Giorni di festa
 9788865421369

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SOCIETÀ DI STUDI POLITICI

Scuola di alta formazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Umanesimo e Rinascimento

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Alessandro d’Alessandro

Giorni di festa

Dispute umanistiche e strane storie di sogni, presagi e fantasmi Introduzione, commento e cura di Mauro de Nichilo Traduzione di Claudia Corfiati

La scuola di Pitagora editrice

Questa collana è promossa dalla Società di studi politici ed è diretta da Gerardo Fortunato.

Copyright © 2014 La scuola di Pitagora editrice Via Monte di Dio, 54 80132 Napoli www.scuoladipitagora.it [email protected] ISBN ISBN

978-88-6542-133-8 (versione cartacea)

978-88-6542-136-9 (versione elettronica nel formato PDF)

Printed in Italy - Stampato in Italia nel mese di ottobre 2014.

Anche quel giorno, come spesso altre volte, sperimentai che in nessun’altra situazione il tempo fugge via in fretta senza che noi ce ne accorgiamo come quando parliamo con gli amici; gli amici sono grandi ladri del tempo, sebbene nessun tempo ci deve sembrare meno rubato e perduto di quello che, dopo che con Dio, spendiamo con gli amici. (Petrarca, Fam. XXIV 2, 2) a

Claudia Isabella

Cesare Peppino

Riccardo Federica Arianna Davide

INDICE

Introduzione La biografia di un giureconsulto umanista Nota al testo Indice dei Capita dei Geniales dies

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GENIALES DIES Giorni di festa LIBER PRIMUS Libro primo

Caput I. Locus ex Tranquillo de testamento Caesaris in natali Ioviani Pontani invicem discussus Capitolo I. Un luogo di Svetonio sul testamento di Cesare discusso tra noi il giorno del compleanno di Gioviano Pontano

Caput VIII. Spero te amaturum fore vel amandum fore veterum auctoritatibus latine dici licere contra opinionem quorundam grammaticorum

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INDICE

Capitolo VIII. Contro l’opinione di alcuni grammatici è possibile dire in latino spero te amaturum fore o amandum fore secondo gli antichi autori 110 Caput XI. Miracula de somniis apud nonnullos cognita et comperta, et quae ipse expertus fui Capitolo XI. Sogni premonitori di cui ho avuto notizia da molti e che io stesso ho sperimentato

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Caput XVI. Quae et quot curiae Romae fuerunt, et verbum curia sine adiectione nominis quam curiam designavit Capitolo XVI. Quali e quante furono le curie a Roma, e quale curia designava la parola curia senza nessuna specificazione 120 Caput XXI. Dissensio inter duos ludi professores super verbo invenio et reperio contra observationes grammatici cuiuspiam Capitolo XXI. Dissenso tra due maestri di scuola sui verbi invenio e reperio contro le osservazioni di un tale grammatico 126

Caput XXIII. Disceptatio Francisci Philelphi cum grammatico an Cicero aliquando ludum aperuerit Capitolo XXIII. Francesco Filelfo discute con un grammatico se Cicerone avesse aperto una scuola o meno 132 LIBER SECUNDUS Libro secondo

Caput I. Locus ex Propertio ab Actio Sincero neapolitano in convivio familiari commode emendatus Capitolo I. Un luogo di Properzio emendato opportunamente da Azio Sincero napoletano durante un banchetto in casa sua 138

Caput IX. Mira exempla a compluribus experta de umbrarum figuris et falsis imaginibus, et quae ipse didici atque expertus fui

INDICE

Capitolo IX. Casi straordinari capitati a molti riguardanti apparizioni di fantasmi e allucinazioni, di cui io stesso sono venuto a sapere e che ho sperimentato di persona

11 150

Caput XXI. Miraculum de homine qui plus in mari quam in terris degebat maximaque aequora velocissime tranabat Capitolo XXI. Il prodigio di un uomo che passava più tempo in mare che in terra e velocissimo attraversava a nuoto grandissimi tratti di mare 156 LIBER TERTIUS Libro terzo

Caput I. Quid dicatur idem apud philosophos et quid idem a iureconsultis discussum cum Hermolao in convivio familiari Capitolo I. Cosa vuol dire idem per i filosofi e cosa per i giuristi: discussione con Ermolao durante una cena tra amici 164

Caput VIII. Miraculum Tritonum et Nereidum, quae variis in locis tempestate nostra compertae fuere Capitolo VIII. Gli strani casi di tritoni e nereidi avvistati in varie località ai nostri tempi

Caput XV. Solere futuras calamitates multo ante signis praemonstrari, et miraculum quo vastitas Regni Neapolitani praedicta fuit Capitolo XV. Le disgrazie future sono spesso preannunciate molto tempo prima da segni premonitori, come il prodigio da cui fu preannunciata la distruzione del Regno di Napoli

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INDICE

LIBER QUARTUS Libro quarto

Caput VIII. An sapienti sit uxor ducenda et quae ad propagandam sobolem indulta commoda a Romanis fuerint Capitolo VIII. Se debba il sapiente prender moglie, e quali agevolazioni furono concesse dai Romani allo scopo di perpetuare la discendenza 186

Caput XIX. Delusiones daemonum malorum a multis expertas fuisse, qui diversis imaginibus homines delusere Capitolo XIX. Molti hanno sperimentato gli inganni dei cattivi demonii, che si fanno gioco degli uomini presentandosi sotto diverse forme 214 LIBER QUINTUS Libro quinto

Caput XIV. Quid senserit Hieronymus Porcarius de iniquo iudice quibusque modis litigantes frustretur et deludat Capitolo XIV. Cosa pensava Girolamo Porcari dei giudici ingiusti e come costoro ingannano e illudono le parti in causa 220

Caput XXII. Quae ipse dictu admirabilia de umbrarum figuris noctibus fere singulis Romae expertus fui Capitolo XXII. Io stesso ho sperimentato quasi ogni notte a Roma cose sorprendenti a dirsi sui fantasmi LIBER SEXTUS Libro sesto

Caput VII. Responsum Raphaeli Volaterrano quare legum et causarum studio intermisso in his mitioribus studiis oblectaremur

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INDICE

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Capitolo VII. Risposta a Raffaele Volterrano sul perché, messi da parte lo studio delle leggi e i processi, mi diletto in queste occupazioni più tranquille

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Indice dei nomi

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Caput XXI. Miraculum de homine, qui extrusus e carcere rursusque in eo intrusus inferna se loca adivisse enarravit Capitolo XXI. Il prodigio di un uomo, che uscito dal carcere e di nuovo rientratovi narrò di aver visitato l’inferno 234

INTRODUZIONE*

«Demiror quis sit ille Alexander ab Alexandro». A dispetto della censura malevola di Erasmo, che in una lettera del 14 maggio 1533 si interrogava su Alessandro d’Alessandro sorprendendosi peraltro del fatto che costui, che si era vantato di conoscere tutti i più famosi intellettuali del suo tempo – con esplicito riferimento ai Geniales dies, l’opera in cui ricorrono in effetti i nomi di tutti i più grandi umanisti di secondo Quattrocento e primo Cinquecento –, non fosse stato da loro degnato neppure di una menzione1, l’autore dei Dies, stampati per la * In questa Introduzione è rifluita con gli opportuni adattamenti gran parte della mia relazione Un’enciclopedia umanistica: i Geniales dies di Alessandro d’Alessandro presentata al Convegno La Naturalis Historia di Plinio nella tradizione medievale e umanistica (Bari, 10-11 maggio 2012), ed ora negli Atti a cura di V. MARAGLINO, Bari, Cacucci, 2012, pp. 206-235. 1 «Demiror quis sit ille Alexander ab Alexandro. Novit omnes celebres Italiae viros, Philelphum, Pomponium Letum, Hermolaum et quos non? Omnibus usus est familiariter, tamen nemo novit illum. Laurentium Vallam odit, subinde grammaticum appellans» [«Chissà chi è questo Alessandro d’Alessandro. Conosce tutti gli uomini famosi d’Italia, Filelfo, Pomponio Leto, Ermolao e quant’altri. Ebbe familiarità con tutti, tuttavia nessuno conosce lui. Odia Lorenzo Valla chiamandolo spesso grammatico»]: DESIDERII ERASMI ROTORODAMI Opus epistolarum, denuo recognitum et auctum per P.S. ALLEN et H.W. GARROD, t. X, Oxonii, In typographeo Clarendoniano, 1941, p. 227 (si veda anche La correspondance d’Érasme, Traduction intégrale … sous la direc-

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Mauro de Nichilo

prima volta a Roma il 1° aprile 1522, era diventato dall’anno prima della lettera erasmiana un autore europeo. Lo aveva pubblicato a Parigi, per i tipi del libraio e stampatore Jean Pierre, Gérard Morrhy, il quale così scriveva nell’Epistola dedicatoria a Marcus van Weze: Mitto Dierum genialium libros sex Alexandri ab Alexandro Neapolitani, viri, ut paucis dicam, exquisite docti, quique ejgkuklopaidivan omnibus numeris felicissime absolvisse videtur. Sive enim iurisprudentiam spectes, sive in explicandis auctorum nodis dexteritatem, sive historiarum et fabularum penitissimam cognitionem, breviter quidquid ad perfectam rerum omnium doctrinam spectat, dispeream nisi iures illum ubique in sua versari palaestra. In hunc annis abhinc plus minus duobus, cum essem Francfordiae, neglectum atque in angulum detrusum forte fortuna incidi, sed ita deformatum et mutilatum, ut ne auctorem quidem ipsum, si reviviscat, sine magno negotio sua ipsius scripta interdum assequi posse credam. Quam ob rem operae pretium me facturum putavi ac non modo de hac aut illa republica sed de universo orbe aliquatenus benemeriturum, si collatis hinc inde auctorum locis, unde sua deprompsit, pro viribus adniterer ut pristinae nitori restitutus in manus hominum veniret, id quod quantum per occupationes licuit effeci2. tion d’A. GERLO, vol. X, Bruxelles, University Press, 1981, p. 292). La menzione risentita del d’Alessandro da parte di Erasmo, del tutto inaspettata sul finire della lettera, in cui ad un certo punto l’umanista olandese ragguaglia l’amico Vigle de Zwichen, che allora insegnava a Padova, della produzione di alcuni ‘ciceroniani’ di loro conoscenza, sembra giustificata dall’antivallismo dichiarato dell’autore dei Dies. 2 Geniales dies, Lutetiae Parisiorum, apud Collegium Sorbonae, 1532, c. a3r [«Ti mando i Dierum genialium libri sex del napoletano Alessandro d’Alessandro, uomo, a dir poco, molto dotto, che, come sembra, ha felicemente realizzato una compiuta ‘enciclopedia’. Sia infatti che consideri la sua competenza in campo giuridico, ovvero la sua acribia nello spiegare i luoghi critici degli autori, o ancora la sua profondissima conoscenza di storie e leggende, insomma la perfetta dottrina di tutte le cose, possa io morire se tu non convieni con me che egli si muove bene dappertutto nel suo campo. In quest’opera la fortuna volle che incappassi per caso, più o meno due anni fa, mentre mi trovavo a Francoforte, che era negletta e gettata in un angolo, ma così mal ridotta e mutilata, che neppure il suo autore credo, se tornasse in vita, potrebbe talvolta capire se non con grande difficoltà quanto da lui scritto. Per la qual cosa ritenni che avrei fatto cosa apprezzabile, acquisendo meriti non soltanto nei

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Un’opera, dunque, in cui il Morrhy si era imbattuto per caso a Francoforte un paio d’anni prima (un esemplare, è da presumere, della princeps romana) e che lo aveva colpito per essere una ‘enciclopedia’ compiuta sotto ogni riguardo, dove si poteva trovare di giurisprudenza, di filologia, di storia ed anche di cose fantastiche, motivo per cui aveva deciso di riproporla a stampa, dopo averla opportunamente corredata a margine dei loci degli auctores, molto spesso dall’autore taciuti, da cui questi aveva tratto le sue informazioni, e dotata quindi di un analitico Index insignium rerum secundum ordinem alphabeti che ne facilitava la consultazione (sarà ulteriormente arricchito «per Bar. Laurentem» nella successiva edizione parigina del 1549). Certo è che dopo il volume del Morrhy la fortuna europea dei Geniales dies, in particolare francese (oltre venti stampe) e quindi tedesca (una decina), sarebbe stata inarrestabile e ininterrotta per tutto il Cinque-Seicento, sino ai due tomi usciti a Leida nel 1673, in cui il testo del d’Alessandro era accompagnato da tutti i commenti che su di esso nel frattempo erano stati prodotti ad opera di illustri esponenti del cultismo – il Tiraquellus, il Gothofredus, il Colerus e il Mercerus – nell’ambito della scuola giuridica d’Oltralpe: il più importante e cospicuo, perché lungo all’incirca quanto il testo del d’Alessandro, quello del celebre giurista francese Andrè Tiraqueau stampato per la prima volta a Lione nel 1586 con il titolo di Annotationes ovvero Semestria3.

confronti di questa o quella repubblica ma di buona parte del mondo intero, se raccolti tutti i luoghi degli autori, donde quegli derivò tutte le sue notizie, mi fossi impegnato con le mie forze a restituirla ai dotti riportandola al suo antico splendore, cosa che feci per quanto me lo permisero le mie occupazioni»]. Il passo del Morrhy è riprodotto anche in A. SERRAI, Storia della bibliografia I. Bibliografia e Cabala. Le Enciclopedie rinascimentali (I), a cura di M. CROCETTI, Roma, Bulzoni, 1988, p. 199, che lo cita però attraverso la Bibliotheca universalis del Gesner. 3 ANDREAE TIRAQUELLI Semestria in Genialium dierum Alexandri ab Alexandro iurisperiti Neapolitani libros VI, Lugduni, apud Gulielmum Rovilium, MDLXXXVI. Su di lui e sul ‘cultismo’ vd. ora G. ROSSI, Incunaboli della modernità. Scienza giuridica e cultura umanistica in André Tiraqueau (14881558), Torino, G. Giappichelli Editore, 2007.

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Limitandoci all’Italia, se a pochi mesi dall’uscita della princeps romana il 26 giugno del 1522 il veneziano Girolamo Negri, scrivendo a Marcantonio Michiel, lamentava che i Geniales dies del d’Alessandro si vendessero a sei carlini, decisamente troppo a suo parere per un’opera che aveva «molto del Napolitano con sopportazione del Sannazaro parlando»4, già l’anno precedente, in una lettera del 6 maggio 1521 a Francesco Minizio Calvo, Andrea Alciato, al quale il libraio romano aveva inviato il liber del giureconsulto napoletano5, ne prevedeva la grande utilità per gli studiosi interessati, che tuttavia metteva in guardia su errori, sviste e persino falsità in esso disseminati6. Come a proLa lettera, del 26 giugno 1522, è citata in G.M. MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, I 1, Brescia, presso G. Bossini, 1753, p. 439, nota 40. 5 Se l’anno della lettera è esatto, come sembra confermare l’originale conservato a Wolfenbüttel (cfr. D. MAFFEI, Alessandro d’Alessandro giureconsulto umanista [1461-1523], Milano, Giuffrè, 1955, p. 14, n. 4), si deve ipotizzare una circolazione manoscritta dei Geniales dies prima della princeps romana del 1522, o piuttosto, come suppone lo stesso Maffei, che il Calvo inviasse a Milano all’Alciato in anteprima solo il libro I dei Dies, stampato forse già dall’anno prima, ipotesi questa avvalorata dal fatto che nella lettera l’opera è nominata come liber, e che le censure dell’Alciato si limitano unicamente ad alcuni capitoli del libro I. 6 «Alexandri iurisconsulti Neapolitani librum, quem ad nos misisti, diligenter legi. Vir est doctus et diligens et non parum studiosos adiuvabit: suspicor tamen eum quandoque falli. Id duplici argumento colligo, quod parentes pro consanguineis apud Lampridium in Alexandri vita reperiri ait, quod verum non arbitror. Rursusque quod libro primo, capite vigesimo quinto, plurimum se cruciat, ut apud iurisconsultos interpretetur, quid sit plumbum in ripa, cum omnes antiqui codices ostendant non ripam scripsisse iurisconsultos, sed hypaethram, cuius vocis notionem ex Vitruvio accipere debuit. Nec a nobis, ni fallor, in Praetermissis omissum est. Si is aliqua tecum familiaritate iunctus est, velim ab eo exquiras, ut Alpheni iurisconsulti vetustissima scripta commentariosque senatusconsultorum, quae vidisse se emisseque Romae ait, commodato det. Eorum autem mentionem facit capite quarto et septimo primi libri, suspicor enim nescio quid Parrhasianum, quem scis eos authores plerumque adducere solitum, quos nunquam viderat: nam et Pomponius Laetus non omnino hac nota caruit, ut qui Fenestellae nomine commentarios quosdam ediderit, rursusque Berosi, Catonis, Fabii Pictoris fragmenta, omnia fictis titulis» [«Ho letto con attenzione il libro del giureconsulto napoletano Alessandro d’Alessandro, che mi hai mandato. È un uomo dotto e scrupoloso e aiuterà 4

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posito del «libellum mirandae vetustatis» di Alfeno che il d’Alessandro millantava di aver visto a Roma (Dies I 4)7 insieme ai «pluscula legum commentaria, quae ex naufragio erepta nauta quispiam Romam advexerat» [«molte raccolte di leggi, che un marinaio aveva portato a Roma dopo averli salvati da un naufragio»] (Dies I 7), affermazioni che lasciano il giurista milanese alquanto perplesso tanto da tacciare il loro non poco gli studiosi; sospetto tuttavia che a volte sbagli. Lo argomento dal fatto che dice di trovare parentes con il significato di ‘consenguinei’ nella Vita di Alessandro di Lampridio, cosa che non credo sia vera; e ancora dal fatto che nel capitolo XXV del libro I molto si arrovella sul significato di plumbum in ripa nelle interpretazioni dei giuristi, quando tutti i codici antichi mostrano che i giuristi non scrissero ripa ma hypaethra, il significato della quale parola avrebbe dovuto conoscerlo da Vitruvio. Io stesso, se non ricordo male, ne ho parlato nei miei Praetermissa. Se costui è legato a te da una qualche familiarità, vorrei che gli chiedessi in prestito gli scritti antichissimi di Alfeno con le interpretazioni dei senatoconsulti che dice di aver visto e comprato a Roma. Ne fa menzione nei capitoli IV e VII del libro I, ma io sospetto in questo un non so che di ‘parrasiano’: Parrasio, infatti, come sai, era solito citare autori che non aveva mai visto. Anche Pomponio Leto non fu del tutto esente da questo difetto, lui che pubblicò alcuni trattati col nome di Fenestella e inoltre frammenti di Beroso, Catone, Fabio Pittore, tutti con titoli falsi»]: G.L. BARNI, Le lettere di Andrea Alciato giureconsulto, Firenze, Le Monnier, 1953, p. 30. Sull’Alciato vd. Andrea Alciato umanista europeo. Atti del Convegno, Alzate Brianza, 1993, in «Periodico della Società storica Comense», LXI, 1999, pp. 1-114; A. BELLONI, Contributi dell’Alciato all’interpretazione del diritto romano e alla sua storia, in I classici e l’Università umanistica. Atti del Convegno di Pavia (22-24 novembre 2001), a cura di L. GARGAN e M.P. MUSSINI SACCHI, Messina, CISU, 2006, pp. 113-160; André Alciat (1492-1550): un humaniste au confluent des savoirs dans l’Europe de la Renaissance. Actes du Colloque international du Centre d’études supérieures de la Renaissance, Tours (30 novembre-2 décembre 2010), éd. A. ROLET, S. ROLET, Turnhout, Brepols, 2012. 7 Riguardo a questo antichissimo codice il Gotofredo scriverà nel suo commento, rivelando che il frammento del giurista antico citato dal d’Alessandro si poteva leggere tranquillamente nelle Pandette: «Phaleras suas hic auctor mirum in modum venditat» [«Qui l’autore cerca spudoratamente di spacciare sue cianfrusaglie»] (ALEXANDRI AB ALEXANDRO Genialium dierum Libri sex, cum integris commentariis Andreae Tiraquelli, Dionysii Gothofredi, J.C., Christophori Coleri et Nic. Merceri …, Lugduni Bathavorum, ex Officina Hackiana, 1673, t. I, p. 27).

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autore di «un non so che di parrasiano», con evidente riferimento a certo disinvolto metodo filologico del Parrasio, di cui sia il d’Alessandro che l’Alciato erano stati discepoli, il quale non si faceva scrupolo a volte di tacere le sue fonti o di inventarsene di inesistenti vantando se mai il possesso di sconosciute antichissime testimonianze. Da subito, in ogni caso, e a lungo, l’opera del d’Alessandro registrò questa polarità di giudizi, tra chi ne apprezzava l’erudizione, la ricchezza della materia e persino la qualità della scrittura, e chi invece le rimproverava farraginosità, scarsa attendibilità e rigore e ingenua propensione per il mostruoso e il fantastico. Molto dipendeva ovviamente dalla prospettiva di lettura e dall’interesse specifico del singolo studioso, ed è innegabile che un giurista esperto, come l’Alciato, avrebbe immediatamente colto le tante inesattezze sparse nei capitoli che il d’Alessandro dedica al diritto antico, anche se furono proprio questi capitoli in particolare a decretare il successo europeo del suo zibaldone erudito, tanto da sollecitare Croce a definirlo «un libro della cultura europea» di Cinque-Seicento8. Così pure mutava, a seconda della prospettiva di lettura, la percezione della tipologia letteraria dell’opera del d’Alessandro, per quanto se ne riconoscesse implicitamente l’appartenenza al genere della miscellanea erudita come ricchissimo repertorio di notizie sull’antichità. In ambito bibliografico, i Geniales dies compaiono a metà Cinquecento nelle Pandectae di Conrad Gesner, ma non nella sezione (libro I, titolo I, parte 13) intestata Libri et compendia in omnes artes liberales vel in totam philosophiam, che dovrebbe corrispondere alle opere di carattere propriamente enciclopedico (e infatti vi troviamo, tra le altre, l’Anticlaudianus di Alain de Lille, il De nuptiis philologiae et Mercurii di Marziano Capella, lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais, il De expetendis et fugiendis rebus di Giorgio Valla, la Margarita philosophica di Gregor Reisch e i Commentarii urbani di Raffaele Volterrano), ma in quella (libro I, titolo XIII, parte 1) dal titolo De auctoribus qui varia et miscellanea scripserunt, al primo posto di un lungo elenco di opere in lingua latina (comprendente, tra le altre, le Noctes Atticae di Gellio, i Saturnali di Macrobio, i Miscellanea del Poliziano, le B. CROCE, Varietà di storia letteraria e civile, s. II, Bari, Laterza, 1949, pp. 27-33: 33. 8

INTRODUZIONE

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Antiquae lectiones di Celio Rodigino, le Lectiones succisivae di Francesco Florido Sabino, il De varia historia di Niccolò Leonico Tomeo, il De honesta disciplina del Crinito, etc.), tutte caratterizzate dalla grande molteplicità di argomenti, afferenti alle più varie discipline, ma senza essere strutturate secondo un metodo o un ordine particolare: «Genialium dierum libri 6 multa habent, quibus grammatica, iurisprudentia et varii auctores illustrantur»9. Anche nel Nomenclator insignium scriptorum di Robert Constantin, il secondo repertorio bibliografico della metà del XVI secolo, l’opera del d’Alessandro è collocata non nella rubrica Encyclia et Catholica, dove in sezione a sé stante appaiono come nuovo genere letterario le ‘enciclopedie’, ma nella rubrica Stromata, in cui sono elencati tutti quegli scritti di carattere poligrafico che non possono considerarsi enciclopedie in senso stretto, e anche qui i Dies sono in buona compagnia, subito dopo i Miscellanea del Poliziano, ancora con Gellio e Macrobio, la Politia literaria di Angelo Decembrio, i Collectanea di Celio Calcagnini, le Lectiones del Sabino, la Polygraphia del Tritemio, i Collectanea di Lucio Giovanni Scoppa, il De honesta disciplina del Crinito, e altre simili10. Più o meno gli stessi tra i quali compare nell’Appendix alla seconda edizione della Bibliotheca selecta del Possevino, dove sono raggruppate le opere enciclopediche e miscellanee, alla sezione Auctorum elenchus eorum, qui varias lectiones, miscellanea et alia eiusmodi ediderunt11. Sino ad arrivare, a Seicento inoltrato, a 9 E aggiungeva il Gesner che per rendere più facilmente reperibili i singoli soggetti aveva scomposto e distribuito il materiale dei Dies, come di altre numerose opere dello stesso genere di autori greci e latini, nelle partizioni e nelle articolazioni del suo grande catalogo: «Nos singulorum librorum capita descripta ad suos passim ordines in hoc opere digessimus, ut aliorum etiam qui eiusmodi argumenti tractaverunt apud Graecos et Latinos quam plurimorum […]» (Pandectarum sive Partitionum universalium libri XXI, Tiguri, Christophorus Froschoverus, 1548, c. 18v). Un’ampia scheda sul d’Alessandro era apparsa già nella Bibliotheca universalis del Gesner (Tiguri, apud Christophorum Froschoverum, 1545, cc. 23v-24r). Sul Gesner vd. A. SERRAI, Conrad Gesner, Roma, Bulzoni, 1990; F. SABBA, La ‘Bibliotheca universalis’ di Conrad Gesner. Monumento della cultura europea, Roma, Bulzoni, 2012. 10 ROBERTI CONSTANTINI Nomenclator insignium scriptorum, quorum libri extant vel manuscripti vel impressi ex Bibliothecis Galliae et Angliae …, Parisiis, apud Andream Wechelum, 1555, pp. 185-187.

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Johan Heinrich Boekler, che nella Bibliographia historico-politico-philologica curiosa del 1677, suddividendo le opere enciclopediche e polimatiche in due categorie, la prima con il nome di Historia literaria, la seconda di Philosophorum bibliotheca, collocava nella prima, sotto cui selezionava i libri di contenuto e di impostazione storica e letteraria insieme con i sussidi eruditi e gli strumenti di consultazione, per l’esattezza alla sezione Historia varia et literaria, i Dies geniales del d’Alessandro. E avvertiva: «Opus alias satis eruditum et varietate rerum quas continet commendandum, interim tamen non ubique accuratum est aut ita expolitum, ut ei per omnia fides tuto adhiberi possit» [«Opera altrimenti abbastanza erudita e raccomandabile per la varietà delle cose che contiene, qua e là tuttavia non sempre accurata o così perfetta da poterle prestare fede incondizionatamente in tutto»]12. Tornavano le riserve sulla scarsa accuratezza e attendibilità dell’opera, che ritroveremo di lì a poco anche nel Settecento in autori che tuttavia continuavano a leggerla e a consultarla e se mai a citarla come autorità, non diversamente che nei due secoli precedenti13. ANTONII POSSEVINI Bibliotheca selecta de ratione studiorum … Recognita novissime ab eodem et aucta et in duos tomos distributa, Venetiis, apud Altobellum Salicatium, 1603, t. II, pp. 592-593. 12 IO. HENRICI BOECLERI Bibliographia historico-politica-philologica curiosa …, Germanopoli, s. e., 1677, p. 106. Sono debitore di quest’ultime informazioni bibliografiche a SERRAI, Storia della bibliografia, cit., pp. 152-168. 13 Alla rassegna di giudizi sui Geniales dies fornita da MAFFEI, Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 11-23, aggiungerei anche la testimonianza di Giacinto Gimma, che nella sua Idea della storia dell’Italia letteraria cita il d’Alessandro tra «gli uomini dotti dell’Italia in vari generi di dottrina» del secolo decimoquinto, dopo aver addotto proprio il suo nome come esempio di autori italiani troppo duramente censurati per aver omesso di citare le fonti di cui si erano serviti nei loro lavori eruditi, in polemica contro certa cultura francese animosamente antitaliana che l’abate barese intendeva combattere con il suo nuovo progetto storiografico: GIACINTO GIMMA, Idea della storia dell’Italia letteraria, a cura di A. IURILLI e F. TATEO, introduzione di G. DISTASO, prefazione di N. VENDOLA, Bari, Cacucci, 2011, pp. 37, 103, 205. Per la fortuna dei Dies, vd. anche J. SEZNEC, La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizione mitologica nella cultura e nell’arte rinascimentali, trad. ital., Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 279, 281, 297, 370, 375 (si segnala la citazione dell’ope11

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Non è facile in verità classificare i Geniales dies del d’Alessandro, che sembrano sfuggire ad una qualsiasi definizione di genere non consentendo neppure una descrizione sintetica del loro contenuto, per il fatto che la materia in essi trattata non si presenta come un complesso integrato, non si dipana lungo un percorso lineare e ragionato ma, frammentata in 169 capitoli, si accumula nel disordine più assoluto. Per cui non si può dar torto al Tiraboschi che, dopo aver ricordato i capitoli sui sogni e sui fantasmi, che starebbero a provare «la fanciullesca credulità e la riscaldata fantasia più che l’erudizione del d’Alessandro», paragonò i Dies «a un ampio universale magazzino», in cui numerose sono, tra le altre di pregio, le «merci o adulterate o supposte», tali da richiedere «diligente ed esperta mano a sceglierle, a ripulirle e a farne buon uso»14. Per il loro autore invece, come si legge nella lettera di dedica al duca d’Atri Andrea Matteo Acquaviva, si trattava solo di ioci, di modeste lucubratiunculae e commentatiunculae, il frutto di amene divagazioni con gli amici nei rari momenti di ozio e di quiete concessi dalle occupazioni forensi15, e purtuttavia opera costata ra del d’Alessandro in alcuni testi mitografici della prima metà del Cinquecento, la Theologia mythologica di Georg Pictor [1532], il De deis gentium di Lilio Gregorio Giraldi [1548] e le Imagini colla sposizione degli dei degli antichi di Vincenzo Cartari [1556]). 14 G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, t. VII. Dall’anno MD fino all’anno MDC, p. III, Milano, Società tipografica de’ Classici italiani, 1824, p. 1273. 15 È evidente in queste affermazioni l’impronta dei modelli, di Gellio in particolare, che nella Praefatio alle Noctes Atticae aveva definito la sua opera commentarii/commentationes e quindi lucubratiunculae. Infatti Gellio, che aveva scritto i suoi taccuini quasi per divertimento (4: «commentationes hasce ludere ac facere exorsi sumus» [«abbiamo cominciato a redigere questi capitoli quasi per divertimento»]) nelle lunghe notti invernali trascorse vegliando in Attica, prometteva di continuare a raccogliere altri materiali nei ritagli di tempo che l’amministrazione dei suoi beni e l’educazione dei figli gli avrebbero lasciato (23: «Quantum autem vitae mihi deinceps deum voluntate erit quantumque a tuenda re familiari procurandoque cultu liberorum meorum dabitur otium, ea omnia subsiciva et subsecondaria tempora ad colligendas huiuscemodi memoriarum delectatiunculas conferam» [«La vita che ancora avrò, agli dei piacendo, da trascorrere e le tregue che mi daranno la cura dei miei beni e l’educazione da impartire ai miei figlioli, tutti insomma questi ritagli e residui di tempo li dedicherò a raccogliere per mia soddisfazione questo genere di

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molta fatica («opus sane operosum») nell’illustrazione e divulgazione dei costumi e delle tradizioni dell’antichità, in particolare delle sue institutiones, sia «quelle riguardanti le cariche, le magistrature, i senatoconsulti, la milizia e l’arte della guerra» («circa honores et magistratus senatusque consulta, rem bellicam et militarem») che «quelle riguardanti le cose sacre, le cerimonie e il culto degli dei, e le loro differenze dalla nostra religione» («circa sacra, caerimonias cultusque deorum, quantumque a nostra religione […] illa discrepent»)16. Dunque, a suo dire, un prontuario di varia antichità, con particolare attenzione alle sue istituzioni politiche, militari e religiose. In realtà ricordi»: traduzione, come sopra, di Giorgio Bernardi Perini, in AULO GELLIO, Le notti attiche, Torino, UTET, 1992]). E prima di lui Plinio, dedicando i suoi libri a Tito come opera di scarso rilievo (praef. 12: «quod levioris operae hos tibi dedicavi libellos»), si era scusato delle molte omissioni riscontrabili nella sua opera per essere stato costretto a scrivere solo poche ore di notte a causa dei tanti impegni durante il giorno al servizio dell’imperatore (18: «Nec dubitamus multa esse quae et nos praeterierint. Homines enim sumus et occupati officiis subsicivisque temporibus ista curamus, id est nocturnis, ne quis vestrum putet his cessatum horis» [«E non dubito che molte siano le cose sfuggite anche a me. Sono un uomo, sono affaccendato nelle occupazioni di ogni giorno; mi dedico a opere come questa nei ritagli di tempo, vale a dire di notte, perché qualcuno di voi non pensi che, almeno in quelle ore, io me ne sia stato inoperoso»: traduzione, come supra e infra, da GAIO PLINIO SECONDO, Storia naturale, Prefazione di I. CALVINO, Saggio introduttivo di G.B. CONTE, Nota biobibliografica di A. BARCHIESI, CH. FRUGONI, G. RANUCCI, Traduzione e note di A. ARAGOSTI et alii, voll. I-V, Torino, Einaudi, 1982-1988]). Da parte sua il d’Alessandro offre all’Acquaviva i suoi Geniales come «lucubratiunculas subsicivis temporibus excogitatas» [«elucubrazioni dei ritagli di tempo»], come passatempi «quibus quando a foro et negotiis otium et quies erat quandoque ab incursu calamitatum et saevientis fortunae procellis respirare potuimus cum amicis interdum ludere solebamus» [«con cui ero solito divagarmi di tanto in tanto con gli amici quando avevo un po’ di tempo libero dagli impegni del foro e potevo ripigliar fiato dall’assalto delle sventure e dalle tempeste della fortuna tanto accanita contro di me»]: ALESSANDRO D’ALESSANDRO, Geniales dies, Romae, in aedibus Iacobi Mazochii, 1522, c. A1v; d’ora in poi semplicemente Dies. 16 In realtà poi nei Dies c’è un solo capitolo, l’ultimo (VI 26), che contiene una decisa professione di fede cristiana con conseguente condanna dell’idolatria e del paganesimo, mentre in tutti gli altri in cui si parla di religione, questa è sempre e solo la religione degli antichi.

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i sei libri dei Geniales dies sono qualcosa di più o d’altro. Certamente un’opera antiquaria con spiccati interessi storico-giuridici, ma più complessivamente una variegata miscellanea di temi riguardanti prevalentemente il mondo antico, dalla storia spaziando agli ordinamenti militari, sociali e religiosi, al diritto pubblico e privato e alla vita quotidiana, dalla filosofia alle scienze naturali, ma che tocca anche questioni di archeologia, grammatica, critica ed esegesi testuale, e ancora curiosità di vario genere, senza escludere del tutto l’attualità, presente però pressoché esclusivamente con i suoi mirabilia, fatti e personaggi leggendari, spettri e fantasmi, prodigi, superstizioni, arti magiche17. Il tutto tra l’affiorare dei ricordi personali del d’Alessandro che rievoca – ed è significativo che lo faccia in particolare all’inizio di tutti e sei i libri –, una serie di incontri avvenuti a suo dire tra Napoli e Roma con alcuni dei maggiori esponenti dell’Umanesimo di secondo Quattrocento: Pontano, Sannazaro, Ermolao Barbaro, Giovanni Lorenzi, Gabriele Altilio, Sigismondo de’ Conti nei capitoli proemiali, e inoltre Giuniano Maio, Dragonetto Bonifacio, Calderini, Filelfo, Raffaele Maffei, il Leto, il Platina, Francesco Elio Marchese, Paolo Cortesi. Sono questi incontri con le loro animate discussioni grammaticali, filologiche, archeologiche, o d’altra attualità, che restituiscono all’enciclopedica operazione antiquaria del d’Alessandro il sapore e la vivacità del dibattito culturale umanistico, a costituire un possibile filo conduttore di un libro refrattario ad altre sistemazioni, una cornice narrativa, concentrato di luoghi comuni del modello umanistico di sodalitas, da cui riceve senso e ordine una materia caotica e frammentaria, che può essere vista allora come sanzione e divulgazione del patrimonio di conoscenze che anche attraverso le appassionate conversazioni di quelle dotte riunioni la cultura umanistica aveva tra Napoli e Roma prodotto e trasmesso18. Per il Vossius, che rimproverava al solito al d’Alessandro l’uso spregiudicato delle fonti, i Dies erano un «promptuarium antiquitatis veterisque historiae, etsi non pauca in eo sint ad verborum proprietatem aliaque studia pertinentia» [«prontuario di antichità e storia antica, sebbene non poco in esso riguardi il significato delle parole e altri argomenti simili»]: De historicis latinis libri III, Lugduni Batavorum, ex officina Joannis Maire, 1651, pp. 608-609. 18 Cfr. V. DE CAPRIO, I cenacoli umanistici, in Letteratura italiana, dir. da A. ASOR ROSA, vol. I. Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 807-809. 17

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Potrebbe essere questo l’indirizzo progettuale di un’impresa letteraria che non può certo dirsi ‘enciclopedia’, così come da poco più di due secoli, dopo la grande Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, noi moderni la intendiamo in senso normativo e ordinario, e come neppure l’età medievale l’aveva concepita, seguendo lo schema che nel XII secolo le aveva dato Bartolomeo Anglico nel suo De proprietatibus rerum, ma che corrisponde ugualmente, oltre che a un’esigenza pratica di sistemazione e di divulgazione del sapere antico19, al bisogno di imporre e veicolare un’identità, un’immagine di sé, nello specifico il modello della cultura umanistica che di quel sapere si era nutrita, e ormai già avviata verso il suo tramonto. Dai contemporanei fu comunque percepita come una ‘enciclopedia’: così – abbiamo visto – la definiva nell’Epistola dedicatoria il Morrhy, curatore dell’edizione parigina del 153220. Purtroppo non è facile dare una definizione dell’enciclopedismo umanistico che, se rispetto a quello medievale, contenitore ad libitum dell’insieme delle conoscenze disponibili, da un lato accentua l’interesse per le arti del trivio privilegiando il sapere filologico e retorico, dall’altro rivaluta le curiosità e la ricerca scientifica, continua tuttavia a comprendere un insieme molto ampio e ancora indistinto di argomenti, soggetti e interessi, ferma restando alla base l’idea di un patrimonio universale e integrato delle conoscenze, di insieme unitario e armonico delle scienze21. Accezione, se vogliamo, anche moderna Qual era anche l’intento di opere come i Convivia mediolanensia del Filelfo o gli scritti antiquari del Biondo. Per i primi vd. D. GIONTA, Per i Convivia mediolanensia di Francesco Filelfo, Messina, CISU, 2005; per i secondi – in particolare Italia illustrata, Roma instaurata, Roma triumphans – si può fare riferimento alla ricca bibliografia registrata nella Introduzione di P. PONTARI a BLONDUS FLAVIUS, Italia illustrata, a cura dello stesso, vol. 1, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 2011, pp. 25-250. 20 Vd. p. 16. 21 Sull’enciclopedismo dei secoli XV e XVI, tendenza diffusa e caratterizzante della cultura umanistica, manca tuttora una compiuta riconsiderazione d’insieme: mi limito a segnalare, senza alcuna pretesa di completezza, oltre a SERRAI, Storia della bibliografia, cit., V. CIAN, Contributo alla storia dell’enciclopedismo nell’età della Rinascita. Il Methodus studiorum del Card. Pietro Bembo, in Miscellanea di studi storici in onore di Giovanni Sforza, Lucca, Tipografia Editrice Baroni, 1915, pp. 289-330; W. MELCZER, Poetica e retorica nelle enciclopedie italiane e tedesche del Quattrocento, in Retorica e poetica. Atti del III 19

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della parola ‘enciclopedia’, di conio peraltro umanistico, perché ricorrente per la prima volta, nella forma latina (come traslitterazione e corruzione dell’espressione greca ejnkuvklio" paideiva usata da alcuni autori latini con il significato di ‘circolo’ di trattazioni riguardanti tutte le arti e discipline liberali), nella dedica di Giovan Pietro Valla a Gian Giacomo Trivulzio della princeps aldina del 1501 del De expetendis et

Convegno italo-tedesco, Bressanone 1975, a cura di D. GOLDIN, Padova, Liviana, 1979, pp. 231-242; J. CÉARD, Encyclopédie et encyclopédisme à la Renaissance, in L’Encyclopédisme. Actes du Colloque de Caen (12-16 janvier 1987), sous la dir. de A. BECQU, Paris, Klincksieck, 1991, pp. 57-67; L’entreprise encyclopédique, Études réunies et présentées par J. BOUFFARTIGUE et F. MÉLONIO, Nanterre, Université Paris X, 1997; L. CHINES, Enciclopedismo e commento umanistico, in Le origini della Modernità, I. Linguaggi e saperi tra XV e XVI secolo, a cura di W. TEGA, Firenze, Olschki, 1998; J.-L. CHARLET, L’encyclopédisme latin humaniste: de la lexicographie à l’encyclopédie (XVe-début XVIe s.), in «Moderni e Antichi», II-III, 2004-2005, pp. 285-306; M. PADE, Niccolò Perotti’s Cornu copiae: Commentary on Martial and Encyclopedia, in On Renaissance Commentaries, ed. by M. PADE, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 2005, pp. 49-63; L’enciclopedismo dall’Antichità al Rinascimento, a cura di C. FOSSATI, Genova, D.AR.FI.CL.ET., 2011. Andrebbero peraltro approfonditi gli elementi di continuità, oltre che di innovazione, che ci sono tra le enciclopedie umanistiche e quelle medievali, quest’ultime in quei secoli il tramite principale della trasmissione della cultura, sacra e profana, antica e moderna, oltre che garanzia della sua conservazione; anche se non esisteva ancora la parola, il Medioevo fu l’età delle enciclopedie ovvero dell’enciclopedismo, «il risultato di un grande sistema a più voci, e durato a lungo, di razionalizzazione del sapere» (F. CARDINI, Parole introduttive a L’enciclopedismo medievale. Atti del Convegno, San Gimignano, 8-10 ottobre 1992, a cura di M. PICONE, Ravenna, Longo, 1994, p.11). Sull’argomento, oltre ai titoli già citati: La pensée encyclopédique au Moyen Age, éd. par M. DE GANDILLAC et alii, Neuchâtel-Paris, Éditions de la Baconnière, 1966; M.T. FUMAGALLI BEONIOBROCCHIERI, Le enciclopedie dell’Occidente medievale, Torino, Loescher, 1981; EAD., Le enciclopedie, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, a cura di G. CAVALLO, C. LEONARDI, E. MENESTÒ, vol. I. La produzione del testo, t. 2, Roma, Salerno Ed., 1993, pp. 635-657; Pre-Modern Encyclopaedic Texts, Proceedings of the Second COMERS Congress, Gröningen, 1-4 July 1996, ed. by P. BINKLEY, Leiden-New York-Köln, Brill, 1997; il sito internet curato da Bernard Ribémont: http://bernard.ribemont.perso.neuf.fr/biblencyclo.htm.

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fugiendis rebus di Giorgio Valla, la prima grande ‘enciclopedia’ del secolo XVI22. Una miscellanea erudita – dicevo –, ovvero un’opera paraenciclopedica quella del d’Alessandro, in cui l’apparente disordine della materia ritroverebbe una sua intrinseca forza organizzativa nel punto di vista storico-giuridico che muove l’interesse dell’autore per il mondo antico, e strutturandosi in galassie recupererebbe grazie al loro aperto movimento circolare organicità metodologica se non concettuale. Un’opera paraenciclopedica, al pari di altri libri con titoli fantasiosi ma semanticamente appropriati quali Centuriae, Lectiones, Racemationes, Collectanea, Officinae, Apparatus, Theatra, Poliantheae etc., i quali, «anche se corredati spesso di indici, delle voci o dei soggetti, che li rendevano agevolmente esplorabili, soffrivano di un grado di rapsodicità, di imprevedibilità, e di arbitrarietà, che noi, attualmente, riterremmo incompatibile con la sistematicità e la anticipabilità dei contenuti di una enciclopedia»23, ma che tuttavia ‘enciclopedie’ devono considerarsi, se non altro perché nate dalla vocazione enciclopedica della cultura umanistica, che nella filologia riconosceva la chiave ermeneutica di tutto lo scibile24. 22 «Addidit insuper novi operis excogitationem dispositionemque, […] quo illam a veteribus insignibusque doctrina viris iure illustratam posterisque patefactam encyclopediam, citra quam non habitus fuerat quispiam non modo doctissimus sed ne consummatus quidem orator, hoc opere ostenderet […]» [«Nuova inoltre la concezione e la disposizione dell’opera, con la quale volle far conoscere quella cultura enciclopedica dagli antichi, uomini insigni per dottrina, messa in luce e ai posteri rivelata, senza la quale nessuno era considerato non solo dottissimo ma neppure compiuto oratore»]: c. 6v. Nel 1504 la parola latina ricomparirà nell’indice allestito da Benedetto Brugnoli per l’edizione veneziana del Cornu copiae di Niccolò Perotti, spiegata per l’appunto come «omnium disciplinarum collectionem». Per la storia della parola cfr. SERRAI, Storia della bibliografia, cit., pp. 145-148, nota 8. 23 Ivi, p. 166. 24 Vocazione che credo non si potrebbe esprimere meglio che attraverso le parole di Celio Calcagnini, autore di varie opere enciclopediche (quasi tutte raccolte nel volume pubblicato postumo a cura del duca di Ferrara Ercole II d’Este nel 1544), il quale in una lettera al nipote, parlando di ‘enciclopedia’, così scriveva: «Infatti come nel corpo umano nulla è inutile, perché ogni parte vi è istituita per uno scopo preciso, e corrisponde perciò all’insieme delle altre

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In ogni caso, se un ascendente classico è da evocare per i Geniales dies del d’Alessandro, questo è non tanto la Naturalis historia di Plinio, in cui pure la classificazione della materia, nella sua natura eminentemente pratica, non sempre risponde a un criterio sistematico retto da un principio rigoroso ma è esposta alle sollecitazioni occasionali della trattazione25, quanto i Saturnalia di Macrobio o piuttosto le Noctes Atticae di Gellio, la fortunata miscellanea antiquaria i cui intenti didascalici26 hanno messo a disposizione del lettore moderno uno strumento formidabile per entrare nel mondo romano e nella sua storia, nelle sue istituzioni e nei suoi costumi, aprendo squarci su vari secoli di storia antica e su svariati campi del sapere, ma dove il materiale non è organizzato in una struttura omogenea quanto piuttosto secondo un ordine del tutto casuale proprio degli appunti o delle annotazioni sparparti, e nulla può venir tolto senza che ne derivi un danno, così le discipline, ossia le membra della Humanitas, si trovano tra loro talmente connesse che basta considerarle isolatamente perché risultino monche e mutile. Nessuno può conseguire la conoscenza delle cose fisiche senza il sussidio della logica, né delle cose logiche senza l’aiuto della matematica: né in generale di nessuna cosa senza l’apporto della retorica. È per questo che qualcuno, opportunamente, ha dato a tale armonia il nome di ejgkuklopaidiva. Perché se la filosofia è cognizione delle cose umane e divine, se la Humanitas è intelligenza delle cose che competono agli uomini, e tutte le cose sono state create da Dio per l’uomo, allora esse, sia quelle che sono in cielo che quelle che sono sotto il cielo, non posso credere che non mi riguardino»: traduzione di Alfredo Serrai in SERRAI, Storia della bibliografia, cit., p. 191; il testo latino in CAELII CALCAGNINI Opera aliquot, Basileae, per Hieronimum Frobenium et Nicolaum Episcopium, 1544, p. 23. 25 Vd. G.B. CONTE, L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio, in PLINIO, Storia naturale, cit., vol. I, pp. XVIIXLVII. 26 La finalità dichiarata dell’opera (praef. 12) era di far sì che le poche cose dall’autore colte dalle sue infinite letture «aut ingenia prompta expeditaque ad honestae eruditionis cupidinem utiliumque artium contemplationem celeri facilique compendio ducerent aut homines aliis iam vitae negotiis occupatos a turpi certe agrestique rerum atque verborum imperitia vindicarent» [«potessero condurre gli ingegni ben disposti e alacri, per un sentiero svelto e facile, al desiderio di una scienza onorevole e alla cognizione delle arti utili, o che potessero riscattare gli uomini, occupati nelle ben diverse incombenze della vita, dall’ignoranza sempre vergognosa e becera delle cose e delle parole»].

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se27, esattamente come nei Geniales dies, il cui titolo stesso sembra antifrasticamente fare il verso a quello di Noctes Atticae. E come queste28, anche la compilazione dell’umanista napoletano, di pari finalità divulgativa, riflette nell’altrettanto ampia gamma dei temi trattati una cultura vasta, quale poteva essere quella di un umanista di secondo QuatPraef. 2-3: «Usi autem sumus ordine rerum fortuito quem antea in excerpendo faceramus. Nam proinde ut librum quemque in manus ceperam seu Graecum seu Latinum vel quid memoratu dignum audieram, ita quae libitum erat, cuius generis cumque erant, indistinte atque promiscue annotabam eaque mihi ad subsidium memoriae quasi quoddam litterarum penus recondebam ut, quando usus venisset aut rei aut verbi cuius me repens forte oblivio tenuisset, et libri ex quibus ea sumpseram non adessent, facile inde nobis inventu atque depromptu foret. Facta igitur est in his quoque commentariis eadem rerum disparilitas quae fuit in illis annotationibus pristinis quas breviter et indigeste et incondite ex auditionibus lectionibusque variis feceramus» [«Per la disposizione degli argomenti abbiamo adottato il criterio della casualità, quello stesso che avevamo seguito nel raccoglierli: via via che prendevo in mano un libro, greco o latino che fosse, o ascoltavo cosa valesse la pena ricordare, io ne prendevo nota così come veniva, alla rinfusa, seguendo il mio gusto e senza badare alla natura del materiale; poi lo mettevo da parte a sussidio della mia memoria, come una dispensa di cibi culturali. Così, se mai mi fosse venuto bisogno d’una nozione o d’una parola e lì per lì mi fosse sfuggita di mente, anche in mancanza dei libri da cui l’avevo desunta mi sarebbe stato facile pescarla e tirarla fuori. Si è dunque realizzata anche in questi taccuini quella medesima eterogeneità di contenuto che caratterizzò le schede originarie, ricavate alla svelta, senz’ordine e senza regola, da svariate audizioni e letture»]. Sulla fortuna umanistica di Gellio cfr.: R. SABBADINI, Le scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, Firenze, Le Lettere, 1996 (Firenze, Sansoni, 1905-1914), vol. I, ad indicem; H. BARON, Aulus Gellius in the Renaissance, and a Manuscript from the School of Guarino, in «Studies in Philology», XLVIII, 1951, pp. 107125, poi in ID., From Petrarch to Leonardo Bruni. Studies in Humanistic and Political Literature, Chicago, University of Chicago Press, 1968, pp. 196-215; A.C. DE LA MARE, P.K. MARSHALL, R.H. ROUSE, Pietro da Montagnana and the Text of Aulus Gellius in Paris B.N. lat. 13038, in «Scriptorium», XXX, 1976, pp. 219-225; S. SCIPIONI, I codici umanistici di Gellio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003; M. DANELONI, Due libri postillati dal giovane Poliziano, «Studi medievali e umanistici», III, 2005, pp. 165-212: 100-212. 28 Anche il d’Alessandro, nella lettera di dedica all’Acquaviva, dopo aver constatato che le conoscenze relative all’antichità, su cui peraltro gli autori 27

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trocento, ma poco profonda, sminuzzata e poco selettiva, destinata, priva com’è di un suo organico disegno di fondo, alla consultazione piuttosto che a una lettura continuativa e integrale. Come miscellanea erudita l’opera del d’Alessandro si situa, dunque, sulla linea di una tradizione di genere letterario fortemente radicata nella tradizione greca e latina e poi anche umanistica, che si pone come codice programmaticamente aperto ad una molteplicità di sollecitazioni culturali e di modelli letterari. Nei 169 capitoli dei Dies la varietà delle tematiche procede parallelamente alla varietà e alla contaminazione dei modelli, per cui la trattazione, che si presenta più spesso sotto forma di esposizione secondo i moduli della trattatistica, può svolgersi anche in forma di narrazione o in forma dialogica. I capitoli a struttura dialogica mostrano evidenti tratti di stilizzazione letteraria: l’argomento discusso viene contestualizzato in rapporto ad una situazione concreta (una riunione accademica, una cena in casa di qualche umanista, un incontro casuale, una passeggiata in riva al mare a Napoli o tra le rovine antiche a Roma)29, mentre spesso le tesi contrapposte vengono attribuite a due personaggi diversi: un’autorità della cultura umanistica, a volte l’autore stesso, si oppone a un interlocutore anonimo, ignorante e ottuso, per lo più un grammatico o un collega giurista, fatto oggetto di un attacco violento, a caratterizzazione comico-satirica, che ricorda i moduli della diatriba antica30. Le autorità che sostengono la tesi corretta sono di solito i maestri del d’Alessandro o umanisti di fama da lui riconosciuti come tali, modulo che potrebbe rinviare, come in Gellio, al modello retorico dei memorabilia, in cui l’allievo forniva una testimonianza dell’insegnamento del maestro. greci e latini non sono concordi, sono esposte qua e là in modo frammentario e pertanto non facilmente accessibili a tutti («antiquitatis omnis ratio cognitioque et si quod est vetustatis exemplar apud auctores multivagos graecos et latinos […] sparsim et intercise detrusa nec in promptu exposita sunt»), dichiara come finalità della sua impresa quella di aiutare gli indotti a farsi un’idea di essa evitando loro la fatica della ricerca («rudibus saltem ad capiendum maioris operis incrementum et quandam vetustatis imaginem vitandumque inquirendi laborem»: Dies, c. A1v). 29 Vd. i capitoli I 1, 8, 16, 21, 23, II 1, III 1, V 14 qui riprodotti. 30 Vd. i capitoli I 8, 21, 23.

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Per quanto indubbiamente più strutturati, peculiarità che li apparenta in qualche modo al format della ‘enciclopedia’, i Geniales dies del d’Alessandro come zibaldone antiquario restano un tipico prodotto di quella secolare letteratura delle miscellanee erudite, la cui finalità, qualunque fosse il loro nome, era quella di soddisfare un bisogno di conoscenza occasionale, e spesso curiosa, piuttosto che sistematica e universale31. Con questo genere condividono indubbiamente i tratti peculiari: assoluta mancanza di ordine nella presentazione della materia e sua frammentazione, varietà degli argomenti, e tono erudito. È solo un principio estetico a dare senso al disordine, essendo tali libri leggibili a partire da un qualsiasi punto, nell’ordine che il lettore preferisce. Ovviamente, perché la lettura, oltre che godibile, possa catturare l’attenzione del lettore, deve suscitare sempre, in ogni capitolo, grande interesse, donde la necessità di inserire notizie e argomenti che sollecitino domande, ma anche fatti curiosi, tali perché insoliti, esotici o mostruosi, o più semplicemente perché specchio del meraviglioso presente nella quotidianità. È la storia, pertanto, la miniera inesauribile da saccheggiare, che per un umanista uomo di legge come il d’Alessandro non poteva che essere innanzitutto la storia antica e le sue varie istituzioni, ed è la filologia il tramite di tante conoscenze. Era stata o sarà la filologia umanistica del resto, imitando gli archetipi classici del genere, le Noctes Atticae di Gellio, i Saturnalia di Macrobio o, in ambito greco, gli Stromata di Clemente Alessandrino e la Varia historia di Claudio Eliano, a produrre una serie di ‘miscellanee’ che dall’Orthographia del Tortelli e dal Cornu copiae del Perotti, dalle Observationes del Calderini, le Annotationes centum del Beroaldo e le due Centurie del Poliziano, raccolte di materiali eterogenei in forma di scholia e commenti o di note filologiche32, si dilatano via via, accogliendo al loro interno altri Com’è vero per il genere delle ‘selve’, che avrebbe proliferato, anche in volgare, sino a tutto il Seicento, su cui vd. P. CHERCHI, La selva rinascimentale: profilo di un genere, in Ricerche sulle selve rinascimentali, a cura dello stesso, Ravenna, Longo, 1999, pp. 9-41. Interessante anche per le implicazioni di metodo il saggio del Cherchi sulle fonti e sul sistema delle citazioni nella Silva de varia leccíon dello spagnolo Pedro Mexía: Sobre las fuentes de la Silva de Pero Mexía, in «Revista de Filología española», LXXIII, 1993, pp. 43-53. 32 Mi limito ad alcuni riferimenti bibliografici essenziali. Per l’Orthographia di Tortelli, le Annotationes di Beroaldo, le Observationes del Calderini e la prima 31

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‘fiori’ di lettura, in opere di più ampio respiro, quali, ad esempio, il De honesta disciplina del Crinito (1504), i Collectanea dello Scoppa (1507) e, più tardi, i De varia historia libri tres di Niccolò Leonico Tomeo (1531), tutti centoni storico-filologici ricchi di notizie, curiosità e aneddoti tratti pressoché esclusivamente dal patrimonio culturale dell’antichità classica con una qualche apertura al mondo moderno33. centuria dei Miscellanea di Poliziano bisogna ricorrere ancora a incunaboli e cinquecentine (per Beroaldo e Poliziano insieme, ad es., l’edizione bresciana del 1497, poi ristampata a Venezia nel 1503, su cui cfr. C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 20-21, ristampa a cura di V. FERA, con saggi di V. FERA e G. ROMANO, Milano, 5 Continents Editions, 2003; per Tortelli vd. inoltre G. DONATI, L’Orthographia di Giovanni Tortelli, Messina, CISU, 2006, e per Calderini M. CAMPANELLI, Polemiche e filologia ai primordi della stampa. Le Observationes di Domizio Calderini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2001). Del Cornu copiae del Perotti è disponibile l’ed. critica a cura di J.-L. CHARLET et alii, vol. I-VIII, Sassoferrato, Istituto Internazionale di Studi piceni, 1989-2001; della seconda centuria dei Miscellanea di Poliziano quella a cura di V. BRANCA e M. PASTORE STOCCHI, Firenze, Olschki, 1978. 33 Vasto zibaldone di temi e discussioni filologiche e erudite per lo più relative alla cultura del mondo classico, alle sue istituzioni, alla religione, ai costumi, ma che a noi oggi interessa piuttosto per la conoscenza e la ricostruzione dell’ambiente intellettuale fiorentino di secondo Quattrocento, in cui l’opera maturò ed è ambientata, quello dell’Accademia Platonica e delle sue riunioni tra la villa dei Medici a Fiesole, la biblioteca del convento di San Marco a Firenze e più tardi gli Orti Oricellari, i 25 libri del De honesta disciplina del Crinito uscirono a Firenze presso Filippo Giunta nel 1504: si possono leggere nell’ed. a cura di C. ANGELERI, Roma, Bocca, 1955. I Collectanea dello Scoppa sono accessibili nelle tre stampe napoletane del 1507, 1517 e 1534. Dello Scoppa si è studiato negli ultimi anni lo Spicilegium, un lessico caratterizzato da una decisa evoluzione in senso enciclopedico: S. VALERIO, Grammatica, lessico e filologia nell’opera di Lucio Giovanni Scoppa, in P. IZZI, I. NUOVO, G.A. PALUMBO, S. VALERIO, Lessicografia a Napoli nel Cinquecento, a cura di D. DEFILIPPIS e S. VALERIO, prefazione di F. TATEO, Bari, Adriatica, 2007, pp. 101-156; ID., L’insegnamento di Plinio nella scuola umanistica di Lucio Giovanni Scoppa, in La Naturalis Historia di Plinio nella tradizione medievale e umanistica, cit., pp. 237-249. Per il De varia historia del Tomeo si veda la stampa veneziana del 1531. Si sono soffermati ad indagare il rapporto di necessità che intercorre tra ‘commentario’ e ‘enciclopedia’ CHINES, Enciclopedismo e com-

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E come anche i Dies del d’Alessandro che, per essere l’incredibile miniera antiquaria che sono, si trasformarono ben presto in un formidabile strumento di consultazione, affiancandosi ad altri importanti ‘manuali’ del sapere antico apparsi nei primi due decenni del Cinquecento: tra i più vicini, oltre al già citato De honesta disciplina del Crinito, i Commentarii urbani del Volterrano e le Antiquae lectiones del Rodigino, quest’ultime in particolare diventate dopo la princeps del 1516 un’autorità imprescindibile per certo tipo di antiquariato incline alle più disparate curiosità34. Ma farraginose e arcaizzanti, le furono ben presto preferiti, e non solo da chi ricercava dati giuridici da citare, i Dies del d’Alessandro, nel complesso meno ostici sia per il latino appena più scorrevole che per la natura dei materiali raccolti, che spesso indulgono all’aneddoto, al racconto fantastico o persino gotico, con aperture, si diceva, verso la realtà contemporanea. Restava per tutte mento umanistico, cit.; J. CÉARD, Le commentaire, ou l’encyclopédisme non méthodique de la Renaissance, in L’entreprise encyclopédique, cit., pp. 79-95; CHARLET, L’encyclopédisme latin humaniste: de la lexicographie à l’encyclopédie, cit.; ID., L’encyclopédisme latine au tournant du XVe et XVIe siècle: Francesco Maria Grapaldo, Giorgio Valla et Raffaele Maffei, in L’enciclopedismo dall’Antichità al Rinascimento, cit., pp. 179-199; PADE, Niccolò Perotti’s Cornu copiae: Commentary on Martial and Encyclopedia, cit. 34 Stampati per la prima volta a Roma dal Besicken nel 1506, i Commentarii del Volterrano godettero di immediata e prolungata fortuna sino al XVII secolo; su di essi, oltre ad alcune annotazioni di C. DIONISOTTI, Raffaele e Paolo Cortese, in ID., Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, cit., pp. 3547, cfr. SERRAI, Storia della bibliografia, cit., pp. 281-284; CHARLET, L’encyclopédisme latine au tournant du XVe et XVIe siècle, cit.; R. ALHAIQUE PETTINELLI, Raffaele Maffei e i Commentarii urbani, in Metafore di un pontificato. Giulio II (1503-1513). Atti del Convegno, Roma, 2-4 dicembre 2008, a cura di F. CANTATORE et alii, Roma, Roma nel Rinascimento, 2010, pp. 61-73. La prima edizione delle Lectiones del Rodigino, uscita a Venezia presso Aldo Manuzio nel 1516, contava 16 libri, la seconda, postuma (Basilea, Hieronymus Froben e Nikolaus Episcopius, 1542), invece 30, ma la materia è pressoché la stessa e la sua riarticolazione sarebbe opera dei curatori, i nipoti Camillo Ricchieri e Giovanni Maria Goretti. Anche le Lectiones ebbero fortuna europea sino al Seicento (l’ultima edizione uscì a Ginevra nel 1620): su di esse ancora SERRAI, Storia della bibliografia, cit., pp. 183-185.

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queste opere il loro impianto enciclopedico atipico, il loro essere ‘enciclopedie’ – non avendone però l’assetto tassonomico – nel senso più generico e approssimativo di grande deposito di materiali, e forse per questo di maggior successo di altre enciclopedie cinquecentesche più rigorosamente tali, manuali di base per tutto il secolo XVI, come il De expetendis et fugiendis rebus di Giorgio Valla pubblicato da Aldo a Venezia nel dicembre del 1501 o la Margarita philosophica del certosino tedesco Gregor Reisch uscita per la prima volta a stampa a Friburgo nel 1503 e circolante a lungo anche in Italia, dove fu volgarizzata da Giovanni Paolo Gallucci ancora nel 159935. Per il primo, ancora legato ad una impostazione scolastica e scientificonaturalistica, vd.: V. BRANCA, L’Umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento. Ermolao Barbaro e il suo circolo, in Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, vol. I, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 161165; Giorgio Valla tra scienza e sapienza. Studi di G. Gardenal, P. Landucci Ruffo, C. Vasoli raccolti e presentati da V. BRANCA, Firenze, Olschki, 1981, su cui R. FUBINI, Umanesimo ed enciclopedismo. A proposito di contributi recenti su Giorgio Valla, in «Il pensiero politico», XVI, 1983, pp. 251-269; SERRAI, Storia della bibliografia, cit., pp. 272-275; CHARLET, L’encyclopédisme latine au tournant du XVe et XVIe siècle, cit.; per il secondo (l’edizione basileense del 1517 della Margarita è riprodotta in anastatica a cura di L. GELDSETZER, Düsseldorf, Stern-Verlag Janssen & Co., 1973): SERRAI, pp. 104-106, nota 94, 276-281; per entrambi utile anche CHERCHI, Tra filosofia e religione, cit., pp. 1267-1268. A queste ‘enciclopedie’ moderne si continuavano a preferire persino il De rerum proprietatibus di Bartolomeo Anglico, che nel corso del secolo ebbe una decina di edizioni e traduzioni in varie lingue, o lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais, ancora stampato in Italia nel 1591, e il Tresor di Brunetto Latini nella traduzione di Bono Giamboni. L’enciclopedia medievale e umanistica suppliva ancora in maniera soddisfacente al bisogno di unità del sapere, mentre la più vasta e moderna biblioteca della cultura del secolo XVI tardava a trovare un modo più funzionale di organizzazione e rappresentazione. Per tutto il Cinquecento, come opportunamente è stato rilevato secolo di ricerca enciclopedica più che di grandi enciclopedie, al sempre costante successo di zibaldoni erudito-antiquari, del tipo dei Dies del d’Alessandro, si accompagnò la fioritura di opere da classificare ancora come paraenciclopedie, di impianto enciclopedico ma in cui venivano affrontati soltanto temi parziali e specializzati, che rappresentano comunque l’avvio dell’enciclopedismo moderno: cfr. CHERCHI, Tra filosofia e religione, cit., pp. 1267-1271. 35

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Nella loro cornice frammentaria, i Geniales dies procedono di capitolo in capitolo affrontando senza un ordine prestabilito argomenti eterogenei, riguardanti pressoché esclusivamente, come si è già detto, il mondo antico, con un approccio, che è poi l’unico filo rosso che attraversa l’opera e le restituisce una sua pur fragile unità di impianto e di concepimento, che nasce da un interesse legato sostanzialmente ad una problematica storico-giuridica. Tutto può diventare, così, occasione per indagare le istituzioni dell’antichità, persino la ricostruzione filologica e l’esegesi di un passo di autore classico, la discussione sul significato di una parola, una scoperta o un dubbio archeologico, un qualsiasi aneddoto sulle abitudini quotidiane dei Romani. È certo comunque che una sezione cospicua dell’opera è riservata proprio alla ricerca giuridica, grazie alla quale il d’Alessandro occupò un posto di tutto riguardo nel rinnovamento portato dall’Umanesimo anche nel campo degli studi giuridici, tanto da poter essere considerato uno dei più immediati precursori e sollecitatori della metodologia culta che nel corso del Cinquecento si affermerà in Francia e in Germania, ragione questa della fortuna grandissima dei suoi Dies in questi paesi sino alle soglie del Settecento. In possesso di una cultura vasta, come una sia pure veloce delibazione del testo rivela esibendo un repertorio di autori che, seppure non tutto di prima mano, dai giuristi romani e medievali spazia ai filosofi, agli scienziati, ai poeti greci e latini, oltre che ai moderni e contemporanei anche se mai espressamente citati (sicuramente Valla, come vedremo, ma anche Vegio, Biondo, Calderini, Perotti, Pontano)36, il d’Alessandro, fondando le sue indagini su un più

Di Maffeo Vegio il d’Alessandro conosce e utilizza il De verborum significatione, un vocabolario di termini giuridici estratti dal Digesto risalente agli anni Trenta del secolo XV, a stampa la prima volta a Vicenza nel 1477, su cui vd. M. SPERONI, Il primo vocabolario giuridico umanistico: il De verborum significatione di Maffeo Vegio, in «Studi senesi», LXXXVIII, 1976, pp. 7- 43. In Dies V 6, per spiegare una delle funzioni più importanti fra quelle esercitate dal senato romano, l’interregnum, come pure nei capitoli IV 3 sui comitia, V 12 sulle Vestali, V 19 sugli auguri e VI 12 sui flamini, egli tiene invece sicuramente presente – lo suggerivano già i suoi antichi commentatori (Dies, ed. Leida 1673, t. II, p. 47) – quanto avevano scritto sull’argomento lo ps. Fenestella, ovvero il Fiocchi, nel De magistratibus sacerdotiisque Romanorum, Pomponio Leto nel De Romanorum magistratibus, sacerdotiis, iurisperitis et legibus e il Biondo nella Roma triumphans: vd. a riguardo alcune osservazione di A. MOMIGLIANO, 36

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rigoroso metodo filologico – come i suoi maestri tra Napoli e Roma gli avevano insegnato –, tocca via via tutti gli aspetti del diritto pubblico e privato romano. I capitoli sulle magistrature messi insieme possono configurare benissimo una storia del diritto pubblico a Roma dalla monarchia all’impero, perché in essi con ricchezza di fonti e di raffronti con le istituzioni di altri popoli dell’antichità, accumulando il d’Alessandro tutto quanto si poteva desumere dai territori culturali esplorabili, sono minutamente descritte, tra puntuali trattazioni di carattere generale (capitoli III 20; IV 5, 6, 10; V 10; VI 23)37, le caratteristiche (composizione, poteri, competenze, funzioni) di ogni singolo istituto dell’ordinamento costituzionale romano: tribù (I 7), comizi (III 17; IV 3), senato (II 29; IV 11; V 6, 17); magistrature ordinarie e straordinarie, consolato e tribunato militare (II 27; III 3; V 2; VI 18), pretura (II 15), edilità (IV 4), questura (II 2), tribunato della plebe (I 3; II 24; V 2; VI 24), censura (III 13), dittatura (I 6; IV 23); cariche sacerdotali (II 8; III 27; V 3) e altre cariche minori o speciali (I 27; III 16; VI 3, 20). È questa la sezione forse più valida dei Geniales dies, in quanto in essa il d’Alessandro fa storia più che erudizione. Convinto infatti che le istituzioni romane valessero come modello storico da emulare e perfezionare e non come norma assoluta e immutabile, si impegna a recuperarle nella loro integrale fisionomia, attingendo direttamente ai giuristi romani e a qualsiasi altra fonte coeva, letteraria e non, potesse far luce sulla norma del diritto romano presa in considerazione. Respingendo, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960, pp. 419-420; G. LOVITO, Pomponio Leto politico e civile. L’Umanesimo italiano tra storia e diritto, Salerno, Laveglia, c. 2005, pp. 70-78. In Dies II 12 e IV 21 mostra inoltre di conoscere i commenti a Marziale del Calderini e del Perotti, di cui si serve per l’interpretazione di MART. III 38, 34 e XIV 82; al Cornu copiae rinvia anche Dies II 30, per cui vd. infra. Di Pontano il d’Alessandro non poteva non conoscere, tra le altre sue opere, il De aspiratione, opera grammaticale, a metà tra ortografia e lessico, molto fortunata, ricca di excursus mitologici, antiquari, epigrafici e filologici (su di essa fondamentale G. GERMANO, Il De aspiratione di Giovanni Pontano e la cultura del suo tempo con un’Antologia di brani scelti dal De aspiratione in edizione critica corredata di introduzione, traduzione e commento, Napoli, Loffredo, 2005). 37 Si vedano qui e in seguito i titoli nell’indice dei Capita alle pp. 87-97.

