Lo sviluppo nel XXI secolo. Concezioni, processi, sfide 8843085891, 9788843085897

Perché ripensare lo sviluppo? Perché impegnarsi nel ridefinire, qui ed ora, il profilo del mutamento che vorremmo, della

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Lo sviluppo nel XXI secolo. Concezioni, processi, sfide
 8843085891, 9788843085897

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B IBLIOTECA DI TESTI E STUDI / 1 1 3 1

S O C I O LO GIA

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele n, 229 oo186 Roma telefono o6 l 4281 84 17 faxo6/42747931

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Lo sviluppo nel XXI secolo Concezioni, processi, sfide A cura di Vanna !anni

Carocci editore

1' edizione, aprile 2017 © copyright 2017 by

Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Studio Agostini, Roma

f.

Finito di stam are nell'aprile 2017 da Grafiche VD sr, Città di Castello (PG) ISBN

978·88·430-8589·7

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Presentazione. Comprendere le nuove sfide di Marco De Ponte

II

Introduzione. Perché tornare a pensare lo sviluppo ? di Vanna /anni

13

Il contesto La congiuntura italiana L'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile Quale futuro per la cooperazione allo sviluppo ? Il testo Una lettura a più percorsi Riferimenti bibliografici

13 17 17 19 21 22 22

I.

Un mondo che cambia di Vanna /anni

25

I. I.

Presentazione Il XXI secolo. Scenari contrastanti e sfuggenti La multiscalarità e l' incompiutezza del mutamento Povertà, diseguaglianza: le fratture sociali si spostano La terra di nessuno della democrazia Lo sviluppo e le sfide del cambiamento Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

25 25 27 28 30 32 34 35

1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6. 1.7.

IND I C E

6

Lo sviluppo e i development studies oggi. Prospettive e temi a confronto di Marco Zupi

38

2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Presentazione Caratteri e limiti della tradizione degli studi sullo sviluppo Gli studi sullo sviluppo oggi Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

38 40 44 47 49



Le politiche per lo sviluppo. Nuovi orientamenti di Massimo Tommasoli

SI

3.I. 3.2. 3·3· 3·4· 3·5· 3.6.

Presentazione L'Agenda 2030 e la sostenibilità Mobilitazione di risorse Inclusione e responsabilità Pace, sicurezza e sviluppo : coerenza tra agende differenti Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

SI SI 53 s6 s8 6I 6I



Le sfide della sostenibilità di Gianfranco Bologna

63

2.

4· 1. 4.2.

Presentazione L'oggetto della sostenibilità: l'analisi e la gestione dei socialecologica! systems 4·3· Le scienze del sistema Terra e i planetary boundaries: il nostro safe and operating space 4·4· L' incrocio dei planetary boundaries con le socialfoundations: la doughnut economics, il nostro safe andjust spacefor humanity 4·5· I concetti centrali della sostenibilità: la resilienza e la vulnerabilità 4.6. I "semi" per concretizzare un buon Antropocene 4·7· Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

63 6s 66 67 68 69 7I 73

7

IND I C E



I diritti umani nel XXI secolo di Vanna !anni

75

s .I. s .2. 5·3· 5·4· S ·S · s .6.

Presen razione La Dichiarazione universale dei diritti umani I diritti umani nella storia. Le diverse generazioni I molti nodi del dibattito Ogni uomo è titolare e insieme tutore dei diritti umani Universalità? Quale ? L'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile offre una risposta ? Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

75 75 76 79 8I

5·7·

82 84 8s

6.

L'empowerment delle donne sul crinale tra potere e trasfor­ mazione di Bianca Pomeranzi

6.1. 6.2. 6.3. 6.4. 6.5.

Presentazione Prima e dopo Pechino L'empowerment trasformativo e il suo disciplinamento Lo scontro di civiltà e l'empowerment economico Osservazioni finali Riferimenti bibliografici



Territorialità e sviluppo umano nella globalizzazione di Mario Biggeri e Andrea Ferrannini

IOO

7-I. 7.2.

Presen razione La prospettiva di sviluppo umano sostenibile a livello locale ai tempi della globalizzazione Sistemi territoriali integrati e governance multilivello I processi di costruzione di politiche per lo sviluppo umano sostenibile a livello locale Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

IOO

7·3· 7· 4· 7·5·

87 89 9I 94 97 97

IOI I04 I07 I09 110

8

INDICE

8.

Le migrazioni e i processi di sviluppo d i Gabriele Tornei

113

8.1. 8.2. 8.3. 8.48.5. 8.6. 8.7. 8.8.

Presen razione Migrazioni e sviluppo : il pendolo delle interpretazioni Il nuovo ottimismo Il discorso ufficiale nel contesto delle Nazioni Unite Le migrazioni nella nuova Agenda 2030 Il discorso ufficiale nel contesto dell' Unione Europea Quale sviluppo nell'epoca dell'emergenza migratoria ? Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

113 114 115 116 118 119 I 2I I 23 I 25



Gli attori dello sviluppo negli anni Duemila di Luca De Fraia

I 26

9·1. 9.2. 9·3·

Presentazione Laboratorio Italia Orizzonte internazionale : il passaggio dalla qualità degli aiuti ali'efficacia della cooperazione La pluralità dei soggetti nella governance globale Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

I 26 I 27

IO.

La cooperazione e lo sviluppo. Molte ombre, alcune luci d i Luciano Carrino

I38

IO. I. I0.2. I0.3. IO.+ Io.5. I0.6. I0.7. I0.8. I0.9. IO. IO.

Presen razione La cooperazione nel mondo in transizione Dalle origini alla fine della guerra fredda La svolta di Parigi La necessità di una riforma della cooperazione internazionale I difetti più gravi della cooperazione Per una nuova cooperazione Migrazioni, sviluppo e cooperazione Cambiare dalla base Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

I38 I38 I39 I 4I I42 I43 I45 I 47 I48 I49 I49

9·4· 9·5·

130 I32 I35 I36

INDICE I I.

L'architettura e la governance dello sviluppo e dell'aiuto alla ricerca di nuovi assetti di Eduardo Missoni

9

I5I

I I. I. 1 1.2. I I.3. I I.4. I 1.5. I I.6.

Presentazione La quantità degli aiuti La qualità ed efficacia degli aiuti Il modificarsi dell'architettura e delle modalità dell'aiuto La critica degli aiuti e le nuove sfide dello sviluppo Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

I5I I53 I53 I 54 I 58 I 60 I62

I 2.

Il dibattito e gli impegni dell'Agenda 203 0 per lo sviluppo sostenibile di Stefano Prato

I63

I 2. I. Presentazione I 2.2. Dinamiche ed economie politiche nel dibattito post-20I5 I 2.3. La nuova Agenda: coerenza interna e reale capacità trasformativa ? I 2.4. Il falso tentativo di affrontare il tema delle disuguaglianze I 2.5. La tensione fra aspirazioni e risorse I 2.6. Osservazioni finali Riferimenti bibliografici

I63 I 64 I 67 I70 I7I I73 I 74

Acronimi e abbreviazioni

I75

Gli autori

I77

AEnric Che l'esprit de géométrie e l'esprit de fìnesse diano luce al tuo cammino in questo problematico secolo XXI

Presentazione Comprendere le nuove sfide di Marco De Ponte·

Trovare gli strumenti per una riflessione puntuale sul significato attuale di sviluppo, e in particolare di cooperazione allo sviluppo, non potrebbe essere esigenza più sentita in questo momento. ActionAid condivide, infatti, quel sentimento diffuso che segnala come la comunità globale sia entrata in una fase nella quale una serie di mutamenti sono giunti a maturazione. Come sempre le innovazioni non sono il frutto di un repentino cambio di scena, ma l'esito di una serie di aggiustamenti che si sono rafforzati nel tempo. I primi quindici anni del nuovo millennio possono rappresentare questo cam­ biamento, che ci ha portato dalla Dichiarazione del millennio all'Agenda 20 3 0 e al sistema di obiettivi di sviluppo sostenibile, nei quali la dimensione sociale, quella economica e quella ambientale si ritrovano insieme. La ricerca del cambiamento è, d'altro canto, un elemento costitutivo per ActionAid, un'organizzazione internazionale dedicata alla lotta alle cause pro­ fonde della povertà e della disuguaglianza, radicata sia nel Nord sia nel Sud del mondo. Fa parte della nostra identità la ricerca di risposte alle sfide che ancora oggi costituiscono un impedimento al pieno godimento di diritti fondamen­ tali da parte di milioni di persone a ogni latitudine, ogni giorno. Un impegno a produrre un cambiamento positivo e duraturo, che si è arricchito di comples­ sità alla luce della rinnovata consapevolezza della comunità internazionale del­ la necessità di lavorare per una piena sostenibilità. Una sfida alla quale un'or­ ganizzazione come ActionAid non può sottrarsi e che ci spinge a interrogarci su come ridefinire i termini dello sviluppo e quindi ad adattare anche il modo di essere e lavorare. Con questa consapevolezza abbiamo aderito alla proposta della professo­ ressa Vanna lanni di contribuire a una riflessione collettiva sulle caratteristiche di un'agenda dello sviluppo al passo con l'evoluzione dello scenario internazio­ nale. Per ActionAid è stata anche l'occasione per rinnovare la collaborazione

*

Segretario generale di ActionAid Italia.

12

MARCO D E P O N T E

con Vanna lanni, insieme alla quale abbiamo già avuto modo di partecipare alla realizzazione del Dizionario della cooperazione internazionale allo sviluppo (Carocci, 2011 ). Questo impegno è in continuità con l'approccio che ActionAid ha segui­ to in questi anni per ancorare la propria iniziativa verso il grande pubblico e le istituzioni a una precisa base di comprensione dei temi di nostro interesse. Sia­ mo convinti che il nostro ruolo debba essere quello di fornire analisi e sugge­ rire proposte ben fondate, dalla prospettiva di un'organizzazione della società civile. Un modo di lavorare che abbiamo applicato anche nella realizzazione delle nostre pubblicazioni, in particolare in quei lavori che esaminano le po­ litiche dell' Italia in tema di lotta alla povertà e di cooperazione allo sviluppo. ActionAid è convinta che la cooperazione debba cambiare. Questa pub­ blicazione offre un ampio insieme di punti di vista che mettono in evidenza la molteplicità dei mutamenti che riguardano non soltanto gli strumenti, ma an­ che la missione della cooperazione. A questo proposito va tenuta ben presente la portata innovativa dell'introduzione del sistema degli obiettivi di sviluppo sostenibile, che affronta nuove dimensioni, come pace, inclusione e disegua­ glianza. Altre importanti spinte al cambiamento possono essere ritrovate nel­ la complessa realtà degli attori dello sviluppo, in un'aggiornata mappa della povertà, oltre che nella dimensione dell'impegno finanziario necessario per affrontare le nuove sfide, che travalica l'orizzonte limitato degli aiuti e chiama direttamente in causa il ruolo che il settore privato potrebbe svolgere per rag­ giungere gli obiettivi di sviluppo condivisi a livello globale. Un approdo che viene discusso con tutte le cautele del caso, ma che è attualmente condiviso in un modo che non era prevedibile soltanto pochi anni addietro. Non dimentichiamo, in questo contesto, che proprio in Italia si stanno sperimentando nuove forme di cooperazione allo sviluppo e che il tema della convergenza fra settore privato e organizzazioni non governative è di grande attualità, a ulteriore dimostrazione dei mutamenti che nel corso di pochi anni si sono manifestati nella loro interezza. Un cambiamento che riguarda anche le associazioni di solidarietà internazionale, che devono fare i conti con la pie­ na portata del carattere universale dell'agenda per lo sviluppo sostenibile, che spinge a dare un nuovo significato al loro radicamento in Italia e a realizzare iniziative nazionali che contribuiscano direttamente alla sostenibilità del no­ stro paese. Ci auguriamo che la riflessione sulle dimensioni dell'agenda dello sviluppo possa continuare, puntando sul pieno coinvolgimento dei protagonisti delle nuove sfide globali a garanzia di un possibile successo; ActionAid non farà mancare il proprio contributo con la passione e l'impegno di sempre.

Introduzione Perché tornare a pensare lo sviluppo? di Vanna !anni

Perché tornare a pensare lo sviluppo ? Perché impegnarsi nel ridefinire, qui e ora, il profilo del cambiamento che vorremmo, le caratteristiche della socie­ tà migliore cui aspiriamo ? Da tale domanda è scaturita la riflessione raccolta nelle pagine di questo volume. L'augurio è che il lettore condivida l' impor­ tanza e l'urgenza che a tale tematica attribuiamo.

Il

contesto

Cambiamenti profondi segnano negli ultimi decenni gli scenari internazio­ nali così come quelli nazionali, trasformando il contesto in cui gli interro­ gativi sullo sviluppo si collocano. Al riconfigurarsi del profilo dello Stato e all'instabile equilibrio creatosi tra attori di accresciuta eterogeneità si ac­ compagna la nascita di domande diffuse e confuse di partecipazione e inclu­ sione sociale : forme innovative di democrazia (Allegretti, 2010; della Porta, 201 1 ; Urbinati, 2013), movimenti di rifiuto delle diseguaglianze crescenti e di appello a relazioni orizzontali e prive di leadership (Chomsky, 201 2), mo­ vimenti antiautoritari ambigui e lotte per i diritti umani (Touraine, 2015) si manifestano in paesi e continenti diversi. Contemporaneamente, una pro­ nunciata perdita di credibilità delle istituzioni, unita a un'ondata di popu­ lismi, rende manifesta la crisi di una democrazia che mostra difficoltà nel ripensarsi, come esigono i mutamenti in atto (cfr. !anni, CAP. 1 ). Per la prima volta anche il tema migratorio, profondamente mutato, contribuisce diret­ tamente ad acuire il senso drammatico d' insicurezza individuale e collettiva che attraversa il presente. Se fino a tempi recenti le principali preoccupazio­ ni legate alle migrazioni riguardavano il problema dell'integrazione, oggi, nel XXI secolo, queste s'intrecciano direttamente con quelle per il terrori­ smo, in particolare in Europa (cfr. Tornei, CAP. 8). Un terrorismo anch'esso nuovo, di matrice prevalentemente ideologico-religiosa, spesso molecolare,

14

VA N NA ! A N N I

frutto dell'azione di singoli individui o piccoli gruppi, tenuti insieme dalla pervasività della rete. Per altri aspetti, il carattere di beni pubblici globali assunto da gran par­ te dei temi all'ordine del giorno contribuisce al lento e incerto prendere for­ ma di una governance globale e, al tempo stesso, multilivello. Si tratta del prodotto di un processo di decentramento sia verticale sia orizzontale della stessa governance ( Kaul et al. , 201 3), i cui protagonisti non sono più solo gli Stati ma anche le grandi corporazioni economiche e le reti della società ci­ vile globale, in un rapporto il cui equilibrio e la cui natura sono ancora da definire. Il passaggio a un mondo multipolare che accompagna tale proces­ so trova conferma nella crescita di ruolo e di importanza del G2o rispetto al G7, espressione da sempre della supremazia dei paesi maggiormente in­ dustrializzati, mentre le Nazioni Unite, a settant 'anni dalla loro creazione, si presentano indebolite da un'esigenza di riforma che trova ostacoli finora insuperati sul suo cammino. In tal modo la nuova governance globale che va prendendo forma si colloca, definitivamente, al di là del quadro proprio del­ la fine del secolo scorso. D'altra parte, la globalizzazione 2.0 ha vincitori e vinti : i primi, i vin­ centi, sono le classi medie dei paesi economicamente emergenti e l' 1% della popolazione più ricco a livello globale ; i secondi, i perdenti, sono i più po ­ veri e le classi medie dei paesi occidentali, il cosiddetto decile dello sconten­ to ( Milanovic, 2016). La divergenza fra diseguaglianza a livello globale e tra paesi - in riduzione - e quella all' interno degli stessi - in crescita - rende ancor più problematico e, al tempo stesso, cruciale precisare le relazioni tra diseguaglianza, povertà, crescita, sostenibilità e politiche in grado di stabi­ lire rapporti tra di esse a somma positiva. Se la teoria del trickle-down, dello sgocciolamento dall'alto verso il basso della ricchezza prodotta, appare del tutto inadeguata, le proposte alternative si rivelano deboli. Il dibattito odier­ no circa la validità o meno della famosa curva a U invertita di Simon Kuz­ nets che, formulata negli anni Cinquanta e Sessanta, postula un aumento delle diseguaglianze nelle prime fasi della crescita, destinato a cedere posto a una diminuzione nelle fasi più avanzate, costituisce oggi uno dei principa­ li momenti di confronto sul tema. Mentre alcuni, Piketty (2014) in primis, ritengono la tesi della curva confutata, teoricamente, dal fatto che il saggio di crescita del capitale è superiore al saggio di crescita del reddito e, empi­ ricamente, dagli eventi della seconda metà del xx secolo, altri studiosi con­ siderano più corretto riformularla: parlano di "ondate", di cicli di aumento e diminuzione della distribuzione ineguale del reddito ( Milanovic, 2016), o osservano che la curva coglie bene la situazione dei paesi che hanno sperimen­ tato negli ultimi anni una crescita accompagnata da trasformazioni strut-

INTRODUZIONE. PERCHÉ TORNARE A PENSARE LO SVILUPPO?

IS

turali (Sumner, 20I6). L a ricchezza del dibattito, ampio e articolato, prova come ci troviamo di fronte a un tema economico che si colloca al centro del conflitto politico, privo tuttavia di risposte in grado di individuare teorie esplicative e politiche di intervento efficaci e dotate di solidi fondamenti. È indicativo di tali difficoltà che i diversi autori, al di là delle differenze, incli­ nino verso analisi "modeste", quasi puntuali, dei meccanismi alla base delle variazioni della diseguaglianza e si ritraggano dalla ricerca delle grandi leggi storiche (Piketty, 20I4). In un mondo sempre più interdipendente, interconnesso e, al tempo stesso, opaco e frammentato, competizione e cooperazione strategiche ri­ spondono a tendenze che si sovrappongono e contrappongono senza che l'u­ na annulli l'altra. Sotto la minaccia di un superamento di quei "confini pla­ netari" al di là dei quali inizia un processo irreversibile di degrado, la soste­ nibilità acquista centralità. Riuscire a conciliare il rispetto dei limiti biofisici con il riconoscimento dei diritti e bisogni sociali si rivela sfida decisiva e, al tempo stesso, complessa e ancora irrisolta (cfr. Bologna, CAP. 4 ). Comporta, infatti, l'accordo su ciò che è da intendere per società sostenibile e sul come procedere, il che è ancora meno chiaro (Schmitz, Scoones, 20 I5). In tale contesto è possibile continuare a pensare lo sviluppo nei termini utilizzati nella seconda parte del secolo passato ? Sarebbe una scelta ormai senza presa sulla realtà. Annullare in un certo senso la questione, rifiutando il concetto stesso di sviluppo, come il pensiero più radicale propone da di­ versi decenni, è un cammino che si rivela anch'esso incerto e fragile, costella­ to più di domande che di risposte ai temi che pone. D'altra parte, la crisi del modello della crescita continua costituisce una spinta potente a cercare nuovi cammini. Nell'ambito del postsviluppismo, tale sfida è raccolta, in particolare, dall'approccio della decrescita, di cui Latou­ che (2oos, 2oo8, 201 1) è uno dei principali sostenitori, avanzando la proposta di una società conviviale, antiutilitaristica e posteconomica. Tuttavia, se co­ me slogan "provocatorio" la decrescita costituisce il riferimento aggregatore di gruppi, riviste e movimenti, la sua capacità di «decolonizzare l' immaginario » e, soprattutto, di indicare come «uscire dalla società dei consumi » (Latouche, 2011) si rivela debole e di ridotto impatto sui rapporti esistenti. La sua carica utopica appare fragile, mentre la sua forza eteropica (Foucault, I984), intesa come capacità di aprire "spazi altri" ma reali, non sembra andare al di là del­ la formazione di comunità fìnora circoscritte, più che altro "trincee", proprio quelle che Latouche (2oos) intende evitare, non dotate di quella forza espan­ siva chiamata invece a caratterizzare le nicchie. Pur nella diversità delle posi­ zioni che si riconoscono nella proposta della decrescita, la tendenza predomi­ nante all'analisi binaria, all'essenzialismo che oscura la possibilità di guardare

16

VANNA !ANNI

a percorsi mobili di "non crescità', alla ridotta attenzione verso le condizioni richieste per il cambiamento di società, ostruisce l' intento di andare "oltre lo sviluppo" (Gollain, 2oo6; Berghand, Kallis, 2012). La negazione dell' idea stessa di sviluppo contraddistingue l' intera area del postsviluppismo, di cui la decrescita è parte, il quale, sorretto dalle analisi del postmodernismo e del postcolonialismo, trova espressione in autori con posizioni molteplici e differenziate : Rist, Sachs, Esteva, Esco bar, Rahnema, Latouche, per citare i principali. La centralità attribuita all' identificazione toutcourt di crescita e sviluppo, l' indifferenza verso la definizione del "come" delle trasformazioni strutturali auspicate, il silenzio circa gli aspetti istituzio­ nali, l'oscuramento delle categorie di povertà e disuguaglianza che accomu­ na i diversi autori rendono fragile la proposta di una società antiutilitarista, di cui il postsviluppismo si fa portatore (Nederveen Pieterse, 2000, 2001; Schuurman, 20 01; lanni, 20 04). Una conferma che tali problematicità non sono legate a un approccio spe­ cifico ma al più generale tentativo di delineare le caratteristiche del "postsvi­ luppo" è offerta dal buen vivir (sumak kawsay in lingua quechua). Tale conce­ zione, avanzata in America Latina alla fine del secolo passato, si propone co­ me alternativa allo sviluppo e critica dell'egemonia neoliberista. Anche essa si rivela un insieme di interpretazioni diverse accompagnate, significativamente, da un notevole distacco dal sentire comune delle popolazioni indigene di cui si propongono invece come espressione (Mella, 2015). A tutte si sovrappone, inoltre, il discorso ufficiale, governativo, in particolare in Bolivia ed Ecuador, che mira a omogeneizzarle in una unica visione essenzialista del mondo indi­ geno (ivi, p. 180 ). Le contraddizioni derivanti dal tentativo di quest 'ultimo di rendere compatibile la concezione del buen vivir con un tipo di sviluppo basato principalmente sull'estrattivismo e sui suoi effetti penalizzanti confer­ mano le difficoltà di dare materialità a una visione di società in armonia con se stessa e con la natura. Posta di fronte a tale sfida, l'area più critica e aperta del buen vivir opta per proporlo come spazio pubblico, "tema non risolto", "piat­ taforma per vedere il mondo in altro modo". Lo identifica con una visione in costruzione, caratterizzata da una pluralità di letture, aperta alla riflessione e al dibattito globale sulle politiche da attuare per superare il neoliberismo domi­ nante (Acosta, 2015; Gudynas, 2011; Mella, 2015). La concezione di stampo go­ vernativo, invece, più rigida, resta bloccata e limitata nella capacità di cambiare gli assetti esistenti, il che appare ancor più indicativo dato che la traduzione dei principi del buen vivir in quadri costituzionali era chiamata a essere uno dei suoi principali punti di forza (Monni, Pallottino, 2013). La sua possibilità di indurre cambiamenti si rivela, al contrario, schiacciata sulle vicende e sulle fragilità dei movimenti e dei governi di una sinistra latinoamericana che cerca

INTRODUZIONE. PERCHÉ TORNARE A PENSARE LO SVILUPPO?

17

di immaginare la fine del capitalismo, senza riuscire a evitare le tentazioni di un neopopulismo che mira a ridurre le diseguaglianze ma si mostra indifferen­ te alle pratiche democratiche e fortemente personalista (Madrid, 20I0-2oii). In tal modo il buen vivir, pur sfuggendo ad alcuni dei limiti del postsviluppi­ smo più schematico, mostra ancora una volta sia i limiti della concezione di sviluppo dominante nei passati decenni e la forza dell'aspirazione ricorrente a una società conviviale, sia le difficoltà per definirla e individuare il cammino in grado di renderla effettiva. Esprime così, nelle sue componenti più critiche, istanze di riflessione e ricerca che, per taluni aspetti, convergono con le solle­ citazioni a una riconsiderazione profonda del concetto e delle politiche di svi­ luppo fatte proprie da questo testo. La congiuntura i taliana

L'attuale congiuntura italiana costituisce anch'essa uno stimolo importante a ripensare lo sviluppo e la cooperazione allo sviluppo. L'approvazione della nuova legge 11 agosto 20I4, n. I 25 , Disciplina generale sulla cooperazione in­ ternazionale per lo sviluppo, ha finalmente interrotto un immobilismo che rendeva il nostro paese l'unico in Europa a non aver rivisto il quadro legisla­ tivo della cooperazione allo sviluppo, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del bipolarismo. La successiva creazione dell'Agenzia i tali an a per la co o­ perazione internazionale e il complicato processo di ridefinizione del ruolo e delle strutture della cooperazione rappresentano momenti importanti di un processo ancora in divenire (cfr. De Fraia, CAP. 9 ). Tenendo presente che caratteristica della cooperazione nazionale, fin dal suo primo configurarsi, è stata un'evoluzione "a pattumiera" (Isernia, 2004), basata cioè su cambia­ menti frutto non di strategie precise ma di circostanze e opportunità aperte­ si d' improvviso ed esterne a un piano, appare importante accompagnare le trasformazioni in corso con un 'attenzione non circoscritta all' immediato e al solo contesto nazionale. Questo libro vuole offrire un contributo, pur se indiretto, anche in tale direzione. L'Agenda 20 3 0 per lo sviluppo sostenibile

L'adozione dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il 25 settembre 20I5, da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (United Nations, 20I5), è una significativa dimostrazione di quanto fortemente la stessa comunità in­ ternazionale avverta l'esigenza di un cambiamento della visione e delle prati-

18

VANNA !ANNI

che di sviluppo. I sustenaible development goals ( snG ) , che seguono ai millen­ nium development goals (MDG ) , nel porre obiettivi di sviluppo per i prossimi quindici anni si differenziano notevolmente da questi ultimi. Alcuni autori so­ no arrivati a parlare di "rivoluzione copernicanà', di cambiamento del paradig­ ma della cooperazione allo sviluppo ( Gass, Weinlich, 2015), per sottolineare la distanza fra gli uni e gli altri. L'Agenda 2030 vuole, infatti, essere un'agenda di sviluppo integrale e globale, andando al di là degli MDG che privilegiavano tematiche nazionali o, al più, regionali e tacevano o semplificavano eccessiva­ mente i temi dei diritti umani, della democrazia e della sostenibilità. Al tempo stesso, tuttavia, una certa disattenzione per i diritti civili e politici è presente anche negli SDG, che sembrano richiamare quanto già avvenuto con gli MDG che non ripresero, se non limitatamente, quanto contenuto nella Dichiarazio­ ne del millennio relativamente a diritti umani e democrazia. L'Agenda fa propria, da parte sua, una visione complessa di sviluppo che, per la prima volta, affronta contemporaneamente le componenti economi­ ca, sociale e ambientale, pur tacendo su quella politica. È questa complessità a porre sfide esse stesse complesse, dovendo "tenere insieme" processi non diret­ tamente convergenti, in precedenza quasi sempre disgiunti, come la lotta alla povertà e la salvaguardia dell'ambiente, e identificare le connessioni del tutto nuove tra globale, nazionale e locale, venute in primo piano nel XXI secolo. Al tempo stesso, la limitata chiarezza e coerenza relativamente a più di un aspetto e talune continuità importanti con il passato, aprono spazio a letture dell'A­ genda diverse, anche confliggenti ( cfr. Prato, CAP. 12). Gli SDG si rivendica­ no come "interconnessi e indivisibili", ma è precisamente in tale caratteristica uno dei nodi più difficili da sciogliere. Anche per questo diversi analisti hanno espresso riserve sulla solidità del loro carattere innovativo ( tra altri cfr. Easterly, 2015; Vandermoortele, 2015), e alcuni sono perfino giunti a classificarli come "brillante propaganda" ( Pogge, 2015). Insidie molteplici rendono problemati­ ca, inoltre, l'implementazione dell'Agenda e, dato che non ci sono meccanismi che facciano da guida e freno, ricade sulla società civile, come osserva Fukuda­ Parr ( 2016), la responsabilità di monitorare e fare pressione perché la sua messa in opera non finisca per svuotare gli impegni presi. D'altra parte, è la consapevolezza dell' insostenibilità del cammino finora seguito, così come degli effetti in termini di povertà, esclusione e disegua­ glianza prodotti dal tipo di modello di sviluppo adottato, a spingere a rifor­ mulare problemi e strategie, avendo al tempo stesso acquisito la consapevo­ lezza che non c 'è una risposta one sizejìts all e che "non tutto ciò che conta può essere contato" ( anche se la seconda ammissione appare più confusa e meno presente ) . Aspetti innovativi e, contemporaneamente, assenze importanti sono rintracciabili anche nelle Dichiarazioni finali degli altri due eventi che han-

INTRODUZIONE. PERCHÉ TORNARE A PENSARE LO SVILUPPO?

19

no segnato il 20I 5 , e cioè la Conferenza di Addis Abeba e la XXI sessione del­ la Conferenza delle Parti ( COP 2I ) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC ) . Pure in questo caso, si tratta di passi impor­ tanti verso l'avvio di una nuova epoca che, al tempo stesso, rendono evidenti l' incertezza e le difficoltà che li caratterizzano.

Quale futuro per la cooperazione allo sviluppo ?

La cooperazione allo sviluppo che ha da sempre coniugato il pensiero sullo sviluppo con la volontà di agire per modificare le condizioni di vita e gli as­ setti dei paesi più poveri (volontà resa tuttavia opaca da un grumo di spinte contraddittorie, solidaristiche ma anche brutalmente egoistiche, espressione di interessi economici e politici non dichiarati), all' inizio di questo XXI se­ colo, è spinta a interrogarsi sulla propria identità e a mettere in discussione l' insieme delle caratteristiche finora assunte. L'aumento delle differenziazioni interne a quelli che, per molto tem­ po, sono stati chiamati PVS (paesi in via di sviluppo), Sud del mondo, e per ultimo Sud globale o paesi partner, la proliferazione e pluralizzazione degli attori, l'ampliarsi degli obiettivi così come delle fonti e degli strumenti di fi­ nanziamento, il sovrapporsi degli approcci e dei metodi hanno generato una situazione di frammentazione, rigidità e assenza di efficacia e coerenza (cfr. De Fraia, CAP. 9; Carrino, CAP. IO; Missoni, CAP. 1 1 ) . Significativamente, dispersione e marginalità sono difficoltà che si ritrovano nella stessa azione di sviluppo delle Nazioni Unite (Browne, 20I6). Esse si rivelano così un ef­ fetto strutturale e non congiunturale della configurazione dell'aiuto, che è la forma prevalentemente assunta dalla cooperazione allo sviluppo nei passati settant'anni. La non applicazione dei principi della Dichiarazione di Pari­ gi 2005, diretti precisamente a contrastare l' inefficacia dell'aiuto, ne è una significativa conferma. Le nuove forme di cooperazione - legate al crescere della presenza e dell' influenza di quelli che sono chiamati "nuovi donatori", pur essendo alcuni di loro presenti nel campo dell'aiuto da più decenni -, anche se introducono elementi importanti di cambiamento e nuove modali­ tà di partnership, al tempo stesso appesantiscono e rendono più complicata la risposta ali'esigenza pressante di armonizzazione e di coerenza. Rappre­ sentano un ampliarsi delle forme degli interventi e delle risorse disponibili e al contempo un accrescersi degli ostacoli per la costruzione di un quadro d' insieme, come conseguenza della diversità delle concezioni di cooperazio­ ne che esprimono e del venir meno di un' istituzione di riferimento con il

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compito di raccolta dati e monitoraggio, il DAC (Development Assistance Committee) dell' oECD (Organization far Economie Cooperation and De­ velopment), avendo questo perso la centralità finora avuta come conseguen­ za dei mutamenti intervenuti negli assetti economici e politici internazio­ nali. La cooperazione Sud-Sud ( css), nata nell'ambito dei paesi emergenti e le cui radici risalgono alla Conferenza di Bandung del 1955, nonostante quanto affermato dalla Dichiarazione di Bogotà ( «La css è un'espressione naturale di collaborazione e mutuo interesse tra paesi partner a livello globale, regionale e nazionale » , High-level Event o n South-South Co-operation an d Capacity Development, 2010, trad. mia) e nonostante il riconoscimento ottenuto nel­ la Dichiarazione di Busan circa le sue caratteristiche distintive ( OECD, 2011), solleva problematiche diverse. La rivendicazione dell'esistenza di un rapporto a somma positiva tra i partner alimenta dubbi ricorrenti, mentre l'assenza di una definizione condivisa di cooperazione Sud-Sud frena le possibilità di co­ noscenza e monitoraggio delle politiche e degli interventi realizzati. Anche nel caso della cooperazione decentrata, una delle nuove forme di cooperazione nate nel passaggio di secolo, i diversi modi di intenderla, som­ mandosi alle resistenze al cambiamento anche culturale da essa richiesto, ne hanno limitato le potenzialità. La sua forma più innovativa - la cooperazio­ ne decentrata come partenariato per lo sviluppo tra territori e nei territori, inserito in un programma-quadro collegato alle politiche nazionali e inter­ nazionali (Ianni, 201 1 ) - ha visto limitate, proprio per tali ragioni, le sue pos­ sibilità di operare come volano di cambiamento. In tale panorama, confuso e in movimento, la cooperazione allo svilup­ po si allontana sempre più dalla sua identificazione con l'aiuto, come definito dall' OECD e finora dominante. Ridefinisce i suoi confini estendendoli a com­ prendere attori e finalità non presenti nel suo orizzonte ed è spinta a interro­ garsi sui suoi rapporti con la politica estera divenuta ormai "post-internaziona­ le" (cfr. lanni, CAP. 1 ) , della quale ha sempre voluto rappresentare un'area spe­ cifica e autonoma, operando di fatto, al contrario, come strumento di interessi economici e politici non dichiarati e altri da sé. Anche il rapporto con la coo­ perazione internazionale è chiamato a essere ripensato, così come quello con altre agende (in particolare, pace, sicurezza, migrazioni) dalle quali è rimasta in massima parte separata (cfr. Tommasoli, CAP. 3 e Tornei, CAP. 8). Le scelte che la cooperazione allo sviluppo si trova oggi di fronte tendono peraltro ad assumere la forma di un dilemma: specializzarsi, cioè scegliere co­ me tema di intervento l'azione a favore dei più poveri e circoscrivere così la sua azione a un'area determinata di paesi, oppure affrontare la sfida di porre al cen­ tro delle sue politiche i beni pubblici globali (pace, sicurezza, diritti umani,

INTRODUZIONE. PERCHÉ TORNARE A PENSARE LO SVILUPPO?

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stabilità climatica globale, stabilità finanziaria internazionale, controllo del­ le malattie trasmissibili ecc.) e stabilire nuovi rapporti con altri ambiti della cooperazione internazionale ? Nel secondo caso la partnership multiattoriale si presenta come la forma di azione da privilegiare, insieme però all'attenzione diretta a evitare la sua cattura da parte dell'attore al momento più forte, in pri­ mis l'attore privatofor projìt. I due cammini non sono di per sé incompatibili ma certamente neppure immediatamente convergenti. La pluralità delle analisi riguardanti il processo di superamento dell'aiuto è di per sé espressiva della problematicità della congiuntura. Significativa­ mente, la stessa architettura dell'aiuto, a partire in particolare dal IV Forum di Alto Livello sull'efficacia degli aiuti di Busan, registra cambiamenti velo­ ci e ridefinizioni molteplici e aperte a esiti diversi. La crisi del modello "voi avete dei problemi, noi le soluzioni", ha avviato un processo di ripensamento di cui è parte principale l'Agenda 20 3 0 ma il cui divenire è ancora incerto.

Il

testo

Questo volume non è espressione di una scuola di pensiero, non pretende vei­ colare una visione omogenea dello sviluppo e dei suoi processi condivisa dagli autori dei diversi saggi. Vuole essere, piuttosto, un'opera collettiva caratteriz­ zata da punti di vista e sensibilità diverse, espressione delle differenze e delle preoccupazioni che oggi attraversano il panorama nazionale e, al di là di esso, il pensiero tout court sullo sviluppo. Emergono tuttavia, nel testo, aspetti ri­ correnti significativi, punti di convergenza sui temi di maggiore importanza: la visione del modello attuale di sviluppo come insostenibile e iniquo; il riconoscimento delle caratteristiche inedite dell'Agenda 20 3 0 ma, al tempo stesso, dei nodi da essa non sciolti e delle difficoltà e sfide che pone in campo la sua attuazione; l' importanza di impegnarsi nel superamento delle problematiche aperte dalla visione di sviluppo sostenibile; l'urgenza di proseguire nel cammino di definizione di una nuova identità della cooperazione allo sviluppo; la consapevolezza del carattere aperto e indefinito dei mutamenti che se­ gnano il nuovo secolo e la rilevanza acquisita dall'interrogare e dell' interrogar­ si come uno dei principali segni del tempo; la volontà di rifuggire dalla retorica, sia dell'apologia priva di distin­ guo che della critica altrettanto totalizzante, affrontando e non eludendo la complessità.

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VANNA !ANNI

Una ricchezza, a nostro avviso, questo convergere mantenendo al tempo stesso differenze e sensibilità distinte, accresciuta dal raccogliere nel volume riflessioni situate non solo all'interno del mondo accademico ma anche, senza perdere per questo di rigore ma anzi acquistando valore, nel campo delle or­ ganizzazioni internazionali, del ministero degli Affari esteri e della Coopera­ zione internazionale (MAECI) e delle organizzazioni non governative ( ONG ) . Una lettura a più percorsi

La struttura del volume si articola in dodici capitoli che, nel loro insieme, mi­ rano a comporre il quadro della riflessione sui processi dello sviluppo e della cooperazione allo sviluppo dei primi decenni del nuovo secolo. Le tematiche affrontate e il modo in cui vengono trattate rendono il libro un'opera attenta al presente, alle sfide che la fase di transizione che viviamo po­ ne, ma contemporaneamente impegnata a "gettare lo sguardo" verso il futuro. La successione dei temi non suggerisce del resto una sequenza unica di lettu­ ra, con il passaggio da aspetti dello sviluppo di carattere generale a quelli più specifici e, per ultimo, alla cooperazione allo sviluppo. Il testo permette, anzi suggerisce sequenze diverse, rispondenti a finalità e interessi specifici. Anche questo vuole essere un segno di riconoscimento della complessità di una realtà in movimento e della diversità degli approcci possibili. Il quadro a più dimensioni che ne scaturisce, consapevole della proble­ maticità che da sempre caratterizza lo sviluppo ( Sen, 1988), non si propone così come punto di arrivo, sistemazione compiuta delle tematiche esaminate; in coerenza con il suo proposito iniziale, si rivendica invece come riflessione aperta, infieri, volta a mettersi in discussione e a contribuire al dibattito.

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I

Un mondo che cambia di

Vanna Ianni

I. I

Presentazione

Mutamenti profondi, spesso dirompenti, caratterizzano i primi decenni de­ gli anni Duemila disegnando scenari ibridi e opachi. Alcuni studiosi parla­ no di fine dei tempi ( Zizek, 201 1 ) , altri di inizio di un nuovo tipo di socie­ tà (Touraine, 2015), altri ancora di società post-secolari (Habermas, 1999; 20 15). Tutti avvertono l'urgenza di individuare nuove categorie in grado di rendere possibile la comprensione del presente. Questo capitolo si propone di tracciare un quadro dei principali muta­ menti in atto, mirando a mettere in evidenza i nessi che intercorrono fra tra­ sformazioni molte volte, apparentemente o sostanzialmente, divergenti. La complessità costituisce la principale chiave di lettura dell'analisi che, sboz­ zato un quadro generale, passa poi a indagare tematiche quali l'emergere del glocal, il ridisegno delle mappe della povertà e della diseguaglianza, la crisi della democrazia, i mutamenti dell'area dello sviluppo e della cooperazione allo sviluppo. Crisi, spinta e insieme resistenza al cambiamento si conferma­ no le caratteristiche distintive del presente, mentre rimane aperta la doman­ da su quale sarà l'approdo finale.

1.2

I l XXI secolo. Scenari contrastanti e sfuggenti

La fine del secolo scorso registra l'avvio di processi di cambiamento che il nuovo secolo vede approfondirsi, mantenendo al tempo stesso l'opacità. Una crisi, caratterizzata da una pluralità di dimensioni (economica, politica, sociale, ambientale) che si annodano e alimentano l'una con l'altra, produce instabilità e insicurezze diffuse. La crisi economica, in primo luogo finanzia­ ria, il cambiamento climatico, i cui effetti trovano manifestazioni drammati-

VA N NA ! A N N I

che, s i intrecciano alle trasformazioni che coinvolgono Stato, società, cultu­ ra e i loro rapporti, mutando gli scenari locali, nazionali e globali. La disarticolazione tra territorio, economia e nazione, la crisi della co­ stellazione nazionale (Habermas, 1999) mettono in discussione la capacità dello Stato di regolare il ciclo economico ed esercitare quelle funzioni redi­ stributive che producono coesione sociale e normativa. Assistiamo così a un passaggio di poteri: dallo Stato al mercato, dal parlamento verso l'esecutivo, dal piano nazionale a quello internazionale e globale (della Porta, 201 1 ) Lo Stato non scompare, ma perde il legame con la nazione (Sassen, 2009 ); per­ de competenze ma acquista spazi per nuove modalità di influenza politica, grazie alla partecipazione alle reti transnazionali e in quanto membro di or­ ganizzazioni internazionali (Habermas, 2007 ). Anche le culture sperimentano processi contrastanti e contemporanei di "apertura" e di "chiusura" (Habermas, 1999 ), sotto l' impatto della rivolu­ zione tecnologica e degli spostamenti di popolazione, all' interno e tra paesi e continenti. Ne derivano sia fenomeni inediti di incontro e mescolanza sia fondamentalismi, violenza e conflitti difficilmente negoziabili, "solventi" e non "colla'' dei rapporti sociali (Hirschman, 1997 ). D'altra parte, mentre le relazioni sociali predominanti nel passato si dis­ solvono ( Touraine, 20 05), togliendo forza alle organizzazioni intermedie e alle modalità d'azione a esse associate - in primo luogo ai partiti e ai sinda­ cati -, nascono movimenti sociali e forme di azione inedite, caratterizzate da interazioni orizzontali e mobili, liquide direbbe Bauman (2002), aggruppa­ te in reti fluide e in strutture non formalizzate. Tale accentuato processo di pluralizzazione degli attori e delle loro intera­ zioni è accompagnato dall'emergere di una società civile globale, spettro ete­ rogeneo che include organizzazioni non governative con una chiara vocazione internazionale, movimenti sociali, reti formali e informali, associazioni di di­ versa tipologia e consistenza (Shaw, 1994). Questa partecipa, evento del tutto inedito, a quel modo di deliberare e decidere che caratterizza la governance del nuovo secolo e la cui centralità, al di là della pluralità di signifìcati con cui il termine viene utilizzato, mette in evidenza quanto forte sia l'esigenza di tra­ sformare profondamente l'esercizio del governare (Habermas, 2007 ). Al contempo mostra forza crescente anche il lato più oscuro delle reti so­ ciali, il lato deviante della globalizzazione : traffico di persone, di armi, riciclag­ gio, terrorismo ecc. L' insurgency, come Gilman ( 2014) denomina i comporta­ menti devianti, si manifesta "in basso" ma anche "in alto", tra le élites globali, i nuovi super-ricchi. In basso ricerca ricchezza e potere all'ombra della globaliz­ zazione, in alto mira a evadere obblighi e responsabilità: in entrambi i casi non vuole distruggere lo Stato sociale moderno ma ampliare e sfruttare aree che .

I. UN M O N D O CHE C A M B I A

sfuggono al suo controllo per realizzare interessi particolari. Si rivela effetto e causa insieme della fragilità dello Stato e delle forme di governance che carat­ terizzano l'attuale "interregno", per ricordare l'espressione di Gramsci. Questi contrasti e incertezze uniti alla minaccia dei "rischi globali" - con­ seguenze non controllabili del progresso tecnologico e non di una mancata modernizzazione (Beck, 1999 ), di modelli di sviluppo non sostenibili e non di congiunture particolari - costituiscono la fonte principale di quella sfiducia e di quella insicurezza diffuse che spingono Rosanvallon (2oo6) a parlare di « società della diffidenza generalizzata » e Bawnan (2014) del « demone della paura » come componenti inquietanti dello spirito del tempo.

1. 3 La multiscalarità e l' incompiutezza del mutamento

La globalizzazione degli anni Duemila produce ridefinizioni importanti a tutti i livelli. Nasce il giocai, interazione di un globale che necessita loca­ lizzarsi e di un locale non più incapsulato nella verticalità della gerarchia locale-nazionale-globale. Entrambi, globale e locale, diventano multiscalari (Sassen, 2o o8). Il locale perde il legame esclusivo con la vicinanza fisica men­ tre acquistano rilevanza le "prossimità distanti" (Rosenau, 2003), nelle quali la vicinanza non è più basata sulla geografia ma sulla condivisione di interes­ si e scelte di vita e anche, e sempre più, sugli effetti della crisi ambientale e dei numerosi focolai di violenza che raggiungono aree lontane dai luoghi in cui si originano. Queste connessioni, in un mondo in cui aumentano i rischi sistemici, rendono l' intreccio locale-nazionale-globale sempre più stretto e complesso. Il carattere ambiguo del passaggio di epoca che viviamo è dato non solo dalla multiscalarità dei suoi processi ma anche dalla loro incompiutezza che trova espressione e conferma in ambiti molteplici e diversi. Le trasformazio­ ni sperimentate dalla cittadinanza, e strettamente legate al tema dei flussi migratori, sono emblematiche. Al riguardo Sassen (2009) parla di processi incompiuti e di "rilocalizzazione" della cittadinanza, Benhabib (2oo6) di "frammentazione" che permette alle persone di mantenere vincoli di fedel­ tà multipli e trasversali rispetto alle frontiere nazionali (in particolare, ma non solo, nei casi sempre più diffusi di doppia cittadinanza) e di accedere a determinati diritti sociali indipendentemente dello status di cittadino. Tra­ sformazioni altrettanto profonde registra la cittadinanza nei processi di co­ stituzione dello Stato plurinazionale che negli anni Duemila, in particolare

VA N NA ! A N N I

i n America Latina (Bolivia e d Ecuador), cerca d i offrire risposte al tema della pluralità culturale senza mettere in discussione l'unità del paese. Incompiutezza e mutamenti disomogenei caratterizzano anche la con­ dizione della donna (cfr. Pomeranzi, CAP. 6). Benché questa abbia registrato taluni miglioramenti, continua tuttavia a soffrire disuguaglianze importanti nell'ambito economico, sociale e politico, all' interno della famiglia e nella vita pubblica. Avanzamenti e chiusure si mescolano e si contrappongono con intensità diversa secondo i paesi e le aree culturali. Il "tetto di cristal­ lo", la barriera invisibile che nei più diversi campi impedisce alle donne di raggiungere le posizioni di maggior prestigio, si è rotto solo in alcuni punti e solo per poche. Nel XXI secolo, e nella gran parte dei casi, non ha ancora sofferto incrinature importanti; al contrario, in alcuni contesti ha visto raf­ forzata la sua consistenza ed estensione. Per altri aspetti, sotto l' impatto del moltiplicarsi dei flussi e dei legami trasversali e globali, le frontiere "evaporano", divengono luogo in parte de­ territorializzato e virtuale in cui si mescolano e confondono politica interna e politica estera. Prende così forma una politica post-internazionale (Rose­ nau, 200 3 ) in cui sfumano i confini e, accanto agli Stati, sono attivi, in modo crescente, globalplayers non statali, quali le corporazioni multinazionali e le organizzazioni non governative (Habermas, 2007 ). Nel suo insieme, si tratta di un complesso processo di ridefinizione delle relazioni internazionali che le vede assumere un profilo più eterogeneo, frammentato e in movimento. Il protagonismo in ascesa dei paesi emergenti, in particolare dei BRICS (Brasi­ le, Russia, India, Cina, Sudafrica) , segnando cambiamenti rilevanti nell'eco­ nomia e nei poteri globali, contribuisce ad aprire spazi a un mondo sempre più multipolare.

1. 4 Povertà, diseguaglianza : le fratture sociali si spostano

Le mappe della povertà e delle diseguaglianze degli anni Duemila illustra­ no con chiarezza quanto il mondo stia cambiando. La natura e la profon­ dità dei mutamenti che esse registrano animano dibattiti che coinvolgo­ no studiosi e politici. Povertà e diseguaglianza, infatti, non rispondono a sequenze direttamente sovrapponibili e si rapportano, inoltre, in modo articolato e differenziato alla crescita (Edward, Sumner, 201 3 ; Milanovic, 2016). D 'altra parte, è solo il loro rapporto a rendere possibile cogliere fi­ no in fondo la natura dell'una e dell 'altra.

