta una fonte dell’area raggiunta telefonicamente – una delle poche disposte a parlare – che per tutelare la propria incolumità preferisce non rivelare l’identità. «Hanno confiscato i pochi cellulari e reso l’area inaccessibile a chiunque. Quando il progetto sarà completato torneranno ad aprire le strade. E tutti avranno dimenticato com’era prima». Per cercare di far chiarezza, tra le informazioni degli attivisti e il silenzio tombale del governo, sugli impatti di Gibe III e Omo-Kuraz Sugar, è stata realizzata una missione composta dai rappresentanti diplomatici di ventotto paesi donatori di aiuti all’Etiopia. La missione ha confermato in un report la mancanza di adeguate informazioni e consultazioni delle persone coinvolte nel trasferimento, e il fatto che a decine di migliaia sono o saranno costrette ad abbandonare il loro

tradizionale stile di vita, volenti o nolenti, senza alternative economiche certe. In una risoluzione del Parlamento italiano, sostenuta nel giugno 2016 dalle deputate del Partito democratico Chiara Braga e Lia Quartapelle, emerge come in Italia, uno dei principali partner commerciali e per lo sviluppo dell’Etiopia, ci sia una preoccupazione crescente sugli impatti di Gibe III e dei nuovi progetti Gibe IV e V di futura realizzazione. Si critica il progetto, si legge nel testo, «in merito all’impatto socio-ambientale nella bassa Valle dell’Omo e sul coatto trasferimento di intere comunità native, sulla perdita dei mezzi di sostentamento da agricoltura da recesso». 107 Nessuna azione è stata intrapresa per fermare lo scempio. Che non è più una questione etiopica, ma lentamente si sta trasformando in una disputa internazionale con il vicino Kenya, a causa degli impatti sull’area del Turkana, di cui si discuterà nel capitolo 6. Intanto Salini Impregilo ha siglato l’inizio dei lavori con Ethiopian Electric Power (Eep) per Gibe IV, un nuovo impianto idroelettrico sull’Omo, destinato a produrre 1472 MW. Prezzo stimato, 1,6 miliardi di euro, che saranno molto probabilmente – stando a indiscrezioni – finanziati da Servizi assicurativi del commercio est ero (Sace). 108 Il progetto, come già avvenuto con il progetto Gibe III, è stato assegnato a Salini senza gara d’appalto. Un’assegnazione dovuta agli stretti legami con la politica etiope. L’Italia, fin dagli anni Settanta, grazie al ruolo aggressivo di Salini (fusasi nel 2014 con Impregilo), ha progettato e costruito praticamente tutti i principali impianti idroelettrici del paese: il gruppo Gilgel Gibe, Dire, Legadadi e Little Beles, e infine l’opera delle meraviglie, la Grand Ethiopia Reinassance Dam. Ma, nonostante il coinvolgimento di una grande azienda di un paese del G7, per il momento quali saranno gli impatti reali non è dato sapere. Per tanti etiopici e kenyoti le dighe hanno acceso un sogno, quello dell’indipendenza energetica, e alimentato un incubo, il water grabbing nei confronti delle popolazioni locali. Ma sono tutte «cattive» le dighe? La prima risale a un periodo tra il 2950 e il 2750 a.C., in Egitto. Lo scopo era raccogliere acqua per l’agricoltura. Nel 1850, in California, senza la realizzazione di 1.400 dighe lo stato non sarebbe potuto diventare la superpotenza economica che è oggi. Alla fine del XVIII secolo inizia lo sfruttamento

dell’energia idroelettrica, e successivamente la realizzazione delle prime megadighe come quella di Assuan (1902) e la colossale Hoover Dam (1931). Oggi si stima che nel mondo ci siano oltre 900.000 dighe, di cui 40.000 di grandi dimensioni. Sebbene l’energia che sfrutta la forza dell’acqua costituisca il 70% circa del mix di energie rinnovabili e garantisca una quantità totale di emissioni inferiore alle centrali a fonti fossili, gli impatti complessivi non sono sempre positivi, come abbiamo visto dalla triste storia etiopica. Specie quando le dighe non sono pianificate con attenzione all’ambiente e alle popolazioni locali. Tra gli effetti negativi s’includono il trasferimento forzato di migliaia di persone, la sottrazione di risorse a piccoli agricoltori e pescatori, l’estinzione di numerosi animali acquatici, la distruzione di aree umide e foreste, il blocco del flusso dei detriti. La crescita demografica e la crescente richiesta di acqua per l’agricoltura ha accelerato la costruzione di megadighe, grazie anche al ruolo centrale dei grandi finanziatori cinesi, con 330 dighe finanziate in 74 paesi. 109 Dopo aver costruito la diga più grande al mondo, la diga delle Tre Gole (18,2 GW) nella provincia di Hubei, ora la Cina, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra e il consumo di carbone, vuole costruire un centinaio di megadighe, molte delle quali su fiumi transfrontalieri, destando la preoccupazione dell’India e dei paesi del Sud-est asiatico. Anche il Brasile ha deciso di investire pesantemente in impianti idroelettrici in Amazzonia. Oltre quaranta sono i progetti nel bacino Tapajós, a ovest di Santarém, con l’obiettivo di produrre 25 GW di energia idroelettrica entro il 2025. Non da meno i paesi africani, in particolare Etiopia, come abbiamo visto, e Repubblica democratica del Congo, che, grazie ai finanziamenti cinesi e internazionali, stanno sviluppando numerosi progetti di rilievo. Gli impatti sulle popolazioni sono fuori scala. La sola diga delle Tre Gole ha causato lo spostamento di oltre 1,2 milioni di persone; la più piccola Merowe Dam, in Sudan, ha costretto al trasferimento oltre 50.000 persone. Nessuna compensazione economica è s tata mai erogata. Un’altra area contesa, dove le dighe giocheranno un ruolo importante nella sottrazione di acqua per generare energia, è il bacino del Mekong.

Dall’altopiano del Tibet il fiume attraversa la provincia cinese dello Yunnan, la Birmania, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam, dando sostegno a oltre 200 milioni di persone. Costruire più di trentanove megadighe lungo il suo corso andrà ad alterare questo equilibrio. Con le significative ripercussioni sulla sicurezza alimentare che vedremo meglio nel capitolo 4. «Le future crisi idriche minacciano di rallentare il settore chiave per alleviare la povertà nel Sud-est asiatico, l’agricoltura – sostiene Brahma Chellaney –. Il rischio è che possano esplodere tensioni politiche legate al Mekong, se gli stati non cooperano per affrontare le nuove sfide». 110

85 Secondo il Global Carbon Atlas , consultato il 20/12/2017 (http://globalcarbonatlas.org/en/CO2-emissions). 86 I dati sono stati forniti su richiesta degli autori. 87 P. Abdul Salam, Sangam Shrestha, Anil Kumar Anal, Vishnu Prasad Pandey (eds.), Water-Energy-Food Nexus: Principles and Practices , Wiley, Indianapolis IN 2017. 88 Carlos A. Nobre, Jose A. Marengo, Marcelo E. Seluchi, L. Adriana Cuartas, Lincoln M. Alves, Some Characteristics and Impacts of the Drought and Water Crisis in Southeastern Brazil during 2014 and 2015 , vol. 08, 2016 (http://bit.ly/2FqmXqf). 89 Accadde il 30-31 luglio 2012, con due blackout distinti. 90 Fece eccezione l’Indira Gandhi Delhi Airport. 91 Elizabeth J. Kendon, Nigel M. Roberts, Hayley J. Fowler, Malcolm J. Roberts, Steven C. Chan and Catherine A. Senior, «Heavier summer downpours with climate change revealed by weather forecast resolution model», in Nature Climate Change 4, n. 7 (july 2014). 92 Matteo Bisaglia, et al. , «Implementazione di un modello per la stima del deficit irriguo estivo in alta pianura veneto-friulana e prima applicazione in adattamento ai cambiamenti climatici», in Journal of Agrometeorology , n. 2 (2011; http://bit.ly/2FqeCCN). 93 AA.VV., World Energy Resources Hydropower , 2016, World Energy Council, 2017 (http://bit.ly/2mkk8y5). 94 Modello Boiling Water Reactors (Bwr). 95 Modello Pressurized Water Reactors (Pwr). 96 Debra Tan, Feng Hu, Hubert Thieriot, Dawn McGregor, Towards A Water & Energy Secure China: Tough Choices Ahead in Power Expansion with Limited Water Resources , China Water Risk Report, Hong Kong 2015 (http://bit.ly/1IeZ1jV). 97 Ibidem . 98 John C. Dernbach and James R. May (eds.), Shale Gas and the Future of Energy: Law and Policy for Sustainability , Edward Elgar Publishing, Cheltenham (UK) / Northampton MA (USA) 2016. 99 Acronimo di Steam Assisted Gravity Drainage. 100 Su www.tarsandsworld.com/china, consultato l’1/10/2027. 101 P. Abdul Salam, op. cit. 102 In italiano, « staio» è la misura di capacità usata per aridi e liquidi nel Regno Unito e per soli aridi negli Usa e in Canada. Negli Stati Uniti, per convenzione, un bushel equivale a 27,216 kg di grano; 25,4 kg di mais; 21,772 kg di orzo; 25,301 kg di segale; 14,515 kg di avena; 27,216 kg di soia. 103 Fonte: www.iowacorn.org/corn-uses/ethanol, consultato il 10/10/2017. 104 Kevin R. Fingerman, Margaret S. Torn, Michael H. O’Hare and Daniel M. Kammen, «Accounting for the water impacts of ethanol production», in Environmental Research Letters 5, n. 1 (2010): 014020 (http://bit.ly/2AQRmu4). 105 Giulia Franchi e Luca Manes, Che cosa c’ è da nascondere nella Va lle dell’Omo? Le mille ombre del sistema Italia in Etiopia , Re:Common, Roma 2016 (http://bit.ly/2nxxsRf). 106 Le popolazioni locali non possiedono alcun tipo di documento che comprovi la proprietà dei terreni. 107 Risoluzione di Mercoledì 22 giugno 2016 – 34 – Commissioni riunite (III e VIII) Allegato 7-00994 Braga: Sull’impegno dell’Italia per lo sviluppo umano e ambientale dell’Africa (http://bit.ly/2o7jCoP).

108 Sace è una società finanziaria controllata al 100% dal Gruppo Cassa depositi e prestiti, la banca controllata in maggioranza (80%) dal ministero dell’Economia italiano. 109 Fonte: http://bit.ly/2E80yAT, consultato il 3/11/2017. 110 Brahma Chellaney, Water: Asia’s New Battleground , Georgetown University Press , Washington DC 2013.

4. LA SETE DELL’AGRICOLTURA E DELL’ALLEVAMENTO

Non conosciamo mai il valore dell’acqua finché il pozzo non si prosciuga. Thomas Fuller Per arrivare al lago Turkana occorrono tre giorni di 4x4 da Nairobi. Strade sterrate, spesso mal segnate, che solo le guide locali sanno riconoscere. La fatica è compensata del senso di meraviglia nel ritrovarsi di fronte a uno specchio blu in mezzo alla terra bruciata, alle rocce vulcaniche e ai cespugli nel cuore pulsante dell’Africa, la Rift Valley. Il Turkana è il più grande lago permanente in luogo desertico ed è anche il più grande lago alcalino del mondo. Essendo un bacino chiuso, tutta l’acqua che vi si riversa evapora lentamente per effetto delle alte temperature del luogo. Alimentato da tre fiumi (l’Omo a nord, il Turkwel e il Kerio a sud), prende il nome dalle nobili tribù dei Turkana, il «popolo del bue grigio». Nei pressi delle sue sponde vivono numerosi altri gruppi, come i Daasanach, che vivono di pastorizia. Una vita semplice, che li accomuna a un’altra popolazione, i Cara, che sono vissuti nella Rift Valley per millenni in armonia con l’ambiente, facendo agricoltura di sussistenza nonostante il clima torrido, aiutati dalle esondazioni cicliche dei fiumi. Poi qualcosa, una decina di anni fa, è cambiato. I corsi d’acqua non hanno più sorpassato gli argini naturali, le esondazioni del fiume sono diminuite. Chi faceva l’agricoltore ha iniziato ad allevare, chi allevava ha iniziato a darsi alla pesca, per secoli un tabù per gli abitanti della Valle dell’Omo. Il livello del lago è sceso. «La situazione è preoccupante: sempre più persone si contendono i pesci del Lago Turkana», spiega l’idrologo dell’African Studies

Center di Oxford, Sean Avery. Il lago è eccessivamente esposto al prelievo di acqua legato ai progetti di agrobusiness, sostenuti dagli invasi delle dighe Gibe III e Gibe IV, mentre il controllo del flusso del fiume ha interrotto le esondazioni fluviali, necessarie per la coltivazione delle terre, in aree dove l’irrigazione meccanica non è mai esistita. «Il degrado e l’abbassamento di livello del Lago Turkana, dalle cui acque e riserve ittiche dipendono altri 300.000 indigeni, potrebbe raggiungere un livello critico in pochi anni – racconta con dovizia di particolari Avery –. Il risultato potrebbe essere equivalente al prosciugamento del Lago d’Aral o a quello che sta accadendo al Mar Morto e al Lago Ciad. Secondo le stime, il regime idrico al delta dell’Omo si ridurrà del 50%, al punto che il lago potrebbe dividersi in due laghi minori, uno a nord alimentato dall’Omo e uno a sud, che sopravvivrebbe con l’apporto dei fiumi Kerio e Turkwel». Molteplici testimonianze raccolte mostrano come ci si stia avviando verso una crisi alimentare. Che potrebbe essere risolta in maniera non pacifica. Narissa Allibhai, fondatrice del Save Lake Turkana Movement, ha speso mesi nella regione del Turkana intervistando le popolazioni locali per valutare gli impatti potenziali della diminuzione delle acque. Esistono poche persone informate come lei. «La siccità e l’abbassarsi delle acque del lago stanno alterando i rapporti tra i gruppi etnici. I conflitti stanno aumentando, in particolare tra le comunità di pescatori, poiché sono diminuite le aree di pesca. Un anziano di un villaggio ha detto: “Se moriremo di fame, inizieremo a combattere”». I Daasanach, preoccupati per l’impossibilità di coltivare e allevare, continuano a spostarsi, dando luogo a scontri per il territorio al confine tra Kenya ed Etiopia, contendendosi le sponde del Lago Turkana per la pesca. Il governo keniano rimane in disparte. Per gli attivisti l’ignavia governativa è scontata. «Il Turkana è una delle zone più marginalizzate del Kenya. Il governo di Mwai Kibaki (al potere dal 2002 al 2013) ha firmato un accordo per importare energia idroelettrica dell’Etiopia prodotta con la diga Gibe III. Per queste ragioni Nairobi, fino al 2017, sebbene abbia aperto un tavolo di discussione con Addis Abeba, non ha intrapreso alcuna azione significativa», continua Allabhai.

«La Rift Valley sta vivendo una trasformazione della sua agricoltura tradizionale, che richiede di essere documentata e ricordata», spiega il fotografo Fausto Podavini, che da oltre cinque anni lavora in queste zone per un progetto fotografico di lungo respiro sulle trasformazioni della regione. 111 Le sue immagini raccontano con drammaticità una crisi in divenire, dove l’acqua per la sussistenza alimentare è de facto sottratta senza alcun consulto con le popolazioni locali, senza una pianificazione sostenibile né una progettazione partecipate da parte del governo etiopico e della Salini, responsabili della costruzione delle dighe sull’Omo, causa scatenante della crisi della Valle dell’Omo e del Turkana. Competizione crescente La storia del Turkana è comune a tanti territori. Scarsità idrica, strategie di controllo delle acque e mancanza di cooperazione tra regioni e paesi rappresentano una seria minaccia alla sicurezza alimentare di interi popoli. Senza questa fonte vitale, l’agricoltura e l’allevamento vanno in crisi. Senza pianificazione e cooperazione non si può ottenere un reale diritto di accesso all’acqua per tutti. E dunque il water grabbing diventa un furto della sicurezza alimentare. Vediamo in che modo. Sebbene il mondo abbia oggi 7,5 miliardi di abitanti, dal punto di vista dell’offerta si può affermare che c’è cibo sufficiente per tutti. Non abbiamo ancora superato il punto in cui saremo talmente tanti che la Terra non potrà più saziarci. La fame è, piuttosto, la conseguenza di conflitti politici, problemi ambientali, mancanza di condivisione di saperi e di tecnologie, frutto di squilibri sociali globali. La vera domanda, tuttavia, è la seguente: c’è abbastanza acqua per nutrire tutti, con una dieta ricca e nutriente come quella dei principali paesi industrializzati? Quando è che l’accaparramento delle risorse, in uno scenario di scarsità, diventa un ostacolo al superamento della fame nel mondo? La risposta è complessa. Indubbiamente lo scenario varia da regione a regione. Nel Midwest americano e nell’Europa continentale c’è abbondanza di acqua. Mentre in aree sotto stress idrico e povere di infrastrutture (Africa subsahariana, Asia centrale) la situazione versa in condizioni

allarmanti, con alcune crisi alimentari e umanitarie aperte da anni, come Siria, Iraq, Afghanistan, Eritrea, Somalia e aree meno note come Papua Nuova Guinea. Sono le grandi aree fertili ma con una reale scarsità d’acqua, quelle cui bisogna guardare. L’agricoltura pesa per oltre il 70% del prelievo idrico mondiale, con quote variabili tra stati industrializzati (dove il prelievo è ridotto) e paesi meno sviluppati (dove il prelievo raggiunge il 98% del totale). Si è visto anche come il cambiamento climatico può influenzare pesantemente il prelievo idrico legato alle colture e all’allevamento, a causa di estati più lunghe e più calde, mentre allo stesso tempo le trasformazioni nel regime pluviale e nevale riducono l’apporto dei fiumi, con bacini sempre più scarichi e sfruttati. In alcune aree, oggettivamente, non si può aumentare l’offerta di acqua, se non con tecnologie di desalinizzazione o costosissime mega-opere di canalizzazione e trasferimento di massicce quantità d’acqua da regioni dove c’è un surplus. Dato che queste soluzioni sono poco praticabili, specie nei paesi meno sviluppati, oggi stiamo assistendo a una crescente competizione tra settori, con una domanda sempre crescente da parte di agricoltura e allevamento, dato l’aumento delle popolazioni e la trasformazione del regime dei consumi. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per la valutazione delle risorse idriche mondiali (Un-Wwap), il prelievo idrico, in uno scenario tecnologico invariato, aumenterà di pari passo con l’aumento della produzione alimentare dei prossimi quarant’anni. Insomma, se continuassimo a fare agricoltura con i metodi odierni, servirebbe un aumento della produzione alimentare e un conseguente incremento del prelievo idrico tra il 20 e il 40%. 112 Eppure, dalla California all’Africa subsahariana, dal Brasile all’Asia centrale, tra cambiamenti climatici ed esaurimento degli acquiferi, numerosi stati hanno già superato la soglia massima di prelievo per uso agricolo, specie in aree considerate granai del mondo. Se non c’è acqua, questo aumento della produzione alimentare, ritenuto necessario dall’Onu per sfuggire alla fame cronica, semplicemente non può avvenire. E le situazioni estreme mostrano scenari futuri preoccupanti. Nei paesi più siccitosi, come Eritrea, Sud Sudan e Afghanistan, la scarsità d’acqua è la causa primaria del peggioramento dell’Indice della fame. La sottonutrizione nei territori del Corno d’Africa colpisce oltre

il 50% dei bambini a causa dell’assenza d’acqua per allevamenti e colture. Gli squilibri avvengono per due ragioni: da un lato, modelli di consumo alimentare sbilanciati, come lo spreco alimentare, il consumo di carne, il sovraconsumo; dall’altro, il commercio globalizzato dei prodotti alimentari che sbilancia l’equilibrio idrico, poiché, quando s’importa cibo, s’importa anche acqua, quindi si va di fatto a sottrarre la risorsa acqua a regioni dove già è scarsa. Sul banco degli imputati: lo spreco… Analizziamo innanzitutto come sprechiamo acqua per cibo virtualmente non necessario per la sicurezza ali mentare globale, a causa di costumi alimentari e abitudini culturali superabili o modificabili. In primis va visto cosa mangiamo e quanto. Sul banco degli imputati compare spesso la crescita del consumo di carne globale. Secondo la Fao, la produzione, stimata nel 2013 a 308,5 milioni di tonnellate, nel 2016 è salita a 321 milioni. E si pensa che raggiungerà i 335 milioni nel 2019. 113 Una crescita più evidente tra le economie emergenti – in particolare nel continente asiatico –, dove il mercato della carne quasi raddoppierà entro il 2020. 114 I paesi protagonisti di questo incredibile aumento dei consumi sono Cina e India, dove negli ultimi anni si è affermata – ed è in continua crescita – una forte domanda di carne da parte dei nuovi rappresentanti del ceto medio, in cerca di consumi più sofisticati e cospicui. L’evoluzione del sistema produttivo segue sempre lo stesso percorso: si passa da un sistema di allevamento estensivo non industriale, in cui gli animali sono lasciati al pascolo e la lavorazione della carne avviene nelle vicinanze dell’azienda, a un allevamento di tipo intensivo, in cui gli animali vivono confinati e le carni vengono trasformate e distribuite anche a grande distanza della località di origine per soddisfare appetiti che richiedono una pietanza di carne, anche più volte al giorno. Spesso in maniera indifferente al fatto che la produzione intensiva si sviluppi in regioni a forte scarsità idrica, come dimostrano i mega-allevamenti in Brasile, in Pakistan, nel Chaco paraguayano, in California, Nevada e Colorado. Anche l’Africa sta lentamente risalendo la catena alimentare. Il consumo sale, sebbene tanto l’offerta come la domanda non

raggiungano le quote di Asia e Sud America. La produzione di carne dell’intero continente si aggira intorno ai 10,5 milioni di tonnellate, e il consumo pro capite è ancora decisamente ridotto (circa 20 kg di carne/anno, contro i 78 in Italia). 115 Per fronteggiare una simile crescita dei consumi è essenziale l’utilizzo di pratiche rispettose dell’ambiente, spiega il giornalista e comunicatore Andrea Bertaglio. 116 L’incremento della produzione alimentare si deve quindi fondare su un più efficiente utilizzo delle aree già esistenti e sulla riduzione degli impatti dell’allevamento. Secondo imputato, lo spreco alimentare. Ogni giorno, un terzo della produzione di cibo mondiale non raggiunge i nostri stomaci. Nelle abitazioni di miliardi di persone, nei ristoranti, nei supermercati, nei magazzini, si buttano quantità immense di cibo. Cattiva gestione e una perdita del valore reale degli alimenti, divenuti merce da consumare e buttare senza problema. 117 Magari quando è ancora edibile. «Noi non diamo più valore al cibo. Abbiamo smesso di dargli un significato. Dobbiamo combattere la perdita di questo valore, più che lo spreco in sé. È una lotta che ci porterà a restituire un senso al cibo e alle relazioni e quindi a far capire l’importanza di ogni boccone», afferma Andrea Segrè, presidente di Last Minute Market, uno spin-off dell’Università di Bologna fondato per riutilizzare i prodotti invenduti dei supermercati. 118 La lotta allo spreco ha importanti riflessi sull’ambiente. Dal punto di vista energetico, il solo spreco alimentare contribuisce ogni anno all’emissione di 3,3 gigatonnellate di CO 2 , una cifra superiore a quanto emesso dalle automobili di tutto il mondo. 119 Anche l’Italia, notoriamente virtuosa a livello globale per lo spreco alimentare, non è esente. Nonostante gli sforzi, ogni anno si buttano 1,19 milioni di tonnellate di alimenti. Al supermercato, lo scontrino di cibo sprecato dagli italiani supererebbe gli otto miliardi di euro. Diviso «alla romana», sono 6,5 euro a testa. In termini di acqua, l’impatto del cibo non consumato è spaventoso. Si stima che nel mondo si buttino per lo spreco alimentare circa 250 chilometri cubi di acqua, l’equivalente del flusso annuale dell’intero Volga. In altre parole, il 24% del totale dell’acqua usata in agricoltura. Parliamo di 1,4 miliardi di ettari di terra, una superficie equivalente all’intera Mongolia, che richiedono di essere irrigati, in molti casi con l’uso di pompe d’irrigazione, ma il cui cibo non servirà

mai per alimentarci. Si tratta di cibo «rubato dalla tavola dei poveri e degli affamati», per dirla con papa Francesco. In questo caso, però, sul banco degli imputati al primo posto non c’è la carne. Sebbene un chilo di carne richieda quasi dieci volte l’acqua necessaria per un chilo di grano, le stime mostrano che sprechiamo nettamente meno carne che non frutta e verdura. Nelle zone aride del Nord Africa e in Asia centrale e occidentale, metà degli ortaggi vengono buttati (per unità di peso), a causa dell’assenza di una catena del freddo appropriata e sistemi di gestione degli stock. Maglia nera per il latte. Negli Stati Uniti si buttano oltre 130 milioni di litri di latte, 120 e in Europa oltre 300 milioni. 121 Se consideriamo che per fare un litro di latte servono in media 255 litri d’acqua, i conti dell’impronta idrica son presto fatti. Una delle ragioni alla base dello spreco è l’abitudine di non consumare latte prossimo alla scadenza. Il latte fresco è uno dei pochissimi prodotti alimentari con una scadenza fissata per legge (sette giorni a partire dal giorno di confezionamento), anche se, quando la materia prima è di buona qualità e la bottiglia viene conservata correttamente nel frigorifero di casa, si può bere alcuni giorni dopo, senza problemi. Una nota interessante: il latte biologico ha una durata di vita superiore a quello tradizionale. 122 … e il sovraconsumo Allo spreco si aggiunge il sovraconsumo, il terzo imputato. Un’«epidemia», così l’Organizzazione mondiale della sanità definisce l’eccessivo consumo di calorie. Nel mondo ci sono oggi 2,1 miliardi di persone sovrappeso od obese. Persone che rischiano gravi malattie e la cui aspettativa di vita è ridotta. Mediamente, un obeso 123 vive sette anni meno di chi rientra col peso nella norma. Negli Usa, circa il 35% degli uomini è obeso, il 38% è in sovrappeso. «L’America deve dimagrire, l’obesità è una piaga sociale ed economica che costa», dichiarò nel 2009 Michelle Obama, allora first lady , inaugurando il programma «Let’s move», uno dei capisaldi del suo mandato. 124 Un programma vanificato dal nuovo presidente. Melania Trump ha dovuto lottare, per tenere l’orticello biologico degli Obama, contro il marito che voleva farci un green per il golf.