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invece, pur senza l’acrimonia polemica di un Valla o di altri umanisti, l’autorità dei giuristi medievali campioni del metodo della glossa38. L’organicità e il maggiore rigore scientifico che sembrano caratterizzare la ricostruzione del diritto pubblico romano lasciano il posto, nei capitoli riservati al diritto penale (II 13, 16; III 5, 23; IV 1; VI 10) e al diritto privato (I 1, 7, 10, 24; II 3, 5, 20, 23; IV 5, 8, 15, 22; VI 1, 14), alla occasionalità e alla frammentarietà. Nei primi la trattazione non va al di là della descrizione di alcune norme della legislazione romana sul crimine, oscillando tra genericità e dispersività, affollata com’è di caotiche e affastellate rassegne di reati e pene, di divagazioni e di citazioni dotte. Ancor di più si coglie questo limite nei capitoli in cui il d’Alessandro si sofferma su aspetti del diritto privato romano, perché in essi la curiosità dell’erudito prende il sopravvento sul giurista e dà all’esposizione, anche quando l’occasione è fornita da casi dibattuti nella sua carriera di avvocato o da discussioni accademiche su passi controversi dei classici, un prezioso ma soffocante sapore antiquario. Non mancano certo in questa sezione capitoli (quelli sul diritto successorio, ad es.)39 in cui l’indagine giuridica torna ad essere puntuale, così come nella sezione penale si isola per il rigore filologico della ricostruzione testuale il lungo capitolo VI 10 sulle XII Tavole40. Restano tuttavia slegati fra loro, quanto le ricerche parallele sul significato di termini tecnici o rari disseminati nei testi di diritto (I 4, 15, 19, 25; II 10, 20, 30; III 1, 4, 9, 10, 14, 19, 25; IV 15; V 5, 11, 17). Se il loro intento è quello, proprio della filologia umanistica, di risalire dai verba alle res, di Su questi capitoli: MAFFEI, Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 111-174. Nel cap. II 3 è infatti esposto un caso pratico in tema di interpretazione testamentaria, su cui il d’Alessandro era stato chiamato da esperto a dare il suo parere dirimente, e nel cap. I 1 (da noi riprodotto) sono illustrate alcune norme del diritto ereditario romano che traggono pretesto dalla lettura, avvenuta in casa del Pontano, di un passo di Svetonio sulle disposizioni testamentarie di Cesare. 40 Riprodotto per intero in MAFFEI, Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 162174. Riferimenti in O. DILIBERTO, Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della legge delle XII Tavole (secoli XVI-XX), Roma, Robin Edizioni, 2001, pp. 51-52, e J.-L. FERRARY, Saggio di storia della palingenesi delle Dodici Tavole, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. HUMBERT, Pavia, IUSS Press, 2005, pp. 503-558: 510. 38 39

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restituire cioè ai testi degli antichi giuristi attraverso lo studio delle parole il loro esatto significato, non riescono però a superare il limite della minuta analisi grammaticale e a farsi storia perché disperse e soffocate dalla mole dell’erudizione, esse stesse in fondo non altro che archeologia. In questi capitoli, che configurano all’interno dei Dies una compatta sezione de verborum significatione, il d’Alessandro, degno discepolo del suo maestro Giuniano Maio41, s’impegna a illustrare il significato di termini rari ricorrenti nei testi giuridici, spesso causa di errate interpretazioni, ormai nient’altro che involucra verborum oggetto di dispute infinite e vane da parte di giuristi ignoranti nonché presuntuosi42. Su di lui, autore del De priscorum proprietate verborum, il primo dizionario moderno della lingua latina, vd. ora G.A. PALUMBO, La biblioteca di un grammatico, Bari, Cacucci Ed., 2012. 42 Involucra verborum è espressione usata dal d’Alessandro in Dies II 10 (c. LIv). Si metteva così il nostro autore sulla scia di opere peculiari della tradizione lessicografica umanistica come, nel settore specifico, i fortunati e già citati (vd. nota 36) Vocabula ex iure civili excerpta, ovvero De verborum significatione, del Vegio, il quale aveva offerto la definizione di 850 termini giuridici ricorrenti nel Digesto preoccupato di restituirli al loro significato autentico, talora esaminandoli sia nell’accezione giuridica che in quella filologico-grammaticale e più spesso mettendoli a confronto tra di loro. Come fa specificamente il d’Alessandro in numerosi capitoli dei Dies, dove fornisce tra l’altro la spiegazione di alcuni vocaboli già accolti nel lessico del Vegio (vd. I 15 parentes, I 19 supellex, II 30 charta opisthographa, chirographum e cisiarius, III 10 scaphium, III 14 cloaca, III 25 capsarii e saccularii), anche se in questo caso è da ipotizzare piuttosto la intermediazione del Valla, che in particolare negli ultimi trenta capitoli del sesto libro delle Elegantie aveva discusso le definizioni di numerosi termini giuridici estratti dal Digesto, la maggior parte dei quali già presenti nel vocabolario del lodigiano, ma andando ben oltre di lui nella critica radicale non solo al metodo dei giuristi medievali ma anche all’autorità degli stessi giureconsulti antichi. Sull’interesse prevalentemente linguistico del Valla nei confronti della giurisprudenza romana: M. REGOLIOSI, L’Epistola contra Bartolum del Valla, in Filologia umanistica, a cura di V. FERA e G. FERRAÙ, Padova, Antenore, 1997, pp. 1501-1571; D. MANTOVANI, «Per quotidianam lectionem Digestorum semper incolumis et in honore fuit lingua Romana». L’elogio dei giuristi romani nel proemio al III libro delle Elegantiae di Lorenzo Valla, in Aspetti della fortuna dell’antico nella cultura europea. Atti della III Giornata di studi, Sestri Levante (24 marzo 2006), a cura di E. NARDUCCI, S. AUDANO, L. 41

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Come si rivela nel cap. II 10 Quae sint pedamenta apud iureconsultus cuiusve generis, et quid buprestis et pityocampa [Cosa sono i pedamenta per i giuristi e di quale tipo, e cosa il buprestis e il pityocampa»] il giureconsulto da lui interpellato a proposito del significato del termine pedamenta in Digesto VIII 3, 3, 1, dove Ulpiano citando Nerazio in relazione alle servitutes che si potevano imporre ai fondi rustici aveva sostenuto che – parafrasa il d’Alessandro – «rusticam servitutem posse constitui ut pedamenta ad vineam fulciendam ex vicino praedio mihi sumere liceat» [«si può porre una servitù ai fondi rustici così come io posso prendere dal podere vicino i pali per sostenere la vigna»]43. Alle astruse vacuità del collega l’umanista reagisce sconcertato e mettendo da parte il problema giuridico gli dà una bella lezione di filologia: non si possono comprendere le leggi senza comprendere il significato delle parole. Dopo aver fornito, infatti, la definizione di pedamentum («munimen esse et palum quo vitis caduca fulcitur» [«è il sostegno o il palo con cui si puntella la vite cadente»]), si diffonde in una dotta disquisizione di storia de re rustica descrivendo e nominando tutti i vari tipi di pali di rinforzo usati in Italia dalla Transpadania alla Campania, compresi alcuni alberi che spesso hanno questa funzione di supporto. Le sue fonti sono sempre gli auctores, nel caso specifico Catone, Varrone, Columella, Vitruvio e Plinio, di cui registra parafrasando N.H. XVII 187 l’avvertimento da lui dato riguardo ai vari tipi di iuga, ovvero le pertiche trasversali che si legano ai pedamenta44. Nello stesso capiFEZZI, Pisa, ETS, 2007, pp. 99-148; G. ROSSI, Valla e il diritto: l’Epistola contra Bartolum e le Elegantiae. Percorsi di ricerca e proposte interpretative, in Pubblicare il Valla, a cura di M. REGOLIOSI, Firenze, Polistampa, 2008, pp. 507-599. 43 Dies, c. LIr. 44 «Ea vero iuga in agro bene culto, plano et minus ventoso altiora, in arido et gracili ac ventis exposito humiliora fieri oportere» [«I gioghi in verità è opportuno che siano più alti in un terreno ben coltivato, piano e meno ventoso, più bassi in un terreno arido e magro ed esposto ai venti»] (Dies, c. LIv) = N.H. XVII 187: «Iuga altiora, quo laetior ager et quo planior, item roscido, nebuloso minusque ventoso conveniunt, contra humiliora gracili et arido et aestuoso ventisque exposito» [«I gioghi alti, tanto più alti quanto più il terreno è fertile e piano, sono adatti in ugual misura ai terreni bagnati dalla rugiada, soggetti alla nebbia e meno esposti al vento, al contrario, quelli bassi sono adatti a un terreno magro, secco, infuocato ed esposto ai venti»].

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tolo, tornando a stigmatizzare l’ignoranza dei suoi tanto disprezzati colleghi, ricorda di averne smascherato un altro «celebri fama» a Roma da lui interrogato sul significato dei termini pityocampa e buprestis ricorrenti nell’interpretazione di Ulpiano (ma Marciano), Digesto XLVIII 8, 3, 3, alla Lex Cornelia de sicariis et veneficis riguardo alle pene inflitte ai pigmentarii, venditori di profumi e farmaci, e all’occorrenza di veleni. E gli spiega quindi che il pityocampa e il buprestis sono due insetti velenosissimi, per il secondo, un coleottero di non facile identificazione che mangiato dai buoi al pascolo produce nel loro stomaco infiammazione e gonfiore fino a farli scoppiare, ricorrendo alla descrizione dell’animaletto data da Plinio in N.H. XXX 3045. Nel cap. III 19 Defensio Ulpiani definientis instratum quid esset et quid differt pulsare a verberare contra grammaticum illum falso accusan«Nos autem perscrutati verbi significatum animadvertimus pityocampas erucas esse seu teredines virulentas viru exitili, quae in pini saepe nascuntur arboribus, unde illis nomen factum: nam pivtu" ‘pinus’ est, kavmph ‘eruca’, quippe erucas Graeci kavmpa" dicunt, veneni praesentissimi. Buprestis vero animal inventum rarum in Italia, simillimum scarabaeo, qui inter herbas fallit saepe boves, quo devorato ita concitantur rabie, ut actae in furorem terrorem afferant pauloque post rumpantur. Ex quo perniciale virus confici dicunt, quod foedissime vexat, contra cuius exitium praesentaneo remedio Graeci succurri prodidere et Plinius auctor est [XXX 30: «Buprestis animal est rarum in Italia, simillimum scarabaeo longipedi; fallit inter herbas bovem maxime, unde et nomen invenit, devoratumque tacto felle ita inflammat, ut rumpat»]. Qui ergo tanti facinoris conscius vel buprestim vel pityocampas aut monstrifici quid venenum ad necem properandam dederit, eum iudicio capitali et pena Legis Corneliae teneri iura et leges voluere» [«Noi invece, dopo aver indagato il significato della parola, abbiamo capito che i pityocampae sono le eruche, ovvero vermi dal veleno esiziale che vivono soprattutto negli alberi di pino, da dove gli deriva il nome: infatti pivtu" è ‘pino’, kavmph ‘eruca’, perché le eruche i Greci le chiamano kavmpa", dal veleno potentissimo. Il buprestis invece è un animale che si trova raramente in Italia, molto simile allo scarabeo, che tra le erbe inganna spesso le vacche, le quali dopo averlo ingoiato impazziscono da incutere terrore e poco dopo scoppiano. Da questo dicono che si ricava un veleno mortale che dà spasmi terribili; per contrastarne gli effetti mortali, i Greci – si è tramandato – intervenivano con un rimedio istantaneo. Ne parla Plinio. Chi consapevole di tali conseguenze propinava il veleno di bupreste o di eruca o d’altro terribile animale per dare morte immediata, era condannato dalla Lex Cornelia alla pena capitale»]: Dies, c. LIIr. 45

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tem [Difesa di Ulpiano che spiega il significato di instratum e la differenza tra pulsare e verberare contro un grammatico che lo accusa di falso], correggendo altre due affermazioni del Valla, che in Elegantie VI 46 aveva sostenuto per instratum e stragula vestis presenti in un frammento di Ulpiano, Digesto L 16, 45, il significato di ‘coperta’ negando invece quello di ‘vestito’46, e in VI 47 contestato ancora ad Ulpiano, Digesto XLVII 10, 5, 1, la differenza dal giurista romano posta tra verberare e pulsare, per cui «verberare è colpire con dolore, pulsare senza dolore»47, 46 «“Instratum – Ulpianus inquit – omne vestimentum contineri quo amicimur Labeo dicit, neque enim dubium quin stragula vestis sit omne pallium” [il testo del Digesto recita in verità: «In stratu omne vestimentum contineri quod iniciatur Labeo ait: neque enim dubium est, quin stragula vestis sit omne pallium, perivstrwma»]. Videtur Ulpianus intelligere stragulam vestem esse vestimentum hominis quo amicitur, quale est Graecorum pallium; ut enim Romani togati a ‘toga’, sic Graeci palliati a ‘pallio’ vocantur. Ego vero non memini reperisse me stragulam vestem in hunc sensum, sed in opertorium lectorum potius, ubi et dormiebant et discumbebant. […]» [«“Labeone dice – riferisce Ulpiano – che il termine instratum comprende ogni tipo di vestito che indossiamo, come non v’è dubbio che stragula vestis indichi in generale il mantello”. Ulpiano sembra intendere che stragula vestis sia il vestito con cui gli uomini si coprono, qual è il pallio per i Greci: come infatti i Romani si chiamano togati da ‘toga’, così i Greci si chiamano palliati da ‘pallio’. Io in verità non mi ricordo di aver trovato stragula vestis con questo significato, ma piuttosto con quello di coperta per i letti su cui gli antichi si coricavano per dormire o si sdraiavano per mangiare»]: dall’edizione Venetiis, in aedibus haeredum Aldi et Andreae Asulani soceri, 1536, c. 166v. Per d’Alessandro stragula designa invece sia l’una che l’altra cosa: «stragulam non modo pro lecti operimento accipi, sed pro hominis vestimento apud auctores [e fa gli esempi, oltre che di Ulpiano, di Svetonio, di Festo, di Livio e di Pompeo, un altro giurista] saepe legi inspiciamus»: Dies, c. CXVIIv. 47 «“Inter pulsationem et verberationem – Ulpianus ait – hoc interesse [Digesto: interest], ut Ofilius scribit, verberare est cum dolore caedere, pulsare sine dolore”, sed cum utriusque venia, non est eiusmodi inter haec verba differentia. An quum verberamus frumenta, cum dolore verberamus? aut pulsamus potius quam verberamus? Et iumentum, quum sentit ex flagellis dolorem, verberatur, quum non sentit, pulsatur? An Entellus ille vergilianus sine dolore pulsabat Dareta [Aen. V 460]? Sed, ne multis, quis non videt verberare esse verbere caedere, quod est instrumentum longum et exile, qualis est virga, baculus, fustis, lora, flagellum, ferula, arundo et si quid est simile? Nec aliter dic-

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e che d’Alessandro interpreta nel senso che il primo verbo si applica agli esseri animati e il secondo alle cose inanimate («pulso ostium, lanam aut vestem, verbero hominem vel pecus»), a questo proposito, costretto tuttavia a constatare che presso gli autori verberare è usato anche per «le cose prive di anima e di senso», così come pulsare per «le cose animate e dotate di senso», allega per il primo ancora due luoghi pliniani: N.H. XIV 136 e XXXVI 16648. E ancora Plinio XXXVII 20 tum est verberare a verbere quam flagellare a flagello, fustigare a fuste […]. Pulsare vero est gravi ac vehementi ictu caedere, nec tam instrumento longo et exili, quam brevi ac rotundo, ut pugnis, ut calcibus, ut malleis, ut saxis, quae manu tenentur, quum alium percutimus, in similitudinem tympanorum, quae manu pulsantur, nec semel sed multis ictibus percutere. Nanque non proprie pulsatum aliquem dixeris, qui semel pugno percussus est. Adeo non minor iniuria fit ex pulsatione quam ex verberatione, praeter eam causam, quam modo dixi, quod verberatio est multa percussio quodque plerunque pulsatio fit in facie» [«Dice Ulpiano: “Tra pulsatio e verberatio c’è questa differenza, come scrive Ofilio, che verberare significa colpire con dolore, pulsare senza dolore”; ma con il permesso di entrambi, non è questa la differenza fra le due parole. Che forse, quando verberamus il frumento, lo colpiamo con dolore? o piuttosto lo pulsamus che verberamus? E un giumento, quando sente dolore dalle fruste, verberatur, e quando non lo sente, pulsatur? Forse l’Entello virgiliano pulsabat Darete senza dolore? Ma, per non dilungarmi, chi non vede che verberare è colpire con un verber, vale a dire un oggetto lungo e sottile, tipo una verga, un bastone, un fusto, una cinghia, uno staffile, un ramo, una canna o altro di simile? Si dice infatti verberare da verber come si dice flagellare da flagellum, fustigare da fustis... Pulsare invece è colpire con forza e con violenza e con un oggetto non tanto lungo e sottile quanto piccolo e rotondo, come possono essere pugni, calci, magli, o sassi, che si tengono in mano quando colpiamo qualcuno, al modo dei timpani, che si battono con le mani, e non una sola volta ma ripetutamente. Infatti, non si può dire propriamente pulsatus chi viene percosso con un sol pugno. Perciò non minor danno deriva da una pulsatio che da una verberatio, al di là del fatto che, come ho appena detto, con la verberatio si colpisce più volte e la pulsatio per lo più avviene sulla faccia»]: ed. cit., cc. 166v-167r. La differentia tra verberare e pulsare è anche nel De verborum significatione del Vegio: SPERONI, Il primo vocabolario giuridico umanistico, cit., p. 20, nota 48. 48 Li trascrive come segue (Dies, c. CXVIIv): «Campaniae vina exposita in cadis sub divo verberari sole, luna, imbre, ventis aptissimum» [«È molto conveniente per i vini della Campania, tenuti all’aperto in orci, essere esposti al sole, alla luna, alla pioggia e al vento»]; «Carthago in Africa exercetur halitu

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autorizza il d’Alessandro, in Dies III 10 Locus ex Iuvenale de trulla quid designet ex auctoritate iurisconsultorum et aliorum testimonio explanatur [Cosa designa trulla in un luogo di Giovenale è spiegato con l’autorità dei giuristi e la testimonianza di altri autori antichi], appendice del cap. I 19 Quanta et quam varia iurisconsultorum opinio fuerit de supellectili et quae supellectilis nomine comprehendantur [Quante e quanto diverse sono state le opinioni dei giuristi intorno a supellex e cosa si comprende sotto questo nome], dove si era cimentato ad elencare e definire tutti gli oggetti da catalogare sotto il nome di supellex, su cui al solito aveva riscontrato opinioni contrastanti fra i suoi colleghi giureconsulti, a concludere che la trulla, così com’era sua convinzione fosse da intendere anche in Giovenale III 108, verso variamente interpretato dai commentatori49, maris et verberatur imbri» [«Cartagine in Africa è tormentata dall’aria del mare ed è sferzata dalla pioggia»]. Nel primo caso il testo critico di Plinio recita: «Campaniae nobilissima [vina] exposita sub diu in cadis verberari sole, luna, imbre, ventis aptissimum videtur» [«Le qualità di vino più rinomate della Campania sono tenute, in orci, all’aperto ed è considerato per loro molto salutare essere esposte al sole, alla luna, alla pioggia ed ai venti»]; nel secondo: «E reliqua multitudine lapidum tofus aedificiis inutilis est mortalitate, mollitia. Quaedam tamen loca non alium habent, sicut Carthago in Africa. Exestur halitu maris, friatur vento, everberatur imbri» [«Fra le molte altre pietre che restano da considerare, il tufo è inadatto alla costruzione, perché dura poco, ed è tenero; tuttavia certi luoghi, come Cartagine in Africa, non dispongono di altra pietra. Lo corrode l’aria del mare, si frantuma con il vento, la pioggia lo martella»]. 49 Questo il commento del d’Alessandro: «Trullas pocula esse et vasa potoria censeri haud immerito plerique existimarunt. Idque quod a Iuvenale dictum est de trulla, de quo apud eruditos controversia est, non id credi decere quod vulgo putaverunt, ut de vase in quo alvi proluvies effunditur intelligatur, cum id aliud sortitum nomen sit et a doctissimis scaphium et lasanum dicatur, veroque auctoris sensui non satis conveniat, sed de vase potui parato intelligi oportere constat. Illudque quam sincerrime a poeta dictum fuisse: “laudare paratus, / si bene ructavit, si rectum minxit amicus, / si trulla inverso crepitum dedit aurea fundo” [IUV. III 108]. In quo illum significari haud dubie putamus, qui postquam calicem exhausit, in ipso fundo ructu aut sibilo crepitum facere more detestabili non fuit veritus […]. Vel de eo, qui postquam vini calicem hausit, id quod remansit ita elisit in pavimento ut resonaret, quod insolentissimi animi, audacis et petulantis nimiaeque securitatis fuisse liquet; quem abusum apud compotores et helluones impuros, qui scortis vinoque madidi et epulis distenti erant, Graecis invaluisse multi adnotarunt, ita ut ludus inde

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debba rientrare nella categoria dei «pocula et vasa potui destinata» [«coppe e vasi usati per bere»]50. Tutti termini rari, dunque, ma di cui è necessario per il d’Alessandro conoscere l’esatto significato, specie se si tratta di termini di stretto uso giuridico, com’è il caso di opisthographum nel cap. II 30 Quid sit charta opisthographa apud iureconsultos, de qua Ulpianus

convivalis foret, quem cottabisin [kottavbisin: PLUT. Mor. 654c; il gioco del cottabo è descritto in ATH. 15, 665d ss.] appellarunt, cum residuum potus in aeneas phialas iactarent, qui si sonantior creperet, se ab amica redamari et mutuo affectu teneri putabant. Quod esse probabile et ab auctoris sensu non alienum ex contextu verborum liquere putamus» [«Molti ritennero non a torto che le trullae fossero coppe o vasi per bere. E che ciò che Giovenale dice di una trulla, ancora motivo di discussione presso gli eruditi, non deve essere interpretato come volgarmente si è creduto, intendendo cioè il pitale, vaso che ha un altro nome, e infatti dai più dotti è detto scaphium o lasanum, cosa che non corrisponde neppure al pensiero dell’autore, ma piuttosto – come si evince dal contesto – come coppa per bere. Questo scrisse molto chiaramente il poeta: “pronto a lodare se l’amico ha ruttato bene, ha pisciato senza problemi, se la trulla d’oro ha rimbombato capovolgendosi”. Dove ritengo senza dubbio che voglia dire che quello, dopo che ebbe tracannato il calice di vino, non ebbe ritegno a farlo rimbombare, com’era usanza detestabile, ruttando o fischiando nel fondo... Oppure che quello, dopo aver bevuto il calice di vino, con tale violenza scaraventò sul pavimento ciò che ne era rimasto da farlo rimbombare, gesto – è evidente – di un animo oltre misura smodato e di sfrontata, insolente e grandissima impudenza. Questa cattiva abitudine in molti rilevarono che era invalsa in Grecia presso i sozzi crapuloni frequentatori di bettole, strafatti di sesso e vino e gonfi di cibo, tanto che ne era nato un gioco conviviale chiamato cottabo, che consisteva nello scagliare quello che era rimasto del vino nelle coppe di bronzo: chi le avesse fatte risuonare con maggiore fragore, si riteneva sarebbe stato ricambiato dalla sua amante e a lei legato da reciproco affetto. Che questa interpretazione sia verisimile e non lontana dal pensiero dell’autore ritengo si rilevi dal contesto»]: Dies, c. CIIv. 50 «Plinius septimo et trigesimo Historiae naturalis [20] “Titus Petronius – inquit –, vir consularis invidia Neronis myrrhinam trullam trecentis sestertiis emptam fregit, ut mensam eius exheredaret”» [«Plinio nel libro XXXVII dell’Historia naturalis scrive: “Tito Petronio, un ex console, vicino a morire, nella sua ostilità contro Nerone, per diseredare la tavola di lui spezzò un mestolo di murra comprato a 300.000 sesterzi”»]: ibid. E aggiunge, tra le altre, la testimonianza di CIC. Verr. II 4, 62 e 63 e HOR. Sat. II 3, 144.

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mentionem fecit, et quot chartarum genera fuerint [Cos’è la charta opisthographa presso i giuristi, e quanti generi di chartae ci furono]. Capitolo peraltro di grande interesse antiquario, perché il d’Alessandro, pur nel suo solito procedere disordinato e confuso, e probabilmente attingendo anche al Cornu copiae del Perotti51, dopo aver spiegato su sollecitazione di un avvocato romano, in dubbio sul significato di opisthographum in Ulpiano, Dig. XXXVII 11, 4, cosa dovesse intendersi per tale documento, e quindi per syngraphum, holographum, chirographum, autographum52, monta un dotto inserto di codicologia dei papiri, e di storia delle scritture e delle biblioteche antiche53. Lo soccorre nuovamente Il quale, dopo aver spiegato il significato di «bibula papyrus», a commento di bibit in MART. Spect. III 5, aveva sviluppato un’ampia disquisizione di storia dei materiali scrittori: PEROTTI Cornu copiae, ed. cit., vol. III, pp. 139-140. 52 «Quo digresso quid ego sentirem de opisthographo petiit a me ille serio explanari. Dixi ego satis liquere verbi originem e graeco deductam et quantum assequi poteram opisthographam dici chartam quae utraque facie et diverso latere scripturae admovebatur, hoc est intus et a tergo, quae plerunque non specie libelli erat, sed voluminis instar torquebatur, quo more prisci scripta edidisse feruntur […]. Fuere enim apud veteres chartarum diversa genera. Nam et syngrapha et opisthographa edebantur scripta: syngrapha enim uno, opisthographa utroque exarantur latere. Quod vero testatoris manu scriptum erat holographum, quod privatim chirographum, quod autem quisque sua manu scripsit autographum» [«Allontanatosi quello, l’altro mi chiese di spiegargli seriamente che cosa intendessi per opisthographum. Gli dissi che era abbastanza evidente l’origine della parola dal greco e per quanto potevo arguire era chiamata charta opisthographa quella che si usava per scrivere su entrambe le facciate, cioè sul recto e sul verso, e che generalmente non aveva l’aspetto di libro, ma si avvolgeva a guisa di volume, nel modo in cui gli antichi – si tramanda – pubblicavano i loro scritti... Ci furono infatti presso gli antichi diversi generi di chartae. I testi scritti si pubblicavano syngrapha e opisthographa: syngrapha, vergati su un solo lato, opisthographa, su entrambi. Ciò che era scritto di mano del testatore era detto ‘olografo’, ciò che era scritto in privato ‘chirografo’, ciò che ciascuno scriveva di suo pugno ‘autografo’»]: Dies, c. LXXIv. 53 «Hae [volumina] fuere a principio ex cortice platani, fraxini, aceris, populi albae, item fagi et ulmi aut, sicut Ulpianus censuit [Dig. XXXII 52], ex tilia, philyra et papyro. Liber enim interior pars est corticis quae ligno cohaeret, in quo ante usum chartarum exarabantur scripta, vel in palmarum foliis, ut Plinius notat [XIII 69]. Fuitque antiquissimi moris publica monimenta plumbeis voluminibus, privata autem linteis describi, in quibus nonnunquam publi51

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Plinio che in N.H. XIII 68-89 riservava un’ampia trattazione alla pian-

ca. In papyro autem perraro publica, frequentius privata edebantur. Is enim in palustribus Aegypti frequens erat, qui intextus farina glutinabatur. Erant quoque tabellae cera illitae, in quibus monimenta litteris nonnunquam mandari legimus, aliquando duplices plerunque triplices aut quincuplices, colore diversae. Nam et luteae erant, virides, croceae, purpureae; in triplicibus epistolas, in quincuplicibus honores et magistratus, in duplicibus, si quid esset arcanum et subticendum, interioresque animi notas magis adnotabant. […] Post quas chartae haedinae, quas pergamenas vocant, fuere, Pergami urbe Troadis primum inventae, ubi, cum Attalus et Eumenes imperitarent, nobilem illam omnium sermone celebratam bibliothecam conquisitis undique exemplaribus haedinis chartis construxisse feruntur. Namque aliam Ptolemaeus Philadelphus plus ducentorum millium voluminum in Alexandria disposuit, quam M. Antonium Cleopatrae largitum fuisse nonnulli […] asseverant, quae mox incendio absumpta fuit [Se, come credo, qui la fonte è PLUT., Ant. 58, il d’Alessandro equivoca perché Antonio donò invece a Cleopatra la biblioteca di Pergamo, essendo quella di Alessandria distrutta già da tempo]. Romae autem Asinius Pollio vatum libris conservandis bibliothecam dicavit primus […]. Apud Athenas Pisistratus illius exemplo bibliothecam fecit meminitque Herodotus [V 58] prisca consuetudine haedinas pelles biblos nuncupasse veteres, quod aliquando biblorum inopia eiusmodi pelles scripturae admoverent» [«I libri furono all’inizio di corteccia di platano, frassino, acero, pioppo bianco, ed anche di faggio e olmo o, come ritenne Ulpiano, di tiglio e papiro. Il libro è infatti la parte interna della corteccia che è a contatto con il legno, su cui si scriveva prima dell’uso della carta, oppure sulle foglie delle palme, come scrive Plinio. Fu anche antichissima usanza vergare gli atti pubblici su lastre di piombo, quelli privati su pezzi di tela di lino, su cui qualche volta si redigevano anche i pubblici. Molto raramente questi si scrivevano sul papiro, più spesso gli atti privati. Il papiro infatti era frequente nelle zone palustri dell’Egitto: intrecciato veniva incollato con la farina. Vi erano anche le tavolette spalmate di cera, su cui leggiamo che talvolta venivano registrati per iscritto gli atti, qualche volta a due più spesso a tre o a cinque facce, e di diverso colore: infatti erano gialle, verdi, zafferano e rosse. Sulle tavolette a tre facce si scrivevano per lo più le lettere, su quelle a cinque le cariche pubbliche e le magistrature, su quelle a due se vi era qualche segreto o qualcosa da nascondere e i moti più intimi dell’animo... Dopo queste ci furono le carte di capretto, che chiamano pergamene, utilizzate per la prima volta a Pergamo città della Troade, dove si tramanda che quando regnavano Attalo ed Eumene fu costruita quella famosa biblioteca da tutti celebrata, ricca di esemplari in pergamena raccolti da ogni dove. E un’altra ne allestì in Alessandria Tolomeo Filadelfo con più di 200.000

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ta del papiro e agli antichi materiali scrittori54, a lui espressamente rinviando quando spiega che «il libro era la parte interna della corteccia a contatto con il legno, su cui prima dell’uso della carta si scriveva, oppure sulle foglie di palma»55. Sullo stesso livello si mantengono gli altri capitoli dei Geniales dies che affrontano questioni grammaticali e linguistiche (I 8, 21; II 28; IV 14; VI 9, 24), appena ravvivati dalla polemica con il Valla, o problemi di critica testuale e di esegesi su luoghi critici di Properzio, Marziale, Svetonio e Cicerone (I 23; II 1, 7; IV 21; V 1, 20), notevoli quest’ultimi peraltro per dottrina ed erudizione ma soprattutto come documenti di una temperie culturale che alla filologia legava gran parte dell’attività scientifica e didattica degli umanisti, della cui specifica attività critico-esegetica – anche dei più grandi – tuttavia ancora poco sappiamo, anche perché talora affidata ad occasioni di incontro estemporanee come quelle raccontate dal d’Alessandro. Al quale dobbiamo la testimonianza inedita di un impegno filologico del Sannazaro altrimenti poco noto e documentato56, tessera minima ma culturalmente rilevolumi, che alcuni sostengono che M. Antonio donò a Cleopatra... e che fu poi distrutta da un incendio. A Roma Asinio Pollione per primo destinò una biblioteca alla conservazione dei libri dei poeti... Come lui, ad Atene, Pisistrato costruì una biblioteca, ed Erodoto ricorda che gli antichi secondo un’antica consuetudine chiamavano le pelli di capretto libri, perché talvolta per mancanza di papiro si usavano tali pelli per scrivere»]: Dies, cc. LXXXIv-LXXXIIr. 54 Su cui vd. I.H.M. HENDRIKS, Pliny, Historia Naturalis XIII, 74-82 and the Manufacture of Papyrus, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», XXXVII, 1980, pp. 121-136. 55 N.H. XIII 69: «Et hanc [chartam] Alexandri Magni victoria repertam auctor est M. Varro, condita in Aegypto Alexandria. Antea non fuisse chartarum usum: in palmarum foliis primo scriptitatum, dein quarundam arborum libris. Postea publica monumenta plumbeis voluminibus, mox et privata linteis confici coepta aut ceris» [«Secondo Marco Varrone anche l’invenzione della carta risale al tempo della vittoria di Alessandro Magno sull’Egitto, quando fu fondata Alessandria. Stando a lui prima non si faceva uso di carta: in un primo tempo si soleva scrivere su foglie di palma, poi sui libri di certi alberi. Dopo si cominciò a redigere gli atti pubblici su lastre di piombo, quelli privati invece su pezzi di tela di lino o su tavolette cerate»]. 56 Sulla filologia di Sannazaro si vedano almeno di C. VECCE, Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Padova,

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vante della fortuna filologica di Properzio tra Quattrocento e Cinquecento57. Nel cap. II 1 da noi tradotto, a cena a casa del Sannazaro, nel corso della quale il servo etiope dell’umanista declama alcune elegie di Properzio, il d’Alessandro è protagonista di un’accesa discussione intorno al secondo distico dell’elegia properziana I 11, «et modo Thesproti mirantem subdita regno, / proxima Misenis aequora nobilibus» [«e ti sorprendi che le acque, sino a tempi recenti soggette al regno di Tesproto, siano ora vicine alla famosa Miseno»], riferito a Baia, la celebre località balneare dove Properzio recrimina che Cinzia si stia trattenendo un po’ troppo a lungo. Sannazaro si interroga sul significato del primo verso in particolare del distico, non riuscendo a trovare un nesso plausibile tra la città campana e il regno di Tesproto in Epiro58; ne origina un lungo excursus corografico che mette in campo le competenze antiquarie dei presenti, il d’Alessandro incluso chiamato direttamente in causa dal Sannazaro, che alla fine non persuaso, sospettando un guasto del testo, ben conoscendo lo stato disastroso Antenore, 1988, e Gli zibaldoni di Iacopo Sannazaro, Messina, Ed. Sicania, 1998. Sul passo dei Dies è costruito il saggio di CROCE, Jacopo Sannazaro e il testo di Properzio, cit. 57 Su cui vd. ora D.F.S. THOMSON, Propertius, Sextus, in Catalogus translationum et commentariorum. Medieval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, vol. IX, ed. by V. BROWN, J. HANKINS and R.A. KASTER, Washington, D.C., The Catholic University of America Press, 2011, pp. 153-246. 58 Già il Beroaldo nella sua edizione commentata di Properzio uscita a Bologna presso Platone de’ Benedetti nel 1487 aveva annotato per Thesproti subdita regno: «Loca Campaniae intelligit, sed quaerendum est qua re appellet regnum Thesproti: an quia in Epiro, ubi Thesproti populi sunt, Acherusia est palus, sicut in Campania prope Cumas altera est Acherusia, ideo propter similitudinem locorum et nominis baiana loca dicit subdita esse regno Thesproti; an vero quod olim Tesprotii tenuerint loca illa Campaniae, cum scribat Strabo graecas esse res Campanorum Graecisque permistas?» [«Intende i luoghi della Campania, ma bisogna chiedersi perché li chiami regno di Tesproto: forse perché in Epiro, dove vivono i Tesprozi, c’è la palude Acherusia, come in Campania vicino a Cuma v’è un’altra Acherusia, e perciò a causa della somiglianza dei luoghi e del nome dice che Baia è soggetta al regno di Tesproto, o invece perché un tempo i Tesprozi occuparono quei luoghi della Campania, mentre Strabone scrive che le genti campane sono di origine greca o hanno avuto a che fare con i Greci?»] (c. b3v).

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della tradizione properziana, propone di emendare Thesproti in te Prochyte. Ugualmente subito dopo suggerisce di correggere in non ita, al v. 38 dell’elegia II 24, il tràdito navita, errore peraltro dal quale si era fantasiosamente dedotto che Properzio fosse un marinaio. La congettura qui attribuita per bocca del d’Alessandro al Sannazaro è quella accolta nelle edizioni moderne (dove si legge «et quamvis non ita dives eras» [«e benché non fossi tanto ricco»]), ma sulla sua paternità non c’è certezza, dal momento che la stessa compare sia nel commento del Beroaldo pubblicato nel 1487 sia ai margine del codice berlinese di Properzio trascritto dal Pontano nel 1460 e diventato nel tempo un collettore di varianti59. Quanto a Thesproti, lezione che non ha particoBeroaldo pubblica il verso con la lezione navita ma nel commento annota: «Propertium ex familia navitarum fuisse fidem facere videtur iste versiculus, et fortassis si ita legendum esset, non absurde haec gens referri posset ad illum Nautem virgilianum, qui in quinto Aeneidos doctrina Palladis commendatur, a quo familia Nautiorum Romae fuisse fertur, quae Minervae sacra servavit [Serv., ad Aen. V 704], et ferme omnes istius versiculi testimonio freti Propertium nautam fuisse crediderunt. Sed mendum, quod inolevit duarum litterarum inversione, sic est emendandum, ut pro navita corrigas non ita. Duae enim dictiones per librariorum incuriam atque inscientiam coagmentatae fuerunt in unam dictionem, et ita error propagatus per omnes passim codices iam tollendus est, et poetae vera hoc est sua reddenda sententia» [«Questo verso sembra fare fede che Properzio appartenne ad una famiglia di marinai, e forse, se si dovesse leggere così, non sarebbe assurdo ricondurre la sua gens a quel Naute virgiliano, che nel quinto libro dell’Eneide viene elogiato per la sua sapienza, e che si dice fosse il capostipite della famiglia romana dei Nautii, che custodì il Palladio, e quasi tutti basandosi sulla testimonianza di questo verso credettero che Properzio fosse un marinaio. Ma l’errore, che si insinuò per lo scambio di due lettere, deve essere emendato in modo da correggere navita in non ita. Due parole, infatti, per l’incuria e l’ignoranza dei copisti furono unite in una sola, e allora dobbiamo eliminare l’errore perpetuatosi in tutti i codici senza distinzione e restituire al poeta il suo vero pensiero»] (ed. cit., c. g2r). Quanto al Pontano, il riferimento è al codice della Staatsbibliothek di Berlino, Lat. fol. 500 (su cui si veda B.L. ULLMAN, Pontano’s Handwriting and the Leiden Manuscript of Tacitus and Suetonius, in «Italia medievale e umanistica», II, 1959, pp. 309-335: 334), una vera e propria edizione del testo properziano cui attinse a Napoli sicuramente il Pucci (il suo ‘commento’ agli elegiaci latini, datato al 1502, è affidato ai margini dell’incunabolo di Tibullo, Catullo e Properzio stampato a Reggio Emilia nel 1481 oggi alla Riccardiana, Ed. Rare 59

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larmente preoccupato gli editori moderni che hanno glissato su quell’inspiegabile riferimento al regno di Tesproto60, la congettura sannazariana te Prochytae, attestata unicamente dai Dies del d’Alessandro, è spesso comparsa tra altre congetture ‘napoletane’ negli apparati delle edizioni più antiche di Properzio, a partire da quella del Burmannus del 1780, dov’è registrata insieme con la proposta del Parrasio te Protei61, preferita dal Lachmann che la accolse a testo nell’edizione del 1816, in apparato in quella del 1829, sino all’edizione del Baehrens del

372), ma probabilmente anche altri (come è da supporre per la copia con commento di Nicolaus Gaucius de Alifia, Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 16693, su cui A. LA PENNA, Studi sulla tradizione di Properzio II, in «Studi italiani di Filologia classica», n. ser., XXVI, 1952, pp. 28-30). Come congettura pontaniana la lezione non ita era registrata nell’ed. BAEHRENS (Lipsiae, Teubner, 1827, p. 78); fu rivendicata al Beroaldo da J.K. BUTRICA, The manuscript tradition of Propertius, Toronto, University of Toronto Press, 1984, p. 156, non particolarmente tenero nei confronti degli interventi testuali dell’umanista napoletano (per un suo giudizio più aggiornato cfr. tuttavia Propertius and the Myth of the Itali, in Properzio alle soglie del 2000. Un bilancio di fine secolo. Atti del Convegno internazionale, Assisi, 25-28 maggio 2000, a cura di G. CATANZARO e F. SANTUCCI, Assisi, Accademia properziana del Subasio, 2002, pp. 349-388: 377-388). 60 Il più recente, tuttavia, ha ammesso, visualizzandola nel testo, l’esistenza di una lacuna al v. 3 dell’elegia (SEXTI PROPERTI Elegos critico apparatu instruxit et edidit S.J. HEYWORTH, Oxford, Clarendon Press, 2007, p. 17) riprendendo una proposta simile di F.H. SANDBACH, Notes on Propertius, «Classical Review», LII, 1938, pp. 211-215. 61 Il quale nella lettera Bartholomaeo Pajello compresa nei suoi De rebus per epistolam quaesitis (ed. a cura di L. FERRERI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, pp. 33-41) a proposito di Tesproti, respingendo le più o meno dotte ma cervellotiche spiegazioni addotte dagli interpreti per difendere tale lezione, aveva scritto: «Consultisque manuscriptis (ut nostri moris est) exemplaribus, in aliis inveni Te spretis, in aliis autem Te sproti, in nullo Thesproti, ut vulgo legitur. […] Equidem suspicor ex imperitia Te sproti pro Te Protei librarios apud Propertium corrupisse: Proteus enim ab aliis ad insulam Carpathon, ab aliis ad Pharon, ab aliis ad Capreas habere sedem fingitur, de quo Silii carmen extat VII Punicorum» [«Consultati i manoscritti, come mia abitudine, in alcuni trovai Te spretis, in altri invece Te sproti, in nessuno Thesproti, come generalmente si legge... Da parte mia sospetto sia da attribuire all’ignoranza dei copisti la corruzione nel testo di Properzio di Te Protei in

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1880 che le recuperava entrambe in apparato62. Resta lo spaccato vivace di una pratica filologica, spesso obbligata di fronte a passi molto difficili interpretabili solo a patto di operare correzioni al testo, fatta di intuizioni, di congetture ope ingenii appunto, per nulla suffragate dal ricorso alla tradizione manoscritta, anche se nei suoi guasti si cerca l’origine paleografica dell’errore. Per quanto nel tardo Quattrocento, e ancora di più agli inizi del Cinquecento, quando il d’Alessandro scrive, la filologia degli umanisti si era già molto evoluta, con il ricorso all’autorità conclamata dei vetusti codices, quella del Sannazaro, come la propone il d’Alessandro, resta un’esibizione di acume interpretativo, finalizzata com’era quella filologia a semplificare al massimo l’insegnamento e la trasmissione della cultura classica63. E come appassionato atto d’amore per la classicità, facendo perno intorno al diritto, suo specifico interesse e motivazione prima e distintiva della sua impresa, Alessandro d’Alessandro ci ha lasciato nei Geniales dies un colpo d’occhio formidabile e per questo tanto fortunato sul mondo antico e le sue istituzioni, anche le meno note. Premesso che molto spesso nell’allegato corredo di testimonianze l’umanista tace le sue fonti (utilizza molto, ad es., Diodoro Siculo e Strabone, ma senza mai citarne l’autorità, e più spesso usandoli come tramiti di una Te sproti: Proteo infatti da alcuni si ipotizza che abitò nell’isola di Carpato, da altri a Faro, da altri a Capri, com’è evidente al v. 420 del l. VII dei Punica di Silio Italico»]. Questa congettura del Parrasio fu ritenuta ‘ingeniosa’ e pertanto respinta dallo Jacob nella teubneriana del 1827 (p. 138) che recuperava anche, a sostegno della lezione Thesproti, la postilla del Pucci, che altrettanto ingegnosamente aveva spiegato ai margini dell’incunabolo riccardiano: «Tesprotum nomen proprium facio praetoris ibi agentis, ut sit ordo “Aequora subdita modo regno Tesproti”, dictumque erit invidiose ut a suspicante eum rivalem, proindeque antitheto augeatur indignitas: “nobiles Misenos servire regi Tesproto”. Puccius» [«Credo che Tesproto sia il nome proprio di chi lì era pretore, come se fosse: “Aequora subdita modo regno Tesproti”; e lo avrebbe detto malevolmente sospettando che quello fosse suo rivale, e pertanto con una antitesi ne accresce la spregevolezza: “nobiles Misenos servire regi Tesproto”. Puccius»]. 62 SEXTII PROPERTII Elegiarum libri IV, rec. AEMILIUS BAEHRENS, Lipsiae, Teubner, 1880, p. 18. 63 Mi astengo volutamente in questa sede, ritenendolo inutile, da qualsiasi riferimento bibliografico sulla filologia degli umanisti.

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tradizione spacciata come diretta, non di rado ricorrendo alle loro traduzioni latine disponibili), e non è da escludere nemmeno che queste talvolta siano appunto di seconda mano64, gli autori ai quali più frequentemente ricorre e di cui fa esplicita menzione, sebbene in un numero limitatissimo di casi rispetto ai tanti capitoli che si configurano semplicemente come accumulo di quanto dagli antichi fosse stato scritto intorno ad un determinato argomento65, sono in primo luogo – accanto ai greci Omero, Aristotele, Platone, Euripide, Aristofane, Erodoto, Demostene, Tucidide, Senofonte, Plutarco, Dionigi d’Alicarnasso e Procopio, e ai latini Catone, Cesare, Terenzio, Virgilio, Properzio, Orazio, Ovidio, Giovenale, Marziale, Tacito, Plinio il Giovane, Gellio, Floro e Cassiodoro, citati molto occasionalmente – i giuristi romani, tutti conosciuti attraverso il Digesto, e poi Varrone, Cicerone, Svetonio, Livio e Plinio il Vecchio. Quanto a quest’ultimo – di cui mi sono espressamente occupato in altra sede e qui già ampiamente suffragato di riferimenti – nominato esplicitamente numerose volte, lo zibaldone del d’Alessandro conferma la fondamentale tipologia umanistica di ricezione della sua enciclopedia, serbatoio universale dello scibile che sistematicamente andava ad arricchire l’apparato commentario di altri autori, oltre che auctoritas indiscussa nelle più varie discipline. In quegli anni Plinio era divenuto oggetto di particolare attenzione da parte della cultura umanistica e nuovo era diventato il modo di guardare alla sua opera, fondamentale 64 Accanto ad una biblioteca di riporto fatta di compilazioni e di epitomi, d’uso prevedibile da parte di un umanista, c’è nei Dies una immensa biblioteca sommersa, antica e moderna, solo in parte portata alla luce dai commentatori cinquecenteschi. Ricomporla potrebbe significare trovare un orientamento nel labirinto enciclopedico del d’Alessandro, anche se si tratta in fondo di una biblioteca molto più scontata di quanto si possa credere, di pochi importanti autori, dai quali sono attinte le notizie propinate come derivate da autori più antichi e rari a lettori che certo non si sarebbero presi la briga, o non avrebbero avuto interesse a farlo, a compiere verifiche. Sta forse in questo – non mostrarsi uomo di pochi libri – il motivo della anonimizzazione cui il d’Alessandro sottopone le sue fonti. Ma è fenomeno antico e diffuso, di cui gli umanisti sono stati campioni nelle loro opere. 65 Ne offriamo uno specimen nel cap. IV 8 An sapienti sit uxor ducenda et quae ad propagandam sobolem indulta commoda a Romanis fuerint, una lunga rassegna delle consuetudini e della legislazione matrimoniale degli antichi.

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strumento di verifica delle conclusioni scientifiche degli antichi necessaria per impostare un percorso metodologicamente rinnovato e fecondo. Si pensi al particolare rilievo da essa assunta nell’ultimo Quattrocento nell’ambito medico-botanico e alla polemica intercorsa tra Niccolò Leoniceno e Pandolfo Collenuccio, nella quale il pesarese, sulla stessa linea del Barbaro e del Poliziano, difendeva l’autorità dell’opera pliniana come insuperabile espressione della latinità contro le riserve di chi, il Leoniceno, preoccupato di ribadire il primato dell’esperienza e dell’osservazione diretta, ne rilevava gli errori contrapponendole la precisione, anche terminologica, della scienza medica greca. Imprescindibile era diventato pertanto il restauro del suo testo, devastato dagli errori di una tradizione ininterrotta, e la sua esatta comprensione, preoccupazione che resa più cogente dalla diffusione della stampa aveva portato a edizioni, traduzioni e commenti sino alla monumentale impresa delle Castigationes plinianae di Ermolao Barbaro (14921493)66. Ma per gli umanisti la Naturalis historia, oltre che rappresentare un formidabile banco di prova su cui esercitare la loro erudizione enciclopedica, come preziosa miniera di informazioni sul mondo antico e insieme vocabolario latino di termini scientifici quanto mai prezioso in un secolo di intense traduzioni di testi greci67, si proponeva anche come exemplar strutturale per le loro ‘enciclopedie’. È vero in particolare per i già citati Commentarii del Volterrano organizzati come in Plinio attorno ad argomenti ben definiti – le discipline storico-geografiche – e corredati di indici ricchissimi e molto articolati, e per le Lectiones del Rodigino, una folta ‘selva’ di commenti e discussioni di tipo storico, antiquario e filologico, di curiosità scientifiche e linguistiche oltre che di aneddoti vari, in cui la materia, pur non seguendo un filo disciplinare o comunque sistematico, ammucchiata com’è senza un ordine riconoscibile, si raggruma nel suo svolgimento intorno ad alcuni blocchi tematici che rinviano all’autorità pliniana. Insieme a ciò, lo strenuo lavoro emendatorio sul testo della Naturalis historia aveva permesso di restituirle oltre che l’autenticità del messaggio anche la dignità stilistica e letteraria, per cui incrinandosi via Vd. l’ed. HERMOLAI BARBARI Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, ed. G. POZZI, voll. I-IV, Padova, Antenore, 1973-1979. 67 Per la fortuna umanistica di Plinio rinvio alle note al mio saggio citato all’inizio di questa Introduzione. 66

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via nel corso del secolo la tenuta complessiva dell’età umanistica come età virgiliana e ciceroniana anche Plinio potè essere assunto sul versante dell’imitatio a modello di lingua e di stile. E come tale spesso compare nei Geniales dies a documentare una concezione della lingua più libera ed elastica, meno vincolata al modello ciceroniano, che potesse consentire l’autonomia e la dignità creativa dei moderni rispetto agli antichi. Era l’ideale linguistico ed estetico della seconda generazione degli umanisti napoletani, dei due maestri del d’Alessandro, Maio e Pontano68, che si era espressa nella violenta polemica contro i grammatici ottusi finendo per coinvolgere anche il Valla delle Elegantie che pure, condannando l’intera tradizione grammaticale medievale, aveva identificato le fonti autentiche del sapere e della lingua in un canone molto più ampio di autori classici69. In polemica con il Valla, il cui nome non compare mai nei Dies ma è celato dietro non molto ossequiose cirSul Maio, che nel De priscorum proprietate verborum, polemizzando con il Valla e con il Tortelli, ne biasimava la censura pedantesca agli antichi autori, vd. ora PALUMBO, La biblioteca di un grammatico, cit.; per Pontano: F. TATEO, Umanesimo etico di Giovanni Pontano, Lecce, Milella, 1972, pp. 39-60; ID., Giovanni Pontano fra grammatica e stile, «Moderni e Antichi», II-III, 20042005, pp. 307-314, e poi in Tradizioni grammaticali e linguistiche nell’Umanesimo meridionale. Atti del Convegno internazionale di studi, LecceMaglie, 26-28 ottobre 2005, a cura di P. VITI, Lecce, Conti Editore, 2006, pp. 289-297; G. FERRAÙ, Pontano critico, Messina, Centro di studi umanistici, 1983, pp. 15-41; L. GUALDO ROSA, L’académie pontanienne et l’élaboration d’une poétique du classicisme, «Les Cahiers de l’Humanisme», I, 2000, pp. 209-224. 69 Sul Valla ‘grammatico’: LORENZO VALLA, L’arte della grammatica, a cura di P. CASCIANO, Roma-Napoli, Fondazione Valla-Arnoldo Mondadori, 1990; S. GAVINELLI, Teorie grammaticali nelle Elegantie del Valla e la tradizione scolastica del tardo Umanesimo, «Rinascimento», XXXI, 1991, pp. 155-181; EAD., Le Elegantie di Lorenzo Valla: fonti grammaticali latine e stratificazione compositiva, «Italia medioevale e umanistica», XXXI, 1998, pp. 205-257; M. REGOLIOSI, Nel cantiere del Valla. Elaborazione e montaggio delle Elegantie, Roma, Bulzoni, 1993; Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica. Atti del Convegno internazionale (Ravello, 22-23 settembre 2005), a cura di M. SANTORO, PisaRoma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2007; Lorenzo Valla. La riforma della lingua e della logica. Atti del convegno del Comitato Nazionale VI centenario della nascita di Lorenzo Valla, Prato, 4-7 giugno 2008, a cura di M. REGOLIOSI, Firenze, Ed. Polistampa, 2010. 68

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conlocuzioni70, mentre le sue Elegantie sono qualificate come misere commentatiunculae71 – nel cap. I 21 Dissensio inter duos ludi professores super verbo invenio et reperio contra observationes grammatici cuispiam il libro è però presente fisicamente sulla scena, cavato fuori «e sinu togae» di uno dei due contendenti, nell’alterco tra due maestri di scuola napoletani sull’esatto significato dei verbi invenire e reperire72 –, in polemica con il Valla, dicevo, per contestargli posizioni e scelte linguistiche troppo rigide e ristrette, il d’Alessandro si appellava all’usus, poggiando il suo dissenso sull’autorità di altri auctores probatissimi della latinità. Nel cap. I 8 dal titolo eloquente Spero te amaturum fore vel amandum fore veterum auctoritatibus latine dici licere contra opinionem quorundam grammaticorum, contro alcuni grammatici, per l’appunto, che Elegantie alla mano sostenevano che si dovesse dire solo «spero te amatorem fore vel amaturum esse, non autem amaturum fore vel amanSe non è un doctor non ignobilis (I 21: Dies, c. XXVIr) o disertus ma tuttavia inconsideratus (I 8: Dies, c. IXr), è semplicemente un grammaticus homo, per quanto non incuriosus (I 21), o un grammaticus quispiam (II 28: Dies, c. LXXIXv). 71 I 21: Dies, c. XXVIr. Solo una volta peraltro l’opera del Valla è espressamente nominata con il suo titolo, nel cap. VI 9: «Cum a tumultuariis negotiis, ingenii vegetandi causa, animum ad mansuetiores Musas quandoque diverterem, incidimus forte ad id temporis, cum haec commentaremur, in libellum Elegantiarum (quem sic inscripserat) grammatici cuiuspiam, docti hominis et confidentis, qui pleraque exquisite et non indiserte ex auctoribus adnotasse videbatur» [«Rivolgendo talora l’animo, libero dagli impegni di lavoro che non mi lasciavano tregua, a studi più tranquilli per rinvigorire il mio ingegno, mi capitò per caso tra le mani, al tempo in cui preparavo questi materiali, il libro delle Elegantie (questo era il titolo) di un certo grammatico, uomo dotto e presuntuoso, che molte cose aveva raccolto, come sembrava, con precisione ed eleganza dagli autori»] (Dies, c. CCLIIv). Non si può neppure escludere che il d’Alessandro leggesse le Elegantie in qualche compendio come quello tanto fortunato a Napoli di Aurelio Bienato, su cui vd. L. GUALDO ROSA, Un seguace del Valla all’università di Napoli nel ‘400: Aurelio Bienato, in Valla e Napoli, cit., pp. 171-181. Tra i contributi più recenti sull’argomento: F. LO MONACO, Vulgus imperitum grammatice professorum. Lorenzo Valla, le Elegantiae e i grammatici recentes, in Lorenzo Valla. La riforma della lingua e della logica, cit., pp. 51-66. 72 Il testo con traduzione qui a pp. 126-131. 70

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dum fore»73, il d’Alessandro adduce insieme esempi di Livio, di Curzio Rufo e di Plinio, e ne fornisce anche una spiegazione in termini di grammatica storica74. E nel cap. II 28 Licere uti accusativo casu nonnunquam in verbis localibus contra regulas grammaticorum [Si può usare talvolta l’accusativo con i verbi di luogo contro le regole dei grammatici], contestando quanto il Valla aveva sostenuto in Elegantie III 18 De in auro et in aes75, a fronte di un uso invece molto più libero anche se non indifferenziato attestato dagli auctores, i quali con l’accusativo significavano un’incisione o un rilievo fatti «expressius atque altius», con l’ablativo invece «leviter et in superficie», il d’Alessandro tra gli altri esempi prodotti cita PLIN. Pan. 75, CIC. Verr. II 4, 145 e PLIN. N.H. XXXIV 3776. Il rinvio è a Valla, Elegantie I 26 (vd. nota 10 al testo). Per il testo e la traduzione vd. a pp. 110-117. 75 «In marmore incisae sunt litterae, in gemma, in lapide, in ligno, in auro, non autem in marmor, in gemmam, in lapidem, in lignum, in aurum; e diverso in aes, non in aere. Ita enim apud omnes auctores (quantum inveni) semper scriptum est. Livius lib. III [57, 10]: “Prius quam in urbem ingrederentur [il testo critico di Livio ha: Priusquam urbe egrederentur], leges decemvirales, quibus duodecim tabulis est nomen, in aes incisas in publico proposuerunt”. Sed quid exempla ponimus paucorum, quod omnes facere affirmamus?» [«In marmore, in gemma, in lapide, in ligno, in auro sono incise le lettere, ma non in marmor, in gemmam, in lapidem, in lignum, in aurum; al contrario in aes, non in aere. Così infatti è scritto sempre in tutti gli autori per quanto sono riuscito a trovare. Ad es., Livio III 57, 10: “Prima che entrassero in città, furono esposte in pubblico incise in aes le leggi decemvirali, conosciute come Leggi delle Dodici Tavole”. Ma perché fare pochi esempi, dopo aver affermato che tutti scrivono così?»]: dall’edizione Venetiis, in aedibus haeredum Aldi et Andreae Asulani soceri, 1536, c. 70r. 76 «Cum longe secus contra istius grammatici opinionem crebro apud auctores usurpatum inveniamus. Nam in lapide vel ligno, aut lapidem vel lignum, et in aere vel in aes incisas litteras passim dici licere plusculis exemplis apparet, maioremque vim per accusandi casum exprimi et penitus atque alte fuisse penetratum demonstrari. Plinius Iunior ad Traianum [Pan. 75] “quae vos – inquit –, patres conscripti, ne qua interciperet oblivio, et in publica acta mittenda et incidenda in aere censuistis”. Plinius item Naturalis historiae quarto et trigesimo [XXXIV 99] “Usus – inquit – aeris ad perpetuitatem monimentorum iam pridem translatus est tabulis aeneis, in quibus publicae constitutiones inciduntur”. Cicero quoque actione sexta in Verrem [II 4, 145] “Id non modo tunc 73 74

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Ampio spazio, inoltre, nello zibaldone del d’Alessandro trovano temi quali la religione (capitoli I 13, 14, 29; II 14, 22; III 12, 18; V 12, 19; VI 2, 4, 12) e le istituzioni militari degli antichi (capitoli I 5, 12, 20, 22; IV 2, 7, 18; VI 13, 17, 22, 25) descritte nei minimi particolari, e la topografia della Roma antica studiata attraverso i testi – e ancora una volta l’occasione è offerta dall’interpretazione di un passo critico degli auctores – e ovviamente i suoi resti, tra i quali il d’Alessandro, dando sfogo alla sua passione archeologica, amava passeggiare e discutere con gli accademici romani suoi amici (capitoli I 16; II 4, 6, 12, 18; III 6, 9; IV 16, 25; VI 11). Nel cap. III 6 Locus ex Ciceronis oratione pro Milone explanatur et quae regiae quaeque atria Romae fuerint [Si spiega un luogo dall’orazione Pro Milone di Cicerone e quali regge e quali atri furono a Roma], dopo aver confutato l’errore di un professore del Ginnasio romano, di cui gli era capitato di ascoltare una lectio sulla Pro Milone di Cicerone, il quale commentando il luogo XIV 37 «haec sica longo intervallo conversa rursus in me est: nuper me quidem, ut scitis, ad

scripserunt – inquit –, verum etiam in aere incisum nobis reliquerunt”. Ex quibus apparet per accusandi et auferendi casum in marmor et in aes ac in marmore et aere incisas esse litteras latine dici licere. Sed cum accusandi casum ponimus, videri expressius atque altius rem fixam designari, cum vero ablativo utimur, leviter et in superficie et non penetrari funditus significari» [«Presso gli autori troviamo attestato un uso di gran lunga diverso da quanto ritiene questo grammatico. Infatti da un bel po’ di esempi appare lecito dire indifferentemente ‘lettere incise in lapide o ligno, ovvero in lapidem o lignum, e in aere o in aes’, anche se con il caso accusativo si specifica che si è impressa maggiore forza nell’incisione e che si è penetrati più in profondità. Plino il Giovane nel panegirico a Traiano dice: “quegli avvenimenti che voi, senatori, perchè non fossero dimenticati, deliberaste che fossero inseriti nelle pubblicazioni ufficiali e incise in aere”. Ugualmente Plinio in N.H. XXXIV 99 dice: “L’uso del bronzo per assicurare eternità ai monumenti gia da lungo tempo è stato preso ispirandosi alle tavole in bronzo, in quibus si incidono le leggi dello Stato”. Anche Cicerone nella sesta Actio in Verrem dice: “Questo non soltanto allora scrissero, ma anche lasciarono a noi inciso in aere”. Da questi esempi appare chiaro che in latino si può dire, tanto con il caso accusativo che con quello ablativo, che le lettere sono incise in marmor e in aes e in marmore e in aere. Ma quando usiamo il caso accusativo vogliamo indicare un’incisione fatta più in rilievo e in profondità, quando invece ci serviamo dell’ablativo, vogliamo significare un’incisione leggera, superficiale, per niente profonda»]: Dies, c. LXXIXv.

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regiam paene confecit» [«questo pugnale dopo un lungo intervallo di tempo fu di nuovo puntato contro di me: recentemente quasi mi uccise, come sapete, nei pressi della reggia»], aveva ubicato la regia, presso cui Cicerone aveva rischiato di essere ucciso per mano di Clodio, nel corso dei sanguinosi tafferugli tra i sostenitori di Ipseo e quelli di Milone, sul colle Quirinale identificandola con quella di Numa Pompilio, mentre secondo Asconio si troverebbe sulla via Sacra, dov’era la reggia di Anco Marzio77, il d’Alessandro dedica tutto il resto del capitolo all’identificazione delle regiae e degli atria dell’antica Roma e, via via localizzandoli, avvalora e impreziosisce i vari riferimenti con dettagli spigolati qua e là dagli auctores. Ugualmente nel cap. IV 25 Quae theatra Romae fuerint et qui circi, quorumque extent vestigia et quae penitus conciderint [Quali teatri e quali circhi furono a Roma, e di quali restano vestigia e quali sono andati del tutto distrutti], registrazione di un’ennesima discussione avvenuta a Roma tra alcuni eruditi sul perché 77 «Sic ipse explicabat, ut diceret, hanc regiam fuisse in colle Quirinali, ubi Numam Pompilium habitasse auctores tradunt, quodque in eo sedem habuerat, ideo regiam et atrium Numae ibi fuisse et de hac Ciceronem intelligere asserebat. […] Atque haec et pleraque in hanc sententiam cum ille dixisset, tenuit nos admiratio istius doctoris tam inconsiderate et perperam loquentis, id quod errore manifesto procul a vero esse liquido constat, siquidem non ubicumque Romani reges belli pacisque temporibus habitarunt, illic regias aut atria construxerunt. […] Tertiam in Sacra via, in qua Ancus Martius sedem habuisse fertur, de qua Ciceronem nunc intelligere Asconius [48] sentit, quippe inter servos Hypsaei et Milonis pugnam inibi commissam et Ciceronem opera Clodii vitae periculum adisse tradunt» [«Così lo stesso spiegava, tanto per dire, che questa reggia fosse sul colle Quirinale, dove gli autori tramandano che Numa Pompilio avesse abitato, e su questo fondamento asseriva che lì fossero la reggia e l’atrio di Numa e che a questa reggia si riferiva Cicerone... Questo e molte altre cose avendo quegli detto nella sua esposizione, noi restammo sbalorditi da tale professore che parlava tanto sconsideratamente e commettendo tanti errori, come quello del tutto evidente per essere incontrovertibilmente lontano dal vero, dal momento che i Re romani non costruirono certo regge e atri in tutti i luoghi dove abitarono in tempo di guerra e di pace... La terza reggia è sulla via Sacra, dove si dice che avesse casa Anco Marzio, e questa intende Cicerone secondo Asconio, perché lì tramandano che avvenne lo scontro tra i sostenitori di Ipseo e quelli di Milone e Cicerone corse pericolo di vita per mano di Clodio»]: Dies, c. XCVv.

