Verso la commedia. Momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile 8872561175, 9788872561171

Steno, Salce e Festa Campanile. Registi attivi nell'ambito del cinema comico e della commedia, ne hanno frequentato

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Verso la commedia. Momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile
 8872561175, 9788872561171

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VERSO LA COMMEDIA. Momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile PREMESSA Prima di iniziare quest'assunto, credo sia doveroso spendere due parole sui motivi che mi hanno indotto ad occuparmi di questi tre registi. In un'epoca in cui tutti i favori della critica "ufficiale" vanno a coloro che si professano "autori" e in cui il cinema di genere sembra esistere solo in quanto americano, si è sviluppata in questi ultimi anni, come un'enorme escrescenza della critica maggiore, una fitta rete di fanatici adoratori di quei registi dallo stile fortemente barocco ed esasperato, facitori di film zeppi di situazioni estreme, che ha portato, guarnendola con la locuzione inglese di "trash-film", anche alla rivalutazione del cosiddetto cinema spazzatura. Lo stesso genere campione della nostra cinematografia, quello che insieme al neorealismo ci ha reso famosi in tutto il mondo, la "commedia all'italiana", è stato travolto da questo duplice movimento uguale e contrario. Così, se da un lato la critica francese ha promosso al rango di grande cinema i registi tipici della commedia - Monicelli, Risi, Scola -, dall'altro la fitta rete di riviste "fanzines" ha portato alla luce, rivalutandolo con accenti encomiastici ed a volte esaltati, quel sottobosco della nostrana cinematografia comprendente registi come Laurenti, Cicero, Tarantini, Lenzi. Il risultato è stato quello di promuovere quei registi che, pur qualitativamente agli antipodi, hanno portato avanti un discorso lineare e coerente: sia quello di un Monicelli, cantore di eroi miserabili («poveracci condannati a restare poveracci»1) eternamente esclusi da una società indifferente

se

non

ostile;

sia

quello

di

un

Laurenti,

osservatore

del

comico

comportamento dei maschi italiani, quotidianamente eccitati dalla visione di una bella donna (preferibilmente nuda, mentre fa una doccia, da scorgere dietro il buco di una serratura: «In mezzo alla comicità nei miei film c’era la scena della doccia…ma era così…un contentino»2, dichiarò lo stesso Laurenti). Tutte e due le correnti critiche hanno perciò escluso dalle loro considerazioni non solo quei registi che, alla prova dei fatti, avevano una loro precisa personalità, ma non sono riusciti a svilupparla con coerenza, per difetti di stile o per compromessi troppo frequenti con i produttori (è il caso di un regista importante come Luigi Zampa, la cui considerazione critica, col progredire del tempo, è come svanita), ma soprattutto quei registi che, non portando mai avanti, all'apparenza, un discorso personale, hanno messo 1

Fernaldo Di Gianmatteo, Cristina Bragaglia, Dizionario del cinema: cento grandi registi, Newton Compton, Roma, 1995, p.62 3 Igor Molino Padovan, Matteo Norcini, Quell’ultima doccia-Intervista a Mariano Laurenti, in Amarcord, n. 8-9, mag.-ago. 1997, p.69 1

le loro capacità di costruzione narrativa al servizio del divo di turno: cineasti come Sergio Corbucci, Luciano Salce, Pasquale Festa Campanile, Steno.

Proprio questi ultimi tre

saranno al centro dell’analisi di questa tesi, convinto com'è, chi scrive, che siano stati loro a dare nerbo e consistenza al genere. Nel cercare il denominatore comune delle rispettive sterminate filmografie, si cercherà di evidenziare la loro coerenza: sia essa un tratto di stile, una tematica narrativa od uno scorcio critico. Un regista teatrale, sporadicamente anche cinematografico, Luciano Lucignani, ha recentemente e, dati i tempi, sorprendentemente, dichiarato3 che l'attuale crisi espressiva del cinema italiano è dovuta alla mancanza di quello strato di registi medi che ha operato nel nostro cinema fino alla fine degli anni '80. Osservando le carriere di attori comici come Troisi, Verdone, Benigni e soprattutto Nuti che hanno preferito dirigersi da soli pur non avendone spesso le capacità, ed immaginando quale avrebbe potuto essere la loro strada espressiva sotto le abili mani di uno Steno o di un Salce, non si può non dare

3

al

sagace

regista

altro

che

ragione.

Luciano Lucignani, La Repubblica, 1995 2

INTRODUZIONE. LA COMMEDIA ITALIANA: UN GENERE RICCO DI VARIANTI Per molto tempo la commedia italiana è stata identificata con la “commedia all’italiana”. Non è possibile operare questa identificazione, come ricorda il critico Enrico Giacovelli: Ci sono ancora oggi vari testi che identificano con questo termine (“commedia all’italiana”, nda) l’intera produzione comica italiana, perlomeno a partire dal 1945; e altri che rifiutano per stima o per disistima di usare il complemento di qualità e parlano soltanto, genericamente, di “commedia italiana” . A noi sembra che entrambe le posizioni finiscano per generare confusione: è vero che i confini non sono sempre facili da stabilire, ma è innegabile che una certa scuola o corrente o quanto meno tendenza porti a distinguere un certo numero di commedie dal corpus più vasto e onnicomprensivo della commedia cinematografica italiana.1

Molti critici italiani (oltre a quelli francesi2), si sono dedicati ad una definizione precisa delle coordinate della “commedia all’italiana”; ma soltanto dagli anni ’80 le è stata dedicata qualche opera monografica: quelle di Ernesto G. Laura3, di Masolino D’Amico4 e di Aldo Viganò5, le raccolte di saggi a cura di Riccardo Napolitano6 e Pietro Pintus7 e il riepilogo di Enrico Giacovelli, che con La commedia all’italiana8 e, recentemente, Non ci resta che ridere ha tentato una sistemazione delle diverse teorie sul genere. Che cosa differenzia la “commedia all’italiana” dalla rimanente commedia italiana? Poiché il libro di Masolino D’Amico, pubblicato cinque anni prima dell’opera di Giacovelli, benché abbia molti meriti (primo fra tutti, quello di riepilogare storicamente quarant’anni di produzione comica italiana e di rintracciarne l’origine nelle rappresentazioni di avanspettacolo), fa confusione tra film di genere comico e commedie, analizzando la produzione in funzione delle carriere degli attori e non dei registi, terminando un po’ incongruamente la propria analisi al 1975,

sarà opportuno riferirsi al saggio La

commedia all’italiana di Giacovelli per ricercare una definizione del genere: A caratterizzare la commedia all’italiana e a distinguerla dalla commedia tradizionale è, dunque, per prima cosa, la presenza di elementi drammatici. Naturalmente non ce ne devono essere troppi, altrimenti non si tratterebbe più di commedia, bensì appunto di film drammatico; ma ce ne sono comunque più che in una normale commedia. E’ una presenza frequente, ad esempio, la morte, ignota invece alla commedia tradizionale, che può permettersi di ignorarla o addirittura di irriderla. In alcune commedie all’italiana tra le più celebri e riuscite, da La grande guerra al 1

Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere. Una storia del cinema comico italiano, Lindau, Torino, 1999, p. 77 2 Jean Gili, Arrivano i mostri-I volti della commedia italiana, Cappelli, Bologna, 1980; Jean Gili, La comédie italienne, Henry Veyrier, Parigi, 1983; Lorenzo Codelli, La partie cachée de l’iceberg (la comédie italienne aujourd’hui, in Positif, n.129, julliet-aout 1971; Alain Garel, La comédie italienne et la critique, in La Revue du cinema, n.316, avril 1977. 3 Ernesto G. Laura, Comedy Italian Style, A.N.I.C.A., Roma, 1981 4 Masolino D’Amico, La commedia all’italiana, Mondadori, Milano, 1985 5 Aldo Viganò, Commedia italiana in 100 film, Le Mani, Recco, 1995 6 Riccardo Napolitano (a cura di), Commedia all’italiana. Angolazioni, controcampi, Gangemi, Roma, 1986 7 Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’italiana. Parlano i protagonisti, Gangemi, Roma, 1986 8 Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana,Gremese, Roma, 1990 1

Sorpasso, da Divorzio all’italiana a Dramma della gelosia, la morte è in scena, rappresentata in modo crudo, realistico [...] Di conseguenza viene meno anche l’altra grande e riposante certezza della commedia di tutti i tempi e luoghi: il lieto fine. […] E’ abitudine dei personaggi della commedia all’italiana fare di ogni caso personale una questione universale [...] Ecco qual è il tema-guida, il chiodo fisso di questa commedia dai continui agganci con la realtà contemporanea: la solitudine dell’individuo nella società dei consumi, alle soglie del duemila. La commedia all’italiana è tutta in questo contrasto, narrativo, ma anche figurativo, fra un “solo” (l’individuo) e un “tutti” (la società).9

Se, a questo punto, confrontassimo la produzione di Steno, Salce e Festa Campanile con le definizioni di Giacovelli e ci interrogassimo su una piena appartenenza al genere di questi registi, la risposta sarebbe inequivocabilmente negativa. Passi per la produzione iniziale di Salce, ma cosa c’entrano con la commedia all’italiana le farse di Steno e le commedie d’ambientazione storica di Festa Campanile, così apparentemente lontane «dai continui agganci con la realtà contemporanea» ? In realtà, come sempre più chiaramente si manifesta nelle pagine seguenti, per Giacovelli, sono ascrivibili al genere della commedia all’italiana soprattutto le opere di Risi, Monicelli, Scola, Germi e Comencini: è nei loro film che il genere mostra uno stile inconfondibile e compatto. Può accadere, così, che Signore e signori, buonanotte (1976), film collettivo (diretto proprio da Monicelli, Scola e Comencini con Loy e Magni), in cui gli episodi non sono firmati per motivi sindacali, abbia, come tratto distintivo,

proprio

l’indistinguibilità dello stile. Scorrendo la filmografia di questi autori, ci si può accorgere che l’argomento principale delle loro pellicole è la classe borghese, indagata nelle sue meschinità morali, economiche e civili. Il tono è indignato ma, spesso, solo apparentemente: c’è sovente un residuo di complicità negli autori di queste pellicole verso l’ambiente rappresentato, di cui pur fanno parte. Una complicità evidente sin nella scelta degli attori che interpretano i ruoli dei protagonisti, i quali portano nei loro personaggi un bagaglio personale di ammiccamenti e ambiguità, complicando il gioco attoriale con un continuo scambio tra il loro essere-attori ed essere-interpreti. Tognazzi rende credibili – rimanendo «sempre in mezzo al guado tra una natura fondamentalmente buona e una vocazione forzata alla mostruosità»10 - i suoi ruoli di uomo maturo, gretto moralmente, alle prese con i problemi del sesso; Gassman, capace di esaltare e nobilitare «quelli che in genere sono considerati i vizi peggiori della recitazione: il birignao e gli eccessi gestuali»11, è perfetto per i ruoli di borghese arrivato, ma insoddisfatto e fallito moralmente. La stessa struttura narrativa delle storie nasconde nelle pieghe del racconto lo sguardo complice degli autori, la cui apoteosi troviamo nei risvolti finali, quando il

9

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., pp. 10-11 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, pp.296-7 11 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., pp. 294-5 10

2

protagonista fin lì criticamente analizzato viene ricondotto sulla retta via del perdono morale. E’ questa la valenza etica e sociale delle frequenti conclusioni luttuose delle commedie all’italiana: il protagonista ha accumulato su di sé tante connotazioni negative, durante lo svolgimento dell’intreccio, che gli autori, per riscattarlo agli occhi degli spettatori, non hanno altra scelta che metterlo al confronto con la morte, estrema occasione di riabilitazione. Ecco il senso di finali come quello de La grande guerra (1959, Monicelli), in cui i due «antieroi-tipo, sgangherati, vigliacchetti»12 si sacrificano in un atto di coraggio incongruo per il loro carattere, ma che permette allo spettatore di potersi infine riconoscere in essi, ritrovando un sottofondo di onestà morale che salva, ipocritamente, una vita spesa male; o come quello de Il sorpasso (1962, Risi), in cui il protagonista deve provocare la morte dell’amico per riconoscere il fallimento della propria esistenza e mostrare al pubblico, che pur nell’arrivista più incallito alberga un sentimento puro. Eliminando dalla definizione qualunque sfumatura negativa ed evidenziando come la commedia sia un genere per sua natura ottimista e, dunque, conciliatorio, si potrebbe definire “commedia all’italiana” tutta quella produzione comica in cui lo sguardo sulla realtà sia angolato secondo un’ottica borghese. «La commedia all’italiana – afferma Fernaldo Di Gianmatteo – è la manifestazione primaria di un atteggiamento di sfida e di rifiuto, di compiacimento e di timore che i nuovi ceti emergenti della società vanno assumendo mentre il paese esce dall’indigenza e si affaccia incredulo a un mondo intravvisto solo nei sogni più temerari»13. E, dunque, non tanto un genere, uno stile, quanto una posizione ideologica che sottende l’analisi sociale di queste commedie. Si spiegherebbe così molto bene la voluminosa fioritura del genere negli anni ’60, quando la società borghese è rampante e i movimenti e gli atteggiamenti della classe, per occupare le posizioni di potere, vengono criticati nei suoi aspetti più alienanti, ma sempre in una prospettiva di ottimismo. Tra il 1958 e il 1964 si esaurisce la «breve e illusoria stagione del miracolo economico»14: in questo periodo proliferano le commedie del “boom”, le commedie all’italiana per eccellenza, delle cui caratteristiche Giacovelli propone questo riepilogo: Protagonista di questa fase è dunque quel miracolo economico il cui effetto risulta più o meno lo stesso di un gas esilarante: un’ondata di euforia artificiale che inebria, ubriaca, stordisce e fa perdere il senso della realtà. La commedia di questi anni è essenzialmente estiva; nonostante il dilagare dei palazzi (che vediamo spesso in costruzione o appena costruiti), si svolge principalmente all’aria aperta, nei luoghi fondamentali della nascente civiltà dei consumi: l’automobile e la spiaggia. Il nuovo paese è così ricco di allettamenti, di status-symbol, che l’interesse per i problemi privati diviene marginale, almeno al Nord, dove l’effetto del “miracolo” si sente meglio (al Sud sussitono ancora gli antichi problemi onore, corna e gelosia: il “boom” giunge solo di rimbalzo, come un’eco). In realtà, dietro il trionfalismo, è anche l’epoca del contrasto 12

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.44 Fernaldo Di Gianmatteo, Lo sguardo inquieto, La nuova Italia, Firenze, 1994, p.278 14 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.40 13

3

sempre più evidente, perché amplificato dai mass-media, fra le crescente ricchezza media e la sua inadeguata e ingiusta distribuzione: epoca di forti opposizioni, infatti la commedia di questi anni è quasi esclusivamente in bianco e nero, per rendere meglio il contrasto, bianco su nero, tra l’individuo-simbolo e la società dei consumi. Dietro gli strombettamenti, è una commedia triste, drammatica, piena di presentimenti, che ritrae al tempo stesso l’euforia e la consapevolezza della sua fragilità. […] L’idea che ci si fa di questa società è abbastanza drammatica, ci vuol poco a capire che dietro gli orpelli cova la decadenza, che tanto ottimismo non può durare. Eppure, anche per via dell’entusiasmo trascinante di certe descrizioni, si finisce per avvertire una nostalgia anticipata per il sapore irripetibile, per la vitalità e l’esuberanza di quest’epoca dorata.15

Quando negli anni ’70, in piena epoca di contestazioni giovanili, i registi della commedia si accorgono che la società borghese ha generato mostri come il terrorismo, il genere si trova spiazzato, il clima di queste opere si fa plumbeo, anche più del necessario, in una prospettiva ora lugubre e luttuosa. Il sogno riformatore di questi registi si è infranto e così la loro capacità critica: il tono delle pellicole di questo decennio si fa sarcastico ed, a volte, aspramente moralistico (Caro papà di Risi, Il mostro di Zampa, Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, «una commedia incarognita dal fatto di dover fare i conti con tempi in cui è sempre più difficile vivere»16). Si spiega così anche il tono esageratamente grottesco che acquista lo stile di quegli autori del genere che gettano uno sguardo sulle classi extraborghesi: l’aristocrazia, poco frequentata, è vista come una classe putrefatta, arretrata culturalmente, stordita ideologicamente (vedere gli esempi in Vogliamo i colonnelli di Monicelli o in Il secondo tragico Fantozzi di Salce) e frequentemente confusa con l’alta borghesia; del proletariato viene sottolineato l’analfabetismo culturale, la primitività sentimentale, l’arretratezza civile: con tratti pesantemente caricati, come le pose artefatte da fotoromanzo e il linguaggio maccheronico di tanti film scritti da Age e Scarpelli (Straziami ma di baci saziami di Risi, Dramma della gelosia di Scola, L’armata Brancaleone e Brancaleone alle crociate di Monicelli). Sono culture che vengono confrontate con quella borghese e se ne nota la completa estraneità dai suoi modelli comportamentali: da qui gli sbeffeggiamenti che attirarono gli strali di registi come Steno che contestò «...la contraddizione politica di molti miei colleghi che, con la commedia all’italiana, malgrado fossero di sinistra, hanno sfottuto i poveracci, ma proprio di brutto, e questa è una cosa che non mi è mai andata giù. A spese di questi disgraziati hanno fatto ridere l’italia»17. Ma se la commedia è il genere borghese per eccellenza (già a partire da Aristotele, secondo cui non doveva interessarsi né di eventi e personaggi di statura superiore a quella dell’uomo medio, né di quelli inferiori), cosa distingue la commedia

all’italiana

dalla commedia tout-court? Per circoscrivere maggiormente il genere, possiamo trovare un altro motivo di distinzione nell’attenzione che i registi italiani hanno verso il realismo 15

Ibidem. Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.160 17 Angelo Olivieri, L’imperatore in platea, Dedalo, Bari, 1983, p. 17-18 16

4

del contesto ambientale. Proprio perché preceduti, nei loro intenti realizzativi, da una volontà ideologica, questi autori non amano costruire artificiali meccanismi di astratta comicità, ma sono attenti ad analizzare le situazioni ambientali e sociali in cui agiscono i personaggi delle loro storie. Se confrontiamo una commedia all’italiana con una qualunque sofisticata commedia americana, o una nostrana del periodo dei “telefoni bianchi” (gli anni ’30), ci accorgiamo immediatamente che c’è un elemento incongruo in quelle perfette partiture di comicità: l’irrealismo

dell’ambientazione.

Luoghi

spropositati

rispetto

alla

condizione

dei

protagonisti, fanno da cornice, in questo genere di storie, alle loro azioni. Così come la condizione divistica degli interpreti emerge nei confronti del realismo della recitazione: è la vittoria del trucco sulla verosimiglianza. Basterebbe ripercorrere con la mente qualche gaio collegio rivisitato dalle opere dell’epoca, per chiederci dove siamo finiti: possibile che ai quei tempi queste austere istituzioni fossero professori

compiacenti e

gremite di

allieve

cinguettanti,

di

di presidi

repressive (e represse)? Tra i titoli: Susanna (1939) e Il magnifico scherzo (1952) di Hawks, tutte le commedie di Cukor, tra i film americani; Maddalena: zero in condotta (1940) e Teresa Venerdì (1943) di Vittorio De Sica e tutte le commedie degli anni ’30 di Mattoli, Bragaglia e Neufeld tra i nostri. Quale differenza di stile, se si confronta questo genere di film con Un giorno in pretura o I soliti ignoti, in cui personaggi popolari come ladri, vagabondi, prostitute e poliziotti, si muovono in ambienti adeguati: vecchie e malmesse catapecchie, luna-park, orfanotrofi, aule di tribunali dall’aria spoglia e avvizzita, fiumiciattoli inquinati e maleodoranti come le “marrane”. E’ evidente in quest’attenzione al dato reale, non soltanto contemporaneo – la stessa attenzione c’è nella ricostruzione storica, mai fine a se stessa, delle commedie di Magni, Lattuada e Festa Campanile – il retaggio del neorealismo, di cui la commedia all’italiana, secondo i nostri critici, sarebbe un’involuzione - attraverso il passaggio del “neorealismo rosa” - mentre secondo i propri autori ne sarebbe la giusta evoluzione. “Neorealismo rosa” è una «formula un po’ dispregiativa»18 che venne coniata a proposito del film Due soldi di speranza di Renato Castellani che, nel 1952, aveva vinto il Festival di Cannes: «L’ammirazione degli stranieri per la componente folkloristica, e quello che ad alcuni parve, al solito, qualunquismo politico […] nocquero al film presso la critica impegnata , da cui fu accusato di aver privilegiato il privato sul sociale, corrompendo la funzione civile della scuola da cui proveniva»19. L’opera di Castellani stimolò una produzione (Don Camillo, Pane, amore e fantasia, Giovani mariti) che, per l’ambientazione bucolica e la leggerezza del racconto, non piaceva e dava discredito ai 18 19

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 73 Ivi, p. 74

5

suoi registi: si arrivò al caso limite «del fallimentare Giorni d’amore (1955) di Giuseppe De Santis, con Mastroianni e Marina Vlady: impacciata e fasulla farsa paesana per la quale il regista comunista aveva paticamente chiesto l’assoluzione al critico Guido Aristarco, con una lunga lettera aperta in cui rivendicava il diritto al “piacere di raccontare per il bisogno schietto e sincero di raccontare”»20. Nelle commedie all’italiana non ritroviamo la poesia del “documento” del neorealismo, ma personaggi concreti e reali si muovono in ambienti altrettanto concreti e reali: gli intrecci che essi sviluppano si allontanano fortemente dalla verità, ma si mantengono sempre nel rispetto assoluto della verosimiglianza. E’ il lato più gustoso di queste opere: il riconoscimento di personaggi e ambienti quotidiani, messi in burla e deformati, che consentono allo spettatore di ritrovarsi (o meglio di ritrovare gli altri) in essi. Il rischio di tali operazioni, ovviamente, è quello di rinchiudersi nella localizzazione di fatti e personaggi, fissandosi nel provincialismo e sprofondando, così, nel regionalismo, nel dialettalismo, cioè, in ultima analisi, nella macchietta e nel bozzetto. I personaggi si semplificano troppo, si fanno approssimativi, bastano pochi tratti (spesso ripetuti di film in film), qualche battuta per fissare uno stereotipo difficile da espellere nella storia del genere: il siciliano mafioso con coppola, lupara e baffi neri, il milanese laborioso, grasso e petulante; il giovane romano scansafatiche e millantatore, di buon cuore. Sono i retaggi dell’avanspettacolo che la commedia accoglie così volentieri tra i suoi tratti di stile e punteggiano il genere con una funzione liberatoria che supplisce alla mancanza di idee di uno sceneggiatore ed assicura la risata. Sono difetti tipici dei sottoprodotti della commedia all’italiana, che infarciscono le storie di battute e personaggi ripetitivi, ma vengono regolarmente superati nei migliori esemplari del genere. Ci sono abbastanza elementi adesso per tracciare una definizione della commedia all’italiana: un genere che mischia parti comiche e parti drammatiche, in cui confluiscono le istanze stilistiche del neorealismo e dell’avanspettacolo, tutto sotteso da un’ideologia borghese riformista e, insieme, un po’ compiacente, in cui ruoli decisvi hanno giocato quegli umoristi fuoriusciti dai giornali satirici pubblicati sotto il fascismo – come il Marc’Aurelio e il Bertoldo – che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno portato nelle opere il loro scetticismo corrosivo e un po’ cinico. Le coordinate della “commedia all’italiana” sono precise, ma le linee labili, facilmente confondibili con la restante produzione della commedia. Come Maccari, Scola, Zapponi, Age e Scarpelli, lo stesso Steno proveniva dalla redazione del Marc’Aurelio, ma nella sua carriera si è dedicato maggiormente alla realizzazione di film comici e commedie

20

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 77

6

sofisticate. L’analoga formazione umoristica è evidente soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi nelle sue commedie sofisticate degli anni ’80: figure ben radicate nel costume italiano, di un realismo molto fisico, al limite della macchietta, agiscono all’interno di intrecci astratti. Ugualmente, Pasquale Festa Campanile, dopo aver dato un indirizzo preciso alla commedia all’italiana, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, se ne è disinteressato, seguendo un’ispirazione personale, a volte troppo sfruttata dai produttori. La differenza tra la “commedia all’italiana” e quella italiana sta nella diversa importanza data, nell’intreccio, al rapporto dei personaggi con la società contemporanea, che nella prima è preponderante, nella seconda subordinata all’architettura del racconto. Ricondurre la commedia italiana soltanto alla “commedia all’italiana” sarebbe riduttivo. Non si valuterebbe con la giusta obiettività la commedia popolare, quella politica, quella sofisticata o neosofisticata. Si commetterebbe lo stesso errore in cui incorsero quei «critici italiani che snobbarono il fenomeno più importante del nostro cinema assieme al neorealismo: quelli che usavano ad ogni recensione il famigerato ritornello “pur nei limiti della commedia” (ma allora si potrebbe anche dire, a proposito dell’Avventura, dei Pugni in tasca, e di molti altri film di valore privi però di umorismo e leggerezza: “Pur nei limiti del film serio”)»21. Si analizzerebbe la produzione estranea alla “commedia all’italiana” con superficialità, si incorrerebbe nel rischio di schematizzare e di ricorrere a definizioni disonorevoli. Come quelle dello stesso Giacovelli che assegna, ad una parte della produzione comica degli anni 70, la definizione di «commedia del disimpegno»22, un «tentativo di restaurazione volto a riportare il cinema cosiddetto leggero alla sua leggerezza naturale, o innaturale che dir si voglia»23. In questo modo, con questi pregiudizi, non è più possibile analizzare questo tipo di film ricercandone le qualità peculiari: di ritmo, organizzazione narrativa, ambientazione, disegno dei personaggi. Infatti, sinora questo tipo di produzione è ancora da analizzare compiutamente. La commedia italiana, quindi, non si presenta compatta, ma, al contrario, ricca di varianti e di stili. C’è il critico della classe borghese (Risi), il cantore dei personaggi emarginati (Monicelli), il moralista indignato (Zampa). C’è chi è più attento all’aspetto tecnico (Comencini, Risi, Mogherini), chi cerca lo stile nel tratteggio psicologico dei personaggi (Monicelli, Zampa) e chi si appoggia alla recitazione degli attori (Rossi, Verdone). Ma tutti questi registi si sostengono sui copioni di sceneggiatori che hanno ricercato nella loro carriera un continuo perfezionamento del genere: sono Age & Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, Scola e Maccari, Sonego e Amidei, Castellano &

21

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.13 Ivi, p. 83 23 Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.128 22

7

Pipolo. Di norma lavorano in coppia ed alcuni si dedicano a far lievitare la carriera di un attore, diventando suoi sceneggiatori di fiducia (è il caso di Sonego con Sordi). In un panorama così vasto e cangiante, rientrano a pieno titolo anche le carriere di Steno, Salce e Festa Campanile, benché il loro interesse si sia rivolto anche ad altri generi: il poliziesco e lo storico, per esempio . La critica considera il loro cinema interessato soprattutto all’aspetto merceologico e non artistico della produzione. In effetti questi tre registi hanno goduto a lungo dei favori del pubblico, hanno girato film che sono stati più volte campioni d’incasso – tanto che Festa Campanile fu soprannominato “il regista miliardo” – ma vedere tutto questo come una colpa è profondamente ingiusto. In realtà questi tre registi sono dotati di una forte personalità - che ha i suoi fondamenti al di fuori delle esperienze cinematografiche - la quale ha consentito loro di muoversi nel cinema commerciale mantenendo sempre una propria distinzione stilistica. Steno proveniva dal Marc’Aurelio; Salce si era diplomato in regia all’Accademia di arte drammatica ed aveva interessi anche nel campo radiotelevisivo; Festa Campanile, redattore de La fiera letteraria, era un narratore di successo: tutti e tre portarono nel genere una grande professionalità nel costruire storie che fossero popolari ed insieme originali. Erano insomma perfetti esemplari di quel settore cinematografico comunemente definito «cinema medio»: una produzione di non grande ambizione, popolare ma non triviale, tecnicamente decorosa, modesta ma non mediocre, che sapesse utilizzare i talenti che aveva a propria disposizione (attoriali, ma anche tecnici, come scenografi ed operatori), proponendo una produzione economicamente vincente e, qualche volta, anche artisticamente persuasiva. Una produzione all’epoca assolutamente ignorata, ma di cui adesso si sente la mancanza. Anche questa inclusione è però restrittiva: Steno, Salce e Festa Campanile furono ben altro (o comunque andarono ben oltre) che dignitosi organizzatori di prodotti di successo. La loro efficienza tecnica nascondeva un talento non comune di acuti ed ironici osservatori dei comportamenti sociali: questo talento non fu affatto inespresso, ma si incarnò in alcune realizzazioni così nitide e precise da avere la valenza di modelli culturali. Dalla macchina da presa di Steno sono nati personaggi come Nando Moriconi e Piedone, da quella di Salce Fantozzi (oltre che i primi personaggi di costume di Ugo Tognazzi), da quella di Festa Campanile Rugantino. Pochissimi sono i registi italiani che possono vantarsi, come loro, di avere inciso in modo così rilevante sull’immaginario degli spettatori. Pochi sono i registi del cinema più commerciale che possono vantarsi, come loro, di avere imposto il proprio gusto al pubblico e non di essersene fatti influenzare. Il motivo della loro relativa sottovalutazione è allora da ricercare nella perifericità del loro lavoro nei confronti dei canoni riconosciuti del genere: i tre possono rientrare nei 8

confini della commedia italiana solo se diamo a questa l’accezione molto ampia sopra esplicitata. I film dei tre registi non appartengono, tranne poche eccezioni, al filone della “commedia all’italiana”. L’estro di Steno, infatti, è prevalentemente comico, incline alla stilizzazione farsesca, pungente nelle sue caricature, fortemente aggressivo e piuttosto scomposto, ma esclude quasi totalmente presenze drammatiche o scansioni satirico-politiche nei suoi snodi narrativi: le allusioni politiche sono, in Steno, sempre molto dirette, memori delle esperienze della rivista e dell’avanspettacolo. Quella di Salce, invece, è una comicità caustica, irridente e svagata, attenta a satireggiare epidermicamente i comportamenti umani, capace di delineare con un solo tratto un carattere e di farlo con precisione chirurgica, ma poco disposta ad avventurarsi, se non marginalmente, nei terreni dell’analisi di costume: la sua è una comicità fenomenologica, più che sociologica. D’altronde anche i suoi film più facilmente riconducibili al filone della “commedia all’italiana”, come la trilogia con Tognazzi, sono analisi di personaggi più che di strutture o istituzioni sociali. Quanto a Pasquale Festa Campanile, basterà riportare una sua dichiarazione, per comprendere la sua lucida posizione rispetto al genere: Le mie non sono commedie di costume, ma commedie. Cioè io non ho mai amato il contesto sociale italiano al punto di fare la commedia di costume. Proprio per questa ragione anzi, i miei film sono passati per film evasivi. E questo non è vero, io preferisco esprimermi attraverso paradossi piuttosto che attraverso la riproduzione della realtà.24

Una dichiarazione che può valere anche per Steno e Salce, soprattutto per quanto riguarda l’accusa, ricevuta dalla critica, di girare film evasivi. La sfortuna avuta dai tre è stata quella di vivere ed operare in un momento in cui la critica era più interessata agli aspetti sociali e politici delle opere che al loro reale valore tecnico. Le loro pellicole, anche nei momenti di minor vena, conservano una pulizia tecnica, un’ asciuttezza espressiva ammirevole, degna di chi, lavorando esplicitamente per il successo popolare, ha sempre avuto rispetto del pubblico. Una dichiarazione di Pasquale Festa Campanile è, ancora una volta, esemplare e riassuntiva della condizione dei tre: Vorrei che fosse riconosciuto che il mio è un cinema professionale che merita, se non altro, un maggiore rispetto [...] Mi rimproverano di fare un cinema troppo popolare, ma sono io che scelgo di farlo: un cinema con un linguaggio molto semplice, lo stesso che uso in letteratura, che arrivi immediatamente alla gente25.

Naturalmente, come detto, c’è molto più che professionalità nelle opere dei tre: l’inveterata e ingiustificata ottusità critica nei loro confronti, non poteva non provocare qualche giustificabile dubbio sul proprio lavoro. 24 25

Goffredo Fofi-Franca Faldini, Cinema italiano 1970-1984, Milano, Feltrinelli, 1984, p.164 Maria Pia Fusco, La Repubblica, 26.2.1986

9

Ma i dubbi erano superati con grande ironia. In uno dei suoi film meno visti, Colpo di stato, Luciano Salce mette in scena se stesso, nei panni molto autoironici del regista di successo, a cui viene rubato un prezioso dipinto. Intervistato, dichiarava, con sarcasmo a doppio taglio, che trovava molto strano che ci fosse gente disposta ad interessarsi di lui. Un’ironia così sottile, capace di acquistare tanta allusività con un minimo di sforzo espressivo, è proprio la testimonianza diretta del reale talento comico di questi registi. Per trovare equivalenti registi nel nostro cinema, capaci di sintonizzarsi sugli umori popolari con uguale facilità, probabilmente, bisognerà risalire ai nomi di Mattoli, Bragaglia e Mastrocinque, anche loro bravi nel creare storie e personaggi, prevalentemente comici, capaci di insediarsi agilmente nell’immaginario collettivo. La loro diretta influenza sulle esperienze cinematografiche di Steno e Salce avvalora questa tesi. Descritti finora come un corpo unico, sarebbe un errore, però, credere che i tre registi avessero uno stile quasi coincidente. La loro equiparazione vale fintanto che ci si mantiene sulle linee generali: una loro eccentricità rispetto alla linea più frequentata della commedia italiana, ma comunque una piena appartenenza al genere; la capacità di esprimere sentimenti popolari ed il conseguente successo di pubblico; la stessa bravura nel saper utilizzare, plasmare e talvolta creare gli attori; la stessa conoscenza approfondita della tecnica cinematografica che consentiva loro un’utilizzazione lineare dei materiali espressivi: il loro linguaggio è sempre molto semplice, ma certo non convenzionale,

semplicemente

essenziale.

Le

uguaglianze

finiscono

qui.

La

loro

concezione del comico è profondamente diversa. Steno e Salce sono più attenti all’osservazione sarcastica dei personaggi; Festa Campanile maggiormente interessato ad uno scavo psicologico. Steno e Salce costruiscono le loro storie sui personaggi protagonisti (e sugli attori che li interpretano) e sui loro comportamenti, sovente facendo di un personaggio il mattatore assoluto del film; Festa Campanile costruisce trame a più personaggi, intrecciando le storie a mosaico. Steno e Salce preferiscono infarcire la trama del film di gag e macchiette, l’intreccio è spesso piuttosto labile, pretesto per mostrare i comportamenti dei personaggi, lo sviluppo narrativo è lineare, una situazione si succede all’altra; Festa Campanile costruisce intrecci di ferro, manipola la scansione dell’intreccio su diversi piani narrativi e la sviluppa non linearmente, ma, frequentemente, per contrappunto. Già a una prima analisi sono evidenti le differenze nella costruzione dei film da parte di chi proviene dal mondo dello spettacolo e di chi, invece, da quello letterario. Ma anche tra Steno e Salce c’è qualche differenza stilistica: il primo per esempio è più attento all’organizzazione del meccanismo comico, alla tecnica di costruzione di una gag; mentre il secondo privilegia l’analisi, la descrizione: i suoi film sono quasi del tutto privi di spunti propriamente narrativi e quando ci sono non sono le parti più felici. 10

Ma per essere più chiari e persuasivi bisognerà scendere nel dettaglio ed analizzare approfonditamente il “corpus” dei tre registi, dedicando ad ognuno una parte del libro e rintracciando,

all’interno

delle

rispettive

carriere,

le

coordinate

stilistiche.

11

PARTE PRIMA. STENO Capitolo 1. Una vita dedicata alla comicità. Il 19-1-1917 nasce a Roma, dal giornalista Alberto e Giulia Boggio, sposatisi due anni prima in Argentina, Stefano Vanzina, che di lì a vent’anni sarà conosciuto, nel mondo dello spettacolo, con il nome d’arte di Steno. Scrivere su Steno e di Steno comporta, obbligatoriamente,

un

interrogativo

sul

perché

di

questo

pseudonimo,

usato

pervicacemente in cinquant’anni di carriera e mai lasciato, se non in un paio di significative eccezioni. A una diretta domanda di chi scrive, sui motivi che portarono Vanzina a camuffare la sua identità, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, stretto collaboratore di Steno negli ultimi vent’anni di carriera, risponde facendo riferimento al carattere

oggettivamente

schivo

e

pudico

dell’uomo,

che

ritiene

«una persona

eccezionalmente corretta: l’unico vero signore del nostro cinema». Nobilmente misurato lo deve essere sempre stato, Steno, se per tutta la carriera ha evitato di mostrare il proprio nome in un mondo esibizionista come il nostro: un evento unico nell’ambiente del cinema, in cui i nomi dei grandi autori occupano nei cartelloni pubblicitari il massimo dello spazio consentito, spesso ripetuti più volte. Lo pseudonimo non ha sicuramente la funzione di mascherare imbarazzi: Steno era fiero di quello che aveva compiuto in vita. Una fierezza mitigata da ironia, esplicita nella frase che spesso ripeteva, rispondendo ai critici che lo contestavano, a volte ferocemente: «L’unico progetto che non sono riuscito a realizzare è un film dalla Recherche (sic) di Proust: lo dicono tutti»1. Vanzina adoperò lo pseudonimo quando cominciò a scrivere sul Marc’Aurelio e, soprattutto a disegnare vignette: è noto come i vignettisti preferiscano firmare i propri lavori abbreviando il nome o utilizzando una sigla fittizia. E’ proprio quello che fece Steno e il suo pseudonimo riecheggiava, tra l’altro, quello di un altro celebre umorista e disegnatore, Sergio Tofano, che si firmava come Sto. Come vignettista, Steno era un disegnatore dal tratto puntuto ed angolare (sul modello del futurista Garretto): fu così, per sua stessa ammissione2, che esercitò le prime

tecniche

di

costruzione

di

un’inquadratura. Famosa fu

la sua serie

sul

“Raccomandato di ferro”, in cui satireggiava il malcostume del mondo dello spettacolo e i triti luoghi comuni delle conversazioni. Ma ben presto, Vanzina comprese che la sua strada era un’altra e cominciò a scrivere eleganti 1

articoli

umoristici.

La

sua

satira

era

mirata

verso

i

luoghi

comuni

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit. p.179

1

comportamentistici e culturali, intrisa di «battute fulminanti in uno stile caustico tipico di un certo caffè letterario ormai scomparso nell’epoca delle hamburgherie»3 che ambiva ad avvicinare l’ironia di Oscar Wilde. La frase puntava all’effetto comico leggero, mai greve, tramite l’accostamento sintattico degli elementi più incongrui. Gli articoli ebbero un notevole successo e, a meno di vent’anni, Steno era già uno degli intellettuali più importanti del tempo. Il suo ambiente erano i caffè letterari, quelli in cui si ritrovavano letterati borghesi ostili alla

massificazione sociale, le cui discussioni volgevano sulla qualità della

produzione letteraria, con atteggiamenti snob, il cui distacco dalla quotidianità rasentava il disprezzo; era il mondo dei Baldini, Pannunzio, Savinio, Longanesi, Marchesi, Flaiano, Soldati, Freda. Lo spirito e la verve intellettuale del ragazzo erano apprezzati soprattutto da Leo Longanesi, ma c’era un rapporto di grande stima anche con Zavattini. Se ne trova conferma nel ritratto che lo stesso Longanesi diede di lui nel diario di guerra Parliamo dell’elefante4, in cui l’intellettuale romano rievocò la sua fuga da Roma verso il meridione, occupato dagli Alleati, accompagnato da Riccardo Freda, Enzo Fiermonte e Steno. La figura di quest’ultimo è vispa, aggressiva: un intellettuale dalla lingua acuminata, ostile alla cultura fascista e, particolarmente, allo “Strapaese” di Malaparte. Nel Marc’Aurelio, Steno, nonostante la giovane età, aveva mansioni di vero e proprio direttore culturale. Fu lui a dare fiducia nel febbraio del 1939 a un giovane giunto dalla provincia romagnola fino a Roma, alla sede del giornale, in via Regina Elena (ora via Barberini): Federico Fellini. E fu sempre il giovane umorista ad etichettare con disprezzo, con la locuzione di “telefoni bianchi”, quella produzione comica italiana, artefatta e spensierata, degli anni ’30 che, in un’ambientazione più asettica possibile, di norma in Ungheria (nazione da cui proveniva la maggior parte delle commedie teatrali poi trasposte in film), metteva in scena vicende intricate, schermaglie amorose, moralistiche e correntemente prive di riferimenti politici e d’attualità, ornate da un dialogo elegante e da lussuose scenografie, inadeguate, nel loro sfarzo, alle vicende piccolo-borghesi cui facevano da sfondo: «I film italiani mi facevano schifo, i “telefoni bianchi” non mi piacevano per niente, anche perché c’era quel senso autarchico, si doveva sempre parlare dell’Ungheria, mai dell’Italia, e io non potevo accettare queste cose»5.

2

Steno dichiarò in un’intervista ad Angelo Olivieri: «Le battute non erano altro che progetti di vignette. Il fatto di doverle visualizzare già era un’operazione cinematografica non trascurabile.» (Angelo Olivieri, L’imperatore in platea, Dedalo, Bari, 1984, p. 9) 3 Tullio Kezich, Cercare due, tre, molti Flaiano, in Steno, Sotto le stelle del ’44, Sellerio, Palermo, 1994, p. 194 4 Leo Longanesi, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario, Longanesi, Milano, 1947. Su questo argomento cfr. anche Mario Soldati, Fuga in Italia, Longanesi, Milano, 1947. 5 Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p.8 2

Quando nello stesso 1939, il regista Mario Mattoli convocò numerosi umoristi del Marc’Aurelio e del Bertoldo (Metz, Marchesi, Guareschi, Mosca) e, tra essi, Steno, per scrivere un film interamente costruito su gag, ottenne un risultato estraneo alla logica corrente della produzione contemporanea. Imputato, alzatevi!, questo il titolo del film che costituì il lancio cinematografico del comico Erminio Macario, era una storia dal sapore surreale, in cui erano piuttosto evidenti anche gli accenni ad una satira politica che costrinse gli sceneggiatori a spostare l’ambientazione in Francia. Il successo della pellicola, ancora oggi molto valida – ha introdotto «un tipo d’umorismo che sa unire una mimica alla Harry Langdon con un uso della parola che gioca sui registri dell’assurdo e del surreale»6 ed è stato, come ricorda lo stesso Steno, per la sua comicità stralunata, «il precursore di Hellzapoppin»7 di Henry C.Potter convinse Mattoli ad avvalersi stabilmente dell’aiuto di Steno come sceneggiatore. A ventidue anni, Vanzina esordisce nell’industria cinematografica, manifestando un interesse precoce: «Per me […] il cinema è sempre stata la passione numero uno. Sì, facevo l’umorista ma in realtà volevo fare il cinema. Mi ero pure iscritto al centro sperimentale – a diciassette anni, nda – e devo dire che sono stato uno dei primi cinefili in Italia, il cineclub allora era uno spazio d’elite»8. Durante i dieci anni della collaborazione con Mattoli , Steno si dedicò soprattutto al genere comico: scrisse gag ancora per Macario ed ebbe l’occasione, scrivendo la sceneggiatura de I due orfanelli (1947), di fare il secondo decisivo incontro della sua carriera, quello con Totò, cui si legò, con indissolubile amicizia, fino alla morte dell’attore napoletano. Le sceneggiature che scriveva, sovente con gli altri umoristi dei giornali satirici (i più stretti collaboratori erano Vittorio Metz e Marcello Marchesi), erano molto professionali: tentava la via di una comicità nostrana – con toni tra la farsa e la comica finale – senza perdere di vista l’efficienza americana nella rifinitura del gag. Il livello delle trovate non era sempre eccellente – la produzione avviatasi era sterminata e le cadute di tono fisiologiche - ma cominciava a rivelarsi un gusto originalmente italiano per la comicità tra il grottesco e il surreale. Tanto che l’apporto degli sceneggiatori provenienti dal Marc’Aurelio può considerarsi decisivo per la nascita della commedia all’italiana, non foss’altro per l’impegno e la professionalità che immisero nel settore. Nel 1946, grazie al regista Riccardo Freda, Steno fece il terzo importante incontro della sua vita: ad affiancarlo, per la stesura della sceneggiatura di Aquila nera, Freda chiamò Mario Monicelli. Con lui Steno formò una coppia armonica di cineasti. Furono sceneggiatori di film di successo – per Freda scrissero ancora Il cavaliere misterioso 6

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 2, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 262 Francesco Savio, Cinecittà anni ’30, Bulzoni, Roma, 1979, p.1062 8 Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p.7 7

3

(1948), dinamico film d’avventura, punto di partenza per un mai realizzato «progetto per il rinnovamento del cinema italiano molto diverso da quello del neorealismo»9; per Borghesio, Come persi la guerra (1947), un prototipo della commedia all’italiana che fece rinascere

la

carriera

cinematografica

di

Macario



rappresentando,

afferma

lo

sceneggiatore Franco Solinas, «la nave scuola di mezzo cinema italiano. Dovevano fare sette-otto sceneggiature all’anno, e si circondavano di negri, ma con tutta chiarezza di rapporti, collaborando a certi film soprattutto comici. Erano una specie d’industria, allora, di lavoro in serie»10. Ma, soprattutto, come registi, trovarono una corrispondenza che rese possibile una regia in coppia, ricevendo l’ammirazione di Mario Soldati: «Non è possibile fare un film in due. Non è possibile. Steno e Monicelli ci sono riusciti, non so come abbiano fatto»11. L’incontro dell’umorista romano, con la sua scettica ironia, e il cineasta toscano, con il suo aggressivo sarcasmo, fornì un amalgama così perfetto da poter analizzare il corpus dei film girati in coppia come se fossero firmati da un unico autore. Ad unirli c’era una forte visione ironico-critica della realtà, non disgiunta da un interesse molto sentito per le fasce sociali più deboli, osservate nei loro comportamenti particolari di piccola gente in difficoltà, ma ricca di risorse e solidarietà. Quando i due esordirono alla regia nel 1949 con Al diavolo la celebrità, mostrarono una professionalità ed un’inventiva che permetteva loro la frequentazione del neorealismo (Guardie e ladri, Vita da cani), del cinema comico (Totò cerca casa, E’ arrivato il cavaliere) e di mostrare interesse verso il grottesco di ispirazione letteraria (Totò e i re di Roma) e finanche il fantastico (Al diavolo la celebrità). Le carriere dei due cineasti si divisero nel 1952: per questioni contrattuali firmarono in coppia ancora due film, Le infedeli e Totò le donne, ma in realtà si spartirono le regie: Monicelli diresse Le infedeli e Steno fece l’esordio in prima persona con Totò e le donne, dedicandosi subito alla produzione comica. La sua attività fu lucida ed appassionata: il temperamento scettico gli permetteva di avere il giusto distacco dalla materia trattata, così come l’autentico amore per il cinema gli consentì approcci originali a generi diversi. Nell’opera

di

Steno,

si

possono

distinguere

quattro

periodi

differenti,

che

schematizzando , coincidono con i quattro decenni del secondo dopoguerra in cui fu attivo il regista. Una periodizzazione che deriva soprattutto dall’attenzione

rivolta dal

regista verso le mode, i gusti e l’evoluzione sociale della popolazione italiana: ogni mutamento di stile cinematografico coincide con un mutamento dello stile di vita nazionale. 9

Stefano Della Casa, Riccardo Freda, Bulzoni, Roma, 1999, p. 32 Franca Faldini, Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrinelli, Roma, 1981, p.341 10

4

Il primo periodo, quello degli anni ’50, è caratterizzato da una precisa coerenza stilistica, che potremmo definire realistica, tale da formare un blocco compatto di opere: una predilezione per una comicità semplice, popolare, direttamente ispirata alla rivista ed all’avanspettacolo12 . In questo periodo il regista si muove nell’ambito della produzione comica, talvolta preannunciando una commedia all’italiana che, ufficialmente, ancora non esiste (Un giorno in pretura, 1954), talaltra cercando nuove vie, su di un terreno qualitativamente

letterario

(L’uomo,la

bestia

e

la

virtù,

1953)

o

tecnicamente

sperimentale, dirigendo il primo film a colori (Totò a colori, 1952). Concedendosi una sola, parziale, eccezione: Le avventure e gli amori di Giacomo Casanova (1954), in cui riprende un argomento già affrontato ne Il cavaliere misterioso di Freda, concedendo all’attore Gabriele Ferzetti una scattante interpretazione giovanile ed ottenendo risultati di buona eleganza figurativa e compositiva. Annullati dalle incredibili vicende censorie del film13, che venne ritenuto scandaloso dall’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro e tolto dalle sale cinematografiche. «Fu massacrato dalla censura democristiana»14 che lo mutilò di scene e dialoghi (venne tagliata, tra le altre, una sequenza che mostrava il letto di un adultera) e lo ripresentò in sala, dopo due anni, con un titolo diverso: Le avventure di Giacomo Casanova. Mio figlio Nerone (1956) rappresenta un fondamentale punto di non ritorno tra la prima e la seconda parte della carriera di Steno. Esponente di un genere – il film storico – molto praticato dalla nostra cinematografia ai tempi del muto (Cabiria, 1913, di Pastrone, è l’esponente più famoso di una produzione molto estesa, che influenzò tutto il cinema contemporaneo, ad iniziare dall’americano Griffith), ma, in tempi di neorealismo, ormai abbandonato, Mio figlio Nerone illumina, nel particolare, una tendenza storica generale. La superproduzione di Franco Cristaldi - che annovera la fotografia di Mario Bava, il montaggio di Mario Serandrei, le scenografie di Piero Filippone e la partecipazione di due dive straniere, rispettivamente all’inizio ed alla fine di una luminosa carriera, Brigitte Bardot e Gloria Swanson – uscita nell’anno 1956, l’anno di maggiore crisi del cinema italiano, partecipa della fine del cinema neorealista e costituisce il prototipo di un fortunato genere popolare. La conclusione del cinema neorealista avvenne contemporaneamente a livello autoriale e popolare (anche il cinema popolare partecipò del neorealismo: il melodramma di

11

Francesco Savio, Cinecittà…, cit., p. 1036 Nel 1944 il regista aveva scritto con Renato Castellani una rivista satirica, Il suo cavallo, con Paolo Stoppa, Sergio Tofano, Paola Borboni, Carlo Campanini e Vittorio Caprioli. 13 La persecuzione censoria del film di Steno è riportata ampiamente in Tatti Sanguineti, Italiataglia, Transeuropa, Ancona, 1999 14 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini.Dizionario dei film 1999, Zanichelli, Bologna, 1998, p. 115 5 12

Matarazzo derivò «dal neorealismo la cura per la verisimiglianza ambientale»15). Nel 1957 usciranno I sogni nel cassetto di Renato Castellani, Il grido di Michelangelo Antonioni, Le notti bianche di Luchino Visconti, Le notti di Cabiria di Federico Fellini, i “film della crisi”, secondo una celebre e fortunata definizione di Renzo Renzi, che consolidavano «la stagione di quello che sarebbe stato chiamato cinema d’autore»16. Mentre il 1958 è l’anno delle Fatiche di Ercole di Piero Francisci che, decretando la fine del melodramma matarazziano, inaugurò il genere mitologico, ottenne un incredibile successo di pubblico e, secondo Mario Bava, «salvò il cinema italiano»17. Anche nel cinema di Steno avviene la stessa frattura. Il blocco di film degli anni ‘60 comprende una nutrita serie di farse stilizzate: il realismo viene quasi completamente prosciugato nell’attenzione esclusiva al funzionamento del puro meccanismo comico. Gli intrecci di queste pellicole, avulsi da qualunque critica sociale, rispecchiano l’euforia edonistica della popolazione italiana durante lo sviluppo economico: il pubblico voleva divertirsi e non riflettere sui lati più oscuri del “boom” e Steno, che cerca il successo commerciale, vi si adegua perfettamente. Negli anni ’70, con La polizia ringrazia (1972), c’è una nuova svolta: una produzione maggiormente attenta all’analisi sociale ed ai risvolti psicologici dei personaggi, in cui per la prima volta Steno si dedica alla creazione di vere e proprie commedie all’italiana. Sono gli anni del terrorismo e del dilagare della “piccola delinquenza” (quella dei furti, degli scippi, degli omicidi accidentali): nel 1972 venne assassinato il commissario Calabresi, nel 1974 avvenne la strage dell’Italicus, nel 1975 fu assassinto Pier Paolo Pasolini, nel 1978

venne

rapito

e

assassinato

dalle

Brigate

Rosse

Aldo

Moro,

nel

1980

un’organizzazione neofascista compì l’attentato alla stazione di Bologna. Il maggior impegno sociale è comune a tutta la cinematografia italiana: un’eredità delle istanze politiche del ’68 ed una reazione alla criminalità dilagante, come ricorda Lino Miccichè: Molti fra gli autori del cinema medio e medio-alto anni ’60 proseguono lungo le prime stagioni degli anni ’70, praticando, sia nell’ambito della “commedia” che nel cosiddetto genere “drammatico”, un vistoso rinnovamento contenutistico, con trame e personaggi impregnati di eco problematiche civili, sociali, storiche, politiche: è il cosiddetto “cinema civile” (o, come qualcuno scrisse, all’epoca, di “consumo impegnato”) che non a caso viene all’indomani del ’68, che non sempre si limita a una semplice sostituzione degli ingredienti, che dà talora alta testimonianza delle tensioni del momento. Abbiamo già trovato traccia del fenomeno nelle filmografie dell’epoca di Dino Risi […] e perfino di Steno (La polizia ringrazia, 1972, firmato con il vero nome di Stefano Vanzina, il migliore della trentina di film diretti da Steno dal ’70 in poi, e forse anche dell’abbondante quarantina che li precede: e comunque, nonostante la esplicità ambiguità politicaideologica, un film notevole e molto sintomatico).18 15

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.556 Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Bari, 1994, p.108 17 AA.VV., La città del cinema, Napoleone, Roma, 1981, p.85 18 Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p. 346 18 Ivi, p. 349 16

6

[…] Da notare che questa tendenza fortemente politicizzata di molti film coincide, non casualmente, con il periodo delle grandi stragi a matrice “nera” (complessivamente: 47 morti e 293 feriti), che si verificano nel paese tra il 1969 (12 dicembre: piazza Fontana) e il 1974 (4 agosto, attentato al treno Italicus), costituendo dunque un dato oggettivo di positiva reazione democratica (di fronte alle trame di “destra) del cinema italiano.19

Negli anni ’80, Steno ritorna ad una comicità di tipo disimpegnato, con una ripresa letterale, addirittura, dei moduli narrativi dei precedentemente osteggiati “telefoni bianchi”, inseriti in un ambiente molto provinciale: non è un caso che la società stia vivendo un periodo di apparente felicità economica, simile a quello degli anni ’60. Nella sua multiforme efficienza, il regista, trova in questi anni anche il tempo di dedicarsi alla produzione televisiva: L’ombra nera del Vesuvio (1985) non ha alcun proposito di sperimentazione linguistica, ma con una grande carica narrativa ed ideologica: lo sceneggiato di Steno scatenerà un putiferio di polemiche ed una relativa interrogazione parlamentare. La professionalità sembra aprire a Steno una nuova fortunata stagione produttiva, ora che il successo cinematografico sembra affievolito: un po’ quello che accadde al suo amico Alessandro Blasetti che, settantenne, si dedicò alla televisione. Ma proprio mentre sta lavorando ad un serial televisivo con Bud Spencer (Big man, in cui riprende il prototipo di Piedone), il pomeriggio di sabato 12-3-1988 viene improvvisamente colto da malore. Morirà per ictus cerebrale il mattino del giorno dopo. Settantadue film, di cui sette diretti in collaborazione (sei con Monicelli ed uno con Sergio Corbucci), almeno un centinaio di sceneggiature, due film televisivi, una serie di sei telefilm sono il risultato dei suoi quasi cinquant’anni di attività. Scrivere di Steno e su Steno equivale a scrivere sul cinema italiano: il suo apporto, sia su un livello strettamente cinematografico (per la regia, la sceneggiatura e la critica iniziale sulle pagine del Marc’Aurelio), sia su quello del costume, è stato importante nella storia della nostra cultura novecentesca. Eppure l’approccio della critica nei suoi confronti è ancora superficiale. La voce del Dizionario universale del cinema dedicata a Steno, curata da Guido Di Falco, lo presenta come un «regista del cinema di confezione e di consumo, di intonazione leggera, di sicura professionalità [...] (dotato di) un umorismo facile e un poco plateale, privo di raffinatezze e lontano da ogni doppiosenso o metafora»20. In questa analisi Guido Di Falco ignora l’importanza de La polizia ringrazia – che tratta insieme agli altri film comici: «(Steno) guarda ai nuovi attori emergenti – con Mariangela Melato gira La polizia ringrazia (1972) e La poliziotta (1974) – porta alla ribalta Enrico Montesano e Renato

20

Guido Di Falco, Steno, in Fernaldo Di Gianmatteo, Nuovo Dizionario universale del cinema, Editori Riuniti, Roma, 1996, p.1274

7

Pozzetto»21 – e sorvola perciò sul punto di rottura provocato da questo film nella carriera del

21

regista.

Guido Di Falco, ibidem. 8

Capitolo 2. Una comicità solo apparentemente realistica L’attività produttiva di Steno negli anni ’50 la possiamo ricondurre, come detto, ad un tipo di commedia realistica chiaramente discendente dal neorealismo. Considerando che «vi sono più poetiche e progetti che si muovono, per qualche tempo, entro lo stesso campo significante»1, Gian Piero Brunetta tenta un riepilogo degli elementi costitutivi della poetica neorealista: 1) Un tentativo di controllo materiale del film e di invenzione di tutte le condizioni produttive […] capace di rendere il più possibile diretta sia la scrittura cinematografuica che la comunicazione tra opera e spettatore. Nel momento in cui vengono a mancare i processi di finzione e di mediazione tra il lavoro della macchina da presa e la realtà, è la realtà stessa a riaffermare potenzialmente il proprio potere sull’immagine. 2) Rientra nel campo visivo della macchina da presa tutto ciò che il fascismo aveva tentato di occultare. 3) Sono promessi a soggetti centrali della narrazione personaggi e ambienti finora esclusi dalla scena cinematografica. 4) Si rinuncia in parte alle regole della sintassi narrativa tradizionale e si lascia che la narrazione per via di una drammaticità naturale, altamente probabile e verisimile, e d’altra parte ci si richiama alla tradizione narrativa del romanzo ottocentesco, senza voler del tutto recidere il cordone ombelicale con questa tradizione (“la trasgressione neorealista non elimina completamente la norma, ma le si oppone all’interno di una coesistenza irrisolta”, è stato giustamente osservato). 5) Si stabilisce una comunicazione diretta e interpersonale tra i protagonisti e il pubblico sia descrivendo situazioni comuni, sia ricorrendo a moduli linguistici e gestuali iscritti nel più corrente sistema di comunicazione. 6) Si ritrova un rapporto visivo con la realtà, di pieno rispetto per ambienti, cose e personaggi: al centro della visione non ci sono più personaggi convenzionali, ma, in molti casi, sono le stesse cose, gli ambienti tradizionalmente facenti parte dello sfondo, a essere promossi a testimoni, protagonisti di storia, soggetti della narrazione. Non esiste più sfondo: tutto ciò che entra nell’immagine è in grado di raccontare e di trasmettere una quantità di informazioni impensabile nella produzione cinematografica precedente. 7) Ci si fa interpreti della nascita di un italiano nuovo, prodotto di molte contraddizioni, senza verità o incertezze, che guarda al futuro in modo tutt’altro che sicuro, e che per il momento ha saputo riscattarsi dalla sua adesione al fascismo attraverso la sofferenza della guerra. 8) Non si vuole, in fondo, offrire alcun messaggio troppo facile né servirsi del cinema per saldare immediatamente i conti col passato (solo in un secondo tempo si comincia ad assoggettare il materiale visivo a un messaggio precostituito). […]2

Alle

caratteristiche

formali

del

neorealismo

s’ispirarono

anche

le

commedie,

nonostante talvolta l’ideologia che le sottintendeva fosse differente: Sulle ceneri del neorealismo si sviluppò poco per volta la commedia di costume: tenendone peraltro ben presenti certi insegnamenti: l’attenzione quasi morbosa alla realtà, l’uso del dialetto, l’estrema disinvoltura nell’alternare e fondere comico e tragico, la capacità di sintetizzare in una battuta o in una macchietta un’intera situazione sociale. La commedia all’italiana non rappresenterà un tradimento, ma un’evoluzione spettacolare del neorealismo; d’altronde se si voleva educare il grande pubblico, bisognava educarlo coi film che andava a vedere, non con quelli che non andava a vedere (quanti videro La terra trema o Umberto D.?). Ha ragione Marco Ferreri quando afferma che «la commedia è il neorealismo riveduto e corretto per mandare la gente al cinema».3

1 2

3

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., p. 345 Ivi, p. 365-6-7 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.22

1

L’umorismo e il neorealismo erano spesso combinati insieme, come ricorda Masolino D’Amico: […] Il cinema italiano della rinascita […] conquistò una sua identità anche, e forse soprattutto, grazie all’aver giocato fin dall’inizio la carta dell’umorismo; e di un umorismo aderente ai fatti, nato dalla cronaca, in una parola, verosimile, molto diverso da quello “surreale”, stralunato, fantastico, della commedia più o meno sentimentale “fascista”. Questo umorismo compare talvolta come pietanza principale, e di rado manca almeno come contorno; ha grande importanza nell’economia di tutti i migliori film neorealisti […]. Un minuto prima dell’immortale sequenza in cui le SS falciano con una raffica di mitra Anna Magnani lanciata all’inseguimento della camionetta che si porta via il suo uomo, il prete Aldo Fabrizi ha trasformato a fin di bene un malato scorbutico in finto moribondo assestandogli una sonora padellata in testa: in altre parole c’è in Roma città aperta un passaggio dal comico al tragico degno del teatro elisabettiano.4

Tutti i film girati da Steno tra il 1949 e il 1957 (cioè tra Totò cerca casa e Susanna tutta panna) presentano queste caratteristiche: una disposizione narrativa non lineare (la struttura più utilizzata dal regista è quella episodica, presente, tra gli altri, in Vita da cani, Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Piccola posta), un uso frequente del dialetto (soprattutto romanesco), e, innanzi tutto, un’attenzione molto pronunciata verso gli ambienti popolari, anche

in

quelle

pellicole

che,

in potenza,

sembrerebbero

estranee al neorealismo. Un film come L’uomo, la bestia e la virtù (1953), ad esempio, prende la farsa grottesca di Pirandello e, rifiutandone l’astrazione di un’ambientazione non specificata, la inserisce in una cornice ambientale molto fisica, come quella della costiera amalfitana, trasformando la parabola pirandelliana in una pochade popolaresca. L’ambientazione di queste storie è frequentemente in esterni: non solo perché, in questo modo, i costi di produzione si abbassavano, ma anche per poter cogliere con maggior naturalezza gli accadimenti e le reazioni della realtà quotidiana. In mezzo allo svolgimento di intrecci costruiti a tavolino, in queste opere entra improvvisamente la vita reale: sta all’occhio del regista cogliere questi momenti e saperli amalgamare con la finzione delle storie. Si prenda ad esempio la sequenza forse più famosa di Guardie e ladri (1951): l’inseguimento tra il ladro Totò e la guardia Aldo Fabrizi. La struttura di base è ancora quella dell’avanspettacolo: il gioco a due tra Totò e Fabrizi è «modulato sui toni e sui ritmi tradizionali della comicità rivistaiola»5, con tutti i duetti, i battibecchi, gli scambi di battute del caso. La regia, però, fa emergere «un’attenzione maggiore del solito per i personaggi. Lo sketch comico, cioè, rivela uno spessore inedito»6.

Prima di tutto i

personaggi in scena non sono due, ma quattro: a rincorrere il ladro ci sono anche il tassista, ignaro complice, ed il derubato. I protagonisti sono presentati nella loro dimessa quotidianità: il ladro è un delinquente di piccolo cabotaggio - uno spacciatore di monete 4

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., pp.36-7 Aldo Viganò, Commedia italiana…, cit., p. 43 6 Ibidem. 5

2

false, un "pataccaro”, come si dice a Roma e nel film: «con una recitazione semplice e al tempo stesso piena di fantasia, Totò regge da maestro un personaggio triste, con gli abiti lisi e la barba di tre giorni, un personaggio tipico delle cronache italiane e dei banconi di pretura»7 - la guardia è un agente maturo e grasso, con sulle spalle un’anzianità di servizio trentennale. E’ l’americano, tuttavia, l’elemento che

ci

porta in

pieno

neorealismo, sul piano narrativo e su quello spettacolare. Il personaggio, infatti, è una grande personalità americana, giunta in Italia a portare sostentamenti (pacchi di viveri) che allevieranno, temporaneamente, le tribolazioni del dopoguerra allo strato di popolazione più indigente: un rappresentante di quell’ «umanità che ha poco lavoro ma molta ostentazione di beneficenza»8. Ad interpretarlo è stato chiamato Bill Tubbs, uno dei protagonisti, nelle vesti di un sacerdote protestante, dell’episodio “emiliano” di Paisà (1947) di Rossellini. La lunga fuga si svolge tutta “en plen air”: partiti dal centro di Roma, procedendo, i tre si trovano a correre in aperta campagna. Lo stesso sguardo della regia, prima stretto sui personaggi, ora si allarga in campi lunghi che permettono al paesaggio di entrare con prepotenza nell’inquadratura: la strada sterrata e infangata, i campi brulli e soleggiati, una fattoria, con un pozzo, un pollaio e un feroce cane da guardia. Non è un’ambientazione oleografica, tutti gli elementi paesaggistici concorrono all’azione: sul terreno scivoloso cade la goffa guardia, che deve anche difendersi dal cane, aizzato dal ladro; il pozzo delimita il territorio, spartendo i raggi d’azione dei protagonisti. Durante l’inseguimento, i quattro si imbattono in un gruppo di ragazzi che gioca a pallone e si confondono con essi. L’inquadratura della partita di pallone è un’immagine neorealista: i ragazzi, con i vestiti sudici e infangati, si rincorrono affannosamente, ma con alacrità, inseguendo il pallone che rotola su un terreno fangoso, brullo, lontano dal centro abitato. Ma non è un’inquadratura interlocutoria, fruibile come testimonianza del realismo del racconto. La regia la inserisce nello sviluppo dell’azione: Fabrizi, intralciato dai ragazzi che giocano e costituiscono un ostacolo inconsapevole, estrae il fischietto e lancia un sibilo irritato, per richiamare all’ordine il ladro e i ragazzi che impediscono la cattura del reprobo; i giocatori, ignari, hanno compreso tutt’altro: hanno confuso il fischio della guardia con quello dell’arbitro e si chiedono, sorpresi, che infrazione è stata commessa. E’ il punto centrale della sequenza ed ha una sotterranea valenza metaforica: la finzione (l’inseguimento) irrompe nella realtà (la partità) e se ne appropria. Tutti gli

7

Lamberto Sechi, La settimana Incom Illustrata, Milano, 23.12.1951, in Orio Caldiron,Totò, Gremese, Roma, 1980, p.120 8 Corrado Alvaro, Il Mondo, IV, 1, Roma, 5.1.1952, in Orio Caldiron, Totò, cit., p.122

3

elementi

di

verità

presenti

in

Guardie

e

ladri,

pur

rilevanti,

sono

funzionali

all’organizzazione narrativa. Volendo rendere più manifesta la differenza che corre tra neorealismo e commedia all’italiana, la si può esemplificare con una formula: a rendere diversi i due generi è l’opposto schema mentale che governa la visione degli autori. Mentre

i registi e gli

sceneggiatori neorealisti analizzano la realtà, quelli di commedie ne propongono una sintesi. Più che ricorrendo a discorsi generici e astratti, il discorso sarà più chiaro con esempi diretti e a tal proposito analizzeremo qualche film di Steno. Un giorno in pretura è forse il caso più eclatante di superamento del neorealismo. Girato tra il 1953 e il 1954, quando il genere è già entrato in crisi, sembra all’apparenza rispettarne tutti i canoni. Già a partire dalla sequenza iniziale, che sembra giungere direttamente da Ladri di biciclette: un giovane ruba una cassetta di frutta a due scaricatori, viene inseguito, perde la refurtiva durante la fuga, ed infine è arrestato e condotto in pretura. Gli stilemi sono quelli neorealisti: ambientazione in esterni, scenografie e costumi molto poveri, utilizzo di un linguaggio gergale da parte dei personaggi. C’è però qualche sfasatura: i movimenti della macchina da presa (d’ora in poi mdp) sono solo apparentemente casuali, in realtà stanno “scrivendo”, stanno organizzando gli elementi del racconto, liberi e casuali, seguendo uno schema preordinato.

Il

movimento

della

cinepresa

è

sempre

lo

stesso:

si

parte

con

un’inquadratura fissa e si prosegue con una panoramica, verticale e orizzontale, che scopre una nuova situazione e inserisce nuovi elementi del racconto. Fin dall’inizio: la prima inquadratura – un paio di gambe maschili vestite di calzoni sdruciti – è seguita da una panoramica verticale verso l’alto, che ci rivela come il padrone di quelle gambe sia una persona povera, il cui sguardo corrucciato rivela intenzioni poco raccomandabili. Un’altra panoramica, stavolta orizzontale, verso destra, mostra un furgoncino, pieno di cassette di frutta e due uomini che le scaricano più in là, lasciando il resto temporaneamente incustodito: lo sguardo del tizio era rivolto, dunque, verso le cassette lasciate incustodite. Abbiamo appena il tempo di individuarlo come ladro, che il tizio, fulmineamente, entra nell’inquadratura, prende una cassetta e fugge al galoppo, inseguito dai due uomini che sono tornati in tempo per accorgersi del furto. Una nuova panoramica orizzontale, stavolta verso sinistra, mostra l’inserimento nella fuga di due carabinieri: c’è una colluttazione ed il ladro, che nel frattempo ha perso la cassetta, riesce e fuggire verso il fiume. Ancora una panoramica a sinistra, che segue la direzione della fuga, mostra però nuovi rinforzi a favore degli uomini di legge: il ladro è preso e costretto all’immobilità. Un’altro movimento panoramico, prima verticale, poi orizzontale verso destra, segna la fine della fuga ed il ritorno all’ordine, e scopre due testimoni della vicenda: il più anziano dice all’altro che ora porteranno quel ladro in pretura. Il regista ha 4

organizzato visivamente la sequenza in modo circolare, utilizzando un montaggio invisibile che ci fa credere di aver assistito ad un lungo piano-sequenza: la circolarità, col suo percorso definito, è nemica della casualità. Una forte impronta stilizzatrice s’è sovrimpressa sul materiale realistico. La fuga del ladro aveva una fine già prescritta, doveva concludersi con un arresto per poter introdurre l'argomento del film: la descrizione di un giorno in pretura. I sospetti e i dubbi di stare assistendo ad un’opera che non sia più neorealista, affacciatisi già dopo la prima sequenza, si fanno certezza subito dopo, all’apparire di una didascalia esplicativa della posizione ideologica degli autori (Steno, Fulci, Continenza, in sede di sceneggiatura) e del loro interesse per la cronaca spicciola: Questo film è dedicato ai “soliti ignoti”, ai ladri di galline, e di portafogli alle fermate del tram, ai loro difensori, ai cancellieri, ai litiganti in autobus e agli sfrattati. A tutti coloro che si sono trovati un giorno come personaggi della quotidiana vicenda della piccola giustizia. Gli autori del film ringraziano questi personaggi che molto spesso senza accorgersene, dalle colonne della piccola cronaca dei giornali, hanno collaborato con loro.

L’alterità del film con il neorealismo è evidente. Gli intenti realistici sono ripiegati nella ricerca di un quadro attendibile ma minimo della realtà: non c’è nessun proposito di universalizzare le storie che s’intrecciano nella trama del racconto. La critica di allora lanciò accuse di provincialismo e di qualunquismo, vi vide «le cause non secondarie del processo di degrado irreversibile della lezione neorealista»9. Accusa senza fondamento: il film evita qualsiasi denuncia generica sui mali dell’Italia contemporanea, non accenna ad assumere toni di supponente paternalismo e, soprattutto, evita assolutamente di giudicare; Un giorno in pretura racconta piccole storie, curiose ed interessanti per lo spettatore, riuscendo a scorgere anche i minimi cambiamenti sociali: Nell’affabulazione cinematografica di questi cantastorie e cantafavole il benessere con le sue contraddizioni, i suoi costi in termini sociali e morali, hanno un ruolo primario. La compresenza di difformità nei comportamenti, il mutare dei consumi, il rovesciamento delle regole, la perdità della stabilità dei principi e degli ideali, il capovolgimento delle gerarchie meritocratiche e la rapida obsolescenza dei modelli per la vita civile, si ripresentano in maniera ininterrotta e ossessiva: «Deve dirigere – si dice in Un giorno in pretura del lavoro del pretore – venti cause al giorno per settantamila lire al mese. Aveva un figlio che non voleva studiare; è diventato centravanti della Lazio e guadagna 300.000 lire al mese, mentre lui sta per andare in pensione a 30.000 lire al mese».10

In Un giorno in pretura Steno adopera la struttura narrativa della commedia ad episodi intrecciati, ambientata in un unico luogo – in Italia c’era già stato l’esempio di Una domenica d’agosto (1949, Emmer). Può così inserire nella struttura della storia episodi veritieri ma stravaganti (come l’episodio dell’affamato che ruba e mangia gatti), osservazioni di costume (l’onorevole illibato e represso) e toccare la farsa da

9

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., p.148 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., p. 49

10

5

avanspettacolo (il celebre episodio di Nando Moriconi). Fino ad operare una vera e propria parodia del neorealismo, utilizzando il suddetto processo della “sintesi”, nell’episodio del prete e della prostituta. Il fondamento narrativo di questo episodio è eminentemente neorealista: la storia di un prete che accompagna a Roma, dall’Italia settentrionale, un gruppo di boy-scouts. Arrivato nella città, viene subito derubato di tutti i soldi della spedizione. Disperato, poiché tra quei denari c’erano anche quelli dei ragazzi, rintraccia l’autrice del furto, che è una prostituta,

a cui i soldi

servivano

per affrancarsi finalmente dal suo protettore.

Durante una lite, quest’ultimo ruba, a sua volta, alla ragazza quei soldi: al prete, che ormai ha preso in simpatia la prostituta, non rimane che tentare di recuperare il bottino sfidando il protettore a biliardo. Il progetto riesce, anche con l’intervento dei ragazzi, ma ne nasce una rissa che porta il prete in prigione. Questo episodio di Un giorno in pretura è cristallino: se ogni situazione narrativa è di per sé realistica, l’accostamento di tante diverse situazioni provoca un invalidamento del senso reale. Le circonvoluzioni dell’intreccio sono così tante, tra inseguimenti e colpi di scena, che la materia narrativa sarebbe bastata per un lungometraggio: qui il regista la condensa in un episodio di una decina di minuti, tenendo fede a quella che è una delle regole fondamentali del comico: l’accelerazione narrativa. Steno cambia così di tono ad un intreccio melodrammatico tipico di Raffello Matarazzo: il riferimento a questo regista non è affatto casuale, poiché la struttura dei suoi melodrammi è simile a quella di quest’episodio e si pone anch’essa come evoluzione del neorealismo. Un giorno in pretura si allontana dal neorealismo soprattutto nella scelta e nella direzione degli attori: gli interpreti sono tutti professionisti, non c’è il tentativo di ricercare la verità anche nell’adesione fisica di un attore al personaggio. Anzi, caratteristica di questo film e di tutti quelli di Steno è una presenza attoriale molto forte, cui il regista si appoggia in modo decisivo per sostenere la storia. Gli interpreti principali di Un giorno in pretura - Peppino De Filippo, Silvana Pampanini, Alberto Sordi, Walter Chiari, Sophia Loren e Leopoldo Trieste – sono quanto di meglio si potesse trovare nel cinema comico dell’epoca ed ognuno di loro riproduce, nel personaggio che interpreta, una propria quantità di vezzi e di tic: se osserviamo attentamente il duetto tra Peppino De Filippo ed Alberto Sordi, la sovrapposizione della personalità dei due attori sui rispettivi personaggi di Salomone Lo Russo e Nando Moriconi è cosi prepotente da precludere allo spettatore qualsiasi immedesimazione in una vicenda realistica. Il pretore Lo Russo non è interpretato da Peppino: è Peppino, con la sua apparente docilità che nasconde un carattere bizzoso e permaloso, sempre pronto a scattare in una battuta fulminea; così come Moriconi è Sordi e l’idiozia ed insieme l’astuzia del personaggio sono diretta espressione dell’aggressività dell’attore. Il risultato non è un resoconto veritiero di 6

un fatto reale, ma un gioco a due di botte e risposte, di tormentoni – i continui “Vostro Onore” di Sordi, le piccate repliche di Peppino “io questo lo mando in galera” – in cui i due attori non si calano nei rispettivi personaggi, ma sintetizzano, con la loro recitazione, due tipi: il pretore è un uomo d’altri tempi, un “conservatore” saggio e dignitoso, leale e di buoni sentimenti (a questo proposito Steno gli dedica un intero episodio, quello dell’incontro con un vecchio mancato amore, Silvana Pampanini), offeso dalla mancanza di educazione della nuova generazione; Moriconi è il bullo romano, esibizionista e logorroico, aggiornato alle nuove mode esterofiliache e filoamericane: si vede come un nostrano Tarzan e fa il bagno nudo nella Marrana, combattendo con un tronco d’albero, mentre crede di essere nella giungla a lottare con i coccodrilli. E’ proprio nel lavoro sugli attori che si nota la capacità del regista di sintetizzare, in una macchietta o in una scenetta, un tipo o una situazione, che è poi la distanza maggiore dal neorealismo. E’ evidente, in Un giorno in pretura, come gli elementi neorealistici siano puramente formali: la narrazione policentrica, l’ambientazione periferica, il linguaggio dialettale. In realtà queste modalità espressive sono unificate da una visione di scorcio, che come detto, non cerca l’universalità, ma tende a far emergere le caratteristiche più salienti per un’osservazione di costume: lo stesso uso del dialetto non avviene in funzione descrittiva, ma espressionista. La lingua italiana

viene deformata, contaminata dal

dialetto e, nel caso di Sordi, anche da un inglese immaginario e assurdo – «Un drink ? Come nel Kansas City!» è una delle sue battute. Alla funzione della contaminazione linguistica tra l’italiano e l’inglese in alcuni film di Steno, Gian Piero Brunetta ha dedicato queste considerazioni: […] Alberto Sordi, in Un giorno in pretura e in Un americano a Roma, mostra gli effetti di una totale colonizzazione linguistica e culturale. L’americano di Sordi è, in verità, una sorta di grammelot in cui ritorna, in forma di leit-motiv, un sintagma del tipo «Auanaghenà», che dovrebbe servire a stabilre un’immediata comunicazione sia con gli italiani che con gli americani. Nando Mericoni, figlio di un postino, rifiuta la sua nazionalità italiana e si dichiara «americaco di Kansas City» e in arte, per le sue esibizioni di ballerino di tip-tap, si fa chiamare Santi Bailor (il Gene Kelly italiano). Quando va alla «marrana» a nuotare al ritmo di Yankee Doodle Dandy lo stile che adotta è il «cron». Altri suoi modi di parlare sono: «Hallo girls, con rispetto siete un macello», «Hallo papy». Il fenomeno dell’americanizzazione del ragazzo di Trastevere ha un ruolo molto importante nel quadro che si è cercato di delineare. In una realtà frantumata dalla difesa delle autonomie dialettali, e dove la rappresentazione delle classi popolari parlanti in italiano era dovuta ad un compromesso produttivo e non certo a una di mimesi pertinente con la poetica generale del neorealismo, il bisogno della lingua inglese, quasi superiore a quello della lingua nazionale, è un segnale […] di raggiungimento dei propri obbiettivi nell’immaginario popolarre da parte della cultura di massa americana. E non soltanto popolare: parodiando discorsi più sofisticati, Franca Valeri, che costruisce i suoi personaggi osservandoli dal vivo e isolandone con molta efficacia i tic, coniuga, in Piccola posta, coppie di sostantivi inglesi creando neoformazioni linguistiche: «A noi donne intelletuali piacciono questi Brando-Type, questi Muscle-Boys». I nuovi comici […] fanno emergere il parlato di nuovi soggetti sociali, inventando una lingua che mescola liberamente il dialetto e le forme letterarie alte e interseca, in modo ostentato, i richiami alle metodologie straniere.11 11

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, pp. 336-7

7

Se Un giorno in pretura rappresenta il passaggio dal neorealismo alla commedia, Totò cerca casa (1949, diretto con Monicelli) ne rappresenta la parodia. Correntemente quest’ultimo film viene accostato al neorealismo12, anzi è definito un esemplare di neorealismo comico: il motivo è dovuto alla situazione narrativa di partenza, esplicitata già nel titolo, tipica nel secondo dopoguerra, in epoca di crisi degli alloggi. In realtà la rappresentazione realistica si ferma alle situazioni di partenza: Totò va ad abitare, con la sua famiglia, in un’aula scolastica, in un cimitero, nello studio di un pittore, al Colosseo, in un appartamento affittato a più persone ed, infine, al manicomio. Ogni episodio, però, è in seguito sviluppato con una progressione comica scatenata e surreale, assolutamente irridente nei confronti del neorealismo: il modello sono le farse slapstick alla Mack Sennett, come dimostra la lunga corsa finale di Totò nell’automobile che non può frenare. E’ una comicità che si avvale addirittura dell’uso di allusioni indirette e metafore: l’intenzione dei due registi è satirica ed intende colpire la burocrazia e il regresso compiuto dalle forze politiche uscite vittoriose dal dopoguerra, le cui promesse di “rinascita nazionale” sono ridotte ad un mero esercizio retorico, ad un gioco di parole vacuo, pomposo, retorico, perbenista e polveroso. Ad evidenziare questi intenti ed a punteggiare tutti gli episodi, intervengono, così, tutti gli scontri di Totò con il sindaco, fino alla sublimazione finale in cui Totò, alla guida di un’automobile senza controllo, distrugge il monumento alla ricostruzione appena presentato dal sindaco. Il sarcasmo, a volte così aggressivo del film (in una sequenza Totò, stordito dall’alienazione del lavoro d’ufficio, timbra il fondoschiena al sindaco), testimonia la diretta discendenza del film dall’umorismo del Marc’Aurelio: «una cifra comica che voleva sfruttare umoristicamente certi atteggiamenti e peculiarità, come i poveracci, i panni sporchi, i cessi, che così facendo il neorealismo offriva su un piatto d’argento a dei satirici per natura pronti a saltare su qualsiasi cosa, figuriamoci su quelle lì»13. Dal giornale umoristico, non a caso, oltre a Steno, provenivano anche gli altri sceneggiatori di Totò cerca casa, Age e Scarpelli. La fonte più diretta del film di Steno e Monicelli è una serie di vignette, intitolata “La famiglia Sfollatini”, disegnata da Attalo sulle pagine del Marc’Aurelio e volta proprio a satireggiare gli schemi formali neorealistici. I registi non riprendono soltanto il tema, dalle vignette di Attalo, ma la stessa costruzione formale: ricreano le strisce a fumetti, stipando fino all’inverosimile l’inquadratura di oggetti dimessi, poveri, di uso quotidiano. Una scenografia che non ha la funzione di sfondo, ma è la protagonista drammaturgica delle immagini: l’arredamento gotico-macabro che turba la pace di Totò nella sua casa 12 13

Cfr. Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 43 Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p. 16

8

accanto al

cimitero (lo scheletro come

lampadario, il

quadro fosco

del

turpe

predecessore, l’orologio a cucù, con il gufo al posto del cuculo); la scarpa che il figlio di Totò trasforma in barchetta; il quadro, nello studio del pittore, che, spolverato, si rivela uno specchio e svela la tresca di sua figlia con il fidanzato; le valigie che si moltiplicano e scompaiono alternativamente, provocando al

protagonista accuse di visionarietà.

Un’ambientazione che supera il realismo per approdare al fantastico, a quella zona di non-detto che consente a Totò cerca casa di superare l’occasione parodistica ed approdare al genere comico tout-court. La sostanza di quest’opera, dietro la brillantezza comica, è soprattutto politica: non intesa come schieramento a favore di una o l’altra delle contrapposte fazioni ideologiche, ma come sguardo attento al vivere civile. Un’ affermazione che vale per tutti i film di Steno del periodo: sono presenti, negli intrecci di queste storie, molti personaggi politici ufficiali ed onorevoli, ed ogni volta dimostrano il loro perbenismo morale, l’intendere il proprio posto di potere come posizione privilegiata e prestigiosa da mantenere, anche se la loro autorità è del tutto relativa: l’onorevole Borgiani, in Un americano a Roma, svegliato a tarda notte da Nando Moriconi che vuole parlare con la sua fidanzata, cameriera in casa dell’onorevole, mentre questo protesta che la mattina dopo deve partecipare ad un’importante seduta ed ha bisogno di dormire; il figlio dell’onorevole di Un giorno in pretura, così gretto nel suo moralismo da essere lasciato dalla propria fidanzata; il celebre onorevole Cosimo Trombetta di Totò a colori, distrutto nella sua dignità da Totò. Questi politici sono costretti a subire l’atteggiamento ostile dei protagonisti: il loro falso perbenismo, la loro ipocrisia, la loro distanza dal vivere comune sono dilaniati dalla violenta vis comica di attori come Totò e Sordi, accaniti e funambolici antagonisti dell’ordine costituito. L’anarchia del comportamento è una caratteristica congenita del comico. Tuttavia è avallata dalla posizione ideologica di Steno, che «appartiene irrimediabilmente alla “congregazione degli apoti” di prezzoliniana memoria, cioè all’esigua schiera di “coloro che non la bevono”»14. Per questo motivo, il regista ebbe problemi durante il fascismo: Sul Marc’Aurelio una volta scrissi di Luigi Freddi (numero uno del cinema fascista) “Ipse dixit”, più o meno quello che dice Freddi è legge, ironicamente. Lui se la legò al dito in maniera tremenda. Una mattina, quando abitavo in via del Vicario con Marchesi, vidi entrare Blasetti col suo pelliccione e i suoi stivali che mi disse: «Ma che hai fatto a Freddi? Ieri sera mi ha detto certe cose sul tuo conto». A Freddi dava fastidio questo ragazzino che rompeva le balle sul cinema […].15

14 16

Tullio Kezich, Creare due, tre…., cit., p.195 Angelo Olivieri, L’imperatore…, cit., p. 8 9

Il sarcasmo politico di questi film è una differenza profonda di queste opere dal coevo neorealismo, in cui i registi avevano un approccio alla realtà entusiasta ed ottimista (era il caso soprattutto di Zavattini), sicuri di poterla conoscere per poi cambiarla. In realtà non sono molti i film di Steno del periodo che si avvicinano ad una commedia realistica: forse solo Vita da cani, Guardie e ladri e Un giorno in pretura. Quelle di Steno sono commedie comiche che utilizzano elementi formali del neorealismo, della commedia e della farsa e li impastano in un genere estraneo ai canoni restrittivi dei generi. Nelle sue opere c’è l’osservazione di costume, ma manca, tranne nei casi sopra citati, rispetto alla commedia all’italiana, la commistione di elementi comici e drammatici, la presenza di momenti

narrativi

che

possano essere

sviluppati, drammaturgicamente, secondo

un’ottica indifferentemente comica o drammatica. Nelle sue opere c’è una struttura narrativa policentrica, ma a differenza del neorealismo, l’organizzazione dell’intreccio è tutt’altro che libera: il racconto è costruito in modo da possedere un alto grado di esemplarità. I suoi film hanno una struttura episodica poiché ambiscono ad avere la funzione di quadri di costume: molte opere di questo periodo (Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Totò e le donne, Piccola posta) hanno un prologo esemplificativo. In queste pellicole all’attore comico mattatore (soprattutto Totò e Sordi, in questo periodo) sono affidati personaggi che sono astrazioni satiriche, privi di progressione psicologica, lenti di ingrandimento attraverso cui criticare la rinascita italiana (Totò cerca casa), la burocrazia (Totò e i re di Roma), le donne (Totò e le donne), l’americanismo (Un americano a Roma). E’ il maggior punto di contatto che questi film hanno con la farsa. Non sono elementi presenti occasionalmente o separatamente nelle opere di questo periodo: sono ingredienti perfettamente uniti e amalgamati fra loro a formare uno stile coerente. Uno stile che Steno usa anche per girare storie apparentemente estranee ad una logica realista, come la rievocazione ironica e affettuosa del cinema muto di Cinema d’altri tempi (1953) o la parodia storica di Mio figlio Nerone (1956). Troveremo anche qui una struttura narrativa complessa che intreccia diverse storie, linguaggio gergale (in Cinema d’altri tempi c’è un curioso linguaggio maccheronico che rivela la presenza degli sceneggiatori Age e Scarpelli), forte presenza attoriale (in Mio figlio Nerone, accanto ad Alberto Sordi e Vittorio De Sica, ci sono addirittura Gloria Swanson e Brigitte Bardot), attenzione all’ambientazione (in Cinema d’altri tempi, Steno ricostruisce filologicamente antichi modelli cinematografici muti, come la comica e il melodramma strappalacrime; in Mio figlio Nerone, approfittando della superproduzione di Cristaldi, c’è un’accurata ricostruzione

scenografica

dell’epoca

romana).

10

Capitolo 3. La stilizzazione comica degli anni ’60 e ’80 Suddividendo in fasce temporali l’estensione cronologica della carriera di Steno, noteremo come la media della sua produzione sia uniforme: circa diciotto film diretti in ognuno dei quattro decenni interessati (gli anni ’50,’60,’70 e ’80). Un’analisi più approfondita, tuttavia, ci pone di fronte ad un evidente dato di fatto: l’operosità del regista trova il punto massimo di concentrazione nel decennio ‘57-’67, in cui Steno realizza ventisei lungometraggi; e, in questo periodo, è nel 1959 che appaiono ben quattro pellicole (Totò, Eva e il pennello proibito, I tartassati, Tempi duri per i vampiri e Un

militare

e

mezzo).

Nel

quadriennio

‘68-’71,

però,

il

regista

gira

solo

un

lungometraggio (Il trapianto, 1969) ed un episodio (Il mostro della domenica) per un film collettivo (Capriccio all’italiana, 1968). Allo stesso modo, il ritmo calmo e tranquillo degli anni ’70 (due film l’anno, ogni anno), s’increspa all’inizio degli anni ’80: un’accelerazione (tre film nel 1982: Sballato, gasato, completamente fuso, Banana Joe, Dio li fa poi li accoppia) e poi una brusca frenata dopo il 1984, quando Steno si rivolge alla televisione e per il suo ultimo film – Animali metropolitani, 1987 – ha grossi problemi distributivi. I periodi in cui la stilizzazione comica si fa più accentuata sono già preventivabili scorrendo la filmografia del regista. Più l’attività si intensifica, maggiore è il ricorso, da parte del regista, nel mettere in scena le proprie opere, ad artifici comici usuali, ad effetti schematici; minori sono le notazioni personali. I film degli anni '60 e ’80, sono come scarnificati:

le

personalità

dei

protagonisti

sono

schematiche,

il

realismo

delle

ambientazioni è solo illusorio, le situazioni del racconto hanno, talvolta, un parossismo che tocca l’assurdo. L’interesse del regista è rivolto al funzionamento del dispositivo comico. La geometria delle entrate e delle uscite dei personaggi, dei loro movimenti per raggiungere un sicuro effetto comico, è calcolata capillarmente, tanto che il critico Tullio Kezich scrisse: «Aveva un metronomo in testa, non sbagliava un effetto, sapeva sempre quello che si doveva fare: a tavolino, sul set e in moviola»1. In una sequenza di Totò, Eva e il pennello proibito, una parete girevole, in un locale d’appuntamenti galanti, scandisce con i suoi ribaltamenti, la rappresentazione di due tradimenti amorosi contemporanei, ma opposti di segno: attarverso i movimenti della parete, l’uno non viene perpetrato e l’altro non viene scoperto. La scansione geometrica degli effetti comici prevale sugli altri elementi della struttura narrativa . Susanna tutta panna (1957) rappresenta quasi didascalicamente il passaggio da una comicità realistica ad una più stilizzata. La pellicola nasce occasionalmente per sfruttare il successo ottenuto da Marisa Allasio in Poveri ma belli (1956, Risi); una giovane attrice che viene descritta da Masolino D’Amico come:

1

Tullio Kezich, La Repubblica, 15.3.1988

1

[...] una spiritosa venere tascabile dalle forme dilatate fino alla parodia, con occhi vispi, sorriso allegro e soprattutto un lunghissimo collo che salvandolo dal ridicolo, in qualche modo conferiva eleganza al suo fisico altrimenti quasi assurdo.2 [...] sapeva prendere in giro il proprio fisico pneumatico e volgere in riso la torva sensualità che retrospettivamente sembra aver dominato quei tempi frustrati dalla morale vigente; in questo risultando più moderna e simpatica della sua contemporanea Brigitte Bardot.3

Il lavoro che gli sceneggiatori Metz e Marchesi e il regista Steno compiono in Susanna tutta panna è proprio quello di evidenziare la fisicità brillante e spensierata che emana il corpo della Allasio con frequenti piani medi descrittivi che presentano

l’attrice nei suoi

vestiti succinti, tolti facilmente con qualche pretesto (è vittima di un’aggressione, si confonde tra gli attori di una messinscena teatrale). La fisicità prepotente di Marisa Allasio non è inserita, come in Poveri ma belli, «sul realistico sfondo di una società che cambia, trascinando con sé anche nuove forme di comportamento, e con in primo piano l’esuberante vitalità di una gioventù alla inconsapevole ricerca di un proprio ruolo esistenziale»4. La struttura narrativa di Susanna tutta panna è riconducibile a quella di un vaudeville senza musiche, anche se non ancora una pochade: il referente cinematografico pù prossimo al film di Steno è Il milione di René Clair. Del vaudeville conserva «il suo procedimento di fondo, quell’”effetto cascata” o “palla di neve”, come lo definisce Bergson nel saggio Il riso5, che funziona come elemento unificante delle varie azioni e situazioni che si sviluppano nel racconto»6. Susanna tutta panna adopera il procedimento a “palla di neve” sia nella sua struttura generale, sia nell’organizzazione narrativa dei singoli episodi. Il

tempo

della

narrazione,

chiuso

in

una

giornata,

è

scandito

dalle

tappe

dell’inseguimento affannoso, per le strade di Milano, da parte di Susanna e del suo avversario Arturo della ricetta segreta di una torta, finita casualmente in una serie di dolci già spediti agli ignari destinatari: un marito vessato dalla moglie e dal cognato, un amante spagnolo di mezz’età, una famiglia di barboni arricchiti, una banda di ladri, una compagnia teatrale. La stessa corrispondenza del procedimento si ritrova, per esempio, nell’episodio della compagnia teatrale che mette in scena l’Amleto, dove l’inseguimento alla torta

2

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 86 Ivi, p. 105 4 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.66 5 L’effetto “palla di neve” per Bergson è «un effetto che si propaghi aggiungendosi a sé stesso, di modo che la causa, insignificante all’origine, raggiunge per un progresso necessario un risultato tanto più importante quanto inatteso. […] Ecco per esempio un visitatore che entra precipitosamente in un salotto: urta una signora, che rovescia la sua tazza di tè su un vecchio signore, il quale scivola contro il vetro, che cade nella strada sulla testa di un agente, il quale mette in movimento la polizia,ecc.» (Henri Bergson, Il riso, Rizzoli, Milano, 1991, p. 83) 6 Giovanna Grignaffini, René Clair, Il castoro cinema, Firenze, 1995, p. 54 2 3

interferisce con le liti tra i tre attori, gelosi dei rispettivi meriti: Susanna fugge con la torta passando sul palcoscenico, si scontra con Arturo che le prende la torta e torna in scena, il dolce gli cade in terra, lo prende Massimo che interpreta Amleto e ordina ad un paggio di portarlo a Gianluca che, in scena, interpreta Laerte, Gianluca si vendica sostituendo il teschio di Yorick con la torta e Massimo, allibito dal ritrovamento è costretto a modificare il proprio monologo: Forse non è uno scherzo, ma una parola...Una parola che Yorick mi invia dall’aldilà per farmi comprendere che la morte è dolce. Dolce come questa torta, Susanna tutta panna, conosciuta in tutta Milano. Credi tu che Alessandro il grande avesse quest’aspetto sottoterra?...Alessandro tornò alla polvere. La polvere è terra. La terra produce l’erbetta. L’erbetta viene mangiata dalle mucche. Le mucche producono il latte. Il latte si trasforma in panna. Per questo Alessandro si è trasformato in panna.

Anche il disegno dei personaggi richiama le modalità del vaudeville: Di ogni personaggio emerge e permane nel corso del film il gesto in cui è stato fissato all’inizio; di ogni carattere emerge e permane nel corso del film il gesto o l’atteggiamento in cui è stato fissato all’inizio; di ogni carattere emerge e permane il tic o la deformazione in grado, sostituendo alla flessibilità viva della persona la rigidità meccanica della marionetta. Sono tante istantanee ripetute infinite volte nel film, sottratte alla vita e al movimento che dava loro spessore e riconsegnateci puntualmente nell’immobilità di un gesto, nello schematismo di una maschera.7

Tutti i personaggi di Susanna tutta panna sono unidimensionali, dotati di una caratteristica saliente che ne ispira il comprortamento e li spinge all’azione. Nella compagnia teatrale, i tre attori sono spinti all’azione dalla gelosia professionale; e tra loro, Rossella, rivela anche una predisposizione alla volgarità nascosta dietro modi leziosi («Ringrazia Dio che so’ ‘na signora, l’animaccia tua!»). Sono caratterizzazioni che rientrano in una rappresentazione schematica del mondo dello spettacolo, in cui i comportamenti sono eccessivi, leggermente isterici (nella compagnia teatrale c’è anche un regista, interpretato da Francesco Mulè, in preda a continue crisi di nervi) e talvolta visionari: come il critico (interpretato da Lucio Fulci) che scambia una rappresentazione fallita per una messinscena d’avanguardia. Nel disegno dei personaggi, Steno inserisce nei meccanismi del vaudeville i moduli del realismo quotidiano, rappresentando alcuni stereotipi regionali facilmente riconoscibili da parte del pubblico: il milanese operoso, loquace e petulante; il napoletano disincantato e rassegnato, il siciliano geloso. Sono macchiette che acquistano spessore grazie alla recitazione degli attori e ad una regia che riesce visualizzarne le caratteristiche, come accade per il personaggio di Romoletto (Nino Manfredi), la cui personalità è definita fin dalla prima apparizione. E’ il terzo membro di una banda di ladri che vorrebbe rapinare una gioielleria ispirandosi a Rififi (1955) di Dassin; Steno sottolinea la sua estraneità al gruppo con una differente disposizione del personaggio nel piano dell’inquadratura: 7

Giovanna Grignaffini, René…, cit., p.55

3

Piano medio. Interno di un appartamento. Due uomini, uno più vicino all’obiettivo (Gianni Bonagura), l’altro dietro di lui Tao (Paolo Ferrari), accanto ad una finestra con la tapparella abbassata. Il primo ladro guarda l’orologio. Ladro: - Sabato, ore 17.45. Tutto procede secondo i piani. Il gioielliere è partito adesso per i laghi. Il fioraio ? Tao: - Ha chiuso alle 17.05. Ladro: - Il lattaio ? Tao: - Parte adesso per l’ultimo giro. Ladro: - La vecchietta ? Tao: - La vecchietta ? Dietro ad essi, piegato verso la finestra e nascosto finora da Tao, c’è Romoletto. Si alza e si volta verso i due. Romoletto: - La vecchietta...la vecchietta non s’è vista, forse starà male poveretta. Tao e il complice, all’unisono: - Allora, tranne la vecchietta, tutto procede come in Rififi.

Come il disegno dei personaggi, anche l’ambientazione è funzionale all’azione. Susanna tutta panna è

ambientato a Milano, ma la vicenda si

svolge

quasi

completamente in interni, con rari accenni ad una realtà sociale riconoscibile: una grossa impresa dolciaria, di proprietà del comm. Botta (il cui cognome adombra il riferimento alla ditta dolciaria della Motta), è la rivale della famiglia di artigianali pasticceri. L’unica sequenza realistica ha una funzione parodistica ed una valenza satirica. In una baraccopoli di periferia vivono tre barboni di diverse generazioni (nonno, padre, figlio) che, elemosinando, sono diventati milionari (hanno il forno a gas, il frigorifero, la televisione, soldi nascosti in posti impensati), ma continuano a fingersi poveri perché, come afferma il figlio (Memmo Carotenuto): «Più siamo poveri e più siamo ricchi». I poveri hanno diritto ad elargizioni, aiuti, elemosine; i ricchi invece sono aiutati da nessuno, anzi sono loro a dover aiutare i poveri: «La miseria organizzata è un’industria». In questa sequenza Steno lavora sul tempo dell’azione - grazie al montaggio che alterna pause e momenti parossistici – e combina l’ambientazione realistica con i moduli del vaudeville: la costruzione delle gag segue il principio della “palla di neve”. All’esterno della baracca una donna anziana pettina una donna più giovane che pettina una bambina; quando i barboni sono scoperti dalla polizia tributaria, rivelano la propria identità con un rapido movimento di propagazione (da una chitarra escono pacchi di banconote, il nonno finto cieco vede istantaneamente, il pollo nel forno si brucia) che li costringe ad esclamare: «Miracolo a Milano!». Susanna tutta panna esibisce molti riferimenti cinematografici. Steno scherza con i generi, fa la parodia del neorealismo e del poliziesco. Nell’episodio della rapina alla gioielleria il regista impernia le gag giocando sul doppio significato che assume ogni gesto dei protagonisti, tangibile e, contemporaneamente, parodistico: l’effetto comico nasce dal riconoscimento delle situazioni classiche del poliziesco e dall’osservzione delle reazioni inadeguate dei protagonisti rispetto ad esse. 4

Legata e imbavagliata dai tre ladri, Susanna, per liberarsi, si finge una donna fatale (come in un “noir” americano) e seduce Romoletto, promettendogli di fuggire con lui, dopo la conquista del bottino: il dialogo tra i due è composto da citazioni dei titoli di altri film “noir” (“Gioventù bruciata”, “Gioventù ribelle”, “Siamo tutti assassini”, “Grisbi”). Allo stesso modo, la rapina è descritta dettagliatamente, ma ogni dettaglio è rivoltato in farsa: la panna, che dovrebbe neutralizzare l’allarme, è spruzzata da Tao sul volto di Romoletto; la mano di quest’ultimo, inserita all’interno della cassaforte per aprirla, è schiacciata dalla manopola che dovrebbe manomettere; infine, il tanto sospirato bottino non c’è: al suo posto un beffardo biglietto - «Avete visto Rififi? L’ho visto anch’io. E i gioielli la sera me li porto a casa mia» - che chiude circolarmente l’episodio e consente l’affermazione di Romoletto che sigilla il tono parodistico: «Diavolacci, stasera ve ce porto io a vede’ un film: Bernadette, al cinema della parrocchia». In Susanna tutta panna, Steno evidenzia come Marisa Allasio sia l’oggetto del desiderio nella finzione, così come nella realtà mentale dello spettatore. E gioca su questo doppio binario per tutta la durata dell’intreccio, confondendo le piste narrative: la torta si chiama Susanna come la protagonista e la locuzione “tutta panna” è riferibile, allora, ad ambedue; per i suoi reiterati inseguimenti, la ragazza utilizza un taxi, nel cui interno

si

cambia

frequentemente

d’abito,

mostrando

le

sue

generose

forme

all’imbarazzatissimo ed eccitato tassista, che rischia più volte l’incidente per osservarla: l’analogia tassista-spettatore è molto evidente (la regia assume il suo punto di vista); l’uso dello specchio retrovisore da parte del tassista, per spiare Susanna, raddoppia la valenza voyeuristica della sequenza; narrativamente, è il personaggio di Susanna, con le azioni, ma anche con la sola presenza a produrre una trasformazione8 della realtà, svelandonde la doppia natura,

rivelando le ipocrisie della quotidianità: dopo ogni suo

passaggio, niente sarà più come prima (l’intervento durante la rappresentazione teatrale rivela le sotterranee gelosie della compagnia). D’altronde, Steno rivela subito la natura metafilmica dell’operazione, già dalla prima sequenza: da una visione notturna di Milano, con una lunghissima carrellata, la regia ci conduce nell’appartamento di Susanna, proprio mentre questa si sta facendo un bagno; la ragazza sembra scandalizzata e si rivolge scocciata, ma anche un po’ maliziosa, alla regia per farla allontanare; la mdp la segue, invece, passo passo, ostacolata dall’attrice, che le pone mille intralci sul suo cammino: sugli ostacoli che, progressivamente, ci si pongono davanti, leggiamo i titoli di testa. L’analogia spettatore cinematografico-voyeur è chiara e ben evidenziata è l’invadenza del suo sguardo. Per realizzarla, Steno profonde 8

Una «connessione fitta degli accadimenti produce inevitabilmente, anche a partire dalla più insignificante delle azioni, un cambiamento di scenario, una modifica della situazione di 5

numerose soluzioni azzardate:

ogni

segno

ha

quantomeno

tre

significati

( gli

sguardi in macchina dell’attrice rimandano alla finzione narrativa e, nello stesso tempo, sono rivolti direttamente alla regia ed allo spettatore)9, i titoli di testa sono integrati nel corpo del film (come nel recente, 1991, Delicatessen, di Jeunet e Caro) , c’è una dichiarazione esplicita degli intenti degli autori e delle aspettative degli spettatori (mostrare il corpo della Allasio). La molteplicità dei piani del film (narrativo, parodistico, metafilmico) non ha stimolato nessun interesse critico: come molti film di Steno, Susanna tutta panna è stato ignorato, allora («Il film non è gran cosa, anche se non manca di discrete risorse comiche»10) come oggi («un film a episodi mimetizzato di desolante fasullagine con bravi caratteristi»11). La stilizzazione narrativa caratterizza, tranne un’eccezione (I tartassati, 1959), la produzione comica successiva a Susanna tutta panna, fino al 1971. Disinteressandosi degli aspetti realistici del racconto, il regista contamina generi differenti, sotto il segno della comicità; l’azione è talmente astratta da permettere incontrollati “excursus” spaziotemporali:

i

protagonisti

possono

essere

borsaneristi

impegnati

(più

o

meno

volontariamente) nella resistenza antinazista (Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in A noi…piace freddo, 1960); personaggi incongrui in un west rielaborato grottescamente (Walter Chiari e Raimondo Vianello in Gli eroi del West, e I gemelli del Texas, entrambi del 1964); uomini comuni fantascientificamente proiettati sulla Luna (Totò e Ugo Tognazzi in Totò nella Luna, 1958); soddisfatti protagonisti di esotiche avventure (Sylva Koscina, Paolo Ferrari e Walter Chiari in Copacabana Palace, 1962). Gli elementi costitutivi sono ancora quelli del vaudeville (direttamente riproposto in La ragazza di mille mesi, 1960, tratto da Le rayon de jouets di Jacques Deval): un ritmo forsennato e matematico, travestimenti (anche in abiti muliebri, come in A noi…piace freddo), scambi di persona, equivoci sentimentali e sessuali, personaggi-marionette. Questi moduli sono contaminati con quelli del teatro di rivista e dell’avanspettacolo, evidenti nel citazionismo parodistico (A noi…piace freddo è una parodia di A qualcuno piace caldo; Totò Diabolicus riprende Sangue blu di Robert Hamer; La feldmarescialla contamina La grande fuga di John Sturges con Tre uomini in fuga di Gerard Oury), nei doppisensi (Il trapianto, 1969, «su un argomento allora messo in voga dagli esperimenti fondo: da una situazione si passa a un’altra situazione, attraverso un processo di trasformazione (Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1994, p. 192) 9 In Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, cit., p. 246, questa configurazione dello sguardo è detta “interpellazione”: «una sorta di “Ehi, tu!” rivolto direttamente allo spettatore». 10 A.Albertazzi, Intermezzo, 18, 30.9.1957, in R.Chiti, R.Poppi, Dizionario del cinema…, I film, vol. 2, p. 352 11 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1301 6

di Christian Barnaard […] ma nel film l’organo da trapiantare non era il cuore»12): la «struttura narrativa si modella prevalentemente sui ritmi di un collage di sketches, la comicità riposa sul tipico contrasto tra l’agitazione e la flemmaticità della spalla»13. Film come Femmine tre volte (1957), Mia nonna poliziotto (1958), Copacabana Palace (1962), Totò contro i quattro (1963) rivelano evidentemente la loro trasandatezza narrativa (le sequenze si giustappongono come tanti diversi episodi): sono produzioni di serie B, realizzate velocemente per sfruttare un improvviso filone cinematografico (Femmine tre volte utilizza lo stesso cast di Susanna tutta panna; Guardia, ladro e cameriera, 1958, «convenzionale ma garbato»14, si ispira al modello de I soliti ignoti; Totò, Eva e il pennello proibito, 1959, «è stato fatto utilizzando gli ambienti de La Maja desnuda – ricorda Steno – un film che la Titanus aveva fatto con Ava Gardner e Tony Franciosa, come era avvenuto altre volte»15) o il successo che attori o caratteristi hanno già ottenuto - a teatro, alla radio, o in televisione – e che ha permesso il loro debutto cinematografico: gli sceneggiatori ripropongono senza grossa fantasia, ma con gran godimento dello spettatore, gli sketch e le macchiette che li hanno resi famosi. Questa produzione minore sembra precludere a Steno uno sviluppo della propria carriera: i titoli nel quadriennio 1968-71 si rarefanno - Il mostro della domenica (1968, episodio di Capriccio all’italiana), Il trapianto (1969), Cose di Cosa Nostra (1971) perché anche il pubblico si disinteressa dei suoi film. Con Il vichingo venuto dal Sud (1971) il regista ritroverà il successo mondiale («Qualche anno fa a Manila, tutti parlavano di una commedia italiana divertente e irresistibile, che tra i filippini aveva avuto un grande successo: era Il vichingo venuto dal Sud»16), tornando alla satira di costume, mettendo a confronto la retriva morale del meridionale italiano con quella più disinibita degli scandinavi. La produzione degli anni ’70 seguirà questo indirizzo realistico, rinvigorito dalla realizzazione de La polizia ringrazia, che condurrà il regista alla realizzazione delle sue uniche commedie all’italiana. Negli anni ‘80 il regista ritorna alla comicità maggiormente stilizzata. Una produzione che si apparenta a quella degli anni ’60 anche a causa di affini coordinate contestuali: nei primi anni del decennio c’è una nuova evoluzione sociale nazionale, sembra esserci un ritorno delle antiche promesse di espansione economica. Soprattutto, nasce un nuovo fenomeno sociale: lo “yuppismo”, ovvero la connotazione manageriale della classe borghese, anelante ad un carrierismo senza scrupoli. E’ un intreccio complesso di edonismo morale, atteggiamento intellettuale e ideologia politica (sono gli anni del 12

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 167 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.80 14 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 583 15 Orio Caldiron, Totò, cit., p. 71 16 Tullio Kezich, La Repubblica, 15.3.1988 13

7

successo politico del Psi di Bettino Craxi): la caduta rovinosa di questo mondo, con lo svelamento dei compromessi e della corruzione morale che lo governavano, aprirà, all’inizio degli anni ’90, un nuovo mutamento sociale ancora oggi incompiuto17. Il nostro cinema sembra non avere gli strumenti adatti per indagare su questo momento sociale. I giovani registi – e, tra questi, proprio i figli di Steno, Carlo ed Enrico Vanzina che dirigono Yuppies (1986), Via Montenapoleone (1987), Le finte bionde (1989) – ne accolgono solo gli aspetti più epidermici e dirigono opere, le quali, più che far riflettere su quella società, ne sono lo specchio spettacolare: «l’alta e vuota società degli status-symbol e delle erre mosce non viene sbeffeggiata come potrebbe sembrare a prima vista, ma assecondata, blandita, accarezzata: come negli spot pubblicitari da cui questi film, emuli dei peggiori telefoni bianchi, stentano a distinguersi nei loro infiniti passaggi televisivi»18. Sia i registi che gli attori usuali della commedia all’italiana sono incapaci di interpretare l’evoluzione sociale e si arriva ad un’impasse: i registi hanno avuto sempre bisogno, per le loro osservazioni satiriche, di maschere attoriali che ne filtrassero le intenzioni con le loro qualità interpretative e le proponessero con successo al pubblico. Gli attori, cosiddetti “colonnelli” (Sordi, Manfredi, Gassman e Tognazzi), sono troppo compromessi con la precedente situazione sociale e, forse, anche troppo vecchi, per assumere nuovi ruoli paradigmatici. Quelli della cosiddetta età di mezzo (Montesano, Pozzetto, Dorelli) sono stati schiacciati dai “colonnelli”, che prendevano loro tutto lo spazio disponibile e li relegavano a ruoli marginali: ora sono in posizione defilata. Mentre i giovani comici, quelli più dotati (Benigni, Verdone, Troisi, Nuti), preferiscono dirigersi da soli, con risultati modesti ed, a volte, penosi. La commedia all’italiana entra in crisi. Steno si rivolge ai meccanismi tradizionali della commedia. La distanza generazionale, tra Steno e la realtà, è troppo estesa per risolversi in una piena comprensione reciproca. Il regista cerca un approdo sicuro, appoggiandosi su canoni comici conosciuti. Si spiega così l’utilizzo degli schemi della “pochade” (Quando la coppia scoppia, 1981), della commedia sofisticata (Amori miei, 1978) e, addirittura, la riproposta diretta degli anticamente osteggiati “telefoni bianchi” (Il tango della gelosia, 1981, da Aldo De Benedetti): donne divise tra due amori, travestimenti dei protagonisti, porte che si aprono e si chiudono su situazioni compromettenti, accelerazione del ritmo. Nei meccanismi astratti della commedia, Steno commette l’errore di inserire la satira di costume: non più i personaggi-marionette riferibili al vaudeville, ma caratterizzazioni grottesche, modulate sugli schemi della commedia all’italiana. I prodotti risentono di questo ibridismo: nel contesto asettico e sofisticato de Il tango della gelosia viene 17

Cfr. Giampaolo Pansa, Lo sfascio, Sperling & Kupfer, Milano, 1987; Giampaolo Pansa, L’intrigo, Sperling & Kupfer, Milano, 1990; Giampaolo Pansa, Il regime, Sperling & Kupfer, Milano, 1991 8

inserito, incongruamente, il personaggio del “terrunciello” interpretato da Diego Abatantuono; commedie

come Fico d’India (1980) e Dio li fa poi li accoppia (1982)

tentano la combinazione dei moduli della satira di costume (l’ambientazione provinciale) e quelli della pochade (nel primo film «un grande Maccione, volgarissimo, si piazza in casa di Pozzetto per soffiargli la moglie Gloria Guida»19 ma è colto da infarto ed è costretto a rimanere, infermo, in casa del marito tradito; nel secondo un prete, Don Celeste, è violentato da una ragazza disadattata che rimane incinta), gli intenti sono buoni, la struttura è adeguata (i pettegolezzi degli abitanti diventano, con i loro intrighi e movimenti incrociati, in queste storie, da elemento contenutistico, vero e proprio elemento formale), ma i risultati sono convenzionali: una lunga sfilata di macchiette. Mani di fata (1983), invece, si propone di analizzare il fenomeno dello “yuppismo”: la combinazione tra la stilizzazione comica e la satira di costume riesce, perché l’ambientazione borghese è più adeguata di quella popolare. Il protagonista Andrea (Renato Pozzetto) perde il posto di lavoro (è architetto in una società di costruzioni) proprio il giorno in cui chiede un aumento di stipendio; la moglie, Franca (Eleonora Giorgi), nello stesso giorno, ha avuto un importante incarico nella casa di moda in cui lavora. I ruoli si invertono (lei è una donna-manager, lui fa il casalingo), fino a mettere in dubbio la rispettiva identità sessuale. Il finale segna un ritorno all’ordine: l’architetto riesce a vendere un suo progetto e diventa miliardario, ristabilendo la pace in famiglia. Per rappresentare la morale del film – la perdita d’identità a cui porta il carrierismo – il regista utilizza una stilizzazione geometrica che dà a Mani di fata un andamento meccanico. Il tema del doppio, del raddoppiamento, dello sdoppiamento e del ribaltamento della personalità, è fin troppo rimarcato: ai due coniugi corrispondono due “alter ego” omosessuali, che sembrano voler rivoltare la loro identità sessuale; Pozzetto ha due datori di lavoro gemelli, da

uno

specchio;

la

cui visione, in un’inquadratura, è raddoppiata

le sequenze alternate sono montate attraverso i dialoghi dei

protagonisti, per cui i discorsi, con diversi interlocutori, dei due coniugi si intersecano tra di loro con precise corrispondenze. In queste simmetrie narrative, la progressione comica dell’intreccio accelera progressivamente, fino a terminare, logicamente, sui ritmi farseschi da “pochade” dell’ultima sequenza, quando tutti i rapporti trovano soluzione in una camera da letto, come nelle classiche commedie degli equivoci (con grande profusione di porte che si aprono e si chiudono su situazioni compromettenti). Il racconto procede per ellissi (nelle sequenze in cui Pozzetto si dedica ai lavori di casa, nel finale), le inquadrature presentano ritagli spaziali interni che ne raddoppiano il livello: sono porte, finestre attraverso cui alcuni personaggi osservano agire altri personaggi, a loro volta 18 19

Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.151 Marco Giusti, Dizionario del cinema italiano stracult, Sperling & Kupfer,,Milano, 1999, p. 284 9

osservati dall’occhio del regista e degli spettatori. E’ una proiezione ripetitiva che ha qualcosa d’ipnotico e che rimanda a quei meccanismi primordiali della costruzione di un gag comico (la ripetizione, la meccanicità, la reificazione del corpo), che interessarono tanto Ejzenstejn per le sue meditazioni sull’estasi artistica20.

20

Sergej M. Eijzenstejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1992 10

Capitolo 4. Tecniche narrative del comico Al centro di questa parte dedicata a Steno, è opportuno rilevare le tecniche utilizzate dal regista per ottenere l’effetto comico. Sono modi di produzione del comico che accomunano i film più stilizzati e quelli più realisti, che ritroviamo in tutto l’arco cronologico della carriera del regista, da Al diavolo la celebrità ad Animali metropolitani. Si possono raggruppare in un elenco puramente nominale: sfasatura suono-immagine, ellisse narrativa, effetto sorpresa (le reazioni dei protagonisti), ritmo, montaggio metronomico, recitazione degli attori (Totò e Sordi, Villaggio, Fenech). La sfasatura tra il suono e l’immagine è, tra tutte, la tecnica più ricorrente: l’immagine dell’inquadratura non si accorda con le parole dei protagonisti o con il commento musicale. Artificio tipico della commedia che trova il suo apogeo, nella filmografia di Steno, nella sequenza di Piccola posta (giustamente considerata da Giacovelli «prototipo per molte situazioni della futura commedia all’italiana»1) in cui la presunta Lady Eva, in realtà signora Cangiullo, «donnetta da due soldi che si finge importante senza crederci troppo, racconta alle lettrici un duello aristocratico da romanzo ottocentesco mentre la macchina da presa inquadra una lite di piazza tra un fruttivendolo e un veterinario di borgata»2. E’ un meccanismo utile per svelare ipocrisie comportamentali, inganni sociali, storture e mediocrità quotidiane: esemplare in questo senso la ricostruzione dei film muti in Cinema d’altri tempi, in cui registi, attori e maestranze, liberi dal sonoro in presa diretta, si scambiavano insulti e male parole, mentre giravano inquadrature che sullo schermo sarebbero risultate intensamente drammatiche. Il modo di raccontare per ellissi è una marca stilistica che il regista eredita dalla narrazione cinematografica americana. L’ellissi narrativa è congiunta al ritmo ed al lavoro di montaggio: il racconto procede spedito, senza tempi morti. Il montaggio permette di accostare blocchi narrativi distanti tra loro sia secondo le direttrici spaziali che temporali, di prosciugare le pause del racconto ed aprire scorci che suggeriscono nuove interpretazioni. C’è una condensazione degli effetti che sta alla base del metodo “sintetico” di produzione del comico. Rimane esemplare la sequenza della decisione di Gianna di partecipare al concorso dei vigili urbani, ne La poliziotta. La ragazza è in attesa sul marciapiede della stazione ferroviaria di Ravedrate del treno per Milano, quando sente due studenti parlare tra loro della possibilità offerta anche alle donne di arruolarsi nei vigili urbani. Quando arriva il treno, la mdp sposta il suo obiettivo all’esterno del convoglio. Quando il treno riparte, ci accorgiamo, così che Gianna non è partita con esso, ma sta osservando con interesse il manifesto del concorso. Si allontana con passo sicuro, 1 2

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 33 Ibidem.

1

dopo aver preso una decisione: quale sia ce la mostra la dissolvenza che confonde i passi di Gianna con quelli regolari degli aspiranti vigili. Direttamente collegato all’ellissi narrativa è quello che si potrebbe definire l’effettosorpresa: la mdp non racconta il momento culminante dell’azione comica, ma soltanto i preliminari, per poi porre lo spettatore di fronte al fatto compiuto. La regia sfasa i tempi di reazione dei personaggi (che non vediamo quasi mai agire nel momento culminante del racconto, ma soltanto prima e dopo), distanziando lo spettatore dalle loro emozioni, per consentirgli la risata, anche quando la situazione è potenzialmente drammatica (e per il protagonista tragica). Piccola posta è un piccolo campionario di queste situazioni comiche. Nella seconda parte del film, assistiamo agli sforzi vani del barone Rodolfo di assassinare la sua ricchissima “anima buona”, per ereditarne il patrimonio milionario. Il racconto dei tentati omicidi si interrompe al momento di massima tensione, quando gli sforzi del barone sembrano orientarsi verso una buona riuscita. Saranno le inquadrature successive a svelare la sorprendente cattiva riuscita degli attentati. L’effetto-sorpresa punteggia tutti i film di Steno: è il meccanismo che consente di rappresentare l’ambiguità emozionale delle situazioni. Ne svela il fondo drammatico dietro l’apparenza comica, come nella sequenza de La patata bollente, in cui gli amici operai vanno a trovare l’amico Mambelli di ritorno dal viaggio in Urss, dove l’avevano mandato per preservarlo da tentazioni omosessuali, e se lo ritrovano davanti truccato da donna: al momento dell’incontro, la prima inquadratura della mdp, è riservata totalmente ai volti degli amici ed alle espressioni di sorpresa, sbigottimento, rabbia e disgusto che si dipingono su di essi. Ingiuste, sappiamo noi spettatori, che siamo consapevoli come quel trucco sia del

tutto involontario:

l’inquadratura concentra le

reazioni prima di

divertimento e poi di rabbia che scaturiscono da essa, rispettando quella concezione di suspense comica, di cui si darà una definizione più precisa all’interno del capitolo sul genere poliziesco. In questo momento è più opportuno ricordare come il distacco emotivo e l’ambiguità della situazione umoristica, ritrovati negli esempi precedenti, rispettano pienamente le massime di Bergson e di Pirandello per la costruzione del meccanismo comico. Per Bergson, infatti: Sembra che il comico non possa produrre la sua scossa se non a condizione di cadere su una superficie d’anima molto calma e uniforme. L’indifferenza è il suo centro naturale. Il più grande nemico del riso è l’emozione. Non voglio dire che noi non possiamo ridere di una persona che ci ispiri pietà per esempio, o anche affetto: soltanto che per qualche istante, dovremmo dimenticare questo affetto, far tacere questa pietà.3

Mentre, secondo Pirandello:

3

Henri Bergson, Il riso, cit., p. 39

2

Noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da quest’analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo, Il sentimento del contrario.4

Le tecniche narrative del comico utilizzate da Steno trovano piena giustificazione nei massimi teorici filosofici del genere. Che la narrazione del comico sia soprattutto una questione di ritmo, è un’affermazione che troviamo esemplarmente attualizzata in tutte le opere di Steno. Le opere che più dimostrano la validità di questa asserzione sono le farse, i film comici degli anni ’60 e quelli sofisticati degli anni ’80, quando la stilizzazione del meccanismo aveva molta più importanza del contenuto del racconto. I tempi di entrata e uscita dei personaggi dalle inquadrature, in questi film (i titoli sono quelli già menzionati nel capitolo precedente: Susanna tutta panna, Totò, Eva e il pennello proibito, La ragazza di mille mesi, etc…) sono calcolati al centesimo di secondo. Ma forse non è stata messa abbastanza in rilievo l’importanza del montaggio. Che assume livelli virtuosistici in un’opera come I tartassati (1959), un film con Totò (in contrasto con chi, come Gian Piero Brunetta, asserisce che nei film con l’attore napoletano «non esiste montaggio delle sequenze»5). C’è ne I tartassati una sequenza che è un esempio di montaggio articolato seguendo il principio del domino, procedendo per transitività e per contrasto6. La sequenza segue in parallelo il riflesso privato dello scontro pubblico tra il negoziante Pezzella, che ha frodato il fisco, e il maresciallo Topponi, che ha avviato un indagine su di lui. Lo spunto narrativo è comune alle sue storie parallele: il pranzo in famiglia. Il montaggio fa in modo che alle battute di Pezzella rispondano quelle di Topponi, definendo, in un’unica sequenza gli stati d’animo dei personaggi. Ad esempio, all’esclamazione di Topponi (rivolta ai figli che non apprezzano il pasto frugale ed economico): «E pensa che oggi c’è gente che non mangia», c’è uno stacco, l’inquadratura successiva mostra l’interno di casa Pezzella e quest’ultimo che, di fronte ad una tavola riccamente imbandita (c’è anche un fagiano), sbotta, immerso in tristi pensieri: «Oggi non ho fame». Tra le opere di Steno, quella che maggiormente mostra il livello raggiunto dal regista nell’affinamento degli effetti è Amori miei (1978). Tratto da una commedia con musiche di Iaia Fiastri, Amori miei esibisce formalmente ad ogni inquadratura il perfetto 4

Luigi Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 125-6 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p. 550 6 Associazione per transitività: Questo tipo di nesso si ha quando la situazione presentata nell’inquadratura A trova il suo prolungamento e completamento nell’inquadratura B. Associazione per contrasto: in due immagini contigue sono rinvenibili elementi marcatamente differenti ma la cui stessa differenza diviene fonte di correlazione. (F.Casetti, F.Di Chio, Analisi del film, cit., p. 97-98) 3 5

meccanismo

ad

orologeria

dell’intreccio.

Il

divertimento

nasce

dalla

vertiginosa

impalcatura di equivoci che la protagonista costruisce progressivamente e in modo consequenziale: la regia ne asseconda ogni movimento. Alla scansione geometrica dell’intreccio in fase di sceneggiatura (è la storia di un insolito triangolo amoroso, una donna con due mariti, ed ogni blocco narrativo è risolto nel modo triadico di azione, reazione, risoluzione), corrisponde quella delle inquadrature (anche queste ripartite triangolarmente, con un vertice alto: il modello è quello della partenza di Annalisa dalla stazione ferroviaria, con il treno che, posto al centro dell’inquadratura, divide come una quinta teatrale lo spazio scenico di Marco da quello del prof. Antonio) e del montaggio (l’inseguimento di Annalisa a Marco, per impedirgli di sentire il messaggio lasciato sul registatore, realizzato con un monteggio parallelo delle azioni dei due personaggi, ripresi in piani dalla durata progressivamente ridotta). La stilizzazione è così forte (anche i personaggi sono poco più di segni e lo dimostrano i loro nomi: Marco Rossi, Antonio Bianchi, Anna, Lisa) che il realismo della rappresentazione è annullato. Le tecniche di produzione comica sopra elencate sono quelle utilizzate da Steno per permettere ai comici che recitano nelle sue pellicole di esprimersi compiutamente. Come detto, gli autori della commedia all’italiana hanno avuto bisogno di una forte collaborazione attoriale, per esprimere al meglio le proprie doti comico-satiriche. Spesso, in questo lavoro, alla parola “attore” è stata affiancata la qualificazione di “maschera”: la ragione di questo abbinamento, valido per tutti i registi del genere, ma soprattutto per Steno, è che le interpretazioni degli attori non sono costruite in virtù di un’introspezione psicologica. I protagonisti delle numerose storie non sono veri personaggi, che seguono uno sviluppo logico coerente, che lottano contro le avversità della vita, fino ad esserne modificati nella loro coscienza interiore. I protagonisti delle pellicole di Steno, sono simboli, “caratteri” che aggiornano l’antico modello di costruzione dei personaggi da commedia, sintetizzando, e fissando in pochi tratti, un aspetto del costume sociale: Dipingere caratteri, cioè tipi generali, ecco dunque il fine della commedia. […] Non solo, infatti, la commedia ci presenta tipi generali, ma, a nostro parere, essa è l’unica tra tutte le arti che miri al generale. La commedia dipinge dei caratteri che noi abbiamo incontrato e incontreremo ancora sul nostro cammino. Essa nota delle rassomiglianze. Mira a mettere sotto i nostri occhi dei tipi. Creerà anche, all’occorrenza, dei tipi.7

I protagonisti dei film di Steno esasperano, nei loro atteggiamenti, i segni, i codici, le mode della società italiana: sono caricature che, rapportate con la società stessa, la mandano in crisi, rispecchiandone, in modo deformato, tic e manie. E’ il caso dell’americano di Roma, Nando Moriconi, il bullo romano maniaco degli Stati Uniti (Alberto Sordi in Un giorno in pretura e Un americano a Roma); della signorina snob Lady 7

Henri Bergson, Il riso, cit., p.123

4

Eva, che sogna di essere una nobile polacca, ma vive in un casermone romano e si chiama Cangiullo (Franca Valeri in Piccola posta), del negoziante Pezzella, che evade le tasse e tenta di corrompere la forza pubblica (Totò ne I tartassati). Anche quei personaggi che mostrano un’introspezione psicologica e che popolano le pellicole degli anni ’70, non sono alieni da un “surplus” simbolico nella loro rappresentazione. Salvatore Anastasia, protagonista di Anastasia mio fratello (1973) è un personaggio realmente esistito – la sceneggiatura del film è tratta da un suo memoriale – eppure la recitazione estroversa di Sordi sovraccarica la connotazione del personaggio, trasformandolo nel simbolo della solitudine dell’individuo in un mondo che gli è estraneo. A causa della loro funzione simbolica, i protagonisti di queste storie, non sono mai “positivi”, per abnormità fisiche, mentali o caratteriali. La struttura episodica dei film di Steno reclama la presenza di un cospicuo numero di attori. Le case di produzione avevano sotto contratto attori da sfruttare commercialmente e registi come Steno si adeguavano alle direttive, modellando gli intrecci su di loro. Nonostante nascano da propositi commerciali, queste pellicole rivelano il talento comico del regista.

E’ accaduto che Steno dovesse dirigere delle superproduzioni: Dino De

Laurentiis tentò il lancio internazionale di Totò in L’uomo, la bestia e la virtù (1953), affiancandogli Orson Welles e Viviane Romance; Franco Cristaldi procurò Brigitte Bardot e Gloria Swanson per la ricostruzione storico-parodistica di Mio figlio Nerone(1956). In questi casi si nota la qualità maggiore del regista, l’unica da sempre riconosciutagli: quella di far esprimere ad un attore le sue doti peculiari e di saper amalgamare le diverse recitazioni degli interpreti («a cui sapeva lasciare il giusto spazio»8). Il suo segreto stava nello scegliere subito il tono da accordare ad una storia ed utilizzarlo come punto di riferimento per gli attori. Ne L’uomo, la bestia e la virtù, la recitazione di Totò viene smorzata e quella di Orson Welles caricata, accomunandole in un tratto grottesco che ne deforma l’aspetto fisico e le reazioni mentali. Mentre in Mio figlio Nerone, la scelta di un tono comico comporta nella recitazione degli attori l’accentuazione dei gesti, consentendo di poter inserire, senza difficoltà, la recitazione caricata di Gloria Swanson, fortemente debitrice dei canoni del cinema muto. Il rapporto del regista con gli attori non fu sempre allo stesso livello. L’affinità tra l’interprete e il regista poteva essere maggiore o minore e si ripercuoteva sul valore delle pellicole. La regia di Steno può essere a volte di pura confezione, neutra. Accade spesso nelle farse girate frettolosamente negli anni ’60: non poteva esserci grande intesa con attrici come Tina Pica (protagonista nel 1958 di Mia nonna poliziotto),

8

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.179

5

giunta al ruolo di protagonista per motivi squisitamente commerciali; forse soltanto la soddisfazione di effettuare una nuova esperienza. Altre volte, notiamo che tra il regista e gli attori c’è affiatamento: è il caso del rapporto tra Steno e Raimondo Vianello. C’è una grande sintonia tra i due, che travalica la normale collaborazione tra l’attore e il regista. Sono molte le pellicole interpretate da Vianello: all’inizio della carriera in coppia con Ugo Tognazzi, con il quale replica, al cinema, i successi televisivi (A noi…piace freddo, Psycosissimo, La ragazza di mille mesi); quindi in coppia con Walter Chiari (Gli eroi del West, I gemelli del Texas, Amore all’italiana) e con Totò (Totò Diabolicus); infine da protagonista assoluto (00-sexy missione bionda platino, episodio di Letti sbagliati). Negli anni ’70, Vianello decide di abbandonare la recitazione e di dedicarsi al mestiere di sceneggiatore: a testimonianza di un intesa sempre accesa, diventa stretto collaboratore di Steno, scrivendo per il regista numerosi copioni comici – Il vichingo venuto dal Sud e L’uccello migratore con Lando Buzzanca; Il terrore con gli occhi storti con Noschese e Montesano; Fico d’India con Pozzetto e Maccione. Sono risultati divertenti, ma non memorabili come, a fronte di tanta empatia culturale, avrebbero potuto essere. La comicità che nasce dal loro rapporto mira alla costruzione della gag, a volte demenziale, spesso surreale, sempre con gusto sorvegliato, in ossequio alla logica umoristica inglese che governa la comicità di Vianello. Non sempre, però, la gag riesce a superare la dimensione di uno sketch, spesso si adagia su modi convenzionali, in attesa della fulminante risoluzione finale (è il caso dei venti episodi di Amore all’italiana). Il motivo è da ricercare, paradossalmente, proprio nella perfetta intesa tra Steno e Vianello: il temperamento scettico, caratteristico di entrambi, impedì un approfondimento tecnico che approdasse ad una comicità italiana originale, sul modello di quella degli inglesi Monty Python. Si accontentarono del livello raggiunto, che aveva un buon successo di pubblico e permetteva una discreta resa commerciale. C’è da rimpiangere la mancata attuazione, per la morte di Steno, del progetto di Vianello di un film imperniato su soli gag visivi: sarebbero forse riusciti a realizzare, liberi da ogni condizionamento commerciale, il progetto più conforme al loro tipo di comicità. Steno, che è stato uno svezzatore di talenti comici (a tanti ha concesso i primi successi commerciali da Tognazzi a Spencer, da Manfredi a Proietti a Montesano), ha creato con alcuni di essi un rapporto tale da superare la formalità professionale, per tramutarsi in amicizia. L’incontro con Totò e Alberto Sordi, ha segnato, per quantità e qualità, le rispettive filmografie. Nel loro caso, il regista non si è limitato ad amministare il loro talento comico, ma a modellarlo, esibirlo, mostrarlo sotto aspetti originali.

