Vie della giustizia secondo la Bibbia. Sistema giudiziario e procedure per la riconciliazione 978-8810221723

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Vie della giustizia secondo la Bibbia. Sistema giudiziario e procedure per la riconciliazione
 978-8810221723

Table of contents :
Apertura......Page 2
Copertina......Page 3
Colophon......Page 4
Indice......Page 5
Prefazione......Page 7
1. Amare la giustizia......Page 11
1.1.1. L’invadente dimensione religiosa......Page 12
1.1.3. Scarsa speculazione......Page 14
1.2. L’utilità della sapienza biblica......Page 15
1.2.1. L’assenza di Dio......Page 17
1.2.2. Incontro di culture......Page 18
1.2.3. L’importanza della prassi......Page 19
2. Sapienza e giustizia......Page 20
3. La giustizia perfetta......Page 27
3.1. Fare giustizia......Page 31
3.2. Secondo quanto ci insegna la Bibbia......Page 32
1. Il tribunale in Israele come strumento di giustizia......Page 40
1.1. I giudici......Page 42
1.2. L’azione processuale......Page 44
1.3. La prassi giudiziaria in Israele......Page 47
2.1. L’intrinseca necessità del giudizio divino......Page 49
3. Problemi inerenti al «sistema» penale ebraico......Page 51
3.1.1. Necessità della sanzione......Page 52
3.1.2. Il vendicatore del sangue......Page 53
3.1.3. Qualità della sanzione (il taglione)......Page 54
3.2. La pena capitale......Page 59
3.3.1. La necessità di un Dio che giudica......Page 64
3.3.2. Problematicità di questa «rappresentazione» di Dio......Page 67
3. Salvare il colpevole......Page 74
1. La lite (in ebraico rîb)......Page 75
2. Lo svolgimento della lite......Page 78
2.1.1. La «forza» della parola di accusa......Page 80
2.1.2. La forza salvifica dei gesti correttivi......Page 85
2.2.1. Il rifiuto di riconoscere la verità. Ostinazione, occultamento, menzogna......Page 89
2.2.2. L’umile e veritiera confessione della colpa......Page 91
2.3. La riconciliazione......Page 96
Conclusione......Page 105

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Pietro Bovati Vie della giustizia secondo la Bibbia

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Pietro Bovati

VIE DELLA GIUSTIZIA SECONDO LA BIBBIA Sistema giudiziario e procedure per la riconciliazione

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Edizione digitale della prima edizione cartacea pubblicata nel 2014. Questo e-book contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo libro elettronico/e-book non potrà in alcun modo esser oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale libro elettronico non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. Per i testi biblici: © 2008

Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena

Edizione cartacea nel catalogo EDB®: © 2014 Centro editoriale dehoniano Edizione digitale: © 2014 Centro editoriale dehoniano via Scipione Dal Ferro, 4 – 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB® Impaginazione: Emme2 srl, Bologna ISBN e-book: 978-88-10-96573-3

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INDICE

PREFAZIONE 1. AMARE LA GIUSTIZIA 1. La Bibbia come fonte di sapienza 1.1. La problematicità della cultura biblica 1.1.1. L’invadente dimensione religiosa 1.1.2. Il particolarismo 1.1.3. Scarsa speculazione 1.2. L’utilità della sapienza biblica 1.2.1. L’assenza di Dio 1.2.2. Incontro di culture 1.2.3. L’importanza della prassi 2. Sapienza e giustizia 3. La giustizia perfetta 3.1. Fare giustizia 3.2. Secondo quanto ci insegna la Bibbia 2. GIUDICARE SECONDO GIUSTIZIA 1. Il tribunale in Israele come strumento di giustizia 1.1. I giudici 1.2. L’azione processuale 1.3. La prassi giudiziaria in Israele 2. Il «giudizio» di Dio 2.1. L’intrinseca necessità del giudizio divino 3. Problemi inerenti al «sistema» penale ebraico 3.1. L’azione penale e la «retribuzione vendicativa» 5

3.1.1. Necessità della sanzione 3.1.2. Il vendicatore del sangue 3.1.3. Qualità della sanzione (il taglione) 3.2. La pena capitale 3.3. Il sistema giudiziario applicato all’azione divina nella storia 3.3.1. La necessità di un Dio che giudica 3.3.2. Problematicità di questa «rappresentazione» di Dio 3. SALVARE IL COLPEVOLE 1. La lite (in ebraico rîb) 2. Lo svolgimento della lite 2.1. L’accusa 2.1.1. La «forza» della parola di accusa 2.1.2. La forza salvifica dei gesti correttivi 2.2. La risposta dell’accusato 2.2.1. Il rifiuto di riconoscere la verità. Ostinazione, occultamento, menzogna 2.2.2. L’umile e veritiera confessione della colpa 2.3. La riconciliazione CONCLUSIONE

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PREFAZIONE

Ingrato e infelice è l’uomo che ha ricevuto un tesoro, e per ignoranza non lo sfrutta o per pigrizia lo trascura (Mt 25,26-30). Triste è dunque la condizione del credente che dispone di un patrimonio dal valore unico, racchiuso nelle pagine preziose della sacra Scrittura, e non attinge da tale inesauribile ricchezza le risorse per vivere e gli stimoli per alimentare la sua gioia. La Bibbia non è uno dei tanti libri sacri da leggersi in chiesa o da consultare occasionalmente a scopo devoto. «La Bibbia non è un libro. È il libro. [...] Tutti gli altri nostri libri, per quanto differenti riguardo all’argomento o al metodo, fanno riferimento, direttamente o indirettamente, a questo “libro dei libri”. [...] Tutti gli altri libri – che si tratti di opere storiografiche, testi narrativi, codici di leggi, trattati morali, poemi, dialoghi teatrali, meditazioni teologico-filosofiche – sono come scintille, in realtà spesso distanti, sprigionate dall’incessante respiro di un nucleo incandescente».1 Queste appassionate affermazioni, a opera di uno dei più celebri critici letterari contemporanei, si situano sul versante culturale, celebrando la Bibbia come la matrice di ogni letteratura. A una simile dichiarazione va aggiunto un altro aspetto, quello riguardante il carattere ispirato della divina pagina, riconosciuto dalla Chiesa e sperimentato dal lettore credente: la Parola della Scrittura è fuoco spirituale, è principio di sublime sapienza e di nobile dirittura di vita. Allontanarsi da questo «nucleo incandescente» produce una parola raffreddata, priva di vitalità, anche se dottrinalmente complessa, anche se di concreta utilità pratica. È la parola di Dio incarnata nel libro sacro a nutrire di senso la ricerca degli uomini, è la sua sapienza a orientare il cammino e indicare la meta. Come ogni autentica Parola, quella contenuta nella Bibbia non riproduce infatti solo dei contenuti da apprendere e delle norme da applicare 7

fedelmente. Essa è piuttosto impulso a pensare, è un raggio che stimola la ricerca, è una spinta a tracciare delle vie per il conseguimento sempre più pieno dello statuto proprio del soggetto spirituale. La Scrittura fa nascere l’interprete che, obbedendo, porta a compimento la sua propria essenza. La Bibbia suscita parole, sentimenti e azioni degni di approvazione, perché essa promana da Dio, che della sua creatura amata ha sublime conoscenza e stima. E ciò che la Bibbia promuove in ultimo è la giustizia dell’uomo, essendo questa la più perfetta manifestazione della natura del figlio di Adamo, che è al tempo stesso figlio di Dio. Queste nostre pagine si rifanno totalmente alla Scrittura, con umile riconoscenza. Intendono essere, in qualche modo, una lettura tematica dell’intera Bibbia, esplicitandone uno dei suoi centri nevralgici o meglio uno dei suoi assi portanti. E ciò coincide con la proposta di un cammino di giustizia, che esige di assumere una pluralità di attenzioni e svariate operazioni, affinché essa si traduca, in maniera concreta, nel tessuto vitale della società. Parleremo infatti delle vie della giustizia. Questa espressione evoca, in primo luogo, l’idea di un percorso, di un tragitto fatto di tappe e svolte decisive, in un dinamismo incessante. Non c’è realtà di giustizia che non accolga il processo indefinito come condizione del suo realizzarsi storico. Inoltre, con il termine plurale («vie») viene suggerita la varietà delle piste da percorrere, la complessità delle operazioni necessarie per conseguire l’obiettivo della giustizia. E ancora, in Dt 16,20 ci viene offerto, con una formulazione lapidaria, uno dei comandamenti centrali della Scrittura, che possiamo rendere con «la giustizia e solo la giustizia seguirai», oppure «perseguirai la giustizia con giustizia»; in questo precetto, oltre alla meta da prefiggersi, vengono prescritte anche le sue mediazioni, che non possono essere di diversa natura. Ne ricaviamo dunque l’idea della dirittura del procedere, della rettitudine nelle intenzioni, della linearità del comportamento creatore di equità, solidarietà, concordia e benessere nella società. Invece della bilancia, che è pure tradizionalmente un significativo simbolo di giustizia, è la via retta quella che ci viene indicata dalla 8

Scrittura come la più adeguata metafora per definire la legge del soggetto spirituale. Da molti anni la mia ricerca e il mio insegnamento hanno avuto come argomento la giustizia biblica. In specie, la questione del ristabilimento della giustizia – la procedura cioè di attuazione del bene quando si deve fronteggiare l’azione delittuosa – ha marcato l’inizio del mio curriculum di docente,2 e ha costituito un filone di studio ripetutamente fatto oggetto di approfondimento e di insegnamento. In questo libro riprendo di fatto alcuni miei contributi passati,3 apportandovi i necessari adattamenti e le opportune integrazioni. Mi prefiggo, in modo particolare, di far conoscere e apprezzare uno degli apporti più significativi della tradizione biblica, purtroppo non ancora adeguatamente recepito nella letteratura scientifica e ovviamente nemmeno in quella di divulgazione: alludo alla procedura della «controversia bilaterale» (in ebraico chiamata rîb). Una volta tematizzata e illustrata, questa via amorosa che conduce alla riconciliazione sbalordisce per la sua luminosa evidenza e commuove per l’impatto di consolazione che induce nella storia personale e comunitaria. Perché questo è il modo con cui Dio si rivela nella storia, ed è questo il progetto più alto assegnato ad ogni persona e ad ogni civiltà. Ringrazio sinceramente le EDB, e specialmente p. Alfio Filippi, per aver promosso questa pubblicazione. Ringrazio al tempo stesso coloro che, in questi anni, hanno favorito e appoggiato il mio cammino di ricerca.4

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G. STEINER, Il libro dei libri. Un’introduzione alla Bibbia ebraica, Vita e Pensiero, Milano 2012, 1. 2 Cf. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Pontificio istituto biblico, Roma 1986. 3 Fra di essi segnaliamo in specie: P. BOVATI, «L’esercizio della giustizia nella Bibbia. I. Il giudizio del colpevole», in La Rivista del Clero Italiano 75(1994), 487-498.; ID., «L’esercizio della giustizia nella Bibbia. II. La lite bilaterale», in La Rivista del Clero

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Italiano 75(1994), 575-586; ID., «Pena e perdono nelle procedure giuridiche dell’Antico Testamento», in A. ACERBI – L. EUSEBI (a cura di), Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale, Vita e Pensiero, Milano 1998, 31-55; ID., «La giustizia come supremo valore antropologico secondo la Bibbia», in N. GENGHINI (a cura di), Valori politici e valori religiosi. Un ethos condiviso per la società multiculturale, Messaggero, Padova 2010, 17-46; ID., «Giudizio», in R. P ENNA – G. P EREGO – G. RAVASI (a cura di), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 618-628. 4 Segnalo qui alcune pubblicazioni che hanno esplicitamente riconosciuto l’importanza del rîb per l’intelligenza del messaggio biblico: L. ALONSO SCHÖKEL, Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, 211-250; B. COSTACURTA, Lo scettro e la spada. Davide diventa re (2Sam 2–12), EDB, Bologna 2006, 195-211; M. CUCCA – B. ROSSI – S.M. SESSA, «Quelli che amo io li accuso». Il rîb come chiave di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi, Cittadella Editrice, Assisi 2012; G.P.D. SUCCU, «Il rîb: natura e finalità della controversia profetica», in E. OBARA – G.P.D. SUCCU (a cura di), Uomini e profeti. Scritti in onore di Horacio Simian-Yofre, Pontificio istituto biblico, Roma 2013, 249-280.

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1 AMARE LA GIUSTIZIA

«Amate la giustizia, voi giudici della terra» (Sap 1,1): così esordisce il libro della Sapienza, un importante testo della Bibbia, scritto in greco, probabilmente negli ultimi decenni del I secolo a.C., ad opera di un autore (che si finge Salomone) interessato a proporre un cammino di profonda sapienza a chiunque fosse desideroso di verità e di giustizia. Per datazione e tematica è questo un libro che fa da transizione tra l’Antico e il Nuovo Testamento. La sua proposta è indirizzata ai giudici della terra: non a una specifica categoria di governanti o magistrati, come potrebbe sembrare dall’espressione letterale, ma a tutti coloro che, in varia misura e in diverse modalità, consacrano la vita a promuovere la giustizia sulla terra.5 Non c’è uomo di buona volontà attento agli altri, non c’è persona sensibile alla sofferenza degli oppressi, non c’è nessuno dunque che voglia essere operatore di bene nella società che non sia il destinatario ideale del libro della Sapienza (e più in generale della sacra Scrittura). Ora, il maestro ebreo, incarnato da Salomone, a differenza dei filosofi greci, non esorta il lettore a intraprendere un cammino di conoscenza, che rimane pur sempre un’indispensabile responsabilità della persona umana, ma sollecita ad amare. Non lo fa per favorire un’attraente deriva sentimentale, ma per promuovere l’assunzione della più alta condizione spirituale, perché l’amore è il coinvolgimento pratico e totale dell’essere personale, è la pienezza dell’esistere nella sua dimensione relazionale. L’oggetto dell’amore a cui si è invitati dal libro della Sapienza non è una cosa, e nemmeno una persona, almeno in prima istanza, ma la giustizia, una realtà di natura spirituale, eppure estremamente concreta, una virtù di cui si 11

intuisce il nucleo incandescente e affascinante, ma di cui è necessario esplorare tutte le componenti, anche periferiche, per aderirvi appassionatamente, in modo intelligente, creativo, efficace. Cosa sia la giustizia secondo la Bibbia sarà il tema del nostro scritto, che intende sintetizzare ciò che la tradizione ebraica e quella cristiana hanno trasmesso, offrendolo come tesoro prezioso a chiunque si proponga di obbedire al richiamo di una vita consapevole, responsabile e benefica. E, quale premessa al nostro percorso, indichiamo alcuni presupposti di carattere generale, rispondendo subito a qualche perplessità del moderno lettore; in altre parole, illustriamo, in una fase iniziale, i concetti che andremo ad analizzare e le scelte ermeneutiche che comandano il nostro impianto espositivo.

1. LA BIBBIA COME FONTE DI SAPIENZA La tradizione biblica attesta la «cultura» del popolo ebraico, che si è configurata letterariamente nel primo millennio a.C., ed è divenuta normativa – seppure in diversificate maniere – per le comunità dei credenti che ad essa si riferiscono ancora oggi; fra queste, senza alcun dubbio vi è la comunità cristiana che in questa cultura biblica ha la sua matrice.6 1.1. La problematicità della cultura biblica La tradizione culturale della Bibbia può apparire insoddisfacente all’uomo contemporaneo. Molti infatti sono i tratti che risultano arcaici, non conformi quindi al modo moderno di interpretare la vicenda umana.7 Ciò vale soprattutto per l’Antico Testamento (il nome stesso direbbe che è sorpassato), ma analogamente anche per il Nuovo Testamento, che appartiene in ogni caso a un sistema espressivo di altra epoca. Da qui il disagio della nostra cultura nel riconoscere le sue proprie «radici». 1.1.1. L’invadente dimensione religiosa 12

Il primo di questi tratti arcaici è il carattere intrinsecamente religioso della cultura biblica. A differenza di altre tradizioni antiche, dove il mondo del divino era solo occasionalmente evocato, spesso anche disgiunto da una coerente ed esigente dottrina teologica ed etica, la Scrittura ebraica (e di conseguenza anche quella cristiana) è totalmente intrisa di dimensione trascendente. Dio è l’assoluto protagonista della storia che vi è narrata, a lui sono in realtà attribuite tutte le parole anche se pronunciate da uomini, ed è lui a essere il principio di riferimento di ogni azione. La pretesa neotestamentaria che Gesù di Nazaret sia Dio stesso rappresenta il culmine di questa concezione. Una tale onnipresenza strutturale del divino sulla scena del mondo contrasta evidentemente con il modo moderno di comprendere la condizione umana. Non solo perché oggi procediamo secondo criteri di rigorosa razionalità, respingendo istanze fideistiche, ma soprattutto perché da qualche secolo abbiamo assunto una visione laica (se non propria atea) delle cose, relegando sistematicamente la fede nell’ambito privato e opzionale, quale segno di progresso civico e quale veicolo di tolleranza, di imparzialità, di universalità. Il rispetto per le mediazioni, anche per chi è profondamente religioso, induce comunque a evitare di introdurre continuamente il concetto di Dio nella considerazione del senso e dell’umana verità, o almeno a non introdurlo troppo presto, a non postularlo come il principio da cui tutto si desume e che tutto spiega. Una nuova forma di religiosità, più discreta e più umile, appare discostarsi radicalmente dal dettato biblico, che tra l’altro presenta componenti militanti e tendenzialmente estremiste. Se il Salmista dichiara: «Lo stolto pensa: “Dio non c’è”» (Sal 14,1; 53,2), attribuendo all’ateo una qualifica di insipienza, congiunta con una colpevole irresponsabilità etica, oggi interpretiamo in modo più rispettoso il fatto di non credere in Dio, poiché tutti avvertono l’intrinseca problematicità dell’esperienza religiosa, e tutti vedono che l’adesione di fede è atto di libertà, dal fondamento indimostrabile, anche se non privo di ragionevolezza.

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1.1.2. Il particolarismo Un secondo elemento che ci appare arcaico nella tradizione biblica è quello del suo particolarismo. La Bibbia parla di un Dio che, pur essendo il Creatore dell’universo e il Padre di tutti gli uomini, si è per così dire concentrato a promuovere una relazione specifica, quella attuatasi nell’alleanza con un popolo speciale, depositario di rivelazioni e favori unici; è di Israele infatti che Dio parla in questi termini: «Tu sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio, e il Signore ti ha scelto per essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 14,2).8 Simili frasi vengono poi applicate ai cristiani nel Nuovo Testamento (cf. Ef 1,4; Col 3,12; 1Pt 1,1-2; 2,9). Questa prospettiva particolaristica, consacrata dall’ideologia religiosa, ci appare oggi superata e del tutto inaccettabile: le ricadute nell’etnocentrismo, con la pretesa di privilegi indimostrabili, e la difesa a oltranza di usanze sociologiche (come le rigide regole alimentari, alcune rubriche liturgiche o certe usanze riguardanti il vestiario) si coniugano con un pervasivo spirito di rivincita verso gli altri popoli, che implica fatalmente una modulazione aggressiva e violenta dei discorsi e dei comportamenti sociali. Come attesta uno dei salmi biblici, il dinamismo del popolo del Signore si esprime nel fatto che i fedeli hanno «le lodi di Dio sulla loro bocca e la spada a due tagli nelle loro mani, per compiere la vendetta fra le nazioni e punire i popoli [...], per eseguire su di loro la sentenza già scritta» (Sal 149,5-9). Questa costante autoreferenzialità del popolo di Dio nella Bibbia e il suo statuto di «primogenito» (Es 4,22-23; Ger 31,9; Sir 36,14), dotato di privilegi esclusivi, che si compiace di avere un diritto prioritario rispetto a tutti gli altri, contrastano evidentemente con lo spirito dell’uomo moderno, che parla di uguaglianza e democrazia, di identico rispetto per ogni cultura e ogni persona. 1.1.3. Scarsa speculazione L’ultimo tratto della tradizione biblica chiaramente percepito oggi come 14

insoddisfacente, anche se meno problematico rispetto ai precedenti, è il carattere poco speculativo e poco dimostrativo della tradizione biblica, che si colloca quasi esclusivamente sul versante pratico, anzi utilitaristico, dell’esistenza.9 Noi siano eredi dell’apporto fantastico della filosofia greca, della sua elevata riflessione sull’essere, sulla coscienza, sul senso dell’uomo e di ogni cosa; e siamo anche eredi, in questa scia, di tutta la ricca tradizione della speculazione moderna, con le sue sottili analisi, argomentazioni e prove razionali. Leggendo la Scrittura, ci imbattiamo invece in un pensiero semplice, assiomatico, paratattico, attento ai valori concreti, ma lungi dalla complessa profondità del discorso riflessivo a cui siamo ormai abituati da secoli. Racconti mitologici, favole, proverbi, leggi e massime di vita non ci appaiono in sé riprovevoli; solo costituiscono un punto di partenza, talvolta remoto, cioè arcaico, e spesso ritenuto superato. Buoni consigli, certo, ma troppo elementari per l’uomo confrontato con una straordinaria complessità di situazioni, con sfumature di pensiero e approcci ermeneutici non contemplati dalla Bibbia. 1.2. L’utilità della sapienza biblica Questo modo reticente e critico di intendere e di valutare la cultura biblica ha una sua giustificazione, fondata sul tenore stesso della Scrittura e sul modo tradizionale di interpretarla. Anche se oggi i migliori esegeti assumono prospettive meno semplicistiche di quelle sopra esposte, bisogna ammettere la distanza e forse la disparità tra la tradizione biblica e la nostra. Anche se la Bibbia è stata definita il «grande codice» della letteratura moderna,10 il suo ruolo di riferimento normativo è oggi assai più attenuato. Assistiamo quindi a un fenomeno di multiculturalismo, anche nel divario tra ciò da cui veniamo (come occidentali) e ciò che siamo. Nonostante queste premesse, vi è lo spazio per una riassunzione della Scrittura quale libro di una venerabile cultura antica, capace, per la sua intima qualità, di entrare in dialogo con le successive generazioni della 15

storia, e prezioso nel suo porre interrogativi e suggerire proposte proprio all’uomo della cultura contemporanea.11 La Bibbia è un patrimonio classico dell’umanità e, al di là delle esplicite credenze di ognuno, merita di essere conosciuta e apprezzata da tutti. Bisogna, al proposito, valorizzare la sua componente sapienziale. Ciò non significa tanto il dare maggior risalto ai libri detti appunto «sapienziali» (come il libro dei Proverbi, Giobbe, Qohelet, e così via) preferendoli ai testi legali e profetici dell’Antico Testamento (e preferendoli anche alla letteratura neo-testamentaria); si tratta piuttosto di far emergere una costante dimensione della Scrittura, che è la rilettura sapienziale di tutti i racconti, leggi e profezie. Riprendo qui l’indirizzo ermeneutico di Paul Beauchamp,12 secondo il quale la sacra Scrittura è il frutto di un incessante processo di riscrittura, che concorre a strutturare l’insieme del libro biblico. I suoi racconti fondatori e le leggi che ne scaturiscono costituiscono una prima stesura, che si fissa nella Torah, quale Parola delle origini, quella che attesta il permanente senso di ogni realtà alla luce di colui che è l’origine di tutto. L’insieme di questa tradizione è poi rivisitato in chiave storica dal profetismo, che ne attualizza il senso, ne sviluppa le dimensioni dinamiche e le trasformazioni, anche drammatiche, fino a esplorare il mistero della fine di Israele e il suo rifiorire. Da ultimo, cronologicamente e strutturalmente, appare il programma sapienziale, quello che si propone di indagare le leggi dell’esistere, il senso eterno delle cose e degli eventi. Ciò vale per l’Antico Testamento, ma analogamente anche per il Nuovo. Questa operazione di rilettura sapienziale degli scritti precedenti ha un duplice impatto letterario: da una parte crea nuovi mirabili scritti, dall’altra interviene su ciò che già era stato tramandato, per configurarlo secondo una linea di matura intelligenza sapienziale, secondo una prospettiva universale, antropologica, etica. La dimensione sapienziale non è dunque una parte della tradizione culturale biblica, è piuttosto la totalità della rivelazione sacra secondo un punto di