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dei tanti teatri antichi, di cui si aveva notizia, fossero sopravvissute vestigia solo di pochi, come pretesto per sciorinare tutte le informazioni in suo possesso sull’argomento, descrive il famoso teatro provvisorio fatto costruire nel 58 a.C. da Marco Emilio Scauro sulla scorta di PLIN. N.H. XXXVI 114-11578. Tutto il resto dell’opera è ammasso confuso di notizie e di curiosità sull’antichità, dalla storia etrusca alla filosofia, alle monete, all’arredamento, all’arte culinaria, ai riti funebri e nuziali, all’istituto del matrimonio, agli sport, ai passatempi, ai proverbi, alle bestemmie, alle superstizioni, ai modi di gestire, imprecare e fare scongiuri nell’antica Grecia e a Roma (capitoli I 9, 18, 24, 26, 28, 30; II 5, 11, 25; III 2, 7, 11, 21, 24, 28; IV 13, 20, 24, 26; V 4, 8, 9, 15, 18, 21, 22, 24, 28; VI 78 «Et theatrum Scauri, quod in aedilitate fecerat, triplici scena trecentarum sexaginta columnarum signisque aeneis tribus millibus conspicuum, cuius cavea, ut auctor Plinius est, supra hominum octuaginta millium capax erat» [«E il teatro che Scauro fece costruire durante l’edilità, insigne per la scena a tre piani con 360 colonne e 3000 statue di bronzo, la cui gradinata, secondo la testimonianza di Plinio, era capace di 80.000 persone»]: Dies, c. CLXXXIIv. Il testo di Plinio recita: «In aedilitate hic [Scaurus] sua fecit opus maximum omnium quae unquam fuere humana facta, non temporaria mora verum etiam aeternitatis destinatione. Theatrum hoc fuit; scaena ei triplex in altitudinem CCCLX columnarum, in ea civitate quae sex Hymettias non tulerat sine probro civis amplissimi. Ima pars scaenae e marmore fuit, media e vitro inaudito etiam postea genere luxuriae, summa e tabulis inauratis; columnae, ut diximus [XXXVI 6], imae duodequadragenum pedum. Signa aerea inter columnas, ut indicavimus [XXXIV 36], fuerunt III millia numero; cavea ipsa cepit hominum LXXX millia, cum Pompeiani theatri totiens multiplicata urbe tantoque maiore populo sufficiat large XXXX millia sedere» [«Durante l’edilità costui realizzò l’opera più splendida fra quante sono state attuate da mano umana, e non solo tra gli edifici effimeri, ma anche tra quelli con destinazione perpetua. Si tratta del suo teatro: aveva una scena con tre piani e 360 colonne – in una città che non aveva sopportato sei colonne di marmo dell’Imetto senza farne una colpa ad un cittadino del massimo spicco; il piano inferiore della scena era di marmo, quello mezzano di vetro (un tipo di lusso che restò senza seguito anche dopo), il superiore di legno dorato; le colonne del primo piano, come si è detto, erano trentotto piedi; le statue di bronzo fra le colonne erano, come si è ricordato, 3000, mentre la gradinata era capace di 80.000 persone – oggi che la città si è moltiplicata, e la popolazione è tanto cresciuta, è ampiamente sufficiente il teatro di Pompeo con i suoi 40.000 posti a sedere»].

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5, 19). Il cap. II 26 An inter auguria sternutamenta sint et offensiones pedum et quae illorum praedictio fuerit [Se tra i presagi vi siano starnuti e inciampamenti e in cosa consisteva la loro predizione] è interamente dedicato alla funzione segnica, augurale di starnuti e inciampamenti che porta il d’Alessandro ad esordire rinviando ancora all’autorità di Plinio («Esse inter auguria sternutamenta et offensiones pedum in Naturali historia Plinius notavit, quae symbola dicta sunt» [«Plinio nella Naturalis historia criticò la funzione augurale di starnuti e inciampamenti, che sono considerati segni premonitori»]: c. LXXVIv), con riferimento a N.H. II 23-24, dove l’enciclopedista latino aveva criticato alcune applicazioni estremizzate dell’astrologia, che portava persone colte e ignoranti a credere nell’avvertimento delle folgori, nelle previsioni degli oracoli, nelle profezie degli aruspici e persino nei presagi di cose insignificanti quali appunto «sternumenta et offensiones pedum»79. E a Plinio il d’Alessandro ricorre anche per dare credibilità a quella sezione dell’opera che potremmo chiamare «de rebus admirandis», dove mirabilia di vario genere – nereidi, tritoni, l’uomo-pesce – si mescolano alla narrazione di apparizioni di spettri e demoni, di incubi inquietanti, di sogni premonitori, di portenti altrettanto fatidici, alla quale l’umanista manifestando tutta la sua ansiosa simpatia per la realtà preternaturale dà ampio spazio con una serietà e credulità davvero disarmante, avvalorata in alcuni casi dalla sua testimonianza personale (capitoli I 11; II 9, 21; III 8, 15, 26; IV 9, 19; V 9, 22; VI 21). E allora, nel cap. III 8 qui riprodotto, tritoni e nereidi documentati anche ai suoi giorni dalla testimonianza di uomini di assoluta fede, «Pars alia et hanc [Fortunam] pellit astroque suo eventus adsignat et nascendi leges, semelque in omnes futuros umquam deo decretum, in reliquum vero otium datum. Sedere coepit sententia haec, pariterque et eruditum vulgus et rude in eam cursu vadit. Ecce fulgurum monitus, oraculum praescita, haruspicum praedicta atque parva dictu in auguriis sternumenta et offensiones pedum» [«Un altro gruppo rifiuta anche la Fortuna e attribuisce gli eventi alla propria stella, e alle leggi fissate con la nascita; la divinità avrebbe preso le sue decisioni in una volta sola su tutti gli uomini che mai saranno, per poi mettersi a riposo nel resto del tempo. Questa idea ha cominciato a consolidarsi, e verso di lei si indirizzarono, con lo stesso slancio, le persone colte e quelle impreparate. Ecco gli avvertimenti delle folgori, le previsioni degli oracoli, le profezie degli aruspici, e persino, insignificanti cose, la funzione augurale di sternuti e inciampiconi»]. 79

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come il tritone visto in Spagna da Dragonetto Bonifacio, la nereide che Teodoro Gaza aveva aiutato a riconquistare il mare dopo che una tempesta l’aveva fatta arenare su una spiaggia del Peloponneso, e l’altra scoperta dal Trapezunzio mentre si divertiva a sguazzare nelle acque del mare, hanno il loro inveramento nei tritoni e nelle nereidi di N.H. IX 9-10, passo chiamato subito in causa ad apertura di capitolo dove Plinio aveva ricordato il tritone che, imperatore Tiberio, era stato visto e sentito mentre suonava la conca in una grotta a Lisbona e la nereide che sulla spiaggia della stessa città era stata vista e sentita cantare mentre moriva80. Come Plinio convinto che di mirabilia e miracula, proprio in quanto fenomeni straordinari ed eccezionali, ma pur sempre manifestazioni della natura, bisognasse lasciare registrazione per preservarli dall’oblio81, anche il d’Alessandro vuole consegnare alla memoria dei posteri i mirabilia del suo tempo, il cui racconto fantastico, peraltro, atteggiato alle movenze di certa letteratura paradossografica antica, poteva risultare più avvincente per il lettore e così contemperare in nome della varietas l’aridità della restante trattazione. Ecco allora nel cap. II 21 Miraculum de homine, qui plus in mari quam in terris degebat maximaque aequora velocissime tranabat, da noi qui riprodotto, la registrazione di ciò che aveva udito raccontare da Giovanni Pontano, la leggenda di Colapesce, il ragazzo messinese innamorato del mare ed eccezionale nuotatore divenuto per incantesimo un pesce, che il grande umanista napoletano aveva cantato in esametri latini in Urania IV 468-581 (e poi evocato come esempio di matta bestialità in De immanitate I 13)82. Per il testo del d’Alessandro e il riscontro pliniano vd. a p. 174. Come i corpi di due uomini altissimi vissuti al tempo di Augusto che furono conservati a causa della straordinarietà dell’evento («gratia miraculi») in una tomba nei giardini di Sallustio: N.H. VII 75. Su miracula e mirabilia in Plinio vd. V. NAAS, Le projet encyclopédique de Pline l’Ancien, Rome, École française de Rome, 2002, pp. 235-325. 82 Rispettivamente in IOANNIS IOVIANI PONTANI, Carmina, a cura di B. SOLDATI, Firenze, Barbera, 1902, vol. I, pp. 130-133 (su cui vd. W. HÜBNER, Perseus, Eridanus und Cola Pescis unter den Sternbildern in Pontanos Urania, in «Humanistica Lovaniensia», XXVIII, 1979, pp. 139-166: 156-166; F. TATEO, Vizi e virtù dei sovrani: gli «Svevi» nella storiografia del Regno, in I miti della storiografia umanistica, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 27-57: 47-48) e in IOANNIS IOVIANI PONTANI De immanitate liber, edidit, italice vertit, commentariolo 80 81

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Sono questi del resto gli unici luoghi in cui il latino dei Dies farraginoso e involuto si anima appena rivelando un’insospettabile vena di narratore nel loro autore. Prendono così vita in alcuni capitoli figure spaventose di demoni, fantasmi e spettri che popolano sogni e visioni terrificanti di conoscenti ed amici e del d’Alessandro stesso, che talora rivendica a sé l’esperienza diretta delle apparizioni (capitoli I 11; II 9; V 22). In alcuni casi queste sono descritte appunto come sogni, più spesso, perché risultino più verosimili, come visioni in stato di veglia, in cui il defunto o altro essere soprannaturale che ne sono i protagonisti vengono ritratti in maniera da esaltare la loro fisicità: il testimone dice di averli sentiti parlare chiaramente e li descrive come se fossero vivi affermando talvolta di averli toccati e di aver avvertito il loro contatto. Ne scaturisce un forte rilievo realistico, proprio dei racconti tramandati oralmente poi messi per iscritto, e in questo modo oggettivati, da cui riverbera tutta l’evidenza che l’immaginario del tempo attribuiva ancora a tali credenze. Ma nei Dies del d’Alessandro non incontriamo soltanto demoni e spiriti che appaiono ai vivi, c’è anche il viaggio compiuto nell’aldilà, novello Dante, da un anonimo homo quispiam. Il Miraculum de homine, qui extrusus e carcere rursusque in eo intrusus inferna se loca adivisse enarravit raccontato nel cap. VI 21, qui da noi riprodotto, come avvenuto in un paese dei Peligni «in questi anni», e rubricato tra i «prodigli fantastici e simili alle favole dei bambini», acquista nella trascrizione latina del d’Alessandro la credibilità e l’autenticità del documento letterario capace di trasmettere e restituirci il senso di un passato e del suo immaginario collettivo. Gettato in carcere e messo ai ceppi, perché non potesse fuggire, per aver colpito a morte il cane da caccia preferito del suo superbo e poco generoso signore, il pover’uomo scompare per ricomparire tre giorni dopo e raccontare di aver fatto grazie al diavolo da lui evocato un viaggio agli inferi, dove aveva avuto modo di osser-

instruxit L. MONTI SABIA, Napoli, Loffredo, 1970, pp. 5-6, 53, 96-97. Sulla leggenda, attestata in ambito siculo-napoletano sin dal tempo dei Normanni, e nota in varie versioni, vd. G. PITRÈ, La leggenda di Cola Pesce, in «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane», XXII, 1904, pp. 1-173, e da ultimo: G. CAVARRA, La leggenda di Colapesce, Messina, Intilla, 1998; La leggenda di Colapesce. Una versione spagnola del secolo XVII, a cura di M. D’AGOSTINO, Roma, Salerno Ed., 2008.

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vare la terrificante geografia dei luoghi dell’oltretomba e l’atrocità delle varie pene inflitte alle anime dannate. Aveva anche incontrato personaggi di ogni ceto e condizione, alcuni da lui conosciuti sulla terra quand’erano ancora in vita, e aveva parlato con un suo intimus familiaris che gli aveva ingiunto, appena ritornato nel mondo dei vivi, di precipitarsi dal suo signore per informarlo della sorte che l’attendeva laggiù, dove gli era stato già riservato un posto, se non si fosse ravveduto e avesse immediatamente cambiato vita. La finalità di tali visioni, infatti, era non tanto quella di informare sul destino nell’aldilà di determinati defunti, quanto piuttosto di rivelare ai vivi, che ascoltavano o leggevano l’historia, la terribile realtà dei castighi infernali cui sarebbero andati incontro se avessero perseverato nel peccato; il racconto meraviglioso era in fondo un exemplum con un evidente scopo edificante, quello di ammonire e insieme offrire una speranza di salvezza. Non mi sembra però questo l’intento del racconto del d’Alessandro all’interno del contesto ‘enciclopedico’ in cui è collocato, quanto piuttosto quello di documentare, attraverso altri mirabilia o miracula, il vario e a volte aberrante manifestarsi della realtà naturale. Compresi certi fenomeni meteorologici e astronomici anomali e inspiegabili o altri sorprendenti prodigi spesso riferiti come minacciosi presagi di eventi storici apocalittici. Nel cap. III 15, qui pure antologizzato, la caduta di Costantinopoli del 1453 è preannunciata dagli ostenta che si erano visti qualche tempo prima nel Comense83, mentre il crollo della dinasta aragonese nello stesso capitolo è messo in relazione con la profezia di san Cataldo, a cui Ferrante d’Aragona non aveva prestato alcun credito. Profezia peraltro legata ad un miraculum, all’apparizione del santo ad un giovane diacono della cattedrale di Taranto, al quale avrebbe rivelato il luogo dov’era nascosto il libellus su cui l’aveva vergata84. Gli stessi portenti Poggio aveva riferito nella facezia CLXVII presentandoli come presagi legati ad una visita di Eugenio IV a Firenze: POGGIO BRACCIOLINI, Facezie, con un saggio di E. GARIN, introduzione, traduzione e note di M. CICCUTO, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 294-297. Di altri prodigi, e visioni, il Bracciolini racconta nelle facezie XXXI, XXXIII, XXXIV, CVI, CXXXIII, CLXVIII, CCXXX, CCXL. 84 Il miracolo con il conseguente ritrovamento del libellus con la profezia, nella quale con parole molto oscure si pronosticavano sciagure alla dinastia e al paese se non si fossero cacciati gli infedeli dal Regno, era in realtà un vatici83

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Vero è che ancora tra Quattro e Cinquecento, quando il d’Alessandro scriveva, il meraviglioso, in tutte le sue forme e accezioni, continuava ad esercitare grande attrazione nell’immaginario collettivo, e in particolare la credenza in spiriti e demoni, oltre che nell’aldi-

nio antigiudaico montato nel 1492 dal frate francescano Francesco d’Aragona al fine di indurre il re napoletano a perseguitare gli ebrei. Il d’Alessandro non fa alcun riferimento al contenuto della profezia interessato piuttosto al miraculum in sé e alla «vis divinae praedictionis», convinto della sua veridicità, come la sequenza degli eventi successivi da lui tutti evocati, dalla discesa di Carlo VIII all’esilio di re Federico in Francia, aveva dimostrato. Della profezia si parla nelle cronache coeve (vd. NOTAR GIACOMO, Cronaca di Napoli, a cura di P. GARZILLI, Napoli, Stamperia Reale, 1845, pp. 173-174) e nel De sermone del Pontano, che ne nega però l’autenticità svelando l’autore della frode (II 17): «Denique cum Ferdinando persuadere arte nulla aut ratione posset [frater Franciscus Hispanus], ut Iudaeorum gentem esterminaret e regni finibus, exemplo Ferdinandi patruelis Hispaniarum regis, Tarenti cum ipse ageret, commentum hoc iniit: e plumbo tabulam, divi Cataldi nomine clanculum a se inscriptam, haud Tarento procul in sacello semidiruto sub parietem occuluit; quam triennio post eruendam curavit, corrupto sacerdote, cui diceret in somnis astitisse sibi Cataldum, mostrantem quo in loco tabella esset abdita commonentemque, uti cum populo supplice collegioque sacerdotum iret ad effodiendam illam; quam effossam curaret ad regem deferendam communicandam ab eo uni tantum viro, quem e suis optimum nosceret ac maxime fidum; deum enim iratum illi futurum clademque ac calamitatem immissurum, ni, quod in tabula scriptum esset, et cautum a rege praestaretur. Scriptum vero ipsum per ambages quasdam ac latebricosa verba eo spectabat, uti Iudaeorum exterminatio indicaretur. Rex, accepta tabula, deprehendit fraudem; qua deprehensa, minime Franciscum ad eam legendam secum adhibuit, arbitratus eum interpretaturum verba in eam sententiam; dissimulavitque rem ipsam summa cum taciturnitate ac prudentia» [«Infine, non riuscendo con nessun mezzo e in nessuna maniera a convincere Ferdinando a cacciare i Giudei dal Regno sull’esempio del cugino Ferdinando, re della Spagna, quando stava a Taranto ebbe questa trovata: nascose una tavoletta di piombo, da lui di nascosto incisa con il nome di san Cataldo, sotto il muro di una cappella quasi completamente distrutta e non lontana da Taranto; tre anni dopo fece abbattere il muro, dopo aver corrotto il sacerdote, dicendogli che Cataldo in sogno gli si era avvicinato e gli aveva indicato in quale punto fosse nascosta la tavoletta e lo aveva esortato ad andare con la popolazione in preghiera e con il collegio dei sacerdoti a tirarla fuori; e tiratala fuori a farla portare al re e a darne notizia solo ad un uomo che sapesse essere il migliore dei suoi e il più fedele: l’ira divi-

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là, era diffusa e condivisa da tutti, anche a livello colto85. La conferma del loro grande appeal viene proprio dai Dies, che videro sei dei loro capitoli «de rebus admirandis» ristampati separatamente in due opuscoli di pochi fogli destinati a più larga circolazione86. Capitoli che per noi moderni valgono piuttosto come documento antropologico e sociologico offrendo un inedito spaccato di certa mentalità e costume contemporanei, profondamente intrisi di superstizione, molto diffusi ancora tra Roma e Napoli, i due centri che fanno da sfondo all’opera del d’Alessandro, e dove evidentemente gli era capitato di sentir raccontare in giro quei fatti spaventosi di fantasmi e diavoli da lui in essa registrati. Dai Dies emerge anche il profilo umano e intellettuale di un uomo di legge, che emarginati gli interessi giuridici, soppiantati da un atteggiamento di critica severa e risentita nei confronti dei metodi e delle condizioni della giustizia del suo tempo nonché verso le arti interessate di magistrati, giudici e avvocati, suoi colleghi, litigiosi e corrotti oltre che ignoranti (vd. i capitoli V 14 e VI 7 entrambi qui riprodotti), na lo avrebbe perseguitato lanciandogli contro flagelli e disgrazie, se il re non avesse scrupolosamente eseguito ciò che era scritto sulla tavoletta. Questo scritto in verità, attraverso parole misteriose ed oscure, mirava a prescrivere la cacciata dei Giudei. Il re, ricevuta la tavoletta, scoprì l’inganno; e scopertolo non chiamò Francesco per leggerla, ritenendo che avrebbe interpretato le parole in quel senso, e dissimulò tutto il fatto con la massima discrezione a prudenza»] (IOANNIS IOVIANI PONTANI De sermone libri sex, ediderunt S. LUPI et A. RISICATO, Lucani, in aedibus Thesauri mundi, 1954, pp. 80-81; traduzione di Francesco Tateo in Lorenzo Poliziano Sannazaro nonché Poggio e Pontano, introduzione e cura dello stesso, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2004, pp. 586-587). Vd. anche la nota ad locum. 85 Su mirabilia e miracula nel Medioevo, con tutte le oscillazioni semantiche che tali termini hanno, vd. almeno C. KAPPLER, Demoni, mostri e meraviglie alla fine del Medioevo, ed. ital. a cura di F. CARDINI, Firenze, Sansoni, 1983; J. LE GOFF, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, trad. ital. a cura di F. MAIELLO, Roma-Bari, Laterza, 2004 (1983); Miracles, prodiges et merveilles au Moyen Age. Actes du XXVe Congrès de la S.H.M.E.S., Orléans, juin 1994, Paris, Publications de la Sorbonne, 1995; J.-C. SCHMITT, Religione, folklore e società nell’Occidente medievale, Roma-Bari, Laterza, 1988; ID., Spiriti e fantasmi nella società medievale, Roma-Bari, Laterza, 2003 (1995). 86 Vd. la Nota al testo.

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abbandona la carriera forense, il clamore e l’affanno dei tribunali per dedicarsi nella quiete della sua biblioteca ai prediletti studi umanistici, sulle cui fondamenta innalza un monumento alla classicità dando forma di sintesi, in un’opera per questo destinata al successo, ad una intera esperienza di sapere a cui l’Umanesimo aveva sentito il bisogno nella sua maturità di fornire una sistemazione. Sullo sfondo si ricompone a mosaico il contorno dell’Umanesimo napoletano e romano, delle cui due scuole i Dies, oscillanti tra filologia e antiquaria, sono un interessante prodotto di sintesi. L’interscambio intellettuale tra Napoli e Roma, che ai primi decenni del Cinquecento vantava ormai una lunga tradizione, è assunto del resto come elemento fondante della stessa struttura compositiva dei Dies, giocata in continuo dialogo fra le due città e fra intellettuali dell’una e dell’altra, tra Accademia napoletana e Accademia romana (si vedano qui di seguito i capitoli I 1, 16, 21, 23; II 1; III 1). Resta certo nell’ombra l’attualità storico-politica limitandosi il d’Alessandro a registrare come eventi fatali la caduta di Costantinopoli e il crollo della dinastia aragonese. Hanno tuttavia valore di testimonianza, per quanto spesso non vadano oltre la nota di colore, come aveva già avuto modo di notare Domenico Maffei, certi flash sulla nobiltà e le plebi rurali del Mezzogiorno, sulla corruzione degli ambienti forensi e di quelli religiosi (nel cap. VI 16 è tracciato un quadro molto vivido della venalità imperante nella corte papale e della spregiudicatezza con cui molti cercavano di ottenere benefici ecclesiastici e cariche remunerate), così come la polemica contro i grammatici e certe discussioni, per quanto appena sfiorate, sull’opportunità del matrimonio (cap. IV 8) o sui concetti di liberalità, avarizia e ingratitudine (cap. V 1) ci riportano nel vivo del coevo dibattito culturale umanistico. Certi di ciò, la scelta di capitoli dei Dies geniales che qui si presenta intende offrire un’ampia campionatura dei contenuti di «un libro della cultura europea» molto fortunato tra Cinque e Seicento che, «se ora non rende i servigi che un tempo rese, non è certo questa una buona ragione perché anche gli eruditi lo dimentichino affatto. Qualcosa ne trarranno, se lo riapriranno»87.

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CROCE, Jacopo Sannazaro e il testo di Properzio, cit., p. 33.

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La biografia del d’Alessandro, «clericus Neapolitanus utriusque iuris doctor»1, resta in gran parte avvolta nel mistero. Quel po’ che sappiamo di lui lo apprendiamo dai suoi Dies, e non è molto; molto scarsi i documenti che lo riguardano, tra cui il testamento del 2 ottobre 1523 recuperato poco più di una ventina d’anni fa da Giancarlo Vallone2, e ancor più scarse le testimonianze dei contemporanei, eccezione fatta per l’anonimo estensore dei necrologi del cod. Vat. lat. 3920, tra i quali c’è anche quello di Alexander de Alexandro Neapolitanus da cui si sono recuperati l’anno di nascita e la data di morte3. Nacque a Napoli nel 1461 da famiglia nobile ascritta al sedile Così nella bolla del 5 maggio 1501 con la quale papa Alessandro VI lo incardinava nella commenda di S. Elia di Carbone: cfr. G. VALLONE, Alessandro e Antonino d’Alessandro, in Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, a cura di M. ASCHERI, Padova, Antenore, 1991, pp. 319352: 331. 2 Ivi, pp. 321-326. 3 Già segnalato nel Settecento dallo Zeno e dal Mazzuchelli, il necrologio del d’Alessandro si può leggere oggi in M. DE NICHILO, I viri illustres del cod. Vat. lat. 3920, Roma, Roma nel Rinascimento, 1997, p. 81 (con relativa scheda a p. 133). Chi scrive ha curato la ‘voce’ d’Alessandro (Alessandri), Alessandro per il Dizionario biografico degli Italiani (XXXI, 1985, pp. 729-732) sulla scorta fondamentalmente della ricostruzione biografica di MAFFEI, Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 27-73. 1

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di Porto; suo padre potrebbe essere stato Sansonetto d’Alessandro, regio commissario in Abruzzo Citra nel 1445, esattore della Regia Camera della Sommaria in Capitanata e in Terra di Bari nel 1446 e nel 1448, quindi tra i razionali della Sommaria dal 1452 al 1457 e ancora nel 14674. Si conosce un suo fratello, Bernardino, governatore in sua vece del monastero di S. Elia di Carbone, e dal testamento si recuperano i nomi di tre suoi nipoti: Sansonetto e Vincenzo, eredi delle sue proprietà campane, e Andrea da lui sostenuto nella carriera ecclesiastica5. Apprese i rudimenti della lingua latina alla scuola di grammatica di Giuniano Maio a Napoli6, completando quindi la sua educazione umanistica, già a partire dal 1473, a Roma, dove appena dodicenne avrebbe ascoltato a suo dire le lezioni di Domizio Calderini (Dies II 12; IV 21)7 e di Niccolò Perotti (IV 21)8 e quindi un paio d’anni dopo quelle Meno probabile che suo padre fosse Paolo o Paolello, figlio di Giovanni III e fratello di Sansonetto, come risulta dall’albero genealogico della famiglia d’Alessandro ricostruito da Francesco Foucault de Daugnon (La Ducale Casa dei d’Alessandro, Milano 1880) segnalatomi dal dottor Ettore d’Alessandro di Pescolanciano, che qui ringrazio per la sua cortese disponibilità: Paolo/Paolello era già direttore del Gran Sigillo nel 1403, e dunque troppo anziano nel 1461, se ancora in vita, per procreare il nostro Alessandro. 5 Vd. VALLONE, Alessandro e Antonino d’Alessandro, cit., pp. 327-328. 6 Nel cap. I 11 dei Dies qui riprodotto d’Alessandro dice di essersi recato spesso da lui ancora puer per istruirsi («ad capiendum ingenii cultum») e lo ricorda come «vir bene litteratus, in exquirendis adnotandisque verborum et sententiarum viribus multi studii […] in erudiendis iuvenculorum animis imbuendisque doctrina pueris castigatissimae disciplinae», con chiaro riferimento all’attività di maestro di scuola e di grammatico del Maio autore del De priscorum proprietate verborum, e quindi come grande interprete di sogni («somniorum quoque omnis generis verus coniector») che vedeva la sua casa ogni giorno presa d’assalto da una schiera di clienti di ogni ceto e condizione. Su di lui vd. ora PALUMBO, La biblioteca di un grammatico, cit. 7 In Dies II 12 d’Alessandro ricorda il Calderini come interprete di Marziale, che l’umanista veronese lesse e commentò nel corso del 1473: «Domitium Calderinum, virum disertum et studiosum, vidimus aliquando dum Romae ageret. Interpretabatur tunc Martialis epigrammata…» (vd. la ‘voce’ Calderini, Domizio, a cura di A. PEROSA, in DBI, XVI, 1973, pp. 597-605). 8 Tra il 1473 e il 1474 fu a Roma anche il Perotti, alle prese con il commento a Marziale; non è certo che abbia insegnato nello Studium. In IV 21 4

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di Francesco Filelfo (I 23)9. Si addottorò in utroque iure e tra Napoli e Roma, come pare evincersi da alcuni riferimenti sparsi nei capitoli dei Dies, esercitò per molti anni la professione di avvocato10, finché, stanco della pratica forense, disgustato dalla corruzione e dagli abusi di giudici, magistrati e avvocati suoi colleghi (si veda lo sfogo affidato ad una conversazione con il Volterrano in Dies VI 7), si ritirò a vita privata a coltivare studia mitiora, ovvero i prediletti studi umanistici, continuando tuttavia a fare la spola tra Napoli e Roma, dove aveva vari possedimenti: dal testamento risultano un suo podere a Summa Vesuviana ed d’Alessandro accenna alla sua polemica di quegli anni con il Calderini, di cui aveva criticato alcune interpretazioni del poeta latino, e quindi per inciso riferendosi ai due aggiunge: «Cum autem in scholis Romae eodem tempore Martialis Apophoreta publice lectitarent …». Sulla polemica, oltre alla ‘voce’ di Perosa citata nella nota precedente, si veda G. MERCATI, Per la cronologia della vita e degli scritti di Niccolò Perotti arcivescovo di Siponto, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1925, pp. 87-110; CAMPANELLI, Polemiche e filologia ai primordi della stampa, cit., pp. 11-21. Mercati (p. 88), a proposito del passo dei Dies, dove si discute dell’interpretazione di MART. XIV 82, sospetta opportunamente «una testimonianza auricolare, o piuttosto, perché essa è unica, una deduzione di Alessandro dagli scritti pubblicati dei due [Calderini e Perotti]». 9 Il Filelfo insegnò a Roma tra il 1475 e il 1476, quando è molto probabile che il d’Alessandro, quindicenne, abbia ascoltato le sue lezioni, stando alla testimonianza di Dies I 23: «Ad eum quotidie concursus studiosorum iuvenum et clari nominis professorum frequens fiebat […] Eum ego adolescentulus senem inter caeteros coaevos meos colui et observavi» (vd. la ‘voce’ Filelfo, Francesco, a cura di P. VITI, in DBI, XLVII, 1997, pp. 613-626: 620). 10 In Dies IV 5 d’Alessandro riferisce di aver assistito ad una causa relativa ad una servitù prediale un giorno che «in foro romano» attendeva ai suoi «quotidiana patrocinia». Pregato dal perdente di intervenire – il giudice con «iniquissimo decreto» aveva sentenziato in favore del proprietario del fondo servente –, aveva chiesto al giudice di motivare la sentenza appellandosi all’autorità dei giuristi antichi. Non aveva ottenuto in quella circostanza soddisfazione, ma l’appello gli avrebbe dato ragione. Anche nel cap. II 3 d’Alessandro è consultato dai giudici su una questione testamentaria in una causa di successione tra un fratello ed una sorella trascinatasi per lungo tempo. Risolve il caso a favore di quest’ultima argomentando che nelle disposizione testamentarie seu ha valore congiuntivo e non disgiuntivo, come del resto era facile desumere anche «ex perpetua legis dispositione» sull’autorità di Paolo in Digesto XXXIV, 2, 30. In VI 15 racconta inoltre che, mentre esercitava l’attività forense a

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un altro a Fiano Romano11. A Roma ebbe varie case (vd. Dies V 2): dal testamento ci sono note quella di piazza Montanara, nel rione Campitelli, che lascia agli eredi di tale «Messere Antonio de Pipo», e quella «in burgo Sancti Petri», cioè nel rione di Borgo, dove muore. Anche se nessuno lo degnò di un ricordo, sembra che il d’Alessandro abbia intrattenuto rapporti con i maggiori esponenti dell’umanesimo napoletano e romano di secondo Quattrocento: nella sua enciclopedia scorrono i nomi, insieme a quelli del Maio, del Calderini, del Perotti, del Filelfo e del Maffei già menzionati, del Pontano (I 1; II 1; II 21; III 8; V 9), del Sannazaro (II 1), del Gaza e del Trapezunzio (III 8), di Andrea Matteo Acquaviva, al quale dedica i Dies12, di Dragonetto Bonifacio (III 8), di Pietro Golino (IV 8), Gabriele Altilio (V 1), Roma, per distrarsi era solito recarsi presso la Biblioteca Vaticana e lì aveva potuto chiarire, con l’aiuto di un passo del Cato Maior di Cicerone, la differenza tra lex Furia, Voconia e Falcidia. 11 Il primo è ricordato in Dies I 11. Possedeva anche una vigna a Roma alla Croce di Monte Mario, su via Trionfale, che lasciò per legato testamentario alla chiesa di S. Salvatore in Lauro. 12 Sull’Acquaviva letterato vd. di F. TATEO, Aspetti della cultura feudale attraverso i libri di Andrea Matteo Acquaviva, in Il territorio a sud-est di Bari in età medievale, Atti del Convegno di studi, Conversano, 13-15 maggio 1983, a cura di V. L’ABBATE, Fasano, Graphischena, 1985, pp. 371-384; L’Etica di Aristotele nelle illustrazioni miniate di Reginaldo Pirano da Monopoli, in Monopoli nell’età del Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studio, 22-24 marzo 1985, a cura e con introduzione di D. COFANO, Monopoli, Biblioteca Comunale “P. Rendella”, 1988, pp. 125-145; Sulle traduzioni umanistiche di Plutarco. Il De virtute morali di Andrea Matteo Acquaviva, in Filosofia e cultura. Per Eugenio Garin, a cura di M. CILIBERTO e C. VASOLI, Roma, Editori Riuniti, 1991, vol. I, pp. 195-214; Socrates ille sapientissimus. La dedicatoria originale di Andrea Matteo Acquaviva in un codice adespoto di Plutarco, in Scritture per Massimo Miglio, «RR roma nel rinascimento», 2006, pp. 115-119; Andrea Matteo Acquaviva e Giovanni Pontano: divergenze parallele, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento, a cura di C. CORFIATI e M. DE NICHILO, Lecce, Pensa MultiMedia, 2009, pp. 15-27: ora tutti raccolti in H.J. HERMANN, Manoscritti miniati dalla biblioteca del duca Andrea Matteo III Acquaviva d’Aragona, traduzione dal tedesco di G.A. DISANTO, con saggi di Caterina Lavarra, Claudia Corfiati, Francesco Tateo, Galatina, Congedo Ed., 2013, pp. 185-265.

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Francesco Elio Marchese (III 25), e quindi del Leto e del Platina13, di Ermolao Barbaro (III 6), Girolamo Porcari (V 14), Giovanni Lorenzi (IV 1), Sigismondo de’ Conti (VI 1), Paolo Cortesi (I 28), insomma il meglio del pantheon umanistico tra Quattro e Cinquecento. Era sicuramente a Roma nel 1485, quando il 18 aprile fu rinvenuto sulla via Appia nel fondo degli Olivetani di Santa Maria Nova il sarcofago con il corpo imbalsamato di una fanciulla, che Pomponio Leto – riferisce il d’Alessandro – aveva congetturato trattarsi di «Tulliolam Marci Tulli Ciceronis filiam, de cuius obitu ad Servium Sulpicium sunt epistolae, aut Priscillam Abascantii, de qua sylva Papinii extat» (Dies III 2)14. Era invece a Napoli nel gennaio del 1493, quando con altri accademici si recò a far visita a Gabriele Altilio per congratularsi con lui della recente nomina a vescovo di Policastro (V 1). È pure certo che Alessandro fu commendatario del monastero basiliano dei SS. Elia e Anastasio di Carbone, in Lucania, succedendo a Roberto Sanseverino, figlio del principe di Bisignano, che avrebbe avuto la commenda da Consalvo de Cordoba, ma non tra il 1484 e il 1490, come si era a lungo ritenuto sulla scorta di uno studio della Robinson15, ma nei primissimi anni del Cinquecento, come prova la bolla del 5 maggio 1501 citata all’inizio 13 Ricorda spesso le passeggiate fatte con entrambi tra le rovine di Roma, ogni volta occasione di dotte discussioni antiquarie tra archeologia, epigrafia, topografia e critica testuale: «Deambulabamus aliquando Romae cum Pomponio Laeto, viro litterarum et locorum veterum exequentissimo, cumque antiquitatis studio ruinas urbis et veterum monumenta, quicquid visendum esset et memorabile, scrutaremur, in ruinas templi Pacis grandioribus litteris extantibus effractum ibi marmor legimus …» (Dies I 16); «Cum Iohanne Platina viro docto et antiquitatum studioso pro familiari consuetudine saepe deambulabamus et omnes antiquitates veterumque monumenta atque ruinas urbis explorabamus» (III 9). 14 Registrarono il sorprendente ritrovamento Gaspare Pontani e Stefano Infessura nelle loro cronache romane, nonché il fiorentino Bartolomeo Fonzio, allora a Roma, in una lettera a Filippo Sassetti del 15 maggio 1485 (ep. II 7, in BARTHOLOMAEI FONTII Epistolarum libri, a cura di A. DANELONI, vol. I, Messina, Centro interdipartimentale di Studi umanistici, 2008, pp. 72-75, poi in Letters to friends, ed. by A. DANELONI, transl. by M. DAVIS, Cambridge, Mass., Harvard U.P., 2011, pp. 92-95). 15 G. ROBINSON, History and Cartulary of the Greek Monastery of St. Elias and Anastasius of Carbone, in «Orientalia Christiana», II, 1928, p. 275.

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con la quale papa Alessandro VI esortava il vicario del vescovo d’Anglona, l’arcidiacono della città e Rutilio Zeno, vescovo di San Marco, a dare tutto il loro appoggio al d’Alessandro contro il Sanseverino, da considerare un usurpatore per aver occupato senza alcun titolo e diritto il monastero per oltre un triennio. Secondo la ricostruzione del Vallone, dopo aver tentato di ritornarvi con le armi con l’aiuto di un suo congiunto ed aver esautorato il rivale, il quale reagì citando il principe di Bisignano che si era appropriato dei frutti di Scanzano spettanti all’abbazia di S. Elia, Roberto Sanseverino, battuto dal d’Alessandro che aveva ottenuto l’appoggio del papa, fu imprigionato in Castel Nuovo. Lasciava come suo procuratore a Carbone il romano Lelio della Valle che avrebbe composto la contesa concordando la spartizione delle rendite del monastero nella misura di due a uno a favore del d’Alessandro. Questi avrebbe tenuto la commenda ancora per un quinquennio, verosimilmente sino al 1513, continuando a difendere i diritti dell’abbazia contro le pretese del vescovo d’Anglona e i continui tentativi di usurpazione da parte dei signori di Bisignano, ma probabilmente se ne tornò a Roma lasciando a Carbone come governatore suo fratello Bernardino. Dopo questa data si perdono le sue tracce ed è fatica sprecata cercarne nei Dies, a conferma che la composizione dell’opera non si spinse oltre il primo decennio del Cinquecento. L’ultima data utile, infatti, che riesce a estrapolarsi da essa è quella del 1504 relativa alla morte in terra di Francia di Federico d’Aragona. Il d’Alessandro morì a Roma nella casa di Borgo il 2 ottobre 1523, dopo aver fatto quel giorno stesso testamento con cui nominava suo erede tale «Marcho de Falco da Napoli», suo familiaris, molto probabilmente quel Marco «alumnus et cliens» del cap. V 23 dei Dies, lo stesso, forse, del Mario di Dies I 11, anch’egli «alumnus et cliens», se Marius della princeps, come giustamente sospetta Vallone (p. 323, nota 24), è un refuso16. Volle essere sepolto nella cappella grande della chiesa di San Salvatore in Lauro (oggi S. Maria di Loreto), alla quale lasciò anche tutti i suoi libri, che andarono purtroppo distrutti nel corso del Sacco del 1527. Nel 1522, intanto, il 1° aprile, era uscita a Roma presso il Mazzocchi l’editio princeps dei suoi Geniales dies. 16 Rogato dal notaio G.B. Apocello, il testamento è conservato, insieme con la minuta autografa del d’Alessandro pubblicata dal Vallone, in Archivio di Stato di Roma, Not. A.C. vol. 410, ff. 287r-288v (380r-381v).

NOTA AL TESTO

L’editio princeps dei Geniales dies di Alessandro d’Alessandro uscì a Roma il 1° aprile 1522 «in aedibus Iacobi Mazochii Romanae Academiae bibliopolae» (= Ro): era stato da pochi mesi eletto papa ma non ancora incoronato Adriano VI. L’opera godeva di un privilegio settennale, ma in Italia non fu più ristampata. Fu invece ripubblicata più volte in Europa a partire dall’edizione curata a Parigi da Gérard Morrhy nel 1532 che la corredò a margine dei loci degli auctores utilizzati ma il più delle volte taciuti dal d’Alessandro e la dotò di un analitico Index insignium rerum secundum ordinem alphabeti, premesso al testo, che ne facilitava la consultazione1. Da allora sino alla fine del Seicento si contano più di una trentina di ristampe e nuove edizioni, tutte localizzate tra Francia, Germania e Olanda2, in cui il testo provvisto di indici sempre più copiosi (come quello «per Bar. Laurentem» nell’altra edizione parigina del 1549) e di volta in volta presentato come «accuratius quam antehac excusus» (Parisiis 1532), «accuratius et maiore fide quam anthehac impressus» (Parisiis 1561) o ancora «quanta fieri potuit diligentia perpurgatus atque in pristinum nitorem Vd. l’Introduzione, pp. 16-17. Un elenco attendibile è fornito da MAFFEI, Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 175-176, da integrare con DE NICHILO, d’Alessandro (Alessandri), Alessandro, cit., p. 730a; SERRAI, Storia della bibliografia, cit., pp. 198-201; VALLONE, Alessandro e Antonino d’Alessandro, cit., p. 319, nota 2. 1 2

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restitutus» (Francofurti 1626) – in realtà, se si esclude la correzione di qualche refuso e grossolano errore della princeps, dalla quale tutte a catena direttamente o indirettamente discendono, le stampe successive ne aggiungono numerosi di propri, i più frutto di interventi correttori piuttosto arbitrari – viene corredato dal commento di illustri esponenti del cultismo d’Oltralpe, André Tiraqueau, Denys Godefroy, Cristoph Coler e Nicolas Mercier, sino all’ultima edizione in due tomi che tutti li comprende apparsa a Leida «ex officina Hackiana» nel 1673. In Italia invece, nel corso del Cinquecento, furono ristampati solo alcuni capitoli. A Roma, molto probabilmente nel 1524 presso Francesco Minizio Calvo, uscirono due opuscoli di pochi fogli che riproducevano alcuni capitoli su sogni, spettri, fantasmi ed altri mirabilia: rispettivamente III 8, II 21 (Miraculum Tritonum et Nereidum, quae variis in locis tempestate nostra compertae fuere, quod non parum fidei poetis et rerum naturalium scriptoribus adstruere videtur; Historia memorabilis de homine, qui plus in mari quam in terris degebat maximaque aequora velocissime tranabat. Ubi disseritur de vi ac influxu stellarum, quae reddunt mortales variis animi et corporis dotibus insignes) e I 11, II 9, IV 19, V 22 (Dissertationes de rebus admirandis quae in Italia nuper contigere, id est: De somniis, quae a viris spectatae fidei prodita sunt inibique de laudibus Iuniani Maii maximi somniorum coniectoris; De umbrarum figuris et falsis imaginibus; De illusionibus malorum daemonum, qui diversis imaginibus homines delusere; De quibusdam aedibus, quae Romae infames sunt ob frequentissimos lemures et terrificas imagines, quas author ipse singulis fere noctibus in urbe expertus est)3. Col titolo Ex Alexandri ab Alexandro Genialibus libris in Laurentium Vallam annotationes i capitoli I 8, I 21, II 28, III 19, IV 14, VI 9 dei Dies, in cui il d’Alessandro polemizza col Valla su alcuni luoghi delle Elegantie (I 21, V 2, III 18, VI 46-47, VI 24, I 18 e III 7), furono pubblicati insieme alle In errores Antonii Raudenses annotationes (ovvero Raudensiane note) del Valla a partire dall’edizione Venetiis, Victor a Rabanis et socii, 1538 (e quindi, Venetiis, apud haeredes Petri Ravani et socios, 1543, e Venetiis, per Alouisium de Tortis, 1543)4. Gli stessi capitoli furono riprodotti nel commento all’edizione F. BARBIERI, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio Mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, Firenze, Olschki, 1983, p. 92. 4 Non sono recensite in LAURENTII VALLE Raudensiane note, a cura di G.M. CORRIAS, Firenze, Edizioni Polistampa, 2007. 3

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delle Elegantie, Venetiis, apud Ioannem Gryphium, 1586; il cap. II 7, invece, contenente le observationes alle epistole II 9, 12, 14 ad Marcum Caelium di Cicerone, entrò nel commento alle Familiares (insieme con le annotazioni di Gellio, Filippo Beroaldo, Giorgio Merula, Poliziano, Crinito ed altri) nell’edizione Venetiis, apud Ioannem Mariam Bonellum, 15685. Il cap. II 1 Locus ex Propertio ab Actio Syncero neapolitano in convivio familiari commode emendatus fu ristampato più volte tra i Selecta doctorum virorum de Actio Syncero Sannazario eiusque scripta testimonia nelle varie edizioni dei Poemata del Sannazaro che si succedettero – a quanto mi risulta – a partire dalla Cominiana del 1719. È da presumere che la princeps stampata dal Mazzocchi sia stata curata di persona dall’autore che a Roma viveva e là sarebbe morto l’anno successivo, anche se probabilmente, data anche la natura dell’opera, la revisione non fu molto attenta e puntuale, per cui il testo edito presenta luoghi critici e refusi, solo in parte sanati nelle due carte di Errores aggiunte fuori registro in calce al volume. Altro testimone noto della tradizione dei Dies è il cod. Paris, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 8682 (=P)6, un manoscritto cartaceo dei primi anni del Cinquecento, acefalo, lacunoso e mutilo, quanto resta di una copia completa dell’opera. Sono infatti solo 7 fasciVALLONE, Alessandro e Antonino d’Alessandro, cit., p. 319, nota 2 ha segnalato l’edizione del cap. II 5 Quae solemnes caerimoniae more romano in sponsalibus olim et nuptiis esse consuevere, et quae apud exteros in un opuscolo per nozze pubblicato a Cento intorno al 1850, in vendita al n° 46 del catalogo Libri di ieri dell’ottobre del 1988. Il cap. VI 10 Quae Lege XII Tabularum utiliter et commode, quaeve parum consulte et nimis severe scripta videbantur è stato riprodotto in MAFFEI, Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 162-174; un brano del cap. II 19 In quibus membris in homine insit religio quaedam, propter quam illa sancte coli debeant et servari in G. SAVARESE-A. GAREFFI, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 69-73; e infine il cap. IV 8 An sapienti uxor ducenda sit et quae ad propagandam sobolem indulta commoda a Romanis fuerint insieme con il commento del Tiraqueau in ROSSI, Incunaboli della modernità, cit., pp. 506-517. 6 Recuperato dal Maffei, è da lui sommariamente descritto in Alessandro d’Alessandro, cit., pp. 11-13, nota 2. Una brevissima scheda è nel Catalogus codicum manuscriptorum Bibliothecae Regiae, p. III, t. IV, Parisiis, e Typographia Regia, 1744, p. 482b. Ringrazio Raffaele Ruggiero, che ha cortesemente preso visione del manoscritto, per i suoi preziosi suggerimenti. 5

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coli, tutti senioni, per un totale di 84 carte, in cui sono sopravvissute porzioni più o meno lunghe di testo relative ai libri III, V e VI. Il primo, sino a c. 12 (la cartolazione, in alto a destra, è successiva allo smembramento), contiene i capita 1-4 e l’inizio del 5 del l. III; i quattro seguenti, sino a c. 60, i capita 1-17 e l’inizio del 18 del l. V; il sesto, sino a c. 72, i capita 1-3 e l’inizio del 4 del l. VI; il settimo, sino a c. 84, i capita 11-14 dello stesso libro, ma il primo acefalo e l’ultimo mutilo. Collazionato P con Ro limitatamente ai capitoli condivisi, e al momento ai due antologizzati nel presente volume, III 1 e V 14, si evidenzia che il testo d’impianto del manoscritto, che si presenta già come copia in pulito, diverge alquanto da quello edito, anche se in alcuni luoghi si avvicina o collima con esso grazie agli interventi marginali e interlineari presenti sulle sue carte. Alcuni esempi. L’attacco del cap. III 1 a c. 1r recita in P: Hermolaus Barbarus amicus meus summus, perquam fuit licteris homo ornatissimus bonisque disciplinis et ingenuis artibus excultus, ac praeter ingenii amenitatem, quae plurima in homine fuit, doctrina quoque curiosa et eleganti. Ad eum quotidie, dum Romae adessemus, complures viri bene licterati …

In Px: Hermolaus Barbarus amicus meus summus, perquam fuit licteris homo ornatissimus [attraverso: homo licteris perquam ornatissimus] bonisque disciplinis et ingenuis artibus excultus, ac praeter ingenii amenitatem doctrina quoque curiosa et eleganti. Ad eum quotidie, dum Romae ageret [attraverso: Dum Romae ageret, ad eum quotidie] complures viri bene literati …

In Ro: Hermolaus Barbarum amicus meus summus, perquam fuit litteris homo ornatissimus bonisque disciplinis et ingenuis artibus excultus, ac praeter ingenii amoenitatem, quae plurima in homine fuit, doctrina quoque curiosa et eleganti. Ad eum quotidie, dum Romae ageret, complures viri bene litterati …

NOTA AL TESTO

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Nello stesso capitolo a c. 2r P scrive: Navim quoque, quae mutata materia nova suffecta est, non aliam sed eamdem decere existimari. Quod si secus diceremus, utique foret ut nos, qui immutamur quotidie, iidem non essemus qui abhinc anno fuissemus. Quin etiam, si longius evagari et vetera scrutari libet, inveniemus Ulpianum, magna virum auttoritate et multi studii qui Aurelii Alexandri imperatoris ob excellentem doctrinam sacriscriniorum magister fuit, et Pomponium, pariter iuris scientem et peritum, licteris prodidisse. Px si limita ad espungere et vetera scrutari e a correggere auttoritate in authoritate.

In Ro il passo risulta modificato come segue: Navim quoque, quae mutata veteri materia nova suffecta est, non aliam sed eandem decere existimari. Quod si aliter dicimus, utique foret ut nos, qui immutamur quotidie, iidem non essemus qui abhinc anno fuissemus. Quin etiam, si longius evagari libet, inveniemus Ulpianum, magna virum authoritate, qui ob excellentem doctrinam Aurelii Alexandri imperatoris sacriscriniorum magister fuit, et Pompeium [errore per Pomponium], pariter iuris scientem et peritum, litteris prodidisse.

A c. 23r, nel cap. V 3, P scrive: Est tamen observatum Romae ut, siqua contentio inter amicos intercederet, sodalitati prius et hospicio renunciari. Nam et Germanicus Pisoni amiciciam et Crispinus Badio hospicium remisit. Neque omiserim Tybarenos adeo iustos, ut non prius cum hoste congrediantur quam diem, locum et decertandi horam ex fide per feciales hosti renuncient.

Px interviene a correggere: Est tamen observatum ut, siqua contentio inter amicos intercederet, sodalitati prius et hospicio renunciarent. Nam et Germanicus Pisoni amiciciam et Crispinus Badio hospicium remisit. Amasis quoque animo presumens, Polycratis ruinam ex successu continuae felicitatis ut minus doleret, misit qui sodalitati et amiciciae renunciaret. Fuitque vetusti moris, quoties dirimerent amicicias, etiam domo interdicere [da interdicerent] isque finis gratie foret. Neque omiserim Tybarenos adeo iustos, ut non prius cum hoste congrediantur quam diem, locum et decertandi horam ex fide per feciales hosti renunciarent.

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Ro, ortografia a parte, ripropone con alcuni lievi ritocchi lo stesso testo: Est tamen observatum ut, siqua contentio inter amicos intercederet, sodalitati prius et hospicio renunciarent. Nam et Germanicus Pisoni prius amiciciam et Crispinus Badio hospicium remisit. Amasis quoque animo presumens, Polycratis ruinam ex successu continuae felicitatis ut minus doleret, misit qui sodalitati et amiciciae renunciaret. Eratque moris prisci, quoties dirimerent amicicias aut sodalitates, etiam domo interdicere isque finis gratie foret. Neque omiserim Tybarenos adeo iustos, ut non prius cum hoste congrediantur quam diem, locum et decertandi horam ex fide per feciales hosti renunciarent.

L’attacco del cap. V 14 a c. 49rv recita in P: Hieronymus Porcarius, iuris divini atque humani consultus, homo fuit liberi animi et acris ingenii, cui preter uberem facundiam mira in eo erudicio et in male dicendo libertas admisto sale. Erat enim acri iudicio et ad irridendum contentiosus et audax, non infacetus, ita ut iocis urbanis faceciisque amenis unumquemque carperet et ad vivum usque lacesseret.

In Px: Hieronymus Portius, divini humanique iuris sciens [forse attraverso: Ieronimus Portius omnis divini atque humani iuris sciens], homo liberi animi et acris ingenii fuit, preterque uberem facundiam mira in eo erudicio et in male dicendo libertas admisto sale. Erat enim acri iudicio et ad irridendum contentiosus et audax, non infacetus, ita ut iocis urbanis faceciisque amenis unumquemque carperet et ad vivum lecesseret.

In Ro: Hieronymus Porcarius, divini humanique iuris sciens, homo liberi animi et acris ingenii fuit, praeterque uberem facundiam mira in eo eruditio et in maledicendo libertas admisto sale. Erat enim acri iudicio et ad irridendum contentiosus et audax, non infacetus, ita ut iocis urbanis [l’espunzione di faceciisque amenis potrebbe però addebitarsi ad errore tipografico] unumquemque carperet et ad vivum usque lacesseret.

Bastano questi pochi esempi per escludere che P, o una copia da esso tratta, possa essere stato mandato in tipografia per la stampa di Ro, che presuppone pertanto un esemplare certo molto vicino a Px, con

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Px intendendo il testo d’ultimo livello di P, ma rispetto a questo ulteriormente progredito. Il problema è un altro: chi ha trascritto P, e chi è intervenuto sui suoi margini e nelle interlinee ad aggiungere, correggere e chiosare? Le mani sono almeno due: una, la più ricorrente e come pare, per quanto spesso più corsiva, uguale a quella che ha vergato il testo, l’altra del tutto diversa. La prima corregge e arricchisce il testo con integrazioni a margine anche considerevoli, la seconda si limita ad alcune chiose, come ad esempio a c. 1v in corrispondenza del passo in cui, nel cap. III 1, su sollecitazione di Ermolao Barbaro si avvia la discussione sul concetto di ‘identità’ in senso giuridico e in senso filosofico partendo dall’esempio della nave di Teseo che, come era stato tramandato, era stata a lungo conservata ad Atene anche se sottoposta a continui restauri. Da filosofo, Barbaro nega che quella nave in gran parte rifatta con nuovo materiale potesse dirsi la stessa dell’originale; a margine l’altra mano chiosa con un rinvio a Virgilio: «Eadem navis, si philosophos iureque consultos missos faciamus, oratorum usu dici etiam potest similis ac talis, ut illud est virgilianum in Georgicis: “Non eadem arboribus pendet vindimia nostris, / quam methymneo carpit de palmite Lesbos” [II 89-90]». Più interessante l’annotazione della stessa mano al margine superiore pure di c. 1v in riferimento alla cena in casa del Barbaro – nel corso della quale si era sviluppata la discussione di cui sopra –, che d’Alessandro aveva presentato in questi termini: «excepit nos ille cenula admodum lauta et frugi, non prodigis epulis sed parco, brevi et parabili cibo, et ut tenui convictu ita summa voluptate comitateque mutuos ipse sermones mistos convivalibus iocis in longum protrahebat». A riguardo l’anonimo ammonisce: «vide ne hoc accedat ad exprobationem aut paupertatis, cum fuerit Herm. patriarcha titulo tenus, aut avaritie»; aggiungendo al margine sinistro: «Idem feci in principio 2i libri de Accio». Qualcuno, dunque, sembra suggerire all’autore l’opportunità di ripensare a quanto da lui scritto sulla frugalità della cena offerta dal Barbaro, perché le sue parole non suonino come un’accusa di povertà o di avarizia nei confronti di chi era stato, almeno sulla carta, patriarca di Aquileia, rammentandogli di avergli dato lo stesso avvertimento all’inizio del libro II, dove infatti nel cap. I si parla di un’altra cena, quella a casa del Sannazaro, altrettanto frugale (affermazione questa che purtroppo non è possibile verificare dal momento che in P

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sono cadute, tra le altre, tutte le carte relative al l. II). Se ne dovrebbe dedurre che il d’Alessandro abbia dato P in lettura a qualche suo dotto amico, il quale lo avrebbe postillato qua e là, come i margini del manoscritto testimoniano, suggerendo correzioni di vario genere (in particolare ortografiche), aggiunte, fonti; di tutto ciò l’umanista avrebbe tenuto conto solo in parte, ora accettando ora invece rifiutando il suggerimento. Accoglie infatti l’integrazione proposta al margine di c. 6v («Priscillae Abascantii cadaver id fuisse coniectari licet ex silva Papinii [V 1]»), dove alla fine del cap. III 2 Gentium diversarum mores in condendisque humandisque corporibus defunctorum aveva raccontato del ritrovamento del corpo intatto di una fanciulla in un sepolcro lungo la via Appia e riferito dell’ipotesi di identificazione fatta da Pomponio Leto con la figlia di Cicerone Tulliola («Pomponius tamen vir, ut in ea aetate veterum litterarum impense doctus, Tulliolam M. Tullii Ciceronis filiam, de cuius obitu ad Servium Sulpicium sunt epistulae, fuisse augurabatur. Id quibus argumentis asseveraret, cum nulla inscriptionis vestigia extarent, prorsus nescimus»)7. Cassa invece con tre decisi tratti di penna l’altra integrazione – che difatti manca nel testo di Ro – suggerita dall’anonimo, ancora nel cap. III 2, al margine di c. 4r, con segno di rimando dopo «Albanis pecuniam cum mortuis sepelire in loculis mos erat»: «Gallos proditum est pecunias mutuas, quae apud inferos redderentur, dare; itaque cum mortuis cremant ac defodiunt apta viventibus olim. Authores, Val. Max. l.o 2o et Pomponius Mela». Ma ritornando alla prima mano ricorrente sulle carte del codice parigino, inequivocabilmente la stessa che ha trascritto il testo, e che interviene ad emendarlo nelle interlinee e sui margini con un procedimento a volte complesso e stratificato, nel senso che la correzione è il risultato di approssimazioni e di ripensamenti successivi, e dunque non può essere la registrazione puntuale di chi ha collazionato P, dopo averlo copiato, con un originale più progredito, ma piuttosto la testimonianza diretta di un intervento d’autore sofferto, la mia conclusione è che P sia quanto sopravvissuto di un autografo provvisorio dei Dies Il testo finale di Ro recita: «Pomponius tamen vir, ut in ea aetate veterum litterarum impense doctus, Tulliolam M. Tullii Ciceronis filiam, de cuius obitu ad Servium Sulpicium sunt epistulae, aut Priscillam Abascantii, de qua sylva Papinii extat, fuisse augurabatur. Id quibus argumentis asseveraret, cum nulla inscriptionis vestigia extarent, prorsus nescimus». 7

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geniales, su cui il d’Alessandro lavorò a più riprese (cambia infatti l’inchiostro degli interventi e il loro ductus, ora più veloce e corsivo, ora più posato e calligrafico) modificando il testo d’impianto con correzioni e integrazioni anche di una certa consistenza dopo – è da supporre – che aveva sottoposto la sua enciclopedia antiquaria alle ‘censure’ di un qualche ‘esperto’ napoletano o romano. La mia è solo un’ipotesi, per quanto molto plausibile, che mi riservo di approfondire e verificare in un’altra sede dopo aver completato la collazione dell’intero codice e dopo aver proceduto alla sua disamina autoptica, al momento avendolo potuto esaminare solo in riproduzione fotografica; purtroppo non ci può essere d’aiuto, sul piano paleografico, l’unico specimen noto della scrittura del d’Alessandro, la bozza di testamento da lui stesa poche ore prima di morire in una grafia malferma e sgranata, ad occhio per nulla comparabile con quella di P, se questa fosse sua. Va tuttavia ribadito che il manoscritto parigino, autografo o no che sia, testimonia a tratti un testo ancora provvisorio che deve essere stato perfezionato altrove8, su un altro esemplare perduto, quello verosimilmente mandato in tipografia nel 1522. Per quanto riguarda i capitoli qui antologizzati, il nostro testo riproduce quello della princeps romana, collazionata dove possibile con P (capitoli III 1, V 14) e con i due opuscoletti de rebus admirandis stampati dal Calvo (capitoli I 11, II 9, II 21, III 8, IV 19, VI 21): collazione 8 Un esempio. A V 14, 2 il testo di P a c. 49v recita: «Bonum ius partis eludi atque obteri dicebat, quin etiam multos se vidisse asserebat, qui illum cum quo lis est, quem ipse amplectitur et fovet, quo pacto adversarii telis se opponat et obviam eat instruere non verentur, cum quid in re quaque consilii capiendum sit alteri parti enuncient, ita ut ille instructior et paratior factus bonum alterius ius evertat et convincat, cum alterius neque voces animis nec querelas auribus admictant». Se Px si limita ad espungere et obviam eat, il testo di Ro puntualizza: «Bonum ius partis eludi atque obteri dicebat, quin etiam multos vidisse asserebat, qui illum cum quo lis est, cui plus nimio favet, quo pacto adversarii telis se opponat instruere non verentur, cum quid in re quaque consilii capiendum sit alteri parti enuntient, ita ut ille paratior factus bonum alterius ius evertat et convincat, cum alterius neque voces animis neque querelas auribus admittant». Mi è sembrato opportuno correggere favet di Ro in favent in dipendenza di un soggetto plurale, ma non escludo che possa essere un errore d’autore condizionato dal favet del testo d’impianto di P.

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che non ha evidenziato varianti di rilievo, ma tuttavia si è rivelata utile a smascherare alcuni refusi fra i tanti che si annidano nella stampa (ad es., Pompeium di III 1, 3 per il corretto Pomponium di P), solo in piccolissima parte corretti negli Errores al fondo del volume del Mazzocchi (come I 16, 2 Octaviae in et Octaviae sicut Leucadiam; IV 8, 1 imperi in imperio, IV 8, 8 bissidio in dissidio; IV 8, 11 quod in qui; VI 7, 1 additus in adictus [per addictus]; VI 7, 3 inundarent in invaderent; VI 21, 3 egeret in ageret). Tuttavia accanto ai numerosi ed evidenti refusi che deturpano Ro vi sono nel testo dei Dies altri errori che non esiterei in gran parte ad attribuire all’autore, che scrive un latino sin dall’ortografia molto approssimativo, come ci testimonia anche P, dove, accanto a grafie aberranti rispetto all’uso classico ma tutte riscontrabili nell’uso umanistico, capita ad esempio di imbattersi per ben cinque volte, alle cc. 1v-3r, nella forma cooptata per coaptata. Il d’Alessandro aveva imparato la lingua latina alla scuola del classicismo della seconda metà del Quattrocento, ma i suoi studi giuridici e la pratica forense lo avevano per anni costretto a frequentare una letteratura in cui grammatica, sintassi e lessico soffrivano degli esiti dell’evoluzione medievale della lingua latina. Il risultato è l’uso costante, per non dire l’abuso, di subordinate rette dal cum o dal quod, infiniti di infinitive che perdono il contatto con il verbo da cui dovrebbero dipendere per trasformarsi in infiniti narrativi (vd. i capitoli II 9 e IV 19), soggetti che si smarriscono per strada o cambiano di genere e numero, periodi interminabili, dove il verbo principale non è sempre ben identificabile o soccombe in una periodizzazione elicoidale molto faticosa, costruita a grappolo, in cui saltano tutte le regole della consecutio; la predilezione per un ornatus che indulge all’accumulazione e alla ripetizione, in un’orgia di parole stucchevoli e abusate che rimbalzano da un capitolo all’altro appesantendo l’ordito linguistico, specie in quei luoghi critici che sono gli inizi dei capitoli, dove il d’Alessandro delinea il profilo umano e culturale dei personaggi di volta in volta da lui coinvolti nelle varie discussioni e dissertazioni, vale a dire alcuni tra i più grandi protagonisti dell’Umanesimo di secondo Quattrocento; e quindi il ricorso a un lessico che non di rado si discosta dall’uso classico assumendo forme grafiche antiquate e bizzarre e significati invalsi nel latino parlato, qual era ancora nel XV secolo la lingua latina, o piuttosto nel linguaggio giuridico che l’autore frequentava quotidianamente.

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Si aggiunga, a peggiorare lo stato di disarticolazione e oscurità della prosa dei Dies, la presenza in essa di dialoghi ora registrati in forma diretta, ora riportati in terza persona, quasi sempre senza segnare uno stacco, e delle tante citazioni dagli auctores, che si innestano nel tessuto della frase senza soluzione di continuità determinando ulteriori scompensi, il più delle volte peraltro irriconoscibili essendo quasi tutte implicite, oltre che spesso di seconda mano e, come succede per quelle greche, mutuate non di rado da traduzioni latine. Si sono potute recuperare in alcuni casi solo grazie ad un’intuizione ovvero per l’appunto ad una difficoltà di senso, che in un virtuoso cortocircuito la scoperta della fonte o dell’eco classica ha consentito di risolvere. In conseguenza di ciò, ho limitato al minimo indispensabile gli interventi sul testo, correggendo quelli che dovrebbero essere tutti – ma non ne sono sempre certo, specie quando c’è da sospettare una grafia anomala – refusi di Ro (e infatti alcuni sono assenti nei due opuscoletti stampati dal Calvo), in parte come tali già sanati nelle stampe successive: I 9 tit. fuit / fui; I 21, 2 repertis / reperti, scientissime / scientissimo; I 23, 2 epistolae / epistola, ominum / omnium; I 23, 3 percelluere / praecelluere; II 1, 1 protrita / praetrita; II 1, 3 Chacide / Chalcide; II 9 tit. didicit … fuit / didici … fui; II 21, 1 clari / clarae; II 21, 2 Choromo / C[h]oronea; III 1, 3 Pompeium / Pomponium; III 8, 1 Tritonem / Tritones, in pisce / in piscem; III 8, 2 egregiae / egregie; III 8, 3 fonte / ponte, diutile / diutule; IV 8 tit. commodam / commoda; IV 8, 1 venuste / venusta; IV 8, 2 participam / participem; IV 8, 3 celebi / caelibi; IV 8, 7 defunctorum / defunctarum; IV 8, 12 aversari / adversari; V 14, 2 obstrusus / obtusus; V 22, 2 addictis / adductis; VI 7, 1 effici / efficit; VI 7, 2 delicta / delictaque, duxerat / dixerat; VI 21, 2 additus / addictus. Ho conservato invece, attribuendole all’autore, tutte quelle lezioni di Ro – alcune del resto attestate anche da P o dalle due stampe del Calvo, testimoni che non sono legati alla princeps da rapporti diretti di ascendenza o discendenza – che la norma classica o semplicemente la logica vorrebbe come erronee, ma che potrebbero trovare una qualche giustificazione nell’approssimazione e provvisorietà dell’involuta scrittura del d’Alessandro (all’opera è sicuramente mancata un’attenta revisione né credo che ce ne sia stata una in occasione della stampa, a molti anni dalla composizione, se davvero poi la princeps del Mazzocchi fu autorizzata e seguita dall’autore), come ad es. il qui di V 22, 1 tràdi-

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to anche dalla stampa del Calvo («Nicolaus Tuba … qui, cum rei explorandae gratia cum nonnullis doctis iuvenibus prima face ad nos adventassent, cupido incessit animo haec, quae a me promebantur, vero testimonio experiri et an vera essent intueri»), un soggetto logico che smarrisce il nesso con il suo verbo per l’insinuarsi di un altro soggetto imposto dall’adozione del costrutto cupido incessit animo. Una svista d’autore, allora, che si potrebbe sanare sostituendo qui con cui; nel passo del resto bisognerebbe correggere anche adventassent in adventasset, se escludiamo un accordo a senso in presenza del complemento di compagnia cum nonnullis doctis iuvenibus. In altri casi ho preferito tuttavia correggere, sospettando piuttosto degli ulteriori refusi di Ro (in caso contrario avremmo la conferma di quanto appena detto circa lo stato di alterazione delle più elementari regole della sintassi che sconvolge per distrazione o fretta il latino dei Dies): II 1, 3 Thesprotis / Thesprotiis; III 8, 3 vidissent / vidisse; III 8, 12 vir / viri; V 14, 2 favet / favent; V 22, 1 inquietetur / inquietaretur (così anche nel Calvo); VI 7, 2 delicta / delictaque; VI 21, 3 effectus est / effectus esset. Allo stesso modo sono intervenuto a ritoccare secondo l’uso classico l’ortografia, operazione necessaria in particolare nei casi in cui la forma attestata dalla stampa e/o dal manoscritto avrebbe potuto generare confusione o far sospettare l’errore. Ho infine normalizzato l’uso delle maiuscole e provveduto a interpungere il testo in modo da dargli respiro e restituirgli un’apparenza di ordine. Motivo questo per cui ho ritenuto opportuno suddividere in paragrafi i capitoli, che non presentano invece alcuna interruzione o scansione né nel codice parigino né nella princeps. Questa stessa problematica ha indotto Claudia Corfiati a propendere per una versione ad sensum dei capitoli qui antologizzati – come quelle che piacevano agli umanisti, si sarebbe tentati di dire –, al fine di consentire al lettore moderno una più agevole fruizione dell’opera del d’Alessandro, senza però celargli le difficoltà e le oscurità della sua scrittura: si è cercato insomma di renderla al meglio nonostante tutta la sua faticosa farragine. Per quanto riguarda le citazioni dirette dei testi latini e le parole greche ricorrenti nei capitoli, di cui si è dato conto nelle note al testo latino, entrambe sono state riprodotte tal quali anche nella traduzione italiana provvedendo, ma solo dove necessario, a offrirne una traduzione nelle note a piè pagina.