6

A

Totò

ha 9

«indemoniato»

consentito, negli

anni ’50,

di

variare

il

tono 10

folletto in Totò cerca casa, attore «universale»

delle

espressioni:

in Guardie e ladri,

«patetico»11 travet in Totò e i re di Roma, ironico «oratore»12 in Totò e le donne. Fino a confrontare l’attore napoletano con i classici della letteratura russa (Totò e i re di Roma, da Cecov) e italiana (L’uomo, la bestia e la virtù, da Pirandello) e a dedicargli un affettuoso omaggio in Totò a colori, primo film italiano a colori e «summa e apoteosi»13 della sua recitazione. Negli anni ’60 la loro collaborazione ha prodotto titoli che iterano i temi e gli stili di quelli del decennio precedente. Sotto la guida di Steno, Totò è lo strumento con cui si manifestano i differenti stili comici dei film: i suoi gesti acquistano valenze grottesche, assurde, farsesche, ora riducendosi alla pura meccanicità (la marionetta di Pinocchio in Totò a colori), ora debordando nella caricatura (il pittore Scorcelletti in Totò, Eva e il pennello proibito). La mdp sceglie il modo migliore per valorizzare l’attore: si ferma quando Totò mette in atto le sue capacità. D’altronde la moderazione dei movimenti della mdp è un artificio usuale per il genere comico, come afferma lo stesso Steno: Quelli che hanno lavorato di più con Totò sapevano che ci si doveva adattare a Totò, si doveva valorizzare Totò, i film erano fatti per Totò. Non so neppure se si può parlare di regia, bisognava tenere la macchina fissa, bisognava fare i film valorizzando la comicità di totò e non indulgendo alle bellurie della regia, bisognava seguire Totò e il suo estro. Non è vero che i film erano sciatti, erano dei film fatti su misura per Totò. Non si potevano fare troppi carrelli, bisognava tenere la macchina fissa, come si era sempre fatto nel cinema comico, come faceva anche Chaplin, non era una novità.14

La dichiarazione sembra avere il valore di una scusante: Steno tendeva, per la propria modestia a minimizzare il suo contributo. In realtà, il suo apporto di regista era notevole. Sapeva quando era il caso di assecondare l’attore, di lasciarlo libero di improvvisare a briglia sciolta, consapevole che Totò era anomalo: ora seguiva il copione, ora inventava e ti trascinava dove voleva lui. Ora aveva un metodo e ora la negazione di questo metodo. Fino alla fine non sapevi mai bene quale sarebbe stato il punto della vis comica di Totò. Ma questo solo con lui io l’ho provato.15

Poteva accadere perciò che la regia rimanesse incantata ad osservare le evoluzioni del protagonista, come in Letto a tre piazze, in cui Totò era in coppia con Peppino De Filippo. Lo ammette lo stesso Steno: In Letto a tre piazze c’è una scena in cui Totò e Peppino vanno a letto insieme, perché nessuno stia con la loro comune moglie. Facevamo la presa diretta, con dei rulli in macchina di trecento metri, e abbiamo avuto la sensazione che Totò sarebbe andato avanti. Peppino si doveva addormentare e lui guardarlo. Poi dovevamo dare lo stop. Ma lui continuava a guardarlo, e non sentendo lo stop, Peppino ha riaperto gli occhi e Totò ha improvvisato: «Ma sa che più la guardo e 9

Arturo Lanocita, Il Nuovo Corriere della Sera, 15.12.1949 in Orio Caldiron, Totò, cit., p. 95 Lamberto Sechi, La settimana Incom…, cit., p. 120 11 Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 19.10.1952 in Orio Caldiron, Totò, cit., p.125 12 Filippo Sacchi, Epoca, 17.1.1953 in Orio Caldiron, Totò, cit., p.127 13 Orio Caldiron, Totò, cit., p.20 14 Ivi, p.70 15 Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p. 194 10

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più mi piace?» e da lì è nato tutto un altro pezzo, Totò ha fatto delle cose terribili e divertentissime coadiuvato mirabilmente da Peppino. Tra Totò e Peppino c’era un’intesa di tempi che veniva dal teatro napoletano. Tempi che oggi non ci sono più. Inquadrature che andavano avanti per metri e metri senza un minuto di sospensione, e tutte improvvisate, senza perdere un tempo.16

Più spesso, la regia di Steno era creativa, contribuiva alla costruzione delle sequenze con il proprio senso del ritmo. Il riscontro, paradossalmente, lo ritroviamo in quello che è il film più personale di Totò, Totò a colori: un collage di sketch e macchiette del repertorio rivistaiolo dell’attore napoletano, in cui la regia sembra assente («…non era il caso di stare a fare della regia. Fu come se avessi dato la macchina da presa in mano a Totò. I tempi di Totò erano perfetti, perché lui li aveva sperimentati anni e anni con il pubblico»17 dichiarò Steno). Sembra, ma non lo è. Basta prendere ad esempio la celebre sequenza del vagone-letto, in cui Totò-Antonio Scannagatti aggredisce e disintegra la rispettabilità di Mario Castellani-onorevole Cosimo Trombetta, fino a consegnarlo alla polizia come individuo sospetto. La scenetta è stata ripresa anche in altri film con Totò (Totò a Parigi, 1958, di Camillo Mastrocinque, ed il televisivo Premio Nobel, 1967 di Daniele D’Anza), ma non ha mai avuto la stessa forza comica. E’ la testimonianza, sia pure indiretta dell’apporto di Steno e del suo senso del ritmo. La regia usa, in questa sequenza, come tecnica di ripresa, dei piani-sequenza molto lunghi (tutti di una durata di circa tre minuti) in cui lo spazio è “statico mobile”18. I personaggi si fronteggiano nell’inquadratura, rivelando i rapporti di forza, sorretti anche da un uso espressivo della scenografia: un cappello, appeso all’appendiabiti, divide a metà la scena e delimita il campo d’azione di Scannagatti e Trombetta, ostili tra di loro («Questi li chiamano topi di treno» sussurra Scannagatti, indicando l’onorevole): quando l’onorevole decide di presentarsi, supera la linea immaginaria definita dal cappello e provoca la reazione scomposta e impaurita di Scannagatti. Essendo l’immagine così statica, ogni cambiamento di inquadratura, ogni movimento di macchina acquista maggiore espressività. Il lungo piano frontale iniziale, che riprende il colloquio acceso tra Scannagatti e il capotreno («Io ho il biglietto per questo carrozzone qui», «Lei ha il biglietto per il Wagon Lit», «Ma perché mi vuol mandare lì se ho il biglietto per qui»), è interrotto da un piano laterale che introduce sullo sfondo dell’inquadratura la figura di Trombetta, che, in seguito, risolverà la situazione, spiegando a Scannagatti cos’è il Wagon Lit. I movimenti di macchina sono “dinamici-

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Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p. 184 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1351 18 «Lo spazio statico mobile è definito da staticità della macchina da presa e movimento delle figure entro i bordi fissi dell’immagine» (F.Casetti, F. Di Chio, Analisi del film, cit., p. 135) 19 «Lo spazio dinamico-descrittivo è definito dal movimento della macchina da presa in diretta relazione con quello delle figure» (Ivi, p.136) 17

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descrittivi”19 (con l’eccezione del carrello all’indietro che da Trombetta conduce nello scompartimento, che disegna lo spazio dell’azione): come la veloce panoramica laterale verso destra, a seguire il movimento di Scannagatti, corrispondente alle battute che sta pronunciando, in cui è implicito un movimento dell’oggetto del discorso («Mio fratello, oddio, e si nasconde la trombetta dietro»). I movimenti ed i cambiamenti del piano dell’inquadratura intervengono quando l’azione raggiunge il suo climax: in questo modo Steno riesce a dare ritmo alla sequenza, a rappresentare l’azione senza tempi morti. Con Alberto Sordi, negli stessi anni ’50 (ci sarà un nuovo incontro tra i due, a quasi vent’anni di distanza, con Anastasia mio fratello, ma i modi saranno totalmente diversi), Steno, grazie anche all’apporto dello sceneggiatore Lucio Fulci, creerà uno dei personaggi memorabili del cinema italiano, Nando Moriconi. «Clamorosa macchietta trasteverina, immediatamente riconosciuta dal pubblico “basso” di quartiere, ma anche dagli intellettuali che ne ripetevano le battute con autentico divertimento»20. Lo presenteranno in un episodio di Un giorno in pretura, quando, novello Tarzan, s’immerge nudo nella “marrana” e, privato, in seguito, degli abiti da un vigile, è costretto a tornare a casa «come un lumacone». Il successo del personaggio consigliò agli autori di ripresentarlo in un film in cui fosse protagonista unico, Un americano a Roma, dove Ritornò il buffo gergo misto di romanesco e di slang, si ripropose l’abbigliamento yankee (maglietta bianca da marine, cappelluccio da cowboy), si rifece il verso a generi ed eroi hollywoodiani: il musical di Gene Kelly, i bicipiti di Muscle Power, la minaccia suicida di 14° ora (come grattacielo il Colosseo), le esplosioni belliche (scavando buche per la Todt tedesca), la rombante Harley Davidson del policeman (da caricarci la fidanzata), la mazza del campione di baseball (da brandire alla discobolo), il cinismo da Asso nella manica. Ma esemplarmente all’italiana si ripeté la disavventura nudista col poveretto in corsa per le terrazze della bohème capitolina, inghirlandato d’alloro (da Nerone con la cetra sulle pudenda) e captato in diretta televisiva tra l’angoscia del presentatore e il disgusto delle vecchiette. E poi, costante come un tormentone, quella mania d’esser sceriffo “del” Kansas City nella mente colonizzata del bullo di Trastevere promosso Superman, del manzo proletario alimentato a fumetti. Che però mai, per nulla al mondo, e tanto meno per un sogno che metterebbe in crisi il suo egoistico equilibrio e la sua innata vigliaccheria, mai si allontanerebbe dalle strade e piazze deserte di notte, da percorrere con andatura da gangster; e mai, soprattutto, rinuncerebbe al piattone di spaghetti all’amatriciana. E proprio questa la sequenza da antologia […] Momento magico non previsto nel testo e (racconta Sordi) sbocciato sul set. Così ci si arriva. Reduce dal cinematografo rionale dove, ingozzandosi di popcorn, si è immedesimato nel protagonista western, il tanghero si pone all’agguato di una guardia notturna piuttosto in età, che non ha parole – non per paura, ma per lo sbalordimento – di fronte al giovinastro sbucato dall’ombra a minacciarlo, a guisa di pistola, con le dita di una mano («arma permessa dalla legge», spiega). Dalla finestra il padre asmatico, da ore in attesa nella camera da letto, inveisce contro il figlio deficiente. Il quale finalmente entra in cucina, scorge sul tavolo la pastasciutta lasciatagli da mammà e il fiasco di vino del “papi”, e li scosta con fastidio. Ora si accinge lui ad allestirsi una bella cenetta all’americana, a base di sani ingredienti come yogurt e mostarda, soprattutto mostarda. Ma al primo assaggio, prorompe in un inequivocabile «ammazza che zozzeria!». Non gli rimane che

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Ugo Casiraghi, presentazione del film Un americano a Roma, L’Unità, 24.6.1995

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rinsavire, buttandosi alla disperata sul cibo domestico, senza però rinunciare al tono minaccioso: «Macarone…m’hai provocato, e io ti distruggo…io me te magno!».21

Nonostante la struttura narrativa frammentaria, costruita su lunghi flashback che ripercorrono l’esistenza di Nando, la regia di Steno, stimolata dalla presenza di Sordi («Non avvertivo la sua invadenza, forse perché mi piaceva talmente che mi facevo plagiare da lui senza oppormi minimamente

[…] In fase di lavorazione Sordi dava un

grandissimo apporto, era una esplosione continua di battute e sapeva tenere fronte a chiunque, persino a Totò»22) riesce a visualizzare un’esperienza popolare collettiva e a lanciare la carriera dell’attore: Concentrando tutta l’attenzione sullo schizofrenico vitalismo di Nando, la regia di Steno si propone come modello praticabile di un nuovo divismo «all’italiana». Alberto Sordi sta diventando qualcosa di molto diverso dal «vitellone felliniano». La formazione definitiva del suo personaggio cinematografico è prossima ad attuarsi. Già ora restano assolutamnente ammirevoli il suo sguardo rotondo da eterno bambino (bello il confronto con il bambino che siede dietro di lui al cinema dove si proietta un film con Hopalong Cassidy), la sua folle gestualità durante il notturno rientro a casa («Gatto mammone fai finta di leggere il giornale, mi sono accorto sai, sei una spia…ti devo sopprimere, ti devo!») […], la sua fulminante battuta all’indirizzo dello spettatore che gli ha fatto la pernacchia («Ormai hai vent’anni, è tempo che tu sappia di chi sei figlio»). 23

21

Ugo Casiraghi, Presentazione…, cit. Steno, in Presentazione…, cit. 23 Aldo Viganò, Commedia…, cit., pp. 56-7 22

10

Capitolo 5. Un abile manipolatore dei generi (Tempi duri per i vampiri, Un mostro e mezzo, Dottor Jekyll e gentile signora) Enrico Giacovelli scrive nella sua rassegna sui registi della commedia all’italiana che Steno fu «regista di quantità: 73 film in quarant’anni, tutti comici meno due»1. Affermazione inesatta, soprattutto per quel che riguarda la seconda parte. Al regista piaceva sperimentare e fare cose nuove e durante la sua attività ha spaziato in quasi tutti i generi, dall’avventura (I moschettieri del mare e Rose rosse per Angelica) al bellico (I due colonnelli), al musical (La feldmarescialla), all’horror (Tempi duri per i vampiri, Un mostro e mezzo e Dottor Jekyll e gentile signora), agli episodi di Amore all’italiana, Letti sbagliati e Tre tigri contro tre tigri, al poliziesco (cui sarà dedicato un capitolo a parte), alla fantascienza (Totò nella Luna, Animali metropolitani). Nel volume Delitto per delitto c’è una definizione schematica dei generi cinematografici (il corsivo appartiene al testo): «Un genere è un sistema codificato di effetti, ovvero una macchina (tanto astratta e immateriale quanto efficiente) in grado di produrre determinate emozioni, in una determinata serie, mediante determinate forme»2. Il cinema di genere è il cinema popolare per eccellenza, quello maggiormente usufruibile dallo spettatore che non ha difficoltà a riconoscere i codici espressivi e dunque ad assimilare la logica del racconto – come ben ricorda lo storico Gian Piero Brunetta: «i film popolari dell’immediato dopoguerra si rivolgono a un pubblico a cui propongono modelli, forme e valori ben radicati nella cultura e memoria collettiva»3. Non a caso la cinematografia nel mondo che ha fondato la propria evoluzione sulla diversificazione dei generi è stata quella statunitense, la cui produzione, dominata dalle grandi case “majors” (Paramount, MGM, Warner, Rko) e “minors” (Universal, Columbia Picture), è industrializzata ed alla ricerca del maggior riscontro popolare possibile. A seconda dei temi affrontati, dello stile della regia, della tecnica di ripresa, della recitazione degli attori, dell’allestimento delle scenografie e non in ultimo del progetto fondamentale dell’opera, ogni film veniva definendosi all’interno di un genere, tanto per la sua rassomiglianza con altre opere che per la distanza che lo separava dalle altre. Così, a poco a poco, lo spettatore cominciò a capire in anticipo, in base agli attori presenti nel cast, osservando il manifesto, leggendo il titolo, e a volte solo dal nome della casa di produzione del film, a che genere di spettacolo avrebbe assistito.4

Quest’affermazione, fatta a proposito del cinema americano, è valida per il cinema di genere di tutte le nazioni. Soprattutto per il nostro che, più di ogni altro nel cinema

1

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.179 Mario Sebastiani, Mario Sesti, Delitto per delitto, Lindau, Torino, 1998, p.8 3 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.543 4 Philippe Paraire, Il cinema di Hollywood, Gremese, Roma, 1990, p.40 2

1

mondiale, dopo quello hollywoodiano, ha praticato il cinema di genere. Sempre (fino agli anni ’70) nel silenzio inquietante della critica, che quando ha affrontato il cinema popolare lo ha fatto secondo «un’ottica di tipo valutativo ideologico»5. Ma neanche un critico attento ai meccanismi della narrazione popolare, come Brunetta, sembra aver afferrato completamente il senso del cinema di genere, poiché è convinto che Non il metro estetico o qualitativo è pertanto l’unità di misura più adatta, mentre vanno resi operativi quei procedimenti e categorie che privilegiano i modelli culturali e ideologici, che verificano fenomeni di persistenza e variazione all’interno del cinema popolare.6

E più oltre: I film popolari annullano la nozione di autore e spingono tutta la loro azione in direzione del pubblico. Il successo di alcuni film consente di illuminare anche la figura dell’autore, con un effetto di ritorno. 7

La

posizione

del

regista

di

genere

sembra

essere,

in

queste

affermazioni,

sostanzialmente passiva, ma è già illuminante della personalità di un autore l’aver scelto un campo narrativo (un genere) piuttosto che un altro. E se esistono registi che hanno rispettato le convenzioni dei generi senza mai discostarsene (in Italia si possono ricordare i registi di film mitologici Guido Malatesta, Domenico Paolella, Fernando Cerchio), più sovente è il caso di autori che hanno rivoluzionato le regole di un genere (Bava, Argento e Fulci per l’horror; Cottafavi per il mitologico e l’avventuroso, Leone per il western) o ne hanno riprodotto e personalizzato gli schemi (è il caso di Tessari, che ha riunificato sotto il segno dell’iperbole parodistica e picaresca ogni genere affrontato dal western allo spionaggio al poliziesco). La valutazione del rapporto tra un regista ed il genere che ha praticato mette in gioco l’apporto personale del primo sugli schemi del secondo, l’analisi deve orientarsi sugli sfasamenti, le deviazioni impercettibili o eclatanti operati dal regista sui codici espressivi del genere. L’approccio di Steno ai diversi schemi narrativi è uniforme: a guidarlo è quel suo temperamento ironico e scettico che gli consente di non prendere nulla sul serio. Se nel caso dei film comici l’ironia era contenutistica, diretta ai personaggi, esasperati e tirati fino alla caricatura, nel caso dei film di genere, l’ironia si rivolge ai moduli narrativi, diventa formale, ne forza le convenzioni espressive, adoperando il modo parodistico, ma mai allontanandosi del tutto dai canoni codificati. E’ per questo che anche i suoi film di genere vengono considerati da Giacovelli come comici: nei congegni del racconto, la parodia prende il sopravvento sul resto dell’intreccio. Ma gli schemi narrativi, ribaltati,

5

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.540 Ivi, p. 541 7 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.3, p.542 6

2

stropicciati senza requie, svuotati del loro senso, vengono comunque sempre tenuti presenti. Il fatto di dedicarsi ad una cinematografia di genere ci ricorda che Steno è uno di quei registi italiani (come Germi, Comencini, De Santis) cresciuti studiando ed ammirando il cinema americano. Come ricorda Carlo Vanzina: «Fin da piccolo mio padre mi ha cresciuto nel mito dei grandi (John Ford, Alfred Hitchcock, Howard Hawks) e dei piccoli (Eugene Pallette, Edward Everett Horton, Donald Meek)»8. Nei film di genere Steno può rivelare il proprio gusto per il racconto dinamico e picaresco, come nei film d’avventura, ricordati dal regista con soddisfazione: Un film che mi sono divertito molto a fare, anche se nessuno se lo ricorda o se ne è accorto, proprio perché era molto diverso dai miei soliti, fu Rose rosse per Angelica, in Spagna. Un film di cappa e spada, che si svolge all’epoca della Rivoluzione francese. Il protagonista era Jacques Perrin, un ottimo attore che è anche produttore (ha fatto come produttore i film di Costa-Gravas, di Zurlini), bravissimo attore. La protagonista femminile era nientedimeno che Raffaella Carrà, reduce dal film che aveva fatto con Sinatra. Il mio era uno di quei film che hanno un loro iter commerciale ridotto, ma solido. Un altro film strano, molto tempo prima, era stato un film di corsari, I moschettieri del mare, con Aldo Ray e la Pierangeli. Giravamo sul Garda, e avemmo terribili vicissitudini di riprese. Ci sono dei duelli bellissimi, ma c’erano degli specialisti ad aiutarmi. La Pierangeli era una donna molto simpatica ma molto fragile, scossa emotivamente, parlava sempre di James Dean un po’ a ruota libera. Pronta al pianto. Le presentai io Trovajoli. Ma lei ormai era una persona senza più equilibrio.9

Questa produzione eccentrica è interessante perché, in questi film, è possibile ritrovare alcuni dei rari momenti di satira politica presenti nel cinema di Steno, che possono, indirettamente, permettere di risalire alle convinzioni politiche del regista. Nel musical bellico La feldmarescialla (1967) il repertorio musicale - costituito da canzoni d’epoca come “Rosamunda”, “Camminando sotto la pioggia” (di Macario), “Non dimenticar (le mie parole)”, “Pippo non lo sa” e da due canzoni contemporanee, “Il geghegè” e “Un due, tre, se marci insieme a me” scritta appositamente per la protagonista del film Rita Pavone dagli sceneggiatori Castellano e Pipolo – è utilizzato in funzione satirica, contro il nazismo e, per metonimia, contro ogni forma di dittatura e di arroganza politica: la canzone “Rosamunda”, intonata da Rita Pavone, si spande per le radio tedesche al momento del discorso del Führer; con un meccanismo da Blob, ci vengono mostrati, nelle immagini di repertorio, Hitler e Mussolini, nelle pose più tronfie e veementi, mentre con una iconoclastia sfrontata, le parole dei loro terribili discorsi sono sostituite dalle note scatenate dello “Geghegè” di Rita Pavone. Nell’avventuroso Banana Joe (1982), con Bud Spencer, soffia invece, «una brezza leggera e cauta di allegro anarchismo»10. Banana Joe è un bianco che vive allegramente nella selvaggia Amazzonia, ad Amantido (un flebile richiamo al mito di Tarzan), con una 8

Carlo Vanzina in Film Tv, 31.12.1995/6.01.1996 Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p. 211 10 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 130 9

3

prole numerosa, senza pensieri, senza contatti con il mondo civile, se non quelli fugaci e obbligatori con un venditore di banane, con il quale commercia per sostentarsi economicamente. Quando si scontra con una grande organizzazione economica a carattere mafioso, che vuole colonizzare l’Amazzonia, togliendo agli indigeni il commercio delle banane, Banana Joe, costretto a misurarsi con la “civiltà”, non sa raccapezzarcisi: gestione burocratica della realtà quotidiana (per lo stato Banana Joe non esiste, perché non è stato iscritto all’anagrafe, non possiede certificato di nascita e carta d’identità e senza il primo non può ottenere il secondo e viceversa), corruzione negli ambienti politici ed economici, distanziamento e formalizzazione nei rapporti interpersonali sono le deviazioni del mondo civile che emergono a contatto con la sua primitiva ingenuità. Cerca di risolverle allora a modo suo: aggredisce il ministro degli Interni e si sostituisce a lui, ma viene arrestato («Perché sto qui dentro?», «E me lo chiedi pure?…Hai attaccato al muro un ministro.», «Perché, non si può?», «No, non si può.»). E’ costretto a fare il servizio militare, per ottenere un documento che gli procuri la licenza per il commercio. Non si adatta al mondo civile. Ritorna, allora, sull’isola, debella l’organizzazione malavitosa (a suon di botte) e torna alla pace di prima, trovando anche l’amore di una bella tedesca del mondo “civile”. Ma il mito del “buon selvaggio” funziona a metà: Banana Joe ha capito che, per muoversi nel caotico mondo contemporaneo, ci vuole almeno la bussola dell’istruzione e così costruisce una scuola ad Amantido, dove la sua donna insegnerà ai piccoli le regole elementari dell’educazione, a cominciare da quelle grammaticali. La

satira

politica

di

Mio

figlio

Nerone

(1956)

segue,

invece,

i

moduli

dell’avanspettacolo: la macchietta di Nerone era un successo di Ettore Petrolini, e fu immortalata per sempre da Alessandro Blasetti, con la sua trasposizione cinematografica di Nerone (1930). Alberto Sordi, nel ruolo di Nerone, si rifà anche fisicamente a Petrolini, ornando il suo volto della stessa barbetta e degli stessi riccioli biondi. La figura dell’imperatore romano, tiranno che ambiva alla trasformazione del principato augusteo in una monarchia centralizzata, esautorando i senatori del loro potere, figura capricciosa con pretese artistiche (si dilettava nel bel canto) si prestava, già all’epoca di Petrolini, a fungere da bersaglio fantoccio per una satira della dittatura fascista. Mio figlio Nerone esibisce i riferimenti all’avanspettacolo e alle riviste umoristiche nella sua satira politica diretta: il film seleziona gli aneddoti più tipici, gli spunti più facili e li esaspera fino al grottesco. Così gli aneddoti di Caligola che fece senatore un cavallo e quello di Nerone aspirante musicista, sono presi alla lettera, uniti e caricati fino alla buffoneria: Nerone, nel film di Steno, compone un’orchestrina con maiali, conigli e gufi e rampogna gli animali perché non vanno a tempo. I modi ed i personaggi del vivere civico sono caricati fino al ridicolo, secondo uno sprezzo che talvolta perde carica per foga eccessiva. Ma 4

almeno il personaggio di Seneca, che predica tanto la moralità e decanta le virtù della morte, salvo istigare Nerone al matricidio ed avere tanta cura della propria vita, ha precise attinenze con la politica contemporanea. Ha le caratteristiche fisiologiche di quegli onorevoli democristiani che popolano con sicumera i film di Steno, ridicolizzati e distrutti con scherno feroce e disarmante, la cui sintesi è il già ricordato onorevole Trombetta. Nella lunga carriera di Steno, occupa un posto non indifferente la trilogia di parodie horror, distesa in un arco cronologico di vent’anni esatti (il primo film è del 1959, l’ultimo del 1979) e, per questo, molto dissimile nello stile e nella fattura, negli intenti e nelle ambizioni, ma collegata dall’argomento: la rivisitazione parodistica dei miti storici dell’horror. Tempi duri per i vampiri (1959) affronta il mito di Dracula, Un mostro e mezzo (1965) quello della creatura di Frankenstein, Dottor Jekyll e gentile signora (1979) quello del Dottor Jekyll (e più in generale dei mutanti, cioè uno di quegli individui che «è essenzialmente un diverso, un deviante, uno che non sta bene nella propria pelle; come tale si pone, e pone agli altri, dei problemi di identità»11). A legare tra loro le tre opere è la struttura del racconto, costruita intorno ad un comico (o ad una coppia di comici), lontanissimo, iconograficamente, dalle atmosfere nere e inquietanti dei personaggi e delle situazioni del genere horror. Renato Rascel in Tempi duri per i vampiri, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia in Un mostro e mezzo, Paolo Villaggio in Dottor Jekyll e gentile signora sono gli elementi incongrui che dissacrano, con la loro sola presenza, tutti i canoni del genere. Vedere aggirarsi tra le stanze di un castello tenebroso il piccolo Rascel, avvolto in un tenebroso mantello che, quando si lancia sulle prede, si scosta, mostrando sotto di esso le bretelle ed una maglia di lana, è già un abbassamento di tono che getta nel ridicolo tutti i canoni del genere, azzerandolo nelle premesse (l’eroe e soprattutto il “mostro” non devono essere ridicoli). Analogo significato ha la sequenza di Un mostro e mezzo, in cui Ciccio Ingrassia – novello dottor Frankenstein – crea nel laboratorio la sua creatura, prima muovendosi tra storte ed alambicchi, poi lavorando attorno ad un pentolone, in cui aggiunge ingredienti sempre più improbabili, fino a gettarci dentro un maiale e ad assaggiare con soddisfazione la mistura ottenuta, evidentemente un brodo. Sembra esserci disomogeneità anche sulle occasioni che hanno permesso la nascita dei tre film. Tempi duri per i vampiri, infatti, può essere considerato un film su commissione, un’idea azzardata del produttore Mario Cecchi Gori: la parodia di un genere, l’horror, che in Italia non aveva tradizione (c’era stato Malombra, di Soldati, nel

11

Daniela Catelli, Ciak si trema. Guida al cinema horror, Theoria, Roma-Napoli, 1996, p.191

5

1942, ed un primo tentativo di Riccardo Freda, I vampiri, nel 1957). L’idea venne al produttore per sfruttare il grande successo ottenuto da Dracula il vampiro (1958, Fisher). Prodotto dagli inglesi della Hammer, il film di Terence Fisher aveva rilanciato un genere in coma, aggiornandolo a gusti moderni, grazie ad un paradossale ritorno alle radici sette e ottocentesche del gotico, alla concretezza “realistica” delle descrizioni di Lewis Maturin, Stoker, Mary Shelley, prodighe di inquietanti paesaggi sepolcrali e di dettagli raccapriccianti e sanguigni. L’orrore non (è) più soltanto metafisico, ma platealmente fisico, personificato e incombente persino nella compassata solidità domestica vittoriana.12

I film della Hammer (che rivisiteranno tutta la mitologia gotica da La maschera di Frankenstein a L’implacabile condanna) avevano rivoluzionato non soltanto i contenuti del genere, ma anche i moduli formali. Come spiega Antonello Sarno: Punto di rottura con «l’orrore suggerito» di ogni tempo ed età […] il periodo del gotico inglese vide anche una crescita dal punto di vista formale nell’uso cromatico della fotografia, con una serie di tonalità accese, specie sul rosso, che caratterizzarono la scenografia in senso barocco (e perfino pre-psichedelico) spazzando via il vecchio bianco e nero fino ad allora dominante.13

In un genere ancora fermo all’impostazione visiva post-espressionista datagli da Tod Browning (Dracula, 1931), destò impressione l’insistenza ossessiva di Fisher sulla carnalità del vampiro sulla sua carica sensuale. Puntuale è la precisazione di Daniela Catelli: I film della Hammer sono anche i primi ad evidenziare il dettaglio grafico dei canini che penetrano nella carne: il colore brillante porta il sangue in primo piano e l’atto mostrato a tutto schermo è il primo passo verso una pornografia dell’orrore per l’epoca scioccante, ed efficace anche ad una visione contemporanea. 14

Ad evidenziare quest’aspetto concorre la presenza dell’attore che incarna Dracula, l’altissimo Christopher Lee, quasi animalesco nelle sue fattezze. Sono elementi, questi, che Steno tiene presenti nel girare Tempi duri per i vampiri: la brillantezza fotografica (con predominanza dei rossi), la scenografia barocca (un castello sul mare, pieno di scale che non portano a nulla, di camminatoie, di passaggi segreti e trabocchetti) e la fisicità della storia. A tal proposito Mario Cecchi Gori chiama proprio Christopher Lee ad interpretare il ruolo del vampiro e sulla differenza d’altezza tra Lee e Rascel (ripresi sempre insieme nelle inquadrature, a distanza scalare dal centro) la parodia gioca gran parte delle sue carte. La storia del barone spiantato che ha uno zio transilvano vampiro che lo contagia, segue tutti i canoni del mito dei vampiri. Un mito di origine slava che «assomma in sé la paura […] di un ritorno dei morti dall’aldilà, associato in genere al desiderio di continuare

12

Emanuela Martini, Storia del cinema inglese 1930-1990, Marsilio, Venezia, 1991, p.235 Antonello Sarno, Il cinema dell’orrore, Newton Compton, Roma, 1996, p.49 14 Daniela Catelli, Ciak si trema…, cit., p.191 13

6

ad assaporare i piaceri terreni, in particolare il cibo e il sesso»15. Fissati i canoni in letteratura nel racconto di Polidori16 e nel romanzo epistolare di Stoker17, il vampiro è una figura di confine, che vive tra le ombre notturne e sta a metà tra due mondi e due stati: è morto ma vive in eterno, è legato alla sua bara e ha dei limiti precisi (non sopporta l’aglio, la vista della croce, non può attraversare l’acqua corrente, l’ostia consacrata lo ferma, deve essere invitato per entrare in una casa) ma al tempo stesso ha potere sulle creature del mondo vivente come i lupi e i topi.18

In Tempi duri per i vampiri, lo zio del barone arriva su un treno, trasportato in una cassa (che il nipote crede essere il bagaglio, ma il bagaglio è lo zio stesso), fugge di fronte alla vista di un palo a forma di croce e vampirizza il nipote con un morso sul collo. La parodia apporta una modifica decisiva: l’aggiornamento della vicenda all’epoca contemporanea al film. Un aggiornamento che provoca variazioni sul piano narrativo. Il barone è un nobile spiantato costretto a vendere il suo castello ad una società che lo trasformerà in un albergo e farà del barone uno dei camerieri; l’arrivo dello zio vampiro consentirà, al termine della vicenda, la riappropriazione, da parte del barone, dei suoi beni: un ritorno all’ordine segnato da un intervento del passato rispetto alla volgare e consumistica società moderna. La donna, poi, non è più soltanto una vittima inerme del vampiro: sarà proprio il bacio di una vergine ad interrompere la stregoneria. Il ritorno all’horror, a distanza di sei anni, con Un mostro e mezzo, nascerà sotto un segno diverso. Steno e Sandro Continenza (suo abituale collaboratore) preparano un soggetto ricco di riferimenti al cinema americano: dovrebbe essere interpretato da Totò e Boris Karloff, allora in Italia per girare I tre volti della paura di Mario Bava. Ma il progetto ha difficoltà a procedere. Per Continenza la colpa, indiretta, fu di Boris Karloff: Scrivemmo con Steno questo soggetto, la storia di uno strano collezionista di cadaveri che trovava Totò, ma il film abortì perché, quando lo vedemmo, Boris Karloff era proprio vecchio.19

Per Steno, invece, fu colpa del mercato, che non richiedeva più Totò: I suoi film facevano meno cassetta. Ne ebbi una prova e ne rimasi allibito. Io avevo preparato un film che si chiamava Il mostro di Roma, che si doveva fare per Buffardi, con Totò e Boris Karloff, e Gianni non riuscì a chiuderlo. Lo feci poi con Franchi e Ingrassia, che allora andavano per la maggiore, e si chiamò Un mostro e mezzo. La stessa sceneggiatura. Non si combinò per Totò e si combinò per Franchi e Ingrassia!20

Le citazioni di Un mostro e mezzo, se fosse stato interpretato da Boris Karloff, sarebbero state molto più significative. In primo luogo, la parodia avrebbe ruotato intorno ad un ribaltamento di ruoli: Boris Karloff, segnato per tutta la carriera dalla sua 15

Daniela Catelli, Ciak si trema…, cit., p.185 John William Polidori, Il vampiro, 1816 17 Bram Stoker, Dracula, 1897 18 Daniela Catelli, Ciak si trema…, cit., p. 185-6 19 Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p.187 16

7

interpretazione della creatura di Frankenstein (Frankenstein, 1931, La sposa di Frankenstein, 1935 di James Whale) avrebbe interpretato il ruolo dello scienziato. Non solo, il fatto che il professore del film fosse anche un ladro di cadaveri riconduceva ad un’altra classica interpretazione di Karloff, quella di La jena (1945, Robert Wise). La parodia avrebbe esibito la sua caratteristica di omaggio ad un attore e a tutto un genere del cinema americano. La presenza di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia provoca un duplice adeguamento, degli attori alla storia e della storia agli attori. La natura della comicità della coppia è stata esemplarmente analizzata da Alberto Castellano e Vincenzo Nucci: Franchi e Ingrassia come molte altre coppie del cinema comico sottolineano una diversità immediatamente significante: basso, tozzo, sbozzato nel legno ma con giuste proporzioni delle membra è Franco; alto, allampanato, filiforme ed emaciato, con gli arti più lunghi rispetto al busto è Ciccio. Quella che è una differenza puramente anatomica è suscettibile di volta in volta di accentuazioni e diminuzioni. La struttura elastica apparentemente munita di altezza regolabile dell’uno e quella anelastica attestata su una rigidità monolitica sempre al limite dello sgretolamento dell’altro, ne rimarcano ulteriormente il dislivello. Dislivello che si traduce sul versante comicoespressivo in una compensazione mimico-gestuale: alla snodabilità, ai fulminei mutamenti di espressione, alle trasigurazioni al limite dell’impossibile, allo sfrenato fregolismo di Franco, fanno da contraltare la graniticità, la fissità della maschera, la legnosità generata dal ruolo, il personaggio unidimensionale di Ciccio.21

Dopo averli paragonati alle altre celebri coppie dello schermo (Stanlio e Ollio, Gianni e Pinotto, Jerry Lewis e Dean Martin) ed aver ritrovato in Totò e Jerry Lewis i modelli della comicità di Franco Franchi, Castellano e Nucci affrontano un’analisi delle loro gag: E’ il “qui pro quo” , il doppio senso, l’equivoco verbale a suggerire la gag visiva. Di solito è Ciccio, preesistendo a un dislivello intellettivo, non tanto marcato come potrebbe apparire, ad offrire la nota giusta al partner. Le sue affermazioni, dettate da un buon senso comune e morfologicamente elementari, si scontrano con una ostentata assenza di ricettività e di sforzo riflessivo di Franco, ricoprendo involontariamente il ruolo di “saggio”. Il suo equilibrio psicologico e la rassicurante essenzialità controllano e al tempo stesso cozzano contro l’incontenibile intemperanza verbale ed una afasia disarmata e disarmante di Franchi […].22

Anche Un mostro e mezzo contiene la tipica comicità della coppia. L’intento di Steno è però quello di storicizzare e rendere manifesti i meccanismi delle gag. Di dare alla comicità popolare di Franchi e Ingrassia precisi riferimenti culturali, rivelando al pubblico i modi di costruzione delle gag, isolandole ed evidenziandole all’interno del tessuto narrativo o costruendole su citazioni. All’incredibile mobilità facciale e corporea di Franco, è riservata un’intera sequenza: quella della simulazione di un cadavere pronto per essere esaminato anatomicamente da un chirurgo universitario (il prof. Carogni). L’attore muove il suo corpo come se le 20

Ibidem. Alberto Castellano-Franco Nucci, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia: due matti al servizio del pubblico, in Nico Cirasola (a cura di), Da Angelo Musco a Massimo Troisi: il comico nel cinema meridionale, Dedalo, Bari, 1982, p.102 22 Alberto Castellano, Franco Nucci, Franco Franchi…, cit., p. 107 8 21

articolazioni fossero snodate e le membra indipendenti, in una tensione espressiva che varia dalla estrema rigidità alla mobilità gommosa di organi che sembrerebbe impossibile muovere. La totale impermeabilità di Franco alla logica comune è alla base delle gag con il direttore del carcere in Francia. La regia di Steno sottolinea la sua estraneità ad un qualunque

comportamento

razionale,

accentuando

parossisticamente

le

smorfie

dell’attore siciliano in un controcanto recitativo che ha la valenza degli “a parte” teatrali: le inquadrature tagliano a metà lo spazio scenico, pongono in spazi opposti i due personaggi e, mentre l’uno tenta di utilizzare tutte le armi della logica, mostrano le reazioni sorde dell’altro. Sono soprattutto le citazioni a costituire il tessuto connettivo di Un mostro e mezzo. Oltre al ribaltamento parodistico dei codici dell’”horror” (i ricordati riferimenti a Frankenstein e La jena), sono presenti citazioni da Crimen (1960, di Camerini: il cadavere tagliato a pezzi nella valigia), dal Mafioso (1962, di Lattuada: il viaggio dalla Francia in Italia dei due attori in due casse di legno) e c’è un funerale accelerato che si trasforma in un inseguimento scatenato sulle note di Garibaldi fu ferito, che è insieme un omaggio al René Clair di Entr’acte (1924) ed a Totò (e a Steno stesso: l’inseguimento finale di Totò a colori). Il tentativo di conformare culturalmente la loro comicità, obbligò Franchi e Ingrassia ad evitare tutto quello che vi era di superfluo e di ridondante nella loro recitazione. Rinunciarono all’improvvisazione e si affidarono al regista. Che elaborò uno stile composito che riuscisse a coniugare i riferimenti cinematografici, l’iconografia dell’horror e le gag di Franchi e Ingrassia. C’è in Un mostro e mezzo un’attenzione formale insolita per questo genere di film. La fotografia di Tino Santoni, attenta a tutte le gradazioni del bianco e del nero, ed il taglio delle inquadrature ricreano un clima espressionista (filtrato dalla lezione del cinema americano) e rarefatto. Lunghe ombre si proiettano sui muri, i corpi di oggetti e persone acquistano una consistenza plastica stagliandosi, isolati, nelle inquadrature (come la ghigliottina nel cortile del carcere), un clima brumoso invade il paesaggio francese, stanze e corridoi esibiscono le loro consistenti dimensioni, silenziosamente vuote nella loro architettura geometrica. La vicenda assume una connotazione sempre più astratta: strade, ospedali, case sembrano, a volte, non rivelare un’esistenza umana ulteriore a quella dei protagonisti: in questi momenti Un mostro e mezzo raggiunge i più evidenti punti di contatto con il genere “horror”. Il ribaltamento di questi momenti inquietanti e fantastici avviene con repentini e voluti cambi di tono, fratture del ritmo eseguite con un preciso lavoro di montaggio. Elaborati movimenti di macchina (carrellate e panoramiche laterali che definiscono gli spazi 9

dell’azione) e primi piani dei personaggi, preparatori della costruzione della gag, lasciano spazio ad un alternarsi di totali, piani americani, piani medi che, con un ritmo sempre più serrato (la durata delle inquadrature montate progressivamente diminuisce) definiscono l’azione e si concludono improvvisamente. L’elaborazione dello stile è evidente in quelle che sono le due sequenze narrative più calibrate del film: il funerale ed il risveglio di Franco dopo la fuga dal carcere. La prima è costruita con un montaggio che accelera il ritmo lento iniziale (il feretro marcia lentamente con il seguito dei parenti a piedi) in un balletto che assume progressivamente cadenze di marcia militare: i protagonisti entrano ed escono dalle inquadrature dai lati opposti in cui ci si aspetterebbe che entrassero ed uscissero. La musica è decisiva nell’accompagnare l’accelerazione progressiva della sequenza. La seconda sequenza è costruita, all’opposto, con i movimenti di macchina. La mdp prepara, e mostra allo spettatore, ad uno ad uno tutti i segni che, con la loro polisemia, provocheranno l’enorme equivoco che è alla base della gag: scampato dalla condanna a morte grazie all’aiuto di Ciccio, Franco non regge all’emozione (l’amico aveva sabotato la ghigliottina con una zeppa di legno, che aveva fermato la lama ad un palmo dal suo collo) e sviene. Ciccio lo deposita in un campo, che si rivela l’aia di una fattoria. C’è un uomo con i capelli lunghi bianchi e una veste da notte: si è evidentemente appena alzato dal letto, ha con sé una radio per ascoltare la messa, si dirige verso la stalla con un’enorme chiave in mano per aprirla. Scorto Franco svenuto, sale su un carro in disuso, una ruota del quale, rotta, è ritta in aria. Quando il povero Franco rinviene, si ritrova davanti, torreggiante, un tizio vestito di bianco, dalla chioma candida fluente, barba lunga e bianca, con l’aureola (è la ruota dietro alla sua testa) ed una chiave in mano, mentre nell’aria si spandono note angeliche. Fa presto ad identificarlo con S.Pietro ed a confidargli i suoi peccati: figurarsi la sua sorpresa, quando quest’uomo imponente gli risponde: «E a me che me frega?». La trilogia si conclude quattordici anni dopo con Dottor Jekyll e gentile signora. Il tempo intercorso tra un film e l’altro è decisivo per modificare modi, intenti ed ambizioni della parodia. Tratto da un soggetto di Castellano e Pipolo, che capovolge lo schema del romanzo di Stevenson, Dottor Jekyll e gentile signora, dietro i moduli narrativi del thriller e dell’horror, è un grottesco di satira politica e di costume. Costruito sulla comicità del protagonista Villaggio, presenta una forte escursione stilistica tra il tema di fondo (la satira della società capitalistica, comandata da un potere economico sovranazionale e dalle sembianze mafiose) ed il modo in cui è raccontato: con una comicità elementare che punteggia le sequenze con cascatoni, botte in testa, schiaffi. E’ il modo di costruire le gag tipico di Paolo Villaggio, con iperboli grottesche che trovano la loro origine in un piacere sadomasochistico del dolore. E’ tipica di Villaggio la 10

ripetizione delle gag, l’allusione, la citazione fino al plagio delle situazioni comiche (la gag delle parallele viene da La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau, 1978, di Blake Edwards). Ma è tipica di Villaggio anche la satira anticapitalistica del film, nonostante, ufficialmente, l’attore genovese non abbia partecuipato alla stesura della sceneggiatura (gli autori sono Steno, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi). La rappresentazione grottesca del potere economico-politico di Fantozzi, in Dottor Jekyll e gentile signora acquista una consapevolezza ed un’icasticità brechtiane. Anche qui, come in Fantozzi, il punto di vista è interno ad un’azienda, di cui gli autori rivelano una conduzione disumana. I dipendenti della multinazionale P.A.N.T.A.C. di Dottor Jekyll e gentile signora sono cinici quanto i padroni. L’esponente di punta è il dottor Jekyll, docente di arrivismo politico che insegna ai suoi allievi le tecniche dell’eversione e mira ad immettere sul mercato un chewing-gum che provochi la piorrea in tutti i suoi consumatori (così da fornir loro protesi P.A.N.T.A.C.), sponsorizzato direttamente dalla regina d’Inghilterra, dopo un adeguato ricatto. I problemi per il terribile dottore giungono quando comincia a mostrare segni di umanità (scrive bacioni al termine di una lettera, chiama poveretti i braccianti). Per risolverli si allena ad essere cattivo (simula sul trenino elettrico un incidente ferroviario) e sembra risolvere i problemi una sera, quando scopre nella sua casa vittoriana un passaggio segreto che lo conduce nel laboratorio del suo antenato, Mr. Hyde, ancora vivo («grazie ai diritti d’autore dei film»!). L’antenato infatti gli consiglia di bere il siero del male, distruggendo l’antidoto, per raggiungere la cattiveria assoluta. Il dottor Jekyll esegue e si accorge troppo tardi di aver subito l’ultima malefatta di Mr. Hyde (morto nel frattempo): è divenuto un cherubino dai riccioli biondi e la parlata veneta. Sotto queste spoglie si precipita a sabotare tutti i piani orditi dalla sua precedente malvagia personalità. Rende angelica anche la sua perfida segretaria e, dopo aver combattuto con i ritorni dell’antica personalità, tenta la grande missione: rendere buona tutta la popolazione mondiale («perché gavemo el ben nel bon del cuore e le campane fan din don»). I dirigenti della P.A.N.T.A.C. sembrano sconfitti, ma riescono ad evitare di essere angelicati e possono sfruttare la popolazione mondiale resa innocua («Per noi i buoni saranno buoni clienti e buoni dipendenti»). Il lungo riassunto della trama è doveroso per rendere esplicito come la satira politica sia aliena da alcuna parvenza di qualunquismo. Il capitalismo viene mostrato come un sistema sociale ed economico senza scrupoli, in cui i poteri politici sono succubi di società economiche multinazionali. Il riferimento a Brecht non è forzoso: c’è nel film di Steno lo stesso uso di un linguaggio che porta allo scoperto le pulsioni reali che governano i personaggi. Il linguaggio non nasconde più la coscienza, ma la svela. Viene altresì condannato un sistema sociale basato sull’etica della bontà perfetta. Jeeves, il maggiordomo del dottor Jekyll, ammonisce il professore sui rischi di una tale 11

operazione: «La sua bontà ha l’età di quel secolo. Data 1886. Una bontà vittoriana, bigotta, puritana. Noiosissima». Ma il dottor Jekyll insiste nella sua missione, col risultato di arrivare ad un mondo pacificato, piacevolmente assoggettato al capitalismo, senza più spirito di ribellione, omologato fino alla perdita di identità. Il dottor Jekyll, una volta terminata l’operazione, viene spedito dalla P.A.N.T.A.C. «dove finiscono quelli che vuoi levarti dai piedi dandogli uno stipendio. L’ho sbattuto in televisione, lui e la sua gentile signora». Leggerà notiziari di questo tipo: «Politica interna: niente. Notizie dall’estero: niente. Sport, campionato nazionale di calcio divisione nazionale: tutti pareggi», inframmezzati da spot della sua segretaria reclamizzanti prodotti P.A.N.T.A.C.. L’ultima sequenza, terribile e beffarda, chiosa emblematicamente il film: immagini di repertorio di giovani contestatori (alcune riprese sono quelle del concerto di Woodstock) che intonano questi slogan: «Cari padroni, siete troppo buoni. Le paghe che ci date vanno dimezzate. Vogliam fare lo straordinario senza perdere il salario. Vogliamo lavorare a Pasqua e a Natale. Cari padroni siete troppo buoni…». Ancora una volta, come per La feldmarescialla, il disimpegno apparente del cinema di genere, nasconde in Steno i punti di maggior esibizione dell’ideologia politica. La frammentazione comica dell’intreccio, anche troppo ricco di spunti narrativi, comporta un forte squilibrio strutturale che ha impedito alla critica di accostarsi a Dottor Jekyll e gentile signora con acume analitico. Il film è stato stroncato («…il film è talmente brutto e fasullo da superare ogni limite del possibile»23) o ignorato (Viganò ha banalmente parlato di «superficiale meccanismo farsesco, cui Paolo Villaggio presta tutta le risorse della sua recitazione fatta di smorfie e ammiccamenti spesso a doppio senso»24), anche fra i cultori di Villaggio, che lo hanno considerato una semplice appendice di Fantozzi. A mostrare interesse sono stati, oltre Enrico Giacovelli («Dottor Jekyll e gentile signora di Steno ha delle punte di genialità per il modo in cui trasforma il protagonista del romanzo di Stevenson nel dirigente di una multinazionale con licenza di inquinare»25), recentemente, i sostenitori del genere “horror”26: il film di Steno, infatti, mostra una perfetta conoscenza dei meccanismi del genere. Come per Un mostro e mezzo, vengono valorizzati la scenografia e la fotografia (di Ennio Guarnieri): la casa del dottor Jekyll è ricostruita nel tipico modo vittoriano, con le pareti di legno, i tappeti rossi, i mobili d’epoca, scale interne, camini che celano passaggi segreti. La fotografia di Guarnieri è livida negli esterni e dominata dai rossi negli interni. Ci sono citazioni di altri

23

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.236 Aldo Viganò, Il secolo XIX, 30.9.1979, in R.Poppi-M.Pecorari, Dizionario del cinema italiano…, cit., vol.4-II, p. 256 25 Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.135 26 Luca M.Palmerini, Gaetano Mistretta, Spaghetti Nightmares, M & P Edizioni, Roma, 1998, p.316 24

12

film (la scoperta del laboratorio segreto del dottor Jekyll è identica a quella del dottor Frankenstein di Frankenstein junior di Mel Brooks: l’inquadratura obliqua di una scala che conduce nel buio; c’è un ritratto di Spencer Tracy nei panni del dottor Jekyll, nel film di Fleming del 1941, Dottor Jekyll e Mister Hyde) e, ovviamente le sequenze della mutazione del dottor Jekyll, che capovolgono la normale iconografia: da essere eccezionalmente peloso si trasforma in cherubino, senza mostrare il passaggio con trucchi ed effetti ottici. La combinazione tra l’umorismo nero ed il grottesco, tra il taglio visivo gotico e la gag, non è insolito in Steno. In un episodio di Amore all’italiana (Cortesia ferroviaria), il protagonista, Walter Chiari, getta dal finestrino del treno un nano che non sopportava il fumo del suo sigaro. Mio figlio Nerone e la seconda parte di Piccola posta mettono in scena un grottesco che la stilizzazione della regia approssima al sadismo dei fumetti e delle fiabe. Gli intrighi concitati di Mio figlio Nerone, che nascondono un rovello psicanalitico (la ribellione violenta di Nerone ai tentativi di assoggettamento della madre Agrippina), riprendono formalmente il sadismo delle situazioni dei fumetti (grazie anche ad una fotografia dai toni molto accesi, gialli, rossi, verdi, blu) nei reiterati tentativi di Nerone di sopprimere sua madre: i personaggi di Mio figlio Nerone si muovono agilmente tra vipere, bevande avvelenate, affondamenti navali, schiacciamenti, superando indenni ogni prova, secondo un crescendo iperbolico tanto maggiore tanto più è evidente l’immortalità di chi è assuefatto al pericolo. Il grottesco di Piccola posta è prossimo alla terribile levità delle fiabe, ricche di truculenza e di effettacci, ma in cui l’orco cattivo sempre soccombe all’ingenua e primigenia bontà dei fanciulleschi protagonisti (sarà l’incolumità fisica dell’attentatore stesso ad essere progressivamente in pericolo, tanto da rischiare la morte nell’ultimo tentativo). In questo film l’orco è Alberto Sordi, la cui recitazione tesa fino al grottesco (con la voce impostata, i gesti ridondanti), caratterizza fino alla paranoia il suo personaggio del «falso barone (che) attira una signora benestante in un ospizio per vecchiette che dirige con sadismo, onde farla fuori ed ereditarne i quattrini»27. La regia di Steno si adegua alla sua recitazione: i primi piani diventano abnormi, la fotografia contrastata, le inquadrature si dividono a metà (Sordi si trova sempre nelle parti buie, dove nasconde i suoi malvagi progetti), così come la struttura del racconto (basato sulle coppie di opposti azione/reazione, progetto/risoluzione).

Le situazioni

si

fanno

stravaganti fino al surreale («Volete le vecchie? Ve do tutto lo stock…» implora il disperato Sordi ai suoi creditori) e raggiungono l’apice nel coro di vecchine, che si reificano fino ad assumere la consistenza di strumenti musicali. L’andatura del racconto si

27

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.105

13

fa sempre più espressionista, sino a culminare consapevolmente nella sequenza dell’agguato di Sordi alle vecchine questuanti, risolta con un gioco di ombre. Per comprendere come a spingere Steno al cinema di genere fosse l’autentica passione che l’animava, è significativo Cinema d’altri tempi (1953). Film molto personale, «sorridente rivisitazione del film muto e delle torte in faccia»28 (quel cinema infantile, arrangiato e provvisorio che non aveva presunzioni autoriali, ma mirava al puro divertimento: quasi una ricerca del regista dei propri antenati cinematografici), sul modello di Il silenzio è d’oro (1947, Clair), scritto con Age e Scarpelli, smitizzando gli spunti potenzialmente patetici. Questa pellicola si distingue per le capacità mimetiche di Steno, abile a ricreare filologicamente i generi in voga all’epoca. Riprese a quadri fissi, recitazione gestuale caricata, languide pose della primattrice, fotografia virata al colore seppia distinguono i melodrammi liberty interpretati dalla diva Ausonia (Lea Padovani), ricalcati sui moduli stilistici dei film interpretati da Francesca Bertini o Lyda Borelli. Comicità facile e banale, ricca di cascatoni infantili e di torte in faccia, dai ritmi accelerati, distinge le comiche di Kretinoski, evidente riferimento al vecchio comico Cretinetti. Quella di Steno è una ricerca inesausta di modelli, forme e meccanismi del comico, delle

sue

origini,

di

una

sua

possibile

concordanza

con

codici

diversi.

Capitolo 6. Il gioco di specchi dei film polizieschi: (auto)riflessioni sul racconto giallo. (Guardie e ladri, Totò Diabolicus, Arriva Dorellik, La polizia ringrazia, Piedone lo sbirro, Doppio delitto) Il giallo è un genere poliedrico, i cui tanti modi di nominarlo (“mistery”, “thriller”, “hard-boiled”, “crime-story”, “spy-story”) definiscono aspetti narrativi diversi, ma tutti fondati su un unico, preciso meccanismo. Che la narrazione metta in gioco le indagini su un delitto misterioso, o faccia un resoconto di una rapina “quasi” perfetta, che sottolinei gli aspetti violenti della sua scansione, o rilevi l’enigmaticità di arcane situazioni, il motore del giallo è sempre uno: la struttura dualistica. Una struttura così scandita formalmente, così esteticamente geometrica da risultare perfetta per la rappresentazione di quelle pulsioni primarie che governano la vita mondana e permeano le aspettative dei suoi fruitori. La forma dualistica può esprimere contenuti metafisici (la lotta eterna tra il Bene e il Male), psicanalitici (la scissione tra la parte emersa e quella sepolta e oscura 28

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.105 14

della nostra coscienza), sociali (il contrasto tra l’onestà e la corruzione della nostra società): l’importante è che li esprima sotto forma di lotta e con uno stile tanto più razionale e geometrico, quanto più irrazionale, scomposta, oscura e indicibile è la materia narrativa del racconto. Se denudiamo il poliziesco dalla sua prodigiosa mole di testi e scritture, del territorio, del suo immaginario e della sua armatura formale, vi ritroviamo la pulsazione di investimenti psichici senza una possibile storia (la pura insondabile, l’ansia, la tensione, il senso di minaccia, l’orrore e l’attrazione per la violenza), il fantasioso lavoro del testo in grado di maneggiarle senza privarle della loro forza distruttiva. C’è sempre un complicato rituale del plotting dietro un delitto o un’azione di spionaggio (lo smascheramento del colpevole o il mascheramento di un io che si traveste da nemico), una rapina o un’evasione (la preparazione, l’esecuzione, il fallimento), un processo o un’operazione di polizia. Non è proprio questo il “mistery”? Il racconto di un omicidio in sua assenza (la “detective story”), la presentazione di una violenza in grado di mettere profondamente in crisi la legalità ma mai di sotituirla, l’ossessione della soluzione di un mistero o dell’aberrazione testimoniata dall’accanimento di un comportamento nevrotico (la vendetta, l’ambizione, la gelosia, l’avidità, la passione) in quanti implicano la mobilitazione sociale e istituzionale, fisica e mentale provocati dal crimine.1

C’è differenza tra il giallo letterario e quello cinematografico (che consolida il dicrimine «attraverso il quale passa dalla classicità aIla modernità, dall’armonia logico-deduttiva dell’indagine di stampo anglosassone allo stress psicofisico del nero americano, dalla restaurazione rituale dell’ordine alla sanzione puntuale e infinita del caos, sociale e morale, sotto le spoglie del ripristino della legalità»2): Il mito narrativo, sociologico, estetico, della lotta al crimine è una struttura straordinariamente versatile, plastica, duttile entro la quale il genere cinematografico ha disegnato uno spazio multiforme e autonomo.3

Il fatto che il giallo sia nato come genere letterario anglosassone, che l’Inghilterra e gli Stati Uniti ne abbiano tracciato le linee conduttrici per decenni – la prima stilizzandolo come un gioco da tavolo o un indovinello, approfondendo pervicacemente le sue strutture enigmatiche (a farlo sono autori come Arthur Conan Doyle, Freeman Wills Crofts, Richard Austin Freeman, Agatha Christie, Nicholas Blake, Dorothy Leigh Sayers, Anthony Berkeley, ed anche gli americani S.S. Van Dine4, Ellery Queen e John Dickson Carr); i secondi donandogli un apparente realismo, riportandolo nella quotidianità da cui si era allontanato in Inghilterra (autori esemplari sono Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Ross MacDonald, Fredric Brown) – e che sempre le due nazioni se ne siano cinematograficamente

appropriate,

dominando

la

produzione

gialla

mondiale,

ha

impedito per anni (almeno fino agli anni ’60), in Italia, una corretta disposizione al

1

Mario Sesti, Mario Sebastiani, Delitto per…, cit., p.15 Ivi, p.9 3 Ivi, p.13. 4 S.S. Van Dine, pseudonimo di Willard Huntington Wright (1888-1939) ha formulato Venti regole cui gli scrittori di mistery dovevano attenersi per non inficiare il gioco intellettuale con il lettore. 2 2

genere, con la convinzione, da parte dei critici (letterari e cinematografici) che il giallo non fosse frequentabile ai nostri scrittori e registi. In realtà la frequentazione italiana del genere è sempre stata assidua5: ed i continui riferimenti al poliziesco da parte di Steno le testimoniano. La sua esperienza nel genere è misconosciuta, essendo la nutrita serie di titoli gialli comunque inferiore alla produzione comica; nelle sue storie, il meccanismo giallo è spesso legato a quello comico, secondo un’ottica di demitizzazione parodiante. Parodistici o rispettosi dei codici, i gialli di Steno elaborano consistenti variazioni su quasi tutti i sottotemi polizieschi (“mistery”, “thriller”, “whodunit”, “poliziesco”) ed è giallo-poliziesca una delle sue opere principali, La polizia ringrazia (1972), titolo fondamentale per tutto il cinema italiano, poiché diede il via ad un nuovo genere, originalmente italiano, il “poliziottesco”. Il primo contatto col genere poliziesco avvenne già nel 1951, quando il regista ancora collaborava con Monicelli: Guardie e ladri (1951) che – nonostante l’apparenza comica causata dalla presenza dei due protagonisti Totò ed Aldo Fabrizi e dalle osservazioni di costume della regia – rivela l’appartenenza al genere già nella scansione narrativa: il furto iniziale (la moneta falsa che Esposito rifila all’americano), l’inseguimento, l’arresto del ladro, la sua fuga, le indagini, gli appostamenti della guardia ed il nuovo, definitivo, arresto finale. La struttura dualistica del giallo è evidente. Il racconto si snoda alternando i due diversi punti di vista: le indagini della guardia Bottoni e i tentativi di fuga del ladro Esposito. La regia impedisce che il parallelismo e l’alternanza dei due piani dell’intrigo divengano meccanici. Col procedere della storia, il personaggio di Esposito sembra progressivamente scivolare fuori dalla logica del racconto: il punto di vista della regia (e così anche quello dello spettatore) sembra identificarsi con quello della guardia. Si fa in modo che lo spettatore sappia più di quanto sa il personaggio del ladro, creando quell’autentica suspense che si scioglierà nella delicata sequenza finale quando Esposito scoprirà che il signor Bottoni, benefattore della sua famiglia, altri non è che la sua guardia persecutrice. Questo sfasamento della logica del racconto permette allo spettatore di tracciarsi un quadro della situazione, di distanziarsi dai personaggi, di metterne in gioco i valori: la guardia è dalla parte della ragione, ma, per raggiungere il lecito fine, si serve di un mezzo subdolo; allo stesso tempo, il pubblico comprende che,

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Cfr. Stefano Benvenuti-Gianni Rizzoni, Il romanzo giallo, Mondadori, Milano, 1979; Roberto Di Vanni-Franco Fossati, Guida al giallo, Gammalibri, Milano, 1980; Franco Fossati, Dizionario del poliziesco, Vallardi, Milano,1994; Maurizio Colombo-Antonio Tentori, Lo schermo insanguinato, Solfanelli, Chieti, 1990; Luca Palmerini, Gaetano Mistretta, Spaghetti nightmares, M & P, Roma, 1998; Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Città violente, Tarab, Firenze, 1998; Luca Rea, I colori del buio, Igor Molino Editore, Firenze,1999. 3

nel racconto, non è più rappresentato l’astratto rispetto di una Legge, ma il concreto modo di vita di due personaggi comuni nell’Italia del secondo dopoguerra: due proletari separati da una divisa, ma accomunati dalla stessa disagiata condizione economica e sociale, che «stabiliscono un contatto umano proprio attraverso queste tare dell’età, della vita affannosa e dura a tutti e due»6. L’indagine di costume diventa un giallo morale, superando il canone del genere, pur rispettandone tutte le regole. La lunga serie di appostamenti, nella prima parte di Guardie e ladri, quando i due personaggi incrociano i loro percorsi senza mai toccarsi, è un vero poliziesco “en plen air”, in cui la contrastata fotografia in bianco e nero di Mario Bava si rifà ai codici del genere: grandi piazze assolate e nere zone d’ombra si alternano, ora rivelando, ora nascondendo i due personaggi in gioco. E’ in sequenze come queste (gli appostamenti di Bottoni nel negozio di un barbiere; la fuga di Esposito, che avviene in un poco nobile gabinetto di osteria) che combinano il genere del poliziesco e quello della commedia, tentando la smitizzazione del racconto. Lo si nota nella sequenza in cui per la seconda volta Bottoni entra nel salone del barbiere, senza accorgersi che vi si trova già Esposito. I due registi usano la profondità di campo per muovere il meccanismo degli equivoci, che scatta facendo in modo che i due personaggi non si accorgano di trovarsi insieme nello stesso luogo, mentre lo spettatore, consapevole, aspetta il momento dello scontro. La suspense è costruita in modo hitchcockiano (lo spettatore sa più dei personaggi)7, ma l’inseguimento di Bottoni ad Esposito, con la faccia sporca di schiuma da barba («Avete visto un uomo col sapone in faccia?», «Sì, te») è una notazione comica che travolge la scena in modo parodistico. Sarebbe bastato comunque togliere questi momenti comici dal racconto per fare di Guardie e ladri un’anticipazione italiana del Braccio violento della legge (1971, Friedkin). Anche se alcune opere successive, come Guardia, ladro e cameriera (1958) e Mia nonna poliziotto (id.) si fondavano su intrecci labilmente polizieschi ( il primo, è il racconto di un colpo tentato da tre ladruncoli l’ultimo giorno dell’anno; il secondo, segue le indagini di un’estrosa vecchietta, alla ricerca del suo medaglione rubato, che sgominerà una banda di criminali), non si possono ritenere tali perché rivelavano la natura farsesca, nel ritmo accelerato e nella struttura a sketch. Steno ritornerà al giallo nel 1960, esercitandosi stavolta con il sottogenere del thriller, secondo un’angolazione parodistica, come evidenzia già il titolo: Psycosissimo. In realtà, Psycosissimo, non ha molti contatti con lo Psyco (1960) di Hitchcock: molto più evidenti quelli con un altro film del regista inglese, Delitto per delitto (1951). In ambedue le opere, l’intrigo mette in scena uno scambio di delitti. Nel thriller di Steno, però, a 6 7

Corrado Alvaro, Il Mondo…, cit., p.122 Cfr. François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrici, Roma, 1994

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differenza di quello di Hitchcock, l’incrocio dei delitti mette in gioco i protagonisti stessi che, ognuno ignaro dei propositi dell’altro, vogliono eliminarsi a vicenda (come accadrà ne L’onore dei Prizzi, girato venticinque anni dopo da Huston) e assoldano a tale scopo due killers. L’inconsapevolezza delle due parti in causa e la natura ottusa dei due sicari assoldati (interpretati da Tognazzi e Vianello) spostano il racconto sul terreno della farsa. Ma l’ambientazione prevalentemente notturna, le giravolte concitate dell’intreccio e una sequenza iniziale di forte impatto, ambientata lungo i binari di una linea ferroviaria, indicano come la struttura thriller del film sia tutt’altro che effimera. Tanto che Giusti ricorda come Psycosissimo «al tempo faceva comunque paura. Ricordo con terrore soprattutto il finale con i nostri due eroi trasformati in salsicce»8. Steno mostra di trovarsi a suo agio nel genere e prosegue su questa strada con altre due parodie: Totò Diabolicus (1962) e Arrriva Dorellik (1967), nei quali, fin dal titolo, è esplicito il riferimento al genere dei fumetti e ad uno dei suoi eroi, Diabolik, personaggio creato dalle sorelle Giussani, protagonista di una lunga serie di storie sadico-criminose. Entrambi i film ne riprendono l’iconografia: i criminali Diabolicus e Dorellik si aggirano nelle rispettive storie, infatti, in calzamaglia nera. Il gioco parodistico è, però più complesso di quanto non appaia superficialmente. Steno tenta, in queste operazioni, la parodia del giallo a enigma, rifacendosi, cinematograficamente, ad un classico della comicità macabra inglese, Sangue blu (1949, Robert Hamer). Il film di Hamer metteva in scena un intrigo canonico del poliziesco anglosassone: lo sterminio cadenzato di tutti i membri di un’antica e nobile famiglia, effettuato, per questioni di eredità, da un parente illegittimo. Sangue blu aveva due peculiarità: il racconto era messo in scena dal punto di vista dell’assassino; tutti i membri della famiglia - «compreso quello di una suffragetta in crinolina»9 - erano interpretati da un unico attore, Alec Guinness,. Steno svilupperà i due spunti separatamente: Totò Diabolicus ed Arriva Dorellik, si presentano, perciò, come una duplice variazione sullo stesso tema. In Totò Diabolicus, il regista articola l’impianto narrativo intorno alla camaleontica interpretazione di Totò che interpreta i sei membri della famiglia Torrealta (perseguitati e uccisi da un misterioso Diabolicus), risultando credibile e comico anche in abiti muliebri. Dopo un iniziale accanimento critico nei suoi confronti – Valentino De Carlo osservò che nel film si trovavano «[…] trovate e battute da avanspettacolo cacciate a martellate in una vicenda sgangherata più del lecito […]»10 - Totò Diabolicus è stato debitamente rivalutato, ma sempre mettendo in luce il multiforme talento di Totò («l’ultimo grande 8

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.608 Claude Beylie, I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990, p.166 10 Valentino De Carlo, La notte, Milano, 30.4.1962 in Orio Caldiron, Totò, cit., p.206 9

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film comico di Totò da solo»11). In realtà questa ben congegnata farsa, anche prescindendo da Totò, ha valore nella sua struttura da thriller. La sceneggiatura – scritta, tra gli altri, da Marcello Fondato, da sempre interessato ai meccanismi poliziesco-orrorifici in chiave ironica : Il fornaretto di Venezia (1963, Duccio Tessari), Sei donne per l’assassino(1964, Mario Bava), I tre volti della paura (1965, Mario Bava), Ad ogni costo (1967, Giuliano Montaldo) – costruisce una ferrea storia di delitti ed agnizioni, con una soluzione sorprendente degna dei classici del genere (il riferimento è un romanzo di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani) e tutti gli elementi canonici: le indagini, gli interrogatori, gli alibi, gli indizi. Steno concerta i momenti della sceneggiatura senza scarti di tono, nonostante la contaminazione parodistica. I due poliziotti che conducono le indagini (un commissario e il suo vice, interpretati da Luigi Pavese e Mario Castellani) sono raffigurati secondo l’iconografia burlesca dell’investigatore razionale e del suo aiutante: il commissario, accompagnato da una fedele pipa (come Maigret), analizza i fatti e fa le sue deduzioni e, mentre i morti si moltiplicano, continua ad affermare: «Il cerchio si stringe»; il suo vice indossa un impermeabile (come il tenente Sheridan) e, come un coscienzioso Watson, subisce passivamente le deduzioni del superiore, traendolo d’impaccio nelle situazioni più scabrose (come nell’interrogatorio del generale nostalgico del fascismo). Anche un “topos” tipicamente americano, come l’interrogatorio, è svelato nei suoi meccanismi convenzionali e superato in una situazione comica. L’interrogatorio del postino, scambiato da Pasquale Buonocore e dai suoi investigatori privati per l’assassino, attraverso l’esasperazione grafica dell’aggressività e della violenza dei suoi interlocutoripersecutori (Buonocore tortura il postino avvitandogli il naso, prendendolo a testate, sputandogli in un occhio, torcendogli un piede di centottanta gradi), diventa un esempio di sadismo comico e ricongiunge il film al fumetto di partenza. Sul piano della scrittura cinematografica, Steno dimostra di destreggiarsi abilmente anche con un artificio tipico del poliziesco come il “flashback”, a cui affida la messinscena dei momenti pregnanti del racconto (la preparazione del delitto iniziale, lo scioglimento finale), introducendolo con una panoramica orizzontale (ad uno scarto spaziale corrisponde uno scarto temporale). Tutto il film si presenta come un esercizio virtuosistico da parte di Steno e Totò. L’interpretazione, da parte dell’attore napoletano, dei sei Torrealta, risolve il punto debole dei gialli fondati sul puro intrigo, in cui il meccanismo travolge la caratterizzazione dei personaggi. Lasciato libero di improvvisare tic e macchiette, Totò mostra di divertirsi realmente nel disegnare i personaggi del barone gaudente, del generale nostalgico in

11

Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.104

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camicia nera, del chirurgo miope, della baronessa fanatica della perfezione giovanile, dell’esimio cardinale e, infine, di Pasquale Buonocore, figlio illegittimo, in cui acquista una valenza di maschera il suo consueto personaggio di saggio miserabile, dall’atavico scettiscismo. Gli scambi di identità sono evidenziati dal regista nella sua messinscena: in ogni sequenza sono distribuiti falsi indizi; tutta la struttura del racconto si fonda su un film nel film (la pellicola inviata da Diabolicus al barone Torrealta, preannunciante la sua prossima morte) che, infine, si rivelerà falso, annullando tutte le certezze. Una “myseen-abyme” che tocca i suoi vertici nella presenza dello stesso Steno nel ruolo di attore (è Angelo, il giardiniere deforme e ritardato) e nella vertiginosa soluzione finale, in cui un fratello Torrealta si rivela un personaggio travestito: la regia si sofferma sulla creazione della sua falsa personalità che è anche, con evidenza metafilmica, la costruzione di una maschera da parte di Totò e ci svela che l’ultimo assassinato non è affatto Pasquale Buonocore, ma un uomo che ne indossava la maschera (e che, di conseguenza, indossava la maschera di Totò). Steno manipola i meccanismi del giallo, costruendo un discorso personale in cui i complicati giochi agnitivi divengono anche una riflessione formale sui diversi gradi di verità della rappresentazione cinematografica. La stessa logica governa anche Arrriva Dorellik, in cui Steno utilizza l’altra caratteristica di Sangue blu, la narrazione in soggettiva da parte dell’assassino. L’elaborazione di Arrriva Dorellik è molto complessa: nato per sfruttare il grande successo televisivo che Johnny Dorelli aveva ottenuto con il suo Dorellik («un Diabolik scalcagnato che non spaventerebbe una mosca»12), il progetto si sviluppò grazie all’ambizione degli sceneggiatori Castellano & Pipolo di rifarsi, oltre che a Sangue blu, alla commedia americana ed in particolare a La pantera rosa (1964). Il risultato è che il thriller si trasforma in una commedia dell’assurdo a causa della buffoneria del personaggio del commissario Green, nemico giurato di Dorellik (si ripropone la rivalità di un’antica e famosa coppia della letteratura poliziesca: quella tra Fantomas e l’ispettore Juve, protagonisti dei romanzi di Allain e Souvestre) ed agli esiti catastrofici con cui si risolvono i suoi tentativi di impedire all’assassino mascherato di sterminare gli ottocentocinquantadue membri della famiglia Dupont. L’assurdità del racconto tocca livelli abissali, analoghi a quelli di Totò Diabolicus, nel finale, quando Green e Dorellik si tolgono vicendevolmente la maschera, rivelando ognuno le fattezze dell’altro: i due rivali sono le due facce della stessa personalità. L’inventività del film ha trovato il sostegno di Enrico Giacovelli: …Gustoso […] Arrriva Dorellik di Steno, dove le tre “r” del titolo non sono un errore, ma una dichiarazione di poetica, e dove Johnny Dorelli appare più spassoso che mai nel ruolo del malvivente geniale e scalognato da lui messo a punto nel varietà televisivo “Johnny 7”: il film vorticoso e ricco di trovate è una sorta di Pantera rosa all’italiana, concluso da un impagabile 12

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.199

7

inseguimento alla fine del quale criminale e poliziotto si tolgono la maschera e uno scopre di essere l’altro. Ci sono più idee in questo filmetto che in tanti film cosiddetti di serie A.13

Una sorta di appendice è, l’anno dopo, Il mostro della domenica, episodio del polittico Capriccio all’italiana e ultima interpretazione di Totò, in cui un vecchio moralista s’immagina giustiziere mascherato in calzamaglia e ripulisce letteralmente la nuova generazione dei “capelloni”, usando mille travestimenti per adescarli. La storia è un apologo farsesco, leggero e sorridente, ma Steno la costruisce come un giallo, con uno stile ellittico che provoca un discreto senso del mistero, e numerose inquadrature a mano che conferiscono dinamicità al racconto. Nel 1972, passati i quattro anni di crisi creativa, Steno tornerà al giallo con La polizia ringrazia, progenitore di un genere, il poliziesco all’italiana, che si svilupperà nella seconda metà degli anni ’70. Il regista racconta come il progetto nacque casualmente : Un giorno che avevo deciso di non andare in macchina, perché mi ero stufato di dover stare sempre al volante, tornai in centro a piedi, nella zona di Piazza Colonna, dove avevo abitato per anni. E incontrai un amico, Lucio De Caro, che non vedevo da tempo. Ci siamo messi a parlare e subito abbiamo pensato ad una cosa da fare insieme, ma una cosa un po’ diversa, e tra le varie idee pensammo stranamente agli squadroni della morte in Brasile. E da lì è nato La polizia ringrazia, un film che ha precorso tutto, non solo un filone, ma anche purtroppo, tanti fatti drammatici della nostra società. 14

L’operazione di Steno ha connotazioni originali sia rispetto al poliziesco che a quello dei film politici, a cui pure evidentemente si approssima. Rispetto ad alcuni precedenti tentativi di cinema poliziesco italiano, La polizia ringrazia presenta una sostanziale e decisiva novità: la presenza della polizia. La critica ha ricercato i suoi riferimenti nei film di Siegel e Sturges; ma il film di Steno ha maggiori affinità con il contemporaneo I nuovi centurioni di Richard Fleischer, di cui condivide, oltre allo sguardo interno alle forze di polizia, l’ideologia, che individua le cause del declino della società nel «permissivismo dei costumi»15 (lassismo morale, uso di stupefacenti, sessualità dirompente e mercenaria). Rispetto ad esso, comunque, La polizia ringrazia traccia coordinate differenti: per la prima volta, infatti, accostandosi al poliziesco, Steno non riprende o rielabora dei canoni, ma li crea ex-novo, stabilendo i punti di riferimento per gli epigoni del genere. In primo luogo, all’interno dell’approccio totalizzante e cronachistico nei confronti del materiale narrativo – quasi un diario degli arresti, inseguimenti, pedinamenti effettuati dalla questura romana – ritaglia la figura di un individuo solitario, un commissario che si ritrova in conflitto con la polizia, poiché non ne accetta i metodi di condotta, e vi scopre un’incancrenita corruzione.

13

Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 108 Goffredo Fofi-Franca Faldini, Il cinema italiano…, cit., Mondadori, Milano, 1984, p.451 15 Renato Venturelli, Poliziesco americano in 100 film, Le Mani, Recco, 1995, p.158 14

8

L’equazione poliziesco-western è stata ben messa in luce da Tentori e Bruschini, nel loro saggio Città violente, quando ricordano che «c’era la necessità di un altro genere ben preciso e caratterizzato che sostituisse il western nei favori del pubblico»16: i poliziotti protagonisti del poliziesco italiano sono molto simili agli eroi solitari di tanti western, di cui conservano soprattutto la loro estraneità ad una società ostile. In questo contesto è, forse, più interessante ricordare che il disaccordo dell’”uno” contro “tutti” nel poliziesco (nel caso de La polizia ringrazia, il commissario Bertone contro i suoi colleghi) verte sui modi con cui reprimere la violenta situazione sociale, sviluppatasi negli anni ’70, in cui la microcriminalità (scippi, furti, stupri, omicidi colposi) comincia ad assumere aspetti molto rilevanti. Bertone (e i suoi epigoni ancora di più, nei film successivi) prospetta, come soluzione, un irrigidimento nell’applicazione della giustizia

e,

soprattutto,

maggiore

potere

alla

polizia,

limitata

nelle

sue

azioni

dall’ossequioso rispetto delle leggi. La prima parte de La polizia ringrazia è un «efficace e preciso ritratto di un’epoca della vita italiana, con le sue contraddizioni e i suoi drammi, in cui traspare la tensione e la paura di quegli anni»17 ed una corretta rappresentazione comportamentistica di Bertone nella sua lotta alla microcriminalità: vengono seguiti alcuni casi esemplari come la rapina ad una gioielleria operata da due balordi che, nella fuga, uccidono un passante; la fuga di uno dei due ladri, con una ragazza come ostaggio, che ucciderà, quando si sentirà accerchiato dai poliziotti, gettandola letteralmente sotto le ruote delle volanti; i rapporti tra Bertone ed un criminale riconosciuto, Bettarini, che entra ed esce dalle patrie galere, sviluppando il risentimento del commissario («…noi diamo la caccia ai delinquenti e la procura dà la caccia a noi!», «Moderi i termini, commissario, siamo nel palazzo di giustizia!», «Quale giuistizia? Quella che ha assolto Bettarini quando tutti sanno che è colpevole?»). La seconda parte del film, di tono nettamente differente dalla prima, mette in scena la lotta di Bertone contro una misteriosa organizzazione Anticrimine che comincia ad uccidere, o, meglio, giustiziare, alcuni delinquenti (un ladro, una prostituta, un omosessuale) con ritmo cadenzato. Bertone ne scoprirà i capi all’interno della stessa polizia (anche all’interno del governo, e dell’alta finanza), trovando il movente nella volontà di ripulire la società dagli aspetti più decadenti, per acquistare credenziali tali da poter effettuare un colpo di stato, con cui rovesciare la democrazia. Bertone verrà ucciso, ma l’inchiesta verrà proseguita dal sostituto procuratore Ricchiuti, fino ad allora ostile al commissario ed ai suoi modi giustizialisti.

16 17

Antonio Bruschin, Antonio Tentori, Città violente, cit., p.7 Ivi, p.27

9

La seconda parte, insomma, sviluppa i fili della prima e mostra le conseguenze cui condurrebbe un comportamento reazionario come quello di Bertone, se portato fino in fondo: alla fine della democrazia. L’organizzazione Anticrimine, infatti, non fa altro che attualizzare, esasperandoli, i propositi del commissario. La morte di quest’ultimo è la più potente risposta a chi accusò il film18 (e il regista) di reazionarietà: la sua uccisione finale è la sconfitta di chi non crede nelle istituzioni, nella loro forza sociale, pur se debilitata dalla corruzione. Il punto di vista di Steno corrisponde con quello del personaggio del procuratore Ricchiuti: un uomo che conserva la propria onestà e il rigore morale pur all’interno di un ambiente corrotto e di una situazione sociale esasperatamente violenta. Non a caso sarà lui a condurre l’inchiesta sull’Anticrimine: il regista è profondamente fiducioso nella facoltà delle istituzioni di potersi riformare dall’interno. La forza de La polizia ringrazia sta, comunque, nel modo semplice con cui racconta una storia complessa ed ambigua. La dialettica politica è messa in scena raffigurando i tre versanti dello schieramento politico (sinistra, centro, destra) in altrettanti personaggi: Bertone (destra), Ricchiuti (centro) e la giornalista Sandra (sinistra). E’ un metodo un po’ didascalico (i personaggi del racconto sembrano non avere sentimenti privati), ma estremamente chiarificatore che rileva le forze in campo con evidenza ideologica. La didascalicità è superata, allo stesso tempo, dalla definizione psicologica dei personaggi, spiccia, ma nitida. Il commissario è un tipo d’azione, ma di poca riflessione, con una visione manichea della realtà: la regia lo inquadra sempre in movimento, anche nei rari momenti riflessivi. Sandra è disegnata come una passionale, attenta a non confondere la grande con la piccola delinquenza (come fa invece il suo amico commissario), ma ha il difetto di esprimersi per luoghi comuni. Ricchiuti è un idealista senza eccessi, un onesto funzionario dell’apparato statale. A dare evidenza ai tre personaggi sono, come sempre in Steno, le prestazioni degli attori, senza sfumature, ma con molta grinta: Mario Adorf (Ricchiuti), Mariangela Melato (Sandra) e, soprattutto, Enrico Maria Salerno, «straordinario»19 nel tratteggiare il commissario violento ed esasperato. Anche la regia contribuisce ad alleggerire una struttura narrativa potenzialmente pesante e statica: la

posizione

ideologica

di

Bertone

è visualizzata in una

conferenza-stampa che il commissario tiene su un autobus, facendo da cicerone ai giornalisti, in un lungo viaggio nella notte tra prostitute e spacciatori, affiancando esempi

18 19

Cfr. Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.994 Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Città violente…, cit., p.26

10

concreti ai suoi discorsi astratti. La verbosità della sequenza è annullata dalla grinta della rappresentazione. La forza delle immagini raggiunge l’apice nella seconda parte, quando il film acquista le cadenze di un thriller ed i delitti sono impaginati secondo una coreografia della morte che rimanda a Dario Argento: per l’ambientazione, prevalentemente, notturna e periferica (strade fangose, capannoni abbandonati), il gusto per i dettagli beffardi e stranianti (i cadaveri vengono scaricati sotto manifesti che recano scritto: «Roma è anche tua. Aiutaci a mantenerla pulita»), la violenza eccessiva e barocca (un rapinatore è legato ad un palo elettrico e folgorato; un ladro legato ad una catena di ferro e poi giustiziato a colpi di pistola). Con il procedere della storia, il regista aumenta l’atmosfera di inquietudine e ambiguità, toccando l’apice della tensione nella sarcastica sequenza della cattura del secondo rapinatore della gioielleria, stretto, contemporaneamente dalla polizia e dall’organizzazione Anticrimine. Tecnicamente, il regista si serve di un montaggio rapido e serrato di dettagli, primi piani e campi lunghi. E’ un modo di condurre la narrazione evidente soprattutto negli inseguimenti e in quella che è la scena più feroce e violenta del film: l’omicidio della ragazza-ostaggio, gettata sotto le ruote dell’auto della polizia dal suo rapitore. Il montaggio di un inquadratura fulminea, il primo piano del corpo, che finisce sotto le ruote dell’auto, con il lungo totale che pone, in primo piano, il rapitore che fugge in moto, e, sullo sfondo, ormai lontanissime, le volanti della polizia, lo rende quasi insostenibile. E’ resa evidente, dalla pausa che interviene dopo l’azione sfrenata dell’inseguimento, l’inutilità dell’azione, ben espressa dall’immobilità dei poliziotti, rimasti basiti sul luogo dello scempio, in un campo lungo che li raffigura come tanti automi. La polizia ringrazia non mostra il colpevole caricandone i tratti fisici e psicologici. Lo smascheramento della sua identità nascosta, prima del colpo di scena finale, sotto le spoglie di un’onesta e perbenista rispettabilità, comporta un radicale ribaltamento delle convinzioni dello spettatore. La testimonianza del valore del film, girato con «un’abilità registica che nulla ha da invidiare ai polizieschi americani, avvalendosi di un ritmo mozzafiato e di sequenze d’azione dal grande impatto visivo»20. Lo stesso Steno era consapevole di aver realizzato un’opera diversa, tanto da firmarla,per la prima volta, con il suo vero nome, poiché non voleva che il pubblico pensasse di assistere al solito film comico di Steno. La polizia ringrazia non reca nel racconto tracce di commedia. Nonostante tutto, influenzerà la successiva produzione comica del regista. Per tutti gli anni ’70 Steno si

20

Antonio Bruschini, Antonio Tentori, Città violente…, cit., p. 27

11

dedicherà ad un tipo di commedie in cui l’indagine ambientale e psicologica sarà molto approfondita; talune conserveranno anche una struttura più o meno aderente ai canoni del poliziesco. A cominciare dall’immediatamente successivo Anastasia mio fratello – in cui, però, il ritratto a tutto tondo di un uomo, estraneo al contesto sociale in cui vive, prevale sui meccanismi del gangster-movie, che pure sono molto evidenti (l’ascesa e la caduta di un boss mafioso, la lotta tra cosche rivali, la descrizione dei sindacati mafiosi portuali americani) – e, soprattutto, Piedone lo sbirro, epigono semi-burlesco de La polizia ringrazia. Piedone lo sbirro (1973) è un curioso caso di poliziesco realistico a tesi. Ambientato a Napoli, espone il convincimento, attendibile e pragmatico, ma non necessariamente condivisibile, che, per tenere sotto controllo la malavita, bisogna collaborare e dialogare con essa. In particolare, con i cosiddetti “uomini d’onore”, che impegnati a governare una realtà parallela a quella istituzionale ed a mantenerla in uno stato d’ordine: il film li distingue dalla nuova malavita, quella che maneggia la droga e la prostituzione con eguale, disinvolta, mancanza di scrupoli. Quella prospettata in Piedone lo sbirro è la stessa soluzione che si augurava, ventiquattro anni prima, Pietro Germi, nella sequenza finale di In nome della legge. Uguale l’ideologia dei due registi, opposta la realizzazione dei due film: tanto vigoroso ed enfatico quello di Germi, quanto leggero e brillante quello di Steno. Piedone lo sbirro presenta la stessa scansione narrativa de La polizia ringrazia: un racconto cronachistico che isola, progressivamente, una storia in particolare. In questo caso, la lotta tra una malavita d’origine straniera e la camorra, per il controllo del mercato degli stupefacenti, e la lunga catena di delitti cui essa dà inizio. Tra i suoi profili narrativi c’è sicuramente quello didattico: l’ammonimento ai giovani a sfuggire dai pericoli della tossicodipendenza. Nel film, infatti, gli stupefacenti sembrano circolare soprattutto nell’ambiente scolastico: sono i ragazzi i soggetti più indifesi della società, afferma Piedone lo sbirro. Lo afferma, però, con uno stile altamente spettacolare, impiegando tutti i codici del poliziesco: inseguimenti in auto, scippi, rapine, fughe, delitti, interrogatori e tante scazzottature che portano immediatamente il film sul piano della parodia. L’originalità del racconto è quella di rendere protagonista un poliziotto che sembra l’antitesi del commissario Bertone de La polizia ringrazia: il commissario Rizzo, detto Piedone. Tanto il primo era intransigente con i delinquenti, tanto Rizzo è accomodante con loro e duttile nell’applicare le leggi. Soprattutto, a differenza degli altri investigatori o poliziotti, non usa armi: per difendersi ed attaccare usa le proprie mani che, chiuse a pugno, fanno più male di qualsiasi proiettile. Una soluzione narrativa che mette 12

interamente a suo agio l’attore che l’interpreta, Bud Spencer, quasi una maschera popolare: quella del buono che risolve le ingiustizie e protegge i deboli, grazie ad una bontà pari quasi alla sua forza. L’attore - reduce dai successi dei western comici con Terence Hill (Lo chiamavano Trinità, Continuavano a chiamarlo Trinità di Enzo Barboni) e da un poliziesco di Lizzani, Torino nera, privo di ironia - è bravo ad evidenziare la sua migliore qualità: quella di nascondere, dietro una recitazione sorniona ed impigrita, un’ironia ed una vigoria insospettabili. Steno definisce le caratteristiche fisiche e psicologiche del personaggio di Piedone già dalla prima sequenza, in cui dispiega il suo stile fatto di rapide e precise annotazioni. A Napoli, un marinaio negro americano, salito sul tetto di una casa vicino al porto, minaccia con una pistola i passanti. La polizia, schierata tutt’intorno al palazzo, impotente nei suoi confronti, decide di eliminarlo fisicamente. Un cecchino ha già preso la mira dalla sua carabina, quando interviene Piedone. La sua entrata in scena avviene in un’inquadratura in contro-plongée, in dettaglio, del suo piede, che assume proporzioni gigantesche, mentre abbassa la carabina del cecchino. Sempre in contro-plongée, la mdp passa ad inquadrare

la figura intera del

commissario, che

riempie totalmente

l’inquadratura: ha una folta barba nera che gli copre interamente la metà inferiore del volto, ma due occhi neri buoni e profondi che annullano l’apparenza malvagia. Dopo averlo descritto fisicamente, la regia segue Piedone in azione, mentre costringe alla resa il marinaio grazie alla sua straripante forza fisica, ma anche ad una notevole dose d’astuzia (si presenta al cospetto dell’americano solo dopo che costui ha scaricato tutti i proiettili della pistola): lo fa con un montaggio alternato di campi lunghi che ritagliano lo spazio dell’azione e primi piani che sottolineano lo sforzo dei due uomini in lotta. Salvata la vita all’uomo, il commissario torna dai poliziotti, come fosse un eroe antico al ritorno a casa dopo una battaglia impossibile e decisiva: la mdp lo isola dagli altri funzionari ed agenti, mentre il suo amico, il brigadiere Caputo, gli gira intorno felice. Rifiutato il passaggio dagli agenti, Piedone torna al commissariato a piedi, immergendosi tra i vicoli affollati della Napoli popolare: quella è la sua gente. Avverte un’anziana contrabbandiera di sigarette dell’arrivo imminente della polizia, s’incontra con un vecchio informatore, gobbo e miserabile, e lo paga, nonostante s’inventi i fatti, perché porta fortuna. Concentrati nei dieci minuti iniziali, ci sono tutti i temi narrativi di Piedone lo sbirro: la figura dell’investigatore, forte, buono, generoso, amico dei miserabili; la tensione delle scene d’azione; la vivacità delle scene popolari, costruite attorno a personaggi curiosi e stravaganti, tratteggiati secondo lo stile tipico della commedia: proseguendo, il film presenterà un capoparanza con la mano sinistra mutilata, detto “Manomozza”, Gennarino, ladro sfortunato con famiglia a carico, che ruba oggetti inutili («Ho rubato 13

due copertoni, senza camera d’aria e col battistrada a zero») e vive ospite nella casa del commissario. «Nella sua tessitura appaiono motivi efficaci per un racconto su Napoli tenendo d’occhio il modulo che usò Francesco Rosi al tempo de La sfida»21: Piedone lo sbirro lo si può considerare come l’ultima parte di una trilogia poliziesca che, cominciata con La polizia ringrazia e proseguita con Anastasia mio fratello, è la rappresentazione di tre metropoli moderne soffocate dalla criminalità: rispettivamente Roma, New York e, appunto, Napoli. La città partenopea è ben più di uno sfondo: motiva e giustifica azioni e reazioni dei personaggi del film. A cominciare dallo scontro ideologico tra Piedone ed il commissario capo Tabassi, che non approva la condotta del suo sottoposto ed arriva a sospettarlo di essere colluso con l’ambiente camorristico. Tabassi, uomo freddo ed ironico, viene dal Nord e non riesce ad interpretare la mentalità napoletana, troppo convinto di un’applicazione letterale della legalità, possibile teoricamente, ma non sul piano pratico. Tabassi sospende Piedone dall’incarico ed il commissario si trova ad indagare privatamente sul traffico di stupefacenti, organizzando una propria banda parapoliziesca. Una situazione a metà tra il poliziotto ufficiale e l’investigatore privato che gli autori (De Caro, Badalucco e Vincenzoni, che torna a collaborare con Steno a dieci anni di distanza da Copacabana Palace) rappresentano ingegnosamente anche sul piano privato: Piedone non è sposato, ma vive a pigione in casa di una vedova con figlio. Non ha perciò, formalmente, una famiglia, come un investigatore privato (personaggio individualista e solitario), ma è come se l’avesse (s’interessa alle vicende del ragazzo drogato come se fosse suo figlio), come un classico poliziotto (come Maigret, ad esempio). Il personaggio di Piedone è talmente convincente sotto il profilo psicologico ed ha una presenza così incisiva che il film ebbe un successo enorme e diede il via d una vera e propria saga cinematografica, comprendente altri tre film nei successivi otto anni, sempre sotto il controllo registico di Steno: Piedone a Hong-Kong (1975), Piedone l’Africano (1977), Piedone d’Egitto (1980). Il personaggio assumerà contorni così definiti da divenire quasi proverbiali, tanto da permetterne una totale identificazione con l’attore Spencer. Già a cominciare da Piedone ad Hong-Kong, la serie ebbe degli spostamenti narrativi che la caratterizzarono sotto un segno diverso rispetto a quello del prototipo. Eliminati gli agganci sociali e di costume, affiancato un bambino all’attore napoletano – accentuando quella «retorica deamicisiana»22 che il critico Pietro Bianchi aveva già individuato in 21

Pietro Bianchi, Il Giorno, 27.10.1973, in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema italiano…, cit., vol.4, p. 151 22 Pietro Bianchi, Il Giorno…, cit., p.151 14

Piedone lo sbirro – assunsero primaria importanza la figura del brigadiere Caputo (Enzo Cannavale, spalla estrosa di Bud Spencer) e l’utilizzo della violenza manesca del protagonista, sottolineando il lato comico-patetico delle storie. Piedone sarà portato, dal caso o dai suoi superiori, ad indagare in luoghi esotici come l’Estremo Oriente e l’Africa. La serie si connoterà così sotto il segno del giallo comicoavventuroso, ricco di gag, scazzottature, suspense e splendidi paesaggi, utilizzati da Steno in ariose immagini turistico-documentarie. Fu lo stesso regista a definire perfettamente la natura di questi prodotti: […]Mi sono divertito anche a fare un tipo di film alla 007, che per un regista è molto piacevole: giri il mondo, fai cose avventurose in un genere completamente diverso dalla commedia. Sono film che prendono dalle sette alle nove settimane, perché c’è molta azione. Ma gli americani ci metterebbero cinque mesi, costerebbero milioni e milioni di dollari! 23

Nel periodo del riflusso economico, in un epoca angustiata dal terrorismo, la serie permetteva allo spettatore di distrarsi garbatamente, rassicurandolo con la sua violenza ridanciana e liberatoria, sorprendendolo con immagini di mondi sconosciuti. Con il suo rifiuto programmatico della volgarità allora imperante nel cinema medio italiano, con la sagace capacità di costruire un nuovo eroe popolare, la serie risultò l’unico, vero, felice, approdo della ricerca, da parte del cinema nostrano di un genere per ragazzi o per famiglie. Grazie alla professionalità e personalità del regista, si riuscì a coniugare spettacolo e buoni sentimenti, senza scadere nella melassa sentimentale o nel dilettantismo tecnico. Questi film erano storie ben congegnate, dalla suspense calibrata, con un dosato equilibrio tra comicità ed avventura: avevano tutto per avere successo ed infatti lo ebbero, dando via ad un genere che dominò gli incassi tra gli anni ’70 e ‘80. Nel frattempo Steno aveva girato una parodia del thriller argentiano, Il terrore con gli occhi storti (1972), in cui due sprovveduti mettevano in scena un finto omicidio, per poi scoprirne la sua effettiva realizzazione ed ingaggiare una lotta contro il tempo per scoprire il vero assassino ed evitare l’arresto. Impostato intorno alla coppia Alighiero Noschese-Enrico Montesano, articolato «abbastanza vivacemente in virtù del movimento impresso

al racconto

da una

filza di fughe e inseguimenti»24, secondo il critico

Leonardo Autera, il fim era pieno di «amenità (che) non esulano dal gusto corrivo delle farse alla Franchi e Ingrassia, che restano, a conti fatti, il modello più prossimo della coppia Noschese-Montesano, come della disadorna confezione adottata dal regista»25. In effetti, Il terrore con gli occhi storti sembra girato in economia ed è quasi sprovvisto di attori caratteristi (ci sono Lino Banfi agli esordi e Francis Blanche). Ma è il primo passo verso il giallo a enigma, cui il regista approderà nel 1977. 23

Goffredo Fofi-Franca Faldini, Cinema italiano…, cit., p.435 Leonardo Autera, Corriere della Sera, 3.9.1972, in R.Poppi-M.Pecorari, Dizionario del cinema italiano…, cit., vol.4, p.336 24

15

Doppio delitto, questo il titolo dell’opera, è la trascrizione cinematografica del romanzo Doppia morte al Governo Vecchio26, di Ugo Moretti, che aveva esordito nel genere nel 1956, con Nuda corre la morte, ed aveva proseguito la sua carriera di giallista con titoli come Un cadavere da mezzo miliardo, Assassinio per appuntamento, Un demonio corre a Brooklyn27. Il film si inserisce in quel filone che combina “mistery”, giallo di indagine e commedia all’italiana, avviato già nel 1960 da Crimen di Mario Camerini e poi consolidato dal rilevante successo (£ 1.216.000.000 all’epoca) di La donna della domenica (1975) di Luigi Comencini. Doppio delitto nasce, produttivamente, proprio per sfruttare il successo di quest’ultimo film: ne riprende l’attore protagonista, Marcello Mastroianni; il cast “all stars” ed internazionale (nel film di Steno ci sono Agostina Belli, Peter Ustinov, Ursula Andress, Jean-Claude Brialy, Mario Scaccia) e, soprattutto, la coppia di sceneggiatori, Age

e

Scarpelli, tornata a lavorare

con

Steno a ventiquattro anni dall’ultima

collaborazione (Cinema d’altri tempi). Insieme al film di Comencini (tratto dal best-seller omonimo di Fruttero e Lucentini28), Doppio delitto inaugurerà una breve moda (esauritasi nell’arco di un quinquennio), quella dei gialli d’indagine e di costume tratti da romanzi di nuovi scrittori italiani di polizieschi, che

sono

altrettanti

ritratti

ambientali

di

nostre

realtà,

non

necessariamente

metropolitane: si possono ricordare anche Al piacere di rivederla (1977, Marco Leto da Levi29),

La

mazzetta

(1978,

Sergio

Corbucci

da

Veraldi30),

Agenzia

Riccardo

31

Finzi…praticamente detective (1979, Bruno Corbucci da Secchi ), Fantasma d’amore (1981, Dino Risi da Milani32). La città di Torino de La donna della domenica e quella di Bologna di Al piacere di rivederla sono molto simili a Pavia in Fantasma d’amore: Torino e Bologna sono le metropoli più provinciali della nostra nazione, quelle in cui lo stile di vita è «falsamente cosmopolita e distaccato»33. Ciò consente agli autori di questi film, di scavare dietro la facciata perbenista, di «far saltare il ben munito meccanismo difensivo»34, di rivelare una società marcia e corrotta nei costumi. Curiosamente questo discorso vale anche per la città di Roma in Doppio delitto, totalmente diversa dalla città tentacolare e soffocata dalla microcriminalità di La polizia

25

Ibidem. Ugo Moretti, Doppia morte al Governo Vecchio, Longanesi, Roma, 1960, poi Bariletti, Roma, 1990 27 Cfr. R.Di Vanni-F.Fossati, Guida al giallo, cit. 28 Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La donna della domenica, Mondadori, Milano, 1975 29 Paolo Levi, Ritratto di provincia in rosso, Rizzoli, Milano,1975 30 Attilio Veraldi, La mazzetta, Rizzoli, Milano, 1976 31 Luciano Secchi, Agenzia Riccardo Finzi detective, Editoriale Corno 32 Mino Milani, Fantasma d’amore, Mondadori, Milano, 1977 33 Giorgio Gosetti, Luigi Comencini, La nuova Italia, Firenze, 1988, p.85 34 Ibidem. 16 26

ringrazia. L’ambientazione nella Roma rionale consente di ritagliare e definire pochi personaggi in un ambiente chiuso: tutta la vita sembra svolgersi attorno ad una strada e ad un palazzo, nella zona del Governo Vecchio, omologa in questo senso

ai

villaggi

inglesi dei gialli di Agatha Christie. Quei luoghi che il critico anglosassone Colin Watson ha schematizzato in un villaggio ideale, cui ha dato il nome di Mayhem Parva35: «[…]nessuno lavora a Mayhem Parva, anche perché non esistono fabbriche; tutt’al più si esercitano le libere professioni, ma più come diversivo per rendere sopportabile l’esistenza che non per autentica necessità. […] A Mayhem Parva è presente la caricatura dello spionaggio che è il pettegolezzo»36. A Mayhem Parva sembrano appartenere gran parte dei personaggi di Doppio delitto, quelli eccentrici e stravaganti, rappresentanti del mondo artistico e cinematografico: la disinvolta moglie del principe, ex-attrice sul viale del tramonto; il suo amico, lo sceneggiatore, un tempo famoso, chiacchierone e fuori dal tempo; lo scultore con la moglie pazza; il nipote del principe, musicista ambiguo e misterioso; e soprattutto il libraio, detto Sorcio, il più vicino ai personaggi di Mayhem Parva, pettegolo impenitente, che è, al contempo, il rappresentante più tipico di quella romanità popolaresca, sarcastica e logorroica, punto di fusione delle tendenze anglosassoni ed italiane del film. «La sceneggiatura (firmata Age & Scarpelli) segue così due binari distinti: c’è da scoprire ragione e modo di un duplice omicidio […] e c’è da comporre un affresco di tipi e snodi del pensiero che ha come sfondo una ben singolare metropoli»37: questa affermazione, riferita a La donna della domenica, può tranquillamente essere presa in considerazione anche per analizzare la struttura del racconto di Doppio delitto. Al coro di personaggi da giallo inglese, alla puntualizzazzione ambientale essenziale nel genere («[…]occorre che una casa, il luogo in cui la gente vive, sia interessante […] è necessario che si tratti di luoghi in cui la gente sta insieme»38), gli autori aggiungono caratteri e situazioni che personalizzano il racconto. Così, il personaggio di Teresa (nipote dell’elettricista ucciso insieme ad un principe da un falso temporale), ragazza ribelle e contestatrice, ostile alle convenzioni borghesi fino alla cavillosità, ma dal carattere dolce, acquista sfumature assenti perfino nel romanzo di Moretti (scritto nel 1960, mentre il film, del 1977, ha già conosciuto i movimenti del ’68 e, ovviamente, del ’77). Ma è soprattutto l’investigatore del film, il commissario Baldassarre, a proporsi come antitesi degli infallibili detective del giallo classico.

35

Colin watson, Snobbery with violence, Eyre Nethuen, 1979, p. 165 Mauro Boncompagni, Prefazione a Agatha Christie, Macabro Quiz, Mondadori, Milano, 1987, p.7-8 37 Giorgio Gosetti, Luigi Comencini, cit., p.7-8 38 Agatha Christie in un’intervista di Francis Wyndham, Sunday Times, 27.2.1966 17 36

Costretto a lavorare nell’ Archivio dei corpi di reato, edificio enorme e solitario, dopo aver commesso un errore clamoroso (aveva facilitato la fuga di un assassino, sia pur involontariamente), Dindo Baldassarre ottiene il caso del duplice omicidio del Governo Vecchio, come occasione ultima di riscatto. Sfruttata, perché il caso lo risolve, ma solo con la tenacia, senza un minimo di genio. Caso unico di investigatore nella storia del giallo, il commissario Baldassarre, per le sue indagini non sembra usare il metodo abduttivo di Sherlock Holmes e di Hercule Poirot - metodo fondato sulla serendipità: da “serendipity”, neologismo coniato da Horace Walpole «per descrivere la capacità di fare trovate geniali e apparentemente gratuite, in base a dati scarsissimi e quasi insignificanti»39 - né quello intuitivo di Nero Wolfe. Baldassarre è un investigatore che non sa investigare: si aggira sul luogo del delitto senza saper cosa fare; non sa condurre un interrogatorio: aspetta che i sospettati facciano volontariamente le rivelazioni, mentre invece riferiscono soltanto quello che voglionio riferire. Ha un assistente, il brigadiere Cantalamessa, degno di lui: scivola dal tetto durante un sopralluogo, si ripara dalla pioggia con un sacco per la pattumiera, deve orinare durante un inseguimento e, mentre si compie il terzo omicidio, conduce il commissario su una scala sbarrata, da dove assistono impotenti al delitto. I due poliziotti, nonostante le numerose trovate farsesche, non sono macchiette: Baldassarre e Cantalamessa sono due uomini comuni alle prese con eventi inestricabili, nei confronti dei quali hanno difficoltà ad opporsi. Gli autori tolgono all’investigatore la sua aura di infallibilità. Baldassarre è un sognatore, un adulto con la mente di un ragazzo (si appassiona per i racconti di Nick Carter), a disagio anche con le donne: la moglie lo ha lasciato, la giovane Teresa, di cui s’è innamorato, lo rifiuta perché troppo maturo. Ad interpretare il personaggio del commissario è «un Mastroianni superbo, così bravo da dettare da solo il ritmo delle inquadrature»40. Con i capelli leggermente ritti e l’ombrello sottobraccio, percorre con aria stupita e svagata tutte le inquadrature: Steno lo pone al centro di ognuna di esse, pronto a cogliere tutte le sfumature delle sue espressioni e costruisce intorno a lui ogni sequenza. Come quella iniziale, costruita con un ritmo musicale: su un tema conduttore (la presentazione del commissario) se ne innestano molti altri a richiamo: descrizione ambientale, presentazione dei personaggi e loro definizione psicologica, spargimento di indizi. Lo spunto narrativo è il viaggio di Baldassarre per raggiungere il luogo di lavoro. Lungo il percorso, effettuato a piedi tra i vicoli di Roma, ha tanti

39

Luigi Calcerano-Giuseppe Fiori, Guida alla lettura di Agatha Christie, Mondadori, Milano, 1990, p.41 40 Pietro Bianchi, L’Europeo, 20.1.1978

18

piccoli incontri che sembrano casuali, ma sono in realtà in rapporto con l’intreccio: alcuni capelloni che suonano la chitarra seduti sulla fontana di Piazza Farnese, due hippies appollaiati sul rosone di una chiesa, che, insieme agli sgargianti murales che coprono le facciate delle case (fa bella mostra di sé soprattutto quello che reca scritto “Prendiamoci la nostra città”), rendono il clima ambientale e sociale del racconto; l’operaio che, in controluce, aggiusta l’antenna su un tetto, la ragazza col megafono che arringa una piccola folla, il libraio pettegolo, che snocciola fatti e descrive persone del palazzo in cui lavora, li scopriremo in seguito come protagonisti della storia; alcune gag e notazioni stravaganti - come quelle dei due anziani suonatori ambulanti che interrompono la loro esecuzione nel ristorante per fare pubblicità («Miopi, presbiti, semiciecati: solo al supermercato dell’occhiale in Via dei Banchi vecchi. Lenti a contatto flessibili a prezzi imbattibili. Affrettarsi! Affrettarsi! Offerta speciale»), della macchinetta automatica dell’Archivio che invece del caffè cala nel bicchiere la moneta, del brigadiere Cantalamessa, che per vivacizzare le soporifere giornate nell’Archivio, redige sui cartellini dei reperti dei racconti in linguaggio burocratico – non sono fini a se stesse, ma arricchiscono lo spessore della vicenda. A differenza degli altri gialli italiani del periodo, a cominciare da La donna della domenica, il disegno dei personaggi non prevarica sulla logica del racconto. La loro caratterizzazione, ad esclusione di quella del commissario, non è diretta ad un approfondimento psicologico. Semmai

è

volta a tipizzarli, a renderli facilmente

riconoscibili e muoverli come pedine su una scacchiera narrativa che sembra posta davanti a uno specchio: ogni personaggio si comporta con la consapevolezza di far parte di un gioco, di una rappresentazione, di essere un congegno di un meccanismo narrativo abusato e perciò ormai logoro. Tutti i personaggi principali fanno parte del mondo artistico e due di essi di quello cinematografico. Sono proprio questi ultimi due, la principessa attrice e lo sceneggiatore regista americano, che rivelano, nelle loro parole e negli atteggiamenti, la consapevolezza di star recitando un gioco delle parti in cui si muovono perfettamente a loro agio, svelando allo spettatore le convenzioni del poliziesco. Durante il suo interrogatorio, ad esempio, lo sceneggiatore si rivolge al commissario con queste parole, che ne anticipano il comportamento canonico: L’ispettore si guarda un po’ intorno. Dopodiché si siede. Nel frattempo lo scrittore, con gesto disinvolto, prende un sigaro e lo accende. Lo scrittore scruta attentamente l’ispettore e tra sé pensa: chissà a cosa devo l’onore di questa visita.

Poco prima, riferendosi al copione che sta scrivendo, aveva affermato che «una buona scena, in un buon film, deve avere un buon finale o una sorpresa»: una massima che vale anche per la costruzione di Doppio delitto. 19

Il film di Steno effettua una continua autoriflessione sul genere. Ogni personaggio è conscio di far parte di una rappresentazione. Si giunge così ad una piena teatralizzazione della vicenda: il palazzo del Governo Vecchio ne è il palcoscenico, il cortile è il centro d’attrazione (inquadrato sempre dallo stesso lato dalla mdp), i personaggi sono gli attori ed il libraio detto “Sorcio” riunisce in sé le caratteristiche del coro e del servo intrigante delle commedie plautine e rinascimentali (come lui «[…] è il solo che, stando sulla scena, può controllare, influenzare, commentare con ironia e avvenimenti»41).

E’

lui

a

presentare

tutti

lucidità

lo

sviluppo

degli

i personaggi della vicenda, inserendoli

disinvoltamente nelle sue conversazioni con il commissario, analogamente alla Domenica di Una delle ultime sere di Carnovale42 di Carlo Goldoni, che il critico Aldo Viganò, d’altronde, considera uno dei punti di riferimento della commedia all’italiana43. Così il Sorcio presenta la moglie dello scultore belga: - Moglie scultore belga: matta aggravata dal vino […] Atarassia retromotoria: la pazza di Chaillot.

Siamo in piena commedia popolare. Il libraio esprime il disagio per un’estate insolita sgambettando per il cortile sotto la pioggia, cantando un antico detto: Quando piove e brilla il sole, qualche vecchia fa l’amore. Quando il tempo è così strano solo il diavolo è sovrano…solo il diavolo è sovrano.

La sua personalità è definita puntualmente dallo sceneggiatore americano: «E’ un grande attore. Guitto sì, ma come se ne vedono pochi al giorno d’oggi». Un’affermazione che cristallizza il gioco di specchi del film. Un gioco che sottintende la produzione poliziesca del regista. Lo slittamento dei ruoli sociali di Guardie e ladri, la giostra di travestimenti di Totò Diabolicus, lo scambio di identità di Arriva Dorellik, la messinscena del falso delitto di Il terrore con gli occhi storti, la teatralizzazione del racconto di Doppio delitto e, anche se in misura minore, la conferenza-stampa di La polizia ringrazia e il coro dei personaggi popolari di Piedone lo sbirro sono la sublimazione formale dei codici stilistici del giallo. Attraverso di essi, quello che è il fondamento del congegno narrativo del poliziesco, lo svelamento di una realtà nascosta, diventa, nelle mani del regista, occasione per una riflessione sui meccanismi della visione e del racconto cinematografico. Le convenzioni sono smascherate (gli investigatori dei gialli di Steno sono fallibili, incapaci e sfortunati), i codici sono esasperati. I canoni del genere sono toccati e subito superati, spesso sotto il segno della parodia, comunque sempre demitizzati, secondo quel temperamento scettico che sempre

41

G.B.Conte-e.Pianezzola, Storia e testi della letteratura latina, Le Monnier, Firenze, 1988, p.68 42 Carlo Goldoni,,Una delle ultime sere di Carnovale, Marsilio, Venezia, 1993, 43 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.5

20

lo ha guidato e che, secondo Kezich, ha influenzato i modi di fare spettacolo in Italia, fino ai

44

giorni

nostri.44

Tullio Kezich, La Repubblica, 15.3.1988 21

Capitolo 7. Anni di piombo, anni di commedia: gli anni ’70 di Steno. Quando sembrava che l’ispirazione di Steno fosse tutta dispiegata, giunsero improvvise le opere degli anni ’70, che s’inserirono pienamente nel genere della commedia all’italiana e costrinsero la critica – che lo aveva già catalogato come regista «di prodigiosa efficienza […] sempre a disposizione anche (seppure non esclusivamente) dei prodotti di minori pretese»1 - a rivedere il proprio giudizio. Anastasia mio fratello (1973), La poliziotta (1974), Il padrone e l’operaio (1975), Febbre da cavallo e L’Italia s’è rotta (1976), La patata bollente (1979) possono essere analizzati come sei capitoli di uno stesso romanzo, tale è la compattezza stilistica ed ideologica

che

li

permea.

La

loro

apparizione

non

è

improvvisa

(poiché

contemporaneamente Steno continua a dedicarsi ad una produzione di genere), né immotivata. Giungono dopo il film della svolta, La polizia ringrazia, nel decennio che segna la crisi della commedia all’italiana, almeno nei suoi autori principali. Enrico Giacovelli sembra elencare esaurientemente le cause di questa crisi: […] Nella seconda metà degli anni ’70 la società italiana piomba nel buio e si trova di fronte nuovi problemi, alcuni dei quali non possono essere trattati in forma di commedia: crisi economica, crisi energetica, delusioni politiche e sociali, e fin qui passi, si può ancora abbozzare un sorriso tra i denti; ma anche terrorismo, incubi nucleari, catastrofi ecologiche, e qui scherzare diventa più difficile. Molte battute di questi film sono comiche ma non fanno nemmeno più ridere, rimangono in gola come un groppo. Soltanto i produttori continuano ad esigere il riso, per loro è l’unica via di approccio alla realtà. Ed ecco allora che a quest’epoca triste restano due sole alternative: o la risata epidermica, disimpegnata, preferibilmente volgare; o quella malinconica, velata, quasi una riflessione su se stessa. C’è poi da tenere in conto un altro fattore: l’età degli autori e degli attori. Se diamo uno sguardo ai loro dati anagrafici, ci accorgiamo che alla fine degli anni ’70 Pietrangeli, Germi e De Sica sono morti, Comencini e Monicelli vanno per i settanta, e quasi tutti gli altri attori e registi hanno passato o stanno per passare la soglia dei sessanta (il solo Scola ha una decina d’anni di meno). […] Questo significa che le commedie dell’epoca raccontano perlopiù storie di vecchi; quando invece i giovani, che alla fine degli anni ’70 costituiscono la stragrande maggioranza del pubblico cinematografico, vogliono vedere sullo schermo storie di coetanei, preferibilmente raccontate da coetanei2.

Lo sguardo di Steno, non compromesso precedentemente con il genere, si avvicina ai personaggi di questa età di crisi con una freschezza ed un candore che rasentano l’ingenuità. La drammatica condotta di vita di quegli anni entra a volte con tutta la sua tragicità (Anastasia mio fratello), ma più spesso ha spazio l’utopia (La patata bollente) e la sicurezza in un’ottimistica pacificazione dei conflitti e delle classi (Febbre da cavallo). Nel periodo in cui la commedia all’italiana sta lentamente esaurendosi, Steno ricomincia da zero, disinteressandosi della preesistenza di un intero genere, dei suoi codici, delle sue strutture. 1

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p. 137 1

Si lega a sceneggiatori importanti che hanno frequentato generi diversi dalla commedia: Sergio Amidei e Alberto Bevilacqua (Anastasia mio fratello), Alfredo Giannetti (Febbre da cavallo), Giorgio Arlorik (La patata bollente) e, soprattutto, Luciano Vincenzoni (Piedone lo sbirro, La poliziotta, Il padrone e l’operaio, L’Italia s’è rotta). Sono tutti sceneggiatori impegnati politicamente a sinistra (seppur con diverse gradazioni: i comunisti Amidei ed Arlorio sono ben diversi dall’anarchico Vincenzoni): l’autore del soggetto di L’Italia s’è rotta è addirittura Giulio Questi, sceneggiatore e regista contestatore e d’avanguardia3. Non è un caso allora che le tematiche di queste opere si presentino come progressiste e civili. La patata bollente, e lo rileva il critico Tullio Kezich, «è una macchina da risate che pretende di macinare un tema serio, le contraddizioni della sinistra tradizionale tra pubblico e privato. Però sul personaggio di Pozzetto, descritto all’inizio con originali tratti di operaismo sono calamitate troppe operazioni contraddittorie: è spontaneista e tiene in cornice il ritratto di Berlinguer, si proclama eurocomunista e va in estasi per un viaggio premio a Mosca»4. Evidentemente il critico non tiene presente che il personaggio di Mambelli non è quello di un intellettuale di sinistra criticamente coerente, ma di un operaio visceralmente attaccato alle idee comuniste. Da questo punto di vista l’inquadramento sociologico è sicuramente molto più fedele di quanto pensasse Kezich. C’è da aggiungere che molte annotazioni lampo (come la falce e il martello attaccati sulla porta del bagno di casa Mambelli) sono state aggiunte da Steno e suo figlio Enrico per sdrammatizzare una sceneggiatura precedente di Arlorio molto più politica e destinata a Loy, che ne avrebbe dovuto fare uso per un futuro film a due episodi (l’altro sarebbe stato Cafè express)5. Il padrone e l’operaio è una metafora politica sotto forma di paradosso. L’Italia s’è rotta è la storia di tre sottoproletari in un Italia corrotta e pervasa dalla delinquenza. Il regista utilizza la generazione di nuovi comici (Renato Pozzetto, Enrico Montesano, Luigi Proietti), si concede il lancio di una protagonista femminile (Mariangela Melato, che vincerà il David di Donatello per la sua interpetazione de La poliziotta) e prova, con notevole successo, il talento comico di un giovane attore drammatico (Massimo Ranieri). Attua una rivoluzione formale, rispetto a sé stesso, ma anche rispetto al genere, che gli consente di affrontare temi inediti per la commedia. Come l’analisi della condizione operaia (Il padrone e l’operaio) e dei suoi rapporti con il partito e tutta la cultura comunista (La patata bollente); l’omosessualità (La patata bollente: «Steno non spinge fino alle sue estreme conseguenze la situazione, non sono ancora i tempi, ma già vedere 2

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 74-5 L’autore di La morte ha fatto l’uovo(1967), Se sei vivo, spara! (1969), Arcana (1971) 4 Tullio Kezich, Il novissimo Millefilm, Mondadori,. Milano, 1982 3

2

le reazioni dell’operaio medio di fronte alla diversità non è male, anche perché in fondo Pozzetto è molto preso da Ranieri»6); l’ambiente ippico e degli scommettitori (Febbre da cavallo). Tenta di aggiornare ai tempi moderni l’indignazione moralistica di un vecchio maestro come Luigi Zampa, proponendo un rifacimento di un suo precedente successo (Il vigile, 1960), coniugandolo con il moderno tema dell’emancipazione femminile (La poliziotta, 1974, «ottima parodia al femminile dei poliziotteschi, nati proprio da Steno»7). Il punto di vista del regista, si avvicina e coincide con quello dei protagonisti di questi film, non più ingranaggi di un meccanismo narrativo, ma con una risonanza psicologica ed un’esemplarità sociale che la regia si sforza continuamente di rilevare. Pur nella differente progressione psicologica e definizione ideologica, i protagonisti di questo gruppo di film, presentano caratteristiche comuni che consentono di raggrupparli in unica categoria. Sono degli esclusi, persone rifiutate dalla società per la loro condizione di classe, non necessariamente subalterna. Se, infatti, sono in condizioni di subalternità sociale Gianna Abbastanzi ne La poliziotta (la sua colpa è quella di essere donna: «Fan tutti finta che sono un tavolo. Non sono mica un tavolo io! Non sono mica di legno! Che sono io: due tette che camminano, un culo da toccare? Devo sorridere sempre. Fare il caffè. Comprare le linguine…»), i tre fanatici scommettitori spiantati di Febbre da cavallo - Bruno Fioretti, detto “Mandrake”, Armandino Felici, detto “Pomata”, Felice Rovesi, rifiutati dalla società perché tarati dalla follia del gioco (dice Fioretti nel film «Il giocatore di cavalli è un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un fregnone, è un milionario pure se 'n c'ha 'na lira e uno che 'n c'ha 'na lira pure se è un milionario, un fanatico, un credulone, un bugiardo, un pollo, uno che passa sopra a tutto e sotto a tutto; è uno che 'mpiccia, traffica, ‘mbrojia, more, azzarda, spera, rimore e tutto pe' pote' di': HO VINTOOO!!!») - l’omosessuale Claudio di La patata bollente (la sua colpa, evidente, è quella di essere un “diverso” ed il suo amico Mambelli, detto Gandhi, verrà accusato di essere amico di un “diverso”) e, soprattutto, i tre sottoproletari Domenica, Peppe, Antonio di L’Italia s’è rotta, non altrettanto si può dire dei due protagonisti di Anastasia mio fratello e Il padrone e l’operaio. Sono però anch’essi degli esclusi, anzi la loro esclusione è metaforizzata nello stesso tessuto narrativo: Don Salvatore Anastasia, modesto parroco calabrese, si trova catapultato in una società a lui completamente estranea, quella di New York; il protagonsita della parabola de Il padrone e l’operaio, Gianluca Tosi detto Giangi, è escluso dalla normalità del vivere quotidiano, al contrario, dalla sua condizione di superiorità: è un padrone (un industriale), ma è impotente e lo è a causa dello stress di essere padrone («Perché a Carminati gli tira 5

Goffredo Fofi-Franca Faldini, Cinema italiano…, cit., pp. 213-4 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 553 7 Ivi, p.583 6

3

sempre e a me no?», «Perché, sintetizzando la tesi di Sigmund Freud e come dicono i napoletani: “’O cazzo nun vuole pensieri»); tenta di camuffarsi da operaio, ma l’estraneità è congenita. La condizione di esclusi di questi personaggi non impedisce loro di combattere per riscattarsi con la società. Non ce la faranno quasi mai e se ce la faranno la vittoria sarà soltanto parziale ed amara (La patata bollente). Quel che conta è la lotta, la voglia di ribellarsi, a volte cieca, a volte consapevolmente impotente. Il mezzo che hanno questi personaggi per tentare il riscatto è quello del viaggio, che è anche lo strumento di misura della loro forza di ribellione. Tutti questi film sono popolati da viaggi, tentati, falliti, riusciti, metaforici: sono atti mancati, miraggi utopistici o fughe obbligate. Il viaggio di Salvatore Anastasia a New York è un viaggio reale e, insieme, metaforico. Porterà il piccolo, mediocre parroco a misurarsi con una realtà smisurata rispetto alle sue possibilità. Il contatto con Little Italy di New York, la sua realtà di emarginazione e malavita, svilupperanno in lui una carica ottimistica, una vitalità organizzatriche di possibili realtà felici. Ma gli sveleranno anche la terribile verità sulla sua fortuna: quella di essere il fratello di un boss mafioso. «Ecco allora che questi viaggi sono anche viaggi verso una presa di coscienza, proprio com’era quello attraverso l’Italia del Sorpasso»8. Il viaggio di ritorno in Italia suggellerà questo viaggio nella coscienza. Il viaggio dei tre sottoproletari de L’italia s’è rotta ha le cadenze del “road-movie” americano, la sua avventurosità, la stessa capacità di ricezione e libera ricerca di ogni tipo di esperienza. E’ un viaggio di emigrazione al contrario: i tre sottoproletari meridionali, partiti per il Nord (Torino) in cerca di fortuna, si sono ritrovati a vivere dentro un tubo di cemento ed hanno deciso di cercare la fortuna al Sud. Ma questo viaggio verso il basso, avrà il significato di un viaggio nell’Inferno. La società si stringe su di loro mostrando la reazionarietà, la corruzione, la repressività delle sue parti che, con un crescendo da incubo, sembrano intrappolare i tre e concedere il solo spazio possibile: quello della loro eliminazione (è il senso dell’ultimo incontro, quello

con

il

potere mafioso, nel profondo dell’Italia). Scampati al pericolo, sono pronti a ripartire, ma rifiutata la realtà settentrionale e meridionale, sono disorientati: «Dove andiamo ? Nord, Sud, Est, Ovest, dovunque andiamo è sempre un grandissimo casino». Il viaggio de La patata bollente è quello del protagonista Gandhi, in Urss. Non è un viaggio volontario, benché graditissimo: viene spedito in quel lontano paese dai suoi compagni del partito comunista, per dimenticare l’amicizia con l’omosessuale Claudio, da cui temono possa essere traviato. E’ anche il viaggio finale di Claudio in Olanda, il paese straniero dove fugge, sacrificandosi, per trovare la felicità e lasciare libero il suo amico

8

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.59

4

Gandhi. L’unico viaggio che sembra concludersi felicemente di questi film allontana definitivamente il protagonista dalla sua realtà sociale: è una vera e propria fuga. Ne Il padrone e l’operaio Giangi Tosi organizza un viaggio in barca con i suoi amici industriali, per vincere la nevrosi provocatagli da Carminati, ma il potenziale trionfo si rivela una catastrofe (Carminati conquista la moglie di Tosi). Ci sono poi i viaggi de La poliziotta. Quello mancato della protagonista Gianna, che vuole fuggire, per emanciparsi dal suo paese Ravedrate, ma rinuncia, arruolandosi nella polizia urbana. Quello obbligato, alla fine del racconto, della stessa Gianna e del pretore Patanè, sbattuti in «un’isola a Sud della Sicilia» perché troppo ligi al loro dovere. Sono viaggi che collimano con le illusioni, trovate e poi perdute, ma sempre nel rispetto di una forte coerenza morale. C’è un viaggio pure all’interno di Febbre da cavallo, anche qui foriero di felicità, ma molto prosaica, rispetto a quella dei film precedenti. I tre scommettitori vanno ad Agnano a tentare la vincita milionaria al concorso ippico, ma, come solitamente accade, perdono quasi tutto. Rimane loro soltanto il denaro per i biglietti di ritorno, ma lungo la strada per la stazione di Napoli rimangono folgorati da una bancarella in cui si scommette sul gioco delle tre carte: la tentazione è troppo forte per rinunciare, ma anche qui giunge puntuale la sconfitta. Il viaggio sul treno di ritorno lo faranno tutto di corsa per sfuggire ai controllori ferroviari, ma nonostante l’ennesima sconfitta, rimane invariata quella che è la loro principale dote: la vitalità. L’attenzione al dato psicologico costringe Steno ad una costruzione più meditata dell’intero schema narrativo: ogni sequenza, in questi film, deve definire un momento psicologico dei protagonisti. L’inizio è sempre un momento forte, poiché condensa in pochi ma pregnanti tratti tutta la sostanza dell’intreccio. In tal senso, è esemplare quello di La poliziotta, forse tra tutti il più elaborato. Come fosse una buffa parodia della sequenza iniziale di Senso di Visconti, anche qui la mdp ci conduce all’interno di un teatro, dove sta avendo luogo una rappresentazione. A differenza di Senso, siamo in un teatro di provincia (lì eravamo a Venezia, qui a Ravedrate) ed il dramma rappresentato ne è una conseguente espressione. E’ messa in scena, infatti, una Giovanna D’Arco scritta da un poetucolo locale, gloria della cittadina, con uno stile enfatico, retorico e pomposo, evidentemente travisato dal drammaturgo come unico adatto alla tragedia. Gli attori si impegnano, ma sembrano declamare i versi rotondi e polverosi con la stessa neutralità di un bollettino meteorologico. Il pubblico è contento, soprattutto la giovane Gianna Abbastanzi, che sembra immedesimarsi con l’eroina della tragedia. Non altrettanto lo è il fidanzato Claudio, che tenta inutili approcci. In un’unica sequenza sono presentati così tutti i temi del film: l’angolazione provinciale del racconto, la mediocrità intellettuale e culturale della classe dirigente di 5

Ravedrate, la solitudine – con connotati eroici - di Gianna nei confronti di un paese che non ama e, di riflesso, l’ostilità e la sordità del paese, che non sa che farsene di una donna leale e intelligente come lei. Le reazioni di Claudio e Gianna alla visione della tragedia, esplicitano l’aridità intellettuale dell’uno e l’ingenuità e, insieme, l’altezza morale dell’altra: Claudio: - A me quella Giovanna D’Arco lì non mi piace per niente. Fa venir sonno. – rivolgendosi ad un gruppo di amici all’uscita del teatro – Come è andata la partita? Porca…io lì a guardar la Giovanna Ralli. Una storia inverosimile. La storia di un incendio. Una roba moderna: non si capisce niente. A un certo punto arriva la Giovanna Ralli e gli tira le stelle filanti. Gianna (rivolta ad una sua amica): - Una storia bellissima. Ho pianto tutto il tempo. Una ragazza proprio come noi, che poi alla fine per le sue idee viene bruciata.

La psicologia dei personaggi di questi film è tutt’altro che elementare. L’introspezione è molto ricca e spiazzante. Chi prova a definirne i contorni, come il giudice di Febbre da cavallo è imbrigliato dalla stessa complessità, fino all’inestricabile: -L’imputato Fioretti Bruno […] vorrebbe forse negare che il provato raggiro per far perdere Bernadette si è concluso con la vittoria di Bernadette? No, voglio dire che volendo far perdere, cioè vincere, Bernadette che invece ha perso, cioè ha vinto. Allora…come si spiega questa faccenda. “Pomata”: - Nun se po’ spiegà, nun se po’. Ma che nelle corse dei cavalli ce sta quarcosa che se po’ spiegà? Fioretti: - E va bè, ma spieghejelo un po’ tu. “Pomata”: - Uno se crede de poté spiegà, ma nun se spiega.

In realtà, è intervenuto, nelle fila del racconto di Febbre da cavallo, uno spostamento psicologico nei personaggi che stravolge l’intreccio. La quotidiana routine di sconfitte di scommettitori,

cavalli

(Soldatino),

proprietari

di

cavalli

(l’avvocato

De

Marchis,

proprietario di Soldatino) è interrotta dalla folgorante, inaspettata, vittoria del cavallo Soldatino ad un gran premio. Una vittoria che provoca, per la prima volta, nei protagonisti, l’ansia di vittoria. Anche a costo dell’onestà. Così Felice, Armando, Bruno e l’avvocato De Marchis, cercano il raggiro ai danni del conte Dallara e della sua cavalla Bernadette: Bruno sostituirà il fantino dell’invincibile Bernadette, per far perdere la cavalla e vincere Soldatino ed incassare i conseguenti ricavi delle scommesse. Tutto sembra riuscire, Bruno sotituisce il fantino, ma invece di perdere, vince lo stesso la corsa. Perché, come spiega lo stesso protagonista: «M’aveva preso l’ebbrezza della vittoria. Dopo ave’ perduto per tutta la vita, ho voluto vince. Essere primo. Primoo!!!» Sacrificando un successo totale ad uno parziale, risolvendo una grande vittoria in una tragicomica sconfitta. Poiché il destino di questi personaggi è quello di giocarsi tutto nell’immediato, risolvere la vita in un eterno presente, in un “carpe diem” sbilenco e illusorio. Ma tant’è: la materia della loro (dei protagonisti di Febbre da cavallo, ma anche di tutti gli altri film qui analizzati) vita è fatta di sogni.

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La definizione psicologica, in questo ciclo di film, è affidata all’azione congiunta della mdp e dei dialoghi. Gli scarti emotivi, i balbettii mentali, lo spaesamento della coscienza sono esemplarmente amplificati dalle corrispettive deviazioni linguistiche. Così, ad esempio, ne La patata bollente, la confusione del Mambelli, di fronte al dichiarato ménage omosessuale del suo amico Claudio in terra olandese, è svelata da questa battuta di dialogo insensata fino al surreale: «Amsterdam mi piace: sembra Venezia. Quanti chilometri ci saranno da qui a Padova?», in cui la figura retorica della similitudine è recepita letteralmente. Sempre il Mambelli, imbarazzato di fronte alla portinaia che sembra essersi accorta della sua amicizia con un omosessuale, così descrive alla donna, con una punta di sarcasmo, l’organizzazione della Digos: «Come una portineria. Solo più in grande, ma segreta. Dove tutti sanno tutto di tutti, ma nessuno lo deve sapere». Anche ne La poliziotta, il dialogo svela la coscienza dei personaggi. Così, l’assessore Monti, politico con ambizioni intellettuali, autore della tragedia su Giovanna D’Arco, rivela il suo animo artefatto e manierato nel discorso che tiene a Gianna dopo la sua vittoria nel concorso dei vigili urbani: «Che sia per te come una spada di giustizia – declama mostrando il diploma – Che sia per te come una fiaccola di verità. Tienila alta Gianna Abbastanzi. Siine degna…Abbastanzi Gianna». Nello stesso film, si risolve in una questione di ritmo lo spaventato comando del cavalier Brembani di far sparire i residui nocivi delle sue produzioni industriali. L’elenco progredisce di intensità all’aggiunta di ciascuna voce, fino a delineare un quadro di apocalittica putrefazione: «Fate sparire tutto quello che non è in regola, avanti: i nitrati, i solfati, gli azotati, i coloranti, i conservanti, gli antiumidificanti, il latte inacidito, la farina ammuffita, le uova marce». L’organizzazione del discorso, l’utilizzo della sintassi rivelano i pensieri nascosti dei protagonisti (il merito è anche dello sceneggiatore Vincenzoni): l’impacciato pretore Patanè, nella Poliziotta, che dichiara il suo amore a Gianna con il condizionale («Signorina Gianna, io l’amerei. Uso il condizionale, non osavo il presente»); l’altrettanto imbarazzato Giangi Tosi, nel Padrone e l’operaio, timoroso della propria potenza sessuale, declama all’amante di una notte, questi versi: «Quando ti vedo, amore/ oggi come oggi/ mi rapisce la poesia/ tu diventi una nube d’amore…/ e mi piace il tuo culo»; mentre sul lettino dello psicanalista, l’inconscio rivela l’ossessione per Carmenati in questo sogno surreale: «Me lo sogno tutte le notti. Stanotte ho sognato che stava con Tarzan e due vallette di Pippo Baudo». La società è rappresentata nella sua brutalità, che appartiene sia alle classi proletarie, che a quelle abbienti: ne L’Italia s’è rotta, Peppe e Antonio devono sfuggire alla pallottole di una sparatoria a Roma, Domenica alle attenzioni particolari di uno zio scultore; bande di teppisti neonazisti assaliscono Massimo e distruggono la libreria gay in cui lavora, nella 7

Patata bollente; in Febbre da cavallo, Pomata deve sfuggire ad un usuraio manesco (Ventresca). Una solidarietà bellicosa si instaura tra gli oppressi, cui non rimangono che gli sfoghi, come quello di Gianna Abbastanzi, nella Poliziotta, che si gioca il posto e la carriera, stilando un verbale falso, lei integerrima e ligia alle regole, quando si ritrova a dover fare il censimento di una numerosa famiglia di emigrati che vive miserabilmente in una baracca: «Sono venuti su al Nord a cercare fortuna. A cercare lavoro…E già. Prima gli operai ci servivano, ci hanno fatto comodo. Adesso non ci servono più: avanti, marsch! Li rimandiamo indietro. Ma indietro dove?. Ma dove vanno quei poveri cristi con tutta la miseria che c’è giu. Noi dobbiamo aiutarli. Li mettiamo lì a vivere nei tuguri che peggio dei topi. E adesso, no, neanche lì li facciamo più stare»; e quello di Massimo nella Patata bollente, che di fronte all’ipocrisia morale, sbotta: «Anche tu parli di noi come se fossimo degli scarrafoni. Bacarozzi, scarafaggi, insetti schifosi da schiacciare con lo scopettone. Volete fare un campo di concentramento? Fatelo. E a noi rimetteteci tutti nelle camere a gas».

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Capitolo 8. L’ombra nera del Vesuvio: un affare di stato Lucio De Caro: «Era molto tempo che pensavamo di tornare a lavorare insieme. Avevamo il progetto di un Tristano e Isotta, ambientato ai giorni nostri. Ne avevamo discusso con Lombardo della Titanus, ma la cosa non andò mai in porto per problemi di costi. Pensammo così a una storia di malavita meridionale ispirata all’Horace di Pierre Corneille. Ci interessava raccontare la città e riscoprire i volti, i talenti, gli attori nascosti di Napoli. La stessa operazione che De Simone aveva fatto col canto. Steno e io continuavamo a coltivare una seria amicizia peripatetica. Giravamo i bar, le osterie, le strade in cerca di quella Roma dove avevamo cominciato a lavorare ed era scomparsa per sempre». Steno: «Quando il film uscirà ci sarà sicuramente qualcuno che ci accuserà di avere copiato la realtà. E questo è alquanto frustrante. Perché un tempo il cinema italiano aveva l’abitudine di raccontare storie che facevano parte della vita di tutti i giorni, si occupava dei fatti, insomma. Non era infrequente il caso che i film risultassero anticipatori, premonitori, oltre che documenti di denuncia». «Un regista oggi non può ignorare l’alternatività dei generi, e, soprattutto, la chance della televisione, in particolare della RAI, di poter fare opere ricche di contenuto mentre i distributori cinematografici si intestardiscono nella preferenza di filmetti d’evasione. Una sola serata in televisione consente un’audience riscontrabile in una sala cinematografica nell’arco di un anno, anche a prescindere dalla crisi, sulla quale ci sarebbe da discutere. E’ una saga sulla camorra con personaggi centrali e tanti attori napoletani straordinari, cui basta una battuta per caratterizzare un ruolo di contorno. E’ un intreccio molto complesso, così complesso che in un film avrebbe dovuto essere troppo semplificato. I tempi della televisione, invece, mi hanno consentito di tenerli tutti dentro, come in una grande epopea».

Lo sceneggiato in quattro parti, per una durata complessiva di sei ore, è girato da Steno nel 1985, è programmato in televisione per il 1986 e viene trasmesso su Raiuno a partire da domenica 22 febbraio 1987, dopo aver cambiato titolo per due volte: da I clan a Cuori di pietra, fino al titolo attuale. Per la stesura della scenggiatura, Steno e De Caro si sono ispirati ad un vecchio romanzo di Francesco Mastriani, I vermi, considerato una Bibbia della camorra. La loro intenzione è quella di compiere un grande affresco sulla camorra napoletana, tenendo come codici di riferimento quelli dei film gangster americani, dei polizieschi italiani (memori della loro precedente sceneggiatura de La polizia ringrazia), non disdegnano i moduli canonici della cultura popolare napoletana, quelli della sceneggiata. La prima puntata ottiene un grande successo di pubblico, risultando di gran lunga il programma più visto della serata televisiva. Ma, imprevedibilmente, scatena un cumulo di polemiche mai visto. A reagire nei confronti dell’immagine che Steno dà di Napoli sono politici, sindacalisti, intellettuali. Si accusa il regista di fare del “colore nero”, di mostrare una Napoli arretrata che non corrisponde al vero. Un parlamentare democristiano, Ugo Grippo, rivolge un’interrogazione a tre ministri, Gava, Capria, Darida. Protestano anche gli operatori marittimi per la rappresentazione dell’ambiente portuale. Si arriva all’intervento censorio. La RAI taglia quattro minuti della seconda puntata (giovedì 26 Febbraio 1987): contenevano accenni alla connivenza tra camorra e politica.

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Rivela l’attore Carlo Giuffrè che la battuta scandalosa era: «La giustizia non mi preoccupa molto perché lì abbiamo molte amicizie». Steno e De Caro protestano, affermando: «I dirigenti di Raiuno hanno unilateralmente deciso e attuato la manomissione della seconda puntata, amputando una scenda fondamentale per la definizione dei caratteri dei personaggi e, a nostro parere, per il significato generale di tutta l’opera». La risposta del capo ufficio stampa RAI, Saverio Barbati, sembra tratta da un film di Steno per quanto è comicamente ipocrita: «Il direttore di Raiuno, Emmanuele Milano, ha invano tentato di mettersi in contatto con gli autori della decisione di operare un taglio. Poi li ha avvertiti con un telegramma. La scena conteneva giudizi e valutazioni sulla classe politica e sulla magistratura pensati e scritti tre anni fa. E in tre anni la sensibilità dell’opinione pubblica è mutata: non sembrava più il caso di formulare una pesante accusa generica, considerando la lodevole lotta di molti giudici». L’evoluzione sociale del nostro paese è stata così rapida da rivoluzionare costumi e atteggiamenti in soli tre anni, senza passare per nessun sconvolgimento politico: detta da chi controllava l’opinione pubblica sotto l’egida dei detentori del potere, questa considerazione ha una valenza inconsapevole di micidiale autoironia.