Nemmeno la culla della dieta mediterranea è esclusa: in Italia, nel 2016, il 10,4% delle ragazze e il 14,5% dei ragazzi tra i 10 e i 16 anni erano obesi. 125 Percentuale che scende nella fascia dei bambini fra i 6 e 10 anni, fermandosi al 9,3%: risultato incoraggiante, anche se nel 1970 solo circa il 3% dei bambini era in sovrappeso. 126 Per comprendere l’impatto idrico del sovraconsumo, due ricercatori italiani, Mauro Serafini ed Elisabetta Toti, hanno creato un nuovo indice, il Metabolic Food Waste (spreco di cibo metabolico), ovvero una misura della quantità di cibo consumato oltre il fabbisogno metabolico, e della relativa impronta carbonica e idrica. 127 Da questa analisi emerge che i soggetti in sovrappeso e obesi italiani consumano rispettivamente, in media, 63,1 chili e 127,2 chili di alimenti in più. 128 Questo surplus ha un equivalente idrico stimato a 2,2 miliardi di metri cubi d’acqua e un equivalente di emissioni di 4 miliardi di tonnellate di CO2 . 129 Il tutto, per colpa di una patologia non semplice da trattare e di educazione insufficiente. Leggere queste cifre vi ha tolto l’appetito? Land grabbing è water grabbing Amadou pulisce il finestrino del suo pick-up Toyota con un fazzoletto lurido. Guarda nervosamente per vedere se arrivi qualche macchina. Poco lontano, Giada Connestari sta scattando foto di un terreno di proprietà della Senhuile-Senethanol, una società controllata dal gruppo italiano Tampieri 130 che ha acquisito terreni nell’area di Ndiaël, regione di Saint-Louis, al confine del Senegal con la Mauritania. «Questi si sono presi oltre 25.000 ettari di terra coltivata per produrre bioetanolo», spiega Makhary «Poker» Samb, segretario generale aggiunto della Confederazione democratica dei sindacati liberi del Senegal che per anni ha contestato il progetto, nato nel 2012. Ci sta accompagnando per vedere una serie di progetti legati all’irrigazione sostenibile, alimentata dalle pompe a energia solare realizzate dall’organizzazione non governativa (ong) Green Cross Italia. Ma c’è tempo per una breve deviazione. «Il lotto principale dovrebbe essere coltivato a jatropha, un arbusto usato per produrre biocarburanti. Ma lo sviluppo sta subendo continui rallentamenti»,

spiega Makhary. Il progetto ha sottratto vari terreni ai locali, che in cambio hanno avuto un lavoro da braccianti sottopagati. Anzi nemmeno quello, visti i continui stop, che hanno irritato parecchio i potenti sindacati senegalesi. Amadou si agita. Arriva un pick-up nero, con due uomini armati a bordo. «Sicurezza – dicono svogliatamente –. Non potete stare qua». «Siamo sulla strada – ribattiamo – e non ci sono divieti per fare foto a progetti agricoli». Niente da fare, meglio levare i tacchi. Il fatto che la sicura non sia inserita nel vecchio Ak-47 della guardia sul cassone del pick-up ci innervosisce. L’industria delle biomasse per carburanti nel Sahel si sta rivelando un potenziale incubo per gli investitori, oltre che per la popolazione locale. I fattori sono molteplici. Innanzitutto la zona saheliana è esposta alla più grande erosione legata al cambiamento climatico registrata dagli scienziati. «Il 2014 è stato ancora una cattiva annata per le piogge, soprattutto nella regione del Sahel. Piove pochissimo e l’agricoltura richiede più acqua», spiega Séga Camara, direttore del Commissariat à la sécurité alimentaire senegalese durante una riunione nel suo ufficio in un quartiere periferico di Dakar. «Questo comporta un aumento della popolazione esposta a grave insicurezza alimentare, che si dovrà aiutare nel periodo post-raccolto, se non ci sono sufficienti prodotti». Una situazione molto grave, ribadisce Vincent Martin, direttore Fao per il Senegal. «Qui serve un’agricoltura che offra soluzioni integrate al problema climatico». Per Amadou, che di politiche ambientali dice di non capirne molto, la situazione è semplice: i terreni per biocarburanti non devono competere con le strategie di autosufficienza alimentare nazionali. «Il Senegal ha puntato tutto sul riso per garantirsi l’autosufficienza alimentare – continua Camara –. Oggi importiamo circa 700-800.000 tonnellate. Questo pesa nella bilancia commerciale. Eppure abbiamo aumentato la produzione del 28%». Il riso si coltiva soprattutto lungo il fiume Senegal, vicino a piantagioni di canna da zucchero. «In questo modo l’agrobusiness non-food va a competere con queste colture, a cui si aggiunge l’orticultura (sostenuta anche dalla cooperazione italiana, NdA ) in particolare per l’acqua». Il caso Senhuile , in questo senso, è emblematico. Secondo ActionAid, oltre 9.000 persone da trentasette villaggi si sono viste limitato l’accesso

alla terra e all’acqua (data l’assenza di una legge sul catasto, oggi in fase di revisione) a motivo del progetto. 131 Negli ultimi anni, vari attori, dai governi alle grandi aziende nazionali e straniere, al settore della finanza, han no dato il via a un’effettiva appropriazione su scala mondiale dei terreni agricoli, in particolare nei paesi in via di sviluppo. Oltre 30 milioni di ettari, di cui una buona parte nell’Africa subsahariana, sono stati accaparrati da imprese private, soprattutto da Cina ed Emirati Arabi Uniti, in cerca di nuove terre per soddisfare il fabbisogno alimentare interno e per allargare il mercato di prodotti non-food derivati da biomasse (forestali o agricole), come biocarburanti e altri materiali di origine organica. Questo processo è caratterizzato da investimenti su larga scala per lo sviluppo rurale, che spesso vanno a scarso beneficio delle popolazioni, favorendo invece stakeholder delle grandi corporation dell’agrobusiness. Di fatto è una nuova corsa all’accaparramento di terra, meglio conosciuto come land grabbing. Coinvolge almeno quarantun paesi grabbers , accaparratori, e sessantadue grabbed , accaparrati, dove l’accesso, l’uso e il diritto alla terra vengono controllati e gestiti in maniera privatistica, provocando effetti negativi sui diritti umani, sulla sicurezza alimentare locale, sui mezzi di sussistenza rurali e sui territori. Il fenomeno per il momento è stagnante: gli accordi di land grabbing tra il 2012 e il 2016 sarebbero passati da 400 a 491, mentre la superficie interessata sarebbe scesa da 35 milioni di ettari a circa 30, a causa del collasso di alcuni megaprogetti. 132 Come l’investimento Daewoo, una compagnia sudcoreana, in Madagascar, volto a ottenere il controllo di 1,3 milioni di ettari di terreno, pari a oltre la metà delle terre coltivabili del paese, per la produzione di granturco e olio di palma. Non pagando nemmeno un centesimo ma promettendo di creare 45.000 posti di lavoro. 133 La risposta non si è fatta attendere, portando rapidamente al crollo del governo e alla cessazione dell’accordo commerciale voluta dal nuovo presidente Rajoelina. Eppure, per molti paesi occidentali europei, i paesi del Golfo, Cina, Giappone e Corea, il futuro spinge verso una crescente acquisizione di nuove terre, magari con accordi maggiormente equilibrati, favorendo le colture

alimentari. Se la terra diventa un bene commerciale, il libero mercato non pone veti alla compravendita. Quando si parla di land grabbing, non si parla solo di suolo fertile sottratto a comunità e imprese locali da parte di grandi compagnie dell’agrobusiness. In una zona come quella lungo il fiume Senegal, dove l’acqua è scarsa e si sono rese necessarie colture a bassa impronta idrica, progetti di agrobusiness estensivi come la coltivazione di jatropha significano anche water grabbing. Significano sottrarre acqua alle popolazioni locali, che diventano così meno resilienti. Significano esportare ac qua (sotto forma di prodotto alimentare) da paesi a grande scarsità idrica verso regioni che hanno acqua ma non suolo fertile disponibile. Magari perché la manodopera (e l’acqua) costano quasi nulla e quindi i prezzi dei prodotti agricoli si assestano su quote più basse. Di esempi v’è grande abbondanza. Dall’acqua raccolta dai bacini della diga Gibe III per irrigare le piantagioni di zucchero realizzate dal governo etiopico lungo il fiume Omo o le piantagioni nella regione di Gambela, di proprietà del miliardario saudita Mohammed al-Amoudi, alimentate dalla diversione delle acque del fiume Alwero, ai progetti in Swaziland. Analizzando la relazione tra land grabbing e water grabbing, vediamo che i paesi maggiormente colpiti sono il Gabon, la Repubblica democratica del Congo, Sudan/Sud Sudan, rispettivamente con 4.450, 2.380 e 1.850 metri cubi di acqua pro capite sottratti annualmente attraverso l’acquisizione di terre. 134 Vien da chiedersi perché acquisire terreni, invece di siglare accordi decennali di importazione di prodotti alimentari. Perché significa, da un lato, avere maggiori garanzie in caso di crisi alimentari e, dall’altro, avere il controllo anche sulle fonti idriche. Ogni elemento del pianeta è sempre più visto come un bene di mercato. La mercificazione (passaggio da bene comune a bene economico), la liberalizzazione e privatizzazione (apertura al mercato e alle imprese private della gestione), la finanziarizzazione, puntano alla trasformazione di una risorsa naturale liberamente fruibile in asset finanziari, che possono essere scambiati sulle principali piazze azionarie globali. Ecco perché il water grabbing rappresenta uno dei processi più diffusi di appropriazione, privatizzazione,

depauperamento, commercializzazione terreni, risorse idriche e risorse naturali.

e

finanziarizzazione

di

Acqua virtuale Quando facciamo la spesa, ignoriamo quanta acqua è stata necessaria per produrre gli alimenti che tutti i giorni imbandiamo sulla tavola. Per esempio, secondo il Water Footprint Network – una rete di organizzazioni internazionali specializzate nei consumi idrici –, per la produzione di una singola mela servono 70 litri d’acqua, per un pacco di pasta da mezzo chilo, 780, per una pizza classica, 1.150, per un trancio da mezzo chilo di formaggio, 2.500, e per una bistecca di manzo ben 4.650 (15.500 litri/chilo). I valori non sono assoluti, possono variare secondo i metodi di produzione e le tipologie di allevamento. La carne bovina in Italia si ferma a 11.500 litri di acqua per chilo di carne, un quarto in meno rispetto a quella prodotta in California. 135 Considerando la quantità di carne bovina consigliata in una dieta equilibrata (due porzioni da 70-100 grammi la settimana), emerge che mangiare carne in giusta quantità non comporta un aumento rilevante dell’impatto idrico-ambientale: si arriva a un consumo effettivo di circa 3.000 litri d’acqua per settimana. Tony Allan, professore del King’s College di Londra, per definire il «peso» idrico di ogni elemento di consumo ha teorizzato il concetto di «acqua virtuale», o acqua invisibile, ovvero il quantitativo di acqua necessario alla produzione e al commercio di un determinato bene, si tratti di prodotti agricoli, alimenti, beni ordinari o straordinari. Un concetto mirato a mostrare chiaramente il peso idrico di un prodotto, relativizzandolo in base alla disponibilità idrica di una regione o di un paese, mettendolo quindi in relazione anche con il commercio. 136 Esportando un bene, quanta acqua di fatto esporto verso un’altra destinazione? Per affinare questa misurazione e pesare così accuratamente l’acqua virtuale, Arjen Hoekstra, presidente del comitato del Water Footprint Network, ha introdotto la misura dell’impronta idrica, con cui è possibile calcolare il consumo di acqua dolce prelevata da fiumi, laghi e falde acquifere (acque superficiali e sotterranee), includendo l’uso diretto e indiretto di acqua da parte di

un consumatore o di un produttore, l’utilizzo nei settori agricolo, industriale e domestico e l’acqua delle precipitazioni piovose utilizzata in agricoltura. 137 L’impronta idrica della produzione di beni per l’espor tazione a livello mondiale è stata calcolata pari a 1.700 miliardi di metri cubi/anno, circa un quinto dell’impronta idrica globale. In agricoltura, l’impronta riferita ai prodotti esportati copre il 19% dell’impronta idrica totale del settore, movimentando la maggiore quantità di acqua virtuale scambiata, contando per più dei due terzi degli scambi planetari. Il commercio dei prodotti zootecnici presenta un flusso in acqua virtuale pari a quello dei prodotti industriali, equivalente in entrambi i casi al 12% del flusso totale a livello mondiale. Tra le colture agricole con una maggiore impronta idrica commercializzate ci sono le oleaginose, ovvero le piante industriali da olio come cotone, lino, soia, colza, girasole, ricino, che coprono la maggiore quota con il 43% della somma totale dei flussi, e con il cotone a farla da re assoluto, contando per oltre la metà del complessivo, mentre il commercio della soia ne investe un quinto. Altri prodotti con un’elevata percentuale nei flussi globali in acqua virtuale sono i cereali (17%), caffè, tè e cacao (7,9%) e la carne bovina (6,7%). I principali esportatori lordi di acqua virtuale sono Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Argentina, tutti paesi esposti in varie regioni a stress idrico. 138 L’Italia, il Giappone e la Germania sono invece tra i più grandi importatori di acqua virtuale (oltre 100 miliardi di metri – gigametri – cubi importati sotto forma di prodotti). Di fatto scaricano su altri stati la necessità (e gli investimenti) per approvvigionare d’acqua il settore agricolo in maniera sufficiente. Analizzare i dati incrociati tra consumi, sprechi, scarsità idrica e appropriazione è una ricerca scientifica non ancora realizzata, ma che potrebbe fortemente contribuire a chiarire molte dinamiche del water grabbing legate al commercio di beni alimentari, sfruttamento di diritti e peggioramento dell’Indice della fame. Quando il Senegal, in aree dove l’acqua per l’irrigazione è scarsa, coltiva jatropha per biocarburanti, sta di fatto cedendo il proprio diritto di accesso all’acqua, sta condannando una quota del suo capitale blu a dissiparsi altrove, spesso finendo in nazioni ricche che non hanno certo il problema delle crisi idriche dei paesi in via di sviluppo.

Questo è un legame che nei prossimi anni dovrà essere esplorato sempre più a fondo. Vediamo ora cosa succede in Swaziland e in India, concludendo con un approfondimento sul legame tra water grabbing e pesca. Swaziland, la dittatura della canna da zucchero Con un’estensione di 17.364 chilometri quadrati, lo Swaziland è il più piccolo stato dell’Africa australe. Classificato tra i paesi a reddito medio-basso, è caratterizzato da forti squilibri interni, in particolare tra aree urbane e rurali. Lo Swaziland è anche l’ultima monarchia tradizionale dell’Africa subsahariana, e uno dei rari esempi di statinazione africani costruiti in epoca precoloniale. Una monarchia tuttora fondata sulla difficile ricerca di un equilibrio fra sistema tradizionale africano e sistema moderno costituzionale, che lascia irrisolti nodi importanti rispetto al bilanciamento dei poteri, all’accesso pieno ai diritti e alla partecipazione democratica. Passato il confine, in autobus, tra Sudafrica e Swaziland, dopo poche decine di chilometri iniziano a scorgersi all’orizzonte immense piantagioni. Difficile capire subito di che si tratta. Durante il primo viaggio nella regione, nel 2016, su un piccolo bus di linea dove insieme al pranzo offrono Coca-Cola, dato che le bottigliette d’acqua costano il doppio, il panorama appariva monotono. «Sono piantagioni di zucchero», suggerisce una signora accanto a me, con il vestito tradizionale e un cellulare di ultima generazione. I sistemi d’irrigazione si susseguono per decine di chilometri, in una danza di zampillii, fra terreni arsi dalla calura. Dappertutto, canna da zucchero. L’economia swazi è basata sull’agroindustria, in particolare la canna da zucchero e il legname. Le terre migliori, quelle più facilmente accessibili, più vicine a fonti idriche, più fertili, sono state destinate alla coltivazione intensiva della canna da zucchero. 139 Prima che la monocoltura investisse il paese, queste erano terre abitate e coltivate da piccoli agricoltori e famiglie. Negli anni Settanta arrivarono però i provvedimenti di sgombero per intere comunità che, abituate a vivere in territori pianeggianti e ricchi di acqua, di colpo si ritrovarono in mezzo all’altopiano, passando da un’agricoltura irrigua ad una basata sulle precipitazioni.

L’impatto della coltivazione della canna da zucchero si riassume in una cifra: 405,7. Tanti, infatti, sono i miliardi di litri di acqua che nel 2016 le due principali aziende attive in questo settore – la Royal Swaziland Sugar Corporation (Rssc) e la Ubombo Sugar Limited (Ubs) 140 – hanno sottratto dai più importanti bacini idrici dello Swaziland per irrigare gli ettari di canne che esse gestiscono direttamente o indirettamente. Fra questi bacini c’è anche il fiume Mbuluzi, da cui si approvvigiona la comunità di Hlane, che, grazie a un importante lavoro dell’ong italiana Cospe, ha visto migliorate le infrastrutture idriche di sostentamento. Nomsa Vilaki, attivista della Women Coalition della regione swazi, racconta come l’approvvigionamento idrico del territorio dipenda totalmente dal fiume Mbuluzi, poiché i pozzi limitrofi non funzionano correttamente. 141 L’acqua si contende con le piantagioni di canna da zucchero. E spesso è contaminata da pesticidi e fertilizzanti, impedendo così alla gente di bere e lavarsi. Mancano le tubature nei centri abitati, qui come in altre comunità dello Swaziland. E mentre gli abitanti di Hlane per bere devono camminare per circa un’ora al giorno, la Royal Swaziland Sugar Corporation impiega acqua per sé e per conto terzi in circa 21.900 ettari di piantagioni, in cui crescono le canne destinate ai due stabilimenti di Simunye – situato a pochi metri da una riserva naturale – e Mhlume. Un esempio da manuale di water grabbing nell’agricoltura idrovora. Nel 2014, la produzione della Royal Swaziland Sugar Corporation ha raggiunto le 433.000 tonnellate di zucchero, il 66% del totale della produzione nazionale, irrigando le piantagioni con poco più di 230 miliardi di litri. I suoi azionisti sono il fondo d’investimento nazionale Tibiyo Taka Ngwane, con il 53% delle quote e fondato dal re Sobhuza II nel 1968, 142 la sudafricana Tsb Sugar (26%), il governo della Nigeria (10%), il governo dello Swaziland (7%), la Coca-Cola Export Corporation (2%) e altri investitori (2%). 143 Lo zucchero è il simbolo del paese e il principale prodotto esportato, con oltre il 59% della produzione. Vale il 18% del prodotto interno lordo e impiega il 35% della forza lavoro. Eppure non ha contribuito a migliorare le condizioni di vita nello Swaziland, visto che il reddito medio pro capite supera di poco i 3.000 dollari. 144 E quando

le comunità locali richiedono la messa in opera di infrastrutture per l’agricoltura familiare o per l’acqua corrente in casa, le compagnie statali e parastatali che gestiscono i servizi idrici lasciano cadere nel vuoto le numerose domande scritte che arrivano negli uffici governativi. 145 Lasciando il compito ai progetti della cooperazione internazionale e alle organizzazioni locali. India, agricoltura in crisi Nelle pianure e valli agricole che dal Pakistan vanno fino al Bangladesh vivono oltre 600 milioni di persone. In questa regione, di circa 2 milioni di chilometri quadrati, attanagliata da temperature elevatissime (anche prossime ai 55 °C), gli acquiferi sono stati sottoposti a stress elevatissimi, a causa di uno sviluppo mal regolato. Oltre il 75% degli agricoltori è costretto a pompare acqua dal sottosuolo, nonostante la presenza di alcuni grandi bacini fluviali, come Gange e Brahmaputra. Oltre la metà dei territori indiani sono esposti a grave stress idrico. 146 Che cosa significa? Che, sugli oltre quattromila pozzi analizzati per valutare il livello dei depositi acquiferi sotterrati, il 54% ha visto un declino significativo negli ultimi sette anni, con il 16% del totale ridotto di oltre un metro. Queste riduzioni sono al netto delle ricariche dovute alle piogge monsoniche e al contributo del reticolo idrico sotterraneo proveniente dall’innevamento dell’Himalaya. Con 251 chilometri cubici di acqua prelevata (Usa e Cina sono fermi a 112), l’India è il paese che più estrae acqua dal sottosuolo, esaurendo lentamente le riserve sotterranee. 147 Titoli come «La peggior crisi di sempre», «La tempesta perfetta nella gestione idrica», appaiono sempre più spesso su siti e quotidiani indiani, come The Hindu e The Indian Express. 148 Nello stato del Marathwada, uno dei più colpiti da siccità sempre più critiche, esistono oltre 90.000 pozzi, la gran parte senza autorizzazione. Nell’estate 2017, per cercare acqua (chi si poteva permettere i macchinari e le tubature), si è iniziato a pompare sotto i 400 metri di profondità, un record per la regione. Negli uffici di Delhi della Central Water Commission (Cwc) la tensione cresce di anno in anno. A Bangalore, una delle aree urbane a secco, si teme che entro il 2020

si debbano attivare i piani di razionalizzazione dei consumi per i suoi 8,5 milioni di abitanti. 149 Per le autorità una soluzione potrebbe venire dal piano d’interlacciamento dei fiumi, iniziato nell’Ottocento da Sir Arthur Thomas Cotton. 150 Nel 2016 sono stati rispolverati i collegamenti tra i fiumi Godavari e Krishna nell’Andhra Pradesh, Ken e Betwa nel Madhya Pradesh, e una serie di dighe sul Brahmaputra e Gange (esclusi i corpi fluviali dell’Indo e del Krishna a causa di una diminuzione dei regimi idrici). Per la Cwc, realizzare queste autostrade blu significherebbe offrire sostentamento a più di trentacinque milioni di ettari assetati, andando a supportare le aree dove lo svuotamento degli acquiferi è più sentito. Inoltre potrebbe comportare la produzione di 34.000 megawatt di energia addizionali, controllare alcune zone tradizionalmente esposte alle esondazioni dei fiumi e mitigare l’inquinamento idrico con l’aggiunta di decine di impianti di depurazione, necessari per la gestione di 15.000 chilometri di nuovi canali. 151 Se l’idea, ampiamente promossa dal governo conservatore di Narendra Modi e accettata con piglio fideistico da molti piccoli agricoltori, sulla carta sembra essere un punto di svolta dalla potenziale crisi, l’implementazione potrebbe rivelarsi non altrettanto fattibile. Innanzitutto il costo: 130 miliardi di euro. Sarebbe uno dei progetti più costosi della storia dell’India, in grado di creare un deficit enorme nelle casse di stato. Inoltre il progetto potrebbe avere impatti sociali mostruosi, dato che 1,5 milioni di persone sarebbero costrette a rilocalizzarsi a causa delle infrastrutture e dei bacini di raccolta. E alla fine potrebbe persino rivelarsi inutile. Per il professor A.K. Gossain, dell’Indian Institute of Technology Delhi, uno dei più grandi idrologi indiani, «se in futuro il nostro sistema di nevi perenni non manterrà la stessa capacità di contribuire ai bacini fluviali, l’intero sistema di intercollegamento tra fiumi perderà senso. Questo sicuramente accadrà, visto che i ghiacciai non resisteranno al cambiamento climatico». 152 Per il giornalista di The Hindu Narayan Lakshman, sussiste anche un problema di pianificazione e corruzione. «Nello stato del Maharastra si sono investiti milioni di rupie, ma a causa della corruzione che si è mangiata gran parte dei fondi, oggi solo il 18% dei terreni è sostenuto da impianti di

irrigazione moderni. Il resto è scomparso nelle tasche dei funzionari». 153 Il timore, inoltre, è che l’apporto di acqua stimoli gli appetiti degli investitori stranieri, che potrebbero finanziare le infrastrutture in cambio di importanti quote nei terreni per grossi progetti di agrobusiness, sottraendo acqua preziosa agli agricoltori locali. 154 Non mancano infine i progetti per ricaricare gli acquiferi, modificando le colture e le tecnologie irrigue. Numerose associazioni hanno lavorato sulla riconversione a larga scala di colture idrointensive come il ricino, sostituendolo con prodotti meno idrovori come peperoncini e vegetali, aumentando allo stesso tempo la profittabilità dei terreni, grazie anche a una migliore gestione della salinità. Soluzioni più flessibili ampiamente diffuse che necessitano di interventi infrastrutturali ridotti. Come ad esempio i sistemi di raccolta decentrati. Invece che i grandi invasi vengono promosse le vecchie taniche e invasi di raccolta di taglia ridotta, tanto nei campi come nelle città, per trattenere l’acqua in particolare nelle stagioni più piovose. Purtroppo, negli anni queste infrastrutture sono andate perse, ma si stima che, ripristinandole, nel paese si potrebbero raccogliere enormi quote d’acqua dai monsoni. Un altro punto dolente sono gli impianti di depurazione. A Bangalore, fortemente colpita dallo stress idrico, solo un decimo delle acque viene effettivamente trattato e reimmesso nelle tubature, mentre oltre un miliardo di litri d’acqua è scaricato nei fiumi. 155 L’India sceglierà di investire fondi pubblici per sostenere i propri agricoltori o darà avvio a progetti privati in cambio di terreni e acqua? L’ultimo pesce nel fiume «Morirò annegata, sommersa dal fiume che ci ha dato la vita». Je Srey Neang ha il suo destino inscritto negli occhi. Trentadue primavere passate nel villaggio di Kbla Romes, lungo il Sesan, uno dei principali tributari del grande Mekong. Tre figli, il maschio partito con il marito dopo il divorzio. Lui ha accettato seimila dollari per andarsene da qualche parte in città, per una vita di miseria, in cerca di lavoro in fabbrica. Il suo villaggio sarà sepolto dal bacino della diga cambogiana Lower Sesan II, sita a poche miglia dall’affluenza

con il Mekong e costruita dai cinesi per fornire elettricità alla capitale Phnom Pehn, un progetto voluto dalle élite dei due paesi senza tenere conto degli impatti locali, con 5.000 persone forzate ad andarsene e 40.000 che seguiranno, quando il pesce inizierà a scarseggiare a causa dello sbarramento del corso fluviale. «Io ho deciso di resistere. Non mi compreranno. Non mi piegheranno con le armi. E non mi muoverò finché sono viva». La sua determinazione, mentre continua con violenza a zappare l’orto, è sottolineata dagli occhi duri, senza lacrime. Una sua vicina mostra delle foto, fatte con un cellulare, di uomini in nero che ogni settimana vengono a fare pressione perché Je Srey se ne vada. «Questa è la natura che ci è stata data, è il nostro sostentamento. Non sono contraria alla diga, ma non deve distruggere la nostra vita per alimentare il televisore di qualcuno che vive a mille chilometri da qua. Quando l’acqua inizierà a salire, rimarrò serena nella mia casa». La storia di Je è una delle centinaia che abbiamo raccolto in un mese di viaggio lungo il Mekong nel 2016. Se l’oro blu è fondamentale per l’agricoltura, i fiumi sfamano, attraverso la pesca, milioni di persone, con oltre 11,5 milioni di tonnellate di pescato d’acqua dolce nel 2015, di cui 7,5 milioni nella sola Asia continentale, con Cina, India, Myanmar, Cambogia e Indonesia a guidare la classifica. Nel solo Mekong, oltre 80 milioni di persone si affidano alla pesca come una delle principali fonti di proteine (superiore al 40%). 156 Ma l’impatto simultaneo di una trentina di dighe, di cui nove in Laos, in costruzione o in fase di progettazione, potrebbe sconvolgere l’equilibrio alimentare del bacino fluviale. «Quando queste dighe, pianificate senza troppa attenzione, saranno complete, l’impatto sulla pesca sarà immediato, in particolare sulla quantità di pesci disponibili», spiega Chris Barlow, esperto di pesca dell’Australian Centre for International Agricultural Research (Aciar). Secondo Ho Uy Liem, vicepresidente della Vietnam Union of Science and Technology Association, «le dighe danneggeranno in particolare il Delta del Mekong, in Vietnam, dove si produce circa la metà del riso, oltre il 70% del pesce e la quasi totalità della frutta del paese». «Una minaccia alimentare incombe sulla regione», sottolinea Liem, ricordando come dall’export alimentare vietnamita dipendano Filippine e Indonesia.

Uno dei progetti dalle conseguenze più pesanti potrebbe essere la diga Don Sahong, al confine tra Laos e Cambogia nei pressi delle rapide di Li Phi. Con una capacità produttiva di soli 256 MW, finalizzata a sostenere le regioni meridionali del paese, il megaprogetto potrebbe danneggiare irrimediabilmente la migrazione di molte specie ittiche comuni lungo il Mekong. «Non potete avvicinarvi, al più potete scattare qualche foto con il drone», spiega Suk Lang, guida turistica specializzata in ecotour per entrare in contatto con il famoso delfino dell’Irrawaddy, un mammifero di cui rimangono circa una cinquantina di esemplari in tutto il mondo. La sua barca leva le ancore dal villaggio cambogiano di Preah Romkel, nella provincia di Stung Treng. Poco meno di un chilometro e l’imbarcazione s’arresta, appena prima di entrare in territorio laotiano. I militari osservano distrattamente in lontananza. Un’increspatura d’acqua, e appare il dorso luccicante di un maschio. Poi un altro mostra la testa smussata, dal colore grigio chiaro. E infine un terzo. «Sono tutti quelli rimasti, trovano rifugio in questa pozza dove sanno che nessuno li tocca». «Sentite i rumori? È a meno di un chilometro da qua», dice puntando il dito verso il cielo plumbeo settentrionale. Ogni tanto le associazioni ambientaliste vengono a Preah Romkel a protestare. Striscioni, slogan, canti, dolcetti al miele da distribuire ai turisti. Ma dall’altra parte tutto tace. «Se per il delfino dell’Irrawaddy non ci sono speranze – entro breve andrà estinto –, per gli abitanti il vero problema sono i pesci, che costituiscono la risorsa primaria di sopravvivenza nelle numerose comunità», spiega Suk. I numerosi report scientifici e analisi d’impatto mostrano chiaramente che la diga farà danni incalcolabili sulla migrazione dei pesci, andando a colpire la sicurezza alimentare di tantissimi pescatori a sud della diga. Un report della Mekong River Commission (un organismo internazionale di studio e produzione di policy sul fiume Mekong sostenuto da tutti gli stati rivieraschi) pubblicato nel 2015 ha stabilito che la realizzazione di tutte e dodici le dighe previste nel tratto del Mekong a sud della Cina potrebbe spazzare via metà dei pesci presenti nel fiume, in particolare quelli di grandi dimensioni, che potrebbero estinguersi. Centinaia di migliaia di abitanti rivieraschi

perderebbero la pesca, fonte di sostentamento alimentare e di occupazione. I danni sullo sviluppo e la sicurezza sociale sarebbero incalcolabili. Similmente in Brasile, Etiopia, Cina, India, in tanti territori dove i fiumi sono contesi tra dighe, grandi progetti di idroelettrico e industria, il rischio alimentare è dietro la porta. Una questione che necessiterebbe di una migliore gestione transfrontaliera dei corpi d’acqua, e di rafforzare il diritto all’acqua, come si vedrà nel prossimo capitolo.