I. UN MONDO C H E CAMB IA

29

Per quanto riguarda la povertà globale, gli anni Duemila registrano una sua riduzione e una ricollocazione importante che vede la maggioranza dei poveri vivere nei Middle Incarne Countries (MIC ) , unione dei Lower Middle Countries ( LMIC ) e degli Upper Middle Countries ( uLMC ) . La stessa distin­ zione binaria, paesi industrializzati-paesi in via di sviluppo, cede il posto a uno scenario frammentato con la nascita di due nuove aree intermedie : l'una costituita dalla crescita di numero dei paesi MIC accompagnata da una di­ minuzione drastica dei Low Incarne Countries ( LIC ) , e l'altra dalla fascia di precarietà che raggruppa coloro che si collocano al di sopra della linea del­ la povertà, ma non raggiungono il livello che può dare la sicurezza di essere sfuggiti a essa (Sumner, 20I6). La delimitazione delle aree è, d'altra parte, in questo come negli altri casi, altamente condizionata dai quadri concettuali e dai criteri di misurazione adottati e muta, pertanto, sulla spinta di ragioni non solo di calcolo e di approccio ma anche di tipo politico. Significativamente, il tema della povertà alimenta linee di analisi diverse. Alcune, richiamandosi a istanze etiche e alla preoccupazione di "non lasciare indietro nessuno" si impegnano a fare luce su cosa avviene al di sotto della li­ nea di povertà (Ravallion, 20I5). Altre si cimentano, invece, nello studio delle caratteristiche che distinguono sia lo spettro altamente eterogeneo dei MIC, con particolare attenzione ai cambiamenti strutturali in essi intervenuti, sia l'area di precariato che oscilla tra povertà e sicurezza di vita ( S umner, 20 I 6). È presente in più casi una certa avversione per la centralità molte volte attribuita al misurare, centralità che contribuisce a depoliticizzare il tema della povertà, separandolo per di più dall'esame del quadro globale di cui è parte (Sumner, 2012) e lasciando nell'ombra il rapporto con la diseguaglianza. I processi di trasformazione del profilo e della collocazione geografica della povertà s' intrecciano direttamente, invece, con quelli che segnano la crescita delle diseguaglianze, ponendo queste ultime, a partire dal 2ooo, al centro dell 'agenda teorica e politica, sia nazionale che internazionale, co­ me confermato dalla stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Sotto la spinta della globalizzazione, delle politiche neoliberali e della fi­ nanziarizzazione dell'economia, la diseguaglianza ha, infatti, raggiunto livelli allarmanti mentre è aumentata la sua pluralità con l'intreccio sempre più stret­ to di diseguaglianze verticali e orizzontali (di dotazioni economiche, accesso alla vita politica, genere, razza, classe, età, spazio ecc.). Tendenze divergenti attraversano, al contempo, l'intero processo. Le stesse diseguaglianze di red­ dito all' interno dei paesi, tra paesi e a livello globale, ottenute disaggregan­ do il concetto in una triplice dimensione (Milanovic, 20I3), si rapportano tra di loro in modo non lineare. Mentre la diseguaglianza interna, che prende in considerazione le differenze tra i redditi dei cittadini di un paese determinato,

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aumenta in termini sia assoluti che relativi dal 1 9 7 5 (nei paesi maggiormente industrializzati in particolare dopo la crisi finanziaria del 2oo 8; Goda, 2016), la diseguaglianza fra paesi, che misura le differenze tra i redditi medi dei dif­ ferenti paesi, dopo essere aumentata nel secolo scorso, si riduce, sia in termi­ ni assoluti sia relativi, dall'inizio del XXI secolo. La diseguaglianza globale, a sua volta, intesa come diseguaglianza interpersonale misurata in rapporto ai redditi individuali e prescindendo dall'appartenenza all'uno o all'altro paese, aumentata notevolmente nell'ultima metà dello scorso secolo, diminuisce nel nuovo (Lakner, Milanovic, 2013; Bourguignon, 2016). La copiosa letteratura empirica esistente conferma come sia imprescindi­ bile, per ogni discorso che voglia misurarsi col tema, rendere espliciti i criteri di misurazione adottati e il quadro concettuale di riferimento, nella consapevo­ lezza sia dell'affidabilità relativa dei dati disponibili sia delle difficoltà dell' ana­ lisi (tra altri, cfr. Bourguignon, 2016). Significativamente, nel dibattito attuale, continua a essere oggetto di riflessione il rapporto tra uguaglianza di opportu­ nità e uguaglianza di risultato (cfr. al riguardo, le preoccupazioni espresse per quest'ultima dall'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile), che tende a trasfor­ marsi in un circolo vizioso in cui differenze nei risultati vengono riportate a differenze di opportunità le quali, a loro volta, appaiono conseguenza di diffe­ renze nei risultati. Anche in questo caso, è determinante la chiarezza dell'anali­ si e la centralità della politica, cioè la presenza di politiche pubbliche in grado di assicurare coesione e giustizia sociale. D 'altra parte, è da rilevare come il dibattito degli ultimi decenni si sia pre­ valentemente centrato sulla diseguaglianza economica intesa come disegua­ glianza di reddito, il che ha determinato un appiattimento di tutti gli altri tipi di disparità (sociali, politiche, culturali, ambientali, spazi ali) all'interno della sola lente economica. A ciò si è accompagnato un ridotto approfondimento non solo dell'intreccio fra le diverse diseguaglianze e delle loro conseguenze ma anche delle cause della stessa diseguaglianza economica, insieme a una ri­ duzione della preoccupazione per l'equità. Ne sono derivati una particolare debolezza e un limitato impatto delle politiche chiamate a promuovere l'ugua­ glianza sociale, così come una divaricazione tra programmi di lotta alla pover­ tà e programmi di riduzione delle diseguaglianze.

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La terra di nessuno della democrazia

Gli anni Duemila vedono rafforzarsi la perdita di funzionalità e di credibi­ lità della democrazia, e crescere quell'entropia di cui parla Crouch (2003).

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La crisi concerne principalmente due aspetti: la rappresentanza, che registra un distacco sempre più significativo tra governati e governanti, e la parte­ cipazione, alla ricerca sofferta di nuove forme d'espressione. Il diffonder­ si di populismi e autoritarismi di varia natura rivela il disagio del tempo. Contemporaneamente l'aspirazione diffusa a una democrazia più inclusiva di quella attuale, la stessa vivacità della critica alla democrazia rappresentati­ va sono una misura della forza dell'ideale democratico (Rosanvallon, 201 1 ). È evidente come le due tendenze, erosione e insieme capacità di attrazione della democrazia, non vadano separate ma analizzate nelle loro connessioni. È proprio questa loro tesa coesistenza a segnalare che ci troviamo in una epoca di passaggio, esposta ai miraggi dei populismi e caratterizzata da cambiamenti divergenti e dall'esito incerto. Infatti se si estende l'area delle "democrazie illi­ berali" (Zakaria, 2003), vero crinale tra democrazia e non-democrazia, anche le forme democratiche innovative appaiono numerose, laboratori importanti anche se frammentati e limitati nella loro capacità di impatto. La concezione deliberativa e quella partecipativa costituiscono uno dei nuclei principali della ricerca attuale di cambiamento. Famiglie composite impostano il rapporto con le istituzioni cercando un collegamento e non ri­ vendicando, come negli anni Sessanta- Ottanta, l'autonomia e, in alcuni ca­ si, l'autogestione della società (Rosanvallon, 2oo 8 ; Bobbio, 2o o6; Allegret­ ti, 2010 ). Anche se distinte per riferimenti teorici e quadri analitici, le due concezioni presentano contiguità importanti. Il legame con la sperimenta­ zione così come l' impegno nella ridefinizione dello spazio politico le acco ­ muna dall' inizio (della Porta, 201 1 ; B obbio, 2o o6). Il ragionare pubblico, in grado di cambiare le preferenze individuali im­ mediatamente espresse e produrre consenso, così come la separatezza della deliberazione dalla decisione politica, chiamata a bilanciare interessi com­ positi, sono i temi al centro della democrazia deliberativa (Habermas, 2oo8; Benhabib, 1996, 2005; Elster, 2005). La democrazia partecipativa, da par­ te sua, pur esprimendosi in forme plurali, concerne sostanzialmente la rela­ zione tra società e istituzioni, mirando a immettere espressioni dirette della prima nelle azioni della seconda (Allegretti, 20 09; Bobbio, 2o o6), a trasfor­ marla pur escludendo, nelle esperienze di maggior impatto, la limitazione dell 'autonomia istituzionale. Nella pratica innovativa, le linee di separazione dei due approcci si ri­ velano labili. Significativamente, democrazia deliberativa e democrazia partecipativa presentano entrambe fragilità di non facile soluzione : la de­ finizione del "pubblico" coinvolto, la natura della partecipazione (che può limitarsi a essere solo nominale o strumentale, cfr. White, 1 9 9 6) e quella della deliberazione (che può stentare ad andare al di là della sola contrap-

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posizione degli interessi) costituiscono alcune delle problematicità mag­ giori (Bobbio, 20 0 5 , 2oo6; Urbinati, 201 3 ) . D 'altra parte, sono molteplici le modalità innovative di interazione socie­ tà-istituzioni che negli ultimi decenni hanno mirato a trasformare il rappor­ to periodico cittadino-elettore in processo di interazione permanente. Quella che Rosanvallon (2oo6) chiama contro-democrazia, la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, rientra in questo spettro. I poteri di vi­ gilanza, di sanzione e di veto, di giudizio sulle attività dei governanti costitui­ scono una critica e insieme un sostegno delle istituzioni democratiche. La cosiddetta democrazia del web, espressione della rivoluzione informati­ ca, offre anch'essa risposte del tutto inedite al tema della distanza tra gli elettori e i loro rappresentanti, tra cittadini e istituzioni, oggi fortemente avvertito. Ren­ de possibile il collegamento diretto loro e tra gli stessi cittadini, contribuendo a svuotare della loro funzione i corpi intermedi, partiti e mezzi di comunicazione in primo luogo, e a cambiare la concezione stessa di rappresentanza. Come nel­ le reti sociali digitali, l' interazione realizzata soffre però di difficoltà analoghe a quelle manifestate dalle esperienze deliberative e partecipative, mostrando di ri­ uscire anch'essa, solo limitatamente, nel proposito di creare uno spazio pubblico in grado di trasformare la democrazia rappresentativa (Urbinati, 2013). Nella transizione opaca che viviamo, anche la democrazia, da sempre una promessa e insieme un problema (Rosanvallon, 2oo6), mostra un profilo at­ traversato da tensioni divergenti e non risolte, proteso verso il nuovo ma fer­ mo in una terra di nessuno in gran parte, ancora, da attraversare. La sua crisi è infatti strutturale e non congiunturale e tra i principali ostacoli da superare c 'è anche il fossato che la globalizzazione ha aperto tra spazi di partecipazio­ ne, oggi ancora preminentemente nazionali e locali, e spazi decisionali, in cui il regionale e il globale hanno acquisito peso crescente, spesso al di fuori della politica, sfuggendo in tal modo alle possibilità di intervento della volontà cit­ tadina, comunque espressa.

1 .6 Lo sviluppo e le sfide del cambiamento

I mutamenti finora esaminati concorrono a sollecitare, insieme alle nume­ rose criticità maturate internamente, un profondo ripensamento delle con­ cezioni e delle teorie dello sviluppo, chiamate a misurarsi con la messa in discussione della configurazione stessa del campo dei development studies (Aghajanian, Allouche, 20 16; Jolly, Santos, 2016).

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D'altra parte, anche l a classificazione dei paesi maggiormente industria­ lizzati come "caso speciale", avanzata negli anni Sessanta da Seers (1963 ) , tro­ va oggi ulteriori conferme e contribuisce a sollecitare una radicale rimessa a fuoco delle problematiche dello sviluppo. Significativamente la stessa Banca Mondiale ( World Bank, 201 6) , sotto la spinta dell'affermarsi dei paesi emer­ genti e dei cambiamenti verificatisi negli assetti globali, abbandona nel suo rapporto World Development Indicators 20I6 la classificazione di paesi in via di sviluppo così come quella ugualmente binaria di Nord-Sud per sostituir­ le con raggruppamenti di tipo esclusivamente geografico. È precisamente questo concorrere di trasformazioni profonde che sfida i development stu­ dies a "saltare" oltre se stessi, e con ciò contribuisce a stimolare la riflessione del XXI secolo sulla pluralità dei cammini dello sviluppo e insieme sulle loro connessioni e interazioni. L'esigenza di un ridisegno delle teorie e delle pratiche è vasta e disse­ minata, e prova quanto sia forte la spinta al cambiamento. L' insostenibilità degli attuali modelli di sviluppo che, pur nella loro diversità, si ritrovano nella comune visione, predominante negli ultimi settant 'anni, della crescita come volano primario di cambiamento non permette semplici riassetti, po ­ nendo in discussione non solo attori, metodologie, pratiche, sistemi di mo­ nitoraggio e valutazione, ma anche il nocciolo duro della concezione stessa di sviluppo. Oggi si tratta di realizzare il passaggio a un'altra epoca, in cui la sostenibilità occupa un posto centrale, senza cancellare il passato ma al contrario guardando indietro proprio per poter spingere in avanti lo sguar­ do, cercando di apprendere dai decenni trascorsi, dai successi, pochi, e dagli errori compiuti, molteplici. Nessuno dei nuovi cammini intrapresi ha rag­ giunto, però, al momento, risposte teoriche e risultati pratici compiuti, non soggetti a perplessità e dubbi. La spinta al cambiamento avanza così più per negazioni che per affermazioni, indica ciò che sviluppo non è ma lascia aper­ ta la definizione di ciò che è. Il processo si presenta più complesso del solo "non sapere come arrivare" a una meta che già si conosce, benché anche que­ sto sia un aspetto certo non trascurabile. Per la cooperazione allo sviluppo, che da sempre fa propria una visio­ ne di sviluppo caratterizzata dall' agency, permeabile alla direzione impressa ai suoi processi dalla politica, tale passaggio d'epoca presenta mutamenti e tensioni ancora maggiori. Essa somma alla crisi delle sue tradizionali forme d' intervento l' impatto di quella, più generale e profonda, di un mondo che cambia. Il suo stesso perimetro d'azione si amplia e acquisisce opacità. Nuove forme di cooperazione - tra cui, in particolare, quella Sud-Sud e quella decentrata - insieme a un mutamento profondo degli obiettivi, degli attori e delle loro interazioni, delle metodologie e delle strategie degli inter-

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VANNA !ANNI

venti, così come degli strumenti e dei meccanismi istituzionali, dell'archi­ tettura e della governance, ridisegnano oggi il suo profilo. Andare "al di là dell'aiuto", aiuto con il quale si è finora fondamentalmente identificata la co­ operazione allo sviluppo, è tema non solo di dibattito accademico ma anche preoccupazione di agenzie e di politiche internazionali e nazionali ( cfr. il ca­ so del Regno Unito e dell' Olanda, impegnati nella ricerca di una nuova de­ finizione della cooperazione allo sviluppo ) . Lo stesso richiamo alla coerenza delle politiche, all'attenzione da dirigere verso "l' interno" e non solo verso "l'esterno", alla messa in atto di forme di azione globale richiede, per non ri­ produrre forme di subalternità più volte verificatesi, il riconoscimento della cooperazione allo sviluppo quale componente autonoma e, al tempo stesso, strettamente collegata alla cooperazione internazionale e, più in generale, alla politica estera, anch'essa in processo di profonda trasformazione. L'ado­ zione dell'Agenda 203 0 per lo sviluppo sostenibile, l'approvazione del Pia­ no d'azione di Addis Abeba e l'Accordo sul clima alla XXI Conferenza delle Parti di Parigi (c0P21 ) , nel dicembre 2015, così come l'azione in espansione delle reti globali ( come quelle nate intorno alle problematiche del cambia­ mento climatico ) , sono segnali, impegni suscettibili di spingersi in questa direzione ma anche di bloccarsi e procedere in senso diverso. Il cammino continua a essere lungo e incerto.

1 .7

Osservazioni finali

Dopo aver volto uno sguardo d' insieme agli scenari di questo inizio del XXI secolo, questo capitolo ha scelto di precisare, arricchire, sottoporre a verifica quanto emerso attraverso l'esame di tematiche specifiche. L' incompiutezza, la multiscalarità, le tendenze contrastanti dei mutamen­ ti in corso trovano conferma nei distinti processi analizzati. Ognuno manife­ sta tendenze divergenti e la possibilità di sbocchi anche opposti. Nessuna delle molte analisi che su di essi si esercitano, di carattere generale o specifico, appor­ ta elementi chiarificatori consistenti nell'orizzonte di lungo periodo, finendo per rimanere imprigionata, in buona parte, nel presente. Anche per questo la domanda riguardo a quali politiche mettere in campo per ridurre povertà e insieme diseguaglianza, degrado ambientale, erosione della democrazia trova oggi risposte piuttosto fragili e incomplete. D'altra parte, sono precisamente tali mutamenti non conclusi, spesso multiscalari, in gran parte imprevedibili, a fare della «gestione delle interdipendenze globali in un mondo globalizzato » ( Severino, Ray, 2009, p. s, trad. mia) una delle maggiori sfide del nuovo secolo.

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La complessità, nodo di interdipendenze, interazioni e inter-retroazioni, come annota Morin (2ooi), conferma così di essere la categoria di analisi e, al tempo stesso, il principio di azione più rispondente alla mobilità e all' incertez­ za di questo inizio del nuovo secolo. L'impegno nel porre domande nuove si manifesta allora come la qualità, individuale e collettiva, da privilegiare, nella consapevolezza che è nella capacità di "rovesciare prospettive" e in grado di "rovesciare prospettive" e andare al di là dell'interrogare prassomorfìco il cam­ mino per avanzare (Bawnan, 2007 ). Tale qualità è la sola, a mio avviso, a poter conferire alla modestia dell'attuale, diffuso, "porre tra parentesi" la ricerca di grandi teorie, il carattere di una scelta che non lascia cadere la sfida della co­ struzione di un orizzonte futuro. Riferimenti bibliografici

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2

Lo sviluppo e i development studies oggi. Prospettive e temi

a

confronto

di Marco Zupi

2. 1 Presentazione

Sul finire degli anni Ottanta, in Italia, gli studi sullo sviluppo non erano ri­ conosciuti come ambito di ricerca con una sua identità e legittimità accade­ mica. Almeno questo mi parve quando, studente all' Università "La Sapien­ za" di Roma, presentai un piano di studio che si proponeva di definire un tale profilo a carattere multidisciplinare, andando a combinare corsi di cin­ que facoltà diverse (Scienze Politiche, Economia e Commercio, Scienze Sta­ tistiche, Lettere e Ingegneria). Per decenza risparmio i dettagli della risposta del direttore di dipartimento che valutò e respinse la mia proposta. L'unico escamotage allora possibile per poter seguire quei corsi fu di appellarmi a un articolo del regolamento dell'Ateneo che consentiva il riconoscimento di esami sostenuti in sovrannumero rispetto a quelli inseriti nel piano di studio accettato per conseguire la laurea, un'opportunità - mi dissero alla segreteria accademica - che veniva utilizzata quasi esclusivamente da detenuti in carce­ re iscritti all'università. Anche a livello post lauream, nei primi anni Novanta, la situazione non era molto diversa. Durante lo svolgimento del servizio civile come obiettore di coscienza (servizio, per inciso, classificato allora dal ministero della Dife­ sa come svolto da "forze assenti", a proposito di riconoscimento sostanziale) presso alcune organizzazioni non governative ( ONG ), proposi, sempre all' U­ niversità "La Sapienza", di coordinare un corso-pilota di economia dello svi­ luppo per laureati, che consisteva in un ciclo di una trentina di lezioni tenu­ te da docenti di diversi settori dell'economia. Fu un' iniziativa originale e di successo, che venne accolta e promossa contemporaneamente dalle cattedre di economia dello sviluppo di tre facoltà della stessa università. A dimostra­ re il divario che c 'era in quel periodo tra offerta formativa e domanda degli studenti su questi temi basti dire che quel ciclo di lezioni gratuite, pensato per una trentina di studenti, affidato organizzativamente a un cultore della

2. LO SVILU P P O E I DE VEL OPMENT S T UDIES O G G I

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materia - come ero allora - che volontariamente si faceva carico dell' impe­ gno, in una settimana vide pervenire richieste di partecipazione da oltre 2 5 0 studenti neolaureati o laureandi. Negli anni universitari mi resi conto, perciò, non solo che gli studi sullo sviluppo erano poco e male considerati in Italia, ma anche che mancava una cultura specificamente orientata in tal senso nell'ambito di diversi settori di una stessa disciplina come l'economia: l'economia dello sviluppo era consi­ derato un sotto prodotto (o figlio minore) della politica economica, insieme a economia internazionale, economia monetaria, economia pubblica, eco­ nomia agraria, economia del lavoro e così via, che continuavano a essere le discipline di emanazione diretta dell'economia politica, senza un dialogo fecondo con discipline "sorelle" delle scienze sociali orientate allo sviluppo (sociologia, antropologia, scienze politiche e relazioni internazionali, geo­ grafia), e ancor meno con le discipline umanistiche (come gli studi letterari postcoloniali, la psicologia, la storia, la filosofia e il diritto) , o con l' architet­ tura, le scienze ingegneristiche, quelle dell'ambiente e quelle mediche (me­ dicina tropicale). Per questa stessa ragione, negli anni Novanta decisi di proseguire gli stu­ di ali' estero, in paesi in cui la tradizione degli studi sullo sviluppo era invece già consolidata e riconosciuta al pari di qualsiasi altra branca del sapere. A molti docenti italiani in quel periodo sembrò eccentrico che avessi accettato l'opportunità di trascorrere un semestre per preparare la tesi di programma­ zione economica dello sviluppo (e non di antropologia) presso un istituto dell ' Università dello Zambia, scartando un'opportunità simile all' Universi­ tà di Cambridge : era stato da poco creato il programma Erasmus di mobilità studentesca nell' Unione Europea e non erano ancora neanche lontanamen­ te immaginati i dottorati e i progetti di partenariato Erasmus Mundus. Tutto questo per dire che negli ultimi venticinque anni molte cose sono cambiate e oggi sono più frequenti casi di laureandi che vanno a completa­ re i loro studi sullo sviluppo (anche di economia dello sviluppo) in univer­ sità di paesi "emergenti". Allora non vi erano serie alternative in Italia agli studi sullo sviluppo : i primi corsi di perfezionamento e master specialistici sul tema presero forma sul finire degli anni Novanta e, a dimostrazione del fatto che fossero in qualche modo "indotti" dalla domanda dei giovani più che un programmato percorso di studi, i master furono il primo tentativo a carattere multidisciplinare (a Roma, Pavia e, via via, in molti altri atenei) , anticipando in modo destrutturato - cioè senza alcuna chiara consequen­ zialità e, all'opposto, con alcune sovrapposizioni - l' istituzione di classi di laurea sulla cooperazione allo sviluppo e di pochi dottorati settoriali sul te­ ma negli anni successivi. Non c 'è stato, cioè, in Italia un percorso lineare di

MARCO ZUPI progressivo approfondimento degli studi sullo sviluppo, avviato a livello di corsi di laurea, proseguito con conseguenti diplomi e master e, infine, con­ cluso coi dottorati : un limite italiano di cui mi parlava circa dieci anni fa, in seno all'Associazione europea di studi sullo sviluppo, Gianni Vaggi, docente a Pavia. Proprio il confronto tra l'esperienza italiana e quella - di studio e poi di insegnamento - in paesi con una forte tradizione di economia dello svilup­ po per ragioni storico-coloniali ( Francia e Regno Unito ) , e soprattutto in un paese scandinavo "virtuoso" nell' impegno per la cooperazione allo sviluppo e per l' investimento accademico in materia ( Danimarca) e, infine, oggi, in una realtà "emergente" dello sviluppo asiatico ( Vietnam ) offre alcuni spun­ ti di riflessione, organizzati nei tre paragrafi che seguono. L' illustrazione di elementi chiave che qualificano la tradizione degli studi sullo sviluppo ( PAR. 2.2) precede alcune considerazioni sulla situazione attuale di tali studi ( PAR. 2.3) e, insieme a queste ultime, orienta le osservazioni finali sulle prospettive future ( PAR. 2.4).

2.2

Caratteri e limiti della tradizione degli studi sullo sviluppo

La definizione di studi sullo sviluppo rimanda, per convenzione, a una bran­ ca delle scienze sociali che attinge a diverse discipline, sulla base di un ap­ proccio multidisciplinare ( che somma, cioè, i contributi delle diverse disci­ pline che restano separate ma affiancate ) o, più ambiziosamente, interdisci­ plinare ( le connessioni e interazioni di diversi contributi disciplinari produ­ cono un sapere unitario che è più della somma delle parti separate ) o transdi­ sciplinare ( gli studi sullo sviluppo hanno una propria identità che, in nome di tale prospettiva originale, attraversa le diverse discipline andando oltre esse, cioè senza risultare il prodotto di una loro interazione ma proponendo­ si come paradigma per guardare alla complessità del mondo ) . Ciò che rimane essenziale è, dunque, il carattere costitutivamente refrat­ tario a una compartimentazione disciplinare, considerata fonte di frainten­ dimenti quando si affronti la complessità dello sviluppo, per cui ciascuna disciplina è chiamata a dar ragione del proprio limite e dunque a fare espe­ rienza delle altre. Il superamento della logica disciplinare è un approccio che trova oggi ampi consensi anche in altri ambiti emergenti della conoscenza, come la scienza della complessità o quella della sostenibilità. In paesi come la Dani­ marca, la stessa organizzazione dei corsi e dei dipartimenti universitari sposa

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da molto tempo questo approccio, a cominciare dai primi anni curriculari, diversamente dall' Italia, come appare ancora oggi scorrendo l'elenco dei set­ tori scientifico-disciplinari definiti dal ministero dell' Istruzione, dell' Uni­ versità e della Ricerca. Una seconda peculiarità - punto di forza e debolezza - della tradizione della disciplina degli studi sullo sviluppo è che, per sua natura, questa ha un carattere elusivo, associato sia al concetto stesso di "sviluppo" che orienta la disciplina ( e su cui ampia trattazione è dedicata in questo volume ) , sia al fatto di essere un campo fortemente contestualizzato e storicizzato, perché la domanda di ricerca è legata alle incessanti trasformazioni strutturali nei diversi sistemi socio-economici, politici, istituzionali e naturali. Lo sguardo sullo sviluppo è, cioè, fortemente determinato dall' hic et nunc, il luogo spe­ cifico di osservazione e il momento storico. Si potrebbe anche aggiungere, come suggerisce Andy Sumner ( 2on ) , che per diversi studiosi di sviluppo conti molto un altro fattore qualificante, ovvero l'opzione politica di fondo a favore degli interessi dei poveri e delle popolazioni più vulnerabili. In real­ tà, la mia impressione è che questa non sia così scontata oggi tra gli studiosi dello sviluppo, in particolare dopo che negli anni Ottanta l' ideologia del neoliberismo ha rafforzato e diffuso ovunque, per lo più sottotraccia, la cul­ tura dell' individualismo e della ricerca prioritaria dell' interesse personale, insieme al primato tecnocratico delle politiche di aggiustamento strutturale, dopo che la caduta del muro di Berlino ha tolto credibilità ad aneliti esplici­ tamente rivoluzionari. L' indebolirsi di una predominante componente valoriale si riscontra anche sul terreno, tra le organizzazioni delle Nazioni Unite oltre che tra le istituzioni finanziarie internazionali, dove una motivazione determinante oggi - in conseguenza dell'enfasi posta sul primato della professionalizza­ zione e delle competenze tecniche degli operatori sul terreno - è quella di avere un buon posto di lavoro, ben retribuito e con occasioni di conoscere il mondo, più che di trasformare il mondo e sostenere le rivendicazioni e i di­ ritti di quelle che un tempo erano ex colonie. Nondimeno, il richiamo all ' importanza della motivazione ideale coglie un punto di fondo da sottolineare : oggi come ieri, si tratta di studi sulla so­ cietà che si pongono di fronte al mondo con il carico di una propria visione di progresso, cioè il miglioramento delle condizioni di vita, che non può essere definita oggettiva, ma legata al giudizio personale. In questo aspetto specifico si trova probabilmente la ragione del grande interesse che gli stu­ di sullo sviluppo continuano a riscuotere tra i giovani, indipendentemente dalle fasi di affaticamento delle politiche di aiuti allo sviluppo : una predi­ sposizione a pensare di dover e poter migliorare il mondo, la ricerca di sen-

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so e valori che orientino la vita invadendo il perimetro ristretto della sfera professionale, la curiosità e la voglia di essere cittadini del mondo sono una forte motivazione per gli studi, indipendentemente da quel che seguirà nella transizione al mercato del lavoro e dall'orientamento che esso predilige oggi a favore del sapere tecnico. Questa natura particolare degli studi sullo sviluppo è, al contempo, per­ cepita come fattore di debolezza da parte dei suoi detrattori, a cominciare da studiosi a forte carattere disciplinare, che ne criticano l' irrilevanza. La vaghezza attorno alla complessità, la vischiosità e volatilità dell' idea di svi­ luppo e l'eclettismo inteso come assenza del rigore monodisciplinare - com­ binati con il possibile prevalere dell'ansia trasformatrice del mondo (la pas­ sione romantica), senza un chiaro indirizzo dopo la caduta del muro di Ber­ lino, rispetto alla corretta interpretazione dei fenomeni in atto (la ragione scientifica) - contribuirebbero a ridurne la scientificità. La forte tentazione normativa degli studi sullo sviluppo, volti a indica­ re la rotta - quale che essa sia - alla politica mostrando ciò che dovrebbe essere, ossia gli interventi e i precetti necessari per raggiungere determinati obiettivi socio-economici, mette anche a repentaglio l'autonomia di giudi­ zio proprio della scienza, col rischio di indurre ad adottare (acriticamente) le priorità dell'agenda come focus d' indagine per scongiurare la marginalità in termini di rilevanza politica. Si tratta di un altro rischio concreto per la credibilità degli studiosi dello sviluppo, quando cedono alle lusinghe di di­ ventare consiglieri del principe piuttosto che essere consiglieri del cittadino, come amava dire Federico Caffè, un economista che, senza essere iscritto nel novero ufficiale degli studiosi di sviluppo, rivendicava come essenziale il dia­ logo fecondo con le altre scienze sociali e la necessità di analisi economiche mediate da considerazioni storiche e istituzionali. Il sentiero di un corretto bilanciamento tra robustezza teorica e valenza politica, tra relativismo legato all' importanza del luogo e del tempo e uni­ versalismo di principi d' indagine e valori di riferimento, tra engagement e critica è certamente stretto, ma non per questo non percorribile in modo scientifico, laddove si riconosca la natura discorsiva e non oggettiva della scienza, ossia il "ritaglio" che ogni scienza opera sulle cose ponendosi da un ben preciso punto di vista, il che conduce a concepire l'oggetto scientifico come un insieme strutturato di attributi o caratteristiche (quelle seleziona­ te da ogni particolare scienza) , come spiega il filosofo della scienza Evandro Agazzi (Antiseri, Tagliagambe, 2014). Del resto, le origini degli studi sullo sviluppo smascherano il carattere parziale (e occidentale) dello sguardo. Convenzionalmente, infatti, si fa risa­ lire l'origine di tali studi agli anni Cinquanta e alla necessità di accompagna-

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re sul piano dell'analisi scientifica - in coincidenza con la conquista dell' in­ dipendenza di molte nazioni africane e asiatiche negli anni Sessanta - la fase storica della decolonizzazione e del postcolonialismo, intendendo il post in senso logico oltre che cronologico. È quindi nel Regno Unito, il paese più in­ teressato direttamente da questa transizione, che nascono i development stu­ dies, spesso riorientando in tale direzione enti e istituti di ricerca funzionali alla politica coloniale, come nel caso del Colonia! Office, oltre che le univer­ sità. Anche in Italia, in piccolo, capitò qualcosa di simile con l' istituzione, per esempio, nel I 9 o 6, dell' Istituto itala-africano, poi confluito nell' Istituto italiano per l'Africa e l' Oriente e infine posto in liquidazione nel 2o11. Proprio il richiamo a margine all' Italia consente una digressione a par­ ziale correzione di quanto detto, e cioè che nel nostro paese manca una tra­ dizione di studi sullo sviluppo. È vero che questa non ha avuto un orienta­ mento internazionalista, ma gli studi sullo sviluppo interno (la moderniz­ zazione del Mezzogiorno) sono invece da sempre un cardine per quelli di politica economica, a partire dall' Unità d' Italia e con una letteratura che ha visto confrontarsi studiosi di diverse ispirazioni ideologiche ( liberali, cattolici, socialisti e comunisti) . Anzi, si può affermare che la questione meridionale e il cosiddetto "nuovo meridionalismo" siano stati un caso di studio d' ispirazione, a livello internazionale, per la teoria politica dello sviluppo degli anni Sessanta e Settanta, incentrata sul dualismo economi­ co, la promozione del progresso tecnico, la riforma agraria, l' interventi­ smo pubblico attraverso la programmazione economica e la politica attiva dell' industrializzazione, come dimostra l' interesse di noti economisti del­ lo sviluppo stranieri, coinvolti spesso direttamente come interlocutori del­ lo SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell' industria nel Mezzogiorno) , della Cassa per il Mezzogiorno e del Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno di Portici (Giannola, 20I 2). La ragione per cui una nutrita schiera di qualificati meridionalisti non si è interessata della dimensione internazionale dello sviluppo ha che fare probabilmente proprio con la rilevanza della contestualizzazione negli stu­ di sullo sviluppo : se non si conosce profondamente la specifica realtà di un luogo non ha senso pretendere di trasferirvi lezioni apprese in un contesto molto diverso. Questo fu quello che mi spiegò all' inizio degli anni Novanta Paolo Sylos Labini, un economista che s' interessò molto di sviluppo e che trovava naturale, senza scomodare idee di multi o interdisciplinarità, abbi­ nare sempre considerazioni economiche, politiche, sociali, storiche e di fi­ losofia morale, per il semplice fatto che le scienze sociali studiano fenomeni storici che cambiano e che integrano le diverse componenti. I migliori e più autorevoli studiosi di sviluppo, anche laddove espressione di una sola disci-

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plina come l'economia, hanno sempre attinto e utilizzato categorie interpre­ tative di più scienze sociali. Questo è vero, restando in Italia, per un altro importante economista già ricordato come Federico Caffè, o per prestigiosi economisti stranieri come Amartya Sen o Albert Otto Hirschman, che sem­ pre hanno coltivato la passione per l'attraversamento disciplinare senza mai rinnegare la propria identità, ispirandosi alle origini dell'economia politica quale scienza morale e sociale.

2.3 Gli studi sullo sviluppo oggi

Gli studi sullo sviluppo oggi sono il frutto di un'altra caratteristica specifi­ ca che li contraddistingue e li accomuna al campo prossimo delle politiche di cooperazione allo sviluppo, di cui chi scrive ha già avuto modo di parlare (Mellano, Zupi, 2007 ). In settant'anni di politiche di cooperazione allo svi­ luppo e di studi sullo sviluppo non si è assistito a un cambiamento radicale di rotta o prospettiva; piuttosto c 'è stato un processo di progressiva sedimen­ tazione e accumulazione di diversi focus, approcci e metodi, anche alterna­ tivi tra loro, senza che nessuno di essi riuscisse mai a prendere il sopravvento soppiantando del tutto i precedenti. Un bagaglio importante che orienta ancora oggi lo sguardo sono i lasci­ ti del trentennio d'oro (dagli anni Cinquanta agli anni Settanta) : numerosi e importanti studi sullo sviluppo economico basati su approcci alternativi; illuminanti analisi della società in chiave antropologica e storica - Fanon ( 1 9 5 2), Geertz ( 1966), Thompson (1967) e Said (1979) in primis -; la critica della decostruzione utile per interrogare e rimettere in discussione con forza quelle che sembravano acquisizioni e certezze dell'approccio positivista al­ la conoscenza - i testi epistemologici decisivi di Derrida (19 67) e Foucault (1969 ). Della cassetta degli attrezzi fanno sicuramente parte i contributi del ventennio successivo di crisi e transizione (anni Ottanta e Novanta) : l'ap­ proccio tecnocratico e apparentemente depoliticizzato del cosiddetto con­ senso di Washington e del riequilibrio macroeconomico; gli studi legati all'approccio dello sviluppo umano che va oltre il PIL (prodotto interno lor­ do), promossi dall' uNDP (United Nations Development Programme) ; gli epigoni della critica postsviluppista - come Sachs (1992) , Escobar (1995) e Rahnema (1997 ) Il terzo strato che forma la base sedimentata di conoscenze e prospetti­ ve degli studi sullo sviluppo odierni è il tentativo di rilancio dei primi anni Duemila (i quindici anni tra il lancio degli MDG e quello degli SDG), che .

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coincide con il confronto tra quattro approcci alternativi: l'ottimismo sulle politiche di sviluppo e cooperazione internazionale di Jeffrey Sachs, il pessi­ mismo di William Easterly, la sobrietà dei fatti stilizzati di Paul Collier e la novità del rigore dei randomisti come Esther Duflo (Zupi, 20I 3 ) . Basta scorrere i titoli di un manuale di studi sullo sviluppo (Desai, Pot­ ter, 20I 4 ) , oltre che i numerosi SDG, per individuare i tanti temi oggetto di studio, teorie e strategie alternative, frutto di tale sedimentazione : crescita economica e povertà, equità sociale e disuguaglianze, ecologia, cambiamen­ ti climatici e sostenibilità ambientale, energia e risorse, diritti umani e de­ mocratizzazione, istituzioni e reti sociali, governance, questione di genere e agency, promozione del settore privato, occupazione e mercato del lavoro, digita! divide, cultura e sviluppo locale, sviluppo rurale e sicurezza alimenta­ re, urbanizzazione e habitat, migrazioni e diaspora, finanza per lo sviluppo e rapporti internazionali, programmazione e progettazione, indicatori e mi­ surazione, monitoraggio e valutazione. Lo stesso discorso si applica all' in­ terno di uno specifico settore disciplinare come l'economia dello sviluppo, leggendo uno dei manuali di riferimento (Rodrik, Rosenzweig, 20io; Toda­ ro, Smith, 20I5 ) . Ambiti tanto ampi e disparati si traducono in una tripartizione di piani di indagine, ciascuno accompagnato da metodologie proprie che riflettono preferenze disciplinari e attitudini dei ricercatori. In primo luogo, ci sono analisi - quelle predilette, per esempio, dall'antropologia - a livello micro, focalizzate su realtà di piccole comunità o villaggi o su comportamenti in­ dividuali (le donne imprenditrici); in secondo luogo proliferano studi a li­ vello m acro di grandi aggregati nazionali come l'occupazione, il reddito e la povertà - oggetto tipico di analisi economiche ; infine, soprattutto nel con­ testo della fase attuale della globalizzazione, esistono studi attorno a proble­ mi che interessano il mondo e le interdipendenze globali, che attraversano i confini nazionali. Forme di triangolazione fra i tre piani di studio sono natu­ ralmente possibili, ma non ancora prevalenti e a ciascun livello corrisponde un tipo specifico di domanda chiave e il ricorso a corrispondenti metodi di indagine. Gli sviluppi dei metodi di ricerca e di indagine sul campo (l'ambito della practice degli studi sullo sviluppo) , relativi a raccolta e analisi di dati e infor­ mazioni, si intrecciano con l'ambizione di un'agenda comune tra le scienze, sociali e non, ma anche con le reciproche diffidenze. Le domande di indagine si differenziano insieme alle unità statistiche di analisi, con una contrapposizione portata agli estremi tra l' intero univer­ so della popolazione e campioni non rappresentativi molto piccoli. Tra gli estremi degli studi basati su censimenti o campioni rappresentativi della po-

MARCO ZUPI polazione da un lato e studi etnografici dall'altro, si colloca un'ampia gamma di possibili focus e metodi di indagine. Oggi, in particolare, l'agenda dettata dalla volontà della politica di dimo­ strare con rigore il raggiungimento dei risultati (result-based management) esercita una forte pressione a favore di metodi di indagine che dimostrino il valore aggiunto delle risorse finanziarie destinate a interventi di sviluppo. Da questo punto di vista, godono di crescente credito metodi e tecniche de­ rivati dall'applicazione alle scienze naturali ( metodi sperimentali ) e l'eviden­ za empirica di specifici meccanismi di causa-effetto, piuttosto che l' interpre­ tazione critica più generale delle strutture e dell'evoluzione storica. L'uso di applicazioni econometriche, modelli matematici, rassegne sistematiche del­ la letteratura e metodi quasi sperimentali è preziosissimo, ma rischia di ap­ profondire il solco tra l'economia intesa in chiave posi tivista e le altre scienze sociali. Al contempo, l'attenzione crescente a temi complessi come l' agency e l'empowerment o la multidimensionalità dello sviluppo rinvigorisce approc­ ci alla complessità e all' incertezza che adottano uno sguardo critico verso le pretese del positivismo, in nome di realtà sfumate e non omogenee in cui operano molte variabili e meccanismi causali, spesso non osservabili o per i quali mancano dati affidabili. Convivono così, di fatto, due opposti approcci ben noti nell 'ambito dell'analisi statistica delle serie storiche : ovvero partire dalla teoria che deve orientare la raccolta e l'analisi dei dati, oppure lasciare che i dati parlino (cioè i metodi precedono la teoria) e su di loro costruire interpretazioni teoriche, cercando regolarità e correlazioni. Nel caso degli studi sullo sviluppo, un fattore chiave che determina la preferenza per un metodo analitico o l'altro non è solo l' inclinazione e la disciplina preferenziale del ricercatore, ma anche la comunità epistemica di riferimento cui indirizzarsi, che nel caso specifico è multipla: i partner dei paesi in via di sviluppo, la comunità scientifica, i decisori politici, la diplo­ mazia, le organizzazioni internazionali, le ONG, il mondo delle imprese, i cittadini in genere ( Currie-Alder, 20 16). Contrariamente a quanto avviene sul fronte teorico degli studi sullo svi­ luppo, il campo delle diverse metodologie e tecniche di analisi dei dati vi­ ve una fase entusiasmante di eccezionali innovazioni, vere e proprie rivolu­ zioni. A differenza della tradizionale vocazione italiana ad associare singoli metodi a specifiche discipline, con una conseguente impermeabilità se non contrapposizione tra metodi qualitativi ( afferenti a discipline come l'an­ tropologia) e metodi quantitativi ( afferenti all'economia ) , altrove la realtà è molto più sfumata e offre potenzialità spesso inesplorate di contamina­ zione. All' Università dell'Essex ne ebbi esempi concreti già venti anni fa, con decine di corsi posdaurea che mettevano a confronto metodi di analisi

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quantitativi e qualitativi applicati alle più disparate discipline e periodici se­ minari per il confronto. Nella pratica applicativa degli studi sullo sviluppo, tuttavia, persiste ancora oggi una contrapposizione di tipo quasi ideologico tra discipline e metodi correlati, come dimostra il campo della valutazione delle politiche e degli interventi di sviluppo, nel cui ambito spicca lo speci­ fico tema dell' inferenza causale che, secondo il politologo Gary King, ha vi­ sto negli ultimi decenni acquisire conoscenze superiori a quanto appreso in tutta la storia passata (Pearl, Glymour, Jewell, 20I 6 ) . Si tratta di un terreno oggi molto importante politicamente, in cui si rinnova il confronto tra una disciplina che esercita maggior potere e si pre­ senta come rigorosa dettando l'agenda (l'economia) e le altre scienze sociali: da una parte, i metodi quantitativi - sperimentali o quasi - di analisi causale di tipo controfattuale adottati dall'economia; dall'altra i metodi più quali­ tativi di analisi della teoria del cambiamento della sociologia o gli studi di caso e gli approcci partecipati vi dell'antropologia. Due impostazioni che ri­ flettono contrapposti approcci epistemologici (rispettivamente positivismo e critica post-moderna). Anche in questo ambito, gli spazi per una fertile contaminazione sono molto maggiori di quanto accade oggi adottando al più la logica sequenziale dei metodi misti (Zupi, 20I I ) .

2.4 Osservazioni finali

In questi anni si sente spesso parlare della necessità di una trasformazione degli studi sullo sviluppo, al punto di immaginare un nuovo sistema opera­ tivo da approntare, intendendo con ciò la necessità di ridefinire domande chiave, discipline da coinvolgere e metodi di ricerca (Woolcock, 2009 ). Al di là di slogan più che altro suggestivi, come il passaggio dal consenso di Washington a quello di Pechino, nuovi equilibri multipolari di potere a livello internazionale, con l'emergere di attori globali di prima grandezza dal Sud del mondo e il correlato sostituirsi del G2o al G7 /G8, segnano proba­ bilmente il destino degli studi sullo sviluppo nel futuro prossimo. Temi come i cambiamenti climatici, la salute, i conflitti sulle risorse, la sicurezza o le migrazioni internazionali, le tecnologie ecocompatibili ma an­ che le identità culturali e religiose e, soprattutto, la natura universalistica degli SDG impongono un'agenda per il futuro che vedrà probabilmente sfu­ mare la netta distinzione tra Sud e Nord del mondo, con sfide chiave come le disuguaglianze economiche che attraversano indistintamente il pianeta e i paesi al suo interno. Parallelamente, si biforcheranno più nettamente gli stu-

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d i focalizzati o sui beni pubblici globali o sull'ambito ristretto dei paesi più poveri in cui nel futuro tornerà a concentrarsi la povertà (oggi prevalente, invece, nei paesi a medio reddito). La centralità della sostenibilità ambienta­ le imporrà la sfida di superare r attuale separazione tra scienze sociali e scien­ ze ambientali. Nel campo della practice, i margini di progresso sul fronte di un dialogo fertile tra metodi e tecniche di raccolta e analisi dei dati sono, come detto, ampi. Soprattutto, i nuovi equilibri mondiali favoriranno una decentralizzazio­ ne dei luoghi del sapere e degli studi sullo sviluppo o come saranno definiti. Schematizzando, potremmo parlare di due fasi storiche - anche in questo ca­ so non sequenziali ma con un processo di accumulazione in atto - nel cam­ po della formazione specialistica cui abbiamo sin qui assistito : a una prima fase tradizionale di mobilità di studenti cinesi - prendendo la Cina come caso emblematico di paesi emergenti - che hanno perfezionato gli studi nel­ le università occidentali (soprattutto Stati Uniti e Regno Unito, ma anche Australia, Francia e paesi scandinavi, molto poco in Italia), si è più recente­ mente aggiunta una fase di delocalizzazione delle università occidentali più dinamiche che hanno aperto filiali in paesi del Sud come la Cina (per restare al nostro esempio). La mia ipotesi è che ci sia oggi spazio per cominciare a riequilibrare i rapporti di forza nel campo del sapere e che nei prossimi anni potremo assi­ stere a una terza fase con l'apertura di filiali di università cinesi in Europa. È una fase ancora da venire e il mio interesse a partecipare a questa transizione, entrando nel mondo universitario asiatico, è evidente. Gli studi sullo svilup­ po non sono definiti tali in molte realtà africane e asiatiche, e del resto anche negli Stati Uniti questa tradizione è stata per lungo tempo ignorata. Spesso nelle università africane si identificano gli studi sullo sviluppo con un'ac­ cezione ristretta di economia agraria e politiche di modernizzazione, come nella tradizione del meridionalismo italiano, ma non c 'è dubbio che i temi degli studi dello sviluppo sono presenti, seppure classificati diversamente, in tutti i paesi in via di sviluppo. In un paese come il Vietnam ci sono oltre 200 università; l' India ha una tradizione nota a tutti; la forza dei numeri dell'economia cinese si traduce in cifre accademiche impressionanti: il 4% del PIL speso in istruzione, pari a quasi 450 miliardi di dollari r anno, circa 2.500 università e college e oltre 20 milioni di studenti, una diaspora di oltre so milioni di persone, ogni an­ no oltre Ioo.ooo nuovi immatricolati (e un totale di circa 275.000 studenti) cinesi nelle università statunitensi e circa 6o.ooo nel Regno Unito. In paesi come Cina e Vietnam le università private sono ancora allo stato nascente, r autonomia universitaria è molto ridotta e la capacità di internazionalizzar-

2.

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si è ancora solo embrionale. Tuttavia i cambiamenti sono profondi e rapidi, le opportunità che la formazione a distanza consente e le sperimentazioni in corso di cui sono stato testimone sono straordinarie, con l'avvio di pro­ getti di collegamento universitario Sud-Sud, nonostante i poli di attrazione per la mobilità degli studenti asiatici continuino a essere i paesi occidentali. Piaccia o non piaccia, indipendentemente cioè dai contenuti e dall'approc­ cio prevalente, questa è una delle trasformazioni più significative in corso, in grado di determinare un reale capovolgimento della prospettiva degli stu­ di sullo sviluppo, sin qui dettata dallo sguardo benevolo dell' Occidente e delle sue università, promotrici al più di partenariati di tipo gerarchico co­ me quelli dell'attuale programma di ricerca Horizon 2020 finanziato dalla Commissione Europea.

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Le politiche per lo sviluppo. Nuovi orientamenti di Massimo

Tommasoli

3· 1

Presentazione

Negli ultimi anni il panorama dello sviluppo ha subito una riconfigurazio­ ne che ha trasformato la natura dell'apparato della cooperazione internazio­ nale, sia sul piano bilaterale che multilaterale, ponendo nuovi interrogativi all' insieme degli attori - governativi, non governativi e intergovernativi che costituiscono il sistema dell'aiuto pubblico allo sviluppo (APS ). Il capitolo analizza i principali fattori che hanno contribuito a ripensare le politiche dell'APS e gli orientamenti che ne sono risultati e si stanno affer­ mando. Esamina sia la definizione di nuove priorità che l'affacciarsi di nuovi soggetti sulla scena della cooperazione. Il testo sottolinea l'emergere di con­ vergenze - e, nel contempo, il perdurare o il sorgere di potenziali contraddi­ zioni - tra l'Agenda 203 0 per lo sviluppo sostenibile e altre agende di politi­ ca internazionale, come quella relativa al consolidamento della pace. Prende in esame l' interazione fra attori tradizionali e nuovi soggetti dell'APS. Ana­ lizza l'adattamento ai nuovi quadri strategici di tematiche tradizionali del­ la cooperazione e l'affermazione di politiche che mettono in discussione il modo in cui l'APS è stato finora concepito e richiedono una riflessione sul ruolo a esso riconosciuto.