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PARTE SECONDA: LUCIANO SALCE Capitolo 1. Un’immersione totale nello spettacolo. «Gli avrebbero dovuto assegnare l’Oscar dell’incomprensione. Perché, sebbene si sia talora piegato a compromessi e su tanti film ne abbia diretti anche di mediocri […] è pur vero che è stato uno degli uomini di spettacolo più acuti e intelligenti degli anni ’60, e almeno una mezza dozzina dei suoi film sono da annoverare fra i risultati più significativi della commedia all’italiana».1 Questa affermazione di Enrico Giacovelli merita di introdurre la parte dedicata a Luciano Salce: ne definisce l’autorevolezza nel mondo dello spettacolo e la sua (s)fortuna critica. Non esiste nel nostro secolo, nel nostro mondo culturale, una personalità così piena, completa, coerente e consapevole come quella di Luciano Salce, capace di attraversare o, meglio, di perforare con il suo stile sarcastico e svagato, ogni territorio dello spettacolo, come autore e come attore, con tono brillante e pettegolo: dalla prosa al cabaret, dal cinema alla radio alla televisione, sotto il segno di un umorismo nato dall’osservazione di costume e quindi satirico. Nato a Roma il 25 settembre del 1922, dopo aver compiuto studi classici e frequentato la Facoltà di Legge, fu costretto a due anni di prigionia in Germania, evento che certamente fu alla base delle successive frequenti caricature burlesche dei tedeschi che impersonò come attore (Piccola posta, Il federale, Il giorno più corto). Nell’immediato dopoguerra debuttò al cinema (il piccolo ruolo del soldato americano, accanto all’amico Adolfo Celi, in Un americano in vacanza, 1945, di Luigi Zampa) e nel teatro di rivista (E lui dice… di Oreste Biancoli). Iscrittosi all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, si diplomò in regia nel 1947, presentando come saggio la messinscena de Il ballo dei ladri, una delle “pièces roses” di Jean Anouilh, autore dal dialogo graffiante e dalla tecnica raffinata, indicativa delle inclinazioni di Salce. Anzi, l’affinità con Anouilh è tale che questo autore brillante di inizio secolo, che aveva aggiornato e modernizzato in chiave borghese la lezione di Marivaux e Labiche, è da considerare il suo primo maestro. La brillantezza e la costruzione geometrica delle pochade francesi, intrise di umori sulfurei, saranno un punto di riferimento per tutta la produzione successiva di Salce. Non a caso esordirà nella compagnia Evi Maltagliati-Vittorio Gassman dirigendo e interpretando Un giovane frettoloso, proprio di Labiche. Seguiranno, improntate secondo un gusto umoristico classico, le regie di George Dandin e de L’avaro (1949, Teatro Ateneo di Roma, con Antonio Gandusio) da Molière e quella de L’innocenza di Camilla (1948), farsa della gelosia, scritta da Massimo Bontempelli.

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Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.175

1

Parallelamente portava avanti la propria carriera di attore: Arlecchino ne La famiglia dell’antiquario (1949, regia di Orazio Costa) e nella Figlia obbediente (1949, di Gerardo Guerrieri), si dedicò all’adattamento, con Luigi Squarzina, di alcuni canovacci della Commedia dell’Arte per lo spettacolo La fiera delle maschere, presentato a Praga, al Festival della Gioventù. Quindi recitò per Luchino Visconti (Rosalinda, 1948, al Teatro Eliseo di Roma), Luciano Lucignani (fu Bergetto in Peccato che sia una sgualdrina, 1949) e Giorgio Strehler (Il corvo, da Carlo Gozzi, nella parte di Tartaglia). Nel 1949 si trasferì a Parigi e con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli creò il gruppo dei Tre Gobbi, «allestendo un funambolico spettacolo di “sketches”, al cabaret “La rose rouge”»2. I tre anticiparono un nuovo tipo di spettacolo, fatto di scenette brevi e fulminanti, dalla risoluzione surreale, in cui dialoghi e gesti erano tesi verso l’assurdo e il non-sense. Il nome del gruppo lo scelse Caprioli: «Gobbo in gergo teatrale è un epiteto, un insulto che vuol dire mascalzone, disgraziato, guitto, morto di fame, è un soprannome spregiativo con il quale si era rivolto a loro un impresario teatrale che si rifiutava di pagare le giornate di prova e che, ovviamente piantato in asso, li aveva inseguiti per gli Champs-Elysées urlando: ”Gobbi che non siete altro, gobbi maledetti!”. Al momento di dare un nome al nuovo sodalizio Vittorio, ricordandosi dell’episodio, aveva voluto che così si chiamasse»3. La stampa francese lodò molto gli spettacoli, definendo «Teatro allo stato puro»4 quello dei tre italiani «che si presentavano in scena senza scene, solo con un paravento o al massimo due, senza costumi»5. Silvio D’Amico – nelle pagine dei ricordi di Virginia Caprioli – tentò di spiegare in che cosa consistesse questo nuovo tipo di spettacolo, estraneo al cabaret francese e tedesco, alla rivista, alla commedia borghese: […]Un quid di mezzo fra la satira del nostro tempo e la parodia dell’arte nostra. Raccolta, e moltiplicazione, d’echi d’ogni sorta: morale, politica, letteratura, teatro, moda, pubblicità, guerra e pace: il tutto attraverso spiragli bizzarri, istantanee grottesche, sintesi fulminee…La prima ed eccezionale caratteristica dei Gobbi è precisamente qui: nella loro informata, provvedutissima intelligenza. C’è in questi giochi, ironici e parodistici, una misura, un gusto, un’eleganza, una straordinaria finezza cui fino ad oggi non eravamo affatto abituati.»6

Bonucci e Caprioli ripresero la formula successivamente, dando vita al Teatro dei Gobbi, con l’avvento anche di Franca Valeri, ma senza più Salce, nel frattempo, 1950, trasvolato in Brasile. A San Paolo tenne corsi di regia all’Accademia di Arte Drammatica e assunse la vice-direzione artistica del Teatro Brasileiro de Comédia, mettendo in scena, come primo spettacolo, A importancia de ser prudente di Oscar Wilde. Sempre nel 1950 organizzò, con G. De Almeida, il Teatro de Segunda Feira, appendice sperimentale del

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E.G.L. e C.A.P., Luciano Salce, in Filmlexicon degli autori e delle opere, p. 58 Virginia Caprioli, Vittorio e io, Marsilio, Venezia, 1997, p. 180 4 Ivi, p.181 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 184 3

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Teatro Brasileriro, dove rappresentò commedie di Pirandello, Williams e, soprattutto, L’inventore del cavallo di Achille Campanile. Dopo aver raggiunto il più grande successo con la messinscena di Convito ao baile di Jean Anouilh, Salce, finalmente, tornò a dedicarsi al cinema. Prima in qualità di attore, recitando un ruolo di “vilain” in Angela (1952, di Tom Payne e Abilio Pereira De Almeida) e, infine, debuttando nella regia con due film, prodotti dalla società Vera Cruz, la stessa che aveva favorito il debutto di Adolfo Celi (Tico-Tico no fubà, 1952). Il primo film, Uma pulga na balança (1953), è una spiritosa commedia sofisticata, scritta con Fabio Carpi, «basata su un popolare personaggio brasiliano di piccolo borghese».7 Il secondo, Floradas na serra (1953) è un melodramma sofisticato tratto da un romanzo di Silveira de Queiroz. Tornato, dopo quattro anni, dall’intensa esperienza brasiliana, Salce riprese con immutata solerzia l’attività teatrale e cinematografica. In campo teatrale non si limitò soltanto alla produzione di prosa (con I tromboni di Federico Zardi concesse, nel 1956, a Vittorio Gassman il primo ruolo comico, anticipando, nella struttura della commedia, il futuro Mattatore cinematografico), ma si dedicò alla rivista (Sexophone, 1955, di Curzio Malaparte, e Uno scandalo per Lilì, 1957, di Scarnicci eTarabusi, con Tognazzi) e all’opera buffa (Le trame amorose, 1959, da Domenico Cimarosa). Quindi rientrò nel Teatro dei Gobbi e con Vittorio Caprioli e Franca Valeri scrisse e interpretò L’arcisopolo, nel 1955: «qui la loro satira prese di mira la falsa cultura nel campo artistico e nello Spettacolo»8. Questa collaborazione lo convinse a scrivere da sé un paio di commedie, rivelando una vena ispirativa che coltivava fin dagli anni giovanili, come testimonia la raccolta di racconti Cattivi soggetti (1981), che riunisce diverse pagine (racconti umoristici, ma anche psicologici e sentimentali) scritte in diversi periodi. Don Jack e Il lieto fine mostrano l’influsso dei suoi autori più cari, ne rivelano lo stile autonomo affermatosi già a livello registico ed anticipano la successiva produzione cinematografica. Don Jack (atto unico rappresentato da Vittorio Gassman al Teatro Quirino di Roma nel 1958) è una commedia d’ambiente cinematografico, il cui titolo a doppio taglio esplicita già le intenzioni. In un set cinematografico, il grande attore Andrea Falco, sta girando un film su Don Giovanni, mostrando egli stesso spiccate doti per recitare nella vita privata un ruolo analogo. I suoi tentativi di sedurre l’attricetta veneta Iris De Zan verranno però stornati dalla sua furba compagna Laura, che costringerà Iris ad accettare un contratto con un produttore meridionale, l’on. Bra. Don Jack è perciò il Don Giovanni dei giorni 7 8

E.G.L. e C.A.P., Luciano Salce…, cit., p.58 Virginia Caprioli, Vittorio e io, cit., p. 186

3

nostri, privato della sua aura poetica, involgarito dalla mancanza, nei nostri tempi, del senso del peccato. Basato su un dialogato rapido e sarcastico, totalmente privo di velleità letterarie, Don Jack presenta temi e moduli tipici della futura commedia all’italiana e, soprattutto di Salce. I personaggi presentano già il taglio tipico del genere. L’aspirante attrice è una giovane servetta veneta, prosperosa e solo apparentemente ingenua. Il produttore è un politico retorico e semianalfabeta, dal linguaggio involuto ed autocompiaciuto. Si presenta così: «Mi è anzi gradito porgerle il benvenuto, per questo suo spirito ineguagliabile di risultati artistici e morali». Si lancia in seguito in un’accorata perorazione culturale: «Questo momento di battaglia e di lotta, dove cinema, teatro e radiotelevisione devono coalizzarsi contro il comune nemico, mi è soddisfazione rilevare la sua aderenza, anche in paesi stranieri, per la vera arte italica, nel segno più alto del perdono, della comprensione universale, della pace tra i popoli». Infine, saluta l’attore Falco con queste parole: «E’ mio dovere e piacere esprimere anzitutto i sensi della sua grande arte culla di civiltà in questa terra madre». Il regista bulgaro è un povero spiantato, alla ricerca di un posto di lavoro (si offre per aiutare a dirigere il film e finisce con l’accettare il ruolo di comparsa che regge l’alabarda), che parla come i personaggi tedeschi interpretati da Salce: «Zimento. Qui troppo di legno. Sempre può bruciare. Italiano in zinema ancora molto di arretrato. Idee, sì, questo, ma non tecnico. Molto bisogno tecnico», dice cercando di convincere il regista ad accettarlo. C’è infine il protagonista sicuro di sé, inaffidabile, ma solo apparentemente vincente, che profetizza i futuri personaggi di Gassman al cinema, «spacconi, superuomini, (che) vanno incontro alle loro sconfitte»9. E ci sono i momenti topici della futura commedia cinematografica: il regista nevrotico che strilla a tutto e tutti, il produttore amico che lo consiglia, il caos degli studi: Falco tenta di sedurre la De Zan, mentre, come niente fosse, un’infermiera gli sta facendo un’iniezione. Il

lieto

fine

è

un’altra

commedia

sul

mondo

dello

spettacolo,

d’ambiente

cinematografico, ma di ambizioni maggiori. Dietro la brillantezza dei dialoghi, il gioco degli equivoci, le situazioni umoristiche, si nasconde un’amarezza di fondo che, annunciata da zone nere nel primo atto, si diffonde nell’atmosfera funerea del secondo, in cui il sarcasmo si volge in cinismo, entra in scena la morte e, nonostante il titolo, non c’è lieto fine. Nella storia di Ornella, giovane e bella ragazza di provincia (anche questa, come la De Zan di Don Jack, veneta) che la madre vuol condurre al successo a tutti i

9

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.202

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costi e che cerca una parte nel cinema, emerge la consapevolezza della nascita di una società consumistica, in cui i valori morali sono sacrificati al guadagno economico. Una constatazione che Salce, dietro lo stile brillante di un dialogo secco e conciso, affida a una teoria di personaggi grotteschi e patetici. Il vecchio divo fallito, le attricette che si prostituiscono, gli avvocati intrallazzatori, i registi grossolani e volgari: figurine pirandelliane più o meno consapevoli di star recitando un ruolo non solo sulla scena, ma anche nella vita. Conta più l’apparire dell’essere: quando si rifiuta questa regola è la rovina, come dimostra il vecchio attore Romeo, che si suicida quando si accorge del proprio fallimento, costretto a recitare nei fotoromanzi, lui che un tempo si credeva Rodolfo Valentino. La coscienza critica è affidata al personaggio del giornalista Gianni Berti, evidente alter ego dell’autore, che osserva esternamente le vicende dei personaggi, s’innamora di Ornella, ne ottiene come risposta un cortese rifiuto da parte di chi si considera ormai persa. La morale è affidata a queste poche battute di Gianni, rivolte ad Ornella, senza sottolineature didascaliche: «I fumetti vi insegnano l’eccezione e la vita non v’insegna niente. Così siete tranquille, beate voi! Perché per quante disgrazie e contrarietà vi possano capitare, i fumetti vi garantiscono il lieto fine. Beh, disilludetevi. Nella vita il lieto fine non c’è mai. – Ornella lo bacia – Quasi mai»10. Quel quasi è la nota di speranza, di ottimismo che ritorna nelle ultime battute della commedia, rivelata da Gianni, che rifiuta di arrendersi alla disumanità della vita reale ed il lieto fine decide di reclamarlo lui, con forza: «Cercherò di farle capire che il lieto fine, quello che ha sempre cercato...era magari dietro l'angolo...ma che, a volte, per arrivare all’angolo, si sbaglia direzione e si fa il giro del mondo. Non importa. In ogni caso si ritorna. Io sono all’angolo, e non ho fretta. Aspetterò»11. Questa commedia di grandi ambizioni, impegna fortemente Salce anche sul piano formale. All’interno degli atti, le scene si moltiplicano (nove nel primo, cinque nel secondo), frantumando l’azione principale, comunque sempre in primo piano, in una serie di quadri atti a dare una definizione globale (e negativa) del mondo cinematografico. Volta a volta, l’autore conduce lettore e spettatore all’interno del set cinematografico, nelle pensioncine dove abitano gli attori, negli studi dove si elaborano i progetti, nelle feste dei produttori, rilevando la grossolanità e la volgarità di quel mondo. Un modo di fare teatro in modo narrativo, in cui l’autore evidenzia il suo ruolo, superando la neutralità del genere teatrale. Nel secondo atto, una scena (l’incontro contemporaneo di due coppie, in due luoghi differenti: Gianni/Ornella – Rosita/Romeo) è risolta con la soluzione 10 11

formale

del

montaggio,

richiamando

Luciano Salce, Il lieto fine, dattiloscritto, 1958, p.113 Ivi, p. 158

analoghi

tentativi

del

teatro

5

contemporaneo, come quello di Bruckner per I criminali, che Szondi spiegò così: «Le scene non si generano da sé come nel dramma, in una successione dinamica e coerente, ma sono opera dell’io epico, che dirige la luce del suo riflettore alternativamente sull’uno o sull’altro vano della casa d’affitto. Lo spettatore coglie solo frammenti di dialogo; quando ne ha inteso il senso ed è in grado di immaginare da sé ciò che avverrà, il riflettore si sposta ed illumina un’altra scena»12. Nel Lieto fine, la soluzione formale è la medesima: la scena è divisa in due zone, visivamente

omologhe (le

due

coppie

sono disposte

allo stesso modo, sedute

frontalmente ad un tavolino, sorseggiando una bibita, ascoltando la stessa musica alla radio), che la luce illumina alternativamente, lasciando nell’ombra quella che non richiede l’attenzione. Un esempio di

montaggio parallelo, per raccontare

due eventi

in

contemporanea, che annuncia le soluzioni cinematografiche. La complessità della commedia trova uno dei suoi momenti forti, in una scena un po’ periferica: quella del balletto ideologico che si scatena nei confronti dello scrittore Malinverni, in fin di vita. Salce fa riferimento allo scrittore Curzio Malaparte (che il nome di Malinverni rievoca, così come il suo viaggio in Cina), la cui grave malattia, conclusasi con la morte, l’anno precedente la stesura della commedia, aveva scatenato, come ricorda Fulci, «intorno al suo letto l’ignobile gazzarra ideologica. Con preti e comunisti a contendersi la professione di fede di uno dei pochi che non l’aveva mai espressa. Dopo molti ne scrissero, Salce addirittura una commedia. Patetici erano i parenti. Erano anni che non lo vedevano e adesso erano preoccupati solo che non fosse eseguito un lascito testamentario: quello della villa di Capri ai cinesi»13. Salce trasferì l’accadimento nella commedia quasi senza forzarlo: era già di per sé una farsa grottesca14. Aggiunse, di suo, una nota di estremo sarcasmo: Malinverni è strumentalizzato da Ornella, che si fa fotografare piangente sul suo letto di morte, per lanciarsi nella carriera di attrice. Contemporaneamente alla scrittura di queste due commedie, si dedica ancora alle regie teatrali e s’avvicina ai nuovi mezzi radiotelevisivi. Per la radio conduce con Franca Valeri e Vittorio Caprioli la rubrica Chi li ha visti? e scrive l’originale La zuccheriera, sempre con la loro collaborazione. Per la televisione è autore, con Ettore Scola, del programma Le canzoni di tutti (1958), regista de L’orso e il pascià, da Scribe, con Monica Vitti e «ospite in decine di spettacoli di varietà (Studio Uno, Senza rete), portando un genere nuovo di comicità: ironica, caustica, graffiante»15.

12

Peter Szondi, Teorie del dramma moderno, Einaudi, Torino, 1962, pp. 104-105 Lucio Fulci, Miei mostri adorati, Pendragon, Bologna, 1995, p. 138 14 Cfr. Appendice: Il lieto fine, atto I, scena 4. 15 Roberto Poppi, Luciano Salce, in Dizionario del cinema italiano, Gremese, Roma, 1998, Gli attori, p. 437. 13

6

Nel 1960, al culmine di una copiosa attività che ha sperimentato tutti i campi dello spettacolo, seguendo la direttrice coerente dell’umorismo, Luciano Salce si sente pronto per debuttare nel cinema italiano ed accetta la proposta di dirigere Le pillole di Ercole. Film su commissione, perciò, ma molto personale, perché indicativo delle propensioni del regista, e vera ricapitolazione di primi quindici anni della carriera artistica di Salce. Le pillole di Ercole è infatti la trasposizione sullo schermo di una “pochade” francese

e

contiene in sé le marche stilistiche del regista: il gusto per i personaggi sbozzati caricaturalmente, il dialogo brillante, il ritmo matematico stilizzato fino al balletto. Salce affronta la prima esperienza con grande entusiasmo e, nonostante la disavventura occorsagli (fu costretto, in pratica, a girare il film su una lettiga), con idee chiare e precise (mise subito in difficoltà il direttore della fotografia Menczer, chiedendogli di effettuare tutti gli stacchi e gli attacchi in movimento). Ne rimase soddisfatto: nelle sue dichiarazioni ricorda il film con affetto: Avrei dovuto debuttare con Il federale ma non si riusciva a chiudere la produzione e così feci un film meno impegnativo, Le pillole di Ercole, una farsa per Manfredi, grazie a Manfredi che insisté perché lo dirigessi io contro il parere di De Laurentiis. Come debutto era pieno di attori e di movimento e il canovaccio era a tutta prova. Fu un successo, e dimostrai che sapevo dirigere un film.16

Infatti, l’anno seguente, la dimostrata professionalità della sua regia per Le pillole di Ercole sarà decisiva per condurre a termine il progetto de Il federale. Ricorda Ugo Tognazzi che, avendo tra le mani il copione di Castellano e Pipolo, cercava di convincere i produttori Broggi e Libassi Affinché a dirigere e a coordinare questo film anche in fase di sceneggiatura intervenisse un regista ambizioso, giovane, con il quale poter parlare, perché sapevo già che cosa potevano predisporre in partenza i due produttori. Loro mi dicono: «Va bene, fai tu un nome!». Io conoscevo Salce perché aveva fatto la regia della mia ultima commedia musicale, Uno scandalo per Lilì, e mi sembrava una persona con cui si poteva avere un dialogo, e Salce aveva fatto come primo film un film alla Mattoli o alla Mastrocinque, che si chiamava Le pillole di Ercole. Insomma ho agito d’astuzia, perché se Salce avesse fatto prima un film più impegnativo e avessi mandato i due produttori a vederlo, mi avrebbero detto senz’altro di no, invece videro Le pillole di Ercole, una vecchia pochade, e trovarono quel che loro cecavano, un film d’assoluta evasione, e dissero di sì. Allora vidi Salce e gli dissi: «Mi sembra che questa sia l’occasione per fare qualcosa di diverso, per avere un personaggio, anziché un pretesto meccanico di commedia o parodia». Salce fu d’accordo, lavorò con Castellano e Pipolo e si fece il film.17

Nacque così una stretta collaborazione tra Salce (regista), Tognazzi (attore) e Castellano e Pipolo (sceneggiatori) che, grazie a tre film consecutivi (Il federale, La voglia matta, Le ore dell’amore), raggiunse il successo cinematografico di pubblico e critica e rinnovò dall’interno la commedia all’italiana. Le ore dell’amore conferì a Salce i massimi riconoscimenti critici, ma dopo questo film, nonostante la sua carriera proseguisse con coerenza e volontà di rinnovamento, 16

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 70 7

l’interesse per la sua opera scemò: la sua «morale del senso comune» venne tacciata di «qualunquismo»18, la sua leggerezza scambiata per superficialità, il suo sarcasmo per cinismo. Il film che segnò il distacco dell’interesse critico nei suoi confronti fu Come imparai ad amare le donne (1966), in cui Salce intendeva «fare una commedia di sentimenti e di caratteri, lasciando in pace una volta tanto la satira di costume ed altri impegni più o meno abusati»19. Invece la critica affermò che si trattava di «opera che infastidisce per quel continuo porsi sul piano della speculazione. […] Satiricamente inconcludente, umoristicamente fiacco, il film si raccomanda unicamente per il suo erotismo di bassa lega»20, tanto da ridefinire riduzionisticamente tutta la sua opera: «In realtà su quale basi poggia il “mito” Salce? Su basi assai incerte e traballanti, invero, ché solo Il federale e La voglia matta son meritevoli di una certa attenzione, mentre tutte le altre opere, e in particolare le ultime, lo stiracchiato Slalom e il mediocrissimo El Greco, sono tutt’altro che probanti e nel loro insieme fanno apparire i due film validi come le classiche eccezioni che confermano la regola»21. Tre anni dopo, Colpo di stato, segnerà il punto di massima divergenza tra l’impegno artistico (notevole) di Salce e l’interesse critico nei suoi confronti. Nonostante tutto, la sua carriera procedeva spedita, anche se ormai quasi completamente dedicata al cinema. Al teatro aveva rinunciato, ma non alla televisione, dove fu frequentemente ospite di numerosi spettacoli (presentò con Lelio Luttazzi la Biblioteca di Studio Uno), ed alla radio, dove, per molti anni, ha condotto trasmissioni ricorrenti (tra le tante si ricorda I malalingua, del 1974), «di solito nelle ore antimeridiane, dove commentava i fatti del giorno, introduceva macchiette più o meno divertenti e qua e là affrontava una bonaria critica (di tipo salottiero) delle magagne del costume nazionale»22. Al cinema proseguì la strada del perfezionamento e del rinnovamento dei moduli della commedia all’italiana. Si dedicò alla trasposizione di commedie e farse teatrali (Ti ho sposato per allegria, L’anatra all’arancia, La presidentessa), tentò la strada della commedia politica (La pecora nera, Colpo di stato, Il sindacalista), coniugò l’acredine della commedia nostrana con l’umorismo nero spagnolo (Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno), ottenne eclatanti successi di pubblico (Il Prof. Dott. Guido Tersilli 17

Ivi, p.113 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol.4, p.393 19 Anonimo, Salce e l’educazione sentimentale dei giovani, in Cinema ’60, n. 57, mar. 1966, p. 57 20 G.Ciaccio, Amare le donne, Rivista del cinematografo, a. 39, n.12, dic. 1966, p. 774 21 G.Ciaccio, Amare …, cit., p. 774 18

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primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue), continuando ad allineare, senza soluzione di continuità, «i profili dell’italiano “senza qualità”»23. Fino a quando l’incontro con Paolo Villaggio non segnò la seconda grande svolta della sua carriera. Il successo di Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1976) riaccese l’interesse critico nei confronti dei suoi film, ma, e qui sta il segno dei tempi cambiati, con il dubbio che la felice riuscita dei film fosse «merito del regista o dell’attore-autore Paolo Villaggio».24 Il sodalizio con Villaggio proseguì per tutta la seconda metà degli anni '70, con un progressivo disinteresse di pubblico e critica. Gli anni ’80 furono anni difficili, segnati dalla malattia (una paralisi facciale lo colpì dopo le riprese di Gli innocenti vanno all’estero, 1983) e dalle scarse possibilità di lavoro. Salce, comunque, riuscì a trovare l’entusiasmo per ottenere ancora un grande successo commerciale (Vieni avanti cretino, 1982) e chiudere la carriera con una commedia giovanilistica, Quelli del casco (1988), in cui recuperò le atmosfere de La voglia matta (1962), mostrando come lo stile, leggero e brillante, fosse rimasto invariato, così come il modo di osservare i fenomeni di costume. Afflitto da un male incurabile, Luciano Salce si spense a Roma, per crisi cardiaca, l’anno dopo, il 17 dicembre del 1989.

Capitolo 2. La commedia trova il suo linguaggio cinematografico (Il federale, La voglia matta, Le ore dell’amore)

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Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, Guido Di Falco, Luciano Salce, in Fernaldo Di Gianmatteo, Nuovo dizionario universale del cinema, Gli autori, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 1169 23 Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4, p.393 24 Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4, p.394

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«Si può dire che la commedia cinematografica all’italiana sta trovando un suo linguaggio cinematografico, una sua dignità senza precedenti…e ha trovato i suoi interpreti»1: è questa l’affermazione di Tullio Kezich, rilasciata nella recensione al film Le ore dell’amore, che consegna a Luciano Salce «la patente d’autore»2. Con Il federale, La voglia matta, Le ore dell’amore, Salce-Tognazzi-Castellano e Pipolo creano una trilogia compatta che, per la prima volta, all’interno della nascente commedia all’italiana, pone al centro del racconto l’”uomo senza qualità”, uno di quei «piccoli eroi negativi, travolti nel loro privato dalle illusioni della Storia, passata o recente che sia»3. Ad incarnare i protagonisti delle tre storie è sempre Ugo Tognazzi, che «tra tutti gli attori del dopoguerra è quello che guarda con più intelligenza alla mostruosità dell’uomo comune, ne denuncia la pericolosità sociale e, in parallelo, sa far vibrare

di corde

sentimentali di ricchezza inimmaginabile personaggi dall’apparenza mostruosa e far vedere gli individui nella loro nudità fisica e morale, una volta caduti i sistemi difensivi»4. Le mostruosità della vita moderna, gli autori di questi film, le individuano nella classe borghese. Gli uomini senza qualità sono uomini borghesi, che nella vita hanno raggiunto un livello sociale di benestanza, a scapito però del calpestamento dei valori morali, provocando un senso di insoddisfazione che mina la possibile tranquillità della loro vita. I ritratti di questi protagonisti hanno un’estensione cronologica (dal fascismo all’epoca contemporanea) e sociale (tra pubblico e privato) che consente di attribuire un alto grado di esemplarità alle loro storie. Sempre i tre protagonisti hanno un’attribuzione di relativo potere (Primo Arcovazzi, ne Il Federale, è una camicia nera; Antonio Berlinghieri, ne La voglia matta, è un ingegnere che sbandiera la propria tessera di probiviro dell’Aci; Gianni è un professionista benestante), che consente loro una supremazia parziale nei confronti dei più stretti interlocutori, ma nel frattempo ne limita una totale e soddisfacente realizzazione sociale. C’è sempre qualcosa, nel momento in cui sembrano raggiungere l’obiettivo, che si rivolta loro contro e ne provoca la rovina. La causa sembra essere esterna, mentre invece si rivela insita in essi: è una ristrettezza di vedute – sociali, morali, politiche – che si mostra nel momento decisivo, quando dovrebbero esprimere le proprie qualità. Primo Arcovazzi viene linciato dai partigiani, proprio perché è riuscito ad indossare l’agognata divisa da federale, rimanendo ottuso di fronte alla terribile stupidità del fascismo e non accorgendosi della presa di coscienza dei suoi connazionali. Antonio Berlinghieri perde la giovane Francesca, proprio quando è convinto di averla conquistata: 1

Tullio Kezich, Il filmsessanta, Mondadori, Milano, p.177 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, p. 321 3 Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, Il federale, in Fernaldo Di Gianmatteo, Dizionario del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995, p.134 4 Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4., p.150 2

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la differenza di età non è decisiva quanto la differenza di vedute. La sua rispettabilità, paravento dietro cui nascondere ogni cialtronaggine, verrà ridicolizzata nel finale tragicomico. Infine, Gianni fallisce il rapporto con Maretta, proprio nel momento della definitiva consacrazione della relazione borghese, quella del matrimonio. Gli egoismi dei due coniugi, a contatto con una realtà rituale e nevrotica, si scontrano fino ad impedire qualsiasi contatto tra le due personalità. La risoluzione, amara, sarà quella di tornare ad essere amanti. Una testimonianza di Luigi Zampa, che, contemporaneamente a Salce, girava una commedia sul fascismo, Anni Ruggenti (1962), richiama l’attenzione sui guasti provocati dalla borghesia: «I maggiori guai dei nostri tempi sono sempre dipesi da una borghesia inetta, profittatrice, corrotta. Del resto chi è che ha fatto il fascismo? La borghesia, non l’hanno mica fatto le masse popolari! Le masse popolari ricevevano la cartolina rossa e le obbligavano ad andare a Piazza Venezia a urlare “Duce-Duce”, altrimenti finivano male. Il fascismo non era un fatto popolare, ma un fatto di coercizione. Quelli che lo seguivano spontaneamente erano i borghesi, per conservare i loro privilegi. E sono stati i borghesi fascisti a seminare delitti e rovine per l’Europa»5. Il federale (1961) si inserisce in un filone di film comici sulla Resistenza, che proprio in quegli anni stava nascendo, sulla scia di Tutti a casa (1960, Comencini). «Sembrò uno dei sintomi più salienti della rinascita del cinema italiano il fatto che, dopo il torpore degli anni ’50, trovasse un ruolo non secondario quella tematica che nel corso del decennio precedente era rientrata tra gli argomenti tabù e che, quando sfiorata, era stata oggetto di vessazioni , censure, impedimenti»6. Il critico Miccichè ne depreca però la carenza ideologica: «In buona parte dei film, la rievocazione e la rappresentazione della notte fascista, e dei giorni di furore con cui si era conclusa, assunse non a caso connotazioni da “commedia”, oscillando tra la satira e la farsa, con un’esplicita rinuncia a ogni saldo approfondimento analitico» 7. Micciché non si accorge che le potenzialità critiche della commedia sono tutt’altro che carenti, sono soltanto differenti da quelle analitiche dei film drammatici e psicologici. La commedia usa la caricatura, la deformazione, l’irrigidimento grottesco, il non-sense per rappresentare i propri pensieri ideologici. Basta saperli trovare. La politica degli opportunisti, che alla caduta del fascismo hanno tranquillamente cambiato bandiera, trasferendosi subito dalla parte del vincitore è, proprio ne Il federale, sintetizzata nella figura del poeta Arcangelo Baldacci. Poeta ufficiale del regime, cantore della gesta del fascismo in questi eroici versi: 5

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.116-117 Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia, 1996, p.47 7 Ibidem. 6

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Chi, sfidando la mitraglia, nel fragor della battaglia, all’assalto ci conduce ? E’ il mio duce. Chi, tra labari e bandiere, guida le camicie nere, al trionfo del partito? E’ Benito. Chi, sprezzando Francia e Albione, col germanico e il nippone, marcia verso ogni destini? Mussolini.

Appena Baldacci ha il sentore della prossima caduta del regime, si adegua alle nuove idee: cambia genere di poesia, ma non la struttura formale: Chi scacciato l’Alamanno, dalla lotta e dall’affanno, alla pace ci trarrà? Libertà.

La pregnanza sintetica e la validità della metafora, non didascalica, ma satirica è evidente. Non per Micciché, che attacca furiosamente film e regista: Un capitolo tra i più degradati del sottofilone comico sul fascismo lo firma comunque Luciano Salce che – dopo un lontano e oscuro esordio registico in Brasile […] ed una prima irruzione nel cinema alimentare (Le pillole di Ercole, 1960) – dirige Il federale (1961), dove una quantità di sberleffi equanimemente distribuiti tra fascisti e antifascisti si conclude con una sorta di fraternizzazione vittimistica tra “italiani brava gente”, in camicia nera o in cravatta borghese.8

La cieca requisitoria di Micciché travisa completamente il senso del film. La migliore risposta al critico la dà lo stesso Salce: Il fascista de Il federale è il frutto di una scuola di ottusità e imbecillità, giocato dai suoi stessi capi furbacchioni. Uno che non capisce perché gli hanno insegnato a non capire. D’altra parte il professore dal solido e chiaro antifascismo ha delle grettezze umane che non ha il suo antagonista. Il film è tutto in questo scontro di caratteri. Fare satira è sempre un esercizio difficilissimo, in un paese dotato di così poco senso dell’umorismo come il nostro, e fa rischiare l’impopolarità. […] Qualcuno rimproverò il film di essere qualunquista, perché si vedeva con occhio umano il personaggio del fascista ottuso e imbecille. L’accusa, d’altronde, mi è stata fatta spesso. Il professore poi, non è che lo considerassi come un buono, era un antifascista storico, vecchio tipo, alla Bonomi, Sforza, visto anche lui criticamente.9

La chiave di lettura del film sta nella frase che un gerarca dice a proposito di Arcovazzi: «Ha messo vent’anni per imparare tutto questo, ce ne vorrebbero altri venti per farglielo dimenticare», sottolineando così la sua attitudine all’obbedienza. Il personaggio di Arcovazzi è osservato dagli autori nelle sue sfumature umane, non è l’incarnazione del Male in camicia nera. La tesi di Salce (e di Castellano e Pipolo) è che gli uomini comuni che aderirono al fascismo non lo fecero perché costretti o per libera scelta, ma perché non avevano altra possibilità: erano abituati a vivere in una società repressiva, che non faceva pensare e non erano capaci di distinguere l’errore della loro 8 9

Lino Micciché, Cinema italiano…, cit., p.49 Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.112-113

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scelta. Arcovazzi vive la sua fede politica come «unica possibilità di riscatto sociale»10. Il suo eloquio e il suo pensiero sono riempiti di frasi fatte (le nazioni democratiche diventano nei suoi discorsi «le forze demoplutocratiche»), di slogan politici (le poesie di Baldacci) ma è capace di slanci generosi (si tuffa tra gli aerei di bombardamento per salvare due fanciulli). Anche a contatto con il nobilissimo pensiero del prof. Erminio Bonafè, la sua fede politica non cambia: nemmeno i lucidi aforismi del professore sulla guerra («la guerra è una parentesi bestiale e solo quando è finita ci si accorge della sua inutilità»), sul fascismo («Ai miei tempi mi insegnarono che un buon voto in latino valeva più di un buon voto in ginnastica. In seguito per conquistare un buon posto al governo ci volle soprattutto la salita alla pertica. L’Italia non fu più maestra d’arti, ma maestra di ginnastica»), le sue parabole (come quella economica sull’affamato a cui il dittatore dà il necessario, ma il democratico la possibilità di acquistarselo) feriscono la sorda ottusità di Arcovazzi. La differenza dei due personaggi trova riscontro nella differenza di recitazione degli attori che li interpretano: Ugo Tognazzi e Georges Wilson. Tanto il primo è «sanguigno, istintivo, corposo»11, tanto il secondo è «distaccato e pieno di finezze»12. Il gioco a due di botta e risposta è uno degli elementi più efficaci del film. Ma, nonostante il parere contrario di Viganò, non si riduce al «contrasto tra l’agitazione del capocomico e la flemma della spalla»13, tipica del teatro di rivista. Wilson non è affatto la spalla di Tognazzi, ne è un contraltare: non è possibile considerarli una coppia comica. Lo affermò lo stesso Salce, che lottò per non inserire nel film anche Vianello: Il difficile fu staccarlo (Tognazzi, nda) da Vianello. Automaticamente tutti dissero: il secondo, il professore, lo fa Vianello! Ma con tutta la mia simpatia e ammirazione per Vianello non mi pareva un film da coppia, e ci voleva un attore adeguato a quel ruolo, che poi trovammo in Georges Wilson.14

Non c’è nel film una costruzione della gag apposita per la coppia comica: non c’è un rapporto di subalternità tra una personaggio (un attore) e l’altro, come nei film con Laurel e Hardy, Franchi e Ingrassia. Ognuno ha una posizione di superiorità rispetto all’altro: se Bonafè è superiore ad Arcovazzi sul piano intellettuale, quest’ultimo è l’uomo che detiene il potere. Non c’è neanche nelle gag del film quella violenza grafica affine al sadismo di tanti film imperniati sulle coppie comiche. Il federale è un film di viaggio a due personaggi. Non c’è neanche una protagonista femminile, cosa che spiacque ai produttori. E’ un lungo viaggio dei due protagonisti verso 10

Aldo Viganò, La commedia…, cit., p. 80 Ermanno Comuzio, Presentazione de “Il Federale”, Cinecittà, 1990 12 Ibidem 13 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.80 11

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un traguardo che sarà anche un regolamento di conti con la Storia: Arcovazzi sconterà con l’aggressione la sua scelta sbagliata, la sua incapacità di comprendere la giustezza di un’ideologia, di orientarsi nella vita. Anche nel finale, dopo essere stato picchiato senza capire il perché, si trova a vagare in una Roma ridotta in macerie. Il viaggio stavolta non è un viaggio di conoscenza: la sua ottusità sarà senza redenzione, non ci sarà conversione nella propria coscienza. Il che implica un giudizio molto negativo degli autori sul personaggio, al di là delle proteste dei «critici di partito»15. Il racconto di questa mancata presa di coscienza procede sul piano stilistico senza intenerimenti: il tono del film è satirico, con qualche accensione lirica (il personaggio di Donna Eleonora) che non scade mai nel sentimentalismo. La regia e la sceneggiatura procedono all’unisono nel caricare di significati i dettagli, attraverso cui

illuminare

personaggi e situazioni. Già in questo film Salce mette a punto le sue doti peculiari di ritmo e costruzione dell’inquadratura, sostenute da una sceneggiatura di Castellano e Pipolo ricca di battute incisive e rivelatorie. E’ rivelatoria della concentrazione degli effetti attuata dagli autori la trovata del libriccino di poesie di Leopardi che il professore porta con sé. In primo luogo, infatti, definisce più ampiamente le coordinate psicologiche di Bonafè: la lettura dei versi di Leopardi gli consente di distaccarsi dalla realtà concreta e, rapportandola ad essi, di commentarla. D’altro canto, aumenta l’analisi del carattere di Arcovazzi, sordo (una volta di più) di fronte ai versi di Leopardi, sprezzantemente definito, valutandolo con la virilità fascista, «il gobbetto». Infine segna il punto d’incontro tra i due, quando le pagine del libro verranno progressivamente strappate per farne cartine di sigarette ed anche la cultura si mostrerà impotente di fronte alle necessità della vita quotidiana. La sequenza di Arcovazzi e Bonafè in viaggio sul sidecar sulla strada sterrata di campagna, con Arcovazzi che, sguardo fisso di fronte a sé, insensibile alle parole del professore, annuncia ogni ostacolo che si para davanti («Buca!», «Buca con acqua!», «Buca con fango!») finendoci puntualmente in mezzo, è quella più celebre per dimostrare l’icasticità delle soluzioni narrative (e realmente sarebbe stato impossibile mostrare in miglior modo l’ottusità del fascista). In tutto il film Salce dimostra la capacità di cogliere il nocciolo di ogni situazione del racconto. C’è un grande senso del paesaggio ne Il federale: i due protagonisti vi sono immersi nelle frequenti inquadrature in totali e campi lunghi (e lunghissimi, come quello della rincorsa tra i due in controluce, sulla linea dell’orizzonte, sul far della sera). La natura si fa sempre più brulla, procedendo verso Roma, e rivela la pericolosità nascosta dietro la bellezza. Le ampie distese pianeggianti della campagna pontina, con le stradine 14 15

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.113 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.45

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bianche impolverate, sono facile bersaglio degli aerei di bombardamento; i campi di grano sono minati (anche se poi il cartello di avviso si rivela falso, messo lì da un villico che non voleva far rovinare le colture dal passaggio di soldati e civili in fuga); i paesi, come Rocca Sabina, sono ridotti in mucchi di mattoni tritati e case sbilenche; i treni che tornano dal fronte sono carichi di feriti e mutilati (Arcovazzi li saluta orgoglioso e festante); le Case del Fascio, simboli del potere, dimostrano la portata della rovina: sono occupate da ragazzi imberbi che giocano alla guerra. L’umanità che popola questa natura è sbandata, disorientata e fa mostra delle proprie peggiori qualità: siamo nel 1944, l’Italia è divisa in due. Il poeta di regime Arcangelo Baldacci si rifugia nella soffitta della sua casa, dopo aver fatto annunciare dalla propria moglie, la sua morte eroica nei cieli d’Albania. La famiglia di contadini abruzzesi che scambia l’affamato prof. Bonafè per un ufficiale tedesco prima lo vuole uccidere a tradimento, poi, dopo la spiegazione del professore, lo caccia via senza un briciolo di pietà (e, soprattutto, senza rifocillarlo). La zia di Bonafè e la sua vecchia fiamma denunciano involontariamente il professore, rivelando il suo nascondiglio ad Arcovazzi, perché non hanno assolutamente compreso la situazione creatasi in Italia: «Se ti cercano, vuol dire che hanno bisogno di te», sentenzia la zia, prima di consegnare ad Arcovazzi una maglia di lana per il professore. I compaesani di Bonafè, poi, vedendolo in sidecar con il fascista, credono che abbia tradito e sia passato con le camicie nere. Proliferano borsari neri, nascosti dietro facciate insospettabili (uno di essi porta l’olio dentro la statua di un beato) e astute ladruncole: regnano l’indifferenza e l’istinto di conservazione, laddove si è permessa la nascita del fascismo. Tra queste figure di vigliacchi, egoisti, ottusi uomini comuni Bonafé e Arcovazzi incontrano lo sguardo allucinato del Matto «che non sa niente di niente»16. Estrema incarnazione dell’uomo comune che per salvare la propria vita si disinteressa di tutto e di tutti, non si espone a nessun rischio ed accetta di essere insultato e calpestato: Arcovazzi: - Ma allora sei deficiente! Matto: - Deficiente a chi? Arcovazzi: - A te! Matto: - Ah, beh, beh…basta spiegasse…

La mdp di Salce è mobile, rifiuta la fissità neutra dell’occhio: i piani non sono mai fissi, i dialoghi sono risolti con movimenti e scarti della mdp, con la scomposizione dei piani dell’inquadratura. Come nella scena dell’incontro con i soldati tedeschi: in primo piano il professore immobile (diffondendo una sensazione di ostilità), in fondo il tedesco immobile (stavolta la sensazione è di superiorità), al centro Tognazzi che fa la spola tra l’uno e l’altro (servile ed ingenuo). Emergono già ne Il federale, e con compiutezza, quelle che 16

Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.80

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saranno le doti del regista: «senso del ritmo, rapidità di osservazione, leggerezza di tocco, paragonabili alla commedia sofisticata americana degli anni ‘30»17, ma anche originalità nel taglio delle inquadrature (senza eccessivi barocchismi), impaginazione scenografica adeguata dei momenti del racconto, capacità di rivelare i dettagli psicologici tramite situazioni comiche. Sarà quest’ultima caratteristica ad emergere nel successivo La voglia matta (1962). Il quale riporta all’epoca contemporanea l’analisi sull’uomo borghese: Antonio Berlinghieri è un ingegnere milanese di 39 anni, sposato, con un figlio, un’amante, soddisfatto e sicuro di sé, tanto nei rapporti di lavoro che in quelli sessuali («Mai mettere la donna sul piano sentimentale, sempre su quello orizzontale»). Col procedere del racconto, scopriamo però che la sicurezza e la soddisfazione sono solo apparenti: la moglie lo ha lasciato, il figlio è rinchiuso in un collegio monacale e, soprattutto, aleggia sulla sua esistenza la preoccupazione di star vivendo una fase di passaggio della propria vita. L’arrivo dei quarant’anni avvicina quello della vecchiaia e, quindi, della morte: come acutamente ha osservato Aldo Viganò, «il film mette in scena la paura della fine di tutto. A trentanove anni, spesso costretto a mantenersi sveglio con la simpamina, l’industriale Berlinghieri deve per la prima volta, fare i conti con la morte. La teme, allorché il medico lo visita scuotendo

la

testa;

la

immagina, mentre

Francesca

lo

costringe

a

correre

a

centocinquanta all’ora sulla provinciale; se ne sente aggredito quando fa il bagno in mare dopo mangiato; se la trova improvvisamente nelle sembianze del cecchino inglese ucciso casualmente in guerra, nel corso della passeggiata notturna nel cimitero. Per reazione allora egli si attacca morbosamente a quella maliziosa teen-ager che dispensa baci a tutti e chiama “matusa” i genitori che hanno la sua età»18. L’impostazione psicologica ha una valutazione ideologica: Berlinghieri sembra una vittima, niente affatto innocente, di «quel mito della giovinezza perenne, che proprio in quegli anni stava nascendo, imposto dall’industria culturale»19.

La voglia matta è una

delle grandi commedie del “boom”, girata all’inizio degli anni ’60, quando «gli autori colgono magistralmente il boom nella sua doppia componente di ostentata euforia e sotterranei presentimenti»20. Salce si inserisce a pieno titolo nel gruppo di questi autori. E’ critico verso la società nata in questi anni. Per lui il consumismo conseguente al miracolo economico assoggetta ogni componente, privata e pubblica, del vivere, anche quella sessuale: «la “voglia matta”, naturalmente insoddisfatta, è quella del sesso,

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Gian Piero Brunetta, Storia del…, cit., vol.4, p.393 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.86 19 Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, La voglia matta, in Fernaldo Di Gianmatteo, Dizionario del cinema italiano, Editori Riunti, Roma, 1995, p.384 20 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.47 21 Ivi, p.48 18

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anch’esso un allettamento consumistico fra i tanti, anch’esso in fondo uno statussymbol»21. A contatto con una realtà estranea, per motivi temporali, quella del mondo giovanile, Berlinghieri mostra il lato ridicolo del proprio perbenismo. Vuole sfidare i giovani sul loro terreno, quello atletico, e ne esce sconfitto in modo quasi letale (la già ricordata nuotata del dopopranzo). Vuole mostrare il proprio senso dell’umorismo, ma racconta malamente una barzelletta, si dimentica la battuta finale, la ripete più volte e viene ridicolizzato: Berlinghieri: - Se permettete ne racconto una io. Però la mia ha un difetto: fa ridere. Dunque come faceva? Flashback, con inquadratura di Berlinghieri che scende da un aereo, accompagnato da Alberghetti, verso cui si rivolge: Berlinghieri: - Alberghetti la sa quella della marmellata? Alberghetti: - No, no, dica… Berlinghieri: E’ carina…Un signore entra dal droghiere e dice: «Mi dia un barattolo di marmellata Arrigoni». «Mi dispiace – risponde il droghiere – a rigoni non l’abbiamo, l’abbiamo solo a tinta unita». Risata di Alberghetti. Fine del flashback. Berlinghieri in primo piano, rivolto ai ragazzi: Berlinghieri: - Dal droghiere: un signore entra e chiede un barattolo di marmellata. E l’altro risponde: «L’abbiamo soltanto a strisce»…Ah, no, no, ho dimenticato la cosa più importante. Un signore entra dal droghiere e chiede un barattolo di marmellata Arrigoni. Al che il droghiere risponde: «A rigoni non l’abbiamo, l’abbiamo soltanto a strisce. Controcampo dei ragazzi attoniti. Ancora Berlinghieri: - Ah, no, no…fate conto di non averla sentita. Un signore entra dal droghiere e chiede un barattolo di marmellata Arrigoni e il droghiere gli risponde…sì, sì, sì…il droghiere gli risponde: «A rigoni non l’abbiamo, l’abbiamo soltanto a strisce». Controcampo dei ragazzi sbalorditi. Berlinghieri (alterato): - Un signore entra dal droghiere: «Per favore, avete un barattolo di marmellata Arrigoni?», ah…l’abbiamo a tinta unita, a tinta unita… Il ragazzo biondo: - Però…fa proprio schifo, è pure vecchia. L’altro ragazzo: - Questa l’hanno raccontata a Goffredo di Buglione e lui ha deciso di partire per le crociate e non è più tornato.

La sequenza risponde pienamente alle caratteristiche stilistiche di Salce ricordate precedentemente: la capacità di definire le psicologie attraverso le situazioni comiche. In una scena molto crudele, Berlinghieri viene assediato dalla mdp di Salce. La superiorità intellettuale che il protagonista voleva mostrare gli si ritorce contro: i balbettii, i tentennamenti, le alterazioni del personaggio fanno montare un’insostenibile tensione psicologica che sfocia nella risata ridicolizzante. Il disagio per una risata che non viene riscossa, si tramuta in oggetto di risate altrui: dello spettatore e dei personaggi della storia, omologhi dello spettatore. Il soggetto non è più il motore dell’azione, ma la subisce, ne diviene l’oggetto. L’ingegnere Berlinghieri vorrebbe controllare gli altri personaggi, ma se con i suoi coetanei ci riesce (Alberghetti è un suo servile compagno), con i ragazzi non ha altrettanta fortuna, nonostante si creda a loro superiore, per cultura ed esperienza. Forse lo è - «il gruppo dei ragazzi impressiona per la sua svagata crudeltà, per il suo

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aggiornato conformismo»22 - ma la distanza tra i due mondi è tanta che non c’è possibilità di comunicazione: i tentativi di Berlinghieri di mostrare la propria superiorità scivolano sui ragazzi come l’acqua sul marmo e gli sforzi per farsi sentire ottengono l’effetto di ridicolizzarlo. Il movimento psicologico dei

personaggi

si

riflette

sulla struttura stessa del

racconto, che sembra non progredire mai. I movimenti della narrazione, dopo lo spunto iniziale, si arrestano, si soffermano sulla situazione e poi si ribaltano: è un movimento a quattro tempi. Coincidendo con le azioni di Berlinghieri, atti mancati che aumentano la sua insofferenza, è necessario che sia così. Come nella sequenza

della

barzelletta,

basta un controcampo a capovolgere la situazione narrativa; o un elemento della scenografia: la tendina scostata, durante la dichiarazione di Berlinghieri a Francesca, teatralizza la scena e distrugge l’intimità della sequenza; o un momento della colonna sonora: la canzone Sassi di Gino Paoli trasforma l’atmosfera del ballo di Antonio e Francesca: dalla sensualità dell’approccio ad una malinconia commossa: le mani si stringono, i volti si toccano, i corpi si allacciano, in un improvviso bisogno di affetto. La regia di Luciano Salce si fa rigorosa, la sintesi stilistica dà ritmo cinematografico al racconto: si succedono le inquadrature di campi e controcampi che visualizzano il dualismo della storia. Gli approcci di Antonio verso Francesca non hanno successo, così come i suoi tentativi di rivaleggiare con i ragazzi del gruppo, nonostante le promettenti fasi d’avvio: non c’è progressione drammaturgica ne La voglia matta. Le sequenze si allineano l’una accanto all’altra, senza intrecciarsi tra di esse: non potrebbero, perché i momenti narrativi sono fittizi, l’azione non modifica la situazione di partenza. Tutto intero, il racconto de La voglia matta, è un solo momento narrativo: i movimenti interni, la ripetizione degli atti mancati provocano l’umiliazione della supposta superiorità dell’uomo borghese. La sequenza finale è molto significativa: dopo l’estrema illusione («la possibilità di portarsi a letto una bella sedicenne»23) sulla spiaggia, di notte, la mattina Berlinghieri si risveglia, solo, con un’acconciatura indiana sulla testa. Così abbigliato, sale in auto e si reimmette nella vita quotidiana, nel traffico stradale, tra i dileggi dei passanti, mentre la mdp si alza in un dolly all’indietro. Il giorno di gloria termina ingloriosamente, i tentativi di superare i limiti della morale borghese subiscono uno scacco esistenziale: il ritorno alla quotidianità di Berlinghieri segna la fine della domenica, la fine dell’estate («Che rabbia, l’estate è finita» mormora tra i denti Catherine Spaak, prima della partenza), la fine delle illusioni e di una stagione della propria vita: ritorniamo al film sulla paura della fine di tutto. 22 23

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.47 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit.,, p.102

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Non solo il personaggio del borghese Berlinghieri ha tratti negativi; anche il gruppo di ragazzi, l’altro polo del racconto, è rappresentato in modo impietoso. In fondo anche loro sono dei borghesi. E della loro classe hanno ereditato l’ignavia ideologica («Lei lo sa che il baffo denota poca personalità?», «E allora Stalin?», «Caso mai Hitler», «Uffa sempre Stalin e Hitler, parliamo un po’ di Sinatra»; «Io invece vorrei essere a Nairobi. Laralalala, parapapapà…», «Cosa canti?», «L’inno delle S.S.»), l’amnesia storica («Mussolini chi? Il padre del pianista?» esclama Francesca), la superficialità mascherata dalla brillantezza. La preparazione culturale l’hanno ereditata a frammenti, riducendola a vuoti aforismi e slogan dalle ambizioni esistenziali: «Sono stufa di questa vita. Voglio partire domani, voglio partire per il Congo…A curare i lebbrosi da quel dottore coi baffi», sospira una ragazza che poco prima aveva esclamato: «Ma no, una rabbia! Vorrei i supplì. E’ una vergogna che non ci siano i supplì. Manco fossimo in Congo, ma veramente», dimostrando una precisa cognizione della geografia africana, ma non altrettanto sincero spirito umanitario. I problemi esistenziali concernono prevalentemente la sfera sessuale ed anche qui la volontà è quella di dimostrare un’esperienza maggiore di quella reale: «Ho avuto tutte le esperienze, ho provato donne di tutte le razze e di tutte le età. Ho provato tutte le esperienze. Ho provato tutte le sensazioni e adesso mi sa che sto diventando un po’ frigido». Questi giovani rifiutano e irridono tutti i miti e la retorica delle generazioni precedenti, persino quello del gallismo più o meno romanticamente camuffato; il loro libertinaggio è, però, più di forma che di sostanza, la loro spregiudicatezza è in fondo soltanto verbale. Ma che cosa c’è dietro? Si può dire che il loro sia un neopaganesimo? In che misura la rappresentazione del film coincide con la realtà? 24

Gli

interrogativi

di

Morandini

preannunciano la critica odierna, che

tende

a

ridimensionare il valore della rappresentazione che La voglia matta dà del mondo giovanile. Viganò afferma che «ciò che intriga, infatti, non è […] il ritratto di una “gioventù” bruciata, già allora un po’ di maniera a causa dei molti precedenti cinematografici e giornalistici»25 , così come una decina d’anni prima, Masolino D’Amico aveva riconosciuto che «dietro l’ostentata naturalezza dei ragazzi si sente la maniera»26. Nonostante tutto, la veridicità di fondo della rappresentazione di Salce è innegabile. Se il linguaggio dei giovani è ovviamente sorpassato, se il loro anticonformismo di facciata è certamente derivante dall’ottica generazionale (Salce, Castellano, Pipolo e Tognazzi avevano all’epoca la stessa età di Berlinghieri, dunque era facile per loro autoidentificarsi con il personaggio), certe notazioni sociologiche, psicologiche e psicanalitiche sono profonde e trovano riscontro nella realtà odierna. 24

Morando Morandini, Stasera, 16.3.1962 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.86 26 Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.116 25

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L’utilizzo disinvolto della cultura, il rifiuto programmatico delle tensioni ideologiche anticipano il quadro giovanile odierno. La scarsa propensione per l’impegno politicoideologico di questa generazione succede ad un periodo di grande temperie politica, di sommovimenti ideologici che lasciano disorientati (la generazione post-sessantottina, il rinnegamento delle ideologie comuniste, il crollo dei partiti al potere italiani), oggi come allora (allora il periodo di temperie politico-culturale era stato quello del fascismo, della guerra, dell’antifascismo e della conseguente nascita della repubblica). Uguale valore hanno alcune notazioni sull’esibizionismo giovanile, sulla volontà di compiere un’azione clamorosa per dimostrare la propria esistenza nel mondo. Sulla identificazione delle pulsioni sessuali con quelle emotive che si scatenano nelle condizioni di pericolo. Senza far riferimenti alla cronaca spicciola, ma ad un autore cinematografico distantissimo da Salce, come David Cronenberg, come non notare le somiglianze tra gli scontri automobilistici di Crash (1996), e la conseguente tesi dell’erotizzazione degli scontri, e il brivido sensuale che si sprigiona tra Antonio e Francesca durante la loro folle corsa in automobile ne La voglia matta? I punti di contatto con questo film, simbolo dell’evoluzione postmoderna del cinema, sono la testimonianza dell’attualità del discorso di Salce. Il personaggio di Francesca, interpretato da Catherine Spaak, emerge tra tutti: il suo ritratto è così memorabile da segnare per sempre la carriera dell’attrice, identificatasi con la trasgressività sbadata di questo personaggio. La sua presenza è così provocante da far perdere la testa a Tognazzi, non solo sulla scena. Ricorda l’attrice che «con Tognazzi […] c’era un po’ di frizione perché…insomma per via della voglia matta! Però così, in superficie, senza danni per nessuno»27. In effetti, «la Francesca della Spaak è un personaggio

indimenticabile:

immagine

in

carne

ed

ossa

di

un

qualcosa

di

indefinitamente desiderabile e sempre sfuggente»28. L’attrice e il regista sono bravi a sfruttare il repertorio di mosse, vezzi tipici dell’età adolescenziale del personaggio, senza cadere nella leziosità o nel ridicolo. I lunghi piani ravvicinati – dovuti anche dal fatto che il film è girato quasi interamente in interni, in uno chalet ricostruito nei pressi della spiaggia di Sabaudia – si soffermano sulla testa sempre leggermente inclinata, l’espressione un po’ imbronciata, gli occhi maliziosi, il corpo androgino dalle lunghe gambe affusolate. La regia le pone spesso accanto Tognazzi nella stessa inquadratura: il gioco di sguardi dei due attori definisce i passaggi psicologici. Come nel primo incontro, quando gli sguardi obliqui, in tralice, di Tognazzi, gettati quasi casualmente sulla ragazza, ma in realtà con sempre maggiore insistenza, rivelano un interesse molto coinvolto del personaggio. 27 28

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 141 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.86

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La forza delle immagini è tale da rendere pleonastici, o comunque ridondanti, i monologhi interiori con cui Berlinghieri commenta le situazioni. Così come, più in generale, i rapidi flashback e flashforward che punteggiano comicamente la vicenda (sono ricordi e premonizioni di Berlinghieri) rispondono più alla moda dell’epoca e ad un intento di modernizzare la struttura narrativa, che ad una reale esigenza espressiva del film. Sono difetti che scompariranno ne Le ore dell’amore (1963), con cui Salce chiude la trilogia sul borghese senza qualità. Dopo i rapporti pubblici tra l’uomo comune e gli accadimenti della Storia (Il federale), dopo

la

crisi esistenziale susseguente ad uno

scontro generazionale (La voglia matta), gli autori analizzano stavolta l’istituzione matrimoniale, ripiegando ancora di più sul privato. Lo stesso Salce ricapitolò i tre momenti della trilogia, evidenziandone il lato autobiografico: Le ore dell’amore, terzo film della trilogia con Tognazzi, era anche questo una storia del boom, rappresentativa di quegli anni. In Tognazzi avevo trovato una sorta di alter-ego mio come attore, così come Fellini l’aveva trovato in Mastroianni. In tre film ho raccontato la guerra, le mie pene d’amore di quarantenne per le ragazze più giovani, e infine l’esperienza matrimoniale. C’era un fondo autobiografico in tutti questi tre film. Le ore dell’amore è stato accettato solo sulla fiducia dei due precedenti successi. Lo stesso Tognazzi non lo sentiva molto, lo vedeva molto difficile per lui. La Riva era un eccellente attrice, ma scostante nella vita, e quindi, nonostante gli sforzi di Tognazzi, non quadrò molto col film. Ci voleva un’attrice più estroversa, tipo la Vitti. […] Le ore dell’amore era un film difficile, un film di osservazione, lineare, due che stanno insieme e decidono di sposarsi ma la convivenza uccide l’amore e decidono di tornare a vivere da amanti. E’ un film di poche concessioni, con poche scene facili, un film rigoroso.29

Infatti ebbe poco successo, soprattutto se rapportato a due film contemporanei di Germi (Divorzio all’italiana, 1961 e Sedotta e abbandonata, 1963), che criticavano analogamente l’istituzione matrimoniale. Ma, a convalidare quanto affermato nel primo capitolo, il genere della commedia all’italiana è tanto univoco ideologicamente quanto frammentato stilisticamente. Se le opere di Germi e di Salce sono affini sul piano ideologico, sono distantissime su quello stilistico: Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata sono barocchi, il regista «preme il pedale del grottesco30», con «grande violenza di stile»31, con un montaggio «vicino alla “nouvelle vague”»32; Le ore dell’amore contiene «debiti alla commedia americana degli anni ’30 e echi felliniani nella lunga sequenza del sogno»33. La regia in Le ore dell’amore è lieve. Tratteggia personaggi caricaturali (l’americana Leila, che balla sotto la pioggia) o potenzialmente volgari (Ottavio, l’amico di Gianni, scapolo incallito), scene forti dal latente cattivo gusto (l’incubo di Gianni, l’orgia), con 29

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.143-144 Enrico Giacovelli, Pietro Germi, Il Castoro Cinema, Milano, 1997, p. 86 31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 Orio Caldiron, Elio Girlanda, Pietro Pisarra, Le ore dell’amore, in Fernaldo Di Gianmatteo, Dizionario del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995, p.236 30

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delicatezza di tocco, con una brillantezza di dialogo che si avvicina alla commedia sofisticata. I due protagonisti, Gianni e Maretta, sono presentati, fin dall’incipit (un ricevimento serale in un lussuoso interno borghese) con coordinate che ricordano i personaggi interpretati da Cary Grant e Katherine Hepburn. Le loro schermaglie amorose sono un po’ fatue, gli atteggiamenti sarcastici, il linguaggio artefatto. Abbondano i vezzeggiativi nei loro dialoghi, i diminutivi un po’ sciocchi: «la signora Cretinetti», «il signor De Presuntuosis», «la signora Elegantini». I loro amici sono dei conversatori particolarmente brillanti, come il cinico Ottavio o la fedele Mimma, oppure degli intellettuali educatamente noiosi, come Cipriani. L’idea di unirsi in matrimonio nasce in questo clima brillante e un po’ superficiale, dove i sentimenti sembrano elementi secondari di un gioco di società. Mimma e Ottavio si prodigano, con i rispettivi amici, nello sconsigliare il matrimonio, che seppellirà le loro personalità. La madre di Maretta, arrabbiata per le uscite notturne della ragazza che destano pettegolezzi tra i vicini, dopo aver appreso la notizia della futura unione, protesta perché verrà lasciata sola. Gianni e Maretta sono assaliti dai dubbi, ma infine decidono di sposarsi. Il racconto adesso sparge elementi premonitori. Giunti a casa dopo il viaggio di nozze, si accorgono di aver perso la chiave dell’appartamento e rimangono, Maretta nelle braccia di Gianni, davanti alla porta chiusa. Ancora, mentre si lava le mani, Gianni perde le fede, che cade nello

scolo

del

lavandino.

L’entusiasmo

per

i

primi

momenti

d’intimità

viene

progressivamente sopraffatto dalla routine del quotidiano: la conversazione langue davanti alla televisione, Gianni torna imbronciato dal lavoro, Maretta passa più tempo dal parrucchiere che in casa. La mdp, mentre i due sono a tavola, con una rapida carrellata all’indietro, per la prima volta prende le distanze dai personaggi. D’ora in poi l’obiettivo si allontanerà progressivamente, inquadrerà i protagonisti nascosto dietro porte, finestre, ponendo sempre maggiori ostacoli e maggiore distanza tra i due. Mentre fa l’amore con Maretta, Gianni scopre di non prestarvi attenzione: «Devo,devo…devo rinnovare l’abbonamento a Selezione». La sequenza dell’incubo di Gianni, susseguente ad una sua solitaria partecipazione ad una festa stravagante, segna l’inizio del distacco tra i due. Gianni è sul letto. Il suono del campanello alla porta lo sveglia. Apre l’uscio. Sulla soglia una donna di colore, già vista al ricevimento: «Che noiosa quella festa! Ho pensato di venire qua. Facciamo festa qui?». Entra in casa. La seguono altre donne discinte. Gianni chiede di fare silenzio e cerca Maretta. La camera è vuota, il letto rifatto. Le donne danzano in mezzo alla casa, muovendo i veli. Maretta è nel salotto: Cipriani la sta baciando Quando vede Gianni, sussurra quattro volte: «Alla faccia tua!». Gianni tenta di colpirlo, ma gli cadono i calzoni del pigiama. Ora il salotto è pieno di gente. Maretta brucia manciate di banconote nel camino. Gianni, urla: «Adesso basta Maretta». Alza la 14

mano per schiaffeggiarla, ma stavolta a fermarlo è Ottavio, con una bottiglia di whisky in mano. Presenta a Gianni una sedicenne. I due ballano insieme. Quattro ragazze osservano. Ottavio esclama ossessivamente: «Sei stufo!…Là sotto la doccia, lucida come una cavalla». Maretta continua a bruciare il denaro, ridendo istericamente. Gianni continua a ballare. Gli ospiti sono immobili come statue. Entra un uomo su un go-kart e porta via la sedicenne. Maretta adesso lancia le banconote addosso agli ospiti immobili. Ottavio esclama ancora: «Sei stufo». Gianni osserva la donna di colore mentre, nuda, si fa la doccia. La ragazza lancia un nitrito. Gianni torna nel salotto, bacia Maretta, che si trasforma in Leila e quindi in un uomo con i baffi. Fugge, urlando, tra due ali di persone immobili. Lo psicanalista si siede sopra lo stomaco di Gianni, steso sul pavimento: «Dunque lei mi dice che avverte una certa oppressione». Ottavio, esultante, annuncia l’arrivo delle sedicenni. Una torma di ragazze butta giù la porta di casa. Afferrano Gianni, lo portano sul terrazzo mentre nevica e lo gettano giù. Mentre Gianni sprofonda nell’abisso, si sveglia. La sequenza dura quattro minuti. E’ girata con uno stile impassibile che, più di Fellini, ricorda Buñuel. Il linguaggio cinematografico è rigoroso: i pochi movimenti di macchina, il montaggio elementare, a stacchi, cercano di raccontare la sequenza in modo realistico. La distorsione onirica avviene tramite la diffusione della luce (i riflettori furono posti in alto34), l’uso del sonoro (per tutta la durata della sequenza ci sono in sottofondo dei rintocchi vibranti, la voce dei personaggi è distorta, le risate squillano istericamente), la presenza di elementi incongrui: il salotto si riempie di persone che assistono immobili alla scena, un uomo entra nell’appartamento con un go-kart, la ragazza sotto la doccia nitrisce, Maretta assume diverse sembianze. L’atmosfera è rarefatta (come nella sequenza del sogno del soldato in Il fascino discreto della borghesia, 1972, di Luis Buñuel) e non barocca (come in Otto e mezzo, 1963, di Fellini). Lo spettatore, inizialmente, non sa di trovarsi di fronte ad un sogno di Gianni: i momenti assurdi che si succedono ce lo svelano, in «un crescendo d’incoerenza fantastica, di quadri viventi i quali, dissolvendo la barriera tra realtà e l’illusione, conducono lo spettatore alla vertigine della conoscenza»35 (queste parole scritte da Cattini a proposito di Buñuel si attagliano perfettamente a questa sequenza). Anche figurativamente, il riferimento più precipuo sembrano i quadri di Paul Delvaux, con le prospettive allungate e la scarnificazione formale. Infine è surrealista la sostanza stessa del sogno, la ricerca dell’autentica realtà interiore di Gianni, la rappresentazione del suo inconscio secondo le suggestioni freudiane. Emergono nel sogno le pulsioni più profonde di Gianni: gli atti mancati (i due 34 35

Cfr. appendice: intervista a Erico Menczer. Alberto Cattini, Luis Buñuel, Il castoro cinema, Milano, 1995, p.112

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schiaffi mai dati), l’eccitazione libidinosa nei confronti delle ragazze, la paura di un possibile tradimento di Maretta (con Cipriani, l’amico disprezzato) e la sua eccessiva prodigalità sono tutti elementi che confermano in Gianni la negatività dell’esperienza matrimoniale, da cui è ora di fuggire (il volo finale dell’abisso). Dopo l’incubo, Gianni e Maretta si allontanano progressivamente: Maretta cerca delle esperienze che possano ricostruirle la personalità (cerca lavoro nel cinema), Gianni tenta qualche avventura, ricominciando ad osservare le ragazze che incontra. Il pranzo con i Cipriani segna il momento della crisi. Gianni non accetta più l’umorismo paradossale di Maretta (un po’ macabro, fa credere ai Cipriani che Gianni soffre di cuore), la sgrida, lei gli fa una scenata perché sta guardando insistentemente una ragazza prosperosa. I due si separano, Gianni fugge da Ottavio, che vive in uno scantinato, da solo. Insieme, partecipano ad un’orgia. Come l’incubo era l’acme della prima parte del film, l’orgia lo è della seconda. Formalmente le due sequenze si assomigliano moltissimo. Se il sogno era raccontato realisticamente, l’orgia è un fatto reale raccontato oniricamente. Sono sempre le pulsioni di Gianni a definire la situazione narrativa. Nell’orgia, l’uomo è un corpo estraneo: le donne che vi partecipano non l’interessano. Il tempo del racconto si dilata fino alla stasi, i personaggi rallentano così tanto le loro reazioni da sembrare, anche in questa sequenza, immobili. I personaggi reagiscono in modo assurdo. Ottavio suggerisce a Gianni di chiamare una donna dal seno molto grande e di chiederle se fosse finto: la donna avrebbe accettato le avances. Gianni esegue e viene schiaffeggiato dalla donna, che poi comincia uno spogliarello. La donna che Gianni aveva portato con sé, Leila, dopo aver tentato il suicidio a casa, si ubriaca e comincia a distruggere le suppellettili. Gianni è costretto a portarla via, ma lungo il viaggio di ritorno, Leila scende dall’auto e urla, dicendo ai passanti di essere stata violentata. Quando la polizia sta per intervenire, Leila salta nella macchina di un conoscente. Gianni torna a casa da Ottavio, ma scopre che l’amico, non è affatto uno scapolo felice: è un frustrato. Torna allora da Maretta, ma con la promessa di interrompere il matrimonio. Vivranno da separati, come prima di sposarsi, e riacquisteranno la felicità. Perché «le ore dell’amore sono poche, sparse e fuggitive» e l’intimità continuata le distrugge. La tesi amara del film non è quella di un film divorzista. Gli autori sembrano contrari all’istituzione stessa del matrimonio, che distrugge le personalità dei due coniugi, i loro interessi culturali, le loro amicizie, il loro amore a causa di una convivenza coatta. Maretta perde l’entusiasmo, Gianni il suo umorismo: la quotidianità, le meschinità della routine inaridiscono i sentimenti. Se ne accorgono i due personaggi, la mattina prima di partire con i Cipriani, il giorno in cui scoppierà la crisi. Davanti allo specchio, osservano le 16

loro immagini riflesse, ricordano cos’erano prima del matrimonio e riconoscono la crisi. I loro monologhi interiori, alternati, rivelano gli stessi pensieri e lo stesso desiderio di tornare a comunicare i propri sentimenti più profondi (la schematicità della scena è superata dalla scomposizione prismatica delle due immagini riflesse, la cui asimmetria compositiva, rivela metaforicamente una coscienza non bidimensionale e manichea). Quando sembrano sul punto di trovare il coraggio di comunicarsi i propri sentimenti, interviene la cameriera e rompe l’incanto. L’aridità del quotidiano rende impossibile una comunicazione profonda: i due precipitano consapevolmente nel vortice della crisi. Le ore dell’amore sembra paradossalmente riunire in sé le qualità dei contemporanei film di Fellini e Antonioni, senza averne i difetti. Come Antonioni, Salce s’interroga sui problemi di una coppia borghese, sull’incomunicabilità dei sentimenti. Ma a differenza di Antonioni non ha la «sua subalternità culturale rispetto alle mode filosofiche del suo tempo. Quanto esistenzialismo d’accatto, quanta fenomenologia divulgata sui rotocalchi c’è spesso nella presunzione, nell’arroganza intellettuale del cinema di Antonioni!»36. Come Fellini, Salce ha la stessa capacità di cogliere con sguardo sociologico l’evoluzione morale della classe borghese (la scena dell’orgia è presente qui come ne La dolce vita). Non ha però lo stesso stile barocco, la stessa immaginazione fantastica: non ha perciò nemmeno gli eccessi di cattivo gusto del regista (basta osservare la sequenza dell’incubo de Le ore dell’amore con quelle di Otto e mezzo e La città delle donne). L’ispirazione di Salce è satirica, le sue osservazioni riguardano il costume. Può deformarle surrealmente, mai rielaborarle fantasticamente. Gianni e Maretta manifestano la propria crisi mentre entrano in contatto con i prodotti del boom economico: «dal twist alle sedicenni, da Riccione al televisore, passando per via Veneto»37. Regista e sceneggiatori si divertono a creare personaggi-simbolo, a deformarli beffardamente, in un’ottica più amara del precedente La voglia matta. Rispetto a Francesca, le sedicenni di Le ore dell’amore hanno perso tutta la carica di malizia, di seducente svagatezza: sono soltanto un corpo generoso, muovono le forme prosperose senza la consapevolezza della propria sensualità. Il loro fascino è più animalesco, ma anche più pericoloso. Non a caso le ritroviamo nelle tre sequenze che segnano la crisi di Gianni nel film: quando nel sogno lo gettano dal terrazzo; quando, mentre ballano il twist insieme ai Cipriani, Gianni ne occhieggia una e Maretta fa la scenata; quando, durante l’orgia, Gianni viene schiaffeggiato da una di loro. Queste ragazze non hanno più fascino, non se ne devono servire: il matrimonio ha ingabbiato Gianni (simbolicamente,

36

Ruggero Guarini, Un narratore borghese, in Mauro Bolognini il fascino della forma, ANCCI, 1996, p. 62 37 Caldiron, Girlanda, Pisarra, Le ore dell’amore…, cit., p. 236

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rappresentato prigioniero tra le recinzioni della terrazza, durante la festa notturna), che non può far altro che osservarle, ma non avvicinarsi, pena la crisi. La sceneggiatura e la regia presentano una galleria di personaggi buffi, tratteggiati con una sola battuta, una sola inquadratura: lo psicanalista ritenuto da Gianni omosessuale e le cui domande («Rimanga qui con me lei. Ha mai desiderato fare il bagno nudo?…Da bambino amava toccarsi i genitali?») non fanno che avvalorare la sua tesi; il giovane fratello di Mimma procacciatore di tardone, del quale si innamora Maretta; gli amici di famiglia, i Cipriani, noiosi e beneducati, con cui i rapporti sono ridotti a vuote frasi di convenzionale intimità. Lo stile di Salce condensa, come e più che nei film precedenti, comicità e malinconia in una stessa scena. Esemplare quella in cui Mimma incontra Maretta e discorre con lei del fratello, spiegandole come si faccia mantenere da donne più mature di lui, regalandole un mazzo di violette come primo approccio. Maretta, che aveva appena avuto un appuntamento con il ragazzo, sembra ascoltare indifferente. Ma la mdp, fino ad allora frontale, si arresta, lascia scorrere le due donne, le osserva da dietro e inquadra un mazzo di violette caduto sul marciapiede. Come le commedie americane, Le ore dell’amore è una commedia di personaggi borghesi, anche se un personaggio come la cameriera lo riporta immediatamente sui binari della commedia all’italiana. E’ una commedia di interni, come La voglia matta: la mdp si sofferma sugli elettrodomestici, simbolo del consumismo di quegli anni. E’ una commedia di psicologie. Non solo Gianni e Maretta sono seguiti nelle loro evoluzioni comportamentali. Ma anche i personaggi minori. Dal loro disegno, anzi si traggono elementi che danno nuovi significati al senso del racconto. Lo scapolo Ottavio, impenitente donnaiolo che ha un’agenda dove tiene segnate tutte le conquiste (come Calboni ne Il secondo tragico Fantozzi, 1977), che vorrebbe condurre Gianni verso la liberazione sessuale, si rivela un fallito: vive in uno scantinato disordinato, in compagnia di un ragno che tesse la sua tela indisturbato da più di due anni, a cui ha dato perfino un nome, Giorgetto. L’amarezza finale del suo comportamento rivela la consapevolezza di una frustrazione non più celabile: l’uccisione finale del ragno Giorgetto ha il sapore di una ribellione impotente. E confonde le coordinate ideologiche del film. Se, fino ad allora la tesi, sembrava cristallina – il rifiuto della convivenza matrimoniale – la rivelazione della vita fallimentare dello scapolo porta lo spettatore a chiedersi se il matrimonio è veramente un male. O se lo è la concezione borghese del matrimonio. O se le persone debbano essere consapevoli dell’impossibilità di una durata eterna del rapporto amoroso. E’ difficile vivere un rapporto duraturo, ma è impossibile vivere senza provarci. 18

Potrebbe essere questa la tesi del film, molto più probabilmente questo film non ha tesi. Salce ha sfruttato al meglio le proprie doti di osservatore e le ha messe a disposizione dell’analisi di una crisi matrimoniale. L’estro satirico gli ha consentito di fare del personaggio interpretato da Tognazzi «un vero e proprio uomo-massa, simbolo di un’intera generazione e di un’epoca»38. Gli status-symbol borghesi con cui Gianni entra in contatto, analizzati con un gusto beffardo che ricorda quello di Risi (la serata intera passata di fronte alla televisione, che azzera la conversazione ed i rapporti interpersonali, era il tema di un episodio de I mostri – L’oppio dei popoli – ma Risi, più cinico, aveva risolto il problema matrimoniale: approfittando della distrazione del marito – ancora Tognazzi – la moglie si era fatta l’amante), ne riflettono la vita privata in quella pubblica, lo inseriscono nel quadro sociale, ne orientano il comportamento. Ma non mutano quella che è la sostanza fondante del film: l’analisi rigorosa di una questione privata. Le ore dell’amore è una galleria di ritratti disegnati con talento, cui il tempo ha consegnato una validità sociologica. Tra La voglia matta e Le ore dell’amore, Luciano Salce gira un altro film, La cuccagna (1962), una sorta di appendice della trilogia con Tognazzi, simile e insieme estraneo ad essa. Simile, perché anche La cuccagna è una commedia del boom, che analizza un problema contemporaneo: la ricerca da parte di una ragazza (Rossella) di una propria emancipazione, cominciando dall’indipendenza nel lavoro. Delusa dai rapporti con una società consumistica, che presenta il miraggio di una ricchezza facile per poi stritolare l’individuo più debole nei propri meccanismi (per guadagnare, Rossella accetta di posare per foto osée), troverà la spinta a vivere nell’amore di un giovane contestatore, Giuliano. L’estraneità di La cuccagna alla trilogia sull’uomo comune è evidente: stavolta l’obiettivo di Salce è puntato su una donna (anche lei molto comune), La cuccagna è una commedia psicologica al femminile, come quelle di Antonio Pietrangeli (molto saranno i punti di contatto col suo Io la conoscevo bene, 1965). Gli interpreti principali sono esordienti: Donatella Turri e il cantante Luigi Tenco. La continuità con la trilogia è data dalla presenza, in piccoli ruoli, di Ugo Tognazzi e dello stesso Luciano Salce. La sceneggiatura non è firmata da Castellano e Pipolo, ma da Luciano Vincenzoni e dallo stesso Salce, che si ispirarono ad un fatto realmente accaduto ad Alberto Bevilacqua (accreditato nei titoli come autore del soggetto). La cuccagna è un piccolo film di grandi ambizioni. Gli autori sono concordi nel ritenerlo un film importante. Erico Menczer ne rileva i caratteri di «anticipazione»39, così come Salce:

38 39

Caldiron, Girlanda, Pisarra, Le ore dell’amore…, cit., p.236 Cfr. Appendice: intervista ad Erico Menczer

19

In La cuccagna anticipavo un personaggio esploso poi nel ’68, il personaggio del contestatore del ’68. Fatto da Tenco, giovane, disadattato, ribelle, anticipatore perfino fisicamente40.

La critica invece lo considerò generalmente un film mancato, seppur impegnato. Giovanni Grazzini, nella sua recensione, scrisse: Uno sperpero di fantasia è il difetto di La cuccagna, che per voler dire troppe cose sull’imprevedibilità della vita risulta una collana di macchiette, tutte assai ben disegnate ma forzate nel segno e nel colore. Teneva meglio, nella struttura narrativa, La voglia matta. […] Il filo conduttore del film erano le peregrinazioni di una ragazza italiana che oggi vuole trovare lavoro, i pericoli e gli equivoci ai quali va incontro. Poi il filo si è arruffato in una matassa di casi-limite; le difficoltà e le sorprese della vita si sono incarnate in personaggi grotteschi (il confusionario industriale del Nord, i commendatori galanti, la turpe mercantessa nazista, l’avvocato visionario), di estrazione surreale, nei quali Salce sbriglia la sua fantasia da cabaret più che sviluppare un discorso. La sua ambizione di satireggiare il miracolo economico, il mito della ricchezza, si è persa per via, distratta dagli aspetti buffi della vita, dal suo gusto del descrivere. Lo stesso Giuliano, che doveva fare da contrappeso, è una caricatura. Accade così che il film difetti di approfondimento psicologico […], che la decisione finale di Rossella e Giuliano di lasciarsi uccidere, durante un’esercitazione militare, per protesta contro la società, tocchi davvero l’assurdo, di fronte al quale le battute di chiusura […] stridono come un trattato sull’esistenzialismo in una collana di libri umoristici.41

Forse le ambizioni di Salce erano troppe e troppo confuse. Lo testimonia anche questa dichiarazione di Ennio Morricone: Salce mi chiese un pezzo di musica – intanto La cuccagna era uno strano film, molto astratto con delle cose paradossali – su una scena dove c’era un uomo che sembrava matto e, vicino alla stanza, aveva un morto, forse la moglie morta, non ricordo. E lui mi chiese una cosa che doveva essere ironica, ma che doveva tener conto del morto vicino, quindi anche funebre; però doveva essere grottesco…Insomma, mi mise insieme una quindicina di aggettivi, che io, nel mio quaderno di appunti, scrissi. E a casa scrissi la musica. E la musica che io scrissi – io mi ricordo – era musica così astratta, astrattissima. La musica non funzionava proprio42.

L’assenza di Castellano e Pipolo influì più di tutte sulla riuscita del film. I due sceneggiatori fungevano da riequilibratori della vena surrealista e ridondante del regista: senza di loro emergono quei difetti di frammentarietà e squilibrio narrativo che caratterizzeranno

la

produzione

del

regista

successiva

al

termine

della

loro

collaborazione.

40

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p.141 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, Laterza, Bari, 1980, p.18 42 Ennio Morricone in www.ala.it/fmastudio/musicae.htm 41

20

Capitolo 3. Storie di ragazzi e di giovani mai cresciuti nel decennio della crisi. (Il professor Kranz tedesco di Germania, Riavanti…marsch!, Quelli del casco)

E’ una tematica che collega l’intera filmografia di Luciano Salce: l’osservazione del mondo giovanile e di quello dei quarantenni. Gli adolescenti e gli adulti incrociano i loro sguardi con quello mai imparziale del regista, i loro destini si intrecciano - come ne La voglia matta – o si separano – come in Quelli del casco. L’atteggiamento di Salce è leggermente più accomodante con i quarantenni, non foss’altro per questioni di generazione. Lo stesso autore ha dichiarato il peso autobiografico nelle storie di quegli uomini maturi innamorati persi di ragazze molto più giovani. Un rapporto che conduce inesorabilmente ad uno scontro generazionale, nascosto anche in opere insospettabili, che sembrano non affrontare direttamente l’argomento: ma i rapporti che intercorrono tra Michele e Pepita ne La moglie bionda (episodio di Oggi, domani, dopodomani, 1965), tra Silver Boy ed Enrica in Basta guardarla (1970) e tra Guido e Mia in Il…Belpaese (1977) si coniugano sotto questo segno, rivelano i reali motivi conduttori dei rispettivi film ed indicano dove siano le coordinate capaci di svelare una coerenza di disegno nella filmografia del regista. Probabilmente il titolo più rivelatorio della logica del regista è un film che ha scritto e interpretato, ma non diretto: si tratta di Oh dolci baci e languide carezze (1969) di Mino Guerrini. Salce vi interpreta uno di quei ruoli che aveva precedentemente assegnato a Tognazzi: è un maturo ingegnere, padre di famiglia, che perde la testa per una ragazza “beat”. Per seguirla, lascia la moglie e tenta di comportarsi come la nuova generazione, finendo anche per fumarsi, con la ragazza, un pacchetto di sigarette di marijuana. La polizia li scopre, li arresta e, durante il processo, la ragazza accuserà l’ingegnere di averla violentata. Il sogno dell’uomo si infrangerà, così come la sua vita. Con tutti

i

difetti di una regia troppo farsesca, che tende ad appiattire gli spunti, Oh dolci baci e languide carezze, porta alle estreme conseguenze il discorso avviato con La voglia matta, mostrando un cinico disincanto sull’evoluzione del costume sociale. I giovani hanno adeguato il proprio comportamento a quello degli adulti. 2

L’amarezza per il comportamento cinico e conformista della gioventù non sarà però definitiva, tant’è vero che il regista chiuderà la propria carriera con Quelli del casco, un film che concentra il proprio sguardo soltanto sui giovani, cercando di recuperare una purezza ed un entusiasmo ormai perduti, e lasciando agli adulti il ruolo poco nobile di ostili

comprimari,

una

galleria

di

personaggi

ritardati,

mummificati,

insensati

rappresentanti di una società ormai completamente massificata. Ma su quest’opera torneremo in seguito. Sono comunque i quarantenni ad interessare particolarmente il discorso di Salce. Saranno protagonisti soprattutto negli anni ’70, quando lo sguardo su di loro perderà il sarcasmo del decennio precedente e si farà prevalentemente malinconico. «La crisi della commedia all’italiana – ricordano Castellano e Pipolo - lambisce anche Salce, che «come noi e tanti altri, non potendo più agganciarsi alla realtà, ha dovuto ricorrere ad altri tipi di divertimento. C’è chi fa i film in costume sulla Roma dei Papi come Magni, c’è chi come noi fa film sul tipo delle commedie americane, e Salce ha dovuto cercarsi altri spazi anche lui…perché non sente, come onestamente riconosciamo di non sentire noi, l’attualità e le sue logiche. Perché forse l’attualità non abbiamo più strumenti sufficienti per spiegarla».1 Quello di Salce è un ripiegamento sul privato. I personaggi sono osservati dietro la lente della nostalgia, i contorni delle loro storie sfumano nel ricordo autobiografico, il sarcasmo della gag comica svanisce in un sentimento melanconico che accomuna personaggi, cose e luoghi. I protagonisti delle storie di questi anni conservano una carica di infantilità, una purezza primigenia che permette loro di trascorrere gli eventi più terribili e di superarli indenni. Anche se l’ingenuità può talvolta rasentare la malattia mentale. Allora il protagonista si trova nei confronti della realtà senza più difese, destinato a soccomberle: è il caso di Didino, bambino mai cresciuto, in quella grottesca storia di amore, repressione sessuale e insanità mentale che è Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974), che mostra il lato oscuro dell’infantilismo allegro dei cinque commilitoni che giocano alla vita in Riavanti…marsch!. Non è un caso che il protagonista di Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno è un individuo solitario, mentre i protagonisti delle storie più tipiche di questi anni sono riuniti in gruppi: soltanto insieme, e con il distacco dell’incoscienza, è possibile superare le insidie della vita, altrimenti non c’è scampo. I personaggi sono votati a sconfitte che, se affrontate solitariamente, possono essere letali. Sono Il professor Kranz tedesco di Germania (1978) e Riavanti…marsch! (1979) ad interessare soprattutto il nostro discorso. Girati a pochissima distanza di tempo l’uno

1

Fofi-Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 144

3

dall’ altro,

presentano

ambedue debiti con alcuni celebri

modelli della commedia

all’italiana. Il primo con I soliti ignoti, il secondo con Amici miei, tutti e due film di Mario Monicelli, il regista italiano «dell’amicizia virile (come Hawks e Ford) e delle imprese destinate al fallimento»2. Nonostante le referenze, Salce vi aggiunge delle notazioni personali, direttamente derivate dalla propria esperienza, che rendono i suoi film autonomi rispetto ai modelli. Il professor Kranz tedesco di Germania porta sullo schermo un celebre personaggio di Paolo Villaggio, il presentatore tedesco cattivo e maleducato che aveva esordito nel programma televisivo Quelli della domenica (1968). Se l’isterico e razzista tedesco è una creazione dell’attore Villaggio, lo spostamento del suo ruolo sociale e del posto geografico rispondono ad un’esigenza del regista. La storia è ambientata in Brasile, tra le favelas di Rio De Janeiro, e segna il ritorno cinematografico di Salce nello stato sudamericano a trentacinque anni di distanza. L’immagine è tutt’altro che oleografica: la Rio del film è una città popolare, la mdp gira tra quartieri brulicanti di persone indigenti, disoccupati indolenti, prostitute, bicocche cadenti. L’ambientazione è prevalentemente notturna. Su tutto domina la gigantesca statua di Cristo che sormonta il Corcovado, dalle grandi braccia allargate che sembrano voler accogliere tutta l’esistenza umana, mentre ne osserva scrupolosamente i movimenti. La sensazione è più di ostilità che di carità, la statua di Cristo sembra un’enorme spia - lo spiega chiaramente il professor Kranz: «Sempre lui che guarda, che scruta…» - come la cupola di S. Pietro di Guardie e ladri. Come nel film di Steno e Monicelli, sotto la statua del Corcovado si svolge un grottesco e scatenato ballo di ladri. La banda di malfattori, che crede di aver rapito lo sceicco del Qatar, mentre invece ne ha rapito l’autista, è la più disastrata e inetta banda che si sia mai vista nel cinema italiano. I cinque membri che la compongono sono un eterogeneo gruppo di scombinati e diseredati della società umana. La mente del gruppo è il professor Franz Kranz, psicanalista germanico di tendenze naziste e razziste («Io non sono razzista, ma è chiaro che il negro è un animale nettamente inferiore al bianco. Lei è d’accordo, no?» chiede ad un negro; «Noi tedeschi siamo specializzati in sequestri di intere popolazioni, se vogliamo»), ridotto in stato di miseria (mangia brodo di gallina senza gallina) da un’inettitudine così totale da rasentare il vertice opposto della genialità (e per tale viene, inizialmente, scambiato dagli altri membri). Si esibisce come attrazione nei locali notturni, presentando esperimenti che non riescono mai: si rinchiude in sacchi di tela da cui non sa uscire, propone test psicanalitici sulla sessualità che non sa riconoscere. Parla una lingua distorta e ridicola ed

2

Giacovelli, La commedia…, cit., p. 166

4

è talmente dissociato da non saper contare («uni, uni e mezzo, uni e tri quarti, uni e cinqui sesti…cosa viene dopo uno?») e da non saper far coincidere il linguaggio ed i segni che lo accompagnano (dice io ed indica gli interlocutori). E’ insomma, come afferma uno dei personaggi del film, la segretaria dell’ambasciata della Germania Occidentale: «la vergogna della comunità tedesca in Brasile». E’ un individuo totalmente antisociale. Leleco è un giovane disoccupato che, del gruppo, sembrerebbe il più realista. In realtà è un pigro, un indolente, che, invece di cercare lavoro, preferisce dormire, magari sognando una donna. Gioca alle corse il poco denaro che ha, non ha reazioni mentre gli portano via i mobili di casa pignorati. La moglie chiede ai giudici che le lascino almeno il frigorifero, lui ottiene di recuperare il televisore, per vedere la prossima partita del Botafogo. Sua moglie si chiama Dosdores ed è il vero capo di famiglia. E’ lei a lavorare, anzi di lavori ne fa tre. Ha una sorella, Raimunda, che fa la prostituta, sotto la protezione del “carcamano” ed è l’amante dell’arabo, che il carcamano vorrebbe far rapire. E’ Dosdores, che, tra tutti i personaggi, è quella che ha la mira di migliorare la propria posizione sociale (lavorando è più a contatto con i miti del consumismo), a suggerire di precedere il carcamano e di rapire in proprio l’arabo. C’è poi il piccolo Pelesinho, il figlio della domestica del prof. Kranz (una grassa donna di colore, come quelle dei film americani e, come quella di Via col vento, è chiamata “Mamy”), verso cui il professore nutre un affetto paterno («Ricordati di andare a scuola, così quando crescerai diventerai bello, buono…e forse anche bianco») e che, unico bambino tra tanti bambini mal cresciuti, è l’unico a comportarsi in modo ragionevole. C’è, infine, il tassista Fittipaldi, contraltare del prof. Kranz, di cui condivide i difetti (l’inettitudine mentale), ma non le virtù. Il regista riesce a delineare la sua ristrettezza mentale, piccolo-borghese, con due precise notazioni: maramaldeggia sul professore una volta fallito il primo piano (Dosdores lo rimbecca: «Stai zitto, tu»), vorrebbe tenersi per sé le polpettine di gallina quando il gruppo si ritrova, affamato, al termine del secondo tentativo di rapimento. E’ lui, che soffre di disturbi della memoria e della personalità, a guidare l’unico mezzo di trasporto della banda: il suo vecchio taxi scoppiettante. Con tali personaggi, non c’è alcuna possibilità, naturalmente, che gli obiettivi vengano centrati. Assistiamo non ad un rapimento, ma ad una parodia del rapimento. Una parodia dall’interno, perché la risata non nasce da effetti meccanici esteriori (c’è qualche gag corporale memore di Fantozzi). Non c’è quasi nessun espediente farsesco in questo film: mancano le accelerazioni, le caricature, tutto ciò che è artefatto. La comicità e il grottesco

sono

comportamento.

interni Sono

ai

personaggi.

talmente

L’equivoco

maldestri

e

germina

illogici,

questi

spontaneo poveri

dal

criminali,

loro da

ridicolizzare ogni loro serio tentativo di perpetrare il rapimento. Il crimine ha bisogno di 5

essere costruito geometricamente, punto per punto, secondo una logica ferrea: quella che non possiedono questi personaggi, dilettanti incapaci di nuocere ad alcuno. Quando l’ambasciata del Qatar chiede di tagliare la mano al rapito, hanno una tale crisi di coscienza, che se lo lasciano scappare. Non sono loro i mostri, è la società ad essere mostruosa: sono solo dei poveri diseredati. Sono di Leleco, quando scopre la vera identità dell’arabo, le parole rivelatrici dell’ideologia del film: «Amico! Sei anche tu un poveraccio come noi. Un lavoratore, un proletario…una merda, insomma». Il primo piano di rapimento è subito abortito: il megalomane prof. Kranz elabora una strategia che prevede quattro finti poliziotti, un finto mendicante cieco, una finta ambulanza, una finta banca da rapinare, per distogliere la polizia dal vero evento criminoso…Il piano non supera l’elaborazione teorica: i componenti della banda abili fisicamente sono due: Leleco e il prof. Kranz, e non hanno mezzi di trasporto («Almeno una macchina ci vuole. Il rapito mica lo possiamo portare in tram» afferma Leleco). Si tenta, allora, di utilizzare Raimunda come esca involontaria: le si fa credere di aver creato un elisir d'amore, capace di stimolare sessualmente l’amante, mentre le si propina un sonnifero, così da poterlo rapire. In realtà, Leleco sbaglia bottiglia e somministra all’arabo un eccitante. L’inseguimento dell’auto dei due amanti è catastrofico: sulla macchina davanti è collocato un radar che il prof. Kranz non sa affatto usare. Lo scambia per un telefono («Pronto, chi parla?», domanda, come nei vecchi film con Totò, come in Miseria e nobiltà, dove Totò parlava nell’obiettivo fotografico, come se fosse una cornetta telefonica); quando il radar si stacca dalla macchina dell’arabo, per attaccarsi, magneticamente, sulla sua, annuncia trionfante: «In questo momento, la macchina dell’arabo è sotto di noi…Sotto i nostri sedili». Perduto il contatto e lanciatasi all’inseguimento, la banda dovrà fare i conti con la crisi di memoria del conducente Fittipaldi, che scorrazza, invasato, per la città, fino all’alba. Per un colpo di fortuna, si ferma proprio accanto alla macchina dell’arabo, ma questo è tutt’altro che addormentato: è eccitato. Dopo aver sodomizzato un passante e un cane, tenta un approccio anche con il professore, ma è distolto dall’arrivo di un cavallo. Il terzo tentativo di sequestro prevede la partecipazione di Raimunda, alla quale verrà fatto credere che il rapimento è necessario, perché l’arabo è sotto la mira di alcuni terroristi israeliani. Stavolta il sonnifero è creato dal professore (una “batida” al limone), la base sarà un appartamento che Dosdores pulisce la mattina. Non mancano gli incidenti, anche stavolta: il professore, eternamente affamato, tenta di bere la bevanda col sonnifero; il padrone di casa torna improvvisamente (verrà addormentato con la batida, proprio mentre sta per scoprire tutto); i corpi dell’arabo e quello del padrone di casa vengono scambiati dal prof. Kranz, che arrotola, dentro un tappeto, il secondo invece del primo. Nonostante tutto, la banda riesce ad uscire dall’appartamento, ma il 6

prof. Kranz, che, per chiamare Fittipaldi con il taxi, ha scelto una fischiata convenzionale («Otto fischi lunghi e dodici brevi intervallati»), scopre di non saper fischiare. Un fischio fortuito lancia sulla scena Fittipaldi, ma Leleco e il professore con il tappeto sono impacciati ed un passante che deve andare all’aereoporto li precede sul taxi. Così ha luogo l’incredibile soluzione precedentemente paventata da Leleco: il rapito viene portato dalla banda in tram. Quando i rapitori scopriranno che il sequestrato non è lo sceicco, lo consegneranno al carcamano in modo da riavere Raimunda, nel frattempo rapita dal suo protettore. Lo scambio degli ostaggi, come in un “polar” francese, avviene di notte, su di un ponte deserto, le cui estremità sono bloccate dalle rispettive automobili. Ma, estrema dimostrazione di inettitudine, il prof. Kranz commette l’ennesimo errore: scambia l’arabo con il “carcamano” e, mano nella mano, lo conduce nella propria postazione. Si accorge dell’errore («Tipici errori da scambi di ostaggi») mentre sta ululando dalla gioia. L’errore viene riparato e la storia si chiude circolarmente. Tutto ritorna come prima, anzi peggio di prima: Leleco torna a sognare le proprie donne; Dosdores torna ai propri lavori, adesso aumentati: se n’è aggiunto uno notturno; il prof. Kranz torna alle sue esibizioni di inettitudine; Raimunda torna sul marciapiede, dopo aver cambiato protettore: adesso è l’arabo, che ha sostituito il “carcamano” imprigionato, da cui ha imparato subitaneamente il comportamento degli occidentali. Il finale amaro, che ricorda come sia impossibile il riscatto sociale di chi è totalmente estraneo alla logica della società capitalistica (al massimo può soltanto adeguarsi alla massificazione sociale) riconduce Il prof. Kranz tedesco di Germania sui terreni della commedia all’italiana. I cinque protagonisti trovano una ragione di vita che li unisce: la speranza del riscatto. Soltanto la speranza, che se non modifica la loro situazione disagiata, consente almeno di sopravviverle. Una scena fondamentale del film è quella del mancato suicidio del prof. Kranz, dopo essere stato cancellato dal registro dei tedeschi in Brasile. Riuscito a scampare alla disgrazia (la cucina a gas esplode mentre si sta impiccando), si risolve ad agire: rapirà l’arabo. Quando, lacero ed annerito, annuncerà la notizia a Dosdores, venuto a trovarlo, farà il gesto dignitosissimo di aggiustarsi il cappio della corda rimasto al collo, come fosse una cravatta. Il film non ebbe alcun successo (incassò un decimo di Fantozzi) e Salce se ne assunse tutte le colpe. Ma non è un film sbagliato. Le riprese con la macchina a mano danno quell’immediatezza che consente di entrare nell’intimità dei personaggi. Alcune soluzioni espressive - come l’uso del sonoro nella scena del tentato suicidio del professore, il cui continuo saliscendi sulle scale scandisce i preparativi della propria morte – sono tutt’altro che corrive. L’arresto del carcamano è costruito grazie ad un montaggio ellittico che lo scompone cronologicamente, rilevando i dettagli essenziali: il passo ancheggiante di 7

Raimunda al lavoro, le catene d’oro del carcamano che l’osserva, le sirene della volante che arriva sul posto, i volti corrucciati dei poliziotti in azione, le catenine strappate dal collo del carcamano (frutto di una precedente rapina), lo scontro con Raimunda e le minacce lanciate dall’uomo, i volti interessati dei passanti, dietro cui si nasconde il sorriso soddisfatto di Dosdores, autrice della delazione. La vicinanza ai corpi dell’obiettivo della macchina a mano ne capta ogni cenno di reazione e fa lievitare il giusto nervosismo dell’azione. Le gag sono costruite con la solita impeccabile precisione: un montaggio alternato dai tempi perfetti conduce Dosdores a bussare alla porta del prof. Kranz proprio mentre la casa sta per esplodere; la scomposizione dei piani dell’inquadratura risolve l’inganno del professore, scoperto da Leleco mentre si mangiava le polpettine di gallina da offrire al rapito. C’è, in questo film, il piacere del ritorno in Brasile, nei luoghi frequentati in gioventù. Si riaccende l’entusiasmo a contatto con questa realtà: non c’è una sola inquadratura gratuita nel Professor Kranz…, che cada nel descrittivismo fine a se stesso. C’è invece il gusto della ricostruzione realistica: come la casa a due piani del professore, sulla strada ripida che porta la finestra del primo piano quasi a contatto col suolo. La mdp si sofferma sugli interni di legno, polverosi, poveri, le colonne sbilenche, la cucina annerita dall’uso e, a collegare i due piani, il grande dignitoso scalone che Kranz e Pelesinho percorrono correndo, allegramente. Una casa dalle due anime, che rispecchia il carattere del professore: dotato di una dignità che travalica le sue capacità intellettuali e le misere condizioni di vita. C’è l’utilizzo della musica di Toquinho e Vinicius de Moraes. E l’aderenza dell’ambiente con i personaggi, che sembrano essere tutt’uno con le spiagge assolate e il caldo soffocante. A ribadire il carattere memoriale del film c’è la partecipazione come attore (in un cast quasi totalmente brasiliano), nel ruolo del carcamano, di un perfido Adolfo Celi: amico di Salce, con cui aveva condiviso, al cinema e al teatro, la precedente esperienza brasiliana. Se la caratteristica dei protagonisti di Il prof. Kranz tedesco di Germania era l’infantilismo

mentale,

quella

dei

cinque

quarantenni

richiamati

alle

armi

di

Riavanti…marsch! (1979) è la malinconia nata sull’onda della memoria. L’istituzione militare del film di Salce non è un rigido apparato gerarchico, burocratico e repressivo, ma l’unico spazio libero della civiltà, grazie al quale i protagonisti possono ritrovare il contatto con i veri valori della vita: l’amicizia e l’amore. E’ vero che c’è un colonnello pestifero, frustrato (è sottomesso al potere degli americani) e dittatoriale, che li costringe, coadiuvato dal sergente Sconocchia, a massacranti quanto inutili sforzi – come scavare e riempire un rifugio antiatomico – ma è un militare da operetta: bastano due scherzi goliardici (tenere abbassata la sbarra d’ingresso al campo mentre arriva con la jeep, presentarlo in mutande davanti all’ufficiale americano) per renderlo innocuo. 8

A contatto con la vita militare, i cinque quarantenni ritrovano lo slancio per superare le frustrazioni della vita civile, nascoste anche dove sembra regnare il successo. Se Otello Cesarini, che afferma di essere «uno zingaro, un vagabondo delle stelle» per nascondere di essere un venditore ambulante, sradicato e senza famiglia (abita sul Grande Raccordo Anulare ed ha fatto l’amore solo con prostitute) e il ten. Pietro Bianchi, negoziante con figlia illegittima, sono facilmente riconducibili al “tipo” del borghese fallito, non altrettanto dovrebbe dirsi del barone Francesco Paternò e dell’industriale Giovanni Crippa («il re della trippa»). In realtà anche i due hanno di che lamentarsi, nella loro condotta di vita: il barone è geloso della sua stupenda moglie Immacolata ed è tormentato da incubi e visioni dei suoi tradimenti; l’industriale è inaridito da una condotta di vita prosaica: è consapevole che sua moglie lo tradisce, ma è indifferente, perché non l’ama più. Il quinto personaggio, Alessio Rossetti, è l’unico consapevole del suo fallimento: quello del sogno rivoluzionario. E’ disincantato (chiama «riformista» la sua compagna di vita russa, perché non è mai stata capace di un gesto rivoluzionario), ma insieme appassionato: crede ancora nella rivoluzione (si porta dietro tutte le letture preferite: Marx, Lenin), nonostante sappia della potenza del capitalismo. Interpretato da Stefano Satta Flores, è un personaggio che riassume e definisce i contorni delle precedenti interpretazioni dell’attore: il meridionale pugliese de I basilischi (1963, Lina Wertmuller), il siciliano amareggiato di Perdutamente tuo mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe (1975, Vittorio Sindoni) e, soprattutto, l’intellettuale di sinistra di C’eravamo tanto amati (1974, Ettore Scola). Proprio del film di Scola, potrebbe far parte questo scambio di battute tra Satta Flores e Alberto Lionello (l’industriale Crippa): Crippa: - Ma tu, intanto che l’Italia faceva i soldi, cosa hai fatto? Rossetti: - L’Italia dei ricchi ha fatto i soldi, l’Italia dei poveri è sempre più povera. Crippa: - Va beh, ma tu cosa hai fatto? Rossetti: - Io mi sono laureato in economia politica, sociologia e filologia romanza… Crippa: - Si, vabbè, ma cosa hai fatto? Rossetti: - Ho partecipato ai grandi movimenti sindacali: il ’62, il ’63. Ho fatto tutto il ’68, la guerra del pomodoro… Crippa: - Va beh, ma cos’hai fatto ? Rossetti: - Poi sono stato presente nei gruppi della sinistra parlamentare, da Servi del popolo a Lotta continua. Crippa: - Ma cos’hai fatto ? Rossetti: - Sono stato nominato assistente precario all’Università di Catanzaro due mesi fa. Crippa: - A quarantadue anni ?! Rossetti: - Eh, carriera fulminea, eh?

Il metronomico «Ma tu cosa hai fatto?» scandisce e rileva l’inutilità di una vita passata ad elaborarla teoricamente, ma non a praticarla, dell’uno, e la sordità ideologica di chi la vita l’ha solo praticata, ma mai pensata, dell’altro. L’amarezza della situazione è però ribaltata dalla battuta conclusiva (Crippa offre a Rossetti una mancia se questo gli porterà il fucile, Rossetti l’appella: «Schiavista!») che la sdrammatizza e la rende 9

politicamente innocua. Rimane la satira a fior di pelle che è il tratto distintivo dello stile di Salce. Riavanti…marsch! è un discendente diretto delle farse da caserma, fortemente radicate anche nella nostra tradizione cinematografica. Ne diresse una anche Steno, protagonisti Rascel e Fabrizi: Un militare e mezzo (1959). Al momento dell’uscita del film erano tornate di moda le farse di ambiente militare, dove «la caserma è il luogo della volgarità, anche se gratuita, e della goliardia nella sua accezione più estrema»3. Qualche critico ha, infatti, ricondotto il film alla commedia scollacciata degli anni ’70. Ma se è stato possibile scrivere che «il film sembra una versione da Come eravamo dei militareschi di Cicero, appena offuscata da un’ombra di malinconia»4, è giusto rilevare la giustezza della seconda parte dell’osservazione. Se appartengono al genere gli interpreti principali (Carlo Giuffrè, Aldo Maccione, Renzo Montagnani, Anna Maria Rizzoli, Silvia Dionisio) ed anche la goliardia di alcune situazioni, non altrettanto può dirsi dell’umore melanconico che sprigionano queste storie. I cinque, riuniti, non hanno perso il gusto dello scherzo atroce; alcuni sembrano appartenere al cinismo di Amici miei: come quello giocato ad Otello (Maccione), per la prima volta innamoratosi di una donna, la leggiadra Elena. Prima gli viene fatto credere che la donna è una prostituta, soprannominata «Boccadoro», amante di tutti loro («E’ alta, normale, coi capelli biondi, neri…ce l’ha i capelli, sì, si chiama Elena, sì e allora è lei, Boccadoro!»). Poi è Elena ad essere avvertita che Otello è sposato ed ha sei figli da mantenere. Infine, Otello viene condotto ad un incontro amoroso tra Elena e il barone Paternò (ma la donna è stata sostituita con una ragazza truccata come lei). La gioia dello scherzo è offuscata dal tentato suicidio di Otello, che si getta da un ponte. Ormai i cinque sono troppo grandi per scherzare, nonostante resti in loro il comportamento burlesco. «Ne vien fuori un film anche troppo alto per il tempo e per il suo pubblico che mira più ad Amici miei che alle Soldatesse»5. In effetti, il riferimento al film di Monicelli è dichiarato già nelle frasi di lancio del film: «1970 Mash - 1975 Amici miei – 1979 Riavanti…marsch! – uno squinternato quintetto di richiamati rinverdisce le più paradossali situazioni comiche della prima naja»6. Le situazioni canoniche dell’umorismo da caserma ci sono – gli scherzi beffardi agli ufficiali e quelli goliardici ai pari grado – ma si stemperano nell’idea centrale del film. Il ritorno alla vita militare è l’ultima occasione per modificare il corso della propria esistenza: in questo consiste la grande differenza con Amici miei, in cui i protagonisti non 3

Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga…, cit., Tarab, Firenze, 1999, p.31 Marco Bertolino e Ettore Ridola, Vizietti all’italiana-L’epoca d’oro della commedia sexy, Igor Molino Editore, Firenze, 1999, p. 49 5 Marco Giusti, Dizionario dei film italiani stracult, Sperling e Kupfer, Milano, 1999, p. 647 6 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.664 4

10

prendevano mai sul serio la vita, nemmeno di fronte alla morte. In Riavanti…marsch! c’è un punto in cui il gusto della beffa si arresta. E’ quando i cinque quarantenni fanno i conti con la propria vita sentimentale. Il racconto attenua i toni comici: prevalgono quelli patetici, con l’insistenza dei dettagli grotteschi. Sono soprattutto due le storie connotate sotto questo segno. Quella del tenente Bianchi, che torna a cercare un antico amore e ne trova la figlia, Marina, di cui scoprirà essere il padre; quella di Giovanni Crippa che, nel rapporto con Zaira, un’exprostituta che l’aveva svezzato sessualmente vent’anni prima, ritrova la gioia dell’amore disinteressato. Nella storia del tenente prevalgono i toni sommessi, malinconici: lunghi dialoghi tra Montagnani e Silvia Dionisio, passeggiate lungo il lago, al crepuscolo, e per le vie dell’antico borgo (mai nominato, ma riconoscibile come Bracciano: si nota il castello Orsini sullo sfondo di alcune inquadrature, alcuni manifesti arancioni annunciano una partita di calcio dei dilettanti, Manziana-Bracciano; una curiosità: sul muro di una casa è riconoscibile la locandina del film, di Pasquale Festa Campanile, Gegè Bellavita); nella storia di Crippa prevalgono gli accenti grotteschi: grazie soprattutto all’interpretazione che Sandra Milo dà di Zaira - con la voce in falsetto dall’accento bolognese, il corpo vistoso dalle forme generose – che canta a voce spiegata Cesenatico Beguine in una balera, travolge Crippa con la sua vitalità dirompente e lo scambia per un miserabile; ma anche ai luoghi che fanno da cornice alla vicenda: un alberghetto di quarta categoria, lindo e spoglio come un motel, la pompa di benzina gestita da Zaira, il ristorante sul lago, il locale notturno, luoghi che sembrano, contemporaneamente, troppo ostentati o troppo dimessi per la loro storia d’amore e dunque adatti alle loro personalità ed al gioco delle parti che sono costretti a recitare. Cinque personaggi, cinque storie, cinque attori e cinque modi di caratterizzazione comica: Riavanti…marsch! è anche virtuosistica variazione di tono interna al racconto. La recitazione di Renzo Montagnani è sommessa, giocata su toni smorzati, adeguata ai toni patetici della sua storia, tali da rendere il suo personaggio più una vittima degli eventi che il colpevole di un ingravidamento non voluto: a riprova della sua modestia, il tenente Bianchi è la vittima preferita degli scherzi dei suoi commilitoni. Stefano Satta Flores gioca con la nevrosi del suo personaggio di Rossetti: allinea tic e vezzi verbali, si diverte con tormentoni

linguistici,

propone

un

linguaggio

complesso

ed

involuto

che

progressivamente strania il suo personaggio dal contesto. Alessio Rossetti, tra tutti i suoi compagni, è l’unico a non avere successo con le donne, è l’unico a contestare lo stato sociale. Se Carlo Giuffrè tenta l’esasperazione caricaturale del personaggio, Aldo Maccione ne tenta un’interpretazione psicologica: il suo Otello Cesaretti, ricco di umori popolari (e con un linguaggio tendente al turpiloquio), è quello che presenta maggiore 11

variazione psicologica, non si risolve in un’unica dimensione ma si evolve da cinico vagabondo in tenero sentimentale. Alberto Lionello, infine, introduce la nota grottesca nel suo Giovanni Crippa già nel modo di parlare: la sintassi dei suoi discorsi è perfetta, ma la pronuncia ha il difetto di arrotare le “erre”: il suo è un personaggio complesso che deve unificare il piacere della compagnia degli amici ritrovati, con la naturale sicurezza di chi occupa una posizione sociale superiore. Non è la ritrosia aristocratica del barone Paternò: Crippa è un uomo comune che ha fatto carriera. Il racconto così procede alternando, e talvolta fondendo, i diversi toni: quelli pateticogrotteschi a quelli goliardici, quelli malinconici a quelli comici, a buffi tormentoni che punteggiano la vicenda: il colonnello che cambia umore, e punisce i soldati, ogni volta che riceve la telefonata annunciante il ritardo della visita dell’ufficiale americano; l’arrivo di gran carriera della jeep del colonnello al campo militare, con la sbarra d’ingresso ogni volta alzata, con tempismo perfetto, pochi attimi prima che l’ufficiale varchi l’entrata (l’allegra marcetta che accompagna l’azione induce lo spettatore all’attesa di quello che poi, puntualmente si verificherà: lo schianto della jeep sulla sbarra rimasta abbassata). Lo stile visivo di Salce è rimasto invariato negli anni: il montaggio di stacchi e attacchi in movimento che dinamizza il racconto e collega i piani narrativi senza soluzione di continuità, i flashback che puntualizzano comicamente alcuni momenti dell’azione (espediente linguistico presente da La pillole di Ercole e proseguito negli anni fino a L’anatra all’arancia: qui illustrano i pensieri nascosti del barone Paternò e, come per le altre volte, con il loro eccessivo grottesco, sono il punto debole del film). Così come invariata è la costruzione narrativa, fondata sull’osservazione del comportamento dei personaggi, sul dettaglio satirico e non psicologico: ad ognuno dei protagonisti è concessa una presentazione “ad personam”, poi le rispettive storie si intrecciano e si sciolgono grazie ad un montaggio alternato che le allinea senza sbalzi temporali. Il dettaglio che centra il personaggio può essere periferico, decentrato rispetto al corso del racconto: la scarsa finezza di Otello Cesarini, ad esempio, è prospettata durante la sua presentazione, con una zoomata sul panino con la lonza che ha preparato per una prostituta: una fetta di lonza molto spessa e mezza cipolla per profumarla. Sono presenti, infine, quelle osservazioni marginali di segno surreale che rivelano lo stile del regista: come il personaggio della zia di Valeria, la vecchietta addormentata sulla sedia, cui il barone Paternò, cadendole addosso, toglie la parrucca. Ad essere variato, rispetto alla produzione precedente, è il gusto della gag, come felicemente osserva Brunetta: «A cavallo degli anni settanta i suoi film, come del resto quelli di quasi tutti gli autori della commedia, fanno ricorso a battute grevi e ad assecondare la richiesta di una caduta di tono per rispondere alla domanda di un pubblico 12

dai gusti più facili»7, c’è la tendenza «a lasciar sempre più spazio alla rimasticatura del luogo comune»8. Sono

osservazioni

molto

pertinenti

proprio

riguardo

a

Riavanti…marsch!.

Il

personaggio del barone Paternò è costruito con tutti i luoghi comuni del siciliano geloso e cornificato, e l’interpretazione che ne dà Carlo Giuffrè è puramente di routine, senza annotazioni originali: l’attore presenta una maschera già perfezionata precedentemente in alcune commedie (come La vedova inconsolabile ringrazia quanti la consolarono, 1973, di Mariano Laurenti), in cui «l’enfasi calibrata di alcuni dettagli fisici – i baffi curatissimi e i capelli impomatati – è essenziale per conferirgli le stimmate del modello originale (il siciliano geloso, ndr)»9. Il che non è necessariamente un elogio, ma la constatazione di uno stereotipo codificato e immutabile, appena attenuato da alcune notazioni dovute al gusto del regista - come i commenti in controcampo, con i quali il barone prende le distanze dai suoi compagni di più bassa levatura sociale. Anche il denudamento dei protagonisti (che finiscono sotto una doccia come le protagoniste dei film comico-erotici di quegli anni) ed alcune gag grevi – come gli atteggiamenti equivoci in cui i cinque sono sorpresi dal sergente – rivelano l’adeguarsi alla moda dei tempi. Ma la genuina vitalità, venata di malinconia, dei personaggi distacca immediatamente dalla produzione coeva Riavanti…marsch!. Sono propri dell’estro di Salce i veloci scambi di battute, i battibecchi dei cinque protagonisti, quello sfalso nelle situazioni psicologiche, per cui un personaggio è sempre in condizioni di inferiorità rispetto all’altro - per minore intelligenza, per minore astuzia o solo per scarsa brillantezza verbale, che nei film di Salce ha molta importanza – creando l’occasione della gag. Ne sono un esempio i dialoghi tra Cesarini e Crippa: le timide richieste di denaro del primo sono abilmente stornate dal secondo con capziose motivazioni psicologiche che Cesarini reputa credibili. Ciò che conta, nel tessuto del racconto, non è la progressione drammatica – le situazioni sono abbastanza scontate, gli sviluppi prevedibili – quanto l’atmosfera di intimità che si instaura tra i personaggi, come nel precedente Professor Kranz. E’ più importante il contesto del racconto, i suoi personaggi, che il racconto stesso: non è un caso che le situazioni progrediscano labilmente e si chiudano in modo indefinito, senza certezze. Il nodo del film sono i momenti di riflessione, le pause dell’azione, quando i protagonisti si scambiano opinioni, battute o soltanto scherzi. Tutti i personaggi sono osservati con affetto, anche quelli più lontani dal gusto del regista. Cosicché vengono appianate questioni politiche e sociali piuttosto spinose nel 7

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, p.321 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit., vol. 4, p. 393 9 Bertolino-Ridola, Vizietti all’italiana…, cit., p.200 8

13

segno dell’amicizia: quella tra il comunista Rossetti e il capitalista Crippa o quella tra il tenente Bianchi e la figlia, illegittima e inconsapevole, Marina. La leggerezza dello sguardo risolve facilmente questioni psicologiche complesse: quella che si sviluppa tra Cesarini e gli amici che, con scherzi atroci, cercano di dissuaderlo dal matrimonio – come, ne Le ore dell’amore, faceva Ottavio, che, con poche frasi appropriate, novello Jago, insinuava in Gianni il tarlo del sospetto; in Riavanti…marsch! , tempi aggiornati, i protagonisti non si accontentano delle parole ma passano ai fatti; quella, improvvisa, nata con l’apparizione di Marina, durante l’incontro tra Bianchi e sua moglie, che scambia la figlia per l’amante del marito. E’ un ottimismo che ritroviamo nell’ultimo film di Salce, Quelli del casco (1988). Il gruppo di ragazzi, studenti di un liceo artistico – riconoscibile come quello di Via Ripetta, a Roma – è alle prese con i problemi del vivere quotidiano: amorosi, soprattutto, ma anche nei rapporti con gli adulti e in quelli con la malavita. La vitalità, lo spirito e la forza della loro giovinezza consentono loro di superarli tutti indenni, anche facilmente: con qualche abile scherzo ogni problema è risolto. Luciano ha la famiglia in subbuglio: il padre ha un’amante e la moglie lo fa pedinare da un investigatore privato, così da impedirgli ogni incontro amoroso. Il ragazzo ha in testa la soluzione ideale: far vestire i propri abiti al padre e sviare così l’attenzione dell’investigatore. Presto fatto. E’ un’occasione, come svela il ragazzo, con inattesa profondità, per far del bene alla madre, che altrimenti si sarebbe fatta odiare dal marito. Se un professore è troppo puntiglioso e scocciatore, come l’insegnante di disegno Impallomeni, i ragazzi hanno ancora una volta la soluzione pronta: colpirlo nella propria dignità, facendolo accusare di una violenza carnale mai consumata. Se un ragazzo ha problemi d’amore, perché la ragazza che ama esce con un adulto, soltanto per poter far carriera, i ragazzi riescono a risolverli, beffando atrocemente l’uomo, calpestandone il decoro. Quelli del casco procede allineando episodi di questo tenore: osserva quotidianamente le azioni dei ragazzi, ne descrive caratteri e psicologie, cercando di darne un quadro compiuto. Non c’è un protagonista assoluto in questo film, è un racconto corale, legato da un filo conduttore: la ricerca di Luciano della donna dei suoi sogni, una ragazza con il casco,

vista

su

un

cartellone

pubblicitario.

L’ideologia

del

film

può

sembrare

semplicistica: questi ragazzi non soffrono di disagi esistenziali o sociali (sono tutti di buona famiglia: le storie sono ambientate ai Parioli), non conoscono il problema della tossicodipendenza. Sono belli, giovani, puliti, pieni di spirito. L’unico di essi che presenta un interesse psicanalitico è Spina: ama travestirsi, camuffarsi sotto le spoglie dei più vari personaggi (sua nonna, la preside dell’istituto, persino Cossiga, allora presidente della Repubblica). Si costruisce tante personalità differenti dalla sua, che forse non ama: ha 14

due genitori trinariciuti e maneschi. Ma l’aspetto è affrontato solo dal lato ridanciano: i suoi travestimenti sono spunti per iniziare scatenati equivoci: in uno di essi ne rimane vittima un vescovo vero (lo stesso Luciano Salce), che l’insegnante di religione, avvezzo ai travestimenti del ragazzo, scambia per una delle tante maschere di Spina. Marco Giusti ha scritto, a proposito di Quelli del casco, che è «una commedia giovanilistica tra Berlusconi e De Laurentiis»10. In effetti, nella descrizione dei ragazzi, non c’è traccia del sarcasmo di La voglia matta (non c’è traccia nemmeno degli sceneggiatori Castellano e Pipolo; qui il soggetto è stato scritto da Peter Gonzales, attore nel felliniano Roma); ci sono, invece, molti riferimenti al minimalismo della serie di telefilm, I ragazzi della terza C, che le reti di Berlusconi trasmettevano all’epoca dell’uscita di Quelli del casco: lo stesso sguardo sui giovani, la stessa costruzione del racconto, a macchiette. C’è nel film di Salce una totale assenza di volgarità (anche nei momenti più grevi) ed una volontà trasgressiva dall’orizzonte limitato che riconduce direttamente l’opera al suo genere di riferimento: il neorealismo rosa. In Poveri ma belli (1956, Risi), i due ragazzi protagonisti, Romolo e Salvatore, dopo aver «corteggiato goffamente la bella del quartiere – la procace Giovanna – scelgono la dirimpettaia – le rispettive sorelle, Anna Maria e Marisa – rientrando senza rimpianti nei propri orizzonti»11. In Quelli del casco, Luciano che cerca di dare corpo alla ragazza dei suoi sogni (come Mastroianni in Culastrisce nobile veneziano, 1976, Mogherini), scopre che il sogno è realtà e la ragazza è la sua compagna di banco, Arianna. Il mito di Pigmalione, aggiornato ai tempi moderni, secondo un gusto alla Gianni Rodari: «Mentre andava a casa, incontrò una fanciulla che era stata, molti anni prima, sua compagna di giochi. […] Essa gli rivolse la parola e gli disse soltanto: - Ciao, Pigmalione. Ma mentre glielo diceva lo guardò con i suoi occhi neri e ridenti. E dopo aver guardato dentro quegli occhi vivi Pigmalione cessò improvvisamente di desiderare che gli occhi di marmo della sua statua rispondessero»12. Con

opportuni

accorgimenti

e

variazioni

(al

posto

della

statua

il

cartellone

pubblicitario, al posto di Pigmalione Luciano), queste righe di Gianni Rodari si adattano perfettamente all’incontro tra Luciano e Arianna davanti al Ponte Milvio: il ragazzo scopre di avere sempre amato la giovane, prima ancora di sapere che è lei la modella dei manifesti. La felicità è nel quotidiano: la stessa morale da applicare alla storia tra Nicola e Monica, che abbandona, per il ragazzo, lo stilista Feletti e tutte le ambizioni di fare carriera.

10

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 623 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 26 12 Gianni Rodari, Il libro degli errori, in I cinque libri, Einaudi, Torino, 1993, p. 467 11

15

Nonostante Quelli del casco sia l’ultimo film della sua carriera, ed il regista l’abbia diretto già ammalato, sono invariati lo stile visivo ed il ritmo del racconto. La sequenza iniziale, che fa da prologo ai titoli di testa, ha una struttura simile a quella omologa de Il federale. Anzi, ne è quasi un ricalco, visivo e narrativo. Alcune lente panoramiche immergono lo spettatore nella quiete di un convento, adagiato in un’oasi di verde nel centro di Roma. Un gruppo di sacerdoti passeggia per il portico, quando scorge un’apparizione tra i merli delle mura di cinta: una splendida ragazza, vestita con un panno blu. I sacerdoti la credono una madonna e lanciano esclamazioni di meraviglia, quando la vedono denudarsi il seno. Fuggono scandalizzati, quando la giovane scopre anche l’organo

sessuale.

Ne

rimane

solo uno che,

inginocchiato, urla: «Miracolo…miracolo!!!». Subito, l’inquadratura successiva, ci svela come l’apparizione sia stata uno scherzo blasfemo di un gruppo di ragazzi, quelli che scopriremo essere i protagonisti del film. Ma per qualche istante, supportato anche dalla musica celestiale e dalla fotografia luminosa, anche lo spettatore più smaliziato rimane interdetto, posto di fronte ad una situazione tipica della commedia all'italiana: «la verosimiglianza

della

premessa,

l’ambiguità

dello

svolgimento,

la

comicità

della

soluzione»13. Il racconto prosegue intrecciando una lunga serie di personaggi stravaganti, al limite della macchietta (il portiere Panelli, che punteggia le frasi con i reiterati: «Nun ce se crede, nun ce se crede!»), di beffe e di pause dell’azione (i momenti di riunione nei luoghi di ritrovo, come le hamburgherie), prima di trovare il suo centro nella sequenza dello scherzo alla Taverna dell’Orso. Argomento molto greve (il terribile scherzo giocato a Feletti è quello di farlo sembrare un petomane), trattato con la leggerezza tipica di Salce. La volgarità della situazione trova, in primo luogo, ambientazione in un locale esclusivo, frequentato dall’alta società: il ritmo è languido e segue il corso delle futili conversazioni che animano il ristorante. Quando i ragazzi, con un marchingegno, diffondono nel locale i rumori spetazzanti, il ritmo diventa serrato, con un montaggio alternato di primi piani che osservano le reazioni dei personaggi (l’espressione di imbarazzo di Monica, la ragazza che accompagna Feletti), di dettagli che definiscono il racconto (le mani del ragazzo che manovrano l’apparecchio, i microfoni nascosti tra le piante del locale), di totali che arricchiscono la sequenza di notazioni stravaganti (la donna che dice al marito di contenersi, quella che chiede, spaventata, se nel locale si mangia pesante, quella che comincia a sentire un fantomatico cattivo odore). Le notazioni sarcastiche del regista sono dirette verso la rappresentanza del mondo adulto che popola il film. La loro presenza è quasi totalmente ostile o, quantomeno,

13

Viganò, Commedia…, cit., p.80

16

indifferente: sembrano attrarre su di loro lo scherzo goliardico che ne azzeri il decoro, l’orgoglio, la dignità professionale e morale. Luciano, che è il ragazzo più carismatico del gruppo, prepara le beffe sempre con le stesse parole, come uno slogan: «Diamogli una lezione». Il petulante Impallomeni, la rigida preside, il padre fedifrago, quello manesco, hanno una personalità poco piacevole: il loro carattere ha un aspetto abnorme, un punto debole da sgretolare con la forza del comico. Che è poi una dichiarazione di poetica, anzi la rappresentazione narrativa dello stile del regista. I personaggi adulti sono un modello di caratterizzazione comica: interpretati da attori d’esperienza (Montagnani, Panelli, Cassola) che li schizzano con notazioni fulminee, tanto da farne una punteggiatura comica del racconto. L’unico degli adulti che eccepisce la regola dell’indifferenza e dell’ostilità verso i ragazzi è un sacerdote, padre Gavazzi (una delle interpretazioni cinematografiche più felici di Luigi De Filippo, figlio di Peppino, mai troppo impegnato al cinema), che tenta di guidarne la formazione, l’educazione e li asseconda nell’unico momento difficile

che i

giovani attraversano: quando una di loro, Arianna, è derubata, da una banda di malfattori in moto, di una forte somma di denaro e i ragazzi ne tentano il recupero; li scoveranno e Luciano si giocherà il bottino sfidando il capobanda ad una gara di velocità con le proprie moto. Episodio che ricorda i vecchi film di Mattoli o Bragaglia, le vecchie farse degli anni ’50, in cui i cattivi personaggi non erano poi tanto cattivi, ma facilmente manipolabili: esemplare, comunque, nel rilevare come il burbero ma comprensivo sacerdote sia accomunato ai giovani da una perifericità nell’ambito della vita sociale. Perifericità, ma non estraneità: i giovani di Quelli del casco conoscono i meccanismi sociali e non li rifiutano. Qualcuno, come il ragazzo napoletano, è addirittura in anticipo sui tempi: sa trarre il massimo dei vantaggi dalla sua grande esperienza nel campo informatico ed elettronico. Altri, come Monica, rifiutano gli aspetti più vieti del consumismo (il carrierismo a tutti i costi) perché hanno ancora l’età giusta per ritornare sulle proprie scelte. La «generazione del casco» - come spregiativamente la chiama Impallomeni – ha una vitalità prorompente che appiana ogni ostacolo. Il loro punto di forza è proprio il casco che li protegge dai pericoli (delle corse in moto, strumento vitalistico per eccellenza, e quindi, metaforicamente, della vita) e permette di osservare il mondo senza essere osservati, conservando quella libertà d’azione e di pensiero decisiva nella realizzazione dei propri desideri. In fondo quello in cui viviamo, con tutti i suoi difetti, anche grandi, è il migliore dei mondi possibili: il cinico, disincantato, sarcastico Luciano Salce chiude la carriera, e la vita, con un estremo messaggio di ironica sensibilità (Il prof. Kranz tedesco di Germania), di affettuosa malinconia (Riavanti…marsch!), di vitale ottimismo (Quelli del casco). L’amarezza per una realtà ostica e contraddittoria è temperata dalla speranza di 17

un futuro migliore, affidato ai giovani o a quegli adulti che conservino il temperamento, la vitalità, l’ingenuità dello stato giovanile.

Capitolo 4. L’impegno politico di un autore disimpegnato (Colpo di stato)

Il migliore tentativo di commedia politica all’italiana resta […] Colpo di stato (1969). Boicottato dai politici dell’epoca e da altri controllori della cultura, uscito in sordina, poi quasi totalmente dimenticato. Nell’Italia 1972 (futuro prossimo, essendo il film del 1969) i comunisti colgono una vittoria inattesa alle elezioni politiche, ma per convenienza, per paura e per ordine dell’Unione Sovietica preferiscono non prendere il potere e lasciar credere a tutti che abbiano vinto i soliti democristiani. Se la corruzione dell’intera classe politica italiana non era una novità per gli schermi, per la prima volta venivano tuttavia fatti riferimenti precisi a partiti realmente esistenti. Vi erano poi molte idee spiritose: il persuasore politico di professione, le visite a domicilio dei cacciatori di voti, le suore che riescono a far votare (indovinate per chi) un uomo morto da tre giorni, la Tv di stato che al momento del “sorpasso” sostituisce le dirette elettorali con documentari d’arte e canzonette di tendenze sempre più sinistroidi. Ma il film non piacque al pubblico. […] Sarà stata anche colpa della censura di mercato, ma qualche responsabilità l’aveva pure il linguaggio cinematografico usato da Salce, più vicino alla Nouvelle Vague che alla commedia di costume

18

tradizionale (vi erano persino cori da opera lirica usati come cori di tragedia greca a ironico commento delle vicende)1.

Riporto per intero la critica di Enrico Giacovelli perché questo capitolo è dedicato ad un film fantasma, Colpo di stato (1969), «mitico film di fantapolitica»2, uno dei titoli «meno visti e più boicottati della sua epoca»3. Nello stesso anno in cui Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue incassò più di due miliardi, Colpo di stato ne raccolse solo cento. Da allora è scomparso. Se ne lamenta anche Marco Giusti: «il film allora non lo vide nessuno. Venne duramente stroncato dalla critica, […] ma non ebbe prove d’appello. Ricordo di averne visto solo il trailer (promettentissimo) e di non essere riuscito a vedere il film a Genova (cinema Grattacielo). Perso per sempre. Non è mai più ricomparso. Chissà?»4. Lo stesso Salce ne ricorda le difficoltà produttive e rimpiange soprattutto l’indifferenza nei suoi confronti: Con De Concini abbiamo lavorato un anno, un tempo interminabile, su Colpo di stato. Anche perché Cristaldi è un produttore faticoso nel metter su le cose, sempre cagadubbi e con tanti progetti. Simpatico, cordiale, ospitale, ma prima di arrivare a fare un film ce ne vuole. Forse aveva ragione perché poi il film non è stato un trionfo, ma resta il fatto che è stato il film a cui mi sono più dedicato. L’idea era di De Concini, e non si chiamava così, anche se non ricordo più come (La schiavitù è finita, nda). Un soggetto prodigioso per le sue capacità divinatorie perché dopo successero quasi le stesse cose! Ho conservato le critiche di Times Magazine e France Observateur perché dicevano che si trattava di un film esemplare per capire qualcosa dell’Italia. C’erano intuizioni notevoli, in un film originale come struttura, che parte come un’inchiesta televisiva e piano piano diventa spettacolo. La seconda cosa interessante è l’uso dei cori dell’opera lirica, come coro da tragedia. Gente con costumi diversi, con cori molto spiritosi, su parole mie e un pastiche musicale di tipo melodramma di Marchetti. Il coro era l’italiano che commenta le situazioni. La cosa che mi dispiacque di più fu l’indifferenza con cui fu accolto. Il film urtò un po’ tutti, anche i comunisti perché si permetteva di dire che era loro sistema stare alla finestra. C’era dentro il Papa, Saragat. Gli avvocati di Cristaldi ci dissero che c’erano quattordici punti per cui noi potevamo essere arrestati: offesa a capo di stato estero, al Papa, a tutti quanti. E invece cascò tutto nell’indifferenza. Eppure era un film pieno di cose divertenti, mi pare. Qualche anno dopo Monicelli fece Vogliamo i colonnelli, che fu una specie di rifacimento di Colpo di stato, ma tutto grottesco, esagerato. Noi andavamo sul credibile, sul possibile, sul reale5.

Lo sceneggiatore Ennio De Concini ricorda il boicottaggio politico che il film subì: La mia posizione politica è sempre stata molto chiara, sono stato anche in carcere durante il fascismo, quindi più chiara di così si muore. La realtà è che io facevo un certo tipo di film (anche il periodo di Antonioni) che non era un cinema civile, e quindi non entrava nell’occhio del ciclone. Il primo film politico che feci e che sentii veramente da persona che ha una coscienza fu Colpo di stato, un lavoro a cui tenni moltissimo. Disgraziatamente fu fatto senza mezzi, artigianalmente come se fosse un prodotto qualsiasi. Con tutto questo ottenne quattro pagine su Times Magazine, con tanto di fotografie. Insomma all’estero si parlò di questo film che da noi invece fu messo in sordina, rovinato, proprio a causa di un intervento politico, perché trattava un tema che poteva dare molto fastidio a certi personaggi. Peccato! Era un film di una incredibile violenza politica.

1

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.71 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 157 3 Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 113 4 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 157 5 Goffredo Fofi-Franca Faldini, L’avventurosa…, cit., p. 386 2

2

Salce, che lo diresse, ancora oggi dice che gli hanno ucciso il film della sua vita. Insomma, praticamente, era il primo film italiano di fantapolitica6.