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vista conclusivo e sintetico. Se allora assumiamo la Scrittura secondo questa prospettiva ultima, che, proprio per questo è particolarmente normativa, possiamo smussare le contrapposizioni tra il mondo arcaico della Bibbia e quello della modernità. Riprendiamo allora, a uno a uno, i tratti precedentemente illustrati, e vedremo come di fatto la sapienza della Scrittura viene incontro, in modo appropriato, alle nostre esigenze di senso. 1.2.1. L’assenza di Dio Dicevamo che la Scrittura è essenzialmente religiosa, e che Dio ne è l’assoluto protagonista. Se però assumiamo la linea sapienziale della stessa Scrittura non solo vediamo che le caratteristiche tipiche della «religione» (cioè le modalità concrete di esprimere una particolare credenza) sono sfumate e addirittura considerate secondarie di fronte a un’assunzione più universalistica dell’esperienza credente – ridotta in sostanza al «timore di Dio», cioè al rispetto per la Trascendenza –, ma constatiamo soprattutto che Dio non viene più presentato come l’artefice primo degli eventi storici, a differenza di quanto avviene nei racconti mitici e negli oracoli profetici. Ci troviamo così di fronte a libri come quello di Qohelet, dove il discorso del sapiente (presentato sotto la figura del re Salomone) prescinde dal riferimento a Dio quale principio di senso dell’agire umano.13 D’altra parte, la narrazione tipicamente sapienziale, come la storia di Ester (nel testo ebraico) o il racconto di Giuseppe, il figlio di Giacobbe (a conclusione della Genesi), illustra esclusivamente il ruolo attivo degli uomini, essendo Dio misteriosamente riconoscibile solo per l’esito felice delle azioni di persone sagge e buone, e per la sanzione che vengono a subire i malvagi.14 E andando ancora oltre, la pista interpretativa della sapienza introduce il lettore là dove l’uomo fa l’esperienza, drammaticamente dolorosa, della cosiddetta assenza di Dio, quando il mondo risulta in balìa delle forze caotiche, quando addirittura è il giusto a 17

morire, senza che ciò possa essere motivato da una qualsiasi teodicea (si pensi alla tematica centrale del libro di Giobbe). Non è più quindi lo stolto a dire: «Dio non c’è», ma è il sapiente critico, che rifiuta la troppo semplice dottrina della retribuzione, e con occhio lucido contempla il non senso della storia e il suo dramma inspiegabile. Dio non è rifiutato, è però interrogato e questionato; Dio è cercato, proprio perché assente, ed è cercato in dialogo instancabile con tutti i sapienti, senza cedere a sbrigative soluzioni. Lungi dall’essere confinata in alcuni libri tardivi, una simile prospettiva attraversa l’insieme del patrimonio della Scrittura, conferendogli una colorazione problematica che ben si addice all’esigente domanda critica del nostro universo culturale. 1.2.2. Incontro di culture La tradizione sapienziale biblica si presenta poi come essenzialmente connotata dal carattere del pluralismo. Molti punti di vista, sia in materia religiosa che etica, vengono accolti, conferendo alla dottrina un aspetto complesso, che esige dal lettore pazienza e rispetto. Troviamo nella Scrittura non solo compresenza, ma anche incontro fra prospettive culturali diverse. Il versante particolaristico della Bibbia (che costituisce uno dei suoi tratti arcaici) è esplicitamente contrastato dalla visione sapienziale che, nel racconto dello scambio di domande e risposte tra il re Salomone e la regina di Saba, vede uno dei simboli tipici della sapienza. Questa si nutre di prestiti, provenienti anche da ambienti lontani (Pr 31,14; Sir 39,4): una parte del libro dei Proverbi, per esempio, è ricalcata su raccolte di massime egiziane, mentre dal Vicino Oriente antico vengono importati racconti mitologici, tecniche di composizione letteraria, documenti legali e storiografici. Non solo, la sapienza biblica non teme di collaborare con le realtà politiche e sociali pagane, come risulta dalla vicenda di Giuseppe, viceré d’Egitto, o di Daniele, consultato dal sovrano assiro perché esperto in sogni e visioni, o di Mardocheo, fedele suddito del re di Susa. Chi 18

insegna non è necessariamente l’ebreo, come risulta dalla storia di Giobbe, che non ha i connotati anagrafici del discendente di Abramo, eppure è in grado di porre le più radicali e le più pertinenti questioni concernenti la giustizia di Dio e il suo governo della storia. Le frontiere che delimitano le aree culturali (non necessariamente di natura politica) sono continuamente attraversate dall’istanza sapienziale, che fa del dialogo, dell’interrogazione e del reciproco contributo la sostanza dinamica del suo stesso esistere. Persino la lingua non è più unica, non è più l’idioma particolare ed esclusivo di un popolo; infatti sono gli scritti tardivi della Bibbia, influenzati dalla corrente sapienziale, a essere bilingui (redatti in ebraico e aramaico, come Daniele ed Esdra), ed è questa stessa letteratura che adotta il greco, non solo per tradurre, completare e divulgare testi della tradizione ebraica (come avviene per il libro di Ester e per il Siracide), ma anche per comporre nuove opere nell’intento evidente di una comunicazione con un partner non ebreo (si pensi, in particolare, al libro della Sapienza). Una tale apertura universale ha il suo compimento nel Nuovo Testamento, che si vuole indirizzato strutturalmente al giudeo e al greco, con valori che, proprio per la loro essenzialità, possono inserirsi nei più diversi impianti culturali, così da promuovere, in ogni tradizione, ciò che vi è di nobile e di giusto (Fil 4,8). Da notare tuttavia che – a differenza di dottrine dotate di principi generici, vagamente universali – la tradizione biblica ha mantenuto contatti con una storia e una cultura particolari. Il suo modulo non è quello di esporre una summa di principi astratti, ma piuttosto di proporre una visione simbolica della particolarità. La via del segno, dell’evento significativo, della concreta realtà dalla valenza simbolica costituisce il luogo rivelativo per eccellenza; ne risulta un radicamento nella storia particolare di Israele quale figura del senso per tutti. 1.2.3. L’importanza della prassi

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Infine, il lato pratico, invece che speculativo, della tradizione biblica, va oggi apprezzato, come un contributo importante, anzi decisivo, per l’uomo. Il privilegiare la concretezza degli atti, rispetto alle parole e alle idee, è dalla Bibbia ritenuto una decisione di saggezza; e anche l’uomo moderno ne è convinto. Il mondo sapienziale secondo la divina Scrittura, ancora una volta, ci viene incontro, mostrandoci che è nell’azione di giustizia che si realizza la verità dell’uomo. E proprio questo assioma ci introduce al secondo punto della nostra esposizione.

2. SAPIENZA E GIUSTIZIA La Bibbia, pur arcaica, almeno in alcune sue componenti, non manca dunque di congiungersi con le problematiche e le istanze di senso che abitano l’uomo contemporaneo. E una delle più formidabili convergenze fra il testo sacro e il nostro vissuto consiste nella comprensione della verità come storia: il senso del tutto non può identificarsi con modelli culturali statici, né è confinabile in un’epoca esclusiva della storia, fosse pure qualificata come epoca d’oro. Nessuna figura racchiude il divino (1Re 8,27): la norma biblica dell’aniconismo – quella che proibisce di farsi delle immagini del Trascendente – non si limita a vietare la rappresentazione visiva di Dio; essa suggerisce soprattutto la legge sapienziale per eccellenza, che vieta di umiliare il dinamismo della verità riducendolo a un momento del suo stesso rivelarsi. La molteplicità, o forse meglio la particolarità di ogni creatura, è il segno dell’irriducibilità dell’essere a una qualsiasi entità conosciuta. Per questo il primo testo di creazione presenta la varietà indefinita degli esseri creati, con i viventi fatti «ciascuno secondo la sua specie»; l’essere umano poi, creato a immagine di Dio come «maschio e femmina» (Gen 1,26-27), presenta in se stesso il principio della differenza (sessuale), quale motore del desiderio, dell’incontro e della comunione (Gen 2,23-24). Fin dalla pagina inaugurale della Bibbia ricaviamo, inoltre, l’idea di una realtà complessa, sottoposta 20

al susseguirsi dei giorni, in un progetto di crescita, di sviluppo, di perfezionamento, che ha nel sabato eterno il suo punto utopico di arrivo. L’essere umano in questa prospettiva non è solo la coscienza capace di riconoscere (al seguito di Dio) la bellezza e la bontà del mondo nel suo perpetuo fluire, ma è colui che è chiamato ad assumere un ruolo costruttivo, creativo, paragonabile a un potere divino (Sal 8,6-9), così da assoggettare la terra a una storia di vita: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela» (Gen 1,28).15 Il destino, anzi il progetto culturale dell’uomo, la sua vocazione regale, di natura quindi sapienziale, non si sostanzia nell’atto conoscitivo, ma si esprime invece nell’azione, che ha come finalità la promozione della vita. La vita è l’obiettivo supremo inteso dalla sapienza, la pietra di paragone di ogni cultura. Invece di un ideale contemplativo, è un dinamismo pratico a essere prospettato dalla Scrittura; e invece di un’esaltazione del valore gnoseologico, è una radicale impostazione etica a essere propugnata dalla tradizione biblica. Se, prendendo a prestito un concetto greco, vogliamo parlare della «natura» dell’uomo, la Bibbia ci impone di pensarlo come un soggetto di relazione, la cui essenza è quella di essere capace di riconoscere, accogliere e, in certi casi, promuovere l’altro (il diverso da sé). L’uomo non è perciò un’entità definibile in modo astratto, magari in termini duali come un composito di anima e corpo; per la Bibbia l’umana creatura è un’individualità storica e contingente, dotata di somiglianza divina, proprio perché, come Dio, è abilitata a creare un rapporto con un altro soggetto spirituale, così da costruire un mondo di comunione. Si osa affermare, nella Scrittura ebraica, che l’uomo è in grado di «vedere» Dio, di entrare cioè in rapporto con lui «faccia a faccia» (Es 33,11; Nm 14,14; Dt 5,4; 34,10), perché Dio stesso glielo concede, perché Dio stesso lo desidera e lo attua. Questa sublime possibilità, di cui si attesta la realizzazione per alcuni individui (Es 24,10; Nm 12,8; Is 6,1; ecc.), è tuttavia ridimensionata,16 per così dire, e riportata a una concreta intelligibilità dall’affermazione che la

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visione di Dio si realizza, di fatto, nell’incontro con chi dell’eterno è figura privilegiata, nell’incontro cioè con il figlio di Dio, con l’altro, con il fratello (Mt 25,38; 1Gv 4,20). Chi vede l’uomo, nel senso che lo riconosce come di origine divina, come degno di rispetto e portatore di assoluto diritto, chi incontra l’uomo nell’amore costruttivo, questi vede Dio, accede al suo statuto di perfezione e di beatitudine (Mt 25,37-40; 1Gv 4,20). La via sapienziale – ed è questo un modo di parlare della cultura – secondo la Bibbia è quindi totalmente orientata a favorire il rapporto dell’uno con l’altro, del singolo con il fratello-uomo, perché ognuno dei soggetti raggiunga la sua perfezione nella valorizzazione reciproca del proprio essere.17 Questo dinamismo è chiamato «giustizia» nella tradizione biblica. Bisognerebbe dire, più esattamente, che è detto ṣedāqâ, nella lingua ebraica, e che questo termine, dal significato ampio ed eccelso, è stato tradotto in greco con δικαιοσύνη, reso poi in latino con justitia, versioni queste che hanno ispirato le traduzioni delle lingue volgari, con una riduzione del significato nel versante della legalità e del puro sistema retributivo. Il concetto biblico – per il fenomeno di un’insoddisfacente traduzione – è stato perciò abbassato al rango di esigenza etica minima, basilare certo, ma anche elementare, superata dalla più elevata prospettiva dell’amore gratuito e della perfetta carità. Ma questa opposizione tra giustizia e amore – purtroppo talmente inveterata da risultare un topos di invincibile ignoranza – questa opposizione, dicevamo, non è attestata dalla tradizione biblica, che considera l’amore un’essenziale componente della dinamica di giustizia, così che l’uno e l’altra siano associati, in vincolo indissolubile, e assieme tendano a esprimersi in forme sempre più perfette. E se oggi vogliamo appropriarci di un concetto forte, capace di mettere in questione forme culturali inadeguate, dobbiamo ricorrere al concetto di giustizia, invece che a quello di amore, non perché ci si accontenti di poco, ma perché quest’ultimo è intriso ormai di sentimentalismo ed è assegnato

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alla sfera dell’opzione facoltativa, mentre invece il concetto di giustizia esplicita le valenze del diritto universale, che obbliga all’obbedienza ogni persona e ogni società, ed esige la doverosa sottomissione di ogni cultura degna dell’uomo. La Bibbia attesta, insegna e promuove la via della giustizia come via maestra di sapienza. Il concetto di giustizia, infatti, costituisce il costante punto di riferimento del discorso sapienziale. Ricordiamo, ancora, l’esordio del libro della Sapienza di Salomone: «Amate la giustizia, voi giudici della terra» (Sap 1,1). Non è nella Torah che appare in maniera precipua il lessico della giustizia, ma nelle tradizioni letterarie ispirate dalla corrente sapienziale; questa semplice notazione di statistica lessicale ci indica che la Scrittura, quando intende proporre a tutti un valore universale, ribadisce che vi è una sola via, che è quella della giustizia, o forse, meglio, che tutte le esigenze umane di natura etica convergono nella grande direttiva della giustizia. La «via della giustizia» (Is 40,14; Pr 8,20; Mt 21,32; ecc.) è infatti complessa ed essenzialmente dinamica, progressiva. Il fondamento teorico di questa affermazione risiede nel fatto che «la giustizia implica una relazione fra due (o più) soggetti dotati del principio interiore della libertà (con tutto ciò che essa comporta come responsabilità)».18 Non è quindi solo l’ossequio a una norma legale, né la sottomissione a un presunto ordine cosmico (modalità quest’ultima spacciata, da molti esegeti, come la perfezione della giustizia biblica19) a costituire l’evento di giustizia, ma il riconoscimento del volto dell’altro. Nessuna legge e nessuna regola possono perciò definire l’esigenza della giustizia; solo lo spirito, nella sua dinamica di incessante desiderio, può corrispondere all’infinita ricchezza del volto fraterno. Alludiamo qui di sfuggita alle suggestioni speculative di Martin Buber e di Emmanuel Lévinas, perché, intimi alla tradizione biblica, ne hanno indicato il senso ultimo in chiave speculativa. Che per la Bibbia la giustizia sia essenzialmente relazione20 può essere parzialmente motivato a

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partire da qualche considerazione lessicografica, rilevando come la radice ṣdq (che esprime appunto in ebraico il concetto di giustizia) sia spesso costruita con preposizioni che esplicitano il fatto relazionale.21 Basti citare qualche esempio: Dio dice a Noè: «ti ho visto giusto dinanzi a me» (Gen 7,1), e di Giobbe si dice che «si considerava giusto di fronte a Dio» (Gb 32,2). L’aver introdotto il concetto di relazione (e quindi di alterità) per comprendere l’idea della giustizia secondo la sapienza biblica ci consente di esplicitarne la complessità e anche l’intrinseca problematicità. I soggetti, infatti, che entrano in relazione sono marcati dal fatto della differenza, da situarsi su molti piani: invece che di un rapporto tra essenze tutte uguali, si deve pensare a una relazione fra soggetti concreti, e si deve reperire quindi tutta una serie di asimmetrie, iscritte talune nella stessa costituzione degli esseri, altre prodotte da contingenze storiche, in qualche caso a motivo della prevaricazione degli uni sugli altri. Molte sono le differenze, come quella tra Dio e l’umana creatura, come quella tra maschio e femmina, tra ricco e povero, tra governante e suddito, tra cittadino e straniero, tra sapiente e ignorante, tra sano e malato, e via di seguito. In ognuno di questi assi relazionali si dispiega un’esigenza specifica di incontro, che promuova la dignità e la vita di entrambi, in un dinamismo mai perfettamente compiuto. «Ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare [...], ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36). La complessità dei rapporti interpersonali determina la pluralità delle vie di giustizia. L’emblema precipuo di una tale radicale incompiutezza, il segno rivelatore di questo sempre perfezionabile cammino di giustizia, è costituito dal rapporto – per così dire «originario» – che lega la persona umana a Dio. Entrambi i soggetti sono chiamati, secondo la Scrittura, a un dinamismo concreto di avvicinamento, di convergenza, di incontro, perché a ognuno sia data la gloria (la perfezione della vita) che gli spetta. Se è chiaro che l’uomo ha un indefinito compito di esaltazione dell’essere divino, è altrettanto chiaro, nella prospettiva biblica, che l’Altissimo si è 24

liberamente impegnato a portare a compimento il suo obbligo di giustizia, così da rendere il mortale simile a sé, e realizzare la comunione perfetta, infinitamente rispettosa e pienamente generosa. Molte sono le differenze, e molti quindi gli ambiti, fra loro correlati, nei quali si dispiega la promozione storica della giustizia. La Bibbia segnala alcune delle sue più rilevanti esigenze mediante la varietà di precetti legali, consigli proverbiali, racconti paradigmatici, promesse ed esortazioni.22 Fra i più importanti settori degni di continua vigilanza, la Scrittura segnala l’ambito religioso: «Principio della sapienza è il timore del Signore» (Sal 111,10; Pr 1,7; 9,10; cf. anche Is 11,2; Gb 28,28; Pr 15,33), perché è come la radice o il fondamento di ogni autentico rispetto nei confronti dell’alterità personale. Come questa dimensione sia da valorizzare nella concretezza storica è compito di ogni persona, gruppo culturale, tradizione religiosa, nella consapevolezza che dal rispetto per Dio possa maturare un crescente rispetto per ogni diritto umano. Anche l’ambito economico, quello che pone in relazione persone e classi di diversa potenzialità produttiva, riceve una straordinaria attenzione dagli scrittori biblici: il problema della povertà e l’appello alla condivisione sono talmente radicali, specie nelle pagine evangeliche, che fanno comprendere quale straordinario impegno richieda questo settore della vita sociale. Accenniamo poi all’ambito politico, sia quello che si modula nel giusto rapporto fra governante e cittadini, sia quello che regola le relazioni anche conflittuali fra i diversi popoli; quest’ultimo punto è sicuramente di grande rilevanza per la Bibbia, che, per certi versi, non fa che tematizzare, in ogni sua pagina, il rapporto fra Israele e le nazioni; ciò è molto significativo nel contesto della moderna globalizzazione e dei crescenti processi di comunicazione fra tradizioni culturali diverse. Non intendiamo qui produrre un elenco esaustivo di tutti gli ambiti nei quali il soggetto responsabile è chiamato all’opera di giustizia; e nemmeno possiamo sintetizzare le principali istanze propositive del discorso biblico, 25

nei vari settori dell’esercizio della responsabilità relazionale. Diciamo solo che la Bibbia è consapevole di apportare al progresso umano un contributo di grande valore, mediante le sue normative e mediante i suoi racconti parabolici. Leggiamo, ad esempio, nel Deuteronomio: «Le osserverete dunque, e le metterete in pratica [le leggi del Signore], perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”» (Dt 4,6); «La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore, nostro Dio, come ci ha ordinato» (Dt 6,25). E Isaia, all’inizio del suo libro, descrive la visione di un pellegrinaggio di tutte le nazioni verso Gerusalemme, «Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,3), quale principio di universale pacificazione (2,4). Nel discorso programmatico di Gesù sulla montagna, là dove il Maestro invita a una giustizia che «superi» quella puramente legalistica degli scribi e farisei (Mt 5,20), una giustizia tanto perfetta da essere simile a quella del Padre (5,48), viene detto: «Voi siete il sale della terra [...]. Voi siete la luce del mondo» (5,13-14). L’irraggiamento di cui parla la Bibbia non ha niente a che vedere con la propaganda religiosa; è la forza della verità e del bene a trasmettersi, così da produrre vita in tutte le persone e in ogni cultura. Ora, fra gli svariati ambiti di giustizia quello più difficile, quello sul quale la Scrittura presenta il più alto indice di genialità, quello più illuminante e più necessario, quello nel quale letteralmente si compie il suo divino messaggio, è l’ambito che qualifica il rapporto tra chi è giusto e chi è malvagio, fra l’innocente e il colpevole, fra la vittima e il carnefice. Il fare giustizia non esige infatti solo il compimento di atti buoni, rispettosi della vita altrui, ma richiede soprattutto che il giusto renda il mondo giusto, anzi che operi dolcemente sull’uomo facendo sì che il colpevole diventi giusto, come ha fatto il Figlio dell’uomo, venendo fra noi, rivelando così il modo con cui Dio, il Giusto, agisce nella storia. «Se amate quelli che vi amano – dice Gesù –, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i 26

pubblicani? E se date il saluto [se promettete la pace] soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,4648).

3. LA GIUSTIZIA PERFETTA Riprendiamo qui e sviluppiamo alcuni concetti enunciati nel paragrafo precedente. Ciò prepara la strada a una migliore comprensione dell’atto del ristabilimento della giustizia, nel quale si configura la perfezione del soggetto spirituale. La giustizia è un concetto etico, che definisce l’uomo in quanto capace di rapportarsi secondo verità a un’altra persona.23 L’essere giusto (o ingiusto) si giudicherà non in base alla rispondenza (o meno) a una norma, fosse anche un imperativo categorico o una legge apodittica, ma in base alla capacità di riconoscere il volto dell’altro,24 di rispettarlo in conformità alla sua natura. L’altro, nella tradizione biblica, è innanzi tutto Dio; per essere giusti è necessario infatti prestare la dovuta riverenza all’alterità trascendente dell’Altissimo. Ma l’altro è anche il fratello, il prossimo, l’altro uomo, che esige il riconoscimento della sua presenza, della sua vita e di ciò che essa significa. In questo la prospettiva biblica si ricongiunge, almeno in parte, con la definizione classica della giustizia, dai greci trasmessa ai romani e a tutto l’Occidente, che suona come «rendere a ciascuno secondo il suo diritto» (unicuique suum reddere). Sarebbe così da correggere la moderna tendenza che intende il concetto solo nel senso della disciplina retributiva o addirittura della sanzione vendicativa (punitiva); per la Bibbia la giustizia qualifica invece la perfezione della persona in quanto essere di relazione. Questa concezione esige di essere articolata con quanto la Scrittura dice sull’essere umano, sulla sua «natura», diremmo noi in termini scolastici. Pur senza assumere la forma di una dottrina sistematica, elaborata in 27

categorie concettuali, la Bibbia ci dice cosa sia l’uomo, quale sia la sua verità. E lo fa a partire dalle prime pagine della Genesi, nei racconti di origine. La sapienza di un popolo, maturata attraverso secoli di esperienza e di sofferenza, la sapienza ispirata dalla fedeltà alla rivelazione divina, si comunica nella storia di Adamo e in quella del figlio di Adamo. Chi è Adamo? È colui che, tradendo il progetto originario del Signore, si fa sedurre dalla pretesa di essere come Dio (Gen 3,4), è colui che si fa ingannare da un immaginario discorso che, in nome della dignità e autonomia della persona, nega la differenza radicale tra il Creatore e la creatura. Adamo è l’essere che non vuole essere originato, è il figlio che rifiuta il padre che lo ha fatto; Adamo è colui che commette l’ingiustizia originaria che consiste nel rifiutare l’Origine della vita, e si condanna così alla polvere della morte (Gen 3,19). E chi è il figlio di Adamo? Lo leggiamo nel seguito del racconto della Genesi. Il figlio di Adamo è Caino, colui che, mosso dall’invidia nei confronti del fratello – ai suoi occhi indebitamente privilegiato –, spinto da gelosia e risentimento, si erge contro di lui e lo uccide (Gen 4,8). Il figlio di Adamo è il violento che, per difendere la sua vita (così come egli la immagina), instaura il regime del terrore, imponendo agli altri il «rispetto», non però quello che scaturisce dal volto umano, ma quello che promana dalla minaccia: il motto di Caino dice che «chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte» (Gen 4,15). Il figlio di Adamo semina la violenza, ed essa produce ulteriore violenza, in un crescendo spaventoso di vitalità distruttiva. Questa visione delle cose è basilare per capire cosa la Bibbia dica sull’esercizio della giustizia. Parlando di Adamo ed Eva, narrando di Caino e di Lamec, ci viene insegnato cosa sia l’uomo. «Quale il padre, tale il figlio», potremmo dire, adattando un detto proverbiale citato da Ezechiele (Ez 16,44). Generato a immagine dei suoi progenitori (Gen 5,3), ogni essere umano nasce nel peccato (Sal 51,7), è trasgressore fin dalla giovinezza (Ger 3,24-25; 22,21; 32,30; Ez 23,3; ecc.), porta cioè l’attrattiva al male che scaturisce dall’esempio del genitore; la ribellione contro Dio e la violenza 28

del sangue sono la sua eredità. La Bibbia, a differenza di quanto hanno tentato di elaborare i trattati di teologia sistematica, non esplicita né le ragioni (assolutamente enigmatiche) della colpa, né le modalità della sua trasmissione di generazione in generazione; la Scrittura presenta, come in una parabola, la storia in cui ciascuno deve riconoscersi, percependo la propria somiglianza con i progenitori. Non c’è nessun giusto, nemmeno uno (Sal 14,1-3), perché tutti sono figli di Adamo; tutti «hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti; [...], tramavano inganni con la loro lingua [...]. I loro piedi corrono a versare sangue» (Rm 3,10-18). Un simile scenario, dispiegato davanti agli occhi del lettore biblico, non intende affermare che l’uomo non può evitare di cadere nel peccato. Se così fosse, se la libertà della creatura umana fosse radicalmente e irrimediabilmente viziata, non vi sarebbe più responsabilità, e quindi non si potrebbe imputare al figlio di Adamo nessun peccato. In realtà, nei testi di origine, la Scrittura presenta la tentazione, così da far conoscere l’insidia pericolosa del male e sollecitare dunque l’esercizio di una sapienza che sappia scegliere il bene. Se poi essa narra la storia del peccato degli antenati, ciò ha valore di ammonizione, affinché il figlio non faccia quello che hanno fatto i padri (cf. Sal 95,8-11). Al tempo stesso tuttavia ci viene detto che l’uomo fa esperienza, ripetutamente, della sua stoltezza. La deriva pessimistica che induce a pensare che la storia non potrà rivelare se non la miseria umana, in misura crescente e con conseguenze sempre più nefaste, la diagnosi impietosa sulla sorte del figlio dell’uomo è dalla Bibbia frenata, combattuta e contraddetta da due elementi fondamentali, altrettanto originari quanto il racconto della trasgressione di Adamo e di Caino. 1. Se è vero che «ogni intimo intento del cuore degli uomini non era altro che male» (Gen 6,5), se dobbiamo constatare che il germe della corruzione ha intaccato le fibre dell’umanità condannandola alla dissoluzione (Gen 6,11-13), bisogna ricordare che Dio è giusto e ogni sua azione benefica (Dt 32,4). Se Dio non ci fosse, non vi sarebbe rimedio all’ingiustizia. Ma colui 29

che regge l’universo e ama tutte le sue creature (Sap 11,24) è attivo nella storia per ristabilire la giustizia e riportare la vita sulla terra. È necessario tuttavia comprendere come il Signore agisca. Cosa faccia Dio nei confronti dell’umanità peccatrice, quali siano le sue vie per salvare, sarà l’oggetto della nostra trattazione (specialmente nel capitolo terzo). Basti dire qui che la disciplina punitiva dispiegata per frenare il dilagare della violenza è coniugata con la promessa della vittoria sul male. E questa non calata dall’esterno, ma proveniente dalla stessa carne, dalla stessa stirpe dei figli di Adamo, che «schiaccerà la testa» del serpente satanico (Gen 3,15). Dio infatti redime mediante uomini giusti. 2. La figura deterministica del peccato originale, presentato (almeno in certi manuali) come una tara genetica, è contraddetta dal testo biblico, fin dai racconti della storia primordiale. Infatti da Adamo non discendono solo dei malvagi, destinati alla morte, ma anche dei giusti, la cui libertà si esprime come obbedienza, mitezza e bontà. Accanto a Caino troviamo Abele (Gen 4,2), di cui si loda una giustizia gradita a Dio (Gen 4,4; Eb 11,4); vittima della violenza fratricida, egli è il prototipo del martire (Mt 23,35). Nella prima lista genealogica, fra i nomi dei patriarchi vissuti prima del diluvio, troviamo Enoc, di cui si dice che «camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l’aveva preso» (Gen 5,24); la sua morte relativamente prematura non è segno di condanna, ma anticipazione privilegiata del premio (cf. Sap 4,7-17). Quando lo sguardo del Signore sull’umanità non scorge che una dilagante corruzione (Gen 6,5-7), ecco però che «Noè trovò grazia agli occhi del Signore [...]. Noè era uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e camminava con Dio» (Gen 6,8-9); per la sua obbedienza il creato è salvato dalla distruzione. Tra i figli di Noè, Cam si rivela irrispettoso, ma Sem e Iafet manifestano la dovuta pietà per il genitore (Gen 9,22-27). In terra di Canaan risiedono popolazioni malvagie (Gen 15,16), ma in questo paese viene ad abitare Abramo, che «credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15,6). E così via, fino a Maria di Nazaret, immacolata, fino a Gesù, discendente da Adamo (Lc 30