3·2

L'Agenda 2 0 3 0 e la sostenibilità

La mappa delle strategie di cooperazione sta cambiando. L'elemento costi­ tutivo del nuovo panorama è l'Agenda 20 30 per lo sviluppo sostenibile, ap­ provata nel settembre 2015 dall'Assemblea Generale dell' ONU a New York (United Nations, 2015d). Questo documento è stato il risultato di un ampio

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processo intergovernativo influenzato, in maniera mai sperimentata prima, da numerosi soggetti non governativi. L'Agenda 20 30 si fonda sugli obiettivi di sviluppo sostenibile (sustainable development goals, SDG ), ovvero i succes­ sori degli obiettivi di sviluppo del millennio (millennium development goals, MDG ) che hanno ispirato la cooperazione internazionale nel quindicennio 20 01-15 ( United Nations, 201 4). Tra gli elementi innovativi degli SDG rispetto agli MDG, il più signifi­ cativo consiste nella loro natura universale e globale ( Fukuda-Parr, 2016). Gli MDG, infatti, sono stati definiti nell'ambito della logica convenzionale determinata dai rapporti tra paesi donatori e paesi beneficiari. Gli SDG so­ no invece stati concepiti in un sistema di relazioni più equilibrato tra Stati. Essi si ispirano al principio di sostenibilità che sottolinea la responsabilità (accountability) di ogni stato per il conseguimento degli obiettivi globali af­ fermati nell'Agenda 2030. Un altro aspetto di innovazione degli SDG con­ siste nella loro aspirazione a trattare temi che erano stati esclusi, sottovalu­ tati o ignorati dagli MDG, nonostante il loro peso per il raggiungimento de­ gli obiettivi. Tra questi temi figurano questioni come la disuguaglianza e il complesso rapporto tra pace, giustizia e qualità delle istituzioni, oltre ad altri fattori - quali le politiche energetiche e industriali e lo sviluppo delle infra­ strutture - che comportano impatti importanti sull'ambiente. Gli MDG si erano concentrati sul tema della povertà e limitavano la que­ stione ambientale solo a uno degli obiettivi. Gli SDG sono invece fondati sul concetto di sviluppo sostenibile come aspetto qualificante dell' insieme del nuovo quadro. Essi sono stati elaborati tenendo conto di tre dimensioni ana­ litiche affermate nella Conferenza di Rio+2o nel giugno 201 2: sostenibilità sociale, economica e ambientale. Il tentativo di introdurre una quarta dimensione della sostenibilità, ov­ vero quella politica, che mette in luce l' importanza per lo sviluppo della qualità delle istituzioni ( Acemoglu, Robinson, 20 13), si è scontrato con la riluttanza di alcuni paesi a trattare apertamente temi ritenuti troppo divisivi e controversi. La sostenibilità politica è stata infatti identifìcata con l'agenda della governance, variamente declinata come democratica o buona ( il buon governo ) . Essa è stata percepita da qualche analista come un elemento impor­ tante per lo sviluppo, ma non un suo pre-requisito ( Sundaram, Chowdhury, 2012), e da alcuni paesi in via di sviluppo ( Pvs ) come una priorità per i soli paesi ricchi. La retorica dell'Agenda 2030 è incentrata sulla gente (people­ centered) e si propone che nessuno sia lasciato indietro (leave no one behind). Sembrerebbe quindi evidente, per il raggiungimento degli obiettivi afferma­ ti, la rilevanza di principi quali il godimento dei diritti umani e delle liber­ tà fondamentali, il rispetto dello stato di diritto e la qualità di istituzioni



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democratiche, efficaci e rispondenti alle necessità dei cittadini. Eppure la discussione di temi che avevano trovato uno spazio significativo nella Di­ chiarazione del millennio, quali la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto, ha rappresentato uno dei punti di maggiore tensione tra i negoziatori dell'Agenda 20 30. In effetti, il consenso che aveva marcato gli anni Novanta e il primo de­ cennio degli anni Duemila sulla capacità di tali principi di contribuire allo sviluppo è stato incrinato. Almeno tre fattori hanno eroso la fiducia nella capacità della governance democratica di contribuire allo sviluppo. Il primo è stato la crescita economica, in alcuni casi importante, di Stati "sviluppisti" (developmental States) governati da regimi autoritari o semiautoritari, quali la Cina e altre economie emergenti dell'Asia e dell'Africa. Il loro successo prefigura una via alternativa e non-democratica allo sviluppo. Il secondo fat­ tore è la diffusa e crescente crisi delle istituzioni della democrazia rappresen­ tativa manifestatasi in molti paesi industriali avanzati, soprattutto a fronte delle contraddizioni da esse mostrate nel rispondere agli effetti economici e sociali della globalizzazione dei mercati. Tra questi vanno ricordati: la de­ localizzazione delle industrie, soprattutto di quelle manifatturiere; la crisi di competitività e di produttività e le sue conseguenze sui livelli di occupa­ zione ; e gli effetti di una più libera circolazione di beni, servizi e persone in mercati sempre più integrati e interdipendenti. Il terzo fattore consiste nell'incoerenza di politiche pubbliche che non sembrano in grado di fron­ teggiare efficacemente fenomeni di corruzione e di scarsa trasparenza nei pae­ si industrializzati. A fronte di tale inefficacia sul versante domestico, quelle stesse politiche pubbliche vengono tuttavia invocate come possibili soluzio­ ni ai problemi di governance dei PVS. Sebbene il tema della governance non sia più di moda come un tempo, un'agenda che si proponga di trasformare l'approccio allo sviluppo nel se­ gno della sostenibilità deve porsi il problema di come rendere politicamente sostenibile una simile trasformazione, come risulta dalla discussione del te­ ma delle risorse necessarie per raggiungere i nuovi obiettivi.

3 ·3 Mobilitazione di risorse

La definizione degli SDG ha avuto luogo in parallelo al negoziato della ter­ za Conferenza internazionale sul finanziamento dello sviluppo, svoltasi ad Addis Abeba dal I3 al I6 luglio 20I S ( United Nations, 20I 5c ) . Un aspetto significativo di questo complesso processo è stato l' intreccio tra la costru-

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zione di consenso sui nuovi obiettivi e il dibattito sulle risorse e sui mezzi necessari per il loro conseguimento. In passato questi temi sono stati man­ tenuti disgiunti, con il risultato che gli impegni assunti in merito agli obiet­ tivi affermati nella Dichiarazione del millennio non hanno potuto contare su una base sufficiente e concordata di risorse. I fondi oggetto di negoziato, inoltre, hanno sempre riguardato l'ambito dell'APS che ha costituito il serba­ toio principale dei finanziamenti a supporto degli MDG. Nell'Agenda 2030, invece, l'approccio ai mezzi di attuazione si propone di superare l'annosa questione del volume dell'APS, tanto per l'accento posto sulla mobilitazione delle risorse sia pubbliche che private, quanto per l'universalità degli SDG che, come si è notato, non si applicano solo ai PVS ma riguardano anche i paesi donatori. Su questo tema, l'Agenda 203 0 si è mossa su un doppio binario nego­ ziale, il primo riguardante i nuovi obiettivi e il secondo relativo ai mezzi di attuazione. Quanto agli obiettivi, su insistenza soprattutto dei PVS, la defi­ nizione del SDG17 sui mezzi di attuazione è stata integrata dalla formaliz­ zazione di target specifici rivolti al conseguimento di ciascuno degli altri 1 6 obiettivi. Questo approccio si è basato sul riconoscimento dei limiti del MDG8 che auspicava un partenariato globale per lo sviluppo senza avere, pe­ rò, stabilito un quadro verificabile dell' incremento e della qualità delle risor­ se destinate al raggiungimento degli MDG. I target a suo tempo incorporati nel MDG8, infatti, a differenza di quelli compresi negli altri MDG, non ave­ vano una specificazione quantitativa o percentuale dell' incremento del vo ­ lume dell'APS nell'orizzonte temporale dato. Essi vertevano essenzialmente sull'aumento dell'A PS, sulla riduzione del debito dei PVS e sul miglioramento dell 'accesso di questi ultimi al commercio internazionale. Come riportato dal sito www.mdgmonitor.org, nel periodo 2000-14 l' incremento dell'APS in termini reali è stato pari al 66%, raggiungendo l'ammontare di 13 5,2 miliardi di dollari USA. Pur essendo un aumento da non sottovalutare in un periodo caratterizzato dalla recessione economica seguita alla crisi finanziaria del 2007-08, tale incremento è stato inferiore alle aspettative. Basti pensare che la media dell 'A PS calcolato come percen­ tuale del prodotto nazionale lordo ( PNL) dei paesi membri del Comitato per l'aiuto allo sviluppo (Development Assistance Committee, DAC) dell' oECD si è attestata nel 2014 allo 0,29% e solo cinque paesi - Danimarca, Lussem­ burgo, Norvegia, Regno Unito, Svezia - hanno superato la quota dello 0,7% indicata dalle Nazioni Unite. Il peso del debito sui PVS, calcolato come percentuale del servizio del debito rispetto al valore delle esportazioni, è diminuito dal 12% del 2000 al 3,1% del 2013. Tale miglioramento è ascrivibile a vari fattori: l'espansione



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del commercio ; un miglioramento della gestione del debito; considerevoli remissioni del debito dei paesi più poveri e condizioni favorevoli dei prestiti nel mercato internazionale dei capitali. Quanto alla mobilitazione delle risorse, l'Addis Ababa Action Agenda non si è limitata a considerare la questione dell'APS che probabilmente, sul­ la base dell'esperienza passata, non registrerà incrementi significativi; essa ha trattato anche altri aspetti qualificanti di una strategia di finanziamento dello sviluppo commisurata al livello di ambizione dell'Agenda 2030, attra­ verso meccanismi di mobilitazione di risorse quali l' innovazione, la scienza e la tecnologia per lo sviluppo sostenibile. Un incremento lineare del quadro di mobilitazione delle risorse nel periodo 20I5-30 sarebbe del tutto insufficiente per raggiungere gli ambi­ ziosi SDG, per i quali è stata stimata la necessità di investimenti dell'ordi­ ne di 3.ooo miliardi di dollari USA all'anno, considerando l ' insieme dei paesi membri dell' ONU. Di questi, circa 1.400 miliardi all'anno sarebbero necessari per il gruppo costituito dai paesi più poveri e quelli compresi nella fascia più bassa dei paesi a medio reddito. Se l 'APS si mantenesse ai livelli attuali, o il suo aumento medio riflettesse l 'andamento degli ultimi anni, gli SDG non potrebbero essere conseguiti dai PVS. Per questi ultimi risulterebbe pertanto decisivo il contributo di altre fonti di finanziamen­ to, soprattutto di quelle del settore privato. Schmidt-Traub ( 20I5) stima che circa metà del fabbisogno possa essere finanziato da fonti private e che la mobilitazione di risorse domestiche, soprattutto attraverso la fiscali­ tà, possa aumentare significativamente, riducendo il gap di finanziamento per tali paesi entro la forbice compresa tra I 52 e I63 miliardi di dollari USA all'anno , pari allo 0,22%-0,26% del PNL dei paesi ricchi. Globalmente, un volume aggiuntivo di finanziamento compreso tra l' I,5% e il 2,5 % del PNL mondiale dovrebbe essere investito ogni anno dal settore pubblico e da quello privato per raggiungere gli SDG in ogni paese. Se le fonti tradizionali di finanziamento non riusciranno probabilmente a fare fronte alle esigenze della nuova Agenda, sarà necessario trovare forme innovative di mobilitazione delle risorse. Gli ultimi anni hanno registrato l'emergere di nuovi donatori nel panorama dell'A PS. Ciò ha riguardato inna­ zitutto il campo governativo, in concomitanza con il ruolo geopolitico svol­ to da paesi che, in passato beneficiari dell'APS, nel corso degli ultimi decenni si sono affermati come potenze economiche emergenti sulla scena mondiale. Un nuovo protagonismo ne è risultato sul piano della cooperazione bilate­ rale e multilaterale. Si pensi alla costituzione di agenzie per la cooperazio­ ne internazionale in paesi come Cile, Messico, Indonesia e Turchia, oppure all'attivismo di Brasile, Sudafrica e India, sia singolarmente che in coordi-

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namento con Cina e Russia, nell'ambito del raggruppamento dei cosiddetti BRICS ( Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) . Tra i nuovi donatori gover­ nativi vanno considerati anche i paesi dell' Europa centrale e orientale usci­ ti dalla transizione politica ed economica conseguente alla fine della guer­ ra fredda. In ogni caso, i contributi di questi nuovi donatori non potranno compensare il gap di finanziamento che già adesso, a oltre un anno dall' ap­ provazione dell'Agenda 2030, si può osservare. La situazione è inoltre desti­ nata a peggiorare a fronte della prevedibile contrazione del volume dell'APS come conseguenza delle crisi determinate dai flussi di migranti, rifugiati e profughi interni (internally displacedpeople, IDP ) , cresciuti esponenzialmen­ te negli ultimi anni, la cui assistenza dipende in larga misura dai fondi della cooperazione internazionale. Sebbene i contributi dei nuovi attori sopra indicati possano nel com­ plesso risultare significativi, il flusso di risorse necessario a rispondere alle esigenze individuate nell'Agenda 203 0 richiederà sforzi ingenti da parte di tutti i soggetti coinvolti che vanno ben oltre i livelli finora raggiunti o preve­ di bili nel breve termine.

3·4 Inclusione e responsabilità

Il processo negoziale che ha portato agli SDG è stato assai diverso rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Oltre alle differenze nel merito dei nuovi obiettivi, infatti, esistono importanti innovazioni nel metodo attraverso il quale il consenso necessario per la loro adozione è stato cercato e raggiunto. Gli MDG sono stati il risultato di un'operazione che, nonostante le notevo­ li implicazioni politiche, ha avuto una matrice essenzialmente tecnocratica. La definizione degli MDG è stata avviata da varie organizzazioni multilatera­ li e guidata dal segretariato dell' ONU nel corso dell 'anno successivo all'ado­ zione della cosiddetta Dichiarazione del millennio del 2ooo. Tale iniziativa ha avuto il fine di rendere operativi gli impegni affermati nella Dichiarazio­ ne dai paesi membri, attraverso la definizione di obiettivi misurabili, da un livello più generale ( quelli che sono poi divenuti gli otto obiettivi ) a uno in­ termedio ( i cosiddetti target ) per finire con gli indicatori necessari per misu­ rare il grado di conseguimento degli MDG entro il 2015. L'esigenza di opera­ tività che ha guidato tale esercizio ha spinto gli esperti delle Nazioni Unite a definire prima i target, derivati selettivamente dagli impegni sottoscritti dal­ la comunità internazionale nel corso delle conferenze globali degli anni No­ vanta, soprattutto in materia di lotta alla povertà. Una volta individuati, tali

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target sono stati aggregati negli MDG e disaggregati negli indicatori che han­ no costituito la base per il monitoraggio dell'attuazione del nuovo quadro. Gli SDG, invece, sono stati il coronamento di un'operazione della quale i paesi membri hanno voluto mantenere il controllo politico. Nonostante il quadro negoziale intergovernativo, tuttavia, la definizione dei nuovi obiet­ tivi è stata significativamente influenzata da attori non governativi. Essa è stata avviata, come si è detto, nella conferenza di Rio+2o, che ha innanzi­ tutto intepretato il quadro post-20I5 con un forte accento sullo sviluppo sostenibile, da cui deriva l'uso di sustainable al posto di millennium nell'a­ cronimo SDG. La Dichiarazione finale di Rio+2o ha sottolineato la natura multidimensionale della sostenibilità, con riferimento ai suoi aspetti sociali, economici e ambientali. I paesi membri dell' ONU hanno poi stabilito che il processo per la definizione degli SDG avrebbe dovuto essere intergover­ nativo, sia pure in un quadro di trasparenza, partecipazione e consultazio­ ne di altre istanze non governative. Sebbene la rappresentatività e l'effettiva trasparenza del processo negoziale, condotto dalle delegazioni governative, siano risultate inferiori alle aspettative di alcuni attori, si deve riconosce­ re che lo spazio pubblico di discussione degli SDG ha raggiunto livelli mai sperimentati prima. Ciò è stato consentito dal crescente peso che gli attori transnazionali della società civile hanno esercitato, ad esempio grazie alla conduzione di ricerche e analisi orientate a fornire indicazioni rilevanti per i decisori politici. Tale ruolo è stato ulteriormente rinforzato dall'uso di nuo ­ ve tecnologie digitali e telematiche, che non solo hanno ampliato l'accesso alle informazioni da parte di un numero mai così ampio di soggetti non go­ vernativi, ma hanno anche consentito modalità di consultazione capillari e rapide, almeno nelle aree non affette dal persistente digita! divide. In tal modo, rispetto agli MDG, formulati nel 2oo i ma accettati da alcuni Stati solo nel 2005, gli SDG sono stati politicamente condivisi fin dall'approvazione dell'Agenda 20 3 0. Si tratta di un quadro assai più com­ plesso e articolato di quello precedente, con I7 obiettivi rispetto agli 8 de­ gli MDG, I 69 target rispetto a 2I e oltre 230 indicatori rispetto a 6o che, come abbiamo visto nella discussione sulla mobilitazione delle risorse, po­ ne maggiore enfasi sull'attuazione degli impegni. Beninteso, il meccani­ smo di revisione efollow-up definito nell'Agenda 20 3 0 è più debole rispet­ to a quanto alcuni soggetti della società civile avevano auspicato. Eppure lo sforzo speso per assicurare un meccanismo di controllo dell'attuazione dell'Agenda non è stato vano, dati gli ostacoli frapposti da alcuni paesi che hanno sottolineato la natura non legalmente vincolante dell'Agenda, a differenza di altri protocolli internazionali, come l 'Accordo di Parigi sulle emissioni di gas serra raggiunto nel dicembre 20I5 nell'ambito della Con-

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venzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Non è un caso che l'uso del termine accountability sia stato a lungo ostacolato nel timore che tale principio, per quanto ovvio in un'Agenda qualificata co­ me people-centered, nascondesse il rischio dell' imposizione di nuove con­ dizionalità legate al rispetto dei diritti umani o all 'attuazione di riforme politiche e istituzionali. L'ambivalenza degli aspetti politici dello sviluppo è la ragione per la quale la definizione della sostenibilità che ha guidato il negoziato si è limi­ tata alle tre dimensioni alle quali si è accennato - sociale, economica e am­ bientale - ignorando quella politica. Quest 'ultima è tuttavia rilevante, se non decisiva, per molti paesi che hanno avuto difficoltà o non sono riusciti a raggiungere gli M D G , come quelli colpiti da guerre civili e conflitti vio­ lenti. Tale dimensione è strettamente connessa alla qualità delle istituzioni di governo e del rapporto tra Stato e cittadini. Questo principio, sebbene non esplicitamente, è stato di fatto riconosciuto attraverso l' introduzio­ ne, tra i 17 nuovi obiettivi, dell'sD G I 6 che si prefigge di promuovere so­ cietà pacifiche e inclusive, di garantire accesso alla giustizia e la creazione istituzioni inclusive, efficaci e responsabili. Si è trattato di uno dei punti più dibattuti del negoziato in quanto ha rappresentato l'accettazione im­ plicita dell ' interazione tra questioni in precedenza trattate come agende separate, vale a dire il rapporto controverso, talvolta ambiguo, ma ormai incontrovertibile esistente tra i tre pilastri dell'azione delle Nazioni Unite : sviluppo, diritti umani e pace e sicurezza.

3·S Pace, sicurezza e sviluppo : coerenza tra agende differenti

Mentre lavorava alla definizione dell'Agenda 20 3 0, nel periodo 2014- 1 5 la comunità internazionale ha ripensato il sistema multilaterale di prevenzio­ ne dei conflitti e di intervento per il mantenimento e il consolidamento della pace. La riflessione che ne è risultata è stata il prodotto di tre proces­ si paralleli di revisione di altrettanti strumenti e modalità di intervento. Questi processi hanno riguardato rispettivamente l'architettura interna­ zionale del consolidamento della pace (peacebuilding architecture), le ope­ razioni di pace e la risoluzione 1 3 25 del Consiglio di sicurezza dell' ONU sul ruolo delle donne in tale ambito (United Nations, 2015a, 201 5 b ; UN Women, 201 5 ; Stamnes, Osland, 201 6). Uno degli elementi di novità affrontati in queste revisioni è stato con­ siderare le minacce poste alla stabilità degli Stati da parte di soggetti non

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statali che si pongono tra i principali attori violenti del mondo contempo­ raneo, come le reti transnazionali del crimine organizzato o i fondamen­ talismi religiosi e le frange estreme del terrorismo internazionale che agi­ scono negli interstizi della sovranità degli Stati nazionali. La loro azione violenta mina le condizioni sociali, economiche e politiche alla base dello sviluppo. Questioni che un tempo non lontano erano considerate come campi separati delle relazioni internazionali, quali quelli della sicurezza e dello sviluppo, sono oggetto di un processo di riflessione nel quale emer­ gono convergenze e temi che rimescolano e riaggregano competenze in nuove configurazioni e specializzazioni. Fino alla metà degli anni Novan­ ta, nel mondo della cooperazione, qualunque collegamento tra l'agenda dello sviluppo e dei diritti umani e quella della sicurezza era visto come un rischio. Si riteneva che avrebbe provocato una subordinazione dell'u­ na all'altra, tale da compromettere l' integrità dei principi di chi lavorava nell 'ambito dell'APS, ovvero gli interessi nazionali dei paesi donatori. Og­ gi il legame tra tali agende è oggetto di analisi e collaborazione da parte di molti soggetti attivi in campi assai diversi, dalla cooperazione alla difesa, dalla giustizia all' intelligence. Un terreno nel quale si intersecano agende di politica pubblica così differenti e, fino a poco tempo fa, distanti è costituito dalle cosiddette "fragilità". Con questo termine ci si riferisce a una categoria di paesi o si­ tuazioni caratterizzate da condizioni di fragilità economica, sociale e poli­ tica. Tra queste si possono annoverare : una situazione endemica di violen­ za diffusa, a volte marcata da una guerra civile, più spesso affetta da con­ flitti a bassa intensità; istituzioni statali, a livello sia centrale che decen­ trato, estremamente deboli; ampie porzioni di territorio nominalmente soggette alla sovranità dello Stato ma in realtà controllate da soggetti non governativi di natura illecita in grado di imporre assetti istituzionali anti­ tetici all 'autorità dello Stato ; estrazione di risorse naturali - in paesi che ne risultano talvolta assai ricchi - a esclusivo vantaggio di élites e gruppi di pressione che esercitano un controllo sistematico sul patrimonio dello Stato. Alcuni approcci pongono l'enfasi sulla fragilità dei cosiddetti Stati fal­ liti (jàiled states) , mentre altri sottolineano l'esistenza di stati di fragilità anche in paesi apparentemente meno vulnerabili al conflitto. Si stima che circa I,S miliardi di persone vivano in paesi colpiti da conflitto violento ( World Bank, 2 0 1 1 ) e che negli ultimi IS anni una persona su due al mon­ do sia stata esposta a una qualche forma di violenza politica ( OEC D , 20 I 6) . Alcuni paesi emersi da guerre civili o a rischio di ricorrenza di conflitti violenti si sono riuniti nel cosiddetto G7+, un raggruppamento composto

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da 20 Stati che si sono impegnati a rinforzare le proprie istituzioni, in base al principio che riconosce uno stretto legame tra costruzione dello Stato e consolidamento della pace. Situazioni di fragilità possono caratterizzare anche paesi stabili, ad esempio a seguito della penetrazione della criminalità organizzata o in conseguenza di una diffusa e sistematica presenza di pratiche di corruzio­ ne. Complementare alla questione della fragilità risulta pertanto l'enfasi posta sul tema della resilienza (resilience) a fronte della proliferazione di situazioni di fragilità, non solo negli Stati falliti, ma anche nell'ambito di formazioni statali solide un tempo privilegiate dai donatori per via della loro natura di developmental States. Il tema forte che lega i tre processi di revisione sopra indicati è la pre­ venzione dei conflitti violenti. Il cuore della nuova architettura di conso­ lidamento della pace affermata dal Consiglio di sicurezza e dall 'Assemblea Generale dell' ONU consiste nel concetto di sostegno alla pace (sustaining peace ) . Tale termine si riferisce a tutte « le attività che mirano a prevenire lo scoppio, l' intensificazione, la continuazione e la ricorrenza di conflitti, affrontando le cause alla radice, assistendo le parti in conflitto a porre fi­ ne alle ostilità, assicurando la riconciliazione nazionale, e muovendo ver­ so il recupero, la ricostruzione e lo sviluppo » ( United Nations Security Council, 201 6, trad. mia) . Il principio del sostegno alla pace dovrebbe ri­ guardare tutte le dimensioni del lavoro delle Nazioni Unite. Il legame tra la prevenzione dei conflitti e lo sviluppo non è mai stato tanto sottolineato quanto oggi, almeno nella retorica ufficiale dei prin­ cipali fori di politica internazionale. L'Agenda 203 0, in particolare con il S D G I 6, e l'architettura del consolidamento della pace, con l'enfasi sul con­ cetto di sustaining peace, condividono molti punti. Sono ambedue riferite a tutti i paesi e non solo a quelli che emergono da una situazione di con­ flitto ; si definiscono entrambe people-centered; ambedue pongono enfasi sul tema della prevenzione, sull' interdipendenza dell'azione in differenti settori e campi di intervento ; entrambe riconoscono il ruolo critico delle istituzioni, la responsabilità dei governi e un ampio partenariato che coin­ volga gli attori della società civile per affrontare i fattori economici e socia­ li che sono alla base dei conflitti violenti. Nonostante tale retorica, però, la comunità internazionale mostra i limi­ ti della propria azione. Ciò è evidente quando non dà risposte adeguate alla crisi umanitaria posta dall' incremento esponenziale dei flussi di rifugiati e migranti a seguito del conflitto in corso in Medio Oriente, oppure quando non risolve i conflitti violenti che colpiscono altre regioni destabilizzate dal­ le forze dell'estremismo violento di matrice islamica.

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3 ·6 Osservazioni finali

Riusciranno gli attori della diplomazia e della cooperazione internazionale, sulla base dell'attuale riflessione, a rendere più efficace e coerente la propria azione ? Un tempo i limiti dell'APS potevano essere, almeno in parte, imputati a un difetto di analisi. Il consenso che si sta registrando oggi sul nesso fonda­ mentale esistente tra le differenti agende dello sviluppo, della pace e dei di­ ritti umani dimostra che il fattore cruciale è, piuttosto, un difetto di volontà politica. Da ciò deriva un doppio paradosso che caratterizzerà i prossimi anni. Il primo riguarda il rapporto tra obiettivi, analisi e mezzi. Da un lato, gli orien­ tamenti di cui la comunità internazionale si sta dotando le mettono a dispo­ sizione nuovi strumenti analitici in grado di condurre analisi sofisticate e approfondite di fenomeni che in passato non erano percepiti come correlati. Dali' altro lato, in un periodo di crisi della fiducia nel multilateralismo e di conseguente contrazione delle risorse a esso destinate, diventano sempre più scarsi i mezzi necessari per trasformare la nuova sensibilità maturata in una prassi efficace di intervento. Il secondo paradosso riguarda il legame tra sviluppo e sicurezza. Mentre alcuni attori sulla scena internazionale guardano ai fenomeni di trasforma­ zione in atto, come i grandi movimenti di popolazione, attraverso le lenti dello sviluppo e dei diritti umani, altri interlocutori usano le lenti della sicu­ rezza, giungendo a conclusioni politiche opposte. Il dialogo tra queste diverse concezioni del cambiamento influenzerà lo sviluppo nei prossimi anni. I soggetti della cooperazione internazionale han­ no la responsabilità di rispondere a questa sfida sulla base della forza della loro visione di lungo termine, delle loro esperienze sul campo e della loro ca­ pacità di rispondere efficacemente alle nuove esigenze emergenti. Riferimenti bibliografici

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Le sfide della sostenibilità di

Gianfranco Bologna

4-1 Presentazione

L'estensione e la scala delle interazioni tra la biosfera e la specie umana nei secoli recenti sono senza alcun precedente. L' intervento umano ha ormai alterato - e sta continuando a farlo - la dinamica degli ecosistemi in tutto il mondo, modificando persino gli equilibri che si sono raggiunti nel sistema climatico degli ultimi 1 1.000 anni. La sfida che l'umanità oggi ha di fronte è epocale. La pressione umana sui sistemi naturali è completamente insostenibile e, con i grandi cambia­ menti globali che abbiamo indotto nella natura, la nostra stessa civiltà è a rischio. Questi temi dovrebbero essere al primo posto delle agende politiche internazionali. Oggi la popolazione umana sulla Terra è di oltre 7 miliardi e 3 5 0 milioni, più di 9 volte gli 8oo milioni di persone che si stima vivessero nel 1750, data indicata come inizio della Rivoluzione industriale. Questa cifra dovrebbe raggiungere, seguendo la variante media indicata dalle Nazioni Unite nei suoi World Population Prospects (che è la più attendibile), i 9,7 miliardi di abitanti nel 2o5o. La popolazione mondiale continua a crescere a un tasso di circa 83 milioni l'anno. Le dimensioni dell'economia mondiale sono anch'esse senza precedenti; il prodotto mondiale lordo viene stimato attualmente in 9 0.000 miliardi di dollari che sono almeno 200 volte quelle del 1750 (anche se si tratta di un confronto difficile perché buona parte dell'economia mondiale è oggi costi­ tuita da beni e servizi che oltre 250 anni fa non esistevano) (Sachs, 2015). Il mondo vive una gravissima situazione, con numerose e pesanti ingiustizie sociali, ormai intollerabili, e si aggravano sempre di più le differenze esisten­ ti tra chi è molto ricco e chi è molto povero. Ogni giorno che passa inoltre non facciamo altro che indebolire la capacità che i sistemi naturali hanno di "supportarci" e di metabolizzare gli "scarti" della nostra attività.

G I A N F RA N C O B O L O G NA

Appare ormai sempre più chiaro che è francamente impossibile pensare di proseguire con scenari del tipo business as usual. Sono necessarie e urgen­ ti svolte profonde nel nostro modo di intendere i nostri sistemi sociali ed economici e le relazioni con il mondo della natura dal quale proveniamo, dal quale dipendiamo e senza il quale non possiamo vivere. È indispensabile avviarsi su strade di sviluppo delle società umane che consentano la sosteni­ bilità del nostro intervento in relazione ai chiari limiti biofisici del pianeta e nel rispetto della vita di ogni essere umano. Ma è realmente possibile imboccare la via della sostenibilità con una po­ polazione, un impatto ambientale e un degrado sociale tutti in crescita ? Credo che sia evidente a chiunque che su questa strada è impossibile continuare e che il mondo intero debba rapidamente abbandonare il per­ corso della crescita continua per virare concretamente verso la sostenibilità, come ha straordinariamente indicato anche papa Francesco nella sua eccel­ lente enciclica Laudato si '. Dal periodo geologico dell' Olocene ( iniziato circa 1 1.700 anni fa) siamo passati a un'era geologica ( che possiamo considerare un vero batti t o di ciglia nella storia dei 4,6 miliardi di anni del nostro pianeta) che gli studiosi riten­ gono debba definirsi appunto Antropocene, con un mondo dominato da una sola specie, la nostra, con gli ambienti delle terre emerse trasformati per almeno il 75% della loro superficie e quelli marini profondamente modifica­ ti e inquinati ( Crutzen, Stoermer, 2ooo; Crutzen, 200 2; Ellis, 201 1 ; Steffen et al. , 2015b; Zalasiewicz et al., 201 1 ; Williams et al., 2015 ) . Oggi disponiamo di un'incredibile quantità di informazioni sullo stato di salute del nostro pianeta. Le significative trasformazioni che hanno subito, a causa dell'intervento umano, tutti gli ecosistemi della Terra sono ormai ben documentate dalle ricerche dei numerosi programmi scientifici internaziona­ li dedicati al global environmental change ( GEC ) che, nel 201 3 , hanno visto la nascita del nuovo grande programma decennale Future Earth: Research Jor Global Sustainability, voluto e patrocinato dalla più grande organizzazio­ ne scientifica del mondo, l' lnternational Council for Science ( 1csu ) insieme all' lnternational Social Sciences Council ( 1ssc ) . Ormai abbiamo perso decenni importanti per invertire la rotta dei no­ stri modelli di crescita continua, materiale e quantitativa, che si sono ormai diffusi in tutte le culture e le società del pianeta. La Terra non è in pericolo; in pericolo è invece l'umanità e la nostra civiltà, la cui evoluzione è stata pos­ sibile solo grazie ai beni e ai servizi che la natura e la biodiversità ci hanno fornito ; contestualmente è in pericolo la straordinaria biosfera, che sta con­ dividendo con noi questa fase di vita della Terra, senza la quale non possia-



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mo vivere ma della cui distruzione oggi noi stessi siamo i principali protago­ nisti (Barnosky, Hadly, 2015). La nostra Terra ha dato sin qui prova di aver contribuito ad attenuare l' impatto umano rispetto a vari fenomeni (ad esempio, attenuando gli effetti delle emissioni di gas serra, dei processi di deforestazione e di degrado dei suoli) riuscendo, ad esempio, ad assorbire sostanze prodotte dall' industria umana, facendo adattare gli ecosistemi e modificando le catene alimentari. Abbiamo le prove scientifiche che dimostrano come la pressione che esercitiamo sulla Terra potrebbe aver raggiunto la soglia di saturazione e ab­ biamo sempre più chiaro il fatto che non possiamo oltrepassare i confini pla­ netari (planetary boundaries) indicati dalla comunità scientifica. Oltrepassare questi confini comporta il passaggio di "punti critici", cioè quegli effetti soglia che ancora abbiamo difficoltà a indicare con esattezza, perché, nonostante gli straordinari progressi sin qui fatti, la comprensione scientifica del sistema Terra è ancora molto incompleta. È però molto importante tener presente che diversi e significativi guardrails sono stati innalzati dalla nostra conoscenza scientifica e sarebbe pura follia non rispettarli. Rispettar! i significa evitare l'approssimarsi ai punti critici e applicare percorsi di sostenibilità al nostro sviluppo.

4· 2 L'oggetto della sostenibilità : l'analisi e la gestione dei social-ecological systems

Ancora oggi, nell'accezione comune, il termine sostenibilità non è affatto chiaro e si presta a numerose e confuse interpretazioni e tutto questo pro­ prio mentre assistiamo a importantissimi progressi nella conoscenza scienti­ fica che dovrebbero invece aiutare questo difficile compito. Negli ultimi anni è infatti nata una disciplina molto innovativa che vie­ ne definitasustainability science, la scienza della sostenibilità. Essa appare co­ me una vera e propria confluenza di numerose discipline, capace di integrare gli avanzamenti continui delle conoscenze di fisica, chimica, biologia, geo­ logia, ecologia e scienze sociali con nuove discipline di frontiera, quali l'eco­ nomia ecologica, la biologia della conservazione, l'ecologia industriale ecc. È solo rafforzando la nostra conoscenza di base, consentendole di essere interdisciplinare, flessibile, innovativa, aperta alla contaminazione di tanti altri ambiti del sapere, che saremo in grado di avviare percorsi significativi mirati a raggiungere la sostenibilità del nostro benessere e del nostro svilup-

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po su questo meraviglioso pianeta Terra. E soprattutto se saremo capaci di connettere e non di disgiungere. La sostenibilità è però un concetto complesso e articolato che viene pur­ troppo ancora continuamente banalizzato. La complessità che la caratterizza e le oggettive difficoltà di attuare concretamente azioni, comportamenti e politiche che siano in grado di metterla in pratica, modificando i ben strut­ turati modelli mentali, culturali e pratici oggi dominanti, provocano una forte confusione, che non favorisce, purtroppo, una sua corretta definizione. La sostenibilità è costituita da tanti elementi che devono essere sempre tenuti in connessione tra loro e già questo costituisce una notevole sfida alla nostra mentalità abituata a pensare seguendo logiche lineari di causa ed ef­ fetto e ai nostri conseguenti comportamenti. Volendo semplificare il concetto in una semplice definizione, possia­ mo affermare che sostenibilità vuol dire imparare e vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici dell'unico pianeta che siamo in grado di abitare : la Terra. Oggetto fondamentale delle ricerche sulla sostenibilità sono i social­ ecological systems (sEs ) , cioè la capacità di comprendere le interazioni e i le­ gami esistenti tra gli esseri umani e i sistemi naturali e come sia possibile ge­ stirli al meglio.

4·3 Le scienze del sistema Terra e i planetary boundaries: il nostro sajè and operating space

Autorevoli scienziati (Rockstrom et al., 2009; Steffen et al , 2015a) hanno documentato come il nostro impatto sui sistemi naturali sia ormai vicino a raggiungere quei punti critici (tipping points ), oltrepassati i quali, gli effetti a cascata che ne derivano, possono essere veramente ingovernabili e deva­ stanti per l'umanità. Per questo motivo si sono spinti a indicare dei "confini planetari" (planetary boundaries) che l' intervento umano non può supera­ re, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali (Rockstrom, Klum, 2015). Si tratta di nove grandi problemi planetari tra di loro strettamente connes­ si e interdipendenti: il cambiamento climatico, l'acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo bio­ geochimico dell'azoto e del fosforo, l'utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell'utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmo­ sferici, l'inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.



LE SFIDE D ELLA SOSTENIB ILITÀ

Per quattro di questi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodi­ versità, la modificazione del ciclo dell'azoto e del fosforo e le modificazioni dell'uso dei suoli ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi. Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio che definisce quell'area come "uno spazio operativo sicuro per l'wnanità" (safe and opera­ ting space, sos ). Il concetto dei confini planetari consente di evidenziare in maniera efficace complesse questioni scientifiche a un vasto pubblico, metten­ do in discussione le concezioni tradizionali delle nostre impostazioni econo­ miche. Mentre l'economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una "esternalità" che ricade in gran parte fuori dell'economia monetizzata, gli scienziati naturali hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell'uso di risorse entro cui l'economia glo­ bale dovrebbe operare se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra, con effetti devastanti sull'intera umanità. Tali confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali a ga­ rantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello che si è avuto durante il periodo abbastanza stabile dell' Olocene. Il dibattito scientifico e le applicazioni pratiche del concetto dei "confini planetari" si sono andati sempre più diffondendo e ampliando nei dibattiti di politica internazionale incrociandosi con le riflessioni di carattere sociale.

4·4 L' incrocio d e i planetary boundaries con le

socialfoundations:

l a doughnut economics, il nostro sajè andjust spacejòr humanity Kate Raworth (2012, 2017) ha ampliato queste ricerche sui confini planetari con le riflessioni di ambito sociale, cercando di individuare uno « spazio equo e sicuro per l'wnanità » (safe an djust spacefor humanity). Il benessere umano dipende, oltre che dal mantenimento dell'uso com­ plessivo delle risorse in un buono stato naturale complessivo che non scenda sotto certe soglie, anche, e in misura uguale, dalle necessità dei singoli indivi­ dui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita digni­ tosa e con le giuste opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto morale a risorse fon­ damentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Quindi, come esiste un confine esterno all'uso delle risorse, un "tetto" oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile, così esiste un confine interno al prelievo di

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risorse, un "livello sociale di base" (un "pavimento") sotto cui la deprivazio­ ne umana diventa inaccettabile. Dal 2ooo i cosiddetti obiettivi del millennio (millennium development goals, MDG ) hanno rappresentato un importante quadro di riferimento per le priorità sociali di sviluppo e hanno trattato varie privazioni, di red­ dito, nutrizione, uguaglianza di genere, salute, istruzione, acqua e servizi igienico-sanitari, la cui urgenza non è stata risolta. Oggi l'Agenda 20 3 0 e i I7 obiettivi di sviluppo sostenibile (sustainable development goals, SDG ) in essa declinati e approvati dalle Nazioni Unite nel 20I5 costituiscono un punto di riferimento molto importante per l 'attuazione di politiche di so­ stenibilità in tutto il mondo. La Raworth ha individuato I I priorità sociali - quali il cibo, l'acqua, l'assi­ stenza sanitaria, il reddito, l' istruzione, l'energia, i posti di lavoro, il diritto di espressione, la parità di genere, l'equità sociale e la resilienza agli shock - indi­ candole come una base sociale esemplificativa e incrociandole con i confini planetari. Si viene così a formare, tra questi diritti di base sociali (una sorta di "pavimento sociale") e i "tetti ambientali" dei confini planetari, una fascia a forma di ciambella che può essere definita sicura per l'ambiente e socialmen­ te giusta per l'umanità. Questa analisi della Raworth viene comunemente definita "l'economia della ciambella" (doughnut economics). Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo i fautori dei di­ ritti umani hanno sottolineato l' imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l'economia globale entro i limiti am­ bientali. Questo spazio equo e sicuro, il safe andjust space for humanity, è una combinazione dei due approcci, e crea una zona che rispetta sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale, riconoscendo anche l'esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i molteplici confini e al loro interno.

4 ·5 I concetti centrali della sostenibilità : la resilienza e la vulnerabilità

La grande sfida per raggiungere la sostenibilità del nostro sviluppo nell' im­ mediato futuro è riuscire a comprendere quale sia il numero ottimale della nostra popolazione e il relativo stile di vita necessario a rispettare le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali che ci sostengono. Come abbia­ mo visto le conoscenze sin qui acquisite negli articolati campi delle scienze



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del Sistema Terra ci dicono chiaramente che non è possibile perseguire la sostenibilità dello sviluppo umano se non siamo capaci di imparare a vivere negli ormai evidenti limiti biofisici dei sistemi che ci sostengono. Ciò significa, nel concreto, limitare la crescita della popolazione, i li­ velli di flusso dell'energia e delle materie prime e quindi i nostri consumi e perciò la necessità di modificare profondamente i nostri modelli di pro­ duzione e sfruttamento della natura che ci circonda. Il concetto di resilienza sta diventando sempre più diffuso e utilizzato in diverse discipline. La resilienza viene considerata come la capacità di un sistema (quindi anche un sistema naturale, un sistema sociale, un essere umano ecc.) di rispondere positivamente alle perturbazioni che lo posso­ no disturbare consentendogli poi di tornare allo stato precedente all'azio­ ne della perturbazione. La resilienza è misurata dal grado di disturbo che può essere assorbito prima che il sistema cambi la sua struttura, mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento. La resilienza di un ecosistema co­ stituisce quindi la capacità di tollerarlo senza collassare in uno stato qua­ litativo differente. Il sistema che ha minore resilienza inevitabilmente accresce la propria vulnerabilità. Perciò la gestione dei sistemi socio-ecologici deve essere indi­ rizzata a mantenere alto il livello di resilienza e basso quello di vulnerabilità. L'intervento umano purtroppo accresce la vulnerabilità dei sistemi socio­ ecologici (social-ecological systems, SES ) . La vulnerabilità rappresenta la propensione dei SES a soffrire il danno dovuto alle esposizioni agli stress esterni e agli shock che indeboliscono i sistemi stessi e li rendono sempre più fragili.

4· 6 I "semi" per concretizzare un buon Antropocene

Sino ad ora le nostre società hanno perseguito modelli di sviluppo socio­ economico che si sono basati sulla crescita continua dell'utilizzo degli stock e dei flussi di materia ed energia da trasferire dai sistemi naturali a quelli sociali. Al centro dei processi economici non è stato collocato il capitale fondamentale che ci consente di perseguire il benessere e lo sviluppo delle nostre stesse società e cioè il capitale naturale, costituito dalla straordinaria ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta. Non avendo sin qui fornito un valore ai sistemi idrici, alla rigenerazione del suolo, alla compo­ sizione chimica dell'atmosfera, alla ricchezza della diversità biologica, alla

G IANFRA N C O B O L O G NA fotosintesi, solo per fare qualche esempio, le nostre società presentano ormai livelli di deficit nei confronti dei sistemi naturali molto superiori a quelli che l'attuale crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando dal 200 8 re­ gistra nelle contabilità economiche in tutti i paesi del mondo. I deficit economici derivano da un sistema di regole, di norme e mec­ canismi di funzionamento ( o, viceversa, dalla mancanza di regole e norme ) stabilite dalla cultura umana e, come tali, potenzialmente modificabili nel caso di nuove impostazioni culturali e politiche, mentre i deficit ecologici sono frutto di una dilapidazione materiale che sorpassa le capacità biofisi­ che rigenerative e ricettive dei sistemi naturali ai quali diventa sempre più difficile, se non impossibile, porre rimedio. L'economia ha purtroppo ra­ gionato molto sulla natura del valore ma non sul valore della natura. Il capitale naturale non può essere di fatto "invisibile" all'economia co­ me avviene attualmente, ma è centrale e fondamentale per la sopravvivenza dell' intera civiltà umana: dobbiamo quindi "mettere in conto" la natura, ri­ conoscerle un valore fisico e monetario. La contabilità economica deve esse­ re affiancata da una contabilità ecologica. Il valore del capitale naturale deve influenzare i processi di decision making politico-economici e fare avviare una nuova green economy. È praticamente impossibile prospettare un futuro vivibile per le nostre società se non saremo capaci di cambiare registro agli attuali modelli econo­ mici e trovare finalmente il modo di dare un valore alla natura e di riuscire a vivere concretamente in armonia con essa ( Bologna, 2oqa, 2 o qb ) . Dall'inizio degli anni Novanta diversi studiosi hanno presentato, co­ me applicazione concreta di politiche della sostenibilità, l' ipotesi dell' envi­ ronmental space (Es), lo "spazio ambientale", cioè il quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, acqua, legname e di capacità di assor­ bire inquinamento che ciascun individuo può utilizzare senza determinare danni ambientali, senza mettere a rischio i diritti delle generazioni future e senza ledere quello di tutti di accedere alle risorse e a una buona qualità della vita ( Carley, Spapens, I 9 9 9 ) . Ad esempio, per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica, sap­ piamo che per mantenerci in ambiti ritenuti abbastanza sicuri rispetto al peggioramento dei cambiamenti climatici già in atto, non dovremmo su­ perare una o al massimo due tonnellate pro capite annue, mentre oggi, so­ prattutto nei paesi ricchi, superiamo persino le I o tonnellate. Il concetto di spazio ambientale si lega perfettamente a quello dei planetary boundaries e costituisce un elemento integrante della valutazione del nostro safe andjust operating spaceJor humanity.



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Tutti i paesi del mondo dovrebbero dotarsi di un Comitato nazionale per il capitale naturale, come ad esempio ha fatto la Gran Bretagna e, for­ tunatamente, grazie a una significativa azione del WWF, anche l' Italia (con la legge 28 dicembre 2015, n. 221 ), per mettere a disposizione delle pratiche politiche misure e indicatori con l'obiettivo di illustrare come il valore della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi siano parte costitutiva della ric­ chezza di una nazione, un loro asset strategico, fondamentale per il benesse­ re e lo sviluppo di tutti gli abitanti. Ormai è stato dimostrato come l ' indicatore del PIL (prodotto interno lordo) non sia affatto sinonimo reale di ricchezza e benessere di un paese o di una comunità ed esiste un 'amplissima letteratura, nonché tanti esempi alter­ nativi concreti già avviati in diversi paesi del mondo, destinata ad allargare il set di indicatori in base ai quali andrebbe valutato il benessere di una na­ zione, di una regione, di una comunità, di una città (Costanza et al , 2014 ).

4 ·7

Osservazioni finali

Quanto sopra brevemente riassunto può diventare operativo grazie ad alcu­ ni strumenti già a disposizione. In primis, l'Agenda 203 0 per lo sviluppo sostenibile che individua 1 7 obiettivi d i sviluppo sostenibile, articolati i n 1 69 target e oltre 2 3 0 indica­ tori. Questi obiettivi sono universali e non riguardano solo i paesi in via di sviluppo, anzi, come viene spesso ripetuto quando si parla dell 'Agenda 2030, tutti i paesi vengono considerate in via di "sviluppo sostenibile". Gli SDG devono essere applicati a tutte le nazioni del mondo con misure e strumen­ ti che tengano conto delle diverse condizioni a livello nazionale. Di fatto l'applicazione degli obiettivi costituisce un'agenda politica integrata nelle componenti ambientali, sociali ed economiche per i prossimi 15 anni per tutti i paesi, mirata a risolvere le complesse sfide che l'umanità si trova oggi ad affrontare. L'Agenda 20 30 conferma il giudizio sull' insostenibilità del perseguimen­ to dell'attuale percorso di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale e per questo tutti i paesi sono chiamati a con­ tribuire allo sforzo di portare lo sviluppo globale su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se evidentemente le problematiche possono essere diverse a seconda del livello conseguito, in base però sempre al principio che nessuno deve essere lasciato indietro (no one will be left behind).

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Pertanto, ogni paese dovrà impegnarsi a delineare una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi così definiti, la cui attuazione sarà continuamente monitorata dalle Nazioni Unite. L'attuazione dell'Agenda richiede un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società ci­ vile alle ONG, dalle università e i centri di ricerca agli operatori dell'informa­ zione e della cultura. A fronte del fallimento della reale integrazione delle politiche ambien­ tali, economiche e sociali sin qui verificatosi, il tema centrale all'ordine del giorno nella preparazione degli SDG è stato proprio quello di raggiungere un'agenda politica che non disgiungesse le tematiche dello sviluppo sociale ed economico da quelle ambientali, a dimostrazione di quanto ormai sia ac­ quisita la considerazione che la salute e la vitalità dei sistemi naturali costitu­ iscono la base per il benessere e lo sviluppo sociale umano. Il dibattito che è scaturito dalla definizione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è stato certamente interessante e anche molto utile per quanto ri­ guarda gli impegni che la comunità internazionale dovrà affrontare per ren­ dere operativo, al più presto, il concetto di sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo sociale ed economico. Inoltre è servito molto a discutere e ampliare la necessità di avere indicatori differenti da quelli canonici di stampo econo­ mico che sono ritenuti centrali per definire il livello di ricchezza e benessere di un paese, come il PIL. È evidente che, durante la fase negoziale e dopo l'approvazione dell'A­ genda 2 0 3 0, sono state fatte anche critiche motivate a fronte delle signifi­ cative richieste espresse da più parti (società civile, ONG, mondo scientifico ecc. ) per giungere a un pacchetto di SDG ambiziosi, sfidanti, concreti, moni­ torabili, dimostrabili, realmente integrati ecc. che dessero il segno tangibile e concreto di una vera inversione di rotta della politica e dell'economia a fron­ te della drammatica situazione ambientale e sociale in cui le nostre società si trovano da tempo e che richiede risposte urgenti e innovative. Ma va anche detto che l'Agenda 2. 0 3 0 , pur con i suoi limiti, oggi è una realtà alla quale tutti i paesi del mondo dovranno dare risposte concrete : si apre così un fronte di forte impegno da parte delle ONG e della società civile per spingere su questa strada la politica, l'economia, le istituzioni, il mondo delle imprese e ottenere risultati tangibili. La messa a punto dei nuovi sustainable development goals (soG) che nell'agenda internazionale sullo sviluppo prendono il testimone dei millen­ nium development goals (MDG), ha avuto luogo, come abbiamo illustrato in questo testo, in un momento particolarmente significativo per l'umanità.