Fortunatamente, Colpo di stato non è un film «perso per sempre»: l’ho ritrovato alla Cineteca Nazionale della Scuola Cinematografica Nazionale, dove l’ho visionato in videocassetta VHS, poiché non ne esiste una copia in pellicola disponibile per il pubblico. E’ un film sorprendente. Riunisce in sé uno stile italiano (il melodramma operistico e l’ironia sarcastica) ed un linguaggio cinematografico europeo, affine, come ricordava Giacovelli, a quello della Nouvelle Vague. Per motivi anche obbligati, poiché Salce ebbe a disposizione uno scarsissimo budget per girare il film. Nettamente diviso in due parti: nella prima la macchina a mano scorre liberamente per le strade, con inquadrature sghembe, attacchi sbagliati, in una ricerca di cinema-verità, con lo stesso Salce che intervista i passanti sulle future elezioni, commenta con ironia svagata gli avvenimenti («il fotografo francese Matruch è molto “in”: cena con i Kennedy, fuma con i Rolling Stones»), ricostruisce in un mosaico di tasselli diversissimi tra loro (l’ambiente universitario, quello proletario, ospedali, chiese, ricevimenti) il clima elettorale («Salce spreca metà del primo tempo per darci una beffa fasulla e stereotipata del clima lettorale»7 scriveva Filippo Sacchi su Epoca); nella seconda sviluppa l’intrigo: i comunisti hanno effettuato lo storico sorpasso elettorale ed il governo democristiano non sa adeguarsi all’evento, chiama il presidente degli USA, prepara una rivolta, avendo l’esercito a favore (il capo dell’esercito propone due soluzioni: arrestare tutti i dirigenti comunisti o andare a Napoli e Pescara e da lì imbarcarsi per lidi migliori). L’intreccio è sviluppato con una libertà narrativa fuori dal comune: svincolato dalla prepotente presenza del comico-mattatore, aiutato da una uniforme fotografia in bianco e nero (tendente al grigio) di Luciano Trasatti, che appiana ambienti e personaggi più disparati, Salce racconta una storia senza protagonisti principali (nel coro si distinguono l’inventore americano George Bradis e il giornalista comunista Giordano), compiendo vertiginosi sbalzi geografici e temporali: il montaggio lega la residenza del presidente del Consiglio a Castel Sebino con la Casa Bianca di Washington, il PalaEur di Roma con gli interni popolari, una villa sul mare, teatro di un ricevimento aristocratico, con gli studi della Rai di via Teulada, le basi missilistiche americane con il Vaticano, il palcoscenico di un’opera lirica con Piazza S. Pietro. Tramite lo split screen, il regista accosta ambienti agli antipodi

nella

stessa

inquadratura,

accentuando

la

caoticità

dell’immagine:

l’ambasciatore americano a Castel Sebino, di notte, parla, al telefono, al presidente degli 6

Ivi, p. 386-387 Filippo Sacchi, Epoca, 27.4.1969, in Roberto Poppi e Mario Pecorari, Dizionario del cinema italiano, I film, vol.3, p. 117 7

3

Stati Uniti, appena alzato dal letto ed avvolto, nudo, in un’enorme bandiera a stelle e strisce. Un coro lirico (interpretato dagli stessi protagonisti del film), dalle tavole di un palcoscenico, canta arie di introduzione e commento alle fasi dell’intreccio, sul modello delle opere di Filippo Marchetti (l’autore di Ruy Blas, 1869). La prima aria introduce al racconto con questi versi sarcastici: «Questo è tempo di elezioni/ camarille e confusioni/ Questo è tempo di elezioni/ camarille e confusioni/ Ma il paese non si brucia/ e rinnova la fiducia/ al sistema occidentale/ Libertà…democrazia/ con un poco di caviale», dove il termine desueto di “camarilla” si riferisce al modello operistico di partenza (era un consiglio segreto dei monarchi spagnoli, le cui vicende erano spesso protagoniste dei melodrammi lirici) e sferza sarcasticamente il costume politico odierno, i cui intrighi sono paragonabili a quelli spagnoli dell’età barocca. Quando le elezioni si avvicinano è sempre il coro, mentre i versi scorrono sullo schermo, a ricordarci il clima in cui si svolgono: «Sono gli ultimi momenti/ persuasuioni…accertamenti/ interviste…discussioni/ fiati mozzi…previsioni/ mancan solo poche ore…/ la parola all’elettore». Infatti, precedentemente, le immagini ci avevano mostrato le potenzialità della propaganda elettorale. Il persuasore politico che parte dalla sezione per andare a convincere gli indigenti, contrastato a sua volta dal persuasore occulto, che dissemina le città di messaggi favorevoli alle forze governative: «D.C.- commenta Salce, leggendo su un manifesto - Dobbiamo Continuare…a fregarvi, ha scritto. sotto uno, una volta…ma a Roma, si sa, sono maligni: sono dissacranti, dicono i critici». Il politico che segue il consiglio del persuasore («stringi una mano e quella mano un giorno scriverà il tuo nome sulla scheda»), scende tra il popolo e ad un pensionato, che aspetta la pensione di guerra da sedici anni, risponde: «Abbiamo fatto il possibile, faremo ancora di più, nello spirito della pace e della concordia tra i popoli». C’è un ministro che scende dall’aereo ed alla folla che lo aspetta non sa che dire; gli portano un biglietto, che legge a mezza bocca: «Votare sì, ma votare bene». Il giornalista della Rai, ossequiente, che, il giorno delle elezioni, intervista gli onorevoli che votano, ricevendo queste risposte: «Io voto per l’Italia: esclusivamente per gli interessi del paese», «Io voto per l’Italia…per l’Italia e il popolo italiano». Il giorno del voto, il coro anticipa i risultati clamorosi delle elezioni: «Tutti al voto,/ tutti al voto!/ vota l’ateo e il devoto/ su brindiamo all’elettore/ ma del dopo, ahimé, ho timore!». Il governo si era cautelato, telefonando al presidente USA, che davanti alle telecamere, dopo essersi puliti i piedi sul suo cane barbone accucciato accanto alla scrivania, aveva mostrato fiducia. Al momento del sorpasso, i dirigenti precipitano nel caos: alla Rai oscurano i risultati elettorali, prima deviando l’obiettivo della telecamera dal tabellone luminoso dei risultati alla cupola del palazzo dello sport (il giornalista dice: 4

«occupiamoci un attimo dell’ambiente in cui ci troviamo. Osserviamo la bella ardita cupola

dell’architetto

Nervi:

tutta

nervature,

per

così

dire»),

poi

trasmettendo

documentari sulla cupola del Brunelleschi e sugli scorpioni, infine prendendo dal fondo dei magazzini un filmato di canzoni di Anna Ferretti, oscura cantante popolare, che, riscuotendo successo tra il pubblico, viene subito chiamata in sede e costretta a cantare canzoni sempre più di sinistra (Le otto ore, Il duomo di Milano). Frenetiche telefonate si susseguono al governo americano (il presidente urla al telefono, chiedendo se c’è già stato il bagno di sangue), mentre il popolo reagisce istericamente: chi si barrica in casa con i viveri, chi dà l’assalto ai negozi, anche quelli di nessuna necessità (viene svuotata una merceria). Gli unici a rimanere impassibili sono i dirigenti comunisti che, telefonando a Mosca, hanno ricevuto l’ordine di lasciare le cose come stanno. Quando vengono convocati dai politici governativi per il passaggio di consegne, rifiutano le cariche. Tra il capo del partito comunista ed i compagni, dispiaciuti, si svolge questo dialogo: «Ragazzi, i compagni di Mosca hanno parlato chiaro, mi pare: qui si tratta di equilibrio…», «E quelli che hanno votato?», «Ognuno sa il suo voto, mica quello degli altri. E poi, guarda, la pace fa comodo a tutti, anche a loro». Tutto torna come prima: dei “falsi” risultati elettorali

viene

“incolpata”

la perfetta

macchina

computerizzata

appena

portata

dall’America, per lo spoglio dei voti, perché infallibile; l’inventore viene rinchiuso in manicomio. La storia è girata da Salce come se fosse un film nel film, con un artificio metalinguistico. Le prime immagini inquietanti, mostrano avvenimenti misteriosi: da un archivio rubano un dossier sui ministri governativi, vengono rapiti quaranta attori su di un aereo, in casa del regista Salce vengono prelevate delle sue fotografie (c’è un memorabile primissimo piano del volto del regista che, mezzo ghignante, si rivolge all’obiettivo, chiedendosi: «E’ come se ci fosse gente che si voglia documentare su di me: è strano, molto strano»), poi una voce fuori campo, rivela l’arcano: «Il gioco era ormai chiaro: una grande potenza, infida e lontana, aveva girato un film, realizzato, bisogna ammetterlo, con eccezionale talento, che avrebbe diffuso nel mondo intero un’immagine falsa, tendenziosa e qualunquistica delle nostre elezioni del 1972. Lo scopo? Ma era evidente. Descrivere il caos e la crisi del mondo occidentale di fronte ad un ipotetico, quanto assurdo…Colpo di stato!». Mentre la voce pronuncia queste parole, scorrono sullo schermo le immagini di una pellicola ritrovata che viene montata su un proiettore: i titoli di testa del film nel film corrispondo con quelli di Colpo di stato. Una didascalia finale incornicia la vicenda: «Questa fantasiosa, assurda storia, realizzata nell’ormai lontano 1972, viene solo ora proiettata in pubblico (in forza del provvedimento n°731 del 13-21979) affinché in un mondo ormai rasserenato, tutti possano bonariamente e democraticamente sorriderne». 5

Svagatamente, come se stesse giocando, Salce ha inserito nel suo film anche le future reazioni della critica e dei politici: il film non fu affatto accolto bonariamente. Scomparso da ormai trent’anni sui nostri schermi (e teleschermi), fu attaccato ferocemente dai pochi critici che lo videro. E lo accusarono, naturalmente, di qualunquismo: Morandini parlò di «buffoneria rivistaiola e piuttosto qualunquista»8, Filippo Sacchi di «rozzo qualunquismo […]. Siamo ancora a Guglielmo Giannini. Come apertura mentale abbiamo fatto dei bei progressi»9. Dietro l’attacco al suo possibile qualunquismo c’è il disagio di chi non perdona al regista «gli sberleffi antipartitici» e la rivelazione profetica ed ancora attuale del malcostume politico. La «beffa stereotipata e fasulla del clima elettorale» riportata da Sacchi si fonda su esperienze - come la suora che porta a votare un uomo morto da tre giorni, gli ammalati caricati su un camion, dove c’è scritto «Votare sì, ma votare bene» e portati a votare dai religiosi – che, analogamente, si possono ritrovare anche in un romanzo quasi contemporaneo di Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore (qui a votare erano gli idioti del Cottolengo): erano momenti consueti durante le votazioni e neanche tanto nascosti. Il dialogo, nella seconda parte del film, tra il capo comunista italiano e quello sovietico, al telefono (spiati da tutti i membri governativi) che volge su fatti minimi (la salute dei figli) ricorda analoghe sequenze de Il dottor Stranamore (1963, di Kubrick), tra il presidente statunitense e quello sovietico. A sollevare il film dalle critiche di qualunquismo provvede il finale del film: sulle parole entusiaste del giornalista comunista Giordano - l’unico che non è stato avvertito della mossa politica ed è convinto di stare scrivendo un articolo sull’«alba di un mondo nuovo», con parole che inneggiano alla raggiunta maturità politica italiana («Finalmente possiamo dire che l’Italia è diventata un paese moderno, veramente democratico») – scorrono le immagini di donne impellicciate, di borghesi felici ed attivi, del ritorno all’avvilente normalità dopo lo “scampato pericolo”. Nei confronti di Colpo di stato diventano convenzionali le altre due commedie politiche di Salce, La pecora nera (1968) e Il sindacalista (1972). La prima, scritta con Ennio De Concini (una prova generale per Colpo di stato), sviluppa la satira politica su un antico e consueto tema farsesco, di provenienza plautina (Maenecmi), quello dei gemelli: «uno è un simpaticone, dongiovanni, genialoide, “puttaniere”; l’altro un uomo politico […]. Anche la “pecora nera” verrà assorbita dalle pecore bianche, anzi diventerà capogregge, forse capogruppo, domani probabilmente Capo di stato»10. Il sindacalista, scritta con Castellano e Pipolo (tornati a collaborare con Salce a distanza di sei anni), tratta un tema serio, quello del sindacalismo: se sia giusto praticarlo individualmente o inserirsi nei 8

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 272 Filippo Sacchi, Epoca…, cit., p. 139 10 Enrico Giacovelli, La commedia …, cit., p. 71 9

6

sindacati ufficiali (il film propende per la seconda soluzione).. Qualche critico, come Marco Giusti, la apprezza: Uno dei film che io e Giovanni Buttafava amavamo di più. Lo conosciamo quasi a mente. Un piccolo capolavoro salciano recuperato solo da Blob per la grande scena della segreteria telefonica del padrone Renzo Montagnani al quale il sindacalista Lando Buzzanca invia una interminabile pernacchia mentre conta i secondi che ha di tempo per il messaggio. Non una parodia dei sindacati, però, o dei rapporti operai-padroni, alla Petri, qualcosa di più avanzato, in qualche modo anche serio, ma di grandissimo divertimento con un Buzzanca al suo massimo e un Salce straordinario come in Basta guardarla. […] Al suo meglio, Il sindacalista, è una folle rivisitazione delle lotte operaie del tempo in chiave di commedia all’italiana. Classicissimo e comicissimo. Buzzanca è l’operaio ciarliero che diventa sindacalista un po’ così nella fabbrichetta di Montagnani. Poi viene emarginato dai suoi compagni. Alla fine diventa un sindacalista serio11.

Sono gli stessi autori del film (il direttore della fotografia Menczer e lo stesso Salce) a considerare Il sindacalista un film minore. A non funzionare è proprio Lando Buzzanca, che come spesso gli accade, sottolinea troppo le gag e le sequenze, dando ridondanza a tutto l’intreccio e sbilanciando il film tutto dalla sua parte, riducendolo ad uno di quei “ritratti tra virgolette” tipici della commedia all’italiana – «film programmatici ed in un certo senso monografici fin dal titolo, dove l’articolo determinativo precede un sostantivo che indica lo stato civile o il mestiere dei protagonisti»12 - a cui Salce si era dedicato già l’anno precedente con Il provinciale (1971).

11 12

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 710 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 42 7

Capitolo 5. L’incontro con Villaggio: il grottesco sociale e psicologico. (Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi) Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974) è un film eccentrico ed anomalo, nella filmografia di Salce e nel cinema italiano. Segna l’incontro del regista con l’attore Paolo Villaggio e tenta di introdurre in Italia l’umorismo nero spagnolo tipico del regista Luis Garcìa Berlanga (La ballata del boia, 1963) e dello sceneggiatore Rafael Azcona (collaboratore abituale di Marco Ferreri), gli autori del racconto da cui è stato tratto il film. La critica, come spesso per Salce, si divise, tra chi considerò Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno «di tutti i film di Salce […] senz’altro il più maturo, anche se, forse, il meno personale: l’opera letteraria da cui è tratta la pellicola, e che lascia trasparire in modo evidente il proprio umorismo feroce, sinistro e beffardo, porta le firme Rafael Azcona […] e Luis Berlanga. Si ride, dunque, ma con una smorfia. Luciano Salce, comunque, ha trovato una materia evidentemente a lui congeniale: lo dimostra con uno stile unitario, con la cura dei particolari, con la scelta appropriata degli interpreti»1 e chi un film che «inclina alla farsa greve invece che al grottesco sul mammismo. Inadatto alla parte, Villaggio è un clamoroso esempio di “miscasting”»2. Il film è ben più che un grottesco sul mammismo, come avrebbe voluto diventasse Morandini. Luciano Salce riesce a raccontare una storia di umorismo nero, in cui i due elementi sono equilibrati, appropriati, di uguale consistenza ed unitari: lo fa, paradossalmente, con un’operazione di regia che mette in conflitto la storia, i personaggi e l’ambientazione. La storia, melodrammatica, surreale e morbosa, è quella del conte Fernando, detto Didino, un uomo di 32 anni succube della madre, che vorrebbe rimanesse per sempre un bambino: è richiamato a casa, mentre è al cinema, perché la madre ha sentito in televisione che è stato rapito nei dintorni un bambino e crede sia suo figlio; è costretto a farsi fare il bagno dalla madre; a subire i ricatti di lei, che lo vorrebbe tutto per sé. Oltre tutto, Fernando è costretto a subire dalla madre i commenti entusiasti sulla virilità del padre, ora morto («Era alto, aitante, virile!»), a cui, inutilmente, il figlio si ribella («Era uno scorreggione»). Fernando cresce, ovviamente, inibito sessualmente: il modello virile è troppo lontano da quello a cui corrisponde lui. A trentadue anni non è mai stato con una donna ed è costretto ad usufruire dei surrogati sessuali: guarda al cinema i film 1

Vice, Il Resto del Carlino, 31.8.1974, in Roberto Poppi-Marco Pecorari, Dizionario del cinema Italiano, I film, vol. 4, Tomo I, Gremese, Roma, 1996, p. 30 2 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 39 1

pornografici, fa l’amore con bembole gonfiabili che si fa venire da ogni parte del mondo. I parenti lo sospettano un omosessuale. La situazione si sblocca quando, dopo la morte della cameriera Driade (caduta dalle scale mentre spiava Didino che faceva l’amore con una bambola), arriva in casa sua nipote

Angela, una ragazza bellissima, ma storpia.

Didino ne è subito attratto morbosamente (la spia mentre fa il bagno, si nasconde nei posti più impensati, le fa continui regali), ma deve fare i conti con la madre che ha subito compreso come la ragazza sia una concorrente, con buone possibilità di strapparle per sempre Didino. Infligge così ad Angela le punizioni peggiori (le toglie la paga, la costringe a nutrirsi di pane ed acqua), ma inutilmente. Didino si sblocca e fa l’amore con Angela proprio nella camera della madre, come estremo oltraggio. Nel momento della vittoria, gli eventi precipitano: la madre subisce un colpo apoplettico per lo schock, Angela è cacciata di casa. Didino è costretto a tornare alla routine quotidiana: alle sue bambole, ai giochi con la madre. Un giorno Angela torna, di nascosto, e Didino decide di fuggire con lei. Ma la madre, che ha spiato i loro piani, lo affoga mentre gli fa il bagno, per non lasciarlo andare via. I personaggi del racconto sono osservati da un punto di vista opposto a quello melodrammatico, con un sarcasmo che li ridicolizza. La contessa Mafalda è una donna tirannica, grassa e tremolante come i budini che cucina a suo figlio Didino. E’ gelosa e possessiva, si atteggia a vittima, ma ha un cuore abbastanza arido per tramutarsi in carnefice (lo dimostrano le sue opere di beneficenza: ogni anno dedica un giorno, quello di S.Porfirio, ai poveri, regalando loro, ogni volta i supplì). Suo fratello, il conte Alberto, è torturato da un tic che fa tremare tutta la parte sinistra del suo corpo e gli scuote la testa in un eterno gesto di diniego. E’ uno sprovveduto, mentalmente ed economicamente, che vive alle spalle della sorella ed è incapace di comprendere la natura di Didino, che considera un omosessuale, da quando lo ha scoperto a leggere riviste porno, e glielo rivela: «Divertimenti da impotente!», «Mi sento impotente», «Faresti meglio a seguire la tua natura di omosessuale. […] Ho letto Freud, lasciati servire: tu sei un culattina, hai paura delle donne», «Non ho mai fatto la prova, non ho mai verificato. Aiutami tu, zio Alberto!». La cameriera Angela è una ragazza che tiene fede al suo nome, ma ha anche lei una particolare mostruosità: è storpia ed ha un fratello scemo, Peppe (lo interpreta Jimmy il Fenomeno), che, al funerale della zia Driade, urla: «Zia Driade è in cielo, zia Driade è in cielo!…Ne abbiamo tante!». I due domestici hanno anche loro una dose di grettezza e, tra i personaggi di contorno, il vecchio compagno di scuola di Didino è un omossessuale, l’amica di infanzia Jolanda è una donna di facili costumi che, appena sposata, vorrebbe tradire il marito (un perfetto imbecille) con Didino. Quest’ultimo è il personaggio che concentra su di sé le diverse coordinate psicologiche del racconto: la volontà di essere normale e l'impossibilità di esserlo. E’ ossessionato dal sesso e dalla 2

voglia di dimostrare una virilità che la madre gli soffoca, con le proprie morbose attenzioni («Ma perché si sposano tutti e io no?», «Ma perché tu hai tua madre»). Vorrebbe andare con le donne, ma ne è incapace: si accontenta di spiare le loro gambe dalla grata di un tombino e di avviare un triste ménage con le bambole: «un’oasi di delizia: un’amante diversa, silenziosa e fedele», come riportano le istruzioni («una gran cagata!» esclama Didino dopo averle lette). Quando lo zio gli procura una prostituta, si comporta come se fosse sua madre: le si accoccola tra le braccia, con un dito in bocca, mentre lei lo ninna (precedentemente la prostituta aveva tentato di stimolarlo: «come mi vuoi: in piedi, a cavallo, sulla tazza?»). Per affermare la propria virilità, Didino è costretto a mettersi in uniforme; ma, eccettuata quella militare, la madre riesce a rendere infantili anche le sue uniformi: quella da marinaio, con cui, fin da fanciullo, consegna alla madre la torta di compleanno, quelle da riposo (che veste durante la merenda sui prati o mentre gioca a cricket): gilet senza maniche, pantaloni alla zuava, calzettoni lunghi di lana dai colori sgargianti (arancioni, rossi). Per reazione, Didino ama travestirsi: arriva ad impersonare il fantasma di suo padre, che ridicolizza accentuando il suo difetto, l’aerofagia. Il gusto per il travestimento ed il tentativo di recuperare il contatto fisico con una donna (senza riuscire ad avere con lei un rapporto sessuale) lo portano a tagliare un ciuffo di peli della vagina di Angela, farsene un paio di baffetti con cui impersonare Hitler di fronte alla madre: sequenza che mostra chiaramente il groviglio psichico che tortura i personaggi. I quali sono dotati di nomi altisonanti e nobili (il conte Ferdinando, la contessa Mafalda, i domestici Anchise e Driade, la ragazza Angela) che contrastano con la loro natura anormale (o abnormale) e qualche volta segnano una confusione di personalità: la giovane Jolanda, amante proibita di Didino, ha un nome assonante con quello di Mafalda e lo stesso rapporto protettivo con l’uomo (per sedurlo le offre il proprio seno: «Bevi, bevi il tuo lattuccio», «Non avrei sete…veramente avrei appena bevuto un’oransoda»); Didino si chiama in realtà Ferdinando, come il marito di Jolanda, che ha preso il suo posto accanto a lei («L’altra notte ho fatto l’amore con mio marito e l’ho chimato Fernando», «Ma non si chiama Fernando anche lui?», «Ma non Fernando come lui, Fernando come te», sussurra, tentatrice, Jolanda al circospetto Didino). Questi personaggi agiscono in un ambiente chiuso (una casa solitaria in un piccolo borgo di campagna), che ne segna i movimenti psicologici, acutizzandone il ripiegamento ossessivo sulle proprie manie. L’ambientazione accentua il tono nero della rappresentazione e conduce Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno sul terreno della favola gotica, dando unitarietà di tono all’intreccio melodrammatico ed ai personaggi grotteschi. Il film si svolge, prevalentemente, all’interno di una grande ed alta costruzione merlata, simile ad un castello e con un parco circondante molto esteso. Il palcoscenico di questo intreccio sono 3

le scale strette ed alte, i lavatoi sull’attico, stretti e freddi, le cucine in penombra, le camere della servitù con le mattonelle bianche, le stanze enormi sontuosamente ed eccessivamente arredate e parcamente illuminate, le cantine, gli anfratti e gli angoli oscuri. Questa scenografia misteriosa permette a Salce di accentuare il lato macabro del racconto, conducendolo come fosse un film gotico. Nella suggestiva sequenza dei titoli di testa, la mdp pedina il piccolo Didino mentre porta la torta alla madre, nel giorno del suo compleanno, percorrendo, sinuosamente come in un labirinto, le alte stanze oscure della villa, illuminate soltanto dalle candeline sul dolce. La scarsa illuminazione e la grandezza degli ambienti permette ai personaggi di spiarsi a vicenda attraverso invisibili punti di vista. La cameriera Driade muore proprio mentre si sta dedicando a questa attività: perde l’equilibrio e cade dalla scaletta a pioli, precipitando nella tromba delle scale, fino ad un pianerottolo dove sbatterà la testa, fratturandosi il cranio: una scena costruita da Salce tramite il montaggio di otto inquadrature con il punto di vista sempre più in basso delle precedenti, a rendere graficamente la caduta verticale della donna, spezzando il ritmo all’altezza della quarta inquadratura, dove inserisce un movimento contrario: l’improvviso rizzarsi della contessa dal letto, svegliata dall’urlo della cameriera. Molte altre sono le sequenze che si rifanno ai film del terrore: l’arredamento del salone, dove la contessa conserva le vestigia del marito; le apparizioni fantasmatiche di Didino travestito (all’oscuro, con la voce camuffata); la scoperta da parte di Angela di Didino, nascosto nella fontana del lavatoio, per fuggire alla madre, come un annegato; il licenziamento di Angela, con la sua partenza notturna sotto una pioggia torrenziale, scorta da lontano da Didino. La cena finale, in onore del compleanno della contessa, che chiude circolarmente il film, manifesta chiaramente i referenti cinematografici: l’ambientazione sovraccarica della stanza, la tensione emotiva dei commensali, foriera di follia, nascosta dietro una forzosa tranquillità, e, soprattutto, il particolare delle candele nere, nei candelabri sul tavolo, rimandano all’archetipo del film gotico italiano, Malombra (1943) di Mario Soldati, in cui un’analoga cena risolutoria si svolgeva in una veranda ventosa. La cena di Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, così come quella di Malombra, è una cena funebre: in tutti e due i casi la protagonista femminile decide un destino di morte per l’uomo che più ha amato, in modo morboso e malato, nella vita. La triplice differenza di segno dei tre elementi principali del film (l’intreccio melodrammatico, i personaggi grotteschi, l’ambientazione gotica) è riunita dal regista in ogni inquadratura e gli permette di dare al racconto un andamento surreale, con forti interruzioni di tono: come nella sequenza del ricevimento in casa della contessa, quando eminenze e nobili discutono con Mafalda dei turbamenti sessuali e mentali di Didino, ricevendo dalla madre risposte rassicuranti, mentre Didino entra improvvisamente, 4

correndo nudo, con un elmo in testa ed una cartucciera in vita, urlando con accento tedesco, tra lo sbigottimento generale: «Libertà sessuale per i figli. Mamme a casa». Così l’impossibile storia d’amore tra Didino ed Angela è condotta secondo i modi dell’ “amour fou” surrealista: tanto più la ragazza subisce le torture e le sevizie della contessa, tanto più Didino le si avvicina, desiderando un contatto sempre più carnale. Inizialmente la spia mentre fa il bagno, poi morde gli stracci con cui si è asciugata. Quando la contessa Mafalda comincia a punire la ragazza, Didino le fa regali sempre più consistenti: le nasconde i soldi nel libro di preghiere, le regala lo smeraldo, dono nuziale della madre. Quando li scoprirà, la contessa picchierà e spoglierà Angela per cercare la pietra e Didino spierà la ragazza nuda e sofferente sul tavolo della cucina. Poi, salito nella sua camera, la curerà, spalmandole una pomata su tutto il corpo pieno di piaghe. Infine, nascosto sotto il letto, depositerà sul corpo di Angela

delle monete sulle parti intime,

costringendola a denudarsi; ma non riuscirà a fare l’amore. Per riuscirci, la ragazza dovrà infilarsi in una bambola gonfiabile. Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno si presta a differenti piani di lettura: un grottesco sull’abnormalità, una storia d’amore folle, un melodramma dalle implicazioni psicanalitiche, una favola nera (l’ultima, delicata, inquadratura è per le bolle di sapone, provocate dal respiro mozzato di Didino nella vasca, che si librano in aria e si depositano sul volto di Angela, in attesa, sotto la finestra del bagno, di un amante che non arriverà). La moltiplicazione dei significati è affidata ai particolari delle inquadrature, estremamente calibrate nel taglio, nella profondità e nei movimenti interni dei personaggi: come nella sequenza in cui Didino sbeffeggia la madre fingendo di cadere per le scale come Driade, e la contessa scopre il legame tra lui ed Angela (che si affaccia dalla sua stanza chiedendo cosa sia successo), risolta con un gioco di sguardi tra i personaggi e con la profondità di campo (la contessa, Didino ed Angela si trovano ognuno ad un diverso pianerottolo della tromba delle scale): si capovolgono i rapporti di forza tra i personaggi (quando Mafalda scorge Angela sulle scale capisce i suoi rapporti con Didino: le espressioni dei personaggi cambiano istantaneamente) ed il tono del racconto si rompe, passando dal grottesco al melodramma. Salce

ha

raggiunto

la

propria

maturità

stilistica, fondata

sulla

composizione

dell’inquadratura e sulla rilevanza dei particolari apparentemente secondari, che perfezionerà con il successivo Fantozzi (1975). L’anno dopo, infatti, l’editore Rizzoli ha l’intuizione di portare sullo schermo le avventure del rag. Ugo Fantozzi, personaggio che Villaggio aveva inventato per la televisione ed a cui poi aveva dedicato alcuni racconti, riuniti nei volumi Fantozzi e Il secondo tragico libro di Fantozzi. 5

Villaggio costruisce un personaggio originale, pur esibendo i rimandi alla tradizione, anche letteraria, del comico. La critica rintraccia facilmente i modelli, da Gogol’ - «Più ancora e in modo più continuo di Rascel del Cappotto, Villaggio ha fatto rivivere il senso dell’umorismo gogoliano e immesso il soffio di una tragica grandiosità in personaggi come Fantozzi»3 - a Swift - «Rivisti a distanza di tempo, questi film che alla loro uscita fecero sbellicare dalle risa lasciano sgomenti, imbarazzati: non si ride più, se non istericamente, siamo nel regno dello Swift che proponeva di mangiare i bambini per risolvere il problema della fame»4. Rispetto ai facili referenti cinematografici - i film impiegatizi con Renato Rascel, L’impiegato (1960) di Gianni Puccini - Fantozzi è orientato verso un grottesco metaforico e spietato, senza patetismi, più vicino al surrealismo di un vecchio film di Steno e Monicelli, Totò e i re di Roma (1951), suo autentico modello. Giacovelli traccia una precisa ricapitolazione del personaggio e delle storie: Fantozzi è l’ultima grande maschera della commedia dell’arte, la più importante del ‘900 insieme a Totò […]. Mentre però le altre maschere italiane (Pulcinella, Arlecchino, Totò) risultano quasi sempre, se non proprio dei vincenti, quanto meno dei vincitori, Fantozzi è un perdente nato, un professionista della scalogna e della sconfitta, come Paperino o Wile Coyote: maschera decadente, di fine civiltà. Sempre con un piede nella metafora, può finire a fare il parafulmine sul tetto di un palazzo o essere servito in salmì nelle cene dei ricchi. Il suo subire è automatico, fisiologico, quasi logico in questo universo di «eschi», «venghi», «no, venghi lei», «ma com’è umano Lei». Padrone di Fantozzi non è soltanto il padrone in senso stretto, il mitico e quasi inesistente «direttore megagalattico»: suo vero padrone è il consumismo, la sottocultura di massa che promette la felicità nel momento stesso in cui la rende impossibile. E al di là del personaggio anche i suoi film, che poterono sembrare a prima vista rozzi e approssimativi, offrono un ritratto impressionante e allucinante della vita impiegatizia, con il suo grigiore preordinato, le ingiustizie regolamentari, le miserie senza scampo, le consolazioni senza gioia (la cosa più triste sono le gite di piacere). Perfino l’amante ideale, l’incarnazione dell’eterno femminino, la ragazza dei sogni, non è più una donna procace come nel vecchio L’impiegato di Puccini, ma una donnetta scheletrica, orribile, sboccata. Dietro il velo dell’iperbole, i Fantozzi rispecchiano meglio di tante opere realistiche una precisa situazione sociale, così intimamente esasperata e iniqua da poter essere resa appieno soltanto attraverso l’esagerazione linguistica: non è il cinema, è la nostra società che è abnorme, che prevede padroni con poltrone in pelle umana e impiegati che non hanno mai visto un pomeriggio di sole.5

L’apporto di Villaggio fu fondamentale a livello di sceneggiatura: nella proposizione di un nuovo tipo di umorismo, un «grottesco normalizzato»6, la composizione di personaggi stravaganti, l’invenzione di situazioni originali ed eccentriche. Ma l’organizzazione cinematografica dei racconti fu merito assoluto di Salce, come ricorda il direttore della fotografia Erico Menczer7. In Fantozzi (1975) e Il secondo tragico Fantozzi (1977), Salce dà volto e consistenza a personaggi e fatti caricaturali ed eccessivi, segnati, sulla pagina letteraria, da un gusto 3

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995, pp. 305-306 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 82 5 Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., pp. 134-135 6 Ivi, p. 135 7 cfr. Appendice. 4

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del grottesco surreale ed iperbolico quasi impossibile da trasporre visivamente. Il regista (anche sceneggiatore con Benvenuti e De Bernardi) sposta personaggi, confonde i tipi, contamina gli episodi. Nelle due raccolte di racconti di Villaggio, il compagno di disavventure era Fracchia, l’organizzatore di divertimenti e gite aziendali: al cinema diventa l’occhialuto e magro Filini (l’attore Gigi Reder, divenuto proverbiale nel ruolo del personaggio semicieco, che porta «occhiali doppi tipo civetta»), che nei racconti era presentato così: «Quarantasei anni, 99 cm di statura […] completamente calvo»8. Acquista consistenza il personaggio di Calboni, «di gran lunga il più odioso dei suoi colleghi

d’ufficio.

[…]

Calboni

era

un

disinibito,

odiosissimo,

stronzo,

stupido,

9

bugiardissimo e fastidiosamento profumato con Tabacco d’Harar» . Laddove i caratteri sono rispettati la visualizzazione è puntuale: «la signorina Silvani […] non era certo una bellezza, anzi a voler essere un po’ severi era un “mostrino” di gamba corta all’italiana, denti da coniglietto e capelli tinti»10. La rielaborazione degli intrecci dei racconti, procede con lo stesso sistema di contaminazione, smussando le iperboli letterarie ed accentuando la fisicità farsesca delle situazioni. Tra i racconti di Fantozzi, ce n’è uno, La sfida calcistica tra quarantenni, che narra di una partita di calcio tra gli impiegati scapoli ed ammogliati dell’azienda. Lo stile di Villaggio è quello di un barocco ridondante ed iperbolico, sfrenatamente irrealistico: Al 36’, calcio di rigore. Si incarica del tiro Fracchia, emozionatissimo. Prende la rincorsa da dietro le colline e viene giù al galoppo. Nel campo si era fatto un grande silenzio. Fracchia entrò dalla porta del palio. Giunto all’altezza del dischetto gli partì la scarpa dopo aver mancato decisamente il pallone. La scarpa centrò in pieno il portiere sgranandogli tutti i denti. Il portiere (che era sceso in campo, su consiglio di alcuni politicanti, in completo grigio, chiavi incrociate agli occhielli, berretto gallonato e guanti bianchi) rimase un attimo ondeggiante e poi andò a cemento. L’arbitro che vide la scarpa rotolare in porta, fischiò la prima rete. Il punteggio, che fino a questo momento era rimasto bloccato sullo zero a zero, degenerò decisamente: 5 a 8, 11 a 20 e poi 38 a 24. Erravano per il campo dei calciatori miopi, ormai quasi ciechi, avendo perso gli occhiali nelle mischie, che colpivano sempre i compagni di squadra in nuca, credendo di respingere la palla. Scoppiarono quindi delle risse feroci, Bulbem, un mostro dell’ufficio sinistri, staccò netta un’orecchia, con un morso, a Fantozzi. Il capo del personale se la mise in tasca e la portò a casa per farla trapiantare su un suo cugino che aveva un udito irregolare. La partita fu sospesa per oscurità al calar della notte.11

Salce, in Fantozzi, sceglie di ambientare la sequenza in un campo di periferia in terra battuta (vicino Ponte Marconi), concentra l’attenzione sui tre personaggi principali del film: Fantozzi, Filini e Calboni. Sceglie un tono realistico di partenza, raccontando le fasi della partita, modellandole sulle caratteristiche dei personaggi: Filini è l’arbitro cieco che, durante una punizione, posiziona la barriera dietro la linea di fondo; Calboni, che si sa adattare ad ogni situazione, è l’autore del gol vincente, che esulta come se fosse in una 8

Paolo Villaggio, Fantozzi, cit., p. 116 Paolo Villaggio, Il secondo tragico libro…, cit., p. 103 10 Paolo Villaggio, Fantozzi, cit., p. 13 11 Ivi, p. 117 9

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finale mondiale: «Ueh, ho fatto gol! Ho fatto gol!»; Fantozzi fa due autoreti, liscia un calcio di punizione, viene anticipato su un calcio d’angolo, è fermato durante una discesa vincente dalle palpitazioni. Procedendo la sequenza si fa sempre più surreale: la nuvola dell’impiegato, che ammorba gli impiegati durante le vacanze, scatena sul campo un temporale che riduce il terreno ad una piscina: i giocatori nuotano, sprofondano nelle buche ed hanno delle visioni. Salce mostra la sua impronta disseminando la sequenza di rapide gag che illuminano un’intera situazione. E’ esemplare la scelta di campo iniziale, affidata alla monetina: Fantozzi sceglie testa, Calboni pari, Filini getta la moneta in una pozzanghera, tutti i giocatori si mettono carponi alla ricerca della moneta. La caratteristica stilistica di Salce è il particolare rivelatorio, il dettaglio rapido e improvviso, nello scorrere del racconto, che carica di nuovi significati la situazione narrativa. Il critico letterario Giacomo Debenedetti chiama questa funzione “epifania” e «fonda su di essa la fisionomia del romanzo del Novecento»12. Scrive Debenedetti: (Nella narrativa tradizionale) quando quegli oggetti compaiono dicono ciò che devono dire, ciò che la loro concreta immediata presenza dice, entrano, operano e sono inghiottiti nel ritmo della vicenda, che è il solo semmai a sprigionare un senso, che i singoli fatti ed oggetti ignorano. Sicché al romanziere basterà di rappresentare quegli oggetti: quanto più efficace sarà stata la resa, tanto più egli si riterrà soddisfatto, persuaso di aver assolto il proprio compito. Lo sconfinamento di questi oggetti o fatti in qualcosa che sta dietro di loro, di là da loro, e mette intorno ad essi un alone da cui sembrano emanare messaggi: tutto questo dipenderà dal dono poetico del romanziere, non è l’obiettivo della sua specifica ricerca di narratore. […]13 Il futuro romanziere nuovo, si sente colpito da fatti per sé insignificanti, che, in quanto non servono, e perciò si epifanizzano, arrivano a un potere manifestante. Detto in un modo molto approssimativo: è come se il mondo si fosse dualizzato in ciò che appare e in ciò che viene manifestato da quanto appare. Ma che cosa viene manifestato? […] Claritas è quidditas. Quiddità è anch’essa una parola della scolastica […] e significa la qualità essenziale, il quid per cui una cosa è quella che è. La claritas sarebbe dunque quel raggiungimento artistico grazie al quale la cosa rivela, attraverso la sua rappresentazione, la propria qualità essenziale. “ La sua anima, la sua identità balzano verso di noi oltre i veli dell’apparenza”.14

Essendo un film, come un romanzo, opera di narrativa, le valutazioni di Debenedetti sono valide anche per quello che riguarda Salce. E’ il naturale approdo della ricerca, da parte del regista, di «una modernità di struttura narrativa»15 che Morandini aveva già osservato ne La voglia matta e che Salce stesso aveva rivelato a proposito di Come imparai ad amare le donne (1966): «Massima libertà di sviluppi narrativi e possibilità di sganciarsi anche di tanto in tanto da una rigorosa successione temporale e via di questo passo. Per esempio: luoghi del mondo moderno, con le più evidenti tracce della modernità, cioè mettendo in primo piano certi dettagli che forse oggi sono una eccezione nell’insieme e costituiscono un’anticipazione nel futuro

12

Walter Pedullà, Le caramelle di Musil, Rizzoli, Milano, 1993, p. 242 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1971 (1996), p. 292 14 Ivi, p. 293 15 Morando Morandini, Stasera, 16.3.1962 13

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immediato»16. Salce è, fondamentalmente, un osservatore: di personaggi e dei loro comportamenti. Come il protagonista, io-narrante, del suo racconto Avenida: In mezzo alla folla di São Paulo, dove i colori, i vestiti, i baffetti si alternano monotoni e compongono una massa bruna e malinconica, veder emergere una faccia rosea e rasata, assolutamente europea, ci fa riandare colla memoria a certe Pasque dell’infanzia e al gioco frenetico di individuare per primi il gelido e perfetto uovo di zucchero nascosto tra le uova sode più vive e irregolari. Nel cuore della Cina il passaggio di un bianco deve essere salutato con la stessa mescolanza di curiosità e diffidenza. Se poi quel volto risulta vagamente familiare, subito si presenta la molesta necessità di localizzarlo, di collocarlo nel tempo oltre che nello spazio: stabilire se è compagno di collegio, di servizio militare, di università, di viaggio – ma quale viaggio? – o semplicemente un vicino che incontriamo in ascensore e che senza ascensore non sappiamo più riconoscere17.

Gli intrecci dei suoi film procedono per annotazioni fulminee, frantumando l’intreccio in numerosi episodi, personaggi, situazioni. Talvolta le opere si presentano frammentarie (La cuccagna è il caso limite), ma, progressivamente, il gusto dell’osservazione accresce i particolari di una funzione epifanica. Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi (e tutti gli altri film di Salce) sono cosparsi di questi particolarie: oltre alla scelta di campo della partita, è importante ricordare la sequenza del varo della turbonave della ditta ne Il secondo tragico Fantozzi. Sul porto di Genova (nella finzione, in realtà Civitavecchia) una folla festante è radunata: sono impiegati dell’azienda di Fantozzi, personalità importanti, rappresentanti del potere. Ognuno sventola una bandierina tricolore di plastica. L’obiettivo della mdp cerca tra la folla Fantozzi: anche lui sventola la sua bandierina. O meglio tenta: perché a lui, unico tra la moltitudine dei personaggi, la bandierina si è arrotolata sul supporto. Così, invece di sventolare esultante, agita un bastoncino monco. E’ una scena che fa ridere, ma dietro la brillantezza di superficie, quel dettaglio ci svela, improvvisamente, il senso profondo del personaggio Fantozzi: l’impossibilità di essere normale, nonostante tutti gli sforzi compiuti sulla strada del conformismo. Nella stessa macrosequenza narrativa (comprendente il varo della turbonave e il ricevimento della villa), un altro particolare rileva la satira della classe aristocratica, vista come un “entourage” di vecchi storditi (in primis la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare che impiega un’intera giornata per varare la nave, mietendo vittime tra gli incolpevoli convenuti) e, letteralmente, rintronati: la centoduenne baronessa Firinguelli de Bonchant («mascotte a vita della società»), gettata a mare dalla ciclonica Serbelloni Mazzanti, cozzerà contro la nave, facendola rintronare. Numerosi sono i dettagli rivelatori, sparsi nei due film, che permettono una decodificazione ulteriore alla visione iniziale, organizzando, dai particolari, un sistema 16

Anonimo, Salce e l’educazione sentimentale dei giovani, in Cinema ’60, n. 57, mar. 1966, p. 57 17 Luciano Salce, Cattivi soggetti, Rizzoli, Milano, 1981, p. 51

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universale di idee. La refrattarietà di Fantozzi ad essere servito (ha paura di essere derubato: in Fantozzi litiga con la guardarobiera che vuole togliergli il cappotto, durante il cenone dell’ultimo dell’anno; ne Il secondo tragico Fantozzi picchia l’inserviente dell’Hotel Quisisana di Capri che vuole portargli le valigie) è la prova di una ben allenata attitudine a servire; la volgarità della classe dirigente è indelebilmente incarnata in Fantozzi nella figura del conte Diego Catellani, sigaretta con bocchino al lato della bocca, andatura sostenuta, adorazione della madre, linguaggio volgare e plebeo («Chi non scatta niente scatti, ve lo dice uno che viene dalla gavetta e che si è fatto un mazzo così»); mentre l’irraggiungibilità del padronato è visualizzata dall’aura mistica che lo circonda. In questi due film ci sono molti riferimenti mistici, al limite della blasfemia, in cui l’epifania assume un significato cristiano: Fantozzi è tormentato da incubi e visioni, quasi fosse l’agnello sacrificale in una società irredenta. In Fantozzi, inchiodato su una barca con Filini, vede Gesù camminare sulle acque ed ha con Lui (che parla ciociaro) uno scambio memorabile di battute - «Avete pesci?», «Non abbiam pescato!», «Avete pani?», «Doveva portarlo lui!», «No, lui!», «E allora che m’a murtiprico io?» - che attualizza l’impossibilità di effettuare miracoli che migliorino la posizione contingente della gente comune; ne Il secondo tragico Fantozzi si crede addirittura incinto del Salvatore e va a partorire in una clinica nei pressi di Agrigento (chiedendo stupito ai medici: «Ma non si era stabilito Betlemme?»). Al di là della consacrazione del particolare epifanico, testimonianza di una raggiunta maturità stilistica, la regia di Salce si segnala in questi due film per la capacità di saper organizzare tutti gli elementi tecnici in una perfetta corrispondenza tra di essi: la musica, il montaggio, i movimenti di macchina (come sempre, tutti gli stacchi e gli attacchi delle inquadrature sono in movimento), la scenografia (ogni luogo fu scelto da Salce dopo accurate ricerche), la fotografia sono perfettamente calibrati nella costruzione delle gag. Si possono citare: il montaggio analogico (l’analogia è nel commento musicale) che permette, in

Fantozzi,

di

passare

dall’allucinazione

del

miracolo

di

Gesù

della

moltiplicazione dei pani e dei pesci ai festeggiamenti natalizi nell’azienda di Fantozzi; l’impostazione ritmica, quasi musicale, della sequenza della partita di biliardo tra Fantozzi e il conte Catellani, che intreccia motivi psicologici (gli sguardi tra Catellani e Fantozzi stabiliscono i rapporti di forza; quelli tra Fantozzi e la moglie Pina rendono consapevole il ragioniere della propria dignità), grotteschi (la scenografia del salone, suddiviso in palchi come un arena, con un trono per la madre del conte), lirici (le inquadrature della Pina prima commossa, poi piangente, poi soddisfatta), farseschi (il tema musicale a tempo di marcia che accompagna Fantozzi e Catellani sul luogo dell’ agone), comici (i gesti meccanici degli impiegati, che ridono e bevono a comando, succubi della potenza del conte). 10

La «grande trovata»18 registica è la ripetizione della scena della scalinata di Odessa de La corazzata Potemkin di Ejzenstejn. La sequenza è diventata famosa per il rifiuto di Fantozzi della cultura ufficiale, con una visceralità («La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!», uno «slogan dell’anticonformismo culturale»19) che, ricorda Giusti, scatenò «una serie di discussioni sulle pagine dell’Unità»20. Ma il rifacimento di Salce, il più fedele possibile (ci sono alcune zoomate sui dettagli impossibili nell’originale) e insieme comico (i soldati, guidati da Calboni, che sparano facendo: «Pum!»; Filini vestito da donna che muore al grido di: «Muoia, Filini»; Fantozzi sulla carrozzella che deve precipitare dalla scalinata, spinta dalla madre, la Silvani, morente) rende impossibile, a chi ha visto questa scena, una visione seria della sequenza originale, tanto che «per anni e anni, grazie a Fantozzi, [La corazzata Potemkin] non si è più rivista in Italia»21. Il successo di questi due film fu tale che negli anni successivi Salce e Villaggio potranno proseguire una collaborazione intensa e molto ravvicinata, affinando il grottesco di Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi, variandolo, contaminandolo con diversi orientamenti culturali. I film di questo periodo sono altrettanti tentativi di coniugare il grottesco di Villaggio con la commedia tradizionale: quella all’italiana de Il…Belpaese, quella parodistica di Sì buana, quella teatrale di Rag. Arturo De Fanti bancario precario. Salce tenta di contaminarle con il proprio stile sarcastico, fatto di notazioni rapide che mettono in burla ogni tema, anche il più tragico. La mescolanza di comico e tragico che dà forma al grottesco sarà esemplare ne Il professor Kranz tedesco di Germania (1979), in cui il personaggio protagonista porta al massimo grado il ruolo di vittima assegnatogli da Villaggio: stavolta senza speranza, poiché, inetto e dissociato, è costretto in una società disperata, quella brasiliana, in cui anche i sogni sono vietati. Il…Belpaese (1977) univa il grottesco di Villaggio con le annotazioni comico-satiriche della sceneggiatura di Castellano e Pipolo, costituendo «pur con molte approssimazioni da commedia minore, uno dei culmini del filone “accumulazione di mali sociali”: in fondo non è solo Fantozzi, è tutto il decennio ad essere fantozziano»22. Villaggio è Guido Belardinelli, che tornato in Italia dal Golfo Persico, spera di sistemarsi, aprendo coi risparmi un negozietto di orologi, ma trova una realtà invivibile, dominata dalla contestazione giovanile, dal terrorismo, dalla droga, dalla delinquenza mafiosa. Salce non tradisce la sua capacità di mettere in immagini un racconto in modo antitradizionale: ne Il…Belpaese utilizza come voce-off le parole sguaiate di un d.j. e la musica hard-rock di una radio privata, a controcanto ironico delle vicende del protagonista. Il clima di 18

Marco Giusti, Dizionario dei film…, cit., p. 683 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 237 20 Marco Giusti, Dizionario dei film…, cit., p. 684 21 Ibidem. 22 Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 135 19

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guerriglia sociale che il film mette in scena non piacque ai critici dell’epoca, che ebbero buon gioco a considerarlo un «limitativo e qualunquistico compendio di alcuni mali dell’Italia di oggi con velleità satiriche»23. Oggi Giusti può considerarlo un «grande film sul (e del) 1977. Teoricissimo. […] Villaggio è ancora perfetto e lo sono anche il fido Reder e Boldi, in un ruolo che venne offerto a Nanni Moretti negli anni di Ecce bombo»24. Sì buana, episodio di Dove vai in vacanza? (1978), è un’altra variazione del grottesco fantozziano (accanto a Villaggio c’è ancora Gigi Reder), un’operazione di contaminazione della cultura letteraria (Hemingway) con la volgarità delle commedie pecorecce (Villaggio è afflitto da una terribile aerofagia). Sì buana è una trasposizione velata ma piuttosto fedele di uno dei capolavori di Hemingway, il racconto La breve vita felice di Francis Macomber. Ne conserva le linee generali dell’intreccio (la moglie molto giovane di un anziano cacciatore approfitta di una battuta di caccia per ucciderlo, simulando un incidente) ed i nomi dei personaggi, leggermente camuffati: Villaggio è lo spiantato genovese Arturo, assunto come guida inglese che conosce lo swahili in una spedizione turistica e per questo soprannominato Wilson (come il Robert Wilson del racconto), Anna Maria Rizzoli è Margherita (nel racconto Margot), Daniele Vargas è Ciccio Colombi (il Francis Macomber di Hemingway), Peter Abadire è Kangoni (il portatore Kongoni). Per tutto il racconto, Villaggio, che narra in prima persona la storia, fa riferimento allo scrittore americano («sembra una storia di Hemingway»), svelando nel finale l’origine del racconto («si conclude così la breve vita felice di…»). La mitologia dello scrittore americano è completamente ribaltata: il portatore nero Kangoni è nato a Roma e non sa adattarsi alla vita africana, ha nostalgia delle sere passate in pizzeria con gli amici, canta «Er barcarolo va, controcorente…» (il capo della spedizione, Natali, lo redarguisce subito, dicendogli: «Tu puoi cantare solo «Bingo bango bongo/ stavo bene solo al Congo…»); i leoni muoiono di nostalgia, disadattati alla vita in savana, richiedono l’affetto dei bambini che li visitavano allo zoo. I personaggi che si aggirano in questi paraggi africani sono disegnati secondo i moduli della commedia all’italiana: sono borghesi arricchiti, volgari, corrotti ed ignoranti, di provenienza lombarda, adusi a maneggiare denaro per corrompere, comprare, adulare. Il Wilson di Villaggio è, come Fantozzi, una vittima sacrificale, destinata ad essere stritolata dalla astuzia corruttrice della borghesia benestante, dalla propria ingenuità, dalla volontà di conformarsi agli altri, dunque vittima della propria astuzia (perde tutto quando sembra trionfare). Lo spaesamento di Wilson in quest’ambiente e in questa società, il ribaltamento sarcastico dei luoghi comuni sull’Africa pura e incontaminata (l’industriale Colombi magnifica la purezza dell’aria seduto sopra una latrina a cielo aperto, dove con 23 24

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 148 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 76

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un gesto brusco spedisce, involontariamente, un suo compagno) sono a fondamento delle gag del film. Ma Sì buana non si ferma al livello della parodia: il disorientamento sociale, la disperazione del vivere quotidiano sono riassunti non tanto nel commento di Wilson,

ma

nello

sguardo

di

Kangoni,

sperso

all’orizzonte,

durante

la

cena

nell’accampamento, in una di quelle inquadrature rivelatorie tipiche di Salce. All’epoca l’episodio passò inosservato, oggi Giusti lo rivaluta pienamente: Sì buana di Salce, con Villaggio, è forse uno dei capolavori della coppia. Magistralmente scritto da Continenza e Scarpelli […] Le scene migliori mostrano Villaggio alle prese con il cibo africano in duetto con il nero che parla romano Kangoni. Dopo aver inghiottito un pezzo di animale arrosto, Villaggio chiede cos’è. «Dopo» dice Kangoni. «Dopo?» chiede stupito Villaggio. «Dopo», ripete Kangoni. «Ma dopo…dopo…dopolino?» chiede impaurito Villaggio. 25

La maschera fantozziana tornerà anche nella pochade Rag. Arturo De Fanti bancario precario (1980), in cui Villaggio è un impiegato alle prese con il male di vivere dell’epoca: dissesto finanziario (nonostante viva in un castello ereditato), delinquenza dilagante. Il quadro sociale è affine a quello de Il…Belpaese: le rapine in banca sono all’ordine del giorno (nel film precedente, il banchiere aveva i sacchi da ormai assuefatti, discutono

tranquillamente

rapina; in questo i bancari,

dei problemi familiari), i passanti vivono

nel terrore degli scippi, l’amante «è una necessità come tutte le cose superflue» («E’ come la televisione: è noiosa, ma in casa ci vuole») e contribuisce all’economia familiare («Un’amante fuori è un’emorragia continua, in casa invece è un risparmio»). Ma la satira di costume (c’è perfino un prete che, intrappolato nel traffico, dà l’estrema unzione per telefono) è secondaria rispetto al gioco degli equivoci della farsa. Il grottesco è presente nei dialoghi, che normalizzano una situazione assurda, con tono surreale («La rana è morta, il dottor Morpurgo è vivo, come donna è sterile e quindi cambiamo argomento» dice De Fanti).

25

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.238 13

Capitolo 6. Il teatro s’incontra con il cinema: la pochade (da Le pillole di Ercole a Vediamoci chiaro)

Le pillole di Ercole (1960), Ti ho sposato per allegria (1967), L’anatra all’arancia (1975), La presidentessa (1977) segnano la continuità dei rapporti di Salce con il teatro, anche nel momento in cui sembra averlo abbandonato, per dedicarsi totalmente al cinema. In realtà, il legame di Salce con le origini teatrali fu sempre molto stretto, sia per quanto riguarda la scelta di temi e ambientazioni dei suoi film, sia per quanto riguarda il ritmo, la scansione narrativa – sempre molto matematica – e la recitazione degli attori, a cominciare dalla propria, nei suoi film e in quelli altrui (soprattutto nei grotteschi di Vittorio Sindoni) sempre piacevolmente fuori dalle righe. Il suo interesse era rivolto soprattutto verso le commedie borghesi, in cui l’intreccio amoroso subisse una stilizzazione verso il puro meccanismo narrativo. La preferenza di Salce andava perciò alle pochade francesi e al loro scatenato ritmo danzante, anche al cinema. Tali sono Le pillole di Ercole, da una farsa di Hennequin e Billhaud, e La presidentessa, da Hennequin e Veber. E’ inglese, di Home e Sauvajon, L’anatra all’arancia, ma il tema è analogo e Salce lo tratta con lo stesso stile pochadistico. Ti ho sposato per allegria è una commedia in due atti di Natalia Ginzburg che Salce ridusse anche per la radio ed alla cui stesura partecipò attivamente, come ricorda egli stesso: La Ginzburg mi consegnò, a casa della Asti, tirandoli fuori da una borsa della spesa, dei fogli che contenevano dei dialoghi deliziosi, ma non ancora una commedia. Credo di averla tirata fuori io la commedia da questi fogli, dando loro una forma teatrale. Da tre ho fatto due atti con un intermezzo, inventando l’ambiente del bagno. La Ginzburg fu molto contenta1.

La trasposizione cadenzata di queste commedie dimostra un interesse immutato negli anni, una vera e propria adesione incondizionata al genere. L’estensione cronologica tra un film e l’altro motiva il differente approccio del regista verso la pochade. La prima versione di Le pillole di Ercole è un movimentato racconto, in cui la regia di Salce si dedica alla scansione geometrica dei momenti dell’intreccio: il montaggio, il taglio delle inquadrature, i movimenti di macchina sono in funzione della perfezione architettonica del racconto. La comicità nasce, più che dalla recitazione degli attori, dall’accelerazione del ritmo delle sequenze, talvolta frenetico e stilizzato. Ma la seconda versione della pochade, Una moglie, due amici, quattro amanti (1980, Michele Massimo Tarantini), cui Salce partecipò solo come attore (era il coprotagonista, insieme a Renzo Montagnani) è una «versione ad alta percentuale voyeuristica […] (che) si segnala soprattutto per le

1

Fofi-Faldini, L’avventurosa storia…, cit., p.379

1

deliranti scorrerie mandrillesche di Renzo Montagnani»2. Se, nel 1967, Ti ho sposato per allegria è un divertimento «brillante e un po’ fatuo»3, otto anni dopo, L’anatra all’arancia è «una commedia di sapore francese»4, in cui «il gioco scenico trova nel dialogo brillante e nell’arguzia delle situazioni efficaci supporti»5, ma «in una versione giustamente involgarita»6, che rende vitale una struttura che «riportata pari pari sullo schermo sarebbe apparsa un po’ imbalsamata»7; e il quasi consecutivo La presidentessa orienta il proprio interesse verso la satira politica, appoggiandosi, anititeticamente a Le pillole di Ercole, sulla personalità degli attori, «bravi professionisti del brillante: una effervescente, aguzza, spiritosa Mariangela Melato, un disinvolto Johnny Dorelli nella doppia parte del ministro e del nipote, un Gianrico Tedeschi argutamente pittoresco»8. Lo scambio degli amanti, il moltiplicarsi dei tradimenti amorosi, l’unione, la dissoluzione e la riproposizione di nuove coppie, caratteristiche appariscenti di queste commedie, non devono precludere l’analisi dei momenti satirici presenti in queste opere. Ti ho sposato per allegria inserisce, in una struttura da commedia sofisticata9, un motivo sociologico: l’attrazione di Pietro per una moglie dissennata ed estranea alle regole del matrimonio borghese (non è una massaia, ma una sognatrice), che ama tanto più la donna evidenzia la propria eccentricità. L’anatra all’arancia stravolge il finale della commedia originale e ricomponendo la coppia di fedifraghi, Lisa e Ugo, compie «a modo suo […] un inno alla famiglia e al matrimonio indissolubile»10. La presidentessa, aggiornando la storia agli anni ’50 e ambientandola nel Veneto, ripropone atmosfera e situazioni di Signore e signori (1966) di Pietro Germi (che era stato il regista della precedente

versione

cinematografica

della

pochade,

nel

1952),

«vivacemente

intenzionato a sposare la vecchia pochade alla critica di costume»11, presentando una «classe politica di erotomani»12. L’aggiornamento avviene anche sul piano stilistico: all’eleganza di Ti ho sposato per allegria fa seguito la maggiore licenziosità di L’anatra all’arancia e La presidentessa, ricchi di scene sboccate e maliziose, di nudi femminili: quello di Barbara Bouchet, sempre spogliata ne L’anatra all’arancia nel ruolo della segretaria Patty, è scultoreo e mostrato 2

Bertolino-Ridola, Vizietti all’italiana…, cit., p. 127 Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere…, cit., p.89 4 Ivi, p. 128 5 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva…, cit., p. 227 6 Marco Giusti, Dizionario del cinema italiano…, cit., p. 30 7 Ibidem. 8 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 252 9 «Salce […] ha spazzolato il suo stile, restituendogli il candore femminile che è proprio del testo della Ginzburg. […] Ha inoltre rispettato l’eleganza verbale […] ha portato un tono nuovo in un campo solitamente dominato da oscenità da caserma» (F. Rinaudo, Film Mese, 8/9 settembre 1967 in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema…, cit., vol. 3, p. 546) 10 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini 1999, Zanichelli, Bologna, 1998, p. 71 11 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 252 3

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con una disinvoltura che le permette di ritagliarsi «uno dei suoi migliori ruoli in assoluto»13. La ricerca di un ritmo cinematografico che spezzi la staticità teatrale è alla base dei flashback di L’anatra all’arancia, «fragili inserti grotteschi (dove i protagonisti, sicilianizzati, immaginano di vendicarsi con la lupara sul coniuge fedifrago)»14 che, come in alcuni precedenti film di Salce (La voglia matta, Basta guardarla) spezzano il tono della vicenda, rivelandosi un corpo estraneo all’intreccio. Ma anche Le pillole di Ercole contenevano delle scene oniriche (le allucinazioni di Manfredi in preda all’effetto delle pillole), che mostravano la volontà dell’esordiente Salce di padroneggiare i mezzi espressivi del cinema. Perfettamente padrone dei meccanismi del racconto, Salce è pronto nel 1980 a scriversi e dirigere Rag. Arturo De Fanti bancario precario, in cui mette a punto la geometricità della struttura, adattandola alla recitazione grottesca del protagonista Paolo Villaggio. Il gioco delle coppie delle commedie condotto

al

limite

estremo:

degli

equivoci,

in

questo film,

è

ogni personaggio è legato sessualmente ad un altro, in

una catena che segue il principio del domino. C’è il marito (Arturo De Fanti), la moglie (Elena, Catherine Spaak), l’amante del marito (Vanna, Anna Maria Rizzoli), l’amante della moglie (Willy, Gigi Reder), la moglie dell’amante della moglie (Selvaggia, Anna Mazzamauro), l’amante della moglie dell’amante della moglie (il conte Ernesto, Paolo Paoloni), il marito dell’amante del marito (Libero, Carlo Giuffrè). L’interlinearità dei rapporti era ben esplicitata nella frase di lancio del film: «Per la soluzione dei vostri problemi Paolo Villaggio vi consiglia la comune: la moglie, l’amante del marito, l’amante della moglie del marito e…l’amante della moglie dell’amante della moglie del marito»15. Più che alla conoscenza di Labiche (facile autore di riferimento cui rimanda erroneamente Paolo Mereghetti16), Salce si rifà a quella di Achille Campanile: Rag. Arturo De Fanti bancario precario è un gioco di parole visivo, un rebus, una tavola di parole incrociate: i rapporti tra i personaggi sono evidenziati da didascalie che li presentano durante un fermo di fotogramma (es.: “il marito”). La stilizzazione raggiunge in quest’opera il vertice massimo: tutti gli amanti sono riuniti in un’ambientazione unitaria (il castello di De Fanti, eredità familiare, funge da palcoscenico) - con pochi intermezzi in banca ed uno nel cabaret, dove si rappresenta «La bottega del carnefice» – anticipando da subito il momento culminante che chiudeva le pochade: gli scambi delle coppie, con agnizioni finali e ribaltamenti dei ruoli in un luogo chiuso (un albergo come in Le pillole di Ercole, una villa come in La presidentessa); il contesto sociale (gli anni di 12

Ibidem. Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 30 14 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 227 15 MarcoGiusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 640 16 Paolo Mereghetti, Il Mereghetti, Baldini & Castoldi. 13

3

piombo, degli scippi e delle rapine in banca quotidiane) è rapportato, con rapide notazioni, all’intreccio principale; gesti, azioni e situazioni assumono i significati di un rituale: le entrate e le uscite degli amanti dalle rispettive camere da letto, la cameriera Esmeralda che si deve alzare presto perché il giorno dopo ha «tanti programmi da vedere in Tivì», il gruppo degli amanti che, sfiancato dal gioco delle coppie, guarda la sera i programmi televisivi (momento ricorrente nei film di Salce, l’attrazione magnetica della televisione, da La cuccagna a Le ore dell’amore a Basta guardarla) e soprattutto l’ultima inquadratura, in cui la rappacificazione familiare (la famiglia allargata torna a restringersi a dimensioni normali: moglie, marito e cameriera come terzo incomodo) è espressa col movimento sincronizzato con cui i tre personaggi si portano alla bocca la tazza di caffè. L’intricatezza dei rapporti giunge all’astrazione: i personaggi di Rag. Arturo De Fanti bancario precario chiacchierano, discutono, analizzano i loro rapporti personali e sessuali, ma non concretizzano niente: il chiacchiericcio e i sotterfugi sommergono la possibilità di vivere pienamente i nuovi incontri amorosi. Quattro anni dopo, Vediamoci chiaro (1984), tenta una nuova riproposizione cinematografica di antichi schemi teatrali. Il film è «una sorta di Profumo di donna molto più ambiguo, a metà tra l’Enrico IV e Il fu Mattia Pascal pirandelliani»17: «il cieco Johnny Dorelli […] riacquista la vista ma continua a fingersi cieco per veder meglio le brutture che lo circondano»18. Dorelli è Alberto Catuzzi, imprenditore televisivo sul modello berlusconiano (è il padrone del canale televisivo Rete 99 Tele Italia Network), che, divenuto temporaneamente cieco a causa di un incidente automobilistico, «un bel giorno […] ha modo di scoprire gli inganni e i tradimenti della moglie

e del socio, e di

smascherare il doppio gioco di Eleonora, che gli fa gli occhi dolci e lo spia»19. Riacquistata la vista, Alberto, simulerà la propria cecità per trovare il momento adatto a svelare la verità e fuggire con Eleonora, con cui s’è riconciliato. L’impostazione teatrale del film è evidente: l’intreccio fondato sulla finzione, l’apparenza, gli inganni, i tradimenti; i personaggi che recitano la propria parte, invece di agire, come in Rag. Arturo De Fanti bancario precario. L’architettura narrativa è molto elaborata, anche se non intricata come nel film con Villaggio. Scritto da Franco Bucceri e Roberto Leoni (che già avevano redatto la sceneggiatura di Vieni avanti cretino), Vediamoci chiaro ostenta la propria morale in una battuta di Alberto: «Io ho visto. Ma adesso non voglio più vedere. Perché non bisogna mai guardare quello che gli altri non vogliono tu veda». A differenza delle precedenti pochade, Vediamoci chiaro è una commedia morale: è il suo pregio e anche il suo limite. Il messaggio del film non diventa 17

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 91 Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p.152 19 Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985, p. 95 18

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mai rappresentazione, ma si enuncia in lunghi dialoghi talvolta asfittici e banali, che rallentano il ritmo. E’ un «film piuma un po’ stanco e insidiato da qualche lentezza, afflitto da capocciate, ruzzoloni, e pubblicità di sigarette, ma che dice la sua moraletta con lieta amarezza»20. I momenti più felici sono quelli più meccanici, i giochi degli equivoci: la figlia Monique che fa l’amore davanti al padre Alberto che non la può vedere, lo squallido ricovero per ciechi presentato ad Alberto come un luogo idillico. Nonostante le situazioni pirandelliane, Vediamoci chiaro frequenta gli stessi salotti eleganti, la stessa società borghese del sottogenere delle commedie sofisticate. Ne è l’estrema propaggine: è infatti l’ultimo film di Johnny Dorelli, protagonista di questo filone, ormai

pronto a contaminarsi con la comicità televisiva dei film di Vanzina e

Parenti. Più che alla problematica metafisica di Pirandello, Vediamoci chiaro si rifà al pirandellismo di Aldo De Benedetti, che dello scrittore siciliano sfruttava le strutture formali. E’ comunque un film profondamente salciano: lo testimoniano le lunghe inquadrature dedicate al viaggio in barca di Catuzzi con Eleonora, dove regna un’atmosfera lieta che ricorda come i momenti più felici della sua vita Salce li trascorresse navigando; i personaggi non sono osservati con complicità, ma con sarcasmo, mostrando così tutta la distanza tra questo film e le commedie neosofisticate: «benché, arrivato al trentaseiesimo film, Salce sembri aver ammorbidito la sua vena sarcastica, il moralismo che gli è connaturato stavolta si esprime con l’amena indignazione di chi, volendo veder chiaro nella natura dell uomo, prima se ne ritrae inorridito e poi trova conforto nella forza dell’amore»21. In fondo Vediamoci chiaro è l’ultimo sguardo che Salce presta alla famiglia borghese, ai suoi problemi amorosi, alla difficoltà della vita di coppia. Ricollegandosi a La voglia matta e Le ore dell’amore, questo gruppo di commedie di derivazione teatrale e parateatrale, non fanno altro che mettere in scena le fobie sessuali e le difficoltà sentimentali delle coppie borghesi. Utilizzano la farsa invece della satira di costume, ma l’ideologia è la stessa e talvolta anche gli attori: Tognazzi, protagonista di La voglia matta e Le ore dell’amore torna in L’anatra all’arancia; Catherine Spaak la ritroviamo in Rag. Arturo De Fanti bancario precario; Monica Vitti è la protagonista sia di Ti ho sposato per allegria che de L’anatra all’arancia; Johnny Dorelli, oltre che di Vediamoci chiaro, anche de La presidentessa. L’amore

per

essere

veramente

appagante

deve essere

libero:

libero da

conformismi, da moralismi, da riti consumistici. Possono essere delle miracolose pillole afrodisiache a liberare l’uomo dalla propria rigidità morale e intellettuale. La libertà di pensiero e il comportamento anticonformista di un personaggio possono recuperare 20 21

Giovanni Grazzini, Cinema ’84, cit., p.96 Giovanni Grazzini, Cinema ’84, cit., p. 96

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rapporti che sembrano impossibili da mantenere (Giuliana nei confronti di Pietro in Ti ho sposato per allegria) o svelare la corruzione dietro la facciata perbenista (la ballerina Yvette in La presidentessa). Anche i tradimenti reiterati possono generare sazietà e voglia di tornare ad un regolare rapporto matrimoniale (Lisa e Ugo in L’anatra all’arancia, Arturo ed Elena in Rag. Arturo De Fanti bancario precario). Spesso queste storie si chiudono con un matrimonio o con una ritrovata serenità tra i coniugi fedifraghi. Ma il conformismo delle soluzioni, dopo tante situazioni anticonformistiche, non è tanto di Salce, quanto proprio della commedia. Lo provano due finali “diversi” come quello de Le ore dell’amore (i coniugi che tornano a fare gli amanti) e di Vediamoci chiaro (Alberto lascia la famiglia e scappa con un’assicuratrice). Il regista non pone messaggi (quando lo fa, in Vediamoci chiaro, indebolisce il racconto): osserva e racconta i suoi personaggi e i fatti compiuti. Manifesta il proprio amore per la paradossalità, nelle battute e nelle gag, fatte di annotazioni fulminee (in Rag. Arturo De fanti bancario precario, ogni volta che De Fanti alza le mani in alto, durante le rapine, strappa le camicie ed il banchiere, come in uno spot pubblicitario, gli suggerisce di cambiare candeggina). Costruisce con leggerezza sequenze volgari, come quella ne L’anatra all’arancia, in cui Ugo simula un amplesso con la propria segretaria Patty per ingelosire la moglie Lisa. I problemi di coppia, i rapporti d’amore, lo interessano profondamente. Rifarsi agli schemi teatrali, per raccontarli, gli consente di superare i propri problemi nella costruzione degli intrecci (difetti di frammentarietà, soprattutto).

Capitolo 7. «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio»: lo spettacolo popolare (Vieni avanti cretino)

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Dopo la sigla iniziale della casa di produzione, si susseguono sullo schermo, su sfondo dorato, come

titoli di testa, i nomi di Marlon Brando, Bo Derek, John Travolta. Una

leggera carrellata all’indietro ne rivela la natura di targhette posizionate sulle porte dei rispettivi camerini. Una panoramica circolare verso destra, contemporanea alla carrellata all’indietro, rivela la posizione in sequenza dei camerini, la loro rifinitura lussuosa: porte in legno di mogano, tendaggi a mantovana sugli stipiti, candele appese sui muri, poltrone. La panoramica continua fino a rivelare un’altra porta in legno, stavolta riverniciata di bianco, con la maniglia rotta e pendente verso il basso ed un pezzo di carta, appuntato sul battente, con sopra scritto Lino Banfi. La porta si apre e la mdp si sofferma sulla soglia, inquadrando frontalmente l’attore che sta sorseggiando un bicchiere di scotch, con lo sguardo rivolto verso l’obiettivo: Scotch, scotch! Roba alla grande, ragazzi. Eh, ve l’aspettavate voi qualcosa del genere? Bella, bellissima. Certo, il mio camerino non è all’altezza del loro, ma loro sono dei grossi divi americani. Che ci vogliamo fare: non è questo che conta. E’ il lavorare con questa gente di Hollywood, di Beverly Hills – squilla il telefono, Banfi risponde – Yes, Hollywood? I du du du du. Mister Banfi, yes…Come? Ah, Bo Derek e Marlon Brando non vengono più. Perché? Ah…Bo Derek è scappata con Tarzan, nella giungla. E Marlon Brando? Because? Because…s’è ingrassato 240 chili: non entra più nel jumbo jet. Ma non è carino questo, madame. Glielo dica a Mister Brando. Il signor Salce è molto arrabbiato, sa? Poi lui col signor Salce, in Italia, non lavora più. Com’ha detto Brando? Ah…ringrazia. Va bene, va bene…okay, okay. E Travolta? Ah, non si sa se viene. E come sarebbe a dire, non si sa!! Mi scusi tanto, signorina, no, io grido, perché, no…no…viene o non viene?! Vabbè, venga o non venga, non me ne frega niente. Anzi, manco lo volevo nel film mio. Ce lo dica papele papele a questo signor Travolta, che a me manco mi piace, che deve essere anche uno malaticcio e mezzo pazzo, che il sabato sera s’imbrieca e poi ci viene la febbre. Anzi, sa cosa ci diciamo, noi italiani, a questi divi che non vogliono venire qua? Go to day kill! Andate a morire ammazzeti. – riattacca – E mi sono sfogato! E che roba è! Non si fanno queste cose! Abbiamo speso 87 milioni per fare quei camerini, tutti lussuosi, tutti belli hollywoodiani…e a me che mi hanno rinchiuso qua dentro, in questa cosa brutta, schifosa, che sembra un cesso. Che sembra…no, che sembra. Che è: è un cesso – lenta carrellata all’indietro a scoprire l’arredamento della stanza: Banfi è seduto sul water. Si alza, la mdp indietreggia – Meno male che c’è Luciano Salce: Luciano Salce è una persona squisitissima, con lui lavoro veramente volentieri. S’è creata una specie di simbiosi, tra me e Lucieno, chè la fine del mondo. Veramente. Poi vedrete. Perché ha capito la mia provenienza, la mia cultura, la mia intelligenza… Voce di Salce (fuori campo): - Vieni avanti, cretino!

Partono i titoli di testa, sulle note della canzone che dà il titolo al film: Il Padre Eterno quando fece il mondo, / lo disegnò quadrato, però gli venne tondo/ e poi sbagliò dell’uomo il modellino,/ il primo venne dritto, ma l’altro un po’ cretino./ Se tu sei cretino lo sai solo tu,/ quando uno è scemo, è scemo pure nel Perù./ Il Padre Eterno, allora, un po’ sudato/ si tolse lo stivale e fece il nostro stato/ ed erano ottocento cittadini/ seicento deputati e duecento cretini./ Lo dice il padrone al contadino:/ Oh… oh… vieni avanti cretino!/ Risponde l’operaio al suo padrone:/ Oh, oh, oh, oh…vieni avanti frescone!/ Sì, sì è proprio così, oh, yes, ja, mais oui…

Nei quattro minuti del prologo di Vieni avanti cretino è condensato tutto il cinema di Salce: il piacere di giocare con il cinema, i rimandi immediati all’attualità (la satira spicciola sullo spettacolo), i riferimenti alla comicità dell’avanspettacolo, la centralità dell’attore nelle sequenze, la perfetta scansione dei tempi comici nella costruzione della gag (in questo caso la scoperta della vera natura del camerino di Banfi). 2

Vieni avanti cretino non ebbe successo di critica: Banfi, che lavorando con Salce pensava di «rifarsi una verginità»1 dopo anni di commedie con Vitali e la Fenech, fece notare, nella sua autobiografia, che alla morte di Salce, quando sui giornali apparvero le filmografie del regista, Vieni avanti cretino non venne nemmeno citato2. Ebbe però successo di pubblico, superando la quota dei tre miliardi d’incasso, nel 1982. L’itinerario di Pasquale Baudaffi (Banfi), alla ricerca di un lavoro e di un rapporto d’amore, quindi del senso della vita, è l’occasione che Salce offre a Banfi di mostrare tutto il suo repertorio: un’operazione identica a quella che Steno fece con Totò per Totò a colori. In Vieni avanti cretino, Banfi strabuzza gli occhi, si picchia in testa, corre, salta, balla e canta vestito da spagnolo, si mostra nudo, in mutande, nascosto dietro veli femminili trasparenti, robotizzato, prende in testa schiaffi e piatti, si accoppia con una donna giunonica, trovando, finalmente, l’amore di una vita. E’ riconoscibile lo sforzo di riaggiornare gli sketch dell’avanspettacolo – fin dal titolo, che riprende una battuta dei fratelli De Rege, poi ripresa anche da Walter Chiari e Carlo Campanini - al gusto contemporaneo, facendo affidamento su un attore, Lino Banfi, dalla maschera molto popolare, quindi adatta a quel tipo di comicità immediata. Una comicità non molto elegante, basata sul doppio senso (che in Vieni avanti cretino raggiunge livelli virtosistici nella lunga sequenza in cui Banfi scambia uno studio dentistico per un bordello), sulla meccanicità degli equivoci, sullo scambio di battute con la spalla (in questo caso Franco Bracardi, non ancora pianista del Maurizio Costanzo Show), sull’improvvisazione (per ovviare alla scarsa durata del metraggio, Salce e Banfi decisero di aggiungere una scena improvvisata al momento, quella del dialogo tra i due pugliesi con i sottotitoli in arabo). Luciano Salce e Lino Banfi sono consapevoli di realizzare un film popolare, che soddisfi i gusti del pubblico. Il particolare rivelatorio, che svela l’essenza stessa di Vieni avanti cretino è un’esclamazione rivolta a Banfi da un personaggio del film: «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio». E’ come se l’emittente del messaggio fosse il regista ed il destinatario, non solo Banfi-Baudaffi, ma tutto il pubblico che fruisce della commedia. Già dal punto di vista stilistico Vieni avanti cretino evidenzia rimandi al filone «mediobasso comico»3 di fine anni ’40, di grande successo popolare, caratterizzato da «progressiva disarticolazione del racconto […] a segmenti legati per paratassi, che consentono allo spettatore un’attenzione indipendente verso le varie parti ed un continuo ritorno al punto di partenza, in quanto ognuno dei soggetti dell’azione gestisce, in 1

Cfr. Appendice: intervista ad Erico Menczer Lino Banfi, Alla grande!, 1991 3 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, cit. p. 588 2

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proprio, la sua storia senza grandi relazioni con gli altri. […] Questa logica valorizza le battute, le barzellette, la creazione di una galleria ricchissima di macchiette e di personaggi che si specializzano nell’interpretazione di certi tipi e figure».4 La struttura di Vieni avanti cretino è poco articolata: una serie di sketch, legati da un filo conduttore, il reinserimento in società di Pasquale Baudaffi (Banfi), uscito di prigione per un reato che non ha commesso. L’inserimento del racconto in una cornice metacinematografica, chiarifica subito la volontà di lavorare sui meccanismi comici: al prologo già raccontato, corrisponde, infatti, un epilogo in cui Banfi, soddisfatto della riuscita del film, chiede a Salce un giudizio critico sulla sua recitazione, ricevendo come risposta una scarica di torte in faccia da un gruppo di uomini, schierato come un plotone d’esecuzione. Alcuni episodi sono basati sull’equivoco: verbale (il dialogo tra Pasquale e la cognata, con il cugino Gaetano che, alle spalle della donna, suggerisce le parola) o visivo (la sequenza dell’ufficio di collocamento, costruita in crescendo, dove un direttore moralista che odia gli omosessuali si trova di fronte Pasquale vestito di abiti sempre più femminili ed in pose sempre più compromettenti: con i tacchi a spillo, vestito di velo di fronte a un monsignore, infine con le mutande calate). Altri sono poco più di barzellette: l’esame di ornitologia, il furto nel garage. I più costruiti sono gli episodi in cui Banfi mette in mostra il proprio corpo reificato, in cui i movimenti sono sfasati, irrigiditi o gommosi, il ritmo accelerato, le espressioni grottesche: la sequenza, fondata sul gioco degli equivoci, in cui fa il cameriere al bar; quella, apocalittica, della fabbrica futuristica, in cui, alienato dai compiti di lavoro assegnati da un direttore nevrotico cha fa strani gesti, perde la testa e ripete gli stessi gesti del direttore, compresa la sua frase preferita, sopra citata: «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio». Vieni avanti cretino esibisce in ogni suo aspetto lo spirito popolare con cui è stato realizzato: la presenza di attori secondari fortemente caratterizzati (Jimmy il Fenomeno nel ruolo dello scemo Raffaele, Mireno Scali sosia di Benigni, il manesco Nello Pazzafini); quella di giovani attrici piacenti, come Adriana Russo e, soprattutto, Michela Miti, che recita praticamente nuda; l’impianto scenografico poveristico, in interni spogli e convenzionali, probabilmente voluto, perché perfettamente in tono con il racconto; e poi le citazioni della cultura popolare: dai divi americani del prologo, alla vecchia “talpa” carceraria Faina, analoga all’abate Faria del Conte di Montecristo, che Antonio Gramsci considerava l’esempio del «tipo di romanzo che piace “certamente al popolo”»5. Lo spettatore è posto dagli autori in condizioni di superiorità rispetto al protagonista. Pasquale Baudaffi è un uomo comune molto mediocre. Fisicamente è brutto, 4 5

Ibidem. Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 122

calvo e

4

basso.

Socialmente

è

un miserabile: disoccupato, appena uscito di prigione. Ha un

quoziente d’intelligenza piuttosto basso: è stato arrestato perché, davanti ad una banca, ha riconsegnato, ad un uomo che ne usciva «frettoloso e freddoloso» (portava un passamontagna nel mese di luglio), una valigia che aveva perso, aggredendo due «tranvieri» (in realtà poliziotti) che volevano impedireglielo. Il racconto del suo arresto, fatto da Baudaffi al cugino, è una sequenza che ne ricorda analoghe di comici come Totò (che in Totò a colori descriveva un capostazione come «quel colonnello in borghese col cappello in divisa») e Franchi e Ingrassia (che in Indovina chi viene a merenda, 1965, di Ciorciolini, prendevano un carro armato per un trattore, poiché l’avevano trovato di fronte ad una trattoria). L’equivoco, più che verbale, è mentale: la logica del comico è altra rispetto a quella comune. Il personaggio di Banfi, in Vieni avanti cretino, è di una stupidità molto accentuata: più simile a Franco Franchi che a Totò. In questo modo, quando Baudaffi incontra i suoi datori di lavoro, la propria mediocrità lo costringe in situazioni difficili, da cui spesso esce sconfitto, ma sempre incolume, e qualche volta moralmente vincitore, poiché il comico è indistruttibile. Lo spettatore è soddisfatto nel vedere condivise sullo schermo le difficoltà del quotidiano ed ancor più lo è quando il protagonista mostra le possibilità di rivalsa. Ne è un esempio l’esame di ornitologia, in cui l’esaminatrice-virago costringe Baudaffi a riconoscere le specie degli uccelli mostrandogli solo la coda. Il poveretto, naturalmente, è bocciato, ma la sua vendetta finale evidenzia tutta la follia nascosta sotto la normalità della sua interlocutrice: quando questa gli chiede le generalità, Baudaffi si mette una scopa tra le gambe, dimena il posteriore e le impone di indovinarle. La chiave di lettura del film ce la offre la canzoncina dei titoli di testa: il mondo è diviso in cretini ed oppressori, ma il limite della stupidità è indefinibile, ed il ritornello finale lo ricorda prontamente. Gli episodi di Vieni avanti cretino sono l’esemplificazione di questa ideologia: il cretino Baudaffi ad ogni incontro con un nuovo padrone-oppressore, ne mette in mostra la stupidità fino ad allora abilmente camuffata. Quella del dottor Thomas, che nasconde la propria alienazione dietro l’impassibilità e la gentilezza del comportamento. Quella del direttore dell’ufficio di collocamento, con la sua fobia per gli omosessuali. Quella, infine, dei nobili spagnoli che, alla festa di una baronessa, scambiano il cameriere Baudaffi, mandato da Gaetano, per un cantante spagnolo chiamato “El Gitano” ed ascoltano ispirati, la sua canzone improvvisata, Filomeña: Filomeña muy hermosa/ è scappata da Canosa/ Filomeña “galopera”/ è passata da Lucera/ e con todo el mi turmiento/ l’ho cercada nel Salento/ una noche pien de pioggia l’hanno vista pure a Foggia/ jo me soy desperado/ però no me soy sparado/ sono pieno de libido/ arrapeto ed ingrifido/ e anche un po’…rincoglionido!/ L’ho cercada fino a ieri puro dai carabinieri/ Filomeña donde està?/ chi lo sas, chi lo sas/ L’ho cercada l’alma mia/ puro dalla polizia/ donde està, Filomeña donde està?/ chi lo sas, chi lo sas/ l’ho cercada, o mi amigos/ negli uffici della Digos/ donde està, Filomeña cosa fas?/ chi lo sas, chi lo sas/ Forse è andata giù a Sanremo/ ma che cacchio ne sapemo/ forse al lago de Comacchio/ noi nun ne sapemo un cacchio/ Filomeña, donde estas,

5

Filomeña?/ Cosa fas Filomeña?/ jo lo sé cosa fas Filomeña/ e porqué non me l’has digos primas?/ Filomeña…fa la puteña!!!6.

La classe dirigente è attaccata frontalmente, senza sfumature, con le invettive della rabbia popolare, puntando, nel caso, anche sul turpiloquio e l’equivoco greve (Banfi, vestito di velo, si scontra, nello studio del direttore dell’ufficio di collocamento, con un vescovo e, per scusarsi, comincia a parlare di un «rinculo»). La satira politica è ottenuta con i facili meccanismi della farsa – la baronessa spagnola è gettata nella sua torta di compleanno – ma, l’effetto – la rivelazione della stupidità dei potenti – è comunque, per lo spettatore, consolante. Con i suoi grevissimi doppisensi e con le sue ballerine smandrappate, l’avanspettacolo costituiva una sfida permanente al moralismo e al perbenismo borghese, e infatti le autorità ecclesiastiche lo condannavano senza remissione, sconsigliandone la visione “a tutti”; la sua riduttività qualunquistica e vernacolare incarnava inoltre l’irriducibilità all’inquadramento di un paese storicamente frazionato e sospettoso di qualsiasi autorità centrale7.

L’identificazione di Vieni avanti cretino con l’avanspettacolo è totale e più profonda di una riproposta di celebri scenette di repertorio: ne

eredita

la

stessa

natura di

spettacolo popolare. Se l’avanspettacolo era «la versione povera e plebea» della rivista, Vieni avanti cretino è la versione povera e plebea della commedia all’italiana. E dunque conserva quella vitalità, sanguigna e volgare, negata alla convenzionalità della commedia neosofisticata degli anni ’80. Esito paradossale di un’operazione concepita «come una celebrazione ufficiale del comico – Lino Banfi – e la sua immissione in una commedia di serie A come unico protagonista dopo anni di piccoli ruoli e film minori»8. Per verificare la veridicità di questa affermazione basta osservare il modo in cui Salce risolve, in Vieni avanti cretino, la storia di Pasquale Baudaffi: con un lieto fine amoroso che è la negazione dei buoni sentimenti e del conformistico ideale di “kalòs kai agathòs” delle commedie dell’epoca. Ridotto ad un barbone, Pasquale trova, improvvisamente, accoglienza e amore

tra

le

braccia

tornite,

i seni gelatinosi

ed i fianchi opulenti

dell’enorme Palmira, donna assetata di sesso – perché evidentemente anche lei, come Pasquale,

lungamente

astinente



cui

l’attrice e cantante Luciana Turina presta il

proprio grasso corpo . Due sgraziati individui di mezza età trovano, ad un passo dalla disperazione, il piacere di soddisfare pienamente i propri appetiti sessuali. La fisicità della loro immagine – lui in vestaglia e con una cintura sulla fronte a mo’ di bandana, lei in body, con il grasso che sembra volerle uscire da tutte le parti – è tanto aggressiva da oltrepassare, volutamente, i limiti del cattivo gusto. Il sentimento amoroso nasce in

6

Testo raccolto in Pavone, Giovannona Coscialunga…, cit., p. 16 D’Amico, La commedia…, cit., p.27 8 Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.835 7

6

qualsiasi individuo, non soltanto chi sembra fisicamente predisposto: è questo il messaggio ultimo e più soddisfacente, per il suo pubblico, di Vieni avanti cretino. Postilla Tutti i testi, dizionari ed enciclopedie che hanno analizzato l’opera di Luciano Salce, nella compilazione della filmografia del regista, hanno escluso Lo smemorato (1968), che è rimasto così per molto tempo un film misteriosissimo. In realtà Lo smemorato è un’operazione di montaggio dei due episodi di Oggi, domani, dopodomani diretti da De Filippo e Salce e rimasti orfani di quello di Ferreri, L’uomo dei cinque palloni, rimontato in lungometraggio con il nuovo titolo di Break-Up. L’operazione è tanto bislacca da essere artisticamente ingiudicabile (e forse è davvero preferibile passarla sotto silenzio), ma quantomeno è decisamente curiosa. Con un prologo girato ex-novo, per le strade di Roma e nelle stanze di un commissariato, il film inizia dove finisce La moglie bionda: Michele, venduto agli arabi dalla moglie, riesce a fuggire, nudo, per le strade di Roma. Da questo momento la storia è raccontata in flashback, utilizzando i due episodi sopracitati, diluiti e smussati di tutta la loro carica satirica in questa struttura similpoliziesca. L’abilità delirante è di dare un passato al personaggio di Michele, combinando i diversi cortometraggi, tanto differenti per ambientazione e soggetto, provocando scompensi e salti temporali da acrobati della sceneggiatura.

7

PARTE TERZA: PASQUALE FESTA CAMPANILE Capitolo 1: un affabulatore di storie dallo stile compatto. «Pasquale Festa Campanile ha avuto un “curriculum” intenso e vario, svolto sempre a passo di carica, nel quale non è facile orientarsi. La sua professionalità e i suoi interessi lo facevano passare dalla letteratura al cinema, dalla sceneggiatura al teatro, alla televisione, ma il fatto che egli tra l’inizio e la fine della su attività […] possa annoverare precisi riferimenti qualitativi, come tante “perle” di cui si può parlare senza imbarazzi, è la prova di una tenuta professionale che ha cercato di restare sempre sullo stesso livello».1 Così scrisse Zocaro, ad un anno dalla morte del regista, tracciando un primo bilancio della sua carriera. La fortuna critica di Pasquale Festa Campanile è divisa tra chi lo ha stroncato senza ritegno

(Mereghetti,

Argentieri)

ritenendolo

un

puro

confezionatore

di

opere

parapornografiche, chi lo ha criticato con pudore, intimorito dal suo passato di scrittore e di sceneggiatore di film di qualità (Morandini), chi ne ha seguito con interesse il percorso, poco esteso cronologicamente, ma molto intenso (Miccichè e, soprattutto, Grazzini): giudizi come «regista corrivo, ha sprecato una bella intelligenza e un talento autentico»2 o «Festa Campanile era un intelligente che si buttava via»3 proliferano nella letteratura critica dedicata al regista. Quella

di

Festa Campanile

è

un’opera

sottovalutata

in

tutti

i

suoi

aspetti:

cinematografici, letterari e teatrali. Ricorda giustamente Michele Prisco che Nella bibliografia di Pasquale Festa Campanile La nonna Sabella, ch’è poi il suo primo libro, è senza dubbio il romanzo che ha convogliato su di sé i maggiori consensi critici: non vogliamo dire, con questo, che la successiva produzione dello scrittore – non abbondante, a tutt’oggi, ma assai ravvicinata nei tempi di pubblicazione, dopo un intervallo d’anni da quel lontano esordio prolungatosi sino a far pensare quasi a un abbandono, da parte dell’autore, dei primari interessi per i più redditizi sentieri del cinema – abbia ricevuto accoglienze più tiepide, e tuttavia un dubbio sembra insinuarsi (e si fa credibile, e magari malizioso), e cioè che sul giudizio del narratore Festa Campanile abbia a un certo punto pesato e forse nuociuto giusto il giudizio sul regista Festa Campanile, anche troppo prolifico questi, e spesso discontinuo, così da passare disinvoltamente da opere impegnate ad altre di pura evasione e più dichiarato consumo, sin nella scelta dei titoli, non sempre felici, quando non al limite della caduta di gusto.4

Affermazione perfettamente condivisibile (e testimonianza dell’approccio critico al regista Festa Campanile), se è vero che, il giorno dopo la morte del cineasta, apparve sul quotidiano La Repubblica un articolo in cui La nonna Sabella era considerata una «raccolta di bozzetti» e gli altri romanzi «fruibili, digeribili, scritti per essere trasposti». Sul regista Pasquale Festa Campanile i giudizi lesivi, sarcastici e ironici sono ancora più 1

Ettore Zocaro, Un esempio di grande professionalità, in Sipario, dic. 1986, p. 11 Alfredo Baldi, Pasquale Festa Campanile, in Fernaldo Di Gianmatteo, Nuovo dizionario universale del cinema, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 436 3 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1000 4 Michele Prisco, Postfazione, in Pasquale Festa Campanile, La nonna Sabella, Bompiani, Milano, 1983, p. 235 2

1

evidenti: veniva chiamato il «regista-miliardo», poiché era stato l’artefice di alcuni dei più grandi successi di pubblico del nostro cinema (Qua la mano, il primo film a sfondare, nel 1980, il muro dei dieci miliardi d’incasso, e poi Culo e camicia, Nessuno è perfetto, Bingo Bongo, Un povero ricco); il critico Stefano Reggiani affermò che «faceva i film per telefono»5, poiché si diceva che non partecipasse all’edizione dei suoi film, avendone in produzione altri da girare. Un’affermazione del critico letterario Carlo Bo consente di osservare l’opera di Festa Campanile (senza disgiungere il momento letterario da quello cinematografico, che, anzi, formano un corpo unico) secondo un’angolazione nuova, capace di rivelarne i meccanismi fondanti della sua attività di narratore: «Festa Campanile […] è un narratore svelato, senza segreti, che rifugge dalla trama dei calcoli presuntuosi e inutili».6 Proprio partendo dagli ultimi romanzi pubblicati, Per amore, solo per amore (storia di Giuseppe, padre di Gesù) e La strega innamorata (storia d’un amore impossibile, nella cornice secentesca di San Martino al Cimino, tra la strega Isidora e papa Urbano VIII), è possibile, con effetto retroattivo, ritrovare una linea di coerenza molto forte nella produzione di Pasquale Festa Campanile: il gusto di raccontare storie di personaggi comuni alle prese con aspetti abnormi della realtà, osservati con atteggiamento minuziosamente psicologico, attento alla contingenza quotidiana.

La difformità tra i personaggi ed il mondo circostante

provoca la nascita delle situazioni umoristiche, senza escludere l’intervento della tragedia: il ladrone Caleb incontra fatalmente, durante i suoi vagabondaggi, Gesù e muore accanto a lui sulla croce (Il ladrone), il disoccupato Spartaco è costretto a travestirsi per trovare lavoro ed un affetto disinteressato (Più bello di così si muore), il violinista Niccolò Vivaldi è talmente avvinto della propria scarsa personalità da finire in manicomio (Il merlo maschio). Già nel 1957, l’apparizione del suo primo romanzo, La nonna Sabella, aveva manifestato le qualità di un narratore capace di «costruire un vero e proprio romanzo servendosi della memoria più come d’una struttura narrativa che d’una poetica da recuperare dopo la sua inevitabile estenuazione. La nonna Sabella è il romanzo di una donna ma è anche il romanzo di un mondo di provincia rappresentato nei suoi miti e riti ricorrenti proprio mentre sta ormai per trasformarsi sotto la spinta di un improvviso e rapido cambiamento di costume».7 Nel tratteggiare il ritratto della protagonista del romanzo, Festa Campanile profonde a piene mani nella memoria autobiografica (la famiglia protagonista si chiama Festa e vive a Melfi, paese dove lo scrittore e regista era nato il 28 luglio del 1927), riuscendo a coniugarla con una sapiente ricostruzione storica, 5

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 155. Carlo Bo, Prefazione, in Pasquale Festa Campanile, Per amore, solo per amore, Bompiani, Milano, 1983, p.8 6

2

tanto da permettere ad Emilio Cecchi di affermare che «Festa Campanile ha scritto con La nonna Sabella il libro che – riguardo alla storia del meridione italiano – non scrissero romanzieri e storici di consumata esperienza, e che per giunta sarebbero stati in tempo a largamente valersi di testimonianze dirette…La parte del libro che narra il passaggio dal Mezzogiorno al regno d’Italia, e relative delusioni proletarie, ha scorci assai efficaci. E non è meno valido il racconto dei successivi decenni»8. Del romanzo ne viene subito proposta una trasposizione cinematografica (1957), diretta da Dino Risi, che riduce la storia ad un bozzetto e costringe il personaggio della nonna Sabella in un tipo fortemente caratterizzato (la interpreta Tina Pica). Il film ha un tale successo, di pubblico e di critica (vinse l’Ulivo d’oro al Festival del cinema comico di Bordighera), da mostrare a Festa Campanile la strada da intraprendere, quella del cinema, in qualità di sceneggiatore. Aveva già tentato un approccio, nel lontano 1949, scrivendo con l’amico Massimo Franciosa un dimenticato film di Roberto Bianchi Montero, Faddija (La legge della vendetta), ma era tornato subito alla sua attività principale di giornalista (alla Rai) e critico: redattore de La fiera letteraria, per cinque anni, sotto la direzione di Vincenzo Cardarelli, autore di racconti e saggi apparsi su quotidiani e riviste, come Paragone. Al cinema era tornato nel 1955, scrivendo, insieme a Franciosa, il soggetto e la sceneggiatura di una commedia di Mauro Bolognini, Gli innamorati. Un anticipazione di temi, tempi e modi narrativi messi a punto, l’anno dopo, nel film Poveri ma belli, scritto ancora con Franciosa e diretto da Dino Risi. Da questo film in poi si distinguerà come coerente osservatore, in sceneggiature tutte scritte con Massimo Franciosa, di «temi di costume riferiti soprattutto alle fasce giovanili proletarie e piccolo-borghesi di un’Italia provinciale e insieme avventurosa»9. Lo stile di Festa Campanile e Franciosa è visibile nell’attenta calibratura narrativa, che intreccia varie storie parallele di personaggi baldanzosi e vitalistici, nella maggioranza dei casi giovani e un po’ sprovveduti, in ambientazioni storiche o contemporanee. La loro impronta è talmente forte da essere più evidente di quella di registi dalla scarsa personalità (il Franciolini di Fernando I, re di Napoli, che spreca, con una messinscena monocorde, una sceneggiatura ricca di trovate sarcastiche e romantiche, il Petroni de La cento chilometri, l’Orlandini di Tutti innamorati) o da influenzare l’orientamento stilistico dei registi con cui si legano più assiduamente: Risi (Poveri ma belli, Belle ma povere, Poveri milionari, Venezia, la luna e tu), Zampa (Ladro lui, ladra lei, Il magistrato), Bolognini (Gli innamorati, Giovani mariti, La viaccia) e, soprattutto, Visconti (Rocco e i suoi fratelli, Il gattopardo), cui forniscono due 7 8

Michele Prisco, Postfazione, cit., p. 236 Emilio Cecchi, La Fiera Letteraria, 19.1.1958 3

sceneggiature architettonicamente molto complesse (due strutture a mosaico, ricche di personaggi, ambienti, situazioni, sbalzi temporali) e la loro sapiente capacità di narrare storie meridionali. Nel 1963, Festa Campanile e Franciosa, oltre a partecipare alla realizzazione di due opere importanti come il film di Ferreri L’ape Regina e la commedia musicale, di Garinei e Giovannini, Rugantino, esordiscono nella regia cinematografica con Un tentativo sentimentale, opera che risente di influssi antonioniani e che riscuote scarso successo di pubblico e di critica: «pur denso di motivi intellettualistici e di ambizioni esistenziali Un tentativo sentimentale è un’operina decisamente convenzionale, appena riscattata da una certa abilità di costruzione narrativa e da una discreta interpretazione»10. Con il film successivo, Le voci bianche (1964), i due registi trovarono però il registro adatto alla loro ispirazione: quello della commedia satirica. Le voci bianche, che segna la fine del sodalizio tra Festa Campanile e Franciosa, contiene in nuce tutte le coordinate narrative che

il

regista

lucano

svilupperà

progressivamente:

l’ambientazione

storica,

la

paradossalità dell’intreccio che racconta un caso limite, l’interesse per la tematica erotica, il disegno umoristico di un protagonista ribaldo, insieme smargiasso e pavido, l’attenzione alla cura fotografica, scenografica e dei costumi, il ritmo sostenuto impresso al racconto. Le voci bianche rimarrà sostanzialmente l’unico successo unanime di critica di Festa Campanile: per Miccichè, «uno degli episodi di fondazione della “commedia all’italiana”

del

decennio»11,

per

Giacovelli

«un

gustoso

affresco

della

Roma

12

settecentesca» . Rimasto solo Festa Campanile sembra incerto sulla strada da prendere e tenta una riduzione da un romanzo complesso e poco ispirato di Vasco Pratolini, La costanza della ragione (1964), raccogliendo scarsi consensi. Col film successivo, Una vergine per il principe (1965) torna alla commedia, di cui accentua i toni erotici, ispirandosi alla tradizione toscana rinascimentale (Machiavelli, Bibbiena, Bruno, Ariosto) al suo gusto per la beffa ed i maliziosi doppi sensi erotici. Da allora rimarrà sempre nel genere; proseguirà nella seconda metà degli anni ’60 con una serie di commedie «che giocano con ironia sulle italiche manie sessuali»13, bersagliando con le armi del paradosso i problemi nei rapporti di coppia: Adulterio all’italiana (1966), La cintura di castità (1967), Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare (1968), Dove vai tutta nuda? (1969), Con quale amore, con quanto amore (1970). Ogni tanto si permetterà qualche divagazione – la favola

9

Arianna Guarnieri, Pasquale Festa Campanile, in Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 320. 10 Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p. 72 11 Ibidem. 12 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 61 13 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.140

4

bellica La ragazza e il generale (1967), le fantasie preistoriche ed anticapitalistiche di Quando le donne avevano la coda (1970) e Quando le donne persero la coda (1971) – trovando la massima ispirazione ne La matriarca (1968) e, soprattutto, Il merlo maschio (1971), che entusiasmò Visconti e interessò un critico come Micciché, tanto che lo considerò «uno dei titoli migliori di Festa Campanile – e dell’intera filmografia della “commedia ll’italiana”, qui in uno dei suoi estremi bagliori – […] malinconico grottesco della frustrazione (piccolo-borghese) e dello smarrimento di stagioni che sembrano non essere quiete né esaltanti»14. Il referente cinematografico di Festa Campanile è la commedia americana, sofisticata o slapstick, e quella sentimentale francese: gli autori che fungono da modelli al regista ed ai suoi sceneggiatori (i più stretti sono, oltre Franciosa, gli scrittori Luigi Malerba ed Ottavio Jemma) sono Billy Wilder (Dove vai tutta nuda? riprende l’intreccio de L’appartamento, Più bello di così si muore è una storia di travestitismo, in cui la purezza dei sentimenti supera la grevità delle situazioni, come A qualcuno piace caldo, la cui battuta finale è ripresa esplicitamente in Nessuno è perfetto) e Claude Lelouch (Con quale amore con quanto amore è costruito con lo stesso gusto degli incastri e degli incroci amorosi e, come La matriarca, rimanda al modello francese fin dalla colonna sonora). Ai modelli americani e francesi rimandano l’attenzione alla qualità fotografica dell’immagine ed alla scenografia, così come l’attenta direzione degli attori (soprattutto Catherine Spaak, Lando Buzzanca, Adriano Celentano, Enrico Montesano), qualità che ha in comune con gli stessi Steno e Salce, da cui però lo distacca un’attenzione maggiore alla confezione del prodotto. Festa Campanile (come ricorda la dichiarazione riportata nella prima parte della tesi) rifiuta gli schemi della commedia all’italiana: il dato di costume, la puntualizzazione regionale dei personaggi, la presenza fisica degli attorimattatori del genere (Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi). Non lavorerà mai con Sordi, lavorerà pochissimo con gli altri tre, cercando altrove i volti per le sue storie paradossali, anche sul mercato internazionale (gli americani Rod Steiger, Tony Curtis e Ben Gazzara, i francesi Samy Frey, Catherine Deneuve, Jean-Louis Trintignant, Haydée Politoff, Claude Rich, Andréa Ferréol, l’inglese Hugh Griffith, l’austriaca Senta Berger): volti quasi inediti sugli schermi italiani, che non rimandassero automaticamente a maschere già definite. Come per l’ultima produzione filmografica di Luciano Salce, anche in Festa Campanile c’è l’influenza dei meccanismi narrativi del commediografo Aldo De Benedetti, un maestro del paradosso e dei tempi comici: il macabro umorismo nero di Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare è ispirato direttamente ad un suo racconto. L’influenza dell’autore di Non ti conosco più (1932), Due dozzine di rose scarlatte (1936), Trenta

14

Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p.339

5

secondi d’amore (1937) emerge soprattutto nelle commedie d’ambientazione borghese, in cui Festa Campanile racconta i problemi di coppia con i mezzi del paradosso (la moglie tradita che promette la rivalsa al marito in Adulterio all’italiana, il marito tradito che, subito un trauma, incontra una donna con gli stessi problemi in Come perdere una moglie e trovare un’amante) ed il complemento di dialoghi scoppiettanti, scenografie sfarzose e irreali. Un tipo di commedia che coniuga il modello americano con quello italico dei telefoni bianchi, piegati alle esigenze dell’autore (il disorientamento del protagonista, le scoperte pulsioni erotiche e sessuali): tanto lontano dalla commedia all’italiana da convogliare su di sé gli strali della critica. Giacovelli le considera «commedie dei telefoni bianchi fuori tempo massimo (o fuori tempo minimo, se le si considera un anticipo di sviluppi futuri), ma con qualche aggiornamento, qualche spunto satirico da Italia ’60 e un pizzico di sesso […] che preannunciano in qualche modo la fine della commedia all’italiana, anticipando le commedie disimpegnate e sciocchine di fine anni Settanta (di cui

proprio

Festa

Campanile

sarà

uno

dei

principali

artefici)»15.

E’

la

tipica

sottovalutazione di chi non riesce a comprendere le eccentricità, i percorsi alternativi, le deviazioni dalla norma, e pretenderebbe di ridurre tutto ad un solo orientamento. Gli stessi temi, con piglio meno grottesco e aggressivo, li affronterà in campo teatrale, scrivendo nel 1970 la commedia Anche se vi voglio un gran bene, che lo stesso autore definisce «un quadro […] pietoso e[…] quotidiano, e non […] aspro e feroce, della vita coniugale; anzi i toni dell’ironia e dell’umorismo possono sembrare quelli predominanti. Ma ciò non toglie che io la consideri, ugualmente, una commedia amara, dolente»16. Continuando a realizzare un paio di film l’anno, nel 1975 Festa Campanile scrive il suo secondo romanzo, il fantascientifico Conviene far bene l’amore, opera di intrattenimento pur se dal sorriso ansioso, che lo stesso anno trasporrà al cinema. Ripresa l’attività letteraria, la affiancò a quella cinematografica, riscuotendo successi di critica con i romanzi (Il ladrone, Premio Selezione Campiello 1978, Per amore, solo per amore, Premio Campiello 1984, La strega innamorata, Premio Bancarella 1986) e di pubblico con i film – a proposito di Qua la mano: «un sondaggio sul gradimento (“Fra tutti i film che ha visto nel 1980 al cinema quale è stato il film italiano che le è piaciuto di più?”) consacra uno dei trionfi commerciali della stagione: il 21% degli italiani (la percentuale più alta) sceglie i due episodi»17. Nonostante il dissenso della critica, le opere di questa stagione cinematografica del regista (gli anni 1980-82) sono molto interessanti, tanto che è possibile ritrovare in uno dei film meno considerati del periodo, Bingo Bongo (1982), con Adriano Celentano, 15 16

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 72-73 Adriana Guarnieri, Pasquale Festa Campanile…, cit., p. 320. 6

numerose «chicche da culto (non colte): una doppia citazione del King Kong del ’33, Bingo Bongo che legge “Airone”, e una scena ambientata in una megadiscoteca (il Kiwi di Modena) che rimanda all’inizio di Geppo il folle e alle atletiche prestazioni di Adriano nei suoi concerti dal vivo. E persino due gustose “coincidenze”: la sequenza del barattolo (Bingo, deriso da quattro giovinastri, si comporta da perfetto cattolico: porgendo l’altra guancia) e quella della spiaggia, che non possono non far pensare a Bianca: al Nanni Moretti sbeffeggiato, inutilmente, da un paio di coatti romani; e al Nanni Moretti talmente impacciato con le donne da essere costretto a imitare le effusioni delle coppie sdraiate sulla spiaggia»18. L’attività letteraria e cinematografica si intrecciano senza soluzione di continuità: l’autore sviluppa i temi a lui più cari con i due mezzi espressivi, indifferentemente. La follia della guerra, che impedisce un disteso rapporto sentimentale, è alla base dei drammatici fatti del romanzo Il peccato (1980), così come delle circonvoluzioni grottesche del film Porca vacca (1982), massacrato dai produttori. Nel 1982 il romanzo La ragazza di Trieste (da cui nello stesso anno girerà un film) impone una svolta drammatica allo sguardo dell’autore sulla vita di coppia, decretando l’impossibilità di un «colloquio tra due persone, se pure entrambe bisognose d’affetto»19. L’attenzione della critica comincia rivolgersi verso Pasquale Festa Campanile (il suo ultimo film, Uno scandalo perbene, 1984, è chiamato, addirittura, a rappresentare la selezione italiana alla mostra del cinema di Venezia), quando il regista è colpito da neoplasia renale. Per un anno si susseguono miglioramenti e ricadute, in cui l’autore, confermando la propria vitalità frenetica («sono uno che lavora 18-19 ore al giorno. La notte la passo a scrivere sostenendomi con grappa e caffè, fumando cento sigarette al giorno [...]. Sono fatto in modo tale che non posso mettere le marce basse, se non metto la quinta non mi diverto»), ha il tempo di scrivere un altro romanzo (Buon natale…Buon anno, edito postumo nel 1987, mancante della revisione definitiva dell’autore) e di sposarsi per la terza volta (con Rosalba Mazzamuto, figlia del prefetto di Reggio Calabria). Ma la neoplasia si estende al fegato e Pasquale Festa Campanile muore il 25-21986, proprio mentre sta preparando con Luciano Vincenzoni la sceneggiatura del film che doveva segnare il suo rientro al cinema, Casinò.

17

Aldo Fittante, Questa è la storia…Celentano nella musica, nel cinema e in televisione, Milano, Il Castoro, 1997, p. 142 18 Ivi, pp. 62-63 19 Adriana Guarnieri, Pasquale Festa Campanile…, cit., p. 320

7

Capitolo 2: un assiduo frequentatore dei sentieri della storia (Il soldato di ventura) Il secondo film di Pasquale Festa Campanile è un film in costume, Le voci bianche, ambientato tra i castrati del Settecento; l’ultimo film di Festa Campanile è Uno scandalo perbene, ricostruzione del caso Bruneri-Canella, lo smemorato di Collegno, che ebbe inizio nel marzo del 1926. La filmografia del regista si apre e si chiude, circolarmente, con due film storici e ne comprende altri tredici, ben distribuiti tra il 1965 e il 1983, escludendo L’emigrante (1973) e Il corpo della ragassa (1979), in cui la ricostruzione d’epoca, pure evidente, è in subordine rispetto al meccanismo dei generi gangster (il primo) ed erotico (il secondo). Sono un po’ troppi per considerare la frequentazione della commedia storica soltanto una concessione alla moda del tempo (sembra che per i critici Festa

Campanile

non

abbia

fatto

altro,

nella

sua

carriera,

che

concedersi

continuativamente alla moda del tempo: con Una vergine per il principe seguiva il modello de La mandragola di Lattuada, con La calandria s’inseriva nel filone dei decamerotici nati sulla scia del Decameron di Pasolini). Festa Campanile è autore pure di un film di fantascienza, Conviene far bene l’amore, tratto dal suo romanzo omonimo: questi viaggi nel tempo, questi ritorni al passato e al futuro, non sono affatto casuali. Hanno un loro preciso significato. Quale? Il distacco temporale libera le storie da una vischiosa attualizzazione, da una compromettente partecipazione delle situazioni e dei personaggi, dal pericolo della convenzionalità nel tratteggio psicologico e sociale. Il distacco temporale libera l’autore dalle compromissioni con la commedia di costume, recupera la primordialità di fatti e personaggi, consente un distacco critico che dona agli intrecci un’esemplarità attuale, inserendola in una rievocazione storica perfettamente ricostruita. Festa Campanile può abbandonarsi al gusto del racconto, concedendo maggiore nitidezza alle sue componenti (la ricostruzione ambientale, il tratteggio psicologico, la scansione delle sequenze) e a quello che è il suo tema: lo spaesamento di un personaggio alle prese con una realtà inspiegabile. La lontananza remota dell’ambientazione temporale non fa che accentuare questo spaesamento, anche nello spettatore. Le commedie storiche di Festa Campanile, ordinate cronologicamente secondo il divenire storico dei fatti raccontati e non secondo la loro realizzazione, si rivelano tanti capitoli di una compiuta narrazione di tutta la storia delle italiche genti. Nell’ordine: 1. l’epoca preistorica: Quando le donne avevano la coda (1970), Quando le donne persero la coda (1971), apologhi di costume (e di scarsi costumi), in cui si raccontano, 8

secondo i modi della farsa slapstick e della comicità da fumetto - botte in testa con la clava, capitomboli, violenza smodata e ridanciana (ma l’inventore Kao morirà nel tentativo di volare), sadismo delirante (Put, affamato si mangia la propria mano), linguaggio onomatopeico (i personaggi si chiamano Grrr, Put, Zog, Kao) e maccheronico - le scoperte primordiali dell’uomo: il sesso (nel primo film, sette uomini trovano una donna e, credendola un animale, sono tentati, inizialmente, di mangiarsela) ed il profitto economico

(nel

secondo,

«i

cavernicoli

applicano

all’Età

della

Pietra

le

teorie

capitalistiche»1: il forestiero Am obbliga i protagonisti a lavorare per lui e poi spendere i loro guadagni nella sua bottega); 2. l’epoca romana: Il ladrone (1979) è la storia di uno dei tanti protagonisti ribaldi dei film di Festa Campanile, Caleb, che vagabonda felicemente, rubando e vivendo di mezzucci ed espedienti, citando i versi di un immaginario profeta Baracuc (vivente soltanto nei suoi racconti), soddisfatto dei rapporti saltuari con le donne e della sua vita, grama ma libera, in un’epoca di schiavitù e sopraffazione, che ha la sventura, durante il suo peregrinare, di incrociare il destino di un certo Gesù, di cui non sopporta la spettacolarità dei trucchi; 3. il medioevo: La cintura di castità (1967), affresco comico-storico-erotico, destinato al mercato internazionale (protagonisti Tony Curtis e Monica Vitti) dell’epoca delle crociate e Jus primae noctis (1972), parabola quasi politica in cadenze di non-sense, in cui la fine dell’applicazione dell’aberrante legge del titolo (il tributo di maritaggio che il vassallo doveva al signore e feudatario) e del tirannello che l’applica è, storicamente, osservata come la fine dell’intera epoca medioevale; 4. il rinascimento: Una vergine per il principe (1965), La calandria (1972), Il soldato di ventura (1976) che ritraggono l’epoca in questione attraverso un comune, seppur diverso, filtro letterario (il primo da un carteggio e poi dalla biografia di Vincenzo Gonzaga attuata da Maria Bellonci, il secondo dall’omonima commedia licenziosa del Bibbiena, il terzo dal romanzo di Massimo d’Azeglio); 5. il sei-settecento: Le voci bianche (1964), Il ritorno di Casanova (1978), due ritratti di libertini, uno immaginario ma possibile(il falso castrato Meo), l’altro realmente esistito, per tracciare un quadro del secolo ora comico-satirico, ora malinconico ; 6. l’ottocento: Rugantino (1973), ambientato a Roma, nel 1830, che riprende la celebre maschera popolare romana, assegnandole caratteristiche comuni col precedente protagonista de Le voci bianche;

1

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.44

2

7. la belle époque: Il petomane (1983) che inserisce nell’epoca spensierata della Parigi di inizio secolo, dedita all’arte ed all’amore, la figura patetica e grottesca di un fenomeno vivente (con riflessi di The elephant man, 1980, di David Lynch) 8. la prima guerra mondiale: La ragazza e il generale (1967), “Porca vacca” (1982), che insieme al romanzo Il peccato (1980) costituiscono un trittico dedicato alla barbarie bellica secondo un’angolazione decentrata (il primo film è una favola, il secondo un poema eroicomico modellato su La grande guerra, il romanzo narra una storia d’amore impossibile), la cui unità è evidenziata dai rimandi trasversali tra un intreccio e l’altro, come l’episodio in cui la buca di una bomba serve da riparo, perché «né cannonate, né fulmini, né bombe, cadono due volte nello stesso punto»2 (presente in tutte e tre le opere); 9. i primi anni del Novecento: Uno scandalo perbene (1984), rievocazione del caso Bruneri-Canella (cui Sergio Corbucci, nel 1962, aveva dedicato già Lo smemorato di Collegno), secondo i modi del dramma psicologico e con un’attenzione particolare all’apparato scenografico-costumistico, tipica dei film di Bolognini (alcuni momenti, come il processo, sembrano rimandare al suo Fatti di gente perbene, 1974). Nelle sue commedie storiche Pasquale Festa Campanile non mostra tanto interesse per la Storia, quanto per le storie private di personaggi popolari, inquadrate in un preciso contesto storico-geografico. Ci sono tutti gli elementi per tracciare una storia d’Italia al contrario, che rinneghi e ribalti la magniloquenza e la retorica eroica che si accompagna spesso nelle narrazioni storiche: il gusto innato per il capovolgimento umoristico sposta l’interesse del regista dalle personalità eroiche, dalle illustrazioni «da museo delle cere»3 ai personaggi alternativi, «secondo l’esempio manzoniano e la lezione di certi storici contemporanei»4, ma accentuando la paradossalità delle situazioni e la forte connotazione erotica della sua ispirazione. Nell’epoca delle crociate, ne La cintura di castità, la moglie del principe Guerrando, Boccadoro, più che interessata alle eroiche imprese del marito, è umiliata dalla cintura di castità con cui costui l’ha cinta e rischia di essere violentata dal lascivo sultano Ibn-ElRashid, anch’esso più interessato all’amore che alla guerra. Il ducato di Mantova, tenuto dai principi Gonzaga, in Una vergine per il principe, ha molti punti di contatto con la società italiana contemporanea: è sommerso dai debiti, dagli intrighi di corte («Lo sai quanti vorrebbero toglierci la sedia da sotto il deretano?», domanda il duca al figlio) ed il suo principe Vincenzo deve sacrificare i propri sentimenti alla politica («In tempi di crisi 2

Pasquale Festa Campanile, Il peccato, Bompiani, Milano, 1989 (1980), p.130 Aldo Viganò, Storia del cinema storico in cento film, Le mani, Recco, 1997, p. 151 4 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 44 3

3

tutti si devono restringere, anche i nani» esclama Vincenzo al suo paggio nano). I combattimenti con i comuni vicini, simbolo anzitutto di potenza ed onore (anche il piccolo tiranno di Jus primae noctis, Aregardo, vorrebbe una bella piccola guerra da combattere e vincere facilmente), sono diventati una routine («Però a Pavia abbiamo pareggiato!» esclama Vincenzo, solitamente sconfitto in questi agoni provinciali). Il ladrone, pur ambientando il racconto in Palestina, negli anni della predicazione di Cristo, erge a protagonista il ladrone Caleb che non crede ai miracoli di Gesù, reputandolo un grande baro. Cercherà di scoprirne i trucchi: alle nozze di Caana, andrà alla ricerca di un’otre di vino nascosta, incredulo di fronte alla tramutazione dell’acqua in vino. Fino alla fine dei suoi giorni Caleb sarà sospettoso ed incredulo nei confronti di Gesù, anche quando lo affiancherà, crocifisso, sul Calvario: quando Cristo gli dirà: «Oggi sarai con me nel mio regno», il ladrone risponderà: «Va’ pure avanti tu». Ne Il soldato di ventura gli straccioni guidati da Ettore Fieramosca a sfidare i francesi a Barletta non sono tanto simbolo della rivalsa italiana rispetto agli odiati francesi (come nel precedente film di Blasetti, Ettore Fieramosca, dedicato alla disfida, in cui si sovrapponeva alla storia la retorica fascista), quanto della ribellione degli umili ai soprusi dei potenti. In questo film il tono antieroico è proporzionale alla chiarezza narrativa. E’ conveniente fare un paragone tra Ettore Fieramosca (1938) ed Il soldato di ventura (1976): sono due opere dedicate allo stesso argomento (la rievocazione della disfida di Barletta, avvenuta il 13.9.1503), allo stesso protagonista storico, con una simile struttura narrativa e talvolta visiva, ma stilisticamente opposte. Ettore Fieramosca rivela la passione del regista per le «tonalità epiche», il «torneare di cavalieri», il «garrire di insegne», insomma la tendenza sempre più urgente in Blasetti ad eleggere «a suo mondo lo spazio e a sua bussola l’imaginazione storica, distorta e reinventata in libertà» (F. Savio). Ma se il film è figurativamente forte, è anche narrativamente debole. Per l’ennesima volta si rimprovera a Blasetti la «scarsa e poco sorvegliata […] capacità del racconto» che «produce discontinuità e talvolta oscurità nel suo modo di narrare» (E. Cecchi). Il regista cercherà di porvi rimedio sia apponendo delle didascalie sia rimaneggiando il film a più riprese; così dagli originali 3215 metri […] con tagli successivi si arriva agli attuali 2496 […] ma una certa debolezza di scrittura rimane.5

In Ettore Fieramosca il racconto è così oscuro che non si riesce a comprendere il momento del tradimento di Graiano con i francesi e, nella scena della disfida («la sequenza finale e la più famosa del film»6), è difficile individuare le personalità dei combattenti francesi ed italiani. La spiegazione, oltre che nell’interesse di Blasetti, maggiormente volto alla ricerca figurativa («Con Novarese, documentandoci dal punto di vista figurativo relativamente al film, ci eravamo soffermati sulla stupenda scultura di Ilaria Del Carretto di Jacopo della

5

Gianfranco Miro Gori, Alessandro Blasetti, Il castoro cinema, La nuova Italia, Firenze, 1983, p.62 6 Gianfranco Miro Gori, Alessandro…, cit., p. 61

4

Quercia»7, ricorda Blasetti, relativamente al personaggio della duchessa di Monreale) è che l’obiettivo del regista è puntato quasi esclusivamente sul protagonista Ettore Fieramosca, sulla sua personalità eroica, sui suoi legami privati, sulla virtuosa grandezza che gli permette di sconfiggere la «suffisance»8 dei francesi e di Guy de la Motte. Pasquale Festa Campanile, invece, riporta la storia ai suoi protagonisti silenziosi: i personaggi popolari. L’inizio de Il soldato di ventura rende subito espliciti gli intenti del regista. Sull’assolata pianura pugliese, davanti alle mura della città di Barletta, sotto un unico

albero

secco,

quattro

uomini

hanno

un’animata

discussione

sulla

natura

dell’oggetto appeso ad un ramo della pianta («quaglia o beccafico?», si chiede uno di loro, Bracalone). Lo puntano, lo colpiscono con una fionda, l’oggetto cade sulla testa di Bracalone: si rivela essere una pigna. I quattro, affamati, si rivolgono ad un uomo a cavallo poco più in là, che da un’altura scruta le mura della città: gli chiedono se per stavolta possono fare una guerra facile che dia loro un po’ di guadagno. Quell’uomo è Ettore Fieramosca ed i quattro sono i suoi soldati di ventura. In poche immagini Festa Campanile ha delineato i cinque personaggi, sopprimendo ogni possibilità retorica. I soldati di ventura di Ettore Fieramosca sono uomini affamati che combattono per guadagnare, anelano ad una condizione sociale migliore e lasciano i pensieri idealistici al loro capo. Il quale, una volta tanto, decide di dar retta a loro, ed alla guerra tra francesi (gli assedianti) e spagnoli (gli assediati) decide di schierarsi per i più forti: i francesi. Ma, sdegnato dal comportamento provocatorio e presuntuoso dei soldati francesi (la “suffisance” di Blasetti) – che costringono gli italiani nel ruolo di servi: Bracalone è obbligato a pulire con le mani gli stivali infangati di De La Motte – cambia fazione sul campo di battaglia, decide di aiutare gli spagnoli, da un mese assediati in città e costretti alla fame. Rispetto all’Ettore Fieramosca di Blasetti, questo di Festa Campanile più che un nazionalista è un ribelle, un difensore dei deboli e degli oppressi, un uomo che si diverte a ribaltare le situazioni già definite. Quando, offeso nella dignità da De la Motte, raggrupperà gli uomini per sfidare i francesi, sceglierà i migliori spadaccini più che tra le migliori menti italiane, tra i disperati, i girovaghi e i ladri. Tra gli italiani che sfidano i transalpini c’è lo scienziato Albimonte da Peretola (avversario di Leonardo, che reputa un bugiardo), ma anche l’attore romano Capoccio, il baro

Miale da Milazzo, il ladro

Salomone, il frate spadaccino Ludovico da Rieti, lo scomunicato Giovenale da Vetralla (che vive con sette donne e s’è convertito all’Islam per sposarle tutte): l’armata eroica del film di Blasetti si rivela, in quest’opera, un’”armata Brancaleone”, conservando del film di Monicelli lo spirito picaresco con cui presenta il suo campionario di varia umanità. 7 8

Francesco Savio, Cinecittà anni trenta, Bulzoni, Roma, 1979, p. 138 Ivi, p. 137

5

La precisione del disegno dei personaggi, tratteggiati con spirito umoristico e rapidità psicologica (le doti del romanziere Festa Campanile: di ognuno dei protagonisti, grazie ai dialoghi che si susseguono mentre l’azione si sviluppa, sappiamo il suo passato e le caratteristiche spiccate della sua personalità) supera le convenzioni dello schema narrativo, riconducibile al film corale americano (tra i capistipite: il western I professionisti, 1966, di Richard Brooks, e il film di guerra Quella sporca dozzina, 1967, di Robert Aldrich): 1. un uomo, di solito uno specialista, si assume – per ordine altrui o forzato dagli eventi – la responsabilità di un drappello di disperati (circa una dozzina), ai quali è affidata una missione impossibile; 2. la «sporca dozzina» si forma: dapprima un’accozzaglia di individui allergici all’obbedienza […], asociali; poi, via via, sempre più solidali, uniti, partecipi alla sorte comune; 3. battesimo del fuoco: la squadra dimostra il suo valore sul campo; 4. la missione è compiuta, nonostante gli ostacoli «insormontabili».9

Anche i personaggi de Il soldato di ventura sono degli asociali, non soltanto fuorilegge, perché sono degli sradicati, a cominciare da Ettore Fieramosca, stranieri nella loro stessa patria, dove vivono da mercenari, al servizio dei francesi o degli spagnoli che all’epoca (il 1500) si dividevano il potere in Italia («Siete in tredici, è vero, ma non rappresentate che voi stessi, il vostro orgoglio personale, il vostro gusto per le bravate, la vostra millanteria», chiarifica il capitano di Guadarrama). Festa Campanile sottolinea la bipartizione del potere con insistite inquadrature sui luoghi d’azione francese e spagnola, che teatralizzano la scena: il governatore spagnolo Gonzalo Pedro de Guadarrama e il suo vice Paredes prendono le loro decisioni politiche mentre si riparano sul cammino di ronda

delle

mura

(come

fosse

un

palcoscenico,

osservano

da



i

movimenti

dell’accampamento francese); il centro dell’azione francese è invece la lunga tavola imbandita, dove i commensali (capitanati dal duca di Namour) discutono con tranquillità le strategie d’attacco delle future battaglie. La precisione scenografica, oltre a chiarificare la situazione narrativa, è carica di significati ulteriori, poiché manifesta le caretteristiche interiori delle parti in causa: gli spagnoli, maestri dell’intrigo sottotraccia, del doppio gioco, agiscono in uno spazio chiuso, in anfratti oscuri (i due spagnoli sono sempre riparati, nell’inquadratura, da tettoie, da mura); gli spavaldi francesi esibiscono la loro forza e tranquillità, pranzando sul campo di battaglia, in modo da attrarre i soldati spagnoli ridotti allo stremo delle forze dalla fame. Un altro punto di contatto tra Il soldato di ventura e Quella sporca dozzina è che i tredici cavalieri

(«corsari, ciarlatani, biscazzieri, malviventi, anche un ragazzo e un

frate») riuniti da Fieramosca per la disfida con i francesi sono in realtà dodici: gli italiani si presentano sul campo di battaglia con un’armatura vuota (dopo che si era offerta 9

Claver Salizzato, Robert Aldrich, Il castoro cinema, La nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 74-75

6

addirittura una donna, Leonora), che lo sbadato Bracalone fa cadere, rivelando l’inganno («Pensavo che fosse una guasconata e invece si sta rivelando una farsa», sghignazza La Motte). Soltanto quando la disfida sembra impossibile da attuarsi, giunge a sorpresa il tredicesimo elemento: il terribile e irraggiungibile cavaliere Mariano da Trani. Il personaggio chiarifica le intenzioni del regista, che nel momento della disfida capovolge l’iconografia eroica, mescolando solennità ed umorismo: in questa sequenza Il soldato di ventura si distacca nettamente da Ettore Fieramosca, facendosi beffe di tutta la letteratura cavalleresca e della storiografia ufficiale («Ma va che la storia quanto meno ne sa/ più snello e più bello e più prode ti fa» dicono due versi della canzone Oh Ettore!, riferendosi al Fieramosca, cui l’attore Bud Spencer presta le proprie fattezze non molto leggiadre). La presentazione dei due schieramenti sul campo di battaglia è identica a quella del film di Blasetti: i cavalieri francesi sono nominati uno per uno (e così inquadrati), quelli italiani sono presentati sotto l’appello di «Gli italiani», con un travelling laterale che li unisce tutti sotto un’unica identità, quella nazionalità italiana che ancora non c’è. Ma la possibile retorica del momento è subito negata dai costumi indossati dai personaggi: mentre i francesi sono un corpo unico, rinchiusi nelle loro lucide armature metalliche bianche, con gli svolazzanti pennacchi azzurri sugli elmi, gli italiani hanno ognuno un’armatura diversa e molto provvisoria: fra’ Ludovico ha per elmo una tiara di bronzo, il giovane Carellario come pennacchio ha una scopa d’erice, l’attore Capoccio l’elmo dell’Orlando Furioso (retaggio dei suoi costumi di scena), Bracalone addirittura una bacinella da barbiere, come Don Chisciotte. L’armata italiana è quanto di più grezzo e irregolare si possa immaginare, oggetto dei facili scherni di De La Motte: «Basterà una corrente d’aria per farli cascare…allora, sbrighiamoci: io non ho fatto colazione! […] Vedo un branco di pecoroni, di grossi pecoroni». L’arrivo di Mariano da Trani, apparizione nera e terribile sulla macchia bianca della spiaggia e sull’azzurro intenso del mare (ha nere l’armatura, la bardatura del cavallo, l’elmo ed un grosso teschio bianco che lo decora), accompagnato da una musica solenne, sembra ridare al film le tonalità epiche appropriate; invece è proprio questo personaggio - che si presenta con un tonitruante: «Mariano è il mio nome. Trani il mio feudo. Chiedo di battermi contro i francesi!» - a ridicolizzare l’avvenimento. Mariano si aggira sul campo spaventando gli avversari con la sua sola presenza («Dove t’inzippo, dove t’infilo!»), una volta affrontato da Guy De La Motte rivela la propria pavida personalità (con un felice espediente narrativo) proprio mentre esibisce la propria forza al francese: Mariano: - Fuggi prima che t’ammazzi…che botta! – De La Motte lo colpisce ripetutamente – M’arrendo, m’arrendo, m’arrendo, m’arrendo, m’arrendo!. Ma dico… non hai capito chi sono? Fieramosca: - Ma come…Mariano da Trani! Ma con tutte le imprese che hanno cantato di te poeti e cantastorie ?!

7

Mariano: - Ma, insomma! Io non mi sono mai battuto con nessuno. Io ho pagato l’Ariosto e il Tasso per inventare le mie vittorie. Con la reputazione che mi ero comprato, tutti fuggivano…tutti. E anche qua avevo cominciato bene. – si rivolge a De La Motte – Ma tu non l’hai letto l’Ariosto? De La Motte: - No!

La disfida si svolge intrecciando le gesta dei cavalieri italiani, che si comportano ognuno secondo le caratteristiche già espresse precedentemente. Albimonte da Peretola abbaglia il suo rivale in duello con il riflesso del sole sullo scudo («Lo specchio d’Archimede. Visto cosa significa conoscere la scienza, ignorante?»); il corsaro Salomone scaraventa contro un francese la statua di una sirena in porfido con cui si proteggeva, dopo che un francese le ha staccato la testa («Vigliacco! ‘A fimmina non si tocca manco con il fiore»); il pavido ed inoffensivo Bracalone saltella per il campo di battaglia sfuggendo a turno ai cavalieri francesi; il prode Fieramosca soccorre il giovane Carellario, vessato da un nemico («Te metti a fa ‘o guappo co’ ‘o guaglione»). Il finale suggella l’antiretoricità del film, riprendendo la parodia della letteratura cavalleresca. Il personaggio di Bracalone, scrivano napoletano, per tutta la storia ha funto da cantore delle eroiche gesta di Fieramosca, che annotava su un libriccino tenuto sempre addosso. Quando Fieramosca consegna fieramente il manoscritto al capitano di Guadarrama

(«Bracalo’,

dammi

il

manoscritto…Vogliate

conservare,

capitano

di

Guadarrama, le memorie delle gesta di tredici cavalieri italiani»), costui rimane fortemente sorpreso («Ma qui ci sono solo scarabocchi!» esclama) ed alla domanda inespressa di Ettore, Bracalone risponde con arguzia napoletana: «Ma vui che vulite da me ?! Io non saccio scrivere: tanto vui nun sapite leggere…». L’erotismo è totalmente assente ne Il soldato di ventura, mentre invece darà il motore dell’azione

nelle

rimanenti

commedie

storiche

e

in

costume,

assumendo

una

connotazione gioiosa e beffarda in quelle d’ambientazione medievale e rinascimentale. Queste commedie (Una vergine per il principe, La cintura di castità, Jus primae noctis, La calandria) sono disinvolti esemplari discendenti da una secolare tradizione letteraria, che fa capo a Boccaccio e a Machiavelli, in cui l’intreccio erotico è lo spunto per una ribellione sarcastica e beffarda contro il potere costituito. L’intrigo erotico, a volte pesante, nasconde la beffa ai mariti gelosi, ai nobili tirannici, frequentemente tratteggiati con un gusto caricaturale ed eccessivo, tale da raffigurarli come persone tarate mentalmente e fisicamente (Calandro ne La calandria). E’ un sentimento di rivolta, l’unico possibile nella realtà italiana dell’epoca, priva di unità nazionale e sottomessa al dominio straniero. Lo ricorda anche Maria Bellonci - in Segreti dei Gonzaga, testo che ha ispirato parzialmente a Festa Campanile Una vergine per il principe – riferendosi alla corte di Ferrara (ma il discorso è valido per ogni altro comune italiano): Ferrara che non perdeva mai un’occasione di far festa, figurarsi come accogliesse Vincenzo; se non c’erano carnevali da offrirgli, c’erano mezze quaresime, e se non mezze quaresime, partite di

8

caccia o di pesca, occasioni di nozze, di battesimi e di ricevimenti. Per quegli energici ferraresi, costretti dalle condizioni d’Italia ormai sottomessa al dominio straniero ad una pace senza gloria – interrotta da avventure di guerre che singolarmente i più bravi andavano a cercarsi in altre nazioni, Francia, Fiandra, Germania, - inventare su motivi di festa stava diventando una vibrata e quasi esasperata necessità polemica. Quello che poteva venirne fuori, strani incontri, spedizioni amorose in massa, travestimenti di gentiluomini da frati o di dame da cavalieri, ed altro ancora, s'imm’gina (ma bisogna lasciare uno spazio largo all’immaginazione). E, sebbene il duca Alfonso II e la duchessa Margherita si tenessero il più possibile di qua da questo traboccare sensitivo, in una vita moralmente irreprensibile, pure, riassumendo in loro i principi di una stemperata cortigianeria, vezzeggiando su certi usi, indugiando su certe compiacenze, offrivano agli altri l’occasione se non il pretesto di torbidi sbandamenti.10

In questo brano si fa riferimento a corteggiamenti e travestimenti amorosi (con scambio o camuffamento dell’identità sessuale), momenti prioritari dell’intreccio di queste commedie. Festa Campanile concilia il proprio gusto dell’erotismo con la realtà storica dell’epoca. In Una vergine per il principe si propone di raccontare «il più grande scandalo del Cinquecento»11, avvenuto nel 1584 a Venezia (nel film a Colorno): la prova di virilità che il principe Vincenzo Gonzaga deve sostenere prima di sposare Leonora de’ Medici, con una fanciulla illibata, Giulia. L’avvenimento è trattato con grazia licenziosa, ma anche con un’impassibilità che rende quotidiana la crudeltà dei costumi morali del tempo – la prova sessuale è raccontata dal regista come una prova sportiva: un’evento diviso in tre tempi, con gli arbitri (i funzionari statali) ed i sostenitori (i mantovani che scommettono sulla virilità del principe) – e non nasconde un sarcasmo finale - che annulla le rimostranze di critici come Tullio Kezich, il quale si sorprende che «un regista di estrazione letteraria […] non sia stato tentato dai risvolti amari, melanconici e persino avvilenti del racconto»12 rivelato dalla citazione finale di Machiavelli: «Giova al

principe dare di sé esempli rari,

operare in qualche cosa veramente straordinaria, in bene o in male e sopra tutto deve un principe ingegnarsi di tramandare di sé e delle sue azioni, fama di uomo grande e di ingegno eccellente»13. Il cinismo di Una vergine per il principe è specchio della realtà: il principe Vincenzo sposò serenamente Leonora, mentre «Giulia morì giovane, prima del 1600, forse stritolata giorno per giorno dalla prepotenza, dalla vanità e magari dal disprezzo del marito; e il ricordo delle cose di Venezia ebbe il tempo di diventarle leggenda segreta»14. Le pulsioni sessuali sono nascoste anche in momenti narrativi insospettati. L’ovvio intreccio erotico di Jus primae noctis - «Ariberto (Buzzanca), divenuto proprietario di un feudo popolato da poveracci affamati, ne reprime costantemente i tentativi di ribellione e 10

Maria Bellonci, Segreti dei Gonzaga, Milano, Mondadori, 1991, p.19 Ivi, p. 99 12 Tullio Kezich, Settimana Incom Illustrata, 14.11.1965 in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema italiano, I film, vol.3, Gremese, Roma, 1992, p.5959 13 Niccolò Machiavelli, Il principe, La Nuova Italia, Firenze, 1991, p.189 14 Maria Bellonci, Segreti dei…, cit., p. 106 9 11

gli scherzi ai suoi danni, accanendosi specialmente sul villano Gandolfo (Montagnani). Per arricchirsi, il signorotto impone anche

numerose tasse, e si arroga il diritto di fruire

personalmente della prima notte di nozze. Dopo aver approfittato di numerose contadine, non esita a eliminare la moglie e risposarsi. Vorrebbe poi aiutare il ritorno del pontefice all’Urbe, ma deve invece affrontare la rivolta popolare: i villani si vendicano giacendo a turno con la sua giovane consorte e lo scacciano, ma Alberto ha ormai dei buoni agganci in Vaticano…»15 - nasconde una dialettica servo-padrone, analizzata dal regista secondo un’ottica psicanalitica e non politica.