111 Fausto Podavini ha collaborato al progetto watergrabbing.it ; trovate alcuni suoi scatti nell’inserto fotografico. 112 Considerando le variazioni dovute a innovazioni tecnologie e l’introduzione crescente di colture a bassa intensità idrica. Il dato è ricavato da Un-Wwap. 113 Si veda Faostat, consultato il 10/9/2017. 114 Rispetto a inizio secolo. 115 Si veda Faostat, consultato il 10/9/2017. 116 Nell’atlante sulla sicurezza alimentare Food4 , La Stampa, Torino 2015 (http://bit.ly/1IC00OI). 117 Marco Musella, Fabio Verneau, Il contrasto allo spreco alimentare tra economia sociale ed economia circolare , G. Giappichelli Editore, Torino 2017. 118 Si veda anche Andrea Segrè, Primo, non sprecare. Dieci ingredienti per una ricetta anti-crisi , Corriere della Sera, Milano 2014. 119 Si veda Food wastage footprint: Impacts on natural resources , realizzato dal Dipartimento di gestione ambientale e delle risorse naturali della Fao, 2013 (http://bit.ly/1kMi2QN). 120 U.S. Department of Agriculture. Dati al 2016, richiesti via ufficio stampa. 121 Eurostat, consultato il 20/9/2017. 122 Craig Baumrucker, «Why does organic milk last so much longer than regular milk?», in Scientific American , consultato il 20/12/2017 (http://bit.ly/2mlLOTg). 123 Si definisce obesa una persona con indice di massa BMI 35/40. Fonte: World Health Organization, Obesity and Overweight factsheet from the Who , Health (2017 ; http://bit.ly/18pCdAN). 124 Commento raccolto dall’autore alla Casa Bianca nel 2009, pubblicato su Left , 20/10/2009. 125 Leandra Abarca-Gómez, Ziad A. Abdeen, Zargar Abdul Hamid, Niveen M. Abu-Rmeileh, Benjamin AcostaCazares, Cecilia Acuin, Robert J. Adams, et al. , «Worldwide trends in body-mass index, underweight, overweight, and obesity from 1975 to 2016: a pooled analysis of 2416 population-based measurement studies in 128·9 million children, adolescents, and adults», in The Lancet 390, n. 10113 (16/12/2017), pp. 2627-2642. 126 Dati Ministero della Salute. 127 Rispettivamente: impronta carbonica [MFW(kgCO2 eq ) ] e impronta idrica [MFW(×10 L) ]. 128 A contribuire sono soprattutto i prodotti di origine animale, con uno spreco di cibo metabolico di 46,5 chili per gli obesi, seguito da cereali e legumi (39 chili), dolci (16,4 chili), e alcolici e bevande varie. 129 Mauro Serafini and Elisabetta Toti, «Unsustainability of Obesity: Metabolic Food Waste», in Frontiers in Nutrition 3 (7 October 2016; http://bit.ly/2FsotI5). 130 Questo nel 2015, non siamo a conoscenza di aggiornamenti sul progetto. 131 Si veda anche l’ottimo libro di Stefano Liberti, Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo , Minimum Fax, Roma 2015. 132 AA.VV., The global farmland grab in 2016: how big, how bad? , in Grain , 15/6/2016 (http://bit.ly/1ro5Nko). 133 «Daewoo to cultivate Madagascar land for free» , in Financial Times , 19/11/2008 (http://on.ft.com/2ExKeFl). 134 Ibidem . 135 Dati ricavati da http://waterfootprint.org/en, consultato il 27/9/2017. 136 Tony Allan, Virtual Water: Tackling the Threat to Our Planet’s Most Precious Resource , I.B.Tauris & Co., London 2011. 137 Arjen Y. Hoekstra, The Water Footprint of Modern Consumer Society , Routledge, London 2013.

138 Rispettivamente: Stati Uniti (314 gigametri cubi/anno), Cina (143 Gmc/anno), India (125 Gmc/anno), Brasile (112 Gmc/anno) e Argentina (98 Gmc/anno). 139 Report Swaziland: la monarchia fondata sullo zucchero , Cospe-Altreconomia, 2014 (http://bit.ly/2DoJ9Aq). 140 Report Swaziland… , cit., con aggiornamento al 2016 tramite studio condotto dalla Banca Mondiale. 141 Intervista realizzata da Altreconomia in visita a Hlane. 142 Oggi è un fondo composto da 22 imprese, con asset complessivi per 100 milioni di euro (fonte: CospeAltreconomia, op. cit. ). 143 Dati tratti dal sito della Royal Swaziland Sugar Corporation: www.rssc.co.sz. 144 Dati Banca Mondiale. 145 Dati raccolti nel corso di interviste fatte in varie comunità swazi. 146 Dati estratti da India Water Tool 2.0 (www.indiawatertool.in), realizzato dal World Resources Institute. 147 Fao Aquastat, consultato il 29/9/2017. 148 Si veda «Digging deeper into water crisis», in The Hindu , 1/4/2016 (http://bit.ly/2FwkdYm). 149 Samanth Subramanian,«India ’s Silicon Valley Is Dying of Thirst. Your City May Be Next», in Wired , 5/2/2017 (http://bit.ly/2pIMD9K). 150 Il generale Sir Arthur Thomas Cotton (1803-1899) era un ingegnere specializzato in irrigazione, che costruì importanti opere idrologiche come il Prakasam Barrage e il canale Kurnool Cuddappah. 151 Si veda su www.cwc.nic.in, consultato il 2/10/2017. 152 V.V. Belavadi, N. Nataraja Karaba, N.R. Gangadharappa (eds.), Agriculture under Climate Change: Threats, Strategies and Policies , Allied Publishers, Delhi 2017. 153 Narayan Lakshman, «Conserving the last drop», in The Hindu , 9/5/2016 (http://bit.ly/2ATSyNj). 154 Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua , Feltrinelli, Milano 2010. 155 Secondo l’ufficio Comptroller and Auditor General of India, un’autorità costituzionale di revisione del governo. 156 I dati sono tutti presi da Fao Aquastat, consultato nel febbraio 2017.

5. LE NUOVE GUERRE PER L’ACQUA

L’acqua sarà più importante del petrolio, in questo secolo. Boutros Boutros-Ghali In lontananza gli spari riverberano sulla Valle della Beka’a. Dalla terrazza dell’edificio più alto del campo profughi di Wavel, nei pressi di Baalbeck, si vede la frontiera della vicina Siria. Qui nel 1948 arrivarono i palestinesi in fuga dai territori occupati dagli israeliani durante la guerra d’indipendenza. Nel 2011 l’esodo è ricominciato e le strade si sono riempite di migliaia di siriani in fuga dalla guerra civile, tanti direttamente dai campi profughi palestinesi in Siria. Nel Libano, secondo l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr), a fine 2017 trovavano rifugio oltre un milione di profughi dalla Siria, circa un quinto della popolazione del piccolo paese mediorientale. Una situazione che ha portato rapidamente al collasso di Beirut e dei tanti campi profughi esistenti e, ben presto, anche di quelli nuovi creati dall’Unhcr al confine siriano. 157 «I profughi siriani hanno alterato gli equilibri del campo», racconta Intisar Hassan sul terrazzo della casa in cui è nata nel 1961 e che oggi vive con il marito tassista e quattro figli. Insieme alla giornalista della Stampa Francesca Paci stiamo ad ascoltare, distratti di tanto in tanto dai colpi di fucile. «La popolazione è praticamente raddoppiata. I prezzi sono schizzati alle stelle, l’affitto di due camere è passato da 100 a 250 dollari al mese, le uova costano tre volte tanto, l’acqua è sempre più scarsa. All’inizio eravamo ben disposti, volevamo dare una mano, ma ora questa situazione ci sta strangolando». Muna, trent’anni, abita con cinque figli e altre sei persone in uno stanzone senza bagno né vetri alle finestre in un edificio nelle adiacenze. Le pareti sono ricoperte dai poster dei «martiri», tanti quelli di Hamas e di Hezbollah. Nel campo di Yarmuk a Damasco aveva studiato

business, suo marito era un funzionario statale, possedevano una casa a due piani con il terrazzo. La sua esistenza, dice, è cambiata dal giorno alla notte. La storia della più grave guerra civile degli ultimi anni è nota. Quello che si conosce di meno sono le ragioni che hanno portato a questa crisi umanitaria, con oltre mezzo milione di morti. 158 Tra i motivi che avrebbero favorito lo scoppio del conflitto, ci sarebbe anche la situazione idrica. Fra il 2007 e il 2010 la Siria è stata colpita da una grave siccità, la peggiore registrata nell’ultimo secolo, che ha lasciato senza lavoro un milione di piccoli agricoltori e causato l’esodo della popolazione rurale verso le città. Una ricerca pubblicata nel 2015 su Proceedings of the National Academy of Sciences ha determinato che la siccità abbattutasi sul Paese ha acuito i disordini sociali aggravando la preesistente instabilità politica. Non la causa, ma uno degli elementi chiave delle proteste contro il governo di Bashar al-Asad, per anni indifferente alla questione idrica che dal 2006 montava nel paese. A peggiorare la situazione, le temperature elevate, superiori alla media, e una gestione insostenibile delle falde, sfruttate oltre misura fino all’esaurimento dei pozzi di irrigazione. Quando raccogliemmo un’intervista a Mohammed Saha, ventisette anni, venditore di bibite nel quartiere di Hamra, nel corso di un viaggio per conoscere gli impatti della guerra siriana su Beirut, non avevamo nemmeno fatto molto caso alle sue parole: era il 2013 e ancora non si era confermato scientificamente il legame tra acqua e conflitto siriano. Oggi, rileggendo gli appunti del taccuino emerge come per anni si sia trascurato il ruolo dell’oro blu in questo conflitto. «Non c’era più acqua e così abbiamo iniziato a spostarci dalle campagne verso la città – racconta Mohammed –. La mia odissea è iniziata ancora prima della guerra, con la prima siccità, quella del 2006-2007. Vivevo in un piccolo villaggio vicino all’Eufrate, riconvertito dalle riforme di Asad, incentrate sull’estensione delle aree agricole e la conversione delle aree pastorali. Nel 2007 l’acqua era talmente poca che nemmeno spingendo le pompe al massimo si riusciva a tirar fuori qualcosa. Dovevamo portarla dal fiume con le cisterne, dilapidando tutti i nostri averi, mentre il sole divorava il raccolto. Così, con la famiglia ci siamo spostati ad Aleppo e poi, con l’inizio della guerra, qui a Beirut».

Con l’aggravarsi della situazione, in Siria l’acqua è passata a essere da una delle varie cause concatenate del conflitto a una delle principali armi per indebolire le fazioni ribelli. Nella lotta per il controllo del territorio tra le milizie antigovernative, gruppi terroristici come Isis e al-Nusra, e l’esercito di Bashar al-Asad, l’acqua è diventata il primo obiettivo infrastrutturale militare. Pesano le parole di Noosheen Mogadam, analista del Norwegian Refugee Council, secondo cui «la distruzione delle infrastrutture idriche e i frequenti black-out hanno ridotto del 50% l’accesso all’acqua non contaminata». Decine di pozzi, dighe, depuratori sono diventati bersagli, per i ribelli come per le forze governative. La città più colpita è stata Aleppo, dove la quasi totalità della popolazione a fine 2017 faticava ancora ad accedere all’acqua, dovendo contare sulle organizzazioni non governative per ristabilire una rete idrica affidabile. A ottobre 2017, nell’area metropolitana del secondo centro urbano della Siria vivevano oltre 686.000 persone con accesso limitato all’acqua per l’igiene e il sostentamento di base. 159 La conseguenza di una simile carenza di servizi? Decine di morti per la diarrea dilagante. Allo stesso tempo la scarsità d’acqua ha messo in ginocchio anche l’allevamento di bestiame (ovini, bovini e pollame), con conseguente indebolimento della sicurezza alimentare. Per le ong come l’italiana Gvc, una delle più attive nella regione sulla sicurezza idrica, l’assalto alle infrastrutture idriche come obiettivo militare è stato un atto di deliberata violazione del diritto internazionale, un crimine di guerra, poiché si è andati a colpire direttamente la sopravvivenza della popolazione civile. Ma non è stata certo la prima volta che l’acqua ha giocato un ruolo centrale in un conflitto, e non sarà l’ultima. Un bene sempre più scarso e conteso, che sarà uno degli elementi strategici dei conflitti del XXI secolo e una delle cause principali delle migrazioni dai paesi più esposti all’instabilità politica ed economica causata dal cambiamento climatico. 160 Comunemente si definiscono water wars i conflitti combattuti per l’acqua o per la sua mancanza, legata in particolare all’agricoltura. Gli esempi nelle cronache abbondano. Dalla siccità in Siria fino alla siccità globale del 2016 che ha alimentato gli scontri in Sud Sudan di inizio 2017, 161 fino alle proteste in Bolivia e Cile per le privatizzazioni.

Passando per uno dei punti più caldi dal punto di vista geopolitico, l’Indo, che alimenta il settore agricolo ed energetico di due nemici di lunga data, India e Pakistan. 162 Il fortissimo prelievo agricolo ha spesso scatenato dure invettive politiche da entrambe le parti, senza – per ora – dare luogo a un’escalation vera e propria. Anche le grandi opere idrogeologiche possono costituire un grave contenzioso politico. Come la diga Gra nd Renaissance, in Etiopia, che ha spinto il governo egiziano a minacciare ritorsioni nel caso si verificasse una forte diminuzione del regime idrico del Nilo e una diminuzione dei sedimenti ricchi di nutrienti fondamentali per l’agricoltura. O il caso dei trentanove megaprogetti lungo il Mekong, in costruzione o in fase di progettazione, che cambieranno la natura del regime idrico nel Sud-est asiatico con conseguenze imprevedibili, che potrebbero condurre a conflitti aperti tra gli stati rivieraschi. E le avvisaglie destano preoccupazione: nel 2017 si è assistito a un crescendo di violenti scambi tra le ambascerie degli stati rivieraschi: Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia e ovviamente Cina. 163 Eppure gli strumenti per favorire una progettazione condivisa delle risorse idriche e raggiungere una pax idrica esistono. Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato i complessi legami tra clima, energia, popolazione, produzione alimentare, che stanno alla base di una nuova normalità idrica mondiale, e che conducono al timore ventilato da molti analisti di geopolitica: il XXI secolo sarà il secolo delle guerre per l’acqua. «Il commercio globale di derrate alimentari, i consumi iperbolici, il cambiamento climatico, la lenta trasformazione energetica: questi sono gli elementi scatenanti dei conflitti di domani», raccontava Lester Brown, uno dei più grandi esperti di problemi globali, in una delle ultime interviste nel suo ufficio del Worldwatch Institute di Washington, prima di ritirarsi. 164 «Con l’aumento della popolazione abbiamo raggiunto un “picco dell’acqua”. Paesi come Siria, Iraq, Pakistan, Messico hanno già raggiunto o superato questo picco, prosciugando i propri acquiferi, con conseguenze catastrofiche sulla stabilità di quei paesi». Nelle prossime pagine ci avventureremo nel quadro internazionale dei trattati e vedremo alcune tra le aree più a rischio di conflitti nel pianeta a causa dell’oro blu. Si cercherà di analizzare inoltre l’importanza della concretizzazione del diritto all’acqua, che, al pari

della trasformazione dell’acqua da bene di mercato a bene comune, sarà fondamentale per disinnescare situazioni potenzialmente esplosive. Solo con una risposta realmente globale al problema, fondata su uno stato di diritto, si potrà lentamente iniziare a fermare la miccia di tante guerre per l’acqua che sono in corso o potrebbero avere inizio nei prossimi anni. Altrimenti non rimarrà che seguire la cronaca di questa catastrofe. La chimera del diritto internazionale all’acqua Per capire il crescente emergere di conflitti legati all’acqua bisogna andare a New York. È un giorno freddo, il 1° ottobre 2010. I reporter escono dal Palazzo di Vetro per andare a scrivere svogliatamente una notizia che passerà quasi inosservata sulla stampa italiana. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 64/292 165 riconoscendo l’acqua come diritto umano. Lo scarso interesse di media e politica fa comprendere fin da subito quanto sia sottovalutata l’importanza di questa Risoluzione. O addirittura si voglia tenerla sotto il tappeto. L’acqua come diritto è una questione che scotta, per governi e multinazionali in primis . Fino ad allora il riferimento all’acqua era stato inserito in numerose categorie di diritti, purtroppo solo in via interpretativa e, nella maggior parte dei casi, senza menzioni esplicite. Nel 2010 l’approvazione della Risoluzione per la prima volta dà finalmente dignità a un diritto primario, dichiarando che «il diritto all’acqua potabile e sicura e ai servizi igienici è un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani». Parole bellissime, cui non è seguito alcun reale riconoscimento nelle Costituzioni dei singoli paesi e neppure nei tanti ambiti del diritto e nelle organizzazioni internazionali. La questione legata alla normativa giuridica rimane molto controversa. Differenti orientamenti di legge non hanno ancora permesso di affermare una normativa chiara e cogente, capace di riconoscere un diritto all’acqua sia in qualità di diritto individuale, rivendicabile quindi da ogni cittadino nei confronti dell’autorità, sia collettivo, invocabile nell’ambito della sfera internazionale dai soggetti giuridici legalmente rappresentanti di determinate comunità. 166 Mancando quindi un sistema globale di regolamentazione

giuridica dell’acqua, le possibilità di conflitti per il suo accaparramento sono in crescente aumento, soprattutto nelle parti del mondo più esposte a carenza dovuta a siccità o a eventi climatici estremi, dove non è possibile intervenire nemmeno facendo appello a tribunali internazionali. Dagli abusi sulle popolazioni indigene ai conflitti legati ai bacini transfrontalieri, l’assenza di un quadro de jure impiegato per favorire una cooperazione su basi legali tra soggetti politici offre una lacuna particolarmente grave, che rischia di amplificare le differenze e le disu guaglianze proprio per la mancanza di una governance adeguata da un punto di vista giuridico. Condizione sine qua non per poter gestire una risorsa diffusa a livello globale ed estremamente interconnessa con lo sviluppo delle comunità e la sopravvivenza degli ecosistemi. Il riconoscimento del diritto all’acqua nella giurispru denza permetterebbe di affrontare la complessità di un ambito che non comprende solo questioni specifiche (come la gestione internazionale della risorsa o il diritto di navigazione), ma che arriva a toccare i tanti aspetti socio-culturali, ambientali e persino umanitari, oggetto di questo libro. I riconoscimenti e i limiti della Risoluzione per il diritto umano all’acqua La risoluzione Onu del 2010 appartiene a tutti gli effetti alla sfera della cosiddetta soft law , cioè a quel sistema di norme prive di carattere vincolante e sanzionatorio capace di obbligare gli stati ad adempiere a quanto prescritto. In sostanza, a oggi, il riconoscimento del diritto umano all’acqua passa per «un invito all’impegno dei governi sia sul proprio territorio, sia in un contesto internazionale, a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto». L’esito del voto della Risoluzione 64/292, in quel fred do giorno dell’ottobre 2010, diede 122 paesi a favore e 41 astenuti. Nessuno contrario. L’astensione tuttavia pesava come un macigno. Nella lista figuravano molti paesi industrializzati come Stati Uniti, Canada, Svezia, Regno Unito, Austria, Israele, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Giappone. Le motivazioni? L’assenza di basi legali

sufficienti a livello internazionale e la scarsa chiarezza sulle responsabilità e gli obblighi dei governi firmatari. Una posizione ritenuta dagli stati sostenitori – come Germania, Italia, Spagna e Belgio – sintomo dell’impossibilità di un impegno comune e mancanza di visione. Queste posizioni fanno capire come il voto sul diritto all’acqua alle Nazioni Unite vada visto come un compromesso basato sul minimo comune denominatore, raggiunto grazie alla crescente consapevolezza di governi e della società civile sull’importanza della risorsa acqua. Un accordo però incompiuto, con molte questioni ancora insolute. Come quella degli obblighi cui ottemperare, un campo ancora aperto e molto vago. A oggi, gli obblighi degli stati in materia di diritti umani si distinguono in tre categorie: rispettare, tutelare e ottemperare, adempiere. Nel caso dell’acqua, «rispettare» riguarda la non interferenza con il godimento del diritto all’acqua, «tutelare» significa impedire che terze parti pregiudichino tale godimento, mentre «adempiere» fa riferimento a tutte le misure necessarie per renderlo effettivo. Dopo il riconoscimento dell’Assemblea generale Onu, 167 il quadro giuridico è stato integrato da risoluzioni del Consiglio per i diritti umani che hanno esplicitato formalmente il legame tra «il diritto umano all’acqua» e il livello di vita adeguato per tutti, così come la diretta relazione tra la risorsa idrica e il diritto alla vita e alla dignità. Gli stati avrebbero dunque la responsabilità primaria di assicurare la piena realizzazione di tutti i diritti umani, e la concessione della gestione dell’acqua potabile e/o dei servizi igienico-sanitari a terzi non esime lo stato dai suoi obblighi sui diritti umani. Nel 2013, però, l’Assemblea generale ha declinato le modalità necessarie con cui gli stati dovrebbero garantire tale diritto, che prevedono un processo consultivo con i cittadini, il monitoraggio della diffusione dell’accesso all’acqua potabile e la garanzia dell’accessibilità ai servizi idrici, anche se gestiti da enti terzi come i privati. Unica nota positiva: nello stesso anno viene estesa al diritto all’acqua l’opzione della giustiziabilità , secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi, tramite il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali , un trattato delle Nazioni Unite nato dall’esperienza della Dichiarazione

universale dei diritti dell’uomo e sottoscritto e ratificato da tutti i membri dell’Onu. 168 Pur avendo fatto dei passi avanti nello scenario giuridico con risoluzioni esplicite e strumenti interpretativi che hanno definito il diritto all’acqua un diritto umano, quindi universale, autonomo e specifico, questo riconoscimento resta a tutt’oggi sancito solo in termini «declaratori», senza alcuna cogenza a livello giuridico. Da qualche anno il dibattito internazionale della dot trina sta cercando di superare i limiti burocratici e politici che non consentono un impegno più stringente da parte degli stati per garantire efficacemente l’accesso all’acqua potabile in ogni area del mondo. Secondo buona parte degli studiosi di diritto internazionale, il diritto all’acqua dovrebbe essere riconosciuto tra le cosiddette norme consuetudinarie, che presuppongono due elementi: la ripetizione costante nel tempo di un dato comportamento da parte dei soggetti, e il convincimento che quel comportamento sia conforme a diritto o a necessità. A differenza dei trattati, inoltre, validi solo nei rapporti tra le parti, le norme consuetudinarie obbligano in via sanzionabile tutti i soggetti internazionali al comportamento a cui si fa riferimento. Sarebbe dunque un decisivo passo avanti per poter successivamente declinare nei vari paesi vincoli precisi per gli stati. Acqua divisa o condivisa? L’acqua è un elemento globale, che non conosce i confini delle nazioni. Eppure, sempre di più, gli stati co mpetono per lo sfruttamento delle risorse idriche, nonostante la crescente scarsità e la conseguente sperequazione nel suo accesso e utilizzo a livello internazionale. C’è sempre più timore che il futuro dell’umanità sia caratterizzato da tensioni geopolitiche con veri e propri conflitti o guerre tra due o più paesi che condividono uno stesso bacino idrografico, 169 o da situazioni critiche all’interno di uno stato. 170 Oggi, circa cinque miliardi di persone vivono in paesi che condividono acqua oltre frontiera. Basti pensare che 276 laghi e bacini transnazionali sono condivisi da due o più paesi, per un totale di 150 stati che impiegano la metà delle acque di superficie, e sono fonte del 60% dell’acqua dolce. 171 Inoltre, circa il 40% della popolazione

vive lungo fiumi e bacini idrici che appartengono a due o più paesi con due miliardi di persone che condividono circa 300 sistemi acquiferi transfrontalieri. 172 In Africa esistono sessanta sistemi con queste caratteristiche, di cui quattro interessano gruppi di quattro paesi o più. Il Nilo è condiviso da undici stati, il Congo da nove. Nel continente americano, il Rio delle Amazzoni bagna nove nazioni. In Asia il Mekong ne raggiunge sei, e infine in Europa il bacino idrico del Danubio fornisce acqua a 17 stati. 173 Non solo, si pensi anche alle acque sotterranee e ai numerosi acquiferi condivisi in tutto il mondo. Frequentemente, le tensioni politiche e diplomatiche che si registrano a livello sovranazionale sono dettate dalle scelte unilaterali dei singoli paesi che cercano di dare risposta ai bisogni interni delle proprie popolazioni e del settore economico attraverso politiche di aumento dell’offerta idrica e di sovrasfruttamento delle risorse. Sono strategie realizzate grazie a grandi progetti che vanno a impattare sui bacini idrici transfrontalieri, innescando la competizione tra gli stati. La cooperazione tra i paesi rivieraschi diviene quindi necessaria, non solo per evitare tali dinamiche ma anche per assicurare la sopravvivenza delle risorse. D’a ltra parte, tale necessità dipende dalla capacità dei singoli paesi di disporre di forme alternative di approvvigionamento, attuando percorsi di diversificazione e razionalizzazione dell’utilizzo dell’acqua soprattutto in a gricoltura. Al tempo stesso, l’assenza di una chiara regolamentazione internazionale e la mancanza di trasparenza da parte degli stati sull’utilizzo di tali risorse rappresentano ostacoli per l’avvio di un percorso cooperativo. Per questo, sostiene Un-Water, il corpo di coordinamento inter-agenzia delle Nazioni Unite, i bacini condivisi tra stati devono essere governati in modo cooperativo, attraverso una gestione ragionata ed efficiente. E spesso ciò accade. Uno studio della Banca Mondiale 174 mostra come, del le interazioni fra paesi sulla gestione di acque transfrontaliere, ben 1.228 sono state cooperative; rimangono 507 casi affrontati senza tavoli di lavoro congiunti. La ricerca elenca molti esempi che vanno in questa direzione. A Mostar, dopo la guerra in Bosnia, la ricostruzione di un servizio idrico unificato tra le due zone, serba e bosniaca, ha

facilitato il processo di riconciliazione. In Kirghizistan, la messa a punto di un sistema co-partecipato di distribuzione di acqua per l’irrigazione ha contribuito alla diminuzione delle tensioni etniche fra uzbeki e kirghisi. L’Indus Waters Treaty del 1960 sull’uso delle acque transfrontaliere ha superato tre conflitti fra Pakistan e India (1965, 1971, 1999), continuando a garantire acqua a entrambe le parti. Israele e Giordania recentemente hanno firmato un accordo in forza del quale Israele riceverà parte dell’acqua desalinizzata dalla Giordania ad Aqaba, in cambio di un maggiore rilascio idrico dal Mar di Galilea verso la regione arida nel nord della Giordania. 175 Ma non mancano i casi dove la diplomazia dell’acqua fallisce. Dal 1948 al 2017 le Nazioni Unite hanno registrato 37 incidenti politici che hanno portato a conflitti aperti legati all’acqua, mentre nello stesso periodo sono stati stipulati tra le parti 295 accordi internazionali multilaterali sulla gestione idrica, garantendo la pace e la collaborazione. I principali strumenti di diritto internazionale per favorire gli scambi tra gli stati a tutela delle risorse idriche condivise sono attualmente due: la cosiddetta Convenzione dell’Acqua 176 e la Convenzione sul diritto relativo alle utilizzazioni dei corsi d’acqua internazionali per scopi diversi dalla navigazione . 177 La Convenzione dell’Acqua ha una struttura normativa fondata su tre pilastri: l’obbligo di non danneggiare e prevenire, controllare e ridurre la significatività dell’impatto transfrontaliero; il principio di un uso delle acque ragionevole; il principio di cooperazione. Per prevenire, controllare e ridurre gli impatti dovuti a possibili divergenze tra i paesi confinanti, la Convenzione invita a determinare «tutte le misure appropriate», considerando anche un adeguato sviluppo delle infrastrutture e della tecnologia con appositi trattati bilaterali e multilaterali che possano regolare al meglio i rapporti economici tra i paesi. Al fine di facilitare l’attuazione degli obblighi sotto la Convenzione , è stato sviluppato un comitato legale esterno, in vigore dal 2009. La seconda Convenzione , entrata in vigore nel 2014 in seguito alla ratifica di 35 paesi, si propone di tutelare, salvaguardare e favorire la cooperazione tra stati nella gestione equa e ragionevole dei corsi d’acqua. In base alla Convenzione , i paesi devono evitare danni gravi ai corsi d’acqua e devono tenere «in debita considerazione gli

