Autorità e Democrazia. Educare al pluralismo nel XXI secolo 9791259841230

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Autorità e Democrazia. Educare al pluralismo nel XXI secolo
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FILOSOFIA, STORIA E POLITICA

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a cura di Alberto Lo Presti e Rocco Pezzimenti

La collana Filosofia, storia e politica propone studi capaci di pensare la complessità, analizzando la genesi storica dei suoi processi e configurando le sfide politiche della sua gestione. Predilige le ricerche interdisciplinari e valorizza la dimensione etica delle proposte avanzate. Si prefigge, in definitiva, di contribuire al dibattito odierno con scienza e con coscienza, inseparabili se si vuole guidare il cambiamento d’epoca in atto.

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Comitato scientifico ADRIANA COSSEDDU, Università degli Studi di Sassari - MATTHEW STANDISH FFORDE, Università Lumsa (Roma) - ALBERTO LO PRESTI, Università Lumsa (Roma) - SALVATORE MUSCOLINO, Università degli Studi di Palermo - MICHELE NICOLETTI, Università degli Studi di Trento - DAMIANO PALANO, Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) - ROCCO PEZZIMENTI, Università Lumsa (Roma) - FRANCESCA RUSSO, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa (Napoli).

Ogni testo della collana è sottoposto a un processo di peer review.

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Roberto Luppi (a cura di)

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AUTORITÀ E DEMOCRAZIA Educare al pluralismo nel XXI secolo

ARMANDO EDITORE

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Il presente volume è stato pubblicato con il contributo della Libera Università Maria Santissima Assunta

ISBN: 979-12-5984-123-0 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2022 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

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Sommario

Introduzione Quale posto per l’autorità nelle democrazie odierne? di ROBERTO LUPPI

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Capitolo I Autorità, verità e democrazia di ROCCO PEZZIMENTI

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Capitolo II Autorità ed eguaglianza nella democrazia deliberativa di FRANCESCO VIOLA

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Capitolo III Autorità e giovani generazioni. La relazione autorevole al tempo dei social network di ROBERTO LUPPI

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Capitolo IV Education as social cooperation: Overcoming epistemic narcissism through democratic affects di FILIPE CAMPELLO

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Capitolo V Processi educativi e processo democratico: riconoscere i ruoli e costruire la relazione di CLAUDIO GUERRIERI

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Capitolo VII Pensare la global governance di ALBERTO LO PRESTI

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Gli autori

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Capitolo VI Does democratic citizenship education engineer consent to political authority? di JULIAN CULP

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Introduzione

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Quale posto per l’autorità nelle democrazie odierne? di ROBERTO LUPPI

«[A]uthority has vanished from the modern world», scriveva Hannah Arendt più di mezzo secolo fa, individuando ben evidenti linee di cesura tra l’idea di autorità per come tramandata dalla classicità e le forme da essa assunte nella seconda metà del XX secolo.1 Questo volume non mira certo a smentire la filosofa, sostenendo che il concetto di autorità sia tornato ad occupare un ruolo di assoluto primo piano nelle democrazie del XXI secolo. Ciononostante, sarebbe altrettanto avventata e poco fondata l’osservazione secondo cui, oggigiorno, non abbia più senso parlare di autorità a livello politico, filosofico e sociale. Indubbiamente, le sue forme sono in continuo mutamento, così come – per certi versi – lo è la sua definizione, e ciò tanto ha a che vedere con l’inarrestabile e rapidissimo processo di sviluppo delle nostre società. In questo quadro d’insieme, uno sforzo fondamentale da parte di chi si sofferma a riflettere sulle evoluzioni politiche, filosofiche e sociali della vita collettiva deve essere indirizzato ad analizzare e comprendere i nuovi lineamenti che assume la coesistenza in società e i nuovi contenuti di valori e principi – come quello di autorità appunto – al suo interno. Proprio a questo scopo si indirizzano i contributi del presente volume, i quali si occupano di inquadrare ed esplorare da una molteplicità di punti di vista il reciproco intrecciarsi di quattro concetti in particolare: autorità, democrazia, pluralismo ed educazione. 1 H. Arendt, Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, New York 1961, p. 91.

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Ad essere offerto è un percorso al termine del quale il lettore non avrà in mano una risposta definitiva (ed indiscutibile) su cosa sia l’autorità nelle odierne democrazie pluraliste o su quale ruolo essa svolga nei percorsi educativi al loro interno. Bensì, l’obiettivo è quello di problematizzare e sviscerare da una pluralità di prospettive il rapporto tra i quattro concetti menzionati, contrastando chiunque proponga la messa all’indice dell’idea di autorità, attraverso ad esempio il suo appaiamento con quella di autoritarismo, così come coloro i quali si prefiggano invece di replicarne le forme ereditate dal passato senza alcuna volontà di variazione o aggiornamento. L’autorità di oggi non è quella tramandataci dalla classicità, ma non è nemmeno un sinonimo (“ripulito”) di autoritarismo o coercizione; si tratta piuttosto di un qualcosa di nuovo, da esaminare ed esplorare tanto dal punto di vista teorico quanto in alcune delle sue manifestazioni pratiche. È un concetto che non ha perso il suo tradizionale rapporto con l’idea di verità e con la pratica dell’educazione, pur dovendo, allo stesso tempo, fare i conti – tra le altre cose – con le tendenze deliberative delle odierne democrazie così come con i tratti più caratteristici del mondo del web e dei social network, determinanti nella vita delle nostre comunità. Questo percorso verso la problematizzazione del concetto di autorità nelle democrazie pluraliste del XXI secolo inizia dedicando un posto d’onore ad un tema estremamente controverso soprattutto nell’Occidente liberale, quello della verità, e analizzandone i riverberi su democrazia e autorità. Oggigiorno, nell’opinione di molti, la democrazia è vista reggersi proprio sul fatto di non ricorrere al concetto di verità, soprattutto se intesa in modo assoluto. Nel capitolo I, Rocco Pezzimenti esplora alcuni fraintendimenti attorno al problema della verità: ad esempio, quello secondo cui tale concetto sia prerogativa dei dogmatici o non sia di rilievo in democrazia, assumendo a tratti caratteri persino deleteri. Nel saggio, si avanza una riflessione su come possano convivere verità e pluralismo: ad ogni realtà, del resto, ci sono modi diversi di approcciarsi e questi ultimi sono non solo consentiti in ogni democrazia plurale, ma anche benvenuti. L’importante è che non si tratti di un pluralismo astratto, vale a dire caratterizza8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to dal rispetto meramente formale delle idee. Quest’ultimo deve piuttosto lasciare spazio al rispetto delle persone che di tali idee si fanno portatrici, anche nel caso in cui queste ultime siano contestate o biasimate. Inoltre, Pezzimenti parla della «natura probabile della verità», alla luce della quale è possibile raffinare progressivamente i propri ragionamenti, osservati in un perpetuo cammino verso la verità stessa. L’idea di fondo è quindi che, seppure la verità possa mantenersi stabile nel tempo, così non è il nostro modo (sempre parziale e contingente) di conoscerla. L’autore si sofferma in particolare sulla definizione di «verità come consenso intersoggettivo». In questa prospettiva, qualunque indagine sulla verità deve essere considerata di carattere pubblico e interessa quanti vivono e condividono un certo tipo di esperienza. La ricerca della verità diviene così una disposizione ad accogliere l’altro, un’apertura dialogica interpersonale che vive la verità stessa come scoperta condivisa e cammino inesauribile. Sono frutto di questa ricerca, ad esempio, quel corpus di valori autorevoli inscritti nella carta fondamentale di un popolo (la costituzione), che a propria volta spesso rinvia ad alcuni presupposti morali e religiosi provenienti dalla tradizione. Ogni sistema politico del resto ha la necessità di ancorarsi a punti di partenza che ritiene veri. Ciononostante, l’unità di una collettività politica, in cui si contempla la logica delle differenze, non è da intendersi come monolitica, dovendosi piuttosto privilegiare un’idea di unità armonica, tipica del pluralismo e capace nella differenza di adottare punti di vista e valori condivisi. Nel capitolo II, Francesco Viola analizza il rapporto tra democrazia deliberativa, autorità ed eguaglianza. Egli osserva sviluppi di carattere deliberativo come elementi centrali delle odierne democrazie, connessi a due fenomeni tipici del nostro tempo: pluralismo e costituzionalismo. Il primo prevede un sempre maggiore affidamento su ragionevolezza e argomentazione al fine di giustificare le restrizioni che rendono possibile la convivenza di persone aderenti a filosofie di vita tra loro differenti. Allo stesso tempo, il costituzionalismo richiede che legislatori e giudici argomentino e interpretino principi morali e politici in relazione alle mutevoli circostanze della 9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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contemporaneità, facendo così ricorso ad una razionalità discorsiva per pervenire a decisioni comuni. In questa prospettiva, la deliberazione pubblica è da intendersi come una discussione in cui sono ammesse soltanto ragioni vicendevolmente accettabili dai membri di una collettività in cui vige ampio disaccordo sulle prospettive di vita individuale. Essa incorpora fondamentali aspetti educativi, in quanto abitua i cittadini al dialogo e al rispetto delle posizioni altrui, e ha l’obiettivo di evitare il ricorso alla coercizione statale, favorendo un’obbedienza basata sul convincimento dei singoli. Viola esplora quanto possa essere complicato rispettare un principio di eguaglianza sostanziale nel processo di deliberazione. Seppure in possesso degli stessi diritti e soggetti alle stesse regole, i cittadini sono infatti in grado di sfruttare tali condizioni in modo differente, disponendo di un diverso livello di informazione e istruzione, che inevitabilmente si riverbera sulle loro capacità di argomentazione. Da ciò si genera una disuguaglianza di fatto che può essere contrastata, seppure con difficoltà, ad esempio attraverso la libera circolazione delle informazioni ad opera dei mezzi di comunicazione. Nel saggio, il culmine della pratica deliberativa è visto avvenire nello spazio istituzionale, quando si prendono decisioni vincolanti per la collettività. Proprio a questo punto, Viola evidenzia il concetto di autorità caratteristico della democrazia deliberativa, vale a dire un’autorità allo stesso tempo formale e sostanziale, che coniuga l’apertura democratica nell’accesso ai ruoli di autorità con un esercizio della stessa, attento alle ragioni prevalenti nell’ambito delle scelte politiche. Inoltre, si osserva come, nella democrazia deliberativa, l’autorità assuma forme diverse e complementari: da una parte, si constata il rifiuto del suo accentramento e la tendenza alla diffusione della pratica deliberativa in una pluralità di luoghi autoritativi; dall’altra, si cerca di fare il possibile per evitare la coercizione, in vista di un’obbedienza fondata su ragioni accettabili da tutti. Nel capitolo III, si parla di una forma specifica di declinazione dell’autorità, profondamente legata al funzionamento del mondo tecnologico odierno. L’idea di partenza – di questo capitolo come di tutto il volume del resto – è che l’autorità, 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sebbene ridimensionata rispetto al suo ruolo antico e declinata in forma nuova, continui ad essere un concetto imprescindibile della contemporaneità, in particolare nella sfera educativa. Dell’autorità sono evidenziate: la natura relazionale e il ruolo di mediazione verso l’appropriazione di sé e del mondo; il fondarsi su un atto di affidamento volontario da parte del destinatario; il rapporto privilegiato con il piano del senso; e l’assumere incarnazioni storicamente determinate, spesso attraverso una combinazione di componenti personali e impersonali. Proprio ad una di queste “incarnazioni” si rivolge l’analisi, vale a dire a quella forma di autorità che sembra contraddistinguere il mondo delle nuove tecnologie e, in particolare, i social network, le cui caratteristiche pretendono il ripensamento di molte strutture tradizionali riguardanti potere e autorità. In particolare, l’autore discute come, nel mondo del web, si verifichi una declinazione inedita del mix tra forme personali e impersonali di mediazione autorevole, che consta di tre componenti, a) persona, b) piattaforma e c) logica dell’algoritmo, e sembra caratterizzarsi per lo scollamento tra il soggetto portatore di autorità e il fondamento sul quale si regge la sua autorevolezza. Il meccanismo di individuazione dei portatori di autorità nell’era dei social network appare infatti pressoché del tutto indipendente da qualsivoglia giudizio di valore sul fondamento, dal momento che viene attribuito un peso preponderante ai processi computazionali degli algoritmi, profondamente influenzati da ragionamenti commerciali e di popolarità più che da contenuti valoriali e sostantivi identificati socialmente. Nel capitolo IV, Filipe Campello concentra la sua attenzione sul ruolo svolto da emozioni ed affetti nell’ambito della vita pubblica delle odierne democrazie. Del resto, come evidenziato in numerosi ambiti di studio, dalla sociologia alle neuroscienze, è difficile negare che politica e sfera pubblica siano pervase da una pluralità di emozioni, così intendendo la presa di coscienza del fatto che ciò che è considerato pubblico non è certo orientato esclusivamente alla razionalità, lasciando ampio sfogo agli aspetti emotivi. Alla base dell’odierna idea di democrazia si trova la volon11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tà che lo spazio pubblico sia aperto al libero dibattito tra opinioni differenti: sfera pubblica e politica divengono così un luogo di discussione e pluralismo in cui coabitano innumerevoli visioni del mondo. Da un punto di vista epistemico, una delle sfide principali delle democrazie è quella di assicurare il dialogo e la reciproca comprensione tra una pluralità di visioni del mondo senza mettere a rischio i principi democratici di fondo. In relazione a ciò, Campello rintraccia una delle possibili diagnosi dei malesseri contemporanei nella sovrapposizione tra quella che i greci definivano doxa (opinione) e l’episteme (il sapere certo): sempre più si diffondono opinioni a cui viene attribuito il valore di verità e convinzioni private che si vogliono porre al centro della morale pubblica. Tutto ciò non ha potuto che condurre al fallimento e al decadimento dell’autorità epistemica. L’autore riconduce siffatta forma di «epistemic narcissism» ad una erronea nozione di libertà individuale, in cui il singolo termina per interpretare le istituzioni pubbliche come mere restrizioni alla propria libertà. Ciò significa il fallimento del momento del dibattito pubblico, la qual cosa costituisce una minaccia – epistemica e non solo – per le democrazie. A questo quadro generale, Filipe Campello risponde rivolgendosi al concetto di libertà come cooperazione sociale, definita come una «intrinsically social education of democratic affects». Essa prevede una dipendenza reciproca tra educazione e democrazia in cui si dimostra, in particolare, che certe tipologie di affetti, sviluppati attraverso ben precise pratiche sociali, sono in grado di contribuire normativamente alla formazione della democrazia. Continuando su questo filone, al rapporto tra educazione, autorità e democrazia si rivolgono anche i due saggi successivi ad opera di Claudio Guerrieri e Julian Culp. Nel capitolo V, Guerrieri focalizza la sua analisi sulla relazione autoritativa nella prospettiva del cooperative learning, in cui a giungere in primo piano è il principio democratico dell’uguaglianza, che non annulla le differenze ma le interpreta in un’ottica di funzionalità sociale. L’autore sottolinea l’importanza del riconoscimento reciproco tanto nel processo educativo quanto in quello democratico. Entrambi si sviluppano in una dinamica 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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relazionale mai statica, ma che si articola in compiti e procedure, ruoli e valori e nella quale alla persona che assume un ruolo-guida è richiesta autorevolezza, vale a dire caratteristiche tali da renderla un punto di riferimento per l’autocomprensione e l’orientamento altrui. Entrambi i processi sono visti caratterizzarsi per la presenza di relazioni tra pari, non immediatamente tali, ma che lo sono in uno stato di disequilibrio tendente alla simmetria. Del resto, lo scopo di ogni percorso educativo è la graduale riduzione dell’asimmetria iniziale in vista di una partecipazione consapevole ed informata alla vita culturale, sociale e politica. Porre l’accento sul riconoscimento reciproco pertanto non cancella funzioni e ruoli, né nega l’autorità alla base dell’asimmetria tra persone in relazioni funzionali. Nel processo democratico, chi ha più competenze potrà godere di maggiore autorità e autorevolezza, nella misura in cui esse siano riconosciute dai concittadini. Infine, dati i loro punti di convergenza, Guerrieri considera opportuno che tanto il processo educativo quanto quello democratico pongano l’accento sui valori di cooperazione, interdipendenza e condivisione, i quali costituiscono i pilastri della pedagogia che ha preso il nome di apprendimento cooperativo o cooperative learning. Nel capitolo VI, Julian Culp si occupa della difficoltà di giustificare l’esercizio dell’autorità politica di cui una democrazia liberale necessita al fine di permettere la fioritura di cittadini autonomi, il cui consenso è di primaria importanza per accordare legittimità a leggi e provvedimenti. Tale esercizio dell’autorità politica non consiste in altro che in pratiche di educazione alla cittadinanza democratica che mirino alla creazione di soggetti autonomi in grado di legittimare l’autorità politica stessa attraverso procedure concordate di formazione delle opinioni e del consenso. Culp si sofferma sull’importanza, da un punto di vista pedagogico, di introdurre pratiche di educazione alla cittadinanza attiva nel curriculum di scuole primarie e secondarie, attraverso corsi appositi ma anche – più in generale – attraverso la socializzazione all’interno della cultura scolastica di uno Stato democratico. Alla base di questo pensiero, vi è infatti la considerazione che, se non maturano alcune attitudini, conoscenze e capacità a scuola, i 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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bambini non saranno in grado di affrontare quel processo di sviluppo morale e psicologico che permetterà loro, una volta cresciuti, di prendere decisioni autonome. Ciononostante, egli si scontra con la difficoltà di giustificare tale esercizio dell’autorità politica all’interno delle scuole. In particolare, ad essere presi in considerazione sono due problemi: il primo riguarda il fatto che gli studenti non hanno ancora pienamente sviluppato la capacità di esercitare scelte autonome e non possono quindi fornire all’esercizio dell’autorità politica un consenso autentico – a tal proposito una soluzione consiste nel cercare la legittimazione di cittadini che hanno già ultimato il loro processo di sviluppo, come nel caso dei genitori. Il secondo problema riguarda invece la possibilità che il consenso sia da considerare invalidato in quanto indotto o fabbricato dallo Stato, attraverso il processo stesso di educazione alla cittadinanza. In risposta a ciò, Culp si rivolge ad una giustificazione morale dell’esercizio dell’autorità politica in ambito educativo. Tale giustificazione sostiene che ogni persona ha un dovere di rispetto nei confronti dei propri concittadini, in virtù del quale le è richiesto di giustificare di fronte ad essi la propria condotta individuale e collettiva, e lo Stato è legittimato ad attuare forme di educazione democratica in grado di mettere i cittadini nelle condizioni di adempiere a tale dovere. Nel capitolo VII, infine, Alberto Lo Presti analizza un particolare esempio di autorità e autorevolezza sulla scena politica mondiale contemporanea: quello della Chiesa durante il pontificato di Francesco. Superate a livello sociale le teorie che profetizzavano la fine della religione e l’inesorabile secolarizzazione delle nostre società, infatti, appare evidente come la Chiesa e la sua visione continuino a rappresentare un orizzonte da tenere in considerazione, soprattutto in riferimento alle sfide più pressanti per le odierne democrazie. In un contesto globale segnato dalle crisi ecologiche, dai problemi della sostenibilità, dalle minacce poste dalle disuguaglianze economiche, dalla pandemia e dal terrorismo internazionale, nell’analisi di Lo Presti, emerge come il pensiero e la testimonianza della Chiesa cattolica e di Papa Francesco rappresentino un punto fermo e di grande autorevolezza nel dibat14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tito pubblico. In particolare, il coraggio mostrato dal Papa in riferimento alla proposta di una “ecologia integrale” e sui temi migratori ha fatto registrare una vasta eco, permettendo alla Chiesa di riscuotere adesioni anche al di là dei suoi confini tradizionali e di godere così di una rinnovata autorevolezza e di un rinnovato credito internazionale. Partendo dalla necessità di un ripensamento delle forme della democrazia al cospetto delle complesse sfide odierne, Lo Presti si rivolge all’idea dell’interdipendenza planetaria – particolarmente presente nelle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti – come principio fondante della nostra contemporaneità, in virtù del quale nulla di ciò che accade altrove può essere a priori ritenuto ininfluente qui ed ora. Queste ed altre riflessioni portano ad attribuire un’attenzione crescente all’idea di una global governance che – secondo la visione del pensiero sociale della Chiesa – unisca al binomio libertà-uguaglianza, attorno al quale si sono costruite le visioni politiche della modernità, anche la fraternità. Ora, prima di lasciare spazio ai contributi, il desiderio è quello di concludere questa introduzione con due ringraziamenti. Il primo, doveroso, è indirizzato agli autori, che hanno con i loro studi e le loro riflessioni enormemente impreziosito il presente volume. Il secondo “grazie” è rivolto invece alla Fondazione Pontificia Gravissimum Educationis e in particolare a Mons. Thivierge, senza il cui inestimabile supporto questo lavoro non sarebbe mai giunto alle stampe.

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Capitolo I

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Autorità, verità e democrazia di ROCCO PEZZIMENTI

Compito arduo, oggi, quello di parlare della verità in rapporto alla democrazia che, nell’opinione di molti, si regge proprio sul fatto di non ricorrere al concetto di vero, soprattutto se lo si vuole intendere in modo assoluto. Questi discorsi sono stati resi più facili, e direi quasi necessari, dopo un secolo di totalitarismi e autoritarismi che hanno trovato il loro culmine nella visione asiatica di Lenin, che ebbe simpatizzanti un po’ ovunque e che, non a caso, chiamò l’organo del PCUS la Pravda, appunto la Verità. Teniamo però presente che tali sistemi, a dire il vero, nel mondo, non hanno fatto ovunque posto alle democrazie e penso che occorrerà anche chiedersi il perché. Nelle mie considerazioni voglio partire da un’ovvietà che contrasta la tesi appena affermata: parlare di verità dovrebbe essere più facile in un sistema democratico che in qualunque altro sistema politico, soprattutto se pensiamo che il problema della verità si pone anche quando «c’è, ma non è riconosciuta, o c’è ma in modo precario, incerto». Aspetto, questo, che alcuni sistemi non possono ammettere. La storia recente, proprio quella dei totalitarismi, lo ha ampiamente dimostrato. Tra i tanti aneddoti ne riporto uno breve ed emblematico: «Goebbels chiese a Fritz Lang di diventare il responsabile ufficiale del cinema tedesco, Lang obiettò ma io sono per metà ebreo. Chi è ebreo lo decidiamo noi, fu la celebre risposta di Goebbels».1 È questa la dimostrazione che tali sistemi non miravano a individuare e difendere la verità, ma imponevano 1

F. D’Agostini, Introduzione alla verità, Torino 2011, pp. 263 e 261.

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quella che, di volta in volta, faceva loro più comodo. Orwell è stato un profeta al riguardo. Allora, diciamocelo francamente, quelli, come i nostri, non sembrano essere tempi buoni per la verità. Ricordiamo poi che esistono vari fraintendimenti attorno al problema della verità. Il primo di questi «è piuttosto diffuso nel pensiero comune, e più raro tra i filosofi, e consiste nell’idea che il concetto di verità sia prerogativa dei dogmatici, delle Chiese, dei Partiti, anche: della Scienza, come istituzione». Aspetto, questo, piuttosto curioso perché, da sempre e nell’uso quotidiano, l’affermazione “è vero” serve quantomeno a contrastare la visione scettica che risiede in ognuno di noi. Il secondo «fraintendimento è legato al precedente ed è l’idea che la verità sia inutile o deleteria o di scarsa rilevanza in democrazia».2 Questo è quanto cercherò di mettere in discussione nelle pagine che seguono. I fraintendimenti non finiscono qui. Ce n’è un terzo che «consiste nel non tener conto che verità è una parola speciale […] uno di quegli strani concetti, concetti condizione, o superconcetti per usare un’espressione di Wittgenstein, che il Medioevo chiamò trascendentali, e che elencò basilarmente in numero di tre: unum (o esse), verum, bonum». Anche Austin è dello stesso parere e lo ribadisce in modo chiarissimo: «gli errori in filosofia sorgono notoriamente dal pensare che ciò che vale di parole ordinarie come rosso o ringhia debba valere anche di parole straordinarie come buono o esiste. Ma che vero sia appunto un’altra di queste parole straordinarie è evidente. […] Unum, verum, bonum, queste vecchie glorie meritano la loro celebrità. C’è qualcosa di strano in ciascuna di esse».3 Ne discende, e questo è il quarto fraintendimento, «che è logicamente e praticamente impossibile disfarsene».4 So bene che molta filosofia odierna non la pensa così. Per alcuni, tra le nostre affermazioni e quello che vogliamo descrivere, c’è uno iato incolmabile. Ad essere vere o false possono esse2

Ivi, pp. 13–14. J. L. Austin, “La verità”, in Saggi filosofici, a cura di P. Leonardi, Milano 1961, p. 122. 4 F. D’Agostini, Introduzione alla verità, cit., pp. 14–15. 3

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re solo le nostre descrizioni. «Il mondo di per sé – a prescindere dalle attività descrittive degli uomini – non può esserlo».5 Questa conclusione suona tanto come un’abdicazione della ragione e della stessa filosofia. Non a caso Rorty lo scrive in un lavoro dal titolo inequivocabile, Contingency, irony and solidarity, che, nella traduzione italiana, è preceduto da un altro titolo altrettanto esplicativo: La filosofia dopo la filosofia. Forse sarebbe stato meglio dire L’antifilosofia dopo la filosofia, considerazione che, mi permetto di dire, vale anche per Vattimo e tanti altri. A costoro bisognerebbe ricordare che, dire la verità non esiste, equivale a dire una verità cioè quella che niente è vero. A quanti ribattono, come fa Antiseri, che questa è l’unica verità accettabile, occorre ricordare che, per dei popperiani quali sostengono di essere, basta una falsificazione per dire che una teoria è errata. Quindi, è insostenibile dire che la verità non esiste. Se così non fosse, correremmo il rischio di perderci nel dubbio che, a livello pratico, finirebbe per paralizzare l’esistenza. Giustamente sostiene Wittgenstein: «[c]hi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza».6 Aggiungo che esistono altri fraintendimenti, ma per quello che dobbiamo trattare in questa sede i primi quattro sono già sufficienti. Uno dei problemi più rilevanti nell’odierno rapporto tra verità e democrazia «non è la mancanza ma piuttosto l’eccesso di verità». Oggi, si assiste alle «mescolanze di vero e di falso create ad hoc dai mezzi di comunicazione». Il compito non risulta perciò facile anche per coloro che si richiamano, e giustamente, al realismo perché «un’esperienza è sempre in qualche modo vera». Ciò porta alla necessità di migliorare «anche i modi di reperimento e verifica del vero»7, unico criterio per risolvere le controversie. Per Austin, il concetto di vero non si applica tanto alle cre5 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Roma-Bari 1990, p. 11. 6 L. Wittgenstein, Della certezza, Torino 1978, n. 115. 7 F. D’Agostini, Introduzione alla verità, cit., p. 25.

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denze, quanto piuttosto ad affermazioni o asserzioni, ossia «alle parole o alle frasi in quanto usate da una certa persona in una certa occasione».8 Se questo è vero, allora si può concordare con quelle che vengono definite le teorie robuste della verità, vale a dire quelle del «corrispondentismo, coerentismo, e pragmatismo». Questi termini, non certo usuali, stanno a significare che «– p è V se e solo se corrisponde alla realtà, a fatti, a stati di cose, ecc.; – p è V se e solo se è coerente con altre proposizioni o è accettabile razionalmente; – p è V se e solo se è utile, o efficace, o coronato da successo ritenere che p».9 Si può storcere la bocca su alcune di queste affermazioni, ma costituiscono sicuramente un buon punto di partenza, soprattutto perché consentono di approcciare il rapporto verità/realtà. Mi sento, a questo punto, di condividere la seguente asserzione: «[n]on sembra esserci altro modo di rispondere se non dicendo che un fatto è sussistente-reale in quanto corrisponde alla relativa proposizione vera. Ci serve dunque la realtà per definire la verità e ci serve la verità per definire la realtà». Ciò che è ritenuto vero non mi interessa solo in funzione del passato, il problema della verità diventa politico se ha un qualche rapporto con il presente o con il futuro. «Dunque vero funziona come proiezione verso il futuro, parlo di verità perché mi interessa quel che è stato in funzione di quel che sarà».10 Se facciamo attenzione, questa è una caratteristica atemporale della verità. Anche quando si sostiene, come era quasi luogo comune in altre epoche, Dio esiste, l’affermazione aveva una sua valenza per il presente solo per la sua portata escatologica. In questa prospettiva, una serie di filosofi ci fanno ritenere che ci sia un’idea preliminare che vuole la verità «ontologicamente fondata: impossibile parlare di verità senza ammettere l’esistenza di qualche realtà che renda vero quel che si dice essere vero». Forse, per questo finisce per avere un certo successo il rapporto verità/corrispondenza: «perché specifica meglio il significato del termine V [e poi perché] tutte le teorie della 8

Cfr. J. L. Austin, “La verità”, in Saggi filosofici, cit., p. 115. F. D’Agostini, Introduzione alla verità, cit., p. 47. 10 Ivi, pp. 52 e 68. 9

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verità, per essere accettate, devono essere ritenute vere, nel senso di corrispondenti alla nostra esperienza riguardante il concetto V».11 Ciò evidenzia ancora di più la valenza politica del bisogno di verità dato che il fare politico trova nella prassi e nei fatti la sua giustificazione e/o la sua critica. Non è un caso che una delle espressioni più ricorrenti nelle discussioni quotidiane sia: “le cose stanno così”. Come a dire, i fatti sostengono la mia posizione. Osservo di passaggio che questa posizione di natura realistica sembra rinunciare «a qualsiasi metafisica, ma è davvero possibile questa rinuncia, continuando a parlare di verità, e a fare filosofia?». Metto da parte questa riflessione fatta, ora, en passant, perché il fare politico ci pone davanti un altro problema: «che i nostri enunciati siano considerati V in relazione a tale realtà, resta indubbio che ci sono modi diversi di riferirsi a tale realtà, a seconda dei diversi enunciati».12 Sono proprio quei modi diversi che in democrazia garantiscono il pluralismo che, come dice Wright, «è un’ipotesi molto plausibile e piuttosto attraente». È qui che sorge una nuova domanda: questo pluralismo è una questione che riguarda alcuni aspetti della vita democratica o li riguarda tutti? C’è qui da fare un chiarimento dato che per molti, oggi, «il vero problema della verità è il problema del pluralismo, e il problema del pluralismo altro non è che il problema del disaccordo, ma a sua volta il problema del disaccordo è in ultimo il problema della contraddizione, ossia: due proposizioni, di cui una è la negazione dell’altra, possono essere entrambe vere?». A volte, non si esce da questi equivoci perché si incontrano paradossi, cioè contraddizioni resistenti. La loro comparsa è «l’argomento forte delle logiche non classiche». Va anche sottolineato un aspetto importante che rende possibile il pluralismo: quella che, in alcuni casi, possiamo chiamare la natura probabile della verità. In questo caso, va rimarcato «che l’assunzione della natura largamente probabile e non categorica 11 12

Ivi, pp. 82 e 86–87. Ivi, pp. 91 e 93. La citazione di Wright che segue è riportata sempre a p.

93.

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della verità di comune uso non costituisce una limitazione, ma piuttosto una risorsa, perché ci mette in grado di raffinare i ragionamenti»13 che temperano il nostro cammino verso la verità, smorzando, via via, le situazioni più conflittuali. Quello del pluralismo è comunque un argomento che riprenderemo in seguito. Per ora facciamo un’ulteriore considerazione. Come sostiene Rorty, non certo un assertore del criterio di verità, le moderne società sembrano partire da un indubitabile punto di partenza: quando un individuo trova sul piano della propria coscienza «credenze che sono rilevanti per la politica pubblica ma indifendibili sulla base di credenze condivise dai suoi concittadini, egli deve sacrificare la sua coscienza sull’altare dell’utile pubblico». Ne consegue che Rawls, al quale si riferiscono le considerazioni di Rorty, «non è interessato alle condizioni dell’identità dell’io, ma solo alle condizioni per l’appartenenza ad una società liberale».14 Tutto ciò non è solo una forzatura, ma la non consapevole affermazione di una verità perentoria: quella cioè che, per partecipare a una società civile, occorre essere liberali e basta. Inoltre, condividere o meno questa considerazione, non ci può esimere dal fatto, assai rilevante, che l’utile pubblico diventa il criterio ultimo, la verità cruciale della democrazia “liberale”. Ho messo l’aggettivo tra virgolette perché, sul termine “liberale”, occorrerebbe mettersi d’accordo una volta per tutte trattandosi, più che di un concetto chiaro, di una vera e propria “voce enciclopedica”. La complessità del termine15 deriva dal fatto che, contrariamente a quanto sostiene buona parte del razionalismo contemporaneo – che detto fra noi danneggia molte delle conquiste della stessa ragione –, l’essere umano è essenzialmente storico. Lo dimostra il fatto che quella di libertà, come quella di persona, è una nozione tipica del mondo occidentale, come lo stesso liberalismo e, forse, dovremmo chiederci il perché. Da qui la complessità nel definire termini 13

Ivi, pp. 128–129 e 173. R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, Roma-Bari 1994, p. 238. 15 Ho trattato questo argomento in vari lavori. Cfr., per esempio, il primo capitolo di due lavori: R. Pezzimenti, The political thought of Lord Acton, Leominster 2001; e Storia e politica nella riflessione di Jaime Balmes, Roma 1999. 14

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che, come quello della libertà, sono frutto di una complessa genesi, anche filosofica. Questa affermazione merita un chiarimento: certe questioni, come la verità o la giustizia, non possono ridursi a una mera questione politica, perché sono cariche di valenze filosofiche dalle quali non si può prescindere. Per questo non mi sento di concordare con Rawls quando dice: «[l]a giustizia come equità è una concezione politica in parte perché prende le mosse dall’interno di una certa tradizione politica». Questa tradizione politica, però, non è carica di una storia e, quindi, di un modo di pensare, che si fa fatica a non definire filosofico? In realtà, Rawls ha questa posizione perché, a suo parere, «la filosofia come ricerca della verità in relazione a un ordine morale e metafisico indipendente non può fornire una base praticabile e condivisa».16 Egli porta così alle estreme conseguenze quel rigetto della filosofia iniziato nel Settecento con il rifiuto della teologia. Il risultato è che Rawls “svincola” il problema della giustizia, come quello della libertà, dalla verità, ritenendo che questa possa danneggiarli entrambi. Ciò non basta e come sottolinea assai chiaramente: «[q]uando entrano in conflitto, la democrazia ha la precedenza sulla filosofia», questo anche senza chiedersi di che filosofia si tratti e di quali contraddizioni presenti. La vita politica si riduce così a un «continuo esperimento»17, ma se è tale, come in tutti i test, occorre prendere precauzioni. I. La democrazia può fare a meno della verità?18 Per rispondere a questa domanda, parto da alcune considerazioni, che reputo quanto meno stravaganti, di Vattimo 16 J. Rawls, Justice as fairness: Political not metaphysical, in «Philosophy and Public Affairs», 14, 1985, pp. 226 e 230. 17 R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, cit., pp. 252 e 256. 18 Riposto qui, con qualche modifica nei paragrafi 1, 2, 3 e 4, alcune valutazioni fatte altrove: cfr. R. Pezzimenti, Le ancore della democrazia. Nuova divisione dei poteri, rappresentanza, senso del limite, Soveria Mannelli 2020, cap. XII.

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che così scrive: «[l]a conclusione cui cerco di arrivare è che l’addio alla verità è l’inizio, e la base stessa, della democrazia. Se ci fosse una verità oggettiva delle leggi sociali ed economiche (l’economia non è una scienza naturale) la democrazia sarebbe una scelta del tutto irrazionale». Questa conclusione è frutto di una premessa che attraversa tutto il pensiero di Vattimo: «la questione della verità è riconosciuta come una questione di interpretazione».19 Per sostenere questa tesi, sempre Vattimo dice che basterebbe pensare alla drammatica esperienza della guerra in Iraq, per avvalorare la quale politici come Bush e Blair hanno sostenuto «menzogne sulle armi di distruzioni di massa di Saddam»20, per far credere alla “purezza” dei loro intenti. «Questo esempio mostra come oggi si consentano ai politici e alla politica molte violazioni dell’etica, e dunque anche del dovere della verità, senza che nessuno si scandalizzi».21 Una simile affermazione, però, dimentica alcuni presupposti di cruciale importanza. Il primo è che una simile impostazione si richiama a un preciso itinerario di pensiero che, non da oggi, tende a sostituire alla logica del vero la logica, che poi si rivela effimera, del successo. Ho sempre pensato che, sotto questo punto di vista, siamo tutti figli di Machiavelli: «colui che vince, in qualunque modo vince non prova mai vergogna». Il secondo, banale e forse per questo ignorato da menti troppo acute, è legato al fatto che le menzogne “volute” dei politici non inficiano l’esistenza della verità, ma la tengono nascosta. C’è poi un terzo presupposto per spiegare il quale occorre tenere presente un’altra valutazione di Vattimo: se volessimo avere una visione della verità in politica «sarebbe meglio affidare lo Stato agli esperti, ai re filosofi di Platone o ai premi Nobel di tutte le varie discipline». Questa conclusione parte però dalla convinzione che parlando di verità essa sia, in un’ottica ancora puramente hegeliana, «la visione che sfugge alla parzialità» e, per questo, impone «una trasformazione so19 20 21

G. Vattimo, Addio alla verità, Roma 2009, pp. 16 e 15. Ivi, p. 7. Ivi, p. 8.

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ciale che poteva finire solo nel totalitarismo».22 Dovrebbe farci riflettere, come ho già detto, che l’organo del Partito leninista, proprio in chiave hegeliana, fosse la Pravda, cioè la Verità. Ma questa verità, che per tanti fu sinonimo di democrazia, sia pur proletaria, non ha niente a che vedere con quello che noi intendiamo per verità, tant’è vero che ha generato un sistema, come credo di aver dimostrato altrove23, che è stato sinonimo di dilazione e di menzogna. Giova inoltre ricordare che i totalitarismi scambiano la verità, ed ahimè anche la morale, per quella che può rivelarsi una sorta di “tirannide della maggioranza”, trasformando così l’ottica del successo individuale in quella non meno pericolosa del successo collettivo. In questo modo andrebbe letto il «partito come moderno principe» di Gramsci che, così inteso, mi sembra tutt’altro che «un passo avanti nella direzione della democrazia».24 Tesi, questa, avanzata da non pochi studiosi.25 II. Tra scetticismo e realismo Per affrontare il problema partirò, per sintetizzare, da quello che della verità riassume un dizionario. La verità è qui considerata in alcuni dei suoi possibili aspetti: «1) verità come corrispondenza o conformità fra pensiero e realtà; 2) verità come manifestazione, apertura, evidenza, contatto diretto; 3) verità come rivelazione divina; 4) verità come coerenza; 5) verità come conformità a una regola; 6) verità come consenso intersoggettivo; 7) verità come utilità ed efficacia».26 Di questa suddivisione considererò gli ultimi quattro 22

Ivi, p. 10. Cfr. R. Pezzimenti, Politica e religione. La secolarizzazione nella modernità, Roma 2004, tradotto in spagnolo con l’introduzione di J. Y. Calvez: Política y religión. Legado cultural de la secularización, Buenos Aires 2008. 24 G. Vattimo, Addio alla verità, cit., p. 14. 25 Cfr., tra i tanti, L. Pellicani, Gramsci e la questione comunista, Firenze 1976. 26 Cfr. V. Possenti, “Verità”, in G. Tanzella-Nitti e A. Strumia (a cura di), Dizionario Interdisciplinare Scienza e Fede, Roma 2002, pp. 1502–1518. Per quanto riguarda il punto 1) concordo pienamente con quanto sostiene Dummett che 23

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punti, quelli dal 4 al 7 che, a parer mio, mostrano quanto sia necessaria la verità nella normalità della vita quotidiana, proprio per quel primum vivere che consente, poi, di riflettere sui problemi più grandi. Sarà soprattutto il punto 6) verità come consenso intersoggettivo, sul quale soffermeremo la nostra attenzione perché ci ricorda come qualunque indagine sulla verità coinvolge quanti vivono e condividono con noi un certo tipo di esperienze, al punto che la ricerca della verità coinvolge il nostro modo di intendere i rapporti con gli altri, plasmati, molto spesso, dal nostro modo di intendere e vivere la verità. Wittgenstein sosteneva che se non esistessero regole pubbliche comuni ritenute vere e «accettate da un gruppo di persone e tali da costituire una forma di vita, il linguaggio e persino il pensiero stesso sarebbero impossibili».27 Certo, simili regole devono essere viste anche da un punto di vista dinamico, ma è altrettanto fuor di dubbio che una simile dinamicità scaturisce da premesse che la rendono possibile. In questo caso, quella verità diventa anche «disposizione esistenziale» e modo di accogliere l’altro, «apertura dialogica interpersonale» in grado di vedere l’esistenza come capace di compiersi nella verità, nella «consapevolezza dell’inesauribilità del vero». In questa prospettiva, ci si prospetta «la verità come scoperta».28 Tale «cammino inesauribile» verso la verità è stimolato da un bisogno suscitato dalla stessa verità al punto che il problema della verità come un prius aut posterius si presenta come inaggirabile ed ineliminabile, oltre che inesauribile. A proposito del prius, la sua necessità appare evidente pure allo scettico che può dubitare e, di fatto, dubita di tutto, tranne che del suo io. A ragione, Putnam sostiene: «[c]he il relativismo (totale) sia incoerente è una verità comunemen«il realista ha molti più argomenti a suo favore» di quanti, aggiungo io, non ne abbiano i suoi detrattori. La frase di Dummett è ripresa da M. Dummett, La verità e altri enigmi, Milano 1986, p. 92. 27 H. Putnam, Ragione, verità e storia, Milano 1994, p. 117. 28 Cfr. V. Possenti, “La domanda sulla verità e i suoi concetti”, in V. Possenti (a cura di), La questione della verità. Filosofia, scienze, teologia, Roma 2003, p. 19.

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te accettata dai filosofi: dopo tutto, infatti, non è una contraddizione evidente sostenere un punto di vista e allo stesso tempo ritenere che nessun punto di vista è più giusto, o giustificato, di qualsiasi altro?».29 Anche lo scetticismo parte così da una prima affermazione fondante. Ecco perché, per essere effettivamente coerenti, bisogna ancora dire con Putnam che «se è vero che si possono accettare razionalmente soltanto quelle asserzioni che si possono verificare criterialmente, anche questa asserzione [quella scettica] non si può verificare criterialmente e perciò non si può accettare razionalmente».30 A questa prima affermazione fondante il senso comune, che è più portato a capire la quotidianità, se ne possono aggiungere altre. La vita offre affermazioni di verità accettabili al lume del semplice buon senso e sembra assurdo che la metodologia dei filosofi non possa capirle. Ricordo un contadino alle prese con una botte da pulire. Un giovane aveva in mano il coperchio superiore della botte e non sapeva dove metterlo. Il contadino lo guardò dicendo: «[s]e il coperchio è della botte, da qualche parte lo dovrai mettere e di certo entrerà nella botte. Ricordati che la parte non è mai superiore al tutto. Questa è una verità che nessuno può dubitare». Dopo aggiunse: «[v]edi di capirlo prima di morire, ché tanto, prima o poi, dobbiamo morire tutti. Questa è un’ulteriore verità che nessuno potrà mai smentire». Per ritornare ai punti appena riportati si può dire che la verità intesa come «svelamento e la verità come conformità non siano per nulla incommensurabili o fra loro opposte, ma che la prima sia la condizione della seconda e nello stesso tempo debba necessariamente compiersi in essa».31 Il fatto che, in 29

H. Putnam, Ragione, verità e storia, cit., p. 130. Ivi, p. 121, lo scritto tra parentesi è mio. Da non dimenticare che il filosofo americano si muove all’interno di una posizione tipica del realismo. «Putnam mantiene l’intuizione realista per cui la verità è indipendente dalla giustificazione o accettazione qui e ora, anche se non è indipendente da qualsiasi giustificazione». S. Veca, “Premessa” a H. Putnam, Ragione, verità e storia, cit., p. VIII. 31 V. Possenti, La domanda sulla verità e i suoi concetti, cit., pp. 21–22. 30

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questa prospettiva, la verità non possa essere mai appresa in modo definitivo, non significa che la verità non esiste, ma solo che il nostro modo di avvicinarla è parziale e dipende dal nostro modo di conoscerla o di rappresentarla. In fondo, la stessa impostazione fallibilista di Popper non fa che confermare quello che qui possiamo ritenere un “itinerario” verso la verità, itinerario che riguarda noi stessi e non la verità in sé. Detto in altri termini: la verità può essere stabile, ma non il nostro modo di conoscerla. È questa la posizione «meliorista» del fallibilismo e non quella, ovviamente, che lo intende come l’apripista dello scetticismo.32 Del resto, era lo stesso Popper a considerarlo così quando, parlando di Tarski, arrivò a dire che, avendo riabilitato la tanto diffamata («much maligned») teoria della verità come corrispondenza, riabilitava quella che Popper stesso definiva la verità propria del senso comune («commonsense idea of truth»).33 III. La verità come problema politico La verità fa paura perché, a parere di alcuni, sarebbe fortemente in contrasto con la libertà in quanto tra «verità e dominio non c’è alcuna estraneità ma perfetta coincidenza».34 Questo perché una tesi «fondazionista» sarebbe altrettanto «fondamentalista». A parte la fondatezza di una simile conclusione, essa potrebbe essere vera qualora una filosofia creasse la sua verità o questa fosse frutto del solo agire umano, com’è stato per le varie scuole hegeliane.35 Esistono però altre verità, come quelle del divenire della natura, che ci possiamo solo limitare a osservare per cercare di scoprirne il vero senso e 32 33

Cfr. ivi, p. 37. K. R. Popper, Unended quest. An intellectual autobiography, Glasgow 1982,

p. 98. 34

U. Galimberti, “La verità come efficacia”, in M. Donà (a cura di), Sulla verità, Padova 1998, p. 63. 35 Debbo ancora rimandare al mio Politica e religione. La secolarizzazione nella modernità, ricordando le pretese di essere nel “Vero” avanzate dai vari dialettici di destra o di sinistra e, all’occorrenza ed a piacimento, anche di centro.