La lotta tra il tiranno Aregardo e il popolano

Gandolfo è guidata da una volontà di supremazia virile che nasconde (poco) un’omosessualità latente: per non permettere ad Aregardo di godere del diritto di maritaggio, Gandolfo sostituisce la fidanzata Venerata con un uomo, ma è scoperto dal tiranno e costretto a giacere con la “sposa”; una delle tante punizioni inflitte da Aregardo a Gandolfo consiste nel cospargere le parti posteriori dell’uomo di chicchi di grano e poi farle beccare da una gallina affamata; Gandolfo arriva addirittura ad allenare un pastore tedesco ad evirare Aregardo (ma il cane fallirà); infine i due nemici si scontrano in un duello con i bastoni. Dietro la paradossalità e spensieratezza questi film nascondono segni sparsi che ne consentono una doppia lettura. La scoperta di una donna, in Quando le donne avevano la coda, è anche, semiologicamente, la scoperta di un nuovo segno da parte di un interprete: non è un caso che il soggetto del film fosse ispirato ad un racconto di Umberto Eco. Il regista si diverte a ricostruire gli ambienti, a rievocare personaggi realmente esistiti. Ne Il petomane, il fenomenale Joseph Pujol circola come un estraneo nei salotti letterari e nei ricevimenti aristocratici dove intervengono Schönberg e Gide e nel finale «invitato da principi e re – il re d’Inghilterra, il capo di stato francese, il kaiser Francesco II – mentre volano schiaffi, Pujol produce una tempesta che si confonde col primo colpo di cannone»16 della prima guerra mondiale. A volte la ricostruzione storica è affidata alla perfezione dell’ambientazione, come ne La calandria, «ambientato in una Toscana dai grandi richiami figurativi»17 e soprattutto in Jus primae noctis, che ricostruisce un antico borgo medioevale coi muri di pietra, le case spoglie dalle piccole finestre ed i mobili rozzamente costruiti. La ricostruzione storica, in questo gruppo di commedie, non era gratuita,: consentiva al regista «di costruire un intreccio che colpiva direttamente la fantasia e di stabilire un

15

Bertolino-Ridola, Vizietti all’italiana…, cit., p. 23 Giovanni Grazzini, Cinema ’83, Laterza, Bari, 1984, p. 130 17 Ettore Zocaro, Un esempio di…, cit., p. 12 16

10

rapporto immediato con il pubblico»18. La preistoria di Quando le donne avevano la coda è spunto per «una sorta di pellegrinaggio alle radici del buffonesco, dove qualche goccia di sentimento serve a sottolineare l’assurdità di un paesaggio tutto inventato, fatto di alberi di pesce, di piante carnivore, di fiori utopici, fra cui si muovono uomini seminudi (all’occorrenza truccati da pavoni) che mugolano una lingua bislacca»19. Per Festa Campanile, la storia è come un palcoscenico, dove far sfilare personaggi a noi lontani, ricostruiti con il gusto archeologico della ricerca del particolare eccentrico, straniante, che ne segnali la distanza epocale e affidati ad attori che, in modo opposto, ne facciano risaltare la vicinanza sociale e psicologica con l’era contemporanea. E’ la storia di Gesù, raccontata attraverso il personaggio del ladrone, che la avvicina alla nostra mentalità. E' la storia di Meo (Le voci bianche) costretto a sopravvivere in una società insieme così lontana (in cui il rispetto dell’individualità umana era utopistico) e così vicina (il potere costituito, a Roma, nel 1600, era oggi come allora distante ed ostile dal popolo) alla nostra. La regia di Festa Campanile teatralizza gli snodi del racconto: questi film sono pieni di travestimenti, di inseguimenti scanditi da un ritmo matematico, di recitazione esteriore (i protagonisti di queste commedie sono Gassman, Buzzanca, Ferrari), di inquadrature stilizzate. Ne La calandria un’intera sequenza è impostata come fosse la scena di una rappresentazione teatrale: sullo sfondo dell’inquadratura c’è una parete con due porte, da cui, alternativamente, Lidio entra ed esce cambiando di personalità (è entrato in casa di Calandro travestito da cortigiana, per sedurne la moglie). Le scorribande notturne di Lidio nelle camere delle donne di casa (la moglie di Calandro, Fulvia, la loro serva, Clizia) sono raccontate con un ritmo accelerato da vecchia pochade. In Una vergine per il principe, il principe Vincenzo, di ritorno a Mantova dopo la guerra con Casale, subisce i rimbrotti paterni, facendo a voce alta le considerazioni ufficiali e svelando i propri pensieri a bassa voce, come in un controcanto teatrale: una lunga carrellata sui dignitari in attesa rafforza visivamente la teatralizzazione.

18 19

Romano Milani, Il regista miliardo, in Sipario, dic. 1986, p. 18 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva, cit., p. 148

11

Capitolo 3. L’ossessione erotica da Il merlo maschio a Il corpo della ragassa. (La matriarca, Il merlo maschio, Il corpo della ragassa) Pasquale Festa Campanile è un autore fortemente interessato alle tematiche sessuali. L’erotismo è la componente essenziale delle sue storie, i romanzi come i film. Spesso la letteratura e il cinema si congiungono nell’opera del regista, che ha trovato ispirazione per alcuni film da romanzi, racconti, commedie di tipo erotico: un elenco cospicuo che comprende Scacco alla regina (dal romanzo di Ghiotto), Il merlo maschio (da Il complesso di Loth), La calandria (dalla commedia del Bibbiena), La sculacciata (da Neurotandem di Silvano Ambrogi), Conviene far bene l’amore (dal suo romanzo omonimo), Il ritorno di Casanova (dal romanzo di Schnitzler), Il corpo della ragassa (dal romanzo di Brera), Più bello di così si muore (da Il travestito, in seguito al successo del film reintitolato Più bello di così si muore, di Antonio Amurri), La ragazza di Trieste (dal suo romanzo). Ma i rapporti amorosi, le pulsioni sessuali sono presenti in ogni suo film: l’erotismo è analizzato in ogni suo aspetto, da quello ludico a quello psicolgico. E’ un atteggiamento mentale dei protagonisti di queste storie, che la progressione narrativa svela nella sua natura ossessiva. 12

Nella mente dei personaggi il desiderio sessuale acquista una dimensione abnorme tanto da travolgere il loro equilibrio mentale, diventando un’idea fissa, o le loro funzioni fisiologiche,

condannandoli

ad

un

comportamento

senza

alternative.

Illustrano

esemplarmente la logica della patologia erotica i casi di Mimì ne La matriarca (1969) che, scoperti i tradimenti del marito ormai morto, si vendica da vedova, accettando le numerose avventure che le consentono di affermare la propria libertà sessuale, e di Gennarino Amato, in Gegè Bellavita (1979), che, posseduto da una smania sessuale irrefrenabile che lo costringe a congiungersi con tutte le donne che incontra, viene sfruttato vantaggiosamente dalla moglie Agata, che pretende compensi economici dalle sue prestazioni erotiche. La matriarca, pur proponendo un primo ritratto di donna emancipata, è ancora un prodotto ibrido, «scabroso all’occhio per l’alta aliquota di svestizioni e di complicate malizie amatorie; è furbetto nella pretesa moralistica di deridere con le ossessioni erotiche quell’industria del sesso in cui invece è puntualmente integrato; […] sventatello nell’assunto, che ondeggia fra la critica del privilegio maschile di correre la cavallina mentre le bravi mogli rammendano calzini, la corrosiva misoginia e l’invito a incanalare nel letto a due piazze i torrenti limacciosi. Però non è tutto aria fritta. Seppure giochi sull’equivoco, la commedia ha pagine spiritose, specialmente laddove fa la parodia di Buñuel (quello scarabeo non è forse uscito dalla scatolina misteriosa di Bella di giorno?) e dà di gomito, nel commento musicale e nella scelta del bravo Trintignant, ai patiti di Lelouch»1. I riferimenti a Buñuel (ricordati anche dal critico Tullio Kezich) si perdono un po’ in una struttura narrativa monocorde, vero limite del film, che allinea gli incontri amorosi e gli accoppiamenti sessuali senza soluzione di continuità, nel tentativo di far emergere la grettezza, la meschinità, il perbenismo, la scarsa fantasia e la poca immaginazione della compagnia maschile («Gli scarabei sono tutti uguali, come gli uomini»), sorpresa dal comportamento così libero di Mimì e, contemporaneamente, di quantità

di

esercizi

erotici

illustare

una

buona

perversi e devianti: nelle scene proliferano strumenti di

piacere come catene e fruste e riferimenti alle teorie sessuali del marchese De Sade ed allo scienziato William Reich. Festa Campanile racconta questa storia in modo poco serioso, con un linguaggio cinematografico di gusto “pop”. Le scenografie abbondano di specchi, toilette eleganti, arredamenti sfarzosi e moderni e l’operatore vi circola con la macchina a mano, carpendo primi piani e dettagli inconsueti, avvicinandosi alla protagonista tanto da lasciarla senza segreti; il regista risolve narrativamente la scoperta dei tradimenti del marito da parte di Mimì con l’artificio del film nel film (sono film erotici

1

Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva…, cit., p. 118

2

all’interno di una commedia erotica) e visualizza le ossessioni erotiche della donna con flashback onirici, che scandagliano i segreti della sua psiche (un accorgimento tecnico già sperimentato, con minore valenza, in Scacco alla regina). A distanza di anni è soprattutto lo stile a rimanere interessante, avendo perso il film, con la liberalizzazione de costumi, un po’ della sua carica di provocazione, come rileva anche il critico Marco Giusti: «Allora un supererotico con Catherine Spaak scatenata donna-padrona […]. Oggi […] una commediola erotica abbastanza buffa e pop, forse anche un filo femminista. Perfino la scena finale, con i capelli ben fissati sui seni di Catherine Spaak per non far vedere troppo, risulta adesso castissima. Allora però usciva negli stessi giorni di Teorema di Pasolini e sembrava una commediola sgraziata e insultante»2. Il ritratto di Mimì sviluppa le premesse del personaggio di Francesca che Catherine Spaak aveva interpretato per La voglia matta di Luciano Salce. Festa Campanile sarà regista

che

accompagnerà

l’attrice

belga

verso

la

il

maturità recitativa,

trasformandola da ragazza borghese desiderabile in giovane donna emancipata che, in epoca postsessantottina, diventa, con la sua libertà di comportamento morale e sessuale, una protofemminista: il punto d’arrivo di quest’evoluzione sarà Con quale con quanto amore (1970), in cui nel ruolo di Francesca (proprio come nel film di Salce) sarà una moglie fedifraga che si farà riconquistare dal marito tradito, costringendolo a ricercare in se stesso un comportamento più attento alle esigenze della donna. Ne La matriarca il ritratto di Mimì è indebolito dalle concessioni del regista alla moda del tempo: i riferimenti a Lelouch e Buñuel impediscono un discorso più coerente e personale. Il successivo Il merlo maschio (1971) riesce invece nell’intento di costruire una personale e «graffiante analisi delle ossessioni erotiche contemporanee»3: il regista, autore anche del soggetto e della sceneggiatura, che trae da un breve racconto di Luciano Bianciardi, Il complesso di Loth, porta a compimento le sue tematiche (il soggetto protagonista alle prese con un aspetto abnorme della quotidianità, le pulsioni sessuali ossessive, le teorie di Reich), giocando con i diversi modi espressivi, letterari (il diario), musicali (il melodramma e lo scherzo), pittorici. Il complesso di Loth di Bianciardi è un resoconto clinico, narrato in prima persona dal protagonista, un violoncellista di fila che si eccita fotografando la moglie e libera la propria libido soltanto mentre fotografa gli accoppiamenti con una Polaroid: So che il mio caso è grave, e ne ebbi conferma dall’analista, la quale aveva continuato a prendere appunti, sempre più accigliata in viso. Ancora non so la diagnosi: forse scriverà che si tratta di un insolito incrocio fra voyeurismo ed esibizionismo, chissà. Forse dovrà frugare nella 2 3

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 448 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p.140

3

mitologia greca per battezzare un complesso sinora inaudito: Narciso, chissà, Alcibiade, o forse la Bibbia, per esempio Loth (con allusione ai sali contenuti nello sviluppo) o forse Cam, che vide le vergogne del padre ebbro, e fu dannato. Non lo so. […]4

Il racconto non propone altro. Intorno a questa idea, che costituisce il centro narrativo di Il merlo maschio – Niccolò Vivaldi, violoncellista di fila, fotografa la moglie nuda – Festa Campanile sviluppa un grottesco che «mette in scena la tragedia di chi non sa più riconoscere se stesso»5 e in cui «il tema del voyeurismo, identificabile con il fare stesso del cinema, viene posto al centro di un discorso molto coerente sul piano narrativo, volutamente costruito su un crescendo paradossale»6. Il protagonista ha i suoi precedenti in campo letterario: in quei personaggi creati da Italo Svevo, irrimediabilmente mediocri, ma tentati da una presunzione di talento che li costringe a misurarsi con eventi più grandi di loro e li porta alla rovina. Niccolò Vivaldi (un nome che è già una pena da scontare) è uno di questi personaggi, lo comprendiamo dalla presentazione che fa di se stesso all’inizio de Il merlo maschio: Mi chiamo Niccolò Vivaldi. Sono musicista, sposato, ma non sono contento. E’ la gente…ecco, la gente che non si ricorda mai di me. A certa gente sono stato presentato dieci, venti volte: io mi ricordo benissimo di tutti, ma loro di me non si ricordano mai. Eppure ho un viso marcato, una forte personalità musicale, ho temperamento: non sono un nulla.

E’ un violoncellista di fila cui manca il talento per diventare solista, che, come lo Zeno Cosini di Svevo, è in cura da uno psicanalista e tiene un diario clinico per curarsi dal malessere mentale che lo attanaglia: Il medico mi ha detto che è solo un esaurimento nervoso, e siccome è un amico mi ha detto anche che è inutile spendere soldi per curarmi da lui. La cura, dice, consisterebbe nell’andare da lui due o tre volte la settimana per raccontargli tutto quello che mi passa per la testa, ma è la stessa cosa, mi ha detto, se scrivo un diario, purché scriva sempre la verità, a proposito di tutto quello che mi capita, di tutto quello che penso e addirittura anche i sogni.

Così annota puntualmente i suoi rapporti col tirannico direttore d’orchestra («Amici belli, dovete mettervi in testa una cosa: voi siete dei professionisti, pagati male, lo so, ma sempre meglio di quello che meritate…e allora mettetecela tutta, santa madonna!») che dimentica il suo nome e lo chiama Frescobaldi, gli scherzi del vicino di fila Cavalmoretti (che gli sostituisce la partitura del Primo scherzo di Mendelsson-Bartholdy con lo spartito di Funiculì Funiculà), gli incidenti occorsigli nella vita (venne dimenticato dall’autista durante il viaggio di nozze): «sono cose insignificanti – scrive – che non le devo drammatizzare. Io però con questa storia che la gente non mi riconosce mai, proprio mai, ci sto male». Quando il direttore applaude un’esecuzione dei violoncelli cui 4

Luciano Bianciardi, Il complesso di Loth, in La solita zuppa e altre storie, Bompiani, Milano, 1994, pp. 67-68 5 Aldo Viganò, Commedia…, cit., p. 140 6 Ibidem 4

Vivaldi non ha partecipato, entra in crisi, smette di minimizzare e dubita delle proprie qualità: La verità è questa, che il mio violoncello, ci sia o non ci sia, è lo stesso: nessuno lo sente. Forse lo sbaglio è stato nella scelta dello strumento: si sa, il violoncello è uno strumento di accompagnamento, non è mai il primo attore, serve a fare tappezzeria, a dare rinforzo ai bassi. No, il medico mi ha raccomandato di scrivere sul diario tutta la verità…Esiste anche Pablo Casals, esiste un primo violoncello. Esistono sonate per violoncello e piano, in cui è il piano a fare da accompagnamento. Esistono pezzi scritti apposta per il violoncello. Sono io che faccio parte della massa, non il violoncello!

Quando crede che anche il violoncello gli si ribelli («Costanza, ho capito tutto. E’ lui, lui che s’è nascosto. Si vergogna di me, mi odia…»), lo psicanalista gli consiglia di prendersi un periodo di riposo e di accompagnare la moglie a Salsomaggiore dove deve curarsi l’artrosi. In questo luogo ha una rivelazione fulminante, quella donna modesta, dall’apparenza mesta, di scarsa fantasia («Fa la polenta nei giorni pari…la fa malissimo»), spogliata è una donna bellissima, guardata con golosità da tutti i medici delle terme (ed anche da qualche critico, come Leo Pestelli, che scrisse, su La Stampa: «Attrice da tenere d’occhio, e possibilmente sottomano»7). Vivaldi si scopre contento e non geloso delle attenzioni degli estranei verso sua moglie («Peccato che la cura dei fanghi sia finita, anche perché Costanza ha ripreso quel suo aspetto di brava casalinga») e comincia ad avere l’idea di possedere uno strumento di rivalsa verso chi non lo considera, sua moglie: «Magari vestita non sei un granché, ma quando sei tutta nuda è un’altra cosa. Così ho pensato: non sarò un gran violoncellista, sarò un uomo così…qualunque. Ma ho una moglie che se la vorrebbero portare a letto tutti, invece è solo mia». Seguendo il consiglio di un musicista tedesco acquista una Polaroid e la fotografa segretamente («[…] dicono che la pellicola si sviluppa da sola, ma non aggiungono che si sviluppa senza bisogno di portarla dal fotografo professionista»8), mostrandola al collega Cavalmoretti («Questo qua non è un culo, boia: è un organo celeste, è una viola. E’ Bach!») che rimane sorpreso: «Uno che si cucca ‘sti lombi è un parone lui, no un poareto». Quando Costanza scopre il commercio che fa di lei il marito, arrivato a pubblicare le sue foto su un giornale pornografico, cerca rifugio dai genitori, che scopre molto emancipati: parteggiano per il marito e le sue manie voyeuristiche ed esibizoniste («Il sesso è un gran conforto, se no è sempre la solita minestra»: è un omaggio a Bianciardi, presente nel film nel ruolo del violoncellista Mazzacurati, autore di un racconto sulle abitudini sessuali degli italiani intitolato La solita zuppa). Sempre più frustrato nella vita reale («Un uomo frustrato dalla vita, spesso cerca la propria rivincita col sesso» recita lo psicanalista, citando William Reich), Niccolò Vivaldi: la sera che potrebbe significare una svolta si risolve in uno scacco. Ammalato il primo 7

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.773 5

violoncello, durante la messinscena della Tosca, il direttore sceglie al suo posto Cavalmoretti. Vivaldi decide di suicidarsi, buttandosi nell’Adige con il violoncello: «E’ la prima volta che mi suicido: mi dispiace di farlo, ma non mi resta altro. Sono un fallito. E poi, non mi trovo bene in questo mondo»: l’ammissione di colpa è subito superata in un’assegnazione di colpa (agli altri). Cavalmoretti, comunque lo dissuade dal suicidio, mostrando una concezione della vita molto pragmatica, capace di adattarsi alla propria mediocrità, senza presunzione: La vita è una festa malinconica…Ho fatto il solista una sera e basta, ecco, tutto qua. Doman se ritorna il cojon de sempre…I dolori son come i soldi caro mio: chi li ha se li tiene. C’è chi sta a galla e chi va a fondo e noi siamo quelli del fondo, ma proprio, eeehhh…

Se ne vanno a bere in un’osteria, dove c’è un altro personaggio dalla morale concreta, che non fa che rafforzare le idee di Cavalmoretti: un ubriaco consapevole dei tradimenti della moglie, che se ne torna a casa quando sa che l’amante l’ha appena lasciata. «Sei becco, ma rispettoso degli orari» gli fa Cavalmoretti e la risposta dell’ubriaco è ovvia: «Se tutti i becchi avesser un lampion, oddio, sai che illuminazion». Stimolato dai successi che ha con la moglie, si decide a comporre un’opera - «Il merlo maschio, opera gioiosa di Niccolò Vivaldi» - ma, una volta terminata, scopre con disperazione di averne copiato, nota per nota, una già scritta: La gazza ladra di Rossini. L’ossessione di Vivaldi peggiora, insieme con la sua frustrazione. Adesso, con la moglie compiacente, organizza delle vere e proprie messinscene, mostrandola nuda al portiere del suo palazzo (finge di non aver la chiave dell’appartamento e che la donna si sia sentita male nel bagno), agli operai di una ferrovia (la mostra nuda nel bagno), ad un dottore, ricavandone grande soddisfazione, arrivando a fare l’amore con Costanza davanti alle diapositive del direttore d’orchestra. Lo stile di Festa Campanile si fa immaginifico. La progressione ossessiva di Vivaldi è visualizzata, oltre che con obiettivi grandangolari che distorcono le prospettive e movimenti di macchina rotatori, continui, circolari o basculanti, quasi ipnotici - è ne Il merlo maschio che Festa Campanile mette a punto quella sua particolarità stilistica che consiste nel rifiutare la consueta punteggiatura cinematografica (dissolvenze, stacchi, neri) sostituendola con rapidissimi movimenti laterali della mdp che collegano le sequenze senza soluzione di continuità – con visioni oniriche surreali e grottesche che concretizzano i transfert psicanalitici del protagonista. Sono sequenze come il sogno della prova con il direttore d’orchestra («E’ un pezzo da suonare in pianissimo…Lei lo suona addirittura in zitto»); quella celebre in cui il violoncello è sostituito dalla visione posteriore di Costanza nuda, in un atteggiamento che ricorda la sagoma dello strumento o quando sogna di essere diretto in un amplesso con Costanza dal suo persecutorio 8

Luciano Bianciardi, Il complesso di Loth…, cit., p. 63

6

direttore d’orchestra: «Più brio, più brio…più basso, carezzevole…il pizzicato…adesso l’acuto»). L’obiettivo indaga sui volti e sui dettagli, ne dilata i lineamenti, ne amplifica i turbamenti (le gocce di sudore che imperlano il volto di Buzzanca, quando urla freneticamente: «Voglio svegliarmi, voglio svegliarmi»). L’ossessione del protagonista non può che avere una conclusione. Vivaldi perde il controllo di sé stesso: quando la moglie rischia di morire e gli chiede di smettere le esibizioni, l’uomo rimane vittima di un’amnesia freudiana: dimentica egli stesso il proprio nome. Costanza capisce che ormai è irrecuperabile: durante la rappresentazione dell'Aida, fa modo di partecipare al coro e si denuda davanti al pubblico dell’Arena (c’è un montaggio preciso, rispettoso dei punti dei vista e delle differenti reazioni dei personaggi: quando Costanza si denuda, il primo sguardo è del marito che se l’aspetta e l’inquadratura successiva è quella del corpo della donna ripreso di profilo; lo sguardo successivo è di Cavalmoretti, che rimane sorpreso: stavolta inquadratura dell’attrice è frontale, lei è nuda; infine abbiamo il punto di vista del direttore d’orchestra e poi del pubblico: la mdp si alza in un totale, poi in un campo lungo, con movimenti laterali riporta la sopresa degli spettatori): Vivaldi, stravolto, spinge via il direttore dal suo palco, lo sostituisce e comincia ad assaporare quello che crede il suo trionfo, mentre il pubblico, esterrefatto, protesta, mostra il corpo della moglie: Adesso il controfagotto. Su, girati, di dietro, di dietro…Fatti vedere di dietro. Fatti vedere di dietro!! E’ bellissima, è magnifica: è mia moglie. E’ tornita: è mia moglie. E’ mia moglie. E’ un organo celeste. E voi siete tutti tangheri, macachi, froci, froci, impotenti, impotenti!!

Gli infermieri della croce verde lo portano in manicomio, dove la sua ossessione non accenna a passare. Quando la moglie lo va a trovare, infatti, la mostra agli altri malati, ricercando ancora un impossibile successo: «Hai ragione è una gran bella tetta. – dice uno di essi - Mo’ ve’, ne ha anche un’altra. […] Attesto e certifico che la moglie di Niccolò Vivaldi ha le tette più belle del mondo, per averle toccate con mano». Il merlo maschio ebbe un grande successo all’estero, in Francia soprattutto (dove ebbe le migliori recensioni critiche9), e piacque moltissimo a Luchino Visconti, come ricorda lo stesso Festa Campanile: Ho fatto diversi film con Buzzanca, alcuni dei quali ottennero molto successo. E’ un bravo attore che ha avuto la sfortuna di imbattersi nei soliti filoni, nei generi, e forse ha fatto troppi film uno dietro l’altro sfruttando lo stesso personaggio e lo stesso genere. A me è capitato di fare con lui uno dei film che amo di più, Il merlo maschio. Il merlo maschio piacque moltissimo a Visconti, il quale mi disse una cosa che mi lasciò un po’ perplesso: «Se invece di esserci Buzzanca ci fosse stato Dustin Hoffman sarebbe stato un capolavoro!». Io sono contrario a questo atteggiamento. Quando Il merlo maschio uscì in Francia i francesi, non avendo consuetudine con il genere Buzzanca, col filone Buzzanca, non avendo quindi le prevenzioni che c’erano in Italia nei riguardi 9

Cfr. J.Zimmer, Saison ’74; G. Brancourt, Ecran, 20.12.1973, con intervista al regista di A. Ben Canaan; Anonimo, Cinéma et Télécinéma, 501, 15.1.1974 10 Fofi-Faldini, Cinema italiano…, cit., p. 184 7

dei film interpretati da Buzzanca, scrissero inni su Buzzanca e sul film. Buzzanca era bravissimo. Se ha dei limiti, questi secondo me sono rappresentati dalla ripetizione di certi personaggi di maschio italiano, di gallo siciliano. Ma non gli sono attribuibili, semmai è colpa della produzione, perché è un attore che potrebbe avere molte altre corde.10

Festa Campanile aveva ragione: senza Buzzanca, Il merlo maschio non avrebbe potuto risultare, con altrettanto efficacia, una riflessione sulla frustrazione dell’italiano negli anni del riflusso economico, il ritratto di una mediocrità artistica ed, insieme, un’analisi sui meccanismi voyeuristici e sull’ossessione erotica. Se, strutturalmente, Il merlo maschio rimanda a La coscienza di Zeno (il racconto in soggettiva, il diario clinico), la figura di Niccolò Vivaldi rimanda ad altri personaggi creati da Italo Svevo, quei suoi artisti mancati o falliti, per scarso talento, poca convinzione ed inerzia di carattere, come l’aspirante filosofo Alfonso Nitti di Una vita («Aveva trovata la sua via! Avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana […] Il titolo intanto: L’idea morale nel mondo moderno e la prefazione in cui dichiarava lo scopo del suo lavoro. Era uno scopo teorico senza veruna intenzione di utilità pratica […]. Lavorava bene ma lavorava poco. Ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi che ne aveva fatte si potevano contare sulle dita. […] Dopo qualche mese, vedendo che il risultato dei suoi sforzi era compreso tutto in quelle tre o quattro paginette di prefazione […] venne preso da un grande scoramento.»11) l’Emilio Brentani di Senilità («Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia»12) e, soprattutto, il Mario Samigli di Una burla riuscita («Mario Samigli era un letterato quasi sessantenne. Un romanzo che egli aveva pubblicato quarant’anni prima si sarebbe potuto considerare morto, se a questo mondo sapessero morire anche le cose che non furono mai nate. […] Alla sua età egli continuava a considerarsi destinato alla gloria, non per quello che aveva fatto, né per quello che sperava di poter fare, ma così, perché un’inerzia grande, quella stessa che gl’impediva ogni ribellione alla sua sorte, lo tratteneva dal faticoso lavoro di distruggere la convinzione che s’era formata nell’animo suo tanti anni prima»13). Niccolò Vivaldi non è un fallito perché inetto (Festa Campanile non è Svevo), è un personaggio che presume avere qualità che non ha, però è disegnato con lo stesso gusto umoristico di Svevo: è un uomo che vive a contatto con l’arte e per questo è convinto di possedere qualità artistiche, che nello stato presente non mostra, ma che è convinto di riuscire a rivelare in seguito. La frustrazione nasce dal non essere in pace con sé stesso:

11

Italo Svevo, Una vita, Dall’Oglio, Milano, 1938, pp. 83-84 Italo Svevo, Senilità, Bompiani, Milano, 1985, p. 6 13 Italo Svevo, Una burla riuscita, in I racconti, Rizzoli, Milano, 1988, p. 176 12

8

è un atteggiamento contrario a quello dell’amico Cavalmoretti, consapevole delle proprie (modeste) qualità. L’ossessione voyeuristica ed esibizionista che l’ammorba – condivisa con tutti gli altri conoscenti, da Cavalmoretti ai suoceri alla cognata, ma presente in condizioni abnormi – è una metafora metafilmica curiosamente anticipatrice. Il merlo maschio riflette su meccanismi erotici che il nostro cinema minore sfrutterà un quinquennio dopo, quelli del corpo femminile divenuto oggetto del desiderio degli sguardi avidi ed ingolositi di adolescenti impuberi e uomini maturi e frustrati: «Un’intera generazione è cresciuta guardando fellinianamente il sesso dal buco della serratura, e certamente ne ha tratto svariati problemi. Ma chi stava dall’altra parte del buco avrà vissuto davvero meglio la propria sessualità?»14. La risposta al quesito di Giacovelli potrebbe darla la paziente Costanza, pronta a soddisfare il marito in tutte le sue folli pretese, pur di concedergli un minimo di tranquillità. Costanza fa del suo corpo uno strumento da affidare nelle mani del maritodemiurgo-regista Niccolò, che ne Il merlo maschio costruisce con pazienza certosina e malata, tante diverse situazioni erotiche da mostrare a personaggi ignari, sorpresi ed, infine, attratti. Quella che Festa Campanile mette in scena è una metafora chiara e precisa del rapporto tra regista, attori e spettatori nelle commedie erotiche. Niccolò Vivaldi non è un personaggio da imparentare, come troppo spesso è stato fatto15, ai vari Armandino Fusecchio (Alvaro Vitali in L’insegnante va in collegio, 1977, di Mariano Laurenti), Roberto Marullo (Lucio Montanaro in L’insegnante viene a casa, 1978, di Michele Massimo Tarantini), Persichetti (ancora Vitali in La soldatessa alle grandi manovre, 1978 di Nando Cicero): non usufruisce in prima persona del piacere di vedere il corpo nudo della moglie; trova soddisfazione nell'osservare il piacere che hanno gli altri personaggi quando li mette in condizione di spiarlo. La sua è un’operazione di regia (quando dispone le diapositive dell’odiato direttore d’orchestra dietro il letto nuziale è come se allestisse una scenografia), che il regista Festa Campanile asseconda ed evidenzia puntualmente, con effetti vertiginosi, come l’abissale sequenza del treno, in cui dietro il riquadro del finestrino, il corpo nudo di Costanza è spiato da alcuni operai di linea, a loro volta osservati dall’obiettivo della mdp e dunque ritagliati all’interno dello spazio dell’inquadratura. Niccolò Vivaldi può essere paragonato soltanto al professor Ulderico Quario (Enrico Maria Salerno), il protagonista de Il corpo della ragassa (1979). E’ un altro demiurgo 14

Enrico Giacovelli, Non ci resta che…, cit., p. 130 Cfr. Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana e Non ci resta che ridere, Masolino D’Amico, La commedia all’italiana, Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga al festival di Cannes, Paolo Mereghetti, Dizionario dei film. 15

9

ossessionato dal sesso che si cimenta nel tentativo fatale di fare della bella contadina Teresa Aguzzi, detta Tirisin (Lilli Carati, «nel film che è un po’ il punto d’arrivo della sua carriera di star»16), uno strumento di piacere sessuale. E’ una

figura

di novello

Pigmalione (come Henry Higgins dell’omonima commedia: «Io di questa stracciona posso fare una duchessa […] Sì, in sei mesi – in tre forse se ha buon orecchio e lingua agile – io potrò presentarla in qualsiasi posto e presentarla come ogni altra persona»17) che tenta di trasformare una povera e sguaiata ragazza in «una gran dama, ovverossia una gran puttana»: accetta nella migliore società come oggetto di sfrenate pulsioni sessuali, come dimostra la sua presentazione, denudata, ad un ricevimento serale di borghesi benestanti (una scena che ricorda la vendita di Silvia come schiava in Scacco alla regina). Per meglio evidenziare l’ossessione erotica di Quario (subito presentata durante i titoli di testa, quando, scorta dalla sua auto una visione fuggevole di Tirisin, esclama: «Chiappa padana, razza sovrana!»), Festa Campanile scarnifica l’intreccio del romanzo di Brera nelle linee essenziali - elimina la nonna di Tirisin ed un personaggio importante come Chiara, la sorella psicopatica e lesbica del professore, per poter concentrare tutte le perversioni sessuali sulla figura maschile, trasforma la prostituta lombarda Cecchina in una romana, ed è una svolta fondamentale - tanto da rendere «tutta l’operazione […] troppo poco padana rispetto al testo di Brera»18. Al regista non interessa tracciare un quadro nitido della provincia padana (anche l’ambientazione è variata, dalla fluviale San Zenone Po ad una più suggestiva Mantova, la città lombarda che mantiene nelle sue vestigia ricordo degli intrighi e dei segreti dei Gonzaga, gli stessi di Una vergine per il principe), quanto riprendere la stessa metafora metafilmica de Il merlo maschio. Se ne accorse anche Marco Giusti, solitamente trascurato nell’accostarsi a Festa Campanile: «La Carati viene veramente esibita come “corpo della ragassa” all’interno dello stesso film. Vediamo il professor Ulderico Quario che la visita esattamente come i guardonispettatori che vanno al cinema, guardandola subito lì. E’ un momento quasi teorico per il cinema erotico del tempo. La discesa nella vagina della Carati. E noi con lui»19. Delle situazioni del romanzo, Festa Campanile conserva soprattutto le immaginose mascherate che Quario propone a Tirisin (travestita da marchesa Solange, «degna erede della contessa Amande de Collignon d’Avranche»20 o da Leila «che il bey travestito da beduino ha gloriosamente rapito all’harem d’un suo rivale politico»21). Sono i momenti in 16

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 173 G.B.Shaw, Pigmalione (trad. di Masolino D’Amico), Newton Compton, Roma, 1995, p.35 18 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 173 17

19

Ibidem Gianni Brera, Il corpo della ragassa, Longanesi, Milano, 1969, p. 200 21 Gianni Brera, Il corpo della…, cit., p. 205 20

10

cui Quario, come Vivaldi, assume il ruolo del regista: davanti agli specchi, che moltiplicano le immagini e rivelano le personalità, ora spoglia, ora riveste, di gioielli e di splendidi adornamenti, la ragazza («Lo specchio di Chiara, davanti al quale prende coscienza di sé, marchesa Solange, non evoca pensieri minimamente fastidiosi. Il duca Allan de Vendôme le ha chiesto di spogliarsi tutta come se fosse in camice e non in smoking: la voce era quella stessa: Tirisìn obbedisce esattamente come il primo giorno, quando

l’ha

visitata»22);

le

propone,

proprio

come

Vivaldi,

qualche

piccola

rappresentazione, in cui prepara puntualmente la scenografia e le battute da recitare: per esempio, fingersi una prostituta in attesa di un cliente, che dovrà essere ovviamente il professore. Quario concerta la loro vita in comune con continue piccole rappresentazioni, assalti, agguati, trabocchetti, atteggiamenti ambigui. Festa Campanile spezza l’andamento piano del racconto con alcuni inserti grotteschi, come la sequenza in cui il professore, a letto, posiziona una bottiglia di champagne sul basso ventre, per simulare davanti a Tirisìn:

un’ erezione

invece nella sua camera entra la sua governante, Caterina, che

gridando: «Sporcaccione!» le dà una gran manata sulla bottiglia, frantumandogliela addosso; è una sequenza, che, pur con una volgarità appositamente e pesantemente caricata (il prof. Quario è un libertino volgare e non sottile, come crede) omaggia al Billy Wilder di Sabrina, in cui William Holden si sedeva sui bicchieri. Anche Quario, come Vivaldi, sarà vittima della sua perversione, della sua ossessiva lascivia: morirà in una notte d’amplessi sfrenati con l’oggetto dei suoi impulsi libidinosi, Tirisin. Il corpo della ragassa non è una riproposizione dei temi de Il merlo maschio: ce lo rivela questo sorprendente finale, preparato da un intreccio matematico, cosparso da sottili allusioni, minimi dettagli rivelatori, apprentemente sparsi in modo casuale e svagato. La semplice e sbadata Tirisin, strumento ingenuo, oggetto dei propositi erotici del professore, si rivela essere un soggetto dell’azione, perfettamente consapevole delle mire di Quario e capace di governarle in modo insospettabile a suo profitto. Il professore muore in una notte di sesso e la sua morte è enigmatica: il suo decesso potrebbe essere stato non proprio casuale, ma provocato da Tirisin con l’unico strumento in suo possesso, il proprio corpo. La regia di Festa Campanile è tanto ambigua da permettere lo sfalsamento di prospettiva del punto di vista del racconto: Il corpo della ragassa ha la stessa struttura narrativa di un giallo. Il colpo di scena finale rimette in discussione tutta la logica della rappresentazione, ma il regista era stato attento a disporre l’indizio principale esattamente a metà del racconto: quando il prof. Quario mette in scena una delle sue

22

Ivi, p. 200

11

azioni teatrali con protagonista Tirisìn, quella in cui la ragazza deve fingere di essere una prostituta. Quando i due si incontrano su un ponte, la giovane, nel ripetere le battute scrittegli dal professore, si confonde ed afferma di essere “soggetto” di piacere, anziché “oggetto”. Quario s’arrabbia perché la ragazza ha sbagliato le battute, ma non capisce che quello è stato un lapsus rivelatorio. In questa storia sorprendente, in cui l’ossessione letale è raccontata con uno stile allusivo e insinuante, opposto a quello grottesco e carico di Il merlo maschio, Festa Campanile aveva sparso abilmente un altro indizio rivelatorio: il personaggio di Cecchina, la vecchia prostituta romana. E’ lei ad ispirare il comportamento di Tirisìn, conoscendo intimamente il prof. Quario e le sue perversioni, i suoi capricci, i suoi punti deboli. Il cambiamento di regionalità è decisivo: la sua romanità sarcastica e, talvolta anche cinica, stride con l’introversione cantilenante dei personaggi padani. La sua estraneità è evidente, così come la sua funzione di controcanto, capace di smascherare le pulsioni segrete di Quario, nascoste dietro un’apparente perbenismo. Il suo carattere intrigante ne fa la confidente ideale di Tirisin: è sua l’idea di rilevare con i soldi di Quario il bordello mantovano, l’occasione di una piena affermazione economica. Un ultimo, beffardo, colpo di scena ci rivela che siamo nel 1958, ed il bordello appena rilevato verrà subito chiuso con l’attuazione della legge Merlin. Tirisìn è capace di volgere a suo favore anche questa situazione: l’ultimo giorno di apertura sarà l’occasione per scegliere i propri clienti. La donna-oggetto diventa soggetto del piacere sessuale e trasforma l’uomo in uno strumento (è una delle risposte possibili all’interrogativo di Giacovelli). Il corpo della ragassa sviluppa le situazioni de La matriarca e Il merlo maschio: Tirisìn, progredendo l’emancipazione di Mimì governa a suo vantaggio le libidini maschili (mentre Mimì era ancora succube della virilità maschile, come testimonia il matrimonio finale con il medico); le ossessioni erotiche che avevano condotto Vivaldi alla follia, ne Il corpo della ragassa, spingono Quario verso una fine definitiva.

12

Capitolo 4: L’ambiguità dei rapporti interpersonali (Il prete ballerino, ep. Qua la mano; Nessuno è perfetto; Più bello di così si muore) Il parroco di un paese padano senza alberi, Don Fulgenzio, anticonformista amante del ballo, frequentatore di balere, incontra una sera in discoteca Rossana che s’innamora di lui: la riporta alla ragione e, sfidando le gerarchie ecclesiastiche, partecipa con lei ad una gara di ballo televisiva; vince e riceve in regalo gli alberi del paese (Il prete ballerino). Guerrino Castiglioni, industriale lombardo vedovo con suocera a carico che aspira a diventarne l’amante, incontra la fotomodella Chantal, se ne innamora pazzamente e la sposa, scoprendo in seguito che è un transessuale, ex-paracadutista tedesco sposato con prole: dopo un periodo di crisi esistenziale, decide di accettare le cose come stanno (Nessuno è perfetto). Il nullatenente Spartaco Meniconi, ex-detenuto disoccupato con moglie ambiziosa a carico, mantenuto dal cognato, è costretto dalla famiglia a lavorare sul marciapiede e, per non incorrere nella gelosia della moglie, a travestirsi ed attirare clienti maschi: il primo che incontra è un barone miope succube della madre che lo scambia per una donna, se ne innamora e chiede di sposarlo (Più bello di così si muore). Un prete oggetto dei desideri di una ragazza, un uomo che sposa un transessuale ed un altro che si innamora di un travestito: ci sono critici che hanno accusato Festa Campanile di girare film convenzionali - Marco Giusti ha parlato di «commediucce»1 che fanno ridere «con preti ballerini e papi polacchi»2, Brunetta di «film come Nessuno è perfetto, Culo e camicia, Bingo Bongo, Un povero ricco, che contribuiscono a fissare gli standard ideali della commedia degli anni Settanta e Ottanta»3, Giacovelli di commedie «non esaltanti»4, Alberto Orbicciani di «commedie di immediato successo popolare, ma decisamente poco memorabili»5 - ad inizio degli anni Ottanta. Con il gusto delle trovate paradossali, Festa Campanile giunge a rappresentare il problema

dell’identità

sessuale,

della

distorsione

e

dell’ambiguità

dei

rapporti

interpersonali nella vita quotidiana. Per far questo, e per raccontare storie insolite e difficili che siano immediatamente accettate dal pubblico, rende il più possibile “convenzionale” lo “sfondo” in cui si svolgono gli intrecci, sceglie come protagonisti attori di grande successo popolare (Adriano Celentano è Don Fulgenzio, Renato Pozzetto è

1

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 633 Ivi, p.184 3 Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema…, cit., p.322 4 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.91 5 Alberto Orbicciani, Adriana Russo, in Dizionario del cinema italiano, Le attrici, Gremese, Roma, 1999, p. 307 1 2

Guerrino Castiglioni ed Enrico Montesano è Spartaco Meniconi) e ravviva gli intrecci con spunti eccentrici e surreali. Il prete ballerino (secondo episodio del “movie-movie” Qua la mano) e Nessuno è perfetto hanno un’ambientazione provinciale, che permette di mettere in scena un intreccio di pettegolezzi, allusioni, rivelazioni parziali ed enormi illazioni: le reazioni più consone ad un ambiente dalla mentalità ristretta; Più bello di così si muore è ambientato a Roma, vista però nei suoi lati più segreti (gli stretti vicoli del centro storico, le distese pianeggianti delle periferie), che evitano l’inserimento della storia in un quadro sociale, per un’analisi psicologica dei sentimenti privati. L’ambientazione nella Bassa padana emiliano-romagnola consente al regista di fare de Il prete ballerino un «riadattamento moderno del vecchio Don Camillo»6. Don Fulgenzio ha come amico-nemico il sindaco Libero Battaglini (un Renzo Montagnani che, come Peppino De Filippo, «travolgente nella sua apparente calma, faceva ridere solo a pensarlo»7, capace di strappare la risata con un minimo movimento facciale), ma il regista evita di fondare le loro dispute su qualsiasi sottofondo ideologico-politico (anche se Battaglini è un «senza Dio» che, all’inizio del film va a confessarsi dopo vent’anni, in seguito ad una scommessa persa): sono vecchi amici d’infanzia e con gli altri compagni Benigno e Fausto, atei e pettegoli («Perché non metti su una bella trattoria. Avresti sempre più gente di quel localino che hai adesso» chiede Benigno a Don Fulgenzio) formano un gruppetto di burloni, amanti dello scherzo anche pesante. Festa Campanile tratteggia, con l’aiuto di Celentano, il personaggio di Don Fulgenzio con annotazioni eccentriche, facendone un prete molto stravagante: «è un ecologista che lotta per far piantare dieci alberi per ogni abitante della sua parrocchia»8 (è in un paese con un albero solo: «Voi avete mai visto un paese senza alberi? Un paese senza alberi è come un prete senza Dio!»), è uno sportivo che ama la boxe e il ciclismo («Questa…questa è la chiesa, non il Coni – gli ricorda il vescovo esasperato – Contravvenendo ai miei ordini, l’anno scorso hai partecipato al giro dell’Emilia Romagna», «Però sono arrivato primo», «Rischi di arrivare ultimo…») e, soprattutto, ama ballare («Dov’è che sta scritto che questo mestiere bisogna farlo senza allegria? Sant’Agostino diceva: “chi canta prega due volte”. Io dico che chi balla prega tre volte»): a tal proposito nasconde in canonica un impianto stereo e, tutti i sabato sera, se ne va segretamente in discoteca (il Kiwi di Modena), insospettendo gli amici che credono abbia un’amante: Benigno: - Ah! Ma è vero che oggi è sabato… Fausto: - Ma dov’è che vai tutti i sabato sera con la motocicletta. 6

Aldo Fittante, Questa è la storia…, cit., p.80 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 198 8 Aldo Fittante, Questa è la storia…, cit., p. 80 7

2

Libero: - Dicci la verità, dillo che vai dalla morosa… Benigno: - Dai… Libero: - Dicci chi è. La conosciamo? Benigno: - Resta in segreto. Don Fulgenzio: - Segreto segreto? Tutti (in coro): - Sì. Don Fulgenzio: - Vado dalla Zora. Benigno: - Chi? Dalla Zora… Libero: - La Zora quale? Don Fulgenzio: - La Zora Battaglini: tua moglie Libero: - Ma va, bestia di un prete! C’ha sempre voglia di scherzare, lui. Don Fulgenzio rientra in casa. Fausto: - Ragazzi, stasera non ci scappa…Ma se non va con tua moglie, con chi va? Libero: - Andrà con la tua. Fausto: - Impossibile. Mia moglie è un angelo. Libero: - Beato te: la mia è ancora viva.

Non è sorprendente, quando, nella discoteca, una ragazza, Rossana (Lilli Carati), lo nota mentre balla solitario e se ne invaghisce. Don Fulgenzio è indeciso sul comportamento da tenere: non può dichiarare di essere un prete, perché è sconveniente; non può accettare la corte della ragazza; non può neanche essere scortese con lei, perché non è nel suo carattere e nella sua missione. Diventa elusivo, sulla sua identità («Di’ un po’, ma tu chi sei?», «Sono uno che balla»), sul suo lavoro («Il lavoro mio è come una ditta…», «Un ente di stato?», «Di più…», «Un ente internazionale?», «Di più», «E che sarà mai, un ente spaziale?», «Eh…»). Gli incontri sono ripresi frontalmente dal regista, con i personaggi seduti al bancone del bar a sorseggiare una bibita, circondati da specchi e superfici riflettenti. Festa Campanile riesce a mettere in scena una situazione ambigua, che Don Fulgenzio vorrebbe rimanesse immobile (l’inquadratura frontale), ma che Rossana cerca di far progredire (gli specchi che rompono la frontalità dell’immagine). Così ad ogni nuovo incontro, la situazione si ripete, ma piccoli cambiamenti la variano, fino a farla sviluppare nella direzione voluta da Rossana: Don Fulgenzio difende paternalmente Rossana da un fidanzato sbruffone e lei lo crede un interessamento sentimentale, così da costringere il prete a mentire («Si può sapere perché mi hai difeso, ieri, che Baby mi ha messo le mani addosso?», «Ah, si chiama Baby?», «Nnon sviare il discorso», «Senti Rossana…io sono sposato. E poi sono anche uno che…», «…Ama sua moglie», «Beh, sono fedele»); Rossana beve con la sua cannuccia e si porta alla bocca la sua sigaretta, mentre continua a porgli domande provocatorie («Non è che tu sei dell’altra parrocchia?…Io ti interesso? Non so, non mi chiedi mai niente di me»), provocandogli un forte turbamento: Don Fulgenzio fuma con la cannuccia ed aspira dalla sigaretta. Infine Rossana giunge a baciarlo. Quando l’equivoco sembra senza uscita, una casualità conduce i due di fronte ad un negozio di elettrodomestici, nella cui vetrina c’è un televisore che sta trasmettendo un’intervista a Don Fulgenzio: la ragazza lo riconosce («Non è un fratello gemello, sono 3

proprio io. Adesso hai capito con chi sono sposato») e lo schiaffeggia («Certo, tu come sai scegliere il momento, eh?» esclama il prete rivolto al Signore). Nonostante tutto, Don Fulgenzio riesce a regolarizzare i propri sentimenti con Rossana ed a diventarne amico, giovandosi della loro passione comune della musica. Una passione per Don Fulgenzio veramente sfrenata (salta scatenato tra le panche della chiesa, seguendo il ritmo delle gocce di pioggia che tintinnano sulle bacinelle d’acqua dal tetto rotto), che supera anche gli ostacoli frapposti dalla morale comune e dalle gerarchie ecclesiastiche («Per entrare nel regno dei cieli bisogna essere puri come bambini. Guarda il vescovo…Quello lì che bambino è…Si fosse trattato di una donna o addirittura di un uomo era disposto anche a chiudere un occhio. E io, invece, per aver fatto una ballatina, ha fatto un ca…voglio dire: ha fatto un baccanone»). Quando un temporale fulmina l’unico albero rimasto nel paese (proprio dopo che Rossana lo ha baciato, Don Fulgenzio non vuole credere che sia una punizione divina: «Forse queste cose le faceva tuo padre, quand’era più giovane. Voglio dire…ai tempi del Vecchio Testamento» dice rivolgendosi al Crocifisso), partecipa con Rossana ad una gara di ballo televisiva per vincere gli alberi, sfidando il vescovo (che aveva promesso di spedirlo in Sudamerica), assecondando le ire di Libero («Invece di fare il prete da strapazzo, dimostra che sai fare qualcosa per questo paese, prima che sprofondi nella merda. Rischia qualcosa anche tu! Così magari ti fanno santo: Santo Fulgenzio degli alberi») e producendosi in una predica televisiva (la prima di Celentano, sette anni prima di Fantastico, che davanti all’allibito presentatore, un giovanissimo Andrea Roncato, cita Sant’Agostino e San Paolo: «Omnia munda mundis: tutto è puro per i puri di cuore»). Don Fulgenzio ha tanto successo da vincere la gara e sconfiggere il vescovo, poiché il Papa stesso («Roba grossa! Roba vestita bianco» urla il sindaco) ha visto la sua esibizione e, proprio mentre sta per partire («Come diceva San Colombano, prima di partire diamoci la mano. Avete perso un prete, ma avete guadagnato gli alberi. Qua la mano»), gli telefona, impedendogli di partire per il Brasile («Peccato: mi sarei perfezionato nella samba»). «Sorretto da una regia che sminuisce la splendida forma di Adriano («Il film s’impenna – scrisse Tullio Kezich su La Repubblica -

sulle piroette scattanti di un Celentano che

procede a ritmo rock. Non lontano dalla recitazione ballata di James Cagney, insomma quasi un fenomeno») e stimola efficacemente il cocktail rock-ecologico-surreale, tre delle “vene d’oro” del Molleggiato autore e dell’attore Molleggiato»9, Il prete ballerino compatta nella durata di un mediometraggio tre differenti linee narrative.

9

Aldo Fittante, Questa è la storia…, cit., p.80

4

E’ un’operazione opposta a quello di Nessuno è perfetto (1981), che invece dilata uno spunto iniziale che Festa Campanile riprende da Billy Wilder: la battuta finale di Joe Brown a Jack Lemmon, quando quest’ultimo gli rivela di essere un uomo, in A qualcuno piace caldo (1959). L’analisi psicologica è approssimativa e ridondante, per difetti di sceneggiatura. Fra soggettisti e sceneggiatori si sono fatti in quattro per dar modo al regista Pasquale Festa Campanile di strapparci qualche risata. Forse in troppi. Se Festa Campanile se la fosse scritta da sé, questa storiella, probabilmente il film sarebbe infatti riuscito migliore: non avrebbe sofferto di quell’ibridismo, metà farsesco metà drammatico, che non si traduce in grottesco, né lustra il paradosso d’ironia. […] La prima parte si spreca in sbaciucchiamenti fra la coppia impossibile Renato Pozzetto e Ornella Muti, con equivoci, capocciate, tuffi in piscina, e viaggi incantati negli occhi di lei; la seconda tenta con poco successo un confronto tra la balordaggine buffonesca di Guerrino e l’amorosa umiliazione della moglie-parà. Nel complesso effusioni, vaghissima critica di costume, e gran sfilata di toilettes.10

La prima parte presenta un momento centrale isolato dal contesto: la notte in camera d’albergo, dove Guerrino, ubriaco, incontra Chantal che tenta il suicidio; trattata come una pochade, con un meccanismo dai tempi perfetti (Guerrino e Chantal hanno preso la stessa camera, ma non si incontrano mai finché non si mettono a letto), ma che non aggiunge niente psicologicamente al disegno dei due personaggi. Il personaggio di Guerrino è disegnato con il gusto surreale tipico di Pozzetto: vedovo di una donna di cui era innamoratissimo, parla con la sua fotografia al cimitero, porta alla rovina la sua fabbrica (da quaranta dipendenti a due soli imbottigliatori di vino, che stampano le etichette con la macchina da scrivere e le incollano con la lingua), subisce i pettegolezzi del paese sul concubinaggio con la suocera, che vorrebbe realmente convivere con lui («Sai che stasera tua madre mi ha chiamato amore? – domanda alla fotografia di sua moglie – Ormai è senza freni, non ha più limiti. Mi hai fatto proprio un bel regalo. Ma non poteva morire lei?»). E’ un solitario, così come la fotomodella Chantal: il loro incontro è prevedibile. Una regia precisa e fluida - che definisce in modo nitido e piacevole le situazioni (i vitelloni che spettegolano sul muretto) ed i referenti (Guerrino, annoiato, guarda la Tv, dove sui canali passano, di seguito, una sequenza di Totò a colori, una de Il vizietto ed una di Qua la mano (l’episodio con Montesano): è una dichiarazione di poetica - sviluppa nella seconda parte un intrigo quasi giallo, con Guerrino che si improvvisa investigatore e ricostruisce l’identità di Chantal, grazie ad alcune fotografie, una rivista tedesca, una strana visita che riceve sua moglie (una donna ed un bambino che la ricattano). Quando scopre la verità, come nei gialli morali della storia del genere (i romanzi di Patrick Quentin, in cui «la realtà è un’apparenza ingannevole […] Soluzione del mistero significa

10

Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1989 (1982), p. 143

5

quindi acquisizione di una nuova realtà»11 o i film di Arthur Penn), ha una crisi morale e stretto tra lo sdegno dei concittadini ed i loro pettegolezzi, lo sgomento per una verità inaspettata ed una discordanza

tra

il

piacere

sessuale

provato

con

Chantal

ed il disgusto di riporto, rischia di perdere la sua compagna. Stizzito ed impaurito dalle reazioni dei conoscenti, infatti, tenta di mettere in scena prima un finto tradimento della moglie e poi una sua finta gravidanza, per ribadire la condizione attuale di Chantal, ormai donna con il risultato di far fuggire la moglie. Ridotto ad un triste ménage con la suocera, avrà la forza di vincere le convenzioni ed il perbenismo, dopo un incontro con l’amico Enzo, che lo sferzerà con parole rivelatorie del senso del film: Guerrino, tu non sei solo uno stronzo. Tu sei peggio: sei un mediocre! Come hai potuto infognarti in questo squallido concubinaggio…Ti rendi conto che sei nella merda fino al collo, sì o no? Ma cosa te ne frega a te se era una donna, un uomo, un muratore o un carabiniere! Tu l’ami. E allora? O hai paura di quello che dice la gente? Anche se prima fosse stato un albero, un gatto, un angelo o una strega, vattelo a riprendere! Cosa aspetti? E’ l’amore che conta!

E’ un inno alla libertà dell’amore e, più in generale, alla purezza dei sentimenti, vincitrice sul conformismo e sul consumismo della società moderna: una morale ricollegabile a quella di Più bello di così si muore (1982). Tratto da un romanzo dell’umorista Antonio Amurri, il film è un apologo sull’ennesima deviazione sessuale, il travestitismo, in cui la farsa grottesca è sottesa da un’amara satira della società dei consumi («Tra le pieghe della farsa leggera affiorano i veleni di un’amarezza maligna che verso la fine si tinge di malinconia»12). Spartaco è costretto a prostituirsi, travestendosi, da una famiglia (una moglie incinta, un cognato arrivista sposato ad una donna piuttosto facile) che aspira ad una buona posizione sociale. Per far questo è disposta a sfruttare l’unica risorsa di Spartaco, la potenza sessuale (uno sfruttamento analogo a quello di Conviene far bene l’amore, in cui la potenza sessuale era produttrice di risorse energetiche). L’incontro con il barone Nereo, succube di una madre possessiva (è un personaggio simile a quello di Didino in Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, senza sprazzi surreali, ma descritto con una comicità realista: «Quando vengo a Roma, vado sempre in albergo. Anzi, ogni volta in un albergo diverso, così mammima è costretta ad aspettare che sia io a telefonare» dichiara stizzito a Spartaco) è l’avvio di una storia impossibile: Nereo scambia Spartaco (che nel frattempo ha adottato lo pseudonimo di Marina) per una donna e se ne innamora («Marina, sei differente dalle altre donne: hai qualcosa di speciale» le confida Nereo), sommergendolo di regalie con cui l’altro sostiene la famiglia. Quando Spartaco è costretto a rivelare al barone la propria identità (ospitato nella sua casa con i familiari, è stato visto in abiti maschili e la situazione si è fatta insostenibile), 11

sarà

ancora

Alberto Tedeschi, Introduzione a Patrick Quentin, Controcorrente, Mondadori, Milano, 1976, p. VI 6

l’ambiziosa Amalia («io ormai me so’ pure abituata…a magna’ tre volte al giorno. Tutte le sere il televisiore a colori», «Pane e miseria m’hai fatto magna’. Manco l’affitto de ‘na baracca sei stato bono a guadagna’. Pe’ viaggio de nozze m’hai portato a Fregene…») a risolvere a modo suo la situazione: si concederà a Nereo, iniziando un concubinaggio a tre («Ma perché fai così – ricorda allo scocciato Spartaco – Nun ce fa manca’ niente: vestiti, sordi, da magna’, pure l’automobile»). Il finale è una beffa alle convenzioni: Spartaco (che ora vive agiatamente, ma come un mantenuto) riacquista la falsa identità di Marina, chiedendo a Nereo di reinstaurare il loro legame d'amicizia e riappropriarsi di una purezza di sentimenti e della propria identità perduta («Io ho sempre preso calci nella vita […].

Poi me so’ stravestito da donna e per la prima volta ho trovato una

persona che me trattava con gentilezza, se preoccupava de me»). E’ una storia che Festa Campanile regge perfettamente in bilico tra la volgarità potenziale delle situazioni narrative e le eleganze espressive con cui sfumarla: la raffinata fotografia di Contini e la scenografia di Crisanti che immergono il racconto tra i vicoli del centro di Roma, e contrappongono i palazzi sontuosamente arredati del barone Nereo e con la piccola abitazione fredda e oscura di Agenore; il contrappunto a Spartaco rappresentato dal felice travestito Marcello («’No sbajo de natura!» lo chiama Spartaco, prima di travestirsi anche lui), che ispira i parenti; la precisa caratterizzazione di personaggi secondari (come Ottavia, la cognata di Spartaco che pretende di sapere il francese: «Siamo tette a tette…[…] Vuol dire capoccia a capoccia»). Micciché ritiene il film tra i migliori del regista, rilevando la presenza di «un irresistibile Caprioli che si innamora del travestito Montesano»13. Vittorio Caprioli era uno degli attori preferiti dal regista:

la

loro

amicizia

era

talmente

profonda

che

all’attore

era

consentito

d’improvvisare i suoi ruoli sul set. Il loro sodalizio era iniziato con quel delizioso film che è Le voci bianche, dove Vittorio aveva così potuto tratteggiarsi al meglio quel personaggio di cantore bianco settecentesco, evirato nel fisico ma rimasto profondamente virile nella mente e nell’anima, tanto da preferire il suicidio a una simile condizione di vita, ed era terminato, passando attraverso successive prestazioni, con la caratterizzazione del barone cieco come una talpa, ma gran signore, di animo e di modi squisiti, che si innamora di una donna che è in realtà uno straordinario Enrico Montesano costretto per necessità a travestirsi, in Più bello di così si muore. Quando Pasqualino telefonava per una proposta di lavoro esordiva sempre chiedendo: «Vittorio hai qualche tassa da pagare;» e la risposta era invariabilmente: «Sì!».14

Il critico Morando Morandini ha acutamente rilevato che «En travesti il bravo Montesano assomiglia a Franca Valeri trentenne e duetta con Caprioli e il suo istrionismo sornione»15: il regista ripropone ironicamente i duetti di circa vent’anni prima della 12

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.989 Lino Miccichè, Cinema italiano…, cit., p.414 14 Virginia Caprioli, Vittorio ed io, cit., p.139 15 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.989 13

7

coppia Valeri-Caprioli. Fondati su una struttura ad equivoci doppi (il travestimento di Spartaco e la miopia di Nereo: l’uno ha da nascondere qualcosa, l’altro non ha occhi per guardare) i duetti tra Montesano e Caprioli consentono al regista di parodiare gli stereotipi della commedia sentimentale: il primo incontro (tra le passeggiatrici dello stadio dei Marmi), il primo invito a cena, il primo bacio sul divano della casa di Nereo (il divano si ribalta, Nereo perde gli occhiali e Spartaco la parrucca). E’ un gioco di rimandi e di battute, con punte di sarcasmo, tra il languido ed aulico Nereo («Oh, la tua manuccia ha sfiorato la mia boccuccia») e il pragmatico e becero Spartaco («Che tocca fa pe’ campa’»). Progressivamente, però, pur aumentando gli equivoci (gli scambi di identità), il rapporto tra Spartaco e Nereo si fa sempre più solido (ad Agenore che insulta il barone, Spartaco risponde: «Non è uno stronzo: è innamorato»). Una vera ammirazione s’impadronisce di Spartaco nei confronti di quel barone, miope, un po’ maniaco, ma buono e generoso. Si giunge così al ricordato finale, in cui i loro rapporti accettano l’ambiguità della rappresentazione, subordinata, però all’acquisizione di un sentimento vero (in questo caso d’amicizia: «Ma no’ ‘o vedi che p’ave’ ‘n amico me so’ rivestito da donna» esclama Spartaco): una conclusione comune ai tre film analizzati.

8

Capitolo 5: Roma e la sua disperata vitalità. (Le voci bianche, Rugantino, Sto così col papa, Manolesta) Per comprendere meglio il disegno che Festa Campanile fa della città di Roma e dei suoi personaggi nei quattro film a lei dedicati (Le voci bianche, Rugantino, Sto così col papa, ep. di Qua la mano e Manolesta) – i protagonisti, Meo, Rugantino, Orazio e Quirino pur essendo diversi tra loro per funzione sociale ed epoca storica in cui vivono, hanno tutti una stessa impronta caratteristica: una vitalità cialtrona e sbruffonesca – è opportuno risalire a quell’opera-prototipo che è la commedia musicale Rugantino, che Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa scrissero nel 1963, con la collaborazione di Luigi Magni, per Pietro Garinei e Sandro Giovannini: un successo eccezionale di pubblico che permise a Festa Campanile di trarne un film e un romanzo. Rugantino è una maschera popolare romana dell’ottocento, che deriva il proprio nome dal suo atteggiamento di protesta (rugare in romanesco ha il significato di protestare minacciando con arroganza). Una protesta sterile perché, come specifica Festa Campanile nel suo romanzo (che precisa gli aspetti più spettacolari della commedia), «Rugantino è un qualunquista incallito, giacobino coi giacobini, baciapile coi baciapile. Non che possieda una coscienza, ma a lui la coscienza serve per altre cose. “Io? Ma che ne frega a me? Leone o Pio, basta che magno io”»1. Ricorda Goffredo

Bellonci

che

«la maschera di Rugantino ha avuto nella storia

diverse facce: sbruffone, sdolcinato, vigliacco. Festa Campanile toglie nel linguaggio le sdolcinature di Zanazzo, conserva il tono risentito del discorso, impertinente ed epigrammatico anche quando è retorico. Rugantino assomiglia al Till Eulenspiegel di De Coster e Strauss»2. Una canzone della commedia rende esplicito il carattere di Rugantino: «Ma pensa che bellezza/ nun c’ho niente da fa’/ Porcaccia la miseria/ nientissimo da fa’/ e rompo li stivali a tutta quanta la città/ perché nun c’ho niente da fa’// Rugantinì, Rugantinà/ nun c’hai mai voja de lavorà/ Rugantinì, Rugantinà/ c’hai sempre voja de sta’ a scherza’». Il ritratto di Rugantino è valido per gli altri personaggi romani creati da Festa Campanile: il querulo Meo che circola per le strade di Roma, rimbeccando i passanti (da una finestra vola una sedia, indirizzata a lui: «Ariposate, mettete a sede’» gli gridano); il vetturino Orazio che vive la vita come un sogno, quello di realizzare l’incontro con il Papa; il ladro Gino Quirino, disoccupato, ma teso all’educazione del figlio. 1

Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Rugantino, Rizzoli, 1978, p.9 Goffredo Bellonci, prefazione a Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Rugantino, 1963 2

1

Nel Rugantino è impostato anche il linguaggio di questi film, un impasto di dialetto romanesco e italiano maccheronico, snocciolato con un gusto pungente e brillante, ricco di battute spiritose e spesso sboccate, ma anche di una sua dolcezza congenita: «Er romanesco è una lingua dolce, come una musica. Se po’ dì che più che pe’ parlà è fatta pe’ canta’. Nasce dar core e quanno sale dar gargarozzo come in una canna d’organo s’arrotonna tutta e quanno s’affaccia al labbro, prima de sorti’ fora, lo fa con delicatezza, con garbo, quasi sbruffone

addimannannose: “Addisturbo?”»

romano incarna la parte più maliconica.

dice Orazio Imperali,

che dello

Sono rintracciabili in Rugantino

espressioni gergali e dialettali come «Sì, lallero», «Sor du’ fodere», «Ma ‘ndo vai? Pe’ tetti?» ed un’intera declinazione dell’indicativo presente del verbo andare: «Io agnedi, tu annasti, egli agnede, noi annassimo, voi annassivo, coloro agnedero o, tutt’al più, andorno»; o espressioni colorite ed immaginifiche come queste: «Tiè! Lei fa Cleopatra e io

er serpente

che je dà er mozzico della vipera dove dice la storia» (rivolta da

Rugantino allo scultore Thorwaldsen), «Sei così secco che pe’ lascia’ l’ombra pe’ terra devi passa’ due volte»; e infine quelle rime a dispetto che si concludono con un insulto («San Simone della grotta/ siete fiji de na’…», «Fiore d’inverno/ io vado in paradiso e poi ritorno/ ma tu che aspetti a annattene all’inferno?») che diventeranno le espressioni preferite di Gino Quirino, col suo «liberatorio turpiloquio a ruota libera»3 («Ah se chiama pure Brega e se nun se fa ‘na plastica quanno frega»). Lo stesso linguaggio immaginoso avranno Orazio («Ah, Ben Hur, se acciacchi un occhio al cavallo, te faccio un’asola nella panza», «Piazza del Popolo. Populus Square: tre chiese, du’ bar, un obelisco e ‘na mignotta») e Meo. Le voci bianche, ha la stessa impostazione narrativa di Rugantino: ha l’andamento di una commedia musicale senza canzoni. E’ riconoscibile l’apporto dello sceneggiatore Luigi Magni a queste due opere: nella precisa ricostruzione storica della città di Roma, capitale dello Stato pontificio, «che concentra in sé il potere del Vicario di Cristo su questa terra contraddetto quotidianamente nella sua missione spirituale, imprigionata nelle pastoie di un governo temporale tra i più retrivi e reazionari, segnata da una organizzazione dello Stato tra le più liberticide e oppressive del panorama europeo, che smentisce nella prassi di un’autorità corrotta ogni prospettiva evangelica»4. Sia Meo che Rugantino, due popolani, devono sopravvivere in una società dominata dalle gerarchie ecclesiastiche e nobiliari e dalle loro sopraffazioni. I loro nemici sono soprattutto i nobili «gaudenti e feroci»5 (l’inesorabile e perfido principe Ascanio ne Le voci bianche, Don Niccolò e Donna Marta in Rugantino), rappresentati nel loro disumano 3

Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga…, cit., p.46 Carlo Tagliabue, Passò er tempo che noi trasteverini…, in Luigi Magni: storia e romanità, dramma, melodramma e satira, (a cura di Primo Piano sull’autore), ANCCI, Assisi, 1997, p.63 4

2

cinismo (Donna Marta si diverte a travestirsi da prostituta ed attirare popolani che Don Niccolò assalirà e getterà nel fiume), con un sarcasmo spietato: «Ci sono anche Donna Marta e Donna Letizia, nobildonne romane travestite da mignotte. Che se non fossero tanto carogne, le si potrebbe con agio prendere per vere»6. I personaggi ecclesiastici, diversamente dai nobili, sono meno cinici, magari ugualmente spietati ed ancora più infidi e corrotti, ma non disumani: alcuni di loro soccorrono, più o meno volontariamente, i protagonisti in disgrazia (come il frate trappista che fa fuggire Meo che gli si era attaccato per il diritto d’asilo, perché ha un appuntamento con l’amante). La differenza con i film dei Magni, sta nella diversa caratterizzazione che Festa Campanile dà dei suoi protagonisti romaneschi: Meo e Rugantino (quello teatrale) affrontano la vita con aerea leggerezza, si fanno beffe dell’autorità e della situazione sociale, hanno il gusto della bravata. Sono sbruffoni e loquaci, sarcastici e pavidi, disposti a giocarsi tutto per una battuta ad effetto. A volte, come Meo, ingaggiano delle sfide con i nobili: tra Meo e il principe Ascanio è un duello di vittorie e rivincite: inizialmente beffato da Meo (che gli tira addosso sterco di pecora), Ascanio lo sbeffeggia (lo invita a pranzo e glielo fa mangiare), poi è ancora Meo a tentare l’assalto (ustiona il piede del principe arroventando lo scalino della sua carrozza), ma Ascanio capovolge ancora la situazione a suo favore (buca le orecchie di Meo con una forchetta rovente). Nelle loro azioni non c’è alcuna connotazione politica, ma il gusto di vivere un’esistenza individualista, libera da legami sociali, politici, religiosi, in un’epoca in cui la personalità dell’individuo era in ogni modo oppressa e repressa. Festa Campanile rileva nel loro carattere ciò che maggiormente lo interessa: l’atteggiamento libertino, l’interesse ossessivo per una bella donna, il gusto incoercibile per il rapporto sessuale. Un atteggiamento che, come per molti altri personaggi creati da Festa Campanile, li porterà alla rovina: Meo, che «si finge un castrato per aver salva la vita, […] alla fine dovrà diventarlo davvero per aver messo incinta un’onorata nobildonna»7, Rugantino, incolpatosi di un delitto che non ha commesso per farsi ammirare dalla donna che ama, si farà decapitare pur di non ritrattare. Il tono narrativo de Le voci bianche e Rugantino è dinamico e picaresco e la dinamica degli incontri amorosi aggiunge una carica erotica da commedia galante. La ricostruzione non è solo scenografica, ma anche sociale e politica. Festa Campanile presenta con gusto archeeologico una galleria di tipi e caratterizzazioni dei personaggi dell’epoca: i bulli di Rugantino,

dagli

pseudonimi

tipizzanti,

Iscariotto,

Rubastracci,

Strappalenzola,

5

Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 61 Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Rugantino, cit., p.66 7 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p. 61 6

3

Bellachioma o anche, ne Le voci bianche, l’ipocrita e religioso Ora Pro Nobis, che, segretamente, fa il boia. Tra la moltitudine dei personaggi inventati, in Rugantino è rievocata la figura di Mastro Titta, boia realmente esistito che, in più di quarant’anni di carriera (dal 1796 al 1840) eseguì 339 giustizie. Oltre a qualche ovvio snellimento della struttura del racconto - il ridimensionamento dei personaggi di Eusebia e Mastro Titta, l’inserimento di una sequenza inedita, quella del carnevale, ricostruita filologicamente (con i mascherati che spengono l’un l’altro i moccoletti accesi che portano in mano, gridando: «Si’ ammazzato») - la trasposizione cinematografica di

Rugantino (1973) aggiunge

una nota particolare

all’impianto

narrativo: l’affidamento del ruolo del protagonista (che in teatro era stato nel 1963 e 1965 di Nino Manfedi, è sarà nel 1976 di Enrico Montesano e nel 1999 di Valerio Mastandrea) al «meridionale milanesizzato»8 Adriano Celentano. La decisione del regista fu giudicata negativamente dalla critica a causa della «mai sormontata incapacità di adeguarsi ai dialetti»9 da parte dell’attore-cantante: Giacovelli la definì «un’incredibile errore»10 e D’Amico scrisse che in Rugantino «Celentano appare più incongruo di altre volte, in lui la malizia sorniona dell’eroe trasteverino diventando ghigno nevrotico»11. L’inadattabilità di Celentano

al

dialetto è

evidente,

ma

tutto

quello

che

il

personaggio perde in realismo lo guadagna in asciuttezza recitativa: il ghigno nevrotico dell’attore non è incongruo, ma rivelatorio del nascosto malessere del personaggio, della sua inadattabilità alla società. Sto così col papa e Manolesta, ambientati in epoca contemporanea, aggiungono altri referenti letterari e cinematografici. L’atmosfera crepuscolare di Sto così col papa (1980), con i viaggi in carrozzella tra i resti di un antico passato e l’intreccio principale, fondato sulla memoria di fatti privati e malinconici, trova il suo riferimento precipuo in un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, del quale sono citati alcuni versi nell’episodio: «La morte st’anniscosta drent’all’orologgi/ e nessuno po’ di’ domani ancora/ sentirò batte’ er mezzogiorno d’oggi». Manolesta (1981), invece, nel suo manierismo iperrealista, riprendendo il personaggio di sottoproletario straccione e sboccato interpretato da Tomas Milian da un quinquennio (il personaggio di Monnezza appare ne Il trucido e lo sbirro, 1976, di Umberto Lenzi e verrà perfezionato da Bruno Corbucci in Squadra antiscippo, sempre del 1976) si rifà al cinema pecoreccio. Orazio Imperiali e Gino Quirino hanno ugualmente notevole attinenza con Meo e Rugantino. Quirino è un sottoproletario che vive ai margini della vita civile (abita su un barcone, è disoccupato), vive di espedienti («Mio padre preferisce fa’ la spesa a credito: 8

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p.1139 Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.193 10 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.61 9

4

“Pijo oggi e pago domani”. Anzi, quanno me pare. Tutti i signori fanno così») ed è concentrato sul mantenimento del figlio, cui non fa mancare nulla, coccolandolo e viziandolo pur in una vita così grama: «Io faccio il padre e quanno serve pure la madre – risponde al giudice che gli chiedeva quale lavoro avesse – Lei parla del secondo lavoro. Eh, io l’ho cercato ma dicono che ‘o danno sortanto a chi c’ha il primo. E c‘hanno ragione, se no che cazzo de secondo lavoro è?». Anche Quirino rifiuta nel linguaggio, come Meo e Rugantino, l’autorità costituita: definisce il sindaco, beffardamente, «un tizio con la fascia sulla panza». Ma, differentemente da loro, fiancheggia la vita civile senza parteciparvi. La marginalità della sua vita è un rifiuto del meccanismo della vita capitalistica: racconta al figlio una parabola sulla sogliola pescata dal mare: il pescatore lo ha fatto senza il permesso dell’animale e dunque, essendo senza autorizzazione, non è reato, anzi è giusto che ci sia qualcuno che la sfili da una bancarella al mercato. Orazio Imperiali, al contrario, pur essendo anche lui un proletario è inserito nella società

borghese:

si

presenta

come

un

impunito

(«So’

proprio

un

impunito,

mannaggia»), ma è pronto a ricordare i rapporti della famiglia con le autorità («La famiglia mia è tutta segnata da incontri col Papato»). Come tutti i romani è uno sbruffone («Tu non dici le bugie come tutti l’altri. Tu le spari grosse, ma proprio grosse, come i ragazzini» gli dice la moglie) e ha il gusto del gioco e dello scherzo: ama fare scommesse con l’amico Marotta, sarto del Vaticano («A Marò e mica pòi vince sempre»), che perde puntualmente accumulando debiti («Io ar posto der core c’ho ‘na sveglia. ‘Na sveglia mica si commuove» minaccia Marotta, chiedendo la riscossione). Vive modestamente, ma coltiva un sogno abnorme, che, a differenza degli protagonisti, realizza: riesce a parlare con il Papa, che nella società contemporanea ha perso il suo potere temporale e s’è riavvicinato al popolo. La vittoria di Orazio poggia sulla sua irresistibile spavalderia («Me gioco er cavallo, ‘a licenza e pure ‘a carozza. Una scommessa impossibile: m’affaccio alla finestra col Papa»), ma anche comportamento informale del Pontefice, che già conosceva il vetturino prima che fosse eletto al Santo Soglio e ne accetta il carattere franco e aperto («Se tante vorte ve va de veni’ a assaggia’ la carbonara come la fa’ mi’ moje, potete veni’ quanno ve pare, pure senza avviso»), ricambiandolo con un linguaggio brillante e generoso («Santità è suonata la mia ora», «Temo che sia suonata al momento sbagliato» è lo scambio di battute che avviene nel momento in cui suona la sveglia che Orazio voleva far passare per un pacemaker). In questi quattro film la città di Roma - le case, le mura, le chiese, i grandi palazzi barocchi, le ville - non è indifferente, ma ha la funzione di un altro personaggio, che contrappunta, talvolta minacciosamente, le vicende dei protagonisti. Se ne Le voci

11

Masolino D’Amico, La commedia…, cit., p.193

5

bianche tutto l’ambiente sembra in rovina – le abitazioni popolari sono diroccate e sommerse dalle erbacce, i palazzi nobiliari sono enormi ma vuoti, il loro sfarzo si spegne in un opaco squallore - in Rugantino i protagonisti si rivolgono direttamente alla città, invocandola per supportare le loro azioni. Durante il corteggiamento di Rugantino a Rosetta, i due personaggi affidano i loro pensieri contrastanti alle strofe di due canzoni contrapposte in un identico commento musicale: «Roma, nun fa la stupida stasera/ damme ‘na mano a faje di’ de sì/ Scegli tutte le stelle/ più brillarelle che puoi/ è un friccico de luna tutta pe’ noi// Faje sentì ch’è quasi primavera/ manda li mejo grilli a fa cri-cri…// prestame er ponentino/ più malandrino che c’hai/ Roma, reggeme er moccolo stasera» (è il pensiero di Rugantino), «Roma, nun fa la stupida stasera/ damme ‘na mano a famme dì de no/ Spegni tutte le stelle/ più brillarelle che c’hai// nasconneme la Luna, se non so’ guai// famme scordà ch’è quasi primavera/ tiemme ‘na mano in testa pe’ dì de no/ smorza quer venticello/ stuzzicarello che c’hai/ Roma nun fa la stupida stasera» (è l’invocazione di Rosetta). La vicenda sottoproletaria di Quirino è ambientata in una Roma periferica e sfatta, tra i barconi sul Tevere, le discariche, i canali fognari, le distese campagnole del Quadraro e le mura Aureliane dell’Appio (con le lunghe carrellate che pedinano le passeggiate delle prostitute) ed un intendimento ironico che gioca sul folkloristico ed il pittoresco: Quirino conversa con il suo avvocato mentre stanno girando un film biblico, vestiti con i costumi di scena (l’avvocato è Gesù, Quirino uno storpio), mentre l’aiuto-regista richiama gli attori e le comparse («La Madonna, Gesù Cristo, San Giuseppe») ed il figlio di Quirino s’interroga sul perché di tutte quelle bestemmie. Sto così col Papa recupera l’atmosfera crepuscolare nelle lunghe scarrozzate di Orazio per le strade di Roma, all’ora del tramonto oppure nel viaggio notturno con cui riporta il Pontefice al Vaticano da Castel Gandolfo. E’ un viaggio che ripercorre i sentieri della memoria e stabilisce - con le tappe di Orazio lungo il tragitto («Qui nacque, visse e morì, il più tardi possibile, Imperiali Orazio, amico del Papa») – il rapporto esemplare con una città in cui il passato confluisce nel presente e la memoria è nel quotidiano.

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Capitolo 6. Tra letteratura e cinema. (Conviene far bene l’amore, Il ladrone, La ragazza di Trieste) Nei diciotto anni intercorsi tra l’esordio letterario (La nonna Sabella, 1957) e il suo secondo romanzo (Conviene far bene l’amore, 1975), le qualità di scrittura di Pasquale Festa Campanile sono rimaste invariate (e tali rimarranno nei sei romanzi successivi), tanto da non far sospettare una distanza così remota tra le due opere. Il talento del narratore era già stato dispiegato all’esordio ed è proseguito, anche cinematograficamente, su una linea precisa e coerente. Talvolta è cambiato il tono del racconto, ora drammatico ora umoristico, ma mai lo stile, limpido ed agile. La scrittura di Festa Campanile è chiara, lucida, fa largo uso di periodi legati sinttatticamente per asindeto, composti di frasi brevi, in cui l’andamento piano nasconde un umorismo piacevole, ma talvolta beffardo e tendente al sarcasmo. Questo breve passo è esemplificativo: Per qualche giorno non sono andato all’università e ho girovagato per Roma. Avevo bisogno di distendermi i nervi e di riflettere. Spesso ho preso il barcone che percorre il Tevere avanti e indietro da San Paolo, dove c’è il capolinea, a Ponte Milvio in poco più di mezz’ora. E’ primavera, e il Tevere, tra i muraglioni e i platani, è stupendo, dolcissimo. L’acqua ha un colore tra il verde e il giallo, strano e riposante. Il barcone s’intona perfettamente al fiume, è uno zatterone largo, con sponde basse, coperto da un tendone verde. Se uno si sporge vede anche i rematori, che trovano posto nella parte posteriore dello scafo, sei rematori, sei a sinistra. Il timoniere è un fiumarolo che conosce i peggiori mulinelli sotto i ponti, e i fondali bassi. Purtroppo è sempre il fiume della merda, anche se il sindaco lo fa dragare a strascico.1

E’ uno stile diretto, perfettamente aderente ai fatti del racconto, che per ritmo interno e capacità di visualizzare l’oggetto della narrazione richiama lo stile cinematografico: i mezzi espressivi nel narratore Festa Campanile collimano. Nel seguente passo, tratto dal romanzo Il peccato (1980) , dedicato alla prima guerra mondiale, la concertazione di frasi che si susseguono come inquadrature costruisce un equilibrio grottesco, che unisce il tono umoristico, quello tragico ed un’aggressiva ferocia satirica contro le istituzioni: Questa mattina l’alpino Mario Boccardi è uscito dalla trincea che si vedeva appena: la foschia preannunciava un giorno afoso. In quell’ora, in cui le sentinelle perdono la nozione del loro compito, gli occhi fissi a un orizzonte vicinissimo che non vedono più, nessuno si è accorto di un ombra che scavalcava i sacchi di sabbia. Pochi minuti dopo la nebbia che saliva dalla valle, come succede di prima mattina in certi giorni d’estate, cancellava lo spazio tra le trincee avversarie. Boccardi ha camminato per venti ciechi minuti e alla fine, gridando Kamarad, si è consigliato per sbaglio ai nostri avamposti. Solo dopo che fu entrato di nuovo nella trincea da cui era partito , si è reso conto che non era prigionero degli austriaci ma dei suoi imbarazzati compagni. Non è stato possibile ignorare la sua diserzione, perché questa mattina il maggiore Barcari, avendo già lucidato tre paia di stivali, non aveva più niente da fare ed era salito in linea. Il povero Boccardi è rotolato dentro la trincea quasi sui suoi piedi. Il maggiore, la cui codardia è notoria, ha subito ceduto all’impulso di castigare in un altro il vigliacco che è in lui e ha condannato l’alpino alla fucilazione. Il delitto essendo palese, anzi pubblico, non c’era bisogno di ricorrere a un tribunale militare.2 1 2

Pasquale Festa Campanile, Conviene far bene l’amore, Milano, Bompiani, 1989 (1975), p. 41 Pasquale Festa Campanile, Il peccato, cit., p. 82

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La costruzione narrativa dei romanzi di Festa Campanile era adatta ad una trasposizione per immagini, anche se i romanzi non furono scritti in previsione di una futura riduzione cinematografica: erano il risultato di un’acuta ispirazione; con l’eccezione de La strega innamorata (1985) e de Il peccato (ma Gillo Pontecorvo non riuscì a chiudere il suo avanzato progetto di trasposizione del romanzo, per problemi con la produzione che desiderava avere come protagonista l’attore Robert De Niro) tutti divennero film: tre li diresse lo stesso Festa Campanile (Conviene far bene l’amore, Il ladrone, La ragazza di Trieste), uno Dino Risi (il già ricordato La nonna Sabella), uno Luigi Comencini (Buon Natale…Buon anno, 1989) ed uno Giovanni Veronesi (Per amore, solo per amore, 1993). Nonostante la particolare qualità visiva della sua scrittura, Pasquale Festa Campanile non era soddisfatto dei film che aveva tratto dai suoi romanzi e, più in generale, riteneva conflittuali i rapporti tra il cinema e la letteratura. Lo dichiarò in un’intervista di Franco Cauli, fatta due mesi prima della sua morte ed apparsa postuma: Quale dei tuoi film – fra quelli che hai tratto dai tuoi romanzi – ritieni di qualità superiore al libro o viceversa? “Sono tutti più brutti dei romanzi e questa considerazione mi ha ancora una volta convinto dell’inutilità di trasferire in cinema un’opera letteraria. Amo molto i libri che ho scritto e siccome io stesso ne ho curato la trasposizione cinematografica non posso dare la colpa a nessun altro di averli rovinati. La responsabilità è solo mia.” Nessuno meglio di te, che sei nello stesso tempo scrittore e regista, può spiegare perché molti scrittori disconoscono i film tratti dai loro libri. “Direi che è naturale che sia così. Io credo che sia quasi impossibile da un bel libro trarre un bel film. La letteratura è un genere artistico molto sottile e complesso. Uno scrittore può descrivere la psicologia dei personaggi più facilmente di quanto non la si possa illustrare attraverso delle semplici immagini. Parlando con alcuni lettori-spettatori che hanno letto i miei libri e visto i miei film mi sono sempre sentito dire la stessa cosa che ha un grande fondamento teorico. Cioè, che dopo aver visto il film avevano letto il libro ed erano rimasti condizionati dalle immagini degli attori nei personaggi, il che significa, secondo me, che la gente vuole avere il suo spazio, la sua libertà di inventarsi i visi dei suoi protagonisti, di contribuire alla storia che lo scrittore ha creato con la propria fantasia e in questo caso lo stesso pubblico diventa coautore dello scrittore. Questo è il fascino della letteratura per cui ogni lettore fa suo il libro dello scrittore.” Quindi, facendo un paragone fra libro e film, il libro sviluppa molto più la fantasia dello spettatore che non il film. “Certamente, ed è una cosa importantissima perché offre al lettore una grande emozione: la possibilità di immaginare a suo modo le cose che lo scrittore suggerisce, perché spesso l’autore le accenna soltanto”. Ti è mai successo di disconoscere un tuo film tratto da un tuo libro? “No, mi sembra una cosa impossibile perché fa sempre parte della mia vita, del mio lavoro. Per esempio Il ladrone è un film che è andato molto bene, è stato visto in televisione in tre lunghi episodi; ha avuto 14 milioni di spettatori a puntata ed è una delle storie che amo di più. Sono convinto che se fossi stato solo l’avrei realizzato meglio. Essere solo significa non dover affrontare compromessi con i produttori, i distributori e gli attori. E’ evidente che nel realizzare un film la legge principale che vige è quella del profitto. Il produttore ha bisogno di guadagnare ed è convinto che il film lo si debba fare in un certo modo perché possa piacere al pubblico. Quindi spinge l’autore a fare delle cose che non vorrebbe ed è difficile resistergli”. Quale ritieni che possa essere il rapporto tra letteratura e cinema? “Credo che l’autore debba avere una maggiore indipendenza mentre fa il suo film. Penso che il produttore cinematografico una volta che ha scelto il regista e gli ha affidato l’opera debba lasciarlo libero di esprimersi come meglio crede. Voglio comunque precisare che è più facile trarre da un romanzo mediocre un buon film perché il libro può essere arricchito da tante cose, come nel caso di

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uno dei più grandi film della cinematografia mondiale che è Via col vento. Il libro è mediocre mentre il film è bello. Il regista è stato capace di arricchire la trama con annotazioni psicologiche e con una buona recitazione degli attori. Mentre è molto più difficile trarre un buon film da un libro bello”.3

I romanzi di Pasquale Festa Campanile (con la significativa eccezione de La ragazza di Trieste) hanno la particolarità di adottare la focalizzazione interna della narrazione. La scrittura fattuale acquista una profondità psicologica nel racconto in prima persona del protagonista, che svela la propria consistenza di personaggio grazie ad una progressione narrativa che procede per iterazione: gli episodi si succedono con piccoli spostamenti, modifiche che non alterano la loro struttura iniziale. L’iterazione degli episodi provoca nel protagonista un’esperienza e quindi una mutazione psicologica, uno sviluppo della coscienza interiore. L’incipit de La strega innamorata condensa in poche righe questa caratteristica stilistica: A sei anni è accaduto il fatto che ha cambiato la mia vita. Immagino che altre sarebbero diventate pazze al mio posto o sarebbero morte: io mi tengo l’anima strettamente attaccata al corpo e sono ancora qui, libera, sana e a volte allegra, perché prima di tutto voglio vivere. Adesso ho sedici anni e sto per diventare una strega. Sono moto eccitata da questa prospettiva: sarò diversa dalle altre donne, avrò dei poteri che esse appena si immaginano. “Ti potrai vendicare” dice la mia inuiziatrice nella scienza delle cose nascoste, la vecchia Bernarda, che è una strega maestra. “Non dimenticare ciò che hanno fatto a tuo padre e a tua madre”, ripete e non capisce che io vorrei invece cancellare tutto dalla memoria. Non voglio essere obbligata a vendicarmi; desidero usare i miei poteri liberamente: Che mio padre e mia amdre siano morti sul rogo è stato un colpo tremendo, dato di traverso sulla mia vita di bambina, e non posso ricordarmene sempre. Tendo a dimenticarmene, perché è necessario, altrimenti non riuscirei più a campare. Non porto il segno dentro di me e sto attenta che non si veda.4

La trasposizione della focalizzazione interna al cinema è difficile da effettuare e Festa Campanile ha adottato l’espediente della voce fuori campo per ovviare a questa difficoltà (lo fece anche nella trasposizione, nel 1964, de La costanza della ragione, dal romanzo di Pratolini, attirandosi la critica di «incapacità di esprimersi con un mezzo espressivo proprio del linguaggio cinematografico»5). La voce fuori campo funge da contrappunto del racconto, talvolta ironico, talvolta, come ne Il merlo maschio, in contrapposizione alle immagini, e semplifica la struttura del racconto. «Il suo merito consisteva nel costruire storie con personaggi a tutto tondo, con situazioni logiche, con sviluppi sempre conseguenti, messi in scena con ritmi giusti, buon dosaggio di pause, cadenze di racconto calibrate anche quando appaiono disinvolte, misurato nella comicità e nell’alternanza con situazioni sentimentali e raccolte»6. 3

Franco Cauli, Uno stakanovista che amava il cinema e la letteratura, in Sipario, dic. 1986, p.16 4 Pasquale Festa Campanile, La strega innamorata, Bompiani, Milano, 1990 (1985), pp. 5-6 5 N.M.Lugaro, Alba, nov. 1964, in R.Poppi-M.Pecorari, Dizionario del cinema italiano, I Film, vol.3, cit., p. 137 6 Ettore Zocaro, Un esempio di grande…, cit., p. 14

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Il passaggio del racconto dalla letteratura al cinema chiarifica queste qualità ed evidenzia la natura del regista di narratore di storie in bilico sull’assurdo e l’irreale, dove l’irrazionale sembra dominare, recando condizioni abnormi nel quotidiano. Festa Campanile può raccontarle umoristicamente, come ne La strega innamorata (dove la strega Isidora s’innamora del Papa Urbano VIII), con un sarcasmo allucinato, come ne Il peccato (in cui la storia d’amore tra un prete ed una tisica rimette in discussione l’accezione di peccato sullo sfondo della carneficina bellica) o satiricamente, come in Conviene far bene l’amore. La trasposizione cinematografica del racconto evidenzia il carattere paradossale delle invenzioni umoristiche che connotano l’assunto, la struttura complessiva, i singoli episodi e le gag fulminanti. Conviene far bene l’amore è un film girato rapidamente, soffre della «sua debolezza d’impianto e della corrività delle soluzioni espressive»7 (c’è un uso troppo frequente della dialettica narrativa campo/controcampo e le inquadrature sono poco meditate), ma costituisce comunque «uno spettacolo stuzzicante e godibile»8. Tanto che l’esperto di fantascienza Giovanni Mongini gli dedica una pagina nella sua Storia del cinema di fantascienza: Tra i rari titoli di spicco del 1974 una segnalazione merita la pellicola di Pasquale Festa Campanile Conviene far bene l’amore, tratta dal suo omonimo romanzo edito da Bompiani. Il cinema italiano affronta così un tema fantascientifico nel modo che attualmente gli è più consono, ma non congeniale al genere: mescolandolo col sesso. A differenza di opere consimili questo film rivela però una vena di simpatico umorismo, che non scade affatto nella pornografia. L’autoreregista in un’intervista, come è ormai diventata un’abitudine, ha tenuto a dichiarare di non aver inteso fare un film fantascientifico, genere che non l’attira particolarmente, ma sviluppare un’idea che gli è sembrata stimolante. Il mondo è in piena crisi energetica: a Roma si circola in carrozza e tutte le luci sono spente da molto tempo, nessuna automobile, nessun treno od aereo circolano più. Un professore di biologia del Policlinico di Roma decide di applicare virtualmente un lontano predecessore, di usare cioè l’attività sessuale come fonte di energia. Il successo raggiunto dai suoi esperimenti, con i lampadari che si accendono, e le vie che si illuminano, scatena una divertentissima serie di trovate che culminano nella “lunga notte dell’orgia” dell’Hotel Hilton dove pratiche di tutti i generi vengono messe in funzione per verificare le varie forme di energia e le potenzialità che esse possono produrre. Va da sé che il sesso diventa all’ordine del giorno, che la fornicazione è obbligatoria, che nessuno può tenersi per mano e dirsi parole d’amore: il sesso diventa una catena di montaggio per produrre energia e le foto “porno” che ora circolano sono quelle di donne vestite. Il finale, forse un poco amaro, non toglie nulla alla vicenda: anzi, piacevolmente l’esalta e ne lascia un simpatico ricordo.9

Il film segue l’organizzazione narrativa del romanzo: ne rispetta la consequenzialità degli episodi e la focalizzazione interna del racconto (a narrare questa storia è il prof. Enrico Nobili, interpretato da Luigi Proietti). Nel film appare chiara la costruzione per 7

Dario Zanelli, Il Resto del Carlino, 30.3.1975, in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema italiano, I film, vol. 4 (A-L), Gremese, Roma, 1996, p. 204 8 Dario Zanelli, Il Resto del Carlino…, cit., p. 204 9 Claudia e Giovanni Mongini, Storia del cinema di fantascienza, vol.4, Dal 1969 al 1975, Fanucci, Roma, 1999, p. 112-113 5

iterazione degli episodi con spostamenti progressivi del racconto. La sperimentazione del prof. Nobili avviene secondo una progressione proporzionata. Le idee di William Reich, che sviluppano quelle dello scienziato Galvani - «gli organi sessuali, in stato di erezione, presentano un forte incremento di energia bioelettrica»10 - sono attuate per gradi: l’energia orgonica è ricercata inizialmente nei turbamenti sensuali di una ragazza accarezzata, poi da un amplesso, in seguito, in crescendo, da un amplesso tra individui sessualmente potenti, da una moltitudine di amplessi in un hotel, sinché il coito energetico non diventa esercizio comune alla popolazione mondiale. I risultati sono evidenti: dall’accensione di una lampadina, si passa a quella di un lampadario, di un intero viale, al funzionamento degli ascensori di un albergo, di una linea ferroviaria, al ripristino dell’energia mondiale. Attraverso un linguaggio, letterario e cinematografico, impassibile, Festa Campanile giunge ad una satira interna della società dei consumi. Conviene far bene l’amore presenta lo sviluppo possibile di una società (alle soglie del duemila) che subordina i sentimenti all’istinto sessuale, sfruttato per un guadagno economico: poiché i sentimenti nuocciono alla produzione di energia orgonica-coitale sono vietati, messi al bando da una forma di potere cui appartiene anche la chiesa, pronta a rivedere i suoi tabù («Restano sempre l’assassinio, il furto, l’avidità di denaro, la libertà di pensiero»). Nelle fabbriche si assumono fornicatori per sviluppare l’energia adatta a permettere la produzione, il sesso diventa un dovere da difendere con l’autorità. Festa Campanile descrive queste situazioni paradossali con una fantasia immaginosa, sarcastica e grottesca: La festa finalmente sta per finire, per gli sciocchi, i deboli, i nostalgici. Da una settimana reparti della polizia e dell’esercito si dedicano alla distruzione sistematica di tutte le cose che possono avere attinenza con il sentimento dell’amore, o che potrebbero contribuire a suscitarlo. Sempre per usare le parole di Swift, è stato un serio ed utile disegno. Con i lanciafiamme vengono bruciati tutti i campi di fiori. Falciate le rose rosse con le mitragliatrici. Rimosse le panchine dai parchi pubblici. E le amache, le altalene sequestrate nei giardini privati, nelle ville. Intere biblioteche di letteratura romantica sono bruciate nelle strade, Shelley, De Musset, Stendhal, Keats, Byron. Fatti a pezzi i dischi con le canzoni d’amore, i ballabili lenti, i famigerati slow, Night and day, Beguine the beguine, Tenderly. Erotizzata al massimo la pubblicità, e resa oscena. Vietati i tabacchi e gli alcolici, che inibiscono e obnubilano l’istinto sessuale. Nei negozi si espongono i vestiti più scollacciati e turbativi. Il disco più gettonato nei juke-box è quello dei famosi sospiri e rantoli orgasmatici simulati. Ma ci sono anche dischi con passi letterari di contenuto erotico: Miller, Lawrence, D’Annunzio. Sorgono un po’ ovunque stele e monumenti fallici. Sugli aquiloni vagine garriscono controvento.11

10 11

Pasquale Festa Campanile, Conviene far…, cit., p.23 Pasquale Festa Campanile, Conviene far…, cit., p.238

6

Il film conserva questo fantasia grottesca (nelle scene finali si vedono rossetti e asciugacapelli a forma di fallo, sui titoli del telegiornale il globo terrestre è sostituito da un deretano), operando alcuni cambiamenti, in funzione di un’accentuazione comica. Viene maggiormente caratterizzata la figura del prof. Nobili, presentato come uno sbadato (mangia il brodo con la forchetta, si pulisce gli occhiali con la stola del cardinale), attento soltanto alle sue teorie scientifiche. Ha un andamento farsesco anche la sequenza centrale del film, quella dell’albergo, in cui le autorità si sostituiscono agli inservienti per controllare l’esperimento, provocando una serie di equivoci; il ritmo sostenuto non soffoca però la causticità del regista (al primo ministro che ritiene l’orgia «Un grande esperimento», il cardinale Alberoni risponde con «Un grande bordello»). Conviene far bene l’amore è

un film da non sottovalutare: contiene molte

affermazioni sociopolitiche del regista, nascoste dietro l’anticonformismo narrativo: in una sequenza, un gruppo di bambini osserva il relitto di un aereo, mentre i genitori raccontano che una volta volavano, come gli uccelli; è beffardo sentire questa affermazione dal futuro regista de Il prete ballerino, in cui Don Fulgenzio afferma: «Lo sa che se un bambino di oggi vede un uccellino si spaventa, perché non sa cos’è. Lui crede che gli uccellini siano i missili». Anche Il ladrone (1979) è un film rispettoso del romanzo di partenza, anche se l’organizzazione narrativa è strutturata diversamente: ad esempio il personaggio di Batuel, il levita marito di Rachele, padrone di Caleb, appare a metà film, mentre nel romanzo è all’inizio e permette al personaggio del ladrone un’autopresentazione ironica che dispiega intere le sue caratteristiche: Il mio padrone è un levita e ha una quantità di nomi. Quando si presenta li recita tutti: dice che è Batuel, figlio di Eliu, figlio di Hazaele, che fu generato da Ioachim, figlio di Oreb, figlio di Zabulon, e così avanti, anzi indietro, di figlio in padre in nonno, per quattordici generazioni. Quanto a me, io ho un nome solo, il mio. Mi chiamo Caleb. Non so come si chiami mio padre per la buona ragione che non l’ho mai conosciuto. Così il mio secondo nome è bastardo e figlio di nessuno.12

Dal romanzo, Festa Campanile trae quegli episodi che sono più caratterizzanti (gli incontri con Gesù, durante i suoi miracoli, quelli con Appula, moglie del governatore Rufo, l’aggressione dei soldati romani), organizzati secondo una progressione psicologica di Caleb: la presentazione del personaggio (i suoi trucchi), l’incontro con Deborah, che diventerà la sua donna, gli incontri profetici con Gesù, i vagabondaggi che si chiudono sempre con una sconfitta, infine l’arresto e la crocifissione. Per Il ladrone Pasquale Festa Campanile[…] si era impegnato in special modo perché lo sentiva diverso dagli altri che aveva girato. E’ stato forse il film al quale ha tenuto di più perché per la prima volta è riuscito a sposare una vena allegra e beffarda a contenuti drammatici e commoventi. E’ la storia di un ladrone, Caleb, il ladrone buono della croce, un antieroe picaresco, un ciarlatano 12

Pasquale Festa Campanile, Il ladrone, Bompiani, Milano, 1984 (1977), p. 5

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simpatico, che vende polveri miracolose, finte reliquie a creduloni, farisei e prostitute di una Palestina che comincia ad essere percorsa dai messaggi rivoluzionari di Cristo per mettere insieme ventimila dracme e comprarsi la cittadinanza romana. Campanile lo girò interamente in Tunisia, scegliendo la faccia della Palestina più povera e miserabile per sottolineare la disperata storia del protagonista. Comunque lo si giudichi, la prerogativa di questo film sta nel saper imprimere alla narrazione un “taglio” e una disinvoltura di linguaggio, tali da renderne spedita sia la lettura che la visione filmica […]. Il ladrone non mancava di avere qualche relazione con il romanzo successivo Per amore, solo per amore. E’ un libro, quest’ultimo, in cui viene raccontato l’amore di Giuseppe e di Maria portandolo fuori dai testi religiosi e da quel tanto di sacro timore con cui si è indotti ad accostarvisi. Il risultato è un’opera di smitizzazione: un fattore che si ritrova sempre nelle sue opere, anche le più divertenti e consumistiche, sia di cinema che di letteratura. 13

Il ladrone conserva una carica di provocazione, fin nella scelta dell’attore protagonista, Enrico Montesano: «Contro tanti pareri avversi ebbe il coraggio di accettare Enrico Montesano come protagonista. Quando, prima dell’uscita del film, su qualche rotocalco apparve l’immagine di Montesano in croce, tutto il cinema disse che Festa Campanile era impazzito. Ma aveva ragione lui e fu un grande successo»14. Festa Campanile riesce nell’intento di costruire un personaggio credibile, che racchiude in sé le caratteristiche dei protagonisti di tanti film del regista: una spavalderia spensierata ed, insieme, malinconica, come ha rilevato Giacovelli: Anche il furfantello dalla baldoria facile predica e vive un proprio Vangelo, non importa se rivolto più allo stomaco che all’anima: quand’anche siano chiuse all’uomo le porte dell’eternità, una vita spensierata, libera e bella è premio a sé stessa. Sulla croce, mentre Gesù, pensa agli affari del Cielo, al futuro dell’Umanità, essendo in fondo un intellettuale idealista, uno che si avvelena la vita col vano proposito di cambiare il mondo, il buon ladrone si rassegna alla propria sorte: ricorda serenamente i giorni della vita, avendo sempre vissuto alla giornata, non “all’eternità”, e ritrovandosi ai piedi della croce, in lacrime, una donna bella d’amore carnale, non cortigiani a caccia di Paradiso. «Non devi avere pena per me. Muoio giovane, è vero, ma che importa? Sono sempre stato un uomo libero: anche in carcere, anche qui sulla croce. Ho patito fame, sete, miseria, mi hanno picchiato…Ma ho camminato per il mondo, ho inventato trucchi bellissimi, ho avuto una donna come te, mi sono divertito…».15

Gli esiti de Il ladrone (romanzo e film) vanno riconsiderati in rapporto con il romanzo Per amore, solo per amore (che Festa Campanile non riuscì a trasporre, come avrebbe voluto, perché la morte lo colse subito dopo aver firmato un contratto in esclusiva di cinque anni con Luigi De Laurentiis), come ricordava Zocaro. Gli incroci tra Caleb e Gesù non appartengono soltanto alla categoria della smitizzazione, cui pure rimanda il memorabile scambio di battute finale (del romanzo e del film): «Gesù lo ringraziò e gli disse: “Oggi sarai con me nel mio regno”. Caleb sorrise. “Va pure avanti tu”, rispose»16. La prospettiva di Caleb è una prospettiva decentrata che permette di raccontare indirettamente il personaggio di Gesù senza bigottismi e pesantezze pedantesche: Festa Campanile sa illustrarla efficacemente nel film, mostrando i miracoli di Gesù in campo 13

Ettore Zocaro, Un esempio di grande…, cit., p.13 Fulvio Lucisano, Per Pasqualino, in Sipario, dic. 1986, p. 24 15 Enrico Giacovelli, La commedia…, cit., p.84 16 Pasquale Festa Campanile, Il ladrone, cit., p. 216 14

8

lungo, secondo il punto di vista Caleb, giungendo a tenere fuori campo la resurrezione di Lazzaro. Anche nel romanzo la prospettiva decentrata, che sfiora le vicende di Cristo senza raccontarle direttamente, è evidente; come nel passo che narra del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: Sulla sponda del lago troviamo una vera folla, migliaia di persone, che lo aspettano. Lui non c’è. Un rapido cenno a Teofane e ci ficchiamo in mezzo alla gente, che è il miglior modo per nascondersi. Gesù arriva dal largo su una grossa barca. E’ una cosa che fa effetto: lui è in piedi sulla prua, la barca scivola sull’acqua, spinta dai remi di alcuni apostoli, che erano pescatori di mestiere. Parla alla gente dal ponte dell’imbarcazione. Non odo una parola, perché sono troppo lontano, ma immagino che siano le solite cose: contro i ricchi, i preti e i farisei, che mi va benissimo, e in favore dell’essere poveri e perseguitati, che mi va meno bene. Parla a lungo, fino al tramonto. La folla è un poco irrequieta, quando finisce, perché nessuno ha mangiato granché dalla mattina in qua. Giovanotti e ragazzi passano tra noi e ci pregano di metterci tutti a sedere, dividendoci in gruppi di cinquanta. Poi incominciano a distribuire da mangiare: pane e pesce arrostito. O meglio è Gesù che porge continuamente a questi giovani il cibo e loro vanno in giro e ce lo portano. Ce n’è per tutti. Mangiamo a sazietà, tanto che i ragazzi raccolgono non so quante sporte d’avanzi. Sento dire qualche giorno dopo che era un miracolo. Tutti ne parlano di qua e di là del lago di Genezareth. Non per spirito di contraddizione, ma per vederci chiaro, ne parlo anch’io. 17

Pasquale Festa Campanile può, in questo modo, affrontare temi religiosi, «il libro delle immagini sacre»18 e giungere a Per amore, solo per amore e raccontare la storia d’amore di Giuseppe e di Maria come fosse una comune storia sentimentale. In questo ritratto di San Giuseppe che non si chiude mai nel sacro del suo studio, non veste panni curiali: se fa una scommessa è proprio questa di volerci raccontare come una storia reale ciò che per molti ha soltanto il sapore della leggenda. Curioso che abbia scelto una figura che nell’opinione comune viene data per incomprensibile o negata ai nostri strumenti di individuazione […]. L’impegno del narratore qui è […] svelarci un Giuseppe probabile, fuori dalle poche luci che la storia sacra ci consente e immerso nel quotidiano, così come ce lo possiamo immaginare. […] Ha studiato, ha letto e poi è passato all’impasto, al difficile tentativo di saldare in una sola voce la tradizione e il nuovo. […] La scelta è caduta sulla norma, sul discorso piano, facendo di Giuseppe e di Maria due creature umane che a un certo punto si incontrano, si amano, soffrono la gelosia e non presentano mai i titoli della loro gloria futura. Resta il miracolo, l’evento miracoloso al quale i due protagonisti contrappongono la sola risposta che suggerisce la verità interiore: non chiedere più, accettare, obbedire, soprattutto conservare gelosamente il senso e il peso del ricordo. Non ricordo nell’ambito delle grandi esercitazioni letterarie una soluzione del genere: di solito i commentatori o gli interpreti liberi […] o scivolavano o si arrampicavano sui vetri, lasciando vedere e capire che o giudicavano il tema marginale o non suscettibile di interpretazioni. […] Festa Campanile […] si è messo al posto dei vicini, di chi viveva con Giuseppe e alle domande che certo hanno dato origine alla scelta del tema, ha risposto con le parole, gli scatti, le reazioni che sono degli uomini di sempre di fronte all’amore, al tradimento, alla gelosia. Con un tratto di pudore ha voluto poi richiudere la sua storia nell’involucro costituito dai secoli, non ha sforzato, non ha mai piegato al gusro e alla tentazione dell’intelligenza il problema tutto umano offerto da una vicenda che di solito partecipa più del divino che del mistero. In tal senso il lettore si sente autorizzato a chiedere a Festa Campanile, perché non raccontare con le parole di oggi e i nostri sentimenti eterni tutta la storia di Gesù? 19

17

Pasquale Festa Campanile, Il ladrone…, cit., p.173 Carlo Bo, Prefazione a Pasquale Festa Campanile, Per amore, solo per amore, Bompiani, Milano, 1983, p.7 19 Ivi, pp. 8-10 18

9

La scelta dell’autore di raccontare quest’evento capitale della storia del cristianesimo dalla parte di Giuseppe è ascrivibile all’ispirazione del regista:

all’interesse

per

gli

antieroi e per quei personaggi comuni che affrontano aspetti impensabili della realtà. Il Giuseppe di Per amore, solo per amore ha caratteristiche comuni con quelle di Caleb (l’incredulità di fronte a manifestazioni arcane), ma anche con quelle di Meo e di Rugantino (è un donnaiolo, un ragazzo spavaldo e intelligente, astuto, ma giusto). Con queste opere l’autore affronta temi religiosi in una prospettiva laica, rivelandosi narratore dal gusto anticonvenzionale, che utilizza i mezzi dell’introspezione psicologica e dell’umorismo per raccontare storie fuori dal comune. Lo stile è evidente tra le pagine di Per amore, solo per amore, dove il rapporto tra Giuseppe e Gesù è inserito nella dialettica dei rapporti padre-figlio, ma riesce a manifestare una forte carica nei sottintesi: “Il Signore sia con voi”, salutò Gesù, mettendosi a tavola per ultimo. Era di nuovo in ritardo. “E tu, sei sicuro che il Signore sia con te? Se fosse tuo padre al posto mio, ti tirerebbe le orecchie.” “Puoi sempre tirarmele tu”, disse Gesù, pronto ad accettare il castigo che Giuseppe volesse infliggergli. “E’ così che mi rispondi? Chi credi di essere?” ormai lanciato, il mio padrone proseguì nel suo sfogo. “Un signorino, il capo di casa, il padrone del mondo, che vai e vieni come ti pare? Ti dico io che cosa sei: un presuntuoso, perché ti credi da più di tua madre e di me; un ingrato, perché te ne infischi dei sacrifici che facciamo per te; un fannullone, un discolo, un vagabondo. Finirai male, te lo dico io”.20

Ne Il ladrone il regista riserva al racconto lo stesso trattamento anticonformista già nella composizione delle inquadrature, come in quelle finali dedicate alla crocifissione. Rifiutando la magniloquenza delle immagini tipica delle produzioni hollywoodiane dedicate a Gesù (La più grande storia mai raccontata, di Stevens), Festa Campanile, sorretto da una fotografia dai colori pastello che rileva plasticamente i corpi con effetti di controluce, lavora per sottrazione, stilizzando le immagini secondo una disposizione triangolari degli oggetti dell’inquadratura, e sottolinea l’isolamento dei crocifissi e il dolore straziato dei credenti. Iconograficamente è una sequenza ispirata ai presepi napoletani secenteschi. Le inquadrature della crocifissione sono spesso in campo lungo ed i pochi primi piani, sono dedicati, coerentemente, a Caleb. Le accoglienze critiche verso Il ladrone sono state contrastanti e, come spesso è accaduto nei confronti del regista, superficiali. Sorvolando sulla critica indiretta di Pietro Pisarra (che, recensendo Qua la mano, scrive: «Forse per farsi perdonare lo scivolone di un

film

come

Il

ladrone…»21),

sono

esemplari

di

una

precisa

mancanza

di

approfondimento i giudizi di Paolo Mereghetti e Marco Giusti. Il primo giudica il film una «inconsueta prova di Festa Campanile, che si ispira ad un suo romanzo per affrontare un 20

Pasquale Festa Campanile, Per amore, solo per amore, cit., p. 171 Pietro Pisarra, Rivista del Cinematografo, 7,1980, in Poppi-Pecorari, Dizionario del cinema…, voI. 4, cit., p. 193 10 21

tema più serio del solito, ma il risultato, anche per alcune indulgenze a una comicità facile e volgare, è inferiore alle attese»22; il secondo un «film “serio” di Pasquale Festa Campanile, che inaugura il filone comico-mistico. Abbastanza riuscito come operazione. E non era facile da far accettare al pubblico Enrico Montesano come ladrone che morirà accanto a Gesù-Claudio Cassinelli sulla croce. A completare il tutto ci sono Edwige Fenech non ancora del tutto rivestita, ma che pensa di recitare in un film intellettuale (infatti lo cita sempre come esempio delle sue opere maggiori), solidi caratteristi come Daniele Vargas, Enzo Robutti e Auretta Gay appena uscita da Zombi 2 di Lucio Fulci. Uscito in Francia come Le larron»23. Tutto qui. La rapida recensione di Mereghetti rientra nella solita critica rivolta a Festa Campanile, quella di non essere all’altezza delle sue qualità, a causa dei cedimenti alla volgarità corrente. Ne Il ladrone, però, le scene volgari sono volute e tutte dedicate alla rappresentazione dei romani, detentori del potere: è una volgarità cinica quella di Rufo e Appula; è una volgarità putrida quella del soldato romano (Robutti) che uccide il cane di Caleb (che il ladrone porta in mano come un capro espiatorio) e gli urina sulla testa; è una volgarita beffarda, compensatoria di quella romana, quella di Caleb, che si vendica del soldato romano con una burla boccaccesca: lo mostra nudo alle donne giudee, dopo avergli fatto credere di aver bevuto una pozione che lo rende invisibile. La rivalutazione di Giusti è invece più ambigua perché, dietro gli apparenti elogi, c’è la volontà di dare un incasellamento alla produzione di Festa Campanile, che è un regista di commedie leggere e tale dorvrebbe rimanere (è esemplare quel «pensa di recitare in un film intellettuale» rivolto ad Edwige Fenech). Considerare, comunque, Il ladrone un film comico ed avvicinarlo al filone comico-mistico (Il pap’occhio, 1980, di Renzo Arbore e Miracoloni, 1981, di Francesco Massaro) è sintomo di superficialità. Un sintomo evidente anche nel giudizio critico su La ragazza di Trieste (1982): «Disastro. Lanciato come film del riscatto di Pasquale Festa Campanile, dopo anni di commediucce,

tratto

da

un

suo

libro

“serio”,

con

un

protagonista

come Ben

Gazzara in coppia con Ornella Muti come più o meno contemporaneamente aveva fatto Marco Ferreri, e invece il film è deludente. “La storia appare banalizzata e appiattita, il ricorso

alla

“follia”

come

produttrice

di

senso

è

più

che

mai

ovvio

e

falso

nell’edulcorazione della confezione patinata del prodotto. Resta la visione della testa pelata della Muti su un corpo che non è da meno” (Giovanni Buttafava). Infatti, la grande trovata del film, che rimarrà immortale proprio per quello, è la Muti pelatona e seminuda sulla spiaggia di Trieste»24. 22

Paolo Mereghetti, Dizionario dei Film, Baldini & Castoldi. Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.394 24 Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p.633 23

11

La ragazza di Trieste rimarrà nel ricordo per quella concentrazione di effetti del primo piano finale sul volto di Dino (Ben Gazzara) che, mentre guarda Nicole lasciarsi lentamente affondare, disegna sul viso impassibile un sorriso appena accennato e che risolve in una sola inquadratura il senso della storia, racchiuso nel romanzo in queste ultime frasi: Dentro di sé sperava che non la trovassero: voleva arrivare alla notte senza la certezza brutale di un cadavere, che bisognava riconoscere e vegliare e seppellire. Si alzò e andò ancora alla finestra, a guardare come faceva sempre, quando perdeva di vista un attimo la ragazza e si domandava con una punta di angoscia che cosa stesse combinando. Poi, di colpo, capì che non avrebbe più dovuto preoccuparsi di ciò che Nicole diceva o faceva. Odiò il senso di liberazione che stava provando.25

La ragazza di Trieste è l’unico romanzo di Pasquale Festa Campanile narrato con una focalizzazione esterna, che analizza i comportamenti di Dino e Nicole in modo oggettivo. Si inserisce facilmente nella tematica dell’autore, nella volontà di raccontare storie eccezionali: in questo caso un melodramma d’”amor fou” tra un disegnatore di fumetti ed una misteriosa ragazza dalle molte identità che si rivelerà essere una psicolabile, soggetta a turbe depressive e ad amnesia. Dina e Nicole sono due personaggi equiparabili, immersi in una realtà parallela ed alternativa, quella dell’invenzione artistica e quella della follia. La struttura narrativa è quella del giallo: il disegnatore si improvvisa investigatore per risolvere il mistero della strana personalità di Nicole, che appare e scompare dal suo appartamento, rivela false identità e si attribuisce diverse personalità. Nel ritratto dei protagonisti, Festa Campanile mostra una penetrante introspezione psicologica, capace di svelare inconsueti aspetti mentali nel rapporto amoroso. Dal bagno non veniva più alcun rumore. Dino la chiamò per nome alzando la voce; Nicole non fiatava. Allora egli assunse il tono dell’autorità maschile intimandole di aprire; scosse la maniglia, minacciò di sfondare la porta. Alla fine prevalse la preoccupazione: “Nicole che ti succede? Parla, dimmi qualche cosa”. Dino non gridava più, ma nella sua voce si sentiva crescere l’ansia. Tentò ancora la maniglia e la porta si aprì: Nicole, pianissimo, aveva di nuovo girato la chiave nella serratura. Al vedersela davanti, nuda, ancora molle di pianto, Dino se la strinse addosso. Lei rise, mentre lui la sollevava (con un certo sforzo perché Nicole era alta e solida) per portarla sul letto. Ci rimasero a lungo. Dino alla fine soffriva per una vibrazione dolorosa dei nervi; si sentiva lucidissimo, ma l’ombra dell’ottusità lo minacciava, come se si fosse rischiarato il cervello, alla ricerca degli ultimi residui di vitalità. Non gli era mai accaduto, nemmeno nei casi in cui si era dato a eccessi sessuali più gravi. Si riposarono l’uno accanto all’altra, guardando il soffitto. “Perché non rispondevi?” le domandò Dino. “Non avevo capito”, rispose, “credevo che ti fossi arrabbiato sul serio e che non mi amassi più. O pensavo di non piacerti abbastanza.” “Vuoi dire che, mostrandoti a quel modo, mi hai messo alla prova?” “Press’a poco. Sto sempre cercando qualcuno che s’interessi a me sempre, che mi ami anche mentre faccio la pipì. Ti pare troppo?”26

25 26

Pasquale Festa Campanile, La ragazza di Trieste, Bompiani, Milano, 1982, p. 201 Pasquale Festa Campanile, La ragazza…, cit., pp. 22-23

12

Questo passo che mette in discussione l’immaginario erotico è trasposto nel film quasi direttamente, ma con una suggestione visiva maggiore, poiché il dialogo tra Dino e Nicole si svolge nella stanza da bagno, mentre la ragazza è seduta con le gambe divaricate sul water. Trasportando il romanzo al cinema, Festa Campanile si sofferma maggiormente sull’ossessione erotica della protagonista ed avvicina l’esibizionismo di Nicole a quello Niccolò Vivaldi (i nomi sono gli stessi, non deve essere una casualità), con uno spostamento decisivo: Niccolò provava piacere esibendo il corpo della moglie, Nicole lo prova esibendo il proprio. Tutti e due sono alla ricerca di una propria identità, di una soddisfazione personale: quella di Nicole è la ricerca di una passionalità possessiva. Alcune inquadrature de La ragazza di Trieste si rifanno alla composizione visiva de Il merlo maschio e de Il corpo della ragassa: come il denudamento, apparentemente casuale, di Nicole davanti al fattorino di un albergo di Parigi, risolto osservando la scena allo specchio. La ragazza di Trieste recupera parzialmente i tratti stilistici antonioniani del primo film, Un tentativo sentimentale: nelle immagini intervengono i silenzi e le pause, la regia si sofferma ad indagare le reazioni dei personaggi posteriori alle azioni. Grazie alla fotografia di Contini, il regista recupera l’atmosfera plumbea e crepuscolare di una Trieste invernale (Tullio Kezich, triestino di nascita, si accorse che Festa Campanile aveva scritto il romanzo senza essere mai andato nella città giuliana), in cui dominano le inquadrature di un mare fuori stagione, grigio, freddo e metallico: un luogo di morte. Con l’utilizzo delle carrellate a schiaffo che svelano un dettaglio improvviso, il regista costruisce immagini raffinate e, quando devono visualizzare l’alienazione mentale di Nicole, visionarie: come la sequenza dell’improvvisa amnesia della ragazza, che dimentica l’ubicazione della villa di Dino e gira freneticamente per le strade con l’automobile (ne Il merlo maschio c’è una sequenza quasi identica: Niccolò è colto improvvisamente da amnesia sulla propria identità e vaga senza meta per Verona una notte intera) e quelle delle sue allucinazioni (si sente assalita dagli scarafaggi, come il protagonista di Giorni perduti, 1945, di Billy Wilder). La ragazza di Trieste, assolutamente privo di umorismo, rivela in questi rimandi interni la piena appartenenza alla poetica del regista. I riferimenti ad altri film precedenti non sono finiti: Festa Campanile utilizza Ornella Muti («il simbolo stesso di una femminilità finalmente liberata e consapevole di se stessa, che travolge con la sola presenza fisica ogni

residuo

dell’arcaica

e

fallimentare

cultura

maschilista»27)

come

elemento

perturbatore ed impossibile oggetto del desiderio maschile, come in Nessuno è perfetto; analizza acutamente psicologie contorte come già in Scacco alla regina, in cui i sogni 27

Alberto Orbicciani, Ornella Muti, in Chiti-Lancia-Poppi-Orbicciani, Dizionario del cinema italiano, Le attrici, Gremese, Roma, 1999, p. 245

13

perversi di Silvia (la sua trasformazione in oggetto di piacere) erano concretati in flashback visionari, raffiguranti rapaci donne-uccello e torturatori mascherati.

14

Capitolo 7. Problemi coniugali tra farsa, grottesco e giallo Il rapporto di coppia è a fondamento di tutta la filmografia di Pasquale Festa Campanile, anche laddove, come Il ladrone, gli interessi del racconto sembrano più lontani (c’è una storia d’amore, disinvolta e contrastata tra Caleb e la prostituta Deborah). Analizzare l’atteggiamento del regista verso questa tematica, sottintende una valutazione dell’intera filmografia. Tuttavia è lecito individuare alcune opere in cui la vita di coppia diventa il tema principale e l’intreccio è costruito su scambi di coppie, tradimenti, tentativi di riconciliazione, equivoci. Lo stile del regista non è univoco. Un film come Adulterio all’italiana è riconducibile al genere della commedia all’italiana, sin dal titolo, ma contaminato con il gusto del regista per la commedia sofisticata, come ha rilevato Giovanni Grazzini: […] Adulterio all’italiana, pur partendo da uno spunto antico e che il cinema italiano già riprese con La bellezza d’Ippolita, ha caratteri suoi propri di stile e di gusto, che lo distinguono dalla pletora di una produzione invereconda. Innanzi tutto, e dite poco, la mancanza di scurrilità, ed eleganza di impianto scenografico, e brillantezza d’interpretazione, e una comicità festosa, che sgorga da provate ricette – l’inseguimento, il travestirci, gli equivoci della pochade – ma applicate con moderna fantasia e vivacità per irridere a un marito geloso e celebrarre l’astuta saggezza d’una giovane mogliettina. Tutto comincia da un cornetto che Franco, ingegnere di una grande azienda, fa spuntare sulla fronte di Marta, l’innamorata consorte, con l’aiuto innocente di una cara amica di lei. Colto in fallo, deve scegliere: o lascia che la moglie torni dalla mamma, o le permette, se vuole essere perdonato, di ricambiargli una volta pan per focaccia. […] Il divertimento del film è tutto qui: da un lato nei sospetti e nelle smanie del poveraccio, che sudando freddo cerca di individuare il rivale, e raccoglie gli indizi più contraddittori, sparsi ad arte dalla moglie, dall’altro nei luciferini machiavelli di Marta, che anche oltre il lecito, e sfiorando il sadismo, si diverte nel veder soffrire il marito e nel cacciarlo in situazioni impossibili. Dalla gara, che ha momneti di irrefrenabile ilarità, è naturalmente la donna a uscire vittoriosa; e non già come aveva minacciato, prendendosi la rivincita con un amico di passaggio (benché proprio il marito, pur di togliersi il dente, le avesse mandato il più caro collega d’ufficio), bensì conservandosi fedele e costringendo il fedifrago, dopo più di un ricovero all’ospedale, a travestirsi da donna, estrema umiliazione del maschio italiano. Realizzato nello stile americano della commedia sofisticata, con corredo di ambienti di lusso e di piccanti toilettes, il film è troppo zeppo di situazioni perché tutte si mantengano sullo stesso livello. La recitazione di Nino Manfredi, molto spassoso nell’abito del marito bugiardo e vigliacchetto, e quella spigliata di Catherine Spaak, gli danno tuttavia una compattezza più che soddisfacente; e un allegro colore il film riceve dal ritmo inesausto, dal brio inventivo della regia […].1

Il gioco degli equivoci ha, come raramente succede nell’opera del regista, un forte radicamento nel costume italiano ed alcune battute mettono in discussione le abitudini degli italiani, come nelle commedie all’italiana correnti: quella di Nino Manfredi, ad esempio, rivolta alla moglie che gli annuncia la sua prossima vendetta: «Puniscimi in un altro modo: magari non vado alla partita per un paio di domeniche». Due anni dopo, Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare (1968) riprende lo sfarzo scenografico di Adulterio all’italiana (le scenografie sono di Flavio Mogherini), ma la adatta ad un intreccio più adeguato, surreale ed assurdo, tratto da un’opera di Aldo De Benedetti. E’ la storia di una ragazza, Allegra, sposata ad un musicista, Ignazio di Rondò, 1

Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva…, cit., pp. 83-84

1

molto più vecchio di lei (ha circa quarant’anni di più) e che sta già pensando al suo avvenire, cercandole un uomo da sposare dopo il suo decesso. Allegra conosce un ragazzo un po’ stralunato, Leonardo, e se ne innamora: ai due giovani viene la tentazione di accelerare la dipartita di Ignazio. L’intreccio del film si snoda sui ripetuti e vani tentativi dei due giovani di assassinare il marito di lei (con l’esplosivo, in un incidente ferroviario, per impiccagione, con una revolverata, avvelenandolo, facendolo sfracellare da un’altezza remota e poi su una piscina ricoperta, riempiendogli i tacchi delle scarpe con la polvere da sparo, facendogli precipitare sulla testa un lampadario e, infine, ancora in un incidente ferroviario) e sui rocamboleschi salvataggi di Ignazio che, nel finale, si fa volontariamente da parte e lascia i due giovani alla loro felicità. Il tono di Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare è grottesco, i personaggi sono marionette, la recitazione caricaturale (la protagonista è ancora Catherine Spaak che rotea gli occhi, manda gridolini), i gesti meccanici, l’umorismo è nero. Un effetto voluto che trova la massima espressione nella visita notturna del dottor Sperenzoni nella villa di Ignazio, che si svolge in un’atmosfera allucinata, che si carica, progressivamente, delle caratteristiche dell’incubo, nella passeggiata che il dottore fa nei corridoi dell’abitazione (la regia lo segue con una lunga carrellata), in cui, ad ogni angolo, appaiono personaggi che sembrano comportarsi senza senso: Sperenzoni vede uno scimpanzè portare una borsa dell’acqua calda ad un cane che dorme, sulla soglia di una camera, avvolto di una coperta. Incontra Costanzo. Sperenzoni: - Ho visto una bestia antropomorfa accudire un cane… Costanzo: - Gaetano e Maurizio: il cane ha paura, la notte fa brutti sogni. Ma io ho visto una donna camminare sull’acqua. Sperenzoni: - Niente paura, è la prima moglie del conte Ignazio. Costanzo: - Morta da dieci anni! Sperenzoni: - Appunto! Il dottore prosegue con sguardo allucinato. Da una camera esce l’impagliatore: L’impagliatore: - Dottore, questo conte quando muore? Sperenzoni: - Non lo so, non me l’ha detto! L’impagliatore: - Sono qui per impagliarlo, ma lui non deve sapere nulla. Vuol vedere il catalogo della ditta? Sperenzoni: - No, grazie. Prosegue per il corridoio, guardandosi intorno. Gli si avvicina il maggiordomo, Demetrio. Demetrio: - Dottore, non dia confidenza allo zio Pasqualino. Sperenzoni: - Non gliela do! Demetrio: - E il nipote capellone è anche peggio: si soffia il naso nelle tende e ora è tutto rotto. Non lo ha visto? Sperenzoni: - No. Demetrio: - Ha tutte le ossa frantumate. Il duca lo ha spinto giù per la scarpata. Ha saputo? Mentre parla, una donna in sottana corre per il giardino, inseguendo un giardiniere barbuto. Alla muta domanda di Sperenzoni che li guarda esterrefatto, Demetrio risponde: La duchessa Paolina, dottore: una ninfomane, ma una vera signora.

Nel finale, dopo il secondo incidente ferroviario («Se penso a quei trenta chilometri a cavallo di un respingente, con un cane in braccio, scomodissimo»), il conte Ignazio si finge morto ed impagliato, così come il cane Maurizio, in una scena che parodizza quella 2

de Il gattopardo (il principe di Salina aveva un cane impagliato), quando Demetrio (interpretato da Romolo Valli, uno dei protagonisti del film di Visconti scritto da Festa Campanile) dice: «Nelle grandi famiglie si usa così. E poi sta così bene insieme al conte. Fa più atmosfera». Il tono spiritoso e fatuo di Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare scompare nell’ultimo film di Pasquale Festa Campanile, Uno scandalo perbene (1984), rievocazione del caso Bruneri-Canella, in cui Suso Cecchi D’Amico e Pasquale Festa Campanile si riallacciano […] al Pirandello di Come tu mi vuoi per nascondere il sorriso del paradosso dietro le pieghe della tragedia esistenziale. Era la giusta via per tornarvi a cogliere la Grande Contraddizione che ci lacera, e quell’assurdo bisogno di sciogliere ogni enigma che ci ammala. […] Scritto da Suso Cecchi D’Amico col suo sapiente gusto dell’intreccio e diretto da Festa Campanile con la legittima ambizione di ricordarci quanto sia ampia la sua tastiera di narratore e cineasta, per cui sa trascorrere dalla commedia brillante alla novella psicologica, dall’erotico al sociale senza venir meno agli obblighi imposti dal decoro. […] Mentre accantona, per non smarrirsi nel garbuglio, tanti aspetti della diatriba […], è comunque sul versante coniugale che il film gioca le sue carte maggiori. Con qualche ragione se si ammetta che la signora Canella difende a spada tratta lo smemorato di cui si è invaghita, facendosi complice del simulatore Bruneri, e dunque offra al cinema dell’ambiguità ardenti scene d’alcova. Senza tuttavia trascurare gli sforzi perché il ritratto dell’uomo, chissà quanto Bruneri, chissà quanto Canella, assuma i segni del rompicapo e i suoi trascorsi – i rapporti con una prostituta, con i colleghi di scuola, con i soldati in partenza per il fronte – accrescano l’arcano.2

Quella tra lo smemorato di Collegno e la signora Canella è una storia d’amore folle avvicinabile a quella tra Dino e Nicole ne La ragazza di Trieste (il protagonista è lo stesso: Ben Gazzara), in cui le parti sono contrapposte: in Uno scandalo perbene è l’uomo che non riconosce la propria identità (l’amnesia è totale, non come quella improvvisa di Nicole) ed è soggetto a crisi (improvvisi scoppi emotivi, nascosti dietro l’«aria smarrita, il sorrisino del commediante e qualche lampo di furbizia degli occhi»3) che minano il rapporto tra i due, già difficoltoso per l’intervento dei parenti «di Canella, dapprima compiaciuti d’averlo riacquistato, poi indignati all’idea d’essere stati tratti in inganno»4. La visione di queste opere suggerisce che i legami nei rapporti di coppia debbano essere colti sotto il segno della lealtà, della vitalità, della passione sensuale. Queste qualità sono tutte subordinate alla fantasia, all’immaginazione gioiosa che coglie nella quotidianità la stravaganza e fornisce le fondamenta per una prolungata convivenza.

2

Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985, pp. 129-130 Giovanni Grazzini, Cinema ’84, cit., p.130 4 Ibidem. 3

3

L’autore ce lo rivela in uno dei suoi film più sottovalutati e dimenticati, Cara sposa (1977), in cui disegna il ritratto di Alfredo, uno sbandato, fanfarone e giocoso, ma non sprovveduto: uno dei tanti protagonisti spensierati e gioiosi creati da Festa Campanile. Alfredo affronta la vita con leggerezza, vive di espedienti e per questo è stato in carcere ed è stato lasciato dalla moglie, Angelina e dal figlio, il piccolo Pasqualino, che si sono accasati con un tassista serio ed avveduto, anche troppo.Tanto che Alfredo riesce a riconquistare Angelina, di cui è sempre stato innamorato (anche quando ha pensato di farla violentare per punirla, ma non ne ha avuto il coraggio ed è stato picchiato dagli stessi uomini che assoldato) e l’amato Pasqualino (un amore ricambiato), grazie alla sua straripante fantasia: quella che gli ha permesso di portare il figlio in Africa in una mattina (con l’aereo, durante le ore di scuola vola in Tunisia, per permettere al figlio di poter scrivere in modo documentato un tema sull’Africa) e di fingersi morto, dopo un improvviso barbaro pestaggio da parte di “persone perbene” (che lo scambiano per un rapitore), per farsi dichiarare dalla moglie tutto il suo amore. Angelina sposa Alfredo per allegria: come Pietro faceva con Giuliana nel film di Salce Ti ho sposato per allegria. Postilla: Mal di critica Pasquale Festa Campanile è stato un regista tanto amato dal pubblico, quanto snobbato se non osteggiato dalla critica. «Era un regista più intelligente dei film che faceva»: luogo comune tanto stantio, ritornello spassoso apparso sulla metà delle schede dedicategli nel Dizionario dei Film di Laura, Luisa, Morando Morandini (leggere per credere). Ma probabilmente mai s’è arrivati all’indecenza cui è giunto Roberto Poppi, sulle pagine dei suoi Dizionari del Cinema Italiano, che così recensisce Porca Vacca: Un film che abbiamo detestato, come la quasi totalità della critica “ufficiale”. Un film che non ha ragione d’essere perché, nonostante l’intreccio alla lunga se ne discosti, profana comunque un capolavoro. O almeno l’idea che ha ispirato un capolavoro. Le vicende private di cialtroni in un tragico contesto qual è la guerra. Il maestro Mario Monicelli con La grande guerra ha firmato un film memorabile e immortale, servito da una sceneggiatura oltre i limiti della perfezione e da attori grandissimi come Sordi, Gassman, Mangano, Blier. Qui i cialtroni non sono i personaggi (marionette senz’anima), ma gli ideatori di una storia che abbiamo respirato con ben altri profumi.

Sono parole che si commentano da sole. Senza giudicare le qualità artistiche di un film comunque tra i più personali del regista, ci chiediamo il perché di tanto accanimento e rancore.

