La Bibbia

Table of contents :
Frontespizio......Page 3
Premessa......Page 18
Abbreviazioni bibliche......Page 20
La Bibbia di fronte al suo lettore......Page 23
Un libro, una biblioteca......Page 25
La terminologia......Page 28
La Bibbia ebraica......Page 30
La Bibbia cristiana......Page 33
Cosa s’intende per canone......Page 36
La Bibbia come parola di Dio......Page 42
La letteratura apocrifa......Page 44
Le lingue della Bibbia......Page 45
Ebraico, aramaico e greco della «koinē»......Page 48
La trasmissione del testo......Page 50
Principali versioni antiche......Page 52
Principali traduzioni moderne......Page 54
Forme letterarie e contenuti......Page 56
Le forme letterarie......Page 58
I contenuti principali dell’Antico Testamento......Page 62
Il Pentateuco......Page 63
I libri storici......Page 65
I libri poetici e sapienziali......Page 69
I libri profetici......Page 71
I contenuti principali del Nuovo Testamento......Page 74
Come è nata la Scrittura......Page 78
L’esegesi e il metodo storico......Page 80
Dall’oralità ai testi scritti......Page 83
La teoria delle fonti......Page 85
Il libro di Isaia......Page 87
Il problema sinottico......Page 89
L’epistolario paolino......Page 93
Come viene letta la Bibbia......Page 95
L’ermeneutica biblica......Page 97
Bibbia e liturgia......Page 99
I principali metodi di lettura della Bibbia......Page 102
La «storia degli effetti»......Page 107
L’ermeneutica giudaica......Page 108
La lettura fondamentalista......Page 110
I grandi temi del messaggio biblico......Page 111
L’unicità di Dio......Page 113
Creazione......Page 116
I popoli e il popolo d’Israele......Page 118
Chiamata, vocazione......Page 121
Alleanza......Page 123
La Legge......Page 126
Il peccato......Page 128
Re, sacerdote, profeta......Page 131
Il Messia......Page 135
L’annuncio del regno......Page 138
La Chiesa......Page 140
La fine dei tempi......Page 144
Quattro personaggi biblici......Page 147
L’idea di personaggio......Page 149
Abramo......Page 151
Mosè......Page 153
Davide......Page 155
Gesù......Page 158
Per saperne di più......Page 163

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La Bibbia, il Libro per eccellenza, ha impregnato di sé la storia dell'Occidente. Lo ha fatto in modo diretto nella sua duplice, forte tensione interna ebraico-cristiana e, in modo indiretto, attraverso gli influssi che ha esercitato sull'islam e sulla stessa cultura laica. Per ragioni storiche in Italia la Bibbia non è però entrata a far parte del sapere comune: una lacuna di cui in anni recenti si è avvertita più intensamente la gravità. Nell'intento di fornire una prima introduzione alla Scrittura volta a presentarne la ricca veste letteraria e i molteplici contenuti, l'autore ricostruisce le tappe di formazione del testo biblico, i modi in cui è stato interpretato, i grandi temi del suo messaggio e ne illustra alcuni personaggi chiave. Vista attraverso questo prisma la Bibbia risulta portare dentro di sé le tracce di molte civiltà e culture: una lettura da cui è tuttora necessario partire per comprendere meglio il nostro mondo.

Piero Stefani biblista e studioso di ebraismo, collabora stabilmente con istituzioni e riviste impegnate nell'informazione e nella ricerca religiose. Tra le sue pubblicazioni: "Le radici bibliche della cultura occidentale" (Bruno Mondadori, 2004); per il Mulino "Dies irae. Immagini della fine" (2001) e, in questa collana, "Gli ebrei" (1997).

Piero Stefani

La Bibbia

Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2004 ISBN 978-88-15-09682-1 Edizione e-book 2010, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 978-88-15-30073-7

Indice

Premessa

1.

La Bibbia di fronte al suo lettore

2.

Forme letterarie e contenuti

3.

Come è nata la Scrittura

4.

Come viene letta la Bibbia

5.

I grandi temi del messaggio biblico

6.

Quattro personaggi biblici

Per saperne di più

Premessa

Tutti sanno che c’è la Bibbia, molti la prendono in mano, un numero assai inferiore di persone ne legge ampie sezioni, pochi rendono questo grande libro compagno fedele della loro vita; desta curiosità e attrazione, eppure la via per accedervi risulta disseminata di insidie. I motivi di questo disagio sono multiformi, tra essi un posto di rilievo va riservato al fatto che la Bibbia è formata da una serie di testi antichi redatti in un arco temporale esteso per molti secoli e ricchi di riferimenti a culture ormai lontane. Tuttavia un’altra remora va imputata alla constatazione che questi libri hanno già parlato moltissimo. L’importanza avuta dalla Bibbia sulla civiltà e la cultura occidentali appare, ed è, un motivo perché su tutti, credenti e non credenti, incomba il dovere culturale di occuparsene; nello stesso tempo però questa presa d’atto rischia di tramutarsi in ostacolo in quanto pone in evidenza come tra la parola biblica e ogni suo lettore si situi un cumulo di influssi, di mediazioni, di interpretazioni, di approcci critici ed esegetici tanto vasto da indurre allo smarrimento. Attorno alla Bibbia sembrano perciò pesare due serie di difficoltà antitetiche: se ci si avvicina in modo diretto ad essa molte parti dell’Antico e del Nuovo Testamento ci appaiono legate a modalità di espressione remote e poco comprensibili, proprie di civiltà ormai lontane; di contro, se ci si accosta alla Bibbia in maniera indiretta, tra il lettore e il libro si frappongono distese inesauribili di commenti, interpretazioni, apparati esegetici e filologici, di approcci ermeneutici e di influssi letterari e artistici che sembrano dissolvere il testo nelle nebbie di infinite mediazioni culturali. Con tutto ciò, la presa, il fascino e la pregnanza di alcuni passi biblici restano evidenti. In questa situazione complessa la volontà di frequentare le pagine bibliche dà luogo a esiti molto diversi: può essere un ascolto di parole antiche e una maniera per comprendere aspetti del nostro mondo, una coscienziosa ricerca culturale e una libera avventura intellettuale, una fonte di emozioni estetiche e un modo per porsi gli interrogativi più profondi legati all’esistenza, una via per comprendere la volontà e la misericordia di

Dio o per cogliere passioni e illusioni puramente umane, una lettura a volte esaltante, spesso sconcertante e non di rado persino arida. Anche se nulla è garantito in partenza, val comunque sempre la pena di iniziare questo cammino.

Abbreviazioni bibliche Ab Abacuc Abd Abdia Ag Aggeo Am Amos Ap Apocalisse At Atti degli Apostoli Bar Baruc Col Lettera ai Colossesi 1 2 Cor Lettere ai Corinzi 1 2 Cr Cronache Ct Cantico dei Cantici Dn Daniele Dt Deuteronomio Eb Lettera agli Ebrei Eccle Ecclesiaste (o Qohelet) Eccli Ecclesiastico (o Siracide) Ef Lettera agli Efesini Es Esodo Esd Esdra Est Ester Ez Ezechiele Fil Lettera ai Filippesi Fm Lettera a Filemone Gal Lettera ai Galati

Gb Giobbe Gc Lettera di Giacomo Gd Lettera di Giuda Gdc Giudici Gdt Giuditta Gen Genesi Ger Geremia Gl Gioele Gn Giona Gs Giosuè Gv Giovanni 1 2 3 Gv Lettere di Giovanni Is Isaia Lam Lamentazioni Lc Luca Lv Levitico 1 2 Mac Maccabei Mc Marco Mi Michea Ml Malachia Mt Matteo Na Nahum Ne Neemia Nm Numeri Os Osea Pr Proverbi

1 2 Pt Lettere di Pietro Qo Qohelet 1 2 Re Libri dei Re (volgata: 3 4 Re) Rm Lettera ai Romani Rt Rut Sal Salmi 1 2 Sam Libri di Samuele (volgata: 1 2 Re) Sap Sapienza Sir Siracide Sof Sofonia Tb Tobia 1 2 Tm Lettere a Timoteo 1 2 Ts Lettere ai Tessalonicesi Tt Lettera a Tito Zc Zaccaria Nelle citazioni il primo numero dopo la sigla indica il capitolo, un eventuale secondo numero dopo la virgola indica il versetto, il trattino si riferisce al collegamento tra capitoli o versetti, il punto a una mancanza di continuità. Esempi: Gen 1, primo capitolo della Genesi; Gen 1,1, primo capitolo e primo versetto; Gen 12, primi due capitoli; Gen 1,1-10, primo capitolo versetti dall’1 al 10, Gen 1,1.10, primo capitolo versetti 1 e 10.

1.

La Bibbia di fronte al suo lettore

Un libro, una biblioteca Davanti a una raffigurazione confusa può accadere di non riuscire a scorgere subito l’oggetto in essa rappresentato. Quando però lo si individua, non è più possibile non vederlo. Ciò vale anche per le etimologie. Si possono a lungo ignorare ma, una volta conosciute, la chiarificazione è permanente. A tal proposito la parola «Bibbia» non fa eccezione. Essa deriva dal greco biblía «libri», neutro plurale del singolare biblíon, diminutivo di bíblios, «libro». La formulazione, senza subire modifiche, passò poi nel latino medievale assumendo la forma femminile singolare di Bìblia, da cui l’italiano Bibbia. L’etimologia parte da un plurale greco per approdare a un singolare latino e italiano. La vicenda lessicale è indicativa anche dei contenuti: la Bibbia, pur costituendo il Libro per eccellenza della civiltà occidentale, si presenta infatti come un insieme unitario di scritti sorti nel corso di molti secoli e diversi tra loro per origine, ambiente culturale e intenti. In quest’ottica il paragone con una biblioteca è pertinente. Quando si decide di conservare una collezione di libri bisogna compiere alcune scelte preliminari: prima di tutto si deve stabilire se eliminarne alcuni giudicati doppioni o contributi poco interessanti o pericolosi; in secondo luogo occorre individuare un modo per classificarli. Li si può ordinare per materia, per successione alfabetica, per data e via dicendo. La storia del costituirsi di una biblioteca è, per definizione, comunque secondaria. Prima vi è quella che riguar- da la formazione dei volumi in essa custoditi. Per ogni libro si possono prendere in esame i contesti storico-culturali, le intenzioni dell’autore, le stesure, le varianti, le edizioni e così via. Il testo che chiamiamo Bibbia è frutto di operazioni simili: non si sono mantenuti tutti gli scritti, alcuni sono stati deliberatamente lasciati fuori; dopo di che, ci si è dati da fare per ordinare gli altri. Inoltre, alle spalle dei singoli scritti, vi sono i contesti storici, gli intenti originari dei vari autori, le redazioni, i modi di recepirli. Tuttavia, come è proprio dei paragoni, anche questo zoppica. Innanzitutto, oltre a essere una raccolta limitata a qualche decina di volumi, la nostra serie di scritti costituisce un insieme organizzato in modo tanto compatto da far sì che la biblioteca si trasformi in un libro pensato e recepito in modo unitario. Perché ciò fosse possibile occorreva che

dopo l’inaugurazione nessun altro libro dovesse arricchire quegli scaffali. Da allora in poi non è stato più possibile aggiungere o togliere nulla. Allo stesso tempo si dovettero però allestire ampie dependance per radunare il crescente numero di libri che commentavano quella prima raccolta. In realtà neppure la biblioteca originaria è una sola. Esistono infatti più Bibbie, vale a dire più modi per organizzare in maniera diversa testi in parte identici e in parte differenti. L’edificio ha due grandi ingressi; il primo immette nella Bibbia ebraica, il secondo in quella cristiana, a sua volta divisa in due sezioni: una cattolica e ortodossa, l’altra protestante. La biblioteca ebraica è integralmente recepita entro quella cristiana, eppure quest’ultima non dà luogo a una sezione aggiunta che si limita a catalogare nuovi libri e rimanda al precedente settore per consultare le parti comuni. Con un apparente dispendio di energie, la Bibbia cristiana ha voluto riproporre in proprio anche la primitiva raccolta. Gli scritti più recenti non sono una semplice integrazione; uniti ai primi essi riorganizzano in modo diverso l’intero insieme e, in tal modo, inaugurano qualcosa di nuovo. Per ricorrere a un’espressione divenuta corrente, si potrebbe dire che sull’ingresso del palazzo campeggia questa dicitura: «Biblioteca di Dio». Nell’uso comune simili espressioni («i libri di Dio», «la musica di Dio», ecc.) intendono il genitivo in modo oggettivo: si tratta di opere che si occupano di quanto attiene a Dio. Se così fosse la Bibbia sarebbe in sostanza un libro di teologia. In realtà la sua pretesa è di presentare quel genitivo soprattutto in modo soggettivo: sono scritti che vengono da Dio. Scorrendone i contenuti constatiamo che essi si occupano di molte cose. Anzi, dal punto di vista quantitativo, lo spazio maggiore è riservato non a Dio, bensì al mondo umano colto in una grande varietà di aspetti. Ci si occupa di storia, cultura, politica, etica, antropologia; si dà spazio a temi legati alla nascita e alla morte, all’amore e al dolore, all’anelito verso l’assoluto e ai desideri più immediati legati al piacere, al senso di fratellanza e a quello di ostilità, alla realtà della guerra e alla speranza di pace, al mito e alla rigorosa dissertazione giuridica. In poche parole, parafrasando l’espressione classica, si potrebbe dire che nulla di quanto è umano sia estraneo alla Bibbia. Il senso di quel genitivo è quindi il seguente: la Bibbia pretende di essere la parola di Dio rivolta all’uomo. Questa istanza ha voce in capitolo sia in riferimento agli autori sia in relazione ai

bibliotecari. Nell’opera degli uni e degli altri «ne va di Dio». Anche i frequentatori non credenti sono obbligati a tener conto che quella biblioteca è stata fondata e custodita da chi reputa quei testi dotati di significati non semplicemente umani. Se quelle parole sono giunte fino a noi ciò va attribuito alla passione di lettori che vedono in esse una guida per la loro esistenza e una chiave interpretativa per decifrare il senso stesso del mondo e della storia. Dal canto suo il credente non può ignorare che nelle sale della biblioteca siedono sempre più lettori che giudicano quei libri prodotti culturali privi di ogni origine trascendente. Fino a non molto tempo fa la frequentazione laica era non di rado animata da una robusta vis polemica; oggi prevale invece la volontà di intendere quei libri espressione di una civiltà antica che, attraverso una ricca e variegata eredità, ha avuto influssi di grande portata sulla civiltà occidentale.

La terminologia La parola Bibbia indica la raccolta di libri considerati sacri sia dalla tradizione ebraica sia da quella cristiana. Con questo termine ci si intende riferire perciò sempre a una totalità. Ciò vale tanto per l’ambito ebraico quanto per quello cristiano. Pur essendo un uso piuttosto corrente è dunque errato parlare dei libri sacri cristiani come se fossero costituiti dalla Bibbia e dal Vangelo, intendendo riferirsi con il primo termine a quanto si ha in comune con i testi sacri ebraici e con il secondo a quel che è specificatamente cristiano. È invece corretto affermare che la Bibbia cristiana è formata da Antico e Nuovo Testamento. Anche se i testi sono per la massima parte gli stessi, l’espressione «Antico Testamento» non indica la Bibbia ebraica, infatti si riferisce a quegli scritti solo in quanto inseriti nel nuovo contesto della Bibbia cristiana. Il termine «testamento», deriva dal latino testamentum, traduzione del greco diathēkē, che ha alle proprie spalle l’ebraico berit. Il senso primo della parola è «alleanza». Si tratta, dunque, di un’espressione dotata di una forte connotazione teologica e priva, all’origine, di ogni riferimento a un insieme di scritti. Essa indica in primis il patto stretto tra Dio e il popolo d’Israele. Tuttavia l’apostolo Paolo, all’interno di un’argomentazione molto complessa, intende il termine anche come un modo specifico di accostarsi agli scritti tradizionalmente attribuiti a Mosè: se li si legge alla lettera essi divengono «antica alleanza» (veterum testamentum). L’apostolo si proclama invece ministro di una «nuova alleanza» (novum testamentum), non incisa sulla pietra come quella antica, bensì scritta nei cuori in virtù dello Spirito di Dio (2 Cor 3). In questi passi l’espressione «antico testamento» si riferisce non tanto a un insieme di scritti, quanto a un modo di leggerli nella lettera e non nello Spirito. Inoltre, dicendo «nuovo testamento», Paolo non allude a un’altra raccolta di scritti da aggiungere alla precedente. Tuttavia, una volta formatasi la Bibbia cristiana, è invalso l’uso di impiegare questa terminologia per indicare le due parti che la compongono: l’Antico Testamento comprende i libri contenuti anche nella Bibbia ebraica; il Nuovo Testamento è la raccolta normativa di alcuni scritti di età apostolica. La forte caratura teologica connessa all’origine dell’espressione ha fatto sì che

Antico e Nuovo Testamento fossero intesi come termini che racchiudono un giudizio di valore. Questa espressione risulta con particolare evidenza nella formulazione limitativa di Vecchio Testamento, un tempo comune e ora in via di progressiva dismissione. Alla luce del ripensamento teologico in corso, volto a valutare in modo più positivo le radici ebraiche del cristianesimo, è stato proposto di adottare un’altra formulazione parlando di Primo Testamento. L’espressione finora ha goduto di una modesta diffusione. Per la connotazione interna a quei testi, non appare convincente qualificare gli scritti neotestamentari come Secondo Testamento. Specie in ambito cattolico è tuttora diffuso parlare di Sacra Scrittura (anche al plurale, Sacre Scritture). L’espressione è del tutto equivalente al termine Bibbia (in passato era corrente pure la formulazione «La Sacra Bibbia»). La parola «Scritture» (o «Scrittura»), senza alcun aggettivo, è presente nei libri del Nuovo Testamento per indicare la Bibbia ebraica, vale a dire l’unico testo sacro delle prime comunità cristiane (gli autori neotestamentari non consideravano le proprie opere libri sacri). Una particolare rilevanza va attribuita a espressioni come «secondo le Scritture» (1 Cor 15,3-4) o «ciò avvenne perché si adempisse quanto detto dal profeta…» (Mt 1,22; 2,15.17.23). Questi modi di dire attestano la duplice convinzione cristiana che la vita, l’insegnamento e le opere di Gesù siano da presentare in base alle Scritture d’Israele e che la Bibbia ebraica sia da interpretare alla luce di Gesù Cristo (Lc 24, 27.44). Quanto vale in modo complessivo per il termine «Scritture» si applica anche alle parole che indicano alcune sue parti: Legge (a volte espressa pure con il termine personale Mosè) che comprende i primi cinque libri della Bibbia ebraica, Profeti, Salmi. Una volta che si è costituito l’insieme della Bibbia cristiana formato da Antico e Nuovo Testamento, con il termine «Scrittura» (in genere preceduto dall’aggettivo «Sacra») si indica la totalità degli scritti inclusi nell’uno e nell’altro Testamento. La Bibbia ebraica è chiamata, fino a oggi, anche Tanakh. Si tratta di un acrostico costituito dalle iniziali delle sue tre parti: Torà (Legge), Neviim (Profeti), Ketuvim (Scritti). Un’altra espressione impiegata è Miqra’, cioè «Letture», che deriva dalla radice semitica qr’, che ha il senso di gridare, proclamare, recitare ad alta voce. È la stessa che si trova alle spalle del termine Qur’an («Corano»).

La Bibbia ebraica Per comprendere la struttura e l’organizzazione della Bibbia ebraica può essere utile guardare alla conformazione di una sinagoga. Infatti sulla parete dell’aula sinagogale rivolta verso Gerusalemme si trova un «armadio santo» nel quale, avvolto in drappi e ornamenti, è contenuto un Sefer Torà («Libro della Legge»). Questa espressione indica quello che, con un termine di origine greca, si chiama Pentateuco (alla lettera «cinque teche»), vale a dire la raccolta dei primi cinque libri della Bibbia. Essi in ebraico, in virtù delle loro parole iniziali, sono chiamati: Bereshit («In principio»), Shemot («Nomi»), Wa-jqra’ («E chiamò»), Ba-midbar («Nel deserto»), Devarim («Parole»). Tuttavia, con termini derivati dal greco, essi sono in genere conosciuti con i seguenti nomi: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio (alla lettera «Seconda Legge»). Rispetto al Sefer Torà custodito nella sinagoga si devono avanzare due precisazioni: la prima è relativa alla forma, la seconda al contenuto. Innanzitutto va ricordato che si tratta di rotoli manoscritti rigorosamente in ebraico (è inconcepibile sostituirli con un testo a stampa). In secondo luogo va tenuto presente che i rotoli comprendono solo i primi cinque libri della Bibbia. Questo particolare mostra la posizione di eccellenza riservata alla «Torà scritta» Pentateuco. Il primato attribuito a questi libri è ascrivibile innanzitutto al fatto che la tradizione ebraica li considera parole rivelate direttamente da Dio a Mosè. Un altro aspetto decisivo sta nella constatazione che soltanto in essi si trova il fondamento dei precetti (tradizionalmente ritenuti 613). Queste norme, credute di origine divina, presiedono dal punto di vista religioso al comportamento collettivo e distintivo del popolo ebraico. In questo senso il nome di Legge attribuito al Pentateuco è dotato di una sua plausibilità, anche se resta vero che quei libri, ricchi come sono di storia, narrazioni e racconti, si presentano in modo assai diverso da un puro elenco di prescrizioni. Peraltro, in base al suo etimo, la parola Torà andrebbe più opportunamente tradotta con termini come «insegnamento», «istruzione». Dalle considerazioni fin qui esposte si deduce che la Bibbia ebraica è un corpus di libri fortemente gerarchizzato al cui vertice si colloca la «Torà scritta». Gli altri testi, pur essendo considerati anch’essi sacri, sono posti in una posizione subordinata e

contraddistinti da un minor grado di autorità. Essi sono raccolti rispettivamente nei Neviim («Profeti») e nei Ketuvim («Scritti»). I Profeti sono, a loro volta, divisi in due gruppi. Il primo è formato dai Profeti anteriori, Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re; il secondo dai Profeti posteriori: Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti minori (computati come un solo libro: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia). Gli Scritti comprendono i seguenti libri: Salmi, Proverbi, Giobbe, Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Qohelet, Ester, Daniele (non incluso nei Profeti), Esdra, Neemia, 1 e 2 Cronache. Nelle normali edizioni a stampa essi si succedono nell’ordine sopra esposto. In conclusione, il Tanakh è organizzato secondo una modalità decrescente propria della successione Torà, Neviim e Ketuvim. La Torà e i Profeti anteriori sono disposti in base a un asse cronologico che parte dalla creazione del mondo e giunge fino alla deportazione in Babilonia dell’ultimo re di Giuda (VI sec. a.C.); questo criterio non vale invece per stabilire l’ordine degli Scritti. Parlando di Bibbia ebraica ci si è finora riferiti al testo chiamato masoretico (con masorà «tradizione» si allude alla fissazione ufficiale del testo biblico ebraico avvenuta tra il VII e il X sec. d.C.), tuttora normativo. Esistono però altre redazioni ebraiche della Bibbia o di sue parti. Tra esse si segnalano il Pentateuco Samaritano (circa 6.000 varianti rispetto al testo masoretico) e soprattutto la Bibbia giudeoellenistica, detta dei Settanta (o LXX o Septuaginta). Questo termine indica non solo una traduzione in greco della Scrittura, ma anche un vero e proprio modo alternativo di organizzare un diverso testo biblico. In altre parole i Settanta costituiscono un’altra Bibbia e non già una semplice traduzione greca di un testo ebraico preesistente, peraltro assai più antico di quello masoretico. Secondo una leggenda contenuta nella Lettera di Aristea, in seguito diffusasi largamente anche in ambito cristiano, questa versione sarebbe stata il frutto del lavoro di settantadue traduttori convocati ad Alessandria dal re Tolomeo II Filadelfo (III sec. a.C.), i quali, pur operando separatamente, avrebbero prodotto un’identica versione. In realtà, la scelta fu compiuta verso la metà del III sec. a.C. dalla stessa comunità ebraica alessandrina, dando in tal modo avvio ad un lento processo di traduzione che – dopo una prima fase dedicata al Pentateuco – si estese per più di un secolo e mezzo.

Oltre alla decisione di tradurre libri ebraici, la comunità giudaico-alessandrina redasse direttamente in greco alcuni testi come il libro della Sapienza di Salomone e il 2 Maccabei. In tal modo si venne a formare un insieme di scritti normativi non di rado chiamato «canone alessandrino». Quest’ultima espressione va però considerata troppo rigida, infatti non si pervenne mai a un elenco di libri ufficiale e vincolante; in ogni caso restò sempre indiscusso il primato attribuito al Pentateuco. I Settanta si sono mostrati piuttosto liberi nelle loro scelte testuali apportando aggiunte o tagli e hanno optato per organizzare i contenuti in modi notevolmente diversi da quelli che sarebbero prevalsi nel Tanakh. La Septuaginta propone la seguente successione: Pentateuco, libri storici, libri poetici, libri profetici. Il Pentateuco comprende: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio (nomi derivati proprio da questa versione). I libri storici sono formati da Giosuè, Giudici, Rut, 1-2 Re (= 1-2 Samuele); 3-4 Re (= 1-2 Re), 1-2 Paralipomeni (cioè «completamenti», = 1-2 Cronache), 1-2 Esdra (= Esdra e Neemia), Ester (con aggiunte rispetto al testo ebraico), Giuditta, Tobia, Preghiera di Manasse, 1-2-3-4 Maccabei. I libri poetici comprendono: Salmi, Odi, Proverbi, Ecclesiaste (= Qohelet), Cantico dei Cantici, Giobbe, Sapienza di Salomone, Siracide (o Ecclesiastico), Salmi di Salomone. I libri profetici sono disposti secondo il seguente ordine: Osea, Amos, Michea, Gioele, Abdia, Giona, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Isaia, Geremia, Baruc, Lamentazioni, Lettera di Geremia, Ezechiele, Daniele (con aggiunte rispetto al testo ebraico). Ci si trova quindi davanti a una biblioteca un po’ più ampia e diversamente organizzata rispetto a quella che avrebbe costituito il Tanakh. Essa, con il passare del tempo, sarebbe stata frequentata per lo più da lettori non ebrei, i quali trovarono particolarmente significativo che quell’insieme di libri si concludesse con scritti profetici che preannunciavano avvenimenti futuri. Non a caso in epoca cristiana i Settanta divennero parte integrante della Bibbia delle Chiese di lingua greca. Con il prevalere della tradizione rabbinica nel mondo ebraico sarebbe però diventato normativo solo il testo ebraico del Tanakh. In definitiva da molto tempo i Settanta, in sé e per sé, non costituiscono più un testo normativo di alcuna comunità religiosa.

La Bibbia cristiana La più semplice definizione di Bibbia cristiana è di presentarla come un insieme di scritti divisi in due grandi parti chiamate rispettivamente Antico e Nuovo Testamento. Tuttavia essa non può intendersi come l’aggiunta di alcuni libri (chiamati Nuovo Testamento) alla Scrittura ebraica (diventata ora Antico Testamento). L’impossibilità di pervenire a questa conclusione è connessa soprattutto a due ordini di fattori: uno di natura storica, l’altro di tipo strutturale. Dal punto di vista storico va ricordato che gli autori degli scritti ora accolti nel Nuovo Testamento, per quanto si reputassero testimoni della pienezza della rivelazione compiutasi in Gesù Cristo, non ritenevano di star componendo dei libri che dovessero formare, accanto ad altri, un tutto unitario. I loro testi sacri erano costituiti soltanto dalle Scritture d’Israele. La creazione di una Bibbia formata da Antico e Nuovo Testamento non è quindi un dato originario connesso al sorgere stesso dell’annuncio evangelico, è l’esito di un processo prolungatosi quanto meno per un paio di secoli. Anche partendo da considerazioni di tipo strutturale risulta improprio parlare di una Bibbia cristiana come semplice aggiunta di altri scritti alla Bibbia ebraica; in realtà la costruzione di un insieme formato da Antico e Nuovo Testamento ridefinisce l’intero assetto dei libri biblici. Anche le parti apparentemente comuni assumono infatti significati diversi a seconda dei contesti in cui sono collocate. Prendendo lo spunto dalla sistemazione proposta dai Settanta l’Antico Testamento cristiano viene ora articolato lungo la seguente successione: Pentateuco, libri storici, libri poetici e sapienziali, libri profetici. In particolare la collocazione di questi ultimi al termine dell’Antico Testamento è ormai letta come un diretto preannuncio di quanto si sarebbe realizzato nel Nuovo. Non tutte le Bibbie cristiane contengono lo stesso numero di libri. La differenza è costituita dalla presenza o dall’assenza dei cosiddetti libri deuterocanonici (definiti apocrifi in area protestante). Si tratta di testi non inseriti nel Tanakh ma considerati parte della Scrittura dalle tradizioni cristiane cattolica e ortodossa. Essi non sono invece compresi nella Bibbia protestante (in qualche edizione sono riportati in appendice). Si tratta di libri, o di sezioni, scritti o giuntici in greco e provenienti

dall’ebraismo alessandrino. Essi sono: Tobia, Giuditta, aggiunte a Ester, 1 e 2 Maccabei, Sapienza di Salomone, Siracide, Baruc (il cui ultimo capitolo contiene la cosiddetta lettera di Geremia), aggiunte a Daniele. L’accoglimento dei due libri dei Maccabei, il cui contenuto storico è incentrato su avvenimenti risalenti al II sec. a.C., ha indotto la tradizione cattolica ufficiale a far prevalere, nell’organizzazione dei testi, una preoccupazione di tipo cronologico; perciò questi due libri sono posti in chiusura dell’Antico Testamento in quanto si riferiscono agli eventi più recenti. Secondo un decreto del Concilio di Trento (1546) la Bibbia cattolica è formata dai seguenti testi: «Antico Testamento, i cinque libri di Mosè, e cioè: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; Giosuè, Giudici, Rut; i quattro dei Re; i due dei Paralipomeni; il primo e il secondo di Esdra (anche detto di Neemia); Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, i Salmi di David, i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico; Isaia, Geremia, Lamentazioni, con Baruc, Ezechiele, Daniele, i dodici Profeti minori, cioè Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due dei Maccabei primo e secondo. Nuovo Testamento, i quattro Vangeli secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni; gli Atti degli Apostoli scritti dall’evangelista Luca; le quattordici lettere dell’Apostolo Paolo: ai Romani, due ai Corinti, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei; due dell’apostolo Pietro, tre dell’apostolo Giovanni, una dell’apostolo Giuda, e l’Apocalisse dell’apostolo Giovanni». Nell’organizzare la successione dei libri del Nuovo Testamento ha svolto un ruolo rilevante una preoccupazione di tipo cronologico-narrativo: si inizia con i Vangeli che parlano della vita, della morte e resurrezione di Gesù, si passa agli Atti degli apostoli dedicati alla nascita e ai primi sviluppi delle comunità cristiane, alle lettere connesse alla vita delle varie chiese (vale a dire delle comunità dei credenti sparse in vari luoghi) e si termina con l’Apocalisse. Assunta nel suo insieme, la Bibbia cristiana forma un grande arco narrativo che inizia con la creazione del mondo (Genesi) e si conclude con la fine dei tempi e l’avvento del mondo che verrà (Apocalisse). Le edizioni correnti delle Bibbie cattoliche non si attengono in modo rigoroso alle disposizioni tridentine. Esse infatti accorpano 1 e 2 libro dei Maccabei agli altri libri storici; si conformano alla terminologia ebraica di 1 e 2 Cronache (in luogo del

desueto Paralipomeni), parlano sempre del libro di Neemia e mai di 2 Esdra; usano Qoèlet in luogo di Ecclesiaste e Siracide invece di Ecclesiastico, antepongono la lettera di Giacomo a quelle di Pietro.