LE S FI D E D ELLA SOSTEN I B I LITÀ

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I lineamenti di una nuova politica economica sono stati in questi decen­ ni ben individuati da tanti studiosi che da tempo si occupano di economia ecologica e scaturiscono da avanzamenti conoscitivi e applicativi che possono realmente permetterei di imboccare una nuova strada, alternativa all'attuale. Il tema fondamentale per il futuro della sostenibilità del nostro mon­ do è riconoscere finalmente - non solo per il mondo economico istituzio­ nale e privato - la centralità del capitale naturale per il nostro sviluppo e il nostro benessere, ma anche, a livello di governance, la centralità del bene comune globale che la biosfera e quindi i sistemi naturali rappresentano per l' intera umanità e il suo futuro (acqua, atmosfera, aria, terra, biodiver­ sità) ( wwF, 2016). Sarà indispensabile giungere a una sorta di safe operating space treaty, un trattato internazionale sullo spazio operativo sicuro e giusto per l'umanità, che di fatto applica in concreto la conoscenza scientifica che ci proviene dai percorsi che hanno prodotto, tra gli altri, i concetti di environmental space e planetary boundaries (Magalhaes et al. , 2016). Il tempo non gioca a nostro favore. Siamo tutti chiamati a raccogliere la sfida e a dare il nostro contributo.

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I diritti umani nel XXI secolo di

Vanna !anni

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Presentazione

I diritti umani costituiscono un tema centrale della riflessione e dell'agen­ da degli anni Duemila. È tuttavia da osservare che mentre esercitano ampia attrazione essi continuano, al tempo stesso, a essere oggetto di diffidenze e scetticismi tenaci che ne mettono in discussione la legittimità o la coeren­ za o l'ancoraggio culturale e ne denunciano l'uso retorico e strumentale. I problemi del loro fondamento e della loro universalità, della loro moltipli­ cazione e anche dell'applicabilità, così come la frammentarietà del quadro attuale di convenzioni internazionali e ordinamenti nazionali che li regola­ no in quanto diritti positivi, costituiscono questioni ricorrenti nel dibattito scientifico e politico. Nel presente capitolo sostengo la tesi che difende l'universalità dei dirit­ ti umani riconoscendoli come pronunciamenti etici. Considero tale univer­ salità il prodotto storico di interazioni tra individui e culture diverse, intese quest 'ultime come insiemi porosi, eterogenei e mutevoli. In quanto tali, i di­ ritti umani sono caratterizzati da « obblighi imperfetti » , « appelli rivolti a chiunque sia in grado di fare qualcosa » (Sen, 2 0 0 0 , p. 2 3 1 ) per assicurarne il rispetto, travalicando il piano esclusivamente istituzionale, pure importante e non prescindibile. Ogni uomo diviene così, in tale prospettiva, titolare e insieme tutore dei diritti umani. 5·2 La Dichiarazione universale dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dalle Nazioni Unite (uN) il 10 dicembre del 1 948, al termine di due anni di dibattito e negoziato, segna un passaggio importante. Esplicita e precisa quanto già riconosciuto, in nuce, nello Statuto che nel 1 945 istituiva le Nazioni Unite. Per la prima

VANNA !ANNI volta, nella lunga storia dei diritti umani, essa li riconosce come universali e insieme come positivi (Bobbio, 1 9 9 0 ). Non più propri di cittadini di un determinato Stato ma di tutti gli uomini in quanto tali; non solo aspirazio­ ni morali ma anche diritti concreti, positivi. Si tratta di una svolta di rilie­ vo, e non solo per il diritto internazionale. Questo passa a regolare anche i rapporti tra Stati e singoli individui, riconosciuti titolari di diritti in quanto tali (Cassese, 20 05). La Dichiarazione rappresenta, così, un'altra novità im­ portante : l'emergere di un nuovo principio, espressione della coscienza che ciascun uomo è portatore di diritti, non solo in quanto membro di uno Stato ma anche in virtù della propria umanità, della appartenenza a una comunità globale (Benhabib, 2008). Si tratta di una rottura con il passato perché rap­ presenta il superamento di un'idea e di una rivendicazione dei diritti umani esclusivamente ristrette alla sfera istituzionale e il riconoscimento, invece, della diversità delle forme della loro promozione e tutela, e della varietà e ricchezza degli attori chiamati a tale compito. Tutto il processo si presenta da subito come difficile, lungo e non garantito. La Dichiarazione, atto normativo-prescrittivo privo di carattere impo­ sitivo, si colloca, d'altra parte, in un momento del tutto particolare : la fine del secondo conflitto mondiale è seguita dal disfacimento, nel giro di pochi anni, del sistema coloniale e dall'inizio della guerra fredda Est- Ovest. Le tensioni e le contrapposizioni che attraversano il periodo segnano il testo finale della Dichiarazione che rappresenta una mediazione tra concezioni diverse dell'uomo e della società, principalmente tra la visione occidentale, focalizzata sui diritti civili e politici, e quella dei paesi di socialismo reale, volta a rivendicare diritti economici e sociali ( Cassese, 2005). Prende da qui avvio un complicato processo di "universalizzazione" e, al tempo stesso, di "moltiplicazione per specificazione" dei diritti (Bobbio, 1990 ). Cassese par­ la al riguardo di "unificazione" e di "settorializzazione". Da un lato, la comu­ nità internazionale ricerca e in parte raggiunge il consenso circa un nucleo di diritti riconosciuto da tutti, dall'altro procede a suddividere il campo dei diritti per temi e soggetti determinati, nell' intento di facilitare l'accordo a partire da omogeneità, principalmente regionali, già costituite.

5 ·3 I diritti umani nella storia. Le diverse generazioni

La forza di persuasione esercitata dalla Dichiarazione ( Sen, 2009) apre il passo all'adozione, da parte dell'Assemblea Generale delle UN, di due convenzioni internazionali, la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e

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culturali e la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, entrambe votate all'unanimità il I 6 dicembre I966 ed entrate in vigore nel I 976. Negli anni successivi l'approvazione di numerosi patti, convenzioni, dichiarazioni internazionali estende il riconoscimento dei diritti umani a campi e sogget­ ti specifici (salute, ambiente, privacy ecc.; bambini, donne, portatori di disa­ bilità ecc.). Contemporaneamente, interventi legislativi sempre più numerosi costituzionalizzano il loro riconoscimento nei quadri nazionali. Nel I993, a Vienna, la Conferenza mondiale sui diritti umani, organizzata dalle UN, nel­ la sua Dichiarazione di principi, sottoscritta da I7I Stati membri, ricerca una sintesi del percorso realizzato e ribadisce che i diritti umani sono «universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi » (United Nations, I993 ) . Il testo continua tuttavia a presentare una certa ambiguità (Habermas, 2007 ) : riaffer­ ma l'universalità dei diritti umani ma anche, subito dopo, la necessità di tener presenti le differenze che intercorrono tra percorsi storici diversi. I diritti umani manifestano, d'altra parte, nel corso del tempo, un carat­ tere mobile, dinamico, eterogeneo, aperto a integrazioni e revisioni successi­ ve. Essi mostrano di non essere "dati" una volta per tutte (Bobbio, I 9 9 0 ) ma di essere, invece, il risultato di scontri e lotte per il loro riconoscimento. Tale dimensione storica ha spinto numerosi studiosi a classificarli ricorrendo alla categoria di "generazioni" (Vasak, I979; Bobbio, I 9 9 0 ; Sen, 2004, 20io ). Le obiezioni anche linguistiche avanzate al suo uso obbligano a precisare da su­ bito che "generazione", in questo contesto, ha una connotazione diacronica e insieme sincronica, cioè che il riconoscimento in tempi successivi di deter­ minati diritti non annulla, in alcun modo, la vigenza di quelli anteriori. Nel nostro caso, per tracciarne un indice, prenderemo come riferimento la clas­ sificazione proposta da Karel Vasak, pur tenendo presente che si tratta di un elenco aperto e non esaustivo e che altri studiosi ne propongono altri. Char­ les Beitz (2001), per esempio, parla di cinque classi di diritti; taluni, come già Norberto Bobbio iniziava a fare nel I 9 9 0, alle tre generazioni di Vasak ne aggiungono una quarta in cui includono diritti quali la difesa della privacy e della sicurezza in rete, legati principalmente allo sviluppo dell' informatica e delle telecomunicazioni. Parlerò quindi di tre generazioni, il cui succedersi rimanda, d'altra parte, al carattere rivendicativo che ne costituisce il princi­ pale motore. Ognuna di esse è, infatti, espressione di una richiesta di inclu­ sione, di appartenenza (Ignatieff, 200 0 ). Libertà, uguaglianza, fraternità, i principi-guida della Rivoluzione francese del I789, più di una volta sono sta­ ti posti, a partire da Vasak, alla base delle tre classi di diritti elencate. In altri casi le tre generazioni sono state fatte corrispondere, nella loro successione, all'emanazione, rispettivamente, del mondo occidentale, di quello socialista e del Terzo Mondo (Donnelly, 2007 ):

VANNA !ANNI prima generazione, ovvero diritti civili e politici: diritto alla vita, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, di associazione, di espres­ sione, di stampa ecc. Sono diritti definibili anche come libertà negative, libertà "di". . . , perché rappresentano la possibilità di esercitare capacità da parte di singole persone ; seconda generazione, ovvero diritti economici, sociali e culturali : di­ ritto al lavoro, all' istruzione, alla salute, all'alimentazione, alla casa ecc. So­ no anche definibili come libertà positive, libertà "da". . . , perché il loro pie­ no esercizio richiede l 'assenza di una serie di limitazioni e quindi un inter­ vento volto a garantire uguaglianza di opportunità; terza generazione, ovvero diritto alla pace, all'ambiente, allo sviluppo, al patrimonio comune dell'umanità. Rimandano a un legame di solidarie­ tà, sono cioè diritti collettivi e di più complicata traduzione nel campo del diritto positivo. È da rilevare che, mentre per la prima generazione è lo Stato il potere da cui occorre tutelarsi, per la seconda e la terza, invece, è precisamente lo Stato che è chiamato, in prima istanza, a rendere possibile il loro esercizio (Santos, 2 0 0 7 ) . Per quanto riguarda, in particolare, il diritto allo sviluppo, spinte diverse concorrono, nella seconda parte degli anni Ottanta, al suo riconoscimento : la ricerca di una concezione di sviluppo non più circoscritta alla sola componen­ te economica; la maggiore attenzione verso l' importanza della democrazia e della governance, a seguito dei limiti mostrati dai programmi di aggiustamen­ to strutturale ; l'impegno maggiore sui temi dello sviluppo come effetto della fine della contrapposizione Est-Ovest (Uvin, 2007 ) . Una risoluzione dell'As­ semblea Generale delle UN, priva di qualsiasi natura coercitiva, sancisce nel 1986 il suo riconoscimento. La richiesta era già stata avanzata nel 1972 dai paesi del Terzo Mondo, durante il dibattito sul nuovo ordine economico interna­ zionale ( NOEI ) , con carattere in quel momento fortemente rivendicativo. Nel passaggio dagli anni Settanta alla seconda metà degli anni Ottanta, l'origina­ ria dimensione rivendicativa viene però, in gran parte, riassorbita. La messa in discussione, negli anni Novanta, delle concezioni e delle politiche di sviluppo concorre a svuotarne ancor più la carica trasformatrice, lasciando sullo sfondo il tema delle asimmetrie presenti nelle relazioni internazionali. Il diritto allo sviluppo entra così a far parte del quadro dei diritti umani e della cooperazione allo sviluppo, senza però riuscire a operare come occasio­ ne reale di messa in discussione degli assetti esistenti (Uvin, 2007 ) . Diviene in tal modo una manifestazione e un segnale, insieme, delle ambiguità e delle ostruzioni che rallentano i processi di sviluppo e di cooperazione allo svilup­ po. Oggi è richiamato esplicitamente dal Piano d'azione di Addis Abeba e

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dalla stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, tra i principi e gli impe­ gni condivisi. In un contesto e in una visione di sviluppo del tutto mutati, il diritto allo sviluppo sembra così trovare l'opportunità di una meno ristretta definizione e attuazione.

5·4 I molti nodi del dibattito

La messa in discussione dei diritti umani accompagna tutta la loro storia. Già nel I792, negli anni immediatamente successivi alla Dichiarazione d'in­ dipendenza degli Stati Uniti (4 luglio I 776) e alla Dichiarazione dei diritti dell 'uomo e del cittadino della Rivoluzione francese (26 agosto I789 ), Je­ remy Bentham rivolge alla dottrina dei diritti umani, intesi in senso prelega­ le come diritti naturali e imprescrittibili, una delle più pungenti e deridenti critiche. Li classifica come un « non senso retorico » , delle « sciocchezze su trampoli » (Bentham, I 9 8 1 ). Anche per Hegel, seguito più tardi da Marx, il giusnaturalismo, la legittimazione dei diritti umani in quanto derivati diret­ tamente dalla "natura" dell'uomo, va respinto. Non c 'è diritto senza Stato, unica fonte della positività e legittimità di esso. A metà del xx secolo il confronto sull'affermazione o negazione dei di­ ritti umani cambia; passa da una dimensione prevalentemente filosofico­ giuridica a una culturale-politica. Il relativismo culturale nega l'universalità dei diritti umani sostenendo l'unicità delle culture e l'assolutezza delle re­ ciproche differenze, riconoscendo quindi come diritto solo ciò che un'area culturale definisce come tale. Le sue tesi finiscono per far coincidere «di­ ritto » con « tradizione » , « buono » con « antico » , « obbligatorio » con « consuetudinario » (Donnelly, 2007, p. 29 5). Il rispetto o la violazione di un determinato diritto vengono valutati alla luce dei valori della società in cui si verificano, senza prendere in considerazione le diversità a essa interne, le conflittualità e i rapporti di dominio che la permeano e, soprattutto, di­ sconoscendo la sua dinamicità ed evoluzione nel tempo. Il 1989 e la fine della contrapposizione Est-Ovest segnano a loro volta l'i­ nizio di una nuova fase : minacce sempre più globali e nuovi e drammatici con­ flitti portano contemporaneamente a estendere la gamma dei diritti ricono­ sciuti come umani e a compiere interventi in loro nome (Bosnia, Mganistan, Iraq, Kosovo) di discutibile legittimità ed esito negativo. Una nuova ondata di relativismo, alimentata principalmente dal postmodernismo e dagli studi postcoloniali, torna a formulare critiche alla dottrina dei diritti umani, denun­ ciandone questa volta, principalmente, l'uso retorico e strumentale, volto al-

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la legittimazione dell'azione interventista dell'Occidente (Wallerstein, 2007; Zizek, 2005; Santos, 2007 ). Il richiamo crescente ai diritti umani assume, in­ fatti, in più casi, una dimensione giustificatoria dell' imposizione di interessi di parte e di modelli sociali e politici propri di determinati contesti e non im­ mediatamente universalizzabili (ad esempio, per le dinamiche dell'interven­ to in Iraq). Numerose sono di conseguenza le critiche ai lati oscuri della vir­ tù, all'umanitarismo imperiale dell'Occidente o anche all'egoismo nascosto nell'altruismo (Vaux, 2002). Nella stessa congiuntura, significativamente, la rivendicazione dell'unicità delle culture si traduce in vessillo anche di regimi autoritari e dispotici, alla ricerca di legittimità per le loro pratiche coercitive ed escludenti (esemplare la posizione di Lee Kuan Yew a Vienna, nel 1983, a difesa dell'assoluta particolarità dei valori asiatici). Gli anni Duemila registrano, da parte loro, il sovrapporsi di temi nuovi e preesistenti e, soprattutto, il diffondersi di una sensibilità venata di scetti­ cismo. Alcuni autori parlano di crisi dei diritti umani, spinti da ragioni di­ verse : deficit di fondamento, scarto tra affermazione e implementazione, tra dichiarazioni e assenza di criteri e strumenti di applicazione. Per altri, inve­ ce, come già per Bobbio ( 1990 ), benché privi di fondamento, i diritti umani non perdono per questo di legittimità e se la retorica e r ipocrisia pesano sul loro uso, essi vivono ciononostante una crescente accettazione e invocazio­ ne. Altri ancora denunciano le ambiguità del concetto stesso di fondamento e ritengono più importante guardare alla titolarità (Ferrajoli, 200 4). Le ana­ lisi si differenziano, si accavallano e si moltiplicano. Anche il dibattito sull 'universalismo si mostra intenso ed esteso, com­ plicato, anche in questo caso, dalla diversità di significati a esso attribuiti. Tra i sostenitori di un universalismo "leggero, c 'è chi identifica i diritti uma­ ni con le "libertà negative, (Ignatieff, 2000) e chi, richiamandosi a Rawls, li interpreta come universalità di diritti uguali e inalienabili, compatibile con una diversità di pratiche. Altri studiosi, a loro volta, attribuiscono l'univer­ salità a un nucleo ristretto di diritti che auspicano possano scaturire da una seconda Dichiarazione dei diritti umani, diretta a sopperire ai limiti mostra­ ti dalla prima (Ferrara, 20 05). È da notare tuttavia che i diritti umani, se sono stati e sono molte volte oggetto di critiche e di ripetute accuse di legittimare un potere oppressore e interventista, sono anche stati e sono, al tempo stesso, come già osservato, il riferimento di movimenti di liberazione nazionale, anticoloniali e di op­ posizione a regimi dittatoriali di vario tipo, nelle diverse aree geopolitiche (Benhabib, 2oo 8 ; Goodhart, 2oo8; Touraine, 2015). Zizek (2005), pur cri­ tico radicale della "falsa universalità ideologica dei diritti umani", ben coglie l'origine della loro forza d'attrazione quando afferma che non è possibile

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ignorare la potenzialità che hanno i diritti umani di poter essere ribaltati, come più volte avvenuto, da strumento di dominazione in vessillo di libertà e di lotta alle diseguaglianze e all'oppressione. Significativamente, a partire dagli anni Novanta, anche le forze e i movi­ menti opposti alla globalizzazione neoliberale, fino a quel momento critici verso il richiamo ai diritti umani, iniziano a considerarli un riferimento im­ portante, riconoscendo loro una forte carica emancipatrice e promovendone una lettura diversa e ostile a quella imperante (Santos, 2007 ) .

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Ogni uomo è titolare e insieme tutore d e i diritti umani

Alla fine del secolo scorso cambia anche la prospettiva di gran parte degli stessi sostenitori della universalità dei diritti umani i quali, collocandosi al di là del dibattito filosofico e politico del XVIII e XIX secolo e di parte del xx , attribuiscono loro lo status di domande etiche (Sen, 200 0, 2004, 20IO ), di indicazioni morali da raccogliere nell'azione legislativa (Beitz, 200I ) , di ispiratori della legge (Hart, I955 ) . Lo stesso Habermas, che nei suoi primi la­ vori parla dei diritti umani come di un Giano bifronte, con un lato rivolto al diritto e l'altro alla moralità, finisce per legarli anche lui alle lotte in difesa della dignità umana. Questa diviene il "concetto cardine" che associa mora­ lità e diritto e permette di collegare le esperienze passate alle rivendicazioni presenti. D'altra parte è la dimensione polemica, legata al fatto che i diritti umani sono il risultato di lotte vittoriose, a far sì che la loro positivizzazione sia sempre accompagnata da un'eccedenza utopistica che alimenta conflitti ancor oggi inconclusi (Habermas, 20I 5 ) . Anche per Touraine ( 20I5 ) i dirit­ ti umani hanno una natura etica che dà fondamento alla loro universalità e, insieme, alla globalità di un pensiero in grado di opporsi alla globalità dei poteri dominanti. Libertà, uguaglianza, dignità sono indicate dal sociolo­ go francese come costitutive dei diritti umani fondamentali che ispirano e sostengono le lotte che in loro nome si oppongono, nei diversi continenti, a ogni forma di potere arbitrario. In tale prospettiva il termine "diritto" non viene più ristretto alla sola connotazione giuridica ma ne acquisisce anche una etica che gli conferisce universalità. L'approccio cambia dalle fondamenta. Sen ( I 9 8 5 ) parla esplici­ tamente di "diritti come mete", intendendo sottolineare il loro carattere di pronunciamenti su ciò che andrebbe fatto, di sollecitazione nei confronti delle iniziative legislative e dei cambiamenti culturali. La loro richiesta di farsi legge è da considerare espressione diretta dell'esigenza etica di ricono -

VANNA !ANNI scere l'importanza di determinate libertà e degli obblighi corrispondenti: in tal modo i diritti umani divengono i "genitori" e non i "figli" della legge (Hart, 1955), come affermato dai sostenitori del diritto positivo. Al tempo stesso, essi rappresentano un invito all'azione, al cambiamento sociale, non subordinato alla loro piena attuazione. I diritti umani presentano, infatti, una specificità particolare : autorizzano i loro titolari a pretendere di essere riconosciuti come soggetti di uguali diritti. Al tempo stesso, però, non tutti i diritti esigono di farsi positivi (Sen, 2000 ), senza perdere per questo la loro forza di attrazione e la capacità di trasformazione culturale e sociale. Per altri aspetti, ai diritti umani così concepiti corrispondono quelli che Kant e più recentemente Sen denominano gli "obblighi imperfetti': Diversa­ mente dagli "obblighi perfetti", caratterizzati da una definizione precisa di di­ ritti, doveri e sanzioni, essi non attribuiscono l'azione volta ad assicurare il loro rispetto a un'istituzione determinata o a uno Stato specifico ma la estendo­ no fino a coinvolgere ogni uomo, tenuto conto delle sue possibilità e capacità d'azione. Tale visione non toglie importanza all'impegno di istituzioni na­ zionali, regionali e internazionali, ma radica la loro forza nell'esistenza di una responsabilità più ampia che interroga ogni uomo e lo sollecita ad adoperarsi attivamente, nei limiti delle proprie condizioni, a favore del rispetto dei diritti umani (Sen, 2004, 2010 ) L' informazione, la formazione, il cambiamento dei comportamenti, la dimensione pubblica del ragionare, vengono così ad assu­ mere un ruolo importante, non alternativo ma di uguale, se non maggiore, ri­ lievo di quello delle istituzioni. È questo l'aspetto più nuovo della fase avviata dalla Dichiarazione e maturata alla fine del secolo scorso. Esemplificativo, al riguardo, il ruolo svolto nei passati decenni da Am­ nesty lnternational, Human Rights Watch e dalle numerose altre associa­ zioni di analogo impegno nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica, nel monitoraggio dell'azione degli Stati e delle organizzazioni internazionali, e nella realizzazione di campagne nazionali e globali di denuncia di violazioni e appello a politiche e interventi di tutela dei diritti umani. .

s.6 Universalità ? Quale ? L'Agenda 20 30 per lo sviluppo sostenibile offre una risposta ?

Cosa distingue i diritti umani all'interno dell'area generale delle istanze eti­ che ? Quando una determinata libertà diviene un diritto umano ? Cosa ne as­ sicura l'universalità, se non si fa appello a un diritto naturale ? Per trovare ri­ sposte occorre essere consapevoli che il riconoscimento dell'universalità non

S · I D IRITTI UMANI N E L XXI S ECOLO costituisce un punto di arrivo ma, al contrario, un percorso scandito dal con­ fronto e dalla diversità di letture che di tale universalità si danno e che non è possibile ignorare pena l'ambiguità teorica e politica ( Goodhart, 2008 ). I diritti umani sono forse da intendere come un "nocciolo" duro, comune alle molteplici e diverse concezioni morali ? Il "cuore" di una morale universale "sottile" (thin ), come pensa Walzer ( I994) ? O sono da riportare alle sole "liber­ tà negative" come propone Ignatieff(2o oo) ? O sono, invece, riconducibili a un overlapping consensus che li legittima se accettati da persone ragionevoli quan­ do, pur se non esplicitamente presenti nella loro visione morale, non sono in conflitto con la concezione di giustizia da essa espressa? L'universalità è allora "universalità relativa", consenso politico incompleto, articolato in distinte di­ mensioni che permettono di unire all'universalità del concetto la relatività e la contingenza delle concezioni e delle pratiche in cui esso si esprime (Donnelly, 2007) ? O, ancora, universalismo e relativismo sono concetti da abbandonare, insieme alla ricerca di un loro fondamento antologico ? In quest 'ultimo caso, la legittimità viene fatta derivare, come abbiamo visto, dalla forza di attrazione globale che da essi promana in quanto aspirazioni e protezione di fronte alle minacce di poteri diversi ma ugualmente oppressori (Stati, organismi interna­ zionali, rapporti di lavoro, familiari ecc.), attrazione che ogni giorno si fa più manifesta e trasversale a culture e popoli ( Goodhart, 2oo8). L'analisi di Sen (2004, 2010), a cui mi richiamo, sostiene che per supe­ rare difficoltà e ambiguità occorre apprendere a ragionare per soglie, e che a fissare quella che identifica l'universalità è un processo interattivo di valu­ tazione critica a imparzialità aperta. Mentre la base della valutazione è co­ stituita dal pubblico ragionare, l' imparzialità aperta richiede che il confron­ to avvenga tra visioni appartenenti a comunità e paesi diversi, mettendo in campo una "distanza" che si rivela decisiva. Le culture si rivelano allora un intreccio di identità, insiemi in sé articolati e in movimento, diverse ma, al tempo stesso, attraversate da influenze reciproche. Processi ibridi, senza cen­ tro, nelle parole di Benhabib (2oo8). Paradigmatica al riguardo l'analisi che Sen propone dei cosiddetti valori asiatici, mettendone in luce le differenze e le tensioni interne e il ricorrere in es­ si di principi quali la tolleranza e la libertà, considerati a torto, da alcuni, come distintivi della cultura occidentale, segnata anch'essa, invece, da un'analoga successione di affermazioni e negazioni degli stessi. Atene è stata la culla della democrazia, ma l'Atene di Aristotele non negava l'uguaglianza nella libertà a donne, schiavi e non ateniesi ? All'Asia è stata più volte attribuita una cultu­ ra autoritaria, ma gli editti di Ashoka ( 111 sec. a.C.) e di Akbar (IS42-I6os), in tempi fra loro tanto lontani, non rappresentano forse una manifestazione persistente di tolleranza e riconoscimento del valore della libertà (Sen, 2010) ?

VANNA !ANNI È il confronto tra storie diverse, è l' insistenza nel cercare ciò che unisce, pur nell'estrema diversità dei processi, a permettere di superare le chiusure e le insicurezze di orizzonti troppo ristretti, a frenare lo scetticismo e a garan­ tire l'universalità dei diritti umani. L'Agenda 2 0 3 0 costituisce una risposta a tale problematica, a un affermare e a un negare l'universalità che hanno segnato la storia dei diritti umani ? Essa propone una visione e un programma d'azione integrati, inclusivi e sostenibi­ li, globali, sottoscritti da 193 Stati. Dichiara, esplicitamente, che gli SDG che di essa fanno parte mirano a «realizzare pienamente i diritti umani di tutti » mentre gran parte dei suoi obiettivi si propongono direttamente la realizzazio­ ne di specifici diritti umani, in particolare di seconda e terza generazione, quali per esempio l'uguaglianza di genere, la salute per tutti, il lavoro dignitoso, un ambiente non degradato. Al tempo stesso, però, l'Agenda mostra un silenzio da non ignorare sui diritti di prima generazione, in continuità in questo caso con gli MDG, interrotto solo parzialmente dall'sD GI6, volto alla promozione di « società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile » . Essa è inoltre chiamata a gestire il passaggio dalle dichiarazioni alla loro trasformazione in azioni e tale passaggio è complicato e difficile; difficile per la complessità delle dimensioni - ambientale-sociale-economica - da raccordare, che nella moder­ nizzazione hanno seguito cammini paralleli quando non divergenti, ma anche per la necessità sia di definire concretamente taluni principi, in primo luogo quello delle responsabilità comuni ma differenziate, rimasti fermi finora a una formulazione generica, sia di bilanciare obiettivi globali e un'applicazione di essi rispettosa dei diritti e doveri dei singoli Stati, più volte riconosciuti e sotto­ lineati. Riaffiorano così quelle ambiguità e mediazioni instabili tra concezioni diverse dei diritti umani già presenti nella Dichiarazione universale del 1948 e mai superate del tutto. La legittimazione politica mostra ancora una volta l'e­ sigenza di radici culturali profonde che continuano, invece, a mostrarsi fragili.

5·7

Osservazioni finali

I diritti umani si rivelano snodi cruciali dei processi che segnano il XXI seco­ lo, chiamando in causa Stato, società civile, singoli individui e i loro rappor­ ti, così come quelli tra globale e nazionale, universale e particolare, presente e futuro. L'universalità che li caratterizza, oggetto di interpretazioni diverse, di adesioni e di negazioni totali, esige uno sforzo continuo di "traduzione" nel passaggio da una costellazione culturale a un 'altra, e dal piano morale a quello del diritto positivo. La loro espressione giuridica incontra, infatti, for-

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me e livelli diversi di definizione, in cui il diritto internazionale si intreccia con quello dei singoli Stati o si raggruppa in regimi regionali. D 'altra parte, la possibilità di traduzione è essa stessa, in sé, una prova di universalità, di quel filo rosso che attraversa le diversità e disegna la traccia, sia pur debole e confusa, a volte quasi impercettibile, di un comune procedere dell'umanità. All' inizio del XXI secolo gli attori, i trattati, gli ordinamenti nazionali, i sistemi di monitoraggio, le reti che si occupano di diritti umani, disegnano un'ampia e complessa architettura che si estende dal livello globale a quello nazionale, dalle istituzioni agli spazi non governativi e all' impegno indivi­ duale. Si tratta di una architettura che, pur in espansione, mostra fessure, vuoti, incertezze e richiede pertanto un profondo ripensamento per poter rispondere alle sfide del tempo. È il compito dell'oggi. D 'altra parte, essendo ogni uomo titolare e insieme tutore dei diritti umani, spetta a ognuno, indi­ vidualmente e collettivamente, nelle istituzioni e non, qualunque sia il paese e la cultura di appartenenza, concorrere a tale compito. Dipanare il nodo di universale e particolare che caratterizza i diritti umani e insieme ripensare l'architettura e la governance dei loro processi, sfuggendo alle sirene, allo stesso modo ingannevoli, dell'assolutismo e del relativismo assoluto, è com­ pito che interpella tutti.

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L' empowerment delle donne sul crinale tra potere e trasformazione di Bianca Pomeranzi

6. 1 Presentazione

In questo breve capitolo intendo documentare come il tema dell'empower­ ment delle donne sia centrale per la realizzazione dello sviluppo sostenibile promesso dalla nuova Agenda 20 3 0, sotto il profilo umano, sociale e, in par­ ticolare, politico. La mia analisi parte dal dibattito che fu aperto in occasione delle Confe­ renze delle Nazioni Unite sulle donne degli anni Settanta e cerca di seguire i profondi cambiamenti che il nesso "donne e sviluppo" ha subito nell'arco di quarant 'anni. Un lungo periodo che va dalla presa di parola delle donne fino alla Conferenza di Pechino - durante il quale si è formato il concetto di empowerment - per arrivare alla controversa stagione apertasi dopo gli anni Duemila, segnata dall'emergenza della guerra al terrorismo, in cui la situazione delle donne è divenuta un "indice di civiltà" e, in alcuni casi, un pretesto per guerre umanitarie. In questo lungo arco di tempo, due interpretazioni di empowerment so­ no entrate in gioco nella pratica della cooperazione. Da una parte, quella originaria, ancorata alla capacità delle donne, intese come soggetti, di "tra­ sformare" lo sviluppo svelandone la dimensione umana. Dall'altra, quella dominante, che ha per fine l'accesso delle donne all'attuale sistema produt­ tivo e politico globale. Potremo dire quindi che il tema, oggi, è trasversale e si colloca su un crinale tra due possibili visioni che implicano o il cambiamen­ to o l'adattamento al modello di sviluppo esistente. Questo breve capitolo darà conto non solo di come queste due inter­ pretazioni si sono formate e consolidate nelle pratiche di cooperazione, ma anche dei diversi esiti che possono comportare rispetto all'evoluzione del si­ stema di cooperazione internazionale e all'attuazione dell'Agenda 20 3 0 per lo sviluppo sostenibile.

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Come vedremo, l'empowerment, così come molti altri concetti usati in cooperazione, è stato e continua a essere oggetto di interpretazioni che ne hanno svuotato il significato originario e il valore strategico (Batliwala, 2 0 0 7 ) Uno dei motivi principali di questo svuotamento è che esso è stato "misurato" sulla percentuale di presenza delle donne nelle istituzioni pubbli­ che, in relazione agli uomini, o in ragione delle "risorse" economiche posse­ dute, in relazione agli indici di povertà. Questa interpretazione, che riduceva il concetto di empowerment ai rapporti istituzionali o alla sfera economica e ne faceva perdere il significato politico complessivo (Porter, Judd, 1 9 9 9 ) , fa capire perché sia stato impossi­ bile, a fronte di una crescente chiusura tra culture diverse, mantenere il ca­ rattere "trasformativo" della soggettività delle donne che era stata percepita come una possibilità di dialogo e non come un discrimine tra sistemi cultu­ rali diversi. La mia analisi, quindi, intende contrastare alcune critiche recenti (Fra­ ser, 20 1 4 ) sul ruolo del femminismo nella globalizzazione, secondo cui le argomentazioni a favore delle "libertà" e dei diritti umani delle donne negli anni Ottanta avrebbero fornito elementi all'affermazione del neoliberismo che proprio allora stava assumendo il governo mondiale. Si tratta, a mio pa­ rere, di interpretazioni che non valorizzano il conflitto originato dal proces­ so di soggettivazione e dalle pratiche delle donne (Baksh, Harcourt, 20 1 5 ) che, attraverso lo svelamento delle connessioni tra spazio pubblico e sfera privata, avevano avviato un processo "politico" di liberazione di dimensione planetaria. La divisione tra pubblico e privato, su cui si fondano sia il patriarcato tradizionale che il neopatriarcato moderno, infatti, determina una rete di poteri relazionali, diffusi a vario livello, che non solo favorisce il "dominio" sulle donne, ma impedisce anche la comprensione di modi di vivere diversi da quelli occidentali. Questo rimane uno dei problemi fondamentali della contemporaneità e della globalizzazione a cui la cooperazione deve dare ri­ sposte. L' ingresso nel secondo millennio presenta sfide nuove alla cooperazio­ ne, ma soprattutto richiede un' interpretazione di empowerment delle don­ ne, come principio per affermare una politica in cui il cambiamento non sia misurato solo nella sua dimensione economica, e istituzionale, ma anche culturale e simbolica (Dominijanni, 2 0 0 9 ) Solo questa interpretazione può fornire alla cooperazione allo sviluppo gli strumenti nuovi, che le sono ne­ cessari per non soccombere a un ruolo sussidiario del potere economico e fi­ nanziario e per intervenire attivamente contro la deriva securitaria ed emer­ genziale a cui il cosiddetto scontro di civiltà ci ha condotto. .

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6. 2 Prima e dopo Pechino

L'interesse al nesso donne e sviluppo, da cui si origina l'idea di empowerment, si manifestò in ambito ONU sin dal 1975, data della prima Conferenza sulle donne di Città del Messico, e fu frutto di una diversa visione sullo sviluppo favorita dall'ampio dibattito dovuto al processo di decolonizzazione. Tutta­ via, fu la convergenza tra i movimenti femministi in Occidente e la presenza, in molti dei governi dei nuovi paesi membri dell' ONU, di donne che avevano partecipato ai movimenti di liberazione, a determinarne la visibilità e l'impor­ tanza. Il nesso è insomma frutto della "frattura" che a cavallo tra gli anni Ses­ santa e Settanta ha segnato un "passaggio di civiltà", rispetto al mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale. Il sistema dell'aiuto pubblico allo sviluppo (APS ) , allora in formazione, ri­ dusse quel complesso "passaggio di civiltà" alla "quantifìcazione" economica e tecnica degli aiuti che modernizzavano, ma non servivano a gestire, le contrad­ dizioni e le resistenze generate dal confronto tra modi di vivere differenti. Solo il nesso donne e sviluppo permetteva di mettere in luce gli aspetti più contro­ versi tra crescita economica, progresso tecnologico e processi di cambiamento sociale. Infatti, esso si fondava sulla consapevolezza che, per intervenire effica­ cemente nei contesti di sviluppo, non bastavano analisi macroeconomiche e investimenti infrastrutturali, ma occorreva mettere a tema le dinamiche eco­ nomiche all' interno del contesto domestico, dove si manifestavano gli effetti della divisione dei ruoli sessuali (Boserup, 1982). Il sistema dell' ONU ebbe inizialmente come obiettivo l'integrazione del­ le donne nello sviluppo e dette vita a una serie di istituzioni e di eventi inter­ nazionali per le donne, dalla Convenzione per l'eliminazione delle discrimi­ nazioni contro le donne ( Convention for the Eliminatio n of Discriminatio n Against Women, CEDAW) nel 1979 a ben due Conferenze sulle donne seguite alla prima del 1975: la seconda nel 1980 a Copenaghen, conosciuta come la Conferenza di medio periodo, e la terza nel 1985 a Nairobi che chiuse il De­ cennio delle Nazioni Unite per le donne (1976-1985) su uguaglianza, sviluppo e pace. Tuttavia, ben presto, nel processo si determinò una sorta di eterogenesi dei fìni che portò a una trasformazione radicale del concetto di integrazione e aprì la fase delle visioni critiche delle donne sullo sviluppo. Fu proprio Cope­ naghen a determinare tale cambiamento, in virtù di quello che è generalmente ritenuto uno dei motivi dell'insuccesso : il conflitto tra diversi modi di inten­ dere la promozione dello status delle donne, che si manifestò nel corso del Fo­ rum delle associazioni. L'importanza di Copenaghen fu soprattutto culturale,

B IANCA P O MERANZI poiché svelò la complessità che era insita nella presa di coscienza di donne che vivevano in situazioni totalmente differenti nelle varie aree del Nord e del Sud del mondo e, nello stesso tempo, dette la possibilità di far conoscere le rifles­ sioni di molte di loro sullo sviluppo e sulla politica. Da lì, infatti, ebbe origine, sia pure in modo conflittuale, un movimento transnazionale di donne che si sentivano portatrici di una "differenza di visione" sul mondo (Braidotti et al , 1991 ; Mies, Shiva, 1993). Fu, d'altra parte, un periodo molto fecondo a livello mondiale per la critica femminista che, attraverso la trasformazione della relazione tra uo­ mini e donne, intendeva cambiare la politica istituzionale. La prima fase di globalizzazione neoliberista stava, infatti, velocemente avvicinando le differenti aree del mondo, senza tuttavia mettere a tema i costi sociali e umani che questo comportava. Quel movimento transnazionale che rifletteva sul ruolo delle donne nello sviluppo e si interrogava anche sull'azione della cooperazione divenne, quin­ di, un interlocutore globale per l' ONU. Per questo motivo, le Conferenze sul­ lo sviluppo degli anni Novanta (da Rio de Janeiro sull'ambiente, a Vienna sui diritti umani, al Cairo su popolazione e migrazioni, a Copenaghen e Pechino sulle donne), decise quando la rottura dell'ordine geopolitico di Yalta stava già annunciando un vuoto di potere internazionale, lasciarono un grande spazio a questa soggettività alternativa e alle sue molteplici anime : femministe radicali, eco-femministe, pacifiste, socialiste e postcoloniali. La Conferenza di Pechino, non a caso realizzata nel paese più significa­ tivo per il passaggio dal sistema socialista a una nuova economia di mercato (Arrighi, 2oo 8 ) , segna l'acme di venti anni di lotte femministe e delle donne all' interno delle istituzioni internazionali e nei contesti locali. In termini di politiche di cooperazione Pechino ufficializza l'uso dei concetti di "centra­ lità delle relazioni tra uomini e donne" (mainstreaming) , "genere" e "empo­ werment" (Pomeranzi, 1996). L' introduzione di quest 'ultimo fu richiesta dalle donne del Sud del mondo non solo per indicare la propria soggettività politica contro i diversi sistemi patriarcali, ma anche per combattere un' idea di uguaglianza di genere che non intaccava le molteplici cause del dominio maschile e sembrava funzionale alle dinamiche della politica economica av­ viata negli anni Ottanta (Kabeer, 1999 ). Le negoziazioni ufficiali di Pechino sui diritti delle donne e sull'empo­ werment e i numerosi dibattiti del concomitante Forum delle associazioni di Huairou sulla necessità di sfidare il meccanismo politico e culturale della glo­ balizzazione dimostrarono la capacità innovativa del movimento transnazio­ nale, ma anche l'esistenza di molte posizioni al suo interno. Nella Dichiara­ zione politica finale della Conferenza e nella Piattaforma di Pechino il com-

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promesso tra le differenti aspirazioni verso l'uguaglianza di genere e l'empo­ werment, ovvero tra l' inclusione nei sistemi di governo della cosa pubblica e le soggettività trasformative, fu evidente. La prima, infatti, puntava principal­ mente a intervenire sulle responsabilità dello Stato rispetto ai diritti delle don­ ne, mentre la seconda intendeva sostenere il ruolo delle donne, situate nelle proprie realtà, nella lotta alle differenti forme di oppressione che le istituzioni politiche, economiche e culturali - dagli assetti famigliari ai mercati, fìno ai sistemi della formazione e dell'informazione - determinavano nella loro vita. Da lì nacquero e si svilupparono i due diversi approcci all'empowerment.

6. 3

L'empowerment trasformativo e il suo disciplinamento

Il termine empowerment inteso come formulazione di una soggettività poli­ tica appare chiaramente nello studio di DAWN, Development Crisis and Alter­ native Visions (Sen, Grown, 1987 ), dove si sosteneva la necessità di dare voce alle donne povere del Sud del mondo per promuovere il cambiamento contro le discriminazioni di sesso, ma anche di classe e di razza. In questa concettua­ lizzazione la soggettività e la coscienza delle donne, assunte attraverso azio­ ni collettive contro le diverse forme di subordinazione, rappresentavano uno strumento critico del processo di cambiamento che poteva influenzare positi­ vamente le strategie di sviluppo. Quell' idea di empowerment si coniugava con l'esperienza del secondo femminismo, soprattutto europeo ed euro-mediterraneo, della "differenza sessuale" (Irigaray, 1985), ma anche con le critiche del femminismo afro-ameri­ cano (Anzaldua, Moraga, 1981; Lorde, 1984) e postcoloniale (Spivak, 2004) a un concetto di uguaglianza tra uomini e donne incapace di andare all'origine delle differenti forme di discriminazione. Aveva, insomma, la forza del primo femminismo suffragista di matrice anglosassone, ma si apriva su scala globale poiché era compreso e condiviso da buona parte delle donne del Sud del mon­ do impegnate nella lotta ai sistemi patriarcali. Sul patriarcato (Casalini, 2011), infatti, le critiche femministe del Nord e del Sud del mondo convergevano su tre punti principali: il controllo maschile sulle donne e, in particolare, sulla loro presenza nello spazio pubblico; il con­ trollo sul corpo e sul potere riproduttivo, in particolare la sessualità, che do­ veva essere privatizzata, cioè vissuta tra le mura domestiche, ed etero (Rubin, 1975); e infine la divisione del lavoro tra produttivo, principalmente maschile, e di cura o riproduttivo, principalmente femminile.

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Nella maggior parte delle culture patriarcali, fondate sulla superiorità ma­ schile, e di quelle neopatriarcali, fondate sul contratto matrimoniale (Pate­ man, 1997 ), infatti, la "curà' della vita - intesa come gestione delle relazioni private e familiari - continuava a essere affidata alle donne, mentre lo spazio pubblico, i destini delle comunità e, di conseguenza, la politica, erano ancora riservati, quasi esclusivamente, agli uomini. La concettualizzazione dell'empowerment fu, dunque, pensata per tra­ sformare i differenti aspetti dell'esclusione e del dominio patriarcale e per met­ tere in connessione l'agire delle donne nei diversi contesti, a partire dalla loro esperienza concreta, senza puntare su un criterio oggettivo e statico di ugua­ glianza tra uomini e donne, ma piuttosto per rinegoziare le condizioni di vita e di lavoro, nelle situazioni di vulnerabilità e di povertà. Per questo motivo interessava le donne del Sud del mondo che potevano valorizzare le loro prati­ che di conflitto (Rossetti, 2004) mirando a risultati utili per la collettività che miglioravano la loro relazione di potere rispetto agli uomini. Occorre ricordare che i processi della globalizzazione neoliberista in atto (Wallerstein, 1979) stavano trasformando il mercato del lavoro e rendevano di particolare interesse il lavoro delle donne del Sud, sempre più "oggetto strate­ gico", sia che si trattasse di ottenere manodopera a basso prezzo per lefree-trade zones dei paesi emergenti, sia che si trattasse di fare leva sulla loro capacità di cura, molto utile a fronte dei tagli radicali e della privatizzazione delle politi­ che di we?fare in Occidente (Ehrenreich, Hoschild, 2004). L'avvio del cosiddetto Washington Consensus, ovvero l'insieme di regole decise tra Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale e Dipartimento delle Finanze USA per imporre la politica degli "aggiustamenti strutturali" ai paesi debitori del Sud del mondo, ebbe effetti devastanti a livello sociale ( Car­ nia, 1991) e sulla condizione delle donne in alcuni paesi dell'Mrica subsaharia­ na poiché propugnava l' intervento statale a favore del libero mercato a danno delle spese di we?fare (Sassen, 2002; Stiglitz, 20 03). Sostenendo le organizzazioni delle donne, le Nazioni Unite in qual­ che modo mantenevano una sorta di equilibrio contro gli eccessi del neo­ liberismo. Inoltre, il nuovo scenario, determinato dalla caduta del muro di Berlino nel 1 9 8 9 e dalla fine dell' uRSS nel luglio 1 9 9 1 (Fukuyama, 1 9 9 2) , contribuiva a dare valore alla soggettività politica delle donne a livello in­ ternazionale, poiché attraverso di loro le Nazioni Unite ritrovavano un campo di intervento e di azione comune a tutti i paesi membri. Infatti l'a­ pertura del "vaso di Pandora" dei conflitti regionali - con l'acuirsi dei na­ zionalismi e dei fondamentalismi nella ex Jugoslavia, in Algeria, in Ruanda e in Afghanistan - mise a tema la violenza e la complessità delle relazioni tra uomini e donne nella costruzione sociale. L' empowerment delle don-

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ne, ormai accettato come obiettivo, esposto alla revisione del linguaggio tecnico delle istituzioni dello sviluppo, diveniva oggetto di una rielabora­ zione inadeguata a cogliere le molte dimensioni in cui esso intendeva ope­ rare. La composizione del gender-related development index ( GDI) e della gender empowerment measure ( GEM), introdotti nell ' Human Development Report dell ' uNDP del 1 9 9 5 , tarati esclusivamente su criteri economici e istituzionali, attestano il disciplinamento e l' impoverimento del concetto. Un'analoga forma di "disciplinamento" dell'empowerment era già compresa nella teorizzazione della pianificazione di genere (Maser, 1 9 8 9 ) che - seppur accurata nell 'analisi dei bisogni delle donne - nella sottile di­ stinzione tra bisogni pratici, ovvero i diritti fondamentali, e quelli strate­ gici, ovvero la presenza nello spazio pubblico, rimuoveva la spinta trasfor­ mativa dell'agire politico femminile relegandola alla ricerca individuale di posti decisionali e non ai processi collettivi. L'altra parte del "disciplinamento" fu invece tragica e derivò dall'evoluzio­ ne del quadro politico poiché furono le continue emergenze create dal molti­ plicarsi dei conflitti che l'alimentarono. A partire dagli efferati crimini in ex Jugoslavia e in Ruanda, le figure di donne vittime di stupri di guerra e di stupri etnici avevano iniziato a prendere posto nell'immaginario collettivo ed erano divenute un'emergenza geopolitica. Il bombardamento della Serbia durante la crisi del Kosovo nel marzo del 1999, deciso dalla NATO senza la copertura di una specifica risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell' ONU (Palmisano, 2003), coinvolge la cooperazio­ ne in una nuova fase in cui il crescente ricorso all'emergenza rende marginali i principi inclusivi delle Conferenze degli anni Novanta. In questa nuova fase si iniziano a utilizzare i diritti delle donne per motivare l' intervento umanita­ rio, facendoli divenire un significante dello "scontro di civiltà'' (Hungtington, 1996). I diritti delle donne, tuttavia, utilizzati come una bandiera nella contro­ versia tra i crescenti fondamentalismi, si volatilizzano quando le donne riven­ dicano il controllo del proprio corpo, perché non affrontano le cause origina­ rie e situate del dominio maschile (Sen, 20 05). Si chiude così l'epoca durante la quale, sotto l' influenza della Piattaforma di Pechino, l' ONU e le agenzie bilaterali di cooperazione avevano cercato di realizzare l' inserimento della "prospettiva di genere" (il mainstreaming) nelle politiche di sviluppo, mettendo al centro del dialogo politico tra paesi partner di cooperazione la soggettività delle donne. Ne è la dimostrazione il Working Group on Gender Equality and Women's Empowerment dell' oECD/DAC, che nel 1996 compila le GuidelinesJor Gender Equality and Jtamen s Empo­ werment in Development Co-operation ( OECD/DAC Guidelines Series, 1999) e, insieme alla Division for the Advancement ofWomen delle Nazioni Unite, -

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definisce la strategia di mainstreaming di una prospettiva di genere nelle po­ litiche delle Nazioni Unite che sarà approvata dall'Ecosoc nel luglio 1997.