4

PARTE QUARTA: ANALISI COMPARATA DI TRE FILM (Vita da cani, Basta guardarla, Il petomane) Rilevare le differenze stilistiche tra Steno, Luciano Salce e Pasquale Festa Campanile è possibile se si tiene conto che i tre registi hanno ognuno dedicato una loro opera ad uno stesso tema, lo spettacolo di varietà. Nell’analisi bisogna tener conto, cronologicamente, della diversità dell’epoca di realizzazione – Vita da cani è un film del 1950, Basta guardarla del 1970, Il petomane del 1983 – e della conseguente modificazione del gusto e dei generi narrativi e, stilisticamente, che Vita da cani appartiene al primo periodo della produzione di Steno, quando il regista dirigeva in coppia con Mario Monicelli. Tuttavia un’analisi comparativa è appropriata ed evidenzia le differenze di stile delle opere, inscrivendole senza difficoltà nelle rispettive filmografie. La vicinanza stilistica tra Steno e Salce è subito evidente nella scelta dello stesso soggetto: Vita da cani e Basta guardarla sono dedicati alle compagnie dell’avanspettacolo che girovagano per ltalia nei piccoli teatri dei centri minori. La contiguità tra i due film è sottolineata dal fatto che Steno partecipa, con Iaia Fiastri e lo stesso Salce, alla stesura della sceneggiatura di Basta guardarla. Festa Campanile, coerente con la sua ispirazione, ricerca nello spettacolo di varietà il caso eccezionale e, ne Il petomane, tratteggia la biografia del francese Joseph Pujol che, ai tempi della “belle époque”, si esibiva nei giardini del “Moulin Rouge” di Parigi usando, come strumento, il proprio sfintere anale. Nel comune realismo d’impianto, Vita da cani è maggiormente attento al disegno dei personaggi,

mentre

Basta

guardarla

si

rivolge

alla

ricostruzione

dei

numeri

d’avanspettacolo; Il petomane «per certi aspetti prossimo all’Uomo elefante, […] del prolifico Festa Campanile (è) nonostante quello scherzo di natura natura, tra i suoi più discreti: d’un’ironia che anche quando scivola nel grossolano serba un profumo di mestizia, e d’una leale volgarità che evita il triviale. Il petomane è, se proprio si vuole, una commedia romantica, insaporita dalla ricostruzione di un ambiente in cui transitano Schönberg e Gide, polemicamente intesa a lasciare in mutande i bigotti, e sentimentale quanto basta a farci perdonare Ugo Tognazzi e Mariangela Melato: uno impegnato con successo a esprimere il pudore e l’amarezza segreta di quel virtuoso, l’altra senza meno deliziosa nel soave candore della sua figurina».1 Vita da cani mette a punto alcune consuetudini narrative cui si ispireranno tutti i film successivi – anche Basta guardarla - che in Italia saranno dedicati all’avanspettacolo (Luci del varietà, 1950 di Fellini e Lattuada, Ci vediamo in galleria, 1953, di Bolognini, scritto da Steno). Realizzato nel 1950, in epoca neorealista, il film di Steno e Monicelli 1

Giovanni Grazzini, Cinema ’83, Laterza,Bari, 1984, p.130

1

rivolge la sua attenzione verso le compagnie d’avanspettacolo evidenziandone le condizioni miserabili di vita (il cane di un attore mangia un cappello di paglia, «rivelando, per metonimia, la fame del suo padrone»2); gli espedienti cui è costretto il capocomico per sopravvivere; il rapporto tra gli attori ed il pubblico di provincia, che costringeva i primi ad improvvisare numeri secondo i propri gusti; i comportamenti capricciosi delle primedonne della compagnia. Infine, i registi sviluppano, nell’intreccio, una storia d’amore tra il capocomico (Nino Martoni, interpretato da Aldo Fabrizi) ed una ragazza presa dalla strada (Margherita, uno dei primi ruoli di rilievo per Gina Lollobrigida) che, grazie alle attenzioni dell’attore diventa un’importante donna di spettacolo, ma da cui si affrancherà una volta ottenuto il successo. Steno e Monicelli propongono una ricostruzione di gag dell’avanspettacolo - alcuni numeri comici e musicali di Aldo Fabrizi («Aggio perduto ‘a capa pe’ st’occhi blu marin/ nel petto c’ho una fiamma pe’ st’occhi blu marin/ stongo perdendo ‘a famm’ pe’ st’occhi blu marin/ che ne vulite, che ne vulite, che ne vulit‘a me// Ve vedo, ve guardo, m’addormo/ ve sogno, me sceto , me torno addurmi’…») – con l’interesse per il contesto sociale e ambientale. Il capocomico Nino Martone, che si fregia del titolo di cavaliere (una mania per le commende che avrà anche Ercole Pappalardo in Totò e i re di Roma), conduce la sua compagnia in alberghi di terz’ordine, in teatri cadenti ed inutilizzati. L’Italia percorsa dalla compagnia è quella provinciale, in cui la volontà di ricostruzione si unisce al disorientamento morale e poltico: la regia è capace di catturare quest’atmosfera riconducendola sotto il segno dell’umorismo. E’ esemplare l’episodio di Civita Pratese, in cui Martone deve esordire con la sua compagnia e, per ingraziarsi il pubblico decide di sondare le idee politiche del paese, i suoi gusti («Siccome dobbiamo fare delle scenette politiche…»); lo fa, però, chiedendo informazioni ad un barista che è l’unico, nella popolazione, ad avere idee contrarie («Una volta si viveva bene […] Allora dategli addosso»): così, alla sera della prima, le battute di Martone (vestito da sovietico esclama: «I nemikovscki hanno saputo che le nostre bombe a idrogeno non sono altro che bombe a mano della guerra 1915», «Noi siamo ottanta milioni…di morti di fame») riceveranno un’accoglienza tutt’altro che trionfale. I personaggi sono consci di vivere in una diversa realtà sociale, rispetto a quella di pochi anni prima e Martoni, riprendendo un industriale, può rivendicare liberamente il proprio stato sociale: «E’ finito il tempo in cui non si poteva parlare, siamo in democrazia». Vita da cani, attraverso una regia secca e rigorosa, aderente ai fatti e ai personaggi, riesce a costruire un racconto «pittoresco, sciolto, brioso»3 che si riserva, «all’interno di una struttura narrativa che punta alla risata, un territorio d’osservazione di confine in cui

2 3

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, vol.3, cit., p.328 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 1477

2

il sorriso è quasi un mezzo di protezione e di autodifesa di fronte al male di vivere che si incontra nella vita di tutti i giorni»4. Infatti, con uno sguardo minuzioso che anticipa quello del futuro “neorealismo rosa”, la regia costruisce il racconto intrecciando le storie di tre attrici dell’avanspettacolo, disegnando precisamente personaggi socialmente esemplari: sono Margherita che, come ricordato, ottiene il successo nello spettacolo; Vera (Delia Scala), una ballerina che sposa il figlio di un industriale, dopo aver vinto le rimostranze del padre, che scopre essere uno dei suoi pretendenti (una storia costruita sul modello di Miseria e nobiltà, in cui il marchese Ottavio, che non vuole concedere le nozze del figlio Eugenio con la ballerina Gemma, figlia di un cuoco, capitola quando si scopre essere lui stesso uno dei pretendenti della ragazza); Franca (Tamara Lees) un’operaia che tenta il successo nel mondo dello spettacolo, sembra trovarlo sposando un industriale brutto e più vecchio di lei, e si uccide quando scopre che il suo fidanzato, Carlo, ha fatto i soldi e lei non ha avuto la forza di aspettarlo. Basta guardarla, ricalcando la struttura narrativa di Vita da cani, aggiornata a vent’anni dopo – la compagnia d’avanspettacolo è ancora più miserabile e ridotta a peregrinare in paesi minuscoli, il capocomico non è più un attore, ma un cantante, Silver Boy (perché vestito di lustrini argentati) non al passo con i tempi (è un cantante melodico:

«A

me

me

fanno

ridere

questi

cantanti

italiani:

Malle,

Morandi,

Celentano…Cos’hanno più di me?»), che s’innamora di una contadina cafona, Enrichetta, che farà diventare una piccola stella – mostra maggiore attenzione verso la ricostruzione dei numeri comici e musicali. Gli autori hanno una tale inventiva che Basta guardarla è il Capolavoro di Salce e punta massima dei suoi protagonisti, Carlo Giuffrè e Maria Grazia Buccella. “Il miglior film sull’avanspettacolo appena guastato da un ricordo del Risi peggiore (Straziami ma di baci saziami)” (Giovanni Buttafava, Il patalogo). Lo spunto è proprio quello di sfruttare il successo della commedia popolare alla Straziami ma di baci saziami di Dino Risi. Ma il film va presto oltre, mostrandoci uno spaccato commosso e scatenato delle piccole compagnie di avanspettacolo come raramente si è fatto. La borissima Enrichetta, la Buccella nel film della sua vita, ingenua dalle grandi curve, entra nella compagnia di Silver Boy, che la ribattezza Rikk e la affascina non poco. Questo provoca la gelosia della prima donna, la finta spagnola Marisa di Mariangela Melato, fantastica, che riuscirà a farla cacciare dal gruppo. Enrichetta trova sulla sua strada un altro gruppo di guitti, capitanato da Farfarello, vecchio arnese dell’avanspettacolo, interpretato da Salce alla grande, e dalla moglie Pola Prima, una Valeri stratosferica (canta anche “Piramidal”). Si metterà con loro diventandone presto la star erotica del gruppo. Ma Silver Boy è davvero innamorato. E quando la rivedrà, pensando che lei si è messa con Farfarello, tenterà il suicidio. Enrichetta ha finalmente capito che la loro vita è unita per sempre. Salce mette insieme dei numeri fantastici del basso varietà con la Valeri di grande competenza e volgarità (il “tram” con la canzoncina “che piacere, che piacere che si prova nel…sedere” e “Via col razzo”, ecc.) in un tripudio di battute, doppi sensi. Loredana Berté e Pippo Franco alle prime armi offrono la giusta cornice. Magnifico. Uscito con grande successo in Francia […] e in Spagna […].5

L’entusiasmo fa commettere a Giusti qualche errore nella redazione della scheda – Silver Boy inventa per Enrichetta lo pseudonimo di Erica («Erìca?», «No, Erica»), è Farfarello a rinominare la ragazza come Erika Rikk («Col kappa?», «Due!») – ma non 4

Gian Piero Brunetta, Storia del cinema…, vol.3, cit., p.292 3

inficia il suo apprezzamento per un film in cui Salce gioca virtuosisticamente con il cattivo gusto. Sia Vita da cani che Basta guardarla raccontano umoristicamente una storia melodrammatica (l’amore contrastato tra un artista e la donna che ha lanciato: era il soggetto di un melò fantastico di Powell e Pressburger, Scarpette rosse, 1948), ma se nel film di Steno e Monicelli il racconto era realistico, poiché nell’immediato secondo dopoguerra le compagnie d’avanspettacolo, pur cominciando ad entrare in crisi, conservavano ancora una certa importanza, nel film di Salce è volutamente ridicolo. Nel 1970 le compagnie erano diventate un rifugio di relitti artistici, di diseredati - il ballerino omosessuale interpretato da Pippo Franco, che apre gli spettacoli dicendo: «Signore e signori e militari»; la ballerina di flamenco Marisa, focosa spagnola di Porta Ticinese («Io son di Barcellona», «Ma quale Barcellona, a Gallarate t’ho trovato» le ricorda Silver Boy), che batte i tacchi e sfonda le assi dei palcoscenici («Te lamenti de far l’amore con migo che son tutta fuego?») - incapaci di misurare il proprio talento e le proprie ambizioni. I teatri sono ancora quelli di Vita da cani («Se tira la tenda: gli uomini se spojano da ‘na parte, le donne dall’altra»), ma l’interesse del pubblico è scemato e gli attori non si sono adeguati: «Mandate via la folla, se non non scendo» dice Silver Boy, mentre corre per la piazza vuota di Copparola, in cui si trovano tre maiali, coprendosi il volto per non essere riconosciuto. Se Nino Martoni, si considerava anche lui più di quanto valesse, ma aveva abbastanza talento per scoprire nuovi talenti, Silver Boy non ha neanche questa capacità, anche se se l’attribuisce: scaccia dal teatro Enrichetta che si propone come ballerina della compagnia, perché vuole una svedese, e non la riconosce il giorno dopo quando ritorna con una parrucca bionda; quando Marisa ne rivela l’identità, esclama tranquillamente: «L’ho detto subito io, questa ragazza c’ha il teatro nel sangue: basta guardarla!». Silver Boy e Farfarello si prendono molto sul serio (Farfarello cita Shakespeare per le sue scenette a doppio senso: «Dimmi, che vuoi Cassio?», «Come, che vuoi Cassio? Ma cosa dici: devi dire: “che Cassio vuoi?” Se no è inutile; è tutto lì. Se no che si chiamava Cassio, allora si chiamava Filippo»), si contendono Enrichetta come fosse una star, le prospettano spazi importanti per il suo nome sui manifesti, come se fossero direttori di importanti compagnie di prosa. La regia, sarcastica (mai come in Basta guardarla Salce è stato capace di demolire un personaggio con una battuta, con un dettaglio), ne svela impietosamente l’essenza: Silver Boy è una caricatura del latin-lover, con i capelli imbrillantinati e lisciati all’indietro, vestiti con i lustrini, il repertotio datato (una sola canzone melodica, presentata come un grande successo: «Siccome so, dai miei colleghi che mi hanno preceduto, che il pubblico di Copparola è raffinato e sensibile, vi proporrò “Tre rose”: Tre rose un solo cuore// […] 5

Marco Giusti, Dizionario del cinema…, cit., p. 70

4

Ho soltanto poche rose/ dal profumo di preghiera/ è insieme alla mia vita che le do»); Farfarello e sua moglie Pola Prima sono presentati come due vecchi «arnesi»: Farfarello ha i capelli tinti, uno spacco sulla dentatura, i vestiti dai colori sgargianti (porta le bretelle rosse), la capacità di parlare in rima e di storpiare le frasi fatte («Mi tolga un dubbio atletico», «Da evitare come la peste borbonica», «Un’interpretazione maestrale») ed una nomea di grande amatore da salvaguardare («L’amore non è bello se non è con Farfarello», ad ogni donna della compagnia che, ogni notte, porta nel suo letto) grazie alla moglie, dai capelli platinati, gli occhi bistrati e le scarpe con i tacchi altissimi (in una gag surreale, saltando per acchiappare un grappolo d’uva, non riesce a raggiungerlo e, scuotendo le spalle, mormora: «Tanto era acerba») che ogni volta entra nella sua camera prima dell’amplesso e, fingendo di scoprire una cosa che già sa, nasconde l’impotenza del marito. In questo clima di cattivo e gusto e volgarità, Salce riproduce mimeticamente i numeri comici dell’avanspettacolo. Farfarello, Pola Prima e Peppe De Pico mettono in scena spettacoli come Col razzo che ci vengo e Poppea monta sul…cocchio («Un titolo forte, commendatore», «Beh, felliniano…»), in cui, come racconta Enrichetta: «Farfarello è proprio un grande artista: ha una comicità raffinata e sottile». Nella rivista, infatti, si scambiano battute come: «Cesare cosa ha la tua cavalla?», «Eh, oggi è nervosa perché le hanno rotto la biga»; «Popolo romano, ti assicuro che verrà l’abolizione delle tasse!», «Sì col cocchio, sì col cocchio, sì col cocchio che verrà». Mentre Pola Prima, imitando Wanda Osiris, scende le scale cantando: «Piramidal, il mio fascino egizio/ non conosce artifizio/ Tutankha, Tutankha, tutti…/ in camera la vengono a trovar». Il qualunquismo delle

battute

dell’avanspettacolo

riportate

da

Salce

è

molto

simile

a

quello

contemporaneo del Bagaglino. La regia ricostruisce i numeri con puntiglio fotografico (colori accesi: arancione, rosa, viola e rosso), scenografico e costumistico, con grande uso di lustrini, paillettes, lampade al neon e piume, come quelle che riempiono il “Coccorocò”, numero d’attrazione della compagnia di Silver Boy, in cui il cantante e la prima donna (inizialmente Marisa, poi Enrichetta) cantano questi versi: «C’era un bel gallo felice e giocondo/ aveva cento galline per sé/ era tra i monti, più felice del mondo/ ma fortunato viveva da sé// Ma un giorno arriva una bella gallina/ un tipo strano allevato in città/ il gallo subito le si avvicina/ le fa la corte ma lei non ci sta:/ cocococò corocococò…// Lei civettava con modi smorfiosi/ Non concedendo mai nulla di sé/ Se tu mi vuoi, caro gallo, mi sposi/ lasci le altre e sei sempre con me// Per quanto strano vi possa sembrare/ lei tanto fece che il gallo abboccò/ storia curiosa che può capitare/ solo tra i polli; tra gli uomini no». Il racconto rispetta spiritosamente le convenzioni del genere melodrammatico: agnizioni, tradimenti, sospetti (Marisa, in ogni modo, cerca di riprendere il suo ruolo di 5

prima donna, costruisce un intrigo che spinge Enrichetta da Farfarello, e giunge a pugnalare Silver Boy), ritmo concitato e finale amaro, in cui Enrichetta sceglie l’amore invece dell’arte, che spinge Farfarello a questo deluso commento: «Erika poteva essere una grande stella e invece è stato solo un meteorismo». Salce gioca con i nomi degli attori ed i loro personaggi: l’amico Umberto D’Orsi interpreta la spalla del comico Farfarello, Peppe De Pico, il cui nome è troppo trasparente per non rimandare a quello del grande caratterista napoletano da poco scomparso, Pietro De Vico; Luciano Salce e Franca Valeri, compagni nel Teatro dei Gobbi, dove proponevano un cabaret intellettuale, interpretano due guitti; il pittore, giornalista, attore, sceneggiatore e regista, Mino Guerrini, amico di Salce, interpreta la parte, minima, del medico che testimonia la guarigione di Farfarello dall’impotenza. Già nei titoli di testa, in cui propone la canzone del “Cocorocò”, in un tripudio di ballerine discinte, di spettatori entusiasti, mentre lampeggiano i nomi dei tecnici e del cast, Salce evoca il tono kitsch di Basta guardarla, in cui sono adeguate anche le prodezze tecniche della regia che gioca con il fermo-immagine, il rallentatore, le didascalie scritte in fumetti da fotoromanzi, i flashback onirici dalla luce soffusa, la musica caramellosa quando deve raccontare la storia d’amore tra Silver Boy ed Enrichetta. I titoli di coda che riportano beffardamente le reazioni della critica («”Sobrio”…Le Figaro; “delicato”…La Pravda; “un’opera immortale, che resterà nella storia accanto alla Divina Commedia e al Partenone”…L’Araldo di Copparola di Sotto»), chiudono circolarmente Basta guardarla, ripetendo un’operazione già effettuata da Salce in Colpo di stato. Pasquale Festa Campanile, ne Il petomane, compie un’operazione inversa a quella di Salce, che ha ridicolizzato una storia melodrammatica: rende seria una storia triviale, cerca sfumature tragiche in un personaggio grottesco, Pujol, esposto nei suoi spettacoli come un fenomeno da baraccone. Ricerca la grazia, il comportamento delicato all’interno d’un uomo che utilizza la volgarità per avere successo. Pujol è un virtuoso, un artista del peto, che con i suoi figli ha impiantato un complesso con cui vorrebbe eseguire sinfonie classiche (naturalmente i ragazzi utilizzerebbero gli strumenti musicali e Pujol quello personale). E’ un personaggio nobile, intelligente, che, quando incontra una violoncellista chiamata a far parte del complesso, Catherine, una ragazza delicata e sognatrice, se ne innamora e si vergogna di sé stesso: non gli rivela la propria personalità e non l’ammette nel complesso musicale, ma preferisce partire con lei in una vacanza, in cui Catherine apprezza le sue doti di cortesia. Pujol ha una crisi d’identità; non si accetta più nel suo modo di essere, si ritira dalle scene, ma è insoddisfatto: una truffatrice si spaccia per una nuova petomane, Pujol ne svela trucco, sale nuovamente sul palcoscenico ed è scoperto da Catherine. Fugge a Le Havre, dove si riduce ad un relitto: è raggiunto da Catherine, si 6

riconcilia con lei e ritorna sulle scene, accompagnato, oltre che dai figli, dalla nuova compagna. Festa Campanile mescola diversi generi, nel tentativo di far dimenticare l’oggetto volgare nel racconto: la sua scommessa è quella di costruire un impianto narrativo elegante su di un argomento scurrile. Morandini ricorda che il film «comincia in farsa spetazzante, diventa commedia drammatica, sfiora il melodramma e si chiude in chiave di satira politica»6, ma la regia adopera anche materiali da cinegiornale (l’inizio del racconto è cronachistico), si rifà al dramma giudiziario (il processo intentato a Pujol) e, nelle melodrammatiche sequenze di Le Havre, al realismo poetico di Marcel Carnè. Troppi spunti, non tutti sviluppati ed amalgamati (tra la scoperta della personalità di Pujol da parte di Catherine e la sequenza di Le Havre c’è solo uno stacco, ma troppa differenza di tono) da una regia molto trattenuta («inamidata»7), preoccupata di non essere volgare. I momenti migliori de Il petomane sono le esibizioni di Pujol, la sinfonia suonata con la famiglia (ogni membro del complesso spegne una candela con il fiato, Pujol con il posteriore) e la sequenza finale, in cui Pujol è chiamato ad esibirsi davanti alle autorità internazionali (i capi di stato francese, inglese e tedesco) e l’artista suona con i peti gli inni nazionali. Festa Campanile si libera degli impacci e rivela il messaggio del film, più o meno opinabile: nell’epoca delle sommosse socialiste, dei messaggi libertari, degli atteggiamenti

anticonvenzionali,

il

peto

è

rivoluzionario

perché

è

espressione

dell’umanità ed è simbolo dell’uguaglianza. E’ la dichiarazione esplicita del radicalismo di sinistra dell’autore (che in Manolesta aveva affidato al turpiloquio un’analoga carica rivoluzionaria) e la prova di una piena appartenenza de Il Petomane alla sua poetica.

CONCLUSIONE Steno, Salce e Festa Campanile non hanno avuto un rapporto univoco con la commedia all’italiana. Sono stati registi attivi nell’ambito del cinema comico e della commedia, ne hanno frequentato tutte le variabili ed eccezioni: la farsa slapstick, la comica finale, la commedia sofisticata (o “neosofisticata”), la commedia di caratteri, l’umorismo nero e addirittura il grottesco, talvolta abbinando i diversi livelli in una stessa opera (come Piccola posta, Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare, Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno). Tra queste differenti espressioni del genere commedia, i tre registi hanno prodotto anche alcune commedie all’italiana, che rimangono marginali rispetto alla loro intera produzione. Steno, che all’inizio degli anni ’50, insieme a Mario 6 7

Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini…, cit., p. 972 Ibidem 7

Monicelli e poi da solo, ha fissato alcune coordinate della commedia all’italiana, si è riaccostato al genere soltanto negli anni ’70; Pasquale Festa Campanile, in una filmografia uniforme, solo saltuariamente ha diretto opere riferibili al genere, ma inserite in un discorso personale (Adulterio all’italiana, Il merlo maschio). Soltanto Luciano Salce ha sviluppato un progetto coerente all’interno della commedia italiana, ma se ne è poi discostato, assecondando il proprio gusto per la teatralità ed il surrealismo, lo stile leggero e corrosivo, in direzione di un originale grottesco. Gli epigoni dei tre registi, con la loro attività, hanno confermato la fondamentale estraneità al genere della commedia all’italiana di Steno, Salce e Festa Campanile. Tra i collaboratori di Steno, lo sceneggiatore ed aiuto-regista di tutti i suoi film dal 1952 al 1957, Lucio Fulci (1927-1996), divenuto regista, prima di dedicarsi al genere “horror”, s’è dedicato al cinema comico, dirigendo quindici film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, due farse con Lando Buzzanca (una d’argomento politico, All’onorevole piacciono le donne, 1972) ed alcune commedie ad episodi (Gli imbroglioni, I maniaci). Mariano Laurenti (1929) ha avuto una carriera parallela: aiuto-regista di Steno (diresse la seconda unità di I moschettieri del mare), passato alla regia, ha diretto alcuni film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma, differenziandosi da Fulci, ha continuato a praticare il cinema comico, dedicandosi alla commedia erotica di fine anni ’70. Il caso di Castellano (1925-1999) e Pipolo (1931) è diverso. Sceneggiatori di alcune delle migliori commedie di Salce, hanno collaborato anche con Steno (La feldmarescialla, Arriva Dorellik) e Pasquale Festa Campanile (Il soldato di ventura, Dimmi che fai tutto per me), rivelando la loro partecipazione alla sceneggiatura dei film nella costruzione nell’intreccio narrativo, ricco di gag, talvolta demenziali. Castellano e Pipolo, come Steno, avevano iniziato la loro carriera come umoristi del Marc’Aurelio, e si dedicheranno, dagli anni ’80, alla regia di commedie sofisticate d’imitazione americana. Collaboratore di Pasquale Festa Campanile fu Neri Parenti (1950), suo aiuto-regista a metà degli anni ’70. Passando alla regia, nel 1979, divenne il regista personale di Paolo Villaggio (sposò anche sua figlia), sviluppando il personaggio di Fantozzi in tutti i seguiti dei due film diretti da Luciano Salce, imprimendogli una comicità molto meccanica. Allontanatosi da Villaggio (Fantozzi 2000: la clonazione, ultimo film della serie, è stato diretto da Domenico Saverni), s’è proposto, con Carlo Vanzina (1951), secondogenito di Steno, come regista della nuova generazione di comici di provenienza televisiva. E’ proprio questo il problema: l’incapacità di dare un ritmo cinematografico alle gag dei nuovi attori comici. Chi si dirige da solo (sono sempre di più gli attori che debuttano al cinema dirigendo i propri film: Antonio Albanese, Aldo, Giovanni e Giacomo, la Gialappa’s band) dimostra di non aver nessun requisito per farlo; chi si affida agli artigiani della regia (Vanzina, 8

Parenti) è inserito in una produzione che riprende formalmente la forma espressiva televisiva: piani fissi, inquadrature sciatte, ritmo lento. Scomparsi negli anni ’80, Steno, Salce e Festa Campanile, nel 1990 Sergio Corbucci (che, nell’ambito della commedia aveva svolto un’attività parallela nell’ultimo ventennio) e, recentemente, Castellano; costretto in una produzione minore, di scarsa visibilità, Mariano Laurenti, è definitivamente scomparsa una generazione di registi che sapevano dirigere commedie popolari e contemporaneamente di maggiori ambizioni, che sapevano organizzare

la

narrazione

secondo

un

ritmo

appropriato

e

dirigere

gli

attori,

sviluppandone le qualità.

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APPENDICE PRIMA: LE INTERVISTE Intervista a Vittorio Sindoni del 2-6-1999 D. – Per prima cosa: come mai questa stretta collaborazione con Luciano Salce? Amicizia, affinità culturale o che altro? R. – Salce era un amico. Io avevo voglia di ripescare quegli attori che erano rimasti al di fuori del cinema, chiusi dai quattro colonnelli della commedia all’italiana (Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi). Chiari era rimasto fuori dal giro, completamente, perché proprio in quegli anni aveva avuto problemi con la droga. Valentina Cortese non aveva mai fatto il cinema brillante e grottesco, a teatro recitava Cecov. Macha Méril era appena giunta in Italia, aveva fatto i film con Godard. Salce accettò di girare questi film perché si divertiva molto. Girava cinque-sei giorni, dieci pose, guadagnava facilmente e lavorava poco. Tra noi c’era un rapporto di grande affiatamento. D. – Com’è avvenuto il primo incontro con Salce? R. – Con Luciano avevo già fatto Gran Varietà in televisione. Ero uno dei pochi che riuscivo a stanarlo. L’esordio al cinema fu Amore mio non farmi male con Salce, Chiari, Cortese e Méril. Tenne due mesi di fila al cinema Europa, c’era la fila, il sabato, fino a Porta Pia, per vederlo. Un record per quel tempo in Italia, quando un film teneva due, tre settimane. A vederlo erano soprattutto i giovani che si riconoscevano nei due protagonisti che per la prima volta tentano di fare l’amore. D. – La sua carriera si divide nettamente in due parti: commedie grottesche, fin dai titoli, e analisi generazionali in forma di commedia. Salce ha interpretato soltanto il primo filone, come mai? R. – Le commedie grottesche nascono dal successo ottenuto con La signora è stata violentata, con Montesano. I produttori, sorpresi dal fatto che si potevano fare soldi al di fuori della commedia all’italiana, accettarono la proposta di Amore mio non farmi male. Da allora feci tre film in un anno: Son tornate a fiorire le rose, Per amore di Cesarina, Perdutamente tuo…mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe. Erano commedie girate in grande libertà, scritte con il critico teatrale, commediografo, adattatore plautino Ghigo De Chiara, che adesso, poverino, è morto. Ci potevamo permettere gag assurde come i titoli di testa di Son tornate a fiorire le rose con il matrimonio dei due ragazzi celebrato da tutto il cast tecnico del film: io e De Chiara firmavamo i registri, Simonetti suonava l’organo, gli operatori riprendevano il matrimonio. L’altro filone è più personale, rappresenta le mie idee più sentite, per questo scelsi attori giovani e fuori dagli schemi. Comunque tutti i miei film, e lo dico da socialista, contestano il ’68, che aveva ucciso la gioia di vivere per l’impegno a tutti i costi. Una cosa contronatura e infatti in quegli anni nacque il terrorismo. D. – La questione (ir)risolta di Marco Aleandri. R. – Marco Aleandri nasce perché volevo produrre un film, Ride bene…chi ride ultimo, in cui ogni episodio rappresentava l’esordio alla regia di un attore: Bramieri, Chiari, Caruso. L’unico attore, tra tutti, che fosse anche regista era Luciano Salce e dunque non poteva firmare col suo vero nome. Allora c’inventammo lo pseudonimo di Aleandri. Poi i produttori vollero che il gioco continuasse e i due seguenti titoli li girai ancora con lo pseudonimo di Aleandri. Dei film di questo periodo porto un po’ di vergogna, perché mi impedirono di portare avanti un mio discorso personale. Comunque c’è anche qualche episodio riuscito. Il migliore è quello con Salce che fa il venditore ambulante e va a casa di una di una donna, il cui marito è a pesca, dopo essersi dato malato in ufficio. Quando arriva la visita fiscale, il venditore deve sostituirsi al marito. Da qui poi nasce tutto un gioco… D. – Salce era un attore-regista. Quando recitava faceva sentire la sua natura di regista? Interveniva nelle sue decisioni? O c’era un rapporto di collaborazione? R. – Essendo un regista serio e preparato si comportava sul set con grande professionalità, perfettamente rispettoso dei tempi. Non si permettava di influenzare la regia, ma a volte si preparava il personaggio in sede di sceneggiatura, scrivendoselo un po’. Era molto bravo a tenersi un po’ sopra le righe, accentuando i toni grotteschi. Collaborava ma non prevaricava: arrivava ad accettare i miei film, tanta era l’amicizia, senza sapere quale sarebbe stato il suo personaggio. Sul set non improvvisava, preferiva prepararsi prima. Era così professionale che entrava continuamente in rotta di collisione con Walter Chiari, estroverso e confusionario, e dunque tutto il contrario di lui, perché non rispettava gli orari, i tempi. Mi ricordo che che doppiò Per amore di Cesarina un mese dopo la fine delle riprese. Sul set, però, c’era grande affiatamento: i loro battibecchi si risolvevano in grandi scambi di battute. Credo che il migliore film che abbiamo fatto insieme sia stato Perdutamente tuo, in cui faceva un barone spiantato, con grande classe. Era il più originale, tra tutti quelli girati insieme, con la storia di questo emigrante che torna a casa e trova l’inferno. D. – Una sua considerazione su Salce come regista e, in genere, come uomo di spettacolo. R. – Salce era un grande uomo di spettacolo. Conosceva i tempi comici come nessuno in Italia, forse in questo campo era addirittura il migliore. I due Fantozzi erano bellissimi perché sapeva

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portare al limite la situazione grottesca e poi tagliarla al punto giusto. Il progressivo decadimento di Fantozzi non credo sia stato colpa di Neri Parenti, ma dello sfruttamento del personaggio. D. – Un aneddoto sul vostro rapporto. R. – Salce era un misantropo, tirato fino all’inverosimile. Tirchio, nonostante avesse i soldi. Cercava di averli perché non essendo bello, pensava che avrebbe potuto attrarre così le donne: Cinzia Monreale me la segnalò lui. Era molto solitario, non aveva amici, perché oltretutto era brillante e sarcastico anche nella vita privata. Amava molto le barche, spendeva milioni per comprarsele, e poi stava giorni in mare, mangiando insalate di pomodori, inseguito dal fisco. Come tutti gli uomini di spettacolo, cercava di evitare le tasse, la sua barca batteva bandiera starniera. La sua tirchieria era proverbiale. Finito Son tornate a fiorire le rose, gli chiedemmo di offrire qualcosa alla troupe. Balbettò, esitò, infine offrì un gelato. Chiari, che era nella stessa troupe, offriva cene di milioni, offriva tutto a tutti, non aveva mai in tasca nemmeno diecimila lire. D. – Parliamo di lei. Crede di essersi distinto nel cinema? E’ soddisfatto di ciò che ha fatto? Quanto ha ricevuto dal cinema? R. – Ho sempre cercato di fare commedie alternative. Non mi piaceva lavorare con i colonnelli perché si prendevano il 50% dei profitti. Mi sono sono ispirao soprattutto alla brillantezza di Mario Camerini, il mio grande maestro. Non credo che farò più cinema, perché non ho voglia di fare film che poi vedono solo trenta persone, quelli dell’anteprima. Preferiscono farli per la televisione, dove li vedono decine di milioni. Mi sono ritirato dal cinema perché proprio nel momento della crisi, ho allentato un po’ la presa, per la morte del mio primo figlio. Morì in un incidente automobilistico quando stavo doppiando Per amore di Cesarina. Il mio più grande successo è stato senza dubbio Gli anni struggenti, anche di critica, ricevetti i complimenti anche da Rondi.

Intervista ad Erico Menczer del 11-10-1999 D. – Come è avvenuto il primo incontro con Luciano Salce? R. – Fu per Le Pillole di Ercole. Allora Salce era appena tornato dal Brasile…Lei sa come fu la sua vita? D. – Abbastanza. R. – In Brasile aveva girato due film, c’era stato un po’ di tempo. Quanti anni, precisamente, forse lo saprà lei… D. – Quattro. R. – Bene, quando tornò in Italia De Laurentiis gli propose questo film, tratto da una pochade francese, in cui lanciare come protagonista assoluto Nino Manfredi, che fino ad allora aveva fatto particine, mi ricordo un film con Sordi, Lo scapolo. Come direttore della fotografia venni chiamato io, che fino ad allora ero stato operatore di macchina. Mi concessero fiducia. D. – Un film di esordienti. R. – Sì, in qualche modo sì. C’era però anche quel comico francese, bassino… D. – Francis Blanche. R. – Sì, lui. C’era De Sica, la Koscina, quell’attrice di teatro un po’ anzianotta. D. – La Pagnani. R. – Esatto. Durante le riprese a Salce venne una specie di paralisi alla schiena. Un grande colpo della strega. Lo portavano sul set, a Salsomaggiore, in ambulanza. Dirigeva su una lettiga, un po’ sollevato sulla schiena, con degli appoggi sotto le ascelle. Era sposato, ma aveva dei problemi con la moglie, che, infatti non lo accompagnò a Salsomaggiore. Dopo poco divorziarono. D. – Com’era il suo umore sul set? R. – Buono. Era troppa la voglia di esordire. Nonostante tutto era lui a decidere ogni cosa. Era molto pignolo. Mi ricordo che cercavo di aiutarlo. Facevo dei cenni ai macchinisti sul posizionamento della mdp, li chiamavo, ma lui ci zittì, voleva ordine. Comunque, il film venne bene. D. – Molto divertente. L’anno dopo però ci fu un salto di qualità con Il federale. R. – Sì. Nonostante non facesse mai apprezzamenti sul lavoro, si ritrovò molto bene con me e mi richiamò. Il federale lo girammo tutto nel Lazio, sulla Prenestina. D. – Come si chiamava il paese in cui si rifugiava il produttore Bonafè all’inizio del racconto? R. – Era vicino Palestrina. Non mi ricordo il nome: San…Ci si arrivava da Palestrina dopo una serie di tornanti, quelli dove girammo la scena di «Buca…buca con acqua». Mi ricordo che il campo d’aviazione era vicino a Civitavecchia ed il lago a Giulianello. Fu una bellissima lavorazione, con molte scene difficili: quelle dei bombardamenti. C’era George Wilson, grandissima persona, amabilissima. D. – E Tognazzi?

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R. – Tognazzi era un po’ scocciatore. Interrompeva la lavorazione del film all’una, perché doveva prepararsi da mangiare. D. – C’era Stefania Sandrelli: diede particolari problemi? R. – No, no, era il primo film. Poi faceva una particina. Mi ricordo che durante una pausa di lavorazione ci fu un fuggi fuggi dei tecnici, che si ammassarono tutti intorno alla sua roulotte. Lei era lì dentro, completamente nuda, con il finestrino aperto e tutta la gente intorno. Stava lì, tranquillissima. D. - Quali furono le scene più difficili da girare? R. – Sicuramente quelle dei bombardamenti, soprattutto quelli notturni. La difficoltà stava nel ritrovare, al buio, i segni delle cariche per terra. Era un po’ pericoloso: l’esplosivo era abbastanza forte da poter rovesciare una jeep. Il mitragliamento della corriera, quella con il santo da cui esce l’olio, la facemmo vicino Guidonia. I mitragliamenti li facevamo con un attrezzo chiamato la chitarra: un pezzo di legno con tanti chiodi conficcati. Ad ogni chiodo corrispondeva un filo collegato ad una piccola carica di polvere da sparo. Si passava sopra i chiodi con una mano, progressivamente, questi si inclinavano e cominciavano a far esplodere i colpi consecutivamente. Nelle scene dei mitragliamenti il difficile era trovare strade sterrate, per poter far vedere i colpi di mitragliatrice che rimbalzavano. Se fossero state asfaltate non ci sarebbe stato l’effetto. D. – Chi si occupava degli esplosivi? Avevate degli artificieri, qualcuno dell’esercito, con voi? R. – No, no. C’erano dei tecnici degli effetti speciali che si occupavano di questo. C’erano delle persone, nel cinema, che possedevano e procuravano bombe, mitra, fucili, pistole. D. – E le scene con Tognazzi in sidecar come le giravate? R. – Con il cameracar. Avevamo la mdp montata sull’auto. Salce era lì e dirigeva le operazioni. Praticamente c’erano metà dei tecnici sul cameracar. D. – Il film successivo fu La voglia matta, con Catherine Spaak. Nemmeno lei diede problemi? R. – Assolutamente. Anche lei era molto giovane. La voglia matta lo girammo tutto a Sabaudia, in una villetta ricostruita in legno, tranne l’inizio, girato ad Ostia antica. Lo girammo in dicembre. D. – Chi faceva i sopralluoghi? Chi decideva qual era il posto giusto per girare un film? Salce o lei? R. – Salce. Insieme allo scenografo. Di solito i sopralluoghi si fanno con lo scenografo, che mi sembra allora fosse Boccianti. D. – La voglia matta è pieno di sequenze notturne: quella di Ostia, quella con Tognazzi al cimitero e quella del ballo dei ragazzi in riva al mare… R. – Tutte girate con l’effetto-notte, in pieno giorno, a mezzogiorno. Solo quella degli scavi di Ostia la girammo veramente di notte. Anzi, eravamo alla ricerca delle giornate perfettamente serene, per girare, per poter ottenere quel chiarore che sarebbe sembrato lunare. Se ci fossero state le nuvole tutto sarebbe apparso più monocorde: invece quando andavamo a girare c’era sempre qualche nuvola. D. – Da quel che riferisce lei, Salce era un regista molto rigoroso. Non improvvisava mai sul set? R. – Improvvisava solo nella costruzione di qualche gag. Salce era un regista geniale. Faceva parte di quel gruppo…il Teatro dei Gobbi. Ho lavorato con tutti loro: sono morti tutti giovani poveretti, poco oltre la sessantina. D. – Bonucci, non ne aveva nemmeno cinquanta. R. – Bonucci era una grandissima persona, simpaticissimo. Ho lavorato molto per lui, ho fatto la fotografia del suo episodio de L’amore difficile. Caprioli un po’ meno… D. – Un po’ meno cosa…un po’ meno simpatico o ha lavorato un po’ meno con lui? R. – Un po’ meno simpatico. Era un napoletano un po’ bugiardo, così, insomma…Salce era geniale: aveva sempre idee originalissime. Quando facevamo i film insieme e mi faceva leggere il copione, mi facevo già un’idea visiva della storia, no, come spesso succede? Beh, quando discutevamo insieme, Salce aveva trovato sempre, sempre, una soluzione migliore delle mie. Sapeva perfettamente qual era la posizione migliore della macchina per costruire un gag, non solo, trovava sempre soluzioni inedite. D. – Non sempre capita. R. – Assolutamente. Mi ricordo che c’era un regista, non voglio far nomi, che si presentava la mattina sul set con la pagina di sceneggiatura che doveva girare e la leggeva e la rileggeva, la leggeva, la rileggeva. Sempre da capo. Quando arrivavo io, mi dava la pagina, me la faceva leggere, mi guardava, poi diceva: «Ma hai letto? Rileggi». Insomma andava a finire che il film lo giravo io. Non aveva un’idea. A proposito di La voglia matta, fu su questo set che conobbe Diletta D’Andrea, era una delle ragazze: un anno e mezzo dopo ebbero il figlio. D. – Un colpo di fulmine. Mi diceva Vittorio Sindoni, quando l’ho intervistato, che Salce era un tipo solitario, anche un po’ tirato, avaro. Che gli piaceva molto andare in barca.

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R. – Era acido. In trent’anni, con quattordici film fatti insieme, siamo usciti insieme una sola volta, al di fuori dal set. Frequentava pochissime persone, aveva grande amore soltanto per le donne. Non passava sera che non uscisse tutto agghindato, con il suo vestito con i bottoni d’oro. Aveva una villa ad Amelia, con i pavimenti in cotto, i rubinetti navali. D. – Non crede che abbia scontato negli ultimi della sua vita, questo suo carattere sarcastico? Non si fece inimicizie? R. – Non credo. Era un individuo un po’ al di fuori della norma. Era estraneo al gruppo degli altri registi. Non andava mai nella tana dell’ANAC, a piazzale Flaminio. Si sentiva diverso, aveva fatto teatro, era più colto della media dei registi, quelli che andavano nella tana dell’ANAC. D. – Non crede che l’ostilità della critica verso di lui… R. – Dopo la sua morte… D. – Soprattutto dopo la sua morte…Non crede che l’ostilità della critica nei suoi confronti nasca dal suo carattere un po’ spigoloso? Ho notato nei confronti di Salce una freddezza superiore a quelli che possono essere i suoi meriti o demeriti estetici. R. – Non fece mai film per la critica. Fece solo commedie, film comici, uno diverso dall’altro, anche se li fece molto bene. D. – Sicuramente. Però, dopo l’uscita, de Le ore dell’amore era tenuto in grande considerazione critica, Tullio Kezich affermò che la commedia all’italiana aveva trovato il suo stile. Poi, subito dopo questo film, niente: buio totale. La critica non si è più interessata a lui. R. – Forse ha ragione lei. Le ore dell’amore era veramente un bel film. Un film originale, presentava un’idea che si sarebbe mostrata molti anni dopo, quella della crisi del matrimonio. Salce fu molto bravo a sfruttare le doti di quest’attrice francese (Emmanuelle Riva), a costruire su lei e Tognazzi un gioco molto sottile, sommesso. Ci sono scene di classe. D. – Come quella del sogno. R. – Salce mi chiese di mettere luci molto forti e molto in alto, per dare quest’illuminazione un po’ da incubo. Era pieno di idee. Mi ricordo che per Le pillole di Ercole, appena arrivato, mi disse: «Voglio tutti attacchi e stacchi in movimento». Io rimasi interdetto, non sapevo cosa volesse, poi mi chiarì che voleva l’entrata e l’uscita in scena dei personaggi sempre in movimento, con carrellate. D. – Insomma, già all’esordio si presentò con le idee ben chiare. Salce, spesso partecipava ai suoi film anche come attore. Erano ruoli che si ritagliava, oppure erano buchi del cast da turare? R. – No,no. Erano ruoli che si ritagliava. Si divertiva molto a recitare. Qual è il film che viene dopo? D. – La cuccagna. R. – Anche quello fu un film avveniristico. Anticipò temi successivi, quelli della contestazione giovanile. Quello delle ragazze in cerca di lavoro circuite dai loro datori. Adesso è quasi nella norma, terribile. Il film lo girammo a Fregene. La protagonista era molto adatta al ruolo. Si chiamava… D. – Donatella Turri. Non fece altri film dopo La cuccagna, vero? Non aveva doti particolari ? R. – No, anzi. Nel film era brava. D. – E c’era Luigi Tenco. R. – Era un ragazzo molto simpatico, serio, parlava poco. D. – Ho letto dichiarazioni di Luciano Salce, a proposito di Tenco, in cui affermava che, durante la lavorazione del film, non avrebbe pensato che in seguito si sarebbe suicidato. R. – E’ vero. La sua donna lo lasciò, quella cantante, con i capelli rossi, che ha avuto un certo successo. Non lo so. Soffrì molto. Era molto timido, non aveva un carattere forte. D. – Secondo lei avrebbe potuto continuare una carriera d’attore? R. – Perché no?! Aveva una recitazione sommessa. Certo aveva dei limiti: non avrebbe mai potuto recitare l’Amleto. Ma probabilmente, con qualche parte adatta… D. – Come imparai ad amare le donne, che confesso di non aver visto, è il primo film a colori che fece con Salce. E c’era uno stuolo di belle attrici. R. - Un film molto carino. C’era la Mercier, bellissima. Lo girammo ad Amburgo: le parti con la Mercier, la Ekberg, e a Roma, con la Leander e la Tiller. C’era Hoffmann, quell’attore austriaco. E c’era una giovanissima Romina Power. D. – Come mai sceglieste Romina Power? R. – Eh, ce la segnalarono. Probabilmente fu la madre che la spinse. La proponeva a tutti. D. – C’era Zarah Leander, diva tedesca. Che rapporto aveste con lei? R. – Buonissimo, ormai era vecchia, avrà avuto una settantina d’anni. Nel film suonava una canzone al pianoforte. D. – In seguito faceste quello che per me è il miglior film di Salce: Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno.

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R. – E’ vero, fu un ottimo film. Pieno di idee: quella delle monete stese sul corpo di lei, la bambola gonfiabile, l’ambiente tutto in interni. La Giorgi lì fu bravissima. Anzi, per me non ha mai recitato così bene come in quel film. In seguito ho ancora lavorato con lei, ma non ha mai più reso come in quel film. D. – Chi fu a sceglierla? R. – Salce, probabilmente, era sempre lui che sceglieva tutto. Per molto tempo ha avuto come aiuto regista Emilio Miraglia, che adesso è morto. D. – Mi dispiace. R. – Miraglia lo feci esordire alla regia io. Ha mai visto qualche suo film? D. – La notte che Evelyn uscì dalla tomba. R. – Avevo fatto un film con Franco Prosperi, Tecnica di un omicidio, fatto con tre lire, letteralmente, con cento milioni. Andammo in tre a girare a New York, avevamo Franco Nero e un caratterista americano Robert Webber. D. – Che poi ha fatto una discreta carriera nei film di azione. R. – Sì, ma allora era agli esordi. Il film ebbe un successo grandissimo. Mi ricordo che dovevo girare la scena della sparatoria dall’alto e l’attore che la faceva aveva le vertigini. Così dovemmo girare la città alla ricerca di un palazzo che avesse trenta piani e che prima dell’ultimo avesse un terrazzino, di modo che l’attore sporgendosi non avesse le vertigini. Il film ebbe tanto successo che i produttori vollero mettere insieme un altro film simile. Prosperi si defilò e io proposi Miraglia, che così esordì. Il film si chiamava Quella carogna dell’ispettore Sterling. Lui era molto avvilito, perché vedeva che i film che girava non gli venivano, non erano all’altezza di quelli di Salce. D. – Anche perché affrontò un genere completamente diverso. R. – Tecnicamente era bravo. Aveva poca personalità, era indeciso, aveva mille dubbi. Ma torniamo a noi. Dove eravamo? D. – Alla mia cara mamma. Che come ha ricordato lei aveva molte scene di effetto: quella delle monete, quella del lavatoio, la sequenza finale dell’uccisione di Villaggio. Di chi erano queste idee? Erano nella sceneggiatura, che era insolita, fatta da Azcona e Berlanga, o erano idee originali di Salce, che sviluppò sul set? R. – Non me lo ricordo. Ma probabilmente di Salce: la torta che girava nei saloni, al buio, è stata un’idea sua, per esempio. Aveva sempre queste idee originali. La villa dove girammo era vicino Roma, forse a Monte Mario, piena di boschi. D. – E’ il primo film che Salce fece con Villaggio. Com’era l’attore sul set? R. – E’ sicuro che non lo facemmo tra i due Fantozzi? D. – Non credo, Alla mia cara mamma è del 1974, Fantozzi del 1975. R. – Villaggio fu tranquillo. Ascoltava tutto quello che diceva Salce, si faceva guidare da lui, sentiva che Salce aveva molto da dargli. E poi era conscio di non avere le qualità del regista, infatti non ha mai provato a dirigere un film. D. – Tra i film che avete fatto insieme c’era stato anche Il sindacalista, con Buzzanca. R. – Un attore troppo invadente. Così come è lui nella realtà, molto esuberante, parla molto. D. – Ho letto delle dichiarazioni di Buzzanca, in cui sembra che fosse lui a dirigere tutti i film in cui recitò. Ho dei dubbi. R. – Ha ragione. Glielo lasciavano credere. Lo lasciavano fare. Lui diceva fate così, così, poi i registi cambiavano come pareva loro. Salce lo tenne a bada. D. – Credo che Buzzanca l’abbia saputo governare soltanto Pasquale Festa Campanile. Le altre volte sembra sempre prevaricare. Anche in questo film sembra voler fare troppo. Il difetto de Il sindacalista fu che Buzzanca sembrava commentare e spiegare i gag, le battute. R. – E’ vero. Nel film c’era anche Montagnani, bravissimo. Un personaggio di grande simpatia umana. Forse Salce diresse il film quando era già in fase calante. D. – Oddio, doveva ancora girare i due Fantozzi… R. – Non è successivo? D. - No, giunse subito dopo Basta guardarla e Il provinciale. Comunque lei crede che Salce fu svogliato? R. – Sì, è un film minore, non ha entusiasmato nessuno. D. – In effetti è vero, eppure fu scritto da Castellano e Pipolo, che tornavano a lavorare con Salce dopo un po’ di tempo. R. – Non sempre l’alchimia può funzionare. D. – Forse fu un film un po’ estraneo alle corde di Salce. Un film quasi di impegno politico. R. – In effetti, fu fatto un po’ per forza, tante volte bisognava impostare il film su Buzzanca. Anche il film che Salce fece in seguito con Buzzanca, Io e lui, non fu eccezionale. D. – A proposito di Io e lui, vedo che lei non ha mai diretto dalla fotografia dei film di Salce tratti da opere letterarie e teatrali: Ti ho sposato per allegria, La presidentessa… R. - …L’anatra all’arancia…

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D. – Come mai? Forse queste erano produzioni diverse, in cui i direttori della fotografia erano già stabiliti? R. – Può darsi. Se fosse dipeso soltanto da Luciano, mi avrebbe chiamato sempre. Ma poi bisogna scendere a compromessi. Ci sono attrici che hanno il proprio direttore: per esempio la Vitti che aveva sempre Carlo Di Palma, suo marito. Oppure bisognava fare compromessi con i produttori. A volte si facevano degli scambi: si rinunciava ad un tecnico (uno scenografo, un direttore della fotografia), per poter avere un attore. D. – Dove fu girato Il sindacalista? R. – A Roma. D. – A Roma? E i paesaggi brumosi? R. – Falsi. Tutto finto. Nebbia finta. Fatta coi fumoni. D. – Anche la fabbrica è stata trovata a Roma? R. – Qui vicino. Era una fabbrica di frigoriferi sulla Pontina. Adesso non c’è più, l’hanno chiusa. D. – A questo punto siamo arrivati ai due Fantozzi, successi grandissimi. Quale fu il successo più grande della carriera di Salce? R. – Proprio Fantozzi. Anche Il Federale andò bene, ma non quanto Fantozzi. Ho una lista di tutti i luoghi dove girammo i due film. Il veglione di Capodanno di Fantozzi lo girammo nei sotterranei della piscina del Foro Italico: tutti quei tubi erano l’impianto di riscaldamento. La partita di calcio a Ponte Marconi. La partenza ne Il secondo tragico Fantozzi alla stazione Tiburtina. D. – Il varo della turbonave a Civitavecchia, vero? R. – Esatto. Per la fotografia dei due Fantozzi, Luciano mi chiese di farla tipo vignette del Corriere dei Piccoli: tutto colore, tutto illuminato, senza effetti di luce. Proprio così mi disse, di farla come le vignette del Corriere dei Piccoli. D. – Nelle sequenze con i megadirettori mi sembra evidente l’uso del grandangolo. R. – Certamente. Il grandangolo sempre, per ingrandire gli ambienti. E il diaframma molto aperto per fare entrare più luce e distorcere gli ambienti, allungarli. Queste scene le girammo tutte nei teatri di posa. D. – Come riusciste a colorare il volto di Paolo Villaggio al pranzo della Serbelloni Mazzanti? R. – Con un piccolo proiettore puntatk sul suo volto. L’operatore scaldava la resistenza ed il viso di Villaggio cambiava colore. D. – E la scena dello scontro di Fantozzi con il faraglione di Capri? R. – Quella è un trucco. Anche allora c’erano i trucchi, non fatti con il computer, però... D. – Anche la scena del parafulmine, allora è un trucco… R. – Anche quella. Ed anche quella della nuvoletta dell’impiegato: una sovrapposizione di pellicola. Comunque Villaggio per tutte le scene pericolose, quelle acrobatiche con i pugni in faccia, le cadute, aveva una controfigura, che ancora adesso lavora per lui negli ultimi film. Gli assomiglia in modo spaventoso. D. – Sarà invecchiato con lui. R. – No, credo che abbia almeno vent’anni di meno. D. – E le pozze d’acqua del campo di calcio, dove i calciatori nuotavano, come furono fatte? R. – Quella in cui Fantozzi cade venendo sommerso fino al collo era una buca preparata prima. Le altre erano vere e proprie trincee scavate nella terra, rivestite con pannelli di legno. Erano come le corsie di una piscina. D. – Dopo i due Fantozzi, ecco, dopo molto tempo, Vieni avanti cretino. R. –Lo sa che me l’ero dimenticato? Stavo preparando una filmografia ed ero convinto che avessi girato quattordici film con Salce, eppure me ne ricordavo soltanto tredici…Era Vieni avanti cretino. D. – Sono contento di averla aiutata. R. – Fu un film molto divertente. Una lavorazione piacevole, per i duetti tra Banfi e Franco Bracardi, quello che suona al Maurizio Costanzo Show. D. – Mi sembra che Banfi sia un attore un po’ esuberante, sul tipo di Buzzanca. R. – No, affatto. Fu molto tranquillo, dava molto retta a Salce. D’altronde veniva dai film con la Fenech, doveva rifarsi una verginità. Si fidava di Luciano. D. – Quelli del casco fu l’ultimo film di Salce, diretto quando stava già male. R. – E’ morto poco più di un anno dopo. D. - Sindoni mi ha detto che non ha mai voluto vederlo, per non vedere come si era ridotto Salce. R. – Era cotto. Dopo mangiato, si addormentava. Giravamo le prime scene sempre senza di lui. D. – Come mai, con la crisi del cinema di quegli anni e pur essendo stanco e malato, decise di tornare a dirigere un film? R. – Forse proprio perché era un periodo di crisi. E poi era malato, ma ancora molto lucido. Aveva già avuto delle proposte precedentemente: dovevamo fare un film con Buricchi.

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D. – In effetti Quelli del casco è comunque un buon film. Con qualche bella scena, come quella iniziale nel convento. R. – Sì, sì. Quella della cena notturna dei ragazzi al ristorante. La girammo alla Taverna dell’Orso. Il resto quasi tutto nel liceo qui vicino di via Ripetta. C’era quella che sarebbe diventata la moglie di Claudio Lippi, Luana Ravegnini. Era molto brava. Mi ricordo che quando girammo la scena del bar in via Gallia, le feci tutta una serie di primi piani e ne rimasi impressionato. C’erano anche delle corse in moto in quel film. D. – Chi diresse la gara finale sulle moto? Non Salce. R. – Furono girate dalla seconda unità. Dall’aiuto regista, sicuramente. D. – Insieme a Salce giraste anche un film per la televisione americana, Gli innocenti vanno all’estero. R. – In America ancora lo danno, da noi non lo hanno mai dato, forse una volta sulla Rai. Fu un film di una piacevolezza unica. Pieno di attori americani, di secondo piano, ma molto bravi. D. – C’era anche Proietti. R. – Proietti faceva la guida. Girammo il film viaggiando in mezzo mondo: Roma, Paestum, Napoli, Pisa, Venezia, Parigi, Il Cairo, Atene. C’era un gruppo che girava tutte queste città e dovunque andava la guida era Proietti, sempre lui, vestito in mille modi diversi. D. – Un’idea molto carina. Di chi fu? R. – Di Salce, naturalmente. Il film fu fatto dal produttore Scanni, ma anche con capitali americani. C’era una certa larghezza di mezzi. La nave in parte la ricostruimmo, girando gli esterni a Fiumicino. Mi sembra che abbiamo parlato di tutto. D. – Anche a me. Ah, no, ci siamo dimenticati de Le monachine. R. – Quello con la Spaak e la Perego, vestite da suore? C’era anche Umberto D’Orsi. D. – Che ha lavorato molto con Salce, era il Catellani di Fantozzi. Da dove veniva? Era un attore di teatro? R. – No, non credo. Credo che l’avesse scoperto così, dal nulla. Era un attore molto carino. Comunque il film è minore, un film molto minore. D. – Doveva essere l’esordio alla regia di Castellano e Pipolo, che poi rifiutarono e lasciarono Salce a dirigerlo. R. – Credo che abbia ragione lei. Sì, sì, fu proprio così.

Corrispondenza con Ottavio Iemma I. Caro amico, non creda che io mi sia dimenticato di lei. Il tempo è stato in quest'ultimo mese particolarmente ostile anche nei miei confronti, e temo permarrà in tale ostilità almeno per qualche giorno ancora, forse una settimana o due. E le sue domande sono molte, e tutt'altro che goffe, e tutte meriterebbero una risposta seria e meditata che non ho avuto finora la possibilità di elaborare. Ma lo farò senz'altro e, spero, in tempo perché le possano essere di qualche utilità per il suo lavoro. Quel che posso fare subito è inviarle il testo di un mio breve intervento sull'opuscolo che fu pubblicato in occasione di una manifestazione celebrativa promossa nel settembre 1997 dal Comune di Melfi (cittadina della Basilicata in cui Pasquale nacque, come lei certamente saprà). Anche se in modo molto succinto queste righe contengono un principio di risposta ad alcune delle sue domande. Credo che se fosse ancora qui, anche Pasqualino la ringrazierebbe, come faccio io, per l'attenzione che ha dedicato e vorrà ancora dedicare al nostro lavoro. Un cordialissimo saluto, Ottavio Iemma Ed eccole di seguito l'intevento di cui le ho parlato: Pasqualino...

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Sono contento di avere qui un¹occasione per pagare un debito che ho con lui. È stato lui, Pasquale Festa Campanile, a spalancarmi le porte del cinema “vero”, del cinema professionale, chiamandomi nel 1968 a riscrivere la sceneggiatura del film che si accingeva a dirigere, La matriarca, con Jean Louis Trintignant e Catherine Spaak. Fu un successo. E fu, per entrambi, una sorta di colpo di fulmine. Eravamo tanto diversi, per carattere, per costume di vita, per abitudini, ma forse proprio per questo, o anche per questo, stavamo bene insieme, cosicché, da quell’anno, e fino alla sua scomparsa, ho scritto con lui nell’arco di circa sedici anni almeno una ventina di film; e questo, malgrado le circostanze del lavoro, suo e mio, ci costringessero talvolta a quello che ci divertiva chiamare un “temporaneo adulterio professionale”. Ricordo che gli piaceva applicare anche alla nostra collaborazione una delle sue massime preferite: meglio un amore senza fedeltà, che una fedeltà senza amore. A chiunque l’abbia conosciuto anche superficialmente non può essere sfuggito il suo fascino personale, la sua straordinaria simpatia e capacità di comunicare; ma io credo che sue qualità peculiari fossero l¹intelligenza e una cultura non provinciale: del suo cinema si può dire quel che si preferisce; può aver fatto, come tutti, film belli e meno belli, film giusti e sbagliati; ma quel che certamente non ha mai fatto è un film stupido. Gli piaceva, anzi, a suo modo rischiare su formule inconsuete per il cinema italiano di allora. Con La matriarca avevamo riaperto il filone di una commedia non dialettale, una commedia borghese, sulle onde della sophisticated comedy americana; con Quando le donne avevano la coda avevamo resuscitato ritmi e modi delle vecchie farse del muto. Se ne accorse il pubblico, che decretò a entrambi questi film un cordiale successo, ma non se ne accorse la critica che, del resto, a quei tempi era ancora “distratta” da un rigido bigottismo ideologico, più attenta alle tessere di partito che ai film. Né Pasqualino, né io, avevamo tessere di partito, ma questa “disattenzione” della critica rimase per lui fino all’ultimo un costante motivo di amarezza. Credo che, anche su questo terreno, gli si debba, se pure tardiva, una riparazione. Lavorare con lui era divertente. Ora che ci penso, scopro che nel lungo arco di vita in cui ci siamo frequentati e abbiamo lavorato insieme, non c’è mai stato tra noi un litigio, un malinteso, un momento di freddezza, di “allontanamento”, e questo mi sembra francamente miracoloso. Forse, se me lo raccontasse un altro, non ci crederei. Persino le nostre “arrabbiature di lavoro” (e Dio sa quante mai furono le volte in cui non la pensavamo allo stesso modo su quel che c’era da fare!) duravano il tempo di una sigaretta e finivano per sbollire “in allegria”, come gli piaceva che finissero tutte le cose della vita. Vi sono espressioni commemorative così abusate da restare ormai prive di ogni autentico significato e valore; ma in questo caso, nel caso dei miei rapporti umani e professionali con Pasquale Festa Campanile, temo proprio di dovervi fare ricorso: la sua scomparsa ha davvero lasciato nella mia esistenza di ogni giorno un posto vuoto che nessun altro ha potuto e, credo, potrà mai occupare. Ciao, Pasqualino. Ti ricordo sempre con grande affetto. Ottavio Iemma

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II. 1. Quando e come è avvenuto il primo incontro con Pasquale Festa Campanile? Siamo nella preistoria! Mi sembra di ricordare che ci abbia presentato un giovane produttore amico di entrambi, Luciano Perugia. Parlo degli anni ¹50 (seconda metà); lui era già uno sceneggiatore affermato; aveva pubblicato un libro di successo (La nonna Sabella) e collaborava saltuariamente a La fiera letteraria. Io avevo avuto una breve esperienza di set (assistente di Luciano Emmer in Ragazze di piazza di Spagna e in Eroi dell’Artide, poi assistente di Carlo Infascelli nell’organizzazione generale di Canzoni di mezzo secolo); ma la crisi del cinema (una delle tante periodiche!) mi aveva subito respinto nei ranghi di coloro che del cinema si limitano a scriverne: diressi per alcuni anni un mensile (Cronache del cinema e della televisione); e curai per la TV il primo settimanale dedicato ai problemi della donna (Penelope). Nell¹anno in cui feci parte della commissione di selezione dei film per il festival veneziano (1960) contribuii alla scelta di Rocco e i suoi fratelli, che Pasqualino, insieme con altri, aveva sceneggiato. Ma la ragione per cui ci ritrovammo ( a dieci anni circa dal nostro primo incontro!) fu un’altra: credo che Pasqualino avesse letto un mio soggetto e gli fosse piaciuto; quel film non si fece, ma quando ebbe bisogno di riscrivere il copione de La matriarca Pasquale si ricordò di me. 2. Come avveniva la vostra collaborazione in sede di sceneggiatura? Di chi era l'idea dei progetti? Dei produttori, di Festa Campanile, sua? Pasquale possedeva un¹agendina tascabile divenuta negli anni famosa (copertina rovinata, pagine sgualcite, macchiate, strappate) dove annotava puntigliosamente ogni spunto, ogni idea, ogni suggerimento che gli capitasse di “incontrare” durante la sua attività (magari anche un romanzo che gli sembrasse trasferibile). Quando ci si vedeva per scegliere un nuovo progetto, tirava fuori l¹agendina e la sfogliava. Naturalmente non tutti i progetti venivano da lì; qualcuno nasceva da quello che in gergo pubblicitario si chiama “brain storming”. Per esempio i soggetti di Con quale amore, con quanto amore, Quando le donne persero la coda (infausto seguito di Quando l’avevano!), Qua la mano (l’episodio del vetturino e del papa), Un povero ricco. Altri nascevano da romanzi, suoi o altrui. Ma, in ogni caso, era sempre lui a proporre l’idea al produttore; mai il contrario. Con una sola eccezione a me nota, Autostop rosso sangue. In questo caso i produttori (Turchetto e Montanari) avevano acquistato i diritti di un giallo Mondadori (l¹autore, americano, mi pare si chiamasse Frank Kane), e lo proposero a Pasquale. Quale sia stata la ragione per cui lui accettò, sinceramente non lo so o non me lo ricordo. Le posso solo dire perché io accettai di scrivere il copione: denaro. A volte capita di averne bisogno. Una ragione poco “poetica”? Beh, conosco molti “poeti” di provincia, della mia generazione, che scesero a Roma per fare il cinema godendo di una rendita familiare sufficiente a consentirgli di dire qualche “no” in più. Né Festa Campanile, né io godevamo di questo privilegio. La nostra collaborazione obbediva a “regole” molto semplici: si parlava del film più o meno a lungo (personaggi, intreccio, taglio del racconto, etc.) Poi io scrivevo. Pur essendo perfettamente capace di farlo, Pasquale non aveva più voglia di scrivere, o almeno di scrivere sceneggiature. Anche per questa ragione “si fece” regista. Poi, sul copione scritto, si tornava a discutere sul dettaglio di questa o quella scena, di questo o quel dialogo, e io riscrivevo, fin quando le “date definitive di consegna”, i tempi della produzione, ce lo consentivano. Non erano mai date comode, perché sia Pasquale che io lavoravamo molto. Ma anche perché le date dei film erano quasi sempre determinate, come scadenze cambiarie, dalle disponibilità degli attori principali. 3. Quanto rispettava la sceneggiatura il regista, al momento di girare il film? Si sforzava di farlo il più possibile. Il suo amore per la letteratura (certamente più grande del suo amore per il cinema) generava in Pasquale un grande rispetto per la pagina scritta. Ma, nei tempi in cui Pasquale ed io abbiamo lavorato insieme, c’erano una dozzina di attori (quelli più graditi al mercato, i cosidetti “colonnelli”) che possedevano un enorme potere sul film che avevano accettato di girare e ne disponevano ampiamente, soprattutto sul set, spesso con grande arroganza, non sempre con grande intelligenza. Parlo soprattutto dei “comici”, Sordi, Tognazzi, Manfredi, Villaggio, Vitti, Pozzetto, Montesano. Molti di loro erano “malati” di “tentazione registica” (alcuni di loro ci hanno anche provato con risultati, ahimé, non brillantissimi) e dunque, durante le riprese, “mettevano bocca” senza troppi riguardi. Non so se lei sa che Manfredi costrinse persino un regista di grande prestigio come Lattuada ad abbandonare il set a causa delle continue divergenze sulle riprese del film (Nudo di donna, se non ricordo male). Su questo “fronte” Pasqualino non trovava sempre la forza di resistere quanto sarebbe stato necessario. Mi sia permesso ricordare che l’unica sceneggiatura diretta da Pasquale, da cui mi sentii costretto a ritirare la firma fu Un povero ricco;

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ma le prevaricazioni di Pozzetto durante le riprese erano state tante e tali che, quando vidi la copia campione del film, non riconobbi assolutamente il copione. Credo di aver dato a Pasqualino, in quella occasione, un piccolo dispiacere. Devo aggiungere che non sono mai più stato invitato, da allora a scrivere un film interpretato da Pozzetto? 4. A quale aspetto nella stesura dei copioni si interessava di più Festa Campanile? Alla scansione dell'intreccio, alla definizione psicologica dei personaggi, all'invenzione dei momenti comici? Tutti e tre gli aspetti lo interessavano, con prevalenza dell’uno o dell’altro in relazione al film di cui si trattava. Per esempio, in Quando le donne avevano la coda, intreccio e invenzioni comiche avevano la priorità. In La ragazza di Trieste non c’erano momenti comici ed era fondamentale il lavoro sulla psicologia dei personaggi. 5. E' vero che il regista si disinteressava dell'edizione dei suoi film? E’ falso. Almeno per quanto riguarda i film che io ho scritto. Tra i registi con cui ho lavorato è stato quello che mi ha fatto trascorrere più ore con lui in moviola, o in saletta doppiaggio, o in sala missaggio. Posso dire che aveva certamente una “minore” sensibilità musicale; ma si affidava sempre a musicisti di primissimo piano. 6. Ha mai presenziato sui set del regista? Se sì, qual era l'aspetto della regia che curava di più? Il taglio delle inquadrature, l'aspetto scenografico, il movimento e la recitazione degli attori? Ci sono stato qualche volta. Ma devo dirle che Pasqualino, come tutti i registi intelligenti, si guardava bene dal “mitizzare” e “mistificare” il suo ruolo. Non l’ho mai visto recitare una “tormentata ricerca dell’inquadratura”. Si preoccupava che i luoghi fossero giusti, le scenografie e i costumi ben curati, che il racconto fosse chiaro e che gli attori dicessero le battute senza sbagliare i toni. Dopodiché si preoccupava molto di essere in regola con la tabella di marcia produttiva. Pasquale ci teneva molto a “non sgarrare”. Spesso faceva con i produttori delle scommesse sui tempi di lavorazione che a me sembravano semplicemente suicide. E le vinceva. Quando gli suggerii, una volta, di prendersi qualche giornata in più, magari per girare una volta di più un “ciack” venuto così così, mi rispose con grande saggezza: “ A’ Ottà, se mi danno sei mesi invece di sei settimane, io sempre lo stesso film faccio.” Aveva ragione. Ognuno ha il suo orologino interno. E se Chaplin ripeteva a volte un ciack più di un centinaio di volte e impiegò più di tre anni a realizzare Luci della città, Welles fece il suo Macbeth in ventun giorni. E se a a Balzac strappavano le pagine appena finite dalle mani, Flaubert riscriveva le sue cinque, dieci volte. Il lavoro creativo non può essere regolato da un orario ferroviario. E, infine, caro Lupo solitario mi creda: il set è un luogo noiosissimo e, come diceva Bergman, quanto di meno propizio si possa immaginare all¹ispirazione! 7. Quanto è cambiata La matriarca dal copione di Niccolò Ferrari? Quali problemi avete avuto con la censura? Del copione di Ferrari è rimasto soltanto lo spunto che avvia la storia: una piacente vedova scopre che il marito, da vivo, la tradiva ripetutamente, e decide di prendersi una vendetta postuma, rendendogli pan per focaccia alla memoria. Il resto è tutto cambiato, episodi, situazioni, personaggi, dialoghi. Ci divertimmo molto a piluccare qua e là, tra le pagine del Kraft-Ebing Bisognò concedere alcuni metri alla censura. Ma soprattutto bisognò concedere alcune “proposte” all’autocensura che, a quei tempi, produttori e distributori prudenzialmente praticavano. Si tratta di trent’anni fa! 8. Qual è stato l'apporto di Umberto Eco in Quando le donne avevano la coda? Non lo abbiamo mai incontrato. Non in quell’occasione, almeno. Aveva scritto un soggetto (acquistato, credo di ricordare, da Luciano Perugia e finito poi nelle mani di Silvio Clementelli, lo stesso produttore de La matriarca, con cui facemmo il film). Me lo ricordo molto poco e non ce l¹ho più in archivio, se no glie lo avrei inviato volentieri. C’era la preistoria, c’era un conflitto fra due tribù, c’era mi pare una storia d’amore... L¹invenzione dei sette cavernicoli che non hanno mai visto una donna e per sbaglio ne catturano una in una trappola per animali è tutta nostra (vorrei dire di Pasqualino e mia, ma non oso visto il numero incredibile di nomi che affollano i titoli di

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testa!). Comunque Eco non c¹entra in nulla con il film e penso che, dal suo punto di vista, abbia fatto bene a non firmarlo. Dal mio non posso fare a meno di pensare che se tra i firmatari ci fosse stato anche lui, certa critica avrebbe “letto” il film con più attenzione e non l’avrebbe trattato con tanta superficiale spocchia. 9. Come mai il personaggio di Vittorio Gassman in Dove vai tutta nuda? sembra essere messo a forza nella storia? E' stato aggiunto in seguito? Ha indovinato. Mancavano pochi giorni all¹inizio delle riprese; Festa Campanile e Mario Cecchi Gori erano insoddisfatti della sceneggiatura (non mi ricordo assolutamente chi l’avesse scritta); l¹idea della svampita disinibita che gira nuda per casa era di Pasquale (pensata su misura per Maria Grazia Buccella), ma nel copione non c’era molto di più; mi chiesero di irrobustirlo ed io non trovai di meglio che ispirarmi ad un film che amo moltissimo (era tra quelli che scegliemmo per la mostra di Venezia 1960, e secondo me, al di là di tutte le polemiche che accompagnarono quel festival, era quello che avrebbe veramente meritato il Leone d’oro). Parlo de L’appartamento di Wilder. Scrivevo mentre già si girava, ma per dare più forza al film venne a Cecchi Gori l¹idea di chiedere una partecipazione a Gassman. Io ero impegnato a ricostruire la struttura della commedia, per cui il “cameo” di Gassman venne inventato e scritto da Sandro Continenza, che con Gassman aveva già lavorato e ne godeva la fiducia. 10. Lei ha ridotto per lo schermo, per Festa Campanile, molte opere letterarie. Chi sceglieva i testi da cui poi trarre i film? Se nelle opere letterarie include anche i romanzi dello stesso Festa Campanile, allora – è vero – sono parecchie (nove, se non sbaglio, se si contano anche le mie sceneggiature de Il peccato e Solo per amore che non sono diventate film). Se le esclude, però, rimangono solo La calandria, Autostop rosso sangue, Il corpo della ragassa e Più bello di così si muore. Per quel che riguarda Autostop le ho già risposto. Per il romanzo di Brera la rimando alla risposta n° 12 e per La calandria alla risposta successiva. Quanto a Più bello…, il comune amico Antonio Amurri (umorista prolifico e, secondo me, di notevole bravura) ci segnalava puntualmente l’uscita di ogni suo romanzo; molti dei suoi libri sono diventati dei film; ma Più bello… sembrava sia a Pasquale che a me uno dei suoi più “robusti” per invenzioni e intreccio. Il romanzo non me lo ricordo benissimo (sono trascorsi vent’anni da quando lo lessi!), ma credo che la sceneggiatura abbia accentuato i sapori amari della storia conferendole – chiedo scusa per la presunzione – un po’ di spessore in più. Confesso che sono abbastanza affezionato a questo film che la critica ha (come sempre nel caso di P.F.C.) trattato con molta sufficienza. E trovo che Montesano e Caprioli furono in alcune scene straordinari. 11. Qual è stato il suo metodo di lavoro per La calandria? Di chi è stata l'idea di modificare così la commedia rispetto all'originale? Come accadde poi anche nel caso del romanzo di Brera, fui chiamato ad occuparmi della sceneggiatura di questo film quando già esisteva una riduzione (un treatment) della commedia. Le scelte fondamentali erano state già fatte e, credo, in buona misura determinate dalla destinazione del ruolo principale a Lando Buzzanca e dalla necessità di modellargli addosso un personaggio che fosse nelle sue corde (oltre che nella linea del rapporto di gradimento (reale o supposto) che si era stabilito tra il pubblico e l’attore. Personalmente ritengo che Buzzanca fosse già allora un attore di grande talento non soltanto comico; proprio Pasqualino ed io lo avevamo portato al successo cinematografico con Quando le donne avevano la coda, che fu uno straordinario risultato di pubblico, e con Il merlo maschio (ebbe anch’esso ottimi esiti commerciali, ma – all’estero, in Francia soprattutto – anche di critica). Per questo, credo, Buzzanca mi onorò della sua stima ed amicizia e mi chiese di collaborare ad altri suoi film non diretti da Pasquale. Io ci provai. Accettai di scrivere Il prete sposato, prodotto e diretto da Marco Vicario; realizzai una stesura del copione, ma sopravvennero “divergenze” (con Vicario) che mi indussero a non firmare il film. Per Jus primae noctis, ultimo film con Buzzanca diretto da Pasqualino, scrissi soltanto un lungo treatment in un latino “volgare” (naturalmente tutto inventato) di cui non restò nel film quasi più traccia. Ci provai ancora con All’onorevole piacciono le donne. Ma questa è un’altra lunga storia e non riguarda Festa Campanile, ma Lucio Fulci (regista – anche lui – ingiustamente maltrattato in vita dalla critica). Purtroppo, in seguito, Buzzanca non seppe resistere alla tentazione di sfruttare alla svelta il successo accettando, senza discriminare, ogni genere di proposte, facendo fino a sei-sette film

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all’anno, e dissipando in poco tempo il patrimonio di simpatia di quello stesso pubblico che aveva cercato “a tutti i costi” di compiacere. 12. Nel passaggio dalla pagina allo schermo, Il corpo della ragassa ha acquistato un tono più sarcastico e cinico rispetto a quello più evocativo del romanzo. Come è nata la scelta di ridurre il numero dei personaggi e di concentrare l'attenzione soprattutto su quelli di Teresa e del professore? E' stato solo per motivi di opportunità o la scelta di raccontare un'iniziazione erotica? Quanto al Corpo della ragassa, fu per me addirittura un’operazione di “pronto soccorso”. Il film era stato interrotto dopo la prima settimana di lavorazione perché ci si era accorti (ritengo in seguito ad una forte “pressione” di Enrico Maria Salerno) che la sceneggiatura aveva urgente bisogno interventi. Feci quello che mi fu possibile nei pochi giorni che mi furono concessi, senza stravolgere (e nemmeno analizzare) le scelte e la struttura preesistenti. O il film sarebbe semplicemente “saltato”. Il sarcasmo e il cinismo sono sentimenti che senza dubbio mi appartengono e ne lascio il segno più o meno in tutto quel che scrivo. Credo si possa trovarne traccia – lei se ne sarà certamente accorto – anche nel tono di queste mie risposte. 13. Lei ha sceneggiato i film che Festa Campanile ha tratto dai propri romanzi. Come mai, almeno ufficialmente, il regista non ha partecipato alle sceneggiature? Le offriva, comunque, indicazioni? Avete avuto differenti opinioni sulla stesura dei copioni? Sono soprattutto i registi mediocri che avvertono l’urgenza di nascondere, a se stessi prima ancora che agli altri, la propria “pochezza” usando il potere che hanno per pretendere il proprio nome ripetuto nei titoli almeno tre o quattro volte, e vederlo campeggiare su manifesti e flani giornalistici a caratteri di scatola. Ne conosco parecchi che esigono contrattualmente di firmare soggetti e sceneggiature di cui non hanno scritto né ideato neppure una virgola. Festa Campanile non ha mai avuto l’arroganza (o la frustrazione!) di smaniare per apparire come sceneggiatore quando non ne aveva ragione. A volte ci ha rinunciato in casi nei quali avrebbe avuto il diritto di chiederlo. Naturalmente, anche quando lavoravo su un suo romanzo, la stesura della sceneggiatura era preceduta come sempre da riunioni in cui Pasquale discuteva le mie proposte, dava indicazioni e suggerimenti, esprimeva desideri e richieste. Differenti opinioni? Qualche volta, certamente. Per esempio sul finale di La ragazza di Trieste. 14. Cosa mi può dire di Gegè Bellavita, film che non ho mai visto? Una “storia grottesca” nella quale Pasquale credeva molto; io un po’ meno; il produttore (Goffredo Lombardo) per niente. Venne fuori una sorta di puntigliosa scommessa, o sfida, tra Pasquale che voleva fare a tutti costi il film e Goffredo che glie lo voleva impedire. I due erano molto amici e da moltissimo tempo; teste durissime entrambi; assistere alle loro clamorose litigate era uno spettacolo divertente. Ma il film ne soffrì molto. Pasquale lo fece, ma Goffredo gli dette pochissimi soldi: fu girato in 16 mm. E il cast – pur di attori assai bravi – non aveva alcuna “chiamata”. Io e Riz Ortolani scrivemmo per il film persino una canzone, ma non ci siamo arricchiti con i diritti! Il film fu disertato dal pubblico. Io stesso, quando andai a vederlo in sala, scappai dopo un quarto d’ora, furioso per l’orribile qualità della copia, risultato di un pessimo “trasporto” dal “16mm” al “35mm”. Malgrado la sua intelligenza, Pasqualino aveva talvolta la debolezza di sottovalutare gli ostacoli. 15. Alla luce degli ultimi film (Il ladrone, Qua la mano, Più bello di così si muore) e degli ultimi romanzi, mi sembra che, con effetto retroattivo, si possa trovare nel regista una linea di coerenza molto forte: il gusto di raccontare storie di personaggi comuni che si trovano davanti aspetti abnormi della realtà quotidiana. E' d'accordo con questa interpretazione? Festa Campanile aveva veramente questa intenzione, nel raccontare le sue storie? Con Pasqualino non abbiamo mai parlato delle sue, o delle nostre, intenzioni. Raccontare storie divertenti, o commoventi, questo era, credo, l’inespresso scopo del nostro lavoro, e anche il nostro piacere nel farlo. Scoprire le linee psicologiche, o ideologiche, o stilistiche, o quant’altro, è o

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dovrebbe essere compito del critico. L’interpretazione che ne dà lei è possibile, forse probabile. Personalmente sono convinto, come lei, che vi sia, in tutta la storia di Festa Campanile–autore, una riconoscibile coerenza, derivata certamente dalla sua indiscutibile personalità. Se mi è consentito dal nostro lungo e felice sodalizio di muovergli un timido rimprovero – lo feci del resto più volte direttamente con lui quando era vivo – ebbene, è quello di non aver forse creduto in se stesso quanto avrebbe dovuto e potuto, e di avere avuto sempre “troppa fretta”. Ma Pasquale è morto a 59 anni, un’età che mi sembra terribilmente giovane. Questo può, forse, aiutare a comprendere e a spiegare quella fretta? 16. Può raccontarmi qualche aneddoto sui vostri rapporti nel lavoro? Non so se sia un aneddoto, ma mi viene in mente la strana avventura di un film come La ragazza di Trieste. Ufficialmente risulta “ricavato dall’omonimo romanzo”. In realtà non andò così. Pasquale amava moltissimo (del resto come me) Scott Fitzgerald e sognava di raccontare in un film una storia che richiamasse la tragica vicenda dello scrittore con sua moglie Zelda. Buttammo giù l’idea e ne parlammo con Giorgio Venturini (il produttore de La Calandria) A Venturini piacque, ma non era un produttore che potesse mandare avanti più progetti contemporaneamente; in poche parole, non era in grado di finanziare la sceneggiatura; allora Pasquale mi propose, ed io accettai, di scriverla comunque, a nostro rischio. Anche la sceneggiatura piacque molto a Venturini (era un sentimentale e ci aveva persino pianto sopra, ci disse!); ma la sua salute andava declinando ed erano intervenute difficoltà di ordine finanziario che gli rendevano difficile, se non impossibile, affrontare la produzione del film. Erano, purtroppo per noi, tempi nei quali una storia di quel genere non trovava facile ascolto tra i produttori italiani. Il copione dormì nel cassetto per diversi anni. Nel frattempo Pasquale aveva ricominciato a pubblicare romanzi i cui diritti di riduzione cinematografica venivano puntualmente acquistati da questo o quel produttore. A Pasquale venne in mente che poteva essere quella la strada giusta per “riesumare” La ragazza di Trieste e mi chiese se poteva usare la nostra sceneggiatura per scrivere un racconto. Naturalmente risposi che poteva fare quel che voleva. Il libro uscì e i diritti furono immediatamente comprati da Achille Manzotti. Ricordo che Achille – innamorato della storia e forse sospettoso che potessimo venderla ad un altro per una manciata di milioni in più – firmò il suo impegno d’acquisto al tavolo di una trattoria della vecchia Roma, sui risvolti di una busta usata perché non avevamo altra carta… 17. Che ricordo ha della collaborazione con Luciano Salce per La presidentessa? Luciano Salce, un uomo civile, intelligente e spiritosissimo come ne ho conosciuto pochi. Aveva anche lui, come Pasqualino, il dono “divino” dell’ironia (“divino” diventa quando si ha l’eleganza di praticarla innanzitutto su se stessi). L’operazione nacque su proposta di Mario Cecchi Gori (il Cecchi Gori “serio”, per intenderci). Doveva interpretarlo Laura Antonelli, ma la brava ragazza, stordita dagli incontri con Visconti e Patroni Griffi, s’era messa in testa di essere la nuova Duse. La Melato fu un ripiego. Più brava certamente, un’attrice sul serio, ma di scarsa chiamata. La tentazione che venne, a Salce e a me, lavorando sulla commedia di Hennequin e Veber, fu di forzarne il contenuto satirico nella direzione di una parabola allegorica in cui, per fare un esempio, la Giustizia romana “funzionava” in un Palazzo fatiscente che letteralmente crollava a pezzi sulle teste dei personaggi senza che loro dessero il minimo sentore di accorgersene o darvi peso. O l’alluvione che quasi travolge la casa del piccolo magistrato veneto mentre nel suo interno – tra il completo disinteresse per la catastrofe ambientale – si svolge l’assalto posciadesco alla virtù del ministro in visita per coinvolgerlo in una tresca di letti, corna e beghe di carriera. Queste intenzioni si scontrarono purtroppo con i limiti del budget e ne rimasero nel film solo impercettibili tracce. Ma il mio incontro con Salce fu piacevolissimo e rimpiango che non si sia verificata un’altra occasione per lavorare insieme. Se il film avesse avuto un miglior risultato al botteghino, forse… 18. Come furono i suoi rapporti con Steno? I miei rapporti personali con Steno erano ottimi. Quelli professionali sono stati, invece, rari e non fortunati. Ricordo che Quando la coppia scoppia mi fornì l'occasione di scrivere una delle due "lettere al produttore" da me spedite in tutta la mia non breve carriera... Era, si capisce, una lettera di risentita protesta per il modo in cui si era svolto il lavoro di sceneggiatura. La scrissi dopo aver letto, a quarantottore dall'inizio delle riprese, una versione del copione in cui, a mia insaputa, il protagonista del film e un giovanotto milanese dalle multiformi quanto velleitarie vocazioni

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avevano messo le mani. Il risultato di quegli interventi era tale da autorizzare la facile previsione di un solenne fiasco anche sul piano commerciale. Che, infatti, puntualmente si verificò. Fu solo il mio personale rapporto con Steno che mi trattenne in quel caso dal ritirare la firma della sceneggiatura. Steno era un uomo intelligentissimo, simpatico, spiritoso e fornito di grande ironia, ma aveva il difetto di essere patologicamente preda del dubbio. Nel corso dell'altra occasione che ebbi di lavorare con lui (una serie di polizieschi interpretata per la TV da Bud Spencer) arrivò a farmi scrivere l'intera sceneggiatura di due soggetti della serie prima di decidere che non voleva realizzare quegli episodi. Ma, come dice Joe Brown in A qualcuno piace caldo: "Nessuno è perfetto!"

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APPENDICE SECONDA IL LIETO FINE (Atto I, scena 4) LA CLINICA (Da una parte, un letto di ospedale, in penombra. Dall’altra, il corridoio della clinica. Sul letto, una figura distesa, lo scrittore Malinverni. Vicino a lui, chiacchierando familiarmente, Quadroni, con basco e occhiali, attivista di un partito confessionale) QUADRONI – Noi ci evolviamo, caro Malinverni. Oggi i preti sono campioni di atletica e le suore guidano i camion. MALINVERNI – Ed è meglio ? QUADRONI – Viviamo nel nostro tempo. Preveniamo i peccati, invece di assolverli, e basta. MALINVERNI – Volete convertirmi? QUADRONI – Nel suo caso c’è qualcosa di più importante, di più urgente della confessione… MALINVERNI – E sarebbe? QUADRONI – La sconfessione. MALINVERNI – Sconfessione ? QUADRONI – Sconfessare le idee, questo conta. Tutte quelle brutte idee, seminate qua e là nei suoi libri, tra una battuta e un aneddoto…via, facciamo un bel falò…sconfessiamo!… MALINVERNI – Ma allora, perché ho vissuto? Per rifiutare, alla fine, la mia vita? QUADRONI – Si ricordi che la morte è solo del corpo. MALINVERNI – E ‘ proprio per lui che mi dispiace. QUADRONI – Però, “non omnis moriar”, qualcosa volerà fuori da questa spoglia mortale…Dove volerà? MALINVERNI – Non saprei. QUADRONI – In alto o in basso? Questo è il punto…Vogliamo farla volare in alto ? MALINVERNI (rassegnato) – Facciamola volare in alto. QUADRONI – E allora su, una bella dichiarazione finale, una passata di spugna, un bell’articolo… MALINVERNI (amaro) – Un articulo mortis… QUADRONI – Ho preparato un abbozzo, vado a prenderlo: una firmetta e vedrà come si sentirà leggero, pronto a volare… MALINVERNI (esasperato) – Oh, all’inferno… QUADRONI (correndo via) – No, in paradiso, in paradiso…(esce dalla “stanza” e nel corridoio incontra Cassoni, attivista di un partito laico, fisicamente non dissimile da Quadroni) CASSONI – Cosa fa lei qua? QUADRONI – E lei? Io compio il mio dovere. CASSONI – Quale? Ne avete tanti, ormai. QUADRONI – “Curare gli infermi”, si rilegga il catechismo, le farà bene. CASSONI – Guardi che Malinverni è dei nostri…Da tempo meditava una risoluzione… QUADRONI – Sì! Finito il tempo delle rivoluzioni, vi consolate con le risoluzioni… CASSONI – Del resto, il suo recente viaggio in Cina… QUADRONI – Organizzato da voi, e, cosa che ha il suo peso, gratuito. E i suoi viaggi a Roma, allora? CASSONI – Che viaggi? Malinverni abita a Roma. QUADRONI – Appunto. Una prova di più del suo bisogno di vivere all’ombra della grande cupola, del grande colonnato che con le sue braccia amorose cinge… CASSONI – Semplicemente, ha la casa a Roma, e col fitto bloccato. QUADRONI – Poteva vivere a Parigi, come tutti gli scrittori pornografici. No, ha referito restare qui. Cosa conta un viaggio in Cina, se la sua vita è tutta romana, e quindi, non ho bisogno di ricordartelo, cattolica e apostolica? CASSONI – Inutile discutere con lei. Parleranno i fatti. QUADRONI – Appunto. E i fatti sono che Malinverni sta per firmare una protesta di fede. Anzi, vado a prenderla. (si affaccia alla porta della stanza di Malinverni e gli grida) Malinverni, attento a Cassoni! Non ceda…Io torno subito… (Esce rapidamente. Cassoni entra nella stanza e si accosta al letto dello scrittore). CASSONI (All’indirizzo di Don Quadroni) – Corvi! Avvoltoi! (siede accanto al letto) MALINVERNI – Anche voi volete una dichiarazione? CASSONI – Noi no. Che ne faremmo? Tu non ci servi. Non ti abbiamo mai cercato. MALINVERNI – E’ vero. Anzi, vi ringrazio… CASSONI – Sei tu, semmai, a cercare noi. A venirci incontro. Sei vissuto distrattamente. Non vuoi che la tua morte serva a qualcosa.

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MALINVERNI – Preferirei servire vivendo. CASSONI – Non vuoi parlare con me? Devi avere qualcosa che ti pesa… (con dolcezza) Non vuoi sfogarti? MALINVERNI (con una specie di calma disperazione) – Oh, tempi oscuri sono i nostri, in cui i preti fanno politica, i politici vanno a messa e i mangiapreti si fanno agnelli!… CASSONI – Su, prova…(atteggiamento da confessore) Da quanto tempo non hai letto Marx? MALINVERNI – Non lo so…da anni… CASSONI – Quanti? Cinque? Dieci? MALINVERNI – Diciamo dieci. CASSONI – Ti ricordi qualcosa? MALINVERNI – Poco. CASSONI – Ma ti dispiace di averlo trascurato, vero? Volevi leggerlo, ma poi le occupazioni, i… MALINVERNI – I viaggi… CASSONI – Sei stato in America? MALINVERNI – Sì. CASSONI – Male! Quante volte? Una o più? MALINVERNI – Una volta. CASSONI – Una sola? Attento! MALINVERNI – Una, una… CASSONI – Va bene…può bastare…appena possibile, leggerai venti lettere di Lenin a Clara Zetkin. MALINVERNI – Ora basta, sono stanco. CASSONI – Basta, certo…C’è un solo guaio: Quadroni. MALINVERNI – Perché? CASSONI – Andrà proclamando la tua conversione. Da domani entrerai nel martirologio. L’oscurantismo continua. MALINVERNI – E che posso fare? CASSONI – Puoi darci una risoluzione. MALINVERNI – Cioè? Un’altra dichiarazione? CASSONI – No, una risoluzione…E’ molto diverso…è spontanea…te la preparo io in un attimo…Torni dalla Cina, sei entusiasta. Hai visto un grande popolo che rinasce. Cinquecento milioni di esseri che pensano come un essere solo. Dicono che sono scalzi? Tu gli dici che hanno le scarpe, e anche la bicicletta. Hai visto i capostazioni con la benda profilattica, come i chirurghi. Allora, è caduta la tua benda, dagli occhi…hai capito tutto…non è mai tardi per capire…la nostra misericordia è infinita…torno subito…Aspettami, eh! (Esce rapidamente. Nel “corridoio” si imbatte con Rosita, Ornella, Gianni Berti e Milziade con la sacca da fotografo) GIANNI – Come sta? CASSONI – Eh…così così…(e andandosene) Non affaticatelo, mi raccomando! (esce) GIANNI – Aspettate qui. (Fa per entare) ROSITA (sospettosa) – Perché? GIANNI – Per prepararlo. ROSITA – Non ce n’è bisogno (si avvia decisa, ma Gianni la trattiene per un braccio) GIANNI – Lei…mi giura che lui… (indica Malinverni)…conosceva suo marito? ROSITA – Conoscerlo? Le ripeto che erano fratelli. Sempre insieme, sul Sabotino. Poi, tutti e due legionari fiumani…Le ho detto le ultime parole di mio marito sul letto di morte? “Malinverni, fai tornare Fiume all’Italia”! disse, e morì. GIANNI (poco convinto) – Andiamo. (entrano e circondano il letto) Malinverni? Sono Berti, del Carlino. Come sta? MALINVERNI – Chi è questa gente? ROSITA – Caiboni. La medaglia d’argento Caiboni. MALINVERNI – Dov’è? ROSITA – E’ morto. Io sono la vedova. Non ricorda? Eravate sul Sabotino, in trincea, sempre assieme…(silenzio di Malinverni. Rosita agli altri) Ma già, in questi momenti…la memoria vacilla, è umano. MALINVERNI – La mia memoria è eccellente. Ma Caiboni non l’ho mai conosciuto. ROSITA – Allora forse…sull’Isonzo… GIANNI – Andiamo via! (Improvvisamente Rosita fa un segnale a Ornella che si getta sul letto e abbraccia lo scrittore con espressione angosciata, piangendo, ma avendo cura di rivolgere la faccia a Milziade, che prontamente tira fuori la macchina e scatta due flash. Malinverni si agita esasperato) MALINVERNI – Via,via! Cosa volete? Infermiera! GIANNI (con forza, spingendo tutti per le spalle) – Fuori, basta! Fuori! (Escono nel corridoio)

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ROSITA (a Milziade) – Le ha fatte? MILZIADE – Due. GIANNI – Mi fate schifo. ROSITA (allontanandosi con Milziade) – Per un po’ di pubblicità!…Esagerato!… ORNELLA (si ferma, torna indietro) – Senta…Anche a me dispiace…Quel poveretto… GIANNI – E allora perché l’ha fatto? ORNELLA – E’ stata la mamma che… GIANNI – La mamma! Le mamme si ubbidiscono finché si hanno sette anni. Poi viene l’età della ragione – o dovrebbe venire – e si fa da sé. (Se ne va bruscamente. Ornella lo segue. Riappaiono, insieme, Quadroni e Cassoni. Vanno a spiare Malinverni, che è disteso e non dà segni di vita) QUADRONI – E ‘andato! Sarà stata lei, con le sue chiacchiere ad affrettare la fine. CASSONI – Ma no, respira ancora. Malinverni? (Malinverni rantola) Afasia. Non parlerà più. (Si guardano, ciascuno col proprio foglietto in mano, pronto per la firma) QUADRONI – Cassoni? CASSONI – Quadroni? QUADRONI – Questa morte…speriamo lontana, ma…“estote parati”…ci impone un certo rispetto, dei doveri, ma anche… CASSONI – Dei vantaggi… QUADRONI – Non per noi, noi siamo servi… CASSONI – Esecutori. QUADRONI – Ma siccome la Provvidenza ha permesso a noi soli di cogliere dalla sua viva voce… CASSONI - …le sue ultime volontà… QUADRONI - …vogliamo diffondere una lieta novella, diciamo così, a quattro mani? CASSONI – Salvando certi punti fermi, io non sarei contrario… QUADRONI – Allora, se le va bene, le ultime parole di Malinverni, saranno anche state di plauso, di lode al progresso cinese… CASSONI (cauto e dolce) - …al progressismo… QUADRONI (cautissimo e dolcissimo) -…progresso suona meglio… CASSONI – E intanto avrà creduto bene… QUADRONI – Avrà sentito l’ultima esigenza… CASSONI - …di riaccostarsi alla chiesa… QUADRONI - …di rientrare in seno… CASSONI - …di riavvicinarsi al seno… QUADRONI - …o al grembo… CASSONI - …della Chiesa. QUADRONI - …della Madre chiesa. (Si stringono mutamente e lungamente la mano, mentre si odono i lamenti di Malinverni e si fa rapidamente BUIO

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FILMOGRAFIA STENO

Regie

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AL DIAVOLO LA CELEBRITA’ (t.i. A night of fame) Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Steno, M.Monicelli; scen. Geo Tapparelli, Dino Hobbes Cecchini, M.Monicelli, Steno, Ernesto Calindri; dir.fot. Leonida Barboni e Tonino Delli Colli; mus. Carlo Franchi e Mario Funaro, dir.da Giuseppe Morelli (il duetto dal Mefistofele è cantato da Pia Tassinari e Tagliavini; la canzone «Dolce sera» è di M.Funaro); mo.Renzo Lucidi; scg. Piero Filippone; arr. Luigi Gervasi; d.pr. Ferruccio De Martino; fo. Mauro Zambuto; tr. Guglielmo Bonotti; par. Mara Rocchetti; interpreti: Marcel Cerdan (Maurice Cardan, il pugile), Ferruccio Tagliavini (il tenore Marini), Mischa Auer (H.E. Stark), Marilyn Bufferd (Hellen Rorin), Carlo Campanini (Emilio Pogliazzi), Leonardo Cortese (prof. Franco Bresci), Albert Latcha (manager De Marini), Folco Lulli (Ramirez), Gianni Rizzo (Max), Franca Marzi (Flora), Bill [William C.] Tubbs (Antonio), Aldo Silvani (il diavolo), Alba Arnova (sorella di Elena), Leo Lenoir (l’allenatore), Luigi Pavese (delegato sovietico), Agnese Dubbini (Adriana), Cesare Polacco (delegato israeliano), Marcella Govoni (Margherita), Giuseppe Pierozzi (il principe Khalashivari), Amedeo Deyana (Manuel), Ettore Bevilacqua (Pedro), Enrico Luzi, Giovanni Petti, Marcello Barlocco (un generale), Gino Scotti, Nino Cavalieri, Luigi A.Garrone, il pugile Jannilli. Produzione: Maleno Malenotti per Produttori Associati, Scalera Film; durata: 91’; incasso: £ 170.000.000 TOTO’ CERCA CASA Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Vittorio Metz, M.Monicelli, Steno dalla commedia Il custode di M.Moscariello; scen. Age [Agenore Incrocci], M.Monicelli, Furio Scarpelli, Steno; dir.fot. Giuseppe Caracciolo; mus.Carlo Rustichelli; mo. Otello Colangeli; scg. Carlo Egidi; co. Anna Maria Fea; d.pr. Clemente Fracassi: a.re. Rudy Bauer; s.ed. Emilio Miraglia; fo. Kurt Doubrawsky; tr. Giuseppe Annunziata interpreti: Totò (Beniamino Lomacchio, avventizio anagrafico), Alda Mangini (sua moglie Amalia), Lia Molfesi [Lia Amanda] (la figlia Aida), Mario Gattari (il figlio Otello), Aroldo Tieri (Checchino, fidanzato di Aida), Giacomo Furia (Pasquale Saluto, il signore apprensivo), Luigi Pavese (il capufficio), Enzo Biliotti (il sindaco), Cesare Polacco (il vice custode del cimitero), Alfredo Ragusa (il bidello), Marisa Merlini (la patronessa), Folco Lulli (il turco), Flavio Forin (il vedovone), Liana Del Balzo (la contessa), Mario De Vico (il cinese), Mario Riva (il proprietario dell’agenzia), Mario Castellani (l’imbroglione), Lilo Weibel (la turca), Mario Molfesi, Gino Scotti, Nino Marchetti, Luigi A.Garrone, Eugenio Galadini, Attilio Torelli, Claudio Melini, Ina La Jana. Produzione: Carlo Ponti per A.T.A. (Artisti Tecnici Associati); durata: 76’; incasso: £ 515.300.000 (secondo migliore incasso in assoluto della stagione 1949/50 dopo Catene di Raffaello Matarazzo). VITA DA CANI Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. M.Monicelli, Stefano Vanzina [Steno]; scen. Sergio Amidei, Aldo Fabrizi, Ruggero Maccari, Nino Novarese, M.Monicelli, Steno, Fulvio Palmieri; dir.fot. Mario Bava; mus. Nino Rota (Canzoni di Fabrizi, Ravasini, Ruccione, Rota); mo. Mario Bonotti; scg.arr.co. Flavio Mogherini; d.pr. Bruno Todini; a.re. Silvio Clementelli; as.pr. Niccolò Pomilia, Pasquale Misiano; s.ed. Ines Bruschi; op. Corrado Bartoloni; fo. Kurt Doubrawsky, Aldo Calpini; tr. Peppino (Giuseppe) Annunziata; interpreti: Aldo Fabrizi (cav. Nino Martoni), Tamara Lees (Franca), Gina Lollobrigida (Margherita), Delia Scala (Vera), Nyta Dover (Lucy D’Astrid), Marcello Mastroianni (Carlo, fidanzato di Franca), Bruno Corelli (Dedè Moreno), [Enzo Furlai] Furlanetto (Boselli), Giovanni (Gianni) Barrella (l’impresario), Enzo Maggio (Gigetto), Michele Malaspina (il comm.Cantelli), Aldo Giuffrè (il barista), Pasquale Misiano, Eduardo Passarelli, Mariemma Bardi, Jubal Schembri, Tino Scotti (sé stesso), Giuseppe Angelini, Pina Piovani, Lydia Alfonsi, Rina Pizzi, Anna Pabella, Vittorina Benvenuti, Gino Scotti, Noemi Zeki, Livia Rezin, Siria Vellani, Giorgina Nardini, il trio acrobatico Golden. Produttore: Clemente Fracassi per Carlo Ponti Cin.ca; durata: 101’; incasso £ 255.600.000.

1950

E’ ARRIVATO IL CAVALIERE!

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Regia Steno e Mario Monicelli; sogg.e scen. Vittorio Metz e Marcello Marchesi; coll.scen. Steno e M.Monicelli; dir.fot. Mario Bava; mus. Nino Rota; mo. Franco Fraticelli e Mario Bonotti; scg.arr.co. Flavio Mogherini; d.pr. Bruno Todini; a.re. Raffaele Andreassi; i.p. Pasquale Misiano; op. Corrado Bartoloni; fo. Kurt Doubrawsky; interpreti: Tino Scotti (il “cavaliere”), Silvana Pampanini (Carla Colombo), Enrico Viarisio (ministro), Nyta Dover (Musette), Enzo Biliotti (commissario), Alda Mangini (moglie del ministro), Galeazzo Benti (marchese Bevilacqua); Marcella Rovena (signora Varelli), Giovanna Galletti (signora Colombo), Guido Morisi, Carlo Mazzarella (l’assessore), Federico Collino (commendatore Varelli), Gilberto Mazzi, Guglielmo Leoncini, Mario Luciani, Aldo Alimonti, Enzo Maggio, Rocco D’Assunta (capo banditi), Pasquale Misiano, Arturo Bragaglia (Buchs), Ettore Jannetti (signor Colombo), Giuseppe Pierozzi, Giorgio Badia, Bruno Cantalamessa, Ada Colangeli, Ciro Belardi. Produttore: Carlo Ponti per A.T.A., Excelsa Film; durata: 92’; incasso £ 254.300.000 1951

GUARDIE E LADRI Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Piero Tellini; scen. M.Monicelli, Steno, Vitaliano Brancati, Aldo Fabrizi, Ennio Flaiano, Ruggero Maccari; dir.fot. Mario Bava; mus. Alessandro Cicognini; mo. Franco Fraticelli; scg.e arr. Flavio Mogherini; d.pr. Bruno Todini; a.re. Mario Mariani; ass.re. Rudy Bauer; i.p. Nicolò Pomilia; s.ed. Ines Bruschi; op. Claudio bartoloni; fo. Gino Fiorelli e Aldo Calpini; interpreti: Totò (Ferdinando Esposito), Aldo Fabrizi (brigadiere Bottoni), Ave Ninchi (signora Giovanna Bottoni), Pina Piovani (Donata, moglie di Ferdinando), Rossana Podestà (Liliana, figlia del brigadiere), Ernesto Almirante (il padre di Ferdinando), Williams C.Tubbs (mr. Locuzzo), Aldo Giuffrè (il “professore”, socio di Ferdinando), Mario Castellani (il tassista), Carlo Delle Piane (Libero), Pietro Carloni (il commissario), Gino Leurini (Alfredo), Armando Guarnieri, Rocco D’Assunta, Paolo Modugno, Gino Scotti, Ettore Jannetti, la piccola Alida Cappellini, Aldo Alimonti, Riccardo Antolini, Giulio Calì. Produttori: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Ponti-De Laurentiis Cin.ca; durata: 100’; incasso: £ 655.000.000 Premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes (1952). Palma d’oro a Totò come miglior attore protagonista al Festival di Cannes (1952). Nastro d’argento a Totò come miglior attore protagonista. Presentato al Festival di Punta del Este. TOTO’ E I RE DI ROMA Regia Steno e Mario Monicelli; sogg. Dino Risi e Ennio De’ Concini liberamente tratto dai racconti La morte dell’impiegato e Esami di promozione di Anton Cecov; scen. Peppino De Filippo, Steno e M.Monicelli; dir.fot. Giuseppe La Torre; mus. Nino Rota; mo. Adriana Novelli; scg. Alberto Tavazzi; co. Giuliano Papi; arr. Luigi Gervasi; d.pr. Romolo Laurenti; a.re. Lucio Fulci; i.p. Piero Picuti; s.p. Antonio Brandt; s.ed. Emilio Miraglia; op. Enrico Betti Berruto; fo. Kurt Doubrawsky; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti; interpreti: Totò (Ercole Pappalardo), Anna Carena (Armida, sua moglie), Giovanna Pala (Ines), Anna Vita (la figlia maggiore), Eva Vaniceck (Susanna), Ada Mari (la figlia minore), Aroldo Tieri (Petrucci), Pietro Carloni (il capufficio Capasso), Ernesto Almirante (il “padreterno”), Alberto Sordi (il maestro elementare), Giulio Stival (Sua Eccellenza Langherozzi Schianchi), Lilia Landi (la contessa al Teatro Sistina), Gianni Musy Glori (Giorgio), Giulio Calì (suonatore di tromba), Marisa Fimiani, Francesca Pietrosi (due squillo al Teatro Sistina), Emilio Petacci (Filippini), Italia Marchesini (signora Sconocchia), Giulio Battiferri (guardiano dell’Olimpo), Armando Annuale (orchestrale), Mario Maresca (Trifossi), Eduardo Passarelli, Paolo Ferrara (due maestri esaminatori), Nino Milano (l’impiegato allo sportello 9), Amedeo Girard (usciere dell’albergo), Rio Nobile, Amerigo Santarelli, Nino Marchetti, Eugenio Calafini, Celeste Almieri, Gorella Gori, Alfredo Ragusa, Mimmo Poli. Produzione Golden Film, Humanitas Film; durata: 97’; incasso: £ 406.400.000.

1952

TOTO’ E LE DONNE Regia Steno; sogg. Age e Scarpelli; scen. Age e Scarpelli, Steno, Mario Monicelli; dir.fot. Tonino Delli Colli; mus. Carlo Rustichelli dir.da Fernando Previtali; mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Piero Filippone; arr. Marco Rappini; d.pr. Luigi De Laurentiis; a.re. Lucio Fulci; i.p. Valentino Trevisanato; s.p. Piero Lazzari; s.ed. Emilio Miraglia; fo. Gino Fiorelli; tr. Giuliano Laurenti; interpreti: Totò (cav. Filippo Scaparro), Ave Ninchi (Giovanna, sua moglie), Giovanna Pala (Mirella, la loro figlia), Peppino De Filippo (dott. Paolo Desideri), Lea Padovani (Ginetta, la ragazza del tabarin), Clelia Matania (la cameriera Carolina), Pina Gallini (signora con pelliccia), Primarosa Battistella (Antonietta), Franca Faldini (la signora dell’appuntamento), Mario Castellani (rag. Carlini), Teresa Pellati, Alda Mangini (la cliente al negozio), Carlo Mazzarella (presentatore del concorso di bellezza), Mimmo Poli (l’infermiere), Carlo Vanzina (Filippo in fasce). Produttore: Rosa Film; durata: 95’; incasso £ 502.000.000. La regia del film è firmata da Steno e Mario Monicelli; in realtà il film è diretto dal solo Steno.

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LE INFEDELI Anche la regia di questo film è firmata, per motivi di contratto, da Steno e Mario Monicelli. In realtà il film è stato diretto dal solo Monicelli. Nonostante sia inserito in tutte le filmografie di Steno, non è quindi preso in considerazione. TOTO’ A COLORI Regia Steno; sogg. Steno da “sketches” di riviste di Michele Galdieri e Totò; scen. Steno, Mario Monicelli, Age e Scarpelli; dir.fot. Tonino Delli Colli (Ferraniacolor); mus. Felice Montagnini; mo. Mario Bonotti; scg. Piero Filippone; co. Giulio Coltellacci; arr. Riccardo Domenici; a.re. Lucio Fulci; i.p. Alfredo De Laurentiis; op. Bianco Bernardini; tr. Giuliano Laurenti; c.s.e. O.Di Sotto; col. Elio Finestauri; interpreti: Totò (Antonio Scannagatti), Isa Barzizza (la signora del vagone letto), Rocco D’Assunta (il cognato siciliano), Virgilio Riento (il maestro Tiburzi), Mario Castellani (l’on.Cosimo Trombetta), Luigi Pavese (l’editore Tiscordi), Franca Valeri (Giulia Sofia, la signorina snob), Galeazzo Benti (Poldo), Fulvia Franco (Poppy, la sua fidanzata), Anna Vita (un’esistenzialista), Alberto Bonucci (il regista sovietico), Vittorio Caprioli (il tenore balbuziente), Armando Migliari (il sindaco di Caianiello), Bruno Corelli (Joe Pellecchia), Guglielmo Inglese (il giardiniere), Rosita Pisano, Michele Malaspina, Carlo Mazzarella (il fidanzato di Giulia Sofia), Franca Rame (la serva), Lilli Cerasoli (un’altra esistenzialista), Barbara Florian, Manuel Serrano, Nancy Clark, Mimmo Poli, Silvana Blasi, Riccardo Antolini, Paolo Ferrara (il controllore), Ugo D'Alessio, le marionette di G.e A. Greco. Produttore: Ponti-De Laurentiis Cin.ca, Giovanni Amati per Golden Film; durata: 95’; incasso: £ 774.750.000. 1953

L’UOMO, LA BESTIA E LA VIRTU’ Regia Steno; sogg.dalla commedia omonima di Luigi Pirandello; scen. Steno; coll.scen. Vitaliano Brancati, Lucio Fulci, Jean Josipovici; dir.fot. Mario Damicelli (Ferraniacolor); mus. Angelo Francesco Lavagnino, Pier Giorgio Redi; mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Mario Chiari; arr. Piero Gherardi; d.pr. Luigi De Laurentiis; a.re. Lucio Fulci; s.ed. Emilio Miraglia; fo. Biagio Fiorelli; tr. Giuliano Laurenti; interpreti: Totò (il prof. Paolino), Orson Welles (capitano Perella), Viviane Romance (Assunta Perella), Clelia Matania (Grazia), Franca Faldini (Marianna), Italia Marchesini (Rosaria), Mario Castellani (il dottore), Salvo Libassi (il timoniere), Carlo Delle Piane (uno studente), Gian Carlo Nicotra (Nonò), Rocco D’Assunta (il farmacista), Michele Di Giulio, Paolo Ferrara. Produzione: Antonio Altoviti per Rosa Film; durata: 87’; incasso: £ 258.260.000. Il film venne bloccato per quarant’anni per problemi di diritti d’autore. Riuscì nel 1994, circolando in una copia in bianco e nero. CINEMA D’ALTRI TEMPI (t.f. Drole de bobines) Regia Steno; sogg. Age, Scarpelli, Steno; scen. Steno, Age, Scarpelli, Augusto Camerini; dir.fot. Marco Scarpelli (Ferraniacolor); mus. Franco Mannino; mo. Giuliana Attenni e Adriana Novelli; scg. Beni Montresor realiz.da Mario Campagna; amb.e co. Piero Gherardi; d.pr. Domenico Bologna; a.re. Lucio Fulci; i.p. Franco Palagi, Luigi Pinini (D’Oliva); s.ed. Liana Ferri; fo. Agostino Moretti e Venanzio Biraschi; tr. Euclide Santoli; par. Annetta Fabrizi; interpreti: Walter Chiari (Marcello Serventi, regista), Lea Padovani (Caterina, poi Ausonia), Jean Richard (Pasquale), Maurice Teynac (Za l’Amour), Luigi Pavese (il produttore), Gianni Cavalieri (l’aiuto regista), Mirella Gagliardi, Rita Stazi, Peter Trent (il conte), Bianca Maria Fabbri, Salvo Libassi, Carlo Mazzarella, Jean Demy, Riccardo Ferri, Steno (un attore). Produzione: Jolly Film (Roma), Cormoran Film (Parigi); durata: 92’; incasso: £ 196.000.000. UN GIORNO IN PRETURA Regia Steno; sogg. Lucio Fulci; scen. L.Fulci, Alessandro Continenza, Alberto Sordi, Giancarlo Viganotti, Steno; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Armando Trovajoli; mo. Giuliana Attenni; scg. Piero Filippone; arr. Antonio Leonardi; d.pr. Paolo Frascà; a.re. Lucio Fulci; ass.re. Paolo Heusch; i.p. Orazio Tassara; s.p. Angelo Binarelli; op. Elio Polacchi; fo. Rinaldo Boggio; interpreti: Peppino De Filippo (pretore Salomone Lo Russo), Silvana Pampanini (Luisa Ciccinelli, in arte Gloriana), Alberto Sordi (Nando Moriconi), Sophia Loren (Anna, la ladra), Walter Chiari (Don Michele Mezzocchi), Tanja Weber (Elena Baronti Ponticelli), Leopoldo Trieste (Leopoldo),Armenia Balducci (la fidanzata), Virgilio Riento (Virgilio Pampinelli), Giulio Calì (Augusto Mencacci, testimone oculare), Turi Pandolfini (il cancelliere), Vincenzo Talarico (avvocato difensore), Ubaldo Lay (Raoul), Amalia Pellegrini (la vecchia signora ricca), Cesare Bettarini (avvocato Tonnara), Bianca Maria Cerasoli (nipote della vecchia signora), Gianni Partan (capitano Mazzoni), Marco Gualtieri (l’avvocatino), Renato Bonifazi (il maggiore), Mario Maresca (pubblico ministero), Paolo Carletti (Alfio Ponticelli), Gualtiero Jacopetti (l’avvocato Terenzio), Gianni Baghino (ladro di frutta), Maria Piazzai (invitata

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alla festa), Floria D’Alba (altra invitata), Salvo Libassi (agente Nicola Sprameci), Venantino Venantini (un ufficiale al varietà), Maurizio Arena (Lorenzo), Michele Di Giulio (ragazzo grosso), Vincenzo Milazzo, Luigi Giacosi, Paolo Volta, Luciano Caruso. Produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film, Excelsa; durata: 87’; incasso: £ 473.000.000. 1954

LE AVVENTURE DI GIACOMO CASANOVA (t.f. Les adventures et les amours de Casanova) Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Steno, Emo Bistolfi, Lucio Fulci, Mario Guerra, Carlo Romano; dir.fot. Mario Bava (Eastmancolor); mus. Angelo Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni; scg. Mario Chiari; co. Maria De Matteis; d.pr. Emo Bistolfi; a.re. Lucio Fulci; op. Corrado Bartoloni; fo. Bruno Brunacci; tr. Amato Garbini; interpreti: Gabriele Ferzetti (Giacomo Casanova), Corinne Calvet (Louise de Chatillon), Marina Vlady (Fulvia), Nadia Gray (MarieThérèse), Carlo Campanini (valletto di Casanova), Mara Lane (Barbara, moglie del console di Weimar), Irene Galter (Dolores), Lia Di Leo (Lucrezia), Anna Amendola (Geltrude), Aroldo Tieri (ten. Josè Ramirez), Arturo Bragaglia (il conte di Charpillon), Fulvia Franco, Florence Arnaud, Nico Pepe, Ursula Andress, Nuri Neva, Renzo Aiolfi, Ivy Nicholson, Ignazio Leone, Salvo Libassi, Mario Siletti, Anna Berardelli, Giacomo Furia, Vanda Della Valle, Eugenio Velotti, Anny De Nobili. Produzione: Dario Sabatello per Orso Film, Ezio Gagliardo ed Emo Bistolfi per Iris Film (Roma), C.F.P.C. (Parigi); durata: 95’; incasso: £ 367.750.000. UN AMERICANO A ROMA Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Lucio Fulci, Ettore Scola, Alberto Sordi, Steno; dir.fot. Carlo Montuori; mus. Angelo Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni; scg. Piero Filippone; co. Giorgio Vecce; arr. Luigi Gervasi; d.pr. Paolo Frascà; a.re. Lucio Fulci; i.p. Pio Angeletti, Totò Mignone; op. Goffredo Belisario; fo. Mario Morigi; tr. Marcello Ceccarelli; interpreti: Alberto Sordi (Nando Moriconi), Maria Pia Casilio (Elvira), Ilsa Petersen (Molly, pittrice americana), Anita Durante (madre di Nando), Giulio Calì (padre di Nando), Galeazzo Benti (Fred Buonanotte, presentatore TV), Carlo Delle Piane (“Cicalone”), Rocco D’Assunta (il commissario), Ivy Nicholson (amica di Molly), Charles Fawcett (mr. Brooks), Caterina Alcaide, Leopoldo Trieste (spettatori Tv), Cristina Fanton, Carlo Mazzarella (segretario ambasciata americana), Vincenzo Talarico (l’on. Borgiani), Ignazio Leone (il regista Verdolini), Pina Gallina (spettatrice TV), Ciccio Barbi (impresario), Arcibaldo Layal (l’ambasciatore), Marcello Giorda, Tecla Scarano, Salvo Libassi, Ursula Andress (Astrid), Sue Ellen Black, Luigi Giacosi, Gustavo Giorgi, Amalia Pellegrini, Jean Molier, Adua Comin, Lucio Fulci (“il porcospino”). Produttore: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per Ponti-De Laurentiis Cin.ca; durata: 89’; incasso: £ 380.370.000.

1955

PICCOLA POSTA Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Lucio Fulci, Alessandro Continenza; dir.fot. Tonino Delli Colli; mus. Raffaele Gervasio; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Damarini; scg.e arr. Franco Lolli; scg. Gastone Carsetti; co. Giovanna Natili; o.g. Emo Bistolfi; a.re. Lucio Fulci; i.p. Renato Tonini; s.p. Emanuele Brescini; s.ed. Carla Fierro; op. Sergio Bergamini; ass.op. Augusto Tinelli; fo. Eraldo Giordani; tr. Eligio Trani; ass.tr. Emilio Trani; interpreti: Franca Valeri (signorina Cangiullo, alias “Lady Eva”), Alberto Sordi (Rodolfo Vanzino di Castelfusano d’Arezzo), Peppino De Filippo (vigile urbano Gigliotti), Sergio Raimondi (Giorgio Cappelli), Anna Maria Pancani (Franchina), Nanda Primavera (madre di “Lady Eva”), Amalia Pellegrini (donna Virginia), Memmo Carotenuto (Ranuccio), Nietta Zocchi (signora Gigliotti), Georges Bréhat (medico inglese), Silvio Bagolini (direttore del giornale), Luciano Salce (signore tedesco con il cane), Salvo Libassi, Renato Bonifazi, Franco Jamonte, Mario Siletti, Giusy Raspani Dandolo, Lia Lena, Cinzia Manes, Giuliana Badaloni, Marco Tulli, Nicoletta Orsomando (presentatrice TV), Tiziana Delfi, Marida Vanni, Vincenzo Talarico. Produttore: Sandro Pallavicini per Incom; durata: 95’; incasso: £ 161.450.000.

1956

MIO FIGLIO NERONE (t.fr. Les week-ends de Néron) Regia Steno; sogg. Rodolfo Sonego; scen. Alessandro Continenza, Diego Fabbri, Ugo Guerra, Rodolfo Sonego, Steno; dir.fot. Mario Bava (Cinemascope-Eastmancolor); mus. Angelo Francesco Lavagnino dir.da Carlo Savina; mo. Mario Serandrei e Giuliana Attenni; scg. Piero Filippone; co. Veniero Colasanti; arr. Gianni Polidori; o.g. Enzo Provenzale; d.pr. Pietro Notarianni; coreog. Mady Obolensky; a.re. Lucio Fulci e Luigi Vanzi; i.p. Guglielmo Colonna; s.ed.Gigliola Rosmino; op. Corrado Bartoloni; fo. Mario Messina; tr. Libero Politi; par. Gabriella Borzelli; interpreti: Alberto Sordi (Nerone), Gloria Swanson (Agrippina), Vittorio De Sica (Seneca), Brigitte Bardot (Poppea), Giorgia Moll (Livia), Ciccio Barbi (Aniceto), Memmo Carotenuto (Creperio), Mino Doro (Corbulone), Furlanetto [Enzo Furlai] (Segimanio), Amalia Pellegrini (Acerronia), Agnese Dubbini (Ugolilla), Irene Gail, Arturo Bragaglia (senatore), Giulio Calì, Anna Maria Del Prà, Mimmo Poli, Barbara Shelley, Eura Teodori, Nino Vingelli, Sandra Milo, Sonia Moser, Maria Luisa Rolando, Rina De

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Liguoro, Eugenio Galadini, Amedeo Trilli, Renato Terra, Sergio Parlato, Mario Mazza (Tacito). Produttore: Franco Cristaldi per Vides Cin.ca, Titanus (Roma), Les Films Marceau (Parigi); durata: 88’; incasso: £ 350.500.000. 1957

1958

SUSANNA TUTTA PANNA Regia Steno; sogg.e scen. Vittorio Metz e Marcello Marchesi; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Mario Gem (canzone dal Quartetto Cetra); mo. Giuliana Attenni; scg. Mario Santovetti; a.scg. Giorgio Giovannini; arr. Andrea Tomassi; o.g. Mario Cecchi Gori; d.pr. Clemente Fracassi; a.re. Lucio Fulci; s.p. Umberto Santoni; i.p. Pio Angeletti; s.ed. Emilio Miraglia; o.p. Silvano Ippoliti; fo. Mario Morigi; tr. Giuseppe Annunziata; interpreti: Marisa Allasio (Susanna), German Cobos (Alberto), Mario Carotenuto (Alfredo Libotti), Memmo Carotenuto (un barbone), Giulio Calì (il padre del barbone), Anna Campori (madre di Susanna), Nino Manfredi (Romoletto), Paolo Ferrari (Tao), Gianni Bonagura (complice di Romoletto e Tao), Raffaele Pisu (Arturo), Alberto Rabagliati (comm. Botta), Gianni Agus (Trombetti), Fanny Landini (Armida), Nuto Navarrini (Palpiti), Sandra Mondaini (Marisa Trombetti), Alberto Bonucci (Massimo, attore), Bice Valori (Rossella, attrice), Gianrico Tedeschi (Gianluca, attore), Francesco Mulè (regista), Giacomo Furia (tassista), Luz Marquez (Cecilia), Loris Gizzi, Fernando Sancho, Salvo Libassi, Adriana Facchetti, Pilar Gomez, Pietro Carloni (padre di Susanna), Lamberto Antinori. Produzione: Carlo Ponti Cin.ca, Maxima Film (Roma), Jesus Saiz Prod. Cin.cas (Madrid); durata: 97’; incasso: £ 353.000.000 FEMMINE TRE VOLTE (t.sp. Operacion Popoff) Regia Steno; sogg.e scen. Vittorio Metz e Marcello Marchesi; dir.fot. Tonino Delli Colli; mus. Angelo Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni e Gaby Panalva; scg. Mario Santovetti; a.scg. Giorgio Giovannini; amb. Andrea Tomassi; co. Ugo Pericoli; o.g. Mario Cecchi Gori; a.re. Lucio Fulci; i.p. Pio Angeletti; s.p. Umberto Santoni; op. Franco Delli Colli; fo. Mario Morigi; tr. Giuseppe Annunziata; interpreti: Sylva Koscina (Sonia), German Cobos (Ugo), Alberto Bonucci (Santucci), Bice Valori (Katiuscia), Gianrico Tedeschi (Vassilij), Mario Carotenuto (padre di Ugo), Nino Manfredi (comunista), Gianni Agus, Monserrat Blanch Ferrer, Furlanetto [Enzo Furlai], Gina Rovere, Gianni Bonagura, Fernando Sancho, Angel Aranda, Laura Coprifoglio; Brigitte Kampbell, Lily Mantovani, Emilio Petacci, Felix Fernandez, Steno, Amedeo Trilli, Lamberto Antinori, Salvo Libassi, Sergio Parlato, Francesco Mulè, Mario Chiocchio, Elena Chiranova. Produttore: Clemente Fracassi per Carlo Ponti Cin.ca (Roma), Jesus Sainz (Madrid); durata: 105’; incasso: £ 225.563.000. GUARDIA, LADRO E CAMERIERA Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Lucio Fulci, Alessandro Continenza; dir.fot. Riccardo Pallottini; mus. Lelio Luttazzi (le canzoni «Tira a campa’» di Amurri-Luttazzi e «’O poeta guappo» di NisaRossi, sono cantate da Fausto Cigliano); mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Alberto Boccianti; co. Giuliano Papi; arr. Arrigio Breschi; d.pr. Romolo Laurenti, Carlo Vignati; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Giorgio Riganti; s.p. Gino Fanano; s.ed. Elsa Carnevali; op. Claudio Racca; a.op. Silvano Mancini; fo. Franco Groppioni; tr. Guglielmo Bonotti; par. Maria Miccinelli; interpreti: Gabriella Pallotta (Adalgisa Pellicciotti), Nino Manfredi (Otello Cucchiaroni), Mario Carotenuto (il “professore”), Fausto Cigliano (Amerigo Zappitelli), Bice Valori (la contessa), Luciano Salce (il conte tedesco), Marco Guglielmi (Franco), Gianni Minervini (un’altra guardia), Giampiero Littera (Angelino), Salvo Libassi (Gioacchino, il barista), Enzo Garinei (il medico del P.S.), Marco De Simone (Bacchino). Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L.; durata: 86’; incasso: £ 179.127.000 MIA NONNA POLIZIOTTO Regia Steno; sogg. Vittorio Metz e Roberto Gianviti; scen. Vittorio Metz, Roberto Gianviti, Steno; dir.fot. Sergio Pesce; mus. Carlo Innocenzi; mo. Otello Colangeli; scg. Ivo Battelli; d.pr. Jacopo Comin; o.g. Fernando Felicioni; a.re. Franco Rossetti; op. Elio Polacchi; interpreti: Tina Pica (nonna Tina), Alberto Lionello (Alberto, nipote di Tina), Lilia Rocco (la fidanzata di Alberto), Mario Riva (Mario Secchioni), Riccardo Billi (Belletti), Ugo Tognazzi (Ugo), Raimondo Vianello (Raimondo), Bice valori (Francesca), Paolo Panelli (Paolo, il marito), Alberto Talegalli (il maresciallo di polizia), Luigi Pavese (il commissario), Loris Gizzi (primario della clinica). Produttore: Felice Felicioni per Jonia Film; durata: 96’; incasso: £ 386.000.000. TOTO’ NELLA LUNA Regia Steno; sogg. Steno, Lucio Fulci; scen. Alessandro Continenza, Ettore Scola, Steno; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Alessandro Cicognini; mo. Giuliana Attenni; scg. Giorgio Giovannini; co. Ugo Pericoli; arr. Riccardo Domenici; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Pio Angeletti; s.p. Umberto Santoni; s.ed. Emilio Miraglia; op. Pasquale De Santis; fo. Roy Mangano; tr. Goffredo Rocchetti; interpreti: Totò (Pasquale Belafronte), Sylva Koscina (Lidia sua figlia), Ugo Tognazzi (Achille), Luciano Salce

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(Von Braut), Sandra Milo (Tatiana), Richard McNamara (Campbell), Agostino Salvietti (l’amministratore), Renato Tontini (Vladimiro), Jim Dolen (O’ Connor), Francesco Mulè (una guardia), Marco Tulli (un creditore), Ignazio Leone (un poliziotto), Giacomo Furia (comm. Bardi), Anna Maria Di Giulio. Produttore: Mario Cecchi Gori per Maxima Film, Montflour Film, Variety Film; durata: 90’; incasso: £ 368.650.000. 1959

TOTO’, EVA E IL PENNELLO PROIBITO Regia Steno; sogg.e scen. Vittorio Metz, Roberto Gianviti e Ruggero Maccari; dir.fot. Alvaro Mancori; mus. Gorni Kramer (le canzoni: «The elephant» e «Granada» sono cantate da Roberto Altamura); mo. Giuliana Attenni; scg. Piero Filippone; co. Adriana Berselli (Schubert per Abbe Lane); arr. Luigi Gervasi; d.pr. Franco Palagi; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Roberto Palagi; s.ed. Liana Ferri; op. Guglielmo Mancori; ass.op. Sandro Mancori; fo. Giovanni Rossi, Emilio Rosa; tr. Giuseppe Annunziata; par. Anna Angelini; interpreti: Totò (Totò Scorcelletti, pittore), Abbe Lane (Eva), Giacomo Furia (Tobia), Mario Carotenuto (Raoul La Spada), Louis De Funès (prof. Francesco Montiel), Josè Guardiola (Josè), Luna Pilar Gomez Ferrer (Gloria Arrison), Riccardo Valle (il torero Pablo Segura), Anna Maria Marchi (Caterina), Luigi Pavese (commissario di polizia), Francesco Mulè (Don Alonzo, marito geloso), Silvia De Vietri (la cameriera), Guido Martufi (il copista oriundo), Anna Maestri (la signora del treno), Gianni Partanna (notaio), Anna Maria Di Giulio (moglie di Don Alonzo), Enzo Garinei (l’amante) e il balletto di Pepè Alonzo. Produttore: Jolly Film (Roma), Cormoran (Parigi), Esperia Film (Madrid); durata: 90’; incasso: £ 420.000.000. I TARTASSATI (t.fr. Les tourmentés) Regia Steno; sogg. Vittorio Metz e Roberto Gianviti; scen. Vittorio Metz, Roberto Gianviti, Ruggero Maccari, Steno, Aldo Fabrizi; dir.fot. Marco Scarpelli; mus. Piero Piccioni; mo. Eraldo da Roma; scg. Giorgio Giovannini; amb. Andrea A.Tomassi; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Pio Angeletti; s.p. Umberto Santoni; s.ed. Emilio Miraglia; op. Pasquale De Santis; fo. Eraldo Giordani, Mario Amari; tr. Marcello Ceccarelli; interpreti: Totò (cav. Torquato Pezzella), Aldo Fabrizi (maresciallo Fabio Topponi), Louis De Funès (Ettore, il ragioniere), Miranda Campa (la moglie di Topponi), Cathia Caro (la figlia), Luciano Marin (Tino Pezzella), Anna Campori (Dora Pezzella), Ciccio Barbi (brigadiere Bardi), Anna Maria Bottini (Mara), Fernand Sardou (Ernesto), Cesare Fantoni (il parroco), Ignazio Leone (guardia forestale), Lucien Sardou, Nando Bruno (l’ubriaco), Piera Arigo, Gianna Cobelli, Elena Fabrizi (infermiera). Produttore: Mario Cecchi Gori per Maxima Film; durata: 105’; incasso: £ 600.000.000 TEMPI DURI PER I VAMPIRI Regia Steno; sogg. Edoardo Anton e Mario Cecchi Gori; scen. Edoardo Anton, Alessandro Continenza, Dino Verde, Steno; dir.fot. Marco Scarpelli (Ultrascope Technicolor); mus. Armando Trovajoli e Renato Rascel; mo. Eraldo Da Roma; scg. Aldo Tomassini, Giorgio Giovannini; d.pr. Pio Angeletti; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Umberto Santoni; op. Pasquale De Santis; fo. Mario Amari; interpreti: Renato Rascel (conte Osvaldo Lambertenghi), Christopher Lee (conte Roderico, il vampiro), Sylva Koscina (Carla), Lia Zoppelli (Letizia), Carl Very (il professore tedesco), Susanna Loret (Liliana), Kay Fisher, Antije Ceerk, Federico Collino, Franco Scandurra, Franco Giacobini, Rick Van Nutter, Angelo Zanolli, Lia Lena, Antonio Mambretti. Produttore: Mario Cecchi Gori per Maxima Film, Montflour Film; durata: ; incasso: £ 385.000.000. UN MILITARE E MEZZO Regia Steno; sogg. Aldo Fabrizi; scen. Vittorio Metz, Aldo Fabrizi, Roberto Gianviti, Ruggero Maccari, Mario Amendola, Steno; dir.fot. Tino Santoni (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli; mo. Mario Serandrei; scg.e arr. Alberto Boccianti; ass.scg. Giuseppe Ranieri e Antonio Martino; co. Giuliano Papi; d.pr. Danilo Marciani; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Armando Morandi e Bruno Sassaroli; s.ed. Rometta Pietrostefani; op. Enrico Cimmitti; fo. Enzo Silvestri; tr. Telemaco Tilli e Emilio Trani; par. Fiamma Rocchetti; f.sc. G.B.Poletto; interpreti: Renato Rascel (Nicola Carletti), Aldo Fabrizi (il maresciallo Giovanni Rossi), Virna Lisi (Anita), Mario Girotti (ten.Giorgio Strazzonelli), Vicky Ludovisi (Mary), Robert Alda (mr.Roy Harryson), Audrey Mc Donald (Betty Carletti), Guido Martufi (Pasquale), Loris Gizzi (industriale farmaceutico), Ruggero Marchi (il colonnello), Elena Fabrizi (la zia di Anita), Ignazio Balsamo (portiere delle Farmaceutiche Riunite), Paolo Ferrara (giocatore a scopone), Alberto Antonucci, Nino Nini. Produttore: Silvio Clementelli per Titanus; durata: 105’; incasso: £ 581.300.000.

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LETTO A TRE PIAZZE Regia Steno; sogg. Lucio Fulci, Bruno Baratti, Vittorio Vighi; scen. Alessandro Continenza, Steno; coll.scen. Lucio Fulcio, Bruno Baratti, Vittorio Vighi; dir.fot. Alvaro Mancori; mus. Carlo Rustichelli

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dir.da Pierluigi Urbini; mo. Giuliana Attenni; scg. Ottavio Scotti; arr. Arrigo Breschi; d.pr. Oscar Brazzi; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Ferdinando Alivernini; s.ed. Rometta Pietrostefani; op. Guglielmo Mancori; ass.op. Sandro Mancori; fo. Ovidio Del Grande e Oscar Di Santo; tr. Eligio Trani; interpreti: Totò (Antonio Di Cosimo), Peppino De Filippo (prof. Peppino Castagnano), Nadia Gray (Amalia), Maria Cristina Gajoni (Prassede), Aroldo Tieri (avv. Vacchi), Gabriele Tinti (Pinuccio), Angela Luce (Jeannette, la ballerina), Mario Castellani (il preside), Luciano Bonanni (tassista), Cesare Fantoni, Paolo Ferrara, Winni Riva, Nico Pepe, Bruno Scipioni, Pier Giorgio Gragnani, Lina Ferri, Riccardo Ferri, Ombretta Valmonzi. Produttore: Cineriz; durata: 90’; incasso: £ 441.000.000 Ulivo d’oro al Festival di Bordighera (1960) A NOI PIACE FREDDO (t.fr. Le chat miaulera trois fois) Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Vittorio Metz e Roberto Gianviti; dir.fot. Massimo Dallamano; mus. Carlo Rustichelli dir.da Pierluigi Urbini; mo. Giuliana Attenni; scg. Ivo Battelli; ass.scg. Giovanni Ranieri; co. Vera Marzot; arr. Fulvio Barsotti; d.pr. Folco Laudati; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Renato De Pasqualis; s.p. Aldo Pace; s.ed. Lina D’Amico; op. Cesare Allione; ass.op. Gianni Savelli; fo. Bruno Brunacci e Bruno Moreal; interpreti: Ugo Tognazzi (Ugo Bevilacqua), Raimondo Vianello (conte Raimondo), Peppino De Filippo (Titozzi), Francis Blanche (von Krussendorf), Yvonne Furneaux (Rosalina), Carlo Taranto, Carlo Fantoni, Rick van Nutter (uff.tedesco), Fulvia Franco, Brendan Fitzgerald, Loris Gizzi, Luisa Mattioli, Clara Auteri Pepe, Renato Montalbano. Produttore: Leo Cevenini e Vittorio Martino per Flora Film, Tai Film e Variety Film; durata: 110’; incasso: £ 201.000.000. PSYCOSISSIMO (t.fr. C’est parti mon Kiki) Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Vittorio Metz, Roberto Gianviti; dir.fot. Clemente Santoni; mus. Carlo Rustichelli dir.da Pierluigi Urbini (la canzone «Notte di Luna calante» di D.Modugno è cantata da Peppino Di Capri; «Je ne joue pas» è di Marotta-H.Constantin); mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg. Ivo Battelli; co. Dina Di Bari; arr. Fulvio Barsotti; d.pr. Folco Laudati; a.re. Mariano Laurenti; ass.pr. Saverio Scriponi; i.p. Manlio Della Pria; s.p. Romolo Germano; op. Enrico Cignitti; fo. Pietro Ortolani e Renato Cauderi; tr. Raoul Ranieri; interpreti: Ugo Tognazzi (Ugo Bertolazzi), Raimondo Vianello (Raimondo Vallardi), Edy Vessel (Annalisa Michelotti), Monique Just (Marcella Bertolazzi), Franca Marzi (Clotilde Scarponi), Spiros Focas (Pietro, autista), Francesco Mulè (Arturo Michelotti), Leonardo Severini (commissario), Nario Bernardi (prof.universitario), Renato Montalbano (un agente),Toni Ucci (Augusto, pensionante), Ugo Pagliai (uno studente), Giuseppe Chinnici (il medico dell’autopsia). Produttore: Vittorio Martino e Leo Cevenini per Flora Film, Variety Film; durata: 95’; incasso: £ 390.000.000. LA RAGAZZA DI MILLE MESI (TOGNAZZI E LA MINORENNE) Regia Steno; sogg.dalla commedia Le rayon de jouet di Jacques Deval; scen. Marcello Fondato, Vittorio Metz, Steno; dir.fot. Aldo Giordani; mus. Armando Trovajoli; mo. Gisa Radicchi Levi; scg. Alberto Boccianti; o.g. Mario Silvestri; a.re. Mariano Laurenti; op. Antonio Modica; interpreti: Ugo Tognazzi (Maurizio D’Alteni), Danielle De Metz (Didi), Raimondo Vianello (Marco), Sophie Desmarets (Armansia), Francesco Mulè (Amleto, il cameriere), Francis Blanche (comm.Borgioli), Luciano Salce (lo psicanalista), Lilly Lembo (Fabiana), Ernesto Calindri (il colonnello), Gloria Paul (Lorella), Simonetta Remoldi (Maria Grazia), Maria Marchi, Giò Stajano, Silvio Bagolini, Margaret Rose Keyl, Rosalba Neri, Piero Gerlini. Produttore: Giuseppe Amato per Amato Film; durata: 105’; incasso: sconosciuto. I MOSCHETTIERI DEL MARE (t.fr. Il était 3 filibustiers) Regia Steno; sogg.da un idea di Ennio De Concini elaborata da Marcello Fondato, Roberto Gianviti, Vittorio Metz, Steno; scen.e dial. Marcello Fondato; dir.fot. Carlo Carlini (Eastmancolor); mus. Carlo Rustichelli; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg.e co. Gianni Polidori; o.g. Alfredo Mirabile; d.pr. Massimo Patrizi; re.2a unità Mariano Laurenti; a.re. Nando Cicero; i.p. Orlando Orsini; s.p. Giuseppe Nicolini e Franco Grifeo; s.ed. Bona Magrini e Lidia Bronzini; op. Luigi Filippo Carta; ass.re. Raniero Cochetti; m.armi: Ferdy [Goffredo] Unger; fo. Vittorio Trentino; mix. Bruno Moreal; f.sc. Giovanni Assenza; interpreti: Anna Maria Pierangeli (Consuelo/Altagracia di Lorna), Channing Pollock (Pierre de Savigny), Aldo Ray (Moreau), Philippe Clay (Gosselin), Robert Alda (vicegovernatore Gomez), Raymond Bussières (il col. Ortona), Carlo Ninchi (conte di Lorna), Mario Scaccia (re di Francia), Carla Calò (Zalamea), Mario Siletti (il tesoriere), Gino Buzzanca (capociurma Gutierrez), Piero Tordi (il nostromo), Cesare Fantoni (padre Milita), Furio Meniconi, Lamberto Antinori, Erica Jordan. Produttore: Morino Film (Roma), France Cinéma Production (Parigi); durata: 105’; incasso: £ 227.000.000

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TOTO’ DIABOLICUS Regia Steno; sogg. Vittorio Metz e Roberto Gianviti; scen. Marcello Fondato, Roberto Gianviti, Vittorio Metz, Gianni Grimaldi, Bruno Corbucci; dir.fot. Enzo Barboni; mus. Piero Piccioni; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg. Giorgio Giovannini; co. Giuliano Papi; arr. Brunello Serena Ulloa; o.g. Gianni Buffardi; a.re. Mariano Laurenti; ass.re Mario Castellani; i.p. Egidio Quarantotti e Giancarlo Sambucini; s.p. Franco Pranteda; s.ed. Renata Clarici; op. Stelvio Massi; ass.op. Renato Fait; fo. Enzo Silvestri; tr. Sergio Angeloni; interpreti: Totò (marchese Galeazzo di Torrealta/gen. Scipione di Torrealta/prof. Carlo di Torrealta/baronessa Laudomia di Torrealta/mons. Antonio di Torrealta/Pasquale Bonocore), Raimondo Vianello (Michelino, detto Lallo), Beatrice Altariba (Diana), Nadine Sanders (donna Fiore), Luigi Pavese (commissario di P.S.), Mario Castellani (isp. Scalarini), Peppino De Martino (notaio Cucuzza), Giulio Marchetti (capo agenzia “Tigre”), Franco Giacobini (Pandoro), Mimmo Poli (il postino), Pietro De Vico (paziente da operare), Paolo Ferrara (direttore carcere), Gianni Baghino (Gigi lo sfregiato), Antonio La Raina (attendente del generale), Consalvo Dell’Arti (maggiordomo di Torrealta), Steno (Angelo, il giardiniere). Produttore: Gianni Buffardi, Titanus; durata: 96’; incasso: £ 416.000.000. COPACABANA PALACE Regia Steno; sogg. Sergio Amidei; scen. Sergio Amidei, Luciano Vincenzoni; dir.fot. Massimo Dallamano (Technicolor); mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg.e co. Franco Fontana Arnaldi; o.g. Giuseppe Fieno; d.pr. Tonino Garzelli; a.re. Mariano Laurenti; coll.dir.art. Fernado De Barros; coll.pr. Antonio Pereira De Almeida; i.p. Camillo Sampaio, Piero La Mantia; s.p. Alberto Miranda, Carlo Erbetta; s.ed. Rossana Rebecchi; op. Carlo Fiore; ass.op. Umberto Grassia; fo. Ennio Sensi, Mario Amari; tr. Maurizio Giustini; parr. Martina Prado; c.s.m. Umberto Torriero;c.s.e. Enzo Zocchi; interpreti: Sylva Koscina (Ines Da Silva, hostess), Walter Chiari (Ugo), Mylène Demongeot (principessa Zina von Raunacher), Franco Fabrizi (Fernando), Paolo Ferrari (avv. De Fonseca), Gloria Paul (Lucia Fabiani), Claude Rich (Buby von Raunacher), Raymond Bussières (Raymond Broussarc), Francis De Wolf (Theodoro van Der Welf), Ruggero Baldi (Nicky Gutierrez), Charles Fawcett, Tania Carreo, John Herbert, Laura Brown, Celso Faria, Irina Greco, Doris Montiero, Antonio Carlos Jobim, Cyll Farney. Produttore: Ital Victoria Film (Roma), France Cinéma Production (Parigi), Consorcio Paulista de Coproduçao (San Paolo); durata: 100’; incasso: £ 299.000.000.

