Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l'innocenza perduta 8860360196, 9788860360199

Gli scritti raccolti in questo libro, che propongono al lettore italiano un percorso critico di Comolli dal 1988 a oggi,

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Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l'innocenza perduta
 8860360196, 9788860360199

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Quelle, di Jean-lmns Comolli è un percorso intellettuale e artistico forse unico per ecletticità nella storia del cinema. Critico e poi capore­ dattore dei mitici «Cahiers du cinema», cineasta di importanti film sto­

rici c «politici», si è «convertito» alla pratica dd documentario negli ultimi vent'anni, realizzando opere rigorose e intense sulla realtà sociale

francese e non solo. Gli scritti raccolti in questo libro, che propongono per la prima volta al lettore italiano il percorso critico di Cnnmlli dal 1988 a oggi, vengono cosi a costituire un corpus teorico di estreme spessore sulle questioni fon­ damentali aperte oggi dalla produzione d’immagini. AJ centro della ricer­ ca, vi sono il furaionamento del dispositive cinematografico, il rapporto

tra i linguaggi virivi e l’apparato sociale ed economico dominante, la posi­ zione dello spettatore come punto di vista centrale per rileggere la moder­ nità del cinema. Ma ciò che rende assolutamente originale l’argomenta-

ziviic dell*autore è che il soggetto di partenza può essere la mima visione di un classico, k tendenze più estreme della «docu-ficticn» o i «reality» Tv, ma alla fine tutto è filtrato dall’esperienza in «presa diretta» sul

campo, da una pratica di regista peraltro continuamente messa in discus­

sione. Soprattutto grazie al confronto con i grandi cineasti che hanno rac­ co to la sfida c piatuii sul modello di una nuova onnipotenza, la sola forse che la era delle merci ci consenta ancora, quella celle immagini che nutro­ no i nostri sogni - allora, di fronte al trionfo finalmente rassicurante del virtuale, della digitalizzazione dei possibili, della scenarizzazione dei conflitti, della programmazione dei fantasmi, il cinema documen­ tario contemporanco oppone, un film dopo l’altro1*, la prova, se ce nc fosse bisogno, che in questo mondo, il nostro, rimangono atti, proget­ ti, opere, costruzioni che non si lasciano ridurre al calcolo delle mac­ chine umane e neanche ai desideri degli uomini meccanizzati. È oggi, attraverso alcuni film nei quali la parte documentaria è forte1’ - e, dun­ que, paradosso, attraverso il cinema - che il reale ritorna a battere alla nostra porta. Il cinema riporta il reale come cosa che, filmata, non è afM Per dùàmxa del ducono chiamerò •rcaltÀ» le coacradoni rociaii che ci inglobano, economiche, politiche, faumban, ree. Scuola, fabbnea, pneooe, ufficio, turo ciò che si iitituttoe per controllarci appartiene all‘ordine dd racconto, dd programma, della sceneggiatu­ ra v» r Riprendere qui il lavoro fondamentale di Pierre Lc^rrdrc, ronco detti rappresenta­ zione, c in ^articolar modo ! suoi due ultimi libri, ZXrn «im mmotr e Li 90T CwauòaL' et *tic ™ tedt te faùm. Favini, Pans IW4 c IW.

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_____________________ . Cotnolli, Vedere e potere_____________________

valore di mercato, cioè accettare di alienarlo, negarlo in quanto valore non commerciale1*, rinunciare a far riferimento a ciò che di non com * merciale d sarebbe nel nostro uso del mondo e della società. Reclama­ re questo «diritto» per alienarlo subito al diritto di proprietà; far vale­ re il dumo contro u coscienza e la responsabilità: mi domando quale nemico intimo mi vorrebbe far desiderare questo errore di calcolo? Tredici. Ecco fune ciò che il documentario mi ha insegnato c che la finzione mi aveva dissimulato. Che la posa è la libertà dei corpi e del­ le coscienze, spesso già insita in coloro che non fanno il mestiere di at­ tore perché interpretano solo se stessi, libertà che di conseguenza l'at­ tore deve guadagnarsi o riguadagnarsi con o contro il suo personaggio. Colei o colui, attori non professionisti, che accetta la scommessa c il ri­ schio di recitare il proprio ruolo in qualcuno dei miei film (l'architet­ to Pierre Kiboulet o la militante socialista Yvette, Sylvie ex Cramii [Caisse regionale d’assurancc maladie d’ile de France, nJx], o Jean Claude Gaudin) è evidentemente consapevole clic sta i cu land v, die ciò che sta succedendo a lei o lui non è il quotidiano della vita non fil­ mata ma quello della vita filmata, che è dirompente, l’ordinario è di­ ventato lo straordinario, tanto che appare, attraverso la scena delle re­ lazioni quotidiane, un'altra scena, quella in cui il sogno, 3 caso, l'in­ conscio possono prendere forma c significato. Non prendiamo i nostri attori di un solo ruolo e di un solo film per imbecilli. Sanno bene che ciò che si incesse tra loro c il film che si sta facendo non rientra nell’ambitc della copia. Lei o lui fabbricano nel lavoro dei film un doppio di sé clic, nella migliore tradizione del tacconai fantastico, non è rigo­ rosamente conforme a ciò che immaginano di essere o di essere sud. Ed è meglio cori, per loro come per il film. Mi dico che quanto si stabilisce nella condivisione di un film è pro­ prio ciò che sfugge sia a quelli che sono filmati sia all'altro che li fuma. Si inventa un terzo demento che fonda il film come necessario ad en­ trambe le parti, una via di mezzo che sarebbe anche un altro tra sé e sé. L’autore o il regista, l’attore o corpo rappresentato, e lo spettatore o soggette della scena sono insieme separati da se stessi e riuniti, supera­ ti, sconosciuti a loro stessi, rinnovati, nella tapprcscntariunc die li spossessa per trasportarli e trasformarli nell'opera, in qucll’altra pane ” Tra purmesi osservo come sarebbe pii semplice se hasuMC piagare per arm filtro a dì * ipxùzione. Ora. li tediatone legata db raazionc documentaria ri nutre principdmcnu di pa­ nie c immàgini piuaoMo che dì wJdL Se quota retatone dovesse dhcncue mercantile, perché i documoKarma neo ri donebbero far pagare per lunare il tale o il triahra, diventaci ormai

* •affiti che ne avrebbero i mezzi, e om» peggio per gb altri? Saremmo ptotrto itesi bene U committente comnÓMaoncrcbbc il suo ritratto c non < nemmeno certo che gfi piacerebbe^.

--------------------- Viaggio documentano pretto i cacciatori di teste____________

dell’essere insieme che è l’opera. Ognuno a trova di volta in volta at­ tore, regista e spettatore del tno, ma anche di ciascuno nel trio. E ciò che così si càbora è fortunatamente inestricabile, non attribuibile, non riferibile, direi anche volentieri non idcntifieahile: chi ha fatto Voi. un Noir't Chi Pour la suite du monde) E, più vicino a noi, chi La Moindre det choses) Dirt Roueh, Perrault e Philibert non è che uni rispo­ sta al più semplicistico dei quiz. Le società degli autori, i tribunali han­ no bisogno di attribuire, di decretare una paternità precisa, identifica­ ta, neonata. Noi che facciamo film documentari sappiamo bene che non è così, e che sono desideri incrociati a generare sempre le opere. La relazione che definisce il cinema documentario è di per sé relativi: si perde un’identità prefilmica di ognuno, si guadagna un’alterità, che è una nuova identità, cinematografica stavolta, cioè irriconoscibile nei confronti della prima. Una volta filmato, appartengo al film che mi ha fatto diventare immagine. Il corpo filmato è una trasformazione, un'alterazione del corpo non filmato. Noi apparteniamo ai film che facciamo, sia che li realizziamo sia che vi recitiamo; non sono loro che ci appartengono: d si possono fare molte domande su quest’inversio­ ne. E la legge dell’opera il trasformare le sue componenti in frammen­ ti di se stessa. La firma è prima di timo sempre un effetto dell'opera; l’appartenenza è regolata dal posto che l’opera dà a ciascuno al proprio interno, per il ruolo che fa recitare a quelli che la fanno. Quattordici. Andiamo verso la fine di ogni possibilità di rdazionc documentaria a causa di questa sua vampirizzazione attraverso le im­ plicazioni legali? Cosa resta dell’incontro come esercizio condiviso di un desiderio di cinema dove, filmato/filmante, l’uno/l’aitro mettono, se così posso esprimermi, del loro, se il diritto degli affari viene a so­ stituirsi al buon uso che ognuno hi e deve fare dei propri poteri: chi fil­ ma, chi è filmato? Perché quelle e quelli che sono filmati, ricordiamo­ lo, possono, in tutta libertà, innocenza o perversione, rompere esplici­ tamente il contratto implicito, abbandonare il film in ogni momento, cosa che non può certo fare l’attore professionista impegnato in un set, obbligato corn’è da un contratto commerciale nella dovuta forma giu­ ridica. Filmando, non abbandono la mia posizione, non è costrizione ma impegno, non lascio lo sguardo e non abbandono la parola o il cor­ po di coloro che filmo. E mi aspetto da loro la stessa passione esclusi­ va. Questa buona prassi della relazione filmica definisce senza bisogno di esprimerla formalmente, la responsabilità di ognuno. Nei grandi esempi di coloro ebe ci hanno preceduto e che ammiriamo la legge è la

stessa: che si conosca o meno il proprio desiderio o quello dell'altro fil-

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_____________________ Cotnolli, Vedere e potere_____________________ moto, li si suppone entrambi garantiti e forti. Dubitare di tutto, forse, ma con convinzione. Tanto vale ammetterlo! quali che siano le tra­ sformazioni sociali e i progressi della spettacolarizzazione/scenarizzazione del mondo, inimmaginabile ai tempi di Moi, un Nov (che co­ munque ii annuncia), non credo che la pratica documentarla - quella almeno che implica altri esseri parlanti - possa costruirsi altrove che in

questa perdita ci controllo e di potere che fa si che tu, filmato-a, t’ab­ bandoni al film e che io che filmo, ti abbandoni allo stesso modo il film che sì su facendo con te, attorno a te... Vorrei sottolineare quanto una tale dichiarazione respinga il sentimentalismo che potrebbe essergli at­ tribuito. Non è una questione di (buoni) sentimenti. Non c’è altra scel ta. Parlavo all’inizio di costrizione e necessità. Il cinema (documenta­ rio) pretende di avere a che fare con la piena dimensione di ognuna, con la condivisione dell’essere. 1 diritti non possono cambiare niente. La ragione in effetti esige che quelli tra noi, passanti, comparse loro malgrado, persone che attraversano il campo di una camera, possano protestare perche la loro immagine è stata catturata a loro insaputa e ciò attiene più alla protesta legittima contro la violazione deH’intimità che all’accusa di «furto». Ma queli che sono entrati nel film di loro spontanea volontà — desiderio all'opera? Come potrebbero volersi premunire in anticipo di ciò cui sunno per dar corso? Oggi le imma­ gini fanno paura, si ritiene siano pericolose. Quindici. La questione si pone con insistenza in questa fine mil­ lennio che è anche la fine dei primo secolo di cinema. Una sorta d: in­ terdetto inizia a pesare da tutte le parti sutl’iscrizione veridica - questa condizione di ogni pratica cinematografica. Dalla pane delle immagi­ ni di sintesi, c in particolare delle immagini computerizzate del corpo umano, cioè quelle immagini che, per essere realizzate, non hanno più bisogno dell’incontro aleatorio c sempre in pane non controllabile tra la macchina da presa e il corpo umano; dalla pane delle finzioni pro­ grammate (programmatiche) delle immagini anch’cssc programmate, cioè poco suscettibili di essere maltrattate dalle condizioni reali di pro­ duzione, dove si tratta, insomma. di fabbricare un cinema che fugga il reale e il suo carattere aleatorio; e, infine, per lontana e separata possa sembrare dalla fabbricazione delle immagini di sintesi, dalla parte di una «burocratizzazione» della pratica documentaria - «il diritto all’immagine». L’immagine reale del corpo reale registrata in tempo rea­ le diviene l'obicttivo di una dispute triplice: di legittimità, di opportu­ nità c, infine, di proprietà. Questione politica. Sottolineo questa si­

multaneità: in tempi di finzione trionfante, di sceneggiatura politica

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Viaggio documentano presso i cacciatori di teste____________ generalizzata, di crescita di potenza della figurazione sintetica che non si catta dei corpi reali, da una parte; e, dall'altra, crescita delle rivendi­ cazioni delle persone filmate sulla proprietà o sul controllo del film al quale hanno partecipato. Questa convergenza è illuminante. Da un la­ to, il corpo perde qualcosa della sua realtà e la presenza corporea di­ venta un ingombro in rapporto all'esistenza virtuale; dall'altro, il cor *

po reale si nasconde dietro il diritto riguardante la persona e, più an­ cora, dietro il diritto di proprietà. Ciò che da una parte è dato in via di sparizione appare dall'altra come debole, in pericolo, in cerca di pro­ tezione... Il corpo in estinzione reclama un supplemento di diritto. Bi­ sogna vedere l’effetto di un’ulteriore astuzia o di una buona farsa nel dispiegamento di questa lusinga? In un solo movimento i poteri oc­ culti e noti che ci governano (e che hanno cura di controllare le imma­ gini che si producono di loro) alienano i corpi dei loro soggetti nella [>ubblicità e nella propaganda (magliette del Mondiale)", restringono c libertà c le mponaabiliià civili di uucsli suggelli (deprezzamento dello Stato, degradazione della Repubblica), e ranno loro il favore di far valere un diritto... sulla propria immagine. È proprio, ironia, nel

momento in cui la proprietà dei mezzi di produzione e di diffusione delle immagini c dei suoni sfugge quasi completamente agli spettatori che siamo, creatori o meno, che ci vediamo invitati a diventare pro­ prietari deUa nostra immagine...

'* ComtncraaluutMionc dei corpi, portatori di rigle, di colori, di maglierie: il corpo come superficie ptbbbcitirii» schermo corrjncrcidJt, anello, per fcietà umane lo sguardo non è mai soltanto lo sguardo dell’uomo ver­ so il mondo, è anche (c a volte soprattutto) lo sguardo dei mondo sul­ l’uomo. È così che il cinema non può che mostrarci il mondo come

sguardo. Sguardo - cioè messa in scena. Vio-spettatore-che-vedo di­ venta io~vtdo~che-sono-spettatore. C’è una dimensione riflessiva nello sguardo. Sguardo. Ritorno su di sé, riflessione, ripetizione. Revisione. Duplice vista. Come l’occhio è nel quadro, lo sguardo è nel film, sguardo del re­ gista c sguardo dello spettatore. Mettere in svciu c essere messi in sce­ na. È essere messi in scena dalla costituzione stessa di una scena. Co­ lui (colei) che filmo mi guarda Ciò che lui (lei) guarda :n me che guar­ do, è il mio sguardo (ascolto) su di lui (le). Guardando il mio sguar­ do, cioè una delle forme percettibili della mia messa in scena, lui (lei) mi restituisce nel suo sguardo l’eco del mio, mi rimanda la mia messa in scena tale quale essa rimbalza su di lui (lei). Il che significa, per il soggetto fintato, frequentare questa rappresentazione, abitarla, appro­ priarsene. Non c'è messa in scena che non sia modificata dal soggetto messo in Mxna. Ma non è ancora questo ciò che i cineasti antropologi hanno denominato «auto-regia»1. Bisogna sottolinearlo: il film, il cinema, la rappresentazione non so­ no fuori dal mondo, non sono di fronte al mondo a guardarlo dall’e­ sterno. sono a loro volu parti di mondo, tono ciò che del mondo divenu sguardo. Come non accorgersene, d'altronde, quando una parte sempre più grande della nostra relazione col mondo s: effettua attra­ verso la circolazione sempre più intensa di oggetti audiovisivi sempre * Questa nozione b rau introdotti da Claudine de France Ecco b definizione che ne dk «Nozione cMcnzuuc della ónematografìa drcumenuriaxhe designa i diversi -nodi in cui il processo osservato si presenti spontaneamenteal cineasta nelle spazio e nd tempo. Si trat­ ta di una mo« in xxns pupi is, autuamna» in nnù del i Quale le pcnoae filmate mostrino in modo più o meno ostemioiK o dissmutano agli altri, i loro ani e le cose che li circonda­ no, nd cono deUe attiriti oocpouL marnali e rituali Liuto-regia è itmnw al ogni nro-

cessn osservato»

w

Maison des sciences de lliommq Paris I9S2).

IX

_________________ Lcttm da Maniglia suU'auro-regia_________________ .

più deboli? Gli «audiovisivi» guidano il mondo. Peggio, lo sostitui­ scono, lo fabbricano a loro mkura. Di qui, caro Gilles, caro Pierre, l’importanza di fare buoni film. È il mondo che si imbruttisce o si im­ bellisce a seconda di ciò che facciamo. Perdonate questa digressione. Ritorno all'auto-rcgia. Ma, prima di tutto, allo sguardo come ritorno su di sé, cammino della coscien­ za. Si tratta di nelaborare la pulsione scopica come coscienza dello sguardo. 1 geometri del Rinascimento non sapevano bene (incertez­ za essenziale) se etano i raggi luminosi che venivano dagli occhi per illuminare le cose o se era dalle cose che questi raggi venivano a col­ pire il nostro occhio. Nel dubbio, il fascio di tratti rettilinei che ma­ terializzava questi raggi si poteva in effetti leggere nelle due direzio­ ni. Dal soggetto verso l’oggetto. Dall’oggetto verso il soggetto. la questo secondo caso, si produce non solo un’inversione del percor­ so, un rovesciamento della prospettiva, ma una rivoluzione della re­ lazione tra lo spettatore e la scena. Un cambio di statuto, un’inver­ sione di senso tra soggetto e oggetto. Quando il mio sguardo ritorna su di me, ne divento l’oggetto. Questo ritorno delio sguardo su se stesso mi mette in scena. Noto di passaggio quanto è comodo (e frequente) restare ciechi su questo ritorno. Lo sguardo è cieco su ciò che, da sé, gii ritorna come sua coscienza, mise sua forma. Il desiderio dello spettatore di essere lusingato, accecato sul proprio statuto, sul funzionamento di

ciò che lo fa godere. Quando occupo la posizione dello spettatore, si apre in me una macchia cieca, un buco nero, una beanza della quale non voglio sapere nulla, poiché è la condizione stessa della mia credenza nel film. È proprio perché non mi vedo guardare (guardato) che posso aderire alla cosa rappresentata. Senza questa negazione iniziale c fondante, non c’è credenza possibile. So bene che sono al cinema e che sono spettatore... - ma lo dimentico co­ munque per credere alla rappresentazione, per iniettarvi il suo cari­ co di realtà, la sua intensità d’esperienza vissuta. La mia petizione di fede, il mio desiderio di credere non sarebbero tuttavia così torti se non si riferissero a questa negazione primaria. È proprio perché ri­

muovo (provvisoriamente, il tempo della rappresentazione) la co­ scienza della mia posizione, il mio sguardo come coscienza, che pos­ so godere della ribadita confusione del mondo e dell’opera, della co­ sa e della sua immagine. La negazione cinematografica è dialettica. L’ima non esiste senza l'altra. ognuna ha bisogno dell’altro per rilanciarsi, la credenza ha bi

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_____________________ Comodi. Vedere c potere_____________________ sogno della coscienza che la minaccia, ha bisogno di questa minaccia per rafforzarsi. Siamo qui in una psicologia dei compiici contrari Tutta questa lunga digressione (ancora una) per tornare alla do­ manda che mi ponete. Come abbordare questa strana nozione di auto­ regia? Domandiamoci, come il cineasta potrebbe non affrontare la quattone dell'altro^ Non soltanto come questione dell'altro da filma *

re. Ma come questione dell’altro che, nel momento in cui lo olmo, su anche lui rinviando(mi) uno sguardo. Quello che filmo mi vede. Chi mi dice che non pensi al suo sguardo su di me conte io penso ai mio sguardo su di lui? La coscienza è necessariamente qualcosa che avvie­ ne tra le coscienze L’inconscio tra gli inconsci. Il corpo tra i corpi. Co­ lui che filmo viene a me non soltanto con la sua consapevolezza di es­ sere filmato, la sua concezione dello sguardo, viene col suo inconscio verso la macchina cinematografica stessa carica di imponderabile, vie­ ne col suo corpo davanti ai corpi di quelli che filmano. Quello (quella) che filmo, viene incontro al film anche con il suo habitus, quel tessuto fiso, quello schema di gesti appresi, di riflessi ac­ quisiti, di posizioni assimilate tanto da essere divenute inconsce, e che fanno sì che, a seconda dei campi in cui interviene (famiglia, scuola, la­ voro ecc.), si trovi come impegnato e preso nelle messe in scena (Bour­ dieu direbbe i giochi} richieste da questi campi - e comprese, incorpo­ rate, pure, da ognuno dei soggetti agenti di questi campi. Tutti quelli che filmo sono già attori e impersonati in altre messe in scena, che precedono e a volte contrastano quella del film. Le «realtà» non sono soltanto racconti specifici dei gruppi che le fab­ bricano e le legittimano - la «realtà sociale», la «realtà padronale» ecc. Questi racconti sono anche messe in scena, per non dire rituali, nei quali i corpi e la loro gerarchia, le loro posture, i loro intervalli, sono spesso definiti. Il cineasta filma delle rappresentazioni già in corso, delie messe in scena incorporate c reinterpreute dagli agenti di queste rappresentazioni. L’auto-regia sarebbe così la combinazione di due movimenti. Uno che proviene dall'ibrr/itfKS, e che passa per il corpo (l’inconscio) dell'a­ gente, in quanto rappresentante di uno o più campi sodali L’altro che attiene a ciò che il soggetto filmato, ii soggetto in visu del film (il «profilnuco» di Souriau), si destina al film, consciamente e inconsciamen­ te, se ne compenetra, si adegua all'operazione di cinematografia, vi mene in gioco la propria regia, nel senso di dislocazione del corpo sot­ to lo sguardo, di gioco del corpo nello spazio e nel tempo definito dal­

lo sguardo dell’altro (la scena).