INDICE DEI CAPITA DEI GENIALES DIES

Liber I

1. Locus ex Tranquillo de testamento Caesaris in natali Ioviani Pontani invicem discussus. 2. Qui reges vel principes apud varias gentes cognomenta ex suo nomine posteris reliquerint. 3. Quae potestas quantumque ius adversus reliquos magistratus tribunis plebis Romae fuerit. 4. Quid verbum ‘sino’ cum negandi adverbio apud iureconsultos designavit, et quam vim habeat in edictis. 5. Ex quot militibus decuria, centuria, manipulus, vexillum, turma, cohors et regio a Romanis scribi consueverint. 6. Ex quibus causis dictator apud Romanos olim et quare fieri consuevit. 7. Locus ex Terentii Phormione elucidatus, et vetus senatusconsultum a Graecis ad Romanos deductum. 8. ‘Spero te amaturum fore’ vel ‘amandum fore’ veterum auctoritatibus latine dici licere contra opinionem quorundam grammaticorum. 9. Pleraque veterum Romanorum cognomenta quibus de causis indita et denominata fuerint. 10. Quare partus ancillae, cuius fructus legatus fuit, in fructu non sit, cum reliquorum animalium contra fuerit.

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INDICE DEI CAPITA

11. Miracula de somniis apud nonnullos cognita et comperta, et quae ipse expertus fui. 12. Quae forma castrorum qualisque disciplina olim fuit, et quot portae in romanis castris esse consuevere. 13. Quot cognominibus Fortuna dea apud Romanos cognominata et quibus templis donata fuit. 14. Quoties opima spolia, caesis hostium ducibus, Romae relata fuerint, et quoties Iani templum clausum sit. 15. Verbum liberorum et parentum in edictis praetorum quos comprehendat, et an ad omnes in infinitum extendatur. 16. Quae et quot curiae Romae fuerunt, et verbum curia sine adiectione nominis quam curiam designavit. 17. Quae fuerint romanorum tribuum nomina et unde dictae denominataeque sint, et quae apud exteros celebrentur. 18. Historia de Scipione Asiatico et morte Aemiliani Scipionis quae incerto auctore sit. 19. Quanta et quam varia iurisconsultorum opinio fuerit de supellectili, et quae supellectilis nomine comprehendantur. 20. In qua aetate milites a Romanis legi consuevere, et quae fuit disciplina militaris quodve iusiurandum. 21. Dissentio inter duos ludi professores super verbo invenio et reperio contra observationes grammatici cuiuspiam. 22. Ex quibus victoriis olim consules, deinde sequuti duces triumphare consueverint. 23. Disceptatio Francisci Philelphi cum grammatico an Cicero aliquando ludum aperuerit. 24. In quo gradu cognationis apud plerasque gentes matrimonia licuerint, et quam diversi mores in contrahendis nuptiis fuerint. 25. Quid sit artemon apud iureconsultos, et quod dicatur plumbum in ripa positum, de quo ambigitur apud multos. 26. Quod esset collegium Fratrum Arvalium Romae institutum, quive Salii sacerdotes et quot societatum genera fuerunt. 27. Quot lictores apparitoresque habebat dictator, quot consules aut praetores quaestoresve, quive secures habebant et qui non. 28. Quod regium diadema tam apud Romanos quam apud exteras nationes gentesque fuerit, et quae insignia. 29. Quae fuerint auspicia, quae e pullis emissis e cavea captarentur, et quae secundos eventus quaeve infortunia afferunt.

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30. Pythagoras, Parmenides et Zeno philosophi, tum Ennius et Naevius poetae unde originem duxere. Liber II

1. Locus ex Propertio ab Actio Sincero neapolitano in convivio familiari commode emendatus. 2. Qui quaestores Romae quotque fuerint, qualisque potestas et munus erat aut iurisdictio. 3. Quid responderit super controverso iure testamenti, in quo fundus seu aedes filiae legatae fuerant. 4. Quae deorum aedes extra urbis pomerium sitae fuerint, et ex his quae in urbem postea receptae. 5. Quae solemnes caerimoniae more romano in sponsalibus olim et nuptiis esse consuevere et quae apud exteros. 6. Immane exemplum Tulliae supra corpus patris ambulantis et filii Eucratidis idem facinus admittentis. 7. Tria errata interpretis Epistolarum familiarium Ciceronis commode explanantur. 8. Quot Romae pontifices quodve officium, et quae fuerint insignia quibusque legibus maximus pontifex astrictus erat, et quid apud exteros. 9. Mira exempla a compluribus experta de umbrarum figuris et falsis imaginibus, et quae ipse didici atque expertus fui. 10. Quae sint pedamenta apud iureconsultos cuiusve generis, et quid buprestis et pityocampa. 11. Qui romani duces ex oppidis et provinciis vi subactis cognomenta desumpsere, et de Scipionum familia, et quid apud exteros. 12. Quid sit triplex forum, de quo in Martiale fit mentio, quaeve fora olim Romae fuerint quaeve apud exteros praecipua. 13. Quae multae militares maiores et quae minores militibus, et ob quae delicta inferri solebant. 14. Quae solemnia in Herculis sacro ad aram maximam servabantur et quae apud exteros, quaeve arae Herculis Romae fuerint. 15. Quo tempore primum praetores creari coepere, et quod ius quaeve illorum potestas fuerit.

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16. Locus ex Ciceronis oratione Pro Milone quando delicta non consummata, ac si perfecta fuissent, puniri debeant. 17. Quod Theophrastus sensit quibusdam viperarum morsibus tibicines mederi, probatum experimentum. 18. Qui vici, viae vel clivi praecipui Romae fuerint, et unde nomina originis sumpserint. 19. In quibus membris in homine insit religio quaedam, propter quam illa sancte coli debeant et servari. 20. Quibus finibus quaque mensura iter, actus aut via constent, et quid pes, cubitus, palmus, iugum, dipletrum stadiumve sit. 21. Miraculum de homine, qui plus in mari quam in terris degebat maximaque aequora velocissime tranabat. 22. In quibus deorum sacrificiis victimas aut hostias antiquo more caedere non licebat. 23. Nunquid, quod Lege Falcidia cautum est, de quarta bonorum haeredi debita possit voluntate testatoris comminui vel tolli? 24. Loci ex Iuvenale parum ab interpretis diligenter habiti contra nonnullorum opinione explanantur. 25. Variae apud diversas gentes puerorum institutiones, et infantibus romanis quae documenta fuerint. 26. An inter auguria sternutamenta sint et offensiones pedum, et quae illorum praedictio fuerit. 27. Quae potestas proconsulis foret quive erant proconsules, et an idem iuris quod consules haberent. 28. Licere uti accusativo casu nonnunquam in verbis localibus contra regulas grammaticorum. 29. Equester ordo quando primum coeptus fuit, quaeque ipsius ordinis potestas et officium atque insignia fuerint. 30. Quid sit charta opisthographa apud iureconsultos, de qua Ulpianus mentionem fecit, et quot chartarum genera fuerint. 31. Solere magnos successus ex infima fortuna et futuras calamitates plerunque signis praemonstrari. 32. Par exemplum Tarquinii Superbi et Thrasybuli Milesiorum tyranni ac Sexti Tarquinii et Zopyri Assyrii.

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Liber III

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1. Quid dicatur idem apud philosophos et quid idem a iureconsultis discussum cum Hermolao in convivio familiari. 2. Gentium diversarum mores in condendis humandisque corporibus defunctorum, et qui Romanorum usus fuerit. 3. Consularia comitia per quos fiebant, quaeve potestas consulis, quantumque ius et quae dignitas foret. 4. Quae sint sigillaria, verbum saepius repetitum apud Scaevolam iureconsultum tertio de legatis. 5. Quae delictorum poena maiorum criminum apud diversas gentes more et legibus fuerint constitutae, et quae minorum. 6. Locus ex Ciceronis oratione Pro Milone explanatur, et quae regiae quaeque atria Romae fuerint. 7. Quo apparatu quibusque caerimoniis apud veteres defuncta corpora igni tradebantur, qualisque pompa exequiarum foret. 8. Miraculum Tritonum et Nereidum, quae variis in locis tempestate nostra compertae fuere. 9. Qui xystici quive thymelici apud iureconsultos dicti sint, quodve officium et quid nomina designarint. 10. Locus ex Iuvenale de trulla quid designet ex auctoritate iurisconsultorum et aliorum testimonio explanatur. 11. Exempla frugalitatis priscorum, et quam parco victu contenti fuerint, et quando luxus primum urbem invaserit. 12. Quae sint purae et lectae hostiae in deorum sacrificiis, et quae victimae quibus diis dicatae fuerint. 13. Quae origo censorum quaeve potestas, et ex quam parvis initiis in quantum magnitudinis devenerit. 14. Quid sit apud iureconsultos cenaculariam exercere, quid catadromus, quid sphaeristerium et quid hypocausta. 15. Solere futuras calamitates multo ante signis praemonstrari, et miraculum quo vastitas Regni neapolitani praedicta fuit. 16. Qui duumviri, triumviri, quatrumviri, quinqueviri, septemviri, decemviri, quindecimviri et centumviri fuerint. 17. Quoties contra ambitum illorum qui appetunt magistratus pluribus legibus a Romanis obviam itum sit. 18. Idus cuiusque mensis apud veteres Romanorum maxime festas et feriatas fuisse, et quid apud exteros.

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19. Defensio Ulpiani definientis instratum quid esset, et quid differt pulsare a verberare contra grammaticum illum falso accusantem. 20. Quibus legibus romano civi data immunitas fuerit ne vapularet, et quae iura competant dominis in servos et patronis in libertos. 21. Qui ludi apud Romanos frequentes fuerint, qui apud exteros, quaeve sint nuces ocellatae apud Tranquillum. 22. Quae vota olim sollemnia fuere apud Romanos et quae exteris, quive vota concipere et quomodo soliti sint. 23. Consuevisse Romanos illorum bona quos maximis criminibus damnarant publicare, et quae porticus Romae insignes fuerint. 24. Quam multiplex annus apud diversas gentes fuerit, et qui annus Romanis quodve principium anni sit. 25. Qui topiarii apud iureconsultos dicti sint, et legato fundo instructo an veniant topiarii, et quae servorum species apud eosdem. 26. Trium summorum virorum somnia pares exitus habuisse, quive somnia qualia viderant vera fuisse experti sunt. 27. Qui rex sacrificulus olim apud Romanos foret, quodve illi nomen et quae sacra obiret. 28. Tusci unde duxerint originem, quaeve duodecim urbes fuerint, quarum concilio bella gerebantur. Liber IV

1. Locus ex Martiale cum Ioanne Veneto discussus, dum caloris incommoda sub umbra fraxini propulsarent. 2. Quae apud Romanos fuerint militaria signa, quae apud exteros, quove pacto educi consueverint, et quid tessera quidve vexillum sit. 3. Quae fuerint Romanis comitia centuriata, quae curiata, quae tributa et quae calata. 4. Quando primum aedilitas coeperit, et quot fuerint aediles et qui curules et qui plebei. 5. Iudicium ignavi iudicis super controverso iure perperam iudicantis haustum aquae per fundum alienum non deberi. 6. Quanta severitate a Romanis contra licentiam magistratuum et quoties occursum sit. 7. Qui ordo in disponendis aciebus et quae norma militiae apud Romanos olim servari fuerit, et quae apud exteros.

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8. An sapienti uxor ducenda sit, et quae ad propagandam sobolem indulta commoda a Romanis fuerint. 9. Ingens miraculum rerum quae in Germania et Britannia tam ex vitibus quam fluctu maris proveniunt. 10. Locus ex Iuvenale declaratur, et quotuplex apud veteres libertatis genus fuerit, qualiterque civitas amittebatur vel dabatur. 11. Qui fuerit modus consulendi senatus et ubi haberi, et quo pacto suffragia ferri solerent, et quid apud exteros. 12. Quae origo fuerit sacrorum Lupercalium et quomodo celebrari quandoque coli solerent, et quam variae deorum effigies fuerint. 13. Quae vitia ex loci natura aut caeli climate quibusdam gentibus innata sint, ut illa habeant propria et perpetua. 14. An sit idem deprecari quod recusare contra quorundam grammaticorum opinionem. 15. Triplex quaesitum super nonnullis verbis iurisconsultorum subobscuris, quis sit illorum significatus, quaeve pecunia olim fuerit. 16. Quae portae urbis Romae praecipue fuerint et unde nomina sumpserint, et ex quibus causis cognomenta. 17. Quo ritu quibusque caerimoniis hostia apud priscos diis immolabatur et quomodo fiebant sacra, et quid apud exteros. 18. Quae militibus operam in bello navantibus militaria dona ab imperatoribus olim dari solita fuerint. 19. Delusiones daemonum malorum a multis expertas fuisse, qui diversis imaginibus homines delusere. 20. Quando dies tam apud Romanos quam exteras gentes incipiat, et qui dies atri quive fausti sint. 21. Locus ex Martiale in distichis elucidatus, in quo plerique interpretes grammatici lapsi sunt. 22. Exempla legis Iuliae et Papiae, quibus quae lege Iulia indulta erant, lege Papia fuere prohibita. 23. Quod ius quaeve potestas dictatoris Romae et exteris fuerit, et a quibus dici et quanto tempore debuerit. 24. Quid mina, quid drachma, quid assis, denarius, sextertium et talentum apud gentes diversas valuerit. 25. Quae theatra Romae fuerint et qui circi, quorumque extent vestigia et quae penitus conciderint. 26. Qui fuerit medius unguis et infamis digitus, quibusque digitis quae fuerit qualitates et nomina.

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Liber V1

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1. Locus ex Martiale apud Gabrielem Altilium in convivio familiari invicem discussus. 2. Quot plebis tribuni a primordio urbis fuerint, quaeve potestas et qui consulari potestate et qui tribuni aerarii. 3. Quonam modo per fetiales inirentur foedera aut bella indicerentur, et quid ab exteris servatum sit. 4. Pleraque veterum praenomina unde deducta fuerint et denominata, et de Nonis Caprotinis quae tradantur. 5. Quid sit apud iureconsultos heliocaminus, quid zeta et unde deductum nomen et denominatum. 6. Quando primum interregnum coeptum fuerit, et quibus de causis interreges Romae creari consueverint. 7. Sacrificium Latinarum quomodo in Albano fiebat, et quae erant feriae quive populi ad sacrum convenirent. 8. Qui ludi Olympici, qui Pythii, qui Isthmii et qui Nemei olim apud Graecos, et qui circenses Romae fuerint. 9. Mira exempla, quae in montibus et lapidibus hodie visuntur, unde originem et causas duxerint. 10. Quam varium et multiplex iusiurandum apud diversas gentes fuerit, et per quod deos iurare consueverint. 11. Quid sit exedra, quid maenianum, de quibus apud iureconsultos mentio frequens, et quid embamma. 12. Quot virgines vestales quaeve illarum disciplina et institutio fuerint, quave afficiatur poena incesti damnata. 13. Ex quibus veteres captare auspicia solerent, et auspicorum quae prospera quaeve piacularia sint. 14. Quid senserit Hieronymus Porcarius de iniquo iudice, quibusque modis litigantes frustretur et deludat. 15. Quae in sermonibus quotidianis vulgata proverbia apud Romanos in usu fuerint, et quae apud exteros frequentia. 16. Qui primus legem theatralem Romae tulerit, et quot leges plebem ab optimatibus postea distinxerint. In questo libro, sia nel testo che nell’indice, nella princeps del Mazzocchi risultano 28 capitoli in quanto v’è un salto nella loro numerazione da 21 a 23. 1

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17. Quid apud Scaevolam iureconsultum sit hierosiarcha et quid sit calix diatretus. 18. In quo discretus ordo plebeius a patritio fuerit et in quo patritius a senatorio, quodve discrimen in vestibus apud diversas gentes. 19. Qui numerus augurum quaeve potestas aut ius fuerit, et quomodo auguria captarentur. 20. Qui essent equi funales in Tranquillo contra nonnullorum interpretationem probabilis opinio. 21. Qui fuerit apud veteres cenandi usus quaeve hora prandi et cenae, quotque singulis lectis cenitabant, et quid apud exteros. 22. Quae ipse dictu admirabilia de umbrarum figuris noctibus fere singulis Romae expertus fui. 23. Qui cultus domorum quondam fuerit, et quare maiorum imagines in postibus et arma in atriis et vestibulis haberent, et quid de exteris. 24. In extis inspiciendis quae prospera quaeve dira sint, et quae boni quaeve mali praenuntia. 25. Consualia, Equiria et ludi Apollinares quando a Romanis fierent, quove modo Diti sacra fiant et quo tempore. 26. Quae sacra expiationis causa a Romanis servabantur et quibus ex causis fierent, quaeve apud exteros. 27. Quae affinitas cum Sex. Tarquinio Superbi filio et quae Collatino cum Bruto et Lucretiae cum utroque fuerit. Libro VI

1. Locus ex tertio Ciceronis De officiis quid venditor emptori praestare teneatur cum Sigismundo in suburbano discussus. 2. Quae maxima fuerint oracula, quaeve templa celebria apud plerasque gentes in magna religione et cultu. 3. Qui fuerint legati consulum vel praetorum, quaeve iurisdictio aut illorum potestas sit. 4. Qui magni dii, qui communes aut indigetes dicti, quaeve deorum cognomenta et Iunonis Romae templa fuerint. 5. Ex quibus oppidis quibusque regionibus aut terrarum oris ingenio clari et praecipua doctrina viri plures evasere.

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6. Quo apparatu et qua pompa quantoque omnium studio olim Romani triumphos agerent, quis ordo servari et quae in triumpho ferri consuerant. 7. Responsum Raphaeli Volaterrano quare legum et causarum studio intermisso in his mitioribus studiis oblectaremur. 8. Quae sit bona dea et quae a veteribus illi sacra fierent, quidve Rubigalia, Floralia et Vinalia forent. 9. Tantum et quantum comparativo nonnunquam coniungi, aedemque pro domo saepe apud auctores inveniri. 10. Quae Lege XII Tabularum utiliter et commode, quaeve parum consulte et nimis severe scripta videbantur. 11. Sacrum Septimontium in quibus locis urbis fieret, quive septem colles urbis sint, quaeve in illis praecipuae dignationis loca forent. 12. Qui flamines primi Romae fuerint, quodve flaminis officium, quibusve essent caerimoniis addicti. 13. In quot cohortes, manipulos, centurias decuriasque phalanx dividatur et quae illius descriptio fuerit. 14. Res sacrae, religiosae et sanctae quae censentur apud veteres, quibusque sacrum aut sanctum facere licuit. 15. Locus Ciceronis ex Catone Maiore de Lege Voconia quae esset, et quae Furia et Falcidia explanatur. 16. Quid responderim Hieronymo Massaino cur in eodem forem statu semper, cum ad honores admitterentur alii. 17. Quibus ex causis ovare ducibus licebat et in quibus ovatio differt a triumpho. 18. Qui erant tribuni militum in romanis castris, quaeve potestas et officium foret aut iurisdictio. 19. Qui ludi scaenici, qui megalenses, qui taurii, compitalicii, iuvenales et honorarii fuerint. 20. Qui esset urbis praefectus, quodve officium quarumque rerum cognitionem animadversionemque haberet. 21. Miraculum de homine qui extrusus e carcere rursusque in eo intrusus inferna se loca vidisse enarravit. 22. Quot militum ordines cuiusve generis milites in romana militia olim militare consuerant, et qui apud exteros. 23. Quid sit lex, quid plebiscitum senatusve consultum, quid praetorum edicta vel responsa prudentum.

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24. Qui primi de plebe ad dictaturam, consulatum et praeturam aliosque magistratus evecti fuerint, et de ephoris quae tradantur. 25. Quas acies quosve exercitus, qui duces parva manu profligarint, quaeve flumina Xerxis exercitus potarit. 26. Quid variae gentes de diis senserint, et quam impia et detestanda sacra apud exteras gentes fuerint.

GENIALES DIES Giorni di festa

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Caput I Locus ex Tranquillo de testamento Caesaris in natali Ioviani Pontani invicem discussus.

1. Accersebat plerumque nos in hortos amoenissimos, ubi aediculas habebat, Iovianus Pontanus1, in nostra Parthenope vir memoria quidem nostra omnibus bonis artibus atque omni doctrina praeditus, cui praeter ingenii mansuetudinem, quae plurima in homine fuit, munditia verborum et compositus ille sermo ad omnem ingenuitatem plurimum accessionis faciebant. Illoque conveniebamus complusculi, qui-

Giovanni Pontano (1429-1503), a lungo a capo dell’Accademia napoletana, fu punto di riferimento per molti intellettuali a partire dagli anni Settanta del secolo XV. Segretario di re Ferrante dal 1486, con la caduta del Regno aragonese abbandonò definitivamente la vita politica dedicandosi nuovamente e con maggiore passione agli studi letterari e alla revisione e pubblicazione delle sue opere. Su di lui rimandiamo in generale ai numerosi contributi di Francesco Tateo (ci limitiamo a segnalare: Astrologia e moralità in Giovanni Pontano, Bari, Adriatica, 1960; IOANNIS IOVIANI PONTANI De magnanimitate, edizione critica a cura di F. TATEO, Firenze, Istituto Nazionale di studi sul Rinascimento, 1969; Umanesimo etico di Giovanni Pontano, cit.; GIOVANNI PONTANO, I libri delle virtù sociali, a cura di F. TATEO, Roma, Bulzoni, 1999; Lorenzo, Poliziano, Sannazaro, nonché Poggio e Pontano, cit., pp. 393-708; 1

LIBRO PRIMO

Capitolo I Un luogo di Svetonio sul testamento di Cesare discusso tra noi il giorno del compleanno di Gioviano Pontano.

1. Ci invitava spesso nel suo bellissimo giardino, dove aveva una villetta, Giovanni Pontano, uomo nella nostra Napoli, a mia memoria, di grande cultura e dottrina in ogni arte, il quale, oltre ad avere un carattere veramente mite, si rendeva ancor più affabile con quel suo modo di conversare elegante e sempre atteggiato a schiettezza. Da lui ci incontravamo in molti, tutti ugualmente interessati alle arti e alle disci-

GIOVANNI PONTANO, Sertorius overo La Spagna in rivolta, introd. e volgarizzamento di F. TATEO, Bari, Palomar, 2012; GIOVANNI PONTANO, La fortuna, a cura di F. TATEO, Napoli, La scuola di Pitagora, 2012; ID., Aegidius. Dialogo, a cura di F. TATEO, Roma, Roma nel Rinascimento, 2013; ID., Asinus. Dialogo dell’ingratitudine, Roma, Roma nel Rinascimento, 2014) e di Salvatore Monti e di Liliana Monti Sabia (oggi raccolti in L. MONTI SABIA-S. MONTI, Studi su Giovanni Pontano, a cura di G. GERMANO, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2010).

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bus bonarum artium studia eaedemque disciplinae atque non absimilis discendi facultas erat. Detinebat demulcebatque nos vir ille fandi dulcissimus egregia quadam et illustri oratione sermoneque perquam lepido et venusto totos plerumque dies, tanta in eo comitas tantusque lepos erat. Forte autem, cum natalis sui diem annuum decembrio mense, ut solebat, cum amicis celebrare vult2, evenit ut et nos una cum reliquis mihi coniunctissimis, primis ab eo tenebris acciti, apud eum conveniremus. Quo cum venimus, benigne quidem et comiter accepti, ad focum consedimus festivissimisque colloquiis noctis particulam cum mira suavitate traduximus, cum interim Iovianum florenti quadam facundia et sermone quam castissimo de litterarum disciplinis disserentem animo serio et aure attenta exciperemus. 2. Quo sermone desito, cum iam mensas et cenam instrui iuberet ceterisque nimis tempestivum cenandi tempus esse videretur, «quin ergo» inquit, «optimi iuvenes, dum cena apparatur dumque obsonia esui matura fiunt, aliquid per hoc otium legimus?». Iussitque mox afferri sibi Suetonii Tranquilli Caesarum vitas3. Aderat inibi adolescens tunc quispiam laetae indolis atque a literarum cultu non abhorrentis. Huic demandat ut Divi Iulii vitam, donec maturum cenandi tempus foret, nec turbide nec ambigue legat. Accipit ille cupidus et libens Il Pontano era nato in realtà il 7 maggio (vd. S. MONTI, Il problema dell’anno di nascita di Giovanni Pontano, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», n. s., XII, 1963, pp. 225-252, ora in Studi su Giovanni Pontano, cit., pp. 33-72); dal passo del d’Alessandro sembra invece che il grande umanista avesse l’abitudine di festeggiare il compleanno in dicembre. Tateo ipotizza a questo riguardo, in considerazione anche del fatto che ai vv. 135-139 del libro terzo dell’Urania, definendo l’oroscopo dei nati sotto il segno del Capricorno, quando questo entra nella sua fase ascendente, Pontano prende a parlare in prima persona, «che il Capricorno e la data dei festeggiamenti per il proprio compleanno fossero una scelta in funzione di un oroscopo più conveniente», per «lasciare un’immagine più genuina della sua figura umana e del suo tempo»: F. TATEO, Sul ritratto autobiografico, in Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato nella cultura umanistica. Convegno di studi, Firenze, 26-27 marzo 1998, a cura di G. LAZZI-P. VITI, Firenze, Edizioni Polistampa, 2000, pp. 123-134:133134 e ID., Motivi autobiografici nell’opera di Giovanni Pontano (il suo oroscopo), in Studi per Alberto Granese, a cura di R. GIULIO, Napoli, Guida, 2014, pp. 1003-1013, cds. 3 Pontano aveva sicuramente presso di sé – ne sono testimonianza alcune 2

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pline letterarie, e non diversamente disposti ad imparare. Quasi tutti i giorni quell’uomo così amabile nel parlare ci catturava e ci ammaliava con un dire straordinariamente brillante e con un eloquio quanto mai arguto e piacevole: tanta in lui era l’affabilità, tanta la piacevolezza. Una volta poi che, nel mese di dicembre, come era solito, festeggiava con gli amici il giorno del suo compleanno, capitò anche a me di andare a casa sua insieme con altri a me molto legati, da lui invitati per il tardo pomeriggio. Una volta arrivati, fummo accolti in maniera molto amichevole e cordiale e ci sedemmo accanto al fuoco trascorrendo una parte della serata molto piacevolmente parlando di frivolezze, finché non ci mettemmo ad ascoltare seri e attenti Gioviano che con una facondia veramente fiorita e un parlare impeccabile discuteva di questioni letterarie. 2. Finito di parlare, ordinò di apparecchiare la tavola per la cena, ma poiché agli altri sembrava che fosse troppo presto per mangiare disse: «Perché allora, miei ottimi giovani, mentre si prepara la cena e il cibo si cuoce, non leggiamo nel frattempo qualcosa?». E ordinò di portargli subito Le vite dei Cesari di Svetonio. Era lì presente un tale, allora giovanetto di brillante ingegno che non disdegnava lo studio delle lettere. A lui chiese di leggere lentamente e in maniera comprensibile La vita di Giulio Cesare, finché non arrivasse il momento di cenare.

postille autografe – un codice contenente il De grammaticis et rhetoribus di Svetonio; non si ha traccia tuttavia per il momento di un volume delle Vitae Caesarum. Sulla sua biblioteca si vedano i due recenti contributi di M. DE NICHILO, Per la biblioteca del Pontano, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento, a cura di C. CORFIATI e M. DE NICHILO, Lecce, Pensa, 2009, pp. 151-169, e M. RINALDI, Per un nuovo inventario della biblioteca di Giovanni Pontano, in «Studi medievali e umanisici», V-VI, 2007-2008, pp. 163-197.

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atque diserte admodum legere incipit, cum nos interea ea lectione demulcti legentis verba et compositam illam dicendi brevitatem summa cum attentione captaremus; cumque ad calcem lectionis ventum foret, ancipiti sententia et operta verborum significatione de testamento Caesaris in haec verba ipsum loquutum offendimus:

Sed novissimo testamento tres instituit heredes sororum nepotes, C. Octavium ex dodrante, L. Pinarium et Q. Pedium ex quadrante, reliquos in ima cera; C. Octavium etiam in familiam nomenque adoptavit, plerosque percussorum tutoribus filii, si quis sibi nasceretur, nominavit, D. Brutum etiam in secundis heredibus. Populo hortos circa Tiberim publice et viritim trecenos sestertios legavit4.

3. Quibus perlectis, puerum subsistere Iovianus iubet, et ad Dentatum5 conversus, iuvenem qui, ut mihi videbatur, in cognoscendis rebus lectione multa exercitus erat, «Quid tu» inquit, «Dentate, sentis de hoc quadrante et dodrante, in quibus hos heredes scriptos auctor hic memorat?». Cumque ille hereditatis quotam esse partem asseveraSUET. Iul. 83, 2: «Sed novissimo testamento tres instituit heredes sororum nepotes, Gaium Octavium ex dodrante et Lucium Pinarium et Quintum Pedium ex quadrante reliquo; in ima cera Gaium Octavium etiam in familiam nomenque adoptavit, plerosque percussorum tutoribus fili, si qui sibi nasceretur, nominavit, Decium Brutum etiam in secundis heredibus. Populo hortos circa Tiberim publice et viritim trecenos sestertios legavit [Ma nell’ultimo testamento indicò tre eredi, i figli delle sorelle, Caio Ottavio per un quarto e Lucio Pinario e Quinto Pedio per i restanti tre quarti del patrimonio; in calce adottò anche Caio Ottavio e gli diede il suo nome e nominò molti dei suoi assassini come tutori di suo figlio, se mai ne avesse avuto uno, e Decimo Bruto anche, tra i secondi eredi. Lasciò al popolo i giardini pubblici intorno al Tevere e a testa 300 sesterzi]». Il testo citato dal d’Alessandro differisce leggermente da quello critico moderno, dal momento che rispecchia la vulgata tardoquattrocentesca: la sistemazione attuale della punteggiatura permette una più facile esegesi. Tale discrepanza si nota nella maggior parte dei casi in cui l’umanista napoletano fa riferimento esplicito agli autori classici: solo quando opportuno o utile alla comprensione del testo, si farà riferimento nelle note alle edizioni antiche, che plausibilmente il d’Alessandro potrebbe aver consultato. 5 Si tratta probabilmente del nome accademico di un giovane giurista ben noto al d’Alessandro. Qui come in altri luoghi è impossibile risalire alla preci4

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Quegli accettò con piacere e volentieri e iniziò a leggere con grande chiarezza, mentre noi intanto ammaliati da quella lettura coglievamo con massima attenzione ogni parola e l’armoniosa brevitas dello stile. La lettura stava per concludersi, quando ci imbattemmo in queste parole sul testamento di Cesare, il cui significato era ambiguo e oscuro: Sed novissimo testamento tres instituit heredes sororum nepotes, C. Octavium ex dodrante, L. Pinarium et Q. Pedium ex quadrante, reliquos in ima cera; C. Octavium etiam in familiam nomenque adoptavit, plerosque percussorum tutoribus filii, si quis sibi nasceretur, nominavit, D. Brutum etiam in secundis heredibus. Populo hortos circa Tiberim publice et viritim trecenos sestertios legavit.

3. Lette queste parole, Gioviano ordinò al ragazzo di fermarsi e, rivolgendosi a Dentato, giovane che, come mi sembrava, avendo già letto molto aveva una buona conoscenza delle cose, disse: «Che ne pensi, Dentato, di questi quadrans e dodrans, per i quali l’autore ricorda qui che furono nominati quegli eredi?». E poiché quegli affermava che si trattava della quota parte dell’eredità, di cui Cesare aveva rite-

sa identità storica di personaggi citati spesso con il solo nome di battesimo o con il loro soprannome accademico.

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ret, in qua illos institutos a Caesare arbitraretur, «Proba» inquit «haec» Iovianus «et vera sententia est, sed inops admodum et ieiuna; plus ego desidero et me intuitus rogat numquid nostro iure civili, in quo multum operae per id temporis impendere videbamur, aliquid de istiusmodi partibus tradatur»6. Tum ego, «Memini» inquam «traditum memoratumque apud nonnullos veteris disciplinae auctores, praecipue apud nostros iureconsultos fuisse, omnem hereditatem, quantacumque esset, si morientis supremo iudicio non esset divisa, tum ab ipso iure in duodecim partes omne illud patrimonium partiri; quas quidem partes omnes in unum collatas assem pleraque antiquitas dixit, singulas vero disiunctim divisas uncias appellavit. Itaque, si te heredem in uncia instituero, in duodecim partes diviso prius toto asse, hoc est omni patrimonio et fortunis meis, unica tantum pars tibi institutionis iure debebitur. Cum vero te heredem in assem effecero, solidam hereditatem et integrum patrimonium, nullis diminutis partibus, transferri volo7. Hae autem duodecim unciae, quae assis appellatione continentur, propria nomina a veteribus iureconsultis singulae nactae sunt. Nam praeter unciam et assem, ea pars, quae sextans appellatur, duas totius assis partes, hoc est duas uncias habet, quadrans vero tres. 4. Cum ergo hic in quadrante heredes institutos L. Pinarium et Q. Pedium videamus, quin ex duodecim unciis integro Caesaris patrimonio diviso, tres tantum unciae, hoc est quarta totius hereditatis pars, his duobus debeatur in dubium non venit. Deinceps est triens, id est tertia pars totius assis (quattuor enim haec continet uncias), quincunx vero quinque, semis autem dimidium illius habet quod asse continetur, quae quidem pars sex uncias ex toto asse vindicavit, quippe cum totus as in duodecim uncias dividatur, quod dimidium illius est, sex uncias, id est semissem, efficiet. Sescunx autem septem consequitur uncias, bes octo, dodrans vero novem. Cum igitur in dodrante, ut Tranquillus hic refert, C. Octavium Caesar testamento heredem fecerit, ex duodecim unciis, in quibus Caesaris hereditas divisa fuit, hic in dodrante institutus novem consequetur. Reliqui vero duo, L. scilicet Pinarius et Sull’origine di questi termini cfr. VARR. Ling. V 171-172. Dig. XXVIII 5, 51, 2. È da escludere la conoscenza diretta da parte del d’Alessandro del trattato De assis distributione di Lucio Volusio Meciano, dal momento che la princeps di questo opuscoletto, tradito da due soli testimoni 6 7

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nuto che quelli fossero dotati, Gioviano aggiunse: «Corretta e fondata è la tua opinione, ma troppo poco argomentata. Io desidero qualcosa di più e se ci rifletto su mi chiedo se nel nostro diritto civile, al quale mi pare che in questi tempi dedichiamo molta attenzione, si legga qualcosa su queste partizioni». Allora io intervenni: «Ricordo che è riferito da alcuni autori della vecchia scuola, in particolare dai nostri giuristi, che se l’intera l’eredità, quanto grande essa fosse, non fosse stata divisa diversamente dalle ultime volontà del defunto, allora tutto il patrimonio andava ripartito per legge in dodici parti; insieme tutte queste parti gli antichi le chiamarono per lo più as, mentre designarono unciae le singole parti prese una ad una. Quindi, se ti nominerò erede di un’uncia, dopo aver diviso in dodici parti l’intero as, cioè tutto il patrimonio e le mie sostanze, sarà dovuta a te per diritto di nomina soltanto una parte. Se invece ti farò erede di un as, voglio che ti sia data l’intera eredità, cioè tutto il patrimonio indiviso, senza che ne sia tolta alcuna parte. Le varie porzioni poi, comprese sotto la denominazione di as, sono state una ad una fornite di propri nomi da parte dei giuristi antichi. Infatti oltre a uncia e as, quella parte che è detta sextans comprende due porzioni di tutto l’as, ovvero due unciae, il quadrans invece tre. 4. Quando dunque qui vediamo che furono nominati eredi di un quadrans Lucio Pinario e Quinto Pedio, non vi è dubbio che una volta diviso l’intero patrimonio di Cesare in dodici unciae, sono dovute a questi due soltanto tre unciae, ovvero la quarta parte di tutta l’eredità. Poi vi è il triens, ovvero la terza parte di tutto l’as, che comprende infatti quattro unciae, il quincunx cinque, il semis invece la metà di quello che vale un as, parte che di tutto l’as corrisponde proprio a sei unciae, perché, se tutto l’as si divide in dodici unciae, ciò che è la metà di quello farà sei unciae, cioè un semis. Il sescunx poi conta sette unciae, il bes otto, il dodrans nove. Quando dunque, come riferisce qui Svetonio, Cesare per testamento fa erede Caio Ottavio di un dodrans, dalle dodici unciae, nelle quali era stata divisa l’eredità di Cesare, questi, designato per un dodrans, ne otterà nove. Gli altri due poi, Lucio Pinario e manoscritti, uscì in volume miscellaneo a Basilea nel 1528 (cfr. VOLUSII MAECIANI Distributio partium, herausgegeben von TH. MOMMSEN, in «Abhandlungen der Königlich-Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften», III, 1853, pp. 281-295).

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Q. Pedius, quadrantem, id est tres uncias ex integro asse et quartam totius hereditatis, vendicabunt. Inter hos ergo et illum duodecim unciae et tota Caesaris hereditas divisa fuit. Dextans autem decem signat uncias, deunx vero undecim, quod a Iuvenale non inscite, ut arbitror, dictum est: Unciolam Proculeius habet, sed Gillo deuncem8.

Totum enim assem divisit, cum ex duodecim unciis alteri unicam, alteri undecim uncias patrimonii tribuit. 5. «Est quidem» inquit Iovianus «ita ut dicis satisque de quadrante et dodrante deque uncia et asse, ut a iuris studioso, explicatum accepimus, sed unum illud etiam me angit, in quo ancipitem cogitationem iam diu duxi saepiusque in hoc quaerendo fui. Nam cum tres heredes institutos auctor hic dicat, plures postea nominavit, C. scilicet Octavium, Q. Pedium et L. Pinarium, demum adicit reliquos in ima cera, hoc est ultima testamenti parte, scriptos fuisse. Etenim si totus as inter eos quos modo nominasti absumptus est, quid reliqui sit, quod istis debeatur, non equidem video. Totus enim as, ut modo dixti, totam absumit hereditatem et dodrans, cum novem signet uncias, quadrans vero tres, duodecim uncias et totum efficiunt assem. Neque est praeterea quod ex defuncti bonis amplius asse heredi scripto debeatur. Ergo aut frustrabuntur peculio Caesaris isti reliqui in ima cera adiecti, aut alia quaedam hereditas obvenienda est, ut istis etiam satisfiat, quorum alterum si asseveras, profecto perperam et absurde dixeris. Neque ego Tranquillum, vel sincerissimum scriptorem, tam inconsiderate loquutum arbitror, ut plusquam oporteat aliquid in scribendo addiderit, si quidem tam circumcisus in explicandis adnotandisque rebus fuit, ut arguta brevitate pleraque potius superstrinxisse quam aliquid plus iusto addidisse videatur». 6. Tum ego, «est» inquam «quod dubitetur, neque abnuerim quin locus hic perobscurus forsan videatur plerisque, qui tamen probabili ratione reddita clarus et expositus fiet. Tres enim Caesar testamento

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Quinto Pedio cioè, riceveranno un quadrans, ovvero tre unciae dell’intero as, la quarta parte di tutta l’eredità. Tra questi quindi e quello furono divise le dodici unciae e tutta l’eredità di Cesare. Il dextans poi designa dieci unciae, il deunx undici, motivo per cui Giovenale con cognizione di causa, come credo, disse: Unciolam Proculeius habet, sed Gillo deuncem.

Divise infatti tutto l’as, dal momento che delle dodici unciae del patrimonio ad uno ne diede una sola, all’altro undici». 5. «È certamente così come dici» disse Gioviano «e abbiamo appreso a sufficienza su quadrans e dodrans e su uncia e as, con una spiegazione degna di uno studioso di diritto, ma una sola cosa ancora mi tormenta, sulla quale ormai da tempo non ho un’opinione certa, nonostante molto spesso mi sia interrogato a riguardo. Infatti benché l’autore qui dica che furono nominati tre eredi, dopo ne nomina di più, ovvero indica Caio Ottavio, Quinto Pedio e Lucio Pinario, e poi aggiunge che altri furono designati ‘in calce’, cioè nell’ultima parte del testamento. Ma se tutto l’as fu esaurito da quelli che ora hai nominato, non vedo proprio cosa avanzasse da destinare a quest’altri. Infatti, se l’as, come hai detto ora, comprende l’intera l’eredità, un dodrans, che indica nove unciae, e un quadrans, che ne indica invece tre, in tutto fanno dodici unciae, ovvero l’intero as. E non v’è nient’altro più dell’as che dai beni del defunto si possa dare ad un erede designato. Allora, o quest’altri aggiunti in calce dovranno rinunciare alla loro parte del patrimonio di Cesare, o una qualche altra eredità toccherà a loro in sorte, perché anch’essi siano soddisfatti: di queste due spiegazioni, se sosterrai vera la seconda, certamente affermerai una cosa sbagliata e assurda. Né io ritengo che Svetonio, scrittore del resto molto sincero, avrebbe parlato con tanta leggerezza da aggiungere nello scrivere più di quanto non convenisse; anzi direi che fu tanto conciso nello spiegare e nel riferire i fatti, che con la sua ricercata brevitas sembra averne sintetizzato la maggior parte piuttosto che aver aggiunto qualcosa più del giusto». 6. Allora io dissi: «Vi è di che dubitare, né negherei che questo passo possa forse sembrare molto oscuro ai più, e tuttavia diventerà chiaro e comprensibile quando sarà fornita una spiegazione plausibile. Tre eredi infatti Cesare designò con il suo testamento, e certamente di

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suo heredes fecit, et toto videlicet asse, si quidem dodrans et quadrans duodecim uncias et totum efficiunt asse. Et quod asse distributo reliquos in ima cera instituit, equidem denotat non in nova quadam hereditate hos admittendos fore, sed, postquam in universum bona sua inter heredes partitus fuit, in ima cera illos, qui in singulas partes iure legati admittendi fuerant, nominasse, quae quidem legata, quamvis toto asse distributo, non extra hereditatem sunt, sed a scriptis heredibus atque ipso asse debentur. Etenim scriptus heres, qui assem assequitur, pro quantitate bonorum in quibus institutus est legata quoque distribuet. Vetus enim est testantium mos, quod ipsum apud iureconsultos lege sancitur, ut primo testamenti capite heredis fiat institutio, sive unus sive plures sint qui in universum bona ex defuncti voluntate capiant, sequenti capite et ima cera secundi heredes, legata et reliqua testatoris voluntas et dispositio ponantur, sive aliquos onere gravat aut si quibus dari fierique oportere testator pro sua voluntate arbitratus est, qui non heredes sed legatarii dicti, si quidem non bona in universum sed legata et res singulares capiunt: idque ex integro asse atque ex toto patrimonio deducitur. Et hoc Tranquillum nunc dicere arbitror. Nam cum primo capite testamenti Caesar tres fecisset heredes ex asse, in ima cera et ultimo capite reliqua posuisse, quae ascriptis heredibus debentur, Caiumque Octavium in familiam nomenque adoptasse, secundos heredes et tutores nominasse, populo hortos publice et viritim trecenos sextertios legasse». Quibus verbis ultro citroque ad multam noctem habitis, animadversum est obsonia iam praematura et praecocta esse. Mox in aliud tempus dilatis sermonibus, ad natalem Ioviani diem celebrandum, cuius causa veneramus, ab ipso admoniti divertimus. Caput VIII Spero te amaturum fore vel amandum fore veterum auctoritatibus latine dici licere contra opinionem quorundam grammaticorum.

1. Commentatiunculas suas non invenustas adolescens quispiam ingenio et lingua praestabili – dum posteritati et gloriae servit9 – apud 9

Cfr. CIC. Sest. 143: «posteritatis gloriae serviamus».

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tutto l’as, se dodrans e quadrans fanno dodici unciae ovvero l’intero as. Ora il fatto che, dopo aver distribuito l’as, nominò altri eredi in calce, sta bensì ad indicare non che questi sarebbero stati designati beneficiari di una qualche nuova eredità, ma che, dopo che ebbe spartito tutti quanti i suoi beni tra gli eredi, in calce nominò coloro che dovevano ricevere singole parti come lasciti, lasciti appunto che, per quanto l’intero as fosse stato diviso, non sono al di fuori dell’eredità, ma sono dovuti dagli eredi designati e dallo stesso as. E infatti l’erede designato, che ottiene l’as, in ragione della quantità dei beni ereditati distribuirà anche i lasciti. È una vecchia consuetudine infatti di chi fa testamento, la stessa sancita per legge presso i giuristi, che nel primo capitolo del testamento siano nominati gli eredi, siano essi uno o più che ricevano complessivamente i beni secondo la volontà del defunto, nel capitolo successivo e in calce si pongano invece i secondi eredi, i lasciti e le restanti volontà e disposizioni del testatore, sia che questi incarichi qualcuno dell’onere, sia che di propria volontà abbia deciso a chi sia opportuno dare qualcosa o provvedere in qualche modo. Costoro non sono chiamati eredi ma legatari, perché non ricevono i beni in generale ma solo singoli lasciti, che si prendono dall’intero as e da tutto il patrimonio. E credo dunque che Svetonio volesse dire questo. Infatti Cesare dopo aver designato nel primo capitolo del testamento tre eredi dell’as, in calce e nell’ultimo capitolo aveva disposto il resto che era dovuto agli eredi aggiunti, aveva adottato nella sua famiglia e dato il suo nome a Caio Ottavio, aveva nominato i secondi eredi e tutori, e aveva lasciato al popolo indistintamente i suoi giardini e trecento sesterzi a persona». Questa discussione andò avanti fino a tarda sera quando ci si rese conto che la cena ormai era più che pronta, e allora subito, rimandata la conversazione ad un altro momento, richiamati da lui, ci accingemmo a festeggiare il compleanno di Gioviano, per il quale eravamo lì convenuti. Capitolo VIII Contro l’opinione di alcuni grammatici è possibile dire in latino spero te amaturum fore o amandum fore secondo gli antichi autori.

1. Un giovane di raro ingegno ed eloquio – che i posteri l’abbiano in gloria – andava leggendo alcune sue pagine non prive di garbo ad

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nonnullos eiusdem disciplinae viros lectitabat, non equidem, ut videbatur, laudis indipiscendae gratia, sed ut gravi illorum iudicio subnixus liberius consultiusque, si quod in eis delictum, si quodve mendum esset, castigaret eorumque explorata sententia nonnulla in vulgus emittebat, multa vel tollebat e medio vel corrigebat. Aderat inibi familiaris meus quispiam, honesti ordinis, latinae eloquentiae et veterum litterarum non ignarus, qui cetera quidem minime visus aspernari uno verbo se offensum dicebat, quod in posterum nihil in eum scripturum fore ille dixerat. «Minus latine» inquit «dictum est scripturum fore, sed aptius convenientiusque dicendum fuit scripturum esse, si quidem verbum fore, cum tempus quod futurum est designet, cum participio in -rus vel in -dus, quod pariter futurum tempus designat, minime convenire, perindeque haberi ac si dicas scripturum futurum esse, quae oratio, ut probe nosti, nihil habet gratiae vel dignitatis». «Quoque minus dubites» inquit ille, «hoc senserunt multi eruditi, quorum sententiam iudiciumque minime aspernaberis». 2. Statimque ad nos attulit observationes grammatici hominis non incuriosi, in quibus ad hanc sententiam scriptum definitumque invenimus: Fore cum vim participii habeat, cum nomine, non cum participio iungi oportere, ne duo simul participia confundantur. Itaque dicendum spero te amatorem fore vel amaturum esse, non autem amaturum fore vel amandum fore, venturum esse, non venturum fore10.

«Fore dal momento che ha la qualità di participio, con un nome, non con un participio è opportuno che sia congiunto, perché non si confondano due participi. Quindi bisogna dire spero te amatorem fore, o amaturum esse, ma non amaturum fore, o amandum fore, venturum esse non venturum fore». Cfr. quanto recita J.B. HOFMANN-A. SZANTYR, Lateinische Syntax und Stilistik, München 1965, p. 312: «Ebenso ist Inf. venturum fore = venturum esse erst spätlateinisch; dagegen ist forent = essent in Fällen wie Nep. Att. 9,7 quid alii laudaturi forent, dann Sall. und öfters seit Liv., schon für die gute Zeit anzuerkennen». Valla aveva scritto in Elegantie I 26 De differentia infinitivorum esse et fore et compositorum: «Fore vocem quidem habet infinitivi ut esse, significationem vero participii, quod est futurum una cum infinitivo esse; idem est enim fore quod futurum esse, non tantum esse, licet forem fores foret idem sit quod essem esses esset. Quare cum nomine iungi debet fore, non cum participio, ne duo participia simul confundamus: ‘spero te amatorem vel amicum fore’, non autem ‘amatu10

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alcuni uomini di uguali interessi, non certo, come sembrava, per farsi lodare, ma perché sottoponendosi al loro severo giudizio potesse poi correggere con più libertà e ponderazione eventuali errori o imperfezioni, e dopo aver sentito il loro parere alcune cose le rendeva pubbliche, molte o le eliminava o le correggeva. Era presente lì un mio conoscente, di rispettabile condizione, non ignaro di eloquenza latina e di lettere antiche, che senza mostrare di voler disprezzare minimamente le altre cose, diceva di essere stato colpito da una sola parola, poiché quello aveva detto che niente contro di lui in futuro scripturum fore. «È poco corretto in latino» disse «dire scripturum fore, ma in modo più giusto e appropriato si sarebbe dovuto dire scripturum esse, dal momento che non sta bene usare il verbo fore, che designa il tempo futuro, con il participio in -rus o in -dus, che ugualmente designano il tempo futuro, perché è come se dicessi scripturum futurum esse, espressione che, come tu ben comprendi, non ha né grazia né dignità». «E perché tu non abbia alcun dubbio» aggiunse, «ciò che dico è condiviso da molti dotti, la cui opinione e giudizio non sono per nulla da disprezzare». 2. E subito ci addusse le osservazioni di un grammatico non da poco, nelle quali trovammo scritta questa definizione in proposito: Fore cum vim participii habeat, cum nomine, non cum participio iungi oportere, ne duo simul participia confundantur. Itaque dicendum spero te amatorem fore vel amaturum esse, non autem amaturum fore vel amandum fore, venturum esse, non venturum fore.

rum fore’, sed tantum ‘amaturum’, ne videaris hoc dicere ‘te futurum amaturum’, quod ratio non patitur, quum futurum supervacuum sit. Item de participio passivi futuri: ‘timeo te verberandum fore’; satis erat ‘verberandum’ vel adiuncto infinitivo ‘verberandum esse’» (ed. cit., c. 25v). Come si vede, la citazione non è letterale, ed è anche probabile che le observationes di cui si parla siano una delle tante grammatiche latine costruite ad imitazione delle Elegantie valliane o qualche loro epitome. Un confronto si può fare con la Lima quaedam Laurentii Vallensis del Mancinelli che a questo proposito scrive: «Quare cum nomine iungi debet fore non cum participio nec duo participia simul confundamus: spero te amatorem vel amicum non autem amaturum fore» (in coda all’edizione delle Elegantie, Venetiis, per Christophorum de Pensis, 1496, c. o2v).

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Et ita dici scribique oportere maxime contendebat. Quod cum legissemus, tenuit nos admiratio istius doctoris, equidem diserti et tamen inconsiderati, qui praecipiti ductus sententia tam asseverate contendere auderet id quod longe secus a doctissimis saepe usurpatum memineramus, si quidem T. Livius, facundissimus auctor, secundi Punici belli octavo et «acturum se» inquit «per populum aperte fore, si senatus adversaretur»11, et alibi «libenter facturos fore, ut ludi maximi fierent»12, et rursus «eo quoque mittendos fore legatos»13 dixit, et septimo de Macedonico: «sub pellibus habendos milites fore»14; Q. Curtius: «Senescendum fore tantum terrarum vel sine imperio obeunti»15. Quibus astipulatur Plinius Naturalis historiae secundo, «quid fore putandum est?»16 inquiens, et pluribus exemplis quibus omnis historia referta est, quae trita et pervulgata in quaestione minime dubia referre non necesse habeo. 3. Praeterque veterum auctoritates, rationes adduci possent, quibus ita dici convenire facile contenderim, ex arbitratu eruditissimi viri. Cum enim substantivum olim verbum fuerit fuo, atque eius infinitivum fore, fuisse, futurum esse, etc. eiusdemque verbi nonnulla tempora retinuerimus, adeo ut forem antiquum et essem recentius dicamus, quis prohibet etiam fore atque esse simul custodiri, perindeque amaturum LIV. XXVIII 40, 2: «acturum se id per populum aperte ferret, si senatus adversaretur». Il d’Alessandro cita le decadi di Livio dalla vulgata quattrocentesca (l’opera conta ben ventitré edizioni a stampa dalla princeps romana curata da Giovanni Andrea Bussi nel 1469 per i tipi di Sweynheym e Pannartz a quella curata dal Sabellico, Venetiis, per Bartholomaeum de Zanis, 1498), per cui le differenze riscontrabili con il testo critico moderno sono da addebitare alla fonte da lui utilizzata, anche se in alcuni casi non è da escludere che l’errore possa dipendere dal fatto che citava a memoria o da altro incidente di trasmissione. Per il luogo in questione, a fronte del corretto ferret (già così nell’ed. Venezia 1495), la lezione fore del d’Alessandro è molto vicina al foret della princeps romana di Livio (Roma 1469, c. cc3r). 12 LIV. VI 42, 12. 13 LIV. XXXVI 27, 7. 14 LIV. XXXVII 39, 2. 15 CURT. IV 5, 5: «Senescendum fore tantum terrarum vel sine proelio obeunti». 16 PLIN. N.H. II 239. 11

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E ribadiva con forza che era opportuno dire e scrivere così. Quando ebbi letto ciò, mi sorpresi di questo maestro, senza dubbio eloquente e tuttavia sconsiderato, che trascinato da una opinione avventata con tanta sicurezza osava contestare una forma che ben altrimenti ricordavamo adoperata spesso da autori dottissimi. Tito Livio infatti, autore molto elegante, nell’ottavo libro sulla seconda guerra punica dice: «acturum se per populum aperte fore, si senatus adversaretur», e altrove «libenter facturos fore, ut ludi maximi fierent», e ancora, «eo quoque mittendos fore legatos», e nel settimo sulla guerra macedonica: «sub pellibus habendos milites fore»; e Quinto Curzio: «Senescendum fore tantum terrarum vel sine imperio obeunti». E con loro concorda Plinio nel secondo libro della Naturalis historia, dove dice: «Quid fore putandum est?»; e molti esempi ancora di cui è pieno ogni libro di storia, esempi familiari e molto noti, che non ritengo sia necessario riferire non essendoci dubbi a riguardo. 3. E oltre all’autorità degli antichi, potrebbero essere addotte ragioni per le quali, a parere anche di un uomo eruditissimo, facilmente potrei sostenere che convenga dire così. Dal momento che infatti un tempo fuo era un verbo sostantivo, e il suo infinito fore, fuisse, futurum esse, etc. e di questo stesso verbo abbiamo conservato alcuni tempi, tanto che diciamo forem secondo la forma antica e essem secondo quella più recente, perché non potrebbero essere sopravvissuti insieme anche fore e esse, e che quindi si possa dire amaturum fore per amatu-

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fore dici quod amaturum esse?17 Sed cum nos auctoritatibus veterum inniti debeamus, quibus haec comperta fuere quae pro ratione sunt, frustra in re confessa et explorata rationem et adminicula non necessaria inquirimus. Si qui tamen sunt ita latinae linguae curiosi aut animo tam agresti et duro, quibus veterum auctoritas non satis sit, poterunt ab his, qui istiusmodi res conquisitius indagantur quibusque ista consectari curae fuit, haec atque his similia perscrutari. Caput XI Miracula de somniis apud nonnullos cognita et comperta, et quae ipse expertus fui.

1. Iunianus Maius18 conterraneus meus, vir bene litteratus, in exquirendis adnotandisque verborum et sententiarum viribus multi studii fuit, et praeterquam quod in erudiendis iuvenculorum animis imbuendisque doctrina pueris castigatissimae disciplinae, somniorum quoque omnis generis ita verus coniector fuit, ut ipsius responsa divina fere monita haberentur. Ad eum, memini, cum puer adhuc essem et ad capiendum ingenii cultum frequens apud eum ventitarem, quotidie somniantium turbam hominesque celebri fama et multi nominis de somniis consultum venisse. Declarabat definiebatque ille, non breviter aut subobscure, ut plerique, sed exposite atque aperte, aenigmata somniorum, sive boni sive mali praenuntia, ita apte, ut iudicium factum a veridico diceres. Multi quoque illius monitu vitae interitum, nonnumquam animi aegritudines vitarunt, sed quod illi interprete Iuniano assequebantur, animadverti quosdam haudquaquam summae nobilitatis, sed homines tenuissimos et sortis infimae absque ullo interprete assequutos et somnio tantum praemonitos imminentem cladem aut futurum exitium et pleraque incommoda vitasse, verissimaque, qualia futu17 Cfr. F. STOLZ-A. DEBRUNNER-W.P. SCHMID, Storia della lingua latina, Bologna, Patron, 1973, p. 175. 18 Su Giuniano Maio, professore presso lo Studium napoletano fin dagli anni Sessanta del Quattrocento e maestro del d’Alessandro e del Sannazaro, oltre ad A. CARACCIOLO ARICÒ, Maio, Giuniano, in DBI, LXVII, 2006, pp. 618621, si veda ora il volume di PALUMBO, La biblioteca di un grammatico, cit. È il d’Alessandro qui ad attribuirgli grande fama di onirocritico.

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rum esse? Ma dal momento che noi dobbiamo poggiarci sull’autorità degli antichi, dai quali furono definite queste regole, è vano cercare una spiegazione e delle giustificazioni non necessarie per un fatto riconosciuto e accertato. Se tuttavia vi è qualcuno così pedante nella lingua latina o di animo tanto rozzo e ottuso, per il quale l’autorità degli antichi non è sufficiente, potrà approfondire queste cose o simili presso coloro che indagano in maniera più approfondita questioni di questo tipo e che si preoccupano di andar dietro a queste cose. Capitolo XI Sogni premonitori di cui ho avuto notizia da molti e che io stesso ho sperimentato.

1. Giuniano Maio mio conterraneo, uomo dotto nelle lettere, fu molto versato nell’indagare e nello spiegare il significato di parole e frasi, e oltre che nell’educare gli animi dei giovinetti e nell’iniziare i ragazzi ad una severissima istruzione, fu anche un così veridico interprete di sogni di ogni genere che i suoi responsi erano ritenuti quasi predizioni divine. Ricordo che, quando ero ancora un ragazzo e mi recavo frequentemente presso di lui per abbeverarmi al suo raffinato ingegno, ogni giorno veniva a consultarlo una folla di persone che avevano sognato, e anche uomini spettabili e di chiara fama. Egli spiegava e precisava, non brevemente e oscuramente, come molti, ma in maniera chiara ed esplicita gli enigmi dei sogni, sia che annunciassero eventi positivi che negativi, e con tale competenza, che avresti detto la sua interpretazione fatta da persona assolutamente fededegna. Molti inoltre, grazie alle sue predizioni, evitarono la morte e talvolta grandi affanni, ma ho constatato che i vantaggi che costoro ottenevano grazie alle interpretazioni di Giuniano, alcuni, certo non di grandissima nobiltà, anzi uomini modestissimi e di bassissima condizione, li ottennero senza nessun interprete: avvertiti soltanto da un sogno evitarono una sciagura imminente o la morte vicina e molte altre cose spiacevoli. Si trattava sempre di sogni veracissimi, nei quali avevano visto ciò che

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ra viderant, somnia extitisse, quod genus Graeci o{rama, hoc est visionem, dicunt19. 2. Nuper in Vesuvino meo20 familiaris meus quispiam fuit, homo alioqui exiguae sortis, obscurus et egens, sed tamen spectatae fidei et exempli recti, qui ovium greges custodire solitus, cum esset gravior annis et valetudine non bona, eam curam unico quem habebat filio delegarat. Accidit, dum procul a stabulo ipse et filius sub parvulo lare noctu decubarent, ovem quandam a lupo circumventam sibi in somniis observari illiusque dentibus opprimi et lacerari visam; quo somnio expergefactus senior filium, qui una decubabat, excitavit utque ad gregem propere accederet acclamavit: namque ovem, cuius etiam nomen referebat, a lupo circumventam dilaniari dixit. Qui cum illuc excitatus pergeret, eandem quam pater praedixerat ovem a lupo lacerari atque opprimi invenit verissimumque, et quale pater praedixerat, insomnium expertus fuit. Matrona insignis, multi et celebrati nominis, dum Neapoli degerem, referre mihi solita est quamcumque in somnis imaginem vidisset, eandem sibi postera luce repraesentari. Eaque magnae admirationi apud reliquas matronas fuit, quod saepius, quae sibi die eventura erant, somnio monita futura praediceret. 3. Sed prae omnibus quae notaverim, res est memoria et admiratione digna, quam ego nuper expertus sum et re probavi. Iacebat in lectulo Marius alumnus et cliens meus21, cuius ego ingenium et animi indolem saepe demiratus sum. Is, cum per quietem matrem defunctam efferri et funus apparari vidisset, gravissimos gemitus et lugubres querelas, quamvis somnio confusus, edebat, quem cum excitari iussissem et causam tam luctuosi gemitus requisissem, retulit matrem vita functam sibi per quietem visam efferri et funerari. Observavi ego diem et tempus, quo species haec obversata fuerat, notavi. Haud multo post nuntius defunctae matris ad me venit, a quo cum diem requisissem, convenit ipso die quo mater per quietem efferri visa fuit, illam e vita excessisse. Quibus exemplis admonemur, ut esse praescita quiescentis Cfr. Pontano, Aegidius. Dialogo, cit., pp. 59-61. Qui il d’Alessandro fa riferimento ad un suo podere a Summa Vesuviana da lui ricordato anche nel testamento (vd. a p. 71). 21 Forse lo stesso che il «Marcus alumnus et cliens meus» di Dies V 23, 2 – e dunque il Marius di questo capitolo potrebbe essere un refuso della stampa 19 20

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sarebbe accaduto: il genere di sogno che i Greci chiamano o{rama, cioè visione. 2. Recentemente nel mio podere sulle pendici del Vesuvio un mio domestico, uomo peraltro di modeste condizioni, oscuro e povero, ma tuttavia di provata fiducia e onestà, che era solito fare la guardia alle greggi di pecore, essendo ormai vecchio e malato, delegò quel compito all’unico figlio che aveva. Gli accadde, mentre lui e il figlio dormivano di notte, lontani dalla stalla sotto una modesta capanna, di vedere in sogno una pecora che veniva assalita da un lupo, che sembrava azzannarla e farla a pezzi. Svegliatosi da questo sogno il vecchio chiamò il figlio che dormiva con lui, e gli gridò di raggiungere velocemente il gregge, perché – disse – una pecora, di cui riferiva anche il nome, era stata assalita e sbranata da un lupo. E quando quegli svegliatosi accorse lì, trovò azzannata e sbranata dal lupo proprio quella pecora che il padre gli aveva preannunciato, e così verificò la veridicità del sogno e che le cose erano andate esattamente come il padre gli aveva detto. Una famosa nobildonna, di grande e celebrata schiatta, quando io ero a Napoli, era solita raccontarmi che in sogno vedeva delle cose che poi le si presentavano tali e quali il giorno dopo. E lei presso le altre nobildonne fu oggetto di grande ammirazione, perché spesso prediceva attraverso i sogni ciò che sarebbe loro accaduto di giorno. 3. Ma di tutte le cose che ho annotato una è degna di memoria e ammirazione, che io ho sperimentato e verificato di recente. Mario, mio allievo e cliente, il cui ingegno e il cui carattere spesso ho apprezzato, dormiva nel suo letto e, dal momento che durante il sonno aveva visto portar via la madre morta e preparare il suo funerale, emetteva tristissimi gemiti e lugubri lamenti profondamente sconvolto dal sogno. E quando gli ordinai di svegliarsi e gli chiesi la causa di gemiti così luttuosi, mi riferì che aveva visto mentre dormiva la madre morta portata via e il suo funerale. Io prestai attenzione al giorno e all’ora in cui questa visione si era presentata, e l’annotai. Non molto tempo dopo venne uno ad annunciarmi la morte della madre, e quando gli chiesi il giorno, si convenne che quella era passata a miglior vita lo stesso giorno in cui durante il sonno Mario l’aveva vista portar via. Da questi esempi siamo portati a credere che esiste una facoltà di preveggen–, da idenficare verosimilmente con il «Marcho de Falco da Napoli», familiaris del d’Alessandro, nominato come erede nel suo testamento (vd. a p. 74).

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animi et divinationes humanaeque mentis praesagium, quasi vaticinium futurorum divinitus mortalibus datum per somnia, credamus. Caput XVI Quae et quot curiae Romae fuerunt, et verbum curia sine adiectione nominis quam curiam designavit.

1. Deambulabam aliquando Romae cum Pomponio Laeto, viro litterarum et locorum veterum exsequentissimo22, cumque antiquitatis studio ruinas urbis et veterum monumenta quicquid visendum esset et memorabile scrutaremur, in ruinis templi Pacis grandioribus litteris extantibus effractum ibi marmor legimus hac inscriptione: IN CURIA HOSTILIA.

Quaerebat a me Pomponius ubinam curiam Hostiliam quondam fuisse crederem23. Cumque me arbitrari apud rostra Hostiliam curiam fuisse ibique Tullum Hostilium regem curiam iuxta rostra construxisse, auctore Varrone, respondissem, rostra autem in foro esse romano, si quidem ex rostris navium antiatum suggestum in foro extructum legimus, in quibus clarorum virorum imagines, qui reipublicae navarunt operam, pro immortali gloria saepe statui et coli solebant; fuisseque duorum generum curias: unum, in quo sacerdotes res divinas, sacra et Su Pomponio Leto, leader dell’Accademia romana nella seconda metà del Quattrocento, studioso di antichità romane e di storia antica e medievale, oltre al fondamentale V. ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto: saggio critico, Roma, La vita letteraria, 1909-1910, vd. i recenti volumi Pomponio Leto e la prima accademia romana, Giornata di studi, Roma 2 dicembre 2005, a cura di C. CASSIANI e M. CHIABÒ, Roma, Roma nel Rinascimento, 2007; M. ACCAME LANZILLOTTA, Pomponio Leto. Vita e insegnamento, Tivoli, Tored, 2008; Pomponio Leto tra identità locale e cultura internazionale, Atti del Convegno internazionale, Teggiano, 3-5 ottobre 2008, a cura di A. MODIGLIANI et al., Roma, Roma nel Rinascimento, 2011. Il passo è tradotto in inglese e discusso in P. OSMOND, Alessandro d’Alessandro, in Repertorium Pomponianum (url: www.repertoriumpomponianum.it/pomponiani/d_alessandro_alessandro.htm). 23 La Curia era la sede del Senato a Roma. La costruzione originariamente si trovava a nord del Comizio nel foro Romano e la sua fondazione era attri22

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za nell’animo di chi dorme e che la mente umana abbia la capacità di divinare e presagire, come se da Dio fosse stato concesso a noi mortali di vaticinare il futuro attraverso i sogni.

Capitolo XVI Quali e quante furono le curie a Roma, e quale curia designava la parola curia senza nessuna specificazione.

1. Passeggiavo una volta per Roma con Pomponio Leto, uomo espertissimo di letteratura e di archeologia antica, e mentre per amore dell’antichità cercavamo se ci fosse qualcosa di memorabile da vedere tra le rovine dell’Urbe e i suoi antichi monumenti, fra i resti del tempio della Pace leggemmo su un marmo tutto rotto, scritta a lettere capitali, questa iscrizione: IN CURIA HOSTILIA.

Pomponio mi chiese dove mai credessi che fosse un tempo la curia Ostilia. Io risposi che ritenevo che la curia Ostilia fosse presso i rostri e che re Tullo Ostilio avesse costruito la curia, secondo Varrone, lì, vicino ai rostri, e che i rostri poi erano nel foro romano, dal momento che si legge che la tribuna fu costruita nel foro con i rostri delle navi di Anzio, su cui spesso si solevano collocare a loro gloria immortale e venerare le immagini degli uomini illustri che avevano servito con zelo la repubblica; e che vi erano due tipi di curia, uno nel quale i sacerdoti si occupavano della religione, dei riti e delle cerimonie sacre e del

buita a Tullo Ostilio. Dopo alterne vicende di danneggiamenti e restauri, Cesare fece avviare i lavori per una nuova costruzione che fu però inaugurata da Ottaviano Augusto solo nel 29 a. C. La Curia Hostilia viene citata anche come Iulia e Pompiliana. Il d’Alessandro tuttavia – come si evince dai paragrafi che seguono – fornisce un elenco onomastico senza specificare l’ubicazione di questi edifici.