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I DUE COLONNELLI Regia Steno; sogg.e scen. Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi; dir.fot. Clemente (Tino) Santoni; mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; scg. Giorgio Giovannini; amb. Brunello Serena Ulloa; co. Giuliano Papi; o.g. Gianni Buffardi; d.pr. Egidio Quarantotto; dir.dial. Mario Castellani; coll.pr. William Menarini; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Ennio Di Mejo; ass.re. Roberto Arata e Aldo Grimaldi; s.ed. Renata Meningò; s.p. Luciano Foti; op. Gianni Bergamini; fo. Giulio Tagliacozzo; tr. Franco Di Girolamo; par. Anna Cristofani; interpreti: Totò (col. Di Maggio), Walter Pidgeon (col. Henderson), Nino Taranto (sergente Quaglia), Scilla Gabel (Iride), Toni Ucci (Mazzetta), Roland von Bartrop (magg.Kruger), Adriana Facchetti (Penelope), Nino Terzo (soldato La Padula), Giorgio Bixio (soldato Giobatta), Gino Buzzanca (partigiano greco), Gerard Herter, Giorgio Maestri, Eleonora Gery, Mimmo Poli (cuoco), Franco Lantieri, Jack West, Nino Nini, Andrea Scotti, Gianni Baghino. Produttore: Gianni Buffardi per Titanus; durata: 104’; incasso: £ 465.000.000. TOTO’ CONTRO I QUATTRO Regia Steno; sogg.e scen. Bruno Corbucci e Gianni Grimaldi; dir.fot. Clemente (Tino) Santoni; mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; scg. Giorgio Giovannini; co. Giuliano Papi; amb. Brunello Serena Ulloa; ass.amb. Rudj Maiolo; d.pr. Egidio Quarantotto; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Ennio De Mejo; coll.pr. William Menarini; dir.dial. Mario Castellani; ass.re. Roberto Arata, Aldo Grimaldi; s.ed. Renata Melingò; op. Gianni Bergamini; ass.op. Renato Fait; fo. Giulio Tagliacozzo; tr. Franco Di Girolami; par. Anna Cristofani; interpreti: Totò (comm. Antonio Saracino), Peppino De Filippo (cav. Alfredo Fiore), Aldo Fabrizi (Don Amilcare), Nino Taranto (isp. Mastrillo), Erminio Macario (col. La Matta), Ugo D’Alessio (brig. Di Sabato), Mario Castellani (comm. Filippo Lancetti), Rossella Como (sua moglie), Dany Paris (Jacqueline), Ivy Olsen (sig.ra Durant), Nino Terzo (agente Pappalardo), Carlo Delle Piane (Pecorino), Moira Orfei (sig.ra Fiore), Gianni Agus (dott. Cavallo), Mario De Simone (agente Spampinato), Luciano Bonanni (ladro anziano), Piero Gerlini (un passante), Pietro Carloni (cognato di Lancetti), Steno (un idiota). Produzione: Gianni Buffardi per Titanus; durata: 98’; incasso: £ 280.000.000.

1964

GLI EROI DEL WEST

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Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Mario Guerra, Josè Mallorqui, Steno, Vittorio Vighi; coll.scen. Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi; dir.fot. Tino Santoni; mus. Gianni Ferrio (la canzone «Ballata del Far West» è cantata da Sandro Alessandroni); mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg. Franco Lolli; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Alberto Giommarelli; s.p. Torquato Carocci; s.ed. Renata Melingò; op. Gastone Di Giovanni; ass.op. Angelo Lannutti; fo. Kurt Doubrawsky; mic. Angelo Avatulli; tr. Piero Mecacci; par. Lina Cassini; f.sc. Divo Cavicchioli; interpreti: Walter Chiari (Mick), Raimondo Vianello (Colorado), Silvia Solar (Margaret), Maria Andersen (Barbara), Aurora Julia (Sherry), Tomas Blanco (il sindaco), Beni Deus (Bill), Miguel Del Castillo (Jessie), Antonio Peral (il boia), Bruno Scipioni, Mercedes Lobato. Produttore: Emo Bistolfi per Cineproduzioni Emo Bistolfi (Roma), Fenix Film (Madrid); durata: 95’; incasso: £ 484.000.000. LETTI SBAGLIATI Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza; dir.fot. Tino Santoni; mus. Carlo Rustichelli; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Latini; scg.e co.(non accreditati); a.re. Mariano Laurenti; i.p. Natalino Vicario, Carla Colisi Rossi; s.ed. Renato Pizzuto; op. Giovanni Bergamini; ass.op. Arcangelo Lannutti, Lanfranco Spadoni, Otello Lunghini; fo. Enzo Silvestri; mic. Giorgio Minoprio; tr. Maurizio Giustini; par. Vitaliana Rossi; f.sc. Angelo Pennoni; interpreti: 1° episodio Il complicato: Ingeborg Schoener, Lando Buzzanca, Aldo Giuffrè, Piero Tordi. 2° ep.00sexy-Missione bionda platino: Margaret Lee, Raimondo Vianello, Fulvia Franco, Piero Morgia, Pietro Gerlini. 3° ep.Quel porco di Maurizio: Carlo Giuffrè, Beba Loncar, Aldo Puglisi, Tecla Scarano, Alberto Bonucci, Renato Terra, Enzo Filippi. 4° ep. La seconda moglie: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Olimpia Cavalli, Enzo Turco, Antonio La Raina. Produttore: Adelphia Compagnia Cin.ca; durata: 105’; incasso: £ 164.000.000. I GEMELLI DEL TEXAS Regia Steno; sogg.e scen. Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi; dir.fot. Manuel Hernandez Sanjuan (Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Bevilacqua; scg. Antonio Visone; co. Maria Luisa Panaro; d.pr. Renato Tonini; a.re. Mariano Laurenti; s.p. Rodolfo Mecacci; s.ed. Renata Melingò; op. Sandro Mancori; ass.op. Remo Grisanti; fo. Antonio Bramonti; mic. Augusto Troiani; tr. Romolo De Martino; par. Gisa Favella; interpreti: Walter Chiari (Ezechiele/Joe), Raimondo Vianello (Johnathan/Kid), Diana Lorys (Fanny), Maria Jesus Mayor (Betty), Alfonso Rojas (Malanza), Umberto Raho (Mick), Joaquim Pamplona (cap.Lister), Miguel Del Castillo (Arnold), Carmen Esbri (Dominique), Liana Del Balzo (la madre di Malanza), Bruno Scipioni, Eugenio Galadini, Franca Polesello (madame Duval). Produttore: Emo Bistolfi per Cin.ca E.Bistolfi (Roma), Fenix Film (Madrid); durata: 96’; incasso: £ 221.000.000. 1965

UN MOSTRO E MEZZO Regia Steno; sogg.e scen. Alessandro Continenza, Steno; dir.fot. Tino Santoni; mus. Franco Mannino; mo. Giuliana Attenni; ass.mo. Marcella Latini; scg. Riccardo Domenici; d.pr. Luciano Cattania; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Natalino Vicario; s.p. Salvatore Chetri; s.ed. Franca Carotenuto; amm. Flaminio Spadoni; op. Giovanni Bergamini; ass.op. Luigi Bernardini e Lanfranco Spadoni; fo. Giovanni Rossi; mic. Sante Antonucci; tr. Maurizio Giustini; a.tr. Faliero Maggetti; f.sc. Angelo Pennoni; interpreti: Franco Franchi (Franco Barretta/Cesarone), Ciccio Ingrassia (il professore), Margaret Lee (Christine), Alberto Bonucci (prof.Carogni), Anna Maria Bottini (Barbara), Renato Terra Caizzi, Consalvo Dell’Arti (il vicedirettore del carcere), Mario Frera, Ugo Fangareggi (una guardia carceraria), Antonio La Raina, Mario Laurentina, Lena von Martens (sig.ra Marini), Antonio Omiccioli, Giuseppe Pertile (il direttore del carcere), Mirko Valentin, Susan Klemm (la contessa). Produttore: Adelphia Compagnia Cin.ca; durata: 95’; incasso: £ 358.000.000.

1966

AMORE ALL’ITALIANA (I SUPERDIABOLICI) Regia Steno; sogg.e scen. Steno, Francesco Luzi, Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi; dir.fot. Carlo Carlini (Techiscope/Technicolor); mus. Robby Poitevin; mo. Giuliana Attenni; scg. Antonio Visone; co. Maria Luisa Panaro; d.pr. Renato Tonini; a.re. Mariano Laurenti; i.p. Alessandro Gori; s.p. Quirino Pontecorvo; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Gianni Bergamini; fo. Leopoldo Rosi; mic. Giulio Viggiani; tr. Gaspare Carboni; par. Maria Ariè; attr. Aldo Clementi; interpreti: Walter Chiari (episodi: Divieto di sosta, Vampiro e lupo mannaro, Regalo di nozze, Troppo facile, Storia domenicale, Gold Fischer, Cortesia ferroviaria, Il playboy e negli episodi di collegamento), Raimondo Vianello (ep. Sangue blu, Troppo facile, Divieto di sosta, Vampiro e lupo mannaro, Amore all’italiana, Regalo di nozze, Gold Fischer, Lo smoking, Il playboy), Paolo Panelli (ep. L’esame, Storia domenicale, Lo smoking), Paolo Carlini, Vivi Bach, Luigi De Filippo, Alicia Brandet, Isabella Biagini, Rica Dialina, Adriana Ambesi, Nicole Faida, Susanne Klemm, Silvia Daniels,

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Lucretia Love, Angela Portaluri, Bruno Scipioni. Incorporation; durata: 95’; incasso: £ 217.000.000.

Produttore:

Emo

Bistolfi

per

European

ROSE ROSSE PER ANGELICA (t.sp. El caballero de la rosa roja/t.fr. Le chevalier à la rose rouge) Regia Steno; sogg.da un racconto di Alexandre Dumas; scen. Marcello Ciorciolini, Leo Cevenini, Roberto Gianviti, Steno, Natividad Zaro; dir.fot. Mario Capriotti (Eastmancolor); mus. Angelo Francesco Lavagnino; mo. Giuliana Attenni; scg. Ivo Battelli e Antonio Cortes; co. Maria Baronj, Flora Bonocore; o.g. Folco Laudati; d.pr. Roberto Palagi, Rafel Cuevas; a.re. Mariano Laurenti; op. Claudio Ragona, Miguel Agudo; interpreti: Jacques Perrin (Henri de Verlaine), Raffaella Carrà (Angélique), Michèle Girardon (Antoinette La Flèche), Carlos Estrada (barone La Flèche), Jacques Vastelot (conte d’Artois), Mario Feliciani (dottor Durand), Giulio Bosetti (il marsigliese), Marta Padovan (Louise), Sandro Moretti (Ramboullet), Chris Huerta (Paul), Josè Maria Caffarel (Re Luigi XVI), Enrique Navarro (Lalume), Armando Furlai (Bernard), Enzo Musumeci Greco (Michaud), Saturnino Cerra (Grandet). Produzione: Leo Cevenini e Vittorio Martino per Flora Film, Italo Zingarelli per West Film (Roma), Llama Film (Madrid), Cineurop (Parigi); durata: 110’; incasso: £ 102.000.000. 1967

LA FELDMARESCIALLA (RITA FUGGE…LUI CORRE…EGLI SCAPPA) (t.fr. La grosse pagaille) Regia Steno; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Riccardo Pallottini (Eastmancolor); mus. Alberto Pisano (canzoni: «Rosamunda» di Vejvoda, «Camminando sotto la pioggia» di FrustaciMacario-Rizzo, «Non dimenticar (le mie parole)» di Bracchi-D’Anzi, «Pippo non lo sa» di KramerPanseri, «Un, due, tre (se marci insieme a me» di Castellano-Pipolo-Pisano, «Il geghegè» di Canfora-Wertmuller); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Liliana Mancini; scg. Alberto Boccianti; arr. Claudio Cinini; co. Milena Bonomo; d.pr. Francesco Campitelli; a.re. Romano Scandariato; i.p. Salvatore Scarfone; s.ed. Vivalda Vigorelli; op. Sergio Martinelli; ass.op. Carlo Tafani; coreog. Gino Landi; fo. Fiorenzo Magli; mix. Mario Morigi; tr. Massimo Giustini; par. Mara Rocchetti; interpreti: Rita Pavone (Rita), Terence Hill [Mario Girotti] (prof. Giuliano Fineschi), Francis Blanche (cap. Hans Vogel), Aroldo Tieri (mag. Kurt von Braun), Teddy Reno (il sacerdote), Giampiero Littera (Michele, il cameriere), Jess Hahn (mag. Peter Hawkins), Michel Modo (attendente di Vogel), Mimmo Poli, Claudio Trionfi. Produttore: Edmondo Amati per Fida Cin.ca (Roma), Les Productions Jacques Roitfeld (Parigi); durata: 104’; incasso: £ 254.000.000. ARRRIVA DORELLIK Regia Steno; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Mario Capriotti (Technicolor); mus. Franco Pisano (la canzone «Arriva la bomba» di Pisano-Castellano-Pipolo-Nohra è cantata da Johnny Dorelli); mo. Ornella Micheli; ass.mo. Bruno Micheli, Maria Spera; scg. Arrigo Equini; co. Corrado Colabucci; ass.co. Gabriella Pescucci; o.g. Daniele Micheletti; d.pr. Giorgio Baldi; pr.es. Anis Nohra; a.re. Romano Scandariato; i.p. Albino Morandini, Carlo Vassalle; s.p. Angelo Saragò; amm. Giuseppe Chevalier; s.ed. Marion Mertes; op. Silvano Mancini, Carlo Tafani; ass.op. Giovanni Bonivento, Sergio Baldi; fo. Enzo Magli, Oscar De Arcangelis; mic. Manlio Urbani; tr. Amato Garbini; par. Gabriella Borzelli; f.sc. Enrico Appetito; sarta: Anna Maria Tucci; eff.sp. Joseph Nathansson; mix. Renato Cadueri; interpreti: Johnny Dorelli (Dorellik), Terry-Thomas (comm. Green), Margaret Lee (Baby Eva), Alfred Adam (sergente Saval), Rossella Como (Barbara Leduc), Riccardo Garrone (Vladimiro Dupont), Didi Perego (Gisèlle Dupont), Toto Mignone (Berthold Dupont), Mimmo Poli (Gustavo Dupont), Piero Gerlini (Raphael Dupont), Samson Burke (l’ultimo superstite dei Dupont), Agata Fiori (Carlotta, la segretaria), Consalvo Dell’Arti (il sindaco), Franco Gulà, Emilia Della Rocca, Valentino Macchi. Produttore: Inter Jet Film, Mega Film (Roma); durata: 92’; incasso: £ 219.000.000.

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CAPRICCIO ALL’ITALIANA (episodio IL MOSTRO DELLA DOMENICA) Regia Steno; sogg.e scen. Roberto Gianviti, Steno; dir.fot. Silvano Ippoliti (Technicolor); mus. Ricky Gianco e Gianni Sanjust; mo. Adriana Novelli; scg. Mario Scisci; co. Giuliano Papi; arr. Giorgio Herrmann; d.pr. Giorgio Morra e Giorgio Adriani; a.re. Mario Castellani; tr. Goffredo Rocchetti; interpreti: Totò (l’anziano signore), Ugo D’Alessio (il commissario di P.S.), Regina Seiffert (la ragazza), Dante Maggio (il brigadiere), Sandro Merli. Produttore: Dino De Laurentiis Cin.ca; durata: 20’; incasso: £ 189.000.000. Gli altri episodi sono Perché?, La gelosa (Mauro Bolognini), Che cosa sono le nuvole? (Pier Paolo Pasolini), Viaggio di lavoro (Pino Zac e Franco Rossi).

1969

IL TRAPIANTO Regia Steno; sogg. Nino Longobardi; scen. Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Stefano Strucchi, Raimondo Vianello, Steno; dir.fot. Carlo Carlini (Colorscope); mus. Gregor Segura dir.da Roberto

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Pregadio; mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Franco Malvestito; scg. Alberto Boccianti; coll.scg. Gianfrancesco Ramacci; co. Renato Beer; a.co. Daniela Lazzaretti; arch. Wolfgang Burmann; o.g. Nello Meniconi; d.pr. Mario Basili; a.re. Mario Forges Davanzati; i.p. Pietro Innocenzi; amm. Walter Massi; s.ed. Carlo Vanzina; op. Sergio Martinelli; ass.op. Marcello Carlini, Franco Frazzi; fo. Mario Faraoni; mix. Mario Morigi; tr. Maurizio Giustini; par. Giancarlo Marin; interpreti: Carlo Giuffrè (il barone siciliano), Renato Rascel (Dario), Graziella Granata (moglie del sindaco), Liana Trouché (moglie di Dario), Roberto Camardiel, Rafael Alonso, Feodor Chaliapin (il miliardario impotente), Fernando Bilbao, Richard Watson, Pino Patti, Adriana Facchetti, Carlo Rossi, Gabriella Giorgelli, Vicente Roca, Sandro Dori, Gerlando Martelli, Renzo Marignano, Enrique Navarro, Carmelo Finocchiaro, Malisa Longo, Maria Tasso, William Layton, Franca Sciutto, Gaetano Tomaselli, Giovanni Cori, Karen Valenti, Vicente Soler, Pedro Sanchez Polac, Alberto Fogliani, Francesco Leone. Produttore: Rizzoli Film (Roma), Prod. Cin.cas D.I.A. (Madrid); durata: 104’; incasso: £ 683.000.000. 1971

COSE DI “COSA NOSTRA” Regia Steno; sogg. Roberto Amoroso, Giulio Scarnicci, Steno; scen. Roberto Gianviti, Roberto Amoroso, Steno, Aldo Fabrizi; dir.fot. Carlo Carlini (Eastmancolor); mus. Manuel De Sica dir.da Roberto Pregadio; mo. Antonietta Zita; scg. Vincenzo Del Prato; o.g. Roberto Amoroso; interpreti: Carlo Giuffrè (Salvatore Lococo), Pamela Tiffin (sua moglie, Carmela), Jean-Claude Brialy (Domenico Gargiulo), Salvo Randone (Nicola o Nick Manzano), Vittorio De Sica (avv. Michele), Aldo Fabrizi (comm.di P.S.), Agnes Spaak (amante di Manzano), Mario Feliciani (Calogero Bertuccione), Angela Luce, Nino Vingelli (Pasquale, il barista), Fortunato Arena (un picciotto di Manzano), Mario Brega, Nino Musco, Adelaide Moretti, Pier Luigi Zollo, Franca Dominici, Antonio La Raina. Produttore: Roberto Amoroso per Ramo Film (Roma), P.A.C. Film (Parigi); durata: 93’; incasso: IL VICHINGO VENUTO DAL SUD (t.fr. Comment épouser une suédoise) Regia Steno; sogg.e scen. Giulio Scarnicci, Steno, Raimondo Vianello; dir.fot. Angelo Filippini (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «New Girl» è di Trovajoli-Pes-Nohra); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Lea Mazzotti; scg. Pier Luigi Basile; arr.e co. Enrico Fiorentini; o.g. Livio Maffei; ass.pr. Carlo Lastricati; a.re. Carlo Vanzina; ass.re. Ennio Marzocchini; i.p. Albino Morandin e Riccardo Coccia; s.ed. Marion Mertes; op. Guglielmo Vincioni; ass.op. Carlo Poletti; fo. Fiorenzo Magli; mic. Armando Janoda; tr. Franco Freda e Duilio Scarozza; par. Adalgisa Favella e Maria Luisa Garbini; f.sc. Franco Vitale; amm. Paolo Lombardo; sarta: Angela Sponsali; interpreti: Lando Buzzanca (Rosario Trapanese), Pamela Tiffin (Karen), Renzo Marignano (Marsen), Gigi Ballista (Silvio Borolen), Steffen Zacharias (produttore di porno-film), Donatella Della Nora (segretaria di Rosario), Dominique Boschero (Priscilla), Edda Ferronao (Annelise Jorgensen), Nino Terzo (italiano in Danimarca), Kejeld Larsen Norgaard, Else Marie, Paul Kernan, Ennio Maiani, Rita Forzano, Alessandro Figurelli, Victoria Zinny, Ada Pometti, Ferdie Mayne, Matilde Antonelli, Dante Cleri, Ferruccio Fregonese, Gastone Pescucci. Produttore: Anis Nohra per International Film Company; durata: 106’; incasso:

1972

LA POLIZIA RINGRAZIA (t.t. Das Syndicat/ t.lavor. Ipotesi del capo della Squadra Omicidi) Regia Stefano Vanzina (Steno); sogg.e scen. Lucio De Caro, Steno; dir.fot. Riccardo Pallottini (Technicolor); mus. Stelvio Cipriani; mo. Roberto Perpignani; ass.mo. Piera Gabutti, Maria Piera Mari; scg.e arr. Nicola Tamburro; o.g. Marcello D’Amico; a.re. Mario Forges Davanzati; op. Luigi Filippo Carta; ass.op. Dante Di Palma; fo. Piero Ortolani; mix. Franco Bassi; eff.sp. Luciano Anzelotti; mo.f. Roberto Arcangeli; tr. Lamberto Marini; par. Ilda Gilda De Guilm; uff.st. Enrico Lucherini, Margherita Rossetti, Matteo Spinola; interpreti: Enrico Maria Salerno (commissario Bertone), Mariangela Melato (Sandra), Mario Adorf (sostituto procuratore Ricchiuti), Franco Fabrizi (Bettarini), Cyril Cusack (ex-questore Stolfi), Laura Belli (Anna Maria Sprovieri), Jurgen Drews, Corrado Gaipa (avv.Armani), Giorgio Piazza, Ezio Sancrotti (comm.Santalamenti), Pietro Tiberi, Diego Reggente, Ada Pometti, Sergio Serafini, Fortunato Cecilia, Ferdinando Murolo (caposquadra Anonima), Gianfranco Barra (agente Esposito), Romualdo Buzzanca, Giovanna Di Vito, Riccardo Mangano, Giovanni Solari, Gianni Solaro, Franz Treuberg, Valentino Macchi (operatore radio), Luciano Bonanni (Raf Valenti). Produttore: Roberto Infascelli per Primex Italiana (Roma), Dieter Geissler Filmproduktion (Monaco); durata: 99’; incasso: £ 1.700.000.000 L’UCCELLO MIGRATORE (t.fr. Elles sont dingues, ces nénettes) Regia Steno; sogg.e scen. Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello; dir.fot. Ennio Guarnieri (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Nadia Moscovini; sup.mo. Ruggero Mastroianni; scg. Gianni Polidori; arr. Lorenzo Baraldi, Massimo Tavazzi; co. Gaia Romanini; ass.co. Anna Donati; d.pr. Dino Di Salvo; a.re. Enrico Vanzina; s.ed. Maria Grazia

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Eminente; i.p. Enzo Nigro; s.p. Paolo Vandini; op. Emilio Loffredo; ass.op. Giulio Battiferri, Giuseppe Fornari; fo. Massimo Jaboni; tr. Nilo Jacoponi; par. Giancarlo De Leonardis; a.tr. Giulio Mastrantonio; f.sc. Antonio Benetti; interpreti: Lando Buzzanca (prof. Pomeraro), Rossana Podestà (prof.ssa Delia Benetti), Gianrico Tedeschi (on. Pomeraro), Dominique Torrent, Paolo Cardoni, Sandro Dionisi, Pia Velsi (madre di Delia), Ignazio Leone (commissario di polizia), Christian Thorn. Produttore: Medusa Distribuzione; pr.es. Renato Jaboni; durata: 102’; incasso: £ 189.000.000. IL TERRORE CON GLI OCCHI STORTI Regia Steno; sogg. Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello; scen. Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello, Steno; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone «Fortuna sì, fortuna no» di F.Tozzi-G.e M. De Angelis è cantata da Enrico Montesano); mo. Tatiana Casini Morigi; ass.mo. Liliana Mancini; scg. Alberto Boccianti; a.re. Mario Forges Davanzati; op. Elio Polacchi; sc.acrob. Sergio Mioni; mix. Mario Morigi e Gianni D’Amico; interpreti: Enrico Montesano (Mino Orlandi), Alighiero Noschese (Giacinto Puddu), Francis Blanche (commissario Pigna), Isabella Biagini (Mirella Trombetti), Lino Banfi (agente Magli), Maria Baxa (Margaretha), Francesco Mulè (il questore), Daniele Vargas (Josè), Umberto Raho (l’assassino), Valentino Macchi (speaker TV), Nello Pazzafini (Ivan), Mimmo Poli (barman al party), Luca Sportelli (portinaio), Gastone Pescucci, Isabelle Marchal, Ada Pometti, Lino Coletta, Sergio Serafini, Dino Curcio. Produttore: Dino De Laurentiis per Inter.Ma.Co. (Roma), Universal Production France (Parigi); durata: 97’; incasso: 1973

ANASTASIA MIO FRATELLO (IL PRESUNTO CAPO DELL’ANONIMA ASSASSINI) Regia Stefano Vanzina; sogg.liberamente ispirato dal libro di Salvatore Anastasia; scen. Sergio Amidei, Alberto Sordi, Alberto Bevilacqua; dir.fot. Sergio D’Offizi (Eastmancolor); mus. Piero Piccioni, coro dei Cantori Moderni dir.da Alessandro Alessandroni (la canzone «Feeling Low Blues» di P.Piccioni è cantata da Shawn Robinson; mo. Raimondo Crociani; co. Bruna Parmesan; d.pr. Romano Dandi; a.re. Enrico Vanzina; op. Enrico Lucidi; ass.op. Sandro Melaranci; fo. Domenico Dubbini; mix. Mario Amari; interpreti: Alberto Sordi (Salvatore Anastasia), Richard Conte (Alberto Anastasia), Eduardo Fajeta (Sonny Boy),Luciano Pigozzi (Pasquale), Thomas Chu (il cinese), Franco Angrisano (commissario De Felice), Fjodor Chaliapin (Frank Costello), Maria Tedeschi, Ugo Carboni, Mary Dolan, Enzo Monteduro, Umberto Taravagli, Nello Caruso, Joseph Anile, Henry Ferrentino, Aldo Bonamano, Giuseppe Caracciolo, Mario Cecchi, Peter Clune, Rick Colitti, Ubaldo Granata, Filippo Laurentino. Produttore: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; durata: 118’; incasso: £ 1.113.000.000. PIEDONE LO SBIRRO (t.fr. Un flic hors-la-loi/t.te. Sie Nannten ihn Plattfuss) Regia Steno; sogg. Luciano Vincenzoni, Nicola Badalucco; scen. Lucio De Caro; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Daniele Alabiso; ass.mo. Rita Triunveri, Brigida Mastrolillo; scg. Carlo Leva; co. Luciano Sagoni; a.scg. Nicola Losito; d.pr. Bruno Altissimi, Alfredo Melidoni (seconda troupe a Napoli); a.re. Guglielmo Giarda; op. Vittorio Biferale, Francesco Manco (2° troupe a Napoli); s.ed. Adolfo Dragone; op. Enrico Sasso; ass.op. Enrico Doria, Maurizio Santi; m.armi Giorgio Baldi; fo. Angelo Amatulli; mix. Danilo Moroni; eff.so. Marinelli; c.sq.acrobati Sergio Mioni; tr. Luciano Giustini, Marcello Meniconi; par. Fausto De Lisio; amm. Walter Massi; eff.sp. Eros Baciucchi; f.sc. Giorgio Garibaldi Schwartze; interpreti: Bud Spencer (commissario Rizzo, detto “Piedone”), Adalberto Maria Merli (commissario capo Tabassi), Angelo Infanti (Ferdinando Scarano, ‘o barone),Raymond Pellegrin (avv. De Ripis), Juliette Maynel (Maria), Mario Pilar (Antonio Percuoco detto “Manomozza”), Enzo Cannavale (brigadiere Caputo), Jo Jhekins (John, marinaio negro), Nino Vingelli (capocamorra), Vittorio Duse (capo polizia con l’ufficiale U.S.A.), Enzo Maggio (Gennarino), Ester Carloni (la sigaraia), Dominic Barto (Tom Ferramenti) Salvatore Morra, Franco Angrisano, Carla Mancini, Alessandro Perrella, Luciano Tacconi. Produttore: Sergio Bonotti per Mondial Te.Fi. (Roma), C.A.P.A.C. (Parigi); durata: 110’; incasso:

1974

LA POLIZIOTTA Regia Steno; sogg. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Nicola Badalucco, Giuseppe Catalano; scen. Sergio Donati, Luciano Vincenzoni; dir.fot. Alberto Spagnoli (Technicolor); mus. Gianni Ferrio (il brano «la Cumparsita» è di Velzaquez); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Franco Malvestito; a.ass.mo. Adelchi Marinangeli; scg. Luigi Scaccianoce; a.scg. Paolo Biagetti; co. Enrico Sabbatini; ass.co. Giovanni Viti; arr. Bruno Cesari; o.g. Jone Tuzi; a.re. Enrico Vanzina; i.p. Gino Santarelli; s.ed. Lodovico Gasparini; s.p. Paola Surdi; op. Emilio Loffredo; ass.op. Gianni Fiore, Sandro Rubeo; fo. Carlo Palmieri; mic. Alvaro Orsini; mix. Danilo Moroni; tr. Otello Fava; a.tr. Mario Scutti; par. Luciano Vito; amm. Maurizio Anticoli; cas. Piero Innocenzi; f.sc. Claudio Patriarca; uff.st. Francesca De Russis; interpreti: Mariangela Melato (Gianna Abbastanzi), Orazio Orlando (pretore Ruggero

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Patanè), Mario Carotenuto (Barcellini, cap. dei vigili urbani), Alberto Lionello (assessore Tarcisio Monti), Renato Pozzetto (Claudio Ravazzi), Armando Brancia (sen. Giuseppe Brembati), Renato Scarpa (dott. Camillotti, il farmacista), Gianfranco Barra, Umberto Smaila (figlio di Brembani), Gigi Ballista (avvocato), Alvaro Vitali (vigile Fantuzzi), Pia Velsi (madre di Gianna), Giuseppe Castellano, Lorenzo Logli, Antonietta Esposito, Umberto Travagli, Giuseppe Caracciolo, Orazio Stracuzzi, Ugo Pace, Luigi Perrella, Gianni Solaro (procuratore della Repubblica). Produttore: Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion; durata: 99’; incasso: Premio David di Donatello (ex-aequo) come miglior attrice protagonista a Mariangela Melato (1975) 1975

PIEDONE A HONG-KONG (t.fr. Le cogneur/t.te. Plattfuss raumt auf) Regia Steno; sogg. Lucio De Caro; scen. Lucio De Caro, Franco Verucci, Steno; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini (Eastmancolor-Technicolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone «The last of love» di Dandilion-Brenton è cantata da Phantom); mo. Mario Morra; ass.mo. Adelchi Marinangeli, Maria Luisa Mengoli; arch. Piero Filippone, Giancarlo Pucci; scg. Elio Micheli; ass.scg. Nicola Losito; co. Luciano Sagoni; arr. Riccardo Domenici; o.g. Lucio Bompani; d.pr. Alfredo Melidoni; a.re. Enrico Vanzina, Beppe Cino; ass.re. Lodovico Gasparini; i.p. Vittorio Biferale; s.p. Francesco Manco, Arduino Mercuri; s.ed. Adolfo Dragone; op. Alessandro Ruzzolini; ass.op. Claudio Sabatini, Emilio Bestetti; fo. Mario Bramonti; eff.so. Renato Marinelli; m.armi Giorgio Ubaldi; tr. Luciano Giustini; par. Fausto De Lisio; f.sc. Giorgio Garibaldi Schwartze; amm. Walter Massi; cass. Walter Zoi; interpreti: Bud Spencer (commissario Rizzo, detto “Piedone”), Daygolo (Yoko), Al Lettieri (Frank Barella), Robert Webber (Sam Accardo, del Narcotic Bureau), Enzo Cannavale (vicecommissario Caputo), Renato Scarpa (commissario capo Morabito), Francesco De Rosa (“Mani d’oro”), Enzo Maggio (Gennarino), Dominic Barto (Tom Ferramenti), Roberta Paladini (zingara), Jo Jhenkins (marinaio americano), Eduardo Fajeta (Willie Pastrone), Nancy Sit (Makiko, detta “Canna di Bambù”), Chaplin Chang, Roberto Dell’Acqua, Claudio Ruffini, Ken Chaic, Lino Puglisi, Francesco D’Adda. Produttore: Sergio Bonotti per Mondial Te.Fi.; durata: 115’; incasso: £ 1.008.000.000. IL PADRONE E L’OPERAIO (t.te. Der Kleine mit dem dicken Hammer) Regia Steno; sogg.e scen. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati; dir.fot. Luigi Kuveiller (Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio (la canzone «La ventosa» di F.Calabrese-R.Pozzetto-C.PonzoniG.Ferrio è cantata da Cochi e Renato); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Franco Malvestito; a.mo. Stefano Testa; scg. Gianni Polidori; co. Enrico Sabbatini; ass.co. Nadia Vitali; arr. Massimo Razzi; o.g. Jone Tuzi; a.re. Enrico Vanzina; i.p. Gino Santarelli; s.p. Paola Surdi; s.ed. Ludovico Gasparini; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Nino Annunziata, Antonio Tonti; fo. Carlo Palmieri; mic. Pietro Fondi; mix. Danilo Moroni; tr. Mario Scutti; par. Ada Palombi; amm. Maurizio Anticoli, Pietro Innocenti; f.sc. Claudio Patriarca; interpreti: Renato Pozzetto (Gianluca Tosi, detto Giangi), Teo Teocoli (Luigi Carminati), Francesca Romana Coluzzi (Maria Luce Balestrazzi Tosi), Loris Zanchi (comm. Balestrazzi), Gianfranco Barra (vicino di casa di Luigi), Gillian Bray (“Gigante Buono”, l’amante di Giangi), Eva Maria Gabriel (amica di Maria Luce), Walter Valdi (dott.Bauer), Edda Ferronao (sua moglie), Loredana Bertè (Maria Grazia Varigotti), Alena Penz, Aldo Rendine, Paola Maiolini, Giancarlo Alessandri, Guido Nicheli, Barbara Maimone, Anna Maria Rizzoli (Violante), Renato Pruscella, Anna Maria Prando, Laura Romano, Daniele Gallina, Sergio Farioli, Dino Emmanuelli. Produttore: Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion; durata: 105’; incasso: £ 430.000.000.

1976

L’ITALIA S’E’ ROTTA Regia Steno; sogg.e scen. Sergio Donati, Luciano Vincenzoni, Steno da un’idea di Giulio Questi; dir.fot. Aldo Tonti (Technicolor); mus. Enzo Jannacci; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Stefano Testa; arr. Riccardo Domenici; ass.co. Cristina Lafayette; a.re. Massimo Carocci; i.p. Gino Santarelli; s.p. Barbara Berni; s.ed. Maria Giuseppina De Simone; op. Luciano Tonti; ass.op. Antonio Annunziata, Enrico Priori; fo. Alvaro Orsini; mic. Roberto Pettini; tr. Mario Scutti; par. Gerardo Raffaeli; amm. Maurizio Anticoli, Pietro Innocenzi; f.sc. Giulio Claudio Patriarca; sarta Maria Zara; c.s.m. Giulio Diamanti; c.s.e. Pietro Simoni; attr. Giancarlo Rocchetti; mix. Danilo Moroni; interpreti: Dalila Di Lazzaro (Domenica Chiavegato), Teo Teocoli (Peppe Zuzzolino), Mario Scarpetta (Antonio Mancuso), Mario Carotenuto (cav. Amedeo Zerolli), Alberto Lionello (lo scultore), Franca Valeri (contessa Giovanna), Enrico Montesano (il rapinatore romano), Duilio Del Prete (il censore), Orazio Orlando (il maestro Oronzo), Clelia Matania (madre di Peppe), Carla Calò (madre di Antonio), Loris Bazzocchi (trafficante di droga), Sergio Di Pinto (figlio di Zerolli), Marisa Laurita (Rosalia, sorella di Antonio), Armando Marra (Scognamiglio), Barbara Herrera (sig.ra Pautasso), Giovanni Pallavicino (capofamiglia), Marcello Alessandri. Produttore: Franco Caramelli, Gianfranco Lastrucci per Splendid Pictures; durata: 102’; incasso: £ 476.000.000.

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FEBBRE DA CAVALLO (t.fr. Fièvre de cheval) Regia Steno; sogg. Massimo Patrizi; scen. Alfredo Giannetti, Steno, Enrico Vanzina; dir.fot. Emilio Loffredo (Technospes); mus. Franco Bixio, Fabio Frizzi, Vince Tempera (motivo della canzone «Il tango delle capinere» di B.Cherubini-C.A.Bixio); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Franco Malvestito; scg. Franco Bottari; co. Bruna Parmesan; d.pr. Lucio Orlandini; a.re. Lodovico Gasparini; i.p. Egidio Valentini; s.p. Paolo Bistolfi; s.ed. Vittoria Vigorelli; op. Gianni Fiore; fo. Giorgio Pallotta; mix. Romano Checcacci; tr. Gloria Granati; par. Vittoria Silvi; f.sc. Pino Di Cola; interpreti : Luigi Proietti (Bruno Fioretti, detto “Mandrake”), Enrico Montesano (Armandino Felici, detto “Pomata”), Catherine Spaak (Gabriella), Mario Carotenuto (avv. De Marchis), Adolfo Celi (presidente tribunale), Francesco De Rosa (Felice Rovesi), Maria Teresa Albani (Mafalda), Gigi Ballista (conte Dallara), Marina Confalone (sorella di Armandino), Luciano Bonanni (infermiere), Ennio Antonelli (Otello Rinaldi, detto “Manzotin”), Nerina Montagnani (nonna di Armandino), Renzo Ozzano (Jean-Louis Rossini), Fernando Cerulli (attore), Giuseppe Castellano (Stelvio), Franca Scagnetti (passeggera treno), Niki Gentile, Gianfranco Cardinali Castellano, Fulvia Pellegrino, Elena Magoia, Maria Luisa Traversi, Valentino Simeoni. Produttore: Roberto Infascelli per Primex Italiana; durata: 89’; incasso: £ 209.000.000. 1977

TRE TIGRI CONTRO TRE TIGRI Regia Steno e Sergio Corbucci; sogg.e scen. Mario Amendola, Castellano e Pipolo, Sergio Corbucci, Mino Guerrini, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Enrico Vanzina; dir.fot. Marcello Gatti, Emilio Loffredo (Technicolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Amedeo Salfa; scg. Mario Ambrosino, Andrea Crisanti; ass.scg. Giorgio Lazzeri, Vincenzo Medusa; co. Bruna Parmesan; o.g. Raimondo Castelli; d.pr. Egidio Valentini; a.re. Gianni Manganelli, Ferdinando C. Bozzo Monaco; i.p. Ermes Gallitti; s.p. Paolo Basile; s.ed. Vittoria Vigorelli, Daniela De Silva; op. Gianni Fiore, Otello Spila, Gaetano Valle; ass.op. Roberto Locci, Sandro Rubeo, Claudio Tommasi; fo. Giorgio Pallotta; mic. Manlio Urbani, Alfonso Montesanti; par. Armenio Marroni; f.sc. Pier Luigi Pratulon; interpreti: primo episodio: Renato Pozzetto (Don Cimbolano), Cochi Ponzoni (padre Joe Martini), Kirsten Gille (Diana, sua moglie), Ester Carloni (la perpetua), Ugo Bologna (Bkrsetti, il sindaco), Massimo Boldi (Romeo), Gabriella Giorgelli (la barista), Renzo Ozzano (il capostazione); secondo episodio: Enrico Montesano (Oscar Bertoletti), Dalila Di Lazzaro (l’attrice nel ruolo della contessa Lucrezia Marini), Giuseppe Anatrelli (l’attore nel ruolo del conte Rodolfo Peppino Marini di Lampedusa), Nanni Loy (se stesso), Piero Gerlini (commissario di Polizia), Paola Arduini (l’attrice, nel ruolo dell’istitutrice tedesca), Franco Giacobini (l’attore, nel ruolo di Luigino); terzo episodio: Paolo Villaggio (avv. Scorsa), Anna Mazzamauro (Giada Nardi), Daniele Vargas (avv. Berchielli), Renzo Marignano (Lorenzo, marito di Giada), Dino Emanuelli (avv. Dal Pino), Ferruccio Amendola (addetto alla torre di controllo). Produttore: Roberto Infascelli e Fulvio Lucisano per Primex Italiana, Italian International Film; durata: 115’; incasso: £ 1.089.000.000. DOPPIO DELITTO (t.fr. Enquete à l’italienne) Regia Steno; sogg.dal romanzo Doppia morte al governo vecchio di Ugo Moretti; adatt. Age, Scarpelli, Steno; scen. Age, Scarpelli dir.fot. Luigi Kuveiller (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Anna Napoli, Luigi Guarini; o.g. Paolo Infascelli; d.pr. Egidio Valentini; scg.e co. Mario Ambrosino (co. Ursula Andress: Luca Sabatelli); ass.co. Nadia Vitali; arr. Arrigo Breschi; ass.arr. Mauro Panni; a.re. Ludovico Gasparini, Luis Pitzele; i.p. Ermes Gallitti; cass. Giulio Cestari; s.p. Paolo Basile; s.ed. Vivalda Vigorelli; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Nino Annunziata; fo. Giorgio Pallotta; mix. Romano Checcacci; mic. Maurizio Merli; tr. Giuseppe Banchelli, Franco Corridoni, Franco Schioppa; par. Gilda De Guilm; f.sc. Giovanni Vino; eff.so. Luciano Anzellotti; c.s.m. Sergio Emidi; c.s.e. Sergio Coletta; attr. Adriano Tiberi; interpreti: Marcello Mastroianni (commissario Bruno Baldassarre), Ursula Andress (principessa Anna Dell’Orso), Agostina Belli (Teresa Colasanti), Peter Ustinov (Harry Hellman), Jean-Claude Brialy (Van Nijlen), Mario Scaccia (Marino Cianciarelli, detto “Sorcio”), Gianfranco Barra (brigadiere Cantalamessa), Giuseppe Anatrelli (Carrù), Serge Frederic (Melzio), Jean Patrick Junoy (Alex), Luigi Zerbinati (il debosciato), Angelo Monte (Daniele Baldassarre), Massimiliano Monte (Daniele bambino), Francesco Infantino (proprietario ristorante), Luciano Bonanni (il domestico), Caterina Dalin (Edith), Angelo Piazza (cardinale), Nando Paone (direttore d’orchestra), Paola Orefici, Antonio Spinato. Produttore: Roberto Infascelli per Primex Italiana (Roma), P.E.C.F. (Parigi); durata: 105’; incasso: £ 450.000.000.

1978

PIEDONE L’AFRICANO (t.fr. L’inspecteur Bulldozer/t.te. Plattfuss in Africa) Regia Steno; sogg. Franco Verucci; scen. Adriano Bolzoni, Giovanni Simonelli, Franco Verucci, Rainer Brandt; dir.fot. Alberto Spagnoli (Vistavision); mus. Guido e Maurizio De Angelis (il brando «Freedom» di Dandylion-De Natale-G.e M. De Angelis è eseguito dal gruppo Charange); mo. Mario

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Morra; ass.mo. Carlo Bartolini, Ilona Dalmann; a.mo. Adelchi Maringeli, Mario Recupito; scg. Bruno Cesari; ass.scg. Luciana Vasile; co. Luciano Sagoni; d.pr. Franco Cirino, Alfredo Mirabile; a.re. Neri Parenti; ass.re. Thomas Franke; i.p. Bruno Biferale, Anselmo Parrinello; s.p. Paolo Vasile; s.ed. Marina Mattoli; op. Giuseppe Maccari, Giorgio Di Battista (2° unità); ass.op. Hans Khule jr., Mauro Marchetti, Wolfgang Weisner, Carlo M.Montuori; m.armi Giorgio Ubaldi; fo. Max Galinsky, Giorgio Pallotta; mix. Luciano Muratori; amm. Roberto Luvisotti; f.sc. Gianfranco Salis; tr. Luciano Giustini, Giovanni Morosi; par. Fausto De Lisio; c.s.m. Giacomo Tomaselli; c.s.e. Sante Federici; attr. Luciano D’Achille; eff.sp. Giovanni Corridori; sarta Isa Cristofori; interpreti: Bud Spencer (commissario Rizzo, detto ”Piedone”), Enzo Cannavale (Caputo), Dagmar Lassander (Maggie Connors), Werner Pochat (Spiros), Joe Stewardson (Clay Smollet), Baldwin Dakile (Bodo), Giovanni Cianfriglia (malvivente in autobus), Karel Trichard, Desmond Thompson, Antonio Allocca, Giancarlo Bastianoni, Franco Cirino, Giorgio Cerioni, Ester Carloni, Rita Herles, Carlo Reali, Benito Pacifico, Omero Capanna, Ottavio Dell’Acqua, Claudio Ruffini, Sergio Smacchi, Marco Stefanelli, Rinaldo Zamperla. Produttore: Laser Film (Roma), Rialto Film (Berlino); durata: 115’; incasso: £ 1.097.000.000 AMORI MIEI Regia Steno; sogg.e scen. Iaia Fiastri dalla sua commedia musicale; dir.fot. Franco Di Giacomo (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (le canzoni «School Boy Crash» e «Deborah» di A.Trovajoli-D.Meakin-M.Fraser sono cantate dai Crossbow); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Lidia Pascolini; a.ass.mo. Elvira Zincone; scg. Giantito Burchiellaro; co. Nicoletta Ercole; arr. Giovanni Natalucci; o.g. Bruno Altissimi; d.pr. Giorgio Scotton; a.re. Neri Parenti; i.p. Nereo Salustri; s.p. Rossella Angeletti; a.s.p. Ettore Salustri; amm. Claudio Saraceni; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Giorgio Di Battista; ass.op. Francesco Gagliardini, Stefano Coletta; fo. Vittorio Massi; mic. Roberto Forrest; tr. Giancarlo Del Brocco; par. Rina Conversi; f.sc. Roberto Russo; interpreti: Monica Vitti (Annalisa Rossi), Enrico Maria Salerno (prof. Antonio Bianchi), Johnny Dorelli (Marco Rossi), Edwige Fenech (Deborah). Produttore: Franco Cristaldi, Nicola Carraro per Vides Cin.ca; durata: 100’; incasso: £ 1.848.000.000 (secondo nella classifica dei film italiani più visti dopo Il vizietto di Edouard Molinaro). Premio David di Donatello come miglior attrice protagonista a Monica Vitti (1979) 1979

DOTTOR JEKYLL E GENTILE SIGNORA Regia Steno; sogg.da un’idea di Castellano e Pipolo, liberamente ispirata al racconto di R.L.Stevenson; sogg.e scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Steno; coll.scen. Gianni Manganelli; dir.fot. Ennio Guarnieri, Sergio Salvati; mus. Armando Trovajoli (la canzone «Mr.Jekyll and Mr.Hyde» di M.Fraser-Dandylion-A.Trovajoli-R.Serio è cantata da Mr.Hyde); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Pina Triunveri; scg. Luciano Spadoni; co. Maria Rosaria Crimi, Elisabetta Poccioni; arr. Massimo Tavazzi; d.pr. Carlo Bartolini; a.re. Gianni Manganelli; i.p. Lamberto Palmieri; s.p. Lucia Nolano; s.ed. Marina Mattoli; amm. Leonardo Curreri; op. Renato Ranieri; ass.op. Antonio Scaramuzza, Maurizio Lucchini; fo. Franco Borni, Massimo Jaboni; tr. Gianfranco Mecacci, Franco Schioppa; par. Mirella Ginnoto, Sergio Gennari; mix. Bruno Moreal; f.sc. Francesco Narducci; ass.dopp. Marcello Prando; interpreti: Paolo Villaggio (dr.Jekyll/Mr.Hyde), Edwige Fenech (Barbara), Gianrico Tedeschi (Jeeves, il maggiordomo), Gordon Mitchell (Pretorius), Paolo Paoloni (direttore stabilimento chimico), Geoffrey Copleston (membro P.A.N.T.A.C.), Guerrino Crivello, Eolo Capritti, Paola Arduini (la segretaria), Franco Anniballi, Clemente Ukmar, Walter Wright Williams. Produttore: Medusa Distribuzione; pr.es. Renato Jaboni; durata: 107’; incasso: £ 427.000.000. LA PATATA BOLLENTE Regia Steno; sogg. Giorgio Arlorio; scen. Giorgio Arlorio, Enrico Vanzina, Steno; dir.fot. Emilio Loffredo (Technicolor); mus. Totò Savio (la canzone «Tango diverso» di T.Savio-Casella è cantata da Tamara); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Graziella Zita; a.mo. Loretta Mattioli; scg. Mauro Passi; co. Silvio Laurenzi; d.pr. Elio Saroli; deleg.pr. Paolo Infascelli; a.re. Massimo Carocci; i.p. Hermes Gallitti; s.p. Luigi Patrizi; s.ed. Marina Mattoli; op. Massimo Di Venanzo; ass.op. Sandro Rubeo; fo. Giorgio Pallotta; mix. Danilo Moroni; eff.so. Renato Marinelli; tr. Franco Schioppa; par. Ilda Gilda De Guilm; f.sc. Roberto Nicosia Vinci; ediz. Elio Vani; interpreti: Renato Pozzetto (Bernardo Mambelli, detto “Gandhi”), Edwige Fenech (Maria), Massimo Ranieri (Claudio), Mario Scarpetta (Walter), Clara Colosimo (Elvira, la portinaia), Luca Sportelli (Pietro, il marito), Sergio Ciulli (Meravigli), Adriana Russo (amica di Maria), Loris Bazzocchi (un operaio), Dario Ghirardi, Margherita Giacomelli, Nazzareno Natale (altro operaio), Emilio Leoni (direttore generale fabbrica), Umberto Raho (medico), Enzo Rossi, Alberto Squillante (altri operai), Giorgio Vignali. Produttore: Achille Manzotti per Irrigazione Cin.ca; durata: 100’; incasso: £ 1.600.000.000.

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1980

PIEDONE D’EGITTO (t.fr. Pied-platt sur le Nil/t.ted. Plattfuss am Nil) Regia Steno; sogg. Adriano Bolzoni; scen. Adriano Bolzoni, Massimo Franciosa, Steno; dir.fot. Luigi Kuveiller (Technospes); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone «Sphinx» di De NataleG.Lane- G.e M. De Angelis è cantata dal complesso Sunrise); mo. Mario Morra; ass.mo. Carlo Bartolini; a.mo. Daniela Bonotti, Vincenzo Di Santo, Adelchi Marinangeli; scg. Enzo Bulgarelli; a.scg. Stefano Bulgarelli, Nicola Losito; arr. Osvaldo Desideri; co. Luciano Sagoni; d.pr. Lucio Bompani; a.re. Massimo Carocci; i.p. Vittorio Biferale, Arduino Mercuri, Ennio De Mejo, Franco Manco; s.ed. Marina Mattoli; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Renato Palmieri; a.op. Aldo Marchiori; fo. Mario Bramonti; mic. Luciano Muratori; mix. Danilo Moroni; m.armi Giorgio Ubaldi; tr. Luciano Giustini; par. Fausto De Lisio; f.sc. Sandro Borni; eff.so. Roberto Arcangeli; eff.pirotecnici Enrico Pinto; interpreti: Bud Spencer (commissario Rizzo, detto “Piedone”), Enzo Cannavale (brigadiere Caputo), Angelo Infanti (Hassan), Cinzia Monreale (Connie Burks), Robert Loggia (Edward Burks), Baldwin Dakile (Bodo), Leopoldo Trieste (prof. Coriolano Cerullo), Karl Otto Alberty (“Condor”, lo svedese), Venantino Venantini (Ferdinando Ruotolo), Ester Carloni (sigaraia), Mimmo Poli (passeggero in aereo), Giovanni Cianfriglia (complice di Ruotolo), Adel Adam (Zakar), Mahamud Kabil. Produttore: Merope Film; durata: 107’; incasso: £ 890.000.000. FICO D’INDIA Regia Steno; sogg.e scen. Sandro Continenza, Raimondo Vianello; dial. Steno, Enrico Vanzina, Renato Pozzetto; dir.fot. Carlo Carlini (Telecolor); mus. Giancarlo Chiaramello; mo. Raimondo Crociani; scg. Paola Comencini; co. Silvio Laurenzi; o.g. Paolo Infascelli; d.pr. Elio Saroli; a.re. Massimo Carocci; interpreti: Renato Pozzetto (Lorenzo Millozzi), Aldo Maccione (Ghigo Buccini), Gloria Guida (Lia Millozzi), Diego Abatantuono (il capo delle belve), Daniele Formica (il cronista), Licinia Lentini (amica di Ghigo), Luca Sportelli (Don Eusebio), Angelo Pellegrino (segretario di Millozzi), Jimmy il Fenomeno (Arturo Brambilloni), Daniele Vargas, Nestor Garay, Dario Ghirardi, Renato Montalbano, Giulio Massimini, Loredana Martinez, Sandro Ghiani. Produttore: Achille Manzotti per Intercontinental Film Company; durata: 93’; incasso:

1981

QUANDO LA COPPIA SCOPPIA Regia Steno; sogg. Enrico Montesano; scen. Ottavio Iemma, Gianfranco Manfredi, Stefano Vanzina; dir.fot. Luigi Kuveiller (Telecolor); mus. Piero Umiliani; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Wanda Olasio, Roberto Puglisi; scg.arr. Francesco Bronzi; co. Ezio Altieri; o.g. Raimondo Castelli; d.pr. Eros Lafranconi; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Patrizia Zulini; i.p. Giancarlo Montesano; amm. Sergio Giussani; cass. Anna Maria Novelli; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Antonio Annunziata; a.ass.op. Alessandro Donatone; fo. Rocco Roy Mangano; mic. Benito Alchimede; tr. Vittorio Biseo, Maria Cristina Rocca; parr. Luciano Vito; f.sc. Enzo Falessi; c.s.e. Sergio Coletta. c.s.m. Sergio Emidi; sarta Orsola Liberati; interpreti: Enrico Montesano (Enrico Granata), Dalila Di Lazzaro (Rossana), Claude Brasseur (Piergiorgio Funari), Lia Tanzi (Angela), Giorgio Bracardi (vicino di Enrico), Gigi Reder, Daniela Poggi, Ugo Bologna, Piero Benedetti, Franco Caracciolo, Giovanni Vannini, Marta Zoffoli (Anna); Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film (Roma), Tarak Ben Ammar per Carthago Film (Parigi); durata: 95’. Incasso: £ 643.000.000. TANGO DELLA GELOSIA Regia Steno; sogg.dalla commedia Appuntamento d’amore di Aldo De Benedetti; scen. Steno, Enrico Vanzina; dir.fot. Giorgio Di Battista (Eastmancolor-Technicolor); mus. Gianni Mazza; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Wanda Olasio, Roberto Puglisi. scg. Giantito Burchiellaro; co. Bruna Parmesan; arr. Giovanni Natalucci; d.pr. Paolo Vasile; a.re Massimo Carocci; i.p. Hermes Gallippi; s.p. Francesco Anniballi; s.ed. Daniela Tonti; amm. Roberto Luisotti jr.; op. Giovanni Maddaleni; ass.op. Carlo Milani, Renato Palmieri; fo. Carlo Palmieri; mic. Maurizio Merli; tr. Giancarlo Del Brocco; parr. Rita Innocenzi; f.sc. Francesco Bellomo; sarte Lamberta Balducci, Giuliana Mascelloni; c.s.m. Teodoro Memè; c.s.e. Gaetano Coniglio; grupp. Amedeo Leurini; interpreti: Monica Vitti (Lucia), Diego Abatantuono (Diego), Philippe Leroy (Giulio), Jenny Tamburi (Nunzia), Tito Leduc (Paul), Roberta Lerici, Gianfranco Principe, Giovanni Febbraro, Giulio Massimini, Salvatore Jacono, Martufello. Produttore: Laser Film e Ypsilon Cin.ca; durata: 98’; incasso: £ 743.000.000.

1982

DIO LI FA POI LI ACCOPPIA Regia Steno; sogg. Bernardino Zapponi; scen. Bernardino Zapponi, Enrico Vanzina; dir.fot. Sandro D’Eva (Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio (la canzone «Dio c’è» di Pallavicini-Mescoli-Dorelli è cantata da Johnny Dorelli); mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Emita Frigato, Lidia Pascolini; a.mo. Luciana Nusca; scg.arr. Giuseppe Mangano; a.scg. Antonio Tarolla; co. Silvio Laurenzi; d.pr. Gino

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Santarelli; a.re. Massimo Carocci; i.p. Rossella Angeletti; op. Angelo Lannutti; s.p. Mario Cecchin; s.ed. Roberto Giandalia; amm. Roberto Mezzaroma, Marcello Nusca; fo. Vittorio Massi; mix. Danilo Moroni; tr. Giulio Mastrantonio; par. Vitaliana Patacca; c.s.m. Umberto Torriero; c.s.e. Francesco Pandolfi; interpreti: Johnny Dorelli (Don Celeste), Lino Banfi (Dario), Marina Suma (Paola), Venantino Venantini (Occhipinti), Giuliana Calandra (Clara), Franco Caracciolo (omosessuale olandese), Franco Bracardi (sindaco), Mimmo Poli (tassista), Max Turilli (un testimone oculare), Marilena Di Benedetto, Carlo Demi (il giudice), Anna Maria Giordano, Adriana Giuffrè, Graziella Polesinanti, Raffaello Mitti, Giovanna Ribotta, Enzo Rinaldi, Vincenzo Tripodi, Loris Zanchi. Produttore: Pio Angeletti, Adriano De Micheli per International Dean Film; durata: 97’; incasso: £ 898.454.000 BANANA JOE Regia Steno; sogg. Carlo Pedersoli; scen. Mario Amendola, Bruno Corbucci, Steno; dir.fot. Luigi Kuveiller (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Marcello Olasio, Roberto Puglisi, Paola Kuveiller; scg. Francesco Bronzi; ass.scg. Angelo Santucci; co. Luciano Sagoni; ass.co. Sandra Pistella; d.pr. Vittorio Galiano; a.re. Massimo Carocci; ass.re. Peter Exacoustos; op. Antonio Annunziata, Ubaldo Terzano; ass.op. Renato Palmieri, Sandro Donatone; s.ed. Daniela Puccini; m.armi Giorgio Ubaldi; fo. Roberto Petrozzi; mic. Tullio Petricca; costr. Alvaro Belsole; eff.sp. Dino Galiano; c.r.tr. Luciano Giustini; c.r.par. Fausto De Lisio; eff.ott. Aldo Frollini; f.sc. Angelo Pennoni; interpreti: Bud Spencer (Banana Joe), Gianfranco Barra (Torcillo), Marina Langner (Dorianne), Mario Scarpetta (Manuel, alias Nicola Pezzullo), Giorgio Bracardi (ser. Josè Felipe Maria Marquinho), Enzo Garinei (ing. Moreno), Gunther Philipp (direttore Mocambo), Nello Pazzafini (Carlos), Gisela Hahn, Carlo Reali (ufficiale di polizia), Salvo Basile, Edy Biagetti, Giovanni Cianfriglia, Benito Pacifico, Sergio Smacchi, Marcello Verziera. Produttore: Derby Cin.ca (Roma), Lisa Film Gmbh (Monaco); durata: 92’; incasso: £ 2.800.000.000 SBALLATO, GASATO, COMPLETAMENTE FUSO Regia Steno; sogg. Enrico Vanzina, Cesare Frugoni; scen. Steno, Enrico Vanzina, Cesare Frugoni; dir.fot. Luigi Kuveiller (Eastmancolor); mus. Detto Mariano; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Lidia Pascolini; a.mo. Luciana Nusca; scg. Giuseppe Mangano; co. Silvio Laurenzi; arr. Emita Frigato, Antonio Tarollo; d.pr. Gino Santarelli; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Rossella Angeletti; s.p. Mario Cecchin; amm. Roberto Mezzaroma; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Antonio Annunziata; fo. Vittorio Massi; tr. Franco Schioppa; parr. Mauro Tamagnini; mix. Danilo Moroni; interpreti: Edwige Fenech (Patrizia Reda), Enrico Maria Salerno (Eugenio Zafferi), Diego Abatantuono (Duccio Tricarico), Mauro Di Francesco (Pippo), Giorgio Bracardi (il medico), Peter Berling (il regista), Liù Bosisio (Orietta Fallani), Cinzia De Ponti (Claudia, figlia di Zafferi), Sandro Ghiani (guardiano zoo), Plinio Fernando (sua moglie), Ennio Antonelli (il fruttivendolo), Stefano Gragnani, Maria Rosaria, Spadola, Giorgio Giuliani, Vana Milan, Annibale Rocco. Produttore: Pio Angeletti, Adriano De Micheli per International Dean Film; durata: 96’. Incasso: £ 1.076.000.000. 1983

BONNIE E CLYDE ALL’ITALIANA Regia Steno; sogg. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Paolo Villaggio; scen. Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Gianni Manganelli; dir.fot. Franco Di Giacomo; mo. Raimondo Crociani; mus. Guido e Maurizio De Angelis; scg. Ezio Altieri; co. Wayne Finkelman; d.pr. Giorgio Scotton; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Paolo Vasile; s.p. Luigi Lagrasta; amm. Raffaello Saragò; op. Alessio Gelsini; ass.op. Stefano Coletta; interpreti: Paolo Villaggio (Leo Gavazzi), Ornella Muti (Giada Foschini), Jean Sorel (capitano dei carabinieri), Ferdinando Murolo (il “marsigliese”), Antonio Allocca (il medico), Ennio Antonelli (proprietario Luna-Park), Martufello (tassista), Corrado Olmi (Bonetti), Max Turilli (turista tedesco), Antonio Basile, Loris Bazzocchi, Dino Cassio, Eugenio Masciari, Giuseppe Picciotto, Giorgio Serafini. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film srl (Roma); pr.es. Luciano Luna; durata: 96’; incasso: £ 826.328.000 MANI DI FATA Regia Steno; sogg. Laura Toscano e Franco Marotta; scen. Renato Pozzetto, Steno, Enrico Vanzina; dir.fot. Lamberto Caimi; mus. Giancarlo Chiaramello; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Antonio Di Lorenzo scg. Ennio Michettoni; co. Ruggero Vitani; d.pr. Angelo Zemella; a.re. Massimo Carocci; i.p. Franco Mancarella; d.es. Luciano Luna; s.p. Anna Paracchini; s.ed. Clarita Di Giovanni; op. Roberto Seveso; fo. Domenico Pasquadibisceglie; mic. Riccardo Pintus; mix. Danilo Moroni; tr. Gianfranco Mecacci; attr. Vittorio Troiani par. Giovanna Pigureddu; amm. Raffaello Saragò; sarte Maria Radice Ariolfo, Pierina Rossi; f.sc. Maria Teresa Mattioni interpreti: Renato Pozzetto (l’ingegnere Andrea Ferrini), Eleonora Giorgi (Franca, sua moglie), Sylva Koscina (la contessa Irene), Maurizio Micheli (architetto Piero Persichetti), Felice Andreasi (l’ammiraglio), Giovanni

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Frezza (Mariolino), Stefano Mingardo (Manolo), Eleonora Grippo, Elena Mazza, Elena Roverselli, Andrea Montuschi. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film srl (Roma); durata: 92’; incasso: 1984

MI FACCIA CAUSA Regia Steno; sogg. Liberamente ispirato al film Un Giorno in pretura (1954) di Steno; scen. Steno, Enrico Vanzina; dir.fot. Carlo Carlini; mus. Manuel De Sica; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Pina Triumveri; a.mo. Leda Gorgolini; scg. Gastone Carsetti; co. Maria Grazia Spina; arr. Gualtiero Caprara; d.pr. Gino Santarelli; a.re. Massimo Carocci; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Alberto Passone, Eutizio Di Salvatore; amm. Enrico Savelloni; op. Massimo Carlini; ass.op. Vasco Benucci, Eric Biglietto; fo. Benito Alchimede; mic. Cinzia Alchimede; tr. Giulio Mastrantonio, Vittorio Biseo, Mario Di Salvo, Alessandro Jacoponi; parr. Giancarlo Marin, Placida Crapanzano; sarte Angela Viglino, Lucia Viglino; f.sc. Enzo Falessi; c.s.m. Umberto Torriero; c.s.e. Giovan Battista Di Cicco; attr. Remo Pizzaroni; eff.so. Roberto Sterbini, Sotir Gjika, Tullio Arcangeli; mix. Gianni D’Amico; interpreti: Christian De Sica (il pretore Giovanni Pennisi), Stefania Sandrelli (Rosanna Bianchini), Enrico Montesano (Annibale Saraceni, detto Rocky III), Luigi Proietti (Luigi Marchetti, il ladro), Marisa Laurito (la moglie di Pennisi), Giorgio Bracardi (il compositore), Gigi Reder (avvocato difensore), Luca Sportelli (il cancelliere), Franco Fabrizi (il chirurgo interista), Fabrizio Bracconeri (tifoso romanista), Mimmo Poli (suo padre), Jimmy Il Fenomeno (altro tifoso), Franco Javarone (il mafioso), Annabella Schiavone, Angelo Maggi, Paolo Baroni, Ennio Antonelli, Giovanni Baghino, Alessandro Bellacanzone, Franco Caracciolo, Leonardo Cassio, Clara Colosimo, Anna Maria Dossena, Tom Felleghy, Antonio Francioni, Giorgio Giuliani, Alvaro Gradella, Stefano Gragnani, Silvio Klein, Silvio Laurenzi, Martufello, Maurizio Mauri, Livia Romano, Valentino Simeoni, Josie Estallings, Max Turilli; Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film; durata: 114’; incasso: £ 480.976.000. Esiste una versione televisiva della durata di 226’.

1986

L’OMBRA NERA DEL VESUVIO (CUORI DI PIETRA) Regia Steno; sogg.e scen. Stefano Vanzina, Lucio De Caro; dir.fot. Luigi Kuveiller; mus. Tony Esposito, Giacomo Dell’Orso; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Giancarlo Carotenuto; a.mo. Vincenzo Zincone; scg. Luciano Sagoni; d.pr. Roberto Cuomo; ass.re. Nicoletta Veggezzi, Francesco Castaldo; s.ed. Roberto Giandalia; i.p. Antonio Palombi, Franco Marino (a Napoli); amm. Roberto Luvisotti jr.; op. Ubaldo Terzano; ass.op. Antonio Annunziata, Renato Palmieri; sc.acrob. Rocco Lerro; fo. Benito Alchimede; mic. Angelo Amatulli; tr. Maurizio Giustini; a.tr. Goffredo Calisse; parr. Luciana Palombi; eff.sp. Giovanni Corridori; mix. Alberto Tinebra; interpreti: Massimo Ranieri (Tony Carità), Sophie Duez (Nennella Carità), Marcel Bozzuffi (Gaetano Buonanno), Raymond Pellegrin (Don Vito Scalera), Ana Obregon, Carlo Giuffrè (Don Peppe Carità), Nunzio Gallo (comm. Greco), Claudio Amendola (Mimì Sposito), Clelia Rondinella (Cettina), Larry Dolgin (Cunningham), Leandro Amato, Vincenzo Andronico, Paolo Branco, Bernard Chaperon, Josè Gomez De Segura, Ugo Fangareggi, Massimo Liti, Danika La Loggia, Lino Murolo, Antonio Orlando, Pascal Persiano, Luigi Petrucci, Lino Salemme, Antonio Serrano, Luciano Bonanni, Alberto Capone, Valentino Cervini, Riccardo Deodati, Marcello Di Martire, Vittorio De Bisogno, Cesare Di Vito, Germana Di Giannicola, Mario Farese, Alvaro Gradella, Renato Montalbano, Maurizio Mauri, Michelangelo Pace, Raimondo Penne, Giuseppe Piciotto, Lucio Rosato, Vittorio Rubbi, Antonio Salvemini, Aldo Sarullo, Sasha Darwin, Pietro Zardini. Produttore: Titanus per Rai Radio Televisione Italiana (Roma), Telecip (Parigi); durata: film per la televisione in quattro parti.

1987

ANIMALI METROPOLITANI Regia Steno; sogg. Enrico Vanzina, Steno; scen. Enrico Vanzina, Marco Cavaliere, Steno; dir.fot. Giorgio Di Battista (Telecolor); mus. Umberto Smaila; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Lidia Pascolini, Luciana Nusca; scg.amb. Luciano Sagoni; ass.scg. Stefano Bulgarelli; co. Graziella Pera; a.re. Massimo Carocci; o.g. Mario D’Alessio; i.p. Roberto De Laurentiis, Nereo Salustri; s.p. Mario Cecchin; s.ed. Roberto Giandalia; ass.re. Carlo Corbucci; op. Gianni Maddaleni; amm. Roberto Mezzaroma, Marcello Nusca; fo. Roberto Edwin Forrest; mic. Riccardo Diana; tr. Giulio Natalucci; par. Gianna Viola; f.sc. Roberto Biciocchi; c.s.e. Gaetano Coniglio; c.s.m. Martino Valente; attr. Angeluccio Maccarinelli; sarta Ida Cistofori; eff.so. Luciano Anzellotti; interpreti: Donald Pleasence (prof. Livingstone), Senta Berger (dott.ssa Abbott), Ninetto Davoli (Spartaco Scorcelletti), Galeazzo Benti (dr. Coen), Maurizio Ferrini (Loris Zamberlini), Maurizio Micheli (rag. Coniglio), Leo Gullotta (Don Michele Ametrano), Mara Venier (marchesa Esmeralda), Enzo Braschi (Ruggero Leone), Karina Huff (Patrizia), Antonello Fassari (l’amante), Fabrizio Bracconeri (Gasperone), Albano Bufalini, Renato Cecchetto, Sergio Di Pinto (il tifoso romanista), Enio Drovandi, Jimmy Il Fenomeno [Origene Soffrano] (venditore ambulante), Max Turilli (sorvegliante Security Love Park), Roberta Lerici, Antonio Iuorio (Pascalino, detto O’ animale), Francesco Scali (“Gattone”), Nicoletta Boris,

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Olga Durano, Sophia Lombardo, Mario Pedone, Mimmo Cavicchia, Pino Ammendola. Produttore: Pio Angeletti, Adriano De Micheli per International Dean Film; durata: 92’; incasso: BIG MAN (serie TV in 6 episodi) Regia Steno; sogg.e scen. Lucio De Caro, Steno, Carlo Pedersoli; coll.scen. Enrico Vanzina; dir.fot. Silvano Ippoliti; mus. Guido e Maurizio De Angelis; mo. Raimondo Crociani; ass.mo. Graziella Zita, Vincenzo Zincone, Delia Apolloni, Laura Caccianti; scg. Vincenzo De Camillis; ass.scg. Francesca Tusa; co. Tiziana Mancini, ass.co. Paola De Crescenzo; o.g. Gianni Cecchin; re. 2° unità Massimo Carocci; d.pr. Marina De Tiberiis; ass.re. Laura Jannetti; i.p. Mario Cecchin, Nereo Salustri; s.p. Patrizia Polini, Nicola Mastrolilli; a.sp. Luly Torre, Paolo Nigrelli; amm. Danilo Martelli, Luisa Casadei; s.ed. Francesco Catald; op. Stefano Moser; ass.op. Enzo Frattari, Ettore Corso; fo. JeanMarie Blondell; mic. Jerome Coick; tr. Luciano Giustini, Mauro Meniconi; par. Fausto De Lisio; f.sc. Paolo Maria Cavicchioli; m.armi Giorgio Ubaldi; mix. Franco Bassi, Roberto Moroni; sarte Ida Cristofori, Renata Renzi; c.s.e. Sergio Spila; c.s.m. Mario Occhioni; eff.sp. Paolo Ricci; attr. Bruno Ortensi; interpreti di tutta la serie: Bud Spencer (Jack Clementi, detto “il professore”), Mylène Demongeot, Michel Constantin, Denis Karvil, Raymond Pellegrin, Geoffrey Copleston. Interpreti dei vari episodi: Ursula Andress, John Steiner, Isabel Russinova, Armand Meffre, Antonio Licausi, Susan Marshall, Pino Ammendola, Elio Bonadonna, Sasha D’Ark, Maurizio Fardo, Bruna Fairri, Ole Jorgenson, Elisa Mainardi, Armando Marra, Renato Montalbano, Piero Morgia, Nello Pazzafini, Romano Puppo, Agnese Ricci, Francesca Ferrè, Raimund Harmstorf, Jacques Sernas, Mario Pilar, Alicia Leoni, Max Turilli, Stefano Gragnani, Pascale Roberts, Jean Badin, Venantino Venantini. Titoli degli episodi: La fanciulla che ride (con Raimund Harmstorf, Jacques Sernas); 395.000 dollari l’oncia; Polizza inferno (con Hartmut Becker, Josef Frolich), Polizza droga (con Armand Meffre), Diva (con Ursula Andress, Isabel Russinova), Boomerang (con Mario Erpichini, Jean-Paul Muel). Produttore: Mario e Vittorio Cecchi Gori per C.G. Group, Fin Ma.Vi. (Roma), Reteitalia (Milano), Amster Film e Taurus Film (Monaco), ZDF; durata di un singolo episodio: 90’.

Soggetti e sceneggiature 1939 1940 1941 1943

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Imputato, alzatevi! (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno, G. Guareschi) Lo vedi come sei ?!...Lo vedi come sei ?! (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Steno) Il pirata sono io! (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno) Non me lo dire! (re. Mario Mattoli) C’è un fantasma nel castello (re. Giorgio C. Simonelli; scen. Steno, Giorgio C.Simonelli) La scuola dei timidi (re. Carlo Ludovico Bragaglia; scen. Cesare Zavattini, Marcello Marchesi, Steno) Tutta la città canta (re. Riccardo Freda) Non canto più (re. Riccardo Freda; sogg.e scen. Riccardo Freda, Steno) Quartieri alti (re. Mario Soldati; scen. Leo Longanesi, Ercole Patti, Steno) Il viaggio del signor Perrichon (re. Paolo Moffa) La vita ricomincia (re. Mario Mattoli; scen. Aldo De Benedetti, Mario Mattoli, Steno) Aquila nera (re. Riccardo Freda; scen. Steno, Mario Monicelli, Riccardo Freda, Braccio Angioletti) L’angelo e il diavolo (re. Mario Camerini; scen. Mario Camerini, Vittorio Nino Novarese, Steno, Mario Monicelli, Cesare Zavattini) I due orfanelli (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Steno, Age, Jean-Jacques Rastier) I miserabili (re. Riccardo Freda; scen. Riccardo Freda, Steno, Mario Monicelli, Nino Novarese) Il corriere del re (re. Gennaro Righelli; scen. Gennaro Righelli, Mario Monicelli, Steno, Ignazio L. Nicolai, Ernesto Guida) Come persi la guerra (re. Carlo Borghesio; scen. Mario Amendola, Leo Benvenuti, Carlo Borghesio, Aldo De Benedetti, Mario Monicelli, Tullio Pinelli, Steno) L’ebreo errante (re. Goffredo Alessandrini; non accreditato nel Dizionario del cinema italiano) La figlia del capitano (re. Mario Camerini; scen. Mario Camerini, Mario Monicelli, Steno, Ivo Perilli, Carlo Musso) Lo sciopero dei milioni (re. Raffaello Matarazzo; scen. Steno, Mario Monicelli, Raffaello Matarazzo) Follie per l’opera (re. Mario Costa; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Mario Monicelli, Steno, Mario Costa, Giovanna Soria) Il cavaliere misterioso (re. Riccardo Freda; sogg. e scen. Riccardo Freda, Steno, Mario Monicelli)

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1949

1950 1951

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1954

1960 1964 1965 1966 1967 1970 1971 1979 1986

L’eroe della strada (re. Carlo Borghesio; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Steno, Mario Monicelli, Carlo Borghesio, Leo Benvenuti, Mario Amendola) Fifa e arena (re. Mario Mattoli; sogg e scen. Marcello Marchesi, Steno) Totò al giro d’Italia (re. Mario Mattoli; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno) Il conte Ugolino (re. Riccardo Freda; scen. Steno, Mario Monicelli, Riccardo Freda) Come scopersi l’America (re. Carlo Borghesio; sogg. e scen. Carlo Borghesio, Leo Benvenuti, Mario Monicelli, Steno, Mario Amendola) Il lupo della Sila (re. Duilio Coletti; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Steno, Mario Monicelli, Carlo Musso, Ivo Perilli, Vincenzo Talarico, Giuseppe Gironda) Vespro siciliano (re. Giorgio Pastina; scen. Fulvio Palmieri, Domenico Meccoli, Steno, Giorgio Pastina, Emilio Cecchi, Oreste Biancoli) Botta e risposta (re. Mario Soldati; sogg. e scen. Pietro Garinei, Sandro Giovannini, Steno, Mario Monicelli, Dino Maiuri, Marcello Marchesi) Quel bandito sono io (re. Mario Soldati; scen. Steno, Mario Monicelli, Mario Soldati) I pompieri di Viggiù (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Marcello Marchesi, Steno) Il brigante Musolino (re. Mario Camerini; sogg. Antonio Leonviola, Steno, Mario Monicelli) Accidenti alle tasse (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Steno, Mario Monicelli, Mario Mattoli) Anema e core (re. Mario Mattoli; scen. Ruggero Maccari, Steno, Leo Catozzo, Mario Mattoli) Amo un assassino (re. Baccio Bandini; sogg. e scen. Sandro Continenza, Ennio De Concini, Mario Monicelli, Steno) Vendetta sarda (re. Mario Mattoli; sogg. e scen. Ruggero Maccari, Steno, Mario Monicelli) L’inafferrabile 12 (re. Mario Mattoli; scen. Steno, Mario Monicelli) Core ‘ngrato (re. Guido Brignone; sogg. Steno e Mario Monicelli) O.K. Nerone (re. Mario Soldati; sogg. Steno, Mario Monicelli; scen. Age, Scarpelli, Sandro Continenza, Mario Monicelli, Steno, Ciannelli) Napoleone (re. Carlo Borghesio; Leo Benvenuti, Steno, Mario Monicelli, Faele, Stefano Strucchi) E’ l’amor che mi rovina (re. Mario Soldati; sogg. e scen. Enrico Blasi, Mario Monicelli, Steno, Bernardino Zapponi) Tizio Caio e Sempronio (re. Alberto Pozzetti; scen. Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno, Mario Monicelli) Le infedeli (re. Mario Monicelli; scen. Franco Brusati, Ivo Perilli, Steno, Mario Monicelli) Don Lorenzo (re. Carlo Ludovico Bragaglia; sogg. Steno, Sandro Viganotti; scen. Steno, Sandro Viganotti, Age, Scarpelli) Cinque poveri in automobile (re. Mario Mattoli; scen. Aldo De Benedetti, Mario Amendola, Titina De Filippo, Aldo Fabrizi, Ruggero Maccari, Mario Monicelli, Steno, Cesare Zavattini) Ragazze da marito (re. Eduardo De Filippo; sogg. Steno, Age, Scarpelli; scen. Steno, Age, Scarpelli, Eduardo De Filippo) Io sono la primula rossa/Il sanculotto (re. Giorgio C.Simonelli; scen. Steno, Giorgio C.Simonelli, Gaetano Ramazzotti, Lucio Fulci, Faele) Totò, Peppino e le fanatiche (re. Mario Mattoli; sogg e scen. Steno, Ruggero Maccari, Age, Scarpelli) Totò, Peppino e la dolce vita (re. Sergio Corbucci; sogg. Steno, Lucio Fulci) Il trattato di eugenetica, ep. Le bambole (re. Luigi Comencini; sogg. Steno, Luciano Salce) Le belle famiglie (re. Ugo Gregoretti; scen. Ugo Gregoretti, Steno) Delitto quasi perfetto (re. Mario Camerini; sogg. Mario Camerini, Steno) Le piacevoli notti (re. Armando Crispino e Luciano Lucignani; sogg. Sandro Continenza, Steno, Luciano Lucignani, Armando Crispino; scen. Sandro Continenza, Steno) L’arcangelo (re. Giorgio Capitani; sogg. e scen. Renato Castellani, Steno, Adriano Baracco, Giorgio Capitani) Basta guardarla (re. Luciano Salce; scen. Iaia Fiastri, Luciano Salce, Steno) Armiamoci e partite (re. Nando Cicero; sogg. Giulio Scarnicci, Enzo Tarabusi; tratt. Steno) Speed cross (re. Stelvio Massi; sogg. Steno, Lucio De Caro; scen. Steno, L.De Caro, Sergio Patou) Italian Fast Food (re. Ludovico Gasparini; sogg. Lucio De Caro, Steno)

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LUCIANO SALCE CINEMA, TEATRO, RADIO, TV, LETTERATURA

CINEMA Regie 1953

UMA PULGA NA BALANCA Regia Luciano Salce; scen. Fabio Carpi; d.pr. Ugo Lombardi; Interpreti: Paulo Autran. Produttore: Società Vera Cruz FLORADAS NA SERRA Regia Luciano Salce; sogg.dal romanzo omonimo di D.Silveira De Queiroz; scen. Fabio Carpi; dir.fot. Seu Chick [Chick Fowle]. Produttore: Società Vera Cruz.

1960 LE PILLOLE DI ERCOLE Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Ettore Scola, Ruggero Maccari, Vittorio Vighi, Bruno Baratti, Luciano Salce dalla commedia omonima di Maurice Hennequin e Paul Billhaud; dir.fot. Erico Menczer; mus. Armando Trovajoli; mo. Roberto Cinquini; a.mo. Sergio Montanari; scg. Gianni Polidori; arr. Nedo Azzini; co. Piero Gherardi e Lucia Mirisola; d.pr. Renato Jaboni; a.re. Emilio Miraglia; ass.re. Ilde Muscio; i.p. Felice Dalisera; s.p. Carlo Bartolini, Toni Selvaggi; s.ed. Carla Fierro; op. Luigi Kuveiller; ass.op. Sabino Tonti; fo. Venanzo Lisca; tr. Romolo De Martino; par. Gisa Favella; interpreti: Nino Manfredi (Nino Pasqui), Sylva Koscina (Silvia, sua moglie), Jeanne Valerie (Odette), Vittorio De Sica (col. Piero Cuocolo), Francis Blanche (Augusto), Mitchell Kowal (Jonathan Braxton), Andreina Pagnani (Carla Attard), Piera Arico (Zaira), Ljuba Bodin (Catherine Braxton), Nietta Zocchi (la signora violentata), Annie Gorassini (Elisabetta Colasanti), Franco Scandurra (il portiere dell’albergo), Leopoldo Valentini (il vetturino), Mario Pascucci (Tramontana), Lina Tartara Minora, Maria Elisabetta Franco (le due zitelle), Oreste Lionello (fattorino dell’albergo), Gianni Bonagura, Marco Tulli, Andrea Petricca, Franca Lazazzera, Tony Selvaggi, Nedo Azzini, Franco Bruno (medici al congresso di gerontologia). Produttore: Dino De Laurentiis Cin.ca, Maxima Film; durata: 90’; incasso: £ 442.000.000. 1961

IL FEDERALE (t.fr. Le fédéral/t.te. Zwei in einem Stiefel/t.Usa The fascist) Regia Luciano Salce; sogg. Castellano e Pipolo; scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone dir.da Pierluigi Urbini (le canzoni «Addio Juna» di Mari-Raimondi-Falpo, «Rosamunda» di Vejvoda); mo. Roberto Cinquini; scg. Alberto Boccianti; co. Giuliano Papi; arr. Arrigo Breschi, Ennio Michettoni; d.pr. Gianni Minervini; a.re. Emilio Miraglia; s.ed. Elsa Carnevali; i.p. Totò Mignone, Alberto Giommarelli; op. Gastone Di Giovanni, Luigi Kuveiller; eff.sp. Serse Urbisagli; fo. Franco Groppioni; tr. Efrade Titi; par. Maria Miccinelli; interpreti: Ugo Tognazzi (Primo Arcovazzi), Georges Wilson (prof. Erminio Bonafè), Gianrico Tedeschi (Arcangelo Baldacci), Elsa Vazzoler (Matilde, sua moglie), Stefania Sandrelli (Lisa), Mireille Granelli (Rita), Franco Giacobini (il matto), Renzo Palmer (partigiano romagnolo), Gianni Agus (un federale), Luciano Salce (ten. Rudolph), Gino Buzzanca, Peppino De Martino (partigiani in convento), Leopoldo Valentini (l’uomo con la statua), Luciano Bonanni (autista corriera), Ester Carloni (Eleonora Castaldi), Gianni Solaro (un federale), Gianni Dei (Pier Maria Castaldi), Leonardo Severini, Salvo Libassi, Mimmo Poli, Nando Angelini, Edy Biagetti, Jimmy Il Fenomeno. Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L.; durata: 101’; incasso: £ 832.000.000.

1962

LA VOGLIA MATTA Regia Luciano Salce; sogg.dalla novella Una ragazza di nome Francesca di Enrico La Stella; scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone; mo. Roberto Cinquini, Gisa Radicchi Levi; scg.e arr. Nedo Azzini; co. Giuliano Papi; d.pr. Alessandro von Norman; a.re. Emilio Miraglia; i.p. Toto Mignone; s.ed. Carla Fierro; op. Alvaro Lanzoni; ass.op. Giovanni Modica Canfarelli, Roberto Brega; fo. Raffaele Del Monte; tr. Sergio Angeloni; par. Maria Miccinelli; interpreti: Ugo Tognazzi (Antonio Berlinghieri), Catherine Spaak

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(Francesca), Gianni Garko (Piero), Franco Giacobini (Carlo Alberghetti), Fabrizio Capucci (Enrico), Diletta D’Andrea (Maria Grazia), Jimmy Fontana (Jimmy), Beatrice Altariba (Silvana), Oliviero Prunas (Veniero), Margherita Girelli (Marina), Lylia Neyung (la cinese), Luciano Salce (Visigato), Corrado Pantanella (Flavio), Stelvio Rosi (Antonio), Carlo Pes, Donatella Ferrara, Maria Marchi, Edy Biagetti, Nino Fuscagni, Elisabetta Marlorota, Dory Hessan, Margherita Patti, Salvo Libassi, Orfeo Bregilozzi, Jimmy il fenomeno, Carla Mancini. Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L., Lux Film, Umbria Film; durata: 105’; incasso: £ 561.000.000. LA CUCCAGNA Regia Luciano Salce; sogg. Luciano Vincenzoni, Alberto Bevilacqua; scen. Luciano Salce, Luciano Vincenzoni, Carlo Romano, Goffredo Parise; dial. Luciano Salce, Luciano Vincenzoni; dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone dir.da Pierluigi Urbini (le canzoni «Quello che conta» di Morricone-Salce, «La ballata dell’eroe» di Petracchi-Fabrizio, «Tra la gente» di Morricone e Pilantra sono cantate da Luigi Tenco); mo. Roberto Cinquini; scg.e arr. Nedo Azzini; co. Danilo Donati; coll.re. Emilio Miraglia; ass.re. Giovanni Bessone; i.p. Antonio Negri, Carlo Vassalle; s.p. Ezio Ranzini; s.ed. Rometta Pietrostefani; op. Silvio Fraschetti; ass.op. Enrico Fontana, Roberto Brega; fo. Adriano Taloni; tr. Andrea Riva; f.sc. Osvaldo Civirani; ass.co. Pierangelo Cicoletti, Marcella Giorgi; ass.arr. Cesare Monello; interpreti: Donatella Turri (Rossella), Luigi Tenco (Giuliano), Umberto D’Orsi (Giuseppe Visonà), Luciano Salce (colonnello ai tiri), Anna Baj (signora tedesca), Ugo Tognazzi (l’uomo con la Maserati), Emilio Barella, Liù Bosisio, Fernando Cerulli (l’avvocato), Elvira Cortese, Gianni Dei (Emilio), Consalvo Dell’Arti, Toni Di Mitri, Vera Drudi, Jimmy il Fenomeno (il fotografo), Loretta Gagliardini, Cesare Gelli, Piero Gerlini (cognato di Rossella), Ivy Holser, Salvo Libassi, Maria Marchi, Renato Montalbano, Franco Morici, Giulio Nellia, Corrado Olmi (Garbolotti), Enzo Petito (padre di Rossella), Elisa Pozzi, Giuseppe Ravenna, Jean Rougel, Aristide Spelta. Produttore: C.I.R.A.C., Giorgio Agliani; durata: 102’; incasso: £ 152.000.000. 1963 LE ORE DELL’AMORE Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; rev.scen. Diego Fabbri; dir.fot. Erico Menczer; mus. Luiz Bonfa, Toledo (eseguite alla chitarra da Luiz Bonfa: «Ilha de Coral», «Maretta», «Ao Cair do Sol», «Domingo a Noite»); mo. Roberto Cinquini; scg.e arr. Nedo Azzini; a.arr. Giuseppe Ranieri; co. Giuliano Papi; o.g. Alessandro von Norman; a.re. Emilio Miraglia; s.p. Giuseppe Unici, Nino Benecchi; s.ed. Carla Fierro; op. Silvio Fraschetti; ass.op. Sergio Martinelli, Fernando Gallant; fo. Franco Groppioni; tr. Giannetto De Rossi; par. Maria Miccinelli, Argentina Ferri; interpreti: Ugo Tognazzi (Gianni), Emmanuelle Riva (Maretta), Umberto D’Orsi (Ottavio), Barbara Steele (Leila), Mara Berni (sig.ra Cipriani), Brunello Rondi (Cipriani), Diletta D’Andrea (Mimma), Fabrizio Moroni (Roberto), Mario Brega (un tifoso romanista), Luciano Bonanni (il vigile), Renato Speziali, Giovanni Urli, Irene Aloisi, Renato Izzo, Janine Handy, Francesco Rigamonti, Salvo Libassi, Franco Morici, Elvira Tonelli, Luciano Salce (un passante che non ha tempo). Produttore: Isidoro Broggi e Renato Libassi per D.D.L. Cin.ca; durata: 105’; incasso: £ 375.000.000. LE MONACHINE (t.Usa The little nuns) Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Erico Menczer; mus. Ennio Morricone; mo. Roberto Cinquini; ass.mo. Sergio Montanari; scg. Aurelio Crugnola; co. Giuliano Papi; arr. Franco Fumagalli; a.arr. Paolo Muschi; o.g. Gianni Minervini; coll.re. Castellano e Pipolo; a.re. Emilio Miraglia; i.p. Marcello Papaleo; s.p. Toto Mignone; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Silvio Fraschetti; ass.op. Sergio Martinelli; fo. Franco Groppioni; mix. Renato Cadueri; tr. Giannetto De Rossi; par. Adriana Cassini; interpreti: Catherine Spaak (suor Celeste), Didi Perego (madre Rachele), Amedeo Nazzari (Livio Bertana), Sandro Bruni (Damiano), Umberto D’Orsi (Spugna), Sylva Koscina (Elena), Alberto Bonucci (rag. Battistucchi), Lando Buzzanca (Amilcare Franzetti, vigile urbano), Annie Gorassini (segretaria), Antonio Pierfederici (presidente), Consalvo Dell’Arti (medico), Edda Ferronao (cameriera), Piero Tordi (sindacalista), Lola Wigan (mannequin), Ugo D’Alessio (regista), Toto Mignone (aiuto regista), Giulio Calì (Antonio, il portiere), Franco Morici (Giuseppe), Laura Raggi (suor Lucia), Roberto Bruni. Produttore: Ferruccio Brusaresco per Hesperia Cin.ca (Milano); pr.ass. Mario Tugnoli, Giancarlo Marchetti; durata: 94’; incasso: £ 188.000.000.

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1964 ALTA INFEDELTA’ (episodio LA SOSPIROSA) Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Age, Scarpelli, Ruggero Maccari, Ettore Scola; dir.fot. Ennio Guarnieri; mus. Armando Trovajoli; mo. Roberto Cinquini; scg. Gianni Polidori; co. Lucia Mirisola; arr. Giovanni Checchi, Ferdinando Giovannoni; o.g. Fausto Saraceni; Marcello Pandolfi; i.p. Egidio Quarantotto; s.p. Ennio Di Meo; op. Danilo Desideri; fo. Luigi Salvi; tr. Sergio Angeloni, Otello Fava, Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti; interpreti: Monica Vitti (Gloria), Jean-Pierre Cassel (Tonino), Sergio Fantoni (Paolo, marito di Gloria). Produttore: Gianni Hecht Lucari per Documento Film (Roma), S.P.C.E. (Parigi); durata: 15’ (circa); incasso: £ 834.000.000. Gli altri episodi sono Scandaloso (Franco Rossi), Peccato nel pomeriggio (Elio Petri), Gente moderna (Mario Monicelli). T.fr. Haute infidelité, t.Usa High infidelity. 1965

OGGI, DOMANI, DOPODOMANI (episodio LA MOGLIE BIONDA) Regia Luciano Salce; sogg. Goffredo Parise; scen. Castellano e Pipolo, Luciano Salce; dir.fot. Gianni Di Venanzo (Eastmancolor); mus. Luis Enriquez Bacalov (la canzone «Notte chiara» di E.Bacalov è cantata da Stefania); mo. Marcello Malvestito; scg. Luigi Schiaccianoce; a.scg. Francesco Bronzi; arr. Dante Ferretti; co. Cesare Rovatti; d.pr. Claudio Mancini; a.re. Emilio Miraglia; ass.pr. Rafael Carrillo; op. Pasquale De Santis; fo. Ennio Sensi, Renato Cadueri; interpreti: Marcello Mastroianni (Michele), Pamela Tiffin (Pepita), Lelio Luttazzi (amico di Michele), Enzo Latorre, Luciano Bonanni (lo sceicco omosessuale), Antonio Ciani. Produttore: Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion (Roma), Les Filmes Concordia (Parigi); durata: 55’ (circa). Gli altri episodi sono L’uomo dai cinque palloni (Marco Ferreri), L’ora di punta (Eduardo De Filippo, con Luciano Salce). Incasso: £ 450.000.000. Rieditato nel 1968, in forma di lungometraggio, con il titolo LO SMEMORATO. SLALOM Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Alfio Contini (Technicolor); mus. Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai; mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Franco Malvestito; scg.e arr. Arrigo Breschi; co. Giuliano Papi (Angelo Litrico per Vittorio Gassman); o.g. Pio Angeletti; a.re. Emilio Miraglia; i.p. Mario D’Alessio; s.p. Bruno Altissimi; op. Maurizio Scanziani; tr. Otello Sisi; c.s.m. Amerigo Casagrande; c.s.e. Domizio Ercolani; interpreti: Vittorio Gassman (Lucio Ridolfi), Adolfo Celi (Riccardo), Daniela Bianchi (hostess), Beba Loncar (Helen, agente F.B.I.), Loubna A. Aziz (Nadia), Emma Danieli (Ilde, moglie di Lucio), Robert Oliver (George), Isabella Biagini (Simonetta, moglie di Riccardo), Corrado Olmi (impiegato ambasciata italiana), Nagua Fuad, Piero Vida. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film (Roma), Les Films Cocinor (Parigi), Copro Film (Cairo); durata: 105’; incasso: £ 806.000.000.

1966 COME IMPARAI AD AMARE LE DONNE (t.fr. Comment j’appris à aimer les femmes) Regia Luciano Salce; sogg. Willibald Eser; scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor); mus. Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai con I cantori moderni di A.Alessandroni (la canzone «Pioggia sul tuo viso» di Morricone-Nistri-Pilantra è eseguita dai Sorrows); mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Germana Lanni; scg. Walter Haag; arr. Franco Bottari; co. Luca Sabatelli; d.pr. Hans Fried; o.g. Nicolò Pomilia; a.re. Emilio Miraglia; ass.re. Claude Vital; i.p. Marcello Papaleo; s.p. Vittorio Noia; interpreti: Robert Hoffmann (Roberto Monti), Michèle Mercier (dott.ssa Francesca Marcos), Nadja Tiller (baronessa Laura), Elsa Martinelli (Monica), Anita Ekberg (Margaret Joyce), Sandra Milo (Ilde), Zarah Leander (Olga), Vittorio Caprioli (Renzino), Romina Power (Irene), Gianrico Tedeschi (il direttore del collegio), Gigi Ballista (Archie), Orchidea De Santis (Agnese), Mita Medici (nipote di Olga), Carlo Croccolo (direttore autosalone), Margherita Horowitz (una suora), Sonia Romanoff, Erica Scharumm, Mariangela Giordano, Bernadette Kell, Franco Morici, Heinz Erhardt. Produttore: Alfonso Sansone ed Enrico Chroscicki per Sancro Film (Roma), Nordeutscher Film (Monaco), Transister Film (Parigi); durata: 110’; incasso: £ 431.000.000. EL GRECO Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Guy Elmes, Luigi Magni, Massimo Franciosa, Luciano Salce; dial. John Francis Lane; dir.fot. Leonida Barboni (DeLuxe color); mus. Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai; mo. Nino Baragli; scg. Luigi Scaccianoce; co. Danilo Donati; d.pr. Eliseo Boschi; a.re. Emilio Miraglia; op. Giuseppe Ruzzolini; fo. Renato Cadueri; interpreti: Mel Ferrer (El

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Greco), Rosanna Schiaffino (Jeronima de la Cuevas), Mario Feliciani (card. Nino De Guevara), Giulio Donnini (Pignatelli), Adolfo Celi (Don Miguel de la Cuevas), Renzo Giovampietro (frate Felix), Gabriella Giorgelli (Maria), Franco Giacobini (Francisco), Fernando Rey (re Filippo II), Angel Aranda (Don Luis), Nino Crisman (Don Diego di Castilla), R. Di Pietro (Isabel), Rosanna Martini (Zaida), Andrea Bosic (l’accusatore), Giulio Farnese (maestro d’armi), Santiago Hontanon (Leoni), Rafael Rivelles, John Kusler, John Francis Lane. Produttore: Alfredo Bini per Arco Film (Roma), Les Films du Siècle (Parigi); durata: 94’; incasso: £ 311.000.000. LE FATE (episodio FATA SABINA) Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Ruggero Maccari, Luigi Magni; dir.fot. Carlo Di Palma (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «Tatatatata» di Trovajoli è cantata da Mina); mo. Sergio Montanari; scg.e co. Luca Sabatelli; arr. Vittorio Ansalone, Antonio Marini; d.pr. Renato Jaboni; i.p. Gianni Di Stolfo, Dino Di Salvo; a.re. Mariano Laurenti; op. Claudio Cirillo; s.ed. Franca Carotenuto, Massimo Castellani, Carla Fierro; ass.op. Roberto D’Ettorre Piazzoli; ediz. Mario Milani; cass. Rolando Garbuglia; fo. Fausto Ancillai; tr. Giuseppe Banchelli; par. Jole Cecchini; interpreti: Monica Vitta (Sabina), Enrico Maria Salerno (Gianni), Renzo Giovampietro, Franco Balducci (due automobilisti). Produttore: Gianni Hecht Lucari per Documento Film (Roma) Columbia Films (Parigi); durata: 15’ (ca.); incasso: £ 730.000.000. Gli altri episodi sono Fata Armenia (Mario Monicelli), Fata Elena (Mauro Bolognini), Fata Marta (Antonio Pietrangeli). 1967 TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA Regia Luciano Salce; sogg.dalla commedia ominima di Natalia Ginzburg; scen. Alessandro Continenza, Natalia Ginzburg, Luciano Salce; dir.fot. Carlo Di Palma (Technicolor); mus. Piero Piccioni; mo. Marcello Malvestito; scg. Piero Polatto; co. Luca Sabatelli; ass.co. Francesca Romana Cofano; arr. Giulio Cabras; o.g. Pio Angeletti; d.pr. Gianni Cecchin; a.re. Marcello Pandolfi; s.p. Renato Fiè, Mario Della Torre; s.ed. Liana Ferri; op. Alberto Spagnoli; fo. Vittorio Massi; mix. Mario Morigi; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti; interpreti: Monica Vitti (Giuliana), Giorgio Albertazzi (Pietro), Italia Marchesini (sua madre), Maria Grazia Buccella (Vittoria), Rossella Como (Ginestra), Michel Bardinet (coinquilino inglese), Anna Saia (Topazia), Paola Corinti (ragazza al party), Ivan G. Scratuglia. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 99’; incasso: £ 365.000.000. Nastro d’argento come miglior attrice non protagonista a Maria Grazia Buccella. 1968 LA PECORA NERA Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Ennio De’ Concini, Luciano Salce, Adriano Baracco; dir.fot. Aldo Tonti (Technicolor); mus. Luis Enriquez Bacalov (la canzone «La pecora nera» di Bacalov è cantata da Rocky Roberts); mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Olga Petrini; scg. Franco Bottari; co. Luca Sabatelli; arr. Nicola Tamburro; d.pr. Gianni Cecchin; a.re. Maurizio Mein; i.p. Antonio Mazza; s.p. Mario Della Torre; s.ed. Anna Maria Montanari; amm. Vincenzo Lucarini; op. Luciano Tonti; ass.op. Franco Frazzi; fo. Vittorio Massi; tr. Otello Sisi; interpreti: Vittorio Gassman (on. Giulio Agosti/Filippo), Lisa Gastoni (Alma), Adrienne La Russa (Kitty), Ettore G. Mattia (ministro), Antonio Centa (comm. Mannocchi), Umberto D’Orsi (Roberto Franceschini), Giampiero Albertini (un senatore), Fiorenzo Fiorentini (commissario), Ennio Balbo (padre di Alma), Eugène Walter, Michel Bardinet, Marisa Fabbri, Antonella Della Porta, Donatella Ceccarello, Tullio Altamura, Guido Spadea, Leonardo De Fraia, Giuseppe Terranova, Ivan G.Scratuglia, Jimmy il fenomeno, Giuseppe Sorrentino, Cesare Gelli, Liliana Paoli, James Riley, Janine Handy, Christopher Hodge. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 110’; incasso: £ 1.141.000.000 LO SMEMORATO Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Goffredo Parise,Castellano e Pipolo,Luciano Salce; dir.fot. Mario Montuori,Gianni Di Venanzo; mus. Luis Enrique Bacalov,Nino Rota; mo.(n.a.) Marcello Malvestito; scg. Luigi Scaccianoce, Nando Scarfiotti; co.(n.a.) Cesare Rovatti; d.pr. Antonio Altoviti; fo. Ennio Sensi, Renato Cadueri; interpreti: Marcello Mastroianni (Michele), Pamela Tiffin (Pepita), Raimondo Vianello (comm. D’Altino), Luciano Salce (Arturo Rossi), Lina Volonghi (Tecla), Lelio Luttazzi (banchiere), Luciano Bonanni (lo sceicco omosessuale), Ennio Balbo (il fratello), Virna Lisi (Dorotea), Massimo Sarchielli (emissario degli arabi). Produttore: Carlo Ponti; durata: 83’.

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Il film è un rielaboramento dell’episodio La moglie bionda di Oggi, domani, dopodomani con scene aggiunte dell’altro episodio del film L’ora di punta (re. Eduardo De Filippo; int.: Marcello Mastroianni, Luciano Salce, Virna Lisi). 1969

COLPO DI STATO Regia Luciano Salce; sogg. Ennio De Concini; scen. Ennio De Concini, Luciano Salce; dir.fot. Luciano Trasatti; mus. Gianni Marchetti (la canzone «La casa bianca» di Don Backy-La Val è cantata da Marisa Sannia); mo. Sergio Montanari; scg. Giulio Cabras; o.g. Oscar Brazzi; d.pr. Egidio Quarantotto; a.re. Francesco Aluigi; eff.sp. Giancarlo Urbisaglia; interpreti: Steffen Zacharias (George Bradis), Dimitri Tamarov (Matruch, il fotografo), Silvano Spadaccino (il fidanzato), Orchidea De Santis (la fidanzata), Luciano Salce (se stesso), Bebert H. Marbourtie (pres. Johnson), Anna Casalino (Anna Ferretti), Giovanni Rionni (Claudio Villa), Amedeo Merli (Giordano), Anna Maria Capparelli (sua moglie), Leo Talamonti (primo ministro), James E. Mishener (ambasciatore americano), Raffaele Triggia (capo dell’opposizione), Alberto Plebani (presidente della Repubblica), Giuseppe Ravenna, Luciano Trasatti, Attilio Zingarelli, Vlado Stegar, Liz Barrett, Gianni Di Loreto, Giancarlo Tocchi, Riccardo Satta, Loris Gizzi (il capocomico), Vittorio Ripamonti, Renato Marzano, Jole Giusti, Armando Lodi, Giovanni Volpini, Gaetano Imvrò, Loris Zanchi (ministro all’aereoporto), Luciano Bonanni (il tipografo), Luca Sportelli (cliente in merceria). Produttore: Franco Cristaldi per Vides Cin.ca; durata: 105’; incasso: £ 107.000.000. IL PROF.DOTT.GUIDO TERSILLI PRIMARIO DELLA CLINICA VILLA CELESTE DELLE PICCOLE ANCELLE DELL’AMORE MISERICORDIOSO CONVENZIONATA CON LE MUTUE Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Alberto Sordi, Sergio Amidei; dir.fot. Sante Achilli (Eastmancolor); mus. Piero Piccioni; mo. Sergio Montanari; ass.mo. Paola Carlotti; scg. Franco Bottari; co. Bruna Parmesan; arr. Nicola Tamburro; o.g. Claudio Mancini; a.re. Maurizio Mein; i.p. Mario Capelli; s.p. Ugo Valenti; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Giuseppe Di Biase; ass.op. Emilio Loffredo; fo. Vittorio Massi, Franco Bassi; mix. Romano Checcacci; eff.sp. Aldo Frollini, Silvio Bragoni; tr. Pierantonio Mecacci; par. Grazia De Rossi; interpreti: Alberto Sordi (Guido Tersilli), Evelyn Stewart (Anna Maria Tersilli), Pupella Maggio (Antonietta Parisi), Claudio Gora (prof. De Amatis), Alessandro Cutolo (comm. Valentano), Nanda Primavera (madre di Guido), Gino Lavagetto (dott. Cremona), Ira Furstenberg (dott.ssa Olivieri), Marco Tulli (portiere), Sandro Merli (prof. Drufo), Sandro Dori (un medico), Giovanni Nuvoletti (prof. Azzerini), Marisa Fabbri (una suora), Patrizia De Clara (suor Pasqualina), Filippo De Gara (un altro medico), Johanna Knox, Claudia Giannotti, Laura De Marchi, Antonella Della Porta, Franca Sciutto, Franco Abbina, Adriano Amidei Migliano, Paolo Paoloni, Gennaro Masini. Produttore: Bino Cicogna per San Marco Cin.ca; pr.es. Ugo Tucci; durata: 104’; incasso: £ 1.643.000.000.

1970

BASTA GUARDARLA (t.fr. Juste un gigolo/t.sp. Las tentaciones de Enriqueta) Regia Luciano Salce; sogg. Iaia Fiastri; scen. Iaia Fiastri, Luciano Salce, Steno; dir.fot. Aiace Parolin (Eastmancolor); mus. Franco Pisano (la canzone «L’arca di Noè» è composta e cantata da Sergio Endrigo); mo. Marcello Malvestito; ass.mo. Francesco Malvestito; scg. Luciano Spadoni; ass.scg. Giorgio Motto; co. Luca Sabatelli; ass.co. Alessandra Cardini; d.pr. Luciano Piperno; a.re. Vito Minore; i.p. Lanfranco Diotallevi; s.p. Mario Della Torre, Gaspare Conigliaro; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Elio Polacchi; a.op. Giancarlo Granatelli; coreog. Franco Estill; ass.coreog. Franco Miseria; fo. Alvaro Orsini; tr. Franco Corridoni; par. Maria Teresa Corridoni; amm. Mario Lupi; interpreti: Maria Grazia Buccella (Enrica), Carlo Giuffrè (Silver Boy), Mariangela Melato (Marisa), Luciano Salce (Farfarello), Franca Valeri (Pola prima), Spiros Focas (Fernando), Pippo Franco (Danilo), Riccardo Garrone (Pediconi), Umberto D’Orsi (Peppe De Pico), Ettore G. Mattia (zio di Enrica), Stefania Pecci, Dino Curcio, Ada Pometti, Pinuccio Ardia (Bubù), Mino Guerrini (il medico), Maria Marchinelli, Loredana Bertè (una ballerina), Ennio Antonelli (il marito del ricordo). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 106’; incasso: £ 367.000.000.

1971

IL PROVINCIALE Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Alberto Silvestri, Franco Verucci; dir.fot. Roberto Gerardi (Technicolor); mus. Piero Pintucci; mo. Sergio Montanari; ass.mo. Nadia Bonifazi; scg. Dario Micheli; arr. Giantito Burchiellaro; ass.arr. Francesca Saitto; co. Luca Sabatelli; ass.co. Mario Della Torre; d.pr. Enzo Mazzucchi; a.re. Mario Forges Davanzati; s.p. Alvaro Spada, Giandomenico Stellitano; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Roberto D’Ettorre Piazzoli; ass.op. Franco

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Bruni; fo. Umberto Picistrelli; mic. Benito Alchimede; tr. Franco Corridoni; par. Renata Magnanti; sarta Carmen Pericolo; interpreti: Gianni Morandi (Giovanni), Maria Grazia Buccella (Giulia), Sergio Leonardi (Sergio), Teri Hare (Silvana), Franco Fabrizi (Colombo), Andrea Scotti (il ladro), Renzo Marignano (cliente al distributore), Enzo Guarini, Marcella Mariotti, Corrado Olmi (direttore del distributore), Dario Danieli, Giorgio Paoletti, Gastone Pescucci, Fidel Gonzales, Claudia Gravì, Ada Pometti, Ugo Carboni, Giuseppe Anatrelli (il concessionario), Ennio Antonelli (l’infermiere), Jimmy il Fenomeno (un tipografo), Mimmo Poli (il mobiliere). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 107’ (93’); incasso: 1972

IL SINDACALISTA Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis dir.da Franco Tamponi (le canzoni «Il torrente» e «Che si dà» di autori non identificati sono cantate da Claudio Villa); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. M.Cuorso; scg.e co. Giancarlo Bartolini Salimbeni; arr. Franco D’Andria; o.g. Luciano Luna; d.pr. Enzo Mazzucchi; a.re. Stefano Rolla; i.p. Giandomenico Stellitano; s.p. Renato Fiè; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Mario Brega; ass.op. Maurizio La Monica; fo. Umberto Picistrelli; mix. Luigi Barbieri; mic. Manlio Urbani; tr. Otello Fava; par. Ernesta Cesetti; interpreti: Lando Buzzanca (Saverio Ravizza), Paola Pitagora (Vera), Renzo Montagnani (Luigi Tamperletti), Isabella Biagini (Teresa Piredda Ravizza), Dominique Boschero (Marisa), Piero Vida (Vezio Bellinelli), Giancarlo Maestri (Tonino Magliari), Giacomo Rizzo (Stelvio De Paolis), Gino Santercole (un operaio), Patrizia Battaglia (Delia, figlia di Saverio), Isabelle Marchal (attrice di spot), Gastone Pescucci (il prete), Luca Sportelli e Ada Pometti (operai), Ezio Sancrotti (Cesare Taruffi), Simone Santo, Luigi Valenzano (altri operai), Adriano Amidei Migliano (Orselli, il pubblicitario), Gianfranco Barra (il carabiniere), Pietro Zardini (Costanzo Taleggio), Franca Scagnetti, Fernando Cerulli, Fortunato Arena, Luciano Bonanni, Livia Galassi (altri operai), Renzo Rinaldi (caporeparto verniciatura), Ferdinando Murolo (Martino, autista), Laura Begherelli (ragazza alla festa), Nino Drago (passeggero pullman). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 108’; incasso: £ 683.000.000.

1973

IO E LUI Regia Luciano Salce; sogg.dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; scen. Fulvio Gicca Palli, Enzo Siciliano, Luciano Salce, Nino Marino; dir.fot. Armando Nannuzzi (Technicolor); mus. Bruno Zambrini dir.da Franco Tamponi (la canzone «Jalla je» di Zambrini è eseguita dal complesso RRR); mo. Antonio Siciliano; scg. Francesco Bronzi; arr. Renato Postiglione; co. Mario Ambrosino; o.g. Bruno Todini; a.re. Amanzio Todini; i.p. Aurelio De Laurentiis; op. Giuseppe Berardini; fo. Rocco Roy Mangano; interpreti: Lando Buzzanca (Federico), Bulle Ogier (Irene), Gabriella Giorgelli (Fausta, moglie di Federico), Vittorio Caprioli (Cuttica), Mario Pisu (Protti, il produttore), Antonia Santilli (sua figlia Flavia), Jessica Dublin (moglie di Protti), Yves Beneyton (Maurizio), Paolo Bonacelli (lo psichiatra), Michele Malaspina (il banchiere), Pier Maria Rossi (amico di Maurizio con barba), Bruno Boschetti, Luigi Antonio Guerra, Dimitri Corchilas (il regista grasso), Gianna Marelli. Produttore: Dino De Laurentiis per De Laurentiis Inter Ma.Co. (Roma), Columbia (Parigi); durata: 108’; incasso: £ 218.000.000.

1974

ALLA MIA CARA MAMMA NEL GIORNO DEL SUO COMPLEANNO Regia Luciano Salce; sogg.da Nel giorno dell’onomastico della mamma di Rafael Azcona e Luis Berlanga; adatt. Luciano Salce; scen. Sergio Corbucci, Massimo Franciosa, Luciano Salce; dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor); mus. Franco Micalizzi (il brano «Alla mia cara mamma» è di Micalizzi-Pilagra); mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Anna Maria Roca; a.mo. Angela Bordi Scricchiola; scg.e co. Fiorenzo Senese; a.scg. Claudio Cinini; a.co. Giuliana Serano; a.arr. Nello Giorgetti; o.g. Aldo Ulisse Passalacqua; a.re. Giorgio Gentili; i.p. Attilio Viti; s.p. Pietro Sassaroli, Piero Pennesi; s.ed. Egle Guarino; amm. Rolando Pieri; op. Roberto Brega; ass.op. Luigi Bernardini; a.op. Francesco Gagliardini; fo. Mario Dallimonti; mic. Gianfranco Pacella; tr. Gianfranco Mecacci; par. Paolo Franceschi; f.sc. Franco Bellomo; interpreti: Paolo Villaggio (conte Fernandoo, detto Didino), Lila Kedrova (contessa Mafalda, sua madre), Eleonora Giorgi (Angela), Antonino Faà di Bruno (zio Alberto), Orchidea De Santis (Jolanda, la sposa), Enzo Spitaleri (Fernando, lo sposo), Renato Chiantoni (Anchise, domestico), Vera Drudi (Driade, domestica), Jimmy il Fenomeno (Peppe, fratello di Angela), Guido Cerniglia (amico di Didino), Carmine Ferrara, Carla Mancini, Vittorio Fanfoni. Produttore: Rusconi Film; durata: 102’; incasso: £ 401.000.000.

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1975

FANTOZZI (t.te. Das Grosse Rindvieh veit und breit) Regia Luciano Salce; sogg.dal libro omonimo di Paolo Villaggio; scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luciano Salce, Paolo Villaggio; dir.fot. Erico Menczer (Eastmancolor); mus. Fabio Frizzi, dir.da Vince Tempera; cons.mus. Franco Bixio (canzoni e brani musicali: «La ballata di Fantozzi» di Benvenuti-De Bernardi-Frizzi-Bixio-Villaggio e «L’impiegatango» di Benvenuti-De Bernardi-Bixio-Frizzi-Tempera sono cantate da Paolo Villaggio, «Nann’ (‘na gita a li castelli)», «The Candlelight Valtz» di C.Dumont, «La fanfara dei bersaglieri»); mo. Amedeo Salfa; scg. Nedo Azzini; co. Orietta Nasalli Rocca; arr. Osvaldo Desideri; o.g. Aldo Ulisse Passalacqua; a.re. Maurizio Mein; i.p. Attilio Viti; amm. Nicola Olasio; op. Roberto Brega; fo. Mario Dallimonti; tr. Gianfranco Mecacci; par. Paolo Franceschi; interpreti: Paolo Villaggio (rag. Ugo Fantozzi), Liù Bosisio (la signora Pina), Gigi Reder (rag.Renzo Filini), Anna Mazzamauro (signorina Silvani), Giuseppe Anatrelli (Calboni), Umberto D’Orsi (cav. Diego Catellani), Plinio Fernando (Mariangela), Paolo Paoloni (megadirettore galattico), Nello Pazzafini (un teppista), Dino Emanuelli (un impiegato), Elena Tricoli (madre di Catellani), Piero Zardini (Fonelli), Artemio Antonini, Nicola Morelli, Valerio Ruggeri, Mirko Baiocchi, Willy Colombaioni, Giuseppe Terranova, Luciano Bonanni (cliente al ristorante giapponese), Jolanda Fortini, Ivano Gobbo, Amerigo Alberani, Vincenzo Tavaglini, Ettore Geri, Jimmy il Fenomeno (un impiegato alla ricerca di Fantozzi). Produttore: Giovanni Bertolucci per Rizzoli Film; durata: 97’; incasso: £ 1.765.000.000 (secondo nella classifica dei film italiani più visti del 1975-76 dopo Amici miei) L’ANATRA ALL’ARANCIA (t.fr. Le canard à l’orange/t.ted. Ente auf orange/t.ing. Duck in orange sauce) Regia Luciano Salce; sogg.dalla commedia di William Douglas Home e Marc Gilbert Sauvajon; scen. Bernardino Zapponi; dir.fot. Franco Di Giacomo; mus. Armando Trovajoli (le canzoni «Canard à l’orange», «Prima o poi», «Enfado», «You keep on turning me on» di TrovajoliG.Calabrese sono cantate da Suan); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Maria Luisa Luzi; scg. Lorenzo Baraldi; co. Luca Sabatelli; a.co. Rosanna Andreoni; arr. Vincenzo Medusa; o.g. Luciano Luna; d.pr. Vincenzo Mazzucchi; a.re. Stefano Rolla; i.p. Attilio Viti; s.p. Massimo Ferrero; amm. Mario Lupi; s.ed. Marisa Agostini; op. Giuseppe Lanci, Gianfranco Transunto; mix. Mario Morigi; fo. Mario Celentano; tr. Gianfranco Del Brocco; a.tr. Alvaro Rossi; par. Paolo Franceschi; f.sc. Roberto Russo; interpreti: Monica Vitti (Lisa Stefani), Ugo Tognazzi (Livio Stefani), Barbara Bouchet (Patty), John Richardson (Jean-Claude Ardin), Sabina De Guida (Cecilia), Antonio Allocca (Carmine, suo marito), Tom Felleghi (un amico di Livio). Produttore: Mario Cecchi Gori per Capital Film; durata: 102’; incasso: £ 776.000.000. Premio David di Donatello a Monica Vitti e Ugo Tognazzi come migliori attori protagonisti

1976

IL SECONDO TRAGICO FANTOZZI Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Paolo Villaggio, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi dai libri di Paolo Villaggio Fantozzi e Il secondo tragico libro di Fantozzi; coll.scen. Luciano Salce; dir.fot. Erico Menczer (Technicolor); mus. Fabio Frizzi, Franco Bixio, Vince Tempera; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Angela Bordi; scg. Carlo Tomassi; ass.scg. Nello Giorgetti; co. Orietta Nasalli Rocca; o.g. Aldo Ulisse Passalacqua; a.re. Gianfranco Coduti; i.p. Attilio Viti; op. Roberto Brega; c.tr. Gianfranco Mecacci; tr. Marcello Meniconi; par. Mirella Ginnoto; fo. Massimo Jaboni; mix. Gianni D’Amico; mic. Gianfranco De Matthaeis; m.armi Nazareno Zamperla; interpreti: Paolo Villaggio (rag. Ugo Fantozzi), Liù Bosisio (signora Pina), Anna Mazzamauro (signorina Silvani in Calboni), Gigi Reder (rag. Filini), Giuseppe Anatrelli (Calboni), Plinio Fernando (Mariangela), Ugo Bologna (dirigente aziendale), Antonino Faà di Bruno (duca conte Semenzara), Nietta Zocchi (contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare), Mauro Vestri (Guidobaldo Maria Riccardelli), Paolo Paoloni (megapresidente galattico), Piero Palermini (direttore hotel a Capri), Piero Zardini (Fonelli), Dino Emanuelli (un impiegato), Amerigo Alberani, Mario Bartolomei, Eolo Capritti, Arnaldo Colombaioni, Vera Drudi, Willy Colombaioni, Giorgio Jovine, Giuseppe Torrenova, Bruno Bartocci, Luigi Rossi. Produttore: Giovanni Bertolucci per Rizzoli Film; durata: 105’; incasso: £

1977

LA PRESIDENTESSA Regia Luciano Salce; sogg.dalla commedia omonima di Pierre Veber e Maurice Hennequin; scen. Ottavio Jemma; dir.fot. Ennio Guarnieri; mus. Lelio Luttazzi (i motivi musicali «Souvenir» di Luttazzi e «La solita musica» di Luttazzi e Pilantra sono eseguiti dall’autore con i 4+4 di Nora Orlandi); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Lina Caterini, Maria Luisa Lisci; scg. Dante Ferretti; co. Gianfranco Carretti, Paola Comencini; arr. Vincenzo Medusa; o.g. Luciano Luna; d.pr.

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Vincenzo Mazzucchi; a.re. Renzo Spaziani; coreog. Renato Greco; i.p. Luciano Calzola; s.p. Stefano Fabi, Tommaso Pantano; s.ed. Marisa Agostini; amm. Mario Lupi; cass. Giulio Cestari; op. Maurizio Scanzani; ass.op. Renato Ranieri, Stefano Ricciotti; fo. Umberto Picistrelli; mic. Giovanni Fratarcangeli; mix. Romano Checcacci; tr. Giuliano Laurenti; par. Alfredo Marazzi, Paolo Franceschi; a.tr. Feliciano Ciriaci; a.par. Maria Luisa Garbini; sarta: Orsola Liberati; interpreti: Johnny Dorelli (Ottavio Beghin, il ministro), Mariangela Melato (Yvette Jolifleur), Gianrico Tedeschi (Agostino Trecanti, il giudice), Vittorio Caprioli (commissario capo Mazzone), Luciano Salce (Bortignon), Elsa Vazzoler (Egle Trecanti), Marco Tulli (Salvatore), Laura Trotter (figlia di Trecanti), Ria De Simone (Angelina), Giuliana Melis (Sofia, la cameriera), Ugo Bologna (notaio Piovano), Renzo Marignano (turista scozzese), Lucio Montanaro (usciere), Tuccio Rigano (ballerino), Fernando Cerulli. Produttore: Mario Cecchi Gori per Capital Film; durata: 105'; incasso: £ 978.000.000. IL…BELPAESE Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; coll.scen. Luciano Salce, Paolo Villaggio; dir.fot. Ennio Guarnieri (Eastmancolor); mus. Gianni Boncompagni, Giorgio Farina, Paolo Olmi; mo. Antonio Siciliano; scg. Ezio Altieri; ass.scg. Mauro Passi; co. Orietta Nasalli Rocca; d.pr. Eros Lanfranconi; a.re. Renzo Spaziani; i.p. Egidio Valentini, Lamberto Palmieri; s.p. Paola Surdi; s.ed. Anna Maria Montanari; amm. Angelo Saragò; op. Renato Ranieri; ass.op. Antonio Scaramuzza; fo. Mario Dallimonti; mic. Corrado Volpicelli; mix. Renato Cadueri; tr. Gianfranco Mecacci; par. Ennio Cascioli; c.s.m. Ennio Picconi; c.s.e. Amilcare Cuccoli; sarta Stella Battista; f.sc. Enzo Falessi; interpreti: Paolo Villaggio (Guido Belardinelli), Silvia Dionisio (Mia), Anna Mazzamauro (sig.ra Gruber), Gigi Reder (Alfredo), Pino Caruso (Ovidio Camorella), Massimo Boldi (Carletto), Giuliana Calandra (Elena), Raffaele Curi (Spadozza), Ugo Bologna (direttore banca), Leo Gavero (gioielliere), Saviana Scalfi (Lisetta), Tom Felleghy (Andrea, sequestrato), Bruno Modugno (sé stesso), Emilio Lo Curcio (il pregiudicato), Giacomo Assandri (capo racket), Franco Bucceri, Carla Mancini. Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film; durata: 109’; incasso: £ 1.104.000.000. 1978

DOVE VAI IN VACANZA? (episodio SI’ BUANA) Regia Luciano Salce; sogg. Furio Scarpelli, liberamente tratto dal racconto La breve vita felice di Francis Macomber di Ernest Hemingway; scen. Furio Scarpelli, Alessandro Continenza; dir.fot. Danilo Desideri (Eastmancolor); mus. Franco Bixio, Fabio Frizzi, Vince Tempera (la canzone «Sì buana» di D.Meakin-Frizzi-Bixio-Tempera); mo. Antonio Siciliano; scg. Francesco Chianese; co. Bona Nasalli Rocca; d.pr. Romano Dandi; a.re. Giuseppe Pollini; s.p. Gino Usai; s.ed. Serena Canevari; op. Roberto Brega; a.op. Domenico Ciampanella; fo. Massimo Loffredi; mic. Giovanni Fratarcangeli; tr. Gianfranco Mecacci; par. Mirella Ginnoto; sarta: Stella Battista; fr. Franco Bellomo; interpreti: Paolo Villaggio (Arturo), Anna Maria Rizzoli (Margherita), Daniele Vargas (Ciccio Colombi), Gigi Reder (Paolo Panunti), Paolo Paoloni (funzionario delle assicurazioni), Peter Abadire (Kangoni), Rita Silva, Clarita Gatto, Paola Arduini. Produttore: Rizzoli Film; durata: 35’ ca.; incasso: £ 1.565.000.000. Gli altri episodi sono Sarò tutta per te (Mauro Bolognini), Le vacanze intelligenti (Alberto Sordi). IL PROFESSOR KRANZ TEDESCO DI GERMANIA Regia Luciano Salce; sogg.ispirato al personaggio omonimo creato da Paolo Villaggio; scen. Ugo Liberatore, Fabrizio Zampa, Augusto Caminito, Giuseppe Catalano; revis.e coll.scen. Paolo Villaggio, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Costa Serran; dir.fot. Danilo Desideri (Vistavision); mus. Piero Piccioni (la canzone «Golpe Herrado» è composta ed eseguita da Vinicius de Moraes e Toquinho); mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Pasqua Di Benedetto; a.mo. Patrizia Lisci; art.dir. Laonte Clawa; scg. Fernando Cardejas; co. Marcelo De Barros, Vera Rita de Reja; o.g. Stefano Rolla; d.pr. Elio Di Pietro, Nelson Do Carmo, Fideias Barbosa; a.re. Carlos De Couto, Stefano Rolla; s.ed. Serena Canevari, Eugenia De Oliveira; amm. Claudio Saraceni; cas. Leonardo Curreri; op. Roberto Brega; ass.op. Domenico Ciampanelli, Renato Padovani; fo. Massimo Jaboni; mix. Renato Cadueri; tr. Jacque Jorge Monteiro, Pierantonio Mecacci; par. Mirella Ginnoto; c.s.e. Otello Diodato; uff.stam. Enrico Lucherini; interpreti: Paolo Vilaggio (prof. Franz von Kranz), Josè Wilker (Leleco), Vitoria Chamas (Dosdores), Maria Rosa (Raimunda), Adolfo Celi (carcamano), Walter D’Avila (Fittipaldi), Alexandre De Souza, Joaquim Suarez, Berta Loran, Gina Teixeira, Josè Fernando. Produttore: Fausto e Cristiano Saraceni per Effe Esse (Roma), Brasfilm (Sao Paulo); durata: 113’; incasso: £ 160.000.000.

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1979

RIAVANTI…MARSCH! Regia Luciano Salce; sogg. Teodoro Agrimi, Augusto Caminito; scen. Augusto Caminito, Luciano Salce; dir.fot. Sergio Rubini (Technicolor); mus. Piero Piccioni; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Andrea Caterini; scg. Carlo Leva; co. Giulietta De Riu; o.g. Teodoro Agrimi; a.re. Roberto Palmerini; i.p. Mario Olivieri; s.p. Giuseppe Cicconi; s.ed. Marisa Agostini; amm. Enrico Savelloni; op. Michele Pensato; fo. Antonio Pantano; tr. Stefania Trani; par. Jolanda Conti; sarta Irene Parlagreco; ediz. Carlo Razzi; c.s.m. Giuseppe Raimondi; c.s.e. Furio Rocchi; interpreti: Alberto Lionello (Giovanni Crippa), Aldo Maccione (Otello Cesarini), Carlo Giuffrè (barone Francesco Paternò), Stefano Satta Flores (Alessio Rossetti), Renzo Montagnani (ten. Pietro Bianchi), Sandra Milo (Zaira Bergamelli), Olga Karlatos (Elena), Anna Maria Rizzoli (Immacolata Paternò), Adriana Russo (Valeria Sabbioni), Silvia Dionisio (Marina), Paola Quattrini (Sofia Bianchi), Venantino Venantini (ser. Sconocchia), Gigi Reder (col. Luigi Placidi), Elisa Mainardi (la “matrjoska”), Nello Pazzafini (Bolchi), Roger Browne (gen. Thompson), Rolando Fucili (ufficiale giudiziario), Carmen Russo (la prostituta), Alberto Pudia, Alfredo Zamarion, Renzo Rinaldi, Renato Cecilia, Rita Forzano, Stefano Galantucci. Produttore: P.A.C. (Produazioni Atlas Consorziate); durata: 118’; incasso: £ 250.000.000

1980

RAG. ARTURO DE FANTI BANCARIO PRECARIO Regia Luciano Salce; sogg. Luciano Salce; scen. Ottavio Alessi, Augusto Caminito, Luciano Salce; dir.fot. Sergio Rubini; mus. Piero Piccioni; mo. Antonio Siciliano; scg. Elio Micheli; o.g.e d.pr. Teodoro Agrimi; a.re. Roberto Palmerini; i.pr. Mario Olivieri; s.pr. Giuseppe Cicconi; op. Michele Pensato; ass.op. Maria Grazia Nardi; interpreti: Paolo Villaggio (rag. Arturo De Fanti), Catherine Spaak (Elena), Anna Maria Rizzoli (Vanna), Gigi Reder (Guglielmo, detto “Willy”), Anna Mazzamauro (principessa Selvaggia Degli Antinori), Enrica Bonaccorti (Smeralda), Carlo Giuffrè (Libero Catena), Ugo Bologna (dott. Morpurgo), Vincenzo Crocitti (Ciuffini, bancario), Paolo Paoloni (conte Ernesto di Sacrofano), Angelo Pellegrino (padre Nicodemo). Produttore: P.A.C.; durata: 92’; incasso:

1982

VIENI AVANTI CRETINO Regia Luciano Salce; sogg.e scen. Franco Bucceri, Roberto Leoni; coll.scen. Lino Banfi; dir.fot. Erico Menczer (Telecolor); mus. Fabio Frizzi; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Giancarlo Morelli; a.mo. Andrea Caterini; scg. Giorgio Postiglione; co. Vera Cozzolino; o.g. Mario Di Blase; i.p. Massimo Ferrero; a.re. Roberto Palmerini; s.ed. Marina Mattoli; op. Gianlorenzo Battaglia; tr. Franco Di Girolamo; par. Placida Crapanzano; mic. Giulio Viggiani; mix. Bruno Moreal; eff.sp. Alvaro Gramagna, Fernando Caso; f.sc. Bruno Bruni; interpreti: Lino Banfi (Pasquale Bautasso/se stesso), Franco Bracardi (Gaetano, il cugino), Gigi Reder (l’ingegnere dal dentista), Michela Miti (Carmela), Luciana Turina (Palmira), Adriana Russo (la ragazza al bar), Anita Bertolucci (Maria), Ramona Dell’Abate, Annabella Schiavone, Deda Gallotti, Roberto Della Casa (il marito geloso), Danila Trebbi, Paolo Paoloni (direttore ufficio di collocamento), Leonardo Cassio, Nello Pazzafini (Salvatore Gargiulo), Mireno Scali (sosia di Benigni), Alfonso Tomas (dottor Tomas), Piero Zardini (Radames), Lia Ferci, Giovanni Morosi, Giulio Farnese, Bruno Rosa, Francesco Viscardi, Giuseppe Spezia, Willi Colombaioni, Moana Pozzi (caporeparto), Jimmy il Fenomeno (Raffaele), Mimmo Poli, Ennio Antonelli (due carcerati) Luciano Salce (se stesso). Produttore: Giovanni Bertolucci, Aldo Passalacqua per San Francisco Film; durata: 95’; incasso: £ 3.600.000.000

1983

THE INNOCENTS ABROAD (GLI INNOCENTI VANNO ALL’ESTERO) Regia Luciano Salce; sogg.dal romanzo di Mark Twain; scen. Alberto Silvestri, Luciano Salce, Dan Wakefield; dir.fot. Erico Menczer; mus. William Perry; mo. Angelo Curi; ass.mo. Maria Pia Petito; scg.e arr. Elio Balletti; a.arr. Fabio Vitali; co. Giulia Mafai; d.pr. Anselmo Parrinello; a.re. Roberto Palmerini; i.p. Giuseppe Butti; s.p. Antonio Tacchia; s.ed. Egle Guarino; op. Mario Morabito; ass.op. Martino Bonicelli; fo. Mario Bramonti; mic. Giuseppe Muratori; tr. Cesare Paciotti; par. Marisa Costanzi; amm. Salvatore Farese; mix. Danilo Moroni; sarta Clara Fratarcangeli; interpreti: Craig Wasson (Mark Twain), Luigi Proietti (Fergusson, la guida), Brooke Adams (Julia), David Ogden Stiers (Doc), Charles Kimbrough (editore), Ed Van Nuys (publisher), Anton Giulio Majano (rev. Hutkinson), John Stacy (dott. Andrews), Cindy Leadbetter (Kate), Venantino Venantini (Bartender), Brunello Chiodetti (Czar), Barry Morse, Andréa Ferréol (Mary), Jess Hahn, Gianni Bonagura (Cutter), Andrea Occhipinti (Charlie), Carlo Giuffrè (barbiere napoletano), Margherita Horowitz, Richard

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McNamara, Ferdinando Patriarca, Lucia Perego, Jacques Peyrac. Produttore: Giulio Scanni per FilmOdeon (Roma), Pro.Ge Fi (Parigi), Taurus Film (Monaco), The Greatest Amwell Company, Nebraska Etv Network Lincoln; durata: 120’; Film in due puntate: 29-31/01/1985 (Raiuno, 22.08, durata: 57’). 1984

VEDIAMOCI CHIARO Regia Luciano Salce; sogg. Franco Verucci, Romolo Guerrieri; scen. Franco Bucceri, Roberto Leoni; dir.fot. Danilo Desideri (Telecolor); mus. Fabio Liberatori (la canzone «Mezzanotte chiara» di Della Casa-Barbato è cantata da Franco Barbato); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Carlo D’Alessandro, Valentina Curati; scg. Claudio Cinini; co. Silvio Laurenzi; a.co. Stefano Arguilla; i.p. Gilberto Scarpellini; d.pr. Silvano Scarpellini; a.re. Roberto Palmerini; s.ed. Marisa Agostini; s.p. Filippo Campus; amm. Anna Maria De Pedys; op. Idelmo Simonelli; ass.op. Carlo Milani; a.op. Claudio Valerio; fo. Mario Dallimonti; mic. Giulio Viggiani; tr. Giulio Mastrantonio; par. Giancarlo Marini; interpreti: Johnny Dorelli (ing. Alberto Catuzzi), Eleonora Giorgi (Eleonora Bauer), Janet Agren (Geneviève), Angelo Infanti (Gianluca), Giacomo Furia (Peppino), Milly D’Abbraccio (Monique), Ivo Anzivino, Fiammetta Baralla (suor Carlona), Arnaldo Caivano, Geoffrey Gerald Copleston (comm. Mercalli), Duccio Dagoni, Tom Felleghy, Jasmine Mamone, Michele Mirabella (l’assicuratore), Giancarlo Palermo, Stefano Palmerini, Vincenzo Tripodi, Piero Vivaldi, Tamara Triffez (Samantha). Produttore: Adige Film ’76; durata: 100’; incasso:

1988

QUELLI DEL CASCO Regia Luciano Salce; sogg. Peter Gonzales; scen. Franco Bucceri; dir.fot. Erico Menczer (Telecolor); mus. The Grop’s Power; mo. Antonella Cipriani; scg. Antonio Murru; co. Silvio Laurenzi; d.pr. Enzo Tacchia; i.p. Roberto Portoghesi; a.re. Maurizio Sciarra; ass.re. Enrico Coletti; op. Roberto Bettoia; s.p. Carlo Barbieri; s.ed. Renata Franceschi; fo. Carlo Palmieri, Andrea Moser; tr. Maurizio Nardi; par. Gina Usidda; interpreti: Francesco Bonelli (uno studente), Giovan Battista Cannavacciuolo, Dario Casalini, Danilo Ceccarelli, Sonia Degaudenz, Carmen Di Pietro (Gilda), Tommy Givogre, Romina Lari, Luana Ravegnini (Monica), Fabrizio Rogano, Riccardo Rossi (Riccardo), Gianluca Favilla, Dario Salvatori (Peletti), Carla Cassola (la preside), Anna Longhi (la madre di Spina), Anna Melato (la madre di Sandro), Ronald Russo, Luigi Tondinelli, Luigi De Filippo (padre Gavazzi), Daniela Poggi (l’amante di Matteo), Renzo Montagnani (prof. Impallomeni), Paolo Panelli (il portiere), Rosanna Di Lorenzo (la moglie), Luciano Salce (il vescovo), Mario De Candia, Antonio De Leo, Teresa Di Palma, Rolando Fucili, Salvatore Jacono, Carla Pampaloni, Paolo Paoloni (il maitre), Maria Pia Regoli, Fabio Rusca, Pasquale Vitiello. Produttore: Filiberto Bandini per Filmauro s.r.l., R.P.A. International Sas, Reteitalia s.p.a.; pr.es. Paolo Lucidi; durata: 92’. Incasso:

Interpretazioni 1946 1948 1952 1953 1955 1958 1959 1961 1962 1963

Un americano in vacanza (re. Luigi Zampa) L’astuto barone (re. Riccardo Freda) Tenori per forza (re. Riccardo Freda) Angela (re. Tom Payne e A. P. De Almeida) Uma pulga na balança (anche regia) Floradas na serra (anche regia) Piccola posta (re. Steno) Guardia, ladro e cameriera (re. Steno) Totò nella Luna (re. Steno) Tipi da spiaggia (re. Mario Mattoli) I baccanali di Tiberio (re. Giorgio C. Simonelli) Il carabiniere a cavallo (re. Carlo Lizzani) Il federale (anche regia) La ragazza di mille mesi (re. Steno) La voglia matta (anche regia) La cuccagna (anche regia) Le ore dell’amore (anche regia) Il giorno più corto (re. Sergio Corbucci)

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1965 1967 1968 1969 1970 1972

1973 1974

1975 1976 1977

1978 1979 1980 1982 1988

Gli onorevoli (re. Sergio Corbucci) L’ora di punta, ep. di Oggi,domani e dopodomani (re. Eduardo De Filippo) Le dolci signore(re. Luigi Zampa) Lo smemorato (anche regia) Colpo di stato (anche regia) Oh dolci baci e languide carezze (re. Mino Guerrini) Basta guardarla (anche regia) Mazzabubù...quante corna stanno quaggiù (re. Mariano Laurenti) Il prete sposato (Marco Vicario) Ettore lo fusto (re. Enzo G. Castellari) Homo eroticus (re. Marco Vicario) Non commettere atti impuri (Giulio Petroni) Anche se volessi lavorare, che faccio? (re. Flavio Mogherini) Bisturi la mafia bianca (re. Luigi Zampa) Commissariato di notturna (re. Guido Leoni) La signora è stata violentata (re. Vittorio Sindoni) Uomini duri (re. Duccio Tessari) Il domestico (re. Luigi Filippo D’Amico) Un uomo, una città (Romolo Guerrieri) Nipoti miei diletti (Franco Rossetti) Amore mio non farmi male (re. Vittorio Sindoni) Son tornate a fiorire le rose (re. Vittorio Sindoni) Perdutamente tuo...mi firmo Macaluso Carmelo fu Giuseppe (re. Vittorio Sindoni) Di che segno sei ? (re. Sergio Corbucci) L’affittacamere (re. Mariano Laurenti) I prosseneti (Brunello Rondi) La presidentessa (anche regia) Ride bene...chi ride ultimo: ep. Sedotto e violentato (re. Pino Caruso) La visita di controllo (re. Vittorio Sindoni) L’amnistia, ep. di Maschio latino...cercasi (re. Gianni Narzisi) Ridendo e scherzando (re. Vittorio Sindoni): ep. Nozze d’argento Tanto va la gatta al lardo... (re. Vittorio Sindoni): ep. Le tre verginelle Processo per direttissima Voglia di donna (re. Franco Bottari) Belli e brutti ridono tutti (re. Domenico Paolella) Una moglie, due amici, quattro amanti (re. Michele Massimo Tarantini) Quasi quasi mi sposo (re. Vittorio Sindoni) Vieni avanti cretino (anche regia) Quelli del casco (anche regia)

Soggetti e sceneggiature 1961 1964 1969

Il mantenuto (re. Ugo Tognazzi; scen. Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Luciano Salce, Castellano e Pipolo, Ugo Tognazzi) Il trattato di eugenetica, ep. Le bambole (re. Luigi Comencini; sogg. Luciano Salce, Steno) Oh! Dolci baci e languide carezze (re. Mino Guerrini; scen. Elvy Bayardo, Marino Onorati, Mino Guerrini, Luciano Salce)

TEATRO

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Teatrografia 1955

L’ARCISOPOLO (commedia in tre atti, scritta in collaborazione con Vittorio Caprioli e Franca Valeri). Regia Luciano Salce. Interpreti: Franca Valeri, Luciano Salce, Vittorio Caprioli.