Lettera da Marsiglia sull'auto-regia Questa auto-regia si può sempre osservare. È più o meno manife­ sta. Spesso il gesto del cineasta arriva, consciamente o no. a impedirla, a stravolgerla, a cancellarla, ad annullarla. Altre volte, più rare, il gesto di regia, arriva a cancellarsi di per sé per lasciar avanzare I’auto-regia del personaggio. St tratta di un ritiro estetico. Di una danza a due. La regia più decisa (quella si suppone venga dal cineasta) cede il passo all'alcra, favorisce il suo sviluppo, le lascia tempo e campo perché si pre­ cisi e si dispieghi. Filmare diventa così una coniugazione, una relazio­ ne, un rapporto incut si tratta di intrecciarsi all'altro — fin nella forma. Vi dico questo, cari amid, nell'idea che la regia documentaria, at­ traverso il suo carattere ludico, coreografico, il suo gioco con l’altro, il rischio che si assume neil'apritsi alle sodo-regie come alle auto-regie sarebbe forse ciò attraverso cui il cinema, ancora, si collega al mondo.

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_____________________________ VEDERE E POTERE

Luce risplendente di un astro morto

Zero. Li magia del «direno»' è prima di nino quella di una parola1, attorno alla quale - cinema, televisione, ma anche democrazia - non si smene di ruotare. Perché? Nell’affastellamento delle rappresentazioni che sovraccaricano le società spettacolari *commerciali persiste il desi­ derio di un accesso «diretto» al mondo, c, in mancanza, di una rela­ zione «immediata» con lo spettacolo. Più vicino, più vero, questa ci­ clica parola d’ordine delle arti della rappresentazione, ritorna negli an­ ni sessanta non come slogan stilistico (più «realistico», più «naturale») ma come motivo sovversivo: bisogna scovare le tracce di una verità perduta dei soggetti e delle relazioni sociali, toglere la maschera dalle convenzioni o, meglio, dai giochi di ruolo che, attraverso i racconti economici e politici dominanti, sembravano avare tolto ogni autenti­ cità ai comportamenti, alle pratiche, ai corpi, alle parole. Un legame, che non è semplicemente di coincidenza, accomuna la costellazione rivoluzionaria del Maggio *68 (contestazione dei vecchi schemi rappresentativi, slancio verso una pratica democratica «diret­ ta»), l’emérsione e la diffusione nel mondo delle diverse varianti de) «cinema diretto», c la teoria della «società dello spettacolo» (Guy De­ bord). Nel momento in cui le società stesse precipitano sempre più nello spettacolo, il cinema sogna un’innocenza ritrovata. Uno. Che senso aveva la rivoluzione del diretto? Spinto all’iper­ trofìa da un’industria avida e cinica, il cinema è divenuto, alla fine de' Pubblicato in «Images documemaires», 1995.21. -Le cinema direct, et iprès?». ’ Bisognerebbe sempre mettere quesu parch tra vùgokcte. Esiste un anemiche noci ua -diretto-? La comparsa di questo aggettivo ha avuto prima di tutto l'dfctto di dividere in due il cinema, quello «diretto» c ramo» che non lo urebbe staio. «Diretto» ha dunque co­

me rcgion d'essere tf KKtolinearv sintomaticamente ua'aspiraaione a ridurre gli strumenti della mediazione ttcnca. percepiti come uno schermo all’accetto alla owa stesa. È scrcprc questo sogno di trasparenza dà attraicela tutta la storia tecnica del cinema. Cfr. Le Jéùw par U(farà, in «Cahicn du càiéma-, 209 c 21’-.

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____________________________ Corrolli, Vedere c potere____________________________

gli anni cinquanta, una macchina pesante, costosa, distante e artificio­ sa. L’utopia del cinema direno, preceduto dalla Nouvelle Vaglie e dal cinema a Cassavetes, è proprio di (ri)familùtrùzare il cinema. Ripor­ tarlo alla semplicità degli inizi mescolandolo di nuovo al quotidiano della vita. 1 primi film dei Lumière - Sorrie d’usme, come pure Repas de bébé - non erano prima di nino dei film di famiglia? La registra­ zione leggera del suono sincrono fa apparire un nuovo legame tra pa­ rola, durata e corpo. La nozione di «performance» entra in gioco. Quella legata alla ripresa di lunga durata senza stacchi. Una cinc-tauromachia. Senza dubbio, li c’era qualcosa del sogno vertoviano di una •vita filmata all’improvviso * che si compieva, che poteva finalmente realizzarsi megKo di quanto lo stesso Vertov aveva potuto fare1. Era soprattutto - tramite la registrazione sincrona della parola incarnata un nuovo accesso alla sfera dello spettacolo che si apnva per il mondo intimo degli esseri. In una paiola, la rivoluzione dd cinema diretto equivale ad avvici­ nare la macchina all’uomo, suo utilizzatore e suo soggetto, l'uomo fil­ mante e l’uomo filmato. «L’uomo con la macchina da presa- si deve ormai intendere come uomo-da-ura-partc-e-dall’altra-della-macchina da presa. Con la camera a mano e i microfoni più leggeri lo strumento si piega al corpo, la tecnica diventa abito, la macchina tende alla prote­ si. Tutto questo - macchina più leggera, meno rigida, meno tecnica, meno costosa, più facile da maneggiare, da trasportare, da finanziare si traduce al tempo stesso in una sovversione dei modi di fare stabiliti, in un superamento dei monopoli di produzione e, infine, in una bana­ lizzazione del gesto cinematografico. Filmare diventa il possibile di ognuno. In questo senso, la rivoluzione del diretto ha successo al di là delle sue utopie fondanti. I kinoki di Dziga Vertov hanno oggi preso definitivamente il potere. Due. Bisogna ridere di auei turisti odierni che visitano Roma o Pa­ rigi attraverso il mirino delle loro videocamere? Hanno torto a filma­ re invece di guardare semplicemente? Non ne sono sicuro. Innanzi tutto, non dimentico quella verità godardiana, secondo la quale per ve­ dere bisogna filmare. Poi mi dico d.c in un mondo ridipinto dalla pub­ blicità, coperto di schermi, stremato dai pixel, diventato mantello di Arlecchino della commedia dello spettacelo, il gesto di filmare se s:es si se è diventato banale, non è sempre anodino. Si potrebbe trattare ad esempio di tessere il proprio filo nel labirintico arazzo delle rappre­ sentazioni, il che è già qualcosa. Ma direi soprattutto che si tratta di ri'Ck i’jwcwnr

p, 171.

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Luce risplendente di un astro mono portare il corpo, il proprio, dentro lo spettacolo. Colui che porta la ca­ mera fa corpo con essa, portando così un po' di zavorra umana nella fantasmagoria generalizzata dello spettacolo commerciale. Tre. Cosa hanno permesso di riscoprire il cineasti-operatori — Leacock, Rouch, Brault... - che, dopo Flaherty, hanno lanciato il ci­ nema diretto? Che la questione non è quella del quadro, ma quella del corpo. Inserire nell'immagine quella dei soggetto filmante in li­ tro modo, ma nella stessa misura del corpo del soggetto filmato. Non c'è alcun dubbio che i cineasti (Murnau, Lang, Hitchcock per esem­ pio) che non tenevano direttamente l'inquadratura potevano con­ trollarla c comporla nel mode più preciso. La personalizzazione del­ l'inquadratura (eco della familiarizzazione deBa macchina) non è quindi soltanto una questione di «sguardo». Col cinema direno c'è il corpo stesso dell’operatore che porta la macchina, c'è quella pressio­ ne fìsica costante nell’atto di filmare, un respiro, un soffio, una pre­ senza. Il che equivale a dire che tramite questa fisica dei corpi l’ac­

cento si sposta sempre più sulla relazione del filmare. Da una parte e dall'altra della macchina c’è corpo. Soggetto. Questa relazione tra Li­ mante c filmato tramite la macchina significa al tempo stesso che di­ minuisce la distanza sempre in gioco nel lavoro di messa in scena' c che si avvicina la possibilità stessa di rappresentare l’intimo. Per esempio, Moi, un Noir o Gare du Nord di Jean Rouch. Il cinema è un’arte ambiziosa. Ciò che desidera è che il dentro si consegni al fuo­ ri. Filmare l’esterno per scoprire l’interno, filmare l'involucro sensi­ bile degli esseri e delle cose, ma per indovinarne, smascherarne o sve­ larne la pane segreta, nascosta, maledetta. Comporre il visible come palinsesto che racchiude l’invisibile e, al contempo, vi dà accesso. Per mezzo di questa danza dei corpi con la macchina il diretto sviluppa un’intimità ritmica inaccessibile fino ad ora, tranne che per l’imma­ ginazione, la poesia o il romanzo. Quattro. Oggi, quasi trent anni dopo, la pratica del -cinema dirct to» 9 è in effetti generalizzata, e banalizzata (le minicamere), proprio mentre la televisione valorizza sempre più l'uso della «diretta» come prova di verità, coma del toro, trapezio senza rete, pratica radicale (dall'irreale serie dei «live» della Cnn, durante la guerra del Golfo, al­ la «diretta integrale» decantata da J.-C. Ddarue in Qt se discute). Nel momento in cui, dunque, le nuove tecnologie dell'immagine compute* Evidentemente, m questi relazione intersoggettivi del filmante e del (limito, è li posizione dello spettatore i creare problemi. Mettere in scena significa rendere terzo lo

spettixsre.

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_____________________ Ccmolli, Vedere e potere_____________________ rizzata aboliscono o riducono a poca cosa la relazione tra corpo fil­ mato e macchina filmante, l’esaltazione del diretto in televisione appa­ re come la disperata celebrazione di una venti che svanisce, l’adora­ zione di una potenza in via di estinzione. L'iscrizione veridica (la cine­ presa + il corpo filmato) nporta sempre qualcosa di reale nel quadro. Potenza del reale che fa ritorno nello spettacolo: è ciò che scompare dallo schermo maggioritario. La televisione non fa più riapparire il reale se non per celebrarne il culto (funebre). Cinque. Nello stesso tempo in cui la televisione sopprime il mo­ nopolio del cinema, eredita da esso. Quest’eredità si riconduce essen­ zialmente alla questione dell’iscrizione veridica. Nello stesso momen­ to, in uno stesso spazio (l’unità di tempo e luogo di una scena), si in­ contrano una macchina (la camera, l’apparecchiatura cinematografica) e (almeno) un corpo (umano o animale). Da questo incontro nasce una registrazione unica, non ripetibile, non simulabile. E ciò che è sta­ to registrato non è, in ultima analisi, che la relazione di qualcosa di umano con qualcosa di meccanico. Ai margini della volontà di poten­ za che ogni rappresentazione manifesta, viene a combinarsi misterio­ samente (la dnegenia) ciò che c’è - sempre - di impensato in una mac­ china, in una tecnica, con ciò che c’è - ancora - di impensato in un corpo. Combinazioni aleatorie. Concordanze o discordanze fortuite, adeguamenti o scompensi accidentali. Per quanto potente sia, ogni rappresentazione inciampa sulla soglia del caso. L'iscrizione veridica è la prova di modestia del cineasta. Le falle che rivela, così come i mil­ le accidenti che sfuggendo a tum i controlli, fanno di ogr.i combina­ zione di energia e materia un’avventura singolare, ecco quella che, nell’ordine della rappresentazione, traduce la pressione del reale l’impossibile del racconto, la fuga dal calcolo. Nello stesso momento di una situazione più o meno sccnarizzata, di una relazione più o me­ no rappresentata, di una parola più o meno dialogata, l'iscrizione ve­ ridica è l’atto di registrazione di una moltitudine di effetti di Teale. Nella maggior parte dei casi non fanno che aureolarla di una polvere impercettibile e tuttavia gloriosa: quella dell’impressione di realtà. Al­ tre volte, decisivi, lacerano le forme e fanno vacillare il senso: lapsus e acting out esibiti «indiretta». Il tempo è qui la dimensione più importante. L'iscrizione veridica e prima di tutto l'iscrizione del tempo. Essa risulta dalla combinazione del tempo recitato (davano alla camera) c del tempo meccanico (ventiquattro fotogrammi al secondo). Registrare una scena vuol dire espor *

si a una durata. Soltanto la durala reale della registrazione filmica apre

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Luce risplendente di un istro mono

La porta agli effetti di reale. È perche il nastro scorte nel tempo che

qualcosa vi si iscrive realmente, che vi si ritrova del reale. Sei. Avanzerei quest’affermazione: al cinema come in televisione il «direno * non è che una variante esaltata dell’iscrizione veridica. Esaltata, perché apre alla possibilità - più o meno illusoria - di gode­ re della durata di un’izione rappresentata in tempo nncrmto. Il tem­ po sincrono è quello in cui io spettacolo si impadronisce d: me, spet­ tatore, dandomi, come in teatro o al maneggio, il sentimento di esse­ re l'esatto contemporanco dello svolgenti della rappresentazione, di «viverla». La percezione della durata e la durata della percezione sembrano coincidere. È evidente nel caso della direna televisiva,

iscrizione e diffusione sono sincrone. Questo non è evidentemente il raso del cinema, anche «diretto». Filmando ciò che accade in sua pre­ senza (davanti o dietro, poco importa, ma con es$a\ la macchina ci­ nematografica Rima sempre al presente. E quando si tratta di corpi, la macchina da presa iscrive sulla pellicola, un certo numero di volte al secondo, proprio quel presente dei corpi che le si presentano. Pa­ radosso del cinema: la traccia iscritta è sempre al passato, ma porta sempre con sé il presente dell’iscrizione. Eterno presente. Perché? Perché si tratta del presente della proiezione. Le immagini c i suoni che palesa ai miei sensi s’iscrivono nel presente del mio schermo mentale. Presente assoluto della percezione. Condivisinne del pre * sente: ciò che si iscrive sullo schermo e ciò che, spettatore, sto viven­ do. sono in ampia coincidenza. Tuttavia, il qui e ora della proiezione riproduce il qui e ora del­ l’iscrizione veridica solo come un’esca. Lusinga essenziale. Quesu illusione che fonda il cinema. Ciò che si registra al presente sul na­ stro filmico, e che si svolge al presente sullo schermo della proie­ zione, non è che l'illusione di una sincronicità. Come potrebbe lu spettatore non sapere che tra le riprese c la proiezione è stato per­ corso tutto un labirinto di tempi c materie? Lo sa bene, il che non gli impedisce di percepire il movimento del film nel presente della proiezione. C’è una lusinga, liberamente consentita, quando perce­ pisco al presente non la realtà attuale della proiezione, ma quella, inattuale, dell’iscrizione veridica. Opero un collage spazio-tempo­ rale che riporta sullo schermo e per la durata della proiezione, un luogo e un tempo che erano quelli della scena. Il cinema diretto, in primo luogo (si vedano Shadows o Faces di Cassavetes), poi la di­ retta televisiva hanno continuato a giocare su quesu dimensione del presente — a produrre effetti di presente.

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____________________________ Comolli. Vedere e potere____________________________

Sette. Questo vuol dire che il cinema filma non gli esseri o le cose in quanto tali (benché sia rassicurante crederlo), ma che filma la loro relazione con il tempo - le relazioni degli esseri e delle cose con il tem­ po delle riprese, e, in secondo luogo, con :1 tempo dello schermo men­ tale Il cinema rende sensibile, percettibile e talvolta direttamente visi­ bile dò che non si vede; il passaggio del tempo sui volti c sui corpi. Il cinema diretto ha reso visibile dò che non lo era (non veramente) pri­ ma di esso: la fatica del corpo di un attore per la tutta la durata di un rullo di pellicola, ad esempio i dieci minuti di piano-sequenza di Gare d« Nora (Jean Rouch). Perché, paradosso perfetto, il tempo sincrono che fa battere allo stesso riuno lo spettatore e lo spettacolo è sia il tempo del passaggio del tempo, deli’nsura, della fatica sia il tempo del senso sospeso. Nel­ lo scorrere del tempo del film, sono testimone dell'invecchiamento, anche infimo, degli esseri e delle cose filmate. E, al contempo, al con­ trario di questa freccia temporale che trapassa nino con una sona di fatalità, non ho alcuna certezza né sullo sviluppo della rappresentazio­ ne né culla tua fine. Le spettatore postulato dal diretto è uno spettato­ re aperto a tutte le vicissitudini, non soltanto de) racconto ma del cor­ so stesso della rappresentazione. Spettatore sospeso sia nella perma­ nente attesa di una sempre possibile interruzione, giusto o incidente, sia nell’interminabile prolungamento del gioco per abbondanza c, al contrario, per mancanza di nuovi sviluppi. L'effetto di reale gioca nel­ le due direzioni. Reversibilità del diretto. Il modello di questa forma aperta di tappiocntazionc testa la torrida; una xena, uri pubblico,de­ gli attori, un rituale, e tuttavia ogni secondo resta in balia dell’alea, tut­ to può, in ogni momento, volgersi in incidente o morte, o anche pro­ lungarsi nella noia senza fine di una gara mancata. Così come l’esperienza della fatica e della morte, il diretto iscrive il battito del pieno e del vuoto. Tutu la sua magia risiede in questa sospensione. Regno dell’incertezza. Mettere in scena è qui mettere il corpo in attesa c il tempo in sospeso. Chi guarda il film, come chi lo inquadra e chi è inquadrato si trovano in una sospensione del senso che si traduce e sta qui l’effetto di presenza del diretto - in un'insi­ stenza degli affetti. Trascrivere il vivente fusiona e attraverso la fu­ sione tra una macchina e dei corpi. Questo tempo sospeso è quello del godimento.

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_____________________________ VEDERE E POTERE

La parola e l’azione-filmate

Uno. Coste una sentenza'. Cade dall'alto. Una smorfia sgradevole accompagna la raccomandazione «No lipping! * («Niente labiale» xd.t.]. L’ordine è mimato. Un dito frenetico si agiu davano a labbra tremolanti. Soprattutto che non si pari, niente parole, fate un film sen * za parole. Siamo a questo punto. Le nostre reti televisive più stupida­ mente americanomaniache (a voi la scelta) esorcizzano la parola filma­ ta come fosse il diavolo. Questo rifiuto di parola, costituisce evidente­ mente un sintomo. Ma prima di tutto fa male, e, forse, c’è da sperare, prima di tutto fa male a dii la formula, vista la dose d’aggressività che l’accompagna. Ogni volta che mi è capitato di sentire «pas de bla-bla» (versione francese), ho intravisto lo spasmo di una piccola sofferenza incrinare la maschera del (o della) responsabile del divieto. Come un inizio di presa di coscienza di una vergogna o di uno scandalo. La cen­ sura funziona come confessione, la confessione come censura. Riassuma la parola, nella società e nella televisione, che ne è ii poten­ te concentrato, ha dei luoghi specifici, dei programmi (i «talk-show», i «forum», gli studi degli psicologi...). Ma in un film documentario, no. So­ no k situazioni in cui si trovano prese le persone che filmiamo, che vale la pena di filmare. E non il punto di vista dele persone filmate sulle si­ tuazioni che vivono Come se parlare di una situazione equivalesse a met­ tervi fine. Come se parlare fosse non vivete più1. Due. Grandi difficoltà del cinema nel conquistare la parola. La co­ sa è risaputa. Meno la parola, d'altronde - si parla silenziosamente nei 1 La prima pane di questo tato e stata pubblicata ia «Images documentaires», 1995, 22, « La parole Slmec-. con il titolo No lipping. La seconda prie è stata pubblicata no •Cahicn du cinta»», XXX, con il titolo L'actw* ptrléc. Ho rimaneggiato leggermente i due araceli. 1 Pierre Perrault: «Se guardo uomini mentre compiono gest;, costruiscono, cacciano, pescano, (accio della zoologia. Lo studio dell'uomo inizia dalla parola» (Cahiers du cine­ ma». xxx).