interessi degli stati del corso d’acqua che li riguarda, compatibilmente con le esigenze di un’adeguata protezione dello stesso». Per la soluzione delle controversie è prevista, falliti i tentativi di accordo, l’istituzione di una commissione d’inchiesta. Purtroppo, a oggi solo 39 stati hanno aderito a quest’ultima Convenzione . Numerosi i paesi firmatari dell’Ue, inclusa l’Italia. La Siria ha firmato con una riserva volta a escludere ogni forma di riconoscimento implicito di Israele (che ha ratificato la Convenzione ). Sono rimasti fuori Cina e Usa. Nel Sud-est asiatico, l’unico ad averla firmata è il Vietnam, nel 2014. 178 La diplomazia, però, se vuole garantire un futuro di gestione sostenibile dell’acqua e rafforzare la cooperazione tra stati, deve sostenere queste intese multilaterali, lavorando per aumentare il numero degli stati aderenti agli attuali strumenti legislativi, favorendo così lo scambio di informazioni in maniera trasparente e armonica. Brahmaputra, la sfida dei giganti d’Asia Nella lista dei bacini più contesi, il Brahmaputra è spesso messo in cima. Principalmente perché interessa due nemici acerrimi: India e Cina. Il Brahmaputra è il quarto fiume al mondo per portata. Nasce nel Tibet sud-occidentale, dal nobile Monte Kailash dove prende il nome di Yarlung Tsangpo, e scorre verso est, lungo il versante settentrionale dell’Himalaya, in territorio cinese. Dopo avere aggirato la catena himalayana, svolta bruscamente a sud, in un territorio noto come «la Grande Piega» nella prefettura di Nyangtry, attraversa il confine conteso tra India e Cina, e prende un nuovo nome: Brahmaputra. Da qui attraversa gli stati indiani dell’Arunachal Pradesh e dell’Assam, entrando poi nel Bangladesh, dove confluisce nel Gange in corrispondenza del delta di questo, per sfociare nel Golfo del Bengala. «Il Purificatore», come lo chiamano gli indiani, o «il fiume che scorre dagli alti picchi», come lo definiscono con squisita semplicità i cinesi, sono alcune delle tante identità dello stesso corso d’acqua, che diventa Dihang nell’Arunachal Pradesh e Jamuna in Bangladesh. Ogni identità che il fiume assume non è solo culturale ma anche strettamente politica. Sarà che India e Cina nel 1962 si erano già confrontate per il controllo dell’Arunachal Pradesh

allo scopo di contenere l’insurrezione tibetana, ma da allora l’inimicizia perdura, con continue scaramucce lungo il confine, la più recente nel Bhutan settentrionale nell’estate 2017. Oggi però le tensioni stanno crescendo intorno all’acqua, oltre che sul territorio. Nello Yarlung Tsang-po Canyon, un’area di 64.000 chilometri quadrati, dove il fiume corre lungo pareti ripidissime, più alte del Grand Canyon americano (peraltro di circa cinquanta chilometri più corto rispetto all’omologo cinese, con buona pace della grandeur americana), l’acqua attraversa la gola a grandissima velocità; in alcuni punti in prossimità della Grande Piega, una lunga ansa del fiume, raggiunge una pendenza del 75% circa. Condizioni oro-morfologiche che rendono la valle di grande interesse idroelettrico. In questa Grande Piega passa la stessa quantità d’acqua che passa da tutti gli altri fiumi che transitano dal Tibet verso l’India messi insieme, facendone di fatto un punto critico per l’approvvigionamento idrico, sia per la tigre indiana che per il Bangladesh. Da solo, il Brahmaputra offre alla Cina più acqua del Mekong e del Salween congiunti. Nell’India orientale la popolazione dipende direttamente dai 165 chilometri cubi di acqua che passano ogni anno dal confine cinese, per alimentare le pianure agricole del Sikkim e le regioni iperpopolate del Bangladesh. 179 Sul versante cinese lo Yarlung Tsangpo significa due cose: il più grande progetto idroelettrico mai realizzato in Cina, ancora in fase di progettazione, più grande anche della Diga delle Tre Gole, e il piano di diversione delle acque verso nord per congiungersi con il bacino del Fiume Giallo. Pechino ha grandi mire in questa regione: nel 2014 ha annunciato l’obiettivo di costruire quattro megadighe lungo il corso del Brahmaputra in Tibet. Attualmente solo la Zangmu Dam, situata nella prefettura di Gyaca, a 150 chilometri da Lhasa, è attiva, producendo 510 MW di energia. Le altre due in costruzione sarebbero la Gyatsa Dam da 360 MW e la Jiexu Dam da 510 MW. La quarta, Zhongda, sarebbe appena in fase di pianificazione. 180 Ma tutte le attenzioni geopolitiche sono rivolte al colosso che dovrà essere costruito nella sezione della Grande Piega, nei pressi del villaggio di Motuo. 38 GW di potenza, il doppio della potenza della diga più grande al mondo, quella delle Tre Gole. Un progetto che il governo per il momento preferisce non discutere, ma che potrebbe

trasformare radicalmente la regione, portando a uno scontro diretto tra India e Cina, sostengono numerosi analisti geopolitici, in particolare il Cna. 181 Secondo Zhang Boting, segretario della China Society for Hydropower Engineering, che in un articolo sul Guardian ha tuttavia confermato che numerose ricerche sono già state intraprese per valutare la fattibilità della megadiga, «lo sbarramento potrà far risparmiare, ogni anno, 200 milioni di tonnellate di carbone per produrre energia». «Non dobbiamo perdere l’opportunità di realizzare il più grande progetto per la riduzione di emissioni di CO2 in Cina. Tutte le risorse idriche che possono essere sfruttate devono esserlo», 182 ha aggiunto Boting. Pechino allo stesso tempo nutre sospetti nei confronti dei progetti indiani di dighe nell’Arunachal Pradesh, che andrebbero a rafforzare il controllo e l’influenza di Nuova Delhi in uno stato così periferico. Un posizionamento che potrebbe complicare le negoziazioni sui confini, già altamente complesse, e ridurre significativamente le speranze di Pechino di allargarsi in questa regione. 183 Dal punto di vista dell’impatto globale, a spaventare ancora di più Nuova Delhi è il piano di medio-lungo termine per reinstradare le acque dello Yarlung Tsang-po verso il nord della Cina. Il grande piano di diversione fa parte di uno sforzo più ampio per sviluppare la Cina orientale, chiamato «Open Up the West» e iniziato nel 2000 durante la presidenza di Jiang Zemin, allo scopo di incoraggiare il progresso economico in un’area storicamente impoverita del paese. Contemporaneamente si vuole favorire, come prassi del governo cinese, la migrazione della maggioranza etnica Han in aree caratterizzate da forte presenza di minoranze etniche, come il Tibet e lo Xinjian, rafforzando così il controllo su importanti risorse naturali e terreni. 184 Soltanto nel 2014, per sostenere questa strategia dal punto di vista idrico la Cina ha investito quasi 5 miliardi di euro nel solo Tibet, per portare acqua potabile a 2,39 milioni di persone e la luce in 360.000 unità familiari rurali. Dal punto di vista della sicurezza idrica va ricordato, come detto fin dal primo capitolo, che la Cina è fortemente esposta alla scarsità d’acqua. Nel Nord-ovest la situazione è particolarmente acuta, con solo il 14% del totale delle risorse e ben due terzi dei terreni agricoli, e il 45% della popolazione. Oltre due terzi dei villaggi rurali del nord sono a corto di risorse

idriche, con una disponibilità quotidiana pro capite che si assesta a un decimo di quella nazionale. Data la governance poco efficace, infine, i controlli sulla salubrità dell’acqua sono quasi inesistenti. Per correggere tali squilibri nasce il progetto SouthNorth Water Diversion Project. Iniziato nel 2002, il progetto consiste in tre rotte principali di diversione delle acque. Le prime due, dallo Yangtse e dal fiume Han, indirizzate verso il Fiume Giallo, sono state completate andando a sostenere il fabbisogno idrico di alcune delle principali città del nord, come Pechino e Tianjin. La terza diversione, la più grande, si concentra su tre tributari dello Yangtse (il Tongtian, lo Yalong e il Dadu). Ma secondo gli idrologi cinesi potrebbe non essere sufficiente. 185 La soluzione potrebbe proprio arrivare dalla fonte più grande, il Brahmaputra. Attraverso una serie di canali da costruire nel Sichuan, le acque del «Fiume che scorre dagli alti picchi» potrebbero riversarsi a nord, nella parte iniziale del Fiume Giallo. A sostenere il piano ci sarebbe un libro pubblicato nel 2005 da un ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione, l’armata regolare cinese, Li Ling. Per il ricercatore indiano Brahma Chellaney questa sarebbe la prova delle intenzioni della Repubblica popolare cinese di voler mettere a repentaglio l’approvvigionamento idrico dell’India e del Bangladesh. Da Pechino si è sempre minimizzato, riducendo il libro di Ling a un mero «opuscoletto». Le tensioni però perdurano e gli indiani monitorano con attenzione ogni movimento nelle aree interessate del fiume. «L’acqua, viste le intenzioni della Cina, è sempre più una delle questioni chiave delle relazioni con l’India – spiega Chellaney raggiunto al telefono per un’intervista durante le ricerche per il libro –. Progetti di trasferimento idrico e di controllo del flusso delle acque potrebbero diventare una leva politica contro l’India per controllare territori contesi come l’Himachal Pradesh». Le rivendicazioni cinesi, iniziate nel 2006, sostenute dai media di Pechino, ancor oggi chiamano la regione «Tibet meridionale». 186 A sfavore del megapiano di diversione giocano due fattori: innanzitutto i costi proibitivi per lo scavo di migliaia di chilometri di canali in una delle regioni più impervie del pianeta. Inoltre, da un punto di vista geologico il plateau tibetano è eccessivamente instabile per supportare una trasformazione idrogeologica di tali dimensioni. 187 Al momento non c’è evidenza che ciò possa accadere

nei prossimi anni. Ma la diffidenza rimane, corroborata dalle differenze geopolitiche dei due stati, con l’India nell’orbita americana e la Cina sempre pronta a far prevalere l’interesse di stato sulla diplomazia, seppure aperta al dialogo, forse più dell’India stessa, propensa a puntare il dito contro un nemico straniero più che a lavorare per sistemare un sistema idrico al collasso. A fine 2017, Nuova Delhi è tornata ad accusare Pechino di non aver inviato i dati sulla portata del fiume in seguito ai monsoni, in violazione di un accordo firmato nel 2013 per uno scambio mutuo di dati sul bacino del Brahmaputra, segno che la disputa sul fiume è destinata a perdurare. 188 Acqua Santa Tiberio Grimberg vive all’estremità di Beka’ot, un insediamento israeliano nelle vicinanze della Valle del Giordano. Lavora come giardiniere, cura le piante e le innaffia nel suo moshav . 189 «Qui intorno, nella Valle del Giordano, crescono soprattutto vigneti», racconta Tiberio mentre si terge il sudore, in sella al suo trattore. Padre di sei figli, vive a Beka’ot dagli anni Settanta. «Ho trovato il futuro in questa terra. L’acqua non manca, abbiamo portato il verde dove c’era il deserto – spiega sereno –. Ma è come la giungla, il deserto, una battaglia continua. E i palestinesi la stanno perdendo». A meno di un chilometro di distanza spicca il contrasto con la terra brulla degli allevatori beduini, che rive la la drammatica scarsità d’acqua. «Per prendere l’acqua dobbiamo percorrere oltre venticinque chilometri al giorno con il trattore», spiega Abed alMahdi Salami, settantatré anni, capo della piccola comunità beduina di al-Hadidiyah. «Abbiamo provato a costruire con i soldi della cooperazione spagnola una condotta per l’agricoltura e l’allevamento. Ma i militari israeliani l’hanno demolita per ragioni di sicurezza», commenta cupo Abed mentre mostra i resti del tubo. Nei pressi della sua tenda una pompa d’acqua della compagnia Mekorot, una grande utility israeliana, emette un sottile ronzio. «L’acqua c’è, vedete? Perché non possiamo usarla?». La lotta per l’acqua è da anni al centro del conflitto tra palestinesi e israeliani. Una tensione sfociata in vera e propria crisi nell’estate

2016, quando numerosi villaggi e campi profughi palestinesi sono rimasti a secco per giorni, dovendo così importare acqua in grosse botti per sopperire ai bisogni di base, attendendo svegli, nel cuore della notte, che tornasse la pressione nelle tubature. «Nei campi profughi, specie al sud, verso Hebron, ma anche nel nostro, l’acqua non si è vista per giorni. Niente doccia per i bambini, rubinetti immobili, nemmeno una goccia per i sanitari. Un inferno». Amjad Rfaie è il direttore del campo profughi di New Askar. Ogni giorno deve affrontare le lamentele degli abitanti. «E gli israeliani, nonostante le richieste di acquistare l’acqua da Mekorot, pagando, non hanno fatto nulla. Anzi, hanno addirittura ridotto i rifornimenti». I palestinesi dipendono quasi completamente dagli israeliani per l’acqua, nonostante acquiferi e bacini di raccolta delle piogge siano concentrati nella parte centro-settentrionale dei territori palestinesi. «Esiste una cesura tra i due popoli nel diritto all’accesso all’acqua», spiega Amit Gilutz, portavoce di B’tselem, un’organizzazione israeliana pacifista, mentre guida la sua jeep fuori dal recinto militarizzato di Beka’ot. «Per ogni pozzo nuovo, anche nei territori controllati dell’Autorità Palestinese, serve un permesso dell’Autorità civile regionale israeliana (Ica). L’acqua non è distribuita in maniera eguale e spesso le infrastrutture palestinesi nelle aree militari controllate dagli israeliani sono danneggiate o letteralmente distrutte». In base agli Accordi di pace ad interim di Oslo II, del 1995, la distribuzione di acqua tra israeliani e palestinesi si sarebbe dovuta attuare con quote rispettivamente dell’80% e del 20%, in attesa di uno statuto definitivo che dia vita allo stato palestinese e ai confini di quello israeliano. 190 Oggi le quote sono ulteriormente ridotte, con i palestinesi che non hanno accesso che al 14% delle risorse dei bacini. La gestione coordinata tra le due entità politiche è più complicata che mai. «Noi abbiamo difficoltà di ogni tipo nell’amministrazione quotidiana», spiega Imad Masri, direttore del Water Supply and Sanitation Department del municipio di Nablus, seconda città della West Bank. «Dall’impossibilità di costruire nuovi pozzi a causa del congelamento della Commissione congiunta sull’Acqua israelo-palestinese 191 , alla buro crazia per i progetti infrastrutturali, fino ai blocchi alla dogana israeliani di componenti

per gli impianti. Una pompa ordinata dall’Italia ci ha messo oltre un anno e mezzo per arrivare, lasciando il pozzo fermo». I territori palestinesi sono un arcipelago complesso, dove non è sempre chiaro chi governi e quali siano i responsabili amministrativi. I campi profughi sono amministrati da Unrwa, l’agenzia Onu creata nel 1948 per i profughi palestinesi. L’Area A è sotto controllo dell’Autorità Palestinese (15% della West Bank); l’Area B è governata dall’amministrazione civile palestinese e sorvegliata da un controllo militare misto israeliano/palestinese); l’Area C è costituita dai territori palestinesi dove sono situati gli insediamenti israeliani, di fatto controllati dall’autorità civile e militare israeliana (circa il 63% dei territori e oltre 150.000 palestinesi e 326.000 coloni residenti). In questa folle geografia politica, la ge stione delle risorse e infrastrutture idriche, fortemente politicizzata, è un vero nodo gordiano. La scarsa manutenzione palestinese, l’ingerenza militare israeliana, la difficoltà di coordinamento tra numerosi livelli amministrativi – tutti sottili stratagemmi politici – mantengono alta la tensione, mentre decine di migliaia di persone ne subiscono quotidianamente le conseguenze. Secondo Majida Alawneh, direttrice qualità della Pa lestinian Water Autority (Pwa), «ci sono oltre cento pro getti critici che non sono stati approvati, o vengono rallentati, dall’Ica. Anche se spesso sostenuti dalla cooperazione internazionale. Pochissimi i nuovi pozzi autorizzati negli ultimi sette anni», mentre la disponibilità idrica è passata da 118 milioni di metri cubi nel 1995 a 87 nel 2014, nonostante l’aumento di popolazione nella West Bank, passata da 1,25 a 2,7 milioni di abitanti. 192 Il fulcro del problema, e delle ingiustizie, è l’Area C, dove solo 16 villaggi su 180 sono collegati alla rete idrica. 193 «Non alle fonti, però – continua Amit di B’tselem –, bensì alla rete idrica degli insediamenti israeliani, divenendo così di fatto dipendenti dalla rete di Mekorot, che assegna ai palestinesi quote fisse, mentre i coloni ricevono acqua in base alla domanda. Il risultato? Durante i periodi di stress idrico, nei mesi più caldi, la pressione dell’acqua scende anche del 40%, visto che le colonie hanno la priorità. I palestinesi devono aspettare l’acqua per settimane, spesso ricevendola solo nel cuore della notte».

Nel campo beduino nei pressi di Ein al-Hilweh, nella Valle del Giordano, Area C, Mahmoud ha circa cinquecento pecore. Per il suo clan e i suoi capi di bestiame necessita di dieci metri cubi d’acqua al giorno. Ma i suoi pozzi sono esauriti e non può spostarsi, per ragioni di sicurezza imposte dai militari, nonostante sia un pastore nomade. «Abbiamo chiesto più volte di accedere alla rete idrica, ma senza possibilità. Abbiamo un pozzo, ma non possiamo usarlo. Via di qua non possiamo andare. E così siamo costretti a portare acqua nelle botti con i trattori. Questo però ci rovina. Oltre il 50% dei nostri proventi dall’allevamento va in costi per l’acqua – spiega Mahmoud –. Inoltre abbiamo paura che i nostri mezzi ci vengano confiscati dall’esercito israeliano, come è già successo». Sono oltre 30.000 gli abitanti in Area C che vivono in condizioni simili, molti con una disponibilità idrica inferiore ai 20 litri al giorno, come mostrano i dati di Un-Ocha, l’Ufficio Onu per gli affari umanitari. Il prezzo da pagare è salato: 400% in più rispetto alla normale bolletta dell’acqua. Sovente si deve fermare l’approvvigionamento a causa delle esercitazioni militari, che vengono annunciate all’ultimo momento. La questione dell’acqua rimane fondamentale per gli accordi di pace. È uno dei cinque punti cardine. L’obiettivo è un utilizzo equo per entrambi i popoli. Con un consumo pro capite bilanciato. Invece ogni palestinese ha una media di 70 litri al giorno, contro i 280 di un israeliano e i 350 di un colono. 194 100 litri sono la soglia dell’Organizzazione mondiale della sanità per una vita salubre. Senza accesso all’acqua non può esserci un accordo. E dunque non ci sarà pace in Terra Santa senza acqua condivisa. Conflitti e migrazioni La moto di Lom Dum è carica di quasi tutti i beni della sua famiglia: i sacchi con le vecchie reti da pesca, una sporta con i vestiti dei due figli, una con quelli suoi e di sua moglie, una scatola di cartone con alcuni cimeli di famiglia e le pentole da tenere tra le gambe. Con lui salirà a bordo anche tutta la famiglia. L’arte di caricare le moto fino all’inverosimile in Cambogia rimane imbattuta in tutto il mondo. «Porto spesso pacchi e materiali – dice Lom –. Questa però è la

prima volta che mi imbarco in un viaggio cosi lungo». Lom Dum ha deciso di accettare la compensazione di cinquemila dollari per la sua casa sul fiume, offerta dalla società China’s Hydrolancang International Energy per acquisire tutti i terreni necessari per l’invaso della diga Lower Sesan II, costruita lungo un affluente del Mekong, il Sesan. Trasferitosi nel villaggio di ricollocamento, costruito in fretta e furia per ospitare gli sfollati, si è presto accorto che, senza fiume vicino e con i terreni sterili e pietrosi, non c’era modo di trovare sostentamento per la propria famiglia. I soldi sono finiti in fretta. Così ora ha deciso di andare a Stung Treng, la città più grande della provincia, o, se la sorte lo accompagna, dice lui, fino in Thailandia, dove c’è più lavoro e prosperità. Halim invece viene dalla Regione dei Somali, una delle suddivisioni a mministrative etiopi. Sta aspettando un autobus nell’affollata stazione bus settentrionale di Addis Abeba. Racconta del suo viaggio rocambolesco dal villaggio di Buur Cukur. «Non c’è acqua, non c’è cibo. Il governo fatica a consegnare le derrate alimentari. E spesso non ci lasciano nemmeno uscire dalla regione. Non vogliono che arriviamo qui in città. Per sfuggire ai controlli delle guardie mi sono nascosto sotto un camion». La sua terra è attanagliata da oltre due anni di siccità prolungata, dovuta alle masse di aria calda dall’Oceano Indiano, che ha ucciso milioni di capi lasciando senza speranza gli allevatori dell’area. Il governo non ha soldi. Per alleviare la siccità ha investito nel 2017 solo 42 milioni di euro, mentre anche un’organizzazione come il Programma alimentare mondiale (Wfp), racconta Pail Scheem del Washington Post , ha dovuto ridurre le derrate alimentari nella Somali dell’8%, non avendo trovato donatori per coprire il buco di 110 milioni di euro nel budget, dovuto principalmente ai tagli di Donald Trump ai contributi alle agenzie delle Nazioni Unite come il Wfp. Il rischio per i prossimi anni è che la siccità scateni una carestia su larga scala, costringendo milioni di persone a fuggire in cerca di cibo. Per chi studia i fenomeni migratori, oggi appare sempre più evidente come l’acqua sia uno dei principali fattori ambientali che condizionano la mobilità e che più risentono del cambiamento climatico. Lo ribadiscono ong come Gvc, Oxfam, Save the Children e grandi organizzazioni come il World Economic Forum, che nel suo

Global Risk Report 2016 ha inserito le crisi idriche tra le principali cause delle migrazioni. 195 In generale, dal 2009 una persona al secondo ha dovuto lasciare la sua terra a causa di eventi meteocatastrofici. Nel solo 2016 ci sono stati 22,5 milioni di profughi ambientali, di cui una parte per problemi legati all’acqua, come siccità, inondazioni, innalzamento del livello del mare. Al 2050, secondo i calcoli del professor Norman Myers dell’Università di Oxford, i profughi legati agli effetti del cambiamento climatico potranno essere oltre 150 milioni. 196 Attualmente, circa 1,6 miliardi di persone, quasi una su quattro, risiedono in paesi con poca disponibilità di acqua, e le previsioni indicano che in un ventennio la cifra potrebbe raddoppiare. In maggioranza vivono in paesi con scarsa disponibilità finanziaria – come nel caso dell’Etiopia – per realizzare le infrastrutture necessarie a ovviare alla penuria d’acqua, né hanno la volontà politica di aderire a trattati e ad accordi bi- e multilaterali, o un’adeguata capacità di governance. Inoltre, l’acqua disponibile è spesso contaminata da rifiuti, resti fecali ed elementi tossici. Per l’International Food Policy Research Institute (Ifpri), tra 650 milioni e 1,3 miliardi di persone risiedono in bacini con elevate quantità di azoto, fosforo, arsenico. Un decimo dei fiumi di Asia, Africa e America Latina hanno livelli di salinità eccessiva, mentre un terzo dei fiumi, particolarmente in Asia, hanno elevati livelli di patogeni nell’acqua, che sono causa di dissenteria, colera e altre malattie. 197 E quando l’acqua è contaminata e uccide, la salvezza è nella fuga. Difficile dire quali saranno le aree più esposte alle migrazioni legate all’acqua e ai suoi conflitti. Certamente tutte le ricerche individuano il Medio Oriente, il Sahel, l’Africa centrale e l’Asia centrale e orientale tra le aree più colpite. Secondo la Banca Mondiale, le migrazioni legate all’acqua comporteranno perdite allarmanti di Pil stimate tra il 7% (Asia orientale e Africa centrale) e il 14% (per il Medio Oriente) circa. Nel Sahel e in Asia centrale si prevede un calo drammatico di circa l’11% (mentre nel Sud-est asiatico si ipotizza il 2%). 198 Di sicuro si registreranno migrazioni importanti e non sempre di grande scala. Come quella di Lom Dum, interna, a corto raggio, una strategia di resilienza e ottimizzazione in situazioni non gestibili o

non governate. Questo tipo di spostamenti interni vedrà interessate soprattutto le fasce più povere, i piccoli agricoltori che non hanno le risorse per spostamenti di lunga distanza, in particolare verso i paesi industrializzati o di nuova industrializzazione. Questi soggetti, in alcuni casi particolarmente acuti, rimarranno intrappolati nelle aree colpite, privi di qualsiasi mezzo per spostarsi, se non a piedi. Inoltre, in alcuni casi come l’Etiopia o la Libia, Mali, Niger, ma anche Messico e Myanmar, la riduzione della possibilità migratoria sarà indotta – o così già accade – da politiche tese a disincentivare i movimenti di popolazione, sostenute da governi locali o da potenze straniere che pretendono in tal modo di fermare i flussi di migranti. Condannando così le persone a rimanere in aree fortemente svantaggiate, o a intraprendere viaggi in condizioni illegali e pericolose, spesso finendo in campi-prigione o cadendo vittima di organizzazioni criminali che gestiscono la tratta dei nuovi schiavi, dalla prostituzione ai lavori forzati.

157 Dati ottenuti da http://data.unhcr.org/syrianrefugees/regional.php, consultato il 10/9/2017. 158 Dati Osservatorio siriano per i diritti umani (www.syriahr.com/en) consultato il 16/9/2017. L’Osservatorio, fondato nel maggio 2006, dal 2011 si occupa del conflitto siriano. 159 Dati forniti dalla ong italiana Gvc. 160 Jeremy Lennard (ed.), Global Report on Internal Displacement 2017 , Norwegian Refugee Council 2017 (http://bit.ly/2rs0Bwh). 161 Si veda Stefanie Glinsky, «The price of water: South Sudan’s capital goes thirsty as costs soar», in Reuters , 30/9/2017. 162 Brahma Chellaney, Water: Asia’s New Battleground , Georgetown Universi ty Press, Washington DC 2013. 163 Ibidem . 164 Si veda anche Lester R. Brown, Plan B 4.0: Mobilizing to Save Civilization , W.W. Norton & Company, New York NY 2009. 165 Testo originale: http://bit.ly/2EA5CcV. 166 Schede di approfondimento a cura di Paolo Maggiolini, Andrea Plebani, Aldo Pigoli, Riccardo Redaelli: «Diritto internazionale dell’acqua» e «Water Security» in www.waterandfoodsecurity.org. 167 Si veda Elisabetta Cangelosi, «Il diritto umano all’acqua», in Storia e Futuro , n. 32 (giugno 2013; http://bit.ly/2BJMz2u). 168 Testo integrale in italiano del Patto : http://bit.ly/2wE9yZP. 169 La porzione di territorio che raccoglie le acque superficiali, che creano così un corso d’acqua o un bacino idrico. 170 Sébastien Abis, Pierre Blanc, «Agriculture et géopolitique au XXI siècle. Rivalité, stratégie, pouvoirs», in S. Abis, P. Blanc (eds.), Les Cahiers Déméter 13, 2012. 171 « Water Conflict Management and Transformation» , Oregon State University (www.transboundarywaters.orst.edu/training/index.htm). 172 Atlas of Transboundary Aquifers , Internationally Shared Aquifer Resources Management (Isarm) Programme, Unesco, Paris 2017. 173 Transboundary Waters Assessment Programme: www.geftwap.org. 174 Claudia W. Sadoff, Edoardo Borgomeo, and Dominick de Waal, for World Bank, Turbulent Waters: Pursuing Water Security in Fragile Contexts , World Bank Group, 2017 (http://bit.ly/2DoFMsV).

175 Organization for Economic Cooperation and Development, States of Fragility 2015: Meeting Post-2015 Ambitions , Oecd Publishing, Paris 2015 (http://bit.ly/2qYDbn3). 176 Convention on the Protection and Use of Transboundary Watercourses and International Lakes , 2013: http://bit.ly/2qZvMDZ. 177 Convention on the Law of the Non-navigational Uses of International Watercourses , 1997: http://bit.ly/1lEaahj. 178 Ibidem . 179 Balai Chandra Das, Sandipan Ghosh, Aznarul Islam, Md Ismail (eds.), Neo-Thinking on Ganges-Brahmaputra Basin Geomorphology , Springer, Berlin 2016. 180 Brahma Chellaney, Water, Peace, and War: Confronting the Global Water Crisis , Rowman & Littlefield, Lanham MD 2015. 181 Il Cna si autodefinisce «un’organizzazione non profit di ricerca e analisi sita ad Arlington», in Virginia. 182 Jonathan Watts, «Chinese engineers propose world’s biggest hydro-electric project in Tibet», in The Guardian , 24 May 2010 (http://bit.ly/2CYfmO0). 183 Si veda Nilanthi Samaranayake, Satu Limaye, and Joel Wuthnow, Water Resource Competition in the Brahmaputra River Basin: China, India, and Bangladesh , Cna, Arlington VA 2016 (http://bit.ly/2mpqex3). 184 David S.G. Goodman (ed.), China’s Campaign to «Open Up the West»: National, Provincial and Local Perspectives , Cambridge University Press, 2004. 185 Dai Qing, John G. Thibodeau, Michael R. Williams, Qing Dai, Ming Yi, Audrey Ronning Topping, The River Dragon Has Come! The Three Gorges Dam and the Fate of China’s Yangtze River and Its People , Routledge, London 2016. 186 Chellaney, Water, Peace, and War , cit. 187 Ibidem . 188 Si veda Navin Singh Khadka, «China and India water “dispute” after border stand-off» , in Bbc News , 18/9/2017. 189 Moshav è un tipo di comunità agricola cooperativa costituita da singole fattorie, istituita dai sionisti socialisti durante la seconda ondata di immigrazione ebraica, all’inizio del XX secolo. Un residente o membro di moshav può essere chiamato moshavnik . 190 Geoffrey R. Watson, The Oslo Accords: International Law and the Israeli-Palestinian Peace Agreements , Oxford University Press, 2000. 191 Si tratta di un’entità creata con gli accordi di Oslo per coordinare la gestione idrica. 192 Dati forniti dall’associazione israeliana B’tselem. 193 Ibidem . 194 Fonte: Lauren Gelfond Feidinger, «The Politics of Water: Palesti nians Bracing for Another Dry Summer», in Haaretz , 13 April 2013 (http://bit.ly/2DawYt7). 195 Si veda http://reports.weforum.org/global-risks-2016. 196 Scott Leckie, Land Solutions for Climate Displacemen, Routledge, London 2014. 197 The murky future of global water quality: New global study projects rapid deterioration in water quality , Veolia/Ifpri, Chicago IL / Washington DC 2015 (http://bit.ly/2FwKuFM). 198 Leckie, op. cit.