6. 4 Lo scontro di civiltà e l' empowerment economico

Lo spirito di Pechino e la forza della prospettiva di genere nella politica inter­ nazionale sembrarono tornare nell'ottobre del 2000 quando il Consiglio di Sicurezza dell' ONU approvò la sua prima, storica, risoluzione sulle donne (la risoluzione 1325 sul ruolo delle donne nei conflitti). Salutata inizialmente co­ me il riconoscimento delle capacità di costruzione di pace delle donne, ha, di fatto, funzionato soprattutto nel riconoscere violenze e stupri di guerra come crimini perseguibili dal diritto internazionale, ma è rimasta quasi inattuata, come dimostra il Global Study realizzato nel 2015, per la parte relativa alla va­ lorizzazione delle capacità di mediazione delle donne e al loro diritto di parte­ cipare alla pacificazione e alla ricostruzione. In realtà, proprio il 2000, anno in cui le Nazioni Unite celebrarono il quinquennale di Pechino, con l'approvazione di un Outcome Document che metteva in chiaro i costi della globalizzazione per le donne, segnò la divisione del movimento transnazionale e uno stop al sogno trasformativo delle donne. Gli obiettivi del millennio, varati dall'Assemblea Generale dell' ONU, ridusse­ ro l'empowerment all'eliminazione delle disparità di genere nell'istruzione e a quattro indicatori: alfabetizzazione; accesso delle donne all'istruzione prima­ ria, secondaria e terziaria; lavoro salariato non agricolo e percentuale di seggi nei parlamenti nazionali. Troppo poco per soddisfare una buona parte dei mo­ vimenti femministi e di donne che per un ventenni o avevano "visto" e combat­ tuto le contraddizioni del patriarcato e del neoliberismo e che ora guardavano ali' altermondialismo, prendendo parte alla protesta di Seatde nel 1999 contro gli accordi della World Trade Organization (WTO ) e al primo World Social Forum di Porto Alegre del 2001 (Vargas, 2oo6; Conway, 2007 ). Troppo po­ co anche per quel sistema di genere e sviluppo, ormai consolidato all'interno delle istituzioni di cooperazione, che si sarebbe trovato costretto dalla nuova retorica dell'efficacia degli aiuti a lavorare soprattutto sull'empowerment eco­ nomico delle donne. Di lì a poco, l' 11 settembre del 2oo1, con il rogo delle due torri del World Trade Center di Manhattan, rese evidente la profondità e la complessità del di­ sagio globale e produsse un'ulteriore involuzione nell'operato delle istituzioni nazionali e internazionali di cooperazione.

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Altri capitoli di questo volume analizzano come guerra al terrorismo, conflitti regionali, innovazioni tecnologiche e "grande recessione" abbia­ no trasformato il ruolo e la gestione della cooperazione. In questo capitolo ci limitiamo a dar conto di come l'empowerment, nel suo significato più ampio di punto di vista critico sulla cooperazione allo sviluppo, abbia do­ vuto cedere il passo a una lettura efficientista del ruolo delle donne nella crescita economica. Obiettivo relativamente più facile da negoziare con i paesi partner in un'epoca di finanziarizzazione dell'economia, di scontro di civiltà e di terrorismo, ma certamente meno efficace. Nel corso dell'ultimo decennio, le politiche di cooperazione in mate­ ria di genere e sviluppo hanno privilegiato un approccio di empowerment economico delle donne, in relazione alle "pari opportunità" con gli uomi­ ni, basato principalmente sull'adeguamento ai mercati e su interventi di li­ vello macra-politico - a tal proposito basta analizzare i criteri utilizzati dal Global Gender Gap Report, la pubblicazione del World Economie Forum che dal 2o o 6 fornisce i dati sulla situazione delle donne - come se questo fosse di per sé sufficiente a rimuovere le asimmetrie di potere tra donne e uomini e non vi fosse, invece, la necessità di agire contro gli specifici dispositivi patriarcali che impediscono alle donne di accedere ai benefici della crescita, soprattutto nei contesti di povertà e disuguaglianza, come dimostrano le poche esperienze positive realizzate nelle aree del Mediter­ raneo e del Medio Oriente, prima e dopo le cosiddette primavere arabe. Ciò è stato dovuto in larga parte al fatto che le istituzioni nazionali e internazionali hanno dovuto fare i conti con i soggetti privati dello svi­ luppo e i "nuovi attori" di cooperazione, che miravano a grandi iniziative focalizzate su un solo obiettivo, come ad esempio la salute o l'educazione, per semplificare i messaggi e dimostrare risultati. Anche l' High-level Pa­ nel on Women 's Economie Empowerment, istituito dal segretario generale dell' ONU nel 20 1 5 o la UN Women - la nuova "entità di genere" delle Na­ zioni Unite, che dal 2010 ha assorbito tutte le funzioni istituzionali, poli­ tiche e operative in materia di genere e sviluppo - sono costretti a tenere il passo con questi nuovi indirizzi. La stessa cosa fanno le grandi ONG mul­ tinazionali che, per raccogliere risorse, spesso ricorrono alle immagini di donne e bambine, vittime o naturali dispensatrici di benessere e di crescita, alimentando pregiudizi e stereotipi tra culture. Il paziente lavoro avviato sui bilanci di genere, che metteva in luce le connessioni tra ruolo delle donne, povertà, welfare e sostenibilità dello sviluppo, è divenuto mediaticamente e strategicamente marginale rispet­ to alle grandi campagne umanitarie. Così come marginali sono divenuti i finanziamenti alle associazioni di donne e femministe che lavorano su di

B IANCA P O MERANZI un concetto di empowerment trasformativo, capace cioè, attraverso le proprie reti nazionali e internazionali, di andare oltre l' idea della com­ petizione economica con gli uomini e di dare spazio alle proposte delle donne per un'effettiva sostenibilità delle politiche di sviluppo e di coo­ perazione. Si deve, tuttavia, proprio al costante lavoro analitico e alla capacità negoziale di queste reti il fatto che questo approccio di empowerment sia stato riconosciuto dall'Agenda 20 3 0 per lo sviluppo sostenibile. L'Agenda, infatti, apre la possibilità a nuove forme di cooperazione che possano valorizzare la soggettività delle donne e siano capaci di in­ cidere contro discriminazioni e violenze. Purtroppo, l'Agenda presenta anche molte ambiguità. Tra le più rilevanti possiamo segnalare il fatto che mentre i gover­ ni mantengono un ruolo fondamentale nel decidere l'accesso ai diritti umani e, in particolare, ai diritti delle donne, non sono chiare le moda­ lità con cui i singoli Stati possano intervenire sulle scelte economiche e finanziarie o rendere trasparenti i partenariati tra pubblico e privato ri­ spetto al lavoro delle donne. S oprattutto, non sono evidenti le priorità e gli strumenti che la cooperazione intende privilegiare nel breve periodo per realizzare la sinergia trasformativa tra soggettività delle donne nello sviluppo e sostenibilità economica, sociale e ambientale. Per creare alternative di sviluppo che vadano all'origine delle emer­ genze attuali non basta, infatti, raccogliere dati e valutare l'efficacia de­ gli interventi, occorre anche riprendere un dialogo di cooperazione sulle norme sociali e culturali che, al pari di quelle economiche, finanziarie e istituzionali, generano discriminazioni e disuguaglianze. Ad esempio, se si vuole davvero che "nessuno resti indietro", i principi stabiliti nei trat­ tati sui diritti umani e, in particolare per quello che riguarda le donne, nella CEDAW devono divenire un impegno comune per i governi e per i vecchi e i nuovi attori della cooperazione. Solo lavorando sulle connes­ sioni tra i meccanismi di esclusione e la gestione della cosa pubblica si possono ottenere risultati effettivi. Oggi, infatti, la cooperazione è sempre più chiamata a intervenire su fenomeni come le migrazioni, la sostenibilità alimentare, la gestione delle epidemie, la ricostruzione delle società fragili, i disastri procurati all'ambiente, questioni che richiedono di considerare il "paradigma del­ la cura" ( Gruppo del mercoledì, 201 1 ) , ovvero un approccio basato sulla conoscenza delle relazioni di potere tra soggetti e delle diverse "dimen­ sioni", private e pubbliche, che determinano le condizioni di vulnerabi­ lità e di esclusione su cui occorre agire per individuare soluzioni.

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L ' EMPOWERMENT D ELLE DONNE TRA P OTERE E TRASFORMAZIONE 97 6. s Osservazioni finali

Le ambiguità dell'Agenda 2030 sono certamente dovute al lungo processo ne­ goziale che ha contraddistinto la sua preparazione, alle resistenze intercultu­ rali tra i paesi membri dell' ONU e anche al permanere dell' impianto neoli­ berista, nonostante la crisi e le incertezze della fase internazionale. Un dato, comunque, è evidente, ovvero che la sua realizzazione sarà un processo molto complesso e di natura prevalentemente politica piuttosto che tecnica. Le Nazioni Unite dovranno mantenere un ruolo defilato di assistenza tec­ nica ai governi, mentre le istituzioni finanziarie e i soggetti privati, che sono i grandi attori dello sviluppo economico con il loro potere di regolamentazione dei mercati di beni materiali e immateriali, avranno un ruolo determinante. In questo scenario, l'azione delle organizzazioni della società civile è di particolare rilevo per negoziare i cambiamenti che saranno realizzati nei pros­ simi anni. Promuovere l'empowerment collettivo delle donne, ascoltare il loro punto di vista, finanziare le iniziative che propongono potrebbe risultare, dun­ que, un elemento centrale per incidere sulle cause strutturali di molti dei nuovi fenomeni globali. Occorre vedere se ci saranno le risorse e la volontà politica per dare parola e finanziare le proposte delle donne. Una cosa appare certa: l'interpretazione dell'empowerment, per essere davvero utile alla nuova Agenda 2030 e a una cooperazione capace di sostene­ re il passaggio di civiltà che la globalizzazione richiede, non può limitarsi all'e­ stensione dell'accesso al potere decisionale di poche o a un po' più di mercato e di assistenza per tutte, ma deve consentire alle donne di agire collettivamen­ te la "differenza politicà' ( Boccia, 200 2) che esse rappresentano e che anche i movimenti e gli attori sociali faticano a riconoscere.

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Territorialità e sviluppo umano nella globalizzazione di Mario Biggeri e Andrea Ferrannini

7· 1 Presentazione

Al giorno d'oggi, all' interno di una società globale tanto più interconnessa quanto più "liquida'' - secondo il pensiero di Zygmunt Bauman - e frammen­ tata, la costruzione di processi di sviluppo che siano umani, sostenibili e ri­ spondenti alle effettive necessità degli individui appare sempre più urgente, attraverso un radicale cambiamento di rotta nella visione e nel paradigma di sviluppo, sociale prima che economico, a livello locale, nazionale e globale. In un quadro in cui, come ben espresso da Vanna !anni nel CAP. I, la complessità costituisce la principale chiave di lettura dei profondi muta­ menti degli ultimi decenni, le iniziative di sviluppo appaiono caratterizza­ te da processi dinamici, multidimensionali e multilivello, che coinvolgono molteplici stakeholders e numerosi rapporti locali ed extralocali. Questi processi di sviluppo sono inoltre inseriti in diversi contesti locali e nazionali, caratterizzati da una grande eterogeneità di valori, interessi, vi­ sioni, infrastrutture socio-economiche e politiche in ciascuna società. Inoltre, i processi di urbanizzazione e ri-ruralizzazione che si verificano oggi a ritmi molto più sostenuti che in passato sembrano rafforzare l' impor­ tanza di affrontare tematiche come la competizione economica, l' inclusio­ ne sociale, i diritti umani e la protezione ambientale - tra le altre - a livello territoriale (Pike, Rodrfguez-Pose, Tomaney, 2 0 0 7; Becattini, Bellandi, De Propris, 2 0 0 9 ) In queste circostanze, le sinergie tra lo sviluppo locale e lo sviluppo uma­ no sostenibile stanno diventando sempre più rilevanti ed evidenti (Mehro­ tra, 20 1 4 ) , poiché il livello territoriale costituisce il quadro socio-istituzio­ nale e l'arena per l'azione collettiva che influenza direttamente la vita e il benessere degli attori (individui, aziende e gruppi sociali) (Biggeri, Ferran­ nini, 2 0 1 4 ) , nonché il contesto nel quale le ineguaglianze, le esclusioni, gli .



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squilibri e le vulnerabilità sono vissute i n maniera più diretta dalle persone ( Oxfam, ARCO, 20I 6 ) . Questo aspetto fondamentale venne rimarcato già nel I 9 8 o dalla Fon­ dazione internazionale per le alternative di sviluppo : «Lo sviluppo è vissuto dalle persone nel contesto in cui queste vivono, lavorano, imparano, amano, giocano e muoiono. Pertanto la comunità primaria, sia essa geografica o or­ ganizzativa, è lo spazio più prossimo accessibile per la maggior parte delle persone » ( IFDA, I 9 8 o, p. 1 1 , trad. nostra). Infatti, non è casuale che l'azione locale sia crescentemente considerata all' interno del dibattito globale relativo alle azioni e agli interventi che com­ battono povertà, inuguaglianze, cambiamento climatico e disoccupazione, e che la maggior parte delle organizzazioni internazionali (siano esse orga­ nizzazioni sovranazionali, banche di sviluppo regionali, fondazioni filantro­ piche o ONG internazionali) stia assegnando crescente priorità alla promo­ zione delle iniziative di sviluppo locale in giro per il mondo ( Oxfam, ARCO, 20 I6 ) . Non per ultimo, l'ampio dibattito che ha preceduto la definizione e l'approvazione dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (cfr. Tommaso­ li, CAP. 3 e Prato, CAP. I 2 del presente volume) ha incluso la discussione sulle potenzialità e le sfide della sua "localizzazione", tenendo conto che, nono­ stante gli obiettivi di sviluppo sostenibile siano universali, esistono rilevanti caratteristiche distintive dei contesti locali in cui essi devono essere resi ope­ rativi, sia nei paesi emergenti che nei paesi sviluppati. L'obiettivo di questo capitolo è quindi approfondire l' importanza dei si­ stemi territoriali integrati per lo sviluppo umano sostenibile a livello locale nel quadro di governance multilivello tipica della globalizzazione. Nel prossimo paragrafo verrà presentata la prospettiva teorica di svilup­ po umano sostenibile a livello locale, mentre nel PAR. 7·3 l'analisi integrata dei sistemi territoriali sarà messa in collegamento con le relazioni di gover­ nance multilivello nella globalizzazione. Infine, nel PAR. 7· 4 si discuteranno i principali processi di costruzione di politiche per sviluppo umano sosteni­ bile, concludendo poi con le riflessioni finali.

7· 2

La prospettiva di sviluppo umano sostenibile a livello locale ai tempi della globalizzazione

Oggigiorno, il concetto di "territorio" è concepito come un ecosistema distin­ tivo (Rullani, 20I 4 ) , con la sua complessa varietà di storia, cultura, geografia, risorse, conoscenza e istituzioni. In altre parole, si fa riferimento a «entità ter-

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ritoriali costruite e riprodotte attraverso un insieme di relazioni socio-spaziali, connessioni, pratiche e discorsi, più che una combinazione di unità ammini­ strative o economiche » (MacKinnon et al. , 2009, p. 140, trad. nostra). In ag­ giunta, il contesto locale è qui analizzato come un sistema integrato in cui a ) i processi economici, sociali e politici sono interconnessi tra loro e coinvolgono l'intera comunità, e b) cambiamento, adattamento, resilienza e innovazione rappresentano i processi facilitanti e le condizioni per l'evoluzione dei sistemi locali (Schumpeter, 1975; Nelson, Winter, 1982; Becattini, 1989 ). Già nel 1998 Giuseppe De Rita e Aldo Bonomi enfatizzavano sintetica­ mente l' intreccio tra globale e locale con queste parole : «più globale corri­ sponde specularmente a più locale, non solo dal punto di vista del produrre, ma come bisogno di costruzione di reti di prossimità sociale » (De Rita, Bo­ nomi, 1998, p. 93). Appare infatti chiaro come il complesso insieme di cam­ biamenti nelle relazioni economiche, sociali e culturali condizionanti ogni aspetto della società umana legato alla globalizzazione sia rilevante ed evi­ dente non solo a livello internazionale, quanto soprattutto nelle comunità locali in cui vivono quotidianamente gli agenti socio-economici. Se da una parte le società locali sono chiamate a mantenere vive e valorizzare le proprie specificità in uno scenario di competitività globale, dall'altra le interazioni nella mutevole sfera globale delle relazioni condizionano la diffusione e lo scambio del sapere e della conoscenza, delle idee e delle tecnologie, delle ri­ sorse (umane e finanziarie), così come della cultura e dei valori, ampliando così le opportunità per i singoli agenti e per i sistemi locali nel loro comples­ so di attivare processi d'apprendimento, di creatività sociale e di cambia­ mento istituzionale altrimenti più difficili. Questo processo di "riterritorializzazione" dell'economia e della società legato alla globalizzazione (Brenner, 1999) risulta oggi ancor più rafforzato dalla questione della sostenibilità delle traiettorie di sviluppo, assunta come asse portante della nuova agenda globale, considerando l' interazione tra in­ dividuo e ambiente - naturale, sociale e istituzionale - quale elemento cen­ trale nel processo di generazione del benessere. Una scarsa attenzione alle di­ namiche ambientali e di cambiamento climatico, alla tutela dei diritti uma­ ni, al rafforzamento della coesione sociale, al rispetto delle minoranze e alla diminuzione della disuguaglianza e del disagio sociale rischia infatti di com­ portare notevoli effetti negativi, primariamente a livello territoriale, sia nel breve che nel lungo periodo, inficiando l'equità in tra e intergenerazionale. Sulla base di queste due premesse emerge con chiarezza la possibilità, e la relativa rilevanza, di integrare il paradigma dello sviluppo umano - in quanto approccio incentrato sulle persone e le comunità e sull'espansione delle opportunità e capacità cui gli individui assegnano valore (Sen, 1999) -



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e la prospettiva dello sviluppo locale, focalizzata sulle peculiarità dei sistemi socio-economici territoriali, in un'ottica alternativa per il perseguimento di processi di sviluppo sostenibile ai tempi della globalizzazione. Nonostante, infatti, l'approccio delle capabilities di Amartya Sen alla base del paradigma dello sviluppo umano sia primariamente incentrato sull' individuo, è oggi diffusa la consapevolezza che la "fioritura" della persona - secondo il concet­ to aristotelico ripreso da Amartya Sen e Martha Nussbaum - sia un processo che si sviluppa all' interno della società locale in cui questa vive e interagisce, dipendendo dalla combinazione di norme sociali, istituzioni, strutture di vi­ ta comunitaria, capacità e conoscenze (Ricoeur, I992; Deneulin, 2oo6; Ste­ wart, 20I 3 ; Biggeri, Ferrannini, 20I 4 ) . Il contesto locale è infatti quello in cui: l' interazione tra autorità, istituzioni, cittadini e la società nel suo com­ plesso è più immediata e più forte ; la maggior parte degli assetti sociali ed economici vengono determinati; le disuguaglianze, l'esclusione, gli squilibri e le vulnerabilità sono imme­ diatamente vissute dalle persone. Pertanto, la prospettiva di sviluppo umano sostenibile deve trovare la sua prioritaria - seppur non esclusiva - applicazione operativa nelle traiet­ torie di sviluppo locale, facendo leva sui fattori facilitanti a livello territoriale per l'espansione delle capabilities individuali e collettive. Recentemente abbiamo proposto dunque le seguenti argomentazioni per avanzare nel dibattito sulla prospettiva di sviluppo umano sostenibile a livello locale (Biggeri, Ferrannini, 20I 4 ) . In primo luogo, gli individui assegnano valore alle diverse capabilities secondo criteri che sono dipendenti dal contesto locale, essendo inesorabil­ mente influenzati dalle tradizioni, dalle norme sociali e (soprattutto) dagli aspetti culturali, che variano sostanzialmente da territorio a territorio, anche all' interno della stessa nazione (Drèze, Sen, 2002; Storper, 20 05; Deneulin, 20 0 6, 2oo 8 ; Chopra, Duraiappah, 2o o 8 ; Roddguez-Pose, 20IO ). Inoltre, la visione di sviluppo locale ricercata dagli agenti è modellata sulla base dei principi e dei valori che riflettono le relazioni e l'equilibrio di potere, social­ mente e politicamente determinati all' interno delle comunità locali (Pike, Roddguez-Pose, Tomaney, 2007 ). In secondo luogo, gli individui « non possono prosperare completa­ mente senza partecipare attivamente alla vita politica e sociale, e senza essere effettivamente coinvolti nei processi decisionali comuni » (Sen, 20 0 2, p.79, trad. nostra). Analogamente, Barca, McCann e Roddguez-Pose ( 201 2 ) sot­ tolineano l' importanza della partecipazione e dei processi deliberativi nel generare la conoscenza necessaria a ideare politiche appropriate e specifiche.

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A questo proposito, non sorprende come lo spazio primario e più accessibi­ le agli individui per esercitare azione e influenza nei processi di discussio­ ne pubblica e scrutinio sia la società territoriale, poiché la partecipazione individuale e l'appartenenza a gruppi multipli sono vissuti in primo luogo all' interno delle comunità locali, con maggiori opportunità di impegno "po­ litico" ( nel senso civico del termine ) e di influenza dei processi decisionali ( Mehrotra, 2oo8). In terzo luogo, è importante evidenziare che i beni e i servizi a disposi­ zione della persona ( ad esempio, input per le capabilities) sono prima di tut­ to connessi alla disponibilità, fornitura e accessibilità a livello locale. Inoltre, i fattori di conversione di tipo sociale e ambientale sono senza dubbio di­ pendenti dal contesto, essendo determinati dalla storia locale, dalla cultura, dalle tradizioni, dalle relazioni di potere e dalle caratteristiche geografiche del territorio ( Ceriani Sebregondi, 19 53). Infine, ogni territorio è contrad­ distinto da diversità strutturali, istituzionali e relazionali che influenzano i processi di sviluppo locale e, allo stesso tempo, sono centrali per l'espansione delle libertà personali (capabilities o funzionamenti raggiungibili ) in quello specifico territorio. Nel complesso pertanto - tenendo dunque insieme i processi attivati dalla globalizzazione, la centralità della sostenibilità e la rilevanza di una prospettiva di sviluppo umano a livello locale - risulta chiaro come il terri­ torio acquisisca nuovamente un ruolo di protagonista attivo dello sviluppo nelle economie e società contemporanee ( Rullani, 2014).

7· 3

Sistemi territoriali integrati e governance multilivello

All'interno della prospettiva sopra avanzata e dello scenario socio-economico odierno, è doveroso sottolineare come ogni sistema locale sia caratterizza­ to da complesse relazioni tra agenti e stakeholders che travalicano i confini territoriali, attraverso processi di negoziazione, coordinamento, apprendi­ mento e competizione che guidano le evoluzioni del sistema stesso. Infat­ ti, i processi di globalizzazione hanno introdotto una crescente complessità nelle relazioni tra gli attori e tra i sistemi di sviluppo locale, connettendo in maggiore misura il benessere degli individui e delle comunità con un sistema di relazioni multilivello, inter e intra territoriali, con due conseguenze prin­ cipali: l'empowerment di un vasto raggio di stakeholders con maggiore aper­ tura ai processi politici pubblici; la comparsa di nuove forme di relazioni tra i diversi livelli di governo.



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Pertanto, la combinazione e il coordinamento di risorse, istituzioni e capacità derivanti dai differenti livelli e settori - in breve, governance mul­ tilivello - impattano in maniera cruciale sui processi di espansione delle ca­ pabilities degli agenti e del benessere comunitario, in termini sia economici che sociali ( Biggeri, Ferrannini, 20I 4). In termini generali, governance multilivello indica « una panoplia di si­ stemi di coordinazione e negoziazione tra entità formalmente indipendenti ma funzionalmente interdipendenti » ( Piattoni, 20IO, p. 26, trad. nostra) , con una dimensione tanto orizzontale quanto verticale. Per quanto concerne la dimensione "orizzontale", è oggi sempre più riconosciuto che la governance non è più organizzata in "dipartimenti rigidi", ma piuttosto in multidipartimenti, spazi interamministrazione e strutture multiattore che fanno fronte ai molteplici problemi delle società territoriali. Pertanto, si va ampliando la necessità di estendere il coinvol­ gimento di gruppi e soggetti pubblici, privati e sociali - quali istituzioni locali pubbliche, associazioni di imprenditori, università e centri di ricer­ ca, organizzazioni della società civile - in processi di dibattito e policy­ making ( ad esempio, definizione di priorità e pianificazione di strategie di sviluppo, partenariati pubblico-privati ) che secondo Barca, McCann e Rodriguez-Pose (2oi 2) devono essere aperti a dissensi e punti di vista al­ ternativi. A questo proposito, la partecipazione della società civile locale nei processi decisionali riguardanti obiettivi, strategie, risorse e sforzi per lo sviluppo territoriale è - e deve essere considerata a tutti i livelli - essen­ ziale, soprattutto quando realizzata attraverso un ruolo costruttivo e un impegno duraturo nel tempo, nonostante la compressione degli spazi e dei diritti di partecipazione in atto in molti paesi ( cfr. Tommasoli nel CAP. 3). Pertanto, solamente la mobilitazione attiva di tutti gli attori locali, basata sulla trasparenza e la mutua responsabilità, può garantire quei processi di "concertazione straordinaria" ( Dei Ottati, 20 0 2, 2005) essenziali per per­ seguire traiettorie di sviluppo umano sostenibile a livello locale. Per quanto concerne la dimensione "verticale", appare necessario chia­ rire che l'enfasi posta sull'endogeneità dei processi di sviluppo non implica un'autosufficienza del sistema né la sua garanzia di sopravvivenza a priori. Nessun territorio può essere infatti considerato isolato dal relativo contesto nazionale e/ o dal panorama internazionale, dei quali defacto è parte, né tan­ tomeno si riduce il ruolo degli Stati centrali o delle organizzazioni sovrana­ zionali o internazionali quali principali coordinatori e regolatori per la pro ­ tezione dei diritti fondamentali, per il miglioramento dei beni pubblici glo­ bali e per la fornitura equa di servizi translocali. Superando la tradizionale demarcazione tra il livello locale, nazionale e internazionale, ogni sistema di

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sviluppo locale è infatti oggigiorno coinvolto, direttamente o indirettamen­ te, in una più ampia rete di relazioni sistemiche transterritoriali, per la quale iniziative e azioni intraprese in altri luoghi, o da istituzioni e agenti esterni, influenzano in maniera cruciale la dinamicità e l'evoluzione delle traiettorie di sviluppo del sistema stesso (Biggeri, Ferrannini, 201 4). In particolare, all' interno di questa visione multilivello è dovere degli attori nazionali assicurare un ambiente favorevole per lo sviluppo umano sostenibile a livello locale territoriale, attraverso politiche di stabilità ma­ croeconomica, un quadro istituzionale e normativa efficace e la fornitura di servizi di base in maniera uniforme (in termini di qualità e accessibilità) in tutto il territorio nazionale. Allo stesso modo, le relazioni globali transterritoriali che caratterizzano il contesto internazionale attuale costituiscono un elemento analitico cen­ trale in questa prospettiva, comportando effetti significativi sulle società lo­ cali in termini di ampliamento delle opportunità economiche e sociali. Tali relazioni concernono non solo i flussi di capitale finanziario e gli investi­ menti diretti esteri, ma anche - e soprattutto - le interazioni di tecnologie e conoscenze, culture e valori attraverso i canali globali. A questo proposito, è doveroso prestare primaria attenzione ai beni pubblici globali - ad esem­ pio, in termini di salute pubblica, protezione ambientale, pace, stabilità fi­ nanziaria - che, attraverso l' implementazione o meno di accordi, trattati e politiche internazionali, modellano l'evoluzione delle società territoriali at­ traverso esternalità positive o negative transterritoriali e transnazionali che avranno effetti sulle generazioni presenti e future a livello globale (Kanbur, Sandler, Morrison, 1999; Sandler, 20 0 4) . In questo scenario, le iniziative di cooperazione decentrata possono giocare un significativo ruolo operativo nella promozione di strategie per lo sviluppo umano sostenibile a livello lo­ cale. Le relazioni dirette tra i territori stessi infatti possono consentire la cre­ azione di partnership innovative e durature, basate su valori, istituzioni o vi­ sioni di sviluppo comuni, attraverso flussi di risorse e conoscenze, processi di dialogo e capacity building, in particolare a livello istituzionale (!anni, 2o o6; Badia i Dalmases, Coll, 2013; Fernandez de Losada, 2013). Complessivamente dunque, il valore dell'articolazione di governance multilivello risiede nella capacità di promuovere la valorizzazione delle ri­ sorse endogene dei sistemi territoriali, integrati sia attraverso la partecipa­ zione, l' inclusione e l'azione degli stakeholders locali, quanto attraverso la connessione tra questi e le risorse, le competenze e le iniziative derivanti da altri territori o livelli superiori. Tuttavia, tali considerazioni rendono ancora più problematiche alcune questioni centrali quali i costi di coordinamento e allineamento, la frammen-



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tazione delle responsabilità e allocazione delle competenze e la protezione di interessi eterogenei da parte degli stakeholders di diversi livelli o settori. In altre parole, « il dialogo, la sinergia e il coordinamento tra politiche bottom-up e le strutture istituzionali e di policy nazionali e sovrannazionali diventa una di­ mensione critica » (Sepulveda, Amin, 2006, pp. 3 25-6, trad. nostra).

7· 4

I processi di costruzione di politiche per lo sviluppo umano sostenibile a livello locale

In termini generali, la prospettiva di sviluppo umano sostenibile a livello lo­ cale identifica il seguente primario obiettivo di policy: facilitare l'adeguato funzionamento dei sistemi locali al fine di promuovere l'ampliamento delle capabilities (opportunità e capacità) individuali e collettive, ossia in altre pa­ role « sbloccare la ricchezza delle regioni quale fonte primaria di sviluppo e rinnovamento [ ... ] cercando di favorire azioni di policy dal basso, specifiche per la regione, di lungo periodo e basate su una pluralità di attori » (Amin, I 999, p. 3 66, trad. mia). A questo riguardo, Dei Ottati ( 2oos, p. 266 ) definisce la «governance consapevole » come la capacità di immaginare un nuovo possibile percorso di sviluppo locale e organizzare un consenso tra i vari attori locali, che si col­ lega a processi di innovazione istituzionale, mediazione dei conflitti locali e al rafforzamento di un senso di identità comune (Ceriani Sebregondi, I953; Becattini, Bellandi, De Propris, 2009 ) . In questo quadro, più che delineare un insieme di politiche valide a priori in maniera indistinta rispetto ai territori di applicazione, risulta utile richiamare e discutere i tre principali processi che secondo noi sottostanno alla creazione di uno spazio d'azione (policy-enabling space) per i decisori politici e gli stakeholders territoriali, al fine di perseguire lo sviluppo umano sostenibile a livello locale (Biggeri, Ferranini, 20I 4 ) . Il primo elemento è incentrato sul rafforzamento dei meccanismi di consultazione pubblica per la definizione di politiche place-based, partendo dalla consapevolezza che i processi di cambiamento sono collettivi. Infatti, il miglioramento della cultura della partecipazione e degli spazi - sia fisici che in alcuni casi virtuali - per il dibattito pubblico tra gruppi sociali rappresen­ ta il punto di partenza per la costruzione di policy networks in grado di gui­ dare cambiamenti territoriali strutturali per lo sviluppo umano sostenibile. È in questi spazi che differenti valori e visioni sullo sviluppo locale possono essere articolati e mediati attraverso il dialogo costruttivo, che è più facile da

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intraprendere quando sono presenti relazioni aperte e trasparenti ed è forte l'attenzione al benessere collettivo della comunità. Secondo MacKinnon et al. (2009, p. 140 ), infatti, gli approcci democratici e partecipativi allo svi­ luppo locale possono favorire processi di adattamento di maggior successo attraverso la promozione di un pensiero pluralista e della volontà di sfidare le ortodossie stabilite. Il secondo elemento concerne i processi di institution-building, che de­ vono essere volti a favorire la mobilitazione degli agenti locali e il pluralismo della società, l'azione collettiva (anche tra gruppi marginalizzati) , la coesio­ ne e la fiducia tra i gruppi sociali, nel rispetto delle diverse visioni e prospet­ tive, nonché la graduale rimozione degli stringenti vincoli istituzionali alla crescita economica e al progresso sociale (Hodgson, 2007 ) , la ridefinizione di incentivi che favoriscano un uso più efficiente delle risorse locali attraver­ so meccanismi cooperativi, la valorizzazione delle reti relazionali e la mobi­ litazione delle azioni collettive ( Tarrow, 1 994; Bellanca, 2007 ). Il terzo elemento riguarda i processi di apprendimento collettivo, i quali influenzano la definizione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche. Questi processi coinvolgono le seguenti azioni: a) analizzare le traiettorie di sviluppo del sistema locale di riferimento; b) derivare lezioni utili dal­ lo scambio e dal confronto di informazioni con altri sistemi e stakeholders esterni; c) individuare segnali di cambiamento (non solo tecnologico) ed elaborare i flussi di nuove informazioni; d) creare consapevolezza locale ri­ guardo agli elementi di novità e scenari per il territorio, con particolare at­ tenzione alle loro implicazioni future ; e) affrontare i colli di bottiglia (spe­ cialmente cognitivi) e le resistenze al cambiamento; e infine j) favorire la capacità di risposta nel mobilitare risorse collettive da indirizzare ai proble­ mi emergenti (Cooke, Morgan, 1 9 9 8). Per tanto, i processi di apprendimen­ to collettivo modellano la resilienza comunitaria concepita come abilità ad agire intenzionalmente per rafforzare la capacità da parte di cittadini e isti­ tuzioni di indirizzare, e influenzare, il corso del cambiamento sociale ed eco­ nomico (Centre for Community Enterprises, 2o oo, p. s). Nel complesso, le relazioni di sinergia, complementarità, compensazio­ ne o ostacolo tra i processi di consultazione pubblica, institution-building e apprendimento collettivo influenzano - ampliandolo o restringendolo - il policy-enabling space per i decisori politici e gli stakeholders territoriali al fine di perseguire lo sviluppo umano sostenibile a livello locale. Tuttavia, è necessario riconoscere che questi processi non implicano meccanismi meramente tecnici o neutrali, poiché non avvengono in un vuoto sociale e politico. Per esempio, gli spazi di partecipazione non sono socialmente costruiti in maniera neutrale rispetto a relazioni di potere e in-



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fluenza visibili o invisibili, che possono condurre a una esclusione deliberata e/ o strutturale di certi gruppi sociali ( per esempio le donne, i bambini e i giovani, le minoranze etniche o religiose ) . Bensì, è necessario tenere in con­ siderazione che questi di processi di costruzione di politiche per lo svilup­ po umano sostenibile sono innegabilmente legati ai principi, ai valori e alle strutture di potere formali e informali che caratterizzano il territorio, le qua­ li sono socialmente e politicamente determinate all' interno di ogni specifico contesto locale ( Biggeri, Ferrannini, 20I4; Oxfam, ARCO, 20I 6 ) .

7· 5

Osservazioni finali

Alla luce dell'evidenza empirica relativa alle disparità subnazionali e terri­ toriali in termini di demografia, occupazione, reddito e povertà in tutto il mondo, lo sviluppo territoriale nell'era della globalizzazione acquisisce un ruolo fondamentale, soprattutto all' interno di una visione più ampia di svi­ luppo umano sostenibile basata sulla centralità delle persone e, pertanto, dei loro ecosistemi sociali, economici e ambientali di riferimento. Tale prospet­ tiva lega dunque l'espansione delle opportunità e del benessere nella società con il rafforzamento di quelle condizioni e istituzioni che consentono la va­ lorizzazione del potenziale e delle capacità insite in ciascuna realtà territoria­ le secondo le proprie specificità, in primo luogo valoriali e culturali. Tuttavia, un simile cambiamento di prospettiva non implica un'esclusi­ va attenzione analitica e di policy al livello territoriale, bensì domanda con forza una crescente articolazione e complementarietà tra meccanismi a livel­ li diversi di governance, nonché il consolidamento dei sistemi di relazioni transterritoriali tra le società locali, quali processi essenziali per rafforzare il cosviluppo e la sostenibilità anche alla luce delle opportunità offerte dalla diffusione della conoscenza a livello globale. Parlare di territorialità e sviluppo umano nella globalizzazione implica pertanto tornare a parlare di visioni e modelli di sviluppo, sociale prima che economico, a livello locale, nazionale e globale, e dei conseguenti obiettivi, strategie e strumenti per il loro perseguimento. Infatti, come espresso da Big­ geri, Borsacchi e Ferrannini ( 20I5, p. 15), «lo sviluppo armonioso e sostenibile dei territori non avviene casualmente, ma è o deve essere cercato dagli attori e dagli stakeholders dei territori stessi. È perciò chiaro che, in alcune fasi critiche, la necessità di momenti di riflessione attenta e condivisa diventa imprescindi­ bile, come del resto lo è la ricerca di nuove idee e strumenti atti a rivedere e cor­ reggere il percorso coscientemente o inconsapevolmente intrapreso ».

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8

Le migrazioni e i processi di sviluppo di

Gabriele Tornei

8.1 Presentazione

I cambiamenti sociali, economici e politici creano in molti casi le condi­ zioni che incoraggiano le migrazioni, siano esse interne o internaziona­ li. Nello stesso tempo, la mobilità delle persone introduce cambiamenti strutturali che incentivano lo sviluppo sia nelle società di partenza, sia in quelle di destinazione (Bakewell, 20 1 2 , p. xvn). La riflessione sull' insieme di questi rapporti non è nuova nel pano­ rama delle scienze economiche e sociali. Se ne sono occupati demografi, geografi dei processi di urbanizzazione, analisti delle migrazioni interne ai regimi coloniali, critici dei processi di penetrazione capitalista nelle eco­ nomie e nelle società non occidentali. Dagli anni Cinquanta il tema è al centro del dibattito sulle politiche di selezione e integrazione della mano­ dopera necessaria allo sviluppo industriale. Negli ultimi anni abbiamo però assistito a un processo di istituziona­ lizzazione di questo dibattito e alla formazione di un discorso ufficiale a livello sovranazionale che se da un lato dà forza a interventi che si dirigo ­ no alla massimizzazione delle opportunità e alla minimizzazione dei ri­ schi dell' interconnessione tra migrazione e sviluppo, dall 'altro nasconde, se non addirittura espelle, alcuni elementi strategici necessari per una va­ lutazione critica del tema. Questo capitolo ricostruisce il percorso attraverso il quale si è costituito il discorso ufficiale su migrazione e sviluppo tanto nel contesto UN quan­ to in quello Eu. Attraverso questa presentazione intende però evidenziare la contraddizione che esiste tra le prospettazioni strategiche del discorso ufficiale e l'orientamento securitario delle politiche nazionali e intergo­ vernative.

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GABRIELE TOMEI 8.2 Migrazioni e sviluppo : i l pendolo delle interpretazioni

La successione storica delle interpretazioni del rapporto tra migrazioni e svi­ luppo ha assunto connotazioni alterne e reciprocamente polarizzate, come in un pendolo ( Castles, 2oo8; De Haas, 201 2) i cui movimenti hanno segna­ to nel tempo i principali orientamenti del dibattito teorico e politico. Nell' Europa della ricostruzione postbellica l'attenzione del dibattito si è concentrata sull' impatto (positivo) della migrazione internazionale da lavo­ ro sullo sviluppo dei paesi di origine e di destinazione. In questo contesto, infatti, la domanda di lavoro da parte dell' industria continentale era cresciu­ ta più che proporzionalmente rispetto alla disponibilità di forza lavoro loca­ le e ciò aveva creato la necessità di importare manodopera dai paesi terzi che, al contrario dei precedenti, erano caratterizzati da un'eccedenza in cerca di collocazione. Le migrazioni da lavoro che si andarono strutturando in que­ sto periodo furono interpretate come funzionali ai paesi di destinazione, a quelli di partenza e anche ai migranti, le cui rimesse sostenevano i consumi e gli investimenti delle famiglie. Gli anni Settanta spostarono l'attenzione del dibattito verso le inter­ dipendenze migrazioni e sottosviluppo. La ristrutturazione dell' industria europea, a seguito delle crisi petrolifere e dell'ascesa politica in molti paesi di origine di una nuova classe dirigente formatasi nel contesto della deco­ lonizzazione, determinò una netta inversione del modo in cui interpretare il nesso tra migrazione e sviluppo. Sul primo versante, il nuovo paradigma della deindustrializzazione e della produzione globale snella aveva ridotto la domanda di manodopera nei paesi industrializzati e quindi interpretava come superfluo l'apporto di manodopera dall'estero. Sul versante dei pae­ si di provenienza, la migrazione da lavoro veniva considerata, con sempre maggiore consenso, come un processo di espropriazione di competenze e di capacità che avrebbe rafforzato (anziché contrastato) il sottosvilup­ po del paese. Analogo giudizio critico si indirizzava alle rimesse dei mi­ granti, perché ritenute responsabili di effetti perversi di natura economica (aumento dell' inflazione, tendenza al consumo vistoso e improduttivo) e sociale (aumento delle disuguaglianze tra famiglie di migranti e no, di­ pendenza culturale dai consumi di prodotti stranieri, radicamento di una cultura migratoria). Il nuovo clima di disincanto contribuì a diffondere una lettura pessi­ mista dell' impatto delle migrazioni sullo sviluppo e i paesi di destinazione diventarono più selettivi nel reclutamento dei migranti da lavoro, avviando una progressiva chiusura delle frontiere.

8. LE M I G RAZI O N I E I P RO C ESSI D I SVILU P P O

IIS

8. 3 Il nuovo ottimismo

Dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso il pendolo del di­ battito ha nuovamente cambiato direzione, riorientandosi verso una posi­ zione ottimista. Alla base di questo spostamento c 'è la nuova domanda di manodopera nei paesi di recente industrializzazione e la crescita, nei paesi occidentali, dell'offerta di lavoro nel settore terziario, soprattutto informale. L' incredibile aumento del volume delle rimesse verso paesi a basso e medio reddito ci dà, più di ogni altro indicatore, la misura della ripresa delle migra­ zioni internazionali e del ruolo che queste oggi svolgono a sostegno dello sviluppo (Kapur, 2003). Le parole d'ordine di questa nuova stagione sono due : migrazione circo­ lare e cosviluppo. Nella migrazione circolare la direzione e la durata dello spostamento dei migranti sono vincolate alle opportunità di occupazione autorizzate dai go­ verni dei paesi di destinazione. Questa concezione del percorso migratorio ripropone il modello tedesco del "lavoratore ospite" nel nuovo quadro della gestione delle migrazioni, un approccio condiviso nel 2004 tra i cento paesi aderenti all' Iniziativa di Berna e che invita ad attuare politiche di conteni­ mento quantitativo (quote e/o visti) e di selezione qualitativa (per tipolo­ gie) dell' immigrazione regolare, di contrasto di quella irregolare, di valoriz­ zazione del ruolo dei migranti che rientrano nel paese di origine al termine della propria esperienza di lavoro all'estero (da cui la "circolarità''). Il termine cosviluppo è stato coniato da Sami Nai'r ( I997 ), incaricato dal governo Jospin di elaborare un quadro di riferimento concettuale per la valorizzazione del ruolo dei migranti come attori di sviluppo. Dal pun­ to di vista pragmatico sostiene l' integrazione del migrante (lavoratore) nel paese di destinazione, mobilita le comunità di migranti (diaspore) per la ca­ nalizzazione produttiva e orientata allo sviluppo delle rimesse individuali e collettive, incentiva il rientro volontario nel paese di origine al termine dell 'esperienza lavorativa del migrante. È anche grazie alla fortuna di questo concetto che negli ultimi vent'anni molti paesi di origine hanno promosso politiche di fidelizzazione e coinvolgimento transnazionale delle diaspore in programmi di investimento o aiuto pubblico in patria ( Ceschi, 20I 2). Entrambi questi approcci sostenevano una lettura ottimista del nesso migrazione-sviluppo e proponevano strategie di massimizzazione degli im­ patti positivi e di minimizzazione di quelli negativi. A partire dalla fine del primo decennio del nuovo secolo numerosi e autorevoli studiosi hanno avanzato perplessità e critiche su questi approcci

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e si sono impegnati a smascherare le loro componenti ideologiche ispirate dall'agenda neoliberista e securitaria ( Gamlen, 2014 ) . Per alcuni il sostegno acritico alla positività del nesso tra migrazioni e sviluppo si fonda su un' implicita difesa ideologica della globalizzazione ( Casdes, 2oo 8 ) . Per altri, il fatto che le nuove politiche migratorie facciano riferimento al mercato e alla società civile rivela un più sottile disegno di de­ legittimazione del ruolo degli Stati ( Faist, 2oo8 ) . Per altri ancora, il costante richiamo alla responsabilità etica dei migranti nei confronti dello sviluppo dei propri paesi di origine è un modo per esercitare su di essi un controllo biopolitico ( Raghuram, 2009 ) . In un recente numero speciale della rivista "International Migration" si legge che l'uso retorico del nesso tra migrazione e sviluppo nasconde e le­ gittima i processi e i valori del capitalismo globale ( Glick, Schiller, 201 2 ) , elimina/ elude la necessità di un intervento politico contro la stratificazione globale del potere ( De Haas, 201 2 ) e sacrifica le sue potenzialità ai vincoli costrittivi della nuova agenda securitaria ( S0rensen, 201 2 ) . Nonostante la presenza di queste preziose voci critiche, il nuovo millen­ nio ha visto la progressiva affermazione a livello internazionale di un discor­ so ufficiale sul nesso migrazioni e sviluppo, ispirato ai riferimenti al nuovo ottimismo ma pragmaticamente orientato a obiettivi di breve termine di ti­ po securitario.

8. 4 Il discorso ufficiale nel contesto delle Nazioni Unite

L' istituzionalizzazione del dibattito globale su migrazione e sviluppo ha pre­ so avvio su iniziativa del segretario generale UN Kofi Annan che nel 20 03 isti­ tuì la Commissione globale sulla migrazione internazionale ( Global Com­ mission on International Migration, GCIM ) e lanciò l' idea di un dialogo di alto livello su migrazione e sviluppo ( High-level Dialogue on Migration and Development, HLD ) per stimolare le politiche a cogliere i benefici che la mi­ grazione offre ai paesi di origine, a quelli di destinazione e ai migranti. Tra i molti eventi preparatori, un ruolo strategico è stato svolto dall' in­ contro della GCIM, tenutosi nell'ottobre 2005, le cui conclusioni hanno of­ ferto una piattaforma di discussione globale orientata a promuovere con­ temporaneamente il supporto alle migrazioni volontarie e il contrasto di quelle irregolari e forzate, l' integrazione sociale dei migranti nei paesi di destinazione, la valorizzazione dell' impatto economico delle migrazioni sullo sviluppo.

8. LE M I G RAZI O N I E I P RO C ESSI D I SVILU P P O

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Il primo HLD fu realizzato in occasione della UNGASS (United Nations Generai Assembly) il I4 e IS settembre 2oo 6 e ripropose sostanzialmente la piattaforma elaborata dalla GCIM, ripensandola però alla luce di un più organico approccio al contrasto delle cause delle migrazioni attraverso il miglioramento delle condizioni socio-economiche e della tutela dei diritti umani nei paesi di origine. Le sue conclusioni certificavano il raggiunto consenso della comunità internazionale sul carattere globale e multidimensionale del fenomeno mi­ gratorio, così come sul suo potenziale contributo allo sviluppo tanto dei pae­ si di origine quanto di quelli di destinazione. Le rimesse (politiche e sociali) erano riconosciute come il principale vettore di sviluppo nei paesi di origine, ma a condizione che non fossero considerate sostitutive degli aiuti interna­ zionali. Il ruolo delle comunità transnazionali di migranti e delle diaspore era individuato come strategico per lo scambio di conoscenze e di capacità tra paesi di destinazione e di origine (comprendendo tra questi ultimi anche i paesi industrializzati). La comunità internazionale si impegnava a contra­ stare i fenomeni di brain-drain attraverso misure di policy dirette a trattene­ re nei paesi di origine i lavoratori più qualificati o a promuoverne il ritorno. Parimenti, considerava centrale il proprio impegno nella tutela dei diritti umani e nella lotta contro il traffico e lo sfruttamento dei migranti. Una delle prime e principali ricadute dell' HLD è stata la costituzione del Global Forum on Migration and Development ( GFMD ): uno strumento di discussione tra governi e ONG finalizzato a formulare proposte di intervento a livello nazionale, bilaterale e internazionale. Dal 2007 il GFMD si è riunito otto volte, contribuendo a esplorare un ampio panorama di questioni anche grazie alla sua natura non strettamente istituzionale e al carattere non vincolante dei suoi pronunciamenti. Tra le questioni poste per la prima volta a tema emergono : l' impatto della crisi eco­ nomica globale sull' integrazione lavorativa dei migranti e sul volume delle rimesse (Grecia 2009 ); la necessità di affermare un principio di "responsabi­ lità condivisà' tra governi dei paesi di origine, transito e destinazione per la tutela dei diritti e la sicurezza dei migranti (Filippine 20 08; Messico 20io; Turchia 2014); il carattere strategico dei partenariati tra il settore privato, la società civile e le diaspore (Mauritius 20I2); la crescita delle migrazioni Sud­ Sud (Svezia 20 13); la necessità di inserire il tema migratorio come dimensio­ ne qualificante delle nuove strategie di cooperazione allo sviluppo post-20IS (Grecia 200 9 ; Svezia 201 3 ; Turchia 20 I4). Il secondo HLD si celebra in occasione della UNGASS del 3 e 4 ottobre 201 3 , in un clima completamente diverso da quello del precedente a cau­ sa degli effetti della crisi economica globale e dell' impennata di migrazioni

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forzate conseguenti agli sconvolgimenti politici e militari nel Maghreb e in Siria. Questo secondo appuntamento ha posto al centro del dibattito la ne­ cessità di aggiornare l'agenda del sistema UN sul tema e di inserire le migra­ zioni nell'Agenda di sviluppo post-2015, definendo una nuova strategia glo­ bale di aiuto ai migranti vulnerabili e identificando i cambiamenti necessari per creare una reale "governance globale delle migrazioni".

s.s Le migrazioni nella nuova Agenda 20 3 0

La spinta per l'inserimento del tema migratorio all' interno della nuova pro­ grammazione per lo sviluppo è stata raccolta e formalizzata da parte del nuo­ vo tavolo di coordinamento sulle migrazioni tra le diverse agenzie UN ( Glo­ bal Migration Group, GMG ) che ha dichiarato ufficialmente : « adesso che le migrazioni sono diventate un fenomeno globale che riguarda tutte le nazio­ ni del mondo, e considerando il loro legame cruciale con lo sviluppo, GMG crede che debbano diventare parte integrante dell'Agenda post-2015, com­ presa la loro integrazione negli obiettivi e nei traguardi, monitorati attraver­ so specifici e appropriati indicatori » ( GMG, 201 3 , trad. mia). L'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è stata approvata all'unani­ mità dai rappresentanti degli Stati partecipanti al Summit sullo sviluppo post- 2015 (settembre 2015) nel quale sono stati individuati e articolati i nuovi diciassette SDG che se da un lato segnano un fondamentale avan­ zamento nella definizione di obiettivi universali e globali di sviluppo, dall'altro presentano ancora indubbie criticità sul versante dell ' adeguatez­ za degli strumenti attuativi e della loro coerenza con il nuovo contesto di trasformazione sociale (su questi punti, cfr. i contributi di Tommasoli, CAP. 3 e Prato, CAP. 1 2). La migrazione è stata qui inserita per la prima volta nel contesto della pro­ grammazione strategica delle politiche di sviluppo globale, riconoscendone il contributo allo sviluppo sostenibile se adeguatamente gestita ( well-managed). Tra le raccomandazioni contenute nella dichiarazione finale del Sum­ mit, alcune includono specifiche azioni mirate alla massimizzazione dei be­ nefici e alla minimizzazione dei rischi che la migrazione può apportare allo sviluppo : la riduzione dell' impatto negativo delle crisi umanitarie e delle conseguenti migrazioni forzate sui programmi di sviluppo dei paesi di origi­ ne; il sostegno ai gruppi vulnerabili (inclusi i rifugiati, gli sfollati interni e i migranti) per promuovere un ambiente favorevole allo sviluppo nei paesi di destinazione ; la promozione dell'accesso di tutti (compresi i migranti) alle

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opportunità di apprendimento lungo tutto l'arco della vita; il riconoscimen­ to del contributo positivo dei migranti a una crescita inclusiva e a uno svi­ luppo sostenibile. Queste raccomandazioni trovano ulteriore specificazione di dettaglio all' interno dei diciassette SDG, e in particolare degli obiettivi relativi all'educazione (oh. 4), alle pari opportunità (oh. s), al lavoro decente e alla crescita economica (oh. 8), alla riduzione delle disuguaglianze (oh. IO ) , alla promozione della pace e della giustizia (oh. 1 6), alla partnership globale per la realizzazione degli obiettivi (oh. I7 ) . Ovviamente, le perplessità sull'effettiva capacità di questo impianto as­ siologico di orientare concretamente l' implementazione delle politiche si estendono anche alle questioni relative alle migrazioni che, nonostante que­ sti pronunciamenti, rischiano di seguire le direzioni imposte da altri tipi di inerzia ideologica e istituzionale.