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Concili, Vedere e potere-----------------------------------film muri - che il suono della voce. È il complesso sensibile e carnale della voce che manca al cinema muto. La parola, da parte sua, vi è fil­ mata, fa immagine, è tradona dalle didascalie. Non manca compietamente. Eppure. Privata di voce, cioè della cavità del corpo c della riso­ nanza degli organi, la parola filmata nonè nulla. Con la grana della vo­ ce al cinema arriva il sesso e l’impronta stessa dell'individuo.

Arrischiata nella carne di una voce, la parola filmata impone la realtà del corpo come qualcosa di irrefutabile. Perché ciò che si filma è ptuptio la reiezione — il legarne, l'aiiaccaincrito, la dipendenza - ua questa parola e questo corpo, al tempo stesso distinti e fusi. Parlare è un atto lirico, un lavoro corporale. E la prestazione di una macchina, il corpo, per un'altra, la macchina da presa. C'è, qui. una prima manifestazione - dimenticata, sfuggita, naturalizzata, - del grande sistema sincrono che regola tutto il cinema sono­ ro. La voce, il corpo, la parola sono già insieme in un sincronismo pri­ mario che anticipa il sincronismo della registrazione sonora cinemato­ grafica. La registrazione sincrona del suono e dell'immagine raddop­ pia, riproduce, conferma il sincronismo fondamentale dell'emissione vocale e del gesto corporale che la consente. Se il cinema sonoro * rin­ nova la miracolosa impressione di realtà del cinema muto, è perché al tremolio delle foglie degli alberi sullo schermo si aggiunge il tremolio della voce colta in quello del corpo. La parola filmata è forse il più profondo solco del realismo cinematografico. Ne testimonia a contra­ rio il fastidio che deriva dallo spettacolo di un cattivo doppiaggio. O la difficoltà che c'è sempre srara nel rompere il legame del sincronismo (Godard, Duras). In un caso come nell’altro viene fatta violenza all’imprcsrione di realtà, a questo accordo delle macchine che è diventa­ to come una nuova natura, una seconda pelle, e che pertanto non vie­ ne più pensato nella sua contingenza, fragilità, reversibilità Tre. Se mi ri permette questa sintesi, direi che ci sono due generi di parola nel cinema documentario. Quella - e vale per la maggior parte dei documentari - che costituisce l’individuo soggettivo, lo de­ finisce nella sua relazione con gli altri, l’istituisce al tempo stesso co­ me soggetto di un gruppo e di un ordine - in breve, lo fabbrica in ' ll cinemi sonoro è mimo proprio con un mow wktdm rcgut?4io in thrttu. Gi spet­ tacoli di Broadway, non ci xxrrbbc essere niente di più parlato, erano filmiti in studio, ma in presa diretta, per mezze di un’apparecchiatura ingombrante ma efficace. Non c’fc nato dunque bisogno di aspettare gii ann sessanta c b messa a punto dell ’insieme camera leggera (e microfonica) * registratore portatile per filmare il suono in sincrono. Nd campo dcTdo-

cumentano, si sa che Dziga Vertov sperimentò, agli inizi degli anni trenta, la presa diretta sui luoghi delle riprese, (tninMm],

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_____________________La parola e Tazione-filmatc_____________________ quanto soggetto. £ la parola che organizza- che crea - il mondo. Da

una pane, Moi, an Noir (Jean Rouch). Dall'altra, Pour Lt otite du monde (Pierre Perrault). Il secondo di questi due generi di parola filmata risale alla tentazio­ ne demiurgica che lavora il cinema dalle sue origini - fin dal muto: Keaton, Vertov, Munuu, Stroheim, Gance, Ford... Un cinema che scrive il mondo, lo mette in forma, lo ordina, insomma, lo umanizza. Rappresentare il mondo, è fario esistere per noi, è preparare per l'uo­ mo un posto umano (fosse anche quello della morte) in un mondo che non è (non ancora) tagliato a sua misura: Tabù, L 'uomo di Aron. A trent'anni di distanza, l'affinità tra Poter la mite du monde c L'uo­ mo di Aron * testimonia della ricorrenza del tema. Sia nel primo sia nel secnndn, le riprese del film sono, più che l’occasione, l'incitamento, l’invito fatto agli uomini del presente a riallacciarsi al mondo antico, il mondo perduto degli antenati, il mondo di prima dei cinema. 1 due film fanno letteralmente ritornare (alla vita, alla coscienza, alla parola, alla memoria) tutto un insieme di esperienze perdute (la pesca allo squalo nel pruno, la caccia alla focena nel secondo), e doppiamente perdute per non essere mai state filmate. Questa vita scomparsa e inJìlnuM, viene fatta rinascete dal film, prima di lutto per sé, perche ci sia film e perché sia - finalmente - filmata. Cioè misurata, riappro­ priata, familiarizzata, riumanizzala e rimessa alla portata del presente. Funzione rituale e conciliatrice del cinema. Lo spettacolo del mondo, l’evocazione dei tempi mitici possono farci paura, il solo fatto che ab­ biano luogo in un film rende culturale questa paura, permette di af­ frontarla e dipanarla. Bisogna vedere le riprese di un film come un ri­ tuale di mitigazione del mondo. Riprendere la trama dei min come li frequentavano gli antichi, é, in entrambi i film, mettere a confronto l’umano e il non umano (gli ele­ menti, le bestie). Lotta paradossale. Per portare testimonianza e valo­ re, questo confronto deve affermare la forza, l’astuzia, il rischio. Deve al tempo stesso rassicurare in merito a qualche forma di padronanza umana, la cui prova più radicale è d’altronde portata dalla stessa pos­ sibilità delle riprese: ogni spettatore lo sa bene, per tutto il tempo in cui è filmata, nessuna catastrofe, nessuna perdita è in grado di impedire al film di farsi. Filmata, la paura rassicura. Povero è dunque il posto della parola - poche trasi post-sincroniz­ zate - in L'uomo di Aron. Questo film del 1934 apparsene ancora al * Su L**omc di Anu^ si vedi p. Ib5.

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_____________________ Comolli, Vedere e potere_____________________ sistema del muto. Affida allo sguardo, e solo ad esso, il compito di fa­ re legame, di allacciare i fili della relazione nel cuore stesso delle lotte con la pietra, il vento, il cielo, il mare c gli squali. Trent’anni dopo, la parola gioca lo stesso ruolo in Pour la suite da monde. Ma lo gioca a suo modo, che non è quello dello sguardo. £ sufficiente paragonare i

sistemi tfi scrittura dei due film per verificare fino a che punto, nella

storia de: cinema, la parola sia una torma organizzatrice che determi­ na pienamente le soluzioni di regia. Non c’è nemmeno bisogno di op­ porre le logiche di montaggio dei due film per cogliere la traccia del passaggio dal muto al sonoro. Il filmare di Flaherty con panoramiche che collegano i personaggi alle cose, suppone, c fabbrica, un mondo in cui la relazione si costruisce, decisione spesso improvvisa, con il mo­ vimento del corpo, della testa, dello sguardo. Al contrario, le lunghe inquadrature di Perrault per accogliere il flusso tranquillo della parola di memoria, installano delle nicchie d’ascolto, di attesa, di attenzione, che presuppongono un mondo in cui le cose appaiono nel loro corso, momento, musica, senza forzatura né sorpresa, in cui esse non devo­ no far altro, insomma, che riprendere il posto che era loro prima del cinema, e che il cinema arriva, infine, a confermare e celebrare per noi, suoi contemporanei. Quattro. Ciò che diverge da un film all’altro, in questa presenza della parola, è proprio il regime dell’iscrizione del tempo. Qui nell’i­ sola di Couldres, il legame della parola deve svolgersi e riavvolgersi. Ciò che succede nel film, è appunto ii legame, la relazione: ecco per­ ché l’avvenimento cinematografico essenziale è qui l'atto stesso della parola, l’esposizione dei corpi nella parola. Come la mette in scena Perrault, la parola non organizza soltanto il ritorno al cinema di un mondo pre-cincmatografico. Il film stesso è costruito su di essa, la sce­ neggiatura procede da essa, ri si produce e la produce: una volta anco­ ra, i modi di fare, le modalità di approccio costituiscono la nota fon­ damentale della scrittura documentaria. Il cineasta ha iniziato col regi­ strare in audio decine di ore di parole dei suoi personaggi. Ha poi iso­ lato, in questa materia verbale, dei blocchi che non solo sarebbero sra­ ti la trama dei monologhi e dialoghi del film, ma che ne avrebbero or­ ganizzate il movimento e il ritmo. La messa in scena è nata da una messa in parole. Tutto il cinema della parola, quello che rinasce col suono sincrono negli anni sessanta per arrivare fino a noi nel cinema documentano (o in Rohmcr), viene messo a confronto con questo problema della regi­ strazione di nuove durate, di nuove estensioni di materia. Il gioco del­

ira

La parola e razione-filmate

la parola presuppone uno spazio e un tempo che non sono quelli del silenzio. U legame tra la parola e il corpo, il respiro, la respirazione, l’e­ loquio, la cadenza, tutta questa musica che si sviluppa secondo ritmi necessari e significanti, chiedono, esigono che sia in fasedi registrazio­ ne che di montaggio si formi un ascolto e che questo sia reso possibi­ le allo spettatore. Ancora una volta, come in tutto il corso della storia del cinema, la trasformazione dei limiti tecnici comporta risposte formali che opera­ no sul senso. Per ciò che riguarda la registrazione della parola, la rivo­ luzione viene meno dalla camera leggera e dal registratore portatile che dalla durata delle bobine c dalla capacità dei caricatori. Come non ve­ dere che i dieci minuti di film caricati nell’Edair 16 non soltanto per­ mettono, ma favoriscono una cinematografia della durata che è anche la costituzione di un nuovo oggetto filmico: il monologo o il dialogo in piano sequenza di lunga durata? Appare una nuova economia del racconto, nuove forme di articolazione, nuovi sistemi di montaggio (ad esempio, un ruolo più importante degli inserti). È evidentemente questa regia dell’attesa, della sostanza, ddl’.ntervallo, della respirazio­ ne degli esseri, dei corpi e delle parole, è tutto il sistema delle forme su­ scitate dalla necessità di rispettare la parola filmata, di non triturarla, spezzettarla, manipolarla, comprimerla, che vengono respinti dalia lo­ gica dell’informazione-merce dominante nei media. «Rispetto» ddla parola? Questo non vuol dire che il cinema non la monti, non la tagli, non la riorganizzi, non la disponga in un’altra proporzione e un’altra relazione rispetto a quelle che aveva o avrebbe potuto avere in un mo­ mento non ancora filmico della sua esistenza. il primo e il più puro dei gesti cinematografia non è innocente ri­ spetto a un'intenzione di senso, a un intervento significante che viene a turbare - cioè a trasformare - l’ordine del mondo. Filmare è portare cinema nel mondo, trasformarlo in cinema. Solo un’illusione religiosa di trasparenza ci fa credere che la nostra relazione col mondo non sia fatta fin da subito di intervento, alterazione. E anche se filmare si limi­ tasse a captare e registrare, questo sarebbe già mettere in relazione e ' lAmcrvaxjonc vaie * /ofTmw per le rprese video. In Bctacam. e cascar perniarono meva mimai dì ripresa. La forma ddlc interrate (ad esempio)l cambia quindi completamente. Le domande spariscono più o menex non hanno più lo nesso ruolo d'inquadramento ddlc rispo­ ste. Su ana durata cu» lunga, c piuttosto la dimcnaioae de monologo - di tipo analitico - che divenula formi pnnapde. Ogni tipo di macchini porta così con re conseguenze formali che wno arche momenti di pcnaicrc, enuncilo sul mondo. È un'oncnrazione banale ndla nona dcQac►ictura. Ma qualcosa resine sempre ftdTapptcaria atti storia dd cinema. Come se non «e ne votene sapere (dr. J.-L. ComoUi, zrereoi r idetdogre, Prandi^ barena IW2).

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____________________________ Comolli, Vedere c potere____________________________

costruire, tessere, ricamare, incollare, coniugare: non bisogna che la ca­ mera e ciò che filma siano «montati» insieme per fabbricare una sce­ na? Niente scrittura, quindi, senza manipolazione del mondo. Tutto sta nel sapere come e a che scopo, attraverso quali logiche, in quale concezione delle cose. Tutto è scrittura, ma non tutte le scritture si equivalgono c solo alcune possono pretendere, da qui la loro efficacia,

a una cera onestà o autenticità. Come valutarle? Respingendo le pra­ tiche che implicherebbero disprezzo dello spettatore. Lo spettatore dispnrzzatu in noi rappresenta disprezzo per tutti gli altri. E questo di­ sprezzo, lo vediamo agire, giorno dopo giorno, nei procedimenti del­ le televisioni orientate sulla pubblicità. Non è un caso se la pubblicità, modello del consumo audiovisivo, è come un bidone della spazzatura della parola, non fosse che per la scarsa cura dei doppiaggi e delle po­ st-sincronizzazioni. Capire U produzione di parola filmata oggi come luogo di una guerriglia senza nome. C’è il campo della «parola di­ *, strutta» e sono i media nel loro funzionamento prevalente. C’è quel­ lo della parola ricostruita dopo la rovina, che è sempre stato e resu quello dei cinema, oggi documentario. Cinque. Come non osservare, d’altra parte, la cosa è risaputa, che siamo in un mondo frusciarne di parole senza seguito c senza rilievo, che gli oggetti audiovisivi hanno moltiplicalo all'infinito le fonti sono­ re e i flussi delle parole? Si parla, non si è mai parlato così tanto'. Bru­ sio, confusione. Sia pure. La questione del cineasta non è di parlare, di aggiungere parola alla parola ambiente. È di far capire. C’è ingenuità nel credere che basti al cinema che una parola venga detta perché sia compresa. La stessa ingenuità nel credere che una cosa mostrata sarà per questa sola ragione visa e guardata. Il lavoro del cineasta consiste essenzialmente nel hr vedere ciò che filma c far ascoltare ciò che regi­ stra. Perché né lo sguardo né l’ascolto vanno da sé. Non sono cose da­ te ma prodotte e fabbricate. E la valanga senza fine di immagini e suo­ ni non può far altro che sommergere la possibilità stessa dello sguardo e dell’ascolto. 11 turn over della mercanzia spettacolare non lascia af­ fano il tempo e non permette affatto il lavoro che occorre semplice­ mente per costituire un oggetto di percezione e di pensiero. Il cinema resiste a questo indebolimento percettivo. Vedere, ascoltare, è una pro­ duzione, un lavoro. Dai due fati dello schermo. Senza questo lavoro da * £ il molo dd hbro di C Gallai, al quale vorrei rinviare il lenoni. La parole dérncite, métta et vwlence. Zoé, Gentvc 1995. * Si veda sopra G, Delcuie. fi ■parlane treppo» a accorda perfettamente al «capire ma­ le*. Al cinema, domina Pascolo - la comprendone.

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La parola e l’izionc-filrnatc una pane e dall’altra, ogni ascolto è impossibile e ogni parola vana, sia­ mo nel terreno ordinano della televisione Sei. Questioni Chi ha paura delle parole fino a bandirle? Chi non vuole che ci sia linguaggio? Chi non vuole parlare per dire dii parla in lui? Chi tu paura del soggetto che parla? Di esserne invaso, sopraffat­ to, turbato? Chi dà all'individuo la consegna del silenzio sociale? Al

cinema d’oggi (e non soltanto alla televisione), il mutismo è consiglia­ *. to Ci si potrebbe credere in quelle case borghesi dove i domestici non avevano diritto di parola così come i bambini. Si tace. È un po’ la (nuo­ va) parola d’ordine delle nostre società educatrici *. I potenti si annoia­ no alle dichiarazioni dei deboli Che il cinema sia ossessionato dai fantasmi del muto su questo non c’è dubbio. Che dopo essere stato sonoro voglio, come oggi, regredire neWarafìdo del mutismo non può essere cosa innocente. Il cinema della parola pone la questione del soggetto che paria. Soggetto = crisi Se que­ sta dimensione di crisi è proprio ciò che fa di ogni soggetto un campo di battaglia dalle parti incerte, di ogni individuo d soggetto di una stona e di una società, e non più soltanto un consumatore di merci, d’informa­ zioni di spettacoli ne consegue una turbativa sui mercati. Perché la lo­ gica dello spettacolo vuole applicare la legge del silenzio? È per proteg­ gerci da noi stessi? Per privare ognuno di noi della formulazione del suo desiderio e della trasmissione della sua esperienza? Questioni Sette. Arte per eccellenza della parola Rimata, il cinema documen­ tario conforma il mondo al suo desiderio. Senza dubbio il cinema ha bisogno di personaggi (e di spettatori) nei quali qualcosa di un’uma­ nità reale o possibile si iscriva o si incarni *. Né compiacenza, né di‘ Gli esempi non mancar», mi bisogna dure in primo luogo Le Gwd Bk * e dd retto quasi tutta la produzione di Lue Bcsaoo. Azioni senza parole, figure che si allontanano da ogni dimensione unuu. £ Godard che rilevava come la qualità deplorevole dd suono adir camere portatili amatoriali - che rendevano i dialoghi poco comprensìbili - non sembrava essere un problemi per gli menti. ’ Alla censura morbida romite la confusione delle parole e il loro dirinvewmemo (*. ve­ da Foucauh, Sofveglurr e punire dt.) ri sostituisce senza dubbio, dal hto dello spettacolo, una ricusazione piu netta della parola il «no jpping» dice crudamente che non vale nem­ meno più la pena di parlare, che ciò non ha ptu alcuna importanza, eie non la più senso. N uova cernirà, mene morbida, più aqxx " Si captar bene come il grande cinema dasrico, da Munuu a Dreyer o Tod Bruvmng o Schoedsack e Cooper; ha trattato i mostri. Umanizzandoli - anche se solo un poco. Inver­ samente, ri vede la difficoltà che esiste per il cinema a rappresentare un uscita «umana * dal­ lo stanno di uomo. Li logica «umano-truppo-umano» dei campi di sterminio e sempre sta­ ta ndorza dal etnema (Ocbmdler't Usi non fa eccezione) a una variazione «fuori dalla norma»: follia, perversione, delirio - il che arrivava a riumanizxzrla come aberrazione piuttosto che come raxionalizzauoac, Ciò che il cinema noe può fare & Ornare un ucsno che non sarebbe umano: una volta filmato lo ritornerebbe.

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____________________________ Comodi. Vedere c potere____________________________

sprezzo. Faccio un po * fatica a immaginare un cinema che disprezzi quelli che filma o li voglia perdere. No, li vuole salvare, qualunque siano le loro debolezze e la loro assenza di qualità. L’uomo comune del cinema documentario - i pcrsonaggio/lo spettatore - sarebbe co­ sì spinto alla realizzazione di sé tramite dazione del film. Ciò inizie­ rebbe c si compirebbe nella relazione di un corpo c di una parola con la macchina cinematografica (l’iscrizione veridica). E si rigiocherebbe nel riconoscimento da pane dello spettatore della verità ai quesu re­ lazione. Mi domando se l’ambizione (poco didiiaiau) del documen­ tario non sarebbe, mentre filma questo uomo comune, di risubilire per lui e per noi l’idea, più che compromessa dalla spettacolarizza­ zione crescente, delle società umane, di una cena dignità dell’essere. Ipotesi (1995) Otto. Che si sia entrati nel tempo della parola vana, compulsiva, rabbiosa, richiesta senza dono, ripetizione meccanica di un indistinto rumore della bocca, Samuel Beckett l’aveva annunciato con L'ultimo nastro di Krapp (1958), Quest’ultimo nastro, inconsumabile, gira sem­ pre. Diffonde senza fine una parola inudibilc che non esigerebbe più il minimo ascolto. Angoscia. 1 mille miliardi di parole senza ascolto diventate il rumore del mon­ do, sono ormai amplificate c ridistribuite dalle televisioni. L'inesauri­ bile ultimo nastro a /oqp sui satelliti. Al che non ci sarebbe altra rispo­ sta se non quella di una sordità più grande pensiamo a BunueL Di­ ventare sordi - e dunque tacere: quesu è la scelta fatta a partire dagli anni settanu da un numero abbastanza grande di film: rarefazione del­ le parole, e a volte mutismo completo. I personaggi non dicono nien­ te, credono di non avere più né bsogno né desiderio di dire. L'agire prende il posto del parlare. Il passaggio all’atto squalifica la discussio­ ne. La pirotecnia delle deflagrazioni annulla qualsiasi speranza di co­ scienza politica. Una volu muti, sarete giocati. All'azione muta, divenuta quasi norma, vorrei opporre l’azione parlata. Forse non si è evidenziato a sufficienza che al cinema (come nella rappresentazione teatrale)" la parola è gesto, azione, movimento, iscrizione fisica, misura e ritmo. La parola fnrnau dà un effetto carna­ le al corpo filmato che la porta. Lo dispiega non soltanto nella sfera dei suoni (la grana della voce: effetto di realtà fondamentale) ma nella du­ rata. Dietro la sparizione delle parole: quella del tempo. Ogni parola si dà in una durata poco comprimibile, manipolabile, sfrondatile a pia'• Con l'unica differenza che l'anwe sulla scena teatrale porta un testo che non è U sua parola ma quella scritta da ur amore. Si veda oltre.