Cosa s’intende per canone Torniamo per un momento all’immagine della biblioteca. Quando si vuole istituire una raccolta, prima ci devono essere i libri e poi si scelgono i modi con cui conservarli e catalogarli. Quest’ultima operazione può essere fatta tutta in una volta; oppure la si può compiere per gradi. Nel caso della Bibbia le tappe di questa sistemazione si chiamano processi di canonizzazione. Il canone definitivo coincide con l’inaugurazione della biblioteca. L’origine del termine «canone» è molto antica, risale alla lingua sumerica. In ebraico assunse la forma qaneh con il significato di «verga» e in seguito di «canna di misurazione, regolo». Entrambi i sensi sono passati al greco kanna, kanōn, impiegato dai grammatici alessandrini in relazione ai classici greci nel senso di «regola o standard di eccellenza». Nel II sec. d.C. la parola è adottata in ambito cristiano con il significato di «regola o norma della fede». Nel senso specifico di elenco di libri biblici riconosciuti, la parola «canone» inizia a essere impiegata verso la metà del IV sec. Il concetto è comunque più antico. Il termine non trova una precisa corrispondenza nell’ebraismo. Nei primi secoli della nostra era nel contesto giudaico a tale scopo si fece ricorso o all’espressione negativa di «libri esterni», testi simili a quelli biblici ma non considerati canonici, o al concetto positivo di «libri che rendono impure le mani», vale a dire di scritti che, appunto perché considerati sacri, non possono essere maneggiati alla stregua degli altri libri. Nella scienza delle religioni vi è un detto che recita così: «il canone ricapitola il sistema». In seno a una determinata tradizione religiosa la definizione completa e immodificabile di quali siano i testi sacri è operazione conclusiva che ha luogo solo quando il sistema è «ben formato», vale a dire ha definito le regole fondamentali in relazione alla liturgia, al luogo di culto, alla gerarchia, alla prassi, alle norme della fede e così via dando origine a un insieme coerente. Alle spalle della definizione del corpus dei libri sacri vi sono perciò processi lunghi e complessi di cui la formulazione di un canone rappresenta il punto di arrivo. Questo esito è però valutato in modo diverso a seconda dell’approccio adottato. La ricerca storica lo intende come una conclusione non prefissata e legata a componenti anche occasionali (per esempio il fatto che alcuni scritti, a differenza di altri, non siano andati smarriti). La

comprensione delle ortodossie religiose insiste invece sul fatto che quella definizione rappresenta lo scopo, previsto fin dal principio, della comparsa di quella serie di libri. Per gli uni il canone è considerato un prodotto storico, per gli altri è il sigillo della rivelazione comunicata da Dio agli uomini. In altre parole per chi crede nell’origine divina di determinati libri non è la canonizzazione a fornire a essi lo statuto di rivelazione, questo processo si limita a riconoscere e a rendere inequivocabile la loro natura originaria. Il concetto di canonicità non comporta la presenza di un elenco preciso e completo di libri. In realtà per molto tempo, in ambito sia ebraico sia cristiano, si sono registrate fluttuazioni cosicché alcuni testi per un certo periodo considerati sacri sono usciti dal canone definitivo o viceversa. Vi sono anche esempi in cui un libro canonico ritiene sacro o comunque autorevole un testo in seguito non più considerato tale. È il caso di un versetto della neotestamentaria lettera di Giuda che cita come Scrittura un passo di un libro – l’Assunzione di Mosè – non compreso nel successivo canone cristiano. Non abbiamo alcuna informazione precisa sulle prime fasi del processo di canonizzazione dei libri in seguito entrati nella Bibbia ebraica. Perché questo avvenisse occorreva che ci fossero testi scritti e ciò è già un dato non iniziale. In relazione ai testi più antichi il processo è grosso modo il seguente: prima ci sono comunità religiose vive che esperimentano eventi e creano sistemi di significato che tramandano oralmente; poi c’è un circolo di agiografi (scrittori sacri) che dà a essi forma scritta, quindi sorgono i cosiddetti scribi che copiano, diffondono e archiviano dei testi. Con il passare del tempo alcuni di questi scritti acquistano autorevolezza. Un simile riconoscimento rispecchia la consapevolezza di non essere più nelle condizioni di produrre scritti qualitativamente paragonabili a quelli antichi: un modo di comunicare di Dio è considerato chiuso per sempre. I primi scritti giudicati canonici sono stati i cinque libri di Mosè (noti nella tradizione ebraica come «Torà scritta»), testi rispetto ai quali sorse presto la consapevolezza di non poter più produrre nulla di simile. Quando si fa strada l’esigenza di pervenire a un elenco vincolante, esso è accompagnato dall’elaborazione di alcuni requisiti ritenuti necessari perché uno

scritto possa essere considerato canonico. Tra essi vi è quello che i libri siano antecedenti a un determinato periodo. Questo criterio indica che si è consapevoli della distanza esistente tra la generazione che stila l’elenco e quelle in cui sono comparsi i testi. La prima elencazione completa dei libri contenuti nella Bibbia ebraica articolata in Torà, Neviim e Ketuvim è apparsa solo tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C. La classificazione tripartita era comunque attestata già da molto tempo, la si trova, per esempio, nel Prologo del libro del Siracide (poco dopo la metà del II sec. a.C.). Tuttavia fino al II sec. d.C. tra le autorità rabbiniche rimasero vive le discussioni sulla canonicità di alcuni libri, è il caso in particolare di Ezechiele, Cantico dei Cantici, Qohelet. Per entrare nel canone uno scritto doveva essere pervenuto in ebraico e risalire a un’epoca antecedente a quella di Esdra (V sec. a.C.). Il criterio è in contrasto con i risultati della ricerca storica stando alla quale non pochi testi canonici risalgono a periodi successivi. In questi casi svolse un ruolo decisivo la pseudonomia, vale a dire il fatto che alcuni scritti posteriori fossero ritenuti di autori antichi, è il caso del Qohelet e del Cantico dei Cantici redatti in età ellenistica ma attribuiti all’antichissimo Salomone (X sec. a.C.), o del libro di Daniele databile alla metà del II sec. a.C. ma fatto risalire al tempo dell’esilio babilonese (VI sec. a.C.). Per quanto concerne il Nuovo Testamento fu adottato il criterio, a un tempo qualitativo e cronologico, di giudicare canonici gli scritti redatti da apostoli o da loro diretti discepoli. Questa convinzione non collima con gli esiti della critica storica che assegna la composizioni di alcuni testi a generazioni successive. Inoltre negli scritti sicuramente apostolici, per esempio le lettere autentiche di Paolo, non traspare alcuna consapevolezza interna di star scrivendo testi destinati a essere considerati Scrittura alla stregua della Bibbia ebraica. Le comunità primitive erano certe che la venuta di Gesù e il successivo dono dello Spirito Santo le aveva rese destinatarie di una nuova rivelazione di Dio. Tuttavia questa convinzione si manifestò prima di tutto nella predicazione e nelle modalità di vita delle Chiese e non nella stesura di altri testi sacri. È significativo che il più antico genere letterario cristiano sia costituito da lettere legate a problemi concreti di comunità locali. Proprio il convincimento che si stesse adempiendo quanto annunciato dalle Scritture d’Israele esonerava i primi cristiani dalla stesura di altri testi sacri. In relazione alla rivelazione scritta la prima

preoccupazione fu di presentare una nuova interpretazione della Bibbia ebraica compiuta alla luce dell’evento messianico. Questa affermazione non significa che le memorie apostoliche non fossero considerate autorevoli e venissero trasmesse e lette nelle varie comunità. Esse non erano comunque poste sullo stesso piano della Bibbia ebraica. Con il trascorrere del tempo questa prassi divenne sempre più qualificante. Non a caso l’antica espressione cristiana per indicare lo statuto particolare di uno scritto fu di affermare che esso è «letto pubblicamente». A differenza di quella rabbinica («rendere impure le mani») l’espressione non è dotata di risonanze sacrali. Essa insiste piuttosto sulla dimensione comunitaria, liturgica, normativa o esortativa di uno scritto. Autorevolezza non equivale in senso stretto a canonicità. Il processo che ha condotto alla formazione di un canone della Bibbia cristiana è stato lungo e tuttora non chiarito in tutti i suoi passaggi. È comunque fuor di dubbio che il II sec. costituisca un momento decisivo. Una componente rilevante di questa elaborazione fu rappresentata da Marcione, pensatore che in quel periodo sviluppò una comprensione del Vangelo di Gesù incompatibile con la fede nel Dio creatore di questo mondo che si era rivelato a Israele. L’annuncio evangelico avrebbe sostituito il Dio severo e violento della tradizione ebraica con uno compassionevole e misericordioso. Marcione ritenne di poter individuare nell’espressione «mio vangelo», presente in alcuni passi dell’apostolo Paolo, il riferimento a un vero e proprio libro da lui identificato con il testo di Luca (il senso originario dell’espressione era di indicare un determinato tipo di annuncio). La tradizione cristiana antica avrebbe mal compreso il messaggio autentico di Gesù e avrebbe indebitamente mescolato il Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento. L’unico filo che permette di ritrovare il vero annuncio di Gesù è rifarsi a una lettura corretta del Vangelo di Luca e di dieci lettere di Paolo emendati da varie interpolazioni. Si formò in tal modo quello che, a quanto conosciamo, è il primo canone di scritti cristiani. Esso è fondato sull’opposizione radicale tra Legge antica e Vangelo. Si discute ancora se il canone ortodosso delle Scritture cristiane sia nato come reazione a quello di Marcione o rappresenti un processo che sarebbe in ogni caso giunto a compimento in modo autonomo. Probabilmente hanno influito entrambi i fattori. Il canone ortodosso della Bibbia cristiana parte comunque dal

convincimento che le Scritture d’Israele sono da considerare rivelazione autentica del vero Dio. Il lavorio compiuto nel corso del II sec. è visibile in un documento (variante datato tra la fine del II sec. e l’inizio del IV) noto come Frammento di Muratori. Il suo scopo è di dichiarare quali libri possono essere letti in assemblea liturgica, quali solo privatamente e quali sono da respingere. Si tratta però non di una semplice lista – genere ricorrente nel IV sec. – ma di un testo che fornisce indicazioni sul contenuto dei libri, sulla loro origine e sulle ragioni per cui la Chiesa universale li accetta o li respinge. Nel III sec. d.C. non esiste un elenco chiuso di scritti che devono valere come regola assoluta; vi sono solo collezioni di testi cristiani che devono essere considerati «Scrittura», tra essi primeggiano i quattro Vangeli. All’inizio del IV sec. vi erano ancora testi discussi, tra essi si può segnalare l’Apocalisse di Giovanni, contrastata a lungo specie nell’Oriente cristiano. Nell’Occidente trovò resistenza soprattutto la lettera agli Ebrei. In entrambi i casi si avanzavano dubbi sulla loro paternità apostolica. L’elenco completo dei ventisette libri che formano l’attuale Nuovo Testamento si trova nella lettera festale 39 di Atanasio del 367. Alla svolta tra il IV e il V secolo si può parlare ormai a pieno titolo di canone e da allora in poi divenne sempre più raro mettere in discussione l’autorità di qualche testo. La Scrittura canonica della «grande Chiesa» è sempre stata formata da Antico e Nuovo Testamento; vale a dire, a differenza di quanto voleva Marcione, i libri della Bibbia ebraica sono stati considerati parte integrante della Scrittura cristiana. Risulta quindi indispensabile che la definizione canonica fosse accompagnata da un consolidarsi del modo di leggere e interpretare l’unità dei due Testamenti. La chiave principale con cui si è attuata questa operazione fu di ritenere che quanto è nascosto (latet) e prefigurato nel primo sia divenuto palese (patet) e realizzato nel secondo. Una volta formatosi l’insieme costituito da Antico e Nuovo Testamento è in quest’ultimo che si trovano le testimonianze in grado di mettere in pratica la fondamentale dottrina cristiana che tutta la Scrittura vada letta alla luce di Gesù Cristo. Il discorso canonico fu parzialmente riaperto nel XVI secolo all’epoca della

Riforma. Per quanto Lutero avesse espresso perplessità sulla canonicità anche di uno scritto neotestamentario (la lettera di Giacomo), le Chiese protestanti non modificarono il canone nel Nuovo Testamento, per l’Antico accolsero invece solo i libri presenti nella Bibbia in lingua ebraica, escludendo i cosiddetti deuterocanonici. L’elenco puntuale di libri sacri cattolici proposto dal Concilio di Trento è da intendersi anche come risposta a questa presa di posizione protestante.

La Bibbia come parola di Dio La definizione dei canoni è operazione concettualmente complessa. Chi compie questo atto è consapevole di situarsi in un gradino più basso rispetto a coloro che hanno redatto i libri sacri: la chiusura degli elenchi implica che non si è più titolari di una rivelazione. D’altro canto la comunità che compie questa scelta decide cosa accettare e cosa respingere, vale a dire esercita oggettivamente il diritto di stabilire i confini della rivelazione. Questa selezione non intacca l’autorità esercitata dalla Bibbia su coloro che ne hanno tracciato gli esatti confini: anch’essi sottostanno al corpus normativo da loro stessi definito. Laicamente si potrebbe proporre il paragone con una costituzione, la quale, una volta entrata in vigore, vincola pure coloro che l’hanno elaborata. Tuttavia nel caso del canone si deve pure affermare l’origine divina degli scritti di cui si stabiliscono i confini. Perciò chi compie la canonizzazione sostiene di rendere chiaro e manifesto quel che oggettivamente c’era già (in sede laica si potrebbe evocare una classica dichiarazione dei diritti umani che sancisce, ma non crea contenuti giudicati preesistenti per natura). L’atto di dichiarare la Bibbia parola di Dio può essere compiuto solo se ci si ritiene in qualche modo tuttora legati all’origine. Nelle Chiese cristiane questa convinzione è stata fondata soprattutto sul riferimento allo Spirito Santo, il quale, come dichiara il Credo, ha parlato per mezzo dei profeti e, dopo la Pentecoste (At 2,1-13), assiste la comunità dei credenti nel definire e nell’interpretare le Scritture. Nel corso della storia ebrei e cristiani si sono posti il problema teologico di come Dio abbia parlato nelle Scritture. Le risposte sono state diverse. Nell’ambito ebraico, per esempio, si distingue tra la Torà, la quale secondo la visione tradizionale è stata comunicata parola per parola direttamente da Dio a Mosè, e le altre parti delle Scritture considerate parole della tradizione in cui è pensabile l’intervento di una mediazione umana. Nel contesto cristiano è invece prevalsa la teoria dell’ispirazione. Secondo questa visione lo Spirito Santo avrebbe assistito l’autore sacro (chiamato agiografo) nella stesura dei suoi testi. Anche qui non sono mancate posizioni, tuttora riproposte da qualche corrente, specie protestante, che intendono l’ispirazione come dettatura letterale. Le elaborazioni teologiche prevalenti sono però assai più attente sia alla

presenza di mediazioni culturali sia all’opera attiva dell’autore umano. A questo riguardo risulta significativo un confronto tra gli ultimi due Concili ecumenici cattolici. Nel 1870 il Vaticano I affermò che la Chiesa considera i libri biblici sacri e canonici non perché composti per opera dell’uomo e poi approvati dalla autorità ecclesiastica e neppure perché contengono senza errore la rivelazione ma «perché scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla Chiesa». Nel 1965 il Vaticano II, dopo aver riprodotto la frase qui trascritta, aggiunge: «Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini in possesso delle loro facoltà e capacità, affinché agendo Egli stesso e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva fossero scritte». Qui per la prima volta in un documento ufficiale cattolico l’agiografo umano è considerato vero autore; non viene perciò più proposta una concezione letteralista della ispirazione.

La letteratura apocrifa La parola «apocrifo» (dal greco apokryphos, «nascosto») è una qualifica che ricorre solo là dove è stato fissato un canone di libri sacri. Canonico e apocrifo sono due termini che si rimandano a vicenda: dove non c’è il primo non esiste neppure il secondo. Non meraviglia perciò che, quando il processo di canonizzazione era in fase di formazione, spesso siano stati considerati autorevoli scritti in seguito giudicati apocrifi. Quest’ultimo termine designa quindi testi affini, per genere letterario e contenuto, a quelli biblici, non compresi né nel canone ebraico, né in quello cristiano. Tuttavia va precisato che i protestanti applicano questa parola ai libri chiamati dai cattolici deuterocanonici, mentre definiscono pseudoepigrafi (cioè falsamente attribuiti a un autore biblico) i libri che gli altri considerano apocrifi. Questo tipo di letteratura inizia nel V-IV sec. a.C. e termina verso il IV e V sec. d.C. Nell’insieme essa è piuttosto abbondante e viene suddivisa in varie categorie. In relazione alla Bibbia ebraica si danno opere narrative e storiche (cfr. il libro dei Giubilei), sapienziali e poetiche (cfr. Salmi di Salomone); Apocalissi (cfr. 1 e 2 Enoch). Per il Nuovo Testamento, si hanno Vangeli, a tal proposito va precisato che l’influsso di alcuni di essi è stato particolarmente rilevante sul piano iconografico (cfr. ad es. il Protovangelo di Giacomo); Atti (cfr. quelli di Pietro e di Paolo), Epistole (cfr. corrispondenza tra Paolo e Seneca); Apocalissi (cfr. quelle di Pietro e di Paolo). I confini tra canonico e apocrifo possono dipendere anche da influssi culturali presenti in determinate zone. In Etiopia, per esempio, sia la Chiesa locale sia gli ebrei detti Falascià accettano come canonico il primo libro di Enoch.

Le lingue della Bibbia La natura composita della Bibbia, raccolta di scritti prodotti nel corso di molti secoli, trova precisi riscontri sul piano linguistico. Questo aspetto è particolarmente evidente nel caso della Bibbia cristiana la quale ha la caratteristica, unica nell’ambito dei grandi testi sacri, di condividere la maggior parte dei propri libri con un altro sistema religioso e di trasmetterli e leggerli in una lingua diversa dall’originale. L’ebraico per le Chiese cristiane non ha mai avuto valore normativo e liturgico (salvo in caso di espressioni traslitterate, come «alleluia», «lodate il Signore», «osanna», «deh salva!» o «amen»). Le Scritture ebraiche fin dall’inizio sono state infatti recepite in traduzione greca. In greco sono stati redatti anche gli scritti del Nuovo Testamento, tuttavia solo il cristianesimo orientale fu nelle condizione di mantenerli in quella veste originaria. Nell’Occidente si dovette ben presto far ricorso a versioni latine. La constatazione che il cristianesimo, a partire dalla sua stessa origine, si sia servito di traduzioni, oltre a essere un dato culturale, ha una grande rilevanza teologica. Il fatto di escludere la normatività assoluta della forma originaria comporta infatti una determinata concezione della rivelazione. Lo si comprende bene attraverso un confronto con altre religioni. Nell’islam, per esempio, il Corano è pensato come una realtà celeste che, quando scende nel mondo, assume una vincolante veste araba (Corano 43,3-4). In senso stretto il Corano non è perciò traducibile. Le versioni in altre lingue sono simili a parafrasi prive di valore liturgico e normativo. Coerentemente si afferma che il Corano è stato fatto scendere su Muhammad e non che è stato a lui rivelato. Nessun musulmano potrebbe ritenere il Profeta «vero autore» del libro sacro. Più complesso il discorso per l’ebraismo. Apparsi nell’arco di molti secoli gli scritti biblici testimoniano una lingua non omogenea, nelle fasi più tarde sono riscontrabili influssi dell’aramaico e qualche prestito lessicale dal greco. Inoltre la Bibbia ebraica contiene alcuni brevi passi scritti direttamente in aramaico (un versetto inserito come un masso erratico in Ger 10,11; e ampie sezioni di Daniele – 2,4-7,28, e di Esdra – 4,8-6,18; 7,12-26). Il fenomeno più qualificante sta però nella scelta, nata direttamente in seno alle comunità ebraiche della diaspora, di tradurre le Scritture in

altre lingue. Lo testimonia il fenomeno del Targum («traduzione»), vale a dire la comparsa di varie versioni, spesso non letterali, di libri biblici in lingua aramaica. Esse però affiancavano il testo ebraico senza sostituirlo. Diverso il discorso in relazione alla Bibbia giudeo-ellenistica dei Settanta. Essa fu di straordinaria importanza: non solo fu la prima opera a diffondere nel greco dell’età ellenistica libri composti in lingua orientale, ma creò anche un lessico teologico che dai Settanta sarebbe passato, senza significative modifiche, negli scritti del Nuovo Testamento. L’aspetto saliente si trova però nella stessa volontà di rendere normativa e liturgica una traduzione (e nel comporre direttamente in greco alcuni testi considerati quanto meno autorevoli). In questa luce il cristianesimo ha avuto nel giudeo-ellenismo un antecedente sia culturale sia teologico. La giustificazione fornita dalla Lettera d’Aristea, basata sul carattere miracoloso dell’opera dei traduttori, indica la consapevolezza che si trattava di un’impresa molto ardita, in un certo senso paragonabile alla stessa rivelazione. In seguito in ambito cristiano si sarebbe a lungo discusso sulla natura ispirata dei Settanta. A partire dal I sec. d.C. con il prevalere del giudaismo rabbinico il testo ebraico assunse sempre più un carattere vincolante. Il processo non fu immediato. Lo dimostra il fatto che, avendo preso le distanze dai Settanta divenuti ormai parte della Bibbia cristiana, in seno all’ebraismo apparvero nel II sec. d.C. altre tre traduzioni greche, dette rispettivamente di Aquila, Simmaco e Teodozione. Tuttavia in epoca successiva il testo ebraico diventò universalmente normativo. Ciò trova conferma nel rafforzamento del carattere sacro attribuito alla Torà. Divenne generale la credenza che essa precedesse la creazione e costituisse il modello del divino atto creativo. Specie nelle correnti mistiche si ritenne l’ebraico la lingua in cui erano riposti i segreti stessi dell’ordine universale. A tutt’oggi il Sefer Torà custodito nelle sinagoghe è dotato di caratteri sacrali: è immutabile, non può essere sottoposto a nessun processo di critica testuale, è la sola redazione che ha un valore liturgico, deve essere manoscritto su pergamena e privo di difetti, è circondato da segni che ne attestano l’origine divina, non può essere toccato con le mani e così via. Questo statuto presuppone l’esistenza di una rivelazione diretta della Torà parola per parola a Mosè sul Sinai. Nella tradizione ebraica appare arduo trovare una via capace di accordare le

istanze storico-critiche recepite dalla cultura occidentale, che situano la comparsa del testo del Pentateuco lungo un prolungato asse temporale, con la tradizione liturgiconormativa che vincola l’autorità della Torà alla sua origine sinaitica.

Ebraico, aramaico e greco della «koinē» L’ebraico fa parte delle lingue semitiche nordoccidentali. L’alfabeto ebraico, che consiste in ventidue consonanti, può essere fatto risalire a circa il 1000 a.C. La forma delle lettere subì vari mutamenti. L’attuale «scrittura quadrata» era comunque già nota in epoca precristiana. In ebraico l’elemento portante del significato è una struttura, quasi sempre di tre consonanti, detta radice che resta comune per tutta una famiglia di verbi e sostantivi imparentati. L’ebraico biblico ha un vocabolario piuttosto limitato: non più di 8.000 termini. Circa un quarto di essi sono hapax legomena, vale a dire compaiono una sola volta (il che rende ogni tanto non facile la comprensione). Particolarmente ridotti sono gli aggettivi. Si tratta di una lingua sintatticamente semplice, scarse sono le costruzioni subordinate, mentre prevale la cosiddetta paratassi semitica. Le vocali sono aggiunte oralmente al momento della lettura. Il testo sacro della «Torà scritta» è consonantico e come tale è trascritto nel rotolo sinagogale. Con il trascorrere del tempo, fattesi meno sicure le lezioni, i masoreti tra il VII e il X sec. d.C. fissarono il testo biblico consonantico, lo arricchirono di sistemi di puntazione (segni posti sopra, sotto, o dentro le lettere) volti a fissare la corretta lettura vocalica, l’accentazione e la cantillazione e lo corredarono di altri apparati filologici. Il testo masoretico vocalizzato è riprodotto nelle normali edizioni a stampa della Bibbia ebraica. L’aramaico rientra anch’esso nelle lingue semitiche nordoccidentali ed è affine all’ebraico. Tra l’VIII e il IV sec. a.C. fu impiegato come lingua ufficiale internazionale e lingua franca negli imperi assiro-babilonese e persiano. Nelle sue numerose varietà orientali e occidentali fu parlato in Siria e in Palestina, dove, specie dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI-V sec. a.C.) andò sostituendo nell’uso comune l’ebraico. La sua variante galilea fu la lingua parlata da Gesù. I Settanta e i testi del Nuovo Testamento sono stati scritti nel greco della koinē («comune»), lingua che a partire dal IV sec. a.C. si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo orientale. Si tratta di uno strumento linguistico non uniforme. Nello specifico neppure lo stile dei Settanta è unitario; si tratta comunque di una lingua nel

complesso più letteraria della koinē colloquiale scelta dagli autori neotestamentari. Pur essendo abbastanza omogenea, la lingua del Nuovo Testamento varia a seconda degli autori. Luca è considerato lo scrittore più colto e accurato, tuttavia i primi due capitoli del suo Vangelo sono così ricchi di semitismi da far ritenere che vi fosse una fonte sottostante non greca; Marco è l’autore più propenso a far ricorso alla paratassi (frequentissimi sono in lui i periodi collegati con un semplice «e»); Paolo, al contrario, costruisce a volte periodi molto lunghi e complessi; la lettera agli Ebrei è elegante e rispetta le regole della retorica; mentre l’Apocalisse è in genere considerato il libro più prossimo alla lingua parlata.

La trasmissione del testo Fino alla scoperta dei rotoli del Mar Morto (detti anche di Qumran) del 1947, non possedevamo manoscritti della Bibbia ebraica anteriori al IX sec. d.C. Si comprende perciò la portata eccezionale di ritrovamenti che hanno consentito di retrodatare di ben mille anni la tradizione manoscritta (nelle grotte di Qumran si sono trovate copie integrali di Isaia, Salmi e Abacuc e frammenti di tutti gli altri libri biblici ebraici, ad eccezione di Esdra). Queste scoperte non hanno però apportato modifiche sostanziali al testo conosciuto. Uno dei motivi della scarsità di manoscritti ebraici antichi si trova nella reverenza riservata ai rotoli: erano eliminati se presentavano i difetti anche materiali, mentre venivano ricopiati con grande accuratezza dagli scribi cosicché anche le nuove copie erano ritenute perfettamente affidabili. Il più antico manoscritto completo della Bibbia ebraica risale al 1008 o al 1009 ed è attualmente conservato a San Pietroburgo. I manoscritti completi o parziali del Nuovo Testamento in nostro possesso sono circa cinquemila. I più antichi tra essi sono scritti in caratteri maiuscoli detti unciali. I codici più importanti sono il Sinaitico risalente alla metà del IV sec.; il Vaticano forse appena più antico del precedente; l’Alessandrino del V sec. Vi è inoltre un vasto patrimonio di papiri, i più antichi risalgono addirittura alla prima metà del II sec. Dal confronto dei testimoni diretti del testo greco del Nuovo Testamento (codici e papiri) e da quello di altre fonti indirette risulta un numero notevole di varianti «consapevoli», vale a dire dovute alle scelte dello scriba e non a suoi errori. Da questo raffronto sono emersi quattro tipi principali di testo: alessandrino, occidentale, cesariense (stabilito nella città di Cesarea), bizantino. La scienza biblica che si occupa della definizione più corretta dei testi tenendo conti di codici, papiri, varianti eccetera è detta critica testuale. L’attuale divisione in capitoli della Bibbia cristiana, dopo alcuni tentativi precedenti, si deve a Stephen Langton, 1214 ca. La divisione in versetti ha due diverse origini: per la Bibbia ebraica alle scuole degli scribi operanti nei primi secoli d.C., per il Nuovo Testamento greco all’edizione curata da Robert Estienne, 1551. Questi

ausili, indispensabili nelle citazioni e nei rimandi, hanno esercitato un sottile, involontario influsso della percezione dei testi.

Principali versioni antiche La spinta a tradurre la Bibbia in lingue diverse dall’originale, già presente nella diaspora ebraica, subì uno straordinario potenziamento con l’estendersi dell’evangelizzazione. Questo impulso è contraddistinto da una dimensione universalistica volta a far giungere a tutti il messaggio della salvezza (Mt 28,18-20) e a parlare la lingue delle varie genti (At 2,1-13); nello stesso tempo però attesta il valore paradigmatico assunto per tutti dagli scritti neotestamentari e dalla Bibbia ebraica che ne forma l’indispensabile presupposto. In altre parole le Scritture vanno tradotte nelle lingue delle genti perché Adamo, Noè, Abramo, l’esodo e Mosè, Davide e Gerusalemme, Elia e i profeti fanno parte integrante, accanto alla predicazione, gli insegnamenti, i miracoli di Gesù e degli apostoli, della fede cristiana. L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto rivolto ai popoli non ha mai potuto prescindere dal rendere loro note le parole della Scrittura. Ciò ha fatto sì che fin dall’antichità la diffusione del Vangelo diventasse un fattore culturale di straordinaria importanza: per più popoli la versione della Bibbia è stata la prima testimonianza letteraria delle rispettive culture. La scelta controriformistica di rendere normativa per l’intera Chiesa cattolica romana un’unica versione latina (la Vulgata) lungi dal far proprio lo spirito dell’antichità cristiana, ne costituisce piuttosto una smentita. L’adozione in sede liturgica delle lingue parlate e la volontà di produrre sempre nuove traduzioni rese possibili dal Concilio Vaticano II possono appellarsi, come nel caso di molte altre riforme religiose, alla testimonianza delle origini. La storia delle versioni antiche precede in non pochi casi la stessa chiusura del canone. Esemplare in proposito il caso di Taziano che nel II sec. propose una versione in siriaco di un testo che intesseva i quattro Vangeli in un solo racconto (conosciuto come Diatesseron, nel senso di «armonia delle quattro parti»). Quest’opera, per quanto ampiamente diffusa e tradotta, perse d’importanza una volta definitosi il canone dei libri neotestamentari. La versione ufficiale della Bibbia in siriaco divenne la Peshitta («semplice») pubblicata nella prima metà del V sec., ma inglobante materiale precedente e a sua volta sottoposta a revisioni successive. In epoca tardo-

antica apparvero in Egitto versioni in lingua sahidica e boharica, quest’ultima è divenuta il testo ufficiale della Chiesa copta. Di grande importanza la versione armena documentata da molti manoscritti: in vista di essa fu inventato a metà del V secolo da Mesrop un apposito alfabeto. La traduzione georgiana pare dipendere dall’armena. La versione etiopica in lingua ge’ez è fatta risalire da alcuni studiosi al IV sec.; altri la posticipano fino al VI o al VII sec. In seguito parti della Bibbia furono tradotte anche in arabo, persiano, nubiano e altre lingue orientali. In Occidente già nel III sec. circolavano varie antiche versioni latine, indicate con il nome collettivo di Vetus Latina. L’origine plurima favorì l’insorgere di stesure eterogenee. Per porre ordine in questa selva di varianti, nel 382 papa Damaso incaricò Girolamo di approntare una nuova versione; nacque in tal modo la Vulgata («comune», «popolare»). Questa traduzione non ebbe subito il sopravvento, con il passare del tempo sbaragliò però la vecchia rivale. Dopo essere stata sottoposta a revisione da Alcuino per incarico di Carlo Magno, la Vulgata fu rivista nel XIII sec. anche da studiosi dell’Università di Parigi. Fu questo testo a finire sotto il torchio di Gutenberg nel 1456. Un secolo dopo il Concilio di Trento l’avrebbe proclamata versione normativa per tutto l’universo cattolico romano. Se ne dovette perciò approntare un testo standard. Il lavoro di revisione giunse a termine nel 1592 con la pubblicazione della Vulgata Sisto-Clementina. Poco dopo la metà del IV secolo Ulfila, missionario tra i goti del Danubio inferiore, tradusse la Bibbia dal greco in gotico. A tale scopo egli dovette creare un alfabeto. La versione gotica rappresenta il primo documento conosciuto scritto in un dialetto germanico. Secoli dopo una vicenda per certi versi analoga ebbe luogo nel mondo slavo. Attorno al IX sec. nell’Europa orientale si formò un impero moravo cristiano. Nell’863, al fine di contrastare la crescente influenza franca, il re Rostislav chiese a Bisanzio che gli fossero inviati dei sacerdoti in grado di parlare lo slavo antico. Giunsero due fratelli, Cirillo e Metodio, ai quali si deve la contemporanea nascita dell’alfabeto cirillico e della versione paleoslava della Bibbia. La civiltà letteraria di gran parte dell’Europa orientale trova il suo imprinting nella Scrittura.

Principali traduzioni moderne In Occidente a partire dal Medioevo, e molto più intensamente con l’avanzare dell’età moderna, la crescita delle traduzioni nelle varie lingua è alimentata dalla rivendicazione dell’accesso alla parola biblica da parte dei laici, dalla creazione di Chiese nazionali, dall’estensione dell’attività missionaria e dall’incontro dell’Occidente con culture extraeuropee. A ciò si deve aggiungere il contribuito dato dalla sensibilità filologica propria dell’umanesimo e la determinante presenza della stampa. Per altre culture religiose la decisione di stampare i propri testi sacri fu processo lento e titubante; di contro per la Bibbia fu scelta immediata giudicata a volte addirittura segno dell’ingresso in un’epoca in cui la diffusione del Vangelo sarebbe stata tale da preludere all’irrompere della fine dei tempi. Anticipata dalla volontà di Pietro Valdo (sec. XII) di far tradurre brani della Scrittura nella lingua parlata nella regione di Lione per leggerli e commentarli al popolo, la Riforma del XVI sec. rese centrale il bisogno di far scendere la parola verso la gente prestando ascolto, secondo l’espressione di Martin Lutero, al modo in cui parla la madre in casa, i ragazzi nella strada e il popolano al mercato. Lutero tradusse Nuovo e Antico Testamento dai testi originari tra il 1522 e il 1534, ma l’edizione definitiva uscì solo nel 1545. Il ruolo svolto da questa versione nella civiltà letteraria tedesca è stata enorme; frequente è il paragone con la funzione ricoperta dalla Divina Commedia per la letteratura italiana. Tra le traduzioni prodotte dal mondo protestante si segnalano quella tedesca di Zurigo (1524) (a cura di Ulrich Zwingli e altri) e quelle francesi costituite dalla calvinista Bibbia dell’Olivetano (1535) e dalla Bibbia di J.F. Ostervald (1724). Il carattere regio dell’anglicanesimo trovò conferma nella «Authorized Version» o «King James Bible» commissionata da Giacomo I Stuart (1611). La sua incidenza sull’intero mondo anglosassone, al di qua e ancor più al di là dell’Atlantico, fu straordinaria sia sul piano letterario sia su quello del vissuto storico e popolare. Anche i Riformati italiani produssero alcune traduzioni, tra esse spicca quella del lucchese Giovanni Diodati (Ginevra 1607 e 1641). In precedenza in italiano erano uscite volgarizzazioni a partire dal testo latino (Malermi,

1471) o dagli originali (Brucioli, 1530-1532). Nell’ambito cattolico questo processo fu bloccato dal Concilio di Trento. Per assistere a un’altra traduzione italiana si sarebbe dovuto attendere il clima di illuminismo moderato che consentì ad Antonio Martini di portare a termine la sua versione condotta sulla Vulgata (1769-1781 e definitiva 1782-1792). In epoca contemporanea nei vari paesi protestanti si è assistito a una generale revisione delle vecchie versioni ufficiali e alla comparsa di nuove traduzioni non di rado condotte in modo ecumenico (vale dire con la partecipazione di studiosi appartenenti a varie confessioni cristiane). Dopo il Vaticano II sono riprese copiose le traduzioni ufficiali anche in ambito cattolico. Per l’Italia è il caso di quella avvenuta negli anni Sessanta a cura della Conferenza Episcopale Italiana (attualmente in via di revisione), conosciuta come Bibbia CEI. In italiano non mancano neppure traduzioni ecumeniche, compresa quella in lingua corrente conosciuta come TILC. La moderna cultura occidentale spinse anche gli ebrei ad approntare nuove traduzioni della Scrittura. Per la levatura dei protagonisti il fenomeno è stato particolarmente notevole in Germania: nel 1780 Moses Mendelssohn pubblicò un Pentateuco in tedesco stampato però in caratteri ebraici; tra il 1925 e il 1961 vide la luce la Bibbia ebraica tedesca di Franz Rosenzweig e Martin Buber. Lo studioso ebreo André Chouraqui tra il 1974 e il 1985 ha tradotto in francese sia la Bibbia ebraica sia il Nuovo Testamento. In italiano una traduzione del Pentateuco fu curata tra il 1850 e il 1860 da S.D. Luzzatto. Una nuova versione dell’intera Bibbia (con ebraico a fronte) a cura del rabbino Dario Disegni fu stampata tra il 1960 e il 1967. A proposito della presenza dei testi biblici nel mondo contemporaneo il dato in assoluto più eloquente è costituito dalla quantità delle lingue in cui è stata tradotta la Scrittura. Almeno una parte dei libri biblici è disponibile in 2.212 delle 6.500 lingue parlate sulla terra. La Bibbia nella sua interezza è stata stampata in oltre 350 lingue. Impressionante anche il numero delle copie: si calcola che fra il 1815 e il 1975 ne siano state stampate 2 miliardi e mezzo. Nel solo 1998 ne sono stati distribuiti 20.751.515 esemplari.