3,38), ma immune da colpa (Eb 4,15), essendo lui «il Figlio amato» in cui Dio pone il suo compiacimento (Lc 3,22). La storia può dunque essere narrata come l’apparire di figure nobili (cf. Eb 11), provenienti dalla stirpe di uomini corrotti (cf. Ez 18,14-18). Ora, se il manifestarsi della libertà nel versante trasgressivo è dalla Scrittura semplicemente constatato – senza fornire alcuna ragione necessitante –, allo stesso modo il fiorire del giusto a partire dalle medesime radici carnali è semplicemente affermato, come un prodigio inspiegato e consolante. Talvolta il testo biblico dice che è il Signore a fare grazia, a manifestare storicamente un dono speciale, fondato sul suo imperscrutabile giudizio; in altri casi verrà invece sottolineata la disposizione umana, nella quale si riversa la divina benevolenza. Non intendiamo inoltrarci nella disamina dei fattori che rendono possibile il sorgere della persona giusta. Vogliamo invece sottolineare il fatto che da questa si promana un raggio di luce sulla storia seguente. È come se si determinasse una possibilità di bene, favorita da una paternità spirituale, da una testimonianza che attira, da un esempio che converte, stimola e dinamizza. Non c’è giustizia infatti che non abbia un irraggiamento, non c’è vera giustizia se essa non si esplica come fare giustizia. 3.1. Fare giustizia Fare giustizia allora, secondo la Bibbia, non equivale al dispiegarsi sereno e spontaneo di un germe buono, ma è la vittoria del bene sull’impero del male, è il superamento della violenza, è la vittoria della giustizia sulla matrice di menzogna e di sopruso.25 E da ciò traiamo una premessa fondamentale per il nostro assunto. Essere giusti significa rapportarsi all’altro in modo da rispettarlo; ora – questo è l’elemento decisivo – l’altro che ci sta di fronte è un figlio di Adamo. Proprio perché ci assomiglia, egli viene percepito nella sua valenza di potenziale nemico. La violenza che c’è in ogni uomo e che ognuno sente o presuppone nell’altro rende 31

estremamente difficile l’esercizio della giustizia. È relativamente facile essere giusto con i giusti, lo sanno fare anche i «peccatori», dice Gesù (Lc 6,32-35). Ma la Bibbia dice che la vera giustizia è quella che si esercita con i malvagi, anzi con coloro che ci odiano e ci perseguitano; su questo punto, così difficile e così essenziale per l’umana convivenza, la parola di Dio ha qualcosa da dire, di preciso e di specifico.26 Quando la Bibbia chiama l’uomo e la società alla giustizia sociale, intesa come responsabilità verso il povero e l’indifeso, essa ricalca e ribadisce i dettami di saggezza e i decreti regali frequentemente attestati nel Vicino Oriente antico. Quando invece parla dell’uomo che è originariamente violento, quando indica l’azione di giustizia da attuare nei suoi confronti, la Scrittura introduce degli elementi di assoluta novità, la sua parola è di straordinaria pertinenza. L’esercizio della giustizia, inteso come l’adeguata relazione e reazione all’uomo violento e colpevole, non è una dimensione riservata a uno specifico organo della società (il corpo dei magistrati, coadiuvato eventualmente dalle forze dell’ordine), e non è un compito attuato esclusivamente nel rito giudiziario (dei tribunali). Il confronto personale, nel quale si rivela la giustizia dell’uomo e dell’intera società, è coestensivo della vita di relazione, è l’appello etico di ogni essere umano nella totalità delle componenti della sua esistenza. 3.2. Secondo quanto ci insegna la Bibbia La finalità del nostro scritto non è quella di fornire semplicemente dei dati storici nel quadro di una disciplina «archeologica» (come sarebbe la storia delle istituzioni giuridiche vetero-testamentarie); il nostro intento è al contrario di natura propositiva. L’uomo vive di memoria, e si interessa quindi del suo passato; la curiosità, legittima e doverosa, riguardo alle proprie origini, si congiunge spesso con la preoccupazione epistemologica di trovare le cause delle idee e dei costumi attuali, di scoprire le ragioni anche remote a cui ascrivere il 32

vivere e il sentire contemporaneo. La sacra Scrittura, in particolare l’Antico Testamento, funziona presso molti studiosi come un complesso repertorio archeologico, una specie di ampio terreno di scavi, da cui esumare testimonianze concrete sulle condizioni di vita, le istituzioni, gli eventi e le idee degli antichi. L’approccio «scientifico» del testo biblico vetero-testamentario, quello che ha luogo nelle università, ha da tempo abbandonato la prospettiva apologetica o edificante che pretendeva di trarre dalla pagina sacra indicazioni normative e verità rivelate. Vige oggi un riconosciuto metodo di analisi che intende essere descrittivo: si studiano i dati in modo obiettivo, e si tenta di tracciare un profilo genetico, che spieghi l’evoluzione della società e dei suoi valori. La domanda naturale, quindi, è questa: quale interesse, quale utilità può venire all’uomo contemporaneo dall’indagare sulle procedure penali prospettate e/o attuate alcuni millenni fa? Appare francamente un’inutile digressione il confrontarsi idealmente con sistemi del tutto arcaici. Di più, in un contesto culturale pluralistico e laico – come quello che si cerca di favorire oggi – pare inopportuno ribadire una sudditanza confessionale a una particolare fonte di pensiero. È necessario ammettere chiaramente, fin dall’inizio, che, per quanto riguarda la questione criminale, l’Antico Testamento, nelle sue concrete disposizioni legali, risulta lontano o addirittura estraneo al nostro mondo.27 Un sistema penale esprime concretamente un insieme di valori, una certa visione dell’uomo e della società. Ora è chiaro che il mondo odierno non ha la medesima percezione dei valori rispetto a quanto affiora dai codici penali dell’antico Israele. Mentre negli ordinamenti italiani attualmente in vigore si irrogano pene detentive anche severe a chi commette un furto o una rapina, nel codice dell’alleanza il ladro è condannato invece solo a un adeguato risarcimento (Es 21,37).28 La disparità nel valutare la gravità del reato è ancora più

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evidente se si considera la normativa sull’adulterio che, nella legislazione ebraica, è estremamente severa, dato che viene comminata la pena di morte (Lv 20,10 e Dt 22,22; cf. anche Gen 38,24; Lv 21,9; Dn 13,41); nella nostra civiltà giuridica invece l’infedeltà coniugale, un tempo ascritta fra i delitti contro la famiglia,29 non trova più alcun riscontro nel nostro attuale Codice penale. Una tale distonia nella percezione ideologica tra la sacra Scrittura e la mentalità contemporanea non ci interroga più di tanto. Noi tutti riteniamo infatti di essere portatori e interpreti di una civilizzazione evoluta, di un mondo giuridico e sociale maturo, che ha via via imparato a riconoscere i veri valori da proteggere. Senza esitazioni ci sentiamo superiori agli israeliti di tanti secoli fa e non siamo disposti ad accondiscendere al loro metro di giudizio, anche perché vediamo che nelle loro tradizioni legali ci sono molte cose discutibili o addirittura inammissibili,30 come la pratica della schiavitù per il debitore insolvente, un’insufficiente attenzione alla dignità della persona umana,31 e soprattutto – su questo punto ritorneremo precisamente nel prosieguo del nostro intervento – la scarsa considerazione della vita umana, poiché viene prescritta la pena capitale anche per crimini come l’abuso sessuale (Dt 22,23-27), la bestemmia (Lv 24,16), la devianza religiosa (Dt 13,2-12) e persino la violazione di rubriche liturgiche (Nm 15,32-36). E anche quando vi è convergenza quanto ai valori da difendere, le normative penali antiche – e quindi anche quelle dell’Antico Testamento, che ricalcano su molti punti quelle attestate nei codici del Vicino Oriente antico – appaiono chiaramente inadatte al nostro mondo, insoddisfacenti e persino ripugnanti alla nostra sensibilità.32 La sociologia è così profondamente mutata che il materiale biblico appare inapplicabile. Per questa serie di considerazioni, oltre che per diverse incoerenze del sistema penale vetero-testamentario, non vi è nessuno – al di fuori forse di qualche gruppo fondamentalista – che pretende di propugnare una stretta

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applicazione degli ordinamenti punitivi dell’Antico Testamento. Anche per gli appartenenti alle comunità più rigidamente ortodosse è oggi praticamente impossibile seguire tutte le prescrizioni della Torah, per il fatto che esse contrastano vistosamente con l’impianto dottrinale e la prassi giuridica degli Stati moderni. L’affermazione posta all’inizio di questo nostro capitolo – sull’utilità della sapienza biblica – risulta dunque provocatoria; pare impossibile dire che l’Antico Testamento abbia qualcosa da suggerire al nostro mondo giuridico. Eppure la Bibbia ha da dirci qualcosa di importante. Non è un repertorio utile per trovarvi delle normative particolari,33 ma è preziosa invece nel prospettare una dinamica globale, un esercizio sapiente della pena da modulare e applicare con libertà e inventiva. La domanda fondamentale è dunque questa: come situarsi di fronte al crimine o, meglio, come reagire di fronte a un colpevole? Quali sono le modalità da rispettare per compiere un autentico atto di giustizia? In risposta a simili domande, la Scrittura propone qualcosa che è stato solo parzialmente e solo da poco recepito nella prassi giudiziaria attuale, anche se questa è stata indubbiamente influenzata dal pensiero cristiano. La proposta della Bibbia è, in sostanza, quella di una duplice modalità di intervento nei confronti del colpevole, la messa in esercizio di due procedure, fra loro variamente collegate, mediante le quali una società può fare autentica opera di giustizia, perché in esse «sanzione e perdono» sono articolati in modo giusto.34 Solo così si potrà parlare di perfetta giustizia. Sarà questo l’argomento fondamentale, sarà questo l’assunto programmatico di questo nostro libro, nei due capitoli che seguono. Presentiamo ora queste due vie di giustizia, cercando di comprenderle nella loro specificità e nel loro reciproco rapporto.35

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Cf. Libro della Sapienza, testo, traduzione, introduzione e commento a cura di G.

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SCARPAT , Paideia, Brescia 1989, I, 48-49. 6 Gli scritti del Nuovo Testamento portano a compimento, anche con modalità critiche, la tradizione culturale del popolo ebraico, senza però mai rinnegarla. Nei testi evangelici in particolare, quelli che riportano la testimonianza del Cristo, viene costantemente e strutturalmente ribadito il compiersi delle antiche Scritture; cf. P. BEAUCHAM P, «Lecture christique de l’Ancien Testament», in Bib. 81(2000), 105-115. 7 Questa problematica, in particolare riguardo all’esercizio della giustizia, è accennata nel contributo di E. OTTO, «Recht und Gerechtigkeit. Die Bedeutung alttestamentlicher Rechtsbegründungen für eine wertplurale Moderne», in F. HAHN (a cura di), Zion. Ort der Begegnung, Festschrift für L. Klein, Athenäum, Bodenheim 1993, 63-84. 8 È rilevante il fatto che una fra le recenti teologie dell’Antico Testamento, quella di H.D. P REUSS (Theologie des Alten Testaments, 1: JHWHs erwählendes und verpflichtendes Handeln; 2: Israels Weg mit JHWH, Kohlhammer, Stuttgart-BerlinKöln 1991-1992) abbia scelto il tema dell’elezione quale filo conduttore delle idee teologiche della Bibbia ebraica. 9 Cf. G. VON RAD , La sapienza in Israele, Marietti, Genova 1990, 78-82. 10 Alludiamo ovviamente all’opera di N. FRYE, The Great Code. The Bible and Literature, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1982 (tr. it.: Il grande codice: la Bibbia e la letteratura, a cura di G. RIZZONI, Einaudi, Torino 1986). Su questa espressione, cf. anche P. BOVATI, «La Bibbia: il “grande Codice” nella vita della Chiesa post-conciliare?», in La Rivista del Clero Italiano 91(2010), 326-341. 11 Scrive G. STEINER: «Più di ogni altro libro, è la Bibbia ebraica che interroga l’uomo» (Il libro dei libri, 92). Ci permettiamo di aggiungere che il Nuovo Testamento non lo è da meno. 12 Cf., in particolare, P. BEAUCHAM P , L’Un et l’Autre Testament. Essai de lecture, Seuil, Paris 1976 (tr. it.: L’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura, Paideia, Brescia 1985). 13 Solo a conclusione del libro, in quella che taluni ritengono un’appendice, si richiama un precetto tradizionale: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (Qo 12,13). 14 Il sistema retributivo tipicamente sapienziale, invece di attribuire direttamente a Dio premio e punizione, adotta un sistema di consequenzialità puramente intrinseco, per cui chi scava una fossa vi cade dentro (Pr 1,31-32a; 26,27; Sir 27,26), mentre chi vive bene prospererà (Sal 1,3; Pr 1,32b). 15 Per un approfondimento di questa prospettiva, rinviamo a P. BOVATI, «Genesi 1: vivere l’armonia del creato», in Civiltà Cattolica 164(2013), 113-124. 16 Sul motivo del «vedere Dio» che, secondo il racconto biblico, ne preserva la natura di Essere invisibile, si veda la bella monografia di R. FORNARA, La visione contraddetta. La dialettica tra visibilità e non-visibilità divina nella Bibbia Ebraica, Pontificio istituto biblico, Roma 2004.

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In termini laici, la proposta biblica potrebbe ritrovarsi nell’affermazione lapidaria di Luigi Pintor: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi» (L. P INTOR, Servabo. Memoria di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, 85). 18 P. BOVATI, «“Quando le fondamenta sono demolite, che cosa fa il giusto?” (Sal 11,3). La giustizia in situazione di ingiustizia», in R. FABRIS (a cura di), La giustizia in conflitto. XXXVI Settimana Biblica Nazionale (Roma, 11-15 settembre 2000), EDB, Bologna 2002, 12. 19 Cf. soprattutto H.H. SCHM ID , Gerechtigkeit als Weltordnung. Hintergrund und Geschichte des alttestamentlichen Gerechtigkeitsbegriffes, J.C.B. Mohr, Tübingen 1968; ID., Altorientalische Welt in der alttestamentlichen Theologie. Sechs Aufsätze, Theologischer Verlag, Zürich 1974. A questa monografia si sono ispirati molti esegeti e teologi biblici, ripetendo affermazioni a nostro parere non fondate sul testo biblico. 20 Questa era già l’opinione dei primi studiosi del lessico ebraico della giustizia, ben documentata nell’opera di E. KAUTSCH, Über die Derivate des Stammes ṣdq im alttestamentlichen Sprachgebrauch, Fues, Tübingen 1881. 21 Cf. BOVATI, «“Quando le fondamenta sono demolite, che cosa fa il giusto?” (Sal 11,3). La giustizia in situazione di ingiustizia», 13. 22 Fra le monografie su questo argomento segnaliamo quelle di H.J. BOECKER, Recht und Gesetz im Alten Testament und im Alten Orient, Neukirchener Verlag, NeukirchenVluyn 1976; L. EPSZTEIN, La justice sociale dans le Proche-Orient Ancien et le peuple de la Bible, Cerf, Paris 1983; J.L. SICRE, «Con los pobres de la tierra». La justicia social en los profetas de Israel, Ediciones Cristiandad, Madrid 1984; P. JARAM ILLO RIVAS, La injusticia y la opresión en el lenguaje figurado de los Profetas, Verbo Divino, Estella 1992; M. WEINFELD, Social Justice in Ancient Israel and in the Ancient Near East, Publications of the Perry Foundation for Biblical Research in the Hebrew University of Jerusalem, The Magnes Press, Jerusalem-Minneapolis 1995. 23 La relazione che l’essere umano intrattiene con altre entità (animali o cose) rivelerà o meno la giustizia nella misura in cui ciò coinvolge la vita e la dignità delle persone. In particolare, il rispetto per il creato, la custodia delle risorse, la protezione di ogni genere di vita possono essere qualificati come azioni di giustizia se esprimono il rispetto per il Creatore e l’attenzione agli uomini che vivono nel creato. Per un ulteriore sviluppo sul concetto di giustizia, rinviamo ancora a P. BOVATI, «“Quando le fondamenta sono demolite, che cosa fa il giusto?” (Sal 11,3). La giustizia in situazione di ingiustizia», specialmente pp. 11-20. 24 Cf. E. LÉVINAS, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 31968. 25 Su questo tema si veda l’opera collettiva edita da N. LOHFINK , Gewalt und Gewaltlosigkeit im Alten Testament, Freiburg 1983 (tr. it.: Il Dio della Bibbia e la violenza. Studi sul Pentateuco, Morcelliana, Brescia 1985). Segnaliamo anche La violenza nella Bibbia, Atti del Convegno Nazionale di Biblia, Biblia, Settimello 1990, e P. BEAUCHAM P – D. VASSE, La violence dans la Bible, Cerf, Paris 1991.

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Tocchiamo qui il tema dell’amore per il nemico quale vertice della rivelazione etica proposta dalla Bibbia; cf., al proposito, G. BARBIERO, L’asino del nemico. Rinuncia alla vendetta e amore del nemico nella legislazione dell’Antico Testamento (Es 23,45; Dt 22,1-4; Lv 19,17-18), Pontificio istituto biblico, Roma 1991. 27 Ben difficilmente la Bibbia può rappresentare una summa di principi operativi immediatamente trasferibili nei nostri ordinamenti giuridici. Troppo diverso è il contesto sociale, enormemente più sviluppati sia il nostro apparato legale, sia le nostre procedure e tecniche giuridiche; il pensare di trarre indicazioni utili applicando immediatamente i dettami della Scrittura rischia di favorire la pista ingannevole del fondamentalismo. È indispensabile invece il travaglio dell’interpretazione, che evita di considerare come normativa la lettera per cercare invece lo spirito che la anima. 28 L’indennizzo per il furto di bestiame è valutato quattro (cf. Lc 19,8) o cinque volte il valore del capo rubato (Es 21,37); secondo quest’ultimo testo, il risarcimento è maggiore quando lo è il danno inferto. In Pr 6,30-31 si parla di «restituire sette volte», ma probabilmente l’autore usa una locuzione stereotipica, che significa semplicemente che si deve risarcire la vittima in maniera piena, fino a privarsi di tutti i beni di casa, anche se il furto è stato commesso per soddisfare la fame. 29 Codice penale, art. 559. 30 Si vedano, al proposito, le pagine introduttive di J.A. HOYLES, Punishment in the Bible, Epworth Press, Westminster 1986, VII-XI. 31 Si pensi, ad esempio, alle crudeli punizioni corporali, come la fustigazione pubblica (Dt 25,1-3; Ger 20,2), o a pratiche barbariche, come la mutilazione (Dt 25,1112; Gdc 1,6; 2Sam 4,12). 32 Fra le normative per noi anacronistiche ricordiamo, ad esempio, quella riguardante l’omicida involontario (che ha ucciso cioè senza premeditazione), che può trovare scampo dal «vendicatore del sangue» rifugiandosi nelle cosiddette città di rifugio (Es 21,13-14; Nm 35,9-34; Dt 19,1-13; Gs 20,1-9). Appare inoltre estraneo alla nostra mentalità il ricorrere a riti o ordalie per risolvere casi giuridici (Nm 5,11-31; Dt 21,19). Inaccettabile appare poi la crudeltà di certe pene capitali, come l’essere «sospesi al legno» (Nm 25,4; Dt 21,22-23; Gs 8,29; 10,27; 2Sam 4,12; 21,9), o la condanna a morte di tutta la famiglia per il delitto di uno solo (cf. Gs 7,24-25). 33 Le normative particolari sono il frutto di una sapienza storica, che riproduce idee e strutture adatte a una determinata epoca, ma non trasferibili, senza inconvenienti, in altri periodi caratterizzati da una diversa antropologia e da diversi ordinamenti sociali. 34 Il tenere assieme la necessità della sanzione e quella del perdono appare, a prima vista, contraddittorio. Facciamo notare però, fin dall’inizio, che il Signore si rivela come colui che insieme fa grazia e punisce: «Il Signore passò davanti a lui [Mosè], proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”» (Es 34,6-

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7). 35

Per un approfondimento del tema rinviamo a P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Pontificio istituto biblico, Roma 21986.

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2 GIUDICARE SECONDO GIUSTIZIA

Il primo dispositivo giuridico di attuazione della giustizia, che equivale a una specifica procedura penale, è documentato nei codici legali della Bibbia; numerosi racconti mostrano la sua concreta attuazione nella prassi forense dell’antico Israele36 Si tratta del sistema processuale pubblico che ricalca sostanzialmente l’andamento delle nostre attuali procedure, senza naturalmente le raffinatezze formali e le complicazioni anche estreme degli ordinamenti moderni. Tutto, nell’antichità, appare più semplice, e, forse per questo, più efficace.37 Tale sistema è noto a tutti, almeno nelle sue grandi linee. Ne facciamo quindi una schematica descrizione, così da introdurre alcune precisazioni critiche sui moduli penali utilizzati dall’Israele biblico.

1. IL TRIBUNALE IN ISRAELE COME STRUMENTO DI GIUSTIZIA Da tutti gli studiosi è sottolineata l’attenzione accordata a una corretta amministrazione della giustizia da parte dei sovrani del Vicino Oriente antico. Secondo l’ideologia sacrale del tempo, i re si presentavano come designati dal dio della giustizia per reprimere ogni abuso e salvaguardare i diritti degli indifesi. Il prologo del Codice di Hammurabi ne è un esempio tra i più limpidi: «Gli dèi Anu ed Enki, per migliorare il benessere del popolo, hanno chiamato me, Hammurabi, il principe devoto, che venera gli dèi, perché proclamassi la giustizia nel paese, distruggessi il male e la malvagità, non permettessi al forte di opprimere il debole, e sorgessi come il Dio (Sole) Šamaš sull’umanità, ad illuminare il paese [...]. Quando il Dio Marduk mi ha ordinato di provvedere con equità alle genti e di far

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apprendere al paese la retta via, ho portato equità e giustizia come espressione del paese, e benessere al popolo».38

In Israele si riproduce questa prospettiva ideale a proposito del re scelto dal Signore; basti, al proposito, citare l’inizio del Sal 72: «O Dio, affida al re il tuo diritto, al figlio di re la tua giustizia; egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia e i tuoi poveri secondo il diritto. Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai poveri del popolo renda giustizia, salvi i figli del misero e abbatta l’oppressore» (Sal 72,1-4).