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cerimonias cultusque deorum curarent, alterum, ubi senatum de rebus publicis et ad populum pertinentibus consulerent24. 2. «Quid tu» inquit Pomponius, «cum simpliciter curiam nulla cognominis adiectione apud auctores legimus nominari, de qua intelligi oportere censes? Statuam enim Porsennae accepimus iuxta curiam fuisse, sed de qua intelligi deceat non sane definitum est25. Nam et Calabram curiam legimus iuxta Capitolium, quae casae Romuli fuit proxima, quam sine calatione aperiri non licuisse scribit Varro, et veteres curias, ubi pontifices de sacris sacerdotiisque et religione deorum deque cerimoniis consulebant, et Pompeii curiam, in qua senatus frequens est haberi solitus, ibique Iulius Caesar idibus martiis coniuratorum manibus oppressus interiit26, et aliam cognomento Pompilianam27 novicia denominatione, et divi Iulii, quae Iulia dicta est28, et Augusti curiam, quam in comitio ipsum consecrasse memorant, in quibus templa per augures, ne profana essent loca neve edita senatusconsulta irrita forent, inaugurata fuere; et Gerusiam, quae Seniorum dicta29, et Octaviae30, sicut Leucadiam ac Saliorum, si quidem Salii propriam habuere curiam31, atque omnes denique curias suis nominibus notatas definitasque videmus. Sed quia nullo nominis cognomento frequenter VARR. Ling. V 155. Un monumento a Porsenna vicino alla Curia ricordava Plutarco in Publ. 19, 10. Qui e altrove, nei capitoli di ‘antiquaria’, il d’Alessandro fa largo uso di informazioni tratte dalle Vitae plutarchee: è possibile che egli fosse in grado di leggere quest’opera nella lingua originale, ma è anche altamente probabile – come testimoniano le corrispondenze verbali evidenziate ove opportuno nelle note – che tenesse presente la traduzione latina disponibile nell’edizione in due volumi del 1496 (Virorum illustrium vitae ex Plutarcho graeco in latinum versae solertique cura emendatae, Venetiis, per Bartolameum de Zanis). 26 La curia Calabra si trovava, secondo MACR. I 15, presso il Campidoglio e vicino alla casa di Romolo: cfr. VARR. Ling. V 13. Per la Curia Pompei cfr. SUET. Iul. 80, 4. 27 VOPISC. Aurelian. 41, 3 e Tac. 3, 2. 28 AUGUST. R. Gest. 34, 2 e cfr. GELL. XIV 7, 7. 29 Si tratta in verità di nome comune, corrispondente grosso modo a senatus. 30 In questo caso il d’Alessandro trova il riferimento in PLIN. N.H. XXXIV 28, 6, ma qui si tratta di una curia privata, annessa alla dimora di Ottavia. 31 Situata sul Palatino è ricordata da CIC. Div. I 30, mentre VAL. MAX. I 8, 11 parla di un sacrarium. 24 25

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culto degli dei, l’altro dove il senato deliberava sugli affari pubblici e tutto ciò che riguardava il popolo. 2. «Tu allora» disse Pomponio, «quando presso gli autori leggiamo che si parla semplicemente di curia, senza l’aggiunta di nessuna specificazione, quale curia pensi che bisogna intendere? Sappiamo infatti che la statua di Porsenna era vicino alla curia, ma non è ben precisato di quale si debba intendere. Poi leggiamo anche di una curia Calabra nei pressi del Campidoglio, molto vicina alla casa di Romolo, che Varrone scrive non si poteva aprire senza una cerimonia ufficiale; e poi delle vecchie curie, dove i pontefici decidevano sulle cose sacre, sulle cariche sacerdotali, sul culto degli dei e sulle cerimonie, e della curia di Pompeo, nella quale il senato frequentemente era solito riunirsi, e dove alle idi di marzo morì Giulio Cesare per mano dei congiurati; e di un’altra detta Pompiliana con denominazione recente, e di quella del divino Giulio, che fu detta Giulia, e della curia di Augusto, che lui in persona – ricordano – inaugurò nel luogo del Comizio, nelle quali furono collocate edicole per gli auguri, perché fossero luoghi consacrati e i decreti emanati dal senato fossero validi; e della curia Gerusia, detta dei Vecchi, e di quella di Ottavia, così come della Leucadia e di quella dei Salii, ammesso che davvero i Salii abbiano avuto una propria curia, e infine di tutte le altre curie designate e definite, come possiamo vedere, dai loro nomi. Ma poiché presso gli autori frequentemente leggia-

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curiam apud auctores legimus, de qua intelligi conveniat equidem dubito». 3. «Tamen, si me opinio non fallit» inquit Pomponius, «memini Asconium Pedianum dicere rostra ad comitium prope iuncta curiae fuisse32, nulla propria denominatione exprimens curiam, licet alio translata et nova postmodum facta sit». «Ex hoc arbitror» inquit, «id quod necessario redundat, cum in rostris olim curia Hostilia fuerit, ut Varro et auctores tradunt33, cum simplici nomine curiam absque cognomento enuntiari videmus, antequam alio translata foret, de Hostilia, quam ibi legimus fuisse, intelligi oportere. Ad hanc curiam ad dextram supra comitium Graecostasis erat, statio legatorum exterarum gentium et nationum, ad quam, si iniuriam quaesiti venirent aut mandata haberent, accedentes praestolabantur et subsistebant. 4. Athenis multiplices fuere curiae, inter quas Cholargea praecipuae nominationis, quod inde Pericles oriundus foret, et Phylaidarum, ex qua Pisistratus34, et alia magistratuum curia, ubi iura dabant, quod Prytanion dictum est35. Megarenses vero36, cum eorum curiam, in qua Timalci tumulus fuit, inter mira et memoranda ducerent, tamquam quid visendum et mirificum propter maximas substructiones M. Antonio ostendisse dicuntur; mox sciscitantes quid de illa sentiret, arbitrati miris illam laudibus eius testimonio celebrari, futilem et nulIl riferimento è all’incendio della Curia (Ostilia) scoppiato durante il funerale di Publio Clodio, di cui parla Asconio Pediano (Mil. 29): «Erant enim tunc rostra non eo loco quo nunc sunt sed ad comitium, prope iuncta curiae». 33 VARR. Ling. V 155. 34 Colargea e Filaide erano i demi di provenienza rispettivamente di Pericle e di Pisistrato: il d’Alessandro in questa parte finale del capitolo mescola e confonde ‘curia’ intesa come luogo di riunione ed edificio e ‘curia’ intesa come tribù o demo, ovvero circoscrizione, unità demografica in cui veniva divisa la popolazione a Roma (le curie furono ‘inventate’ da Romolo) e ad Atene. 35 Il Prytanion era il luogo dove si riunivano i pritani, funzionari pubblici nell’Atene classica. 36 PLUT. Ant. 23, 3. Cfr. Virorum illustrium vitae, vol. II, c. O1r: «Megarenses vero, cum cuperent aliquid civitatis suae magnificum ostendere per aemulationem Athenarum, rogaverunt Antonium ut ad eorum curiam visendam accederet; quo cum ille venisset, interrogatus ab eis qualis illa curia sibi videretur, “pusilla mihi” inquit “et insuper disiecta”». 32

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mo curia senza alcuna aggiunta di nome, non sono certo per parte mia di quale si debba intendere». 3. «Tuttavia se la memoria non mi inganna» proseguì Pomponio, «ricordo che Asconio Pediano dice che i rostri vicino al Comizio erano quasi attaccati alla curia – parlando di curia senza aggiungere alcuna denominazione propria –, anche se in seguito erano stati trasferiti altrove e rifatti del tutto nuovi». «Per questo motivo ritengo» disse, «come risulta fin troppo evidente, che essendo stata una volta sui rostri la curia Ostilia, come Varrone e altri autori tramandano, ogni volta che vediamo che si parla semplicemente di curia senza nessun altro appellativo, si debba intendere la Ostilia, che leggiamo che era lì prima che i rostri fossero trasferiti altrove. Vicino a questa curia sulla destra sopra il Comizio vi era la Grecostasi, luogo di sosta degli ambasciatori delle popolazioni e nazioni straniere: lì si presentavano e si fermavano in attesa quando venivano a Roma per reclamare su qualche torto o con altri incarichi». 4. Molteplici furono le curie ad Atene, tra le quali la Colargea, degna di citazione perché di là era oriundo Pericle, e quella dei Filaidi, della quale era oriundo Pisistrato, e un’altra curia era quella dei magistrati, dove si amministrava la giustizia, che fu detta Pritaneo. I Megarensi poi, poiché consideravano la loro curia, nella quale era il sepolcro di Timalco, tra le cose mirabili e degne di essere ricordate, si dice che la mostrassero a Marco Antonio come cosa da visitare e straordinaria a motivo delle gigantesche fondamenta; chiesto il suo parere a riguardo, convinti che l’avrebbe celebrata con grandi lodi, quegli, dopo averla vista, la giudicò cosa di poco conto e di nessun valore. E

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lius pensi iudicavit. Cui haud absimile est quod de Chiis proditur, qui cum ex chio marmore versicoloribus maculis urbis muros tamquam quid mirum Ciceroni ostentarent, magis mirum fuisse, si ex tiburtino marmore illos construxissent, allegavit»37. Caput XXI Dissensio inter duos ludi professores super verbo invenio et reperio contra observationes grammatici cuiuspiam.

1. Ambulabamus in litore, dum Neapoli essemus aestivo anni tempore, cum iam advesperasset, ego et Iunius Antonius et plerique studiosi paribus disciplinis dediti, qui illuc otiandi causa advenerant, cumque duos ludi litterarii professores super verbo reperio et invenio gravi contentione inter se iurgantes disceptantesque videremus, libuit eorum disceptationi interesse38. Atque ex his alter, cum invenire diceret esse impenso labore rem diu quaesitam assequi, reperire vero rem non quaesitam sed forte oblatam nancisci, idque Ovidii auctoritate, qui in suo maiori carmine, dum Inachum natam Io quaerentem facit post longos et irritos labores, his verbis illam affatur: «Tu non inventa, reperta es»39; quos ipse versus sic explicabat, ut diceret: «Te ego, cum diu quaesierim, non inveni, sed casu oblatam comperi». Ovidium ergo de significatu verbi contra illum diiudicare asserebat, qui verbum reperio casus facit non operae. «Quoque minus dubites» inquit ille, «habes latinae linguae doctorem non ignobilem»; nec mora commentatiunculas quasdam grammatici hominis non incuriosi, quas secum adduxerat, PLIN. N.H. XXXVI 46: «Primum, ut arbitror, versicolores istas maculas Chiorum lapicidinae ostenderunt, cum extruerent muros, faceto in id M. Ciceronis sale – omnibus enim ostentabant ut magnificum –: multo, inquit, magis mirarer, si Tiburtino lapide fecissetis». 38 Da questo capitolo prendeva le mosse Michele Fuiano per tracciare la sua storia della scuola e dell’insegnamento a Napoli tra Quattro e Cinquecento: M. FUIANO, Insegnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 19732, pp. 19-32. 39 OV. Met. I 654: «Tu non inventa reperta». La tradizione manoscritta tuttavia recita concorde «reperta es». 37

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non diverso è quello che si racconta a proposito degli abitanti di Chio, che quando mostrarono a Cicerone, come se fosse qualcosa di mirabile, le mura in marmo della città di Chio a macchie di vario colore, quegli rispose che sarebbero state più belle, se l’avessero costruite in travertino. Capitolo XXI Dissenso tra due maestri di scuola sui verbi invenio e reperio contro le osservazioni di un tale grammatico.

1. Passeggiavamo sulla spiaggia, una volta che eravamo a Napoli d’estate, quando già cominciava a far sera, io e Giunio Antonio e molti studiosi dediti alle stesse nostre discipline, che lì erano giunti per passare il tempo, e quando vedemmo due maestri di scuola che discutevano e litigavano tra di loro con gran foga sui verbi reperio e invenio, ci piacque inserirci nella loro discussione. E uno di questi diceva che invenire voleva dire ottenere una qualche cosa a lungo cercata con grande fatica, mentre reperire imbattersi in una cosa non cercata ma trovata per caso, e questo con l’autorità di Ovidio, che nella sua opera maggiore, nel luogo in cui racconta di Inaco che va in cerca della figlia Io e la trova dopo lunga e vana fatica, gli fa pronunciare rivolto a lei queste parole: «Tu non inventa, reperta es». E spiegava questi versi così, come se Inaco avesse voluto dire: «Io dopo averti cercato a lungo, non ti ho trovato, ma mi sono imbattuto in te per caso». Asseriva perciò che sul significato della parola Ovidio la pensava diversamente da lui perché attribuiva il verbo reperio alla sfera del caso e non della fatica. «E perché tu non abbia alcun dubbio» aggiunse, «eccoti cosa dice un maestro di lingua latina certamente non sconosciuto», e senza indugio tirò fuori da una tasca il trattatello di un grammatico non spregevole, che aveva

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e sinu togae depromit, in quibus ita scriptum erat: «Excogitare consilii est, reperire vero fortunae, unde Ovidius: “Tu non inventa, reperta es”»40. 2. Haec cum ille et pleraque legisset, reclamabat alter doctorem istum nec verba nec mentem Ovidii intelligere quisse labique errore manifesto, si quidem reperire est cum labore aliquid quaesitum assequi, deductum ex re- et pario – parere enim est cum labore quaerere, unde «pecunia parta cum labore quaesita»41 dicitur –; immo eundem Ovidium, quem in medium ille adduxerat, eodem versu significantius contra demonstrare «Tu non inventa, sed reperta es» inquit, quasi: «Ego te non casu et fortuna nactus sum, sed studio et labore quaesitam repperi»; quod et alio versu eundem exploratius significare aiebat: «exanimesque artus primo, mox ossa requirens, / repperit ossa tamen»42. Praeterque hanc Ovidii auctoritatem, idem apud auctores probatissimos usu continuo observari. Q. Curtius «quippe Euphrates» inquit «altum limum vehit, quo penitus egesto, vix sufficiendo operi firmo reperiunt solum»43; et idem: «quia duces asservati profugerant, misit qui conquirerent, nec reperti»44; Suetonius in Caesare: «idque eo studiosius facerent, quod aliquantum vasculorum operis antiqui scrutantes reperiebant»45. «Vides» inquit ille «reperire esse operae et consilii, non autem fortunae».

Valla aveva scritto nel cap. V 2 Excogito, reperio, invenio, offendo, nactus sum delle Elegantie: «Excogitare est per cogitationem invenire idque ad res tantum incorporeas pertinet, ut “excogitavit argumenta, rationes, figuras, causas”. Est ergo excogitare et invenire consilii, reperire vero fortunae, unde Ovidius: “Tu non inventa, reperta es” [Met. I 654]. Sed iam usus obtinuit ut idem sit reperio quod invenio. Est autem invenire vel consilio vel casu, sive corporea sive incorporea reperire» (ed. cit., c. 120v). 41 Cfr. LIV. X 10, 12: «Galli pecuniam ingentem sine labore ac periculo partam rettulerunt». 42 OV. Met. II 336-337. 43 CURT. V 1, 29: «Quippe Euphrates altum limum vehit, quo penitus ad fundamenta iacienda egesto, vix suffulciendo [sufficiendo codd.] operi firmum [firmo codd.] reppererunt [reperiunt codd.] solum». 44 CURT. IX 9, 1: «quia duces socordius asservati profugerant, misit qui conquirerent alios, nec reperti». 45 SUET. Iul. 81, 1. 40

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portato con sé, nel quale era scritto così: «Excogitare consilii est, reperire vero fortunae, unde Ovidius: “Tu non inventa, reperta es”». 2. Quando ebbe letto queste e molte altre parole, l’altro protestò che codesto maestro non era stato capace di cogliere né le parole né il pensiero di Ovidio ed era caduto in un errore manifesto, dal momento che reperire è ottenere qualcosa che si è cercato con fatica, derivando da re- e pario – parere infatti è cercare con fatica, per cui si dice «pecunia parta cum labore quaesita» –; anzi aggiunse che Ovidio, che quell’altro aveva messo in mezzo, proprio con quel verso «Tu non inventa, sed reperta es» dimostrava chiaramente il contrario, come se avesse detto: «Io non mi sono imbattuto in te per caso o per fortuna, ma ti ho ritrovato dopo averti cercato con passione e fatica». Cosa che – diceva – in un altro verso lo stesso Ovidio lascia intendere con maggiore chiarezza: «Exanimesque artus primo, mox ossa requirens, / repperit ossa tamen». E oltre all’autorità di Ovidio, lo stesso uso si poteva riscontrare presso autori degni di somma approvazione. Quinto Curzio dice: «quippe Euphtrates altum limum vehit, quo penitus egesto, vix sufficiens operi firmo reperiunt solum». E lo stesso: «quia duces asservati profugerant, misit qui conquirerent, nec reperti». Svetonio nella Vita di Cesare: «idque eo studiosius facerent, quod aliquantum vasculorum operis antiqui scrutantes reperiebant». «Vedi» disse quello «che reperire appartiene alla sfera dell’impegno e della volontà, ma non della fortuna?».

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3. Atque alter cum contra tenderet et voce immodica obstreperet, eadem saepius et quaedam nugalia repetendo, cupidus ego istius doctoris mentem plane perspicere, accipio libellum a manibus magistri atque in eo lego pleraque nimium audacis doctrinae et confidentis. Namque eo processit, ut singulos ferme veterum probatissimos, quorum vestigiis nobis inniti operae pretium est, a praescripta a se lege et dicendi norma dissidentes taxare non fuit veritus. Praeter quae, in eo admiratus sum offendo et nanciscor fere idem esse quod reperio, quod procul a vero esse aperte liquet46. Etenim si reperire est aliquid impenso studio invenire, ut est modo ostensum, nemo fere quisquam id in verbo nanciscor et offendo inveniet, si quidem verba haec haud dubie sub casu et fortuna sunt. Praeterea, qui rem exquisitius pensabit, inveniet nancisci id frequentius notare, rem scilicet forte oblatam data occasione assequi et habere. T. Livius tertio Ab urbe condita, «Pacuvius» inquit «Calanus malis artibus nactus opes»47; idem: «castris ponendis dispersos nactus»48; Caesar «idoneam tempestatem nactus»49 dixit, id est ‘assequutus’. Id quod Festo Pompeio auctore scientissimo probatur, qui verbo nanciscor significatum ‘assequendi’ potius quam ‘inveniendi’ in suis commentariis tribuit50, et plerisque veterum auctoritatibus, in quibus si nancisci ‘invenire’ dixeris, profecto absurde et imperite loqueris. Haec et pleraque in eo cum legissem, cum me iam taederet, librum restituo atque illos invicem altercantes disceptantesque relinquo.

VALLA, Elegantie cit., c. i2v: «Offendo fere quod reperio, neque solo revertendo et ad statum rerum vel privatarum vel publicarum pertinet [...]. Nactus sum etiam pro inveni, sive reperi frequenter accipitur». 47 LIV. XXIII 2, 2: «Pacuvius Calavius fecerat, nobilis idem ac popularis homo, ceterum malis artibus nanctus opes». Calanus del d’Alessandro è una delle varianti del cognomen di Pacuvio attestate nella tradizione di Livio (Calanius, ad es., è la lezione della princeps: Romae 1469, c. v10v), la stessa che ricorre anche in MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I 47. 48 LIV. XXIV 36, 1: «Castris ponendis incompositos et dispersos nanctus». 49 CAES. Gall. IV 36, 3. 50 FEST. p. 346 (Lindsay): «Renancitur: significare ait reprehenderit. Unde adhuc nos dicimus nanciscitur et nactus, id est adeptus». 46

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3. E poiché l’altro gli si opponeva e gli gridava contro con voce alterata, ripetendo più volte le medesime e altre sciocchezze, io desideroso di capire fino in fondo il pensiero di codesto esperto, prendo il libretto dalle mani del maestro e in esso leggo molte cose formulate in maniera troppo audace e temeraria. Infatti a tal punto si era spinto quel grammatico, che non aveva esitato a censurare in quanto in disaccordo con la legge e la norma del dire da lui prescritta quasi tutti i più apprezzati autori antichi, sulle cui orme conviene che noi ci muoviamo. E oltre a ciò, mi meravigliai che per lui offendo e nanciscor fossero quasi la stessa cosa di reperio, cosa che è palesemente lontana dal vero. E infatti se reperire è trovare qualcosa con grande sforzo, come è stato mostrato poco fa, nessuno facilmente troverà questo significato nei verbi nanciscor e offendo, dal momento che questi verbi senza alcun dubbio sono sotto il segno del caso e della fortuna. Inoltre chi valuterà la cosa con maggiore ponderazione, troverà che nancisci più frequentemente denota proprio l’ottenere una cosa trovandosela davanti per caso all’occasione. Tito Livio nel terzo libro Ab Urbe condita dice: «Pacuvius Calanus malis artibus nactus opes»; e ancora: «castris ponendis dispersos nactus». Cesare disse «idoneam tempestatem nactus», vale a dire ‘assequutus’. E questo è l’uso approvato da Pompeo Festo, autore di grandissima competenza, che nella sua epitome attribuì al verbo nanciscor il significato di ‘ottenere’ più che di ‘trovare’, e dalla maggior parte degli auctores antichi, per i quali se tu avessi detto nancisci per ‘trovare’ ti saresti espresso sicuramente in maniera sconveniente e scorretta. Dopo aver letto queste e più cose ancora, dal momento che ormai mi annoiavo, restituii il libro e lasciai quei due a discutere e a litigare animosamente tra di loro.

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Caput XXIII Disceptatio Francisci Philelphi cum grammatico an Cicero aliquando ludum aperuerit.

1. Franciscus Philelphus, aetatis suae homo doctus et fortunatus, inter sui aevi poetas famam carmine primum auspicatus est a principibusque, qui eo tempore floruerunt, magnis honoribus et re familiari auctus et honestatus fuit; cuius vitia ineuntis adolescentiae, postquam deferbuere cupiditates, cum iam aetate matura senesceret, magnis postea virtutibus emendavit. Is cum aevo ingravescente celebris famae haberetur et optimatum rogatu accersituque Romam adventasset, experiri – credo – volens quantum dicendo valeret, Tusculanas quaestiones Ciceronis publice in scholis legere aggressus est51. Ad eum quotidie concursus studiosorum iuvenum et clari nominis professorum frequens fiebat, ipseque inter legendum firma etiam tunc voce et latere novis et exquisitis eloquentiae generibus praeceptisque discipulos imbuebat, exploratoque iudicio singula dicendi genera et philosophorum scita multo cum nitore et cultu pensitabat et rimabatur. Eum ego adolescentulus senem inter ceteros coaevos meos colui et observavi, cumque ad eum nos quoque ventitaremus, memini ipsum inter legendum dicere Ciceronem, cum eiusmodi quaestiones scriberet, conventum suae aetatis studiosorum habuisse ludumque litterarium quasi aperuisse, et pleraque hoc genus satis scite et eleganter, ut mos ingeniumque eius fuit, non sine multo ornatu in scholis recensere. Francesco Filelfo (1398-1481) insegnò a Roma tenendo un corso sulle Tusculanae disputationes di Cicerone nel 1475. Sul suo soggiorno nella Roma di Sisto IV, dove fu accolto «humane», «benigne» e «honorifice» (come lui stesso raccontava in una epistola ad Alamanno Rinuccini: ALAMANNO RINUCCINI, Lettere ed Orazioni, a cura di V.R. GIUSTINIANI, Firenze, Olschki, 1953, p. 142), si veda E. LEE, Sixtus IV and Men of Letters, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1978. Sappiamo che accettò l’incarico di insegnamento presso lo Studium Urbis, da lui agognato per anni e alla fine ottenuto grazie all’intervento del cardinale Francesco Gonzaga, nel novembre del 1474, con uno stipendio di 600 fiorini romani. Tenne la lezione inaugurale il 12 gennaio del 1475 con grande successo di pubblico, ma anche tutte le altre sue lezioni ciceroniane attirarono una folta schiera di colleghi. Filippo Maria Renazzi nella sua Storia dell’Università degli studi di Roma detta comunemente La Sapienza (Roma, 51

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Capitolo XXIII Francesco Filelfo discute con un grammatico se Cicerone avesse o meno aperto una scuola.

1. Francesco Filelfo, uomo ai suoi tempi dotto e ricco, per primo tra i poeti suoi contemporanei diventò famoso con la poesia e dai principi, che fiorirono in quel periodo, fu colmato di grandi onori e ricchezze personali; la sua prima giovinezza non fu priva di vizi, ma li corresse quando con l’età si quietarono le passioni, sostituendoli con grandi virtù. Diventato col passare degli anni molto famoso, giunse a Roma su pressante invito dei notabili della città, e volendo mettere alla prova – credo – quanto valesse la sua eloquenza, iniziò a leggere pubblicamente a scuola le Tusculanae disputationes di Cicerone. Presso di lui ogni giorno c’era una grande affluenza di giovani studiosi e di professori di chiara fama, e lui leggeva a pieni polmoni con voce allora ancora ferma impartendo ai suoi studenti nuove e ricercate forme e regole di eloquenza, e con sicuro giudizio esaminava ed esplorava i singoli generi del dire e il pensiero dei filosofi, esponendo tutto con grande chiarezza ed eleganza. Io adolescente tra gli altri miei coetanei provavo riverenza per quel vecchio e lo rispettavo, e poiché anch’io ero solito recarmi da lui, mi ricordo che una volta mentre leggeva disse che Cicerone, quando scriveva tali Disputationes, aveva avuto un pubblico di studiosi della sua età e aveva quasi aperto una scuola, e molte altre cose di questo genere esaminava a lezione sempre con dottrina ed eleganza, come era costume e carattere suo, e non senza molta eloquenza.

Pagliarini, 1803, pp. 217-218) riferiva la testimonianza del d’Alessandro: «Era più che settuagenario il Filelfo, quando venne a far scuola in Roma; e nulladimeno v’intraprese a spiegare le Questioni Tusculane di Cicerone con tal copia di eloquenza e ampiezza d’erudizione, che procacciossi un numeroso e assiduo concorso di scolari. Udillo allora il celebre Alessandro d’Alessandro, che ce n’ha lasciato memoria»; cfr. anche CH. NISARD, Les Gladiateurs de la république des lettres aux XVe, XVIe et XVIIe siècle, Paris 1860, pp. 84-85. Su di lui vd. Francesco Filelfo nel quinto centenario della morte, Atti del XVII Convegno di Studi Maceratesi, Tolentino, 27-30 settembre 1981, Padova, Antenore, 1986, e P. VITI, Filelfo, Francesco, in DBI, XLVII, 1997, pp. 613-626.

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2. Cumque perorasset et a lectione, ut fit, discipuli apud eum se colligerent et fabularentur ipseque illa eadem saepius repeteret, animadverti quempiam grammaticum florentis facundiae, cuius nomen libens praetereo, eius doctrinae aemulum, qui ipsum perniciali odio prosequebatur saepeque apud studiosos illum in invidiam crimenque vocabat singulaque non modo dicta factaque sed verba et nutus observabat, contradicere quaeque ille dixerat, vera esse pernegare, neque apud auctores inveniri Ciceronem ludum aperuisse aut scholas studiosorum habuisse asseverare. Cumque Philelphus, mitis ut erat et placidus, non rhetorum scholas, in quas homines passim ventitarent, sed tamen aliquos praestantis ingenii viros studiosos disciplinarum Ciceronem edocuisse et quasi ludum aperuisse diceret, idque testimonio probari illius ad Paetum epistola, qua se Dionysium Superiorem imitari dicit, qui cum Syracusis expulsus Athenas commigrasset ludum inibi aperuit, se pariter habere discipulos asseveravit52. Haec et pleraque cum ille diceret, contraque cum alter insectaretur, et iam non contentione sed clamoribus et probe dimicatione rem agerent, nec res sisti videretur posse, excandescens Philelphus tanta indignatione exarsit, ut illum indoctissimum omnium indoctorum vocitaret. Tandem communi discipulorum amicorumque intercursu, desita ira et ardore illo animorum, composita controversia et lis dirempta est. 3. Sed cum postea in ipsius Ciceronis multiplici lectione versaremur, invenimus id ab eo apertius significari. Namque ad Volumnium [Cassium] scribens, Cassium et Dolobellam suis auribus frui asseverat53. Ad Paetum quoque: «Veniunt qui me audiunt quasi doctum hominem, quia paulo sum quam illi doctior»54. Et ad Papirium Paetum, 52 CIC. Epist. IX 18, 1: «ex quibus [litteris] intellexi probari tibi meum consilium, quod, ut Dionysius tyrannus, cum Syracusis pulsus [ma expulsus nell’edizione Venetiis, per Bartholomaeum de Zanis, 1492] esset, Corinthi dicitur ludum aperuisse, sic ego sublatis iudiciis, amisso regno forensi ludum quasi habere coeperim». La lettera è indirizzata a Lucio Papirio Peto. 53 CIC. Epist. VII, 33, 2: «Nam et Cassius tuus et Dolabella noster, vel potius uterque noster, studiis iisdem tenentur et meis aequissimis utuntur auribus». Il destinatario della lettera è in realtà Publio Volumnio Eutrapelo: il Cassium dopo Volumnium nel testo del d’Alessandro è sicuramente un errore indotto dal Cassium che segue immediatamente dopo, per cui se ne propone l’espunzione. 54 CIC. Epist. IX 20, 3.

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2. Quando finì di parlare e dopo la lezione, come accade, gli allievi si raccolsero intorno a lui a conversare e lui ripeté ancora una volta le stesse cose, mi accorsi che un grammatico dal fiorito eloquio, il cui nome volentieri ometto, il quale, geloso della sua dottrina, provava per lui un odio mortale e spesso presso i dotti lo diffamava e lo criminalizzava censurando non solo ogni singola cosa detta e fatta, ma anche le sue parole e i suoi gesti, confutava tutto quello che egli aveva detto, dicendo che non era assolutamente vero e che presso gli autori non si trovava scritto che Cicerone avesse aperto una scuola né che tenesse lezioni a studiosi. E Filelfo, che era mite e tranquillo di carattere, rispose che Cicerone non aveva aperto scuole di retorica frequentate indistintamente da chiunque, ma che tuttavia aveva formato alcune persone di prestante ingegno e amanti delle lettere e in questo senso si poteva dire che aveva aperto una scuola; e lo provava la sua stessa testimonianza nella lettera a Peto, dove dice di sentirsi come Dionisio il Vecchio, che quando cacciato da Siracusa era emigrato ad Atene lì aveva aperto una scuola, attestando così che anche lui aveva discepoli. Dopo aver detto questo e parecchio ancora, quell’altro lo aggredì pesantemente, e ormai dalle accuse verbali si arrivò alle urla e quasi allo scontro fisico, né sembrava che la cosa si potesse ricomporre, tanto che Filelfo furente s’indignò a tal punto che lo chiamò il più indotto di tutti gli indotti. Alla fine grazie all’intervento comune di discepoli e amici, sbollita l’ira e quel furore che aveva incendiato gli animi, la controversia rientrò e la lite fu risolta. 3. Ma qualche tempo dopo leggendo e rileggendo altri passi dello stesso Cicerone, scoprii che la cosa era da lui detta fin troppo chiaramente. Infatti scrivendo a Volumnio, Cicerone afferma che Cassio e Dolobella lo avevano ascoltato con le proprie orecchie. A Peto poi: «Veniunt qui me audiunt quasi doctum hominem, quia paulo sum quam illi doctior». E a Papirio Peto dice: «Hirtium ego habeo et

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«Hirtium ego habeo» inquit «et Dolobellam dicendi discipulos, cenandi magistros; puto te audisse illos apud me declamitare»54. Vatinius quoque ad Ciceronem de Catillo inquit: «Defenditur a Q. Volusio, tuo discipulo»55. Quod et M. Fabius de Caelio et Pansa testatus est, qui omnes a primo aetatis gradu Ciceronem in disciplinis bonarum artium sectati fuere56. Sed quod de Cicerone, idem nimirum de Socrate, Platone et Aristotele aliisque doctissimis viris, qui scientia praecelluere, accepimus, qui bonis disciplinis iuvenum animos imbuendo aeternam sibi gloriam peperere suisque dissertationibus et documentis diversarum opinionum sectas invenere. Ante omnes Pythagoras Samius iuvenum aemulantium studia scholasque sophistarum in Italia habuisse fertur, pluresque discipulos reliquisse magnae et expertae virtutis. Sic Thebanum Epaminundam Lysias Pythagoreus, Aristoteles Theophrastum et Syracusanum Dionysium Plato erudivit57, perraroque eximius aliquis ingenio et doctrina inventus est vir, cuius non aliqua monumenta studiorum mandata litteris, aut aliqui discipuli sapientiae praeceptis aucti et imbuti velut hereditaria munera posteritati relicti fuerint.

54 CIC. Epist. IX 16, 7: «Hirtium ego et Dolabellam dicendi discipulos habeo, cenandi magistros; puto enim te audisse, si forte ad vos omnia perferuntur, illos apud me declamitare, me apud illos cenitare». 55 CIC. Epist. V 10a, 2. Il cliente difeso da Quinto Volusio è Catilio, un pirata: Catillus è errore attestato nella tradizione delle Familiares (ma Catilius nell’ed. del 1492 citata nella nota 51). 56 QUINT. Inst. XII 11, 6. 57 Il d’Alessandro istituisce qui una vera e propria genealogia di filosofi, a partire da Pitagora che la tradizione vuole sia stato il primo a fondare una scuola. Gli esempi – ad eccezione di quello aristotelico – provengono dal celebre passo di Cic. De or. III 139-141.

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Dolobellam dicendi discipulos, cenandi magistros; puto te audisse illos apud me declamitare». Anche Vatinio scrivendo a Cicerone dice di Catillo: «Defenditur a Q. Volusio, tuo discipulo». Cosa che anche Quintiliano testimonia a proposito di Celio e Pansa, che seguirono entrambi dai primissimi anni Cicerone nelle discipline umanistiche. Ma ciò che sappiamo di Cicerone, vale anche senza dubbio per Socrate, Platone, Aristotele e altri uomini dottissimi, che eccelsero per sapienza, i quali educando gli animi dei giovani alle buone discipline ottennero per sé gloria eterna e diedero vita a diverse scuole di pensiero grazie al loro insegnamento. Prima di tutti si dice che in Italia Pitagora di Samo suscitò la passione di giovani seguaci e aprì scuole di sofisti lasciando molti discepoli di grande e provato valore. Così il pitagorico Lisia istruì Epaminonda di Tebe, Aristotele Teofrasto e Platone Dionigi di Siracusa, e molto raramente si trovò un uomo eccellente per ingegno e dottrina, del quale non sia stato tramandato un qualche ricordo dei suoi studi, o del quale non siano rimasti discepoli cresciuti ed educati nei precetti della sapienza, quasi doni lasciati in eredità ai posteri.

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Caput I Locus ex Propertio ab Actio Sincero neapolitano in convivio familiari commode emendatus.

1. Saturnalibus1 cum ego et familiares mei complusculi sub idem tempus Neapoli conveniremus, cumque a forensibus negotiis feriarum causa aliquando quies foret, ad Actium Sincerum2, virum ingenii cultu et facundia singulari, cum quo mihi pervetus consuetudo fuit a puero, nonnumquam ventitabamus. Cum eoque vel honestis deambulatiunculis vel sermonibus lepidissimis id quod erat temporis ad multam saepe diem conferebamus quotidianoque eius congressu et assiduo comitatu perfruebamur. Accipiebatque nos homo ille suavitate insigni I Saturnalia erano i giorni festivi dedicati a Saturno che si celebravano nella seconda metà di dicembre; erano caratterizzati da un’atmosfera molto simile a quella del carnevale moderno. Non è chiaro se il d’Alessandro utilizzi questo lessico arcaizzante per indicare le settimane precedenti il Natale o piuttosto il periodo di carnevale. 2 Actius Sincerus è il nome accademico di Iacopo Sannazaro (1458-1530), l’umanista che svolse un ruolo importante come punto di riferimento delle più giovani generazioni in quella delicata fase di passaggio dal Regno Aragonese al Viceregno Spagnolo. Tornato dall’esilio in Francia nel 1504 rimase a Napoli raccogliendo intorno a sé quello che restava dell’Accademia Pontaniana. A 1

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Capitolo I Un luogo di Properzio emendato opportunamente da Azio Sincero napoletano durante un banchetto in casa sua.

1. Nei giorni dei Saturnali io e molti miei amici ci trovammo insieme a Napoli. Eravamo in vacanza liberi dagli impegni forensi e ogni tanto andavamo a trovare Azio Sincero, uomo di ingegno raffinato e di singolare eloquenza, con il quale io avevo fin da ragazzo un’antica consuetudine. E con lui o facendo delle belle passeggiatine o chiacchierando molto piacevolmente, passavamo il tempo che c’era spesso fino a giorno avanzato e godevamo della sua presenza quotidiana e della sua continua compagnia. E lui ci accoglieva con squisita amabilità, di soli-

parte alcuni contributi di Carlo Vecce sulla sua biblioteca e sui suoi interessi antiquari (Iacopo Sannazaro in Francia, cit., Gli Zibaldoni di Iacopo Sannazaro, cit., «In Actii Sinceri bibliotheca»: appunti sui libri di Sannazaro, in Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, Milano, Cisalpino. Istituto Editoriale Universitario, 2000, pp. 301-309), poco noti e studiati sono i suoi interessi filologici, di cui il d’Alessandro ci fornisce qui un notevole esempio.

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plerumque novo epigrammate aut elegia, versibus mundis et graphice factis multo cum nitore et cultu; nonnumquam festivissimis epulis et laetiore convictu cenaque non vulgari nec praetrita, sed aut veteris cucurbitae ferculo cum lactucae thyrso minutim caeso et acino uvae passae insperso aut olentibus pomis anni frigore servatis et ficu sicca sinuessana cum rosaceo ex Petrino suo, quae ipse appellabat petrinia3. Velut fuit illa die, cum mihi et plerisque doctis viris cena exhibita, Sanazario ex Aethiopia bonae frugis liberto, scitissimo adolescenti, quem libertate et gentili cognomento donaverat liberalibusque disciplinis instruxerat4, ita ut cuivis ingenuo non impar videretur, demandavit ut Propertii elegias a se pluribus in locis castigatas summissim leniterque cantaret. 2. Quod cum ille cupide faceret versusque ad tibiam modulis dulcissimis scita et canora voce canere inceptaret, nosque et proferentis verba et concentum numerosque admodum suaves summa cum voluptate captaremus, et iam millibus modulatis versibus ventum esset ubi Cynthiam Baiis demorantem diu abfuisse conqueritur, his verbis:

Cfr. IUV. XI 56-76. Scrive Francesco Colangelo nella Vita di Giacomo Sannazaro (Napoli, Vincenzo Giovannitti, 1817, p. 6) a proposito del ricorrere di questo toponimo nell’elegia del Sannazzaro a Lucio Crasso (I 1, 1-2): «L’antica Petrino era situata nelle vicinanze della Rocca di Mondragone, al cui lato, che corre al mare, se ne vedevano ancor gli avanzi ai tempi di Gioviano Pontano, come egli narra nel secondo libro della sua opera De bello Neapolitano [in verità si tratta del libro V: IOANNIS IOVIANI PONTANI De bello Neapolitano, Neapoli, ex officina Sigismundi Mayr, 1509, c. F6v]. Di Petrino fa poi menzione Orazio nella prima sua lettera del libro primo [in realtà HOR. Ep. I 5, 5]». 4 A riguardo annotava il Tiraboschi, a testimonianza della fortuna europea dei Dies: «Ecco un altro saggio dell’esattezza di alcuni scrittori Oltramontani nel ragionare delle cose Italiane. Nella raccolta de’ detti e delle osservazioni di M. Duchat stampata nel 1744 col titolo di Ducatiana si legge, come veggo affermarsi nel Nuovo Dizionario Storico stampato in Caen nel 1779 (T. VI, p. 229) che il Sannazzaro era Etiope di nascita; che ancor giovane fu fatto schiavo; e venduto a un Signore Napoletano nominato Sannazzaro, il quale posto3

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to con un nuovo epigramma o un’elegia, con versi eleganti e fatti alla perfezione con molto nitore e finezza; qualche volta con un piacevolissimo e molto ameno convito per il quale ci preparava una cena per nulla ordinaria né comune: un piatto di vecchia zucca con un gambo di lattuga tagliato a piccoli pezzi e guarnito con acini d’uva passa, frutti odorosi conservati dalla fredda stagione invernale e fichi secchi di Sinuessa con olio di rose, cose provenienti dal suo fondo di Petrino, e che lui chiamava ‘petrinie’. Come accadde quel giorno in cui, dopo aver offerto la cena a me e a molti altri uomini dotti, domandò a Sannazaro, un servo di buona indole che veniva dall’Etiopia, un giovane molto grazioso, al quale Sincero aveva donato la libertà e il nome di famiglia e istruito nelle arti liberali, così che sembrava non inferiore a un qualsiasi uomo libero, che cantasse a bassa voce e piano le elegie di Properzio che lui in molti luoghi aveva corretto. 2. Quello eseguiva la lettura con trasporto e aveva iniziato a cantare i versi al suono del flauto con voce melodiosa e dolcemente modulata, mentre noi eravamo intenti a cogliere con somma voluttà e le parole che pronunciava e l’armonia del canto oltremodo soave. E ormai si era giunti, dopo che aveva cantato un migliaio di versi, al punto in cui il poeta si lamenta della lontananza di Cinzia, che si trattiene a lungo a Baia, con queste parole:

lo in libertà gli donò il suo cognome. Né si creda, che di questo sì raro aneddoto non si rechi da M. Duchat un’autorevole testimonianza. Ei ne cita in pruova uno scrittore contemporaneo e amico del Sannazzaro, cioè Alessandro d’Alessandro. Or che narra questo Scrittore? Chi sa di latino un po’ più di quello che saperne dovea M. Duchat, vedrà, ch’egli (Genial. Dies L. II. C. I) non dice altro, se non che il Sannazzaro Poeta avea uno schiavo, a cui egli rapito dall’indole e dal talento, che in lui scorse, diede colla libertà il suo cognome» (TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, t. VII, p. III, cit., p. 1766).

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Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Baiis, qua iacet Herculeis semita litoribus, et modo Thesproti mirantem subdita regno proxima Misenis aequora nobilibus?5

Actius carminibus pausam fieri iussit et ad me conversus: «Quid tu» inquit, «qui orbis situm tamdiu legendo perscrutaris, Misenum aut Baias cum Thesproti regno commune habere vidisti? Numquid in memoriam venit Thesprotium agrum in Epyro iuxta Chaones et Acarnanes aut, sicut Herodotus ait6, Ambraciis et Leucadiis proximum longe a Cumano abesse? Quid enim isto in loco hic poeta senserit, qui regno Thesproti aequora Miseno proxima subdita esse dixit, cum tanto maris terrarumque recessu discreta sint, non equidem intelligo. Neque enim Thesprotios in Cumanum venisse aut in Italiam colonias deduxisse, vel armis novas sedes conquisisse, umquam, quod meminerim, legi, nisi tu forte, qui meliore memoria es, aliter sentis». 3. Cumque me id arbitrari respondissem, quod plerique studiosi sensere, ut poeta loci confinio et quasi commercio ductus, cum ex Chalcide et Euboea profecti multum in ora maris possent lateque fines propagassent, illosque Cumanum tenuisse et illuc colonias deduxisse auctores tradant7, si quidem Hypocles Cumaeus et Megasthenes Chalcidensis8, multo emenso mari, huc colonias deduxere moniti oraculo, quippe cum nullam coloniam sine consilio deorum Graeci tra5 PROP. I 11, 1-4: «Mentre te ne stai in ozio al centro di Baia, là dove giace sulla spiaggia la via Erculea, e ti sorprendi che le acque – sino a tempi recenti sotto il regno di Tesprozio – siano ora nei pressi della famosa Miseno, ti viene mai fatto di pensare che, ahimé, lunghe notti trascorro nel ricordo di te?» (trad. di Paolo Fedeli, in PROPERZIO, Elegie, Firenze, Sansoni, 1988, p. 21). 6 Cfr. HDT. VIII 47, 2. 7 LIV. VIII 22, 5-6: «Palaepolis fuit haud procul inde ubi nunc Neapolis sita est; duabus urbibus populus idem habitabat. Cumis erant oriundi; Cumani Chalcide Euboica originem trahunt. Classe, qua advecti ab domo fuerant, multum in ora maris eius quod accolunt potuere, primo in insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre». 8 La fonte classica è VELL. PATER. I 4, 1: «Nec multo post Chalcidenses orti, ut praediximus, Atticis Hippocle et Megasthene ducibus Cumas in Italia condiderunt. Huius classis cursum esse directum alii columbae antecedentis volatu ferunt, alii nocturno aeris sono, qualis Cerealibus sacris cieri solet. Pars

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Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Baiis, qua iacet Herculeis semita littoribus, et modo Thesproti mirantem subdita regno proxima Misenis aequora nobilibus?

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Azio allora ordinò di fare una pausa e rivolto a me disse: «Tu che hai studiato così a lungo i testi di geografia, cosa pensi che abbia in comune Miseno o Baia con il regno di Tesproto? Non ti sembra di ricordare che la terra di Tesproto che si trova in Epiro vicino alla Caonia e all’Acarnania o, come dice Erodoto, vicinissimo ad Ambracia e a Leucade, sia molto lontana da Cuma? Che cosa ha voluto dire in questo luogo il nostro poeta, che scrisse che il mare vicino a Miseno era soggetto al regno di Tesproto, quando i due luoghi sono separati da così grande distanza di mare e terre, non comprendo proprio. Né infatti ho letto da nessuna parte – a quanto ricordo – che i Tesprozi siano venuti nel Cumano o in Italia abbiano fondato delle colonie, o abbiano conquistato nuove terre con le armi, a meno che tu per caso, che hai una memoria migliore, non la pensi diversamente». 3. E allora io risposi che pensavo, come del resto avevano detto molti studiosi, che il poeta era stato condizionato dalla stretta relazione tra i due luoghi: partiti infatti da Calcide in Eubea, i Greci avevano avuto molto potere sul mare e avevano ampliato i loro confini, e gli autori riferiscono che occuparono la terra di Cuma e lì fondarono colonie, sia che si trattasse di Ipocle di Cuma e Megastene di Calcide, che attraversarono molto mare su suggerimento dell’oracolo – i Greci non inviavano nessuna colonia senza aver consultato gli dei –, sia che, come

horum civium magno post intervallo Neapolim condidit»; se ne ricorda anche STAT. Silv. III 5, 79-80 e STRAB. V 4, 4. Il Pontano nell’ultimo libro De bello Neapolitano recepisce il mito della fondazione della città sulla tomba di una delle Sirene, Partenope appunto («proditum tamen est memoriae, atque ita hominum opinio tenuit, unius ex eis [sirenis] conditum sepulcrum editiore in colle ad ultimum maris sinum dedisse colli nomen vocatumque illum ex eo Parthenopen, quod nomen post fuit etiam urbis eius quae nunc est Neapolis.

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smitterent, vel, ut multi ferunt, duce Parthenope Eumeli filia, quae solum neapolitanum delegit columbae augurium sequuta, in cuius rei monumentum Apollini statuam Neapolitani erexere, colomba humero insidente, quam ipsa inspicere et adorare videbatur9, Thesprotiumque agrum ab Euboea haud multum distare certum sit, quasi ad hoc alludens poeta subdita regno Thesproti aequora Miseno proxima affirmarit, scilicet quia ex Chalcide Thesprot‹i›is proxima et Cumaeis profecti agrum Miseno finitimum, hoc est ipsas Cumas, tenuerunt, propterea ea loca subdita videri solereque non ignobiles poetas loca et recessus circumscribere, illaque non exposite et aperte sed quasi per tegmenta et figuras obliquis orationibus denotare; idque sensisse doctos viros, itaque versus interpretatos fuisse dixi. 4. «Numquam» inquit Actius, «quod ego scio, tam hispida et agresti aure Propertius fuit, ut, cum Chalcidem aut Cumaeos dicere contenderet, Thesprotium agrum quasi finitimum illorum loco nuncuparit, cum praesertim nulla societas aut communio cum Thesprotiis agro Cumano fuerit, constetque, si omnes sinus, promontoria, litora, insu[...] cuius post loci frequentiam auxere Cumani atque e Chalcide Euboeae profecti coloni, auxere et Rhodii, quo tempore rebus maritimis plurimum valebant, deducta illuc colonia locoque in oppidi forma redacto. Nam Graecam eam fuisse urbem id vero certissimum est» (ed. cit., cc. G5rv): cfr. a riguardo di F. TATEO, Le origini cittadine nella storiografia del Mezzogiorno, in I miti della storiografia umanistica, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 59-80, e La metamorfosi delle Sirene nella mitologia umanistica, in «Per dire d’amore». Reimpiego della retorica antica da Dante agli Arcadi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 133-148. Differente la versione tramandata dalla Cronaca di Partenope, che larga fortuna ancora aveva a Napoli nel Cinquecento: coloni greci provenienti da Calcide e Eubea giungono sulle coste della Campania fondando Cuma e solo in seguito ad una pestilenza e al monito dell’oracolo di Apollo si decidono a fondare una nuova città (Neapolis) sulla tomba della giovinetta Partenope: si veda The Cronaca di Partenope. An Introduction to and Critical Edition of the First Vernacular History of Naples (c. 1350), a cura di S. KELLY, Leiden-Boston, Brill, 2011, in part. pp. 165-170. 9 A questo proposito il d’Alessandro è citato a fine Cinquecento da GIOVANNI ANTONIO SUMMONTE, Historia della città e regno di Napoli, in Napoli, nella Stamperia di Domenico Vivenzio, 1748, p. 4: «Altri furono d’opinione come Eustatio interprete d’Homero sopra a Dionisio Atro [EUSTAT. Dion. Perieg. 358], che questa Città fu chiamata Partenope da una donna non

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molti raccontano, fossero stati guidati da Partenope, figlia di Eumelo, che scelse il suolo napoletano seguendo l’augurio di una colomba. E a ricordo di questo fatto i Napoletani eressero una statua di Apollo con una colomba sulla spalla, che quella sembrava guardare e adorare. Allora, se è certo che la Tesprozia non dista molto dall’Eubea, il poeta, forse alludendo a ciò, avrebbe potuto affermare che il mare vicino a Miseno era soggetto al regno di Tesproto, proprio perché partiti da Calcide, vicinissima alla Tesprozia e a Cuma, i Greci occuparono il territorio intorno al Miseno, cioè la stessa Cuma, motivo per cui quei luoghi sembrano essere sottomessi ai Tesprozi, considerato anche che i poeti non da poco sogliono indicare in modo vago i luoghi più lontani denotandoli appunto non in maniera chiara ed esplicita ma in maniera indiretta attraverso mascheramenti e allusioni. E conclusi che questo credevano i dotti e così erano stati interpretati quei versi. 4. «Mai» replicò Azio, «a quanto ne so, Properzio fu di orecchio così rozzo e grossolano da chiamare in causa, volendo dire Calcide o Cuma, la terra di Tesproto come se fosse confinante con quelle, tanto più che non vi era alcuna relazione o comunanza tra Cuma e i Tesprozi, ed è cosa certa, se tu volessi passare in rassegna tutti i golfi, i promon-

favolosa come la Sirena, ma vera, chiamata Partenope figliuola d’Eumelo, che non da Cuma come scrive il Falco, ma da Calcide dell’Isola d’Eubea condusse quivi nuovi habitatori, seguendo l’augurio d’una bianca colomba: in memoria del che poi i Napolitani drizzarono una statua ad Apolline, negli homeri del quale sedeva la colomba, che Partenope dimostrava risguardarla, et adorarla, come scrive Alessandro di Alessandro nostro nobile cittadino, lo che cava da Statio Papinio, etc...».

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las et urbes maritimas ac maria vasta et terrae infusa ex omni antiquitate percensere velis, Thesprotios magno litorum flexu et multiplici sinu longe a Chalcide Euboeae et Cumaeis abesse, nec ita finitimos ut forsan arbitraris. Neque ego huius poetae praestantis ingenii vim hos nitidissimos et mundissimos versus optime editos tam abstruso et recondito significatu verborum conculcasse putarim. Etenim, si Chalcidenses et Eretrienses ex Euboea classe huc advectos Cumas condidisse et pulcherrimam Campaniae oram ac loca Miseno proxima tenuisse fama fert, sicut Iapygiam, Phaliscos, Nolam et Abellam tenuere, cur loca Miseno finitima potius Thesprotiis quam Chalcidensibus, quam Heretriensibus subdita dixerit equidem ignoro, cum et hi veri incolae sint et longe aptius convenientiusque fuit istos, quam illos, cum quibus nullum erat commercium, nominasse». 5. «Verum» inquit Actius, «si versus istos bene pensitare et verba ac sensus aure attenta rimari volumus, non Thesproti, ut communis error habet, sed te Prochytae a poeta scriptum fuisse facile contenderim, idque ita esse, in quodvis pignus vocarem, non aliter scriptum carmen ab eo editumve fuisse. Sed hic error ita aliquibus insedit penitus, ut divelli haud facile queat10; quod tamen ita esse, inclinat animus probabili argomento. Cum Prochytam et Pithecusas a continente aestu marino evulsas quandoque circumfluum mare insulas fecisse liquido constet, sicut Capreas, Leucosiam, Sirenes et Oenotrias11, seu, quod multi tradunt, Inarimen montem fuisse, qui motu terrae disclusus a continente Prochytam fecit insulam, angusto freto interfluente, quae Graecis ab ‘effusione’ dicta est12. Ipsamque et Pithecusas, disclusas montis partes proximas Cumanorum finibus tamquam moles obiectas ante agrum Cumanum et Misenum existere antiqua monumenta annalium prodidere, quod et nunc videre licet. Subdita ergo Prochytae Vd. Introduzione, pp. 49-52. Cfr. STRAB. VI 1, 6; è molto probabilmente la fonte diretta di questo passo, come dimostra un confronto con la versione latina, che traduce il greco Oijnwtrivde" con Oenotriae: «Nam Prochyta et Pithecusae avulsae de terra partes sunt. Eodem modo et Capreae et Leucosia et Syrenes et Oenotriae» (STRABONIS De situ orbis, Venetiis, Johannes Vercellensis, 1494, c. LIv). 12 SERV. Aen. IX 712: «ut dicit Plinius in naturali historia, Inarimes mons fuit qui terrae motu de ea fusus alteram insulam fecit, quae Prochyta a effusione dicta est: fundere enim est ejkcevein». 10 11

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tori, le spiagge, le isole, le città di mare e i mari immensi, che bagnano le terre, conosciuti nell’antichità, che i Tesprozi sono lontani per un gran tratto di costa e vari golfi da Calcide di Eubea e da Cuma, e non così vicini come forse tu pensi. Né io potrei credere che la forza d’ingegno sublime di questo poeta abbia potuto rovinare questi nitidissimi e raffinatissimi versi da lui ottimamente composti con un tale astruso e oscuro significato di parole. E infatti, se la fama riporta che i Calcidesi e gli Eretriesi giunti qui dall’Eubea con una flotta abbiano fondato Cuma e occupato la bellissima costa della Campania e i luoghi vicini a Miseno, così come occuparono la Iapigia, la terra dei Falisci, Nola e Abella, proprio non capisco perché avrebbe detto i luoghi vicini al Miseno soggetti ai Tesprozi piuttosto che ai Calcidesi o agli Eretriesi, dal momento che questi sono i veri coloni, e molto più giusto e opportuno sarebbe stato nominare questi piuttosto che quelli, con i quali non vi era alcuna relazione». 5. «Tuttavia» disse Azio, «se vogliamo esaminare bene codesti versi e considerare le parole e il loro significato con attenzione, sarei tentato di dire che non Thesproti, come vuole un comune errore, ma te Prochyte sia stato scritto dal poeta, e scommetterei qualsiasi cosa che è così e che in questo modo fu da lui scritto e pubblicato il carme. Ma questo errore è penetrato così profondamente in alcuni, che non facilmente può essere estirpato, ma sarei ben propenso a credere che la cosa stia così e per una ragione plausibile. È cosa certamente risaputa, infatti, che Procida e Pitecusa staccatesi un giorno dal continente a causa di un maremoto diventarono isole circondate dal mare, come Capri, Leucosia, le Sirene e le Enotrie, ovvero, cosa che molti riferiscono, fu il monte Inarime, che, staccatosi per un terremoto dal continente, diede origine, frappostasi una stretta striscia di mare, all’isola di Procida, dai Greci così detta da provcidh", in latino effusio. E in antichi documenti è stato tramandato che questa e Ischia, parti staccatesi da un monte vicinissimo a Cuma come rocce scagliate in mare, si fermarono davanti a Cuma e a Miseno, cosa che anche ora è possibile vedere. Potrei credere allora che il poeta abbia detto soggetto al regno di Procida il mare vicino a Miseno, perché le loro coste sono molto

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regno Miseni proxima aequora poetam dixisse crediderim, cum ipsa litora facili traiectu apta et cohaerentia sint, quippe cum ante ipsam parvo freto distincta iaceant, propterea subdita videri, potius quam Thesprotios, cum quibus nullum commercium fuit, extimos et remotissimos intellexisse. Insulas quoque regna nuncupari Virgilii testimonio probatum est, septimo Aeneidos dum inquit: “Fertur Teleboum Capreas dum regna teneret”»13. 6. «Huiusque erroris illud quoque specimen est, quod alio in loco communi opinione pudendo errore receptum erat navitam hunc poetam fuisse, quod quidem ita fuit in confesso, ut in eius vitae commentariis plerique id pro certo posteris tradere non dubitarint, ut altero versiculo constare videbatur “et quamvis navita dives eram”, quo imperitius dici profecto nihil potuit, cum neque hoc usquam gentium tradatur, ut elegantissimus poeta et honestissimus, vitae genus poetarum studiis piaculare et portentosum, nautae munus concupiverit, et portenti ac prodigii simile est haec commenta in tanti ingenii viro opinari». «Sed quod a vero minime abest, mendum etiam in hoc versiculo facile» inquit «ostendimus, si quidem, ubi legebatur perperam “quamvis navita dives eram”, “non ita dives eram” dicendum fuit14. Huius quoque rei haud improbabile documentum videri, quod Iovianus Pontanus15, vir multae eruditionis, antiquissimo firmabat testimonio Propertii elegias patrum nostrorum aetate et se adolescentulo primum in lucem prodiisse, cum antea inscitia temporum incompertae forent et incognitae, opusque obliteratum et longissimo aevo absumptum, corrosis et labentibus litteris, in cella vinaria sub doliis inventum apparuisse, et cum libelli vetustate, verbis et nominibus absumptis, longo situ et senio, quod in diuturna obscuritate latuerat, veram lectionem assequi nequirent, effectum ut mendosi inde codices prodirent paulatimque discuti errores et corrigi coepti sunt, nec tamen effici quisse, ut VERG. Aen. VII 735. PROP. II 24, 38. Nelle edizioni moderne si legge «et quamvis non ita dives eras» (la lezione eram del d’Alessandro non è attestata dalla tradizione ed è da considerarsi probabilmente un lapsus o un errore della stampa): vd. Introduzione, pp. 50-51. 15 Su di lui in relazione a Properzio vd. ora THOMSON, Propertius, Sextus, cit., pp. 185-189. 13 14

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vicine e collegate da un facile traversata, dal momento che Cuma e Miseno giacciono davanti ad essa separate da un piccolo tratto di mare, motivo per cui sembrano davvero soggette all’isola, piuttosto che abbia pensato ai Tesprozi, lontanissimi e remotissimi, con i quali non vi era alcun rapporto. È inoltre provato dalla testimonianza di Virgilio che le isole erano chiamate regni, quando dice nel VII dell’Eneide: “Fertur Teleboum Capreas dum regna teneret”». 6. «E che si tratti di un errore, abbiamo anche questa prova. In un altro luogo per comune opinione a causa di un grossolano fraintendimento si era letto che questo poeta fosse un marinaio, cosa che parve così indiscutibile, che nelle sue biografie i più non esitarono a tramandare la notizia ai posteri come cosa certa, come sembrava risultare in quest’altro verso: “et quamvis navita dives eram”. Certo niente di più sbagliato potrebbe essere stato detto, dal momento che in nessun luogo al mondo si è sentito mai che un poeta molto raffinato e rispettabile abbia ambito a guadagni da marinaio, un genere di vita sacrilego e straordinario per un poeta; e mi sembra una cosa assurda e incredibile pensare queste sciocchezze di un uomo di così grande ingegno». «Tuttavia» aggiunse, «cosa che non è per nulla lontano dal vero, posso facilmente mostrare l’errore anche in questo verso: dove si leggeva per una svista “quamvis navita dives eram”, si dovrebbe dire “non ita dives eram”. E di questi errori vi è inoltre una spiegazione alquanto plausibile. Gioviano Pontano, infatti, uomo di grande erudizione, raccontava che solo all’epoca dei nostri padri, quando lui era un ragazzino, erano state per la prima volta riportate alla luce in un antichissimo codice le elegie di Properzio, che prima per l’ignoranza dei tempi erano del tutto sconosciute. Il libro dimenticato e da così lungo passare del tempo consumato, con le lettere corrose e illeggibili, era ricomparso in una cantina sotto delle giare, e poiché a causa della sua antichità, che aveva cancellato parole e nomi, e per il fatto che per troppo tempo era rimasto nascosto nella più completa oscurità, non si riusciva a comprendere la sua vera lezione, era accaduto che ne erano state tratte copie mendose e che anche quando si cominciò a eliminare e a correggere gli errori ad uno ad uno, non si poté tuttavia far in modo da con-

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posteris omnino integri inoffensique darentur»16. Ad hunc modum Actius Sincerus noster scite admodum apud complusculos qui aderamus sermocinabatur, itaque mendaces libellos deprehendebat erroresque diiudicabat ac perpenso iudicio vitia rimabatur. Caput IX Mira exempla a compluribus experta de umbrarum figuris et falsis imaginibus, et quae ipse didici atque expertus fui17.

1. Profecto rem mirificam et dictu aestimatuque admirabilem de umbrarum figuris et falsis imaginibus, quae homines varia specie et aspectu vano plerumque illudunt, familiaris meus quispiam modo mihi enarravit, quod equidem fabulosum aut commentitium videri posset, nisi gravioris esset ingenii et praestabilis homo doctrinae ipsiusque virtutis et non ambiguae fidei plerisque in rebus multa et magna documenta forent. Refert enim quod Romae quondam ipsius amicus diutino et gravi morbo aegrotabat, cum quo coniunctissime vixerat, et quia corpore invalido affectoque esset valetudineque minus prospera utere-

16 Questo aneddoto è stato ampiamente studiato e commentato dai filologi classici. Butrica a suo tempo così risolveva l’interpretazione del passo del d’Alessandro: «This has universally been understood to mean that Pontano claimed that Propertius had been unknown until in his youth an old and badly faded copy was discovered under some barrels in a wine-cellar. By the time that Pontano, who was born in 1426 [ma 1429], was adulescentulus, several copies circulated in Italy, and so Plessis, Richmond, Boucher, and others accuse Pontano of inaccuracy of mendacity. This is unjust; the few available copies were confined to Padua (Petrarch’s), Pavia (the Visconti library), Genoa (where L was copied in 1421), and Florence, and there is no evidence that Propertius was yet available outside these centres. [...] The description of the codex under the wine-barrels has, I suggest, been misunderstood». Il racconto del d’Alessandro farebbe pensare allora secondo Butrica piuttosto ad una generica riflessione sulle ragioni della corruzione del testo di Properzio che al riferimento ad un codice in particolare: «and the detail of the wine-cellar is only a colourful addition, perhaps inspired by the story of Catullus found under a bushel, probably a joking reference to one aspect of the poet’s nequitia» (BUTRICA, The manuscript tradition, cit., pp. 16-17). 17 Un modello sicuramente presente al d’Alessandro è PLIN. Epist. VII 27:

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segnare ai posteri un testo integro e corretto». In questo modo il nostro Azio Sincero con molta saggezza parlava a noi che eravamo lì presenti numerosi, e così sottoponeva a revisione i testi corrotti discernendo gli errori e con giudizio ben ponderato riconoscendo le corruttele. Capitolo IX Casi straordinari capitati a molti riguardanti apparizioni di fantasmi e allucinazioni, di cui io stesso sono venuto a sapere e che ho sperimentato di persona.

1. Poco tempo fa un mio conoscente mi ha raccontato una cosa sicuramente meravigliosa e sorprendente a dirsi e a pensarsi: parlava di apparizioni di fantasmi e allucinazioni, che spesso ingannano gli uomini con visioni evanescenti di vario genere. Il fatto potrebbe anche sembrare favoloso o inventato, se non si trattasse di un uomo molto serio e di grande dottrina e non vi fossero molte e importanti testimonianze del suo valore e della sua sicura affidabilità in numerose situazioni. Raccontò dunque che una volta a Roma un suo amico, con il quale aveva vissuto a stretto contatto, e che soffriva da molto tempo di una grave malattia, poiché era debilitato nel corpo e molto sofferente,

cfr. A. STRAMAGLIA, Res inauditae, incredulae. Storie di fantasmi nel mondo greco-latino, Bari, Levante, 1999.

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tur, visum est ad illa apparatissima balnea, quae Cumis sunt, vegetandi corporis et animi levandi causa proficisci, cum fere constet homines ex ancipiti morbo locorum mutatione et sereniore caelo plerumque levari. Hi ergo cum fidis aliquot comitibus Cumas cum iter intenderent et aliquantulum viae emensi forent, aeger cum esset et vita et spe tenui, vi morbi coalescente et labore viae, in hospitium, in quod forte diverterant, suum obiit diem. Is ergo amicus, qui una accesserat, quantum provideri hominis diligentia potuit, pro loco funere satis amplo illum efferri, rem divinam fieri atque in honorato urbis loco sepulchro condi curavit, ibique cum moestos aliquot habuisset dies, curatis rebus omnibus, ipse et comites Romam, unde digressi fuerant, reverti coepere. 2. Sed cum aliquantum viae remensi essent et nocte appetente in unum quod viae proximum fuit hospitium divertissent, ibi se animo et corpore fatigatum quieti dedisse, cumque solus degeret et adhuc vigilans foret, fert repente amici nuper defuncti imaginem summo pallore et macie ac eo ferme habitu oris, quali illum cum aegrotaret dimiserat, ad se accessisse, quem, cum fuisset intuitus et prae timore nec animo nec mente satis constaret, quisnam esset interrogavit. Ille autem cum nihil respondisset, exutis, ut videbatur, vestibus, in eodem quo ipse iacebat lectulo se collocavit ac prope accessit, quasi eum amplexibus petiturus foret. Alter vero, cum prope iam metu exanimis videretur, ad lectuli spondam secessit illumque prope accedentem abegit, qui cum se abigi expellique vidisset, fert in eum torvo et minus familiari vultu inspexisse resumptisque mox vestibus illum e lectulo surrexisse cinctumque et calciatum inde abeuntem nusquam apparuisse. Quo timore familiaris ille percitus, subita vi morbi correptus ac prope ad internecionem gravissima valetudine oppressus fuit. Ferebat etiam, dum in lectulo cum illo luctaretur, nudum illius pedem usque adeo gelidum ac rigentem attrectasse, ut nulla glacies illius frigori comparari potuerit.

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pensò bene di partire per le splendide terme di Cuma per rinvigorire il corpo e sollevare lo spirito, dal momento che è pressoché cosa certa che gli uomini riescono il più delle volte a trovare sollievo dalle gravi malattie spostandosi in luoghi con un clima migliore. Dunque costoro intrapresero il viaggio per Cuma insieme ad alcuni amici fidati, ma dopo aver percorso una parte del cammino, il malato, che aveva poca speranza di vita, aggiungendosi alla violenza della malattia la fatica del viaggio, lasciò questo mondo in un albergo nel quale per caso si erano fermati. L’amico, allora, che era partito insieme a lui, con quanta più cura poté e per quanto gli consentì il luogo si preoccupò di fargli un funerale abbastanza splendido, gli fece dire la messa e lo fece seppellire in un luogo prestigioso della città e, dopo aver passato lì alcuni giorni in lutto, sistemate tutte le cose, lui e i compagni si avviarono per tornare a Roma, da dove erano partiti. 2. Ma dopo che ebbero percorso una parte del viaggio, al sopraggiungere della notte si fermarono in quell’unico albergo che era vicino alla strada e lì si riposarono stanchi e affranti. Mentre lui era solo e ancora sveglio, raccontava che all’improvviso gli si era avvicinato il fantasma dell’amico morto da poco, tutto pallido e magro e con la stessa espressione in volto che aveva quando era ammalato e lo aveva lasciato, e che, dopo averlo guardato, poiché per la paura non era abbastanza lucido né vigile, gli aveva chiesto chi fosse mai. Quello non aveva risposto ma, toltesi – così gli era parso – le vesti, si era sistemato nello stesso lettino dove lui era coricato e gli si era avvicinato come se volesse abbracciarlo. Lui allora, quasi morto dalla paura, si era spostato sulla sponda del letto e lo aveva respinto e quello, quando si era visto allontanato e scacciato, lo aveva guardato – raccontava – con una faccia torva e poco amichevole e recuperate subito le vesti si era alzato dal letto, si era vestito, messo le scarpe e se ne era andato scomparendo per sempre. Quel mio conoscente, spaventato, fu preso da improvviso violento malore e si ammalò in maniera così grave che quasi ne morì. Raccontava inoltre che, mentre nel lettino aveva lottato con quello, aveva sfiorato il suo piede nudo e lo aveva sentito a tal punto gelido e irrigidito dal freddo da non poterlo paragonare nemmeno al ghiaccio.