2.

Forme letterarie e contenuti

Le forme letterarie La Bibbia è un insieme di testi letterari. Questa palese affermazione racchiude problemi di grande portata. Le questioni, oltre ai temi collegati al ruolo effettivo svolto dallo scrittore sacro o al rapporto tra versione scritta e precedenti tradizioni orali, riguardano il nesso che c’è tra la parola e i suoi contenuti. La discriminante tra lettura di fede e interpretazione puramente letteraria della Bibbia passa attraverso questo snodo. È innegabile che i contenuti della Scrittura abbiano una veste letteraria. Da questo punto di vista tutto e tutti, compresi Dio e Gesù Cristo, sono personaggi di un grande racconto. La domanda è se si riducano a tale dimensione. Una peculiarità della Bibbia sta nel fondarsi su un linguaggio non solo descrittivo ma, come accade nelle grandi opere letterarie, anche in se stesso creatore di significato. In questa luce Abramo è come Ulisse: entrambi hanno diffuso nei secoli prospettive inestinguibili legate al loro statuto di figure letterarie. Se non fossero protagonisti di racconti nulla sapremmo di loro. La narrazione è per loro culla e dimora. Tuttavia la pretesa della Bibbia non è limitata a quest’area. La Scrittura si presenta anche come parola imperativa e salvifica che si realizza unicamente se attiene alla sfera della realtà e dell’evento e non solo a quella della narrazione. Per tale ragione va collocata nel novero dei grandi testi sacri dell’umanità. In riferimento alla Bibbia il primo genere letterario a cui richiamarsi è quello dei libri che pretendono di avere un’origine divina. Osservata sotto questa angolatura la Scrittura è paragonabile, ad esempio, al Corano, non ai poemi omerici. La Bibbia, nella sua prima riga, afferma che «in principio», per mezzo della parola, «Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Dal punto di vista letterario questo brano genesiaco va confrontato con altri racconti delle origini al fine di coglierne somiglianze e diversità. L’individuazione di diversità e analogie con altri prodotti culturali è un passaggio necessario per stabilire il genere letterario di questo brano. Tuttavia la lettura di fede afferma che queste parole comunicano anche la verità secondo cui l’insieme dell’universo, dal filo d’erba alle stelle più remote, è sorto non in virtù propria: qualcuno l’ha chiamato all’essere. Diventa allora indispensabile sapere che rapporto c’è tra la lettera di parole che descrivono la venuta all’essere di un

cosmo diversissimo da quello prospettato dalla moderna visione occidentale e la convinzione, giudicata irrinunciabile da chi ha fede, nell’esistenza di un Dio creatore. La riflessione sui generi letterari si colloca esattamente su questo versante. Essa è perciò dotata di un profondo valore ermeneutico e teologico. Quanto vale per le opere della creazione si ripropone per il peccato di Adamo ed Eva, per il diluvio universale, per la chiamata di Abramo, per l’attraversamento del Mar Rosso, per la rivelazione sul Sinai, per l’ingresso nella Terra promessa e via dicendo, fino a giungere alla nascita, predicazione, morte e resurrezione di Gesù, all’effusione dello Spirito Santo sui credenti e alla venuta del Figlio dell’Uomo alla fine dei tempi. Considerazioni analoghe valgono per la vasta componente imperativa della parola biblica la quale, in nome di Dio, prescrive alcuni comportamenti e ne proibisce molti altri. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Parola di Dio (Dei Verbum), dichiara che la rivelazione avvenne attraverso eventi e parole intimamente connessi cosicché le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano le realtà significate dalle parole e queste ultime dichiarano le opere e il mistero in esse contenute. In altri termini, la parola biblica non è un semplice involucro per comunicare contenuti. Al contrario, essa stessa coopera alla storia della salvezza e sollecita dall’interno la propria realizzazione: se comanda va eseguita, se promette va adempiuta. La Bibbia ebraica e quella cristiana divergono su alcuni modi d’intendere la portata degli eventi e delle parole. Tuttavia entrambi i Testamenti concordano sul fatto che l’accoglimento, la trasmissione e la messa in pratica della parola costituiscono un momento fondamentale per la sua stessa realizzazione. Per cogliere gli autentici significati della Bibbia è indispensabile la conoscenza dei suoi generi letterari. Tanto l’accettazione quanto la negazione della trascendenza della parola biblica si devono confrontare con la forma letteraria da essa assunta. Pur essendo tutti racchiusi nella custodia uniformante del canone, i testi biblici sono ricchissimi di modulazioni. Senza cogliere il tipo di linguaggio specifico dei vari brani della Scrittura il fraintendimento interpretativo risulta pressoché inevitabile. Occorre quindi rispettare il codice proprio di ciascun genere letterario. Dovendosi

misurare con quasi tutti gli aspetti della vita umana, non stupisce che gli usi linguistici biblici siano numerosi. Le classificazioni proposte sono molteplici. Per l’Antico Testamento si è, per esempio, avanzata una suddivisione in tre gruppi principali: 1. forme prosastiche comprendenti discorsi, prediche, preghiere, documenti, narrazioni poetiche (mito, fiaba, favola, novella, saga, leggenda) e narrazioni storiche; 2. detti, divisi in legali, cultuali, profetici, proverbi, indovinelli e detti sapienziali; 3. canti, tra i quali vanno ricordati soprattutto quelli regali, quelli cultuali e la poesia sapienziale. Altre proposte sono più dettagliate. Per esempio, a proposito di canti, si parla di quelli di lavoro, d’amore, di vittoria, ecc. Sono state introdotte precisazioni relative alle benedizioni e alle maledizioni o ai giuramenti. La prosa ufficiale prevede patti, simboli della fede, leggi e cause giudiziarie, lettere e genealogie, annali e cronache. Le narrazioni sono a volte non prive di immagini mitiche; più frequenti sono però la fiaba, la saga, la leggenda, l’aneddoto, la parabola. Le letteratura profetica si è espressa attraverso l’oracolo di salvezza o di condanna, la visione, il sogno, gli annunci escatologici, le immagini apocalittiche. I generi letterari del Nuovo Testamento sono riconducibili a quattro grandi tipologie: Vangeli, Atti, Lettere, Apocalisse. Si tratta però di una partizione molto generale. Il complesso passaggio dall’evangelo (euanghelion, «buon annuncio»), inteso come predicazione della buona novella di Gesù morto e risorto, al Vangelo concepito come narrazione ha prodotto un genere letterario inedito nel mondo antico: una biografia che pur essendo legata a spazi e tempi determinati attua una redenzione universale. Secondo una classica definizione i Vangeli si presentano come storie della passione, con un’ampia introduzione incentrata sui detti e sui fatti della vita di Gesù. Fin dall’antichità si è colto che i quattro Vangeli canonici sono divisibili in due gruppi. Il primo è rappresentato da Matteo, Marco e Luca. Essi sono chiamati sinottici – dal greco synopsis, «sguardo simultaneo» – perché, pur sviluppando visioni teologiche parzialmente differenti, narrano in modo pressoché parallelo la vita pubblica, la morte e la resurrezione di Gesù. La seconda tipologia trova riscontro nel Vangelo di Giovanni che espone in maniera marcatamente diversa la biografia di

Gesù, la presenta infatti come la fase terrestre della vita di un essere divino preesistente. Nell’esporre queste vicende il IV Vangelo attribuisce un grande ruolo al genere letterario della testimonianza. Anche all’interno dei sinottici va registrata una differenza: i primi due capitoli di Matteo e Luca, detti Vangeli dell’infanzia, non trovano riscontro in Marco. Essi appartengono a un genere peculiare influenzato dal racconto esegetico ebraico detto midrash in quanto, al pari di quest’ultimo, intessono in modo narrativo versetti biblici e si richiamano, in maniera spesso implicita, ad altri personaggi della Scrittura. All’interno del corpus comune dei sinottici si possono distinguere detti profetici, sapienziali, precettistici, di sequela; vi sono poi parabole, dispute, racconti di miracoli, narrazioni storiche, storia della passione e delle apparizioni del Risorto e così via. Gli Atti degli apostoli sembrano rientrare in un genere, documentato anche dalla letteratura apocrifa, apparentato con quello classico del racconto di fatti e avvenimenti; tuttavia il suo autore, Luca, li presenta come una specie di seconda parte del proprio Vangelo: colti in questa unità formano un’opera del tutto originale. All’interno del genere Lettere si possono compiere varie suddivisioni. Si enumerano componenti liturgiche della tradizione preesistente: inni, confessioni, testi eucaristici; si parla di patrimonio esortativo ispirato anche a modelli classici: cataloghi di virtù e vizi, elogi della virtù, precetti legati alla comunità e alla famiglia, elenco di doveri; ci si riferisce a formule di acclamazione del Signore presente nella sua Chiesa, professioni di fede e a lodi di Dio e di Gesù Cristo. L’Apocalisse presenta, accanto a tratti a essa propri, somiglianze con altre parti sia della Bibbia (cfr. per es. Dn 7-12; Mc 13) sia della letteratura apocrifa. Le sue visioni, contraddistinte da un accentuato carattere simbolico, sono dichiaratamente bisognose di essere interpretate. Un particolare rilievo è riservato ai simboli numerici, spaziotemporali e cromatici.

I contenuti principali dell’Antico Testamento La decisione di organizzare il testo sacro di una religione rivelata sulla base di un’unica grande narrazione che si snoda secondo il succedersi delle generazioni sembra scelta ovvia. In realtà le cose non stanno così: basta rivolgersi al Corano per prendere atto che un libro sacro può essere strutturato anche in modo non narrativo. I capitoli coranici non si succedono secondo una storia che va dal prima al dopo. Da qui nasce un certo sconcerto per il suo lettore occidentale. Il modello biblico di dipanare il discorso lungo l’arco delle generazioni si è infatti radicato in modo tanto forte nella mentalità occidentale da far sì, per esempio, che, quando la Chiesa cattolica decise di non presentare direttamente ai fedeli il testo biblico, propose loro la «storia sacra», cioè la versione catechistica e interpretativa delle vicende che vanno da Adamo ed Eva fino a Gesù e agli apostoli. La scelta di rendere la Bibbia un unico grande racconto è temperata sia dalla comparsa di generi letterari non narrativi sia dal fatto che alcuni libri ripropongono, almeno in parte, le stesse vicende. L’esistenza di quattro Vangeli è solo l’esempio più noto di un procedere testimoniato anche altrove. Il fatto che libri biblici siano disposti secondo un arco esteso dal prima al dopo prescinde dall’epoca a cui risalgono le tradizioni confluite nelle varie redazioni scritte. Tuttavia i libri posti all’inizio, anche se non sono i primi a essere stati composti, raccontano la storia più antica. Fatte le debite distinzioni questa affermazione vale tanto per l’Antico quanto per il Nuovo Testamento.

Il Pentateuco Il libro della Genesi può essere suddiviso in due grandi blocchi. Il primo, capitoli 111, narra la storia primordiale. Esso presenta la creazione del mondo e dell’uomo, la caduta, Caino e Abele, lo sviluppo e la corruzione della prima umanità, il diluvio e l’arca di Noè, la torre di Babele e la divisione dei popoli. La seconda parte, capitoli 12-50, espone le storie patriarcali che iniziano con la chiamata di Abramo da parte di Dio. Seguono le vicende di Isacco, di Giacobbe e dei suoi dodici figli, presentati come capostipiti delle tribù d’Israele (altro nome con cui fu chiamato Giacobbe). Il libro si chiude riferendo le avventurose vicende di uno di loro, Giuseppe, che, venduto schiavo, divenne in seguito viceré d’Egitto. L’Esodo segna il passaggio dalla storia dei patriarchi a quella del popolo ebraico. Da allora in poi il Signore stesso è presentato innanzitutto come colui che ha fatto uscire il proprio popolo dalla terra d’Egitto. I contenuti del libro riguardano l’oppressione degli ebrei a opera degli egiziani, la vocazione di Mosè, le dieci piaghe, l’istituzione della Pasqua, il passaggio del Mar Rosso, il cammino nel deserto, la teofania del Sinai e la rivelazione del decalogo, l’alleanza e la promulgazione di norme legislative relative al culto, il vitello d’oro e il rinnovamento dell’alleanza. Il Levitico è ambientato nel corso della quarantennale peregrinazione del popolo ebraico nel deserto. Si occupa principalmente di leggi sui sacrifici, sul puro e sull’impuro e di altre norme rituali, morali e penali. Il suo nome è derivato dal fatto che i sacerdoti addetti al culto e ai sacrifici appartenevano alla tribù di Levi. Il libro dei Numeri ha la stessa ambientazione precedente. Parla soprattutto del censimento degli ebrei nel deserto (da cui il titolo), dell’invio di alcuni esploratori in terra di Canaan, di varie forme di malcontento e di infedeltà da parte del popolo, del veggente non ebreo Balaam e della sua portentosa asina parlante; dei primi insediamenti di alcune tribù ebraiche in Transgiordania. Il Deuteronomio (vale a dire «seconda legge») è imperniato su tre lunghi discorsi di Mosè situati alla fine del quarantennale soggiorno del popolo nel deserto. Il libro perciò si presenta come una narrazione da parte di Mosè di eventi già avvenuti. È stato definito Legge raccontata in cui si ricapitolano le vicende dell’esodo, si

ripropongono contenuti legislativi, si formulano maledizioni e benedizioni. Il testo termina descrivendo la morte di Mosè che vede la Terra promessa in cui non gli è concesso entrare. Il ruolo di fondamento attribuito alla «Torà scritta» (= Pentateuco) dalla tradizione ebraica è il larga misura attribuibile al fatto che solo quelle pagine stabiliscono i precetti, vale a dire i comportamenti prescritti da Dio a Israele che, dal punto di vista religioso, lo rendono distinto dagli altri popoli.

I libri storici Il protagonista degli ultimi quattro libri del Pentateuco è il popolo nel deserto. A partire da Giosuè l’ambiente in cui operano le dodici (dal numero dei figli di Giacobbe) tribù d’Israele muta: si entra nel paese di Canaan, la Terra promessa da Dio alla discendenza di Abramo. Le tensioni e gli scontri tra la stirpe d’Israele e altre popolazioni divengono da ora in poi un motivo guida della storia biblica. Altro tema costante è la trattazione delle modalità, spesso drammatiche, con cui all’interno del popolo ebraico si sono evolute le forme del potere. Non è sbagliato ascrivere questi libri a una sfera storico-politica vista in chiave religiosa. Il libro di Giosuè parla della conquista della Terra promessa (celebre l’episodio del crollo delle mura di Gerico), dell’insediamento in essa delle tribù ebraiche e di un ulteriore rinnovo dell’alleanza tra Dio e il popolo compiuta alla vigilia della morte di Giosuè (il successore di Mosè). Il libro dei Giudici, dopo avere esposto alcune chiavi di lettura teologiche (Gdc 2,6-3,6), narra le vicende successive all’insediamento legate a scontri tra tribù e a lotte contro altre popolazioni sotto la guida di personalità carismatiche dette giudici (tra cui Sansone). A motivo della sua ambientazione cronologica le Bibbie cattoliche inseriscono a questo punto il libro di Rut, donna straniera che, rimasta vedova, va a Betlemme, vi sposa un ebreo e diviene antenata del re Davide. Il primo libro di Samuele è incentrato sul passaggio dal governo dei giudici a quello monarchico. Samuele, giudice e sacerdote, attua l’investitura del primo re di Israele, Saul. A causa di una colpa quest’ultimo viene rigettato come re, al suo posto Samuele consacra Davide, l’uccisore del filisteo Golia. Inizia una lotta, non priva di atti di generosità, tra le due figure che si protrae fino alla morte di Saul caduto in battaglia contro i filistei. Il secondo libro di Samuele si apre descrivendo il regno unitario di Davide sulle dodici tribù d’Israele con capitale Gerusalemme, città da lui strappata a un’altra popolazione (i gebusei). Pur avendo avuto da Dio il divieto di costruire un tempio al Signore, Davide riceve la promessa che la sua dinastia durerà per sempre. Il re si macchia però di adulterio e omicidio, il pentimento non impedirà lo scoppio di

contrasti familiari e la rivolta del figlio Assalonne. Il primo libro dei Re descrive la vecchiaia e la morte di Davide, gli intrighi legati alla successione al trono, l’ascesa al potere da parte di Salomone, re sapiente e potente che svela enigmi e costruisce il tempio e la reggia di Gerusalemme. In età avanzata il re, tollerando l’idolatria, si lascia traviare il cuore dalle molte donne straniere da lui amate. Con la morte di Salomone cessa il regno unitario sorgono due stati: Giuda (due tribù a sud) e Israele (dieci tribù a nord). La vita dei due regni sarà caratterizzata da ripetute infedeltà al Signore. Tra i sovrani che si succedettero nell’arco di più di tre secoli, sono approvati solo due re di Giuda: Ezechia e Giosia. Particolarmente rilevante è il contrasto tra potere politico e profezia presentato nel ciclo dei due profeti che operano al nord, Elia ed Eliseo (con quest’ultimo inizia il secondo libro dei Re). Il regno d’Israele perse l’indipendenza per primo per mano assira verso lo scadere dell’VIII sec. a.C. Il regno di Giuda protrasse la propria vita per circa un altro secolo e mezzo; alla fine fu vittima dell’invasione delle truppe del re babilonese Nabucodonosor che devastarono Gerusalemme, distrussero il Tempio e deportarono le classi più elevate. Le storie contenute nei libri di Samuele e dei Re sono largamente riproposte dai due libri delle Cronache. Essi si spingono però un po’ più avanti, giungendo fino all’editto del re persiano Ciro che, dopo settant’anni dalla deportazione, decretò per i giudei la fine dell’esilio babilonese. Nelle Cronache compare una spiccata lettura teologica degli avvenimenti che trova riscontro anche nei due libri di Esdra e Neemia. Questi ultimi narrano le vicende – cronologicamente difficili da determinare – situate dopo il ritorno in Giudea alla fine dell’esilio babilonese; tra esse spicca la ricostruzione di un nuovo santuario a Gerusalemme (da questo momento comincia l’arco, esteso fino al 70 d.C., conosciuto come epoca del Secondo Tempio). Le Bibbie cattoliche inseriscono a questo punto tre libri, i primi due interamente deuterocanonici, il terzo parzialmente tale: Tobia, Giuditta ed Ester. Tutti e tre i testi sono accomunati da riferimenti storico-geografici alquanto vaghi. Tobia è ambientato all’epoca della deportazione assira delle tribù appartenenti al regno d’Israele. Narra la storia favolistica del cieco Tobi e di suo figlio Tobia che, con l’aiuto dell’angelo

Raffaele, libera da un demone la sua futura sposa e rende la vista al padre. Giuditta è una vedova che libera la città di Betulia dall’assedio di Oloferne, uccidendolo. Il libro è anch’esso ambientato in epoca assira. L’accostamento con il libro di Ester è dovuto al fatto che in tutti e tre i casi la salvezza del popolo ebraico è avvenuta grazie all’intervento di donne. Ester, diventata regina di Persia, sventa, seguendo il consiglio del parente Mardocheo, i disegni di sterminio degli ebrei tramati dal ministro Aman. Nella versione ebraica si tratta di uno scritto senza uguali nella Bibbia in quanto in esso non compare mai il nome di Dio. La versione deuterocanonica attenua la «laicità» del racconto mettendo lunghe preghiere sulle labbra dei due protagonisti ebrei. Nelle consuete edizioni delle Bibbie cattoliche si inseriscono qui i due libri deuterocanonici dei Maccabei. Ambientati in epoca molto più tarda, II sec. a.C., sono di taglio storiografico. Il primo, scritto in ebraico ma pervenutici solo in versione greca, presenta la storia della vittoriosa lotta contro il potere seleucide (siriano) condotta da un gruppo di giudei in un lasso di tempo che va dalla salita al trono di Antioco IV sino alla morte di Simone, uno dei capi della resistenza divenuto in seguito sommo sacerdote ed etnarca. Queste vicende rappresentano lo scontro tra cultura ellenistica e componenti intransigenti ebraiche. Il secondo libro, scritto direttamente in greco e meno attendibile sul piano storico, è in parte parallelo al precedente trattando, dopo gli antefatti, i primi anni della rivolta fino alle vittorie di Giuda Maccabeo. L’arco cronologico delle vicende contenute nel Pentateuco e nei libri storici è molto ampio. Esso resta assai incerto per gli eventi più antichi, esposti nel linguaggio tipico della saga, rispetto ai quali non è possibile contare su alcuna documentazione storica sicura. Secondo i computi più consueti le migrazioni patriarcali di Abramo, Isacco e Giacobbe sono situate tra il XIX e il XVIII sec. a.C.; l’esodo dall’Egitto è stabilito intorno alla metà del XIII sec. a.C. (ma questa data è oggetto di accanite e tuttora irrisolte discussioni), le vicende dei giudici sono poste tra la seconda metà del XIII e l’XI sec. a.C. Solo a partire dal regno di Davide (inizio del X sec. a.C.) i riferimenti si fanno via via più attendibili fino a pervenire a date indubbie come quelle della conquista assira del regno di Israele avvenuta a cavallo tra l’VIII e il VII sec. a.C. e

della presa di Gerusalemme da parte delle truppe di Nabucodonosor all’inizio del VI sec. a.C. Più arduo fissare in modo rigoroso le vicende successive all’editto di Ciro. Certe le date connesse all’epoca maccabaica.

I libri poetici e sapienziali Questo gruppo di libri non è organizzato in modo narrativo. La ragione sta nel fatto che la poesia – nel cui ambito rientra spesso anche la voce della preghiera – e la sapienza non sono legate a un racconto che si snoda di generazione in generazione. Esse riflettono piuttosto gli slanci, gli interrogativi e la saggezza dell’animo umano. Nei testi, salvo qualche passo di Giobbe, Dio non parla mai. Al massimo si fa memoria di azioni divine già compiute. Questi libri contengono modi di espressione che, pur sorti in un determinato contesto storico, sono, per più versi, dotati di un respiro perenne. Anche per questo, nonostante le ovvie diversità degli ambiti culturali, le lodi e le suppliche dei Salmi, gli interrogativi sul male e sul dolore di Giobbe, le considerazioni sull’esistenza del Qohelet, la poesia amorosa del Cantico dei Cantici sono, non di rado, avvertiti prossimi anche da un lettore contemporaneo. Secondo una tradizione incompatibile con i dati storici, l’autorevolezza di questi testi dipende dall’antichità dei loro autori. Per esempio i Salmi vennero attribuiti a Davide, il Qohelet, il Cantico dei Cantici a Salomone, figura simbolica della sapienza. In realtà i libri poetici e sapienziali sono diversi sia per genere letterario sia per epoca di composizione. Il libro di Giobbe prende nome dal suo protagonista. Questa celebre composizione è dedicata al problema della sofferenza del giusto. Giobbe, messo alla prova, perde la propria prosperità. Dopo aver a lungo pazientato, erompe in aspre proteste e replica con fermezza agli amici che dubitavano della sua innocenza. Alla fine Dio gli si manifesta e gli dà di nuovo beni e figli. I Salmi (dal greco psalmoi, canti accompagnati da uno strumento a corde o salterio) sono costituiti da una raccolta di 150 composizioni poetiche che, riferendosi a volte al singolo e a volte alla collettività, danno voce a tre atteggiamenti principali: la lode, la supplica e la meditazione. I Salmi sono stati composti in un lungo periodo di tempo, formano la più ampia raccolta di preghiere della Bibbia e costituiscono una parte fondamentale della liturgia e della devozione tanto ebraiche quanto cristiane. I Proverbi attribuiti dal testo stesso a Salomone e in parte ad altri saggi, contengono soprattutto detti di natura sapienziale e pratica. Vi sono però passi in cui la Sapienza

personificata è presentata come un’entità sovrumana collaboratrice di Dio nell’opera della creazione. Il Qohelet (un tempo conosciuto come Ecclesiaste; qahal in ebraico e ekklēsia in greco vogliono dire assemblea) è un libro di stile sapienziale di epoca ellenistica. È incentrato su una disincantata analisi dell’esistenza suffragata dall’esperienza del sapiente che parla in prima persona (nel libro compare spesso la parola «io»). Celebre il suo inizio: «vanità delle vanità... tutto è vanità». Il Cantico dei Cantici è formato da una serie di poemi d’amore tra amata e amato, interpretati per lo più in modo allegorico dalle tradizioni sia ebraica sia cristiana. Si sono trovate analogie con canti nuziali tanto profani quanto legati a nozze sacre di divinità cananee. Per intendere il Cantico è fondamentale cogliere il primato qualitativo e quantitativo da esso attribuito alla voce femminile. Nelle Bibbie cattoliche si trovano ora due libri deuterocanonici: Sapienza e Siracide. Il primo fu scritto direttamente in greco. Pur essendo stato composto quasi alla vigilia dell’era volgare è, al solito, attribuito a Salomone. Esso presenta la Sapienza come fonte di vita, sposa dell’antico re e guida della storia d’Israele. Il Siracide, un tempo conosciuto come Ecclesiastico, fu scritto originariamente in ebraico e tradotto in greco dal nipote dell’autore verso la metà del II sec. a.C. Il contenuto del libro comprende una serie di esortazioni alle virtù, di consigli pratici, di riflessioni sulla storia biblica e di elogio di alcune antiche figure. Esso presenta anche un’elevata autocelebrazione della Sapienza identificata con la Legge di Mosè.

I libri profetici La profezia, fenomeno tipico ma non esclusivo dell’antico Israele, è testimoniata, oltre che da figure di cui conosciamo solo le storie (Elia, Eliseo…), anche da testi scritti. Questi ultimi, nelle Bibbie cristiane, godono di enorme rilievo essendo giudicati, in larga parte, preannunci della venuta di Gesù. La raccolta si apre con i quattro profeti maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele (il canone ebraico colloca quest’ultimo libro nell’ambito degli Scritti). Seguono i dodici minori, raggruppati tradizionalmente in un solo libro. Le Bibbie cattoliche inseriscono tra i Profeti anche il deuterocanonico Baruc. Con i Profeti il riferimento storico riprende ad avere un ruolo decisivo. Ciò avviene perché la parola profetica sottopone con frequenza al proprio giudizio precisi avvenimenti storico-politici. Il più ampio testo profetico, quello di Isaia (su cui ci si soffermerà più avanti) è ormai concordemente considerato dalla critica frutto di tre diversi gruppi di scritti chiamati rispettivamente Proto-Isaia (o Primo-Isaia) (Is 1-39), Deutero-Isaia (o Secondo-Isaia) (Is 40-55), Trito-Isaia (o Terzo-Isaia) (Is 56-66). La prima parte contiene, oltre alla vocazione del profeta, oracoli, visioni e poemi; vi sono inoltre storie relative al re Ezechia (VIII-VII sec. a.C.); la seconda, conosciuta anche come «Libro della consolazione d’Israele», culmina nei quattro canti del «servo del Signore» relativi a un misterioso personaggio che libera il popolo attraverso la sua sofferenza (la composizione è fatta risalire al tempo dell’esilio babilonese, VI sec. a.C.); la terza parte (redatta dopo il ritorno dall’esilio) celebra soprattutto la gloria futura di Gerusalemme. Il libro di Geremia, sorto attorno a un nucleo risalente al profeta stesso (nato verso la metà del VII sec. a.C.) contiene, nella prima parte, profezie dirette contro Giuda e Gerusalemme; nella seconda parte, ricca di azioni simboliche, compaiono annunci di salvezza; la terza è formata soprattutto da oracoli contro popoli stranieri; l’ultimo capitolo parla della distruzione di Gerusalemme per mano dei babilonesi. Le Bibbie cattoliche inseriscono subito dopo due testi collegabili a Geremia: le Lamentazioni e Baruc. Il primo è una raccolta di cinque elegie sulla distruzione di Gerusalemme (attribuite a Geremia dai Settanta e dalla Volgata); il secondo, deuterocanonico, è una

breve raccolta di preghiere e poesie di fonti diverse fatte risalire, in maniera storicamente non verosimile, a Baruc, lo scriba di Geremia. La Vulgata integra in questo libro la cosiddetta Lettera di Geremia, scritta allo scopo di fornire agli ebrei argomenti da contrapporre all’idolatria dei loro vicini. Il libro del profeta e sacerdote Ezechiele, ricco di visioni e di gesti simbolici, contiene, nella prima parte, oltre a una visione iniziale, una serie di oracoli sia contro Gerusalemme prima della sua distruzione, sia contro popoli stranieri; la seconda sezione comprende predicazioni contemporanee o immediatamente successive alla caduta di Gerusalemme; nella terza si prospetta un programma legislativo per coloro che sarebbero tornati in terra d’Israele dopo l’esilio. Grande importanza è attribuita alla simbologia legata al Tempio. Il libro di Daniele è attribuito all’omonimo profeta vissuto in epoca babilonese (in realtà è stato composto attorno alla metà del II sec. a.C.) e contiene soprattutto visioni, di stile apocalittico, sullo sviluppo della storia e sulla fine dei tempi. Comprende sezioni deuterocanoniche prevalentemente di stile narrativo-favolistico, tra cui l’episodio della casta Susanna che viene salvata da un’iniqua condanna grazie all’intervento del giovane Daniele. I cosiddetti dodici profeti minori, per quanto raccolti in un insieme unitario, provengono in realtà da ambienti assai diversificati. Essi espongono storie simboliche (Osea), annunci di catastrofi e di restaurazione (Gioele), invettive contro le ingiustizie dei popoli e sui soprusi sociali compiuti in Israele (Amos), oracoli contro popolazioni straniere (Abdia, brevissimo testo di soli 21 versetti), un racconto edificante sulla forza del pentimento che ha come protagonista gli abitanti non ebrei di Ninive (Giona), profezie sul futuro glorioso della discendenza davidica (Michea), minacce nei riguardi di Ninive (Nahum), lamentele contro il prevalere degli empi e invettive dirette verso gli oppressori (Abacuc), ulteriori oracoli contro i popoli e contro Gerusalemme accompagnati dalla promessa di conversione (Sofonia); esortazione alla ricostruzione del Tempio dopo il ritorno dall’esilio babilonese (Aggeo), inviti alla conversione e visioni simboliche, annunci dell’epoca messianica e dell’esaltazione di Gerusalemme (Zaccaria; la critica moderna attribuisce questo libro a due distinti

autori: capitoli 1-8 Proto-Zaccaria, 9-14 Deutero-Zaccaria), rimproveri nei confronti dei sacerdoti e imminenza del giorno del giudizio (Malachia). Nell’ambito di una classificazione storica i Profeti sono, in genere, divisi in tre gruppi: pre-esilici (antecedenti alla deportazione in Babilonia di molti abitanti del regno di Giuda), esilici e post-esilici. Sono considerati profeti pre-esilici: Amos, Osea, Proto-Isaia, Michea, Nahum, Sofonia, Abacuc; gli esilici sono: Geremia, Ezechiele, Deutero-Isaia; nell’ambito dei post-esilici rientrano: Aggeo, Proto-Zaccaria, TritoIsaia, Malachia, Abdia, Gioele, Giona, Deutero-Zaccaria.