Più specificamente, la tradizione biblica attesta che il costituirsi dei figli di Giacobbe in entità nazionale ha comportato l’istituzione del corpo dei giudici, di cui viene narrato dettagliatamente il momento inaugurale (Es 18,23-27), situato non solo assai prima dell’avvento della monarchia, ma addirittura prima della stipulazione dell’alleanza tra il Signore e il suo popolo al Sinai (Es 19–24), quasi a suggerire che la Legge risulta socialmente inefficace se la disciplina penale non è affidata a persone autorevoli e sagge che la interpretino correttamente e la facciano puntualmente eseguire. L’importanza fondamentale dell’istituzione giudiziaria è ribadita dal fatto che il racconto dell’instaurazione del sistema giudiziario viene riprodotto una seconda volta, all’inizio del libro del Deuteronomio (Dt 1,9-18), prima quindi del sistematico aggiornamento della Legge con un nuovo codice (Dt 12–26), e prima anche della serie di discorsi, messi in bocca a Mosè, che esplicitano la necessità dell’obbedire alle norme divine (Dt 4–11): l’atto del giudicare – demandato concretamente a personale specializzato in Israele, ma al tempo stesso affidato alla totalità del popolo di Dio – è

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dunque considerato il presupposto normativo di qualsiasi processo di comunicazione legale. Inoltre, nella sezione del codice deuteronomico che tratta degli apparati istituzionali di Israele, prima della definizione di ogni altra carica pubblica, prima dunque delle prescrizioni riguardanti il re, i sacerdoti e il profeta (Dt 17,14–18,22), abbiamo un lungo paragrafo consacrato proprio ai giudici (Dt 16,18–17,13). I testi narrativi e legali appena citati hanno indubbiamente valore programmatico: tracciano le linee fondamentali dell’istituto giurisprudenziale e ne forniscono i principi normativi che vengono poi sviluppati in diversi punti dei codici, dove si parla dell’esercizio pratico del giudizio, attuato mediante il processo forense (Es 23,1-9; Dt 19,15-21; cf. anche Lv 19,15-16). L’azione giudiziaria non è perciò una delle numerose opere di giustizia richieste dal Signore al suo popolo; è piuttosto quella senza la quale nessuna pratica in ambito sociale risulta legittimata; è, in sostanza, l’azione che simbolicamente e concretamente realizza la giustizia sulla terra. 1.1. I giudici L’istanza giudicante è strutturalmente gestita da una serie di organi collegiali. Nemmeno Mosè – pur dotato di straordinario acume e vigore – è in grado di esercitare da solo il compito di risolvere tutte le vertenze che insorgono tra cittadini di una nazione numerosa (Es 18,17-18; Dt 1,12): ciò significa che è una naturale esigenza di giustizia il fatto di doversi dispiegare capillarmente, così da soddisfare anche le esigenze più remote. D’altra parte, la conduzione collegiale della giurisdizione impedisce arbitrii individuali o derive tiranniche, e garantisce una procedura oggettiva e consensuale. La convergenza nel giudizio è segno di verità, almeno in teoria; in ogni caso, l’esigenza dell’unanimità nel verdetto tutela contro gli abusi della maggioranza, facendo di ogni giudice il possibile artefice della verità e della giustizia (cf. Dn 13,45-64). 42

Grande rilievo viene dato nei testi fondatori alla qualità dei magistrati, che devono essere uomini «scelti» (Es 18,21; Dt 1,15), nel duplice senso di persone (a) «elette», che ricevono da altri il loro stesso mandato, e (b) «qualificate», dotate cioè di specifici requisiti morali. Per il compito di giudice devono infatti essere designati «uomini validi che temono Dio, uomini retti che odiano la venalità» (Es 18,21); la tradizione consegnata nel libro dell’Esodo richiede quindi soprattutto virtù etiche e religiose quale presupposto indispensabile all’amministrazione della giustizia. La tradizione del Deuteronomio prescrive dal canto suo che si ricorra a «uomini saggi, intelligenti e stimati» (Dt 1,13), sottolineando quindi piuttosto le qualità sapienziali richieste per una mansione che esige grande finezza nel discernimento (cf. 1Re 3,9.28). L’autorevolezza che scaturisce dalle doti spirituali di queste persone faciliterà l’esercizio della giustizia, rendendo meno necessario il ricorso alla mera coercizione. Per altri compiti istituzionali non troviamo nella Bibbia un’analoga accurata descrizione delle qualità richieste per l’esercizio del rispettivo mandato, anche se ovviamente vengono supposti per ogni carica un sincero impegno religioso e una grande dirittura morale. Dai testi della Scrittura si può comunque ricavare l’idea che chiunque operi con autorità nella società – sia egli il re, oppure il sacerdote, l’anziano, il sapiente consigliere di corte, e così via –, nella misura in cui dovrà discernere e giudicare, non potrà che riferirsi idealmente al modello tracciato per il giudice e alle esigenze che il legislatore biblico indica per tale paradigmatica carica istituzionale. Probabilmente coesistettero in Israele tre giurisdizioni principali, con competenze specifiche: quella degli anziani, alle porte della città, che costituivano il tribunale locale (Dt 21,19; 22,15; 25,7; Gs 20,4; ecc.), quella dei sacerdoti, con sede nel santuario centrale di Gerusalemme, che doveva riservarsi le questioni propriamente sacrali (Nm 5,15-28; Dt 17,813; 19,17; ecc.), e infine quella del re (1Sam 8,20; 2Sam 15,2-6; 1Re 3,1628; ecc.), che rappresentava forse una sorta di corte d’appello (2Sam 14,48; 2Re 8,1-6) o almeno un tribunale indispensabile per dirimere conflitti di 43

competenze. A coloro quindi che già esercitavano un potere decisionale nei diversi settori della vita pubblica (in ambito civile, religioso, politico) veniva conferito anche il mandato di fare giustizia nelle cause civili e penali: senza l’autorevolezza già riconosciuta a queste cariche istituzionali risultava difficile promuovere una concreta attuazione della decisione giudiziaria. Ci sembra di poter dire, in sostanza, che l’istituzione giudiziaria non costituisce in Israele un potere «separato», gestito da un corpo indipendente – anche se il sovrano poteva disporre di funzionari della sua corte per dare udienza ed emettere sentenze (cf. Ger 26) –, ma piuttosto che la funzione giurisprudenziale costituisce una specifica esigenza di ogni carica pubblica. Il dovere essenziale di ogni giudice, in qualsiasi ambito e ad ogni livello, è quello di giudicare «rettamente», perseguendo la sola giustizia (Dt 16,20), senza altro interesse, senza compromessi. 1.2. L’azione processuale Il giudice (špēṭ) è chiamato a «giudicare» (špṭ), a dirimere cioè un litigio o una vertenza tra due cittadini (Es 18,16; Dt 1,16; 17,8; ecc.), e, nel caso di infrazione della Legge, a decretare la pena da irrogare al colpevole. La decisione giurisprudenziale ha un duplice effetto, ognuno di grande rilevanza: in primo luogo decreta la vita e la morte (in senso lato) di un individuo o di una collettività e, in secondo luogo, determina più largamente nella società un indirizzo culturale e pratico dal valore normativo, poiché la sentenza del giudice crea quel «precedente» che gradualmente si impone come legge e costume per tutti. Perché il verdetto sia emesso quale atto di giustizia e quale veicolo del senso di giustizia, si richiede che il procedimento nel suo insieme e in tutti i suoi momenti sia equo e rispettoso della verità. La legislazione ebraica insiste allora ripetutamente su due elementi necessari per un adeguato esercizio forense, su due virtù cioè caratteristiche del buon giudice: da un 44

lato l’imparzialità, che consiste nel non fare preferenze, evitando perciò di privilegiare chi è influente nella società (Es 23,2; Dt 1,17; 16,19; Lv 19,15; Ml 2,9; Pr 24,23; Gb 34,19), e, dall’altro, l’integrità, che equivale a non farsi corrompere dal potere economico (Es 23,6.8; Dt 16,19; 1Sam 12,3; Sal 15,5; Am 5,12). Infatti, poiché il giudice è chiamato a rendere giustizia a chi ha subìto qualche torto – e sono soprattutto il povero e l’umile a subire angherie –, è chiaro che il magistrato deve mantenere, in maniera limpida, la sua «indipendenza» dal potere politico ed economico. È indispensabile, inoltre, attenersi scrupolosamente alle indicazioni procedurali previste dalla Legge, e prima fra tutte quella di una tempestiva e accurata indagine, volta ad appurare i fatti e a stabilire le rispettive responsabilità (Dt 13,15; 17,4.9; 19,18). Abitualmente il giudice intraprende la sua azione penale perché qualcuno ha sollecitato il suo giudizio, formulando un’accusa basata per lo più sulla sua personale qualità di testimone oculare dei fatti. È quindi il cittadino ad assumersi in prima istanza la responsabilità dell’azione giuridica, senza attendere, senza demandare a pubblici funzionari il compito doveroso della giustizia. L’amore per la vittima, il desiderio dell’equità, la sollecitudine per la pace impongono a ogni membro giuridicamente competente della società il dovere di denunciare il crimine, di indicare l’imputato e di chiedere un’adeguata sanzione. Secondo la normativa biblica, nessuna azione penale può essere intentata senza essere avvalorata da «due o tre testimoni» (Nm 35,30; Dt 17,6; 19,15; 1Re 21,10; ecc.): la pluralità convergente della testimonianza nei confronti di un qualche imputato costituiva un sufficiente elemento probatorio nel sistema penale ebraico. Il giudice deve in ogni caso istituire un contraddittorio, dando alle parti in causa diritto di parola, e consentendo quindi all’accusato una congrua opportunità di difesa (cf. Ger 26,12-19). Poiché nel mondo antico mancano le garanzie delle «prove» oggettive (disponibili solo in casi eccezionali), tutto si gioca sulla parola: è dovere del giudice e suo merito il saper «discernere», il saper distinguere cioè tra 45

l’attestazione veritiera e quella menzognera dei contendenti (1Re 3,16-27; Dn 13,48-59), così che il giudizio emesso corrisponda ai fatti e alle responsabilità ivi implicate. Il processo deve concludersi con un verdetto di condanna: verrà sanzionato chi è stato giudicato «colpevole», sia esso l’imputato, sia esso l’accusatore che ha falsamente denunciato qualcuno (Dt 19,18-20). Quest’ultimo aspetto va sottolineato e precisato, in quanto si discosta dagli esiti di molti processi nell’ordinamento moderno, che si risolvono spesso con la semplice assoluzione. Per evitare accuse ingiustificate, il legislatore biblico stabilisce che si irroghi al falso testimone la medesima pena che egli aveva richiesto per il suo «fratello»; il rischio di essere scoperti nella propria macchinazione doveva costituire senza dubbio un efficace deterrente contro istinti di vendetta o bramosie di accaparramento. È chiaro però che ciò valeva solo per chi «mentiva», non per chi fosse incorso in qualche infelice errore di identificazione del colpevole. Stando alla storia biblica, la minaccia prevista dalla Legge non ha tuttavia impedito che, con falsa testimonianza, venissero condannati degli innocenti (1Re 21,8-16). Compimento necessario dell’azione giudiziaria è, alla fine, l’esecuzione della sentenza, che nell’antico Israele veniva demandata a persone o organismi competenti, in funzione del tipo di pena da infliggere. In certi casi era un parente della vittima a esercitare l’ufficio del carnefice, che in ebraico ha il titolo di «vendicatore del sangue». Non abbiamo qui il residuo di pratiche vendicative arcaiche, poiché, come vedremo in seguito, l’azione punitiva era pienamente regolata dalla Legge; si evidenziava così invece la responsabilità dell’accusatore, il suo necessario coinvolgimento nel momento drammatico dell’atto punitivo, in modo analogo a quanto la Legge biblica prescrive per i delitti capitali, quando recita: «La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui [il colpevole] per farlo morire. Poi sarà la mano di tutto il popolo. Così estirperai il male in mezzo a te» (Dt 17,7). La sanzione variava a seconda dei crimini: veniva allora applicata la 46

cosiddetta «legge del taglione», che costituisce un principio comune a tutta la procedura penale dell’antichità, secondo la quale si infligge una pena proporzionata alla colpa commessa: «vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Es 21,23-25; cf. Lv 24,19-20; Dt 19,21).39 Più frequentemente delle pene corporali come la fustigazione (Dt 25,1-3; Ger 20,2) o la mutilazione (Dt 25,11-12; Gdc 1,6), erano irrogate delle sanzioni pecuniarie, che costituivano una sorta di risarcimento per il danno inferto (Es 21,34.37; 22,4-5; ecc.). Per i delitti più gravi era sancita la pena capitale, che da diversi racconti risulta essere stata realmente applicata (1Sam 22,17-19; 1Re 2,31-34; ecc.). Il principio ispiratore di tali normative, oggi non più seguite alla lettera nemmeno dagli ebrei ortodossi, è l’assunzione responsabile dell’istanza giudicante quale mediazione dell’equità e della pace fra i cittadini (Is 32,17). Risulta perciò accettabile la finalità del sistema punitivo, che intende bollare l’atto criminoso dichiarandone pubblicamente l’inaccettabilità sociale (Dt 13,6; 17,7; ecc.); al tempo stesso tale sistema sanzionatorio vuole costituire un deterrente sociale (Dt 13,12; 17,13; ecc.), oltre a essere, in certi casi (ovviamente non per la pena di morte), un utile strumento per l’emendazione del colpevole (2Re 19,4; Ger 2,19; ecc.). 1.3. La prassi giudiziaria in Israele Le indicazioni procedurali fornite dai testi legali trovano sostanziale conferma in quella parte della letteratura biblica che narra la storia del popolo di Israele, e in particolare riferisce di alcuni processi meritevoli di memoria, ad esempio quello di Saul contro i sacerdoti di Nob, incriminati per alto tradimento (1Sam 22,6-20), quello attuato nei confronti di Nabot, processato per aver maledetto Dio e il re (1Re 21,8-16), quello in cui fu implicato Geremia per falsa profezia (Ger 26), fino al racconto tardivo di Susanna accusata dagli anziani di adulterio (Dn 13). I processi avevano 47

certamente luogo regolarmente, e venivano probabilmente celebrati con un’osservanza formale della procedura, ma ciò non significa che in essi fosse necessariamente perseguito l’atto di giustizia (cf. 1Sam 8,3; 2Sam 15,3). Gli stessi racconti sopra menzionati comprovano anzi che le autorità giudicanti abusavano del loro potere o erano vittime di infami macchinazioni, che sfruttavano in maniera vergognosa le imperfette pieghe delle regole procedurali. Ma è soprattutto la tradizione letteraria profetica, con la sua puntigliosa critica della società, a denunciare l’insoddisfacente prassi dell’azione giudiziaria. Ciò risulta fin dalle prime attestazioni della profezia scritta: nel centro del libro di Amos, infatti, troviamo una delle più dure requisitorie contro la corruzione dell’apparato giudiziario nel regno di Samaria: «Essi odiano chi fa giuste accuse in tribunale e detestano chi testimonia secondo verità» (Am 5,10); «sono ostili verso il giusto, prendono compensi illeciti e respingono i poveri nel tribunale» (5,12). A questa denuncia fanno eco i profeti di Gerusalemme, che deplorano un’identica situazione nel regno di Giuda. Scrive ad esempio Isaia: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene» (Is 5,20); e – riprendendo ironicamente la terminologia usata per qualificare i giudici in Es 18,21 e Dt 1,13 – il profeta prosegue: «Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti. Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino, valorosi nel mescere bevande inebrianti, a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente» (5,21-23). Testi simili costituiscono un filone ricorrente nella letteratura profetica (Is 1,23; 10,1-2; 29,21; 59,14; Ger 5,28; 22,17; Ez 22,25-29; Mi 3,9-11; ecc.). Più in generale, se dai profeti viene costantemente ribadito l’invito a fare giustizia, difendendo e promovendo il diritto degli sprovveduti (Is 1,17; Ger 7,5-6; Ez 18,8; Am 5,24; Mi 6,8; ecc.), ciò significa che una tale esigenza etica e religiosa era lungi dall’essere soddisfatta nella vita quotidiana del popolo di Israele. Le tradizioni sapienziali, raccolte negli Scritti, per quanto concerne il giudizio ribadiscono i principi generali propugnati dalla Torah, affidando 48

soprattutto al re, quale figura ideale, il compito di fare giustizia, rimediando eventualmente all’iniquità o alla trascuratezza dei sottoposti (Sal 72,1-4; 101; Pr 20,8; 31,4-9; ecc.); d’altra parte, gli stessi testi confermano la denuncia profetica di una diffusa corruzione del mondo forense (Sal 58,2-6; Gb 12,17.24-25; 24,2-4; Qo 5,7-8; Dn 13; Sap 1,20; ecc.). In questa parte, per lo più tardiva, della letteratura biblica, si può notare la progressiva tendenza a interpretare la dinamica sanzionatoria del male prescindendo dalla mediazione giudicante, quasi che il male dell’azione malvagia producesse immediatamente e fatalmente il male della sua propria punizione, secondo il detto: «Chi scava una fossa vi cadrà dentro e chi rotola una pietra, gli ricadrà addosso» (Pr 26,27; cf. anche Sal 9,16-17; 35,8; 57,7; Pr 1,32; 8,36; 11,27; Qo 10,8; ecc.). Questo principio della retribuzione immanente sembra essersi sviluppato per sopperire alla corruzione dell’esercizio giurisprudenziale in sede pubblica: il Creatore avrebbe infatti predisposto che ogni realtà fosse intimamente regolata dalla giustizia, supplendo con la sua legge eterna alle umane inadempienze.

2. IL «GIUDIZIO» DI DIO È proprio l’inadempienza, da parte dei giudici umani, del programma di ristabilimento della giustizia, prospettato dai testi legali fondatori, a esigere un intervento giudicante di Dio nella storia di Israele. Là dove il giudizio è stravolto, Dio si alza per instaurare il suo tribunale (Is 3,13-15; Sof 3,5), per punire dunque i malfattori e coloro che li hanno assolti (Is 29,20-21), salvando così gli innocenti ingiustamente condannati (Sal 103,6; 140,13). Questa prospettiva viene assunta dai testi biblici, quasi come un assioma di teodicea. 2.1. L’intrinseca necessità del giudizio divino Il concepire Dio come Sovrano di tutte le genti comporta la sua personale responsabilità nell’azione di giustizia. Il trono divino viene infatti 49

immaginato come la suprema istanza giurisdizionale: suprema in quanto superlativamente capace di attuare il suo compito (Dt 32,4; Sal 7,12; 45,7), poiché Dio tutto conosce e nessun colpevole può resistere al suo potere (2Sam 22,39; Sal 76,8-9), suprema anche perché costituisce una sorta di corte d’appello, che ripara ogni ingiusto verdetto umano (Sal 82), suprema infine perché il Sovrano di tutta la terra (Gen 18,25; Sal 82,8) estende la sua giurisdizione all’universo, sottoponendo al suo decreto di giustizia ogni popolo, in tutte le epoche della storia. Il concetto stesso di Dio, per la tradizione biblica, impone che egli sia giusto (Is 30,18) e che la sua giustizia si realizzi concretamente mediante un giudizio equo, sollecito, universale. Lo attesta Abramo, nella sua intercessione per Sodoma: «Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (Gen 18,25); lo riconosce Salomone nella preghiera di inaugurazione del tempio (1Re 8,32), lo confessano il profeta (Sof 3,5), l’orante (Sal 58,12) e il sapiente (Pr 21,15; Dn 3,28). Le alte qualità che la Torah richiedeva per i giudici vengono riconosciute in modo sommo al Signore (Dt 10,17; Gb 34,19; 2Cr 19,7; Sir 35,12; ecc.); a lui sono ascritte metaforicamente le giuste procedure di inchiesta e soprattutto l’inflessibile applicazione di proporzionate sanzioni (Is 3,13-15; Sal 82). L’ira di Dio contro il malfattore (Is 5,25; 13,9; Ger 23,20; Ez 20,33; ecc.) è espressione del suo appassionato zelo per la giustizia; nel medesimo atto egli rivela anche la sua profonda compassione verso gli oppressi (Sal 12,6; 18,28; 76,10): ogni giudizio divino può così essere celebrato, come memorabile salvezza, dalle vittime innocenti (Sal 96,11-13; 98,5-9). Il racconto biblico è una coerente lettura della storia alla luce del giudizio di Dio. Dal diluvio alla caduta di Gerusalemme, ogni catastrofe esprime il castigo inferto dal Signore al colpevole; ogni evento salvifico, al contrario, dall’Esodo fino alla vittoria su Oloferne nel libro di Giuditta, attesta il provvido intervento del giudice divino a favore degli innocenti 50

perseguitati. Di questa lettura sono maestri soprattutto i profeti, i quali puntualmente ribadiscono che nessun atto malvagio resterà impunito, e per questa ragione annunciano su Israele e su tutte le nazioni il manifestarsi della collera del Signore a motivo di un dilagante diffondersi della violenza (Os 4,1-2; Am 3,2; Is 2,12-17; ecc.). Si è persino detto, forse in maniera affrettata, che il genere letterario tipico dei profeti fosse l’«oracolo di giudizio» (cioè di condanna), culminante nell’annuncio del «giorno del Signore», concepito come una sorta di giudizio escatologico (Gl 4,1-2; Zc 12; Dn 7,9-10), nel quale «ogni carne» (Is 66,16; Ger 25,31; 45,5; Ez 21,910) viene convocata per il rendiconto definitivo, in uno scenario contrassegnato da devastanti cataclismi cosmici (Is 24,21-23; Gl 2,1-2.11; 3,3-4; ecc.). Il credente, pur vivendo un sentimento di timore reverenziale di fronte a tali prospettive, non è spaventato: l’umile della terra (Sal 96,1112) si rallegra anzi della teofania del Signore (Sal 97,1-5), e celebra, in atto di lode, l’avvento luminoso del suo Dio che «viene a giudicare la terra» con rettitudine, giustizia e verità (Sal 96,10.13), strappando la vita dei suoi fedeli dalla mano del malvagio (Sal 97,10).

3. PROBLEMI INERENTI AL «SISTEMA» PENALE EBRAICO Di questo sistema giudiziario – presentato sia nel versante di attuazione umana che in quello dell’agire divino – vogliamo discutere alcuni aspetti problematici, soprattutto quelli inerenti alla pena inflitta al reo, perché ciò costituisce ai nostri giorni uno dei punti di maggiore perplessità per i lettori della Bibbia. E lo facciamo con un duplice intento: in primo luogo, per chiarire il vero significato di una certa terminologia e di talune pratiche vetero-testamentarie che, nel discorso comune, vengono citate in modo improprio e inducono quindi una valutazione scorretta del testo biblico; in secondo luogo, la nostra riflessione ci consentirà di far emergere quale sia la finalità perseguita dalla disciplina penale prevista dalla Legge biblica, e quali siano i suoi limiti intrinseci. Tali riflessioni non mancheranno di avere 51

ripercussioni anche in campo teologico, dato che i testi della Scrittura si servono piuttosto frequentemente dell’immagine di Dio come Giudice. 3.1. L’azione penale e la «retribuzione vendicativa» Non c’è errore più difficile da combattere di quello che è diventato luogo comune. Uno di questi è l’opinione, diffusa non solo fra gli incolti, che l’Antico Testamento rifletta una mentalità primitiva, secondo la quale la reazione al male si esplica mediante la vendetta. In tal modo il mondo dell’antico Israele è radicalmente contrapposto a quello cristiano e a quello contemporaneo, come si contrappone il regime del puro istinto e della violenza al regno della ragione e del diritto. 3.1.1. Necessità della sanzione Una tale interpretazione della tradizione ebraica è stata veicolata e in parte motivata da un equivoco linguistico. Il testo biblico infatti attesta ripetutamente la necessità di una «risposta» al fatto criminoso, in altre parole insegna l’inderogabile dovere giuridico di punire il reato. Questo «rispondere» al male è espresso in ebraico dal verbo nqm, che significa precisamente «retribuire», contraccambiare il danno, reagire al torto subìto colpendo l’aggressore.40 Purtroppo i traduttori greci della LXX, non disponendo di un esatto equivalente, hanno abitualmente tradotto la radice ebraica con il vocabolario della vendetta (ɛκδικεῖν e ἐκδίκησις), seguiti in questa linea dalle traduzioni latine (ulcisci, ultionem reddere, vindictam retribuere, ecc.), che hanno indotto anche nelle moderne versioni un significato peggiorativo delle attestazioni scritturistiche. Non è il «retribuire» che fa problema, ma il modo di farlo. Ora è chiaro che, se in taluni casi il senso della radice ebraica nqm è proprio quello della vendetta, intesa come reazione privata, sproporzionata e crudele a un torto subìto (come in Gen 4,24; Gdc 15,7; Sal 44,17), in moltissimi altri casi va invece riconosciuto il significato di «ristabilire il diritto»,41 oppure – a 52

seconda dei contesti – quello di «punire (il colpevole)», «risarcire (la vittima)», «riparare (il torto)», «ottenere o esigere soddisfazione», «rivendicare» e simili. Naturalmente questo senso si impone nei testi legali (come Es 21,20-21; Nm 31,2) e soprattutto in quei passi nei quali Dio è il soggetto di tali azioni: non si deve allora parlare del Dio «vendicatore», ma piuttosto del Dio «che fa giustizia», che «sanziona» il male, «che ristabilisce il diritto» sulla terra (Na 1,2; Sal 94,1; 99,8 ecc.).42 3.1.2. Il vendicatore del sangue Sempre attinente alla tematica della vendetta, ritenuta una costante procedurale nell’Antico Testamento, è da menzionare la figura del «vendicatore del sangue» (Nm 35,12-27; Dt 19,6.12; Gs 20,3.5.9; ecc.), traduzione discutibile di un’espressione ebraica (gō’ēl haddåm) che avrebbe potuto anche essere meglio resa con «difensore, garante, vindice della vita».43 Il problema, in questo caso, non è però solo di natura linguistica, ma anche e soprattutto di natura istituzionale. Come già accennato, l’applicazione della pena capitale non era sempre demandata in Israele a un pubblico ufficiale, ma – almeno in molti periodi della storia di Israele – veniva affidata di volta in volta a qualcuno che aveva legami di sangue (o parentela) con la vittima.44 Questa pratica pare attestata non solo nel periodo più arcaico della nazione israelitica, ma anche in epoca monarchica; e dai testi biblici sembra che ciò trovasse applicazione nelle località periferiche, nei diversi villaggi cioè dove non esisteva una forza pubblica atta a far eseguire la legge penale. Questo genere di istituzione, anche se discutibile, non è tuttavia per nulla una esemplificazione del regime della vendetta privata. Il «giustiziere» può agire infatti solo dopo che la società gli ha «consegnato» il colpevole per l’esecuzione.45 L’azione del «giustiziere» non è dunque arbitraria e non è lasciata alla valutazione dell’offeso; essa esprime piuttosto il diritto e il dovere della vittima di 53

procedere contro chi è meritevole di punizione. Ma sia la pena, sia il modo di applicarla sono totalmente sottoposti alla Legge codificata o consuetudinaria; in altre parole, questa istituzione non è altro che una delle esplicitazioni possibili della cosiddetta «vendetta pubblica»,46 concetto che esprime concretamente la necessità della pena per una corretta giustizia societaria. Il sistema penale biblico propugna dunque la necessità della «risposta» all’atto criminoso; in altri termini, la Scrittura afferma che il colpevole va punito e che la vittima deve essere risarcita. Introdurre a questo momento del discorso il concetto di tolleranza, di indulgenza e di perdono è totalmente errato, non solo secondo il sistema giudiziario ebraico,47 ma anche per il comune e universale senso della giustizia. La società, infatti, non ha altro modo di significare che un atto o comportamento è qualcosa di male se non collegandolo con una sanzione punitiva. Se l’assassinio, ad esempio, viene giudicato un atto inaccettabile e riprovevole, la società deve rivelarlo non solo nella normativa etica che vieta l’omicidio, non solo nel biasimo e nella deprecazione, ma anche, e necessariamente, nella prescrizione giuridica che punisce adeguatamente tale crimine. 3.1.3. Qualità della sanzione (il taglione) È dunque giusto, cioè doveroso, rispondere al male. Ma qual è la risposta giusta? Quale rapporto va stabilito tra crimine e pena? Su quest’ultima problematica48 la Scrittura ha una posizione che potremmo dire fluida. Mentre è assolutamente ferma e monolitica sul fatto della punizione, è invece variegata e mobile sulle modalità concrete di applicazione della sanzione. Il «come» punire è infatti legato ai mutevoli condizionamenti della storia sociale, culturale, istituzionale, politica e religiosa degli uomini; e Israele su questo punto non costituisce un’eccezione. Ciò di cui i codici penali ebraici testimoniano è comunque la preoccupazione di una punizione giusta, nel senso di proporzionata, equa, noi diremmo 54

«ragionevole» o «umana». In questa prospettiva, l’essenza stessa della legislazione veterotestamentaria si presenta come un freno, un correttivo istituzionale al regime vendicativo privato. L’essere umano, prima della Legge, è rappresentato dalla figura di Lamec, che difende la sua vita con la minaccia di una rappresaglia sproporzionata; rivolgendosi alle sue mogli, egli intona una feroce canzone: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette» (Gen 4,23-24).

Ma quando interviene la Legge, la regola fondamentale del diritto è quella di una esatta corrispondenza fra reato e pena; essa è paradigmaticamente espressa dalla norma chiamata impropriamente «regola del taglione»49 che, in una delle sue formulazioni più complete, recita: «vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Es 21,23-25).