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La parola e l’aziooc-fimatc

cere; è sempre necessario qualche metro di pellicola per fare una di­ chiarazione d’amore o maledire il proprio nemico. Apparentemente docili, le immagini, da parte loro, sembrano prestarsi a ogni gioco di montaggio. Mentre i suoni, e ancora di più le paiole, resistono alle ac­ celerazioni, tradiscono i tagli e i traffici di forme o ritmi: più materiali insomnia delle immagini, meno disponibili, più selvagge, rumori e pa­ role sarebbero più dalla parte dei reale che del virtuale. La dittatura ddla velocità che affligge oggi la maggior parte dei montaggi (parlo del cinema commerciale) non vuole più saperne delle lentezze ddla paro­ la. Si ritiene che lo spettatore pensato dal mercato (per esempio la te­ levisione) non possa reggere inquadrature di più di dicci, dodici o quindici secondi. Disarticolazione di ogni potenza di enunciazione. Le parole diventano ostacoli al ritmo accelerato dei montaggi. Ecco per­ ché il cinema documentario - che è così poco inserito nel mercato - si offre il lusso di dispiegare le forme della parola, di lasciare che i corpi filmati siano presi nella rete del linguaggio Nove. Con il tempo è la storia die entra in gioco attraverso la paro­ la filmata. Se i personaggi del cinema documentano sono spesso in pre­ da all’imperiosa necessità di raccontare «pour la suite du monde» («per il resto del mondo», giovo di paiole cui titolo omonimo del film di Per­ rault, n.d.t], è perché sanno bene che saranno filmati una sola volta nel­ la vita e che quella volta per tutte offre loro l’occasione ma impone an che di impersonare il loro ruolo nella costruzione dei racconti del mon­ do. 1 nostri personaggi capiscono molto in fretta [e spesso più in fretta di noi) che si tratta per loro di provare, attraverso la parola che pren­ dono nei nostri film, qualcosa del loro destino o del loro posto nella storia di questi tempi * entrano a loro volta nel racconto degli inizi, del­ le metamorfosi c delle iniziazioni - il grande racconto del cinema, che racconta più o meno soltanto questo: come comincia, ricomincia, spa­ risce e rinasce, come si trasmette - cosa? La missione di essere uomo. Dica. La parola filmata nei documentati appare pi inut di lutto co­ me prova della libertà della persona filmata e della responsabilità che si prende scegliendo, con noi, di diventare personaggio di film. Noi non scriviamo i dialoghi di quelli che filmiamo: restano di competenza loro, sono il rischio che si prendono nell'alea del linguaggio. L’altro filmato e libero (e prima di tutto di rifiutare in ogni momento di continuare il suo ruolo e il film) c la sua libertà mi si oppone come una forza c un va­ lore più preziosi delle mie pretese. Faccio la scelta della libertà dell’al­ tro, c questo passa per la scelta di filmare la sua parola. Ciò che chiamo «icgia» è prima di tutu» la messa in ascolto di questa parola.

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Undici. Vedo nella rarefazione della parola praticata da unti film il segno di una diffidenza verso il rischio (la possibilità) di disseminazio­ ne portati da ogni linguaggio, come se le ambiguità, gli accordi e i di­ saccordi del linguaggio - polisemia e poliritmia - non potessero che fa­ re paura. Paura delunguaggio: paura di essere scisso o lacerato da es­ so, paura di questo non controllo del quale il linguaggio è il campo d’al­ lenamento quotidiana Esiliare il personaggio dalla parola equivale a installare una versione ridotta della soggettività. Ridotta ai gesti, alle azioni, ai corpi, il che non è poco; ma ridotta comunque come se non ci fosse più nello scontro del soggetto con gli altri e con il mondo che la dimensione del passaggio all'atto, con la conseguenza di sospendere o d’annullare quesu dimensione del pensiero [logos) che è attiva da pane sua, sia a fortiori che a posteriori. Si tratu di destituire il sogget­ to contemporaneo della sua complessa temporalità, dei suoi suu di crisi o di grazia, della fragilità stessa della sua energia (la libido non si limita al gesto, investe in egual modo la sfera verbale)? Si vuoi fare di noi gli oggetti del linguaggio dei padroni (divenuti di colpo padroni del linguaggio: diciamo i grandi gruppi che controllano i media)? Dodici Alla fine degli anni cinquanta, una mutazione lavora le rap­ presentazioni filmate, sia cinema che televisione. In Quebec Michel Brault, a Parigi Jean Rouch concorrono alla messa a punto di una ca­ mera 16 ram leggera che permette contemporaneamente le riprese «in strada» e la registrazione del suono «sincrona»1: L’Eclair-Coutant 16 mnr. riprende nella strade di Parigi per esempio Chrmiquc d'nn été (Rouch c Morin, 1960). Gli storici del cinema non hanno forse ben considerato quest’inno­ vazione tecnica; nasce una nuova categoria estetica', il corpo-parlatttefìlmato. Voglio dire: il corpo di un uomo qualunque (e non di un atto­ re professionista), filmato in un luogo qualunque (c non in studio), mentre enuncia ciò che bisogna ben definire come la sua parola (e non un dialogo scrino da un autore). Marceline Londan(alle Halles Baltard) è proprio Marceline Londan e non qualche attrice che la rappresenta; lei è al tempo stesso per­ sona della vita reale ed essere di cinema; ciò che dice solo lei può dirlo in quel luogo e in quel tempo (il qui e ora dell’iscrizione veridica)1*; e allo stesso modo in cui il suo corpo è il suo, la sua vita è la sua (il ta­ tuaggio di Auschwitz). In uno stesso istante filmico, convergono un corpo unico, una soggettività particolare, la parola intessuta da questo * Si vedi sopra. E si riconti il camion per il suono di Pagnol negli inni trenta. " Si veda Dancy. La Kairpt eie

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soggetto, il suo specifico attraversamento del linguaggio, il suo ritmo, respiro, desiderio, rapporto con la mone, la maniera in cui il aio cor­ po si mette in scena (entra in relazione con la camera ebe lo filma), e, infine la sua storia: il racconto da cui Marceline viene e che porta con sé, percorso singolare e irreversibile, che lascia dei segni interiori ed esteriori ben diversi da quelli di altre vite-racconti - tutto questo arti­ colato a un nome proprio. Identità e individualità spno così lavorale dal cinema documentario per diventare namtività ed espressività. Se il cinema è proprio come credo l'arte figurativa per eccellenza, ciò che viene da esso raffigurato nella sua versione documentaria è proprio questo insieme di curpifwggeUvparvla-itvria-idmtità - che sarebbe al tempo stesso l'impossibile del cinema detto «di finzione» e il cro­ giolo reale di ogni finzione. Tredici. Tutto il «cinema diretto» proviene da lì - e quasi tutto ciò che intendiamo per cinema documentario. Ma non soltanto: tutto o quasi del giornalismo audiovisivo procede da questa presa sincrona del suono e deH’immagine - del corpo e della sua parola. Le camere amatoriali (Hi8 ieri, mini-DV oggi) compiono un miliardo di volte l'ora il piccolo miracolo automatico della registrazione sincrona del­ l'immagine del corpo e della forma della parola di un individuo qua­ lunque in un punto qualunque del pianeta e in un idioma qualunque. Globalizzazione del sincrono. La spirale delle accelerazioni tecnolo­ giche e commerciali raffina e democratizza al tempo stesso gli stru­ menti di rappresentazione personali. La posta in palio era di fare del­ l’individuo qualunque - l'uomo della strada - l'eroe per eccellenza del cinema dell'individualismo, dell’affermazione dell'individuo co­ me punto estremo de «la» civiltà (occidentale). Filmare l’uomo della strada con il suo corpo c le sue parole era dimostrare alle masse spet­ tatrici che l'affermazione del culto dell’individuo non era opera del­ le sue sole rappresentazioni autorizzate', attori, animatori, uomini pulitici, icone diverse, star. Già i grandi film sonori americani (La si­ gnora del venerdì di Howard Hawks, 1940) sono dei panegirici del­ l'individuo, esaltato fino ai suoi tenutivi - comici - di contrassegna­ re la sua libertà in rapporto ai «suoi» altri. Ma era Cary Grant che impersonava l’uomo qualunque. E qualunque uomo non è Gary Grant Si sa che il neorealismo ha in parte ossessivamente voluto pas­ sare oltre l'impero delle star e degli attori andando a prendere qual­ cuno dei suoi corpi nelle strade, ma la parola di questi non era anco­ ra utilizzabile (si veda sopra). Ormai chiunque può (deve?) diventa­

re posta c soggetto della rappresentazione.

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Quattordici. Che cosa fa il documentario? Produrre l'individuo qualunque come corpo-parknte-filmato. Il che significa che, per il ci­ nema, non c'è soggetto se non in crisi. Messo a confronto con la prova delle riprese (di cui l’attore professionista sa e deve cancellare le trac * ce) la soggettività dell’uomo qualunque del documentario diventa un procedimento fragile c minacciato. La scena cinematografia oggettiva il rapporto dei corpi filmati con le parole che proferiscono, e questo rapporto è fatto di disriunzioni. Dalla parte del corpo filmato, lotta tra controllo e accessi pulsionaìi, tra coscienza di se c movimento invo­ lontario; dalla porte della parola filmata, tensione tra coscienza - voler dire, inrenzinnalirà, misura dell’espressione - e superamento, sia attra­ verso il pulsionale sia attraverso il linguaggio, risto che l’uno e l’altro sfuggono a ogni controllo del soggetto che parìa. Conseguenza? Il filmare documentario provoca (c dunque iscrive) un dubbio, un’inquietudine riguardo all’adeguatezza o alla pertinenza del corpo parlante e della sua parola. Attraverso il corpo c la parola che filmo, sono l’impensato, l’involontario, l’insaputo di ogmìno che si manifestano (senza parlare dei mici). Ecco perche la parola filmata nel documentario ha poche probabilità di rimanere a livello di rumore di fondo: l’inconscio vi lavora quanto il linguaggio, l’enunciazione e i’incamazione sono in essa ciò che afferma corpo e soggetto, e al tempo stesso ciò che li mette in crisi. Uno dei drammi che mi accade di fil­ mare (nella serie Marseille come, per esempio, in Jeux de roles a Carpentras o // caso Sofri) è proprio quello che confronta il soggetto che parla con la propria parola. Michel Samson o Jean-Claude Gaudin, il giudice Sylvie Mottes o lo storico Cario Ginzburg sono ben consape­ voli di essere filmati, sanno bene che si tratta di impegnarsi :l più pos­ sibile nelle parole che stanno per dire - ne va della loro responsabilità

politica - e tuttavia, per effetto dei filmare, sentono bene che la loro parola diventa una forza che si stacca da essi per passare nell’ascolto del film, e che a quel punto vengono detti dalle loro parole più di quanto le dicano, e messi in scena in quanto corpi dalla parola che enunciano. La prola filmata agisce sui corpi. U cinema propone di cre­ dere in una parola che agisce (2005).

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La città filmata

Cosa sono oggi le città per noi' che nelle città siamo nati e che ci Abi­ tiamo, che costituiscono il nostro orizzonte quotidiano, che le soppor­ tiamo più o meno bene, che tuttavia le facciamo e rifacciamo a ogni pas­ so, a ogni percorso? Non c’è dubbio: filmare le città significa conse­ gnarcene i misteri. La città che il cinema a fa conoscere è finzione più che spettacolo, è più vicina a quella del romanziere che non a quella del­ l’urbanista, dell’architetto, del sociologo o del dirigente politico: lo strumento cambia il dato. Il cinema non filma il mondo, lo altera in una rappresentazione che lo sfalsa. Questo - leggero - sfalsamento che chiamiamo «realismo» deriva, dunque, dall’imprcssioae di realtà; ma produce anche un’impressione di irrealtà: la città filmala assomiglia al­ la città del passaggio, tranne per il fatto che se ne distingue per una mag­ giore esaltazione. E noi siamo nel momento in cui le città reali preferi­ scono questa esaltazione, questa onegenù, e si mettono ad assomiglia­ re alla loro versione filmata. Trionfo dello spettacolo percepibile anche nel cambiamento delle scenografie quotidiane, sempre più conformi al­ la tipizzazione che il cinema ha proposto di esse, alla loro «immagine», come si dice, quella che i film hanno fissato. A forza di filmarle il cinema non soltanto rivela qualcosa del desti­ no cinematografico delle città (la genesi urbana del cinema), ma lo cambia: la città filmata ri sostituiscea poco a poco a qualsiasi città rea­ le, u piuttosto diventa 2 reale di ogni città. Come? Alla dimensione di labirinto spaziale che carattenzza le città del XIX secolo - quelle degli inizi del cinema: Parigi, New York, Londra, Berlino, Tokio - si è ag­ giunta una nuova dimensione, quella del tempo, dei tempi incrociati, piuttosto, dei labirinti temporali. Il luogo in cui ci si perde apre diret­ tamente sul «tempo perduto *, il tempo dell’oblio, del seppellimento, ' Pubblicato nd Catalogo dd Festival di Salonicco 2000.

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_____________________ Comolli. Vedere e potere_____________________ della rimozione, il tempo squarciato della memoria, il palinsesto delle tracce che si ricoprono c si cancellano l’uoa con l’altra, tracce al tempo stesso di un’iscrizione e di una cancellazione, tracce più o meno vicine a noi, ma che l’operazione cinematografica che le evoca coniuga tutte al presente: il nostro. Tracce? Sono le vite passate da B, i corpi, le parole, i racconti, tutto un groviglio di incontri tanto intensamente vissuti quanto rapidamen­ te perduti. Una volu filmata, la città diventa testo, ipertesto persino, raccolu al tempo stesso di tune le storie possibili nelle città e lessico di tune le parole scambiate. Città come corpus dei corpi e rete di segni. Serie di relazioni (nel duplice senso di collcgarc c riferire) che non so­ no tutte visibili: diciamo che il cinema ci mette a confronto con cièche di ogni città filmata non si riduce appunto alla sua dimensione visibi­ le, ed è prima di tuno in questo senso che l’approccio cinematografico diverge da quello dei poteri che tentano di controllare le città; il tem­ po della storia e quello dell’oblio sono presi in carico dal film ben pri­ ma degli spazi sui quali e delle visibilità tramite le quali si esercitano i controlli urbani In questo senso, la città del cinema è quella i cui mar­ gini resistono alla centralità dei poteri: basti citare i film di Fritz Lang, dal primo Mabuse all’ultimo, o ancora M, il mostro di Dusseldorf, al­ leanza deviante - c profetica - della città sotterranea dei mendicanti e delle mafie, della città invisibile dei cicchi con la città ipersorvegliata del controllo poliziesco. Paradosso? Il cinema privilegia la città in quanto è uno dei prin­ cipali modi di iscrizione dell’invisibile. L’invisibile, è ciò che esiste senza essere ancora reperibile, ciò che non è divenuto sguardo, che non è divenuto spettacolo; e, per esempio, ciò che passa, die è passa­ to, che non smette di passare, il tempo c il suo corteo di fantasmi, il flusso temporale che rende ogni città un intreccio di movimenti, il luo­ go di tutù i luoghi e il tempo di tutti i tempi: passaggio. La figura del passaggio (Walter Benjamin) è la metafora principale della dtù. pas­ saggio degli uomini, passaggio delle merci, passaggio dei desideri, pas­ saggio dd tempo. La atta è come un setaccio che trattiene alcune trac­ ce di questi passaggi del tempo, ed è anche ciò che fa la macchina ci­ nematografica, prelevare questi frammenti di durau che si chiamano «fotogrammi», inquadrati al tempo stesso nello spazio (campo/fuori campo) e nel tempo ( 1/24 di secondo), costruirne le tracce sensibili di un insieme più vasto c diffuso che non sarà mai rappresenuto in quan­ to tale. Il cinema è, prima d: tutto, meccanicistico: frammenta, coniu­

ga i frammenti che produce. In questo senso, nessuna rappresenuzio-

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La città filmata

ne cinematografica può essere il riflesso dei quadri del mondo che si presentano ai nostri occhi. La macchina cinepresa è passata da lì; co­ mincia con ('occultare la parte di visibile che non inquadra (fuori cam­ po), fon il ridurre e condensare, quindi, il mondo in alcune delie sue parti; e, con lo stesso gesto, ritaglia il tempo in frammenti di durata fis­ sa, tnducendo così i ritmi della vita naturale o della vita sociale in un altro registro ritmico, in un’altra cadenza, quella, ancora, della mac­ china cinepresa, che fa sfilare il nastro di pellicola a una certa velocità e lo segmenta in parti discontinue. Da un lato, censura di intere porzioni del mondo visibile (l’inqua­ dratura come mascherino); dall’altro, cesura di tutte le continuità sen­ sibili (la sezione fotogrammatica): con questi due meccanismi il cine­ ma avrebbe già uno stretto legame con l’invisibilità del mondo e, da lì, entrerebbe in risonanza con tutto ciò che le trame urbane filtrano, de­ pongono. passano e fanno passare. Ripetiamo che il cinema degli albori è terribilmente urbano: prima Lione, poi la Parigi dei Grands Boulevards. Sono dei pezzi di città che ci mostrano i primi film: Uscita dalla fabbrica a Lione, Arrivo di m treno alla stazione a La Ciotat E molto presto Parigi, i suoi passanti. I primi momenti della cinematografia urbana istituiscono una conni­ venza tra la registrazione filmica e la città del passaggio. ! fratelli Lu­ mière collocano la loro camera a un angolo di boulevard, piazza ddl’Opcra. Tutto il movimento della piazza percorre l’inquadratura: pas­ saggio sullo sfondo di tram, carriole, carrozze a cavalli; più vicino alla camera, altri corpi in movimento, fino a quelli, vicinissimi, dei passan­ ti, alcuni dei quali si fermano un istante per guardare la macchina di cui non sanno ancora davvero che li filma, ma indovinano che li sta fis­ sando. Tutti questi movimenti, umani o meccanici, entrano nel campo, attraversano l’inquadratura, escono dal campo. Detto in altri termini, questo passaggio ricorda allo spettatore che l’inquadratura è un ma­ scherino, che ciò che ci rivela del movimento della città, subito lo na­ sconde, con i corpi in movimento che oscillano tra il visibile e l'invisi­ bile (e viceversa). Questo gioco dei corpi con il fuori campo porta a un *entizzazione dei bordi dell’inquadratura: dentro/fuori, vicino/lontano, fisso/mobile, la città passante gioca a nascondino con la camera, al punto che si iscrivono attraverso questo gioco i segni di un desiderio ambivalente: di apparire, di scomparire. Per il fatto che registra durate e passag^, il cinema realizza una delle possibilità degli abitanti delle città: esibirsi e nascondersi allo stesso tempo, coniugate

la singolarità dei corpi e l’anonimato delle folle.