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significato, ma che certamente non fondiamo noi.36 Potremmo dire che anche le verità della natura rientrano nel punto 4), nel senso che la natura si rapporta coerentemente alle sue leggi sia che noi le conosciamo sia che le ignoriamo. Per essere onesti, dovremmo dire che la coerenza della natura alle sue leggi (siamo ancora al punto 4) deve essere totale per far sì che tutto funzioni. Diverso è il nostro criterio di coerenza. Soprattutto se restiamo nell’ambito della verità come scoperta, in noi «la coerenza è intesa non come natura del vero, ma come un suo criterio». Questo perché c’è «differenza tra totalmente vero e tutta la verità: un asserto può essere totalmente vero e rappresentare una minuscola frazione dell’intera verità».37 Torniamo però al punto 6), verità come consenso intersoggettivo, che ci impone altre considerazioni. Pur rimanendo vero che «essa è di carattere pubblico nel senso che le asserzioni vere possono e debbono venire giustificate pubblicamente», rimane anche qui il fatto che il loro valore non si esaurisce nel momento della pubblicità. Costituiscono, infatti, il presupposto di una possibile vita civile che deve essere impostata sulla verità dei rapporti umani, al punto da poter dire che ciascuno ha diritto alla verità. Il diritto alla verità è, al pari di altri, fondante della vita civile. Altrimenti, perché dovremmo pretendere che sui cibi ci sia scritta “onestamente” la verità sul loro contenuto o sulla loro provenienza? Perché dovremmo pretendere che i testimoni di un processo dicano la verità che conoscono, pena l’invalidità delle sentenze? O ancora, perché dovremmo pretendere dai politici che dicano la verità? In fondo, anche chi sostiene che la verità sia impossibile, all’occor36 Curioso che su questo punto Marx, abbandonando per un attimo i pregiudizi dialettici hegeliani, anticipi proprio quanto qui vado sostenendo. Parlando evidentemente con esuli italiani, il filosofo tedesco arriva a sostenere che «come dice il Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non l’altra». K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, volume I, Roma 1994, p. 414, nota 89. Dopo la lunga nota, fu ripreso dai vortici dialettici nei quali vedeva coinvolta la natura come l’umanità. Purtroppo, malgrado lo avesse desiderato, non riuscì a procurarsi certe opere del Vico. 37 V. Possenti, La domanda sulla verità e i suoi concetti, cit., pp. 37 e 36.

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renza la pretende. Basti pensare al momento in cui consultiamo un “esperto”, ad esempio della salute, e pretendiamo che sia sincero e rigoroso, cioè che dica la verità che sa. Certo, parlando di verità come consenso intersoggettivo, si può correre, anzi si corre, un serio rischio: quello di rendere la verità strumentale, nel senso che è capace non solo di incidere, ma anche di “cambiare” la società. Campione di questa posizione è Dewey che parla addirittura di pensiero come agire orientato. Questo accade perché, sia pur inconsapevolmente, si finisce poi, sulla scia di Rorty, per accettare «l’assunto che idee e linguaggio siano solo utensili per soddisfare i propri bisogni».38 Si scade così in un neopragmatismo che riduce la verità ad utilità e che fa scivolare il punto 6) nel 7) verità come utilità ed efficacia. In questo caso, però, bisogna fare attenzione a non impantanarsi in un torbido equivoco dimenticando «la distinzione tra certezza (che è la relazione del soggetto all’evidenza della verità del proprio pensiero) e consenso (che è il risultato eventuale della comunicazione attraverso il linguaggio)».39 Il consenso, al quale ovviamente la tradizione occidentale riconosce un indiscusso valore, resta, comunque, una fondamentale regola del gioco democratico. Di gioco appunto si tratta giacché, pur essendo decisivo per la vita democratica, non può ritenersi immune da errori ed è, a volte, contrario alla verità. In altre parole, il consenso può clamorosamente errare. Quanto detto trova una “ironica” conferma in un libro On Bullshit di Harry Frankfurt, pubblicato qualche anno fa. Quello che potremmo definire il “protagonista”, il bullshitter, non è il mentitore della verità, altrimenti sarebbe facile smascherarlo, ma colui che sostiene una convinzione, ignorando se sia vera o falsa, con il solo scopo di convincere. È una sorta di opinion leader che non si cura della fondatezza delle sue opinioni. Sa solo che, in una società ridotta ad un talk show, l’importante è trovare consenso. Proprio questo sostiene Vattimo per 38

Ivi, pp. 40–41. A. Livi, “Dalla logica formale alla logica aletica. La nozione filosofica di senso comune per una fondazione rigorosa della verità del discorso”, in V. Possenti (a cura di), La questione della verità. Filosofia, scienze, teologia, cit., p. 232. 39

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il quale la condivisione comunitaria può prescindere dal vero o dal falso, l’importante è creare una comunità consensuale. Ne consegue, come è stato giustamente osservato40, che Vattimo, sulla scia di Bloch, ritiene che la sola differenza tra un pazzo e un profeta stia nella capacità che il secondo ha di creare una comunità. In verità, mi sembra che anche i pazzi abbiano creato comunità i cui tragici effetti sono davanti agli occhi di tutti. Nel rapporto tra verità e libertà giova, forse, ricordare «che i totalitarismi sono sempre stati inclini a negare sistematicamente anche le verità più ovvie». Le posizioni di Vattimo contro la verità non risparmiano neppure le scienze al punto che, a suo parere, quello «che viene fatto passare per verità non è altro che interpretazione». Giustamente però gli è stato fatto osservare che una simile impostazione si rivela inconsistente quando pretende di considerare il rapporto tra scienza e religione in termini di conflittualità. Si contesta, infatti, alla Chiesa cattolica, con le sue «pretese fondate sulla mitologia cristiana», di contrastare l’impatto ateistico della scienza finendo per negare al sapere scientifico le sue pretese d’obiettività e, quindi, di verità. Il che è contraddittorio con la premessa del discorso poiché, dato che la scienza non dovrebbe avere «pretese legittime di verità, bensì è solo un’interpretazione come un’altra, perché la Chiesa non dovrebbe opporle, con pari titolo, la sua descrizione alternativa della realtà?». Come altro corollario si potrebbe ancora dedurre: «se la visione del mondo cristiana non è in competizione con la scienza, che ragione c’è di negare la verità della scienza?».41 Allora, tutto, filosofia compresa, si riduce a racconto reinterpretato con gli “occhi” di chi lo fa. Il che traduce quello che ormai sembra divenuto un adagio: «[n]on esistono fatti ma solo interpretazioni». Anche qui, però, non possiamo evitare di porci una domanda: le interpretazioni da cosa nascono, da altre interpretazioni o, in ultima analisi, dai fatti? In altre parole, “interpretare” cosa e su che basi? Qual è 40

Cfr. D. Marconi, Senza verità siamo più liberi?, in “Il Sole 24 Ore”, 7 giugno 2009, p. 35. La recensione è davvero fine e penetrante, a tratti “gustosa”. 41 Ibidem.

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l’oggetto dell’interpretazione? C’è, poi, un interrogativo che mi preoccupa di più: l’interpretazione non può stravolgere il fatto stesso? A volte, sembrerebbe di sì. Un esempio può chiarire meglio. Circa dieci anni fa un TG, facendo la cronaca di una manifestazione a Porta Pia in ricordo del 20 settembre, arrivò a dire che il comandante delle forze italiane, appena entrato nella città, telegrafò a Cavour per comunicare la riuscita della missione. Telefonai indignato alla RAI dicendo che Cavour era morto nove anni prima! Mi risposero che quei servizi erano fatti da giornalisti di cronaca e generici, che non erano tenuti a sapere la storia patria! Il giorno dopo, ai miei studenti, raccontai solo il servizio e non il motivo della mia indignazione e, con mia profonda sorpresa, quasi nessuno si meravigliò dell’assurdità della notizia! Per la quasi totalità degli ascoltatori, Cavour era ancora vivo il 20 settembre del 1870! Possono le interpretazioni, anche errate, stravolgere la verità di un fatto? Tutto ciò porta a una conclusione paradossale. «Dunque anche i più scettici sulla nozione di fatto possono davvero farne a meno solo a patto di rinunciare a usare enunciati dichiarativi, cioè solo rinunciando ad asserire e ad argomentare alcunché», persino a parlare di storia.42 Heidegger pure direbbe che la verità della morte, di quella morte specifica e in quella data, sfugge ad ogni possibile interpretazione come fatto in sé. Direi che quel fatto esiste, a prescindere da ogni interpretazione. Ne consegue che l’ignoranza è altrettanto pericolosa per la verità quanto la menzogna. Eppure, se i fatti fossero lasciati alla pura ermeneutica43, a un’interpretazione sganciata dal vero, potremmo correre grossi rischi: «[l]a storia degli uomini potrebbe apparire come una storia raccontata da un idiota».44 A ragione Dummett di42

D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino 2007, p. 78. Colgo qui l’occasione per sottolineare, come mi ha scritto il caro amico Paolo Armellini, e che ovviamente condivido, che «l’ermeneutica non è solo quella di Vattimo. In lui si radicalizza il nichilismo nietzscheano postmarxista che alloggia soddisfatto nella società opulenta. Ma il linguaggio reca sempre un rapporto non strumentale con la verità». 44 D. Antiseri e G. Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa nell’era postmoderna, Soneria Mannelli 2008, p. 39. 43

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rebbe che non sono più «sicuro che si possa sostenere […]. Non puoi modificare il passato».45 Purtroppo, fantasie sulla storia ne sono state fatte e non dovremmo perciò lamentarci se la storia, maestra di vita, conta pochi discepoli. Ovvio che ci si trovi davanti a qui pro quo. Per questo è stato giustamente detto che si resta «con l’impressione che l’argomentatore post-moderno si conceda di appellarsi ai fatti tanto quanto l’argomentatore non post-moderno, salvo ricordare, a chi per contrastare le argomentazioni post-moderniste si appelli a sua volta ai fatti (magari di un genere più tosto), che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni».46 Posizione, come si vede, alquanto ridicola. Chi dice che i fatti non esistono, in realtà, dà luogo a un’insuperabile dicotomia. «In effetti è impossibile conoscere alcunché di reale se in partenza si pone un fossato invalicabile tra conoscente e conosciuto».47 Il conoscente si ritrova, senza sapere il perché, in un mondo oscuro che stenta a capire. Sarebbe da chiedersi, a quel punto, perché dovrebbe rispettarlo giacché potrebbe essere inesistente o frutto di un’errata interpretazione? È ovvio che questa è una visione antirealista che ha la presunzione di affermare che, nel nostro contatto con la realtà, noi scopriamo solo quello che abbiamo già posto nelle cose. Lo stesso fallibilismo popperiano, se ben inteso, combatte questo antirealismo di maniera. Ricordiamoci, infatti, che le teorie sono nostre invenzioni, frutto del nostro pensiero, ma è la realtà a farle fallire proprio quando sono incapaci di rapportarsi con essa. Il fallibilismo, al pari del metodo della verifica galileiana, non può fare a meno della realtà, dei fatti, degli accadimenti. Anzi, criticando tanti ermeneutici postmoderni, potremmo dire che può bastare un solo fatto a mettere in crisi cento interpretazioni. Tutto ciò non basta. Sarebbe interessante sapere da coloro che, come Vattimo, ritengono che la 45

M. Dummett, La verità e altri enigmi, cit., p. 223. D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, cit., p. 80. 47 V. Possenti, “Verità”, in G. Tanzella-Nitti e A. Strumia (a cura di), Dizionario interdisciplinare scienza e fede, cit., p. 1517. 46

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religione non sia più portatrice di verità bensì promotrice di carità, che cosa intendono con questa parola a volte equivocata. Se carità, come sostengono, significa rispetto e amore per gli altri, ecco che questi ultimi (gli altri), sia pur in modo riduttivo, dovrebbero diventare il fondamento o, se si vuole il metro, della carità stessa. Sembra, però, che lo stesso Vattimo sia consapevole di tutto ciò quando afferma: «[i]l cristianesimo ci ha insegnato, infatti, che la verità senza la carità non ha senso».48 Allora la verità ha un fondamento! Se è così, anche su questo dobbiamo intenderci. Cerchiamo di farlo con le stesse parole di Vattimo per il quale la Chiesa può costituire il criterio fondante della stessa carità. Dice infatti: «meno banale è il discorso sull’autorità della Chiesa, giacché non posso non riconoscere che i testi sacri a cui mi riferisco e che voglio interpretare mi sono trasmessi solo da una tradizione vivente, che su questa base può anche rivendicare il diritto di insegnare come interpretarli».49 Subito dopo, però, si contraddice dicendo che, per quanto riguarda la carità, oggi, il suo vero senso sia quello della libera interpretazione giacché «nel Vangelo tutta la legge ed i profeti si riducono a due comandamenti: Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come te stesso».50 Quello che mi sorprende è che ripetiamo questa frase, a dir poco fondamentale, non soffermandoci sul fatto che essa riassume la legge ed i profeti, che Cristo ha completato. I santi, e tutta la tradizione mistica, lo hanno ben capito e hanno cercato di attuare il vero consiglio di Gesù: «amatevi come io vi ho amato». La differenza non è di poco conto. È su questo secondo comandamento, lo insegna tutto il discorso dell’ultima cena, che si misura la conversione. Il primo riassume l’Antico Testamento e, per Cristo, è incompleto. Non presenta ancora la Croce che traspare nel secondo e, ci piaccia o no, è la Croce che ci salva. Solo se accettiamo questa misura dell’amore, questo “fondamento”, ac48 G. Vattimo, “Una bioetica post-metafisica”, in D. Antiseri e G. Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa nell’era postmoderna, cit., p. 11. 49 G. Vattimo, Credere di credere, Milano 1996, p. 88. 50 Ivi, p. 79.

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cettiamo di convertirci a Cristo, altrimenti pretendiamo che Cristo si converta a noi.

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IV. Verità e diritto: perché parlare di diritti inalienabili e di obiezione di coscienza? Da quanto sin qui detto, scaturisce una distinzione non certo futile o di secondaria importanza. Davidson ritiene che «ci sono differenze importanti tra le teorie della verità relativa e della verità assoluta, e queste differenze fanno sì che le teorie dei due tipi rappresentino risposte appropriate a domande diverse».51 Per quanto riguarda le prime, fondamentali diventano i parametri di riferimento, tanto da poter dire: «[è] ben difficile pensare che una teoria del significato possa sperare di avere successo senza delucidare né assegnare un ruolo centrale al concetto di riferimento». Ben più complesse sono le seconde poiché, in questo caso, «ci sono ragioni importanti per pensare che il riferimento non possa essere spiegato o analizzato in termini più primitivi»52 e, direi, in termini completi ed esaurienti. Prima di vedere quanto le teorie della verità relativa siano fondamentali nella vita democratica, non trascuriamo un’altra semplice considerazione di Davidson. Perché dovremmo avere interesse per ciò che accade attorno a noi? Forse perché siamo convinti che lo scetticismo sia una larvata forma di egoismo incapace di affrontare i problemi che scaturiscono dallo “stare assieme”? Sia come sia: «[l]’interesse filosofico verso i fatti scaturisce in parte dalla speranza che spieghino la verità […]. Specificare un fatto, insomma, è un modo di spiegare che cosa renda vero un enunciato».53 Su queste considerazioni riposano alcuni presupposti del nostro stare assieme, della nostra vita civile, come pure della nostra democrazia. Le stesse leggi rinviano a un corpus di valori inscritti nella carta fondamentale di un popolo; ma la costituzione, a sua 51 52 53

D. Davidson, Verità e interpretazione, Bologna 1994, p. 126. Ivi, p. 303. D. Davidson, Azioni ed eventi, Bologna 1992, pp. 192–193.

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volta, rinvia ad alcuni presupposti tratti dalla tradizione del popolo stesso. Tra questi presupposti quelli morali e religiosi, anche con le loro impostazioni “metafisiche”, come sappiamo dal tempo di Montesquieu per non dire di Cicerone, svolgono un ruolo di primo piano. Le costituzioni non possono andare contro tali principi proprio perché essi rappresentano i criteri fondanti di quei diritti inalienabili che ogni costituzione deve rispettare. Certo, in questa prospettiva, è assurdo ritenere valida solo quell’azione che si conforma alla legge positiva, come vuole la dottrina pura del diritto positivo. So anche bene che questa posizione urta certe convinzioni derivanti dalla scuola di Kelsen e da altre impostazioni giuridiche e politiche, ma ci sono vari esempi che dimostrano il contrario. Se le costituzioni potessero ignorare nel loro generarsi quei diritti che definisco fondanti, come si potrebbe parlare di diritti inalienabili? Il fatto è che, da alcuni decenni a questa parte, purtroppo siamo diventati “tutti” un po’ discepoli di Kelsen. Stiamo tentando di «purificare» la giurisprudenza54 da quanto essa ha di “mescolato” con altre discipline come la psicologia, l’etica, la teologia e altro ancora. È possibile tutto questo? Un simile dubbio sembra attraversare anche la mente dello stesso Kelsen quando dice che «le norme di una morale universale si rivolgono senz’altro a tutti gli uomini […] mentre le norme giuridiche obbligano e autorizzano solo determinate categorie di uomini».55 È lecito chiedersi, allora, perché le prime non dovrebbero essere ritenute superiori alle seconde. La travagliata storia del dissenso dovrebbe dimostrarcelo ampiamente. Non è questa forse la riprova che il diritto poggia le sue basi su qualcosa che va oltre i meri fatti che vuole regolare? Come spiegheremmo le obiezioni di coscienza se questa non ritenesse vere alcune motivazioni che prescindono dall’attuabilità della legge? Per cercare di rispondere teniamo prima presente che oggi, per dirla alla Constant, abbiamo una forma di governo ga54

Cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Torino 1996, p. 47. 55 Ivi, p. 53.

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rantista che è quella «che tutela al massimo i diritti fondamentali politici e civili dell’individuo sul piano costituzionale, cioè nell’organizzazione dei poteri dello Stato, i quali esistono solo in virtù della costituzione».56 Se questo è vero, ci troviamo di fronte a un serio dilemma. Per riassumerlo in breve: i diritti scaturiscono da una legge fondamentale dello Stato o presistono a essa? Come vedremo tra poco c’è tutta una tradizione che ritiene che esistano alcuni diritti inalienabili contro i quali nessuna carta costituzionale può andare. Rosmini avrebbe detto che la persona «è diritto sussistente» e, per il solo fatto di esistere, possiede dei diritti che nessuna costituzione può ignorare e neppure negare. Il discorso è però antico, almeno quanto il Cristianesimo, e gioverà ricordare che già l’americano William Livingston sosteneva che, per l’uomo, «i diritti sono nella sua stessa esistenza».57 Per questo si sono potuti fare i processi contro i misfatti nazisti e, più recentemente, quelli contro i crimini in Bosnia. Questo compito non spetta solo ai giuristi. A ragione Bobbio sosteneva: «[i]l problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico».58 La soluzione politica, auspicata da più parti, non è però facile in un’epoca, come la nostra, di globalizzazione. Questo processo, in realtà poi non così nuovo come si vuol far credere59, ha oggi incrociato «il mito della scienza, cultura cosmopolita per eccellenza, capace di porsi oltre i contrasti politici e di mostrarsi indenne da pregiudizi razziali».60 Mito 56

N. Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna 1993, p. 155. Ivi, p. 146. 58 N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino 1990, p. 16. 59 Cfr. al riguardo R. Pezzimenti, “Globalizzazione: Natura, vantaggi e contraddizioni”, in F. Compagnoni e A. Lo Presti (a cura di), Etica della globalizzazione, Roma 2006. In questo lavoro analizzo, tra l’altro, il processo di “mondializzazione” considerato da Marx che, elogiando la borghesia, valutava il suo crescente processo di globalizzazione e, non a caso, arrivava ad auspicare un’unione mondiale dei lavoratori, «proletari di tutto il mondo unitevi», proprio perché mondiale era ormai la forza della borghesia. 60 A. Gramigna e G. Ganino, Tra universalismo e relativismo. L’età dei diritti in filosofia dell’educazione, in «Orientamenti pedagogici», 67, 3/2020, p. 110. 57

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fatto proprio da una visione mercatista, ahimè sempre più in voga. Questa globalizzazione sembra divenuta un modello, «come nelle peggiori distopie», che, nel sospetto di alcuni, viene diretto da un cervello capace di gestire «la follia di questo modello e il tutto sia messo nelle mani di un computer, che programma secondo la propria memoria priva di umanità obbedendo alla mera regola del profitto». Ai valori della democrazia «si è sostituito il valore unico della tecnoscienza, che toglie spazio alla democrazia cognitiva».61 In questo caso, i diritti umani non hanno più niente di umano. Ai popoli sfuggono le sorti del proprio destino, gestito sempre più da forze che non sono mai chiamate a rispondere del loro operato che, comunque, condiziona purtroppo quello della stragrande maggioranza dell’umanità. Torna a questo punto l’arduo problema del diritto alla verità. Sono del parere che non possa esserci senso giuridico rettamente inteso che possa tutelare le promesse, come pure le premesse, false: nessuno, altrimenti, potrebbe assicurare la sopravvivenza civile di alcuna aggregazione umana. La stessa parola società indica che essa si costituisce per il conseguimento e l’attuazione di tali premesse.62 Lo riprova il fatto che la «dimenticanza di una promessa non invalida l’obbligo di mantenerla. Non si sarebbe dovuta dimenticare». A ciò si aggiunga che un «diritto non si estingue se il suo possessore non se ne ricorda».63 Il che significa che certi principi debbono prescindere dalla dimenticanza: che uno se ne ricordi o no, li consideri o li ignori, essi restano validi perché veri. Come potrebbe altrimenti una corte internazionale condannare un governo perché ha compiuto azioni che pure non 61

Ivi, pp. 110–111. Cfr. R. Pezzimenti, The Open Society and its friends, with letters from Isaiah Berlin and Karl R. Popper, Leominster 2011, soprattutto il primo capitolo. Ora anche in italiano Il cammino della libertà. Storia della società aperta dal mondo antico alla modernità con lettere di K. R. Popper, I. Berlin e H. Putnam, Soveria Mannelli 2019. 63 R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, BariRoma 2005, p. 218. 62

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andavano contro il proprio ordinamento o il proprio credo ideologico? Ricordiamo che il diritto alla verità è inoltre il fondamento della vita quotidiana. Chiunque di noi – come ho già detto – lo pretende con assoluta rigorosità ad esempio quando mangia un prodotto. Chi può negare che questa è una delle più elementari evidenze, e non certo l’unica, della quotidianità? Si tratta di un diritto alla verità, o se si vuole a non essere ingannati, al quale nessuno può e vuole rinunciare, neppure quelli che non sono direttamente interessati. Si pensi all’esempio del processo: non sono solo le parti a reclamare la verità, ma anche chi è chiamato a giudicare per dirimere una controversia. La nostra Corte Costituzionale, in una sua dichiarazione del 1998, propose una via secondo la quale «un conto è cercare e un altro conto è accertare, cioè trovare […] la Corte intendeva sottolineare che, come del resto è ovvio, il processo lavora con i mezzi che ha a disposizione, ed è possibile che le sue conclusioni, pur essendo giustificate, non siano vere». È per questo che alcuni processi si riaprono, proprio perché c’è un nuovo approccio alle prove e, quindi, alla verità. Per alcuni relativisti, però, questa sentenza del 1998 contrastava con quella precedente del 1992 a dimostrazione che anche la verità è figlia del tempo. A parte che un’attenta lettura delle sentenze non mostra alcuna contraddizione, rimane il fatto che affermare che «le giustificazioni siano figlie del tempo non implica che lo sia la verità»64 e confondere giustificazioni e verità evidenzia uno scorretto uso della ragione. Gli scettici contrattaccano sostenendo che il dubbio è tipico per la filosofia e non volerlo ammettere è tipico dei dogmatici, ma non considerano di che dubbio stanno parlando. «Il dubbio scettico è diverso dal dubbio normale perché, al contrario del dubbio normale, non ha motivazioni specifiche, legate a ciò che abbiamo motivo di pensare in una specifica situazione. E anche l’uso di “sapere” e “conoscere” che lo scettico tenta di imporci è diverso da quello normale». Senza dimenticare che lo scetti64

D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, cit., pp. 8 e 15.

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co, a volte, ripudia anche l’evidenza dimenticando che, da un punto di vista antropologico, – come ha dimostrato Donald Brown – è stata ormai provata l’esistenza di vari universali «condivisi da tutte le comunità umane, sotto tutti i cieli». A essere sinceri, sembra che tanti filosofi e tra questi anche «Heidegger e Rorty confondano la verità con l’accesso alla verità».65 Si può dire, paradossalmente, che anche il falso porta a scoprire la verità poiché smascherare il falso serve a identificare la verità. «[È] corretto dire che il giudice deve decidere sempre in base alla verità processuale, ma non che tale verità sia esclusivamente formale: la verità processuale è verità tout court, anche se di necessità prospettica, per come cioè riesce a coglierla, dal suo punto di osservazione, il giudice».66 D’altra parte, perché si dovrebbero riaprire processi già espletati e “sentenziati” se non perché si acquisiscono nuove “fonti” di verità? Altro che “addio alla verità”, senza di essa saremmo condannati alla barbarie più totale. Diceva bene Rosmini che «convien dire in generale, che ciascun uomo, considerato il vigore della sua personalità, l’estensione del diritto connaturale, possiede i diritti seguenti: 1° – Di dire la verità».67 Ne seguono altri, ma, per concludere, converrà soffermarci su questo. Il dire la verità non è solo un problema di coscienza che può essere considerato in modo soggettivo, qualcuno direbbe oggi in modo «interpretativo», è anche, e soprattutto, una forma di rispetto verso l’altro, la persona che, dal nostro non dire la verità, può essere danneggiata. «Di qui si ricava chiaramente, che ogni attentato volto a spogliare l’uomo della verità, o della virtù, o della felicità, è una lesione del diritto formale, che è la persona».68 È questa una riprova che la persona è davvero diritto sussistente. Mettere in dubbio una simile verità è mettere in dubbio qualunque altro diritto della persona. 65

Ivi, pp. 25, 42 e 69. F. D’Agostino, Giustizia. Elementi per una teoria, Cinisello Balsamo (MI) 2006, p. 56. 67 A. Rosmini, Filosofia del diritto (1841-1843), a cura di R. Orecchia, Padova 1967, n. 147, p. 213. 68 Ivi, n. 100, p. 201. 66

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La verità è un dato di fatto concreto del quale tutti devono e vogliono usufruire. Riecheggia qui il principio che «tutti vogliono il godimento della verità». Come corollario, ne discende la constatazione di aver «conosciuto molte persone desiderose di ingannare; nessuna di essere ingannata».69 Siamo di fronte a una conclusione che non può essere trascurata, il rischio potrebbe essere gravissimo. Coloro che la negano ne potrebbero essere le prime vittime, sperimentando quanto ha detto un anonimo scrittore dell’epoca patristica: «[i] bugiardi mentiranno a se stessi, se non hanno nessuno da ingannare».70 V. Pluralismo e tolleranza71 Proprio all’affermarsi del pluralismo, inteso come valore che era stato negato dagli autoritarismi, in Occidente cominciarono a diffondersi le prime critiche, per non parlare in alcuni casi persino di opposizioni, al pluralismo stesso. Possiamo dire che si avvertì come una sorta di smarrimento dovuto al fatto, come sostiene Huntington, che il «passaggio da società tradizionale a società moderna è stato più drammatico nel campo delle credenze e delle ideologie politiche».72 Ecco perché, soprattutto negli Stati Uniti, il pluralismo fu dapprima accusato sul piano teorico, reo di dare un’immagine distorta della società americana. Più rilevante ancora era la critica rivolta al pluralismo sul piano ideologico. Secondo certi critici, non ci si era resi conto «che ogni gruppo sociale ha una tendenza naturale all’irrigidimento delle sue strutture via via che cresce il numero dei suoi membri e si estende il raggio delle 69

Augustini (Sancti), “Confessionum libri tredecim”, in Opera Omnia, vol. I, Roma 1975, 10, 23, 33. 70 Anonimo, “Opera incompleta su Matteo”, in La Bibbia commentata dai Padri. Nuovo Testamento 1/2. Matteo 14–28, Roma 2006, p. 164. 71 Cfr. R. Pezzimenti, Le ancore della democrazia. Nuova divisione dei poteri, rappresentanza, senso del limite, cit., cap. V. 72 S. P. Huntington, “La politica nella società post-industriale”, in G. Urbani (a cura di), Sindacati e politica nella società post-industriale, Bologna 1976, p. 158.

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sue attività. Una società apparentemente pluralistica è in realtà policratica, cioè a più centri di potere, di cui ciascuno fa valere le proprie pretese sopra i suoi membri».73 Questa critica fu portata avanti da pensatori come C. Wright Mills o H. Marcuse. Il primo in un suo famoso testo esprimeva critiche furiose nei confronti di alcuni gruppi che, avendo tracciato una fruttuosa via di connivenza, avevano occupato i posti vitali della politica americana.74 Costoro finivano per decidere per la stragrande maggioranza degli americani ormai costretti a vivere una vita stereotipata e priva di qualsiasi stimolo originale. Insomma, in barba al pluralismo, la pur avanzata democrazia americana aveva assunto il modello totalitario, sia pur camuffato con metodi democratici. Più filosofica appariva la critica del secondo. In One-dimensional Man, il filosofo d’origine tedesca cercava di reagire a quella che riteneva una nuova forma di totalitarismo: quello della razionalità tecnologica. «Ciò che è non può essere vero. Al nostro orecchio ben addestrato questa affermazione appare frivola e ridicola, o scandalosa come quell’altra che sembra dire l’opposto: ciò che è reale è razionale».75 Il ritorno ad Hegel, nella cui ottica andava riletto Marx, ridava al pluralismo un’impronta neoidealista e generava il pericolo di un ritorno ad un pluralismo astratto. Questo richiamo ad Hegel ha portato a storicizzare il problema del pluralismo. Per molti, si è trattato di un richiamo alla concretezza, soprattutto se liberato dalle astruserie della dialettica. Ne sono venute fuori riflessioni davvero interessanti, anche se non del tutto nuove. Secondo alcuni, infatti, il pluralismo sarebbe da leggersi in rapporto con un insieme di beni che «hanno una storia di transazioni, non solo fra loro, ma anche in rapporto col mondo materiale e morale in cui vivono», il che equivale a dire che un metro unico di giudizio non c’è e non può esserci.76 Questa convinzione apre al plu73

N. Bobbio, “Pluralismo”, in N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino 1976, p. 722. 74 Cfr. C. Wright Mills, The power elite, New York 1956. 75 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino 1969, p. 139. 76 M. Walzer, Sfere di giustizia, Milano 1987, p. 19.

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ralismo il rischio del relativismo o del sincretismo dei valori con la conseguente “banalizzazione” del pluralismo stesso, generando l’irrilevanza dei valori. Per ovviare a questo pericolo, si è arrivati persino a sostenere «che una teoria della giustizia non può darsi se non è presupposta una mappa data e stabile di pratiche sociali di costruzione e condivisione dei significati».77 Vero ma insufficiente perché anche quest’impostazione, che conferisce al pluralismo unicamente una valenza storica, lo spoglia d’ogni possibile riconoscimento universale. Sul pluralismo c’è bisogno di fare un chiarimento che solo il pluralismo cristiano con la sua concretezza sembra in grado di fare. Si tratta, infatti e per quanto possa essere ovvio, di riformulare lo stesso pluralismo, che rischia di diventare solo formale o, peggio, astratto. Il pluralismo è astratto quando si presenta solo come il formale rispetto delle idee. In realtà, a volte, molte di queste possono anche essere biasimate, ma quello che conta è il rispetto delle persone che se ne fanno portatrici. Altrimenti, in molti casi, si finisce per parlare tanto di pluralismo e, nel contempo, mandare il dissenso nei gulag o nei campi di concentramento. Il vero pluralismo, invece, è quello che mi consente di non condividere e anche di combattere certe idee, come ad esempio la pena di morte, ma mi obbliga a rispettare chi di queste idee si fa portatore. Questo vale soprattutto oggi, in una società multietnica e multiculturale, «al fine di realizzare una con-vivenza tendenzialmente armonica, un’interazione»78 che è possibile solo se la fondiamo sul presupposto irrinunciabile della persona e dei suoi diritti. Lo stesso vale per la tolleranza. Politicamente parlando si può dire che la verità è un cammino, un po’ come la metafisica è un processo aperto. A questo proposito, ho detto pocanzi che sussiste – ce lo ricorda assai bene la D’Agostini – una posizione di natura realistica che sembra rinunciare a 77

S. Veca, La filosofia politica, Bari-Roma 2005, p. 91. P. Malizia, Al plurale. Declinazioni di una società multietnica e multiculturale, Milano 2008, p. 11. 78

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qualsiasi metafisica, ma è davvero possibile questa rinuncia, continuando a parlare di verità, e a fare filosofia? Il lavoro filosofico non può certo dirsi senza presupposti. Credo che per risolvere il problema dovremmo ritornare a uno dei punti di partenza più complessi, e per certi versi astrusi, del pensiero di Kant. Si tratta della «tesi dell’esistenza di una realtà in sé, in quanto non solo indipendente ma decisamente separata dai nostri strumenti conoscitivi, e ad essi inaccessibile: perché appunto in sé e non per noi».79 Ma se si lascia spazio a questa realtà in sé, si ritorna a dar fiato alla metafisica classica nei confronti della quale Kant ha preso un abbaglio. Come sostiene il mio grande e compianto amico Michele Malatesta80, Kant rifiutò la metafisica perché troppo plurale a differenza di scienze come la geometria e la fisica. Disse esplicitamente, nei Prolegomeni, che se si fosse potuto avere un solo libro con il quale affermare, al pari della geometria euclidea, «questa è la metafisica», egli avrebbe creduto alla metafisica come scienza, ma tant’è questo libro non c’è, proprio per la pluralità dei postulati metafisici.81 Ma non è forse giunto il momento di rivedere queste posizioni? Dopo il discorso fatto da Kuhn sui paradigmi, è possibile fare un discorso scientifico sulla metafisica, proprio come scienza plurale, se oggi abbiamo le geometrie, possiamo avere le metafisiche, allora contraddistinte «da un pluralismo sconcertante». Forse, e sarebbe il caso di rivedere molte nostre conclusioni, la metafisica, con il suo pluralismo, è arrivata prima delle altre scienze al moderno concetto di scienza. Il pluralismo sembrerebbe mettere in crisi lo stesso concetto di verità, ma a ben vedere così non è, anzi, al contrario lo rafforza. Perché sussista un utile pluralismo occorre che que79

F. D’Agostini, Introduzione alla verità, cit., p. 195. Cfr. M. Malatesta, La logica delle funzioni. Strumenti per un’indagine transculturale, vol. I, Roma 2000, pp. 253 e segg. 81 Mi sono occupato di questo argomento, a partire dall’analisi del mio amico e collega Michele Malatesta, molto tempo fa. Cfr. R. Pezzimenti, Homo Metaphysicus. With letters from Karl R. Popper, V. Tonini, L. Pauling, J. Eccles, H. von Balthasar and P. Pavan, Napoli-Roma 1992, pp. 23 e segg. 80

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sto non danneggi l’unità politica sussistente, generando un disfacimento dei legami sociali. Questa convinzione obbliga una riflessione attorno al modo di concepire la stessa unità politica. A fronte di un’unità monolitica82, di chiaro stampo platonico, appare il criterio di unità armonica che contempla la logica delle differenze, capaci comunque di perseguire finalità comuni. Queste due diverse concezioni sono andate via via chiarendosi e trovano la loro radice nel diverso modo di intendere l’essere umano nel contesto in cui è inserito. L’unità armonica non lo concepisce più solo come animale politico, bensì come animale sociale e, come tale, capace di appartenere a diverse forme aggregative. Queste forme sono date dai corpi intermedi. A questi si oppongono le teorie antipluraliste di alcuni Stati moderni che non accettano cittadini capaci di perseguire diversi interessi e, perciò, capaci di appartenere a diversi gruppi sociali anche in contrasto tra loro. Ecco allora che il pluralismo si presenta come momento di mediazione tra Stato e individuo, a salvare il quale non bastano neppure alcune grandiose riflessioni relative allo stato di natura. Va ricordato, infatti, che non tutte le teorie sullo stato di natura, nonostante i loro propositi, furono favorevoli ai corpi intermedi e al pluralismo. A una società plurale furono favorevoli solo alcune impostazioni politiche. Tra queste, il pluralismo tipico dell’impostazione socialista è stato quello che si può definire funzionale. Certo se pensiamo al socialismo marxista, tutto ciò appare poco probabile, ma occorre pensare che il primo e più accanito critico del marxismo fu anch’egli un socialista come Proudhon. Il pensatore francese operò un radicale ribaltamento del rapporto tradizionale tra società civile e Stato. Muovendosi da una prospettiva che si rifaceva all’associazionismo di Fourier e Saint-Simon, sostenne la molteplicità dei raggruppamenti sociali ai quali ciascun individuo si rapporta a seconda delle proprie attitudini e dei propri bisogni. Non a caso Proudhon puntava sulle famiglie e poi sulle compagnie operaie, 82 Cfr. R. Pezzimenti, Le ancore della democrazia. Nuova divisione dei poteri, rappresentanza, senso del limite, cit., cap. V.

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una sorta di società anonime, delle quali gli operai possedevano le azioni e che erano chiamati a gestire.83 Tutto ciò che richiamava in qualche modo la centralizzazione, si poteva definire antipluralistico e lo stesso marxismo ne era l’espressione più estrema. Voleva, infatti, creare una società perfetta84 nella quale non ci sarebbe stato più spazio per la critica politica. Proudhon anticipava quel pluralismo conflittuale basato sulle regole che sarà proprio della democrazia contemporanea e che, con opportuni aggiustamenti, troverà attuazione nel partito laburista inglese. Qui, le proposte più genuine del socialismo cercheranno di coniugarsi con quelle del sindacalismo. Nascerà la necessità di dar vita ad una sorta di etica del conflitto, un confronto cioè basato sulle regole e non sullo scontro di piazza che sfocia nell’ideale rivoluzionario. Questa idea fu portata avanti anche da alcuni autori cristiani come Maritain e Mounier. Si parlò allora di uno Stato pluralista che passava dalla visione laburista a quella dei «cristiano-sociali» che accettavano completamente la prospettiva democratica. Per questi autori, più è ampia la possibilità di associarsi più ampio è il baluardo contro la possibile tirannia della maggioranza, ulteriore pericolo per la vita del pluralismo. La libertà di associarsi è la libertà delle minoranze e la loro capacità di mantenere in vita il pluralismo. Le associazioni non avrebbero, infatti, bisogno di sussistere se dovessero rappresentare gli interessi della maggioranza. Abbiamo qui un esempio che testimonia come l’estrema democrazia previene i pericoli stessi della democrazia.85 83

R. Pezzimenti, The Open Society along the arduous path of modernity, with letters from Isaiah Berlin and Hilary Putnam, Leominster 2011, punto 10.12. Ora anche in italiano Il cammino della libertà. Storia della società aperta dal mondo antico alla modernità con lettere di K. R. Popper, I. Berlin e H. Putnam, cit., punto 10.12 della seconda parte. 84 Su quest’argomento, illuminanti risultano le riflessioni di Rosmini, ma, in questa sede, voglio richiamare quello che ormai è un classico della politologia, soprattutto in alcuni capitoli della prima parte: si tratta di G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna 1972. 85 Cfr. A. de Tocqueville, La démocratie en Amérique I (1835), II (1840), in Œuvres, vol. II, Parigi 1992, pp. 218–219.

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Questo aspetto sicuramente positivo presenta, però, un risvolto negativo: quello dell’allargamento del numero dei possibili partecipanti, che non sempre fa emergere i personaggi più ragguardevoli. Gli uomini eminenti si allontanano dalla vita politica, per non essere vittima di troppi compromessi.86 In ogni caso, è proprio l’interessamento di gran parte del popolo alle vicende della vita sociale che ha finito per circoscrivere e non accrescere le competenze del potere centrale. Questo associazionismo ha quindi significato la limitazione reciproca della sovranità, autentica garanzia del pluralismo. Da rilevare, però, che anche il popolo non può essere il solo sovrano legittimo, perché anche il popolo può diventare un sovrano assoluto. Se concretamente il pluralismo evidenzia anche una manifestazione di interessi, nasce la necessità di dar vita a strutture che certi interessi sappiano veicolare. Dalle associazioni si passa perciò ai gruppi e poi ai partiti. Lo scopo è quello di dare agli interessi canali e mezzi di accesso, non solo per la loro articolazione o aggregazione, ma anche per la loro realizzazione.87 In America, sembra contare l’appartenenza ad un gruppo più che l’appartenenza alle classi, come in Europa. Questo deriva anche da quella coscienza religiosa, tipica del popolo americano, che accresce il bisogno, soprattutto a livello locale, di assumersi responsabilità. Questa sorta di cristianità sociale si è sviluppata solo un po’ più tardi nel Vecchio Continente. VI. Considerazioni conclusive Non dimentichiamoci infine, e dovrebbe darci un po’ di preoccupazione, che «il sapere amministra, oltreché se stesso, 86

Cfr. ivi, pp. 222–224. Tra i tanti studi che hanno trattato questo argomento mi permetto di richiamarne uno, forse un po’ datato, ma che è ormai un classico: G. A. Almond e G. Bingham Powell jr., Politica comparata, a cura di G. Pasquino, Bologna 1970. Sempre per rimanere a un testo classico richiamo la sezione “Partiti politici e gruppi di pressione”, in G. Sartori (a cura di), Antologia di Scienza politica, Bologna 1970. 87

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anche tutto ciò che non è scienza». Tutto il resto, a cominciare dal senso comune, sembra costituire un ostacolo. A ben vedere, così non è. «Il senso comune è controparte del sapere scientifico […]. Non essere scienza non significa essere necessariamente contro la scienza. Il senso comune può anche impersonare ruoli che risultano solidali con determinati modelli del sapere scientifico, così come di quello filosofico».88 Se è vero quanto dice Wittgenstein: «[i]n conclusione il sapere si fonda sopra il riconoscimento»89, allora senso comune e scienza possono partire da un comune asserto. Non mi sembra diversa l’affermazione di Heidegger: «la verità è l’adeguazione della conoscenza alla cosa». Per quante possano essere, «le concezioni dell’essenza della veritas sottintendono sempre un conformarsi a […] e pertanto si riferiscono alla verità come conformità. […] La verità esprime in ogni caso e essenzialmente […] un’armonia determinata».90 Quello che è sorprendente è che tale armonizzarsi è, per Heidegger, un atto libero: «[l]’apertura del rapportarsi, che rende possibile intrinsecamente la conformità, si fonda nella libertà. L’essenza della verità è la libertà». Si tratta, però, di una conclusione alquanto delicata: «[p]orre l’essenza della verità nella libertà non significa affidare la verità all’arbitrio dell’uomo?».91 Tutto lascia pensare che si tratti di un rischio che valga la pena di correre. Questo passaggio sembrerebbe indulgere a un marcato soggettivismo che potrebbe offuscare ogni pretesa di verità. Si tratta però di una lettura della verità che deve porsi al di sopra di ogni logica di parte. Chiunque può fare una considerazione che lo ponga al riparo da simili rischi. «Misura male anche se stesso, e questo soprattutto quando assume esclusivamente la propria soggettività come misura per tutte le cose».92 88

A. Gargani, “Saggio introduttivo: Scienza, filosofia e senso comune”, in L. Wittgenstein, Della certezza, Torino 1986, pp. XIII e XV–XVI. 89 L. Wittgenstein, Della certezza, cit., n. 378. 90 M. Heidegger, Sull’essenza della verità, a cura di U. Galimberti, Brescia 1977, pp. 8–10. 91 Ivi, pp. 19–20. 92 Ivi, p. 37.

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Questo rischio investe ogni essere umano e, soprattutto, chi fa politica. Chiariamo questo passaggio che è, per noi, della massima importanza. Pensiamo che il termine greco di verità significa «non-nascondimento», «quindi svelamento, manifestazione».93 È quello che dovrebbe caratterizzare qualunque amministratore della cosa pubblica. Questo è quanto a lui richiedono coloro i quali lo hanno incaricato di gestirla. Aggiungerei a questo punto che il rapporto strettissimo tra verità e ragione, presupposto fondamentale dell’Illuminismo e filosoficamente confermato da Hegel, «è per sua essenza anche un programma politico: solo la ragione deve dominare, in ultimo non deve esserci alcun’altra autorità se non quella della ragione. Solo ciò che è comprensibile ha valore; ciò che non è ragionevole, cioè comprensibile, non può neppure obbligare». Le diverse filosofie sociali hanno fatto di questa premessa il loro credo, salvo poi dividersi sulle modalità di realizzazione. «A mio parere si potrebbero distinguere due grandi correnti: il filone anglosassone, più orientato secondo il diritto naturale, che tende alla democrazia costituzionale come l’unico sistema realistico della libertà; a esso si contrappone l’approccio radicale di Rousseau, che in ultimo mira all’anarchia piena».94 Ciò conferma, come ho sempre pensato, che, anche all’interno di un movimento culturale come quello dell’Illuminismo, sussistano differenze radicali al punto che sarebbe meglio parlare di illuminismi al plurale. Agostino aveva visto chiaramente che, senza principi ultimi, la politica si può trasformare in una banda di ladroni che persegue unicamente i propri interessi, dimenticando ogni 93 Cfr. U. Galimberti, “Introduzione” a M. Heidegger, Sull’essenza della verità, cit., p. XIII. 94 J. Ratzinger, “Libertà e verità”, in U. Casale (a cura di), Fede, ragione, verità e amore, Torino 2009, p. 530. L’autore, nella pagina seguente, fa riferimento alla caratteristica fondamentale di questa corrente più moderata che, nel Regno Unito, ha significato un miglioramento continuo nel riconoscimento dei diritti a partire dalla Magna Charta Libertatum. Su questo argomento e sul ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel raggiungimento di un simile traguardo, cfr. R. Pezzimenti, Storia e politica nei cattolici inglesi dell’Ottocento, Roma 2016, pp. 30–40 e in particolare pp. 37–38.