8. 6 I l discorso ufficiale n e l contesto dell' Unione Europea

Il tema migratorio è stato a lungo trattato in ambito Eu come questione me­ ramente interna (gestione dell' immigrazione) , diversa e distinta dalle politi­ che estera, di sviluppo e di sicurezza comune. La prima iniziativa legislativa che sfida questo dualismo è la Comunica­ zione del I994 con la quale la Commissione propone al Consiglio di leggere le migrazioni come il risultato di pressioni strutturali che è necessario fron­ teggiare contemporaneamente attraverso misure interne di breve periodo ( integrazione dei migranti regolari e rafforzamento dei filtri di ingresso per contrastare il flusso degli irregolari) , e politiche di cooperazione internazio­ nale dirette a ridurre, nel più lungo periodo, le cause che stanno alla base dei flussi. Per la prima volta in ambito europeo un documento ufficiale afferma­ va la necessità di integrare le politiche per lo sviluppo con quelle migratorie, riferendo entrambe a un unico quadro strategico di riferimento. Il Consiglio di Tampere (I999) ha fatto proprio questo approccio e ha impegnato i paesi membri dell' Unione a riorientare la cooperazione con i paesi di origine e di transito verso obiettivi di contrasto "alle cause radicali" della migrazione e di contenimento dei flussi, soprattutto irregolari. Per quanto coerente, questo approccio presenta numerose fragilità messe in evidenza da anni dalla letteratura specialistica (Thorburn, 1996). Dal pun­ to di vista strutturale, l'approccio pretende di individuare le cause dei flussi migratori esclusivamente nelle dinamiche "interne" dei paesi di origine, trala­ sciando di considerare le asimmetrie e le distorsioni che connotano molte del-

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le relazioni socio-economiche e geopolitiche globali (Gent, 2002). Dal punto di vista analitico, la strategia confligge con le evidenze empiriche secondo cui, nel medio periodo, lo sviluppo di un paese povero non riduce ma incentiva i flussi migratori verso l'estero (fenomeno conosciuto con il nome di migration hump) (Martin, Taylor, 1996). Dal punto di vista delle implicazioni politiche, infine, l'approccio delega ai governi centrali degli Stati di origine la respon­ sabilità di limitare a monte i flussi in uscita e concede aiuti allo sviluppo so­ lamente come condizionalità a fronte della sottoscrizione di accordi di riam­ missione. Il Consiglio di Siviglia (2002) ha rivoluzionato la prospettiva comunita­ ria, identificando le migrazioni non più come problema da gestire ma come una risorsa strategica dello sviluppo economico e sociale anche dei paesi di de­ stinazione. Come è stato sintetizzato, la posizione europea è passata dal prin­ cipio del more developmentjòr less migration a quello del better migration jòr more development (Pastore, 2003). Nei documenti prodotti in vista dell' HLD, la Commissione invitava a un ulteriore rafforzamento della coerenza tra politiche migratorie e politiche di sviluppo, individuando nel "cosviluppo" il quadro strategico per favorire lo sviluppo dei paesi di origine attraverso le rimesse economiche e sociali, le ini­ ziative delle diaspore e le migrazioni circolari. Tale riferimento non si sosti­ tuiva tuttavia alle politiche di aiuto allo sviluppo di cui, anzi, si sottolineava la necessità in un'ottica di più lungo periodo. Il Consiglio di Bruxelles (2oos) ha sintetizzato questi nuovi orientamen­ ti nel nuovo approccio globale alla migrazione (global approach on migration, GAM ) , finalizzato a sostenere la cooperazione intergovernativa per la gestione della dimensione esterna delle migrazioni, a rafforzare quella con i paesi ter­ zi confinanti per ridurre le migrazioni irregolari e massimizzare l'impatto di quelle regolari, a promuovere politiche di sviluppo integrate e coerenti e che incoraggino la partecipazione degli stessi migranti. La Commissione ha provveduto all'aggiornamento di questi indirizzi con la Comunicazione sull'approccio globale alla migrazione e alla mobilità (global approach on migration and mobility, GAMM ) del 2on. La prima innovazione di questo approccio rispetto al GAM è costituita dalla considerazione della mobi­ lità dei cittadini dei paesi terzi attraverso le frontiere esterne della Eu (visitatori di breve durata, turisti, studenti, ricercatori, uomini d'affari e persone in visita a familiari) quale fenomeno più ampio e impattante di quello della migrazio­ ne e la conseguente necessità di incardinare la politica dei visti di breve durata all' interno delle strategie di sviluppo dei paesi di origine e di destinazione. La seconda innovazione è l'esplicito riconoscimento della centralità dei migranti nei processi di sviluppo, da cui derivano operativamente i richiami a promuo-

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vere iniziative che incentivino la mobilità circolare dei talenti contrastando fe­ nomeni di brain-drain, a istituire specifici strwnenti finanziari di investimen­ to per le diaspore (i c.d. diaspora bonds), a sperimentare schemi di partenariato pubblico-privato coinvolgendo imprenditori e imprese formate da migranti.

8.7

Quale sviluppo nell'epoca dell'emergenza migratoria ?

L' inasprimento del conflitto interno in alcuni Stati di origine dei flussi mi­ gratori (Nigeria, Mali, Etiopia, Eritrea) e la destabilizzazione di alcuni pae­ si di transito ( Tunisia, Libia, Egitto) hanno, negli ultimi anni, determinato un importante aumento della pressione migratoria lungo i canali occidentale e centrale del Mediterraneo. L' intensificazione della guerra in Siria ha nello stesso periodo generato migliaia di sfollati e di richiedenti asilo che premono per l' ingresso in Europa attraverso il corridoio orientale. Questa nuova situazione sfida profondamente gli assetti fino ad oggi spe­ rimentati dall' Europa per la valorizzazione del nesso tra migrazione e svilup­ po, affiancando alle aperture strategiche indicate dal GAMM nuovi indirizzi di policy improntati al contenimento e alla sicurezza. La Comunicazione, redatta dalla Commissione in vista dell' HLD 20I 3 , da un lato estende e innova le aree di intervento tradizionale sul tema (rimes­ se, diaspore, brain-drain e migrazione circolare), dall'altro, però, definisce il contrasto alla migrazione irregolare e l' incentivazione della mobilità interna ai paesi in via di sviluppo e Sud-Sud come i nuovi assi strategici lungo i quali concentrare attenzioni e risorse. Nella Comunicazione del 20I5 relativa all'Agenda per l' Europa, la Com­ missione distingue (e divide) le azioni immediate da realizzare con l'unica finalità di proteggere le persone in stato di necessità (salvataggio, contrasto alle reti criminali dei trafficanti, ricollocazione, reinsediamento) e quelle da implementare nel più lungo periodo al fine di affrontare le cause profonde della migrazione irregolare, rendere sicure le frontiere esterne, onorare il dovere della protezione internazionale , rilanciare una nuova politica di mi­ grazione legale. Attraverso il Piano d'azione concordato in occasione del Summit de La Val­ letta (n-I2 novembre 20IS) gli Stati membri della EU e dell' Unione Africana hanno riconosciuto le sfide comuni che impattano sulle migrazioni (promo­ zione della democrazia e dei diritti wnani, sradicamento della povertà, soste­ gno allo sviluppo economico e sociale, adattamento al cambiamento climatico). Coerentemente, hanno deliberato di promuovere un comune sforzo diretto da

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un lato a colpire le cause radicali della migrazione irregolare e forzata e, dall'al­ tro, a favorire le opportunità di migrazione e mobilità legale, attivando nuovi canali per la circolazione di studenti e ricercatori e coinvolgendo le diaspore in progetti di canalizzazione delle rimesse verso investimenti in settori strategici e in attività generatrici di reddito. Gli aggiornamenti dell'approccio GAMM presenti in questi documenti si scontrano con i nuovi obiettivi del contenimento e della sicurezza e con l'esi­ genza di ricomporre il consenso dei paesi membri su una strategia comune di ge­ stione dopo i numerosi episodi di chiusura unilaterale delle frontiere nazionali. La proposta italiana di un nuovo patto sulle migrazioni ( migration com­ pact, MC ) del 18 aprile 2016 tenta di affrontare l'insieme di queste sfide. Il MC prende atto dell'inadeguatezza delle risposte esclusivamente interne e di tipo emergenziale e propone di rilanciare un'azione integrata che coinvolga la di­ mensione esterna delle politiche dell' Unione. Per fare questo propone di intro­ durre negli accordi di cooperazione con i paesi terzi di provenienza e di transito una serie di condizionalità legate al rafforzamento dei controlli alle frontiere, al contenimento dei flussi in partenza, alla cooperazione in materia di ritorni e riammissioni, alla gestione congiunta dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al rafforzamento del contrasto della tratta e del traffico di esseri umani. Per i paesi che aderissero a queste condizionalità, la EU dovrebbe poter mettere in campo investimenti con alto impatto sociale e infrastrutturale, strumenti finanziari in­ novativi che favoriscano l'accesso al credito per i governi e le imprese africane (migration bonds) , nuovi canali di migrazione legale, cooperazione nel campo della sicurezza e del controllo delle frontiere, schemi di reinsediamento per quei paesi impegnati nell'ospitalità di sfollati e profughi. L'idea di istituzionalizzare misure di condizionalità nell'azione esterna della EU verso i paesi di origine e di transito dei principali flussi migratori è fatta pro­ pria e rilanciata dalla Comunicazione della Commissione e, successivamente, adottata dal Consiglio Europeo nel giugno 2016. L'elemento di novità è dato dalla previsione di specifici "accordi di partenariato" che orientano (e discipli­ nano attraverso incentivi positivi e negativi) i paesi terzi che vi aderiscono al perseguimento di una duplice tipologia di obiettivi. Nel breve periodo: salva­ re le vite di migranti irregolari durante il viaggio; aumentare la percentuale di ritorni nei paesi di origine e di transito ; mettere i migranti nella condizione di rimanere vicino ai territori di origine e di evitare viaggi pericolosi. Nel più lungo periodo : ridurre le cause radicali della migrazione irregolare avviando un piano straordinario di investimenti diretti a mobilitare nuovi finanziamenti pri­ vati aggiuntivi; sostenere la capacità di spesa e di investimento pubblico; rende­ re attrattivo l'ambiente generale dell' investimento rafforzando il buon governo, contrastando la corruzione, rimuovendo le barriere e le distorsioni del mercato.

8.

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Queste recenti deliberazioni della Commissione e del Consiglio hanno suscitato non poche polemiche tra i rappresentanti della società civile e delle organizzazioni non governative impegnate nella cooperazione allo svilup­ po. Centonove ONG europee hanno presentato un documento congiunto nel quale esprimono «grave preoccupazione sulla direzione che la EU sta prendendo nell'assumere la deterrenza e il ritorno come il principale obiet­ tivo delle relazioni con i paesi terzi » , ricordando che « l'aiuto pubblico allo sviluppo è diretto a sostenere le persone in difficoltà e non deve essere usato come una leva per il controllo delle migrazioni » (trad. mia)1• La rete CON­ CORD Italia, la piattaforma italiana di collegamento a CONCORD Europa, la Confederazione europea che rappresenta I6oo ONG e associazioni della società civile, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio italiano ( 20 giugno 2016) nella quale dichiara « destinata al fallimento l' ipotesi che mag­ giori e ostili controlli alle frontiere fermeranno le persone determinate a ri­ schiare la vita per fuggire dai propri paesi » , proponendo invece di prosegui­ re la riflessione sull'apertura di canali regolari di migrazione e di rilanciare una « vera e propria politica estera, centrata sul prevenire e sbloccare le crisi prolungate » 1 • La rete LINK 2007, un consorzio che raggruppa importanti ONG italiane, ha scritto un documento dal titolo emblematico I nuovi parte­ nariati europei in tema di migrazioni: opportunita o mutazione genetica ? (14 giugno 2016) nel quale denuncia che il nuovo sistema di priorità rende la EU indifferente alla qualità degli interlocutori politici nei paesi terzi e « rischia di delineare un radicale cambiamento delle politiche di sviluppo e di vicina­ to per render!e subalterne agli accordi di partenariato » 3.

8.8 Osservazioni finali

Il nesso migrazioni e sviluppo, come abbiamo visto, è stato declinato in vario modo nel corso del recente passato. Da quando è stato messo a tema in mo­ do esplicito come discorso ufficiale, le politiche si sono orientate dapprima al 1. Documento consultabile all' indirizzo http :/ l concordeurope.orglwp-content/uplo­ ads/2o i 6 / o 6 /JointNG Ostatement_migrationresponse_EUCouncil_2o i 6 o 6.pdf;

consul­

tato il 14 aprile 2017. 2. Documento consultabile all ' indirizzo https :/ /www.amref.it/pdf/uploaded/ I 4 6 7 1 0 1 8 0 6 z_Lettera_al_presidente_Renzi.pdf; consultato i l 1 4 aprile 2017. 3· Documento consultabile all' indirizzohttp :/ /www.ong.it/wordpress/wp-content/

uploads/2o 1 6 / o 6/Link2oo7-NEW-EU-PARTNERSHIP-FRAMEWORK.pdf: consulta­ to il 14 aprile 2017.

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contrasto del sottosviluppo generatore di migrazione, poi alla massimizzazio­ ne dell'impatto delle migrazioni sullo sviluppo, infine all'utilizzo della coo­ perazione come strumento per la limitazione e il controllo dei flussi di immi­ grazione irregolare. Tuttavia il passaggio tra queste diverse strategie non è mai stato netto e tutte e tre tendono a sopravvivere e a sovrapporsi nelle diverse iniziative attivate sul campo. Oggi le strategie di policy si muovono quindi su quattro assi: promozio­ ne dello sviluppo dei territori di origine per contrastare le cause radicali del­ le migrazioni irregolari; coinvolgimento dei paesi di origine e di transito nel controllo delle frontiere e nel rafforzamento delle azioni di ritorno e reinse­ diamento; massimizzazione degli impatti positivi delle migrazioni attraverso politiche di cosviluppo; incentivo alla mobilità temporanea attraverso l' aper­ tura di canali legali. Il primo asse (contrasto delle cause delle migrazioni irregolari) propone un nesso improprio tra migrazioni e sviluppo perché confonde gli obiettivi di sviluppo con quelli della riduzione dei flussi migratori e non tiene conto del fatto che le conquiste sul piano della lotta alla povertà non impattano sui po­ tenziali migranti (che non sono mai i più poveri) né che lo sviluppo, nel breve periodo, incentiva e non scoraggia la migrazione internazionale. Il secondo asse (partenariati per il controllo delle frontiere) assegna ai paesi di transito un enorme potere nei confronti della EU, consentendo loro di trasformare i migranti in un'arma di deterrenza per la contrattazione di con­ tropartite strategiche su altri piani di tipo commerciale o geopolitico. Il terzo asse (coinvolgimento dei migranti) sembra quello in cui il nesso migrazioni e sviluppo si declina in maniera più specifica e produttiva. Tuttavia l'efficacia della logica del cosviluppo dipende da fattori non sempre considera­ ti negli interventi che si ispirano a questo principio. Tra questi ne segnalo due : I. il coinvolgimento delle istituzioni locali nei paesi di origine (che garantisco­ no l'appropriazione dell'aiuto da parte delle comunità locali, evitano il rischio che i migranti nei paesi di destinazione si autoproclamino rappresentanti di queste ultime senza mantenere un reale contatto con loro); 2. l'articolazione multilivello dei programmi (locale-nazionale-multinazionale) per rafforzare il loro allineamento rispetto agli obiettivi locali, e assicurare la sostenibilità dell'aiuto nel tempo. La strada indicata con il quarto asse (liberalizzazione della mobilità) rap­ presenta una prospettiva diretta a superare l'arroccamento della fortezza Eu­ ropa e allargare lo spazio della libera circolazione delle persone. Su questa stra­ da, anche se non in modo autonomo rispetto alle altre, risiedono interessanti prospettive di una politica europea diretta alla massimizzazione degli impatti positivi sullo sviluppo e minimizzazione dei rischi implicati dalla migrazione.

8. LE M I G RAZI O N I E I P RO C ESSI D I SVILU P P O

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9

Gli attori dello sviluppo negli anni Duemila di Luca De Fraia

9·1 Presentazione

I cambiamenti nell'orizzonte della cooperazione allo sviluppo possono es­ sere letti attraverso l 'esame delle tipologie di attori che progressivamente si sono affermati fra i soggetti della cooperazione allo sviluppo, così come defi­ niti dalla comunità internazionale. Nel presente capitolo si offre una lettura dell'evoluzione che li ha riguardati attraverso le trasformazioni che nel corso degli ultimi quindici anni hanno preso forma in almeno tre ambiti: la sfera non governativa, dove si è misurato uno spostamento dal protagonismo del­ la società civile verso la leadership del settore privatoforprofit; la dimensione governativa, con il passaggio dalla cooperazione tradizionale al dinamismo della cooperazione Sud-Sud; il portfolio degli strumenti, con l'evoluzione dagli interventi non concessionali al ruolo della finanza privata. A questi elementi si deve aggiungere anche la composizione della governance globa­ le della cooperazione, dove, accanto all' OECD/DAC, si è affermato il ruolo dell' uN Development Cooperation Forum (ncF) e della Global Partner­ ship for Effective Development Cooperation (GPEDC). Una considerazione di partenza è che la cooperazione allo sviluppo è materia viva. Non può essere diversamente visto il compito primario che molti vedono nell'ambizione di migliorare le condizioni di vita di donne e uomini che vivono in povertà. La questione della definizione del campo della cooperazione farà da sfondo alla presente riflessione tenendo conto che, come cambiano le interpretazioni delle ambizioni e degli obiettivi da raggiungere, oltre che dei mezzi che servono per realizzarli, la cooperazio­ ne allo sviluppo cambia pelle. Non è quindi estraneo alla narrazione che segue il fatto che poco più di anno un fa, nel settembre 20 1 5 , le Nazioni Unite abbiano adottato l'Agenda 20 3 0, corredata da diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile, che segna il passaggio verso una nuova fase nella quale le tre dimensioni dello sviluppo

9· G LI ATTORI D ELLO SVILU P P O N E G LI ANNI D U EMILA

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- quella sociale, economica e ambientale - devono essere considerate come parti di un unico sistema (United Nations, 2015). Anche le ambizioni per la finanza dello sviluppo si sono moltiplicate, con un significativo aumento dei bisogni finanziari, tanto che la Banca Mondiale ha presentato nel 2015 le proprie considerazioni in materia con un documento dal titolo From Billions to Trillions: Transforming Deve­ lopment Finance (World Bank, 2015), che alza la soglia delle risorse ne­ cessarie per raggiungere i nuovi obiettivi sopra i mille miliardi di dollari all'anno. Questi cambiamenti, degli obiettivi e delle risorse, hanno dato in questi ultimi anni un potente incentivo all'allargamento del campo della cooperazione. Si propone quindi una riflessione sulla fitta rete di trasformazioni che hanno portato sia all'emersione di quelli che sono stati identificati come i nuovi soggetti della cooperazione sia alla mutazione di quelli tradizionali. Un percorso che viene sviluppato prendendo in considerazione il caso con­ creto offerto dalla riorganizzazione della cooperazione in Italia oltre che i nuovi orientamenti dell'agenda internazionale e della governance globale. Uno degli esiti di questa evoluzione è la definizione di un'aggiornata mappa dei soggetti che riflette le più profonde trasformazioni nel tessuto della co­ operazione allo sviluppo.

9· 2 Laboratorio Italia

I mutamenti nel campo della cooperazione sono ben evidenti anche in Ita­ lia, dove si è data risposta alle trasformazioni globali attraverso la riforma della normativa di settore adottata nel 2014. In questo caso si può ben dire che il nostro paese offre un eccezionale punto di osservazione per compren­ dere i cambiamenti in corso ; l'approvazione della legge 11 agosto 2014, n. 1 25, segna la conclusione di una lunga fase della nostra cooperazione, avviata nel 1987, e la traghetta verso approcci che includono elementi innovativi già consolidati da altri paesi donatori e che presentano anche tratti distintivi. La riforma introduce numerose novità fra le quali il cambio della ra­ gione sociale del ministero di riferimento, che ha preso il nome di ministe­ ro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, fatto che segnala il profondo nesso fra politica estera e cooperazione; fra le altre importanti novità sul piano dell'architettura, l' introduzione del ruolo del viceministro per la Cooperazione e la creazione dell'Agenzia italiana per la cooperazio­ ne allo sviluppo e le nuove funzioni attribuite alla Cassa depositi e prestiti.

1 28

LUCA D E FRAIA

Nella prospettiva dell'analisi dei soggetti, si può mettere in evidenza quanto richiamato al Capo VI del testo, dedicato ai Soggetti della cooperazione al­ lo sviluppo, partecipazione della societa civile e partenariati internazionali. In particolare, all'art. 23 della legge 125/2014 si trova la descrizione del sistema della cooperazione italiana allo sviluppo, nella quale quindi entrano a far parte : a) amministrazioni dello Stato, b) regioni, province autonome ed en­ ti locali, c) organizzazioni della società civile e altri soggetti senza finalità di lucro e d) soggetti con finalità di lucro. Una delle novità di sostanza riguarda le organizzazioni di società civile come definite all'art. 26 della legge 1 25/2014, per le quali si prevede il su­ peramento del sistema precedente centrato sulle ONG di cooperazione allo sviluppo, con un allargamento che può comprendere tutto il mondo delle ONLUS impegnato nella solidarietà internazionale, così come il commercio equo e solidale, le imprese cooperative e sociali, i sindacati, le organizzazioni sindacali delle imprese e le associazioni della diaspora. Il destino delle ONG italiane merita una riflessione. Si deve osservare il fatto che è emersa in più occasioni l' intenzione di superare il carattere esclu­ sivo delle organizzazioni non governative ( ONG) , le uniche specializzate nel­ la cooperazione allo sviluppo e nell'aiuto umanitario, che con la legge 26 febbraio 1987, n. 49 hanno operato per quasi tre decenni attraverso una pre­ cisa norma di riferimento. L' introduzione della nuova legislazione va quindi a rivedere un'esclusiva distinzione contenutistica alla luce del forte allarga­ mento della categoria dei soggetti e stabilisce che tutte le associazioni senza fini di lucro possono essere soggetti di cooperazione purché siano « statuta­ riamente finalizzate alla cooperazione allo sviluppo e alla solidarietà inter­ nazionale » (legge 125/2014, art. 26). Le legittime preoccupazioni che possono nascere da questo processo di allargamento in merito alle capacità operative dei diversi soggetti, e quin­ di alla loro reale esperienza e alla qualità delle attività, trovano in una certa misura risposta nelle procedure che la normativa introduce per consentire la collaborazione operativa con l'Agenzia della cooperazione. La questione viene affrontata almeno su due livelli: le verifiche delle competenze e dell'e­ sperienza, superate le quali si entra a far parte di un elenco presso l'Agenzia; le procedure comparative attraverso le quali poter accedere ai contributi o alla realizzazione di iniziative di cooperazione. Questo nuovo quadro presenta certamente delle sfide per le ONG che avevano operato nel quadro della legge 49/ 1987. Ci sono numerosi aspetti concreti che non possono essere sottovalutati e fra questi il regime fiscale : le ONG sono di opzione equiparate alle ONLUS (organizzazioni non lucrati ve di utilità sociale) e devono quindi presentare una specifica richiesta per esse-

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1 29

re iscritte nell'anagrafe del non projìt. La precedente legislazione prevedeva l' inclusione di diritto e costituiva una norma speciale alla quale le organiz­ zazioni hanno potuto fare riferimento nella gestione delle loro attività. A questo proposito è utile ricordare quanto l'Agenzia delle entrate scrive nel febbraio 2015: « le ONG ex 49/87 costituiscono, nell'ambito dell'Anagra­ fe unica delle ONLUS, una particolare categoria ad esaurimento » (Agenzia delle entrate, 2015). Se e in che misura si affermeranno nuove ONG di coo­ perazione che non provengono dall'alveo della precedente normativa, e in quale misura si distingueranno da altre forme di associazionismo, è ancora tutto da vedere. Altro elemento di innovazione è stata la piena inclusione del settore pri­ vato con finalità di lucro fra i soggetti della cooperazione. Va notato che la presenza dei soggettijòr projìt all' interno della normativa sulla cooperazio­ ne allo sviluppo non è una novità assoluta. Ad esempio, all'art. 7 della legge 49/1987 si affrontava il nodo del sostegno alle aziende che partecipano al ca­ pitale di imprese miste nei paesi partner, in attività e progetti con finalità di sviluppo ; questo approccio è transitato e sviluppato nella nuova normativa. La legge 125/2014 chiarisce il fatto che questi soggetti sono da ritener­ si soggetti della cooperazione qualora « agiscano con modalità conformi ai principi della presente legge, aderiscano agli standard comunemente adot­ tati sulla responsabilità sociale e alle clausole ambientali, nonché rispettino le norme sui diritti umani per gli investimenti internazionali » (art. 23). In questo senso il legislatore ha cercato di rispondere alle osservazioni perve­ nute dalle ONG di cooperazione, che si sono battute per una precisa defi­ nizione del campo delle imprese che possono qualificarsi come soggetti di cooperazione. Al momento in cui si scrive, il lavoro di definizione di questo perimetro è ancora in corso, in particolare ad opera dell'Agenzia per la coo­ perazione e della Cassa depositi e prestiti, e si attendono passaggi risolutivi per la fine del 2016. Si osservi che la Cassa ha assunto per la prima volta in Italia, con la legge 1 25/2014, anche la funzione di istituzione finanziaria in­ ternazionale oltre ad avere la gestione dei crediti di aiuto. In questo modo, la Cassa diventa un hub che può operare attraverso risorse di tipo sia concessio­ nale sia agevolato, oltre a poter intervenire a sostengo dell' imprenditorialità italiana con altri elementi del sistema quali la SACE (Servizi assicurativi del commercio estero, per la copertura assicurativa degli investimenti interna­ zionali) e la SIMEST (Società italiana per le imprese all'estero, per il sostegno ali' internazionalizzazione, attraverso finanziamenti agevolati). Si noti quindi l'esortazione contenuta in apertura all'art. 23 della me­ desima legge, secondo la quale la Repubblica promuove il sistema della coo­ perazione composto da soggetti pubblici e privati «per la realizzazione dei

LUCA D E FRAIA programmi e dei progetti di cooperazione allo sviluppo, sulla base del prin­ cipio di sussidiarietà » . Questo approccio di sistema si ritrova nel Consiglio nazionale per la cooperazione. I compiti del Consiglio sono indicati all'art. 16 della legge 125/2014, dove questo viene definito « strumento permanente di partecipazione, consultazione e proposta » ; la sua composizione fornisce una fotografia aggiornata della mappa dei soggetti della cooperazione, es­ sendo costituito dai delegati delle amministrazioni centrali e locali, dell'am­ pio mondo della società civile e del settore privato for projìt. Nel gennaio 201 6 sono stati avviati quattro gruppi di lavoro. Due di essi sono coordinati da attori non statali: il gruppo dedicato alla programmazione è coordinato dal delegato della Confindustria; quello dedicato al ruolo del settore privato è coordinato dal delegato del movimento cooperativo.

9·3 Orizzonte internazionale : il passaggio dalla qualità degli aiuti all'efficacia della cooperazione

La normativa che riforma la cooperazione italiana riflette gli elementi di una trasformazione in corso a livello globale, anche grazie a una leader­ ship politica attenta ai mutamenti che prendono corpo oltre i nostri con­ fini. Si coglie quindi l'eco delle decisioni che la comunità internazionale aveva assunto nel dicembre 201 1 in occasione della conferenza di Busan, Corea del Sud: il quarto High-level Meeting sull 'efficacia degli aiuti pro­ mosso dall ' Organisation far Economie Co-operation an d Development ( OECD ) , che segue le conferenze di Roma (2003), Parigi (2005) e Accra ( 2oo8) ( oECD, 2005-2008), attraverso le quali l'agenda per una migliore qualità degli aiuti è stata nel tempo perfezionata, corredata anche da un sistema di indicatori. Il meeting di Busan intende segnare il culmine di un percorso, quello degli aiuti, e l'apertura di una nuova strategia che mette al centro la cooperazione internazionale nella sua interezza. Il meeting si chiude con l 'adozione del documento dal titolo Busan Partnershipfor Effective Development Cooperation ( OECD, 20 11). La dichia­ razione è il frutto di un percorso partecipato, propiziato dalle attività del Working Party on Aid Effectiveness promosso dall' OECD/DAC, che han­ no dato la possibilità a diversi soggetti di intervenire nella costruzione del nuovo framework. Fra questi, le organizzazioni non governative - riuni­ te nella piattaforma BetterAid - hanno giocato un ruolo anche alla luce di quel riconoscimento contenuto nella Dichiarazione di Accra del 2008 ( OECD, 2005-2008), che affermava che le organizzazioni di società civile

9· G LI ATTORI D ELLO SVILU P P O N E G LI ANNI D U EMILA

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sono attori dello sviluppo per proprio diritto, gli sforzi delle quali compie­ mentano quelli dei governi. Uno degli obiettivi annunciati era proprio quello di allargare il campo dei soggetti della cooperazione, ovvero superare una cooperazione troppo centrata sui donatori tradizionali, compresi nella lista dei ventinove mem­ bri a pieno titolo dell' OECD/DAC, che sostanzialmente raccoglie i paesi del Nord più ricco e industrializzato. Una situazione insostenibile anche a fronte della necessità di condividere le responsabilità per il raggiungimen­ to degli obiettivi di sviluppo - resa ancora più evidente dall'ampliamento dei bisogni e delle ambizioni, ma anche dalla difficoltà di budget con le quali i paesi donatori come l' Italia devono fare i conti in ragione dell'onda lunga della crisi economica esplosa nel 2oo8 - e del protagonismo di nuo­ vi attori. Tutti elementi che ritroviamo in apertura della Dichiarazione. Il primo paragrafo si apre con l' identificazione del collettivo di sogget­ ti che assumono gli impegni a seguire : non solo governi e organizzazioni internazionali, ma anche i rappresentanti della società civile, del settore privato, dei parlamenti e delle autorità locali ; tutti uniti nella formula dei principi condivisi, degli obiettivi comuni e delle impegni differenziati a sostegno dell "'efficacia dello sviluppo internazionale", a seconda del pro­ prio status oltre che delle diverse capacità, economiche e non, di contribu­ ire ai processi di sviluppo globale. Il secondo paragrafo testimonia lo sforzo di superamento del modello tradizionale, aprendo con decisione alla cooperazione Sud-Sud, ovvero a quelle relazioni di solidarietà internazionale che non passano attraverso il coordinamento dell ' OEC D/DAC; per il 2o1 3 , si stima un volume di almeno 20 miliardi di dollari ( United Nations, 201 6 ) , contro l'offerta dei donato­ ri tradizionali, compresi nel DAC, di circa 1 3 5 miliardi di dollari. Anche la cooperazione Sud-Sud rivendica una storia lunga e complessa che viene fatta risalire alla Conferenza di Bandung del I955, i cui principi ispiratori - mutuo beneficio, rispetto della sovranità, non-interferenza e non-aggressione - do­ vrebbero essere ancora alla base delle relazioni che paesi come Cina, India e Brasile costruiscono con i paesi in via di sviluppo. Una delle interpreta­ zioni più affermate è che la cooperazione Sud-Sud abbia un carattere più genuino e sia priva di condizionalità, essendo praticata da paesi che hanno nel tempo condiviso lo stesso percorso di sviluppo ; una cooperazione che spesso si articola nel trasferimento di competenze e tecnologia, anziché in trasferimenti di risorse. Si tratta di una visione fin troppo edulcorata, che viene rivalutata per tenere conto delle differenze fra gli attori in gioco e dei loro interessi.

LUCA D E FRAIA Nella Dichiarazione di Busan si afferma con chiarezza che la natura, le modalità e le responsabilità della cooperazione Sud-Sud sono differen­ ti da quelle che pertengono alla cooperazione Nord-Sud. Siamo quindi a un passaggio complesso che cerca di affermare un 'unità di intenti in pre­ senza di una diversità che non può essere compressa. La conclusione è per certi versi problematica visto che si dichiara che i principi, gli impegni e le azioni, integrati nel documento finale di Busan, saranno soltanto un "riferimento " che gli attori della cooperazione Sud-Sud potranno seguire su "base volontaria". Pure con questi limiti, il riconoscimento politico e il tentativo di portare all ' interno della stessa cornice la cooperazione Sud­ Sud segnano un passaggio inevitabile che fa parte di un percorso ancora aperto, che impegna gli sforzi di diversi attori a livello globale. Una delle eredità più interessanti di Busan è lo sviluppo di un nuo­ vo sistema di monitoraggio dei progressi in termini di efficacia, che è al centro delle attività della Global Partnership for Effective Development Cooperation ( GPED C ) , della quale si parlerà di seguito ; il secondo rappor­ to di monito raggio verrà pubblicato nell'autunno 201 6 in vista del secon­ do High-level Meeting della Partnership ( GPED C , 2016). Fra gli indicatori ( GPED C, 201 3) sono rilevanti in questo contesto quegli elementi che af­ frontano il ruolo degli attori non governativi della cooperazione, a confer­ ma di una concreta attenzione e apertura verso nuovi soggetti. Si conside­ rino quindi : l ' indicatore n. 2, dedicato all' enabling environment ( ''conte­ sto favorevole" ) per la società civile ; il n. 3, riguardante il coinvolgimento e il ruolo del settore privato nella cooperazione ; il n. 6, che affronta il nodo del ruolo di verifica dei parlamenti.

9·4 L a pluralità dei soggetti nella governance globale

Un punto di osservazione particolare per valutare le trasformazioni nel campo dei soggetti della cooperazione è quello della governance delle po­ licies della cooperazione, che possiamo considerare definita nella triade OEDC/DAC, UND CF e GPED C ( cfr. Missoni, CAP. 1 1 ). Non va certo sotto­ valutato il ruolo dell' vE, che si presenta come il più grande e coeso blocco di donatori, essendo responsabile per circa la metà degli aiuti internazio­ nali; certamente, gli orientamenti di policy che prevalgono in Europa pos­ sono avere un impatto decisivo, ma in questo contesto ci soffermiamo in particolare sugli aggregati di dimensione globale.

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Fra queste istituzioni, il Development Assistance Committee (nAc) dell' OECD è quello che dimostra caratteri meno innovativi rispetto al ruo­ lo istituzionale dei nuovi soggetti di cooperazione. Anche in presenza di percorsi consultivi aperti a nuove realtà, il DAC ha una membership molto ben definita composta da governi dei paesi donatori, nel quadro della co­ operazione Nord-Sud. È questo un elemento di forza, ma anche un limite che interviene a ridurre la legittimità e la portata globale delle sue iniziative. Il DAC ha fra i suoi compiti principali quello di definire le regole che i donatori devono seguire per rendicontare l 'andamento dei volumi de­ gli aiuti; regole che sono decise dagli Stati membri, che possono o meno tenere conto del parere esperto di altri attori della cooperazione. Non è quindi un caso che il sistema del DAC sia stato più volte oggetto di criti­ che da parte delle organizzazioni non governative e che gli operatori del­ la cooperazione Sud-Sud ci tengano a differenziare la propria posizione. Gli ostacoli all'effettiva partecipazione alle discussioni che si svolgono in questa sede si manifestano anche nel limitato accesso alla documen­ tazione tecnica che costituisce la base delle decisioni degli Stati membri, che pure toccano materie dal forte interesse generale come nel caso delle modalità di contabilizzazione dei costi collegati alla gestione dei flussi di rifugiati e richiedenti asilo. Qualche elemento di novità lo si può ritrovare nelle conversazioni in merito al perfezionamento di una nuova misura per le risorse a disposizio­ ne per gli obiettivi dell'Agenda 203 0, identificata anche come total official support for sustainable development (rossn) ( OECD , 201 6). Infatti, è si­ gnificativo che nel corso della discussione sul TOSSD si faccia riferimento alla necessità di una governance ad hoc, che dia conto della complessità dei flussi di risorse, comprese quelle di natura non concessionale, e degli attori coinvolti. Con apprezzabile coerenza rispetto a questa esigenza di una nuova architettura decisionale, il DAC ha raccolto le opinioni di di­ versi attori della cooperazione e ha ampiamente diffuso la documentazio­ ne di riferimento. Un profilo diverso è quello dell' UN Development Cooperation Fo­ rum ( UND CF ), che ha preso avvio nel 2oos nel quadro delle attività dell'E­ cosoc/UNDESA per dotare le Nazioni Unite di un luogo dedicato alla discussione e verifica delle tendenze nella cooperazione allo sviluppo. Nel corso degli anni l ' UND CF ha svolto un ruolo di primo piano nel monito­ raggio dei progressi nel campo della mutua! accountability, producendo delle analisi aggiornate, potendo anche avvalersi della collaborazione del­ la rete dell' uNDP ( United Nations Development Programme) dei paesi partner. Nella scelta di approfondire questo aspetto si può vedere un ap-

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LUCA D E FRAIA

proccio che interpreta in maniera più complessa il rapporto tra attori della cooperazione, mettendo in luce le responsabilità dei donatori e meccani­ smi di consultazione con gli stakeholders. Il punto di forza del D C F è il fatto di rappresentare e dar conto all ' in­ tera membership delle Nazioni Unite : un elemento che lo distingue dall' OECD /DAC e che gli ha consentito di diventare anche un riferimento per le discussioni degli attori della cooperazione Sud-Sud. Un aspetto rile­ vante, nel quadro della riflessione sui soggetti della cooperazione, è anche la presenza di un Advisory Group che ha il compito di assistere il sottose­ gretario generale di UNDESA nello svolgimento delle attività dell' uND CF. La composizione cerca di tener fede a un approccio multistakeholders con la presenza sia di attori governativi e di società civile ( in particolare, Ac­ tionAid, Awid, Civicus e Ibon) sia con una buona combinazione di attori tradizionali ed emergenti. Anche la modalità di preparazione degli eventi - gli High-level Symposium a carattere tematico e il D C F che si svolge ogni due anni a New York - rappresenta lo sforzo di riconoscere il ruolo del­ la pluralità degli attori della cooperazione, dai governi alla società civile, all 'accademia, alle fondazioni e al settore privato. La Global Partnership for Effective Development Cooperation ( GPE D C ) è di più recente istituzione, prendendo forma nel 201 2 nell'ambi­ to delle azioni prodotte dalla Conferenza di Busan. L' intenzione era, fra le altre cose, quella di superare la centralità dell ' OECD/DAC nel campo delle politiche per l'efficacia della cooperazione, cercando un valido sostituto per il ruolo che era stato svolto dal Working Party on Aid Effectiveness. Alla portata delle decisioni assunte a Busan si è già fatto riferimento ; in questo frangente l'attenzione va quindi alla governance. Lo Steering Com­ mittee rappresenta il cuore del meccanismo di gestione, la cui membership offre un interessante quadro delle categorie prese in considerazione. Ritro­ viamo quindi i rappresentanti: dei paesi recipient; dei paesi che sono allo stesso tempo recipient e provider; dei paesi esclusivamente provider; degli Arab provider; del settore privato Jor projìt; dei parlamenti; delle autorità locali; della società civile e dei sindacati; delle fondazioni; delle banche multilaterali di sviluppo ; dell' uND P/ UND G; e dell' OECD. Questa compo­ sizione non è una novità di poco conto poiché riconosce a tutti gli attori lo stesso ruolo nella gestione di importanti componenti del sistema della cooperazione. Vale anche per la società civile, il cui delegato , espresso dal­ la c so Partnership for Development Effectiveness ( CPDE ), partecipa pie­ namente alla vita dello Steering Committee, anche grazie a una dinamica rete di organizzazioni di società civile a livello globale e nazionale pronte a condividere esperienze e proposte.

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9·5 Osservazioni finali

In merito agli scenari futuri, è opportuno segnalare le implicazioni di me­ dio e lungo periodo che possono nascere dall'adozione da parte delle Nazio­ ni Unite del nuovo sistema degli obiettivi di sviluppo sostenibile, l'Agenda 20 30. Ricordiamo che la nuova cornice di riferimento adottata dalla comu­ nità internazionale è assai più vasta rispetto al sistema precedente, includen­ do obiettivi e indicatori in aree complesse come inuguaglianza, pace, sicu­ rezza e migrazioni. Un piano concreto dove queste novità iniziano a delinearsi è quello del­ la discussione sul total official supportJor sustainable development, il nuovo strumento statistico a cui si è fatto cenno in riferimento al ruolo dell' OECD/ DAC. L' introduzione del TOSSD - il primo rapporto basato su questo nuovo sistema è previsto per il 20I9 - potrebbe portare in tempi non lontani a una nuova definizione relativa agli attori dello sviluppo sostenibile in senso lato, un campo che, si intuisce, è potenzialmente assai più vasto di quello dei sog­ getti che operano attraverso l'aiuto allo sviluppo. L'allargamento implicato dal nuovo strumento di misura - seppure costruito intorno al vincolo degli interventi a favore dei paesi partner, fatto che previene la contabilizzazione di spese domestiche genericamente collegate al raggiungimento di obiettivi di sviluppo - potrebbe dare un maggiore spazio alle attività che vengono re­ alizzate con risorse diverse dagli aiuti e di cui sono interpreti attori per il mo ­ mento ai margini della cooperazione tradizionale. Un caso di cui si discute concretamente è quello del ruolo dei militari nelle operazioni di salvataggio di rifugiati e migranti, che al momento dovrebbe essere escluso dalle regole di reportistica degli aiuti. Una riflessione conclusiva deve essere quindi dedicata alla concezione di cooperazione allo sviluppo che fa da sfondo all'evoluzione del campo dei soggetti. Non mancano certo le definizioni di cooperazione; in questo con­ testo, il riferimento è una visione ampia, nella quale ritroviamo la questione delle policies e che quindi non è limitata all' impiego delle risorse e degli aiuti in particolare. Volendo assumere un riferimento autorevole, si può attingere alla defi­ nizione proposta nel policy paper dell' UND CF What fs Development Coope­ ration ? (Alonso, Glennie, 2015 ) , secondo il quale le attività di cooperazione sono qualificate da elementi ben identificati: a) forniscono esplicito soste­ gno alle priorità nazionali e internazionali in tema di sviluppo ; b) non sono guidate dalla ricerca del profitto ; c) promuovono discriminazione positiva nei confronti dei paesi in via di sviluppo ; d) sono basate sulle relazioni di ti-

LUCA D E FRAIA po cooperativo che sostengono l' ownership dei processi di sviluppo da parte dei paesi partner. Le tipologie di interventi possono essere almeno tre : i trasferimenti fi­ nanziari e in kind; il sostegno allo sviluppo delle capacities, incluse le risor­ se umane ; la cooperazione tecnologica e la condivisione di policies, il policy change. La nota dell' uND CF è corredata da una tavola sinottica dalla quale si evince che gli aiuti tradizionali, e le risorse di carattere concessionale più in generale, non possono essere gli unici elementi inclusi nell' insieme degli strumenti finanziari per la cooperazione, in linea con le deliberazioni delle conferenze delle Nazioni Unite sulla finanza per lo sviluppo, la più recente delle quali si è svolta ad Addis Abeba nel luglio 2015. In quest 'ottica rientra­ no nella cooperazione anche strumenti complessi che intendono combinare risorse di natura pubblica e privata e che corrispondono almeno a due esi­ genze : utilizzare la leva pubblica, ovvero gli aiuti tradizionali, per incentiva­ re investimenti privati; sviluppare nuove forme di assistenza finanziaria per i paesi partner a medio reddito. Mi soffermo sull'elemento del policy change, che meglio rappresenta una visione ampia di cooperazione allo sviluppo ; a questo riguardo, l' uNDCF afferma che « è ampiamente riconosciuto che le iniziative più significative che i paesi più ricchi possono intraprendere per sostenere i paesi più poveri hanno meno a che fare con il trasferimento di denaro o competenze, ma ri­ guardano l' intervento per cambiare regole e attività (a livello nazionale e in­ ternazionale) che mantengono i paesi poveri in condizione di povertà e nel bisogno costante di aiuto » (ivi, p. 3, trad. mia). Siamo in presenza di una prospettiva che spinge a ragionare su un piano che include un potenziale sempre più ampio di soggetti e che corrisponde alla necessità di affrontare nuove esigenze, che sono ad esempio sintetizzate negli obiettivi di sviluppo sostenibile (United Nations, 2015) e che vanno ben oltre la realizzazione di attività progettuali nei paesi partner finanziate con gli aiuti. Con queste ultime troppo spesso si fanno ancora coincidere, nel dibattito pubblico, le attività di cooperazione allo sviluppo, mancando in questo modo di riconoscere sia l'agenda politica che definisce lo sviluppo sostenibile sia le profonde innovazioni nel campo della cooperazione.

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AGENZIA DELLE ENTRATE

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La cooperazione e lo sviluppo. Molte ombre, alcune luci di Luciano

Carrino

10.1

Presentazione

La cooperazione, dopo circa settant 'anni di vita, è giunta a una situazione di crisi che riflette quella più generale dello sviluppo. Ha sostenuto fìno a ora il modello di sviluppo ultraliberista, associando agli investimenti sulla crescita economica (infrastrutture, forniture, impianti ecc.) una miriade di progetti a pioggia, animati da mentalità e tecniche paternaliste e assistenziali. Ha espor­ tato, cioè, nei paesi poveri, lo stesso modello squilibrato di sviluppo che i dona­ tori usavano a casa propria. Oggi, che la comunità internazionale e le Nazioni Unite stanno cercando faticosamente alternative allo sviluppo squilibrato, la vecchia cooperazione ha ben poco da apportare e ha perso il suo senso. Fortu­ natamente, però, nonostante i gravissimi limiti messi in evidenza dalla Dichia­ razione di Parigi in poi, vi è stato anche uno spazio per esperienze innovative eccellenti che hanno cercato di superare con intelligenza i limiti delle pratiche correnti. Sui risultati di queste esperienze, spesso ignorate o mal conosciute, si basa una possibile nuova cooperazione, adeguata ai tempi. In questo capitolo si riflette su come la cooperazione possa superare la sua crisi e divenire un labo­ ratorio del cambiamento che sappia accompagnare la nascita di nuove moda­ lità di sviluppo nel mondo globalizzato.

10.2

La cooperazione nel mondo in transizione

La cooperazione allo sviluppo nasce alla fìne della Seconda guerra mondiale, nel periodo in cui la comunità internazionale, dopo la sconfìtta dei governi nazisti e fascisti, vuole imboccare fìnalmente la via delle relazioni internazio­ nali pacifiche e di uno sviluppo capace di ridurre la povertà, la fame e gli altri squilibri che generano scontenti e guerre.

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In quel periodo, con la nascita delle Nazioni Unite, prende un nuovo impulso la rivoluzione culturale e politica che aveva cominciato a diffonder­ si un paio di secoli fa, quando l'aspirazione all'uguaglianza dei diritti e delle opportunità e i sentimenti di solidarietà universale avevano guidato le ribel­ lioni contro le società autoritarie e aristocratiche, aprendo la via alla costru­ zione di società fondate su libertà, fratellanza e uguaglianza. La cooperazione si colloca in questa transizione storica che è appena ini­ ziata e procede in mezzo a conflitti e contraddizioni, senza che nessuno pos­ sa dire se e quando l'uguaglianza dei diritti prevarrà sul diritto del più forte e la solidarietà universale su quella di parte. Per conoscere la cooperazione, comprenderne i limiti e usarla adeguata­ mente occorre tenere presente le dinamiche di questa transizione tra la vec­ chia, ma sempre fortissima, cultura autoritaria e la nuova cultura partecipata (cfr. Carrino, 20I4, 20I 6). La prima traspare dietro le politiche realistiche dei governi e delle gran­ di concentrazioni industriali, finanziarie, mediatiche, confessionali e d'altro genere. Questi attori considerano generalmente con molta prudenza i passi verso l'uguaglianza e la partecipazione, ritenendoli nel migliore dei casi no­ vità che possono destabilizzare le società e rompere sistemi millenari di valo­ ri e poteri, cui si deve nel bene e nel male lo sviluppo fin qui realizzato e, più concretamente, la loro posizione dominante. La seconda, invece, è proclamata apertamente ed è legittimata da innu­ merevoli risoluzioni dell' ONU e dall'Agenda 2030 (United Nations, 20I S ), m a stenta moltissimo a produrre i cambiamenti necessari. lnnanzitutto per la resistenza di chi occupa i vertici delle piramidi sociali e prende le decisio­ ni. Ma anche perché quelli che vorrebbero il cambiamento hanno grandi difficoltà a trovare alternative alle forme correnti di politica e di organizza­ zione sociale. Nella sua breve ma intensa storia, anche la cooperazione è in transizione. Ha iniziato a dare appoggio alle forme di sviluppo autoritario corrente, ba­ sato sulla crescita e la competizione aggressiva per il successo ma, anche per effetto dei fallimenti di quest 'approccio, sta cercando faticosamente di evol­ vere verso la cultura dei diritti e della partecipazione.