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È dunque la città come riserva di metamorfosi - passaggi, cam­ biamenti, trasformazioni: altrettanti segni del tempo — che appare molto presto nelle grandi finzioni urbane degli anni dieci e dei pri­ mi anni venti: i Fantòmas (1914), i Vampires (1915) ìJudex (1916-17) di Louis Feuillade, / ragni (1919) e il primo Mabttse di Fritz Lang. La città filmausi dispiega come un insieme di temporalità parallele, di storie sovrapposte. Il cinema sceglie di esaltare la città dei miste­ ri, dei complotti. Tempo, finzione, segreto, invisibile sono serena­ mente legati. Si pensi, nella letteratura dell’epoca, a) Paesano di Pa­ rigi di Louis Aragon (1925), a Nadja di André Breton (1928), en­ trambi influenzati dalla città di Feuillade. Minaccia c promessa al tempo stesso, la città filmata è un tavolo verde dove rotolano i dadi dell'incontro, buono o cattivo, della perdita e della vertigine (le fac­ ciate arrampicate, i tetti di Parigi), della prossimità del desiderio e del pericolo (Musidora, le donne vampiro, ingannevoli infermiere o suore...); la città filmata divenu molto presto quella della trasgres­

sione, che non è solo un motivo scenografico ma la forma stessa del­ l'iscrizione cinematografica, attraverso il doppio gioco dell'inqua­ dratura e del mascherino. Questa complicità di scrittura tra città c cinema produce, alla fine degli anni venti, un’esplosione di dichiarazioni d’amore alla città fil­ mata: Berlino, sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann ( 1927), L'mmo con la macchina da presa di Dziga Vertov( 1929), Dottro Fama flnvial di Manoel de Oliveira (1929) - altrettanti film m cui la cinema­ tografìa si impadronisce della cinematica urbana, la esalta, la intensifi­ ca, la esacerba. Anche La nuova Babilonia, di Kozincev e Trauberg (1929) e A propos de Nice, di Jean Vigo (1929), che non sono tanto canti d’amore quanto piuttosto di rabbia e di lotta, non possono far altro - per rivelarla - che accentuare la febbricitanza erotica della città, l’eccitazione del balletto dei corpi c dei passaggi, fino all’orgasmo, raf­ figurato in ognuno di questi film da un’esasperazione, un’ebbrezza del montaggio. Nascita della città-cinema. Il tumulto urbano diventa la fi­ gura privilegiata dell’emozione cinematografica. «Movimento di mo­ vimenti» (Gilles Deleuze), il cinema si impadronisce di tutto ciò che si anima e lo lavora come sua propria materia. È come se le folle anoni­ me che dilagavano nele strade di quelle città dovessero, una volta du­ plicate, ripetute, montate c precipitate nelle inquadrature di quei film, diventare assolutamente oggetti dei desiderio dello spettatore. Deside­ rio e masse? Molto in fretta (nella storia del cinema) la città filmata po­

ne questa equazione paradossale: come articolare la circolazione dei

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desideri - che suppone sempre, in un punto o nell’altro della catena, che si passi attraverso un soggetto — e la rappresentar ione delle folle moderne, visto che l’anonimato e i regolamenti urbani lasciano poco spazio all'iscrizione soggettiva? Evidentemente, è trasformando cine­ matograficamente la città e le sue folle in giochi di forme, lince, ritmi, ripetizioni, sincopi, che questi film tentano di stimolare lo spettatore: la pulsione scopca connessa al pulsare della città. L'operazione cine­ matografica - che insiste in modo ossessivo nel mettere in relazione i cui pi filnuu cun il suggcttu-spciuuurc - .cnia cusiaiittrinciitE, filman­ do la città anonima e massificata, di ricondurvi dei segni distintivi (Vertov); delle differenze, dunque, delle relazioni, ivi comprese quelle conflittuali (Oliveira); del coinvolgimento positivo come negativo (Vi­ go). Il cinema non si accontenta di generare la città come grande mac­ china desiderante, genera il suo rovescio, il suo versante nero, la sua maledizione: la paura delle città, le città delle paure. È sufficiente evo­

care alcuni film di F. W. Mumau, da Nosferatu (1921) ad Aurora (1927), passando per L’ultimo uomo (1924) per veder emergere i segni della perdizione urbana, peste, follia, alienazione miseria, perversio­ ne... nel momento stesso in cui, dall’altra parte dello schermo, la città viene esaltata come celebrazione moderna. Bisogna attendere abba­ stanza a lungo nella storia del cinema c nella storia tout court di que­ sto secolo perché il paradigma si modifichi: buona e/o cattiva, la città è sempre filmata come nevralgica. Bisogna attendere uno degli avveni­ menti estetici principali dei nostri tempi (non ho paura del termine «estetico» nel suo senso più responsabile), voglio parlare delle città ra­ se al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale: Dresda, Berlino, Hiroshima, ISagasaki, perché la relazione città/cinetna cambi radicalmente. Accade che la catastrofe sia divenuta spettacolo delia ca­ tastrofe; che, per la prima volu nella storia, queste città distrutte sono state filmate c che ne abbiamo visto delle immagini documentarie. A dicci anni di distanza, due film testimoniano della brutale mutazione che. nell’ùnmediau reazione a quello scatenamento di forze distruttri­ ci. colpisce il vedere e il sentire, mina la possibilità stessa di filmare, so­ spende qualsiasi relazione: Germania anno zero di Roberto Rossellini (1948) e Hiroshima, mon amour di Alain Resnais (1959). La città fil­ mata è la città distrutta. Come ricostruire non tanto la città, ma la po­ sizione dello spetutore di fronte, o piuttosto nel centro stesso di que­ su distruzione? La città in rovina è certo una scenografia piu fantasti­ ca della città ricostruita negli studtos che caratterizza il cinema ante­

guerra, ma il legame si è reciso c il cinema non può fare a meno di nict-

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cere a confronto l’impotenza degli nomini con l’indifferenza delle ro­ vine. Il cinema constata che la città è diventata l’opposto di una mac­ china desiderante, una macchina indifferente: come potrebbero i film non testimoniare lo stesso disagio che prova il cinema nel filmare l'in­ differenza? Fredda, scissa, bloccata, reticente, rinchiusa nel rifiuto, fuori dal senso c dallo slancio, è cosi che si ritrova filmata la Milano di Europa il (Rossellini) cosi come quella di La notte (Michelangelo An­ tonioni, 1%1); caotiche e freddissime, radicalmente indifferenti, estra­ nee a rutto, è così che si ritrovano filmate le periferie delle città in L’a­ mour existt (Maurice Pialat, 1961) come in Accattone (Pier Paolo Pa­ solini. 1961). A partire dalla cesura principale di questo secolo (i cam­ pi di sterminio nazisti), il cinema tenta disperatamente di modificare ciò che gli è impossibile accettare: la neutralità atroce di ogni cosa. L'indifferenza o il disprezzo dell’uomo per sé, per gli altri uomini, o per il mondo: ecco cosa si tratta ormai di filmare. La città è partecipe di questa sconfìtta, e il cinema, che non può farci granché, dispiega te­ sori di regia per arrivare a rendere tutu questa indifferenza non indif­ ferente allo spettatore. Sintomo: l’attuale posizione della pubblicità nelle città rivela la nor­ malizzazione del desiderio, il suo inquadramento. Non c’è più fuori­ campo: tutto lo spazio e tutto il tempo sono occupati da immagini di marca. Come filmare le strade senza filmare le pubblicità, cosa fare della saturazione del paesaggio urbano da parte della pubblicità? Il ci­ nema non ha più una storia d'amore con la città. Ci vorrebbe un desi­ derio libero da ugni markctii^. Moderna utopia. «Fine della città, an­ che della città moderna, come spazio determinato, qualitativo, come sintesi originale di una società» (Jean Baudrillard). Di fronte alla città dominante oggi, quella dei pubblicitari, dei turisti, della sorveglianza generalizzata, non resterebbe al cinema che ritrovare la città del gaerillero come l’ha girate Robert Kramer (Ice, 1970): la città che sfugge allo spettacolo, che si disvela all’improwiso, la città mentale. Il con­ trario delle visioni dominanti dall’alto dei poteri. Direi che queste città invisibile è quella del cinema documentano, la città che rimane in di­ sparte, ai margini dell’inquadratura, che non si conscpia agli sguardi, che ri sottrae alla ripresa. Marsiglia, se volete.

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Pane seconda Saggi su film e cineasti

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L’uomo essenziale: L’uomo di Aron di Robert Flaherty

Uno. L'uomo di Aron risale a) 1954’. Sono necessari due ami per gi­ rare il film e montarlo. A parte il fatto che qui il montaggio non segue le riprese, le accompagna e - di fatto - le precede, le guida1. Girare, mon­ tare, girare Questo posizionamento centrale del montaggio, nel mezzo delle riprese, fa de L'uomo di Aron un’esperienza limite nella storia del cinema. Tutte le riprese sono, a loro modo, un’avventura, tanto più che le riprese documentarie si fanno (come regola generale) fuori dt^li stu­

di, in condizioni di vitae di lavoro a volte difficili. C’è il tema romanti­ co delle riprese come una serie di prove da superare, dalle quali il film trarrebbe pane della sua forza o della »ua bellezza.» Questo c evidente­ mente il caso de L’womo di Aran: isolamento, stato di tempesta perma­ nente in queste isole in capo al mondo, c’è tutto.. Tranne che lo scate­ narsi delle onde e del vento, qui, non è nulla rispetto a quello che solle­ va il film. Una tempesta in pellicola. Una rabbia di cinema. Flaherty sperimenta in L’uomo di Aron un nuovo modo di fare un film. Girare, visionare, montare, rigirare. Servirsi del montaggio come programma per le riprese. Mondo alla rovescia. Ingresso in una di­ mensione magica. La logica onirica del cinema sostituisce quella del mondo normale Come? Girare dopo aver montato, scrivere dopo aver girato, fare, disfare e rifare senza fine? Strana pratica «documentaristica *, strano «documentarista». Perché questo film è costruito pezzo per pezzo, provato, messo a punto, assestato, fatto su misura. Non si abbia paura della parola: è messo in scena nel modo più minuzioso. Lo è tanto di più in quanto questa regia, l’ho detto, si adatta e si misura sulle prove di verità effet' Pubblica© in • Images dxumcnuùrs *. 1995» 20, ’Sull'avventura di queste riprese e del moataggio. rinvio a G. Ddaraud - P. Baudry Ls mase m urne doorninuairr. ftokert Fldbtrty Llwnmt^ArM rr le Jocumcntiurf, e alla no­ tevole analisi Rimata che hanno fatto de L'nomo di Ar *n. Testi c cassetta Vhs pabblicati dal ministero dcla Cultura c da quello ddl'Educazionc nazionJe (collana -Magie Image *. «Analyse titaique *» 1995),

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tuaie dal montaggio. Come è stato possibile tutto ciò? Le isole di Aran non vino Hollywood. Due. Flaherty inizia in effetti con l'installare un vero e proprio stu­ dio nella casa che affìtta su una delle isole. Un laboratorio con una macchina per sviluppare, bacinelle, una stampatrice per poter trattare quotidianamente il girato. Una sala di proiezione per visionarlo tutte le sere. Una sala di montaggio, soprattutto, per poterlo montare, pri­ ma lui stesso, poi un montatore che sistema lì per dicci, dodici, quin­ dici mesi— Più Flaherty gira, più monta. Più monta, più vuole girare ancora... A work in progress: ciò che viene girato di giorno, sviluppato alla sera, visionato di notte, montato nei giorni successivi diventa lo schizzo o l'approccio o il programma - la sceneggiatura - di ciò che sarà girato l’indomani ecc. Prove, errori, correzioni, altre prove. Una pratica empirica, che rivela una sfida instancabile a ciò che viene ripre­ so, una fiducia che si (onda solo sul montato. Tre. Perché? Rimandiamo per un momento la risposta. Se Flaherty non si fida senza ulteriori esami di ciò che vede, di ciò che sa, c nem­ meno di ciò che fa (nel senso di girare), se la realtà che gli si presenta sembra non essergli sufficiente e non garantire nulla, se solo il girato o i pezzi montati parlano al cineasta, è perché, per lui, il cinema viene per prima cosa, perché ogni realtà vissuta cede il passo alla realtà filmata. Arieggiamento interessante. Ma strano ir colui che passa non soltanto per aver fondato (Naaook l'eschimese, 1922) il cinema documentario, ma per essere stato il cineasta-profeta di una contemplazione del mon­ do. Ecco un contemplativo che si dà non poco da fare per costruire ciò che si dovrebbe vedere, per elaborare l'ipotesi che ci sarebbe alla fine qualche cosa da vedere... Quattro. La risposta è (naturalmente) da cercare nel montaggio. Cosa succede per Flaherty al lumucnio del montaggio? Cos’c che si scopre in quel momento che le riprese sicuramente non avevano la­ sciato percepire? Quale certezza vi ci manifesta con indiscutibile evi­ denza? Qui è l'enigma: montare è ritornare e ritornare ancora sui luo­ ghi del delitto, cioè dell'atto primario, fondatore, quello della registra­ zione, dell’iscrizione veridica; è rendere reversibile ciò che sembrava irreversibilmente registrato, sostituire al qui e ora delle riprese un al­ trove, un'altra volta. Il film porta a una metamorfosi del mondo, lo di­ sloca, lo jtopizza. li montaggio non si limita a rivelare questa plasti­ cità del mondo: la costruisce pazientemente. L’uomo di Aran è uno dei film più montati della storia del cinema.

Per il numero delle inquadrature, la loro brevità (alcune sono compo-

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----------------- L'uomc essenziale: L'tomo di Arm di Robert Flaherty ste da pochi fotogrammi), per il ricorso sistematico al montaggio al­ ternato di azioni parallele, per la frammentazione dei gesti (l’uomo che solleva una pietra e la lancia), come per la moltiplicazione delle ango­ lature di ripresa (la pesca allo squalo, la tempesta finale). Un cinema d’azione, ma dall’azione spezzata, sbriciolata. Poi ricostituiti filmica­ mente a partire da questi dispersione primaria (il girato). Incollata, as­ semblata, composta a partire da questi frammenti di tempo e spazio che le riprese hanno generato. Uno stesso gesto filmato darre, quattro, cinque diverse posizioni della camera, angolature, grandezze, distanze diverse. Uno stesso insieme narrativo (la pesca), filmato in parecchi mesi, in diversi luoghi c con diverse luci, con barche, squali e pescato­ ri, gli stessi, diversi, e ricostruito al montaggio come azione unica e continua. Una tempesta fatta di cento pezzi di tempesta registrati in cento momenti diversi. Inquietudine e accanimento dello sguardo, al­ l’opposto, ancora una volta, di qualsiasi posizione contemplativa. Lo sguardo, in Flaherty, si fabbrica metro di pellicola dopo metro. Nien­ te è acquisito, nino è effetto. CmqNe. Niente è acquisito: bisogna filmare per vedere (Godard). Montare per vedere. Prima, in mancanza dell’atto cinematografico, niente di veramente visibile, si è fuori dallo sguardo. Il visibile, come lo sguardo, non è un dato ma un prodotto. Questione del cinema. Lezione del girato. È proprio perché c’è una differenza manifesti tra ciò che vede inquadrando e filmando (Flaherty in questo film tiene lui la camera) e ciò che vede, una volta sviluppato il girato, nella sua sala di proiezione, poi sullo schermo della sua moviola, che il cinea­ sti qui è spinto da un'irresistibile necessità, di vedere e rivedere ciò che ha filmato, come sola prova dell’esistenza e della potenza degli esseri e delle cose. C’è una differenza tra ciò che il cineasti o l’operatore vedono e ciò che è filmato. Questa differenza viene detta cinema. Essa attiene al fatto (incliminabilc) che la macchina cinematografica registra nel suo modo specifico la scena che le si svolge davanti. Iscrizione veri­ dica: ri vuole una macchina da presa (voglio dire tutta l’apparecchia * tura connessa, pellicola compresa) e uno o più corpi, una o più cose, una. o più luci, perché ci sia registrazione. Ma questa registrazione è una traduzione del mondo dell’esperienza sensibile nel linguaggio ci una macchina. Primo scarto: la cinepresa sostituisce uno sguardo monoculare allo sguardo binoculare che ci è proprio. Questo occhio unico dell’obiettivo, che in più non è regolato come il nostro, obbe­

disce die leggi dcB’uttica in mudo ben più rigido (è una macchina).

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_____________________ Comolli, Vedere e potere_____________________ Secondo e importante scarto: questo sguardo ciclopico è incornicia­ to. L’inquadratjra limita evidentemente il campo virivn. Fabbrica un in e un off, articolazione fondamentale del cinema (più che della fo­ tografia, anch’essa incorniciata, a causa delia registrazione del movi­ mento che drammatizza l'inquadratura). Dà accesso così a una scrit­ tura del visibile e dell’invisibile. Infine, terzo scarto, il meno percet­ tibile, il più denegato, la registrazione non solo è discontinua ma re­ golarmente misurata: ventiquattro o venticinque fotogrammi al se­ condo. Ogni cosa filmata passa per un scuuaìu di spazio, tempo e misura che la trasforma. Se Flaherty passa più tempo a vedere ciò che succede sula sua mo­ viola che sulle falesie o le spiagge dell’isola è proprio perché la mac­ china cinematografica, trasformando cor. il suo filtro la realtà osserva­ ta, la rivela in una dimensione nuova, ne fa apparire una verità che non si manifesterebbe senza questo filtro e che, d'altronde, può essere de­ ludente quanto esaltante. Chiamiamo «cinegenia» il modo in cui la macchina si appropria e fa suo, rimodeUa, ridisegna ogni elemento di cui si impadronisce, corpo, volto o cosa. Questa nuova dimensione conferita all’essere o alla cosa filmata è prima di tutto confessione che c’è stato uno sguar do su questo essere o su questa cosa. Il cinema iscrive in ciò che fil­ ma l'idea, il codice, l’aura dello sguardo. Sguardo che deve essere un po’ meno umano (la macchina) perché io possa vederlo, perché sia notato. Passando per il cinema, il mondo diventa sguardo sul mon­

da Mondo come sguardo. Sei. Sguardo = relazione - posizione dello spettatore nella rappre­ sentazione. Questa relazione è quindi pnma di tutta al cinema, quel­ la che uno sguardo umano (lo spettatore) intrattiene con una macchi­ na Con quello che una macchina fa dello sguardo umano: un’altra co­ sa, qualche cosa di mente affatto umano. Sempre di più le macchine fabbricano sguardo al nostro posto, noi glielo deleghiamo, desiderio mo che rendano il nostro sguardo altro, desideriamo che il nostro sguardo ci ritorni in modo diverso da quello che passa da soggetto a soggetto: le macchine riescono molto bene in questo, a rinviarci alla parte non umana dell'uomo^ lo fanno d’altronde sempre meglio con la produzione di immagini computerizzate. Il cinema di Flaherty non è «contemplativo» proprio perché agi­ sce sullo sguardo. Nulla succede ne L'uomo di Aran in assenza dello sguardo di uno o dell'altro dei suoi personaggi, e principalmente di quello del bambino {messa in scena dello sguardo dell'infanzia che

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L’uomo essenziale L'uomo ii Ann di Robert Flaicrty emerge con grande evidenza in Louisiana Story). Quei personaggi, quel bambino, sono sempre «isti in azione, i loro sguardi, gli uni ver­ so gli altri, sono sempre legati alle azioni pressanti che li coinvolgono, esse stesse legate alla sopravvivenza della famiglia e del gruppo. Sono sguardi drammatici, e il montaggio alternato che continua a pone questi personaggi e questi sguardi sempre in una relazione di in­ terdipendenza (montaggio ereditato da Griffith) accentua sistematicaniente il motivo del film, quello del confronto, cioè del montaggio, col cielo, il mare, la terra, con i pericoli - tempeste, squali Messi insieme e confrontati. Montati. Il montaggio è ciò che collega, opponendoli, gli esseri ridotti al ge­ sto e allo sguardo con le forze elementari. L'insistenza di una fram­ mentazione indica qui l’unità divisa-resistente dell’essere. Le inqua­ drature, gli assi, le luci, i frammenti della pesca allo squalo sono così numerosi, serrati, accaniti, solo per esaltare questa dimensione dell'es­ sere (uomini, animali, elementi) che, nel cine-pensiero di Flaherty, non si realizza che ncU’azione. Questa esaltazione è opera del montaggio, t come una vittoria sul tempo. Le cose sono spossessate del loro tem­ po attraverso la velocità propria del cinema. Ftalici ty si serve del cinema per mettere in dubbio ciò che del mondo siamo portati a supporre ci sia già. Esaltare cinematografica­ mente il gesto, per esempio, equivale a non essere soddisfatti dalla sua esistenza non esaltata. Moltiplicare le inquadrature, i tagli al loro interno, i raccordi, gli assi, le focali, i punti di vista, equivale nel dub­ bio ad assicurarsi dell'esistenza delle cose, moltiplicando i modi di filmarle. Poca fede nella solidità del mondo. Ma grande fiducia nel potere del cinema, capace di riattaccare e far brillare i frammenti sparsi di un mondo spezzato. Cosa ci racconta il film? Prima dello sguardo, prima dei cinema, il mondo è intero, massiccio, compatto, intangibile. Le cose esistono, chiuse nel loro essere. Di fronte ad esse, gli uomini non sarebbero nulla se non fossero esseri di relazione (di linguaggio). La loro so­ pravvivenza, la loro esistenza è legata alle relazioni die sono capaci di mantenere con il vento, la terra, la roccia, il mare, i pesci, le alghe...

e con loro stessi. Conviene fabbricare tanto il linguaggio quanto lo sguardo per affrontare le prove che necessariamente mettono in gio­ co (preste relazioni. È per questo che il cinema inizia col frammenta­ re il mondo, spezzarlo, ridurlo in pezzi. Metterlo in dubbio, cioè in scena. Briciole messe in relazione dallo sguardo. Il montaggio rimet­ terà insieme i pezzi. Alla fine del film, dopo la tempesta, gli sguardi

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Filmati in primo piano dell’uomo, della donna e del bambino ci dico­ no non soltanto che qui (al cinema) gli uomini hanno tenuto testa al mondo, ma che ne fanno pane.