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3. Equidem memorabile hoc et cuivis mirum videri posset, nisi pervulgata res esset aedes quasdam Romae evidentissimis ostentis ita infames, ut nemo illas incolere ausus fuerit, quin variis umbrarum illusionibus et taetris imaginibus noctibus fere singulis inquietetur. Gordianus amicus meus, spectatae fidei homo, mihi retulit cum Aretium ipse et familiaris suus iter una intenderent et a semita, ut fit, longe deviassent, loco infami et devio, ubi ne vestigium quidem apparebat humanum, per ardua et prope invia diversis tramitibus aberrare coepisse. Ibique, cum nec oppida aut vicos, neque aliquid culti viderent, sed nemora tantum saltusque invios et inaccessos omniaque vasta, muta et deserta ab humano cultu peragrarent, in quibus ipsa solitudo terrebat animos, vergente iam ad occasum die, fessos labore ac via consedisse, cumque hominis vocem audire procul visi fuissent, ad illam propius accessisse, homines obvios, quos de via interrogarent, dari sibi arbitrati. Nec mora, in proximo iugo trium hominum imagines immanes et formidabiles ultra humanum modum, nigris et demissis tunicis, in veste lugubri funestaque, barba capilloque summisso, horribili facie conspexisse, qui cum voce gestuque ad seipsos advocarent, ac iam prope esset ut illuc accederent, illos interim ingenti mole corporis longe humana maiores apparuisse, atque alium specie non absimili, nudum et nullo amictum vestitu, mirificos edentem saltus gestusque indecoros conspexisse. Quo timore consternati, propere fugam cepere viamque arduam et praecipitem emensi vix rustici cuiuspiam vile hospitium ubi reciperentur invenere. 4. Sed quod ego certum habeo et satis certa probatione tradiderim, profecto haud minus est. Cum Romae aegra valetudine oppressus forem iaceremque in lectulo, speciem mulieris eleganti forma mihi plane vigilanti obversatam fuisse, quam cum inspicerem diu cogitabundus et tacitus fui, reputans numquid ego falsa imagine captus aliter atque res esset aspicerem, cumque meos sensus vigere et figuram illam nusquam a me dilabi viderem, quaenam illa esset interrogavi. Quae tum subridens et ea quae acceperat verba respondens, quasi me plane derideret, cum diu me fuisset intuita, discessit.

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3. Certo questo è un fatto memorabile che potrebbe sembrare incredibile a chiunque, se non fosse arcinoto che alcune case di Roma hanno una così brutta fama a causa di evidentissimi prodigi, che nessuno oserebbe mai abitarle, perché quasi ogni notte sarebbe tormentato da diverse apparizioni di ombre e di spettri spaventosi. L’amico mio Gordiano, uomo di provata lealtà, mi ha raccontato che mentre lui e un suo domestico facevano insieme un viaggio verso Arezzo, essendogli accaduto di deviare molto dalla strada maestra, avevano cominciato a vagare per vari sentieri attraverso luoghi impervi e quasi impraticabili, in un posto sconosciuto e fuori mano, dove non si vedeva nemmeno una traccia di essere umano, e lì, non avendo visto né paesi né villaggi, né nulla di coltivato, ma avendo attraversato soltanto boschi e selve impraticabili e inaccessibili, luoghi del tutto desolati, silenziosi e lontani da ogni civiltà, in cui la stessa solitudine atterriva gli animi, mentre il giorno ormai volgeva al tramonto, stanchi per la fatica e per la strada si erano fermati. Ad un tratto gli era sembrato di udire lontano la voce di un uomo e si erano diretti in quella direzione credendo di incontrare qualcuno cui avrebbero potuto chiedere informazioni sulla strada. All’improvviso, sul giogo più vicino, avevano visto le sagome di tre uomini, immani e spaventosi oltre la maniera umana, con vesti nere e dimesse, lugubri e funeree, con barba e capelli lunghi e un volto terrificante, che a voce e a gesti li chiamavano a sé, e ormai mancava poco a raggiungerli che quelli erano apparsi giganteschi, di statura di gran lunga superiore all’umana. E poi ne avevano visto un altro non diverso d’aspetto, completamente nudo, che faceva dei salti straordinari e dei gesti osceni. Terrorizzati, subito avevano preso la fuga e dopo aver percorso una strada difficile e scoscesa, a fatica avevano trovato l’umile dimora di un contadino dove rifugiarsi. 4. Ma quello che io so per certo e su cui potrei riferire in maniera abbastanza circostanziata, non è proprio cosa da meno. Mi trovavo a Roma ammalato, giacevo a letto ed ero sicuramente sveglio, quando mi apparve il fantasma di una donna elegante, e dopo averla vista me ne stetti a lungo pensoso e in silenzio, credendo che forse, colpito da un’allucinazione, vedessi una cosa diversa da quella che era; ma resomi conto che i miei sensi erano a posto e che tuttavia quel fantasma non si allontanava da me, le chiesi chi fosse. E allora lei sorridendo e rispondendo con le parole che io avevo pronunciato, quasi mi volesse prendere in giro, dopo avermi guardato a lungo, svanì.

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Caput XXI Miraculum de homine qui plus in mari quam in terris degebat maximaque aequora velocissime tranabat.

1. Qui siderum motus statusque et intervalla ac certos constitutosque cursus et recursus illorumque vires et qualitates mensurasque Solis ac Terrae animo meditati sunt, inter quos apud Graecos Berosus, Eudoxus Gnidius, Aristoteles et Empedocles, apud nostros Aratus, Iulius Firmicus, M. Manilius et alii clarae sapientiae auctores, quos fama vulgavit, periti caelestium18, qui divinas praedictiones, decreta stellarum ac vim fati potestatemque subtili inquisitione collegere, hoc inter cetera adnotarunt, illos qui sub Delphini sidere in lucem editi fuissent petaminarios esse, hoc est praecipua pedum pernicitate valere19, prorsus ut admirabile videatur quam pernici cursu et quam volucri meatu magna spatia terrarum brevi intervallo emensi fuerint, quamvis plerique physici rerum non ignari, quod his splen deficiat, propterea cursu valere contendant. Constat enim quanto minor in corporibus splen foret, tanto perniciores homines esse. 2. Hinc Ladas ille cursor apud auctores tantopere celebratus memoria dignus fuit, qui longum itineris spatium cursu tam citatissimo Questi personaggi appartengono tutti alla storia dell’astrologia classica: Beroso, astrologo babilonese contemporaneo di Alessandro Magno, è ricordato in PLIN. N.H. VII, 123; le opere del greco Eudosso di Cnido, discepolo di Platone, rappresentarono fonte preziosa per i versi di Arato, del quale ci rimangono solo i Phaenomena, tradotti anche da Cicerone; in età imperiale vissero i poeti e scienziati Manilio, autore degli Astronomica, e Giulio Firmico Materno, autore dei Matheseos libri. Soprattutto i due astronomi latini erano ben conosciuti e letti nel Quattrocento, né va dimenticato nel caso specifico del d’Alessandro l’interesse astrologico di Giovanni Pontano e dell’Accademia napoletana, su cui vd. almeno M. RINALDI, ‘Sic itur ad astra’. Giovanni Pontano e la sua opera astrologica nel quadro della tradizione manoscritta della Mathesis di Giulio Firmico Materno, Napoli, Loffredo, 2002. 19 FIRM. VIII 15, 2: «In parte octava Capricorni oritur Delphinus. Quicumque hoc sidere oriente natus fuerit habebit natandi studium; sed cum Saturni testimonio urinator erit, cum Martis vero et Mercurii petaminarios ephalmatores, orchestopalarios petauristarios aut certe nautas cursu agilitate perspicuos». 18

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Capitolo XXI Il prodigio di un uomo che passava più tempo in mare che in terra e velocissimo attraversava a nuoto grandissimi tratti di mare.

1. Tra coloro che hanno studiato i moti e le posizioni dei pianeti, le loro distanze e le loro proprie e determinate rivoluzioni, le loro forze e le loro qualità, e le misure del Sole e della Terra, presso i Greci vi furono Beroso, Eudosso di Cnido, Aristotele ed Empedocle, presso i Latini Arato, Giulio Firmico, Marco Manilio e altri autori celebri per la loro sapienza, ben noti per fama, esperti di cose celesti: costoro studiarono con sottile indagine le predizioni divine, le leggi delle stelle e la forza e il potere del fato e tra le altre cose notarono che quelli che sono venuti alla luce sotto la costellazione del Delfino sono acrobati, ovvero dotati di una particolare velocità di piedi, al punto che sembra prodigioso quanto velocemente in breve tempo riescano a percorrere grandi distanze. Tuttavia la maggior parte dei medici, che conoscono la materia, sostengono che sono bravi nella corsa per il fatto che a loro manca la milza: è certo infatti che quanta più piccola è la milza nel corpo, tanto più veloci sono gli uomini. 2. Quindi fu degno di memoria Ladas, il famoso corridore tanto celebrato presso gli antichi, perché percorse una lunga distanza con

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emensus est, ut nulla pedum vestigia extarent, ita ut saepe visum falleret. Quod verum falsumve fuerit, nonnullis ambiguum est. Philonides quoque Alexandri Magni cursor, qui hJmerodrovmo" dictus est, pernici cursu valuisse fertur20, cui adnumeratus est Lasthenes Thebanus pernicitatis eximiae, ita ut ab Coronea Thebas usque cum equo cursore contenderit et victor fuerit21. Inter quae nimirum maiori miraculo visum est, quod Plinius notavit, annos novem genitum puerum a meridie ad vesperam quinque et septuaginta passuum millia praecipiti celeritate confecisse22: quod pene a fide devium et dictu mirabile, quantum vix credi dicique possit, plerisque visum est. Inter ceteros produntur Marsi populi, singulari sidere seu fato geniti, ut praecipua pedum levitate ceteris praestent ingentiaque spatia vix credibili celeritate peragrent23. Tradunt quoque Troglodytas et extimos Aethiopes nativa quadam pernicitate tantum valuisse, ut fugacissimas feras rapido cursu assequi non dubitarent. 3. Eos quoque, qui sub Piscis astro certo cursu stationibusque, sideribus constitutis, editi essent, nando plurimum valuisse et praecipuos natatu nonnulli tradunt. In his quoque lienis defectus multum profuisse creditur: nam quibus deesset lien, natatu plurimum valere contendunt. Horum praecipui sunt Ichthyophagi Troglodytis proximi, ceu maris belluae immensos tractus natatu peragrantes24, inter quos SOL. I 96-98: «Verum ad pernicitatis titulum transeamus, primam palmam velocitatis Ladas quidam adeptus est, qui ita supra cavum pulverem cursitavit, ut harenis pendentibus nulla indicia relinqueret vestigiorum [...] Philippides biduo mille ducenta quadraginta stadia ab Athenis Lacedaemonem decucurrit. Anystis Lacon et Philonides, Alexandri Magni cursores, Elin abusque Sicyone mille ducenta stadia uno die transierunt». E cfr. PLIN. N.H. VII 84 e II 181. 21 DIOD. XIV 11, 5. 22 PLIN. N.H. VII 84: «nuperque Fonteio et Vipstano cos. annos VIII genitum a meridie ad vesperam LXXV passuum cucurrisse» e SOL. I 98. 23 Cfr. DION. PERIEG. 376: Marsw`n qoa;fu`la, che nella versione latina di Antonio Beccaria (De situ orbis, Venezia, Bernhard Maler, Erhard Ratdolt e Peter Löslein, 1477, c. 21r) è tradotto: «qui velocitate pedum plurimum ad cursum praestant». 24 PLIN. N.H. VI 176: «gentes Trogodytarum idem Iuba tradit Therothoas a venatu dictos, mirae velocitatis, sicut Ichthyophagos, natantes ceu maris animalia ...» e VII 31. 20

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una corsa così veloce che non restavano nemmeno le impronte dei suoi piedi sul terreno, motivo per cui spesso diventava quasi invisibile. Se questo sia vero o falso, per alcuni è in discussione. Anche Filonide, corridore di Alessandro Magno, che fu detto hJmerodrovmo", si dice che fosse dotato di un passo veloce, e a questo si aggiunge Lastene Tebano, di straordinaria celerità, tanto che da Coronea fino a Tebe avrebbe fatto a gara con un cavallo da corsa e avrebbe vinto. Tra le cose più prodigiose c’è quanto riferito da Plinio, di un bambino di nove anni che da mezzogiorno a sera realizzò con una velocità vertiginosa settantacinque miglia: ai più questa storia così assurda e sorprendente sembrò difficile a credersi e a dirsi. Tra gli altri popoli si tramanda che i Marsi, nati sotto una stella o un destino singolare, superano tutti per la loro particolare velocità grazie alla quale percorrono grandissime distanze ad una rapidità a stento credibile. Riferiscono anche che i Trogloditi e i lontanissimi Etiopi sono dotati di una loro naturale celerità tanto che non esitano a inseguire correndo gli animali più veloci. 3. Alcuni riferiscono poi che quelli che sono nati sotto la costellazione del Pesce sono molto abili nello stare a galla e straordinari nel nuoto. Anche in questi si crede che giovi molto la mancanza di milza: si dice infatti che coloro cui manchi la milza sono molto valenti nel nuoto. Tra questi straordinari sono gli Ittiofagi vicini dei Trogloditi, che come animali marini percorrono a nuoto immensi tratti; e tra questi

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Scillias quidam Sicyonius proditur apud Graecos omnium ea tempestate maximus urinator, qui ex Aphetis Artemisium usque octuaginta fere stadia natatu brevi spatio peregit25. Nostra vero aetate nonnulli extitere memorandi et multi nominis, qui nando ingens maris intervallum et maxima aequora emensi fuere. Ex omnibus autem, quos nostra vidit aetas, recentiore memoria novimus quempiam haud sane ingenitae nobilitatis, sed extremae sortis hominem, qui nauticam operam exigua stipe locare solitus saepissime piscatu victum quaeritabat, qui ab Aenaria, quae inter Pithecusas e conspectu Neapolis insula sita est, Prochytam usque, quod intermedii pelagi est stadiorum ferme quinquaginta, naufrago nonnumquam et fluctuanti pelago ac tempore anni difficillimo, eadem die nando measse et nonnumquam remeasse inventus est. Quod cum vix credibile videretur, eundem pluribus ad spectaculum effusis, quo res testatior esset, promptissimum sui periculum fecisse et, cum in Aenaria se praecipitem in mare dedisset, lembum post sequentem longius ipsum nantem observasse, donec terrae appulsus ad Prochytam incolumis elapsus est. 4. Sed super omnia quae post hominum memoriam umquam audita quaeque ab auctoribus prodita sunt, quod a Ioviano Pontano relatum audivimus26, dictu mirabile et supra omne miraculum fuit, si quidem patrum nostrorum memoria Catanae homo fuisse traditur, cui nomen Colan inditum ferunt, cognomento Piscis, singolari fato seu fortuna genitus, qui plus in aquis degere quam in terris victitare solebat, eumque diebus singulis mare et aquas petere necessum habuisse ibique naturae vi et necessitate coactum diutius degere consuesse, alioqui dicebat fore ut, si ab aquis abesset diu, quasi respirare et ducere vitam nequiret, idque sui exitii mox causam fore asseveraret. Quod illi quo fato aut sidere evenerit in ambiguo plerique omnes reliquere, eumque tantum nando profecisse, ut haud secus quam marina bellua maxima pelagi intervalla spatiaque immensa quingentorum et ultra stadiorum, foeda tempestate et reluctantibus aquis, excellenti vi et velocitate natatu peragraret.

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HDT. VIII 8. Vd. Introduzione, pp. 62-63.

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presso i Greci si racconta che un tale Scillia di Sicione fosse in quel tempo il più grande subacqueo, il quale da Afete fino all’Artemisio percorse in breve tempo a nuoto quasi ottanta stadi. Ai nostri tempi poi vi sono alcuni degni di memoria e di gran fama, che riuscirono ad attraversare a nuoto un grande tratto di mare ed immense distese d’acqua. Tra tutti quelli però che la nostra età ha conosciuto, di recente è noto un tale, non direi certo di nobile stirpe, anzi uomo di infima condizione, che facendo il marinaio solitamente con scarso guadagno, molto spesso si procurava da mangiare con la pesca. E si è saputo che che nello stesso giorno andava e qualche volta tornava a nuoto da Ischia, un’isola tra le Pitecuse posta fuori dalla vista di Napoli, fino a Procida, tra le quali vi è una distanza di quasi cinquanta stadi, e questo anche quando il mare era inadatto alla navigazione e agitatissimo, e nella stagione più difficile dell’anno. Poiché questa cosa sembrava poco credibile, una volta lui stesso volle dare una prova evidentissima delle sue capacità richiamando molta gente perché assistesse allo spettacolo, in modo che la sua impresa avesse più testimoni. Si tuffò in mare ad Ischia e una barca lo seguì tenendolo d’occhio da lontano mentre nuotava, finché non approdò a Procida sano e salvo. 4. Ma fra tutte le storie che mai a memoria d’uomo sono state udite e che sono state tramandate dagli autori, quella che sentimmo raccontata da Gioviano Pontano fu sorprendente a dirsi e superiore ad ogni meraviglia. A memoria dei nostri padri infatti si racconta che a Catania vi fu un uomo, al quale dicono che era stato dato il nome di Cola, soprannominato Pesce, nato sotto un singolare destino o fato, che soleva passare più tempo in acqua che sulla terra. Non poteva fare a meno di cercare le acque del mare ogni singolo giorno, dove costretto dalla forza della natura e dalla necessità era solito passare molto tempo, altrimenti – diceva –, se fosse stato a lungo lontano dall’acqua, non avrebbe potuto più respirare e vivere, e affermava che questa sarebbe stata la causa della sua morte. E se questa cosa gli fosse capitata per volontà del fato o per influsso di una stella, tutti per lo più hanno lasciato nell’incertezza. Cola era diventato così abile nel nuoto che non diversamente da un pesce percorreva grandissime distanze di mare di cinquecento e oltre stadi, anche con tempo cattivo e con il mare agitato, con straordinaria forza e velocità.

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5. Notumque et illud est dictu mirabile, cum medio cursu naves plenis velis per aequora ferrentur violentissimis interdum tempestatibus, per vastum et apertum mare interque agitationes fluctuum et turbines huic natanti obviam fuisse ipsumque nantem ab undis nautas suis nominibus advocare solitum, et quia omnibus notus erat, nautas subitae rei miraculo percitos laetissimis animis illum in navi excipientes, unde veniret quove iter intenderet et quantum pelagi nando emensus foret quantasque tempestates tulerit, sciscitari consuesse, ipsumque Colan singulis omnia significasse. Mox cum sociis in navi pransum aut potum, postquam acquievisset, mandata ad suos quid illis dici referrique vellent et quid faciundum arbitrarentur a singulis accepisse, nudumque ut erat e navi, medio iam cursum pelago tenente, se praecipitem in mare dedisse. Mox Caietam, modo in salentina, brutia et lucana litora, modo in siculos fines et natale solum, ad quod frequens ventitabat, incolumem nando pervenisse, mandata quae a nautis acceperat singulis necessariis et affinibus significasse. Idque non semel facere consuesse, donec festo annuo solemnique die in siculo freto effusa moltitudine ad spectaculum, in portu Messanae, ut aiunt, experiri credo volens quantum prae ceteris urinando valeret, dum pateram auream munus natantibus tunc a rege in mare deiectam ab imo eripere conatur, cum se in mare mersisset, dum illius studio profunda exquirit vada, diu expectatus ab imo maris fundo, in quod se deiecerat, numquam emersit, neque postea inventus apparuit. Creditur in concavas illius pelagi cavernas, quibus totus ille sinus refertus est, incidisse ipsumque in imas voragines vorticibus rapidis semel delapsum, cum se recipere vellet et ad superiora niti, reverti nequisse, cumque diutius reluctatus respirare nequiret, inter occursantes scopulos undique inundantibus aquis oppressum vitam interisse.

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5. Ed è noto anche questo fatto, meraviglioso a dirsi, che le navi, quando nella loro rotta a piene vele attraverso le acque erano trascinate talvolta da violentissime tempeste, lo incontravano che nuotava per il mare vasto e aperto tra i flutti agitati e i vortici, e lui nuotando era solito dalle onde chiamare i marinai con i loro nomi. E poiché ormai era noto a tutti, i marinai, dopo un primo turbamento per l’inatteso incontro, lo accoglievano gioiosi sulla nave ed erano soliti chiedergli da dove stesse venendo e dove fosse diretto e quanto mare avesse attraversato a nuoto e quante tempeste avesse affrontato, e Cola a tutti spiegava ogni cosa. Poi, dopo aver pranzato e bevuto con gli amici sulla nave e dopo essersi riposato, raccoglieva i messaggi che ciascuno voleva fossero riferiti ai loro parenti e cosa ritenevano si dovesse fare, e nudo com’era si tuffava dalla nave che ormai riprendeva la rotta in mare. Ora a Gaeta, ora sulle coste del Salento, della Calabria e della Lucania, ora nelle terre di Sicilia e sul suolo natale, al quale frequentemente tornava, giungeva incolume a nuoto, e comunicava i messaggi che aveva ricevuto dai marinai per i loro parenti e conoscenti. E questo era solito fare non una volta sola, finché un giorno durante la festa annuale nello stretto di Sicilia, dove si era radunata una grande folla per vederlo, nel porto di Messina, come raccontano, volendo provare – credo – quanto fosse più bravo degli altri a nuotare sott’acqua, si immerse in mare nel tentativo di recuperare dagli abissi una coppa d’oro che il Re vi aveva allora gettato come premio per i nuotatori; ma mentre perlustrava i fondali alla sua ricerca, a lungo atteso, scomparve nelle profondità del mare dove si era tuffato, né in seguito riemerse o ne fu ritrovato il corpo. Si crede che sia capitato nelle profonde caverne, di cui tutto quel mare è ricco, e che una volta precipitato in quelle voragini trascinato delle rapide correnti, pur volendo tornare indietro e sforzandosi di riemergere, non abbia potuto più risalire, e dopo aver a lungo lottato, non riuscendo più a respirare, sia morto tra gli scogli in cui si era imbattuto, inghiottito dalle acque che da ogni dove lo sommergevano.

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Caput I Quid dicatur idem apud philosophos et quid idem a iureconsultis discussum cum Hermolao in convivio familiari.

1. Hermolaus Barbarus amicus meus summus, perquam fuit litteris homo ornatissimus bonisque disciplinis et ingenuis artibus excultus, ac praeter ingenii amoenitatem, quae plurima in homine fuit, doctrina quoque curiosa et eleganti1. Ad eum quotidie, dum Romae ageret, complures viri bene litterati atque in studiis doctrinarum magistri, Sapientiaeque doctores facundissimi, exercendi animi causa frequentes ventitabant. Accipiebatque singulos ille aut nova lectione auctoris non vulgaris, nonnumquam quaestiunculis ex philosophia minime procacibus et petulantibus sed placidis et ingeniosis, ac pro aestimatu cuiusque festiva quadam argutia animum lacessentibus, ita ut ipsius consuetudine et sermone quotidiano semper quisque doctior et lepidior fieret. Forte vero, cum festa solemnique die ad cenam ab eo inviErmolao Barbaro, filosofo e filologo veneziano, di antica famiglia patrizia, fu interprete e traduttore di Aristotele e autore delle Castigationes plinianae, che segnarono una tappa fondamentale nella storia del testo della Naturalis historia; su di lui rimandiamo a E. BIGI, Barbaro, Ermolao (Almorò), in DBI, VI, 1964, pp. 96-99 e a B. FIGLIUOLO, Il diplomatico e trattatista 1

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Capitolo I Cosa vuol dire idem per i filosofi e cosa per i giuristi: discussione con Ermolao durante una cena tra amici.

1. Ermolao Barbaro, grandissimo amico mio, fu un uomo davvero insigne nelle lettere e nelle discipline umanistiche e molto dotto nelle arti liberali, dotato oltre che di piacevolezza di carattere, che in lui fu notevolissima, anche di dottrina profonda e raffinata. Presso di lui ogni giorno, quando era a Roma, si recavano per tenere in esercizio il loro ingegno molti uomini dotti e maestri negli studi filosofici e facondissimi professori della Sapienza. E lui li accoglieva tutti o con una nuova lettura di un autore non peregrino, o talvolta con piccole questioni di filosofia per nulla estemporanee né petulanti, ma ben ponderate e intelligenti e, a giudizio di tutti, capaci di stimolare gli animi con tale vivace arguzia che grazie alla frequentazione e al quotidiano conversare con lui ognuno diventava sempre più dotto e più faceto. Accadde che invitati da lui a cena un giorno di festa, ci trovammo insieme libeErmolao Barbaro ambasciatore della Serenissima, Napoli, Guida ed., 1999. Queste adunanze in casa del Barbaro risaliranno probabilmente al periodo in cui l’umanista veneziano, dopo essere stato nominato ambasciatore a Roma, era stato costretto a rimanervi, bandito dalla sua patria, fino alla morte (14901499).

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tati, nonnulli ex nostratibus boni adolescentes studia humanitatis professi et nos una transactis negotiis conveniremus, excepit nos ille cenula admodum lauta et frugi, non prodigis epulis et paratu magno, sed parco, brevi et parabili cibo, et ut tenui convictu ita summa voluptate comitateque mutuos ipse sermones mistos convivalibus iocis in longum protrahebat. 2. Cumque inter cenandum, sicut solebat in convivio familiari, iuvenis quispiam laetae indolis et haud illitteratus Thesei res gestas nuper e Plutarcho in latinum versas2 scite admodum et venuste lectitaret, quoque pacto in Cretam delatus labyrinthi errores et Minotauri monstra superarit, reversoque ut Athenienses ob res fortiter gestas dies festos dedicarint et alia permulta, ut ingenium facundiaque eius fuit in extollendis vendicandisque Graecorum rebus plusquam satis est profusi. Hoc quoque legebat navim, qua in Cretam Theseus delatus fuerat, ad Demetrii Phalerei tempora Athenis servatam custodiri et, quia longo aevo absumpta materia fuit, lignis antiquioribus detractis novisque coaptatis diu mansisse, eaque cum eadem Thesei navis diceretur, apud philosophos aliosque physicae studiosos, an eadem esset navis an vero altera, ancipitem quaestionem incidisse3. Cumque haec et pleraque ex Plutarcho in hanc sententiam ille legisset, «Morosa» inquit Hermolaus «et quae nihil habeat controversiae quaestio haec inter philosophos agitari coepta fuit. Cui enim non explicatum est, ubi materia non eadem subest quae prius erat, et si loco illius altera suffecta sit, minime eandem rem dici oportere? Constat enim navim, quae demptis tabulatis et tignis ex nova materia coaptata est, non eandem esse, si quidem, cum quid idem esse dico, illud ita demum esse idem putandum est, si nihil ei additum detractumve sit. Navis ergo, quae veteri dempta et nova coaptata materia facta est, quia non eadem materia nunc est quae olim fuit, eadem omnino dicenda non est». 2 La prima edizione della traduzione latina della Vita Thesei a cura di Lapo da Castiglionchio il Giovane apparve a Venezia nel 1478. È possibile che il d’Alessandro si riferisca tuttavia all’edizione delle Vitae plutarchee uscite a Venezia presso Bartolomeo de Zanis nel 1496, che si apre proprio con la vita di Teseo. 3 PLUT. Thes. XXIII 1: «Navis autem qua cum pueris Theseus navigavit et qua rursus in patriam servatus est, quae triginta remorum fuit, usque ad

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ri dai nostri impegni io e alcuni giovani dediti agli studi umanistici: egli ci accolse con una cenetta assai raffinata e frugale, non con pietanze abbondanti e grande apparato, ma con pochi piatti semplici e non costosi, e come con la cena leggera così con la sua grande piacevolezza e affabilità protraeva la conversazione mescolandoci giochi conviviali. 2. Mentre cenavamo, come succede di solito in un convito tra amici, un giovane di buon carattere e non privo di cultura andava leggendo le imprese di Teseo recentemente da Plutarco tradotte in latino molto bene e a regola d’arte. Raccontava in quale modo giunto a Creta aveva superato il labirinto e il mostruoso Minotauro, e come al suo ritorno per queste sue eroiche imprese gli Ateniesi gli avevano dedicato dei giorni di festa, e molte altre cose ancora, diffondendosi più del necessario il talento e la facondia di Plutarco nell’esaltare e preservare dall’oblio le gesta dei Greci. E leggeva anche questo, che la nave, con la quale Teseo era stato portato a Creta, si era conservata ad Atene fino ai tempi di Demetrio Falereo ed era sopravvissuta a lungo perché, essendosi consumato col passare del tempo il materiale, si erano eliminate le parti in legno più antiche sostituendole con delle nuove. E dal momento che si diceva che quella era la stessa nave di Teseo, nacque una discussione tra filosofi e fisici se quella fosse la stessa nave o un’altra. E dopo che quello ebbe letto in Plutarco questo e altro ancora su questa storia, Ermolao disse: «I filosofi hanno dato inizio ad una quaestio di lana caprina e che nulla ha di una vera disputa. A chi infatti non è chiaro che quando non c’è più lo stesso materiale di prima, e se al suo posto ne sia stato sostituito un altro, non si può dire affatto che si tratta della stessa cosa? È evidente infatti che la nave rifatta con nuovo materiale dopo aver rimosso le vecchie tavole e assi di legno non è la stessa, poiché, quando dico che una cosa è la stessa, è da ritenere che sia tale soltanto a condizione che niente vi sia stato aggiunto o tolto. Una nave, perciò, fatta togliendo il vecchio materiale e adattando del nuovo al suo posto, poiché ora non è della stessa materia che era un tempo, non deve essere affatto detta la stessa». Demetrii Phalerii tempora Athenienses servaverunt, cum vetustis lignis subtractis alia quotidie nova ac valida coniecerent atque coaptarent. Ita ut posterius sermone usurpata exemplum philosophis ambiguitatis manserit, aliis eandem aliis vero minus esse affirmantibus» (ed. 1496, vol. I, c. a4v).

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3. Cumque me, qui una aderam, quid de istiusmodi re iudicii haberem potissime interrogaret, respondi meminisse me in complurium iurisconsultorum libris secus longe atque ipse censeret scriptum legisse, quos omnes contra sentire atque isti opinioni adversari haud dubium fuit. Namque Alphenus, iuris civilis et veterum litterarum impense doctus, haud immerito existimavit, ubi iudicium coram uno pluribusve agitari coeptum fuit, si illis fato perfunctis alii suffecti sint, idem iudicium censeri, et populum eundem esse qui nunc est et qui ab hinc centum annis fuit. Navim quoque, quae mutata veteri materia nova suffecta est, non aliam sed eandem decere existimari. Quod si aliter dicimus, utique foret ut nos, qui immutamur quotidie, iidem non essemus qui abhinc anno fuissemus4. Quin etiam, si longius evagari libet, inveniemus Ulpianum, magna virum auctoritate, qui ob excellentem doctrinam Aurelii Alexandri imperatoris sacriscriniorum magister fuit, et Pomponium, pariter iuris scientem et peritum, litteris prodidisse, si grex mihi testamento legatus esset, isque adeo immutatus est, ut ne ovis quidem quae scripti legati tempore fuit hodie supersit, sed omnis ex sobole postea nata suffectus sit, eundem gregem dici, atque ideo legatum testamento deberi, quia, cum quid loco alterius sufficitur,

Il rinvio è a Dig. V 1, 76: «Proponebatur ex his iudicibus, qui in eandem rem dati essent, nonnullos causa audita excusatos esse inque eorum locum alios esse sumptos, et quaerebatur, singulorum iudicum mutatio eandem rem an aliud iudicium fecisset. Respondi, non modo si unus aut alter, sed et si omnes iudices mutati essent, tamen et rem eandem et iudicium idem quod antea fuisset permanere: neque in hoc solum evenire, ut partibus commutatis eadem res esse existimaretur, sed et in multis ceteris rebus: nam et legionem eandem haberi, ex qua multi decessissent, quorum in locum alii subiecti essent, et populum eundem hoc tempore putari qui abhinc centum annis fuissent, cum ex illis nemo nunc viveret, itemque navem, si adeo saepe refecta esset, ut nulla tabula eadem permaneret quae non nova fuisset, nihilo minus eandem navem esse existimari. Quod si quis putaret partibus commutatis aliam rem fieri, fore ut ex eius ratione nos ipsi non idem essemus qui abhinc anno fuissemus, propterea quod, ut philosophi dicerent, ex quibus particulis minimis constiteremus, hae cottidie ex nostro corpore decederent aliaeque extrinsecus in earum locum accederent. Quapropter cuius rei species eadem consisteret, rem quoque eandem esse existimari». 4

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3. E poiché a me, che ero lì insieme a loro, chiese che cosa ne pensassi davvero di una questione di questo tipo, risposi che ricordavo di aver letto nei libri di parecchi giuristi molto diversamente da quanto lui pensava, tutti senza dubbio su posizione antitetica e contrari all’opinione da lui espressa. Infatti Alfeno, molto dotto in diritto civile e nelle lettere antiche, ritenne, e non a torto, che, quando si è avviata un’azione giudiziaria nei confronti di una o più persone, se a quelli che sono morti se ne sostituiscono altri, si parla del medesimo processo, e il popolo è il medesimo che è ora e che è stato cento anni fa; anche una nave, che è stata rifatta nuova dopo aver sostituito il vecchio materiale, conviene che sia considerata non un’altra ma la stessa. Che se dicessimo diversamente, necessariamente ne conseguirebbe che noi, che cambiamo ogni giorno, non siamo più gli stessi che eravamo un anno fa. E poi, se vogliamo divagare ancora, troveremo che Ulpiano, uomo di grande autorità, che per la sua straordinaria dottrina fu direttore degli archivi dell’imperatore Aurelio Alessandro, e Pomponio, ugualmente dotto ed esperto di diritto, hanno scritto che, se mi fosse lasciato in testamento un gregge, e questo fosse a tal punto mutato nella sua composizione, che nemmeno una pecora di quelle che c’erano al tempo della scrittura del testamento sopravviva oggi, ma tutti i capi siano stati sostituiti da loro discendenti, si direbbe che è il medesimo gregge, e perciò sarebbe dovuto per testamento all’erede, poiché quando una cosa va a rimpiazzare un’altra non v’è dubbio che debba essere considerata la stessa cosa». «E questa sentenza» dissi «presso gli

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idem existimari haud dubium est5». «Atque hoc» inquam «apud veteres iurisperitos ita in confesso fuit, ut exploratius nihil esse possit». 4. Cumque Hermolaus me fuisset intuitus, veluti fateretur quod asserebam, «est» inquit, «arbitror, ut dicis, etsi mihi haec sententia omnino non probatur, cui prorsus non accedo. Et cum ista sit veterum iurisperitorum opinio, ut modo dixti, aliquid obniti non auderem, si penitus vera foret. Nam, quod asseveras Ulpianum et iureconsultos sentire, facilis est et expedita distinctio; id quod asserunt censeri in casibus per te modo explicatis, non tamen ut in omni re omnique negotio idem statuendum censeam. Nam si altius rem intueri volumus, profecto referre arbitror, cum quid idem esse dicimus, an illud eiusdem substantiae et formae an vero alterius dicamus. Formam vero a substantia abesse non ignoras, quas a vestris iureconsultis materiam et speciem appellari audio, quam Aristoteles ei\\do" nuncupat, Plato eijdeva, nonnulli materiam, plerique causam et formam. Cum ergo aliquid idem esse dico, hoc apud physicos ita receptum est, quod est vero propius, tunc demum illud idem dici oportere, si eadem materia subest quae prius fuit et forma seu species immutata non est, idque posse internosci, quod mutatio formae vel substantiae diversam, non eandem rem facit. Navis ergo, quae tignis detractis ex alia materia coaptata est, et grex nova sobole suffectus, sic populus et alia hoc genus, quia materia seu mavis substantia non eadem est, quae olim fuit, quippe quia illa dempta, alia suffecta est, licet forma vel species navis, gregis, populi eadem subsit, eandem rem non esse haud dubie efficit, cum diversa materia vel forma dissimilem rem, non eandem efficiat, alioqui dicendum foret easdem nunc Athenas esse quae quondam fuere, eandem Carthaginem, eandem denique Romam, urbes praevalidas olim et populos praepotentes, nunc, ut vides, ita incendiis et ruinis deformatas, vastas et infrequentes, ut illarum vix memoria aut vestigium extet». 5 Cfr. i commenti di Ulpiano e di Pomponio (Dig. XXX 21: «Grege legato et quae postea accedunt ad legatarium pertinent»; Dig. XXX 22: «Si grege legato aliqua pecora vivo testatore mortua essent in eorumque locum aliqua essent substituta, eundem gregem videri; et si deminutum ex eo grege pecus esset et vel unus bos superesset, eum vindicari posse, quamvis grex desisset esse; quemadmodum insula legata, si combusta esset, area possit vindicari») a IUST. Inst. II 20, 18: «Si grex legatus fuerit posteaque ad unam ovem pervene-

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antichi giuristi fu tenuta in tale considerazione che niente può essere considerato più certo e attendibile». 4. Ermolao mi guardò, come se approvasse quello che stavo affermando, e disse: «È – credo – come tu dici, anche se a me questa soluzione non piace affatto, e non la accetto in toto. Se, come hai ora detto, questa è l’opinione degli antichi giuristi, non oserei contestarla, se fosse proprio vera. Infatti, ciò che dici che Ulpiano e i giuristi pensano, è una bella e buona aequivocatio: ciò che affermano significare idem nei casi che tu hai esposto poco fa, non penso tuttavia che sia idem in ogni cosa e in ogni circostanza. Infatti se vogliamo guardare la cosa più da vicino, ritengo di poter obiettare che, quando affermiamo che qualcosa è la stessa, dobbiamo valutare se è della stessa sostanza e forma ovvero di un’altra. Sai bene poi che la forma è cosa diversa dalla sostanza, che dai vostri giuristi sento chiamare materia e species, che Aristotele chiama ei\do", Platone eijdeva, alcuni materia, i più causa e forma. Dunque, quando dico che una cosa è la stessa, i filosofi della natura intendono questo, – cosa che è molto vicina al vero: allora veramente è giusto dire che una cosa è la stessa, se vi è la stessa materia di prima e la forma o species non è cambiata, e la si può riconoscere, perché il cambiamento di forma o di sostanza rende una cosa diversa, non la stessa. Una nave quindi, che venga rifatta con nuova materia dopo aver tolto i vecchi assi di legno, un gregge sostituito da nuova discendenza, e così un popolo e altre cose di questo tipo, poiché la materia ovvero meglio la sostanza non è la stessa che fu un tempo, dal momento che qualcosa è stato tolto e qualcos’altro aggiunto, benché la forma o la species di una nave, di un gregge, di un popolo sia la stessa, senza dubbio questo non fa che siano la stessa cosa, poiché la materia o la forma diversa la rendono una cosa diversa, non la stessa; altrimenti bisognerebbe dire che ora Atene è la stessa che era un tempo, la stessa Cartagine, la stessa infine Roma, città fortissime una volta e popoli potentissimi, ora, come vedi, così stravolte da devastazioni e rovine, distrutte e spopolate, che a stento sopravvive memoria o traccia di esse». rit, quod superfuerit, vindicari potest. Grege autem legato etiam eas oves quae post testamentum factum gregi adiciuntur legato cedere Iulianus ait: esse enim gregis unum corpus ex distantibus capitibus, sicuti aedium unum corpus est ex cohaerentibus lapidibus».

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5. «Vestri vero iureconsulti rem aliter intuentes, licet materia rei mutata, si altera illius loco suffecta sit, dummodo eadem species maneat, eandem rem dici putant. Credo quia nihil officit aut repugnat quare illud ex constitutione iuris idem censeri non debeat. Etenim, si in demortui loco suffectus est iudex, vel si testamento quispiam gregem legavit, seu quid aliud arbitrere, licet quod prius erat mutatum sit et aliud illius loco suffectum, quia non propterea mutata testantis voluntas probatur, ex qua iuris constitutio pendet, eandem rem censeri procul dubio facit. Ubi enim ratio legis inest, ibi idem esse iudicium bonum et aequum est, quod apud physicos, qui rem acutius intuentur et magis haec ad vivum resecant, cum sint rerum scientissimi et artium periti, non ita receptum est. Leges enim quod probabile est quantumque aequitas et ius suadet sequuntur, physici vero quantum veritas et ratio necessario convincit efficiunt. Ex hoc igitur effici cogique potest id de quo disceptabatur. Navim, quae mutata veteri materia ex altera coaptata est, quia non eadem substantia subest quae pridem fuit, licet vestri iurisconsulti aliter sentiant, tamen secundum physicas rationes eandem non esse nec censeri, quia mutata materia vel substantia diversam, ut dixi, non eandem rem facit». Haec Hermolaus admodum facundo, ut erat, ingenio multaque cum elegantia verborum apud complusculos qui aderamus, dum cenulam nobis daret, scite subtiliterque disserebat.

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5. «I vostri giuristi poi, che vedono le cose diversamente, ritengono che si parla della medesima cosa, sebbene la materia di quella cosa sia cambiata, e al suo posto ne sia stata sostituita un’altra, purché rimanga la medesima species. Lo credo, perché nulla impedisce o contrasta che quella cosa per determinazione di legge non debba essere considerata la medesima. Infatti, se al posto di un giudice morto ne subentra un altro, o se uno ha lasciato per testamento un gregge, o se ti viene in mente qualche altro esempio, anche se ciò che era prima è cambiato ed al suo posto è subentrata un’altra cosa, poiché non per questa ragione si considera mutata la volontà del testatore, da cui dipende la decisione legale, ne consegue che è da considerare senza ombra di dubbio la stessa cosa. Dov’è infatti una norma di legge, lì è opportuno e giusto che il giudizio sia lo stesso, ma questo non vale per i filosofi, che indagano le cose più in profondità arrivando fino alla carne viva, loro che conoscono molto bene la natura delle cose e sono esperti delle scienze. Le leggi infatti perseguono ciò che è probabile e quanto richiedono giustizia e diritto, i filosofi invece deducono quanto incontestabilmente accertato dalla verità e dalla ragione. Con questo perciò si può ritenere concluso ciò di cui stavamo discutendo. La nave, che fu adattata dall’altra dopo aver sostituito i vecchi materiali, dal momento che non c’era più la stessa sostanza di prima, anche se i vostri giuristi la pensano diversamente, tuttavia secondo le leggi della fisica non è né può essere considerata la stessa, poiché il cambiamento della materia o della sostanza rende, come ho detto, la cosa diversa, non la stessa». Su questo con noi che ci eravamo radunati presso di lui, mentre ci offriva la cena, Ermolao dissertava con maestria e finezza, grazie a quella sua naturale facondia e alla grande eleganza nel parlare.

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Caput VIII Miraculum Tritonum et Nereidum, quae variis in locis tempestate nostra compertae fuere.

1. Tritones et nereidas hominesque mari genitos, quos marinos appellant, praeterquam quod apud Plinium Naturalis historiae nono legeramus6, nostra quoque tempestate conspicuos fuisse multa documenta sunt. In memoria mihi est, cum adolescentulus ego in porticu nostra portanovensi Neapoli quandoque diverterem, Draconettum Bonifacium neapolitanum7 patritiae gentis et inclytae familiae virum, ut in homine militari, facundiae florentis et multarum rerum cognitione clarum, tunc senecta venerabilem et debilitate pedum invalidum, in conventu maximo, praesente atque audiente me, referre solitavisse se, dum in Hispania militaret, marinum hominem vultu et corpore prorsus humano absoluta similitudine pube tenus, postremis vero in pisce‹m› desinentibus vidisse, in melle8 ex ultima Mauritania et oceani finibus ad regulos, sub quibus stipendia faciebat et honestum ordinem duxerat, pro monstro allatum. Fuisse autem facie hominis vetusti, capillo et barba hispido atque hirto, colore caeruleo, statura procera et maiore humana, alis quoque tenui cartilagine, quibus marinos fluctus secabat, et membrana passim interlucente munitum. Et hanc rem non sibi tanPLIN. N.H. IX 9-10: «Tiberio principi nuntiavit Olisiponensium legatio ob id missa, visum auditumque in quodam specu concha canentem Tritonem qua noscitur forma. Et Nereidum falsa non est, squamis modo hispido corpore etiam qua humanam effigiem habet. Namque haec in eodem spectata litore est, cuius morientis etiam cantum tristem accolae audivere longe, et Divo Augusto legatus Galliae conplures in litore apparere exanimes Nereidas scripsit. Auctores habeo in equestri ordine splendentes, visum ab iis in Gaditano oceano marinum hominem toto corpore absoluta similitudine; ascendere eum navigia nocturnis temporibus statimque degravari quas insederit partes et, si diutius permaneat, etiam mergi». 7 Il Dragonetto Bonifacio qui nominato dal d’Alessandro non può essere sicuramente il fratello di Bernardino Bonifacio, nato nei primissimi anni del Cinquecento e morto molto giovane nel 1526 (sul quale vd. C. MUTINI, Bonifacio, Dragonetto, in DBI, XII, 1971, pp. 193-194). Con ogni probabilità si tratta del fratello di Andrea, avo del più famoso poeta. 8 Cfr. PLIN. N.H. VII 35. 6

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Capitolo VIII Gli strani casi di tritoni e nereidi avvistati in varie località ai nostri tempi.

1. Oltre a quello che si legge nel nono libro della Naturalis historia di Plinio, anche ai nostri giorni vi sono molti esempi di avvistamenti di tritoni e nereidi, e uomini nati in mare, che chiamano ‘marini’. Mi ricordo che quando io da ragazzino a Napoli ogni tanto me ne andavo per il nostro seggio di Portanuova, Dragonetto Bonifacio, napoletano di nobile e illustre famiglia, uomo d’armi famoso per la sua fiorita facondia e per la conoscenza di molte cose, allora venerabile per vecchiaia e invalido per una infermità di piedi, tra la gente accorsa numerosa, con me presente che ascoltavo, era solito raccontare che lui, mentre combatteva in Spagna, aveva visto un essere marino col volto e il corpo decisamente umani, ma che era del tutto simile ad un uomo fino al bacino, mentre le estremità finivano in pesce, che come essere mostruoso era stato portato, conservato nel miele, dalle regioni più lontane della Mauritania e dai confini dell’Oceano ai capitani, sotto i quali durante il servizio militare aveva avuto un onorevole grado. Aveva la faccia di un uomo vecchio con capelli e barba ispida e incolta, era di colore azzurro, di statura più alta di un uomo, munito anche di ali di sottile cartilagine, con le quali solcava le onde del mare, e di una membrana a tratti trasparente. E diceva che di questo fatto non

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tum, sed plerisque summae nobilitatis viris notam et conspicuam fuisse dicere. 2. Sed ne quis hoc vanum aut commentitium fortasse putet, Theodorus Gaza, vir graeca facundia clarus et philosophiae praeceptis imbutus egregie9, apud Iovianum Pontanum, ad quem frequens ventitabat, compluresque nostrates scite admodum et luculenter ratiocinabatur se, dum in Peloponneso ageret et foeda maris tempestate oborta, durissimo tempore anni, nonnulla piscium monstra procellae ad litus illisissent, inter cetera vidisse nereidem in litore, fluctibus expositam, viventem iam et spirantem, vultu haud absimili humano, facie quoque decora neque invenusta specie, corpore squamis hirto ad pubem usque, nisi quod cetera in locustae caudam desinebant. Ad quam propere visendam cum frequens concursus fieret, ipseque et nonnulli e propinquis oppidis vicini affinesque eo se contulissent, illam frequenti turba circumdatam, moestam et animo consternatam, ut ex vultu coniectari erat, in litore iacentem crebroque suspirio fatigatam conspexisse. Mox, cum a tam frequenti corona inspiceretur seque in sicco destitutam videret, prae dolore gemitus spirantes et lacrimas uberes dedisse, cuius misericordia motus ipse, ut erat mitis placidusque, cum turbam decedere de via iussisset, ipsam interim brachiis et cauda, quo maxime modo poterat, humi reptantem paulatim ad aquas pervenisse. Cumque se praecipitem magno nixu in mare dedisset, ingenti impetu fluctus secare coepisse momentoque temporis elapsam ex oculis nusquam apparuisse. 3. Georgius quoque Trapezuntius, vir multi nominis et magnae eruditionis10, aperta professione referebat amicis se, cum haud procul a litore in ponte quodam spatiaretur, puellam conspexisse eleganti forma undis extantem pube tenus et quasi lasciviret subinde emergentem Teodoro Gaza, giunto dalla Grecia in Italia intorno al 1440, insegnò il greco in molti Studia; a lui si devono numerose traduzioni, in particolare di testi scientifici. Si trasferì a Napoli nel 1455, presso Alfonso d’Aragona, ma lasciò la corte dopo la sua morte, senza tuttavia abbandonare il Regno fino a metà degli anni Sessanta, quando ritornò a Roma (vd. C. BIANCA, Gaza, Teodoro, in DBI, LII, 1999, pp. 737-746). 10 Giorgio Trapezunzio, uno dei tanti dotti bizantini arrivati in Italia nel corso del Quattrocento, risiedette per un breve periodo a partire dal 1452 a 9

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era stato solo lui testimone, ma anche molti uomini di altissimo lignaggio. 2. Ma perché qualcuno non creda forse che ciò sia falso o inventato, Teodoro Gaza, uomo famoso nell’eloquenza greca e dotato di salda preparazione scientifica, davanti a Gioviano Pontano, che andava a trovare spesso, e a molti dei nostri, aveva brillantemente raccontato che, quando viveva nel Peloponneso, era scoppiata una terribile tempesta in mare nella stagione più dura dell’anno, e il temporale aveva gettato sulla spiaggia alcuni pesci mostruosi, e lui tra le altre cose vi aveva visto una nereide, là deposta dalle onde, ancora viva e che respirava, col volto non diverso da quello umano, bella d’aspetto e non priva di grazia, il corpo coperto di squame fino al bacino, mentre il resto finiva in una coda di aragosta. Ci fu un gran accorrere di gente per vederla da vicino, e lui stesso e alcuni parenti e conoscenti dalle città vicine si erano recati lì e l’avevano vista circondata da una gran folla: era triste e impaurita, come era possibile intuire dal volto, e giaceva sulla spiaggia affaticata da una respirazione affannosa. Ben presto, vistasi osservata da tanta gente, resasi conto di essere finita sola in secco, per il dolore cominciò a piangere versando molte lacrime: allora lui, mosso a compassione, essendo un uomo di buon cuore, invitò la folla ad allontanarsi, mentre quella strisciando con le braccia e la coda, nel modo in cui meglio poteva, a poco a poco raggiunse l’acqua. E tuffatasi con grande sforzo in mare, con gran vigore cominciò a tagliare le onde e in un attimo scomparve dalla vista e non riemerse più da nessuna parte. 3. Anche Giorgio Trapezunzio, uomo di grande fama e di grande erudizione, raccontava con molta franchezza agli amici che, mentre camminava su un ponte non lontano dalla spiaggia, aveva visto una fanciulla molto bella che sporgeva dall’acqua fino al bacino e giocava Napoli presso Alfonso d’Aragona, cui dedicò i Rhetoricorum libri V, opera di grande fortuna e diffusione tra XV e XVI secolo; ma la sua fama è legata anche alle traduzioni dal greco di opere di carattere scientifico e astrologico e alla polemica contro Platone e il platonismo che vide coinvolto anche il Gaza tra i suoi oppositori. Su di lui: J. MONFASANI, George of Trebizond. A Biography and a Study of His Rhetoric and Logic, London, Brill, 1976; P. VITI, Giorgio da Trebisonda (Giorgio Trapezunzio), in DBI, LV, 2001, pp. 373-382.

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summergentemque se, quoadusque se conspectam intelligens haud amplius apparuit. Sed super omnia in nostro aevo haud absimile factum accepimus in Epiro, profecto exemplum inter pauca memorabile, quod nonnulli prodendum posteris putarunt et actis quoque publicis testatum est. Ad fontem iugis aquae, ad quem mulieres ex oppidulo aquatum ventitabant, tritonem seu marinum hominem e spelunca, quam forte ibi nactus fuerat, observare solitum, si quando solam ad aquas accedentem aut per litus obambulantem mulierem videret, ipsum ex undis et spelunca leni gressu tacitisque vestigiis desilire et a tergo accedere, ac vi compressam mulierem ex insidiis adoriri et ad mare concubitus causa arripere arreptamque sub undis deferre consuevisse. Quod, cum apud loci incolas percrebuisset, diligentius marinum monstrum observasse et, cum diutule laqueos illi intendissent, haud multo post dolo captum et laqueis vinctum cepisse, cumque cibo abstineret, extra aquas diutius vivere nequisse squaloreque tandem et tedio ad extremam tabem venisse. Tenet fama venereos eos et flagrantissime mulierum amasios esse, propterea oppidi incolas edicto inhibuisse ne qua deinceps ad fontem mulier nisi viris comitata accederet11. Haec nos et eiusmodi ab his, qui diversa maria penetrarant et eadem monstra placidis aquis colludentia vidisse[nt] et in occursum nautis exsertis capitibus ab undis occurrisse et voces audisse referebant, plerumque accepimus. Caput XV Solere futuras calamitates multo ante signis praemonstrari, et miraculum quo vastitas Regni neapolitani praedicta fuit.

1. Solere Deum immortalem, cum aliquid diri vel adversi immineat, id portentis et prodigiis futurum ostendere venturasque calamitates signis minisque caelestibus praemonstrare, et ipsi novimus et a non contemnendis auctoribus relatum accepimus. Quo tempore Tarquinius

Un episodio simile è raccontato nella facezia XXXIV di Poggio (Facezie, cit., pp. 152-155), ed ha il suo archetipo in PAUS. IX 20-21. 11

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con le onde, ora emergendo e ora immergendosi, fino a che, resasi conto di essere vista, scomparve. Ma soprattutto ho saputo di un fatto non dissimile accaduto in Epiro ai nostri giorni, esempio sicuramente memorabile tra pochi, che alcuni ritennero che bisognasse tramandare ai posteri, peraltro documentato anche da atti pubblici. Presso una sorgente perenne, alla quale le donne da una borgo vicino si recavano a prendere acqua, un tritone, ovvero un uomo marino, da una grotta, che aveva trovato per caso, era solito spiare casomai vedesse una donna sola avvicinarsi all’acqua o passeggiare sulla riva: lui allora balzava giù dalla grotta e con passo leggero e senza far rumore la raggiungeva alle spalle, e assalitala a tradimento l’afferrava con forza e la trascinava nel mare per possederla portandola quindi sotto le onde. Quando gli abitanti del luogo se ne accorsero, sorvegliarono più attentamente il mostro marino, gli tesero trappole per un po’ di tempo, e dopo non molto lo catturarono con l’inganno e lo tennero prigioniero legato con catene. Ma poiché quello si rifiutò di mangiare, non poté vivere troppo a lungo fuori dall’acqua e morì infine deperito per l’incuria e l’inedia. La fama dice che questi esseri sono lascivi e molto attratti dalle donne, motivo per cui gli abitanti della città con un editto decretarono che nessuna donna da allora in poi si potesse recare alla fonte, se non accompagnata da uomini. Questi fatti e altri dello stesso genere abbiamo sentito di solito da coloro che, avendo viaggiato per mari diversi, raccontavano di aver visto mostri simili giocare con le acque tranquille e andare incontro ai marinai con le teste fuori dall’acqua e di aver udito le loro voci. Capitolo XV Le disgrazie future sono spesso preannunciate molto tempo prima da segni premonitori, come il prodigio da cui fu preannunciata la distruzione del Regno di Napoli.

1. Noi sappiamo e abbiamo appreso da autori non da poco che di solito Dio immortale, quando sta per accadere qualcosa di infausto o di negativo, lo mostra con portenti e prodigi e preannuncia le disgrazie in arrivo con segni e minacce dal cielo. Nel tempo in cui Tarquinio fu

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regno pulsus fuit, satis constat imminens exitium canem loquutum fuisse serpentemque latrasse, quo portento perniciem et exilium sibi mox futurum ostensum est12. Croeso Lydorum regi, quando id concidit regnum, natum filium semestrem articulate loquutum diro et prodigioso eventu fatalem calamitatem, quae postea sequuta est, praesignasse dicitur13. Gallis etiam Senonibus ad urbem properantibus, in Nova via, ubi Allocutionis postea templum fuit, vocem auditam quae Gallos adventare diceret inter exempla relatum est14. Sed ne infinitas species et nimis vetera ab ultima origine percensere videar, patrum nostrorum memoria evidentissimis ostentis, antequam in Ponto Byzantium ab immanissimis Turcis terra marique oppugnaretur – quo excidio quanta calamitas quantumque vulnus christianae reipublicae illata fuerint nemo ignoravit –, compertum est apud Comum Citerioris Galliae urbem, vergente ad occasum die, ingentem canum multitudinem per aera ferri, postque diversorum pecorum armenta, species peditum primo levis armaturae, deinde hastatos scutatosque subsequi, equitesque in turmas divisos ingenti instructa acie prosequutos horis ferme tribus imaginem adventantis exercitus praebuisse; demum corpore procero immanem et formidabilem hominem supra quam dici possit veluti exercitus ductorem terribili equo insidentem processisse, aliaque ludibria oculorum per inane apparuisse, ingentium malorum

PLIN. N.H. VIII 153: «canem locutum in prodigiis, quod equidem adnotaverim, accepimus et serpentem latrasse, cum pulsus Tarquinius est regno». 13 CIC. De div. I 121: «Eiusdem generis etiam illud est, quod scribit Herodotus, Croesi filium, cum esset infans, locutum; quo ostento regnum patris et domum funditus concidisse»; PLIN. N.H. XI 270: «set semenstris locutus est Croesi filius et in crepundiis prodigio, quo totum id concidit regnum», e GELL. V 9. 14 CIC. De div. II 68: «At paulo post audita vox est monentis, ut providerent, ne a Gallis Roma caperetur; ex eo Aio Loquenti aram in nova via consecratam»; LIV. V 32, 6: «eodem anno M. Caedicius de plebe nuntiavit tribunis se in Nova via, ubi nunc sacellum est supra aedem Vestae, vocem noctis silentio audisse clariorem humana, quae magistratibus dici iuberet Gallos adventare» e V 50, 5: «expiandae etiam vocis nocturnae quae nuntia cladis ante bel12

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cacciato dal regno, è cosa abbastanza nota che un cane parlò preannunciando l’imminente fine e un serpente abbaiò, portento con cui gli furono mostrati la rovina e l’esilio futuro. Si dice che a Creso re dei Lidi, quando il suo regno cadde, il figlio di sei mesi parlò chiaramente, evento infausto e prodigioso che presagì la catastrofe fatale, che poi si verificò. Riferiscono ancora che mentre i Galli Senoni si avvicinavano a Roma, sulla via Nuova, dove poi fu costruito il tempio ad Aio Loquente, fu sentita una voce che diceva che i Galli si stavano avvicinando. Ma perché non sembri che voglio passare in rassegna infiniti casi particolari e fatti troppo antichi iniziando dalle origini del mondo, dico che furono chiarissimi i prodigi che si verificarono, a memoria dei nostri padri, prima che in Asia Minore Costantinopoli fosse espugnata per terra e per mare dai crudelissimi Turchi, e con quell’eccidio nessuno ignorò quante sventure e quante offese furono inferte alla civiltà cristiana. Si venne a sapere infatti che presso Como, città della Gallia Citeriore, al tramonto del sole, per aria si era mossa una grandissima moltitudine di cani e dietro armenti di diverso bestiame, cui seguivano figure di fanti, i primi armati alla leggera, gli altri con lance e scudi, e cavalieri divisi in squadroni in grande schieramento di battaglia, che offrirono per quasi tre ore l’immagine di un esercito che si avvicinava; per ultimo altissimo un uomo gigantesco e spaventoso più di quanto si possa dire avanzava in sella ad un terribile cavallo come se fosse il comandante dell’esercito, e altri miraggi apparvero nel vuoto, presagi di grandissimi mali, fino a che al sopraggiungere della notte quella

lum Gallicum audita neglectaque esset mentio inlata, iussumque templum in Nova via Aio Locutio fieri». In questo caso la banalizzazione Allocutionis del d’Alessandro appartiene alla vulgata quattrocentesca (cfr. ed. Venezia 1495, c. LIr).

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praenuntia, donec nocte appetente visio omnis illa dilapsa est15. Quae ostenta futurum excidium, caedem et calamitatem, quae postea urgentibus fatis sequuta sunt, praesignasse nemo dubitavit. 2. Sed quod nos recenti exemplo experti vidimus profecto haud minus est. Cum florente fortuna Ferdinandi primi regis Aragonii urbs neapolitana et regnum nullis adhuc belli calamitatibus premeretur, satis constat Cataldum sanctum virum, qui abhinc annis mille pontifex urbi tarentinae praefuit, quemque patronum tarentini cives venerantur et colunt, nocte intempesta ministro sacrorum cuipiam tunc sacris initiato et in casta religione educato semel atque iterum in somnis apparuisse ac monuisse ut libellum a se conscriptum, quem in abdito loco vivens abdiderat, in quo divina arcana scripta erant, effodere et protinus ad regem deferri curaret; qui cum parum fidei somnio dedisset, eadem sibi per quietem saepius observata specie, cum primo diluculo solus moraretur in templo, ipsum Cataldum, qualis erat olim dum in vita ageret, pontificia veste et infula amictum, eidem ministro plane vigilanti apparuisse et praedixisse ut postera luce, cum primum posset, libellum a se conscriptum in abdito loco, quem in somnis praedixerat conditum, effodere et regi deferre ne cunctaretur, poenam nisi fieret graviter comminatus. Postera luce solemni pompa ministrum cum populi comitatu ad latebram, in qua longissimo aevo libellus latuerat, processisse eumque plumbeis tabellis obsignatum et clavis obseratum invenisse satis constat16. 3. In eo certum est futurum regni excidium, miserias, calamitates et luctuosa tempora atque instantia mala, quae postea sequuta sunt, regi praedixisse. Id quod experimento docti magna mercede persolutum vidimus, si quidem tanta vis divinae praedictionis fuit, ut haud multo post ipsum Ferdinandum seu deum ira seu fato insuperabili, quod vitari non potuit, in primo belli apparatu e vita constet excessisse Carolumque Gallorum regem, ingenti coacta manu, innumeris copiis neapolitaIl riferimento è chiaramente alla presa di Costantinopoli da parte dei Turchi. Vd. Introduzione, p. 64. 16 A san Cataldo, patrono di Taranto, era attribuita una profezia riguardante gli Aragonesi di Napoli, che ebbe un’ampia circolazione manoscritta e fu pubblicata a Firenze nel 1497. La scoperta del libellus, di cui narra il d’Alessandro, sarebbe avvenuta nel 1492 nella chiesa di S. Pietro della Porta a 15

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visione svanì. Nessuno dubitò che quei prodigi preannunziassero distruzioni, stragi e calamità, che infatti più tardi con l’incalzare del fato seguirono. 2. Ma sicuramente non è cosa da meno ciò che noi stessi abbiamo visto e sperimentato in un caso recente. Quando la città di Napoli e il Regno nel culmine della fortuna di re Ferdinando I d’Aragona non erano ancora minacciati da sventure di guerra, è cosa abbastanza nota che San Cataldo, che mille anni fa fu vescovo della città di Taranto, e che i Tarantini venerano e onorano come patrono, a notte fonda apparve in sonno una e più volte ad un prete da poco consacrato e di santa vita e lo esortò a dissotterrare un libretto da lui scritto, che quando era vivo aveva nascosto in un luogo segreto, e in cui erano svelati gli arcani divini, e di portarlo subito al re. Il prete prestò poca fede al sogno, nonostante la medesima visione sempre più spesso gli si presentasse durante il sonno, ma un giorno alle prime luci dell’alba, mentre da solo si aggirava per la chiesa, apparve a lui completamente sveglio Cataldo in persona, qual era un tempo mentre era in vita, con indosso la veste vescovile e l’infula, e gli ingiunse di recuperare il giorno dopo, non appena avesse potuto, il libretto da lui scritto dal luogo segreto, dove nei sogni gli aveva svelato di averlo nascosto, e di portarlo al re senza indugio, minacciandolo di punirlo se non lo avesse fatto. È cosa abbastanza nota che il giorno dopo in solenne processione il sacerdote accompagnato dal popolo si recò al nascondiglio nel quale per un lunghissimo tempo il libro era stato celato, e lo trovò sigillato con tavole di bronzo e chiuso a chiave. 3. In quel libro era predetta al re la rovina futura del Regno, le miserie, le calamità, i tempi luttuosi e le disgrazie incombenti, che poi seguirono. E questo noi, che ne abbiamo fatto esperienza, lo abbiamo visto pagato a caro prezzo, dal momento che tanta fu la forza di quella divina predizione, che non molto dopo lo stesso Ferdinando vuoi per ira divina vuoi per un destino ineluttabile e ineludibile, mentre si facevano i preparativi per la guerra perse la vita e Carlo, re di Francia, Taranto ad opera di un giovane prete, al quale il santo sarebbe apparso dapprima in sogno e quindi in visione da sveglio nella Cattedrale: si rimanda a G. TOGNETTI, La fortuna della pretesa profezia di san Cataldo, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», LXXX, 1968, pp. 273-317. Vd. anche pp. 64-66.

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num omne regnum invasisse, Alfonsumque Ferdinandi primogenitum, post patris obitum vix regno assumptum, regno orbatum turpi fuga velut in exilio diem suum obiisse. Mox ipsius filium Ferdinandum iuniorem, summae spei adolescentem, miri erga omnes studii et favoris, cui rursus regnum debebatur, misero et fatali bello implicitum, in ipso aetatis flore immatura morte praeventum occubuisse. Postea Gallos et Hispanos, communicato imperio et aequato regni iure, fugato Federico altero prioris Ferdinandi filio, qui mox regno successerat, admotis hostiliter legionibus et ampliore exercitu denuo regnum invasisse, sacra profanaque occupasse, bonorum direptiones fecisse, urbes, villas vicosque omni belli clade pervastatos, multa foeda et indigna passos. Oppida quoque et municipia caedibus et rapinis plena provinciasque hostilem in modum conquassatas et in extremum discrimen adductas incendiis et stupris ac si quid ultra malorum est patuisse, eundemque regem nondum functum fatalibus malis post eversam domum et tot urbium clades, cum coniuge et liberis regno depulsum, domo et fortunis relictis, in inimicorum manus supplicem venisse, ibique morbo et tabe confectum e vita tandem excessisse. Donec ad haec tempora, in quibus formidare non desinimus et an satis piamenti et poenarum adhuc pensum sit ignoramus, perventum est17.

17 Sono riassunti qui in breve gli avvenimenti che portarono alla fine del regno di Napoli, di cui il d’Alessandro era stato testimone in prima persona, a partite dalla morte di re Ferrante avvenuta nel gennaio del 1494; quindi la conquista del Regno da parte di Carlo VIII, la fuga e la morte in esilio di Alfonso II (1495), la morte prematura del giovanissimo erede Ferrandino (1496), la successione dello zio Federico, la discesa di Luigi XII, la spartizione del Regno tra Francesi e Spagnoli con il patto segreto di Granada (1500), le guerre e le distruzioni che ne seguirono, l’esilio di Federico in Francia (1501) e la sua morte, la caduta del Regno (1504). Il capitolo stigmatizza molto bene la sensazione di fatale impotenza contro una fortuna o una provvidenza avverse che provarono molti intellettuali napoletani al precipitare degli eventi.

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messo insieme un grande esercito, con ingenti truppe invase tutto il Regno di Napoli, e il primogenito di Ferdinando Alfonso, appena salito al trono dopo la morte del padre, ne fu privato fuggendo vergognosamente e finì i suoi giorni in esilio. Poi suo figlio Ferdinando il giovane, ragazzo di grandissime speranze e di straordinario amore e benevolenza verso tutti, a cui era dovuto per diritto di successione il Regno, coinvolto in una triste e fatale guerra cadde nel fiore della giovinezza colto da morte immatura. E poi Francesi e Spagnoli, spartitisi il Regno con pari potere e diritti, dopo aver messo in fuga Federico, il secondogenito di Ferdinando I, che era succeduto nel Regno, mossi gli eserciti con un dispiegamento di forze più grande invasero nuovamente il Regno impadronendosi di luoghi sacri e profani, saccheggiando ricchezze, devastando con tutta la furia devastatrice della guerra città, campagne e villaggi, infliggendo molte violenze e ingiustizie. Anche piazzeforti e municipi furono sottoposti a stragi e rapine, le province sconvolte implacabilmente e ridotte allo stremo con incendi e stupri e ogni sorta di soprusi, e lo stesso re, non essendosi ancora compiuto il suo fatale destino, dopo la distruzione della sua casa e la rovina di tante città, cacciato dal Regno con la moglie e i figli, lasciate casa e ricchezze, giunse supplice nelle mani dei nemici, e lì consumato dalla malattia alla fine lasciò questo mondo. Si è giunti infine ai nostri giorni, in cui continuiamo ad avere paura e non sappiamo ancora se abbiamo pagato abbastanza in pene ed espiazioni.