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criterio di giustizia. È questa, invece, che preordina la ricerca degli interessi, a partire da quelli comuni. Ecco perché qualunque sistema politico ha la necessità di ancorarsi a punti di partenza che ritiene veri. Ne deriva la convinzione «che la liberazione dalla verità non produce la pura libertà, ma la toglie. La libertà anarchica, assunta in modo radicale, non redime l’uomo, ma ne fa una creatura fallita, un essere senza senso». Si può quindi dire che l’attuazione dell’idea di «libertà, nella quale oggi ci troviamo, è motivata da un concetto di libertà non chiarito e unilaterale […] la libertà è un bene, ma lo è solo in unione con altri beni, con i quali costituisce una totalità inscindibile».95 Ne discende che la «libertà dell’uomo è libertà condivisa, libertà nell’essere insieme di libertà che si limitano reciprocamente e in tal modo si sostengono l’un l’altra». È un concetto questo che la tradizione latina ha messo in evidenza una volta per tutte a dimostrazione che «ordine, diritto, non sono concetti opposti alla libertà, ma la sua condizione».96 Su tutto ciò si fondano le concezioni moderne di libertà negative e positive, abbracciate, in modi diversi, dalla destra e dalla sinistra riformiste. Ecco perché il diritto non solo deve garantire, ma anche limitare, la libertà e tutti gli altri beni ad essa legati. Un vero diritto che garantisca la libertà, deve anche saper chiedere ad essa un giusto contraccambio. Per questo non può darsi libertà senza responsabilità. Hans Jonas97 ha tracciato un ampio scenario di responsabilità ampliandone le dimensioni che crescono con il crescere della libertà. Jonas parla di responsabilità respingendo ogni presunto utopismo e ricordando, tra l’altro, che mai come oggi l’essere responsabili travalica il momento presente poiché non siamo solo responsabili verso quanti vivono con noi condividendo le nostre sfide, ma siamo responsabili anche verso le future generazioni.98 Per loro siamo osservati speciali perché verremo giudicati dal modo in 95

J. Ratzinger, “Libertà e verità”, cit., pp. 535–536. Ivi, pp. 538–539. 97 Cfr. H. Jonas, Il principio della responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 2002, pp. 10 e segg. 98 Cfr. ivi, pp. 175 e segg. 96

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cui trattiamo le risorse attuali del pianeta, dal modo in cui ci sforziamo di renderlo più vivibile non inquinandolo e, in genere, dalla parsimonia con la quale trattiamo la natura. «Crescita della libertà deve essere crescita della responsabilità», potremmo riassumere. L’etimo di responsabilità ci richiama alla capacità di saper rispondere: il responsum. Ma, rispondere a chi ancora non c’è, che significa? «Se responsabilità è rispondere alla verità dell’essere uomo, possiamo allora dire: appartiene alla vera storia della liberazione la continua purificazione verso la verità».99 Cammino che non deve fare solo il singolo, ma anche le istituzioni. Occorre un rinnovato vigore per richiamare questo senso di responsabilità, anche da parte della religione. «Forse questo tratto rivoluzionario del Cristianesimo è stato tenuto coperto troppo a lungo sotto modelli conservatori».100 È ora che i cristiani escano da questo torpore che tranquillizza troppo le loro coscienze e quelle di quanti, da tali situazioni, traggono vantaggio. Non dovrebbe essere difficile, in questo, trovare una convergenza tra uomini di diverso sentire religioso e politico purché siano liberi da interessi di parte. «La diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l’una nell’altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero».101 Quello del futuro, poi, dovrebbe essere un problema a cuore a tutti. VII. A mo’ di Appendice: Breve digressione sul problema della menzogna102 Giunti a questo punto dobbiamo comunque ammettere che il rapporto con la verità non è facile anche perché ciascuno di 99

J. Ratzinger, “Libertà e verità”, cit., p. 540. J. Ratzinger, “Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni”, in U. Casale (a cura di), Fede, ragione, verità e amore, cit., p. 632. 101 Ivi, p. 634. 102 Riprendo qui una parte di un mio lavoro: cfr. R. Pezzimenti, Ethics: The challenges of modernity, Leominster 2013, punti I.43 e segg.; anche in italiano Etica. Le sfide della modernità. Per una morale sociale condivisa, Soveria Mannelli 2014. 100

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noi è portato, in varie occasioni della vita, a chiedersi se sia il caso o meno di dire la verità. Si pensi all’esempio, fatto dallo stesso Kant, sulla possibilità di nascondere i pensieri facendo un cattivo uso della verità. Pensiamo a «un nemico che mi afferra per la gola e mi chiede dove io tenga il mio denaro». In questo caso, «egli non ha il diritto di pretendere da me la verità».103 Ma allora il principio della verità vale astrattamente e quando ci sono di mezzo i soldi non vale più! Intendiamoci, non voglio dire che bisogna farsi tagliare la gola pur di non mentire, voglio dire che Kant, per casi più gravi e più seri, non la pensa affatto così. Pur avendo fatto bene a salvare la vita, Kant ritiene che io «sono lo stesso un mentitore, perché ho agito contro i diritti dell’umanità». Le notizie false non fanno torto solo ad un uomo in particolare (avrei non poche obiezioni al riguardo), ma all’umanità intera. Resta però il fatto, e Kant lo dice, che se volessimo attenerci fedelmente «alla verità, assai spesso ci esporremmo alla malizia di chi vuole fare cattivo uso della nostra verità».104 Mi sembra che, ancora una volta, ciascuno di noi sia portato, soggettivamente, a giustificare il suo comportamento, pur sapendo che esistono principi oggettivi a priori. È ancora lo stesso Kant a dirlo: «la valutazione del caso di necessità è affidata al giudizio di ciascuno».105 Tutto ciò non è puro machiavellismo?! Per rispondere dobbiamo ritornare ancora una volta al contrasto menzogna-verità. Derrida ci dà una spiegazione del perché i grandi critici del Cristianesimo abbiano attaccato senza mezze misure San Paolo come fa, ad esempio, Nietzsche. La ragione è che uno spirito autenticamente cristiano, è il caso di Agostino, «resta sempre in dialogo» con lui106 e finisce per interrogarsi sul problema della verità. Eppure la storia, più che essere manifestazione della verità, sembra essere costellata da continue menzogne che sono sotto gli occhi di 103 I. Kant, “Sui doveri verso gli altri. La veridicità”, in I. Kant e B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, a cura di A. Tagliapietra, Milano 1996, p. 243. 104 Ivi, p. 245. 105 Ibidem. 106 Cfr. J. Derrida, Breve storia della menzogna. Prolegomeni, Roma 2006, p. 7.

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tutti, tanto che sarebbe più logico parlare di storia della menzogna. Ma, si chiede il filosofo francese, «chi oserebbe raccontare la storia della menzogna?».107 Credo che, prima di questo interrogativo, ce ne dovremmo porre un altro più fondamentale: è possibile parlare di menzogna senza riferimenti alla verità? Fare poi una storia della menzogna non impone, a chi la racconta, di essere almeno vero con se stesso, per quello che può? Come fidarsi, infatti, di uno che fa la storia della menzogna che non parte dalla necessità di dire la verità su tale storia? Anche per raccontare la storia della menzogna ci vuole insomma l’intenzione di raccontare una storia secondo verità. Diceva Sant’Agostino che l’intenzione è un po’ il desiderio, la volontà esplicita di dire o non dire la verità. Se c’è questa intenzione di non dire la verità, c’è la menzogna. C’è però un’altra complicazione: «si deve distinguere anche tra storia del concetto di menzogna e una storia della menzogna in sé».108 Problema questo derivante da un’altra sottigliezza in quanto ci possono essere alcune verità (culturali) legate a chi vive un particolare frangente della storia che può ritenere, in tutta tranquillità e fatte salve anche le migliori intenzioni, vera un’affermazione che, solo in seguito, risulterà falsa (si pensi a quanti ritenevano la terra piatta, oppure a chi sosteneva che girando attorno al globo si sarebbe arrivati all’estremo oriente asiatico ignorando l’esistenza del nuovo continente). Proprio perché quello che caratterizza la menzogna è l’intenzione, in tali casi si parlerà di errore inconsapevole, fin quando non ci si troverà di fronte ad un’evidenza che si vuole negare. Ciò che conta è che, per parlare di menzogna, occorre avere un riferimento alla verità, altrimenti la menzogna non sarebbe tale. Si potrebbe addirittura parlare di riferimento alla sacralità «o [al]la santità della verità, al di fuori della quale è impossibile condannare, o anche individuare una menzogna».109 In fondo, il bugiardo è tale non perché dice una bu107 108 109

Ivi, p. 12. Ivi, p. 27. Ivi, p. 29.

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gia, ma perché sa la verità e non la dice. Insomma, come riconoscono un po’ tutti, il falso presuppone il vero. È paradossale che «il politico a rigore dovrebbe avere tutto l’interesse a non mentire, visto che chiunque può smascherare la sua menzogna»110, soprattutto in democrazia dove la possibilità di accedere alla verità dovrebbe essere più facile. Quello che giova porre in risalto è che questo vero non può essere né totalmente avulso da una situazione né totalmente dipendente da questa. Nel primo caso, avremmo una verità solamente formale. Nel secondo, solamente contingente e utilitaristica. Il primo caso riguarda Kant e la sua morale che, come il suo modo di intendere il diritto, finisce per essere rigorosamente formale e inapplicabile, se non in modo assurdo. Per non cadere nel pericolo di escludere ogni riferimento all’attualità storica, come fa appunto Kant, già Sant’Agostino presentava una casistica molto articolata. Per Kant, anche nella menzogna, c’è un “cattivo” a priori che lo porta a conclusioni almeno discutibili. Insomma, persino davanti ad assassini che chiedessero se il vostro amico, che stanno inseguendo, si è rifugiato a casa vostra, mentire sarebbe un crimine. Al riguardo la posizione agostiniana, proprio perché non rigidamente formale, si presenta estremamente più ricca, pur partendo dall’assunto che dire menzogne è un male. Sant’Agostino parte da una convinzione ben precisa: «il linguaggio è stato istituito certamente non perché gli uomini si ingannino a vicenda, ma perché ciascuno porti a conoscenza degli altri i propri pensieri. Perciò, usare il linguaggio per mentire contro il suo fine originario è peccato» (Ench. 7, 22). Mostra però una notevole duttilità e per questo, pur senza mai contraddire la verità, articola una complessa e ricca casistica. Si spinge in alcuni casi a parlare, pur non approvandole, di honesta mendacia, suscitando le perplessità di San Girolamo, che preferiva parlare di honesta dispensatio.111 Parlando di menzogna, il Vescovo d’Ippona segnala «subito che 110

F. D’Agostini, Introduzione alla verità, cit., p. 303. Cfr. Augustini (Sancti), “Epistolae (1-123)”, in Opera Omnia, vol. XXI, Roma 1969, 75 e 82. 111

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è da escludersi qualsiasi menzogna che ingiustamente leda la persona altrui».112 Questa è da condannarsi «senza esitazione di sorta», se poi non reca danno ad alcuno resta comunque da chiedersi «se chi offende la verità per giovare ad un altro non rechi danno a se stesso», aspetto questo sovente trascurato.113 Date queste premesse e riprendendo il paradosso di Kant, Agostino presenta un caso abbastanza simile che rivela la sua notevole sensibilità e il gran valore che egli dà all’esistenza. «Non si pecca infatti quando si fugge alla pena capitale ma quando si commette il peccato per cui si merita quella pena. Nella dottrina cristiana poi s’insegna a non disperare del ravvedimento di nessuno e a non chiudere ad alcuno l’accesso alla penitenza».114 Si può quindi rispondere al paradosso kantiano salvando la verità e non cedendo alla menzogna? Raccontando un caso analogo, Agostino ci dice di sì. Un vescovo di Tagaste aveva nascosto un uomo che si era rifugiato presso di lui per sfuggire alla pena di morte. Le guardie che si recarono dal vescovo per arrestare l’uomo si sentirono rispondere che egli sapeva dove era nascosto, ma non intendeva «né mentire né rivelare il nascondiglio del ricercato». Per questo fu torturato e infine portato davanti all’imperatore che, ammirato dal suo coraggio, graziò il condannato e mutò la pena.115 Agostino avrebbe insomma risposto a Kant che la fermezza non può essere scambiata per stupidità, come la verità per puro formalismo. Per questo, occorre «ricordare che non è lo stesso nascondere la verità e proferire la menzogna. Sebbene infatti tutti coloro che mentono vogliono nascondere la verità, non tutti coloro che vogliono nascondere la verità dicono menzogne, essendo numerosi i casi in cui per nascondere la verità non si mente, ma si tace soltanto».116 Riportarsi ad una verità totalmente fuori dal tempo gene112 Augustini (Sancti), “De Mendacio”, in Opera Omnia, vol. VII/2, Roma 2001, 11.18. 113 Ivi, 12.19. 114 Ivi, 13.22. 115 Cfr. ivi, 13.23. 116 Augustini (Sancti), “Contra Mendacium”, in Opera Omnia, cit., 10.23.

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ra effetti perversi. Il totalitarismo è uno degli effetti di questo tentativo. Detta così questa affermazione potrebbe sembrare paradossale, ma, a ben vedere, come ci ricorda Todorov, il totalitarismo può essere considerato «un mal extrême» perché ha preteso di essere l’unica verità, volendo persino far dimenticare tutto quanto poteva contraddirla.117 La menzogna più radicale sta nel fatto che, mirando ad annullare l’uomo, il totalitarismo gli fa «une promesse de plénitude, de vie harmonieuse et de bonheur». Per questo pretende di possedere un sapere «absolu et définitif».118 Il destino dei singoli si rivela «sans importance» per tale mostruoso Leviatano che «nie radicalement l’altérité».119 La degradazione dell’essere umano e delle sue relazioni personali diventa totale, persino l’autonomia dell’amore diventa un pericolo. Da ciò consegue l’ostilità del potere totalitario alle religioni tradizionali.120 Per ristabilire la verità bisogna riaffermare il primato della persona. Giunti a questo punto vorrei ancora ribadire un punto del formalismo kantiano. Da quanto sin qui detto discende una drammatica conclusione, evidenziata da alcuni, ma scarsamente considerata: «[p]er Kant l’atto è morale quando la sua massima è una massima che può essere universalizzata, eretta a regola che comanda universalmente il comportamento di ogni essere umano. È questa universalità della massima dell’atto che costituisce la bontà morale dell’atto stesso».121 Il bene morale non ha quindi altro fondamento. Che si tratti di un’etica puramente formale risulta chiaro perché il suo impianto deduttivo-normativo prescinde da ogni situazione della vita umana e si richiama a quei principi di ragione che dovrebbero essere universali solo perché li detta la ragione stessa. Ragione che, malgrado riguardi la sfera pratica, a detta dello stesso Kant, si doveva richiamare ai principi della ragion 117

Cfr. T. Todorov, Mémoire du mal. Tentation du bien. Enquête sur le siècle, Parigi 2000, p. 11. 118 Cfr. ivi, pp. 28 e 34. 119 Cfr. ivi, pp. 38 e 44. 120 Cfr. ivi, p. 25. 121 J. Maritain, Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, Milano 1996, p. 54.

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pura-pratica perché considerata «dal solo punto di vista delle esigenze della universalità logica». Ciò spiega perché, agli occhi di Kant, un Massimiliano Kolbe sarebbe esclusivamente un bugiardo e un insensato. Alle ragioni del puro rigorismo non possono opporsi quelle della carità. In fondo, sono le pure esigenze aprioristiche della ragione a dettare il carattere normativo di qualunque atto morale. Al di fuori di queste, non esistono diritti inalienabili della persona perché, per sussistere, debbono essere normalizzati dalla ragione. Richiamarsi a principi morali lontani dalle esigenze aprioristiche è privo di senso e può essere ritenuto frutto di una concezione emozionale. È questa la tipica posizione che sfocerà nel positivismo logico e che trova già in Ayer un convinto assertore essendo del parere che «la presenza di un simbolo etico in una proposizione non aggiunge nulla al suo contenuto come enunciazione di un fatto».122 Ma c’è un altro problema che merita di essere considerato: col tempo, alcuni comportamenti che in passato giudicammo moralmente corretti, ci possono sembrare, se non scorretti, quanto meno sconvenienti. Quello che prima risultava buono o cattivo, ci appare forse più o meno buono o cattivo. Ciò significa che la nostra conoscenza morale può perfezionarsi e diventa, via via, più esigente. Si dice che il nostro modo di giudicare si fa più elevato e dovremmo chiederci rispetto a che. Rimane però il fatto che la nostra intelligenza si fa più penetrante nel senso etimologico dei termini. Anche qui ritorna la domanda: in rapporto a che? Le considerazioni morali si rapportano quindi ad un fine dal quale dipende la dinamicità della vita morale. Da questa finalità inoltre dipende, se non la nostra felicità, almeno il nostro appagamento. Ha un bel dire Kant che la felicità non può condizionare la nostra vita morale, andando alla ricerca di un’etica fondata su «un’assoluta autonomia sia, diciamo così, verso l’alto (la religione), sia verso il basso (la dottrina della prudenza o dottrina della felicità)». Questo vuol dire che, in ogni modo, «lo spazio dell’agire morale non è determinabile dall’esterno, si tratti di leggi divine 122

A. Ayer, Language, true and logic, Londra 1936, p. 158.

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o di condizionamenti sensibili».123 Ma un essere siffatto è un robot e la sua è un’intelligenza artificiale. Non c’è alcun motivo che possa giustificare o, meglio, essere considerato movente di un’azione morale. Inoltre, per l’essere umano, la dimensione robotica, suscita un interrogativo non secondario: da che è data la moralità di un atto? Dipende, direbbe Maritain, dalla sua conformità alla ragione, oppure dalla libertà da cui esso emana e che esso esprime? Oppure, mi permetto di suggerire, da entrambe le posizioni, che un po’ cercano di sanare il divario tra teoria e pratica? Giova tener presente che Kant vuole svincolare l’azione morale da ogni riferimento perché crede che questo possa costituire un condizionamento egoistico dell’azione morale, che finirebbe per non essere più tale. Se, ad esempio, considerassimo la felicità cardine della vita morale, incorreremmo in un grosso rischio «dato che il principio della felicità è strutturalmente egoistico e corrisponde al principio dell’amor di sé».124 Ma così dicendo si vogliono ignorare un’infinità di atti, grandi e piccoli, che, direbbe Sant’Agostino, nulla hanno a che fare con l’amore di sé (amor sui), ma che al contrario sono profondamente altruistici, gratuiti e cercano di evidenziare l’amor Dei. Kant non solo ignora il dualismo agostiniano, ma persino esempi, come quelli di Salvo D’Acquisto o Massimiliano Kolbe, che esprimono la massima dimenticanza di sé. Figure, queste, scomode in un’etica razionalista, come avvertì assai bene Kierkegaard, che però finì per non considerarle affatto etiche. Tutto questo poi senza dimenticare, quand’anche considerassimo solo l’amore di sé (amor sui), che chi sceglie un’azione morale invece di un’altra la vuole sempre in vista di uno scopo. È impossibile volere senza lo specifico del volere, anche quando questo specifico fosse l’essenza del dovere in quanto tale, vale a dire il trovare soddisfazione nel volere il dovere per il dovere. Atto questo che, comunque, placa la mia coscienza morale. 123

L. Fonnesu, Storia dell’etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica, Roma 2006, p. 17. 124 Ivi, 19.

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Senza contare che, se fosse possibile un’azione morale distaccata da ogni riferimento, dovremmo chiederci perché nella nostra coscienza esiste un comando morale del genere? Su cosa si fonda questo prius ontologico senza il quale è impossibile parlare di moralità, non essendo certo esaustivo parlare semplicemente di a priori? La risposta non può che essere una: «[i]l genuino principio della moralità valido universalmente e necessariamente, non potrà essere materiale, ma dovrà essere, al contrario, formale».125 Inoltre, se questo formalismo, con tutto il suo essere asettico, diventa così oggettivo, che fine fa la libertà non avendo alcun genere di riferimento che garantisca la possibilità di scelta?

125

Ivi, p. 20.

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Capitolo II Autorità ed eguaglianza nella democrazia deliberativa di FRANCESCO VIOLA

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I. Pluralismo, costituzionalismo e democrazia deliberativa Che la democrazia tenda ad evolversi verso forme segnate da un carattere deliberativo, non è cosa difficile da mostrare.1 Basta fare riferimento a due fenomeni culturali tipici del nostro tempo: il pluralismo e il costituzionalismo. Il “pluralismo contemporaneo” è ben diverso da quello del passato, in cui la pluralità era espressione dell’articolazione di una base di valori pur sempre comune. Ora si tratta della diversità profonda di orizzonti di senso e di concezioni globali della vita umana. La comunanza non può essere data per presupposta e semmai deve essere cercata senza la certezza che possa essere trovata.2 Pertanto, mentre nel passato i dettami dell’autorità o il voto a maggioranza erano limitati e controllati da una preesistente base comune di valori, ora, se si vuole evitare di ricorrere alla coercizione, bisogna fare sempre più affidamento sulla ragionevolezza e sull’argomentazione per giustificare quelle restrizioni che rendono possibile la convivenza. Il pluralismo contemporaneo detesta il volontarismo politico e ama le risorse del discorso pubblico. 1 Per una bibliografia orientativa e una sintesi delle concezioni fondamentali di democrazia deliberativa, cfr. J. Bohman, The coming of age of deliberative democracy, in «The Journal of Political Philosophy», 6, 4/1998, pp. 400–425. 2 Ho affrontato questo tema nel mio La comunanza etica nella società del pluralismo, in corso di pubblicazione.

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Pensare diversamente, facendo ricorso al principio hobbesiano Auctoritas non veritas facit legem, vuol dire considerare il pluralismo un disvalore per la vita di una comunità politica e, pertanto, ritenere necessaria la sua neutralizzazione.3 La democrazia deliberativa presuppone che il pluralismo sia considerato non solo come un dato di fatto, ma anche come un valore da cui scaturisce il discorso pubblico al fine di intendersi e di comprendersi. Il secondo fenomeno, che apre la via alla democrazia deliberativa, risiede nel “costituzionalismo contemporaneo”. Nel regime costituzionale del nostro tempo4, per produrre le loro decisioni, i legislatori e i giudici devono confrontarsi con princìpi etico-politici già posti, che richiedono di essere interpretati, argomentati e determinati in relazione alla varietà delle circostanze storiche, ma sempre senza vanificarne il senso e nell’ottica di una loro armonizzazione. Questo trattamento dei princìpi costituzionali richiede, unitamente a quello giuridico, un approccio morale, cioè anche il ricorso a metodi d’interpretazione, di valutazione e di applicazione che sono propri del ragionamento morale.5 I princìpi morali, infatti, si articolano e si applicano mediante argomentazioni morali. Ora, mentre l’argomentazione giuridica è, o può essere, sottoposta a vincoli e limiti artificiali o autoritativi, l’argomentazione morale si affida pienamente ed esclusivamente alla ragione naturale senza restrizioni. Quest’intreccio di operazioni intellettuali, a prescindere dalle loro particolarità, ha indubbiamente un carattere deliberativo. Come giustamente nota Alexy, il costituzionalismo contemporaneo non solo è «democratico», ma richiede una «democrazia deliberativa», in cui trovi posto una razionalità discorsiva come la procedura più adatta per pervenire alle deci3

Cfr. U. Scarpelli, Auctoritas non veritas facit legem, in «Rivista di filosofia», 75, 1984, pp. 29–43. 4 Intendo: il tempo in cui le costituzioni (non importa se scritte o non scritte) normalmente contengono o fanno riferimento ad un catalogo di diritti che trova riscontro anche a livello internazionale. 5 Questa – com’è ben noto – è la tesi di R. Dworkin, Freedom’s law. The moral reading of the american constitution, Oxford 1996.

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sioni comuni.6 Dunque, nel discorso che seguirà, ci si riferirà sempre ad una democrazia costituzionale.7

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II. Caratteri generali della pratica della deliberazione pubblica Quando un gruppo di individui eguali, liberi e razionali deve prendere una decisione che li riguardi tutti e quando manca l’unanimità dei consensi, non restano che tre vie possibili: argomentare, negoziare o votare. I duelli e i tornei non sono più in uso oggi. Argomentare e negoziare sono forme di comunicazione, mentre votare non lo è. Di fatto, tutti e tre questi modi sono usati nella decisione politica, spesso attraverso commistioni complesse. Votare e argomentare si collocano ai due estremi opposti, in quanto con il voto la decisione collettiva è presa per via aggregativa, cioè sommando le preferenze; mentre con l’argomentazione è presa per via deliberativa, cioè soppesando le ragioni delle soluzioni proposte alla luce del principio di ragionevolezza.8 Per questo, la democrazia deliberativa intende prendere le distanze dalla democrazia aggregativa9, basata esclusivamente ed essenzialmente sul principio di maggioranza. La deliberazione pubblica è un discorso in cui è ammesso soltanto di portare specifiche ragioni e che è finalizzato a prendere una decisione.10 La specificità di queste ragioni consiste 6

Cfr, ad esempio, R. Alexy, Elementi fondamentali di una teoria della duplice natura del diritto, in «Ars interpretandi», 15, 2010, pp. 30–31. 7 Per i legami fra costituzionalismo e pluralismo, cfr. F. Viola, La democrazia deliberativa tra costituzionalismo e multiculturalismo, in «Ragion pratica», 11, 2003, pp. 33–71. 8 Cfr. J. Elster, “Introduction”, in J. Elster (a cura di), Deliberative democracy, Cambridge 1998, pp. 5–8. 9 Dworkin la chiama anche «democrazia statistica». R. Dworkin, “The moral reading and the majoritarian premise”, in H. Hongju Koh e R. C. Slye (a cura di), Deliberative democracy and human rights, New Haven 1999, p. 94. 10 Non dimentichiamo che la deliberazione riguarda solo le cose che sono in nostro potere, cioè le azioni umane da porre in essere. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1112a 27–30.

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nel loro poter essere accettate dagli altri consociati che non hanno la nostra stessa filosofia della vita.11 In questo senso, sono escluse le ragioni che si appellano alle proprie preferenze in quanto tali o ai propri ed esclusivi vantaggi personali o di gruppo. Se ci si impegna nel discorso pubblico e non già nella negoziazione, s’è rinunziato implicitamente ad avanzare questo tipo di ragioni e ci si è autocensurati sotto questo aspetto.12 Pur essendo finalizzata alla decisione, la deliberazione non deve essere confusa con questa. L’atto di decidere è successivo a quello di scegliere.13 La decisione è il risultato della scelta. La deliberazione, che conduce alla scelta, è un processo, mentre la decisione, che segue alla scelta, è un atto. L’importanza di questa distinzione risiede nella differenza fra il carattere razionale del processo di scelta proprio della deliberazione e il carattere volontario della decisione. Purtroppo (o per fortuna), nel campo pratico la ragione più forte non prevale di per se stessa sulle altre ragioni, ma ha bisogno di un riconoscimento o di un’accettazione, cioè di un atto di volontà da parte del soggetto o dei soggetti che la pongono come guida della loro azione.14 Questo atto di volontà dovrebbe seguire ciò che la scelta ha indicato come la ragione prevalente, altrimenti sarebbe ingiustificato. Quando viene meno la corrispondenza o la continuità fra la scelta e la decisione15, allora l’azione viene privata di una giu11

Cfr. J. Cohen, “Democracy and liberty”, in J. Elster (a cura di), Deliberative democracy, cit., p. 195. 12 Cfr. J. Elster, “The market and the forum: Three varieties of political theory”, in J. Bohman e W. Rehg (a cura di), Deliberative democracy. Essays on reason and politics, Cambridge 1999, p. 12. 13 Cfr. N. Bobbio, “Decisioni individuali e collettive”, in N. Bobbio et al., Ricerche politiche due, Milano 1983, p. 12. 14 Ovviamente, i rapporti tra ragione e volontà sono condizionati dal modo d’intendere la ragion pratica. Com’è noto, per Kelsen si tratta di un modo degenerato d’intendere la ragione, poiché pretende di avere un carattere normativo. Se Kelsen avesse ragione, la democrazia deliberativa sarebbe una panacea o una chimera. Cfr. F. Viola, “Hans Kelsen and practical reason”, in P. Langford et al. (a cura di), Kelsenian legal science and the nature of law, Cham 2017, pp. 121–139. 15 È quasi superfluo ricordare il video meliora proboque, deteriora sequor di Ovidio.

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stificazione razionale argomentata. La ragion pratica non è passiva, come pensava David Hume, perché l’argomento più forte ha un carattere normativo, ha una “forza” morale, e tuttavia è vero che non ha di per sé il potere di farsi seguire («unforced force of the better argument»).16 Non bisogna identificare la normatività con il potere di farsi valere o di farsi obbedire.17 Se fosse così, non vi sarebbero né libertà né responsabilità. La giustificazione principale della deliberazione sta nell’evitare di usare la coercizione e nel sollecitare un’obbedienza che sia supportata dal convincimento piuttosto che dalla cieca conformità ad una regola. Per questo la democrazia deliberativa è una difesa nei confronti del potere della maggioranza.18 Pertanto, si discute se la decisione sia un fine interno della stessa procedura deliberativa oppure sia un fine esterno ad essa. Sta di fatto che, se una deliberazione non si conclude con una decisione, allora perde la sua natura deliberativa e diviene una pura e semplice discussione. Questa constatazione rafforza la convinzione che la decisione sia un fine interno e qualificante la deliberazione. In tal modo è anche possibile difendere la democrazia deliberativa dalle critiche di coloro che fanno notare l’imprescindibilità del principio di maggioranza, non solo nei parlamenti ma anche nelle corti di giustizia. Si può discutere quanto si vuole, ma alla fine dei conti per decidere si deve votare. Si nota allora che, se la democrazia deliberativa ha ancora bisogno del voto per pervenire alle sue decisioni, ciò vuol dire che l’aspetto aggregativo non è per nulla cancellato.19 Tuttavia, 16 Questa linea di pensiero propria di Habermas è ben sviluppata da W. Rehg, Insight and solidarity: A study in the discourse ethics of Jürgen Habermas, Berkeley 1994. 17 Quest’identificazione è tipica delle teorie sanzionatorie del diritto. Cfr. il mio La teoria del diritto come pratica sociale e la coercizione, in «Persona y Derecho», 81, 2/2019, pp. 31–66. 18 Sulla «tirannia della maggioranza», cfr. G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Milano 1993, pp. 93–96. 19 Si tratterebbe solo di un aggiustamento interno alla democrazia aggregativa. Cfr. J. Squires, “Deliberation and decision making: Discontinuity in the two-track model”, in M. Passerin d’Entrèves (a cura di), Democracy as public deliberation, Londra 2006, pp. 133–156.

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bisogna riconoscere la grande differenza fra una decisione come mero risultato di un’aggregazione di voti e una decisione intesa come conclusione di una procedura deliberativa. Quindi, la deliberazione è un’argomentazione pratica, la cui conclusione propria è un’azione e non già una proposizione teorica. Ciò vuol dire che la decisione è parte integrante della deliberazione e non già un suo risultato esterno, che sarebbe soggetto a differenti criteri di verifica. A sua volta la decisione, che compete all’autorità, può essere considerata come l’azione propria delle istituzioni politiche e sociali. C’è ancora da aggiungere che la deliberazione pubblica ha (e deve avere) necessariamente un carattere dialogico. Ciò significa non solo che intercorre tra una pluralità di soggetti, ma anche che riguarda una pluralità di ragioni. Se non vi fosse la pluralità di soggetti, la deliberazione non sarebbe pubblica e, se tra una pluralità di soggetti vi fosse l’unanimità, allora non ci sarebbe nulla da deliberare. Il carattere dialogico è essenziale anche da un altro punto di vista. Uno dei principali obiettivi della deliberazione è, infatti, quello di rendere possibile che la gente cambi idea, abbandonando la pretesa dell’insindacabilità ed immodificabilità delle proprie preferenze e delle proprie opinioni. Se non si fosse disposti a modificarle, allora, specie nel regime del pluralismo contemporaneo, sarebbe impossibile raggiungere un’intesa su valori comuni senza cui non v’è alcuna società politica. La deliberazione è un metodo per far cambiare idea, come c’insegna la retorica classica. Nella votazione, invece, le opinioni sono già formate e non resta che contarle. Infatti, si vota per conto proprio (nel segreto della cabina elettorale). Anche nella negoziazione, a rigore, non si cambia in senso proprio idea o opinione o preferenza, ma solo la si ridimensiona per rendere possibile la coordinazione con le posizioni altrui. È specifico della deliberazione mirare alla trasformazione delle opinioni (anche quelle radicate nelle identità culturali) con argomenti razionali o ragionevoli, che fanno appello a valori imparziali, sì da raggiungere un comune modo di pensare. Si può anche dire che il processo pubblico di deliberazione è la ricerca in comune di decisioni comuni che poggino su 64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ragioni mutuamente accettabili.20 Questo sembra essere l’unico modo di rispettare il pluralismo contemporaneo senza ricorrere a metodi coercitivi o meramente aggregativi.

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III. Benefici della democrazia deliberativa Alla luce di queste caratteristiche della pratica della deliberazione saltano agli occhi i benefici che la democrazia riceverebbe qualora privilegiasse questo modo di prendere le decisioni collettive. S’è, infatti, notato che una pratica deliberativa assicura decisioni informate e ponderate (e ciò ne accresce la legittimità), incoraggia i cittadini ad assumere punti di vista più ampi e generosi, aiuta a chiarificare la vera natura del conflitto, che può essere frutto di malinteso o di scarse informazioni.21 Il metodo deliberativo è il più adatto all’autocorrezione delle opinioni e alla loro conversione. Per questo, nel momento in cui il cittadino partecipa ad un discorso politico deliberativo, è vincolato a comunicare con la diversità e, quindi, in un certo qual modo, a tenerne conto innanzitutto per apprendere da essa e per far sì che altri apprendano da lui. Come ha notato Alessandro Pizzorno, questa è propriamente la libertà di conversione che il liberalismo tradizionale non è in grado di comprendere.22 In più, la pratica deliberativa è diretta a controllare l’esercizio dell’autorità ed a monitorare la stessa partecipazione dei cittadini, in quanto i partecipanti dovranno prendere la distanza dai loro interessi, dalle loro opinioni e dalla loro identità.23 Il ricorso alla giustificazione razionale neutralizza le differenze di genere, di colore della pelle e di etnia. 20 Cfr. A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and disagreement. Why moral conflict cannot be avoided in politics, and what should be done about it, Cambridge 1996, p. 55. 21 Cfr. ivi, pp. 39–49. 22 A. Pizzorno, La politica assoluta e altri saggi, Milano 1993, p. 14. 23 Cfr. M. Passerin d’Entrèves, “Introduction: Democracy as public deliberation”, in M. Passerin d’Entrèves (a cura di), Democracy as public deliberation, cit., pp. 3–20.

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Altri aggiungono che la deliberazione pubblica ha un potere educativo nei confronti dei cittadini in quanto li abitua al dialogo e al rispetto delle posizioni altrui e della diversità di opinioni24; e sottolineano che la democrazia deliberativa è capace di generare comunità politica nel regime del pluralismo.25 Infine, si sostiene che la democrazia deliberativa porta in sé un’idea di democrazia che è più coerente con la cultura occidentale a cui apparteniamo, cioè con la nostra identità (who we are), così rendendo però particolaristica (e non universale) la validità di questo modello.26 Tutto questo è molto incoraggiante ai fini di una promozione di una democrazia che sia deliberativa, ma vi sono ostacoli da superare e difficoltà da affrontare. In generale, la preoccupazione dei critici riguarda il rispetto del concetto stesso di democrazia e dei suoi aspetti più rilevanti. Qui ci soffermeremo soltanto su due colonne portanti della democrazia: quella dell’eguaglianza e quella dell’autorità. Su entrambi questi fronti la deliberazione introduce una propria declinazione o una propria interpretazione, che deve essere accettata e assimilata dal concetto di democrazia senza produrre contraddizioni interne. IV. La disuguaglianza di cultura Le prime perplessità a proposito della democrazia deliberativa riguardano il pieno rispetto del valore dell’eguaglianza dei cittadini. Nel metodo del voto, l’eguaglianza è numerica e, in questo senso, assoluta: il voto dell’uno è eguale a quello dell’altro ed ogni voto viene contato per uno. Nella deliberazione pubblica, l’eguaglianza è normativa: ognuno ha gli stessi diritti di 24

Cfr. S. Zamagni, Educare alle virtù democratiche: la prospettiva della democrazia deliberativa, in «Archivio di Filosofia», 81, 3/2013, pp. 33–52. 25 Cfr. M. Cooke, “Five arguments for deliberative democracy”, in M. Passerin d’Entrèves (a cura di), Democracy as public deliberation, cit., pp. 53–87. 26 Ivi, pp. 63–66.

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partecipazione e deve seguire le stesse regole degli altri partecipanti. Tuttavia, poiché la deliberazione è una pratica, questi diritti e queste regole saranno messi a frutto dai partecipanti in modo ben differente, sicché la partecipazione sarà disuguale. Infatti, una delle qualità che la deliberazione richiede è quella di essere informati sulla questione da decidere e un’altra disposizione richiesta è quella di essere forniti dell’istruzione necessaria che metta in grado di argomentare correttamente in modo dialogico. È inutile dire che, da entrambi questi punti di vista, i cittadini sono irrimediabilmente disuguali. Pochi sono adeguatamente informati e ben pochi sanno dialogare correttamente. Al contrario del voto, in cui tutte le differenze vengono neutralizzate e rese irrilevanti, nel metodo deliberativo non possono esserlo proprio perché esso richiede una dotazione acquisita e un’abilità ben formata. Entrambe sono certamente appannaggio del modello ideale di cittadino, ma non sempre sono presenti nei cittadini reali. Pertanto, la configurazione della democrazia deliberativa come di un dialogo aperto, a cui possono partecipare liberamente tutti i cittadini, per confrontare le loro opposte o diverse opinioni su questioni politiche particolari e pervenire ad una decisione in seguito ad un giudizio riflessivo, ponderato ed imparziale, è un modello ideale che nasconde nelle sue realizzazioni, sempre imperfette, una profonda disuguaglianza, scandalosa quanto quella economica, cioè la disuguaglianza di cultura. Questa critica viene allargata ancor di più dall’aggiunta che, a maggior ragione, la democrazia deliberativa risulterà discriminatoria nei confronti dei gruppi svantaggiati, delle donne, dei poveri, delle minoranze e dei migranti.27 Di fronte a questa seria difficoltà si possono evidenziare diverse strategie di risposta, ma sicuramente si dovrà rigettare quella che configura la democrazia deliberativa come il governo degli esperti o dei tecnici, essendo questi i cittadini più 27 Cfr. L. Sanders, Against deliberation, in «Political Theory», 25, 1997, pp. 347–376; e I. M. Young, “Communication and the other: beyond deliberative democracy”, in S. Benhabib (a cura di), Democracy and difference. Contesting the boundaries of the political, Princeton 1996, pp. 120–135.

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adeguatamente informati ed istruiti. La tecnocrazia contraddice sia l’aspetto della democrazia, sia quello della deliberazione pubblica. È in contrasto con la democrazia in quanto non si potrà più parlare di un governo del demos e della partecipazione dei cittadini, ma di un’oligarchia di esperti. È in contrasto con la deliberazione pubblica, perché misconosce il senso della politica, che non è quello di individuare i mezzi adatti ad un fine già dato, ma di dar forma al fine da raggiungere attraverso il discorso sui mezzi. La deliberazione permette proprio questo, perché contiene argomenti non incontrovertibili, valutazioni e scelte. Come si sa, spesso, la contrapposizione sui mezzi dipende dal modo diverso d’intendere i fini e gli stessi valori costituzionali. Nella tecnocrazia, invece, i fini sono già dati e la scelta dei mezzi ha un carattere meramente strumentale. Basta questo perché venga meno ciò che è proprio della “politica”. Poiché nella politica non si può separare il discorso sui mezzi da quello sui fini, non è condivisibile neppure la proposta di chi vorrebbe che dei fini si occupino i cittadini e dei mezzi gli esperti.28 Anche in questo caso non si potrebbe più parlare di “democrazia deliberativa”, che indica il demos come deliberante relativamente a tutti gli aspetti che conducono alla decisione politica. Almeno dovrebbe essere così se vogliamo conservare alla democrazia deliberativa tutta la pregnanza del suo significato.29 Da quanto detto si desume che la democrazia deliberativa deve necessariamente essere anche partecipativa.30 Deliberare e partecipare non sono per nulla logicamente collegati. Può mancare la partecipazione ed esservi la pratica deliberativa (come nel governo di esperti) o, viceversa, esservi la parteci28 Cfr. T. Christiano, The Constitution of equality. Democratic authority and its limits, Oxford 2008. 29 Ovviamente la si può intendere in senso più debole, cioè come una democrazia attenta tra l’altro alla discussione pubblica. Ma così diventa poco significativa. 30 Cfr. S. Elstub, “Deliberative and participatory democracy”, in A. Bächtiger e al. (a cura di), Oxford handbook of deliberative democracy, Oxford 2018, pp. 187–202.

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pazione e mancare la deliberazione (come nel principio di maggioranza). Ma, se si chiede che una democrazia deliberativa sia partecipativa, tale partecipazione dovrebbe riguardare proprio la deliberazione, cioè essere una partecipazione ai processi che conducono alle decisioni comuni. Nella misura in cui la democrazia persegue l’obiettivo dell’autogoverno dovrà aprire le porte del discorso pubblico a tutti i cittadini. Torniamo così alla difficoltà iniziale, cioè all’ostacolo della disuguaglianza di cultura. Come s’è già detto, mentre la democrazia aggregativa può dare egual peso al voto di ognuno, la democrazia deliberativa si rifiuta di dare egual peso alle opinioni di ognuno.31 Avranno maggiore peso le opinioni dei più informati o dei più esperti o anche dei più saggi. Qui si fa sentire la presenza dell’elemento elitario o aristocratico all’interno della democrazia deliberativa. Com’è possibile conciliare il fatto che alcune opinioni hanno più peso di altre, in ragione della loro fonte, con il principio democratico della partecipazione di tutti come eguali? V. Deliberazione e partecipazione democratica Innanzitutto, la democrazia deliberativa, per affrontare la questione della disuguaglianza di cultura, dovrà adoperarsi per ridurre il più possibile la discriminazione nell’informazione e nell’istruzione. Bisogna che tutta la società sia sensibile alla più ampia diffusione e alla libera circolazione delle informazioni e al loro corretto uso. È necessario che l’atteggiamento deliberativo sia già presente nella società civile, in cui, anche se non si prendono decisioni pubbliche ufficiali, si devono, in molteplici sedi e nelle più disparate occasioni, confrontare le opinioni e riflettere su di esse. La costruzione di un’opinione pubblica informata da una stampa e, in generale, da mezzi di comunicazione responsabili e indipendenti è una condizione imprescindibile per il suc31 Cfr. C. Lafont, Democracy without shortcuts. A participatory conception of deliberative democracy, Oxford 2020, pp. 75–76.

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cesso della deliberazione politica.32 Per non dire che, senza un adeguato sistema d’istruzione pubblica, i cittadini sono facile preda delle emozioni mediatiche. Di per sé l’opinione pubblica non decide, ma contribuisce a formare quella cultura pubblica di base che rende possibile il dibattito, il confronto e l’intesa fra posizioni differenti e divergenti. Ma tutto ciò è il presupposto di ogni forma di democrazia che si rispetti. Si potrà solo notare che l’ideale di una democrazia deliberativa spinge ancor più decisamente in questa direzione e che questa è cosa buona. Tuttavia, l’obiettivo proprio della democrazia deliberativa è più ambizioso, è quello di diffondere la pratica deliberativa in tutte le forme e i luoghi della vita politica. La maggior parte dei cittadini dovrebbe essere in grado di orientarsi con competenza nelle problematiche politiche che interessano il loro benessere. Ma non si potrà pensare che la maggior parte di essi sarà mai in grado di discutere e decidere con perizia e saggezza, con conoscenza e prudenza le questioni sempre più complesse della vita politica del nostro tempo. Ed allora s’è pensato di declinare in un certo modo il principio della rappresentanza nella democrazia deliberativa. Non si tratta di una rappresentanza formale, ufficiale o istituzionale, ma di una rappresentanza simbolica o di una “rappresentazione”.33 I noti esperimenti di J. Fishkin si sono sostanziati nella costituzione di piccoli gruppi di cittadini, scelti con criteri di rappresentatività identitaria e/o di orientamento ideale (così come si fa con le giurie34 o con i comitati etici), esentati dall’attività lavorativa e dediti esclusivamente ad informarsi su 32

Cfr., ad esempio, J. S. Fishkin, La nostra voce. Opinione pubblica & democrazia, Venezia 2003. 33 In questa luce, si comprende la proposta d’istituzione di un Deliberation Day per promuovere la pratica deliberativa nella vita pubblica. Cfr. B. Ackerman e J. S. Fishkin, Deliberation Day, New Haven 2004. 34 Cfr. L. Corso, Giustizia senza toga. La giuria e il senso comune, Torino 2008; e G. Smith e C. Wales, “Citizens’ juries and deliberative democracy”, in M. Passerin d’Entrèves (a cura di), Democracy as public deliberation, cit., pp. 157–177.

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questioni specifiche di politica regionale (cioè in grado di incidere su interessi vitali, attuali e concreti) e a deliberare a tal proposito.35 Il dibattito interno a questi gruppi, ampiamente pubblicizzato, soprattutto dai canali televisivi, avrebbe avuto un’influenza sull’opinione pubblica tale da condizionare le decisioni degli organi ufficiali. In tal modo, la stessa pratica deliberativa mostra di essere una procedura per essere informati.36 Questi piccoli gruppi (minipublics) si collocano nella zona di confine tra la società civile, in cui ribolle l’opinione pubblica, e le istituzioni pubbliche ufficiali, in cui si perviene alle decisioni finali. Nei confronti della prima, dovrebbero testimoniare la possibilità di cambiare opinione in seguito ad una maggiore e/o migliore informazione; nei confronti delle seconde, dovrebbero contribuire a porre le basi di quel processo deliberativo che si concluderà con un voto. L’opera di collegamento tra queste due sfere della vita pubblica è indubbiamente molto utile e necessaria, e tuttavia non basta per qualificare come deliberativa la vita politica nel suo complesso. In più, bisogna considerare che questi piccoli gruppi sono più adatti ad affrontare questioni politiche di carattere locale, che dipendono molto dall’informazione esatta di dati scientifici o sociali. In questi casi la conclusione della deliberazione, una volta in possesso dell’informazione corretta, è quasi obbligata, anche se resta pur sempre un margine di scelta più o meno ampio, altrimenti non ci sarebbe nulla da deliberare.37 Pertanto, dobbiamo chiederci se e in che modo la pratica deliberativa possa essere presente nella società civile e come debbano essere intese le istituzioni ufficiali della società poli35 Cfr. J. S. Fishkin, Democracy and deliberation: New distinctions for democratic reform, New Haven 1991; e, da ultimo, Democracy when the people are thinking: Revitalizing our politics through public deliberation, Oxford 2018. 36 S. Benhabib, “Toward a deliberative model of democratic legitimacy”, in S. Benhabib (a cura di), Democracy and difference. Contesting the boundaries of the political, cit., p. 71. 37 L’esempio classico è quello della determinazione del luogo di smaltimento dei rifiuti tossici, fonte di acceso conflitto nelle amministrazioni locali.