I contenuti principali del Nuovo Testamento La successione canonica degli scritti neotestamentari, tutti redatti nel greco della koinē , corrisponde in sostanza a un ordine di tipo narrativo che non rispecchia la cronologia in cui sono apparsi i singoli testi. Il più antico scritto neotestamentario è concordemente individuato nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi (ca. 50), mentre la successione canonica inizia con il Vangelo di Matteo (la cui redazione finale è in genere fissata attorno all’85-90 d.C.). Il Nuovo Testamento incomincia perciò con la narrazione della vita, morte e resurrezione di Gesù (Vangeli), prosegue con le vicende legate alla nascita della Chiesa (Atti degli Apostoli) e con gli insegnamenti rivolti dagli apostoli alle varie comunità di credenti (lettera di Paolo e lettere cattoliche) e termina con l’annuncio della fine dei tempi (Apocalisse). Nonostante la presenza di tentativi di pervenire a una formulazione unitaria o per via di sottrazione (Marcione accettava solo Luca) o intessendo tra loro i vari racconti (come nel Diatesseron), la grande Chiesa ritenne necessario mantenere la varietà dei quattro Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. La diversità di quest’ultimo risultò subito percepibile, di contro gli altri tre, detti non a caso sinottici, appaiono a colpo d’occhio narrare in modo pressoché parallelo la predicazione e l’insegnamento di Gesù e le vicende incentrate sulla sua passione, morte e resurrezione. Un’osservazione più attenta individua però alcune specificità anche nei singoli sinottici. In ogni caso si deve tener conto che questi testi sono sorti non per scopi missionari bensì per confermare e far crescere nella fede le varie comunità di credenti. Nel far ciò gli autori tengono presenti le caratteristiche dei destinatari da loro già conosciuti. Il Vangelo di Matteo è per lo più attribuito a un autore ebreo di area siriaca, appartenente alla seconda generazione cristiana e buon conoscitore delle tradizioni rabbiniche. Il suo messaggio principale è che in Gesù Cristo Dio ha avvicinato il regno escatologico e si è reso presente nella sua Chiesa fino alla fine dei tempi (Mt 28,20). Accettando di essere discepoli di Gesù si diventa figli di Dio e si è chiamati a una missione volta a far sì che tutti possano seguire questa via. La maggior parte degli studiosi considera quello di Marco il Vangelo più antico

(attorno al 70 d.C.). Fu scritto da un autore ignoto ma comunque non palestinese, i suoi destinatari originari sono individuati in credenti di origine non ebraica. La prova più convincente di ciò sta nel fatto che, al momento della morte, l’attestazione fondamentale di Gesù come Figlio di Dio è messa sulle labbra di un centurione romano (cfr. Mc 15,39). Il Vangelo di Luca – di solito fatto risalire all’80-85 – si presenta come una prima parte di un dittico che si completa con gli Atti degli Apostoli. La vita pubblica di Gesù è descritta da questo Vangelo secondo un movimento centripeto che giunge fino al cuore: Gerusalemme. Gli Atti hanno invece un andamento centrifugo: iniziano da Gerusalemme e terminano a Roma. A molti interpreti il loro scopo appare di tracciare una «storia della salvezza» scandita in tre tappe: il tempo d’Israele, quello di Gesù e infine quello della Chiesa. Fin dall’antichità il Vangelo di Giovanni è stato considerato il più tardo. La sua composizione è fatta risalire agli ultimissimi anni del I sec. Il motivo della sua stesura è spesso individuato nell’esistenza di un aspro contrasto tra ebrei che accettano la messianicità e la figliolanza divina di Gesù e altri che le respingono. Il suo autore si è probabilmente formato in una cultura giudaica che insisteva sulla personificazione e la preesistenza della Sapienza divina. Il IV Vangelo inizia infatti con il famoso Prologo imperniato sul farsi carne (cioè il venire nel mondo) della Parola eterna che «in principio» era presso Dio; in seguito sviluppa in modo personale la narrazione della vicenda storica di Gesù e propone una visione teologicamente originale della crocifissione e della resurrezione viste come manifestazioni della capacità del Figlio di offrire e di riprendere la propria vita. L’innalzamento sulla croce e la resurrezione sono colti dunque come due momenti inscindibili dello stesso evento pasquale di salvezza: «Quando sarò elevato attirerò tutti a me» (Gv 12,32). La pluralità dei Vangeli può essere giudicata un’attestazione del fatto che la Chiesa ammette, in modo implicito, di non poter restringere la comprensione del suo Signore in una dottrina monocorde. Questa affermazione è peraltro valida per l’intero canone neotestamentario il quale trova in Gesù Cristo il proprio centro unificante e nella pluralità dei propri scritti la legittimazione di molti modi per esprimerne il mistero.

Gli Atti degli Apostoli iniziano con la narrazione dell’ascensione al cielo di Gesù e con la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli a Pentecoste e si sviluppano narrando le vicende legate alla diffusione dell’annuncio evangelico rivolto prima agli ebrei e poi ai gentili connesse soprattutto alle due figure di Pietro e Paolo. In genere l’attuale critica biblica considera sicuramente autentiche solo sette delle quattordici lettere tradizionalmente attribuite a Paolo (Romani, 1-2 Corinzi, Galati, Filippesi, Filemone, 1 Tessalonicesi), le altre sono spesso chiamate deuteropaoline. La successione canonica delle lettere dipende in massima parte dalla loro ampiezza e spessore teologico. La prima, quella ai Romani, ha avuto un’importanza fondamentale nello sviluppo della teologia cristiana e addirittura un ruolo determinante – accanto all’affine lettera ai Galati – nell’elaborazione della visione protestante. La lettera ai Romani è incentrata sui rapporti tra Legge e grazia, fede e opere, prende inoltre in esame il significato teologico riservato al battesimo, allo Spirito Santo e al popolo d’Israele. Una rilevanza particolare ha anche la 1 Corinti per la dottrina sui carismi (doni dello Spirito Santo), perché trasmette la più antica narrazione dell’istituzione dell’eucaristia, per il famoso inno all’agapē (carità) e infine per la dottrina della resurrezione dei morti che riprende e sviluppa le prospettive già affermate nella 1 Tessalonicesi. 2 Corinti e Filippesi sono importanti anche per il materiale autobiografico in esse contenuto. Tra le lettere autenticamente paoline un posto singolare ha quella a Filemone, biglietto di raccomandazione per Onesimo, schiavo fuggito convertitosi al cristianesimo, che ora Paolo rimanda al suo padrone cristiano. Le due lettere deutero-paoline (ma non manca chi tuttora le considera autentiche) agli Efesini e ai Colossesi sono dotate di un notevole spessore teologico specie per quel che concerne le relazioni di Cristo con la Chiesa. Nelle altre lettere, dette pastorali in quanto indirizzate a due collaboratori di Paolo, Timoteo e Tito, prevalgono temi legati alla vita e all’organizzazione ecclesiali. Si discute molto sull’autenticità della 2 Tessalonicesi di contenuto affine alla prima. La cosiddetta lettera agli Ebrei, sicuramente non di Paolo, è in realtà un piccolo trattato che presenta Gesù Cristo come il vero e perfetto sacerdote che ha attuato la definitiva espiazione dei peccati. Le lettere cattoliche sono chiamate in questo modo perché, a differenza di quelle di Paolo, non sono indirizzate a una Chiesa di una città particolare (in greco katholikos

significa «universale»). Di nessuna di esse si conosce con sicurezza l’autore. La lettera di Giacomo sottolinea l’importanza delle opere nella vita del credente e denuncia le ingiustizie sociali; la 1 Pietro è largamente incentrata sul problema teologico del «popolo di Dio»; la 2 Pietro è certamente di un autore diverso e più tardo della precedente e si occupa soprattutto del tema noto come «dilazione della parusia», cioè del ritardo connesso alla seconda venuta di Cristo, attesa imminente dai primi cristiani; la 1 Giovanni dà largo spazio all’amore di Dio e del prossimo e mette in guardia contro i negatori dell’incarnazione di Cristo; la 2 e 3 Giovanni e la lettera di Giuda sono poco più che brevi biglietti. L’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse di Giovanni – da non identificarsi con l’autore del IV Vangelo – contiene, nella prima e più breve parte, una visione del Signore Gesù morto e risorto che ordina di scrivere sette lettere di stile profetico a sette Chiese dell’Asia Minore. Il resto del libro racchiude una serie di visioni simboliche sulla fine dei tempi poste in relazione con la signoria di Cristo risorto e la sconfitta delle potenze sataniche. Alcuni simboli che rappresentano Cristo e i suoi eletti sono l’agnello, il colore bianco, la nuova Gerusalemme scesa dal cielo. Le potenze sataniche sono indicate dalle figure del drago, delle due bestie, di Babilonia-Roma. I tempi della lotta tra bene e male e della conclusione della storia sono espressi dalla successione di immagini legate al numero sette: sigilli, trombe, coppe, tuoni.

3.

Come è nata la Scrittura

L’esegesi e il metodo storico Ogni testo, in particolar modo se antico, ha lunghe storie a monte e a valle del suo presentarsi come pagina scritta. Anche nel caso di un autore moderno i critici tentano di ricostruire le motivazioni che lo hanno indotto a compiere la sua opera, i tributi nei confronti dell’ambiente, gli abbozzi, le stesure, le varianti e così via. Le operazioni sono assai più lunghe, complesse e ipotetiche nei casi di opere lontane nel tempo, dalla paternità non sicura e spesso dipendenti da tradizioni orali precedenti. Queste ricostruzioni non tolgono però che l’impatto straordinario di certi «classici» sia dovuto soprattutto al valore paradigmatico della loro versione definitiva e al prestigio senza eguali goduto dal loro presunto autore. Colto in tale luce il Pentateuco è paragonabile all’Iliade e all’Odissea e Mosè a Omero. Questo modo di vedere regnò incontrastato fino a quando la stesura scritta fu ritenuta un punto di partenza assoluto. Tutto quello che si poteva dire si collocava a valle di un testo perfetto quanto inimitabile. Omero era poeta sovrano che sopra gli altri come aquila vola. Tuttavia l’affermarsi in età moderna dello spirito critico ha indotto a guardare pure a monte di quei grandi poemi. Forse quel sommo autore non è mai esistito o, con ogni probabilità, non è stato l’unico artefice di quei capolavori. Nacque in tal modo la questione omerica. Analogamente e ancor più precocemente – i suoi inizi si fanno risalire al XVII sec. – sorse il problema relativo all’autore del Pentateuco e, più in generale, alla paternità di molti dei libri dell’uno e dell’altro Testamento. L’ovvia diversità tra i due casi sta nel fatto che, a differenza di Omero, i singoli autori biblici sono stati considerati per molto tempo tramiti e garanti della rivelazione divina. Ipotizzare per quei libri un’altra origine apparve un attacco al loro statuto più profondo. La sacralità di cui sono rivestititi i cinque libri di Mosè ha fatto sì che tanto il fronte della critica quanto quello delle ortodossie fossero concordi nel considerare l’approccio storico una negazione della natura rivelata della Bibbia. Per quanto a tutt’oggi siano ancora presenti sacche culturali in cui simili considerazioni godono di qualche credito, queste rigide contrapposizioni si sono largamente stemperate. La maggioranza delle Chiese cristiane e parti dell’ebraismo considerano il metodo

storico-critico un tipo di indagine compatibile con l’origine divina della parola rivelata. In particolare nella Chiesa cattolica la legittimazione di questo approccio è stata affermata dall’enciclica di Pio XII Divino afflante Spiritu (1943), ribadita dalla costituzione del Concilio Vaticano II Dei Verbum (1965) e infine quasi universalmente accolta come strumento indispensabile per conseguire una piena comprensione delle Scritture. Sul fronte degli studiosi laici si è progressivamente ridimensionata tanto la fiducia assoluta nella validità scientifica degli esiti dell’indagine storica quanto la convinzione che quel metodo sia l’unico valido per accostarsi in modo rigoroso ai testi antichi. Ciò non significa che si sia abbandonata la ricerca relativa agli ambienti in cui sono sorti i testi, agli influssi culturali in essi incorporati e alle procedure che hanno presieduto alla loro formazione. Ampia attenzione è riservata all’esegesi, vale a dire ai procedimenti orientati a ricostruire il senso originario che uno scritto si proponeva di comunicare ai suoi primi destinatari. Accanto a questi metodi sono però sempre più praticate altre modalità di ricerca volte a comprendere il testo a partire dalla sua veste finale. Questa pluralità di approcci e la maggior cautela con cui sono accolti gli esiti del metodo storico hanno reso la lettura culturale della Bibbia sempre più compatibile con quella di fede. Inaccettabile è invece l’operazione apologetica che, facendosi forza della opinabilità di alcuni esiti dell’indagine storica, ritiene plausibile riproporre come certezze assolute l’attribuzione degli scritti biblici agli autori tradizionali. Per questa visione, quindi, il fatto che il Pentateuco sia da attribuirsi a Mosè o che i quattro Vangeli siano stati scritti da apostoli (Matteo e Giovanni) o da loro discepoli diretti (Marco e Luca, collegati rispettivamente a Pietro e Paolo) fa ancora parte integrante dei contenuti della fede. In realtà la considerazione che, secondo una corretta epistemologia, non possiamo ritenere certezze indiscutibili gli esiti della ricerca critica non legittima la pretesa di assumere, come verità fattuali, attribuzioni tradizionali legate a un clima culturale del tutto differente. In linea di massima si può affermare che lo scopo principale del metodo storicocritico sta nel ricostruire il più esattamente possibile le modalità in base alle quali si sono formati i singoli libri biblici. A tale fine sono state approntate alcune metodologie specifiche; le più note sono: la «storia delle forme» (dal tedesco,

Formgeschichte) che, risalendo dal testo definitivo, ne indaga la formazione attraverso lo studio dei generi letterari e delle singole forme che lo compongono; la «storia della redazione» (dal tedesco Redaktionsgeschichte), metodo esegetico che, a differenza del precedente, studia un testo nella sua stesura definitiva con l’intento di mettere in evidenza l’apporto del redattore nell’organizzare le varie fonti; e infine la «storia della tradizione» (dal tedesco Traditionsgeschichte) che si prefigge di risalire dallo stadio letterario di un testo alla sua preistoria orale.

Dall’oralità ai testi scritti Tanto nel caso di vari libri dell’Antico Testamento con alle spalle elaborazioni plurisecolari, quanto in quello dei Vangeli, preceduti da stratificazioni misurabili nell’ordine di decenni, si può parlare di tradizioni orali che precedettero la stesura giunta fino a noi. Più volte si è ipotizzata però anche l’esistenza di fonti scritte. Storie, canti e poesie e altri materiali di vario tipo e lunghezza, prima di confluire nei testi definitivi dell’Antico e del Nuovo Testamento, circolarono in forma orale o, a volte, anche scritta. Come lascia trapelare la stessa Bibbia (cfr. Es 12,26-27; 13,14-15; Os 4,6-7) nell’Israele antico le storie di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, dell’esodo dall’Egitto, del quarantennale cammino nel deserto e della conquista della Terra di Canaan erano raccontate sia dai genitori ai figli sia da esperti narratori all’interno delle varie comunità. Altre storie riguardarono i giudici (è il caso di Debora, Gedeone, Sansone), i re (Saul, Davide, Salomone e i loro successori), i profeti (come Elia ed Eliseo). Anche molti cantici (cfr. Gen 4,23-24; Es 15,1-18.21; Gdc 5), leggi, proverbi, salmi e soprattutto detti profetici ebbero origine in forma orale. La capacità di ricordare le tradizioni era un valore tenuto in enorme considerazione. Il primato della memoria non comporta immobilità. Mentre venivano tramandati di generazione in generazione i materiali erano soggetti a mutamenti, venendo arricchiti, abbelliti o reinterpretati. Una tipica operazione in tal senso fu di fondere assieme materiali di stile o contenuto simili, nacquero in tal modo cicli narrativi, come, per esempio, le storie di Abramo, o raccolte legislative (cfr. il cosiddetto Codice di Santità, Lv 19-26) o serie di detti profetici su un certo tema (cfr. Mi 1-3.4-5). A loro volta queste tradizioni divennero fonti per scritti successivi. La stessa Bibbia nomina alcuni testi precedenti che non ci sono giunti; è il caso del «Libro delle Guerre del Signore» (Nm 21,14), del «Libro del Giusto» (Gs 10,13) o dei ripetuti riferimenti a fonti scritte relative alle storie dei re di Giuda e d’Israele. Anche i Vangeli e altre parti del Nuovo Testamento si sono basati su precedenti tradizioni orali o documenti scritti. La «buona novella» di Gesù Cristo fu prima di tutto annunciata oralmente. Nelle lettere di Paolo non mancano allusioni a un suo apostolato legato alla predicazione orale: la fede nasce dall’ascolto (Rm 10,17). I

primi credenti trasmisero molti racconti sulla vita, la predicazione, le opere, gli insegnamenti, la passione e la resurrezione di Gesù. Riferirono suoi detti dal carattere profetico o paradossale («molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi primi» Mc 10,31), i suoi commenti e interpretazioni di precetti. Furono tramandate anche storie di miracoli e parabole. Questi materiali orali confluirono in fonti scritte a loro volta utilizzate dagli evangelisti. Luca fa un aperto riferimento sia all’esistenza di questo tipo di trasmissione sia alla necessità di compiere ricerche accurate sulle fonti (Lc 1,14). Si tratta, forse, del primo esempio di uno spirito di verifica storica che in epoca moderna avrebbe condotto a sollevare problemi di ardua o addirittura impossibile soluzione: è il caso delle cosiddette ipsissima verba, vale a dire quali detti si possono effettivamente far risalire al Gesù storico e quali invece sono da considerare frutto delle comunità che trasmettevano i materiali. Alquanto diverso il caso di Paolo. L’apostolo scrisse le proprie lettere senza far ricorso a molte fonti, a parte qualche detto di Gesù o a precedenti formulazioni e inni liturgici dedicati a Cristo (Fil 2,6-11).

La teoria delle fonti La visione tradizionale, comune sia a ebrei sia a cristiani, secondo cui i cinque libri del Pentateuco furono tutti rivelati direttamente da Dio a Mosè fu messa in dubbio fin dagli albori della ricerca storica applicata alla Bibbia. Per esempio già nel XVII sec. il grande filosofo Spinoza affermò nel suo Trattato teologico-politico che era chiaro come il sole che quegli scritti non potevano essere attribuiti a Mosè. Non molto dopo il francese Richard Simon giunse alla conclusione che il Pentateuco è frutto di stratificazioni dovute a una pluralità di autori. Nel secolo successivo si cominciò a notare che Dio non era chiamato in modo omogeneo nella Genesi e nei primi due capitoli dell’Esodo. In quei testi apparve significativo soprattutto l’uso di due nomi: il Tetragramma ineffabile JHWH (greco Kyrios, latino Dominus, «Signore») e il termine ’Elohim (greco Theos, latino Deus). Da questi primi approcci si venne sviluppando la teoria delle fonti che si presenta come un tentativo di spiegazione organica della formazione del Pentateuco. Secondo la formulazione classica dovuta a J. Wellhausen (XIX–XX sec.), con successive integrazioni di H. Gunkel, G. von Rad e I. Engnell, il Pentateuco nasce, a opera di redattori, a partire da quattro principali documenti (più tardi individuati in tradizioni orali pre-letterarie) disposti nel seguente ordine: Jahvista (sigla J), così definito perché Dio è chiamato JHWH già prima della rivelazione fatta a Mosè (Es 3-4), risale grosso modo al X sec. a.C. ed è collocato nel regno di Giuda; segue a distanza di circa due secoli l’Elohista (E), la cui origine si trova nel regno d’Israele; la terza fonte è costituita dal Deuteronomista (D o Dtn) che si identifica per la massima parte con il libro del Deuteronomio, ma di cui è possibile trovare resti qua e là nelle altre parti del Pentateuco (VI-V sec.); la quarta fonte è costituita dal «Codice sacerdotale» (sigla P, dal tedesco Priester «sacerdote») pubblicata alla fine o poco dopo l’esilio babilonese (VI-V sec.), essa è costituita principalmente da un’ossatura storica applicata a tutto il Pentateuco e da una serie di regolamenti rituali concentrati soprattutto nel libro del Levitico. Queste quattro fonti sono state variamente e ulteriormente suddivise. Più di recente l’ipotesi è stata però messa parzialmente in dubbio; in particolare il termine ’Elohim viene ormai non più ritenuto un nome di Dio, ma, genericamente, il segno

dell’appartenenza a una realtà divina. Inoltre la teoria documentaria non motiva adeguatamente i modi in cui le fonti sono state collegate tra loro. Rimane in ogni caso fuori discussione che, nella sua veste di composizione amplissima che incorpora molti generi diversi e insieme distinti di materiali, il Pentateuco non trova paralleli nella letteratura del Vicino Oriente antico. Nessuno dei modelli proposti spiega in modo definitivo la formazione di questo corpus di scritti. Dopo aver suggerito l’esistenza di molte fonti, occorre infatti cercare di spiegare come esse siano state riunite all’interno dei vari libri. Gli studi al riguardo restano ancora in buona parte ipotetici.

Il libro di Isaia In ambito cristiano Isaia, il più ampio libro profetico formato di ben sessantasei capitoli, fu per molto tempo considerato un testo unitario in grado di preannunciare, con un anticipo di quasi otto secoli, la nascita miracolosa di Gesù (Mt 1,23; Is 7,14) o la sua passione e morte espiatorie (Is 53,7-8; At 8,32-34). Tra gli scritti dell’Antico Testamento era dunque considerato un libro eccezionale. Per tutt’altre ragioni esso è considerato tale anche dalla ricerca biblica recente; infatti nel 1947, a Qumran furono ritrovati due manoscritti quasi completi dell’intero libro risalenti al I o addirittura al II secolo a.C. Le differenze tra essi e il testo masoretico sono trascurabili. A quel tempo dunque Isaia formava già un unico libro uguale a quello in nostro possesso. Tuttavia, fin dal Medioevo, l’esegeta ebreo Abraham Ibn Ezra (XI sec.) aveva sostenuto che il testo doveva essere considerato formato da due parti ben distinte. In epoca moderna l’attenzione a Isaia fu seconda solo a quella riservata al Pentateuco. Già a fine Settecento si fece strada la convinzione, basata su criteri storici, tematici e filologici, che il libro dovesse essere distinto in due grandi parti: 1-39 e 4066. Un secolo dopo si cominciò ad affermare l’ipotesi che anche questa suddivisione fosse troppo sommaria e che i capitoli 56-66 risalissero a una fase storica diversa rispetto alla sezione 40-55. In tal modo nacque la distinzione tra Proto-Isaia (1-39), Deutero-Isaia (40-55) e Trito-Isaia (55-66). Di recente anche analisi informatizzate della lingua hanno confermato la non unitarietà del libro. I ragionamenti proposti dagli studiosi non possono persuadere i sostenitori della posizione fideistica secondo la quale un profeta è dotato da Dio del dono divino di prevedere con esattezza il futuro. Tuttavia, muovendosi al di fuori di questo schema, i motivi per distinguere il Deutero-Isaia dal Proto-Isaia sono consistenti e convincenti. Il Deutero-Isaia conosce la distruzione del Primo Tempio, l’esilio babilonese e l’editto di Ciro che pose termine ad esso (539 a.C.). Il Proto-Isaia fa invece riferimento ad avvenimenti tutti anteriori alla caduta del regno d’Israele ad opera degli assiri (722/21 a.C.). La differenza dei periodi si riflette anche in quella dei temi: il Proto-Isaia denuncia i comportamenti delle classi dirigenti di Giuda, il Deutero-Isaia risponde alla crisi del sistema religioso antico avvenuta a causa della distruzione del Tempio e dell’esilio. Il primo formula

severe parole di giudizio, il secondo di consolazione. In quest’ultimo profeta prevale la speranza che il ritorno a Gerusalemme dei deportati segnasse un’epoca di riconciliazione universale fra i popoli. Accanto a motivi stilistici proprio la larghezza di questo orizzonte è una delle ragioni che hanno indotto a parlare di un terzo autore. Infatti i contenuti degli ultimi capitoli di Isaia ben si inquadrano in un contesto in cui il ritorno degli esuli a Gerusalemme non ha comportato la realizzazione di quelle grandiose visioni. Il Tempio fu ricostruito tra mille difficoltà e la vita continuò a essere difficile, da qui la necessità di rilanciare in avanti la speranza di vedere in Gerusalemme la meta del futuro pellegrinaggio pacificato dei popoli. Dopo aver prospettato le ragioni della scomposizione, nasce, come sempre, la questione del perché le parti siano state raccolte in un insieme unitario. Non sono mancate spiegazioni banali come quelle che si appellano alla ragione materiale di due rotoli legati occasionalmente assieme per motivi pratici e poi a poco a poco colti in modo sempre più unitario. Altri, in maniera più convincente, ipotizzano l’esistenza di una scuola teologica che riunì consapevolmente le varie sezioni. In tutti i casi non si va al di là dell’ambito delle congetture.

Il problema sinottico Nell’approccio precritico i Vangeli erano ritenuti resoconti autentici dell’opera di Gesù; in altri termini, non si coglieva alcuno iato tra le vicende narrate da quei testi e la visione di Gesù Cristo elaborata dalla tradizione successiva. Tuttavia, fin dai primi secoli si percepì assai bene come tra i quattro Vangeli ce ne fosse uno – quello di Giovanni – che si differenziava dagli altri tre. Con il passare del tempo si sono però riscontrate delle diversità anche fra questi ultimi; in essi, ad esempio, vi sono pericopi (cioè «sezioni compiute») non corrispondenti, oppure lo stesso materiale è organizzato in modo diverso; a volte poi si trovano episodi uguali ma ambientati in circostanze differenti. Fin dall’antichità gli scrittori cristiani avevano rilevato il fatto ovvio che il Vangelo di Marco è molto più breve degli altri due sinottici, inoltre esso ha un patrimonio peculiare molto ridotto, sono infatti solo tre le pericopi presenti in Marco e assenti negli altri due Vangeli; in Matteo invece ve ne sono una trentina e in Luca addirittura una cinquantina. Per molti secoli questo fatto aveva indotto a una certa minor considerazione del Vangelo di Marco. In particolare, esso era considerato una specie di riassunto di Matteo, giudicato il Vangelo più antico scritto da un testimone oculare dei fatti e redatto in una presunta stesura primitiva in una lingua semitica (ebraico o aramaico). Di contro Luca era molto valutato, in special modo nella predicazione, proprio per il suo contenuto specifico (si pensi alla storie dell’infanzia di Gesù – 2,151 – o a celebri parabole come quella del «buon samaritano» – 10, 29-37 – o del «figliol prodigo» 15,11-32). In epoca moderna è invece prevalsa la considerazione opposta: il Vangelo più breve va giudicato il racconto più antico ampliato dagli altri due Vangeli. Attualmente quindi è proprio Marco, il testo più sintetico che contiene tutto il materiale comune ai tre sinottici e scritto meno bene dal punto di vista linguistico (il suo greco è pieno di latinismi), a essere ritenuto il Vangelo redatto per primo. A proposito della questione sinottica, un’ipotesi classica, variamente ripresa e ormai in parte contestata, fa riferimento all’esistenza di una fonte, detta Q (iniziale della parola tedesca Quelle, fonte), non pervenutaci direttamente e del tutto

indipendente da Marco, la quale avrebbe contenuto soprattutto detti (loghia) di Gesù. Tra Matteo e Luca vi sono infatti tali somiglianze rispetto alla sistemazione del materiale ad essi comune, ma assente in Marco, da aver indotto a ipotizzare che dipendessero, oltre che dal Vangelo più antico, pure da un’ulteriore fonte scritta (appunto Q). Né Marco né l’ipotetica fonte Q, in quanto testi scritti, rappresentano lo strato originario della trasmissione dei «detti» e dei «fatti» di Gesù. Una simile affermazione viene suffragata soprattutto dalla constatazione che i Vangeli da noi conosciuti sono stati scritti in greco. Nonostante siano stati compiuti vari tentativi in tale direzione, non vi è alcuna traccia evidente di un precedente testo evangelico redatto in lingua semitica. Gesù però parlava non in greco bensì in aramaico occidentale. Marco e Q, nel riportare i detti del Maestro, hanno dunque compiuto un’opera di traduzione o di ripetizione di un materiale trasmesso (forse già tradotto) oralmente. Si aprono perciò nuove questioni; ad esempio, come sono stati tramandati i «detti» e i «fatti» di Gesù prima di assumere una veste scritta? Quali tra essi possono effettivamente essere stati pronunciati dal «Gesù storico»? Uno dei presupposti tipici del metodo storico-critico sta nel negare che tutte le parole a lui attribuite dai Vangeli siano state effettivamente pronunciate da Gesù. Lo scopo della «storia delle forme» applicata ai Vangeli è dunque soprattutto quello di stabilire quanto sia realmente possibile far risalire a Gesù e quanto sia da assegnare alla tradizione. In questo tipo di approccio si tende a porre l’accento sulla capacità creativa delle comunità cristiane primitive in risposta a determinati bisogni specifici. I Vangeli sono nati entro comunità che hanno avvertito una duplice urgenza: da un lato conservare in maniera vincolante alcuni detti loro trasmessi, dall’altro adattare questi ultimi a circostanze specifiche sorte al loro interno. Particolari «situazioni vitali» (in tedesco Sitz im Leben) di tipo sociale, culturale, teologico, liturgico, catechetico e così via indussero a compiere una forte elaborazione del materiale ricevuto, attribuendo per tal via a Gesù detti da lui mai effettivamente pronunciati. Nel suo tentativo di individuare gli elementi ascrivibili al «Gesù storico», la «storia delle forme» scompone e analizza il materiale e lascia molte incertezze su quali siano

da considerare effettivamente «ipsissima verba» (parole stesse pronunciate da Gesù). Gli esegeti biblici e i teologi che facevano ricorso a questo metodo tendevano a separare «il Cristo della fede» – cioè le visioni fondate soprattutto sul Signore risorto – dalla ricostruzione storica della vita di Gesù. Tuttavia, più di recente, si è assistito tanto a una forte reazione volta a rivalutare la funzione del «Gesù storico» anche rispetto all’orizzonte della fede quanto al crescere della convinzione di poter raggiungere strati effettivamente autentici. La ragione di questa maggior fiducia è adombrata dall’esistenza stessa del «genere letterario» vangelo. Esso certamente non è una biografia in senso storiografico moderno, tuttavia la vita di Gesù narrata dai Vangeli ha rilevanza anche per la fede: a dimostrarlo è proprio la comparsa di questo tipo di narrazione che vuole presentare il Maestro come chi ha effettivamente vissuto un’esistenza concreta e umana. L’approccio storico ha elaborato una serie di presupposti metodologici per decidere se un detto può essere effettivamente fatto risalire a Gesù. A tal proposito uno dei criteri più classici è quello della «discontinuità»; stando a esso si può considerare autentico un detto che non trova riscontro né nell’ambiente ebraico coevo, né all’interno delle successive comunità cristiane: non avendo rintracciato paralleli è gioco forza considerarlo originale. Peraltro, una delle premesse di questo metodo, la disomogeneità tra Gesù e il mondo ebraico a lui contemporaneo, è, a sua volta, tutt’altro che certa; anzi la ricerca attuale tiene in grande considerazione le affinità tra i resoconti evangelici e alcune correnti giudaiche coeve. Accanto alla «storia delle forme» si sono moltiplicati altri metodi; tra essi si segnala anzitutto la «storia della redazione» incentrata sulla ricerca del come e del perché le singole sezioni siano state messe assieme da un dato evangelista. Inoltre, rispetto ai Vangeli, è stata esaminata la storia della tradizione, vale a dire i modi in cui venne trasmesso oralmente il materiale originario. Si può infine spostare l’attenzione sulla veste definitiva assunta dal testo. In tal caso ci si pongono problemi del tipo: perché il redattore finale di un Vangelo ha dato ad esso proprio quella determinata struttura teologico-narrativa? I tre sinottici, infatti, pur organizzando in modo sostanzialmente omogeneo il materiale, si presentano come composizioni dotate di significative diversità reciproche. Nello studio di questo aspetto un ruolo decisivo è

assegnato all’individuazione dei primitivi destinatari di ogni singolo Vangelo. Senza tener conto di questo aspetto è certamente arduo ipotizzare gli scopi specifici per cui a quello scritto è stata data una determinata veste teologica e letteraria.

L’epistolario paolino La tradizione attribuisce a Paolo quattordici lettere. Fin dall’antichità si è però colta la disomogeneità della Lettera agli Ebrei rispetto a tutte le altre. Essa è entrata nel canone con una certa fatica ed è differente dalle rimanenti sia per stile sia per mancanza di riferimenti specifici alla vita di una determinata comunità. Al giorno d’oggi la Chiesa cattolica, anche in sede liturgica, non l’attribuisce più a Paolo. I testi paolini sono lettere occasionali scritte a specifiche Chiese che prendono le mosse da problemi particolari. Le grandi prospettive teologiche di Paolo non sono racchiuse in trattati: sorgono a sostegno di indicazioni concrete legate alla vita dei credenti. Esse sono anche ricche di squarci biografici e di allusioni a prossimi viaggi. Le lettere furono scritte con l’intento di essere lette nelle comunità riunite (1 Ts 5,27), esse rimasero quindi sempre fedeli al loro genere letterario: rendere presente il messaggio di una persona fisicamente distante. Gli studiosi hanno avanzato dubbi sull’unità e l’integrità di alcune lettere. Per esempio, l’attuale 2 Corinzi è in genere considerata una fusione di almeno due lettere precedenti; mentre certi studiosi considerano l’ultimo capitolo della lettera ai Romani, gremito di saluti e nomi propri, un biglietto a sé. Anche in questi casi le affermazioni per essere persuasive devono cercare di motivare il fatto che le parti siano state in seguito riunite assieme. In base a considerazioni teologiche (legate in particolar modo a temi di carattere ecclesiologico) e stilistiche, da lungo tempo si discute sulla autenticità paolina delle lettere agli Efesini e ai Colossesi. Pure chi non considera di Paolo questi scritti attribuisce di solito la stesura ad alcuni collaboratori dell’apostolo, da qui il nome di deutero-paoline. Si è concordi nel non ritenere di Paolo le cosiddette lettere pastorali, indirizzate non a una comunità, ma ad un collaboratore: Timoteo o Tito. Dal punto di vista metodologico è interessante il caso di 2 Tessalonicesi: l’affinità con i temi della prima lettera rivolta a quella comunità è stata usata, a seconda degli orientamenti, per confermare o per smentire la paternità paolina dello scritto. Nel primo caso prevale il senso della somiglianza, nel secondo si ipotizza un consapevole calco. Dopo un periodo in cui si propendeva per l’inautenticità, negli ultimi anni sembra di nuovo prevalere l’orientamento di ascrivere effettivamente a

Paolo questa lettera.

4.