Non più quindi la morte per un livido, né sette vite per una vita, ma simmetria, equilibrio, equità tra danno inferto e danno subìto. Il corpo umano funge da parametro, perché dice metaforicamente il diverso tipo di offese che si possono infliggere e subire: si può essere colpiti in un occhio, oppure perdere un dente, si può soffrire per un livido o per una ferita, il danno può essere temporaneo o definitivo, si può perdere un organo e si può perdere la vita. Ebbene, si deve tener conto di questa diversità, e quindi «rispondere» in modo proporzionato. Il taglione quindi non indica per nulla la risposta vendicativa: «occhio per occhio» non legittima la ritorsione, ma, al contrario, dice «giustezza», cioè moderazione ed equità 55

nella indispensabile azione punitiva. C’è un altro aspetto della cosiddetta «regola del taglione» – che sarebbe meglio chiamare «regola della retribuzione» – che va opportunamente chiarito. Quando la Bibbia dice: «vita per vita, occhio per occhio», ecc., non intende dire che all’offensore deve essere (necessariamente) inferto l’identico danno che egli ha provocato. Questa interpretazione sembra essere suggerita da certe leggi dei codici del Vicino Oriente antico (come quello di Hammurabi), che, in alcuni casi, prescrivono una sanzione esplicitamente diretta contro la parte del corpo responsabile di un determinato reato: così, se uno ha rubato, gli viene amputata la mano; se invece ha dolosamente carpito un bacio, gli verrà tagliato il labbro; e così via.50 Da notare che la tradizione legale biblica raramente infligge questo genere di sanzione;51 in ogni caso, anche là dove aveva luogo il «taglione», nel senso materiale del taglio di un organo corporeo, non veniva affatto inflitto al delinquente il danno che lui aveva procurato. Esiste sempre un’asimmetria, un cambiamento di livello tra il torto e la pena, evidente, ad esempio, nella sproporzione che esiste tra l’azione del furto e il taglio della mano. È certo comunque che la Scrittura, proprio nei tre passi in cui cita esplicitamente la regola della retribuzione (taglione), non fissa un rigido parallelismo applicativo, ma piuttosto «interpreta» la modalità sanzionatoria: la frase «occhio per occhio» infatti ha valore più di detto proverbiale che di rigida prescrizione giuridica. Infatti, nel codice più antico, quello dell’alleanza, in Es 21,22-25,52 si prospetta il caso di alcuni uomini che durante una rissa urtano accidentalmente una donna incinta, facendola così abortire. Per questo danno è prevista un’ammenda, richiesta dal marito della donna e regolata da un arbitrato. Se poi la donna patisce altre conseguenze nella sua stessa persona, ecco che se ne terrà conto, in modo da risarcire adeguatamente la vittima; per cui, se le si è procurato un danno temporaneo, il risarcimento sarà di un certo tipo, certamente inferiore a quello richiesto nel caso la

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donna dovesse incorrere nella morte, secondo dunque il principio «vita per vita [...], ferita per ferita». Il principio della retribuzione è d’altronde applicato subito dopo (nel medesimo testo legislativo) in modo molto concreto: «quando un uomo colpisce l’occhio di uno schiavo o della sua schiava e lo acceca», ebbene, non si dice affatto che a lui verrà inflitto lo stesso danno o cose simili, ma invece il padrone «gli darà la libertà in compenso dell’occhio» (21,26). E ancora di più, la norma immediatamente seguente introduce il caso di qualcuno che «fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava»; ebbene, la sanzione prevista è identica a quella della perdita dell’occhio; infatti, anche in questo caso, il padrone dovrà dare «la libertà in compenso del dente» (21,27). «Occhio per occhio, dente per dente» è così un detto che interpreta i dati, e va poi, a sua volta, interpretato, cioè adattato intelligentemente, con libertà rispettosa della giustizia. Identica configurazione legale viene attestata anche negli altri passi dove è riportata la regola della retribuzione. Nel libro del Levitico, in un codice piuttosto tardivo, la norma viene citata in una parte complementare della raccolta legale. La sua formulazione sembra in apparenza contraddire il discorso che abbiamo appena fatto; la Legge recita infatti: «Se uno farà una lesione53 al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro» (Lv 24,19-20). Se guardiamo tuttavia il contesto immediato, risulta del tutto evidente che un’interpretazione letterale della norma non si armonizza con le prescrizioni adiacenti. Innanzitutto, la regola della retribuzione (sopra citata) è inserita nella presentazione di un caso di bestemmia;54 ebbene, viene decretato – senza che si possa percepire quale possa essere la logica retributiva55 – che tale reato venga punito con la morte per lapidazione (24,10-16.22-23).56 Inoltre, il principio «vita per vita» viene espressamente citato non a proposito dell’omicidio (24,17), ma come commento esplicativo alla norma riguardante l’abbattimento indebito

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di un animale domestico: «Chi percuote a morte un capo di bestiame dovrà risarcirlo: vita per vita» (24,18). Risulta dunque con sufficiente chiarezza che le espressioni che definiscono la regola del taglione possono essere utilizzate (anche disgiunte le une dalle altre) per suggerire un principio di natura generale da applicare in svariate circostanze giuridiche e con varie modalità applicative. Nell’ultimo caso, appena citato, l’espressione «vita per vita» significa che si deve risarcire l’animale ucciso dando l’equivalente (un animale vivo) al proprietario, e non che venga ucciso un altro animale appartenente al colpevole. Identiche conclusioni si devono trarre dall’esame dell’ultimo passo nel quale viene citata la regola della retribuzione. La troviamo nel codice deuteronomico, probabilmente di epoca pre-esilica, il quale inserisce la norma in un contesto giurisdizionale, quello del caso di falsa testimonianza in tribunale (Dt 19,15-21). La Legge, in questa circostanza, assimila il tentato crimine al crimine stesso: «Farete a lui quello che egli aveva pensato di fare al suo fratello»57 (19,19); per questo il detto «vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede» (19,21) – citato subito dopo quale motivazione della Legge – ha una possibile attuazione con l’irrogazione della pena di morte inflitta a colui che ha falsamente accusato un uomo di crimine capitale; e funziona anche, in modo analogo, per altre accuse di diversa gravità, paragonabili a una lesione dell’occhio, del dente o del piede. Si può aggiungere, in riferimento specifico alla pena di morte per il falso accusatore (di un crimine gravissimo), che la pena prevista dal codice non solo è severa, ma risulta «eccessiva», nel senso che non applica alla lettera il principio «vita per vita», dato che non c’è stata in realtà nessuna morte. L’estensore della prescrizione si sente obbligato infatti a introdurre un elemento giustificatorio supplementare, che è quello della deterrenza. Il bisogno assoluto di salvaguardare l’istituzione giudiziaria che si regge sull’attendibilità dei testimoni induce il legislatore a significare la gravità del crimine della falsa testimonianza mediante l’irrogazione del massimo 58

della pena: «Così estirperai il male in mezzo a te. Gli altri verranno a saperlo e ne avranno paura e non commetteranno più in mezzo a te una tale azione malvagia» (19,19-20). A conclusione di queste notazioni sul cosiddetto «taglione», possiamo dire che la tradizione penale vetero-testamentaria si preoccupa di ribadire la necessità della pena giusta, proporzionata ed efficace.58 Se alla nostra sensibilità o ragione appare che, in certi casi, la sanzione non sia equa, ciò può essere dovuto non solo alla diversa valutazione della gravità del reato, ma anche al principio della deterrenza, principio certamente discutibile e problematico in tutte le sue applicazioni, ma frequentemente addotto nella teoria e utilizzato nella prassi giudiziaria. Il massimo della pena è appunto l’espressione tipica non solo della gravità somma insita in un certo tipo di reato, ma anche dell’intenzionalità pedagogica del legislatore di combattere ed estirpare dalla società la propensione a commettere tale crimine. E con questo passiamo appunto a un altro aspetto, particolarmente controverso, attinente sempre al sistema giudiziario vetero-testamentario. 3.2. La pena capitale «Vita per vita». Abbiamo sostenuto l’idea che le equivalenze fissate dalla regola della retribuzione vogliono e devono essere «interpretate», non prese alla lettera; se dunque «occhio per occhio» significa che a un determinato danno deve corrispondere una determinata pena, potremmo parafrasare «vita per vita» dicendo che al massimo crimine si deve rispondere con il massimo della pena. Nell’Antico Testamento il massimo della pena è la pena capitale, le cui diverse forme (lapidazione, impiccagione o «sospensione al legno», decapitazione,59 rogo, ecc.) sono prescritte dai diversi codici penali e sono ampiamente documentate nella storia di Israele. La pena di morte rappresenta simbolicamente la drammatica conclusione del processo penale, di cui essa è, in un certo senso, il sintomo dolorosamente negativo; 59

detto in altri termini, la morte dell’uomo quale atto conclusivo del procedimento di giustizia manifesta l’ambiguità, anzi il limite intrinseco dello stesso sistema giudiziario. Bisogna riconoscere che per millenni l’umanità non ha questionato la legittimità della pena capitale; anche gli spiriti più liberi e illuminati non hanno contestato il diritto di condannare a morte.60 Oggi, in molte parti dell’Occidente almeno, la situazione è mutata; negli ultimi decenni, importanti movimenti di opinione hanno indotto a mutare la legislazione penale in numerosi Paesi, abrogando definitivamente la pena di morte, anche se permangono Stati, alcuni fra i promotori dei diritti dell’uomo, in cui tale pena è, almeno in determinate circostanze, comminata e irrogata.61 Il vistoso mutamento ideologico in questo campo della coscienza e del diritto ha prodotto i suoi effetti anche nel settore dell’interpretazione biblica. Si assiste così al tentativo di attenuare la severità della Legge vetero-testamentaria, fino a stemperare completamente la drammaticità del sistema penale attestato dalla Scrittura.62 Una significativa linea di studi insiste sul fatto che la vera preoccupazione del legislatore ebraico non è la punizione del colpevole, quanto piuttosto il risarcimento della vittima.63 E questo è certamente vero a proposito del furto o di altri danni più o meno volontari inferti a un cittadino; l’azione penale è effettivamente diretta a compensare il torto – di solito in maniera piuttosto cospicua –, così che la sanzione corrisponde a un’ammenda severa, senza altre conseguenze punitive (di natura corporale o detentiva) nei confronti del reo. Da questa visione generale scaturisce poi una lettura dell’intero sistema giudiziario ebraico, per cui si afferma che in Israele il «giudizio» aveva come finalità essenziale quella di risolvere le contese fra cittadini; era quindi un giudizio di pace volto più a sanare dissidi e ingiustizie che a punire i colpevoli.64 Dobbiamo confessare che una tale prospettiva interpretativa, pur

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sottolineando aspetti anche importanti della legislazione penale veterotestamentaria, non tiene conto dell’insieme dei dati, e in particolare della frequente menzione della punizione corporale, e in specie della pena di morte. È evidente che essa non risarcisce la vittima, ed è difficile riconoscervi il risultato di un giudizio di pace. Recentemente c’è anche stato chi ha sostenuto che la pena di morte era sì prevista dal codice, ma non era di fatto mai applicata, essendo (sempre) commutata in un’ammenda pecuniaria, con un «versamento» (non di sangue, ma) in denaro che serviva come riscatto della propria vita.65 Ora, anche questo tentativo di «salvare» il testo biblico rendendolo più accettabile alla mentalità moderna non si basa sul tenore esplicito della lettera scritturistica. Troppi infatti e troppo chiari sono i testi che esplicitamente descrivono il tipo di pena capitale, e molti sono i racconti che la attestano. D’altra parte, il trovare impunità da un crimine meritevole di morte mediante un qualche compenso in denaro costituirebbe una sorta di lasciapassare per i ricchi criminali, che potrebbero perpetrare qualsiasi delitto riscattando ogni volta la loro vita con una parte dei loro beni.66 La «compensazione» nel tribunale è tra l’altro esplicitamente condannata dalla Legge (Es 23,6; Dt 16,19) e dai profeti (Is 1,23; Ger 22,17; Ez 22,27; Am 5,12; Mi 3,11; ecc.) come una delle peggiori corruzioni della giustizia.67 È nostra opinione dunque che si debba riconoscere come dato storico l’esistenza della pena capitale nell’antico Israele; e riteniamo che proprio tale pratica illustri emblematicamente l’ambiguità insita nello stesso sistema giudiziario (non solo in quello israelitico) e nella regola della retribuzione che ne è il principio basilare. Riprendiamo allora l’idea che la Legge è un significante sociale, nel senso che indica concretamente alla collettività quali sono i valori fondamentali; non solo li indica, ma li tutela e li inculca con la forza ragionevole del diritto. È ovvio che i beni supremi sono protetti da un’elevata sanzione, anzi da una sanzione estrema (nei confronti del

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trasgressore). Sappiamo che per la tradizione biblica la vita umana è senza dubbio considerata fra i primi valori;68 ne viene di conseguenza che essa è tutelata con la minaccia estrema, che consiste nel rispondere alla violenza mortale con una pena corrispondente (e talvolta maggiorata dalle infamanti pene accessorie). Ecco allora apparire il limite e l’assurdo dell’intero sistema: per significare l’importanza assoluta della vita, per affermare la sua insostituibilità, si deve ricorrere alla soppressione della vita.69 I moderni ordinamenti che hanno abrogato la pena di morte ritengono allora di sfuggire appieno alla contraddizione or ora evocata. È bene introdurre tuttavia due ordini di considerazioni, uno teorico e uno pratico, che invitano a riflettere maggiormente sui limiti invalicabili delle discipline repressive. Invece della pena capitale, in molti Paesi dell’Occidente tra cui il nostro, al colpevole di delitti gravissimi viene inflitta una pena detentiva perpetua, chiamata da noi «ergastolo». Certo, è questa una soluzione più garantista rispetto alla pena di morte, perché qualora venisse accertato l’errore giudiziario, è possibile, anche se tardivamente, rimediarvi con un procedimento di riabilitazione e di risarcimento. Ma va comunque notato che rimane una profonda incongruenza nella stessa pena detentiva indefinita. Se, infatti, stando alle dichiarazioni fondamentali dei diritti dell’uomo, la persona umana è definita dallo statuto della libertà, riconosciuta come bene primario e inalienabile, cosa significa rispettare la vita biologica senza rispettarne una delle sue qualità essenziali? Con la «prigione a vita» si condanna definitivamente a una vita «disumana», una vita priva del suo essenziale valore spirituale. L’auspicato emendamento del reo, d’altra parte, non viene premiato con la speranza del reinserimento nella comunità. Libertà e relazione con gli altri sono l’essenza dell’esistere umano; privare la persona, per sempre, di questi beni è sopprimerne l’essenza spirituale. Dal punto di vista pratico poi, nella concretezza cioè del costume e della prassi sociale, persino la condanna alla reclusione temporanea è una sorte

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di morte civile. In teoria, il condannato espia il suo debito con la società, come si dice, facendo alcuni mesi o anni di detenzione; ma in realtà egli viene marchiato per sempre dalla condanna. E se si pensa alla condizione concreta dei carcerati, a ciò che si produce nelle prigioni come incitamento e provocazione a delinquere, è chiaro che la nostra società non può pensare di avere raggiunto una soddisfacente applicazione della giustizia penale, e deve quindi interrogarsi radicalmente sul tipo di pena (tra l’altro praticamente sempre la stessa) che irroga e sugli effetti mortiferi che essa induce. In una frase, se ripugna la pena di morte dovrebbe almeno far problema la relativa facilità con cui si condanna al carcere come sanzione di giustizia.70 Facendo un passo ulteriore, e ritornando alla prospettiva biblica, si diceva che nella Scrittura traspare in molti punti che l’intento perseguito dalla punizione è quello di «fare giustizia», intesa come ristabilire il diritto, risarcire la vittima. Ora, la pena di morte non fa ritornare in vita colui che è stato ucciso. In questa prospettiva, così importante per la tradizione sacra degli ebrei, la sanzione estrema non ha direttamente alcun effetto benefico; è solo punitiva e, nel suo aspetto esclusivamente sanzionatorio, essa rivela un suo profondo limite. Che la vittima esprima soddisfazione quando vede condannato severamente chi le ha causato grande sofferenza è un’esperienza frequente, ritenuta legittima; ma bisognerebbe interrogarsi su questo tipo di sentimento che ha componenti puramente vendicative. Dal punto di vista dell’azione di giustizia nei confronti della vittima, anche la prigione per il condannato è un provvedimento totalmente insoddisfacente. Ancora di più se essa sostituisce atti dovuti, come il risarcimento del torto, la compensazione per la sofferenza provocata, e cose simili, che risulterebbero effettivamente più proporzionati e più utili per il bene della società. Concludiamo, ribadendo un ultimo aspetto di critica alla pena capitale, già brevemente notato. Fare piena giustizia significa promuovere l’essere umano quale soggetto di relazione nei confronti delle altre persone. Ma con 63

la condanna a morte si decreta, proprio per «fare giustizia», che al reo debba essere negata per sempre la possibilità di relazione con gli altri. Egli è tolto via, eliminato, cancellato. Come non sentire che un tale atto è imperfetto, dato che, irrogando la pena estrema, la società non vede più nel giustiziato la persona meritevole di assoluto rispetto, e disconosce radicalmente la natura di colui che dalla Bibbia viene definito «immagine di Dio»? Un’analoga contraddizione, o almeno un’intrinseca imperfezione sussiste anche nelle altre forme di condanna, in tutto ciò che statuisce e realizza l’allontanamento dell’uomo dalla comunità degli uomini. Il colpevole è un uomo e la condanna, qualunque sia, qualunque forma prenda, non può essere il solo provvedimento che soddisfi l’esigenza di giustizia. È necessario che la punizione sia articolata a un’altra procedura, che parli di perdono, di riconciliazione, di riabilitazione. Di questo parleremo appunto nel prossimo capitolo. 3.3. Il sistema giudiziario applicato all’azione divina nella storia Nessuno dubita che il modello del «giudizio» applicato al manifestarsi di Dio nella storia degli uomini sia stato scelto dagli autori biblici perché capace di illustrare una modalità di giustizia importante, anzi essenziale. Ovviamente il «giudizio di Dio» viene costantemente presentato come una procedura rispettosa delle esigenze del diritto e benefica nelle sue finalità. Due tratti vanno allora sottolineati: il primo mostra la «necessità» di un Dio giudice, mentre il secondo sottolinea la problematicità della metafora giudiziaria applicata al governo divino. 3.3.1. La necessità di un Dio che giudica Il mondo, lo si diceva a conclusione del primo capitolo, è sede del dispiegarsi della violenza. Le istituzioni umane create per frenarne gli effetti devastanti si rivelano imperfette; anzi, per un perverso meccanismo del cuore umano, le stesse mediazioni ideate per il ristabilimento della 64

giustizia vengono stravolte e asservite all’impero della menzogna e del sopruso. Questa visione delle cose, pessimistica ma realistica, traspare spesso nella Scrittura, prendendo voce nel grido delle vittime che, in situazione disperata, si rivolgono al tribunale supremo dell’Altissimo chiedendo «udienza», sporgendo querela, esigendo giustizia: «Alzati, giudice della terra [...] fino a quando i malvagi trionferanno? [...] Può essere tuo alleato un tribunale iniquo, che in nome della legge provoca oppressioni?» (Sal 94,2-3.20). «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? [...] Non ha più forza la legge, né mai si afferma il diritto. Il malvagio infatti raggira il giusto e il diritto ne esce stravolto» (Ab 1,2.4).

Il prepotente si erge contro l’inerme e lo minaccia, il violento agisce contro il debole e lo uccide (Sal 10,7-10; 37,12.14.32; Gb 24,2-17). Com’è possibile accettare un simile stato di cose? È necessario che Dio si manifesti, che ascolti il grido delle vittime e si «faccia sentire»; per il buon governo della terra è necessario che il Signore si frapponga, quale supremo sovrano, fra il prepotente e la sua vittima così da restaurare il rapporto che è stato pervertito. Dio si fa dunque giudice, diventa il soggetto «terzo» che riporta il diritto sulla terra: da una parte salva l’innocente, il povero, l’indifeso, dall’altra colpisce con giustizia inesorabile l’autore della prevaricazione. Il giudizio divino è atteso e sospirato dagli umili, che lo vedono come un intervento improrogabile per la loro salvezza; in questo caso fare giustizia è infatti sinonimo di portare vita, libertà e gioia a coloro che nell’oppressione, nello sfruttamento e nella morte avevano solo pianto e

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lamento da opporre allo strapotere del male: «Ma il Signore siede in eterno, stabilisce il suo trono per il giudizio: governerà il mondo con giustizia, giudicherà i popoli con rettitudine. Il Signore sarà un rifugio per l’oppresso, un rifugio nei momenti di angoscia» (Sal 9,8-10).

Tale lettura «giudiziaria» viene applicata dagli autori biblici a diversi episodi della storia umana, nei quali sono protagonisti singoli individui oppure interi popoli. Ad esempio, i discendenti di Giacobbe, immigrati in Egitto, sono sottoposti dal Faraone a vessazioni insopportabili; non c’è nessuno sulla terra che possa intervenire a favore delle vittime, condannate alla schiavitù e alla morte proprio da quella autorità sovrana che avrebbe il dovere di proteggere gli inermi. L’esodo può essere visto allora come l’esecuzione di una sentenza che salva il popolo degli oppressi e colpisce l’oppressore. Il governo del mondo a opera di Dio comporta che l’Altissimo non trascuri di fare giustizia laddove gli uomini a cui è demandato tale compito vengono meno al loro dovere. Quando narra che il colpevole viene punito dal giusto giudizio di Dio mediante una sconfitta bellica o la morte personale, la Bibbia intende chiaramente presentare, sotto forma di racconto parabolico, una verità fondamentale di teodicea, quella che non può non riconoscere che Dio è giusto e che dà a ciascuno «secondo le sue opere» (Sal 62,13; Pr 24,12; Gb 34,11; Rm 2,6; Eb 11,6; 2Tm 4,14; ecc.). La rivelazione piena e limpida di questa verità divina non avviene nella storia del mondo; essa è piuttosto rinviata all’evento escatologico. In altre parole, Dio si manifesterà perfettamente e definitivamente come giudice del cielo e della terra quando convocherà tutta l’umanità (nella valle di Giosafat: Gl 4,2) e instaurerà il giudizio ultimo e universale, che segnerà la fine irrevocabile del male e la perfetta e luminosa vittoria degli innocenti 66

(Mt 25,31-46). L’attesa di questo momento, nel quale sarà detta la verità su ogni cosa, produce nel cuore dei mortali il timore di Dio (Lc 23,40; Ap 14,7) quale principio di agire etico; la certezza del giusto giudizio finale sostiene la speranza degli oppressi che, pur disprezzati nelle loro terrene rivendicazioni, pur condannati da tribunali iniqui, confidano che la corte d’appello dell’Onnipotente li assolverà e li risarcirà per quanto hanno vergognosamente subìto (Ap 15,4; 16,7; 19,2). 3.3.2. Problematicità di questa «rappresentazione» di Dio Questa immagine non è solo vetero-testamentaria; il giudizio finale è anzi uno dei temi ricorrenti nelle parabole di Gesù di Nazaret, ed è uno dei motivi principali della predicazione paolina e delle suggestioni visionarie del libro dell’Apocalisse. Eppure è necessario riconoscere l’imperfezione e persino l’ambiguità di questa metafora. Non solo perché l’insistenza (talvolta esclusiva) sul giudizio finale di Dio può far trascurare la sollecitudine di portare un po’ più di giustizia sulla terra, assumendo con responsabile coraggio le opportunità di trasformazione del mondo concesse alle forze umane che operano nella storia, ma soprattutto perché il sistema forense contempla necessariamente il dramma della condanna. Un processo penale per un crimine gravissimo si conclude, in Israele, con l’esecuzione capitale; in modo corrispondente, nei testi vetero-testamentari si annuncia la morte per i colpevoli sottoposti al giudizio divino, e, in modo analogo, anzi con un crescendo drammatico, nel Nuovo Testamento si afferma che all’ultimo giorno gli ingiusti andranno al supplizio eterno del fuoco (Mt 25,46). Se lo sguardo si posa sui poveri, che per il giudizio divino entrano nella beatitudine del Regno, l’animo è soddisfatto per la constatazione dell’avvento della giustizia; ma se si posa sul condannato, che ha il volto del fratello, che porta sempre in sé il sigillo dell’immagine di Dio, il cuore viene turbato. E la questione diventa questa: se la qualità della giustizia è proporzionata alla qualità della relazione all’altro, come non ritenere 67

imperfetta l’azione che porta alla condanna, all’esclusione e addirittura all’uccisione del colpevole? Non riuscendo a separare la violenza dall’uomo violento, si è costretti a estirpare il male sopprimendo l’uomo. Per amore della vita si sopprime la vita. Attribuire questo al Creatore e Padre non può e non deve essere scontato. Non solo. Mediante il verdetto giudiziario e la susseguente esecuzione, la giustizia è imposta con la forza, con una coercizione legittima richiesta dal diritto, che tuttavia risponde alla violenza con una certa forma di violenza. Il colpevole, condannato, è vinto, ma non è convinto; è punito, ma non redento, non raggiunto dalla verità e dalla pace. Il volto del giudice, come quello dell’esecutore della sentenza, appare spietato; e la stessa immagine del Signore diventa terrificante e quasi insopportabile: «Il Signore farà udire la sua voce maestosa e mostrerà come colpisce il suo braccio con ira ardente, in mezzo a un fuoco divorante, tra nembi, tempesta e grandine furiosa» (Is 30,30). «Nel giorno dell’ira del Signore e al fuoco della sua gelosia tutta la terra sarà consumata, poiché farà improvvisa distruzione di tutti gli abitanti della terra» (Sof 1,18).

Anche pretendendo equità e moderazione nell’applicazione della pena, il Giudice è necessariamente costretto a infliggere un male «giusto», proporzionato al reato commesso; e questo male è talvolta definitivo, irrimediabile. Come può Dio Padre ritenersi soddisfatto dell’ultimo giudizio, se i suoi figli infinitamente amati vengono per sempre sottratti al suo abbraccio? Proprio tenendo conto di questi limiti «teologici», di questa intrinseca imperfezione del modello forense, e in particolare dell’atto di giustizia

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realizzato nella condanna, si apre al lettore della Bibbia la rivelazione di un’altra «via di giustizia». Un diverso modo di procedere e un diverso risultato dell’azione di giustizia vengono infatti prospettati dalla parola di Dio per comprendere l’agire del Signore nella storia di peccato e per ispirare il comportamento degli uomini nei confronti del colpevole. Parliamo quindi della procedura del rîb, termine ebraico che equivale grosso modo alla nostra lite bilaterale; illustreremo la sua dinamica, la sola in grado di attuare la perfetta giustizia, perché porta alla riconciliazione tra il violento e la vittima, tra l’innocente e il colpevole. È così che si rivela il vero volto di Dio, è così che il figlio dell’uomo diventa immagine di Dio.