10.3

Dalle origini alla fine della guerra fredda

Per i suoi primi quarant 'anni la cooperazione ha dato appoggio all' idea di sviluppo promossa dal Patto Atlantico, impegnato nella guerra fredda con-

LU C IANO CARRINO tro il Patto di Varsavia. L' idea era combattere il "sottosviluppo", come lo chiamava Truman, insegnando ai governi dei paesi poveri a fare come aveva­ no fatto quelli dei paesi "sviluppati". Investimenti in infrastrutture e impian­ ti, corsa alla produzione di beni d'ogni genere, stimoli ai consumi e, per i po­ veri e gli esclusi, azioni caritatevoli e assistenziali. La società del benessere e delle opportunità per gli individui intraprendenti, con le sue luci sfavillanti e la sua promessa di successi, doveva combattere il comunismo. Il risultato è stata una miriade di progetti autonomi, finanziati e gestiti separatamente, che dovevano andare ognuno per conto suo perché lo svi­ luppo nel suo insieme doveva essere il frutto proprio della grande quantità d' iniziative produttive o assistenziali. Per tutto questo tempo l' idea che la crescita delle quantità, misurata con il PIL, producesse automaticamente svi­ luppo (senza che questa parola fosse chiaramente definita) dominò tra tutti i donatori della cooperazione. Ma quando finì la guerra fredda e il modello del Patto Atlantico rimase il solo in pista, molti ricercatori costatarono che la crescita non produceva be­ nessere diffuso. Anzi, insieme con grandi ricchezze, produceva molti poveri, escludeva molti attori dai processi dello sviluppo e danneggiava gravemen­ te l'ambiente con l' inquinamento industriale e l'uso dissennato delle risorse della natura. La cooperazione si pose per la prima volta seriamente la domanda: quale sviluppo merita di essere sostenuto ? A quello inteso come crescita economica si contrappose, all'inizio de­ gli anni Novanta, l ' idea di sviluppo umano, promossa dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (United Nations Development Programme, UNPD ) e dai ricercatori influenzati dal pensiero di Amartya Sen e altri, che puntavano verso il benessere diffuso. Da allora altri aggettivi sono stati ag­ giunti alla parola sviluppo : sociale (per rafforzare la lotta all'esclusione, alla povertà e alla disoccupazione) e sostenibile (per richiamare l'attenzione sul rispetto della natura). Sullo sviluppo sociale si veda la dichiarazione finale del Vertice di Copenaghen del 1995 ( United Nations, 1995). La stessa pa­ rola crescita è stata criticata dai sostenitori della decrescita, che indicano in alternativa la via della sobrietà e dell'attenzione per i buoni rapporti umani. Oggi lo "sviluppo di qualità'', alternativo alla crescita dissennata, è indi­ cato con chiarezza dall'Agenda 20 3 0 che, meglio dei documenti precedenti, indica non solo i 17 obiettivi tematici e i 169 obiettivi specifici da raggiun­ gere, ma anche e soprattutto identifica l'approccio integrato e transdiscipli­ nare come lo strumento di lavoro trasversale da usare per tutti gli interventi di sviluppo e cooperazione, e precisa le cinque grandi finalità verso le quali gli obiettivi devono convergere (in sintesi: la priorità per la dignità umana e

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l'uguaglianza; l'equità; il rispetto della natura; la pace e la libertà dalla paura e dalla violenza; la collaborazione e il partenariato tra tutti a livello globale). Ma il dibattito sullo sviluppo, se ha influenzato i temi e gli approcci degli interventi, non ha cambiato la logica della cooperazione, che ha continuato a finanziare migliaia di progetti separati d'ogni genere.

10. 4

La svolta di Parigi

Solo dal 2004, con l'avvio dei Forum internazionali sull'efficacia dell'aiuto, si delinea una vera e propria critica radicale al modo con cui, per i suoi primi sessant 'anni, è stata realizzata la cooperazione. Nella Dichiarazione del se­ condo Forum tenutosi a Parigi nel 2oos, infatti, sono messi in evidenza due suoi limiti strutturali profondi: il difetto di democrazia e partecipazione e la mancanza d' impatto sui problemi che avrebbe dovuto contribuire a risol­ vere (povertà, squilibri e degrado ambientale) (cfr. OECD, 2oos-2oo8, 201 1 ). Il primo limite è legato all'arroganza dei donatori che hanno deciso loro cosa fare, quali progetti finanziare e quali esecutori scegliere, scavalcando ed emarginando i governi dei paesi "sottosviluppati" (che nel frattempo sono divenuti prima "in via di sviluppo" e poi "partner", nel loro lungo percorso per la conquista di dignità almeno formale). Il secondo è stato causato dalla frammentazione, cioè dal fatto che mi­ lioni di progetti separati non fanno una strategia coerente per combattere i fenomeni complessi di cui la cooperazione si deve occupare. I progetti a pioggia, anche quando sono di buona qualità, non riescono a incidere ade­ guatamente né sui problemi né soprattutto sui fattori che li producono. Su questo punto, la Dichiarazione di Parigi è impietosa e arriva a proclamare che l'approccio per progetti è dannoso e deve essere sostituito dall'approc­ cio per programmi e per processi, che inquadrino i singoli interventi in stra­ tegie coerenti con gli obiettivi complessi da perseguire. Come spesso accade, le dichiarazioni sono molto ambiziose ma i loro risultati sono deludenti. I donatori, infatti, dopo aver riconosciuto la loro passata arroganza, si sono limitati a dare una maggiore importanza ai gover­ ni dei paesi partner anche versando una parte dei propri contributi nel loro bilancio. Come se bastasse dialogare con i governi per garantire democrazia, partecipazione e buoni risultati. Di fatto, investendo solo sui governi, molti dei quali poi abbattuti da rivolte popolari contro la corruzione e i privile­ gi, i donatori hanno spesso accresciuto le difficoltà degli attori di base e dei sistemi-paese. Quanto alla frammentazione, nonostante la Dichiarazione,

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LU C IANO CARRINO

continua a dominare e ciascun donatore continua a fare bandi e a finanziare progetti separati (anche se nei bandi o nei loro termini di riferimento si dice che dovrebbero convergere verso obiettivi complessi, senza però dire come e senza porre i vincoli necessari).

1o.s

La necessità di una riforma della cooperazione internazionale

Dalla Dichiarazione di Parigi sono passati oltre dieci anni e la coopera­ zione continua a funzionare essenzialmente come ai suoi inizi : migliaia di progetti buoni e cattivi che danno appoggio alla propria particolare idea di sviluppo o di aiuto umanitario e che non producono effetti significativi sui grandi problemi che preoccupano i cittadini : povertà, guerre, degrado ambientale, disgregazione sociale ecc. Nel frattempo, la realtà è profonda­ mente cambiata e molti si chiedono se, oggi, abbia ancora senso riservare fondi per l'aiuto allo sviluppo. Diversi paesi, che qualche anno fa erano poveri e destinatari dell'aiu­ to, oggi sono diventati ricchi e, come fanno la Cina, l' India, il Sudafrica, il Brasile e tanti altri, competono con i paesi donatori per accaparrarsi mer­ cati e risorse. Paradossalmente, il successo della proposta iniziale della cooperazione "fate come i paesi ricchi" ha sì prodotto una notevole crescita economica in chi l ' ha presa sul serio, ma ha anche dimostrato quanto fosse sbagliata. È ormai evidente, infatti, che se tutti i paesi dovessero continuare nella corsa alla crescita non basterebbero cinque pianeti per sostenerla. Senza contare i gravissimi effetti disgregativi delle disuguaglianze legate alla crescita, che producono scontenti e, nell 'atmosfera aggressiva che si crea, spingono al­ cuni verso comportamenti antisociali e violenti. La globalizzazione ha ormai imposto un nuovo modo di fare sviluppo, sempre più dipendente dalle relazioni internazionali. Oggi la cooperazio­ ne si fa principalmente nel quadro delle attività correnti dello sviluppo locale e nazionale. Non ha più molto senso il "mondo a parte" dell 'aiuto che allevia appena le sofferenze delle vittime di uno sviluppo che galoppa, nel frattempo, verso sempre più minacciosi squilibri e danni alle persone e alla natura. Le vecchie distinzioni originarie tra donatori e beneficiari, tra chi sa e chi deve imparare, chi guida e chi deve lasciarsi guidare e così via sono divenute eticamente inaccettabili e spesso ingiustificate : molte soluzioni innovative ai problemi dello sviluppo vengono ormai da paesi che sono an-

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cora destinatari d i aiuto. M a soprattutto i donatori hanno perso credibilità e hanno messo essi stessi in discussione il modello di sviluppo che hanno promosso per decenni. L'aiuto umanitario, che solo una ventina d'anni fa poteva essere svolto dalle Nazioni Unite, rispettate come entità super partes, oggi è svolto sotto la protezione dei militari o addirittura dagli stessi eserciti e milizie in lotta tra loro.

10.6 I dife tti più gravi della cooperazione

La Dichiarazione di Parigi, oltre ad aver criticato l' autoreferenzialità dei donatori e lo scarso impatto degli oltre I S O miliardi di dollari annuali dell'aiuto, ha fatto riflettere su come si manifestano e da cosa sono pro­ dotti i limiti legati al basso livello di democrazia e alla dispersione delle risorse. Ne emergono cinque difetti gravi che devono essere assolutamente corretti. 1 . Il centralismo è l'eccesso di concentrazione di poteri e risorse nelle ma­ ni di pochi con emarginazione ingiustificata degli attori di base dello svi­ luppo. In cooperazione questo difetto si manifesta con il fatto che pochi politici, diplomatici, tecnici e dirigenti di strutture specializzate, incluse le ONG , prendono le decisioni che servono a spendere i finanziamenti e a scegliere quali progetti realizzare. In futuro questo difetto dovrebbe esse­ re corretto attraverso il decentramento delle decisioni e il riconoscimento delle collettività locali come le protagoniste dello sviluppo. Queste, infat­ ti, quando sono animate dal dialogo e dalla partecipazione di tutti gli atto ­ ri pubblici, associativi e privati, sono le sole che possono responsabilizzare i diretti interessati coinvolgendoli nella ricerca attiva di uno sviluppo di qualità. 2. Il verticismo, variante del centralismo, consiste nel trasmettere le de­ cisioni dal vertice alla base senza consentire il movimento di ritorno dalla base al vertice. In cooperazione si traduce nella rigidezza dei progetti, degli schemi di comando e nell'emarginazione del punto di vista di chi dovrebbe non solo beneficiare degli interventi ma esserne il protagonista attivo. In futuro una buona circolazione delle informazioni e una condivisione dei processi decisionali dovrebbero correggere questo difetto. 3 · Il settorialismo, più direttamente responsabile della frammentazione criticata dalla Dichiarazione di Parigi, è legato all' idea che ognuno si deve occupare di ciò in cui ha competenza. In cooperazione si manifesta con le

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migliaia di progetti a pioggia bilaterali, multilaterali o delle ONG, ciascuno orientato verso uno dei numerosi settori indicati dall' OECD ; ciascuno de­ finito dall'approccio del ciclo del progetto e del quadro logico che racco­ manda, tra l'altro, d' indicare un solo obiettivo specifico per ogni progetto ; ciascuno incapace d' incidere significativamente sulla realtà del cattivo svi­ luppo. In futuro l'approccio settoriale deve essere sostituito da quello ter­ ritoriale di livello locale, l'unico che può far lavorare insieme tutti i settori e tutti gli attori sociali. 4 · L'assistenzialismo, la faccia buona della cooperazione autoritaria, è ca­ ratterizzato dalle forme di aiuto che creano dipendenza, non promuovono il ruolo attivo delle persone e valorizzano i sentimenti caritatevoli e pa­ ternalisti dei donatori, invece di spingerli a riconoscere il diritto di tutti a partecipare ai processi dello sviluppo. In cooperazione sono migliaia i pro ­ getti dettati dal buon cuore che sono sostenuti e realizzati generalmente da persone perbene che meriterebbero un miglior uso dei loro preziosi senti­ menti. In futuro deve essere adottato un approccio capace di usare i buoni sentimenti di solidarietà parziale (quelli che scelgono chi amare e chi no) guidandoli verso interventi che esprimono anche i sentimenti di solidarie­ tà universale (quelli che legano tra loro tutti gli esseri umani) e mirano a promuovere diritti e uguaglianza. S· Infine il burocratismo, responsabile di tanti fallimenti, è la degenera­ zione dell'uso intelligente di buone procedure che facilitano il raggiungi­ mento degli obiettivi che si vogliono perseguire. Consiste nel trasformare le procedure in ostacoli che servono a ingigantire il potere dei burocrati senza assicurare la trasparenza, spesso sbandierata proprio come ciò che giustifica procedure vessatorie. In cooperazione il burocratismo è respon­ sabile della mentalità dei bandi, è la causa di ritardi, interruzioni e di danni d'ogni genere e infierisce soprattutto sulle persone e i gruppi più deboli. In futuro i bandi dovrebbero essere aboliti e sostituiti dalle procedure, molto più utili e trasparenti, della concertazione e del coinvolgimento dei diretti interessati, come già fanno le amministrazioni più lungimiranti. In definitiva, è ormai evidente che la cooperazione deve essere rifor­ mata, sia per adeguarsi alle nuove visioni dello sviluppo, ai cambiamenti delle relazioni tra i paesi e al crescere della sensibilità verso i diritti e l'ugua­ glianza, sia per superare i gravissimi limiti tecnici e operativi ormai ricono­ sciuti da anni dagli stessi donatori. Fortunatamente, nonostante tutto, in questi ultimi 25 anni vi sono sta­ te anche diverse buone esperienze che hanno mostrato come potrebbe es­ sere realizzata una cooperazione orientata verso uno sviluppo di qualità. Ed è da queste che possono essere tratte indicazioni per il futuro.

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1 0 .7

Per una nuova cooperazione

L'esigenza di una nuova cooperazione è nei fatti e negli argomenti prima ricordati. Ma non è all'ordine del giorno né dei pur scontenti donatori, né delle Nazioni Unite (in perdita di prestigio e credibilità) e nemmeno delle ONG o di altri attori. La recente esperienza della riforma della cooperazione italiana è un esempio di come chi prende le decisioni sia lontano dal pensa­ re a cambiamenti profondi. Perciò le riflessioni che seguono sono ancora un sogno di pochi, ma possono servire a riflettere su quello che, prima o poi, dovrà essere fatto. Una barriera importante che deve cadere è quella che impedisce alla cooperazione d' influenzare lo sviluppo ordinario e di orientarlo verso gli obiettivi e i metodi dell'Agenda 20 3 0. Non è in discussione il rispetto delle politiche nazionali, ma donatori e partner possono concordare che la coo­ perazione debba servire a migliorarle. Invece, nonostante il moltiplicarsi di riunioni di coordinamento generali e settoriali, l'aiuto non è ancora usato per riflettere seriamente sulla qualità delle politiche nazionali e delle relazio­ ni internazionali alla luce delle raccomandazioni dell' ONU. Eppure è ormai evidente che il tipo di sviluppo incoraggiato dalla cooperazione comporta gravissimi limiti e deve cambiare direzione. Allora il solo senso che può avere nel futuro è di essere un terreno sul quale si possano cercare e sperimentare le nuove soluzioni necessarie ai problemi più gravi creati dalle forme di svilup­ po correnti. In futuro non ha senso l'aiuto allo sviluppo ma al suo cambia­ mento. Questo vuoi dire che le nuove iniziative dovrebbero nascere da una riflessione sia sulle cinque grandi finalità dell'Agenda 20 3 0 e su come con­ cretamente perseguire i I7 obiettivi indicati, sia su come superare davvero i difetti di partecipazione e di coordinamento messi in evidenza dalla Dichia­ razione di Parigi per andare verso l'approccio programma-quadro. Se si prendesse sul serio l'Agenda 20 3 0, dovrebbe essere realizzata una ri­ voluzione culturale : passare dall'approccio settoriale e frammentario all'ap­ proccio intersettoriale o integrato, il solo capace d' incidere sulla realtà colle­ gando le azioni nei diversi settori. La rivoluzione comporta il passaggio dal pensiero semplificato re (che può essere utile in alcune ricerche scientifiche ma che, in cooperazione, ha contribuito a produrre i disastri più volte ri­ cordati) al pensiero complesso. Solo quest 'ultimo, come ha chiarito magi­ stralmente Edgar Morin, sa tenere conto non solo deli' interdipendenza dei fenomeni dello sviluppo ma anche dei suoi aspetti qualitativi, a differenza del orientamento corrente per il quale contano solo le quantità. Morin è l'autore che, con il suo approccio, meglio aiuta a comprendere i limiti della

LU C IANO CARRINO cooperazione e a scegliere metodi più adeguati a chi opera per lo sviluppo. Per un'ottima sintesi del suo pensiero si può leggere I sette saperi necessari all'educazione delfuturo (Morin, 2001 ) . Finalmente l' interminabile dibattito sugli indicatori e le valutazioni "indipendenti" (che non ha certo aiutato la cooperazione a superare la sua frammentazione) potrebbe essere orientato verso le valutazioni interne e partecipate, dove gli elementi quantitativi si combinano con quelli qualitati­ vi e soggettivi, permettendo una visione più vicina alla realtà, più rigorosa e più utile per aggiustare le pratiche. Se fossero prese sul serio le raccomandazioni della Dichiarazione di Pa­ rigi, non dovrebbero essere più fatti bandi e gare per finanziare progetti a pioggia. Vi sono molte esperienze, infatti, che dimostrano la superiorità dei finanziamenti dati a grandi iniziative che non definiscono rigidamente e det­ tagliatamente a priori le azioni da fare negli anni successivi, ma stabiliscono regole di programmazione partecipata progressiva che permettono agli atto­ ri coinvolti di adeguare tutti insieme le scelte operative alle situazioni e spen­ dere in modo trasparente le risorse disponibili. In cooperazione, finalmente, potrebbero essere diffuse le positive esperienze dei programmi-quadro, che adottano l'approccio territoriale allo sviluppo. Il primo programma-quadro si chiamava PRO D ERE (Programa de Desarrollo para Desplazados, Refugia­ dos y Repatriados) e fu realizzato dalle Nazioni Unite in America Centrale dal 1989 al 1995 ( uNOPS, 2015 ) . Quest 'approccio si è poi diffuso in mol­ ti paesi e si è perfezionato specialmente nei programmi di sviluppo uma­ no (Programa de Desarrollo Humano Local, P DH L ) delle Nazioni Unite. Nei programmi-quadro i protagonisti sono le collettività locali che formu­ lano periodicamente piani d'azione partecipati (semestrali o annuali), che permettono di scegliere insieme le priorità tematiche, adeguarsi alla realtà, coinvolgere gli attori di base e assicurare un alto livello di trasparenza raffor­ zato dal controllo sociale che si esercita nei processi partecipati. Allora sì che la creatività individuale e di gruppo (che si esprime nella progettazione delle soluzioni migliori ai problemi che s' incontrano) potrebbe trovare il modo di esprimersi senza generare frammentarietà e confusione. Ogni progetto (che oggi nasce, vive e muore per conto suo) diventerebbe un intervento collegato agli altri individuati come complementari nel programma-quadro definito congiuntamente da tutti gli attori interessati. Un altro grande vantaggio dei programmi-quadro è che essi permetto­ no di realizzare la raccomandazione dell 'Agenda 20 30 sui partenariati in­ ternazionali. Essi, infatti, consentono di mobilitare non solo gli attori dei paesi partner ma anche quelli dei paesi donatori e li fanno convergere tutti verso gli obiettivi e le strategie concordate tra tutti. Basta farli partecipare

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alla formulazione dei piani d'azione periodici. In tal modo potrebbe esse­ re promossa un'altra rivoluzione culturale necessaria nell'era della globaliz­ zazione : quella che permette di unire a livello internazionale gli apporti di tutti gli attori coinvolti, per esempio, nella gestione dei flussi migratori, nel­ le esperienze di economia sociale, nella lotta alle ideologie fondamentaliste e razziste, nel lavoro per contrastare i cambiamenti climatici, nella corretta circolazione delle informazioni, nella lotta contro la criminalità e così via.

1 0 .8 Migrazioni, sviluppo e cooperazione

Se consideriamo i problemi legati alle migrazioni verso l'Europa possiamo fare l'esempio di come solo un grande programma-quadro di cooperazione euro-mediterranea abbia la possibilità d' intervenire armonicamente in tutti i posti dove ce n'è bisogno, collegando tra loro componenti diverse. Una componente agirebbe nelle aree locali di provenienza dei migranti nel quadro d' interventi nazionali per l'appoggio allo sviluppo delle colletti­ vità locali. In questo caso gli interventi del programma-quadro, collegandosi agli altri già in corso o in preparazione, introdurrebbero la particolare at­ tenzione verso le persone e le famiglie che hanno la maggiore probabilità di essere spinte a cercare fortuna altrove; le coinvolgerebbero nella definizione di piani locali d'azione e le incoraggerebbero, attraverso anche piccoli ma concreti miglioramenti, a sperare che il loro territorio possa diventare pian piano meno repellente. In pratica, il programma-quadro inserirebbe in tutte le iniziative di cooperazione l'attenzione ai fattori che spingono a emigrare e cercherebbe soluzioni per rendere i territori più attraenti con l'aiuto di tutti, inclusi quelli che sognano di andare via. Una componente aiuterebbe i governi e gli enti locali dei paesi europei d'arrivo (anche collegandosi a politiche e finanziamenti già esistenti) , sia a gestire in modo umanizzato l'accoglienza e la fase d' identificazione, sia a formulare e realizzare progetti personalizzati per il futuro dei migranti, utilizzando anche le comunità straniere installate in Europa e le opportuni­ tà offerte dalla cooperazione decentrata. Solo così l' idea che le "migrazioni sono anche una risorsa" può diventare realtà e generare attività economiche, culturali, formative, di protezione sociale e così via. Una componente, di carattere internazionale, si occuperebbe di mobili­ tare gli attori della cooperazione decentrata dei paesi donatori per metterli in contatto con le aree locali di provenienza dei migranti. Questa compo­ nente servirebbe a organizzare una grande rete di partenariati permanenti

LU C IANO CARRINO di sviluppo tra aree di partenza e aree d 'arrivo dei migranti, incrementando scambi in ogni campo. In tal caso le comunità straniere installate nei paesi d'arrivo potrebbero svolgere non solo funzioni di mediazione culturale ma di vera e propria promozione di sviluppo in tutti i campi. Infine, una componente coinvolgerebbe le università e i centri di ricer­ ca del Nord e del Sud, sia per aiutare a sistemare e far conoscere le buone esperienze che si realizzerebbero, sia per formare, anche attraverso scambi tra gli attori impegnati nelle diverse attività, i nuovi professionisti dello sviluppo e della cooperazione, capaci di utilizzare tutte le opportunità of­ ferte dalla globalizzazione e dai finanziamenti dell 'aiuto e dei processi or­ dinari dello sviluppo. Nessuna somma di progetti separati potrebbe fare ciò che in un pro­ gramma-quadro è del tutto naturale.

10. 9

Cambiare dalla base

Per organizzare programmi-quadro occorre averne il potere. Perciò i cam­ biamenti cui si è accennato dipendono principalmente dalla volontà dei go­ verni, cosa che non lascia spazio a molte illusioni. Ma possono fare qualcosa per il cambiamento anche quelli che amano la cooperazione e lavorano nelle iniziative di base ? Sorprendentemente, specie negli ultimi anni, ci stanno provando in tanti e con risultati molto promettenti. In particolare ci provano le ONG o gli attori della cooperazione decen­ trata che, avendo poche risorse e poco potere, ma non volendo rimanere marginali e insignificanti, cercano di realizzare attività che, per il loro tema o per il modo in cui sono fatte, assumono un valore strategico. Per esempio, partono da un'attività sul tema della salute mentale e scelgono azioni che riescono a innescare una riforma nazionale per il superamento dei mani­ comi (come hanno fatto gli attori della cooperazione decentrata friulani, pugliesi e sardi in Albania). Oppure partono dalla difesa della biodiversità della foresta amazzonica in un progetto che si occupa di un migliaio di et­ tari e innescano una campagna internazionale su questi temi che raggiunge l' Europa e mobilita molti attori (come ha fatto l'associazione ArBio in Perù e in Italia). Oppure investono in una radio locale in lingua maya in una zona del Guatemala tormentata da gravi conflitti armati e, dopo venticinque an­ ni, quella radio diviene il punto di riferimento di una vasta popolazione che ancora è in lotta per i diritti e per il proprio sviluppo (come ha fatto un Co­ mitato per la Cooperazione decentrata della città di Venezia).

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Queste esperienze lasciano sperare, a chi ama sognare, che un movimen­ to per la riforma della cooperazione possa nascere dalla base. Il loro aspetto indiscutibilmente buono è che dimostrano come si possa partire dalla pro­ pria passione, dalla propria etica e da poche risorse per innescare processi che riescono a trovare alleati e a incidere sulla realtà. Il loro aspetto provocatore, invece, è che lasciano poche scuse a quelli che continuano a realizzare piccoli progetti autoreferenziali e assistenziali con le risorse che dovrebbero andare allo sviluppo di qualità e alla solidarietà universale.

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Osservazioni finali

Oggi più che mai la cooperazione internazionale è necessaria. Ma non quel­ la del passato, che ha disperso il grande patrimonio di sentimenti solidali di tante persone perbene. Ne occorre una nuova, capace di valorizzare le buone esperienze che, nonostante tutto, sono state realizzate e di superare due gra­ vi limitazioni da tutti riconosciute : il difetto di partecipazione diretta e de­ mocratica e il difetto di efficacia provocato dalla frammentazione. Occorre soprattutto una cooperazione coerente con gli obiettivi e i metodi indicati dall'Agenda 2 0 3 0 , capace di sostituire sia l'ossessione per la crescita con una moderna visione equilibrata dello sviluppo di qualità, sia la mentalità pater­ nalista con quella attenta ai diritti delle persone in difficoltà. Se nascesse un movimento per riformarla, potrebbe puntare a darle finalmente il compito che avrebbe già dovuto avere : aiutare a cambiare lo sviluppo corrente. Il suo punto di forza potrebbe essere la valorizzazione del ruolo attivo delle collet­ tività locali del Sud e del Nord che, con l'appoggio dei loro governi e delle organizzazioni internazionali, dialogano pacificamente e mobilitano tutti i loro attori sociali per costruire, insieme e dappertutto, territori attraenti.

Riferimenti bibliografici

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II

L'architettura e la governance dello sviluppo e dell'aiuto alla ricerca di nuovi assetti di Eduardo Missoni

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Presentazione

Nel più ampio contesto dell'accelerazione del processo di globalizzazione e del modificarsi degli equilibri internazionali, negli ultimi due decenni il sistema di cooperazione allo sviluppo ha subito sostanziali trasformazioni. D'altro canto, le politiche e le pratiche dell'aiuto allo sviluppo sono lo specchio degli obiettivi, della misura e del concetto stesso di sviluppo. Introdotto nel linguaggio e tra gli obiettivi della politica internazionale nel secondo dopoguerra, lo sviluppo è divenuto metafora di crescita economica con l'aiuto pubblico allo sviluppo (APS ) quale categoria e strumento occiden­ tale di affermazione dell'economia di mercato promossa dai paesi membri del Comitato di assistenza allo sviluppo (Development Assistance Committee, DAC ) dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Or­ ganization far Economie Cooperation and Development, OECD ) in contrap­ posizione a equivalenti meccanismi dell' Unione sovietica tesi ad affiliare alla sfera socialista i paesi che progressivamente acquisivano l' indipendenza in no­ me dell' internazionalismo socialista. Lo sviluppo è stata spesso la parola chiave per imporre una nuova forma di dipendenza dai donatori. Stabilita la crescita economica come obiettivo dello "sviluppo", il dibattito si concentrò sugli inter­ venti più appropriati per accelerarla e i settori cui indirizzare gli aiuti. Negli anni Novanta, mentre in ambito commerciale - prima sotto la spin­ ta degli organismi di Bretton Woods e dell'Organizzazione mondiale del com­ mercio e poi, con lo stalla di quei negoziati, attraverso accordi bilaterali e re­ gionali di libero commercio - si promuoveva la liberalizzazione dei mercati e la deregolamentazione finanziaria, sotto l'egida delle Nazioni Unite, in un susseguirsi di vertici, si ridefinì l'agenda mondiale dello sviluppo focalizzan­ do l'attenzione sulla lotta alla povertà, gettando le premesse di un percorso di approfondimento che avrebbe portato nel 2 0 0 0 alla Dichiarazione del mil­ lennio. Gli obiettivi di sviluppo del millennio (millennium development go­ als, MDG ) elaborati successivamente per rendere operativa l'agenda di svilup,

EDUARD O MISSONI po, avrebbero dovuto superare lo stretto paradigma della crescita e centrare l'attenzione sul benessere umano, sostenibile ed equo. Prevalse però ancora la percezione economicista dello sviluppo, con la crescita economica come stru­ mento di riduzione della povertà. Gli MDG mancarono di una visione di siste­ ma, non presero in considerazione i determinanti sociali, economici e ambien­ tali delle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni, né temi quali l'equità nella distribuzione e nell'accesso alle risorse. Lo sviluppo rimaneva un tema di esclusiva rilevanza per i paesi più poveri, peraltro scarsamente coinvolti nella loro formulazione, e quindi per la destinazione degli aiuti forniti dai paesi do­ natori. Alla scadenza del 2015, superando la tradizionale impostazione Nord-Sud, è stata adottata la cosiddetta Agenda 2030 con 17 obiettivi di sviluppo sosteni­ bile (sustainable development goals, SDG) "indivisibili" e "universali" per porre fine entro il 2o3o alla povertà "una volta per tutte, per tutti"; per combattere le diseguaglianze; per assicurare una protezione durevole del pianeta e delle sue risorse; e creare le condizioni di una crescita "sostenibile, inclusiva e sostenu­ ta" e di "prosperità condivisà: Benché globale, la nuova agenda è comunque una soluzione di compromesso e non affronta le radici sistemiche e strutturali delle crescenti iniquità, della esclusione sociale e del disastro ambientale. La crescita sostenuta e sostenibile, che ripropone anche l'Agenda 2030, è di fatto un ossimoro, infatti il cammino verso un futuro sostenibile non può che consi­ stere nella riduzione democratica e redistributiva dell'economia globale a volte presentata provocatoriamente come "decrescità: Originariamente fondata su relazioni Nord-Sud, la cooperazione in­ ternazionale si deve confrontare oggi con sostanziali trasformazioni globa­ li. Nel mondo, divenuto multipolare con poteri economici diffusi, operano con influenza crescente, in particolare nel campo della cooperazione allo svi­ luppo, attori transnazionali non statali, forze economiche della cosiddetta filantropia globale, e di soggetti e reti della società civile. Le relazioni e gli scambi tra paesi, anche tra i meno avanzati, sono sempre più intensi, con alcuni paesi emergenti ormai capaci di proiezione geo-politi­ ca ed economica globale. Le finalità, le strategie e i metodi della "cooperazio­ ne internazionale" di questi ultimi, peraltro, non sono facilmente assimilabili all'esperienza che ha contraddistinto l'aiuto allo sviluppo dei paesi OECD/DAC. Anche le condizioni socio-economiche e le problematiche di sviluppo dei paesi tradizionalmente beneficiari sono divenute altamente eterogenee. Seb­ bene utilizzando parametri economici la povertà assoluta appaia ridotta, quel­ la relativa non lo è affatto, delineandosi altresì una nuova geografia della po­ vertà con la maggiore concentrazione di popolazione povera nei paesi a red­ dito medio e un' ininterrotta crescita delle disugaglianze, che rende ancora più

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urgenti politiche ridistributive non solo tra paesi, ma anche all'interno di essi. Infine, la crescente interdipendenza che caratterizza l'accelerazione del proces­ so di globalizzazione estende la problematica dello sviluppo a livello planeta­ rio e impone anche alla cooperazione internazionale di individuare e attuare politiche che assicurino la protezione e l'accesso ai beni pubblici globali, con un accento particolare sui temi ambientali e climatici. Si impone un ripensamento profondo delle modalità della cooperazio­ ne internazionale, con implicazioni tanto per l'architettura degli aiuti, come per la governance complessiva dello sviluppo. Sono necesari nuovi approcci analitici, nonché la revisione dei parametri e del concetto stesso di sviluppo.

1 1 .2

La quantità degli aiuti

In termini quantitativi, a partire dall'inizio del secolo sotto la rinnovata spinta derivata dagli MDG, si registrò un considerevole aumento dell'APS. Nel bien­ nio 20I I-I2, la grande recessione mondiale che ha fatto seguito alla crisi dei subprimes negli Stati Uniti d'America si è riflessa nel volume aggregato degli aiuti ridettosi in termini reali intorno al 6%, compensato in parte nel 20I3 dal comportamento anticiclico di alcuni grandi donatori ( soprattutto Regno Unito e Giappone ) . Ciononostante, con il perseverare della crisi è difficile im­ maginare che si possa restaurare una tendenza alla crescita dell'APS. Di qui an­ che la citata enfasi sulla ricerca di meccanismi innovativi di finanziamento. Pa­ rallelamente, con l'incremento dei flussi internazionali privati, l'APS è divenu­ to irrilevante in relazione alla totalità delle fonti di finanziamento nei paesi a reddito medio, rimanendo significativo invece per i paesi a reddito basso e me­ no sviluppati, nei quali si è andato concentrando e per i quali rimane la fonte principale di finanziamento internazionale. All'APS dei donatori OECD vanno aggiunti i contributi, più o meno assimilabili all'aiuto, di paesi emergenti e di fonti private, che secondo diverse stime, certamente incomplete, costituivano tra il 30,7% el il 43,8% del totale degli aiuti nel 2009 (Alonso, 20IS ) . 1 1.3

La qualità ed efficacia degli aiuti

Parallelamente alla definizione degli obiettivi dello sviluppo, soprattutto in sede OECD si è a lungo dibattuto sui principi di efficacia dell'aiuto che a quello sviluppo dovrebbero contribuire.

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EDUARD O MISSONI

A partire dalla seconda metà degli anni Novanta si sosteneva che per l'efficacia dell'A PS si sarebbe dovuto spostare l'enfasi da un approccio se­ lettivo e frammentario, a progetto, a nuove forme di aiuto, a programma, a sostegno di strategie e politiche nazionali dei paesi destinatari, con parti­ colare attenzione alla lotta integrata alla povertà. A seguito di un processo iniziato a Roma nel 2 0 0 3 , a conclusione del secondo Forum di alto livello sull'efficacia dell'aiuto, a Parigi i paesi donatori aderenti all' OECD, ma anche istituzioni internazionali di sviluppo e diversi paesi beneficiari, individuaro­ no nella dichiarazione conclusiva ( Dichiarazione di Parigi ) cinque principi dell'efficacia dell'aiuto ( titolarità, ownership; allineamento, con strategie, si­ stemi e procedure del paese beneficiario ; armonizzazione tra paesi donatori; gestione per risultati; mutuo rendiconto, mutual accountability) che avreb­ bero dovuto ispirare tutta l'attività di cooperazione internazionale nel ten­ tativo di ridurre i costi di transazione ed equilibrare il rapporto tra donatori e beneficiari. A distanza di poco più di dieci anni dalla loro adozione non si può che constatare la sistematica violazione di quei principi, ormai confinati tra le buone intenzioni e la retorica dei donatori. Ad esempio, a livello paese restano limitate le esperienze di allineamen­ to con la partecipazione congiunta di più donatori in iniziative integrate di supporto al bilancio dei paesi partner (generai budget support) e di program­ mi ad approccio integrato di settore (sector-wide approach, SWAp ) . Molti do­ natori infatti continuano a privilegiare la canalizzazione dell'APS attraverso proprie strutture e organizzazioni. Dal canto loro le Nazioni Unite per rafforzare la coerenza del sistema hanno adottato un Delivery as One ( già attuato in 54 paesi ) che integra le at­ tività e la gestione delle diverse entità del sistema intorno a quattro principi: un leader, un budget, un programma, un ufficio. L'efficacia complessiva è però anche ridotta dal moltiplicarsi degli attori con conseguente frammentazione degli aiuti.

1 1. 4 Il modificarsi dell'architettura e delle modalità dell'aiuto

Il panorama generale della cooperazione internazionale allo sviluppo si è an­ dato modificando con il modificarsi degli equilibri economici e geopolitici. Per decenni l'agenda per lo sviluppo è stata adottata dalle diverse isti­ tuzioni internazionali, sulla spinta di piccoli gruppi di paesi con maggiore peso geopolitico ed economico, in particolare dei G7/G8. Dall' inizio del

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millennio è cresciuto il ruolo di diversi paesi a economia emergente (in par­ ticolare i BRics ) , contemporaneamente all'avvento di nuovi attori della fi­ lantropia globale, al coinvolgimento di attori transnazionali del settore pri­ vato e della società civile, alla costituzione di partenariati globali e alla spinta all'adozione di meccanismi di mercato. Già nel 2007 si stimava la presenza di 233 agenzie multilaterali di svilup­ po ; S I donatori bilaterali (molti dei quali con molteplici agenzie che si occu­ pano di aiuti); diverse centinaia di ONG internazionali e decine di migliaia di ONG nazionali, senza includere, tra quelle, milioni di organizzazioni delle comunità locali (Kharas, 2007 ). La frammentazione e lo scarso coordina­ mento dell'aiuto vanno a detrimento dei potenziali benefici per i paesi re­ cettori costretti a gestire contemporaneamente la molteplicità di iniziative e di donatori, ciascuno con le proprie procedure ed esigenze, con costi econo­ mici e sociali estremamente elevati. II.4.1. LA C O O PE RAZ I O N E D E I PAES I EMERGENTI In realtà molti tra i paesi donatori esterni al DAC non sono né nuovi, né emergenti giacché realizzano attività assimilabili all 'aiuto da diversi decenni, sebbene il loro modus operandi a volte non sia riconducibile alla definizione standard di aiuto pubblico allo sviluppo dell' OECD. Inoltre, è molto difficile stimare l' importanza di alcuni di questi attori per mancanza di dati sulle lo­ ro attività, o il loro mancato rispetto di standard internazionali di reporting, e per una certa opacità dei loro meccanismi di cooperazione. La difficoltà di analisi è anche legata alla struttura amministrativa dei loro programmi, spes­ so realizzati nell'ambito di accordi decentrati, in assenza o scarso sviluppo di una struttura (''agenzia"). È variegata anche la relazione dei paesi emergenti rispetto al DAC. Alcuni ne condividono i valori ed eventualmente, essendo già membri dell' OECD, aspirano a integrarsi al DAC (paesi membri dell' vE, Turchia, Cile, Messico) , altri lo hanno già fatto completando la transizione da paese recettore a donatore (Corea del Sud). Alcuni non disdegnano un avvicinamento al DAC (Russia) , altri ne prendono nettamente le distanze (Cina) o aspirano a differenziarsi in nome di una cooperazione paritaria, Sud-Sud, con i loro partner (Brasile, India, Venezuela, Cuba, Argentina, Sudafrica, Egitto, Malesia, Tailandia) (Rowlands, 20io; Alonso, 20I5). Molti di questi donatori, oltre a concorrere all'aumento di risorse per lo sviluppo, aumentano il potere negoziale dei paesi recettori offrendo loro alternative competitive agli aiuti tradizionali, con minori esigenze ammini­ strative e sociali (rispetto dei diritti e democrazia) e condizionamenti (di po­ litica economica, commerciali, politici) spesso percepiti come in violazione

EDUARD O MISSONI della loro sovranità, e maggiore attenzione alle infrastrutture sociali e pro­ duttive rispetto ai donatori tradizionali (Alonso, 20 1 5 ) . Essendo stati essi stessi recettori di APS o essendolo tuttora, molti dei donatori emergenti potrebbero essere portatori di positive innovazioni nel panorama della cooperazione ; d'altra parte è anche possibile che quegli stes­ si donatori non facciano tesoro degli errori dell'APS tradizionale. Certamen­ te l'orientamento dei nuovi donatori è meno attento al tema della povertà, e condizioni essenziali - come stato nutrizionale, educazione o mortalità infantile - non hanno alcuna influenza nell' indirizzarne l'allocazione degli aiuti. Per molti aspetti la cooperazione dei nuovi donatori non si discosta molto da quella tradizionale: « abbiamo poche ragioni per biasimare i nuovi donatori perché utilizzano l'aiuto come mezzo di promozione dei propri in­ teressi commerciali » (Dreher, Nunnenkamp, Thiele, 20 1 1 , p. 1 5 , trad. mia). In tal senso sarebbe opportuno che i donatori emergenti facessero tesoro dei principi di efficacia sviluppati dal DAC e collaborassero con i donatori tradi­ zionali per rispondere agli interessi dei paesi e delle popolazioni che dichia­ rano di voler assistere. 1 1.4.2. I L CRESCENTE RUO L O DI F O RZ E E C O NO M I C H E E S O C IALI T RANSNAZI O NALI

Da sempre le società transnazionali esercitano influenze dirette o indirette sui governi nazionali e sui processi decisionali in sede multilaterale attraver­ so forme non sempre trasparenti di pressione tese a favorire la loro espansio­ ne sul mercato. Parallelamente il settore privato ha appoggiato programmi di cooperazione internazionale, promuovendo anche autonomamente atti­ vità di sostegno allo sviluppo, con attenzione soprattutto alle realtà locali in cui operano (community investment). Sono individuabili almeno due motivi a fondamento del coinvolgimen­ to delle imprese a sostegno di iniziative di sviluppo e in particolare di pro­ mozione sociale e ambientale : la possibilità di influenzare l'ambiente sociale e politico nel quale si svolge l'attività economica dell'impresa, e la promo­ zione diretta dei propri interessi commerciali. In quest'ottica possono essere lette, tra l'altro, la partecipazione in partenariati pubblici-privati globali e le crescenti iniziative filantropiche delle imprese transnazionali. Queste si rea­ lizzano attraverso elargizioni dirette, come ad esempio le donazioni a soste­ gno di programmi delle Nazioni Unite, o attraverso la costituzione di fon­ dazioni d' impresa, che conservano in genere nel nome il brand della società che le ha originate, e hanno motivazioni (di marketing) diverse da quelle più genuinamente filantropiche delle cosiddette fondazioni familiari.

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Queste ultime (Rockefeller Foundation, Ford Foundation ecc.) hanno spesso giocato un ruolo importante nel finanziare e influenzare iniziative di sviluppo in paesi diversi o a sostegno di istituzioni internazionali. Con l'avvento, nel 2ooo, della Fondazione Bill e Melinda Gates si parla ormai di "filantro-capitalismo" e l'ordine di grandezza dei contributi finanziari passa dai milioni ai miliardi di dollari, generati dagli utili del capitale investito in società (ad esempio, Exxon, Coca- Cola ecc.) con significative esternalizza­ zioni di costi ambientali e sociali, mai contabilizzati nella valutazione dei "generosi" contributi del settore privato, commerciale o filantropico. Anche nel più tradizionale mondo delle ONG di sviluppo si annoverano ormai importanti attori transnazionali. Si tratta però di soggetti molto di­ versi per motivazioni e tipologia di associati. La distinzione tra PINGO (Pu­ blic lnterest Non Governmental Organizations), e BINGO (Business lnterest Non Governmental Organizations) è una suggestiva sintesi di tale diversità. Molte ONG, movimenti sociali e reti trasnazionali della società civile svolgo­ no un' importante ruolo di promozione e difesa dei diritti umani, e influen­ zano le politiche pubbliche (advocacy) intervenendo nelle sedi internaziona­ li. Altre attuano principalmente iniziative di sviluppo a diversi livelli nazio­ nali e locali, spesso in collaborazione con attori pubblici e intergovernativi. 1 1. 4 · 3 · LE A S S O C IAZI ONI P U B B L I C O - P RIVATO

Con l'accresciuto grado d' influenza, formale o informale, di attori non sta­ tali si è andata imponendo l'idea che i tradizionali meccanismi di direzione e governo "inter-nazionali" - ovvero basati sulle relazioni tra Stati sovrani non fossero più sufficienti e che i processi di formulazione e di governo delle politiche e delle iniziative globali dovessero estendersi al di là del tradiziona­ le ruolo delle organizzazioni multilaterali intergovernative, per coinvolgere una ben più vasta gamma di "portatori di interessi" (stakeholders) pubblici e privati in un approccio multistakeholders. Benché il DAC indicasse la necessità di inserire le strategie settoriali in una più vasta strategia di sviluppo nazionale e affermasse la regola d'oro in base alla quale occorre "pensarci due volte" prima di creare nuove iniziative o strumen­ ti globali, i maggiori attori governativi e privati hanno promosso e sostenuto iniziative globali di partenariato pubblico-privato (global public-private part­ nerships, GPPP ), che hanno ulteriormente frammentato la già affollata archi­ tettura dell'aiuto, fronteggiando "verticalmente" singole problematiche sen­ za visione di sistema a livello nazionale (come i notevoli esempi dell'Alleanza globale per le vaccinazioni e le immunizzazioni e del Fondo globale per la lotta all'AIDS, alla tubercolosi e la malaria), associando portatori di interessi tra loro

EDUARD O MISSONI molto diversi o addirittura contrastanti, e indebolendo il sistema delle Nazio­ ni Unite e la gestione multilaterale dei processi decisionali (governance ). La crescente tendenza alla definizione delle priorità e delle modalità d'attuazione in sedi globali ha spesso distolto l'attenzione dalla diversità dei bisogni e delle problematiche delle realtà e delle popolazioni locali. 1 1. 4·4· IL RI C O R S O A N U OVI CANALI DI FINANZ IAMENTO

L' imprevedibilità degli aiuti e la discontinuità dei finanziamenti rappre­ sentano un altro limite all'efficacia degli aiuti, cui si è cercato di sopperire con "meccanismi finanziari innovativi" basati su: fondi globali e partena­ riati pubblico-privati; mercato dei capitali con emissione di bonds, come nel caso della lnternational Financial Facility for lmmunizations (IFFim) ; responsabilità sociale d' impresa ( RSI); iniziative collegate alle rimesse este­ re ; incentivazione di investimenti privati mediante garanzie pubbliche, co ­ me nel caso dell'Advance Market Commitment (AMC); e formule impositi­ ve su attività che generano esternalità negative, come nel caso della tassazio­ ne sulle transazioni finanziarie o sulle emissioni di carbonio. In ogni caso questi meccanismi dovrebbero rispettare le regole fiscali e di bilancio, evi­ tare la moltiplicazione dei canali di spesa, evitare passivi che impegnino la finanza pubblica in futuro, ed essere semplici, trasparenti e facilmente com­ prensibili. In pratica questi principi trovano scarsa applicazione. Pochi tra i meccanismi sperimentati mobilizzano importanti volumi di risorse, men­ tre sono discutibili tanto l' addizionalità rispetto all'APS quanto l' impatto redistributivo. I meccanismi che potrebbero generare maggiori volumi di risorse sono quelli impositivi, che sono però anche quelli che suscitano le maggiori resistenze politiche.

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La critica degli aiuti e le nuove sfide dello sviluppo

La crescente tendenza del sistema degli aiuti a coinvolgere il settore privato e mobilitare risorse attraverso il mercato dei capitali sono stati accolti positi­ vamente anche dai più tenaci oppositori degli aiuti. Per alcuni, gli aiuti non sono solo inutili - « a fronte di più di mille miliardi di dollari ricevuti in cin­ quanta anni di aiuti allo sviluppo l'Africa si è impoverita » - ma anche dan­ nosi avendo reso l'Africa dipendente dagli aiuti dei paesi ricchi e promosso la corruzione : « un disastro politico, economico e umanitario senza limiti » (Moyo, 2009, , p. 1 5 3 , trad. mia). Quegli autori ritengono che solo l' ideologia

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economica « fondata sul movimento dei capitali e la competizione » è davvero efficace ad assicurare lo sviluppo (ibid. ) Ma quale sviluppo ? Studi sistematici danno loro ragione : gli aiuti non influenzano la crescita economica dei paesi recettori (Rajan, Subramanian, 2oo8 ) . Se le disuguaglianze continuano a cre­ scere, i diritti umani fondamentali continuano a essere negati a una gran parte della popolazione del pianeta, la biodiversità si riduce drammaticamente e si soffrono le conseguenze catastrofiche del degrado ambientale, il vero fallimen­ to sta nel modello di sviluppo basato sul dogma della crescita dell'economia che ha messo in secondo piano i bisogni reali delle popolazioni e che l'utiliz­ zazione viziata degli "aiuti" in molti casi non ha fatto altro che promuovere attraverso condizionamenti economici e politici. Le condizioni locali di vita sono sempre più influenzate da determi­ nanti molto remoti, dal marketing aggressivo delle industrie, dal deteriora­ mento ambientale e dalla precarizzazione del lavoro, prodotti del modello economico neoliberale. L' interdipendenza globale obbliga a un'estensione del concetto di be­ ne pubblico internazionale, tradizionalmente utilizzato per fare riferimen­ to a beni non esclusivi e non rivali come ad esempio pace, stabilità econo ­ mica o salute pubblica. Oggi è del tutto evidente che l' intero ecosistema ( acque, atmosfera, risorse energetiche, biodiversità ecc. ) deve essere pro ­ tetto come bene pubblico. Allo stesso tempo, il venir meno della semplice dualità Nord-Sud e la crescente eterogeneità della distribuzione planetaria della popolazione con bisogni essenziali irrisolti e diritti fondamentali negati obbligano a una mag­ giore contestualizzazione degli interventi. In parte, l'Agenda 20 30 e l'uni­ versalità dei nuovi SDG riconoscono la fine di quella dualità e il superamento della separazione delle politiche di sviluppo e quelle relative ai beni pubblici globali, chiamando tutti i paesi a condividerne le responsabilità. Dunque, anche l'architettura e la governance dello sviluppo e degli aiuti difficilmente potranno costituire due comparti del tutto separati. Di fronte alla nuova agenda globale Alonso ( 20I5 ) individua due ap­ procci che considera "estremi": mantenere l'aiuto allo sviluppo come politi­ ca separata diretta alla lotta alla povertà estrema, con assoluta priorità verso i paesi più poveri e gli Stati fragili, eventualmente coinvolgendo attori privati nel contesto delle regole del DAC; o, in alternativa, intraprendere un approc­ cio integrato, basato sul principio della responsabilità comune di tutti i pa­ esi, sul coinvolgimento di nuovi attori e sull' individuazione di nuovi stru­ menti, collegando aiuto e beni pubblici globali. Questa seconda opzione, che appare più in linea con l'Agenda 2030, do ­ vrà tener conto della complessità e delle diversità proprie di ciascuna realtà .