Come viene letta la Bibbia

L’ermeneutica biblica Come ogni libro anche la Bibbia non si sottrae all’obbligo di essere interpretata; questa condizione la espone anche al rischio di venire fraintesa. Non a caso all’interno della stessa Scrittura, specie negli strati più recenti, non mancano al riguardo severi ammonimenti (2 Pt 1,20-2,1.16). In epoca moderna una consolidata corrente di studi ha ritenuto che il modo più sicuro per comprendere un testo senza cadere in arbitri interpretativi sia quello storico di ricostruirne l’origine. Tuttavia, in anni a noi più prossimi, tale orientamento è stato sempre più affiancato da approcci (vivacemente discussi pure in sede di critica letteraria) secondo cui a ogni brano di letteratura deve essere concesso di «parlare di per sé», a prescindere dagli intenti personali di chi lo ha composto. In tal modo, accanto a impostazioni diacroniche, hanno preso sempre più piede letture di tipo sincronico. Inoltre in relazione alla Bibbia occorre mettere in conto la grande autorità di cui è rivestito il testo. Per molti dei suoi lettori è fondamentale che le pagine della Scrittura comunichino insegnamenti e trasmettano speranze collegate alle loro esistenze personali o a quella del gruppo di cui fanno parte. Questi significati non possono coincidere appieno con quelli riferiti a contesti storici ormai lontani. In termini semplici la parola biblica, pur provenendo da molto distante, deve parlare al presente. Essa perciò è a un tempo nuova e antica (Mt 13,52); è attuale anche se non contemporanea. Il termine di origine greca «ermeneutica» significa «interpretazione», «spiegazione». Una esemplificazione paradigmatica della sua rilevanza biblica la si trova nel Vangelo di Luca. Si tratta dell’episodio di Emmaus. Due discepoli si allontanano da Gerusalemme dopo la morte di Gesù. Tutte le speranze sembrano ormai infrante. A loro, senza farsi riconoscere, si avvicina il Risorto sotto l’aspetto di un semplice compagno di strada. Egli li accusa di incredulità e partendo dal Pentateuco e dai Profeti spiega (diermēneyō) loro che il Cristo (vale a dire il Messia), prima di entrare nella sua gloria, doveva passare attraverso la passione (Lc 24,25-27). In base al senso storico è già molto problematico trovare nelle pagine dell’Antico Testamento riferimenti alla persona del Messia ed è da escludere che in esse ne fosse

prospettata la morte. Il racconto è quindi un modo narrativo per attualizzare la Scrittura. Esso risponde a un problema tipico della fede delle comunità cristiane primitive che accettavano come Parola di Dio il Pentateuco, i Profeti e i Salmi (cfr. Lc 24,44-45) e credevano in Gesù Cristo morto e risorto. Il Messia e quei testi scritti non potevano perciò appartenere a universi separati. Fin dalle origini il massimo problema ermeneutico cristiano fu di cogliere le Scritture alla luce di Gesù Cristo e viceversa. In maniera ovviamente differente alcuni fondamentali problemi ermeneutici sorsero pure per il giudaismo rabbinico. Anche per esso la questione cruciale fu di rendere attuale la Parola a fronte di una situazione radicalmente mutata: la distruzione del Secondo Tempio e il connesso venir meno del culto sacrificale sembravano consegnare al passato buona parte delle istituzioni bibliche. La risposta a tale situazione fu di individuare linee interpretative che consentissero alla rivelazione biblica di presentarsi come se fosse un oggi. Rispetto alla Bibbia è bene assumere il termine ermeneutica nella sua accezione più alta. Con esso ci si riferisce perciò all’elaborazione di principi fondamentali che consentono sia di interpretare la Scrittura a partire da una o più precomprensioni fondanti, sia di rapportarla ai bisogni vitali di una comunità di credenti o lettori. L’ermeneutica non pretende di risalire a quanto sta dietro il testo; essa assume la pagina scritta come proprio punto di partenza e l’anima guardando a valle. Conviene quindi comprendere l’ermeneutica come l’atto di interpretare un testo antico a partire da alcuni presupposti di fondo che possono, almeno in parte, non essere contenuti al suo interno. Tuttavia non va neppure dimenticato che il credente è convinto di essere a sua volta giudicato dalla parola biblica che si sforza di interpretare. Uno dei basilari presupposti ermeneutici sta nell’esistenza del canone. L’atto di raggruppare in unità libri diversi e a volte eterogenei, di organizzarli secondo una successione coerente e di prospettare una gerarchia al loro interno costituisce infatti in se stesso una chiave interpretativa di grande importanza.

Bibbia e liturgia Molte sono le vie che connettono la Bibbia alla liturgia (da leitos, pubblico ed ergon, fatto). Esse sono legate tanto al sorgere stesso della Scrittura quanto ai modi in cui è letta. Innanzitutto nella pagine bibliche, accanto a molteplici riferimenti a pubblici atti liturgici, vi sono esplicite attestazioni di cerimonie incentrate sulla proclamazione di un testo di fronte a un’assemblea. Alla fine del libro del Deuteronomio si afferma, per esempio, che ogni sette anni tutto il popolo, uomini, donne, bambini e stranieri residenti, dovrà radunarsi per ascoltare la lettura ad alta voce della Legge (Dt 31,9-13; cfr. Gs 8,30-35, Ne 8). Queste e molte altre indicazioni testimoniano la funzione avuta dalla componente liturgica nella nascita e nell’organizzazione dei testi biblici. Il ciclo di letture bibliche compiuto nelle sinagoghe a partire dagli ultimi secoli a.C. si presenta dunque come una codificazione extrabiblica di tendenze già evidenziate all’interno della Scrittura. Le osservazioni precedenti valgono in pieno anche per il Nuovo Testamento. Negli scritti neotestamentari sono presenti inni in parte recepiti da prassi liturgiche precedenti (Gv 1,1-5.9- 12.14.16; Fil 2,6-11; Col 1,15-20), riferimenti a liturgie sia sinagogali (cfr. Lc 4,16-21; At 13.13-15) sia propriamente cristiane (cfr. ad es. 1 Cor 11,17-33), inviti a leggere pubblicamente nell’assemblea i testi (1 Ts 5,27), libri, come l’Apocalisse, strutturati compiendo un costante riferimento alla dimensione liturgica. Si può quindi proporre la generalizzazione stando alla quale il testo biblico così come l’abbiamo oggi è stato redatto tenendo ben presente la dimensione liturgica. La liturgia ha svolto un ruolo decisivo, oltre che nella nascita della Scrittura, anche nella trasmissione, nella definizione e nell’interpretazione della parola biblica. Il processo di canonizzazione della Bibbia risentì in modo determinante del fatto che alcuni testi erano già letti nelle assemblee. Tuttavia con il tempo si affermò anche il procedimento inverso: una volta stabilito il canone, quei libri sono, più di ogni altro scritto, predisposti a venir proclamati nelle assemblee liturgiche. Questa ritualità non comportò, né in ambito ebraico né in quello cristiano, la lettura completa dell’intera Bibbia. Anche nella liturgia sinagogale si leggono integralmente solo il libro della Torà e i cinque piccoli rotoli collegati ciascuno a una festa. I Profeti sono invece letti

solo in piccole sezioni non continuative collegate al brano settimanale del Pentateuco. Quanto ai Salmi, essi sono diffusamente presenti pure nelle preghiere quotidiane. Sarebbe comunque errato ridurre il discorso a una pura dimensione quantitativa. Il tema cruciale è che in sede liturgica la Bibbia si prospetta innanzitutto come parola viva che riceve la sua prima interpretazione dal modo stesso in cui è letta in un determinato contesto. Per la tradizione ebraica e per quella cristiana la liturgia è una modalità che, in un certo senso, stabilisce sia la natura della Scrittura, sia la gerarchia delle sue parti, sia i principi ermeneutici della sua interpretazione. Proclamata di sabato nella sinagoga, la Torà è colta di necessità come parola comunicata a Mosè sul Sinai. Dopo la lettura della breve sezione tratta dai Profeti questa operazione è portata a compimento da un terzo momento: l’omelia (detta derashà, ricerca). Con essa l’interprete, ponendosi sulla scia dei commenti tradizionali, rende esplicito per l’assemblea il significato della parola più urgente da comunicare. Libro e comunità sono quindi due entità correlate. A prescindere da questo rapporto la Bibbia rischierebbe di diventare un semplice testo religioso paragonabile a molti altri. Ovviamente la lettura cristiana pone al proprio centro Gesù Cristo. Questa palese affermazione trova corrispondenza nel ruolo privilegiato riservato al Vangelo: a differenza delle altre letture, nella liturgia cattolica lo può proclamare solo un diacono o un presbitero; sul Vangelo si compiono segni di croce, è baciato e, nei casi solenni, incensato, infine lo si ascolta stando in piedi. Basterebbero queste prassi per rendere evidente la posizione di eccellenza attribuita ai Vangeli nei confronti di tutte le altre parti della Scrittura. Queste norme rituali manifestano con chiarezza l’esistenza di una lettura che intende la persona di Gesù Cristo come il riferimento fondamentale per interpretare l’intera Bibbia. Valutazioni per più aspetti analoghe si possono avanzare a proposito della recita dei Salmi. La tradizione monastica, recepita nei breviari e prolungatasi fino alla moderna «Liturgia delle Ore», considera questi componimenti fondamento della preghiera liturgica quotidiana. Un detto proverbiale afferma: «tutti i Salmi finiscono in gloria». La frase, letta in controluce, indica come questi testi siano stati a lungo definiti a partire dalla loro collocazione liturgica. La formula «Gloria al Padre, al Figlio e allo

Spirito Santo, come era in principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen» recitata alla fine di ogni Salmo, non è biblica; anzi, dal punto di vista storico, essa rappresenta quantomeno un anacronismo. Tuttavia, la ripetuta e omogenea presenza del «Gloria» ha indotto a intendere i Salmi come testi in loro stessi cristiani (e non già ebraici). Nell’ambito della pietà ci si riferiva quindi in modo spontaneo al «santo profeta Davide» che nel ventunesimo salmo (seguendo i Settanta, ventidue per il testo ebraico) aveva preannunciato la passione di Gesù Cristo. L’uso dei Salmi all’interno delle ore canoniche ha alimentato la comune convinzione cristiana di dover interpretare quei componimenti, al pari dell’intero Antico Testamento, in una prospettiva fortemente cristologica.

I principali metodi di lettura della Bibbia Tarda antichità e Medioevo. Si può affermare che la più antica ermeneutica cristiana della Scrittura ruota attorno a un problema di base e a tre luoghi simbolo: il deserto della Tebaide, Alessandria e Antiochia. La questione fondamentale è di leggere l’unità dei due Testamenti alla luce di Gesù Cristo. Essa venne risolta o interiorizzando la parola o approntando metodi ermeneutici in grado di cogliere una pluralità di significati all’interno del testo biblico. La prima è la scelta compiuta dalla tradizione monastica nata dai Padri del deserto, la seconda è la strada imboccata da un lato dalla scuola alessandrina e dall’altro da quella antiochena. All’interno dell’antico mondo monastico egizio (III-IV sec.) nacque una maniera di leggere la Bibbia ampiamente ripresa dalla tradizione successiva. Questa via, denominata, con un’espressione ancora in vigore, lectio divina, si avvicina al testo secondo un itinerario orientato a un sempre maggior approfondimento interiore. Si tratta di un procedimento costituito da quattro momenti. Si parte da una lettura attenta del brano (lectio), si passa attraverso una sua prolungata meditazione interiore (meditatio o ruminatio) che lo collega alla propria situazione esistenziale; segue il momento della preghiera (oratio) e si perviene infine alla contemplazione (contemplatio), vale a dire alla capacità di cogliere la presenza di Dio nella parola letta alla luce di Gesù Cristo. Questa strada consegna all’interiorità la parola pubblica della liturgia. Alessandria è stata la città per eccellenza in cui, già in epoca precristiana, avvenne il confronto tra tradizione biblica e cultura ellenistica. Il problema cruciale di questo incontro è il rapporto che esiste fra eternità e tempo. Secondo la concezione filosofica greca la perfezione deve essere immutabile. La Bibbia espone invece un racconto in cui il prima e il dopo costituiscono un asse fondamentale. Per la Scrittura eventi collocati nel tempo come l’esodo dall’Egitto e la rivelazione del Sinai segnano uno spartiacque assoluto. L’integrazione tra due prospettive tanto diverse avvenne in larga misura all’insegna dell’allegoria. Questo approccio prendeva le vicende storiche narrate dalla Bibbia come ombre e figure di realtà celesti, tempo ed eterno in questa maniera sembravano trovare una loro forma di conciliazione. Un contributo

fondamentale in proposito fu dato da Filone, il filosofo ebreo di Alessandria che all’inizio del I sec. d.C. approntò un metodo di lettura allegorico che consentiva agli eventi biblici di avere un significato duraturo. A questo sfondo si rifà la scuola esegetica alessandrina che trovò nel III sec. il suo massimo rappresentante in Origene. Tuttavia se uguale è l’orientamento allegorico, ben differente è il senso della rivelazione fatta propria dalla scuola cristiana. In Gesù Cristo infatti molte figure sono già diventate realtà; il senso spirituale dato alla lettera del testo riceve, in tal modo, un altro tipo di fondamento. Partendo dall’idea di un’ispirazione divina estesa ai minimi particolari del testo, Origene pratica una lettura della Bibbia che si propone di svelare il senso celato nel livello letterale per accedere a significati più alti collegati al senso morale e a quello allegorico (definito anche «spirituale»). Nell’ambito dell’esegesi giudaica erano sorte anche altre modalità di lettura, compresa quella, presente pure in Paolo (cfr. 1 Cor 10,1-13), detta tipologica. Questo genere di interpretazione va tenuto distinto dall’allegoria. Qui il passaggio da una figura – detta «tipo» – alla sua realizzazione avviene lungo un asse temporale: il «tipo» è quanto è narrato nell’Antico Testamento, la realizzazione è quel che si è adempiuto in Gesù Cristo o nella comunità che lo confessa come suo Signore. Il tempo della figura e quello della pienezza non possono però essere omogenei. Il secondo termine deve collocarsi in una dimensione temporale differente chiamata dal Nuovo Testamento in vari modi: kairos («momento», At 1,7; 1 Ts 5,1), «pienezza del tempo» (Gal 4,4) o «fine dei tempi» (1 Cor 10,12). Con il trascorrere dei secoli crebbe però la tendenza ad applicare le figure dell’Antico Testamento alla Chiesa. Sorse così la qualifica secondo cui la comunità cristiana era il nuovo e vero Israele. Questo modo di presentare la Chiesa come realtà spirituale e l’antico Israele come semplice figura, ombra e artefatto, ebbe inevitabili conseguenze antiebraiche. Ad Antiochia si fu più sensibili alla tipologia che all’allegoria. La scuola esegetica sorta sotto l’influsso del cristianesimo siriaco reagì a un’allegorizzazione eccessiva e sviluppò un orientamento più attento all’eredità giudeocristiana e aperto ai contributi dell’interpretazione rabbinica. Essa promosse perciò un’esegesi storica della Bibbia

volta a limitare i significati cristologici ai passi profetici senza estenderla a ogni più minuto particolare del testo. In tal modo si attenne, in sostanza, all’originaria lettura tipologica della Bibbia di matrice paolina. Nell’Occidente la sintesi del periodo antico sfociò nella grande opera esegetica di Agostino. Essa è felicemente riassunta nella massima secondo cui «Nell’Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo si rivela l’Antico». La Bibbia, libro della Chiesa, è tale perché parla sempre e comunque di Cristo. Se l’Antico Testamento non parlasse di Gesù Cristo non potrebbe infatti ritenersi un testo cristiano. L’ermeneutica agostiniana si attiene di norma a due livelli di senso: letterale e allegorico. Nella seconda parte della sua vita Agostino rafforzò il ruolo del senso letterale e con esso l’importanza di quello storico. Nel Medioevo era scontato che ogni passo biblico avesse più significati. Di norma questa pluralità di sensi venne scandita secondo uno schema quadripartito: lettera, allegoria, tropologia, anagogia. Per quanto risalisse a epoca ben anteriore, questo schema è conosciuto soprattutto attraverso un distico coniato dal frate domenicano Agostino di Dacia: «Littera gesta docet, quid credas allegoria,/Moralis quid agas. Quo tendas anagogia». Il senso letterale insegna gli avvenimenti, quello allegorico esprime l’oggetto della fede, il morale – o tropologico (dal greco tropos, «indole, «disposizione morale») – le modalità del comportamento, l’anagogico (dal greco anagōghē, «elevazione») l’oggetto ultimo della speranza. Questo tipo d’interpretazione attribuì un peso crescente al senso letterale: gli eventi narrati dalla Scrittura sono fatti reali che solo in virtù di questa loro caratteristica di fondo potevano ospitare significati ulteriori. Il Medioevo contribuì perciò a rafforzare il senso storico delle Scritture. Una celebre esemplificazione di questo approccio è fornita da Dante Alighieri nella sua XIII Epistola quando, riferendosi alle parole latine «In exitu Israel de Aegypto» con cui inizia il Salmo 113, afferma che, secondo la lettera, ciò significa l’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto al tempo di Mosè; se guardiamo all’allegoria, ci si riferisce alla redenzione compiuta da Cristo; nel senso morale, è significata la conversione dell’anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato della grazia; in quello anagogico si esprimono la liberazione dell’anima dalla schiavitù del corruttibile e l’incamminarsi verso la beatitudine della gloria

eterna. Epoca moderna e contemporanea. L’inizio dell’Età moderna è contraddistinto dall’abbandono del metodo che leggeva nella Scrittura una pluralità di sensi, dal sorgere dell’interesse filologico e dall’irrompere della centralità della Bibbia propria del mondo della Riforma. Lo spirito umanistico favorì il ritorno ai testi e ai commenti più antichi. Le Annotazioni e Parafrasi del Nuovo Testamento di Erasmo da Rotterdam restano, in tale luce, esemplari. Oltre che per le traduzioni bibliche il nome di Lutero è fondamentale anche per altri tre motivi: il primo si trova nel principio protestante della sola Scriptura, in base al quale la Bibbia si presenta come l’unica fonte della rivelazione anche a prescindere dalla tradizione; il secondo è il libero esame, vale a dire la possibilità data al fedele di accostarsi direttamente alla Scrittura; il terzo sta nel fatto che l’unità cristologica della Bibbia avviene non attraverso letture allegoriche, bensì in virtù della dialettica fra Legge e Vangelo presente nella drammatica tensione tra peccato e grazia che percorre l’intera Scrittura. Tutti i grandi protagonisti della Riforma si occuparono approfonditamente della Bibbia. Tra essi primeggia Giovanni Calvino, autore di un commento pressoché integrale al testo biblico e fermo sostenitore dell’interpretazione letterale. Per il riformatore l’accesso alla verità della Scrittura è garantito dalla testimonianza interiore dello Spirito Santo, senza necessità di far ricorso ad alcun magistero esteriore. Mentre nel Sei-Settecento il mondo cattolico restò quasi imbrigliato in un accesso alla Scrittura ancorato alla Vulgata, alla mediazione magisteriale e alla versione catechistica della storia sacra, nella cultura europea si gettavano le basi del metodo storico-critico che avrebbe dominato nei secoli XIX e XX. Nel Novecento si è però assistito anche a una proliferazione di altri metodi di accostarsi alla Bibbia, sovente di natura sincronica e contestuale. Essi sono in larga misura debitori a tendenze presenti e operanti in altri ambiti culturali. Si tratta di una situazione collocata su un crinale più frastagliato che lineare, sospesa tra la volontà di evidenziare le molteplici ricchezze del testo biblico e una rincorsa a orientamenti culturali affermatisi in altri ambiti.

Tra i metodi sincronici i più ricorrenti sono: l’analisi retorica, attenta a porre in rilievo il fatto che molte pagine bibliche mirano ad essere un discorso persuasivo; l’analisi narrativa e l’analisi semiotica di ascendenza strutturalista che, portata alle sue estreme conseguenze, nega i soggetti e i riferimenti extratestuali (conclusione inaccettabile per la posizione di fede in quanto priverebbe la Bibbia del suo statuto di parola di Dio). Molteplici sono gli approcci che fanno ricorso alla scienze umane. In particolare il riferimento a categorie sociologiche è utile anche per cogliere gli ambienti riflessi dal testo, l’antropologia culturale pone in rilievo l’importanza dei valori e delle simbologie delle civiltà circostanti. Non mancano aperture verso i contributi della psicologia e della psicoanalisi. Particolare rilevanza hanno gli apporti della psicologia del profondo di ascendenza junghiana che colgono nella Bibbia le tappe della maturazione umana rendendola così uno specchio in cui il lettore coglie se stesso. Con l’espressione «approcci contestuali» ci si riferisce a un tipo di interpretazione in cui la collocazione sociale o la condizione antropologica del lettore divengono una chiave ermeneutica fondamentale per comprendere il testo. Quelli più intensamente percorsi negli ultimi decenni sono il liberazionista, legato a una lettura politica della Bibbia che privilegia il messaggio dell’Esodo ripreso da Gesù come modello di riscatto dei popoli oppressi, e il femminista a sua volta contraddistinto da vari orientamenti estesi dall’opzione radicale che condanna il maschilismo biblico, alle alternative più moderate che privilegiano la posizione della donna e del debole come luogo interpretativo dell’intero messaggio biblico.

La «storia degli effetti» Un modo per accostarsi alla Bibbia è di prendere in considerazione gli influssi da essa esercitati su moltissimi aspetti della civiltà occidentale: arte, letteratura, filosofia, etica, politica, diritto, economia, costume, tradizioni popolari e così via. Quest’ultimo campo d’indagine viene chiamato «storia degli effetti» (dal tedesco Wirkungsgeschichte). Questo metodo culturale più volte può dare l’impressione che gli effetti siano più evidenti e conosciuti della loro causa. Come in ogni prassi ermeneutica anche in questo caso ha perciò molto peso la distanza posta tra noi e l’oggetto originario. Tra il lettore contemporaneo e la Scrittura si estende il gran mare delle interpretazioni dirette e indirette. Seguendo questa rotta la Bibbia, nella sua qualità di libro, rischia di essere un approdo quasi irraggiungibile. La distesa delle acque sembra infatti non avere mai fine. Eppure resta vero che, pur nella loro grande varietà, gli effetti mantengono almeno qualche traccia della propria origine. Per rendersene conto è sufficiente gettare di nuovo uno sguardo al problema del canone. Si comprende facilmente l’importanza dell’assetto canonico se si imbocca la via comparativa: a una diversa organizzazione canonica corrisponde una differente «storia degli effetti». Si pensi al Corano. Di certo i suoi influssi sui comportamenti quotidiani di moltitudini di persone, sul diritto, ma anche sulla filosofia o l’arte (moschee, arabeschi) sono stati vastissimi; tuttavia in quel mondo è impensabile trarre dal Corano una sacra rappresentazione, o musicarlo, o metterlo in poesia, o assumerlo come motivo ispiratore di un romanzo, possibilità tutte ampiamente documentate nel caso della Bibbia. Una ragione profonda di tale diversità sta nel fatto che il canone biblico, a differenza di quello coranico, è organizzato in modo narrativo. La Scrittura intesa come grande racconto ha consentito, o addirittura favorito, il trascriverla in altri linguaggi: letterari, musicali, pittorici, scultorei, teatrali, filmici e via dicendo. In base a questa esemplificazione risulta perciò evidente che tutti i libri sacri danno luogo a una «storia degli effetti»; questi ultimi però differiscono tra loro, oltre che per i diversi contenuti, anche per il modo in cui i testi sacri organizzano la loro struttura formale.

L’ermeneutica giudaica In seno all’ebraismo la Scrittura è stata commentata senza interruzione. Vi sono state epoche di grande rigoglio (il giudaismo rabbinico dei primi secoli della nostra era o i grandi commentatori medievali) e altri periodi più ripetitivi. Nel complesso si tratta comunque di una produzione immensa e di elevatissimo valore. Il genere letterario più rappresentativo – non però il solo – è costituito dal midrash, termine derivato dal verbo «darash», «cercare». Nel suo insieme quest’ambito raccoglie i frutti dell’instancabile attività di indagine e commento del testo rivelato compiuta dai maestri ebrei. Più specificatamente le raccolte midrashiche raggruppano una pluralità di interpretazioni prodotte in base a regole ermeneutiche ben codificate che prospettano modi, per lo più sincronici, per accostare passi biblici che provengono anche da contesti diversi. Uno di questi principi afferma apertamente che nella Bibbia non c’è né prima, né dopo; il che non comporta negare l’esistenza di un racconto che si snoda lungo l’arco delle generazioni. Questo principio significa solo che in qualunque parte della Scrittura si può trovare un riferimento capace di illuminare il brano che si sta commentando. L’ermeneutica midrashica si colloca quindi entro il canone tripartito costituito da Pentateuco, Profeti e Scritti. Essa è costantemente connessa al presupposto che ogni passo biblico sia dotato di una pluralità di significati. Come le scintille sprizzano da una roccia percossa da un martello, così da un versetto biblico sollecitato nel giusto modo possono scaturire molti sensi. Il midrash contraddistingue perciò l’esistenza di un dialogo perenne tra la comunità interpretante e il testo da interpretare. Queste valutazioni acquistano ancor più rilievo tenendo conto del sempre più vasto interesse dimostrato negli ultimi anni nei confronti dell’ermeneutica ebraica. Le sue regole e il suo approccio sincronico hanno attirato l’attenzione della critica letteraria. Il salto qualitativamente più significativo si ha però nel caso della rivalutazione cristiana del commento ebraico. Questo coglie innanzitutto la presenza nell’ermeneutica giudaica di regole e procedimenti che trovano riscontro anche nel Nuovo Testamento. La crescente consapevolezza storica che la letteratura rabbinica si colloca per la massima parte in secoli successivi alla nascita del cristianesimo (i

grandi maestri di questo giudaismo sono coevi ai Padri della Chiesa) induce però ad assumere questo patrimonio interpretativo anche come attestazione di una inesauribile ricchezza spirituale. A sua volta questa presa d’atto interagisce con il ripensamento proprio di varie Chiese cristiane occidentali che le ha indotte a rivedere e condannare il loro precedente orientamento antigiudaico. All’interno di scenari in gran parte ancora inediti, problemi di natura storica ed ermeneutica si intrecciano in tal modo con questioni teologiche di grande portata.

La lettura fondamentalista Non è raro imbattersi nel fraintendimento che giudica il fondamentalismo una sopravvivenza arcaica giunta inopinatamente fino ai nostri giorni. In realtà questo tipo di lettura è una manifestazione moderna sorta in reazione ad altre interpretazione affermatesi nel corso degli ultimi due secoli. Al suo centro si trova la Bibbia considerata in se stessa come un libro oggettivamente rivelato a prescindere da ogni rapporto con una comunità che la custodisce e una tradizione che la interpreta. Il letteralismo è la coerente conseguenza di un simile atteggiamento. Il fondamentalismo, corrente sviluppatasi specie nell’ambito protestante americano tra XIX e XX sec., sostiene il carattere assoluto e rivelato della Bibbia, esso perciò non tollera alcuna lettura diversa da quella fideistica. Per la visione fondamentalista la concezione del Libro sacro è connessa soprattutto a tre principi: l’inerranza testuale estesa alla totalità dei contenuti biblici, compresi quelli di carattere cosmologico o biologico; l’astoricità secondo cui le verità rivelate, accolte alla lettera, sono dotate di un valore permanente e la superiorità della Legge divina rispetto a quella terrena (principio, quest’ultimo, dotato di evidenti ripercussioni politiche). Conseguenza inevitabile dell’approccio fondamentalista è il rifiuto sia del metodo storico-critico sia di quello della «storia degli effetti». Per un esponente del fondamentalismo l’uno e l’altro tipo di indagine sono infatti incompatibili con la visione secondo cui la Scrittura è parola rivelata direttamente da Dio. Per comprendere il rifiuto fondamentalista della «storia degli effetti» basta un esempio: posto di fronte a un’opera d’arte di soggetto biblico l’esponente di questa posizione ne metterebbe in luce l’incompatibilità con alcuni precetti della Scrittura – da lui intesi di modo astorico e vincolante – che, assunti alla lettera, proibiscono qualsiasi tipo di raffigurazione pittorica o scultorea (Es 20,5; Dt 5,8). Quel quadro di argomento biblico gli apparirebbe quindi un grave travisamento del messaggio rivelato e questo tradimento rimarrebbe tale anche nel caso in cui ci si trovasse di fronte a un’opera di altissimo livello artistico.

5.

I grandi temi del messaggio biblico

L’unicità di Dio Se si considera l’assetto canonico della Bibbia l’unicità di Dio è una certezza iniziale; di contro, per la ricerca storica, essa è un punto di arrivo. Stando all’impostazione critica tutti i popoli semiti nordoccidentali ebbero dèi nazionali: Israele ebbe JHWH. In seguito, queste quattro lettere ineffabili furono collegate con il verbo «essere (hjh)». Ciò ebbe luogo nella rivelazione avuta da Mosè nella scena del roveto ardente, in cui Dio si presentò dicendo «Io sono colui che sono» (Es 3,14). Espressione enigmatica che può tradursi anche con il verbo al futuro: «Sarò quel che sarò». Il senso originario si riferisce a una presenza e a una promessa di vicinanza e non a una realtà metafisica. Il nome noto come Tetragramma viene letto Adonai (da cui l’italiano, Signore). Nella fase più antica la religione ebraica sarebbe stata monolatrica: il fatto che il proprio Dio sia uno, non esclude l’esistenza di divinità straniere. L’affermazione piena della fede in un Dio unico si ha solo nel Deuteronomio. L’ultimo libro del Pentateuco è collegato alla riforma attuata dal re Giosia. Essa centralizzò il culto nel solo tempio di Gerusalemme: a un solo Dio in cielo corrispose in tal modo un unico luogo sacro sulla terra. Da quel momento in poi le divinità straniere divennero idoli da confutare (2 Re 22,1-23,27). In questa luce fu riscritta anche la storia della conquista della terra di Canaan presentata come un violento sradicamento da essa dei popoli idolatrici (cfr. Dt 7,1-7). Tuttavia in questa visione il monoteismo non comportò l’esistenza di un Dio unico uguale per tutti. Egli resta il Signore d’Israele che ha legami del tutto speciali con il proprio popolo. La più elevata formulazione della fede nel Dio unico si trova in un passo conosciuto come Shema‘ Israel: «Ascolta Israele: il Signore (JHWH) è il nostro Dio (’Elohim), il Signore (JHWH) è uno» (cfr. Dt 6,4-9). In questo verso il termine più generale e comune di ’Elohim è contraddistinto dall’aggettivo «nostro», mentre il nome proprio JHWH è dichiarato uno in senso assoluto. Il Signore d’Israele è perciò il Dio di tutti, anche se non tutti lo riconoscono ancora come tale. Un’accusa contemporanea giudica la pretesa di verità propria delle fedi monoteiste foriera di un esclusivismo violento. Pluralismo e monoteismo appaiono termini

incompatibili. È fuori di dubbio che l’affermazione dell’esistenza di un Dio unico abbia tratti esclusivistici. Questo rilievo va però precisato. Innanzitutto va tenuta presente la natura personale e relazionale di JHWH. Per dirla con Pascal non si tratta del Dio dei filosofi, ma del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe (Es 3,15). In secondo luogo il Dio unico è anche il creatore di tutti. L’esistenza degli altri popoli è perciò voluta dal Signore. Proprio la fede monoteista ha indotto le Scritture d’Israele ad avere uno sguardo universale. Infine la Bibbia e la tradizione giudaica postbiblica avvertono lo scompenso insito nel fatto che il Signore uno e Dio di tutti non è da tutti riconosciuto come tale. Un modo per cercare di sanare questa situazione è l’annuncio missionario. Opzione non ignota all’ebraismo, ma certo praticata in modo assai più intenso nella predicazione evangelica. L’altra alternativa presente nella Bibbia sta nell’additare una prospettiva in cui in avvenire i popoli saliranno rappacificati a Gerusalemme per accogliere la parola del Signore (Is 2,2-5). La centralità dello Shema‘ è ribadita dai Vangeli. Narra Marco che uno scriba (un esperto della Scrittura) si avvicinò a Gesù chiedendogli quale fosse il primo fra tutti i comandamenti; il Maestro gli rispose citandogli l’inizio dell’«Ascolta Israele» che proclama l’unicità del Signore e l’amore pieno da rivolgere a Dio. Dopo aver affermato ciò Gesù prosegue legando strettamente questo versetto all’altro che prescrive di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18). Lo scriba sottoscrive con calore tali parole (Mc 12,28-33). Questo dialogo esplicita la convinzione biblica che la fede nel Dio unico costituisca il fondamento di positivi rapporti interumani. In alcuni scritti biblici piuttosto tardi si assiste a una personificazione della Sapienza intesa come una realtà presente da sempre presso Dio e suo ausilio nell’opera della creazione (Prv 8,22-30). Identificata con la Torà (Legge), si afferma che la Sapienza venne a dimorare presso il popolo d’Israele (Sir 24,1-21). Questi temi sono stati sviluppati nel Nuovo Testamento specialmente nella riflessione sul Logos (Verbo, Parola) propria della tradizione giovannea: «In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e Dio era il Logos: tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,1) e il «Logos si fece carne e abitò in mezzo a noi» (Gv 1,14). Queste affermazioni provengono dall’inno introduttivo al IV Vangelo incentrato sui massimi misteri della fede cristiana: la vita di Dio, la creazione del mondo, la rivelazione e l’incarnazione.

Protagonista di questa grande narrazione teologica è appunto il Logos (identificato nella successiva teologia cristiana con la seconda persona della Trinità). Egli crea il mondo, si rivela e si incarna in esso. Nel Nuovo Testamento non mancano altri passi che parlano del Figlio generato prima di ogni creatura (Col 1,15-20) e che celebrano chi, pur essendo di natura divina, svuotò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce, venendo per questo esaltato al di sopra di ogni altro essere vivente (Fil 2,6-11). Accolte nelle loro intenzioni originarie queste affermazioni non negano, né attenuano, il monoteismo biblico; si può piuttosto asserire che ne aumentino l’aspetto relazionale dando a esso una versione più interna e drammatica.