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Come ogni fatto istituzionale, anche il sistema processuale ebraico ha certamente subìto variazioni e aggiustamenti nel corso della storia; al proposito, si può ricorrere alla ricostruzione di H. NIEHR, Rechtsprechung in Israel. Untersuchungen zur Geschichte der Gerichtsorganisation im Alten Testament, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1987. Nonostante la grande sagacia nelle indagini testuali, va tuttavia notato che restano assai limitati i dati ricavabili con certezza dai racconti biblici e dalla normativa giuridica. Per fornire un quadro relativamente organico delle procedure, si è costretti a ricorrere a numerose congetture, sia riguardo alla datazione dei testi, sia riguardo all’ambientazione storica dei dispositivi legali. È più affidabile dunque restare su un piano generale e fare una presentazione della struttura essenziale del procedimento giudiziario; cf. al proposito, P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Pontificio istituto biblico, Roma 1986, 12-13. 37 Non appaiono divergenze significative, anzi vi sono precise convergenze tra il sistema processuale biblico e quello attestato nel Vicino Oriente antico. 38 Cf. C. SAPORETTI, Antiche Leggi. I «Codici» del Vicino Oriente Antico, Rusconi, Milano 1998, 159.161. 39 Il significato e le problematiche di questa normativa verranno più ampiamente discussi nel § 3 di questo capitolo (Problemi inerenti al «sistema» penale ebraico). 40 Tale significato, che ricalca la nostra idea del contrappasso, risulta dalla terminologia parallela che, in modo chiarissimo, appartiene al campo semantico della retribuzione, come, per esempio, il verbo šlm (= «restituire, risarcire»: Dt 32,35.41; Is 34,8), gml (= «ricompensare»: Is 59,17-18; Gl 4,4; Sal 103,10), šwb (Hiphil) (= «rendere, restituire»: Is 66,15; Gl 4,7; Sal 79,10-12). 41 Cf. W. DIETRICH, «Rache. Erwägungen zu einem alttestamentlichen Thema», in

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EvTh 36(1976), 450-472. 42 Per un esaustivo esame lessicografico e per la problematica connessa, si veda in particolare H.G.L. P EELS, The Vengeance of God. The Meaning of the Root NQM and the Function of the NQM-Texts in the Context of Divine Revelation in the Old Testament, Brill, Leiden 1995; cf. anche P. BOVATI, «Vengeance», in Dictionnaire critique de Théologie, a cura di J.-Y. LACOSTE, PUF, Paris 1998, 1207-1208. 43 Su questo tema, si veda P. J OÜON , «Notes de lexicographie hébraïque», in Bib. 6(1925), 317-318; B. SANTOS OLIVERA, «“Vindex” seu “Redemptor” apud hebreos», in VD 11(1931), 89-94; L. ALONSO SCHÖKEL, «La Rédemption œuvre de solidarité», in NRTh 93(1971), 449-472. 44 F. CRÜSEM ANN , «“Auge um Auge...” (Ex 21,24f). Zum sozialgeschichtlichen Sinn des Talionsgesetzes im Bundesbuch», in EvTh 48(1987), 411-426, specialmente 419. 45 Secondo Dt 19,12, ad esempio, sono gli «anziani» della città nella quale è avvenuto l’assassinio ad arrestare l’omicida e a darlo in potere («metterlo nelle mani») del «vendicatore del sangue». Sulla terminologia tecnica del deferimento, si veda H.J. BOECKER, Redeformen des Rechtslebens im Alten Testament, Neukirchener Verlag, Neukirchen 21970, 21.75; BOVATI, Ristabilire la giustizia, 351-352. 46 Il fatto che l’azione sanzionatoria venga assunta da un familiare della vittima non la rende affatto «privata»: come già detto, tale modo di fare sottolinea solo maggiormente il legame con l’offeso. 47 Citiamo, come particolarmente significativo, quanto viene comandato di fare nei confronti di una persona cara, colpevole di tradimento religioso: «tu non dargli retta, non ascoltarlo. Il tuo occhio non ne abbia compassione: non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi la mano di tutto il popolo» (Dt 13,9-10). 48 Basti ricordare l’opera di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, del 1764, per evocare il dibattito, acceso in epoca illuministica e ancora oggi intensamente perseguito dai difensori dei diritti dell’uomo, sia in ambito filosofico che in quello più largamente pubblicistico. 49 Su questo tema, cf. H.-W. J ÜNGLING , «“Auge für Auge, Zahn für Zahn”. Bemerkungen zu Sinn und Geltung der alttestamentlichen Talionsformel», in ThPh 59(1984), 1-38; R. WESTBROOK, Studies in Biblical and Cuneiform Law, Gabalda, Paris 1988, 39-88; S. WEST , «The Lex Talionis in the Torah», in JBQ 21(1993), 183-188. 50 Questa normativa ci appare indubbiamente barbarica: «La legge del taglione raggiungerà in Mesopotamia sconcertanti aberrazioni, prova indiscutibile che si trattava, in definitiva, di un atto di falsa giustizia, a volte di estrema ingiustizia, pur se concepito dietro la sollecitazione di un disperato desiderio di giustizia. La teoria del risarcimento, certamente più avanzata e più “civile”, precede però nel tempo, e non segue, la teoria del taglione» (SAPORETTI, Antiche Leggi. I «Codici» del Vicino Oriente Antico, 30). 51 Si veda, per esempio, il caso della donna che, per difendere il marito coinvolto in una rissa, afferra l’avversario «nelle parti vergognose»: per lei è prevista l’amputazione

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della mano (Dt 25,11-12). Ciò che è esposto in questo caso giuridico è talmente strano e insolito che non può che essere stato offerto al giudice come una sorta di parametro di riferimento, da applicare analogamente in situazioni anche del tutto diverse. 52 Su questo testo si vedano in particolare B.S. J ACKSON , «The Problem of Exodus XXI 22-25 (Ius Talionis)», in VT 23(1973), 273-304; R. WESTBROOK, «Lex talionis and Exodus 21,22-25», in RB 93(1986), 52-69; S. ISSER, «Two Traditions: The Law of Exodus 21:22-23 Revisited», in CBQ 52(1990), 30-45. 53 Citiamo la versione ufficiale della CEI; il termine ebraico indica forse più genericamente il «danno». 54 Secondo il testo biblico che stiamo commentando, l’autore del crimine di bestemmia è figlio di una donna israelitica e di un egiziano; il legislatore tende a sottolineare esplicitamente che lo straniero e il cittadino sottostanno, su questo punto, alla medesima normativa penale (Lv 24,16.22). Ricordiamo, per analogia, che in Es 21,26-27 era lo schiavo a essere soggetto specifico della regola della retribuzione. 55 Viene detto che il caso, che appariva problematico alla comunità, venne deciso dal Signore stesso (Lv 24,13-14); tale verdetto tuttavia non è né motivato né commentato. 56 I versetti sopra citati fanno così da «inclusione» per la sezione legislativa che, al suo interno, cita la regola del taglione. 57 Si noti dunque la variante: non si fa al colpevole quello che lui ha fatto, ma gli si fa quello che lui ha progettato di fare. 58 Chi ha familiarità con l’insegnamento di Gesù, in particolare con il discorso della montagna, direbbe che il vangelo contesta radicalmente la prospettiva sopra illustrata, per il fatto che invita a non «rispondere» al male «con il male», ma con la mitezza disarmata: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra [...]» (Mt 5,38-39). Vedremo, nel capitolo terzo, come effettivamente esista una diversa e «superiore» (Mt 5,20) via di giustizia, possibile quando l’offeso dispone personalmente del potere di decidere come reagire a un torto subìto. In sede di diritto penale processuale una tale prospettiva non può essere introdotta senza le dovute precisazioni. 59 Cf. 2Sam 16,9; 2Sam 20,22; Mt 14,10; ecc. Il mettere a morte mediante la «spada», piuttosto frequente, non comportava necessariamente la decapitazione. 60 Le autorità della Chiesa, per scrupolo invero piuttosto formale, affidavano al braccio secolare il dovere di attuare le sentenze (crudeli e cruente); i suoi teologi per moltissimi secoli non si sono pronunciati contro tale pratica. 61 Il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel commento al comandamento «non uccidere», esordisce con una citazione programmatica (desunta dall’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, Donum vitae, del 1988): «La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il

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diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» (n. 2258). Il lettore esita sul significato dell’espressione «distruggere direttamente un essere umano», ma soprattutto si interroga se la sacralità assoluta della vita sia da riservarsi alla persona innocente. Il Catechismo insiste infatti sull’idea che il comandamento del Decalogo esprime la «proibizione di uccidere l’innocente, uccisione in cui consiste l’omicidio volontario» (n. 2263); va infatti considerata «la legittima difesa delle persone e delle società» nei confronti dell’aggressore (n. 2263), la quale «può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile» (n. 2265). Ecco allora giustificato perché «l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte» (n. 2266). Credo sia legittimo esplicitare qualche perplessità di fronte a tali argomentazioni. Non si può infatti non considerare sacra la vita anche del colpevole, e non si può ritenere che il diritto e il dovere della legittima difesa autorizzi l’infliggere la pena capitale, quando altri provvedimenti – più rispettosi della vita – sono disponibili. In questa linea di pensiero si muove infatti il Catechismo degli adulti della CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La Verità vi farà liberi, LEV, Città del Vaticano 1995, 491, n. 1028. 62 Molti contemporanei, di fronte alla violenza anche istituzionale delle pagine bibliche, si rifugiano invece nella condanna indignata del testo scritturistico; vengono in certi casi salvate solo poche pagine del Nuovo Testamento, che riprodurrebbero l’insegnamento autentico di Gesù di Nazaret, tutto incentrato sulla mitezza e il perdono. Cf., per esempio, G. BARBAGLIO, Dio violento? Lettura delle scritture ebraiche e cristiane, Cittadella, Assisi 1991. 63 Parlando del sistema penale ebraico, P. MAHON scrive: «Ciò che sommamente conta è il ristabilimento dell’equilibrio rotto, la cancellazione – lo sradicamento – del non-diritto, la restaurazione del diritto della vittima, la ricollocazione di quest’ultima nell’assoluta integrità della sua situazione attuale: la sua “restitutio in integrum”» («Responsabilité», in DBS 10[1985], 365). 64 Cf. L. KOEHLER, «Die hebräische Rechtsgemeinde», in ID ., Der hebräische Mensch. Eine Skizze, J.C.B. Mohr, Tübingen 1953, 150; B. GEM SER, «The rîb- or Controversy-Pattern in Hebrew Mentality», in M. NOTH – D.W. THOM AS (a cura di), Wisdom in Israel and in the Ancient Near-East, presented to H.H. ROWLEY, Brill, Leiden 1955, 124; BOECKER, Redeformen des Rechtslebens im Alten Testament, 35. 65 B.S. J ACKSON , «Reflections on Biblical Criminal Law», in JJS 24(1973), 8-38; R. WESTBROOK, «Punishments and Crimes», in ABD 5(1992), 548. 66 Si vedano al proposito soprattutto i contributi di M. GREENBERG , «Some Postulates on Biblical Criminal Law», in Yehezkel Kaufmann Jubilee Volume, Studies in Bible and Jewish Religion Dedicated to Yehezkel Kaufmann on the Occasion of His Seventieth Birthday, ed. M. HARAN, Magnes Press, Jerusalem 1960, 5-28; ID., «More Reflections on Biblical Criminal Law», in S. JAPHET (a cura di), Studies in Bible, Magnes Press,

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Jerusalem 1986, 1-17. 67 BOVATI, Ristabilire la giustizia, 175-181. 68 Questo è certamente valido se visto in rapporto alla proprietà privata (legittimo possesso di beni materiali), che nella Bibbia, a differenza di quanto prescrivono i codici del Vicino Oriente antico, non è mai garantita dalla minaccia della pena di morte da infliggersi al trasgressore. Va tuttavia ricordato che nella legislazione ebraica la pena di morte è comminata anche per reati di tipo religioso (Dt 13,2-19), per attentati al vincolo matrimoniale (Dt 22,22-24), per grave mancanza di rispetto nei confronti dei genitori (Es 21,15.17) e per molti altri misfatti che non mettono in pericolo direttamente la vita umana. 69 P. RÉM Y, «Peine de mort et vengeance dans la Bible», in ScEc 19(1967), 329; BOVATI, Ristabilire la giustizia, 116. 70 Va ovviamente considerata con attenzione la questione della pericolosità sociale di una determinata persona, così come la possibile recidività del criminale. Ci preme comunque rimarcare gli aspetti problematici di certe sanzioni, per un auspicato progresso nel modo di concepire la pena.

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3 SALVARE IL COLPEVOLE

Accanto all’ordinamento penale gestito dall’organo giudicante, e anzi in antagonismo con la disciplina repressiva della sanzione forense, esiste in Israele un altro modo di procedere quando ci si trova in presenza del crimine. Si tratta di un diverso sistema di fare giustizia, una via più nobile, un iter più efficace di quello del puro diritto. Parallelo in certi casi al tribunale, in altri casi articolato ad esso, il sistema del rîb – che ci accingiamo a illustrare – ha una sua propria fisionomia, da scoprire e da comprendere.71 Anch’esso ha di mira il ristabilimento del diritto conculcato; ma, rispetto al «giudizio» (mišpāṭ), invece di concludersi con la «morte» (almeno simbolica) del reo, è capace di rispettare e promuovere la vita e la dignità dell’essere umano che ha commesso una colpa. Meno vistosa del processo forense, perché si dispiega nell’intimità della casa, nel luogo significativo delle relazioni interpersonali marcate dall’amore, questa procedura è la più rispettosa del diritto, inteso nella sua pura intenzionalità di promozione del bene. Di essa la sacra Scrittura è testimone coraggioso; essa la promuove, la inculca, ne incoraggia l’esecuzione, perché essa è la procedura divina per eccellenza. La scoperta, per alcuni, e l’accoglienza, per tutti, di questa modalità di «fare giustizia» riteniamo sia una delle più significative conquiste spirituali di ogni epoca e quindi anche del nostro tempo. La Bibbia ebraica, come già detto, ha una sorta di termine tecnico, quello di rîb, per designare tale procedura; noi quindi lo useremo frequentemente. Il verbo rîb significa «accusare», o più generalmente «litigare»; e, anche se questo non è senza approssimazione e ambiguità, parleremo della «lite» 74

come dell’equivalente più accettabile per esprimere il concetto ebraico.72 A mano a mano che procederemo nella descrizione di questa procedura, si vedrà che essa non è estranea alla nostra esperienza, anche se purtroppo è ancora insufficientemente penetrata nelle dinamiche pubbliche di giustizia.

1. LA LITE (IN EBRAICO RÎB) Cosa è il rîb? È un’azione dal carattere «aggressivo»,73 intrapresa da un soggetto (l’accusatore) contro un altro (l’accusato), perché il primo si ritiene offeso e defraudato nei suoi diritti a ragione di un comportamento scorretto (e perciò inaccettabile) del secondo. Il termine rîb segnala talvolta semplicemente la rissa (Es 21,18; Pr 30,33), lo scontro cioè verbale e fisico, senza regole e senza esclusione di colpi, che mira alla semplice sopraffazione dell’avversario; in altri casi invece – e sono quelli che più ci interessano e che, fra l’altro, sono quelli maggiormente attestati dalla Bibbia – il diverbio prende la forma di una precisa procedura giuridica, riconosciuta dai due contendenti, che possiamo chiamare «lite», oppure disputa, contesa, litigio, vertenza, controversia, e termini equivalenti. In questa seconda accezione del termine è importante sottolineare (in opposizione alla rissa) come il procedere sia e debba essere fondato sul diritto. Perché una lite (rîb) abbia luogo è necessario che tra i due contendenti vi sia un vincolo di reciproca appartenenza, dal quale scaturiscono diritti e doveri. Nella terminologia biblica possiamo dire che la contestazione nasce nella cornice dell’alleanza,74 anche se raramente viene esplicitato il termine tecnico per questo concetto (berît), e anche se non sempre vengono formalizzati con precisione i rapporti tra i soggetti in contesa. Il legame di alleanza traspare da una terminologia che la evoca, in modo più o meno evidente, e soprattutto dal costante riferimento agli obblighi («Comandamenti», «Legge») che entrambe le parti si suppone debbano osservare. 75

Il legame giuridico tra i membri del patto che li rende «alleati», cioè solidali nel perseguire il bene comune, ha un fondamento di ordine antropologico, quello che riconosce che la benevolenza e l’aiuto vicendevole rappresentano dei valori costitutivi del soggetto spirituale. Detto in altri termini, la codificazione del rapporto tra le persone nei dettati legali non fa che esplicitare, in modo giusto anche se imperfetto, l’esigenza dell’amore reciproco, che si esprime come rispetto, fedeltà, protezione e promozione dell’altro.75 La dimensione affettiva del rapporto di alleanza è essenziale per comprenderne il senso e lo sviluppo; essa viene esplicitata – come esigenza di amore fedele – negli stessi testi di stipulazione di alleanza76 ed è rivendicata dai contraenti il patto in ogni momento della storia della loro relazione. La famiglia, prima di qualsiasi altra forma di aggregazione sociale, è il luogo in cui i soggetti vivono in comunione di alleanza, secondo le sue profonde dimensioni amorose, riconosciute e difese dal diritto. Il giusto rapporto tra coniugi, tra genitori e figli, tra fratelli e parenti, e persino quello tra il padrone di casa e i suoi «servi» costituiscono la trama della vita, realizzata nella sua forma più alta e più gioiosa. Ciò è percepito come talmente vero che, con trasposizione metaforica, la dimensione familiare è applicata analogamente, come ideale, anche alla realtà sociale, politica e religiosa, per cui la relazione fra cittadini è qualificata come fraterna, e quella che regola il rapporto del capo con i sudditi viene espressa in termini di paternità e figliolanza.77 Persino il rapporto dell’uomo (o del popolo) con Dio trova – come vedremo – nel lessico del legame familiare il suo più costante strumento espressivo. Questa lunga premessa è indispensabile per capire esattamente la natura del rîb, quale procedura che, da un lato, suppone vincoli di natura affettiva profonda e, dall’altro, si propone di difenderli, di ripristinarli, e persino di perfezionarli proprio nel momento drammatico in cui uno dei due partner ritiene che l’unione amorosa sia stata infranta da un comportamento

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gravemente offensivo. Immaginiamo, ad esempio, che un marito venga a conoscere che sua moglie lo tradisce, oppure che un padre constati che suo figlio sta dilapidando sconsideratamente il patrimonio di famiglia, o che uno dei figli abbia motivi per ritenere che un suo fratello lo abbia ingiustamente defraudato di una parte dell’eredità; immaginiamo anche che un padrone che ha accolto un domestico come suo «familiare» venga a sapere che questi trama contro di lui, ebbene queste situazioni costituiscono un caso tipico per intraprendere un’azione di «litigio» nei confronti della parte ritenuta colpevole. La specificità di tale situazione – e questo è un elemento decisivo – è di essere totalmente sottomessa, nello svolgimento e negli esiti, al comportamento delle due parti in conflitto; da loro quindi, e solo da loro, non perciò dall’intervento di un terzo soggetto che farebbe da arbitro o giudice, dipende il concludersi della controversia e l’attuazione o meno della giustizia. Useremo al proposito la terminologia di «lite bilaterale», come equivalente dell’ebraico rîb, così da distinguerlo dalla struttura giudiziaria composta da tre soggetti: i due contendenti e il giudice. Chi intraprende l’azione del rîb deve essere «autorizzato» dal tipo di vincolo che lega le parti in conflitto. Questa autorità può essere riconosciuta da una normativa legale oppure può essere semplicemente approvata come uso consuetudinario indiscusso. Risulta dai testi veterotestamentari che il padre (o chi ne fa le veci78) ha una reale giurisdizione sui membri della sua casa; egli ha il ruolo – riconosciuto con chiarezza dal diritto consuetudinario – di paterfamilias, con responsabilità e potere sulla moglie, sui figli e sui servi che prestano servizio domestico. La giurisdizione «paterna» all’interno della casa ha dei tratti che la fanno assomigliare alla giurisdizione del magistrato in sede pubblica; ma il funzionamento della prima è diversissimo sia nelle modalità di attuazione che nelle finalità intese e conseguite. È questa dinamica «paterna» che ci accingiamo a illustrare nelle sue fasi essenziali.79

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Per facilitare l’esposizione e rendere più convincente il nostro discorso, ci rifaremo ad alcuni testi biblici, prelevati dalle diverse parti strutturali della sacra Scrittura, così da mostrare come la logica e la prassi del rîb costituiscano la trama dei rapporti conflittuali che hanno per ambiente la famiglia, e in particolare siano utilizzati per esprimere la contesa di Dio nei confronti del suo popolo. Terremo presente innanzitutto la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli (•). Questo racconto che conclude il libro della Genesi illustra in modo emblematico la natura della lite familiare (condotta da un fratello divenuto autorevole), nei suoi diversi momenti e nell’intento di bene che la anima;80 per questa ragione costituirà il principale supporto narrativo della nostra esposizione. Ad esso verrà articolato un testo emblematico della tradizione profetica, e precisamente Is 1,2-20 (••). Essendo questo il passo che inizia tutta la profezia scritta di Israele, vi troveremo espresse in modo programmatico le dinamiche interpretative di tutta la vicenda accusatoria del Signore nei confronti del suo popolo. Infine aggiungeremo qualche breve riferimento alla figura di Gesù (•••), al suo modo di atteggiarsi nei confronti dei peccatori, quale compimento perfetto della dinamica divina del rîb.

2. LO SVOLGIMENTO DELLA LITE Il punto di partenza della lite è l’attuarsi di un’azione delittuosa o il manifestarsi di un comportamento ritenuto lesivo del diritto del partner. A differenza però del crimine che è oggetto di intervento da parte dell’istanza giudicante, il reato che qui ci interessa ha luogo nella famiglia, e concerne il rapporto tra i membri della casa.81 Avviene, come già accennato, che la moglie tradisca il marito (Ger 3,20; Ez 16,15-19; Os 2,4-7), oppure che il figlio assuma un atteggiamento ribelle e irrispettoso nei confronti del padre (Is 1,2-3), o che un servo trascuri il suo dovere in materia anche grave (Ml 1,6). Sappiamo che la Legge di Israele non considera «minori» tali comportamenti;82 non solo infatti vengono condannati dalla Legge del 78

Decalogo – che proibisce l’adulterio e prescrive l’obbedienza dei sottoposti –, ma risultano perseguibili e sanzionabili persino con la pena di morte, se fossero deferiti all’istanza forense.83

• Tra i figli di Giacobbe nasce un forte dissidio per motivi di gelosia dei fratelli maggiori nei confronti di Giuseppe che è amato dal padre più degli altri; le sue delazioni e i suoi sogni di grandezza creano una latente inimicizia in tutta la famiglia (Gen 37,2-11). I fratelli trovano un’occasione favorevole per eliminare Giuseppe: prima progettano di ucciderlo, decidono poi di venderlo come schiavo a degli stranieri (Gen 37,12-36).84 Siamo dunque di fronte a un crimine gravissimo, con la duplice aggravante di essere perpetrato contro il fratello minore e di ferire crudelmente il padre Giacobbe (Gen 37,34-35). Come avviene abitualmente, il crimine viene occultato dalla menzogna (Gen 37,31-33). •• Nel testo di Is 1,2 Dio si presenta come un padre che ha allevato e fatto crescere dei figli. Per stoltezza inspiegabile, questi si sono ribellati contro colui che li ha beneficati. La metafora paterna costituisce un modo di evocare l’alleanza tra il Signore e Israele; in altri testi profetici il patto è invece presentato con la metafora della relazione sponsale (Ger 2–3; Os 2,4-26; Ez 16 e 23; ecc.). Il crimine denunciato da Is 1,3 distrugge la relazione amorosa in maniera inaccettabile e drammatica; il ribelle, infatti, non capisce la gravità del suo comportamento, e si rivela più stupido di un asino (Is 1,3). ••• Nei vangeli Gesù è presentato come il fratello che parla del Padre, che anzi fa di questo titolo il nucleo centrale del suo insegnamento. E ciò non solo come una generica rivelazione della bontà di Dio, ma

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come risposta alla condizione peccatrice dell’umanità. «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta” [...]. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (Lc 15,11-13). La ribellione, espressa dall’allontanamento immotivato dalla casa paterna, è qui presentata quasi fosse un diritto; apparentemente il figlio non percepisce la gravità dell’atto commesso contro il padre.