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EDUARD O MISSONI

d' intervento, e di tre obiettivi principali: 1. la fornitura di beni pubblici glo­ bali; 2. la fornitura di beni sociali universali, standard comuni e servizi socia­ li universalmente accessibili; 3· la cooperazione allo sviluppo, con funzione redistributiva, tesa a ridurre le disuguaglianze ( Ocampo, 2015 ) . Data la portata globale e l'indivisibilità dei nuovi obiettivi, anche le ri­ sorse necessarie all'implementazione dell'agenda dovranno necessariamen­ te trascendere quelle tradizionalmente individuate nell 'A PS e influenzare in tutti i paesi la formulazione complessiva dei bilanci nazionali secondo una visione sistemica che potremmo definire di sviluppo sostenibile in tutte le politiche, laddove le priorità e il senso stesso dello sviluppo devono porre al centro l 'essere umano e il pianeta che lo ospita, rivedendo in tal senso anche i parametri di efficacia: misurando, ad esempio, il successo attraverso la spe­ ranza di vita sana piuttosto che la crescita del PIL. A livello internazionale ogni paese dovrà condividere le responsabilità e contribuire al perseguimento di obiettivi globali secondo le proprie risorse e capacità, partecipando altresì attivamente sia alla governance globale dei beni pubblici, sia a quella relativa all'aiuto alle regioni e ai gruppi di popo­ lazione più svantaggiati. La nuova agenda di sviluppo integrata richiederà la ricerca di nuove fonti e meccanismi di finanziamento, nonché d' indirizzo e di governo dei medesimi, tenendo conto della necessità di incrementare tan­ to gli aiuti quanto le risorse da destinare ai beni pubblici, che non possono essere finanziati con i primi. L'Agenda 203 0, e ancor di più il necessario cambiamento del paradigma della crescita sostenuta che quella non ha intaccato, richiede una riflessione approfondita sui meccanismi di governance. Se da un lato appare necessario individuare nuove strutture capaci di includere la variegata pluralità di at­ tori del sistema di cooperazione allo sviluppo e collegarne l'attività alla più ampia Agenda di sviluppo sostenibile, dall'altro è indispensabile distinguere chiaramente responsabilità e interessi di ciascuno, che evidentemente pos­ sono essere in contrasto. In tal senso, è preoccupante la tendenza, nelle rela­ zioni con il sistema delle Nazioni Unite, ad assimilare tutti i cosiddetti attori non statali senza differenziare tra quelli che perseguono interessi privati e quelli hanno esclusivamente obiettivi di interesse pubblico.

1 1.6 Osservazioni finali

Già nel 2o1 1 a Busan ( Corea ) , in occasione del quarto Forum di alto livello sull'efficacia dell'aiuto dell ' oECD, si riconobbe il ruolo crescente dei pae-

I I. ARCHITETTURA E G OVERNANC E D ELLO SVILUPPO E D ELL 'AIUTO

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s i a medio-reddito (allo stesso tempo donatori e beneficiari degli aiuti) e delle economie emergenti che avevano mantenuto tradizionalmente una certa distanza dall' OECD, considerata un'organizzazione dominata dai pa­ esi occidentali. In quell'occasione si costituì il Partenariato globale per la cooperazione allo sviluppo efficace ( Global Partnership for Effective De­ velopment Cooperation, GPED C ) , aperto alla partecipazione di molteplici attori pubblici e privati, con l'obiettivo di rafforzare l'efficacia della coope­ razione allo sviluppo. Benché più inclusivo del DAC, il GPED C presenta dei limiti in termini di rappresentanza formale e di effettivo coinvolgimento dei nuovi attori del sistema, che in alcuni casi lo considerano comunque un 'espressione dell' OECD. Un foro più inclusivo per un coinvolgimento più ampio dei nuovi do­ natori in un sistema complessivo di governo è il Foro di cooperazione allo sviluppo (Development Cooperation Forum, DCF ) dell'Ecosoc. Il DCF ha come obiettivo la revisione delle tendenze della cooperazione internazionale allo sviluppo, offrendo guida politica e raccomandazioni per promuoverne l'efficacia e la coerenza, rinforzando i collegamenti normativi e operativi nel sistema delle Nazioni Unite (su GPED C e DCF cfr. De Fraia, CAP. 9 ) . A una migliore rappresentatività del DCF rispetto al GPED C non corri­ sponderebbe però un'adeguata efficacia, giacché ad oggi l' operatività del Fo­ ro è stata molto limitata (Alonso, 20 I5). Situandosi nel contesto delle Nazioni Unite, il DCF offre un miglior col­ legamento con gli spazi di governance dell'agenda globale dello sviluppo, ivi incluso facilitando il lavoro del Forum di alto livello sullo sviluppo sosteni­ bile (High-level Development Forum, HLDF ), principale meccanismo per la revisione dell'Agenda 20 30. Tuttavia, il più ampio contesto della cooperazione internazionale manca ancora di meccanismi solidi e vincolanti di governance globale per uno svi­ luppo sostenibile, che riunisca gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo e quelli inerenti i beni pubblici globali, e che sia in grado di individuare, applica­ re e far rispettare regole globali in difesa dei diritti fondamentali e per la prote­ zione dell'ambiente (concernenti l'uso delle risorse naturali, gli investimenti, il commercio, l'uso delle tecnologie, l'accesso ai servizi ecc.), a partire dalla regolazione dell'attività economica cui l'uso sostenibile delle risorse naturali è indissoubilmente legato. Il luogo naturale della futura governance dello sviluppo restano le Na­ zioni Unite grazie alla loro natura multilaterale universale, ma sarà indispen­ sabile rafforzare il ruolo dell'Ecosoc dotando quel Consiglio di poteri ana­ loghi a quelli del Consiglio di Sicurezza, che manca invece di capacità d' in­ tervento su temi quali il cambiamento climatico e le crisi alimentari (Barce-

EDUARD O MISSONI na, 2015). Indispensabile anche prevedere adeguati meccanismi di rappre­ sentanza della società civile e dell'industria, tenuto conto però dei diversi interessi di cui sono portatori e quindi della legittimità a parlare in nome nostro : "noi popoli delle Nazioni Unite". È proprio sul piano della governance che si giocherà la sfida epocale del­ la costruzione di un nuovo quadro normativa ed etico di riferimento che permetta di modificare la rotta suicida imposta da un modello di sviluppo assolutamente insostenibile, di cui misuriamo ormai effetti ambientali e cli­ matici con impatti senza precedenti sulla vita umana. Riferimenti bibliografici

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12

Il dibattito e gli impegni dell 'Agenda 20 3 0 per lo sviluppo sostenibile di

Stefano Prato

12.1

Presentazione

Il tema dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (United Nations, 2015a) si presta a reazioni contrastanti, con opinioni che oscillano fra entusiasmo esa­ sperato e profonda preoccupazione. Un onesto tentativo di analisi non può pertanto prescindere da una lettura articolata di posizioni differenti al fine di consentire l'integrazione di elementi positivi con spunti di critica costruttiva. In un famoso esperimento di neuroscienza, due brillanti ricercatori dell' Università di Harvard chiesero a un gruppo di studenti di osservare un breve video in cui due squadre di giocatori di pallacanestro si scambiavano la palla. Concentrati nel contare il numero di passaggi, più della metà degli stu­ denti venne colta da profonda sorpresa nel realizzare di non aver notato una persona vestita da gorilla attraversare lo schermo, fermandosi per alcuni se­ condi nel centro della scena e battendosi vigorosamente i pugni sul petto. Da allora, l'esperimento del "gorilla invisibile", questo il nome assegnatogli con successo dagli autori, è stato ripetuto migliaia di volte nei contesti più dispa­ rati, sempre confermando lo stesso risultato e alimentando la base empirica della cecità da disattenzione, inattentional blindness nella formulazione origi­ nale dell'esperimento ( Chabris, Simons, 2010 ). Quali sono i gorilla invisibili indotti da questa fase di ipnosi collettiva della comunità internazionale incentrata sull'Agenda 203 0 ? Quale il rischio che la nuova Agenda possa creare una zona di conforto per cercare di impe­ dire di guardarsi intorno ? La prova reale dell'adeguatezza e dell'ambizione della nuova Agenda si misurerà nella sua capacità di offrire direzione e strumenti per affrontare quattro grandi sfide strettamente interconnesse: la necessità urgente di ripen­ sare il modello di sviluppo; la riaffermazione della centralità dei diritti nella definizione e nell'applicazione del mandato dello Stato nazionale ; la demo-

S T E FA N O P RAT O

cratizzazione della governance economica; e il profondo interrogativo su co­ me garantire la coabitazione pacifica delle diversità. Sebbene sia chiaramente presto per offrire giudizi conclusivi, dopo po­ chi mesi dalla sua promulgazione e con tante partite ancora aperte, come ad esempio quella degli indicatori, appare comunque già chiaro che questa nuo­ va fase delle politiche e dei programmi per lo sviluppo produrrà un mosaico di luci e ombre. Da una parte, l'Agenda 20 30 rappresenta senza dubbio un importante tentativo della comunità internazionale di concordare un quadro normativa, seppur debole, abbastanza ampio da raccordare filoni preceden­ temente scollegati. D 'altro canto però promuove uno spazio in qualche mo­ do decontestualizzato dagli avvenimenti drammatici ed estremi, dal punto di vista sociale, ambientale e politico, che caratterizzano questo particolare momento storico.

1 2.2 Dinamiche ed economie politiche nel dibattito post- 2 0 1 5

Il processo di definizione della nuova Agenda per lo sviluppo ha coinvolto un numero e una varietà di attori senza precedenti, rappresentando un momento cardine nell'evoluzione delle modalità dei processi decisionali della comunità internazionale. Il cosiddetto dibattito post-2015, essendo questo l'anno con­ clusivo del periodo assegnato alla realizzazione degli obiettivi del millennio, è stato caratterizzato da un turbinio di discussioni ed eventi di entità senza precedenti nel percorso preparatorio alla decisione dell'Assemblea Genera­ le delle Nazioni Unite, superando di gran lunga il grado di partecipazione collettiva nella serie di grandi conferenze degli anni Novanta, anche grazie ai meccanismi di amplificazione offerti dalle moderne tecnologie di comunica­ zione e al ruolo preponderante dei social media. È tuttavia necessario superare questa prima analisi superficiale ed esporre una serie di fenomeni che, sebbene iniziati ben prima del dibattito post-201 5, sono giunti a completa maturazione grazie a questo processo, esponendo pre­ occupanti paradossi. Il primo di questi fenomeni - forse il più permeante per le sue profonde ramificazioni - è relativo a una involuzione dei concetti di partecipazione e inclusione, entrambi elementi portanti della critica dei modelli di sviluppo e delle modalità di cooperazione basate su progettazioni top-down. La necessità fondamentale di politiche e programmi partecipati, costruiti intorno alla centralità delle popolazioni e delle comunità come sog­ getti attivi piuttosto che obiettivi passivi degli interventi di sviluppo, è stata senza dubbio una delle grandi rivoluzioni copernicane della teoria e prati-

12.

IL D I BATT ITO E G LI I M P E G N I D ELL 'AG ENDA 2 0 3 0

165

ca dello sviluppo, così come l'aspirazione crescente al raggiungimento degli esclusi e dei marginalizzati. Purtroppo questo imperativo di partecipazione mirato a colmare l'abisso "verticale" fra territori e comunità, in particolare quelle marginalizzate, e potere e spazi decisionali si è trasformato in un para­ digma di partecipazione "orizzontale" fra rappresentanze di differenti settori e tipologie di attori, fra i quali spicca in maniera sempre più marcata il settore privato. Ciò ha progressivamente traslato la concezione di spazio partecipato e inclusivo, allontanandolo dalla centralità attiva delle comunità affette e av­ vicinandolo al modello di dialogo intersettoriale multiattore. Da questo na­ sce il paradosso della partecipazione al processo post-20IS: pur essendo inne­ gabile il grande numero di persone e istituzioni che hanno attivamente con­ tribuito al percorso decisionale, un' indagine più attenta non può che met­ tere in rilievo la sostanziale omogeneità di questa "bolla" di partecipazione. Invece che colmare lo sconcertante divario di potere politico, le modalità di questo circo convulso di incontri, seminari, conferenze telefoniche e comu­ nicazioni elettroniche lo hanno invece consolidato e ampliato, rovesciando la piramide con un allargamento al vertice basato su un pensiero tutto sommato omogeneo e omogeneizzante, quasi esclusivamente in lingua inglese e basato su strumenti e risorse accessibili solamente al famigerato I%, con poche ecce­ zioni spesso più simboliche che sostanziali. Il paradosso della partecipazione si è sviluppato in parallelo con un se­ condo fenomeno caratterizzato da un interessante quanto preoccupante cambiamento di tassonomia che ha visto emergere con forza protrudente il nuovo paradigma centrato sui cosiddetti stakeholders. A tal proposito, è cu­ rioso notare come tale termine sia andato affermandosi nei primi anni No­ vanta in quanto strategia della società civile per fare entrare l'interesse pub ­ blico nei consigli di amministrazione delle aziende private, proponendo la necessità di prendere decisioni rispondenti non soltanto all' interesse stretto degli shareholders, ma anche di un più ampio gruppo di stakeholders più o me­ no direttamente affetti dalle esternalità relative alla produzione e commer­ cializzazione di prodotti e servizi. Nell'attuale contesto, la situazione è stata interamente capovolta con l'offuscamento della centralità dei rightholders in un chiaro quadro di riferimento imperniato sui diritti umani, a favore di un sistema di stakeholders nel quale il ruolo dei portatori di interessi privati è considerato alla stessa stregua di quello dei portatori di diritti e di tutto co­ loro che rappresentano gli interessi pubblici della cittadinanza. Ed ecco il se­ condo preoccupante paradosso : il concetto che tentava di introdurre un più ampio interesse pubblico nell'atto privato si è trasformato in un cavallo di Troia per promuovere il privato nello spazio pubblico dedicato alle politiche per lo sviluppo.

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Ed è proprio questo il terzo fenomeno che ha segnato marcatamente il processo post-2015: una massiva e continua partecipazione di rappresentanti di grandi imprese multinazionali, accompagnati da vistosi tappeti rossi e da una narrativa seducente sul potere trasformativo del nuovo approccio cosid­ detto inclusivo alla definizione delle politiche dello sviluppo. A tal proposito è interessante osservare che le fasi iniziali del dibattito, forse anche in virtù di una spinta inerziale indotta dal difficile periodo congiunturale 2008-II, avevano posto un forte accento sulla necessità di riconnettere un'economia deviante con le sempre più distanti, benché pressanti, esigenze delle persone e del pianeta, con particolare riferimento al riallineamento del business mode! agli imperativi sociali e ambientali. La permeante partecipazione del setto­ re privato ha contribuito, spesso nel nome di solidarietà e carità bistrattate e abusate, a capovolgere questa enfasi rinnovatrice nella sfrenata proposizione di un enabling environment ( "contesto favorevole" ) per la continua espansio­ ne del ruolo del settore privato, non soltanto nella produzione e commercia­ lizzazione di beni e servizi privati, ma anche con riferimento a beni e servizi pubblici. D 'altro canto, l'espressione enabling environment non è null'altro se non un sinonimo di deregolamentazione a favore di un ancor più marcato liberismo economico. Ed è qui che nasce un ulteriore paradosso, quello cioè di una presunta trasformazione del modello di sviluppo per renderlo ancora più incentrato sulle stesse dinamiche che ne hanno impedito l'avanzamento, ossificando ulteriormente un modello di sfruttamento privatistico di risorse e mercati, questa volta nel più alto nome della lotta alla povertà e alla margi­ nalizzazione. Il quarto fenomeno caratterizzante la discussione post-2015 è stato senza dubbio quello dell'esplosione dei meccanismi mediatici basati sulle moderne tecnologie di comunicazione e sui social media, che hanno alimentato una bolla di retorica virtuale sempre più scollegata dalla realtà delle politiche e dei programmi per lo sviluppo. Il paradosso di questo mondo "a centoquaranta caratteri" è che la percezione del reale è sempre più legata alla sua narrazione virtuale e la cosiddetta comunità internazionale trova giovamento dalle affer­ mazioni e proposte sui social media invece che nell'attuazione di decisioni e programmazioni reali. In tal senso, l'opportunità di colmare il divario di par­ tecipazione potenzialmente offerta dalle moderne tecnologie si è nuovamen­ te trasformata in un meccanismo che genera nuove esclusioni e velocizza il vortice della retorica fra pochi, invece di creare processi inclusivi delle comu­ nità e delle popolazioni che vorrebbero realmente contribuire alle decisioni che influenzano le loro vite. In conclusione, il dibattito post-2015 ha senza dubbio generato un per­ corso ben più ampio e collettivo di quello che ha portato alla genesi degli

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obiettivi del millennio, ma allo stesso tempo ha indotto fenomeni di ipnosi collettiva spesso basati su eserciti di cloni operanti in uno spettro limitato di opinioni fondamentalmente omogenee, con poco spazio per l'espressione di reali diversità di pensieri e proposte. Per continuare sul filone del gorilla in­ visibile, questo tam-tam mediatico con continui rimbalzi di proposte tutto sommato sempre allineate - salvo modeste variazioni al margine - ha distol­ to l'attenzione sui reali cambiamenti in atto e ha contribuito alla profonda decontestualizzazione della nuova agenda per lo sviluppo sostenibile.

1 2 .3

La nuova Agenda : coerenza interna e reale capacità trasformativa ?

L'Agenda 20 3 0 per lo sviluppo sostenibile è stata approvata per acclamazio­ ne dalla 70 a Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2 0 I 5 . Malgrado i fenomeni descritti nel precedente paragrafo, essa rappresenta un passo importante per la comunità internazionale in quanto primo reale tentativo di impegnarsi collettivamente in un'agenda universale e integra­ ta che offra un punto di confluenza e convergenza fra agende precedente­ mente asincrone, in particolar modo quelle della lotta alla povertà e della sostenibilità ambientale. È innegabile che l'Agenda 20 3 0, seppur negoziata strenuamente da quasi duecento paesi, vada ben oltre il minimo comun de­ nominatore e presenti significativi spunti progressisti, tali da fornire solidi ancoraggi, non facilmente eludibili anche in virtù della significativa atten­ zione politica degli Stati membri, per avanzare un'agenda per lo sviluppo. Al tempo stesso, i fenomeni precedentemente descritti, nonché il convoluto processo negoziale, hanno generato profonde criticità, pericolosi cavalli di Troia e problematiche tensioni di coerenza interna. In primo luogo, l'universalità della nuova Agenda è una conquista im­ portante che, sebbene non in maniera esplicita, riconosce la presenza di forti disuguaglianze anche all' interno dei paesi cosiddetti sviluppati e al tempo stesso pone in evidenza quanto la sfida della sostenibilità, in tutte le sue di­ mensioni, necessiti di un impegno globale da parte di tutti i paesi membri. Tuttavia, è importante riconoscere che tale universalità non può cancellare con un tratto di penna profonde responsabilità storiche né tantomeno con­ siderare alla stessa stregua paesi con risorse e capacità profondamente diffe­ renti. Appare pertanto preoccupante la forte resistenza dei paesi sviluppati al pieno riconoscimento del concetto di responsabilità comuni ma differenziate (common but differentiated responsibilities, CBD R) come corollario imprescin­ dibile del concetto di universalità, senza il quale risulta difficile garantirne

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S T E FA N O P RAT O

una concreta applicabilità. La continua pressione dei paesi sviluppati nel se­ parare queste dimensioni così intimamente interconnesse - universalità ba­ sata su responsabilità comuni ma differenziate - rivela un gioco di potere che deve essere denunciato e contrastato vigorosamente. In secondo luogo, il tema della crescita economica continua sorprenden­ temente a rimanere al centro dell'Agenda, proponendo un assurdo concetto di trasformazione imperniato sul fare più precisamente ciò che non ha fun­ zionato fino a ora. In un ecosistema chiuso con limiti planetari ben demar­ cati, il concetto di crescita sostenibile non è null' altro che un ossimoro. Ed è qui che l'Agenda manifesta in maniera vistosa la sua mancanza di coerenza interna, con la profonda tensione fra il tentativo di promuovere l'estensio­ ne della modernità e il simultaneo riconoscimento della urgente necessità di ripensare il concetto stesso di modernità. Ciò evidenzia la problematicità di una Agenda globale che vuole impattare il locale, per la sua incapacità di tro­ vare un equilibrio tra generalizzazione e contestualizzazione, non riuscendo ad affermare e accettare con serenità che paesi con punti di partenza tanto di­ stanti non possano che compiere percorsi diversi e a volte completamente in­ versi. In un sistema finito, la crescita economica di alcuni non può che essere controbilanciata dal degrowth di altri, e da una più equa distribuzione delle ri­ sorse planetarie. Sebbene questi siano discorsi improponibili nell'assise delle Nazioni Unite, alcuni ritengono che le incoerenze interne dell'Agenda - in­ cluso il fatto che perseguire alcuni obiettivi potrebbe allontanare il raggiun­ gimento di altri - debbano considerarsi un aspetto positivo e dinamico tale da innescare processi interpretativi in grado di far progredire ulteriormente il processo di ripensamento delle strategie socio-economiche. In terzo luogo, sarebbe stato lecito aspettarsi che il rispetto, la prote­ zione e la piena realizzazione dei diritti umani fossero un pilastro fondante dell'Agenda per lo sviluppo sostenibile forgiata in seno alle Nazioni Uni­ te. Purtroppo, al di là di coreografici riferimenti nel preambolo, l'Agenda esprime una limitata enfasi sui diritti umani e in molti casi ripropone un approccio basato sui bisogni piuttosto che sui diritti, aprendo le porte alla possibilità che questi vengano soddisfatti dal mercato e proponendo una nuova ondata di commodi.flcation di diritti fondamentali. Cibo, acqua, sa­ lute sono tutti definiti in termini di accesso ma non di diritto. Ancora una volta, l'evidente fallimento dello Stato nel garantire i diritti fondamentali delle cittadinanze e l'altrettanto evidente fallimento del mercato vengo ­ no affrontati con l'assurda proposizione di una ulteriore abdicazione del­ lo Stato di diritto a favore dell'estensione del mercato in domini sempre nuovi e da molti ritenuti inadeguati alla fornitura di beni e servizi privati, poiché relativi a diritti inalienabili di ogni essere umano e al più ampio

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contesto ecologico nel quale la vita trova albergo. È senza dubbio scon­ certante l'evidenza del gran numero di seminari e incontri promuoventi il business-case per i sustainable development goals ( SD G), organizzati persino nel cuore del palazzo di vetro delle Nazioni Unite. Questo conduce direttamente a una quarta criticità, relativa al dibatti­ to sul concetto stesso di democrazia e di governance democratica. La nuova agenda propone una proliferazione di partenariati cosiddetti multistakehol­ ders, esercitando una forte pressione per il continuo slittamento della gover­ nance dello sviluppo, allontanandola dai legittimi spazi normativi intergo­ vernativi a favore di meccanismi che assegnano uguali diritti decisionali ad attori pubblici e privati che uguali non sono, con un' inaccettabile commi­ stione fra i relativi interessi e con l'assenza completa di considerazione per evidenti concentrazioni di potere e vistosi conflitti di interesse. Non deve pertanto sorprendere il crescente ricorso a politiche di incentivazione del settore privato e la sfrenata promozione dei partenariati pubblico-privati, malgrado le evidenze sempre più documentate, persino da istituzioni deci­ samente conservatrici, in merito alla loro inefficacia, inefficienza e maggior costo per i pubblici erari. L'occupazione corporativa delle Nazioni Unite ad opera delle grandi multinazionali trova nella nuova agenda dello sviluppo un inaspettato tappeto rosso e numerosi strumenti concreti per il suo ulte­ riore avanzamento. Infine, in perfetta coerenza con i fenomeni descritti nel dibattito post-20IS, la nuova agenda invoca una data revolution che sarà senza dubbio destinata a generare forti tensioni con l'aspettativa crescente di partecipazio­ ne diretta nelle decisioni politiche proponendo, seppur in maniera non espli­ cita e frontale, di rimpiazzare tale partecipazione con un sistema di indicatori tecnocratici di presunto progresso. Due rischi principali affiorano da questo approccio. In primo luogo, la narrativa emergente, ben orchestrata da un eser­ cito di tecnocrati e consulenti pronti ad architettare problemi cui proporre le proprie soluzioni, pone enfasi su tutto ciò che non sappiamo e sulla necessità di dati più accurati per definire politiche che siano realmente basate sull'evi­ denza, offrendo un sistema sofisticato di nuove motivazioni per la continua inazione politica. In realtà, la dimensione di molte urgenti problematiche so­ cio-economiche è talmente ampia da non richiedere complessi livelli di ac­ curatezza statistica: per andare sulla luna è forse più utile usare il pollice che perdere tempo allineando il calibro. In secondo luogo, il problema centrale è lo spostamento di attenzione dalla centralità dell'esperienza e conoscenza soggettiva, ben radicata nelle comunità affette dalle sfide dello sviluppo, a favore della pretesa di una informazione oggettiva offerta da indagini pseu­ do-statistiche. Dopo decenni passati a costruire un nuovo paradigma basato

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STEFANO P RATO

sulla partecipazione diretta dei soggetti dello sviluppo, questo slittamento di enfasi a favore degli indicatori è senza dubbio preoccupante, anche per le fal­ se argomentazioni secondo cui il mancato raggiungimento di alcuni obiettivi del millennio possa essere imputabile a problemi di inadeguata misurazione. Chiaramente, la partecipazione diretta non può che essere rafforzata da ade­ guati indicatori di progresso e processo, ma ciò richiederebbe un grado di accesso e democraticità dell' informazione che, malgrado tutta la propaganda in senso contrario, appare un miraggio lontano nel quadro di una continua e crescente disinformazione e concentrazione dei poteri di comunicazione.

12.4

Il falso tentativo di affrontare il tema delle disuguaglianze

Il principale problema concettuale della nuova Agenda risiede tuttavia nel non aver superato l'approccio convenzionale alla povertà per affrontare com­ piutamente il tema delle disuguaglianze. Mentre quest 'ultimo è stato inclu­ so come uno degli obiettivi, l'attenzione dominante rimane concentrata sul consentire a segmenti esclusi e marginali della popolazione di attraversare li­ nee immaginarie e artificiali di inclusione economica e sociale. Che tali li­ nee vengano definite in maniera semplicistica oppure in maniera sofisticata e multidimensionale, l'approccio rimane focalizzato su forme di povertà as­ soluta che ci si permette di definire non più tali quando quelle linee minime siano state superate. Il quadro concettuale delle disuguaglianze ha un potere descrittivo, ana­ litico e normativa. Dal punto di vista descrittivo, consente di demistificare le medie e offrire una rappresentazione più adeguata della realtà. Tuttavia, l' at­ tuale approccio di estrema disaggregazione dei dati può a volte far perdere di vista l'obiettivo politico di identificare gruppi sociali relativamente omogenei così da poter offrire soggetti e oggetti a politiche socio-economiche mirate. A tal proposito, è fondamentale superare la focalizzazione quasi esclusiva sulle disuguaglianze di reddito e il loro utilizzo come proxy per le disuguaglianze ( sia che si utilizzi l'indicatore di Gin i che quello più adeguato di Palma) . È infatti solo un'analisi multidimensionale, che integri disuguaglianze econo­ miche, sociali e politiche di carattere orizzontale, verticale, spaziale e inter­ generazionale, a mettere in risalto la realtà della discriminazione su tutti i fronti di alcuni gruppi sociali, evidenziando strutture di potere nella società. Ancora una volta, occorre fare attenzione a una possibile ricerca di disaggre­ gazioni troppo spinte dei dati come elemento cardine dell'approccio alle di-

12.

IL D I BATT ITO E G LI I M P E G N I D ELL 'AG ENDA 2 0 3 0

171

suguaglianze, poiché esse potrebbero facilmente generare una foresta di dati inutilizzabili per la concreta definizione di programmi e politiche. Al di là dell'approccio descrittivo, il quadro concettuale delle disugua­ glianze offre un potente strumento analitico, poiché esso mette in diretta contrapposizione prosperità e povertà evidenziando come spesso i vettori della prima siano anche le principali determinanti della seconda e generan­ do una capacità diagnostica volutamente assente nel paradigma della pover­ tà. Ma il contributo principale di questo quadro concettuale è nell'ambito normativa. È proprio a questo livello che l'Agenda 2030 è drammaticamente carente in virtù della sua focalizzazione quasi esclusiva sull' inclusione, con solo deboli riferimenti al tema dell'equità. Ma inclusione senza equità non è null 'altro che sfruttamento della povertà e della marginalizzazione per conti­ nuare a promuovere un modello di prosperità per pochi e alimentare ulterior­ mente la concentrazione di risorse, ricchezze e poteri (economico e politico) che caratterizza questo momento storico. Programmi e politiche di sviluppo incentrati sull'inclusione, senza adeguata attenzione all'equità sono una for­ ma di corruzione sociale in cui si compra la docilità dei marginalizzati con le briciole che cadono dalla tavola dei ricchi. Ma tale attenzione all'equità è possibile solamente se si abbandona la visione convenzionale di povertà e si adotta il quadro concettuale delle disuguaglianze. Cosa che l'Agenda 2030 è ben lungi dal proporre.

1 2 .5

La tensione fra aspirazioni e risorse

I mezzi di attuazione (means ofimplementation, Moi) rappresentano il test decisivo sulla concretezza e tangibilità dell'Agenda 2030, poiché rivelano il reale grado di impegno da parte degli Stati che l'hanno sottoscritta, e in par­ ticolar modo dei cosiddetti paesi sviluppati. A tal proposito, occorre senza dubbio ricordare come la società civile abbia sottolineato l'assoluta inade­ guatezza della Addis Ababa Action Agenda (AAAA ) , il documento negoziato nel corso del processo dedicato al finanziamento dello sviluppo (jìnancing for development, FfD) culminato nella Conferenza di Addis Abeba nel luglio 20IS. La AAAA rappresenta il complemento degli strumenti attuativi inclusi nel SDGI7 e nei differenti SDG (United Nations, 20ISb ). Nella migliore tradizione dei cosiddetti "specchietti per le allodole", la nar­ rativa tenta di distogliere l'attenzione dalla profonda asincronia fra aspirazio­ ni e risorse ponendo enfasi smisurata sulla mobilizzazione di risorse private, in una cacofonia di proposte favoleggianti sotto lo slogan altisonante Jrom

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S T E FA N O P RAT O

billions to trillions. Tale narrativa pone enfasi eccessiva sulle risorse finanziarie piuttosto che sulla rimozione delle barriere strutturali relative all'organizzazio­ ne globale della produzione, che costringe molti paesi, in particolar modo quelli africani, a complesse condizioni di dipendenza dalla produzione primaria, bassi livelli di diversificazione economica e di industrializzazione, e spesso prematu­ ra terziarizzazione. Inoltre, essa ignora completamente il livello inaccettabile di finanziarizzazione dell'economia globale e la necessità di profonde riforme si­ stemiche per ristabilire la centralità dell'economia reale su quella finanziaria e riportare stabilità in un sistema crescentemente sull'orlo del collasso. Infine, sot­ tomette la realizzazione di un'agenda pubblica globale ai capricciosi, instabili e viziosi meccanismi e condizioni che guidano i flussi privati di investimento e i relativi mercati speculativi. A fronte di questa narrativa sugli investimenti privati, gli impegni concreti in merito alla mobilizzazione degli investimenti pubblici sono fortemente carenti. In primo luogo, i paesi sviluppati, nel pieno della loro arroganza e sfrontatezza, non hanno né concesso risorse aggiuntive agli impegni comunque non rispettati di decadi passate né hanno accettato di scadenzare il presunto raggiungimento di tali passate promesse con una precisa tabella progressiva nel corso dei quindici anni di attuazione dell'Agenda. Tutto ciò senza neanche mettere in gioco le di­ namiche oggi in atto - destinazione di risorse alle emergenze dell'immigrazione europea, crescenti investimenti in presunta sicurezza, filosofie neomercantiliste che legano sempre più cooperazione e commercio, e impervie acrobazie contabi­ li - che rendono le risorse realmente destinate ai paesi in via di sviluppo sempre più esigue. Ma la più complicata barriera negoziale si è dimostrata quella relati­ va alla cooperazione internazionale in materia di tassazione. Pur riconoscendo l'enorme impatto sulle finanze pubbliche dei paesi in via di sviluppo dei flussi finanziari illeciti, i paesi sviluppati non hanno accettato la creazione di un mec­ canismo intergovernativo democratico e inclusivo, il cosiddetto global tax body, in cui tutti i paesi, in particolar modo quelli in via di sviluppo, possano effetti­ vamente partecipare alla definizione di politiche cooperative internazionali per combattere i paradisi fiscali e il fenomeno dell'elusione e dell'evasione fiscale. I paesi sviluppati si sono invece arroccati su definizioni restrittive di flussi finan­ ziari illeciti, relative principalmente alle attività illegali e criminali piuttosto che ai meccanismi creativi praticati dalle imprese multinazionali per eludere i siste­ mi di tassazione nazionale, e sulle iniziative unilaterali intraprese in sede OECD, seppure condite con meccanismi di partecipazione, fittizi e non decisionali, per alcuni paesi in via di sviluppo. Impossibile non evidenziare la perfetta coeren­ za fra primato degli investimenti privati, riduzione dei flussi di finanziamento pubblico internazionale e impedimento della capacità di tassazione dei paesi in via di sviluppo. Ed è qui che si inserisce la crescente gerarchia normativa che

' 1 2 . IL D I B ATT I T O E G L I I M P E G N I D E L L AG E N D A 2 0 3 0

173

sancisce la supremazia dei diritti degli investitori, sempre più codificati nel diritto internazionale e nazionale, a spese dei diritti umani e di tutti gli impegni presi sotto forma di accordi non vincolanti, la cosiddetta soft law, nei negoziati sullo sviluppo. Risorse finanziarie a parte, l'inadeguatezza degli strumenti attuativi è an­ cora maggiore nell'ambito delle riforme strutturali dei sistemi economici, monetari e finanziari, fallendo miseramente nel tentativo di renderli mag­ giormente rispondenti e coerenti con l'Agenda per lo sviluppo sostenibile. È in questo l'ulteriore paradosso di un 'Agenda globale che si propone di cam­ biare il locale senza affrontare realmente le chiavi di volta dell'attuale econo­ mia e società mondiale, manifestando la mancanza di una diagnostica che identifichi chiaramente nell'attuale forma esasperata di globalizzazione eco­ nomica - egemonica, omogeneizzante e spesso predatoria - il vettore princi­ pale delle povertà, delle diseguaglianze e delle marginalizzazioni. L' intero complesso delle necessarie riforme sistemiche - la creazione di sistemi di ristrutturazione del debito sovrano, lo sviluppo di regolamenta­ zioni atte a prevenire crisi finanziarie e !imitarne gli effetti devastanti, la ri­ forma del sistema monetario ( controllo dei flussi di capitale, diritti speciali di prelievo ecc. ) , la riforma della governance delle istituzioni finanziare in­ ternazionali e il loro crescente allineamento con le esigenze dello sviluppo, il tema intrattabile dei derivati e delle loro conseguenze sulla volatilità dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli, la gestione del rischio cli­ matico - è affrontato in maniera superficiale e assolutamente inadeguata alle ambizioni degli SDG, generando limitazioni e ostacoli insormontabili al re­ ale progresso, che ben presto non potranno che manifestarsi su molti fronti fondamentali dell'Agenda 20 3 0.

12.6 Osservazioni finali

È innegabile che l'Agenda 2 0 3 0 sia un tassello importante nella costruzione di una comunità internazionale capace di coalizzarsi e concentrarsi sugli im­ perativi dello sviluppo sostenibile e offra numerosi punti di ancoraggio per interpretazioni progressiste e non convenzionali. Al tempo stesso, essa na­ sconde preoccupanti cavalli di Troia mascherati da suadenti canti delle sirene che possono condurre a un'ulteriore cattura dello spazio multilaterale da par­ te delle imprese multinazionali, alla penetrazione del mercato nell'erogazio­ ne di beni e servizi pubblici e alla progressiva abdicazione delle responsabili­ tà dello Stato, erodendo il concetto di costituzionalismo basato sui diritti di

1 74

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cittadinanza. Opportunità per un'Agenda per lo sviluppo sostenibile condite pertanto da rischi di un neofeudalesimo corporativo. Il processo di dibatto e monitoraggio ha finora evidenziato forze potenti di cooptazione in un circo vorticoso di incontri alimentati dal pensiero unico e dal potere mediatico dei social media. Per non cadere in queste sabbie mobi­ li, è essenziale che le forze progressiste evitino di rimanere intrappolate nella narrativa e nei meccanismi dell'attuazione degli SDG e invece continuino a costruire un'agenda progressista ben più ampia e articolata di quella conven­ zionale. Solo ciò potrà consentire di utilizzare i notevoli punti di ancoraggio offerti dall'Agenda 2 0 3 0 , al tempo stesso mantenendo un atteggiamento vigile e protettivo nei confronti delle sue criticità. La chiave è pertanto quella di stru­ mentalizzare con interpretazioni progressiste tutto ciò che possa essere utile nell'Agenda 2 0 3 0 al fine di perseguire una reale agenda trasformativa, ben più ambiziosa di quella convenzionale. In tale contesto, è fondamentale riconoscere che lo sviluppo sostenibile rimarrà una vana chimera senza una progressiva democraticizzazione della governance economica, nella duplice dimensione della riduzione del deficit democratico sia fra gli Stati che internamente agli Stati. Un primo passo in questa direzione è quello di impegnarsi collettivamente per esercitare uno spostamento dell'epicentro della governance economica dall'attuale sistema incentrato sulle istituzioni di Bretton Woods a favore di un ruolo più centra­ le delle Nazioni Unite, arginando al tempo stesso la forte spinta per la dele­ ga delle sue funzioni normative a piattaforme multistakeholders dominate da imprese, fondazioni filantro-capitalistiche e paesi donatori. Non sarà certo una sorpresa realizzare che, ancora una volta, la sfida dello sviluppo non può che essere una battaglia di diritti e di democrazia. Riferimenti bibliografici

CHABRIS c., London.

S I M O N S D.

(2015a), Transforming Our World: The 2 03 0 Agenda Jor Su­ stainable Development, Resolution A/RES/ 70/I, United Nations, New York, 21 October (https :/ l sustainabledevelopment.un.org/ contenti docu­ ments/2I252030%2oAgenda%2ofor%2oSustainable%2oDevelopment%2o web.pdf; consultatoil 14 aprile 201 7 ) . (201 5b), Addis Ababa Action Agenda ojthe Third International Conference on Financingfor Development, United Nations, New York, 27 July (http://www. un.org/esa/ffd/wp-content/uploads/2015/oS/ AAAA_Outcome.pdf; consul­ tato il 14 aprile 201 7) .

U N I T E D NAT I O N S

ID.

(2010 ), The Invisible Gorilla, Harper Collins Publishers,

Acronimi e abbreviazioni

Advance Market Commit­ ment Associazione nazionale Comuni italiani aiuto pubblico allo sviluppo Action Research for Co-deve­ lopment Association for Women in Development Business lnterest Non Go­ vernmental Organizations Banca Mondiale Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica

F fD

common but differentiated re­ sponsibilities CEDAW Convention for the Elimi­ nation of Discrimination Against Women ceSPI Centro studi politica interna­ zionale CONFINDUSTRIA Confederazione gene­ rale dell'industria italiana COP 2.1 Conferenza delle Parti 2.1 CPDE cso Partnership for Deve­ lopment Effectiveness cs o Civil Society Organization css Cooperazione Sud-Sud Development Assistance DAC Committee DAWN Development Alternatives for Women in a New era DCF Development Cooperation Forum ECOSOC Economie and Social Council environmental space ES EU European Union

G7 Gs

AMC ANCI APS ARCO AWID BINGO BM BRICS CBDR

GAM GAMM GCIM GEC GFMD GPEDC

GPPP

GMG HLD HLDF ICSU IDP IFDA IFFim ISSC MAE MAECI

MC MDG MOI

financingjòr development global approach on migration global approach on migration and mobility Global Commission on lnter­ national Migration global environmental change Global Forum on Migration and Development Global Partnership for Effec­ tive Development Coopera­ tion global public-private partner­ ships Gruppo dei 7 Gruppo degli 8 Global Migration Group High-level Dialogue on Mi­ gration and Development High-level Development Fo­ rum lnternational Council for Science internally displacedpeople lnternational Foundation for Development Alternatives lnternational Financial Facili­ ty for lmmunizations lnternational Social Sciences Council ministero degli Affari esteri ministero degli Affari esteri e della Cooperazione interna­ zionale migration compact millennium developmentgoals means ofimplementation

ACRO N I M I E A B BR EVIAZ I O N I

North Adantic Treaty Orga­ nization OECD Organization for Economie Cooperation and Development organizzazione non governati­ ONG va ONLUS organizzazione non lucrativa di utilità sociale ONU Organizzazione delle Nazioni Unite PIL prodotto interno lordo PINGO Public lnterest Non Go­ vernmental Organizations prodotto nazionale lordo PNL PNUD Programa de Naciones Unidas para el Desarrollo PRODERE Programa de Desarrollo para Desplazados, Refugiados y Repatriados paesi in via di sviluppo PVS RS I responsabilità sociale d'im­ presa Servizi assicurativi del comSACE mercio estero

NATO

SDG SES SIMEST sos

sustainable developmentgoals social-ecological systems Società italiana per le imprese all'estero safe and operating space

SVIMEZ

S�'Ap

Associazione per lo svilup­ po dell' industria nel Mez­ zogiorno

sector-wide approach total ojficial support for su­ stainable development UE Unione Europea UN United Nations United Nation Deve­ UND CF lopment Cooperation Fo­ rum UNDESA United Nation Economie and Social Affairs United Nations Deve­ UND G lopment Group United Nations Deve­ UNDP lopment Programme UNFCCC United Nations Framework Convention on Climate Change United Nations Generai UNGASS Assembly UNICEF United Nations Children's Fund UN �'OMEN United Nations Entity for Women WEF World Economie Forum World Trade Organization WTO World Wide Fund for �rp Nature TOSSD

Gli autori

MARI O B I G G ERI È professore associato di Economia dello sviluppo presso il Di­ partimento di Scienze per l'economia e l' impresa dell' Università degli Studi di Fi­ renze e presidente del Corso di laurea in Sviluppo economico, cooperazione inter­ nazionale sociosanitaria e gestione dei conflitti. Dal 2oo8 è direttore scientifico del laboratorio ARCO e dal 2012 direttore del Comitato scientifico dello Yunus Social Business Center University of Florence. Le sue ricerche si concentrano su povertà e benessere dei bambini, approccio delle capabilities, cooperazione internazionale, azione collettiva, disabilità, evoluzione dell'attività informale e clustering di piccole e medie imprese, sviluppo locale. GIAN FRANCO BOLO GNA Direttore scientifico e coordinatore dell'area Educazio­ ne, Formazione, Innovazione del WWF Italia del quale è stato segretario generale ( 1994-2000 ) È segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei che rappresen­ ta il Club di Roma in Italia. Naturalista e ambientalista, svolge da più di quarant ' an­ ni attività nel campo della conservazione della natura e della sostenibilità. È stato docente presso l' Università di Camerino e ha scritto numerosi libri, tra i quali nel 2005 il primo testo italiano di introduzione alla scienza della sostenibilità. Ha cura­ to le edizioni italiane di un centinaio di volumi realizzati dai maggiori esperti mon­ diali della sostenibilità. .

Psichiatra, presidente della KIP lnternational School. È stato responsabile, al ministero degli Esteri, dei programmi di cooperazione Italia/Na­ zioni Unite di sviluppo umano; vicepresidente della Rete O C SE per la lotta contro la povertà; consulente dell' OMS per le emergenze, della Commissione Europea per la lotta contro la povertà, del UNDP e del Parlamento Europeo per gli interventi nelle zone di conflitto. È autore, tra l'altro, dei libri: Perle, pirati e sognatori. Dall'a­ iuto allo sviluppo a una nuova cooperazione internazionale ( FrancoAngeli, 2016 ) e Lo sviluppo delle societa umane, tra natura passioni e politica ( FrancoAngeli, 2014 ) . LU CIANO CARRINO

LUCA DE FRAIA È attualmente segretario generale aggiunto di ActionAid Italia, che è parte di ActionAid lnternational, l'organizzazione internazionale impegnata nella lotta alla causa della fame, della povertà e dell'esclusione sociale. De Fraia è de­ legato per i rapporti con le istituzioni e le relazioni con l'associazionismo di coope­ razione e solidarietà internazionale. Nel corso degli anni ha maturato un'apprezzata

G L I AU T O RI

esperienza in materia di cooperazione allo sviluppo, collaborando con associazioni, governi e istituzioni a livello globale.

È coordinatore dell' Unità strategica su sviluppo locale del laboratorio ARCO dal 2.o12. e docente a contratto di Economia dello sviluppo presso la Scuola di economia e management dell' Università degli Studi di Firenze dal 2.01 5. Ha conseguito un Master in Local Economie Development presso la London School of Economics and Politica! Science. Le sue attività di ricerca riguardano principal­ mente l'approccio delle capabilities, lo sviluppo umano sostenibile a livello locale, la cooperazione internazionale, lo sviluppo economico locale e i metodi partecipativi.

A N D REA FERRANNINI

VANNA IANNI Già professore associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro all' Università degli Studi di Napoli "L' Orientale" e di Sociologia politica all' Università Autonoma di Santo Domingo. Consulente di associazioni, ONG, go­ verni nazionali e organizzazioni internazionali, si occupa in particolare di democra­ zia, attori sociali, diritti umani, sviluppo e cooperazione allo sviluppo. Ha pubblica­ to numerosi libri, saggi e articoli. La sua opera più recente: Actores y conflictualidad social. Republica Dominicana afzos So. Paginds inéditas (Universidad Autonoma de Santo Domingo, 2.015). EDUARD O M I S S O N I Docente e ricercatore su temi riguardanti la salute globale, lo sviluppo e il management delle organizzazioni internazionali, in diverse università in Svizzera, in Italia e in Messico. Iniziata la carriera come volontario in Nicara­ gua, è stato poi funzionario UNICEF, quindi esperto della Direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. Dal 2.oo4 al 2.oo7 è stato il segretario generale dell'Organizzazione mondiale del Movimento Scout.

Dal gennaio 2.01 3 al dicembre 2.01 6 nella Commissione della Convenzione per l'eliminazione della discriminazione contro le donne ( c EDA\X') delle Nazioni Unite, è un'esperta di genere e sviluppo ed è attiva nelle reti femmini­ ste transnazionali. Ha seguito le Conferenze sulle donne dell' ONU realizzando arti­ coli e ricerche di approfondimento. Lavora come esperta di genere e sviluppo della Direzione generale per la Cooperazione allo Sviluppo del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e ha diretto l' Ufficio della Cooperazione italiana per l'Africa occidentale a Dakar. B I AN CA P O ME RANZI

È attualmente l'amministratore delegato della Society for lnter­ national Development (sin), nonché editor della rivista trimestrale della S I D "De­ velopment". Ha recentemente contribuito in qualità di advisor ai lavori dell' High­ leve! Panel of Eminent Personalities for the Post-2.01 5 Development Agenda, isti­ tuito dal segretario generale delle Nazioni Unite. È attualmente il coordinatore del c so Financing for Development Group, co-coordinatore della piattaforma globale della società civile sulla nutrizione e membro del Comitato editoriale del "Right to STEFANO PRATO

G L I AU T O R I

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Food Watch". L e sue più recenti aree d i interesse s i riferiscono alle marcate disugua­ glianze generate dal processo di sviluppo africano e alla conseguente agenda per la trasformazione socio-economica del continente. GABRIELE TOMEI Ricercatore di Sociologia generale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell' Università di Pisa, dove attualmente insegna Programmazio­ ne e valutazione dei servizi sociali e Sociologia dello sviluppo e dei sistemi sociali comparati, e svolge attività di ricerca nell'ambito della valutazione delle politiche sociali, dinamiche di esclusione sociale e impoverimento, teorie migratorie e pro­ cessi di sviluppo. Negli ultimi anni i suoi interessi si sono concentrati sul rapporto tra processi migratori, ruolo delle comunità transnazionali e sviluppo socio-econo­ mico. MASSIMO TOMMASOLI È osservatore permanente di International IDEA all' ONU in New York. Dottore in antropologia alla École des hautes études en sciences so­ ciales di Parigi, ha lavorato all' OECD, al ministero degli Affari esteri e della Coope­ razione internazionale e all' uNESCO. Visiting scholar alla LUISS e docente in varie università italiane e allo UN System Staff College, ha condotto ricerche in Afri­ ca orientale, in Colombia e in Russia. Tra i suoi libri figurano : Democracy and the Pillars ojuN Work (IDEA, 2.01 4 ) e, per i tipi della Carocci, Nel nome dello svilup­

po (2.01 3 ) ; Politiche di cooperazione internazionale (2.01 3 ) ; Lo sviluppo partecipativo (2.001). MARCO ZUPI Direttore scientifico del CeSPI di Roma e professore di Studi su Svi­ luppo ed Economia politica internazionale all' Università internazionale di Hanoi, Bac Ha, dove è editor-in-chiefdel "Journal of Economics and Complexity". È auto­ re e curatore di 3 9 volumi, 199 rapporti di studio e 74 articoli in Italia e all'estero sulla cooperazione internazionale e lo sviluppo economico e reftree di varie riviste internazionali. Ha studiato e ha conseguito titoli in Italia, Francia, Regno Unito e Danimarca, dove ha insegnato per 12. anni.