Creazione Le parole con cui si apre la Bibbia hanno un’aura arcaica e solenne: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e il vento (ruach) di Dio si librava sulle acque» (Gen 1,1). La parola ebraica ruach spesso tradotta con spirito, ha come suo significato base quello di vento e di respiro. Cielo, terra, tenebre, abisso, vento e acque evocano quanto vi è di più comune nei miti dedicati alla nascita del cosmo presenti in molte culture. Né vi sono dubbi sul fatto che i redattori del primo capitolo della Genesi conoscessero le grandi narrazioni delle origini diffuse nel Vicino Oriente. Tuttavia dal fatto che essi impiegassero frammenti provenienti da miti preesistenti non bisogna concludere che queste pagine costituiscano semplici imitazioni; la Bibbia descrive infatti l’operare creativo di Dio in termini largamente diversi da quelli utilizzati nelle mitologie da cui pur trae ispirazione. Il concetto più comune di creazione, in base alla definizione elaborata soprattutto dal pensiero medievale, fa riferimento a quattro punti principali: tra causa creatrice ed effetto non vi è alcun nesso necessario; l’atto di creare è del tutto autosufficiente, non dipende perciò da una condizione a esso precedente (creazione dal nulla); l’effetto, cioè il mondo, è dotato di un valore infinitamente inferiore rispetto alla causa che lo ha prodotto; infine, la causa (Dio) è situata fuori dal tempo. Spesso si ritiene che questa idea di creazione sia di origine biblica; in realtà, il tipo di linguaggio filosofico che la esprime non appartiene alla Scrittura. Il compito della Bibbia è di narrare i modi in cui, grazie all’opera divina, è sorto il mondo e le maniere in cui Dio continua a prendersi cura delle proprie creature. La formula bereshit «in principio» riservata all’atto creativo di Dio suona, a un orecchio occidentale, connessa all’ardua questione se la creazione sia stata compiuta nel tempo, fuori dal tempo o con il tempo. Simili interpretazioni sono state influenzate dall’espressione greca en archē (Gen 1,1; Gv 1,1), impiegata per tradurre l’ebraico bereshit e assunta in senso assoluto. Nella tradizione giudaica, invece, il termine bereshit viene, di norma, inteso in modo temporale e direttamente riferito alle parole che lo seguono. La frase iniziale della Bibbia è dunque interpretata nel modo

seguente: «Al principio della creazione dei cieli e della terra, quando la terra era informe e vuota e le tenebre si estendevano sulla faccia dell’abisso e il vento di Dio si librava sulle acque, Dio disse: “Sia luce” e luce fu» (Gen 1,1-2). Tutta la prima parte della frase è quindi considerata solo una specie di grande premessa temporale alle parole «Dio disse», le quali esprimono l’irrompere dell’azione creatrice. Quanto distingue la Bibbia da molti altri miti delle origini è l’efficacia operativa attribuita alla parola di Dio. Nella Bibbia il verbo bara’ «creare» compare una cinquantina di volte. Le sue caratteristiche più significative sono tre: esso ha sempre e solo come soggetto Dio, in tal modo il creare è distinto da ogni agire e fare dell’uomo; in secondo luogo, non viene mai nominato un elemento preesistente a partire dal quale Dio crea; infine bara’ si applica a vari oggetti: al cielo e alla terra (Gen 1,1; 2,4), all’uomo (Gen 1,27; Dt 4,32); al popolo d’Israele (Is 43,1.15; Sal 102,19), a cose meravigliose e nuove (Es 34,10; Ger 31,22). Questo verbo, pur non contenendo il concetto teologico di «creazione dal nulla», esprime un’azione di Dio straordinaria, sovrana, pienamente libera, senza limiti ed estesa, a volte, anche al presente e al futuro. In conclusione, si può sostenere che bara’, indica un agire di Dio relativo anche ad ambiti diversi da quello della creazione del mondo (uomo, popolo d’Israele, atti di salvezza). Il Dio creatore è colui che continua ad operare nel corso del tempo.

I popoli e il popolo d’Israele Il libro della Genesi si apre su uno scenario universale. I suoi primi undici capitoli parlano della creazione, della coppia primigenia, del primo peccato, di Caino e Abele, dell’umanità primordiale e della sua corruzione punita con il diluvio da cui scamparono Noè e i suoi figli Sem, Cam e Jafet; da loro derivarono i settanta popoli sparsi sulla faccia della terra accomunati da una sola lingua fino a quando le loro loquele si confusero dopo l’episodio della torre di Babele. Per secoli questa storia fu assunta come un quadro veritiero dell’inizio dell’umanità. In epoca moderna su di esso cominciarono a riversarsi gli strali della critica. Infine nel XIX secolo ricerche geologiche, paleontologiche, archeologiche, teorie evoluzionistiche resero incredibile ai più l’attendibilità fattuale di quel racconto. In seguito, l’importanza di quei capitoli fu ridimensionata anche dalla ricerca biblica; giudicandoli meno antichi di altri testi, si ritenne che l’esperienza sorgiva della fede d’Israele si trovasse nell’esodo dall’Egitto e non nella storia delle origini. Pur non mettendo in discussione queste acquisizioni, in epoca più recente si è di nuovo affacciata la convinzione che i capitoli iniziali della Genesi giochino un ruolo fondamentale per la comprensione dell’intero messaggio biblico. Il senso religioso attribuito all’esistenza e alla missione del popolo d’Israele può comprendersi appieno solo sullo sfondo di una narrazione che prospetti sia l’inizio unitario dell’intera umanità sia la sua diversificazione che diede luogo alla molteplicità dei popoli e delle culture. Dopo il diluvio «Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: “siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra”» (Gen 9,1). Il comando rappresenta una ripresa della storia delle origini (Gen 1,28). La pluralità di popoli, lingue e culture di questo secondo inizio può essere intesa o come benedizione o come decadenza. L’episodio della torre di Babele (Gen 11,1-9) legge la molteplicità delle lingue in chiave di perdita di unità. Nella Genesi è però contenuta anche un’altra tradizione, imperniata sull’elenco dei settanta popoli divisi secondo la triplice discendenza di Sem Cam e Jafet (Gen 10). Essa presenta varie difficoltà esegetiche, tuttavia testimonia anche la realizzazione della benedizione rivolta a Noè e ai suoi figli di moltiplicarsi sulla terra.

Nella mappa di popoli, non mancano tensioni e contrapposizioni, particolarmente evidenti nella trattazione dei discendenti di Cam. In base all’etimo (cham, «caldo») al gruppo appartengono i popoli del sud. A questa famiglia sono però ascritti anche gli avversari storici di Israele: l’Egitto, le popolazioni cananee, i fenici, i filistei e soprattutto l’Assiria e Babilonia. Si tratta quindi di un raggruppamento di popoli in cui ha un gran peso la componente politico- religiosa. Le genti (in ebraico gojim) oltre che come nemici politici, sono presentate infatti anche come coloro che non conoscono Dio (Sal 76,6-7; Rm 1,18-31). La Bibbia in ogni caso ignora l’esistenza di contrapposizioni razziali. In tal senso, tuttavia, è stata a volte ideologicamente impiegata per giustificare la schiavitù dei neri sui quali sarebbe pesata la maledizione scagliata contro Canaan, quarto figlio di Cam (Gen 9,25-29). Lo snodarsi della storia biblica implica una pluralità di popoli. Senza di essa non si capiscono la chiamata di Abramo e le vicende patriarcali, l’esodo dall’Egitto, il patto del Sinai e l’ingresso nella Terra promessa, cioè gli eventi che costituiscono l’identità del popolo d’Israele. Quando Dio comanda ad Abramo, il capostipite del popolo ebraico, di andarsene dalla sua terra natale gli promette sia di benedire coloro che lo benediranno e di maledire coloro che lo malediranno sia che in lui saranno benedette tutte le famiglie della terra (Gen 12,1-3). Abramo rappresenta tanto un momento di discriminazione quanto una promessa di riconciliazione universale. Dopo l’uscita dall’Egitto Dio disse agli ebrei che se avessero accettato il patto proposto loro sarebbe diventati un tesoro particolare, un regno di sacerdoti e un popolo santo per il Signore di tutta la terra (Es 19,3-6). La costituzione della particolarità del popolo ebraico ha luogo nell’orizzonte dell’universalità. Si delinea in tal modo l’articolato riferimento che prospetta al popolo ebraico il mantenimento della sua vocazione all’interno del mondo delle genti. Questo difficile equilibrio può degenerare in due modi: dal lato d’Israele possono sorgere chiusure identitarie volte a salvaguardare esclusivamente la propria specificità, da parte delle genti possono erompere atteggiamenti persecutori contro l’irriducibile diversità ebraica: «Vi è un popolo segregato e anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo; non conviene che il re lo tolleri» (Est 3,8).

Un modo per evidenziare l’esito positivo di queste tensioni si trova nelle profezie che prospettano la riconciliazione tra i popoli senza che ciò comporti la rinuncia alla particolarità d’Israele. In questo contesto spicca un passo di Isaia che preannuncia una benedizione riservata proprio ai due popoli che furono i massimi avversari storici degli ebrei: «Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Is 19,25). Il Nuovo Testamento mantiene la distinzione tra il popolo ebraico e gli altri popoli. Il messaggio evangelico afferma però che i credenti provenienti dalle genti possono, attraverso la fede in Gesù Cristo, partecipare all’eredità di Abramo (Gal 3,29). Ormai la discriminazione e il respiro di universalità si riferiscono in prima istanza a Cristo. Mediante la fede in lui, il vicino (l’ebreo) e il lontano (il non ebreo), che non conosceva Dio, possono diventare entrambi un uomo nuovo (Ef 2,14-18). L’accoglimento o il rifiuto della predicazione della buona novella sono scelte prospettate sia agli ebrei sia ai membri degli altri popoli. Tuttavia per il Nuovo Testamento gli ebrei che non accettano la fede non sono per ciò stesso uguagliati alle genti. Il patto con Abramo non è dichiarato nullo. Come afferma Paolo gli «ebrei sono amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento» (Rm 11,29).

Chiamata, vocazione Il Dio biblico chiama e lo fa per primo. Il punto di partenza non è la voce diretta dall’uomo verso il cielo, è la parola che il Signore rivolge a qualche sua creatura. Questa iniziativa implica la presenza di una risposta: l’uomo può entrare in colloquio con il Signore. In tal modo la vocazione si collega a due temi fondamentali per l’intera Scrittura: l’elezione e il dialogo. Quando Dio chiama interpella qualcuno a cui affida un compito. Per questa via si stabilisce una particolarità. Secondo la Bibbia il Signore stesso si presenta con i nomi delle persone a cui si è rivolto. Si parla infatti del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe (Es 3,15). Questa ripetizione attesta che ogni chiamato percepisce il Signore di tutti sotto una prospettiva personale. Su questo tronco si innesta la componente dialogica tipica del linguaggio biblico in cui il soggetto umano può rivolgersi a Dio come a un Tu. Il prototipo delle chiamate è quella diretta ad Abramo. Con il capitolo dodici della Genesi inizia una storia diversa da quella delle origini. Dapprima il patriarca obbedisce tacendo, poi a poco a poco inizia un dialogo che sarebbe diventato particolarmente intenso davanti a Sodoma, la città peccatrice che Dio voleva distruggere e Abramo salvare (Gen 18,16-33). In seguito quando Dio, per metterlo alla prova, gli chiese di sacrificargli Isacco, il figlio che gli aveva donato, la parola del patriarca si limitò alla risposta che sarebbe diventata l’emblema dell’obbedienza a una chiamata del Signore: «Eccomi» (Gen 22,1); espressione che sarebbe tornata sulle labbra di Mosè (Es 3,3-4), di Isaia (Is 6,8) e di Maria (Lc 1,38). L’obbedienza è momento costitutivo della risposta umana; essa però non sfocia in cieca sottomissione. Nella scena di chiamata del giovane Geremia, il Signore gli manifesta la propria volontà in un modo che sembra determinarlo («prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo» Ger 1,5). Anche Paolo presenterà la propria chiamata evocando quella del profeta Geremia (Gal 1,5). In questi casi il soggetto umano non è negato, l’accento però batte su quanto in seguito il cristianesimo, specie protestante, avrebbe presentato come il primato della grazia.

In relazione a Gesù non si parla di una vera e propria chiamata. Il battesimo al Giordano nel quale lo Spirito e la voce dal cielo scendono su Gesù formano una specie di scena inaugurale della sua missione (Mt 3,13-17). La svolta decisiva si trova però nel fatto che Gesù stesso diventa il soggetto che chiama. Non a caso Matteo fa iniziare la sua vita pubblica con due atti tra loro strettamente congiunti: l’annuncio della vicinanza del regno (Mt 4,17) e la chiamata dei primi quattro discepoli (4,1819). Come nel caso di Israele (Is 41,8-9) o della comunità dei credenti in Cristo (Ef 1,18; Eb 3,1), la chiamata può avere una dimensione collettiva. In queste circostanze, accanto alla differenziazione nei confronti degli «altri», vi è una forte sottolineatura della compattezza interna. La vocazione assume l’aspetto di elezione. Nell’Antico Testamento Dio compie una scelta gratuita nei confronti del suo popolo che non dipende da alcuna superiorità naturale, politica o culturale. Tutto si regge sulla libera volontà del Signore (Dt 7,7). L’eletto è però vincolato a vivere secondo le norme prospettategli da Dio (Am 3,2). Nel Nuovo Testamento i seguaci di Gesù sono chiamati «stirpe eletta» a motivo della fede e della condizione di discepoli da loro accolta (1 Pt 2,9-10). In alcuni casi però la libera iniziativa divina sembra prevalere sulla risposta umana. In questo filone biblico si trova, perciò, il preludio alle lunghe e travagliate discussioni sul ruolo della grazia divina, proprie della storia cristiana. Come avrebbe dimostrato in particolar modo il calvinismo, la dottrina dell’elezione dei credenti non conduce però alla passività, al contrario essa implica un tipo di vita impegnato a testimoniare fattivamente la propria condizione di scelti da Dio.

Alleanza La presenza dell’alleanza è caposaldo indiscusso dell’intera Scrittura. Il Dio della Bibbia è colui che stipula un patto con il suo popolo. Questo punto di convergenza è però anche il massimo luogo di disgiunzione tra ebraismo e cristianesimo. Antico e Nuovo Testamento si differenziano proprio attorno al modo di intendere il significato e la portata dell’alleanza. Il termine ebraico berit («alleanza») non ha plurale. In ambito teologico questa particolarità lessicale sembra suggerire che si è di fronte a una successione di rinnovate stipulazioni della stessa alleanza, non alla presenza di patti autonomi. Inoltre la traduzione di berit non è univoca. A seconda dei contesti la si può rendere con «alleanza» e «patto» – che accentuano maggiormente la bilaterialità – oppure con «giuramento» e «impegno» che rimarcano il ruolo decisivo di uno solo dei contraenti. Il primo patto è quello stabilito dopo il diluvio. Il segno d’alleanza è l’arcobaleno. Grazie a esso Dio si impegna a non sommergere più il mondo (Gen 9,12-16). In questo caso si è di fronte a un giuramento unilaterale. Di alleanza si parla anche in relazione ad Abramo (Gen 15,1-25; 17,1-26). Anche qui prevale l’impegno divino; tuttavia emerge pure la presenza di un’obbligazione. Il segno dell’alleanza tra Dio e il patriarca non è un arco nel cielo, è un taglio nella carne: la circoncisione (Gen 17,14). L’alleanza sinaitica presenta precise affinità con i trattati di vassallaggio hittiti del XIV-XIII sec. a.C. e con quelli assiri del VII-VI sec. a.C. In questi documenti un sovrano stringe un trattato con un re a lui sottomesso. La formulazione standard dei testi è la seguente: l’indicazione dell’autore del trattato (il gran re), un’introduzione storica in cui si elencano gli atti benefici da lui compiuti, le condizioni imposte al vassallo che culminano nell’obbligo della lealtà, una lista di testimoni divini, la presenza di benedizioni e maledizioni; infine il trattato veniva proclamato, si consumava un pasto rituale e si deponeva il testo ai piedi di un idolo. «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione di schiavitù, non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2). Questo verso con cui iniziano i Dieci Comandamenti contiene non poche analogie con i trattati appena riferiti (autopresentazione, benefici, fedeltà). Inserito in un contesto più ampio le

somiglianze si moltiplicano, sono elencati: l’identificazione di Dio e i suoi atti di salvezza (Es 19,4-6), le condizioni (Es 20,3-23,33); la recitazione del trattato (Es 24,7); il pasto rituale (Es 24,9-11), la deposizione del trattato entro l’arca dell’alleanza – in cui vennero messe le tavole (Es 25,16; 40,21). Se si estende ancora il raggio del riferimento troviamo altre somiglianze: sono introdotti i testimoni chiamando in causa il «cielo e la terra» (Dt 4,26; 30,19) e viene dato ampio spazio alla presenza di benedizioni e maledizioni (Dt 27,11-28,68). La conclusione fondamentale da trarre dalla analogia con trattati politici è che, grazie alla categoria di alleanza, il Signore è presentato come colui che opera nella storia. Il patto dopo il diluvio è riconducibile a un Dio garante dell’ordine cosmico, quello avvenuto dopo l’uscita dall’Egitto è invece da collocarsi in un orizzonte storico. L’alleanza del Sinai è presentata condizionata (Es 19,5), il successivo patto stabilito dal Signore con Davide (2 Sam 7; Sal 89,1-38) accentua invece di nuovo i tratti della gratuità: il suo cuore sta nella promessa di rendere stabile per sempre la discendenza davidica. L’obbedienza alle clausole dell’alleanza fu avvertita dai profeti come condizione necessaria perché il popolo d’Israele potesse continuare a vivere sulla propria terra. Tuttavia l’obbligo non comportò che la trasgressione implicasse una rottura del patto. L’enfasi posta sull’impegno di Dio consente di sostenere che la violazione umana dell’alleanza rappresenta una frattura non definitiva. Il recupero pieno della benevolenza divina si attua però attraverso un itinerario doloroso fatto di punizione e pentimento. La speranza profetica giunse però anche a prospettare uno scenario in cui l’infedeltà alle clausole del patto fosse definitivamente esclusa. La promessa era di far sì che in futuro il popolo d’Israele non potesse più trasgredire i comandamenti di Dio. Il culmine di questa prospettiva si ha nella profezia di una «nuova alleanza» contenuta nel libro di Geremia: «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore» (Ger 31,33). Il contesto originario di questa profezia non lascia dubbi sul fatto che i protagonisti della nuova alleanza siano gli stessi del patto sinaitico. Tuttavia questi versetti, nel corso della storia, sono stati chiamati più volte in causa per presentare la fede cristiana come il nuovo patto che ha sostituito l’antico. Il Nuovo Testamento dà all’espressione «nuova alleanza» un forte connotato cristologico. Il primo contesto in cui emerge

questa prospettiva è la narrazione della cena del Signore. La versione più antica ci è trasmessa da Paolo. In essa il richiamo al passo di Geremia si incrocia con il verso, proveniente dall’Esodo (24,8), che descrive il sacrificio cruento posto a suggello dell’alleanza del Sinai: «il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato […], dopo aver cenato prese […] il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (1 Cor 11,25). Quello stabilito da Gesù Cristo è un patto incondizionato che richiede come segno la celebrazione di una cena posta sotto l’insegna della memoria e dell’attesa (1 Cor 11,26). La seconda interpretazione la si trova nella lettera agli Ebrei. In essa il passo di Geremia è introdotto per indicare che la nuova alleanza stabilita da Gesù Cristo dichiara antiquata la vecchia giudicata ormai prossima ad esaurirsi (Eb 8,6-13). Il confronto con l’altra alleanza qui è molto più diretto e tendenzialmente sostitutivo: non si tratta solo di far memoria della morte di Gesù e di attenderne la seconda venuta, ma di dichiarare impallidita l’alleanza precedente. È facile comprendere che si è di fronte a un tema dotato di ricadute dirette sui rapporti tra cristiani ed ebrei, argomento attualmente soggetto a forti ripensamenti teologici, specie da quando si è ritornati a essere convinti del fatto che altre pagine neotestamentarie dichiarano non revocata l’alleanza tra Dio e il popolo d’Israele (Rm 9,4; 11,29).

La Legge Considerata da un punto vista storico la formazione di un corpus legislativo biblico è tema complesso. Le leggi elencate dalla Scrittura sono il risultato di una lunga storia di tradizioni religiose, morali e giuridiche; inoltre esse contengono numerosi elementi comuni ad altre civiltà del Vicino Oriente antico. All’inizio la parola torà (ammaestramento, legge) indicò soprattutto gli insegnamenti giuridici tradizionali comunicati da sacerdoti e leviti presso i luoghi di culto. Tuttora soggetto a discussioni è invece il ruolo legislativo affidato in Israele ai re. Viste in chiave redazionale e teologica, le leggi bibliche hanno come loro fonte Dio che le ha rivelate per mezzo di Mosè. I comandamenti, i precetti e le disposizioni contenuti nella Legge sono quindi di origine divina. Ciò resta vero sia per comandi di contenuto etico, sia per quelli di natura penale, civile, cultuale, rituale e così via. A differenza di quanto avviene in altre culture, il Signore d’Israele non è considerato un semplice custode dell’ordine etico generale: Egli è colui che dà una legislazione peculiare al suo popolo. Si comprende quindi la crescente propensione a intendere i precetti come clausole d’alleanza (Es 24,6-8). In seguito questa procedura fu ritenuta valida per esprimere il senso complessivo dell’intera Legge. Un tardo racconto esegetico giudaico paragona Dio a un re che, dopo aver conquistato un territorio, chiese ai suoi abitanti se volevano che egli regnasse su di loro; ottenuta una risposta affermativa, impose loro i propri decreti. Per l’ebraismo mettere in pratica un precetto significa dunque accettare la regalità di Dio. Nessuna autorità umana può perciò disporre liberamente della Legge. Lo stesso re deve farsi una copia della Torà e leggerla quotidianamente (Dt 17,18-20). La Legge fa conoscere la volontà di Dio. Quest’affermazione tanto semplice apre questioni assai ardue in ordine sia all’antropologia sia al concetto teologico di elezione. Se Dio è unico e creatore di tutti, la sua volontà è conosciuta solo da Israele o giunge per qualche via anche alle genti? Essendo l’alleanza con Israele dotata di tratti specifici, quali precetti le sono propri e quali sono comuni a tutti? Sapere la volontà del Signore equivale a essere nelle condizioni di osservarla? O al contrario quella conoscenza rende solo più evidente la trasgressione? Questi interrogativi fanno

comprendere perché nel Nuovo Testamento il centro del discorso sulla Legge e sulla grazia si trovi nella predicazione di Paolo più che in quella di Gesù. Secondo Matteo, Gesù nel discorso della montagna avrebbe dichiarato che nulla della Legge sarebbe caduto (Mt 5,17-18). Egli infatti rivolge il proprio insegnamento solo alle «pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10,6; 15,24). Ai suoi discepoli Gesù addita la via di una osservanza e di una misericordia fattesi entrambi più radicali: da un lato si è responsabili non solo delle azioni, ma persino delle intenzioni recondite del proprio cuore (Mt 5,27); dall’altro gli affaticati e gli oppressi possono in lui trovare riposo (Mt 12,28-30). Paolo invece ha davanti a sé un mondo fatto di ebrei e di gentili. Attraverso la fede in Gesù Cristo per entrambi è diventato possibile l’accesso all’eredità della promessa. Per tutti e due è giunto il tempo della misericordia. La prospettiva di Paolo è paradossale: per strade diverse sia gli ebrei, sia i gentili potevano conoscere la volontà di Dio. I primi mediante la Legge, i secondi in virtù della coscienza. Nessuno però l’ha rispettata, tutti quindi hanno peccato, perciò Dio, tramite Gesù Cristo, può, ora, estendere su tutti la propria misericordia (Rm 1,18-3,26; 11,32). Si è resi giusti a causa della grazia di Dio, vale a dire in virtù del suo gratuito impegno unilaterale. Per questo, in Paolo, la promessa e l’alleanza di Dio con Abramo prevalgono sulla Legge di Mosè, e la fede sulle opere (Gal 3,6-9). Ciò non significa però né che i comandi della Legge non siano buoni, né che si sia svincolati dal metterli in pratica tenendo fermo il primato dell’amore: «qualsiasi […] comandamento si riassume in queste parole: “Amerai il prossimo come te stesso” (Lv 19,18)» (Rm 13,9-10). Scomparsa la centralità della distinzione Israele-genti, nell’ambito cristiano il discorso sui comandamenti sarebbe stato ricondotto o alla dialettica tra Legge e Vangelo e alla salvezza per sola fede propria del mondo protestante o alla visione cattolica di una Legge nuova che mantiene dell’antica solo la componente etica lasciando cadere tutti gli altri aspetti.

Il peccato Un’affermazione biblica dotata di enormi ripercussioni è di aver indicato l’esistenza di un nesso tra peccato, dolore e morte, asserendo che il primo fattore è la causa profonda degli altri due. Inoltre nella Scrittura il peccato è diventato chiave di lettura per decifrare anche gli avvenimenti storici. In tal modo le vicende d’Israele e quelle degli altri popoli sono state più volte interpretate in base al binomio colpapunizione. A questa prima coppia potevano seguire il pentimento, il perdono, la riconciliazione, il riscatto. Tuttavia il punto d’inizio rimane la trasgressione. In ebraico non c’è alcuna parola che significhi precisamente peccato in senso teologico. Per indicare tale dimensione si impiegano varie parole, ciascuna delle quali ha un uso pure profano. In generale, per quanto riguarda il sorgere del peccato individuale, la risposta biblica può essere sintetizzata dicendo che esso deriva dalla mancanza di conoscenza di Dio. Con questa espressione si allude a una realtà assai concreta: ignorare Dio equivale al rifiuto di eseguirne la volontà. In definitiva il peccato si presenta come un atto di disobbedienza, di infedeltà o trasgressione paragonabile alla violazione delle clausole di un patto. L’origine storica del peccato coincide con la questione del cosiddetto «peccato originale», la quale a sua volta sfocia nell’interrogativo sul modo in cui esso possa essere entrato in un universo creato e governato da Dio che, «in principio», giudicò tutto «molto buono» (Gen 1,31). Il racconto contenuto nel terzo capitolo della Genesi attribuisce il peccato alla libera scelta compiuta da una creatura umana in una condizione non ancora soggetta ai desideri cattivi del proprio cuore. Per questa ragione la scena raffigura i primi esseri umani tentati da agenti a loro esterni. Questo primo peccato compromette le relazioni tra il Signore e gli esseri umani, i quali sono sì in grado di pentirsi, ottenere il perdono e stringere un’alleanza con Dio, ma non possono più ritornare all’originaria condizione paradisiaca. L’universalità del peccato è riproposta anche da altre parti della Bibbia. Il re Salomone confessa che non esiste uomo che non cada in qualche colpa (1 Re 8,46). Nei libri sapienziali si afferma che ogni essere umano è fragile e impuro davanti a Dio (Gb 4,17-18; Pr 20,9; Qo 7,20). La teologia del peccato raggiunge il proprio culmine

nei profeti. Essi interpretano la caduta d’Israele come conseguenza inevitabile delle trasgressioni compiute dal popolo. La prospettiva biblica più ripetuta (non però l’unica) è che ogni disastro o afflizione nella vita personale o collettiva è, in fin dei conti, attribuibile al peccato dell’uomo e che dunque le sventure si presentano come il giusto risultato di azioni negative. Il fatto stesso che dolore e sofferenze siano punizioni attesta la loro non casualità e, di conseguenza, anche la possibilità che siano considerati un’espiazione e una via per riconciliarsi con Dio. Nel sistema cultuale legato ai sacrifici la sofferenza e la morte vicaria degli animali sono ritenuti modi per scontare le colpe (Lv 4,1-5,13); analogamente nella storia del popolo d’Israele la deportazione e l’esilio sono giudicati momenti di un cammino che conduce al riscatto e alla redenzione. La lettura della storia d’Israele elaborata dai profeti costituisce l’orizzonte originario da cui, attraverso un gran numero di passaggi, sono derivate molte successive interpretazioni «provvidenziali» delle vicende di individui e popoli. La concezione neotestamentaria del peccato tende a rimarcare soprattutto tre aspetti: il peccato come violazione di un comandamento, il peccato come stato o condizione, il peccato come potenza distruttiva (le due ultime alternative sono presenti soprattutto in Paolo e negli scritti giovannei). Lo scopo principale del Nuovo Testamento è però di presentare Gesù Cristo come vincitore del peccato. Non per nulla i sinottici parlano della colpa innanzitutto per prospettare l’esistenza del perdono e per additare la via del pentimento (Mt 9,10-13; 11,19; Lc 15,1-2). La malizia del peccato è più esplicita negli scritti giovannei. Il peccato è iniquità e ingiustizia, chi pecca viene dal diavolo (1 Gv 3,8) ed è schiavo del peccato (Gv 8,34). Il peccatore ama le tenebre più della luce. In questi scritti il termine «peccato» non significa tanto una singola trasgressione, quanto uno stato o una condizione prodotta dalla disobbedienza. Il risultato del peccato è la morte (1 Gv 5,16-17). Anche Giovanni presenta Gesù come il vincitore del peccato: senza peccato egli stesso è l’agnello che toglie il peccato dal mondo (Gv 1,29). La più completa teologia del peccato del Nuovo Testamento la si trova negli scritti di Paolo. Il problema del modo in cui il peccato è diventato parte ineliminabile della condizione umana è affrontato soprattutto nella lettera ai Romani. La sede del peccato

in quanto potere è la «carne» (sarx, termine che esprime non la componente corporea, bensì la concupiscenza), il peccato è una specie di pseudo-legge che si oppone a quella che proviene da Dio; essa rende schiavo l’uomo facendolo incapace di compiere ciò che è giusto anche quando lo desidera (Rm 7,1-25). Pure in Paolo l’universalità del peccato è asserita al fine di ribadire quella ancor più estesa della salvezza operata da Gesù Cristo (Rm 5,17-21). Poiché la morte è effetto della colpa, il peccato può essere vinto solo da una morte a cui segua una resurrezione, cioè da Gesù Cristo. Morendo con Cristo al peccato e risorgendo con lui, il credente giunge a vivere una vita nuova (1 Cor 15,3.17; Gal 1,4). Tutto il Nuovo Testamento proclama la vittoria di Gesù Cristo sul peccato attuatasi per mezzo della morte e della resurrezione. Tuttavia i modi in cui viene presentato questo esito non sono omogenei. Solo la lettera agli Ebrei interpreta, per esempio, in chiave rigorosamente sacrificale ed espiatoria la morte di Gesù; per essa Cristo è a un tempo sacerdote e vittima perfetta del definitivo e irripetibile sacrificio da cui è derivata quella completa vittoria sul peccato impossibile da conseguirsi tramite i riti dell’antica alleanza (Eb 7,26-10,18).