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VEDERE E POTERE

L’avvenire dell’uomo? Su L'uomo con la macchina dapresa di Dziga Vertov

Una giovane donna apre eli occhi... Novità di L'uomo con la macchi­ na da presa ( 1929). In questo film sono sempre presenti una carica, un'as­ sunzione di desiderio, un’eccitazione che k> tengono in movimento1. Una giovane donna è distesa, senza dubbio dorme una strana an­ golazione dell’inquadratura ci priva del suo volto, prima vediamo so­ lo un braccio, posato sul bordo del lenzuolo; la camicia che le copre il busto, la mano. Si è mossa? Adesso un poco del corpo è scoperto, la schiena, l’anca, i capelli, il braccio illanguidito sopra di essi: inqua­ dratura violenta che punta in mezzo alla fronte, tagliando via gli oc­ chi. Questa stessa inquadratura ritorna successivamente, dopo una se­ rie di scorci della città addormentata, auto, manichini, strade, palazzi, che sospende per un istante lo sguardo di una coppia sulla locandina di un film, intimando silenzio allo spettatore, come per proteggere questo sonno; più alcuni elementi fallici, un idrante stradale, una bot­ tiglia pubblicitaria... Quando l’inquadratura della ragazza dal braccio abbandonato riappare, l’uomo con la macchina da presa ha iniziato la sua traversata del mondo. Come in un sogno (un incubo a lieto fine), è inginocchia­ to su dei binari, filma il treno che gii piomba addosso; aU’ulùmo se­ condo si sposta: ri vede solo il suo piede bloccato sulle rotaie; gran tur­ binio di immagini, inquadrature inclinate che mescolano pezzi di va­ goni in corsa con il volto del cameraman. Nel mezzo di questo breve caos, montato come la collisione tra due mondi, ritorna l’inquadratu­ ra decentrata della giovane donna: il viso sempre invisibile, proibito. * Pubblicato in «"rafie», 1995,15. Qui vengono ripresi i temi della conferenza tenuta in chiusura della manifeitazionc del Crac di Valence, «! sopralluoghi anomo a fwomo am la tnmobma de presa», rei novembre 1994 su invito di Fnncoise Calvez. Furono proiettati cir­ ca venticinque film, di Vertm a Vigo e da Rouch a PeJechian. Vorrei, d altra pane, rimanda­ re all'antologia di sentii di Dteiea Vertov curata c corrmcntau da A. Mickdsoo, Kmo Eye, Unhcnity ot California Presi, Berkrky 1984 (trad. it. L'occhio detta itrùti dal 1*22*1 1942. Mazzetta. Milano 1V75J.

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Comolli, Vedere c potere-----------------------------------------------

Ncll’istanu in cui il treno attraversa il campo, lei muove la testa; Tin * ridente onirico la risveglia: rapidamente, sposta le lenzuola e si alea, il viso fuori campo. Più tardi la giovane è seduta sul bordo del letto, infila le calze, si alza per allacciarle: non ha ancora un volto. L’inquadratura isola sa­ pientemente i suoi gesti e le pani del corpo che mette in azione: le gambe, il ginocchio, la coscia, per erotizzarle. Poi è in piedi filma» di schiena, di taglio; la schiena è nuda; si infila le spalline di un reggise­ ne, c'è un raccordo nel movimento con un'inquadratura più stretta per mostrare le sue mani che allacciano il pizzo bianco sulla pelle nu­ da Con inquadrature larghe o strette, il film vi ritorna, come se la re­ gia e il montaggio volessero farci percepire la parte d’erotismo legata alla notte del sogno, {.’ossessione feticista dd gesto, della pelle, del corpo, è qui tanto più flagrante, in quanto non si vede mai il viso del­ la giovane. Si tratta certo di un risveglio, ma che potrebbe, una volu fattosi giorno c cacciato il sonno, mantenere vivo il desiderio nottur­ no, quello degli occhi chiusi. Nello stesso momento in cui l'uomo con Dziga Venov__ realizzano e le fusioni si producono. Cinema come macchina del de­ siderio. Il «programma» di L'uomo con la macchina da presa non è so­ lo di farla finita con un mondo senza cinema, ma con an mondo sen­ za desiderio. Erotica dd cinema *. Pelechian. Evidenziata e rivendicata dallo stesso Pelechian, la prossimità del suo cinema con quello di Venov è solo apparente. Tut­ tavia, come Venov, Pelechian mette in azione quel montaggio para­ dossale che annulla, a forza di salti c di ripetizioni, la resistenza fisica dei corpi (Le stagioni), che sembra, in questa stessa logica di virtualizzazione delle materie, svuotare le inquadrature stesse della pane ri­ gida della loro sostanza. Come lui, ancora gioca su ralenti, accelera­ zioni, scatti e tagli nell’inquadratura per sostituire un tempo sognato al tempo vissuto, una durata clastica c reversibile alla durata materia­ le dei movimenti reali (Il nostro secolo). Come lui, infine, abolisce cormgraficamenre la pesantezza dei corpi. Montaggio come danza in­ torno alle figure (cristiane) dell’immersione, della caduta, ddl’ascensione. Movimenti primari rea leggeri a forza di insistervi, corpi resi impalpabili, elementi divenuti irreali per fusione-confusione (l’acqua, l’aria, la luce, il fumo, il mare, la polvere, la neve..). Montaggio come reiterazione: lo slancio, il richiudersi, il ritorno, la risacca trasfigura­ no lo sforzo degli uomini, la fatica dei corpi, trasformano la sofferen­ za in lapinicnu>, la smorfia in estasi. Questa grazia, dunque, tocca an­ che le macchine, per annullare e rendere innocente la mortificazione della quale sono portatrici (e tanto più in quanto sono spesso mac­ chine di morte, aerei, razzi...). Come quella di Vertov, quindi, la cinematografia di Pelechian si vuole genesi, creazione di un mondo nuovo attraverso il gesto cine­ matografico. Ma l’uomo nuovo di Venov, umano, troppo umano, non è il neonato di Pelechian", ma ne è anzi il contrario, è una co­ scienza che scopre i propri limiti, invece di postularne il superamen­ to nel fulgore di una creazione divina, è soggetto e nient'affano crea­ tura. Anche se tutti e due giocano sul montaggio come potenzia­ mento ed esaltazione di ciò che è vivo, Vertov, lo riconfermo, rac­ corda l’eccitazione pulsionalc scopica all'accecamento, alla perdita di * l segni à questi mutui crocizzaxione dell’occhio c della macchina da presa sono nu­ mero*, fino ad arrivare alla schiuma spcrmaticache sprizza dalk botù^fie di birra proprio ai mirgim drll'owhio femminile in un manifesto cinematografico (dagli inizi). ’■ Nascita direttamente filmata nd recente doppio film di Artavazd Pelechian,

KoJia/tnn* Fn/Va

(1992-931 Le vibrazioni di un treno» rafforzale da nprc* fané con hingk* forali, mrtafnn77ann il viaggisi drill vta come tremore dell'essere. con le contri­ zioni del pano che prolungano e risolvono quelle della ferrovia.

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vista, alla saturazione dello sguardo, e, dunque, alla sua critica; è un’eròtica dello sguardo rivolto su di se fino all’esaurimento, un’e­ stenuazione amorosa, corpi sfalsati alle prese con macchine domi­ nanti. Pelechian raccorda lo «carro pigionale allo stordimento, alla trance, all'estasi, ma procede per riempimento, trasporta per accu­ mulazione, lo spettatore è un ricettacolo, un vaso dove tutto si de­ posita, fino a precipitare d’un tratto nell’immaterialità del passaggio all’atto di fede. Tremori, da entrambe le parti. Mentalizzazione della fisica dei corpi. Immaterializzazione della materia filmica. Per entra­ re, con Vertov, in una catena di metamorfosi che collocano al centro dell’uomo nuovo la dimensione etilica, la crisi del soggetto. Per su­ perare, con Pelechian, ogni figura individuale in una trasfigurazione che non lascia all’uomo che la scelta del divino. Peritoli dell’alleanza. Proprio mentre celebra l’incontro fondante tra la macchina cinematografica e il soggetto spettatore. L’uomo con la macchina da presa ci avverte già dei pencoli insiti nell’alleanza. Spingendo la macchina dalla parte della prestazione e l’uomo dalla parte dell’imperfezione, il film suppone, se non un controllo, qual­ cosa come una guida, un miglioramento o anche una realizzazione del secondo tramite la prima. Ci sarebbe nella macchina la risorsa di un pensiero più lucido, una maggior finezza di calcolo, come un’a­ poteosi di razionalità, che verrebbe a correggere il corpo umano (a partire dall’occhio) dai suoi difetti e goffaggini, a liberarlo dalle sue pesantezze, a cancellare le tracce delle prove vissute, come per dargli un nuovo slancio, salvarlo attraverso una nuova nascita. Se, per Ver­ tov, è la macchina che regola il godimento dell'occhio, siamo così lontani da quelle nuove macchine che combinano eccitazione senso­ riale e realtà virtuale? Sbarazzarsi della materialità delle cose e della corporeità dei corpi, possedere il mondo e goderne senza portarne il fardello, metterne in scena lo spettacolo al di là di ugni ingombro, disporre delle immagini come docili apparizioni sempre slegate dalle cose che rappresentano, ecco ciò che per molto tempo è «tato il ruolo degli dei, il potere loro riservato, che era accessibile agli uomini soltanto in sogno. Fin dalla sua nascita, il cinema sembra impadronirsi di questo sogno per realiz­ zarlo. Ma, relativa delusione, può farlo solo nel modo più materiale e più concreto possibile, al contrario di ogni magia, in una meccanica di ruote c di metallo. Il mondo diventa sì miraggio su uno schermo, ma questo miraggio si fa percepire come un prodotto le cui condizioni materiali di produzione mi sono ricordate a ogni proiezione. La mate-

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__ L'awenirr dell’uomo? Su L’uomo con la maabma da finta di Dzigi Vcrto»__ risiila della proiezione cinematografica rena il pegno che ogni spetta­ tore deve pagare per la sua fiducia nel miraggio. Corpo- frontiera. Ma la materialità della macchina, soprattutto, ha sempre bisogno della corporeità dei corpi. Il corpo filmato è il pila­ stro del cinema. Il suo principio di realtà. A partire dai primi firn (penso al venoviano Rtpas de bébé dei fratelli Lamière), la camera in­ treccia con il corpo filmato una relazione complessa, in parte conscia, in pane no, in parte pensabile, in parte no. Come sedurre una mac­ china? Quella macchina? Come esserne sedotti? Questioni limite del soggetto filmato. Ciò che viene registrato sul nastro filmico non è che la verità, tutu la verità pressante di quesu relazione, ogni corpo con il suo dosaggio singolare di seduzione, di ritrosia, di artificio, di sin­ cerità, di falsità, di auto rappresentazione": l’insieme di questi tratti passati al filtro della macchina, ritradotti nel suo linguaggio, c, così,

ancora, rimaterializzati, concretizzati, cioè, rispetto a una norma ci­ bernetica, appesantiti, rallentati. Nell’intensificazione dello spettacolo, che non è più il cinema ma ciò che è fuori da esso, la tentazione è di accelerare la materia e il cor­ po. Informatizzata, virtualizzata, la materia sparisce, almeno per quel­ la pone di sé renitente ad essere soltanto la somma dei propri attribu­ ti: basterebbe proiettare questo o quell’elemento del suo spettro ai sen­ si coinvolti per ritrovarne il colore, la forma, la struttura, il gusto, l'o­ dore. Soppressione dei legami, economia delle relazioni tra gli attribu­ ti,, perdita di tutto quel sistema intermedio che è proprio il non-riassumibile e il non-comunicabile delle cose e degli esseri. Stessa tendenza a una sparizione del corpo in quanto insieme sfocato, rete labirintica di legami e relazioni, palinsesto di iscrizioni e di reazioni poco con­ trollabili, fino alla sua sostituzione con serie circoscritte di placche sensibili specializzate o di organi staccati. Ciò che resiste comunque dalla pane del cinema, è Vimmagùu del corpo, in quanto resu irrevo­ cabilmente legata alla globalità e alia ampliati del corpo, l'immagi­ ne cinematografica del corpo continua a riunire dei tratti (lo spesso, l’opaco, lo stratificato, l’errante, l’incontrollato...) che richiamano al tempo stesso la parte incarnata c la parte impcnsau del corpo, tracce di vita, tracce di esperienza vissuta - c’è un momento magnifico in L'uomo con la macchina da presa, nel quale nel quale a Vertov non re­ su altro che filmare corpi, tutti i corpi, gli uni rotto gli sguardi degli altri (i bagnanti, gli atleti). Ogni rappresentazione del corpo ci rinvia “ L'etcnroio mirabile di cpcita distribuzione soggettiva dela relazione corpo-ànep *era è fornica da Cntx dt cbnr croi» di Sadn Guttry ( 1914),

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alla sua presenza, alla sua unità, alle sue pieghe. E a fortiori l'immagi­ ne fìlmica, la più realistica. Se la scena cinematografica è una macchina per intrappolare il rea­ le - l’improvviso vertoviano, ogni sorta di inciampo o di impurità - ciò accade perché fa apparire e fa durare congiuntamente (durata che spe­ rimento nel mio corpo di spettatore) una macchina, e, dunque, uno o più corpi filmati. Questo incontro crea una mescolanza necessaria­ mente aleatoria di due insiemi parzialmente impensati. La zona di ri­ vestimento delCimpensato meccanicistico (dalla pane dell’ideologia che trascina le tecniche) e dell’impensato corporale (dalla pane dell'in­ conscie) è la breccia in cui precipita ogni calcolo. L’uomo venoviano ha bisogno delia macchina da presa per affer­ mare il suo controllo sul mondo. Ma di una macchina da presa che filma (ancora) rumano nell’uomo. Non è forse questa dimensione umana della relazione uomo-macchina che sta per allontanarsi, can­ cellarsi, forse, nel passo a Ranco che ci fa scivolare oggi al di fuori del cinema? Si fa strada un turbamento. E una crisi - nei processi di iden­ tificazione che innescano la posizione dello spettatore, legata - mi sembra, alla messa in causa di quella (antica) necessità di rappresen­ tare il corpo amano. Quale corpo? Semplificato? Articolato? Plasti­ ficato? Corpo in eccesso? Questioni di macchina, in effetti Annun­ ciata ddla camera vertoviana, li prevalenza della macchina (questa volta nel senso recente delle macchine informatiche e di comunica­ zione di informazioni digitalizzate) sembra non conoscere più altra frontiera che ciò che, del corpo, si ostina a non piegarsi al virtuale. Il corpo, lo si sa, resiste. L’inconscio produce strappi nel tappeto ver­ de. Ritorno del morivo deH'improwiso. Exit la scena. Nei dispositivi che succedono alla scena cinemato­ grafica svincolandosi insieme da ciò che i vecchi sistemi di rappresen­ tazione esprimevano in essa, nell’ambito di questo nuovo dato della mcdiacizzazionc dclc masse, l’uomo c la macchina da presa non devo­ no più incontrarsi realmente. Apparato immaginario di sintesi, stimo­ lazione sensoriale, scena virtuale, presentano il tratto comune di non avere più a che fare con l’iscrizione veridica. Non essendo più neces­ saria la compresenza di una macchina da presa c di un corpo, questo movimento che prolunga l'antico sogno di delegare il corpo (la vita) al­ la macchina, si avvia a sbarazzarsi delle costrizione legate alla scena materiale, rigidità, lentezze, pesantezze. La scena virtuale va così im­ materialmente veloce, realizza così bene il sogno, annulla così bene la

materia, l’cstcnsiviic c la durata, die noti può clic essere disturbala, ral-

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_ L'avvenire deli'uemo? S« L'uomo con U mncctmn iLtpmtdi Dziga Vertov__ lencau dal coacervo delle resistenze fìsiche, sociali, psichiche, da tutto ciò che rientra nell’ordine della relazione tra corpi, macchine c sogget­ ti, relazioni dispiegate nella durata e nell'estensione - da tutto ciò che attiene, quindi, al’erperienzio) la rende non indifferente, singolare, evidenziata: filmata. L’indiferenza al cinemi è sempre una significazione, un impegno, un'indica­ zione, qualcosa di rappresentato, di fabbricato al proposito, e, quindi, una falsa indifferenza, un’indifferenza convenuta, il cunlrark * insam­ ma dell’indifferenza sovrana di colui o colei che ignora lo sguardo po­ sato su di lei o di lui, che non sa cosa farsene del mio sguardo, che non ne sa nulla, per cui non conto nulla. «È la vita che abbiamo voluto», ri­

pete Vanda due volte aguisa di morale. Non c’è altro da dire. La ripe­ tizione (del rituale della droga) è qui sfida al racconto, al damma, al cinema. È il gesto della morte.

Sei. Tuttavia (al contrario del film di Robert Kramer), in questo si­ stema di sorveglianza noi non siamo i soggetti che si suppone sorve­ glino per (fare) godere o soffrire: siamo qui degli spenaiori di troppo.

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Vanda ci restituisce il nostro desiderio del senso come vano, il nostro desiderio di vita come già corrotto dalla morte che non vogliamo ve­

dere (non parlo nemmeno di «guardarla in faccia»). Vanda ci lascia al­ la vanità1' di essere viri. Ciò che mi estromette dalla mia posizione di spettatore, per non di­

re da me stessa che mi disturba, che mi fa credere di poter essere «di troppo», sarebbe quesu volu non tanto il modo in cui l’attore perso­ naggio evolve e si trasforma durante le riprese (si vedano gli esempi precedenti) ma proprio ciò che non succede - malgrado la durata delle riprese (due anni) e la durata del film (due ore c cinquanu *. L’opera­ zione di trasmutazione cinematografica che credo legata alla missione

redentrice del cinema in questo mondo, quest'operazione non ha luo­ go benché abbia avuto ogni oppominità grazie alla durata della prova e alla buona volontà dei partecipanti. Vanda non cambia, così come non cambia la morte. Lei dispone di quella qualità terribile e rara che consiste nel prestarsi al gioco del ci­ nema e, allo stesso tempo, nel rifiutarlo, senza scalpore né scandalo, semplicemente perche attraverso lei, attraverso lui, nel corso di quesu esperienza cinematografica consentita, viene messa in gioco una forza più grande del cinema, al quale è richiesto soltanto di produrre la sce­

na dove si registra la pressione di quesu pulsione di morte. Se questo film ci turba c a disturba, è perché ci lascia indefinitamente nella via di mezzo tra gioco e non-gioco, tra essere e non-essere, tra senso e non­ senso, tra la viu e la mone. Come ho detto, Vanda è e non è; come po­ trebbe trasformarsi? Che essa non cambi, ecco ciò che lo spettatore non vuole a nessun costo. Parlavo all'inizio di perdita e conaivisione. Condividere ciò che si perde, e anche far ne qualcosa c superarne la

perdita. Qui la condivisione è impossibile. O piuttosto, se condivisio­ ne c’è, è Vanda che ci divide, ci attraversa, ci dilania. Noi siamo suoi

come lei è dell’invito della morte. L’indecidibile della presenza-assen­ za, la zona d’ombra del cinema. Sette. Lo spettatore è qui come un attore impotente, fuori dalla sce­ na del film, in una non-scena che è luogo di un terrore sacro. Posizio­ ne o piuttosto non-posizione annunciata profeticamente dal Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini (1968): scambiando le marionet­ te per esseri di came, gli spettatori lasciano la platea c salgono sulla sce­

na per «ammazzarli». Messa in crisi della posizione dello spettatore, del suo ctatuto, del suo ruolo nella macchina cinematcgrafica. Non so-

*' Come questa parola, «vaniti», non potate fare riferimento alfe vaniti (Spinte dove il teschio ddla mone veglia mi nostro dettino c sul nostro sguardo.

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_________________ L’xnti-jpcnatorc. Su quattro Him mutanti_________________

no più lì per proiettarmi) nel film che mi è proiettato, non più soltan­ to. La rappresentazione non m’invita più, fantasma che sono, a insi­

nuarmi nella posizione vacante che mi prepara, a mettermi) in gioco nella scena Mi viene chiesto «solo» di essere testimone dei fatto che il

film è prima di tutto dò che succede att’tdrm filmato, di essere testi­ mone della sua sofferenza o del suo disagio o ancora - Vinca - della sua insopportabile indifferenza all'essere sottoposta all'esperienza stessa del film; di esserne il testimone e il giudice, devo approvare o re­ spingere, preferire o rifiutare, ma compio questo gesto dal di fuori, dai fuori-scena, dal fuori film, dalla sala, dalla posizione immaginaria di un padrone che non si espone di persona a osservare gli altri, soggetti c

corpi esposti al film. Questa posizione di potere è evidentemente del tutto illusoria: vanità delie vanità.