2.1. L’accusa Di fronte alla trasgressione, occultata o misconosciuta dal colpevole, colui che è responsabile del bene della famiglia deve intervenire; tutti gli strumenti a sua disposizione, usati con senso di giustizia e dispiegati con saggezza, serviranno a ripristinare la comunione fra i soggetti. 2.1.1. La «forza» della parola di accusa Chi viene a conoscenza del crimine, assume, come suo primo dovere, un’iniziativa di parola che prende la forma dell’accusa.85 Se non si assume la responsabilità della denuncia, si diventa infatti complici del crimine, e soprattutto si dimostra di non avere (più) amore nei riguardi della persona amata, che è abbandonata al suo proprio male. La denuncia tuttavia non è portata all’attenzione dell’organo giudicante, ma prende la forma di un rimprovero minaccioso fatto al colpevole stesso. E qui appare già una prima differenza essenziale tra l’accusa bilaterale (specificatamente quella che ha il carattere della relazione paterna, fraterna, sponsale) e la denuncia deferita in tribunale. Nel processo, la pubblica accusa deve convincere l’organo giudicante, poco importa cosa pensi o cosa senta l’imputato. Nel rîb invece la parola accusatoria è totalmente rivolta a operare un cambiamento nel partner ritenuto colpevole, a 80

commuoverlo, a farlo ragionare; e per questo, invece di far leva sull’oggettività della prova, essa cerca l’argomentazione che tocchi il cuore del colpevole, che deve essere indotto a riconoscere la verità. Così facendo l’accusatore rivela l’intenzionalità che lo muove, esprime e attua ciò che sorregge tutto il procedimento della denuncia e della critica. Mentre in sede processuale l’accusatore vuole che il colpevole sia condannato (cioè punito e quindi «eliminato» simbolicamente), nella controversia l’accusatore, più di ogni altro, ha interesse a salvare l’amato, il figlio, la sposa, il fratello. L’amore per l’altro è all’opera proprio quando assume la forma della censura e della riprensione. Così insegna il Levitico, nel passo dove appare una massima tra le più celebri della Bibbia: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,17-18).86 La qualità di questo intervento accusatorio si misura in funzione del risultato che deve ottenere. Ora – e ribadiamo questo punto perché è un elemento essenziale della procedura – il risultato perseguito non è certo quello di (far) condannare il reo, ma è quello di convincere il colpevole ad ammettere il suo sbaglio, a «confessare» apertamente la sua colpa, a mostrare i segni del dispiacere per ciò che ha fatto, a esprimere concretamente il desiderio di cambiare modo di agire. Per questo la parola di accusa e di rimprovero deve unire la fermezza alla sagacia: da una parte, è necessario un discorso che non dissimuli la gravità dei fatti; dall’altra, è indispensabile l’esercizio di una grande sapienza per far accettare le parole, anche amare, che si hanno da dire. Che ci voglia franchezza e coraggio, assieme a pazienza e saggezza, è evidente: il colpevole è spesso testardo e orgoglioso, può reagire male e, sentendosi offeso e minacciato, può rispondere con gesti di violenza (cf. Pr 9,7). Ciò ci diventa più chiaro se facciamo ricorso alla tradizione profetica, che rappresenta, in buona parte, l’accusa rivolta da Dio al suo popolo. I 81

profeti in Israele sono ben consci che la loro missione è difficile e rischiosa, eppure necessaria per il bene del popolo. Senza questa coraggiosa presa di parola, il malvagio sarebbe lasciato in preda al suo male, e il profeta si renderebbe connivente della stessa ingiustizia (Ez 3,20). È poi necessaria una grande saggezza perché l’atto della parola raggiunga il suo effetto. L’accusatore deve spesso «smascherare» il colpevole, che ha cancellato le tracce del suo operato, che si ostina a mentire negando i fatti contestati, o ha circondato il suo ingiusto comportamento con la muraglia dell’ipocrisia, dell’apparato ideologico, del costume approvato socialmente. E poiché deve convincere l’altro della giustezza delle sue critiche, l’accusatore è costretto a ricorrere a tutti i più elaborati e sottili accorgimenti sapienziali per ottenere il suo scopo. Per accusare in modo «giusto» non basta dire: «Tu sei colpevole di questo o di quello». L’accusato, attaccato frontalmente, si chiuderebbe a riccio sulle proprie difese e, invece di camminare concordi verso la verità, ciò determinerebbe un progressivo e definitivo serrarsi nella menzogna. Chi accusa deve «convincere» l’altro di peccato (cf. Gv 16,8); per questo fa ricorso all’ironia, che rivela e nasconde al tempo stesso; fa appello ad altre testimonianze, a ricordi comuni, quasi che il discorso fosse portato avanti da altri; si serve del discorso indiretto delle parabole, del racconto fittizio. Come fa Isaia, quando intona per gli abitanti di Gerusalemme il «cantico d’amore [del diletto] per la sua vigna» (Is 5,1); o come fa Natan che, mandato dal Signore a parlare a Davide, adultero e assassino, introduce il suo discorso con la storia del ricco che ha fatto uccidere la pecorella del povero, preparando così la strada alla parola che dice chiaramente: «Tu sei quell’uomo!» (cf. 2Sam 12,1-7). Ci sembra particolarmente importante rilevare che chi accusa – e intendiamo con questo la figura autorevole che intraprende e gestisce la procedura della lite – viene a trovarsi in una situazione difficile, in una condizione certamente più complessa di quella dell’accusatore in un tribunale, il quale assume chiaramente la veste della parte «avversa». Nella 82

lite invece chi accusa parla sì contro l’altro, perché non tollera l’atteggiamento sbagliato, sapendo che esso è distruttore della persona e lesivo dell’«alleato»; ma, al tempo stesso, è a favore del colpevole, perché non cerca affatto di rispondere al male con il male, ma vuole solo fare del bene a colui che rischia di perdersi per la sua stolta malvagità.87 Questa osservazione ci aiuta a comprendere meglio perché nella Scrittura Dio assuma spesso il volto della persona adirata, e faccia dichiarazioni di estrema severità; e al tempo stesso, tuttavia, egli continuamente faccia apparire il suo desiderio di salvezza, rivelando dunque il suo cuore paterno. Basti citare Ger 31,20: «Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza».

• Quando Giuseppe – ormai nella sua funzione autorevole di viceré – riconosce i suoi fratelli tra coloro che erano venuti a cercare grano in Egitto (Gen 42,7-8), non si precipita su di loro né per farli condannare, denunciandoli presso il tribunale del faraone, né per abbracciarli, passando sopra immediatamente a tutto ciò che era capitato (al male fatto a lui e al padre Giacobbe). Egli non può e non deve imporre unilateralmente e prematuramente il perdono; deve al contrario proporre un cammino graduale, che esige un tempo di maturazione della coscienza. Adesso è il momento della accusa minacciosa: «fece l’estraneo verso di loro – dice il testo biblico –, parlò duramente [...] e disse: “Voi siete spie! Voi siete venuti a vedere i punti indifesi del territorio!”» (Gen 42,7-9; cf. anche 42,30; 43,3). Non possiamo in questa sede dettagliare le sottili modalità attraverso le quali Giuseppe 83

porterà i suoi fratelli a confessare, almeno segretamente (Gen 42,2123), il loro crimine,88 e a mostrare sentimenti di amore verso il fratello minore. È chiaro comunque che Giuseppe adotta un atteggiamento di severità e, al tempo stesso, di paziente intelligenza per ottenere quello che vuole, e cioè la riconciliazione fraterna. Il fatto che egli non esprima odio nei confronti dei suoi fratelli è comprovato dal fatto che, proprio mentre agisce severamente, egli è frequentemente commosso fino al pianto (Gen 42,24; 43,30; 45,2). •• Il testo di Is 1,4 presenta chiaramente l’accusa del Signore contro il suo popolo. Essa assume la forma di una parola severa e minacciosa: severa, perché usa termini pesantissimi, a ragione di un crimine gravissimo («gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!»), minacciosa, perché è introdotta dal «Guai» che annuncia un futuro nefasto. Il profeta (a nome di Dio) parla del destinatario del discorso in terza persona («hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo di Israele»); si rivolge al cielo e alla terra (Is, 1,2), quasi a denunciare che Israele non ascolta più.89 Di fatto è al suo popolo che sta parlando il Signore, con passione e dolore, sperando che ascolti (cf. v. 10). Il dolore dell’accusatore, nella tradizione profetica, è più volte esplicitato proprio nella forma del pianto (cf. Is 22,4; 33,7; Ger 8,23; 9,9; 13,17; Ez 21,11-12; ecc.), a testimonianza dell’amore di Dio per il suo popolo. ••• Gesù riprende la predicazione profetica di Giovanni Battista (Mc 1,4), invitando alla conversione (Mc 1,15). Mediante la sua Parola, egli assume la responsabilità di riportare il popolo peccatore sulla via della giustizia (Mc 2,17), con un radicale cambiamento di vita (Lc 19,8-9; Gv 5,14; 8,11; ecc.). Il suo insegnamento sapienziale, che si serve spesso di parabole, ha lo scopo di far prendere coscienza della

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necessità del ritorno al Signore (Lc 15,11-32). Quando Gesù si trova di fronte al «peccatore» che non riconosce la sua colpa, le sue parole diventano molto severe e si modulano sotto forma di invettiva. Egli non condanna i peccatori consapevoli e contriti (Gv 3,16-17; 12,47), come i pubblicani e le prostitute, ma rivolge la sua minaccia a coloro che pretendono di essere giusti (Lc 18,9; Gv 9,41) e che nascondono ipocritamente la loro ingiustizia sotto le lunghe frange della falsa devozione: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti [...]. Guai a voi, guide cieche [...]. Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna?» (Mt 23,13.16.33 (parole che riprendono ciò che Giovanni Battista diceva ai farisei e sadducei: Mt 3,7-10). A una generazione malvagia che rifiuta sia la figura austera del Battista, sia la testimonianza amichevole di Gesù (Mt 11,18-19), viene allora prospettata la catastrofe: «Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida [...]; nel giorno del giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. E tu Cafàrnao sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! [...] nel giorno del giudizio, la terra di Sòdoma sarà trattata meno duramente di te» (Mt 11,21-24). Non vi è astio o rabbia in queste parole di Gesù, durissime e minacciose; esse esprimono invece l’estremo tentativo amoroso di toccare il cuore dei peccatori, di scuotere le coscienze intorpidite, di smuovere la corazza dell’abitudine al male. I sentimenti di Gesù sono mirabilmente manifestati quando, giunto a Gerusalemme, «alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!”» (Lc 19,41-42).

2.1.2. La forza salvifica dei gesti correttivi Ma la sola parola, anche sapiente, anche minacciosa, a volte non basta; anzi la tradizione sapienziale ebraica dice che è opportuno, se non 85

addirittura indispensabile, accompagnare la parola di rimprovero con l’atteggiamento della collera90 e con la disciplina del castigo (Pr 3,11-12; 6,23; 13,24; 15,10; 19,19; 21,11), proporzionato sia alla colpa commessa, sia alla condizione (fisica o psicologica) del colpevole, e in sintonia con l’universo simbolico di cui la comunità vive.91 La tradizione sapienziale, attestata nel libro dei Proverbi, ricorda frequentemente il dovere paterno di correggere mediante la verga: «Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo» (Pr 13,24; cf. anche 22,15; 23,13-14; 29,15); «il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto» (Pr 3,12; ripreso in Eb 12,6 e Ap 3,19). Vediamo così apparire un’altra decisiva differenza strutturale tra la procedura giudiziaria e quella della lite. Mentre nella prima la pena conclude il processo e pone fine a tutta la dinamica giuridica, nel rîb la punizione sta all’inizio del procedimento, non come strumento espiatorio, ma piuttosto come mezzo per «parlare» al malvagio, per farsi ascoltare e, in ultima istanza per suscitare una risposta giusta da parte del colpevole. Inoltre, il «castigo» nel rîb non segue la regola del taglione, che sappiamo regolare il sistema giudiziario del tribunale. Infatti, prima di tutto è moderato, nel senso che il danno inferto è sproporzionatamente mite rispetto alla gravità della colpa; inoltre è graduale, progressivamente più severo solo perché incontra ostinazione; infine non arriva mai all’estremo, poiché deve sempre esprimere una dose di compassione misericordiosa, così da garantire uno spazio di possibile risposta positiva da parte del colpevole. Nella procedura del rîb, con la punizione si vuole dunque fare del bene al reo (Pr 6,23; 29,15; Sir 18,13; 22,6). Questa affermazione non vuole essere certo un’anacronistica difesa della pedagogia educativa attuata con punizioni corporee o con altri crudeli strumenti correttivi. Vogliamo semplicemente far emergere una verità alquanto semplice: il padre (oppure il marito o il fratello maggiore), nell’ambito domestico, là dove è in grado

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di esercitare il suo potere benefico, metterà in moto tutto ciò che gli è consentito per salvare colui o colei che egli ama. Se l’amato è colpevole, l’amante si servirà delle parole e dei gesti che riterrà più idonei per liberare chi sbaglia dal suo stesso perdersi. Se non lo facesse, vorrebbe dire che lo ha abbandonato; se, di fronte al male, non reagisse, con passione e con forza, il colpevole non percepirebbe né la gravità del suo sbaglio, né l’intensità della passione con cui è amato.92

• Pensiamo alla storia di Giuseppe. A più riprese, nei confronti dei suoi fratelli, egli usa lo strumento della prigione, con la sofferenza che ciò comporta,93 per cambiare il loro cuore. Fin dal primo incontro, dopo l’accusa che abbiamo evocato sopra, «li tenne in carcere per tre giorni» (Gen 42,17), e in seguito fece incatenare uno di loro, Simeone, e lo tenne in carcere fino a che essi ritornarono con il fratello piccolo, Beniamino (42,24). Nel secondo incontro, a distanza di un anno, è la minaccia della schiavitù perpetua comminata a Beniamino (44,17) a scuotere la coscienza dei fratelli. Solo le lacrime segrete di Giuseppe, menzionate a più riprese dal narratore (42,24; 43,30), come anche la sua generosità (per cui restituisce il denaro versato per l’acquisto del grano: 42,25; 43,23; 44,1), fanno capire come questo atteggiamento severo non sia ispirato da rancore vendicativo, ma da un amore che cerca di redimere. •• Nel testo profetico di Is 1 viene esplicitamente fatta menzione dell’aspetto punitivo, di quello che potrebbe chiamarsi il rîb gestuale, fatto di colpi, molto dolorosi, inferti dal Signore a un popolo ostinato: «Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? [...] Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è più nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte» (Is 1,5-6). Nella concretezza degli eventi

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storici, ciò significa che la terra di Israele venne ridotta a un deserto, le città incendiate, il paese divorato dagli stranieri (Is 1,7). Queste punizioni – che intendono correggere e convertire – si ritrovano costantemente attestate nei racconti biblici (a cominciare dalle famose piaghe d’Egitto: Es 7–12); spesso vengono ricordate come compimento delle minacciose profezie di sventura, rivolte al popolo dell’alleanza proprio perché di lui ha cura speciale il Signore. Va sottolineata, in Is 1,9, la consapevolezza della comunità peccatrice di essere stata «risparmiata», di avere cioè subìto una punizione che ha tuttavia lasciato un «resto», un residuo di popolazione a cui è consentito lo spazio del ravvedimento: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra» (cf. anche Is 6,13; 10,20-22; 37,31-32; Ger 23,3; Am 3,12; 4,11; Bar 2,29; ecc.). ••• Sappiamo che nella predicazione di Gesù prevale la prospettiva misericordiosa, così che il passaggio doloroso del castigo appare praticamente assente o ridotto al minimo. Vogliamo tuttavia ricordare che nella parabola del figlio che lascia la casa paterna, ciò che lo induce a «rientrare in se stesso» e a decidersi di ritornare dal padre è l’esperienza dolorosa e umiliante della fame (Lc 15,14-19), che non è presentata come un castigo, ma ne costituisce un equivalente nella prospettiva sapienziale della «retribuzione» indiretta a cui abbiamo accennato nel capitolo secondo. Possiamo anche menzionare che il Maestro interpreta certi eventi catastrofici, come l’uccisione di alcuni galilei da parte di Pilato o il crollo della torre di Siloe su diciotto persone, come un monito per il ravvedimento: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-5). Nei vangeli, la sofferenza conseguente a una condotta sbagliata è spesso ciò che Gesù vede nelle malattie di coloro che a lui si rivolgono, nelle persone sofferenti e perciò desiderose di incontrare chi le può sanare. Gli arti paralizzati, 88

il corpo colpito dalla lebbra o dalla cecità vengono da lui visti come appello al perdono, da cui scaturisce quale effetto benefico la completa guarigione (Mt 9,2-7; Lc 5,18-25; Gv 5,14).

2.2. La risposta dell’accusato Nel rîb l’accusato è invitato a rispondere a motivo della parola stessa dell’accusa,94 che spesso, nella tradizione ebraica, assume la forma interrogativa: «Che cosa hai fatto?», «Perché lo hai fatto?» (Gen 3,13; 4,10; 12,18; 20,9; 26,10; ecc.). L’accusato non rischia la sua vita a motivo e sulla base di ciò che ha fatto nel passato, come avviene nel processo, dove si è appunto condannati (magari a morte) per i delitti commessi; nel rîb il colpevole sceglie tra vita e morte a seconda del suo acconsentire o meno alla verità dell’accusa. Il suo assenso si esprime come riconoscimento della colpa, come confessione. Questa è la paradossale via di giustizia del rîb. Una parola di verità su se stesso salva il reo. 2.2.1. Il rifiuto di riconoscere la verità. Ostinazione, occultamento, menzogna La prima istintiva reazione alla parola di denuncia è, però, quella del rifiuto. In forma più o meno esplicita, l’accusato risponde dunque dichiarando la sua innocenza. Ciò può talvolta costituire una replica sincera e veritiera nelle contese fra uomini. Vediamo, ad esempio, che Giacobbe, oltre a giustificare la sua «fuga» dalla casa del suocero assieme alle sue due figlie, riesce a dimostrare a Labano di non essere responsabile di furto (Gen 31,22-42). Ma più frequentemente – e in maniera costante quando è Dio a intraprendere il rîb –, l’accusato nega la verità mentendo. L’orgoglio, nemico della verità e del bene, maschera l’ingiustizia e la difende con mille sotterfugi. L’accusato spontaneamente è portato a smentire l’accusatore, 89

così come ha (già) cercato di occultare il suo crimine. Ricordiamo al proposito ciò che dice il proverbio biblico: «Così si comporta la donna adultera: mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho fatto nulla di male!”» (Pr 30,20). Finché perdura la negazione della propria colpa, l’accusa rimane. Dice Dio a Israele, paragonato a una moglie infedele: «Come osi dire: “Non mi sono contaminata, non ho seguito i Baal”?» (Ger 2,23); «Tu protesti: “Io sono innocente” [...]. Ecco, io ti chiamo in giudizio perché hai detto: “Non ho peccato!”» (2,35). Chi si difende negando sta in pratica ritorcendo l’accusa contro l’accusatore,95 che viene indirettamente tacciato di falsità e di malanimo. In questa situazione di stallo, due parole si contrappongono; i contendenti parano i colpi e passano al contrattacco, senza che appaia una via di soluzione.

• Nella storia di Giuseppe è notevole la resistenza dei fratelli maggiori a «ricordare» (cioè a riconoscere) l’azione delittuosa contro il fratello minore, pur di fronte all’insistente provocazione dell’accusatore. Quando si rivolgono a Giuseppe, i loro vari interventi appaiono autogiustificatori, come se si fossero sempre comportati bene. •• Nel testo profetico di Is 1, di fronte alla severa accusa del Signore, e dopo aver fatto esperienza dei segni punitivi estremamente severi (Is 1,2-9), il popolo non risponde in modo adeguato. Invece dell’umile confessione della colpa, invece della richiesta di perdono accompagnata dal proposito di incamminarsi nella via del bene, invece del riconoscimento della giustizia di Dio – sentimenti e atteggiamenti che vediamo esplicitamente richiesti da Dio in Ger 2,19; Sal 50 e Mi 6 – Israele sceglie di impegnarsi con rituali sacrificali, che Dio rifiuta perché «vede» che non sono espressione di pentimento. Il popolo, infatti, sostituisce il cambiamento di vita (che consiste nell’astenersi 90

dal male e nel fare atti di giustizia e benevolenza: Is 1,16-17) con delle liturgie puramente esteriori (cf., nella stessa linea, ma anche con sfumature specifiche: Is 43,22-24; 58,3-5; Ger 6,20; 7,21-22; 11,15; Os 5,6-7; 6,6; Am 5,21-25; Mi 6,6-7; ecc.). La commistione di culto e crimine rende l’offerta disgustosa per Dio (Is 1,11-15). ••• Nel vangelo c’è una parabola indirizzata proprio a coloro che hanno «l’intima presunzione di essere giusti» (Lc 18,9), vantandosi di osservare la Legge e di compiere con scrupolo anche i più piccoli gesti rituali; il «fariseo» zelante esce perciò dal tempio senza essere «giustificato» (Lc 18,14). Il suo peccato rimane (Gv 9,41), proprio perché non lo riconosce, non lo confessa, non loda Dio, ma si compiace piuttosto della propria perfezione (Lc 18,11-12).

2.2.2. L’umile e veritiera confessione della colpa Ma se il colpevole confessa, se cioè il persecutore ammette la sua colpa, la controversia ha una svolta decisiva, e apre la porta a una positiva conclusione. La confessione, nella struttura del rîb, è innanzitutto la parola che riconosce la propria responsabilità nel passato: «mi sono sbagliato, ho commesso un errore, ho fatto il male». Tuttavia tale dichiarazione è mediatrice di relazione nella misura in cui riconosce che si è fatto del torto a una persona, e proprio alla persona che sta di fronte in veste di accusatore (Sal 51,6). Chi confessa dice dunque: «ho peccato verso il Cielo e davanti a te» (Lc 15,21), e così indirettamente esprime la sua ammirazione, la sua «lode» (tôdah, in ebraico), il riconoscimento della «giustizia» dell’altro (Esd 9,15; Ne 9,33; Dn 9,14), che non solo non si è vendicato del male subìto, ma che, di più, si è fatto carico di cercare un rapporto veritiero, che ha accettato di soffrire perché si giungesse alla verità, nella libera adesione 91

al cammino di giustizia. Chi confessa, di fronte al padre o al fratello, sa che le parole paterne o fraterne non saranno usate per la condanna, ma per la misericordia (cf. Sal 103,10). Al rîb intentato dal Signore contro il suo popolo, Israele risponde con le grandi «preghiere penitenziali» della tradizione esilica (Esd 9,6-15; Ne 1,5-11; 9,5-37; Dn 9,4-19; Sal 106; ecc.), suppliche intrise di fiducia proprio quando riconoscono la gravità del male commesso. La vera confessione, infatti, diventa richiesta di perdono. Ciò non è solo il desiderio che il passato sia dimenticato, è domanda di incontro e rappacificazione, è umile richiesta che inizi un rapporto interpersonale nuovo. Chi è colpevole deve chiedere misericordia, e deve chiederla sapendo che il perdono non è un atto «dovuto», un diritto che egli si sarebbe in qualche modo procurato con il coraggio delle sue ammissioni. Al colpevole spetta di domandare e di attendere, ma non di pretendere; il colpevole deve anzi dire: «non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati» (Lc 15,19), riconoscendo così di avere perso con la sua condotta il diritto di rivendicare.

• Il racconto di Giuseppe e dei suoi fratelli non esplicita in maniera chiara il pentimento dei fratelli. Persino l’ultimo discorso di Giuda (Gen 44,18-34), che costituisce un punto culminante della narrazione, non formula con franchezza la responsabilità sua e degli altri fratelli nella «scomparsa» del fratello minore. Tuttavia essi hanno almeno riconosciuto, in segreto – pensando che Giuseppe non capisca le loro parole –, che tutti i loro guai sono la conseguenza del delitto perpetrato (Gen 42,21-23; cf. anche 44,16). Giuseppe, d’altra parte, vede un’accettabile forma di pentimento nei gesti che accompagnano le parole, vede nel desiderio di salvare ad ogni costo il fratello minore, Beniamino, un mutamento radicale dei loro sentimenti e del loro agire. L’amore di Giuseppe è tale che egli accoglie il pentimento anche se 92

non esplicitato in parole; il suo desiderio di riconciliarsi con i fratelli non aspetta che un piccolo spiraglio per realizzarsi. •• «Lavatevi, purificatevi», chiede il Signore in Is 1,16. Non si tratta certo di fare abluzioni, ma di esporsi umilmente al lavacro della misericordia di Dio. ••• Nella parabola del figlio che ha condotto una vita dissoluta, la svolta capitale avviene quando egli dice al padre: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te» (Lc 15,21); questa semplice dichiarazione determina un finale positivo alla storia di peccato. Analogamente, nell’altra parabola, quella del fariseo e del pubblicano, la preghiera di quest’ultimo che si batte il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13) determina la sua «giustificazione» (Lc 18,14). Chi si lascia lavare i piedi dal Redentore, chi dunque riconosce di avere bisogno di essere purificato, sarà totalmente mondo (Gv 13,3-11).

L’attestazione di pentimento e la richiesta di perdono devono però essere sincere. Devono esprimere un vero pentimento, che è dispiacere per il male fatto e insieme desiderio di operare il bene nel futuro. La controversia è un confronto fra due esseri spirituali, per i quali il rapporto di parola è determinante. La menzogna uccide la relazione interpersonale. Ora, per mostrare che è veramente dispiaciuto di ciò che in passato è accaduto, per sottolineare la verità del suo pentimento e la serietà della sua richiesta di perdono, il colpevole compie dei gesti che, nella tradizione biblica, sono chiamati atti penitenziali. La tradizione post-esilica svilupperà questa dimensione liturgica in modo sistematico. Il colpevole piange, non mangia più, sta in disparte, silenzioso, in atteggiamento abbattuto (si pensi alle Lamentazioni); il suo corpo dice la sofferenza, l’umiliazione, il suo volto 93

invoca un sorriso di comprensione, una parola che rianimi, una mano tesa, un abbraccio compassionevole. Se pensiamo alla ritualizzazione liturgica, noi vediamo che, nelle controversie tra il Signore e Israele, il popolo, per esprimere la confessione dei peccati, si veste di sacco, si mette la polvere sul capo, pratica il digiuno, intona il lamento, e così via (Is 58,3-6; Gl 1,1314; 2,12-17; Gn 3,5-8; Ne 9,1-3; ecc.). Ma non è in questi gesti, per quanto impressionanti, per quanto umilianti, che si rivela la sincerità della confessione e la verità del pentimento. Tutta la tradizione profetica, quindi sostanzialmente tutta la letteratura che riproduce l’accusa rivolta da Dio al popolo dei peccatori, è unanime nel denunciare l’ambiguità delle cerimonie e dei riti penitenziali. Dio non vuole che si straccino le vesti, non ama polvere e cenere, sacrifici espiatori e cose simili: il pentimento si esprime in realtà nella decisione di operare secondo giustizia, di riprendere in mano la propria vita e ridarle una fisionomia di onestà e di amore: «Smettete di presentare offerte inutili [...]. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,13.16-17).

In questo senso, il segno del vero pentimento si manifesta nelle decisioni prese da Zaccheo, che non solo restituisce il maltolto, ma ribalta l’avidità del pubblicano in benevolenza verso i poveri: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). È a questo genere di pentito che può essere annunciata la salvezza (Lc 19,19). Si sa che confessione, pentimento e condono (della pena) sono termini che compaiono anche in sede giudiziaria; tuttavia è chiaro che solo nel rapporto bilaterale (cioè nella procedura familiare del rîb) essi possono 94

esprimere il loro senso perfetto. Fare piena confessione è possibile nei due casi, ma mentre in tribunale questo conferma il giudice nell’emettere una sentenza di condanna, nella controversia apre a una parola di totale perdono. Mentre il pentimento in sede giudiziaria può, a certe condizioni, condurre a una pena mitigata, nella controversia restituisce un uomo nuovo alla condizione di giustizia. Non si possono dunque confondere le due procedure, ciascuna ha la sua logica e il suo proprio epilogo.96

• I fratelli di Giuseppe mostrano il loro pentimento perché Giuda, nel chiedere pietà, si offre di diventare schiavo al posto del piccolo (Gen 44,33), perché, per non dare dispiacere al vecchio padre, è disposto a sacrificare la sua stessa vita (cf. anche 43,9). La sapiente azione di Giuseppe ha fatto sì che coloro che avevano venduto come schiavo un fratello, sono ora disposti a subire la schiavitù per salvarlo. Giuseppe non domanda risarcimenti; gli basta vedere che il cuore dei suoi fratelli è cambiato. •• In Is 1, il rifiuto dei sacrifici è articolato alla richiesta di praticare la giustizia (Is 1,16-17) come condizione necessaria e unica per ottenere il perdono (cf. anche Mi 6,8). Ciò è ribadito anche nella conclusione del Sal 50, dove, al v. 23, Dio dice: «Chi offre la lode [confessione] in sacrificio,97 questi mi onora; a chi cammina per la retta via mostrerò la salvezza di Dio». ••• Gesù riconosce il pentimento dei peccatori che a lui si rivolgono, perché vede il cuore pentito. Non domanda altro. Chiede solo che il perdono apra a una vita diversa, fatta di giustizia: «va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11; cf. 5,14).