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tica, affinché la deliberazione e la partecipazione penetrino più profondamente nelle strutture della democrazia indiretta o rappresentativa.

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VI. Lo spazio comune come preparazione della deliberazione pubblica A questo proposito dobbiamo tener conto che la sfera pubblica non è unitaria, ma si articola secondo luoghi differenti, che però non sono del tutto separati gli uni dagli altri. In generale, possiamo distinguere uno spazio comune, uno spazio politico e uno spazio istituzionale.38 Lo spazio comune è l’ambito proprio della società civile, in cui si esprimono le differenti identità e fioriscono le iniziative volontarie dei cittadini e delle loro libere associazioni. Esso può essere esemplificato dalla “strada”, in cui deve esservi una libera circolazione senza restrizioni sulla direzione da prendere, sul modo di perseguirla, ed anche sul modo d’intendere le relazioni sociali fondamentali. Lo spazio comune deve essere inclusivo al massimo e al massimo accogliente. In questo luogo, la libertà di esprimere la propria identità e di manifestare il proprio pensiero deve essere la più ampia possibile, con l’unico limite dell’ordine pubblico. Non vi devono essere restrizioni nei confronti dell’identità delle persone in tutte le loro forme (culturali, religiose, di genere) e neppure dovrà essere censurata l’opinione delle persone, tranne nel caso che sia d’incitamento alla violenza o gravemente offensiva e irrispettosa degli altri. Nello spazio comune comincia a prepararsi la materia che alimenterà la pratica della deliberazione. Questa materia è ancora informe e si presenta prevalentemente nella veste di 38

Com’è noto, la configurazione ed articolazione della sfera pubblica sono oggetto di dibattito e di descrizioni differenti, da Hannah Arendt a Jürgen Habermas e John Rawls. Ma qui possiamo evitare di affrontare questo difficile tema, perché questi tre stadi della sfera pubblica sono intesi come un minimo denominatore comune tra le differenti concezioni.

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testimonianza delle proprie credenze, dei propri bisogni, dei propri interessi. Nello spazio comune, spesso, si comunica attraverso le emozioni, le narrazioni e i costumi. Questo modo d’esprimersi di per sé non pregiudica la fondatezza delle istanze che vengono avanzate e dei riconoscimenti che vengono richiesti. Certamente, non si tratta ancora di argomentazioni vere e proprie e tuttavia in tal modo si presentano “ragioni” che sono alla ricerca di un confronto e di un’articolazione argomentativa. Il compito da assolvere nello spazio comune è quello di presentarsi in pubblico, di far conoscere la propria identità, di comunicare i propri bisogni e le proprie richieste. VII. Lo spazio politico e l’eguaglianza deliberativa Lo spazio politico ha il compito di raccogliere tutte queste richieste di riconoscimento e di giustizia, che provengono dalla società civile, e di interrogarsi su quali possano entrare a far parte del bene comune, cioè di una visione condivisa di quel bene che è proprio della comunità politica in questione. Ciò significa che la pratica deliberativa già s’è messa in moto. Da principio, gli argomenti più disparati fluttuano senz’ordine logico nella “piazza” della città, che è il luogo metaforico in cui i cittadini s’incontrano per discutere sui diritti da riconoscere e sulle finalità da perseguire nella loro vita associata. Per superare questo scrutinio le istanze avanzate debbono essere supportate da una giustificazione razionale, tale cioè da poter essere compresa e accettata come plausibile anche da coloro che hanno una diversa concezione di vita. Tale giustificazione, inoltre, permette di confrontare le istanze contrapposte e di argomentare sulla questione di cui si tratta. Questo è, infatti, il processo di deliberazione, in cui si soppesano le ragioni che sostengono le differenti opzioni disponibili. In tal modo, lo spazio politico dovrebbe costituire un filtro di queste richieste di giustizia e di riconoscimento. Quelle settarie, fondamentaliste ed intolleranti si escluderebbero da sé, 73 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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perché non sono in grado di fornire prova della loro ragionevolezza.39 Nel corso del dibattito, il numero delle opzioni ragionevoli si andrebbe via via riducendo fino a radicalizzarsi in poche alternative o in una contrapposizione. Tutto ciò è evidentemente una visione ideale del dibattito pubblico nello spazio politico. Di fatto, il riconoscimento come “ragionevole” di una richiesta o di una proposta, cioè il riconoscimento di quella qualità che permette la piena partecipazione al dibattito pubblico, è soggetto ai condizionamenti dell’opinione pubblica ed ai pregiudizi ideologici. Si tende a considerare “irragionevole” ciò che non concorda con la propria opinione. Tale qualifica significa che l’argomento viene apriori emarginato nel dibattito pubblico se non addirittura estromesso del tutto. Essere esclusi di fatto dal dibattito pubblico vuol dire essere esclusi dalla stessa democrazia, dalla possibilità di partecipare liberamente alla determinazione del bene comune. Non essere rappresentati nella pratica deliberativa dello spazio politico è grave quanto essere esclusi dal voto, perché del pari impedisce una partecipazione attiva al governo della città. Lo spazio politico richiede, dunque, un’opera di valutazione, di confronto, di giustificazione, di apprezzamento e di confutazione che è molto delicata, a cominciare dal rispetto per le opinioni altrui. Il presupposto necessario è dato da un’applicazione specifica del principio di eguaglianza che chiameremo “eguaglianza deliberativa”. Esso non consiste soltanto nell’eguale rispetto da parte di tutti i partecipanti delle regole del discorso e nel riconoscimento di eguali diritti di partecipazione, ma anche nell’eguale considerazione e trattamento di tutte le opinioni in gioco (tranne quelle escluse per motivi di ordine pubblico e di manifesta irragionevolezza). Nella pratica deliberativa, queste potranno essere escluse o superate solo in seguito alla loro confutazione, o al 39

Cfr. D. Miller, “Is deliberative democracy unfair to disantvantaged groups?”, in M. Passerin d’Entrèves (a cura di), Democracy as public deliberation, cit., p. 212.

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loro aggiustamento, e non alla loro denigrazione o criminalizzazione. L’eguaglianza deliberativa non riguarda solo le persone, ma anche le loro opinioni e richieste. È l’eguaglianza di base o di partenza dei contenuti della pratica deliberativa, e non significa di certo che ogni ragione abbia uguale peso, avvalorando una sorta di relativismo che renderebbe un nonsenso la stessa deliberazione. È però anche vero che l’emarginazione delle opinioni e delle ragioni è un modo occulto per emarginare le persone che in esse s’identificano. Comunque, nella democrazia deliberativa, i contenuti di cui si discute e quelli delle decisioni prese hanno una rilevanza che manca nella democrazia aggregativa, sorretta unicamente dal principio di maggioranza. Nello spazio politico, non vi sono decisioni e neppure vere e proprie scelte, ma solo orientamenti dell’opinione pubblica verso il privilegiamento di un’opinione rispetto ad altre. Poiché – come s’è detto – la sua conclusione è una decisione, ciò vuol dire che la pratica deliberativa non si è conclusa e che prosegue nello spazio istituzionale. VIII. Lo spazio istituzionale e la terza via dell’autorità politica Il terzo gradino è quello dello spazio istituzionale, quello in cui si prendono le decisioni vincolanti per tutti i cittadini, quali sono in primo luogo i parlamenti e i tribunali. Qui ci imbattiamo nel concetto di autorità proprio della democrazia deliberativa. I suoi oppositori fanno leva sull’attuale crisi dell’autorità in generale, di cui la democrazia deliberativa sarebbe al contempo segno, causa ed effetto.40 La deliberazione, infatti, è legata alla ragione, mentre l’autorità alla volontà. Tuttavia, c’è da chiedersi se si tratta della crisi dell’autorità o piuttosto della crisi di un modo d’intenderla che non si accorda 40 Cfr. M. E. Warren, Deliberative democracy and authority, in «The American Political Science Review», 90, 1996, pp. 46–60.

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con lo spirito della democrazia. In quest’ultima ipotesi, la democrazia deliberativa aprirebbe la strada verso una profonda revisione del ruolo dell’autorità nella vita politica e sociale. Ed è proprio a questo che rivolgeremo ora la nostra attenzione. Come sappiamo, l’ideale regolativo della democrazia è quello dell’autogoverno, che per definizione tende a limitare e controllare il più possibile il ruolo dell’autorità e, tuttavia, non può eliminarla del tutto in assenza di unanimità. Nella democrazia aggregativa, sia essa diretta o indiretta, bisogna ricorrere al principio di maggioranza, che è la proiezione della volontà dei cittadini. Anche la minoranza dovrà accettare l’autorità della maggioranza dato che ha accettato tale procedura. È prevedibile che la minoranza si trovi a dover obbedire a leggi che non può sottoscrivere e di cui non può ritenersi autore non solo per difetto di potere, ma anche e soprattutto perché non si riconosce nel contenuto di queste leggi.41 Il principio di maggioranza non può garantire di per sé la ragionevolezza delle decisioni prese. Invece, per il metodo deliberativo – come s’è già detto – il contenuto delle leggi passa in primo piano. Non solo questo contenuto deve essere ragionevole, ma anche supportato da un’argomentazione adeguata nei confronti delle ragioni contrarie. La minoranza resterà lo stesso insoddisfatta e, tuttavia, non può (o non dovrebbe) lamentare l’irragionevolezza della decisione presa e neppure di non aver avuto la possibilità di far sentire le proprie ragioni. C’è differenza fra un voto inteso come mera aggregazione di preferenze indiscutibili e un voto argomentato, cioè supportato da argomenti che sono stati riconosciuti come, in linea di principio, accettabili da tutti, anche se di fatto non tutti li accettano. Per questo il metodo deliberativo, se unito alla più ampia partecipazione democratica, si avvicina all’autogoverno ben più del principio maggioritario da solo. Allora bisogna interrogarsi sul modo in cui la democrazia deliberativa intende l’autorità. 41 Cfr. C. Lafont, Democracy without shortcuts. A participatory conception of deliberative democracy, cit., p. 19.

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Come sappiamo, si possono distinguere due concezioni dell’autorità politica: quella sostanziale e quella formale.42 La prima ritiene che le autorità debbano avere la saggezza (o la competenza tecnica) necessaria per dirigere i consociati verso il bene comune; la seconda, invece, richiede solo che esse siano legittimamente costituite sulla base del rispetto di procedure preventivamente stabilite, che, nel caso della democrazia, devono essere aperte a tutti i cittadini. Questa contrapposizione di scuola è meno radicale di quello che sembri a prima vista.43 Di fatto, l’una ha sempre cercato di recepire almeno parte delle istanze dell’altra. Anche per le concezioni sostanziali, c’è bisogno di un riconoscimento e di un’accettazione da parte dei consociati della competenza dell’autorità designata e questa è una condizione formale. A loro volta le concezioni formali, specie se applicate ai grandi numeri delle moderne democrazie, favoriscono il sorgere di un ceto politico, entro cui scegliere i detentori di autorità, e questo rimanda ad una concezione sostanziale. Si può, dunque, affermare che l’ideale verso cui ci si dirige è quello di una qualche composizione delle due esigenze alla ricerca di una terza via che coniughi l’apertura democratica nell’accesso al ruolo di autorità con un esercizio di essa attento alle ragioni prevalenti nelle scelte e nelle decisioni politiche.44 Può la democrazia deliberativa essere questa terza via? IX. Lo spazio istituzionale e il bene comune Se ora torniamo a considerare lo spazio istituzionale, dobbiamo vederlo, innanzitutto, come il luogo in cui si discute e si decide intorno al bene comune. 42

Rinvio in generale a F. Viola, “Autorità”, voce in Enciclopedia filosofica, Milano 2006, pp. 918–924. 43 Per un approfondimento, rinvio al mio Concezioni dell’autorità e teorie del diritto, L’Aquila 1982. 44 Cfr. F. Viola, “Autorità e bene comune nella società del pluralismo”, in S. Biancu e G. Tognon (a cura di), Autorità. Una questione aperta, Reggio Emilia 2010, pp. 77–96.

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Nel discorso pubblico sempre si ha in qualche modo a che fare con il bene comune, ma nello spazio istituzionale il bene comune è l’oggetto proprio della deliberazione e il fine principale. Ciò implica che, nello spazio istituzionale, s’incontrino differenti visioni del bene comune, poiché, anche quando si avanzano istanze legate ad interessi o diritti di singoli o di gruppi, si deve mostrare che fanno parte di una visione coerente di bene comune e di un ordine delle libertà; si deve mostrare che non si tratta di privilegi o di rivendicazioni di parte. Quindi, nello spazio istituzionale, si dovrebbe riprendere il discorso attivo nello spazio politico senza soluzione di continuità, altrimenti la politica si separerebbe dalla società diventando elitaria ed autoreferenziale45, e tuttavia il discorso politico, quando si istituzionalizza, assume un proprio assetto sia riguardo all’oggetto, che – come s’è già detto – è il bene comune, sia riguardo alle regole e ai valori presupposti. Il fatto che il bene comune debba ancora essere determinato, scelto e deciso vuol chiaramente dire che non è già formato prima dello sviluppo della vita sociale. Se lo fosse, si tratterebbe solo di conoscerlo ed allora avrebbe senso far ricorso alla competenza degli esperti per il governo politico. Ma non è così. Ciò che è bene per una determinata comunità politica è questa che deve stabilirlo, altrimenti si configurerebbe una forma di paternalismo inaccettabile per la democrazia. Con questo, non si vuol dire che qualsiasi scelta della comunità politica è buona per definizione, ma solo che per definizione non è buona una scelta se non è operata da tutti coloro che sono direttamente interessati ad essa e da essa. L’autonomia politica dei cittadini discende direttamente dall’autonomia morale delle persone che essi sono.46 45 Proprio la mancanza di continuità tra spazio politico e spazio istituzionale è una delle critiche rivolte alla concezione della democrazia deliberativa di Habermas. Cfr. Squires, “Deliberation and decision making: Discontinuity in the two-track model”, cit., p. 138. 46 Secondo Tommaso d’Aquino, nel campo della verità pratica, il più competente a giudicare di un fine e dei mezzi per raggiungerlo è colui che ha quel fine come proprio (Somma teologica, I–II, q. 90, a. 3.). S. Tommaso non dice che il più competente è il più saggio, ma colui che è legittimato a proporsi il fine di

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A questo bisogna aggiungere che, nel campo della ragion pratica, che è quello del bene comune, non v’è solo un’unica risposta corretta. Vi sono tanti modi d’intendere il bene comune anche all’interno di una stessa società, a seconda della prevalenza che si dà ad un valore rispetto ad un altro, ad un’urgenza sociale rispetto ad un’altra, tutti modi in un certo senso legittimi e tutti soggetti allo scrutinio pubblico. Il bene comune dipende da complesse condizioni culturali, circostanze sociali, risorse economiche e tecnologiche e dalla loro controversa valutazione. Certamente, vi sono anche modi errati o nefandi d’intendere il bene comune, ma in ogni caso esso dipende dallo svolgimento della vita sociale, cioè dall’apporto di tutti i consociati. Di conseguenza, una concezione sostanzialistica accettabile non è quella che divide la società in cittadini saggi o esperti e cittadini insipienti o disinformati ma obbedienti, ma quella che permette a tutti una partecipazione nella determinazione del bene comune, poiché – come dice Aristotele – la moltitudine (da non confondere con la “massa”) è più saggia della saggezza di pochi, per quanto molto qualificati. È più ricco un banchetto in cui ognuno porti la propria vivanda di quello preparato da uno solo. Tutto ciò implica anche che, di fronte ad alternative tutte egualmente corrette ed accettabili, resta alla scelta un margine che sfugge ad una giustificazione puramente razionale. La volontà conferisce più forza ad una ragione tra le altre quando queste ragioni hanno eguale forza morale.

cui si tratta e deve agire per quel fine. Per le questioni teoriche bisogna rivolgersi ai filosofi e agli scienziati (autorità epistemica), ma per le questioni pratiche (sia per quelle appartenenti al mondo del fare sia per quelle appartenenti al mondo dell’agire) bisogna seguire coloro che hanno il compito di raggiungere i fini di cui si tratta. Se vogliamo costruire un tavolo o un letto, dobbiamo rivolgerci ai falegnami. Ma, se vogliamo raggiungere il bene comune, a chi dobbiamo rivolgerci se non al popolo di cittadini?

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X. La regolamentazione dello spazio istituzionale Nello spazio istituzionale, qual è quello – ad esempio – del Parlamento, la pratica deliberativa è rigorosamente disciplinata e irreggimentata, a volte in modo eccessivo. Bisogna infatti regolamentare l’esercizio della rappresentanza politica, che è il canale mediante cui l’opinione dei singoli cittadini arriva nei luoghi decisionali. I partiti sono i collettori di queste discordanti opinioni. Ciò è necessario, ma ha come effetto collaterale quello di ostacolare la possibilità di cambiare opinione, che è – come s’è già detto – il pregio del metodo deliberativo. I partiti, a differenza degli individui, non cambiano le loro idee per la semplice ragione che s’identificano con esse. In più, l’eguaglianza deliberativa è gravemente in pericolo in quanto si tende a trasferire il peso elettorale di un partito nella rilevanza delle sue politiche. Tuttavia, se si presume che siano rimaste in campo le soluzioni più ragionevoli, non sempre la scelta e la decisione sono affidate soltanto al rapporto di forza tra i partiti. Spesso, si cercherà di recepire alcune delle istanze delle fazioni opposte al fine di conferire alla decisione normativa un maggiore grado di adesione da parte della minoranza. In questi casi, si può notare una commistione tra argomentare e negoziare. D’altronde la pratica deliberativa, che è legata alla ragion pratica, non è fatta di pura logica argomentativa, ma anche di giudizi di apprezzamento e di rilevanza non privi di carica emotiva e passionale, e di un argomentato bilanciamento degli interessi. Non si tratta di un consesso di filosofi, ma di rappresentanti di cittadini che devono stabilire ciò che è bene per una comunità politica particolare. Negoziare e argomentare sono attività più vicine fra loro di quanto solitamente non si pensi.47 Entrambe, a differenza del votare, sono forme comunicative. Entrambe mirano ad instaurare un dialogo in cui i partecipanti sono disponibili a cambia47

Cfr. F. Viola, “Negotiation of identities and negotiation of values in multicultural societies”, in M. La Barbera (a cura di), Identity and migration in Europe: Multidisciplinay perspectives, Cham 2015, pp. 29–36.

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re idea o, comunque, a modificare le posizioni di partenza. La deliberazione, che è propria della democrazia, comprende in sé sia la negoziazione sia l’argomentazione.48 Nella negoziazione, ogni interlocutore cerca di convincere l’altro che è nel suo stesso interesse accettare le ragioni addotte per modificare le sue pretese o richieste. Nell’argomentazione, si fa ricorso a valori imparziali, o comuni, sostenuti da ragioni prevalenti che tutti dovrebbero condividere se sono desiderosi di una cooperazione sociale equa. Quanto più si è vicini alla scelta e alla decisione, tanto più il discorso puramente argomentativo sarà temperato con quello dell’aggiustamento e della trattativa al fine di massimizzare il consenso dei cittadini, cosa particolarmente importante per la democrazia. Quanto più una società è pluralistica, tanto più la negoziazione e il compromesso prevarranno nella pratica deliberativa della politica.49 Vi sono, dunque, due modi diversi d’intendere il consenso dei cittadini50: quello basato sul compromesso e quello fondato sulla comunanza di idee e di valori. Sullo sfondo del primo v’è un orientamento scettico riguardo alla possibilità di una verità pratica, specie nel regime del pluralismo. Non resterebbe, allora, che mirare alla negoziazione delle preferenze. L’argomentazione, invece, mira ad una comunanza nel giudizio pratico sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto. Il che implica una fiducia nell’esistenza di una verità pratica oggettiva. Qui si vede chiaramente la commistione tra la concezione formale e quella sostanziale di autorità. È chiaro anche che 48

Cfr. F. Viola, “Democrazia deliberativa e società multiculturale”, in G. Battistella (a cura di), Migrazioni. Questioni aperte, Città del Vaticano 2008, pp. 219–236. 49 «We define deliberation itself minimally to mean mutual communication that involves weighing and reflecting on preferences, values, and interests regarding matters of common concern». Bächtiger et al., “Deliberative democracy: An introduction”, in A. Bächtiger et al. (a cura di), Oxford handbook of deliberative democracy, cit., p. 2 (corsivo nell’originale). Qui si può notare l’indistinzione tra deliberazione e negoziazione. 50 In generale, cfr. M. Rhonheimer, “Consenso”, voce in Enciclopedia filosofica, cit., pp. 2213–2215.

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queste due forme di consenso si riflettono sul modo d’intendere l’autorità e il suo ruolo. Il consenso basato sul compromesso richiede un’autorità come mediazione, mentre quello basato sull’argomentazione un’autorità come custodia della correttezza della pratica deliberativa. Se – come s’è già detto – la deliberazione comprende entrambe le funzioni, allora entrambe saranno proprie dell’autorità politica nella democrazia deliberativa. In riferimento alle istituzioni politiche, l’attribuzione di autorità può riguardare l’istituzione nel suo complesso oppure quegli organi che, all’interno di essa, sono deputati a prendere decisioni. Ciò significa che, anche se l’esercizio della scelta e della decisione è proprio di un organo, in realtà tutta l’istituzione è autoritativa. Nella democrazia deliberativa è particolarmente evidente questa diffusione dell’autorità con il conseguente depotenziamento della discrezionalità dell’organo decisionale. Quest’ultimo assume sempre più il compito di sanzionare o avvalorare quella scelta che si è maturata nella pratica deliberativa. D’altronde, tradizionalmente è proprio questa la radice etimologica dell’autorità, che viene – come si sa – da augere, cosa che conferisce ad essa come suo compito principale quello di approvare e rafforzare un orientamento già presente verso una scelta, trasformandola in una decisione pubblica. La democrazia deliberativa non tollera una nozione imperativistica e volontaristica dell’autorità. Si può constatare, infatti, che, quando quest’orientamento verso una scelta non è univoco e il conflitto delle posizioni contrapposte è difficilmente componibile, allora le decisioni dell’organo autoritativo diventano incerte e poco chiare. Di conseguenza, le leggi sono formulate in modo ambiguo, rinviando alla fase applicativa la loro piena determinazione. È come se la pratica deliberativa resti ancora aperta nonostante la promulgazione della legge e il decisore ultimo sia considerato il giudice (e a volte lo è esplicitamente).51 L’attivismo giudiziale è spesso provocato dalla necessità di concludere 51

Cfr. J. Waldron, Law and disagreement, Oxford 1999.

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una deliberazione che il potere legislativo ha lasciato ancora aperta.

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XI. Le problematiche restrizioni della ragione pubblica Per tutte queste considerazioni, lo spazio istituzionale richiede la presenza di vincoli, di meta-regole, di princìpi e di valori che favoriscano il più possibile la convergenza verso una comunanza che la società del pluralismo non può più presupporre come già presente nella sfera del pre-politico.52 Robert Alexy ha parlato della «istituzionalizzazione della ragione»53 e John Rawls ha preferito parlare di «ragione pubblica».54 Non si tratta esattamente della stessa cosa, perché Alexy si pone dal punto di vista giuridico e Rawls da quello politico. Per Alexy, il diritto è proprio quell’istituzionalizzazione della ragione, che ha il suo fulcro nel costituzionalismo democratico (diritti fondamentali, democrazia, giustizia costituzionale). Secondo Rawls, la ragione pubblica è il modo in cui una società politica formula i suoi piani, assegna un ordine di priorità ai suoi fini e prende le proprie decisioni tenendone conto. Tuttavia, in fin dei conti, anche Rawls sostiene che, nella sua concezione della giustizia, la ragione pubblica non solo è quella propria degli Stati democratici costituzionali, ma più precisamente si trova nei giudizi della corte costituzionale. Soltanto quest’ultimo è il luogo proprio della ragione pubblica in senso stretto, tanto che Rawls giunge ad affermare che «in a constitutional regime with judicial review, public reason is the reason of its supreme court».55 52 Sull’importanza della sfera pre-politica rinvio a F. Viola, Identità e comunità. Il senso morale della politica, Milano 1999, cap. I. 53 R. Alexy, Elementi fondamentali di una teoria della duplice natura del diritto, cit., pp. 26 e ss. 54 J. Rawls, Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Torino 2001, pp. 175–239. 55 J. Rawls, Political liberalism, New York 1996, p. 231. Cfr. il mio Rawls e il diritto, in «Biblioteca della Libertà» (online), 48, 2013, pp. 163–173.

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Sia per Alexy, sia per Rawls non siamo nel puro proceduralismo, ma in un proceduralismo ragionevole, in quanto le condizioni richieste non sono neutrali nei confronti di qualsiasi contenuto. La dimensione procedurale di questa ragione pubblica si basa su questi elementi: un elenco di diritti, di libertà e di opportunità (propri dei regimi costituzionali); la loro priorità; l’assicurazione a tutti i cittadini di adeguati mezzi per i loro scopi. Infatti, una democrazia costituzionale richiede la presenza di princìpi e di diritti, cioè richiede che la legislazione sia conforme a determinati contenuti o, comunque, non in contrasto con essi. Per questa via, si pensa che sia possibile realizzare una comunanza nella società del pluralismo. Il fatto che, nello spazio istituzionale, la pratica della deliberazione debba subire una certa qual restrizione sia ad opera delle procedure giuridiche, sia per la presenza dei valori costituzionali, è indubbiamente una necessità ai fini di una contestualizzazione del discorso pubblico all’interno di una comunità politica concreta. Tuttavia, queste restrizioni potrebbero condurre a scelte “obbligate”, cosa di per sé contraddittoria. Il criterio stesso di ragionevolezza potrebbe essere usato in modo ideologico per escludere alcuni tipi di scelta e favorirne altri. In ogni caso, la restrizione della libertà di opinare e di deliberare è il segno della presenza di un’autorità che precede la pratica deliberativa, cioè di un’autorità intesa nel senso volontaristico tradizionale. Per questo, sembra più attraente la versione più ampia di ragione pubblica, quella propria di Kant, che intende per «uso pubblico della ragione» quello che intercorre tra tutti gli esseri razionali senza le restrizioni dettate dalla sottomissione a una qualche forma di autorità. Questa ragione pubblica è la ragione nella pienezza del suo esercizio56 e tuttavia non per questo è sicuramente adatta alla deliberazione politica. Nonostante la sua maggiore libertà di esercizio, la ragione pubblica kantiana è criticabile sotto due aspetti. Innanzitutto, bisogna notare che il principio di universalizzabilità non è ospitale nei confronti del pluralismo e delle 56 Cfr. O. O’Neill, The public use of reason, in «Political Theory», 14, 4/1986, pp. 523–551.

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identità personali e collettive. Pluralismo e identità richiedono una dimensione particolaristica o, comunque, esigono che l’universale sia inteso come il risultato dell’incontro di più particolari. Ma, alla luce della tesi kantiana, le concezioni diverse della vita e la varietà delle identità culturali sarebbero alla resa dei conti irrazionali. Si potrà obiettare che, quando si chiede che nella piazza della città si avanzino solo ragioni che tutti “potrebbero” accettare, in realtà si esige che tali ragioni siano universali proprio nel senso kantiano. Ma non è così, perché l’imperativo categorico kantiano è una ragione che tutti “dovrebbero” accettare. Invece, nella piazza della città, cioè nello spazio politico, così come anche nello spazio istituzionale, le ragioni che si scambiano e si confrontano appartengono al campo del probabile e dell’opinabile, del conveniente e dell’idoneo, dell’utile e dell’opportuno. La ragionevolezza è ben lungi dall’essere un concetto tipicamente kantiano. La deliberazione politica è sempre all’interno di una determinata comunità e diretta verso un bene comune contestuale e non universalizzabile. Lo ripeto ancora: un’assemblea politica non è un consesso di filosofi.57 In essa anche le emozioni e le passioni possono trasformarsi in ragioni su cui deliberare o, comunque, da prendere in seria considerazione nella determinazione delle scelte. Il ragionamento in contesto è ben diverso dal ragionamento in astratto. V’è ancora un’altra perplessità a proposito della concezione kantiana della ragione pubblica. Se consideriamo l’etica del discorso di Habermas come una versione procedurale dell’imperativo categorico kantiano, non possiamo dargli torto quando critica la ragione pubblica di Rawls come difettosa, in quanto priva di un’autentica dimensione dialogica.58 Come si sa, per Rawls nella posizione 57 Cfr. F. Viola, “La via europea della ragione pubblica”, in I. Trujillo e F. Viola (a cura di), Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna 2007, pp. 407–431. 58 Cfr. J. Habermas, Reconciliation through the public use of reason: Remarks on John Rawls’s Political liberalism, in «Journal of Philosophy», 92, 3/1995, pp.109–131; e J. Rawls, Political liberalism, cit., p. 383, n. 14.

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originaria, in cui le parti debbono stabilire i princìpi di giustizia sotto il velo di ignoranza, non c’è in effetti alcuna argomentazione dialettica e non c’è discorso, ma le parti, ognuna per conto proprio, arrivano alle medesime conclusioni. Secondo Rawls, la ragione è pubblica sotto il profilo dei soggetti, che sono i cittadini, sotto il profilo della materia, che è il bene pubblico, e sotto il profilo degli ideali e dei princìpi fondamentali della giustizia politica. Ma, in nessuno di questi sensi, la ragione è pubblica per la sua struttura dialogica. Tuttavia, anche la posizione di Habermas è criticabile nella misura in cui approda alla visione di una morale razionale profana con una validità indipendente dalla religione e dalla metafisica e nella sostanza coincidente con la morale illuministica della sola ragione, seppur intesa in modo procedurale. Secondo Rawls, questa è in realtà una dottrina comprensiva tra le altre presenti nell’universo pluralistico: identificarla con la ragione pubblica tout-court significherebbe nella sostanza uccidere il pluralismo di cui la deliberazione si alimenta. Habermas rimprovera a Rawls di identificare la ragione pubblica con un set di ridotti princìpi sostanziali, mentre Rawls accusa Habermas di proporre sotto vesti procedurali una dottrina comprensiva a tutti gli effetti.59 Mentre la ragione pubblica rawlsiana procede per via di restrizioni sempre più limitanti, quella di Habermas si sviluppa mediante un progressivo allargamento ed una graduale inclusione, sicché è aperta all’apprendimento dalle posizioni differenti, ma con il rischio di un assorbimento delle loro ragioni nella morale illuministica. La ragione pubblica rawlsiana usa il metodo dello svicolamento («avoidance») per evitare di affrontare la questione della verità di dottrine comprensive in competizione fra loro.60 Habermas, al contrario, non arretra di fronte alla “verità tutt’intera”. Questo dibattito, qui solo accennato, evidenzia con chia59 Cfr. J. D. Moon, Rawls and Habermas on public reason: Human rights and global justice, in «Annual Review of Political Science», 6, 1/2003, pp. 257–274. 60 Anche l’altra via seguita da Rawls, cioè quella del consenso per intersezione («overlapping consensus»), è chiaramente non dialogica.

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rezza i pericoli che la deliberazione pubblica deve cercare di evitare. Essa deve saper evitare due estremizzazioni. Da una parte, c’è la necessità di restrizioni nell’uso della ragione pubblica, ma, dall’altra, queste non devono essere tali da spingere verso determinate scelte o da rendere superflua la dimensione della contrapposizione dialogica. Da una parte, c’è la necessità di un’inclusione delle ragioni degli altri in una visione più comprensiva e più condivisa, ma, dall’altra, bisogna evitare che questa sia in realtà un inglobamento ed un abbraccio mortale da parte di una particolare concezione morale o metafisica. Imporre la ragione pubblica può essere di ostacolo nei confronti di caratteristiche istituzionali della democrazia costituzionale, quali ad esempio la libertà di espressione e il voto segreto. XII. Deliberazione ed autorità nella giurisdizione Finora abbiamo guardato allo spazio istituzionale nell’ottica dei dibattiti che conducono alle decisioni legislative dei parlamenti, ma i fori istituzionali sono anche quelli amministrativi e giudiziari. Una democrazia deliberativa aspira ad espandere il metodo deliberativo in tutti i luoghi in cui matura una decisione socio-politica e in tutte le relative forme di autorità. Non prenderò qui in considerazione le autorità indipendenti, che operano nel campo amministrativo, perché la loro indipendenza dal potere politico conduce ad accentuare l’importanza della competenza tecnica del loro personale nella convinzione che in tal modo, essendo la scelta obbligata, venga eliminata quell’attività deliberativa che è propria della politica. Questa convinzione è errata, sia perché l’indipendenza dal potere politico statale non esclude una nascosta dipendenza da altri centri di potere, sia perché nel campo delle cose umane i giudizi di valore e di rilevanza non possono essere eliminati del tutto e del tutto sostituiti da giudizi puramente tecnici. Comunque sia, le autorità indipendenti possono essere certamente additate come un esempio della trasformazione del concetto di autorità, dall’esercizio di una volontà sovra87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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na alla ricerca di giustificazioni imparziali delle decisioni da prendere. Lasciando da parte questa materia ancora troppo fluida ed informe, intendo invece soffermarmi sull’espansione del metodo deliberativo nella stessa funzione giurisdizionale. Ciò non dovrebbe affatto sorprendere in quanto il giudice per definizione non impone la propria volontà ma quella della legge (o del legislatore), tant’è che deve motivare in tal senso le sue decisioni. Tuttavia, nella democrazia costituzionale, il legislatore stesso viene messo sotto tutela. Da parte sua, il giudice assume il compito di guardiano dei diritti con indipendenza nei confronti dello stesso legislatore e anche contro l’orientamento della maggioranza. Sembra proprio che la figura del giudice incarni meglio questo nuovo senso dell’autorità rivolta ora alle ragioni piuttosto che ai poteri. L’evoluzione del processo giudiziario lo conferma ampiamente. Nel 1999, la riforma costituzionale italiana del “giusto processo” ha portato ad un allargamento del principio del contraddittorio all’interno del processo. L’intento è stato quello di far sì che non vi siano più questioni decise dal giudice d’ufficio, cioè senza che vi sia stato alcun confronto processuale tra le parti. Ciò vale sia per le questioni di fatto sia per quelle di diritto. L’interpretazione stessa della norma da applicare da monologica dovrebbe farsi, nella misura del possibile, sempre più dialogica.61 Il contraddittorio è tipicamente un metodo deliberativo il cui fine è una scelta, per quanto supportata da elementi di fatto e di diritto. È facile rilevare che il contraddittorio è volto a rispondere a due esigenze: una di carattere oggettivo riguardante il metodo più adatto per la ricerca della verità ed una di carattere soggettivo riguardante la partecipazione alla procedura di tutti gli interessati nel rispetto della loro eguaglianza deliberativa. In questo contesto, la figura del giudice assomiglia più a quella del direttore d’orchestra che a quella del comandante 61 Cfr. F. Viola, Una teoria deliberativa della giurisdizione?, in «Ars Interpretandi», 7, 1/2018, pp. 13–28.

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di una nave. Come il direttore d’orchestra, il giudice fa parte della cooperazione processuale con funzioni architettoniche e come custode della correttezza della procedura deliberativa. Come il direttore d’orchestra, egli è super partes nel momento della decisione, che tuttavia non è arbitraria, ma giustificata dalle ragioni emerse nel contraddittorio, che vengono avvalorate come la migliore “esecuzione” del testo di legge nella sua applicazione al caso concreto. L’autorità del giudice è particolarmente rappresentativa di questa trasformazione del concetto di autorità, perché viene esercitata nella prospettiva che vi sia una ed una sola conclusione giusta del processo e che il metodo dialettico sia quello più adatto per approssimarsi ad essa. Così autorità e verità, in dissidio tra loro sin dal tempo di Hobbes, sono ora in qualche modo riconciliate. Nel caso del legislatore, invece, permane ancora – come s’è già notato – una certa discrezionalità nei confronti di una pluralità di soluzioni, tutte legittime, riguardanti il bene comune. L’autorità giuridica del giudice e quella politica del legislatore in certo qual modo s’incontrano e si fondono nel sindacato di costituzionalità proprio della corte costituzionale. Se ora ci accingiamo ad esaminare che tipo di autorità sia ascrivibile ad una corte costituzionale, non è certamente per riprendere la vexata quaestio della democraticità del sindacato di costituzionalità, che – com’è noto – è radicalmente negata da alcuni e strenuamente difesa da altri.62 Ciò che qui interessa è piuttosto l’effetto che un’interazione tra diritto e politica ha sul concetto di autorità. La corte costituzionale è per definizione custode della costituzione, dei suoi valori, dei suoi princìpi e dei diritti fondamentali. Non si tratta – come pensa Waldron – di una forma di paternalismo che presupporrebbe la sfiducia nella capacità morale dei cittadini di determinare il senso dei valori costituzionali, mentre al contempo contraddittoriamente li si riconosce come persone dotate di autonomia morale e titolari di di62 Cfr., in generale, C. F. Zorn, Deliberative democracy and the institution of judicial review, New York 2007.

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ritti.63 Si vuole al contrario tutelare la normatività costituzionale, che per il suo carattere sovralegale deve essere sottratta al potere dei politici, alle transeunti maggioranze e all’incostanza dell’opinione pubblica. A questo fine, i giudici sono più adatti dei politici. Apparentemente, la ragione più ovvia sembrerebbe la seguente: l’applicazione di norme e di princìpi giuridici, quali sono quelli costituzionali, è il compito proprio del giudice.64 Ma, a ben guardare, questa giustificazione è ancora basata sulla radicata convinzione che l’applicazione di norme sia tutta questione di logica formale, di deduzioni e di implicazioni, cioè di operazioni neutrali e oggettivamente imparziali, convinzione dura a morire ma ormai smentita dai fatti e dalle teorie giuridiche. Ciò vale ancor di più in riferimento ai princìpi costituzionali, che mancano di fattispecie e richiedono interpretazioni argomentate nell’ottica della ragion pratica. Dunque, non è questa una ragione valida a fondare la competenza dei giudici in materia costituzionale. D’altra parte, non c’è alcun dubbio che le decisioni di una corte costituzionale non solo hanno un rilievo politico, ma sono spesso oggettivamente politiche a tutti gli effetti. E, tuttavia, anche questa non è una ragione valida per negare la competenza dei giudici a tal proposito. Credo che la ragione più convincente risieda nella funzione del diritto all’interno della società politica e, conseguentemente, nella natura dell’approccio giuridico alle azioni umane. Una delle prestazioni fondamentali del diritto è quella di assicurare continuità alla vita sociale e politica. La continuità è un valore che non deve essere frainteso come se si trattasse di conservatorismo reazionario. Significa conferire ordine e stabilità alla società, assicurare che le aspettative vengano soddisfatte, rafforzare la fiducia sociale e l’affidamento ai pubblici poteri. Se c’è, invece, discontinuità, c’è incertezza del 63 Cfr. J. Waldron, Judicial review and the conditions of democracy, in «Journal of Political Philosophy», 6, 4/1998, pp. 335–355. 64 Cfr. C. S. Nino, The constitution of deliberative democracy, New Haven 1996, p.189, ove si parla a proposito dei giudici di «epistemic elitism».

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diritto, crisi costituzionale fino agli estremi del colpo di stato e della rivoluzione.65 In una democrazia costituzionale, nei valori e nei princìpi della costituzione risiede quell’identità politica la cui protezione e custodia assicura la continuità sociale. Pertanto, si deve ritenere che il punto di vista giuridico, il modo di pensare del giudice e la cultura giuridica siano i più adatti al rispetto di questa continuità. Come si sa, il diritto tiene in gran conto il passato, com’è dimostrato dalla rilevanza che in esso ha la giurisprudenza e la dottrina. La stabilità delle interpretazioni della costituzione è necessaria, essendo essa la cornice dello spazio istituzionale entro cui si deve svolgere il dibattito politico. E, tuttavia, nel decorso del tempo, il modo d’intendere il contenuto dei valori va mutando, va cambiando anche il loro ordine lessicale e il modo di bilanciare i diritti nel caso di conflitto di valori. Di conseguenza, cambia anche il modo d’intendere i princìpi giuridici. La cultura giuridica, quand’è ben praticata, è in grado di mostrare la rilevante flessibilità del diritto, che si adatta continuamente all’evoluzione della società, e nel contempo è in grado di giustificare la permanenza dei legami con le sue origini. La corte costituzionale, quando opera correttamente, dovrebbe saper distinguere le scelte politiche che si pongono in continuità con l’identità costituzionale da quelle che ne rappresentano una rottura o un fraintendimento. Se si vuole, questo è il modo più elevato di fare politica, quello riguardante le condizioni di esercizio della ragione pubblica. Parlare a questo proposito di «rappresentanza argomentativa» («argumentative representation»)66 è accettabile a condizione che si intenda riferirsi ad un organo che “rappresenti” nella democrazia deliberativa l’istanza puramente argomentativa nella sua pienezza.67 Ma non sarebbe accettabile se voles65

Cfr. J. M. Finnis, “Revolution and continuity of law”, in A. W. B. Simpson (a cura di), Oxford essays in Jurisprudence, Oxford 1973, pp. 44–76. 66 R. Alexy, Constitutional rights, democracy, and representation, in «Rivista di Filosofia del diritto», 4, 1/2015, pp. 23–36. 67 Ivi, pp. 32–34.

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se indicare – come sembra – una rappresentanza vera e propria del popolo. Se si vuole trovare in cosa consista la democraticità della corte costituzionale, bisognerebbe piuttosto ricorrere alle ragioni per cui un popolo ha voluto che nella costituzione vi sia un organo che custodisca e sviluppi le ragioni e gli argomenti che supportano i valori e i princìpi costituzionali. Da ciò deriva anche che, per rappresentare l’istanza argomentativa, bisogna trovarsi in una condizione d’indipendenza e di imparzialità. Questa è la ragione per cui una corte costituzionale è più vicina ad un organo giudiziario che ad un’assemblea legislativa. L’autorità che ne deriva ha un carattere sostanziale: non è il risultato a dipendere da una determinata procedura (come nel principio di maggioranza), ma al contrario è la procedura a dipendere dalla priorità del risultato, cioè del contenuto della decisione, che deve essere accettabile, ragionevole e, quanto più possibile, giusto. XIII. Conclusioni Le conclusioni di questo viaggio all’interno della democrazia deliberativa sono molto semplici. La democrazia deve abbandonare il mero proceduralismo per aprirsi ad una concezione sostanziale della vita politica. Ma non basta che la democrazia sia deliberativa per le condizioni e le procedure e non già per i suoi contenuti.68 Quali ragioni contino come giustificazioni è inevitabilmente una questione sostanziale.69 Se si accetta la procedura deliberativa in democrazia, bisogna accettare che debbano prevalere le ragioni che hanno più peso argomentativo e, quindi, che le de68

Cfr. J. Knight, “Constitutionalism and deliberative democracy”, in S. Macedo (a cura di), Deliberative politics: Essays on democracy and disagreement, New York 1999, pp. 159–169. Nello stesso volume, cfr. anche C. Sunstein, “Agreement without theory”, pp. 147–148; e I. M. Young, “Justice, inclusion and deliberative democracy”, pp. 151–158. 69 Cfr. A. Gutmann e D. Thompson, Deliberative democracy beyond process, in «The Journal of Political Philosophy», 10, 2/2002, p. 156.

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cisioni democratiche portino in sé in qualche modo una pretesa di giustizia in grado di esibire le sue ragioni. La democrazia deliberativa è incompatibile con lo scetticismo morale. Non è una tecnica priva di valori e non può ridursi a una procedura per aggregare preferenze date. Le ragioni offerte a sostegno di una soluzione devono essere accessibili a tutti, cioè devono poter essere comprese, anche se non necessariamente accettate. Nella democrazia meramente procedurale, i rappresentanti sono responsabili della loro politica e dei suoi risultati e non già delle ragioni che li sostengono. Nella democrazia costituzionale non deliberativa, le ragioni sono già tutte presenti nella costituzione. Nella democrazia costituzionale deliberativa, alle ragioni presenti nella costituzione si aggiungono in modo organico quelle sviluppate dal ragionamento giuridico e politico per dirimere le interpretazioni confliggenti delle prime, cosicché i rappresentanti sono responsabili anche delle ragioni che sostengono le loro decisioni. Nella deliberazione politica, in linea di principio, si deve riconoscere a tutti un’eguaglianza deliberativa, cioè un’eguale considerazione delle ragioni avanzate. Al contempo, v’è anche un diritto fondamentale dei partecipanti all’eguale giustificazione delle scelte e delle decisioni, affinché la loro imposizione non sia frutto di arbitrio o di manifesta irragionevolezza, né si traduca in oppressione, discriminazione e dominio.70 A queste procedure di giustificazione tutti dovrebbero partecipare come individui liberi ed eguali, attenti a tutelare i propri diritti in modo da non distruggere, ma al contempo custodire, le relazioni sociali fondamentali.71 Nella democrazia deliberativa, l’autorità assume forme diverse e complementari. Da una parte, v’è il rifiuto di un accentramento dell’autorità e la tendenza alla diffusione della pra70 Cfr.

R. Forst, Justification and critique. Towards a critical theory of politics, Cambridge 2013. 71 Cfr. R. Forst, Justice, democracy and the right to justification. Rainer Forst in dialogue, Londra 2014, pp. 3–26. Cfr. più di recente B. Giovanola, Giustizia sociale. Eguaglianza e rispetto nelle società diseguali, Bologna 2018.

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tica deliberativa in tutti i luoghi autoritativi; dall’altra, si cerca di fare il possibile per evitare la coercizione e per ottenere un’obbedienza motivata da ragioni da parte di tutti i consociati. Anche se questo è un ideale irraggiungibile, si cerca di approssimarsi ad esso il più possibile. Pertanto, non vi sono decisioni autoritative inappellabili o non soggette ad ulteriori gradi di scrutinio. In quest’ottica, bisogna considerare anche il sindacato di costituzionalità.72 In conclusione, la democrazia deliberativa è policentrica, si regge su una cooperazione delle autorità, che sono accomunate dalla pratica deliberativa ma distinte per ruoli e finalità. Come abbiamo visto, c’è una deliberazione creativa e una deliberazione giustificativa e, conseguentemente, un’autorità che dà inizio (principium) al processo di scelta, che conduce ad una decisione, e un’autorità che rafforza una ragione come prevalente e ne sancisce (sanctio) la giustezza o correttezza. In ogni caso, la decisione dell’autorità da sola non basta a giustificare una ragione a prevalenza delle altre. Nella democrazia deliberativa, l’autorità non richiede la sospensione del giudizio.73

72 Ma non già l’istituto del referendum, che, nei termini attuali, mi sembra appartenere alla democrazia aggregativa. 73 Questa tesi è l’esatto contrario di quanto notoriamente sostenuto da J. Raz, Authority of law. Essays on law and morality, Oxford 1979.