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Caput VIII An sapienti sit uxor ducenda et quae ad propagandam sobolem indulta commoda a Romanis fuerint1.

1. Vetus quaestio fuit et a prudentibus in utramque partem agitata et adhuc in quaestione est an sapienti uxorem ducere expediat. Compater amicus meus2, homo perfacetus multaeque venustatis et

1 A dispetto di quanto recita il titolo, che sembra rimandare alla vexata quaestio di matrice classica e di grande fortuna per tutto il Medioevo e l’Umanesimo, questo capitolo raccoglie in maniera alquanto caotica riferimenti antiquari alla legislazione matrimoniale o meglio alle consuetudini matrimoniali del mondo antico, sia greco sia latino, ma anche ‘barbaro’. Copiosa la bibliografia di riferimento, per cui rimandiamo in particolare a C. PETROCELLI, La stola e il silenzio: sulla condizione femminile nel mondo romano, Palermo, Sellerio, 1989, e ai volumi di C. FAYER, La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 1994, La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari, vol. II. Sponsalia, matrimonio, dote e vol. III. Concubinato, divorzio, adulterio, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2005. Su questo capitolo si è soffermato recentemente Giovanni Rossi, pubblicandone il testo con il commento del Tiraqueau (ROSSI, Incunaboli della modernità, cit., pp. 434-438 e 505-571). 2 Potrebbe trattarsi di quel Pietro Gulino o Golino, detto il Compatre, che il Pontano inserisce tra i personaggi del dialogo Antonius e che chiama in causa

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Capitolo VIII Se debba il sapiente prender moglie, e quali agevolazioni furono concesse dai Romani allo scopo di perpetuare la discendenza.

1. È un’antica questione, risolta dai dotti ora in un modo ora nell’altro e ad oggi ancora in sospeso, se al sapiente convenga prendere moglie. Il mio amico Compatre, uomo molto faceto, di grande arguzia

nel De oboedientia per la sua riluttanza al matrimonio: cfr. ROSSI, Incunaboli della modernità, cit., p. 436 nota.

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multi salis, cui in omni sermone mira fuit urbanitas, semperque venusta dicta semperque oportunos iocos habebat, si quem in nostra Parthenope uxorem ducere audisset, eum gravibus conviciis, perinde ac si in aliquod crimen prolapsus foret, incessere solebat, quod homo liber et sui potens in servitutem mancipari et sub imperio uxorio servilem in modum excruciari non curasset, habens semper illud in ore Thaletis Milesii, qui iuvenis, cur uxorem non duceret interrogatus, quia intempestivum erat respondit; iterum senex cum ad coniugium urgeretur, rursus intempestivum dixit, hac ambage verborum sapienti numquam uxorem ducendam fore demontrans3. 2. Verum qui haec perpenso iudicio explorare vult, profecto in coniugiis multa inveniet commoda usui vitae necessaria, sine quibus vix homini sapienti celibem vitam ducere expediet, si quidem non parva adiumenta ex hac societate homini vel inquieto et fatigato ad requiem forensium exercitationum, vel in secunda fortuna ad ampliorem fructum laetitiae, cum habeat cum qua congaudeat, parantur, praesertim si quis moratam et non quotidiani damni ac foedis et pudendis vitiis nequissimam feminam nactus fuerit. Nec minus, cum studio et labore foris bona quaesiverit, superesse domi, qui ea diligentissime tueatur, haud mediocre praesidium vitae putaverunt. Illud quoque non parvi refert habere in miseriis solatium, in periculis adiumentum sociamque vitae etiam in calamitate, quae te perinde ac se foveat et amplectatur. Adde mutua pignora tori genialis sobolisque, quam sibi quisque post futuram et bonorum participem cernit, ingenitamque caritatem in filios animosque consociatos, quae ad civitatis et reipublicae praesidium nec minus ad propagationem nominis valent sempiternam.

3 DIOG. I 26: «Quidam uxorem duxisse filiumque Cidistum procreasse; alii caelibem perseverasse sororisque filium sibi adoptasse ferunt. Et cum rogarent cur filios non procrearet, quod filiorum amorem non teneretur respondisse. Urgenti matri ut se matrimonii vinculis astringeret, adhuc intempestivum esse dixit. Emensa fere iuventa, cum sibi illa acrius insisteret: “Iam – inquit – intempestivum est”» (De vita et moribus philosophorum, trad. Ambrogius Traversarius, Venetiis, Octavianus Scotus, 1490, c. a5r).

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e di grande ironia, di garbo straordinario nel conversare, e che sempre aveva detti arguti e battute a proposito, quando sentiva che uno nella nostra Napoli si sposava, soleva investirlo con pesanti insulti, come se si fosse macchiato di un qualche crimine, perché uomo libero e padrone di sé non si era preoccupato di rendersi schiavo e di sottomettersi al dominio della moglie. E aveva sempre sulla bocca quel detto di Talete di Mileto, che interrogato da giovane sul perché non prendesse moglie, aveva risposto che non era ancora il momento, e di nuovo da vecchio, quando insistevano perché si sposasse, di nuovo ancora aveva detto che non era il momento, dichiarando con queste parole enigmatiche che mai un sapiente dovrebbe prendere moglie. 2. Eppure chi volesse indagare questa questione con un giudizio calibrato, sicuramente troverebbe nel matrimonio molti vantaggi necessari alla vita, sicché non può convenire a un uomo saggio vivere da scapolo. Non pochi benefici infatti questa unione offre all’uomo, sia per avere ristoro dagli impegni pubblici quando è affannato e stanco, sia per avere un supplemento di gioia nella buona sorte, avendo qualcuno con cui condividerla; specialmente se gli è capitata una donna morigerata e non di quelle molto dissolute, che fanno danno ogni giorno con tanti vizi turpi e vergognosi. E non di meno ritennero non certo un piccolo vantaggio che, quando l’uomo fuori casa con faticoso impegno si procura i beni per vivere, resti in casa qualcuno che li difenda con grandissima cura. E anche questo non è di poco conto, avere consolazione nei momenti di difficoltà, aiuto nel pericolo, e una compagna di vita anche nelle disgrazie, che si prenda cura di te come di lei e ti comprenda. Aggiungi i reciproci pegni del letto nuziale e la discendenza, a cui si guarda come a chi ti succederà e godrà delle tue sostanze, e il naturale amore per i figli e l’unione delle anime, cose che valgono a difesa della città e dello stato non meno che all’eterna sopravvivenza del nome.

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3. Quibus delinimentis adductus Socrates, [nec] Xanthippe quamvis morosa et iurgiosa4, nec Pythagoras, Crates et Aristoteles aliique sapientissimi viri coniugio carere voluerunt. Quod legibus Lycurgus mandasse fertur5: nam, si qui in orbitate et solitudine caelibes vixissent, ea afficiebantur ignominia, ut a ludis arcerentur, per hyemem vero forum nudi circuire cogerentur. Spartae enim tam caelibi quam malo marito legibus indicta poena fuit, quae iudicia cacogamia et obsigamia dicta6. Cretenses vero felici instituto usurparunt ut e grege iuvenum deligerent forma conspicuos, quos ad uxores ducendas propagandamque sobolem vi et lege compellerent7. Thuriorum lex erat ut iuvenes primo aetatis flore ad ducendas uxores muneribus honoribusque invitarent; qui vero ea defuncta alteram superduxisset, is invisus et exsecrabilis diis hominibusque ab omni honoris aditu et magistratu arcebatur8. Platonis vero legibus cavetur ut qui ad quintum et trigesimum annum mansisset caelebs, nullo dignus honore et omnium postremus haberetur9, cuius rei causa romanos magistratus ad coniugium et prolem excitandam non solum poenis coercere repugnantes, sed et praemiis invitare iuventutem saepenumero videmus. 4. Furius Camillus et Postumius cum censuram agerent, his qui ad senectutem caelibes pervenissent aut viduarum nuptias, quarum viri bello ceciderant, detrectarent, multam poenae nomine in aerarium

HIER. Adv. Jov. 291 e DIOG. II 26. La tradizione vuole che Socrate avesse addirittura due mogli: cfr. Socrate. Tutte le testimonianze: da Aristofane e Senofonte ai padri cristiani, Introduzione e indice a cura di G. GIANNANTONI, Roma-Bari, Laterza, 1986. DIOG. II 36: «dicenti Alcibiadi non esse tolerabilem Xantippem adeo morosa: “Atqui – ait – ego ita hisce iampridem assuetus sum”» (ed. 1490, c. i2v). 5 PLUT. Lyc. 15, 2 e Apoph. 227F. 6 PLUT. Lys. 30, 7: «Erat enim Spartae et celebi et tardiori marito et malo marito indicta poena» (cfr. Virorum illustrium vitae, vol. I, c. q2r). 7 STRAB. X 4, 20. 8 DIOD. XII 721bc. 9 PLAT. Leg. 772e. 4

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3. Da queste lusinghe fu indotto Socrate a sposarsi, per quanto Santippe fosse bisbetica e attaccabrighe, né Pitagora, Cratete, Aristotele e altri uomini sapientissimi vollero rinunciare al matrimonio. Che Licurgo – si dice – prescrisse per legge: infatti, se qualcuno viveva da scapolo perché celibe o rimasto vedovo, veniva colpito da una tale infamia, da essere tenuto lontano dai giochi e costretto d’inverno a correre nudo intorno al foro. A Sparta infatti fu inflitta per legge una pena tanto per lo scapolo quanto per il cattivo marito: imputazioni che sono dette di kakogamiva e ojyigamiva; i Cretesi poi ebbero una bella consuetudine, quella di scegliere tra i giovani quelli di bell’aspetto e costringerli per legge a prendere moglie e a propagare la discendenza. Vi era una legge a Tiro, per la quale i giovani nel primo fiore degli anni venivano sollecitati con ricompense e onori a prendere moglie; ma colui che, morta questa, ne prendesse una seconda, inviso a Dio e agli uomini ed esecrabile, era tenuto lontano da onori e magistrature. Nelle Leggi di Platone è disposto che chi fosse ancora scapolo all’età di trentacinque anni fosse considerato indegno di qualsiasi onore e l’ultimo degli uomini; e per questa ragione vediamo che le leggi romane per incitare al matrimonio e alla procreazione non solo punivano coloro che si rifiutavano, ma allettavano pure spesso i giovani con premi. 4. Quando Furio Camillo e Postumio erano censori, a coloro che fossero arrivati a vecchiaia celibi, o rifiutassero matrimoni con vedove, i cui mariti erano morti in guerra, ordinarono di pagare una multa

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ferre iusserunt10. Q. Metellus Numidicus censor11 et postea divus Iulius, deinde Augustus, liberorum gignendorum et sobolis causa, legem de maritandis ordinibus tulere, eos ad progeniem propagandam praemiis et immunitatibus invitantes, si quidem cui tres erant liberi vacatio muneris, cui plures libertas donabatur12. Quod a Lacedaemoniis constitutum ferunt, ut trium liberorum parens a custodia et excubiis, quattuor vero ab omni onere immunis foret13. Quin etiam praeturas, quaesturas et consulatus honoresque et magistratus Romani veteres nisi parentibus plurium liberorum comitiis dedere. Quare exemplis palam factum novimus plures candidatos, cum ad comitia et Campum descenderent, fictis adoptionibus liberos sibi pessimo more ementitos fuisse14. Quod postea senatusconsulto sublatum fuit, ne simulata filiorum adoptio veris parentibus fraudi esset, semperque mariti et plurium liberorum parentes in omni negotio pauciores liberos habentibus aut sine uxore degentibus antelati fuere, Persarum more, qui ingentia munera his qui plures genuerant filios proponere soliti

VAL. MAX. II 9, 1: «Camillus et Postumius censores aera poenae nomine eos, qui ad senectutem caelibes pervenerant, in aerarium deferre iusserunt, iterum puniri dignos, si quo modo de tam iusta constitutione queri sunt ausi, cum in hunc modum increparentur: “natura vobis quemadmodum nascendi, ita gignendi legem scribit, parentesque vos alendo nepotum nutriendorum debito, si quis est pudor, adligaverunt. Accedit his quod etiam fortuna longam praestandi huiusce muneris advocationem estis adsecuti, cum interim consumpti sunt anni vestri et mariti et patris nomine vacui”». 11 LIV. Perioc. LIX 4: «Q. Metellus censor censuit, ut cogerentur omnes ducere uxores liberorum creandorum causa. Extat oratio eius, quam Augustus Caesar, cum de maritandis ordinibus ageret, velut in haec tempora scripta in senatu recitavit»; e GELL. I 6. 12 Sulla legislazione relativa ai privilegi concessi a chi aveva figli, in particolare a partire da Augusto, cfr. FAYER, La familia romana, cit., vol. II, pp. 563598. 13 ARIST. Pol. II 18. 14 TAC. Ann. XV 19: «Percrebuerat ea tempestate pravus mos, cum propinquis comitiis aut sorte provinciarum plerique orbi fictis adoptionibus adsciscerent filios, praeturasque et provincias inter patres sortiti statim emitterent manu quos adoptaverant». 10

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all’erario a titolo di risarcimento. Il censore Quinto Metello Numidico, e poi il divino Giulio, e quindi Augusto, per favorire la procreazione e la discendenza, fecero una legge de maritandis ordinibus che allettava a fare figli con premi e privilegi, dal momento che veniva concessa a chi aveva tre figli l’esenzione dai tributi, a chi ne aveva di più, se era schiava, la libertà. E questo, dicono, fu stabilito dagli Spartani, che un padre di tre figli fosse esente dai turni di guardia, uno di quattro poi dispensato da qualsiasi onere. Anzi gli antichi Romani nei comizi non assegnarono se non a genitori di molti figli incarichi di pretore, questore e console e onori e cariche pubbliche. Per questo motivo – è cosa nota grazie a vari esempi – spesso i candidati, che si presentavano ai comizi in Campo Marzio, dicevano mentendo – pessimo costume – di avere figli adottivi; possibilità che in seguito per decreto del senato fu eliminata, perché le finte adozioni non danneggiassero i veri genitori; e sempre i mariti e i genitori di più figli in ogni occupazione furono preferiti a coloro che avevano meno figli o che non fossero sposati. Proprio come i Persiani, che erano soliti offrire grandissimi doni a coloro che generavano più figli, e i loro re, quando andavano in Persia, erano soli-

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sunt, quorum reges, si quando Persidem adirent15, singulis mulieribus ad sobolis invitamenta singulos aureos dare consuevere, pregnantibus vero duplices; quo rex Ochus, cum esset sordidae avaritiae, ne quid elargiretur, adire recusavit. 5. Mulieribusque, quae trium liberorum matres forent, etiam vivo patre testari et sine curatore de bonis disponere negotiaque alia gerere permissum erat; viroque decedente sine liberis omnium bonorum heres lege Romuli uxor erat, si vero cum liberis, aequalem bonorum partem cum liberis ferebat. Utque non severa et tristis, sed laeta atque hilaris illorum pudicitia foret16, uxoribus nec molere nec coquere aut alio servili munere fungi permisere nuptasque pecuniarum et fortunarum viri sacrorumque socias esse iussere17. Illosque, qui in uxorem aut liberos violentas manus intulissent, velut sanctissima deorum templa violassent, impios consceleratosque duxerunt. Veteres enim mulieres propter infirmitatem consilii sub parentum tutela cognatorumque esse voluere18, donec viro desponsatae coniugali copula iungerentur: tunc enim a tutela liberae in virorum manu, non in servitio erant19. Ideo et mariti mores pro lege habere atque his se accomodare convenit20. Contra decet virum curare, ad cultum victumque ei ne quid desit; namque uxori malae tractationis contra virum actio datur, cavendumque ne uxoris imperio maritus agatur: nam illum famosum despectumque paulo momento praecipitem ageret. Quare verbum Catonis talia

PLUT. Mulier. virt. 246AB: nel testo greco non si fa riferimento ad una città di nome ‘Perside’, ma alle Persivde", ovvero alle donne persiane. 16 VAL. MAX. II 1, 5: «Ceterum ut non tristis earum et horrida pudicitia, sed honesto comitatis genere temperata esset – indulgentibus namque maritis et auro abundanti et multa purpura usae sunt – quo formam suam concinniorem efficerent, summa cum diligentia capillos cinere rutilarunt». 17 Di una societas fortunarum tra marito e moglie parla Livio (I 9, 14), nel discorso di Romolo ai Sabini; cfr. DION. II 25, 2. 18 CIC. Pro Mur. 27: «Mulieres omnes propter infirmitatem consilii maiores in tutorum potestate esse voluerunt». 19 Cfr. le parole di Lucio Valerio in LIV. XXXIV 7, 13: «et vos in manu et tutela, non in servitio debetis habere eas et malle patres vos aut viros quam dominos dici». 20 ARISTOT. Oec. III, dedicato alla gestione della familia. 15

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ti dare una moneta d’oro ad ogni donna per invogliarla ad aver figli, ma due a quelle che già erano incinte. E re Oco, che era terribilmente avaro, si rifiutò di andarci per non donare alcunché. 5. E alle donne che fossero madri di tre figli, era permesso – ancora vivo il padre – fare testamento e senza un tutore disporre dei beni e gestire altri affari; se poi il marito moriva senza figli, secondo la legge di Romolo la moglie diveniva erede di tutti i beni, se invece con figli, divideva con loro in parti uguali il patrimonio. E perché la loro pudicizia non fosse troppo severa, ma lieta e gioiosa, non permettevano alle mogli né di macinare né di cucinare o di svolgere qualsiasi altra mansione servile, e vollero che una volta sposate le donne condividessero con il marito ricchezze, fortune e oggetti di culto. E trattarono come empi e criminali coloro che avessero alzato le mani contro la moglie o i figli, quasi avessero violato i santissimi templi degli dei. Gli antichi infatti vollero che le donne, in quanto più deboli di discernimento, fossero sotto la tutela dei genitori e dei congiunti fino a quando non si unissero in vincolo matrimoniale con un uomo: allora libere da tutela, erano sotto il controllo dei mariti, ma non a loro soggette. Per questo è necessario che i mariti si comportino secondo legge e che a questa si conformino; di contro la donna deve prendersi cura del marito, perché nulla gli manchi nell’abbigliamento e nell’alimentazione; e infatti la moglie può essere citata in giudizio per maltrattamenti nei confronti del marito affinché questi non soggiaccia alla sua autorità e disonorato e disprezzato non precipiti ben presto nella rovina. Per questo motivo

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exprobrantis in Romanos saepe emanavit: illos omnibus gentibus armis imperitare, ipsis vero uxores21. 6. Fuitque ideo proditum in Assyria Lunae templum apud Carras fuisse, in quo qui Lunae supplicaret uxoris imperio subigi, qui vero Luno deo sacrum faceret uxori dominari ferebatur22. Quibus etiam mos a Semiramide traditus perdiu mansit, ut viris uxores dominentur. Sauromatas etiam ferunt hoc habere praecipuum, ut viri sub imperio uxorio et famulatu sint23. Apud Aegyptios ut viro mulier praeficiatur lege cavebatur, testantibus uxoribus inter solemnia sponsaliorum in primis virum suo arbitrio parere oportere24. Spartanae mulieres minime muliebris animi viris imperant domesticisque negotiis solae praesunt, curaque omnis et procuratio ad ipsas pertinet25. In quo fertur lepide dictum Gorgonis uxoris Leonidae quae, cum ab hospite argueretur quod solae Spartanae viris imperitarent, haud immerito inquit: «Nam solae viros parturiunt»26. 7. Semper tamen bonum maritum agere quam in republica magnum virum esse pluris veteres censuerunt. Ipsisque ad coniugii et sobolis invitamenta, inter muliebria iura, abundanti auro mundoque muliebri aureisque segmentis et purpura omnibusque delinimentis uti permisere27. Quare in maximis bellis saepe matronas auro collato inops aerarium sublevasse et magna reipublicae adiumenta dedisse perspectum est28. PLUT. Cat. Cens. 8, 4 e Reg. apoph. 198D. SPART. Carac. 7, 3: «Et quoniam dei Luni fecimus mentionem, sciendum doctissimis quibusque id memoriae traditum atque ita nunc quoque a Carrenis praecipue haberi, ut qui Lunam femineo nomine ac sexu putaverit nuncupandam, is adictus mulieribus semper inserviat; qui vero marem deum esse crediderit, is dominetur uxori neque ullas muliebres patiatur insidias». 23 HDT. IV 116-117. 24 DIOD. I 27, 2, con riferimento al contratto prematrimoniale. 25 ARIST. Pol. II 5-12. 26 PLUT. Lyc. 14, 8: «qualia et de Gorgone uxore Leonidae narrantur. Nam peregrina quadam (ut videtur) ad eam dicente: “Solae vos Lacenae viris imperatis”, “Solae enim – inquit – viros parimur”»: Virorum illustrium vitae, vol. I, c. 12v. E cfr. PLUT. Apoph. Lac. 227E. 27 Cfr. nota 16. 28 LIV. V 50, 7: «Iam ante in eo [l’oro sottratto ai Galli e custodito sotto il trono di Giove] religio civitatis apparuerat quod cum in publico deesset aurum ex quo summa pactae mercedis Gallis confieret, a matronis conlatum accepe21

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si è diffuso il detto di Catone, che rimproverava ai Romani questi comportamenti: quelli comandavano su tutte le genti con le armi, ma su di loro comandavano le mogli. 6. E a questo proposito si è tramandato che in Assiria vi fosse un tempio della Luna presso Carre, nel quale pare che coloro che rivolgevano suppliche alla Luna, erano sottomessi al dominio della moglie, chi invece rendeva sacrificio al dio Luno, la dominava. E sempre presso questo popolo sopravvisse l’usanza trasmessa da Semiramide, che fossero le mogli a comandare sui mariti. Dicono che anche i Sauromati abbiano questo di particolare, che gli uomini sono sottoposti al dominio delle mogli e a loro servizio. Presso gli Egiziani si disponeva per legge che la moglie comandasse sul marito, e infatti durante la celebrazione del matrimonio, testimoni le donne sposate, il marito come prima cosa doveva dichiarare di ubbidire ai desideri della moglie. Le donne spartane, che non hanno per nulla animo femminile, comandano sui mariti e da sole governano gli affari di casa e ogni cura e responsabilità spetta a loro. E a questo si riferisce una battuta della moglie di Leonida, Gorgone, che ad un’ospite che denunciava che solo le Spartane comandassero sui mariti, rispose opportunamente: «Infatti solo noi partoriamo uomini». 7. Tuttavia gli antichi reputarono sempre più importante essere un buon marito che un grande uomo nella società. E alle donne come incentivo al matrimonio e ai figli, tra gli altri diritti femminili, permisero di usare molti gioielli, ornamenti muliebri, frange d’oro, vesti di porpora e tanti belletti. Per questo motivo nelle gravi situazioni di guerra è noto che spesso le matrone raccogliendo il loro oro rifornirono l’erario vuoto e diedero un grande aiuto allo Stato. Leggiamo che durante

rant, ut sacro auro abstineretur. Matronis gratiae actae honosque additus ut earum sicut virorum post mortem sollemnis laudatio esset»; e LIV. XXXIV 5, 9: «iam capta a Gallis urbe aurum quo redempta urbs est? nempe aurum matronae consensu omnium in publicum contulerunt. Proximo bello, ne antiqua repetam, nonne et, cum pecunia opus fuit, viduarum pecuniae adiuverunt aerarium et, cum di quoque novi ad opem ferendam dubiis rebus accerserentur, matronae universae ad mare profectae sunt ad matrem Idaeam accipiendam?».

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Legimus secundo Punico bello29, cum respublica infestis hostibus afflictaretur scirentque matronae aerarium populi romani bello exhauriri, ipsas coetibus factis sponte aurum et ornamenta sua in aerarium contulisse, cuius rei causa, ut festis profestisque diebus, dum ad sacra et ludos irent, carpento veherentur a senatu datum est. Camilli quoque tempore, cum a Gallis populum romanum redimere oporteret, in angustia aerarii quicquid auri et ornamentorum erat matronas publice contulisse eoque se populum redemisse accepimus30. Propterea, ut earum sicut virorum in funere solemnis laudatio esset, senatusconsulto cautum fuit, primaque Popilia a Crasso filio laudata fertur in funere31. Postea Iulius Caesar defunctam primus laudavit uxorem32, et Nero Poppeae formam et alia fortunae munera pro rostris magnifice extulit33, aliique deinceps defunctorum defunctarum laudes ad populum solemni oratione prosequuti sunt. 8. Utque perpetuum hoc coniugale foedus et sine dissidio foret, uxori virum relinquere et cum alio copulari nequaquam licebat. Viro autem, nisi uxor in adulterio aut veneficio seu clavium adulteratione deprehensa foret, aut si vinum biberet, leges a Romulo latae divertere nulli sinebant; qui aliter dissidium fecisset, bona viri ad uxorem devolvi voluere34. Quare L. Antonius a censoribus notatus et senatu motus fertur, quod nullo consilio aut modo quam in matrimonium duxerat LIV. V 25, 8-9. LIV. V 25, 8; VAL. MAX. V 6, 8. 31 CIC. De or. II 44 e PLUT. Mulier. virt. 242F. 32 PLUT. Caes. 5, 4, a proposito del funerale della prima moglie Cornelia. 33 TAC. Ann. XVI 6: «Ductae autem publicae exequiae laudavitque ipse apud rostra formam eius et quod divinae infantis parens fuisset aliaque fortunae munera pro virtutibus». 34 PLUT. Rom. 22, 3: «Tulit etiam leges quasdam, e quibus illa vehemens quae uxori virum relinquere non permittit, sed viro uxorem repudiare si in veneficio natorum aut in adulterio deprehensa foret, aut claves subiecisset. Quod si aliter repudiasset, eius copiarum partem uxori dari, partem Cereri sacra esse iussit» (Virorum illustrium vitae, vol. I, c. 8v). Il riferimento alla sottrazione o duplicazione delle chiavi è stato inteso in relazione alla cella vinaria: una moglie ubriacona infatti sottrae le chiavi della cantina per potervisi recare di nascosto dal marito (cfr. FAYER, La familia romana, cit., vol. III, p. 75 nota). In generale sulla legislazione in materia di divorzio nella Roma antica cfr. FAYER, La familia romana, cit., vol. III, pp. 55-187. 29

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la seconda guerra Punica, essendo la repubblica in difficoltà a causa delle ostilità nemiche, le matrone, che sapevano che le casse dello stato erano vuote per la guerra, riunitesi spontaneamente versarono all’erario tutto il loro oro e i gioielli, motivo per cui fu concesso dal senato che sia nei giorni di festa sia in quelli feriali, quando dovevano recarsi alle cerimonie sacre e agli spettacoli, si servissero di una vettura coperta. Anche al tempo di Camillo, poiché era necessario riscattare il popolo romano dai Galli, leggiamo che essendo le casse dello stato in difficoltà le matrone raccolsero pubblicamente tutto l’oro e i gioielli e con quelli riscattarono il loro popolo. Per questo motivo fu decretato dal senato che nei funerali fosse recitato per loro, come per gli uomini, un solenne encomio; e la prima ad essere lodata durante le esequie si dice che fu Popilia dal figlio Crasso. In seguito Giulio Cesare lodò per primo la moglie morta, e Nerone celebrò con grande enfasi dai rostri la bellezza di Poppea e le altre sue qualità, e altri in seguito celebrarono le lodi di donne defunte davanti al popolo con una solenne orazione. 8. Affinché questo patto coniugale fosse eterno e indissolubile, non era assolutamente permesso ad una donna di abbandonare il marito e unirsi ad un altro, ugualmente le leggi date da Romolo non consentivano di divorziare a nessun marito, a meno che la moglie non fosse stata colta in adulterio o in veneficio o ancora a contraffare le chiavi, o fosse un’ubriacona; se invece si fosse separato per altre ragioni, stabilirono che i suoi beni fossero trasferiti alla moglie. Per questo motivo Lucio Antonio si dice che fu ammonito dai censori e allontanato dal senato,

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repudiasset35, et Tiberius Caesar quaestorem gradu deiecit, quod quam coniugem duxerat tertia post die dimisit36. Tametsi ex levibus causis repudium intercessisse plerumque inveniamus, si quidem Q. Antistius uxorem, quod cum libertina fabulari viderat, repudiavit37, et C. Sulpicius, quod invelato capite foras prodiisset, quippe veste a capite deducta matronas incedere minime fas erat38; P. quoque Sempronius, quod ludos se inscio spectasset, uxori repudium remisit39. Taxaturque Maecenas inconstantiae, quod cum ab uxore semel divertisset illamque reconciliata gratia paulo post reduxisset, iterum ac tertio cum ea simultate exorta repudium fecit et mox in gratiam venit. Quare milies eum duxisse uxorem ferebatur, cum unam haberet40. Paulus vero Aemilius cum argueretur, quod post longum tempus uxorem Papiriam foecundam et formosam dimisisset, dixisse ferunt neminem scire in qua parte calceus, licet speciosus foret, suos premeret digitos41. Domitianus tamen Augustus equitem romanum ob reductam uxorem, cum qua maritus ob adulterii crimen dissidium fecerat, iudicum albo erasit et nota affecit42, et M. Lepidus, quod Apuleiae uxoris desiderium post

35 VAL. MAX. II 9, 2: M. Valerio Massimo e Gaio Giunio Bruto Bubulco imitarono la severità dei censori Postumio e Fulvio e «L. enim Antonium senatu moverunt, quod quam virginem in matrimonium duxerat, repudiasset nullo amicorum in consilio adhibito». 36 SUET. Tib. 35, 2. 37 VAL. MAX. VI 3, 11: «Nec aliter sensit Q. Antistius Vetus repudiando uxorem, quod illam in publico cum quadam libertina vulgari secreto loquentem viderat». 38 VAL. MAX. VI 3, 10: «Horridum C. quoque Sulpici Galli maritale supercilium: nam uxorem dimisit quod eam capite aperto foris versatam cognoverat, etc.». 39 VAL. MAX. VI 3, 12: «Iungendus est his P. Sempronius Sophus, qui coniugem repudii nota adfecit, nihil aliud quam se ignorante ludos ausam spectare». 40 SEN. Dial. I 3, 10 e Epist. 114, 6: «hunc esse qui uxorem milliens duxit, cum unam habuerit». 41 L’aneddoto è riferito da PLUT. Con. Praec. 141A, ma cfr. PLUT. Aem. 5, 1-3. 42 SUET. Dom. 8, 3: «equitem R. ob reductam in matrimonium uxorem, cui dimissae adulterii crimen intenderat, erasit iudicum albo».

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perché aveva ripudiato senza alcuna ragione e giustificazione la donna che aveva sposato; e Tiberio Cesare allontanò dalla sua carica un questore che, dopo tre giorni che si era sposato, si era separato dalla moglie. E tuttavia leggiamo che il ripudio avveniva per lo più per futili motivi: per esempio Quinto Antistio ripudiò la moglie perché l’aveva vista parlare con una liberta, e Gaio Sulpicio, perché era uscita fuori di casa con la testa scoperta (infatti non era per nulla conveniente che le matrone andassero in giro senza il velo sul capo); anche Publio Sempronio cacciò via la moglie perché era andata ad assistere ai giochi a sua insaputa. Mecenate fu criticato per la sua incostanza, per il fatto che dopo aver divorziato una volta dalla moglie e dopo averla poco dopo ripresa con sé riconciliatosi con lei, di nuovo e per la terza volta la ripudiò a causa di un litigio e subito dopo si riconciliò. Per questo motivo si diceva che lui si fosse sposato mille volte, benché avesse una sola moglie. Raccontano poi che Paolo Emilio, quando veniva criticato per il fatto che dopo tanti anni si era separato dalla moglie Papiria, donna feconda e bella, rispondeva che nessuno sapeva il punto in cui il sandalo, anche se bello, stringeva le sue dita. Domiziano Augusto invece cancellò dall’albo dei giudici un cavaliere romano che aveva sposato una donna, dalla quale il marito aveva divorziato per adulterio, e lo sanzionò, e Marco Lepido morì consumato dalla malattia, perché dopo il divorzio non era riuscito a sopportare la nostalgia della moglie

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divortium ferre nequiret, morbo extabuit43, sicut Antistia repudiata a Pompeio, ipsius mater indignitatem ferre non valens necem sibi manu conscivit44. 9. Solon vero lege constituit ut, qui uxorem exturbasset, dotem illi restitueret, alioqui interusurium sesquidrachmale sesquidragmale ob moram solvere cogeretur. Primus enim P. Carvilius Ruga post annum quingentesimum trigesimus tertio vel undevigesimimum ab Urbe condita, cum uxorem duxisset, ex qua vitio corporis liberos suscipere nequisset, sterilitatis causa divortium fecit, quod apud diversas gentes fiebat conditionibus variis45. Nam Thuriis hac lege permittitur, ut neutri cum iuniore sponsa aut viro coniugium postea inire liceret, ne libidine aut illecebra voluptatum magis quam causa divertisse videantur46. Apud alios his verbis concipitur divortium, ut pari voto vir et uxor invicem dicerent: «Tuas res tibi habeto»; in sponsalibus vero dirimendis haec fuere verba: «Condicione tua non utar»47. Atheniensibus libello repudii porrecto a viro vel uxore an concedi debeat magistratus decernit48. Apud Germanos semel cum nupta transigitur, cum qua senescendum erat, neque a viro divertere neque post obitum alteri nubere permittitur49. Id tamen memoriae proditum est, uxori concepto necdum edito partu post divortium alteri nubere non licere, damnaturque

43 PLIN. N.H. VII 122: «M. Lepidus Appuleiae uxoris caritate post repudium obiit». 44 PLUT. Pomp. 9, 4. 45 VAL. MAX. II 1, 4: «primus autem Sp. Corvilius uxorem sterilitatis causa dimisit». Cfr. FAYER, La familia romana, cit., vol. III, pp. 72-73. 46 DIOD. XII 18, 1. 47 Cfr. Dig. XXIV 2, 2: «In repudiis autem, id est renuntiatione comprobata sunt haec verba: “tua res tibi habeto”, item haec: “tua res tibi agito”. In sponsalibus quoque discutiendis placuit renuntiationem intervenire oportere, in qua re haec verba probata sunt: “condicione tua non utor”». 48 PLUT. Alcib. 8, 5-6. 49 TAC. Germ. 19, 3: «melius quidem adhuc eae civitates, in quibus tantum virgines nubunt et cum spe votoque uxoris semel transigitur. Sic unum accipiunt maritum quomodo unum corpus unamque vitam, ne ulla cogitatio ultra, ne longior cupiditas, ne tamquam maritum sed tamquam matrimonium ament».

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Apuleia, così come la madre di Antistia, che era stata ripudiata da Pompeo, non potendo tollerare il disonore, si diede la morte con le proprie mani. 9. Ancora, Solone stabilì per legge che colui che ripudiava la moglie le doveva restituire la dote, altrimenti era costretto a versare un interesse di una dracma e mezza. Per primo Publio Carvilio Ruga nell’anno 533 o 519 dalla fondazione di Roma, sposatosi con una donna dalla quale per un difetto fisico non poteva avere figli, divorziò a causa della sua sterilità. Varie erano le condizioni di divorzio presso le differenti nazioni: a Tiro, ad esempio, la cosa era regolata da questa legge, che a nessuno dei due fosse permesso in seguito di risposarsi con una donna o un uomo più giovane, perché non sembrasse che avessero divorziato per lussuria o per attrazione erotica, piuttosto che per una ragione seria. Presso altri il divorzio era espresso con queste parole che l’uomo e la donna si dovevano scambiare con uguale promessa: «Tuas res tibi habeto»; nello scioglimento dei fidanzamenti invece, le parole erano queste: «Condicione tua non utar». Presso gli Ateniesi un giudice valutava se dovesse essere concesso il divorzio, dopo che il marito o la moglie gliene avevano presentato richiesta. Presso i Germani una sola volta si contraeva matrimonio con una donna, con la quale bisognava invecchiare, né le era permesso divorziare dal marito, né dopo la sua morte sposarsi con un altro. Questo tuttavia a nostra memoria si tramanda, che ad una donna incinta ma che non aveva ancora partorito

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Augustus Octavius, quod Liviam Drusillam ex altero viro abduxit gravidam, quam probavit unice50. 10. Neque in ius vocanti matronam eius corpus tangere aut a magistratibus summoveri permittitur, ut a tactu alienae manus inviolata maneat51. Sed matronae in semitis viros de via decedere iussum est, quod et senatusconsultu cavebatur, neque dotale praedium quodve dotis causa exhibitum esset viro invita uxore alienare, quod lege Iulia vetatur, ne uxor indotata maneat52: expedit enim reipublicae dotatas esse uxores. Licet priscis saeculis dos apud Romanos aes grave fuerit, mox decem milia aeris dotes non excessere, postea corruptis moribus ad quadraginta milia supergressae sunt, in tantum ut Megullia, quod quingenta aerium milia dotem dederat, Dotatae nomen tulerit53. Fuit tamen lege cautum ut, si mulier viro in manum conveniret, omnia quae mulieris fuissent viro accederent dotis nomine. Proditumque est populum romanum C. Fabricii et Cn. Scipionis ac Manii Curii filias, quod ob tenuem rem familiarem pro natalibus nubere non possent, de publico dotasse54, sicut Athenienses Aristidis filias ob modicas facultates aere collato connubio locarunt55. SUET. Aug. 62, 2: «ac statim Liviam Drusillam matrimonio Tiberi Neronis et quidem praegnantem abduxit dilexitque et probabit unice ac perseveranter». 51 VAL. MAX. II 1, 5: «in ius vocanti matronam corpus eius attingere non permiserunt, ut inviolata manus alienae tactu stola relinqueretur». 52 GAIUS Inst. II 63: «Nam dotale praedium maritus invita muliere per legem Iuliam prohibetur alienare, quamvis ipsius sit vel mancipatum ei dotis causa vel in iure cessum vel usucaptum». Cfr. FAYER, La familia romana, cit., vol. II, pp. 689-750. 53 VAL. MAX. IV 4, 10: «et Megullia, quia cum quinquaginta milibus aeris mariti domum intravit, Dotatae cognomen invenerit». 54 VAL. MAX. IV 4, 10: «idem senatus Fabrici Luscini Scipionisque filias ab indotatis nuptiis liberalitate sua vindicavit, quoniam paternae hereditati praeter opimam gloriam nihil erat quod acceptum referrent»; APUL. Apol. 18, 9: «quod si modo iudices de causa ista sederent C. Fabricius, Gn. Scipio, Manius Curius, quorum filiae ob paupertatem de publico dotibus donatae ad maritos ierunt portantes gloriam domesticam, pecuniam publicam ...». 55 FRONT. Strat. IV 3, 5: «Idem praestiterunt Athenienses filiis Aristidis post amplissimarum rerum administrationem in maxima paupertate defuncti»; ma anche PLUT. Arist. 27, 2. 50

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non era concesso risposarsi dopo il divorzio, e si condanna Ottavio Augusto perché sposò Livia Drusilla, che amava in modo particolare, ma che aspettava un figlio da un altro. 10. E nemmeno si permetteva a chi chiamava in giudizio una matrona di toccare il suo corpo, o che fosse allontanata dagli ufficiali pubblici, perché doveva rimanere inviolata dal contatto di mano altrui. Anzi agli uomini fu imposto di cedere il passo alle donne in strada (cosa che fu prescritto anche per decreto senatorio) e che la dote, o ciò che potesse essere stato indicato come dote, non passasse nelle mani del marito contro il volere della moglie (cosa che era vietato dalla Lex Iulia), perché la moglie non restasse senza dote: conviene infatti allo Stato che le mogli siano fornite di dote. Sebbene nei tempi antichi la dote presso i Romani fosse di un asse, non superò poi i dieci mila assi, ma in seguito con la corruzione dei costumi crebbe fino a quaranta mila, a tal punto che Megullia, per il fatto che aveva portato una dote di cinquecento mila assi, prese il nome di Dotata. Fu tuttavia prescritto per legge che, se una donna fosse entrata sotto la potestà del marito, tutto ciò che fosse appartenuto a lei fosse dato al marito a titolo di dote. E si tramanda che il popolo romano abbia dotato dal denaro pubblico le figlie di Gaio Fabrizio, di Gneo Scipione e di Manio Curio, perché a causa dell’esiguo patrimonio familiare non si sarebbero altrimenti potute sposare con uomini di pari rango; e così gli Ateniesi sposarono le figlie di Aristide con il denaro pubblico, a causa delle loro scarse sostanze.

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11. Solon56 vero et Lycurgus57 salubriter consulentes, ne sponsae magno coniugia inirent, viris dotes dare legibus vetuere. Germanorum fuit vetus constitutum, ut viri uxoribus dotes dare cogantur, qua non exhibita nihil consociatum aut foederatum sponsalia haberent58. Idem Cantabris, ut nisi a viro sponsae dos fuisset soluta, nullum esset matrimonii foedus59. Apud Indos pari bovum sponsas mercari permittitur, qui cum in plures dividantur ordines, unius tribus viro alterius sumere non licet60. Massiliensibus ultra aureos centum dotem dare nulli permittitur, Cretensibus dimidia pars bonorum, quae fratri contingit, sororis dotis nomine accedit61. Apud Gallos quantam pecuniam vir ab uxore accipit dotis nomine, tantam de suo conferre tenetur, ut quod inde redundaret cum fructibus superstiti accederet62. Aegyptii vero adeo dotes adversati sunt, ut qui viri dotes acciperent velut mancipia uxori addicerentur. Carthaginenses non dotibus sed nuptiarum impensis, quas immodicas faciunt, modum statuere, fuitque constitutum apud Spartanos ut, qui rei quaerendae causa locupletum affinitates quaererent, poena multarentur. Quare Lacedaemonii, qui Lysandro superstite illius filias se ducturos uxores promiserant et eo morte sublato ducere recusarant, optimo iure ephoris iudicibus poenas dedere, quod spe praemiorum locupletum affinitatem affectassent63. 12. Si quid vero ab uxore delictum esset aut si quae simultates offensionesve forent, si quidem levia et per ignorantiam admissa, clePLUT. Sol. 20, 6. PLUT. Sol. 20, 6 e Apopht. Lac. 227F. 58 TAC. Germ. XVIII 2: «dotem non uxor marito, sed uxori maritus offert. Intersunt parentes et propinqui ac munera probant, munera non ad delicias muliebres quaesita nec quibus nova nupta comatur, sed boves et frenatum equum et scutum cum framea gladioque. In haec munera uxor accipitur, atque in vicem ipsa armorum aliquid viro adfert: hoc maximum vinculum, haec arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur». 59 STRAB. III 4, 18. 60 STRAB. XV 54 e 49. 61 STRAB. IV 1, 5 e X 4, 20. 62 CAES. Gall. VI 19, 1: «Viri, quantas pecunias ab uxoribus dotis nomine acceperunt, tantas ex suis bonis aestimatione facta cum dotibus communicant». 63 PLUT. Lys. 30, 6 e Apopht. Lac. 230A. 56 57

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11. Solone poi e Licurgo, con saggio provvedimento, affinché le donne non contraessero matrimoni per interesse, vietarono per legge che dessero le loro doti ai mariti. Fu antica consuetudine dei Germani che i mariti fossero costretti a dare alle mogli una dote e, se questa non veniva dichiarata, il fidanzamento non aveva valore di accordo né di patto. Anche per i Cantabri il patto matrimoniale non era valido, se dal marito non fosse stata pagata la dote alla sposa. Presso gli Indi era consentito comprare una sposa per una coppia di buoi, e dal momento che si dividevano in più caste, a un uomo di una tribù non era lecito sposarsi con una donna di un’altra. A Marsiglia non era concesso a nessuno di dare una dote superiore a cento monete d’oro. A Creta la metà dei beni, che toccava al fratello, costituiva la dote della sorella. Presso i Galli quanto denaro il marito riceveva dalla moglie a titolo di dote, tanto era tenuto a versarne di suo, in modo che ciò che ne avanzava toccasse con gli interessi al superstite. Gli Egiziani poi a tal punto erano contrari alla dote, che gli uomini che ne avessero ricevuta una erano considerati schiavi della moglie. I Cartaginesi stabilirono una misura non per le doti, ma per le spese nuziali, che erano eccessive e presso gli Spartani fu deciso che, chi cercasse di imparentarsi con famiglie agiate per procacciarsi ricchezze, fosse multato. Per questo motivo gli Spartani che, quando Lisandro era in vita, avevano promesso di sposare le sue figlie, e una volta morto lui si erano rifiutati, a buon diritto furono puniti dagli Efori, perché con la speranza di privilegi avevano cercato di imparentarsi con famiglie ricche. 12. Se poi la moglie sbagliava in qualcosa o si comportava in modo litigioso e offensivo, se le sue mancanze erano lievi e commesse per

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menti animadversione et mollissimis poenis emendabant; si quid vero gravius, de eo vir‹i› non in iudicio et foro, sed remisso iudiciorum munere, ne litibus obstreperent, cum propinquis tamquam domesticis iudicibus cognoscebant quicquid dissidii foret in sacello deae Viriplacae illarumque contumaciam poenis severioribus aut mollioribus cohibebant64. Quod etiam Tiberius Caesar statuit, ut propinqui et necessarii matronas prostratae pudicitiae, quibus accusator deesset, communi sententia coercerent65. Nonnumquam uxoris offensa mariti iudicio permissa fuit. Nam Pomponia Graecina capitis et famae postulata iudicio mariti insons renuntiata est66. Athenis vero erat magistratus, qui dissidentes cum viris uxores, quae non sincera fide in gratiam rediissent, sine iurgio et sine offensa conciliaret67. In quo Crates Diogenis sectator fuit, qui litium omnium et iurgiorum moderator et arbiter inter propinquos praecipue habitus est68. Sicut apud Spartanos Harmosyni erant magistratus, qui mulierum petulantiam immodestiamque cohibebant69. Apud alios fuere conciliatrices, quae viris uxores VAL. MAX. II 1, 6: «Quotiens vero inter virum et uxorem aliquid iurgi intercesserat, in sacellum deae Viriplacae, quod est in Palatio, veniebant, et ibi invicem locuti quae voluerant, contentione animorum deposita, concordes revertebantur». 65 SUET. Tib. 35, 1: «matronas prostratae pudicitiae, quibus accusator publicus deesset, ut propinqui more maiorum de communi sententia coercerent auctor fuit». 66 TAC. Ann. XIII 32: «et Pomponia Graecina insignis femina, A. Plautio, quem ovasse de Britannis rettuli, nupta ac superstitionis externae rea, mariti iudicio permissa; isque prisco instituto propinquis coram de capite famaque coniugis cognovit et insontem nuntiavit». 67 PLUT. Alcib. 8, 5-6, a proposito di una lite tra Alcibiade e la moglie Ipparete. 68 Cfr. APUL. Flor. 22: «Crates ille Diogenis sectator, qui ut lar familiaris apud homines aetatis suae Athenis cultus est: nulla domus unquam clausa erat, nec erat patris familias tam absconditum secretum, quin eo tempestive Crates interveniret, litium omnium et iurgiorum inter propinquos disceptator atque arbiter». 69 Gli ÔArmovsunoi sono ricordati soltanto nei lessici di Fozio e di Esichio, che scrive: ajrmovsunoi ajrxhvti" ejn Lakedaivmoni, ejpi;th``" eujkosmiva" tw``n gunaikw``n. 64

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ignoranza, la trattavano con indulgenza comminandole punizioni poco severe; quando invece si trattava di qualcosa di più grave, il marito non la citava in giudizio nel foro, ma rinunciando all’intervento dei giudici, per non disturbarli con i loro litigi, insieme ai parenti, che fungevano da giudici domestici, indagava sulla causa del dissidio nel tempio della dea Viriplaca e poneva freno alla sua alterigia con pene ora più severe ora più leggere. E anche Tiberio stabilì che i parenti e gli affini castigassero con una sentenza condivisa le matrone di discussa pudicizia, in mancanza di una denuncia. Talvolta il crimine della moglie fu condonato grazie al giudizio del marito: Pomponia Grecina, per esempio, accusata di un delitto capitale e di cattiva reputazione, per il parere espresso dal marito fu dichiarata non colpevole. Ad Atene poi vi era un magistrato che doveva riconciliare senza contestazioni e rancori le mogli che avevano litigato con i mariti, ma che non si fossero riappacificate con loro in maniera sincera. E in questo fu bravo Cratete seguace di Diogene, che fu ritenuto conciliatore e arbitro di tutte le liti e le contese, in particolar modo tra parenti. Parimenti presso gli Spartani vi erano i magistrati Armosini, che correggevano la petulanza delle donne e la loro superbia. Presso altri vi erano le conciliatrici, che mettevano

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et uxoribus viros conciliarent. Adeoque more maiorum muliebri pudori salubri temperamento consultum fuit, ut ne privatam quidem rem agere feminas, nisi auctore parente, fratre viroque permiserint70. Illud certe non est ab re dixisse quod, quae uno viro contentae erant quaeque matronale decus servassent incolume, haud aliter quam pudicae corona donabantur71. Quae vero post viri obitum coniugium iniisset, nisi post decimum mensem nupsisset, levis et impudica atque infamiae inusta putabatur: ideo pregnantem bovem Numae legibus immolare et ita facinus expiare cogebatur72. 13. Neque omittendum quondam uxores viris et matres filiis tunicas togasque facere easque acu et licio ac telis intexere consuesse summosque imperatores et duces a necessariis saepe vestes contextas induisse. Quare Alexander Macedo73 et Augustus Octavius74 domesticis tunicis ab uxore, matre et sorore aut nepte confectis usi sunt, quas veteri more in atrio domus cum clientibus Romani intexebant75 (Graeci vero in oeco et prooeco)76, quippe apud matronas quondam lanificium magnae laudi fuit lanamque fecisse mulierem pudicitiae et probitatis signum erat. Quod a Phrygibus institutum ad Romanos fluxisse putarim, quibus Attalus rex primus aurum vestibus intexere instituit, LIV. XXXIV 2, 11: «maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum». 71 Cfr. PLAUT. Merc. 824: «nam uxor contenta est, quae bona est uno viro»; VAL. MAX. II 1, 3: «Quae uno contentae matrimonio fuerant corona pudicitiae honorabantur». 72 PLUT. Nu. 12, 3. 73 CURT. V 2, 18-19. 74 SUET. Aug. 73, 1. 75 LIV. I 57, 9: «pergunt inde Collatiam, ubi Lucretiam haudquaquam ut regias nurus, quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem inveniunt»; ASCON. Mil. 38: «telas quae ex vetere more in atrio texebantur diruerunt». 76 Cfr. VITR. VI 7, 2. Se oecus è traslitterazione del greco oi\ko" attestata in Vitruvio e Plinio, per prooecus non abbiamo trovato alcun riscontro. È probabile che il D’Alessandro abbia inteso tradurre in questo modo il latino atrium, il ‘luogo davanti alla casa’. 70

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d’accordo mogli con mariti e mariti con mogli. A tal punto secondo il costume degli antichi si provvide con sano equilibrio al pudore delle donne, che non si permise che esse si occupassero nemmeno delle faccende private senza che ci fosse come tutore un padre, un fratello o un marito. E certamente non è fuori luogo che sia stato detto che le donne, che erano soddisfatte di un solo uomo e avessero conservato integra la dignità matronale, avrebbero ricevuto in dono una corona non altrimenti che le caste. Quella invece che dopo la morte del marito si fosse risposata, a meno che non fossero passati dieci mesi, era ritenuta leggera e impudica e si macchiava d’infamia: perciò, secondo le leggi di Numa, la donna era costretta a immolare una vacca gravida e in questo modo ad espiare la sua colpa. 13. Né bisogna dimenticare che un tempo le mogli erano solite confezionare ai mariti come le madri ai figli le tuniche e le toghe realizzandole con ago e filo e stoffa, e grandissimi imperatori e condottieri spesso indossarono vesti realizzate dalle loro parenti. Perciò Alessandro il Macedone e Ottavio Augusto usarono tuniche fatte in casa dalla moglie, dalla madre, da una sorella o da una nipote, che a Roma erano tessute secondo il costume antico nell’atrio della casa con la servitù (in Grecia invece nell’oi\ko"), poiché per le matrone un tempo la lavorazione della lana era opera di grande merito, e il fatto che una donna filasse la lana era segno di pudicizia e onestà. E credo che questa usanza passò ai Romani dai Frigi, ai quali re Attalo per primo fece intessere le vesti con l’oro, donde erano detti phrygiones coloro che realizza-

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unde phrygiones dicti qui pictas vestes intexebant77. Quo enim tempore inter Romanos et Sabinos foedus ictum est, cum Romolo et Tatio convenit ut Sabinae ab omni opere praeterquam lanificio immunes forent78, scribitque Varro lanam cum colo et fuso Tanaquilis et sandalia in templo Anci Martii ad sua tempora durasse incolumem, factamque ab ea togam regiam virgulatam, qua Servius Tullius usus fuit79. Erat tamen pagana lege sancitum ne mulieres in via torquerent fusos aut illos detectos ferrent, quoniam frugum proventibus adversari putabatur80. Utque lanificium veteribus cordi fuisse adnotarent, sponsam nuptiarum die colum comptam et fusum cum stamine ad virum deferre iussere81, quem morem apud multos etiam nunc coli observarique videmus, precipue Hiberos, quibus quicquid texunt mulieres in commune conferunt et virorum iudicio, quae plurimum texuit, honoribus cumulatur et pretio. Pheacenses quoque, Homero teste, sicut rei navalis viri, ita mulieres pensa trahendi et acu vestes intexendi periti sunt82. Non sic Aegyptiis: nam viris domi pensa curare, feminis vero in foro vacare usus erat83. Apud Persas autem matronas lanae admovere manus aut calathum et pensa tractare probro et turpitudini dabatur84. 77 PLIN. N.H. VIII 195-196: «pictae vestes iam apud Homerum sunt iis, et inde triumphales natae. Acu facere id Phryges invenerunt, ideoque Phrygioniae appellatae sunt. Aurum intexere in eadem Asia invenit Attalus rex, unde nomen Attalicis». 78 PLUT. Rom. 15, 5 e 19, 9. 79 PLIN. N.H. VIII 194: «Lanam in colu et fuso Tanaquilis, quae eadem Gaia Cecilia vocata est, in templo Sancus durasse prodente se auctor est M. Varro factamque ab ea togam regiam undulatam in aede Fortunae, qua Ser. Tullius fuerat usus». 80 PLIN. N.H. XXVIII 28: «Pagana lege in plerisque Italiae praediis cavetur, ne mulieres per itinera ambulantes torqueant fusos aut omnino detectos ferant, quoniam adversetur id omnium spei, praecipue frugum». 81 PLIN. N.H. VIII 194: «inde factum ut nubentes virgines comitaretur colus compta et fusus cum stamine». Cfr. FAYER, La familia romana, cit., vol. II, pp. 525-526. 82 Od. VI 108-109. 83 HDT. II 35. 84 CURT. V 2, 19: «quippe non aliud magis in contumeliam Persarum feminae accipiunt quam admovere lanae manus».

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vano abiti ricamati. E infatti al tempo in cui fu stretta alleanza fra i Romani e i Sabini si convenne tra Romolo e Tazio che le Sabine fossero esonerate da tutti i lavori tranne la filatura, e scrive Varrone che la lana con la rocca e il fuso di Tanaquilla insieme ai suoi sandali si conservavano intatti nel tempio di Anco Marzio ancora ai suoi tempi, ed anche la toga regia a strisce fatta da lei, che era stata usata da Servio Tullio. Era tuttavia sancito dalla legge pagana che le donne non torcessero i fusi per strada o li portassero scoperti, poiché si riteneva che portasse male ai raccolti. E per sottolineare quanto stesse a cuore agli antichi la lavorazione della lana, imposero che la sposa il giorno delle nozze fosse condotta al marito ornata di rocca e fuso con il filo, costume che ancora oggi si vede rispettato e osservato presso molti, in particolare presso gli Spagnoli, dove le donne portano in pubblico tutto quello che tessono, e a giudizio dei mariti colei che ha tessuto di più è ricoperta di onori e premi. Anche presso i Feaci, secondo la testimonianza di Omero, come gli uomini sono esperti di arte navale, così le donne lo sono del filare e del cucire le vesti. Non così per gli Egiziani: infatti era loro costume che gli uomini badassero alla filatura in casa e le donne invece oziassero in piazza. Presso i Persiani poi si riteneva che fosse motivo di riprovazione e di vergogna che le donne lavorassero la lana o maneggiassero cesti e pennecchi.

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Caput XIX Delusiones daemonum malorum a multis expertas fuisse, qui diversis imaginibus homines delusere.

1. Non est profecto fabulosum quod apud sanctos viros auctores memorant, ut cum taetris spiritibus, quos daemones vocant, congressum habuerint illosque diversis imaginibus ac multiplici specie prope deluserint, si quidem nostra quoque memoria id evenisse compertum est. Nuper amicus meus summus, ingenio et fide singulari, rem dictu admirabilem haec prodentibus nobis sibi evenisse enarravit, quod cum credi vix posset, illam multorum testimonio comprobavit: se, cum apud coniunctissimum et sibi familiarem Neapoli diverteret et noctis silentio clamantis de via et opem implorantis vocem hominis audisset, cum accenso lumine accurrisset, ut quid rei esset inquireret, ibi daemonem et dirum quoddam numen taetra et horribili specie conspexisse, qui iuvenem quempiam clamantem et reluctantem in via infestis manibus invadere quaerebat. Quo conspecto, cum miser ille ad ipsum, quem prope videbat, accurrisset et, ne apprehenderetur, quanto poterat nixu ipsius vestem et manum apprehendisset, se divino saepius advocato numine, cum multum diuque frustra fuisset reluctatus, vix tandem daemonem abegisse. Quo demum abacto, cum iuvenem animo consternatum in domum recepisset, numquam quod se dimitteret aut pallium relaxaret efficere quisse, tantaque eum torpedo invasit, ut mente evicta sui compos non esset, cum sibi prorsus repraesentari et ante oculos observari illa species videretur. Tandem ad se redditus, rem quo pacto se habuerat enarravit. Constabat enim pravis illum moribus et incivilibus cum Dei contemptu diu vixisse in parentesque tunc iurgatum contumelias et intoleranda probra dixisse, devotionibus exsecrationibusque diris ab his agitatum abiisse. 2. Sed ne cui haec vana vel ficta sermonibus videantur, auctor est Thomas monachus, homo minime malus, cuius ego fidem probitatemque pluribus in rebus expertus didici, qui serio mihi retulit quod, cum in monasterio et sacris aedibus, quae in Lucanis montibus sunt, cum

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Capitolo XIX Molti hanno sperimentato gli inganni dei cattivi demonii, che si fanno gioco degli uomini presentandosi sotto diverse forme.

1. Non è certamente leggenda quello che gli scrittori ricordano dei santi, e cioè che ebbero incontri con spiriti spaventosi – quelli che chiamiamo demonii – e da loro furono ingannati, poiché più volte apparvero loro sotto forme diverse, e infatti anche alla nostra epoca si è venuto a sapere di storie del genere. Recentemente un mio grandissimo amico, di rara indole e affidabilità, mentre parlavamo di queste cose mi narrò una storia sorprendente a dirsi a lui accaduta e, poiché a stento poteva essere creduta, la avvalorò facendo il nome di molti testimoni. Mentre era a Napoli presso un suo parente stretto, nel silenzio della notte aveva sentito la voce di un uomo che gridava dalla strada e implorava aiuto; accesa una lampada, era accorso per scoprire di che cosa si trattasse, e lì aveva visto un demonio, una entità spaventosa dall’aspetto fosco e orribile che in strada cercava di aggredire con le mani minacciose un giovane che urlava e si dimenava. Visto ciò, mentre il poveretto era corso verso di lui, che era lì vicino, e, per non essere afferrato da quella creatura, con tutte le forze che poté si era aggrappato alla sua veste e alla sua mano, egli aveva invocato più di una volta Dio riuscendo finalmente a scacciare il demonio, che aveva molto e a lungo invano lottato. Una volta scacciatolo, aveva accolto in casa il giovane spaventato, ma non era riuscito a fare in modo che staccasse le mani dal suo mantello, perché quello paralizzato dalla paura e completamente annichilito non era più in sé, sembrandogli di avere ancora davanti agli occhi quel fantasma. Alla fine tornato in sé, aveva raccontato come la cosa era andata. Notoriamente infatti aveva a lungo vissuto nel disprezzo di Dio da uomo depravato e violento, e una volta, dopo aver litigato, aveva rivolto parole offensive e insulti intollerabili nei confronti dei genitori e se ne era andato tutto agitato imprecando e maledicendo. 2. Ma perché a qualcuno queste storie non sembrino favolette, vi è la testimonianza del monaco Tommaso, uomo per niente malvagio, la cui fede e onestà ho imparato a conoscere avendole sperimentate in varie occasioni. Egli con serietà mi raccontò che una volta nel monastero e in altri luoghi sacri, che si trovano sui monti della Lucania,

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pluribus iurgatus foret et post immodica convicia et rixas animo perturbato inde se proriperet. Cum per nemora iter solus intenderet, speciem hominis vultu taetro, nigra barba, promissis tunicis, vultu aspectuque deformi et saevo, obviam habuisse, quem cum compellaret quid ille solus per devia errabundus incederet, dixit equum quo vectabatur amisisse atque in proximos campos illum evasisse credere, cumque per sinus invios equum una quaesitum pergerent, ad profluentem, in cuius alveo gurgites magni et formidabiles redundabant, devenisse. Et cum monachus, ut aquam traiceret, calceos sibi eximere appararet, illum magnopere coegisse et tandem pervicisse ut super spatulas suas ascenderet potiusque a se, qui corpore maior erat, vectaretur; qui vix acquiescens, cum super illius spatulas ut succollaretur monachus ascenderet illeque iam aquam ingredi appararet, dum vada exquirit, illius pedes non humana, sed taetra et deformi specie conspexit, quo animadverso, horribili terrore percitus, Deum ut sibi praesto adesset acclamavit. Mox daemonem et diram illam speciem, divino audito verbo, stridore querulo et vi maxima, quanta dici potest, ita e conspectu abiisse dicit, ut imminentem quercum ingenti impetu colliserit ac perfractis ramis funditus everterit, ipseque consternatus atque exanimis diu iacuerit. Credebat enim, quod a vero non abhorret, nisi praevidisset, illum in rapidissimos vortices et voragines fluminis praealtas se fuisse necaturum. 3. Sed prae omnibus quae audiverim aut viderim res est admiratione digna, quam recenti memoria evenisse comperimus Romae. Quippe nota res est, cum apud Gabios85 quidam infimae sortis et obscuris natalibus adolescens vesanus et furiosus, cuius pravi mores et vita facinorosa fuerat, in parentem gravibus iurgiis conviciatus foret, post iurgia immodica, cum furiis agitatus, advocato daemone, cui se devoverat, homo ille improbus et impurus, furore caecus et amens discessisset et Romam petere coepisset eo consilio ut aliquod dirum facinus in patrem moliretur, dum iter faceret, daemonem facie hominis truculenta, sordida barba et capillo vesteque obsoleta et squallida obviam

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Gabii, città lungo la strada tra Roma a Preneste.

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aveva litigato con alcune persone e dopo insulti furibondi e violente discussioni con l’animo turbato si era allontanato da lì. Mentre camminava da solo per i boschi, gli era apparso un uomo dal volto orribile, la barba nera, la veste lunga, la faccia e l’aspetto mostruoso e feroce che, quando lui gli aveva chiesto perché se ne andava da solo errabondo per quei luoghi solitari, gli aveva risposto che aveva perso il cavallo sul quale andava e che credeva fosse scappato nei campi lì vicini. Mentre dunque continuavano a cercare insieme il cavallo per sentieri impraticabili, erano giunti ad un fiume, le cui acque formavano gorghi profondi e spaventosi. E mentre il monaco si preparava a togliersi i sandali per attraversare, quell’altro aveva tanto insistito e alla fine ottenuto che salisse sulle sue spalle e si facesse trasportare piuttosto da lui che era di corporatura più grande. Il monaco, con riluttanza, aveva acconsentito, ed era salito sulle sue spalle per farsi portare, ma mentre quello si apprestava ad entrare in acqua ed era alla ricerca di un guado, aveva intravisto i suoi piedi di forma non umana, ma mostruosa e deforme; resosi conto di ciò, colto da uno spaventoso terrore, aveva chiamato a gran voce Dio perché gli venisse in aiuto. Subito quel demonio orribile, appena sentito il nome di Dio, con un grido lamentoso e con una forza grandissima, più di quanto si possa dire, era scomparso – così raccontava il monaco – urtando con tale violenza una quercia che era sopra di loro da spezzarne i rami e sradicarla completamente, mentre lui era rimasto a lungo per terra terrorizzato ed esanime. Credeva infatti, cosa non inverosimile, che se non se ne fosse accorto per tempo, quello lo avrebbe fatto morire nei gorghi rapidissimi e nelle profonde voragini del fiume. 3. Ma sopra tutte le storie che ho ascoltato o a cui ho assistito, una è degna di meraviglia che sappiamo avvenuta a Roma recentemente. È noto infatti che una volta a Gabii un ragazzo di bassissima condizione e di oscuri natali, pazzo furioso, che conduceva una vita depravata da delinquente, aveva litigato con il padre e dopo averlo insultato senza ritegno se ne era andato infuriato, cieco di rabbia e fuori di senno, invocando il demonio al quale si era consacrato, da uomo disonesto e dissoluto qual era, e si era diretto verso Roma con l’intenzione di tramare qualche azione criminosa contro il padre. Durante il viaggio il demonio, con la faccia di un uomo feroce, la barba e i capelli incolti, la veste logora e sporca gli era andato incontro e, mentre camminavano

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habuisse, quo cum simul pergerent, illum interrogasse iuvenem, quem animo anxio et sollicito videbat, quid tam tristis incederet. Atque ille, cum quid sibi iurgii cum patre fuisset quodque aliquid scelesti facinoris patrare cuperet respondisset, daemonem illum se quoque simili casu percitum fuisse dicere, proinde pergerent et suas iniurias ultum irent. Cumque nocte appetente ad urbem applicuissent, in proximo hospitio divertisse atque in cubiculum, quod a caupone utrique exhibitum fuit, haud multo post cubitum ivisse, cumque una cubarent, pestem illam immanem, cum illum somno oppressum videret, infestis manibus iugulum hominis apprehendisse ut elisis faucibus necaret; quem iam oppressisset, ni expergefactus ille Dei opem et auxilium advocasset. Quo audito, furiam illam taeterrimam stridore et tumultu maximo tantoque impetu cubiculum, unde evasit, dicitur collisisse, ut tigna et tectum everterit tegulasque penitus perfregerit. Quo strepitu cum magister hospitii excitatus surgeret et quid ruinae et strepitus esset inclamaret, allato mox lumine, rem sicuti erat adolescens ille, quem solum et seminecem invenerat, enarravit tectumque collisum et perfractum, unde daemon e conspectu abiit, demonstravit. Quo malo perterritus, cum suae turpitudinis et anteactae vitae non solum pigeret sed puderet, divino afflatus spiritu, perosus scelera boni exempli et procul a popolari tumultu vitam egit. 4. Multas quoque malorum daemonum illusiones persaepe apud sanctos viros fuisse legimus, quas nostra non semel vidit aetas, quibus salutaribus exemplis admonemur ut praemuniti adversus illorum insidias simus, qui nobis inimici infestique sunt et tamquam in specula in insidiis stant, neve desides et ignavi concepta opinione populari illorum, qui ista minime credunt, in aliquod discrimen dilabamur.