Re, sacerdote, profeta Re, sacerdote e profeta svolgono la loro funzione in relazione al popolo ebraico stabilito sulla propria terra. Tuttavia la narrazione biblica riproietta tutto all’indietro e già nel corso dell’esodo parla di leggi relative al sacerdozio, alla profezia e alla regalità. Gli studiosi mettono però in luce che la stesura finale del Pentateuco è ben successiva all’insorgere di queste tre istituzioni, le quali precedono e non seguono le disposizioni contenute nei libri di Mosè. Per uno sguardo storico è dunque legittimo ricondurre lo sviluppo della monarchia, del sacerdozio e della profezia all’ambito di un popolo stanziatosi su un territorio. Si può dunque affermare che non c’è re senza capitale, sacerdote senza santuario, profeta senza un confronto con le altre due istituzioni. Il sorgere della monarchia è presentato dalla Scrittura in modo ambivalente. Lo stesso racconto iniziale la presenta come deviazione dal principio che solo Dio è il vero re d’Israele. Dopo essere stato governato da giudici, il popolo chiede a Samuele, sacerdote e giudice, di ungere un re al fine di essere simile alle altre genti. Samuele consulta il Signore che, pur non sottoscrivendo la richiesta, dice tanto di accoglierla quanto di annunciar loro le pretese del re, molto simili a quelle di un despota orientale (1 Sam 8,10-22). La presa di distanza dall’istituto monarchico non fu mai del tutto annullata anche quando venne introdotto l’altro filone secondo cui il re era un dono di Dio (1 Sam 9,16). La storia della monarchia è subito drammatica; lo stesso Samuele, dopo aver unto un primo re, Saul, lo delegittimerà e ne costituirà al suo posto un secondo, Davide (1 Sam 10,1; 16,13). Mentre in Egitto e in Babilonia il re era considerato una figura divina o semidivina, in Israele fu ritenuto servitore di Dio (2 Sam 3,18) o, al più, suo figlio adottivo (Sal 2,7). La Bibbia giudica il re in relazione alla sua fedeltà a Dio; in base a questo parametro la stragrande maggioranza di sovrani fu valutata negativamente. Sono elogiati i pochi re pii, non quelli potenti. Questa valutazione ambivalente della monarchia cessa quando è introdotta la promessa fatta dal Signore a Davide. Per bocca del profeta Natan il re apprende che la sua discendenza resterà salda per sempre; rispetto a quell’erede Dio si impegna a essergli padre, lo potrà punire ma non destituire (2 Sam 7,13-17). La discendenza

davidica è quindi vista come il luogo di un giuramento divino di solito riservato al popolo. La dinastia è trattata come i figli di Abramo: punita ma non respinta. Con il passare del tempo si sarebbe però rimarcato soprattutto il risvolto positivo di una promessa che avrebbe sempre più assunto aspetti messianici. In Israele il sacerdozio costituisce un’istituzione permanente di uomini appartenenti alla tribù di Levi dedicati al servizio del Signore. Nei tempi più antichi i sacerdoti formavano una specie di corporazione religiosa. Vi erano vari santuari: Silo, Betel, Gabaon e altri ancora. Con il sorgere della monarchia il sacerdozio di Gerusalemme, la capitale del regno, venne riorganizzato fino a diventare uno dei cardini della religione d’Israele. Al nucleo dei sacerdoti leviti si aggiunse la dinastia sacerdotale di Zadok. Essa divenne prevalente e strettamente collegata alla monarchia. I sacerdoti, oltre il culto, attuavano l’insegnamento. A questa attività sacerdotale risalgono la legislazione scritta e la trasmissione di antiche tradizioni sulle origini (entrambe confluite nel Pentateuco) e parte della poesia cultuale contenuta nei Salmi. La centralizzazione del culto a Gerusalemme attuata dal re Giosia fu il logico sbocco del primato assunto dal sacerdozio monarchico. I sacerdoti degli altri santuari che si trasferirono a Gerusalemme furono assimilati agli inservienti del tempio, da allora chiamati leviti. Questa distinzione si rinsalda nell’organizzazione fortemente gerarchizzata in vigore all’epoca del Secondo Tempio (V sec. a.C. - I sec. d.C.). Restò ben salda la successione ereditaria: i sacerdoti dovevano essere discendenti di Aronne, il fratello di Mosè (Es 28,1). Con il passare del tempo il compito dei sacerdoti si concentrò sempre più sulla componente cultuale e sacrificale esercitata nel Tempio di Gerusalemme; l’insegnamento divenne invece appannaggio dei saggi, maestri laici che operavano nelle scuole o nelle sinagoghe. Questa, a grandi linee, era anche la situazione all’epoca di Gesù. Bisogna guardarsi dal ritenere il profeta solo un uomo fuori da ogni schema che, invaso da un potere carismatico, fustiga i potenti e denuncia l’ipocrisia del culto. La profezia, fenomeno diffuso tra molti popoli antichi, in Israele fiorì soprattutto in epoca monarchica o in periodi ad essa immediatamente antecedenti o successivi. Non è raro che il re stesso consultasse dei profeti, i quali, per un certo periodo, si presentarono

anche come fratellanze religiose che avevano sede presso i santuari; è quindi improprio contrapporli al culto. La profezia è un fenomeno molto variegato. Ciò spiega il proliferare delle interpretazioni. I profeti di volta in volta sono presentati come grandi predicatori, custodi dell’impegno etico, estatici deliranti, mistici isolati, funzionari di culto, autori di giudizi politici, custodi di antiche tradizioni dei padri. L’eterogeneità di queste qualifiche indica la difficoltà di trovare una definizione univoca per una realtà comunque decisiva per la storia biblica. Forse uno dei tratti più significativi sta nell’affermare che il profeta è colui che, in base a un’autorità non propria, emette, attraverso la parola o un gesto simbolico, un giudizio su una circostanza specifica, per esempio ponendo allo scoperto i motivi di una scelta e le conseguenze di una decisione o svelando il senso profondo di un comportamento. La sua vuole essere una parola incidente sul reale, non una previsione. In questo senso il profeta è molto più l’uomo del presente che del futuro. Quando le profezie si proiettano verso l’avvenire lo colgono quasi sempre come conseguenza di azioni compiute in precedenza. A confermarlo sono alcuni tipici stilemi del linguaggio presenti anche in Giovanni Battista. In essi la denuncia della colpa individuale o collettiva si intreccia sempre con il pentimento, la punizione e il perdono. Quando la colpa è collettiva il giudizio può assumere l’aspetto di catastrofe storica. È inoltre specifico dei profeti affermare che tutte queste dinamiche valgono, con le dovute varianti, sia per Israele sia per le genti. Per loro il Signore è davvero il Dio di tutti. Il profeta non agisce in base alla propria autorità; egli opera sempre sotto il comando di Dio. Da qui nasce il problema di distinguere tra vero e falso profeta. Un criterio è chiaro: si deve parlare nel nome del Signore. Ciò però non basta. Il contenuto dell’annuncio deve trovare un riscontro nei fatti. Per quanto in proposito ci siano forniti dei criteri apparentemente inequivocabili (Dt 18,9-22), quest’ultimo problema non trova soluzione sul piano della verificabilità empirica. Il profeta si presenta come un uomo o una donna (nella Scritture vi sono profetesse – ad es. Culda, 2 Re 22 – ma non sacerdotesse) che svolgono una funzione pubblica in base a una non accertabile investitura personale. Si diventa profeti perché si è riconosciuti tali, tuttavia questa attestazione non è sufficiente: accade spesso di dar retta a falsi profeti.

La difficoltà del discernimento riguarda tutti; non mancano casi in cui persino un vero profeta sottoscrive, sulle prime, il parere di un falso portavoce di Dio. Solo la voce del Signore gli farà poi mutare idea (Ger 28). I Vangeli non presentano Gesù come sacerdote; la ragione è palese: egli non discende da Aronne. Perciò la lettera agli Ebrei quando, in relazione all’ultimo definitivo sacrificio, gli vorrà attribuire questo titolo dovrà appellarsi a un altro modello ed evocare l’antichissima figura del sacerdote Melchìsedec contemporaneo di Abramo (Eb 7; Gen 14,18; Sal 110,4). Per ragioni legate alla componente messianica, Gesù è invece presentato di stirpe davidica e perciò regale. La missione di Gesù adempie le profezie, la sua persona è quindi posta più in alto di quella di un profeta (Mt 12,38-42). Il dono della profezia frutto dello Spirito, fu invece operante fra i primi credenti in Cristo. Paolo la tiene in grande considerazione per la funzione da essa avuta per l’edificazione della comunità, tuttavia giudica ancor più elevata la via dell’amore (1 Cor 12-14). Re e sacerdoti venivano consacrati attraverso l’unzione, prassi prospettata in senso metaforico anche nel caso del profeta (Is 61,1). Messia vuol dire unto. Questo significato ha contribuito a far sì che le tradizioni cristiane attribuissero a Gesù Cristo la triplice caratteristica di re, sacerdote e profeta. Inoltre esse giudicano il battesimo un passaggio attraverso il quale ogni fedele partecipa a questo triplice dono. L’antica dialettica fra le tre figure viene per questa via portata a compimento e nello stesso tempo annullata. Ciò sarà motivo di laceranti divisioni tra le confessioni cristiane, innanzitutto in relazione al sacerdozio ma anche rispetto alla sacralità dell’istituto regale e all’attualità del dono profetico.

Il Messia Non vi è dubbio che la fede messianica sia stato un apporto biblico che ha fermentato in seno alla storia. Tuttavia ricostruirne la genesi è tutt’altro che agevole. La parola «Messia» è un calco dall’aramaico meshicha’, a sua volta traduzione dell’ebraico mashiach, participio passato del verbo mashach, «ungere». Le trentotto ricorrenze di questo termine nella Bibbia ebraica dimostrano però una grande varietà di applicazioni, riferendosi a una unzione che può riguardare il sacerdote, il re e, in senso metaforico, il profeta e persino Ciro, il re persiano che, pur non essendo consapevole di alcuna investitura divina, compie un’azione storica di riscatto del popolo (Is 45,1). All’epoca dell’esilio babilonese (VI sec. a.C.), la tradizione d’Israele era ben lungi dall’aver definito una concezione personale del Messia. Persino i successivi profeti postesilici Aggeo e Zaccaria, che avevano in mente, in connessione alla restaurazione del regno davidico, un determinato individuo – Zorobabele – non lo pensarono né come autore né come agente della nuova era. Anche nel periodo postesilico si può parlare al più dell’esistenza di una preistoria biblica del messianismo. Gradualmente nasce però la visione secondo cui il Messia sarà un uomo che Dio investirà di un compito di liberazione dotato di un concreto riscontro storico. Gli antefatti di questa concezione si trovano nel cosiddetto «messianismo regale dinastico». Al culmine del potere davidico apparve la dottrina stando alla quale Dio ha scelto Davide e la sua discendenza per regnare per sempre su Israele (2 Sam 7), dandogli il dominio sui popoli stranieri (2 Sam 22,44-5). All’inizio, questa prospettiva non sottolinea affatto l’esistenza di un singolo discendente davidico rivestito di un potere eccezionale. La promessa e il compito ad essa collegato riguardano l’ininterrotta successione dinastica ed è proprio questa continuità a diventare tangibile conferma del beneplacito divino. Con la scomparsa dell’unità del regno davidico, la speranza assunse sempre più i contorni dell’attesa che la casa di Davide, in un prossimo futuro, regnasse di nuovo sulla totalità delle dodici tribù (Am 9,11-12). Nelle profezie l’accento si sposta dall’ormai perduta integrità all’attesa di un suo prossimo ripristino. La complessità di una situazione in cui si spera in quanto è già stato, esclude che tutto ciò possa

presentarsi come un semplice ritorno allo status quo ante. Non meraviglia, dunque, che l’accento passi dalla perpetuità della dinastia alla qualità del regno futuro; la caratteristica del re messianico sarà la giustizia e proprio a tal fine egli riceverà una particolare investitura (Is 9,5-7). Affermazioni che rappresentano un passo decisivo per l’elaborazione di una visione di un re Messia caratterizzato da tratti più circostanziati e personali. In altre pagine bibliche, in luogo dell’esaltazione della giustizia e del potere della futura figura regale, si parla di un «unto del Signore» contraddistinto da un profondo tratto di umiltà (Zc 9,9-10). Tanto nella carismatica rettitudine del re quanto nella sua messianica mansuetudine si evidenzia però la convinzione che l’atto salvifico sia opera del Signore. Le prime esplicite affermazioni nell’esistenza di un Messia personale sono extrabibliche e risalgono al periodo del Secondo Tempio. L’espressione «il Messia» connotata dalla presenza dell’articolo qualificativo è sicuramente presente solo in testi come i Salmi di Salomone, scritti apocrifi del I secolo a.C. Negli ultimi secoli a.C. all’orientamento incentrato su una salvezza che si dispiega sulla scena della storia si affiancano speranze escatologiche orientate in senso metastorico. In quell’epoca in Israele si manifestarono attese di tipo apocalittico il cui punto di riferimento più significativo è costituito dalla figura del Figlio dell’uomo presente nel libro di Daniele (Dn 7,1-14). Le visioni di questo libro, scritto nel corso del «periodo della tribolazione» abbattutasi su Israele a metà del II sec. a.C., preannunciavano un’imminente e definitiva liberazione. Tuttavia, colui che appare in forma di uomo non è affatto il Messia in senso personale, si tratta invece del «popolo dei santi dell’Altissimo» (Dn 7,18). Ben presto in alcuni scritti apocrifi tale espressione fu però effettivamente identificata con la persona del Messia. L’attesa escatologica concentrò allora la propria attenzione soprattutto sulla restaurazione d’Israele nella pienezza delle dodici tribù e sull’attesa del nuovo Tempio escatologico che diventasse casa di preghiera per tutti i popoli (Is 56,7). Attraverso l’intreccio di molte componenti e correnti si formò gradualmente l’eterogeneo insieme di riferimenti messianico-escatologici presenti in Israele all’epoca di Gesù. Essi avevano a che fare con temi come il ritorno del profeta Elia quale precursore del Messia, la venuta del figlio di Davide, il Messia umile e

sofferente, la distruzione delle potenze ostili, la gloria di Gerusalemme, la riunione degli ebrei dispersi, la rappacificazione tra i popoli, la risurrezione e il giudizio finale. In definitiva, a partire dal II secolo a.C., l’aspettativa messianica era risorta impetuosa in Israele; essa non fu però unitaria ma si concretizzò nelle forme più diverse, avendo in comune solo l’attesa della salvezza d’Israele compiuta da Dio. Nel modo di considerare Gesù nel contesto del messianismo del suo tempo si sono a lungo fronteggiati due pregiudizi simmetrici: da un lato si affermava che gli ebrei avrebbero avuto una concezione puramente politica del Messia, mentre, dall’altro, la predicazione di Gesù avrebbe annunciato una liberazione tutta interiore. Né l’una né l’altra posizione corrispondono al vero. Parlare di pura interiorità è anacronistico, così come lo è appellarsi a una dimensione puramente politica; infatti anche i movimenti che miravano a un riscatto dal potere romano lo giudicavano in termini messianici appunto perché ipotizzavano la presenza di un intervento o, almeno, di un’investitura divina. L’indagine esegetica è ancora lontana dall’aver elaborato una visione unitaria sui modi in cui la categoria messianica possa essere applicata a Gesù. Del resto queste difficoltà si trovano già testimoniate all’interno degli stessi Vangeli; risulta evidente, ad esempio, quanto sia stato laborioso per Matteo e Luca conciliare la provenienza di Gesù dalla periferica Galilea con la discendenza davidica (Mt 1-2; Lc 2). Ancor più significativo è il processo che ha portato in poco tempo a trasformare in nome personale, Cristo, l’aggettivo christos «unto». Secondo i sinottici Gesù non disse mai apertamente: «Io sono il Messia (Cristo)»; inoltre solo in due occasioni Gesù accettò che qualcun altro gli attribuisse questa qualifica: nella cosiddetta «professione di fede» di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,2733) e nell’affermazione del sommo sacerdote, durante il processo, confermata da Gesù ma subito integrata con un riferimento alla figura escatologica del Figlio dell’uomo (Mc 14,61-64). In conclusione per i sinottici l’assunzione della categoria messianica non rappresentò l’unico modo per interpretare la vita e l’opera di Gesù.

L’annuncio del regno Dio è re in quanto governa sul creato e giudica i popoli della terra (Nm 23,21; Is 33,22; Sal 93; 99) o annuncia e compie atti di salvezza (Is 52,7). Come ogni sovrano anche questa regalità per essere compiutamente tale ha bisogno di venir riconosciuta e accettata. In questa luce essa è una realtà sia presente sia futura. Dio governa il mondo e parte delle sue creature lo riconoscono già come re, altre però non lo fanno. Il suo regno non si estende ancora su tutta la terra. L’Antico Testamento presenta perciò il regnare di Dio in larga misura come una dimensione ancora da venire: «In quel giorno il Signore sarà re su tutta la terra» (Zc 14,9; cfr. Abd 21). Nell’Antico Testamento l’espressione «regno di Dio (o dei cieli)» alla lettera non torna mai. Essa è invece centrale nei Vangeli sinottici. Il Vangelo di Matteo presenta l’inizio dell’annuncio di Gesù esattamente allo stesso modo con cui aveva presentato il centro della predicazione di Giovanni Battista, colui che doveva preparagli la via: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2; 4,17). Tra le due frasi esiste tuttavia uno scarto enorme: quella di Giovanni preannuncia prossimo un evento indicando la strada che conduce ad esso, l’altra addita colui che, oltre a ricoprire un ruolo decisivo rispetto a quel giungere, dichiara altresì di svolgere un compito decisivo una volta che sia effettivamente arrivato. L’inizio dell’annuncio presente in Marco non lascia dubbi in proposito: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò in Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”» (Mc 1,14). La compiutezza del tempo è la premessa a una predicazione e a una conversione che fanno già parte del regno. Certamente i discepoli erano convinti sia che Gesù fosse il Messia sia di avere loro stessi un ruolo nel regno venturo (Mt 19,28). Resta da chiedersi che tipo di regno fosse quello annunciato da Gesù. Sicuramente non si trattò di un regno in senso politico. Altrettanto certo è che Gesù non parlasse di un regno puramente spirituale. Per vari studiosi i punti storicamente più sicuri sono i seguenti: Gesù chiamò i dodici pensandoli come simbolo dell’Israele reintegrato nella pienezza delle dodici tribù e attese un «nuovo Tempio». Gesù predicò il regno il cui ingresso era aperto anche a quei «peccatori» che prestavano fede al suo annuncio; né lui né i suoi discepoli

credettero che quel regno fosse instaurabile con la forza delle armi, il suo avvento infatti dipendeva dal compimento di un miracolo escatologico. Sembra altamente probabile che il regno atteso avesse qualche analogia con «questo mondo» (capi, dodici tribù, Tempio), che i discepoli pensassero a Gesù come a un re investito direttamente da Dio e che egli, implicitamente o esplicitamente, accettasse un simile ruolo. Appare inoltre probabile che Gesù abbia parlato del regno in contesti diversi impiegando questa parola in modo non univoco. È possibile che Gesù abbia parlato del regno o, alla maniera visionaria, della «piccola apocalisse» (Mc 13), o come una realtà presente in cui gli individui entrano uno per uno, o anche che abbia affermato entrambe le cose. È tuttavia concepibile che Gesù abbia potuto ritenere che la potenza del regno fosse presente nelle sue parole e nelle sue opere; inoltre può aver dato alla propria morte un significato di martirio e può, infine, essersi identificato con un Figlio dell’uomo cosmico e aver concepito in tal modo la regalità che stava per conseguire.

La Chiesa Nella ricerca biblica dei primi del Novecento ebbe fortuna un’espressione efficace: Gesù annunciò il regno e venne la Chiesa. Il senso della frase è chiaro: in luogo della piena e definitiva salvezza sopraggiunse un’istituzione che avocò a se stessa le chiavi del regno dei cieli (Mt 16,19). Questa posizione aveva alle spalle la riscoperta della grande importanza attribuita alla escatologia nella predicazione di Gesù. Il regno doveva giungere presto e cambiare la faccia della terra. Dopo la Pasqua le comunità primitive credevano che nel breve spazio di una generazione il Risorto sarebbe venuto di nuovo nella sua qualità di Figlio dell’uomo escatologico. Siccome ciò non ebbe luogo si consolidarono le forme organizzative della comunità dei credenti e nacque definitivamente la Chiesa. Su base esegetica è certo che, senza una robusta componente escatologica, gli scritti neotestamentari risultano incomprensibili. Questa affermazione non va affatto attenuata; piuttosto essa va estesa fino a sostenere che per la massima parte del Nuovo Testamento pure la Chiesa è da vedersi in una luce escatologica. Problema quest’ultimo che non si può risolvere senza tenere in gran conto il rapporto che esiste tra la comunità dei credenti in Gesù Cristo e il popolo d’Israele. Nella Bibbia ebraica l’assemblea del popolo viene chiamata con due nomi: qahal, «convocazione» (da «qol» «voce») ed ‘edà «congregazione». Il primo termine indica la chiamata della comunità a formare un’assemblea ordinata come quella del Sinai o quelle che si svolgono in sede liturgica. ‘Edà è invece l’insieme unitario del popolo inteso come comunità dell’alleanza. Nei Settanta qahal è reso per la maggior parte delle volte con ekklēsia (derivato da kalēo, «chiamare»); mentre, tolte poche eccezioni, synagōghē traduce ‘edà. Spesso si sostiene che, poiché gli ebrei di lingua greca del I sec. si identificarono attraverso quest’ultimo termine, i cristiani scelsero l’altro. L’interpretazione è poco attendibile; essa infatti presuppone che già a quel tempo ci fosse una distinzione netta tra cristiani ed ebrei. In realtà il Nuovo Testamento non ragiona in questi termini. Oltre al fatto, già in se stesso indicativo, che in tutti gli scritti neotestamentari la parola «cristiano» torna solo tre volte (At 11,26; 26,28; 1 Pt 4,16), va notato che in quell’orizzonte è necessario pensare la

Chiesa come la comunità dei credenti in Gesù Cristo provenienti dal popolo d’Israele e dalle genti. Per quanto il ragionamento non possa appoggiarsi solo sulla pura filologia, rimane significativo che si sia optato per il termine ekklēsia «convocazione» e non per quello che indica il popolo dell’alleanza. Ciò può dipendere dalla constatazione che la «congregazione d’Israele» c’è già e continua a sussistere in se stessa pure senza riferirsi alla fede in Cristo (Rm 9,4-5). La Chiesa invece non può darsi a prescindere dalla chiamata alla fede. La parola «Chiesa» in tutti i Vangeli ricorre solo due volte. In entrambi i casi si tratta di Matteo. Il primo è celebre. Dopo il riconoscimento della sua messianicità, Gesù investe Pietro: su questa pietra fonderò la mia Chiesa. Su queste parole si basa il primato di Pietro, vale a dire il ruolo guida assunto dall’apostolo rispetto alla comunità dei credenti (Mt 16,13-19). Diversa è l’interpretazione datane dalle tre grandi confessioni cristiane: la cattolica vede in questo passo l’attestazione che il primato sarà ereditato dal successore di Pietro, identificato con il vescovo di Roma (papa); gli ortodossi affermano che ogni vescovo rispetto alla propria diocesi partecipa alla successione petrina, i protestanti ritengono le parole riservate al solo Simon Pietro. Il secondo riferimento alla Chiesa è meno significativo e allude ai modi di appianare i contrasti fra credenti (Mt 18,15). L’estrema sobrietà dei testi evangelici contrasta con la relativa abbondanza di comparsa del termine Chiesa che si trova nell’epistolario paolino, negli Atti degli Apostoli e, per altri versi, anche nei primi tre capitoli dell’Apocalisse (un centinaio circa di ricorrenze). In nessuno di questi casi però si sente il bisogno di spiegare il sorgere del nome «Chiesa» o di riferirsi a una scena di fondazione analoga a quella che ha visto come protagonista Pietro. In essi la parola è data come per scontata. Il termine «Chiesa» indica sia comunità locali di credenti che, oltre ad ebrei, potevano comprendere anche non ebrei, sia la natura e i compiti di queste assemblee. Va inoltre rilevato che i membri delle comunità stesse e quindi le Chiese erano sottoposti a giudizio in base al comportamento da essi assunto. Il corpus di lettere paoline fornisce il riferimento fondamentale per stabilire la natura escatologica della Chiesa. Questo aspetto manifesta delle diversità a seconda

che si tratti di testi autenticamente di Paolo o di epistole cosiddette deuteropaoline. Si possono ben comprendere questi sviluppi guardando al modo in cui viene presentata l’immagine della Chiesa come corpo di Cristo. Una delle fonti ispiratrici del presentare la Chiesa come corpo di Cristo può trovarsi nell’esperienza della cena del Signore. In effetti Paolo afferma che i credenti, pur essendo molti, sono un unico corpo in quanto partecipano a un solo pane (1 Cor 10,17). Il primo articolato discorso al riguardo lo si ha però nella trattazione del tema dei carismi, vale a dire i doni dello Spirito riversati sui fedeli. Essi sono vari e gerarchicamente differenziati (sapienza, guarigioni, lingue, profezie, discernimento degli spiriti, ecc.) e raggiungono il loro significato solo se cooperano reciprocamente. Da qui sorge il riferimento organicistico a un corpo fatto di tante membra con funzioni diverse ma tutte indispensabili e tutte degne di onore. Le membra, pur avendo una diversa provenienza, formano ora un’unità: «noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati abbeverati a un solo Spirito […] ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (1 Cor 12,13.27). Nell’organismo della Chiesa unità e diversità si compenetrano in virtù dello Spirito. Cristo non è il capo: è la totalità del corpo in cui ebrei e non ebrei attraverso la fede sono uguagliati pur conservando le diversità legate alle loro diverse origini. In questa prospettiva carismatica lo statuto della Chiesa è escatologico. La lettera agli Efesini accentua maggiormente i tratti connessi a un’elezione primordiale dei credenti (Ef 1,4-5) e Cristo è dichiarato colui che ricapitola in sé tutte le cose del cielo e della terra (Ef 1,10). In questa dimensione universale Cristo è presentato come colui che il Padre «ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo» (Ef 1,27). All’interno della comunità dei credenti si realizza il mistero non manifestato nelle precedenti generazioni, cioè che i gentili sono chiamati in Cristo a partecipare alla stessa eredità e a formare lo stesso corpo. Tuttavia in questa lettera l’identificazione con il corpo di Cristo tende a farsi meno diretta e complessiva: Cristo è il capo e lo sposo della Chiesa (Ef 5,29) e non già la totalità del corpo.

Nell’immagine sponsale degli Efesini la Chiesa tende ad assurgere a una veste universale; per la maggior parte del Nuovo Testamento essa è invece pensata nelle dimensioni in cui si concretizza localmente: la Chiesa di Dio che è in Gerusalemme, Antiochia, Corinto ecc. Proprio questa collocazione dotata di riscontri empiricamente verificabili fa sì che ci siano stati trasmessi molti casi specifici e ci sia documentata la presenza anche di forti tensioni e divergenze tra i membri stessi delle varie Chiese. Sia pure con diverso grado di profondità l’epistolario paolino e gli Atti degli apostoli documentano le difficoltà di comunità in cui il consueto appellativo di «santi» sta a indicare una vocazione e non una condizione di vita perfetta (Rm 1,6-7; 1 Cor 6,2). Tra tutti il problema più drammatico fu forse quello, imperniato sull’asse AntiochiaGerusalemme, di chiedersi se anche i gentili venuti alla fede dovevano essere sottoposti al rito della circoncisione, vale a dire essere fatti ebrei. Dopo una forte discussione la risposta fu negativa. Questa scelta, cuore dell’annuncio di Paolo, fu fatta propria anche dalle massime autorità della Chiesa di Gerusalemme, Pietro, Giovanni e Giacomo fratello del Signore (Gal 2,1-10; At 15,1-35). Se la santità è una chiamata, i membri delle Chiese possono essere sottoposti al giudizio nel caso in cui la loro vita non sia conforme alla vocazione. Questa istanza, pienamente documentata dall’epistolario paolino, trova conferma nei primi tre capitoli dell’Apocalisse. In essi il Risorto appare in visione a Giovanni e lo incarica di scrivere sette lettere piene di rimproveri di stile profetico a sette Chiese collocate nell’Asia Minore. Tra esse resta particolarmente impressa quella diretta alla Chiesa di Laodicea bollata a motivo non già della sua freddezza, bensì della sua banale tiepidezza (Ap 3,15-16).

La fine dei tempi Che quanto vive nel tempo sia destinato a finire è esperienza universale, che il tempo stesso giunga a un termine e si congedi dall’esistere è invece affermazione posta al di là di ogni verifica. La convinzione che il tempo si estingua poteva sorgere soltanto in una cultura sicura che esso avesse avuto un inizio. Solo in base al convincimento che questo cielo e questa terra sono frutto di un’opera creativa si può affermare che in futuro Dio creerà cieli nuovi e terra nuova (Is 65,17). Per la visione apocalittica che proclama la fine del tempo non esiste un unico mondo creato, ve ne sono due. Il «mondo avvenire» può essere pensato già presente nei cieli presso Dio; tuttavia esso, a un determinato punto della storia, dovrà irrompere e sostituire lo stato di cose ora esistente. Il lettore delle apocalissi è colpito soprattutto dalle immaginifiche descrizioni del passaggio dall’uno all’altro eone (totalità spazio-temporale). Perché il «mondo avvenire» giunga occorre che questo mondo si logori come una veste (Is 51,6). Questo transito rende manifesto l’aspetto più appariscente, ma non più profondo, della visione apocalittica: la futura catastrofe. In realtà per l’apocalittico il negativo è già all’opera nel mondo attuale. Le occasioni nelle quali sorgono gli scritti apocalittici sono spesso legate a un momento di grande tribolazione e di persecuzione dei pii. Le potenze persecutrici divengono perciò manifestazione storiche di un male che ha radici ultramondane. Più in generale la visione apocalittica muta drasticamente il modo di guardare alla morte. All’interno del mondo biblico, fino all’epoca dell’esilio babilonese (VI sec. a.C.), il morire non suscitava alcun problema: era un evento naturale posto al termine dell’esistenza. Tuttavia, forse già a partire dal IV sec. a.C. e certamente in quelli successivi, in alcune correnti giudaiche la morte è giudicata un nemico, una realtà che c’è ma che non avrebbe mai dovuto esserci. Per questo va sconfitta ed annientata: il Signore Dio eliminerà la morte per sempre (Is 25,8; 1 Cor 15,26). L’opera di Dio, uscita buona dalle mani del sommo Artefice, si è corrotta. La dimensione del male però non è percepita come un puro esito delle azioni riprovevoli compiute dagli uomini; la sua causa si annida in strati di esistenza più profondi. Le creature umane con il loro agire non fanno che prolungare nel tempo la dinamica

legata a colpe originarie. Angeli e demoni, esseri celesti precipitati negli abissi, divengono protagonisti delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte che stanno a monte e a valle del nostro mondo. Il linguaggio mitico e visionario dell’apocalittica serve a porre in rilievo sia la radicalità del male che avvolge la condizione umana, sia il grande sconvolgimento necessario perché esso infine sia annientato. Non è più sufficiente confidare come in precedenza in liberazioni da nemici che dispiegano il loro potere sulla terra e nella storia; la salvezza ora comporta l’annullamento stesso della forza devastatrice della morte. La potenza che tutti fa perire deve a sua volta essere uccisa. La risposta a una colpa sta nel giudizio. L’uccisione della morte e di coloro che sono dalla sua parte diviene un’esecuzione capitale. In tal modo l’espressione «giorno del giudizio» assume un valore escatologico. Non si tratta più, come nella profezia, di emettere sentenze su popoli e re; ora si è di fronte a un giorno finale in cui sarà formulato un giudizio inappellabile che separerà in modo definitivo il bene dal male. La sconfitta del potere della morte è provata dall’avvento della resurrezione. Nella Bibbia ebraica l’unico passo che afferma in modo esplicito questa prospettiva si trova nel tardo libro di Daniele (Dn 12,2; cfr. Gv 5,28-29). Più copiose sono invece le attestazioni presenti nell’ambito della letteratura apocrifa. Il suo corpus principale si trova infatti fuori dalla Bibbia, in libri come 1 e 2 Enoch, 4 Esdra, 2 e 3 Baruc, i Giubilei. In seno all’ebraismo questo genere andò declinando a partire dal I sec. d.C., mentre rimase vivo nel cristianesimo fino all’epoca medievale. Attualmente si è orientati a sostenere che già le più antiche apocalissi giudaiche subirono l’influsso di varie fonti: Scritture ebraiche, miti antichi, dualismo iranico e materiali ellenistici. Le idee apocalittiche svolsero un ruolo cruciale nella nascita della fede cristiana. Senza di esse non si comprenderebbero molte pagine neotestamentarie dedicate alla resurrezione dei morti e alla venuta del Figlio dell’uomo. In tale ambito rientrano le cosiddette «piccole apocalissi sinottiche» (Mt 24,1-44; Mc 13; Lc 21,5-33) e alcuni brani dell’epistolario paolino (1 Cor 15,20-28; 1 Ts 4,13-5,6). Nel Nuovo Testamento l’orizzonte apocalittico subisce però una ridefinizione fondamentale. Ciò avviene perché la «pienezza del tempo» (Gal 4,4) ha già avuto luogo. Con l’invio del Figlio, la sua morte e la sua resurrezione, Dio ha già operato la svolta definitiva nel corso del

tempo. La consumazione del tempo è ora attestata in un modo di vivere sospeso tra l’annuncio evangelico e l’attesa della sua completa realizzazione escatologica: «Questo vi dico, il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29-31). Più che di fine del tempo bisogna parlare dunque di un tempo della fine. Per chi vive questo tipo di speranza è la redenzione stessa, compiutasi con la morte e resurrezione di Gesù Cristo, a spingere dall’interno il tempo fino a farlo giungere al suo ultimo compimento. Non è facile discernere se gli autori del Nuovo Testamento prospettino la pienezza cristologica del tempo con immagini apocalittiche o se queste ultime debbano invece essere considerate parte effettiva della fede cristiana delle origini. Il caso più significativo di questa ambiguità è costituito dall’Apocalisse di Giovanni. L’ultimo scritto del Nuovo Testamento è intessuto di visioni, rivelazioni, catastrofi, ultimi giudizi, consumazione del tempo e si conclude con l’avvento della nuova terra e del nuovo cielo. Tuttavia la centralità assunta in esso dall’agnello sgozzato, ritto e vincitore, figura di Gesù Cristo morto e risorto, segna una diversità di fondo con le apocalissi giudaiche e fa sì che tutto il testo vibri di una fede e di un’attesa profondamente cristologiche. Per convincersene basta guardare alle sue prime e alla sue ultime parole, incentrate sulla figura del Messia venuto e venturo: «Rivelazione (apokalypsis) di Gesù Cristo…» (Ap 1,1); «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).

6.

Quattro personaggi biblici

L’idea di personaggio Se si dovesse dire chi è il protagonista primo senza il quale la Bibbia non esisterebbe, la risposta sarebbe chiara: Dio. Questa affermazione vale per i credenti i quali, in maniera diretta e indiretta, pongono Dio all’origine del testo, ma, in modo diverso, non è estranea neppure al non credente il quale trova in questo riferimento un presupposto indispensabile per l’esistenza stessa della narrazione biblica: se si sopprimesse il termine «Dio» il racconto contenuto nelle Scritture risulterebbe incomprensibile. Quest’ultima osservazione è ovviamente condivisa anche da chi crede che la Bibbia contenga una parola non solo umana. Se si chiedesse a un individuo che ha familiarità con la Scrittura quali sono i principali personaggi biblici, con ogni probabilità egli comincerebbe a parlare di Adamo ed Eva, di Noè, di Abramo e così via. Elencherebbe cioè una serie di persone umane, mentre sarebbe difficile che gli venga in mente di annoverare Dio tra queste figure. Se fosse un cristiano farebbe di sicuro un corposo richiamo a Gesù, ma solo al fine di parlare della sua vita e della sua predicazione, di esporne la passione e la morte e di narrare le tangibili e visibili apparizioni del Risorto. Anche se condividesse la fede nella preesistenza di Gesù come Verbo di Dio non ne parlerebbe, in quanto riterrebbe questa affermazione legata ad una verità di fede e non a un modo di essere di un personaggio biblico. I due ordini di considerazioni esposte nella pagina precedente non sono contraddittori: Dio è il fondamento primo del testo biblico, ma solo in maniera molto indiretta può essere considerato un personaggio. Quando lo è, ciò avviene perché Egli entra in comunicazione con l’altro da sé. Si può richiamare di nuovo alla mente l’espressione biblica per eccellenza: Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Essa è presente in entrambi i Testamenti (Es 3,6; Mt 22,32): per suo tramite la realtà somma si qualifica attraverso nomi umani. In altre tradizioni religiose questo procedimento risulterebbe inconcepibile. Allah significa semplicemente «il Dio». Nell’islam non si parla di «Allah dei musulmani», o di «Allah di Maometto». Alludendo alle Scritture si dice invece il Signore d’Israele o il Padre di Gesù. Dio diviene figura di un racconto quando entra in relazione con le proprie creature o

quando queste ultime si rivolgono a Lui. La suggestiva espressione «Dio alla ricerca dell’uomo» indica bene un aspetto fondamentale della tradizione biblica; anzi, in un certo senso, ne rappresenta addirittura l’asse principale a cui ne corrisponde uno secondario che propone i termini in maniera capovolta, prospettando la ricerca che l’uomo fa di Dio «andando come a tentoni» (At 17,27). Da questo tessuto narrativo doveva per forza scaturire la conseguenza che i personaggi biblici per eccellenza sono prima di tutto coloro che il Signore ha maggiormente ricercato e in secondo luogo coloro che più fortemente hanno avuto l’esperienza della presenza o dell’assenza di Dio. Rivelazione e nascondimento sono due dimensioni che si rimandano reciprocamente. Portando il discorso all’estremo si può perciò comprendere perché nella Bibbia vi siano testi come il Cantico dei Cantici o Ester (testo ebraico) dove non compare neppure una volta il nome «Dio», mentre non vi è nessun libro che parli solo di lui. Un trattato teologico «de Deo» non avrebbe trovato posto nel canone biblico. Quando si parla di personaggi della Scrittura è d’obbligo perciò ripercorrere la via del racconto. In sostanza occorre conformarsi al modo in cui, per millenni, sono state trasmesse di generazione in generazione le vicende di Abramo, Mosè, Davide, Gesù, degli apostoli e di tante altre figure.