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Capitolo III Autorità e giovani generazioni. La relazione autorevole al tempo dei social network di ROBERTO LUPPI E al loro Dio perdente non credere mai Coda di lupo, F. De André

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I. Introduzione [A]uthority has vanished from the modern world. Since we can no longer fall back upon authentic and undisputable experiences common to all, the very term has become clouded by controversy and confusion. Little about its nature appears self-evident or even comprehensible to everybody, except that the political scientist may still remember that this concept was once fundamental to political theory, or that most will agree that a constant, ever-widening and deepening crisis of authority has accompanied the development of the modern world in our century.1

Queste sono le parole con cui Hannah Arendt descrive la crisi del concetto di autorità nel mondo moderno, visto caratterizzarsi per il collasso più o meno generale di tutte le sue forme tradizionali. A parere della filosofa, la serietà di tale crisi era dimostrata dal fatto che riguardasse anche quegli ambiti prepolitici come l’educazione delle giovani generazioni, in cui l’autorità nel senso più profondo era da sempre accettata come una necessità, richiesta tanto dai bisogni naturali – la vulnerabilità dei bambini – quanto da esigenze politiche – la convinzione che la stabilità sociale potesse essere garantita soltanto attraverso una corretta educazione dei nuovi arrivati. Il fatto che persino queste forme elementari di autorità 1 H. Arendt, Between past and future. Six exercises in political thought, New York 1961, p. 91.

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avessero perso di solidità e definizione era così considerata la spia più significativa di come «we are no longer in a position to know what authority really is».2 È difficile celare la grande forza di queste osservazioni, che nello scorrere dei decenni – dagli anni Sessanta in cui sono state scritte ad oggi – non hanno mai perso di attualità, accrescendo piuttosto, se possibile, la loro capacità di descrivere la contemporaneità. Eppure l’idea e la tesi di partenza di questo saggio è che il concetto di autorità – sebbene ridimensionato rispetto al suo ruolo antico e declinato in forma nuova – continui a costituire un elemento imprescindibile della contemporaneità, e in particolare della sfera educativa. Nello specifico, peculiare del mondo odierno appare essere una forma di autorità intimamente legata al funzionamento delle nuove tecnologie e in cui sembra di poter rintracciare uno scollamento tra il soggetto autorevole o portatore di autorità e quello che vedremo essere il fondamento sul quale si fonda tale autorevolezza. Al fine di comprendere a fondo la portata di queste osservazioni, il saggio dedica uno spazio significativo alla decodifica dei tratti recenti – e alquanto inconsueti – dell’autorità. Durante tale analisi, ad emergere con chiarezza sarà la necessità di concentrarsi sulle nuove tecnologie nella descrizione di come si manifesti oggi la crisi dell’autorità nella sfera educativa, passo essenziale per poi provare a rintracciare gli ambiti da cui partire per invertire il trend. Di conseguenza, il percorso del lavoro è il seguente: 1) inizialmente, si spiega a quale tra le molteplici definizioni di autorità si fa riferimento in questo testo (sezione II) e quale sia il suo ruolo nei processi educativi della cittadinanza, ancor più nel contesto odierno del pluralismo (sezione III); 2) successivamente, si esplorano gli elementi di contatto e 2

Ivi, p. 92. Tale incertezza in riferimento all’idea di autorità porta con sé l’effetto collaterale che quest’ultima sia spesso confusa con l’autoritarismo, indicando con ciò quelle circostanze in cui non si verifica il rispetto di determinati parametri di legittimazione del potere quali rappresentanza, stato di diritto, autonomia, uguaglianza dei cittadini e così via.

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frizione tra questa idea di autorità e il mondo tecnologico odierno, dominato dalla logica degli algoritmi. A tal riguardo, ad essere preso in considerazione è l’esempio dei social network (sezione IV); 3) infine, si prova ad individuare quali siano gli aspetti da cui – per lo meno a livello filosofico – si potrebbe ripartire per restituire maggiore autenticità alle manifestazioni dell’autorità (sezione V).

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II. Definizione del concetto di autorità Innanzitutto, è importante offrire una definizione di autorità per come si fa riferimento a tale concetto nel seguito del saggio, anche in ragione del fatto che di autorità hanno parlato in tanti e in forme spesso accentuatamente diverse tra loro. In particolare, nelle prossime due sezioni, ad essere portati in evidenza sono i seguenti elementi dell’idea di autorità: a) la sua natura relazionale e il suo ruolo di mediazione verso una più piena appropriazione di sé e del mondo; b) il suo fondarsi di norma su un atto di affidamento volontario da parte del destinatario; c) il suo rapporto privilegiato con il piano del senso; d) il suo non dover essere pensata in contrasto con l’idea di libertà; e) il suo svolgere un ruolo nevralgico nell’ambito dell’educazione, spesso attraverso una combinazione di componenti personali e impersonali; e f) il suo assumere incarnazioni storicamente determinate, mai atemporali e assolute. In maniera molto generale, un punto di partenza per definire il concetto di autorità può essere quello offerto da Brown, che descrive quest’ultima come «a measure of the capacity to instill belief; to engender not only understanding, but also assent; to move those affected toward changed attitudes; and to encourage actions».3 Si tratta di una definizione che muove 3 T. Brown, Imperfect oracle. The epistemic and moral authority of science, University Park 2009, p. 5.

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decisamente verso un’accezione di autorità di tipo morale4, piuttosto che verso l’appaiamento dell’idea di autorità con quella di responsabilità politica e istituzionale, sebbene questi concetti possano trovarsi a coincidere. Inoltre, in questo caso, il riferimento non è nemmeno alla “semplice” autorità dell’esperto, in possesso di competenze e conoscenze in grado di direzionare le decisioni altrui in un preciso ambito. L’autorità a cui ci si riferisce può avere – e di norma ha – una relazione con conoscenze e competenze, ma allo stesso tempo va al di là di esse, divenendo un attributo del suo portatore – sia esso una persona o una “cosa” – in virtù di quella che è percepita essere la sua relazione con il piano del senso, da cui deriva la capacità di muovere altri all’azione. Da quanto detto finora e seguendo la teorizzazione di Karl Jaspers5, l’autorità viene qui iscritta nella categoria della relazione (a), una relazione tra: 1) un fondamento (il piano del senso menzionato poc’anzi), 2) un portatore di autorità e 3) chi ad esso si affidi. Di base, l’autorità è vista quindi articolarsi come una mediazione tra l’individuo e il fondamento, quest’ultimo da intendersi, per semplicità, come un qualcosa che viene percepito dal singolo come “vero”. Esso può corrispondere al contenuto di una fede religiosa, ma anche ad una tradizione politica oppure ad un modo di interpretare e di approcciarsi al mondo. Il portatore di autorità può assumere sembianze personali, ad esempio nella figura del maestro e del genitore, o forme impersonali, come nel caso di leggi, tradizioni o istituzioni, che incarnano simbolicamente e veicolano il fondamento, permettendone un’esperienza storica.6 Tali tradizioni, te-

4 Brown definisce l’autorità morale come: «the capacity to convince others of how the world should be». Ivi, p. 23. In questo articolo, con ciò si vuole indicare la relazione tra l’autorità e il piano del senso non immediatamente disponibile. 5 In particolare, Jaspers mette in risalto questa funzione di mediazione dell’autorità nella sua opera Von der Wahrheit (1947). 6 Il rapporto strettissimo con il fondamento è ben presente sin dalla prima apparizione della parola e del concetto di autorità, a Roma. In latino, la parola

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sti, istituzioni sono percepiti come autorevoli sulla base dei frutti che si dimostrano capaci di produrre: essi veicolano la propria autorevolezza nel momento in cui svolgono un ruolo di mediazione verso una più piena e profonda appropriazione di sé e del mondo. In particolare, la dinamica dell’autorità si verifica ogni qual volta un portatore di autorità, in un preciso ambito di vita, sia capace di trascendere l’immediatamente visibile e percepibile, spingendosi oltre o più in profondità (verso il fondamento), per poi veicolare agli altri la sua visione attraverso l’attività di mediazione. Il fondamento dell’autorità si trova sempre al di là di essa e ne costituisce la sorgente. L’autorità serba quindi dentro di sé l’idea di un’eccedenza di senso. Un punto importante (b), sottolineato da Arendt, è che l’autorità sebbene richieda obbedienza, non deve essere confusa con potere o violenza, in quanto fa riferimento ad un rapporto di fiducia e di affidamento volontario. L’autorità preclude l’uso di mezzi esterni di coercizione: laddove si utilizzi la forza, essa ha fallito. Allo stesso tempo, è incompatibile con la persuasione, che presuppone eguaglianza e si manifesta nell’ambito di un processo di argomentazione. La presenza di un’autorità, con l’autorevolezza che la contraddistingue, opera in opposizione rispetto all’ordine egalitario della persuasione: essa porta con sé una gerarchia e tale gerarchia, che caratterizza ogni relazione di autorità, è di norma riconosciu-

auctoritas deriva dal verbo augere (aumentare, accrescere) e ciò che veniva aumentato/accresciuto dall’autorità o da coloro i quali ne erano dotati era il fondamento, inteso come la città stessa di Roma. Le persone a cui veniva riconosciuta autorità erano gli anziani, il senato o i patres, che l’avevano ottenuta per trasmissione dagli antenati, i maiores. L’autorità dei viventi era quindi sempre di natura derivativa e aveva le sue radici nel passato. L’autorevolezza dell’accrescimento proveniente dagli anziani, sotto forma di avviso o consiglio, derivava la sua autorità dalla connessione con il momento fondativo di Roma, che legava ogni atto successivo al sacro inizio della città. In questo quadro, pertanto, il fondamento dell’autorità si trovava nelle azioni passate, trasformate in esempio per i contemporanei. Con il suo affidarsi ad un momento fondativo, l’eredità politica e spirituale romana è passata alla Chiesa, la quale l’ha fatta sua a tal punto da trasformare la morte e la resurrezione di Cristo in pietra angolare di una nuova fondazione. Cfr. H. Arendt, Between past and future, cit., pp. 121–126.

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ta nella sua legittimità tanto da chi comanda quanto da chi ubbidisce. Alla luce di ciò, pertanto, Arendt osserva: «[i]f authority is to be defined at all, then, it must be in contradistinction to both coercion by force and persuasion through arguments».7 Al “mediatore” si affida il destinatario – individuale o collettivo –, vale a dire colui o coloro che entrano in contatto con il portatore di autorità per accedere al piano del senso che egli veicola. Siffatto atto di affidamento non deve essere inteso come necessariamente consapevole e non richiede un riconoscimento esplicito; si lega piuttosto alla percezione da parte del destinatario dell’autorevolezza di qualcuno o di qualcosa in qualità di depositario di un surplus di senso, derivante dal fondamento, rispetto al livello meramente empirico o fattuale (c).8 Tale surplus di senso, che si manifesta in un’interpretazione della realtà ritenuta particolarmente profonda o “vera”, è percepito come capace di generatività: vale a dire come potenzialmente in grado di accrescere le possibilità personali o collettive del destinatario, pur rimanendo sempre in definitiva indisponibile.9 Indubbiamente, ciò che viene veicolato dal portatore di autorità trasmette informazioni e contenuti, ma non è soltanto né prevalentemente questo elemento a renderlo autorevole: lo specifico dell’autorità risiede in ciò che nelle informazioni 7

Ivi, p. 93. Descrivendo le caratteristiche del concetto di autorità, Arendt sottolinea come già Platone si rifiutasse di fondarlo su persuasione e/o violenza. Cfr. ivi, pp. 107–110. 8 Preterossi scrive in merito all’auctoritas che essa «implica un’idea di eccedenza contenutistica come riserva fruttifera, deposito aureo; come surplus che continuamente si produce; come scarto rispetto alle logiche preventivabili perché preordinate; come risorsa simbolica di ultima istanza, “istituzionale” e tuttavia mai del tutto costituibile, delimitabile». G. Preterossi, Autorità, Bologna 2002, p. 12. 9 Alla luce di quanto detto finora, pertanto, non si ricorre alla celebre suddivisione adottata dal sociologo Max Weber, che riconduce l’autorità a tre categorie fondamentali: autorità legale-razionale, autorità tradizionale e autorità carismatica. Cfr. R. Sennet, Autorità, Milano 1981; e G. Preterossi, Autorità, cit., pp. 112–115. L’interpretazione di autorità offerta in questo lavoro può essere considerata per molti versi trasversale rispetto alla suddivisione weberiana.

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si comunica, più che nelle informazioni stesse. Di questo surplus, indisponibile ma presente, alla base di ogni relazione di autorità, il portatore è come se divenisse allo stesso tempo simbolo e testimonianza: un testimone «che attesta ciò di cui non dispone, ma è anche personalmente implicato nella propria testimonianza».10 Conseguentemente, l’attività di mediazione deve essere vista avvenire su una doppia direttrice interconnessa: tra un fondamento e un destinatario (individuale e/o collettivo) e tra il piano dei fatti e quello del senso (indisponibile fattualmente).11 Questa capacità di mediazione dota di norma il portatore di autorità di una sorta di “aura”, da cui deriva frequentemente la sua attitudine alla conduzione di coloro che a lui si affidano. Al rapporto privilegiato con il piano del senso, caratterizzante il portatore di autorità, deve ricondursi infine la legittimità che gli viene attribuita e che sta alla base del suo seguito. Già da queste poche frasi, si evidenzia come al centro di questo capitolo si trovi un’idea di autorità ben presente nell’esperienza di vita di ognuno, ma da ricondursi alla sfera delle percezioni o sensazioni ben più che a quella dell’analisi razionale. Lo stesso Karl Jaspers sottolinea del resto l’impossibilità di comprendere il significato e il contenuto dell’autorità nella sua completezza: «[p]oiché non posso cogliere l’autorità con un calcolo, e poiché io non la so come so le cose finite, essa dilegua di fronte a me se voglio renderla un oggetto univoco, una garanzia con cui posso fare i conti. L’autorità, se compresa completamente nel suo contenuto e nel suo senso, non sarebbe più autorità».12 10 S. Biancu, Saggio sull’autorità, Milano 2012, p. 61. È necessario quindi che il portatore di autorità, che chiede agli altri di mettersi in gioco, esibisca egli stesso un impegno assiduo e veritiero in direzione di quel fondamento che lo rende autorevole. In caso contrario, vale a dire qualora la sua testimonianza non si rivelasse vissuta ma soltanto simulata, egli sarebbe condannato a perdere ogni credibilità e autorevolezza. 11 Cfr. ivi, pp. 131–133. Quanto appena detto vale sia nel caso delle autorità personali, siano esse dipendenti dalla persona in quanto tale o dalle funzioni sociali da essa svolte, sia per quel che concerne le forme impersonali di autorità. 12 K. Jaspers, Della verità. Logica filosofica, Milano 2015, pp. 1578–1579.

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In linea generale, però, alla luce di quanto detto finora, l’autorità sembrerebbe configurarsi come alternativa alla libertà, un principio di limitazione di quest’ultima: d’altro canto, si può essere portati a credere che la rivendicazione di immediatezza – tipica della stessa idea di libertà – non possa che costituire una sfida ad ogni pretesa di mediazione. Concordo però con Stefano Biancu quando sottolinea come, in realtà, l’autorità non debba essere valutata in opposizione alla libertà e, a tal proposito, sia necessario un ripensamento della dialettica tra mediazione e immediatezza (d). Quest’ultima infatti non può prescindere da alcune mediazioni necessarie: tendiamo ad essa, in quanto libertà ed immediatezza sono l’ideale regolatore a cui tanta contemporaneità e tanta filosofia si ispirano, ma la nostra capacità di conseguirla è sempre irrimediabilmente in debito verso alcune mediazioni imprescindibili, che assumono per noi la forma di autorità autorevoli.13 Del resto, la libertà è raffigurabile come «assenza di mediazioni» soltanto in un mondo ideale o in qualità di astrazione filosofico-giuridica, in cui avviene il riconoscimento immediato della libertà come diritto universale, valido per chiunque e in qualsiasi momento. Nel mondo reale e per l’individuo concreto, sappiamo però che essa non è immediatamente disponibile: si nasce capaci di libertà, ma la sua realizzazione – per quanto sempre parziale – è una faticosa conquista, che molto deve a mediazioni autorevoli di carattere familiare, culturale, linguistico, interpersonale e così via, di cui ciascuno fa continuamente esperienza. Detto altrimenti: l’individuo è in grado di conquistare la sua libertà una volta impadronitosi di un sistema simbolico che lo abilita a fare esperienza del reale, consentendogli l’accesso a se stesso, all’altro da sé e al mondo più in generale. Egli percorre quindi il suo cammino verso la libertà grazie all’incontro con libertà più mature della propria che assumeranno nei suoi confron13

In questo paragrafo, si fa ricorso a S. Biancu, “Autorità e libertà. Ripensare un’alternativa (a partire dalla Riforma di Lutero)”, in S. Biancu (a cura di), Riforma e modernità, Roma 2018, pp. 198–200.

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ti il ruolo di autorità – seppure sempre, in qualche modo, soggettive e contingenti.14 III. Educazione e autorità in epoca di pluralismo

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Proprio la necessità degli esseri umani di tali mediazioni autorevoli spiega il rapporto strettissimo tra autorità ed educazione (e). Questo aspetto è magistralmente descritto da Karl Jaspers, secondo il quale, nell’educazione, l’autorità conserva il legame storico con l’origine e aiuta a tramandare la fede, il sapere, i modi di pensare e gli atteggiamenti […]. L’autorità a cui si crede è la fonte dell’educazione autentica, che coglie l’essenza stessa. Il singolo uomo […] è legato all’autorità per l’acquisizione del contenuto della tradizione. Crescendo in essa gli si apre lo spazio in cui l’essere gli si fa incontro da ogni parte. Crescendo senza vera autorità egli giunge sì a possedere delle conoscenze, dominerà il parlare e il pensare, ma rimarrà esposto alle vuote possibilità dello spazio in cui il nulla lo guarda negli occhi. Maturando si fa presente al singolo la sua origine nel pensiero di se stesso. I contenuti dell’autorità si fanno viventi, essendo diventati i suoi propri. […] La libertà che è sorta afferrando l’autorità può allora sottrarsi all’autorità […]. Giunto a sé attraverso l’autorità, il singolo cresce uscendo dall’autorità.15

L’idea di autorità svolge pertanto un ruolo nevralgico nel momento in cui il singolo entra in contatto con il mondo e, nel mondo, riceve la sua educazione. Ammettere la dipendenza dal proprio contesto di sviluppo e socializzazione corrisponde al riconoscimento del ruolo che, al suo interno, svolgono le mediazioni autorevoli. Attraverso di esse e quindi in stretto le14 Ibidem. Chiaramente, quanto detto non vale se ci si limita ad osservare la libertà in qualità di diritto immediato: in quest’ultima prospettiva, ogni autorità non può che configurarsi come limite e ostacolo alla libertà. 15 K. Jaspers, Della verità. Logica filosofica, cit., pp. 1592–1593.

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game con alcuni specifici portatori di autorità, la persona è in grado di sviluppare la propria individualità e dare forma all’identità personale. Tali mediazioni sono in primo luogo simboliche: il soggetto, che entra in contatto con esse, percepisce in loro – come descritto – un surplus di significato, un qualcosa di ulteriore e indisponibile, a cui rinviano. In società, ciò avviene attraverso componenti tanto personali quanto impersonali dell’autorità. È cruciale per i fini di questo lavoro comprendere come possa avvenire la combinazione tra le due forme di manifestazione dell’autorità in quanto un mix di questo genere si presenta in maniera pronunciata proprio nell’ambito delle nuove tecnologie. La commistione tra forme personali e impersonali di autorità di seguito è esemplificata con riferimento all’educazione civica dei cittadini. Sin dalla classicità, è possibile rintracciare l’inclinazione ad attribuire a leggi e istituzioni – e quindi a componenti, per così dire, impersonali – un ruolo autorevole in ambito educativo, per lo meno quanto quello svolto dalle componenti personali. Nella visione aristotelica – seppure l’autorevolezza delle leggi sia ben riconosciuta anche da Platone –, ad esempio, le leggi non si rivolgono esclusivamente alla limitazione del comportamento antisociale, essendo ritenute in grado di plasmare in positivo il carattere degli individui. Lo Stato, infatti, si deve attivamente interessare della virtù dei cittadini e ciò avviene attraverso la promulgazione di buone leggi, dotate di autorità in sé. L’interpretazione di fondo è quindi che le leggi – unite all’opera di tradizioni e istituzioni – promuovano i migliori aspetti della natura umana, piuttosto che limitarsi a porre un freno a quelli più deleteri. All’interno di istituzioni che incorporano i contenuti del diritto, i cittadini sono così soggetti a processi educativi che sostengono e promuovono la capacità di intraprendere percorsi di impegno politico: «[t]he greatest power of the laws lies in their educative role».16 Nella concezione aristotelica, 16 I. Honohan, Civic republicanism, New York 2002, p. 27. Cfr. anche A. Peterson, Civic republicanism and civic education, Londra 2011, pp. 88–89. In merito al rapporto tra autorità e legge, Viola scrive: «il diritto positivo è percepito dalla maggioranza dei cittadini e dei funzionari come fornito di autorità. È que-

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pertanto, la legge svolge un ruolo centrale nel plasmare le vite dei cittadini.17 Tale forma di educazione morale deve essere però accompagnata dall’azione dei pedagoghi, in quanto essi, oltre a conoscere le norme, hanno uno stretto legame con gli allievi. Nella sua generalità, infatti, la legge si rivolge ad un’infinita varietà di esseri umani, dotati di capacità, bisogni e punti di vista differenti. Attraverso la pratica di tutti i giorni, agli educatori spetta così il compito di contrastare due elementi imprescindibili – e utili – della legge: formulazione generale e natura impersonale.18 Nella formazione civica, la mediazione autorevole avviene quindi attraverso un mix di componenti impersonali – leggi e istituzioni – e personali – pedagoghi e altre figure che si occupano di veicolare e declinare nell’educazione dei singoli i contenuti generali della legge. sto il significato dell’espressione “la forza del diritto”, cioè si attribuisce al diritto una forza spirituale e morale, un’autorevolezza che le altre regole sociali non posseggono. È questa una credenza diffusa che non rare volte diventa il motivo principale di obbedienza alla regola giuridica. […] Che il diritto si presenti come fornito di un’autorità di fatto vuol dire, dunque, che appare come un valore a cui si deve obbedire». F. Viola, Autorità e ordine del diritto, Torino 1984, pp. 24–25. 17 Un altro autorevole filosofo che, nell’ambito del processo educativo, ha dato un ruolo importante alla componente impersonale è John Rawls, il quale attribuisce un ruolo educativo fondamentale alla concezione politica di giustizia, parlando di «political conception as educator». J. Rawls, Political liberalism, New York 1996, p. 86. Il contatto con la concezione politica di giustizia e la socializzazione all’interno di una società che la pone alla base delle relazioni tra cittadini e istituzioni fa in modo che essa attui una cruciale funzione educativa. Cfr. S. Mulhall e A. Swift, Liberals and communitarians, Malden 2003, 200–201. Rawls è convinto che le istituzioni giuste saranno in grado di plasmare la cultura pubblica di una democrazia pluralista e il carattere e gli interessi dei suoi cittadini in modo tale da garantire un sistema giusto e stabile sul lungo periodo. L’idea di base è che «the political ideas “espressed” in common, public institutions and appealed to in the culture to justify those institutions will shape citizens’ moral-political education». J. Cohen, A more democratic liberalism, in «Michigan Law Review», 92, 1994, p. 1532. 18 Cfr. R. P. George, Making men moral, Oxford 2002, pp. 26–28; e M. Keys, Aquinas, Aristotle, and the promise of the common good, Cambridge 2006, pp. 215–216.

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In riferimento all’educazione delle nuove generazioni, non deve pertanto generare timore o dubbio il ricorso al concetto di autorità, da intendersi anzi come indispensabile. A questo proposito, Jacques Maritain afferma che, nell’opera educativa, gli adulti non devono fare uso di «paternalismo» o «imperialismo» («per imprimere la propria immagine sul fanciullo come su di un pezzo di argilla»), bensì ad essi sono richiesti «amore» e in seguito «autorità», un’autorità autentica e non un potere arbitrario («l’autorità intellettuale per insegnare e l’autorità morale per farsi rispettare ed ubbidire»). Il fanciullo è infatti in diritto di attendere da genitori e insegnanti ciò di cui ha bisogno: ossia di essere guidato positivamente e di imparare ciò che ignora.19 Si tratta quindi di un significato del concetto di autorità strettamente connesso a quello di autorevolezza e fondato – ben più che sull’idea di una cieca sottomissione – su un atto di riconoscimento ed obbedienza: ci si affida a forme autorevoli di autorità nella misura in cui ad esse è riconosciuto un “di più”, una preminenza rispetto alla propria conoscenza o capacità di giudizio. Inevitabilmente, una siffatta accezione del concetto di autorità nell’ambito dell’educazione delle nuove generazioni non potrà che avere una propria centralità nelle società plurali della contemporaneità. A livello culturale, ormai, vige infatti un pressoché assoluto consenso in Occidente sul fatto che le odierne democrazie siano destinate ad ospitare una permanente pluralità di fedi, filosofie e concezioni di vita, talvolta incompatibili tra loro. John Rawls lo descrive come «the fact of reasonable pluralism»20, alla luce del quale ritiene inevitabile che persone libere raggiungano conclusioni molto differenti su questioni fondamentali di etica, religione e morale, dopo aver dato libero sfogo ai poteri della ragione. Proprio l’affermazione del pluralismo non può che assegnare un ruolo fondamentale all’educazione democratica all’interno degli Stati liberali, tesa a mettere a disposizione delle persone una base valoriale condivisa da cui partire nella lo19 20

J. Maritain, L’educazione della persona, Brescia 1967, p. 44. J. Rawls, Political liberalism, cit., p. 36.

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ro vita comune. Attraverso di essa, le giovani generazioni sono introdotte ad una serie di ideali, valori e credenze, ma anche virtù e predisposizioni necessarie affinché il sistema politico-istituzionale possa replicarsi correttamente nel tempo, preservando stabilità e unità sociale, anche di fronte a continue divisioni su questioni centrali della vita collettiva.21 Tutto ciò assume un’importanza cruciale ovviamente se si prendono per veri due presupposti: il primo riguarda il fatto che – malgrado tutte le disfunzioni vissute negli ultimi anni – la democrazia sia ancora il miglior sistema politico tra quelli disponibili; e il secondo si concentra sulla possibilità che, nonostante il grande pluralismo che di norma la caratterizza, siano concepibili processi educativi in grado di condurre persone e gruppi, differenti per convinzioni, credo e modi di vivere, ad interiorizzare valori e ideali comuni, tesi ad indirizzare sulla via del rispetto reciproco la cooperazione in seno alla collettività.22 Ad esempio, è fondamentale che a prevalere nelle relazioni interpersonali siano virtù come tolleranza e rispetto, mentre devono essere rifuggite tutte quelle inclinazioni che si appellano all’uso di coercizione e violenza al fine di affermare una specifica dottrina comprensiva. L’educazione alla democrazia ha quindi l’obiettivo – avrebbe detto Rawls – di trasformare gli individui in «reasonable citizens», consapevoli dei propri diritti e delle proprie responsabilità e desiderosi di partecipare attivamente al sistema di cooperazione d’appartenenza.23 È proprio qui che, anche nell’epoca del pluralismo, non può mancare il ricorso al binomio educazione–autorità: attraverso le mediazioni autorevoli di 21 Cfr. A. Gutmann, Civic education and social diversity, in «Ethics», 105, 3/1995, pp. 557–579. 22 Cfr. T. Fowler, The limits of civic education: The divergent implications of political and comprehensive liberalism, in «Theory and Research in Education», 9, 1/2011, pp. 87–88. 23 Come osserva Rawls: l’educazione dovrebbe preparare i bambini «to be fully cooperating members of society and enable them to be self-supporting; it should also encourage the political virtues so that they want to honor the fair terms of social cooperation in their relations with the rest of society». J. Rawls, Political liberalism, cit., p. 199.

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genitori, maestri, istituzioni e così via, dovrà infatti essere impartito alle nuove generazioni un novero di insegnamenti, sotto forma di valori, schemi di condotta e virtù, indispensabili per vivere in una società democratica. Ora, prima di riflettere sul legame tra quest’interpretazione dell’idea di autorità e il mondo tecnologico odierno, tema al centro della restante parte del lavoro, è opportuno fare due precisazioni ulteriori, derivanti ancora dalle riflessioni di Karl Jaspers e utili a meglio comprendere quelli che saranno poi individuati come i tratti specifici dell’idea di autorità nell’era dei social network. Nell’ottica del filosofo tedesco, infatti, (f) l’autorità è vista concretarsi sempre in una precisa «forma storica».24 Assume pertanto delle incarnazioni storicamente e materialmente determinate, mai atemporali e assolute. Tuttavia, per via della sua relazione con la “verità”, vale a dire con ciò che trascende l’esperienza materiale e sensibile, essa deve credere di possedere l’eterno in un’espressione obiettivamente valida. Il tentativo è quello di cogliere e trasmettere nella storicità «l’essere dell’eternità», sebbene ciò sia per antonomasia indisponibile e inesperibile.25 Da quanto detto discende, infine, la constatazione che l’autorità si trova in costante movimento e non sussiste a lungo nella stessa forma. Per questo, è difficile valutare un’autorità (personale o impersonale) al di fuori del suo momento storico. Parimenti, essa non deve essere considerata unica ed esclusiva nemmeno all’interno di un arco temporale ben circoscritto: contemporaneamente convivono infatti molteplici autorità, spesso indipendenti le une dalle altre e a cui il singolo può essere sottoposto in maniera simultanea. In alcuni casi, tali autorità possono persino rivolgersi al medesimo ambito di vita, ragion per cui sarebbe auspicabile che indirizzassero l’azione dell’individuo in maniera sinergica.26 24

K. Jaspers, Della verità. Logica filosofica, cit., p. 1533. Ivi, p. 1573. 26 Nel momento in cui molteplici autorità si rivolgano allo stesso ambito d’azione e le loro direttive o insegnamenti confliggano, spetta al singolo decidere quale autorità sia maggiormente affidabile. Raz suggerisce però che «[o]ften there are co-operative relations among authorities. The law recognizes the au25

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IV. Intelligenza artificiale, algoritmi e social network. Quale posto per l’autorità? A questo punto, ci si domanderà: che rapporto ha quanto esposto finora con la tematica delle nuove tecnologie? È indubbio che esse abbiano modificato in profondità le condizioni sociali in cui germogliano e si affermano le differenti forme di autorità. Oggigiorno, ad esempio, governi, parlamenti ed altri protagonisti della vita pubblica evidenziano grandi difficoltà nel tenere le fila di una società, in cui il controllo del flusso delle informazioni su giornali, canali televisivi e ancor più nel determinante mondo di internet, di cui i social network costituiscono soltanto una – seppur rilevantissima – parte, appare un’impresa titanica (se non disperata). Il sistema, venutosi a creare in seguito all’avvento delle nuove tecnologie, non può quindi che rappresentare una sfida palese per le autorità tradizionali, che ora come mai prima si trovano a fronteggiare il moltiplicarsi di potenziali concorrenti. I nuovi media, contraddistinti dai loro tratti di apertura e – per così dire – democraticità, favoriscono il crearsi di un numero pressoché infinito di agorà in cui discutere e mettere a confronto visioni del mondo e argomentazioni, permettendo lo sviluppo di nuove sinergie o l’approfondirsi di attriti e divisioni. Queste caratteristiche della contemporaneità hanno spesso l’effetto – talvolta volontario, talaltra collaterale – di corrodere le forme tradizionali di autorità, che si affidano a processi e relazioni difficili da trasferire sulle piattaforme digitali.27 Le complesse caratteristiche del mondo tecnologico pretendono dunque una nuova interpretazione e il ripensamento di molte strutture tradizionali riguardanti potere e autorità.28 thority of schools and of parents, for example, and lends them legal authority, by directing the relevant people to obey them, or by enforcing their directives through legal procedures». J. Raz, Between authority and interpretation, Oxford 2009, p. 143. 27 Cfr. B. S. Turner, Religious authority and the new media, in «Theory, Culture & Society», 24, 2/2007, pp. 117–118. 28 Ad esempio, le “autorità” contemporanee, che fanno la propria apparizione sul web, possono essere ricondotte con estrema difficoltà alle categorie svi-

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Di seguito, si prova a dare un contributo a tal proposito in riferimento all’idea di autorità e al suo manifestarsi nelle dinamiche sociali attuali. In particolare, si argomenta come il mix tra forme personali e impersonali di mediazione autorevole abbia trovato nella contemporaneità una declinazione inedita e profondamente interconnessa con il funzionamento delle nuove tecnologie. Proprio su questa forma di relazione autorevole, analizzata attraverso il ricorso all’esempio dei social network, si focalizza la riflessione. Indubbiamente, esiste ormai un’amplissima varietà di social network, che hanno attratto milioni di utilizzatori, da cui sono stati integrati nelle pratiche quotidiane. Tali social network si contraddistinguono per avere una pluralità di caratteristiche tecniche e modalità di funzionamento e per il loro rivolgersi ad un ampio novero di interessi, pratiche, orientamenti e appartenenze. Allo stesso tempo, essi sono accomunati dal fine di mettere in collegamento grandi quantità di persone, precedentemente in contatto o no, permettendo loro la condivisione di contenuti, informazioni ed esperienze. La seguente discussione non si rivolge ad un social network in particolare, andando ad indagare alcuni tratti che sembrano accomunare tanti di essi. Innanzitutto, è difficile affermare che tali piattaforme tecnologiche non abbiano un ruolo nell’educazione delle giovani generazioni, data la quantità di tempo che giovanissimi e adolescenti passano in questi “luoghi immateriali” nonché la loro capacità di influenzarne il carattere e i comportamenti. Il ruolo pervasivo e onnipresente dei social network nel creare condotte di vita, abitudini e mode e nel far circolare contenuti e informazioni, al di là di ogni barriera di lingua, spazio e culluppate da Weber. Spesso, esse non sono autorità tradizionali, né fanno appello ad una legittimazione di tipo tradizionale. L’assenza di un contatto personale rende invece molto difficile il loro inquadramento all’interno di una dinamica carismatica. Infine, esse non sono nemmeno legali-razionali in quanto l’autorità di un sito o di un flusso di informazioni non è il prodotto di un’organizzazione gerarchica, in cui si staglia una ben definita linea di comando. Piuttosto, si può affermare che «[t]he authority of the Internet is devolved, dispersed and dissipated». Ivi, p. 124.

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tura, con difficoltà inoltre può essere ritenuto estraneo al concetto di autorità – per come descritto poc’anzi. Al loro interno, a prendere corpo è una nuova forma di mediazione autorevole, peculiare del nostro tempo e tuttavia percepita dai suoi fruitori come depositaria di un surplus di senso, se non foss’altro per il grande potere che ha di influenzarne convinzioni, comportamenti e stili di vita. Altrimenti – verrebbe da domandarsi – come è possibile che i suoi effetti siano così pervasivi nelle esistenze di milioni di persone su tutto il pianeta? Anche in questo caso, si può avanzare l’ipotesi che si tratti di una forma “ibrida” di mediazione autorevole, costituita da componenti tanto personali quanto impersonali. Come detto, però, tale mediazione si articola in una maniera inedita rispetto alle tipologie di autorità ereditate dal passato e la ragione di ciò è da ricercarsi nelle tre componenti – analizzate di seguito – che sembrano caratterizzarla, vale a dire a) persona, b) piattaforma e c) algoritmo. Sui social network, il singolo di norma si manifesta attraverso un “profilo”, dove è reso pubblico un ampio novero di informazioni personali, gusti, scelte, preferenze, attività. Lì, egli si offre e veicola attraverso parole, immagini, video, file audio.29 Si tratta generalmente di “frammenti” visivi e uditivi, spesso immersi o affiancati da un’infinità di altri frammenti, provenienti da una moltitudine di persone, non di rado sconosciute e lontane geograficamente e culturalmente, alle quali si dedica un’attenzione limitata – sia sotto l’aspetto del tempo speso nell’interazione che della concentrazione impiegata per il recepimento dei contenuti. Ciononostante, è proprio a queste persone che, a volte (e all’improvviso), fette per nulla irrilevanti dell’opinione pubblica si rivolgono, individuandole in qualità di autorità autorevoli. Proprio su queste ultime pa29

Cfr. D. Beer, Power through the algorithm? Participatory web cultures and the technological unconscious, in «New Media & Society», 11, 6/2009, p. 996. Il livello di visibilità e le sue modalità variano a seconda del social network, essendo questa una delle principali caratteristiche attraverso cui tali piattaforme si distinguono le une dalle altre. Cfr. D. M. boyd e N. B. Ellison, Social network sites: Definition, history and scholarship, in «Journal of Computer-Mediated Communication», 13, 1/2007, p. 213.

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role (autorità autorevoli) è ora necessario focalizzare l’attenzione, alla luce del contesto in cui vengono adoperate. Come accennato poc’anzi, la tesi difesa in questo capitolo è quella secondo cui, per comprendere davvero la nuova forma storica di mediazione autorevole, caratteristica dell’epoca dei social network, si debbano unire alla componente personale due componenti impersonali, che “giustificano” l’inserimento all’interno della categoria di autorità autorevoli di alcuni utilizzatori del web e non di altri. Di queste due componenti impersonali, una pone maggiormente l’accento sull’idea di autorità – e mi riferisco alle piattaforme digitali30 – e l’altra su quella di autorevolezza – e il rimando è qui alla logica dell’algoritmo. Di seguito, si prova a spiegare quest’ultima frase, che potrebbe sembrare ad alcuni inizialmente criptica. In che senso è possibile creare una connessione tra le piattaforme e l’idea di autorità? Come emerso con grandissima evidenza durante la pandemia, oggigiorno, i social network si affiancano a quotidiani, radio e televisioni, per tanti versi oscurandoli e sostituendoli. Le formulazioni celebri “è scritto sul giornale” o “l’ho visto in televisione”, frasi che inevitabilmente – soprattutto in passato – veicolavano un’idea di autorità, sono spesso sostituite ora da “l’ho visto/letto su Facebook/Instagram/Twitter” e così via. Per quanto bistrattati e guardati da tanti con diffidenza, non si può certo celare il fatto che palcoscenici come quelli dei social network siano attualmente considerati in possesso di un’autorità e una rilevanza sociale tali da influenzare ampie porzioni della popolazione attraverso i loro contenuti. Qui interviene però un elemento aggiuntivo e inedito rispetto alle forme di autorità del passato: il riferimento è alla pressoché totale e libera accessibilità delle piattaforme. Proprio questa caratteristica sembrerebbe in grado di portare scompiglio all’interno della nuova relazione di autorità, 30

Per un’interessante analisi sull’utilizzo del termine “piattaforma” nel mondo informatico, si veda T. Gillespie, The politics of ‘platforms’, in «New Media & Society», 12, 3/2010, pp. 347–364.

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potenzialmente minandola alla radice. Infatti, per come inteso tradizionalmente, il portatore di autorità è un “essere” unico, che si staglia sulla massa in quanto percepito possedere una relazione privilegiata con qualcosa di profondo e vero, non immediatamente disponibile, il fondamento appunto. Nelle relazioni autorevoli, quindi, un elemento cruciale è sempre stato rappresentato dal meccanismo di selezione dei portatori di autorità – talvolta anche implicito – che ha permesso a questi ultimi di acquisire posizioni e ruoli di preminenza. Tale processo di selezione – seppure in una forma assolutamente innovativa – non è stato però messo da parte nel mondo dei social network, deve essere piuttosto inteso come una sorta di «threat of invisibility», secondo la definizione di Bucher, che sembra governare le azioni degli utenti.31 È proprio a questo punto che si evidenzia l’ultima componente della nuova forma di mediazione autorevole dell’era tecnologica, vale a dire l’elemento che, nella formulazione “autorità autorevoli”, pone l’accento sull’idea di autorevolezza, mostrandosi capace di attribuire tale qualità a determinate persone presenti sulle piattaforme e non a milioni di altre “in competizione” con esse. Tale componente è rappresentata 31

T. Bucher, Want to be on the top? Algorithmic power and the threat of invisibility on Facebook, in «New Media & Society», 14, 7/2012, p. 1171. 32 In maniera molto elementare, l’algoritmo è qui inteso come una sequenza formalmente specificata di operazioni logiche e computazionali che forniscono istruzioni step-by-step ai computer su come processare un determinato set di dati, permettendo in questo modo l’automatizzazione delle decisioni. Cfr. S. Barocas e A. D. Selbst, Big data’s disparate impact, in «California Law Review», 104, 2016, p. 674. Pertanto, le “decisioni” algoritmiche sono, di norma, il risultato dell’implementazione di regole concernenti la successione di passi da seguire all’interno di un processo computazionale, stabilite a monte o sulla base di calcoli ottenuti attraverso un amplissimo registro di dati. A seconda dei casi, quindi, tali regole possono essere articolate direttamente dai programmatori o si può trattare di norme dinamiche e flessibili definite a partire dai dati stessi. In quest’ultimo frangente, si parla di machine-learning algorithm, vale a dire algoritmi che hanno la capacità di definire o modificare “autonomamente” le regole del processo decisionale in base agli input ricevuti. Cfr. N. Diakopoulos, Algorithmic accountability reporting: On the investigation of black boxes, in

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dalla logica dell’algoritmo32, che – una volta implementata e/o saputa sfruttare correttamente – permette ad alcuni soggetti e ai contenuti che essi veicolano di conquistare un impressionante grado di popolarità e visibilità, talvolta dall’oggi al domani e su scala planetaria, e una commisurata capacità di condizionamento sull’opinione pubblica. Al fine di divenire visibile e – in un certo qual modo – autorevole, l’utente dei social network è quindi costretto a sottostare ad una ben definita logica delle piattaforme, i cui “trucchi” vengono attualmente sviscerati all’interno del settore economico del social media management. La visibilità, da cui è fatta dipendere in maniera diretta l’autorevolezza, consiste perciò nell’essere “selezionati” dagli algoritmi, che si trovano oggigiorno ad esercitare una forma ben precisa di potere in grado di plasmare le esperienze quotidiane dei singoli, i loro incontri e la loro cultura.33 Il riferimento è indubbiamente ai cosiddetti influencer, ma sarebbe riduttivo fermarsi ad essi in quanto gli ultimi anni – tra pandemia, lotta al cambiamento climatico e movimenti per il riconoscimento e la difesa dei diritti (per citare solo alcuni casi) – testimoniano di abbondanti esempi di persone e movimenti capaci di farsi strada sul palcoscenico mondiale, sfruttando gli strumenti offerti dai social «Tow Center for Digital Journalism/Columbia Journalism School», 2013, p. 3; e B. D. Mittelstadt et al., The ethics of algorithms: Mapping the debate, in «Big Data & Society», 3, 2/2016, p. 3. Ovviamente, sono meccanismi molto complessi: ad esempio, nel caso del cosiddetto algoritmo di Facebook, non si può pensare che il riferimento sia ad un semplice codice, che opera in ogni caso indistintamente. Si tratta piuttosto di un sistema algoritmico, caratterizzato dall’intrecciarsi e dalla cooperazione di una miriade di componenti, attive contemporaneamente e che assicurano il funzionamento del sistema per come lo conosciamo. Tali componenti includono una combinazione di elementi tecnologici e umani: dietro ogni algoritmo, ci sono infatti le persone che lo hanno ideato, gli hanno fornito i training data e ne hanno messo a punto i parametri. Ai fini di questo lavoro, ad ogni modo, è sufficiente il riferimento generico alla logica algoritmica alla base dei social network, senza confrontarsi dettagliatamente con i grandissimi elementi di complessità che la caratterizzano dal punto di vista tecnico. 33 Cfr. S. Lash, Power after hegemony: Cultural studies in mutation, in «Theory, Culture & Society», 24, 3/2007, pp. 70–71.

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network e dalla connessa logica degli algoritmi, e di acquisire in questo modo lo status di autorità autorevoli della contemporaneità.34 In connessione con gli algoritmi è però fondamentale illuminare un elemento di grande rilievo ai fini della presente discussione e riguardante il loro funzionamento. Malgrado i calcoli matematici alla base di questi ultimi attribuiscano lo-

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Nel contributo, si fa riferimento al meccanismo tramite il quale vengono conferite autorevolezza e autorità ad alcune persone e non ad altre all’interno delle nuove realtà digitali, alla cui base si trovano gli algoritmi e la loro logica. Un ambito che rimane inesplorato è invece quello relativo ad uno dei grandi problemi connessi con l’intelligenza artificiale e soprattutto con gli algoritmi: la questione di chi sia il soggetto responsabile per la loro azione. In quest’ottica, i rimedi usualmente avanzati vanno sotto i nomi di transparency e accountability. Algoritmi opachi e imperscrutabili sembrano infrangere un mondo di diritti – finora e, per lo meno, a livello razionale – ben attribuiti e attribuibili agli esseri umani, seppure non sempre concretamente garantiti. Da ciò è nata la necessità che esista una persona responsabile per il comportamento degli algoritmi, la sorgente di un codice di condotta che questi ultimi sono obbligati a rispettare e con cui devono fare i conti. Tale possibilità è indubbiamente rassicurante per l’utilizzatore, che è così in grado di individuare un colpevole per i “mali” attuati dall’algoritmo stesso. La prima persona, a cui sembrerebbe possibile ricondurre siffatta responsabilità, è il designer. Data la natura degli algoritmi, però, questa forma di accountability appare piuttosto limitata: il procedimento algoritmico infatti non può essere interamente ricondotto al codice sorgente ed eccede sostanzialmente la progettazione dell’autore, soprattutto laddove siano in atto processi di machine learning. In quest’ultimo caso, infatti, il procedimento decisionale stesso spesso emerge automaticamente a partire dai dati sotto analisi e in modi difficili da comprendere e spiegare per gli esseri umani. Cfr. J. A. Kroll et al., Accountable algorithms, in «University of Pennsylvania Law Review», 165, 3/2017, pp. 633–705. Come sottolinea Amoore, «[t]he authorship of the algorithm is multiple, continually edited, modified, and rewritten through the algorithm’s engagement with the world». L. Amoore, Cloud ethics. Algorithms and the attributes of ourselves and others, Durham e Londra 2020, p. 22. Su queste tematiche, si vedano anche K. Martin, Ethical implications and accountability of algorithms, in «Journal of Business Ethics», 160, 2019, pp. 835–850; M. Ananny e K. Crawford, Seeing without knowing: Limitations of the transparency ideal and its application to algorithmic accountability, in «New Media & Society», 20, 3/2018, pp. 973–989; D. Neyland, Bearing accountable witness to the ethical algorithmic system, in «Science, Technology, & Human Values», 41, 1/2016, pp. 50–76; e D. R. Desai e J. A. Kroll, Trust but verify: A guide to algorithms and the law, in «Harvard Journal of Law & Technology», 31, 1/2017, pp. 2–64.