1958

DON JACK (atto unico) Prima rappresentazione: Roma, Teatro Quirino, 8/3/1958. Regia Vittorio Gassman; interpreti: Vittorio Gassman (Andrea Falco), Edmonda Aldini (Laura Cardone), Grazia Maria Spina (Iris De Zan), Mario Feliciani (on.Bra), Giulio Bosetti (Leoni), Vittorio Congia (Colautti), Massimo De Francovich (la statua), Andrea Bosich (il regista bulgaro), Carmen Pericolo (Carmela), Fortunato Arena (l’aiuto regista).

1959

IL LIETO FINE (commedia in due atti) Prima rappresentazione: Firenze, Pergola, 31/12/1959. Regia Alberto Bonucci; interpreti: Lauretta Masiero, Alberto Lionello, Lina Volonghi.

Regie 1947 1949 1950

1951 1952 1953 1955

1956 1957

1958 1959 1985

ANTHONY di Alexandre Dumas padre UN GIOVANE FRETTOLOSO di Eugène Labiche (Roma, Teatro Valle, 29/11/1947) GEORGE DANDIN di Molière (Firenze, Piccolo Teatro, 5/3/1949) INNOCENZA DI CAMILLA di Massimo Bontempelli (Roma, Piccolo Teatro, 29/4/1949) I FIGLI DI EDOARDO di Jackson, Bottomley e Sauvajon (comp. Pagnani-Cervi, 7/1/1950) L’AVARO di Molière (Roma, Teatro Ateneo, 19/2/1950) A IMPORTANCIA DE SER PRUDENTE di Oscar Wilde (San Paolo) O ANJO DE PEDRA (SUMMER AND SMOKE) di Tennessee Williams (San Paolo) DO MUNDO NADA SE LEVA (YOU CAN’T TAKE IT WITH YOU) di G.S.Kaufman e M.Hart (SanPaolo) L’INVENTORE DEL CAVALLO di Achille Campanile (Teatro de Segunda Feira) CONVITE AO BAILE (L’INVITATION AU CHATEAU) di Jean Anouilh (T.Brasileiro de Comedia) A DAMA DAS CAMELIAS di Alexandre Dumas figlio (T.B.C.) NIMIGOS INTIMOS (AMI-AMI) di Pierre Barillet e Jean-Pierre Grédy (T.B.C.) NA TERRA COMO NO CEU (DAS HEILIGE EXPERIMENT) di Fritz Hochwalder (T.B.C.) O LEIPTO NUCIAL (THE FOURPOSTER) di J. De Hartog (T.B.C.) LA REGINA E GLI INSORTI di Ugo Betti (Stabile della Regione Emiliana) SEXOPHONE di Curzio Malaparte (Milano, T. Nuovo, 19/7/1955) L’ARCISOPOLO di Luciano Salce, Franca Valeri, Vittorio Caprioli (T.di Via Vittoria, 18/11/1955) I TROMBONI di Federico Zardi (comp. Gassman, Napoli, 18/12/1956) UNO SCANDALO PER LILI’ di Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi (comp. Tognazzi) COLOMBE di Jean Anouilh (comp. Porelli-A. Ninchi-Giovampietro, Roma, T.delle Arti, 18/10/1957) L’UOVO di Félicien Marceau (comp. Proclemer-Albertazzi, Milano, T.Odeon, 28/12/1957) UNA DONNA DI CASA di Vitaliano Brancati (comp. Villi-Santuccio, ivi, 15/2/1958) LA PAPPA REALE di Félicien Marceau (comp. A.Pagnani-L.Masiero-A.Lionello, Perugia, Teatro Morlacchi, 5//12/1958) LE TRAME DELUSE di Domenico Cimarosa (Roma, T.della Cometa, 12/3/1959) VERONICA E GLI OSPITI di Giuseppe Marotta e Belisario Randone (Napoli, 8/4/1959) POLITICANZA di Italo Moscati (cor. Vittorio Caprioli, Adolfo Celi – Roma, Scaletta, 8/1/1985) L’INCIDENTE di Luigi Lunari (Milano, Teatro Nazionale, 21/12/1985)

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Interpretazioni 1947

LA FIERA DELLE MASCHERE di Vito Pandolfi, con la coll. di L.Salce e L.Squarzina, su canovacci della Commedia dell’Arte (Praga, Festival della Gioventù e Venezia, Festival del Teatro, re. Vito Pandolfi) UN GIOVANE FRETTOLOSO di Eugène Labiche (Roma, T.Valle, re. L.Salce) 1948 ROSALINDA di William Shakespeare (Roma, Teatro Eliseo, re. Luchino Visconti) LES MARIES DE LA TOUR EIFFEL di Jean Cocteau (Firenze, Maggio, re. Vito Pandolfi) SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE di William Shakespeare (Trieste, Castello di San Giusto, re. Alessandro Brissoni) 1949 LA FAMIGLIA DELL’ANTIQUARIO di Carlo Goldoni (Roma, Piccolo Teatro, re. Orazio Costa, Arlecchino) LE ALLEGRE COMARI DI WINDSOR di William Shakespeare (Nervi, Parco Serra, regia di Alessandro Fersen, parte di Evans) PECCATO CHE FOSSE UNA SGUALDRINA di John Ford (Firenze, Piccolo Teatro, re. Luciano Lucignani, parte di Bergetto) LA FIGLIA OBBEDIENTE di Carlo Goldoni (Venezia, Festival del Teatro, re. Gerardo Guerrieri, parte di Arlecchino) IL CORVO di Carlo Gozzi (ivi, re. Giorgio Strehler, parte di Tartaglia) 1955 L’ARCISOPOLO di L.Salce, Franca Valeri, Vittorio Caprioli (T.di Via Vittoria, re. L.Salce,) 1986 C’ERA UNA VOLTA L’ITALA FILM di Giancarlo Sepe (Torino, re. Giancarlo Sepe, parte di Giovanni Pastrone)

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TELEVISIONE Regie 1956

L’ARCISOPOLO Tre atti di Franca Valeri, Luciano Salce, Vittorio Caprioli (trasmesso solo il II atto in diretta) Regia teatrale Luciano Salce; regia televisiva Franco Enriquez; interpreti: Franca Valeri (Laura Lenzi), Luciano Salce (Fausto Righi), Vittorio Caprioli (Eros Ciccioli); durata: 37’ 45’’ (II atto); data trasmissione: 28/5/1956, ore 22.00, Programma nazionale.

1958

L’ORSO E IL PASCIA’ Atto unico di Eugène Scribe. Traduzione e adattamento: Achille Campanile. Regia Luciano Salce; mus. Gino Negri; interpreti: Michele Riccardini (il pascià), Mario Scaccia (il ciambellano), Monica Vitti (Rossella), Silvia Monelli (la ciambellana), Alberto Bonucci (Filippo), Franco Giacobini (Fortunato), Sandro Pellegrini (Alì); durata: 53’; data trasmissione 9/5/1958, ore 21.00, Programma nazionale.

1959

LE TRAME DELUSE Opera comica di Domenico Cimarosa. Revisione di Guido Pannain. Regia teatrale Luciano Salce; regia tv Fernanda Turvani; scg. Pier Luigi Pizzi; durata: 91’data trasmissione: 27/04/1959, ore 21.50, Rai 1.

1978

LA CONVERSAZIONE CONTINUAMENTE INTERROTTA Commedia di Ennio Flaiano. Regia Luciano Salce; scg.e co. Bruno Garofalo; interpreti: Gianni Bonagura (il poeta), Giorgio Albertazzi (lo scrittore), Mario Maranzana (il regista), Elisabetta Pozzi (Crimilde, cameriera incinta e un po’ svanita), Franca Tamantini (moglie dello scrittore), Gabriele Antonini (il dottore), Lombardo Fornara (Tavolino, giornalista), Antonio Iodice, Marcello Massimi (imbianchini); data trasmissione: 4/11/1978, ore 20.40, Rai 2. Durata: 106’

Presentazioni, partecipazioni 1965

STUDIO UNO (Feb.-Apr. 1965). Presentatore, con Lelio Luttazzi, Mina, Milly, Alice e Ellen Kessler, Mia Martini, Betty Curtis, Nino Manfredi, Paolo Panelli

1967

CI VEDIAMO STASERA IN CASA DI: UGO TOGNAZZI Regia Stefano Canzio; autori Sandro Continenza, Maurizio Costanzo; presenta Mariella Palmich; con Ugo Tognazzi; hanno partecipato: Gigi Ballista, Alberto Bevilacqua, Pat Mc Callum, Ombretta De Carlo, Luciano Salce, John Philip Law, Philippe Leroy, Alfredo Pigna, Ricky Tognazzi, Michael York; hanno cantato: Paolo Ferrara (La strada giusta), Sergio Leonardi (I playboys), Donna Loren (Lui con te), Polnareff (Signorina Ta-ta-ta), Tony Renis (Non mi dire mai good-bye)

1967

MINA-LUCIANO SALCE Regia Antonello Falqui; autori: Antonio Amurri, Maurizio Jurgens, Antonello Falqui, Guido Sacerdote; coreog. Don Lurio; co. Folco. Rai 1

1970

SENZA RETE Trasmissione di musica leggera condotta da Enrico Simonetti, con la partecipazione di Luciano Salce. Regia Enzo Trapani. Orchestra Rai diretta da Pino Calvi. Interventi musicali di Mina, Enzo Jannacci, Nicola Arigliano.

1979

BUONASERA CON LUCIANO SALCE (10 puntate, Rai 2)

1

Testi 1958

1959

LE CANZONI DI TUTTI (5 puntate, durata: 60’ ca., 21/09/1958, ore 18.45, Rai 1) Autori Luciano Salce, Ettore Scola; regia Mario Landi FILI D’ORO di BUONGIOVANNI Autori Luciano Salce ed Ettore Scola Regia Mario Landi; mus. Franco Pisani; rievocazioni musicali Luciano Salce ed Ettore Scola; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; cor. Paul Steffen; coro m.o Potenza; interpreti: Gabriella B.Andreini, Fausto Cigliano, Franco Berardi, Alberto Bonucci, Paolo Ferrari, Aurelio Fierro, Enzo Garinei, Renata Mauro, Dolores Palumbo, Elio Pandolfi, Vinicio Raimondo, Luciano Rondinella, Franco Scandurra, Silvio Spaccesi, Carlo Sposito, Anna Maria Ferrero.

Interpretazioni 1960

VITA COL PADRE E CON LA MADRE (4 puntate) Regia Daniele D’Anza; adattamento Tv Anna Maria Romagnoli; luci Rodolfo Lombardi; s.pr. Olga Bevilacqua; interpreti: Vittorio De Sica, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Corrado Pani, Paolo Fratini, Claudio Sorrentino, Rodolfo Bianchi, Elisa Cegani, Grazia Maria Spina, Ave Ninchi, Edda Piazza, Anty Ramazzini, Mario Feliciani, Luciano Salce, Lucilla Morlacchi, Lucia Catullo, Paolo Modugno, Leonardo Gorla, Cristine Scher, Adriana Innocenti, Laura Torchio.

1982

VIAGGIO A GOLDONIA Regia Ugo Gregoretti; interpreti: Luciano Salce.

1983

CASA CECILIA (ep. Ladri di sottilette) Regia Vittorio De Sisti; dir fot. Erico Menczer. Interpreti: Delia Scala, Giancarlo Dettori, Stefania Graziosi, Claudio Mazzenga, Davide Lepore, Zoe Incrocci, Luciano Salce, Stefania Di Giandomenico, Gianni Garofalo, Carlo Monni. Data trasmissione 16/11/1983.

1984

LA BELLA OTERO Regia Josè Maria Sanchez; sogg.dal romanzo omonimo di Massimo Grillandi; scen. Enrico Medioli, Lucia Drudi Demby, Paolo Cavara; mus. Carlo Rustichelli; co. Giulia Mafai; interpreti: Angela Molina (Lina Otero), Mimsy Farmer (Valentina), Harvey Keitel (Jurgens), Luciano Salce (Marchand), Stanko Molnar (zar Nicola Rasputin), Lina Sastri (Carmen Otero), David Brandon (Piriewsky), Gérard Landry (Thomas), Luca Barbareschi (Max), Eva Chistian (Madame Allemande), Nicola Pistoia (Savin), Cochi Ponzoni (Vanderbilt), Claudia Baldeo (Lizette), Gianni Cavina (Guglielmo Rosi), Carlos Tristancho (Paco), Nina Morillas (Carolina Otero).

RADIO Presentazioni, partecipazioni 1970

FORMULA UNO (25 puntate) Regia Antonello Falqui; autori Antonello Falqui, Guido Sacerdote; presentatore: Paolo Villaggio; intervengono: Franca Valeri, Luciano Salce, Ornella Vanoni, Giorgio Albertazzi; hanno partecipato all’inchiesta: Vittorio De Sica, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Roberto Rossellini. (Rai 2)

2

SPECIAL OGGI: CATHERINE SPAAK Regia Orazio Gavioli; autori: Lucio Ardenzi; interviste: Franco Solfiti; intervengono: Castellano e Pipolo, Catherine Spaak, Gliberto Mazzi, Francesco Romano, Luciano Salce, Vittorio Gassman. Durata: 90’; data 14/09/1973 (Rai 2). 1974

I MALALINGUA Interpretazioni

1955

STORIA DI MICHELE PEZZA DETTO FRA’ DIAVOLO Regia Anton Giulio Majano; autori Dario Puccini, Erasmo Valente; interpreti: Roberto Bertea, Antonio Battistella, Nino Bonanni, Angelo Calabrese, Vittorio Caprioli, Alida Cappellini, Renato Cominetti, Gustavo Conforti, Lia Curci, Gemma Griarotti, Manlio Guardabassi, Adriana Januccelli, Loretta La Moglie, Paolo Modugno, Antonio Pierfederici, Gigi Reder, Maria Teresa Rovere, Cesira Sainati, Fernando Solieri, Luciano Salce, Giotto Tempestini, Massimo Turci, Enrico Urbini, Aleardo Ward, Rodolfo Cappellini. Durata: 60’ (tre puntate). Commedie radiofoniche

1955

LA ZUCCHERIERA (data trasmissione 20/07/1957) Autori Vittorio Caprioli, Luciano Salce, Franca Valeri; regia e interpretazione Luciano Salce, Vittorio Caprioli, Franca Valeri. Durata: 52’. Esiste anche un’edizione francese per Premio Italia 1955

Regie 1967

TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA Autore Natalia Ginzburg; regia Luciano Salce; interpreti: Renzo Montagnani (Pietro), Adriana Asti (Giuliana), Edda Ferronao (Vittoria), Italia Marchesini (madre di Pietro), Rita Guerrieri (Ginestra, sorella di Pietro). Durata: 86’. Data trasmissione: 27/03/1967 (Rai 3).

BIBLIOGRAFIA Luciano Salce, Cattivi soggetti, Rizzoli, Milano, 1981, pp.167

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PASQUALE FESTA CAMPANILE

CINEMA Regie 1963

UN TENTATIVO SENTIMENTALE (t.fr. Amour sans lendemain) Regia Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; sogg.e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; coll.scen. Elio Bartolini, Luigi Magni; dir.fot. Ennio Guarnieri; mus. Piero Piccioni; mo. Ruggero Mastroianni; scg.e co. Lucia Mirisola; arr. Franco Cuppini; o.g. Luciano Perugia; d.pr. Nello Meniconi; a.re. Luigi Magni; s.p. Ermida Aichimo; s.ed. Mirella Gamacchio; op. Danilo Desideri; fo. Mario Faraoni; tr. Nilo Jacoponi; interpreti: Françoise Prévost (Carla), Jean-Marc Bory (Dino), Leticia Roman (Luciana), Giulio Bosetti (Renato), Barbara Steele (Silvia), Gabriele Ferzetti (Giulio), Maria Pia Luzi (Irene), Marino Masè (Piero), Antonio Segurini (Brunello), Maria Teresa Orsini. Produttore: Luciano Perugia e Nello Meniconi per Franca Film, Federiz (Roma), France Cinéma Production (Parigi); durata: 100’; incasso: £ 118.000.000

1964

LE VOCI BIANCHE (t.fr. Le sexe des anges/ t.Usa White voices, poi Under cover rouge) Regia Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; sogg.e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Magni; dial. Luigi Magni; dir.fot. Ennio Guarnieri (Technicolor); mus. Gino Marinuzzi jr.; mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Adriana Olasio; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; a.co. Luigi Samaritani; arr. Franco Cuppini; o.g. Nello Meniconi, Luciano Perugia; cons.storico- musicale Alfredo Bianchini; coll.art. Luigi Magni; i.p. Angelo Jacono; s.ed. Mirella Camacchio; op. Danilo Desideri; ass.op. Franco Bruni; fo. Mario Faraoni; mic. Primiano Muratori; c.tr. Giuseppe Banchelli; tr. Nilo Jacoponi, Alfio Meniconi; par. Amalia Paoletti, Sandro Jacoponi; interpreti: Paolo Ferrari (Meo), Anouk Aimée (Lorenza), Vittorio Caprioli (Matteuccio), Graziella Granata (Teresa), Claudio Gora (sor Marcello), Philippe Leroy (Ascanio Savello), Barbara Steele (Giulia), Jacqueline Sassard (la ragazza che gioca a nascondino), Sandra Milo (Carolina), Jean Tissier (marito di Teresa), Leopoldo Trieste (“Ora pro nobis”), Jeanne Valerie (Maria), Anita Durante (madre di Meo), Alfredo Bianchini (primo attore), Francesco Mulè (il frate trappista), Jacques Herlin (un altro frate), Guglielmo Spoletini, Filippo Spoletini (fratelli di Meo), Giulio Calì (il pellegrino), Luigi Basagaluppi, Giulio Battiferri. Produttore: Nello Meniconi, Luciano Perugia per Franca Film, Cin.ca Federiz (Roma), Francoriz (Parigi); durata: 100’; incasso: £ 495.000.000. LA COSTANZA DELLA RAGIONE (t.fr Avec amour et avec rage) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini; scen. Fabio Carpi, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Ennio Guarnieri; mus. Giorgio Zinzi (la canzone «Oggi è domenica per noi» è cantata da Sergio Endrigo, «Vola colomba» di CherubiniConcina, «More (mondo cane)» di Ortolani-Oliviero); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Marcello Olasio; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; ass.scg. Franco Cuppini; ass.co. Gabriella Pescucci; o.g. Luciano Perugia, Nello Meniconi; coll.re. Franco Giraldi; i.p. Angelo Jacono; s.p. Armida Jachino; s.ed. Mirella Gamacchio, Franca Franco; op. Danilo Desideri; ass.op. Franco Bruni; amm. Gianna Di Michele; fo. Mario Faraoni; mic. Primiano Muratori; tr. Nilo Jacoponi; par. Sandro Jacoponi; intrepreti: Catherine Deneuve (Lori), Samy Fray (Bruno), Enrico Maria Salerno (Millo), Norma Benguell (Ivana, madre di Bruno), Sergio Tofano (don Bonifazi), Andrea Checchi (padre di Lori), Valeria Moriconi (Giuditta), Glauco Mauri (Luigi), Adriana Ambesi. Produttore: Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa per Franca Film (Roma), S.té Nouvelle de C.ie (Parigi); durata: 120’; incasso: £ 119.000.000

1965

UNA VERGINE PER IL PRINCIPE (t.fr. Une vierge pour le prince) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.Pasquale Festa Campanile tratto da documenti raccolti sotto il titolo di Una vergine per il principe (ed. Canesi) e dal volume I segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci; scen. Ugo Liberatore, Giorgio Prosperi, Pasquale Festa Campanile;

1

dir.fot. Roberto Gerardi (Technicolor); mus. Luis Enriquez Bacalov; mo. Otello Colangeli; ass.mo. Marcello Olasio; scg.e co. Pier Luigi Pizzi; a.co. Vera Marzot; a.scg. Luciano Ricceri; a.arr. Franco Cuppini; d.pr. Mario De Biase; a.re. Gabriele Palmieri; s.ed. Elvira D’Amico; amm. Gianna Di Michele; op. Franco Di Giacomo; fo. Mario Faraoni; mix. Primiano Muratori; tr. Giuseppe Banchelli; coll.tr. Nilo Jacoponi, Otello Sisi; par. Ada Palombi; uff.st. LucheriniRossetti-Spinola; interpreti: Vittorio Gassman (principe Vincenzo Gonzaga), Virna Lisi (Giulia), Philippe Leroy (Ippolito), Vittorio Caprioli (marchese Liginio), Tino Buazzelli (duca di Mantova), Anna Maria Guarnieri (Margherita Farnese), Maria Grazia Buccella (marchesa Clelia di Pepara), Giusi Raspani Dandolo (Francesca Gonzaga, duchessa di Mantova), Mario Scaccia (Francesco Gonzaga), Paola Borboni (madonna Violante), Josè Luis de Villalonga (Francesco de’ Medici), Alfredo Bianchini (cav. Vinta), Claudie Lange (Marfisia), Francesco Mulè (il medico dei Gonzaga), Luciano Mondolfo (cardinale Farnese), Esmeralda Ruspoli (Bianca de’ Medici), Leopoldo Trieste (marchese di Pepara), Jacques Herlin (dottor Lulli), Vittorio Duse (il ginecologo), Femi Benussi (una cortigiana), Giulio Battiferri, Nello Pazzafini (due ufficiali della guardia). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film (Roma), Orsay Film (Parigi); durata: 110’; incasso: £ 809.000.000. 1966

ADULTERIO ALL’ITALIANA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Pasquale Festa Campanile; scen. Luigi Malerba, Pasquale Festa Campanile, Ottavio Alessi; dir.fot. Roberto Gerardi (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (le canzoni «Bada Caterina» di Trovajoli-Migliacci e «Brillo e Bollo» di Trovajoli-De Mutiis sono cantate da Carmen Villani, la prima con i Cantori moderni di A.Alessandroni); mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Marcello Olasio; scg.e co. Pierluigi Pizzi; ass.co. Franco Carretti; d.pr. Mario Di Biase; a.re. Elvira D’Amico; i.p. Antonio Mazza; s.p. Carlo Giovagnorio; s.ed. Massimo Castellani; op. Sante Achilli; ass.op. Roberto D’Ettorre Piazzoli; fo. Mario Faraoni; mix. Mario Morigi; tr. Nilo Jacoponi; par. Jole Cecchini; interpreti: Nino Manfredi (Franco), Catherine Spaak (Marta), Maria Grazia Buccella (Gloria), Vittorio Caprioli (Silvio Sasselli), Akim Tamiroff (Max Portesi), Mario Pisu (il vicino), Gino Pernice (Roberto), Tullio Altamura, Gianni Solaro (i due pappagalli). Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film, realizzata da Luciano Perugia; durata: 98’; incasso: £ 1.050.000.000.

1967

LA RAGAZZA E IL GENERALE (t.fr. La fille et le général) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile; scen. Luigi Malerba, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Ennio Guarnieri (Technicolor); mus. Ennio Morricone (la canzone «Ti xe el più bel» di Morricone-Bardotti è cantata da Alida Chelli); mo. Jolanda Benvenuti; scg. Luciano Spadoni; co. Maria De Matteis; d.pr. Mario De Biase; a.re. Elvira D’Amico; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Arturo Zavattini; fo. Vittorio Massi; interpreti: Rod Steiger (il generale austriaco), Virna Lisi (Ada), Umberto Orsini (Tarasconi), Marco Mariani (il caporale), Jacques Herlin (il veterinario), Toni Gaggia (il tenente), Valentino Macchi (un soldato). Produttore: Carlo Ponti per Compagnia Cin.ca Champion (Roma), Les Films Concordia (Parigi); pr.es. Luciano Perugia; durata: 103’; incasso: £ 230.000.000. LA CINTURA DI CASTITA’ (t.Usa On My way to the Crusades, I meet a Girl Who…) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ugo Liberatore; scen. Luigi Magni, Larry Gelbart; rev.dial. Ettore Giannini; dir.fot. Carlo Di Palma (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo. Gabrio Astori; ass.mo. Agnese Putignani; scg. Piero Poletto; ass.scg. Giantito Burchiellaro; co. Danilo Donati; ass.co. Franco Antonelli; d.pr. Luciano Piperno; a.re. Elvira D’Amico, Carlo Gotti; i.p. Lamberto Pippia, Mario Cotone, Gilberto Scarpellini; s.ed. Serena Canevari; op. Alberto Spagnoli; ass.op. Gianni Antinori; m.armi Franco Fantasia; fo. Aurelio Verona; eff.sp. Lamberto Verdenelli, Joseph Nathanson; tr. Gianni Amidei, Giannetto De Rossi, Giuliano Laurenti; par. Luciano Vito, Elda Magnanti; uff.st. Lucherini-Rossetti-Spinola; interpreti: Tony Curtis (Guerrando), Monica Vitti (Boccadoro), Hugh Griffith (Ibn-El-Rashid), John Richardson (Dragone), Ivo Garrani (duca Pandolfo), Nino Castelnuovo (Marculfo), Francesco Mulè (Rienzi), Franco Sportelli (Bertuccio), Gabriella Giorgelli (dama di compagnia), Umberto Raho (monaco), Mimmo Poli (esattore), Leopoldo Trieste (pescatore), Mariella Palmich, Ugo Adinolfi, Dada Gallotti, Franco Fantasia. Produttore: Franco Mazzei per Julia Film; durata: 108’; incasso: £ 651.000.000.

1968

IL MARITO E’ MIO E L’AMMAZZO QUANDO MI PARE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.da un racconto di Aldo De Benedetti; scen. Luigi Magni, Stefano Strucchi, Iaia Fiastri; dir.fot. Roberto Gerardi (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli; mo. Ruggero Mastroianni; ass.mo. Marcello Olasio; scg. Flavio Mogherini; co. Lucia

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Mirisola; arr. Emilio Baldelli; d.pr. Felice D’Alisera; re. 2a unità Carlo Capriata; i.p. Dino Di Salvo; s.p. Stefano Pecoraro; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Roberto D’Ettorre Piazzoli, Ubaldo Terzano; ass.op. Franco Bruno; eff.sp. Dario Micheli; fo. Alberto Bartolomei, Danilo Moroni; tr. Franco Freda; interpreti: Catherine Spaak (Allegra), Hywell Bennett (Leonardo), Hugh Griffith (Ignazio), Romolo Valli (Demetrio), Gianrico Tedeschi (l’impagliatore), Vittorio Caprioli (Spinelli), Paolo Stoppa (dott. Sperenzoni), Francesco Mulè (Costanzo), Milena Vukotic (Prassede), Leopoldo Trieste (signore barbuto), Pina Cei (Paolina), Gianni Magni (l’idraulico), Alfredo Bianchini (il commissario), Ugo Fangareggi (Ceccarelli). Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 97’; incasso: £ 500.000.000. LA MATRIARCA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Ottavio Jemma dalla precedente sceneggiatore Niccolò Ferrari; dir.fot. Alfio Contini (Eastmancolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «L’amore dice ciao» di Guardabassi-Trovajoli è cantata da Andrée Silver, «Il profeta» di Trovajoli-Amurri è cantata da Carmen Villani); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Wanda Olasio; scg. Flavio Mogherini; co. Gaia Rossetti Romanini; ass.co. Silvana Pantani; arr. Ennio Michettoni; ass.arr. Paola Mugnai; d.pr. Felice D’Alisera; a.re. Maria Teresa Girosa; i.p. Carlo Bartolini; s.p. Emanuele Spatafora; s.ed. Maria Grazia Baldanello; op. Maurizio Scanziani; ass.op. Giancarlo Granatelli, Sandro Tamborra; fo. Vittorio Trentino; mix. Danilo Moroni, Alberto Bartolomei; tr. Franco Freda; ass.tr. Aldo Chiavaroli; f.sc. Mario Mazzoni; interpreti: Catherine Spaak (Mimì), Jean-Louis Trintignant (dott. Carlo De Marchi), Luigi Proietti (Sandro Maldini), Renzo Montagnani (Fabrizio), Luigi Pistilli (Otto Franz), Fabienne Dalì (Claudia), Paolo Stoppa (prof. Zauri), Nora Ricci (madre di Mimì), Frank Wolff (dott. Giulio, dentista), Philippe Leroy (maestro di tennis), Gabriele Tinti (uomo in auto), Vittorio Caprioli (il libraio), Venantino Venantini (l’idraulico), Edda Ferronao (Maria). Produttore: Silvio Clementelli per Clesi. Cin.ca, Finanziaria San Marco; durata: 92’; incasso: £ 1.017.000.000. 1969

DOVE VAI TUTTA NUDA? Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ottavio Jemma; scen. Luigi Malerba, Alessandro Continenza, Pasquale Festa Campanile, Ottavio Jemma; dir.fot. Roberto Gerardi (Technicolor); mus. Armando Trovajoli (la canzone «Dove vai tutta nuda?» di TrovajoliAmurri è cantata da Maria Grazia Buccella); mo. Marcello Malvestito; scg. Franco Bottari; co. Luca Sabatelli; d.pr. Luciano Luna; a.re. Marcello Crescenzi; i.p. Camillo Teti; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Gastone Di Giovanni; ass.op. Franco Bruni; fo. Umberto Picistrelli; tr. Franco Corridoni; interpreti: Maria Grazia Buccella (Tonino), Tomas Milian (Manfredo), Gastone Moschin (presidente della banca), Vittorio Gassman (Rufus), Lia Lander (moglie del presidente), Angela Luce (la prostituta), Tito Leduc (cameriere), Mario Cecchi Gori (l’avvocato), Giancarlo Badessi. Produttore: Mario Cecchi Gori per Fair Film; durata: 93’; incasso: £ 650.000.000. SCACCO ALLA REGINA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Renato Ghiotto; scen. Tullio Pinelli, Brunello Rondi; dir.fot. Roberto Gerardi (Technicolor); mus. Piero Piccioni; mo. Mario Morra; scg. Flavio Mogherini; ass.scg. Alessandro Gioia; co. Giulia Mafai; ass.co. Renato Ranucci; arr. Massimo Tavazzi; ass.arr. Giuseppe Aldrovandi; d.pr. Dino Di Salvo; a.re. Marcello Crescenzi; op. Gastone Di Giovanni; ass.op. Maurizio Maggi, Franco Bruni; fo. Bruno Brunacci; tr. Franco Corridoni; par. Maria Teresa Corridoni; interpreti: Haydée Politoff (Silvia), Rosanna Schiaffino (Margaret Mevin), Romolo Valli (Waldman), Aldo Giuffrè (Spartaco), Daniela Surina (Dina), Gabriele Tinti (Franco), Elvira Tonelli (Cesarina), Ileana Rigano, Mario Erpichini (invitati al party), Edda Ferronao (Maria), Giorgio Gruden (il regista). Produttore: Alfredo Bini per Finarco; durata: 98’; incasso: £ 220.000.000.

1970

CON QUALE AMORE, CON QUANTO AMORE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ottavio Jemma, Pasquale Festa Campanile; scen. Ottavio Jemma; dir.fot. Franco Di Giacomo (Technicolor); mus. Riz Ortolani (la canzone «So much love» di Ortolani-Newell è cantata da Paul Slade; «More (mondo cane)» è cantata da K.Ranieri, «Mi sono innamorato di te» di Tenco è cantata da Ornella Vanoni, «Blue lace» di Ortolani-Jacob è cantata da Frank Sinatra, «Why» e «Mae» di Ortolani, «Samba de Orfeu» di L.Bonfà, «Quizas quizas quizas» di O.Farres); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Maria Gianandrea; scg.e arr. Sergio Canevari; ass.scg. Franco Vanorio; co. Gaia Rossetti Romanini, Roberto Capucci; o.g. Mario Silvestri; a.re. Marcello Crescenzi; i.p. Eros Lafranconi; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Giuseppe Lanci; fo. Eraldo Giordani; tr. Franco Freda; par. Adalgisa

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Favella; interpreti: Catherine Spaak (Francesca), Lou Castel (Ernesto), Claude Rich (Andrea), Erika Blanc (Sandra), Aldo Giuffrè (Giovanni), Michel Bardinet (René), Marisa Traversi (Nora), Aldo Traversi. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 107’; incasso: QUANDO LE DONNE AVEVANO LA CODA (t.fr. Quand les femmes avaient une queue) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Umberto Eco; scen. Lina Wertmuller, Ottavio Jemma, Marcello Coscia, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Franco Di Giacomo (Eastmancolor); mus. Ennio Morricone dir.da Bruno Nicolai; mo. Sergio Montanari; scg.e co. Enrico Job; ass.co. Giuliano Persico; ass.scg. Ennio Michettoni; a.re. Marcello Crescenzi; s.p. Gualtiero Tagliacozzo; op. Giuseppe Lanci; ass.op. Franco Bruni, Franco Trasatti; eff.sp. Wilfrido Traversari; m.armi Neno Zamperla; fo. Carlo Palmieri; mix. Danilo Moroni; tr. Giannetto De Rossi; par. Mirella Sforza; interpreti: Senta Berger (Filli), Giuliano Gemma (Ulli), Lando Buzzanca (Kao), Frank Wolff (Grrr), Lino Toffolo (Put), Aldo Giuffrè (Zog), Renzo Montagnani (Maluc), Francesco Mulè (Uto), Paola Borboni (la capo tribù), Gabriella Giorgelli, Melù Valente. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 103’; incasso: £ 1.800.000.000. 1971

IL MERLO MASCHIO (t.fr. Ma femme c’est un violon/t.t. Das nachte Cello) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Pasquale Festa Campanile, dal racconto Il complesso di Loth di Luciano Bianciardi; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani (arie delle seguenti opere: «Gazza ladra» [Ouverture] di Gioacchino Rossini, «Tosca» [E lucean le stelle] di Giacomo Puccini, «Aida» di Giuseppe Verdi); mo. Sergio Montanari, Mario Morra; ass.mo. Wanda Olasio; scg.e co. Ezio Altieri; ass.scg. Ezio Di Monte; d.pr. Giorgio Adriani; a.re. Marcello Crescenzi; i.p. Eros Lafranconi; s.p. Angelo Zemella; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso; ass.op. Renato Doria; fo. Vittorio Trentini; mic. Giuseppe Muratori; mix. Alberto Bartolomei; interpreti: Lando Buzzanca (Niccolò Vivaldi), Laura Antonelli (Costanza), Lino Toffolo (Cavalmoretti), Gianrico Tedeschi (direttore d’orchestra), Ferruccio De Ceresa (neurologo), Elsa Vazzoler (Matilde), Gino Cavalieri (Salvino), Luciano Bianciardi (Mazzacurati), Adolfo Belletti (il portinaio), Piero Tordi (il ginecologo), Edda Ferronao (la prostituta), Aldo Puglisi (un medico), Felicita Fanni (sorella di Costanza), Corrado Olmi (insegnante di Niccolò bambino), Enzo Robutti (un matto), Alfredo Piani, Gigi Bonfanti, Bruno Boschetti, Orazio Stracuzzi, Enzo Spitaleri, Giuseppe Terranova, Franco Bisazza. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 113’; incasso: QUANDO LE DONNE PERSERO LA CODA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Lina Wertmuller; scen. Ottavio Jemma, Iaia Fiastri, Marcello Coscia; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Ennio Morricone, Bruno Nicolai; mo. Nino Baragli; ass.mo. Anna Rosa Napoli, Gino Bartolini; scg.e co. Enrico Job; ass.arch. Enrico Fiorentini; ass.arr. Massimo Tavazzi; ass.co. Benito Persico; d.pr. Giorgio Adriani; a.re. Franco Cirino; i.p. Angelo Zemella; s.p. Eros Lafranconi; s.ed. Maria Pia Rocco; ass.re. Gertrud Peterson; op. Enrico Sasso; ass.op. Renato Doria; fo. Vittorio Trentino; mix. Mario Bartolomei, Danilo Moroni; tr. Euclide Santoli, Mario Di Salvino; par. Paolo Franceschi; interpreti: Lando Buzzanca (Am), Senta Berger (Filli), Renzo Montagnani (Maluc), Frank Wolff (Grrr), Lino Toffolo (Put), Francesco Mulè (Uto), Mario Adorf (Pap), Aldo Puglisi, Fiammetta Baralla (Katorcia). Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca (Roma), Terra Film Knust (Monaco); durata: 94’; incasso:

1972

JUS PRIMAE NOCTIS Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ugo Liberatore; scen. Luigi Malerba, Ottavio Jemma, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo. Nino Baragli; ass.mo. Anna Napoli, Gino Bartolini; scg.e co. Ezio Altieri; a.co. Rosanna Andreoni; arr. Massimo Tavazzi; o.g. Giorgio Adriani; a.re. Marcello Crescenzi; ass.re. Neri Parenti; i.p. Eros Lafranconi; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso; m.armi Remo De Angelis; tr. Mario Di Salvio; par. Paolo Franceschi; interpreti: Lando Buzzanca (Aregardo da Ficulle), Renzo Montagnani (Gandolfo), Marilù Tolo (Venerata de Lanzicco), Paolo Stoppa (il papa), Felice Andreasi (frate Puccio), Toni Ucci (Guidone), Gino Pernice (Marculfo), Alberto Sorrentino (il frate), Giancarlo Cobelli (Curiale), Ely Galleani (Beata), Roberto Antonelli, Guido Lollobrigida (un contadino), Gianni Magni, Franco Pesce (vecchio de Lanzicco), Ignazio Leone (l’antipapa), Sergio Ammirata, Enrica Bonaccorti (una giovane moglie), Franco Latini, Guglielmo Spoletini (amico di Guidone), Bruno Boschetti, Bruno Vaerini, Carla Mancini, Enzo Robutti. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca, Verona Produzione; durata: 109’; incasso: £ 407.000.000.

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LA CALANDRIA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Gianfranco Clerici, dalla commedia omonima di Bernardo Dovizi, detto Il Bibbiena; scen. Ottavio Jemma, Gianfranco Clerici, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Silvano Ippoliti (Eastmancolor); mus. Gianni Ferrio; mo. Gian Maria Messeri; ass.mo. Antonio Proia; scg.e co. Giancarlo Bartolini Salimbeni; ass.co. Nadia Vitali; d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Monica Felt; i.p. Pietro Spadoni; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso; ass.op. Renato Doria; fo. Renato Jaboni; tr. Amato Garbini; par. Gabriella Borzelli; f.sc. Franco Narducci; interpreti: Lando Buzzanca (Lidio), Salvo Randone (Calandro), Agostina Belli (Fulvia, sua moglie), Cesare Gelli (duca Ferruccio Consagro), Barbara Bouchet (Lucrezia, sua moglie), Giusi Raspani Dandolo (Nonna, madre di Calandro), Grazia Maria Spina (Clizia), Mario Scaccia (Ruffo), Franco Fantasia (il bargello), Roberto Antonelli (Tessenio), Toni Ucci (un popolano), Ignazio Leone (un ubriaco), Giuliana Calandra (Venegonda), Clara Colosimo (madonna Aurora), Stefano Oppedisano, Lorenzo Piani. Produttore: Filmes Cin.ca; durata: 103’; incasso: £ 318.000.000. 1973

L’EMIGRANTE (t.sp. Un trabajo tranquillo/t.te. Kleine mit dem grossen Tick) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Castellano e Pipolo, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luisa Montagnana, Sabatino Ciuffini; dir.fot. Gastone Di Giovanni, Juan Gelpi Puig (Eastmancolor); mus. Carlo Rustichelli dir.da Sandro Blonchsteiner (le canzoni «Santa Lucia luntana» di E.A.Mario, «Tiempe belle (‘e ‘na vota)» di V.Valente-A.Califano, «Lo guarrancino» di anonimo, «Torna a Surriento»di E.De Curtis-G.B. De Curtis, cantata da A.Celentano, «Reginella» di Bovio-Lama, «’O sole mio» di Di Capua-Capurro cantata da Beniamino Gigli, «Te vojo bene assaie» di Sacco-Donizetti cantata da A.Celentano, «Lacreme napuletane» di Bongioanni-Bovio, «’A canzone ‘e Napule» di Bovio-De Curtis, «Pupatella» di autore non identificato, cantata da Claudia Mori, «Me ne vogli’i all’America» di autore non identificato); mo. Mario Morra; a.mo. Piera Gabutti, Massimo Quaglia; scg. Giantito Burchiellaro; ass.scg. Giovanni Natalucci; co. Franco Carretti; o.g. Camillo Teti; d.pr. Averroè Stefani; a.re. Marcello Crescenzi, Filiberto Fiaschi; s.p. Augusto Marabelli, Vasco Mafera; s.ed. Maria Pia Rocco; amm. Walter Massi; op. Enrico Sasso, Sebastiano Celeste; m.armi Remo De Angelis; fo. Angelo Amatulli; eff.so. Renato Marinelli; tr. Giuliano Laurenti, Giovanni Morosi; par. Elda Magnanti; f.sc. Bruno Bruni; interpreti: Adriano Celentano (Peppino Cavallo), Claudia Mori (Rosita Flores), Lino Toffolo (Tony, l’anarchico), Sybill Danning (Pamela), Pepe Calvo (don Nicolone Saletto), Manuel Zarzo (Ralf Moresco), Rosita Pisano (Assunta), Nino Vingelli (tassista a New York), Gigi Reder (secondo marito di Assunta), Giacomo Rizzo (il cassiere del club). Produttore: Mario Bonotti per Mondial Te.Fi., Adriano Celentano per Clan Film (Roma), Impala Film (Madrid), Geiselgasteig (Monaco); durata: 126’; incasso: £ 712.000.000. RUGANTINO Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dalla commedia musicale di Pietro Garinei, Sandro Giovannini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; dir.fot. Gastone Di Giovanni (Technicolor); mus. Armando Trovajoli; mo. Mario Morra; scg. Giancarlo Bartolini Salimbeni; co. Franco Carretti; a.co. Rosanna Andreoni; arr. Elena Ricci Poccetto; d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Monica Felt; i.p. Viero Spadoni; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Sebastiano Celeste, Giuseppe Di Biase; ass.op. Maurizio Lamonica, Guido Tosi; mix. Danilo Moroni; eff.so. Renato Marinelli; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti, Paolo Borzelli; interpreti: Adriano Celentano (Rugantino), Claudia Mori (Rosetta), Grazia Maria Spina (Donna Mirta Capitelli), Paolo Stoppa (mastro Titta), Riccardo Garrone (il principe), Renzo Palmer (card. Severini), Toni Ucci (principe Niccolò Capitelli), Sergio Tofano (marchese Michele Sacconi), Guglielmo Spoletini (Gnecco), Enzo Robutti (Thorvaldsen), Elio Pandolfi (la voce bianca), Gastone Pescucci (Scariotto), Giacomo Piperno, Pippo Franco , Ernesto Colli (amici di Rugantino), Renato Baldini, Anna Maria Bottini (amici del principe), Bruno Tocci (un carabiniere), Sandro Merli, Guido Lollobrigida, Roberto Maldera, Patrizia Gori, Francesco D’Adda, Paola Montenero, Luigi Basagaluppi, Stefano Oppedisano, Lorenzo Piani. Produttore: Giorgio Venturini per Filmes Cin.ca, Clan Film; durata: 110’; incasso:

1974

LA SCULACCIATA (t.te Ein susses Biest) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Silvano Ambrogi dalla sua commedia Neurotandem; scen. Luigi Malerba, Silvano Ambrogi, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Salvatore Caruso (Technospes); mus. Gianni Ferrio (canzoni «Fai piano, fai presto» di Ferrio-Calabrese è

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cantata da Mina, «Je t’aime, moi non plus» di S. Gainsbourg è cantata da Serge Gainsbourg, Jane Birkin, «Il tango delle capinere» di Bixio-Cherubini); mo. Mario Morra; scg.e co. Giancarlo Pucci; d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Monica Felt; s.ed. Maria Pia Rocco; i.p. Viero Spadoni; op. Sebastiano Celeste, Sergio Martinelli; ass.op. Enrico Priori; fo. Carlo Palmieri; mic. Alberto Moretti; mix. Danilo Moroni; tr. Raul Ranieri; par. Luciano Vito; interpreti: Sidne Rome (Elena), Antonio Salines (Carlo), Gino Pernice (venditore di enciclopedie), Toni Ucci (il frate), Marisa Bartoli (Veronica, la domestica), Paolo Gozlino (il medico), Roberto Antonelli, Vincenzo Crocitti, Lorenzo Piani, Alessandro Perrella. Produttore: Giorgio Venturini per Filmes Cin.ca; durata: 90’; incasso: 1975

CONVIENE FAR BENE L’AMORE (t.fr. En 2000 il conviendra de bien faire l’amour) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile; scen. Ottavio Jemma, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Franco Di Giacomo (Technicolor); mus. Fred Bongusto (la canzone «L’appuntamento» di R.Carlos-B.Lauzi è cantata da Ornella Vanoni); mo. Sergio Montanari; ass.mo. Wanda Olasio; a.mo. Roberto Puglisi; scg.e co. Ezio Altieri; ass.scg. Cristiana Lafayette; arr. Enrico Fiorentini; o.g. Giorgio Adriani; d.pr. Marcello Crescenzi; a.re. Neri Parenti; i.p. Gilberto Scarpellini; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Giuseppe Lanci; ass.op. Gianfranco Transunto, Alessio Gelsini; fo. Armando Testa; mix. Franco Bassi, Armando Tarsia; tr. Franco Schioppa; par. Ilda Gilda De Guilm; f.sc. Angelo Samperi; uff.st. Maria Ruhle; interpreti: Luigi Proietti (prof. Enrico Nobili), Agostina Belli (Francesca De Renzi), Eleonora Giorgi (Piera), Christian De Sica (Daniele Venturoli), Mario Scaccia (mons. Alberoni), Adriana Asti (Irene Nobili), Franco Agostini (dr. Spina), Gino Pernice (dr. Bini), Monica Strebel (seconda assistente), Mario Pisu (il ministro), Mario Maranzana (il generale), Loredana Martinez (moglie di Daniele), Quinto Parmeggiani (dr. De Renzi), Franco Angrisano (direttore hotel), Armando Bandini (antiquario), Piero Tordi (ministro anziano), Enzo Robutti (Matteini), Salvatore Puntillo (prof. De Renzi), Enzo Maggio (prof. Gabrielli), John Karlsen (capo polizia straniera), Franco Mazzieri (il suo assistente), Francesco D’Adda (speaker TV), Oreste Lionello (un automobilista), Aldo Reggiani (fidanzato di Piera), Roberto Antonelli (uomo di mano della potenza straniera), Tom Felleghy (venditore scatole organiche), Ettore Carloni, Pupo De Luca, Leo Frasso, Aldo Rendine. Produttore: Silvio Clementelli per Clesi Cin.ca; durata: 106’; incasso:

1976

IL SOLDATO DI VENTURA (t.fr. La grande bagarre) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Castellano e Pipolo; scen. Castellano e Pipolo, Franco Verucci, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Marcello Masciocchi (Eastmancolor); mus. Guido e Maurizio De Angelis (la canzone «Oh Ettore» di O.Resti-G.e M.De Angelis è cantata da Bud Spencer); mo. Mario Morra; ass.mo. Roberto Sterbini; a.mo. Adelchi Marinangeli, Sandro Broglio; scg. Pier Luigi Pizzi; co. Dina Tirelli; a.co. Andrea Viotti; arr. Giovanni Silvestri; d.pr. Averroè Stefani; a.re. Neri Parenti; a.re. 2a unità Stefano Petruzzellis, Elio Girlanda; m.armi Giorgio Ubaldi; i.p. Vittorio Biferale, David Pash; s.p. Loredano Ulpiani; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Antonio Schiavo Lena, Idelmo Simonelli; ass.op. Claudio Tondi, Mario Masciocchi; fo Bruno Zanoli; eff.so. Roberto Arcangeli, Aurelio Pennacchia; eff.sp. Armando Grilli, Giovanni Corridori; tr. Luciano Giustini; par. Fausto De Lisio; f.sc. Giorgio Schwartze; amm. Walter Massi; interpreti: Bud Spencer (Ettore Fieramosca), Enzo Cannavale (Bracalone da Napoli), Angelo Infanti (Graiano d’Asti), Andréa Férreol (Leonora), Eros Pagni (Capoccio da Roma), Mario Scaccia (Gonzalo Pedro de Guadarrama), Mariano Rigillo (Albimonte da Peretola), Philippe Leroy (Guy de la Motte), Renzo Palmer (fra’ Ludovico da Rieti), Oreste Lionello (Giovenale da Vetralla), Antonio Orlando (Carrellario da Barletta), Marc Porel (duca di Namour), Mario Pilar (Salomone da Cavorà), Jacques Herlin (Paredes), Jacques Dufilho (Mariano Da Trani), Nerina Montagnani (madre di Mariano), Roy Bosier (Riccio da Milazzo), Franco Agostini (Romanello da Forlì), Gino Pernice (Fanfulla da Lodi), Guglielmo Spoletini (Miale da Milazzo), Ria De Simone (Stella), Loretta Persichetti (Fiammetta), Roberto Antonelli, Nicholas Barthe, Frederic De Pasquale (cavaliere inglese), Monica Strebel. Produttore: Mondial Te.Fi. (Roma), Cité Film, Les Films Jacques Leitienne, Labrador Film (Parigi), Impexci (Nimes); pr.es. Camillo Teti; durata: 115’; incasso: DIMMI CHE FAI TUTTO PER ME Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Suso Cecchi D’Amico da un racconto di Piero Chiara; scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Franco Di Giacomo (Technicolor); mus. Armando Trovajoli; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Sergio Muzzi; scg. Guido Josia; co. Danda Ortona; a.co. Francesca Zavaroni; arr. Bruno Cesari; d.pr. Gianni Cecchin; a.re. Neri Parenti; ass.re. Gian Maria Ferretto; i.p. Francesco Guerrieri; s.p. Paolo Pattini, Mario Cecchin; s.ed. Maria Pia

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Rocco; amm. Franco Penna; op. Giuseppe Lanci; ass.op. Maurizio Lamonica, Gianfranco Transunto; fo. Vittorio Massi; mix. Danilo Moroni; tr. Giuliano Laurenti; par. Elda Magnanti; m.armi Remo De Angelis; f.sc. Bruno Bruni; eff.sp. Giovanni Corridori; attr. Gianni Fiumi; intrepreti: Johnny Dorelli (dr. Francesco Salmarani), Pamela Villoresi (Mary Mancini), Andréa Férreol (Miriam Salmarani), Jacques Dufilho (Spinacroce), Grazia Maria Spina (Paola), Pino Caruso (il commissario), Stefano Amato (Mino Salmarani), Enzo Robutti (Felegatti), Ferdinando Murolo (Roberto Mancuso), Nanni Svampa (Bonomello, detto “Biondino”), Francesco D’Adda. Produttore: Leo Pescarolo per Euro International Film; durata: 100’; incasso: £ 411.000.000. 1977

AUTOSTOP ROSSO SANGUE (t.te. Wen du Krepierst-Lebe ich!) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Aldo Crudo liberamente tratto dal romanzo La violenza e il furore di Peter Kane; scen. Ottavio Jemma, Aldo Crudo, Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Franco Di Giacomo, Giuseppe Ruzzolini (Eastmancolor); mus. Ennio Morricone (le canzoni «Sunshine» di Morricone-De Natale-Duncan Smith è cantata da Gladrags, «Notturno per tre» cantata da Gladrags); mo. Antonio Siciliano; scg.e co. Giantito Burchiellaro; a.re. Maria Pia Rocco; interpreti: Franco Nero (Walter Mancini), Corinne Clery (Eve, sua moglie), David Hess (Adam Kunitz), Fausto Di Bella (capellone al bar), Pedro Sanchez (proprietario bar), John Loffredo (Hawk, un complice), Leon Lenoir, Carlo Puri (altro complice), Monica Zanchi, Benito Pacifico, Luigi Birri. Produttore: Bruno Turchettio e Mario Montanari per Explorer Film International, Medusa Distribuzione; durata: 102’; incasso: £ 190.000.000. CARA SPOSA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Franco Verucci; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini (Technospes); mus. Stelvio Cipriani, Daniele Patucchi (la canzone «Fili d’oro» è di Bongioanni-Capurro); mo. Mario Morra; ass.mo. Roberto Sterbini, Massimo Quaglia, Anna Bolli; scg. Giantito Burchiellaro; co. Massimo Bolongaro; arr. Bruno Amalfitano; d.pr. Alfredo Mirabile; a.re. Neri Parenti; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio Sabatini, Giorgio Bonando; fo. Pietro Spadoni; mic. Angelo Spadoni; mix. Danilo Moroni, Romano Pampaloni; tr. Giovanni Morosi; par. Paolo Franceschi, Franco Schioppa; f.sc. Sergio Fontana; c.s.m. Alberto Emidi; c.s.e. Remo Dolci; attr. Giovanni Fiumi, Roberto Moneta; sarta Adriana Manici; interpreti: Johnny Dorelli (Alfredo Menghini), Agostina Belli (Adelina), Lina Volonghi (Rosa Balestra), Enzo Cannavale (Salomone), Aristide Ronchi (Pasqualino Menghini), Mario Pilar (Giovannino), Marilda Donà (Liliana), Pina Cei (Elvira, madre di Alfredo), Carlo Bagno (suo uomo e aiutante), Livia Cerini (Carlina, la ricettatrice), Livia Dicorato (venditrice giocattoli), Guido Verdiani, Pietro Vial, Egidio Carrera. Produttore: Laser Film; durata: 110’; incasso: £ 481.500.000.

1978

COME PERDERE UNA MOGLIE E TROVARE UN’AMANTE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Gianfranco Bucceri, Roberto Leoni; scen. Gianfranco Bucceri, Roberto Leoni, Luigi Malerba; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini (Technospes); mus. Gianni Ferrio (la canzone «Golosona» di Ferrio è cantata da Johnny Dorelli); mo. Alberto Gallitti; ass.mo. Nadia Moscovini, Vivi Tonini; scg. Luciano Ricceri; co. Corrado Colabucci; a.co. Barbara Canevari; arr. Ezio Di Monte; a.arr. Paolo Biagetti; d.pr. Bruno Frascà; a.re. Neri Parenti; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio Sabatini; fo. Dino Fronzetti; mic. Davide Magara; tr. Giuliano Laurenti, Alfredo Moretti; par. Rosa Luciani; sc.acrob. Sergio Mioni; eff.sp. Giovanni Corridori; attr. Luciano Bispuri; f.sc. Pina Di Cola; interpreti: Johnny Dorelli (Alberto Castelli), Barbara Bouchet (Eleonora Rubens); Carlo Bagno (Anselmo), Elsa Vazzoler (Anita, sua moglie), Felice Andreasi (prof. Rossini), Enzo Cannavale (il falso santone indiano), Stefania Casini (Marisa), Toni Ucci (il frate francescano), Dino Emanuelli (l’uomo a letto), Piero Tordi (padre officiante matrimonio), Deddy Savagnone (suora infermiera), Annie Papa (moglie di Alberto), Ugo Maria Morosi (il suo amante), Tom Felleghy (assistente di Alberto), Gino Pernice, Edda Ferronao, Paola Maiolini, Pietro Zardini, Rosa Bruno. Produttore: Luigi Borghese per Cin.ca Alex; durata: 104’; incasso: £ 1.379.000.000. IL RITORNO DI CASANOVA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. dal romanzo di Arthur Schnitzler e da brani delle Memorie e altre opere di Giacomo Casanova; scen. Piero Chiara; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini; mus. Riz Ortolani; mo. Gian Maria Messeri; ass.mo. Mario Cinotti; scg.e co. Mario Ambrosino; d.pr. Cecilia Bigazzi; a.re. Neri Parenti; i.p. Viero Spadoni; s.p. Federico Franchini; s.ed.

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Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio Sabatini; fo. Ugo Celani; mix. Adriano Taloni; eff.so. Renato Marinelli; tr. Raul Ranieri; a.tr. Marcello Meniconi; par. Nerea Rosmanit; sarta Anna Orazi; c.s.m. Sergio Emidi; attr. Adriano Tiberi; ass.dop. Gabriella Bompani; interpreti: Giulio Bosetti (Giacomo Casanova), Piero Vida (Olivo), Grazia Maria Spina (Amalia), Francesca Marciano (Marcolina), Bianca Toccafondi, Carlo Simoni, Mirella D’Angelo, Piero Tordi, Enzo Robutti, Ettore Carloni, Dino Emanuelli, Dana Janker, Maria Cristina Ferri, Romina Pugno, Libero Grandi. Produttore: Monica Venturini per Filmes Cin.ca. Programmato in televisione in due parti: 6-8/1/1980. 1979

GEGE’ BELLAVITA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Pasquale Festa Campanile; scen. Ottavio Jemma; dir.fot. Silvano Ippoliti (Telecolor); mus. Riz Ortolani (la canzone «Nun me scuccià» di Ortolani-Jemma è cantata da Flavio Bucci); mo. Alberto Gallitti; ass.mo. Nadia Moscovini, Rosanna Landi; scg. Giantito Burchiellaro; co. Luciana Marinucci; o.g. Felice D’Alisera; a.re. Neri Parenti; i.p. Vittorio Bucci; s.p. Carlo Emmi; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Sasso; ass.op. Ettore Corso; fo. Ugo Celani; mix. Romano Checcacci; tr. Lamberto Marini; f.sc. Giuseppina Di Cola; uff.st. Francesca De Guida Canori; interpreti: Flavio Bucci (Gennarino Amato), Lina Polito (Agata), Marina Pagano, Marisa Laurito, Enzo Cannavale, Pino Caruso (il duca Attanasi), Anna Ria De Simone, Maria Pia Conte, Laura Trotter, Miranda Martino, Gabriella Miluzio, Salvatore Billa, Enzo Scutellaro, Vincenzo Ottieri, Umberto D’Ambrosio, Vincenzo Marazzino, Giovanni Febbraro, Marisa Harrison. Produttore: Koral International; durata: 105’; incasso: £ 209.000.000. IL CORPO DELLA RAGASSA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. dall’omonimo romanzo di Gianni Brera; adatt. Alberto Lattuada, Enrico Oldoini; scen. Enrico Oldoini, Ottavio Jemma; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini; mus. Riz Ortolani; mo. Alberto Gallitti; ass.mo. Nadia Moscovini; a.mo. Rosanna Landi; scg.e co. Ezio Altieri; ass.scg. Mauro Passi; ass.co. Cristiana Lafayette; d.pr. Giorgio Morra; a.re. Vivalda Vigorelli; i.p. Mario Della Torre; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Enrico Cortese; ass.op. Claudio Sabatini; fo. Domenico Dubbini; mix. Bruno Moreal; tr. Fabrizio Sforza; par. Paolo Borzelli; f.sc. Paul Ronald Pellet; c.s.e. Enrico Bellacci; c.s.m. Alberto Emidi; sarta Angela Silighini, Franca Lulli; uff.st. Enrico Lucherini, Irene Ghergo; interpreti: Enrico Maria Salerno (prof. Ulderico Quario), Lilli Carati (Teresa Aguzzi, detta Tirisin), Renzo Montagnani (Pasquale Aguzzi), Marisa Belli (Cecchina), Elsa Vazzoler (Caterina), Nino Bignamini (Erminio Alvarini), Clara Colosimo (la ruffiana), Giuliana Calandra (Laura Marengo), Luigi Pernice (Giovanni), Tom Felleghy (un ospite). Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; durata: 104’; incasso: £ 420.000.000. SABATO, DOMENICA E VENERDI’ (episodio DOMENICA) (t.sp. Sabado, domingo y viernes) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Castellano e Pipolo; dir.fot. Alejandro Ulloa, Giancarlo Ferrando (Eastmancolor); mus. Detto Mariano; mo. Mario Siciliano; ass.mo. Giancarlo Morelli, Maria Teresa Alessandroni; scg. Bartolomeo Scavia; ass.scg.e co. Luis Arguello; d.pr. Angelo Zemella, Jesus R.Folgar; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Manuel Sanchez; s.p. Josè Vicente Puentes, Riccardo Pintus; amm. Leonardo Curreri; s.ed. Mirella Roy Malatesta, Josè Vicente Fuente; op. Claudio Morabito, Eduardo Noè; ass.op. Bruno Cascio, Guillermo Pena; fo. Tullio Petricca, Sebastian Cabezas; tr. Franco Schioppa; par. Ilda Gilda De Guilmi, Wanda Piovesan; eff.so. Aldo Ciorba; interpreti: Barbara Bouchet (Enza), Michele Placido (Mario), Antonio Ferrandiz, Margot Cottens, Manuel Zarzo, Sergio Tardioli, Salvatore Ajesi; durata: 25’ ca. Produttore: Luciano Martino per Dania Film, Medusa Distribuzione, National Cin.ca (Roma), A.S. Film (Madrid); incasso: £ 1.110.000.000 Gli altri episodi sono Venerdì (Castellano e Pipolo), Sabato (Sergio Martino). IL LADRONE (t.fr. Le larron) Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile; scen. Renato Ghiotto, Ottavio Jemma, Santino Spartà, Stefano Ubezio; dir.fot. Giancarlo Ferrando (Telecolor); mus. Ennio Morricone; mo. Alberto Gallitti; a.mo. Nadia Moscovini, Rosanna Lanni; scg. Enrico Fiorentini; co. Mario Carlini; d.pr. Aldo Santarelli; o.g. Marco Lombardo; a.re. Vivalda Vigorelli; ass.re. Nouri Bourzid; s.ed. Maria Pia Rocco; op. Claudio Morabito, Bruno Cascio; fo. Ugo Celani; mix. Danilo Moroni; tr. Marcello Minoprio, Franco Schioppa; par. Mirella Ginnoto; sarta: Clary Mirolo; eff.so. Roberto Arcangeli, Enzo Di Liberto; interpreti: Enrico Montesano (Caleb), Edwige Fenech (Deborah), Bernadette Lafont (Appula), Claudio Cassinelli (Gesù), Enzo Robutti (soldato romano), Sara Girgenti Franchetti, Susanna

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Martinkova (Marta), Daniele Vargas (governatore Rufo), Anna Orso (Maria), Aurette Gay (ragazza del lupanare), Maria Stefania D’Amario, Marcella Petrella, Jamid Joudi, Marcef Ben Hadj Yahia. Produttore: Fulvio Lucisano, Franco Desiato, Tarak Ben Ammar per Italian International Film, Daimo Film (Roma), Cartago Film (Parigi), in collaborazione con Rai 2; durata: 112’; incasso: £ 1.411.000.000. Premio David di Donatello ad Enrico Montesano. 1980

QUA LA MANO (t.te. Don Tango-Hocwurden mit der kessen sohle) Film in due episodi: Sto così col papa e Il prete ballerino Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Enrico Oldoini, Pasquale Festa Campanile; scen. Ottavio Jemma, Enrico Oldoini; dir.fot. Giancarlo Ferrando (Telecolor); mus. Detto Mariano (canzone «Qua la mano» di Celentano-Mori è cantata da A.Celentano); mo. Alberto Gallitti; ass.mo. Nadia Moscovini, Rosanna Landi, Ornella Chistolini; a.mo. Adelchi Marinangeli; scg. Enrico Fiorentini, Enrico Tovaglieri; co. Mario Carlini; d.pr. Eros Lafranconi; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Lamberto Palmieri, Angelo Zemella; s.p. Cecilia Valmarana, Riccardo Pintus; s.ed. Mirella Malatesta; op. Enrico Lucidi; ass.op. Bruno Cascio, Paolo Drago Ferrante, Ettore Corso; coreog. Franco Miseria; fo. Amedeo Casati, Domenico Dubbini; mix. Romano Checcacci, Danilo Moroni; tr. Alfredo Marazzi, Mario Di Salvio; par. Rosa Luciani, Roberto Magnani; sarte Maria Fanetti, Corinne Guzzinati; cass. Alfonso Farano; interpreti: ep. Sto così col papa: Enrico Montesano (Orazio Imperiali), Philippe Leroy (il papa), Mario Carotenuto (Marotta), Adriana Russo (Ersilia Imperiali); ep. Il prete ballerino: Adriano Celentano (don Fulgenzio), Renzo Montagnani (Libero Battaglini), Lilli Carati (Rossana), Carlo Bagno (il vescovo), Enzo Robutti (Benigno), Dino Emanuelli (Fausto), Gigi Sammarchi (intervistatore TV), Andrea Roncato (presentatore TV). Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; durata: 130’; incasso: £ 11.150.000.000. Campione d’incassi della stagione 1979-80. Primo film italiano a sfondare il muro dei dieci miliardi d’incasso. Premio David di Donatello ad Enrico Montesano come miglior attore. MANOLESTA Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Ottavio Jemma, Enrico Oldoini; scen. Enrico Oldoini; dir.fot. Giancarlo Ferrando; mus. Detto Mariano; mo. Amedeo Salfa; scg. Giantito Burchiellaro; arr. Giovanni Natalucci; co. Nicoletta Ercole; d.pr. Felice D’Alisera; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luca D’Alisera; s.ed. Mirella Malatesta; op. Enrico Lucidi; ass.op. Bruno Cascio, Gianfranco Torinti; fo. Domenico Dubbini; c.tr. Franco Di Giacomo; tr. Roberta Petrini; par. Jole Angelucci; c.s.e. Armando Moreschini; c.s.m. Matteo Giordano; f.sc. Alfonso Avincola; interpreti: Tomas Milian (Gino Quirino), Giovanna Ralli (dott.ssa Angela De Maria), Paco Cardini (Bruno Quirino), Armando Pugliese (Rosario), Adriana Russo (una prostituta), Clara Colosimo (giudice civile), Patrizia Tesone, Massimo Pittarello, Tom Felleghy, Valentino Simeoni, Ennio Antonelli, Paolo Fiorino. Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis; durata: 95’; incasso:

1981

CULO E CAMICIA Film in due episodi: Il televeggente e Un uomo, un uomo e…evviva, una donna! Regia Pasquale Festa Campanile; dir.fot. Giuseppe Ruzzolini, Giancarlo Ferrando (Telecolor); mus. Detto Mariano; mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Nadia Boggiani, Raffaella Zita, Rossana Cingolani; scg. Enrico Fiorentini, Enrico Tovaglieri; ass.scg. Giancarlo Capuano; co. Mario Carlini, Ezio Altieri; d.pr. Felice D’Alisera, Angelo Zemella; i.p. Franco Mancarella, Mario Olivieri, Gilberto Scarpellini; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luca D’Alisera, Angelo Mainardi, Riccardo Pintus; s.ed. Maria Luisa Merci, Anna Maria Montanari; op. Enrico Lucidi, Enrico Cortese; ass.op. Bruno Cascio, Paolo Drago Ferrante, Claudio Sabatini fo. Domenico Pasquadibisceglia, Giuseppe Muratori; mix. Danilo Moroni; tr. Mario Di Salvio; par. Wanda Piovesan, Luciano Vito; sarta Corinna Guzzinati, Maria De Angelis; c.s.e. Armando Moreschini, Enrico Bellacci; c.s.m. Matteo Giordano, Giancarlo Rocchetti; f.sc. Mario Falsaperla Mancinelli, Giuseppe Botteghi. Ep. Il televeggente: sogg. Ottavio Jemma, Francesco Venturoli; scen. Ottavio Jemma; interpreti: Enrico Montesano (Riccardo Antuono), Daniela Poggi (Ornella), Gino Pernice (Carlo Benedetti), Gianni Agus (Panebianco), Ennio Antonelli (salumiere); episodio Un uomo, un uomo e…evviva, una donna!: sogg. Stefano Ubezio; scen. Stefano Ubezio, Ottavio Jemma, Renato Pozzetto; interpreti: Renato Pozzetto (Renato), Leopoldo Mastelloni (Alberto Maria), Maria Rosaria Omaggio (Ella Ferrari), Carlo Bagno, Carla Monti (genitori di Renato). Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro, Intercontinental Film Company; durata: 130’; incasso totale: £ 11.208.000.000. NESSUNO E’ PERFETTO

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Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Bernardino Zapponi, Enrico Oldoini, Franco Ferrini; scen. Enrico Oldoini, Franco Ferrini, Renato Pozzetto; dir.fot. Alfio Contini (EastmancolorTelecolor); mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Nadia Boggiani; scg. Giantito Burchiellaro; arr. Giovanni Natalucci co. Gaia Romanini Rossetti; d.pr. Felice D’Alisera; i.p. Gilberto Scarpellini, Mario Olivieri; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luca D’Alisera; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Sandro Tamborra; ass.op. Maurizio Lucchini, Carlo Montuori, Vasco Benucci; fo. Ugo Celani, Domenico Dubbini; c.tr. Mario Di Salvio; tr. Alfio Meniconi, Alvaro Rossi; par. Vanda Maria Luisa Piovesan; c.s.e. Antonio Leurini; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; sarte Maria De Angelis, Anna De Santis, Lamberta Baldacci; attr. Paolo Luciani; f.sc. Vincenzo Marinelli Falsaperla; interpreti: Renato Pozzetto (Guerrino Castiglioni), Ornella Muti (Chantal), Lina Volonghi (Agata), Gabriele Tinti (Nanni), Felice Andreasi (Enzo), Massimo Boldi (“Lingua profonda”), Franco Visentin, Rodolfo Magnaghi, Benedetto Ravasio, Danila Grassini. Produttore: Achille Manzotti per International Film Company, Filmauro; durata: 104’; incasso: £ 10.208.000.000. 1982

PIU’ BELLO DI COSI’ SI MUORE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Antonio Amurri, Ottavio Jemma dal romanzo omonimo di Antonio Amurri; dir.fot. Alfio Contini (Telecolor); mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo Salfa; scg. Andrea Crisanti; co. Mario Carlini, Piero Tosi; i.p. Mario Olivieri, Gilberto Scarpellini; d.pr. Ennio Onorati; a.re. Maria Pia Rocco; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Sandro Tamborra; ass.op. Sandro Grossi, Carlo Maria Montuori; fo. Raffaele De Luca; tr. Mario Di Salvio; amm. Enrico Savelloni; f.sc. Gianfranco Salis; interpreti: Enrico Montesano (Spartaco Meniconi), Vittorio Caprioli (barone Nereo), Monica Guerritore (Amelia Meniconi), Ida Di Benedetto (Ottavia), Toni Ucci (Agenore), Paola Borboni (la baronessa madre), Giovanni Attanasio (il commendatore omosessuale), Franco Caracciolo, Paolo Fiorino, Maurizio Mattioli (il fotografo), Giuseppe Tuminelli. Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis; durata: 99’; incasso: BINGO BONGO Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Enrico Oldoini, Franco Ferrini; scen. Enrico Oldoini, Franco Ferrini, Franco Marotta, Laura Toscano; dir.fot. Alfio Contini; mus. Pinuccio Pirazzoli (le canzoni «Giungla di città» e «Uh…Uh» sono cantate da Adriano Celentano); mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Ornella Chistolini, Gabriella Zita; scg. Giantito Burchiellaro; ass.scg. Massimo Spano; co. Mario Ambrosino; ass.co. Natalia Verdelli; d.pr. Angelo Zemella; o.g. Giorgio Morra; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Franco Mancarella; s.p. Riccardo Pintus, Enrico Carozzi; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Enrico Sasso; ass.op. Carlo Maria Montuori, Roberto Calvi; fo. Amedeo Casati; mix. Romano Pampaloni; m.armi Sal Borgese; amm. Romano Cannavacciuolo, Mario Lupi; eff.sp.tr. Rino Carboni; tr. Gabriella Trani; parr. Maria Luisa Piovesan; eff.sp. Antonio Corridori; sarta Corinne Guzzinati; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; c.s.e. Domenico Cavaliere; attr. Vittorio Troiani; eff.so. Luciano e Massimo Anzellotti; interpreti: Adriano Celentano (Bingo Bongo), Carole Bouquet (Laura), Felice Andreasi (scienziato amico di Laura), Enzo Robutti (altro scienziato), Walter D’Amore, Roberto Marelli, Sal Borgese (custode), Alfio Patanè, Elizabeth Cobben, Maurizio Tabbiani, Mario Barilla, Guido Spadea, Andrea Montuschi. Produttore: Mario e Vittorio Cecchi Gori per Intercapital; durata: 100’; incasso: £ 3.049.298.000; incasso totale: £ 13.832.000.000 “PORCA VACCA!” Regia Pasquale Festa Campanile; sogg. Marcello Coscia, Pasquale Festa Campanile; scen. Massimo De Rita; dir.fot. Alfio Contini; mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo Salfa; scg.e arch. Guido Josia; co. Luca Sabatelli, Ugo Pericoli; d.pr. Angelo Zemella; i.p. Cosimo Barbera, Franco Mancarella; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luigi Lagrasta, Angelo Mainardi, Agostino Zappa; s.ed. Marisa Merci, Lucilla Clementelli; m.armi Rocco Cerro; interpreti: Renato Pozzetto (Primo Malvisetti, detto Primo Baffo), Aldo Maccione (Tomo Secondo), Laura Antonelli (Marianna), Raymond Bussières (zio Nicola), Raymond Pellegrin (il generale), Adriana Russo (la ballerina), Massimo Sarchielli (il capitano), Gino Pernice (il “professore”), Toni Ucci (soldato romano), Enzo Robutti (capitano Caimani del Piave), Corrado Olmi (ufficiale medico), Antonio Marsina (ufficiale austriaco), Ennio Antonelli (caporale), Antonio Orlando (l’ex-seminarista), Maurizio Mattioli (soldato bolognese), Consuelo Ferrara, Edoardo Sala, Dino Cassio, Roberto Ceccacci, Giuliano Manetti, Maurizio Francisci, Paolo Fiorino, Lucio Salis, Antonio Pollio, Maria Novella Ercelsi, Rita Della Torre, Luciano D’Antoni, Dino Censki, Antonio Viespoli. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film (Roma); durata: 93’; incasso:

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LA RAGAZZA DI TRIESTE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile; scen. Ottavio Jemma; dir.fot. Alfio Contini (Eastmancolor); mus. Riz Ortolani; mo. Amedeo Salfa; ass.mo. Loredana Cruciani, Loretta Mattoli, Rossana Cingolani; scg. Ezio Altieri; arr. Massimo Spano; co. Wayne Finkelman; ass.co. Rosanna Andreoni; d.pr. Angelo Zemella; i.p. Elio Saroli; a.re. Maria Pia Rocco; s.p. Luigi Laurasta, Pier Paolo Bisleri; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Enrico Sasso; ass.op. Carlo Maria Montuori, Maurizio Fiorentini; fo. Amedeo Casati, mic. Alfredo Petti; mix. Gianni D’Amico; tr. Mario Di Salvio; par. Paolo Franceschi; sarta Orsola Liberati; c.s.e. Sergio Spila; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; amm. Raffaello Saragò; attr. Vittorio Troiani; eff.sp. Aldo Frollini; f.sc. Vincenzo Falsaperla; interpreti: Ben Gazzara (Dino Romani), Ornella Muti (Nicole), Mimsy Farmer (Valeria), Jean-Claude Brialy (dott. Marin), William Berger (barman), Andréa Férreol, Consuelo Ferrara, Liliana Dell’Aquila, Patrizia Lafonte, Diego Pesaola (bagnino), Romano Puppo, Bianca Maria Toso. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film; pr.es. Luciano Luna; durata: 97’; incasso: £ 4.170.000.000. 1983

IL PETOMANE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli; dir.fot. Alfio Contini; mus. Carlo e Paolo Rustichelli; mo. Franco Fraticelli; scg.e co. Dario Cecchi; coll. Mario Carlini; d.pr. Eros Lafranconi; a.re. Maria Pia Rocco; rumori Alvaro Gramigna, Fernando Caso; interpreti: Ugo Tognazzi (Joseph Pujol), Mariangela Melato (Catherine), Vittorio Caprioli (Pitalugue), Ricky Tognazzi (Michel Pujol), Gianmarco Tognazzi (Lucien Pujol), Enzo Robutti (magistrato istruttore), Felice Andreasi (avv.Mercier), Giuliana Calandra (Giulia), Anna Maria Gherardi (Misia Sert), Peter Berling (Ziedler), Sebastiano Lo Monaco (Gide), Sergio Solli (Montesquieu), Cesare Rufini (Tamagno), Mila Stanic (Re Jane), Filippo De Gara (Schonberg), Riccardo Parisio Perrotti (marchese De La Tour d’Asir), Roberto Antonelli (avv. Constantin), Piero Nuti (presidente del tribunale), Massimo Sarchielli (pubblico accusatore), Raimondo Penne (avv.di parte civile), Adriana Innocenti (la petomane), Flavio Colusso (Antoine Pujol), Stefano Roffi (Marco Pujol), Giovanni Grimaldi (Louis Pujol), Piero Tordi (capo di stato francese), Roberto Della Casa (cancelliere), Corrado Olmi (testimone), Nicoletta Piersanti (signora che sviene), Sergio Rossi (re d’Inghilterra), Franco Ressel (Guglielmo II) . Produttore: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Filmauro; durata: 96’; incasso: UN POVERO RICCO Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.Ottavio Jemma, Francesco Venturoli; scen. Renato Pozzetto, Ottavio Jemma (n.ac.); dir.fot. Franco Di Giacomo; mus. Stelvio Cipriani; mo. Amedeo Salfa; scg. Ezio Altieri; co. Rosanna Andreoni; d.pr. Gianni Stellitano; a.re. Maria Pia Rocco; s.ed. Anna Maria Montanari; interpreti: Renato Pozzetto, Ornella Muti, Piero Mazzarella (Stanislao), Patrizia Fontana, Nanni Svampa, Antonio Marsina, Ugo Gregoretti, Corrado Olmi, Mila Stanic, Gabriele Tozzi, Dino Cassio, Bruno Rosa, Giorgio Serafini, Italo Colini, Anna Maria Natalini, Massimo Mirani, Amedeo Merli. Produttore: Achille Manzotti per Faso Film; pr.es. Luciano Luna; durata: 87’; incasso:

1984

UNO SCANDALO PERBENE Regia Pasquale Festa Campanile; sogg.e scen. Suso Cecchi D’Amico; dir.fot. Alfio Contini (Telecolor); mus. Riz Ortolani; mo. Antonio Siciliano; ass.mo. Giancarlo Morelli; scg.arch. Enrico Fiorentini; arr. Giancarlo Galvani; co. Mario Carlini; ass.co. Francesco Crivellini; o.g. Raimondo Castelli; d.pr. Roberto Giussani; a.re. Maria Pia Rocco; i.p. Giancarlo Montesano; s.p. Antonio Saragò; s.ed. Anna Maria Montanari; op. Sandro Tamborra; ass.re. Patrizia Regazzoni; fo. Amedeo Casati; mic. Alfredo Petti; mix. Danilo Moroni; tr. Alfredo Marrazzi; par. Ida Gilda De Guilmi; sarta Luciana Mancini, Adalgisa Mosca; amm. Enrico Savelloni, Franco Marrasi; c.s.e. Sergio Spila; c.s.m. Giancarlo Rocchetti; f.sc. Enso Falessi; interpreti: Ben Gazzara (lo smemorato), Giuliana De Sio (Giulia Canella), Valeria D’Obici (Camilla Ghidini), Vittorio Caprioli (Renzo Canella), Franco Fabrizi (conte Guarienti), Carlos De Carvalho (conte De Besi), Armando Bandini (Orlando Gastaldelli), Giuliana Calandra (Maria Gastaldelli), Vincenzo Crocitti (giornalista), Enzo Robutti (il professore), Clara Colosimo (tenutaria), Siria Betti, Filippo De Gara, Marilena Donati, Mario Farnese, Tom Felleghy, Dante Fioretti, Julian Jenkins, Girolamo Marzano, Giovanna Mainardi, Ernesto Massi, Nazzareno Natale, Graziella Polesinanti, Sergio Rossi, Massimo Sarchielli, Ettore Scarnecchia, Alessandro Serra, Sergio Solli, Mila Stanic, Sergio Tardioli, Anna Maria Zomparelli. Produttore: Fulvio Lucisano per Italian International Film, Screen World, Rai 2; pr.as. Pierluigi Carbone; durata: 103’; incasso: £ 2.351.000.000.

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Soggetti e sceneggiature 1949

Faddija/La legge della vendetta (re. Roberto Bianchi Montero; sogg. Giovanni D’Eramo, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Adolfo Franci; scen. P.Festa Campanile, Giovanni D’Eramo, Adolfo Franci, Fulvio Palmieri, Roberto Bianchi Montero) 1956 Gli innamorati (re. Mauro Bolognini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen. P.Festa Campanile, M.Franciosa, Giuseppe Mangione, Giuseppe Berto, Mauro Bolognini, Sandro Continenza, Pasquale Puntieri) 1957 Poveri ma belli (re. Dino Risi; scen. Dino Risi, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa) La donna che venne dal mare (re. Francesco De Robertis; scen. Francesco De Robertis, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Giuseppe Mangione) La nonna Sabella (re. Dino Risi; sogg. dal romanzo omonimo di Pasquale Festa Campanile; scen. P.Festa Campanile, Massimo Franciosa, Ettore Giannini, Dino Risi) Il cocco di mamma (re. Mauro Morassi; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen. E.Bistolfi, P.Festa Campanile, M.Franciosa, Luciano Vincenzoni) L’incanto della foresta (re. Alberto Ancillotto; comm.e dialoghi Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa) Terrore sulla città (re. Anton Giulio Majano; sogg. Giovanni D’Eramo, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa) Vacanze a Ischia (re. Mario Camerini; scen. Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Mario Camerini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa) 1958 Belle ma povere (re. Dino Risi; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, MassimoFranciosa) Giovani mariti (re. Mauro Bolognini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen. Piero De Bernardi, Enzo Curreli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luciano Martino, Mauro Bolognini, Pier Paolo Pasolini) Totò e Marcellino (re. Antonio Musu; sogg. Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile;scen. Pasquale Festa Campanile, Diego Fabbri, Antonio Musu) Ladro lui, ladra lei (re. Luigi Zampa; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Zampa) Venezia, la luna e tu (re. Dino Risi; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Dino Risi) Poveri milionari (re. Dino Risi) 1959 Il magistrato (re. Luigi Zampa; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Zampa) La cento chilometri (re. Giulio Petroni; sogg. e scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Giulio Petroni) Ferdinando I re di Napoli (re. Gianni Franciolini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen.P.Festa Campanile, M.Franciosa,G.Franciolini) Tutti innamorati (re. Giuseppe Orlandini; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; scen. P.Festa Campanile, M.Franciosa, Ugo Guerra, Franco Rossi, Giorgio Prosperi) 1960 Rocco e i suoi fratelli (re. Luchino Visconti; scen. Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli) Le tre “eccetera” del colonnello (re. Claude Boissol) 1961 La viaccia (re. Mauro Bolognini; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Vasco Pratolini) L’assassino (re. Elio Petri; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Elio Petri, Tonino Guerra) 1962 La bellezza di Ippolita (re. Gianfranco Zagni; scen. Giancarlo Zagni, Elio Bartolini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa) Smog (re. Franco Rossi; scen. Franco Brusati, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Ugo Guerra) Le quattro giornate di Napoli (re. Nanni Loy; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Nanni Loy; scen. Pasquale Festa Campanile, Carlo Bernari, Massimo Franciosa, Nanni Loy) 1963 Una storia moderna: l’ape regina (re. Marco Ferreri; scen. Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa)

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Il Gattopardo (re. Luchino Visconti; scen. Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luchino Visconti) In Italia si chiama amore (re. Virgilio Sabel; scen. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Magni, Virgilio Sabel)

TEATRO 1963 1970

1957 1975 1977 1980 1982 1983 1985 1986

Rugantino Anche se vi voglio un gran bene I venti zecchini d'oro

BIBLIOGRAFIA La nonna Sabella, Bompiani Conviene far bene l'amore, Bompiani Il ladrone, Bompiani Il peccato, Bompiani La ragazza di Trieste, Bompiani Per amore, solo per amore, Bompiani La strega innamorata, Bompiani Buon Natale...Buon anno, Bompiani (postumo)

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Bibliografia Generale Opere generali AA.VV., Luigi Magni. Storia e romanità, dramma, melodramma e satira, ANCCI, Assisi, 1997 AA.VV., Mauro Bolognini. Il fascino della forma, ANCCI, Assisi, 1996 Henri Bergson, Il riso, Rizzoli, Milano, 1991 Claude Beylie, I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. 3-4, Ed.Riuniti, Roma, 1993 Gian Piero Brunetta, Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1995 Antonio Bruschini - Antonio Tentori, Città violente, Tarab, Firenze, 1998 Luigi Calcerano – Giuseppe Fiori, Guida alla lettura di Agatha Christie, Mondadori, Milano, 1991 Virginia Caprioli, Vittorio e io, Marsilio, Venezia, 1997 Francesco Casetti - Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1994 Daniela Catelli, Ciak si trema. Guida al cinema horror, Theoria, Roma – Napoli, 1996 Alberto Cattini, Luis Buñuel, Il castoro cinema, Milano, 1995 Agatha Christie, Macabro quiz, Mondadori, Milano, 1987 Maurizio Colombo – Antonio Tentori, Lo schermo insanguinato. Il cinema italiano del terrore 19571989, Solfanelli, Chieti, 1990 Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1987 Stefano Della Casa, Riccardo Freda, Bulzoni, Roma, 1999 Fernaldo Di Gianmatteo, Dizionario universale del cinema - I film, Editori Riuniti, Roma, 1995 Fernaldo Di Gianmatteo, Dizionario universale del cinema - Gli autori, Ed.Riuniti 1996 Serghej M. Ejzenstejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia, 1992 Aldo Fittante, Questa è la storia…Celentano nella musica, nel cinema e in televisione, Il castoro cinema, Milano, 1997 Goffredo Fofi, Franca Faldini, L'avventurosa storia del cinema italiano 1960 - 1969, Feltrinelli, Milano, 1981 Goffredo Fofi, Franca Faldini, Cinema italiano 1970 - 1984, Mondadori, Milano, 1984 Franco Fossati – Roberto Di Vanni, Guida al giallo, Gammalibri, Roma, 1980 Franco Fossati, Dizionario del cinema poliziesco, Vallardi, Milano, 1994 Lucio Fulci, Miei mostri adorati, Pendragon, Bologna, 1995 Enrico Ghidetti – Giorgio Luti, Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, Editori Riuniti, Roma, 1997 Enrico Giacovelli, Pietro Germi, Il castoro cinema, Milano, 1991 Marco Giusti, Dizionario del cinema italiano stracult, Sperling & Kupfer, Roma, 1999 Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti, La Nuova Italia, Firenze, 1983 Giorgio Gosetti, Luigi Comencini, La Nuova Italia, Firenze, 1988 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma, 1991 Giovanni Grazzini, Eva dopo Eva. La donna nel cinema italiano, Laterza, Bari, 1980 Giovanna Grignaffini, René Clair, Il castoro cinema, Milano, 1995 Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1991 Guido Liguori, Antonio Smargiasse, Ciak si gioca!, Baldini & Castoldi, Milano, 2000 Leo Longanesi, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario, Longanesi, Milano, 1947 Niccolò Machiavelli, Il Principe, La Nuova Italia, Firenze, 1991 Emanuela Martini, Storia del cinema inglese 1930-1990, Marsilio, Venezia, 1991 Paolo Mereghetti, Dizionario dei film 1996, Baldini & Castoldi, Roma, 1996 Christian Metz, La significazione nel cinema, Bompiani, Milano, 1964 Lino Miccichè, Cinema italiano: gli anni '60 e oltre, Marsilio, Venezia, 1996 Claudia e Giovanni Mongini, Storia del cinema di fantascienza, Fanucci, Roma, 1999 Laura, Luisa, Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei film 1999, Zanichelli, Bologna, 1998 Ugo Moretti, Doppia morte al governo vecchio, Longanesi, Roma, 1960 Luca M.Palmerini – Gaetano Mistretta, Spaghetti Nightmares, M & P, Roma, 1996 Giampaolo Pansa, Lo sfascio, Sperling & Kupfer, Roma, 1987 Giampaolo Pansa, L’intrigo, Sperling & Kupfer, Roma, 1990 Giampaolo Pansa, Il regime, Sperling & Kupfer, Roma, 1991 Philippe Paraire, Il cinema di Hollywood, Gremese, Roma, 1990 Giuliano Pavone, Giovannona Coscialunga a Cannes. Storia e riabilitazione della commedia all’italiana anni ’70, Tarab, Firenze, 1999 Walter Pedullà, Le caramelle di Musil, Rizzoli, Milano, 1993 Walter Pedullà, La narrativa italiana contemporanea 1940-1990, Newton Compton, Roma, 1995 Luigi Pirandello, L’umorismo, Mondadori, Milano, 1992

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Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano - I registi, Gremese 1992 Roberto Poppi, Enrico Lancia, Dizionario del cinema italiano - I film, vol.1--5, Gremese, Roma, 1990-2000 Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Bari, 1994 Tatti Sanguineti (a cura di), Italiataglia, Transeuropa, Ancona, 1999 Antonello Sarno, Il cinema dell’orrore, Newton Compton, Roma, 1996 Francesco Savio, Cinecittà anni ’30, Bulzoni, Roma, 1979 Mario Sesti, Mario Sebastiani, Delitto per delitto, Lindau, Torino, 1998 François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma, 1977 Colin Watson, Snobbery with violence, Eyre Methuen, Londra, 1979 Opere specifiche sulla commedia italiana Marco Bertolino – Ettore Ridola, Vizietti all’italiana. L’epoca d’oro della commedia sexy, Igor Molino Editore, Firenze, 1999 Marco Bertolino – Igor Molino Padovan, Vai avanti tu che a voi viene da ridere, «Amarcord», IV, 16, gen-febb.1999 O. Caldiron, Totò, Gremese, Roma, 1980 Masolino D'Amico, La commedia all'italiana – Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Mondadori, Milano, 1985 Enrico Giacovelli, La commedia all'italiana, Gremese, Roma, 1990 (1996) Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere. Una storia del cinema comico italiano, Lindau, Torino, 1999 Jean Gili, Arrivano i mostri - I volti della commedia italiana, Cappelli, Bologna, 1980 Jean Gili, La comédie italienne, Henry Veyrier, Parigi, 1983 Maurizio Grande, Abiti nuziali e biglietti di banca – La società della commedia nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 1986 Maurizio Grande, Il cinema di Saturno – Commedia e malinconia, Bulzoni, Roma, 1992 Ernesto G. Laura, Comedy Italian Style, A.N.I.C.A., Roma, 1981 Igor Molino Padovan, Altro che Dustin Hoffman…, «Amarcord», II, 7, mar.-apr. 1997 Riccardo Napolitano (a cura di), Commedia all’italiana. Angolazioni, controcampi, Gangemi, Roma, 1986 Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’italiana. Parlano i protagonisti, Gangemi, Roma, 1986 A. Viganò, Commedia all’italiana in 100 film, Le Mani, Recco, 1995 Opere, saggi e articoli specifici sugli autori e i film Steno Steno, Sotto le stelle del '44, Sellerio, 1994 Bruno Ventavoli, Al diavolo la celebrità, Lindau, Torino, 2000 Angelo Olivieri, L'imperatore in platea, Dedalo, Bari, 1984 G. Santarelli, Il duo Steno – Monicelli, «Rivista del cinematografo», a. XXIV, 2, 1951 Steno, Perché in Italia…, «Rivista del cinematografo», a. XXXVIII, 7, lug. 1965 L. Penna, Le disavventure di Giacomo Casanova, «Cinema nuovo», n.53, 25.2.1955 Anonimo, La commedia politica o l’ombra della restaurazione, «Rivista del cinematografo», 12, dic.1972 Anonimo, Steno, in Roger Boussinot (a cura di), Encyclopedie du cinéma, Bordis, Paris, 1989 Tullio Kezich, «La Repubblica», 15.3.1988 I FILM Al diavolo la celebrità E. Fecchi, «Intermezzo», 2, 3.1.1950 Totò cerca casa Ermanno Contini, «Il Messaggero di Roma», 15.2.1949; Arturo Lanocita, «Il Nuovo Corriere della Sera», 15.12.1949; Ennio Flaiano, «Il Mondo», 31.12.1949 Vita da cani Giuseppe Marotta, «L’Espresso», 15.11.1950

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E’ arrivato il cavaliere F.Gabella, «Intermezzo», 2, 31.1.1951 Guardie e ladri Oreste Del Buono, «Milano Sera», 22.12. 1951; Guido Aristarco, «Cinema», 77, 1951; Lamberto Sechi, «Settimana Incom Illustrata», 5.1.1952; N.Ghelli, «Bianco e Nero», 1, 1952; G.Carancini, «Eco del cinema e dello spettacolo», 16, 1952; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 22.12.1951; André Bazin, «Cahiers du cinéma», 13, 1952; Corrado Alvaro, «Il Mondo», IV, 1, 5.1.1952 Totò e i re di Roma Vice, «Cinema Nuovo», 1.1.1953; Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 19.10.1952; Ugo Zatterin, «Il Giornale d’Italia», 19.10.1952 Totò e le donne Tino Ranieri, «Rassegna del film», 11.2.1953; Alfredo Orecchio, «Paese Sera», 28.12.1952; Filippo Sacchi, «Epoca», 17.1.1953 Totò a colori Alberto Moravia, «Al cinema»; Arturo Lanocita, «Corriere della sera», 9.4.1952; Gianluigi Rondi, «Il Tempo», 13.4.1952; Alberto Albertazzi, «Intermezzo», 7/8, 30.4.1952; M.Siniscalco, «Rassegna del film», 1/2, Mar. 1953 L’uomo, la bestia e la virtù Giulio Cesare Castello, «Cinema Nuovo», 108, 30.4.1953; Tommaso Chiaretti, «L’Unità», 10.5.1953; Ermanno Contini, «Il Messaggero di Roma», 10.5.1953 Cinema d’altri tempi Ezio Colombo, «Festival», 53, 2.1.1954; Vice, «Cinema nuovo», 26, 31.12.1953; G. Santarelli, «Rivista del cinematografo», a. XXVII, 3, mar. 1954; F.Montesanti, «Cinema N.S.», 118, 30.9.1953; Giulio Cesare Castello, «Cinema N.S.», 124, 30.12.1953 Un giorno in pretura N.Ghelli, «Rivista del cinematografo», 4, 1954; L. Quaglietti, «L’Eco del cinema», 67, 28.2.1954 Le avventure di Giacomo Casanova Anonimo, «Cinema nuovo», 53, 25.2.1955; Tatti Sanguineti (a cura di), Italiataglia, Transeuropa, cit. Un americano a Roma Anonimo, «Cinema nuovo», 53, 25.2.1955; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 24.6.1995 Piccola posta Vice, «La Voce Repubblicana», 24.12.1955 Mio figlio Nerone Pietro Pintus, «Gazzetta sera», 20.9.1956 Susanna tutta panna Alberto Albertazzi, «Intermezzo», 18, 30.9.1957 Femmine tre volte Alberto Albertazzi, «Intermezzo», 19/20, 30.10.1957 Guardia, ladro e cameriera Vice, «Il Tempo», 23.3.1958 Mia nonna poliziotto U. Tani, «Intermezzo», 20/21, 15.11.1958

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Totò nella Luna Leo Pestelli, «La Stampa», 29.11.1958; Anonimo, «Il Giorno», 17.12.1958; Anonimo, «Corriere d’informazione», 19.12.1958; Valentino De Carlo, «La Notte», 19.12.1958 Totò, Eva e il pennello proibito U. Tani, «Intermezzo», 6, 31.3.1959; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 15.2.1959; Arturo Lanocita, «Corriere della Sera», 15.2.1959; Valentino De Carlo, «La Notte», 16.2.1959 I tartassati Claudio G.Fava, «Corriere Mercantile», 23.4.1959; Maurizio Liverani, «Paese Sera», 12.4.1959; Alberto Albertazzi, «Intermezzo»,15.4.1959; Leo Pestelli, «La Stampa», 17.4.1959 Tempi duri per i vampiri U.Tani, «Intermezzo», 22/23, 15.12.1959 Un militare e mezzo Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. XLVIII, 1960 Letto a tre piazze Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 15.9.1960; Vice, «Il Messaggero di Roma», 11.9.1960; Vice, «Roma», 17.9.1960 A noi…piace freddo Anonimo, «Cinéma ’61», 56, Parigi, Mag. 1961; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 17, nov. 1960; «Le vostre novelle», 32, 1960; «Cinémonde», 1392, 11.4.1961; Pietro Bianchi, «Il Giorno», febb. 1961; Valentino De Carlo, «La Notte», 4.2.1961; R.Maccario, «L’Italia», 7.8.1960 Psycosissimo Valentino De Carlo, «La Notte», 2.3.1961; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 28/29, febb. 1962; «Le vostre novelle», 18, 1961; Vice, «Il Tempo», 10.3.1961; B. Crowter, «The New York Times», 8.9.1962; G.Gauthier, «Saison ’64», 1964 La ragazza di mille mesi Vice, «Avanti!», 3.9.1961; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 27, dic. 1961; «Le vostre novelle», 49, 1961; Anonimo, «Il Giorno», 3.9.1961; Anonimo, «Corriere della Sera», 3.9.1961; Anonimo, «Fotogramas», 883, 17.9.1965; R. Lefèvre, «Saison ’64», 1964 I moschettieri del mare U. Tani, «Intermezzo», 11/12, 30.6.1962; Anonimo, «Fiera del cinema», 12, dic. 1961, 2, feb.1962, 8, ago. 1962; Anonimo, «Cinémonde», 1480, 18.12.1962; P.A.B., «Cinérevue», 41, 13.10.1961 Totò Diabolicus Morando Morandini, «Stasera», 30.4.1962; «Fiera del cinema», 3, mar. 1962, 4, apr. 1962; U. Tani, «Intermezzo», 7/8, 30.4.1962; Anonimo, «Mascotte», 6, 31.3.1962; Valentino De Carlo, «La Notte», 30.4.1962; Vice, «Il Messaggero», 7.4.1962 Copacabana Palace Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. LIII, 1963 I due colonnelli Valentino De Carlo, «La Notte», 12.1.1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 12, dic.1962; Giuseppe Marotta, «L’Europeo», 15.1.1963; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 12.1.1963; Vice, «Il Messaggero di Roma», 6.1.1963 Totò contro i quattro Leo Pestelli, «La Stampa», 7, 10.3.1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 1, gen.1963; Anonimo, «Corriere della Sera», 14.3.1963; Vice, «Il Messaggero», 6.3.1963 Gli eroi del West Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. LV, 1964

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I gemelli del Texas Vice, «Il Resto del Carlino», set. 1964 Amore all’italiana Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. LIX, 1966 Rose rosse per Angelica Anonimo, «Film Heute und Morgen», mar. 1968; Anonimo, «Film Spiegel», 13, 26.6.1968; Anonimo, «Film Für Sie», 53, 1968 La Feldmarescialla Vice, «Il Giorno», dic. 1967; Anonimo, «Film Mese», 13, 1968; M.J.L., «Cinéma et Télécinéma», 466, 28.7.1969 Arrriva Dorellik Anonimo, «Film Mese», 21/22, nov. 1968 Il mostro della domenica G. Napoli, «Film Mese», 18, lug. 1968; Giulio Cesare Castello, «Bianco e Nero», 7/8, ago. 1968; Alfonso Gatto, «Vie Nuove», 30.5.1968; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 16.4.1968 Il trapianto Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. 68, 1970; Anonimo, «New Cinema», 4, apr. 1970 Cose di Cosa Nostra Anonimo, «New Cinema», 4, apr. 1971; M. Guarino, «New Cinema», 6, giu. 1971 Il vichingo venuto dal Sud Vice, «Il Resto del Carlino», 9.9.1971; D. Sauvaget, «Saison ’73»; Anonimo, «New Cinema», 2, feb.1972 La polizia ringrazia Mino Argentieri, «Rinascita», 5.5.1972; Callisto Cosulich, «ABC», 14.4.1972; Tullio Kezich, «Panorama», 20.4.1972; Leo Pestelli, «La Stampa», 14.4.1972; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 26.3.1972; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 25.3.1972; T. Cicciarelli, «Il lavoro», 11.3.1972; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 13.3.1972; Anonimo, «Stars et cinéma», 2.2.1975; L. Fhon, «Cinestop», 1, mar. 1972; Chirenne, «Cinesex», 55, 31.1.1972; P.Bairati, Il noioso ostacolo della legalità, «Rivista del cinematografo», 2, febb. 1973; F.Dorigo, Al di là delle sbarre, «Rivista del cinematografo», 10, ott. 1972; M.F., «Rivista del cinematografo», 6, giu. 1972; U. Rossi, «Cinema ’60», XII, 10, lug.-ago. 1972; Lino Miccichè, Il cinema italiano degli anni ’70, Marsilio, Venezia L’uccello migratore Vice, «Il Resto del Carlino», ott. 1972; G. Colpart, «Saison ’77»; G. Cèbe, «Ecran», 61, set. 1977 Il terrore con gli occhi storti Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 3.9.1972 Anastasia mio fratello Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 12.10.1973; Leo Pestelli, «La Stampa», 12.10.1973; G.M.G., «La Gazzetta del Popolo», 13.10.1973; P.Perona, «Stampa Sera», 12.10.1973; V.R., «Il Secolo XIX», 12.10.1973; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 12.10.1973; O. Ripa, «Gente», 9.11.1973; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 12.10.1973; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 5.10.1973; U. R., «L’Unità», 12.10.1973; M. Cavagnaro, «Gazzetta del Lunedì», 15.10.1973 Piedone lo sbirro Pietro Bianchi, «Il Giorno», 27.10.1973; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 14.11.1973, V. Rossi, «Il Secolo XIX», 14.11.1973; P.Perona, «La Stampa», 1.11.1973; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 27.10.1973; B. Di., «Saison ’76»; M. Martin, «Ecran», 39, set. 1975; Anonimo, «Star et cinéma», 2.2.1975; Anonimo, «Film Spiegel», 17,1977

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La poliziotta Tullio Kezich, «Panorama», 28.11.1974; M.Cipolla, «Il Lunedì», 18.11.1974; Piero Virgintino, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 2.11.1974; Anonimo, «Il Giorno», 16.11.1974; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 16.11.1974; P. Perona, «La Stampa», 19.11.1974 Piedone a Hong-Kong Vice, «Il Resto del Carlino», 30.3.1975; Massimo Mida Puccini, «Giorni», 23.4.1975; G. Napoli, «Il Domani», 3.4.1975; Leo Pestelli, «La Stampa», 29.3.1975; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 29.3.1975; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 29.3.1975; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 1.4.1975; G. Colpart, «Saison ’77»; G. Cèbe, «Ecran», 54, gen. 1977 Il padrone e l’operaio Mino Argentieri, «Rinascita», 9.1.1976; Tullio Kezich, «Panorama», 14.1.1976; C.Laurenzi, «Il Giornale», 24.12.1975; Vice, «Il Domani», 8.1.1976; A.Santuari, «Paese Sera», 21.12.1975; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 24.12.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 27.12.1975; Carlo Tagliabue, «Rivista del cinematografo», 2, 1976 L’Italia s’è rotta G. Gs., «Corriere della Sera», 9.5.1976; Anonimo, «Il Giornale», 9.5.1976; A.V., «La Stampa», 5.5.1976; C.R., «Il Giorno», 9.5.1976; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 9.12.1976 Febbre da cavallo Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 2.11.1976; S.C., «La Stampa», 7.4.1977; A.F., «Paese sera», 1.11.1976; A. C., «Il Giornale», 16.1.1977; Anonimo, «Il Secolo XIX», 9.12.1976; A. Garel, «Saison ’79»; R. Bassan, «Ecran», 74, nov. 1978; Andrea Marzulli, Febbre da cavallo: un’analisi narratologica, «Cinemastudio» (www.cinemastudio.com) Tre tigri contro tre tigri V. Spiga, «Il Resto del Carlino», 8.10.1977; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 6, giu. 1978 Doppio delitto P. Bianchi, «L’Europeo», 20.1.978; Tullio Kezich, «La Repubblica», 24.12.1977; Tullio Kezich, «Panorama», 10.1.1978; Vice, «Il Domani», 19.1.1978; S.C., «La Stampa», 27.12.1977; S. Borelli, «L’Unità», 29.12.1977; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 29.12.1977; G.M. Guglielmino, «Corriere della Sera», 30.12.1977; N. Bruzzone, «Il Lavoro», 20.1.1978; M. Cavagnaro, «Gazzetta del Lunedì», 23.1.1978; M. Manciotti, «Il Secolo XIX», 20.1.1978; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 20.1.1978; Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 29.10.1977; Lino Micciché, «Avanti!», 24.12.1977, R. Lefèvre, «Saison ’79»; G. Cèbe, «Ecran», 85, nov. 1979 Piedone l’africano V.Bassoli, «Il Resto del Carlino», 25.3.1978; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 26.3.1978; P.Perona, «La Stampa», 25.3.1978; A.C., «Il Giornale», 25.3.1978; L.P., «L’Unità», 25.3.1978; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 24.3.1978; Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 24.3.1978; Vice, «Corriere Mercantile», 24.3.1978; C. Surmani, «Saison ’79»; H. Moret, «Ecran», 82, lug. 1979 Amori miei Stefano Reggiani, «La Stampa», 22.10.1978; Anonimo, «La Repubblica», 23.12.1978; C.R., «Il Lavoro», 22.12.1978; D.G., «L’Unità», 24.12.1978; C.R. «Il Giorno», 22.12.1978; Giovanni Grazzini, «Corriere della sera», 22.12.1978; M. Man., «Il Secolo XIX», 23.12.1978; F. Fs., «Corriere Mercantile, 23.12.1978» Dottor Jekyll e gentile signora Aldo Viganò, «Il secolo XIX», 30.9,1979; L.P., «L’Unità», 9.12.1979; Morando Morandini, «Il Giorno», 13.12.1979; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 6.9.1979; P.Perona, «La Stampa», 19.10.1979; G.M. Guglielmino, «Corriere della Sera», 8.12.1979; Franco Fossati, «Corriere Mercantile», 1.10.1979

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La patata bollente Tullio Kezich, «Panorama», 10.12.1979; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 29.11.1979; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 31.10.1979; L. P., «L’Unità», 6.11.1979; P. Perona, «La Stampa», 5.12.1979; Alberto Farassino, «La Repubblica», 2.11.1979; Anonimo, «L’Espresso», 16.12.1979; Morando Morandini, «Il Giorno», 31.10.1979; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 11, nov. 1980 Piedone d’Egitto V. Spiga, «Il Resto del Carlino», 12.3.1980; Franco Fossati, «Corriere Mercantile», 25.3.1980; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 23.3.1980; G.Gs, «Corriere della Sera», 6.4.1980; G.P., «Il Giorno», 6.4.1980; A.V., «La Stampa», 6.3.1980; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 12.3.1980; A.Mazza, «Rivista del cinematografo», 3, 1980; C. Bosseno, «Saison ’81»; G. Colpart, «Cinéma ’80», 262, ott. 1980; A.Ma., «Rivista del cinematografo», 2, 1980 Fico d’India Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. 90, 1981 Il tango della gelosia Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1982 Banana Joe Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol., XCIII, 1982 Dio li fa poi li accoppia M.G., «Il Resto del Carlino», 28.11.1982 Bonnie e Clyde all’italiana Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», vol. 94, 1983

Luciano Salce Dizionario ragionato del cinema brasiliano, «Cineforum» n.87, set. 1969 Anonimo, Salce e l’educazione sentimentale dei giovani, «Cinema ‘60» n. 57, mar. 1966 L. De Santis, I registi del cinema italiano, «Cineforum» n. 37, set. 1964 Andrea Pergolari, Luciano Salce: tra ironia e satira, «I giganti della montagna» (www.gigantidellamontagna.it) Luciano Salce, Dichiarazione sulla violenza nel cinema, «Rivista del cinematografo», 8/9, set. 1967 Luciano Salce, Opinioni sui film di guerra, «Rivista del cinematografo», 2/3, febb.-mar. 1968 S. Zambetti, La cuccagna. Il regista, note sulla carriera, «Cineforum» n.29, mar. 1963 Ettore Zocaro, Dizionarietto nuovi registi, «Filmcritica», 158, giu. 1965 I FILM Le pillole di Ercole Leo Pestelli, «La Stampa», 11.9.1960; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 21, apr. 1961; G.Ranieri, «Settimana Incom Illustrata», 29.9.1960; Vice, «Il Tempo», 10.9.1960 Il federale Adelio Ferrero, «Cinema nuovo», 155, gen-febb. 1962; G.Ciaccio, «Rivista del cinematografo», 11, nov. 1961; Anonimo, «Fiera del cinema», 5, mag. 1961; Mino Argentieri, «Vie nuove», set. 1961; Antonello Trombadori, «Vie nuove», ott. 1961; «Le vostre novelle», 38, 1961; Filippo Sacchi, «Epoca», 24.9.1961; Leo Pestelli, «La Stampa», 17.9.1961; Vice, «Corriere d’informazione», 25.8.1961; Vice, «Il Messaggero», 1.9.1961 La voglia matta Morando Morandini, «Stasera», 16.3. 1962; Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 4/5, mag. 1962; G.Gambetti, «Bianco e Nero», 4, apr. 1962; P.Pruzzo, «Film Selezione», 11, giu. 1962; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 30/31, apr. 1962; Anonimo, «Fiera dal cinema», 12, dic. 1961, 5, mag. 1962; L.A., «Intermezzo», 7/8, 30.4.1962; Leo Pestelli, «La Stampa»,

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25.3.1962; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 15.3.1962; A.Sala, «Corriere d’informazione», 16.3.1962; Anonimo, «Cinemundo», 524, 6.10.1962 La cuccagna D. Campana, «Gente», dic.1962; G.Cattivelli, «Cinema nuovo», 160, dic. 1962; S.Zambetti, «Cineforum», 23, mar. 1963; G. Gambetti, «Bianco e nero», 11, nov. 1962; Anonimo, «Fiera del cinema», 11, nov. 1962; Antonello Trombadori, «Vie nuove», ott. 1962; N.M. Lugaro, «Alba», dic. 1962; N.M. Lugaro, «Terra e vita», nov. 1962; Leandro Castellani, «Rivista del cinematografo», 11, nov. 1962 Le ore dell’amore C. Terzi, «Avanti!», 2.3.1963; G. Gambetti, «Bianco e nero», 4, apr. 1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 5, mag. 1963; Vittorio Spinazzola, «Cinema nuovo», 163, mag.-giu. 1963; F. Dorigo, «Cineforum», 23, mar. 1963; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 2, apr. 1963; Arturo Lanocita, «Domenica del Corriere», 17.3.1963; Ugo Gregoretti, «L’Unità», 2.3.1963; B. Crowter, «The New York Times», 4.9.1965 Le monachine G. Gambetti, «Bianco e nero», 11, nov. 1963; Anonimo, «Fiera del cinema», 6, giu. 1963, 10, ott. 1963; GianLuigi Rondi, «Il Tempo», 16.9.1963; Anonimo «Fotogramas», 849, 22.1.1965; Anonimo, «Cinémonde», 1535, 7.1.1964 Alta infedeltà S.Zambetti, «Cineforum», 35, mag. 1964; G.Ciaccio, «Rivista del cinematografo», 3-4, apr. 1964; «Fiera del cinema», 9, set. 1963; Anonimo, «Cinema nuovo», 168, mar.-apr. 1964; Vice, «Momento sera», 8.2.1964; Leo Pestelli, «La Stampa», 26.1.1964; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 31.1.1964; Valentino De Carlo, «La Notte», 31.1.1964; C.Cobast, «Saison ’64», 1964; Anonimo, «Cinémonde», 1517, 3.9.1963; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 31.1.1964 Oggi, domani, dopodomani Guido Fink, «Cinema Nuovo», 179, feb. 1966; G. Gambetti, «Bianco e nero», 3, mar. 1966; Enzo Natta, «Cineforum», 50, dic. 1965; C. Rispoli, «Filmcritica», 163, gen. 1966; G. Pierallini, «Cinema ’60», 59, mag. 1966; L. Cavicchioli, «Domenica del Corriere», 3, 16.1.1966; Enzo Biagi, «L’Europeo», 20.1.1966; Alberto Moravia, «L’Espresso», 30.1.1966 Slalom F. Dorigo, «Cineforum», 50, dic. 1965; G. Ciaccio, «Rivista del cinematografo», 1.1.1966; Vice, «L’Unità», 3.10.1965; N.M. Lugaro, «L’Italia», 3.10.1965; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 30.9.1965 Come imparai ad amare le donne Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», nov. 1966; G. Gambetti, «Bianco e Nero», 12.12.1966; Mino Argentieri, «Cinema ’60», 61, 1967; Filippo Sacchi, «Epoca», ott. 1966; F. Dorigo, «Cineforum», 58/59, nov. 1966; G. Ciaccio, «Rivista del cinematografo», XXXIX, 12, dic. 1966 El Greco Anonimo, «Cinérevue», 23, 9.6.1966 Le fate Anonimo, «Cinéma et Télécinéma», 391, 15.2.1968; S.Pasca, «Rivista del cinematografo», 1.1.1967, Leonardo Autera, «Bianco e Nero», 2.2.1967; Enzo Natta, «Cineforum ’60», dic. 1966; Dino Meccoli, «Epoca», nov. 1966; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 22.11.1966; «Cinérevue», 16, 20.4.1967; Enzo Biagi, «L’Europeo», 16.12.1966; Anonimo, «Il Messaggero», 26.11.1966; Leo Pestelli, «La Stampa», 4.11.1966; R.Marchi, «Il Telegrafo», 26.11.1966; Adriano Baracco, «Lo Specchio», 4.12.1966; G.Napoli, «Il Giornale di Sicilia», 26.11.1966 Ti ho sposato per allegria F. Rinaudo, «Film Mese», 8/9, set. 1967; G. Corbucci, «Cinema nuovo», 189, ott. 1967; Ermanno Comuzio, «Cineforum», 71, gen. 1968; A. Solmi, «Oggi», 44, 2.11.1967; P.S., «Il Tempo», 22.9.1967; V. Guslandi, «Il Giornale d’Italia», 23.9.1967; G.F., «Momento sera», 23.9.1967; Vice, «Corriere della Sera», 3.10.1967; S.Pasca, «Rivista del cinematografo», 11, ott. 1967

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La pecora nera P. Pasinelli, «Bianco e Nero», 1-2, febb. 1969; C. Bertieri, «Film Mese», 23/24, 1968; G. Schmidth, «Cineforum», 83, mar. 1969; Anonimo, «King Cinémonde», 6.12.1968; Anonimo, «Epoca», 946, 10.11.1968; A. Solmi, «Oggi», 47, 21.11.1968; A. Scagnetti, «Paese sera», 1.11.1968; Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 1.11.1968; Enzo Natta, «Rivista del cinematografo», 12.12,1968 Colpo di stato Filippo Sacchi, «Epoca», 970, 27.4.1969; Anonimo, «Play Cinema», 8.9.1968; M.Guarino, «King Cinema», 6, ott. 1969; Dino Meccoli, «Epoca», 966, 30.3.1969; Enzo Natta, «Rivista del cinematografo», 3-4, apr. 1969 Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue Filippo Sacchi, «Epoca», 1009, 25.1.1970; Anonimo, «Film Mese», 34/36, 1969; Dino Meccoli, «Epoca», 1005, 28.12.1969; A. Solmi, «Oggi», 1, 16.1.1970; Anonimo, «King Cinema», 2.2.1970; M. Guarino, «New Cinema», 8.8.1970; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 24.12.1969; Lino Miccichè, «Avanti!», 20.12.1969; Paolo Valmarana, «Il Popolo», 22.12.1969; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 27.12.1969; Tullio Kezich, «Panorama», gen. 1970 Basta guardarla J.Agudo, in Film Guida, 9, apr./set. 1975; J. Zimmer, in Saison ’81 Il provinciale Anonimo, «Segnalazioni cinematogarfiche», LXXI, 1971; Anonimo, «New Cinema», 8, ago. 1971 Il sindacalista Vice, «Il Lavoro», 13.5.1972; Morando Morandini, «Il Giorno», 10.6.1972 e «Il Tempo», 25.6.1972; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 10.6.1972; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 7.5.1972; A. Santuari, «Paese Sera», 22.4.1972; Leo Pestelli, «La Stampa», 23.4.1972; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 13.5.1972 Io e lui Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 29.9.1973; P.P., «Il Secolo XIX», 29.9.1973; R.B., «Corriere della Sera», 21.9.1973; S.R., «La Stampa», 27.10.1973; A. Sala, «Corriere d’informazione», 21.9.1973; Tullio Kezich, «Panorama», 11.10.1973; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 23.9.1973; M.F., «Il Popolo», 22.9.1973, Pietro Bianchi, «Il Giorno», 21.9.1973 Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno Vice, «Il Resto del Carlino», 31.8.1974; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 21.10.1974; Anonimo, «Il Secolo XIX», 19.10.1974; Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 6.9.1974; Dino Meccoli, «Epoca», 14.9.1974; Anonimo, «L’Espresso», 15.9.1974; C.T., «Rivista del cinematografo», 2, febb. 1965 Fantozzi Mino Argentieri, «Rinascita», 1.8.1975; Dino Meccoli, «Epoca», 26.4.1975; Callisto Cosulich, «Paese Sera», 30.3.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 12.4.1975; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 25.4.1975; Anonimo, «Il Giornale», 25.4.1975; Leo Pestelli, «La Stampa», 23.4.1975; Vice, «Il Domani», 1.5.1975; L. Cavicchioli, «La Domenica del Corriere», 17.4.1975; Tullio Kezich, «Panorama», 15.5.1975; Francesco Savio, «Il Mondo», 17.4.1975, O.Ripa, «Gente», 12.5.1975 L’anatra all’arancia Morando Morandini, «Il Giorno», 21.12.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 27.12.1975; P.P., «Il Secolo XIX», 27.12.1975; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 21.12.1975; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 23.12.1975; Tullio Kezich, «Panorama», 27.1.1976; J.J.Arnault, «Saison ’77», R.Bassan, «Ecran», 62, nov. ‘76 Il secondo tragico Fantozzi C.Novelli, «Rivista del cinematografo», 5, 1976; Morando Morandini, «Il Tempo», 9.5.1976; Vice, «Il Domani», 22.4.1976; A.Bl., «La Stampa», 20.4.1976; P.Fabbri, «Il Giornale», 17.4.1976; C.R., «Il Giorno», 17.4.1976; P.P., «Il Secolo XIX», 16.4.1976; Anonimo, «Corriere Mercantile», 16.4.1976

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La presidentessa Alberto Farassino, «La Repubblica», 7.2.1977; Oreste Del Buono, «L’Europeo», 25.2.1977; R. Barneschi, «Oggi», 20.12.1976; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 8.2.1977; Vice, «Il Domani», 10.3.1977; A. Santuari, «Paese Sera», 13.2.1977; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 6.2.1977; A.V., «La Stampa», 3.3.1977; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 5.2.1977; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 19.3.1977; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 19.3.1977 Il…Belpaese Dario Zanelli, «Il Resto del Carlino», 24.12.1977; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 10, ott. 1978; Lorenzo Codelli, «Positif», 208/9, ago. 1978 Dove vai in vacanza? Tullio Kezich, «Panorama», 26.12.1978; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 27.12.1978; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 24.12.1978; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 22.12.1978; Morando Morandini, «Il Giorno», 22.12.1978; Stefano Reggiani, «La Stampa», 22.12.1978; D.G., «L’Unità», 23.12.1978; Tullio Kezich, «La Repubblica», 22.12.1978; G. Gauthier, «Saison ’80»; Jean Gili, «Ecran», 85, nov. 1979 Riavanti…marsch! Franco La Polla, «Il Resto del Carlino», dic.1979 Vediamoci chiaro Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985

Pasquale Festa Campanile Pasquale Festa Campanile, «Sipario», dic. 1986 Anonimo, Cose di questo mondo. Note sulla formazione professionale, «Cinema 60», n.10, 1961 Anonimo, Pasquale Festa Campanile, in Roger Boussinot (a cura di), Encyclopedie du cinéma, Bordis, Paris, 1989 Ermanno Comuzio, Scheda biofilmografica, «Cineforum» n.77, set. 1968 L.De Santis, I registi del cinema italiano, «Cineforum» n.37, set. 1964 Ettore Zocaro, Dizionarietto dei nuovi registi, «Filmcritica» n.158, giu. 1965 Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, La vita di oggi risponde…, «Rivista del cinematografo», a. XXXV, n.12, dic. 1962 I FILM Un tentativo sentimentale Y. Chevalier, «Saison ’64», Parigi, 1964; L.Costantini, «Fiera del cinema», 7, lug. 1963; F. Dorigo, «Cineforum», 28/29, nov. 1963; L. Quaglietti, «Cinema ’60», 39, sett. 1963; Anonimo, «Nuovo spettatore cinematografico», 4, ago. 1963; P. Zanotto, «Intermezzo», 30.8.1963 Le voci bianche Ermanno Comuzio, «Cineforum», 38/39, nov. 1964; A. Lodigiani, «Rivista del cinematografo», 9/10, ott. 1964; Maurizio Ponzi, «Filmcritica», 151/152, dic. 1964; J. Lajeunesse, «Saison ’64», 1964 La costanza della ragione N.M. Lugaro, «Alba», nov. 1964; Mino Argentieri, «Cinema ’60», 51, mar. 1965; Lorenzo Pellizzari, «Cinema nuovo», 174, apr. 1965; Alberto Moravia, «L’Espresso», mar. 1965; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», gen. 1965; M. Heidicke, «Film Spiegel», 4, 22.2.1967 Una vergine per il principe Tullio Kezich, «Settimana Incom Illustrata», 14.11.1965; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 28.10.1965; Filippo Sacchi, «Epoca», 14.11.1965; V.Bassoli, «Avvenire d’Italia», 17.11.1965; «Cinérevue», 3, 20.1.1966

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Adulterio all’italiana Pietro Bianchi, «Il Giorno», 25.3.1966; A. Garbarino, «Rivista del cinematografo», 5/6, giu. 1966; G.B. Cavallaro, «Cineforum», 53, mar. 1966; «Cinematografia Ita», apr. 1966; Enzo Biagi, «L’Europeo», 7.4.1966; Ugo Casiraghi, «L’Unità», 26.3.1966; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 7.4.1966; Dino Meccoli, «Epoca», apr. 1966; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 7.4.1966. La ragazza e il generale Nedo Ivaldi, «Film Mese», 8/9, sett. 1967; G. Corbucci, «Cinema Nuovo», 190, dic. 1967; Ermanno Comuzio, «Cineforum», 70, dic. 1967; Anonimo, «Fotogramas», 934, 9.12.1966 La cintura di castità U. Rossi, «Film Mese», 11, nov. 1967; G.L., «Il Giorno», 26.10.1967; Paolo Pillitteri, «Avanti!», 26.10.1967, Leo Pestelli, «La Stampa», 27.10.1967; V.O., «Il Tempo», 1.11.1967; Vice, «Il Giornale d’Italia», 1.11.1967; J.W., «Momento Sera», 1.11.1967; A.Garbarino, «Rivista del cinematografo», 12, dic. 1967 Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare L. Sambonet, «Film Mese», 16, mag. 1968; Anonimo, «Cinema Nuovo», 193, giu. 1968; G. Zanetti, «Cineforum», 81, gen. 1969; Filippo Sacchi, «Epoca», 910, 3.3.1968; A. Garbarino, «Rivista del cinematografo», 6/7, lug. 1968 La matriarca F. Rinaudo, «Film Mese», 23/24, nov./dic. 1968; Anonimo, «Playcinema», 8.9.1968; Anonimo, «King Cinémonde», 3, set. 1968; «Topfilm», 3, ott. 1970; Dino Meccoli, «Epoca», 956, 19.1.1969; G.Mar., «Attualità cinematografiche», 1969; Giovanni Grazzini, in Eva dopo Eva, cit. Dove vai tutta nuda? L. Cavicchioli, «Domenica del Corriere», 41, 14.10, 1969; Anonimo, «King Cinema», 2, giu. 1969; Vice, «Il Giorno», 17.9.1969; Vice, «Il Popolo», 30.9.1969; Vice, «Corriere della Sera», 17.9.1969; Fabio Casagrande, «Amarcord», II, 7, mar.-apr. 1997 Scacco alla regina Anonimo, «King Cinema», 1, gen. 1970 Con quale amore, con quanto amore Filippo Sacchi, «Epoca», febb. 1970, A. Solmi, «Oggi», 7, 17.2.1970; Anonimo, «King Cinema», 3, mar. 1970; M. Guarino, «New Cinema», 6, giu. 1970; «Topfilm», 7, 30.12.1970; Leo Pestelli, «La Stampa», 10.2.1970; «Cinémonde», 1814, 16.12.1969 Quando le donne avevano la coda A. Bernardini, «Bianco e Nero», 11/12, 1970; R. Sandi, «Cinesex», 23, 15.9.1970; L. Vanni, «Topfilm», 3.10.1970; P. Manfredi, «Topfilm», 70, 30.12.1970; Anonimo, «New Cinema», 12, dic. 1970 Il merlo maschio Anonimo, «Segnalazioni cinematografiche», LXXI, 1971; J.Zimmer, «Saison ’74»; G.Braucourt, «Ecran», 20, dic. 1973; Anonimo, «Cinéma et Télécinéma», 501, 15.1.1974; O. Baviera, «Cinestop», 15.1.1971 Quando le donne persero la coda Pietro Bianchi, «Il Giorno», 23.3.1972; Anonimo, «Il Secolo XIX», 11.3.1972; A. Scagnetti, «Paese Sera», 26.2.1972; Vice, «Il Lavoro», 11.3.1972; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 13.3.1972 Jus primae noctis A. Scagnetti, «Paese Sera», 10.9.1972; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 9.9.1972; Anonimo, «Il Secolo XIX», 9.9.1972; Roberto Chiti, «Il Lavoro», 9.9.1972; Leo Pestelli, «La Stampa», 10.9.1972; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 17.9.1972; F. A., «Il Giorno», 17.9.1972; Vice, «Il Messaggero», 9.9.1972; Anonimo, in New Cinema, 1, 1973

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La calandria Pietro Bianchi, «Il Giorno», 4.1.1973; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile7 , 17.2.1973; V.R., «Il Secolo XIX», 17.2.1973, Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 4.1.1973; A.S., «Corriere d’informazione», 4.1.1973; S. F., «La Nazione», 27.12.1972; Guglielmo Biraghi, «Il Messaggero», 23.12.1972; A. Scagnetti, «Paese Sera», 23.12.1972; Vice, «Avanti!», 5.1.1973; P. Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 7.1.1973; G. Napoli, «Il Domani», 11.1.1973; Anonimo, «Il Lavoro», 17.4.1973 L’emigrante I.Molè, «Città nuova», 25.5.1973; T. Cicciarelli, «Il Lavoro», 22.4.1973; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 21.4.1973; Piero Virgintino, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22.4.1973; G. Cattivelli, «Libertà», 22.4.1973; A. Valdata, «Stampa sera», 21.4.1973; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 21.4.1973; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 24.4.1973 Rugantino Leo Pestelli, «La Stampa», 27.10.1973; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 27.10.1973; V. Rossi, «Il Secolo XIX», 27.10.1973; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 26.10.1973; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 26.10.1973; Tullio Kezich, «Panorama», 8.11.1973 La sculacciata A.Solmi, «Oggi», 20.2.1974; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 15.2.1974; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 10.3.1974; Callisto Cosulich, «Paese Sera», 17.2.1974; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 15.2.1974; V. Rossi, «Il Secolo XIX», 10.2.1974; M. Cavagnaro, «Corriere Mercantile», 12.2.1974; S.L., «La Stampa», 3.4.1974; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 5, mag. 1974 Conviene far bene l’amore Dario Zanelli, «Il Resto del Carlino», 30.3.1975; Francesco Savio, «Il Mondo», 17.4.1975; Tullio Kezich, «Panorama», 17.4.1975; G. Napoli, «Il Domani», 3.4.1975; Callisto Cosulich, «Paese Sera», 30.3.1975; Leo Pestelli, «La Stampa», 20.4.1975; C. Laurenzi, «Il Giornale», 13.4.1974; Pietro Bianchi, «Il Giorno», 13.4.1975; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 13.4.1975; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 1.4.1975; P.P., «Il Secolo XIX», 30.3.1975; C. Surmani, «Saison ’77»; G. Braucourt, «Ecran», 49, lug. 1976; G. Bechtold, «Cinematographe», 20, estate 1976; F.G., «Ecran fantastique», 1, estate 1977 Il soldato di ventura Dario Zanelli, «Il Resto del Carlino», 21.2.1976; G. Braucourt, «Ecran», 49, lug. 1976; B.D., «Saison ’76» Dimmi che fai tutto per me A.V., «La Stampa», 6.11.1976; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 30.10.1976; Paolo Mereghetti, «Il Giorno», 30.10.1976; M. Vallora, «Gazzetta del Popolo», 4.11.1976; Oreste Del Buono, «L’Europeo», 3.12.1976; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 1.11.1976 Autostop rosso sangue A.Solmi, «Oggi», 26.3.1977; Claudio G. Fava, «Corriere Mercantile», 7.4.1977; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 6.4.1977; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 5.3.1977; Morando Morandini, «Il Giorno», 5.3.1977; A.F., «Il Giornale», 5.3.1977; Alberto Farassino, «La Repubblica», 7.3.1977; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 12, dic. 1977 Cara sposa Enzo Natta, «Rivista del cinematografo», 10.11.1977; Anonimo, «Cineinform», 283, nov. 1977 Come perdere una moglie e trovare un’amante M.G., «Il Resto del Carlino», 30.11.1978; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 8.12.1978; Franco Fossati, «Gazzetta del Lunedì», 11.12.1978; Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 29.11.1978; Morando Morandini, «Il Giorno», 29.11.1978; Stefano Reggiani, «La Stampa», 17.12.1978; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 29.11.1978; L.P., «L’Unità», 30.11.1978; Tullio Kezich, «Panorama», 19.12.1978; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 7/8, lug.-ago. 1979

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Gegè Bellavita M.G., «Il Resto del Carlino», 27.5.1979; Franco Fossati, «Corriere Mercantile», 26.5.1979; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 26.5.1979; G.M.Guglielmino, «Corriere della Sera», 25.7.1979; Morando Morandini, «Il Giorno», 19.7.1979; Anonimo, «L’Unità», 20.7.1979; U. Buzzolan, «La Stampa», 16.5.1979; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 16.4.1979; Piero Virgintino, «Gazzetta del Mezzogiorno», 22.5.1979; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 4, apr. 1980 Il corpo della ragassa Maurizio Porro, «Corriere della Sera», 14.9.1979; F.L., «Il Lavoro», 15.9.1979; Alberto Farassino, «La Repubblica», 14.9.1979; A.V., «La Stampa», 25.10.1979; L.P., «L’Unità», 15.9.1979; Morando Morandini, «Il Giorno», 14.9.1979; P.P., «Il Secolo XIX», 15.9.1979; Franco Fossati, «Corriere Mercantile», 15.9.1979; Anonimo, «Cineinforme», 35, giu. 1980; Roberto Chiti, «Rivista del cinematografo», 10, ott. 1980 Sabato, domenica e venerdì Leonardo Autera, «Corriere della Sera», 24.10.1977; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 23.10.1977; L.P., «L’Unità», 23.10.1977; P.Perona, «La Stampa», 27.10.1977; Morando Morandini, «Il Giorno», 22.10.1977; Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 17.11.1979; M.G., «Il Resto del Carlino», 23.10.1977 Il ladrone Irene Bignardi, «L’Espresso», 2.3.1980; Tullio Kezich, «Panorama», 3.3.1980; A. Falvo, «Corriere d’informazione», 29.2.1980; U.Buzzolan, «La Stampa», 10.2.1980; Renzo Fegatelli, «La Repubblica», 11.2.1980; L.P., «L’Unità», 1.3.1980; G.P., «Il Giorno», 1.3.1980; Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 29.2.1980 Qua la mano Pietro Pisarra, «Rivista del cinematografo», 7, 1980; Anonimo, «Cineinforme», 34, mag. 1980 Manolesta Peppe Lai, «Rivista del cinematografo», 5, mag. 1981 Culo e camicia V. Bassoli, «Il Resto del Carlino», 24.12.1981; M. Calderale, «Segnocinema», 3, mar. 1982; Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1982 Nessuno è perfetto Giovanni Grazzini, Cinema ’81, Laterza, Bari, 1982 Bingo Bongo Tullio Kezich, «Panorama», dic. 1982 Il petomane Giovanni Grazzini, Cinema ’83, Laterza, Bari, 1984 Uno scandalo perbene Nicola Rossello, «Segnalazioni cinematografiche», 1985; Giovanni Grazzini, Cinema ’84, Laterza, Bari, 1985

Indice

Premessa Introduzione: La commedia italiana: un genere ricco di varianti Parte prima: Steno Capitolo 1. Una vita dedicata alla comicità Capitolo 2. Una comicità solo apparentemente realistica Capitolo 3. La stilizzazione comica degli anni ’60 e ’80

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Capitolo 4. Tecniche narrative del comico Capitolo 5. Un abile manipolatore dei generi Capitolo 6. Il gioco di specchi dei film polizieschi: (auto)riflessioni sul racconto giallo Capitolo 7. Anni di piombo, anni di commedia: gli anni ’70 di Steno Capitolo 8. L’ombra nera del Vesuvio: un affare di stato Parte seconda: Luciano Salce Capitolo 1. Un’immersione totale nello spettacolo Capitolo 2. La commedia trova il suo linguaggio cinematografico Capitolo 3. Storie di ragazzi e di giovani mai cresciuti nel decennio della crisi Capitolo 4. L’impegno politico di un autore disimpegnato Capitolo 5. L’incontro con Villaggio: il grottesco sociale e psicologico Capitolo 6. Il teatro s’incontra col cinema: la pochade Capitolo 7. «La sua soddisfazione è il nostro miglior premio»: lo spettacolo popolare Postilla Parte terza: Pasquale Festa Campanile Capitolo 1. Un affabulatore di storie dallo stile compatto Capitolo 2. Un assiduo frequentatore dei sentieri della storia Capitolo 3. L’ossessione erotica da Il merlo maschio a Il corpo della ragassa Capitolo 4. L’ambiguità dei rapporti interpersonali Capitolo 5. Roma e la sua disperata vitalità Capitolo 6. Tra letteratura e cinema Capitolo 7. Problemi coniugali tra farsa, grottesco e giallo Postilla Parte quarta: Analisi comparata di tre film Conclusione Appendice prima: le interviste Appendice seconda: Il lieto fine (Atto I, scena 4) Filmografia, teatrografia, bibliografia degli autori Steno Luciano Salce Pasquale Festa Campanile Bibliografia generale

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