Abramo Seguendo la narrazione biblica Dio aveva già parlato ad Adamo e a Noè, tuttavia il primo colloquio davvero indimenticabile per l’intera storia biblica è quello che avvenne tra il Signore e Abramo. Grazie ad esso l’antico patriarca è all’origine di una vicenda che riguarda parimenti, sia pure in modo profondamente diverso, gli ebrei che si pensano sua discendenza e coloro che sono diventati suoi figli attraverso la fede in Gesù Cristo. Non a caso Abramo è il personaggio biblico più citato nel Nuovo Testamento (72 volte). A lui si rifà anche l’islam; tuttavia questo riferimento avviene per una via per più versi autonoma rispetto al racconto biblico. Le vicende del patriarca sono contenute nel libro della Genesi (Gen 12,1-25,11). A differenza di quanto avviene per Mosè (Pentateuco) o per Davide (Salmi), la tradizione non lo pone all’origine di alcun libro. Lo considera invece destinatario della promessa di Dio, capostipite di un popolo e padre della fede. Passate al vaglio della critica o giudicate in base alla morale moderna, le vicende patriarcali appaiono storicamente inattendibili ed eticamente ben poco esemplari. Per due volte Abramo, in situazioni di potenziale pericolo, dichiarò che sua moglie Sara era, invece, sua sorella, e a subirne le conseguenze non fu lui ma chi, senza sapere come stavano le cose, volle corteggiare la bellissima quanto anzianissima donna: il faraone prima, il re Abimelech poi (Gen 12,10-20; 20; cfr. Gen 26,1-11). La sterile Sara dà ad Abramo la propria schiava Agar, la quale resta incinta e partorisce il figlio primogenito Ismaele, il capostipite degli arabi. Tuttavia dopo che il Signore miracolosamente aveva fatto sì che la vecchia Sara potesse avere un figlio, Abramo cedette, con l’avvallo di Dio, alla pretesa della moglie e scacciò Agar con Ismaele (Gen 16,1-15; 21,1-20). Si potrebbe continuare con altre esemplificazioni, ma queste sono sufficienti per indicare che Abramo non è figura né storica, né etica. Lo stesso discorso vale per gli altri patriarchi, Isacco e Giacobbe. Se questi racconti sono giunti fino a noi e se il nome di Abramo riesce ancora a risuonare in un mondo come il nostro da lui lontanissimo, lo si deve soprattutto al fatto che per millenni questa figura è stata assunta come segno della duplice convinzione che, da un lato, la vita venga da Dio e che, dall’altro, occorra essere

convinti che l’obbedienza al Signore vale più della vita. Entrambi i convincimenti sono considerati parti integranti della fede. Il riferimento all’alleanza è connesso a questa duplicità. Per questo motivo i due aspetti più legati ad Abramo sono la fiducia nella nascita di un figlio assunta come simbolo del credere e l’obbedienza alla voce di Dio che gli chiede di sacrificare Isacco. Scrive Paolo: «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli (Gen 15,5) […] Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara […] Ecco perché gli fu accreditato come giustizia» (Rm 4,1821). Il discorso sulle varie interpretazioni della fede, a cominciare da quella, cara al mondo protestante, secondo cui il giusto è tale in virtù del suo credere (Rm 1,17; Ab 2,4) trova qui la propria sorgente. L’altro avvenimento dall’impatto ancora maggiore del precedente (basti pensare all’iconografia) è quello del sacrificio di Isacco. Il senso della prova non può essere colto indipendentemente dal suo esito: Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio che gli aveva donato, il patriarca alza il coltello ma un angelo lo ferma; al posto del figlio è ucciso un ariete (Gen 22,1-19). Isacco, dopo la prova, resta vivo. La scena biblica indica la disponibilità di donare a Dio la propria vita ma non giustifica il sacrificio umano (Gdc 11,29-40), al contrario ne segna la condanna: l’esito dell’offerta è la vita e non la morte (questo vale anche per la sua rilettura cristologica, Rm 8,32). La tradizione ebraica commenta spesso il sacrificio di Isacco accostandovi un brano del profeta Michea: «Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mic 6,7-8).

Mosè Un secondo grande inizio si ha con Mosè, con l’esodo dall’Egitto e con il Sinai. La vita di Mosè è divisa in tre parti: nella prima il bambino, dopo essere stato nascosto in un cesto incatramato e deposto sulle acque per scampare allo sterminio decretato dagli egiziani, viene salvato dalla figlia del faraone e allevato proprio alla corte di chi voleva ucciderlo (Es 2,1-10). Il secondo periodo è contraddistinto dalla fuga di Mosè nel territorio di Madian dopo che, preso dall’ira, aveva ucciso un egiziano che maltrattava un ebreo e dal suo essere pastore alle dipendenze del suocero Ietro (Es 2,11-22). Mentre stava accudendo al gregge avvenne la rivelazione del roveto ardente (Es 3-4); con essa inizia la terza parte della vita di Mosè, contraddistinta dalla chiamata a liberare il suo popolo, dal contrasto con il faraone, dall’esodo dall’Egitto, dalla quarantennale peregrinazione nel deserto, all’inizio della quale si trovano la rivelazione e il patto del Sinai, dai discorsi di congedo e dalla morte avvenuta al limitare della Terra promessa in cui non gli fu concesso di entrare. La Bibbia afferma che Mosè era l’uomo più umile tra tutti (Nm 12,3). Questa caratteristica si evidenzia nel fatto che, pur essendo una personalità assai viva in grado di contendere con Dio e con gli uomini, egli si immerge a tal punto nella propria missione da identificarsi con essa. La tradizione con il termine «Mosè» indica anche il Pentateuco; ciò avviene per esaltare non la persona, ma l’opera compiuta da Dio per mezzo suo. La grande guida del popolo, colui che da sguardi esterni fu giudicato il legislatore degli ebrei, secondo la Bibbia dialoga e addirittura pone condizioni a Dio, non per affermare se stesso ma sempre e solo per amore del suo popolo. Riportiamone tre esempi. Il primo si situa nel momento della chiamata. Nel più ampio dialogo tra Dio e uomo riportato nella Scrittura (Es 3-4) vi sono vari momenti nei quali il soggetto umano si pone come un tu di fronte al suo Signore. Mosè accetta la chiamata, proprio questo gli consente però di avanzare delle condizioni nei confronti di Dio. È inviato a parlare con il faraone, ma dice di essere pesante di lingua. Non si sottrae al compito ma chiede di essere assistito e il Signore gli concede come aiuto il fratello Aronne che è un buon parlatore (Es 4,10-17). Il secondo caso è il più drammatico. Mosè è sul Sinai a ricevere le tavole della Legge. La sua permanenza si

prolunga per quaranta giorni. Il popolo insofferente chiede ad Aronne di fondere un’immagine della divinità, nasce così il vitello d’oro. Scendendo dal monte e vedendo questa infedeltà a Dio che aveva comandato di non fare immagine alcuna (Es 20,4), Mosè scaglia le tavole a terra. Tuttavia, quando il Signore gli esprimerà la propria volontà di sterminare per quella colpa l’intero popolo e di trarre da lui solo una grande nazione, Mosè si ribella e dice che preferisce morire lui stesso purché il popolo viva. Il Signore si lascia convincere; la punizione ci sarà ma non colpirà tutti (Es 32); l’alleanza viene così rinnovata e al posto delle prime tavole saranno rivelate le seconde (Es 34). Quest’uomo pronto a offrire la propria vita è però anche colui che avverte come troppo gravoso il dovere di reggere da solo l’intero popolo e se ne lamenta con Dio che gli ha affidato un simile compito; ottiene di poter essere aiutato da giudici (Nm 11,10-23). La Bibbia non presenta Mosè come un eroe: è balbuziente, umile e scoraggiato. Soprattutto egli muore in solitudine, vedendo da lontano la terra verso la quale ha guidato il suo popolo: «Lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor» (Dt 34,6). Alla lettera non si dice che questo. Il soggetto del verbo è sottinteso, tutta la tradizione lo intende però come se fosse Dio. Mosè muore nell’intimità del suo Signore, ma a lui non è mai stato attribuito alcun culto, nessuno infatti seppe mai dove fosse esattamente la sua tomba (Dt 34,6).

Davide L’altro personaggio legato all’esistenza di un patto è Davide. Egli è collegato a una promessa dinastica trasformatasi gradualmente in prospettiva messianica. La sua persona interagisce con queste dimensioni. Il giuramento di Dio è incondizionato, l’unico merito che viene attribuito al re Davide non è la rettitudine del comportamento personale o le vittorie in guerra ma il fatto che il suo cuore restò sempre attaccato al Signore. Su questo parametro sarebbero state giudicate le infedeltà dei suoi successori (1 Re 11,4). Per questo motivo, oltre che per la sua qualità di cantore, la tradizione collega il suo nome alla massima effusione dell’animo rivolta a Dio presente nella Scrittura: la raccolta dei 150 Salmi. In essa l’umana ricerca di Dio risulta con grande forza: «Come una cerva anela alle fonti delle acque così la mia anima anela a te» (Sal 43,2). In riferimento a questo uomo di guerra che cade nel peccato, la salda promessa divina si intreccia con la voce profetica di rimprovero e di giudizio. Dopo aver, come umile ed esaltato cantore, introdotto l’arca dell’alleanza a Gerusalemme (città da lui stesso strappata ai gebusei) (2 Sam 6), Davide vuol dare ad essa stabile dimora costruendo un tempio. Dio, attraverso la voce del profeta Natan, gli impedisce di attuarlo. La motivazione addotta è legata alla promessa dinastica: nessun uomo è nella condizione di costruire una casa entro cui racchiudere Dio, piuttosto sarà il Signore a costruire a Davide una casa (casato) che durerà di generazione in generazione (2 Sam 7). Questa affermazione può essere intesa anche come espressione del primato attribuito dalla Bibbia al tempo piuttosto che allo spazio. L’indefettibile fedeltà di Dio che si snoda nella storia vale più di ogni luogo di culto. La Bibbia racconta molte guerre per il semplice fatto di narrare vicende della storia. Allo stesso modo narra di scontri familiari, violenze sessuali, lotte fratricide che non risparmiarono neppure la grande famiglia di Davide (ebbe molte mogli e numerosi figli, 1 Cr 3,2-9). Le guerre davidiche non ebbero alcun carattere sacrale. Non furono comandate dal Signore; a loro riguardo non si parla di cherem (anatema, interdetto), l’annientamento sacrale e antidolatrico dei vinti e dei loro beni che comportava la rinuncia a fare prigionieri e al bottino. Pratica sconcertante, ma nella Bibbia dotata di

un carattere più simbolico che reale (Dt 13,15-19; Gs 6,17). Queste sono guerre di conquista come quelle di tutti gli altri re. Sotto questo aspetto Davide è come tutti gli altri potenti della terra e questo, nel linguaggio biblico, è già un segno di giudizio profetico. «L’anno dopo, al tempo in cui i re sono soliti andare in guerra», Davide mandò i propri generali a combattere, mentre lui se ne stette a Gerusalemme (2 Sam 11,1). Il capitolo che presenta il peccato del re comincia con queste parole, le quali, lungi dall’essere puramente descrittive, sono già un giudizio oltre che un’implicita indicazione del ruolo delle circostanze sulla vita dell’uomo. Fu allora infatti che, mentre si trovava sulla terrazza, Davide vide Betsabea, la moglie del suo fedele soldato Uria, se ne invaghì, la prese e la donna rimase incinta. Davide fece richiamare dal fronte Uria, confidando nel fatto che egli avrebbe avuto, in quel frangente, rapporti sessuali con la moglie, e che quindi potesse mascherare la paternità. Uria, però, ligio al carattere in ogni caso semisacrale della guerra che gli imponeva di stare in una condizione di purità, non entrò nella propria casa. Al re non rimase altro che spedirlo al fronte e ordinare che fosse lasciato solo in mezzo alla mischia nemica e così ucciso. Le cose si svolsero proprio in questo modo (1 Sam 11). Al re si presentò il profeta Natan che gli raccontò un episodio. Un ricco proprietario di molte greggi si trovò nelle circostanze di dover preparare un pasto per un ospite di passaggio. Non volle intaccare le sue proprietà e ordinò che si pigliasse una pecorella che rappresentava l’unico, amatissimo possesso di un suo vicino povero. Davide si riempì di sdegno; ma Natan gli disse: «Tu sei quell’uomo» (1 Sam 12,1-12). Il profeta stava raccontando dunque una parabola divenuta monito che dal di fuori suscitò nel re il senso di una colpa che la sua coscienza non aveva percepito autonomamente. La profezia non è altro che questo: ridestare dall’esterno nell’animo un senso di responsabilità che da soli non si riesce a cogliere. Davide comprende e si pente. Questo ripensamento lo ha reso, lungo i secoli, simbolo del pentimento, atteggiamento che ha trovato la sua espressione più piena in un Salmo, il Miserere, che la tradizione collega proprio a questa circostanza: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua grande bontà cancella il mio peccato» (Sal 51,3). Tuttavia il fatto che il re si sia pentito non impedisce a Natan di additare l’esistenza di una ferrea concatenazione tra il passato

modo di agire di Davide e quanto di negativo sarebbe avvenuto in futuro in seno alla sua famiglia: «Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa» (2 Sam 12.10). In effetti da allora in poi i drammi saranno senza posa, tra essi la violenza compiuta da Amnon nei confronti della sorrelastra Tamar (2 Sam 13,14-15), vendicata dal fratello della vittima Assalonne (2 Sam 13,23-37), la ribellione di quest’ultimo nei confronti del padre e la violenta morte di Assalonne in battaglia (2 Sam 13,38-18,32). In tutti questi casi Davide impersonifica il padre in grado di piangere sulla sventura che colpisce i propri figli ma incapace di scongiurarla. Nel primo episodio, quello del piccolo bimbo nato da Betsabea, il comportamento di Davide fu singolare. Dapprima reagì alla malattia mortale che aveva colpito la creaturina digiunando e supplicando perché non si avverasse la minaccia profetica che ne aveva decretato la morte (2 Sam 12,16). Appresa la notizia della sua morte si rifocillò e poi «consolò Betsabea, entrò da lei e le si unì» (2 Sam 12,24). In tal modo nacque Salomone. La discendenza e la promessa davidica si prolungano attraverso passaggi contorti. Già negli antenati vi erano stati momenti strani, come nel caso di Tamar che concepì dal suocero Giuda (Gen 38), Racab la prostituta di Gerico (Gs 6,22-25), Rut la straniera moabita che carpisce le nozze a Booz, bisnonno di Davide (Rt 3-4). Tutti questi nomi femminili sono ricordati da Matteo all’inizio del suo Vangelo nella «genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1). Un detto popolare dichiara: le vie del Signore sono infinite; secondo la Bibbia tali paiono essere anche quelle della promessa divina.

Gesù Il rinnovamento definitivo dell’alleanza per la Bibbia cristiana si ha in Gesù Cristo: il calice del patto nel suo sangue è la sua morte in croce. Essa rappresenta il simbolo massimo del cristianesimo. Paolo afferma che se Cristo non fosse risorto la fede sarebbe vana (1 Cor 15,14); nella stessa lettera aveva però precedentemente dichiarato di predicare Cristo crocifisso, pietra d’inciampo per i giudei e stoltezza per i gentili, tuttavia il crocifisso per i chiamati alla fede di origine sia ebraica sia gentilica è potenza e sapienza di Dio (1 Cor 1,22-24). La resurrezione assume il suo significato solo se prima vi è stata la croce. Di fronte alla sfida di dover scegliere un solo momento per presentare il «personaggio» Gesù, la risposta non può essere che di parlare della sua passione e morte. Sia pur in maniere molto diverse, ciò è stato sempre percepito lungo tutti i secoli cristiani, a cominciare dagli stessi Vangeli redatti in modo tale da raggiungere il proprio culmine nel momento della passione. Tuttavia è proprio in questo supremo frangente che i quattro Vangeli presentano Gesù in prospettive accentuatamente diverse e, per alcuni versi, addirittura incompatibili. La narrazione evangelica nel suo apice consegna al lettore una serie di immagini, a un tempo alternative e complementari, che indicano l’insondabilità di quella morte posta dal Nuovo Testamento al centro dell’intera vicenda umana. La pia tradizione delle «sette parole di Cristo in croce» compone in un tutto armonico espressioni provenenti da contesti volutamente differenti. Così facendo può aver aiutato molte persone nelle fatiche della loro esistenza; ci sono forti dubbi però che abbia favorito la comprensione di Gesù Cristo. Nel più antico Vangelo, quello di Marco, Gesù dalla croce pronuncia un’unica frase in aramaico, l’inizio del salmo ventidue: «“Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” Che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”» (Mc 15,34). Questo grido si innalza nelle tenebre che da mezzogiorno alle tre coprirono tutta la faccia della terra. Il linguaggio dell’eclissi non potrebbe essere più esplicito. Gesù, in quanto figlio di Israele, dice il proprio abbandono citando un passo della Scrittura (Sal 22,2) e si rivolge a Dio qualificandolo con l’aggettivo possessivo di prima persona singolare. Il

Figlio guarda al Dio che lo abbandona chiamandolo «mio»; proprio questo legame fa sì che le sue parole siano una domanda e non già semplice lamento: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Per ragioni di assonanza quell’Eloi è preso dagli astanti come un’invocazione a Elia (Mc 15,35). Cosa significa questo voluto fraintendimento propostoci dall’evangelista? Per la tradizione biblico-giudaica Elia è colui che vive in stato di occultamento e può apparire in ogni momento proprio perché non ha conosciuto la morte: fu rapito verso il cielo nel carro di fuoco (2 Re 2,11). Prendere Eloi per Elia equivale a ritenere che Gesù gridasse per essere scampato da morte: «vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce» (Mc 15,36). Di contro, chiedere a Eloi il perché del suo abbandono vuol dire misurarsi con il più radicale nascondimento di Dio (Is 8,17) e attestare la verità della morte patita dal Figlio. Il centurione romano che gli stava di fronte, visto il modo in cui spirò Gesù, dichiara con un verbo al passato: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio». La scientia crucis del soldato romano è uno svelamento avvenuto dopo la morte e a motivo di essa. Il riconoscimento ebbe luogo soltanto dopo lo spirare, quando Gesù è consegnato a una dimensione ormai irraggiungibile e nascosta. Il centurione è testimone della morte non della resurrezione. Quest’ultima, nella versione originaria di questo Vangelo (gli ultimi undici versetti sono stati aggiunti in una successiva redazione), è attestata solo da tre donne che vedendo la tomba vuota ricevettero da un angelo la notizia che Gesù il Nazareno era risorto. Esse furono incaricate di riferire ai discepoli che egli apparirà loro in Galilea. Le donne però fuggirono via piene di spavento e non dissero nulla a nessuno (Mc 16,6-7). In Marco tutto è ancora drammaticamente aperto, nella sua versione primitiva non ci sono neppure le apparizioni del Risorto. In Matteo la scena della morte si rifà strettamente a quella di Marco. Gesù grida Eli (in ebraico), si pensa che invochi Elia e spira senza aggiungere ulteriori parole (Mt 27,45-50). Il seguito del racconto è invece molto ampliato. Si moltiplicano i segni apocalittici che seguono immediatamente la morte di Gesù: oltre al velo del tempio che si lacera, già presente in Marco, si parla di terremoti, di rocce che si spezzano, addirittura di sepolcri che si aprono e di morti resuscitati (Mt 27,51-52). La scena della tomba vuota è costruita lungo la falsariga di quella presente in Marco, ma qui le

donne piene di timore e grande gioia «corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (Mt 28,8). Non solo a loro appare in persona anche Gesù che annuncia la sua successiva manifestazioni in Galilea (Mt 28,9-10), puntualmente descritta nelle ultime righe del Vangelo e coronata dal mandato missionario di ammaestrare tutte le genti (Mt 28,1620). In Matteo il quadro si fa più definito e rassicurante, increspato solo dalla notazione secondo cui, davanti all’apparizione del Risorto, alcuni dei discepoli dubitarono (Mt 28, 17). Nel terzo Vangelo la scena muta radicalmente. Luca moltiplica le parole all’insegna di due temi a lui particolarmente cari: la preghiera e il pentimento. Appena crocifisso Gesù esclama: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Parole alte, ma che non coincidono con un immediato perdono: sono una preghiera rivolta al Padre perché tocchi cuori che, non sapendo quanto stanno facendo, non sono neppure nelle condizioni di pentirsi. Questa interpretazione trova riscontro in una scena successiva propria del solo Luca: quella del «buon ladrone». In essa il pentimento viene espresso da uno dei due condannati posti anch’essi in croce: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Frase che ottiene una immediata risposta: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43) (qui da intendersi come una condizione di sollievo e beatitudine posta dopo la morte, difficile però da definire in modo esatto). Gesù in Luca muore pregando, gridando a gran voce parole plasmate su un verso di un Salmo: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,4; cfr. Sal 31,6). L’evangelista della preghiera non poteva far morire Gesù in altro modo. Gesù affida il proprio spirito; neanche per lui è un possesso, neppure lui riesce a trattenerlo. Qui è espressa la radicale insufficienza creaturale che non riesce a conservare in sé il principio del proprio vivere. Ma nel frattempo è affermata pure la grande dignità della creatura che può affidare alle mani di Dio il proprio spirito nel momento stesso in cui sta per morire. La potenzialità massima di quel versetto della Scrittura si realizza nella morte di Gesù. Per questo Luca introduce la parola «Padre», assente nel testo originale. Sulla croce quel versetto riceve la sua esegesi definitiva. In Luca le apparizioni del Risorto sono molto diverse da quelle di Matteo.

Innanzitutto esse sono situate tutte e solo a Gerusalemme o nelle sue immediate vicinanze. Qui non vi è riferimento alcuno alla lontana Galilea. Le donne sono subito rassicurate dalle parole dell’angelo che richiamano preannunzi fatti da Gesù e vanno senza indugio a riferire agli apostoli. Questi ultimi però non prestano loro fiducia (Lc 24,1-11). Pietro va alla tomba e la vede vuota (Lc 24,12). Segue poi la lunga drammatizzazione legata ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) e un’apparizione diretta di Gesù agli apostoli seguita dal mandato missionario (Lc 24,36-49). In tutti e due questi ultimi casi il Risorto si fa egli stesso ermeneuta delle Scritture affermando che la sua passione, la sua morte e la sua resurrezione corrispondevano a quanto preannunciato dalle Scritture. Infine è descritta senza soluzione di continuità l’ascensione (Lc 24,50-52). Il quadro prospettato da Luca esprime in modo armonico l’incontro tra eventi e Parola. Per comprendere la morte di Gesù in Giovanni bisogna partire da una espressione scritta in precedenza: «“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire» (Gv 12,32-33). Nel IV Vangelo la morte in croce e la resurrezione sono due fasi di un medesimo processo di innalzamento compiuto da chi ha il potere di offrire la propria vita per poi riprendersela di nuovo (Gv 10,18). Dalla croce Gesù pronuncia parole prive di riscontro negli altri Vangeli. Innanzitutto vi è il duplice affidamento della madre al discepolo amato e viceversa: «“Donna, ecco il tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”» (Gv 19,26-27). Poi, consapevole che tutto si compiva, per adempiere la Scrittura disse «Ho sete» (Gv 19,28; Sal 69,22). Infine disse: «“È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). In Giovanni Gesù vive attivamente la propria morte: essa è posta all’insegna di un congedo e di una consegna consapevoli che riguardano tanto la propria vita quanto quella dei suoi discepoli. Anzi, in un certo senso si può dire che il completamento del suo messaggio avviene anche dopo la morte, nella fuoruscita di sangue e acqua dal cuore trafitto dalla lancia del soldato presentato anch’esso come adempimento delle Scritture (Gv 19,31-37). Anche le apparizioni in Giovanni sono originali. Maria di Magdala vide il sepolcro vuoto. Non c’erano angeli. Corse da Simon Pietro e dall’«altro discepolo» (l’autore

del Vangelo), tutti e due si affrettano alla tomba (Gv 20,1-10). In seguito a Maria di Magdala appaiono due angeli e soprattutto Gesù in persona, che ella però scambia per il custode del giardino. Quando lo riconosce non lo può trattenere (Gv 20,11-18). Poi vi sono le due serie di apparizioni ai discepoli, a distanza di otto giorni l’una dall’altra: la prima contraddistinta dalla mancanza e la seconda dalla presenza di Tommaso (Gv 20,19-29). Dopo una prima conclusione, vi è un ulteriore epilogo questa volta ambientato in Galilea. L’episodio si incentra su un’apparizione, caratterizzata da un movimentato dialogo tra il Risorto, Simon Pietro e «il discepolo che Gesù amava». In esso si stabilisce a un tempo il primato di guida attribuito a Pietro e quello della testimonianza riservato all’«altro discepolo» (Gv 21,1-23). La chiusura del IV Vangelo non riporta un esplicito mandato missionario, non è percorsa dal fremito dell’annuncio; in essa prevale la voce del testimone preposto ad affermare che tutto è compiuto.

Per saperne di più

Data la natura di questo libro, di prima introduzione, ci si limita qui a indicare alcuni testi di carattere non specialistico nei quali si troveranno indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti. Per quanto riguarda traduzioni ed edizioni italiane della Bibbia si segnalano: Bibbia CEI (traduzione ufficiale cattolica a cura della Conferenza episcopale italiana, 1971, di cui è da tempo in corso una revisione ormai prossima al completamento). Tra le numerose edizioni si segnalano la Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 1974 (poi continuamente ristampata) che affianca al testo introduzioni e commenti di esegeti francesi tradotti dalla «Bible de Jérusalem»; Bibbia Tob, 3 voll., Torino, Leumann, LDC, 1979 (testo italiano CEI, ampie introduzioni e commenti tradotti dalla versione ecumenica francese, edita nel 1975 e rivista nel 1988; dal 1992 anche in volume unico); La Bibbia, Casale Monferrato, Piemme, 1995 (corredata da commenti vasti ed accurati di esegeti cattolici italiani). Altre traduzioni in lingua italiana: La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali da F. Nardoni, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1960; La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, Cinisello Balsamo, S. Paolo, 20012. Esiste anche un’edizione in 48 volumetti con ampie introduzioni e note. La Bibbia, Parola del Signore. Traduzione interconfessionale in lingua corrente (TILC), Torino, Leumann, Roma, LDC-ABU, 1984 (curata da esegeti cattolici ed evangelici); La Sacra Bibbia, traduzione Diodati del 1607 rivista nel 1641, Torino, Einaudi, 1999, è la versione storica del protestantesimo italiano. Ne fu fatta una revisione coordinata da G. Luzzi nel 1924, comunemente denominata la Riveduta (1918-1925), a sua volta rivista nel 1994; Bibbia ebraica, testo ebraico, con traduzione italiana a fronte e note, a cura di D. Disegni, 4 voll., Firenze, Giuntina, 1995-1996 (ristampa dell’edizione, Torino, Marietti, 1965-1967). Tra i dizionari e i sussidi biblici si raccomandano: P.-J. Achtemeier e Society of Biblical Literature (a cura di), Il dizionario della Bibbia, a cura di P. Capelli, Bologna,

Zanichelli, 2003, è il più recente tra i molti dizionari biblici disponibili in italiano (di taglio culturale, ma sensibile alla dimensione ecumenica e molto ricco di voci in genere sintetiche); sempre nell’ambito dei sussidi di grande utilità pratica si collocano i non recenti ma ancora validi, A.-M. Gerard, Dizionario della Bibbia, 2 voll., Milano, Rizzoli, 20022; J.L. McKenzie, Dizionario biblico, a cura di B. Maggioni, Assisi, Cittadella, 19814; G. Miegge, Dizionario biblico, Torino, Claudiana, 1984 (redatto da esegeti evangelici italiani); M. Bocian, Dizionario dei personaggi biblici, Casale Monferrato, Piemme, 20043. In relazione alla teologia biblica si segnala, X.L. Dufour, Dizionario di teologia biblica, Genova, Marietti, 19952 (redatto da esegeti cattolici francesi), e P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo, San Paolo, 20012 (sensibile anche alla dimensione culturale). Per un orientamento (anche bibliografico) di taglio non confessionale nel campo dello studio biblico e del suo lessico si consiglia, Biblia, Vademecum per il lettore della Bibbia, Prefazione di J.A. Soggin, premessa di P. De Benedetti, Brescia, Morcelliana, 1996. Si veda anche J. Rogerson, Atlante della Bibbia, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1988 (si compone di tre parti: La Bibbia e la sua letteratura, La Bibbia e la storia, La Bibbia e la geografia). Per un approccio introduttivo proveniente dal mondo della Riforma, sensibile anche alla dimensione culturale, G. Girardet, Bibbia perché. Il linguaggio e le idee guida, Torino, Claudiana, 1993. Brevissimo, Id., La Bibbia. Uno sguardo nuovo su un libro antico, Torino, Claudiana, 2001. Si veda anche J. Riches, La Bibbia, Roma-Bari, Laterza, 2002. Per una visione cattolica di taglio confessionale attenta alle istanze delle scienze bibliche e della cultura contemporanea, V. Mannucci, Bibbia come parola di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Brescia, Queriniana, 199313. Istruttivo il documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1993; un approfondito commento del testo si trova in G. Ghiberti, F. Mosetto (a cura di), L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Torino, Leumann, LDC, 1998.

La più completa e aggiornata opera di introduzione alla Bibbia disponibile in italiano è l’amplissimo Nuovo grande commentario biblico, a cura di R.E. Brown, J. Fitzmyer, R. Murphy, ed. a cura di F. Dalla Vecchia, G. Segalla, M. Vironda, Brescia, Querinana, 20022. Per quanto riguarda l’Antico Testamento si veda, J.A. Soggin, Introduzione all’Antico Testamento, Brescia, Paideia, 19874 (manuale scientifico di alta divulgazione scritto da un biblista evangelico); G. Cappelletto, In cammino con Israele. Introduzione all’Antico Testamento, vol. I, Padova, EMP, 1991; G. Cappelletto, M. Milani, In ascolto dei profeti e dei sapienti. Introduzione all’Antico Testamento, vol. II, Padova, EMP, 1992 (valido manuale di esegeti cattolici). Per il Nuovo Testamento, H. Conzelmann, A. Lindemann, Guida allo studio del Nuovo Testamento, a cura di M. Pesce, Genova, Marietti, 19962 (strumento che prevede anche esercizi pratici curato da due noti esegeti protestanti). Classica sintesi di area riformata O. Cullmann, Introduzione al Nuovo Testamento, Bologna, Il Mulino, 1983. Uno dei più recenti contributi cattolici di taglio informativo e teologico è Y. Simoens, Entrare nell’alleanza. Un’introduzione al Nuovo Testamento, Bologna, EDB, 2003. Per quanto riguarda la Bibbia ebraica il suggestivo A.C. Avril, P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, Comunità di Bose, Magnano, Qiqajon, 19892 ha un carattere volutamente parziale; assai più completo ma piuttosto complesso, S.J. Sierra (a cura di), La lettura ebraica delle Scritture, Bologna, EDB, 1995. Per una valida e intelligente presentazione culturale di alcune sezioni bibliche attenta sia alla dimensione letteraria sia alla «storia degli effetti» cfr. A.-M. Pelletier, La Bibbia e l’Occidente. Letture bibliche alle sorgenti della cultura occidentale, Bologna, EDB, 1999. Per l’influsso di alcune categorie bibliche (creazione, liberazione, memoria e testimonianza…) nel campo del pensiero, della politica, dell’arte e della letteratura si rimanda a P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Milano, Bruno Mondadori, 2004. Il libro più classico e autorevole in relazione all’approccio letterario è N. Frye, Il Grande Codice. La Bibbia come letteratura, Torino, Einaudi, 1986. Nello stesso filone si colloca R. Alter, L’arte della narrativa biblica, Brescia, Queriniana, 1990. Per una singolare presentazione del «personaggio

Dio» così come appare nella Bibbia ebraica cfr. J. Miles, Dio. Una biografia, Milano, Garzanti, 1996; per quanto riguarda il Nuovo Testamento cfr. Id., Gesù. Una crisi nella vita di Dio, Milano, Garzanti, 2003. Infine tra i molti siti di argomento biblico si segnalano: http://www.laparola.net/ http://www.associazionebiblica.it/abi/index.htm http://www.earlyjewishwritings.com/