6. L’ACQUA È DONNA

Nessuna lotta può concludersi vittoriosamente se le donne non vi partecipano a fianco degli uomini. Al mondo ci sono due poteri: quello della spada e quello della penna. Ma in realtà ce n’è un terzo, più forte di entrambi, ed è quello delle donne. Malala Yousafzai È quasi Natale, anche se in questi giorni non si respira aria di festività. D’altra parte, in Swaziland dicembre significa piena estate, giornate lunghe e luminose, il freddo è un compagno inesistente. Il caldo si mischiava perfettamente alla polvere rossa dello sterrato che entrava in macchina, mentre eravamo in viaggio verso la piccola comunità di Ntandweni nella regione di Lubombo, cuore dell’industria della canna da zucchero del piccolo stato africano. Ad accogliermi, un nutrito gruppo di donne: meravigliose, fiere, con uno sguardo carico di dignità, nonostante la fatica e la privazione dovute alle dure condizioni di vita, la mancanza d’acqua e il lavoro estenuante nelle piantagioni. I colori accesi dei loro vestiti amplificavano l’allegria del momento. I visitatori, d’altronde, sono molto rari da queste parti. Un abbraccio iniziale con ognuna di loro, occhiate intense, poi l’invito a sedermi sotto un ampio marula, un albero tipico dell’Africa meridionale, in una distesa di tappeti blu e gialli. All’ombra assieme alle donne sedute in cerchio, lo scambio, sempre tradotto in lingua locale da Nosipo, una collega del Cospe, e accompagnato da un complesso gioco di sguardi, lentamente fa emergere le tante difficoltà del villaggio. Scopo dell’incontro è approfondire le problematiche ambientali della comunità, capire quanta acqua hanno a disposizione e a che distanza, e come la comunità si organizza per far fronte alla siccità degli ultimi anni, di gravità sempre crescente. El

Niño, un fenomeno climatico ciclico che ha portato anche in Africa australe lunghi periodi di assenza di piogge, ha reso essenziale vivere sempre più vicino a corsi d’acqua o ai pozzi, senza sottovalutare le rare e catastrofiche piogge torrenziali che di tanto in tanto interessano il paese. Raccogliere accuratamente informazioni su questi fenomeni avrebbe quindi potuto aiutare a una migliore pianificazione della resilienza idrica di queste comunità. Mkuze, la donna forse più anziana del gruppo, prende la parola per prima. «Il pozzo più vicino è a trentacinque minuti a piedi dal centro del villaggio. Andare a prendere l’acqua è un’attività quotidiana per tutte le famiglie. Ci siamo organizzate in gruppi di cinque-sei donne per andare ogni giorno, a turno, a riempire i recipienti e portarli a casa. Siamo fortunate: mezz’ora a piedi è un progresso, rispetto al passato». Rimango in silenzio, esterrefatta: mezz’ora di cammino per rifornirsi di acqua per bere, cucinare, per l’allevamento delle caprette, era considerato un «progresso». «Prima ci mettevamo quasi due ore», aggiunge Mkuze. Nosipo, che ha notato il mio stupore, sottolinea un fatto preciso. «Sono sempre le donne che pensano all’acqua e a dissetare tutta la comunità, ma anche a lavorare la terra e ad accudire i bambini. Gli uomini in questo viaggio per l’acqua non c’entrano nulla». Dopo un’ora di racconti, Mumbala, una delle giovani nipoti di Mkuze, m’invita a casa loro. Mi mostra cos’hanno messo a cuocere, e una serie di tessuti, realizzati da lei e dalle sue sorelle, per sdraiarsi, dormire o mangiare, raccontando i significati delle tante decorazioni variopinte. Nella casa non c’è un bagno, né all’interno né fuori. Era esattamente ciò che vogliono mostrarmi. «È tutto qua», ripete in maniera quasi ipnotica Mumbala. Tutto qua, niente acqua corrente, niente latrina. La nonna Mkuze si schiarisce la voce, spostando alcune taniche vuote. «Acqua per Mumbala significa paura. Non ha aperto bocca per quasi un anno. Adesso ha imparato a colorare i tessuti, ride e ci siamo lasciate tutto alle spalle, ma la paura che possa succedere ancora è sempre dentro di noi». Gli occhi della nonna domandano gravità, con la voce a tratti rotta. La traduttrice è un po’ imbarazzata e guarda per terra. Chiedo un chiarimento, ho intuito un orrore passato dietro il viso di Mumbala.

La nonna prende coraggio, anticipando la mia domanda. «Le latrine di Ntandewi sono state costruite lontano dalle case, bisogna camminare parecchio per raggiungerle, così come per andare al pozzo. Mumbala, che all’epoca aveva diciannove anni, una sera portava a casa una tanica d’acqua per la sua famiglia. Era sola, quasi buio. Presso le latrine, sbucò dal nulla una figura. Mumbala fu aggredita e subì violenza. Uno stupro. Rimase a terra a poca distanza, nel fango delle latrine, fino al sorgere del sole, quando vennero a cercarla con il favore della luce. Per un anno, da quella sera, Mumbala non ha più avuto la forza di parlare per la vergogna, per il disprezzo, per la rabbia». Il racconto lascia lacrime secche sugli occhi di tutti, che non si aspettavano un resoconto così diretto e pesante. Mumbala ha ascoltato tutto, rannicchiata, con le mani giunte sul grembo, in segno di protezione. Col suo incubo vivo negli occhi. «Avevo bisogno di andare in bagno, non mi sentivo tanto bene, avevo forti crampi per il ciclo. Non volevo andare nel bosco», mi dice la ragazza mentre ascolto in silenzio. «Oggi da sola non vado più da nessuna parte, soprattutto al bagno». Storie come quella di Mumbala sono sempre più frequenti nei paesi dove l’accesso a servizi igienico-sanitari adeguati, oltre che all’acqua, è spesso un lusso, quasi mai un diritto. Secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, di Unicef e Human Rights Watch, 199 circa il 60% della popolazione mondiale – 4,5 miliardi di persone – non ha bagno in casa né una latrina sicura, appartata, igienica, mentre 862 milioni di persone defecano all’aperto, contribuendo alla contaminazione dell’ambiente e delle acque e incrementando il numero di malattie batteriche. L’acqua è fondamentale per il benessere, non solo per usi potabili. La sottrazione di acqua alle popolazioni non è un rischio unicamente per la sicurezza alimentare ma anche per la salute e il benessere psico-fisico. Le donne e le ragazze, poi, hanno particolari esigenze biologiche, come la gestione del periodo del ciclo mestruale, l’igiene durante il parto e per le cure post-parto, che richiedono acqua pulita, spazi preposti sicuri e servizi igienici disponibili e sanitizzati.

Verso un diritto umano (e delle donne) ai servizi igienicosanitari Le donne sono nella merda? Letteralmente. Lo sono in tanti ma soprattutto le donne. Secondo il World Water Council, 200 nel 2017 ben 319 milioni di abitanti dell’Africa subsahariana (il 32% della popolazione), 554 milioni di asiatici (il 12,5%) e 50 milioni di sudamericani (l’8%) non avevano accesso a fonti di acqua potabile sicura, da impiegare anche per scopi igienici. Tra queste regioni, la Papua Nuova Guinea è quella con la minore disponibilità: solo il 40% degli abitanti ha accesso a fonti di acqua pulita; seguono Guinea Equatoriale (48%), Angola (49%), Ciad e Mozambico (51%), Repubblica democratica del Congo e Madagascar (52%), Afghanistan (55%). Tuttavia non esiste un’analisi globale che svisceri la questione igienica femminile. Non conosciamo con certezza tutti gli impatti, sociali, economici e psicologici sulle donne correlati ai servizi igienici. Un dato – anzi un’assenza di cifre – allarmante, che dimostra quanto poco sia stato fatto dal 2010, anno in cui il diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari è stato inserito tra i diritti umani fondamentali. L’unico passo in avanti, sostanziale, è la Risoluzione 70/169 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 201 adottata nel dicembre 2015, che per la prima volta ha riconosciuto la distinzione tra il diritto umano all’acqua e il diritto all’igiene, con una particolare attenzione alla salute femminile. Adottando la Risoluzione, l’Assemblea generale ha chiarito che il diritto all’acqua e quello ai servizi igienico-sanitari, pur essendo collegati, hanno caratteristiche distinte, sebbene rimangano parte del diritto a un tenore di vita adeguato e siano correlati ad altri diritti umani. La Risoluzione del 2015 ha riconosciuto il crescente rischio della violenza di genere, che si riferisce ai problemi di sicurezza derivanti dal defecare all’aperto o dall’essere costrette ad accedere ai servizi igienici lontano da casa, esponendosi così alla violenza maschile. 202 La Risoluzione ha rappresentato un impegno più concreto per denunciare le violazioni del diritto e le violenze come nel caso di Mumbala. Nei prossimi anni, il tema del diritto alle strutture igienico-sanitarie e tutte le questioni di genere correlate all’acqua dovranno assurgere a un’importanza primaria, sia

attraverso una migliore raccolta dati sia tramite l’adozione di provvedimenti importanti, come il Piano Modi, che nel 2016 si è dato l’obiettivo di costruire in India una latrina per ogni scuola e per ogni abitazione entro la fine del 2019. Ciò dovrà avvenire anche in accordo con gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sdgs) 203 e l’Agenda 2030, dove i servizi igienico-sanitari sono tra gli obiettivi chiave da raggiungere. L’acqua, dunque, dovrebbe essere considerata anche una questione di genere, poiché, sebbene le donne svolgano un ruolo fondamentale nella ricerca, nella gestione e nella tutela delle risorse idriche, anche in quest’ambito la disuguaglianza tra uomini e donne continua a persistere in tutto il mondo. Una differenza che è sottolineata, per esempio, dallo stigma associato al periodo mestruale in tante regioni dal Nepal al Congo, quando la mancanza di acqua e servizi può essere un ostacolo per la scuola o per il lavoro. Se gli istituti scolastici non hanno servizi igienici, le ragazze sono costrette ad andare a casa per gestire il ciclo mestruale, perdendo così ore di lezione e penalizzando la propria crescita culturale e sociale. La paura e l’imbarazzo portano alcune ragazze a non frequentare affatto la scuola per quasi una settimana al mese, rimanendo indietro rispetto ai maschi e con effetti potenzialmente duraturi sul successivo percorso di formazione e sulle opportunità di carriera. Una missione di monitoraggio di Human Rights Watch 204 in diverse aree del mondo ha rilevato come siano soprattutto le ragazze sotto i 18 anni a macinare chilometri al giorno per andare ad attingere acqua. Nel Turkana, in Kenya, in numerose comunità le giovani camminano ore per raggiungere il letto asciutto di un fiume, dove scavano per trovare l’acqua. Solo dopo essersi portate a casa almeno 25 litri nelle taniche, caricate sul capo e in spalla con un bilanciere, possono andare a scuola. Quando l’acqua si fa scarsa e le fonti si prosciugano, sono sempre le donne e le ragazze a dover adattare la loro routine e a dedicare tempo alla ricerca di nuove fonti – lunghe ore che potrebbero essere trascorse a scuola o al lavoro. La mancanza di istruzione non significa solo minori possibilità di trovare lavoro. Significa mancanza di strumenti di base per la cura della persona. Il diritto umano alla salute non coincide soltanto con

l’assistenza sanitaria e la possibilità di ottenere farmaci. Comprende anche un diritto ai «fattori determinanti della salute », che includono l’accesso all’istruzione e all’informazione. Diventa fondamentale, perciò, oltre alle infrastrutture, anche l’istruzione, quindi l’acquisizione di informazioni chiare sull’igiene e su come superare alcuni tabù, dal ciclo mestruale alle malattie sessualmente trasmissibili. Fra le tante storie raccolte in quella piccola comunità dello Swaziland, le donne più anziane raccontavano della loro adolescenza e della loro completa ignoranza sul ciclo mestruale a causa dello stigma culturale e di molti tabù. Non poterne parlare rendeva ancora più dolorose quelle esperienze, oltre che esporre le ragazze a numerose patologie, fisiche e psicologiche, in alcuni casi fino alla morte o al suicidio, in particolare dopo aver patito abusi sessuali. Nell’arco di una generazione o poco più, grazie a una crescente attenzione ai diritti fondamentali e al supporto delle organizzazioni non governative che hanno investito in programmi di educazione, a Ntandweni la situazione è migliorata. Le comunità di donne hanno organizzato corsi informativi per le più giovani, per spiegare il normale processo biologico di crescita con i suoi sintomi, come i crampi, la stanchezza o i disturbi mestruali, così da trasmettere loro maggiore sicurezza e dignità. Parlare di come affrontare i malesseri psicologici o di come seguire le corrette norme igieniche con l’utilizzo di acqua potabile ha rappresentato un passo avanti nel superamento di tanti tabù. Il Comitato Onu sui diritti dell’infanzia ha sottolineato che «l’avvio a misure di supporto, atteggiamenti e attività che promuovono comportamenti sani, compresi argomenti rilevanti nei curricula scolastici, è particolarmente importante nel contesto di salute e sviluppo di bambini e adolescenti». Gli stati che hanno aderito alla Convenzione sui diritti dell’infanzia 205 e alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) 206 sono obbligati a prendere tutte le misure appropriate per ridurre il tasso di abbandono scolastico – determinato anche dall’attività di raccolta dell’acqua – ed eliminare le discriminazioni ai danni delle ragazze che potrebbero esacerbare i tassi di abbandono femminile.

Tornando alla scarsità di informazioni su questo problema, dal World Water Assessment Programme dell’Unesco emerge chiaramente che ben il 45% dei paesi non produce nessun tipo di monitoraggio sulle questioni di genere collegate all’acqua e ai servizi igienici. In poche parole, al di là di alcuni progetti di grande respiro come quello indiano del primo ministro Narendra Modi, fortemente sostenuto dalla popolazione, manca un quadro chiaro di intervento. Per incoraggiare l’avanzamento di tale processo, il Consiglio per i diritti umani di Ginevra ha esplicitamente stabilito il collegamento tra il diritto ai servizi igienico-sanitari, il diritto alla salute e quello all’educazione come asse prioritario per l’emancipazione femminile. 207 Un approccio olistico che mette insieme i tanti livelli per sostenere le donne di tutto il mondo. Grazie al lavoro del Consiglio per i diritti umani c’è oggi la possibilità che i governi s’impegnino realmente ad aumentare, in maniera integrata, qualità e quantità dei servizi igienici e accesso all’acqua potabile, grado di istruzione e diritto alla salute. In tanti stati mancano ancora, però, i piani attuativi, e milioni di donne rischiano la vita ogni giorno. Dalle comunità locali alle sedi internazionali: il ruolo delle donne Alla domanda su cosa vogliano realizzare nei prossi mi anni per la comunità e come vorrebbero farlo, le donne di Ntandweni rispondono: una «casa delle donne», avere un edificio sicuro dove potersi riunire e scambiare consigli di ogni tipo. È ancora Mumbala a prendere la parola, incoraggiata dalla confidenza creatasi: «Vogliamo portare avanti i nostri percorsi di sensibilizzazione per i nostri diritti». Dalle altre giovani viene un mormorio in segno di assenso. «Così non dovremo camminare a lungo ogni giorno per bere o andare in bagno, avremo anche acqua per coltivare e avere di che mangiare. Vogliamo ricevere anche ospiti importanti per raccontare la nostra testimonianza». Un’amica chiosa che anche lei avrebbe voluto «lavorare per un’organizzazione impegnata per i diritti di genere e confrontarmi con le donne di altri paesi, aiutarci l’una con l’altra per migliorare le condizioni».

Ho ripensato spesso a queste parole, testimonianza di una grande voglia di cambiamento. Mi sono tornate alla mente anche durante la Conferenza internazionale sul clima di Bonn, parlando con una delle attiviste della Women and Gender Costituency 208 che si preparava a uno dei tanti eventi organizzati. Le costituency sono gruppi d’interesse all’interno delle Conferenze delle parti sul clima della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite (Unfccc), che s’impegnano a promuovere politiche e azioni di lobby di gruppi particolari. Tra queste, anche la Women and Gender Constituency, che promuove l’inclusione dei diritti e degli interessi delle donne in ambito climatico e ambientale. Nata da un ristretto numero di persone e organizzazioni nel 2009, la Women and Gender Constituency è diventata un attore di crescente rilievo all’interno della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici, raggiungendo l’obiettivo di menzionare il tema delle questioni di genere all’interno dell’Accordo di Parigi s ul clima del 2015. 209 Alla Conferenza di Bonn, a fine novembre 2017, la Co nstituency ha raggiunto un importante obiettivo, che avrebbe certo trovato il plauso di Mumbala e delle sue amiche: l’approvazione del Piano d’azione per l’inclusione di genere ( Gender Action Plan , Gap), 210 un programma permanente che mira a garantire pari rappresentanza a donne e uomini all’interno di tutti i programmi su clima e acqua. Per garantire le stesse opportunità di accesso alle delegazioni nazionali che partecipano ai negoziati, il Gap lavorerà per aumentare la conoscenza dei cambiamenti climatici e dei meccanismi di partecipazione politica sia tra gli uomini che tra le donne. Inoltre continuerà l’azione di pressione politica affinché politiche climatiche e programmi finanziari siano resi più efficaci attraverso l’integrazione della prospettiva di genere. Secondo Chiara Soletti, coordinatrice della sezione «Donne, Diritti, Clima» dell’associazione Italian Cli mate Network, per concretizzare l’impegno dei paesi a far sì che l’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari siano davvero un diritto umano, si deve creare una consapevolezza internazionale sull’accesso a una risorsa fortemente soggetta ai cambiamenti climatici e fondamentale alla sopravvivenza umana. «È necessario – sottolinea Chiara Soletti – instaurare meccanismi a livello di diritto internazionale che portino le nazioni a

creare infrastrutture idriche e sanitarie e a favorire l’accesso a esse, garantendo la sicurezza dei più vulnerabili, in questo caso donne e bambini». Assicurare equo accesso e rappresentatività ai negoziati, e al lavoro dell’Unfccc in generale, significa mettere in atto un meccanismo virtuoso con ricadute positive a livello non solo internazionale ma anche regionale e locale. L’adozione del Gap dimostra l’interesse della comunità internazionale alla partecipazione delle donne in ambito ambientale e climatico, e può solo far ben sperare riguardo all’impegno che le parti avranno nell’integrarne i principi a livello locale, con ricadute positive anche su problemi come l’accesso all’acqua e ai servizi igienici. Nonostante il rapporto fondamentale tra la dignità umana e il diritto alle strutture igienico-sanitarie, i programmi nazionali e internazionali che affrontano il tema dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari invariabilmente investono di più nell’accesso all’acqua che nei servizi igienici. Sebbene l’impegno di dimezzare la quota di quanti sono privi di accesso all’acqua potabile sicura – inserito tra gli Obiettivi del Millennio, l’agenda di sviluppo delle Nazioni Unite conclusasi nel 2015 – sia stato onorato, non ci sono stati miglioramenti significativi negli interventi di costruzione e strutturazione dei servizi igienici e fognari e, anche là dove l’accesso è migliorato, esistono forti disparità tra chi vive in un’area urbana e chi abita fuori città, con quasi la metà della popolazione rurale del mondo che non ha accesso a nessun tipo di servizio. È una situazione cui bisogna porre rimedio. Léo Heller, 211 Special Rapporteur Onu per il diritto umano all’acqua e per il diritto ai servizi igienico-sanitari, in un’intervista realizzata per questo libro ha affermato che c’è un forte impegno del Consiglio per i diritti umani di Ginevra a lavorare con la cooperazione governativa e non governativa dei paesi meno sviluppati e a passare ai fatti nella costruzione o l’ammodernamento delle infrastrutture, a partire dai grandi centri urbani per poi procedere gradualmente nelle zone periurbane e rurali. Non a caso, il Report annuale 2017 212 ha avuto un focus particolare sulla questione igienico-sanitaria legata all’acqua. Secondo Heller, la scarsità di accesso all’igiene ha un impatto doppiamente lesivo della dignità personale nel caso delle donne e influenza altresì l’affermazione di altri diritti umani, quali

l’autodeterminazione, l’istruzione, la salute, il lavoro, la libertà di movimento, l’indipendenza anche economica. «Tra le aree geografiche che necessiteranno di maggiori interventi, nell’ambito delle infrastrutture come nell’ambito educativo, ci sono Kenya, Zimbabwe e Malawi, essendo emerso un alto numero di violenze sessuali subite lungo il tragitto per raccogliere l’acqua o per recarsi alle latrine». Un impegno del Consiglio per i diritti umani, conclude Heller, è lavorare su sistemi di monitoraggio e ricerca dati in collaborazione con i governi e le amministrazioni locali al fine di individuare le zone in cui le donne sono maggiormente esposte e prive di supporto. Tuttavia, la sfida del futuro è l’affermazione di eguali diritti tra uomini e donne anche nel controllo e nell’accesso all’acqua. E questo passa per il riconoscimento del ruolo della donna nella gestione delle risorse idriche e delle specifiche necessità sanitarie.

199 I report citati sono raccolti nel sito del World Toiled Day (la Giornata cade il 19 novembre): www.un.org/en/events/toiletday/index.shtml. 200 World Water Council: http://bit.ly/2mrsBQa; vedi anche YouTube: http://bit.ly/2D99ju3. 201 Testo della Risoluzione: http://bit.ly/2wNOtwK. 202 Ibidem . 203 Goal 6: https://sustainabledevelopment.un.org/sdg6. 204 Articolo di Human Rights Watch: «Sanitation as a Global Right», 19/4/2017 (http://bit.ly/2pyBU1g). 205 Testo della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza : http://bit.ly/2gxsx1h. 206 Testo della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (Cedaw): http://bit.ly/2DNk02n. 207 La succitata Risoluzione 70/169 del 17/12/2015 dell’Assemblea generale Onu riprende, in effetti, le Risoluzioni 24/18 del 27/9/2103 e 27/7 del 25/9/2014 del Consiglio per i diritti umani sul tema. 208 Sito web: http://womengenderclimate.org. 209 Gender and Climate Change: http://bit.ly/2E4sMIz. 210 Gender Action Plan : http://bit.ly/2r3btFQ. 211 Leo Heller: http://bit.ly/1wKt9Aq. 212 Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights, Service regulation and human rights to water and sanitation : http://bit.ly/2nlDSQO.

7. L’ACQUA È POP(OLARE)

Siamo impegnati con le nostre vite a costruire un modello diverso e un futuro diverso per l’umanità, la Terra e altre specie. Abbiamo immaginato un’alternativa morale alla globalizzazione economica perché nessuna soluzione frammentaria impedirà il collasso di intere società ed ecosistemi… Un ripensamento radicale dei nostri valori, priorità e sistemi politici, è urgente. Maude Barlow , Boiling Point «La coalizione [del popolo] vince l’appello della Cor te suprema contro la privatizzazione dell’acqua». Con questo titolo apriva a caratteri cubitali il Jakarta Post, 213 tra i principali quotidiani nazionali indonesiani, il 10 ottobre 2017. In poche ore la notizia si tramutava in un tam-tam mediatico nella mailing list Water Warriors di ricercatori, giuristi, organizzazioni non governative e think tank mondiali, impegnati sulla violazione del diritto all’acqua. Quasi immediatamente arrivavano le analisi della vittoria giuridica in Indonesia realizzate dal Transnational Institute di Amsterdam 214 e da Human Rights Watch, 215 organizzazioni internazionali che da anni seguono la lunga battaglia di Giacarta per il pieno godimento del diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari. Un risultato storico, è il giudizio all’unisono delle due associazioni, un risultato che spingerà la tendenza globale alla deprivatizzazione. In piazza, centinaia di cittadini festeggiavano una decisione attesa da oltre dieci anni: «Questa è una vittoria della società civile!». Per seguire da vicino lo svolgersi degli eventi, quel giorno ero rimasta incollata al telefono con Muhammad Reza Sahib, coordinatore della Coalizione per il diritto all’acqua in Indonesia. 216 Per la stesura di questo capitolo volevo sentirlo per un commento a

caldo e per un’analisi approfondita di tutto il processo. Essendo io impossibilitata a volare a Giacarta, Reza (si fa sempre chiamare col suo secondo nome) inizia a raccontarmi la lunga storia del tentativo di privatizzazione delle risorse idriche di Giacarta, la capitale indonesiana – più di dieci milioni di abitanti. Tutto ha avuto inizio nel 1997 sotto la presidenza Suharto, che aveva messo come priorità del suo governo la privatizzazione delle società pubbliche. Una decisione di imperio, presa senza alcuna consultazione pubblica, vista la sua visione dittatoriale. Racconta Reza: «Erano gli anni in cui si viveva sotto un regime militare: non esisteva democrazia e l’economia del paese era in una situazione disastrosa, aggravata dalla crisi finanziaria asiatica del 1997». All’epoca, l’Indonesia era ancora classificata tra i paesi in via di sviluppo e la crisi economica delle Tigri asiatiche 217 fu sfruttata dalla Banca Mondiale per spingere verso una maggiore liberalizzazione dell’economia, attraverso una serie di prestiti capestro. Tra le condizioni poste a garanzia di un prestito di 92 milioni di dollari al governo indonesiano, la Banca Mondiale chiese la partecipazione del settore privato alla gestione idrica della città. Debuttava così il partenariato pubblico-privato della gestione dei servizi, divenendo un nuovo modello negli accordi commerciali governo-imprese. Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale imposero, in Indonesia come altrove, una svolta neoliberista anche nell’acqua, inserendone la privatizzazione nel pacchetto di riforme macroeconomiche alla base dei loro interventi nei paesi in via di sviluppo, noti come Piani di aggiustamento strutturale. 218 Una strategia ampliamente criticata per l’inefficacia di governance e per la difficoltà di molti paesi a ripagare i prestiti, viste le condizioni svantaggiose dei contratti. La public utility dell’acqua di Giacarta fu quindi divisa in due: una joint venture tra la corporation inglese Thames Water e PT Kekarpola Airindo, società indonesiana di proprietà del figlio di Suharto, e una joint venture tra la società francese Suez e il gruppo indonesiano Salim, società presieduta da Liem Sioe Liong, amica di lunga data del presidente in carica, Suharto. I contratti di privatizzazione comprendevano clausole che avrebbero assicurato tariffe minori per i consumatori a basso reddito. Ma per i cittadini di

Giacarta il sistema tariffario non era assolutamente adeguato alle fasce di reddito. Le società stavano deliberatamente sottovalutando le esigenze dei consumatori a basso reddito, per dare la priorità al servizio premium, più caro e di maggiore qualità, dedicato agli utenti più danarosi. Chi non aveva soldi non riceveva assistenza, i guasti non venivano riparati e in molti ricevevano un servizio insufficiente. Per questo un gruppo di organizzazioni e associazioni, visto il trattamento non paritario, depositò una causa collettiva presso la Corte suprema di Giacarta. Suharto premeva per le liberalizzazioni. Nel 2002 il governo, con il supporto della Banca Mondiale, fece pressione sul Parlamento al fine di promulgare una nuova legge sull’acqua che accelerasse la privatizzazione del controllo e della gestione delle risorse idriche del paese. La legge fu approvata nel 2005. La situazione del servizio idrico diventava intanto sempre più una questione di classe. In molti pensavano che la presenza di colossi occidentali come Thames e Suez avrebbe portato a un rapido miglioramento della rete di distribuzione e della qualità del servizio. Le cose andarono diversamente. Secondo Reza non vi fu alcun cambiamento significativo, anzi: a quasi due anni dalla legge, solo il 40% della popolazione della capitale aveva accesso diretto all’acquedotto. Molta dell’acqua erogata non era potabile in vari quartieri della città. E i depuratori non lavoravano a pieno regime. Gli aumenti delle tariffe, poi, servirono solo per adeguarsi al costo della gestione del servizio privato, cresciuto per garantire extraprofitti al management e agli investitori. Il tutto, fatto alla luce del sole: il governo era a conoscenza dell’incompletezza e inadeguatezza delle clausole contrattuali dell’accordo di partenariato pubblico-privato, che colpivano in particolare le fasce meno abbienti della popolazione. Rendendosi conto che numerose aree della città non ricevevano acqua, o la ricevevano contaminata, il governo dovette provvedere – a proprie spese – al miglioramento del servizio idrico. Infatti, secondo il contratto, tutti gli oneri di manutenzione ricadevano sul pubblico e non sulle quattro compagnie private, su cui ricadeva invece la responsabilità di definire le tariffe. Inoltre, il contratto impediva che lo stato potesse intervenire esternalizzando la concessione ad altri operatori. Per questo ancor oggi il governo,

guidato da Joko Widodo, risulta deferito a una Corte arbitrale, un organo per la risoluzione di controversie alternativo alla magistratura civile. Data l’impossibilità da parte del governo di varare provvedimenti per modificare il contratto con Thames Water e Suez (che nel frattempo avevano ulteriormente incrementato le tariffe), nacque un forte movimento cittadino, Kruha, 219 che ebbe tra le sue priorità il lancio di un processo partecipato di consultazione fra le varie aree del paese. Fra gli obiettivi principali di Kruha – sottolinea Reza –, il contrasto alla dipendenza del paese da finanziamenti esterni – come quelli della Banca Mondiale – che costringevano di fatto il governo a mettere sul libero mercato la gestione idrica e dei servizi di base. Ambiti che, al contrario, per il movimento cittadino sarebbero dovuti ricadere sotto controllo pubblico. «L’unico modo che avevamo per cambiare le cose era arrivare alla Corte suprema. Eravamo contro il prestito e contro una legge che aveva legalizzato un’enorme disparità nelle tariffe. Crescevano i disservizi: le società di gestione arrivarono a lasciare senz’acqua per più di cinque mesi le famiglie che non potevano sostenere gli aumenti ciclici del costo delle bollette. Per anni abbiamo organizzato incontri pubblici e manifestazioni, aumentando la pressione sul Parlamento. Poi, improvvisamente, mentre veniva approvata la legge per accelerare le liberalizzazioni del 2005, due giudici della Corte suprema accolsero per la prima volta la nostra richiesta di fermare l’accordo, rendendo anche pubblici i documenti, opportunamente tradotti». Una piccola speranza si era accesa per gli abitanti di Giacarta. La Corte suprema decise di interpellare i residenti a basso reddito delle aree settentrionali di Giacarta, che confermarono l’accesso limitato all’acqua potabile, il servizio idrico limitato (alle ore serali) e la scarsa pulizia del sistema fognario, dovuti al fallimento delle varie aziende private coinvolte nelle due joint venture. Queste avevano negato l’accesso all’acqua ai residenti incapaci di pagare le tariffe, lievitate in seguito alla privatizzazione, costringendoli a comprare acqua in bottiglia o ad impiegare pozzi inquinati, aperti autonomamente e senza alcun controllo sulla qualità dell’acqua.