La reality-tv (da Strip- Teate fino a Loft Story} proclama a fini pub­ blicitari questo «potere» come mio, mi ci installa comodamente, ma la «realtà» è che io, telespettatore, vengo lasciato fuori dal gioco, dalle sue regole come dalle sue condizioni di fabbricazione, e che, quindi, non posso controllarne nulla, e che non mi ci possa nemmeno esporre. Un «padrone» posto idealmente fuori dai rapporti di forza, lontano da ugni dimensione pulitici. Si tratta qui di uno stratagemma che mira a

risparmiare i veri padroni delio spettacolo. Mettendo avanti uno spet­ tatore presunto -padrone», i veri padroni rimangono nascosti, inac­

cessibili, intoccabili. Otto. Quando il cinema si prende, come ora. il rischio di presu­ mermi in una posizione di padrone, di costringermi in essa, perfino, è quindi per rendermela ancora più insostenibile". Osservo quarto il film colpisca quello o quella che sono filmati. Il film non esiste per salvare lei o lui, e nemmeno io. Contro il disagio o la sofferenza cosi ripresi non posso fare nulla. Non rhcliiu nulla, ma non posso nulla. Protczione/impotenza. Forse si tratta di una mutazio­ ne in corso di ciò che fino a quel punto avevamo potuto pensare: il «ter­

zo incluso» delia rappresentazione diventa «terzo escluso». Il tempo, infatti, è quello dell’esclusione. Ciò che si tratta di escludere. 2 per l’ap­ punto questo spettatore definito classicamente come partecipante della rappresentazione. Come spettatore, mi è richiesto di proiettarmi non in un personaggio, una situazione, una scena, un corpo, ma di accettare, se così posso dire, l'impossibile di ogni proiezione: questa non-posizione è quella della frustrazione, di un impedimento che richiede una reazio” Si lenirà in queue osservazioni Poco di ciò che accade dillo sparatore di Uu Haider dr Qui e ora: di un ceiema unzipafofif, p. 215,

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________________________ Comolli, Vedere e potere________________________

nefisica sotto forma di acting: Gli spettatori di Pasolini spezzano le ma­ rionette che detestano; gli spettatori di No quarto da Vanda fanno pe­ tizioni contro il film. L'impotenza legata alla posizione dello spettatore di cinema nella rappresentazione classica si risolveva attraverso la po­ tenza delle sue proiezioni, delle sue implicazioni nel movimento di scrittura del film. Qui, ormai, questa impotenza è data come insoppor­ tabile e irrisolvibile al tempo stesso. Quesu falsa posizione, né «buona» né «cattiva», sfalsata, fuori asse, inutile, forse, fa nascere un forte senti­ mento di estraneità, come ii cinema non ne produceva più da tempo. Mi si richiede di accettare di essere escluso dalla scena perché l’attore-persopaggio vi è incluso più che mai, e perché io non sono lui, non posso esserlo, perché 3 film non mi dà più i mezzi di esserlo (siamo lontani da Chariot e più vicini a Monsieur Verdoiuc). Mi si richiede di affrontare la radicalità dell'altro filmato, la sua esteriorità, la sua alterità non riduci­ bile con le normali risorse dd cinema. In causa qui c’è in fondo l'im­ possibilità di proiettarsi su un personaggio (l’impossibilità delia finzio­ ne). Un poco dell’altro filmato soffre o pena o gode davanti a me, di un godimento che non è il mio c che mi viene mostrato solo per escluder­ mi Come se il cinema rinunciasse alla propria dimensione ontologica di resuscitare ciò che tocca alla mone. Non si tratta più di salvare, ma di procurare l’acutizzazione della coscienza che c’è da perdere. La via di mezzo lascia il posto vuoto, ma lo fa intrawedere come tale.

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VEDERE E POTERE

«Tra noi». La Moindre des choses, Nicolas Philibert

(Nel fecondo semestre dd 2000, si è tenuto adì Ateliers Varan in semina­ rio sul «corpo filmato *. Per il primo stage del ciclo, ho deciso di mostrare Lt

Moindre dei cbom, di Nicolas Philibert (1994) *. Le note die scguuau *óik U tnscrizicne, riletta, riveduta e qualche volu approfondita di questo suge *. In quesu veste sono su» pubblicate ndl’autuano 2000 nel numero 45-46 di «Images documentarne»»;. Questo film pone la questione del corpo filmato in tutta la sua

estraneità: noi, spettatori di questo film veniamo confrontati con la questione del corpo dell’altro - che è anche la questione dell’alterità di ogni corpo. Secondo me, questo film rientra interamente nell’affermazione che la questione fondamentale del cinema è proprio la relazione tra corpo filmato e macchina filmante. Come analizzare ciò che accade tra il o i corpofi) fìimatofi), il o i corpo(i)i filmantefi), il corpo delio spellatu­ re, c il dispositivo meccanico che li collega gli uni agli altri, che li con * nette attraverso di sé - e soltanto attraverso di sé? Che ne è delle re­

lazioni tra chi sta da una pane (corpi filmanti) c dall’altra parte ddla macchina (corpi filmati) - trovandosi il corpo dello spettatore in qual­ che modo da tutte e due le parti insieme, successivamente o nello stes­ so momento, secondo la legge oscura di un desiderio di ubiquità... di un desiderio di dividersi o di spezzarsi - chiamiamo questo: proie­ zione - che, per impossibile o irrazionale possa sembrare, è la condi­ zione stessa di partecipazione alla scena, alla rappresentazione? Che ne è, insomma, di quesu posizione impossibile dello spettatore quan­ do, sulla scena, ogni corpo rappresentato non è assolutamente J po' Film eht mastro anche agli «rudenti del Depancraent d’éiudei cincmatogtaphiqua et audiovéniellcafEcav) dì Paris *111. 1 Ringrazio gli Atelier * Varan che hanno oipitato questo ««minino, l’huinc drconcato di premure, ne hanno issicurato la regÌRmione, c ringrazio in particobre quelle e quelli tra i partecipanti che ne lutino fatto la tratcrizsont - ardua tmpeeu.

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_____________________ Comolli, Vedere e potere_____________________ sto che la società (o l’ideologia, il sistema di credenze, le norme mcdiatiche ecc.) gli assegna? Disegno qui un triangolo: corpo filmato/corpo filmante/corpo spettatore. Il film di Philibert costruisce c ricostruisce senza sosta l’e­ quilibrio di questi tre poli. Dico « ricostruire» o «costruire», il che sup­ pone che questo triangolo sia distrutto o decostruito in permanenza, che questa tripla polarità sia minacciata di riduzione o semplificazio­ ne, che il sistema stesso dello spettacolo tenda a proteggere lo spetta­ tore, a dargli una «buona posizione», dalla quale possa valutare la buo­ na o cattiva sorte dell’altro filmato, le incarnazioni o i tormenti del corpo filmato dell’altro, in rutta calma c padronanza. Questa è la po sizione che il sistema di visibilità sociale - la generalizzazione del Pa­ nopticon di Bentham riletto da Foucault * - ci attribuisce: un posto di padrone del tutto illusorio, lo spettacolo dispiega per noi i suoi splen­ dori o i suoi orrori e non dobbiamo far altro che assaporarne il gusto. E lo spettacolo della follia dell’altro da parte sua non farebbe eccezio­ ne: l’altro filmato sarebbe proprio dalla pane degli alienati, lo spetta­ tore, quanto a lui, no­ ta regia di Philibert, nel confronto ripetuto che organizza tra sguardi che guardano c sguardi guardati, con l’iscrizione del passaggio dalla posizione dello spettatore a quella dell’attore, da quella di sog­ getto dell’ixtiturinne i quella di performer della rappresentazione, im­ pedisce a noi spettatori del film di considerarci come protetti dall’o­ scurità della sala: siamo letteralmente presi da parte, presi come parte in causa dagli ospiti della clinica di La Borde che sono anche attori del­ la pièce di Gombrowicz’ e dai personaggi del film di Philiben. Non possiamo dimenticare mai che siamo noi che stiamo guardando c che quindi è il nostro sguardo prima di tutto ad essere in causa. Il nostro sguardo in quanto eco o superficie di rimando allo sguardo dell’altro. A differenza di molti altri film sulla follia *, questo film ci mostra molari relativamente tranquilli, anche se l’intensità della loro sofferen­ za non è in dubbio; siamo in una clinica all’avanguardia della ricerca in psichiatria e, d’altra parte, i casi più gravi non sono lì o, in ogni caso, non sono filmati come tali: se ci sono, restano fuori campo: o se sono da qualche pane nel campo, non si distinguono, non si fa nulla per evi' Foucault, Somv^lurr t pMittrr dt 4 Ogni estate eli ospiti di La Sorde danno una rappresentazione teatrale, OueH'anao era Operetta di Witold Gombrcwicr. Philibert re filmale prove e poi lospetucclo. 4 Penso evidentemente a Tutcat folbei di Fredenck Wiseman e a ian Clemente di Ray­ mond Dcpardon * due film che, come quello di Philibert * (armo parte del mie •repertorio» corico c che cosi coslronio ipcsso tra loro.

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«Tra noi», la Motniirt det chosei, Nicolas Philibert

deliziarli. Così, tutù quelli che vengono filmati - e qualunque sia il «grado» del loro smarrimento — in un modo o in un altro ci interpel­

lano, cioè non sono assenti dal gesto stesso di filmare, ne sono parte in causa, lo sanno di un sapere forse non sempre n non assolutamente co­

sciente ma assolutamente certo (qualcosa che potrebbe rinviare all’au­ *to-regia») È il principio dd film. Loro interpellano colui che li filma,

non fosse che con uno sguatdo angosciato, un'attesa del corpo con­ tratto, un silenzio improvviso; per esempio, all'inizio del film, questa mobilitazione intensa è dimostrata dalla donna che entra in campo per carnute Euridice - chiamiamolo un «effetto di presenza», effetto che non si può percepire, credo, che come una richiesta die ci viene indi­

rizzata, indirizzata alla macchina, a Philibert, di essere fi con lei, di non lasciarla sola, di stare con lei nello specchio. ! soggetti filmati ci mo­

strano che hanno bisogno di coinvolgere colui che li filma - che non è insomma che un esploratore, all'avamposto, se non all'avanguardia ri­ spetto a colui che guarda; è come uno scambio di buoni propositi: vi filmo, perché esistete per me, per noi, se voi mi filmate, è perché io esi­ sto per voi... Si crea una circolazione tra questi tre poli, che costitui­ scono la relazione cinematografica. Così, e ciò non è privo di conse­ guenze, persino nella sfera delle idee, le questioni dell'aherità e della alienazione vengono riaperte, lasciate beanti, irrisolte, poste e ripropo­ ste incessantemente (in effetti sono questioni che conviene attivare,

che richiedono un po’ di lavoro perrimanere attive): più che di sapere con ehi abbiamo a che fare, si tratta di sentire che se abbiamo a che fa­ re con questo è anche in quanto riguarda noi stessi. Qual è il rap­ porto con noi stessi quando questo rapporto è rappresenuto, cioè ri­ congiunto. dalla figura dell'alienato? Se l’altro filmato, colui che si di­ ce alienato o che l'istituzione cura come tale, è entrato in relazione con noi, spettatori, e ci propone insomma un dialogo di coscienze, anche se alterate - la coscienza della sua coscienza di questa relazione - che ci costituisce così come interlocutori, è perché la nostra posizione è collegata alla sua e perché forse queste posizioni sono intercambiabili. Ecco la questione che anima il film, da cima a fondo. È la stessa que­

stione che pone la pratica di La Borde: che la frontiera tra curati e cu­ ranti. senza essere abolita, appaia come porosa, con la q>eranza o il de­ siderio che si libra sulle menti degli uni e degli altri che essa sia rever­ sibile. Il cinema sarebbe radicalmente egualitario (Daney) nel senso che si interessa tanto, se non di più, ai deboli che ai forti, e che i corpi * lettera la Mancia iHd'auta-refu, p. 13).

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_____________________ Cotnolli, Vedere e potere_____________________

filmati vengono trattiti dalli macchina allo stesso modo. Questo egualiurismo lo è nel sento che esalta le particolarità, le distinzioni, le sfu­ mature, gli infiniti riflessi dell'alterità filmata - filmata, cioè rimpatria­ ta. addomesticata: l’altro assoluto non si lascia filmare. Questa è l’uto­ pia cinematografica: a dispetto della sua alterità, l’altro si è presentato tn una prossimità, è rimasto davanti alla macchina, o piuttosto, con es­ sa, e d’un tratto risuona nel cuore delle peculiarità (morfologiche, psi­ cologiche, culturali ecc.) l’accordo maggiore dell’universalità. Philibert filma dunque l’utopia stessa del cinema, meglio: filma perché quesu utopia rinasca. NcU’impresa di La Bordc è già insita l’idea che la follia «'tratti an­ che con la messa in questione dell’istituzione che trina la follia. Una mue en abyme delle responsabilità e delle posizioni, il cui obiettivo è ciò che si potrebbe chiamare il divenire-cosciente. Questo procedi­ mento nel quale sono entrati i pazienti di La Borde è esattamente quel­ lo a cui il film inviu lo spettatore. L'ultima battuu (che vi ha fatto rea­ gire) è estremamente Ione: quando Michel, battuu sublime, dice «Sia­ mo tra noi, ma anche voi siete tra noi», è proprio del «tra noi» della proiezione cinematografica che si tratu. Questo «tra noi» è quello a cui apre il cinema, l’utopia alla quale dà corpo. «Tra noi» sarebbe in egual modo la formula egualitaria del cinema di cui parlavo poco fa, nella quale l’accento viene poeto su ciò che è comune («no:») e su ciò che connette («tra»). La macchina cinematografica, la camera precisamente. effettua una sorta di appiattimento, di rimessa a zero dei corpi filmati proprio perché registra e restituisce tutti la loro singolarità sen­ za eguali: la singolarità di ogni corpo è tale che non può rinviare che all'estremo di ogni singolarità: ed è ciò che tutti hanno in comune - al cinema - essere estremamente singolari. Il teatro ha creato c incentiva­ to i tipi (la commedia dell'arte, Molière, il teatro napoletano, Eduardo de Filippo, Totò ecc.) Il cinema non ha mai davvero amato i tipi, i ca­ ratteri predeterminati, i corpi c i linguaggi programmati come macchi­ ne, ha amato la distinzione assoluta di ogni corpo, l’unicità di ciascun individuo. Le caricature alle quali sono rosi vicini i tipi teatrali o i tipi pubblicitari, diventano deboli al cinema. Il grande attore è prima di tutto unico. Charles Laughton, Gary Cooper, Cary Grant, James Stewart, Henry Fonda, Robert Mitchum, non sono mai «tipizzati», qualsiasi cosa richieda il loro costume o il loro personaggio. Facendo in modo che ogni distinzione sia rilevante, il cinema à inviu a non op­ porre tra loro altro che distinzioni. Niente di indistinto, niente che non sia appropriabile. 1 corpi filmati ceno si oppongono o si affrunta-

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«Tra noi». Lt Moutdrtiti chtnts, Nicolai Philibert

no, ma sempre secondo la legge cinematografica che vuole che sia tra loro e noi a giocarti la partita. La scena cinematografica più ancora del­ la scena teatrale, rimuove qualsiasi «fuori», o piuttosto accetta ciò che è diverso da sé solo facendone una pane di sé: con una discesa supple­ mentare di mise en abyme. Potrei dire che ogni corpo filmato accede a questa dimensione di comunità cinematografica che fa in modo (Da­ ncy) che due nemici in duello si uccidano, si, condividendo la medesi­ ma inquadratura cinematografica. (Ovvero: come filmare il nemico se non è qui, davanti alla camera, c dunque «nemico non più di tanto?)7. Bisogna entrare in una logica del paradosso. Più la camera singolarizza i corpi filmati (A non è B, che non è C ecc.), più invita ad accettarli co­ me tali, più divenu difficile scegliere gli uni contro gli altri. La puma aguzza della distinzione comporta una difficoltà a scegliere tra le di­ stinzioni. Quesu difficoltà a scegliere chiaramente il proprio campo (o i propri corpi) è costitutiva della scena cinematografica: lo spettatore è dalle due parti, come ho detto, nella sala e sullo schermo, lui stesso è corpo immaginario errante in proiezione tra i corpi filmati e proiettati sullo schermo della sala Qualcosa di questo corpo errante, fluttuante, si attacca senza dubbio ad ognuno dei corpi filmati. Nicolas Philibert gioca con questo ritorno deU'indistinzionein seno alla distinzione: tut­ ti i corpi filmati in La Moindre des choses sono speciali e incomparabi­ li. eppure mi è difficile, da spettatore, reperire facilmente quale è passa­ to dall’altra parte, quale è chiuso nella sua follia, e quale non lo è. Quel­

lo che sembrava esserlo non lo è più, è suto cambiato dallo spettacolo (penso a quello ebe divenu un delizioso marchesino). La designazione, l’indicizzazione, la localizzazione (la «tipizzazione» se si vuole) non vanno da sé: c'è qui, tramite i mezzi dei più semplice cinema, una smen­ tita feroce opposta alla denigrazione dei corpi operata quotidianamen­ te dai media (televisione, ina anche foto dei periodici) dove è sempre «l'identità» (nel senso poliziesco) che governa l’immagine. (Fonunaumente l’immagine, che non è malleabile, resiste a questi trattamenti ru­ di, accade perfino che si vendichi: penso a un momento del film di Ri­

chard Dindo Che Guevara, journal de Bolivie, in cui, in un filmato gi­ rato dalla polizia boliviana o dalla Cia, l’immagine del Che assassinato, si ribalta, trasformandosi dalla pietosa figura del guerrigliero ucciso, in quella di una sona di Cristo raggiante e redentore...). Per dirla in altro modo, in certi momenti i corpi che si vedono ci appaiono, col loro modo di esserci, parlare, muoversi, camminare... ’ Si veda Come fibn *rv

d tvmtiuf, p. 4S.

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________________________ Comolli. Vedere e potere________________________

come disgiunti dal nostro funzionamento e in altri momenti, no. Si so­ no messi al nostro passo, nelle nostre mani, alla nostra portata. Questa oscillazione improbabile e inquietante è l’utopia che l’operazione ci­ nematografica realizza. Il cinema permette di scoprire che le frontiere, le barriere, le caselle non sono chiose per sempre, che tra loro c’è una circolazione che è reale, e che lo è, reale, prima di nino perché ci im * plica nel suo movimento. L’istanza dell’operazione cinematografica è di menerò in questione - in dubbio — la nostra capacità di vedere c sentire: di aprirci ad una

percezione degli esseri e delle cose del mondo che non abbiamo sem­ pre nella vita quotidiana, neDa misura in cui la nostra percezione è or­

ganizzata, informata, determinata in gran parte dagli schemi ideologi­ ci che circolana e nel caso specifico, dal modo in cui ogni società trat­ ta i propri «casi limite». Al cinema, lo sappiamo, non ci sono «casi li­ mile». O, comunque, ogni «caso» è «limite», il che è la stessa cosa. Non c’è più estraneità nel fumare colui che sa come colui che non sa, colui che sbaglia e colui che non sbaglia. Philibert filma ogni essere e ogni cosa come non estranea. È chiaro che il film che abbiamo visto sa­ rebbe stato impossibile se ci fosse stato nella mente di coloro che l’hanno realizzato uno schema qualunque di repressione della «follia»,

se non di sfiducia nei confronti di un’alterità problematica. Ma il cine­

ma di per sé. è ciò che tento di dire, non è «repressivo», è fatto anche per accogliere ciò che le società pretendono di respingere. È proprio perché questo schema repressivo è stato rimosso, è proprio perché l’apparato di sapere sulla psichiatria o sulla follia di cui siamo più o

meno veicoli, se non agenti, è stato messo da parte, è proprio perché quelli che hanno realizzato il film si sono sbarazzati del bagaglio dei pregiudizi e luoghi comuni sulla «follia», che hanno filmato gli ospiti di La Bordc come uomini uguali a tutti gli altri. Ma, se hanno potuto

sbarazzarsi di nino questo, è perché il cinema dettava loro la sua leg­ ge: i corpi filmati, quali che siano le loro identità, il loro potere, le lo­

ro idee, le loro sofferenze, sono prima di tutto corpi collegati alla mac­ china tramite la quale altri corpi li filmano allo scopo di essere con­ frontati, sempre con la mediazione delle macchine, ai corpi spettatori. Non si esce dal cerchio dei corpi.

Un’osservazione: il film ci pone costantemente la questione di sa­ pere in che momento colui, o colei, che viene filmato se ne stia accor­ gendo o meno. Ed ecco che uno sguardo, una parola, una posa ci fan­ no capire che lo sa - anche lui; e se lo sa «anche lui», come potremmo non saperlo, noi che dovremmo «anche noi» sapere? La forza del film

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«Tra noi». La Mamdre dadxnn, Nicolas Philibert

risiede nel fatto che, in un dato momento o in un altro, e a volte nel momento in cui meno ce lo aspettiamo, ognuno dei personaggi ci ap­ pare come cosciente della situazione nella quale si trova nel momento stesso in cui viene filmato - o noi lo vediamo filmato-, e al fatto che reagisce a questa situazione di coinvolgimento ammettendola, desi­

gnandola e commentandola («spero che il film sia in bianco e nero», dice uno degli ospiti), che assume dunque la relazione cinematografi­ ca nella quale è impegnato con noi - in tutta coscienza. (Sono qui dun­ que «attori» che non rimuovono la dimensione scenica della loro esi­ stenza; brechtiani senza saperlo, ci indicano che non «giocano il gio­ co» della finzione, poiché hanno bisogno della finzione - di recitare per toccare e far toccare qualcosa delia loto realtà). Filmare equivale così, a provocare e rilanciare nelle persone filma­ te, il passaggio da uno stato relativa non coscienza ad uno di relativa coscienza. Non c’è per così dire una sob scena del film senza uno sguardo, un indizio, un gesto, una parola che ci avverta del fatto che quelli che sono filmati lì non sono più folli di noi semplicemente per­ ché sanno che siamo li, spettatori, a guardarli mentre ci guaidanu. La «follia» dello spettatore nel guardare vale forse quella che ri sarebbe nel subire questo sguardo. È anche questo che voglio dire parlando della funzione egualitaria dei cinema: nessuna divisione tra coloro che sarebbero dall’altra parte, quella sbagliata, e quelli, noi, che sarebbero dalla parte giusta. Spetta­ tori, attori, le posizioni si scambiano. Quando sono attore e ti dico che ti guardo («sguardo camera», ma che è anche sguardo di spettatore), ciò cambia il tuo sguardo su di me poiché sai che io so che sci lì. I due lati dello schermo si mischiano, lo sguardo si guarda *. La potenza, o piuttosto l'insistenza insidiosa di quest’operazione dimiMtradva è accresciuta in La Moindrt d» chotet dal fatto che, evi­ dentemente, gli ospiti di La Borde provano, prima di portarlo sulla scena, una pièce di Witold Gombrowicz, intitolata per la precisione Operetta, pièce sulla deriva delle società gerarchizzate, lo sbriciola­ mento degli ordini sociali, il modo in cui la società si mostra soddi­ sfatta di essere grottesca e violenta (è nel testo «ridotto all'osso» del­ l’opera). Una società perforata e crivellata dalla disarticolazione delle parole, dalla riduzione del linguaggio a una serie di luoghi comuni zoppicano e proverbi approssimativi. I «personaggi» della pièce sono delle specie di idioti, interpretati qui dagli ospiti di La Bordc che, in * Cér. Le nnw «è iÌcmfan, in

smv kirtoerc dt.