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2.3. La riconciliazione L’intenzionalità ultima del promotore del rîb è infatti di perdonare. Se colui che ha sbagliato dice che è dispiaciuto del male commesso, se pone alcuni segni che manifestano concretamente il suo proposito di cambiamento, diventa possibile cancellare il passato e ritrovare la perfetta intesa, nella verità della riconciliazione. L’offeso, la vittima, ha il potere sublime di far incominciare una nuova vita. L’ultimo atto della controversia, preparato da quanto finora descritto, è così la riconciliazione. Essa si realizza quando il perdono è insieme accordato (dalla vittima) ed è ricevuto (dall’offensore). È il momento dell’incontro, quando i due che erano in conflitto e si opponevano nelle parole e negli atti, ritrovano la concordia della verità e sono entrambi artefici dell’atto di giustizia. Va sottolineata qui la libertà di colui che perdona; egli non è costretto da una norma o autorità pubblica, né obbligato dal comportamento del pentito; il perdono nasce dall’amore gratuito per l’altra persona, e, come tale, non ha legge. Solo la vittima è autorizzata a perdonare; lo farà se saprà dimenticare la propria sofferenza, se potrà abbandonare il risentimento e il desiderio di vendetta. Se la vittima (accusatrice) vuole perdonare, è in suo potere il farlo. In questo senso il perdono è un atto «originario», un gesto «creativo». Esso è perciò, per antonomasia, qualcosa che promana da Dio, a cui appartiene in sommo grado la misericordia e il potere di esercitarla. Il perdono però non è l’atto che spetta solo a Dio; al Figlio dell’uomo è stata infatti conferita l’autorità di fare remissione, di condonare totalmente il debito, di assolvere dall’obbligo di pagare per il male perpetrato. Molte sono le metafore usate dalla Bibbia per descrivere il senso di questo atto fondatore, applicato in particolare alla relazione tra il Signore e l’umanità peccatrice: si parla di lavacro e purificazione, di amnistia e cancellazione del debito; si parla della fine dell’ira, della misericordia e dell’indefettibile fedeltà nell’amore. Ci è pure familiare l’annuncio che proclama la pace e la nuova alleanza. La tradizione biblica ha poi 96

ampiamente sviluppato questa tematica, facendone uno dei luoghi principali della rivelazione di Dio, che è amore (cf. in particolare Dt 30,1-14; Is 40,111; Ger 30–31; Ez 36,21-36; Os 2,16-25; 14,5-9; Mi 7,18-20). Nostro compito è qui sottolineare semplicemente la diversità tra la conclusione del processo giudiziario e quella del rîb: nel primo caso, si aveva la condanna, magari definitiva, che sanzionava pubblicamente il reato, attribuendogli il terribile potere di produrre un futuro di dolore e di morte per il colpevole; nel secondo caso, invece, si ha la «giustificazione» che porta salvezza e vita, perché il potere non è del male, ma appartiene a chi ama, il quale per amore redime dal male. Non solo viene risparmiata una vita, ma viene rigenerato colui che era morto (Lc 15,24.32). Si deve ricordare che la Scrittura addita Dio come modello per l’attuazione della giustizia. Ora non è solo la sua imparziale e infallibile procedura giudiziaria a essere proposta all’imitazione degli uomini, ma è soprattutto il suo modo di fare il rîb con i peccatori (Mt 5,43-48), il suo modo di parlare e di agire perché i malvagi si convertano e vivano. Nel Primo Testamento sono piuttosto rari i casi narrati in cui un uomo ha saggezza e bontà sufficienti per introdurre nella dinamica dei rapporti societari la logica della riconciliazione. Ciò è un segno che si tratta di una realizzazione difficile. Dobbiamo comunque ricordare alcune figure emblematiche, che possono essere considerate modello e annuncio di ciò che è promesso all’umanità e atteso da tutte le genti. Oltre a Giuseppe, la cui storia abbiamo più volte citato, si deve evocare innanzitutto Mosè che, invece di inveire contro i fratelli che lo avevano contestato, intercede per loro (Nm 12,1-15), e, dopo aver subìto minacce mortali da parte del popolo (Nm 14,10), si rivolge al Signore per chiedere il perdono (Nm 14,19). E si può soprattutto ricordare il re Davide, che non solo non reagisce con violenza all’ostilità di Saul nei suoi confronti (1Sam 24 e 26), ma punisce chi ha osato uccidere l’unto del Signore (2Sam 1,1416); egli poi assume il ruolo di pacificatore della nazione, concedendo l’amnistia a coloro che con Assalonne si erano ribellati contro di lui (2Sam 97

19,16-24). La vittoria di Davide, la sua ascesa al trono è fatta nel perdono.98 Nel Nuovo Testamento, questa prospettiva è additata da Gesù come la realtà che definisce la sua missione tra gli uomini (cf. Mt 9,12-13), e la medesima via è suggerita ai suoi come impegno di realizzazione del regno di Dio (cf. Mt 18,15-18). In questa parte della Scrittura abbiamo l’attestazione della fine dell’accusa (rîb), conclusione diametralmente opposta a quella di un possibile giudizio. Invece della pena di morte, si ottiene di conservare in vita il reo, perché si riesce a liberare il colpevole dal suo male e a riammetterlo nella comunione dei fratelli.

• Ricordiamo ancora la figura di Giuseppe, che mette in gioco tutto il suo potere di viceré d’Egitto per riunire in un abbraccio di perdono tutta la sua famiglia (Gen 45,14). La narrazione della Genesi incomincia con la storia di Caino, ma termina con la storia di Giuseppe: la violenza tra fratelli messa in atto all’inizio si dissolve con il gesto della riconciliazione al termine della storia stessa. Giuseppe, dice il testo biblico, «non poté più trattenersi [...] e si [fece] conoscere dai suoi fratelli [...]: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita”» (Gen 45,15). La conclusione pacifica della contesa tra i fratelli è talvolta sancita dal banchetto comune (Gen 31,54), segno di alleanza (Es 24,11; Sal 50,5), sigillo della riconciliazione.99 Giuseppe ha ammesso i fratelli alla sua mensa, anche prima che questi lo riconoscessero (Gen 43,16-17.34); il momento decisivo del perdono è invece espresso dall’abbraccio (Gen 45,14-15), simbolo di comunione nell’amore.

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•• In Is 1 l’offerta del perdono è presentata da Dio con delle metafore molto suggestive: «Su, venite e discutiamo – dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada» (Is 1,18-20).

Da notare non solo la radicale trasformazione del peccatore, redento totalmente dalla misericordia di Dio, ma anche la promessa del «nutrimento», che diventa il segno della benedizione di Dio accordata a un popolo diventato docile (cf. anche Is 3,10; 25,6; 65,13; Ger 31,14; Gl 2,24-26; Am 9,14; ecc.). La conclusione minacciosa costituisce un perenne monito a non considerare l’indulgenza di Dio un’occasione per l’ostinazione nel male. ••• La parabola del figlio perduto si conclude con il banchetto festoso (Lc 15,23-24) che pone fine nella gioia alla vicenda di peccato. La festa delle nozze, con un pranzo sontuoso, è una significativa metafora del vangelo (Mt 9,15; Lc 12,35-38; 14,15-24; cf. Ap 19,9.18) che suggerisce l’offerta riconciliatrice e vivificante del Signore proposta a tutti (cf. Is 25,6-9). Chi vi partecipa accetta il perdono; chi rifiuta di condividere il pasto comune, come il fratello maggiore nella parabola lucana (Lc 15,28-31), non comprende la misericordia del Padre, non acconsente alla gioia della riconciliazione. La riconciliazione dell’umanità con Dio, che Gesù proclama e attua, ha come simbolo il suo prendere parte al banchetto con i pubblicani e i 99

peccatori (Mt 9,10; 11,19). Tale gesto simbolico ha il suo sigillo nella cena pasquale, il segno eucaristico della Pasqua, il sacramento della nuova alleanza, nel perdono dei peccati (Mt 26,26-28).

Abbiamo detto che la lite ha la sua collocazione tipica nell’ambito familiare. Ma la sua dinamica è punto di riferimento anche per individui o gruppi che, pur non avendo tra loro rapporti di consanguineità o affinità, intendono comportarsi reciprocamente come fossero membri della stessa famiglia (a motivo di un patto di fratellanza). È interessante infatti notare che, in tutto il Vicino Oriente antico, il vocabolario delle relazioni familiari viene utilizzato per definire l’alleanza di natura politica; mediante un trattato, mediante quindi uno strumento giuridico, due sovrani o due popoli si definiscono come padre e figlio, oppure come fratelli, e di conseguenza interpretano, almeno idealmente, le loro conflittualità come un litigio di famiglia, dove si deve tentare sempre di salvare la relazione. Questo insieme metaforico è, inoltre, servito agli scrittori biblici per parlare di Dio. L’alleanza infatti, cioè la comunione originaria tra il Signore e il suo popolo, viene espressa attraverso il complesso simbolico della paternità, o, in certi casi, attraverso la metafora del legame coniugale; ne consegue che tutte le procedure, accusatorie e punitive, di YHWH nei confronti di Israele devono essere interpretate come il primo momento della lite, volta essenzialmente al perdono, anche se strumentalmente essa deve assumere la fase della correzione. Di più, se il Signore agisce così verso i suoi figli, il rîb dovrà essere anche la procedura che questi figli assumono nel rapporto fraterno. C’è un appello infatti che attraversa l’intera Scrittura, ed è che colui che è creato a immagine e somiglianza di Dio, e ha quindi ricevuto il titolo di «figlio», agisca come agisce il Padre, con la perfezione e la santità del suo comportamento. E questa non è solo una prospettiva etica o religiosa, da applicarsi 100

esclusivamente nel privato e/o all’interno di un rituale religioso specifico. Nella misura del possibile, e quale costante orizzonte da perseguire, essa deve diventare struttura giuridica, sostanza concreta delle dinamiche sociali.100

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Per una dettagliata descrizione delle differenze tra la procedura del processo forense e quella della lite bilaterale, si veda in particolare P. BOVATI, «Una benefica accusa (Dt 32 come rîb profetico)», in J.M. DÍAZ RODELAS – M. P ÉREZ FERNÁNDEZ – F. RAM ÓN CASAS (a cura di), Aún me quedas tú, Homenaje al Profesor D. Vicente Collado Bertomeu, Verbo Divino, Estella 2009, 43-68. 72 Molti studi sono stati fatti in questi ultimi decenni sul lessico e la procedura del rîb; purtroppo, tranne rare eccezioni, si continua a ritenere che la lite sia una procedura forense (quella che ha luogo nel tribunale), o sia semplicemente un residuo istituzionale arcaico (pre-giudiziario): cf., al proposito, M. DE ROCHE, «Yahweh’s rîb against Israel: a Reassessment of the so-called “Prophetic Lawsuit” in the Preexilic Prophets», in JBL 102(1983), 563-574. 73 Così viene percepita, sia da chi subisce l’attacco, sia da chi la guarda dall’esterno. Per questa ragione, come vedremo, molti testi biblici appaiono violenti, specie se il soggetto che intraprende la lite è Dio stesso. 74 È quanto ha mostrato P. BEAUCHAM P, in un articolo programmatico di grande acutezza («Propositions sur l’Alliance de l’Ancien Testament comme structure centrale», in RSR [1970], 161-194). Da segnalare anche la ripresa del tema in C. GIRAUDO, La struttura letteraria della preghiera eucaristica. Saggio sulla genesi letteraria di una forma. Toda veterotestamentaria, Beraka giudaica, Anafora cristiana, Pontificio istituto biblico, Roma 1981, 53-79 (anche se le categorie utilizzate da questo autore – come quella del «diritto apodittico-sacrale», di «procedura forense» o di «requisitoria», a p. 53 – non sono adeguate a definire la procedura del rîb). 75 Queste qualità, in ambito biblico, equivalgono alla virtù della giustizia. 76 Cf. W.L. MORAN , «The Ancient Near Eastern Background of the Love of God in Deuteronomy», in CBQ 25(1963), 77-87; D.J. MCCARTHY, «Notes on the Love of God in Deuteronomy and the Father-Son Relationship between Yahweh and Israel», in CBQ 27(1965), 144-147; P. BOVATI, Il libro del Deuteronomio (1–11), Città Nuova, Roma 1994, 85-86. 77 Cf. F.C. FENSHAM , «Father and Son as Terminology for Treaty and Covenant», in New Eastern Studies in Honor of W.F. Albright, John Hopkins Press, Baltimore 1971, 121-135; S.E. LOEWENSTAM M , «“I am Thy Servant and Thy Son”» [1970], in Comparative Studies in Biblical and Ancient Oriental Literatures, Butzon & Bercker Kevelaer,

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Neukirchen 1980, 382-383; H. TADM OR, «Alleanza e dipendenza nell’Antica Mesopotamia e in Israele: terminologia e prassi», in L. CANFORA – M. LIVERANI – C. ZACCAGNINI (edd.), I trattati nel mondo antico. Forma, ideologia, funzione, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1990, 17-36 (specialmente 19); G. VANONI, «Du bist doch unser Vater» (Jes 63,16). Zur Gottesvorstellungen des Erstens Testaments, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1995. 78 Altre figure autorevoli possono prendere il posto del padre con la stessa funzione, all’interno della famiglia, come un fratello maggiore o un parente anziano; l’importante è che sia riconosciuto loro ufficialmente il potere di intraprendere una «lite». 79 Nella controversia bilaterale ognuna delle parti in conflitto ha il diritto (e il dovere) di procedere contro l’altra, nel caso ritenesse di essere stata lesa nei suoi diritti; quindi anche l’inferiore (il figlio, il servo, il sottoposto) può intraprendere l’azione accusatoria. Tuttavia solo chi dispone di autorità potrà usare tutti i mezzi, anche coercitivi, per farsi ascoltare e ottenere soddisfazione. Il sottolineare che il rîb ha la sua più chiara manifestazione quando è condotto da una figura autorevole consente anche di comprendere meglio perché viene applicato all’intervento di Dio nella storia dell’alleanza. 80 Per un approfondimento su questo ciclo narrativo, cf. L. ALONSO SCHÖKEL, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, Paideia, Brescia 1987, 301380; A. WÉNIN, Giuseppe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. IV. Gen 37–50, EDB, Bologna 2007. 81 Potremmo dire che si determina così uno specifico ambito giurisprudenziale, ma soprattutto che ne scaturisce una diversa dinamica procedurale. 82 Questi cadrebbero sotto il detto latino De minimis non curat praetor (che liberamente potrebbe essere tradotto con «Il giudice non si occupa di questioni insignificanti»). 83 Si pensi alla normativa sull’adulterio (Dt 22,22) o alla disciplina regolante il caso di un figlio ostinatamente ribelle (Dt 21,18-21): nei due casi si prevede come sanzione la pena capitale. Cf. H. MCKEATING, «Sanctions against Adultery in Ancient Israelite Society with Some Reflections on Methodology in the Study of Old Testament Ethics», in JSOT 11(1979), 57-72; P.R. CALLAWAY, «Deut 21:18-21. Proverbial Wisdom and Law», in JBL 103(1984), 341-352. 84 I codici sanzionano il sequestro e la vendita di un uomo con la pena di morte (Es 21,16; Dt 24,7). 85 «Il rîb tende a identificarsi con la presa di parola di un soggetto che accusa un altro. Ciò è propriamente solo l’inizio della contesa; ma, essendone il principio, riveste una tale importanza da lasciare in secondo piano o addirittura far dimenticare ciò che succede in seguito» (P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Pontificio istituto biblico, Roma 1986, 60). Nei testi dell’Antico Testamento l’accusa ha un ricco vocabolario e diverse sfumature, comprese quelle sapienziali di «riprendere, ammonire, correggere» (cf. Ibid., 34-38).

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Il comandamento dell’amore si realizza dunque proprio nell’atto del riprendere il fratello (cf. Mt 18,15-18). 87 La Scrittura usa questa medesima forma accusatoria per parlare dell’azione di Dio nei confronti del suo popolo. Senza mai stancarsi, giorno dopo giorno, il Signore manda i profeti, che sono al tempo stesso accusatori e intercessori. 88 Giuseppe formula una «falsa accusa» (di spionaggio e poi di furto) per far «sentire» ai fratelli cosa significhi essere vittime di una dichiarazione menzognera, e quindi cosa significhi sottostare alle conseguenze di un’azione sanzionatoria ingiustificata da parte di chi ne ha il potere (cf. Gen 42,21): questo è proprio ciò che i fratelli hanno attuato nei confronti di Giuseppe. 89 Il fatto che l’accusatore «si rivolga a un terzo soggetto è un artificio che significa in primo luogo che la parte avversa non ascolta; in secondo luogo, che essa rifiuta di dire la verità; e infine, che quanto dice la parte accusatrice è un discorso vero, non “di parte”» (BOVATI, Ristabilire la giustizia, 69). 90 La collera è la reazione di un soggetto di fronte a un fatto percepito come insostenibile, con una spinta ad agire perché sia tolto di mezzo ciò che è insopportabile. C’è una collera «ingiusta», immotivata e violenta; ma c’è anche un’ira «giusta», come quella di Dio o del giudice zelante del bene, o del padre che si preoccupa del futuro del figlio scapestrato. Per un ulteriore sviluppo, cf. BOVATI, Ristabilire la giustizia, 39-44. 91 Ciò significa che un certo tipo di castigo, adatto a un’età dell’individuo o della società, può risultare del tutto estraneo o inopportuno in un altro momento della vita o in una diversa epoca storica. Adattare la punizione così che sia «parlante» è indubbiamente un atto di intelligenza, su cui è necessario prestare costante vigilanza. 92 In questa sede va tolto al termine «amore» il suo aspetto esclusivamente condiscendente, per far risaltare più limpidamente l’intenzionalità di vita che esso possiede. 93 Ancora una volta, Giuseppe fa «sentire» ai suoi fratelli cosa significhi essere privato della libertà e soprattutto quale sofferenza sia l’essere sottoposti all’arbitrio di qualcuno che può decretare persino la morte. 94 «Il soggetto che accusa è certo convinto di portare nel suo discorso tutte le ragioni che motivano il suo attacco e le conseguenze che ne derivano; ma questa interna consapevolezza, prendendo la forma della parola, chiede di fatto di essere accolta, riconosciuta e criticata mediante la parola di chi ha ricevuto l’accusa. Un soggetto parlante suscita un altro soggetto parlante (paradossalmente proprio nel momento in cui sembra volerlo annientare), così che si possa giungere al comune riconoscimento della verità, fondamento indispensabile della relazione secondo giustizia» (BOVATI, Ristabilire la giustizia, 60). 95 Cf. BOVATI, Ristabilire la giustizia, 98-101. 96 È chiaro allora che il sacramento cristiano della riconciliazione (chiamato anche «sacramento della confessione»; cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1424) non può essere interpretato ricorrendo al modello della struttura processuale, con il sacerdote

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che rappresenterebbe la figura del giudice come veniva insegnato in una certa teologia. Qualche perplessità suscita dunque la formulazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, 1465, che dice: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del Buon Pastore che cerca la pecora perduta, quello del Buon Samaritano che medica le ferite, del Padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto Giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è a un tempo giusto e misericordioso». Se la prima parte del testo è pienamente condivisibile, l’introdurre nell’ultima parte la figura del Giudice non risulta esatto, perché, se è «giusto», il giudice (anche se ispirato da equità e moderazione) deve punire il colpevole e non assolverlo. È indebito e inopportuno, in generale, introdurre nel processo penale concetti e procedure di «assoluzione» che potrebbero offuscare il rigoroso procedere contro il criminale, e non esprimerebbero il dovere di salvare o risarcire secondo giustizia le vittime innocenti. 97 Su questa espressione del Salmo (ripetuta al v. 14 e al v. 23), si veda P. BOVATI, «Un cammino di salvezza. I Sal 50 e 51 nella loro significativa giustapposizione», in M.I. ANGELINI – R. VIGNOLO (a cura di), Nei paesaggi dell’anima. Come i salmi diventano preghiera, Vita e Pensiero, Milano 2012, 49-50. 98 Rimane tuttavia una certa ambiguità nella decisione di Davide, che alla fine della sua vita sembra mettere in discussione la clemenza del suo provvedimento (1Re 2,8-9). 99 Cf. BOVATI, Ristabilire la giustizia, 147. 100 Questa prospettiva non si può tradurre automaticamente in un dispositivo legale, essa è piuttosto un atteggiamento e uno spirito da concretizzare in parole e azioni ripetute, instancabili. Come ci è ricordato da Gesù di Nazaret: «Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai» (Lc 17,3-4). Si può ricordare al proposito che del primo fratricida veniva detto: «Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!» (Gen 4,15); e non si deve scordare che la vendetta di Lamec giunge fino a settantesette volte (Gen 4,24). All’opposto, a Pietro che chiedeva quante volte doveva perdonare, il Maestro rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,22).

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CONCLUSIONE

Ci sia allora consentito, a mo’ di conclusione, di enucleare quattro punti che intendono riprendere, in un certo modo e con valore prospettico, l’insieme del nostro percorso. Una prima notazione conclusiva vuole sottolineare la ricchezza della tradizione biblica, che non solo nutre la nostra intelligenza con la straordinaria fecondità dei suoi simboli e la suggestione dei suoi racconti, ma stimola incessantemente la ricerca sapienziale ed etica dell’umanità, suggerendo vie di giustizia capaci di guidare l’uomo verso la perfezione della sua natura di figlio di Dio. Ciò suppone familiarità ritrovata con la parola di Dio, con una capacità di coglierne il senso globale. Le poche pagine di questo libro ne sono come una traccia, perché prospettano come suprema manifestazione di amore la riconciliazione con Dio e con il fratello. Un secondo aspetto significativo è constatare come la Bibbia proponga un ribaltamento nelle «procedure» di giustizia. Siamo infatti abituati a considerare il passaggio dalla lite (privata) al giudizio (pubblico) come un progresso civile. È forse opportuno chiedersi se non sia invece più significativo il rovesciare la prospettiva, e considerare la decisione giudiziaria come il primo momento della lite tra cittadini. Ciò significa che la condanna e la pena che ne consegue (risultato tipico del processo penale) non vanno viste come il soddisfacente atto conclusivo dell’azione di giustizia, ma solo come la prima tappa, forse necessaria, ma solo propedeutica a una procedura che desidera e realizza la riabilitazione del colpevole e la sua riammissione nella società. La nostra civiltà viene così giudicata in base alla speranza che è in grado di dare al carcerato. Un terzo rilievo concerne il perdono, e intende mettere in guardia, specie 105

coloro che si dicono interpreti del pensiero cristiano, da un perdono «facile». È necessario ribadire che, di fronte al reato, un qualche evento punitivo è indispensabile, sia per significare socialmente la presenza del male, sia per aiutare la coscienza del colpevole, con le giuste dinamiche di una pedagogia correttiva. Depenalizzare, tollerare, indulgere e cose simili non sono necessariamente sintomo di una condotta sapiente ed evoluta. Pretendere poi che le vittime concedano un immediato perdono – quasi fosse un atto dovuto –, o concederlo senza che vi siano le adeguate disposizioni è insensato e dannoso, perché chi riceve il perdono in tali condizioni lo rende strumento perverso di recidività nel male. E da ultimo credo sia giusto ricordare che la sapienza tradizionale dell’antico Israele ha consegnato all’umanità la «regola della retribuzione» come via giusta per parlare al colpevole. Seguire la norma del taglione significa rispondere al male con un qualche male, significa far subire al colpevole quello che lui ha fatto subire. A chi segue tale direttiva viene chiesto qualcosa di complementare, non semplicemente di contrario: il vangelo domanda di saper anche praticare, là dove è possibile e opportuna, la «regola d’oro», che consiste nel fare agli altri quello che vogliamo gli altri facciano a noi (Mt 7,12). La collaborazione intelligente di tutti è necessaria per sapere quali sono le vie per «rispondere» al male facendo sempre il bene.

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Indice Apertura Copertina Colophon Indice Prefazione 1. Amare la giustizia

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1. La Bibbia come fonte di sapienza 1.1. La problematicità della cultura biblica 1.1.1. L’invadente dimensione religiosa 1.1.2. Il particolarismo 1.1.3. Scarsa speculazione 1.2. L’utilità della sapienza biblica 1.2.1. L’assenza di Dio 1.2.2. Incontro di culture 1.2.3. L’importanza della prassi 2. Sapienza e giustizia 3. La giustizia perfetta 3.1. Fare giustizia 3.2. Secondo quanto ci insegna la Bibbia

2. Giudicare secondo giustizia 1. Il tribunale in Israele come strumento di giustizia 1.1. I giudici 1.2. L’azione processuale 1.3. La prassi giudiziaria in Israele 2. Il «giudizio» di Dio 2.1. L’intrinseca necessità del giudizio divino 3. Problemi inerenti al «sistema» penale ebraico 3.1. L’azione penale e la «retribuzione vendicativa» 3.1.1. Necessità della sanzione 3.1.2. Il vendicatore del sangue

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12 12 12 14 14 15 17 18 19 20 27 31 32

40 40 42 44 47 49 49 51 52 52 53

3.1.3. Qualità della sanzione (il taglione) 3.2. La pena capitale 3.3. Il sistema giudiziario applicato all’azione divina nella storia 3.3.1. La necessità di un Dio che giudica 3.3.2. Problematicità di questa «rappresentazione» di Dio

3. Salvare il colpevole

54 59 64 64 67

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1. La lite (in ebraico rîb) 2. Lo svolgimento della lite 2.1. L’accusa 2.1.1. La «forza» della parola di accusa 2.1.2. La forza salvifica dei gesti correttivi 2.2. La risposta dell’accusato 2.2.1. Il rifiuto di riconoscere la verità. Ostinazione, occultamento, menzogna 2.2.2. L’umile e veritiera confessione della colpa 2.3. La riconciliazione

Conclusione

75 78 80 80 85 89 89 91 96

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