Si dovette aspettare il 2014, quando, a seguito del caso eclatante di interruzione di fornitura idrica a Detroit, negli Stati Uniti, durato mesi, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite tra cui Catarina de Albuquerque – prima Special Rapporteur per il diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari – sostenne che «l’interruzione dei servizi idrici a causa del mancato pagamento di una o più bollette da parte di chi ha un reddito basso costituisce una violazione del diritto umano all’acqua e di altri diritti umani internazionali». 220 Se Detroit, perché non Giacarta? Sfruttando questo assist mediatico e legale, la Corte suprema intimò al governo di revocare immediatamente i suoi contratti con i due servizi idrici privati, rimettendo la responsabilità dei servizi di approvvigionamento idrico nelle mani del servizio pubblico. La vittoria di Giacarta costituisce un punto di svolta per una sfida di lungo termine. A fine 2017, tutte le utility municipali in Indonesia erano ancora intrappolate dal contratto-capestro della Banca Mondiale, che continua a spingere per una gestione delle risorse idriche in chiave privatistica. «La tendenza governativa alle privatizzazioni è ancora forte in Indonesia. In questo paese, come negli altri paesi in via di sviluppo, non c’è ancora una buona esperienza di gestione dell’acqua pubblica – spiega ancora Reza, completando il contributo fondamentale per questa storia –. Adesso il nostro sistema giuridico ha una posizione forte e chiara sul fatto che l’acqua deve essere amministrata in modo partecipativo da enti pubblici e non essere gestita come merce o bene economico. La gestione dell’acqua non può più essere orientata al profitto». Una storia significativa, quella indonesiana. Nell’arco di un ventennio un’amministrazione pubblica ha rifiutato, completamente su spinta dei cittadini, un modello privatistico, creando un precedente che potrebbe spingere altre municipalità a fare altrettanto. «Oggi siamo nella fase di deprivatizzazione dell’acqua e stiamo costruendo in maniera partecipata e democratica un nuovo modo di gestire il nostro bene comune. Stiamo lavorando per affermare l’era dell’acqua pubblica». Il ritorno all’acqua pubblica

Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto una grossa spinta di privatizzazioni generali, iniziata in Europa, a fronte di un crescente debito pubblico e di numerose inefficienze gestionali. Nei casi della gestione delle infrastrutture idriche, però, la scelta si è spesso rivelata fallimentare. Classici esempi di privatizzazioni selvagge fallite, simili a quanto avvenuto a Giacarta, sono quelli di Cochabamba, Dar es Salaam, Kuala Lumpur, Berlino o Accra. Sebbene perduri tutt’oggi in molte città un sistema a gestione privata o pubblico-privata, nel mondo si sta affermando sempre di più la volontà per una gestione pubblica dei servizi. Un lungo e approfondito studio 221 a cura del Transnational Institute (Tni) e di Epsu, la Federazione europea dei servizi pubblici, ha mappato il variegato panorama delle esperienze internazionali in cui singoli cittadini, Comuni e pubbliche amministrazioni hanno deciso di mobilitarsi, riacquisendo il controllo dei servizi di base, tra cui la gestione delle risorse idriche. Negli ultimi anni ci sono stati più di 900 casi di rimunicipalizzazione dei servizi in più di 1.700 città di cinquanta paesi diversi, di cui 350 per i servizi energetici e 300 per quelli idrici, che sono risultati essere i settori con il maggior numero di ritorno alla gestione pubblica. 222 La Germania è il paese dove si concentra il 90% delle rimunicipalizzazioni di luce e gas, mentre il primato per le risorse idriche va alla Francia, patria di grandi multinazionali dell’acqua come Veolia o Suez, con 130 casi, a discapito di una lunga tradizione di privatizzazioni. Particolarmente impetuosa in Europa, l’ondata di rimunicipalizzazioni sta guadagnando forza ovunque nel mondo. In tutti i casi individuati dallo studio del Tni, il cambiamento tecnico di proprietà ha comportato cambiamenti positivi, economici, sociali e ambientali. Le iniziative di rimunicipalizzazione scaturiscono da una pluralità di motivazioni: si va dal contrasto agli abusi del privato, o dalle violazioni del diritto del lavoro, al ripristino del controllo pubblico sull’economia e sulle risorse locali, alla fornitura di servizi a costi sostenibili per la cittadinanza, fino alla realizzazione di ambiziose strategie di transizione energetica e ambientale nate dal basso. Le rimunicipalizzazioni vengono attuate a ogni livello, con modelli diversi di proprietà pubblica e con prassi diverse di coinvolgimento

degli utenti e dei lavoratori. Da tanta diversità emerge comunque un’immagine coerente: il movimento di rimunicipalizzazione cresce e si diffonde, a dispetto della costante pressione dall’alto per politiche di privatizzazione e austerità. Per rimunicipalizzazione s’intende il ritorno dei servizi pubblici dalla fornitura da parte dei privati a quella pubblica. Più precisamente, è il passaggio dalla privatizzazione dei servizi pubblici nelle sue varie forme – compresa la proprietà privata dei beni, l’esternalizzazione dei servizi e il partenariato pubblico-privato (Ppp) – alla proprietà e gestione pubblica e al controllo democratico. Nel 2015 i movimenti civili e i sindacati europei, facendo uno studio congiunto sulle rimunicipalizzazioni nel settore idrico, hanno rilevato che, a partire dall’anno 2000, si erano verificati almeno 235 casi di rimunicipalizzazione dell’acqua in quasi tutti i paesi del continente, con più di 100 milioni di persone coinvolte. 223 La rimunicipalizzazione dell’acqua, pressoché inesistente una quindicina di anni or sono, ha oggi assunto un ritmo impressionante ed è in continua crescita. I successi nel settore idrico sono stati di stimolo a porre fine alle privatizzazioni in altri campi, dall’energia ai rifiuti. Anche in questi casi i motivi invocati per porre fine alle privatizzazioni sono simili: il risparmio dei costi, una migliore qualità del servizio, la trasparenza finanziaria e il recupero di potere operativo e di controllo, la tutela dell’ambiente e l’accesso dei servizi a prezzi accessibili per le famiglie a basso reddito. Reggono poco le giustificazioni avanzate dai sostenitori delle privatizzazioni e dei Ppp, secondo cui la gestione privata è più economica e più efficiente di una gestione pubblica diretta. Più dati si raccolgono, più l’assioma viene smentito. Anche Epsu ha confutato questa posizione, dopo aver monitorato le realtà che hanno attuato una conversione nel sistema di gestione dei servizi. Secondo Epsu, appaltare a una società privata l’erogazione di un servizio genera, praticamente sempre, costi addizionali, dovuti ai trasferimenti di capitali alle società e agli azionisti, mentre solo una parte degli utili viene investita per il miglioramento del servizio. 224

Per quanto riguarda le infrastrutture, i Ppp creano un’elevata complessità che si rivela vantaggiosa per avvocati e revisori, ma che non offre alcun beneficio reale ai cittadini. L’esperienza di molte città

ha ormai sfatato il mito secondo cui i servizi a gestione pubblica diretta costino di più. Quando Parigi ha rimunicipalizzato i servizi idrici nel 2010, il nuovo gestore è stato in grado di abbattere immediatamente i costi di 40 milioni di euro, 225 pari all’importo che veniva prelevato ogni anno dalle società madri dell’operatore privato. Come sottolineato all’inizio del capitolo, la Francia, in cui pur hanno sede due grandi multinazionali come Veolia e Suez Environnement, è il paese europeo che può essere preso a modello per la rimunicipalizzazione dell’acqua. Tra i casi francesi, Grenoble è stata una delle prime città a deprivatizzare i servizi idrici quando, nel 2000, interruppe il contratto con Suez a seguito di denunce di episodi di corruzione dei vertici dirigenziali. Il Comune decise di mettere in piedi un’azienda pubblica per la fornitura di acqua di qualità e con tariffe più convenienti, con la partecipazione cittadina attraverso assemblee pubbliche annuali sull’andamento della gestione. La sperimentazione di questo modello ha portato Grenoble a voler rimunicipalizzare, nel corso del quinquennio 2018-2023, persino i servizi energetici, come il teleriscaldamento e l’illuminazione pubblica, nell’ottica di una più ampia tutela ambientale e delle tasche dei cittadini. Altro esempio europeo significativo è Barcellona, 226 che, dopo la vittoria della coalizione progressista Barcellona in Comune, ha avviato una politica di rimunicipalizzazione a tutto tondo per riportare a gestione comunale i servizi precedentemente esternalizzati. Dopo aver pensato alla fornitura di energia elettrica e ai servizi educativi come gli asili nido, dalla fine del 2016 la capitale catalana ha chiuso i contratti con la società Aigües de Barcelona (Agbar), controllata del gruppo Suez che gestiva la rete idrica dall’Ottocento. Oltre al distacco dalla multinazionale, il Comune ha deciso di costituire un consorzio con altre città della Catalogna che hanno già riportato sotto controllo pubblico gli acquedotti o che intendono partecipare nei prossimi anni alla rimunicipalizzazione diffusa. Barcellona ha richiesto anche l’assistenza di Eau de Paris, la più grande azienda idrica pubblica francese, rimunicipalizzata nel 2010, per essere affiancata nel passaggio alla totale gestione pubblica. In Italia, nonostante una situazione complessa (come vedremo nel capitolo dedicato ai beni comuni), ci sono buoni esempi di gestione

dove, oltre i casi di ritorno alla totale proprietà pubblica, esistono società di servizi a prevalente proprietà pubblica, in cui il modello proposto viene realizzato in funzione di obiettivi al servizio di tutti e ispirato a forme di partecipazione democratica. È il caso di Gruppo Cap Holding, società per azioni nata nel 2013 a totale partecipazione pubblica, che coinvolge ben 197 Comuni, tutti soci del gruppo dell’area metropolitana di Milano, che, grazie alla scelta dei sindaci del territorio, ha unito le società idriche preesistenti. Secondo Alessandro Russo, presidente di Gruppo Cap, 227 si è voluto andare verso una semplificazione della gestione e della governance per avere un unico gestore per ambito territoriale, capace di organizzare i servizi pubblici locali. Un soggetto come Gruppo Cap è in grado di investire nella qualità del servizio una notevole quantità di risorse: 80 milioni di euro l’anno in infrastrutture, per circa 14.000 chilometri fra tubature e acquedotti che vengono gestiti attraverso un progetto che richiede alti tassi di innovazione e ricerca. Russo precisa che il Gruppo Cap, pur essendo una Spa, è interamente a capitale pubblico e quindi non ridistribuisce utili, bensì li reinveste in interventi necessari al territorio. Il Gruppo Cap fa parte anche di Aqua Publica Europea, un’associazione che sostiene l’acqua pubblica e i processi di rimunicipalizzazione, riunendo soggetti come Eau de Paris, allo scopo di promuovere buone pratiche di gestione dell’acqua e fare innovazione congiunta, a beneficio dei cittadini. Rimanendo in Italia, anche Napoli ha scelto di andare verso la rimunicipalizzazione, a seguito del referendum per l’acqua pubblica come bene comune, costruendo il modello dell’«azienda pubblica speciale». L’avvocato Maurizio Montalto, presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi delle Politiche Ambientali, sostiene l’importanza di garantire un nuovo modello di società pubblica che difenda per statuto il concetto di acqua come bene comune. Secondo Montalto, l’esempio di gestione idrica milanese rappresenta un’eccellenza, ma, avendo la connotazione di Spa, mantiene l’obiettivo, almeno potenziale, di generare profitto, e anche se attualmente ha fra i suoi soci tutti enti pubblici, può comunque consentire l’entrata di società private. Il modello dell’azienda pubblica speciale ha invece il solo obiettivo di fornire un servizio pubblico, in modo giuridicamente compatibile, grazie alla sua natura societaria, con il concetto di

acqua bene comune, senza che questa abbia un valore economico e possa, in eventuali momenti di crisi aziendale, dare spazio a quote di soggetti privati. Facendo un salto geografico dall’Europa al continente americano, è interessante ripercorrere la storia della città di Hamilton in Ontario, Canada, che nel 1994, creò, senza indire bandi, un partenariato pubblico-privato per la gestione e la manutenzione decennale della rete idrica e degli impianti di depurazione dei reflui con American Water, una controllata della tedesca Rwe. 228 I primi anni tutto sembrò filare per il meglio. Ben presto, però, nacque un conflitto tra l’operatore privato e l’amministrazione comunale, a causa delle ripetute perdite della rete fognaria e dei mancati interventi della società. La gestione privata della American Water aveva ridotto il personale per ottimizzare i costi, comportando una riduzione dei controlli e il conseguente aumento degli incidenti. Il conto da pagare? Ai cittadini. Poiché le clausole contrattuali tutelavano l’azienda, la città, beffata, dovette farsi carico delle sanzioni comminate a seguito di una serie di fuoriuscite di liquami dall’impianto di depurazione. Nel 2003, con l’approssimarsi della scadenza del contratto, il Comune di Hamilton avviò le procedure d’appalto per la nomina di un nuovo operatore privato. Tuttavia, tra le mobilitazioni dei cittadini e la cifra eccessiva dell’unica offerta pervenuta, presentata da American Water, bloccarono il rinnovo della convenzione. L’anno successivo l’autorità comunale ritirò il bando, avviando le procedure per riportare in house la gestione del servizio. Gli esiti furono positivi: la rimunicipalizzazione comportò risparmi sostanziali, migliorando gli standard ambientali di Hamilton. Un esempio seguito da altre municipalità canadesi. In tutti i casi si registrarono importanti riduzioni dei costi, un innalzamento del livello qualitativo del servizio e maggiore fiducia nelle capacità del personale interno. Se a livello ideale il modello della rimunicipalizza zione rimane il più virtuoso, l’azienda pubblica richiede però una gestione aziendalistica moderna e votata a un costante aggiornamento, volto a garantire il servizio più efficiente e onnicomprensivo ai cittadini. Sprechi e inefficienze, che hanno caratterizzato i grandi conglomerati pubblici degli anni Sessanta-Settanta, sono da evitare,

preferendo gestioni snelle e decentralizzate. I servizi non sono necessariamente perfetti solo perché pubblici, al contrario devono essere costantemente migliorati e rinnovati nel proprio impegno nei confronti della società. L’estensione del concetto di «pubblico» può portare a includere una gamma più ampia di iniziative di rimunicipalizzazione, con differenti modelli societari. Ciò a cui bisognerebbe puntare sono un’operatività senza scopo di lucro e la prossimità al territorio, piuttosto che la presenza di soggetti statali o privati, distaccati dalle esigenze delle realtà locali. 229 Molti esempi di rimunicipalizzazione e di costituzione di nuove aziende pubbliche offrono l’opportunità di rilanciare un’etica dell’impegno civico e del bene pubblico, creando un contesto che consenta una cogestione integrata insieme alle altre società di servizi municipali. L’acqua contesa tra gli arbitrati internazionali Le grandi società private ovviamente non stanno a guardare in silenzio l’ondata di rimunicipalizzazioni che sta riducendo molti dei contratti milionari stipulati in passato. Una delle misure che possono adottare è l’apertura di procedimenti di arbitrato, conosciuti con l’acronimo tecnico Isds – Investor-to-State Dispute Settlement –, dove enti di giudizio alternativi ai classici tribu nali possono giudicare se le rimunicipalizzazioni siano una violazione degli accordi di mercato o di specifici accordi commerciali bilaterali stipulati da stati. Tali dispute si inseriscono spesso in determinati accordi di liberalizzazione degli investimenti (Bilateral Investiment’s Agreements, Bits) o nei più famosi accordi di libero scambio (Free Trade Agreements, Ftas) come il Nafta o il congelato Ttip, 230 che favoriscono gli scambi commerciali e gli investimenti tra paesi rimuovendo barriere tariffarie o restrizioni sugli investitori privati. Questi tipi di accordi contengono spesso un capitolo dedicato alla tutela degli investitori, prevedendo strumenti di intervento per la protezione degli interessi di un’impresa contro uno stato sovrano. Per attuare questo processo esistono dunque dei meccanismi di protezione degli investimenti – anch’essi contenuti nella maggior parte dei trattati commerciali – noti come «risoluzione delle

controversie investitore-stato». Per comodità useremo la citata sigla inglese: Isds. Se una società idrica ritiene di essere stata penalizzata da un governo o da un’amministrazione pubblica tramite leggi, regolamenti, decisioni esecutive, può ricorrere all’Isds per un arbitrato e stabilire se ha ragione. Gli impatti degli Isds sono molteplici, ma, secondo numerosi osservatòri sul commercio come Fairwatch e Corporate Europe Observatory, gli Isds rischiano di rendere i processi di deprivatizzazione e di rimunicipalizzazione estremamente costosi, poiché gli arbitrati sono particolarmente onerosi, data la lunghezza e la difficoltà di doversi scontrare con grandi pool di avvocati sostenuti dalle ampie disponibilità economiche di società multinazionali. Comuni di piccole e medie dimensioni sono praticamente inibiti dal poter costruire una difesa all’interno dell’arbitrato. Ma anche grandi città, e addirittura regioni e stati spesso faticano ad affrontare plurimi arbitrati, che possono costare, solo per gestire la procedura, anche decine o centinaia di milioni di dollari. Ovviamente c’è poi il rischio di perdere la causa. Lo storico di tali procedimenti mostra come numerosi paesi siano stati citati in giudizio e si siano visti infliggere centinaia di milioni di dollari di sanzioni per aver posto fine a progetti di privatizzazione nell’interesse pubblico. L’Argentina, per esempio, in base a un accordo bilaterale con gli Stati Uniti ha dovuto pagare 165 milioni di dollari all’impresa idrica statunitense Azurix in seguito a una sentenza emessa nel 2006, dopo la denuncia della sua sussidiaria argentina contro la Provincia di Buenos Aires. 231 L’intervento del governo provinciale per contenere l’aumento delle tariffe dell’acqua potabile e per questioni legate alla risoluzione del contratto è stato alla base del procedimento. Nello stesso anno un’altra sentenza di un arbitrato, sulla base di un accordo bilaterale Argentina-Francia, ha imposto al governo del paese sudamericano il pagamento di oltre 400 milioni di dollari alla francese Suez in seguito alla chiusura anticipata del contratto. Sebbene la richiesta di compensazione, di 1,2 miliardi di dollari, sia stata riconosciuta solo in parte, il caso Suez-Argentina è tra i più significativi, soprattutto per la storia dell’impresa francese. 232 Fu infatti la Suez a essere costretta ad abbandonare la gestione

idrica a El Alto, in Bolivia, in seguito alle proteste popolari legate all’aumento delle tariffe dell’acqua. In Bulgaria, la semplice minaccia di ricorrere a un arbitrato internazionale è stata sufficiente a minare i piani del governo per organizzare un referendum sui servizi idrici nella capitale Sofia. Quando un procedimento Isds si conclude a favore di un investitore, sono i contribuenti e i bilanci pubblici a doverne sostenere i costi, sia sotto forma di compensazione economica (nel caso la normativa in questione non venga ritirata o modificata a favore dell’impresa) sia come costi legali. Ciò crea le condizioni per una sorta di chilling effect , cioè di cautela da parte degli enti pubblici a intraprendere percorsi di deprivatizzazione a rischio di denuncia tramite Isds. Al 2017, esistono almeno venti casi di richiesta di arbitrato internazionale, presentati in seguito alla decisione di deprivatizzare un servizio pubblico: dieci nel settore idrico, tre in quello energetico, tre nei trasporti e quattro nelle telecomunicazioni. 233 Le autorità municipali sono sempre più consapevoli che l’attuale regime che disciplina gli scambi commerciali e gli investimenti, soprattutto gli elementi quali l’Isds, limita i margini di manovra degli amministratori locali nel mantenere o riacquistare il controllo sui servizi e le risorse locali. Di fatto è l’ultimo baluardo, per i colossi privati, capace di tutelare i propri interessi. La maggior parte degli arbitrati sugli investimenti sono sottoposti alla giurisdizione di due istituzioni poco note, l’Icsid, 234 Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative agli investimenti, un ente posto sotto l’egida della Banca Mondiale, e l’Uncitral, la Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale, che ne determinano spettro di azione e regole di ingaggio per gli arbitri coinvolti. Un problema sostanziale collegato a questi enti è la scarsa trasparenza, poiché la pubblicazione dei documenti legati al caso in oggetto dipende dall’accordo tra le parti in causa. Risulta quindi spesso difficile, se non impossibile, seguirne i lavori e riportare correttamente le motivazioni dietro le decisioni adottate. Un altro problema è collegato all’incoerenza di alcune sentenze rispetto alle norme costituzionali o a quelle comunitarie. Un esempio significativo si è avuto nell’aprile 2017 con la sentenza della Corte di

giustizia europea, chiamata in causa dal governo tedesco sul caso Vattenfall-Amburgo, sulla base di un accordo plurilaterale tra vari paesi (tra cui Germania e Svezia) sugli investimenti energetici 235 che prevede Isds. La Vattenfall, impresa energetica svedese, nel 2004 progettò la costruzione del Moorburg Power Plant, un impianto a carbone da 1,7 GW. 236 Un investimento da due miliardi di euro che per poter essere realizzato dovette richiedere diverse autorizzazioni, tra cui una legata alla temperatura delle acque di scarico usate per il raffreddamento dell’impianto, e che avrebbe permesso di riversare nel fiume Elba acqua a circa 30 °C. Il fiume però era (lo è tutt’oggi) un sito europeo ad alto valore naturalistico, parte della rete «Natura 2000». Quindi, dover prendere il rischio di immettere acque a elevata temperatura, con un potenziale danno per il delicato ecosistema fluviale, era fuori discussione. A seguito di un cambio di maggioranza del governo della città di Amburgo, adiacente all’impianto, nonostante fossero già state accordate le concessioni dalla giunta precedente, il sindaco decise di ritirarle, attendendo uno studio più approfondito sull’impatto sulla zona umida e sul corso d’acqua. A quel punto Vattenfall contrattaccò presentando ricorso all’Isds come previsto dall’Energy Charter Treaty, chiedendo 1,4 miliardi di euro di compensazione. Ed è così che si ottenne, nel 2010, un primo sostanziale risultato: grazie a un accordo tra impresa e governo tedesco, la municipalità di Amburgo fu costretta a rivedere le normative rendendole meno stringenti. Una vittoria per il colosso svedese dell’energia. Con buona pace del fiume. 237 Fortunatamente non è finita qui: il caso, grazie a un numero cospicuo di denunce presentate dalla società civile, finisce alla Corte di giustizia europea in Lussemburgo, che nell’aprile del 2017 sentenzia come la «Repubblica tedesca non abbia rispettato i suoi obblighi della direttiva europea Habitat del maggio 1992, sulla conservazione degli habitat naturali, della flora e della fauna». Pur di tutelare gli interessi di un investitore privato ed evitare di pagare compensazione economica, il governo e la municipalità hanno infranto una direttiva comunitaria. Non solo, il caso ha mostrato come il meccanismo degli arbitrati costituisca un problema dal punto di vista legale, poiché si pone sopra e a lato della sovranità legale

nazionale e non agisce in maniera realmente super partes , al punto di andare contro una direttiva europea. Negli anni a venire, quando il water grabbing coinvolgerà in maniera sempre crescente i grandi attori privati, se non adeguatamente riformati, e senza un quadro legale internazionale sull’acqua come bene comune, gli Isds potrebbero confermarsi uno strumento parziale, ostile al concetto di acqua come diritto, contrario alla volontà popolare, aprendo scenari di nuovi contenziosi tra imprese e paesi.

213 Winda A. Charmila, « Coalition opposing Jakarta water privatization wins appeal», in The Jakarta Post , 10/10/2017 (http://bit.ly/2mMRW7f). 214 Satoko Kishimoto, «Indonesian Supreme Court Terminates Water Privatization», in Tni.org , 17/10/2017 (http://bit.ly/2xbdU7X). 215 Andreas Harsono, «Indonesia’s Supreme Court Upholds Water Rights», in Hrw.org , 12/10/2017 (http://bit.ly/2g7QGZm). 216 Sito web (in indonesiano) di Koalisi Rakyat Untuk Hak Atas Air (Kruha): www.kruha.org. 217 Nome con cui si indicano, nel gergo economico, le economie di Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan, che tra gli anni Sessanta e Novanta hanno realizzato percorsi di industrializzazione e di cambiamento strutturale. 218 Si veda Francesco Martone, «Il mercante d’acqua ed i suoi clienti», in Italia.attac.org, 5/5/2005 (http://bit.ly/2D0UGVt). 219 Vedi nota 4. 220 «Detroit: Disconnecting water from people who cannot pay – an affront to human rights, say UN experts», in Ohcgr.org , 25 June 2014 (http://bit.ly/1arSTda). 221 Satoko Kishimoto and Olivier Petitjean (eds.), Reclaiming Public Services , Tni, Amsterdam/Paris 2017 (http://bit.ly/2uDdE3r). 222 Ibidem . 223 Ibidem . 224 Andreas Bieler, Fighting for public water: the first successful European Citizens’ Initiative, « Water and Sanitation are a Human Right » , in Interface , vol. 9 (1), 2017, pp. 300-326 (http://bit.ly/2DbFzM1). 225 Eau de Paris, Rapport social 2011: http://bit.ly/2DtAT21. 226 David Hall, «Barcelona reorganises public services in the people’s interest», in Tni.org , 14/2/2017 (http://bit.ly/2mzHLDU). 227 Intervistato appositamente per la stesura di questo libro. 228 Kishimoto, op. cit. 229 Nostra intervista a Sakoto Kishimoto, ricercatrice del Transnational Institute. 230 North American Free Trade Agreement e Transatlantic Trade and Investment Partnership. 231 « Azurix Corp. v. Argentine Republic (Icsid Case No. ARB/03/30)», il caso nel sito dell’International Centre for Settlement of Investment Disputes (Icsid): http://bit.ly/2AY5LEQ. 232 « Case summary: Azurix Corp. v The Argentine Republic», 2006 (http://bit.ly/2CZ6gR0). 233 Kishimoto, op. cit. 234 Sito web: https://icsid.worldbank.org/en. 235 Energy Charter Treaty : il Trattato sulla Carta dell’energia (Tce) è un accordo internazionale che stabilisce un quadro multilaterale per la cooperazione transfrontaliera nel settore energetico. Il Trattato copre tutti gli aspetti delle attività energetiche commerciali, compresi commercio, transito, investimenti ed efficienza energetica. Esso è giuridicamente vincolante, comprese le procedure di risoluzione delle controversie: www.energycharter.or g. 236 «EU regulators take Germany to court over Hamburg coal plant», in Reuters , 26/3/2015 (http://reut.rs/2CZRskZ). 237 Claire Provost and Matt Kennard, «The obscure legal system that lets corporations sue countries», in The Guardian , 10 June 2015

(http://bit.ly/1Ylh7uG).