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insieme nella medesima direzione, aveva chiesto al giovane, che vedeva preoccupato e turbato, perché procedesse tanto triste. Questi aveva risposto che vi era stata una lite tra lui e il padre e che perciò voleva compiere una qualche azione delittuosa, e allora il demonio aveva replicato che anche a lui era capitata una cosa simile, e dunque si affrettassero e andassero a vendicare le loro offese. E quando sul far della notte ebbero raggiunto la città, si erano fermati nell’albergo più vicino e non molto dopo erano andati a dormire in una camera che dall’oste era stata messa a disposizione di entrambi, ma mentre stavano a letto insieme, quella peste immane, quando ebbe visto il giovane vinto dal sonno, con mani minacciose lo aveva afferrato alla gola per strozzarlo e ucciderlo; e certo lo avrebbe sopraffatto, se quello svegliatosi non avesse chiamato in suo soccorso Dio. Appena sentito quel nome, raccontano che quella spaventosa furia con urla e strepito grandissimo avesse colpito con tale violenza il soffitto della camera, da dove poi era fuggito, da far crollare le travi e il tetto mandando in frantumi tutte le tegole. E quando svegliato da quel fracasso il padrone dell’albergo era salito e aveva chiesto a gran voce quale fosse la ragione di quel crollo e di quelle grida, facendosi luce con una lanterna, il ragazzo, che aveva trovato solo e mezzo morto, aveva raccontato come erano andate le cose e aveva mostrato il tetto sfondato, da dove il demonio si era dileguato scomparendo. Spaventato a morte da questa disgrazia, vergognandosi e pentendosi delle turpitudini della sua vita passata, toccato dallo spirito santo, avendo ormai in disgusto le scelleratezze, condusse una vita di buon esempio e lontana dal tumulto degli uomini. 4. Abbiamo anche letto che ci sono state spessissimo molte apparizioni di demonii malvagi – ed è successo non una volta sola anche ai nostri giorni – presso uomini santi, e da questi esempi salvifici siamo ammoniti a difenderci contro le insidie di quelli che ci sono nemici e odiandoci stanno sempre di guardia in agguato, affinché oziosi e imbelli non cadiamo in qualche pericolo accogliendo l’opinione diffusa di quelli che a queste cose non credono per niente.

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Caput XIV Quid senserit Hieronymus Porcarius de iniquo iudice quibusque modis litigantes frustretur et deludat.

1. Hieronymus Porcarius1, divini humanique iuris sciens, homo liberi animi et acris ingenii fuit, praeterque uberem facundiam mira in eo eruditio et in maledicendo libertas admisto sale; erat enim acri iudicio et ad irridendum contentiosus et audax, non infacetus, ita ut iocis urbanis unumquemque carperet et ad vivum usque lacesseret. Is in consessu nobilium, dum apud eum pro familiari consuetudine diverterem, dicere solebat quattuor modis iudicia eludi veterum scitis traditum esse, odio, gratia, pretio aut timore; praeter quae, nihil esse quod iudicum animos flectat a vero literis mandatum dicebat. Sed tamen, si quis improbum aut perniciosum iudicem nactus fuerit, qui iudicio et legibus abuti velit, innumeris fere modis iudicia eludi et praevaricari solere contra ius fasque. Quibus vero modis id fieret, memoriter ipse Membro di una delle più importanti famiglie romane (cfr. A. MODII Porcari: storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma, Roma nel Rinascimento, 1994, pp. 96-98, 501-508), studioso di diritto, canonico di San Pietro, governatore di Romagna, uditore della Rota e vescovo di Andria sotto papa Alessandro VI, dal 1495 al 1503 insegnò diritto canonico presso lo Studium Urbis. 1

GLIANI,

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Capitolo XIV Cosa pensava Girolamo Porcari dei giudici ingiusti e come costoro ingannano e illudono le parti in causa.

1. Girolamo Porcari, studioso di diritto civile e canonico, fu uomo di mente libera e di ingegno acuto, e oltre ad una fluente oratoria possedeva straordinaria erudizione e libertà e acume nel criticare; era infatti pungente nel giudicare e polemico e ardito nello schernire, ma per nulla privo di ironia, così che provocava ognuno con i suoi scherzi garbati e lo punzecchiava fino alla carne viva. Costui in un consesso di nobili – ero solito infatti frequentare spesso la sua casa – soleva dire che dagli antichi è stato tramandato il detto che in quattro modi la giustizia può essere elusa, per odio, favoritismo, profitto o paura; oltre a ciò – diceva –, nient’altro in letteratura si trovava scritto che potesse distogliere gli animi dei giudici dalla verità. Ma tuttavia, se qualcuno si fosse imbattuto in un giudice disonesto e pericoloso, che volesse abusare del potere giudiziario e delle leggi, c’erano modi pressoché innumerevoli per eludere e prevaricare quel potere andando contro il diritto e il lecito. E poi esponeva fedelmente e con chiarezza in quali modi

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et expedite disserebat. «Neque enim solum iniquus iudex» inquit, «qui alteri parti pronior est, longis intervallis differendo iudicium clientem pro quo ius stare videt frustratur et decipit, ita ut longa mora fatigatus iudicium relinquere cogatur aut, donec alius instructior fiat expectet, ut alter interim dolo victus occumbat, sed etiam cum non ex fide bona acta proponit et refert, cum quae unius partis causam agunt diligenter enuntiat, quae vero contra supprimit et tacet». 2. Bonum ius partis eludi atque obteri dicebat; quin etiam multos vidisse asserebat, qui illum cum quo lis est, cui plus nimio fave‹n›t, quo pacto adversarii telis se opponat instruere non verentur, cum quid in re quaque consilii capiendum sit alteri parti enuntient, ita ut ille paratior factus bonum alterius ius evertat et convincat, cum alterius neque voces animis nec querelas auribus admittant. «Et cum miser ille timidus imprudensque rerum, iudicis fidem implorando, frustra ipsius aures fatigaverit, iudex interim severus et vehemens loquenti obstrepat eumque vel difficulter admittat aut impotenti ore obiurget, vel si admittit aegre et perinvitus, dissimulato sermone vultuque cum taedio admittere cogatur, quorum quidem nequitiae et animi ad fallendum destinati nulla maiora» inquit «argumenta sunt, cum reconditus ille sensus et obstrusus animus quam labem misero illi afferat non facile dinoscatur». Quin etiam persaepe evenire dicebat ut malus iudex, ut illum improvidum ad insidias ducat et vana spe ludificetur, se dubitare in quo nihil verendum sit asseveret. Si quod autem in causae disceptationem anceps dubium fiat, illud dissimulanter omittat, ut cum maxime vicisse te credas, tunc tibi praecipue subeundum periculum sit. Nonnumquam evenire ut, cum diutius litigantem frustrari nequeat, precibus seu querelis fatigatus, causam in iudicio se producturum praedicat aliorumque iudicum exploret vota, non ut causam aequo iudicio terminet, sed ut quo pacto invadat ius alterius solerter inquirat illorum-

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questo avvenisse. «Ebbene, è ingiusto non solo il giudice» diceva, «che è più propenso verso una delle due parti, beffa e inganna il cliente a favore del quale vede stare la legge rinviando il processo con lunghe sospensioni, così che quello stanco per la lunga attesa sia costretto a rinunciare all’azione giudiziaria, ovvero aspetta che, mentre l’uno si attrezza meglio a sostenere la causa, l’altro nel frattempo sopraffatto dall’inganno ceda, ma anche quando non in buona fede produce e riferisce i fatti, quando enuncia con diligenza le prove a favore di una sola parte, e quelle che invece sono contro omette e tace». 2. Diceva che così il buon diritto di una parte viene eluso e calpestato, anzi asseriva di aver visto molti giudici che non esitano a istruire la parte in causa, che esageratamente favoriscono, su come opporsi agli attacchi dell’avversario, rivelandole quale decisione prenderà l’altra parte in ogni situazione, così che quella più preparata possa ribaltare e sopraffare il buon diritto dell’altra, mentre dell’altra non prendono in considerazione né gli appelli né i reclami, sordi d’animo e d’orecchie. «E mentre quel poveretto impaurito e sprovveduto, implorando l’aiuto del giudice, invano stancherà le sue orecchie, questi intanto severo e implacabile gli darà sulla voce e lo ascolterà riluttante o lo rimprovererà con fare prepotente, e se pure lo ascolterà, sarà costretto a farlo tutto nauseato, di malanimo e controvoglia, dissimulando col modo di parlare e con l’espressione del volto. Certo dell’iniquità di costoro e del loro animo incline all’inganno non vi sono» diceva «segni più grandi, poiché la dissimulazione del pensiero e l’ottusità d’animo arrecano ai malcapitati un danno difficilmente riconoscibile». Anzi diceva che molto spesso accade che un cattivo giudice, per indurre lo sprovveduto in trappola e raggirarlo con vane speranze, affermi di avere dubbi su cose per le quali non c’è invece nulla da temere. Se invece qualcosa nella discussione della causa genera un dubbio, dissimulando lo trascurerà, perché proprio nel momento in cui tu credi di aver vinto, soprattutto allora ti tocchi affrontare un pericolo. Talvolta accade che, non potendo più a lungo ingannare la parte in causa, sfinito dalle suppliche e dai reclami, dichiari che porterà in tribunale la causa ed esplorerà le intenzioni degli altri giudici, non per porre fine al processo con un equo giudizio, ma per trovare astutamente il modo di sopraffare il diritto dell’altro e, dopo aver saputo con certezza le intenzioni loro a

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que votis in illius miseri perniciem exploratis sine religione et fide ipsum perditum eat. Si vero [non] dubiam spem victoriae viderit, iudiciorum et litium mora ita rem producat ut, cum finire nutu omnem disceptationem valeat, neutro inclinatis sententiis, suspensa omnia infectaque relinquat, deumque ille contestans et hominum fidem, si quidem quem appellet, quem obtestetur, quem imploret nullum habet, diuturna expectatione et ampliore sumptu vexatus de suo iure tandem decedere cogatur, quo foedius dici aestimarique nihil potuit. Atque utinam non his artibus foedissime vexatos, nec quotidianis damnis tenore uno opprimi miseros videremus! 3. Postremo morem pessimo exemplo invaluisse dicebat, ut iudices non iure nec iudicio, sed per factionem et gratiam aut libidinem perque invidiam iudiciorum vota conferant, illic praesertim ubi in orbem super iure controverso sententiae explorantur. In qua quidem re tanto certamine hinc inde exardescunt studia, ut maledictis inter se et conviciis et plerumque manibus vix temperent, tantaque iudiciorum turpitudo fiat, ut nec iudicio nec disceptatione, sed libidine perque omnes cupiditates suffragentur studiumque et gratiam aliquorum potius quam vera iudicia inquirant. Ac mille modos referebat quibus iniquus iudex, non iudicis sed impuri latronis modo, velut officina nequitiae per avaritiam et sordes bonum alterius ius invadat vanaque iudicia pretio aut gratia nundinetur: qui quidem non legum periti sed eversores potius humani iuris dicendi sunt. Recte igitur Isocrates numquam effici existimavit posse ut hi, qui male instituti aut moribus pravis et incivilibus sunt, iustitiam assequantur. Denique nihil malo iudice peius, adversus quem nec imperia magistratuum nec leges valent, neque facile esse invenire hominem, quem nec flectant preces nec dona transversum agant; invaluitque vetus adagium apud causarum patronos omni dimicatione, contentione atque cura enitendum ut iudicem, quemquis nactus fuerit, partim gratia, partim pretio aut pactione, dando et pollicendo, propensiorem sibi quoquo modo parent, quo incolumi amico

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danno di quel poveretto, di mandarlo in rovina senza pietà e religione. Se però vedesse incerta la speranza di vittoria, servendosi della possibilità di sospendere i processi e le cause, porterebbe avanti la cosa in modo tale da lasciare tutto in sospeso e senza esito, come se la sentenza non propendesse né a favore dell’uno né dell’altro, benché con un cenno potrebbe porre fine a ogni discussione. E la parte in causa, chiamando a testimoni Dio e gli uomini, dal momento che non ha nessun altro da chiamare, da supplicare, da implorare, vessata dalla lunga attesa e da spese troppo alte alla fine è costretta a rinunciare a far valere i propri diritti, cosa di cui non vi è nulla di più vergognoso che si possa dire o pensare. E magari vedessimo i poveretti non vessati da queste arti in modo tanto turpe, né danneggiati ogni giorno sempre allo stesso modo! 3. Infine diceva che grazie al pessimo esempio era invalso il costume che i giudici non secondo diritto né giudizio, ma per faziosità, favoritismo o capriccio e invidia prendevano le loro decisioni nei processi, in quei casi specialmente in cui collegialmente si esprime parere su cause controverse. In contesti del genere infatti lo scontro si infiamma a tal punto dall’una e dall’altra parte, che a stento si controllano le reciproche offese, gli insulti e persino talvolta le mani, e tale è diventata l’indecenza dei processi che si dà il voto non dopo una valutazione o una discussione, ma per un capriccio e qualsiasi altro impulso per soddisfare l’interesse e il favore di alcuni piuttosto che la verità. E riferiva di mille modi con cui un giudice ingiusto, non alla maniera di un giudice ma di uno sporco ladrone, come una fucina di iniquità, per avidità e meschinità, prevarica il buon diritto dell’altro e vende falsi giudizi in cambio di denaro o favori: questi certo non esperti di legge, ma piuttosto eversori del diritto umano bisognerebbe chiamarli. Giustamente allora Isocrate ritenne che mai poteva accadere che potessero occuparsi di giustizia persone poco istruite, corrotte e indegne. Infine niente di peggio vi è di un cattivo giudice, contro il quale non valgono né l’autorità dei magistrati né le leggi, né è facile trovare un uomo che non si faccia piegare dalle preghiere o corrompere da regali; ed è invalso un vecchio adagio che dice che gli avvocati devono fare di tutto lottando con forza, ostinazione e sollecitudine per rendere in ogni modo il giudice, chiunque loro sia capitato, più propenso nei loro confronti, vuoi con favori, vuoi con denaro o illeciti patteggiamenti, insomma dando e

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nihil amplius quaerendum illi sit; isto enim maxime effici modo, ut eum ad voluntatem suam ille nutumque convertat et, qui gratia plus possunt, causa plus valuisse videantur, illique vel numquam causa cadant, vel praeter ius fasque iudicata ferant et victores fiant. Sed iam latius processi et liberius, quia me morum piget taedetque. Male profecto humanis ingeniis nostra vitia consuluere, cum iudicia, quae fidei tutelaeque nostrae credita sunt, non ad salutem sed ad perniciem humani generis caeci cupiditate vertamus. Caput XXII Quae ipse dictu admirabilia de umbrarum figuris noctibus fere singulis Romae expertus fui.

1. Nota et vulgata res est aedes quasdam Romae, quas ego incolui, evidentissimis ostentis ita infames, ut nemo illas incolere ausus fuerit, quin assiduis umbrarum illusionibus et taetris imaginibus noctibus fere singulis inquiet‹ar›etur. In quibus praeter nocturnos tumultus, quod medio fere noctis silentio audiebamus, et horrendos fremitus cum eiulatu striduloque vocis sono, quibus lacrimari et tremere videbatur, speciem hominis squalida facie, vultu minaci, nigro corpore et aspectu formidabili nomen suum exprimentem et opem implorantem cernabamus. Sed ne quis hoc fabulosum aut commenticium putet, auctor est Nicolaus Tuba, vir multae et expertae fidei, qui, cum rei explorandae gratia cum nonnullis doctis iuvenibus prima face ad nos adventassent, cupido incessit animo haec, quae a me promebantur, vero testimonio experiri et an vera essent intueri. Et ne quid inexpertum relinquerent, noctem pervigilem egere mecum, ut rem notam exploratamque haberent, neque eos opinio fefellit. Nam cum accensis luminibus pervigiles starent, haud procul species haec dira terribilique facie et vultu taetro repraesentata est, quam ipsi tumultuari et diris nos vocibus agitare videbant. Cumque omnia clamore et tumultu streperent, post multa

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promettendo, e così assicurarsi da lui niente di più che la salvezza del cliente. In questo modo soprattutto infatti accade che lo pieghino alla loro volontà e ai loro ordini e succede che ha la meglio nella causa chi può contare su più favori, e costui o non perderà mai una causa o avrà sentenza favorevole risultando vincitore al di là del diritto e del giusto. Ma ormai basta: troppo diffusamente e con troppa libertà mi sono dilungato, ed io provo vergogna e disgusto di questi costumi. Sono i nostri vizi certamente che hanno corrotto le menti degli uomini, dal momento che resi ciechi dalla cupidigia manipoliamo i processi, affidati alla nostra integrità e tutela, pensando non alla salvezza ma alla rovina dei nostri simili. Capitolo XXII Io stesso ho sperimentato quasi ogni notte a Roma cose sorprendenti a dirsi sui fantasmi.

1. È cosa ben nota che alcune case a Roma, in cui io stesso ho dimorato, sono a tal punto malfamate a causa di evidentissimi prodigi, che nessuno oserebbe abitarle perché sarebbe disturbato quasi ogni notte da frequenti apparizioni di fantasmi e da altre immagini spaventose. E in queste, oltre al baccano che udivamo nel profondo silenzio della notte, e agli orrendi strepiti accompagnati da ululati e voci stridule, che sembrava che qualcuno piangesse e tremasse, vedevamo la figura di un uomo con la faccia sporca, il volto minaccioso, il corpo nero e l’aspetto spaventoso che diceva il suo nome e implorava aiuto. Ma perché qualcuno non creda che queste cose siano favole o invenzioni, testimone autorevole ne è Nicolò Tuba, uomo di molta e sperimentata fiducia, che una volta venne a trovarmi sul far della sera per indagare sulla faccenda con alcuni dotti giovani, perché aveva in animo il desiderio di sperimentare con una testimonianza diretta i fatti da me svelati e di appurare se erano veri. E per non lasciare niente di intentato, passarono la notte svegli insieme a me, per avere certa conoscenza della cosa, né l’aspettativa li deluse. Infatti mentre se ne stavano svegli con le lampade accese, non passò molto tempo che il fantasma si ripresentò con aspetto spaventoso e volto orribile: loro stessi lo videro agitarsi e farci paura con voce terribile. Tutto risuonava di grida e rumo-

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oculorum ludibria tantum formidinis pavorisque intulit, ut territi et trepidi vix mente incolumi satis constarent. Et cum totae aedes gemitu funesto miscerentur singulisque cubiculis pestis illa importuna obversaretur, dum propius accederemus, illam retro cedere et querula voce lumen effugere cernebamus. Demum, cum multum diuque tumultuata fuisset, haud multo post, ubi multum noctis processit, visio omnis illa dilapsa est. 2. Sed prae ceteris quae ibi expertus sum, non omittam miraculum ingens, quod mihi plane vigilanti maiore aliquanto trepidatione haud multo post obvenit. Nam cum tenebris obortis cubiculi fores obserassem firma sera iaceremque in lectulo, nulla adhuc quiete composita, lumine accenso, horribilem illam speciem foris iam tumultuari et cubiculi forem manibus pulsare sentiebam. Nec multo post simulacrum illud, opertis adductisque foribus (vix credibile dictu), per commissuras et rimas in cubiculum se intromisit, quod sub lectulo meo iacens, cum Marcus alumnus et cliens meus, utpote qui e conspectu cubabat, taetra et dira facie aspiceret, pavore subito consternatus luctu et gemitu omnia opplebat ipsamque intromissam non sine formidine clamabat. Idque mihi, cum clausum cubiculi ostium aspicerem, vix credibile videretur. Interim dirum illud simulacrum, quod sub lectulo iacebat meo, manum et brachium protendere lumenque quod iuxta aderat extinguere vidimus, quo extincto, libellos meos et quicquid rerum erat querula voce miscere ac omnia evertere non destitit. Mox cum ad tumultum exciti socii eo se contulissent lumenque intromissuri obversarentur vestibulo, interim ipsum opertum cubiculi ostium manu aperire et foras effugere vidimus. Erat enim ipsius species, ut plane perspeximus, simulacro hominis nigerrimo non absimilis. Illud utique mirum fuerit dignumque memoratu figuram illam, dum nobiscum sic luctaretur, cum fores cubiculi reserasset, ab his qui lumen intromisere minime conspectam, sed, cum primum cubiculi fores exivit, elapsam ex oculis illico discessisse et in auras evanuisse.

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re, e il susseguirsi di queste visioni fece sì che si diffuse tanta paura, che quelli terrorizzati e tremanti per poco non impazzirono. Mentre tutte le stanze risuonavano di gemiti di dolore e quella peste odiosa si mostrava in ogni camera da letto, noi ci facemmo più vicino e la vedemmo indietreggiare e schermirsi dalla luce con voce lamentosa. Molto e a lungo fece baccano quel fantasma, ma alla fine, dopo un po’ – era passata già una buona parte della notte –, si dileguò. 2. Oltre alle altre cose poi di cui ho fatto lì esperienza, non tralascerò di raccontare un grande evento meraviglioso, che capitò a me completamente sveglio qualche tempo dopo spaventandomi molto di più. Infatti, avendo al calare della notte chiuso la porta della camera da letto con un robusto catenaccio, me ne stavo steso sul letto e non mi ero ancora addormentato e la luce era accesa, quando cominciai a sentire quell’orribile fantasma che già faceva baccano di fuori e bussava con le mani all’uscio della camera. Non passò molto tempo che quello spettro si insinuò nella stanza pur essendo ben chiuse e serrate le porte (cosa a stento credibile), attraverso le giunture e le fessure. Quando Marco, il mio allievo e cliente, che dormiva dalla parte opposta della stanza, lo ebbe visto starsene sotto il mio letto con aspetto orribile e spaventoso, preso da improvvisa paura, cominciò a riempire tutta la stanza con lamenti e gemiti, gridando in preda al terrore che il fantasma era entrato. E questo a me, che vedevo la porta della camera chiusa, sembrava difficile da credere. Nel frattempo vedemmo quello spettro spaventoso, che giaceva sotto il mio letto, allungare mano e braccio e spegnere il lume che era vicino; dopo averlo spento, si mise con voce lamentosa a mettere sotto sopra i miei libri e qualsiasi cosa vi era nella stanza buttando tutto per terra. Subito dopo i compagni svegliati dal frastuono accorsero lì pronti a far luce con la lanterna aggirandosi nell’ingresso; in quel momento vedemmo lo spettro aprire con la mano la porta chiusa della camera e fuggire fuori. Era la sua figura, come vedemmo chiaramente, non diversa da quella di un uomo nerissimo. E questa cosa senza dubbio è straordinaria e degna di essere ricordata: il fantasma, che aveva lottato con noi, benché avesse aperto le porte della camera, fu visto appena da quelli che portarono dentro la lanterna, perché uscendo dalla stanza fuggì via sottraendosi alla vista all’istante e svanì nell’aria.

LIBER SEXTUS

Caput VII Responsum Raphaeli Volaterrano quare legum et causarum studio intermisso in his mitioribus studiis1 oblectaremur.

1. Quaerebat aliquando ex me, dum Romae agerem, Raphael Volaterranus2, vir insignis doctrinae et virtutis, cui ad mores emendatissimos gravitas libero homine digna non modicam accessionem faciebat, quid causae foret quod, cum causarum patrociniis et foro usque a pueritia essem addictus, illis posthabitis et quasi forensibus negotiis praetermissis, in his studiis mitioribus ita me oblectarer, ut causarum patrociniis bellum indixisse viderer. Cui hoc causae referebam, quod leges quae ad communem utilitatem editae studio et labore maximo quaesitae et meditatae nobis forent, neque ab his qui iura darent coli, neque perinde, ut oporteret, praecipi viderem, doleremque iuridicundo illos plerumque praesidere, qui eas vel turpiter ignorarent, vel per gratiam et sordes facile corrumpi sinerent, et quibus servandarum legum praecipua imminet cura, hi maxime legum scita contemnerent; Cfr. OV. Pont. II 9, 50. Si tratta di Raffaele Maffei, da Volterra, l’autore dei Commentarii urbani, opera enciclopedica per molti aspetti simile ai Dies del d’Alessandro. Su di lui vedi S. BENEDETTI, Maffei, Raffaele, in DBI, LXVII, 2007, pp. 252-256, e Introduzione, nota 34. 1 2

LIBRO SESTO

Capitolo VII Risposta a Raffaele Volterrano sul perché, messi da parte lo studio delle leggi e i processi, mi diletto in queste occupazioni più tranquille.

1. Raffaele Volterrano, uomo notevole per dottrina e virtù, a cui non poco aggiungeva ai costumi senza macchia la serietà degna di un uomo libero, voleva sapere da me una volta che ero a Roma quale fosse la ragione del fatto che, benché fin da ragazzo mi fossi dedicato alla professione di avvocato e alla vita forense, messi in secondo piano e quasi tralasciate le questioni giudiziarie, in questi studi più tranquilli tanto mi dilettavo, che sembrava che avessi mosso guerra agli avvocati. A lui spiegai le ragioni di ciò. Vedevo infatti le leggi, che concepite per l’utilità pubblica io avevo indagato con passione e grandissima fatica e meditato, non essere rispettate da coloro che amministrano la giustizia, né tantomeno insegnate come sarebbe opportuno, e mi dolevo del fatto che coloro che gestiscono la giustizia o vergognosamente le ignorano, o si lasciano facilmente corrompere con favori e sordidi guadagni, e coloro sui quali incombe la cura particolare di difendere le leggi, questi soprattutto non tengono in conto quanto da esse prescritto. E per tutto questo accade che tante norme e decreti a noi traman-

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quibus rebus effici‹t› ut tot scita et decreta veterum monumentis nobis tradita maximisque ingeniis elaborata et tam pensiculate expensa unus homunculus nequissimus audacissimusque ignarus legum, iudiciorum et fori, qui magistratui praeesset, non salubri temperamento nec disceptatione ac iudicio, sed ausu temerario et omni iure neglecto ad suam libidinem per scelus et nequitiam everteret. Horum non minima exempla dicebam fore ea quae dudum experti vidimus. 2. Nuper, cum Romae custodias cognoscerem, operae pretium fuit videre quae rerum miracula monstris et portentis similia ac dictu fastidienda, quaeve turpitudines ad aliquorum libidinem admitterentur contra ius fasque, si quidem sacerdotem quempiam in his nacti sumus, gravem et sanctum virum, vita et moribus ornatissimum, hominem profecto honestae et magnae laudis, diu tenebris et carcere maceratum, indignissimam fortunam subire coactum, pro eo quod pecuniam sibi traditam ab eo, qui illam furto subtraxerat, ut vero domino restitueretur, illius iussu mandatoque restituerat, suppresso auctore, ipsumque quaestionibus subdi vidimus et tormentis vexari, ut illum, qui conscientia culpae et spe veniae adductus abstulisse confessus fuerat, palam faceret delinquentemque delicta‹que›, quae ille poenitens culpae dixerat, enuntiaret, quo discrimine adactus pauper senior confitentis peccatum et delinquentem enuntiare coactus fuit. Quod quidem scripto iure vetitum sanctionibusque et decretis interdictum esse constat. Rursus alium immani scelere coopertum, hominem impurissimum turpissimumque, qui maximorum criminum reus testibus, tabulis, testimoniis et certissimis documentis convictus fuerat, quae nec ipse gloriabundus diffitebatur, quique legum iudiciorumque poenis saevissime coercendus erat, ab eisdem ergastulis sola praesidentis temeritate nullo negotio dimitti et liberari, aliasque audacias et turpitudines, ne dicam scelera indigna auditu profatuque, quae vix credenti non modo enuntiata, sed visa et comperta fuere. 3. Iason Matasialanus et Ludovicus Matha3, cum sacerdotalibus quibus fungebantur muneribus cedere nollent, quaesitis occasionibus Per questo personaggio VALLONE, Alessandro e Antonino d’Alessandro, cit., p. 323, nota 24 suggerisce l’identificazione con il «Ludovico Matta» registrato nel rione di Borgo, per tre bocche, in D. GNOLI, Descriptio urbis o censimento della popolazione di Roma avanti il sacco borbonico, in «Archivio della R. Società Roma di Storia Patria», XVII, 1894, p. 448b. 3

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dati dagli scritti degli antichi, elaborati da grandissimi ingegni e da loro soppesati con tanta ponderazione, un solo omuncolo di nessunissimo valore e molto sfrontato, ignaro di leggi, processi e tribunali, che fosse a capo della magistratura, giudicando non con sano equilibrio né dopo un dibattimento, ma con temeraria audacia e incurante di ogni diritto, li può ribaltare arbitrariamente commettendo crimine scellerato. E dicevo che non piccolissimi esempi di ciò erano quei fatti che di recente io stesso avevo visto e sperimentato. 2. Poco tempo fa, mentre visitavo a Roma le prigioni, fu istruttivo vedere quali stupefacenti misfatti, anzi direi mostruosità portentose e disgustose a dirsi, e quali nefandezze ad arbitrio di alcuni vengono commesse contro la legge e la giustizia. In queste carceri ho incontrato infatti un sacerdote, uomo rigoroso e santo, di vita e costumi onesti oltre che di grandissimi meriti, che da tempo marciva nel buio della prigione, costretto a subire una sorte molto ingiusta, per il fatto che aveva restituito il denaro a lui affidato da chi l’aveva rubato perché lo restituisse al vero padrone, così come da quello gli era stato ordinato e raccomandato, ma tacendo il suo nome. L’ho visto sottoposto a interrogatori e torture, affinché rivelasse il nome di colui che spinto dal rimorso e dalla speranza del perdono aveva confessato di aver rubato, e denunciasse e il peccatore e il peccato, che quello pentendosi gli aveva riferito, e ho visto a qual punto di esasperazione fu portato il povero vecchio da essere costretto a svelare il peccato che gli era stato confessato e il peccatore. E questo certo è cosa nota che è vietato da leggi scritte e proibito con sanzioni e decreti. E ancora ne ho visto un altro, che si era macchiato di un terribile delitto, uomo disonestissimo e scelleratissimo, che era stato dimostrato colpevole di grandissimi crimini – cosa che nemmeno lui smentiva facendosene vanto –, grazie a testimoni, deposizioni e prove molto attendibili, e che doveva essere condannato in maniera severissima con le pene prescritte dalle leggi e dai tribunali, essere prosciolto e liberato senza difficoltà da quelle stesse prigioni per la sola temerarietà del giudice. E altre ribalderie e nefandezze, per non dire delitti indegni a sentirsi e a dirsi, che non solo furono riferite a chi a stento ci credeva, ma anche viste e sperimentate. 3. Giasone Matasialano e Ludovico Mata, poiché non volevano rinunciare ai benefici ecclesiastici dei quali godevano per capriccio di

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ad inimicorum libidinem taetro carcere usque eo tenti fuere, donec illorum arbitrio singulis ornamentis, fama et fortunis omnibus exturbati, quoad illis liberet, excruciati sunt, non vero iudicio, sed praesidentis sola temeritate et libidine. Ne prosequar, viros vitae inculpatissimae, summa integritate et fide, falsis criminibus circumventos, ab impotentibus inimicis miseros et laborantes, in quos graviter crudeliterque consultum vidimus, vel ut afflictas fortunas invaderent ipsosque de possessione et antiquissimis sedibus deturbarent, vel ut invidorum libidini obtemperarent, aliaque in miseros edita exempla, nulla pietate in supplices et calamitosos eosque innoxios turpibus iudiciis conflictari et usque premi ab his, qui gratia et opibus plus possunt pollentque, alios vero auctores manifesti facinoris ne appellari quidem. Quae cum viderem, patronisque contra vim potentiorum aut gratiam nihil praesidii esse, nihil opis, frustra nos in legum controversiis et ediscendis tot casuum varietatibus tam pensiculate editis, tantum laboris et vigiliarum suscipere tantoque nos studio fatigari dicebam, cum ad ignavissimi impurissimique cuiusque temeritatem, qui iuridicundo praesideret, quem leges virum bonum esse volunt, non aequo iure, sed ad gratiam et libidinem iudicia ferri decretaque legum tanto consilio edita convelli et labefactari viderem. Caput XXI Miraculum de homine, qui extrusus e carcere rursusque in eo intrusus inferna se loca adivisse enarravit.

1. Inter fabulosa miracula et puerilibus fabellis similia, multas magnasque res, quae vix credi dicique possunt, nullum tam impudens mendacium creditum est, quam quod ad hosce annos in Pelignis evenisse dicunt4, quod cum novum commentum putaretur et temere vulgatum, id verum postea fuisse tam fama celebri, quae ubique pervasit et vulgata est, quam multorum testimonio, qui rem gestam didicere

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nale.

I Peligni abitavano in epoca preromana le terre dell’Abruzzo meridio-

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alcuni loro nemici, non appena se ne presentò l’occasione, furono gettati in un tetro carcere e, privati arbitrariamente di ogni titolo, del buon nome e di tutte le ricchezze, furono torturati fino a quando a quelli piacque, senza un vero processo, ma solo per la prepotenza e il capriccio del magistrato. E per non proseguire, ho visto uomini con una condotta di vita irreprensibile, di somma integrità e fede, incriminati ingiustamente di falsi delitti, e da nemici prepotenti resi poveri e sofferenti, contro i quali si procedette con durezza e crudeltà, sia per impossessarsi delle loro fortune in declino e scacciarli dalla proprietà delle loro antichissime sedi, sia per assecondare il capriccio di invidiosi. E posso riferire altri esempi di delitti perpetrati contro povera gente, senza alcuna pietà per i supplici e i disgraziati, e di innocenti vessati con vergognosi processi e continuamente oppressi da quelli che hanno più potere per influenza e ricchezze, mentre altri, autori di flagrante delitto, non sono nemmeno incriminati. Dopo aver visto queste cose, e che per gli avvocati contro la forza o l’influenza dei più potenti non vi è nessuna possibilità di difesa, e neppure di aiuto, mi dicevo che inutilmente noi ci affanniamo sprecando fatica e sonno nel preparare i dibattimenti giudiziari e nell’imparare a memoria tante sentenze prodotte da altri con tanta ponderazione, quando dalla sconsideratezza di un qualsiasi ignorantone per di più corrotto, che occupasse il posto di giudice, che le leggi vogliono che sia un uomo onesto, vediamo dipendere i processi, condotti non con equità, ma con parzialità e arbitrio, e le leggi, scritte con tanta saggezza, essere stravolte e scalzate. Capitolo XXI Il prodigio di un uomo, che uscito dal carcere e di nuovo rientratovi narrò di aver visitato l’inferno.

1. Tra i prodigi incredibili e simili a favole per bambini (molte storie straordinarie, che a stento si possono credere e dire), nessuna menzogna tanto sfacciata ha avuto credito, quanto quello che ai nostri giorni dicono che sia accaduto nelle Marche. Si tratta di un fatto che, benché si pensasse che fosse una strana invenzione avventatamente divulgata, in seguito si scoprì che era vero sia per fama diffusa, che si propagò dovunque arrivasse, sia a testimonianza di molti, che vennero a

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non fictis sermonibus sed certissimis experimentis, compertum est. Quo autem pacto se res habuerit, hoc traditur modo. In Pelignis oppidum vetustum est, cuius nomen praetereo libens, licet obscura origine, haud tamen ignobile; in eo dominus, qui urbi praeerat, superbe avareque civibus imperitabat ac trucibus dictis factisque in subditos servilem in modum animadvertere solebat eosque, licet imperata facerent neque segniter mandata exsequerentur, ob leves plerumque causas poenis et damno multabat. Forte autem cum homo quispiam alioqui bonus, sed tenui re familiari inops atque despectus, ipsius domini venaticum canem, cuius miro studio tenebatur, ita verbere affecisset, ut ob id perisse putaretur. Cum id dominus rescisset, vehementer offensus, cum truci et minaci vultu graviter increpitum in pessimum coniecit carcerem, ibique cum vinctus gravi custodia teneretur, post aliquot dies hi, quibus diligens ipsius cura mandata erat, clauso iam carcere et tam foribus quam omni aditu persepto, ne elabi posset, cum ad illum accederent, ut solebant, in eodem intus carcere nusquam invenere. 2. Qui diu conquisitus, cum non appareret nullumque effugii vestigium extaret, rem ad dominum detulere, quod cum credi vix posset ipseque mirum in modum obstupefieret; post tres ferme dies, iisdem foribus pessulo firmatis, idem ipse qui modo carceri addictus fuerat, imprudentibus omnibus et nemine conscio, rursus in eodem intus carcere intrusus apparuit custodesque ut cibum afferrent advocavit, qui cum propere accessissent omnesque miraculo obstupefierent, eum vultu taetro et horribili facie, luxatis ustisque membris, aliter longe atque pridem fuerat, conspexere. Quem cum interrogassent unde elapsus et rursus in eodem intrusus carcere foret quibusque in locis fuisset et unde tam foedo et taetro cultu emersisset, ipse velut elinguis, cum nullum proferret verbum, sed attonito stupentique similis foret, ut ad dominum quantocius admitteretur postulavit, habere quod illi propere nuntiaret magnum nec differendum. Cumque ad eum protinus admissus esset, rem mirificam et admirabilem ac dictu audituque formidolosa et vix credenda miracula dicere orsus fuit. Nam se ab inferis –

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conoscenza dell’accaduto non attraverso false dicerie ma prove certissime. In quale modo poi si svolsero i fatti, si racconta così. Nelle Marche vi è un’antica cittadina, il cui nome volentieri tralascio, anche se di origine oscura, tuttavia non sconosciuta; in questa il signore, che vi governava, tiranneggiava i sudditi con superbia e rapacità e soleva trattarli minacciandoli a parole e a gesti come se fossero schiavi, e anche se eseguivano gli ordini e svolgevano con solerzia gli incarichi ricevuti, il più delle volte li puniva per futili ragioni con pene e ammende. Accadde una volta che un tale, peraltro un buon uomo, ma di poche sostanze, povero e insignificante, colpì col bastone il cane da caccia del signore, del quale si occupava con amore straordinario, così forte che si pensò fosse morto per quello. Non appena il signore lo seppe, fortemente irritato, con volto truce e minaccioso lo sgridò con violenza e lo rinchiuse in un carcere bruttissimo. Mentre era rinchiuso lì incatenato e sotto stretta custodia, dopo qualche giorno, coloro ai quali era stata affidata la sua sorveglianza – la cella ben chiusa, la porta e ogni altro accesso sbarrati, perché non potesse fuggire –, andati da lui, come erano soliti, non trovarono nessuno all’interno della cella. 2. Dopo averlo a lungo cercato, poiché non veniva fuori, né vi era alcuna traccia di evasione, riferirono a quel punto la cosa al signore, il quale rimase particolarmente sbalordito, dato che il fatto era a stento credibile. Dopo quasi tre giorni – la porta sempre chiusa da catenaccio –, quello stesso che prima era stato incarcerato, senza che nessuno se lo aspettasse e se ne accorgesse, di nuovo comparve all’interno della cella e chiamò i custodi perché gli portassero da mangiare. Questi subito accorsi, tutti stupefatti da quel miracolo, lo videro con il volto tumefatto e spaventoso, il corpo pieno di ammaccature e ustioni, molto diverso da come era prima. E quando gli chiesero come fosse evaso e poi rientrato nella stessa cella e dove fosse stato e da dove fosse venuto fuori con un aspetto così brutto e spaventoso, quello quasi senza voce, senza proferire parola sull’accaduto, tutto stordito e intontito, chiese di essere portato al più presto dal signore, perché aveva qualcosa di importante da riferirgli subito e doveva far presto. Portato velocemente al suo cospetto, cominciò a raccontare un fatto meraviglioso e sorprendente, un prodigio spaventoso a dirsi e ad ascoltarsi e a stento credibile. Infatti narrò – se lo si vuol credere – che era tornato indie-

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si libet credere – remissum enarravit, si quidem, cum diutius carceris squalorem ferre nequiret, seu desperatione victus seu iudicium reformidans, inops consilii, malum daemonem, ut sibi praesto esset seque ex tam taetro carcere relaxaret, advocasse dixit; nec multo post daemonem foedo aspectu et terribili facie in eodem intus carcere aspexisse et secum pactum fuisse, ab eodemque et ferreis claustris non sine gravi pressura extrusum in loca deinde inferna et profundas vastitates ac fundum telluris intimae actum esse praecipitem singulaque lustrasse. 3. Impiorumque supplicia et sedes consceleratas aeternasque tenebras et aerumnas vidisse ac loca foeda et formidolosa, regesque et summos duces in abrupto hiatu et profundo voraginis densa mersos caligine afflictari et Furiarum ardentibus facibus agitari, gemitusque et eiulatus ac dies noctesque ploratus mulierum et virorum audisse, pontificesque vidisse infulis et trabeis purpura et auro distinctis ac gemmis ornatos, aliasque miserabiles facies omnis generis hominum, aetatum et ordinum, in cultu vario afflictos et iacentes inter praealtas voragines, alios immenso limo haustos aeternis suppliciis et nocte cruciari ipsorumque damnata scelera sempiterno dolore puniri, inter quos plures quos noverat in vita adnotavit, et praecipue intimum familiarem, quem dum in vita ageret aequalem sodalemque habuerat, alloquutum dixit; ab eo probe agnitus et miti satis sermone requisitus fuit quid rerum ageretur et quid reliqui spei sibi foret. Ipseque cum prae gravi servitio et crudeli dominatu usque premi respondisset, illum mandasse ut domino enuntiaret, caveret ne quid tale ageret in posterum, neve gravi tributo et iniquo vectigali subditos opprimeret: namque illi vacuam sedem, quam prope cernebat, praestitutam esse praedixit. Et ut haud dubius promissi foret fidemque ut dicto haberet, meminisse inquit illum debere secreti consilii et mutuae pactionis, quam, dum una militarent et in castris agerent, clam inivissent, quorum nemo particeps aut conscius umquam fuit. Quod consilium cum memoriter ille enuntiasset et non solum dicta conventaque sed et singula verba sponsionesque, quibus uterque astrictus erat, recensuisset, ipsum dominum ordine haec audientem, animo serio et attentiore factum, mirum in

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tro dall’inferno. Non riuscendo a sopportare più a lungo lo squallore del carcere, o perché sopraffatto dalla disperazione o per paura della condanna, fuori di sé, aveva invocato il demonio, perché lo soccorresse e lo liberasse da un carcere così tremendo; e non molto dopo aveva visto un demonio orribile e spaventoso proprio all’interno della cella e aveva fatto un patto con lui. Era stato allora da quello spinto fuori violentemente dalle sbarre di ferro della prigione e quindi catapultato all’inferno, nelle smisurate profondità della parte più interna della terra, e lì aveva visto ogni cosa. 3. Aveva visto i supplizi degli empi e le sedi scellerate e le tenebre eterne e le pene e i luoghi terribili e spaventosi, e i re e i più grandi condottieri soffrire immersi in una densa caligine nella voragine scoscesa e profonda tormentati dalle fiamme ardenti delle Furie, e aveva sentito i gemiti e gli ululati e giorno e notte i pianti di donne e di uomini, e aveva visto pontefici con infule e altri paramenti tutti punteggiati di porpora e d’oro e ornati di gemme, e altre facce miserabili di ogni genere di uomini, di età e di classe sociale, sottoposti a tormenti di vario tipo tra le altissime voragini; altri inghiottiti da una enorme massa di fango torturati con supplizi che non danno tregua neppure di notte, essendo i loro delitti, per i quali sono stati condannati, puniti con dolore perpetuo. E tra quelli notò molti che aveva conosciuto in vita, e in particolare disse che aveva parlato con un suo intimo amico, che aveva avuto come suo pari e sodale; da lui era stato riconosciuto e gli era stato chiesto con parole molto pacate cosa fosse successo e se restasse per lui una qualche speranza. Avendogli risposto di essere oppresso dalla pesante e crudele tirannia del suo signore, quello lo aveva incaricato di riferire al signore di evitare in futuro di comportarsi in quel modo, e di non opprimere più i sudditi con pesanti tasse e iniqui tributi: gli aveva rivelato infatti che era stato preparato per lui il posto vuoto che vedeva lì vicino. E perché non dubitasse di questa promessa e prestasse fede a quanto riferito, aveva detto che quello si doveva ricordare del piano segreto e del patto che avevano stretto di nascosto mentre prestavano servizio militare insieme, del quale nessuno era stato mai partecipe o a conoscenza. Quando il servo riferì fedelmente il patto, riportando non solo quello che i due compagni avevano detto e convenuto ma anche le singole parole e le promesse con le quali si erano l’un l’altro legati, allora il signore, che ascoltando per filo e per segno il rac-

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modum obstupuisse, ingensque animo formido incussa fuit, consideranti quonam modo, quae soli sibi credita et nulli umquam enuntiata fuere, homo ille hebes et tardus ingenio, quasi numine afflatus, explorata haberet eaque vultu interrito enuntiaret. 4. Adiciunt miraculo eundem interrogasse illum, cum quo tunc sermo erat apud inferos, qui nitido cultu vestituque apparato videbatur, numquid aliquo cruciatu afflictarentur qui insigni veste et auro conspicui forent, illumque respondisse perenni incendio interque maximos cruciatus et sempiterno dolore usque premi et afflictari, idque totum quod auro et purpura fulgeret ignem atque incendium esse. Et cum ipse id experiri volens propius manum purpurae admovisset, admonitum ab eo fuisse ne tangeret, et tamen efficere nequisse ut non ex caloris afflatu palmam sibi manus, quam tunc ostendebat, incendio et ipsi purpurae admotam deflagraret. Erat enim pustulis liventibus et taetris ulceribus veluti tabe et igne sacro maloque, quod latius serpere videbatur, fere consumpta. Referunt praeterea, qui illum adivere, eum, postquam ab inferis emersit, quasi mente consternata hebetique aurium oculorumque sensu affectus foret, semper cogitabundum in rarum prodiisse sermonem vixque saepius interrogatum colloquenti respondisse; vultu vero tam taetro et aspectu tam deformi revertisse, ut, qui dudum a coniuge et liberis probe agnitus foret, is, postquam remeavit ab inferis, tam diro vultu totiusque facie corporis dissimilis effectus es‹se›t, ut vix eundem illum esse crederent. Saepiusque obortis lacrimis ob faciei diritatem et speciem hominis foedissime mutatam, notos affinesque ipsum alloquutos fuisse aegreque, ut ante obitum, qui mox consequutus est, res suas dispensaret ac liberis et posteritati consuleret, vitae spatium habuisse.

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conto si era fatto serio e più attento, si stupì in modo straordinario, e fu colpito nell’animo da una granda paura: si chiedeva in che modo quell’uomo stupido e ottuso d’ingegno, come ispirato da Dio, avesse scoperto e raccontasse con volto imperturbabile cose che solo a lui erano state confidate e a nessuno mai rivelate. 4. Raccontano in aggiunta a questo prodigio che il servo aveva chiesto all’amico, con il quale aveva conversato presso gli inferi, vestito con molta eleganza e sontuosità, se fossero puniti con qualche tormento particolare coloro che si distinguevano per le vesti preziose e l’oro, e quegli aveva risposto che costoro erano tormentati senza tregua da un fuoco perenne tra grandissimi supplizi ed eterno dolore, e che tutto quello che brillava di oro e porpora era fuoco e fiamme. E allora lui volendo verificare la cosa aveva avvicinato la mano alla porpora, e benché quello gli avesse raccomandato di non toccare, non aveva potuto evitare che gli si bruciasse il palmo della mano, da lui accostata alla porpora che ardeva come un incendio, a causa dell’intenso calore, ustione che ancora allora mostrava. Era infatti la mano quasi tutta corrosa da livide pustole e da brutte ulcere come colpita da peste o dal fuoco sacro, che sembrava estendersi a macchia. Riferiscono inoltre coloro che lo andarono a trovare che il servo, dopo che era riemerso dagli inferi, era stato colpito da confusione mentale e da un indebolimento dell’udito e della vista, che sempre pensieroso raramente parlava e molto spesso interrogato a stento rispondeva a chi gli parlava; era poi ritornato con il volto tanto sfigurato e l’aspetto tanto deforme che, lui che un tempo era stato ben familiare alla moglie e ai figli, dopo che era tornato dall’inferno, era diventato tanto diverso nel volto spaventoso e nell’aspetto di tutto il corpo, che a stento quelli credevano che si trattasse della medesima persona. E molto spesso conoscenti e parenti gli parlavano con le lacrime agli occhi a causa della bruttezza del volto e dell’aspetto mutato in maniera orribile, e passò il resto della vita tra gli stenti, a sistemare prima della morte, che sopraggiunse presto, le sue cose e provvedere ai figli e ai discendenti.

INDICE DEI NOMI

Accame Lanzillotta M., 120n Acquaviva Andrea Matteo, 23, 4n, 30n, 72 e n Alain de Lille, 18 Alciato Andrea, 18 e n, 19n, 20 Alembert Jean-Baptiste Le Rond (d’), 26 Alessandro VI, papa, 69n, 74, 220n Alessandro Magno, 48n, 156n, 158 e n, 159, 210, 211 Alessandro Severo Marco Aurelio, 79, 168, 169 Alfeno Varo Publio, 19 e n, 169 Alfonso I d’Aragona, il Magnanimo, 176n, 177n Alfonso II d’Aragona, 184n, 185 Alhaique Pettinelli R., 34n Altilio Gabriele, 25, 72, 73, 94 Anco Marzio, 59 e n, 213 Angeleri C., 33n Antistia, moglie di Pompeo, 202, 203

Antistio Veto Quinto, 200, 201 Antonio Lucio, 198, 199 Apocello G.B., 74n Apuleia, moglie di Marco Emilio Lepido, 200, 203 Apuleio Lucio, 204n, 208n Aragona (d’) Francesco, 65n Aragosti A., 24n Arato di Soli, 156 e n, 157 Aristide, 204 e n, 205 Aristofane, 53 Aristotele, 53, 136, 137, 156, 157, 164n, 170, 171, 190, 191 Ascheri M., 69n Asconio Pediano Quinto, 59 e n, 124 e n, 125, 210n Asinio Pollione Gaio, 48n Asor Rosa A., 25n Attalo I, re di Pergamo, 47n, 211 Audano S., 39n Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 62n, 106, 121n, 122 e

244

n, 123, 174n, 192 e n, 193, 204, 205, 210, 211

Baehrens E., 51 e n, 52n Barbaro Ermolao, 15n, 25, 54 e n, 73, 78, 81, 91, 164 e n, 166, 167, 170, 171, 172, 173 Barbieri F., 76n Barchiesi A., 24n Barni G.L., 19n Baron H., 30n Bartolomeo Anglico, 26, 35n Beccaria Antonio, 158n Becqu A., 27n Belloni A., 19n Benedetti (de’) Platone, 49n Benedetti S., 230n Bernardi Perini G., 24n Beroaldo Filippo, il Vecchio, 32 e n, 33n, 49n, 50 e n, 51n, 77 Beroso, 19n, 156n, 157 Besicken Johann, 34n Bianca C., 176n Bienato Aurelio, 56n Bigi E., 164n Binkley P., 27n Biondo Flavio, 26n, 36 e n Boeckler Johann Heinrich (Boeclerus Johannes Henricus), 22 e n Bonifacio Bernardino, 174n Bonifacio Dragonetto, 25, 62, 72, 174n, 175 Bouffartigue J., 27n Bracciolini Poggio, 64n, 178n Branca V., 33n, 35n Brown V., 49n Brugnoli B., 28n

INDICE DEI NOMI

Bruto Decimo Giunio, 95, 104 e n, 105 Burman Pieter (Burmannus Petrus), 51 Bussi Giovanni Andrea, 114n Butrica J.K., 51n, 150n

Calcagnini Celio, 21, 28n, 29n Calderini Domizio, 25, 32 e n, 33n, 36, 37n, 70 e n, 71n, 72 Calvino I., 24n Camillo Marco Furio, 190, 191 Campanelli M., 33n, 71n Cantatore F., 34n Caracciolo Aricò A., 116n Cardini F., 27n, 66n Carlo VIII, re di Francia, 65n, 184n Cartari V., 23n Casciano P., 55n Cassiani C., 120n Cassio Longino Gaio, 134 e n, 135 Cassio Dione, 194n Cassiodoro, 53 Castiglionchio (da) Lapo, il Giovane, 166n Catanzaro G., 51n Catone Marco Porcio, il Censore, 18n, 19n, 40, 53, 96, 194, 197 Catullo Gaio Valerio, 50n, 150n Cavallo G., 27n Cavarra G., 63n Céard J., 27n, 34n Celio Rodigino (Ricchieri Ludovico), 21, 34 e n, 54 Celio Rufo Marco, 136, 137

INDICE DEI NOMI

Cesare Gaio Giulio, 38n, 53, 100, 101, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 121n, 122, 123, 130, 131, 198, 199, 201 Charlet J.-L., 27n, 33n, 34n, 35n Cherchi P., 32n, 35n Chiabò M., 120n Chines L., 27n, 33n Cian V., 26n Ciccuto M., 64n Cicerone Marco Tullio, 45n, 48, 57 e n, 58n, 59 e n, 72n, 73, 77, 82 e n, 88, 89, 90, 91, 95, 96, 110n, 122 n, 126 e n, 127, 132 e n, 133 e n, 134 e n, 135, 136 e n, 137, 156n, 180n, 194n, 198n Ciliberto M., 72n Clemente Alessandrino, 32 Cleopatra VII, regina d’Egitto, 47n, 48n Clodio Pulcro Publio, 59 e n, 124n Crocetti M., 17n Cofano D., 72n Colapesce, 62, 160-163 Colangelo F., 140n Coler Cristoph (Colerus Christophorus), 17, 19n, 76 Collenuccio Pandolfo, 54 Columella Lucio Giunio Moderato, 40 Constantin R., 21 e n Conte G.B., 24n, 29n Conti (de’) Sigismondo, 25, 73 Cordoba (de’) Consalvo, 73 Corfiati C., 72n, 86, 103n

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Cornelia, moglie di Cesare, 198n Corrias G.M., 76n Cortesi Paolo, 25, 73 Crasso Lucio, 140n Crasso Lucio Licinio, 198, 199 Cratete Cinico, 190, 191, 208, 209 Crinito (Del Riccio Baldi) Pietro, 21, 33 e n, 34, 77 Croce B., 20 e n, 49n, 67n Curio Dentato Manio, 204, 205 Curzio Rufo Quinto, 57, 114, 115, 128, 129

D’Agostino M., 63n d’Alessandro Bernardino, 70, 74 d’Alessandro Sansonetto, 70 e n d’Alessandro Vincenzo,70 Daneloni A., 30n Davis M., 73n De Caprio V., 25n de Falco Marco, 74, 119n De Gandillac M., 27n de Nichilo M., 69n, 72n, 75n, 103n de la Mare A.C., 30n Debrunner A., 116n Decembrio Angelo, 21 Defilippis D., 33n Della Valle Lelio, 74 Demetrio Falereo, 166, 167 e n Demostene, 53 Diderot Denis, 26 Diliberto O., 38n Diodoro Siculo, 52 Diogene Cinico, 208 e n, 209 Dionigi d’Alicarnasso, 53

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Dionigi di Siracusa, il Vecchio, 134 e n, 135, 136, 137 Dionigi Periegeta, 158n Dionisotti C., 33n, 34n Disanto G.A., 72n Distaso G., 22n Dolobella Publio Cornelio, 134137 Domiziano Tito Flavio, 200, 201 Donati G., 33n Duchat M., 140n, 141n

Eliano Claudio, 32 Empedocle, 156, 157 Epaminonda, 136, 137 Erasmo da Rotterdam, 15 e n, 16n Erodoto, 48n, 112 n,142n, 143, 160n, 196n, 212n Esichio di Alessandria, 208n Eudosso di Cnido, 156 e n, 157 Eugenio IV, papa, 64n Eumene II Sotere, 47n Euripide, 53

Fabio Pittore Quinto, 19n Fabrizio Luscino Gaio, 205 Fayer C., 186n, 192n, 198n, 202n, 204n, 212n Fedeli P., 142n Federico d’Aragona, 65n, 74, 184 e n, 185 Fenestella (ps.), vd. Fiocchi Andrea Fera V., 33n, 39n Ferdinando (Ferrante) I d’Aragona, 64, 100n, 183, 184 e n, 185

INDICE DEI NOMI

Ferdinando (Ferrandino) II d’Aragona, 184n Ferrary J.L., 38n Ferraù G., 39n, 55n Festo Sesto Pompeo, 42n, 130, 131 Fezzi L., 40n Figliuolo B., 164n Filelfo Francesco, 15n, 25, 26n, 71 e n, 72, 88, 132 e n, 133 e n, 134, 135 Filonide, 159 Fiocchi Andrea, 18n, 19n, 36n Firmico Materno Giulio, 156 e n, 157 Florido Sabino Francesco, 21 Floro Publio Annio, 53 Fonzio (Della Fonte) Bartolomeo, 73n Fossati C., 27n Fozio, 208n Frontone Marco Cornelio, 204n Frugoni Ch., 24n Fubini R., 35n Fuiano M., 126n Fulvio Flacco Quinto, 200n Fumagalli Beonio-Brocchieri M.T., 27n Gaio, giurista, 204n Gallucci Giovanni Paolo, 35 Gardenal G., 35n Gareffi A., 77n Gargan L., 19n Garin E., 64n Garzilli P., 65n Gavinelli S., 55n

INDICE DEI NOMI

Gaza Teodoro, 62, 72, 176 e n, 177 e n Geldsetzer L., 35n Gellio Aulo, 20, 21, 23n, 24n, 29, 30n, 31, 32, 53, 77 Gerlo A., 16n Germano G., 37n, 101n Gesner Conrad, 17n, 20, 21n Giamboni Bono, 35n Gimma Giacinto, 22n Gionta D., 26n Giovenale Decimo Giunio, 44 e n, 45n, 53, 90, 91, 93, 108, 109 Giraldi Lilio Gregorio, 23n Girolamo (s.), 190 Giunio Bruto Bubulco Gaio, 200n Giunta Filippo, 33n Giustiniani V.R., 132n Giustino Marco Giuniano, 170n Gnoli D., 232n Godefroy Denis (Gothofredus Dionysius), 17, 19n, 76 Goldin D., 27n Golino Pietro, il Compatre, 72, 186n, 187 Gonzaga Francesco, 132n Gordiano Marco Antonio, 154, 155 Goretti Giovanni Maria, 34n Gualdo Rosa L., 55n, 56n Hankins J., 49n Hendriks I.H.M., 48n Hermann H.J., 72n Heyworth S.J., 51n Hofmann J.B., 112n Humbert M., 38n Hübner W., 62n

Ipocle di Cuma, 142 e n, 143 Infessura S., 73n Ipseo Marco Plauzio, 59 e n Isocrate, 224, 225 Iurilli A., 22n Izzi P., 33n Kappler C., 66n Kaster R.A., 49n Kelly S., 144n

247

L’Abbate V., 72n La Penna A., 51n Labeone Marco Antistio, 42n Lachmann K., 51 Lampridio Elio, 18n, 19n Landucci Ruffo P., 35n Latini Brunetto, 35n Lavarra C., 72n Lazzi G., 102n Le Goff J., 66n Lee E., 132n Leonardi C., 27n Leoniceno Niccolò, 54 Leonico Tomeo Niccolò, 21, 33 en Leonida, 196 e n, 197 Lepido Marco Emilio, 200, 201 Leto Pomponio, 15n, 19n, 36n, 37n, 73, 82, 120 e n, 121-125, 168, 169, 170n Licurgo, 190, 191, 206, 207 Lisandro, 206, 207 Lisia, 136, 137 Livia Drusilla, 204, 205 Livio Tito, 42n, 53, 57 e n, 114 e n, 115, 128n, 130 e n, 131,

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142n, 180n, 192n, 194n, 197n, 198n, 210n Lo Monaco F., 65n Lorenzi Giovanni, 25, 73 Lovito G., 37 Luigi XII, re di Francia, 184n Lupi S., 66n

Machiavelli Niccolò, 130n Macrobio Ambrogio Teodosio, 20, 21, 29, 32, 122n Maffei D., 18n, 22n, 38n, 67, 69n, 75n, 77n Maffei Raffaele, il Volterrano, 20, 34 e n, 71, 72, 230 e n, 231 Maiello F., 66n Maio Giuniano, 25, 39, 70, 116 e n, 117 Mancinelli Antonio, 113n Manilio Marco, 156 e n, 157 Mantovani D., 39n Manuzio Aldo, 34n, 33, 35 Maraglino V., 15n Marchese Francesco Elio, 25, 73 Marciano Elio, 41 Marshall Peter K., 30n Marziale Valerio, 37n, 46, 48, 53, 70n, 71n Marziano Capella Minneo Felice, 20 Mata Ludovico, 232, 233 Matasialano Giasone, 232, 233 Mazzocchi Giovanni, 77, 84, 85, 94n Mazzuchelli Gian Maria, 18n, 69n Mecenate Gaio Clinio, 200, 201

INDICE DEI NOMI

Megastene di Calcide, 142, 143 Megullia Dotata, 204, 205 Melczer W., 26n Mélonio F., 27n Menestò E., 27n Mercati G., 71n Mercier Nicolas (Mercerus Nicolaus), 17 Merula Giorgio, 77 Metello Numidico Quinto Cecilio, 192, 193 Mexía Pedro, 32n Michiel Marcantonio, 18 Milone Tito Annio, 59 Minizio Calvo Francesco, 18 e n, 76 Modigliani A., 120n Momigliano A., 36n Mommsen Th., 107n Monfasani J., 177n Monti S., 101n, 102n Monti Sabia L., 63n, 101n Morrhy Gérard (Morrhius Gerardus), 16, 17 e n, 26, 75 Mussini Sacchi M.P., 19n Mutini C., 174n

Naas V., 62n Narducci E., 39n Negri Girolamo, 18 Nerazio Prisco, Lucio, 40 Nerone Lucio Domizio Enobarbo, 198, 199 Nisard Ch., 133n Notar Giacomo, 65n Numa Pompilio, 59, 210, 211 Nuovo I., 33n

INDICE DEI NOMI

Oco (Dario II), 194, 195 Omero, 53, 212, 213 Orazio Flacco Quinto, 53, 45n, 140n Ovidio Nasone Publio, 53, 126, 127, 128 e n, 129, 230n

Pacuvio Calavio, 130 e n, 131 Pade M., 25n, 32n Palumbo G.A., 33n, 39n, 55n, 70n, 116n Pansa Gaio Vibio, 136, 137 Paolo Giulio, 71n Paolo Lucio Emilio, 200, 201 Papiria, moglie di Paolo Emilio, 200, 201 Papirio Peto, 134 e n, 135 Parrasio Aulo Giano, 19n, 20, 51, 52n Pastore Stocchi M., 33n Pedio Quinto, 104n, 107-109 Pericle, 124 e n, 125 Perosa A., 70n, 71n Perotti Niccolò, 28n, 32, 34n, 36, 37n, 46 e n, 70 e n, 72 Petrocelli C., 186n Petronio Tito, 45n Picone M., 27n Pictor Georg, 23n Pierre Jean, 16 Pinario Lucio, 106-109 Pisistrato, 124 e n, 125 Pitagora di Samo, 136 e n, 137, 190, 191 Pitrè G., 23n Platina (Sacchi) Bartolomeo, 25, 73

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Platone, 53, 136, 137, 156n, 170, 171, 177 n, 190 e n, 191 Plauto Tito Maccio, 210n Plinio il Giovane, 53 Plinio il Vecchio, 24n, 29 e n, 40, 41 e n, 43, 44n, 47, 53, 54 e n, 55, 57, 58n, 60 e n, 61, 62 e n, 114 e n, 122n, 115, 126n, 150n, 156n, 158n, 159, 174 e n, 175, 180n, 202n, 210n, 212n Plutarco, 45n, 47n, 53, 122n, 124n, 166 e n, 167, 190n, 194n, 196n, 198n, 200n, 202n, 204n, 206n, 208n, 210n, 212n Poliziano Angelo, 20, 21, 32, 33n, 54, 77 Pompeo Gneo, 40n Pomponia Grecina, 208, 209 Pontani Gaspare, 73n Pontano Giovanni, 25, 36, 37n, 38n, 50 e n, 55, 55n, 62n, 65n, 66n, 72, 100 e n, 101 e n, 102n, 118n, 140n, 143n, 148, 149, 150, 156n, 160, 161, 166, 177, 186n Pontari P., 26n Popilia, madre di Lucio Licinio Crasso, 198-199 Poppea, 198, 199 Porcari Girolamo, 73, 80, 220, 221 Porsenna, 122 e n, 123 Possevino Antonio, 21, 22n Postumio Albino Spurio, 190, 191, 200n Pozzi G., 54n Priscilla, 73, 82 e n Procopio di Cesarea, 53

250

Properzio Sesto, 48, 49 e n, 50 e n, 51 e n, 53, 138, 139, 140, 141, 142n, 144, 145, 148 e n, 149, 150n Pucci Francesco, 50n, 52n

Quintiliano Marco Fabio, 136n, 137

Ranucci G., 24n Regoliosi M., 39n, 40n, 55n Reisch G., 20, 35 Renazzi F.M., 132n Ribémont B., 27n Rinaldi M., 103n, 156n Rinuccini Alamanno, 132n Risicato A., 66n Robinson G., 73 e n Rolet A.,19n Rolet S., 19n Romano G., 33n Romolo, 122 e n, 123, 124n, 194 e n, 195, 198, 199, 212, 213 Rossi G., 17n, 40n Rouse R.H., 30n

Sabba F., 21n Sabbadini R., 30n Sabellico (Coccio) Marcantonio, 114n Sallustio Crispo Gaio, 62n Sandbach F.H., 51n Sannazaro Iacopo, 18, 25, 48 e n, 49 e n, 50, 52, 66n, 72, 77, 81, 89, 100n, 116n, 138 e n, 139, 141, 151 Sanseverino Roberto, 73, 74

INDICE DEI NOMI

Santippe, 190, 191 Santoro M., 55n Santucci F., 51n Savarese G., 77n Scauro Marco Emilio, 60 Schmid W.P., 116n Schmitt J.-C., 66n Scipione Gneo Calvo, 204 e n, 205 Scipione Lucio Cornelio, l’Asiatico, 88 Scipioni S., 30n Scoppa Lucio Giovanni, 21, 33 e n Semiramide, 196, 197 Sempronio Sofo Publio, 200 e n, 201 Senofonte, 53 Serrai A., 17n, 21n, 22n, 26n, 28n, 29n, 34n, 35n, 75n Servio, 50n Servio Tullio, 212, 213 Seznec J., 22n Silio Italico, 52n Sisto IV, papa, 132n Socrate, 136, 137, 190, 190n, 191 Soldati B., 62n Solone, 202, 203, 206, 207 Speroni M., 36n, 43n Spurio Carvilio Ruga, 202, 203 Stolz F., 116n Strabone, 52, 146, 190n, 206 Stramaglia A., 251n Sulpicio Gallo Gaio, 200, 201 Sulpicio Rufo Servio, 73, 82 e n Summonte Giovanni Antonio, 144n Svetonio Tranquillo Gaio, 38n, 42n, 48, 53, 100, 101, 102,

INDICE DEI NOMI

103, 104n, 106-111, 122n, 128 e n, 129, 200n, 204n, 208n, 210n Szantyr A., 112n

Tacito Publio Cornelio, 53 Talete di Mileto, 188, 189 Tanaquilla, 212, 213 Tarquinio il Superbo, 178, 179 Tateo F., 22n, 33n, 55n, 62n, 66n, 72n, 100n, 101n, 102n, 144n Tega W., 25n Teofrasto, 136, 137 Terenzio Afro Publio, 53 Teseo, 166 e n, 167 Thomson D.F.S., 49n, 148n Tiberio Giulio Cesare Augusto, 62, 200, 201, 208, 209 Tibullo Albio, 50n Tiraboschi Girolamo, 23 e n, 140n, 141n Tiraqueau André (Tiraquellus Andreas), 17 e n, 76, 77n, 186n Tito Flavio Vespasiano, 24n Tito Tazio, 212, 213 Tognetti G., 183n Tolomeo II Filadelfo, 47n Tortelli Giovanni, 32 e n, 33n, 55n Trapezunzio Giorgio, 62, 72, 176 e n, 177 Traversari Ambrogio, 188n Tritemio Giovanni, 19 Trivulzio Gian Giacomo, 27 Tuba Nicolò, 226, 227 Tucidide, 53 Tullo Ostilio, 120, 121 e n

251

Ullman B.L., 50n Ulpiano Domizio, 40, 41. 42, 46, 79, 168, 169, 170 e n, 171

Valerio Massimo, 122n, 192n, 194n, 198n, 200n, 202n, 204n, 208n, 210n Valerio S., 33n Valla Giorgio, 20, 28, 35 Valla Giovan Pietro, 27 Valla Lorenzo, 36, 38, 39n, 42, 48, 55 e n, 56 e n, 57 e n, 76 e n, 212n, 128n, 130n Vallone G., 69 e n, 70n, 74 e n, 77n, 232n Varrone Marco Terenzio, 38, 40, 53, 106n, 120, 121, 122n, 123, 124 e n, 125, 213 Vasoli C., 35n, 72n Vatinio Publio, 136, 137 Vecce C., 48n, 139n Vegio Maffeo, 36 e n, 39n, 43n Velleio Patercolo Gaio, 142n Vendola N., 22n Vincenzo di Beauvais, 20, 35n Virgilio Marone Publio, 53, 81, 148 e n, 149 Viti P., 55n, 71n, 102n, 133n, 177n Vitruvio Pollione Marco, 40, 210n Volumnio Eutrapelo Publio, 134 e n, 135 Volusio Quinto, 136, 137 Volusio Mesiano Lucio, 106n Vopisco Flavio, 122n Vossius (Voss) Gerhard Johannes, 25n

252

Weze (van) Marcus, 16 Zabughin V., 120n

INDICE DEI NOMI

Zeno Apostolo, 69 Zeno Rutili, 74 Zwichen (de’) Vigle, 16n