_____________________ Comolli, Vedere e potere_____________________ un ceno modo, sono più dotati di loro. La critica delle convenzioni sociali nella piece si attiva e si traduce nel livellamento delle posizio­ ni, dei ruoli e dei corpi. Corpo recitante e corpo recluto probabil­ mente si equivalgono. Come pure: all'interprete spetta il privilegio di tenere a distanza il «suo» personaggio, che lo impersoni «bene» o lo impersoni «male». Così, i «personaggi * di Gotnbrowicz non hanno *

né maggiore né minor consistenza degli attori di La Bordc che li in­ terpretano e che sono i personaggi del film di Philibert; la loro paro­ la e ugualmente sensata; il loro delirio ugualmente allarmante. Ma ciò che non hanno, e che quelli di La Borde hanno, è - appunto - l'e­ sperienza della performance da portare sulla scena. È questo appren­ distato che prima di tutto filma Philibert. E su quel terreno noi spet­ tatori siamo, alla meglio, quanto a uguaglianza con i personaggi-at­ tori: ne sappiamo con poco, saremmo maldestri quanto loro, senza dubbio, e anche peggio, dal momento che li vediamo imparare e ca­ pire, andare avana malgrado gli insuccessi verso l’apoteosi di una rappresentazione, cioè verso ciò che ci è destinato. La struttura del film segue l’ordine delle prove, ma al tempo stesso ci colloca in un tempo sospeso, che non passa davvero, il tempo laborioso e lento dell’apprendistato. 1 personaggi che reciteranno questa pièce lo im­ parano e lo disimparano al tempo stesso. È difficile «valutarli» come si farebbe in un corso di teatro, in termini di «progressi». Per quan­ to ne dicano i tecnici che li inquadrano, a noi spettatori rimane l’idea di un'imperfezione, di una carenza irreparabile. Il tempo è sospeso, sospeso alla minaccia che tutto esploda (uno dei temi dell'opera). Ci troviamo così in un sistema: 1 ) nella pièce, il mondo ordinato cede da tutte le parti; 2j La Borde come scena si trova sempre sul punto di rottura; e 3) la legge del cinema documentario è che ad ogni istante pesa la minaccia di un’interruzione della sequenza girata. Tre insiemi chiusi, fobici e protettivi (clinica, scena teatrale, scena cinematografi­ ca) si sovrappongono e si addizionano, intensificazione estrema del­ la chiusura di ogni scena, del principio di extraterritorialità di ogni rappresentazione. Comunque, sappiamo che se c'è bisogno di questa rottura col mondo per rendere possibile la rappresentazione il mon­ do, rimosso temporaneamente dalla scena, continua a fare pressione

su di essa e a minacciarla con il proprio disordine (il teatro può bru­ ciare, l'attore morire sulla scena ecc.). La chiusura della scena così non si rafforza che rafforzando la minaccia che pesa su di essa. È esattamente ciò di cui Michel è consapevole. Del fatto che la scena è incantata, che il mondo non lo è.

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«Tra noi». La MomJre«la choiet, Nicol» Philibert

Ciò che permette a Philibert di condurre quesu operazione di riequiìibrio, di rimessa in circolazione delle posizioni, dei ruoli, dei cor­ pi, delle parole, è proprio il sistema della mise en abyme' che qui vie­ ne spinto al parossismo. Operetta sembra essere stala scrina per La Borde e anche per Philibert. C’è qui un incontro di cui soltanto il ci­ nema documentario detiene il privilegio: la felicità del caso, li lavoro che il film fa svolgere ai suoi mori - manifestare la cvioapevulezzache hanno di essere filmati - fa certo da eco al lavoro delle prove che por­ tano verso la fesca della rappresentazione. U lavoro dei corpi passa at­ traverso un testo estremamente elaborato, fin nella sua dimensione di­ sarticolata. La mise en abyme è anche una messa in forma. Ciò che vie­ ne elaborato, appartiene ad un delirio superiore, più forte del delirio dei pensionanti, è insomma un livello più alto di debolezza capace di assorbire e di risolvere le debolezze stesse degli attori. Cosi gii ospiti di La Borde sembrano molto più «folli» quando recitano la pièce di Gombrowicz che quando non la recitano. Essendo più agitati, più in­ coerenti o più delirano quando sono in teatro che quando non ci sono (essendo allora «solo» nel film), ci avvertono della posizione critica del teatro nella nostra società: messa in prospettiva e in relatività dei nudi e delle stigmate sociali Non c *è solamente teatro nel cinema, lavoro teatrale nel film: c'è una mise en abyme reciproca della «follia» e della «normalità»: l’urta non va senza l’altra, Tana va«nell’«altra,in un gio­ co di echi, di sdoppiamenti, di rinvìi e tianci senza fine. (La mise en abyme implica un’infinitezza, una non-chiusura). Nel momento in cui perdiamo di aver raggiunto un terreno più stabile, questo terreno si sottrae; ciò che si suva facendo si disfa. Come quello delle riprese di un film, come quello di una proieùo ne cinematografica, il tempo della scena è un tempo sospeso. Il mondo viene messo tra parentesi, e, con il mondo, la «follia» stessa, che è già una messa tra parentesi del mondo. Ciò che è chiuso sta chiuso. La Bor­ de appare come un demento della scena del mondo. Qui, il mondo si fa scena, e così facendo, evapora. Il godimento dello spettatore sarebbe questo: assistere all’evaporazione del mondo nello spettacolo^ alla edu­ zione - magica - di tutto ciò che è terribile o minaccioso alle dimensio­ ni del teatro delle marionette de La Tempesta. Il tempo sospeso della rappresentazione è anche il tempo delle prove (qui, le piove nel senso proprio, che portano alla rappresentazione), sarebbe anche qualcosa che si potrebbe immaginare come il tempo dell’incoiucio. Un tempo ri' Che en l'argomento dd seminario dd primo trimestre 1999-2000. Si veda 171.

Mì vomoh j>.

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L’ememn

________________________ Comolli, Vedere e potere________________________

chiuso, a spirale, del ricominciare infinito, del ritorno all'origine inde * finitamente richiuso su di sé questo è in ogni caso proposto dalla piè­ ce di Gombrowicz, tutto ha già avuto luogo, siamo nell’eterno disfaci­ mento. Ora, il tempo di un film differisce ampiamente dal tempo so­ speso delle riprese. Lo si voglia e lo si sappia o meno, il film è un filo che si srotola linearmente nel tempo. Ogni fotogramma aggiunge uri

ventiquattresimo di secondo al precedente. Una consecuzione è in cor­ so. Se c’è ricorrenza (spirale), è perché questa frazione di durata che si sovrappone a se stessa ventiquattro volte al secondo è anche, se così posso dire, un incremento di oblio, una cancellazione. Lo sappiamo, al cinema iscrizione e cancellazione dell’iscrizione procedono rii pari pas­ so. Ogni fotogramma dunque, invisibile in quanto tale, cancella sullo schermo quello che lo precede, cosi come sarà cancellato da quello che lo segue. Il cinema mette in atto l’oblio, ne fa una forza attiva, questa cancellazione è ciò che permette di andare avanti, è la condizione di ogni progressione. Forse questo atto di cancellazione è perfino cièche permette d’entrare nell’illusione di un miglioramento del mondo - che il teatro corrosivo di Gombrowicz s'ingegna ad annullare, c che il cine­ ma di Philibert si impegna al contrario a salvare. Ciò equivale a dire che la mite ert nbyme di quel teatro in quel cinema si effettua secondo un principio di contraddizione: la rappresentazione della pièce è al tempo stesso - dalla parte del teatro - distruzione caotica e ludica di un vec­ chio mondo, e dalla parte del cinema, costruzione di una coscienza del­ la crisi negli attori che sono entrati in scena, cioè la costruzione anche di una coscienza dei loro limiti in quanto attori. £ esattamente in que­ sto punto che siamo toccati noi, spettatori. L’alienato che sa che ha an­ cora multo lavoro e sforzi da fare per «recitare bene» - giocare il gioco sociale - e che ce lo dice, d dice insieme che questa questione è la no­ stro: cosa ne è della nostra interpretazione sulla scena del mondo? Ec­ co ciò che d rimette ala pari con quelli che consideriamo e chiamiamo «pazzi». Perché, come loro, siamo anche noi nella balbuzie, nel lin­ guaggio infantile, nelle grida, nd ritornelli abusati, nelle prove, nell’o­ blio, nel gesto mancato e, come loro, siamo lontani, di conseguenza, da ogni forma di controllo. Ciò che dxe Michel nel suo monologo finale si può intendere come il rifiuto di ogni posizione di controllo su quel­ li che non sono all’interno di La Borde; quando dice: «Non parlate mai della vostra salute a un medico, potrebbe assoggettarvi.», parla proprio del controllo c lo denuncia ovine pericoloso. La bellezza di questo film sta nel fatto che ci mette di fronte al ri­ fiuto di ogni controllo da parte di quegli stessi che fanno la fatica più

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«Tra noi». Lt Motadrt dr, chotet. Nicolas Philibert

grande nel controllare il mondo e nel controllare «se» stessi. La gran­ de questione del cinema è senza dubbio far accettare al suo spettatore di poter perdere qualcosa dell’illusione di controllo. 11 desiderio di controllo - desiderio di un’illusione - è oggi sempre più alimentato dai modi di dominazione nei quali siamo presi. L'arte, il cinema, hanno tra gli altri effetti, quello di mettere in crisi i fantasmi di controllo che la logica stessa delie merci fa circolare uà noi. Impe­ dendoci ogni coscienza della relatività della nostra posizione in mezzo agli altri, 3 fantasma di controllo ci impedisce di aprirci alla pluralità dei mondi, come alla circolazione e allo scambio di posizioni e ruoli. Ritorniamo alla scena iniziale del film, quell’ospite che canta «Che farò senza Euridice...» in campo lungo e inquadratura fissa. AJ tempo stesso, non esce dal campo e minaccia di uscirne. Questo corpo si espone, si dà da vedere, da ascoltare senza belletto, senza eccesso. Nes­ suna esibizione, ma una certa sofferenza. Questo corpo si riprende nel momento stesso in cui si espone. Come sapere se questa donna abbia o meno coscienza di essere filmata, io sa, non lo sa, è in una via di mez­ zo, non lo sappiamo nemmeno noi. noi siamo in questa via di mezzo. Avere coscienza della relazione con la macchina da presa e poi perder­ la. Dell’altro come presente e poi perderlo. C’è un’angoscia, è una sce­ na d’angoscia e grazia al tempo stesso, l’angoscia che questo si fermi, che la cantante sia presa dalla camera in un buco, un guasto, una falla del gioco; e al tempo stesso secondo dopo secondo, quesu rottura mi­ nacciosa non ha luogo, quesu minaccia si ritira, ogni secondo che pas­ sa è una sorta di miracolo, e l’insieme di questi piccoli miracoli confe­ risce una vera grazia a questa donna esposu al di là di sé: al film, all’o­ perazione cinematografica. Ciò che potrebbe apparire comico o grot­ tesco nel primi trema secondi dell’inquadratura, finisce col diventare molto commovente. L’oggetto del film è mostrare come la follia e la grazia possono incontrarsi. Ciò non accade solo nel teatro di La Borde, è dietro le quinte della rappresentazione che i personaggi sono presi dalla grazia. La perdita del controllo è la condizione della grazia. L’ahentà si presenta come un divenire e non come un dato. Si tratta di diventare altro. Nella rela­ zione cinematografica che include me, spettatore, l’alterità sarà ciò a cui posso pretendere, sarà alia mia portata, sarà la mia presa, ma que­ sta presa mi supererà e mi oltrepasserà. Gò che prova lo spettatore, la sua prova, è il superamento di che è in grado di provare.

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Appendice

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Indice dei nomi e delle opere

U «MMpwgwc dr Gùcurd, 243n À btertót fetore, 2\7 /4 motor de Afar, 160

Bitch 82 Bordano, Amoine, 218 BorgeStJom Luis, 269a

Andalkh, Samir. 248n

Bcnifdtnt. ww, 107n

Accattone, 162 Apmbcn, Giorgio» 35.% I93n AiassuK.Mttsapha.227a Albe di gforàt, 14, 250» Anusà delPmi‘Nn/(Gh)t Sfa AjnKvótfon fGk), 185n Amore (L').M^2tJn,27ì Amo» toste (L *), 162 Andbc i bou muoiono, 46», 23ta

Bozzi Roberto 92 Brando» Marion» 249n Brauk. Michel 141,154 Brecht. Bertok, 46n, 217 Bresson, Robert, 42,275 Breton, André. 160 BrownmtTod, 151n Bruno, Edoardo, 8 Hw,80

Antomom, Michelangelo» 71» 162» 216a

BuOuel. Luis, 71,2160,235» 238

Aragon, Louis, 160 Armo di em treno m suzione. 31.159

Bittnèra, Raymond, 248

Aurora, 161. i95n

Qr sedbcwrr, 141 Cattano, Marcelo, 272 Cahrez, Franfoise, I71n Gcmpograe de hwriM (L *K

Botto dell * pMltrn (II), 29

Banks» Brigane, 71 Barthes, Roland, 48 3 let magari, 51,194n * 8

BsudnUard, Jean, 48n»50, 108 *.

46, 51. 55i

CMeotdo sottoUfiogguk 108

162

Carnet. Lrarntt, 248n

Bwdry, Anne. 46n» 50n» 52.55 Bwdry, Pierre, 133 c r. 135,I65n» 183n

Capra, Frank, 35 Cefpria» edl'iuH»», 40 e n, 179, 186,290

Basin, Andra» vu, IX. 19,41,64, 74n, 7% 93, 101. 180,242 Beckett, Samuel 152

Cemkmàm (Let), 119n Caras, Leos. 35» 36 Carette Cartier, Julien, 248

Beanex. Jean-jaequea» 36 r n

Carré. Jean-Michel 246n. 256

Benjamin. Walter» 3,158» 217 Bcnscussan, George, 208n Besithun. Jcrcmv. 12» 100,284 Bergman, Ingrid, 35,267 n tofa/aW. 113,263,279 Bcvtao, jói/osm di «mi xnuedt atti, 160, 177 Berhttconi, Suvia. 256 Berzcsa,José Maria, 46,49 Besson, Luc, J5,36,15in Betti, Laura. 40 Betty Blue, 36 Biette, Jean-Caude, 176

Crmuze d'ore (Lek 179,270,275 Caso Sofà (lì), 156 Cassavetes, John, 140» 143 *. Ceche Anton Pavlovii. 109 Cedi» (Lo), vili, Cervantes Saavedra» Mn M 248n, 252 VfMvl qtùftìtt (U K * 208 Vbg&tmo vrrerr, 22,46a. 56,178n, 179

2480.251 WaUemmn, Immamid, 246n W«bk (UmuU7u Wayne, John, 55n, 249n Wdki. Ora. 19.27o. 57.101.216n. 261

Wcndcr», Wmb, 36 Wicrbcta, Mihd, 56c n Winniroa, Donald W,77n Wneman. Ffwdmrk, 71. 82, 2fi4n WmmKmm445

Yonoct, Pìul,55n Zanca, Eric» 248a

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_________________________ VEDERE E POTERE

Bio-filmografia di Jean-Louis Comolli

Jean-Louis Comolli collabora con i «Cahiers du cinéma» dal 1962 e dal 1966 al 1971 è caporedattore dela rivifta. Scrive anche su «Trafic», «Images documcntaircs», -L‘image, le monde», -Jazz Magazine». Docente all’École natianale supérieure des métiers de l'image et du son (La fémis) di Parigi, al­ l'università di Pars vm, a Barcellona (Università Pompeu Fibra, Università Autonoma). Tra i suoi libri. Are ]atz/Biade Power (1971, con Phitppe Carle% ristampitn da Gallimard, 2000): Regards sor la ville (collana Supplémentaires, BP! Centre Pompidou, 1994, con Gérard Althabe); Arrèt sar histoire (Supplémentaires, BPI Centre Pompidou, 1997, con Jacques Rancière); Cine­ ma a polinqM, S6-70 (bpi Cenar Pompiduu, 2001, cun Gerard LcbLut c Jean Narboni). Codirettore del Dictionnaire du Jazz (-Bouquins», Robert Laffont. 1994). Nd 2003 ha vinto il Prix Scam.

Les Dea * Marseillaises (realizzato con André S. Labarthe, 1968, 120’, Argos). Con Albin Chalandun. Roger Hanin e Claude Denis. (Mostra di Venezia 1969). La Cecilia (1976, Ih43, Filmoblic/NEF). Con Maria Catta, Massimo Fo­ schi e Vittorio Mezzogiorno. (Festival di Londra, Bruxelles, Taormina, Mon­ treal. Hong-Kong) 7b/ò, mpjc Anthologic (1979,110 *). Con locò c Dario Fo» (Festival de ?a ris 1980) On ne va passe quitter camme $a (1981.55’, A2/INA). (Festival di Rotter­ dam. Festival dei Popoli-Firenze. Cinéma du Réel-Paris) L'Ombre rouge (1981, lh50, MK2/La Ceclia). Con Claude Brasseur; Jac­ ques Dutronc, Nathalie Bave, Andréa Ferród, Alexandre Arbast e Stephan Meldegg. (Festival di Bruxelles, New York) Baues perdues (1962, lh30, La Cécilia/Gaumont). Con Andréa Ferreo!, Serge Valletti, Maria Schneider, Capuane, Alexandre Arbatt, André Dupont e Stephan Meldegg.

A2/ina). Les chemins du retour (1982,55\ A2/INA). L'Ècole des dsefs (1985,55', NA/Canal +). Con Marc Meneaii, Miòhd Lo­

Harmonic (1962, 50 *,

rain, Jacques Cagna, Gerard Vie.

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________________________ Comodi. Vedere e potere________________________

La France a la Carte (1986.13 x 26’, lnitial/FR3/C.ILL.k Con Pierre Sa­ linger e Jean-Marie Amai, Jean Bardet, Georges Blanc, Paul Bocuee, Michel Bras, Alain Ducasse, Jean-Paul Lacombe. Michel e Jean-Michel Lorain, Jicques Maximin. Marc Meneau. Roger Vergè ecc (Festival di Rotterdam. Salsomaggioret

Le Bai dTrène (1987. 1h30. FR3. collection Cmérur-/6). Con Anne Bro­ cket, Franane Bergé» Bernard Frvyd, Jean-Francois Perrier. Clovis. Yves Lambrecht, Stephan Meldegg.

Jabarka 42-87 (1987, Ih22. Médiations/iNA/La Sept/CNC). Con Claude Grenie e gli abitanti europei e tunisini di Tabarka. (Vidéo-Réalités. Bruxel­ les 1988).

Petition [1987,45’, La Cccilia'lNA). Tratto calla piece di Vaclav Havel, con Damd Gdin e Stephan Mddcgg. (Nomination ai «Cesar?» di cortometraggio} Kataev, la classe da maitre (1988, 60’. INA/La Sept). Con Vitaly Kataev. (FIFA. Cannes. 19S9} Tans poar tin! (1988.2 x 60’, Mcli-Mélo/Centre Pompidou/CNC/Télévision Suisse Romando). Con i militanti del partito socialista di NeuiUy-s\irMarne e dclITLpr di Bois-Colombes. (Cinema du Reel-Paris, Etats Generati * du Documen taire-Lussas).

Monetile de pére en fils (scritto con Anne Baudry et Michel Samson 1989,2 x 82 *. Archipel 33/La Sep7FR3