8. ACQUA, BENE COMUNE

La «rivoluzione dei beni comuni», che ci porta sempre più intensamente al di là della dicotomia proprietà privata/proprietà pubblica, ci parla dell’aria, dell’acqua, del cibo, della conoscenza; ci mostra la connessione sempre più forte tra persone e mondo esterno, e delle persone tra loro; ci rivela proprio un legame necessario tra diritti fondamentali e strumenti indispensabili per la loro attuazione. Stefano Rodotà , Il diritto di avere diritti Collegare i ricordi è un fatto curioso. Spesso si associano grandi tragedie a momenti di serena quotidianità. In quanti lo abbiamo fatto per l’11 Settembre, chiedendoci cosa stessimo facendo in quel momento. Lo facciamo sovente, senza accorgercene, mettendo un riferimento chiaro della nostra vita in collegamento con una data storica. Ecco perché ricordo così vivamente l’11 marzo 2011. Era una giornata di sole a Roma, e la metro B, allora come oggi, animata di allegra musica pop italiana, era ricoperta di manifesti del Museo di Roma in Trastevere sull’esposizione di Paul Strand e Walter Rosenblum, due maestri della fotografia internazionale membri della Photo League, un’associazione newyorkese di fotografi eticamente impegnati. Tra le tante foto rimasi sospesa per vari minuti, come il tempo si fosse fermato, su un famoso scatto in Normandia nel ’44 dopo che l’americano Rosenblum aveva deciso di arruolarsi, infiammato dal suo idealismo democratico, per opporsi alle dittature fasciste e combattere una guerra di rivincita personale contro gli alleati dei giapponesi dopo l’attacco di Pearl Harbor. In quelle stesse ore dell’11 marzo, un terremoto sottomarino di magnitudo 9 colpiva la

costa orientale della regione di T ohoku, in Giappone, scatenando uno tsunami con una cresta d’onda alta fino a 40 metri, che devastò la costa e l’entroterra fino a dieci chilometri dal mare. Ma era solo una parte della tragedia. L’onda danneggiò il sistema di raffreddamento della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, causando la fusione di tre reattori. Nei giorni seguenti si contarono più di quindicimila vittime, con più di tremila sfollati. La più grande tragedia nucleare di questo secolo, che ancora oggi vede continuare i lavori di decontaminazione del suolo, mentre la centrale non ha smesso di rilasciare acqua radioattiva contaminando terra e oceano. Quell’evento fu determinante, in Italia, per attivare i mesi finali di un’importante campagna referendaria che portò al voto ventisette milioni di cittadini, il 12 e 13 giugno dello stesso anno, chiamati a decidere sulla riapertura delle centrali nucleari e sull’abrogazione della privatizzazione del servizio idrico integrato. Il risultato del referendum rimane storico e stupefacente, sia per il numero di votanti sia per la chiara risposta che i cittadini diedero ai quesiti: quasi ventisei milioni di elettori fermarono nuovamente il nucleare e dissero sì all’abrogazione di una norma che obbligava le società che si occupano di servizi pubblici locali ad affidare la gestione, tramite gara, a una società per azioni. Oltre ventisei milioni di schede dissero sì a una modifica della tariffa del servizio idrico integrato, eliminando la componente «remunerazione del capitale investito». Tre quesiti referendari sui quattro proposti riguardavano la tutela dell’ambiente, i diritti, la volontà chiara di una gestione pubblica e trasparente dell’acqua, lontano dalla logica esclusiva del mercato o di uno sviluppo non ecologico. In qualche modo la tragedia di Fukushima aveva contribuito a risvegliare le coscienze democratiche degli italiani. L’acqua era un bene comune e non c’era da discutere. Numeri e concetti che è importante ricordare, data la capacità crescente dei cittadini di esprimersi su testi giuridici complessi, norme e articoli da modificare. Un successo a metà, tuttavia, dato che negli anni successivi al referendum sono pochi i casi in cui quella volontà popolare si è concretizzata.

La logica dei Beni Comuni Diversi anni prima del referendum, nel giugno 2007, l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella istituì con decreto ministeriale 238 la cosiddetta «Commissione Rodotà», dal nome del suo presidente, Stefano Rodotà, composta da numerosi giuristi, per incentivare un nuovo governo democratico dell’economia, affrontando il tema della proprietà pubblica e dei beni comuni. La Commissione prese spunto anche dall’analisi del Conto Patrimoniale italiano 239 condotto in quegli anni: esso sosteneva che il patrimonio pubblico nazionale valeva 140 volte il prodotto interno lordo. 240 Un dato che mostrava quanto elevato fosse il valore della nostra proprietà pubblica e quanto fosse dunque importante assicurarne una gestione volta a beneficiare ambiente e collettività. Per la prima volta emergeva chiaramente un discorso giuridico sui beni comuni. Questa formula ha definito «beni comuni, tra gli altri: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi […], le foreste […]; i lidi […]; la fauna selvatica […]; i beni culturali […]», ecc., i quali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata, «esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» e dei quali, perciò, la legge deve garantire «in ogni caso» la «fruizione collettiva», diretta e da parte di tutti, «anche a beneficio delle generazioni future». 241 I beni comuni, quindi, di natura tanto fisica come culturale, alimentano processi inclusivi tra persone e ambiente. Dunque, secondo la Commissione Rodotà, avrebbero dovuto avere una propria legislazione dedicata, che ne privilegiasse il valore d’uso piuttosto che il valore di scambio. Fu redatto un disegno di legge, proposto da Rodotà, che dopo la presentazione al ministro competente dell’epoca, Mastella, venne presentato dal Consiglio regionale del Piemonte al Senato della Repubblica. Non fu mai discusso. Ma il processo culturale e legale non si fermò. L’ambizione della Commissione Rodotà, oltre ad aver alimentato il dibattito pubblico sui beni comuni dandone una definizione, recepita dalla giurisprudenza italiana, aveva portato ispirazione a tanti cittadini e alla società civile, che iniziarono a dar vita a svariati comitati territoriali con un unico obiettivo: promuovere

l’acqua pubblica. Negli anni precedenti il referendum, il ruolo giocato da comitati territoriali, forum, singoli cittadini, divenne determinante per un dibattito sul rapporto tra Costituzione e promozione e gestione pubblica dei servizi, muovendosi in parallelo col dibattito per fermare di nuovo il nucleare in Italia. La campagna di raccolta delle cinquecentomila firme necessarie alla presentazione del referendum iniziò nell’aprile del 2010, ma si arrivò in un batter d’occhio a un milione e quattrocentomila, appunto grazie al lavoro meticoloso e costante dei cittadini che misero a disposizione il loro tempo per informarsi e informare sulle tematiche referendarie. Secondo Paolo Carsetti, rappresentante del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e tra i protagonisti di quell’esperienza, si affermarono allora e consolidarono «i principi della democrazia diretta e partecipata» ed emerse «la nuova categoria dei beni comuni, posta tra il piano politico e quello giuridico». La riflessione sui beni comuni, di tutti e a titolarità diffusa, emergeva nel momento in cui la collettività iniziava a lottare per riconquistare ciò che era stato sottratto, essendo i beni comuni per definizione incompatibili con una logica di mercato, fondata su un rapido profitto. L’acqua è un bene d’interesse condiviso, poiché svolge utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. Come tutti i beni comuni, essa è fondamentale per il principio della salvaguardia intergenerazionale, ovvero per il dovere di preservare il pianeta per le generazioni che verranno, le quali avranno il diritto di poter godere, in maniera eguale, delle risorse del pianeta. Entrambi gli autori di questo libro votarono con gra nde convinzione al referendum, dopo essersi fermati a uno dei tantissimi banchetti informativi che distribuivano volantini per il sì e per l’«Acqua Bene Comune». Allora non sapevamo che ci saremmo incontrati anni dopo per lavorare attivamente al fine di raccontare gli abusi sull’acqua, in Italia e nel resto del mondo, e cercando di riferire i modelli di sviluppo più virtuosi e analizzando le tantissime violazioni che abbiamo incontrato nel corso di questo libro. Ma vediamo cos’è accaduto dopo il giugno 2011, con la vittoria del fronte del sì .

Il post-referendum Appena due mesi dopo il voto, in una situazione definita dall’allora governo Berlusconi «di emergenza economica e finanziaria», la decisione referendaria venne abrogata per quanto riguardava i servizi pubblici locali, cancellando di fatto il risultato referendario. 242 Secondo Ugo Mattei, 243 il governo di Berlusconi «pose le basi per un processo di dismissione favorendo nettamente nell’assetto gestionale il privato, con una svalutazione dei beni da mettere a gara». In quel clima, alcune Regioni decisero di fare ricorso alla Corte costituzionale, dichiarando l’abrogazione «una lesione democratica e costituzionale, che colpisce il risultato referendario con il ripristino della norma abrogata». La Consulta si pronunciò nel merito con una sentenza nel 2012, affermando per la prima volta in Italia l’esistenza del «vincolo referendario», che non permette a nessun governo e in nessun caso di ripristinare una norma abrogata dalla volontà popolare. 244 La decisione del centrodestra era quindi stata invalidata. La sentenza mostra anche il ruolo decisivo della Corte costituzionale nel sancire che non esistono impedimenti giuridici né nazionali né sovranazionali a una gestione dell’acqua pubblica, intesa come bene comune, gestita da una pubblica amministrazione che ha il solo obbligo etico di lavorare in maniera efficiente. Tuttavia, anche con la decisione costituzionale il re ferendum non si può dire compiuto. Ciò che ad oggi rimane irrisolto, e quindi non rappresentativo della volontà popolare espressa nel 2011, riguarda la determinazione della tariffa, poiché la remunerazione del co siddetto capitale investito – abrogata con uno dei quesiti – fu reintrodotta con altra denominazione nel decreto dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, 245 aggirando così la questione. 246 Nel 2016, il governo di centrosinistra guidato da Matteo Renzi decise a sua volta di muoversi in direzione contraria al referendum, approvando i decreti attuativi della legge Madia sulla riforma della Pubblica amministrazione i cui obiettivi espliciti, riportati nella relazione di accompagnamento, erano «la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità» e il «rafforzamento del ruolo

dei soggetti privati». Negli stessi decreti, inoltre, ritornava la previsione – per i servizi – di «adeguatezza della remunerazione del capitale investito» nella composizione della tariffa. Non una formula buttata lì: era questa l’esatta dicitura che oltre ventisei milioni di cittadini avevano chiesto di abrogare nel 2011. 247 Ancora una volta arriva in aiuto la Consulta. Il 25 novembre 2016, con la sentenza 251/2016 248 la Corte boccia la legge Madia, sancendo l’incostituzionalità di diversi articoli tra cui quelli relativi a dirigenza, società partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego. La decisione della Consulta si era basata sulla lesione del principio di leale collaborazione tra stato ed enti locali, che sarebbe stato cancellato dalle modifiche proposte dalla legge Madia e che avrebbe portato a una riduzione dell’autonomia legislativa delle Regioni, a causa della possibilità di ricorrere alla cosiddetta «clausola di supremazia» 249 che permette allo stato centrale di intervenire in via legislativa in materie di competenza regionale, in caso di un generico e non ben definito «interesse nazionale». Una violazione della tanto agognata decentralizzazione dei poteri. La sentenza demolì anche i decreti attuativi, considerando illegittimi i presupposti basilari. Il governo Renzi fu costretto alla ritirata sui servizi pubblici locali. I tentativi di ribaltare gli esiti referendari sono stati vari e articolati, ma hanno dimostrato come il voto sull’acqua pubblica sia stato permeato da «un vero e proprio plusvalore democratico», 250 grazie al raggiungimento sia del quorum strutturale sia del quorum deliberativo con la maggioranza dei votanti. La partecipazione democratica «contro l’obbligo di privatizzazione, contro la messa a profitto della gestione dei servizi idrici», spiega Mattei, non può quindi più essere ignorata dalle volontà politiche che si susseguono. Pena un pericoloso squilibrio tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. 251 La grande sete del 2017 Per la giornata mondiale dell’acqua del 22 marzo 2017, Istat, l’Istituto nazionale di statistica, presentò uno studio dettagliato sull’acqua. 252 Al suo interno si trovano vari dati interessanti che danno uno spaccato dell’Italia, dove emerge che gli italiani sono

degli spreconi: in media il consumo pro capite di acqua nei capoluoghi di provincia è di 245 litri al giorno. E degli spendaccioni, poco propensi alla sostenibilità: la spesa mensile media di una famiglia italiana per l’acquisto di acqua minerale è di circa cento euro. La ragione? La scarsa fiducia nelle utility e il marketing invasivo delle aziende dell’acqua in bottiglia: su cento famiglie, ben ventinove non si fidano dell’acqua del rubinetto. E allora si va al supermercato. Ancora più impietosa la fotografia della rete idrica: il volume delle perdite totali nelle reti dei Comuni capoluogo di provincia, ottenuto sottraendo i volumi erogati autorizzati ai volumi immessi in rete, ammonta, nel 2015, a 1,01 miliardi di metri cubi, corrispondenti a una dispersione giornaliera di 2,8 milioni di metri cubi d’acqua per uso potabile, l’equivalente di 1.125 piscine olimpioniche riempite fino all’orlo. Sempre secondo Istat, il livello complessivo delle dispersioni d’acqua sarebbe molto più accentuato nel settore civile, con punte del 45,3% nel 2014. Le perdite idriche reali di acqua potabile dalle reti dei Comuni capoluogo di provincia, ottenute come differenza tra le totali e quelle apparenti, sono stimate pari a 924,4 milioni di metri cubi nel 2015. 253 Tutte dispersioni dovute a corrosione, rottura o deterioramento delle tubazioni, o a giunzioni difettose. Tali perdite misurano anche l’acqua che fuoriesce dal sistema distributivo disperdendosi nel sottosuolo: si sta parlando di 50,7 metri cubi annui per abitante residente nei Comuni capoluogo di provincia, corrispondenti a 139 litri al giorno a testa. Un volume davvero cospicuo che, stimando un consumo medio di 89 metri cubi annui per abitante, pari a quello dei Comuni capoluogo di provincia, soddisferebbe le esigenze idriche di un anno di ben 10,4 milioni di cittadini. Persino i contatori non funzionano bene: il 3% del volume d’acqua potabile immesso in rete è sottratto senza autorizzazione o non misurato per imprecisione o malfunzionamento dei contatori stessi. La fotografia della gestione dell’acqua insomma è chiara. Nonostante alcuni buoni esempi (come quelli visti nel capitolo 7), risulta insufficiente in molte regioni, in particolare al centro e al sud. Un’istantanea che s’incastra con la situazione climatica del paese. Nel 2017 si è vissuto il maggio più torrido da quando viene misurata la temperatura sul nostro pianeta. Dopo alcuni mesi di siccità è

scattata una vera e propria emergenza idrica in molte regioni e città, inclusa Roma. Scongiurata per un pelo l’interruzione dell’erogazione di acqua dai rubinetti di casa. Non è solo il clima a determinare una simile crisi. Secondo il Forum dei Movimenti per l’Acqua c’è una componente economica, con una chiara responsabilità umana a causa del sovrasfruttamento degli acquiferi, dell’inquinamento delle falde e del reticolo fluviale superficiale, dell’urbanizzazione, con conseguente diminuzione della disponibilità, del sovraconsumo di acqua per uso agricolo, industriale e civile, e ovviamente per una rete idrica fatiscente e non predisposta per essere resiliente. Il caso romano pone l’accento su come manchi una cabina di regia pubblica, su scala locale e su tutto il territorio nazionale. Quali sono stati, dai tempi del referendum, gli intoppi politici, burocratici e tecnici che hanno portato alla crisi idrica dell’estate 2017? Secondo Luca Martinelli, uno dei giornalisti italiani esperti del tema, sei anni dopo il referendum del giugno 2011 le crisi idriche che hanno colpito l’Italia mettono a nudo le carenze di un sistema di gestione affidato a un numero maggioritario di imprese la cui prima preoccupazione è remunerare gli azionisti, garantendo loro lauti dividendi, e non tutelare l’interesse pubblico. Le quattro «sorelle dell’acqua» – cioè le principali multiutility pubblico-private quotate in Borsa che gestiscono l’oro blu in Italia: Iren, A2A, Acea, Hera –, tra il 2010 e il 2014 hanno distribuito oltre due miliardi di euro di dividendi agli azionisti privati, invece di reinvestirli in ottimizzazione delle infrastrutture o nella riduzione delle tariffe ai cittadini meno abbienti. 254

A vent’anni dal decreto Ronchi, 255 la rete idrica italiana fa letteralmente acqua da tutte le parti. Eppure gli investimenti sono diminuiti e l’Italia è sotto procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea per l’inadeguatezza del trattamento delle acque reflue. 256 Andando a scartabellare tra i bilanci, i dati sulla distribuzione dei dividendi delle multiutility mostrano in modo palese che i soldi però ci sono. Solo, non sono utilizzati per investimenti in ammodernamento e resilienza del sistema, limitandosi a garantire un servizio essenziale e remunerando gli azionisti pubblici e privati. Il lavoro di approfondimento del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua ha

reso più intellegibili i processi che si sono articolati dopo il 2011, riuscendo a scattare una fotografia dell’attuale modello di gestione delle multiutility italiane. In questi sei anni solo Napoli 257 e, recentemente, Torino sono riuscite a concretizzare in pieno gli esiti referendari e a rimunicipalizzare il servizio idrico, trasformando le vecchie Spa in aziende speciali pubbliche. Imperia e Reggio Emilia, sotto la gestione di Iren, e Varese e Termoli, sotto la gestione rispettivamente di A2A e Acea, hanno dichiarato nel 2012 di voler passare alla rimunicipalizzazione, ma ad oggi non sono ancora riuscite a portare a termine il processo. Secondo Paolo Carsetti, in verità oggi i processi sono diversi: non si spinge più per una privatizzazione esplicita, si favorisce il raggiungimento del medesimo obiettivo attraverso la promozione di operazioni di fusione e consolidamento tra aziende. La strategia s’incentra sulla creazione di conglomerati multiservizio quotati in Borsa, che gestiscono i fondamentali servizi pubblici a rete (acqua, rifiuti, luce e gas) con un profilo monopolistico su territori di ampie dimensioni. Allo stato attuale, il processo in corso sta portando al progressivo allargamento verso i territori limitrofi a quelli già gestiti dalle quattro «grandi sorelle»: Iren si sta espandendo in Piemonte, Liguria ed Emilia; A2A ha l’ambizione di diventare l’unico soggetto gestore in Lombardia; Hera punta al monopolio in Romagna tra Bologna e Rimini guardando a tutto il Triveneto e alle Marche; Acea si espande dal Lazio all’Umbria alla Toscana e parte della Campania. Il quadro del Mezzogiorno è più confuso. Gli occhi sono puntati sul futuro dell’Acquedotto Pugliese, rispetto al quale si parla di una possibile apertura alla privatizzazione, che preoccupa i sostenitori dell’acqua bene pubblico del Meridione. Acquedotto Pugliese sarebbe intenzionato ad accelerare il processo di realizzazione del «gestore unico del Sud Italia» occupando uno spazio lasciato vuoto da utility fortemente frammentate e inefficienti. Appare quindi evidente come le caratteristiche delle grandi aziende multiservizio si delineino con sempre maggiore chiarezza, tutte contrassegnate da una logica spinta di privatizzazione occulta, consolidamento e finanziarizzazione dei servizi. Esse hanno la vocazione non di produrre servizi pubblici fondamentali per la collettività, ma di «creare valore per gli azionisti», e cioè distribuire

consistenti dividendi sia ai soci privati, che per statuto investono con l’obiettivo di realizzare profitti, sia ai soci pubblici, che trovano in questo modo risorse significative a compensazione dei tagli che in questi anni sono stati compiuti nei confronti degli enti locali, e a cui gli stessi enti non si sono opposti in modo efficace. Dal 2010 al 2016 le quattro grandi sorelle hanno prodotto utili rilevanti, ridistribuendone la grandissima parte. In termini cumulati, Iren, A2A, Hera e Acea hanno realizzato utili per 3 miliardi di euro e 257 milioni, e staccando dividendi per 2 miliardi di euro e 983 milioni ai soci pubblici e privati, pari al 91% degli utili. 258 Una quota eccessiva, sostengono gli attivisti per l’acqua. «Questo è il pericolo principale – avverte Paolo Carsetti –: rafforzare il processo di finanziarizzazione di queste aziende permetterebbe loro di operare in modo consistente nel mercato dei capitali, rendendole molto sensibili all’andamento del valore delle azioni in Borsa e al sentiment degli investitori. Questa diventerebbe la variabile strategica prioritaria nelle scelte delle aziende stesse». A discapito di società più piccole ma virtuose, che non possono contare su ingenti aumenti di capitale e quindi facilmente esposte ad acquisizioni, qualora non più competitive con i big. A ciò si accompagna un processo di deterritorializzazione in cui gli enti locali proprietari, anche per via dell’aumento delle dimensioni aziendali e conseguentemente della perdita di peso dei singoli Comuni, contano sempre meno nelle decisioni, rimanendo spesso tagliati fuori dalle decisioni strategiche. È inoltre evidente come i sostenitori dell’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua abbiano utilizzato quale argomento forte la grande opportunità di apporto di capitali da parte di questi ultimi per rendere più efficiente il servizio, ristrutturare le reti e costruire gli impianti di depurazione. Il tutto, presentato come l’opzione più economica e conveniente per i cittadini, grazie agli effetti positivi della concorrenza. Senza parlare degli «ovvi benefici» per l’ambiente, data la supposta efficienza distributiva che farebbe sprecare meno acqua. Il water grabbing made in Italy è in pieno svolgimento. In un’intervista del luglio 2017, 259 apparsa sul Sole 24 Ore , il principale quotidiano finanziario, di proprietà di Confindustria, Tomaso Tommasi di Vignarca, presidente esecutivo del Gruppo Hera, ha rilanciato l’opzione proposta dal decreto del governo Renzi

per rinforzare le grandi Spa, dato che «in Italia c’è ancora una frammentazione di aziende multiutility superiore a quella di qualsiasi altro paese europeo. Per spingere le partecipate pubbliche ad aggregarsi sarebbe auspicabile un segnale forte sul piano normativo rappresentato dalla piena applicazione del decreto Madia. Questa consentirebbe l’assegnazione tramite gara anche delle concessioni già scadute delle [varie ] attività, gare che il Gruppo Hera auspica [di ricevere in appalto ] 260 da tempo per superare finalmente la già richiamata frammentazione, l’incertezza dell’attuale assetto delle gestioni, anche attraverso una maggiore omogeneizzazione». Questa affermazione arriva due anni dopo un fatto che espose chiaramente le intenzioni di Hera. Il sindaco di Bologna Virginio Merola aveva annunciato di voler vendere le azioni comunali di Hera, facendo scendere la quota pubblica dal 51% al 38%. Il tentativo fu scongiurato dai cittadini, obbligando il sindaco e la giunta a un deciso passo indietro. In quell’occasione la Cgil, il primo sindacato italiano, denunciò che si sarebbero create dinamiche sempre più orientate a criteri finanziari e di mercato, per quanto formalmente il controllo di Hera sarebbe rimasto pubblico. Il sospetto è che le priorità della multiutility si sarebbero spostate dalla qualità del servizio e dagli investimenti alla garanzia dei dividendi e della remunerazione del capitale per far crescere il Gruppo Hera. Massimizzazione dei profitti vs beni comuni Un processo, quello che ha portato a un sistema di gestione delle multiutility orientato esclusivamente alla massimizzazione dei profitti, che è andato a sovrapporsi agli effetti progressivi di un fenomeno ben più globale, quello dei cambiamenti climatici, che impattano negativamente sulla disponibilità di acqua per uso umano. Se la logica della massimizzazione della creazione di valore per gli azionisti costituisce il vero faro che guida le spinte alla privatizzazione dei fondamentali servizi pubblici locali e anche del servizio idrico, mettendo così in secondo piano l’interesse collettivo e la necessità di rendere più efficiente il servizio per gli utenti, non c’è da stupirsi dei dati impressionanti sulle perdite delle reti idriche e sul livello di degrado delle infrastrutture, oltre che dell’assenza di piani di

resilienza e di adattamento ai cambiamenti climatici. Gli investimenti che si realizzano nell’insieme del servizio idrico sono di entità decisamente inferiore a quanto necessario. C’è ormai larga convergenza sul fatto che i fabbisogni necessari all’ammodernamento si attestino attorno agli 80 euro annui/persona, per una cifra pari a circa 5 miliardi di euro l’anno, mentre, nell’arco di tempo che va dal 2007 al 2015, anche nei momenti di massimo picco, non sono mai andati al di là dei 2 miliardi, ovvero 32 euro l’anno a testa. In più, l’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico (Aeegsi) segnala che gli interventi sulla rete acquedottistica sono effettuati, in modo preponderante, per interventi straordinari. Questo impiega una quota del budget pari al 92%, relegando gli interventi ordinari a un misero 8%. In altri termini, l’attività di intervento sulla rete avviene per riparare i guasti e non per ammodernare l’infrastruttura. In questo quadro l’aumento delle tariffe non è la soluzione, rischia di essere parte del problema. Ovviamente serve una mole ben più consistente di investimenti rispetto a quelli realizzati e previsti, e anche una loro accelerazione, per affrontare le criticità in tempi sufficientemente brevi. Questa dovrebbe essere la strada da intraprendere, se si vuole mettere mano sul serio alla ristrutturazione e all’ammodernamento delle reti idriche, che rappresenta una delle questioni decisive per poter affrontare e risolvere gli effetti del combinato disposto tra scarsità idrica e cambiamento climatico. 261 Le ricette praticate e quelle finora prospettate non sono state in grado di dare una risposta adeguata. Quanto predisposto in questi anni dall’Aeegsi e dai soggetti gestori privatizzati verrà riproposto, con alcuni aggiustamenti, anche per il futuro. Non a caso, in seguito all’emergenza siccità, è stato da più parti sottolineato che l’unica scelta possibile per sostenere gli investimenti necessari sarebbe «quella di un ulteriore e deciso aumento tariffario», posizione sostenuta da una vera e propria campagna informativa sul fatto che le tariffe in Italia sarebbero le più basse in Europa. Una tesi peculiare, ma confutata dai dati diffusi nel 2010 da Federconsumatori e Utilitatis, secondo i quali emerge che l’acqua costa più cara a Firenze che non a Oslo o Helsinki, se si integrano i dati del valore assoluto della tariffa con il potere di acquisto nei

diversi paesi. Nel 2010 il costo di 200 metri cubi a Firenze arrivava a 478 euro l’anno, a Oslo e Helsinki valeva rispettivamente 507 e 502 euro. Ora, va considerato che il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto della Norvegia e della Finlandia era rispettivamente di 58.000 e di 35.000 euro, quello dell’Italia di 30.000. Dati che consentono di dire, arrotondando, che l’acqua a Firenze costa il 56% in più che a Oslo e circa il 10% in più che a Helsinki. 262 Perseguire la strada di un significativo aumento tariffario presenta due controindicazioni che la rendono s ostanzialmente impercorribile, se si vuole perseguire l’interesse collettivo e non i fini del profitto individuale degli azionisti. La prima obiezione riguarda gli elementi d’iniquità e di costi sociali, al limite della sopportabilità, che si presentano in seguito agli incrementi tariffari. In un paese come l’Italia, già così provato dalla crisi economica e sociale e che ha visto accentuarsi la povertà e crescere la disuguaglianza sociale, proseguire con politiche ridistributive regressive, quali l’aumento delle tariffe, significa gravare ulteriormente sui ceti più deboli e sulle classi sociali già maggiormente penalizzate dalla gestione di stampo neoliberista della crisi. Ciò non significa che soggetti privati che traggono profitto dall’uso idrico, per scopi non alimentari, non debbano pagare, così come vanno sanzionati gli sprechi da parte di tutti i soggetti, deboli o meno deboli. Va detto che l’aumento tariffario indiscriminato influenza poco i grandi consumatori e penalizza fortemente le fasce di cittadinanza più debole, le Pmi e le piccole aziende agricole, su cui si fonda una parte importante del sistema alimentare italiano. La seconda obiezione è che l’aumento tariffario si trasferisce in modo limitato sulla crescita degli investimenti, ma, vista la logica privatistica dei soggetti gestori, finisce inevitabilmente per essere utilizzato in primo luogo per accrescere profitti e dividendi e magari alleviare la situazione di indebitamento dei gestori stessi. Anche nel caso di tariffe progressive e antispreco, le utility devono forzatamente avere come vincolo di bilancio il non profit, con il reinvestimento di qualsiasi ricavo. Quali soluzioni?