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ro agli occhi dei più una patina di correttezza lineare, scientificità, oggettività e conseguentemente (spesso) incontestabilità, essi devono essere osservati non come gli autori di una serie di procedure computazionali ineluttabili35: si tratta bensì di agenti condizionati dall’esposizione a ben precise tipologie di dati, scelte a monte e – nonostante il rilevante ruolo sociale che algoritmi come quelli dei social network si trovano a svolgere nella contemporaneità – non sottoposte al vaglio critico della collettività o di precisi organi della stessa (ad esempio, le istituzioni), esaudendo piuttosto logiche commerciali e interessi privati, in quanto tali non pubblicamente trasparenti. Di conseguenza, gli algoritmi non conducono al risultato “giusto”, bensì ad un risultato tra i tanti possibili: le loro “scelte” sono del resto, come detto, perennemente regolabili e modificabili in base ad esigenze e obiettivi di autori e committenti.36 L’algoritmo in sé deve essere quindi osservato non come un codice puro e semplice, ma come un «assemblage of human and nonhuman actors»37, che esercita una forma di potere cruciale nella nostra società, essendo in grado di «select[] what information is considered most relevant to us, a crucial 35 Del resto, come suggerisce Amoore: «the action signaled by the output of the algorithm is never placed beyond the darkness of doubt and difficulties, for it carries doubt within, is always incomplete, and does not know what is around the decisive turn». L. Amoore, Cloud ethics. Algorithms and the attributes of ourselves and others, cit., p. 152. 36 Cfr. T. Bucher, Want to be on the top? Algorithmic power and the threat of invisibility on Facebook, cit, p. 1169; e L. Parisi, Contagious architecture, Cambridge 2013, p. 2. A questo proposito, è di interesse anche l’analisi di F. Kraemer, K. van Overveld e M. Peterson, Is there an ethics of algorithms?, in «Ethics and Information Technology», 13, 2011, pp. 251–260. Qui, si esamina come, ben lungi dall’essere entità avalutative, gli algoritmi frequentemente racchiudano al loro interno – in maniera implicita o esplicita – giudizi di valore, intendendo con ciò il fatto che frequenti sono i casi in cui non è possibile progettare l’algoritmo senza prendere posizione su specifiche questioni etiche. Un ulteriore approfondimento è offerto in K. Martin, Ethical implications and accountability of algorithms, cit. 37 M. Ananny e K. Crawford, Seeing without knowing: Limitations of the transparency ideal and its application to algorithmic accountability, cit., p. 983.

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feature of our participation in public life».38 Conseguentemente, le persone che spesso arrivano a stagliarsi sulla massa all’interno dei social network e a conquistare una posizione di autorevolezza non giungono a ciò in ragione di un percorso inevitabile, che doveva condurre loro ad emergere e non altri; bensì è necessario tenere sempre in considerazione come, all’origine di tali sviluppi, si trovino percorsi computazionali di ordinamento, classificazione e filtraggio operati dagli algoritmi sulla base di logiche mai del tutto conosciute o conoscibili da parte degli utenti, se non in maniera molto generica, e in riferimento alle quali non vi è la possibilità reale di comprendere il peso dei differenti fattori che contribuiscono alla creazione delle “gerarchie social”.39 Se quanto detto finora è corretto, proprio in connessione con queste ultime osservazioni, è necessario evidenziare un aspetto di problematicità della nuova relazione di autorità, caratterizzante l’epoca delle nuove tecnologie e riguardante il legame tra il portatore di autorità e il fondamento o, per meglio dire, la crisi del fondamento stesso. Il meccanismo di individuazione dei portatori di autorità nell’era dei social network appare infatti pressoché del tutto indipendente da un giudizio di valore sul fondamento, che abbia ricevuto una qualche approvazione a livello sociale, dal punto di vista del contenuto così come da quello della modalità di selezione dello stesso. Tale meccanismo è da ricondurre invece – come visto – ai processi computazionali degli al38 T. Gillespie, “The relevance of algorithms”, in T. Gillespie, P. J. Boczkowski e K. A. Foot (a cura di), Media technologies: Essays on communication, materiality, and society, Cambridge 2014, p. 167. 39 Cfr, a tal proposito, N. Diakopoulos, Algorithmic accountability reporting: On the investigation of black boxes, cit., p. 5. Per questa ragione, Diakopoulos scrive altrove: «[t]he opacity of technically complex algorithms operating at scale makes them difficult to scrutinize, leading to a lack of clarity for the public in terms of how they exercise their power and influence». N. Diakopoulos, Algorithmic accountability, in «Digital Journalism», 3, 3/2015, p. 398. In merito all’opacità degli algoritmi, si veda anche J. Burrell, How the machine “thinks”: understanding opacity in machine learning algorithms, in «Big Data & Society», 3, 1/2016, doi: 10.1177/2053951715622512.

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goritmi, in cui occupano uno spazio del tutto prevalente considerazioni sulla “popolarità” informatica dei soggetti, spesso scollegata da qualsivoglia forma di fondamento. A verificarsi è così un fenomeno in cui, nell’ambito delle mediazioni – per così dire – “autorevoli”, l’accento è posto 1) sul portatore del fondamento osservato come disgiunto dal fondamento e, 2) nell’individuazione di tale portatore, sulla componente impersonale, affidata alla logica degli algoritmi, che – come detto – si basa su meccanismi commerciali e di popolarità più che su contenuti valoriali e sostantivi. Inevitabilmente, la crisi del fondamento porta con sé anche una crisi dell’autorità, da intendersi come il «venir meno della sua funzione di mediazione, ovvero la perdita del legame con l’altro che essa dovrebbe mediare», dove altro sta per quel qualcosa che si percepisce come vero, profondo, sostanziale.40 Ciò però non equivale a dire che a venire meno sia l’idea di autorità in toto: essa continua a costituire un modo di approcciarsi al mondo cruciale e per certi versi costitutivo dell’essere umano, anche quando svuotato – come sembra oggi – di tanta della sua sostanza. Ad essere favorita è così la comparsa di autorità non autorevoli, che, nel caso più “innocuo”, non aiutano il processo di crescita e maturazione del singolo e, in quello più preoccupante, possono condurre a relazioni di dominio e sottomissione. Esistono infatti diverse forme di perversione dell’autorità. In riferimento alle nuove piattaforme, se ne registra una – in qualche modo – complementare a quella caratterizzante la pubblicità e la comunicazione commerciale. In quest’ultima situazione, a parere di Biancu, si ha una «perversione autoritaria di dinamiche simboliche di autorità».41 In che senso? È difficile definire la pubblicità come una semplice informazione su un prodotto; essa necessita infatti di essere creduta, vale a dire che, come ogni forma di autorità, esige l’esercizio di un abbandono fiducioso. La sua possibile perversione 40 41

S. Biancu, Saggio sull’autorità, cit., p. 56. Ivi, pp. 91–92.

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risiede, però, nel fatto che il comunicatore non necessariamente condivide la fede richiesta invece al fruitore della comunicazione. Nella dinamica pubblicitaria, quindi, a mancare è uno degli elementi essenziali di una relazione di autorità autentica: il comune riferimento (e affidamento) ad un senso indisponibile del quale è avvertita la capacità generativa rispetto alle possibilità individuali e sociali. In linea generale, tale senso non è rimosso, venendo associato ad un prodotto indicato come una via affidabile di accesso. Ciò che il comunicatore e il fruitore della comunicazione possono però non condividere – e spesso non condividono – è la fede nelle capacità del prodotto di consentire effettivamente l’accesso al piano del senso (e del valore). Con i social network e con la dinamica di autorità che si attua al loro interno, c’è il rischio che avvenga un’ulteriore perversione della relazione di autorità, in cui a mancare è la vera e propria relazione del portatore di autorità con il fondamento: il processo di attribuzione di autorità al singolo sembra infatti essere indipendente dal suo legame con il piano del senso – aspetto che invece paradossalmente (attraverso l’impiego ad esempio dei testimonial) può essere preservato nel contesto pubblicitario. La divaricazione tra portatore di autorità e fondamento costituisce così la vera perversione della nuova forma di autorità tipica dei social network, in cui autorità e autorevolezza si presentano come un fine in sé, più che come mezzi in grado di mediare verso un fondamento, al quale prestare obbedienza e servizio.42 42 A proposito di quanto appena affermato sono di straordinaria chiarezza le parole di Giuseppe Capograssi, che sottolinea l’importanza del legame con il fondamento/la verità per qualsivoglia forma di autorità: «[s]parita la verità l’autorità non ha più ragione né maniera di essere, la sua funzione di mediazione cessa di colpo poiché non vi sono più i due mondi tra cui mediare: da una parte l’infinito è sparito dall’altra parte è pure sparita la limitatezza la imperfezione la impotenza del finito. Il finito è limitato e sente la sua limitazione in quanto vi ha l’infinito a cui deve giungere, e non può giungervi senza mediazione e senza aiuto: ma quando l’infinito non c’è il finito non è né impotenza né potenza ma è quello che è e non è né capace né incapace a giungere alla sua meta perché non vi ha nessun punto di partenza e nessun punto d’arrivo, e tutta la sua vita è la sua immediatezza. […] L’autorità è qualche cosa di inconcepibile

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Conseguentemente, si tratta di due tipologie complementari di corruzione: se la pubblicità mina il rapporto tra mediatore e destinatario, preservando in alcuni casi invece quello tra portatore di autorità e fondamento, nel contesto dei social network, ad essere messo fortemente in discussione è l’anello antecedente della relazione di autorità, quello riguardante appunto il rapporto tra fondamento e portatore di autorità.

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V. Riflessioni conclusive: il ruolo delle dottrine comprensive Come sottolineato da Jaspers, l’autorità assume tratti specifici in ogni momento storico e spesso, nell’ambito delle relazioni autorevoli, si verifica una compresenza di elementi personali e impersonali. Anche nella contemporaneità, è possibile osservare questa compresenza a livello sociale: nel parlare di autorità, non si può, infatti, certo celare il ruolo tuttora svolto da figure come genitori e insegnanti da un lato, leggi e tradizioni dall’altro. Ciononostante, l’analisi ha portato in evidenza un tratto caratteristico delle società attuali concernente il peso e l’autorevolezza giocato da un’inedita combinazione di componenti personali e impersonali nel mondo tecnologico, e in particolare sui social network. Proprio al riguardo di questa nuova forma di relazione autorevole, si sono evidenziati alcuni elementi di criticità, in special modo connessi con la crisi dell’idea di fondamento e la difficoltà di distinguere tra autorità autorevoli e non, contro i quali sarebbe auspicabile prendere delle contromisure a livello sociale. Quale potrebbe essere il cammino da intraprendere per invertire questo trend, qui soltanto accennato ma preoccupante in alcuni dei suoi tratti fondamentali? Una via percorribile potrebbe essere quella di riportare al centro della riflessione collettiva e del connesso dibattito quelle che Rawls ha definito le perché non ha più niente da fare in un mondo che in ogni momento è definitivamente quello che è e contiene in sé, in quanto è, tutto il valore ed ogni valore». G. Capograssi, Educazione e autorità, a cura di S. Biancu, Brescia 2011, pp. 36–37.

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«reasonable comprehensive doctrines», al fine di riscoprirne il profondo significato sociale.43 Il riferimento è qui a tutta quella molteplicità di concezioni del bene presente in ogni società. Esse possono essere di natura religiosa o secolare, da perseguire individualmente o a livello collettivo, più o meno esigenti nei confronti dei singoli, e si contraddistinguono per il fatto di offrire ai loro appartenenti un’ampia gamma di valori, ideali, virtù e propositi in grado di renderne le esistenze pregne di significato, contrastando alcune derive odierne che sembrano spesso togliere agli individui ogni punto di riferimento. Nello specifico, ai fini di questo saggio, è importante sottolineare un elemento in particolare: la riscoperta del valore delle dottrine comprensive significherebbe anche una rinnovata valorizzazione della relazione tra portatore di autorità e fondamento. Quest’ultimo, nelle differenti declinazioni che può assumere, acquisirebbe una nuova centralità sociale, ad oggi apparentemente smarrita, grazie ad un’accresciuta attenzione verso le dottrine comprensive, di cui di norma costituisce il cuore pulsante. Il transito attraverso la valorizzazione delle dottrine comprensive al fine di riportare al centro della vita della collettività le idee di fondamento, autorità e mediazione autorevole è quindi giustificato dalla convinzione che, alla base dello svuotamento contemporaneo del concetto di autorità, si trovi l’insufficiente esperienza da parte dei cittadini delle democrazie odierne (con particolare – ma non esclusivo – riferimento alle fasce giovani della popolazione) di dinamiche simboliche realmente autorevoli e significative. Per contrastare «l’immaturità simbolica di individui slegati da legami affettivi e da vincoli comunitari e tradizionali che siano realmente autorevoli»44, l’idea è così quella di riportare al centro della scena sociale e della relativa riflessione le cornici interpretative – le dottrine comprensive appunto – all’interno delle quali i legami affettivi e i vincoli comunitari hanno abitualmente trovato il loro radicamento. È all’interno di tali cornici inter43 44

J. Rawls, Political liberalism, cit., p. 59. S. Biancu, Saggio sull’autorità, cit., p. 93.

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pretative infatti che tradizionalmente i portatori di autorità autorevoli (e non solo loro) hanno trovato i modi e le forme per conquistare la propria centralità, alla luce di un rapporto privilegiato con il fondamento. Attraverso un lavoro di presa di coscienza dell’importanza e del significato delle dottrine comprensive a livello sociale, sembra così possibile equipaggiare i cittadini di strumenti (il più possibile) adeguati per l’individuazione e la valorizzazione delle autorità autentiche, contrastando il grande traffico di altre “autorità” poco o per nulla autorevoli, anche se presentissime sul palcoscenico mediatico odierno – tradizionale e di nuova generazione. Estremizzando un po’ la posizione espressa finora, la vera sfida sembra essere quindi quella non di dare valore al pluralismo in sé, che spesso assume la forma di un relativismo sfrenato, ma di focalizzare l’attenzione sociale sulla molteplicità di concezioni del bene, che danno sostanza e colore ad una collettività pluralistica, e sui relativi fondamenti, tutti ammissibili e benvenuti fintantoché rispettino le norme di giustizia e rifiutino ogni profilo di intolleranza. Probabilmente, si arriverebbe così ad una società di meno grigi e più bianchi e neri, una società però più viva e pregna di significati, e tuttavia sempre pacifica. Prendendo a prestito la terminologia rawlsiana, dopo le «political conceptions of justice» è giunto il momento di focalizzarsi a livello sociale sulle «reasonable comprehensive doctrines». Mentre le prime ci permettono di cooperare all’interno degli Stati democratici, malgrado tutte le differenze che li abitano, le seconde ci servono a dare colore e senso alle nostre esistenze… e, con il colore e il senso, a ritornare al centro della scena saranno anche le autorità autorevoli autentiche.

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Capitolo IV

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Education as social cooperation: Overcoming epistemic narcissism through democratic affects di FILIPE CAMPELLO

It is surprising that recent works in certain fields, such as economics and political science, have apparently discovered that we act in an irrational way far more frequently that we would like to. It was acknowledged that, in order to act rationally, we would need a little “nudge”, even from public institutions. However, what we have seen is that these efforts have not been enough to counter the increasing stream of fake news, the undermining of science, and conspiracy theories. What does it mean to say that we do not act rationally? Moreover, from the perspective of normative theories, what do we do in the face of this? There are at least two different ways (as well as more interconnected ones) of answering these questions. A major part of the liberal tradition starts from the principle that we do not have much to say about the purpose of choices, since we do not have a priori criteria at our disposal to distinguish between good or bad decisions. At best, we can argue that the rational choice would be the one that adheres to the best means to obtain a certain end, which does not leave too much to say about the means being rational. Liberal democracies must then assume the onus of the conflict – or what Isaiah Berlin called «the unavoidability of conflicting ends».1 The creation of the modern state – along with the strengthening of the public sphere – was precisely characterized in relation to its distinctive scopes, that gradually came to be associated with the private sphere. It is in the attempt to better compre1

M. Ignatieff, Isaiah Berlin: A life, London 1998, p. 246.

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hend this broadening of the public arena that liberal theorists suggest the distinction between ethics and morality lies: whereas ethics relates to particular notions of a good life, or a sense of individual freedom in which it is only up to the individual to establish their choices and preferences, morality comprises certain aspects that have a broader reach or even universal pretensions, which is the case with human rights. Therefore, debates about when something is public must be linked to issues of justice, the plurality of choices as well as beliefs; meanwhile, personal life projects are reserved for the private sphere. However, distinguishing between the public and the private does not mean to say that the scope of the former is immune to emotions and their affects. As has been widely debated in different fields such as sociology, psychology, politics, and neuroscience, politics and the public sphere are also permeated with diverse emotions, meaning the logic within what is considered public is not only oriented by rational factors. Furthermore, norms and patterns that are usually associated with the private sphere cannot be understood without also considering the broader social norms on which the expectations of the private arena depend. Another way to refer to irrationality is to highlight a definition that has already been uncovered in relation to the Greek philosophers who describe it as a type of knowledge with pretensions of scientific validity (episteme), yet it is merely an opinion (doxa). In the conceptual genesis of what is understood to be a democracy, there lies an attempt to find space for a free debate of opinions in the public sphere. This is because modern conceptions of the state mirror the efforts to disassociate politics from the notion of a revealed truth or of knowledge as episteme; together with the separation of church and state, the development of certain spaces, such as the public sphere and media, has consolidated our comprehension of politics as a place of dissension and pluralism with regard to world views that characterize modern democracies. Therefore, from the epistemic point of view, the main challenge of democratic arrangement is ensuring compatibility between the plurality of world views without putting demo124 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cratic principles at risk. In relation to this, a possible diagnosis of the epistemic dystopia in its contemporary form can be offered in terms of a superposition between doxa and episteme: opinions that take the place of truth and private references that impose themselves as a moral ruler invert what has been called the priority of fairness over good by philosophers from Kant to Rawls. How can we explain the existence of this inversion, which has led to a failure of epistemic authority? In this paper, I will argue that what we can call “epistemic narcissism” is a symptom of a misleading notion of individual freedom. I also want to demonstrate the difficulties associated with dealing with the pluralism of beliefs and public scrutiny, opening up the space for a form of epistemic “scuba diving”, which can be understood as a variant of the radicalization of freedom as non-coercion. This is where the individual ends up seeing social institutions (science, media, etc.) merely as sources of restrictions to their freedom, meaning the game of intersubjective validation – or the very space of public debate – has failed, which threatens democracies in a number of ways, including epistemically.2 I will defend the idea that instead of choosing a liberal answer for this problem – both in terms of a strict distinction between public and private and oriented by a normative conception of rationality – we can find in the concept of freedom as social cooperation a promising way of thinking, which I call an intrinsically social education of democratic affects. This encompasses finding a reciprocal dependence between education and democracy; on the one hand, this involves showing that these affects can normatively contribute to the formation of a democracy and on the other, it includes discussing that such formative processes unfold through social practices themselves.3 2 This has been the case with so-called echo chambers: social networks have demonstrated a tendency to create bubbles where we communicate with people with whom we share similar opinions. 3 In the last few years, a great deal of literature on the role played by passions and affective states at different levels has emerged, both in relation to the initial moment of the constitution of subjectivity regarding primary affective re-

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To develop my argument, I initially draw attention to the reasons that led liberal theorists, especially Isaiah Berlin, to choose between a “negative” and a “positive” meaning of freedom (I). Next, I examine the criticism found in Hegel’s philosophy regarding the paradoxes we can incur when we unilaterally assume the concept of negative freedom; in these instances, radicalization ends up assuming the logic of fanaticism in that individuals recognize all differences and institutions as things that need to be denied or dismantled (II). Leading on from this, I look back at the concept of social freedom, which was recently revisited by Axel Honneth. Instead of focusing on the concept of negative freedom or notions of rationality that are familiar to liberal theories, I argue that social freedom can contribute to the drafting of democratic arrangements as social practices that are immanent to the formation of affects (III).

lations and in terms of ulterior and more complex stages of participation in social contexts. Among the numerous references to this debate, I highlight: S. Krause, Civil passions: Moral sentiment and democratic deliberation, Princeton 2008; M. C. Nussbaum, Upheavals of thought. The intelligence of emotions, Cambridge/New York 2001 e Political emotions: Why love matters for justice, Cambridge 2013; C. Hall, The trouble with passion: Political theory beyond the reign of reason, London 2005; R. Kingston and L. Ferry (eds.), Bringing the passions back in: The emotions in political philosophy, Vancouver 2008; P. Hoggett and S. Thompson (eds.), Politics and the emotions. The affective turn in contemporary political studies, New York 2012; M. Hartmann, Gefühle: Wie die Wissenschaften sie erklären, Frankfurt 2010. From the interlocution with these approaches, the set of questions that guide my interpretation revolves around the possible relations between the theory of institutions and the theory of affects, in which the question about the institutional framework refers to what extent institutions can assure spaces of freedom combined with a plural framework of decentralized desires and preferences. I presented my first programmatic approach on the theme in F. Campello, Die Natur der Sittlichkeit: Grundlagen einer Theorie der Institutionen nach Hegel, Bielefeld 2015. However, such an approach must not be understood as psychological or oriented by a reductionist analysis of affects; instead, it mostly highlights how normative theories can deal with an affective dimension of social practices.

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I. Free from what? The premise of negative freedom In a previous outline of what would become his classic essay on two concepts of liberty, Isaiah Berlin proposed a distinction between what he calls romantic and liberal liberty.4 In these first reflections, Berlin suggests that a romantic concept is associated with the idea of freedom as an individual or collective form of self-realization, which depends on the comprehension of our purpose in accordance with rational standards. Starting from an interpretation that is most elaborately developed by Rousseau and Kant, Berlin would see in this model the seed of what he would later understand as positive concept of freedom. Guided by a normative horizon, whether relating to the presence of authenticity in Rousseau’s case or with regard to Kant’s principles of reason, such a notion of freedom would end up assuming a meaning that is linked to acceptance and the elimination of alternatives: instead of increasing choices, being free in relation to the optional standards of authenticity and autonomy would paradoxically lead to the narrowing of our vocabulary. For Berlin, there emerges a concept of freedom as submission to a rational right; this is not for just “any” reason, but so that the individual can be connected to the “correct” object of desire, as was the case with Rousseau: «Rousseau’s argument was that nobody could love as Rousseau loved, nobody could hate as Rousseau hated, nobody could suffer as Rousseau suffered, and only Rousseau could comprehend Rousseau. He was unique».5 As a matter of fact, such a view of reason that is centered in authenticity and is independent from social status is particularly representative of the environment it was created within when we remember the comparatively poorer status of the romantics and the political context of the time, which encompassed the bitterness of the Thirty Years’ War and would undermine the material centrality of social reflection. In light of 4 5

Cf. I. Berlin, The roots of Romanticism, Princeton 2001. Ivi, p. 91.

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individuals having a traumatic relationship with the world at the time, the necessity of reinstating a sense of self-esteem emerged that was independent from exterior relationships. Not by chance, the establishment of limits to this sensibility could be found in the reverse of externality, which equated to the recognition of innerness and the subjective element’s strength, regardless of the world around them: the values they would attribute most importance to were integrity, sincerity, availability to sacrifice a life for some interior flame, dedication to some ideal to which it was worth sacrificing everything that person is, what it was worth living and also dying for. […] Whatever the ideal was: this is the most important.6

The risks Berlin finds in the romantic legacy do not reside in what could be seen as an aesthetic or moral dimension of the imperative of authenticity – a self that expresses itself from its innerness – but rather they can be uncovered in its normative pattern for politics. If, on the one hand, the subject can find in their life story the normative standards they attribute to themselves, problems emerge when this model starts to be usurped in political discourse. Even though individual accounts of a genuinely authentic lifestyle could be worthwhile individually, they would not find direct resonance as rulers for the plurality of lifestyles, which are intended to be guided by (at least from the normative point of view) the consolidation of modern liberal democracies. Therefore, the problem Berlin had in relating the concept of freedom to individual feelings, such as authenticity and internality, is mostly the risk of its instrumentalization by a discourse of moral superiority which, if aligned to organizational models of society, might gain totalitarian features. That is, in light of the ambivalence that such ideas could politically assume, it would be even harder to critically distinguish the contents of passions relating to individual actions. What we 6

Ivi, pp. 32–33.

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could then call the “romantic potential” of criticism of rationality would end up disappearing in reckless expressions of freedom as authenticity.7 In fact, Rousseau does not restrict the issue of authenticity to the scope of the subject in its particular search for a good life project, but he instead links it to its political repercussions. He does not propose the same meaning of the “pursuit of happiness” that Thomas Jefferson decided to add to “life” and “freedom” in the US Declaration of Independence but instead sees in politics a means of virtuously elevating the subject as the blossoming of an ideal. This is what can be determined from the passages within Confessions: I had perceived everything fundamentally depended on politics, and that, upon whatever principles these were founded, a people would never be more than that which the nature of the government made them; therefore the great question of the best government possible appeared to me to be reduced to this: What is the nature of a government the most proper to form the most virtuous and enlightened, the wisest and best people, taking the last epithet in its most extensive meaning?8

Conversely, Berlin was disgusted by this idea. In a letter written in 1968, he explains that his main “discovery” would 7

This is why the romantic tradition resonates in politically disparate traditions, from authors related to the revolutionary left wing to conservatives like Carl Schmitt who garnered consequences from his reading of romanticism that differ greatly from Berlin’s: «the tumultuous multiplicity of the colors in romanticism is dissolved in the simple principle of subjected occasionalism, and the mysterious contradiction of the several political orientations of the so-called political romanticism is explained by the moral insufficiency of a lyricism, for which any content might arise aesthetic interest. For the essence of romanticism, it does not matter if the ideas romanticized are monarchic or democratic, conservative or revolutionary; they are simply occasional starting points for the productivity of the romantic creative ego». C. Schmitt, Politische Romantik, Berlin 1925, pp. 162, 176 and 227. 8 J. J. Rousseau, The confessions of Jean Jacques Rousseau in 12 books (privately printed for the members of the Aldus Society), London 1903, p. 13 (https://www.gutenberg.org/files/3913/3913-h/3913-h.htm).

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have been the «unavoidability of the conflicting ends»9; this means that we should dispose of distinct purposes relating to our lives and particular world views that will lead us into conflict. Politics must find means of managing these conflicts without it being necessary to resort to ideas that relate to what is the most virtuous, most enlightened, or best course of action (and maybe it would be even worse to affirm what they are in a broader sense). As we have learned throughout history, any promise of a final solution represents the greatest danger for politics. Rousseau realized (justifiably, I would say) that «everything fundamentally depended on politics» in the sense that a political vocabulary precedes particular world views. However, his following step ends up adopting politics in a sense of moral improvement that if taken to its natural conclusion, would end up conflicting with the aforementioned singular perspectives themselves.10 Liberal restrictions are directed to use an almost grotesque image of a person telling others how they must live. According to this reasoning, if not the individual themselves, who can affirm what would be the best project for their life? The main impasse relating to this idea with regard to the legitimacy of a more comprehensive normative theory is that lifestyles seen as authentic would always be circumscribed by the justification in the first person. It would not even be in the scope of the public’s role to decide on the authenticity of singular lifestyles, nor could the individual’s private decision about their own life be restricted by the moral rules of social practices. It is this hesitance that led Berlin to defend the concept of negative liberty as opposed to the aforementioned positive 9

M. Ignatieff, Isaiah Berlin: A life, cit., p. 246. It is worth highlighting that this perspective of improvement would not be strange to liberal traditions either, especially so-called liberal humanism. With roots that allude to Cicero, the Renaissance, Wilhelm von Humboldt, and Goethe, this sense of self-improvement was related to current schools of thought, such as liberal humanism and even utilitarianism (which was promoted by the likes of John Stuart Mill). As we will see, the meaning of negative freedom differs from a formative characterization of politics. 10

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one. This distinction, which mostly guided the modern liberal theories, indicates that it is up to individuals themselves to find justifications for the choices they consider rational, enabling a restrictive emphasis on normative theory: while it would be up to the individual to find the rational reasons for their choices, criticism of them must be limited to the risks of interference or external coercion in the private scope of freedom. Therefore, the fundamental premise is that given the conditions of non-interference and non-coercion, subjects can rationally pursue their life plans: according to John Stuart Mill, «[t]he only freedom which deserves the name is that of pursuing our own good in our own way». It would mainly be up to the individual to establish not only the means but also the ends that would compose their particular notion of a good life. This is where the main consequence of what would demarcate the liberal tradition would emerge: the private sphere. Thus, given the risks associated with letting oneself be politically oriented by the expressivist notion of the subject and with all the ambiguities that affects could abide by in relation to a normative theory, the solution found by liberal theorists was much simpler and apparently far less unequivocal: matters of justice concern the public sphere and democratic institutions, while affects and emotions should be treated solely as a private issue. The matter that then started to attract attention in the liberal tradition was how to offer criteria for rationality without taking the space reserved for particular life plans. In relation to the Kantian tradition, even though they are private, good life projects continued to be limited by rational principles. Due to this, the supposed separation between morality and ethics would never be clearly defined; however, this dividing line is what Berlin intended to establish. In the negative sense of freedom that he adopted, rationality would no longer refer to the criteria according to which we justify our choices and desires – that is, our particular good life project – but to principles that would be restricted by the normative foundation of the institutions in modern liberal democracies. According to this perspective, we can call the institutional arrangements that enable the accomplishment of individual life projects ra131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tional; therefore, the ambitions of the liberal tradition not only started to associate political theory with a negative concept of freedom, but also with the limitation of rationality to a specific notion with regard to its public characterization. Aside from contradicting the predictions of the fathers of liberalism, the side effect of the negative concept of freedom was that the notion of individual belief, if radicalized, overlaps with the plurality of the public arena. In the following section, we will see that Hegel and Berlin both criticized the model of freedom that has its roots in concepts relating to autonomy and authenticity; however, when assuming a negative concept of liberty that is based on non-coercion, what follows will demonstrate that this approach might also lead to consequences similar to the ones that are criticized by the liberal tradition. II. All limits must be destroyed: Problems with negative freedom In his practical philosophy, Hegel wanted to reconcile subjectivity with the ethical content of social life, so that individual passions are not understood as “irrational” but can instead be formed through the recognition of others. Contrary, on the one hand, to a pathos-based denial of the ethical and a selfcentered subjectivity, on the other, Hegel saw education (Bildung) as a possible means of reconciling subjectivity and ethical life: whether or not this takes the subject’s side or that of the institution, this consists of allowing each individual to express their singularity as individual freedom without denying social cooperation. Some of the most concise passages of Hegel’s theory of freedom are found in the context of the so-called dialectics of the constitution of free will, which were discussed in the introduction to his Philosophy of Right (§§5–7).11 In these paragraphs, Hegel develops a conceptual genesis of three distinct 11

Cf. G. W. F. Hegel, Elements of the Philosophy of Right, Cambridge 1991.

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freedom models, which were intended to bring about a sense of social preconditions of individual freedom. Here, I would like to focus mainly on Hegel’s criticism of negative freedom to see to what extent it distinguishes itself from the one offered by Isaiah Berlin. As we saw previously, negative freedom mainly has its basis in the sense of non-coercion; for instance, the right to come and go without being forced or stopped. However, this same notion, once radicalized, starts to conceptualize any limit as something that needs to be confronted. It is about a moment of unilateral expression, which has to be valid as an absolute, regardless of any concrete expression in which will is only effective by means of a division with reality; as Hegel writes, «[o]nly in destroying something does this negative will have a feeling of its own existence» (§5). Therefore, with regard to «negative will» in its radicalized form, social reality would represent not only an obstacle for its actualization, but also an obstinate acceptance of the abstract and unlimited will in light of effectiveness where unilateralization leads to what Hegel argues is the «freedom of the void» (§5). Such extreme forms of opposition of social texture are equally opposed to every institutionalized form of freedom, developing themselves as «fanaticism of destruction» or the «fury of destruction» (§5), which end up pulling down social institutions (science, the state, media, etc.) as they are only viewed as restrictions to individual freedom. Such pathology of negative freedom is defined by Hegel in the following manner: [it is] the fanaticism of destruction, demolishing the whole existing social order, eliminating all individuals regarded as suspect by a given, and annihilating every organization which attempts to rise up anew. Only in destroying something does this negative will have a feeling of its own existence. It may well believe that it wills some positive condition, for instance the condition of universal equality or of universal religious life, but it does not in fact will the positive actuality of this condition, for this at once gives rise to some kind of order, a particularization both of institutions and of individuals; but it is precisely through the annihilation of particularity and of 133 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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objective determination that the self-consciousness of this negative freedom arises. Thus, whatever such freedom believes [meint] that it wills can in itself [für sich] be no more than an abstract representation [Vorstellung], and its actualization can only be the fury of destruction. (§5)

By acting according to this concept of creating a rupture through obstinate will, the individual is not motivated by the need to criticize and reformulate ethical life, but only by its annihilation. It is in this sense that fanaticism shows itself as a radicalized and negative notion of passions and judgments against every right or institution. Indeed, Hegel sees the Reign of Terror during the French Revolution as a paradigmatic example of this concept of fanaticism: [t]his form [of freedom] appears more concretely in the active fanaticism of both political and religious life. An example of this was the Reign of Terror in the French Revolution, during which all differences of talents and authority were supposed to be cancelled out [aufgehoben]. This was a time of trembling and quaking and of intolerance towards everything particular. For fanaticism wills only what is abstract, not what is articulated, so that whenever differences emerge, it finds them incompatible with its own indeterminacy and cancels them [hebt sie auf]. This is why the people, during the French Revolution, destroyed once more the institutions they had themselves created, because all institutions are incompatible with the abstract self-consciousness of equality. (§5, addition)

For Hegel, the revolution would have had a promising beginning, since the possibility of accomplishing freedom defends itself from eventual ruptures if the social order is still in force and as long as it does not assure individual freedom. Nevertheless, through a unilateralization of subjective will via their conceptualization of negative freedom, the actors within the revolution broke away from the possibility of the actualization of freedom by means of the renovation of the institutions. On the contrary, as stated above, «the people [...] destroyed once more the institutions they had themselves creat134 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ed, because all institutions are incompatible with the abstract self-consciousness of equality» (§5, addition). Also, in his Phenomenology of Spirit, in the section entitled Absolute freedom and terror, Hegel discusses the Reign of Terror in the French Revolution from the perspective of the radicalization of freedom in an almost paradoxical sense of «absolute freedom» or «universal freedom», which does not recognize any restrictions.12 It is in this context that «[u]niversal freedom, therefore, can produce neither a positive work nor a deed; there is left for it negative action; it is merely the fury of destruction [Furie des Verschwindens]».13 Therefore, such a sense of negative action cannot criticize nor can it restructure, reducing itself to a mere destructive act. The contradictory relationship of this radically negative posture lies in the insistence on a universal abstract, which does not come true and denies any particularity or difference. According to the description of a dialectic movement between the conscious mind and totality, this empty universality is assumed by consciousness, which aims to suppress its barriers. The extreme conclusion of this movement is as follows: [t]he sole work and deed of universal freedom is therefore death, a death […] which has no inner significance or filling, for what is negated is the empty point of the absolutely free self. It is thus the coldest and meanest of all deaths, with no more significance than cutting off a head of cabbage or swallowing a mouthful of water.14

It is already possible to comprehend to what extent fanaticism is a radicalized form of negative freedom, particularly via the way in which Hegel presents the Reign of Terror during the French Revolution as a plot between individual freedom and social institutions. Due to the preexistence of precarious social practices, the subject can unilaterally apprehend 12 13 14

G. W. F. Hegel, Phenomenology of Spirit, Oxford 1997, p. 435. Ivi, pp. 435–436. Ivi, p. 360.

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their ways of self-expression only via repulsion or even through the annihilation of social bonds. It is in this sense that the question for the institutional framework must also be considered in line with the vocabulary linked to the accomplishment of freedom, which goes beyond the hermeticism of a self-referent narrative.15 In the face of the limits of negative freedom, Hegel suggests a concept of freedom that does not represent a shift between individual and ethical life (Sittlichkeit) – i.e., habits, social practices and institutions. «Whereas the two previous moments have been found to be thoroughly abstract and onesided», Hegel writes, «[now we have] the concrete concept of freedom» (§7, addition). This is about rethinking the vocabulary of freedom, so that it can be found in social practices that are themselves understood to be forms of social cooperation, which mainly reflect how such practices can offer the possibilities of accomplishment that are linked to individual freedom. This is what will be discussed in the following section. III. Looking for another way out: Social freedom as education of democratic affects Recently, Axel Honneth proposed an update to the theory of institutions from the perspective of the Hegelian concept of social freedom.16 Whereas Honneth had previously developed 15

It is symptomatic of this that in the following step (§6), Hegel also criticizes a sense of freedom based on the concept of autonomy, such as promoted by Fichte, Kant, and Rousseau – a concept that later Isaiah Berlin addresses as a “positive” one. However, curiously, the same criticism made by Hegel can be extended to the model of negative freedom that was later defended by Berlin. On contrary to negative freedom, at this point the will has a specific content («I do not merely will – I will something», §6, addition). However, such arbitrary content represents a new limit to will that only serves as a barrier to its actualization. Even though this critique of positive freedom is also meaningful in Hegel’s account, I am focusing on his critique of the concept of negative freedom since it has been more widely used as a reference for liberal theories. 16 Cf. A. Honneth, Das Recht der Freiheit. Grundriß einer demokratischen Sittlichkeit, Berlin 2011.

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a typology of forms of recognition, articulating a relationship between a model of subjectivity and social theory in a more proper manner, his attention was then drawn to analyzing a theory of justice that is no longer circumscribed by formal principles but founded in a critical theory of society.17 In relation to this, Honneth carries out an even more incisive resumption of Hegel’s intuitions, since even though the concept of recognition is highlighted in the Hegelian theory, it is precisely the idea of freedom that assumes a central role in his Philosophy of Right. With this change of focus, recognition represents a starting point for the reformulation of the Honnethian project, while it is from the concept of social freedom that the theory of democratic ethical life («demokratische Sittlichkeit») is discussed. Honneth carries out his rereading project of the Hegel’s Philosophy of Right by paying attention to his predecessor’s theory of ethical life and understanding it as a socially mediated space that would enable increasing attainments of individual freedom. However, in contrast to what is proposed there, he revisualizes the meaning connected to institutions by starting to understand them as a translation of the normative content found in social claims that are intrinsic to a historical journey, beginning to adopt the Hegelian model (founded later, also in Max Weber) of the rationalization process that is inherent within historical processes of modernity. Using this to move forward, Honneth resorted to the methodological strategy of normative reconstruction, which presents a differentiation and institutionalization process for those spheres of ethical life where normative content reveals an increasing expression of individual freedom. On the one hand, such processes cannot be understood in a linear manner and must merely be construed in an “optimistic” way, primarily as the result of tensions (as already suggested in The Strug17

As Honneth writes in the beginning of the book, «one of the biggest limitations that contemporary political philosophy suffers is its separation of a social analysis and, with this, the fixation in pure normative principles». Ivi, p. 14. The following quotations are from Das Recht der Freiheit and are translated by the author.

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gle for Recognition); on the other hand, they can be interpreted from the perspective of reconstructive criticism in relation to which the problems and deficiencies that are inherent in this development stand out.18 For instance, the increasing number of processes that incorporate normative content must not solely be seen as a means of legitimizing the status quo, but they must also reveal deficits and ruptures that prevent the guarantees of individual, mediated freedom, both social and institutionally. Therefore, it is not about «affirming the respective [and] already consolidated instances of ethical life», but it is instead about «clarifying to what extent the ethic[al] practices and institutions do not represent in a satisfactorily comprising and complete way the universal values incorporated by them».19 It is in this sense that the suggestive title of the book (Freedom’s Right) indicates a significant change in light of the recurrent models in the debate on theories of justice: instead of emphasizing juridification and procedures of justice, Honneth relocates the problem of justice to the reconstruction of the social preconditions of accomplishment of freedom. Differing from the meaning of the possibility of freedom that is linked to moral and legal liberty, Honneth finds the patterns of accomplishment of social freedom in a plural and broadened sense of “us” («das “Wir”»); this is closely associated with the steps in Hegel’s ethical life theory, which positions “us” within personal relationships20 into the market21 and in relation to the scope of the state in the democratic formation of will.22 18

Cf. ivi, p. 28. Ivi, p. 30. 20 Cf. ivi, pp. 233 ss. 21 Cf. ivi, pp. 317 ss. 22 Cf. ivi, pp. 470 ss. Honneth’s option to address a specific issue – as in Hegel’s Philosophy of Right – regarding three institutional spheres that would incorporate the content of the accomplishment of social freedom, is not exempt from criticism. Within this argumentative strategy, a space for more complex pluralism or flexibility in relation to the development of other institutions that could incorporate the normative content of social freedom is prevented. It is worth highlighting that Honneth himself, in his most recent discussions, also draws attention to this; for instance, he highlights education and the role of school as a space for socialization, which are not mentioned in Freedom’s Right. 19

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It is clear to the reader when they follow the argumentation in Freedom’s Right that it is no longer a project based on assumptions about moral psychology or regarding the constitution of individual identity. Nevertheless, by letting go of anthropological assumptions, an immanent concept of affective content starts to be incorporated into the description of social practices themselves. Thus, in feelings like love, solidarity, trust or belonging, we also find in Freedom’s Right affective content that constitutes social spheres. However, the starting point is not a theory of subjectivity from which a typology of recognition-based relations can be unfolded but rather a reflection on which feelings found in social practices can be seen as preconditions for the accomplishment of freedom. It is in this sense that we can find affective content that is not only restricted to primary affective relations like love and friendship but that can also be broadened to more complex social practices; this is in reference to the limits not only of a normative theory that is fixed in relation to its principles but also with regard to expectations of action and rational deliberations. Even though it is not my purpose here to discuss Honneth’s recent work in detail, the reference to it can contribute to what I understand by an education that is socially inherent with democratic affects. With the typology of recognitionbased relations and their emphasis on subjective experiences and feelings, such as dignity or respect, Honneth finds not only specific ways of attaining social recognition, but also uncovers how social practices incorporate a vocabulary relating to the accomplishment of social freedom.23 23

Cf. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte: Mit einem neuen Nachwort, Frankfurt 1994. For instance, it is within this idea that the concept of solidarity found in Durkheim, which Honneth runs with, depends on the reciprocal recognition of individual activity as also being a social contribution. Solidarity, here, is not seen as the result of an ideal principle, but concretely as a result of shared experiences of social contribution and broadening of an affective-cognitive dimension. In relation to this, Honneth writes, «[i]f individual freedom primarily, and mainly designates ‘being-with-oneself-in-the-other’, then the justice of modern societies is measu-

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Presently, I would like to move forward in terms of answering to what extent the political dimension refer to a learning process; in particular, I wish to establish what role affects would play a part in this space.24 As we saw previously, we can refer to the meaning of affects not only in primary affective relationships (as in the relationships within family or in friendships), but also in social practices, from the formation of moral judgments, decision-making processes, economic and social acting to political praxis. Resuming the initial thread of the argument here, I understand the relationship between education and affect from two different perspectives. The first, which is what we can call descriptive, consists of the need to explain social relations not only in terms of normative principles, but also with regard to the moral feelings that have a remarkable influence in the articulations of demands; this is the case with respect and recognition or, inversely, anger and indignation. However, this is not merely about an ideal concept in which the sense of a real bond is assumed where a sense of cooperation and belonging to a community is present. In this way, social practices can also be seen as a broadening of an affective-cognitive structure, where citizens can also be co-actors of this political process by including the viewpoints of other inhabitants into their perspectives as well. From this point of view, the second aspect is connected to the relationship between education and affects. With the idea that the concept initially expressed in the meaning of love (and in relation to social practices within the concept of solidarity) depends on affective content, it does indicate that red by the degree of their capacity to assure all their members, in equal measure, the conditions of this communicative experience and, therefore, of enabling to each individual the participation in the relations of non-disfigured interaction». A. Honneth, Sofrimento de indeterminação: Uma reatualização da Filosofia do direito de Hegel, São Paulo 2007, pp. 78–79. He also wrote, «[i]f the accomplishment of individual freedom is related to the condition of interaction, since subjects can only experience themselves as free in their limitations in face of another human being, then it must be worth to the whole sphere of ethical life the fact they reside in the practices of inter-subjective interaction». Ivi, p. 107. 24 Cf. eg. M. C. Nussbaum, Political emotions: Why love matters for justice, cit.

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these relationships are already formulated or that they are viewed only in a formal manner. On the contrary, they depend on what is discussed with regard to the concept of the learning process. Indeed, social actors do not feel that the breadth of this process has already been predetermined, rather they learn through social practices and several intersubjective experiences to decentralize their perspectives. It is in this sense that we understand what a normative view of politics is. Since it differs from the descriptive role of affects in the social and political praxis, it is about understanding how politics must be directed towards this dimension of learning. In this case, the idea is that public policies and decentralized decision-making processes allow the subject to learn to broaden their horizons in terms of their perspective and actions. This second aspect is the more proper role of politics in light of the affective dimension that is inherent within social praxis, as even though certain cultural factors are resistant to change with regard to public policies, there are demands that cannot possibly be considered, mainly in relation to favoring spaces in which affective dimensions can be developed and recognized. The concept of moral grammar, which is understood to be the language that is shared for the articulation of demands and reciprocal recognition, also refers to this, offering space for the subject to catch a glimpse of it and make their own revindications. Therefore, what I understand as the immanent formation of affects reveals an important bond between politics and education25; institutions are responsible for favoring this kind of 25

Here, I still have in mind the way in which John Dewey demystified this bond between education and democracy. Cf. J. Dewey, Democracy and Education. New York 1916. Also, in Education after Auschwitz, Theodor Adorno positions educational processes as necessary in light of extreme phenomena where there is a loss of the primordial relationship expressed in love: «[i]t is by no means clear precisely how the fetishization of technology establishes itself within the individual psychology of particular people, or where the threshold lies between a rational relationship to technology and the over-valuation that finally leads to the point where one who cleverly devises a train system that brings the victims to Auschwitz as quickly and smoothly as possible forgets about what happens to them there. With this type, who tends to fetishize technology, we are

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decentralization of perspectives, not only in the terms of freedom as non-coercion but also by offering spaces for social integration and cooperation. Examples of this kind can be found in deliberative and decentralized processes that include citizens in a positive way or even in the creation of spaces for public participation and the role of social media. In these cases, citizens feel co-responsible for the construction of common good, becoming not mere spectators of decisions, but protagonists and supervisors of politics. Still, an immanent education of democratic affects reveals an important viewpoint about the relationship between public policies and social recognition. In this instance, on the one hand, the affective content can be seen in a broader sense in the experiences of sharing public spaces as a way of fostering social interaction and integration and, on the other hand, in the importance of creating a relationship with the city that is also aesthetic. Claims by several groups about the best way to use public space and with regard to the so-called right to public space show a higher level of articulation of civil society and of their demands for a greater degree of democratization of public spaces. The democratization process of public spaces is also understood in the sense of creating possibilities for each person to follow a way of life that can also be afforded to other citizens. Therefore, the meaning of a way of life itself can be understood as an expression of an ethos in the very Greek sense of the word, which is “residence” where citizens feel at home in a socially connected manner. In line with this, the city can express a democratic sense of the use of public space by initiating integration rather than segregation, which is often the case with urban planning that privileges private space over its public counterpart. These cases of segregation are concerned – baldly put, with people who cannot love. This is not meant to be sentimental or moralistic but rather describes a deficient libidinal relationship to other persons. Those people are thoroughly cold; deep within themselves they must deny the possibility of love, must withdraw their love from other people initially, before it can even unfold. And whatever of the ability to love somehow survives in them they must expend on devices». T. Adorno, Erziehung nach Auschwitz, Frankfurt 1970, p. 106.