Vandana Shiva nel suo libro Le guerre dell’acqua scriveva che stiamo vivendo una crisi ecologica che ha cause commerciali ma non ha soluzioni di mercato. Le soluzioni possibili, invece, potrebbero trovarsi nella diversa destinazione degli utili delle aziende che gestiscono il servizio idrico. Una posizione coerente con quella del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua pubblica, secondo il quale ciò che oggi servirebbe è un approccio radicalmente alternativo, con la messa in campo di un piano straordinario nazionale di investimenti volto all’ammodernamento della rete idrica, magari come capitolo di un ben più vasto programma di rilancio degli investimenti pubblici riguardante la tutela del territorio e dell’ambiente. Già a suo tempo, fin dalla predisposizione della legge di iniziativa popolare promossa dalla Commissione Rodotà, nel 2007 dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e dalla campagna referendaria del 2011, è stata avanzata una proposta basata su un nuovo meccanismo di finanziamento del servizio idrico e degli investimenti a esso connessi, sulla cui base questi ultimi sarebbero assicurati in via prioritaria da un nuovo intervento di finanza pubblica, con una tariffa pensata per coprire i costi di gestione, gli ammortamenti per la parte degli investimenti finanziati dal pubblico più il costo degli interessi del capitale. Questo prevederebbe comunque un’articolazione della tariffa sulla base delle fasce di consumo, e la fiscalità generale sarebbe chiamata a intervenire per coprire il costo del quantitativo minimo vitale (50 litri/abitante/giorno) 263 e un’altra quota-parte di investimenti, in particolare quelli dedicati alle nuove opere. E va sottolineato che il tutto si potrebbe fare senza oneri ulteriori per i contribuenti, perché permetterebbe di utilizzare pienamente e in modo più efficace le risorse già disponibili dall’iniziativa pubblica, a partire da quelle significative che possono provenire dall’Unione europea. La strumentazione di finanza pubblica individuata è riferita, da una parte, all’intervento della Cassa depositi e prestiti, 264 oppure, dall’altra, alla possibilità di ricorrere all’emissione di bond locali. È evidente peraltro che pensare all’intervento della Cassa depositi e prestiti comporterebbe necessariamente che essa ritorni alle sue funzioni originarie, come quella di mettere a disposizione risorse economiche a tasso agevolato, operando una seria inversione di

tendenza rispetto al fatto che negli ultimi anni essa si è distinta nel favorire e supportare i processi di privatizzazione abbandonando la sua funzione di «banca pubblica». Inoltre, la manovra di tipo fiscale può avvenire senza che essa provochi un innalzamento del deficit e debito pubblico, specificando dunque le maggiori entrate e minori spese del bilancio pubblico, e senza produrre tassazione aggiuntiva sul reddito delle persone fisiche. Ciò potrebbe essere realizzato in diversi modi, intervenendo con la lotta all’evasione fiscale, diminuendo le spese militari, costruendo una tassa di scopo, come quella sulle bottiglie Pet, o con altri interventi ancora. 265 Oggi c’è la necessità di accelerare gli investimenti dedicati all’ammodernamento delle reti, in modo da raggiungere da subito e almeno per i prossimi cinque anni l’obiettivo canonico di 5 miliardi di euro annui per l’ammodernamento del servizio idrico, la maggior parte dei quali indirizzati alla ristrutturazione delle reti. Se solo guardiamo a quanto incassato dalle quattro grandi sorelle dal 2012 al 2016 – quasi 2,8 miliardi di euro di utili –, questa cifra potrebbe rappresentare una base importante per la riqualificazione delle reti idriche. Un uso più civico, rispetto alla usuale ridistribuzione agli azionisti. Si darebbe così avvio a una nuova fase di investimenti pubblici nel servizio idrico per misurarsi con i cambiamenti in corso: un’inversione di tendenza rispetto alle scelte degli anni passati e una riaffermazione della volontà politica di gestione comune dell’acqua. Verso un mondo di beni comuni Il tema dei beni comuni viaggia ancora su binari dif ferenti. Durante il Forum internazionale «Rules of Water, Rules of Life» sotto gli auspici della presidenza italiana del G7, per la prima volta, grazie al Consiglio Nazionale Forense 266 si è presentato un breve excursus storico e concettuale del diritto umano all’acqua, ponendo l’accento su una nuova generazione di diritti: «La difesa dei diritti dell’uomo è diventata, al giorno d’oggi, la difesa dei diritti della natura». Un’affermazione che ha sottolineato la necessità di avere una produzione normativa chiara, a garanzia di una visione ecosistemica nel diritto e nell’economia, che includa le esperienze

maturate dalla società civile. In termini di diritto all’acqua come bene comune. Di registro diverso sono stati tanti interventi durante la 23ª Conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul Clima, svoltasi a Bonn nel novembre 2017. Qui si è sostenuta una visione opposta, ben lontana da quella promossa da Stefano Rodotà con la Commissione sui beni comuni. Molti governi e istituzioni caldeggiano la presenza del settore privato nella gestione dei piani di adattamento delle reti idriche al cambiamento climatico, o addirittura si ripropongono i partenariati pubblico-privati (Ppp) come modelli ottimali per colmare il gap di fabbisogno idrico in continenti come l’Africa, nonostante i numerosi casi di fallimento dei Ppp stessi, come in Ghana e nello Swaziland. A tutti i partecipanti della Conferenza di Bonn è stata distribuita una borraccia in plastica riciclata, colorata e riutilizzabile, così da incoraggiare all’uso di acqua potabile del rubinetto, evitando il consumo di bottiglie monouso, che comportano uno spreco di plastica ormai insostenibile. Favorire la cultura del riuso, del riciclo, questo passo avanti verso una maggiore consapevolezza degli effetti delle proprie azioni permette di sottolineare come le risorse naturali, tra cui l’acqua, debbano essere la chiave di volta per uno sviluppo futuro realmente sostenibile e giusto, e per questo rimanere al centro del dibattito e dell’interesse della politica. Sebbene siano solo gesti simbolici – avvenuti tra l’altro in occasione di un evento annuale che riunisce quasi ventimila persone intente a trovare soluzioni al surriscaldamento del pianeta –, le buone prassi, le tendenze al cambiamento, l’innovazione nella gestione di risorse e consumi, partono dal quotidiano, dall’umanamente possibile che ognuno di noi può fare per salvaguardare quel che ci circonda. La consapevolezza: un vero e proprio salto culturale come primo esempio concreto di partecipazione, responsabilità e autodeterminazione.

238 Decreto ministeriale Commissione Rodotà – per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, 14 giugno 2007: http://bit.ly/2DsyiFG.

239 Ministero dell’Economia e delle Finanze, Il patrimonio dello Stato. Informazioni e statistiche, 2006 (http://bit.ly/2FAQYng). 240 Ugo Mattei, Alessandra Quarta, L’acqua e il suo diritto , Ediesse, Roma 2014. 241 Definizione di beni comuni contenuta all’art. 1, punto 3, del decreto ministeriale Commissione Rodotà , cit. 242 Mattei, op. cit. 243 Ugo Mattei è docente di Diritto civile all’Università di Torino e all’Università di Berkeley. È uno dei giuristi che diedero il via all’iniziativa referendaria insieme ad Azzariti, Ferrera, Lucarelli, Nivarra e Rodotà, con il Forum dei Movimenti per l’Acqua. 244 Testo della sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012 della Corte costituzionale: http://bit.ly/2AWZgCo. 245 L’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico (Aeegsi) è un’autorità formalmente indipendente che, come l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e l’Autorità di regolazione dei trasporti (Art), ha la funzione di favorire lo sviluppo di mercati concorrenziali nelle filiere elettriche, del gas naturale e dell’acqua potabile, principalmente tramite la regolazione tariffaria, dell’accesso alle reti, del funzionamento dei mercati, e la tutela degli utenti finali. 246 Mattei, op. cit. 247 Luca Martinelli, L’acqua (non) è una merce , Altreconomia, Milano 2011. 248 Testo del giudizio di legittimità costituzionale n. 251/2016 emesso dalla Corte costituzionale: http://bit.ly/2qYKuv3. 249 Giulio Citroni, Marco Di Giulio, Dismissioni! E poi? , Guerini e associati, Milano 2016. 250 Mattei, op. cit. 251 Ibidem . 252 Statistiche Istat, report 22 marzo 2017: http://bit.ly/2mtPN09. 253 Ibidem . 254 Sakoto Kishimoto, Emanuele Lobina, Oliver Petitjean (a cura di), L’acqua pubblica è il futuro , Tni / Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, 2016 (http://bit.ly/2DqpL5T). 255 Articolo 23bis abrogato con il referendum del 2011. 256 Comunicato stampa del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua: «La crisi idrica mette a nudo i danni di mala gestione e privatizzazione dell’acqua», 28/7/2017 (http://bit.ly/2u3Y3pa). 257 A puro titolo indicativo, riportiamo qui in nota il preambolo dello statuto dell’azienda napoletana. « L’azienda speciale Acqua Bene Comune Napoli, Ente di diritto pubblico, nasce dalla consapevolezza che in tutto il mondo le più recenti trasformazioni del diritto hanno prodotto l’emersione a livello costituzionale, normativo, giurisprudenziale e di politica, del diritto della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e che vanno preservate anche nell’interesse delle generazioni future. I beni comuni, in primis l’acqua, sono direttamente legati a valori che trovano collocazione costituzionale e che informano lo Statuto del Comune di Napoli. Essi vanno collocati fuori commercio perché appartengono a tutti e non possono in nessun caso essere privatizzati. L’acqua bene comune è radicalmente incompatibile con l’interesse privato al profitto e alla vendita. In coerenza con queste premesse, Acqua Bene Comune Napoli, chiamata a governare il bene comune acqua della città di Napoli, si considera responsabile non soltanto nei confronti di tutti i napoletani, ma anche di tutta l’umanità presente e futura. Perciò essa vuole interpretare, attraverso una buona pratica di democrazia partecipata dal basso, il suo dovere costituzionale fondamentale di difendere i beni comuni minacciati, a cominciare dall’acqua, così come il popolo italiano ha indicato con il referendum del 12 e 13 giugno del 2011, il vero atto costituente di Acqua Bene Comune Napoli». 258 Kishimoto, op. cit. 259 L’intervista integrale: http://bit.ly/2CZuXwC. 260 Nota dell’autrice. 261 Tratto dall’intervista a Paolo Carsetti, del Forum dei Movimenti per l’Acqua. 262 Report Federconsumatori del 2012: http://bit.ly/2r1b6f4. Report di Utilitatis, il centro studi di Utilitalia che a sua volta è l’associazione delle imprese idriche, energetiche e ambientali: Valeria Garotta et al. (a cura di), Blue Book , Utilitatis, Roma 2017. 263 Dall’intervista a Paolo Carsetti. 264 Cassa depositi e prestiti Spa (Cdp) è una rilevante istituzione finanziaria italiana. È una società per azioni controllata per circa l’83% dal ministero dell’Economia e delle Finanze e per il rimanente 17% da diverse fondazioni bancarie. Cdp opera all’interno del sistema economico italiano essenzialmente come una banca di stato, con un’operatività in parte simile a quella di una banca d’affari, avendo fra le sue diverse attività principali anche la partecipazione nel capitale di rischio delle medie e grandi imprese nazionali, quotate e non, profittevoli e ritenute strategiche per lo sviluppo del paese. 265 Dall’intervista a Paolo Carsetti. 266 Il Consiglio Nazionale Forense è l’organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura italiana e rappresenta l’intera classe forense.

CONCLUSIONI

I momenti di crisi […] possono rappresentare dei momenti in cui scopriamo il meglio di noi, e riusciamo a fare appello a riserve di forza e determinazione che non sapevamo di avere. Dobbiamo indicare la strada per passare a una società fondata sulla cura reciproca e del pianeta, dove il lavoro di chi protegge la nostra terra e la nostra acqua viene stimato e rispettato. Un mondo dove nessuno, da nessuna parte, venga abbandonato. Naomi Klein 267 Il titolo di quest’ultimo capitolo è quanto mai fuorvi ante, poiché lo scopo del libro è quello di scoperchiare il vaso di Pandora legato al tema dell’acqua, cercando di affrontare la questione prima che diventi un problema insolubile. Non è quindi una conclusione ma un inizio. I margini per creare un pianeta resiliente ai temi dell’acqua, in maniera inclusiva e sostenibile, esistono. Diritti, consumi, tecnologie, politica: gli elementi per risolvere la complessità di questo mondo d’acqua ed evitare che la corsa al water grabbing si incancrenisca hanno fatto capolino in tante pagine. Risolvere le questioni ambientali significa affrontare problemi di equilibrio globale di lungo termine. All’interno dell ’Accordo di Parigi hanno trovato p osto, grazie al lavoro di tanti giovani, 268 il principio di equità intergenerazionale, secondo il quale anche le generazioni future godono del diritto all’ambiente, e il principio dell’ambiente quale patrimonio comune dell’umanità. Intaccarli equivale a violare i diritti umani, non solo dei milioni di abitanti oggi esposti a siccità, scarsità idrica, violenza settaria, water grabbing, ma anche delle tante donne e uomini che ancora devono arrivare su questo pianeta.

Gli strumenti propositivi sono tantissimi. In prima istanza educare, fare ricerca e comunicare. Questo è il primo testo in Italia sul tema ed è un lavoro di scenario, che dimostra quanto ancora ci sia da fare negli anni a venire. L’obiettivo deve essere quello di conoscere e creare consapevolezza. Per questo servirà monitorare in maniera attenta e documentata, raccogliendo nuovi casi, e fomentando la ricerca universitaria sul campo , sia in geografia come in tutti i campi correlati. Inoltre occorre sostenere il giornalismo di qualità e di approfondimento. «Water grabbing» è un progetto che attraversa molte sfere della comunicazione: giornalismo, ricerca, fotografia, saggistica, cartografia. Trovare molteplici chiavi per raccontare il water grabbing – il timore di non essere sufficientemente chiari è sempre concreto – diviene fondamentale per raggiungere un pubblico più vasto ed eterogeneo possibile. Un manifesto circolare Dal punto di vista economico, abbiamo vissuto immersi in un’economia lineare petro-capitalista, dove per oltre 150 anni abbiamo estratto risorse naturali, organiche e non, e le abbiamo impiegate senza badare in nessun modo agli effetti correlati. Abbiamo chiamato gli sprechi «esternalità negative», quando gli impatti erano troppo evidenti per essere ignorati. Non a caso uno dei primi grandi momenti di sviluppo della coscienza ecologista è legato a un corso d’acqua, il Cuyahoga, nell’Ohio, tristemente noto per essere stato negli anni Sessanta il fiume più inquinato al mondo. L’intero tratto da Akron a Cleveland era privo di pesci. Dal 1868 si sono registrati almeno tredici incendi del fiume – avete mai visto l’acqua in fiamme? – a causa degli scarichi chimici. Era talmente tossico che sulla superficie, in ogni momento, galleggiavano elementi infiammabili, dal benzene ai solventi per vernici. Il 22 giugno 1969, uno di quegli incendi catturò l’attenzione del settimanale Time , che descrisse il Cuyahoga come il fiume che «trasuda anziché scorrere» e in cui una persona «non annega ma si decompone». Che non spegne le fiamme, le alimenta. Una negazione della natura stessa dell’acqua: da fonte di vita a fonte di morte.

Il fatto, rimbalzato sulle cronache di mezzo mondo, portò a una delle prime leggi sul controllo delle acque nel continente americano, il Clean Water Act, firmato da Richard Nixon, e alla creazione della United States Environmental Protection Agency, la prima agenzia di protezione ambientale governativa. Allora il tema principale era la qualità dell’acqua. Apparentemente la quantità non era ancora emersa come una questione tale da allarmare scienziati e cittadini. La mentalità era – è tuttora – quella comune per ogni materia prima: estrai, consuma, dismetti. Come nel mito di Efesto, la tecnologia ci ha dato un senso di potenza tale da sfuggire alla natura (o agli dei), dimenticandoci degli equilibri preziosi che essa richiede per la sopravvivenza della specie. Oggi la sfida è dunque quella di riscoprire un equilibrio sistemico tra risorse idriche e civilizzazione. Se, da un lato, la scarsità idrica va indirizzata con politiche di cooperazione e strategie di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, la domanda va modificata attraverso una maggiore sensibilizzazione della popolazione sull’impatto di tassi demografici abnormi e sull’impronta idrica dei propri consumi. Serve, per questo, introdurre un’economia circolare, ovvero, secondo la definizione che ne dà Ellen MacArthur, madrina di questa teoria, «un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati a essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera». Per porre fine al paradigma dell’economia lineare, è fondamentale soddisfare un nuovo modello di economia che soddisfi tre principi. Il primo è riscoprire i giacimenti di materia scartata come fonte di materia, limitando quanto possibile il processamento. Raccolta dei rifiuti, riciclo, gestione degli output produttivi, oggetti funzionanti buttati per cattivo management degli stock (anche domestici). Il secondo principio è legato alla fine dello spreco d’uso del prodotto (unused value ) prima ancora di essere scartato. Magazzini colmi di macchinari in attesa di essere dismessi, scatoloni in cantina pieni di vestiti con scarso valore affettivo, oggetti comperati e usati una volta l’anno. Un ammortamento inutile di beni il cui valore non è fatto fruttare. Il terzo principio è fermare la morte prematura della materia. Sebbene riciclo e riuso siano strategie fondamentali di recupero

della materia, spesso condanniamo a morte – cioè alla dismissione – della materia perfettamente sana. E poco importa che sarà riciclata. Spesso a rompersi o guastarsi è solo una parte di un oggetto, mentre le restanti componenti rimangono perfettamente funzionanti. È come seppellire una persona che ha un braccio rotto. Riparare, aggiornare, fermare i processi più estremi della moda, rivedere le pratiche di obsolescenza programmata sono le strategie auspicabili. Questo modello, se applicato correttamente, potrà ridurre almeno in parte una quota della domanda idrica del nostro pianeta. L’acqua contenuta negli sperperi alimentari non sarà più sprecata, diventerà nuova biomateria per realizzare materiali o produrre energia come biogas. Nella produzione industriale il nuovo paradigma sarà cicli dell’acqua chiusi, senza sprecare nemmeno una goccia di troppo. Condividendo materia – oggi esiste il leasing dei jeans, grazie a una compagnia come MudJeans – si ridurrà l’impatto idrico per il tessile. E infine la progressiva eliminazione delle energie fossili, antitesi dell’economia circolare, farà risparmiare ingenti quantità d’acqua per il settore energetico. Per l’economia circolare l’efficienza è una delle particelle elementari che la costituiscono: per questo anche nei consumi alimentari dovremo adottare diete meno energivore e idrovore. 269 Altro elemento chiave, il diritto. Promuovere ovunque il concetto di bene comune e di diritto all’acqua è fondamentale per creare un corpus legale sempre più consistente allo scopo di tutelare i più deboli dagli abusi delle grandi compagnie internazionali e degli stati autoritari. Certo questo è un problema costituzionale, diverso stato per stato. Ma l’obiettivo internazionale dovrebbe essere l’inserimento del diritto all’acqua in ogn i Costituzione entro il 2040. Infine il paradigma tecnologico. Ciclicamente, ogni venticinque anni rivediamo le stime sulla scarsità dei beni, grazie all’innovazione tecnologica. Abbiamo creato gli impianti di desalinizzazione, l’agricoltura di precisione, la genetica applicata per trovare i semi più resistenti alla siccità, l’idroelettrico senza sbarramenti, i sistemi di depurazione efficienti a cogenerazione, migliorato la conservazione dei beni alimentari. Allo stesso tempo i saperi tradizionali ci permettono di proteggere le agricolture tradizionali più resistenti, le

modalità di convivenza meno impattanti, la conoscenza dei delicati equilibri della natura in tanti biomi del pianeta. Due grandi temi, inoltre, vanno affrontati: ammoder namento degli impianti idraulici, in particolare le tubature, con Piani Infrastrutturali degli Acquedotti, e la realizzazione di invasi per la gestione dei flussi d’acqua (visto l’impatto sui ghiacciai del cambiamento climatico). Senza ricadere nella sindrome Nimby («Not in my backyard »: purché non nel mio cortile), quando si dice no a priori ad ogni nuovo progetto. Molte infrastrutture leggere e anche grandi opere saranno ancora necessarie, se validate in pieno per la loro utilità (e non per il profitto) e sostenibilità ambientale e sociale. Avrà questo libro creato una nuova consapevolezza? L’augurio degli autori è che la risposta sia positiva. Già molti libri di Editrice missionaria italiana dedicati all’acqua sono stati la goccia che ha scavato la roccia dell’opinione pubblica su questo tema, in particolare quelli scritti dal missionario comboniano Alex Zanotelli, uno dei leader nella battaglia per l’acqua pubblica nel nostro paese. Noi porteremo in giro questo testo per l’Italia e per il mondo, per raccontare quanto abbiamo osservato in questi anni, testimoni di un cambiamento planetario immenso. E speriamo di creare una community intorno al progetto water grabbing , di cittadini, imprese, ricercatori, per essere attivi sui territori e per segnalare casi nuovi e importanti ricerche in corso. Rendersi attivi nella lotta all’accaparramento idrico è il modo migliore per contribuire alla tutela del nostro diritto all’acqua e a perseguire il principio di equità intergenerazionale, affinché anche i nostri figli e pronipoti possano godere di questo incredibile pianeta e di tutti i suoi servizi ambientali insostituibili.

267 Dal discorso pronunciato il 26 settembre 2017 alla conferenza del Partito laburista di Brighton (courtesy LabourPress; traduzione di Giovanna Branca). 268 In Italia il tema è stato fortemente sostenuto da Federico Brocchieri, di Italian Climate Network. 269 Emanuele Bompan, Ilaria Nicoletta Brambilla, Che cosa è l’economia circolare , Edizioni Ambiente, Milano 2016.

RINGRAZIAMENTI

Scrivere i ringraziamenti è una delle parti più emozionanti di un libro, perché si ripercorrono tutte le tappe della realizzazione, dai viaggi alla revisione dei testi, con tutti gli amici e i professionisti che hanno condiviso una parte di questa avventura. Sebbene gli autori siano solo due, il contributo è il risultato della partecipazione di tanti, a cui siamo entrambi grati, con affetto e stima. In cima alla lista c’è Alberto Zoratti, presidente dell’associazione Fairwatch e grande attivista per l’ec onomia solidale e per il clima, che ha fatto di tutto perché ci conoscessimo in una brasserie parigina durante la Cop21 sul clima del 2015. Un ringraziamento speciale va all’European Journa lism Center (Ejc) e alla Journalism Grant, all’Agenzia Italiana per la Cooperazione e Sviluppo e Dgcs, alla Fao, al Middlebury College, Gruppo Cap, Wwf Italia, Oxfam Italia, Avsi, Green Cross, Greenpeace International, Friends of The Earth, Gvc e Cospe per il supporto concreto nella realizzazione dei tanti reportage che stanno alla base di questo lavoro. Per l’inchiesta ambientale Watergrabbing – A Story of Water abbracciamo Riccardo Pravettoni e Federica Fragapane che hanno lavorato sull’atlante cartografico, e Matteo Colle che ha creduto in questo lavoro per primo; Gianluca Cecere, Thomas Cristofoletti, Fausto Podavini, che hanno fotografato le storie più recenti con umanità, maestria e grande senso della narrativa; Mary Trease per le traduzioni sempre puntuali e precise. Emanuele Bompan vuole ringraziare innanzitutto i colleghi giornalisti che hanno supportato e sostenuto il suo lavoro: Paola Mirenda, Susan Dabbous, Roberto Giovannini, Iris Corberi e Giorgio Sapori, Bill McKibben, Marco Moro, Walter Mariotti, Sara Deganello, Chicco Elia, Angelo Miotto, Andrea Rossi, Ivana Tamai, Emilio

Ciarlo. Da voi ho imparato tantissimo e questo è il minimo che posso fare per ringraziarvi. Giada Connestari, con te abbiamo mosso i primi passi e raccontato la crisi ambientale globale prima di tanti altri, dall’Himalaya alla Pennsylvania, come raccontano alcune foto contenute in questo libro. Un ringraziamento a John Agnew, University of Los Angeles, per i suoi insegnamenti fondamentali in geografia politica; a Franco Farinelli, Paola Bonora e Carla Giovannini del dipartimento di Geografia dell’Università di Bologna per avermi seguito durante le ricerche di dottorato che sono servite a porre le basi di studio sul nostro incredibile pianeta e avermi fatto amare la più bella di tutte le scienze, la geografia. Grazie a Luca Mercalli e Stefano Caserini, due luminari della scienza italiana, che hanno rivisto il capitolo sul clima. Un omaggio speciale va a Lester Brown, con cui abbiamo lungamente discusso di acqua e agricoltura nel suo ufficio a Washington DC, e ai numerosi incontri con uomini e donne straordinari dell’ambientalismo, da Gunter Pauli a Mathis Wakernagel, da Amory Lovins a Ellen MacArthur, da Gianfranco Bologna a Gianni Silvestrini e Piero Pelizzaro. Infine i ringraziamenti più importanti, quelli agli amici e agli affetti più cari che ci hanno sostenuto e viaggiato con noi: Camilla, Clara, Giuseppe, Letizia, Eugenio, Luciana, Disti, Tommaso, Davide, Melissa, Francesca, Chiara, Silvia, Sergio, gli amici di Italian Climate Network, Thomas Speccher, Brigitte. Marirosa Iannelli vuole ringraziare prima di tutti i docenti del dipartimento di Geografia di Bologna, Carlo Cencini ed Elisa Magnani, importanti pilastri di conoscenza e motivazione duranti gli anni dell’università. Elisa ha supportato il mio percorso di tesi con cui ho iniziato ad appassionarmi alla tutela dell’ambiente e dei territori. Marco Seradini, ricercatore dell’Università di Genova, sta seguendo con competenza e precisione il mio dottorato sui cambiamenti climatici e accaparramento delle risorse: pochi mesi di questo nuovo viaggio universitario sono già serviti per capire il ruolo fondamentale dei ricercatori in Italia e nel mondo. Kumi Naidoo, già direttore di Greenpeace International e nuovo segretario di Amnesty International, che ha ispirato le basi del mio attivismo ambientale e

che è stato di grande aiuto nella missione water grabbing in Sudafrica. Grazie a chi ha passato molto tempo con me a disquisire di acqua, diritto internazionale e soluzioni possibili, da Paolo Carsetti a Maurizio Montalto, Reza dall’Indonesia, Chiara Soletti parlando di acqua e diritti delle donne e Susan George del Tni, importante punto di riferimento per i miei studi. I colleghi e le colleghe dell’ong Cospe, con cui ho iniziato a viaggiare e a scoprire quella parte di mondo più fragile e in difficoltà, capendo che il ruolo della cooperazione internazionale è oggi più che mai fondamentale per affermare i diritti ambientali e umani. Grazie specialmente alla squadra bolognese che in questi anni ha supportato e sopportato la mia tenacia nel lavoro contro il water grabbing e a Pietro Pinto, a cui devo molti degli insegnamenti per scrivere progetti e per restare zen. Grazie agli amici e alle amiche che hanno sostenuto tutto questo da anni: Angela, Luci, Silvietta, Juls, Marco, Giusy, Irene, Roby, Sabri, Giulia, Silvia Cardascia e Michael che fu il primo a parlarmi di acqua in una meravigliosa oasi Wwf in Abruzzo. Grazie ad Alberto, che ha visto muovere tutti i miei passi per arrivare a realizzare questo primo importante tassello e che con pazienza mi ha aiutata nei momenti di difficoltà condividendo con me tante cose belle. Infine il ringraziamento a chi ha sempre e da sempre permesso ai miei sogni di realizzarsi, a chi mi ha incoraggiato a non mollare e a chi mi ha insegnato che lo studio e l’impegno premiano in ogni caso: la mia famiglia – questo libro è soprattutto per voi. Esiste un numero mostruoso di persone che dovremmo ringraziare per un lavoro che è durato esattamente dieci anni: di sicuro ci saremo dimenticati di qualcuno di voi, ma non temete. Il viaggio continua e siamo solo all’inizio.

INSERTO FOTOGRAFICO