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handled with a lack of recognition, disrespect, an absence of living space, and they provoke strong symbolic violence. After a long separation and isolation process, living environments must become interactional environments; when this occurs, politics becomes an important means of favoring recognitionbased environments. Therefore, the meaning of education in relation to democratic affects must not be understood as an established a priori that is independent from its contexts in accordance with an essentialist point of view, but rather as the result of a learning process. As previously mentioned, this process does not only refer to a rational meaning, but also to a cognitiveaffective approach to life in a broader sense: it is about the individual’s capacity to decentralize their world view from an inclusive dimension of the differences and singularity of other authors. This experience of freedom as “being with oneself in the other” is understood as an expression of education for the sake of democracy, as it offers the individual the possibility of expanding their semantic horizons, meaning they can incorporate new ways of expressing their perspective on the world. It is what allows us to broaden our political imagination, or, in other words: the means we have of describing our freedom can in fact give us room for more plurality in terms of the way we live.

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Capitolo V

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Processi educativi e processo democratico: riconoscere i ruoli e costruire la relazione di CLAUDIO GUERRIERI

Ci si propone di chiarire la relazione autoritativa come riconoscimento reciproco nel processo educativo e in quello democratico a partire da un’educazione alla parità nella prassi collaborativa che trova fondamento nella prospettiva del cooperative learning e nel principio democratico dell’uguaglianza, che non annullano le differenze ma le interpretano nella funzionalità sociale. Dialogicità e partecipazione ai processi educativi e democratici si richiamano reciprocamente, fondano la possibilità di un apprendimento significativo, sul piano cognitivo ed emotivo, e di un consenso criticamente informato sul piano della partecipazione politica democratica e nel riconoscimento dei diversi ruoli istituzionali. I. Dicesi “processo”: processo educativo e processo democratico L’educazione e la democrazia sono “processi”, hanno una dinamica strutturale di relazione, mai staticamente definibile, che si articola in compiti e procedure, ruoli e riconoscimento reciproco. Non c’è educazione senza riconoscimento reciproco: del discente come capace di apprendere, del docente come capace di offrire una comunicazione qualificante per cui valga la pena aprire il confine della mente per acquisire conoscenza e coscienza per orientarsi. Di fatto, l’insegnamento si svolge in una situazione di partenza strutturalmente asimmetrica, ma il suo scopo è una simmetria funzionale ed implica il riconoscimento di una simmetria originaria e di orizzonte futuro. 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Già Rogers ha evidenziato come, nella relazione educativa, la persona che svolge un ruolo-guida debba essere autorevole, debba avere cioè caratteristiche tali da renderla un punto di riferimento per l’autocomprensione e l’orientamento. Il docente nella relazione educativa, o lo psicoterapeuta nella terapia psicologica, sono “norma” e “criterio” dello sviluppo creativo del soggetto in apprendimento o in verifica psicologica; ma questo ruolo si radica in una fiducia nelle potenzialità della persona destinataria dell’intervento di modificare sé, le proprie scelte e comportamenti, il proprio sguardo sul presente e sul passato. Questa trasformazione possibile si attua solo in un contesto caratterizzato da atteggiamenti psicologici di facilitazione e di riconoscimento.1 La relazione docente-discente comporta un aprire il confine dell’io per entrambi. Senza un ascolto reciproco il risultato sarà una ripresentazione più o meno oggettivamente qualificata di un determinato contenuto senza aderenza alle capacità di accoglienza del discente sul piano metodico e, per quest’ultimo, il prodotto sarà solo una ripresentazione meccanica di un apprendimento non significativo, non aderente alla sua matrice cognitiva. Se docente e discente non sono in relazione di apertura e accoglienza cognitiva ed emotiva non raggiungeranno il fine specifico di un apprendimento significativo.2 La relazione educativa come relazione interpersonale risulta così strutturale al processo di insegnamento e apprendimento. I contenuti, i supporti cartacei ed elettronici, sono media che possono incrementare e qualificare la relazione ma non sostituirla, né possono attuare da soli il riconoscimento reciproco che vi è sotteso.3 Se guardiamo bene il processo democratico è, allo stesso modo, articolazione relazionale tra pari, non necessariamente 1 Cfr. C. Rogers e M. Konget, Psicoterapia e relazioni umane, Torino 1970; C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Firenze 1971; R. Carkhuff, L’arte di aiutare, Trento 1993. 2 Cfr. C. Gueli, I. Guerini e A. Travaglini, Dentro e fuori le mura scolastiche. Questioni e suggestioni su scuola e inclusione in epoca (post) pandemica, in «QTimes – webmagazine», XIII, 2, aprile 2021, pp. 125 ss. 3 Cfr. C. Guerrieri, Il ruolo della relazione interpersonale nel processo di insegnamento ed apprendimento, in «Nuova Umanità», XVII, 1, 1995, pp. 45–60.

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e immediatamente tali, ma che lo sono in uno stato di disequilibrio che tende ad una simmetria. Uno stato radicato in un riconoscimento e una simmetria originari. Basti pensare a tre componenti essenziali del processo democratico: politica, mondo dell’informazione, elettori-cittadini. La relazione tra questi tre poli si articola in modo differenziato secondo le situazioni, ma non può farlo senza considerare gli altri componenti. Sono tre insiemi coagenti e coprotagonisti del processo democratico: la presa di posizione dell’uno comporta reazioni e cambiamenti negli altri. Nel pensiero politico classico, il loro rapporto è di controllo reciproco, e, così come definiva Montesquieu il controllo reciproco tra i diversi poteri, questo è una garanzia dell’esercizio della libertà. Mondo politico, sfera dell’informazione e cittadini-elettori possono e devono controllarsi reciprocamente, limitare l’esercizio di potere degli altri due poli riconoscendo criticamente il loro valore specifico. I rischi estremi sono la demagogia, che si nutre della forza del potere politico sull’informazione e sulla manipolazione dei cittadini elettori; il populismo come illusione del controllo dei cittadini sul potere politico ed amministrativo con la conseguente falsificazione o messa tra parentesi dell’informazione critica; la democrazia plebiscitaria del Grande Fratello in cui l’informazione cancella ruoli e compiti in una continuata narrazione falsificante della vita politica e della condizione sociale. Tutti cancri del sistema democratico. Il disequilibrio tra i poli identificati genera deformità nel processo democratico e la staticità delle situazioni consolidate genera paralisi. Solo la dinamicità relazionale tra questi poli può garantire il processo democratico. Da queste due primissime riflessioni si ricava quanto già nel contesto del pensiero politico classico, dal citato Montesquieu, veniva messo in evidenza quando definiva la libertà realizzata come esercizio di chi comanda come ad un pari e di chi obbedisce come ad un pari. Un principio che vale anche nel contesto educativo. Mettere in luce il riconoscimento reciproco e la parità non cancella funzioni e ruoli, non nega l’autorità fattuale, che determina un’asimmetria tra le persone in relazioni funzionali, ma la garantisce come esercizio di funzionalità sociale, come autorevolezza. Di fatto lo scopo di tutte le professioni culturali e del processo educativo è un percorso di ridu146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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zione dell’asimmetria iniziale per una partecipazione consapevole ed informata alla vita culturale, sociale e politica.4 Se l’autorità è esercitata oltre i limiti del reciproco riconoscimento simmetrico, diventa autoritarismo, e se c’è il misconoscimento della funzionalità sociale del ruolo si attua un’anarchia pratica, tanto nel processo democratico quanto in quello educativo. Punto focale ineliminabile per entrambi è la formazione delle giovani generazioni, che si articola nell’intreccio tra due dimensioni correlate: l’istituzione sistemica e le relazioni interpersonali. Distinguere queste due dimensioni nel processo educativo è utile ma non funzionale alla comprensione del processo nel suo insieme. Il loro strutturale intrecciarsi è evidente nelle conseguenze: nessuna soluzione strutturale e sistemica di un insegnamento (come definizione di finalità e obiettivi, metodi e contenuti, nonché determinazione di ruoli nel contesto di regolamenti normativi sul curriculum) costituisce una garanzia del raggiungimento delle finalità sul piano degli obiettivi formativi, cognitivi, comportamentali e relazionali, delle competenze.5 D’altra parte le giovani generazioni rappresentano una forza emergente nel processo democratico ed è significativo rimandare alla considerazione che i giovani ci sono sempre stati e sempre hanno rappresentato un cambiamento in atto: ce lo dimostrano significativamente la storia del secondo Novecento e gli eventi recenti di Hong Kong.6 Nella testimonianza di uno dei giovanissimi promotori di quella che è stata chiamata la Rivoluzione degli ombrelli, nel testo che porta il signi4

Cfr. H.P. Thurn, Sociologia della cultura, Brescia 1979, pp. 148–149. Le persone coinvolte in un processo formativo non sono meri esecutori di un programma in quanto la qualità della relazione e la qualificazione dei ruoli si realizza nella determinazione istituzionale e sistemica dei ruoli ma non indipendentemente dalla relazione interpersonale, articolata in base all’unicità delle persone in gioco. Cfr. P. Senge e D. Goleman, “La partnership potenziale tra educazione sociale ed emotiva ed educazione sistemica”, in D. Goleman e P. Senge (a cura di), A scuola di futuro. Manifesto per una nuova educazione, Milano 2014, pp. 75 ss. 6 Cfr. P. Di Paolo e C. Albarello, C’erano anche ieri i giovani d’oggi. Generazioni, memoria, scuola fra Novecento e Duemila, Roma 2018. 5

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ficativo titolo di Noi siamo la rivoluzione. Perché la piazza può salvare la democrazia, si trova un passaggio interessante per questa riflessione: [d]urante la cerimonia inaugurale della scuola che frequenta, Tiffany Tong, una ragazza di diciassette anni e presidente dell’associazione studentesca, ha detto la sua sul dibattito riguardante l’inno nazionale e si è rivolta agli studenti: «Il modo in cui i giovani scelgono di esprimere il dissenso nei confronti del governo, come voltare le spalle alla bandiera nazionale, è spesso considerato maleducato e irrispettoso. Sì, sappiamo che le maniere sono importanti, ci viene insegnato ogni giorno a scuola, ma sappiamo anche quanto siano importanti i nostri principi e i valori in cui crediamo. Agli occhi di molti adulti siamo maleducati, disobbedienti, e poco pragmatici. Ma facciamo soltanto ciò che i ragazzi dovrebbero fare: sfidare il senso comune e rifiutare qualsiasi compromesso. Lungo il tragitto faremo errori e cadremo a terra, ma ci rialzeremo più forti di prima, i nostri errori ci renderanno persone migliori». Le parole di Tiffany sono straordinariamente forti, riassumono alla perfezione il sentimento collettivo che accomuna la generazione futura di cittadini di Hong Kong.7

Si noti come qui il processo educativo e quello democratico risultano interdipendenti e come il primo non possa costituirsi come processo di sottomissione all’esistente ma debba essere inteso come matrice di uno sviluppo del processo democratico. II. Conoscenza ed educazione alla cittadinanza: connessione e disconnessione In qualunque compresenza sociale, di collaborazione o conflittualità, è evidente come il processo educativo ha un ef7 J. Wong, Noi siamo la rivoluzione. Perché la piazza può salvare la democrazia, Milano 2020, pp. 117–118.

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fetto diverso in base alla sua qualificazione. Questa svolge un ruolo significativo nella formazione al processo democratico. Fa maturare, nel quadro di relazioni istituzionali e proceduralmente definite, atteggiamenti di coinvolgimento positivo o di indifferenza, di interesse o disinteresse, di apprezzamento o disprezzo. Nella loro progettazione, le metodologie dei processi educativi e di quelli democratici devono tener ben in evidenza le prospettive che nascono da un’attenzione alla cooperazione, articolano in ruoli ben definiti l’interdipendenza, attuano un’effettiva condivisione del processo. Queste tre indicazioni, cooperazione, interdipendenza e condivisione, risultano pilastri della pedagogia che ha preso il nome di apprendimento cooperativo o cooperative learning. In essa, nessuno strumento risulta di per sé adeguato, ma lo diviene nel momento in cui tiene conto dell’ambito relazionale cooperativo come ambiente strutturale del processo educativo.8 È l’interazione in un gruppo strutturato con un obiettivo comune, con un coinvolgimento emotivo e cognitivo che considera significativo l’apporto di ognuno, sul piano cognitivo e sul senso di coappartenenza, a determinare la qualità del processo. In questa prospettiva, si sono sviluppate le teorie motivazionali che evidenziano come l’interazione costituisca un elemento strutturale qualificante dell’apprendimento rispetto all’impegno solitario, con effetti cognitivi e sociali inseparabili. La motivazione personale trova un’incentivazione significativa nell’incontro, nello scambio e nella relazione con gli altri, anche qualora non siano simpatetici. L’esperienza che può maturare nel contesto di un gruppo in apprendimento comporta un positivo rinforzo reciproco, radicato in un atteggiamento prosociale che dà risposta anche al bisogno individuale di riconoscimento, qualificandolo come 8

È stato notato: «[n]on è l’adozione di tecniche o strumenti pronti all’uso (kit, schede o software) a garantire l’efficacia dell’attività di apprendimento, ma il modo in cui si costruisce la relazione con lo studente a partire dagli elementi intrinseci della professionalità educativa: rispetto, ascolto, pazienza, capacità di coinvolgimento, attenzione alla diversità». F. Dovigo, “Prefazione all’edizione italiana”, in T. Booth e M. Ainscow (a cura di), Nuovo Index per l’inclusione. Percorsi di apprendimento e di partecipazione a scuola, Roma 2014, p. 21.

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compito in un sistema organico. Questa esperienza è stata sintetizzata dai fratelli Johnson nel motto «affondiamo o nuotiamo insieme».9 Per loro, l’interdipendenza positiva è consapevolezza della reciproca dipendenza relazionale. Questa matura in modo proporzionale al coinvolgimento emotivo e alla funzionalità sociale di ogni membro del gruppo, al suo coinvolgimento in una comunità in apprendimento che favorisce l’autorealizzazione di ogni membro.10 La significativa precondizione di questa impostazione pedagogico-metodologica è la partecipazione equa intesa come interazione simultanea dei membri, almeno in microgruppi, nonché l’attenzione alla comunicazione continuata e progressiva, articolata in condivisione di progetti, punti di vista e feedback, e si attua come comunicazione efficace su diversi piani: psicologico, informativo, pragmatico. Se questa impostazione ci aiuta a chiarire il valore processuale dell’educazione e la sua significatività sulla socialità, non possiamo tralasciare la questione della connessione ed esposizione continuata ai media con le sue conseguenze positive e non.11 Una connessione che ha un peso determinante sul piano pedagogico-didattico ed educativo in quanto attiva un approccio alla cultura in un ecosistema globalizzato, articolato in reti, in cui siamo permanentemente connessi: [l]a rete è diventata l’infrastruttura su cui poggia tutto ciò che facciamo. Da tempo ha smesso di essere semplicemente uno strumento a nostra disposizione che possiamo decidere di utilizzare o di ignorare. Da quando la rete è entrata nelle nostre tasche attraverso gli smartphone e accede a noi anche 9 D. Johnson, R. Johnson e E. Holubec, Apprendimento cooperativo in classe, Trento 1996. Cfr. anche M. Polito, Comunicazione positiva e apprendimento cooperativo, Gardolo (TN) 2003. 10 Cfr. M. Comoglio, Educare insegnando. Apprendere ad applicare il cooperative learning, Roma 2000. 11 Cfr. N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello, Milano 2011; e M. Lancini (a cura di), Il ritiro sociale degli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa, Milano 2019.

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se non siamo noi ad accedere deliberatamente a essa, da quando cioè abbiamo la connessione in mobilità, si è rivoluzionato il rapporto tra noi e il tempo, tra noi e lo spazio. Il wireless è nell’aria che respiriamo e attraverso i social network anche gli aspetti più intimi della nostra quotidianità si sono trasferiti sulla rete. Internet non è solo un mezzo di comunicazione che è andato ad aggiungersi o a sostituire ciò che c’era prima: è un “sistema” nuovo che ha modificato radicalmente le coordinate del contesto in cui operiamo.12

I nodi che qui si evidenziano hanno conseguenze significative anche sul piano dell’articolazione dinamica del processo democratico. Ci fa da anticamera alla questione una riflessione sul rapporto tra vita privata e vita pubblica, come è stato già notato: «[q]uando la gente sostiene che tutto è sotto l’occhio dei media e non abbiamo più una vita privata, io al contrario sostengo che non abbiamo più una vita pubblica. A scomparire è cioè la sfera pubblica, in cui si opera come agente simbolico non riducibile a individuo privato».13 L’affermazione potrebbe apparire provocatoria ma ci evidenzia come il complesso delle informazioni e degli stimoli in cui siamo immersi tenda a farci credere che le soluzioni siano a portata di mano per tutti, una volta per tutte, e la loro disponibilità, pur nella molteplicità dell’offerta, sembra permettere al fruitore di scegliere tra pari opportunità, considerando la selezione e il discernimento dell’offerta un mero fatto di gusto privato e non un’attività del processo di conoscenza e determinazione della vita privata, sociale e politica. Così facendo il pubblico si riduce al privato e la socialità ad espressione della singolarità. Ci aiuta ad approfondire la questione Rodotà che ha notato come, rispetto all’uso sociale delle nuove tecnologie, si sono definite quattro figure di utente. 12

G. Solimine e G. Zanchini, La cultura orizzontale, Roma-Bari 2020, p. 8. S. Zizek, Chiedere l’impossibile, Verona 2013, citato in Z. Bauman e E. Mauro, Babel, Roma-Bari 2015, pp. 21–22. Cfr. sulla storia dell’individualismo, per un’apologia dell’uomo pubblico contro la deriva intimista che rende insignificante la dimensione personale già R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico: La società intimistica, Milano 1982. 13

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Più precisamente, si individuano quattro “strati” o “dimensioni” in cui collocare l’utente, corrispondenti al suo essere consumatore di mezzi e di messaggi, secondo una logica di mercato; produttore di un’opinione individuale, ad esempio, rispondendo ai sondaggi, e quindi soggetto che partecipa alla costruzione dell’opinione pubblica; attore sulla scena domestica; cittadino nell’ambito della società civile. E, considerando le diverse forme di mediazione che possono intervenire, si distingue un ricevitore di messaggi (mediazione linguistica), un utilizzatore di mezzi (mediazione tecnica), un utente (mediazione sociale) e, infine, un soggetto che si presenta come «consumatore o elettore, quando, operando una scelta, gestisce i suoi desideri attraverso la mediazione della norma».14

Nel rapporto con i media, in cui siamo coinvolti emotivamente dalla seducente immediatezza e varietà dell’offerta, il processo di selezione perde il suo carattere critico di analisi e discernimento. Un carattere che va continuamente formato nel processo educativo e che comporta conseguenze evidenti nel processo democratico. Come davanti alla vetrina di un sito di vendite on-line, la vita politica democratica rischia di vedere il cittadino ridursi a mero spettatore irresponsabile rispetto alle scelte operate, in quanto contestualizzate in una connettività anonima e non in una collettività in cui ci si sente riconosciuti.15 Torna qui il nodo del riconoscimento reciproco come riconoscimento di sé nel contesto istituzionale e conseguentemente delle istituzioni, una relazione che matura psicologicamente nel rapporto tra adulti e giovani e si intreccia con la questione della relazione intergenerazionale e, sul piano della formazione, si radica nel processo educativo come processo complessivo in cui la scuola ha un ruolo cruciale. Un ruolo efficace nella misura in cui supera la sua autoreferenzialità e si contestualizza nell’ambiente sociale e nella dimensione valoriale e relazionale in cui sono inseriti i discenti, puntando ad un discernimento critico. Tale proces14

S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari 1997, pp. 41–42. 15 Cfr. Z. Bauman e E. Mauro, Babel, cit., pp. 79–81 e 116–118.

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so è in grado però di portare i suoi frutti solo qualora la formazione divenga il prodotto di una comunità educante non riducibile esclusivamente ai docenti, ma al contesto, e si realizzi attraverso un implicito od esplicito contratto formativo in cui sono coinvolti discenti, docenti, famiglia ed altre agenzie educative. In questa prospettiva, è essenziale l’utilizzo consapevole delle tecnologie, avendo ben presenti le potenzialità che queste comportano nelle esperienze cognitive, nonché i rischi di isolamento e di proiezione narcisistica che possono causare. III. Educare alla parità, all’uguaglianza nella prassi collaborativa Emerge come sia un nodo costitutivo per la questione dell’autorità nel processo educativo e in quello democratico, anche se può apparire paradossale, il riconoscimento reciproco del principio di parità e uguaglianza. Prenderne coscienza comporta il superamento di un ingenuo sguardo sul mondo, mediato da una prossimità apparente di tutte le condizioni sociali per la loro vicinanza sui nostri schermi, e la consapevolezza della reale disuguaglianza all’interno della società nei diversi Paesi. Solo uno sguardo alle contraddizioni, critico rispetto alle soluzioni e formato democraticamente alla risoluzione dei problemi in chiave dialogica e collaborativa, potrà tentare l’attuazione di progetti performanti della qualità della vita di tutti.16 Non a caso alla radice del riemergere di nazionalismi e localismi, che prendono il colore del “sovranismo” e del populismo, è la confusa percezione della diseguaglianza nella distribuzione del reddito e l’identificazione della sua causa nella globalizzazione e nel progresso tecnologico.17 Vale la pena ricordare l’articolo 3 della Costituzione italiana: 16

Cfr. P. Freire, Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, Torino 2008. 17 Cfr. T. Boeri, Populismo e stato sociale, Bari-Roma 2017.

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tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Qui le dimensioni politica, economica e sociale risultano interconnesse alla pari dignità. Una prospettiva che chiama in causa il processo educativo come elemento costitutivo del compito della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli». Amartya Sen offre una pista significativa con i suoi La diseguaglianza18 e Lo sviluppo è libertà19, in cui richiama direttamente ed indirettamente la necessità di avere contemporaneamente un approccio etico, economico ed educativo che vede nella persona un fine. Egli presenta le capabilities come il criterio entro cui valutare la qualità della vita in relazione alla libertà, oltre la prospettiva utilitaristica; come opportunità che si generano nella combinazione di abilità personali e ambiente politico e sociale. Tali capacità non devono essere concepite come innate o cablate sul DNA, ma sono condizionate dall’ambiente di provenienza, corredando qualitativamente la dignità e lo sviluppo possibile della persona in una realtà oggi caratterizzata dal pluralismo. Se riflettiamo sull’intera questione del pluralismo e dei valori culturali, dovremmo ricordarci che nessuna cultura è monolitica. Tutte le culture contengono una varietà di voci, e frequentemente ciò che passa per “la” tradizione di un luogo è semplicemente la concezione del gruppo più potente, cioè di coloro che in quella cultura hanno maggiore accesso al18

A. K. Sen, La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna 2017. A. K. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è sviluppo senza libertà, Milano 2020. 19

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l’istruzione e all’espressione politica. Prima di arrivare a una corretta descrizione empirica riguardo le concezioni di una cultura, dovremmo cercare i punti di vista delle minoranze, delle donne, dei contadini e di altri gruppi ancora, cioè i punti di vista che compaiono a mala pena nelle descrizioni ufficiali. Una volta compreso questo, risulterà molto difficile pensare ai valori tradizionali come aventi autorità normativa: la tradizione ci offre soltanto spunti di conversazione, di dibattito, e ciò che dobbiamo fare è soppesare le differenti posizioni al suo interno. L’approccio delle capacità si propone di farlo usando come guida l’idea di dignità umana.20

«Rimuovere gli ostacoli» alla luce di queste indicazioni comporta non solo un’effettiva azione di assistenza sociale sul piano della scuola dell’obbligo ma anche l’attenzione a che, in nessun modo, la differenza tra le persone si atrofizzi in diseguaglianza o discriminazione. Questo comporta un processo di coscientizzazione che ha nella scuola un laboratorio significativo, ma coinvolge l’intero tessuto sociale in una dinamica in cui ci si rende conto che la differenza tra le persone costituisce la qualità della società, ma anche che questa si attua con un esercizio di custodia dell’uguaglianza tradotta in prassi di accoglienza e promozione delle differenze. D’altra parte, le differenze non possono risolversi nell’appiattimento dei ruoli sociali o delle multiple capacità. Gardner con i suoi studi sulla pluralità delle intelligenze ci apre un ulteriore percorso evidenziando la molteplicità delle intelligenze, le quali comportano diversificate abilità e competenze che sono sullo stesso piano valoriale e concorrono alla formazione e realizzazione della persona nella sua irripetibilità.21 Gardner vuole superare la concezione dell’intelligenza come qualcosa di già dato e difficilmente modificabile, definita “entitaria”, e guarda ad una rappresentazione dell’intel20

M. C. Nussbaum, Creare capacità, Bologna 2013, p. 103. Gardner riconosce alle emozioni il ruolo di espressioni nell’intelligenza multipla, in H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano 2000. Cfr. anche H. Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple ed apprendimento, Gardolo (TN) 2005. 21

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ligenza di tipo “incrementale”, considerata un prodotto dell’impegno, dell’ambiente, delle esperienze e dell’esercizio. In questo quadro, la situazione di partenza non è valutata come determinante, dal momento che si dà valore a tutti i fattori interagenti come possibilità di sviluppo dell’intelligenza stessa.22 Si tratta di una prospettiva orientata alla differenziazione, alla pari dignità ed uguaglianza, all’articolazione in funzione dell’organismo sociale. Ci aiuta in questo percorso una considerazione di Nichols in un testo dal titolo significativo: La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia: «[g]li americani ormai credono che avere diritti uguali in un sistema politico significhi anche che l’opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro. Moltissime persone ne sono convinte, nonostante si tratti di un’evidente assurdità».23 Nella dinamicità tra conoscenza e mera opinione si gioca la questione tra uguaglianza e competenza e si radica uno dei nodi più significativi dell’intero impianto democratico con il suo principio di sovranità e il suo esercizio fattuale. Scrive Nichols: [q]uando le persone infastidite chiedono che tutti i segni di successo, compresa la competenza, siano livellati ed equiparati in nome della “democrazia” e della “giustizia”, non c’è speranza né per l’una né per l’altra. Tutto diventa una questione di opinione, e in nome dell’uguaglianza tutti i punti di vista vengono ridotti al minimo comun denominatore.24

IV. Dialogicità e partecipazione Quanto il dialogo caratterizzi il processo democratico e quanto questo sia connesso al processo educativo ci sembra 22

Cfr. C. S. Dweck, Teorie del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo, Trento 2000. 23 T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Roma 2020, p. 21. 24 Ivi, p. 231.

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già espresso da ciò che Tucidide fa dire a Pericle: «[n]oi siamo i soli a riflettere a fondo sugli affari di Stato, poiché non pensiamo che il dibattito arrechi danno all’azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono».25 Chiaramente, la funzione del dialogo come confronto e conforto reciproco nelle scelte da assumere nella vita politica democratica non può risolversi in una presentazione pubblicitaria, come a volte accade, ed in tal senso ancora Rodotà notava: [è] ormai accertata una larga migrazione dell’uomo politico, e soprattutto dell’aspirante politico, dai luoghi deputati dell’informazione a quelli dello spettacolo o dell’informazione spettacolarizzata, del talk-show. […] Il neologismo “infoitainment” sanziona poi l’avvenuta cancellazione d’ogni confine tra informazione e intrattenimento, in un universo in cui la politica è ormai “delocalizzata”, e socialmente meglio percepita (non dirò accettata) soprattutto quando compare in un universo caratterizzato dai segni del consumo.26

È necessaria un’attenzione ai luoghi, tempi e modi della comunicazione politica, al dibattito che ne segue27 e alla sua efficacia non tanto in termini di raccolta del consenso in modalità plebiscitaria ma come esercizio di democrazia. Per attuare il dialogo è fondamentale una formazione al dialogo e la conoscenza della materia su cui si dialoga. Nel tempo dei like e dei twitter, del format pubblicitario per condividere un progetto politico, la questione della gestione critica delle in25 Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 41, tradotta in italiano da L. Canfora (Milano 2007). 26 S. Rodotà, Tecnopolitica, cit., pp. 21–22. 27 Scrive Rodotà: «[l]e cerimonie dell’informazione, i “sistemi d’informazione ritualizzata”, hanno sempre avuto un ruolo essenziale nello strutturare i comportamenti d’una comunità, nel definirne le gerarchie, nello stabilire i modi in cui possono essere percepite le forme del potere […]. Oggi si può dire che questa dimensione è divenuta pervasiva, e che la società si presenta sempre più spesso come società “pubblicitaria”, come società che organizza i suoi spazi simbolici secondo la tecnica della pubblicità». Ivi, pp. 25–26.

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formazioni è determinante. Ce lo dimostra la situazione che ci siamo trovati ad affrontare nella pandemia, in cui esperti e scienziati si sono interfacciati con la politica e con i cittadini. Politici e scienziati hanno dovuto intraprendere un dialogo diretto e conseguente in cui la questione della conoscenza degli esperti e le scelte politiche sono rimbalzate nelle decisioni e nelle comunicazioni. L’esperienza babelica si ripete ogniqualvolta al dialogo fattivo e finalizzato si sostituisca l’ideologizzazione ed assolutizzazione di aspetti della vita sociale e politica senza guardare al concreto vissuto delle persone. Già prima della pandemia gli esperti sono stati chiamati a dare pareri ai politici, che hanno la funzione di prendere le decisioni, e i cittadini a conoscere gli elementi basilari sulle varie questioni per poter esprimere un consenso critico informato. Questo è necessario perché si attui il processo democratico e gli elettori svolgano la loro funzione di controllo. Le alternative sarebbero una tecnocrazia, di fatto autoritaria, o una prevalenza di retorica persuasoria da parte dei politici. È responsabilità delle parti in gioco svolgere correttamente la loro funzione in relazione alle altre.28 V. La relazione autoritativa Il rapporto tra conoscenza e interazione che matura in un processo educativo comporta l’acquisizione di una responsabilità verso l’altro ed è proporzionalmente correlato alla dinamica del processo democratico. Chi ha più competenze in un processo democratico potrà avere maggiore autorità ed autorevolezza, non più privilegi, nella misura in cui riconosce ed è riconosciuto dai componenti della società e con loro valuterà il presente nell’orizzonte del bene comune. Resta l’imprescindibile inseparabilità di acquisizione di competenze e relazione interpersonale. Una questione etica ed esistenziale che coinvolge i processi educativi e democratici. Già Don Milani di fronte a quanti si chiedevano come potesse avere in quel 28

Cfr. T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, cit., p. 26.

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contesto una scuola piena di studenti, e si aspettavano la determinazione di una precisa metodologia, rispondeva: «non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per fare scuola».29 Forse, allo stesso modo, nel processo democratico quando ci si atteggia a grandi comunicatori o ci si lamenta della partecipazione dei cittadini, o della conflittualità tra maggioranza e minoranza, varrebbe la pena riporsi nella prospettiva di quanto propose Saragat nel discorso inaugurale all’Assemblea costituente italiana: [f]ate che il volto di questa repubblica sia un volto umano. Ricordatevi che la democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza, non è soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presidio di quello sovrano della nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide.30

Rapporti umani e processo democratico viaggiano insieme, come nel processo educativo. È del tutto adeguato affermare, guardando agli studi sull’intelligenza emotiva e meta-emotiva, che «[l]e persone con alte prestazioni di intelligenza emotiva sono “sintonizzate” con gli altri»31, e cercare di realizzare nel processo educativo un’alfabetizzazione emotiva ed una autoconsapevolezza per uno sviluppo adeguato della persona 29

L. Don Milani, Esperienze pastorali, Firenze 1997, p. 235. In Agenzia Ansa 26.6.1946, ore 12.00. Interessante il confronto con un passaggio di Nussbaum che scrive: «[t]roppo spesso, però, il termine “democrazia” non è definito in maniera sufficientemente chiara. Gran parte delle democrazie moderne hanno messo al sicuro i diritti fondamentali addirittura dalla volontà della maggioranza, e io penso che se democrazia significa davvero “governo del popolo”, tale sicurezza sia un tratto essenziale della democrazia stessa, perché protegge certi aspetti fondamentali dell’autogoverno (come il principio “una testa, un voto”, l’uguaglianza di fronte alla legge, il processo equo, la libertà di associazione). In altre parole, la democrazia non va intesa come mero maggioritarismo». M. C. Nussbaum, Creare capacità, cit., p. 169. 31 A. D’Amico, Intelligenza emotiva e metaemotiva, Milano 2018, pp. 69 ss. 30

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sul piano cognitivo e delle sue molteplici e potenziali abilità.32 Nussbaum ci ha chiaramente indicato che «[n]on c’è da stupirsi che il tema delle emozioni risulti centrale per la maggioranza dei grandi teorici politici, come Aristotele, Hobbes, Rousseau, Mill e Rawls», sottolineando come Mill, che era convinto dell’estrema malleabilità delle persone, propose un programma d’istruzione pubblica tale che le persone identificassero il proprio successo nella vita con quello degli altri, compresi gli altri di domani. Sicuramente Mill esagerava la misura della malleabilità umana, ma non dovremmo sottovalutare la funzione delle norme sociali nella formazione delle emozioni, a tutte le età. Una migliore comprensione del processo di sviluppo e dei modi in cui una varietà di influenze sociali plasma le emozioni che sono rilevanti in politica è cruciale se davvero vogliamo realizzare l’approccio, o almeno giustificarlo. Parte di questo compito riguarderà lo studio e la comprensione delle emozioni che supportano l’approccio delle capacità, come la compassione e il rispetto.33

Se la dimensione affettiva ha un peso, un suo ruolo determinante è nell’impostazione dei ruoli guida sia nel processo educativo che in quello democratico, nella definizione della leadership. Sul piano della metodologia pedagogico-didattica risulta significativa per la nostra riflessione la metodologia cooperativa che ha sviluppato la leadership distribuita. Superati i modelli che puntano sulla competizione e sul mero conseguimento di obiettivi propri, in cui la presenza degli altri è meramente funzionale, la prospettiva del cooperative learning insiste sulla complementarietà di capacità, intelligenze e azioni in un contesto di apprendimento con obiettivo comune. In questo contesto, la leadership è possibile se matura un atteggiamento di flessibilità che si traduce nel saper equilibrare ascolto degli altri, attenzione e diagnosi dei processi relazio32 33

Cfr. D. Goleman e P. Senge, A scuola di futuro, cit. M. C. Nussbaum, Creare capacità, cit., pp. 171–173.

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nali, capacità di intervenire e indicare comportamenti adeguati.34 Non sembrano queste competenze adeguate per un politico? Non è la fiducia reciproca il collante più significativo di un processo democratico? Ci sembra interessante ancora riprendere Nichols: [l]a popolazione, soprattutto, ha bisogno di potersi fidare dei leader e dei loro consulenti esperti. Questo rapporto diventa però impossibile quando i profani non hanno idea di quello di cui stanno parlando o di quello che vogliono. Quando la fiducia crolla, l’ignoranza dei cittadini può trasformarsi attraverso una cinica manipolazione in un’arma politica. L’anti-intellettualismo è in sé un mezzo per mandare in cortocircuito la democrazia, perché in qualsiasi cultura una democrazia stabile si basa sul fatto che i cittadini capiscono le implicazioni delle proprie scelte.35

Il principio del uno vale uno, caratterizzante la vitalità del processo democratico, non è traducibile sul piano delle competenze. Il farlo annichilirebbe il principio democratico che implica un contributo specifico di ognuno in una collaborazione fattivamente variegata. Applicato sul piano della formazione dell’opinione pubblica depriverebbe le decisioni del carattere di consenso informato. Scienziati e tecnici non possono essere esonerati dal comunicare adeguatamente tenendo conto dei destinatari; i politici devono dare ragione in modo convincente delle scelte proposte. Essenziale resta non considerare come fondante il sentire immediato ed una conoscenza improvvisata delle questioni senza l’ascolto di chi ha competenze specifiche, e d’altra parte non bisogna cadere in un’illusoria tecnocrazia che non tenga conto dei cittadini e delle loro esigenze ed aspettative, che non devono essere basate solo sull’immediatezza dei bisogni. La stessa immediatezza che va 34

Cfr. D. W. Johnson e R. T. Johnson, Leadership e apprendimento cooperativo, Roma 2005. Nel testo si identificano cinque competenze funzionali: leadership, comunicazione, gestione dei conflitti, capacità di prendere decisioni e fiducia reciproca. 35 T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, cit., p. 228.

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scongiurata sul piano delle conoscenze. L’immediatezza della consultabilità della rete soddisfa molte esigenze ma non fa automaticamente della rete una fonte attendibile, richiedendo piuttosto capacità critica. Come è stato notato: «la cultura orizzontale in altre parole non può fare a meno della cultura verticale»36; e nulla ci esonera dall’uso della ragione critica di kantiana memoria. Riscoprire e valutare il rapporto tra processo educativo e processo democratico ci sembra in questo senso non possa tradursi in una riproposizione di un principio di autorità che sottolinei l’asimmetria tra chi sa e chi non sa, tra chi ha e chi non ha il potere, ma può radicarsi nella presa di coscienza di una funzionalità sociale delle multiple competenze che concorrono, in una logica di riconoscimento reciproco, ad un destino comune.

36

G. Solimine e G. Zanchini, La cultura orizzontale, cit., p. 160.

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Capitolo VI Does democratic citizenship education engineer consent to political authority? di JULIAN CULP

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I. Introduction In this chapter I discuss the difficulty of justifying the exercise of political authority that is needed within a liberal-democratic state to create autonomous citizens whose consent to the political authority of a democratic state is of normative significance for legitimating the law. This exercise of political authority consists of practices of liberal democratic citizenship education that aim at creating autonomous subjects which legitimate the liberal democratic state’s political authority through appropriately arranged procedures of political opinion- and will-formation.1 In this chapter I assume that practices of liberal democratic citizenship education, especially within institutions of primary and secondary school education, are necessary from a practical – pedagogical – point of view for the formation of future citizens’ autonomy. That is, I assume that unless students already start developing liberaldemocratic attitudes, knowledge, and skills within schools, they will not undergo the relevant moral, psychological, and socio-political developments and socialization that are necessary so that students can make autonomous choices as citizens. While some of these attitudes, knowledge, and skills are transmitted in specifically designed courses of civics, students 1 Cf. E. Callan, Creating citizens: Political education and liberal democracy, Oxford 1997; and Citizenship and education, in «Annual Review of Political Science», 7, 2004, pp. 71–90; cf. also A. Gutmann, Democratic education, Princeton 1999.

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will also learn liberal-democratic attitudes, knowledge, and skills in other courses such as literature or mathematics as well as through their socialization within a liberal-democratic school culture and school system. Consequently, I presuppose that the exercise of political authority in the form of liberal democratic practices of citizenship education is crucial for the creation of those agential dispositions that are necessary for legitimizing political authority through the consent of autonomous citizens. Even if liberal democratic practices of democratic citizenship education are practically necessary for socially reproducing a liberal democratic political system, however, there are normative difficulties concerning the justification of the state’s exercise of political authority in the form of liberal democratic citizenship education within schools. This chapter focuses on two of these problems. The first problem consists of how to justify the exercise of political authority vis-à-vis students who lack autonomy and thus cannot legitimate this exercise through their consent. The second problem is that citizens’ consent to a liberal democratic form of the exercise of political authority may not be able to legitimate that kind of exercise of political authority if this consent was engineered or manufactured through liberal democratic citizenship education.2 I discuss these two problems in Sections III and IV, respectively. Before that, however, I will clarify in Section II the normative understanding of political authority on which this chapter relies. Section V will conclude. II. Descriptive and normative political authority «Is the political authority of the state legitimate?» some may ask. And others may respond with another question in an attempt to grasp a better understanding of what was meant by the initial question: «Are you asking whether the state has 2 Cf. H. Brighouse, Civic education and liberal legitimacy, in «Ethics», 108, 1998, pp. 719–745.

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the right to rule or whether it is widely believed that the state has the right to rule?». This exchange illustrates that the question of whether a political authority is legitimate can be understood in a normative or in a descriptive sense. Thus, every legitimacy assessment must make explicit whether it strives to provide a descriptive or a normative assessment of the legitimacy of political authority. Legitimate in the descriptive or sociological sense means that people believe that a certain institution has the right to rule. The answer to our initial question then must be settled by social science inquiry. This descriptive or sociological account of legitimacy has its roots in Max Weber’s social theory. In analyzing how rulers succeed in ruling their followers, Weber distinguishes three different types of grounds for legitimacy: [t]here are three pure types of legitimate domination. The validity of the claims to legitimacy may be based on: 1. Rational grounds – resting on a belief in the legality of enacted rules and the right of those elevated to authority under such rules to issue commands (legal authority); 2. Traditional grounds – resting on an established belief in the sanctity of immemorial traditions and the legitimacy of those exercising authority under them (traditional authority); or finally, 3. Charismatic grounds – resting on devotion to the exceptional sanctity, heroism or exemplary character of an individual person, and of the normative patterns or order revealed or ordained by him (charismatic authority).3

For Weber, these three types of grounds for legitimacy determine how legitimate rule is established. Legitimacy understood exclusively as the existing and widespread belief in one of the three grounds for legitimacy merely informs us about the mindset of the population. By itself, however, it fails to answer the moral question of the existence of a right to rule. By contrast, a normative answer to the question «Is the po3

M. Weber, Economy and society, Berkeley 1968 [1920], p. 215.

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litical authority of the state legitimate?» relies primarily on argumentations to determine whether an institution has the moral-political right to rule or not. Such an account of legitimacy puts forward arguments in favor or against a political authority’s legitimacy, which support or refute that it has such a right to rule. This allows for the case that the state’s exercise of political authority is considered legitimate for certain normative reasons, although it is commonly believed to be illegitimate. Likewise, it is also possible that the state’s exercise of political authority is considered illegitimate for normative reasons, although it is commonly believed to be legitimate. This chapter is committed to a normative understanding of legitimacy. Hence, in the following it understands the question «Is this exercise of the state’s political authority legitimate?» as one asking for the existence of a moral-political right to rule. Normative authority can refer to the moral right of a person or of an institution to issue commands or directives on the presumption that those who are subject to these commands or directives will comply with them.4 In the context of the modern nation-state, normative political authority refers specifically to the state’s moral-political right to command its citizens to comply with the law. This right to rule is understood, following Joseph Raz, as a claim-right, which means that the authorities do not simply claim that obedience is owed to their ruling, but that there actually is a moral duty to obey their directives.5 Robert Ladenson, by contrast, argued that the exercise of political authority need not include a claimright of this kind, which is correlated to a moral duty to obey the law.6 According to Ladenson, the right to rule is merely a justification-right, which means a person’s or institution’s right to threaten someone else to comply with the directives, even though those who are threatened in this way do not 4

Cf. L. Meyer, “Autorität”, in S. Gosepath, W. Hinsch, and B. Rössler (eds.), Handbuch für Sozial- und Politische Philosophie, Berlin 2008, pp. 102–107. 5 Cf. J. Raz, The morality of freedom, Oxford 1986. 6 Cf. R. Ladenson, In defense of a Hobbesian conception of law, in «Philosophy and Public Affairs», 9, 2/1980, pp. 134–159.

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have a moral duty to comply with the law. Yet Raz insists on the «basic insight» that «authority is ability to change reasons for action», such that authority is «a species of normative power».7 In the social contract tradition of political thought, which follows central insights of Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau, John Locke and Immanuel Kant, the justification of the political legitimacy of the state’s right to rule revolves around the idea of actual or hypothetical consent. Following this tradition, thus, the right of the state to rule over its citizens is based on the idea that citizens have consented to, or could have consented to, the law. The idea that consent legitimates the state’s ruling is also central to the contemporary liberal-democratic theories of political legitimacy that follow this tradition. In Jürgen Habermas’s normative reconstruction of the law of the modern democratic state in Between Facts and Norms, for example, a fundamental condition for the legitimacy of the law of a democratic state is that citizens can understand themselves not only as the addressees but also as the authors of the law, who have consented to the law within an appropriately arranged communicative system.8 Habermas puts this point as follows: «I assume […] that a regulation may claim legitimacy only if all those possibly affected by it could consent to it after participating in rational discourses».9 Similarly, in Political liberalism, John Rawls claims that 7 J. Raz, The authority of law, Oxford 1979, p. 16. Raz provides the following example to explain why it is important to understand authority as involving a claim-right: «[m]y neighbor can stop me from growing tall trees in my garden by threatening to burn rubbish by my border. He, therefore, has some power over me but no authority. Nor does his power turn into an authority just by the fact that I acquiesce and do not pick a fight with him. […] My neighbor’s justification-right to threaten me does not mean that I have a duty to obey him. It merely means that he does no wrong in threatening me and this is compatible with my having a right to resist him». J. Raz, Authority, Oxford 1990, p. 116. 8 Cf. J. Habermas, Between facts and norms. Contributions to a discourse theory of law and democracy, Cambridge 1996. 9 J. Habermas, The inclusion of the other. Studies in political theory, Cambridge 1998, p. 259.

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«our exercise of political power is fully proper and hence justifiable only when it is exercised in accordance with a constitution the essentials of which all citizens may reasonably be expected to endorse in light of principles and ideals acceptable to them as reasonable and rational».10 In this chapter I accept such a liberal-democratic, consent-based conception of the legitimation of the state’s rule.

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III. How, if at all, can immature students legitimate political authority? A problem of the consent-based idea of the legitimation of the state’s political authority, which I have already mentioned in the introduction, is that the students that are subject to democratic citizenship education to become autonomous subjects cannot plausibly be conceived as having effectively consented to this exercise of political authority. This is because the students have not yet fully developed their capacity for autonomous choice. After all, if they already had developed this capacity, then it would not be necessary to institutionalize democratic citizenship education that has the aim of developing citizens’ autonomy. Yet, as I have mentioned above, I assume in this paper that practices of liberal democratic citizenship education are necessary for developing autonomy because students neither possess nor will develop autonomy unless the educational processes that form their personalities in schools are appropriately designed. Accordingly, students’ possible consent to the exercise of the state’s political authority in the form of democratic citizenship education would not possess the normative power that was needed so that this consent would legitimate the state’s exercise of political authority in the form of democratic citizenship education. Since students are still immature, they are unable to consent autonomously. One potential solution to this difficulty is to refer to the democratic legitimation of democratic citizenship 10

J. Rawls, Political liberalism, New York 1993, p. 137.

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education by the fully autonomous citizens. This solution consists in arguing that the state’s exercise of political authority in the form of democratic citizenship education is legitimated by the consent of those who have already developed their autonomy and who have agreed to this education within democratic processes of opinion- and will-formation. While this may be a plausible solution to the first problem, this way of responding to it gives rise to the second problem of an engineered or manufactured consent that was also already mentioned above. IV. The problem of educationally engineered consent This second problem is that citizens’ capacity for autonomous choice may be severely tainted by the fact that they have undergone a liberal-democratic form of citizenship education that may have manipulated them into thinking and ultimately also agreeing that the exercise of political authority in line with liberal-democratic standards of legitimation is justified. In other words, their consent to this liberal-democratic kind of exercise of political authority may simply be engineered or manufactured through liberal democratic citizenship education and thus fail to reflect their autonomous choice. In response to this problem, Harry Brighouse has argued that liberal-democratic practices of citizenship education need not consist of the promotion of personal autonomy.11 Instead, it suffices if such educational practices promote the facilitation of personal autonomy. Brighouse thereby expresses the idea that through liberal-democratic citizenship education citizens should be put into a position where they can exercise personal autonomy if they decide to do so. Accordingly, if citizens decide to consent autonomously to the law that the political authority imposes on them, then that consent is effectively legitimating this authority, since it represents an autonomous choice of citizens and not a choice that is engineered. 11

Cf. H. Brighouse, Civic education and liberal legitimacy, cit.

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One problem of Brighouse’s solution is that it focuses primarily on the facilitation of personal autonomy rather than public autonomy. Personal autonomy refers to a person’s capacity to reflect about their private ends. Public autonomy, by contrast, concerns the individual as a public subject that can participate in public decision-making processes. What is needed to legitimate the state’s exercise of political authority – in the domain of school education as well as elsewhere – is not only personal but also public autonomy. Thus, Brighouse’s solution to the presented problem seems insufficient because it focuses narrowly on personal autonomy. In response, however, Brighouse may argue that the attitudes, knowledge, and skills that are necessary for personal and public autonomy are relatively similar. To begin, both kinds of autonomy require a reflection about ends – private ends on the one hand and public ends on the other hand. What is more, in both cases persons must learn to understand themselves as subjects who are «self-authenticating sources of valid claims», as Rawls puts it, because otherwise they could not plausibly understand themselves as agents that can reflect on and determine their own ends.12 Still, there are important differences between education for personal autonomy and education for public autonomy. Firstly, in the case of public autonomy it is necessary to recognize not only oneself but also other subjects as so-called self-authenticating sources of valid claims. As Gutmann puts this point, public autonomy rests on «a reciprocal positive regard among citizens who pursue ways of life that are consistent with honoring the basic liberties and opportunities of others».13 Next, when we understand public autonomy as a collective deliberation about public ends, then – at least when we follow the deliberative understanding of democracy14 – education for public autonomy also requires being able to en12 13

J. Rawls, Political liberalism, cit., p. 32. A. Gutmann, Civic education and social diversity, in «Ethics», 105, 1995, p.

561. 14 Cf. J. Habermas, Between facts and norms, cit.; and A. Gutmann and D. Thompson, Democracy and disagreement, Cambridge 1996.

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gage with others in political discourses as to which laws and policies should be implemented. Hence, there are relevant differences between education for personal autonomy on the one hand and education for public autonomy on the other. Accordingly, we must modify Brighouse’s argument and argue that liberal-democratic practices of citizenship education are legitimate and avoid the problem of engineered consent to the extent that they merely facilitate and do not promote the exercise of personal autonomy and public autonomy. If formulated in this way, then it may seem plausible to believe that the consent to the state’s political authority is not engineered or manufactured because citizens are not required to exercise their capacity for autonomy. Hence, if citizens exercise public autonomy and consent to the state’s exercise of political authority, then that expression of consent possesses normative significance and need not count as engineered or manufactured. The problem of this way of arguing, however, is that one may still object that the mere facilitation of personal and public autonomy through liberal democratic citizenship education in schools nevertheless distorts any consent that is given. This is because the mere fact that political authority is exercised in and through schools to facilitate students’ personal and public autonomy suggests that these forms of autonomy are of considerable moral importance and that the legitimacy of the political authority that the state is exercising depends on the existence of these kinds of autonomy. When the state’s exercise of political authority in the form of democratic citizenship education is faced with this objection, then two replies seem in order. The first reply is that any kind of exercise of the state’s political authority in the domain of school education will necessarily be biased towards one or the other kind of conception of how to legitimate political authority. For example, if state-based educational practices consisted mainly of religious education, then the subjects’ eventual acceptance of a religiously founded legitimation of this type of state-based citizenship education could be said to be insufficient for legitimating these educational practices on the same grounds. After all, it is possible to argue that the state’s 171 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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practices of religiously oriented education have led the subjects of that state into thinking that the practices are legitimate. Likewise, if state-based educational practices pursued liberal perfectionist goals and taught students that personal self-development and individuality were the best way of realizing human flourishing, then the citizens’ consent to a liberal perfectionist legitimation of such a type of state-based education could also be criticized as engineered or manufactured. Some religiously oriented citizens and groups, for example, may criticize a liberal perfectionist type of citizenship education and point out that the consent that is given to such an exercise of the state’s authority should not be accepted because it is based on a form of liberal perfectionist indoctrination. Hence, the problem of manufactured or engineered consent does not only affect the liberal democratic forms of citizenship education, but also other forms of state-based political education, including religiously oriented or liberal perfectionist forms of such education. As such it appears to be a fundamental critique of any type of state-based political education, which indicates that this critique may be too radical. The second reply to the objection that the state is manufacturing the consent that citizens give to its exercise of political authority, by contrast, is based on moral grounds. This second reply argues that even though liberal democratic citizenship education seemingly distorts the consent that citizens give to the state’s exercise of political authority, it is morally justified. The moral justification of liberal democratic citizenship education is based on the fundamental moral premise that all moral persons have a moral duty to be able to justify their individual behavior and collective action vis-à-vis others.15 Such a premise can be conceptualized as a matter of moral respect, which Rawls expressed as follows: «respect for persons is shown by treating them in ways that they can see to be justified».16 To discharge this moral duty of moral respect, moral per15 16

Cf. J. Culp, Global justice and development, London 2014, ch. 5. J. Rawls, A theory of justice, Cambridge 1971, p. 586.

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sons need to develop personal and public autonomy. This is because personal autonomy, understood in a distinctively moral sense, consists in the capacity of identifying relevant moral reasons why one’s conduct is justifiable vis-à-vis those who are affected by one’s conduct. Personal moral autonomy thus means the capacity to act on moral reasons and follow moral norms. It is an instance of the concept of autonomy, which means the capacity to follow reasons.17 Similarly, public autonomy consists in the capacity to participate in forms of public reasoning within political processes of opinion- and will-formation through which collectively binding norms are mutually justified as being generally valid. To clarify, the exercises of personal moral autonomy and of public autonomy do not pursue the realization of a particular conception of the good. The reflection on, revision, and realization of a particular conception of the good constitute the exercise of ethical autonomy.18 By contrast, the exercises of personal moral and of public autonomy aim at avoiding immoral personal behavior and political action in the personal and political domains. Such immoral personal behavior and political action consist of interactional or institutional arbitrary interferences in one’s own life and the lives of others, where interference counts as arbitrary when it cannot be reciprocally justified towards all who are affected by, or subjected to, such interference. This means that the justification of such interference must be able to fulfil the criteria of generality and reciprocity.19 Generality means that a moral justifica17 Cf. R. Forst, The right to justification: Elements of a constructivist theory of justice, New York 2012, ch. 6. By contrast, as I also explain below in the main text, personal ethical autonomy refers to the capacity of reflexively identifying and pursuing one’s personal ends – either as an individual or as a member of a certain association. According to this understanding of ethical autonomy, individuals are autonomous when they determine the ends that are constitutive of their identity or their conception of the good and then aim at realizing these ends. 18 Cf. J. Culp, Democratic education in a globalized world, London 2019, chs. 2 and 6. 19 Cf. R. Forst, Contexts of justice. Political philosophy beyond liberalism and communitarianism, Berkeley 2002, pp. 68–69, 133–134.

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tion must not be justifiable solely to those persons who share a specific socio-political context and particular conceptions of the good. Rather, generality requires the justification to be justifiable to all persons, regardless of whether they belong to the same socio-political contexts and endorse the same conception of the good. Further, reciprocity requires that the justifications given must not be one sided. Justifications should not be articulated in a manner that privileges certain persons by exempting them from certain moral requirements. Nor must justifications regard the interests of certain persons as facts of nature and thus beyond reasonable criticism. Hence, the normative point of education for personal moral autonomy and for public autonomy is not a “positive” one, according to which individual or collective ethical autonomy matter for pursuing one’s own individual or one’s collective ends. This positive sense of individual or collective autonomy views the exercise of ethical autonomy as the best way of realizing human flourishing. Rather, the normative point of personal moral and public autonomy is a “negative” one that is based on an idea of non-domination, which is a term that is widely used as shorthand for the absence of arbitrary interference.20 Liberal democratic citizenship education for personal moral autonomy and for public autonomy is necessary to reduce and perhaps even eliminate instances of personal and political immoral behavior in the form of arbitrary interferences, i.e. domination. The state’s exercise of political authority in the form of democratic citizenship education should thus count as morally justified to the extent that it effectively enables citizens to discharge their moral duty to avoid these forms of arbitrary interference in personal or political contexts. The state’s exercise of political authority in the form of liberal democratic citizenship education is thus not simply legitimated by citizens’ actual political consent to this form of education within appropriately arranged political processes of political opinion- and will-formation. Instead, the legitima20

Cf. P. Pettit, Republicanism, Oxford 1999.

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tion of this political authority is also based on the moral justification that liberal democratic citizenship education is necessary so that students learn to exercise personal moral autonomy and public autonomy. Thereby they are supposed to learn how to avoid arbitrarily interfering in others’ lives individually or collectively, and they also learn how to protect themselves from arbitrary interferences. It can be said that this moral justification relies on an idea of hypothetical consent, according to which students would consent to being subject to liberal democratic forms of citizenship education if they had properly developed their capacities for personal moral autonomy and for public autonomy: if students were autonomous in these ways, then they would recognize that they have moral duties as moral persons individually and as members of political communities to justify their individual behavior and collective action vis-à-vis those who are affected by their behavior or are subjected to the laws that they implement. And so, they would also recognize that it is morally necessary to develop the capacities for personal moral autonomy and for public autonomy through processes of liberal democratic citizenship education. This hypothetical consent should not count as manufactured, however, because it does not rely on the normative importance of actual consent, given through political procedures after citizens were subject to liberal democratic forms of citizenship education. Instead, the idea of the hypothetical consent is that citizens would legitimate the state’s ruling in the form of liberal democratic citizenship education if they were personally and publicly autonomous. So, the hypothetical legitimation of the state’s authority by autonomous citizens must not be viewed as the result of an indoctrination through certain forms of citizenship education. Citizens would accept the state’s exercise of political authority in the form of liberal democratic types of state-based citizenship education for the moral reasons that underwrite the importance of personal moral and public autonomy. To reiterate, these moral reasons are that unless citizens possess personal moral and public autonomy, they are prone to acting immorally, individually and collectively by way of arbitrarily interfering in others’ lives. 175 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Citizens who possessed personal and public autonomy would thus recognize the need for avoiding such arbitrary interference and the moral importance of forms of citizenship education that facilitate the exercise of personal and public autonomy which prevent these forms of immoral behavior.

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V. Conclusion In this chapter, I discussed the difficulty of justifying the normative legitimacy of the state’s exercise of political authority in the domain of education and, in particular, in the form of liberal democratic citizenship education. The idea of an actual consent to this exercise seems inappropriate to legitimate the exercise of such an authority. There are two reasons for this: the first is that students are not yet fully autonomous; the second is that the consent of citizens to these practices of liberal democratic citizenship education may appear as engineered to the extent that citizens have gone through a liberal democratic education that has emphasized the importance of a liberal democratic political order and of liberal democratic practices of education. The chapter therefore proposed to rely on a moral justification of the state’s exercise of political authority in the domain of education. This moral justification maintains that all moral persons have a moral duty of respect to justify their individual and collective action vis-à-vis others, and that the state is therefore justified in carrying out forms of liberal democratic education that enable students to discharge this moral duty. Finally, I also interpreted this moral justification as one that can be conceptualized as a form of legitimation of the exercise of political authority that relies on the idea of a hypothetical consent. This hypothetical consent, I argued, consists in the agreement among morally autonomous persons that they have a duty to morally justify their actions visà-vis other moral persons, and that the state is therefore justified in developing capacities of morally justifying one’s actions through practices of liberal democratic citizenship education. 176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Capitolo VII Pensare la global governance di ALBERTO LO PRESTI

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I. Introduzione Nella seconda metà del XX secolo si intensificarono gli studi che pronosticavano l’inesorabile e definitivo declino dell’esperienza religiosa nel mondo occidentale. Dopo aver paventato l’eclissi del sacro, la morte di Dio, la fine del sentimento religioso, questo filone variegato e redditizio perse il suo slancio vitale. Le previsioni non s’avverarono né sul piano della condotta privata degli individui né rispetto al ruolo pubblico assunto dalla fede religiosa nella società odierna. I tentativi di raddrizzare la traiettoria condussero all’elaborazione di concetti differenti come la «religione invisibile» (cioè la gente dice di non crederci ma sotto sotto qualcosa ancora vive), la «religione dei valori» (per quanto la gente non creda, il suo orizzonte di valori è influenzato dalla religione), la «religione perenne» (una teologia per atei che si stupisce del mistero di Dio, non di Dio). La condizione odierna attesta che la religione è ancora un orizzonte di cui tenere conto nelle scelte pubbliche. Basti pensare alle nuove urgenze dettate dalle biotecnologie e alle sfide poste, nella società contemporanea, dalla convivenza multiculturale e multireligiosa. In tale contesto segnato dalle crisi ecologiche, dai problemi della sostenibilità, dalle sfide poste dalle disuguaglianze economiche, un punto fermo del dibattito in corso è il pensiero e la testimonianza della Chiesa cattolica e, in particolare, l’insegnamento di Papa Francesco. Le sue iniziative ecumeniche e di dialogo interreligioso, la proposta di una «ecologia integrale» e il coraggio mostrato sui temi della mobilità umana e delle migrazioni globali hanno fatto registrare 177 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una vasta eco nella trasmissione della dottrina cristiana. Difatti, in un contesto intellettuale segnato dalla rarefazione delle grandi visioni ideologiche, sotto l’impeto di un pensiero debole e utilitarista, spesso incapace di cogliere gli elementi universalizzanti della condizione umana, la Chiesa ha potuto levare la propria voce suscitando adesioni anche da realtà che non le appartengono e avviando riflessioni che si stanno ripercuotendo al di là dei suoi tradizionali confini culturali e nazionali. Tali risultati sono in sintonia con i propositi della dottrina sociale della Chiesa, il cui messaggio è, fin dalle sue origini, alla ricerca della più ampia dilatazione. Essa ha una vocazione universale: parla a tutti, evocando uomini e donne di tutte le ere storiche e i contesti culturali. Il suo orizzonte è la storia universale; la sua portata è la famiglia umana.1 Dire che il suo orizzonte è la storia universale significa affermare che la dottrina sociale della Chiesa è impegnata sulle grandi questioni che interrogano l’umanità. Ritiene, in altre parole, di avere una risposta di senso sui temi del divenire storico. Nel mondo occidentale svolge questo compito quasi in modo solitario, perché le derive individualiste, le pretese di difendere la libertà umana dall’ingerenza delle leggi della storia, hanno mortificato le grandi interpretazioni, squalificandole come negative e illiberali. Non avevano tutti i torti coloro i quali, denunciando la miseria dello storicismo (Popper), cercarono di impedire che le prerogative individuali venissero soggiogate da presunte leggi inderogabili del cambiamento sociale. La contestazione delle visioni storicistiche, però, si è estesa oltremisura, fino a relegare ogni proposizione attorno all’avvenire e alla configurazione degli scenari futuri come un’indebita ingerenza intellettuale sulle vicende umane. Il risultato evidente è l’esaurimento del futuro come variabile decisiva per la valutazione dell’efficacia della scelta presente. Abbiamo lasciato a un indeterminato e sfuggente presente il compito di guidarci verso mete inespresse. Poi è arrivata la pandemia, l’ultimo dei problemi globali dopo il terrorismo internazionale, il cambiamento climatico, le sistematiche violazioni dei diritti della persona, 1

Compendio della dottrina sociale della Chiesa, capitolo IV, § 1.

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che ha mostrato la fragilità dell’atteggiamento delle culture, in particolare quella occidentale, che rispetto all’idea di pianificare il futuro hanno fatto ideologicamente un passo indietro. Il pensiero cattolico, a tal riguardo, è ancora un pensiero forte, basato sull’assunto per cui il senso del divenire storico è il progetto di salvezza della famiglia umana. Essa, cioè, procede nella consapevolezza che esiste un disegno di Dio sull’umanità, e questo piano è il solo che può dare – in modo integrale – le due virtù alle quali l’uomo ha da sempre anelato: salvezza e libertà. Questo progetto si indirizza quindi ad una nuova categoria politica: la famiglia umana, inquadrandola nel disegno complessivo del suo divenire. Infatti, l’umanità non è una mera categoria zoologica, un’etichetta in grado di distinguerci dalle restanti specie viventi animali e vegetali. Essa sta via via scoprendo di possedere un destino comune, se è vero che tutto ciò che accade dall’altra parte del globo può avere delle ripercussioni qui, ora.2 «Nessuno si salva da solo» e «siamo tutti sulla stessa barca», ha ripetuto più volte Papa Francesco in questi ultimi anni. Questo studio si prefigge l’obiettivo di mostrare la necessità che il pensiero politico contemporaneo apra il suo orizzonte tematico al pensiero sociale della Chiesa. Non sembra un esercizio ardito, se si pensa che nel dibattito odierno i documenti del magistero della Chiesa stanno occupando un posto sicuramente maggiore rispetto al passato e, in più, travalicante i confini delle distinzioni religiose e culturali. La politica, in cerca di un pensiero forte e protesa verso l’individuazione di temi in grado di sospingerla nel lungo periodo, è come se sentisse la necessità di confrontarsi con temi e proposizioni finora rimaste ai margini della riflessione teorica moderna. II. Interdipendenza e democrazia Gli ideali e le forme della democrazia dell’epoca moderna sono sorti in un contesto storico profondamente diverso da 2

Compendio della dottrina sociale della Chiesa, capitolo IV, § 6.

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quello attuale. La democrazia nacque per risolvere le implicite contraddizioni della società di classe e per spegnere sul nascere le istanze rivoluzionarie delle masse lavoratrici, immettendole nel circuito della rappresentanza politica. L’adozione dello scrutinio segreto e l’estensione del diritto elettorale giunsero dopo che le rivoluzioni liberali ebbero sottratto ai ceti aristocratici e nobiliari lo scettro del potere. La democrazia, in tal senso, non fu uno fra i primi frutti della nuova società borghese, la quale – agli inizi – concepiva sé stessa ancora in senso elitario. Quando il mondo borghese comprese che escludere i proletari dalla vita pubblica era più pericoloso che portarli in parlamento, allora le aspirazioni democratiche si concretizzarono in forme specifiche di rappresentanza politica. Oggi quel mondo non esiste quasi più. La maggior parte delle società odierne non ha più la sola necessità di regolare le differenze sociali fra individui appartenenti a classi diverse. Le differenze si sono spinte a un livello più profondo e coinvolgono le culture, le concezioni etiche, le fedi religiose, i costumi e le tradizioni, le visioni del mondo. La democrazia è chiamata a superare le forme del passato e a dare risposte alle domande di ordine politico delle società complesse, multietniche e multireligiose. Il punto di partenza della rielaborazione del concetto di democrazia è l’interdipendenza planetaria. Questo principio è stato abbondantemente descritto dalle ricerche delle scienze umane e sociali e, in ultima istanza, nella sua versione più semplice, esso coincide con l’idea che Zygmunt Bauman definì come «global web of mutual dependency».3 Da questa ragnatela globale di reciproca dipendenza emerge il corollario per cui nulla di ciò che accade altrove può essere a priori ritenuto ininfluente qui ed ora.4 3

Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, Roma-Bari 2010, p. 72. Osserva ancora Bauman che «[w]hatever else “globalization” may mean, it means that we are all dependent on each other […]. Something that happens in one place may have global consequences […]. What we do (or abstain from doing) may influence the conditions of life (or death) for people in places we will never visit and of generations we will never know». Ivi, p. 71. 4

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Così formulato, il principio d’interdipendenza non suona come nuovo. La differenza è che oggi esso ha una rilevanza più ampia rispetto al passato. In questi anni, ne abbiamo avuto la palese dimostrazione negli eventi determinati dalle crisi ambientali, dal terrorismo internazionale, dai processi migratori suscitati dalle nuove povertà, dalle crisi finanziarie. La pandemia che ha colpito il pianeta prevalentemente negli anni 2020–2021 è, da questo punto di vista, l’ultimo episodio attestante la validità dell’interdipendenza come principio in grado di spiegare il mondo attuale. Al principio dell’interdipendenza si accompagna il conseguente argomento che i beni e gli interessi di tutti e di ciascuno sono necessari per il perseguimento del proprio. Tale enunciato costituisce la formulazione moderna del principio del comune destino. Esso dice che le determinazioni sostantive dei beni perseguiti da attori, gruppi e comunità entrano fra loro in un rapporto organico. La logica conseguenza è che ogni determinazione del bene perseguita da un attore, un gruppo, una comunità, non può esulare dalla considerazione sulle possibilità di realizzazione dei fini/beni di ogni altro. D’altronde, non è più consentito scommettere, nel medio e lungo periodo, che la mia fortuna sia indipendente da quella di chi mi sta attorno, e per cerchi concentrici via via più estesi, da quella di chiunque altro. Applichiamo questi due principi alla teoria democratica. L’interdipendenza ci insegna che tutti potenzialmente operano su tutti, per cui sarebbe rischioso dimenticarsi di coinvolgere qualcuno nel processo politico, ai diversi livelli di articolazione degli interessi, di rappresentanza e di deliberazione. Ciò significa che il principio d’interdipendenza va oltre qualsiasi problema di suffragio, di partecipazione e di configurazione del demos. La democrazia diventa un processo dinamico volto all’inclusione individuale, sociale e culturale. Il suo obiettivo è di estendersi fino a ogni minuscolo interstizio, perché anche da esso può scaturire un effetto capace di influenzare qualunque storia. È un’idea di democrazia che non si compiace mai dei risultati raggiunti, perché concepisce sé stessa come una vitale forma di organizzazione della comuni181 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tà basata non sulla partecipazione politica – questo semmai è un punto d’arrivo – ma sulla persona. In altri termini, il compito di questa democrazia è quello di far accedere ogni persona – al di là del diritto politico ed elettorale, dunque anche al di là dell’età anagrafica e della cittadinanza – alla rappresentazione dei suoi interessi legittimi nella comunità politica. Deve attivare i suoi processi al fine di intercettare soprattutto i suoni difformi provenienti dalla comunità, cioè i bisogni latenti, quelli costretti a rimanere in secondo piano per una serie di condizionamenti culturali, che oggi stratificano le priorità con cui le democrazie risolvono i problemi. Sono i bisogni di alcune minoranze costrette a vivere nella zona opaca della cittadinanza attiva, di alcuni portatori di interessi che tuttavia sono esclusi dal circuito della rappresentanza politica (per esempio i cittadini stranieri che lavorano in una comunità), dei minori che non hanno accesso al diritto di voto, ecc. Per estensione, tuttavia, la democrazia dovrebbe accogliere nel processo informativo e performativo anche le istanze provenienti da quelle comunità fuori dal proprio territorio, le cui sorti hanno una particolare rilevanza per sé. Ancora, tale democrazia dovrebbe riuscire ad immettere nel proprio circuito politico il significato specifico di una civilizzazione mondiale, il che significa non tanto includere nei programmi di governo un numero maggiore di istanze di politica estera, ma individuare le forme specifiche con le quali l’incalzante comunità planetaria abbia modo di essere al centro del processo deliberativo. La sollecitazione teorica che giunge da queste considerazioni indica l’esigenza di avere un atteggiamento di sana inquietudine rispetto allo sviluppo delle democrazie. Anche quei Paesi che hanno fatto da culla alle sue origini sono ancora in cammino, mentre per le realtà che non hanno ancora conosciuto il consolidarsi di un sistema istituzionale e di una cultura democratiche, la via è assai più lunga e impegnativa. In altre parole, le sfide attuali non consentono alcun trionfalismo democratico. Le immagini dell’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, da parte dei sostenitori dello sconfitto Presidente Donald Trump, costituiscono la dimostrazione che 182 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«the journey toward democracy is not yet over».5 In effetti, nuove emergenze democratiche affiorano all’orizzonte della nostra vita associata: i diritti delle nuove, e delle future, generazioni; la partecipazione politica di gruppi ai margini della vita associata; le urgenze ecologiche come bene comune sul quale appellare istanze democratiche più ampie; le nuove forme di sfruttamento del lavoro, localizzate ma dalle ripercussioni globali, e così via. La classica differenza fra le visioni ampie e quelle ridotte, cioè proceduraliste, della democrazia è superata dall’incalzare dei cambiamenti sociali. Le questioni democratiche sono ben al di là delle pianificazioni giuridiche e istituzionali, ben oltre l’architettura costituzionale e i problemi della rappresentanza e della partecipazione, e sono anche più estese delle questioni sull’avvenire dei partiti e dei movimenti politici e delle leggi elettorali: la democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri, e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua, equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività.6

Era più di un secolo fa (1916) quando John Dewey definiva in questo modo la democrazia. Essa appariva allora una 5 D. Archibugi, The global commonwealth of citizens. Toward cosmopolitan democracy, Princeton e Oxford 2008, p. 20. 6 Originale in inglese: «[a] democracy is more than a form of government; it is primarily a mode of associated living, of conjoint communicated experience. The extension in space of the number of individuals who participate in an interest so that each has to refer his own action to that of others, and to consider the action of others to give point and direction to his own, is equivalent to the breaking down of those barriers of class, race, and national territory which kept men from perceiving the full import of their activity». J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze 1992, p. 133.

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definizione morale, oggi risuona invece come una necessità storica, un appuntamento ineludibile verso il quale le democrazie contemporanee non possono farsi trovare impreparate. Dewey raggiunse questo traguardo motivato da un atteggiamento lungimirante nei confronti del problema dell’educazione delle giovani generazioni in vista della costruzione della società del futuro. Sullo stesso piano si colloca il pensiero del sociologo Karl Mannheim, il quale – mezzo secolo fa – intravide per la democrazia un percorso di sviluppo connesso al principio dell’interdipendenza: «non è più una frase vuota asserire che siamo tutti nella stessa barca. L’interdipendenza della società moderna fa sì che la carestia o la rovina economica di una nazione costituisca una minaccia per le altre»7, per cui ragionare in termini di umanità nel suo insieme non è più un chimerico fantasticare, ma l’esigenza del momento in cui viviamo. Questa visione può essere ancora oltre la portata di molti dei nostri realisti sedicenti “incalliti”, il cui “realismo” consiste nel pensare e nell’agire secondo le idee di un’epoca passata. Eppure, una volta resisi conto che non ci si può permettere una terza guerra mondiale e che si deve arrestare la tirannia dovunque mostri la sua abietta testa, è aperta la strada alla visione del genere umano come un tutto.8

Funzionale a tale concezione d’interdipendenza è la necessità della pianificazione democratica, ossia di progettare nella vita associata spazi di libertà e condivisione della decisione. A sostegno delle sue tesi, Mannheim adoperò argomenti di natura empirica ed esortazioni quasi profetiche. Da una parte, infatti, condusse un’analisi delle buone pratiche avviate in vista della pianificazione democratica (per esempio in Gran Bretagna), e dall’altra spiegò l’insufficienza e la vulnerabilità delle democrazie argomentando a favore di nuove 7

K. Mannheim, Libertà, potere e pianificazione democratica, Roma 1968, p.

109. 8

Ibidem.

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istituzioni, capaci di assicurare la costruzione della democrazia sottratta agli interessi prevalenti nelle dinamiche parlamentari.9

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III. Quale global governance? Uno fra i problemi di fondo del pensiero politico contemporaneo riguarda la giustizia, intesa come criterio di ripartizione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale. Dietro di esso si celano i significati profondi della condizione politica del cittadino e, in particolare, il perenne problema del bilanciamento fra libertà e uguaglianza. Si tratta di questioni antiche che, per esempio, tanto l’idea di uguaglianza di Aristotele (libro III della Politica) quanto l’aequabilitas di Cicerone (De Republica) provarono già a mettere a fuoco nel mondo greco e romano. Nella loro condizione, di fronte ad un’istanza politica universalizzante, svilupparono un discorso diretto alla definizione della cittadinanza e al godimento pieno delle sue prerogative. In un certo senso, la condizione attuale della società planetaria (Ulrich Beck, Edgar Morin), cosmopolitica (Seyla Benhabib, Daniele Archibugi), globale (Zygmunt Bauman, David Rothkopf), presenta un ordine di problemi si9 Ivi, p. 239: «possiamo chiederci se in un’Età di Pianificazione, le democrazie non dovranno dar vita a un’istituzione nuova, al di fuori dell’organizzazione generale del sistema rappresentativo, benché costituente parte integrante del processo politico. Questo corpo dovrebbe servire a mantenere la democrazia e la libertà attraverso una mediazione, nei casi in cui il pluralismo democratico potesse condurre ad una stasi e all’indecisione nelle operazioni di pianificazione. Questo organismo dovrebbe essere una specie di tribunale supremo per garantire la coerenza e la continuità nella pianificazione». Quanto scriveva nel 1965 Mannheim doveva sembrare una speranza illusoria, se l’autore stesso conclude questa sua esortazione con il rammarico che «avanziamo questa proposta più per il desiderio di drammatizzare la necessità, in un’età di pianificazione, di un’integrazione al massimo livello, che nella fiducia che essa si possa concretare esattamente come l’abbiamo disegnata». Eppure si osservi che l’odierna moltiplicazione delle istituzioni pubbliche “terze”, come per esempio le autorità di garanzia, sembra – almeno in parte – costituire una risposta storica alla necessità esposta più di quarant’anni fa da Mannheim.

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milare a quello a cui si affacciavano gli universalismi del pensiero filosofico di Aristotele e del pensiero giuridico di Cicerone. È un evidente problema di giustizia se si constata, puntualmente, che i processi globali – soprattutto nel settore economico e finanziario – non sono controllabili, in considerazione del fatto che non esiste alcun potere politico globale in grado di svolgere tale funzione. Per questa ragione, esiste una domanda di democrazia globale che è ancora in cerca di risposte efficaci. Stante la condizione di interdipendenza planetaria, la quale pone ogni processo dislocato in qualsivoglia punto del mondo potenzialmente in contatto con qualsiasi altro, è un dato di fatto che il destino di individui, gruppi, comunità e nazioni, dipenda spesso da attori globali organizzati su basi estranee alla democrazia. Se il presupposto della libertà politica risiede nella partecipazione dei consociati alle decisioni riguardanti la vita pubblica, è necessario ridiscutere le forme della democrazia. Ad esso si correla il problema dell’uguaglianza: chiunque sia soggetto alla legge deve avere avuto la possibilità di scriverla. Le risposte, dal punto di vista teorico, sollecitano al ribaltamento delle concezioni classiche di rappresentanza e cittadinanza politiche. Di solito, si concettualizza il demos a partire dall’unità più estesa, vale a dire la base della piramide, il popolo, sul quale si applica la legge. Quindi, è necessario riconoscere in esso la parte di coloro che godono dei diritti politici. Un altro passo è quello di circoscrivere la più piccola porzione di coloro che effettivamente esercitano tali diritti politici, e l’analisi più accorta dovrebbe distinguere quelli che possiedono un pensiero autonomo e quelli che, invece, mettono in gioco un comportamento gregario. In ultimo, il vertice della piramide: i decisori effettivi, i portatori d’interesse, i gruppi di pressione. L’immagine di questa piramide è funzionale nella misura in cui riesce, con la sua staticità, a descrivere il processo composito della cittadinanza democratica e della relativa rappresentanza. Tale staticità costituisce, oggi, l’elemento che invalida la sua utilità. Sulla scena democratica sta facendo irruzione l’impulso ad estendere (non circoscrivere) la base dei cittadini da cui procede la rappresentanza. Una democrazia funzionale è quella che, oggi, al proprio interno, 186 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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attiva meccanismi progressivi e mirati di inclusione dei gruppi marginali, degli invisibili, di coloro che finora godevano di poche tutele perché impossibili da rappresentare politicamente o scarsamente rappresentati. D’altronde, se l’interdipendenza sottolinea la possibilità che il destino della mia comunità dipenda da chiunque, ciò significa che, in misura maggiore, potrebbe essere esposta alle deficienti condizioni di qualcuno. In altre parole, è necessario occuparsi di chi versa in condizioni inferiori agli standard di vita, perché il futuro della comunità dipenderà anche da loro. Democratizzare, in tal senso, significa individuare e far emergere le domande nascoste fra gli interstizi del tessuto sociale, quelle da cui si scatenerebbero conseguenze nocive a cui nessuno, a priori, può dirsi sottratto. Ecco perché, nelle democrazie odierne, si assiste all’emergere di definizioni sovranazionali di partiti e movimenti politici, all’iniziativa di gruppi e organizzazioni internazionali (concernenti ambiente, giustizia, politiche dello sviluppo e della cooperazione e così via). Il processo è indicativo di come la democrazia reale sia già alle prese con la ridefinizione del demos, in un’ottica del principio del comune destino. Dal punto di vista storico, negli ultimi decenni abbiamo assistito all’incremento dei processi di global governance. Se, al loro sorgere, le organizzazioni internazionali si prefiggevano gli scopi di regolare specifici interessi comuni a Stati più o meno vicini, oggi esse sono divenute strutture preposte alla tutela e alla promozione di interessi ampi e differenziati. Hanno agito, in tale direzione, cause esterne ed interne agli Stati: da una parte, l’evidente moltiplicazione delle possibilità di scambiare beni materiali, intellettuali, informazioni, esperienze; dall’altra, l’aumento della domanda di tutele da parte dei cittadini, i quali sulle questioni lavorative, previdenziali, sanitarie, educative, di mobilità, esigono prestazioni migliori, alle quali gli Stati non possono corrispondere disponendo in proprio delle risorse necessarie, né sono in grado, da soli, di controllare il flusso di beni che, sul panorama transnazionale, circola e da cui dipendono le loro risposte a tali domande interne. Non mancano voci teoricamente dissonanti, diversamente 187 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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impegnate sul fronte del realismo politico a denunciare la vacuità del progetto di una democrazia globale. In effetti, il pianeta sarebbe già governato da alcuni attori globali, Stati e gruppi di potere, che non hanno alcuna intenzione di cooperare alla realizzazione di una democrazia su scala globale. L’ipotesi è che la democrazia sarebbe l’illusione, confezionata da determinate élite politiche, per tenere a bada la domanda di partecipazione in un sistema già organizzato in settori egemonici, frutto della spartizione di poche grandi potenze. Il dibattito è ancora in corso e, di recente, esso è stato ulteriormente sospinto in avanti da due impulsi antagonistici. Il primo proviene dal campo delle visioni sovraniste e nazionaliste, le quali contestano i progetti di costruzione della democrazia globale come innaturali e illogici, stante la concezione per cui uno Stato nazione può, ovviamente, proiettarsi su uno scenario di relazioni internazionali, ma non deve questa istanza costituire una minaccia alla sua identità e alla sua sovranità. Il secondo è il pensiero forte del cattolicesimo, il quale si è innestato con successo nel filone dei temi principali che interrogano la dimensione globale. In primis, l’ecologia integrale dell’enciclica Laudato si’ (2017), la quale intavola un dibattito aperto, a cui hanno corrisposto settori del pensiero religioso anche non cristiano, esponenti del pensiero economico concentrato sui temi della crescita sostenibile, visioni politiche impegnate sui temi ambientalistici. In essa, Papa Francesco osserva il pericolo connesso alla concentrazione del potere tecnologico, in grado di incidere sullo sviluppo economico e potenzialmente incurante della sostenibilità dell’uso delle risorse naturali. È evidente che gli interessi di pochi possono andare a detrimento di quelli dell’umanità e delle future generazioni. Per questa ragione, si rende necessario estendere la partecipazione politica in una direzione autenticamente democratica.10 La Laudato si’ si è offerta alla discussione pubblica come un punto di maturazione di molti filoni di ricerche e di studi che, da almeno mezzo secolo, avevano lanciato moniti sui 10

Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, 24 maggio 2015, § 104.

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pericoli dell’abuso incosciente e incontrollato delle risorse del pianeta.11 Essa apporta alla questione ecologica una visione plenaria della condizione umana. Non si tratta di capire come l’uomo usa e abusa delle cose del pianeta, perché ciò rappresenta il perpetuarsi di un dualismo sistema umano/ambiente, inadeguato a comprendere e superare le sfide ecologiche. Da esso si genera l’«antropocentrismo dispotico»12, «deviato»13, ossia una concezione nella quale l’essere umano, auto-ponendosi al centro del cosmo, concepisce tutto ciò che lui non è come mera oggettualità disponibile alla sua volontà. Oggi, è necessario adottare un altro punto di vista, in cui la relazione non è fra gli enti ma dentro di loro. Salvare l’ambiente significa salvare l’uomo, e non si può avere un rapporto positivo con la natura se, prima, non si salvaguarda l’umano rispettandone, dal punto di vista sociale e politico, la dignità. Nella più recente enciclica Fratelli tutti, le ragioni della democrazia sono connesse al processo di interdipendenza planetaria. Il connubio è basato su presupposti forti. La dimensione globale ha un rilievo etico per il quale ogni comunità, ogni cultura, ogni tradizione, ha una dignità inscalfibile e deve essere tutelata nella sua capacità di contribuire al più vasto bene della famiglia umana. In tal senso, l’ordine mondiale dovrebbe, dal punto di vista politico, economico e giuridico, favorire, sostenere e tutelare la democrazia. La civiltà umana è un mosaico nel quale ogni tassello è ugualmente indispensabile: [n]essuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come è inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna, è altrettanto 11 12 13

Ivi, § 164. Ivi, § 68 Ivi, §§ 69, 118, 119, 122.

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inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già di per sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo.14

In tale direzione, l’enciclica – che nomina raramente la democrazia e solo per mettere in evidenza come possa essere contraffatta o manipolata – ripercorre in una prospettiva etico-politica i presupposti della democrazia globale. Innanzitutto, denuncia la penuria di orizzonti politici lungimiranti, calibrati sul lungo periodo.15 Le tensioni del presente, le sfide di governabilità e di rappresentanza, impediscono di elaborare una proposta politica resistente al cambiamento sociale e in grado di dirigere l’agire verso il fine della ricomposizione dell’ordine globale in senso unitario. Il comune destino appare ancora una forma retorica di costruzione del discorso pubblico, più che un consapevole impulso all’attivazione di processi partecipativi su scala globale.16 Tutt’al contrario, si perpetuano forme di dominio basate sul privilegio che i Paesi sviluppati invocano nel determinare le vie di crescita dei Paesi poveri: «demolire l’autostima di qualcuno è un modo facile di dominarlo».17 Invece, «l’inclusione o l’esclusione di chi soffre [...] definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi».18 La politica che serve – e che nel documento Fratelli tutti si staglia nitida nel commento alla parabola del buon samaritano – è quella incessantemente volta a includere, integrare, risollevare, cominciando dal basso, individuando gli interstizi del tessuto sociale che non riescono ad essere rappresentati, o che non hanno la forza di chiedere aiuto. Non individualmente, non da soli, ma cercando di aggregarsi, perché le sfide sistemiche hanno bisogno di risposte sistemiche.19 In tal senso, è necessario andare «oltre un mondo di soci»20, cioè bisogna 14 15 16 17 18 19 20

Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, 4 ottobre 2020, § 121. Ivi, § 26. Ivi, § 30. Ivi, § 52. Ivi, § 69. Ivi, § 77–79. Ivi, § 101.

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superare i confini dei legami identitari che si definiscono attraverso la demarcazione dei propri perimetri, stabilendo con ciò delle prerogative per pochi che escludono tutti coloro che sono al di là di essi. Il “socio”, in altre parole, vanifica la ricerca del “prossimo” verso cui dedicare i fini della propria iniziativa. Una democrazia globale, dunque, che nella visione del pensiero sociale della Chiesa si caratterizza per l’inserimento, nel binomio libertà-uguaglianza attorno al quale si sono costruite le visioni politiche e gli assetti istituzionali della modernità, dell’elemento della fraternità. Essa è sostenuta da un principio elementare, ben noto alla filosofia politica e del diritto del mondo moderno: [o]gni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente, anche se è nato o cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità.21

Si tratta, perciò, di riscoprire, non di inventare ex novo, le ragioni positive della convivenza nella res publica, divenuta globale e in cerca di una nuova fisionomia in grado di rispondere ai bisogni di crescita, ordine e sviluppo che, in ultima istanza, indicano il desiderio del demos planetario.

21

Ivi, § 107.

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Gli autori

Filipe Campello è professore di Filosofia presso la Universidade Federal de Pernambuco (Recife, Brasile), dove è anche direttore del Center for Ethics and Political Philosophy. Ha ricevuto il suo dottorato in Filosofia (2013) presso la Goethe-Universität di Francoforte sul Meno – sotto la supervisione di Axel Honneth e Christoph Menke – con una tesi su affetti e pratiche sociali nella filosofia di Hegel. È stato visiting scholar presso The New School for Social Research (New York 2017 – Fulbright Junior Faculty Member Award). È autore di Die Natur der Sittlichkeit: Grundlagen einer Theorie der Institutionen nach Hegel (Bielefeld 2015) e coautore di Modernizações Ambivalentes: Perspectivas transdisciplinares e transnacionais (Recife 2016). Julian Culp è professore associato di Filosofia presso la American University of Paris. Le sue pubblicazioni includono Global Justice and Development (Palgrave 2014) e Democratic Education in a Globalized World (Routledge 2019). Inoltre, ha pubblicato numerosi saggi su questioni di filosofia pratica e teoria politica. Claudio Guerrieri, dopo aver studiato Filosofia presso l’Università Sapienza di Roma, ha conseguito il dottorato in Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense. È baccelliere in Teologia e studi di Teologia fondamentale. È stato docente di Antropologia filosofica e Teoria e prassi didattica presso la Pontificia Università Lateranense, e di Ermeneutica al Master in Mediazione interculturale ed interreligiosa presso l’Università Pontificia Salesiana. Attualmente, insegna filosofia e storia nei licei. Alberto Lo Presti è professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università Lumsa di Roma. Membro del Consiglio di direzione di Res Publica. Rivista di studi politici e internazionali, è direttore del Centro Studi Igino Giordani. È autore di monografie e saggi sulla storia del pensiero etico-politico. 192 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Roberto Luppi è assegnista di ricerca in Filosofia del diritto presso l’Università LUMSA di Roma. In precedenza, ha affrontato il suo percorso di studi presso l’Università LUMSA e la Westfälische Wilhelms-Universität di Münster (Germania), e ha trascorso periodi di studio e ricerca presso la Universidad Católica Argentina e la University of Notre Dame. Le sue ricerche e pubblicazioni si concentrano sul tema delle virtù, sulle teorie della giustizia e sulla giustizia di transizione. Curato da Roberto Luppi, è recentemente uscito il volume John Rawls and the Common Good (Routledge 2022). Luppi ha anche lavorato presso la Fondazione Konrad Adenauer, la presidenza della Commissione Cultura della Camera dei Deputati e Villa Vigoni, il Centro italo-tedesco per il Dialogo europeo. Rocco Pezzimenti, ordinario di Storia delle dottrine politiche, è stato direttore del Dipartimento di Scienze Economiche, Politiche e delle Lingue Moderne della Lumsa, dove ora insegna Filosofia politica. Ha studiato in modo particolare le tematiche relative alle “società aperte”, il movimento cattolico e i rapporti tra politica e religione nel XIX e XX secolo. Ha diretto la rivista Incipit e attualmente è direttore di Res Publica e di Metalogicon. È autore di varie pubblicazioni, alcune tradotte in inglese e spagnolo. Tra le ultime: Le ancore della democrazia. Nuova divisione dei poteri, rappresentanza, senso del limite (Rubbettino Editore 2020); Sovrastruttura e struttura. Saggio sulla genesi dello sviluppo economico (Rubbettino Editore 2020); Il cammino della libertà. Storia della società aperta dal mondo antico alla modernità con lettere di K. R. Popper, I. Berlin e H. Putnam (Rubbettino Editore 2019). Francesco Viola è professore emerito di Filosofia del diritto nell’Università di Palermo, già presidente della Società italiana di Filosofia del diritto dal 2010 al 2014. È co-direttore della collana Recta Ratio della casa editrice Giappichelli e anche delle riviste Ragion pratica e Ars Interpretandi. Le sue pubblicazioni attraversano quasi tutti i temi principali della Filosofia del diritto, in particolare ha dato un contributo rilevante nel campo dell’interpretazione giuridica, del diritto come pratica sociale e dei diritti umani. Insieme a Giuseppe Zaccaria, ha pubblicato Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto (Laterza 1999), premiato come miglior libro giuridico dell’anno e giunto ora alla XIV edizione. Da ultimo, ha pubblicato 1900-2020. Una storia del diritto naturale (Giappichelli 2021).

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